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Italian Pages 529 [532] Year 2022
C. Colombo e L. Nonne (a cura di)
La parte generale del contratto nella giurisprudenza della Cassazione civile
Quaderni dell’Archivio Giuridico Sassarese
Collana diretta da Giovanni Maria Uda
Comitato scientifico Luigi Balestra, Francesco Capriglione, Maria Rosa Cimma, Claudio Colombo, Maria Floriana Cursi, Andrea Di Porto, Iole Fargnoli, Roberto Fiori, Lauretta Maganzani, Dario Mantovani, Maria Rosaria Maugeri, Fabio Padovini, Salvatore Patti, Andrea Zoppini
Quaderni dell’Archivio Giuridico Sassarese
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La parte generale del contratto nella giurisprudenza della Cassazione civile a cura di Claudio Colombo e Luigi Nonne
Prefazione di Giovanni Maria Uda Introduzione di Claudio Colombo e Luigi Nonne
Volume finanziato con il contributo dei Fondi Progetto PON “Just Smart”. Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Sassari
© 2022, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 – 00133 – Roma
www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Quaderni dell’Archivio Giuridico Sassarese ISSN: 2724-1769 n. 9 – novembre 2022 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-320-4 ISBN – Ebook: 978-88-5529-376-1
Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Statua di un politico davanti alla Corte di Cassazione di Roma © lpictures – stock.adobe.com
INDICE
Giovanni Maria Uda, Prefazione
p. 13
Claudio Colombo – Luigi Nonne, Introduzione
p. 15
Carlo Attanasio, Buona fede in executivis e abuso del diritto (Cassazione, sez. III civ., sent. n. 20106/2009)
p. 19
Tania Bortolu, Illiceità della causa negli accordi di separazione e divorzio (Cassazione, sez. I civ., ord. n. 11012/2021)
p. 63
Lorenzo Botta, Nullità speciali a presidio dell’ordine pubblico economico (Cassazione, sez. un., sent. n. 41994/2021)
p. 95
Federica Chironi, Assicurazione sulla vita e designazione del beneficiario: artt. 1411 e 1412 c.c. (Cassazione, sez. un., sent. n. 11421/2021)
p. 137
Claudio Colombo, Credito ai consumatori e collegamento negoziale (Cassazione, sez. II civ., ord. n. 19434/2021)
p. 173
Gianluca De Donno, Il preliminare di preliminare (Cassazione, sez. un., sent. n. 4628/2015)
p. 215
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INDICE
Massimiliano Fadda, Sopravvenuta impossibilità di beneficiare della prestazione altrui e risoluzione del contratto, ex art. 1463 c.c. (Cassazione, sez. III civ., sent. n. 18047/2018)
p. 247
Giovanni Gandino, Causa in concreto e controllo di meritevolezza ex art. 1322 (Cassazione, sez. III civ., sent. n. 3080/2013)
p. 283
Pietro Libeccio, Permuta di cosa futura e determinabilità dell’oggetto contrattuale (Cassazione, sez. II civ., sent. n. 14585/2021)
p. 317
Salvatore Mistretta, I requisiti del dolo contrattuale ed i suoi effetti sul negozio (Cassazione, sez. VI civ., sottosez. 2, ord. n. 25968/2021)
p. 341
Raimondo Motroni, La funzione delle «nullità selettive» tra mercato e contrattazione asimmetrica (Cassazione, sez. un., sent. n. 28314/2019)
p. 379
Luigi Nonne, “Le parole tra noi leggère”: la topica dei rimedî e il problema della forma nel pactum fiduciae immobiliare (Cassazione, sez. un., sent. n. 6459/2020)
p. 417
Giuseppe Werther Romagno, Il diritto del singolo condomino all’uso esclusivo di parti comuni (Cassazione, sez. un., sent. n. 28972/2020)
p. 477
PREFAZIONE
La collana “Quaderni dell’Archivio Giuridico Sassarese” si arricchisce del volume La parte generale del contratto nella giurisprudenza della Cassazione civile; un volume collettaneo che vede all’opera anche (e soprattutto) giovani studiosi, dietro la guida di giuristi più maturi. Agli autori è stato chiesto un impegno diretto verso fini sia scientifici sia didattici, nel tentativo di non tenere distinte da un punto di vista metodologico le due fondamentali funzioni che sono proprie del ricercatore universitario. Coerentemente a questa impostazione, l’obiettivo del progetto scientifico ideato e curato da Claudio Colombo e Luigi Nonne è quello di approfondire specifiche tematiche sul contratto, partendo dalla prospettiva giurisprudenziale ma passando attraverso l’analisi teorica e generale del dato normativo, delle categorie concettuali e dei principi generali, secondo una impostazione di più ampio respiro sistematico. Il taglio didattico dell’opera emerge in particolare dallo stile espositivo, tendenzialmente semplificato ma senza pregiudizio per la completezza degli argomenti trattati; in modo da essere di stimolo e da consentire agli studenti che abbiano superato la fase meramente istituzionale dello studio del diritto, e ai giovanissimi giuristi impegnati nella formazione post lauream, di affrontare in termini dinamici e con un costituendo spirito critico gli istituti e le categorie alla cui applicazione saranno chiamati in un prossimo futuro. In tutto ciò si spiega l’attenzione che i curatori hanno voluto avere verso la disciplina codicistica – intesa come uno dei cardini
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GIOVANNI MARIA UDA
principali (se non il perno) del sistema civilistico – piuttosto che inseguire argomenti forse più moderni e «di richiamo», ma anche più settoriali e meno formativi. E così si spiega anche la scelta del tema dell’opera: il contratto in generale. Un tema nel quale – come avvertono nell’introduzione Colombo e Nonne – si apprezzano sia la struttura classica, per così dire, del sistema normativo, rimasto sostanzialmente immutato rispetto a quello codicistico originario; sia la spinta verso l’innovazione a cui la materia è sottoposta, nonché il progressivo adeguamento dei modelli applicativi alle nuove esigenze sociali ed economiche (anche) in base a un fenomeno endogeno (almeno dal punto di vista del diritto positivo), che prende spunto dall’evoluzione dei principi generali e delle clausole generali insite nel sistema e dei relativi valori di riferimento. Giovanni Maria Uda
INTRODUZIONE
Il giorno del Natale di Roma del 1942 – data non casuale, «secondo lo stile e la retorica del tempo» (P. Rescigno, Introduzione al Codice civile, Bari, 1991, p. 3) – nel pieno del conflitto che stava devastando l’Europa, entrava in vigore il nuovo Codice civile, frutto di anni di intensa attività delle commissioni coordinate da F. Vassalli, e nel quale confluirono anche le disposizioni originariamente destinate al nuovo Codice di commercio, a cui avevano lavorato le commissioni coordinate da A. Asquini (a riguardo, è prezioso il volume di G.B. Ferri, Le annotazioni di Filippo Vassalli in margine a taluni progetti del libro delle obbligazioni, Padova, 1990). Oggi, in un frangente storico in cui la guerra è tornata tragicamente ad essere una realtà anche all’interno del continente europeo, il Codice civile varca la ragguardevole soglia degli ottanta anni. Nel corso di questi anni il Codice ha dovuto fare i conti con diverse vicissitudini, a partire dall’opera di defascistizzazione, attuata saggiamente, quanto immediatamente, «provvedendo con leggi speciali alla eliminazione delle poche disposizioni incompatibili con i nuovi tempi» (G. Ferri, Del codice civile, della codificazione e di altre cose meno commendevoli, in Foro it., 1946, ora in Id., Scritti giuridici, Napoli, 1990, I, p. 31), primo tra tutti il R.D.L. 9 agosto 1943, n. 721, con cui venne soppresso l’ordinamento corporativo. Il Codice si è poi dovuto confrontare, tra l’altro, con la nuova Costituzione repubblicana del 1948 (tema indagato soprattutto da P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale, IV ed., Napoli, 2020), con la sempre più intensa integrazione dell’ordinamento italiano all’interno di quello dell’Unione Europea (C. Castronovo – S. Mazzamuto, Manuale di diritto privato europeo,
CLAUDIO COLOMBO – LUIGI NONNE
Milano, 2007), con alcuni processi di decodificazione (N. Irti, L’età della decodificazione, III ed., Milano, 1989). In alcune sue parti, poi, il Codice ha dovuto essere modificato e radicalmente riscritto, per adeguarlo alle nuove sensibilità (si pensi al diritto di famiglia e ad una parte importante del diritto delle successioni, oggetto della riforma del 1975), o al nuovo contesto economico (si pensi al diritto societario, oggetto della riforma del 2003). Tale opera di riforma non si è invece resa quasi per nulla necessaria relativamente al Libro Quarto del Codice, dedicato alle obbligazioni: come ha osservato, ancora, P. Rescigno (op. cit., p. 137) «il lettore del codice civile interessato a cogliere i mutamenti dell’opera si accorge che del libro “delle obbligazioni” assai poco è cambiato a distanza di cinquant’anni dalla codificazione», ed analoga affermazione può essere senz’altro ripetuta trascorsi altri trenta anni. In particolare, il Titolo Secondo del Libro Quarto, rubricato Dei contratti in generale, oggetto dei contributi contenuti nel presente volume, si presenta oggi nelle medesime vesti di ottanta anni fa, con sole due eccezioni: l’espunzione dei riferimenti all’ordinamento corporativo, peraltro già in origine limitati a soli tre articoli (l’art. 1322, l’art. 1339 e l’art. 1371), e l’attuale art. 1469 bis (norma di rinvio al codice del consumo ed alle altre disposizioni a tutela del consumatore, nonché traccia dell’unica reale alterazione del testo originario, in materia – appunto – di contratti del consumatore, e segnatamente di clausole vessatorie, alterazione durata tuttavia una breve parentesi di meno di dieci anni). La disciplina generale del contratto, dunque, è ancora quella del 1942, anche se va avvertito come essa non costituisca più un paradigma, uno statuto, unitario, valido per tutte le relazioni contrattuali, nota essendo l’affermazione di statuti alternativi (il già richiamato statuto del contratto tra consumatori e professionisti, o il c.d. terzo contratto, ovverosia il contratto tra imprese caratterizzato da asimmetrie). L’analisi della disciplina generale del contratto contenuta nel Codice civile, dunque, mantiene oggi una sua piena attualità, vista la «posizione dominante» occupata dall’istituto nel moderno diritto
INTRODUZIONE
civile (F. Galgano, Il contratto, II ed., Padova, 2011, p. 1), specie se condotta – come speriamo di essere riusciti a fare – nella consapevolezza della sua non esclusività paradigmatica e, dunque, tenendo sempre a mente l’esistenza degli ulteriori statuti. Il metodo che abbiamo ritenuto di adottare, al fine di fornire ai lettori, ed in particolare agli studenti, che sono i primi destinatari del volume, una panoramica quanto più completa ed organica dell’istituto, è quello dell’analisi di alcune sentenze (alcune molto recenti, altre meno recenti) della Corte di Cassazione. L’attività del giudice nomofilattico ha infatti acquisito nel corso del tempo un ruolo di sempre maggiore centralità, specie rispetto a norme – quali quelle contenute nella disciplina generale del contratto – che si caratterizzano per una marcata generalità ed astrattezza, e relativamente alle quali dunque lo sforzo interpretativo della Corte di legittimità è assolutamente cruciale, onde calarle nella realtà fattuale e, dunque, farne concreta applicazione. Abbiamo, inoltre, ritenuto di coinvolgere nella redazione dei contributi alcuni giovani studiosi, per riaffermare il concetto di universitas, nella sua accezione più genuina. Sassari, 21 aprile 2022 Claudio Colombo Luigi Nonne
Corte di Cassazione – Sezione Terza Civile 18 settembre 2009, n. 20106 Presidente Varrone, Estensore Vivaldi, Relatore Urban Buona fede in executivis –Abuso del diritto – Potere giudiziale correttivo e modificativo – Recesso ad nutum L’atto di autonomia privata, anche nel caso in cui consista in un recesso ad nutum, è sempre soggetto al controllo giurisdizionale. Il giudice, nel controllare e interpretare l’atto di autonomia privata, deve operare e interpretare l’atto anche in funzione del contemperamento degli opposti interessi delle parti contrattuali attraverso un giudizio, di natura giuridica e non politica, di ragionevolezza in ambito contrattuale. Il giudice di merito deve, allora, valutare in termini di conflittualità se il recesso ad nutum previsto dalle condizioni contrattuali sia stato attuato con modalità (buona fede) e per perseguire fini diversi e ulteriori rispetto a quelli consentiti (abuso del diritto). L’indicato giudizio deve essere più ampio e rigoroso là dove vi sia una provata disparità di forze fra i contraenti (massima ufficiale).
Dalla motivazione (omissis) Costituiscono principii generali del diritto delle obbligazioni quelli secondo cui le parti di un rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175 c.c.) e che l’esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375). In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all’esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase (Cass. 5.3.2009 n. 5348; Cass. 11.6.2008 n. 15476). Ne consegue che la clausola generale di buona fede e correttezza è operante, tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del
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creditore nell’ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all’esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.). I principii di buona fede e correttezza, del resto, sono entrati, nel tessuto connettivo dell’ordinamento giuridico. L’obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre, Cass. 15.2.2007 n. 3462). Una volta collocato nel quadro dei valori introdotto dalla Carta costituzionale, poi, il principio deve essere inteso come una specificazione degli “inderogabili doveri di solidarietà sociale” imposti dall’art. 2 Cost., e la sua rilevanza si esplica nell’imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge. In questa prospettiva, si è pervenuti ad affermare che il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo od integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi. (omissis) In sintesi, disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato. In questa ottica la clausola generale della buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c., è stata utilizzata, anche nell’ambito dei diritti di credito, per scongiurare, per es. gli abusi di posizione dominante. La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell’equilibrio e della proporzione.
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Criterio rivelatore della violazione dell’obbligo di buona fede oggettiva è quello dell’abuso del diritto. Gli elementi costitutivi dell’abuso del diritto – ricostruiti attraverso l’apporto dottrinario e giurisprudenziale – sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrificio cui è soggetta la controparte. L’abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l’utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore. È ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell’atto rispetto al potere che lo prevede. Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l’ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva. E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti – ed i diritti connessi – attraverso atti di per sé strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l’ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata. Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l’abuso del diritto.
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(omissis) Oggi, i principii della buona fede oggettiva, e dell’abuso del diritto, debbono essere selezionati e rivisitati alla luce dei principi costituzionali – funzione sociale ex art. 42 Cost. – e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assoluti. In questa prospettiva i due principii si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico e l’interpretazione dell’atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l’abuso, la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti. Qualora la finalità perseguita non sia quella consentita dall’ordinamento, si avrà abuso. In questo caso il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni del diritto ne determinerà il suo abusivo esercizio. (omissis) Il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve accompagnare il contratto nel suo svolgimento, dalla formazione all’esecuzione, ed, essendo espressione del dovere di solidarietà fondato sull’art. 2 della Costituzione, impone a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio di agire nell’ottica di un bilanciamento degli interessi vicendevoli, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di norme specifiche. La sua violazione, pertanto, costituisce di per sé inadempimento e può comportare l’obbligo di risarcire il danno che ne sia derivato (v. anche S.U. 15.11,2007 n. 23726; Cass. 22.1.2009 n. 1618; Cass. 6.6.2008 n. 21250; Cass. 27.10.2006 n. 23273; Cass. 7.6.2006 n. 13345; Cass. 11.1.2006 n. 264). Il criterio della buona fede costituisce, quindi, uno strumento, per il giudice, finalizzato al controllo – anche in senso modificativo o integrativo – dello statuto negoziale; e ciò quale garanzia di con-
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temperamento degli opposti interessi (v. S.U. 15.11.2007 n. 23726 ed i richiami ivi contenuti). Il giudice, quindi, nell’interpretazione secondo buona fede del contratto, deve operare nell’ottica dell’equilibrio fra i detti interessi. Ed è su questa base che la Corte di merito avrebbe dovuto valutare ed interpretare le clausole del contratto – in particolare quella che prevedeva il recesso ad nutum – anche al fine di riconoscere l’eventuale diritto al risarcimento del danno per l’esercizio di tale facoltà in modo non conforme alla correttezza ed alla buona fede. Sotto questo profilo, pertanto, dovrà essere riesaminato il materiale probatorio acquisito. In sostanza la Corte di merito – di fronte ad un recesso non qualificato – non poteva esimersi dal valutare le circostanze allegate dai destinatari dell’atto di recesso, quali impeditive del suo esercizio, o quali fondanti un diritto al risarcimento per il suo abusivo esercizio. (omissis) In questo senso, la Corte di appello non poteva esimersi da un tale controllo condotto, secondo le linee guida esposte, anche, quindi, sotto il profilo dell’eventuale abuso del diritto di recesso, come operato. In concreto, avrebbe dovuto valutare – e tale esame spetta ora al giudice del rinvio – se il recesso ad nutum previsto dalle condizioni contrattuali, era stato attuato con modalità e per perseguire fini diversi ed ulteriori rispetto a quelli consentiti. Ed in questo esame si sarebbe dovuta avvalere del materiale probatorio acquisito, esaminato e valutato alla luce dei principii oggi indicati, al fine di valutare – anche sotto il profilo del suo abuso – l’esercizio del diritto riconosciuto. (omissis)
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P.Q.M. La Corte riunisce i ricorsi. Rigetta il primo motivo del ricorso principale, Accoglie, nei limiti di cui in motivazione, il secondo, terzo e quarto motivo. Dichiara assorbiti il quinto, nonché il ricorso incidentale. Cassa in relazione e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione.
BUONA FEDE IN EXECUTIVIS E ABUSO DEL DIRITTO Carlo Attanasio (Dottore di ricerca presso l’Università degli Studi di Sassari)
Sommario: 1. Il caso. – 2. La buona fede in executivis (cenni). – 3. L’abuso del diritto (cenni). – 4. Il rapporto tra buona fede e abuso del diritto. – 5. Potere correttivo-modificativo del giudice, giustizia contrattuale e buona fede.
1. Il caso In un periodo compreso tra il 1992 e il 1996 la Renault Italia s.p.a. aveva comunicato il recesso dal contratto di concessione di vendita (previsto all’art. XII del medesimo) a circa 200 suoi concessionarî, adducendo la motivazione di voler ristrutturare la propria rete di distribuzione dei prodotti commercializzati in Italia. A fronte di ciò, i concessionarî revocati lamentavano un esercizio abusivo (rectius contrario a buona fede) del recesso in considerazione del fatto che, da un lato, la Renault li aveva – nel periodo antecedente – sollecitati a compiere nuovi investimenti, generando in loro un legittimo affidamento circa la prosecuzione dei loro rapporti contrattuali con la recedente (che in media avevano una durata di circa dieci anni), dall’altro lato, perché – in realtà – ai recessi non seguì una effettiva ristrutturazione della rete di distribuzione, posto che i revocati vennero semplicemente sostituiti da ex dirigenti della Renault, con i quali quest’ultima aveva nel frattempo consensualmente risolto il rapporto lavorativo, tramutandolo in un rapporto di concessione, permanendo così la rete numericamente immutata. Secondo i ricorrenti, in altri termini, il vero scopo della Renault non era quello di ristrutturare la propria rete di distribuzio-
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CARLO ATTANASIO
ne, quanto piuttosto di ridurre il proprio personale interno, senza alcun onere finanziario, semplicemente convertendo il rapporto di lavoro con alcuni suoi dirigenti in concessione di vendita, a discapito dei precedenti concessionarî, la cui concessione veniva sciolta unilateralmente attraverso l’esercizio ad nutum del diritto di recesso, contrattualmente previsto in favore della società automobilistica1. Di contro, la Renault respingeva ogni addebito, affermando come la ristrutturazione era diretta a garantire una più adeguata assistenza alla clientela, conformemente alle finalità manifestate dalla normativa comunitaria in materia, oltre ad evidenziare come per il recesso fosse stato dato alle ricorrenti un congruo preavviso. Il Tribunale di Roma2, con sentenza resa l’11 giugno 2001, respingeva la domanda degli attori. In particolare, il Tribunale, dopo aver affermato che – pur dovendosi riconoscere la posizione di debolezza dei concessionarî nella relazione contrattuale – questi operavano comunque in un mercato talmente duttile da consentirgli di far fronte alle conseguenze derivanti dalla cessazione del rapporto3, si mostrava alquanto scettico circa la reale finalità che, secondo gli attori, avreb-
Tale supposta finalità perseguita dalla Renault s.p.a. è messa in luce in particolare da F. Galgano, Qui suo iure abutitur neminem laedit?, in Contr. impr., 2011, 2, pp. 311 ss., spec. p. 315, il quale lamenta come molti di coloro che hanno commentato, in senso critico, la sentenza qui riportata non abbiano tenuto in considerazione un siffatto contesto, evidentemente basandosi in via esclusiva sul testo della sentenza della Cassazione, che non accenna nella motivazione a tali circostanze di fatto; si veda in proposito anche G. D’Amico, Recesso ad nutum, buona fede e abuso del diritto, in I Contratti, 2010, p. 11. 2 La sentenza è inedita, ma ampî stralci possono essere rinvenuti in G. D’Amico, Recesso ad nutum, buona fede e abuso del diritto, cit., pp. 12 s. 3 Circostanza confermata dal fatto che, come rileva il Tribunale, molti dei concessionarî revocati erano nel frattempo passati alla rete distributiva di un altro produttore. Tuttavia, in senso critico sul punto, si veda L. Delli Priscoli, Abuso del diritto e mercato, in Giur. comm., 2010, pp. 834 ss., spec. p. 835, il quale evidenzia come i concessionarî in realtà si trovassero nei confronti della Renault in una situazione di dipendenza economica, determinata dall’impossibilità di rinvenire nel mercato valide alternative, posto che «[…] in ipotesi di scioglimento del rapporto il concessionario si troverebbe a non poter più disporre dell’insegna Renault e al contempo con delle auto contraddistinte da tale marchio, con le facilmente immaginabili difficoltà di venderle». 1
BUONA FEDE IN EXECUTIVIS E ABUSO DEL DIRITTO
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be perseguito la Renault, ossia – come detto – la riduzione a costo zero del proprio personale interno. Difatti, il giudice di prime cure aveva precisato come un’impresa delle dimensioni della convenuta avrebbe potuto raggiungere il medesimo scopo utilizzando strumenti meno «traumatici e destabilizzanti» rispetto ad un diffuso recesso dai contratti di concessione. Allo stesso modo, anche la doglianza relativa al legittimo affidamento alla prosecuzione del rapporto, ingenerato nei concessionarî revocati dalla richiesta di nuovi investimenti, non appariva convincente, dal momento che gli attori non avevano allegato come tale richiesta fosse estranea alla normale gestione del contratto, nonché incompatibile, quanto alle sue modalità, con un rapporto contrattuale che di lì a poco sarebbe stato unilateralmente reciso. Alla luce di tali considerazioni il Tribunale, pure implicitamente affermando la sindacabilità dell’esercizio del recesso, riteneva che nel caso di specie non potesse ravvisarsi alcuna “abusività”. Avverso la sentenza del Tribunale, veniva presentato ricorso alla Corte d’Appello di Roma4 che, con sentenza resa il 13 gennaio 2015, confermava la decisione di primo grado, respingendo il ricorso presentato dai concessionarî. La Corte d’Appello, in controtendenza rispetto alla decisione del Tribunale, è giunta addirittura a negare il potere del giudice di sindacare l’esercizio del diritto di recesso, posto che questo – esercitabile ad nutum – non richiedeva alcun controllo causale, essendo rimesso alla libera scelta dell’operatore economico, nell’àmbito di un libero mercato dove concorrono tra loro soggetti che, essendo capaci di autodeterminarsi, assumono su di sé la responsabilità delle scelte di impresa ad essi imputabili. Diversamente argomentando, ha sottolineato la Corte d’Appello, si avrebbe «un potere del giudice di controllo diretto sugli atti di autonomia privata, in mancanza di un atto normativo che specifichi come attuare tale astratta tutela», il che produrrebbe «un controllo di opportunità e di ragionevolezza sull’esercizio del potere di re-
Anche tale pronuncia è inedita. Si rimanda in proposito a R. Pardolesi, Nuovi abusi contrattuali: percorsi di una clausola generale, in Danno e resp., 2012, 12, p. 2, dove sono analizzate le conclusioni della Corte d’Appello. 4
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cesso; al che consegue una valutazione politica, non giurisdizionale dell’atto». Dovendosi pertanto escludere l’illegittimità dell’esercizio del recesso, i giudici dell’appello hanno evidenziato sia la non pertinenza del richiamo agli artt. 1175 e 1375 c.c., ossia ai principî di correttezza e buona fede (oggettiva), sia la mancata ricorrenza – nel caso di specie – degli elementi che la giurisprudenza ha isolato in tema di abuso del diritto, con specifico riguardo all’elemento oggettivo, costituito dall’assenza di ogni utilità, per il titolare del diritto, proveniente dall’esercizio “abusivo” dello stesso, nonché all’elemento soggettivo, vale a dire il c.d. animus nocendi, con ciò intendendosi la volontà di recare danno o molestia ad altri.
2. La buona fede in executivis (cenni) La Suprema Corte, nella pronuncia in commento, si è profusa in un approfondimento – in parte caratterizzato da contorni didascalici – della tematica relativa alla buona fede oggettiva, tanto che da più parti è stata sottolineata una supposta volontà dei giudici di redigere un “manifesto” volto a propugnare, attraverso la valorizzazione della buona fede, una ideologica rivisitazione del diritto privato in chiave “sociale”5. Al fine di comprendere, pertanto, gli approdi cui è giunto il Supremo Consesso nel caso di specie, si rende necessario chiarire preliminarmente, ancorché in estrema sintesi, i principali profili della buona fede (oggettiva) c.d. in executivis. Innanzitutto, la buona fede oggettiva deve tenersi ben distinta dalla buona fede soggettiva, che trova riscontro nell’art. 1147 c.c. e si sostanzia nell’ignoranza di ledere un altrui diritto6. Al contrario, Di sentenza “manifesto”, nel senso delineato nel testo, parlano ad esempio C. Scognamiglio, Abuso del diritto, buona fede, ragionevolezza (verso una riscoperta della pretesa funzione correttiva dell’interpretazione del contratto?), in Nuova giur. civ. comm., 2010, II, p. 141, nonché E. Barcellona, Buona fede e abuso del diritto di recesso ad nutum tra autonomia privata e sindacato giurisdizionale, in Giur. comm., 2011, II, p. 297. 6 La distinzione tra buona fede oggettiva e soggettiva è da tempo un dato acquisito in dottrina. Si vedano, ex multis, R. Sacco, La buona fede nella teoria 5
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la buona fede declinata in senso oggettivo presuppone un modello sociale di comportamento al quale i soggetti dell’ordinamento sono tenuti. Conseguentemente, in capo a questi ultimi è posto un vero e proprio obbligo (giuridico) di comportarsi secondo buona fede, al fine di conseguire certuni effetti ritenuti socialmente apprezzabili, in base al modello di comportamento sopra accennato7. La buona fede oggettiva trova espressione in molteplici norme del codice civile, come ad esempio nell’art. 1175 c.c. (correttezza del debitore e del creditore nelle obbligazioni), nell’art. 1375 c.c. (buona fede nell’esecuzione del contratto), nell’art. 1337 c.c. (buona fede precontrattuale), nell’art. 1366 (interpretazione del contratto secondo buona fede) e nell’art. 1358 c.c. (buona fede nella fase di pendenza della condizione contrattuale). Si può ben comprendere dunque l’affermazione della Cassazione, nella pronuncia in esame, quando sostiene che la buona fede «deve presiedere all’esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase». Intesa in questo senso, la buona fede oggettiva rappresenta una categoria autonoma che si estrinseca per le sue caratteristiche, più che in un principio, in una clausola generale8, caratterizzante l’intera vita del contratto. Occorre tuttavia considerare come le diverse figure sopra menzionate presentino rilevanti differenze sotto il profilo strutturale e funzionale, ciò che indurrebbe pertanto ad escludere
dei fatti giuridici, Torino, 1949, pp. 6 ss.; G. Giampiccolo, La buona fede in senso soggettivo nel sistema del diritto privato, in Riv. dir. comm., 1965, I, pp. 335 ss.; Salv. Romano, voce Buona fede (diritto privato), in Enc. dir., V, Milano, 1959, p. 678; C.M. Bianca, La nozione di buona fede quale regola di comportamento contrattuale, in Riv. dir. civ., 1983, I, p. 205. 7 In proposito si veda, su tutti, G.M. Uda, La buona fede nell’esecuzione del contratto, Torino, 2004, pp. 20 ss., il quale pone in luce il carattere precettivo della buona fede, capace di far sorgere in capo ai soggetti un obbligo giuridico (e non una obbligazione, stante l’assenza di un contenuto necessariamente economico; si veda in particolare p. 98). 8 Sulla buona fede quale clausola generale cfr., ad esempio, C.M. Bianca, La nozione di buona fede quale regola di comportamento contrattuale, cit., p. 206; G. Cattaneo, Buona fede obiettiva e abuso del diritto, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1971, p. 616.
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la loro riconducibilità entro un’unica e generale categoria di buona fede oggettiva9. Limitando, pertanto, il discorso alla buona fede in executivis, prevista all’art. 1375 c.c., alla quale tendenzialmente viene assimilata la correttezza cui sono tenute le parti del rapporto obbligatorio, ex art. 1175 c.c.10, non si può non tenere in debita considerazione che, trattandosi – come accennato – di una clausola generale, uno dei principali problemi sia quello della sua concretizzazione, o per meglio dire “oggettivazione”, in modo da poter concretamente delineare quel modello di comportamento cui le parti sarebbero tenute nella fase dell’esecuzione del contratto e alla stregua del quale la loro condotta potrà essere valutata. Come è stato autorevolmente sostenuto, il criterio diretto ad “oggettivare” la buona fede in executivis deve essere rinvenuto «nell’ambito del fenomeno giuridico entro il quale essa stessa opera»11, ossia nel concreto contratto della cui esecuzione si tratta e, più specificamente, nella finalità (giuridica) che l’attuazione del programma contrattuale divisato dalle parti mira a realizzare. In altri termini, la condotta delle parti, sotto il profilo della buona fede in executivis, deve essere valutata tenendo in stretta considerazione l’attuazione dello specifico scopo perseguito dal contratto. Lo stretto legame sussistente tra clausola generale di buona fede e attuazione dell’assetto negoziale concordato dai contraenti, o meglio la preordinazione della prima rispetto alla seconda, non può essere
In questo senso è chiaro G.M. Uda, La buona fede nell’esecuzione del contratto, cit., pp. 33 ss. 10 Nonostante in passato l’orientamento maggioritario in dottrina affermasse una rigida distinzione concettuale tra le due nozioni di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. (v. ad es. L. Barassi, La teoria generale delle obbligazioni, III, Milano, 1948, pp. 2 ss.; E. Betti, Teoria generale delle obbligazioni, I, Milano, 1953, p. 68), ad oggi la prospettiva risulta essere ribaltata, con una sostanziale identificazione dei due citati concetti (in questo senso si vedano U. Natoli, La regola della correttezza e l’attuazione del rapporto obbligatorio, in Studi sulla buona fede, Milano, 1975, pp. 126 ss.; S. Rodotà, Le fonti di integrazione del contratto, Milano, 1969, pp. 141 ss.; U. Breccia, Diligenza e buona fede nell’attuazione del rapporto obbligatorio, Milano, 1968, p. 65). 11 Così espressamente G.M. Uda, La buona fede nell’esecuzione del contratto, cit., p. 44. 9
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messo in dubbio dal fatto che la buona fede sia ormai unanimemente considerata espressione della solidarietà sociale ex art. 2 Cost.12. Il collegamento tra la clausola generale de qua e il principio solidaristico, costituzionalmente riconosciuto, infatti, non deve essere inteso nel senso che, per il tramite della buona fede, la solidarietà sociale può trovare ingresso nelle vicende contrattuali, alterando e funzionalizzando l’autonomia privata verso il perseguimento di scopi sociali13 estranei alla volontà delle parti. Piuttosto, tale collegamento deve intendersi nel senso che, consentendo la buona fede oggettiva il raggiungimento degli obiettivi delineati nel programma negoziale, viene consequenzialmente a rafforzarsi lo stesso strumento contrattuale, con inevitabili ricadute positive sugli interessi generali alla
Difatti, si ritiene generalmente che la buona fede (oggettiva) costituisca espressione dei doveri inderogabili di solidarietà sociale ricavabili dall’art. 2 Cost. In questo senso, oltre alla sentenza in commento, si vedano ex multis A.M. Garofalo, Il problema della clausola generale di buona fede nell’equilibrio tra formanti, in Nuova giur. civ. comm., 2018, 4, p. 580; A. Gentili, Abuso del diritto e uso dell’argomentazione, in Resp. civ. e prev., 2010, 2, p. 189. Non mancano tuttavia voci discordi, cfr. in proposito E. Barcellona, Buona fede e abuso del diritto di recesso ad nutum tra autonomia privata e sindacato giurisdizionale, cit., p. 300, secondo cui «Discutibile pare […] radicare la buona fede in executivis nel principio costituzionale di «solidarietà sociale», operazione pur avallata dal filone ormai dominante della dottrina e della giurisprudenza degli ultimi decenni. Infatti, il canone di buona fede in executivis, lungi dall’essere figlio di «solidarietà sociale» […] serve in realtà a far risparmiare i costi di negoziazione, secondo un’ottica niente affatto «moralistica» ma puramente filo-mercantile: essa consente, infatti, a ciascuna parte di poter confidare che, anche laddove il contratto lasci (inevitabilmente) spazi alla «discrezionalità» esecutiva dell’obbligato, costui non potrà trasformare la discrezionalità in arbitrio» (corsivi dell’Autore). 13 Il problema della “funzionalizzazione” dell’autonomia privata e, nello specifico, del contratto, è uno dei temi più delicati dell’intero diritto privato. Non potendone approfondire i profili in questa sede, valga il rinvio, per una prospettiva favorevole, a P. Perlingieri, Controllo e conformazione degli atti di autonomia negoziale, in Rass. dir. civ., 2017, 1, p. 213; V. Ricciuto, Regolazione del mercato e “funzionalizzazione” del contratto, in Studi in onore di Giuseppe Benedetti, Napoli, 2008, pp. 1611 ss.; M. Nuzzo, Utilità sociale e autonomia privata, Milano, 1975, pp. 33 ss. In senso critico cfr., invece, L. Mengoni, Forma giuridica e materia economica, in Studi in onore di Alberto Asquini, III, Padova, 1965, p. 1090; G. Minervini, Contro la «funzionalizzazione» dell’impresa privata, in Riv. dir. civ., 1958, I, pp. 618 ss. 12
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circolazione della ricchezza e alla certezza, speditezza ed efficacia dei traffici giuridici, il cui soddisfacimento realizza senz’altro una funzione sociale apprezzabile ai sensi del citato art. 2 Cost. In altri termini, in àmbito contrattuale, la solidarietà sociale trova ingresso nel contratto per il tramite della clausola generale di buona fede in executivis, che impone alle parti obblighi giuridici di comportamento aventi un unico fine: la salvaguardia del contratto stesso, della sua efficacia, nonché del risultato concreto cui esso mira. Questa particolare esplicazione della solidarietà sociale nel sistema dei contratti è stata definita da autorevole dottrina come solidarietà contrattuale14, sintagma che esprime alla perfezione il legame tra il principio solidaristico ex art. 2 Cost. e il fenomeno contrattuale. Così, la buona fede oggettiva nell’esecuzione del contratto, ai sensi dell’art. 1375 c.c., richiede ai contraenti una condotta che non solo garantisca la conservazione del contratto, ma che tenga anche in considerazione gli interessi privati della controparte. D’altronde, lo scopo essenziale del contratto non è altro che il perseguimento di un risultato che sintetizzi gli interessi dei contraenti. Pertanto, la condotta esecutiva di uno di essi che – approfittando della condizione in cui versa la controparte – frustrasse l’interesse di quest’ultima, determinando la produzione di effetti contrattuali per questa dannosi, potrebbe certamente dirsi contraria a buona fede. Il pregiudizio all’interesse della controparte, infatti, precluderebbe allo stesso tempo il perseguimento del programma negoziale originariamente stabilito e condiviso dalle parti, con conseguente impossibilità, per il contratto, di assolvere quella funzione sociale intesa nel senso di cui sopra, costituendo un ostacolo alla circolazione della ricchezza e alla certezza e speditezza dei traffici giuridici. In sintesi, allora, si può affermare che la buona fede in executivis imponga alle parti di cooperare15 tra loro e di compiere tutti gli atti necessarî (i quali dunque devono ritenersi atti giuridicamente 14 C.M. Bianca, La nozione di buona fede quale regola di comportamento contrattuale, cit., p. 209. 15 Si veda in proposito L. Nanni, La buona fede contrattuale, Padova, 1988, p. 269, il quale chiarisce come «La buona fede oggettiva si traduce […] nel dove-
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doverosi) affinché il contratto produca i suoi effetti prestabiliti e consegua il risultato preso di mira dai contraenti, traducendosi in un duplice obbligo giuridico di salvaguardia, diretto rispettivamente alla conservazione del contratto, da un lato, e all’interesse della controparte16, dall’altro, a prescindere dal fatto che tali obblighi siano specificamente previsti dal contratto, ovvero espressamente sanciti da norme di legge17. A questo punto possono emergere due interrogativi: gli obblighi giuridici derivanti dalla buona fede integrano il contenuto del contratto, finendo per costituire parte integrante del programma negoziale? In che modo i suddetti obblighi possono concretizzarsi nel singolo caso di specie, superando così i dubbî che, tradizionalmente, parte autorevole della dottrina ha nutrito circa la supposta «vaghezza»18 della clausola generale di buona fede? In relazione al primo dei citati quesiti, occorre evidenziare come la tematica relativa alla funzione della buona fede (oggettiva) sia stata oggetto di un acceso dibattito in dottrina. Sul punto possono ravvisarsi due impostazioni contrapposte: in base alla prima, la buona fede in executivis avrebbe una funzione meramente valutativa, essendo diretta a vagliare le condotte delle parti in una fase successiva alla formazione del contratto e all’individuazione del suo contenuto (quella appunto dell’esecuzione contrattuale)19; in base alla seconda
re di cooperare affinché i risultati pratici conseguenti all’attuazione del rapporto obbligatorio non si distacchino dal piano comune». 16 Sugli obblighi di salvaguardia del contratto, che deriverebbero in capo ai contraenti in virtù della buona fede in executivis, si veda diffusamente G.M. Uda, La buona fede nell’esecuzione del contratto, cit., p. 52 e pp. 85 ss. Da ultimo, sul tema, cfr. anche F. Scaglione, L’abuso del diritto tra buona fede in executivis e causa del contratto, in Nuova giur. civ. comm., 2017, 1, p. 28. 17 Cfr. sul punto F. Viglione, Il giudice riscrive il contratto per le parti: l’autonomia negoziale stretta tra giustizia, buona fede e abuso del diritto, in Nuova giur. civ. comm., 2010, II, p. 148. 18 Sulla presunta “vaghezza” della clausola generale di buona fede si veda, su tutti, L. Bigliazzi Geri, voce Buona fede nel diritto civile, in Dig. disc. priv., sez. civ., II, 1988, pp. 170 ss. 19 Per la dottrina che accoglie la concezione “valutativa” della buona fede si vedano, tra i tanti e senza alcuna pretesa di esaustività, E. Betti, Teoria generale
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impostazione, alla buona fede potrebbe attribuirsi una funzione integrativa del contratto, in virtù della quale – dunque – anche nella fase dell’esecuzione contrattuale sorgerebbero in capo alle parti degli obblighi giuridici autonomi, funzionali al conseguimento del risultato economico divisato dalle parti e cristallizzato nel programma negoziale, i quali entrerebbero a far parte, a pieno titolo, del contenuto contrattuale20. Tra le due, quest’ultima ricostruzione pare aver ormai ricevuto il decisivo avallo della giurisprudenza21. Tuttavia, il riconoscimento alla buona fede di una funzione integrativa pone l’ulteriore problema della compatibilità di tale impostazione con l’art. 1374 c.c. che, come è noto, individua quali fonti integrative delle obbligazioni, I, Prolegomeni: funzione economico-sociale dei rapporti d’obbligazione, Milano, 1953, pp. 94 ss.; M. Giorgianni, Lezioni di diritto civile, I, L’adempimento, Milano, 1956, p. 181; U. Natoli, L’attuazione del rapporto obbligatorio, I, Il comportamento del creditore, in Tratt. Cicu e Messineo, XVI, 1, Milano, 1974, pp. 1 ss.; L. Bigliazzi Geri, Note in tema di interpretazione secondo buona fede, Pisa, 1970, pp. 14 ss.; Id., voce Buona fede nel diritto civile, cit., pp. 169 ss.; U. Breccia, Diligenza e buona fede nell’attuazione del rapporto obbligatorio, Milano, 1968, pp. 55 ss.; P. Barcellona, Intervento statale e autonomia privata nella disciplina dei rapporti economici, Milano, 1969, pp. 231 ss.; F. Gazzoni, Equità e autonomia privata, Milano, 1970, pp. 284 ss. 20 Sulla funzione “integrativa” della buona fede oggettiva cfr., ex multis, anche qui senza alcuna pretesa di esaustività, F. Benatti, Osservazioni in tema di «doveri di protezione», in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1960, pp. 1342 ss.; S. Rodotà, Appunti sul principio di buona fede, in Foro padano, 1964, I, pp. 1283 ss.; Id., Le fonti di integrazione del contratto, cit., pp. 112 ss.; A. Di Majo, L’esecuzione del contratto, Milano, 1967, pp. 365 ss.; D. Corradini, Il criterio della buona fede e la scienza del diritto privato, Milano, 1970, pp. 5 ss.; G. Panza, Buon costume e buona fede, Napoli, 1973, pp. 237 s.; C.M. Bianca, La nozione di buona fede quale regola di comportamento contrattuale, cit., pp. 205 ss.; G. Criscuoli, Buona fede e ragionevolezza, in Riv. dir. civ., 1984, I, pp. 709 ss.; L. Nanni, La buona fede contrattuale nella giurisprudenza, in Contr. impr., 1986, pp. 501 ss.; G. Sicchiero, Buona fede e rischio contrattuale, Contr. impr., 2006, 4/5, pp. 919 ss.; A. Somma, La buona fede contrattuale: modelli solidali e modelli ordoliberali a confronto, in Eur. dir. priv., 2006, pp. 501 ss. 21 In questo senso, tra le tante, si vedano Cass., 15 ottobre 2012, n. 17642; Cass., 17 luglio 2007, n. 15950; Cass., 22 maggio 1997, n. 4598; Cass., 10 aprile 1996, n. 3351; Cass., 28 aprile 1995, n. 4726; Cass., 20 aprile 1994, n. 3775, tutte reperibili su DeJure. Tuttavia, non sono mancate pronunce di legittimità volte a negare tale funzione della buona fede, si veda in particolare Cass.,15 settembre 2006, n. 19964, anch’essa su DeJure.
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del contratto la legge, gli usi e l’equità. Un’interpretazione estensiva del riferimento alla legge, contenuto nel citato art. 1374 c.c., volta a ricondurvi anche lo stesso art. 1375 c.c., non ci pare si possa accogliere, dovendosi piuttosto ritenere che, con tale rinvio, si intenda in realtà richiamare norme di legge specifiche e determinate e non già una indeterminata clausola generale, quale è quella della buona fede in executivis. Il problema si sposta, allora, sull’individuazione del fondamento normativo di una siffatta funzione integrativa riconosciuta alla buona fede. Sul punto non vi è concordia tra gli interpreti. Difatti, la giurisprudenza tende ormai a negare la tassatività delle fonti di integrazione di cui all’art. 1374 c.c.22, il quale dunque non conterrebbe che una elencazione meramente esemplificativa, potendovi allora benissimo rientrare anche la stessa buona fede. Tuttavia, alcuni autori23 hanno messo in luce come la negazione del carattere tassativo dell’art. 1374 c.c. farebbe emergere il pericolo di una eccessiva estensione del potere giudiziale, che in fase interpretativa potrebbe condurre all’individuazione delle più varie fonti integrative del contratto, con conseguenti ricadute negative sulla certezza del diritto, nonché sul rischio di una possibile vanificazione dell’autonomia contrattuale. Per i motivi anzidetti, dunque, dovrebbe ritenersi che il fondamento normativo della funzione integrativa della buona fede non possa essere ricondotto alla disposizione del codice rubricata “integrazione del contratto”, che di per sé continuerebbe a mantenere carattere tassativo, ma andrebbe invece individuato nello stesso art. 1375 c.c., concepito quale fondamento normativo autonomo.
Cfr., in particolare, la relazione della Corte di Cassazione n. 116 del 10 settembre 2010, redatta da A. Scrima, intitolata “Buona fede come fonte di integrazione dello statuto negoziale: Il ruolo del giudice nel governo del contratto”, reperibile su cortedicassazione.it, dove si afferma che «Può ritenersi ormai superato, per effetto della valorizzazione del[la] buona fede di cui all’art. 1375 cod. civ. come fonte di regole integrative del programma contrattuale, il dibattito sulla tassatività o meno dell’elenco delle forme di integrazione di cui all’art. 1374 cod. civ.» (p. 5). 23 Il riferimento è a G.M. Uda, La buona fede nell’esecuzione del contratto, cit., pp. 119 ss., spec. p. 127. 22
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In questo senso, allora, la buona fede in executivis, per il tramite dell’art. 1375 c.c., farebbe sorgere in capo alle parti, in una fase successiva alla formazione del contratto, obblighi ulteriori sia rispetto a quelli dalle stesse concordati (e ciò non soltanto quando le parti nulla abbiano previsto in proposito, configurandosi in tal caso una vera e propria lacuna negoziale24, ma anche quando il regolamento contrattuale contenga disposizioni che, alla luce di impreviste peculiarità del caso concreto, si mostrino incompatibili con il perseguimento del programma negoziale25), sia rispetto a quelli eventualmente integrati ad opera delle altre fonti di cui all’art. 1374 c.c. In sostanza, viene ad instaurarsi tra la clausola generale di buona fede, gli obblighi giuridici che da questa discendono e il concreto assetto di interessi divisato dalle parti un nesso indissolubile, con i primi due che si pongono in via prettamente strumentale rispetto alla realizzazione del terzo26, rappresentando questa l’obiettivo ultimo del contratto. È chiaro allora come, alla luce del suddetto legame, venga meno anche il secondo dei citati problemi, ossia quello della concreta determinazione degli obblighi giuridici di buona fede, posto che questi vengono specificati alla luce del programma negoziale stabilito dai contraenti, dovendo essere preordinati alla sua realizzazione. Pertanto, se è vero che la buona fede (oggettiva) impone alle parti di comportarsi, nella fase esecutiva del contratto, in modo da raggiungere il risultato concordato, ne deriva che – conoscendosi tale risultato – si possa delineare anche il contenuto dei suddetti obblighi di condotta. Non vale ad escludere quanto appena affermato il fatto 24 Si vedano, ad esempio, F. Galgano, Il negozio giuridico, II ed., in Tratt. Cicu e Messineo, XXI, Milano, 2002, p. 500; A. D’Angelo, Il contratto in generale. Tomo IV. La buona fede, in Tratt. dir. priv., diretto da M. Bessone, XIII, Torino, 2004, pp. 40 ss. 25 In questo senso si esprime C. Restivo, Abuso del diritto e autonomia privata. Considerazioni critiche di una sentenza eterodossa, in S. Pagliantini (a cura di), Abuso del diritto e buona fede nei contratti, Torino, 2010, p. 121, spec. nota n. 16, il quale discorre a tal proposito di lacuna “assiologica”. 26 Sul carattere strumentale della buona fede in executivis e degli obblighi giuridici che da questa possono ricavarsi, rispetto all’attuazione del programma negoziale concordato dalle parti si veda, diffusamente, G.M. Uda, La buona fede nell’esecuzione del contratto, cit., pp. 44 ss., p. 100, p. 161.
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che, al momento della formazione del contratto, gli obblighi giuridici di buona fede siano (concretamente) indeterminati, in quanto è sufficiente che la loro determinazione possa avvenire anche in una fase successiva, purché antecedente al loro inadempimento27. Infine, per quanto riguarda le conseguenze derivanti dalla violazione degli obblighi di buona fede, l’orientamento maggioritario, cui aderisce anche la pronuncia in commento, si attesta sull’affermazione del rimedio risarcitorio, che può condurre – ricorrendone i presupposti – anche alla risoluzione del contratto per inadempimento28, escludendo invece la possibilità di una pronuncia sulla sua validità. Tale impostazione risulta essere sicuramente più aderente alla tradizionale distinzione tra regole di validità e regole di comportamento29, pur se questa risulta essere ormai disconosciuta, o quantomeno revocata in dubbio, da parte della dottrina30. L’obbligo di comportarsi secondo buona fede, infatti, si qualificherebbe per sua natura – alla luce di quanto detto sopra – quale regola di comportamento, con la conseguenza che, almeno secondo la visione classica, dall’inosservanza della stessa non potrebbero derivare conseguenze in ordine alla validità del negozio.
3. L’abuso del diritto (cenni) La pronuncia qui in esame si concentra anche sulla figura dell’abuso del diritto31, delineandone la struttura fondamenta Così G.M. Uda, La buona fede nell’esecuzione del contratto, cit., p. 146. Per quanto riguarda la giurisprudenza di legittimità, si vedano ad esempio, oltre alla pronuncia in discorso, Cass., Sez. Un.,15 novembre 2007, n. 23726; Cass., 22 gennaio 2009, n. 1618; Cass., 6 giugno 2008, n. 21250; Cass., 27 ottobre 2006, n. 23273; Cass., 7 giugno 2006, n. 13345; Cass., 11 gennaio 2006, n. 264. Tutte reperibili su DeJure. 29 Cfr. sul punto Cass., Sez. Un., 19 dicembre 2007, n. 26724, in DeJure. 30 Per una critica alla distinzione tra regole di comportamento e regole di validità si veda diffusamente, su tutti, G. Perlingieri, L’inesistenza della distinzione tra regole di comportamento e regole di validità nel diritto italo-europeo, Napoli, 2013, passim. 31 In materia la bibliografia è realmente sterminata; a titolo di esempio si ve27 28
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le32. Si presenta utile, come già svolto in precedenza per la buona fede in executivis, illustrare taluni brevi cenni sul concetto indicato, in modo da poter comprendere più agevolmente gli arresti sul tema della giurisprudenza qui in commento. Pur se non sono mancate voci critiche sull’ammissibilità della citata figura, che hanno messo in evidenza talvolta l’assenza di un fondamento positivo di tale istituto33, talaltra la presunta contraddizione logica che caratterizzerebbe il sintagma «abuso del dirit-
dano, tra i tanti, M. Rotondi, L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1923, pp. 105 ss.; M. D’Amelio, voce Abuso del diritto, in Noviss. dig. it., I, Torino, 1957, p. 95; Salv. Romano, voce Abuso del diritto (diritto attuale), in Enc. dir., Milano, 1958, pp. 166 ss.; U. Natoli, Note preliminari ad una teoria dell’abuso del diritto nell’ordinamento giuridico italiano, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1958, pp. 18 ss.; V. Giorgianni, L’abuso del diritto nella teoria della norma giuridica, Milano, 1963, passim; C.M. Mazzoni, Atti emulativi, utilità sociale e abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1969, II, pp. 601 ss.; G. Cattaneo, Buona fede obbiettiva e abuso del diritto, cit., pp. 613 ss.; U. Ruffolo, Atti emulativi, abuso del diritto e interesse nel diritto, in Riv. dir. civ., 1973, II, pp. 23 ss.; M. Bessone, Proprietà egoista, abuso del diritto e poteri del giudice, in Foro it., 1974, IV, cc. 141 ss.; C. Salvi, voce Abuso del diritto. I) Diritto civile, in Enc. giur. Treccani, I, Roma, 1988, pp. 3 ss.; U. Breccia, L’abuso del diritto, in Aa. Vv., Diritto privato, III, Padova, 1997, pp. 5 ss.; P. Rescigno, L’abuso del diritto, Bologna, 1998, pp. 11 ss.; D. Messinetti, voce Abuso del diritto, in Enc. dir., Agg. II, Milano, 1998, pp. 1 ss.; S. Patti, Vicende del diritto soggettivo, Torino, 1999, pp. 17 ss.; R. Sacco, L’esercizio e l’abuso del diritto, in Tratt. Sacco, II, Il diritto soggettivo, Torino, 2001, pp. 279 ss.; Id., voce Abuso del diritto, in Dig. disc. priv., sez. civ., Agg. VII, Torino, 2012, pp. 1 ss.; G. Pino, Il diritto e il suo rovescio. Appunti sulla dottrina dell’abuso del diritto, in Riv. crit. dir. priv., 2004, pp. 25 ss.; M.P. Martines, Teorie e prassi sull’abuso del diritto, Padova, 2006, passim; C. Restivo, Contributo ad una teoria dell’abuso del diritto, Milano, 2007, passim; F. Piraino, Il divieto di abuso del diritto, in Eur. dir. priv., 2013, pp. 75 ss. 32 Secondo la pronuncia in commento gli elementi costitutivi dell’abuso del diritto sarebbero: «1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrificio cui è soggetta la controparte». 33 È la tesi tradizionalmente sostenuta da M. Rotondi, L’abuso del diritto, cit., pp. 115 ss.
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to»34, suscettibile di far sorgere una ipotesi di responsabilità a fronte dell’esercizio di una prerogativa riconosciuta dalla legge (responsabilità che allora deriverebbe da atto lecito e non da illecito), ovvero ancora la sua supposta inutilità35, dovuta alla sostanziale sovrapposizione con il concetto della buona fede (oggettiva), si può ritenere che tale concetto sia ormai accolto pacificamente in dottrina e in giurisprudenza, anche nell’àmbito contrattuale. Si può dunque affermare che l’abuso del diritto trovi oggi piena cittadinanza nel nostro ordinamento, pur in assenza di una espressa disposizione che lo preveda in via generale36.
Cfr., in proposito, F. Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, IX ed., Napoli, 1966, pp. 76 s.; più recentemente si veda anche A. Gentili, A proposito de «il diritto soggettivo», in Riv. dir. civ., 2004, II, pp. 366 ss., nonché M. Orlandi, Contro l’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 2010, II, p. 149, il quale esprime dubbî sull’esistenza di uno spazio logico per l’abuso del diritto, dal momento che «o la condotta è conforme al diritto (ossia alla sfera di applicazione dello statuto giuridico, che chiamiamo «diritto») ed allora si produrranno gli effetti pre-stabiliti; o la condotta è difforme, ed allora gli effetti non si produrranno. Qui sta il punto: gli effetti non si producono perché l’agente non ha esercitato il diritto; ossia […] perché egli non ha il diritto di tenere quella condotta». In senso contrario, si veda, recentemente, N. Lipari, Ancora sull’abuso del diritto. Riflessioni sulla creatività della giurisprudenza, in Questione giustizia, 2016, 4, p. 42, secondo cui «Non è più quindi legittimo sostenere […] l’inammissibilità logica prima ancora che giuridica di una condotta che, pur essendo conforme allo schema normativo, debba essere considerata illegittima e quindi improduttiva degli effetti in astratto riconducibili a quello schema, perché è proprio l’astrattezza dello schema che non è più oggi “giuridicamente” pensabile, nella misura in cui la costituzionalizzazione della persona suppone e postula una concezione dinamica della regola giuridica, valutabile solo nel raccordo tra il presupposto enunciativo e le specificità della singola vicenda storica». 35 È la classica impostazione assunta da R. Sacco, L’esercizio e l’abuso del diritto, cit., p. 373, secondo cui l’abuso del diritto non sarebbe altro che un medio logico inutile, oppure un inutile doppione della buona fede oggettiva che contribuirebbe a rendere ancora più confuso il giurista. 36 In realtà, l’art. 7 del “Progetto definitivo” del codice civile prevedeva che «nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per cui il diritto medesimo gli è riconosciuto», ma tale formula fu in seguito soppressa. Sulle ragioni che portarono alla soppressione del citato art. 7 si veda M. Barcellona, L’abuso del diritto: dalla funzione sociale alla regolazione teleologicamente orientata del traffico giuridico, in Riv. dir. civ., 2014, 2, p. 478. 34
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La Suprema Corte, nel caso in esame, descrivendo la figura del l’abuso del diritto, discorre di «utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore», prescindendo in ciò da qualsiasi violazione in senso formale. Ciò che dunque configurerebbe l’abuso sarebbe l’esercizio distorto del diritto, che comporterebbe una sostanziale deviazione dal suo schema causale tipico, per il perseguimento di finalità diverse e ulteriori rispetto a quelle per le quali il legislatore attribuisce i poteri relativi al diritto stesso37. Si può rilevare allora come la Cassazione qui in commento aderisca all’orientamento maggioritario, che qualifica l’abuso del diritto come uno sviamento della condotta, concretamente posta in essere dal titolare del diritto, dall’interesse sotteso al medesimo38. Si discorre di abuso proprio perché, il riconoscimento di un diritto non attribuirebbe al suo titolare il potere di esercitarlo in maniera pienamente arbitraria, dovendo questo necessariamente essere esercitato allo scopo di realizzare lo specifico interesse, meritevole di protezione, in virtù del quale lo stesso diritto è ammesso e tutelato nell’ordinamento. Non deve confondersi, inoltre, la figura dell’“abuso” del diritto con quella dell’“eccesso” dal diritto. Si tratta di due distinte figure autonome39, dove nella prima – a differenza che nella seconda – l’esercizio ritenuto abusivo sarebbe pur sempre da considerarsi (almeno apparentemente40) conforme al contenuto del diritto stesso, mentre in caso di “eccesso” si avrebbe un superamento dei limi In questo senso è chiaro C.A. Nigro, Brevi note in tema di abuso del diritto, in Giust. civ., 2010, 2, p. 2554. 38 Sull’abuso del diritto come sviamento della condotta dall’interesse sotteso alla norma che astrattamente lo prevede si vedano, ex multis, seppur con diverse sfumature Salv. Romano, voce Abuso del diritto, cit., pp. 166 ss.; V. Giorgianni, L’abuso del diritto nella teoria della norma giuridica, cit., pp. 181 ss.; G.M. Uda, La buona fede nell’esecuzione del contratto, cit., pp. 321 ss. 39 Come evidenzia P. Rescigno, L’abuso del diritto, cit., p. 68, è ormai data per pacifica in dottrina l’autonomia della figura dell’“abuso” rispetto a quella dell’“eccesso” dal diritto. 40 Così U. Natoli, Note preliminari ad una teoria dell’abuso del diritto nell’ordinamento giuridico italiano, cit., p. 37, secondo cui l’abuso del diritto si risolve37
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ti interni posti all’esercizio del diritto soggettivo, esorbitando così dalle facoltà e dai poteri riconosciuti al titolare. Secondo una più recente ricostruzione41, l’abuso del diritto comporterebbe una deviazione meno netta rispetto al tradizionale concetto dello sviamento dall’interesse, risolvendosi sostanzialmente in una riduzione teleologica della disposizione normativa attributiva dei poteri (e delle facoltà) di esercizio del diritto soggettivo. Ciò significa che dovrebbero considerarsi abusive quelle modalità di esercizio che, pur rientrando formalmente nell’àmbito applicativo della disposizione attributiva del potere, siano però dirette a realizzare in concreto finalità ritenute non meritevoli rispetto allo scopo che si ritiene essere astrattamente perseguito dalla disposizione. In questo senso, l’atto di esercizio ritenuto abusivo sarebbe sempre e comunque riconducibile alla disposizione normativa, ma ne rappresenterebbe un esito ritenuto meno meritevole e giusto, in quanto suscettibile di tradire il senso complessivo della regola ricavabile dalla ratio della disposizione. In altri termini, il giudizio di meritevolezza, nell’ambito dell’abuso del diritto, sarebbe dunque compiuto in termini relativi, confrontando il fine in concreto perseguito dall’agente con un altro fine, anch’esso riconducibile alla disposizione normativa, ritenuto conforme alla ratio della stessa. Si avrebbe allora una valutazione di immeritevolezza qualora si ritenesse che il comportamento dell’agente potesse essere sostituito con uno diverso, con effetti più pertinenti al caso di specie, o meglio maggiormente conformi allo spirito della disposizione attributiva, rispetto a quelli prodotti dalla condotta in concreto tenuta. In assenza di un referente normativo che, in via generale, preveda e disciplini l’abuso del diritto, per lungo tempo gli interpreti hanno individuato la norma di riferimento sul tema nell’art. 833 c.c., rubricato “atti d’emulazione”, secondo cui «Il proprietario non può fare atti i quali non abbiano altro scopo che quello di nuocere o recare molestia ad altri». L’atto emulativo richiede il fondamentale concorrebbe nella «apparente conformità del comportamento del soggetto al contenuto del suo diritto». 41 F. Piraino, Il divieto di abuso del diritto, cit., pp. 134 ss.
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so di due requisiti: uno oggettivo, ossia la totale assenza di utilità per colui che pone in essere l’atto; uno soggettivo (c.d. animus nocendi), che si connota per l’intenzione dell’agente di nuocere o recare molestia ad altri. Tuttavia, i due requisiti che configurano la fattispecie dell’atto emulativo non paiono idonei ad essere generalizzati nella prospettiva di una ricostruzione unitaria dell’abuso del diritto. Difatti, posto che l’elemento oggettivo sopra individuato richiede l’assenza di qualsivoglia utilità dell’atto per colui che lo pone in essere, la legittimità di tale atto verrebbe a dipendere esclusivamente da un criterio di economicità o di utilità economica per il titolare del diritto, escludendo pertanto ogni valutazione circa la rispondenza o comunque la meritevolezza del fine effettivamente perseguito, rispetto a quello per cui il diritto stesso trova riconoscimento nell’ordinamento42. Se un siffatto criterio può forse ritenersi esaustivo nell’àmbito dell’esercizio del diritto di proprietà o, più in generale dei diritti reali, dove il rapporto giuridico si esaurisce nella relazione tra titolare del diritto e res, più complesso appare estenderlo ad altri rapporti giuridici, dove vengono coinvolti interessi di altri soggetti che, talvolta, entrano direttamente in conflitto con quelli del titolare. Allo stesso modo, anche l’animus nocendi non sembra essere un requisito indefettibile di ogni ipotesi di abuso del diritto. Pertanto, nella ricostruzione unitaria della figura dell’abuso, l’elemento strutturale caratterizzante andrebbe piuttosto rinvenuto nell’esistenza di un conflitto tra contrapposti interessi e nella conseguente necessità di una loro valutazione comparativa43. Dovrebbe dunque affermarsi l’emancipazione dell’abuso del diritto dalla disciplina degli atti emulativi, con questi ultimi che, al massimo, potrebbero costituire nient’altro che una ipotesi speciale del primo44. Di questo avviso pare essere pure la Cassazione nella sentenza in commento, là dove ritiene che la valutazione di abusività dell’atto debba essere condotta tenendo in considerazione la conflittualità Questo rilievo è dovuto a P. Rescigno, L’abuso del diritto, cit., p. 51. Cfr. sul punto C.A. Nigro, Brevi note in tema di abuso del diritto, cit., p. 2552. 44 Ibidem. 42
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tra interessi contrapposti e non, come invece sostenuto dalla Corte d’Appello, attraverso il semplice accertamento della ricorrenza dei presupposti di cui all’art. 833 c.c. Per i motivi di cui sopra, ha preso sempre più piede l’idea di un’autorevole dottrina45 che, abbandonata la disposizione sugli atti emulativi, ha collegato la figura dell’abuso del diritto all’art. 1375 c.c., riconoscendo così un indissolubile legame con la buona fede in executivis46. L’indagine sull’abuso del diritto è stata approfondita dalla dottrina con particolare riguardo ai diritti c.d. potestativi, l’esercizio dei quali si riteneva in passato essere discrezionale e del tutto acausale. Nella prospettiva dell’abuso, invece, è stato affermato che anche l’esercizio di una tale categoria di diritti soggettivi potrebbe essere vagliata sotto il profilo della meritevolezza, dovendo pertanto sempre ricorrere una “giusta causa” meritevole di tutela. La suddetta “giusta causa”, definita come «pietra di paragone» o «antidoto» dell’abuso47, rappresenterebbe allora una condizione essenziale per l’esercizio del diritto. Il riferimento normativo su cui fondare l’esigenza della “giusta causa” in relazione all’esercizio dei diritti potestativi è stato individuato nell’art. 1355 c.c., il quale dispone la nullità dell’alienazione di un diritto, ovvero dell’assunzione di un obbligo, subordinata ad una condizione sospensiva meramente potestativa. Tale disposizione, infatti, nel momento in cui esclude l’ammissibilità della condizione meramente potestativa, implicitamente riconosce la condizione potestativa propria, in cui non vi è un mero arbitrio, bensì vi è l’esistenza di un interesse meritevole di tutela che cerca realizzazione attraverso l’atto, ossia, in altri termini, una “giusta causa”48.
Il riferimento è a U. Natoli, Note preliminari ad una teoria dell’abuso del diritto nell’ordinamento giuridico italiano, cit., p. 18. 46 Per il rapporto tra buona fede oggettiva e abuso del diritto si rimanda a quanto sarà detto infra nel § 4. 47 Così proprio P. Rescigno, L’abuso del diritto, cit., p. 86. 48 Cfr. P. Rescigno, L’abuso del diritto, cit., pp. 92 ss., il quale specifica l’innegabile connessione sussistente tra la condizione potestativa propria e il diritto potestativo evidenziando come in taluni casi (ad esempio, nel patto di riscatto nella vendita ex art. 1500 c.c., ovvero nel diritto di ratifica del rappresentato, in relazione ad un negozio posto in essere da un rappresentante senza potere) può 45
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La questione relativa al possibile abuso dei diritti potestativi riguarda da vicino il caso sottoposto al vaglio della Cassazione nella pronuncia in commento che, come detto in precedenza, si fonda su un supposto abuso nell’esercizio di un diritto (convenzionale) di recesso ad nutum. Alla luce di quanto detto sopra, anche per l’esercizio di un recesso libero sarebbe pur sempre necessaria una “giusta causa”, ritenuta meritevole dall’ordinamento e, conseguentemente, conforme alla funzione che lo stesso diritto astrattamente assolve. Il problema, allora, riguarda le modalità di individuazione di una siffatta causa, poiché ne possono derivare conclusioni affatto differenti. Infatti, se si ritiene che la causa (astratta) del recesso ad nutum debba rinvenirsi esclusivamente nella gestione flessibile del rapporto contrattuale, consentendo di orientare eventualmente le risorse e le capacità delle parti in senso più produttivo, allora ogni concreto atto di esercizio del diritto fondato su mere ragioni di convenienza dei contraenti risulterebbe essere conforme allo schema causale tipico dello stesso e quindi non potrebbe dar luogo ad alcun abuso49. In questo senso, potrebbe affermarsi che ogni esercizio del diritto di recesso ad nutum debba ritenersi sempre e comunque giustificato, in quanto valutato positivamente dal legislatore nel momento in cui ha ritenuto ammissibile50 la libera recedibilità dal contratto. In altri termini, la “causa” del recesso ad nutum si esaurirebbe nella sua funzione, ossia nello scioglimento del vincolo contrattuale, con la conseguenza che ogni atto di esercizio del medesimo, volto parlarsi indistintamente sia di diritto potestativo, sia di condizione potestativa. Inoltre, l’Autore chiarisce (a p. 110) come nonostante l’art. 1355 c.c. si riferisca espressamente alla condizione sospensiva meramente potestativa, i termini del discorso non mutano in relazione alla condizione risolutiva meramente potestativa, che dunque sarebbe parimenti invalida, con la differenza che, anziché invalidare anche la statuizione contrattuale cui accede (come prevede, per la condizione sospensiva, l’art. 1355 c.c.), questa dovrà semplicemente considerarsi come non apposta (vitiatur sed non vitiat). 49 Vedi sul punto E. Barcellona, Buona fede e abuso del diritto di recesso ad nutum tra autonomia privata e sindacato giurisdizionale, cit., p. 302. 50 Ancorché implicitamente, ossia non prevedendo una norma che richieda necessariamente una causa per il recesso.
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a sciogliere il contratto, sarebbe conforme al suo scopo, a prescindere dunque da qualsivoglia giustificazione causale51. È chiaro allora che, così configurato, il diritto di recesso de quo sarebbe radicalmente inidoneo ad essere sottoposto a sindacato in relazione ad un suo possibile esercizio abusivo, salvo risulti che questo sia in concreto diretto a realizzare effetti differenti rispetto al suddetto scioglimento, come ad esempio avverrebbe qualora l’esercizio del recesso mirasse in realtà ad indurre la controparte a rinegoziare i termini del contratto in senso più favorevole per il recedente, in virtù della promessa – in caso di rinegoziazione – di revocare il recesso52. Diverso è, invece, il discorso se si ritiene che la “giusta causa” del recesso debba essere individuata non già prendendo in considerazione l’istituto del recesso in sé, quanto piuttosto la causa del contratto all’interno del quale tale diritto si trova inserito. In questo caso, l’esercizio del recesso potrebbe essere certamente sottoposto a sindacato, al fine di verificare se questo sia diretto a perseguire una finalità conforme alla causa del contratto cui il diritto accede, oppure se sia finalizzato a scopi ulteriori e diversi che potrebbero configurare, pertanto, la deviazione dallo schema causale e, conseguentemente, il suo abuso. Così, aderendo a quest’ultima impostazione, anche per l’esercizio del recesso ad nutum si renderebbe necessario un controllo causale, in quanto questo non potrebbe essere certo esercitato in maniera del tutto arbitraria, ma richiederebbe necessariamente una giustificazione alla luce delle finalità rientranti nella causa del contratto cui afferisce. Se, allora, si afferma che anche il recesso libero In questo senso si veda, in particolare, G. D’Amico, Recesso ad nutum, buona fede e abuso del diritto, cit., pp. 17 s., il quale chiarisce inoltre come, diversamente argomentando «[…] si introdurrebbe ex post una (nuova) qualificazione del diritto (nel senso che si trasformerebbe un diritto di recesso ad nutum in un recesso “causale”) ad opera del giudice» (corsivi dell’Autore), ciò che si tradurrebbe in un tipo di controllo radicalmente escluso dal legislatore, nel momento in cui si ammette la possibilità di un recesso libero dal contratto. 52 Si veda, in proposito, G. D’Amico, Recesso ad nutum, buona fede e abuso del diritto, cit., p. 21. 51
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necessiti in sostanza di una “giusta causa” per il suo esercizio, conforme a quella del contratto cui accede, la distinzione tra questo ed il recesso causale rileverebbe esclusivamente in àmbito processuale e opererebbe, nello specifico, sulla ripartizione dell’onere della prova: in caso di recesso causale, graverebbe sul titolare del diritto dimostrare la causa che legittima l’esercizio dello stesso; in caso di recesso ad nutum, sarebbe il contraente che lo subisce a dover provare il perseguimento, da parte del titolare, di una finalità del tutto estranea alla causa del contratto53. Nonostante il problema dell’abuso del diritto sia stato affrontato con particolare riguardo all’esercizio dei diritti potestativi, si ritiene che questo si estenda oltre tale categoria, fino a ricomprendere non soltanto tutti i diritti soggettivi, ma in senso più ampio tutte le “prerogative giuridiche”54. Tuttavia, è discusso in dottrina se l’abuso di una situazione di fatto (es. l’abuso di una situazione economica, ovvero l’abuso del potere contrattuale) possa ricondursi o meno all’abuso del diritto. Secondo l’impostazione più restrittiva55, abuso del diritto e abuso di una situazione di fatto delineerebbero vicende tra loro troppo diverse per essere ricondotte al medesimo schema; inoltre, nell’ipotetico “abuso” di una situazione di fatto mancherebbe una vera e propria “prerogativa giuridica” che possa dirsi abusata, dovendosi piuttosto discorrere di approfittamento, ad opera di una delle parti, di una situazione fattuale, rilevante sotto il profilo economico, che la colloca in una posizione di maggior potere contrattuale. Ne deriverebbe, aderendo a tale
53 Per questa impostazione si veda F. Galgano, Qui suo iure abutitur neminem laedit?, cit., p. 316. 54 Chiaro in tal senso G. Cattaneo, Buona fede oggettiva e abuso del diritto, cit., p. 637. 55 Cfr. ex multis P. Rescigno, L’abuso del diritto, cit., p. 58, il quale distingue l’abuso del diritto vero e proprio, dall’abuso della situazione economica, che si avrebbe quando il contraente economicamente più forte può dettare condizioni inique alla controparte; G. D’Amico, Recesso ad nutum, buona fede e abuso del diritto, cit., p. 21; C. Restivo, Abuso del diritto e autonomia privata. Considerazioni critiche di una sentenza eterodossa, cit., pp. 138 s.; C.A. Nigro, Brevi note in tema di abuso del diritto, cit., pp. 2556 s.
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impostazione, che finanche l’esercizio di un diritto (ad esempio un diritto di recesso) non possa sindacarsi sotto il profilo dell’abuso del diritto, quando la condotta considerata abusiva sia resa possibile non tanto dalla titolarità del diritto esercitato, quanto piuttosto dalla situazione di fatto in cui viene a trovarsi uno dei contraenti (es. una situazione di dipendenza economica) e che porta il contraente c.d. “forte” ad avvantaggiarsi a discapito della controparte56. Al contrario, secondo l’impostazione più estensiva57, l’evoluzione del concetto di abuso del diritto consentirebbe di includere al suo interno anche l’abuso di una situazione o di un potere di fatto. Il problema è di particolare rilievo se si pensa che la fattispecie sottesa alla pronuncia in discorso è pienamente riconducibile all’abuso di dipendenza economica e la Suprema Corte, nell’impossibilità di applicare la disciplina di cui all’art. 9 della l. n. 192/199858, ha fatto ricorso alla figura dell’abuso del diritto, riconducendovi dunque anche l’abuso di una situazione economica (quale è appunto la dipendenza economica), dimostrando così di accedere alla tesi estensiva. Infine, per quanto riguarda i rimedî a fronte di un abuso del diritto, l’orientamento maggioritario ritiene che debba negarsi ogni tutela all’atto di esercizio del diritto ritenuto abusivo, in quanto – essendo questo valutato con sfavore dall’ordinamento – verrebbero contestualmente meno tutte le tutele e le immunità che sono ordi-
Per questo rilievo si veda G. D’Amico, Recesso ad nutum, buona fede e abuso del diritto, cit., p. 21. 57 Cfr. F. Piraino, Il divieto di abuso del diritto, cit., p. 84, nota n. 19, il quale sottolinea come siano state isolate «sette forme di incarnazione del divieto di abuso», tra le quali rientrerebbe anche l’abuso del potere di fatto. Nel medesimo senso si veda anche L. Delli Priscoli, Abuso del diritto e mercato, cit., p. 841, nonché, con particolare riguardo all’abuso del potere contrattuale, F. Macario, Abuso di autonomia negoziale e disciplina dei contratti fra imprese: verso una nuova clausola generale?, in Riv. dir. civ., 2005, I, pp. 663 ss. e F. Di Marzio, Divieto di abuso e autonomia contrattuale d’impresa, in Riv. dir. civ., 2011, I, pp. 491 ss., spec. pp. 496 ss. 58 L’art. 9 della l. n. 192/1998 non può trovare applicazione ratione temporis al caso di specie, posto che i fatti in oggetto si sono verificati anteriormente all’entrata in vigore della legge sulla subfornitura. 56
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nariamente riconosciute al diritto stesso59. Si avrebbe pertanto una tutela di tipo reale60. Di contro, una dottrina minoritaria ritiene che le conseguenze per l’abuso del diritto sarebbero esclusivamente di carattere risarcitorio, ma a ben vedere si tratta di quell’orientamento che – discostandosi dalla tradizionale visione – riconduce l’abuso del diritto all’illecito extracontrattuale61. La Suprema Corte, nel caso di specie, mostra di aderire all’orientamento maggioritario, riconoscendo – quale sanzione per l’abuso – il rifiuto, da parte dell’ordinamento, di ogni tutela ai poteri, diritti e interessi esercitati in violazione delle corrette regole del loro esercizio.
4. Il rapporto tra buona fede e abuso del diritto Premessi, nei paragrafi precedenti, brevi cenni sulle figure della buona fede in executivis e dell’abuso del diritto, è possibile ora affrontare il rilevante problema dell’articolazione dei loro rapporti. In proposito, la Cassazione, nella pronuncia in commento, si riferisce ad una siffatta relazione precisando come l’abuso del diritto debba considerarsi un «criterio rivelatore» dell’obbligo di buona fede oggettiva e che le due citate figure «si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti, […] e, prospettando l’abuso, la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti». Tuttavia, dalla lettura della sentenza non emerge in alcun modo come la succitata integrazione tra i due concetti si esplichi in concreto e questa mancanza di chiarezza conduce i giudici verso una sostan Su tutti si veda F. Piraino, Il divieto di abuso del diritto, cit., pp. 151 s., nonché M. Barcellona, L’abuso del diritto: dalla funzione sociale alla regolazione teleologicamente orientata del traffico giuridico, cit., p. 469. 60 Cfr. U. Breccia, L’abuso del diritto, cit., pp. 31 ss. 61 Il riferimento è a M. Orlandi, Contro l’abuso del diritto, cit., p. 159, il quale aderisce alla tesi della doppia rilevanza dell’atto abusivo, che, se da un lato appare del tutto conforme «allo schema formale del diritto», dall’altro determina la lesione di un interesse altrui, potendosi pertanto qualificare come atto doloso o colposo che cagiona un danno ingiusto. 59
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ziale sovrapposizione tra le due figure, che finiscono quasi per essere confuse l’una con l’altra62. D’altronde, l’approccio della Corte è comprensibile se si considera che i sopraindicati rapporti sono particolarmente complessi, tanto da non esservi unità di vedute né in dottrina, né in giurisprudenza, sul loro concreto articolarsi. Secondo l’orientamento nettamente maggioritario, vi sarebbe senz’altro uno stretto collegamento tra l’abuso del diritto e la buona fede oggettiva, ma non vi è assolutamente concordia sul modo in cui tale collegamento operi concretamente. In altri termini, non è chiaro chi abbia la precedenza tra abuso e buona fede, se sia il primo a derivare dal secondo o viceversa. L’opinione più diffusa è quella secondo cui il divieto di abuso del diritto non avrebbe una propria autonomia funzionale, ma andrebbe ad innestarsi sulla buona fede oggettiva63. Da ciò derive62 Per una tale critica alla pronuncia in commento si veda, ad esempio, C.A. Nigro, Brevi note in tema di abuso del diritto, cit., pp. 2549 ss., il quale osserva come nella sentenza de qua la descrizione della relazione tra buona fede (oggettiva) e abuso del diritto «risulta comunque poco chiara e sicuramente avrebbe meritato maggiori precisazioni» (spec. p. 2562), nonché C. Restivo, Abuso del diritto e autonomia privata. Considerazioni critiche di una sentenza eterodossa, cit., p. 116, il quale evidenzia come «nella pronuncia in esame: […] le due figure dell’abuso e della buona fede sono sovrapposte, quasi costituissero, se non una endiadi, articolazioni alternative della medesima sostanza», per poi precisare come nella pronuncia siano state «affastellate affermazioni discordanti». Nel medesimo senso si veda anche F. Piraino, Il divieto di abuso del diritto, cit., p. 118, il quale in riferimento alle argomentazioni sviluppate nella sentenza in commento ritiene che esse siano «contraddittorie e per altro verso poco rigorose». Tuttavia, occorre mettere in luce come la pronuncia in esame non rappresenti certo un unicum in tal senso, non essendo infrequente nella giurisprudenza la sovrapposizione tra i concetti di buona fede oggettiva e abuso del diritto. Cfr. in proposito, ad esempio, Cass., 11 dicembre 2000, n. 15592, nonché Cass., 14 novembre 1997, n. 11271, entrambe reperibili su DeJure. 63 Cfr., ex multis, G. Stolfi, Il principio di buona fede, in Riv. dir. comm., 1964, I, pp. 171 s.; L. Bigliazzi Geri, voce Buona fede nel diritto civile, cit., pp. 186 s.; P. Rescigno, L’abuso del diritto, cit., p. 53 e p. 96; L. Nanni, La buona fede contrattuale, cit., p. 601, secondo cui l’abuso del diritto troverebbe la propria giustificazione normativa nella clausola generale di buona fede. Più recentemente, si vedano anche F. Scaglione, L’abuso del diritto tra buona fede in executivis e causa del contratto, cit., p. 28, per il quale l’abuso del diritto non sarebbe altro che un’applicazione generalizzata del principio di correttezza (buona fede oggettiva); V. Amendolagine,
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rebbe, per l’effetto, la configurazione dell’abuso del diritto quale violazione dell’obbligo di buona fede. L’affermazione di cui sopra è stata giustificata in diversi modi. In virtù di una prima impostazione, si è detto che – attraverso un’interpretazione particolarmente estensiva della nozione di buona fede – da questa possa ricavarsi l’obbligo per le parti di esercitare i proprî diritti conformemente allo scopo per il quale gli stessi sono stati attribuiti, posto che un siffatto obbligo non rappresenterebbe altro che una specificazione del più generale obbligo, espressione della buona fede oggettiva, di tenere un comportamento improntato a correttezza durante tutta la fase di svolgimento della vicenda contrattuale64. In base a tale prospettazione si potrebbe forse comprendere il riferimento, ad opera della pronuncia in commento, all’abuso del diritto quale «criterio rivelatore» della violazione della clausola di buona fede. Per altro verso, secondo una diversa, ancorché simile, ricostruzione, la buona fede oggettiva avrebbe una funzione diretta a garantire, nell’àmbito della vicenda negoziale, la coerenza tra le premesse e le conseguenze che ne derivano. In particolare, tale coerenza potrebbe ben essere messa in crisi anche attraverso la violazione del divieto di abuso del diritto, posto che lo sviamento dall’interesse ad esso sotteso – che può determinarsi, come detto, anche tramite le concrete modalità di esercizio del diritto – potrebbe rivelare in definitiva una condotta contraria a buona fede, essendo questa
L’abuso del diritto in materia contrattuale, in Giur. it., 2017, 12, p. 2760, il quale ricava – dall’analisi della più recente giurisprudenza in materia (cui si rimanda per ulteriori approfondimenti) – che l’abuso del diritto costituisce una specifica ipotesi di violazione dell’obbligo di buona fede nell’esecuzione del contratto; F. Piraino, Il divieto di abuso del diritto, cit., pp. 108 ss., il quale sottolinea come l’abuso del diritto non avrebbe rilevanza autonoma, ma si caratterizzerebbe quale «struttura dogmatica deputata a concretizzare la buona fede in funzione valutativa», con la conseguenza che il divieto di abuso si risolverebbe in una delle diverse finalità espresse dalla buona fede oggettiva. In altri termini, secondo l’Autore, mentre la buona fede sarebbe il precetto, ancorché indeterminato, l’abuso del diritto sarebbe una delle sue funzioni, per mezzo della quale trova concretizzazione. 64 Per tale impostazione si veda C.A. Nigro, Brevi note in tema di abuso del diritto, cit., p. 2562.
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deputata proprio a contrastare siffatte modalità di esercizio dei diritti65. Tuttavia, non mancano in dottrina impostazioni che, in controtendenza rispetto al sopracitato orientamento maggioritario, invertono i termini del rapporto tra abuso del diritto e buona fede oggettiva, prevedendo che sia la seconda a derivare dalla prima. Così, vi è chi ha affermato che sarebbe la buona fede in executivis a costituire un’espressione del più ampio principio generale del divieto di abuso del diritto66 e chi, similmente, ha ritenuto che sarebbe la violazione della clausola generale di buona fede a dar luogo ad un abuso del diritto e non viceversa67. Ancora, secondo un’altra interpretazione, riconducibile comunque a questo filone, l’abuso del diritto rappresenterebbe lo schema di ragionamento che consentirebbe all’ordinamento di individuare un conflitto tra pretese in contrapposizione. Di contro, la buona fede (oggettiva) non sarebbe altro che uno tra i diversi strumenti che permetterebbero in concreto la soluzione di un siffatto conflitto, individuato per mezzo del ricorso alla struttura dell’abuso; conseguentemente, si è detto, «non è perché vi è il dovere di buona fede che si interroga […] l’abuso, ma è perché si pone un problema comprensibile secondo lo schema dell’abuso che si interroga la buona fede (quando questa sia il parametro […] appropriato)»68. Infine, vi è chi non ha espressamente preso posizione nel dibattito sulla precedenza tra divieto di abuso del diritto e buona fede, ponendo piuttosto l’attenzione sulla contiguità tra le due figure, le quali troverebbero un punto in comune nel fatto di limitare, in sede applicativa, le potenzialità del diritto69.
In questo senso si veda F. Piraino, Il divieto di abuso del diritto, cit., p. 117. U. Natoli, Note preliminari ad una teoria dell’abuso del diritto nell’ordinamento giuridico italiano, cit., p. 26. 67 Così C. Restivo, Abuso del diritto e autonomia privata. Considerazioni critiche di una sentenza eterodossa, cit., p. 352. 68 Cfr. sul punto M. Barcellona, L’abuso del diritto: dalla funzione sociale alla regolazione teleologicamente orientata del traffico giuridico, cit., p. 490. 69 G.M. Uda, La buona fede nell’esecuzione del contratto, cit., pp. 327 s. 65
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Se, come accennato, il riconoscimento di un legame, seppur configurato differentemente a seconda delle suddette ricostruzioni, tra abuso del diritto e buona fede in executivis è da ritenersi un approdo ormai largamente condiviso sia in dottrina, sia in giurisprudenza, non può altresì trascurarsi in questa sede, per la sua rilevanza, quella dottrina minoritaria che, invece, ha negato la sussistenza di un legame tra i due concetti in discorso, emancipando così la figura del divieto di abuso del diritto da quella della buona fede oggettiva, in virtù soprattutto delle differenze funzionali che le caratterizzano e che renderebbero la prima autonoma rispetto alla seconda. In virtù dell’impostazione minoritaria appena accennata, la distinzione tra i due concetti si avvertirebbe in particolar modo riguardo alle modalità con cui può esplicarsi il sindacato sull’esercizio del diritto. Difatti, se l’abuso del diritto implica un controllo causale, volto a verificare se il diritto sia stato esercitato per il conseguimento di scopi diversi e ulteriori, o comunque non ritenuti meritevoli, rispetto a quelli per i quali il medesimo è riconosciuto dall’ordinamento, la buona fede oggettiva – al contrario – in quanto delinea un modello di comportamento al quale devono adeguarsi i contraenti nella fase dell’esecuzione del contratto, orienta il suo controllo non tanto sullo “scopo” preso di mira con l’esercizio del diritto, quanto piuttosto sulle specifiche modalità con le quali tale esercizio si è effettivamente concretizzato, al fine di verificare se queste siano o meno conformi al canone della buona fede in executivis70. Aderendo ad una tale ricostruzione, ne deriverebbe conseguentemente che – in virtù della loro diversità funzionale, specificamente in sede di controllo dell’esercizio degli atti – la buona fede non potrebbe essere posta alla base della repressione dell’abuso del diritto, dovendo pertanto considerarsi quest’ultimo come autonomo rispetto alla prima71.
70 In questo senso cfr. G. D’Amico, Recesso ad nutum, buona fede e abuso del diritto, cit., p. 22. 71 Sulla necessaria emancipazione della figura dell’abuso del diritto da ogni altra e, in particolare, dalla clausola generale di buona fede, al fine di poterne apprezzare compiutamente l’utilità, si veda C.A. Nigro, Brevi note in tema di abuso del diritto, cit., p. 2563.
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Ad ogni modo, l’idea di negare in via assoluta il legame tra i due concetti in esame è stata fortemente criticata dalla dottrina maggioritaria. Secondo parte di questa, accogliere una siffatta teoria vorrebbe dire ammettere che lo sviamento dall’interesse, tipico dell’abuso, possa verificarsi a prescindere dalle concrete modalità dell’atto di esercizio del diritto e questo sarebbe uno scenario del tutto inverosimile72, in quanto per stabilire la fondatezza o l’infondatezza di una pretesa non è sufficiente riferirsi a modelli astratti di diritti soggettivi, essendo necessario il ricorso alle specifiche peculiarità del caso concreto73. In base ad una diversa critica, invece, non potrebbe ravvisarsi una sostanziale differenza tra buona fede oggettiva e abuso del diritto, il che porterebbe dunque ad affermare un inscindibile legame tra questi, posto che un atto di esercizio del diritto con modalità ritenute anomale o arbitrarie finirebbe, in ultima istanza, per incidere anche sullo scopo per il quale il diritto è attribuito74. Premesso quanto sopra, si può notare come la Suprema Corte, nel caso in commento, sembri aderire certamente all’orientamento maggioritario, che afferma l’inscindibile nesso tra buona fede oggettiva e abuso del diritto (si pensi, in particolare, alla frase «i due principii si integrano a vicenda»), nonché – nello specifico – all’orientamento che deriva l’abuso del diritto dalla violazione della clausola generale di buona fede e ciò emergerebbe chiaramente quando si afferma che l’abuso costituirebbe il «criterio rivelatore» della violazione della buona fede75. Ciò che, però, ha lasciato per72 Si veda sul punto F. Piraino, Il divieto di abuso del diritto, cit., p. 127, il quale dunque considera «nominale, se non addirittura artificiale» una netta distinzione tra indagine di natura teleologica o causale, che ricorrerebbe – come detto – nell’àmbito del divieto di abuso del diritto, e indagine di natura modale o procedurale, diretta a vagliare le concrete modalità con cui viene posto in essere l’atto di esercizio, che invece caratterizzerebbe la buona fede. 73 N. Lipari, Ancora sull’abuso del diritto. Riflessioni sulla creatività della giurisprudenza, cit., pp. 36 ss. 74 Cfr. F. Galgano, Qui suo iure abutitur neminem laedit?, cit., p. 318. 75 Similmente, la giurisprudenza successiva ha considerato l’abuso del diritto quale “interfaccia” della buona fede. Così, ad esempio, Cass., 10 novembre 2010, n. 22819, in DeJure.
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plessi gli interpreti chiamati a commentare la pronuncia in esame è – come accennato in precedenza – la sostanziale sovrapposizione che la Corte opera tra i due concetti, finendo in sostanza per identificare l’abuso del diritto con la buona fede76. Un siffatto approccio finirebbe per confermare, seppur indirettamente, quel citato orientamento dottrinale che ha criticato duramente l’utilità operativa della figura dell’abuso del diritto, ritenendola una superfetazione concettuale della buona fede, che nulla aggiungerebbe ad essa77. Tuttavia, affermare che il divieto di abuso del diritto derivi dalla buona fede oggettiva, ovvero trovi in essa il suo fondamento, non significa che vi debba necessariamente essere una identità sostanziale tra le due figure, dovendosi piuttosto ritenere che queste, ancorché indissolubilmente collegate, rappresentino concetti strutturalmente distinti78.
5. Potere correttivo-modificativo del giudice, giustizia contrattuale e buona fede Uno dei passaggi motivazionali più interessanti della pronuncia in commento è sicuramente quello relativo al riconoscimento, in capo al giudice, di un supposto potere che gli consentirebbe – per il tramite della clausola generale della buona fede in executivis –
Una siffatta confusione, volta a sovrapporre le figure della buona fede e dell’abuso del diritto, si ravvisa anche nella giurisprudenza più recente. Si veda, ad esempio, Cass., 15 giugno 2018, n. 15885, in DeJure, secondo cui «L’abuso del diritto non è ravvisabile nel solo fatto che una parte del contratto abbia tenuto una condotta non idonea a salvaguardare gli interessi dell’altra, quando tale condotta persegua un risultato lecito attraverso mezzi legittimi, essendo, invece, configurabile, allorché il titolare di un diritto soggettivo, pur in assenza di divieti formali, lo eserciti con modalità non necessarie e irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno sproporzionato e ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, e al fine di conseguire risultati diversi e ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà sono attribuiti». 77 V. supra la nota n. 35. 78 In questo senso si veda, in particolare, F. Piraino, Il divieto di abuso del diritto, cit., p. 111. 76
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di controllare, anche in senso integrativo o modificativo, lo statuto negoziale stabilito dalle parti, ciò al fine di garantire un “giusto” equilibrio tra i contrapposti interessi. Per giungere ad una siffatta affermazione, la Suprema Corte richiama, in particolare, un suo precedente del 2007, dove per la prima volta la buona fede oggettiva viene considerata espressamente quale «strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo o integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi»79. Il fatto che, nella pronuncia da ultimo richiamata, l’inciso appena citato costituisse un mero obiter dictum, estraneo perciò alla ratio decidendi del caso, non ha impedito alla Suprema Corte, nel caso in commento, di ricorrere a tale principio. Non solo, la conferma, da parte dei giudici chiamati a decidere la controversia in esame, del principio affermato dalla Cassazione nella sentenza – tra l’altro a Sezioni Unite – del 2007, ha indotto la stessa Suprema Corte a ritenere tale principio ormai consolidato80. D’altronde, è noto come, in alcuni casi, la giurisprudenza di legittimità si serva degli obiter dicta come una sorta di “messaggi nella bottiglia”81, diretti a suggestionare o influenzare la giurisprudenza
79 Cass., Sez. Un., 15 novembre 2007, n. 23726, cit., anche in Guida dir., 2007, 47, pp. 28 ss. 80 È ciò che emerge dalla citata relazione della Corte di Cassazione n. 116 del 10 settembre 2010 (v. supra la nota n. 22), spec. p. 21, dove si afferma recisamente che «[…] può ritenersi ormai consolidato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui il criterio della buona fede costituisce, per il giudice, uno strumento atto a controllare, anche in senso modificativo e integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli interessi […] e anche la legislazione più recente tende a valorizzare un ruolo attivo del giudice sul governo del contratto, attribuendogli poteri correttivi sull’autonomia contrattuale, riconoscendogli il potere di rilevare d’ufficio la nullità ed eventualmente di ricondurre ad equità clausole contrarie ai principi di correttezza e buona fede». 81 La metafora dell’obiter dictum quale “messaggio nella bottiglia” è riferibile a C. Scognamiglio, Abuso del diritto, buona fede, ragionevolezza (verso una riscoperta della pretesa funzione correttiva dell’interpretazione del contratto?), cit., p. 141, il quale chiarisce come se tale messaggio appaia «latore di un pericolo per la coerenza e la funzionalità delle decisioni future, è allora opportuno intercettare e disinnescare senz’altro nel suo dispositivo argomentativo».
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successiva, contribuendo talvolta alla nascita di un vero e proprio orientamento giurisprudenziale82. Riconoscere al giudice un potere integrativo-modificativo, allo scopo di garantire l’equilibrio del contratto, non significa altro che affermare l’esistenza di un sindacato giudiziale sul medesimo, secondo il paradigma sostanziale della giustizia contrattuale. Ciò vuol dire, in altri termini, che di fronte ad un contratto squilibrato, il giudice potrebbe intervenire per riscriverne il contenuto, prescindendo dalle ragioni che abbiano determinato tale squilibrio, ma solo perché quest’ultimo sussiste. Intesa in questo senso, la pronuncia in esame si collocherebbe all’interno di quell’orientamento giurisprudenziale83 e dottrinale84, secondo cui il contratto, oltre ad essere uno strumento per la realizzazione degli interessi espressi dalle parti, avrebbe (o potrebbe avere) anche una funzione sociale. Nello specifico, una siffatta funzione sociale potrebbe rinvenirsi nel soddisfacimento di un vero e proprio interesse generale all’equità (o meglio all’equilibrio) contrattuale, in base al quale non sarebbero tollerati, nel nostro ordinamento, eccessivi squilibri tra le prestazioni di un contratto, con il giudice che allora sarebbe chiamato ad operare un riequilibrio, per il tramite della clausola generale di buona fede, in applicazione dei principî di uguaglianza, proporzionalità85, adeguatezza e ragionevolezza. Un siffatto potere giudiziale, defini-
Sull’idoneità dell’obiter dictum ad incidere sulla formazione di un orientamento giurisprudenziale si vedano, tra gli altri, F. Galgano, L’interpretazione del precedente giudiziario, in Contr. impr., 1985, pp. 701 ss.; L. Nanni, Ratio decidendi e obiter dictum nel giudizio di legittimità, in Contr. impr., 1987, pp. 865 ss.; G. Gitti, Contratti regolamentari e normativi, Padova, 1994, pp. 254 ss., spec. pp. 260 s.; più recentemente anche F. Addis, Sull’excursus giurisprudenziale sul «caso Renault», in Obbl. e contr., 2012, 4, p. 250. 83 Si veda, da ultimo, Cass., 3 gennaio 2017, n. 3, in DeJure, dove si precisa come i contratti atipici, per superare il vaglio di meritevolezza di cui al secondo comma dell’art. 1322 c.c., debbano necessariamente avere «una conclamata funzione sociale». 84 V. supra i riferimenti alla nota n. 13. 85 Cfr. in proposito P. Perlingieri, Equilibrio normativo e principio di proporzionalità nei contratti, in Rass. dir. civ., 2001, p. 335; R. Lanzillo, La proporzione tra prestazioni contrattuali. Corso di diritto civile, Padova, 2003, passim. 82
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to recentemente «correttivo-equitativo in funzione conservativa»86, troverebbe allora il suo fondamento nell’art. 1375 c.c., da intendersi quale clausola per mezzo della quale trovano concretizzazione, in àmbito contrattuale, i principî e i doveri costituzionali, tra i quali – su tutti – il dovere di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost. In particolare, il rispetto del dovere costituzionale di solidarietà si renderebbe necessario per realizzare il suddetto interesse generale all’equilibrio contrattuale, nella prospettiva della giustizia contrattuale declinata in senso sostanziale. L’orientamento sopra descritto, in sostanza, ritiene che sia immanente nell’ordinamento il principio della correzione giudiziale dei contratti gravemente iniqui87. Sarebbero molteplici gli indici normativi, sia nel codice civile (es. artt. 1384, 1447, 1448, 1467 c.c.), sia collocati in fonti extracodicistiche (es., su tutti, l’art. 9 della l. n. 192/1998, sull’abuso di dipendenza economica), che confermerebbero tale impostazione, manifestando il disfavore dell’ordinamento verso pattuizioni squilibrate. Tuttavia, occorre evidenziare come, in realtà, questi indici non sarebbero unitariamente riconducibili alla ratio della giustizia sostanziale del contratto. Così, le disposizioni sulla rescissione e quella sull’abuso di dipendenza economica andrebbero piuttosto lette alla luce della giustizia procedurale, in quanto delineano rimedî che trovano giustificazione nell’esigenza di neutralizzare eventuali disuguaglianze di fatto tra i contraenti, che non consentono un libero ed effettivo esercizio dell’autonomia contrattuale88; la disposizione sulla risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta non riguarda un assetto squilibrato o “ingiusto” ab origine, ma uno che diventa tale per circostanze straordinarie, non preventivabili né evitabili, dai contraenti;
Così espressamente T. Perillo, Il potere conformativo del giudice e la buona fede oggettiva come veicoli di giustizia contrattuale, in Rass. dir. civ., 2020, 2, p. 708 (corsivi dell’Autrice). 87 Cfr. T. Perillo, Il potere conformativo del giudice e la buona fede oggettiva come veicoli di giustizia contrattuale, cit., p. 706. 88 Si veda sul punto G. D’Amico, “Giustizia contrattuale” nella prospettiva del civilista, in Dir. lav. merc., 2017, pp. 253 ss., spec. p. 254, nota n. 2. 86
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infine, la norma sulla riducibilità (ex officio89) della clausola penale risulta essere strettamente legata alla fattispecie normativa a cui si riferisce, in quanto il potere riconosciuto al giudice deve essere necessariamente esercitato al fine di preservare la funzionalità e l’utilità dell’istituto in esame, il quale non potrebbe prescindere da un contemperamento fra la gravità dell’illecito e le conseguenze che ad esso sono ricollegate, dovendosi rispettare l’inderogabile principio della proporzionalità tra pena e trasgressione90. Considerato quanto sopra, è possibile concordare con quella parte della dottrina che non ritiene i suddetti indici normativi in grado di sovvertire il rapporto regola-eccezione, rispetto al principio dell’intangibilità del contratto91. Conseguentemente, allora, l’in-
La riducibilità d’ufficio della clausola penale manifestamente eccessiva, da parte del giudice, è stata affermata definitivamente da Cass., Sez. Un., 13 settembre 2005, n. 18128, in Mass. giust. civ., 2005, II, 6, p. 1688, secondo cui «In tema di clausola penale, il potere di riduzione ad equità, attribuito al giudice dall’art. 1384 c.c. a tutela dell’interesse generale dell’ordinamento, può essere esercitato d’ufficio per ricondurre l’autonomia contrattuale nei limiti in cui essa appare meritevole di tutela, e ciò sia con riferimento alla penale manifestamente eccessiva, sia con riferimento all’ipotesi in cui la riduzione avvenga perché l’obbligazione principale è stata in parte eseguita, giacché in quest’ultimo caso la mancata previsione da parte dei contraenti di una riduzione della penale in caso di adempimento di parte dell’obbligazione si traduce comunque in una eccessività della penale se rapportata alla sola parte rimasta inadempiuta». 90 Sia consentito in proposito il rinvio a C. Attanasio, Parità di trattamento e rapporti tra imprese, in Arch. stor. giur. sardo di Sassari, I, 2019, p. 24. Ne deriva, secondo la dottrina maggioritaria, la natura eccezionale dell’art. 1384 c.c. e, conseguentemente, l’impossibilità di una sua applicazione analogica. Cfr. ex multis F. Galgano, Il negozio giuridico, in Tratt. Cicu e Messineo, III, t. 1, Milano, 1988, p. 56; M. Franzoni, Integrazione del contratto. Suoi effetti reali e obbligatori. Artt. 1374-1381, II, in Il Codice Civile. Commentario, diretto da P. Schlesinger, Milano, 1999, p. 1367. In senso contrario, invece, si veda A. Zoppini, La pena contrattuale, Milano, 1991, pp. 277 ss., secondo cui il potere giudiziale di riduzione potrebbe estendersi ad ogni fattispecie che presenti i medesimi lineamenti strutturali e funzionali della clausola penale, nonché più recentemente M. Pennasilico, “Menage a trois”, la correzione giudiziale dei contratti, in Rass. dir. civ., 2016, pp. 208 ss. 91 Si veda in proposito P. Corrias, Giustizia contrattuale e poteri conformativi del giudice, in Riv. dir. civ., 2019, p. 345 ss., spec. p. 360, il quale sottolinea inoltre come tali dati normativi, pur non sovvertendo – come detto – il rapporto rego89
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tervento correttivo del giudice dovrebbe necessariamente ritenersi limitato ai soli casi in cui la legge pare ammetterlo, non essendo suscettibile di applicazione indiscriminata alla materia contrattuale. Similmente, è criticabile la scelta di individuare la fonte di un siffatto potere integrativo-modificativo nella clausola della buona fede in executivis, considerata quale strumento che consentirebbe al giudice un controllo sostanziale sul programma negoziale nell’ottica dell’equilibrio (giustizia) contrattuale. In primo luogo, si arriverebbe per questa via a riconoscere all’integrazione mediante buona fede un carattere cogente, capace di prescindere da una effettiva lacuna contrattuale e, conseguentemente, di imporsi anche a fronte di una diversa volontà dei contraenti. Di più, considerando l’ampiezza della clausola, la funzione integrativa cogente promanante dalla buona fede verrebbe ad assumere un carattere generale. Tuttavia, si è detto in precedenza come la funzione integrativa della buona fede oggettiva debba considerarsi meramente strumentale92 rispetto all’assetto di interessi divisato dai contraenti, ciò che dovrebbe indurre pertanto a limitare lo spettro della sua cogenza. Giova altresì considerare come – nonostante l’affermata espansione dell’àmbito applicativo dell’integrazione cogente del contratto, che ha condotto oggi parte della dottrina93 a ritenere ammissibile, differentemente a quanto si riteneva in passato, la funzione integratrice anche per il tramite del diritto dispositivo – debba pur sempre ritenersi che l’integrazione
la-eccezione rispetto al principio dell’intangibilità del contratto, sarebbero comunque espressione di una crescente attenzione del legislatore verso la tematica dell’equilibrio contrattuale. Similmente, cfr. V. Scalisi, Equilibrio e giustizia del regolamento contrattuale, in F. Alcaro – R. Tommasini (a cura di), Mandato fiducia e trust. Esperienze a confronto, Milano, 2003, p. 211, il quale discorre di crescente tendenza dell’ordinamento verso rapporti contrattuali equi. 92 V. supra la nota n. 26. 93 Su tutti si vedano A. D’Adda, Nullità parziale e tecniche di adattamento del contratto, Padova, 2008, pp. 270 ss.; A. Gambaro, Contratto e regole dispositive, in Riv. dir. civ., I, 2004, pp. 1 ss.; M. Grondona, Diritto dispositivo contrattuale. Funzioni, usi, problemi, Torino, 2011, spec. pp. 221 ss. Per una descrizione generale del fenomeno si rimanda a G. D’Amico, L’integrazione (cogente) del contratto mediante il diritto dispositivo, in G. D’Amico – S. Pagliantini (a cura di), Saggi, Torino, 2013, pp. 221 ss. e 245 ss.
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cogente mantenga il proprio carattere eccezionale e non sia suscettibile, dunque, di essere generalizzata, perché diversamente argomentando si avrebbe un’eccessiva e, in quanto tale, inammissibile compressione dell’autonomia contrattuale. Si aggiungano, inoltre, i timori che l’attribuzione al giudice di un potere così configurato possa dar luogo ad un sempre più pervasivo e disinvolto intervento giudiziale sull’autonomia privata, se non addirittura che l’eccessiva discrezionalità di cui godrebbe il giudice potrebbe tradursi in decisioni del tutto arbitrarie94. Ad ogni modo, occorre evidenziare ulteriormente come il principale punto critico della ricostruzione operata dalla Suprema Corte debba rinvenirsi nello stravolgimento della funzione tipica della buona fede in executivis, la quale non è deputata alla correzione dell’equilibrio negoziale originariamente stabilito dai contraenti – a differenza di quanto affermato invece dalla Corte –, apparendo piuttosto diretta a garantire il compimento del programma concordato, incidendo esclusivamente (anche attraverso l’imposizione di ulteriori obblighi giuridici) sui comportamenti delle parti che, nella fase esecutiva dell’accordo, risultino essere disfunzionali rispetto all’assetto di interessi voluto dalle stesse e cristallizzato nel contratto95. Nonostante la portata potenzialmente dirompente del principio affermato dalla Suprema Corte, nella pronuncia in esame, la giurisprudenza successiva non ha però raggiunto in proposito una soli-
Timori che, secondo T. Perillo, Il potere conformativo del giudice e la buona fede oggettiva come veicoli di giustizia contrattuale, cit., p. 725, sarebbero in realtà infondati, posto che il giudice dovrebbe comunque attenersi nella propria decisione ai principî di proporzionalità e di ragionevolezza, nonché ai principî della conservazione del contratto e del giusto rimedio. 95 È chiaro sul punto M. Barcellona, L’abuso del diritto: dalla funzione sociale alla regolazione teleologicamente orientata del traffico giuridico, cit., p. 483. Nel medesimo senso si veda anche C. Restivo, Abuso del diritto e autonomia privata. Considerazioni critiche di una sentenza eterodossa, cit., pp. 142 s., secondo cui la correzione del contratto verso un assetto equo non sarebbe una funzione attribuibile alla clausola di buona fede, in quanto questa «non può essere caricata, neanche attraverso il suggestivo riferimento al principio costituzionale di solidarietà, di contenuti che non le appartengono», nonché A. Gentili, Abuso del diritto e uso dell’argomentazione, cit., pp. 357 s. 94
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dità tale da consentire, ad oggi, di poter considerare pacificamente acquisito il potere integrativo-modificativo del giudice, fondato sulla clausola generale della buona fede (oggettiva), in relazione ad assetti contrattuali squilibrati, nella prospettiva della giustizia contrattuale considerata in senso sostanziale. Così, a pronunce che hanno accolto con entusiasmo il principio de quo96, si sono avvicendate decisioni molto più critiche che, in taluni casi, paiono aver smentito un siffatto potere giudiziale97. Pertanto, l’idea che possa ricavarsi, dalla buona fede in executivis, il potere giudiziale circa il controllo, anche in senso modificativo, dello statuto negoziale, a garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi dei contraenti, può – allo stato attuale della giurisprudenza, nonché anche considerando le riserve sopra espresse – quantomeno revocarsi in dubbio98.
96 Cfr., ad esempio, Cass., 31 maggio 2010, n. 13208, in Giur. it., 2011, p. 794, ma anche Cass., 14 maggio 2014, n. 10428, e Cass., 7 agosto 2012, n. 14180, entrambe su DeJure. 97 Su tutte si veda Cass., 27 novembre 2009, n. 25047, in DeJure, nonché la recente Cass., Sez. Un., 19 ottobre 2017, n. 24675, in I Contratti, 2017, con nota di L. Morisi, Il tramonto dell’usura sopravvenuta, pp. 647 ss. che, esprimendosi in materia di usura sopravvenuta, giunge addirittura ad affermare l’inconfigurabilità di una violazione della buona fede in ipotesi di esercizio, ex se considerato, di diritti nascenti da contratto. 98 Per tale rilievo si veda, da ultimo, V. Bachelet, Abuso di dipendenza economica e squilibrio nei contratti tra imprese, Milano, 2020, p. 189.
Corte di Cassazione – Sezione Prima Civile 26 aprile 2021, n. 11012 (ord.) Presidente Genovese, Estensore Fidanzia Famiglia – Matrimonio – Divorzio – Assegno divorzile – Accordi in sede di separazione – Illiceità della causa In tema di soluzione della crisi coniugale, ove in sede di separazione, i coniugi, nel definire i rapporti patrimoniali già tra di loro pendenti e le conseguenti eventuali ragioni di debito – credito portate da ciascuno, abbiano pattuito anche la corresponsione di un assegno dell’uno a favore dell’altro da versarsi “vita natural durante”, il giudice del divorzio, chiamato a decidere sull’an dell’assegno divorzile, dovrà preliminarmente provvedere alla qualificazione della natura dell’accordo inter partes, precisando se la rendita costituita (e la sua causa aleatoria sottostante) “in occasione” della crisi familiare sia estranea alla disciplina inderogabile dei rapporti tra coniugi in materia familiare, perché giustificata per altra causa, e se abbia fondamento il diritto all’assegno divorzile (che comporta necessariamente una relativa certezza causale soltanto in ragione della crisi familiare).
Dalla motivazione (omissis) 1. Con l’unico motivo il ricorrente ha dedotto la violazione degli artt. 5 L. 898/1970 e 10 L 74/1987 nonché dell’art. 1343 cod. civ. È stato altresì denunciato l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, la violazione dell’art. 182, comma 4 cod. proc. civ. e l’omessa pronuncia sulla domanda proposta in via subordinata. Assume il ricorrente che l’accordo concluso con la coniuge in sede di separazione consensuale, essendo destinato a disciplinare anche i rapporti economici del futuro divorzio, era affetto da nullità per illiceità della causa, atteso che il diritto all’assegno di divorzio, per la sua natura assistenziale, non è posizione soggettiva disponibile.
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Ne consegue che il giudice di merito non avrebbe potuto fare riferimento alle statuizioni assunte in sede di separazione giudiziale, ancorché concordate tra i coniugi, ma avrebbe dovuto indagare sull’effettiva sussistenza del presupposto richiesto dall’art. 5 L. 898/1970 per la concessione dell’assegno divorziale, ovvero l’inadeguatezza dei mezzi in capo al coniuge beneficiario rispetto al tenore di vita tenuto in costanze di matrimonio. Sul punto, la Corte d’Appello non aveva effettuato alcun accertamento. In particolare, non era stato tenuto conto, che per effetto degli accordi della separazione consensuale, richiamati nelle condizioni del decreto di omologa del Tribunale, una parte consistente del patrimonio immobiliare in comunione dei coniugi era stato attribuito alla M., già proprietaria di altro appartamento e titolare di una subagenzia di assicurazioni. Inoltre, la Corte d’Appello non aveva considerato il decremento reddituale subito dal ricorrente negli anni successivi alla separazione. Infine, la Corte territoriale non si era pronunciata sulla domanda svolta in via subordinata dal ricorrente di riduzione, in ogni caso, della misura dell’assegno divorzile riconosciuta in primo grado. 2. Il motivo è fondato. Va preliminarmente rigettata l’eccezione di inammissibilità del ricorso. Va osservato che è orientamento di questa Corte (vedi Cass. n 7009 del 17/03/2017; vedi anche S.U. n. 9100/2015) che, in materia di ricorso per cassazione, l’articolazione di un singolo motivo in più profili di doglianza, ciascuno dei quali avrebbe potuto essere prospettato come un autonomo motivo, costituisce ragione d’inammissibilità dell’impugnazione quando la sua formulazione non consente o rende difficoltosa l’individuazione delle questioni prospettate. Nel caso di specie, pur avendo il ricorrente formulato plurime censure con un unico motivo, in ogni caso, ciò non ha impedito l’agevole individuazione delle questioni prospettate: sia in relazione alla dedotta violazione di legge (nullità dell’accordo concluso in
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sede di separazione, mancato accertamento del requisito dell’inadeguatezza dei “mezzi”), sia in ordine al vizio di motivazione. Quanto al merito, va osservato che la giurisprudenza di questa Corte è costante nel sanzionare con la nullità gli accordi conclusi in sede di separazione in vista del futuro divorzio. In particolare, nella sentenza n. 2224 del 30/01/2017 (vedi anche Cass. 5302 del 10/03/2006) è stato enunciato il principio di diritto secondo cui gli accordi con i quali i coniugi fissano, in sede di separazione, il regime giuridico-patrimoniale in vista di un futuro ed eventuale divorzio sono invalidi per illiceità della causa, perché stipulati in violazione del principio fondamentale di radicale indisponibilità dei diritti in materia matrimoniale di cui all’art. 160 c.c. Ne consegue che di tali accordi non può tenersi conto non solo quando limitino o addirittura escludano il diritto del coniuge economicamente più debole al conseguimento di quanto necessario a soddisfare le esigenze della vita, ma anche quando soddisfino pienamente tali esigenze, in quanto una preventiva pattuizione potrebbe determinare il consenso alla dichiarazione della cessazione degli effetti civili del matrimonio. Nel caso di specie, è proprio la sentenza impugnata a p. 2 che fa rientrare l’accordo (di cui è causa) che i coniugi hanno concluso in sede di separazione – con il quale hanno inteso sciogliere l’intero patrimonio immobiliare e mobiliare – tra gli accordi diretti “alla disciplina futura dei rapporti economici tra le parti, riferibili anche al successivo divorzio”, ritenendolo ammissibile in virtù di quanto statuito dalla sentenza Cass. n. 8109/2000, sul rilievo che anche nel caso in esame (come in quello su cui si è pronunciata la predetta sentenza) la nullità viene invocata proprio dal coniuge che, secondo gli accordi, sarebbe gravato e non dal beneficiario dell’assegno. Tuttavia, da un attento esame della citata sentenza n. 8109/2000, emerge che, nel caso dalla stessa esaminato, è stato ritenuto valido l’accordo raggiunto dai coniugi in sede di separazione, sul solo rilievo che si trattava di un accordo transattivo (ancorché parzialmente trasfuso nella separazione consensuale) concluso tra i coniugi al solo scopo di porre fine ad una controversia di natura patrimoniale,
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tra gli stessi insorta, senza alcun riferimento, esplicito od implicito, al futuro assetto dei rapporti economici conseguenti alla eventuale pronuncia di divorzio. Tale situazione è quindi ben diversa rispetto al caso di specie, in cui nella sentenza impugnata vi è un espresso riferimento alla funzione dell’accordo di regolare i rapporti tra le parti anche in vista di un futuro divorzio. Peraltro, dalla lettura della sentenza di questa Corte n. 8109/2000, emerge, altresì, che l’assunzione da parte di un coniuge, con il suddetto accordo, dell’obbligo del pagamento di una somma “vita natural durante” a favore dell’altro coniuge era stata valutata come giustificata nella considerazione della complessiva situazione reddituale delle parti, in cui al credito di uno dei coniugi corrispondeva il debito dell’altro. Si è quindi ritenuto che il rapporto nascente dalla transazione potesse essere idoneo ad avere un qualche rilievo sui rapporti economici conseguenti alla pronuncia di divorzio, ma solo nel senso che, insorta controversia sulla spettanza o meno dell’assegno divorzile, il giudice del divorzio non avrebbe non potuto tenere conto del credito già spettante ad un coniuge e del corrispondente debito dell’altro coniuge, al pari di tutte le altre voci, attive e passive, della situazione reddituale delle parti. È proprio con queste considerazioni che si è valutato che la regolamentazione negoziale (risultante dalla transazione) non si ponesse in contrasto con la disciplina inderogabile dei rapporti economici tra gli ex coniugi e neppure che in qualche modo, diretto o indiretto, fosse idonea a limitare la libertà di agire e difendersi nel giudizio di divorzio. Nel caso di specie, dalla ermetica espressione utilizzata dalla Corte (ovvero che “dall’esame degli accordi intercorsi tra le parti in sede di separazione consensuale emerge che le stesse hanno inteso sciogliere il patrimonio immobiliare e mobiliare”) potrebbe astrattamente ipotizzarsi che l’assunzione in capo al ricorrente dell’obbligo di pagamento di un assegno di mantenimento a favore della coniuge “vita natural durante” rispondesse alla funzione di costituire a favore della beneficiaria una sorta di “rendita vitalizia atipica”.
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In questa precisa direzione si muovono, infatti, le deduzioni di parte controricorrente che ha trascritto integralmente nel proprio atto difensivo un passaggio motivazionale della sentenza del giudice di primo grado, secondo cui la sig.ra M. aveva diritto alla conferma dell’assegno di mantenimento “alla luce del fatto che in sede di separazione lo stesso è stato determinato tenendo presente essenzialmente la definitiva divisione delle fonti di reddito derivanti dalle aziende familiari, delle quali la più produttiva è rimasta nella proprietà dell’U., e tale era la disparità di reddito che egli, riconoscendo che la situazione era stata raggiunta con il lavoro e l’impegno di entrambi i coniugi si è impegnato consensualmente a corrispondere la somma di € 550 mensili per tutta la vita della moglie” nonché che l’erogazione dell’assegno era strettamente collegata “all’attività della M. la quale si obbliga anche a non fare concorrenza all’attività svolta dall’U. e in ipotesi di ottenimento di licenza autonoma a consentire la riduzione dell’assegno a € 250 mensili”. Tuttavia, la Corte d’Appello, nel confermare l’assegno di divorzio a favore della M., non ha minimamente tenuto separato (né precisato) il profilo della definizione dei rapporti patrimoniali già pendenti tra le parti e della eventuale conseguente regolamentazione delle ragioni di debito-credito (comprendenti la cessione di azienda – o di una quota di essa – e il patto di non concorrenza), rispetto a quello della spettanza dell’assegno di divorzio secondo i criteri elaborati da questa Corte, ammettendo genericamente, e in astratto, in modo erroneo la liceità di patti tra coniugi, diretti a disciplinare i loro rapporti economici in vista del futuro divorzio, ove fatti valere da quello beneficiario dell’assegno pattuito in sede di separazione. La sentenza impugnata deve essere quindi cassata con rinvio alla Corte di Appello di Cagliari – sezione distaccata di Sassari – in diversa composizione, che dovrà provvedere ad un attento esame dell’accordo concluso dalle parti in sede di separazione, qualificandone la natura, precisando il rapporto tra la eventuale rendita costituita (e la sua causa aleatoria sottostante “in occasione” della crisi familiare), estranea alla disciplina inderogabile dei rapporti tra
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coniugi in materia familiare, ed il diritto all’assegno divorzile (che esprime una relativa certezza “a causa” della crisi della famiglia). Deve, pertanto, enunciarsi il seguente principio di diritto: “In tema di soluzione della crisi coniugale, ove in sede di separazione, i coniugi, nel definire i rapporti patrimoniali già tra di loro pendenti e le conseguenti eventuali ragioni di debito – credito portate da ciascuno, abbiano pattuito anche la corresponsione di un assegno dell’uno a favore dell’altro da versarsi ‘vita natural durante’, il giudice del divorzio, chiamato a decidere sull’an dell’assegno divorzile, dovrà preliminarmente provvedere alla qualificazione della natura dell’accordo inter partes, precisando se la rendita costituita (e la sua causa aleatoria sottostante) ‘in occasione’ della crisi familiare sia estranea alla disciplina inderogabile dei rapporti tra coniugi in materia familiare, perché giustificata per altra causa, e se abbia fondamento il diritto all’assegno divorzile (che comporta necessariamente una relativa certezza causale soltanto in ragione della crisi familiare)”. P.Q.M. Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata, e rinvia alla Corte di Appello di Cagliari – sezione distaccata di Sassari – in diversa composizione, per nuovo esame e per statuire sulle spese del giudizio di legittimità.
ILLICEITÀ DELLA CAUSA NEGLI ACCORDI DI SEPARAZIONE E DIVORZIO Tania Bortolu (Assegnista di ricerca presso l’Università Federico II di Napoli)
Sommario: 1. Il caso. – 2. Gli accordi tra i coniugi nella fase patologica del rapporto: natura, forma ed oggetto. – 3. Gli accordi di natura patrimoniale nelle convenzioni di separazione e di divorzio. – 4. Indisponibilità del diritto al trattamento economico in via preventiva. Nullità per illiceità della causa. – 5. Contraddizioni della giurisprudenza. – 6. Critiche dalla dottrina. – 7. Spunti comparatistici.
1. Il caso La vicenda da cui trae origine la sentenza della Suprema Corte riguarda il caso di due coniugi che decidevano di separarsi consensualmente e, in tale sede, pattuivano di procedere allo scioglimento dell’intero patrimonio immobiliare e mobiliare in comunione, comprese le attività commerciali svolte da ciascuno, prevedendo, tra l’altro, la corresponsione di un contributo “vita natural durante” a carico del marito in favore della moglie. L’accordo, finalizzato a disciplinare i rispettivi futuri rapporti economici tra le parti anche per il successivo divorzio, poneva a carico della moglie il divieto di concorrenza commerciale e l’eventuale riduzione dell’importo dell’assegno in caso di conseguimento di autonoma licenza commerciale da parte della medesima. In sede di scioglimento degli effetti civili del matrimonio, nel l’ambito di un procedimento di natura contenziosa, il marito chiedeva la revoca o, in subordine, la riduzione dell’assegno in favore della moglie, che invece veniva confermato, sul presupposto che l’accordo stipulato nell’ambito della separazione non fosse affetto da nullità per illiceità della causa. Sempre in sede di gravame ve-
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niva confermata la misura dell’assegno, non essendosi verificate situazioni di forza maggiore in ordine alle condizioni delle parti, che deponessero per una sua riduzione. La sentenza veniva quindi impugnata avanti la Corte di Cassazione con un unico ed articolato motivo, con il quale il ricorrente denunciava la violazione della Legge n. 898 del 1970, articolo 5 e della Legge n. 74 del 1987, articolo 10, nonché dell’articolo 1343 c.c.; denunciava altresì l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, la violazione dell’articolo 182 c.p.c., comma 4 e l’omessa pronuncia sulla domanda proposta in via subordinata, ovvero la diminuzione dell’assegno divorzile. Assumeva, inoltre, il ricorrente che l’accordo concluso con la coniuge in sede di separazione consensuale, essendo destinato a disciplinare anche i rapporti economici del futuro divorzio, era affetto da nullità per illiceità della causa, atteso che il diritto all’assegno di divorzio, per la sua natura assistenziale, non è posizione soggettiva disponibile. Ne consegue che il giudice di merito non avrebbe potuto fare riferimento alle statuizioni assunte in sede di separazione, ancorché concordate tra i coniugi, ma avrebbe dovuto indagare sull’effettiva sussistenza del presupposto richiesto dalla Legge n. 898 del 1970, articolo 5, per la concessione dell’assegno divorzile, ovvero l’inadeguatezza dei mezzi in capo al coniuge beneficiario rispetto al tenore di vita tenuto in costanza di matrimonio. Sul punto, la Corte d’Appello non aveva ritenuto di effettuare alcun accertamento. Inoltre, il ricorrente evidenziava come non era stato tenuto conto del fatto che, per effetto degli accordi della separazione consensuale, una parte consistente del patrimonio immobiliare in comunione dei coniugi era stato attribuito alla ex coniuge, già proprietaria di altro appartamento e titolare di una subagenzia di assicurazioni. Sempre con lo stesso motivo, l’ex marito denunciava che la Corte d’Appello non aveva considerato il decremento reddituale subito dal medesimo negli anni successivi alla separazione e che la stessa Corte non si era pronunciata sulla domanda dispiegata in via subordinata di riduzione, in ogni caso, della misura dell’assegno divorzile riconosciuta in primo grado.
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La Corte di Cassazione ha cassato la sentenza impugnata e rinviato alla Corte territoriale1, in diversa composizione, per un nuovo esame dell’accordo concluso tra le parti in sede di separazione, al fine di qualificarne la natura e precisare il rapporto tra la eventuale rendita costituita (e la sua causa aleatoria sottostante “in occasione” della crisi familiare), estranea alla disciplina inderogabile dei rapporti tra coniugi in materia familiare, ed il diritto all’assegno divorzile (che esprime una relativa certezza “a causa” della crisi della famiglia). I giudici supremi hanno chiarito che la Corte d’Appello, nel confermare l’assegno nei confronti della ex moglie, non ha tenuto distinto il profilo della definizione dei rapporti economici già pendenti tra le parti e quelli conseguenti la regolamentazione delle ragioni debito-credito, rispetto a quello della spettanza dell’assegno di divorzio in base ai criteri elaborati dalla giurisprudenza di legittimità. Il Giudice ad quem si è, infatti, erroneamente limitato ad assumere genericamente, e in astratto, la liceità dei patti tra coniugi, finalizzati a disciplinare i loro rapporti economici in vista del futuro divorzio, solo nel caso in cui a farli valere fosse stato il coniuge beneficiario dell’assegno pattuito in sede di separazione2. Infine, la Corte di Cassazione ha enunciato il seguente principio di diritto: “In tema di soluzione della crisi coniugale, ove in sede di separazione, i coniugi, nel definire i rapporti patrimoniali già tra di loro pendenti e le conseguenti eventuali ragioni di debito – credito portate da ciascuno, abbiano pattuito anche la corresponsione di un assegno dell’uno a favore dell’altro da versarsi “vita natural durante”, il giudice del divorzio, chiamato a decidere sull’an dell’assegno divorzile, dovrà preliminarmente provvedere alla qualificazione della natura dell’accordo inter partes, precisando se la rendita co-
1 L’annullamento con rinvio è uno dei possibili esiti del giudizio dinanzi alla Corte di Cassazione (artt. 383 e 384 c.p.c.), e viene disposto quando, nei casi di accoglimento del ricorso, essa ritenga necessaria l’effettuazione di ulteriori accertamenti o valutazioni in punto di fatto; diversamente, la Corte cassa la sentenza impugnata e decide la causa nel merito. 2 Sulla liceità degli accordi in sede di separazione, cfr. infra, § 2.
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stituita (e la sua causa aleatoria sottostante) “in occasione” della crisi familiare sia estranea alla disciplina inderogabile dei rapporti tra coniugi in materia familiare, perché giustificata per altra causa, e se abbia fondamento il diritto all’assegno divorzile (che comporta necessariamente una relativa certezza causale soltanto in ragione della crisi familiare).
2. Gli accordi tra i coniugi nella fase patologica del rapporto: natura, forma ed oggetto Nella prospettiva di una generale tendenza a valorizzare l’autonomia privata nella regolamentazione degli effetti patrimoniali relativi alla fase patologica della vita coniugale, è ormai prassi diffusa quella dei coniugi di definire su base negoziale i loro rapporti economici3. Accanto all’accordo di separazione o di divorzio in senso stretto4, volto a far cessare la convivenza, gli effetti civili del matrimonio o lo scioglimento dello stesso, sono infatti frequenti fattispecie concrete in cui l’accordo contiene veri e propri contratti tipici tramite i quali i coniugi dispongono in via definitiva dei loro assetti patrimoniali, ovvero contratti che, pur non riconducibili ad una specifica tipologia, rispondono alla più ampia esigenza di dare un nuovo assetto al patrimonio in occasione della crisi familiare. In termini generali, si ritiene che gli atti che realizzano lo scopo di sistemazione patrimoniale della crisi del matrimonio rientrino
L’applicabilità del principio dell’autonomia privata alle dinamiche familiari costituisce un dato oramai acquisito. Si rinvia, in particolare, a T. Auletta, Gli accordi della crisi coniugale, in Familia, 2003, pp. 45-66; G. Doria, Autonomia privata e «causa» familiare. Gli accordi traslativi tra i coniugi in occasione della separazione personale e del divorzio, Milano, 1996, p. 64 ss.; G. Oberto, La natura dell’accordo di separazione consensuale e le regole contrattuali ad esso applicabili, in Fam. e dir., 2000, p. 86. 4 Secondo la giurisprudenza di legittimità, l’accordo di separazione in senso stretto rappresenta il contenuto essenziale delle intese della crisi coniugale. Cfr. Cass., 15 maggio 1997, n. 4306, in Fam. e dir., 1997, p. 417. 3
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nella categoria degli atti giuridici negoziali in senso ampio, i quali si manifestano attraverso la volontà dei coniugi che intendono liberamente stabilire le modalità di realizzazione degli interessi che reputano rilevanti, entro i limiti ammessi dall’ordinamento. Tali atti soggiacciono al giudizio di meritevolezza di cui all’art. 1322, co. 2, c.c. e si ritengono validi e vincolanti laddove perseguano scopi non contrari a norme imperative, all’ordine pubblico e al buon costume, secondo il precetto di cui all’art. 1343 c.c.5 L’orientamento dottrinale maggioritario, pur riconoscendo la natura negoziale di tali atti, ne esclude la qualificazione in termini di contratto, sull’assunto che gli accordi della fase patologica del matrimonio hanno contenuto non soltanto patrimoniale, ma anche personale, incidendo in modo diretto sullo status dei coniugi; di talché, producono effetti patrimoniali solo eventuali e riflessi6. Per tale ragione, essi non possono essere qualificati come accordi costitutivi di un rapporto giuridico ex art. 1321 c.c., in quanto sono finalizzati a regolamentare interessi comuni alle parti (i coniugi) e non invece contrapposti, come avviene nel contratto7. Detta impostazione definisce l’accordo di separazione e/o divorzio come negozio giuridico bilaterale di natura personale, rientrante nella particolare categoria dei negozi familiari8. Dalla natura negoziale ne deriva l’applicabilità all’atto delle norme sui vizi del consenso e di quelle sulla capacità dei coniugi. Se un coniuge è interdetto, trattandosi di atti personalissimi, né la separazione né il divorzio possono essere concordati dal rappresentante legale; se conclusi direttamente dall’interdetto sono annullabili secondo le regole generali, mentre quella stipulata dal tutore sarebbe una convenzione inefficace in quanto non ricompresa nel potere di disposizione del rappresentante.
In tema di giudizio di meritevolezza, cfr. infra, § 4. Cfr. A. Mora, La separazione consensuale, in Tratt. Bonilini, III, La separazione personale tra coniugi. Il divorzio. La rottura della convivenza more uxorio, Torino, 2016, p. 2039. 7 Cfr. Cass., 25 settembre 1978, n. 4277, in Foro it., 1979, I, 1, c. 718. 8 Cfr. C.M. Bianca, Diritto Civile, II, 1, La famiglia, Milano, 2017. 5 6
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Per quanto concerne la forma, nel silenzio normativo, di solito, le disposizioni sui diritti patrimoniali o personali vengono riportate integralmente per iscritto nell’accordo di separazione o divorzio, inserendole già nel ricorso introduttivo del giudizio o recependole nel verbale dell’udienza presidenziale. In tale ultimo caso, l’intesa può anche discostarsi, in parte, dal programma negoziale deciso dai coniugi nel momento di proposizione della domanda. Quanto all’oggetto, le clausole finalizzate a regolamentare gli assetti economici dei coniugi, rientranti nella parte eventuale dell’accordo, comprese quelle sul godimento e la titolarità del diritto di proprietà sul compendio familiare, sono ritenute ammissibili anche se non risultano collegate alla presenza di uno specifico corrispettivo e rispondono piuttosto ad una logica di riequilibro dei rapporti economici9. In generale, i giudici di merito, nel disciplinare le varie fattispecie concrete quali la determinazione convenzionale dell’assegno di mantenimento, la costituzione o il trasferimento di diritti reali o l’attribuzione consensuale dell’abitazione familiare, applicano le norme sui contratti, anche senza il ricorso all’analogia, prendendo le mosse dal principio generale dell’autonomia contrattuale, di cui all’art. 1322 c.c.10, fino alle regole sull’interpretazione delle clausole di cui all’art. 1362 c.c.11. In relazione a tale ultimo aspetto, infatti, già la Cass. 2 febbraio 2005 n. 2008 aveva evidenziato come, in tema di divorzio, l’adempimento dell’obbligo di mantenimento nei confronti della prole, così come nei confronti del coniuge separato, può avvenire con
Cfr. Cass., 14 marzo 2006, n. 5473, in NGCC, 2007, I, p. 371. I giudici hanno espressamente individuato nello spirito di sistemazione generale dei rapporti patrimoniali tra coniugi in crisi la giustificazione di tali attribuzioni patrimoniali. 10 Su tale assunto, la Corte di Cassazione ha ammesso la validità di un contratto preliminare con il quale uno dei coniugi, in vista di una futura separazione consensuale, si era impegnato a trasferire all’altro la proprietà di un immobile, sebbene tale sistemazione dei rapporti patrimoniali fosse avvenuta al di fuori di qualsiasi controllo da parte del giudice in sede di omologa. Cfr. Cass., 5 luglio 1984, n. 3940, in Dir. fam. pers., 1984, p. 922. 11 Cfr. Cass., 5 luglio 1988, n. 4420, in NGCC, 1989, I, p. 160. 9
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l’attribuzione definitiva di beni, o con l’impegno ad effettuare detta attribuzione, invece che attraverso una prestazione patrimoniale periodica, sulla base di accordi generalmente definiti come contratti atipici, distinti dalle convenzioni matrimoniali e dalle donazioni, volti a realizzare interessi meritevoli di tutela e costituenti espressioni di libera autonomia contrattuale, ai sensi dell’art. 1322 c.c. Nella stessa decisione, inoltre, la Cassazione, in tema di interpretazione degli accordi recepiti nella sentenza di divorzio, ha reso esplicito il principio secondo cui l’apprezzamento e la valutazione dell’accordo medesimo ben possono essere effettuati in applicazione delle norme di cui agli artt. 1362 e ss c.c., secondo il criterio prescelto dal giudice di merito del comportamento complessivo delle parti, e della regola finale dell’art. 1371 c.c., consistente proprio nell’equo contemperamento dei loro contrapposti interessi12.
3. Gli accordi di natura patrimoniale nelle convenzioni di separazione e di divorzio Gli accordi tra coniugi nella fase patologica del rapporto, finalizzati alla sistemazione patrimoniale della crisi, possono essere di vario tipo: trasferimenti immobiliari, anche reciproci, tra coniugi e/o a favore dei figli, impegni alla cessione dei beni entro un determinato termine o al realizzarsi una certa condizione, scioglimenti della comunione ordinaria sugli immobili, sia mediante atti di divisione che di cessione incrociata di quote di comproprietà. La destinazione della casa familiare, oltre all’ipotesi di trasferimento immobiliare in favore di uno dei coniugi, può riguardare altresì l’attribuzione ad uno di essi di un diritto reale o personale di abitazione anche nella forma dell’assegnazione consensuale; infatti, tra gli iura in re aliena che i coniugi possono costituire attraverso un accordo di composizione della crisi coniugale devono essere menzionati i diritti di usufrutto, di uso e di abitazione e non può escludersi, almeno in
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Sul punto, altresì, Cfr. Cass., 14 luglio 2003, n. 10978.
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teoria, che, nell’ambito di un regolamento pattizio tra coniugi nella fase patologica del rapporto, possano venire presi in considerazione anche altri diritti reali minori, quali, ad esempio, un pegno o un’ipoteca concessi a garanzia dell’adempimento di obbligazioni assunte in costanza di matrimonio. Non può inoltre escludersi che il trasferimento abbia ad oggetto situazioni non connotate dalla realità: si pensi, a tal proposito, alla cessione di un credito. Non sono rari neppure atti che, in sede di separazione, dispongono la cessazione del rapporto di partecipazione di un coniuge all’impresa familiare, disciplinata dall’art. 230 bis c.c. Nel silenzio normativo, secondo gli orientamenti consolidati della giurisprudenza e della dottrina, la separazione personale, salvo una modifica di fatto dell’attività rilevante ex art. 230 bis c.c., non è idonea a determinare lo scioglimento automatico del rapporto di impresa familiare, in quanto lascia impregiudicato il requisito di carattere soggettivo richiesto dalla norma, ovvero la sussistenza del rapporto di parentela o di affinità e la prestazione di lavoro. A tali elementi deve farsi riferimento anche in caso di separazione. Invero, l’opinione contraria ritiene che, con il provvedimento ex art. 708 c.p.c. reso dal Presidente del Tribunale, il venir meno del rapporto coniugale faccia venir meno il fondamento della collaborazione familiare, come contemplata nell’art. 230 bis c.c.; inoltre, secondo tale logica, applicando in via analogica l’art. 2272, comma 2, c.c., la separazione determinerebbe una sopravvenuta impossibilità di conseguire l’oggetto sociale. Senza accordo, il coniuge può decidere o di recedere o di continuare a prestare la propria attività lavorativa in modo continuativo e regolare; per tale ragione, si ritiene prevalente il principio in base al quale la volontà estintiva debba essere indicata espressamente nell’accordo o nel verbale di separazione13. Per la medesima ragione, poiché la separazione non determina neppure la cessazione automatica del fondo patrimoniale, i coniugi possono, nella fase patologica del rapporto, prevedere, nel proce-
Per tutte cfr. Cass., 22 maggio 1991, n. 5741.
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dimento ex art. 158 c.c., una differente distribuzione della titolarità dei beni costituiti in fondo patrimoniale14. Con lo scopo di definire in maniera puntuale i singoli rapporti con il coniuge o con i figli, la realtà mostra come sempre più frequentemente i coniugi inseriscono nell’accordo di separazione una gamma di negozi giuridici dal contenuto più vario: spesso questi ricalcano lo schema della transazione per risolvere una controversia già insorta o per prevenire una situazione potenzialmente litigiosa. Ciò avviene attraverso semplici dichiarazioni di scienza in merito alla distribuzione delle risorse economiche nella famiglia, o attraverso semplici rinunce15. Infine, tra i possibili atti di natura patrimoniale nel regolamento del conflitto coniugale, possono essere menzionati quelli che vincolano beni al soddisfacimento di determinati interessi sorti con la dissoluzione dell’unità familiare, attraverso il ricorso ad un vincolo di destinazione in relazione ad un compendio immobiliare e nelle forme di cui all’art. 2645 ter c.c. o ricorrendo alle molteplici applicazioni del trust.
4. Indisponibilità del diritto al trattamento economico in via preventiva. Nullità per illiceità della causa Il tema degli accordi con cui i coniugi stabiliscono, in sede di separazione, il regime giuridico-patrimoniale in vista di un futuro ed eventuale divorzio si ricollega a quello centrale della disponibilità del diritto all’assegno post-coniugale nelle diverse forme della rinuncia, transazione, cessione, esecuzione forzata da parte dei creditori, sequestro ed estinzione per compensazione16.
14 Si badi che una differente distribuzione della titolarità dei beni costituiti in fondo non incide sul profilo funzionale dell’atto costitutivo del fondo e dunque sulla permanenza del vincolo di destinazione. Sul punto, cfr. R. Quadri, voce Fondo patrimoniale, in Enc. Giur., Agg., XVI, Roma, 2008, p. 2-3. 15 Cfr. G. Villanacci, La separazione non giudiziale, Torino, 2001, p. 86 ss. 16 Cfr. G. Bonilini, L’assegno post-matrimoniale, in Comm. Schlesinger, diretto
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Parte della dottrina17 e la giurisprudenza unanime18 si sono assestate su una posizione negativa, escludendo che i coniugi possano accordarsi preventivamente sullo scioglimento del matrimonio e sull’assegno post-coniugale, sul presupposto della sua essenziale indisponibilità derivante dall’art. 160 c.c. Si ritiene che tale articolo, sebbene afferisca alla sez. I del capo VI del titolo VI del libro I del c.c., abbia una portata applicativa più estesa del regime patrimoniale della famiglia. Esso, secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente, infatti, nel prescrivere l’inderogabilità dei diritti e dei doveri matrimoniali, si riferisce anche agli effetti economici della separazione e del divorzio. Ne consegue, quale corollario dell’inderogabilità, l’irrinunciabilità del diritto all’assegno di mantenimento e all’assegno post-matrimoniale. Come è stato pure evidenziato dalla decisione in esame, gli accordi che dispongono preventivamente sull’assegno sono sanzionati con la nullità per illiceità della causa, perché stipulati in violazione del principio fondamentale di radicale indisponibilità dei diritti in da F.D. Busnelli, Lo scioglimento del matrimonio, a cura di G. Bonilini e F. Tommaseo, sub art. 5 L. 1° dicembre 1970, n. 898, Milano, 2010, p. 657 ss. L’A. precisa che l’elenco proposto non è completo, benché includa le voci più importanti, e che, in ogni caso, la formula comprende una pluralità di atti, che vanno dalla rinunziabilità del diritto all’assegno alla transigibilità delle controversie, dalla cedibilità del medesimo all’esperibilità, nei suoi confronti, dell’azione surrogatoria, del pignoramento e del sequestro. 17 Cfr. A. Trabucchi, Assegno di divorzio: attribuzione giudiziale e disponibilità degli interessati, in Giur. it., 1981, I, 1, p. 1553 ss.; A. Finocchiaro – M. Finocchiaro, Il divorzio, in Diritto di famiglia, Milano, 1988, p. 442 ss.; G. Doria, Autonomia privata e «causa» familiare, cit.; A. Gorgoni, Accordi traslativi e crisi coniugale, Milano, 2009, p. 491 ss.; G. Bonilini, L’assegno post-matrimoniale, cit., p. 661 ss.; C.M. Bianca, Diritto Civile, II, 1, cit., p. 309. Questi ultimi due Autori ritengono che i coniugi possano convenzionalmente stabilire il quantum dell’assegno con un negozio di accertamento posto in essere nella fase del divorzio. In tal caso, infatti, non viene alterata la causa, individuata nella solidarietà post-coniugale, ma viene fissato il contenuto del rapporto, o, eventualmente, la decorrenza e le modalità di attuazione. Contra G. Oberto, Sulla natura disponibile degli assegni di separazione e divorzio: tra autonomia privata e intervento giudiziale, in Fam. e dir., 2003, 5, p. 498. 18 Cfr. Cass., 10 marzo 2006, n. 5302. Più di recente, cfr. Cass., 30 gennaio 2017, n. 2224.
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materia matrimoniale, in forza della sua funzione prevalentemente assistenziale che realizza un interesse di ordine pubblico. L’assegno, secondo tale tesi, pur riferendosi innegabilmente ad un tempo in cui i coniugi non sono più tali, rientra tra i diritti derivanti dal matrimonio e, in quanto tale, tra quelli inderogabili da parte dei coniugi fino a che essi siano tali o prima ancora che lo diventino. Si è sostenuto, infatti, che un matrimonio si caratterizza non solo per il regime che si attua tra i coniugi finché il matrimonio dura, ma anche per il modo in cui si scioglie. Ciò significa che l’esistenza o meno della possibilità di divorziare, le condizioni alle quali questo può essere ottenuto e gli effetti che può produrre rifluiscono in maniera determinante sulla natura stessa del vincolo matrimoniale, sicché non avrebbe senso attribuire ai coniugi diritti inderogabili, come sancito dall’art. 160 c.c., e, al contempo, consentire che, durante il matrimonio o la sua fase patologica, essi siano liberi di determinare convenzionalmente le condizioni, anche solo patrimoniali, di un loro eventuale divorzio, perché in tal modo modificherebbero l’unione matrimoniale stessa19. Inoltre, più di recente, la Corte di Cassazione ha ribadito la distinzione tra gli accordi preventivi di divorzio e quelli contenuti nella domanda congiunta dello stesso, affermando che i primi non possono spiegare efficacia preclusiva alla determinazione giudiziale dell’assegno di divorzio poiché, se la causa delle pattuizioni è determinata dalla liquidazione preventiva e complessiva dell’assegno, anche tale pattuizione soggiace alla nullità sia per illiceità della causa, sia per la natura indisponibile dell’assegno di divorzio20. Viceversa, le pattuizioni inserite nella domanda congiunta di divorzio sono valide purché superino il vaglio del giudice, in quanto riguardano un Cfr. Cass., 11 giugno 1981, n. 3777 e, più di recente, cfr. Cass., 20 marzo 1988, n. 2955, in Contratti, 1998, p. 472. 20 Si badi che la riforma introdotta dalla Legge 6 marzo 1987 n. 74 ha voluto rafforzare decisamente la funzione assistenziale dell’assegno divorzile, collegandolo alla circostanza che l’ex coniuge non abbia “mezzi adeguati” di sussistenza. Sulla disponibilità o meno dell’assegno di divorzio in relazione alla novella del 1987, cfr. G. M. Uda, Sull’indisponibilità del diritto all’assegno di divorzio, in Fam. e dir., 1995, p. 14 ss. 19
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divorzio che le parti hanno già deciso di conseguire, e non semplicemente prefigurato21. A sostegno della nullità degli atti in parola, è stato altresì sottolineato che il coniuge economicamente più debole, in vista di un trattamento particolarmente favorevole sotto il profilo patrimoniale, potrebbe essere indotto a transigere sul proprio diritto di difesa in giudizio, in quanto il regime giuridico del futuro ed eventuale divorzio, potrebbe, implicitamente o esplicitamente, pregiudicare o ridimensionare la domanda di riconoscimento dell’assegno di divorzio22. Per la dottrina che sostiene il citato orientamento giurisprudenziale, l’accentuazione della funzione assistenziale dell’assegno divorzile, rafforza l’esigenza di ordine pubblico di salvaguardare la non negoziabilità del diritto, sicché è preclusa la possibilità di anticipare convenzionalmente la disciplina dei rapporti patrimoniali di un futuro divorzio, non potendo vincolare né le parti, né il giudice nel successivo giudizio di divorzio23. Ne consegue, come precisato anche dall’ordinanza in parola, che degli accordi con i quali i coniugi stabiliscono, in sede di separazione, il futuro regime giuridico-patrimoniale dell’eventuale divorzio non può tenersi conto non solo quando limitino o addirittura escludano il diritto del coniuge economicamente più debole al conseguimento di quanto necessario a soddisfare le esigenze di vita, ma anche quando soddisfino pienamente tali esigenze, in quanto una preventiva pattuizione potrebbe determinare il consenso alla dichiarazione della cessazione degli effetti civili del matrimonio. Si è in altro modo sottolineato che anche gli artt. 156, ultimo comma, c.c. e 9 della L. 6 marzo 1987 n. 74, consentendo la variabilità della prestazione in considerazione delle sopravvenienze,
Cfr. Cass., 11 giugno 1997, n. 5244, in Fam. e dir., 1997, p. 5761 ss. Cfr. Cass., 12 febbraio 2003, n. 2076, in Fam. e dir., 2000, p. 344 ss. Nello stesso senso, cfr. anche Cass., 10 marzo 2006, n. 5302, in Giur. it., 2006, 10, p. 1826 ss. 23 Cfr. V. De Paola, Il diritto patrimoniale della famiglia coniugale, Milano, 1995, p. 293. 21
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hanno inteso sopperire alla inidoneità di una previsione contingente sull’assegno di tenere conto delle future esigenze del beneficiario. Occorre, infatti, rilevare che l’assetto economico definito nelle separazioni o nei divorzi è sempre modificabile per fatti successivi che incidono sui rapporti personali e patrimoniali, che ciascun coniuge può far valere in un successivo giudizio. Per tale ragione, tutte le pattuizioni o statuizioni giudiziali di contenuto economico hanno efficacia di giudicato rebus sic stantibus, in quanto soggette a modificazioni nell’eventualità di comprovato mutamento oggettivo della situazione di fatto accertata e presupposta al momento della loro pronuncia24. La regola vale non solo per tutti i provvedimenti di origine contenziosa, ma anche per le pattuizioni della separazione consensuale e per quelle convenzionalmente fissate dalle parti in sede di divorzio25. Così, ogniqualvolta sopravvengano i c.d. “giustificati motivi”, il coniuge beneficiario potrà far valere il suo stato di bisogno proponendo domanda per il riconoscimento dell’assegno o il suo aumento, a prescindere da quanto precedentemente disposto o pattuito; allo stesso modo, anche il coniuge obbligato potrà chiedere al Tribunale la revisione dell’importo dell’assegno per il fatto sopravvenuto che diminuisce le possibilità economiche e, di conseguenza, ne determina la sproporzione con il passato. In conclusione, volendo sintetizzare i motivi a sostegno della nullità degli accordi in esame, le argomentazioni sono riconducili ad un triplice ordine: a) i coniugi non avrebbero il potere di disciplinare in anticipo i rapporti patrimoniali derivanti dal divorzio in quanto materia riservata alla determinazione del giudice per la tutela di interessi di natura pubblicistica, con particolare riferimento all’art. 160 c.c.; b) gli accordi preventivi avrebbero l’effetto di condizionare il comportamento delle parti nel giudizio del divorzio concernente uno status, materia tipicamente sottratta alla disponibilità delle parti
24 Il principio è pacifico in giurisprudenza. Ex multis, cfr. Cass., 7 gennaio 2008, n. 28, in Mass. Giur. it., 2008. 25 La regola dell’efficacia rebus sic stantibus si applica anche alla revisione delle modalità di affidamento e di mantenimento dei figli, in base all’art. 337-quinquies c.c.
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perché concernente diritti garantiti a prescindere dalla prospettiva individuale; c) tali patti sarebbero inconciliabili con la regola dell’efficacia rebus sic stantibus di ogni pattuizione o statuizione giudiziale relativa agli effetti economici della separazione o del divorzio.
5. Contraddizioni della giurisprudenza La giurisprudenza di legittimità e di merito non sempre si è attestata su posizioni tendenti ad escludere nettamente la validità agli accordi patrimoniali in previsione di un eventuale divorzio. In particolare, in una decisione risalente all’anno 200026, richiamata nell’ordinanza in commento, la Corte di Cassazione, pur riaffermando il principio di nullità delle intese preventive sulla crisi coniugale, ha riconosciuto validità ad una di esse, pervenendo al risultato, ritenuto paradossale da buona parte della dottrina, di trasformare la nullità per violazione di regole d’ordine pubblico in una sorta di nullità relativa, la quale potrebbe essere fatta valere soltanto dal coniuge che avrebbe diritto all’assegno, in aperto contrasto, dunque, con quanto disposto dall’art. 1421 c.c. Non può non criticarsi detta conclusione. Come sostenuto dalla dottrina27, infatti, se la causa dell’intesa è illecita, la nullità involge l’intero atto, che, dunque, non può essere lecito nei confronti di una parte e illecito nei riguardi dell’altra, tanto che, secondo taluno, la sentenza si porrebbe in violazione dell’art. 3 Cost., in quanto avrebbe riservato un trattamento differenziato a ciascuno dei coniugi28. Sulla decisione deve, peraltro, evidenziarsi l’appunto fatto nel l’ordinanza sottoposta a disamina. Nella stessa, i giudici, dopo un’attenta analisi, hanno evidenziato come fosse stato ritenuto valido
Cfr. Cass., 14 giugno 2000, n. 8109, in Fam. e dir., 2000, p. 429. Cfr. G. Oberto, Contratti prematrimoniali e accordi preventivi sulla crisi coniugale, in Fam. e dir., 1, 2012, p. 69 ss. 28 Cfr. M. Finocchiaro, Sull’assetto dei rapporti patrimoniali tra coniugi. Una rivoluzione annunciata solo dalla stampa, in Guida al diritto, 2000, n. 24, p. 43. 26
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l’accordo raggiunto dalle parti in sede di separazione sul solo rilievo che si trattava di un accordo transattivo, ancorché parzialmente trasfuso nel verbale di separazione, concluso tra i coniugi con il solo scopo di porre fine ad una controversia di natura patrimoniale, tra gli stessi insorta, senza alcun riferimento, esplicito o implicito, al futuro assetto dei rapporti economici conseguenti alla eventuale pronuncia di divorzio. Anche nel 2012 la Cassazione29, senza affrontare direttamente il tema in argomento, ha riconosciuto la validità di un accordo concluso per l’eventualità del divorzio, ma ancora prima del matrimonio. L’intesa prevedeva che, in caso di fallimento dell’unione, la moglie avrebbe trasferito al marito la proprietà di un immobile, come forma di indennizzo per le spese da quest’ultimo sostenute per la ristrutturazione di un altro immobile di proprietà della moglie, destinato a casa familiare, mentre a saldo il marito avrebbe trasferito alla moglie un titolo di stato. Sulla base dell’accordo, una volta sopravvenuto il giudizio di divorzio, il marito proponeva domanda ex art. 2932 c.c. per l’esecuzione in forma specifica del trasferimento immobiliare. Il Tribunale rigettava la domanda, mentre il giudice del gravame dichiarava valido ed efficace l’impegno. La moglie proponeva ricorso in Cassazione invocando la consolidata giurisprudenza sulla nullità delle intese tra coniugi in vista del divorzio, per violazione dell’art. 160 c.c. La Corte rigettava il ricorso, confermando la validità dell’accordo. I giudici di legittimità hanno ammesso l’efficacia della convenzione, considerando il contratto estraneo ad un patto preventivo sulla crisi coniugale. L’accordo, infatti, analizzato sul piano strutturale, mostrava come il fallimento del matrimonio fosse da intendersi un mero evento dedotto in condizione e non la causa genetica dell’intesa, in quanto tale idonea ad incidere sulla libertà decisionale dei coniugi in relazione al loro status. Sul piano funzionale dell’accordo, invece, emergeva la compatibilità con l’art. 160 c.c., considerato che nella crisi del matrimonio opera una sorta di sospensione,
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Cfr. Cass., 21 dicembre 2012, n. 387, in Fam. e dir., 2013, p. 321 ss.
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che cessa con la fine del rapporto e l’estinzione dei doveri e dei diritti coniugali. In definitiva, l’intesa veniva qualificata come “contratto atipico con condizione sospensiva lecita” e, in quanto tale, espressione dell’autonomia negoziale dei coniugi diretta a perseguire interessi meritevoli di tutela ai sensi dell’art. 1322 c.c. La validità degli accordi preventivi in vista del divorzio ha trovato il conforto anche da alcune sentenze di merito. Tra queste, deve certamente richiamarsi una decisione del Tribunale di Torino30 che, invocando una interpretazione evolutiva della materia, anche alla luce delle esperienze straniere31, ha ritenuto valido e vincolante un accordo di separazione tra coniugi, con il quale si era stabilito che l’erogazione dell’assegno di mantenimento in favore della moglie sarebbe cessata all’inizio della causa di divorzio. Nella fattispecie, inoltre, la coniuge si impegnava a non pretendere nulla dal marito, né una tantum, né sotto forma di assegno divorzile periodico. In definitiva, il Tribunale è giunto ad affermare che il patto non contrastava con l’art. 160 c.c., norma ritenuta non applicabile nella fase patologica del rapporto, in quanto va sistematicamente interpretata “avuto riguardo alla sua peculiare collocazione all’interno di un insieme di articoli (quelli in materia di regime patrimoniale della famiglia) orientati a disciplinare gli effetti d’ordine economico dell’unione coniugale nella sua fase fisiologica. È lo stesso legislatore che, disciplinando le conseguenze patrimoniali della crisi coniugale nel capo V, rende evidente come la regola ex art. 160 c.c., dettata in apertura del capo successivo, vale quale disposizione generale (così, infatti, si intitola la Sez. I) in relazione alle sole norme ivi contenute”. Inoltre, “come evidenziato in dottrina, lo stesso uso del termine “sposi”, anziché “coniugi” depone per una lettura della disposizione come riferita a quei diritti e doveri che si presentano a chi sta per iniziare la propria vita di coppia e non certo a chi s’appresta a scri30 Cfr. Tribunale di Torino, 20 aprile 2012, in Fam. e dir., 2012, p. 803 ss., con nota di G. Oberto, Accordi preventivi di divorzio: la prima picconata è del Tribunale di Torino. 31 Sulle esperienze straniere, cfr. infra, § 7.
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verne l’epitaffio”. In conclusione, si considerava l’accordo valido, in quanto stipulato tra i coniugi in piena autonomia e libertà, senza dedurre nell’impegno un determinato comportamento processuale.
6. Critiche dalla dottrina La dottrina maggioritaria non concorda con la posizione giurisprudenziale dominante ed osserva, in primo luogo, che essa appare sostanzialmente inadeguata alla evoluzione socio-culturale della concezione del matrimonio e delle sue fasi di crisi irreversibile e conclusive. La maggior parte delle tesi favorevoli agli accordi preventivi in vista del divorzio pongono l’accento sulla loro piena compatibilità con l’ordinamento italiano vigente, secondo una interpretazione evolutiva del diritto di famiglia interno e sulla scia delle esperienze straniere statunitensi ed europee32. Detta autorevole dottrina non esita a bollare come “irragionevole” la “ritrosia della giurisprudenza di legittimità ad ammettere la validità dei contratti stipulati dai coniugi in vista del divorzio”33 ed a definire “inattuale” la posizione conclamata della giurisprudenza, ritenendola sempre più isolata nel panorama europeo e mondiale, non conforme alle regole dell’ordinamento vigente e “diseducativa”34. Precisamente l’orientamento favorevole muove dal convincimento, ritenuto condivisibile anche da chi scrive, che, a seguito della riforma del 1987, la preoccupazione di impedire che le determinazioni dei coniugi circa il loro status siano indirettamente influenzate da accordi economici in precedenza stipulati non avrebbe senso, in quanto, il comportamento adesivo o ostruzionistico del coniuge convenuto nel giudizio di divorzio ha perso di rilevanza. In tale
Sulle esperienze straniere, cfr. infra, § 7. Cfr. F.D. Busnelli, Prefazione ad Aa. Vv., La famiglia e il diritto fra diversità nazionali ed iniziative dell’Unione Europea, a cura di D. Amram e A. D’Angelo, Padova, 2011, XIX. 34 Cfr. G. Oberto, Accordi preventivi di divorzio: la prima picconata è del Tribunale di Torino, cit., p. 806. 32 33
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ottica, un accordo meramente patrimoniale ha lo scopo di abbreviare il procedimento, anticipando un evento (la pronuncia del divorzio) che, in presenza delle condizioni legali, sarebbe comunque inevitabile, escludendo così che, in qualche modo, possa parlarsi di commercio dello stato (di persone libere o coniugate). Se, dunque, le parti si vincolano disciplinando solo le conseguenze di un fatto, e non una determinata condotta, l’accordo sarebbe valido ed efficace secondo lo schema della condizione di cui all’art. 1354 c.c.35. Inoltre, il potere negoziale sull’assegno deriverebbe altresì dal l’introduzione del procedimento di divorzio su domanda congiunta, posto che il legislatore ha riconosciuto alle parti di concordare autonomamente e liberamente le condizioni patrimoniali prima della pronuncia del giudice sullo scioglimento del vincolo matrimoniale36. È stato rilevato, infatti, che se la finalità del legislatore fosse stata quella di rendere la decisione sullo status “pura”, svincolata da ogni trattativa economica, non potrebbe ammettersi alcuna contrazione sull’assegno che precedesse anche solo di un attimo la sentenza di divorzio37. Allo stesso modo, anche la recente introduzione di strumenti negoziali per la soluzione della crisi coniugale38, sembra postulare il riconoscimento di maggiori margini di autonomia in sede di sepa Cfr. C.A. Jemolo, Il matrimonio, in Tratt. Vassalli, III, 1, Torino, 1957, p. 100 ss. 36 Al contrario, si è opposto che, nello speciale procedimento previsto dal l’art. 4 della Legge 6 marzo 1987 n. 74, gli accordi raggiunti dai coniugi sul relativo assetto patrimoniale “attengono ad un divorzio che esse hanno già deciso di conseguire, e quindi non semplicemente prefigurato”. Così Cfr. Cass., 11 agosto 1992, n. 9494, in Giur. it, 1993, I, 1, c. 1495. In dottrina, cfr. G. M. Uda, Sull’indisponibilità del diritto all’assegno di divorzio, cit., p. 14. 37 G. Oberto, Contratti prematrimoniali e accordi preventivi sulla crisi coniugale, cit., p. 69. 38 Il decreto legge 12 settembre 2014, n. 132, recante «Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile», convertito, con modifiche, nella Legge 10 novembre 2014, n. 162, ha introdotto due nuove modalità di conseguire la separazione ed il divorzio, che operano, anziché attraverso provvedimenti giudiziali, per il tramite di una negoziazione da avvocati, seguita dal nulla osta o dall’autorizzazione della Procura della Repubblica presso ciascun Tribunale di competenza, oppure in 35
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razione e in vista del divorzio. Infatti, anche in presenza di accordi ritenuti validi, deve ritenersi che, sussistendo le condizioni di legge, il coniuge debole avrebbe comunque diritto all’assegno alimentare indipendentemente da ogni rinuncia preventivamente effettuata in sede di accordo. Nello stesso senso, si potrebbe interpretare anche la possibilità per i coniugi di prevedere la corresponsione dell’assegno di divorzio in unica soluzione (una tantum) concordata prima del giudizio di divorzio; nonostante sia sempre soggetta al sindacato di equità da parte del tribunale, detta convenzione preclude ulteriori richiese o rivendicazioni di contenuto economico, in chiave preventiva e alternativa all’ulteriore contenzioso. L’orientamento dottrinale che guarda con favore agli accordi preventivi sulla crisi coniugale offre argomenti anche per superare il “classico richiamo all’art. 160 c.c.”39. Si è, in particolare, affermato come detta norma riguardi unicamente la fase fisiologica del matrimonio e, dunque, non abbia a che vedere con la regolamentazione dei rapporti fra coniugi separati o fra ex coniugi divorziati. Il rinvio a tale disposizione nell’ambito del divorzio si risolve, secondo questa interpretazione, nel paradosso della tesi che, prospettando un’estensione analogica della stessa, finisce per sviluppare “una vera e propria contradictio in adiecto”, determinata dalla pretesa di applicare la norma nel contrario contesto in cui gli effetti del matrimonio sono già venuti meno. Il ricorso all’analogia postula, infatti, il principio di uguaglianza di trattamento, che è alla base del nostro ordinamento giuridico, per cui i casi simili devono essere regolati da norme simili (art. 12 disp. prel.)40. Oltre alle ragioni illustrate, il richiamo all’art. 160 c.c. viene criticato, in quanto ritenuto del tutto in contrasto con la concezione contemporanea del matrimonio. Secondo questa prospettiva, ritene-
forza di accordi raggiunti dai coniugi dinanzi al sindaco nella sua qualità di ufficiale dello stato civile. 39 G. Oberto, Contratti prematrimoniali e accordi preventivi sulla crisi coniugale, cit., p. 85. 40 G. Oberto, Contratti prematrimoniali e accordi preventivi sulla crisi coniugale, cit., p. 85.
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re che il dovere di contribuzione rimanga inalterato anche dopo la pronuncia di divorzio, “significa conservare […] la mistica dell’indissolubilità”, favorendo di talché il ritorno alla tesi del carattere pubblicistico del matrimonio, come atto che prescinde dalla volontà dei singoli, in contrasto con il pensiero dominante e con l’orientamento giurisprudenziale consolidato, che non ha mancato di negare che, nel nostro ordinamento, possano attribuirsi al matrimonio effetti di tipo ultrattivo41. Sulla scia di tale ragionamento, si è inoltre cercato di chiarire che bisogna distinguere tra l’obbligazione alimentare e l’assegno divorzile e che gli argomenti utilizzati per la prima non sono estensibili al secondo. Il diritto agli alimenti, per espressa previsione normativa (art. 447 c.c.), non può essere ceduto o compensato, è irrinunciabile, impignorabile e insequestrabile. Esso può essere oggetto di convenzione esclusivamente con riferimento alla misura ed alla modalità di corresponsione. Dunque, l’indisponibilità opererebbe, secondo tale ragionamento, solo relativamente alla componente alimentare e non anche a quella divorzile. In ordine a tale profilo, possono dunque ritenersi validi i contributi di natura storica, logica e sistematica offerti dalla dottrina, al fine di sconfessare le argomentazioni della giurisprudenza contraria, con l’intento determinato di opporsi, in particolare, al “dilagare dell’art. 160 c.c.” e del relativo dogma dell’indisponibilità”42.
7. Spunti comparatistici A conclusione della trattazione, il tema merita di essere proiettato, seppur con brevi cenni, sul piano comparatistico, posto che la possibilità di stipulare accordi finalizzati ad incidere sulle conseguenze patrimoniali del matrimonio è particolarmente valorizzata 41 Cfr. Cass., 9 gennaio 1976, n. 40. Per analoghe considerazioni in dottrina, cfr. G. Doria, Autonomia privata e «causa» familiare, cit., p. 73 ss. 42 Cfr. L. Oliviero, L’indisponibilità dei diritti: analisi di una categoria, Torino, 2008, p. 107 ss.
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negli ordinamenti di common law, sia con riguardo alla predeterminazione convenzionale dei riflessi economici del divorzio, sia rispetto all’ammissibilità dei c.d. prenuptial agreements, accordi attraverso i quali i futuri coniugi disciplinano alcuni aspetti della vita matrimoniale, patrimoniali e non, nonché dell’eventuale fase patologica, al fine di limitare gli ampi poteri discrezionali riconosciuti al giudice al momento della decisione sugli assetti patrimoniali conseguenti al divorzio43. Tali intese presentano la loro massima espressione nell’esperienza statunitense44, dove sono ampiamente diffusi nei vari Stati della Federazione, seppur con discipline differenti, mancando una specifica legislazione a livello federale. Tuttavia, a fronte di una prima fase in cui essi si sono diffusi in modo disomogeneo, ha fatto seguito una tendenza degli Stati volta ad elaborare principi comuni, che hanno trovato attuazione dapprima nello Uniform Premarital Agreement Act (UPAA), elaborato dalla National Conference of Commissioners on Uniform State Law (NCUSL) nel 198345, e successivamente nei Principles of the Law of Family Dissolution, redatti dall’American Law Institute nel 2002, ai cui patti è dedicato l’intero Chapter 7.
43 Cfr. A. Maietta, Accordi prematrimoniali, contratti di convivenza e diritti delle parti. L’ordinamento italiano e gli ordinamenti stranieri a confronto: certezze e dubbi, in http://www.comparazionedirittocivile.it/prova/files/maietta_accordi.pdf. 44 Per un’indagine sul diritto di famiglia negli USA: T. Glennon, Family Law in the United States: Freedom and Inequality, in S. Choudhry – J. Herring (eds), The Cambridge Companion to Comparative Family Law (Cambridge Companions to Law), pp. 48-76 (2019). Tra i patti patrimoniali particolarmente noti, si segnala quello concluso tra Jackie Kennedy e Aristotele Onassis. L’intesa venne stipulata soprattutto a tutela della vedova del Presidente Kennedy, la quale, con le nuove nozze, avrebbe perso tutti i benefici derivanti dal suo status. Il patto prevedeva così tre miliardi di dollari all’anno come argent de poche, svariati miliardi di risarcimento in caso di divorzio o di morte, oltre all’indicazione di somme mensili per le spese voluttuarie, una trattenuta per le emicranie e una clausola che riconosceva solo ed esclusivamente alla moglie la facoltà di decidere la frequenza dei congiungimenti carnali. 45 All’attualità l’UPAA è stato approvato da 28 Stati e dal Distretto della Columbia. Si veda: https://www.uniformlaws.org/HigherLogic/System/DownloadDocumentFile.ashx?DocumentFileKey=f5d36125-9433-c7d8-28ec-6244f4a316e6&forceDialog=0.
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I Principles prevedono la possibilità di stipulare i c.d. marital agreements, ovvero accordi tra i coniugi volti a disciplinare la divisione dei beni di una coppia al momento del divorzio o della morte di uno di loro senza adire il tribunale; i c.d. postmarital agreements, patti stipulati dopo le nozze, con i quali i coniugi dispongono dei propri beni in caso di divorzio o di morte e, infine, i c.d. separation agreements, accordi attraverso i quali i coniugi accettano di vivere separatamente senza divorziare. A prescindere dalla natura dei patti, la loro validità è strettamente connessa al profilo procedurale riguardante la corretta e consapevole formazione dell’atto, in relazione alla libera e volontaria prestazione del consenso, che rende unenforceable, ovvero inapplicabile, un patto che presenti delle irregolarità rispetto alle regole preposte alla corretta formazione del consenso46. In via generale, rispetto alle materie che possono formare oggetto di un accordo tra le parti, vi è una tendenza comune a tutte le legislazioni statali di escludere dai patti le questioni relative all’affidamento, all’esercizio della potestà e al mantenimento della prole47 ed ogni questione ritenuta di natura intima e personale, così come vi è una generica limitazione da parte delle legislazioni statali verso i patti volti a limitare i presupposti per accedere al divorzio. Nell’ordinamento inglese l’ammissibilità dei patti prematrimoniali risulta meno marcata rispetto alla tradizione statunitense, sia per via dell’assenza di regole di origine legislativa che prestabiliscono il regime della comunione, in difetto del ruolo opzionale della divisione dei beni, sia perché gli accordi che i coniugi concludono prima del matrimonio o nelle more del divorzio non sono vincolanti per le corti, le quali dispongono di ampi poteri discrezionali, a tutela degli interessi considerati di rilevanza generale48. Pertanto,
46 Cfr. E. Al Mureden, I prenuptial agreements negli Stati Uniti e nella prospettiva del diritto italiano, in Fam. e dir., 2005, n. 5, p. 553. 47 Come previsto dall’UPAA e recepito dai Principles of The Law of Family Dissolution (in particolare dalla section 7.06.Child Support). 48 Il principio è stato ribadito nella decisione N v N (jurisdiction: prenuptial agreement) 1999 2 Family Law Reports, 745, ove il giudice Jonathan Cohen QC
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le intese tra i coniugi rappresentano solo uno degli elementi di cui tenere conto per determinare gli assetti patrimoniali conseguenti al divorzio. Anche l’ordinamento australiano, pur con una serie di limitazioni volte a garantire la tutela della parte debole e la corretta formazione del consenso, ammette positivamente la possibilità di stipulare accordi relativi al mantenimento e alla divisione della proprietà. Per quanto riguarda i sistemi di civil law, a fronte di una generale tendenza a negare la piena validità degli accordi in parola, la Germania si attesta su una posizione favorevole alle intese preventive sulle conseguenze del divorzio. Infatti, il § 1408 BGB permette ai coniugi di determinare i loro rapporti patrimoniali mediante un Ehevertrag (contratto di matrimonio); essi possono così modificare il loro regime patrimoniale e derogare convenzionalmente alla disciplina sul mantenimento post-divorzile, sulla comunione e sul trattamento pensionistico. Dunque, i coniugi possono predeterminare i criteri per l’assegno divorzile, sino ad escludere tale diritto, oppure negare la liquidazione delle aspettative pensionistiche conseguenti allo scioglimento del regime legale della comunione degli incrementi49. Il contratto può altresì prevedere la rinuncia alla modifica giudiziale dell’assegno divorzile, quando ne consegua una modifica delle condizioni economiche delle parti. L’autonomia contrattuale sancita dal BGB può incontrare delle limitazioni nel controllo giudiziario; in diverse occasioni, infatti, la giurisprudenza tedesca ha dichiarato la nullità degli accordi laddove sia emerso che un coniuge abbia profittato dell’inesperienza o della labilità psichica dell’altro, ovvero quando la rinunzia all’assegno divorzile sia stata determinaha affermato “On the basis of public policy, antenuptial agreements as a class are not specifically enforceable in English law. The existence of an agreement and its evidential weight are factors to be taken into account when the court is deciding whether or not to exercise its discretion under s 25 of the Matrimonial Causes Act 1973 to make orders for financial provision under ss 23 or 24. Each individual clause is unenforceable on public policy grounds and there is no power in any statutory provision to compel the parties to implement part of the agreement”. 49 A. Fusaro, Tendenze del diritto privato in prospettiva comparatistica, Torino, 2à ed., 2017, p. 227.
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ta dallo scambio con l’affidamento dei figli o come condizione per la celebrazione delle nozze50. I rilievi svolti permettono di evidenziare come l’attività giurisdizionale caratterizzi, in definitiva, la regolamentazione della crisi familiare, anche quando sia permesso ai coniugi di pianificare pattiziamente l’eventuale fase patologica del rapporto, ove si assiste ad una interazione tra potere di disposizione delle parti e potere discrezionale del giudice, ovvero tra autonomia negoziale e controllo sugli atti della crisi. Ciò accade tanto negli Stati Uniti, quanto in Germania quando, ad esempio, viene contestata da una delle parti la regolarità dell’atto in relazione alla corretta formazione del consenso. Stesso discorso vale per l’ordinamento inglese e quello australiano. Sul punto va, peraltro, evidenziato che, anche nel contesto italiano, il cambiamento del rapporto tra autonomia privata e giurisdizione è da tempo avviato e la prospettiva sembra volgere verso un sempre maggiore distacco tra crisi familiare e controllo giudiziale, soprattutto nei casi in cui non vi sono figli minori o bisognosi di protezione. La giurisdizione in tema di separazione e divorzio è già stata oggetto di revisione in seguito all’introduzione delle più recenti misure di sistemi alternativi di soluzione delle controversie, diventando così uno strumento residuale di attuazione dei diritti, in caso di lesione o di contestazione di situazione soggettive giuridicamente tutelate. A questo proposito, il ruolo dei giudici potrebbe rimanere ancora più marginale e circoscritto se l’ordinamento, da un lato, ammettesse una regolamentazione preventiva della crisi e, dall’altro, offrisse regole certe su cui basare la negoziazione della stessa. Nella cornice del sistema di civil law, vi sono, comunque, da rilevare alcune profonde differenze della disciplina tedesca rispetto a quella italiana: in primo luogo, il § 1570 BGB spinge l’ex coniuge economicamente debole, soprattutto in assenza di prole, al reinserimento nel mondo del lavoro, poiché stabilisce che il mantenimento può essere ottenuto fino a quando «da egli non possa pretendersi l’esercizio di un’attività produttiva in ragione della cura e dell’edu-
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cazione di un figlio comune». Peraltro, il codice tedesco circoscrive accuratamente i casi in cui l’ex coniuge ha diritto all’assegno di mantenimento (§§ 1571-1573 BGB) e, nei casi in cui egli non ha lavoro, impone il dovere di compiere “sforzi” per reperirlo, prevedendo ipotesi di limitazione temporale al diritto o di esclusione per fatti “gravi” (§ 1579, co. 5, BGB). Inoltre, la validità degli accordi in parola è da ricercare certamente nella soluzione adottata dal modello tedesco che valorizza l’istituto del divorzio, secondo un modello avanzato, in grado di coniugare la libertà personale con la stabilità del matrimonio. I coniugi tedeschi possono, infatti, sciogliere il matrimonio se vivono separati da un anno e se presentano una domanda congiunta (§ 1565 BGB) o se la parte che non ha presentato la domanda fornisce la sua approvazione (§ 1566 BGB)51. Occorre prendere atto che, anche nel nostro ordinamento, sarebbe ragionevole pensare ad una riforma della fase patologica del matrimonio, ipotizzando la possibilità per i coniugi di addivenire subito al divorzio, quando la separazione si protragga da un certo tempo, così come previsto dal codice tedesco o secondo il modello francese, che prevede l’opzione facoltativa della separazione52, cosicché sarebbe riconosciuta ai coniugi la possibilità di raggiungere subito un accordo sulle questioni patrimoniali della coppia, fatto salvo il vaglio giudiziale sull’intesa. Tale soluzione avrebbe sufficienti possibilità di essere condivisa dal nostro legislatore, in quanto contempererebbe, senza radicalismi, la libertà degli individui con l’esigenza di preservare il matrimonio53.
51 Inoltre, il § 1566, co. 2, BGB stabilisce che il matrimonio possa essere sciolto quando «si presume inconfutabilmente che il matrimonio sia in stato di disfacimento se i coniugi vivono da tre anni separati». 52 L’art. 296 Code civil dispone che la séparation de corps può essere pronunciata solo con l’accordo dei coniugi. Diversamente, l’art. 297 Code civil prevede che «[…] lorsque la demande principale en divorce est fondée sur l’altération définitive du lien conjugal, la demande reconventionnelle ne peut tendre qu’au divorce. L’époux contre lequel est présentée une demande en séparation de corps peut former une demande reconventionnelle en divorce». 53 Cfr. A. Gorgoni, Accordi in funzione del divorzio tra autonomia e limiti, in Pers. e Merc., 4, 2018, p. 254.
Corte di Cassazione – Sezioni Unite 30 dicembre 2021, n. 41994 (sent.) Presidente Raimondi, Estensore Valitutti Concorrenza – Intese restrittive –Contratto – Fideiussione – Nullità – Ordine Pubblico Economico I contratti di fideiussione a valle di intese dichiarate parzialmente nulle dall’Autorità Garante, in relazione alle sole clausole contrastanti con gli artt. 2, co. 2, lett. a) della legge n. 287 del 1990 e 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, sono parzialmente nulli, ai sensi degli artt. 2, co. 3 della legge succitata e dell’art. 1419 cod. civ., in relazione alle sole clausole che riproducano quelle dello schema unilaterale costituente l’intesa vietata, salvo che sia desumibile dal contratto, o sia altrimenti comprovata, una diversa volontà delle parti.
Dalla motivazione (omissis) 2.17. Si è, pertanto, evidentemente in presenza di una “nullità speciale”, posta – attraverso le previsioni di cui agli artt. 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea e della L. n. 287 del 1990, art. 2, lett. a) – a presidio di un interesse pubblico e, in specie, dell’“ordine pubblico economico”; dunque “nullità ulteriore a quelle che il sistema già conosceva” (Cass., n. 827/1999). In tal senso depone la considerazione che siffatta forma di nullità ha una portata più ampia della nullità codicistica (art. 1418 c.c.) e delle altre nullità conosciute dall’ordinamento – come la “nullità di protezione” nei contratti del consumatore (cd. secondo contratto), e la nullità nei rapporti tra imprese (cd. terzo contratto) – in quanto colpisce anche atti, o combinazioni di atti avvinti da un “nesso funzionale”, non tutti riconducibili alle suindicate fattispecie di natura contrattuale. La ratio di tale speciale regime – come detto – è da
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ravvisarsi nell’esigenza di salvaguardia dell’“ordine pubblico economico”, a presidio del quale sono state dettate le norme imperative nazionali ed Europee antitrust. 2.17.1. Lo stretto collegamento tra normativa anticoncorrenziale ed ordine pubblico economico, anche nelle ipotesi in cui – come nell’ordinamento italiano – l’istituto in parola non trovi una specifica previsione di diritto positivo, è – del resto – ben noto al diritto comunitario. Al riguardo, si è – per vero – statuito che, nei limiti in cui un giudice nazionale deve, in base alle proprie norme di diritto processuale nazionale, accogliere un’impugnazione giurisdizionale (nella specie per nullità di un lodo arbitrale), che sia fondata sulla violazione delle norme nazionali di ordine pubblico, esso deve ugualmente accogliere una domanda siffatta se ritiene – a prescindere dalla normativa nazionale che non contempli l’istituto dell’ordine pubblico economico – che tale lodo sia contrario all’art. 85 del Trattato (divenuto art. 81 CE). Si afferma infatti, al riguardo, che, da un lato, questo articolo costituisce una disposizione fondamentale indispensabile per l’adempimento dei compiti affidati alla Comunità e, in particolare, per il funzionamento del mercato interno e, dall’altro, che il diritto comunitario esige che questioni relative all’interpretazione del divieto sancito da tale articolo (poi trasfuso nell’attuale art. 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea) possano essere esaminate dai giudici nazionali chiamati a pronunciarsi su di una qualsiasi impugnazione – anche se proposta in relazione alla validità di un lodo arbitrale – e possano essere oggetto, all’occorrenza, di un rinvio pregiudiziale dinanzi alla Corte (Corte Giustizia, 01/06/1999, C. 126/97, Eco Swiss China Time Ltd). 2.17.2. D’altro canto, anche la giurisprudenza nazionale ha applicato – sia pure con riferimento a materie diverse da quella in esame – l’istituto dell’“ordine pubblico economico”, astraendo da disposizioni imperative dettate a tutela della correttezza e della trasparenza del mercato, con particolare riferimento a fattispecie negoziali poste in essere da un’impresa in stato di conclamato dissesto, aggravato da operazioni dilatorie dirette esclusivamente a ritardare
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la dichiarazione di fallimento, con grave pregiudizio per altre imprese operanti nel mercato nello stesso settore o in settori contigui (cfr. Cass., 05/08/2020, n. 16706). 2.18. E tuttavia, nei casi – come quello oggetto del presente giudizio – in cui dello schema dichiarato nullo dalla Banca d’Italia, vengano riprodotte solo le tre clausole succitate, il menzionato “principio di conservazione” degli atti negoziali, costituente nell’ordinamento la “regola”, impone di considerare nulli i contratti di fideiussione a valle solo limitatamente alle clausole riproduttive dello schema illecito a monte, poiché adottato in violazione della normativa – nazionale ed Eurounitaria – antitrust, a meno che non risulti comprovata agli atti una diversa volontà delle partì, nel senso dell’essenzialità – per l’assetto di interessi divisato – della parte del contratto colpita da nullità. 2.18.1. Va, per contro, esclusa – per diversi ordini di ragioni – la nullità totale del contratto a valle, con specifico riferimento alla fattispecie oggetto del presente giudizio. Ed invero, anche a prescindere dalle critiche mosse a siffatta impostazione – sotto i diversi profili della inconfigurabilità di un collegamento negoziale tra intesa e fideiussione, della non ravvisabilità di un vizio della causa o dell’oggetto, ecc.) –, è proprio la finalità perseguita dalla normativa antitrust di cui alla L. n. 287 del 1990 e dall’art. 101 del Trattato succitato ad escludere l’adeguatezza del rimedio in questione. È di tutta evidenza, infatti, che – stante la finalizzazione di tale normativa ad elidere attività e comportamenti restrittivi della libera concorrenza – i contratti a valle sono integralmente nulli – come rilevato da autorevole dottrina – esclusivamente quando la loro stessa conclusione restringe la concorrenza, come nel caso di una intesa di spartizione, riprodotta integralmente nel contratto a valle. Quest’ultimo è, invece, nullo solo in parte qua, laddove esso riproduca le clausole dell’intesa a monte dichiarate nulle dall’organo di vigilanza, e che sono le sole ad avere – in concreto – una valenza restrittiva della concorrenza, come nel caso dello schema ABI per cui è causa. Tutte le altre clausole, coerenti con lo schema tipico del contratto di fideiussione, restano invece – come nel caso
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concreto ha affermato il provvedimento della Banca d’Italia n. 55 del 2005 pienamente valide. 2.18.2. Le clausole del contratto di fideiussione a valle che riproducano quelle nulle dell’intesa a monte (nn. 2, 6 e 8) vengono, invero, a recepire – nel contenuto del negozio – le determinazioni di un’associazione di imprese, l’ABI, che – in quanto costituiscono elemento di valutazione e di riferimento per le scelte delle singole associate – possono contribuire a coordinare il comportamento di imprese concorrenti, falsando – il tal guisa – il gioco della libera concorrenza. Ed è per questo che, esclusivamente sotto tale profilo, la Banca d’Italia ha osservato che “la restrizione della concorrenza derivante da una siffatta intesa risulterebbe significativa nel mercato rilevante, atteso l’elevato numero di banche associate all’ABI”, e, di conseguenza, ha dichiarato la nullità dei soli articoli nn. 2, 6 e 8 dell’intesa a monte. Per converso, tutte le altre clausole del contratto di fideiussione – in quanto finalizzate, attraverso l’obbligazione di garanzia assunta dal fideiussore, ad agevolare l’accesso al credito bancario – sono immuni da rilievi di invalidità, come ha stabilito la Banca d’Italia nel citato provvedimento, nel quale ha espressamente fatte salve tutte le altre clausole dell’intesa ABI. 2.18.3. La conclusione cui è pervenuto, nel caso di specie, l’organo di vigilanza, è – del resto – pienamente conforme a quanto la Corte di Giustizia ha da tempo affermato in materia. Fin da tempi non recenti, infatti, la Corte ha stabilito che la sanzione della nullità si applica alle sole clausole dell’accordo o della decisione colpite dal divieto, a meno che dette clausole risultino inseparabili dall’accordo o dalla decisione stessi, nel qual caso soltanto essi saranno travolti integralmente (Corte Giustizia, 30/06/1966, C. 56/65, LTM; Corte Giustizia, 01/09/2008, C. 279/06, CEPSA). Di conseguenza, alla nullità parziale dell’accordo o della deliberazione a monte corrisponde – per le ragioni suesposte – la nullità parziale del contratto di fideiussione a valle che ne riproduca le previsioni colpite da tale forma di invalidità, e limitatamente alle clausole riproduttive di dette previsioni, salvo che la parte affet-
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ta da nullità risulti essenziale per i contraenti, che non avrebbero concluso il contratto “senza quella parte del suo contenuto che è colpita da nullità”, secondo quanto prevede – in piena conformità con le affermazioni della giurisprudenza Europea, riferite alla normativa comunitaria – il diritto nazionale (art. 1419 c.c., comma 1). E sempre che di tale essenzialità la parte interessata all’estensione della nullità fornisca adeguata dimostrazione. Evenienza, questa, di ben difficile riscontro nel caso di specie, per le ragioni in precedenza esposte. 2.19. Orbene, nella fattispecie in esame, la Corte d’appello ha accertato – con valutazione di merito incensurabile in questa sede che le clausole contenute nelle fideiussioni in questione erano del tutto coincidenti con le clausole nn. 2, 6 e 8 dello schema ABI, facendo applicazione del principio, più volte affermato da questa Corte, secondo cui la produzione del provvedimento dell’Autorità Garante costituisce prova privilegiata della condotta anticoncorrenziale, a prescindere dal fatto che siano state irrogate, o meno, sanzioni pecuniarie agli autori della violazione. 2.19.1. Si è, invero, affermato – al riguardo – che in tema di accertamento dell’esistenza di intese restrittive della concorrenza vietate dalla L. n. 287 del 1990, art. 2 e con particolare riguardo alle clausole relative a contratti di fideiussione da parte delle banche, il provvedimento della Banca d’Italia di accertamento dell’infrazione, adottato prima delle modifiche apportate dalla L. n. 262 del 2005, art. 19, comma 11, possiede, al pari di quelli emessi dall’Autorità Garante della concorrenza e del mercato, un’elevata attitudine a provare la condotta anticoncorrenziale, indipendentemente dalle misure sanzionatorie che siano eventualmente – in esso pronunciate. Il giudice del merito è, quindi, tenuto, per un verso, ad apprezzarne il contenuto complessivo, senza poter limitare il suo esame a parti isolate di esso, e, per altro verso, a valutare se le disposizioni convenute contrattualmente coincidano con le condizioni oggetto dell’intesa restrittiva, non potendo attribuire rilievo decisivo all’attuazione o meno della prescrizione contenuta nel menzionato provvedimento, con cui è stato imposto all’ABI di estromettere le
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clausole vietate dallo schema contrattuale diffuso presso il sistema bancario (Cass., 22/05/2019, n. 13846). 2.19.2. La Corte territoriale ha, quindi, correttamente dichiarato la “nullità, per violazione della L. n. 287 del 1990, art. 2, comma 1, lett. a), degli artt. 2, 6 e 8 dei contratti di fideiussione per cui è causa”, lasciando in vita tutte le altre clausole negoziali. 2.20. Dalla ritenuta nullità parziale del contratto di fideiussione a valle dell’intesa vietata – nella specie diretta a falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale, mediante un’attività consistente nel fissare direttamente talune “condizioni contrattuali” – discende una serie di conseguenze sul piano sostanziale e processuale. 2.20.1. Da siffatta opzione interpretativa deriva, anzitutto, che le fideiussioni per cui è causa restano pienamente valide ed efficaci, sebbene depurate dalle sole clausole riproduttive di quelle dichiarate nulle dalla Banca d’Italia, poiché anticoncorrenziali, in conformità a quanto stabilito dall’art. 1419 c.c., nonché dalle affermazioni della giurisprudenza Europea succitate. 2.20.2. Ne discende, poi, la rilevabilità d’ufficio di tale nullità da parte del giudice, nei limiti stabiliti dalla giurisprudenza di questa Corte, a presidio del principio processuale della domanda (artt. 99 e 112 c.p.c.). Si è – per vero – stabilito, al riguardo, che il giudice innanzi al quale sia stata proposta domanda di nullità integrale del contratto deve rilevarne di ufficio la sua nullità solo parziale. E tuttavia, qualora le parti, all’esito di tale indicazione officiosa, omettano un’espressa istanza di accertamento in tal senso, deve rigettare l’originaria pretesa non potendo inammissibilmente sovrapporsi alla loro valutazione ed alle loro determinazioni espresse nel processo (Cass. Sez. U., 12/12/2014, nn. 26242 e 26243; Cass., 18/06/2018, n. 16501). La fattispecie oggetto del presente giudizio è, peraltro, del tutto conforme a tali principi, avendo il B. proposto domanda subordinata di nullità parziale delle fideiussioni per cui è causa. 2.20.3. Alla qualificazione di nullità parziale della fideiussione consegue, inoltre, l’imprescrittibilità dell’azione di nullità (Cass. 15/11/2010, n. 23057) e la proponibilità della domanda di ripetizione dell’indebito ex art. 2033 c.c., ricorrendone i relativi
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presupposti (Cass. 08/11/2005, n. 21647), nonché dell’azione di risarcimento dei danni. 2.21. Da tutto quanto suesposto discende, dunque, con riferimento al caso concreto, la nullità parziale delle fideiussioni stipulate dal B. con Intesa Sanpaolo, ossia limitatamente alle clausole nn. 2, 6 e 8, come correttamente ritenuto dalla Corte d’appello, con conseguente rigetto del primo e secondo motivo di ricorso, restando assorbite le questioni – contenute nei motivi terzo e quarto – concernenti la natura delle fideiussioni a valle e la derogabilità della norma di cui all’art. 1957 c.c. È del tutto evidente, infatti, che la nullità speciale delle clausole in questione discende dalla loro natura – in quanto attuative dell’intesa a monte vietata – di disposizioni restrittive, in concreto, della libera concorrenza, e non certo dalla effettuata deroga alle norme codicistiche in tema di fideiussione. 3. Per tutte le ragioni esposte, il ricorso deve essere, pertanto, rigettato. Va affermato il seguente principio di diritto: “i contratti di fideiussione a valle di intese dichiarate parzialmente nulle dall’Autorità Garante, in relazione alle sole clausole contrastanti con la L. n. 287 del 1990, art. 2, comma 2, lett. a) e art. 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, sono parzialmente nulli, ai sensi dell’art. 2, comma 3 della Legge succitata e dell’art. 1419 c.c., in relazione alle sole clausole che riproducano quelle dello schema unilaterale costituente l’intesa vietata, salvo che sia desumibile dal contratto, o sia altrimenti comprovata, una diversa volontà delle parti”. 4. La novità e controvertibilità delle questioni giuridiche trattate inducono ad un’integrale compensazione tra le parti delle spese del presente giudizio. 5. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per i ricorsi, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).
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P.Q.M. La Corte, pronunciando a Sezioni Unite, rigetta il ricorso Dichiara integralmente compensate fra le parti le spese del presente giudizio. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
NULLITÀ SPECIALI A PRESIDIO DELL’ORDINE PUBBLICO ECONOMICO Lorenzo Botta (Dottorando di ricerca presso l’Università degli Studi di Sassari)
Sommario: 1. Il caso. – 2. Cenni sulla disciplina antitrust e sulla nullità delle intese. – 3. La disciplina civilistica rilevante, la nullità della fideiussione – 4. Dalla nullità alle nullità, nuovi strumenti di tutela. – 5. La “nullità derivata” del contratto di fideiussione, il c.d. nesso funzionale. – 6. Ultime riflessioni in tema di nullità dei contratti di fideiussione omnibus.
1. Il caso Nel 2002, l’ABI (Associazione Bancaria Italiana) disponeva uno schema negoziale, un modello-tipo, per la stipulazione delle fideiussioni a garanzia di alcune operazioni bancarie1. Questo schema prescriveva, attraverso un complesso articolato di clausole, la disciplina della “fideiussione omnibus”2.
Con il termine banca si designa il soggetto riservato dall’ordinamento all’esercizio dell’attività bancaria, ovvero quella che consiste nella raccolta del risparmio fra il pubblico e nell’esercizio del credito (nesso di intermediazione) ex art. 10, d.lgs. 1° settembre 1993 n. 385 – T.U.B. I contratti bancari vengono solitamente distinti in due categorie, le operazioni ed i servizi. Si parla di operazioni passive con riguardo ai contratti che attuano la raccolta del risparmio presso il pubblico e di operazioni attive con riguardo ai contratti con i quali la banca si obbliga all’erogazione del credito contro la corresponsione degli interessi da parte dei clienti. La principale tra le operazioni passive è rappresentata dal deposito bancario (artt. 1834-1838 c.c.). Le operazioni attive sono invece l’apertura di credito (art. 1842 c.c.), l’anticipazione bancaria (art. 1846 c.c.) e lo sconto. I servizi sono usualmente quelli di intermediazione nei pagamenti e quelli di custodia. 2 Cfr. infra, § 3. 1
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Suddette condizioni venivano così comunicate alla Banca d’Italia – nel 2003 ancora3 Autorità Garante della Concorrenza tra gli Istituti di Credito – perché ne fosse verificata la compatibilità con la disciplina delle intese restrittive della concorrenza. Ottenuto il parere4 da parte dell’AGCM (Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato), che evidenziava come la “disciplina della fideiussione omnibus” predisposta dall’ABI fosse idonea a restringere la concorrenza, perché in grado di “determinare un aggravio economico indiretto, in termini di minore facilità di accesso al credito”, la Banca d’Italia emetteva il provvedimento n. 55 del 20055. Questo dichiarava nulle le disposizioni contenute negli articoli 2, 6 e 8 dello schema contrattuale predisposto dall’ABI per la fideiussione a garanzia delle operazioni bancarie (fideiussione omnibus) poiché contenevano disposizioni che, se applicate in modo uniforme, si ponevano in contrasto con l’articolo 2, comma 2, lettera a), della L. 10 ottobre 1990, n. 2876. Gli articoli prevedevano rispettivamen-
La Banca d’Italia ha esercitato suddetta funzione dal 1990 al gennaio 2006, quando tali competenze sono state trasferite all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) in forza dell’attribuzione della legge 262/2005. 4 Provvedimento n. 14251, IS84 – ABI: Condizioni generali di contratto per la fideiussione a garanzia delle operazioni bancarie, del 20 aprile 2005, pubblicato in Bollettino n. 17/2005, https://www.agcm.it/dotcmsCustom/getDominoAttach?urlStr=192.168.14.10:8080/41256297003874BD/0/59570E8C503E753BC1256FFC0045223C/$File/p14251.pdf. Tale parere arriva però alla fine di una lunga istruttoria svolta da parte di AGCM che ha origine nel 2003; con il provvedimento n. 12400, IS84 – ABI: Condizioni generali di contratto per la fideiussione a garanzia delle operazioni bancarie, del 22 agosto 2003, pubblicato in Bollettino n. 45/2003, https://www.agcm.it/ dotcmsCustom/getDominoAttach?urlStr=192.168.14.10:8080/41256297003874BD/0/554934AC5389C40CC1256D9F0039A10A/$File/p12400.pdf. 5 Provvedimento di chiusura istruttoria n. 55, B423 – ABI: Condizioni generali di contratto per la fideiussione a garanzia delle operazioni bancarie del 2 maggio 2005, pubblicato in Bollettino n. 17/2005, https://www.agcm.it/dotcmsCustom/getDominoAttach?urlStr=192.168.14.10:8080/41256297003874BD/0/3554F99586850876C1257003004E9951/$File/B423.pdf. 6 Legge 10 ottobre 1990, n. 287 – Norme per la tutela della concorrenza e del mercato, G.U. del 13 ottobre 1990, n. 240, ultimo aggiornamento del 14 dicembre 2021, https://www.agcm.it/chi-siamo/normativa/legge-10-ottobre-1990-n-287norme-per-la-tutela-della-concorrenza-e-del-mercato. 3
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te, (i) una “clausola di reviviscenza”, secondo la quale il fideiussore era tenuto a rimborsare alla banca le somme che dalla stessa fossero state incassate in pagamento di obbligazioni garantite e che dovessero essere restituite a seguito di annullamento, inefficacia o revoca dei pagamenti stessi, o per qualsiasi altro motivo”; (ii) una “clausola di rinuncia ai termini ex art. 1957 c.c.” che comportava la rinuncia, per l’appunto, in capo al fideiussore, a domandare la avvenuta decadenza o prescrizione dopo che fossero scaduti i termini previsti da tale disposizione codicistica in tema di fideiussione, che si intendeva pertanto derogata; (iii) infine, una “clausola di sopravvivenza” per cui “qualora le obbligazioni garantite fossero da dichiararsi invalide, la fideiussione garantiva comunque l’obbligo del debitore di restituire le somme allo stesso erogate”. Tra il 2002 ed il 2005 furono molteplici, ovviamente, i casi in cui il suddetto schema fu applicato dalle banche italiane. Il caso che si commenta vede, infatti, una società stipulare con un’impresa bancaria un contratto di conto corrente e successivamente un contratto di finanziamento, sotto forma di mutuo, garantiti entrambi dal rilascio di due distinte fideiussioni (che prevedevano le clausole summenzionate poi dichiarate nulle dal provvedimento della Banca d’Italia), fino a concorrenza del doppio di quanto concesso a titolo di mutuo, che venivano sottoscritte personalmente da uno dei soci. La vicenda processuale ha inizio con la comunicazione da parte dell’istituto di credito alla società debitrice della risoluzione dei contratti, chiedendo la restituzione del relativo scoperto (per quanto afferiva al rapporto di conto corrente), depositando, pertanto, presso il Tribunale di Torino, ricorso per decreto ingiuntivo7, con il quale chiedeva anche la condanna in solido del socio al pagamento come fideiussore.
Il procedimento di ingiunzione è uno dei procedimenti sommari (a cognizione sommaria) ex artt. 663 e ss c.p.c. Con ricorso, il creditore di una somma liquida di denaro o di altre cose fungibili, domanda al giudice, inaudita altera parte, di pronunciare ingiunzione di pagamento o di consegna se del diritto che si fa valere si dà prova scritta (senza menzionare in questa sede i casi previsti dai numeri 2 e 3 del comma 1 dell’art. 633 c.p.c.). Contro l’ingiunzione il debitore può opporsi. 7
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Il Tribunale emetteva, quindi il richiesto provvedimento monitorio, nei confronti del quale l’intimato (socio) proponeva rituale opposizione8. Con successiva ordinanza, il procedimento veniva, tuttavia, sospeso – su istanza dell’opponente9, avendo il medesimo instaurato, nelle more del giudizio di opposizione, altro procedimento dinanzi alla Corte d’Appello di Roma. Il socio aveva, infatti, evocato dinanzi alla Corte d’Appello di Roma in unico grado, ai sensi della L. 10 ottobre 1990, n. 287, art. 33 l’istituto di credito, chiedendo dichiararsi radicalmente nulli, per violazione della L. n. 287 del 1990, art. 2, comma 2, lett. a), i contratti di fideiussione, e per l’effetto dichiararsi che nulla era dovuto dallo stesso socio all’istituto di credito convenuto, del quale chiedeva la condanna al risarcimento di tutti i danni subiti, patrimoniali e morali, nonché alla cancellazione del nominativo dell’attore dalla Centrale Rischi della Banca d’Italia. In via subordinata, ferma la richiesta di cancellazione dalla Centrale Rischi, il socio chiedeva dichiararsi la nullità, per violazione della L. n. 287 del 1990, art. 2, comma 2, lett. a), delle sole clausole contenute negli artt. 2, 6 e 8 dei predetti contratti di fideiussione ed il dichiararsi l’avvenuta decadenza dell’istituto di credito ex art. 1957 c.c.10
Con l’opposizione a decreto ingiuntivo si promuove un giudizio ordinario, non più a cognizione sommaria. 9 Ex art. 295 c.p.c. il giudice dispone la sospensione ogni qual volta che egli stesso o un altro giudice debbano risolvere una controversia dalla cui definizione dipende la causa. 10 Art. 1957 c.c.: “Il fideiussore rimane obbligato anche dopo la scadenza dell’obbligazione principale, purché il creditore entro sei mesi abbia proposto le sue istanze contro il debitore e le abbia con diligenza continuate. La disposizione si applica anche al caso in cui il fideiussore ha espressamente limitato la sua fideiussione allo stesso termine dell’obbligazione principale. In questo caso però l’istanza contro il debitore deve essere proposta entro due mesi. L’istanza proposta contro il debitore interrompe la prescrizione anche nei confronti del fideiussore”. La norma in questione definisce gli ambiti di operatività del principio di accessorietà della fideiussione e, tendenzialmente, opera una tutela nei confronti del fideiussore relativamente alla certezza temporale del proprio adempimento. Cfr. per maggiore chiarezza infra, §§ 3 e 6. 8
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L’istituto di credito, tramite una sua mandataria, chiedeva così il rigetto delle domande proposte dall’attore e l’accertamento della validità ed efficacia delle fideiussioni sottoscritte dal socio, nonché della piena legittimità della segnalazione del nominativo del medesimo alla Centrale Rischi della Banca d’Italia. Con sentenza n. 3746/2016, la Corte d’Appello di Roma così provvedeva: a) dichiarava la nullità, per violazione della L. n. 287 del 1990, art. 2, comma 2, lett. a), delle clausole contenute negli articoli n. 2, 6 e 8 dei contratti di fideiussione per cui è causa; b) respingeva la domanda di risarcimento del danno patrimoniale11; c) condannava la società procuratrice a risarcire il socio del danno non patrimoniale subito; d) ordinava la cancellazione della segnalazione del nominativo del socio alla Centrale Rischi della Banca d’Italia; e) condannava la procuratrice alle spese del giudizio di appello. Avverso tale pronuncia la suddetta procuratrice proponeva ricorso per Cassazione al quale il socio si opponeva con controricorso e memorie. Con ordinanza Interlocutoria n. 11486/2021, la Prima Sezione civile della Corte di Cassazione, investita del ricorso, rilevava che sulla questione relativa alla tutela riconoscibile al soggetto che avesse stipulato un contratto di fideiussione a valle, in caso di nullità delle condizioni stabilite nell’intesa a monte, per violazione della L. n. 287 del 1990, art. 2, comma, 2, lett. a), non vi fosse accordo in dottrina ed in giurisprudenza, essendosi – in sostanza – delineate tre soluzioni: a) nullità totale del contratto a valle; b) nullità parziale di tale contratto, ossia limitatamente alle clausole che riproducono le condizioni dell’intesa nulla a monte; c) tutela risarcitoria. La sezione, pertanto, rimetteva la controversia alle Sezioni Uni12 te , – ritenendo che la questione che ne costituiva oggetto fosse di
11 L’art. 33 della legge 287 del 1990 prevede la possibilità del private enforcement, la possibilità di esercitare le azioni di nullità e di risarcimento del danno in relazione alla violazione delle disposizioni sulle intese e sugli abusi di posizione dominante. Cfr. infra, § 2, per maggiori approfondimenti. 12 Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione nel processo civile, si pronunciano ai sensi dell’art. 374 c.p.c. quando è necessario dirimere contrasti insorti
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particolare valore nomofilattico, e rappresentasse, quindi, una questione di massima di peculiare importanza, anche in considerazione della frequente ricorrenza della fattispecie – perché venisse stabilito: 1) se la coincidenza totale o parziale con le condizioni dell’intesa a monte – dichiarata nulla dall’organo di vigilanza di settore – giustifichi la dichiarazione di nullità delle clausole accettate dal fideiussore, nel contratto a valle, o legittimi esclusivamente l’esercizio dell’azione di risarcimento del danno; 2) nel primo caso, quale sia il regime applicabile all’azione di nullità, sotto il profilo della tipologia del vizio e della legittimazione a farlo valere; 3) se sia ammissibile una dichiarazione di nullità parziale della fideiussione; 4) se l’indagine a tal fine richiesta debba avere ad oggetto, oltre alla predetta coincidenza, la potenziale volontà delle parti di prestare ugualmente il proprio consenso al rilascio della garanzia, ovvero l’esclusione di un mutamento dell’assetto d’interessi derivante dal contratto. Il Procuratore Generale ha concluso per l’accoglimento del primo e del secondo motivo, assorbito il terzo e rigettato il quarto.
2. Cenni sulla disciplina antitrust e sulla nullità delle intese Il tema centrale della decisione delle Sezioni Unite è senza dubbio la declaratoria di nullità delle summenzionate clausole dei contratti di fideiussione stipulati a valle di un’intesa dichiarata nulla a monte; prima di affrontare questo tema, è però necessario mettere in luce gli istituti fondamentali del diritto antitrust che interessano la sentenza 41994/2021. Si deve così sottolineare come l’ordinamento giuridico italiano si sia dotato solo13 nel 1990 di una normativa antitrust, con l’ado-
tra decisioni di singole sezioni e quando le questioni poste sono di speciale importanza nomofilattica. Per funzione nomofilattica si deve intendere il compito di garantire l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge e l’unità del diritto oggettivo nazionale (art. 65 R.D. 30 gennaio 1941 n. 12). 13 L’Italia è stata infatti l’unico membro, al pari della Turchia (The Act on the Protection of Competition No: 4054 del 7 dicembre 1994, G.U. 22140 del 13
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zione della L. 10 ottobre 1990, n. 287. Come è noto, infatti, la Costituzione repubblicana prevede, ai sensi dell’art. 41, sia la libertà dell’iniziativa economica, sia che quest’ultima non si ponga in contrasto con l’utilità sociale. Pertanto, in attuazione di tale articolo della Costituzione, le disposizioni della legge sulla concorrenza devono intendersi poste a tutela e garanzia del diritto di iniziativa economica e della sua utilità sociale14 in funzione della tutela dell’ordine giuridico ed economico del mercato15. Il mercato deve intendersi infatti come locus artificialis16, un luogo al tempo stesso di incontro tra domanda ed offerta per lo scambio di beni e servizi e un’istituzione con finalità e mezzi propri, come risulta dal complesso delle norme che ne regolano gli assetti. Le regole della concorrenza sono di conseguenza da rappresentarsi come gli strumenti che attuano il buon funzionamento del mercato17, in un’economia libera e di mer-
dicembre 1994), tra i paesi aderenti all’OCSE, in cui a quell’epoca non fosse stata adottata una normativa antitrust. 14 “A partire dagli anni Ottanta la normativa comunitaria sugli scambi ha moltiplicato le forme di protezione di situazioni seriali di debolezza contrattuale: consumatori, utenti di servizi, ma anche imprese minori”. Non serviva solo a riequilibrare situazioni giuridicamente squilibrate, ma a rimuovere ostacoli al buon funzionamento del mercato partendo dal basso, dalla tutela del consumo. “Con interventi dapprima marginali, le direttive hanno armonizzato il diritto contrattuale interno in un nuovo diritto dello scambio”. Il settore di intervento principale è stato la tutela del consumatore, con la predisposizione di strumenti giuridici capaci di riequilibrare rapporti contrattuali sbilanciati a causa di asimmetrie informative e di diverso potere economico tra le parti interessate. Tra i meccanismi volti a garantire tale risultato, vi sono le cd. nullità speciali di protezione. Questa rappresenta quindi il rimedio posto a presidio del contenuto minimo ed inderogabile del contratto del consumatore e volto, innanzitutto, a reagire all’introduzione di clausole abusive. Cfr. A. Gentili, I concetti nel diritto privato europeo, in Riv. dir. civ., 2010, p. 761 e ss. e Id., La nullità di protezione, in Europa, dir. prov., 2011, n. 4, p. 79. 15 N. Irti, L’ordine giuridico del mercato, Bari, V ed., 2009, p. 3; L. Einaudi, Lezioni di politica sociale (1944), Torino, 1975, p. 11-12. 16 M. Libertini, Concorrenza (voce), in Enciclopedia del diritto – Annali III, Milano, 2010, p. 208 e 237 e ss. 17 A. Zoppini, Autonomia contrattuale, regolazione del mercato, diritto della concorrenza, in G. Olivieri – A. Zoppini (a cura di), Contratto e antitrust, RomaBari, 2000, p. 3 ss.
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cato come quella delineata nel trattato di Lisbona18. La concorrenza è quindi un modello di mercato (il “libero mercato”)19, ovviamente non l’unico ma quello scelto dai paesi europei e dagli altri principali paesi operanti nel mercato globale. Il diritto della concorrenza non deve però intendersi come un risultato di un coerente sviluppo interno all’ordinamento giuridico italiano che, anzi, da un lato non intendeva la concorrenza tra i valori costituzionalmente garantiti (la lettura dell’art. 41 della Costituzione che abbiamo offerto in precedenza è recente) e dall’altro giustificava gli stessi interventi statali nel mercato come volano della crescita economica20. All’opposto, l’ordinamento euro-unitario nasce e cresce valorizzando il concetto di concorrenza tra imprese, facendo derivare dall’esperienza giudica anglosassone (principalmente americana), le regole sul private e sul public enforcement in materia di illeciti concorrenziali e di aiuti di Stato21. Le norme a tutela della concorrenza e del mercato22 recepiscono, infatti, integralmente gli artt. 81 e 82 del Trattato CE (oggi 101 e 102 TFUE) relativamente al divieto di intese e all’abuso di posizione do-
È il trattato di riforma del vecchio trattato CE; firmato a Lisbona il 13 dicembre 2007, si compone del Trattato dell’Unione europea (TUE) e del Trattato sul funzionamento del Unione Europea (TFUE) è entrato in vigore il primo dicembre 2009 con la finalità di ampliare i poteri del Parlamento europeo e di adeguare le istituzioni europee all’allargamento dell’Unione. 19 G. Alpa, Rules on competition and fair trading, in H. Collins (a cura di), The forthcoming EC Directive on Unfair Commercial Practices, Contract, Consumer and Competition Law Implications, L’Aia-Londra-New York, 2004, p. 100. 20 F. Ghezzi – G. Olivieri, Diritto Antitrust, II ed., Torino, 2019, pp. 16-23. 21 Secondo parte della dottrina, infatti, il diritto europeo sarebbe teso alla costruzione di un’armonizzazione minima di spiccato sapore liberistico nella costituzione di un diritto di cittadini-consumatori; viceversa, le costituzioni post belliche dei paesi membri manifestano molto chiaramente delle impronte solidaristiche, che vedono nei limiti all’autonomia privata la possibile realizzazione di una giustizia sociale. Per maggiori ragionamenti sul punto si veda lo stesso programma del Gruppo di studio sulla giustizia sociale nel diritto privato europeo, Giustizia sociale nel diritto contrattuale europeo: un manifesto, in Riv. crit. dir. priv., 2005, p. 99 e ss. 22 L. 10 ottobre 1990, n. 287, entrata in vigore il 14 ottobre 1990, in G.U. n. 240 del 13 ottobre 1990. 18
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minante, che, assieme al controllo delle concentrazioni23 (Reg. CE n. 139/2004), rappresentano i tre principali illeciti concorrenziali che tipicamente le imprese possono porre in essere. Per public enforcement si deve quindi intendere l’operato delle istituzioni, Commissione Europea e Enti regolatori interni – Banca d’Italia e AGCM nel caso di specie – che si estrinseca tramite l’erogazione di sanzioni e l’emanazione di provvedimenti, come quelli che comminano la nullità delle intese; invece, il private enforcement rappresenta il diritto del singolo – consumatore o imprenditore concorrente – di promuovere azioni finalizzate ad ottenere la nullità di accordi tesi a restringere la concorrenza o a chiedere il risarcimento del danno che gli illeciti concorrenziali generano24. L’ordinamento quindi da un lato istituisce soggetti che debbano controllare a monte il mercato e dotati di poteri regolatori e sanzionatori, dall’altro riconosce diritti soggettivi direttamente tutelabili in capo ai soggetti che interagiscono a valle. Viene quindi valorizzato, a fianco di quella di diritto amministrativo, l’operare della tutela di diritto privato25. Questo ricono Il controllo sulle concentrazioni si distingue dal divieto di intese o di abuso della posizione dominante. Le concentrazioni si attuano mediante fusione o acquisizione e non rappresentano degli illeciti di per sé stesse. La concentrazione è rilevante in termini euro-unitari e diventa illecita solo se supera determinate soglie previste dal Reg. (CE) n. 139/2004 del Consiglio – Controllo delle concentrazioni tra imprese. In Italia, le soglie di fatturato che rendono obbligatoria la comunicazione ad AGCM di una concentrazione sono state aggiornate il 21 marzo 2022 e ammontano a 517 milioni di euro per il fatturato realizzato nel territorio italiano dall’insieme delle imprese interessate e 31 milioni di euro per il fatturato totale realizzato individualmente a livello nazionale da almeno due delle imprese interessate (cfr. Provvedimento AGCM n. 30060 del 15 marzo 2022. 24 Cfr. M. Libertini, Le azioni civili contro gli illeciti antitrust, in Corr. giur., 2005, p. 1093 e ss. 25 Sul tema del rapporto tra diritto civile e diritto della concorrenza, la letteratura è vasta. Ex multis, si vd. M. Meli, Autonomia privata, sistema delle invalidità e disciplina delle intese concorrenziali, Milano, 2001, M. R. Maugeri, Violazione della disciplina antitrust e rimedi civilistici, Catania, 2006; E. Camilleri, Contratti a valle, rimedi civilistici e disciplina della concorrenza, Napoli, 2008; F. Longobucco, Violazione di norma antitrust e disciplina dei rimedi nella contrattazione a valle, Napoli, 2009; M. Onorato, Nullità dei contratti nell’intesa competitiva, Milano, 2012; G. Guizzi, I contratti a valle delle intese restrittive della concorren23
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scimento si basa sul fatto che i soggetti giuridici interagiscono a qualunque livello del mercato attraverso lo strumento per antonomasia riconosciuto all’autonomia privata, il contratto26. Questo27 è quindi da considerarsi come un elemento indifferibile del mercato perché è lo strumento che mette in contatto sia le imprese tra loro, che le imprese ed i consumatori28. Per riassumere, le norme antitrust disciplinano le modalità di interazione nel mercato; sono regole imperative esterne rispetto all’autonomia negoziale. Vi è però un “rapporto circolare che si determina, già sul piano semantico e poi normativo, tra il contratto, l’iniziativa economica, il mercato e la concorrenza29”. Descritte in via sommaria le origini ed il funzionamento del diritto della concorrenza, si sottolinea che il divieto di intese è previsto dall’art. 2 della L. 287 e dall’art. 101 TFUE. In sintesi, alle condotte tenute dalle imprese operanti in Italia possono essere applicati due sistemi di normative antitrust (all’interno del doppio binario che abbiamo visto correre tra public e private enforcement), quella europea e quella interna. Ma quali sono gli ambiti di applicazione?
za: qualche riflessione vingt ans après, aspettando le Sezioni Unite, in Corr. giur., 10/2021, p. 1173-1180 26 Cfr. M. Libertini, Autonomia privata e concorrenza nel diritto italiano, in Riv. dir. comm., 2002, I, p. 433 e ss. 27 Autonomia privata e concorrenza sono elementi che si correggono reciprocamente nella costruzione di un equilibrio complesso come quello che il diritto europeo ha cercato di produrre nelle condizioni istitutive di un’economia sociale di mercato. In questa logica si deve intendere lo sviluppo di una prospettiva rimediale del diritto europeo che ormai da anni si è imposta anche alle legislazioni nazionali. Si veda che i ragionamenti che seguono (cfr. infra, § 4) si basano proprio su questa premessa, la dilatazione della struttura dell’obbligazione contrattuale tramite l’inserimento di obblighi di protezione altro non rappresenta che, al di là dell’ovvia decostruzione della dogmatica della fattispecie, la soluzione di compromesso tra liberismo e solidarismo. 28 V. Zeno-Zencovich, Il diritto europeo dei contratti (verso la distinzione tra “contratti commerciali” e “contratti dei consumatori”), in Giur. it., 1993, IV, p. 57 e ss. 29 A. Zoppini, Autonomia contrattuale, regolazione del mercato, diritto della concorrenza, cit., p. 3.
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In materia di intese vi è una sovrapposizione degli ambiti di applicazione delle norme antitrust euro-unitarie, che fanno riferimento al pregiudizio al commercio30 tra Stati membri, e quelle interne, che si applicano alle intese che possono generare effetti sul mercato o su una parte rilevante del mercato nazionale. Questo problema è stato affrontato, ad esempio, dal legislatore tedesco che ha previsto il criterio c.d. della “doppia barriera”, in forza del quale si attua una sovrapposizione degli ambiti di applicazione per cui sarebbero applicabili sempre entrambe le normative; l’alternativa è quella della reciproca esclusione (c.d. “barriera unica”) che prevede una netta separazione degli ambiti applicativi. La soluzione italiana è, invece, quella che consente, anzi impone, di applicare da parte delle autorità nazionali il diritto europeo a tutte le fattispecie che anche potenzialmente pregiudichino il commercio tra Stati membri. Pertanto, l’applicazione del diritto interno avviene in via residuale. Bisogna però ricordare che si intendono per intese restrittive della libertà di concorrenza (nulle e vietate ad ogni effetto), ai sensi dell’art. 2 della L. 287/1990 – al pari del dispositivo dell’art. 101 TFUE –, gli accordi o le pratiche concordate tra imprese nonché le deliberazioni, anche se adottate ai sensi di disposizioni statutarie o regolamenti, di consorzi, associazioni di imprese ed altri organismi similari31. Sono quindi vietate le intese che abbiano per oggetto o per effetto quello di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante, anche attraverso attività consistenti nel: In tema di pregiudizio al commercio si ricorda il testo fondamentale di CG UE, 8/72, Vereening van Cementhandeleren, in Racc., 1972, 977; in cui la Corte di Giustizia dell’Unione Europea sostiene che un’intesa che abbracci l’intero territorio di uno Stato membro ha, per natura, l’effetto di rafforzare le compartimentazioni nazionali e di conseguenza ostacolare la compenetrazione economica voluta dal trattato ed altresì protegge i mercati nazionali. 31 Cass. civ., 1° febbraio 1999, n. 827: la distorsione può essere il frutto anche di comportamenti “non contrattuali” o “non negoziali”; è rilevante qualsiasi condotta di mercato purché condotta da almeno due imprese. 30
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a) Fissare direttamente o indirettamente i prezzi d’acquisto o di vendita ovvero altre condizioni contrattuali; b) Impedire o limitare la produzione, gli sbocchi o gli accessi al mercato, gli investimenti, lo sviluppo tecnico o il progresso tecnologico; c) Ripartire i mercati o le fonti di approvvigionamento; d) Applicare, nei rapporti commerciali con altri contraenti, condizioni oggettivamente diverse per prestazioni equivalenti, così da determinare per essi ingiustificati svantaggi nella concorrenza; e) Subordinare la conclusione di contratti all’accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari che, per loro natura o secondo gli usi commerciali, non abbiano alcun rapporto con l’oggetto dei contratti stessi. Ciò visto, si può agilmente comprendere perché la Banca d’Ita lia, con il provvedimento n. 55 del 2005, abbia rilevato che le determinazioni di un’associazione di imprese atte a coordinare il comportamento di imprese tra loro concorrenti comporterebbero una restrizione della concorrenza significativa nel dato mercato rilevante32. Quest’ultimo, in questo caso, è infatti da considerarsi l’intero sistema bancario italiano e ABI associa un elevatissimo numero di istituti bancari, pressoché la totalità degli operatori (public enforcement). Dal punto di vista sostanziale, le clausole dichiarate nulle sono clausole che determinano un aggravio economico indiretto, in termini di minore facilità di accesso al credito e accrescono il costo
32 Il mercato rilevante combina il mercato del prodotto e il mercato geografico. Il primo è rilevante quando comprende tutti i prodotti e/o servizi che sono considerati intercambiabili o sostituibili dal consumatore, in ragione delle caratteristiche dei prodotti, dei loro prezzi e dell’uso al quale sono destinati. Il mercato geografico invece comprende l’area in cui le imprese interessate forniscono o acquistano prodotti o servizi, nella quale le condizioni di concorrenza sono sufficientemente omogenee. La Commissione Europea ha, nel corso del tempo, individuato diversi criteri che contribuiscono ad analizzare il comportamento delle imprese e le condizioni di concorrenza di un dato mercato rilevante. Cfr. per maggiori informazioni sul punto, Comunicazione della Commissione sulla definizione del mercato rilevante ai fini dell’applicazione del diritto comunitario in materia di concorrenza, in G.U. n. C372 del 9 dicembre 1997, pp. 0005–0013.
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complessivo del finanziamento per il debitore, che dovrebbe anche remunerare il maggior rischio assunto dal fideiussore. Non altrettanto facilmente si possono verificare i passaggi logici che segue la presente Cassazione a Sezioni Unite (azionata nel solco del private enforcement) nel riconoscere le nullità delle clausole dei contratti di fideiussione a valle che ripetono le suindicate clausole. Pertanto è opportuno svolgere di seguito un’analisi approfondita degli istituti che vengono presi in considerazione, della loro evoluzione dommatica e, infine, delle conclusioni originali a cui perviene la Suprema Corte.
3. La disciplina civilistica della fideiussione Compreso il funzionamento del diritto della concorrenza sia in termini generali che relativamente al tema della nullità delle intese restrittive vietate dall’ordinamento italiano ed europeo, si esaminano di seguito gli istituti civilistici della fideiussione e della nullità al fine di dotare il lettore degli strumenti necessari a comprendere i passaggi logici e le soluzioni sposate dalla Suprema Corte di Cassazione nella sentenza in commento. Entrambi gli istituti si inseriscono all’interno della trattazione del tema vasto del contratto, uno (la fideiussione) come forma di manifestazione dell’autonomia privata tipizzata dall’ordinamento, l’altro (la nullità) come forma più radicale di invalidità del negozio giuridico. Entrambi gli istituti offrono vasti spunti di riflessioni sotto diversi profili; in questa sede, ci si limita a offrirne le definizioni generali e la disciplina più rilevante per le ipotesi in commento. La fideiussione, senza dubbio, si definisce come un contratto di garanzia33. Questo è caratterizzato dalla funzione di garanzia e dalla terzietà del prestatore rispetto al rapporto da garantirsi. In altre 33 La forma che comunemente va sotto il nome di contratto autonomo di garanzia (o garanzia “a prima richiesta”) è invece una figura contrattuale atipica, anch’essa diffusa nella prassi bancaria. Sull’ammissibilità dell’istituto si vedano ex multis, Cass. civ., 1° ottobre 1987, n. 7341, 1988, II, p. 1 ss.; Cass. civ., 11 febbraio
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parole, il creditore, al fine di ridurre il rischio che il debitore non adempia alle obbligazioni assunte, può stipulare un contratto di garanzia con un terzo. Quest’ultimo, detto fideiussore, garantisce con il proprio patrimonio l’adempimento dell’obbligazione altrui (art. 1936 c.c.) 34. Definita la causa del contratto e la sua funzione all’interno del l’ordinamento, sebbene in termini generalissimi, si osserva, dalla lettura del codice civile che vi sono altri elementi peculiari di tale forma di garanzia che conviene comunque esaminare in questa sede. La garanzia prestata è infatti caratterizzata dal requisito della personalità, nel senso che il fideiussore risponde delle obbligazioni assunte dal debitore principale con tutto il suo patrimonio conformemente a quanto disposto dall’art. 2740 c.c. Sono, inoltre, parti del contratto solamente il fideiussore ed il creditore; restando quindi estraneo al contratto il debitore principale, il fideiussore assume pertanto un’obbligazione dotata di accessorietà35 rispetto a quella principale. Quest’ultimo elemento, l’accessorietà, caratterizza, giocoforza, la causa stessa del contratto che consiste nell’assunzione in garanzia di un debito altrui, a cui consegue necessariamente che l’invalidità dell’obbligazione principale debba comportare l’invalidità della stessa fideiussione. Un altro elemento da prendere in considerazio1998, n. 1420, in Banca Borsa, 1999, II, p. 265; Cass. civ., 16 novembre 2007, n. 23786, in Nuova giur. Comm., 2008, I, p. 742. 34 La causa che giustifica l’impegno di garanzia assunto prevalentemente a titolo gratuito da parte del fideiussore si identifica nel rafforzamento del credito. Sulla causa della fideiussione si veda M. Fragali, Fideiussione, in Enc. dir., XVII, Milano, 1968, p. 355 e ss., che afferma: “lo scopo di garanzia prende tutto il negozio, e ad esso resta asservita l’obbligazione personale che il fideiussore assume”; e sulla diatriba che si è registrata in dottrina, si veda, M. Lobuono, I contratti di garanzia, in Trattato di diritto civile del consiglio nazionale del notariato, a cura di P. Perlingieri, Napoli, 2007, p. 49 e ss. 35 In conclusione, si può affermare che la causa di garanzia di un’obbligazione altrui, come quella che sorregge espressamente il contratto di fideiussione, è costante, uniforme, autonoma e distinta rispetto alla causa del rapporto principale, che è, invece, variabile in funzione dei diversi tipi di negozio. Ciò nonostante vi è un nesso di accessorietà fra obbligazione di garanzia e obbligazione garantita, ma opera solo sul piano funzionale. Vd. G. Bozzi, La fideiussione, Torino, 2013, p. 170.
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ne è quello della solidarietà, infatti, lo stesso effetto del contratto di fideiussione è quello di obbligare in solido il terzo fideiussore con il debitore principale all’adempimento nei confronti del creditore (art. 1944 c.c.); la solidarietà, e più in generale il vincolo che si crea tra terzo fideiussore e debitore principale, comporta l’applicazione di una precisa disciplina in tema di surrogazione e di regresso, che si rende peculiare ai sensi dell’intero ordinamento civilistico tramite l’istituto del rilievo36 del fideiussore. Nello specifico della prassi operativa del mercato, si sottolinea che le banche fanno, solitamente, largo uso di questo tipo di contratto di garanzia, richiedendone la stipulazione a fronte della conclusione di tutte le forme contrattuali bancarie e di finanziamento. Relativamente a questa prassi, si adotta comunemente la forma speciale c.d. omnibus, come, tra l’altro, nel caso che si sta commentando. Con quest’ultima forma di fideiussione si indica quindi la garanzia prestata all’esposizione debitoria di un soggetto verso la banca37 per i più diversi rapporti di finanziamento ricevuti dalla banca stessa. La base normativa è rappresentata dalle disposizioni dell’art. 1938 c.c., che consente di prestare una fideiussione anche per un’obbligazione condizionale o futura, con la previsione, in quest’ultimo caso, dell’obbligo di previsione di un importo massimo garantito e a condizione che siano determinati i soggetti dell’obbligazione principale. La caratteristica fondamentale di questa particolare forma di fideiussione è quindi rappresentata dal fatto che in questo caso le obbligazioni assunte non sono finalizzate alla garanzia di uno specifico debito, bensì a garantire tutti i debiti presenti e futuri del debitore principale nei confronti della banca. Nella prassi si osserva molto Oltre ai rimedi restitutori (surroga e regresso) successivi all’esecuzione della prestazione, il rilievo costituisce un rimedio preventivo e cautelativo. Secondo l’art. 1953 c.c. il fideiussore, anche prima di aver pagato, può agire in giudizio contro il debitore perché questo gli procuri la liberazione o, in mancanza, presti le garanzie necessarie per assicurargli il soddisfacimento delle eventuali ragioni di regresso in determinati casi. 37 La giurisprudenza ritiene che però la forma omnibus possa essere prestata anche in favori di soggetti non bancari (Cass. civ., III, 17 luglio 2002, n. 10400). 36
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comunemente che proprio il socio (o tutti i soci) personalmente, di una società indebitata (che gode del privilegio della limitatezza della responsabilità), presti tale forma di fideiussione. È peculiare il fatto che l’oggetto del contratto sia rappresentato da un debito non ancora determinato e che potrà determinarsi in dipendenza del sorgere di eventi futuri, indipendenti dal fatto del fideiussore. Questa peculiarità, ovvero l’indeterminatezza dell’obbligazione garantita, ha spinto più volte la dottrina a ritenere nullo38 l’intero schema della fideiussione omnibus. La Cassazione ha, invero, escluso l’invalidità dell’istituto, ritenendo che l’oggetto della garanzia se pur non perfettamente determinato è pur sempre determinabile per relationem39. Pertanto, viene ritenuta inefficace la fideiussione omnibus nel momento in cui la banca, pur consapevole dell’insolvenza o della mera insufficienza patrimoniale del debitore principale, continui a tenere aperte le linee di credito facendo però affidamento sulla capacità patrimoniale del fideiussore40. Infine, bisogna segnalare che l’art. 10 della L. 17 febbraio 1992, n. 154, al fine di limitare l’abusivo ricorso a tale forma di fideiussione a garanzia di obbligazioni future, prevede limiti quantitativi, un tetto massimo di garanzia fideiussoria41.
G. Stolfi, In tema di fideiussione per debiti futuri, in Riv. Dir. comm e obbligazioni, 1971, I, p. 225 e ss.; F. Galgano, Trattato di Diritto Civile, Padova, 1984, p. VII, p. 8 e ss.; all’opposto, per una validità dell’istituto, si vd. P. Rescigno, Il problema della validità della fideiussione omnibus, in Banca Borsa, 1972, 2, p. 22 e ss. e F. Benatti, il contratto autonomo di garanzia, in Banca Borsa, 1982, I, p. 171 e ss. 39 Ex multis, Cass. civ., 1° agosto 1987, n. 6656, in Banca Borsa, 1989, II, p. 537 e ss.; Cass. civ., 25 agosto 1992, n. 9839, in Foro. it.,1993, I, p. 2172 e ss.; Cass. civ., 5 giugno 2001, n. 7587, in Banca Borsa, 2002, II, p. 531 e ss. 40 In questo caso la banca viene meno ai doveri di correttezza e buona fede, artt. 1175 e 1375 c.c. 41 L’art. 1938 c.c. viene modificato con la previsione dell’importo massimo garantito dall’art. 10 della L. 17 febbraio 1992, n. 154, relativo alla trasparenza delle operazioni bancarie, a decorrere dal 7 luglio 1992. 38
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4. Dalla nullità alle nullità, nuovi strumenti di tutela Esaurita, per quanto possa risultare sufficiente in questa sede, la trattazione dell’istituto della fideiussione si prende in considerazione il tema dell’invalidità del negozio giuridico, nella sua forma più radicale, la nullità. In questo caso, a differenza della lettura manualistica che si è proposta in precedenza, occorre soffermarsi su determinati sviluppi normativi ed interpretativi che hanno radicalmente modificato, nel corso del tempo, la definizione e la disciplina dell’istituto. Infatti, risulta in modo netto dalla lettura della stessa massima della sentenza in commento che le clausole summenzionate si devono ritenere inefficaci in virtù di una nullità speciale non necessariamente parziale. In termini dogmatici, questa forma di nullità risulta una novità assoluta e si giustifica sul presupposto di una necessità di tutela da parte dell’ordinamento dell’“ordine pubblico economico” e si differenzia dalle molteplici forme di nullità che l’ordinamento già conosceva. In via preliminare, è d’uopo segnalare al lettore che il tema nasconde numerose insidie di carattere interpretativo e definitorio; innanzitutto, all’interno della così detta categoria dell’invalidità42, si individuano due istituti, la nullità e l’annullabilità, che vanno tecnicamente distinti per cause ed effetti; in secondo luogo, dal momento in cui sono entrate in vigore le disposizioni del diritto contrattuale europeo in tema di nullità delle clausole vessatorie, non si può più parlare di nullità, intesa come categoria unitaria (e al tempo stesso di distinzioni nette con l’istituto dell’annullabilità), ma, anzi, risul42 Il diritto positivo non conosce una categoria dell’atto o del contratto invalido, questa è una creazione dottrinale che nasce e si sviluppa nella teoria del negozio giuridico (cfr. C.M. Mazzoni, Invalidità, in Enc. giur., XIX, Roma, 2007, p. 1). Il codice civile conosce invece le categorie della nullità, dell’annullabilità, della rescissione e della risoluzione all’interno della disciplina del contratto in generale. Di queste, solo le prime due hanno condotto la dottrina a generalizzare una figura più ampia e ad elaborare una teoria dell’invalidità, per cui nullità e annullabilità sono da considerarsi categorie normative dei difetti del negozio giuridico (cfr. G. Filanti, Nullità, in Enc. giur., XIII, Roma, 2004, p. 1). La nozione è quindi da intendersi eminentemente descrittiva.
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terebbe più corretto definire questo tipo di invalidità in un schema meno rigido fatto di una moltitudine di nullità speciali. Entrambe queste considerazioni si legano all’accettazione di una teoria che non considera più in essere il divario che la dottrina classica ravvisava tra nullità e annullabilità43. Ciò detto, per iniziare a sciogliere questi problemi conviene dare al lettore la possibilità di comprendere le differenti rationes sottese dal legislatore agli istituti della nullità e dell’annullabilità: se, infatti, da un lato, l’ordinamento giuridico rende possibile ai consociati, manifestare per mezzo di atti e negozi giuridici la più ampia autonomia (1322 c.c.), dall’altro pone dei limiti a quest’ultima, prescrivendo sanzioni nel caso di un loro superamento o violazione. L’invalidità, come conseguenza, deve pertanto intendersi come un rimedio – o, meno comunemente, come una sanzione44 – e viene in considerazione ogni qual volta il negozio, o l’atto giuridico, concretamente posto in essere, risulti difforme dai modelli tipizzati o si manifesti in modo tale da risultare lesivo di interessi di parte di regola tutelati. Si noti che non verranno, in questa sede valutati gli effetti dell’invalidità e non ci si soffermerà sulla qualificazione della nullità come sanzione o rimedio, discernendo tra inefficacia ed inesistenza45 del Cfr. R. Sacco, Nullità e annullabilità (Dir. civ.), in Nss. D.I., XI, Torino, 1965, p. 463 e ss. 44 Si sarebbe infatti diffusa la concezione che considera la nullità come la qualificazione, sia pure negativa, dell’atto che va quindi considerato nullo, ma al tempo stesso giuridicamente rilevante (può produrre degli effetti e non è inesistente). L’atto imperfetto dovrebbe quindi presentare degli elementi positivi affinché possa qualificarsi come nullo e non meramente irrilevante. In quest’ottica, la nullità assolverebbe allo scopo di una sanzione graduata variamente a seconda dell’inosservanza delle prescrizioni normative. vd. G. Filanti, Nullità, cit., p. 2; Id., Inesistenza e Nullità del negozio giuridico, Napoli, 1983, p. 33; R. Scognamiglio, Contributo alla teoria del negozio giuridico, II ed., Napoli, 1969, p. 363 e ss. 45 Per dovere di completezza si segnala che il tema è forse il più preso in considerazione dalla dottrina. Infatti, il limite giuridico dell’operatività della nullità è stato delimitato dal concetto di inesistenza, solo di recente. L’inesistenza traduce una vuota apparenza di una fattispecie che, non producendo effetti, non viene ad esistere. Non produce cioè effetti neppure negativi. Tuttavia, la categoria non aiuta a risolvere i problemi che riguardano la rilevanza del negozio nullo. Cfr. F. 43
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negozio nullo poiché sono tematiche che non afferiscono direttamente al caso in commento; in termini sistematici, invece, occorre soffermarsi sulle cause e sulle caratteristiche che sembrano segnare marcatamente la ricevibilità dell’istituto della nullità speciale, valutando gli orientamenti dottrinari che da un lato hanno considerato come fondamentali i contorni normativi che testualmente possono rintracciarsi nel codice per distinguere nullità e annullabilità, dall’altro le tesi che hanno permesso di non ravvisare più tale divario. Si è soliti riferirsi a queste distinzioni affermando che mentre la nullità opererebbe solo nei confronti di interessi protetti di ordine generale, l’annullabilità conseguirebbe alla violazione di regole che si indirizzano alla tutela dell’interesse di una parte del negozio46. Pertanto, mentre le cause di nullità del negozio giuridico sembrano essere molteplici, il legislatore avrebbe, all’opposto, optato per un’elencazione tassativa a riguardo dei casi di annullabilità. Riprova di ciò si ritrova, infatti, proprio nel testo dell’art. 1418, c. 1 c.c., nella disposizione normativa in cui si afferma che “il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente”47. È così divenuta prassi affermare che la nullità virtuale operi anche nei confronti di fattispecie48 omoge-
Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, XI ed., Napoli, 1978; a contrario, cfr. G. Filanti, Nullità, cit., p. 1 e ss.; Id., Inesistenza e Nullità del negozio giuridico, cit, p. 1 e ss. 46 Cfr. R. Sacco, Nullità e annullabilità (Dir. civ.), in Nss. D.I., XI, Torino, 1965, p. 464; G. Filanti, Nullità, cit., p. 1-2. G. Passagnoli, Nullità Speciali, Milano, 1985, p. 9-22. 47 Si segnala per completezza che il c. 2 dell’art. 1418 prevede l’ipotesi della nullità strutturale: “Producono nullità del contratto la mancanza di uno dei requisiti indicati dall’articolo 1325, l’illiceità della causa (1343), l’illiceità dei motivi nel caso indicato dall’articolo 1345 e la mancanza nell’oggetto dei requisiti stabiliti dall’articolo 1346”. 48 La teoria della fattispecie, notoriamente, si radica nella pandettistica e si sviluppa nella civilistica tedesca. Si definisce come il complesso dei presupposti necessari per veder sorgere l’effetto giuridico o la conseguenza prevista dalla norma. Cfr. L. Enneccerus, Lehrbuch des bürgerlichen Rechts, Marburg, 1928, p. 325 e ss.; F. Endemann, Lehrbuch des bürgerlichen Rechts, Berlino, 1903, p. 258. In Italia è recepita come “l’insieme degli elementi del fatto che alla stregua del diritto, sono rilevanti per la sua efficacia”; così, R. Scognamiglio, Fatto giu-
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nee nella ratio e, tuttavia minus quam perfectae, in quanto sprovviste di espressa comminatoria di invalidità (manca la violazione della norma imperativa ma si tutelano comunque interessi di rango superiore a quelli esplicitati dalle parti nel regolamento negoziale); mentre sarebbe da intendersi assolutamente testuale l’annullabilità, la quale è prevista per le ipotesi di cui agli artt. 1425, 1426 e 142749 c.c. Questo punto di arrivo, che giustifica quindi l’esistenza, in termini generalissimi, anche di forme speciali di nullità, non solamente in correlazione alla violazione di norme imperative, si scontra con una caratteristica che storicamente si ascrive al concetto di nullità: l’assolutezza. La nullità è stata infatti considerata in termini unitari
ridico e fattispecie complessa (considerazioni critiche intorno alla dinamica del diritto), in Riv. trim. dir. proc. civ., 1954, p. 331. Questa teoria sebbene abbia fornito alla dottrina un insostituibile strumento interpretativo, ha comunque determinato una certa ambiguità rispetto alla teoria generale del negozio (cfr per esaustività sul punto, De Giovanni, Fatto e valutazione, nella teoria del negozio giuridico, Napoli, 1958, pp. 11, 21, 23, 35, 59). In concreto, essa ha inciso sul punto della qualificazione dell’ormai desueta concezione unitaria della nullità (cfr. G. Passagnoli, Nullità Speciali, cit., p. 10-11-12). Il processo di codificazione tedesco, non di meno, si è mosso su altri orizzonti, almeno per quanto afferisce al risvolto pratico dell’operatività dell’istituto della nullità. Infatti, il §139 del B.G.B. assume la nullità totale come conseguenza di principio della nullità di una parte del contratto, e considera, invece, eccezionale l’incidenza soltanto parziale di quest’ultima (cfr. K. Larenz, Allgemeiner Teil des bürgerlichen Rechts, Munchen, 2016, pp. 450-451). La soluzione codicistica tedesca si pone dunque in netto contrasto con le regole di diritto comune – che hanno favorito lo sviluppo della teoria della fattispecie – (B. Windscheid, Diritto delle Pandette, trad. it., Torino, 1902, p. 333) secondo le quali utile non debet per inutile vitiari. Per chiarezza, va sottolineato che tale principio era stato invece recepito nella giurisprudenza pratica italiana del passato, vd. Cass. civ., 26 giugno 1987., n. 5675, in Foro it., 1988, I, c. 170. 49 Neppure l’annullabilità presenta, però, un’uniformità di disciplina assoluta; vi sono altre ipotesi, oltre a quelle del contratto annullabile per errore, violenza o dolo, come quella prevista dall’art. 117 in cui la legittimazione ad agire sembra aperta ad una moltitudine di soggetti, o, addirittura a chiunque ne abbia interesse, come gli artt. 1411, c. 2 e 591 c. 3. Allo stesso modo delle figure intermedie di nullità (parziale, relativa, sanabile) queste ipotesi di annullabilità inducono alla conferma della flessibilità della contrapposizione tra le due figure tipiche di invalidità.
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della dottrina maggioritaria50 sino all’entrata in vigore della direttiva della Comunità Europea 1999/44/CE51. Il punto centrale del dogma dell’assolutezza si fondava sull’assunto monolitico della negatività del contratto nullo (poiché manca o è viziato un elemento essenziale o costitutivo o intrinseco del negozio52), per cui si verificava, come conseguenza, la previsione legislativa (artt. 1421 e 1422 c.c.) di una legittimazione ad impugnare il negozio nullo in capo a chiunque ne avesse interesse (non solo le parti) e che lo stesso giudice, ex officio, potesse rilevare la nullità e rendere quindi privo di
50 Sul punto si veda l’esaustiva rassegna operata in G. Passagnoli, Nullità Speciali, cit., nota 2, p. 1. 51 L’attività della Comunità (ora Unione) di grande risalto, in questo senso si vd. in termini sistematici la Direttiva 1999/44/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 maggio 1999, su taluni aspetti della vendita e delle garanzie dei beni di consumo, del 25 maggio 1999, in G.U. L. 171 del 7 luglio 1999, p. 0016, che viene attuata in Italia con il D.L. 2 febbraio 2001, n. 235. G.U. n.49 del 28 febbraio 2001. Inoltre, ex multis, si vd. anche Direttiva 85/577/CEE del Consiglio del 20 dicembre 1985 per la tutela dei consumatori in caso di contratti negoziati fuori dei locali commerciali; Direttiva 84/450/CEE del Consiglio del 10 settembre 1984 relativa al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati Membri in materia di pubblicità ingannevole; Direttiva 90/314/CEE del Consiglio, del 13 giugno 1990, concernente i viaggi, le vacanze ed i circuiti «tutto compreso»; Direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori; Direttiva 94/47/CE del Parlamento europeo E del Consiglio, del 26 ottobre 1994, concernente la tutela dell’acquirente per taluni aspetti dei contratti relativi all’acquisizione di un diritto di godimento a tempo parziale di beni immobili; Direttiva 97/7/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 maggio 1997 riguardante la protezione dei consumatori in materia di contratti a distanza; Direttiva 98/7/ CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 febbraio 1998 che modifica la direttiva 87/102/CEE relativa al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri in materia di credito al consumo; Direttiva 97/55/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 6 ottobre 1997 che modifica la direttiva 84/450/CEE relativa alla pubblicità ingannevole al fine di includervi la pubblicità comparativa; Direttiva 98/6/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 febbraio 1998 relativa alla protezione dei consumatori in materia di indicazione dei prezzi dei prodotti offerti ai consumatori; Direttiva 97/5/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 27 gennaio 1997 sui bonifici transfrontalieri. 52 Cfr. E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, in Tratt. Vassalli, XV, 2, III rist. della II ed., Torino, 1960, p. 468 e ss.
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effetti ab origine l’intero negozio, ponendo nel nulla il risultato viziato dell’autonomia privata. La critica alla concezione della nullità come qualificazione negativa e, più in generale, a qualunque graduazione del trattamento dei difetti del negozio, così da non ritrovare un fondamento comune positivo all’istituto, si fa strada nella dogmatica e permette l’affermarsi dell’idea stessa di riferirsi alla nullità in termini relativi53. Questa teoria si inizia a configurare nel preciso momento in cui lo schema negativo summenzionato si presentava inadeguato riguardo a diverse regole operative poste dal Codice stesso e da determinate ipotesi previste nelle legislazioni speciali che introducevano le così dette nullità di protezione. A tal riguardo si noti che questa seconda visione dogmatica vede come conseguenza quella di giustificare anche le forme relative di legittimazione passiva che si sono delineate nella legislazione consumeristica. Storicamente, si individua nelle così dette ipotesi di inderogabilità relativa dei contratti di assicurazione, di lavoro individuale, di agenzia, in materia locatizia e nei contratti bancari l’inizio del superamento della tradizionale equazione istituita tra il generico interesse pubblico e la nullità del negozio tout court. Ma i casi più significativi rimangono quelli previsti dalle disposizioni consumeristiche relative alla nullità delle clausole vessatorie non sottoscritte espressamente54. Le tesi dottrinarie che sposano questa idea, quindi il superamento del dogma monolitico dell’assolutezza della nullità, si fanno forza del dato testuale offerto anche dalle previsioni della L. 18 giugno 1998, n. 19255. All’interno del tema dell’assolutezza e della relativa
Cfr. S. Schlossmann, Zur Lehre vom Zwange, Lipsia, 1874, p. 7 e ss.; M. Pescatore, Filosofia e dottrine giuridiche, Torino, 1874, p. 227 e ss.; L. Puccini, Studi sulla Nullità relativa, Milano, 1967, p. 1 e ss.; N. Irti, Due saggi sul dovere giuridico (Obbligo – onere), Napoli, 1973, p. 100 e ss.; M. Allara, La teoria generale del contratto, II ed., rist., Torino 1955, p. 47 e ss. 54 Art. 36 “Nullità di protezione”, D.L. 6 settembre 2005, n. 206 (codice del consumo, a norma dell’art. 7 L. 29 luglio 2003, n. 229), G.U. n. 235 dell’8 ottobre 2005 – S.O. n. 162, (ult. agg. 17 gennaio 2022). 55 L. 18 giugno 1998, n. 192, G.U. n. 143 del 22 giugno 1998 (ult. agg. 25 novembre 2016), Disciplina della subfornitura nelle attività produttive. 53
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accettazione delle forme di nullità relative o speciali, si deve porre attenzione anche al problema della nullità parziale. L’art. 1419 c. 1 c.c., prevede che la nullità parziale di un contratto o la nullità di singole clausole comporti la nullità dell’intero contratto, se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto che è colpita da nullità. Inoltre, al secondo comma, si esprime il principio di conservazione degli effetti del contratto per cui la nullità di singole clausole non importa la nullità del contratto quando le clausole nulle sono sostituite di diritto da norme imperative. Il principio succitato tende ad evitare che il negozio concluso, pur affetto da difetti, nella misura vista in precedenza, sia posto integralmente nel nulla. L’autonomia privata pertanto può o essere sostenuta, non rilevandosi in questi casi l’invalidità dell’intero negozio, o negata attraverso la sostituzione di diritto delle norme imperative applicabili. Verificare l’operatività in concreto di questa regola giuridica comporta un’indagine riguardante la volontà dei soggetti e a tal fine vengono in considerazione anche ipotetici collegamenti negoziali, come nel caso in commento. Con riguardo alle nullità di protezione, si è in effetti dibattuto a lungo circa l’adeguatezza della nullità, in difetto di norme imperative sostitutive che rendano applicabile il secondo comma dell’art. 1419 c.c., nel dar tutela al contraente debole (protetto); infatti, si è diffusa la tesi che dall’impiego della nullità possa derivare il paradossale risultato dell’invalidità totale del contratto, impedendo così allo stesso contraente la possibilità di vedere soddisfatto l’interesse sostanziale cui era, per parte sua, preordinata la conclusione del negozio, venendo invece incontro al contraente forte, ponendo nel nulla l’intero negozio56.
Sul tema infatti la dottrina si è già consolidata ed ha espresso, sin da subito, in materia di nullità di clausole vessatorie non espressamente approvate i problemi legati all’applicazione dell’art. 1419 c.c. cfr. M. Nuzzo, Predisposizioni di clausole e procedimento di formazione del contratto, in Studi in onore di Francesco SantoroPassarelli, III, Napoli, 1972, p. 549 e ss.; G.B. Ferri, Nullità parziale e clausole vessatorie, in Riv., dir. comm., 1977, I, p. 11 e ss.; G. Passagnoli, Nullità Speciali, cit., pp. 1-9. 56
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D’altra parte, bisogna però sempre ricordare che gli schemi logici argomentativi, soprattutto quelli basati sulla dicotomia regola-eccezione, raramente riescono a descrivere a pieno i fenomeni giuridici. Infatti, nel quadro della sovraesposta evoluzione dogmatica ed in forza delle novità introdotte dal diritto privato europeo, i concetti che a tutta prima sembravano meno flessibili risultano invece oggi capaci di adattarsi meglio alle fattispecie concrete, come nella soluzione prospettata dalla Suprema Corte nel caso in commento. In concreto, si sono venute a moltiplicare nuove forme tipiche e virtuali di nullità che, peraltro, sembrano divergere in modo significativo dalla disciplina generale della nullità codicistica. Anzi, le nullità di protezione, come abbiamo visto, sembrano differire anche rispetto alla funzione originale dell’istituto. Si può certamente affermare che pensare la nullità nei termini desueti, propri della teoria della fattispecie e legati, dal punto di vista funzionale, all’idea del fondamento unitario dell’istituto nel solo interesse pubblico, astratto se non, persino, contrapposto rispetto a quello dei contraenti, risulti oggi, alla luce di quanto sovraesposto, decisamente superato. È, più che altro, opportuno, invece, ritenere operante una prospettiva che configura la nullità come disciplina variegata (non partendo più quindi dalle sue cause per stabilirne i limiti operativi), in tutto o in parte congruenti, non solo con la ratio delle singole norme che entrano in gioco (norme imperative), ma anche con i principi supremi dell’ordinamento (come nel caso di specie, il mercato, anzi, il corretto funzionamento del mercato) e con il regolamento negoziale predisposto dai privati in ragione della gradazione dei diversi interessi in gioco (come nella tutela consumeristica). Le nullità speciali pongono quindi un problema di disciplina e non più di giustificazione dogmatica. Rispetto alle nullità di protezione o nella tutela dei contratti con asimmetrie ci si pone quindi la questione circa la loro imprescrittibilità57, legittimazione, sana Vd. Cass. civ., 12 dicembre 2014, n. 26242 e Cass. civ., 12 dicembre 2014, n. 26243 che si focalizzano sulla questione dell’“individuazione delle condizioni per la formazione e l’estensione dell’efficacia del c.d. giudicato implicito esterno 57
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bilità58 e rilevabilità d’ufficio59. Il problema, relativamente a questa nuova nullità speciale, è quindi comprendere, al di là dell’espressa o meno riconduzione dell’operatività dell’istituto all’art. 1418 c.c., quale sia la disciplina corretta da applicarsi: quella della nullità assoluta o quella relativa, parziale o che si estenda all’intero negozio. La Corte non prende posizioni esplicite60, anzi, si rifà al testo dell’art. 1419 c.c., affermando che “in relazione alle sole clausole contrastanti con la l. n. 287 del 1990, art. 2, comma 2, lett a) e art. 101 del trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, sono parzialmente nulli i contratti di fideiussione a valle di intese dichiarate parzialmente nulle dall’autorità garante, ai sensi dell’art. 2, comma 3 delle legge succitata e dell’art. 1419 c.c., in relazione alle sole clausole che riproducano quelle dello schema unilaterale costituente l’intesa vietata, salvo che sia desumibile dal contratto, o sia altrimenti comprovata, una diversa volontà delle parti”; ovviamente, si fa salva la possibilità di dichiarare nullo l’intero contratto di fideiussione nel caso in cui, come previsto dallo stesso art. 1419 c.c., risultasse che riguardante la sentenza di rigetto della domanda di risoluzione rispetto alla successiva azione di nullità concernente lo stesso contratto”. Pertanto, ne discende la rilevabilità d’ufficio da parte del giudice (art. 99 e112 c.p.c.) e, tuttavia, “qualora le parti, all’esito di tale indicazione officiosa, omettano un’espressa istanza di accertamento in tal senso, (il giudice) deve rigettate la pretesa non potendo valutare le loro determinazioni espresse nel processo” (cfr. Cass. civ., 18 giugno 2018, n. 16501). 58 Vd. Cass. civ., 27 aprile 2017, n. 10447: “la nullità di protezione palesa caratteri affatto speciali – sopra tutte, appunto, la facoltà di farla valere solo da parte del contraente a cui favore è dettata, con l’eventualità, quindi di una sanatoria “di fatto” del negozio”. Nel medesimo senso si veda che anche la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sent. 4 giugno 2009, C243/08, Banco Español de Crédito SA, punti 42 e 43. 59 La nullità di protezione opera come strumento correttivo dell’assetto contrattuale squilibrato in funzione della predisposizione unilaterale di clausole vessatorie che pregiudicano l’interesse del consumatore. Non avrebbe senso pertanto affidare al giudice il dovere di rilevare d’ufficio la nullità contrariamente magari agli interessi dello stesso consumatore. 60 In sede di conclusione, al punto 2.20.2, si riporta alla massima di Cass. SS.UU., n. 26242 e 26243 (vd. nota 54) in tema di rilevabilità d’ufficio di tale nuova forma di nullità da parte del giudice e, in tema di imprescrittibilità, al punto 2.20.3, si riporta alla massima di Cass. civ., 15 novembre 2010, n. 23057.
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le parti contraenti non avrebbero concluso il contratto in assenza delle pattuizioni dichiarate nulle61. Relativamente al caso in commento, il giudice di legittimità sembra aver accettato la suindicata prospettiva interpretativa, valorizzando anche l’evoluzione dottrinaria avutasi sul tema del “secondo contratto62” (contratto al consumo) e del “terzo contratto63” (nullità dei rapporti tra imprese), come si esprime nel passaggio 2.17: “Si è, pertanto, evidentemente in presenza di una “nullità speciale”, posta – attraverso le previsioni di cui agli artt. 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea e della l. n. 287 del 1990 art. 2 c. 2., lett. a), – a presidio di un interesse pubblico e, in specie, dell’“ordine pubblico economico””; dunque, “nullità ulteriore a quelle che il sistema già conosceva” (Cass., n. 827/1999). In tal senso depone la considerazione che siffatta forma di nullità ha una portata più ampia della nullità codicistica (art. 1418 c.c.) e delle altre nullità conosciute dell’ordinamento – come la nullità di “protezione” nei contratti del consumatore (c.d. secondo contratto), e la nullità nei rapporti tra imprese (c.d. terzo contratto) – in quanto colpisce anche atti, o combinazioni di atti avvinti da un “nesso funzionale”, non tutti riconducibili alle suindicate fattispecie di natura contrattuale. La ratio di tale speciale regime – come detto – è da ravvisarsi nell’esigenza di salvaguardia dell’“ordine pubblico economico”, a presidio del quale sono state dettate le norme imperative nazionali ed Europee antitrust”.
Cfr. A. Gentili, La “nullità di protezione”, in Eur. dir. priv., 2011, p. 77-119, per verificare problemi analoghi di legittimazione relativa all’azione di nullità nel caso delle previsioni dell’art. 36 cod. cons. 62 Cfr. C. Castronovo, Diritto privato generale e diritti secondi. La ripresa di un tema, in Eur. dir. priv., 2006, p. 399, sull’estensione dei punti di arrivo della dottrina sul tema del secondo contratto al terzo. 63 In tema di terzo contratto, cfr. L. Nonne, La nullità nei contratti del consumatore come modello per il c.d. terzo contratto, in Contratto e impresa, XXXII, 4-5, 2016, p. 979-1120; M. Libertini, Autonomia individuale e autonomia d’impresa, in I contratti per l’impresa, I, Produzione, Circolazione, garanzia, a cura di Gitti, Maugeri e Notari, Bologna, 2012, pp. 23-31, 33-68; A. Zoppini, Il contratto asimmetrico tra parte generale, contratti di impresa e disciplina della concorrenza, in Riv. dir. civ., 2008, I; rispetto al tema relativo dell’abuso di posizione dominante cfr. G. Osti, Abuso di posizione dominante, in Enc. dir., Annali, V, Milano, 2012, pp. 1-52. 61
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In realtà, questo ragionamento, che possiamo dire di tipo innovativo, va ben oltre le nullità contrattuali (testuali, strutturali e virtuali) e va a toccare atti funzionalmente collegati, sempre a tutela di interessi di rango superiori. Questa deduzione, per quanto non ortodossa, è convincente, perché rispetta il nucleo essenziale della ratio della nullità, come l’abbiamo definito sin qui, e tutela interessi di rango superiore come quelli individuati ai sensi dell’art. 41 della Costituzione64. In conclusione sul punto, si può affermare che questa impostazione sembra indicare una nuova nullità qualificata dalla parziarietà necessaria e dalla relatività65. Va ora valorizzato questo ragionamento della Corte, verificando tutti i passaggi logici che vengono affrontati, le tesi respinte e quelle accolte, al fine di comprendere perché si giunge alla nullità parziale (e virtuale) che abbiamo descritto sin qui in funzione della tutela del mercato in senso oggettivo66.
5. La “nullità derivata” del contratto di fideiussione, il c.d. nesso funzionale Vengono presi in considerazione tre filoni interpretativi che la giurisprudenza di legittimità e la dottrina più rilevante hanno sviluppato sul tema in esame67. Il primo orientamento riterrebbe valida la fideiussione riconoscendo così al consumatore (o all’impresa debole) solo il mero Vd. punto 2.12.1 Cass. civ., 30 dicembre 2021, n. 41994. Cfr. sul punto G. Passagnoli, Nullità Speciali, cit., pp. 223-235 per quanto riguarda il fondamento della nullità parziaria necessaria, e pp. 235-243 sul tema dell’interesse protetto dalla nullità virtuale. 66 A. Gentili, La nullità dei “contratti a valle” come prativa concordata anticoncorrenziale (il caso delle fideiussioni ABI), in Giust. civ., 2019, p. 698. 67 Per una disamina completa di tutti gli orientamenti si vd. M. Libertini, Gli effetti delle intese restrittive della concorrenza sui c.d. contratti “a valle”. Un commento sullo stato della giurisprudenza italiana, in Nuova giur. civ. comm., 2020, p. 378 e ss.; E. Camilleri, Validità della fideiussione omnibus conforme a schema-tipo dell’ABI e invocablità della sola tutela riparatoria in chiave correttiva, in Nuova giur. civ. comm., 2020, I, p. 397 e ss.; 64 65
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rimedio risarcitorio68. L’opinione si fonda sulla portata letterale dell’art. 2, c. 3, L. 287 del 1990, in forza del quale, “le intese vietate sono nulle ad ogni effetto”. Pertanto, la nullità non si dovrebbe vedere applicata ai contratti a valle ma solo all’intesa a monte. Il risarcimento viene giustificato, oltre che testualmente in forza del dispositivo dell’art. 33 L. 287 del 1990, soprattutto in funzione della mancanza di libertà di determinazione e di scelta del cliente degli istituti di credito69. Il secondo orientamento, all’opposto, ritiene operante una nullità assoluta della fideiussione bancaria omnibus perché riproduttiva di un’intesa anticoncorrenziale, ponendo l’intera operazione negoziale nel nulla. Si deve distinguere però a seconda che la nullità sia giustificata per l’illiceità dell’intesa a monte (invalidità derivata) o per vizi propri del negozio fideiussorio (invalidità diretta). La prima teoria dimostra che tra l’intesa “a monte” e la fideiussione “a valle” vi sia un “collegamento negoziale” – secondo il principio simul stabunt simul cadent – tale da rendere nullo l’intero negozio. I sostenitori di tale orientamento ritengono che l’art. 2, c. 3, L. 287 del 1990 non colpisca solo l’intesa in quanto tale ma ogni altro atto, a questa collegato, idoneo a pregiudicare l’applicazione della disciplina antitrust, poiché, diversamente opinando, si eluderebbe la tutela che le disposizioni di tale disciplina apprestano al bene giuridico della “concorrenza”, dato che gli effet Cass. civ., 26 settembre 2019, n. 24044 con nota di D. Di Micco, Le clausole ABI tra nullità assoluta e nullità parziale: un recente revirement, in Giur. It., 2020, p. 358 e ss. Cfr. anche sul punto, E. Camilleri, Validità della fideiussione omnibus conforme a schema-tipo dell’ABI, cit., p. 406 e Id., Il risarcimento per violazioni del diritto della concorrenza: ambito di applicazione e valutazione del danno, in Nuove leg. Comm. (Le), 2018, I, p. 143 e ss. 69 Vd. punto 2.5.4 n. 41994/2021: “Il consumatore finale, che subisce un violazione degli interessi riconosciuti rilevanti dall’ordinamento di fronte ad una contrattazione che non ammette alternative per l’effetto della collusione a monte”, in funzione di ciò, subisce un danno potenzialmente ingiusto (art. 2043 c.c.) e disporrebbe dell’azione di accertamento della nullità (per l’intesa a monte) e la domanda di risarcimento del danno nei confronti dell’impresa bancaria con cui stipula a valle. 68
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ti distorsivi, così determinati, sarebbero riprodotti nel contratto “a valle” 70. La base interpretativa da cui muove tale orientamento è rappresentata dal motivo illecito per cui la legislazione antitrust pone il divieto di stipulare intese restrittive. Tale illiceità si rintraccerebbe nella distorsione della concorrenza e nella riduzione degli spazi di scelta del consumatore e si realizzerebbe per l’appunto con “la sostituzione del suo (del contraente debole) diritto di scelta effettivo tra prodotti in concorrenza con una scelta meramente apparente”71. Di conseguenza, la Cassazione stessa rileva un particolare valore giuridico al collegamento funzionale tra gli strumenti utilizzati dai cartellanti per sviluppare in concreto gli effetti dell’illecito concorrenziale che hanno posto in essere72, e infatti: “stante il collegamento funzionale con la volontà anti competitiva a monte – ai contratti a valle non può attribuirsi un rilievo giuridico diverso rispetto all’intesa che li precede: nulla essendo quest’ultima, la nullità non può che inficiare anche l’atto consequenziale”73. Quest’ultimo rilievo, sebbene di grande pregio, non viene sposato però in pieno dai giudici di legittimità nel caso in esame, poiché l’operatività di una nullità derivata a carattere assoluto non aderirebbe pienamente ai risultati a cui la dottrina è pervenuta in tema di nullità relativa e che si sono descritti in precedenza. La seconda, anch’essa senz’altro di rilievo, ha origine, invece, dal presupposto che l’intesa a monte e la fideiussione a valle siano contratti distinti, ovvero privi dei requisiti richiesti al fine di riscontrarvi un collegamento negoziale. Pertanto, la nullità della fideiussione bancaria omnibus deriva da vizi propri del negozio a valle: ex 1418 c. 2, c.c. se si considera l’illiceità della causa (la fideiussione perse Vd. punto 2.5.4.1 n. 41994/2021 in cui la Corte sviluppa un tema fondamentale per cui “il consumatore, che è acquirente finale del prodotto offerto a valle dell’intesa vietata, chiude la filiera che inizia con la produzione del bene”. Cfr. R. Bresolini, La Cassazione ritorna sulla fideiussione conforme al modello ABI, in Nuova giur. civ. comm., 2020, p. 770. 71 Così punto 2.5.4.1 n. 41994/2021. 72 Vd. Cass. SS.UU., 4 febbraio 2005, n. 2207. 73 Così punto 2.5.4.1 n. 41994/2021. 70
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guirebbe una finalità sostanzialmente anticoncorrenziale e quindi illecita) o l’illiceità dell’oggetto (il contratto a valle assorbirebbe le clausole illecite dell’intesa a monte); ex 1418 c. 1, c.c. in dipendenza dalla violazione diretta delle norme imperative anticoncorrenziali, quali gli artt. 41 Cost., 101 TFUE e 2 L. 287/9074. Il terzo filone, infine, valorizza l’interpretazione che vede la nullità operare in via parziale. Infatti, dalla lettura dell’art. 1419 c.c., emergerebbe che il giudice non dovrebbe dichiarare la nullità del contratto qualora le clausole viziate non fossero idonee a far venire meno l’interesse che ha mosso le parti alla conclusione del contratto75. La Suprema Corte, a sostegno di questa tesi, che ha in definitiva adottato, pur rilevando che tra l’intesa “a monte” e la fideiussione bancaria “a valle” sussista un “collegamento funzionale”, tale da intendere questi atti parti di un’unica operazione bancaria tendente a violare la normativa antitrust nazionale ed europea76, osserva e precisa, d’altra parte, che non si debba estendere la comminatoria di nullità all’intero contratto, ma solamente alle clausole anticoncorrenziali, che danneggiano l’interesse del contraente debole, cui l’ordinamento deve prestare protezione. Tale affermazione, peraltro, si appoggia sulla stessa portata letterale dell’art. 2, c. 3, della L. 287 del 1990, la quale, dichiarando che “le intese vietate sono nulle ad ogni effetto”, estenderebbe il suo ambito di operatività anche ai contratti che danno concreta attuazione all’intesa vietata77. Si configura così un rimedio che neutralizza gli effetti dannosi provocati da ogni attività, comunque posta in essere, dipendente da un illecito concorrenziale. Infatti, il contraente debole subisce un pregiudizio, in forza dell’inserimento delle clau-
Cass. SS.UU., 24 settembre 2018, n. 22437. C. Chessa, Sulla invalidità delle fideiussioni bancarie omnibus per violazione della disciplina antitrust, in giustizia civile.com, nota a Trib. Napoli 5 maggio 2021 del 6 dicembre 2021. 76 Cfr. Direttiva Enforcement, n. 104/2014/UE. 77 Cass., SS. UU., 4 febbraio 2005, n. 2207, con nota di M. Libertini, Le azioni civili dei consumatori contro gli illeciti antitrust, in Corr. giur., 2005, p. 109 e ss. 74 75
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sole di cui agli art. 5, 6 e 8 dello schema ABI, che deve essere inteso come conseguenza immediata e diretta dell’illecito concorrenziale a monte. Si potrebbe quindi ritenere che la nullità, come definita dalle Sezioni Unite, sia da considerarsi come una forma rimediale con “funzione riequilibratrice del contratto”78.
6. Ultime riflessioni in tema di nullità dei contratti di fideiussione omnibus Avviandoci alle conclusioni, si deve segnalare che il dibattito tra le diverse tesi di cui si è discusso ha avuto origine con l’ordinanza n. 29810 del 201779 che ha riconosciuto in capo al fideiussore la legittimità a proporre un’azione di nullità ex artt. 2 e 33 della L. 287 del 1990, avente ad oggetto lo schema negoziale di cui all’intesa ABI in commento. Successivamente, con ordinanza n. 30818 del 201880, all’opposto, la stessa Corte ha rigettato la domanda di nullità, per insufficienti allegazioni probatorie, non entrando pertanto nel merito della questione applicativa. Nel 2019, la Corte è quindi tornata sul tema con la sentenza n. 2404481 che traeva origine dal ricorso proposto avverso una pronuncia della Corte d’Appello di Napo-
Vd. G. Guizzi, I contratti a valle delle intese restrittive della concorrenza, cit., p. 1179. Si deve però notare che l’autore individua nell’azione inibitoria il rimedio idoneo a “sterilizzare” nel contratto le clausole abusive, intendendole non abusive di per sé stesse, bensì unicamente in funzione del fatto che l’intesa a monte sia da considerarsi incisiva “in maniera determinante sul procedimento di conclusione del contratto”. Sul tema si veda anche, Id., Mercato concorrenziale e teoria del contratto, in Riv. dir. comm., 1999, I, p. 67 e ss. e Id., Contratto e intesa nella disciplina a tutela della concorrenza, in Aa.Vv., I contratti nella concorrenza, a cura di E. Gabrielli – A. Catricalà, Torino, 2011, p. 5 e ss. 79 Cass. civ., sez. I., ordinanza 12 dicembre 2017, n. 29810, B. G. c. Unicredit Credit Management Bank S.p.a., con note di R. Pardolesi, in Foro.it., 2018, I, p. 158 e ss. 80 Cass. civ., sez. I, 28 novembre 2018, ord. n. 30818, C.D. c. Banca Popolare Etica Società Cooperativa per Azioni. 81 Cass. civ., sez. I, 26 settembre 2019, n. 24044, De Gregorio et al. C. Banca Promos S.p.a.et al., con nota di D. Di Micco, cit., p. 358 e ss. 78
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li. In questo caso, la Corte si è orientata per la prima volta verso la soluzione della nullità parziale ex art. 1419 c.c. In seguito, la questione è stata oggetto di diverse pronunzie di organismi arbitrali82 che lasciavano aperta la questione del regime di nullità applicabile. Si comprende dunque al termine di questa rapida rassegna che la sentenza in commento appaia oggi pienamente dirimente del dibattito sul tema e quindi configuri con maggiore certezza la nullità delle fideiussioni omnibus per quanto attiene alle clausole di cui allo schema ABI dichiarato nullo dalla Banca d’Italia con il provvedimento n. 55 del 2005. Dal punto di vista dell’applicazione pratica di tale nuova forma rimediale, si può osservare il recente83 susseguirsi di decisioni che si allineano all’orientamento delle Sezioni Unite qui commentato, in relazione anche a fideiussioni o non pienamente conformi al modello ABI del 2003 o prestate successivamente alla declaratoria di nullità dell’intesa a monte. Le Corti stanno, pertanto, applicando la massima di Cassazione 41994/2021 (riconoscendo la nullità parziale delle fideiussioni) in funzione della mera aderenza delle clausole presenti nel contratto a valle con quelle presenti nello schema di cui all’intesa dichiarata nulla da ABI nel 2005. In sintesi, l’applicazione pratica che si sta attuando della massima è di tipo sostanziale e sembra applicarsi anche a fideiussioni non omnibus (contratti autonomi di garanzia, ad esempio84) e sti-
Arbitro Bancario Finanziario, coll. coord. 19 agosto 2020 n. 14555 e Arbitro Bancario Finanziario, Milano, 4.7.2019, n. 16558. Sullo sviluppo delle decisioni delle corti arbitrali sul tema, per una disamina completa, si vd. A. Piletta Massaro, Pratiche concordate contrarie al diritto antitrust: il caso delle fideiussioni omnibus redatte secondo lo schema ABI, in Riv. dir. bancario, 2020, IV, sez II, pp. 271-275. 83 Ex multis, Cass. civ., Sez. VI – 1, 15 marzo 2022, ordinanza n. 8390; Cass. civ., Sez. VI – 1, 30 marzo 2022, ordinanza n. 10327; Corte Appello Napoli, Sez. III, 1° marzo 2022, sentenza n. 844; Trib. Roma, n. 2659, 18 febbraio 2022; Trib. Lecce, 20 gennaio 2022, 20 gennaio 2022, n. 156/800; Trib. Brescia, Sez. II, 4 marzo 2022, sentenza n. 529; Trib. Alessandria ordinanza 16 marzo 2022 (ritrovabile a questo link: https://www.dirittodelrisparmio.it/wp-content/uploads/2022/03/ Trib.-Alessandria-16-marzo-2022.pdf). 84 Cfr. Trib. Alessandria, cit., quando stabilisce che: “per quanto riguarda le 82
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pulate in data successiva al 200585 (anno del provvedimento della Banca d’Italia). Pertanto il punto centrale della questione pro futuro dovrà spostarsi, più che sull’invalidità, sulla sorte di clausole simili che le banche, probabilmente, inseriranno nelle fideiussioni non aderenti al vecchio schema del 2003. Esemplificando, viene da porsi il problema se, in forza dell’applicazione della presente massima, ci si trovi di fronte all’abrogazione tacita dell’art. 1957 c.c., c. 2 e c. 386. Da questo punto di vista, la sorte delle tre clausole (quella di reviviscenza, di rinuncia ai termini dell’art. 1957 c.c. e quella di sopravvivenza) dipende senza dubbio da come verranno a porsi la prassi bancaria da un lato e l’interpretazione delle corti di merito dall’altro, qualora, ovviamente, quelle clausole venissero reinserite in futuri schemi di fideiussione bancaria. Tuttavia, proprio in ragione di quanto annotato alla presente massima, si deve valorizzare l’effetto concreto dell’interpretazione qui offerta dalle Sezioni Unite in tema di nullità parziale. Infatti, anche tornando, ad esempio, sulla questione posta circa la possibile abrogazione implicita dell’art. 1957 c. 2 e c. 3 c.c., non può fare a meno di notarsi che l’applicazione della massima in oggetto comunque non comporterebbe di per sé l’estensione della nullità all’intero contratto di fideiussione, ma refideiussioni rilasciate nel 2004 a garanzia del mutuo, la corrispondenza al modulo, pur non essendo formalmente perfetta come nelle altre, tuttavia è sostanziale”. Si tenga presente anche che per Corte Appello Napoli, cit: “l’analisi degli artt. 6, 7, 8 e 9 del contratto intercorrente tra le parti, laddove sono specificati i perimetri della garanzia, fa propendere per la tesi dell’accessorietà del rapporto, e ciò soprattutto perché manca una clausola “senza eccezioni”, ovvero una clausola che obblighi il garante a corrispondere al garantito la somma richiesta senza possibilità di poter sollevare le eccezioni sollevabili dal debitore principale”. Cfr. anche G. Stella, Sulla natura giuridica della fideiussione omnibus, tra fideiussione ordinaria o contratto autonomo di garanzia, in Dirittobancario.it, 9 febbraio 2022. 85 Cfr. Trib. Alessandria, cit., nella parte in cui afferma che: “per quanto riguarda le fideiussioni rilasciate nel 2006 fino alla concorrenza di Euro xx.xxx si tratta di contratti che corrispondono perfettamente allo schema contrattuale ABI (stessi articoli e stesso contenuto degli stessi)”. 86 Nota a Trib. Alessandria, cit., Massima redazionale Avv. F. Comba, Sulla nullità antitrust delle fideiussioni specifiche, in Riv. Dir. Risp., 2022.
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sterebbe limitata alla sola clausola di rinuncia, anche qualora questa fosse stata apposta successivamente al 2005; e tutto ciò solamente in funzione dell’interesse pubblico economico. A mio avviso, cioè, qualora venisse apposta tale clausola, ma non vi fosse un problema di concorrenza tale da limitare l’accesso al mercato del credito, non si dovrebbe concludere per la nullità tout court della deroga all’art. 1957 c.c.: di conseguenza, la deroga sarebbe da ritenersi valida al di fuori dell’operatività del dato schema di ABI del 2003 e comunque in ordine a contratti che non risultino direttamente lesivi dei principi dell’ordine pubblico economico così come configurato dalla presente Cassazione. In conclusione, la soluzione definita dalla Corte che prevede l’applicabilità in concreto dell’art. 1419 c.c., sembra corrispondere pienamente alle soluzioni già prospettate in dottrina nei termini di apertura della categoria della nullità a partire dall’entrata in vigore della direttiva consumatori del 199987. La presa di posizione della Cassazione aderisce infatti al nucleo essenziale della categoria della nullità dilatandone gli spazi di operatività attraverso l’individuazione di una nullità qualificata dalla parziarietà necessaria e dalla relatività. In quest’ottica, l’ordinamento si pone in funzione di tutela del contraente debole; e si mette in tal modo in giusta luce il principio dell’ordine pubblico economico, in precedenza non così valorizzato. L’efficacia della normativa antitrust risulta pertanto amplificata dagli strumenti classici conosciuti dal diritto civile nell’interesse della parte debole del contratto.
87 Per chiarezza, da un lato, l’imprenditore bancario è interessato al mantenimento della garanzia, anche se si eliminano tali clausole, dato che, in alternativa, il suo credito sarebbe meno garantito; dall’altro, il fideiussore sembra sempre cointeressato, in qualità di socio, alla concessione del finanziamento ed ha quindi un interesse concreto alla prestazione della garanzia.
Corte di Cassazione – Sezioni Unite 30 aprile 2021, n. 11421 Presidente Curzio, Estensore Scarpa Assicurazione (contratto di) – Assicurazione sulla vita – Designazione del beneficiario – Applicabilità dell’art. 1412, comma 2, c.c. – Premorienza del beneficiario – Prestazione agli eredi del terzo. Quando l’assicurato abbia indicato genericamente gli «eredi legittimi» quali beneficiari della prestazione assicurativa, questi sono individuati in forza del titolo della astratta delazione e ciascuno ha diritto a una quota uguale dell’indennizzo assicurativo, non trovando applicazione le proporzioni della successione ereditaria. Quando uno dei beneficiari del contratto di assicurazione sulla vita premuore al contraente, la prestazione deve essere eseguita a favore degli eredi del premorto in proporzione della quota che sarebbe spettata a quest’ultimo (massima non ufficiale).
Dalla motivazione (omissis) 6.1. Nel rispondere unitariamente ai primi due quesiti, queste Sezioni Unite intendono riaffermare l’interpretazione già univocamente seguita al riguardo dalla giurisprudenza della Corte. Essendo la designazione del beneficiario dei vantaggi di un’assicurazione sulla vita, quale che sia la forma prescelta fra quelle previste dell’art. 1920 c.c., comma 2, atto inter vivos con effetti post mortem, da cui discende l’effetto dell’immediato acquisto di un diritto proprio ai vantaggi dell’assicurazione, la generica individuazione quali beneficiari degli “eredi (legittimi e/o testamentari)” ne comporta l’identificazione soggettiva con coloro che, al momento della morte dello stipulante, rivestano tale qualità in forza del titolo della astratta delazione ereditaria prescelto dal medesimo
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contraente, indipendentemente dalla rinunzia o dall’accettazione della vocazione. Deve invero sempre rammentarsi che qui il termine “eredi” viene attribuito dalla designazione allo scopo precipuo di fornire all’assicuratore un criterio univoco di individuazione del creditore della prestazione, e perciò prescinde dall’effettiva vocazione. L’eventuale istituzione di erede per testamento compiuta dal contraente assicurato dopo aver designato i propri “eredi (legittimi)” quali beneficiari della polizza non rileva, pertanto, né come nuova designazione per attribuzione della somma assicurata, né come revoca del beneficio, agli effetti dell’art. 1921 c.c., ove non risulti una inequivoca volontà in tal senso, operando su piani diversi l’intenzione di disporre mortis causa delle proprie sostanze e l’assegnazione a terzi del diritto contrattuale alla prestazione assicurativa. 6.2. Venendo alla terza questione, che più evidentemente rileva per la composizione della difformità di pronunce, nonché ai fini della decisione del ricorso principale proposto dalla BNP Paribas Cardif Vita Compagnia di Assicurazione e Riassicurazione S.p.A. e del ricorso incidentale proposto da A.B.G., la natura inter vivos del credito attribuito per contratto agli “eredi” designati quali beneficiari dei vantaggi dell’assicurazione esclude l’operatività riguardo ad esso delle regole sulla comunione ereditaria, valevoli per i crediti del de cuius, come anche l’automatica ripartizione dell’indennizzo tra i coeredi in ragione delle rispettive quote di spettanza dei beni caduti in successione. La qualifica di “eredi” rivestita al momento della morte dello stipulante sopperisce, invero, con valenza meramente soggettiva, alla generica determinazione del beneficiario, in base al disposto dell’art. 1920 c.c., comma 2, che funziona soltanto al fine di indicare all’assicuratore chi siano i creditori della prestazione, ma non implica presuntivamente, in caso di pluralità di designati, l’applicazione tra i concreditori delle regole di ripartizione dei crediti ereditari. Al contrario, il silenzio serbato dal contraente sulla suddivisione del capitale assicurato tra gli eredi potrebbe spiegarsi come indizio della sua volontà di utilizzare l’assicurazione
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sulla vita per il caso morte con finalità indennitaria, o come alternativa al testamento comunque sottratta al divieto ex art. 458 c.c., in maniera da beneficiare tutti indistintamente senza soggiacere alle proporzioni della successione ereditaria. Rimane ovviamente ferma la libertà del contraente, nel designare gli eredi quali beneficiari dei vantaggi dell’assicurazione, di indicare gli stessi nominativamente o di stabilire in quali misure o proporzioni debba suddividersi tra loro l’indennizzo, o comunque di derogare all’art. 1920 c.c. (arg. dall’art. 1932 c.c.). L’indagine sull’effettiva intenzione del contraente, ovvero sullo scopo che lo stesso voleva perseguire mediante la generica designazione degli eredi beneficiari, rimane tipico accertamento di fatto riservato al giudice di merito. Non può, altrimenti, ritenersi che, in difetto di apposita disposizione di legge, al contratto di assicurazione sulla vita, in cui siano determinati genericamente i soggetti beneficiari quali “eredi”, sia applicabile una “regola di completamento” (semmai implicitamente approvata dalle parti, in difetto di espressa volontà contraria), che, in via integrativa, piuttosto che interpretativa, comporti altresì, sul piano quantitativo della misura socialmente ragionevole dell’attribuzione, un “rinvio alle quote di ripartizione dell’eredità secondo le regole della successione legittima o secondo le regole della successione testamentaria” (come si afferma nella sentenza n. 19210 del 2015). In forza della designazione degli “eredi” quali beneficiari dell’assicurazione sulla vita a favore di terzo, la prestazione assicurativa vede quali destinatari una pluralità di soggetto in forza di una eadem causa obligandi, costituita dal contratto. Rispetto alla prestazione divisibile costituita dall’indennizzo assicurativo, come in ogni figura di obbligazione soggettivamente complessa (secondo quanto si argomenta in via di generalizzazione dall’art. 1298 c.c., comma 2 e dall’art. 1101 c.c., comma 1), ove non risulti diversamente dal contratto, a ciascuno dei beneficiari spetta una quota uguale (in conformità a quanto sostenne la sentenza n. 9388 del 1994), il cui pagamento ciascuno potrà esigere dall’assicura-
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tore nella rispettiva misura. Non sovviene decisamente in proposito l’art. 1314 c.c., giacché il precetto secondo cui il creditore di una prestazione divisibile (rectius parziaria) non può domandare il soddisfacimento del credito “che per la sua parte”, volgendo la propria attenzione all’attuazione del rapporto e non all’interpretazione del titolo, dà per già risolto (e perciò non risolve esso stesso) il problema della determinazione della quota di ciascuno dei creditori. 6.3. Un’altra questione va affrontata per dare decisione ai ricorsi in esame. L’attribuzione del diritto iure proprio al beneficiario per effetto della designazione giustifica altresì l’applicabilità all’assicurazione sulla vita per il caso morte dell’art. 1412 c.c., comma 2, secondo il quale “la prestazione deve essere eseguita a favore degli eredi del terzo se questi premuore allo stipulante, purché il beneficio non sia stato revocato o lo stipulante non abbia disposto diversamente”, con conseguente trasmissibilità agli eredi del terzo premorto della titolarità dei vantaggi dell’assicurazione. In tal caso, l’acquisto del diritto alla prestazione assicurativa in favore degli eredi del beneficiario premorto rispetto allo stipulante opera, peraltro, iure hereditatis, e non iure proprio, e quindi in proporzione delle rispettive quote ereditarie, trattandosi di successione nel diritto contrattuale all’indirizzo entrato a far parte del patrimonio del designato prima della sua morte, nella medesima misura che sarebbe spettata al beneficiario premorto, secondo la logica degli acquisti a titolo derivativo. Dunque, con la regola che implica l’identificazione degli “eredi” designati con coloro che abbiano tale qualità al momento della morte del contraente coopera la regola della trasmissibilità del diritto ai vantaggi dell’assicurazione in favore degli eredi del beneficiario premorto, quale conseguenza dell’acquisto già avvenuto in capo a quest’ultimo. La premorienza di uno degli eredi del contraente, già designato tra i beneficiari dei vantaggi dell’assicurazione comporta, quindi, non un effetto di accrescimento in favore dei restanti beneficiari,
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ma, stando l’assenza di una precisa disposizione sul punto ed in forza dell’assimilabilità dell’assicurazione a favore di terzo per il caso di morte alla categoria del contratto a favore di terzi, un subentro per “rappresentazione” in forza dell’art. 1412 c.c., comma 2 (senza che la comune denominazione delle fattispecie obliteri le evidenti differenze di ambito soggettivo ed oggettivo correnti tra detta norma e l’istituto previsto dall’art. 467 c.c.). Beninteso, il contraente potrebbe avere altrimenti espresso in sede di designazione una diversa volontà per il caso di premorienza di uno dei beneficiari, come potrebbe, a seguito della stessa, revocare il beneficio con le forme e nei limiti di cui all’art. 1921 c.c. 7. Può passarsi all’esame del primo motivo del ricorso della BNP Paribas Cardif Vita Compagnia di Assicurazione e Riassicurazione S.p.A., nonché del motivo del ricorso incidentale di A.B.G., in quanto tali censure si pongono in prospettiva diametralmente opposta e vanno perciò decise congiuntamente. 7.1. In particolare, il primo motivo del ricorso della BNP Paribas Cardif Vita Compagnia di Assicurazione e Riassicurazione S.p.A. deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1920 e 1362 c.c., ed assume che i vantaggi dell’assicurazione sulla vita a favore di terzi derivano da acquisto svincolato dalle norme successorie. Il ricorso incidentale di A.B.G., subordinato all’accoglimento del ricorso principale, denuncia, dal suo canto, la violazione e falsa applicazione degli artt. 570 e 467 c.c., ed arriva alla conclusione che, se il diritto del beneficiario trae origine dal contratto, i nipoti dello stipulante defunto non possono proprio essere considerati “eredi legittimi”. 7.2. La Corte d’appello di Catania ha affermato, invero, che, in base alle quattro polizze vita oggetto di causa, tutte stipulate da A.P.P. tra il 2008 ed il 2009 e recanti la clausola “Beneficiari in caso di morte dell’assicurato: eredi legittimi”, restassero attribuite la metà dell’indennizzo assicurativo a A.B.G., fratello di P.P., in proporzione alla sua quota ereditaria, e la restante metà ai quattro figli di A.A., sorella di P.P. morta il (omissis), essendo i nipoti suc-
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ceduti per rappresentazione ex art. 467 c.c., nel luogo e nel grado della loro madre. 7.3. Così decidendo, i giudici di secondo grado non hanno considerato che la generica individuazione degli “eredi legittimi” quali beneficiari dei quattro contratti di assicurazione conclusi da A.P.P. tra il 2008 ed il 2009 ne comportava l’identificazione soggettiva con coloro che, al momento della morte dello stipulante, avvenuta il (omissis), rivestivano tale qualità in forza del titolo della astratta delazione ereditaria. La individuazione degli “eredi legittimi” quali beneficiari non poteva riguardare A.A., perché la stessa era morta il (omissis), e quindi ben prima delle stesse designazioni. Poiché alcun diritto proprio aveva acquistato A. dalle designazioni contenute nei contratti del 2008 e del 2009, non vi era spazio per applicare dell’art. 1412 c.c., comma 2, ovvero per ravvisare una trasmissione per “rappresentazione” agli eredi di A. dei vantaggi dell’assicurazione nella medesima quota che sarebbe spettata a quella. Come già al momento delle designazioni, al momento della morte di A.P.P., il (omissis), rivestivano la qualità astratta di “eredi legittimi” sia A.B.G., sia i quattro discendenti di A. subentrati nel luogo e nel grado della loro ascendente, e perciò da intendere essi stessi come “eredi”, tanto più agli effetti di cui all’art. 1920 c.c., comma 2 e cioè al fine di individuare i creditori della prestazione assicurativa. L’indennizzo non va ripartito in ragione delle rispettive quote di spettanza dei beni caduti in successione: perciò a ciascuno dei cinque eredi beneficiari dei vantaggi dell’assicurazione spetta una quota uguale, il cui pagamento ciascuno di loro può esigere dall’assicuratore nella rispettiva misura. 8. Vanno enunciati i seguenti principi di diritto: La designazione generica degli “eredi” come beneficiari di un contratto di assicurazione sulla vita, in una delle forme previste dell’art. 1920 c.c., comma 2, comporta l’acquisto di un diritto proprio ai vantaggi dell’assicurazione da parte di coloro che, al momento della morte del contraente, rivestano tale qualità in forza del titolo della astratta delazione indicata all’assicuratore per individuare i creditori della prestazione.
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La designazione generica degli “eredi” come beneficiari di un contratto di assicurazione sulla vita, in difetto di una inequivoca volontà del contraente in senso diverso, non comporta la ripartizione dell’indennizzo tra gli aventi diritto secondo le proporzioni della successione ereditaria, spettando a ciascuno dei creditori, in forza della eadem causa obligandi, una quota uguale dell’indennizzo assicurativo. Allorché uno dei beneficiari di un contratto di assicurazione sulla vita premuore al contraente, la prestazione, se il beneficio non sia stato revocato o il contraente non abbia disposto diversamente, deve essere eseguita a favore degli eredi del premorto in proporzione della quota che sarebbe spettata a quest’ultimo. 9. Conseguono l’accoglimento del primo motivo del ricorso della BNP Paribas Cardif Vita Compagnia di Assicurazione e Riassicurazione S.p.A., l’assorbimento del secondo motivo del ricorso principale (giacché esso, in ragione dell’accoglimento del primo motivo, perde di immediata rilevanza decisoria) ed il rigetto del ricorso incidentale di A.B.G. La sentenza impugnata va cassata, con rinvio dalla causa alla Corte d’appello di Catania, in diversa composizione, che deciderà uniformandosi ai principi di diritto enunciati e tenendo conto dei rilievi svolti, provvedendo anche alla pronuncia sulle spese del giudizio di cassazione. Sussistono i presupposti processuali per il versamento – ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – da parte del ricorrente incidentale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previso per l’impugnazione, se dovuto. P.Q.M. La Corte accoglie il primo motivo del ricorso della BNP Paribas Cardif Vita Compagnia di Assicurazione e Riassicurazione S.p.A., dichiara assorbito il secondo motivo del ricorso principale, rigetta il ricorso incidentale di A.B.G., cassa la sentenza impugnata in re-
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lazione alla censura accolta e rinvia la causa alla Corte d’appello di Catania, in diversa composizione, anche per la pronuncia sulle spese del giudizio di cassazione. (omissis)
ASSICURAZIONE SULLA VITA E DESIGNAZIONE DEL BENEFICIARIO: ARTT. 1411 E 1412 C.C. Federica Chironi (Dottoranda di ricerca presso l’Università degli Studi di Sassari)
Sommario: 1. Il caso. – 2. L’assicurazione sulla vita a favore di terzo. – 3. La designazione generica del beneficiario: in particolare, gli «eredi legittimi». – 4. Irrilevanza della disposizione testamentaria successiva alla designazione – 5. Le quote di ripartizione dell’indennità nell’ipotesi di premorienza del beneficiario. – 6. Rilievi conclusivi.
1. Il caso La decisione commentata trae origine dal ricorso proposto dalla BNP Paribas Cardif Vita Compagnia di Assicurazione e Riassicurazione S.p.A. avverso la sentenza con cui la Corte di appello di Catania aveva condannato la compagnia assicurativa a corrispondere all’attore A.B.G. la somma di euro 254.283,42, oltre interessi, a titolo di differenza tra l’importo già versatogli e quanto ad egli dovuto in base alle polizze vita sottoscritte dal di lui fratello. Secondo il Giudice di appello, infatti, doveva ritenersi erronea la ripartizione dell’indennizzo operata dalla compagnia di assicurazione, la quale, dal momento che la polizza indicava genericamente quali beneficiari della prestazione gli «eredi legittimi» dell’assicurato, aveva suddiviso l’indennizzo in cinque quote uguali, una delle quali veniva assegnata ad A.B.G. e le altre quattro ai di lui nipoti, figli della defunta sorella dell’assicurato, a questa subentrati per rappresentazione. Nella prospettazione della Corte di appello, invero, A.B.G. aveva diritto a metà dell’indennizzo assicurativo, in proporzione alla sua
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quota ereditaria, mentre la restante metà doveva essere ripartita in parti uguali tra i quattro nipoti, subentrati per rappresentazione nel luogo e nel grado della madre, sul presupposto che il riferimento agli «eredi legittimi» in sede di designazione dei beneficiari determinasse un vero e proprio rinvio alle quote della successione legittima. La Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione, riscontrata la sussistenza di un contrasto giurisprudenziale sul punto, con ordinanza interlocutoria rimetteva la questione alle Sezioni Unite. Nel ricorso proposto avverso la sentenza della Corte di Appello di Catania, la BNP Paribas Cardif Vita Compagnia di Assicurazione e Riassicurazione S.p.A. deduceva, con il primo motivo, la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1920 e 1362 c.c., in quanto la decisione impugnata si sarebbe fondata su un unicum giurisprudenziale – rappresentato dalla sentenza della Suprema Corte n. 19219/2015 – ignorando il costante orientamento di legittimità secondo cui l’acquisto del diritto ai vantaggi dell’assicurazione trova il proprio titolo nel contratto, non nella successione, sicché le quote tra gli eredi, in difetto di uno specifico criterio di ripartizione, si presumono uguali. Con il secondo motivo, la ricorrente censurava la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1369 e 1371 c.c. in tema di interpretazione del contratto, con riferimento sia al comportamento di A.B.G. – che inizialmente aveva richiesto la liquidazione dell’indennizzo in parti uguali – sia alle posizioni maggioritarie di dottrina e giurisprudenza all’epoca della designazione dei beneficiari. Nel ricorso incidentale, A.B.G. denunciava invece la violazione e falsa applicazione degli artt. 570 e 467 c.c., in quanto l’asserita inapplicabilità delle norme sulla successione – e, in particolare, dell’istituto della rappresentazione – avrebbe dovuto portare alla diversa conclusione secondo cui non sussisteva alcun diritto alla prestazione indennitaria in capo ai nipoti, non potendo questi essere considerati quali «eredi legittimi» dell’assicurato. L’ordinanza interlocutoria, dopo aver richiamato i precedenti della Suprema Corte sull’individuazione dei beneficiari e sulla ripartizione dell’indennizzo tra questi nell’ipotesi di designazione generi-
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ca, rimetteva alle Sezioni Unite la decisione sulle seguenti questioni di diritto: a) se in materia di assicurazione sulla vita in favore di un terzo, in presenza della diffusa formula contrattuale, presente anche nel contratto in esame e genericamente riferita ai “legittimi eredi”, detta espressione sia meramente descrittiva di coloro che, in astratto, rivestono la qualità di eredi legittimi o se debba intendersi, invece, che sia riferita ai soggetti effettivamente destinatari dell’eredità; b) se la designazione degli eredi in sede testamentaria possa interferire, in sede di liquidazione dell’indennizzo, con la individuazione astratta dei legittimi eredi; c) se, in tale seconda ipotesi, il beneficio indennitario debba ricalcare la misura delle quote ereditarie spettanti ex lege o se la natura di “diritto proprio” sancita dalla norma (cfr. art. 1920 c.c., u.c.) imponga una divisione dell’indennizzo complessivo fra gli aventi diritto in parti uguali.
2. L’assicurazione sulla vita a favore di terzo L’assicurazione, secondo la definizione di cui all’art. 1882 c.c., è il contratto con il quale l’assicuratore si obbliga, verso il pagamento di un premio, a rivalere l’assicurato, entro i limiti convenuti, del danno ad esso prodotto da un sinistro (assicurazione contro i danni), oppure a pagare un capitale o una rendita al verificarsi di un evento attinente alla vita umana (assicurazione sulla vita). La nozione codicistica, tuttavia, non consente di comprendere pienamente la funzione economica e sociale del contratto di assicurazione, se non si tiene conto del fatto che l’assicuratore è anzitutto un imprenditore, che opera secondo specifiche regole tecniche basate sul calcolo delle probabilità, grazie alle quali egli può neutralizzare i rischi assunti con i singoli contratti di assicurazione1.
Sui rapporti tra contratto ed impresa di assicurazione, si vedano G. FanelLe assicurazioni, Milano, 1973, pp. 33 ss.; A. Gambino, L’assicurazione nella 1
li,
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La funzione del contratto di assicurazione, nelle sue diverse articolazioni, non è dunque solo quella di trasferire un determinato rischio patrimoniale da un soggetto ad un altro, ma è anche quella di consentire la neutralizzazione del rischio per entrambi i contraenti, attraverso l’inserimento del singolo rischio in una massa di rischi omogenei sistematicamente assunti dall’assicuratore2. In particolare, nell’assicurazione sulla vita, l’assicuratore si impegna a corrispondere al beneficiario una somma di denaro al verificarsi di un evento attinente alla vita umana, il quale può essere rappresentato tanto dalla morte, quanto dalla sopravvivenza dell’assicurato: nel primo caso (assicurazione per il caso di morte), la prestazione dell’assicuratore è dovuta solo se, entro il periodo contrattualmente stabilito, intervenga la morte del soggetto; vice-
teoria dei contratti aleatori, Napoli, 2015, pp. 383 ss.; L. Farenga, Manuale di diritto delle assicurazioni private, Torino, 2019, pp. 4 ss., il quale evidenzia come il necessario collegamento tra contratto di assicurazione e impresa di assicurazione sia «fondato sulla considerazione che parte assicuratrice non può che essere un’impresa organizzata secondo specifici criteri tecnico-finanziari che consentono, se non l’assoluta sicurezza, quantomeno un notevole margine di affidabilità nella possibilità che l’assicuratore sia finanziariamente in grado di rispettare la propria obbligazione, e cioè il pagamento dell’indennità se e qualora l’evento dannoso dovesse prodursi (ovvero il pagamento della rendita o del capitale al verificarsi dell’evento attinente la vita dedotto in contratto)». 2 Così G. F. Campobasso, Contratti, titoli di credito, procedure concorsuali, in M. Campobasso (a cura di), Diritto Commerciale, III, Torino, 2014, pp. 217220, il quale afferma che «quando, come avviene col contratto di assicurazione, un soggetto assume professionalmente una gran massa di rischi omogenei (incendio, furto, morte, ecc.) […] è in tal caso applicabile la legge statistica dei grandi numeri (un evento di per sé incerto e casuale è regolato da leggi costanti di probabilità se si considera una serie indefinita di casi), che consente di determinare con criteri matematici la probabilità media del verificarsi di un determinato evento. Per ciascuna categoria omogenea di eventi assicurati, l’assicuratore è perciò in grado di stabilire con sufficiente precisione quale è il rischio medio che assume col singolo contratto. E su tale rischio medio può basarsi per determinare, secondo criteri matematici, il corrispettivo (premio) dovutogli dal singolo assicurato contro quel determinato rischio. Infatti, quando si opera su una gran massa di rischi omogenei, l’insieme dei premi incassati per ciascuna classe di rischi consente di formare un fondo patrimoniale sufficiente, se correttamente gestito, a risarcire gli assicurati che effettivamente subiranno quel determinato sinistro».
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versa, nella seconda ipotesi (assicurazione per il caso di vita), la prestazione diviene esigibile soltanto nell’eventualità in cui l’assicurato resti in vita allo scadere del termine contrattuale. Ampia diffusione incontra anche l’assicurazione sulla vita mista, nella quale il capitale o la rendita sono pagati all’assicurato stesso, se questi è ancora in vita al momento prefissato, oppure a terzi beneficiari, qualora la morte dell’assicurato intervenga prima di tale momento. Dal punto di vista giuridico, questo tipo di operazione si configura comunque come un unico contratto, caratterizzato da una duplicazione del rischio assicurato. L’assicurazione sulla vita, inoltre, è sottratta all’applicazione del principio indennitario, proprio invece dell’assicurazione contro i danni, secondo il quale l’indennizzo dovuto dall’assicuratore non può superare il danno sofferto dall’assicurato, al fine di evitare che il contratto assicurativo possa diventare uno strumento di arricchimento o di speculazione. Da ciò consegue, dunque, che, nell’assicurazione sulla vita, il capitale o la rendita possono essere liberamente determinati dalle parti a prescindere dal danno che effettivamente subirà l’assicurato, compatibilmente con le finalità di risparmio e previdenza perseguite con questo tipo di operazione3. Nell’ambito della disciplina del contratto in esame, di particolare rilevanza è la previsione di cui all’art. 1919 c.c., secondo la quale l’assicurazione può essere stipulata non solo sulla vita propria ma anche sulla vita di un terzo, purché questi vi acconsenta (assicurazione sulla vita altrui)4.
Per promuovere la diffusione delle assicurazioni sulla vita come forma di risparmio a lungo termine, la pratica assicurativa ha sviluppato nuovi modelli di polizze con più spiccato contenuto finanziario (polizze indicizzate, polizze con partecipazione agli utili della società assicuratrice, polizze rivalutabili ecc.), le quali sono oggetto di puntuale analisi in M. Miola, Il risparmio assicurativo, Napoli, 1988, pp. 22 ss., che evidenzia i complessi problemi di disciplina che si pongono con riferimento all’utilizzo dell’assicurazione sulla vita come strumento di investimento. 4 L’art. 1919 c.c. prevede infatti che «l’assicurazione può essere stipulata sulla vita propria o su quella di un terzo. L’assicurazione contratta per il caso di morte 3
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Diverso è, invece, il caso contemplato dal successivo art. 1920 c.c., il quale sancisce la validità dell’assicurazione sulla vita stipulata a favore di un terzo5, che si configura quale species del più ampio genus del contratto a favore di terzo di cui all’art. 1411 c.c., se pur con alcune peculiarità di disciplina. Una prima diversità la si riscontra, ad esempio, in punto di designazione del terzo beneficiario: se nel contratto a favore di terzo, infatti, tale individuazione è sempre contestuale alla stipula del contratto, nell’assicurazione sulla vita l’assicurato può operare tale scelta anche in un momento successivo, con dichiarazione scritta da comunicarsi all’assicuratore ovvero per testamento. Ne consegue, dunque, che se nel contratto a favore di terzo l’acquisto del diritto alla prestazione avviene per effetto della stipulazione del contratto, nell’assicurazione sulla vita, invece, l’acquisto del diritto all’indennità avviene per effetto della designazione, che può essere anche successiva alla sottoscrizione del contratto assicurativo. Tale distinzione, lungi dal configurarsi come meramente teorica, riveste invero una fondamentale rilevanza pratica con riferimento alla questione della trasmissibilità agli eredi dell’indennità assicurativa in caso di premorienza del beneficiario, che costituisce propriamente l’oggetto della querelle che la Suprema Corte è stata chiamata a comporre con la sentenza in commento.
di un terzo non è valida se questi o il suo legale rappresentante non dà il consenso alla conclusione del contratto. Il consenso deve essere provato per iscritto» e ciò al fine di evitare che tale forma di assicurazione costituisca un incentivo all’omicidio per lucrare l’indennità. In questo senso F. Campobasso, Contratti, titoli di credito, procedure concorsuali, cit., p. 236. 5 L’art. 1920 c.c. non solo afferma che «è valida l’assicurazione sulla vita a favore di un terzo», ma precisa altresì che «la designazione del beneficiario può essere fatta nel contratto di assicurazione, o con successiva dichiarazione scritta comunicata all’assicuratore, o per testamento; essa è efficace anche se il beneficiario è determinato solo genericamente. Equivale a designazione l’attribuzione della somma assicurata fatta nel testamento a favore di una determinata persona. Per effetto della designazione, il terzo acquista un diritto proprio ai vantaggi dell’assicurazione».
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3. La designazione generica del beneficiario: in particolare, gli «eredi legittimi» Nell’ambito dell’assicurazione sulla vita a favore di terzo, la disposizione di cui all’art. 1920 c.c. afferma espressamente che la designazione è efficace «anche se il beneficiario è determinato solo genericamente», con l’ulteriore precisazione secondo cui «per effetto della designazione il terzo acquista un diritto proprio ai vantaggi dell’assicurazione». La designazione, che costituisce esercizio di un diritto personalissimo del contraente6, è un negozio giuridico unilaterale, con il quale si individua il soggetto destinatario della prestazione indennitaria per l’eventualità in cui si verifichi l’evento dedotto in polizza, ossia la morte dell’assicurato. Essa si considera atto unilaterale anche quando sia contenuta ab origine all’interno del contratto, trattandosi comunque di un atto di provenienza esclusiva dell’assicurato, che non richiede il consenso dell’assicuratore e non rappresenta, dunque, un incontro delle volontà di più parti7. La designazione, secondo la dottrina maggioritaria, si configura inoltre come negozio giuridico recettizio, in quanto deve essere portato a conoscenza dell’assicuratore per produrre i suoi effetti8.
In tal senso, si veda L. Bugiolacchi, Assicurazione sulla vita e nuova designazione del beneficiario per disposizione testamentaria incompatibile: il rapporto tra forma e natura dell’atto di designazione, in Resp. civ. prev., 2004, pp. 825 ss. Sulla natura della designazione quale diritto personalissimo del contraente, il quale pertanto non può essere esercitato né dai suoi eredi, né dall’eventuale curatore, né dai suoi creditori in via surrogatoria, cfr. anche A. Polotti di Zumaglia, Un’ulteriore precisazione in tema di designazione di beneficiario nell’assicurazione vita, in Dir. econ. ass., 1997, p. 338. 7 Sulla natura dell’atto di designazione quale negozio giuridico unilaterale, si veda A. La Torre, Assicurazione sulla vita “a favore degli eredi”, in Ass., 1996, p. 95. Sul punto, v. anche A. Di Amato, Negozio unilaterale, morte del dichiarante al momento della recezione e designazione del beneficiario nell’assicurazione vita, in Giust. civ., 1979, p. 677. 8 Così G. Schiavone, Assicurazione sulla vita, designazione degli «eredi legittimi», individuazione dei beneficiari in ipotesi di premorienza, in Resp. civ. prev., 6
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Tuttavia, un indirizzo minoritario ritiene necessaria, ai fini dell’efficacia dell’atto, anche una sua conoscenza da parte del beneficiario, in quanto la dichiarazione di questi di volerne profittare concorre a determinare l’irrevocabilità della designazione, unitamente alla rinuncia scritta al potere di revoca da parte dell’assicurato9. L’assicurato ha la possibilità di designare i beneficiari dell’indennità in modo specifico ovvero in forma generica, individuando i destinatari della prestazione assicurativa per relationem10. È in quest’ultima ipotesi che sorgono le maggiori difficoltà di carattere interpretativo, in particolare se, come nel caso che ci occupa, si richiama genericamente la categoria degli «eredi legittimi e/o testamentari», così ingenerando una sovrapposizione, quanto meno apparente, tra la disciplina del contratto assicurativo e le regole successorie11. La genericità della locuzione induce a domandarsi, in primo luogo, se questa si riferisca a coloro che, in astratto, possano rivestire la qualità di eredi legittimi, ovvero debba intendersi quale richiamo a quei soggetti che siano in concreto destinatari dell’eredità, per averla formalmente o implicitamente accettata.
2021, p. 1519, secondo il quale, ai fini dell’efficacia dell’atto di designazione, non si rende invece necessaria anche la conoscenza da parte del beneficiario, perché la volontà del contraente assicurato può ben essere orientata a mantenere celata la designazione, unitamente alla riserva del potere di revoca. 9 Si veda sul punto P. E. Corrias, Le assicurazioni sulla vita, in Tratt. CicuMessineo, Milano, 2021, p. 139. 10 C. Cicero – C. Argiolas, La generica designazione degli eredi nelle polizze vita: profili di interferenza fra criteri di esegesi del contratto e regole successorie, in Riv. not., fasc. 3, 2017, p. 529, affermano che la designazione potrebbe in concreto prevedere l’utilizzo di formule generiche, quali, a titolo esemplificativo «il mio coniuge; i miei figli; i miei eredi». 11 Sul carattere apparente di tale sovrapposizione, si veda D. Pirilli, La designazione (e la revoca) del beneficiario nell’assicurazione sulla vita tra contratto e successione, in Resp. civ. prev., 2019, pp. 1239 ss., secondo la quale «la designazione a favore degli eredi sembra apparentemente rimandare al sistema successorio», pur senza mutare la natura inter vivos dell’atto di designazione, con la conseguenza che le vicende attinenti all’accettazione dell’eredità non incidono sull’individuazione dei beneficiari e che le quote ereditarie non esercitano alcuna interferenza sulla ripartizione della prestazione assicurativa.
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Gli eredi legittimi, infatti, sono coloro che hanno diritto a subentrare nei rapporti attivi e passivi del defunto in assenza di un testamento, così come previsto dalla disciplina codicistica sulla successione legittima di cui agli artt. 565 c.c. e seguenti. In astratto, sono considerati soggetti successibili ex lege il coniuge, i discendenti legittimi e naturali, gli ascendenti legittimi, i collaterali, gli altri parenti ed infine, in via residuale, lo Stato. Tuttavia, i soggetti chiamati all’eredità non acquistano la qualità di eredi automaticamente a seguito del decesso del de cuius, ma sono tenuti ad esprimere la loro volontà in tal senso mediante l’accettazione dell’eredità, i cui effetti retroagiscono al momento dell’apertura della successione, sicché l’accettante si considera sin da allora quale titolare delle situazioni giuridiche di cui all’asse ereditario12. La volontà di accettare l’eredità, inoltre, può essere manifestata non solo in forma espressa ma anche in forma tacita, qualora il chiamato all’eredità compia «un atto che presuppone necessariamente la volontà di accettare e che non avrebbe il diritto di fare se non nella qualità di erede», secondo quanto previsto espressamente dall’art. 476 c.c. Risulta, dunque, di fondamentale importanza comprendere se l’assicurato, con l’espressione «eredi legittimi», intenda riferirsi ai chiamati all’eredità ovvero agli eredi, da individuarsi solo in coloro i quali abbiano manifestato, esplicitamente o implicitamente, la volontà di accettare l’eredità. In secondo luogo, ci si chiede se il riferimento ad una categoria propria del diritto successorio determini l’operatività di tale disciplina anche sotto il profilo del riparto della prestazione indennitaria, con applicazione delle quote ereditarie previste dalla legge13, ovvero sia solo funzionale alla mera individuazione dei beneficiari,
12 La norma di riferimento è l’art. 459 c.c., il quale afferma espressamente che «l’eredità si acquista con l’accettazione», precisando altresì che «l’effetto dell’accettazione risale al momento nel quale si è aperta la successione». 13 Il riferimento è alle quote stabilite dagli artt. 565 e ss. c.c. in materia di successione dei figli, dei genitori, degli ascendenti, dei fratelli e delle sorelle o di altri parenti, nonché ai casi di concorso di più successibili di cui all’art. 571 c.c.
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senza inficiare i normali criteri di ripartizione di un’obbligazione soggettivamente complessa14. In sede di successione legittima, infatti, gli artt. 565 ss. c.c. individuano espressamente le quote di eredità spettanti ai diversi successibili a seconda del grado di prossimità col defunto, mentre l’art. 571 c.c. regola l’ipotesi di concorso tra gli stessi. I criteri di ripartizione dell’eredità sono ispirati dalla logica di offrire maggiore tutela a chi, secondo l’id quod plerumque accidit, doveva presumersi legato al de cuius da vincoli affettivi più intensi. In quest’ottica, dunque, il codice prevede che al coniuge spetti metà, un terzo o due terzi del patrimonio del defunto a seconda che egli concorra, rispettivamente, con un solo figlio, con più figli o con ascendenti legittimi, fratelli o sorelle. In mancanza di tali soggetti, al coniuge è devoluto l’intero asse ereditario. I figli, invece, succedono al de cuius in parti eguali, escludendo tanto gli ascendenti quanto i collaterali, ma non il coniuge, che, come visto, concorre con essi. In caso di premorienza di un figlio, a questi succedono per rappresentazione i suoi discendenti. Infine, gli ascendenti e i collaterali sono chiamati all’eredità soltanto là dove il defunto non abbia lasciato prole, mentre in mancanza di altri soggetti successibili l’eredità viene devoluta allo Stato. È evidente, pertanto, che l’applicazione delle quote ereditarie previste ex lege in sede di ripartizione dell’indennizzo assicurativo conduce ad esiti profondamente diversi rispetto alla suddivisione del beneficio in parti uguali, come previsto normalmente in caso di obbligazioni plurisoggettive. Per comprendere, dunque, le soluzioni tracciate dalla pronuncia in commento con riferimento ad entrambi i quesiti sopra illustrati, sono indispensabili alcune premesse di carattere teorico in merito Si veda in tal senso A. Penta, L’assicurazione a favore di terzo: la premorienza del beneficiario, in Ridare.it, 2021, p. 5, il quale, dopo aver qualificato l’indennizzo assicurativo quale prestazione divisibile, richiama espressamente i criteri di ripartizione di cui all’art. 1298, comma 2, c.c., a norma del quale, nelle obbligazioni soggettivamente complesse, ove non risulti diversamente dal contratto, ciascun beneficiario potrà esigere direttamente dall’assicurato una quota uguale dell’indennizzo. 14
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alla natura dell’acquisto del diritto alla prestazione indennitaria in capo al terzo beneficiario. L’art. 1920, ultimo comma, c.c., infatti, nell’affermare che dalla designazione discende l’acquisto di un diritto proprio in capo al beneficiario, intende escludere espressamente che la prestazione indennitaria transiti nella sfera patrimoniale dell’assicurato, entrando così a far parte del suo asse ereditario al momento del decesso. Su questo presupposto, la giurisprudenza di legittimità afferma da decenni, come un vero e proprio leitmotiv15, che il designato acquista l’indennità assicurativa iure proprio e non iure successionis, pertanto il beneficiario può rivolgersi direttamente all’assicuratore per ottenere la prestazione16. Indipendentemente dalle modalità della designazione, dunque, il contratto di assicurazione non può essere annoverato tra i negozi mortis causa, difettando l’attribuzione di un quod superest appartenente al patrimonio del de cuius17.
15 Si vedano, ex multis, Cass. civ., 1° ottobre 1994, n. 9388, in Dejure, secondo cui «il diritto del beneficiario alla prestazione dell’assicuratore trova fondamento nel contratto ed è autonomo, cioè non derivato da quello del contraente»; Cass. civ, 14 maggio 1996, n. 4484, in Dir. econ. ass., 1997, p. 334, e in Ass., 1996, p. 88, e in Riv. not., 1996, p. 1490, là dove afferma che «la designazione […] fa sorgere il diritto direttamente in capo al beneficiario, e perciò il diritto stesso trova la sua fonte nel contratto e la relativa tutela è contrattuale»; Cass. civ, 21 dicembre 2016, n. 26606, in Dejure, la quale afferma che «i beneficiari acquistano un diritto proprio all’indennizzo, il quale non entra, perciò, nel patrimonio ereditario oggetto delle (eventuali) disposizioni testamentarie, né della devoluzione agli eredi secondo le regole della successione legittima. Trovando il diritto dei beneficiari fonte nel negozio inter vivos che reca la designazione […]»; nello stesso senso anche Cass. civ., 15 ottobre 2018, n. 25635, in Fam e dir., 2019, pp. 461 ss., nonché in Resp. civ. prev., 2019, pp. 1239 ss. 16 Così A. Penta, L’assicurazione a favore di terzo: la premorienza del beneficiario, cit., pp. 3 ss., il quale rileva che «l’assicurazione sulla vita a favore di un terzo è riconducibile alla più generale figura del contratto a favore di terzi (art. 1411 ss. c.c.), con la differenza che il terzo nell’assicurazione sulla vita acquista il suo diritto ai correlati vantaggi, e dunque all’indennità, per effetto non della stipulazione, ma della designazione, sicché il beneficiario può rivolgersi direttamente al promittente assicuratore per ottenere la prestazione (essendo il contratto la fonte regolatrice dell’acquisto)». 17 In questo senso V. Celli, Al vaglio delle Sezioni Unite tre questioni sulla de
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Il discrimine tra tale categoria e quella dei negozi tra vivi attiene, infatti, alla funzione rivestita dall’evento della morte: se questo si atteggia ad elemento causale del trasferimento, l’atto deve qualificarsi quale mortis causa18; se, invece, il decesso del contraente rappresenta soltanto l’occasione per l’attuazione degli effetti dell’operazione negoziale, la fattispecie assume i tratti del negozio post mortem19. Da ciò consegue, dunque, che il terzo beneficiario, a seguito della designazione in suo favore, acquista un diritto alla prestazione indennitaria caratterizzato da un termine iniziale, la morte dell’assicurato, e da una condizione sospensiva, il non verificarsi di una revoca20. La designazione, dunque, si configura come atto inter vivos con effetti post mortem, in quanto finalizzato alla sola individuaziosignazione degli eredi quali beneficiari di un’assicurazione sulla vita, in giustiziacivile. com, 2020, p. 2, la quale osserva che «anche in caso di designazione testamentaria, infatti, a dispetto di quanto affermato dalla tesi più tradizionale, l’acquisto deve intendersi pur sempre come acquisto tra vivi, limitandosi in tal caso il testamento a veicolare una manifestazione di volontà priva di carattere attributivo». 18 Su tale distinzione, si vedano C. Cicero – C. Argiolas, La generica designazione degli eredi nelle polizze vita: profili di interferenza fra criteri di esegesi del contratto e regole successorie, cit., p. 529, che richiamano la ricostruzione di G. Giampiccolo, Il contenuto atipico del testamento. Contributo ad una teoria dell’atto di ultima volontà, Milano, 1954, pp. 37 ss., e Id., voce Atto mortis causa, in Enc. dir., IV, Milano, 1959, p. 232, secondo il quale il negozio mortis causa si caratterizza per il fatto che l’evento morte rappresenta l’elemento causale dell’attribuzione. Pertanto, secondo tale impostazione, qualora la designazione del beneficiario sia contenuta in testamento, anche il contratto di assicurazione sulla vita si configurerebbe come negozio mortis causa, poiché l’elemento causale dell’attribuzione patrimoniale, prima inesistente, è individuabile nella morte del testatore. Di diverso avviso, tuttavia, la dottrina maggioritaria, tra cui G. Volpe Putzolu, Il contratto di assicurazione quale strumento successorio, in La trasmissione familiare della ricchezza, Padova, 1995, pp. 85 ss., secondo la quale la designazione conserva la sua natura di atto inter vivos anche quando differita in sede testamentaria, dal momento che la morte dell’assicurato costituisce mero termine di efficacia dell’acquisto, e non elemento causale dello stesso. 19 M. Costanza, Negozio mortis causa o post mortem, in Giust. civ., 1991, p. 956. 20 A. Penta, L’assicurazione a favore di terzo: la premorienza del beneficiario, cit., p. 5 rileva che «il codice, nello stabilire all’art. 1920, ultimo comma, che “per effetto della designazione il terzo acquista un diritto proprio ai vantaggi dell’assicurazione”, non lascia dubbi sul fatto che il terzo acquisti un diritto proprio verso l’assicuratore avente la propria fonte nel contratto di assicurazione, per cui la
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ne del beneficiario di un’attribuzione tra vivi, i cui effetti sono differiti alla morte dell’assicurato. Tale qualificazione è condivisa, a ben vedere, anche da quell’orientamento giurisprudenziale minoritario che, disattendendo la tesi maggioritaria, ritiene applicabili le norme sulla successione legittima anche in sede di ripartizione dei vantaggi assicurativi tra gli eredi legittimi21. Più che di un orientamento, trattasi in realtà di un unicum giurisprudenziale, che pur pervenendo a conclusioni opposte rispetto a quelle già delineate sotto il profilo della ripartizione della prestazione, ribadisce in ogni caso la premessa secondo cui «che l’art. 1920 c.c., comma 2, attribuisca al terzo erede un diritto proprio è principio che riguarda il rapporto contrattuale fra assicuratore e terzo». Difatti, la questione di diritto sottoposta al vaglio delle Sezioni Unite non attiene, a ben vedere, alla natura del diritto del terzo, né alla fonte del relativo acquisto – univocamente riconosciuta quale contrattuale e non successoria – quanto invero alla sussistenza, in caso di designazione generica degli eredi legittimi e/o testamentari quali beneficiari dell’indennità assicurativa, di un vero e proprio rinvio alle norme sulla successione in merito alla ripartizione delle quote. Tanto premesso, si può dunque passare all’esame delle questioni di diritto sulle quali si è pronunciata di recente la Suprema Corte, ponendo fine ad un’impasse determinata dalla citata sentenza del 2015, che si è posta in radicale antitesi con gli orientamenti maggioritari in dottrina e in giurisprudenza.
morte vale solo come condizione dell’esigibilità del credito nei confronti dell’assicuratore e non come elemento costitutivo del medesimo». 21 Il riferimento è a Cass. civ., 29 settembre 2015, n. 19210, in Riv. not., 2017, pp. 529 ss., la quale afferma che «il dire che qualcuno è erede di un soggetto significa, secondo l’espressione letterale, evocare tanto chi lo è quanto anche in che misura lo è: il carattere polisenso dell’espressione letterale esclude che la presenza in una polizza assicurativa di un riferimento agli eredi sic et simpliciter come beneficiari per il caso di morte dello stipulante possa intendersi di per sé significativa solo dell’individuazione della qualità e non anche della misura della posizione ereditaria».
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Il primo quesito posto dall’ordinanza interlocutoria attiene all’interpretazione del termine «eredi legittimi e/o testamentari», frequentemente impiegato ai fini della designazione del beneficiario di una prestazione assicurativa sulla vita. In particolare, ci si è chiesti se il termine «eredi» dovesse essere declinato nell’accezione atecnica di «successibili», da individuarsi nei chiamati all’eredità, a prescindere dall’accettazione e dal titolo di vocazione, ovvero dovesse intendersi come indicativo di coloro i quali, tra i successibili, avessero effettivamente acquisito il titolo di erede, per aver accettato la chiamata all’eredità. Giova ricordare, infatti, che i chiamati all’eredità potrebbero anche decidere di non accettare ovvero di rinunciare espressamente alla stessa, attraverso una dichiarazione unilaterale non recettizia, così come previsto dall’art. 519 c.c., sicché questi non acquisteranno la qualità di eredi del de cuius. La sentenza commentata, muovendo dal presupposto della natura dell’atto di designazione quale negozio inter vivos con effetti post mortem, perviene dunque alla seguente conclusione: la generica designazione degli «eredi» deve riferirsi a coloro che, al momento della morte del contraente, rivestivano tale qualità in forza dell’astratta delazione ereditaria, non rilevando eventuali vicende modificative della stessa legate alla rinunzia o all’accettazione. Con l’espressione delazione ereditaria deve intendersi la mera offerta del patrimonio ereditario nei confronti di chi ha diritto di riceverla, per legge o per testamento, ai sensi dell’art. 457 c.c., la quale fa sorgere, in capo al delato, il diritto di accettare o di rinunziare all’eredità. Nel caso di specie, pertanto, il termine eredi, avendo valenza meramente soggettiva e descrittiva, vale solo a fornire all’assicuratore un criterio univoco di specificazione dei beneficiari, indipendentemente dalla rinunzia o dall’accettazione della vocazione22. 22 In senso contrario, si veda G. Schiavone, Assicurazione sulla vita, designazione degli «eredi legittimi», individuazione dei beneficiari in ipotesi di premorienza, cit., pp. 1520-1521, secondo il quale «il diritto ereditario non conosce un ‘erede in astratto’ e un ‘erede effettivo’. […] Prescindere dal titolo di erede e indivi-
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Ritenere, viceversa, che gli aventi diritto alla prestazione debbano necessariamente coincidere con coloro i quali abbiano effettivamente accettato l’eredità significherebbe disconoscere il principio dell’acquisto iure proprio del diritto in capo agli stessi, atteso che tale situazione giuridica, traendo origine non dal patrimonio del de cuius, bensì dall’atto di designazione, resta del tutto estranea alle vicende successorie. Tali argomentazioni sono dunque efficacemente sintetizzate dalla Corte nel primo principio di diritto enunciato dalla sentenza in commento, secondo il quale «la designazione generica degli ‘eredi’ come beneficiari di un contratto di assicurazione sulla vita, in una delle forme previste dall’art. 1920 c.c., comporta l’acquisto di un diritto proprio ai vantaggi dell’assicurazione da parte di coloro che, al momento della morte del contraente, rivestano tale qualità in forza del titolo della astratta delazione indicata all’assicuratore per individuare i creditori della prestazione».
4. Irrilevanza della disposizione testamentaria successiva alla designazione Premesso, dunque, che in caso di designazione generica degli «eredi» questi debbano essere intesi come coloro che astrattamente rivestano tale qualità al momento della morte dell’assicurato, le Sezioni Unite sono state altresì investite di una seconda questione, relativa al rilievo da attribuirsi ad una successiva designazione testamentaria degli eredi da parte del contraente.
duare i beneficiari con riferimento ai successibili ex lege al momento di apertura della successione […] non si può dire che sia un criterio coerente con il sistema giuridico e, soprattutto, rispettoso della volontà dell’assicurato. Questi potrebbe anche ignorare la differenza tra la posizione del successibile meramente chiamato e l’acquisizione del titolo di erede, ma di certo […] non vuole annoverare tra i beneficiari della stipulazione assicurativa chi si è rivelato ex post ‘indegno a succedere’ o chi si disinteressi dei rapporti facenti capo al de cuius, rinunciando espressamente all’eredità».
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Ci si è chiesti, in particolare, se l’istituzione di eredi testamentari da parte dell’assicurato, effettuata dopo la stipula del contratto assicurativo e, quindi, dopo la designazione degli «eredi legittimi» quali beneficiari dell’indennità, debba essere intesa quale nuova designazione, idonea a revocare implicitamente la precedente. Anzitutto, la disciplina della revoca della designazione è dettagliatamente contenuta all’art. 1921 c.c., che prevede il diritto dello stipulante di revocare il beneficio, sostituendolo o meno con una nuova designazione, nelle stesse forme previste quest’ultima, ossia con atto inter vivos successivo alla stipulazione, ovvero mediante testamento23. Nell’assicurazione sulla vita, inoltre, la revoca della designazione trova ancora più ampio spazio rispetto al genus del contratto a favore di terzo: nella prima ipotesi, infatti, l’assicurato può sempre revocare il beneficio anche là dove sia intervenuta una dichiarazione da parte del beneficiario di volerne profittare, salvo che egli abbia espressamente rinunciato al potere di revoca ex art. 1921, comma 2, c.c.; nel secondo caso, invece, è sempre preclusa allo stipulante la possibilità di revocare il beneficio successivamente alla dichiarazione del terzo di voler profittare della prestazione24. Se, da un lato, dunque, non sussistono particolari problemi con riferimento alla possibilità di una revoca esplicita della designazio Ai sensi dell’art. 1921 c.c. «la designazione del beneficiario è revocabile con le forme con le quali può essere fatta a norma dell’articolo precedente. La revoca non può tuttavia farsi dagli eredi dopo la morte del contraente, né dopo che, verificatosi l’evento, il beneficiario ha dichiarato di voler profittare del beneficio. Se il contraente ha rinunziato per iscritto al potere di revoca, questa non ha effetto dopo che il beneficiario ha dichiarato al contraente di voler profittare del beneficio. La rinuncia del contraente e la dichiarazione del beneficiario devono essere comunicate per iscritto all’assicuratore». 24 L. Bugiolacchi, Assicurazione sulla vita e nuova designazione del beneficiario per disposizione testamentaria incompatibile: il rapporto tra forma e natura dell’atto di designazione, cit., p. 828, afferma a riguardo che «se, invece, l’indicazione del beneficiario è stata dichiarata irrevocabile per iscritto, come previsto dal secondo comma dell’art. 1921 c.c., l’irrevocabilità produce solo un effetto limitato, quello cioè di non consentire la revoca solo a partire dal momento in cui il beneficiario abbia dichiarato al contraente di volerne profittare, e ciò anche prima del verificarsi dell’evento». 23
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ne in sede testamentaria, indubbiamente idonea ad incidere su una precedente disposizione contrattuale qualora la volontà del testatore sia espressa in tal senso in maniera univoca, dall’altro lato, invece, maggiori dubbi sorgono con riguardo alla possibilità di una revoca testamentaria tacita25. L’ipotesi oggetto di analisi è, dunque, quella in cui lo stipulante, dopo aver designato genericamente quali beneficiari della prestazione assicurativa i suoi «eredi legittimi», indichi successivamente quali eredi testamentari dei soggetti diversi, senza tuttavia menzionare esplicitamente la somma assicurata quale oggetto dell’attribuzione testamentaria, né tanto meno la sua volontà di revocare la precedente disposizione contrattuale. Secondo l’orientamento prevalente presso la giurisprudenza legittimità, tale condotta non è di per sé idonea a manifestare univocamente la volontà di revoca della precedente designazione contrattuale in favore degli «eredi legittimi»26. Cfr. sul punto V. Celli, Al vaglio delle Sezioni Unite tre questioni sulla designazione degli eredi quali beneficiari di un’assicurazione sulla vita, cit., pp. 5 ss., la quale distingue tra due diverse ipotesi: un primo caso è quello del contratto di assicurazione sulla vita stipulato in favore degli eredi legittimi, cui segua un’istituzione ereditaria di soggetti diversi designati altresì ex testamento quali beneficiari della somma assicurata, rispetto al quale non vi sono dubbi circa la volontà del contraente testatore di revocare, sia pur implicitamente, l’originaria designazione; un secondo caso più problematico, invece, è quello in cui la nuova designazione, da valere come revoca implicita della precedente, è tanto compenetrata nel contenuto del testamento da confondersi nell’ambito di altre disposizioni attributive. Se, ad esempio, il testatore attribuisce la somma assicurata a soggetti diversi dagli eredi legittimi, tale attribuzione equivale a nuova designazione, idonea a revocare implicitamente la precedente. Se, invece, il testatore si limita a nominare soggetti diversi dagli eredi legittimi quali eredi testamentari, in mancanza di qualsiasi riferimento alla somma assicurata, non è ravvisabile secondo la giurisprudenza prevalente alcuna revoca dell’originaria designazione. 26 In tal senso, v. Cass. civ., 21 dicembre 2016, n. 26606, cit., là dove afferma che «deve negarsi che, in difetti di alcun riferimento alla designazione formulata nel contratto, la disposizione testamentaria possa di per se sola integrare univoca manifestazione volontà di revoca, anche tacita, della (ovvero che sia incompatibile con la) designazione avvenuta nel contratto di assicurazione, atteso che, per quel che si è detto, il diritto azionato dall’attrice trova fonte nel contratto di assicurazione stipulato dal de cuius a favore dei terzi ivi indicati e pertanto, al momento della morte dell’assicurato, non rientra nel patrimonio ereditario». 25
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Là dove, infatti, da un’analisi ermeneutica del testamento non si evinca alcuna intenzione «diseredativa» nei confronti degli eredi legittimi, dalla quale poter dedurre l’implicita volontà di una revoca della disposizione in loro favore, la sola esistenza di un testamento con istituzione di un erede diverso non può essere considerata di per sé incompatibile con l’attribuzione del beneficio indennitario ad altri soggetti in virtù del contratto di assicurazione27. Una parte della giurisprudenza di merito, invece, perviene a conclusioni opposte, ritenendo che la mera redazione di un testamento in epoca successiva alla designazione, con istituzione di erede universale diverso dagli eredi legittimi, assuma una «chiara valenza di revoca dell’originario beneficiario» designato in contratto28. In questo modo, tuttavia, si prescinde da un’interpretazione del contenuto del testamento, tesa ad indagare la reale intenzione dello stipulante, considerando erroneamente il fatto storico dell’esistenza in sé di un testamento in favore di soggetti diversi dagli eredi legittimi come indice di una inequivoca volontà di revoca della disposizione nei loro confronti. Trattasi, a ben vedere, di un salto logico che non tiene conto del fatto che una cosa è il contratto di assicurazione sulla vita, altra cosa è la successione legittima e/o testamentaria. Si veda D. Pirilli, La designazione (e la revoca) del beneficiario nell’assicurazione sulla vita tra contratto e successione, cit., pp. 1239 ss., secondo la quale non è possibile ravvisare prima facie una inconciliabilità tra due determinazioni che si pongono su piani differenti: la designazione del beneficiario in favore degli eredi legittimi e l’individuazione quale successore di un erede universale, istituito per testamento, sono difatti due vicende ontologicamente autonome, sicché non è possibile discorrere di una (presunta) preminenza della successione testamentaria su quella legittima, come invece sostenuto da talune Corti di merito. 28 Ad esempio, Cass. civ., 15 ottobre 2018, n. 25635, cit., nel cassare la pronuncia di App. Trento, 10 dicembre 2016, afferma che «la motivazione della Corte di Trento è errata, perché fondata sulla rilevanza della successiva istituzione testamentaria dell’attrice quale erede universale». Secondo la Corte territoriale, infatti, «l’art. 1921 c.c. consente all’assicurato di revocare la designazione del beneficiario attraverso il testamento e osserva che la redazione di un testamento successivo alla stipula del contratto di assicurazione con istituzione di un erede assume “chiara valenza di revoca dell’originario beneficiario, individuato negli eredi legittimi”». 27
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Se è pur vero, infatti, che l’art. 1920 c.c. ammette una correlazione tra i due ambiti, prevedendo che la revoca della designazione possa essere fatta mediante testamento, ciò non significa che questa possa implicitamente desumersi dalla mera esistenza del testamento, dovendosi in ogni caso indagare se in esso si faccia riferimento o meno alla prestazione indennitaria di cui al contratto di assicurazione. Dunque, in conclusione, secondo la Suprema Corte, le due designazioni – quella effettuata nel contratto in favore del beneficiario, prima, e quella operata nel testamento in favore dell’erede, dopo – non si configurano affatto come incompatibili, sì da postulare un favor testamenti, posto che con la disposizione testamentaria l’assicurato non intende necessariamente revocare l’iniziale designazione in favore degli eredi legittimi, salvo che egli non ricomprenda espressamente la somma assicurata nell’attribuzione devoluta all’erede designato per testamento29.
5. Le quote di ripartizione dell’indennità nell’ipotesi di premorienza del beneficiario Con la terza questione, infine, le Sezioni Unite sono state chiamate a stabilire se, in presenza di una generica designazione degli eredi, la ripartizione della prestazione assicurativa debba seguire la misura delle quote ereditarie previste dalla legge, oppure, al contrario, debba avvenire in parti uguali. Afferma, infatti, V. Celli, Al vaglio delle Sezioni Unite tre questioni sulla designazione degli eredi quali beneficiari di un’assicurazione sulla vita, cit., pp. 6 ss., che non è possibile applicare al caso di specie la regola di cui all’art. 682 c.c., in virtù della quale il testamento posteriore, che non revoca in modo espresso i precedenti, annulla in questi soltanto le disposizioni che sono con esso incompatibili. Ed in ogni caso, anche là dove si volesse applicare detta regola, non sussisterebbe comunque l’incompatibilità richiesta dalla norma, poiché la volontà di istituire un soggetto quale erede testamentario non collide non la volontà di designare un altro soggetto quale beneficiario di una prestazione indennitaria, salvo che la somma assicurata sia ricompresa esplicitamente nell’attribuzione devoluta mediante testamento. 29
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Sebbene, infatti, l’orientamento maggioritario si sia sempre espresso a favore di quest’ultima soluzione30, la Suprema Corte, con il revirement operato dalla citata pronuncia del 2015, è pervenuta a conclusioni opposte quanto ai criteri di liquidazione dell’indennità assicurativa, affermando che la designazione generica degli eredi non possa spiegare i suoi effetti solo con riferimento alla individuazione soggettiva dei beneficiari31. Secondo tale sentenza, infatti, la suddivisione dell’indennizzo in parti uguali non tiene conto della plausibile volontà del contraente, il quale, individuando quali beneficiari della prestazione gli «eredi testamentari o legittimi», intende richiamare l’intera disciplina successoria che regola il loro status, non solo ai fini della loro identificazione, ma anche ai fini della ripartizione delle rispettive quote. La decisione richiama, a tal fine, sia il criterio dell’interpretazione letterale del contratto32, sia quello dell’interpretazione teleologica di cui all’art. 1362 c.c.33. Tale disposizione, che impone di indagare la comune volontà dei contraenti, avrebbe dovuto indurre a ritenere Si vedano, ex multis, Cass. civ., 1° ottobre 1994, n. 9388, in Dejure; Cass. civ, 14 maggio 1996, n. 4484, in Dir. econ. ass., 1997, p. 334, e in Ass., 1996, p. 88, e in Riv. not., 1996, p. 1490; Cass. civ, 21 dicembre 2016, n. 26606, in Dejure, Cass. civ., 15 ottobre 2018, n. 25635, in Fam e dir., 2019, pp. 461 ss., nonché in Resp. civ. prev., 2019, pp. 1239 ss. 31 Cass. civ., 29 settembre 2015, n. 19210, cit. 32 Secondo Cass. civ., 29 settembre 2015, n. 19210, cit., infatti, l’orientamento contrario è «anzitutto privo di giustificazione sul piano dell’esegesi letterale, atteso che, secondo il senso letterale dell’espressione “erede”, tanto se l’eredità sia stata devoluta ab intestato quanto se sia stata devoluta per testamento, l’evocazione con detta espressione della figura dell’erede non può che implicare un riferimento non solo al modo in cui tale qualità è stata acquisita e, quindi, alla fonte della successione, ma anche alla dimensione di tale acquisizione e, dunque, al valore della posizione ereditaria secondo quella fonte». 33 Ai sensi dell’art. 1362 c.c., infatti, «nell’interpretare il contratto si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole. Per determinare la comune intenzione delle parti, si deve valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto». Tale disposizione, dunque, indica quale prima regola di interpretazione soggettiva l’intenzione comune delle parti, rifiutando, da un lato, il formalismo del senso letterale delle parole usate, e garantendo, dall’altro lato, che si tenga conto della volontà di entrambi i contraenti. 30
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che l’assicurato, mediante la designazione degli eredi quali beneficiari della prestazione, non intendesse solo identificare sul piano soggettivo gli aventi diritto alla stessa, bensì anche ripartire il beneficio assicurativo in proporzione alle quote successorie34. La pronuncia è stata sin da subito oggetto di critiche da parte della giurisprudenza maggioritaria35, a partire dalla considerazione secondo cui dalla natura della designazione quale atto inter vivos, discende, di conseguenza, l’inapplicabilità alla stessa delle regole sulla successione ereditaria e della ripartizione dell’indennizzo in proporzione alle quote successorie. La designazione generica, infatti, fa sorgere in capo ai chiamati all’eredità, in forza di una eadem causa obligandi, il diritto proprio ad una prestazione divisibile, costituita dall’indennizzo assicurativo: pertanto, come in ogni altra obbligazione soggettivamente complessa, qualora non risulti diversamente dal contratto, ciascun beneficiario ha diritto ad una quota uguale di indennizzo, a norma del disposto di cui all’art. 1298, co. 2, c.c. in tema di obbligazioni solidali36. Secondo Cass. civ., 29 settembre 2015, n. 19210, cit., «ove, poi, si passi all’uso doveroso, secondo il paradigma dell’art. 1362 c.c., del criterio dell’interpretazione secondo la comune intenzione delle parti, è sufficiente interrogarsi su che cosa comunemente si intenda per erede ab intestato e per erede testamentario e, dunque, riflettere sul fatto che quando lo stipulante e la società assicuratrice prevedono per il caso di morte dello stipulante come beneficiari gli eredi legittimi in mancanza di eredi testamentari, la comune intenzione delle parti non può che essere se non quella di voler alludere alla misura in cui la successione secondo l’uno o l’altro titolo si verificherà». 35 Si veda, ex multis, D. Pirilli, La designazione (e la revoca) del beneficiario nell’assicurazione sulla vita tra contratto e successione, cit., pp. 1239 ss., la quale ritiene che si tratti di «una posizione non condivisibile, per almeno due ordini di motivi: in primo luogo perché, come accennato, la vicenda contrattuale è sganciata da quella successoria e l’attribuzione del beneficio trova la propria causa giustificatrice nel contratto, non nella successione. Ne consegue – ed entra in gioco la seconda osservazione – che una attribuzione diseguale dovrebbe trovare la propria giustificazione in una espressa volontà in tal senso del contraente, non essere desunta dalla sola circostanza secondo cui l’assicurato ha scelto un criterio di individuazione per relationem di rinvio al sistema successorio». 36 Ai sensi dell’art. 1298 c.c., rubricato «rapporti interni tra debitori o creditori solidali», «nei rapporti interni l’obbligazione in solido si divide tra i diversi 34
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La sottrazione dell’indennità alle regole della successione mortis causa deriva, come si è visto, dall’assenza di un trasferimento immediato tra contraente e beneficiario, giacché la prestazione proviene dal patrimonio dell’assicuratore e non, invece, dall’asse ereditario dell’assicurato. Resta ferma, ovviamente, la indiscussa possibilità del contraente, nel designare gli eredi quali beneficiari, di indicare gli stessi nominativamente e/o stabilire in quali misure debba suddividersi tra loro l’indennizzo. Nel caso in cui ciò non accada, tuttavia, diversamente da quanto affermato nella citata pronuncia del 2015, non è possibile applicare alcuna «regola di completamento» che, in via integrativa e non interpretativa, comporti altresì un rinvio alle quote di ripartizione dell’eredità secondo le regole della successione legittima o testamentaria37. Riconducendo dunque ad univocità gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità, la sentenza commentata enuncia il secondo principio di diritto, in virtù del quale «la designazione generica degli “eredi” come beneficiari di un contratto di assicurazione sulla vita, in difetto di una inequivoca volontà del contraente in senso debitori o tra i diversi creditori, salvo che sia stata contratta nell’interesse esclusivo di alcuno di essi. Le parti di ciascuno si presumono uguali, se non risulta diversamente». La definizione di obbligale solidale è invece sancita all’art. 1292 c.c., a norma del quale «l’obbligazione è in solido quando più debitori sono obbligati tutti per la medesima prestazione, in modo che ciascuno può essere costretto all’adempimento per la totalità e l’adempimento da parte di uno libera gli altri; oppure quando tra più creditori ciascuno ha diritto di chiedere l’adempimento dell’intera obbligazione e l’adempimento conseguito da uno di essi libera il debitore verso tutti i creditori». 37 Contra V. Celli, Al vaglio delle Sezioni Unite tre questioni sulla designazione degli eredi quali beneficiari di un’assicurazione sulla vita, cit., p. 4, secondo cui «sembra tuttavia più persuasiva l’idea secondo cui l’aver designato quali beneficiari i propri eredi non solo non muta la natura inter vivos del loro acquisto, ma non esclude necessariamente che questi, pur divenendo titolari un diritto autonomo, lo acquistino secondo le regole successorie. Da questo punto di vista, dunque, merita accoglimento l’approccio adottato dalla Suprema Corte nel 2015 che, pur mantenendo ferma la convinzione secondo cui si tratta di un acquisto iure proprio, non deduce automaticamente la necessaria ripartizione in parti uguali della somma assicurata».
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diverso, non comporta la ripartizione dell’indennizzo tra gli aventi diritto secondo le proporzioni della successione ereditaria, spettando a ciascuno dei creditori, in forza della eadem causa obligandi, una quota uguale dell’indennizzo riparativo». Ciò premesso, resta da comprendere cosa accada invece nel caso in cui l’erede legittimo, designato quale beneficiario della prestazione indennitaria, premuoia all’assicurato. L’ipotesi, con riferimento al contratto a favore di terzo, è disciplinata all’art. 1412, comma 2, c.c., il quale sancisce la trasmissibilità agli eredi del terzo premorto della titolarità dei vantaggi dell’assicurazione, affermando che «la prestazione deve essere eseguita a favore degli eredi del terzo se questi premuore allo stipulante, purché il beneficio non sia stato revocato o lo stipulante non abbia disposto diversamente». Applicando, quindi, la citata disposizione al caso dell’assicurazione sulla vita a favore di terzo, ne consegue che l’erede del terzo premorto acquista il diritto alla prestazione non già iure proprio – come invece accade per il terzo designato – bensì iure hereditatis, e quindi in proporzione alla rispettiva quota ereditaria, configurandosi una vera e propria successione mortis causa nel diritto contrattuale all’indennizzo che è entrato a far parte del patrimonio del terzo prima della sua morte, in forza dell’atto di designazione. La trasmissibilità del diritto agli eredi del terzo premorto rappresenta, dunque, ulteriore conferma, del fatto che l’acquisto del beneficiario interviene anteriormente alla morte dello stipulante, ossia al momento della designazione, sicché il decesso dell’assicurato non potrà che costituire un mero termine di efficacia dell’acquisto già avvenuto in capo al terzo. Se, da un lato, non dubita dell’applicabilità dell’art. 1412, comma 2, c.c. al caso di specie quell’orientamento maggioritario che considera l’assicurazione sulla vita a favore di terzo come species dello schema generale di cui agli artt. 1411 ss. c.c.38, dall’altro lato, invece, Su tale posizione si veda, per tutti, A. Penta, L’assicurazione a favore di terzo: la premorienza del beneficiario, cit., p. 4, secondo cui «l’attribuzione del diritto iure proprio al beneficiario per effetto della designazione giustifica altresì l’applicabi38
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una tesi minoritaria nega l’operatività dell’art. 1412 c.c. nell’ipotesi di assicurazione sulla vita e premorienza del beneficiario, sul presupposto che trattasi di un negozio teso a realizzare un atto di previdenza intuitu personae, con la conseguenza che, in caso di premorte del designato, l’attribuzione non potrà che andare a vantaggio degli altri eredi, con accrescimento delle relative quote39. Tale ultima impostazione, tuttavia, non è condivisibile, in quanto si pone in evidente contrasto con l’intera disciplina successoria e, in particolare, con l’istituto della rappresentazione di cui all’art. 467 c.c.40. Tale disposizione, infatti, prevede espressamente che nel caso in cui l’erede non voglia o non possa accettare l’eredità – ad esempio, per premorienza – si verifichi il subentro dei suoi discenlità all’assicurazione sulla vita per il caso morte del secondo comma dell’art. 1412 c.c., con conseguente trasmissibilità agli eredi del terzo premorto della titolarità dei vantaggi dell’assicurazione. In tal caso, l’acquisto del diritto alla prestazione assicurativa in favore degli eredi del beneficiario premorto rispetto allo stipulante opera, peraltro, iure hereditatis, e non iure proprio, e quindi in proporzione delle rispettive quote ereditarie, trattandosi di successione nel diritto contrattuale all’indennizzo entrato a far parte del patrimonio del designato prima della sua morte, nella medesima misura che sarebbe spettata al beneficiario premorto, secondo la logica degli acquisti a titolo derivativo (quale conseguenza dell’acquisto già avvenuto in capo a quest’ultimo)». 39 Tale impostazione è sostenuta, ad esempio, da G. Volpe Putzolu, Il contratto di assicurazione quale strumento successorio, cit., p. 2106, che, negando la sussumibilità dell’assicurazione per il caso di morte entro il genus del contratto in favore di terzo, esclude l’applicazione analogica dell’art. 1412, comma 2, c.c. e, di conseguenza, la trasmissibilità del diritto alla prestazione assicurativa agli eredi del beneficiario premorto allo stipulante. A tale orientamento minoritario accede anche una parte della giurisprudenza di merito, v. tra tutte App. Firenze, 6 giugno 2011, in Ass., 2011, p. 555, là dove afferma che il diritto alla somma assicurata non si trasmette agli eredi del beneficiario, trattandosi di una prestazione di carattere personale, da attribuirsi solo al designato ovvero, in caso di premorienza di questi, agli altri aventi causa dell’assicurato. 40 Secondo l’art. 467 c.c. «la rappresentazione fa subentrare i discendenti nel luogo e nel grado del loro ascendente, in tutti i casi in cui questi non può o non vuole accettare l’eredità o il legato. Si ha rappresentazione nella successione testamentaria quando il testatore non ha provveduto per il caso in cui l’istituito non possa o non voglia accettare l’eredità o il legato, e sempre che non si tratti di legato di usufrutto o di altro diritto di natura personale».
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denti nel luogo e nel grado del loro dante causa, e non l’incremento delle quote spettanti agli altri eredi. L’unica eccezione alla regola della rappresentazione è rappresentata, infatti, dal legato di usufrutto e dai diritti di natura personale, quali il legato di uso, di abitazione o di alimenti, tra cui non è possibile ricomprendere, neppure mediante interpretazione estensiva, l’indennità derivante da un contratto di assicurazione sulla vita, che rappresenta invero un diritto di fonte contrattuale facente parte del patrimonio del de cuius alla stregua di ogni altro acquisto intervenuto nel corso della vita di questi, con conseguente trasmissibilità ai discendenti ai sensi dell’art. 467 c.c. Al fine di comporre il delineato contrasto, è intervenuta, dunque, ancora una volta, la Suprema Corte, affermando il seguente, ultimo, principio di diritto: «allorché uno dei beneficiari di un contratto di assicurazione sulla vita premuore al contraente, la prestazione, se il beneficio non sia stato revocato o il contraente non abbia disposto diversamente, deve essere eseguita a favore degli eredi del premorto in proporzione della quota che sarebbe spettata a quest’ultimo».
6. Rilievi conclusivi Chiariti i principi enunciati dalle Sezioni Unite con riferimento all’ipotesi di premorienza del beneficiario di indennità assicurativa sulla vita, genericamente designato nella sua qualità di «erede legittimo» dell’assicurato, si rende ora necessario applicare tali coordinate ermeneutiche al caso di specie, al fine di comprendere la decisione oggetto di commento. Giova ricordare che, secondo quanto argomentato dalla ricorrente BNP Paribas Cardif Vita Compagnia di Assicurazione e Riassicurazione S.p.A., la prestazione assicurativa doveva essere correttamente ripartita in parti uguali tra A.B.G., fratello dell’assicurato, e i quattro figli di A.A., sorella dell’assicurato premorta allo stesso. Invero, secondo la prospettazione del resistente e ricorrente incidentale A.B.G., accolta dalla Corte di Appello di Catania, questi
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aveva diritto a metà dell’indennizzo assicurativo, in proporzione alla sua quota ereditaria, mentre la restante metà doveva essere suddivisa in parti uguali tra i quattro figli di A.A., ad essa subentrati per rappresentazione. La Corte di Cassazione, in accoglimento del ricorso, ha concluso per la ripartizione dell’indennità assicurativa in cinque parti uguali tra A.B.G. e i quattro figli della defunta sorella A.A., premorta all’assicurato. Tale conclusione, ad una prima analisi, potrebbe apparire in contrasto con quanto in precedenza affermato dagli stessi giudici di legittimità con riferimento all’ipotesi di premorienza del beneficiario, ossia che, in una siffatta evenienza, gli eredi del beneficiario debbano subentrare per rappresentazione nel luogo e nel grado dello stesso. Se, infatti, l’acquisto del diritto in capo agli eredi avviene iure hereditatis e non iure proprio, diversamente da quanto accade per il terzo beneficiario, ne consegue che l’indennità dovrà essere suddivisa tra questi in proporzione alle rispettive quote ereditarie e non in parti uguali. Diversamente, nel caso in cui non si verifichi la premorienza del beneficiario rispetto all’assicurato, e questi abbia indicato genericamente quali beneficiari i propri «eredi legittimi», l’indennità dovrà ripartirsi in parti uguali tra tutti i soggetti designati, trattandosi di un diritto che ha la sua fonte nel contratto di assicurazione e non nella successione ereditaria. Tuttavia, nel caso di specie, la Suprema Corte giunge alla conclusione della corretta suddivisione dell’indennizzo in parti uguali, pur in presenza di una situazione di premorienza di A.A., sorella dell’assicurato, in quanto il decesso di quest’ultima si è verificato in epoca antecedente alla stessa designazione, persino prima della stipula del contratto assicurativo. Dunque, se l’assicurato ha individuato quali beneficiari i propri «eredi legittimi», ma, all’epoca della designazione, la di lui sorella A.A. non era già più in vita, ne deriva con tutta evidenza che questa non poteva in alcun modo essere individuata quale erede legittima del contraente.
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Di conseguenza, non avendo A.A. acquistato alcun diritto alla prestazione, per essere deceduta prima ancora della stipula del contratto di assicurazione, non può essersi verificata alcuna trasmissione per rappresentazione di tale diritto in favore dei di lei figli, che hanno pertanto acquistato il beneficio assicurativo iure proprio e non iure hereditatis, in quanto soggetti che, unitamente ad A.B.G., rivestivano di fatto la qualità di eredi al momento della morte dell’assicurato. Per questo motivo, in conclusione, la decisione della Suprema Corte di suddividere la prestazione indennitaria in parti uguali tra il fratello del contraente e i suoi quattro nipoti si configura in realtà come perfettamente coerente con le premesse dalle quali la pronuncia muove, dovendosi sempre distinguere caso per caso se l’acquisto del diritto abbia la sua fonte nel contratto, ovvero nella successione ereditaria, al fine di determinare il corretto criterio di riparto del beneficio assicurativo.
Corte di Cassazione – Sezione Seconda Civile 8 luglio 2021, n. 19434 (ord.) Presidente Manna, Estensore Giusti Contratti – Credito ai consumatori finalizzato all’acquisto di un bene o di un servizio – Collegamento negoziale di fonte legale – Necessità di riscontrare la volontà dei contraenti – Esclusione Ai sensi degli artt. 121 e 124 del d.lgs. n. 385 del 1993, nel testo originario, applicabile ratione temporis, tra i contratti di credito al consumo finalizzati all’acquisto di determinati beni o servizi ed i contratti di acquisto dei medesimi ricorre un collegamento negoziale di fonte legale, che prescinde dalla sussistenza di una esclusiva del finanziatore per la concessione di credito ai clienti dei fornitori; il giudice del merito, pertanto, in sede di accertamento non deve riscontrare la volontà dei contraenti, ma ha solo il compito di verificare le clausole del contratto di finanziamento e trarre le conseguenze, in concreto, dell’incidenza su di esso della dedotta assenza di un collegato contratto di compravendita, ovvero dell’impiego della somma mutuata per una finalità diversa da quella indicata in contratto e corrispondente a una della tipologie di impiego tassativamente previste dal legislatore (massima ufficiale).
Dalla motivazione (omissis) 1.1. Ritiene il Collegio di dover assicurare continuità ai precedenti di questa Corte (Cass., Sez. III, 30 settembre 2015, n. 19522; Cass., Sez. II, 19 dicembre 2018, n. 32915), secondo cui, ai sensi degli articoli 121 e 124 del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, approvato con il Decreto Legislativo n. 385 del 1993, (nel testo originario, anche nella presente fattispecie applicabile ratione temporis), tra i contratti di credito al consumo finalizzati all’acquisto di determinati beni o servizi ed i contratti di acquisto dei medesimi ricorre un collegamento negoziale di fonte legale, che
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prescinde dalla sussistenza di una esclusiva del finanziatore per la concessione di credito ai clienti del fornitore. Invero, nella fattispecie risulta pacifica l’avvenuta conclusione di un contratto di finanziamento riconducibile alla previsione normativa in materia di credito al consumo, ancorché la difesa della controricorrente ribadisca di non essere legata da alcun rapporto di esclusiva con la società che, in base al contratto, avrebbe dovuto fornire i beni in vista del cui acquisto era concesso il mutuo. La sentenza impugnata dà infatti atto che nella specie il finanziamento era stato concesso per l’acquisto di economizzatori per caldaie con l’indicazione dei beni nel contratto (“come voluto dall’articolo 124 TUB”). Per il passato, e cioè prima dell’introduzione delle norme di cui all’articolo 121 e ss. del testo unico bancario, era evidente che il riscontro dell’esistenza di un collegamento negoziale tra il contratto di mutuo ed il successivo contratto volto a procurare l’acquisto per il quale era stata richiesta la somma mutuata, presupponeva che il collegamento scaturisse dalla genesi stessa del rapporto, dalla circostanza cioè che uno dei due negozi trovasse la propria causa (e non il semplice motivo) nell’altro, nonché dall’intento specifico e particolare delle parti di coordinare i due negozi, instaurando tra di essi una connessione teleologica: sicché, soltanto se la volontà di collegamento si fosse obiettivata nel contenuto dei diversi negozi si sarebbe potuto ritenere che entrambi o uno di essi, secondo la reale intenzione dei contraenti, erano destinati a subire le ripercussioni delle vicende dell’altro. La necessità di trattare il collegamento negoziale come quaestio facti insindacabile in sede di legittimità, se immune da vizi logici e da violazione delle norme ermeneutiche di cui all’articolo 1362 e ss. c.c., risulta però superata a seguito dell’introduzione della disciplina del testo unico bancario, la quale fornisce la seguente nozione di credito al consumo: “[P]er credito al consumo si intende la concessione, nell’esercizio di un’attività commerciale o professionale, di credito sotto forma di dilazione di pagamento, di finanziamento o di altra analoga facilitazione finanziaria a favore di una persona fisi-
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ca che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta (consumatore)”, prevedendo anche le categorie di soggetti cui è riservato il relativo esercizio. La disciplina del contratto si rinviene nell’articolo 124 dello stesso testo unico che, dopo aver richiesto a pena di nullità la forma scritta, mediante rinvio all’articolo 117, comma 1 e 3, ed aver previsto i requisiti del contratto in genere, differenzia, tra le possibili fattispecie contrattuali, quella prevista dal comma 3, disponendo che “[…] i contratti di credito al consumo che abbiano a oggetto l’acquisto di determinati beni o servizi contengono a pena di nullità: a) la descrizione analitica dei beni e dei servizi; b) il prezzo di acquisto in contanti, il prezzo stabilito nel contratto e l’ammontare dell’eventuale acconto; c) le condizioni per il trasferimento del diritto di proprietà, nei casi in cui il passaggio della proprietà non sia immediato”. Deve ritenersi che il dato normativo sopra riportato sia inequivocabilmente nel senso di riconoscere l’esistenza di un collegamento tra il contratto di credito al consumo ed il contratto di acquisto. Va quindi ribadito che per i contratti di cui all’articolo 121 del testo unico bancario è la stessa legge a configurare un collegamento negoziale a carattere funzionale per il quale contratto di credito e contratto di acquisto vengono ad essere unitariamente considerati sotto il profilo giuridico (e non solo economico), onde tutelare la parte comune ai due contratti, cioè il consumatore, finanziato ed acquirente. Si tratta di un collegamento negoziale in senso proprio, dal momento che il nesso tra i negozi non è affatto occasionale, bensì dipendente dalla genesi stessa del rapporto, dalla circostanza cioè che uno dei due negozi trova la propria causa nell’altro, sicché è la legge stessa che coordina i negozi, facendo assurgere la connessione teleologica ad elemento della fattispecie. Ne consegue che si palesa erronea l’affermazione dei giudici di merito secondo cui per ravvisare il collegamento negoziale di tipo funzionale sarebbe stato necessario riscontrare la volontà di tutti i contraenti di collegare il contratto di credito al consumo al contratto di compravendita, dovendosi reputare che invece ciò sia una conseguenza legale della previsione di cui al citato articolo 121.
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L’unitarietà della causa economica sottesa alla pluralità dei contratti impone di ritenere che si abbia un collegamento negoziale ex lege a prescindere dall’esistenza dell’accordo che attribuisca al finanziatore l’esclusiva per la concessione di credito ai clienti del fornitore, contemplato nel successivo articolo 125. Il richiamo alla situazione di esclusiva è, infatti, una delle due condizioni poste per consentire l’azione diretta del consumatore nei confronti del finanziatore, ma non è certo condizione necessaria per riconoscere l’esistenza di un contratto di credito al consumo, la cui nozione generale è delineata dall’articolo 121, essendo invece sufficiente che l’operazione di finanziamento risulti finalizzata all’acquisto di un bene (o servizio) determinato, scelto dal consumatore prima di accedere al finanziamento, e perciò individuato già nel contratto di finanziamento e pagato direttamente dal finanziatore al fornitore. Le possibilità di tutela offerte al consumatore non si esauriscono in quella prevista dall’articolo 125 TUB, comma 4, che gli consente l’azione diretta nei confronti del finanziatore, in caso di inadempimento del fornitore di beni e servizi, soltanto in presenza di costituzione in mora e di patto di esclusiva. Infatti, deve reputarsi consentita anche la sospensione del pagamento delle rate con l’exceptio inadimpleti contractus, ovvero la deduzione dell’assenza della causa in concreto del contratto, per l’assenza stessa del contratto collegato di fornitura di beni o di servizi (Cass., Sez. II, 19 dicembre 2018, n. 32915, cit.). Tali considerazioni danno altresì contezza dell’impossibilità di opporre all’azione proposta dalla ricorrente la previsione di cui all’articolo 15 del contratto di finanziamento, nella parte in cui, pur essendo carente il requisito dell’accordo di esclusiva tra banca e fornitore dei beni per le operazioni di finanziamento volte all’acquisto di questi ultimi, impone di doversi rivolgere unicamente nei confronti della (omissis), anche laddove la pretesa del cliente esuli da quelle di cui all’articolo 125, comma 4, come nel caso di specie, nel quale la (omissis) mirava anche a respingere la richiesta di pagamento delle rate di mutuo non soddisfatte.
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La clausola de qua, ove estesa anche ad ipotesi di azioni del consumatore che esulano da quelle per le quali la legge pone la condizione del rapporto di esclusiva (e che si pongono come strumenti di tutela aggiuntiva rispetto alle azioni ordinariamente concesse dal diritto positivo), deve reputarsi vessatoria perché comportante una limitazione della facoltà del mutuatario di opporre eccezioni. Pertanto, è errata la sentenza impugnata che ha escluso l’esistenza di questo collegamento negoziale sulla base di un procedimento ermeneutico non conforme alle previsioni del menzionato Decreto Legislativo n. 385 del 1993, articoli 121 e 124. 1.2. Deve pertanto ribadirsi il principio per il quale in materia di contratto di credito al consumo, nella vigenza della disciplina del Decreto Legislativo n. 385 del 1993, articolo 121 e ss., la norma dell’articolo 124, comma 3, va interpretata come previsione di un collegamento negoziale di fonte legale tra i contratti di credito al consumo che abbiano a oggetto l’acquisto di determinati beni o servizi, contenenti i requisiti ivi indicati, ed i contratti di acquisto degli stessi beni o servizi, a prescindere dalla sussistenza di un accordo che attribuisca al finanziatore l’esclusiva per la concessione di credito ai clienti del fornitore. In base al suesposto principio, il giudice del merito, muovendo dalla sussistenza di un collegamento negoziale di fonte legale tra il contratto di compravendita ed il contratto di finanziamento, avrebbe dovuto procedere all’esame delle clausole di quest’ultimo contratto, e trarre le conseguenze, in concreto, dell’incidenza sul contratto di finanziamento della dedotta assenza di un collegato contratto di compravendita, ovvero dell’impiego della somma mutuata per una finalità, diversa da quella indicata in contratto e corrispondente ad una delle tipologie di impiego tassativamente previste dal legislatore. (omissis) 3. La sentenza impugnata è cassata in relazione alla censura accolta.
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(omissis) P.Q.M. Accoglie il primo motivo del ricorso, nei sensi di cui in motivazione, dichiara assorbiti il secondo ed il terzo; cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e rinvia la causa, anche per le spese, ad altra sezione della Corte d’appello di (omissis).
CREDITO AI CONSUMATORI E COLLEGAMENTO NEGOZIALE Claudio Colombo (Professore ordinario presso l’Università degli Studi di Sassari)
Sommario: 1. Il caso. – 2. Cenni sulla disciplina civilistica dell’usura. – 3. Il collegamento negoziale: profili generali. – 4. Il collegamento negoziale nei testi normativi. – 5. Il collegamento negoziale ed i contratti di finanziamento. – 6. Il collegamento negoziale ed il credito ai consumatori.
1. Il caso Un istituto bancario chiedeva ed otteneva, dinanzi al Tribunale territorialmente competente, un decreto ingiuntivo nei confronti di una persona fisica, per la restituzione dell’importo ad essa concesso come prestito al consumo. Il decreto ingiuntivo veniva opposto dal soggetto finanziato, il quale deduceva, tra l’altro, che il contratto sarebbe stato da considerarsi nullo, poiché il prestito sarebbe stato ottenuto per ragioni diverse da quelle indicate nel relativo modulo d’ordine, ove era specificato che il finanziamento veniva erogato a fronte dell’acquisto di non meglio precisati economizzatori per caldaie. Nella prospettazione dell’opponente, invero, la qualificazione del finanziamento come prestito al consumo non sarebbe stata corrispondente alla realtà dei fatti, posto che si sarebbe invece trattato di un finanziamento concesso a favore della ditta individuale della parte sovvenuta, e più precisamente per ottenere l’affiliazione alla rete in franchising di una società operativa nella produzione di componenti per caldaie. Inoltre, il contratto non avrebbe indicato con esattezza il bene da acquistare, né i dati esatti relativamente agli oneri finanziari applicati.
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Stante, dunque, il diverso utilizzo della somma erogata dalla banca, l’opponente eccepiva l’illegittimità del tasso di interesse applicato, per contrasto con la disciplina in materia di usura1, dovendosi a suo dire fare ricorso al tasso-soglia più basso, previsto per i contratti di credito alle imprese, e non già a quello più alto, previsto per i contratti di credito al consumo. Il Tribunale accoglieva parzialmente l’opposizione, rilevando: (i) che, con il contratto in questione, le parti avevano perfezionato un mutuo di scopo, ovverosia avevano collegato il finanziamento ad una specifica operazione posta in essere dal soggetto finanziato con un terzo; (ii) che era risultata provata la circostanza dedotta dall’opponente, e cioè che il finanziamento era servito per acquisire l’affiliazione in franchising alla rete della società operativa nella produzione di componenti per caldaie; (iii) che, di conseguenza, non poteva essere applicata la normativa sul credito al consumo, avendo il soggetto finanziato stipulato il contratto, nell’occasione, quale imprenditore; (iv) che, pertanto, al finanziamento andavano applicati i soli interessi legali, e non quelli convenzionali pattuiti tra le parti, dovendosi, in conseguenza di ciò, disporsi la revoca del decreto ingiuntivo e la riduzione della somma da restituire alla banca. La banca, parzialmente soccombente in primo grado, proponeva impugnazione, che la Corte d’appello accoglieva, riformando in toto la sentenza di primo grado e, così, confermando il decreto ingiuntivo originariamente emesso. Nella propria motivazione, il giudice di secondo grado rilevava anzitutto come, contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale, non sarebbe risultato provato l’assunto del soggetto finanziato, secondo cui la finalità indicata nel modulo d’ordine non sarebbe stata corrispondente alla realtà dei fatti, donde l’infondatezza della censura declinata in termini di nullità del contratto.
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Relativamente alla quale, cfr. infra, § 2.
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Ciò premesso, la Corte d’appello osservava che nel caso di specie risultava, sulla scorta dei documenti in atti, unicamente l’avvenuta concessione di un finanziamento per l’acquisto di un bene, con indicazione dello stesso, nonché l’avvenuto incameramento della somma oggetto del finanziamento da parte del venditore del bene; per contro – a giudizio della Corte medesima – non emergeva il fatto che il finanziamento fosse stato concesso al solo ed unico fine, contrattualmente voluto, di acquistare gli economizzatori per caldaie, e ciò ad onta della circostanza che tale bene era indicato nel contratto. Alla luce di ciò, la Corte d’appello ha dunque ulteriormente rilevato l’assenza di indici sintomatici del collegamento negoziale2 tra contratto di finanziamento e contratto di acquisto (quale, ad esempio, la sussistenza di un accordo di esclusiva tra banca e venditore), da cui far discendere la conseguenza per cui il prestito sarebbe stato disposto, in forma di obbligo per il finanziatore, all’unico scopo vincolante di acquistare quanto indicato nel contratto. Acquirente e venditore, in altri termini, sarebbero stati liberi di destinare le somme erogate a titolo di finanziamento nel modo da loro ritenuto più opportuno, senza possibilità di ingerenza alcuna, sul punto, da parte della banca. Da ultimo, il giudice dell’appello riteneva non fondata la censura relativa al tasso di interesse, posto che – qualificata l’operazione in termini di credito finalizzato all’acquisto rateale – non veniva ad essere oltrepassato il tasso-soglia previsto dalla legge sull’usura. La Corte di Cassazione, a seguito del ricorso proposto dal soggetto finanziato, ha annullato con rinvio3 la sentenza della Corte d’appello. Rinviando alla lettura della motivazione dell’ordinanza, sopra trascritta, per maggiori dettagli relativamente al percorso argomentativo utilizzato dal giudice di legittimità, deve sottolinear-
Su cui vedi, per i profili di indole generale, infra, § 3. L’annullamento con rinvio è uno dei possibili esiti del giudizio dinanzi alla Corte di Cassazione (artt. 383 e 384 c.p.c.), e viene disposto quando, nei casi di accoglimento del ricorso, essa ritenga necessaria l’effettuazione di ulteriori accertamenti o valutazioni in punto di fatto; diversamente, la Corte cassa la sentenza impugnata e decide la causa nel merito. 2 3
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si come sia stato accolto il primo motivo di ricorso, con il quale il soggetto finanziato aveva censurato la sentenza di secondo grado nei seguenti articolati termini: (i) una volta affermata l’esistenza di un contratto di credito al consumo, la destinazione del finanziamento ad un bene o servizio destinato al consumo, così come stabilito ex lege, non sarebbe mero motivo estraneo al sinallagma contrattuale, bensì elemento essenziale, che funzionalizza tale tipologia di contratto di finanziamento; (ii) sennonché, ove le parti abbiano in concreto destinato la somma ad altro utilizzo, peraltro da considerarsi estraneo agli scopi di consumo, rientrando viceversa nella sfera dell’attività imprenditoriale del soggetto finanziato, dovrebbe pervenirsi alla declaratoria di nullità del contratto di finanziamento, non potendo le parti porre in essere delle deroghe alla disciplina imperativa prevista dalla legge, deroghe consistenti nel collegare negozi giuridici diversi, rispetto a quelli stabiliti dalla legge (finanziamento/attività d’impresa, anziché finanziamento/vendita di beni o servizi destinati al consumo); (iii) l’utilizzo del tipo contrattuale “credito al consumo”, ad onta dell’effettiva finalità a cui, nella prospettazione del soggetto finanziato, sarebbe stato destinato il prestito, avrebbe dunque finito per consentire l’illegittima applicazione di un tasso di interesse superiore alla soglia prevista dalla legge anti-usura. In realtà, la Corte di Cassazione, rispetto ai diversi profili di censura in cui si è dipanato il motivo accolto – così come lo stesso risulta esposto nell’ordinanza qui esaminata – si è soffermata soltanto sul primo dei rilievi sollevati dal ricorrente, sicché la decisione qui in commento può essere così sintetizzata: (i) il contratto concluso tra le parti è riconducibile alla previsione normativa in materia di credito al consumo, e più in particolare alla disciplina contenuta nel testo unico bancario (T.U.B.)4 nella versione previgente alle modifiche introdotte a seguito del recepi-
Testo Unico Bancario è la denominazione con cui è meglio noto il d. lgs. 1° settembre 1993, n. 385, contenente il testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia. 4
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mento, nell’ordinamento italiano, della Direttiva 2008/48/CE del 23 aprile 20085; (ii) detta disciplina configura un’ipotesi di collegamento negoziale di fonte legale6, che prescinde dalla sussistenza di un’esclusiva del finanziatore per la concessione di credito ai clienti del venditore; (iii) la circostanza che, in tal caso, il collegamento negoziale abbia fonte nella legge, e non nella volontà delle parti, fa sì che quella della relativa sussistenza, o meno, non costituisca una questione di fatto, insindacabile in Cassazione ove valutata dal giudice del merito in termini immuni da vizi logici e da violazione delle norme di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., in materia di interpretazione dei contratti; (iv) si palesa, dunque, erronea l’affermazione della Corte d’appello, secondo la quale, per ravvisare il collegamento negoziale di tipo funzionale nel caso di specie, sarebbe stato necessario riscontrare la volontà di tutti i contraenti di collegare il contratto di credito al consumo al contratto di compravendita, dovendosi reputare che invece ciò sia una conseguenza legale della previsione normativa contenuta nella disciplina del tipo contrattuale prescelto; (v) sulla scorta di dette premesse, in conclusione, il giudice del merito, muovendo dalla sussistenza di un collegamento negoziale di fonte legale tra il contratto di compravendita ed il contratto di finanziamento, avrebbe dovuto procedere all’esame delle clausole di quest’ultimo contratto, e trarre le conseguenze, in concreto, dell’incidenza sul contratto di finanziamento della dedotta assenza di un collegato contratto di compravendita, ovvero dell’impiego della somma mutuata per una finalità diversa da quella indicata in contratto; (vi) questi ultimi accertamenti inerenti al fatto controverso, vengono demandati al giudice del rinvio, conformemente alle regole vigenti nel nostro diritto processuale civile.
In tema di credito al consumo, cfr. infra, § 6. Relativamente ad altre ipotesi di collegamento negoziale previste nell’ambito di disposizioni di legge, vedi infra, § 4. 5 6
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2. Cenni sulla disciplina civilistica dell’usura Come si è precisato nel paragrafo precedente, nell’ambito delle proprie difese il soggetto finanziato aveva invocato l’applicazione delle norme in materia di usura, al fine di contrastare la pretesa della banca di vedersi restituita la somma erogata a titolo di finanziamento, maggiorata di tutti gli interessi pattiziamente stabiliti. La Corte di Cassazione – come pure si è visto – non è entrata nel merito di siffatta questione, avendo cassato la sentenza impugnata per ragioni logicamente ad essa preordinate, ed avendo dunque implicitamente affidato ogni valutazione sul punto alla Corte d’appello, in sede di giudizio di rinvio. Al fine, peraltro, di acquisire una piena comprensione della materia del contendere nel caso esaminato, appare opportuno fornire qualche breve cenno sulla disciplina dell’usura. La normativa che regola, nel nostro ordinamento, il fenomeno dell’usura è stata oggetto di una profonda riforma, attuata con la l. 7 marzo 1996, n. 108, tuttora in vigore7. La legge in questione ha anzitutto introdotto significative modifiche sul versante della disciplina contenuta nel codice penale, e più precisamente sull’art. 644 c.p. La novità di maggiore momento è costituita dalla previsione di due diverse fattispecie: da un lato, quella della c.d. usura oggettiva, o in astratto, che si determina ipso iure quando il tasso degli interessi oltrepassa un determinato limite (il c.d. tasso-soglia); dall’altro, quella della c.d. usura soggettiva, o in concreto, che si realizza con il concorso del requisito della difficoltà economica o finanziaria del sovvenuto, anche qualora il tasso-soglia non risulti superato8. Per maggiori ragguagli a proposito degli aspetti civilistici del tema qui affrontato, si rinvia a C. Colombo, Gli interessi nei contratti bancari, in E. Capobianco (a cura di), Contratti bancari, Milano, 2021, pp. 737 ss. Molto interessante è poi G. D’Amico (a cura di), Gli interessi usurari, Quattro voci su un tema controverso, II ed., Torino, 2017. 8 Appare opportuno qui avvertire che la giurisprudenza formatasi a seguito dell’entrata in vigore della l. 7 marzo 1996, n. 108, specie in sede civile, si sarebbe concentrata (e tuttora risulta essere concentrata) in via largamente prevalente 7
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Il meccanismo dell’usura oggettiva – ispirato all’esperienza francese – si basa, come appena anticipato, sul concetto di tasso-soglia; quest’ultimo viene trimestralmente individuato dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, sulla base degli accertamenti operati dalla Banca d’Italia, relativamente ai tassi medi praticati dagli istituti bancari e dagli altri intermediari finanziari, con riferimento alle diverse operazioni creditizie da questi poste in essere con la propria clientela: più precisamente, la legge individua una formula matematica, per cui i tassi medi di mercato vengono incrementati di un certo differenziale (c.d. spread), così pervenendosi, per l’appunto, alla fissazione del tasso-soglia, oltre il quale la pattuizione relativa agli interessi diviene automaticamente illegittima9. Due concetti meritano, peraltro, di essere più chiaramente precisati: (i) non esiste un unico tasso-soglia, ma esistono tanti tassi-soglia, per quante sono le tipologie di operazioni creditizie prese in considerazione nelle rilevazioni effettuate trimestralmente dalla Banca d’Italia. Il tasso-soglia è tanto più elevato (e, dunque, è consentita la legittima pattuizione di un tasso di interesse più alto), quanto più è rischiosa l’operazione creditizia, sotto il profilo dell’alea costituita dalla totale o parziale mancata restituzione del prestito da parte del debitore: in questo senso, ad esempio, il tasso-soglia dei mutui immobiliari assistiti da garanzia ipotecaria (operazione meno rischiosa) è decisamente inferiore a quello dei finanziamenti erogati mediante l’utilizzo di carte di credito (operazione più rischiosa)10;
sulla c.d. usura oggettiva, limitate essendo le ipotesi in cui è stata affrontata la tematica della c.d. usura soggettiva. 9 In merito alle questioni in tema di tasso-soglia, cfr. C. Robustella, Usura bancaria e determinazione del «tasso soglia», Bari, 2017. 10 Del resto, come si è visto nel paragrafo precedente, nel caso oggetto dell’ordinanza qui commentata la tesi del soggetto sovvenuto era proprio quella intesa ad invocare una diversa qualificazione dell’operazione creditizia, rispetto a quella palesata nel contratto di finanziamento, posto che in base a quest’ultima la pattuizione degli interessi sarebbe risultata contenuta entro i limiti di legge, mentre addivenendosi all’auspicato differente inquadramento, la stessa sarebbe risultata illegittima.
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(ii) il tasso che rileva ai fini della disciplina in materia di usura non è quello nominale, ma il c.d. Tasso Effettivo Globale (in sigla, T.E.G.), che ricomprende, oltre agli interessi propriamente intesi, anche le commissioni, le remunerazioni a qualsiasi titolo, nonché le spese (escluse quelle per imposte e tasse), collegate alla erogazione del credito (art. 644, quarto comma, c.p.)11: una volta individuato il T.E.G. in concreto applicato dal finanziatore, sarà dunque detto tasso a dover essere raffrontato con il tasso-soglia, che – come si è detto – viene ricavato a seguito della rilevazione del tasso medio di mercato (c.d. Tasso Effettivo Globale Medio, in sigla T.E.G.M.) riferito alla specifica operazione creditizia oggetto di contenzioso, nonché all’applicazione del differenziale (c.d. spread) così come stabilito dalla normativa sull’usura. Le rilevazioni della Banca d’Italia, destinate poi a confluire nei decreti del Ministero dell’Economia e delle Finanze con cui vengono fissati i tassi-soglia, hanno – come detto – cadenza trimestrale, con la conseguenza, dunque, che i tassi-soglia sono destinati a variare di trimestre in trimestre, in relazione all’andamento del mercato del credito. È opportuno ancora specificare che, a seguito di una norma di interpretazione autentica emanata allo scopo di dirimere alcuni dubbi ermeneutici intervenuti in dottrina ed in giurisprudenza immediatamente dopo l’entrata in vigore della l. 7 marzo 1996, n. 108, ai fini dell’applicazione della disciplina in tema di usura assume rilevanza unicamente il momento della pattuizione, e non anche quello del pagamento degli interessi12.
È necessario precisare che il T.E.G. (concetto rilevante ai fini della disciplina dell’usura) non va confuso con il T.A.E.G. (acronimo di Tasso Annuo Effettivo Globale), il quale trova la propria definizione, proprio nella materia del credito ai consumatori, nell’ambito dell’art. 121, lett. m) T.U.B. Si tratta, infatti, di due tassi, le cui componenti coincidono solamente in parte: ad esempio, mentre le imposte e tasse sono escluse dal computo nel T.E.G., sono invece incluse nel computo del T.A.E.G. 12 La norma di interpretazione autentica è contenuta nel primo comma del l’art. 1, d.l. 29 dicembre 2000, n. 394, non modificato in sede di conversione dalla l. 28 febbraio 2001, n. 24. 11
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Le disposizioni ed i principi sinora esposti disegnano il perimetro di applicazione della disciplina antiusura anche nei suoi risvolti civilistici: detto altrimenti, non vi è alcuna differenza, a livello di fattispecie, per l’applicazione delle sanzioni penali conseguenti all’usura e per l’applicazione delle conseguenze afflittive che si determinano in sede civile. L’utilizzo della locuzione conseguenze afflittive non è casuale, perché – sempre nell’ambito della riforma operata con la l. 7 marzo 1996, n. 108 – il legislatore ha previsto, per le ipotesi integranti gli estremi dell’usura, un vero e proprio meccanismo sanzionatorio, consistente nella trasformazione del finanziamento da oneroso a gratuito: più precisamente, ai sensi del novellato secondo comma dell’art. 1815 c.c., «[S]e sono convenuti interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi», laddove nel testo previgente era invece salvaguardata la debenza degli interessi al tasso legale. La disposizione è inserita nell’ambito della disciplina codicistica del mutuo, ma secondo la giurisprudenza essa è applicabile anche alle forme di finanziamento diverse dal mutuo. In ultimo, è bene avvertire che, ad onta dell’apparente linearità e chiarezza della normativa sull’usura introdotta nel 1996, non si è determinata affatto, quale conseguenza, quella della deflazione del contenzioso in materia. Ciò è accaduto, essenzialmente, per due ordini di ragioni: (i) la previsione della fattispecie della c.d. usura oggettiva ha determinato l’esito del sempre più frequente coinvolgimento delle banche e degli altri intermediari finanziari in controversie, specie in sede civile, promosse dai soggetti sovvenuti, laddove prima della riforma le banche e gli altri intermediari finanziari erano ritenuti in sostanza estranei al fenomeno dell’usura, inteso essenzialmente come fenomeno criminale: sotto questo profilo, dunque, il contenzioso – lungi dal diminuire – è esponenzialmente aumentato; (ii) la disciplina, fondata su di una pluralità di fonti collocate su livelli gerarchicamente ordinati (provvedimenti di legge o aventi forza di legge, decreti ministeriali, istruzioni tecniche della Banca d’Italia), ha dato origine ad orientamenti interpretativi non uniformi, tanto che negli ultimi anni si è reso necessario in più di un’oc-
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casione l’intervento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, per dirimere alcuni contrasti giurisprudenziali intervenuti in un settore così critico, per l’economia generale, quale quello dell’esercizio della funzione creditizia13.
3. Il collegamento negoziale: profili generali Le prime elaborazioni della dottrina italiana in tema di collegamento negoziale14 risalgono agli anni Trenta del secolo scorso e tra13 Il primo intervento in ordine temporale è quello, in materia di possibile perdurante rilevanza della c.d. usura sopravvenuta (nonostante la sopra riferita norma, emanata in sede di interpretazione autentica), di Cass. SS.UU. 19 ottobre 2017, n. 24675, consultabile tra l’altro in Corr. giur., 2017, 1484 ss., con note di S. Pagliantini, L’usurarietà sopravvenuta ed il canone delle SS.UU.: ultimo atto?, e di G. Guizzi, Le Sezioni Unite e il de profundis per l’usura sopravvenuta: la Corte nomofilattica ha risolto il contrasto giurisprudenziale, nel senso della non rilevanza dei fenomeni di usurarietà sopravvenuta. Il secondo intervento ha avuto ad oggetto una specifica pattuizione contenuta in alcune tipologie di finanziamenti bancari, ovverosia la commissione di massimo scoperto (ora non più inseribile nei contratti, stante la disciplina di cui al nuovo art. 117 bis T.U.B.): con la sentenza Cass. SS.UU. 20 giugno 2018, n. 16303 (tra l’altro in Corr. giur., 2018, p. 1339 ss., con nota di C. Colombo, Commissione di massimo scoperto e disciplina antiusura: le Sezioni Unite avallano il principio di simmetria ed impongono la comparazione separata), la S.C. ha affermato la necessità che nella verifica del T.E.G. dello specifico contratto venga applicata la medesima metodologia che la Banca d’Italia adotta nella verifica del T.E.G.M. (c.d. principio di simmetria, o omogeneità). Il terzo (e sinora ultimo) intervento ha riguardato la questione della possibile rilevanza, ai fini della disciplina antiusura, degli interessi moratori (su cui cfr. anche la monografia di L. Pascucci, Usura e oneri eventuali, Torino, 2019): con la sentenza Cass. SS.UU. 18 settembre 2020, n. 19597 (consultabile tra l’altro in Corr. giur., 2020, pp. 1315 ss., con nota di G. Guizzi, Usura e interessi di mora: e quindi uscimmo a riveder le stelle?, nonché in Giur. it., 2021, pp. 564 ss., con nota di A. Barenghi, Mora usuraria e interessi corrispettivi: le Sezioni Unite disinnescano il contenzioso) la Corte nomofilattica ha statuito che, pur avendo gli interessi di mora rilevanza nell’ambito della disciplina a contrasto dell’usura, l’eventuale pattuizione di interessi moratori sopra soglia non è destinata a travolgere gli interessi corrispettivi legittimamente pattuiti entro la soglia. 14 La letteratura sul collegamento negoziale è molto vasta. Tra le opere monografiche, si segnalano G. Lener, Profili del collegamento negoziale, Milano, 1999;
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evano spunto dall’analisi di alcune operazioni economiche nuove, che andavano all’epoca diffondendosi nella realtà dei traffici, e che erano insuscettibili di venire incanalate nell’ambito dei tipi contrattuali tradizionali: emerse dunque, innanzitutto, l’esigenza di enucleare le ipotesi in cui, pur in presenza di una fattispecie concreta non riconducibile ad un tipo astratto unitario, permanesse tuttavia l’unicità del negozio. In un secondo momento, la dottrina avvertì la necessità di valutare le possibili interferenze, soprattutto in termini di estensione delle eventuali patologie negoziali (nullità, annullabilità, risoluzione, etc.), ovvero dei mezzi di autotutela (segnatamente: l’eccezione di inadempimento), che in caso di operazione a struttura pluri negoziale si sarebbero prodotte tra i più negozi collegati15. Venivano così ad essere elaborati, già in quegli anni, alcuni concetti fondamentali, tuttora utilizzati in dottrina e giurisprudenza, quale in primo luogo quello di collegamento funzionale volontario, caratterizzato dalla compresenza di un elemento oggettivo e di un elemento soggettivo, ossia da uno stretto nesso economico o teleologico tra i negozi collegati (elemento oggettivo), da un lato, e dalla
C. Colombo, Operazioni economiche e collegamento negoziale, Padova, 1999; F. Maisto, Il collegamento volontario tra contratti nel sistema dell’ordinamento giuridico, Napoli, 2000; più di recente, cfr. S. Scuderi, Collegamento negoziale. Tipologie e fattispecie, Bari, 2020. Si possono inoltre consultare le voci enciclopediche di R. Scognamiglio, Collegamento negoziale, in Enc. dir., VII, Milano, 1960, pp. 375 ss.; di C. Colombo, Contratti collegati, in Enc. giur., XVII, Roma, Agg. 2008; nonché di R. Sacco, Contratto collegato, in Digesto civ., Agg. 2011, Torino, 2011, pp. 238 ss. Si vedano, infine, anche i saggi di V. Barba, La connessione tra i negozi e il collegamento negoziale, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2008, pp. 791 ss. e 1167 ss.; di M. Nuzzo, Contratti collegati e operazioni complesse, in Studi in onore di G. Benedetti, Napoli, 2008, pp. 1227 ss.; di G.B. Ferri, Operazioni negoziali «complesse» e la causa come funzione economico-individuale del negozio giuridico, in Dir. giur., 2008, pp. 317 ss.; nonché, più recentemente, di E. Gabrielli, Autonomia privata, collegamento negoziale e struttura formale dell’operazione economica, in Giust. civ., 2020, pp. 445 ss. 15 L’opera più significativa, con riferimento a tale stagione della dottrina italiana sul collegamento negoziale, è senz’altro il saggio di M. Giorgianni, Negozi giuridici collegati, in Riv. it. sc. giur., 1937, pp. 275 ss. (ora in M. Giorgianni, Scritti minori, Napoli-Camerino, 1988, p. 1 ss., da cui in seguito le citazioni).
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intenzione di coordinare i vari negozi verso uno scopo comune (c.d. animus colligandi, elemento soggettivo), dall’altro. Accanto al concetto di collegamento funzionale volontario, la dottrina elaborò poi quello di collegamento funzionale necessario, individuabile ogni qual volta un negozio sia organicamente e strutturalmente rivolto ad adempiere una funzione verso altro negozio, come accade ad esempio in relazione a quelli destinati ad estinguere gli effetti prodotti da altro negozio (il recesso unilaterale, laddove possibile, o il mutuo consenso, rispetto ad un contratto), o in relazione ai casi di accessorietà giuridica (ad esempio, il negozio costitutivo di una garanzia personale, rispetto a quello originativo del debito principale). Inoltre, venne delineata la categoria del collegamento genetico, la cui rilevanza è destinata ad esaurirsi nella fase formativa dei negozi successivi, senza cioè avere ripercussioni sulle relative vicende: tipica ipotesi ascrivibile a tale categoria è quella del contratto preliminare, rispetto al contratto definitivo16. Altre distinzioni individuate in dottrina furono quella tra collegamento bilaterale e collegamento unilaterale, a seconda che tra i negozi ricorra un legame di dipendenza unidirezionale, oppure di interdipendenza, e tra nesso di concorso e nesso di sequenza, a seconda che gli effetti dei negozi siano destinati a prodursi contemporaneamente, ovvero in momenti diversi. Successivamente, la dottrina ebbe modo di rilevare una certa disomogeneità delle tematiche afferenti alle varie ipotesi di collegamento individuate, tanto che si iniziò da un lato ad argomentare circa l’esistenza non di un unico collegamento negoziale, bensì di molteplici collegamenti negoziali, e dall’altro a concentrare l’attenzione, in via pressoché esclusiva, sul collegamento funzionale volontario, che – come detto – si determina quando i più negozi, pur non avvinti da un nesso logicamente o giuridicamente necessitato, vengono posti in essere dalle parti al fine di realizzare un’opera16 Per la più completa esposizione delle varie ramificazioni in cui può articolarsi il fenomeno del collegamento negoziale, cfr. la voce enciclopedica di R. Scognamiglio, Collegamento negoziale, cit.
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zione economica strutturalmente complessa, ma funzionalmente unitaria. Relativamente agli effetti del collegamento, la dottrina ebbe inizialmente a concentrarsi – come anticipato – sul tema dell’estensione delle patologie negoziali, per le quali venne elaborata la formula secondo cui i più negozi collegati simul stabunt, simul cadent, ovverosia sono destinati a stare o a cadere tutti insieme: in caso, ad esempio, di nullità afferente uno dei più negozi collegati, tale patologia si ripercuoterebbe sugli altri, non già tuttavia in termini di trasmissione della causa di nullità, ma in termini di semplice inefficacia. La portata del principio simul stabunt, simul cadent sarebbe stata, poi, progressivamente fatta oggetto di precisazioni sempre più puntuali, anche alla luce della riferita tendenziale concentrazione dell’attenzione degli studiosi sulle ipotesi rientranti nel collegamento funzionale volontario. Ad esempio, quanto alle modalità operative della regola in esame, venne rilevato come una corretta impostazione del problema non potrebbe prescindere dal rilievo funzionale (e non meramente strutturale) che caratterizza l’unica ipotesi di collegamento tra negozi considerata giuridicamente significativa. In questo senso, costituirebbe un fuor di luogo parlare di comunicazione o di trasmissione delle vicende patologiche di un negozio all’altro o agli altri ad esso collegati, ovvero di reazione di tali vicende sui diversi negozi collegati: tali evenienze, infatti, parrebbero complessivamente estranee al profilo funzionale, mentre una corretta qualificazione del fenomeno dovrebbe condurre l’interprete a ragionare in termini di inutilità dei negozi collegati a quello direttamente colpito dalla vicenda patologica, atteso che il venir meno di quest’ultimo determinerebbe l’impossibilità di realizzare la funzione complessa, perseguita attraverso il collegamento medesimo17.
17 Il riferimento è alle tesi di C. Di Nanni, Collegamento negoziale e funzione complessa, in Riv. dir. comm., 1977, I, pp. 279 ss., a cui si deve l’elaborazione della formula utile per inutile vitiatur, ricavata all’inverso da quella stabilita in tema di nullità parziale dall’art. 1419 c.c. Per una rivisitazione, anche in chiave critica, del principio del simul stabunt, simul cadent, nonché di quello, testé menzionato,
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Altro tema di cruciale importanza è quello inerente al fondamento della rilevanza giuridica del collegamento negoziale. Secondo la dottrina che per prima ebbe modo di occuparsi della questione, tale fondamento risiederebbe nella volontà delle parti, e più specificamente nell’intento che le stesse anche in via implicita palesano, di porre i negozi in un rapporto tale, per cui l’elemento volitivo li investe nel loro complesso, e non separatamente l’uno dall’altro (o l’uno dagli altri)18. Successivamente, tuttavia, in dottrina sarebbe prevalsa la tesi della preponderanza dell’elemento oggettivo (il nesso economico o teleologico tra i negozi collegati), rispetto a quello soggettivo della volontà delle parti, specie se quest’ultima viene ad essere intesa in chiave squisitamente psicologica: in questo senso, dunque, occorrerebbe abbandonare ogni riferimento alla volontà delle parti ed i connessi tentativi di indagare nella loro sfera psicologica, e far capo invece esclusivamente ad indici di tipo obbiettivo, onde individuare le soluzioni più aderenti al loro programma economico19. Quanto alla giurisprudenza, è dato constatarsi una varietà di posizioni complessivamente analoga a quella appena descritta. Va cioè evidenziato che, accanto a sentenze più spiccatamente di segno soggettivistico – le quali in maniera più o meno esplicita sembrano postulare una ricerca della volontà delle parti, diretta alla realizzazione del collegamento – ve ne sono altre che si rifanno invece a criteri esclusivamente obbiettivi20. dell’utile per inutile vitiatur, cfr. V. Barba, La connessione tra i negozi e il collegamento negoziale, cit., pp. 1179 ss. 18 M. Giorgianni, Negozi giuridici collegati, cit., p. 69. 19 Per questo indirizzo, cfr. per tutti G. Ferrando, Criteri obiettivi e mistica della volontà in tema di collegamento negoziale, in Foro pad., 1974, I, p. 343. 20 In ogni caso, la compresenza dei due elementi appare ormai una costante nelle massime giurisprudenziali in subiecta materia, ove è dato quasi sempre leggersi che «affinché possa configurarsi un collegamento negoziale in senso tecnico, che impone la considerazione unitaria della fattispecie, è necessario che ricorra sia un requisito oggettivo, costituito dal nesso teleologico tra i negozi, volto alla regolamentazione degli interessi reciproci delle parti nell’ambito di una finalità pratica consistente in un assetto economico globale ed unitario, sia un requisito soggettivo, costituito dal comune intento pratico delle parti di volere non solo l’effetto
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Il dissenso, tuttavia, almeno in giurisprudenza è sembrato essere più apparente che reale, atteso che i riferimenti di tipo soggettivo (alla volontà delle parti, all’animus colligandi, al comune intento pratico, etc.) si riscontrano prevalentemente in quei passaggi delle motivazioni finalizzati a giustificare, in chiave generale, la giuridica rilevanza del collegamento tra negozi distinti; al contrario, gli indici di natura obbiettiva (la funzione complessa, il globale assetto di interessi, il nesso economico o teleologico, etc.) vengono frequentemente richiamati, allorché si tratta di individuare in concreto la sussistenza del collegamento funzionale e di desumerne i c.d. effetti. Occorre dunque, secondo la dottrina più recente21, tenere ben distinto il profilo relativo al fondamento della rilevanza del collegamento funzionale c.d. atipico (ovverosia, quello non previsto da specifiche disposizioni di legge22), dal problema della sua concreta individuazione. Deve infatti sottolinearsi che il collegamento funzionale, oltre che strumento utilizzabile in sede interpretativa ai fini dell’esatto apprezzamento degli interessi rilevanti nell’ambito di una data operazione economica articolata, costituisce esso stesso, al contempo, materia di interpretazione, nel senso cioè che è l’interprete a dover verificare, anzitutto, se tra i diversi negozi sottoposti alla sua cognizione vi sia o meno un rapporto tale, da poter essere qualificato come di collegamento funzionale. Solo all’esito di questo giudizio l’interprete potrà effettivamente avvalersene, ai fini di un più esatto inquadramento delle diverse posizioni in campo; qualora invece, a seguito di tale vaglio preliminare, non dovessero essere riscontrati i presupposti necessari perché di collegamento funziotipico dei singoli negozi in concreto posti in essere, ma anche il coordinamento tra di essi per la realizzazione di un fine ulteriore, che ne trascende gli effetti tipici e che assume una propria autonomia anche dal punto di vista causale»: così, ad esempio, Cass. 17 maggio 2010, n. 11974, in Foro It., Rep., 2010, Contratto in genere, n. 333; più di recente, Cass. 12 settembre 2018, n. 22216, in Foro It., Rep., 2018, Contratto in genere, n. 195. 21 Cfr. G. Lener, Profili del collegamento negoziale, cit., p. 17 ss.; C. Colombo, Operazioni economiche e collegamento negoziale, cit., pp. 253 ss. 22 Su cui vedi, infra, § 4.
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nale si possa parlare, allora i diversi negozi non potranno che essere considerati ognuno nella sua specifica individualità strutturale e funzionale. Tenuto conto di ciò, non c’è dubbio allora che, per quel che concerne il profilo dell’individuazione concreta del collegamento, trattandosi di operazione squisitamente ermeneutica, essa non potrà che venire condotta facendo capo alle norme che disciplinano l’interpretazione degli atti di autonomia. E pertanto, qualora il nesso non sia immediatamente desumibile, in quanto cioè non abbia formato oggetto di una clausola ad hoc, dovrà farsi capo a criteri di interpretazione che privilegino gli aspetti più prettamente obbiettivi: con la conseguenza che la connessione economica o teleologica tra i vari negozi finirà sovente per risultare decisiva in ordine all’individuazione in concreto del collegamento funzionale che li caratterizza, soprattutto in chiave di valutazione tipica, diretta a proteggere l’affidamento di chi, in buona fede, aveva ritenuto sussistere il collegamento medesimo e, dunque, aveva ritenuto di prender parte non ad una singola operazione isolata, ma ad uno spezzone di un’operazione più complessa ed articolata. Ma se dal profilo dell’individuazione concreta si passa a quello più generale del fondamento della giuridica rilevanza del collegamento c.d. atipico, la prospettiva è destinata a mutare radicalmente. Tale fondamento va infatti individuato in un coerente sviluppo del principio di autonomia privata, sicché la volontà delle parti non può assolutamente essere messa fuori gioco: come è stato autorevolmente evidenziato, anche in epoca recente, da un illustre Maestro, «la volontà delle parti crea il collegamento» e «l’autonomia spiega il trattamento dei contratti collegati»23. Le più recenti acquisizioni dottrinarie, poi, collocando il collegamento negoziale nell’ambito della concettualmente più ampia figura dell’operazione economica24, ne hanno evidenziato la rilevanza an Così, R. Sacco, Contratto collegato, cit., p. 240. Vedi a riguardo, per tutti, G.B. Ferri, Operazioni negoziali «complesse» e la causa come funzione economico-individuale del negozio giuridico, cit., p. 331, laddove si esprime a chiare lettere la necessità che il giudizio di «apprezzabilità fun23 24
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che con riferimento ai profili di indole più squisitamente fisiologica, primo tra tutti quello inerente all’interpretazione25. Non sono mancate, in realtà, in letteratura autorevoli voci variamente critiche rispetto all’utilità in generale della figura, preferendo esse operare, specie in ambito contrattuale, una ricostruzione in chiave unitaria, pure sotto il profilo strutturale, delle ipotesi solitamente ricondotte al collegamento negoziale26. A nostro parere, tuttavia, almeno nell’ambito delle operazioni intercorrenti tra più di due parti, resta preferibile una ricostruzione in chiave pluralistica, la quale meglio consente di apprezzare, oltre a ciò che unisce i vari spezzoni dell’operazione, anche ciò che è destinato a rimanere legittimamente separato. Quella del collegamento negoziale funzionale è, dunque, una categoria che deve trovare (ed in concreto trova) proficua applicazione al fine di dirimere controversie attinenti ai più svariati profili nel campo dell’autonomia privata, dalle questioni di indole patologica a quelle di natura interpretativa, fino ad arrivare – in presenza di determinate circostanze – al superamento del principio di stretta relatività negli atti di autonomia, in caso di negozi intercorrenti tra parti diverse. Resta però inteso che l’accertamento giudiziale circa la sussistenza di un collegamento giuridicamente rilevante, specie nell’ambito delle fattispecie in cui sono coinvolte più di due parti, debba essere preceduto da una rigorosa e corretta ricostruzione degli interessi che le stesse intendono perseguire attraverso la complessiva operazio-
zionale», da parte dell’ordinamento, derivi non tanto «dalla considerazione della apprezzabilità funzionale del singolo negozio», ma «dalla considerazione della apprezzabilità funzionale dell’intera operazione complessivamente ed unitariamente, risultante dal collegamento di cui esso faccia parte» (corsivi dell’Autore). Più di recente, cfr. E. Gabrielli, Autonomia privata, collegamento negoziale e struttura formale dell’operazione economica, cit. 25 Cfr., ad esempio, G. Lener, Profili del collegamento negoziale, cit., pp. 163 ss.; C. Scognamiglio, Interpretazione del contratto e interessi dei contraenti, Padova, 1992, pp. 431 ss. 26 Cfr. a riguardo lo studio di V. Barba, Appunti per uno studio sui contratti plurilaterali di scambio, in in Riv. dir. civ., 2010, I, pp. 531 ss.
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ne, verificando anzitutto in quale misura possa realmente parlarsi di operazione comune. Con riferimento peraltro ai negozi collegati posti in essere tra parti diverse, va dunque ribadito che l’elemento soggettivo idoneo a sostanziare un collegamento giuridicamente rilevante (se si vuole: l’animus colligandi, o la volontà di collegare) debba necessariamente presupporre: (i) l’essere a conoscenza del fatto che, al di fuori dell’operazione complessa, il singolo negozio non sarebbe mai stato stipulato, ovvero sarebbe stato stipulato a condizioni del tutto diverse; (ii) la funzionalità dell’articolazione negoziale, così come programmata insieme agli altri (o ad alcuni degli altri) soggetti che prendono parte all’operazione complessa, rispetto ad un proprio specifico interesse. L’accertamento della sussistenza di un’operazione economica unitaria, condotta sulla scorta di una rigorosa verifica della presenza dei relativi elementi sintomatici, finisce poi per rivestire un ruolo determinante nel negare efficacia, da parte dell’ordinamento, a talune prassi di frazionamento contrattuale27, specie quando queste sono poste in essere al fine di eludere discipline imperative, o per pregiudicare gli interessi della parte debole del rapporto. Sul versante delle prassi elusive di discipline imperative si sottolinea in particolare la proficuità della chiave di lettura fornita dal collegamento negoziale, onde individuare in concreto la ricorrenza del fenomeno della frode alla legge (art. 1344 c.c.)28. Sul versante, invece, della tutela della parte debole del rapporto, va segnalata la tematica relativa alle clausole con le quali, specie nei rapporti di finanziamento a struttura trilaterale29, la parte forte intende introdurre elementi di separazione, onde neutralizzare
27 In tema, vedi A.M. Azzaro, Contratto e negozio nel “frazionamento” del rapporto giuridico, Torino, 2009. 28 A riguardo, cfr. in particolare l’analisi di S. Nardi, Frode alla legge e collegamento negoziale, Milano, 2006. Più recentemente, C. Camardi, Collegamento negoziale e contratto in frode alla legge – Un classico alla prova di esperienze recenti, in Contratti, 2011, pp. 1044 ss. 29 Sui quali si rinvia a quanto si dirà infra, § 5.
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la propria posizione rispetto a determinati eventi ed in funzione, dunque, del conseguimento di un regime di irresponsabilità rispetto a tali eventi: in tali casi, la valorizzazione del dato dell’unitarietà dell’operazione, siccome risultante da più negozi collegati, può portare a negare meritevolezza ad alcune clausole c.d. di separazione, ovvero a regolare le conseguenze dell’inadempimento di una delle parti, secondo uno schema che tiene conto della sostanza economica dell’affare nel suo complesso.
4. Il collegamento negoziale nei testi normativi Ormai da diverso tempo la categoria del collegamento negoziale (ed in particolare del collegamento contrattuale), in origine avente valenza unicamente dottrinal-giurisprudenziale, viene utilizzata dallo stesso legislatore, ed è così divenuta una vera e propria categoria normativa. Ciò accade, anzitutto, proprio nella materia che forma oggetto dell’ordinanza in commento (quella dei contratti di finanziamento e, in particolare, del credito ai consumatori), sicché per ogni più specifica considerazione a riguardo si rinvia a quanto si dirà infra, nei successivi due paragrafi. Cronologicamente, il primo esplicito riferimento normativo al fenomeno del collegamento negoziale è contenuto nell’ambito della disciplina delle clausole vessatorie (o abusive) nei contratti conclusi tra un consumatore ed un professionista: in sede di recepimento della Direttiva 93/13/CEE del 5 aprile 1993, il codice civile era stato novellato, con l’introduzione di alcune disposizioni (gli artt. 1469 bis e ss.), tra cui si segnala l’art. 1469 ter, primo comma, ove veniva espressamente contemplata la figura del collegamento, disponendosi che la vessatorietà di una clausola è valutata, tra l’altro, facendo riferimento anche alle clausole contenute in un contratto collegato a quello concluso tra professionista e consumatore, o in un contratto dal quale quest’ultimo dipende. Attualmente la norma è stata espunta dal codice civile, per essere inserita nel codice del
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consumo (d. lgs. 6 settembre 2005, n. 206), all’art. 34, primo comma, ma la formulazione letterale è rimasta inalterata. Il tipo di rilevanza che viene attribuito al collegamento negoziale dalla norma in questione investe gli aspetti più squisitamente fisiologici e, segnatamente, quelli relativi all’interpretazione contrattuale. In termini più precisi, la disposizione impone all’interprete di qualificare come vessatoria una clausola che di per sé non lo sarebbe, ma che lo diventa in considerazione del contenuto di un diverso contratto, collegato a quello in cui essa è inserita; ovvero, viceversa, di ritenere non vessatoria una clausola che invece di per sé lo sarebbe, ma che in realtà non lo è, sempre tenuto conto del contenuto di un altro contratto, collegato a quello in cui essa è inserita. Non sembrano peraltro esservi ostacoli a che l’interprete – al fine di verificare in concreto la vessatorietà o meno di una clausola – possa prendere in considerazione, quale parametro valutativo, il contenuto di un contratto stipulato dal professionista o dal consumatore con un terzo, qualora tra quest’ultimo contratto e quello tra il consumatore ed il professionista, nel quale è inserita la clausola “sospetta”, sia ravvisabile un collegamento funzionale30. Il consumatore, dunque, ove sia parte di entrambi i contratti, potrà “opporre” al professionista (formalmente estraneo al contratto con il terzo) il contenuto di quest’ultimo, al fine di ottenere la declaratoria di nullità parziale di una clausola inserita nel contratto tra loro stipulato; analogamente, quando sia invece il professionista ad essere parte di ambedue i contratti, egli potrà avvalersi del contenuto di quello al quale il consumatore è estraneo, per sentirsi dichiarare la non vessatorietà (e quindi la validità) della clausola “sospetta”. Le considerazioni di cui al testo risultano complessivamente condivise in dottrina. Senza pretesa di completezza, possono citarsi – già tra i primi commentatori della normativa di recepimento della direttiva eurounitaria – M. Casola, Commento all’art. 1469 ter c.c., in A. Barenghi, La nuova disciplina delle clausole vessatorie nel codice civile, Napoli, 1996, pp. 123 ss.; A. M. Azzaro, Commento all’art. 1469 ter, comma primo, c.c., in G. Alpa – S. Patti, Le clausole vessatorie nei contratti con i consumatori, I, Milano, 1997, pp. 531 ss.; G. Benedetti, Tutela del consumatore e autonomia contrattuale, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1998, pp. 17 ss., spec. pp. 26 ss. 30
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Sempre nell’ambito del codice del consumo, merita di essere poi richiamata la disposizione di cui all’art. 77, dettata in materia di contratti di multiproprietà e rubricata “risoluzione dei contratti accessori”, la quale prevede un meccanismo di caducazione automatica di questi ultimi, in caso di esercizio del diritto di recesso, da parte del consumatore, dal contratto di multiproprietà o dal contratto relativo a un prodotto per le vacanze di lungo termine, in applicazione – in buona sostanza – del principio in virtù del quale i contratti collegati simul stabunt, simul cadent; analogo meccanismo di risoluzione, con specifico riferimento ai «contratti funzionalmente collegati stipulati con terzi», è inoltre previsto nell’ambito del sesto comma dell’art. 41 del d. lgs. 23 maggio 2011, n. 79 (c.d. codice del turismo). Per quanto concerne invece il codice civile, attualmente – dopo l’espunzione della norma in materia di clausole vessatorie e la sua ricollocazione all’interno del codice del consumo – è contenuto un unico riferimento esplicito al collegamento negoziale, che tuttavia non appare particolarmente significativo. Si tratta dell’art. 768 quater, terzo comma, norma contenuta nell’ambito della disciplina del patto di famiglia. Come appena anticipato, la norma non riveste una particolare importanza, in quanto essa si limita ad evocare la figura del collegamento contrattuale, onde consentire in maniera esplicita che l’articolata operazione che concreta il patto di famiglia venga realizzata attraverso la stipulazione di più contratti in sequenza cronologica. Invero, l’unico profilo di disciplina è quello che concerne la necessità che l’esistenza del collegamento venga dichiarata «espressamente», con la conseguenza che non appare condivisibile la tesi sostenuta da chi ha ritenuto di attribuire a detta norma (e, più in generale, alla disciplina del patto di famiglia) un ruolo decisivo, in merito alla rilevanza del fenomeno nel nostro ordinamento31: rilevanza che – va ribadito – è invece riconducibile al principio generale dell’autonomia privata. Cfr. A. Buonfrate, Contratti collegati, in Digesto civ., Agg. 2007, I, Torino, 2007, p. 293, secondo il quale, con la disciplina del patto di famiglia, sarebbe stata conferita al collegamento contrattuale cittadinanza nel nostro ordinamento, 31
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5. Il collegamento negoziale ed i contratti di finanziamento Il settore del finanziamento ai consumi e alle attività produttive ha subito, nel corso del tempo, un’evoluzione che ha dato luogo al sempre più frequente ricorso a schemi di tipo plurisoggettivo, coinvolgenti cioè almeno tre protagonisti32. Accanto, infatti, alle tradizionali forme di finanziamento bancario, rispetto alle quali il rapporto intercorre solo tra finanziatore e finanziato, senza che di regola abbia rilevanza la destinazione delle somme che ne formano oggetto, nonché accanto alle ipotesi in cui è lo stesso fornitore del bene o del servizio a finanziare indirettamente il cliente, mediante la concessione di dilazioni di pagamento (come accade nello schema tipico della vendita a rate con riserva di proprietà, artt. 1523 ss. c.c.), si sono diffuse, dapprima nel mercato statunitense, e successivamente anche in quelli europei, alcune figure caratterizzate da complessità soggettiva, nelle quali un intermediario finanziario agevola il compimento di una data operazione, provvedendo ad erogare un prestito specificamente destinato a far ottenere al cliente la proprietà (o, in alternativa, il godimento) di un bene o la fruizione di un servizio. Le due figure di maggior rilievo, in questo ambito, sono costituite da un lato dal c.d. credito finalizzato all’acquisto di un bene o di un servizio (sovente qualificato anche in termini di mutuo c.d. di scopo), e dall’altro dal leasing finanziario. La prima delle due figure viene maggiormente, ancorché non esclusivamente, utilizzata nel settore della concessione del credito ai consumatori, mentre la seconda nasce essenzialmente come operazione di finanziamento delle imprese, anche se – come si dirà tra breve – sempre più sovente essa viene adottata anche dalla clientela non imprenditoriale.
mediante l’attribuzione alla figura di una base normativa: contra, R. Sacco, Contratto collegato, cit., p. 240. 32 La letteratura, sul punto, è assai vasta. Si veda, allora, per tutti, la recente monografia di F. Bartolini, Strutture contrattuali complesse. Problemi della trilateralità nei contratti di finanziamento, Napoli, 2019, per un’esposizione esaustiva della tematica.
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La dottrina prevalente e la giurisprudenza inquadrano entrambe le figure in termini di operazioni a struttura plurinegoziale: sia nel credito finalizzato all’acquisto di un bene o di un servizio, sia nel leasing finanziario, si individua infatti la presenza di due contratti, l’uno avente ad oggetto la fornitura del bene o del servizio, l’altro avente ad oggetto il finanziamento33. La differenza di fondo tra le due fattispecie sta, peraltro, in ciò: mentre nel credito finalizzato all’acquisto di un bene o alla fruizione di un servizio è il cliente finanziato ad essere parte di entrambi i contratti, nel leasing finanziario è il finanziatore ad essere parte di entrambi i contratti. L’operazione di leasing finanziario, mutuata dall’esperienza anglosassone, è infatti strutturata nei seguenti termini: un soggetto, interessato a conseguire il godimento di un bene, effettua la scelta dello stesso presso un fornitore e si rivolge, quindi, ad un intermediario finanziario specializzato nel settore del leasing; quest’ultimo versa il prezzo al fornitore, acquista la proprietà del bene, e lo concede poi in locazione finanziaria34 al soggetto medesimo, che a quel punto viene identificato come utilizzatore. Al termine del contratto di locazione finanziaria l’utilizzatore ha il diritto di opzione per l’acquisto della proprietà del bene, non esercitando la quale è tenuto alla restituzione dello stesso all’intermediario finanziario, nella prassi identificato anche come concedente35. L’operazione, dunque,
La questione, per la verità, è stata in prevalenza dibattuta in dottrina relativamente al leasing finanziario. Per un inquadramento in termini di pluralità strutturale (e di collegamento negoziale), cfr. già R. Clarizia Collegamento negoziale e vicende della proprietà. Due profili della locazione finanziaria, Rimini, 1982; per un inquadramento diverso, ovverosia in termini di unico contratto trilatero, vedi per tutti D. Purcaro, La locazione finanziaria, Padova, 1998. 34 Con il termine leasing normalmente si individua l’intera operazione, mentre con la locuzione locazione finanziaria si intende per lo più lo spezzone di essa rappresentato dal contratto tra soggetto finanziato e soggetto finanziatore. 35 In tema di leasing finanziario, cfr. tra gli altri G. De Nova, Il contratto di leasing, III ed., Milano, 1995; V. Buonocore, La locazione finanziaria, in Tratt. Cicu-Messineo, Milano, 2008; per una panoramica più recente, vedi P. Iamiceli, Leasing, affitto, comodato, in Tratt. dei contratti a cura di Roppo e Benedetti, II, Cessione e uso dei beni, Milano, 2014, pp. 1172 ss. 33
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è ritenuta constare, secondo l’opinione maggioritaria, di due distinti contratti, uno intercorrente tra il fornitore ed il concedente, e l’altro intercorrente tra il concedente e l’utilizzatore. L’attenzione del legislatore per queste figure è relativamente recente ed ha riguardato anzitutto la tematica del credito concesso ai consumatori (e, dunque, sul punto si rinvia a quanto si dirà infra, nell’ambito del paragrafo successivo): l’elaborazione delle regole applicabili è stata pertanto affidata anzitutto alla prassi negoziale, nonché alla giurisprudenza, sovente chiamata a pronunziarsi sulla validità di clausole contenute nelle condizioni generali di contratto predisposte unilateralmente dagli intermediari finanziari che partecipano all’operazione. La struttura articolata delle operazioni in questione, infatti, rende particolarmente agevole la frequente introduzione di clausole che hanno quale conseguenza quella di neutralizzare, in funzione protettiva degli interessi del finanziatore, taluni accadimenti che tuttavia hanno l’effetto pratico di vanificare l’utilità dell’operazione complessiva dal punto di vista del soggetto finanziato. Il tema è stato efficacemente declinato, di recente, nel senso di indagare a proposito della legittimità delle «clausole che separano (ciò che è unito)» e delle «clausole che uniscono (ciò che è separato)»36. A tale proposito merita ad esempio di essere in particolare segnalato, in giurisprudenza, un indirizzo inaugurato negli anni ’90 del secolo scorso, in relazione alla prima delle due figure qui in esame, e cioè quella del finanziamento concesso a fronte dell’acquisto di uno specifico bene da parte del soggetto finanziato. L’ente finanziatore aveva provveduto a versare il prezzo direttamente in favore del fornitore, ma l’operazione complessiva sarebbe stata vanificata dal fatto che il fornitore stesso si sarebbe reso inadempiente rispetto all’obbligo di consegna dello stesso all’acquirente, sicché la compravendita era stata risolta. Nel decidere la controversia insorta, la Corte di Cassazione, valorizzando il significato complessivo dell’operazione economica, nonché il collegamento funzionale tra i due contratti di
Il riferimento è a F. Bartolini, Strutture contrattuali complesse, cit., pp. 153 ss.
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cui la stessa consisteva, statuiva che, risolta la compravendita per la quale è stato stipulato il finanziamento, il finanziatore è legittimato a richiedere la restituzione della somma non al finanziato acquirente (sua diretta controparte contrattuale), bensì esclusivamente al venditore, terzo rispetto al contratto di finanziamento, ma beneficiario in via definitiva della predetta somma37, con conseguente superamento del principio di stretta relatività degli effetti del contratto. Va da sé, peraltro, che l’accertamento circa l’esistenza del collegamento negoziale vada condotto in termini particolarmente rigorosi, come sottolineato poi da altre decisioni sul tema della medesima Suprema Corte38. Relativamente invece al leasing finanziario, va sottolineato che la figura è stata recentemente fatta oggetto di specifica attenzione da parte del legislatore, nell’ambito di provvedimenti che tuttavia non hanno determinato una totale tipizzazione dell’operazione, ovverosia non hanno provveduto a fornire una disciplina legale definibile come completa39. Gli interventi normativi in questione sono rappresentati, per quanto qui di interesse: (i) dall’attuale art. 125 quinquies, terzo comma, T.U.B., ove è disciplinato uno specifico profilo del leasing in favore di clienti consumatori, sicché sul punto si rinvia a quanto si dirà nel paragrafo seguente; (ii) dalla l. 28 dicembre 2015, n. 208 (c.d. legge di stabilità per il 2016), la quale all’art. 1, commi 76-84, ha disciplinato la figura del contratto di locazione finanziaria di im Così, Cass. 20 gennaio 1994, n. 474, in Foro It., 1994, I, cc. 3094 ss., con note di E. Scoditti, Collegamento negoziale come fattispecie autonoma, e di F. Macario, Collegamento negoziale e principio di buona fede nel contratto di credito per l’acquisto: l’opponibilità al finanziatore delle eccezioni relative alla vendita; nonché in Giur. It., 1994, I, 1, cc. 1480 ss., con nota di S.T. Masucci, Finanziamenti finalizzati all’acquisto e inadempimento del fornitore – Recenti tendenze legislative e giurisprudenziali. 38 Ad esempio, Cass. 8 luglio 2004, n. 12567, in Contratti, 2005, pp. 28 ss., con nota di C. Cagnoni Luoni, Collegamento negoziale e mancata applicazione del principio di buona fede, nonché in Giur. It., 2005, pp. 1406 ss., con nota di F. Vitelli, Mutuo di scopo e clausola di destinazione. 39 Per analoga considerazione, cfr. tra gli altri F. Bartolini, Strutture contrattuali complesse, cit., pp. 87 ss. 37
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mobile da adibire ad abitazione principale40; (iii) dalla l. 4 agosto 2017, n. 124 (c.d. legge annuale per il mercato e la concorrenza), la quale all’art. 1, commi 136 – 140, ha fornito una definizione della locazione finanziaria e ne ha disciplinato alcuni profili41. Come si è anticipato, due dei tre interventi normativi hanno riguardato, dunque, ipotesi di leasing in favore della clientela consumatrice, mentre l’intervento più recente concerne, in generale, tutte le operazioni di leasing, e cioè anche quelle, numericamente preponderanti, che vengono poste in essere nei confronti della clientela imprenditoriale. La definizione contenuta nella l. 4 agosto 2017, n. 124 («[P]er locazione finanziaria si intende il contratto con il quale la banca o l’intermediario finanziario […] si obbliga ad acquistare o a far costruire un bene su scelta e secondo le indicazioni dell’utilizzatore, che ne assume tutti i rischi, anche di perimento, e lo fa mettere a disposizione per un dato tempo verso un determinato corrispettivo che tiene conto del prezzo di acquisto o di costruzione e della durata del contratto. Alla scadenza del contratto l’utilizzatore ha diritto di acquistare la proprietà del bene ad un prezzo prestabilito ovvero, in caso di mancato esercizio del diritto, l’obbligo di restituirlo») è sostanzialmente corrispondente a quella che era stata elaborata in dottrina e giurisprudenza, sulla scorta della prassi negoziale importata dai Paesi anglosassoni. Va detto tuttavia che tanto la legge in materia di leasing c.d. prima casa, quanto la legge di ambito applicativo generale, si sono quasi esclusivamente concentrate sul profilo inerente all’inadempimento dell’utilizzatore, nel pagamento dei ratei (denominati anche canoni) di restituzione del capitale e di corresponsione degli interessi, dovuti al concedente – finanziatore.
40 Per un primo commento, cfr. R. Clarizia, La locazione finanziaria di immobile da adibire ad abitazione principale, nella legge di stabilità 2016: problemi di qualificazione e di coerenza sistematica, in Cultura e diritti, 2016, 3, pp. 43 ss. 41 Per un’analisi del provvedimento normativo in questione, cfr. per tutti E. Lucchini Guastalla, Il contratto di leasing finanziario alla luce della l. 124/2017, in Nuova giur. civ., 2019, II, pp. 179 ss.
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Si tratta, invero, di questioni che avevano affaticato non poco la giurisprudenza, la quale aveva elaborato la nota bipartizione tra leasing c.d. di godimento e leasing c.d. traslativo, a seconda che il bene oggetto del contratto fosse destinato, o meno, al termine del rapporto, a conservare un significativo valore economico42. Siffatta distinzione, che – come si è appena evidenziato in nota – risultava cruciale ai fini della disciplina applicabile, oggi ha perso buona parte della sua rilevanza, avendo il legislatore introdotto una disciplina specifica, al fine di governare le conseguenze dell’inadempimento dell’utilizzatore43. 42 A riguardo, cfr. Cass. SS.UU. 7 gennaio 1993, n. 65, tra l’altro in Foro It., 1994, I, c. 177 ss., ed ivi nota di richiami, nonché di M. Vacchiano, Leasing finanziario, risoluzione del contratto e fallimento dell’utilizzatore: la sorte dei canoni percepiti dal concedente. In punto di disciplina, le SS.UU. avevano dunque così statuito: «la risoluzione della locazione finanziaria, per inadempimento dell’utilizzatore, non si estende alle prestazioni già eseguite, in base alle previsioni dell’art. 1458 primo comma c.c. in tema di contratti ad esecuzione continuata e periodica ove si tratti di leasing cosiddetto di godimento, pattuito con funzione di finanziamento, rispetto a beni non idonei a conservare un apprezzabile valore residuale alla scadenza del rapporto (con conseguenziale marginalità dell’eventuale opzione), e dietro canoni che configurano esclusivamente il corrispettivo dell’uso dei beni stessi. La risoluzione medesima, invece, si sottrae a dette previsioni, e resta soggetta all’applicazione in via analogica delle disposizioni fissate dall’art. 1526 cod. civ. con riguardo alla vendita con riserva della proprietà, ove si tratti di leasing cosiddetto traslativo, pattuito con riferimento a beni atti a conservare a quella scadenza un valore residuo superiore all’importo convenuto per l’opzione, e dietro canoni che scontano anche una quota del prezzo in previsione del successivo acquisto (rispetto a cui la concessione in godimento assume funzione strumentale)». 43 Prevedono, infatti, i commi 137, 138 e 139 dell’art. 1 della l. 4 agosto 2017, n. 124, la seguente disciplina: (i) costituisce grave inadempimento dell’utilizzatore il mancato pagamento di almeno sei canoni mensili o due canoni trimestrali anche non consecutivi o un importo equivalente per i leasing immobiliari, ovvero di quattro canoni mensili anche non consecutivi o un importo equivalente per gli altri contratti di locazione finanziaria; (ii) In caso di risoluzione del contratto per l’inadempimento dell’utilizzatore ai sensi del comma 137, il concedente ha diritto alla restituzione del bene ed è tenuto a corrispondere all’utilizzatore quanto ricavato dalla vendita o da altra collocazione del bene, effettuata ai valori di mercato, dedotta la somma pari all’ammontare dei canoni scaduti e non pagati fino alla data della risoluzione, dei canoni a scadere, solo in linea capitale, e del prezzo pattuito per l’esercizio dell’opzione finale di acquisto, nonché le spese anticipate per
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In tema, invece, di inadempimento del fornitore del bene concesso in leasing, che – come si è visto anche con rifermento ai contratti di finanziamento finalizzati all’acquisto di un bene o alla fornitura di un servizio – costituisce il principale momento di emersione delle questioni implicate dalla struttura plurinegoziale dell’operazione, il legislatore è intervenuto unicamente nel settore del leasing c.d. al consumo, con il sopra menzionato art. 125 quinquies, terzo comma, T.U.B. (su cui – come anticipato – si rinvia a quanto verrà esposto infra, nel prossimo paragrafo). In relazione, dunque, alle ipotesi non rientranti nell’ambito applicativo della norma appena citata, in assenza di una specifica disciplina normativa finisce per assumere ancora rilievo decisivo il formante giurisprudenziale, che sul tema è intervenuto con un’importante sentenza della Suprema Corte a Sezioni Unite, ove è stato statuito il seguente principio di diritto: «[I]n tema di vizi della cosa concessa in locazione finanziaria che la rendano inidonea all’uso, occorre distinguere l’ipotesi in cui gli stessi siano emersi prima della
il recupero del bene, la stima e la sua conservazione per il tempo necessario alla vendita. Resta fermo nella misura residua il diritto di credito del concedente nei confronti dell’utilizzatore quando il valore realizzato con la vendita o altra collocazione del bene è inferiore all’ammontare dell’importo dovuto dall’utilizzatore a norma del periodo precedente; (iii) Ai fini di cui al comma 138, il concedente procede alla vendita o ricollocazione del bene sulla base dei valori risultanti da pubbliche rilevazioni di mercato elaborate da soggetti specializzati. Quando non è possibile far riferimento ai predetti valori, procede alla vendita sulla base di una stima effettuata da un perito scelto dalle parti di comune accordo nei venti giorni successivi alla risoluzione del contratto o, in caso di mancato accordo nel predetto termine, da un perito indipendente scelto dal concedente in una rosa di almeno tre operatori esperti, previamente comunicati all’utilizzatore, che può esprimere la sua preferenza vincolante ai fini della nomina entro dieci giorni dal ricevimento della predetta comunicazione. Il perito è indipendente quando non è legato al concedente da rapporti di natura personale o di lavoro tali da compromettere l’indipendenza di giudizio. Nella procedura di vendita o ricollocazione il concedente si attiene a criteri di celerità, trasparenza e pubblicità adottando modalità tali da consentire l’individuazione del migliore offerente possibile, con obbligo di informazione dell’utilizzatore. Analoga disciplina, poi, è prevista nell’ambito della legge in materia di leasing c.d. prima casa.
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consegna (rifiutata dall’utilizzatore) da quella in cui siano emersi in epoca successiva, perché nascosti o taciuti in mala fede dal fornitore, atteso che nella prima ipotesi, assimilabile a quello della mancata consegna, il concedente, informato della rifiutata consegna, in forza del principio di buona fede, è tenuto a sospendere il pagamento del prezzo in favore del fornitore e, ricorrendone i presupposti, ad agire verso quest’ultimo per la risoluzione del contratto di fornitura o per la riduzione del prezzo, mentre nel secondo caso l’utilizzatore ha azione diretta verso il fornitore per l’eliminazione dei vizi o la sostituzione della cosa, e il concedente, una volta messo a conoscenza dei vizi, ha i medesimi doveri di cui all’ipotesi precedente. In ogni caso, l’utilizzatore può agire contro il fornitore per il risarcimento dei danni, compresa la restituzione della somma corrispondente ai canoni già eventualmente pagati al concedente»44. L’azione diretta dell’utilizzatore verso il fornitore (soggetti che, va ricordato, nell’operazione di leasing non sono direttamente legati da alcuna relazione contrattuale, posto che il contratto di fornitura si perfeziona tra il concedente – finanziatore ed il fornitore) ha un ambito applicativo che esclude la possibilità di esperire l’azione di risoluzione contrattuale per inadempimento, la quale resta quindi di prerogativa esclusiva del concedente – finanziatore, e ciò in quanto la risoluzione del contratto di fornitura ha, quale ripercussione sulla sfera giuridica di quest’ultimo, quella di privarlo della proprietà del bene, che – nell’ottica dell’operazione complessa – rappresen-
Così, Cass. SS. UU. 5 ottobre 2015, n. 19785, in Nuova giur. civ., 2016, pp. 253 ss., con nota di M. Fermeglia, Qualificazione del leasing finanziario e tutela dell’utilizzatore: il punto (e qualcosa in più) delle sezioni unite; in Giur. It., 2016, pp. 33 ss., con note di V. Viti, Il collegamento negoziale e la tutela dell’utilizzatore nel leasing finanziario e di P.A. Messina, Vizi del bene e tutela dell’utilizzatore nel contratto di leasing; in Corr. giur., 2016, pp. 785 ss., con nota di V. Viti, L’individuazione delle azioni esperibili dall’utilizzatore in leasing verso il venditore inadempiente e la (sottovalutata) rilevanza del collegamento negoziale; in Contratti, 2016, p. 224 ss., con nota di G. Di Rosa, La tutela dell’utilizzatore nel contratto di leasing finanziario; in Banca, borsa, tit. credito, 2017, II, pp. 20 ss., con nota di M. Maugeri, Inadempimento del fornitore e tutela dell’utilizzatore nel leasing finanziario. 44
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ta per esso la garanzia della restituzione del finanziamento e della corresponsione degli interessi. Risulta, pertanto, a nostro parere corretta, sotto questo profilo, la soluzione individuata dalle Sezioni Unite, le quali però, altrettanto correttamente, hanno stabilito che il concedente – finanziatore non possa rimanere inerte, a fronte dell’inadempimento del fornitore, ma abbia dei precisi doveri di attivarsi, anche – se del caso – domandando la risoluzione del contratto, pena l’esposizione all’obbligo di risarcire i danni patiti dall’incolpevole utilizzatore.
6. Il collegamento negoziale ed il credito ai consumatori Come già si è anticipato in precedenza, il settore in cui il legislatore ha maggiormente utilizzato la figura del collegamento negoziale è senza dubbio quello dei finanziamenti erogati dalle banche e dagli intermediari finanziari, con specifico riferimento alla clientela consumatrice. Il primo intervento in ordine temporale è quello disposto, in attuazione della Direttiva 1987/102/CEE del 22 dicembre 1986, nell’ambito della l. 19 febbraio 1992, n. 142, la cui disciplina sarebbe stata poi trasfusa nel d. lgs. 1° settembre 1993, n. 385 (c.d. testo unico bancario – t.u.b.)45. Per quanto qui di specifico interesse, l’art. 125, quarto comma, t.u.b.46, nella versione antecedente alla complessiva riforma della materia, di cui si dirà tra breve ed intervenuta nel 2010, prevedeva un generico «diritto di agire contro il finanziatore nei limiti del cre Per una sintetica esposizione della c.d. prima tappa nel percorso di tipizzazione del collegamento nelle operazioni di credito al consumo, vedi per tutti F. Bartolini, Strutture contrattuali complesse, cit., pp. 38 ss. Va segnalato che, successivamente all’emanazione del codice del consumo, le disposizioni sul credito al consumo sarebbero state suddivise in modo per vero irragionevole tra testo unico bancario e, appunto, codice del consumo. Attualmente, come si dirà meglio tra breve, siffatta irragionevole suddivisione è stata superata, e tutte le disposizioni sul credito al consumo sono ora collocate nel testo unico bancario. 46 Per alcune riflessioni a proposito di detta disposizione normativa, sia consentito rinviare a C. Colombo, Operazioni economiche e collegamento negoziale, cit., pp. 316 ss. 45
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dito concesso», a favore del sovvenuto, «nei casi di inadempimento del fornitore di beni e servizi», previa costituzione in mora del fornitore ed a condizione che vi fosse un accordo di esclusiva tra finanziatore e fornitore47. Il collegamento tra contratto di fornitura e contratto di finanziamento – come è stato recentemente osservato48 – non era esplicitamente nominato, ma veniva fatto oggetto di una disciplina che lo individuava come presupposto implicito della relativa fattispecie49. In questo senso si spiegano le statuizioni contenute nella sentenza in commento – che, lo ricordiamo, è relativa ad una fattispecie alla quale, ratione temporis, risultavano applicabili le disposizioni in vigore prima della complessiva riforma della materia – secondo cui «tra i contratti di credito al consumo finalizzati all’acquisto di determinati beni o servizi ed i contratti di acquisto dei medesimi ricorre un collegamento negoziale di fonte legale», con la consenguenza che nel caso in esame «si palesa erronea l’affermazione dei giudici di merito secondo cui per ravvisare il collegamento negoziale di tipo funzionale sarebbe stato necessario riscontrare la volontà 47 In realtà, il ruolo dell’accordo di esclusiva sarebbe stato marginalizzato dalla stessa Corte di Giustizia U.E., nella pronuncia 23 aprile 2009, resa nel giudizio n. 509/07, in Contratti, 2009, pp. 653 ss., con nota di F. Macario, Inadempimento del fornitore e tutela del debitore nel credito al consumo; in Corr. giur., 2009, pp. 1051 ss., con nota di R. Conti, Il «dialogo» tra giudice nazionale e corte Ue; in Nuova giur. civ., 2009, I, p. 1091 ss., con nota di M. De Poli, Credito al consumo e collegamento negoziale: qualche luce, molte ombre…; in Giur. It., 2009, p. 2392 ss. (m), con nota di C.A. Puppo, Credito al consumo e collegamento negoziale; ed in Giur. It., 2010, p. 50 ss. (m), con nota di E. Battelli, Credito al consumo: fornitore inadempiente e accordo tra creditore e fornitore. Ovviamente la giurisprudenza della S.C. si sarebbe poi adeguata: cfr., tra le altre, Cass. 29 settembre 2014, n. 20477, in Nuova giur. civ., 2015, I, pp. 208 ss., con nota di R. Palumbo, Relazioni biunivoche tra le interpretazioni della vecchia e nuova disciplina del collegamento negoziale nel credito al consumo. 48 F. Bartolini, Strutture contrattuali complesse, cit., p. 40. 49 Del resto, a commento della Direttiva 1987/102/CEE, già G. Oppo, La direttiva comunitaria sul credito al consumo, in Riv. dir. civ., 1987, II, pp. 539 ss. aveva autorevolmente formulato l’affermazione secondo cui «è l’operazione complessiva, risultante dai due momenti, che deve essere identificata come fattispecie negoziale nelle sue componenti essenziali, intorno alle quali raccogliere i problemi della disciplina».
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di tutti i contraenti di collegare il contratto di credito al consumo al contratto di compravendita». Il passaggio successivo verso la tipizzazione sarebbe stato segnato dall’emanazione della Direttiva 2008/48/CE del 23 aprile 200850, alla quale il legislatore italiano avrebbe poi dato attuazione introducendo nel testo unico bancario quello che attualmente è il Capo II del Titolo V, rubricato «credito ai consumatori»51. L’art. 121, lett. d) del t.u.b. fornisce anzitutto una definizione di «contratto di credito collegato», il quale viene individuato in un contratto finalizzato in via esclusiva a finanziare la fornitura di uno specifico bene, o la prestazione di uno specifico servizio, ove ricorra almeno una delle seguenti condizioni: (i) il finanziatore si avvale del fornitore del bene o del prestatore del servizio per promuovere o concludere il contratto di credito; (ii) il bene o il servizio specifici sono esplicitamente individuati nel contratto di credito. Va ricordato, a riguardo, che nel testo della Direttiva (art. 3, lett. n) era contenuto un riferimento esplicito all’unicità dell’operazione commerciale, riferimento non replicato dal legislatore italia Su cui vedi, per tutti, G. De Cristofaro, La nuova disciplina comunitaria del credito al consumo: la direttiva 2008/48/Ce e l’armonizzazione «completa» delle disposizioni nazionali concernenti «taluni aspetti» dei «contratti di credito ai consumatori», in Riv. dir. civ., 2008, II, pp. 255 ss.; L. Modica, Il contratto di credito ai consumatori nella nuova disciplina comunitaria, in Eur. dir. priv., 2009, pp. 785 ss. Più di recente, per una sintesi della c.d. seconda tappa, F. Bartolini, Strutture contrattuali complesse, cit., pp. 41 ss. 51 Sull’attuazione della Direttiva 2008/48/CE del 23 aprile 2008, cfr. tra gli altri A. D’Adda, Collegamento negoziale e inadempimento del venditore nei contratti di credito al consumo, in Eur. dir. priv., 2011, pp. 725 ss.; G. Rossi, Il collegamento contrattuale nel credito al consumo alla luce del nuovo d.leg. 13 agosto 2010 n. 141, in Contr. impr., 2010, pp. 1432 ss.; M. Maugeri, Cenni su alcuni profili della riforma del testo unico bancario in materia di «credito ai consumatori», in Nuova giur. civ., 2011, II, pp. 463 ss.; G. D’Amico, Credito al consumo e principio di relatività degli effetti contrattuali (considerazioni «inattuali» su collegamento negoziale e buona fede), in Contratti, 2013, pp. 712 ss. Più recentemente, vedi F. Bartolini, Strutture contrattuali complesse, cit., pp. 58 ss.; (M. Semeraro) – A. Tucci, Il credito ai consumatori, in E. Capobianco, Contratti bancari, Milano, 2021, pp. 1823 ss., spec. p. 1882 ss.; F. Quarta, Il credito al consumo, in G. Conte, Arbitro bancario e finanziario, Milano, 2021, pp. 878 ss.; Id., Il credito ai consumatori tra contratto e mercato, Napoli, 2020. 50
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no in sede di attuazione. La dottrina si sarebbe espressa in termini prevalentemente critici, rispetto alla scelta del legislatore, poiché – secondo un’interpretazione letterale – quelli che nella Direttiva risultano essere dei meri indici presuntivi dell’unicità dell’operazione (o, in altri termini, della sussistenza del collegamento negoziale), nella norma interna sarebbero divenuti stringenti requisiti di applicabilità della disciplina a tutela del consumatore. Conseguentemente, da parte di alcuni si è auspicata un’interpretazione favorevole a ritenere ammissibile la prova di ulteriori indici sintomatici del collegamento, oltre a quelli individuati alla lett. d) dell’art. 121 t.u.b.52; altri invece hanno richiamato la possibilità di fare tesoro delle acquisizioni giurisprudenziali in tema di collegamento negoziale, nel settore del credito finalizzato all’acquisto di un bene o di un servizio, onde non limitare la tutela del sovvenuto53; altri infine – in una prospettiva invece meno critica, rispetto alla scelta del legislatore italiano – hanno rilevato come i timori di una minor tutela andrebbero nel complesso ridimensionati, atteso che da un lato le condizioni poste dalla norma interna «paiono comprensibilmente orientate a stabilire un equilibrio tra l’esigenza di tutela rafforzata del consumatore e l’interesse dell’impresa a una razionale pianificazione della propria attività», mentre dall’altro, alle sempre possibili condotte elusive poste in essere dal finanziatore, ben potrebbe essere adeguatamente posto rimedio, valorizzando il dato della sua accettazione consapevole, anche solo in via di fatto, di prendere parte ad una operazione commerciale oggettivamente unica54. La tutela espressamente prevista è oggi contenuta nell’art. 125 quinquies t.u.b., che al primo comma stabilisce il diritto del sovvenuto alla risoluzione del contratto di finanziamento, in caso di inadempimento del fornitore, previa inutile costituzione in mora di
52 Ad esempio, da ultimo, (M. Semeraro) – A. Tucci, Il credito ai consumatori, cit., p. 1887. 53 Per un’impostazione di questo tipo, cfr. ad esempio F. Bartolini, Strutture contrattuali complesse, cit., pp. 73 ss. 54 Così, F. Quarta, Il credito al consumo, cit., pp. 882 ss.
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quest’ultimo e condizionatamente alla ricorrenza degli estremi della gravità ex art. 1455 c.c. La norma non subordina la possibilità di attivare il rimedio in esame alla risoluzione giudiziale o stragiudiziale per inadempimento del contratto di fornitura, né – in caso di controversia tra finanziatore e sovvenuto – è prevista la partecipazione al giudizio, quale litisconsorte necessario, del fornitore: tale scelta, se da un lato appare opportuna, in chiave di agevolazione della posizione del consumatore, può determinare alcune criticità, specie nelle ipotesi in cui l’inadempimento del fornitore si configuri nei termini di inadempimento solo parziale, ovvero siano in gioco profili di indole qualitativa dell’adempimento. Il secondo comma disciplina le conseguenze dell’attivazione con successo del rimedio contemplato al primo comma: più precisamente, il finanziatore dovrà rimborsare al consumatore le rate già pagate ed ogni altro onere applicato; il finanziatore a sua volta – in termini analoghi rispetto a quanto statuito dalla giurisprudenza della S.C. menzionata nel precedente paragrafo – avrà diritto di ripetere dal fornitore le somme in suo favore erogate. Il terzo comma disciplina, poi, i contratti di leasing c.d. al consumo, prevedendo tra l’altro, a favore dell’utilizzatore che rivesta la qualità di consumatore, il potere di chiedere al finanziatore di agire per la risoluzione del contratto, previa messa in mora del fornitore inadempiente: la soluzione normativa, dunque, risulta in sostanza allineata a quella individuata dalla giurisprudenza della Suprema Corte in relazione alle fattispecie nelle quali l’utilizzatore sia un soggetto non consumatore. Dunque, anche qui la differenza tra i due tipi di rimedi si spiega agevolmente con il fatto che, mentre nelle operazioni di credito finalizzato il sovvenuto è parte dei due contratti collegati (e, dunque, ben può essere previsto il suo diritto di risolvere il contratto di finanziamento), nelle operazioni di leasing è invece il solo finanziatore a partecipare ai due contratti collegati (e, dunque, risulterebbe tecnicamente impossibile disporre il diritto del finanziato a risolvere il contratto di cui non è parte, salva l’ipotesi della previsione di una
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specifica clausola contrattuale, che attribuisca all’utilizzatore il potere di agire per la risoluzione del contratto di fornitura). La norma positiva, pertanto, contempla – in relazione ai contratti di credito c.d. finalizzato – unicamente un particolare rimedio distruttivo, o demolitorio (quello della risoluzione del contratto di finanziamento), pur in assenza di un inadempimento che possa dirsi imputabile al finanziatore. Siffatta scelta normativa ha dunque suscitato alcuni interrogativi, in merito alla possibilità di attivare, da parte del consumatore, in alternativa al rimedio risolutorio, anche dei rimedi di tipo manutentivo, primo tra tutti quello consistente nell’opporre al finanziatore l’eccezione di inadempimento (del fornitore), ex art. 1460 c.c., e dunque di sospendere il pagamento dei ratei di restituzione del finanziamento, comprensivi degli interessi pattuiti. La condivisibile opinione prevalente è nel senso di affermare l’opponibilità dell’eccezione55, posto che «se […] il legislatore fa circolare l’effetto risolutorio […] deve ritenersi soggetto a pari circolazione un effetto di minore intensità […], prodotto da un rimedio che il legislatore del diritto comune concepisce come “anticipatorio” di quello distruttivo»56. Resta inteso comunque che, al fine di evitare condotte opportunistiche da parte del consumatore, l’opposizione dell’eccezione necessita di uno scrutinio particolarmente rigoroso da parte del giudice, sul piano della buona fede ex art. 1460, secondo comma, c.c., atteso che – come si è detto – nel caso in esame non è il finanziatore a rendersi inadempiente, ma un terzo (il fornitore), nell’ambito di un contratto rispetto al quale il finanziatore stesso è formalmente estraneo. È invece prevalente in dottrina la tesi contraria rispetto alla possibilità che il consumatore possa attivare, sempre nei confronti del finanziatore, il rimedio risarcitorio. Non ravvisandosi, infatti, al-
55 Vedi, a riguardo, tra gli altri, F. Bartolini, Strutture contrattuali complesse, cit., pp. 66 ss.; (M. Semeraro) – A. Tucci, Il credito ai consumatori, cit., p. 1890. 56 Così, F. Bartolini, Strutture contrattuali complesse, cit., p. 71.
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cun inadempimento da parte del finanziatore, porre a suo carico un’obbligazione risarcitoria avrebbe il significato di accollargli un rischio estraneo alla sua sfera di attività, salva beninteso l’ipotesi in cui emergano suoi profili autonomi di responsabilità57.
Cfr. tra gli altri (M. Semeraro) – A. Tucci, Il credito ai consumatori, cit., pp. 1891 s.; F. Bartolini, Strutture contrattuali complesse, cit., pp. 71 ss. 57
Corte di Cassazione – Sezioni Unite 6 marzo 2015, n. 4628 Presidente Rovelli, Estensore D’Ascola
Preliminare di preliminare – Causa in concreto – Procedimento – Consenso traslativo – Accordi di puntazione La stipulazione di un contratto preliminare di preliminare (nella specie, relativo ad una compravendita immobiliare), ossia di un accordo in virtù del quale le parti si obblighino a concludere un successivo contratto che preveda anche solamente effetti obbligatori (e con l’esclusione dell’esecuzione in forma specifica in caso di inadempimento) è valido ed efficace, e dunque non è nullo per difetto di causa, ove sia configurabile un interesse delle parti, meritevole di tutela, ad una formazione progressiva del contratto, fondata su una differenziazione dei contenuti negoziali, e sia identificabile la più ristretta area del regolamento di interessi coperta dal vincolo negoziale originato dal primo preliminare. La violazione di tale accordo, in quanto contraria a buona fede, è idonea a fondare, per la mancata conclusione del contratto stipulando, una responsabilità contrattuale da inadempimento di una obbligazione specifica sorta nella fase precontrattuale (massima ufficiale).
Dalla motivazione (omissis) 6. Dietro la stipulazione contenente la denominazione di “preliminare del preliminare” (nel senso che la conclusione dell’accordo precede la stipula del contratto preliminare) si possono dare situazioni fra loro differenti, che delineano sia figure contrattuali atipiche (quali quelle prima indicate), ma alle quali corrisponde una “causa concreta” meritevole di tutela; sia stadi prenegoziali molto avanzati, cui corrisponde un vincolo obbligatorio di carattere ancora prenegoziale (almeno fra le parti del contratto in relazione al quale si assuma un impegno volto alla successiva stipula di un contratto
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preliminare) che vede intensificato e meglio praticato l’obbligo di buona fede di cui all’art. 1337 c.c. Certo è però, che, in linea di massima, la previsione di dover dar vita, in futuro, all’assunzione dell’obbligo contrattuale nascente dal contratto preliminare, può essere sintomatica del fatto che le parti hanno consapevolezza che la situazione non è matura per l’assunzione del vincolo contrattuale vero e proprio. Ciò può dipendere segnatamente in relazione al grado di conoscenza di tutti gli elementi di fatto che occorre aver presenti per manifestare la volontà il cui incontro dà vita all’accordo vincolante consacrato nel contratto preliminare. Posto, come si è detto prima, che non si può assegnare utilità al “bis in idem” in quanto volto alla mera ripetizione del primo contratto ad identici contenuti, se e quando le parti sono disposte al mutamento del contenuto del contratto, al cambiamento di esso, l’obbligazione assunta sembra avere per oggetto non il contrarre, ma il contrattare. 6.1. Anche la dottrina più rigorosa riconosce che da gran tempo è stata discussa la formazione progressiva del contratto e sembra ammettere che essa potrebbe atteggiarsi configurando una tripartizione del procedimento di compravendita immobiliare. Secondo le Sezioni Unite si deve immaginare la pattuizione di un vincolo contrattuale che sia finalizzato ad ulteriori accordi e che il rifiuto di contrattare opposto nella seconda fase, se immotivato e contrario a buona fede, possa dar luogo a responsabilità contrattuale da inadempimento di un’obbligazione specifica sorta nel corso della formazione del contratto e non propriamente ex contractu. È stato però osservato che si tratterebbe di ipotesi diversa da quella del preliminare di preliminare, che dovrebbe riguardare l’obbligo, assunto nella prima fase, di contrarre e non di contrattare, come invece avverrebbe quando siano state scandite solo tappe di una trattativa complessa. Si è quindi manifestata contrarietà all’ipotesi di un “preliminare aperto” – sottoscritto per lo più da parti che ancora non si conoscono o hanno deliberatamente lasciato alla seconda fase la
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regolazione di alcuni profili contrattuali – seguito da un preliminare chiuso. Questa ritrosia può essere giustificata in alcuni casi, ma non in tutti. È stato in precedenza sottolineato che va dato peso alla difficoltà di configurare come preliminare propriamente detto un rapporto obbligatorio in cui le parti non si conoscano e non siano in grado quindi di valutare le qualità soggettive dell’altro contraente. Rispetto a questa frequente ipotesi, non sembra corrispondere alle reali esigenze del traffico giuridico qualificare la prima intesa, che pur contenga gli altri elementi essenziali, come contratto preliminare. Vi sono esigenze, in una società complessa, interessata da pervasivi fenomeni criminosi, da sospette manipolazioni nel tessuto economico, da un fiorire incontrollabile di nullità contrattuali “minori”, ma non per questo meno incisive negozialmente, di riservare il consenso vincolante, sottomesso all’esecuzione coattiva, a verifiche che sono da valutare soggettivamente. In altri casi il contraente resta libero da vincoli stringenti e assoggettato solo alle conseguenze risarcitorie che ha deliberatamente assunto e contrattualmente delimitato, concordando espressamente la necessità di un vero e proprio preliminare e l’esclusione del disposto di cui all’art. 2932 c.c. Una più esauriente determinazione del contenuto contrattuale può essere prevista per meglio realizzare l’interesse delle parti. Se si dovesse invece ricorrere sempre all’opzione preliminare/definitivo si dovrebbero riempire i contenuti rimasti in sospeso con il meccanismo di cui all’art. 1374, integratore rispetto al primo accordo incompleto. 6.2. È stato autorevolmente sostenuto che se mancano violazioni di una legge imperativa, non v’è motivo per giudicare inammissibili procedimenti contrattuali graduali, la cui utilità sia riscontrata dalle parti con pattuizioni che lasciano trasparire l’interesse perseguito, in sé meritevole di tutela, a una negoziazione consapevole e informata.
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Le posizioni di coloro che pongono l’alternativa “preliminare o definitivo” amputano le forme dell’autonomia privata, sia quando vogliono rintracciare ad ogni costo il contratto preliminare in qualunque accordo iniziale, sia quando ravvisano nel c.d. preliminare chiuso il contratto definitivo, passibile soltanto di riproduzione notarile. La procedimentalizzazione delle fasi contrattuali non può di per sé essere connotata da disvalore, se corrisponde a “un complesso di interessi che stanno realmente alla base dell’operazione negoziale”. È vero che occorre guardarsi da un uso “poco sorvegliato” dell’espressione “preliminare di preliminare”, perché l’argomento nominalistico non è neutro. Tuttavia, se ci si libera dell’ipotesi in cui appare che il primo contratto è già il contratto preliminare e che il secondo è, al più, solo la sua formalizzazione per la trascrizione, restano due “sequenze” variabili che si avvicinano: A) quella delle mere puntuazioni in cui le parti hanno solo iniziato a discutere di un possibile affare e senza alcun vincolo fissano una possibile traccia di trattative. In questa ipotesi, quanto maggiore e specifico è il contenuto, tanto più ci si avvicina al preliminare. B) Quella in cui il contratto non è ancora un vero preliminare, ma una puntuazione vincolante sui profili in ordine ai quali l’accordo è irrevocabilmente raggiunto, restando da concordare secondo buona fede ulteriori punti. Si tratta di un iniziale accordo che non può configurarsi ancora come preliminare perché mancano elementi essenziali, ma che esclude che di quelli fissati si torni a discutere. In questa ipotesi man mano che si impoverisce il contenuto determinato ci si allontana dal preliminare propriamente detto. b1) Occorre qui ulteriormente ricordare la distinzione con l’ipo tesi in cui la previsione del secondo preliminare esprime soltanto che la situazione conoscitiva delle parti non è tale da far maturare l’accordo consapevole, ma si vuole tuttavia “bloccare l’affare”, anche a rischio del risarcimento del danno negativo in caso di sopravvenuto disaccordo.
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Ciò che conta chiarire è che, all’interno di una gamma di situazioni che ricevono risposte diverse, quelle contrassegnate sotto la lettera b sono riconducibili a una fase sostanzialmente precontrattuale, in cui la formazione del vincolo è limitata a una parte del regolamento. La violazione di queste intese, perpetrata in una fase successiva rimettendo in discussione questi obblighi in itinere che erano già determinati, dà luogo a responsabilità contrattuale da inadempimento di un’obbligazione specifica sorta nel corso della formazione del contratto, riconducibile alla terza delle categorie considerate nell’art. 1173 c.c., cioè alle obbligazioni derivanti da ogni fatto o atto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico. 6.2.1. È evidente come questa linea interpretativa impone di vagliare caso per caso l’emergere dell’interesse delle parti, di questa loro volontà di rinviare il momento in cui operano sia l’integrazione suppletiva ex art. 1374 c.c. sia la cogenza del meccanismo proprio del preliminare ex art. 1351 e 2932 c.c. Nella compravendita immobiliare l’ausilio giunge dal formalismo che contraddistingue la materia, sì da potersi di volta in volta cogliere i profili oggettivi non solo di una trattativa e della successiva stipula di un preliminare, ma di una sequenza di atti caratterizzati da un contenuto differenziato e aventi portata contrattuale con le connesse conseguenze. 7. Alla luce di questi principi il ricorso è da accogliere. I giudici di merito hanno infatti in primo luogo omesso di valutare se il contratto in esame, sebbene prevedesse la stipula di un successivo contratto preliminare, avesse già le caratteristiche di un contratto preliminare completo, soltanto subordinato ad una condizione, cioè al consenso del Banco di Napoli alla cancellazione parziale dell’ipoteca, ipotesi da loro stessi contemplata (pag. 7 sentenza) ma scartata a causa della previsione dell’impegno a sottoscrivere un futuro preliminare. Hanno poi omesso di interrogarsi sulla validità del primo contratto, in ipotesi munito di tutti gli elementi essenziali del preliminare, e sulla possibile invalidità, in questo contesto, del secondo accordo, se meramente riproduttivo del primo. In quest’ottica han-
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no rovesciato la prospettiva che le Sezioni unite ritengono giuridicamente corretta. Hanno infine aderito all’orientamento che sanziona come nullo per difetto di causa un contratto che sia propedeutico al “successivo stipulando preliminare” senza verificare la sussistenza di una causa concreta dell’accordo dichiarato nullo tale da renderlo meritevole di tutela da parte dell’ordinamento, in quanto inserito in una sequenza procedimentale differenziata, secondo un programma di interessi realizzato gradualmente. Discende da quanto sposto l’accoglimento del ricorso. La sentenza impugnata va cassata e la cognizione rimessa ad altra sezione della Corte di appello di (omissis). P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della Corte di appello di (omissis).
IL PRELIMINARE DI PRELIMINARE Gianluca De Donno (Dottore di ricerca presso l’Università degli Studi di Sassari)
Sommario: 1. Il caso. – 2. Cenni sulla disciplina civilistica del contratto preliminare. – 3. (segue) Dinamismo operativo della contrattazione preliminare. – 4. Il c.d. preliminare di preliminare. – 5. L’evoluzione giurisprudenziale e i profili di rilevanza giuridica del preliminare di preliminare. – 6. Osservazioni conclusive.
1. Il caso La vicenda sottesa alla pronuncia in esame aveva ad oggetto la sottoscrizione nel luglio del 1996 di una scrittura privata, denominata “dichiarazione preliminare d’obbligo”, con cui le parti rimandavano alla futura stipulazione di un contratto preliminare la compravendita di una porzione di fabbricato, il quale risultava altresì gravato da garanzia ipotecaria. Sulla scorta di tale documento, le parti manifestavano l’impegno a concludere un successivo contratto preliminare di vendita relativo all’immobile individuato, anche a ragione del fatto che – prima di addivenire alla firma del preliminare – si intendeva procedere, in via preventiva, alla cancellazione della summenzionata garanzia ipotecaria, la quale necessitava del consenso espresso dell’istituto di credito garantito. Il successivo contratto, tuttavia, non veniva stipulato e, in conseguenza, i promittenti venditori agivano in giudizio contro i promittenti acquirenti, con ciò dando origine alla questione concernente la natura effettiva di siffatta “dichiarazione preliminare di obbligo” e, in specie, il rapporto tra quest’ultima e il potenziale contratto definitivo di vendita del bene, anche in tema di tutele rimediali accordabili ai contraenti delusi.
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I promittenti venditori, in effetti, manifestando interesse alla conclusione dell’affare, richiedevano che venisse dal tribunale riconosciuta alla dichiarazione preliminare la qualifica di contratto preliminare, dal contenuto completo nei suoi elementi essenziali, e dunque comprensiva dell’obbligo di stipulare il successivo contratto definitivo. Per tale motivo, constatando il difetto di consenso della controparte, facevano domanda per ottenere l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre ai sensi dell’art. 2932 c.c. tramite sentenza costitutiva che facesse luogo del mancato consenso. I promissari acquirenti eccepivano, in via del tutto opposta, che la ricostruzione secondo tali linee della vicenda negoziale risultava erronea. In particolare, essi sottolineavano come la scrittura privata oggetto di controversia non avrebbe potuto integrare gli estremi di un contratto preliminare, ma di un negozio volto ad obbligare alla conclusione di un successivo contratto preliminare. Tale preliminare di preliminare avrebbe, tuttavia, dovuto essere dichiarato nullo per difetto di causa, giacché contente una duplicazione causale rispetto al contratto futuro e, da qui, l’assenza di autonomia causale e dunque la nullità ai sensi degli artt. 1418, co. 2, e 1325 c.c. Offrendo poi una ricostruzione alternativa, i convenuti segnalavano che il documento avrebbe potuto essere inteso alla stregua di una mera puntuazione di elementi da riproporre nell’eventuale preliminare. In quanto tale, esso non avrebbe avuto alcuna efficacia obbligatoria ponendosi come semplice momento di specificazione in una fase ancora di negoziazione. Tanto il tribunale quanto il giudice di appello aderivano alla prima delle due impostazioni prospettate dai promittenti acquirenti, censurando così di nullità l’accordo in quanto privo di una funzione giuridicamente apprezzabile. A seguito del ricorso in Cassazione dei promittenti venditori, la Seconda Sezione riteneva opportuno rimettere la questione alla Sezioni Unite, data l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale (e dottrinale) sulla corretta qualificazione e sui profili di validità del cosiddetto preliminare di preliminare.
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Nello specifico, le Sezioni Unite erano chiamate a pronunciarsi su quelle intese contrattuali che possono rientrare nel concetto di preliminare di preliminare, per stabilirne se fosse da condividersi l’orientamento espresso, ad esempio, da Cass. civ., Sez. II, 2 aprile 2009, n. 8038 – e accolto nel caso di specie dai tribunali di primo e secondo grado – che ne sanciva la nullità assoluta, o piuttosto quello, promosso da altra parte della giurisprudenza e della dottrina, per cui ben potrebbe riconoscersi una funzione negoziale utile all’accordo di impegnarsi a concludere un diverso preliminare e una sua rilevanza programmatica ed effettuale.
2. Cenni sulla disciplina civilistica del contratto preliminare Il contratto preliminare è quel contratto mediante il quale «le parti si obbligano a concludere un ulteriore contratto già interamente determinato nei suoi elementi essenziali»1. Il contratto preliminare è, dunque, un negozio in direzione di un contratto definivo, che le parti o una sola parte (preliminare unilaterale) si obbligano a stipulare e di cui sono delineati gli elementi fondamentali. Il codice non disciplina organicamente l’istituto e ad esso dedica direttamente due soli articoli, l’art. 1351 c.c. e il 2645-bis c.c., riferendosi invece allo stesso in via indiretta nell’art. 2932 c.c., il quale disciplina la possibilità che si possa dare esecuzione in forma specifica dell’obbligo di concludere un contratto che sia rimasto inadempiuto. In quanto negozio preparatorio, la differenza tra preliminare e definitivo si fonda sulla circostanza per cui, nel primo, la volontà delle parti mira a differire la produzione degli effetti alla stipulazione di un successivo contratto. Nella prassi, tuttavia, la distinzione non sempre è agevole e, in definitiva, occorre ricostruire la comune intenzione delle parti avvalendosi o delle norme sull’interpretazione soggettiva del contratto 1 L. Coviello, Dei contratti preliminari nel diritto moderno italiano, Milano, 1896, p. 3.
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(artt. 1362-1365 c.c.) oppure di quelle sull’interpretazione oggettiva del contratto (artt. 1366-1371 c.c.). La giurisprudenza, d’altronde, ha negato che costituiscano indizi decisivi ai fini della qualificazione di un contratto come preliminare elementi quali il trasferimento del possesso del bene e il pagamento integrale del prezzo2, l’intitolazione del documento come “compromesso” e l’impiego delle formule “promette di vendere, promette di acquistare”3, la riserva di futura formazione di atto pubblico4 ovvero il versamento di una caparra confirmatoria5. Sebbene si sia in presenza di una figura contrattuale dai connotati indubbiamente versatili, essa ha, però, pur sempre mantenuto il proprio centro di riferimento nella dimensione dei contratti di alienazione e, segnatamente, della compravendita immobiliare. Al di fuori di questo ambito, la dottrina ha discusso di ulteriori profili di impiego dello strumento della contrattazione preliminare, sebbene la pratica abbia dimostrato un interesse marginale al problema. In particolare, si è discusso sulla ammissibilità del preliminare di contratto reale, tradizionalmente ritenuto inconciliabile con la preesistenza di un vincolo a contrarre eseguibile in forma specifica, in virtù della mancanza nel nostro ordinamento di uno strumento giuridico idoneo ad operare la traditio, necessaria per il perfezionamento dello stesso. A ciò si è obiettato, tuttavia, che la limitazione all’esperibilità della tutela in forma specifica ex art. 2932 c.c. non osterebbe alla stipulabilità di un preliminare di contratti reali, giacché se è vero che il giudice non può sostituirsi alle parti nella datio rei, residuerebbe ad ogni modo la risarcibilità del danno in caso di inadempimento6. Ancora, si è ammessa la validità del contratto preliminare di società, subordinatamente alla circostanza che le parti indichino il tipo di so Cass. civ., 19 aprile 2000 n. 5132, in Contratti, 2000, 984 ss., con nota di R. Pirotta. 3 Cass. civ., 7 maggio 1986, n. 3058, in Foro pad., 1987, I, 351 ss. 4 Cass. civ., 19 ottobre 2000, n. 13827, in Arch. loc. e cond., 2001, p. 225 ss. 5 Cass. civ, 21 giugno 2002, n. 9079, in Rep. Foro it., 2002, voce Contratto in genere, atto e negozio giuridico, n. 430. 6 Per una sintesi del dibattito, vedi D. Cenni, La formazione del contratto tra realità e consensualità, Padova, 1998, p. 383 ss. 2
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cietà che si obbligano a costituire e che, ove si tratti di costituzione di società di capitali, il preliminare abbia la forma di atto pubblico7. Come si detto, è la prassi commerciale, in ogni caso da sempre assoluta protagonista della storia del contratto preliminare8, che ha visto la diffusione del contratto preliminare quale meccanismo privilegiato adoperato dall’autonomia privata in funzione di uno scambio in potenza. Ciò ha fissato l’attenzione degli interpreti sul contratto preliminare di compravendita e prevalentemente sul rapporto tra tale figura e il principio del consenso traslativo. Una valorizzazione della centralità dell’art. 1376 c.c., quale norma portante del regime di alienazione dalla natura imperativa, ha indotto una parte della dottrina a ritenere che il preliminare avrebbe la sola funzione di rinviare nel tempo l’effetto reale – che il principio consensualistico richiederebbe immediato – creando tra le parti una procedimentalizzazione del rapporto che regolerebbe il procedimento di formazione del vincolo. Il preliminare, secondo tale prospettiva, sarebbe negozio idoneo a sorreggere causalmente gli adempimenti progressivi cui le parti darebbero luogo in vista del contratto definitivo e testimonierebbe l’ampiamento degli spazi di un’autonomia privata di tipo procedimentale nella formazione del negozio per la realizzazione di un’unica operazione economica9. Tale analisi della sequenza preliminare-definitivo riconosce così, al primo, la natura di negozio eminentemente configurativo, dal quale non emergerebbe alcun obbligo a contrarre, nel senso che con esso le parti programmano le modalità delle reciproche attribuzioni patrimoniali; ma se ad esse non danno luogo, seguirebbe una mera responsabilità precontrattuale ex art. 1337 c.c. con connesso risarcimento del danno10. Non essendo sufficiente la semplice scrittura privata, cfr. Cass. civ., 23 giugno 1997, n. 5578, in Rep. Foro it., 1997, voce Società, n. 785. 8 R. De Matteis, La contrattazione preliminare ad effetti anticipati. Promesse di vendita, preliminari per persona da nominare e in favore di terzo, Padova, 1991, pp. 7 ss. 9 G. Palermo, Il contratto preliminare, Padova, 1991, p. 125 e ss. 10 Il definitivo, o la sentenza ex art. 2932, consentirebbero allora solo di far acquisire valore erga omnes di titolo formale di un acquisto già avvenuto inter 7
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Secondo altra linea interpretativa, la relazione tra contrattazione preliminare e principio del consenso traslativo di cui all’art. 1376 c.c. andrebbe letta nei termini del nesso regola-eccezione, giacché la figura in esame si porrebbe proprio quale deroga alla menzionata disposizione e, in concreto, costituirebbe espressione normativa della scissione tra titulus e modus adquirendi accolta dal diritto romano e in altri sistemi giuridici11. Da ciò se ne deve derivare l’osservazione che i privati, nel nostro ordinamento, avrebbero a disposizione percorsi funzionalmente orientati alla medesima finalità (scambio di cosa o di diritto contro prezzo), raggiungibile tramite strumenti negoziali dotati di scansioni temporali diverse: da un lato il contratto di compravendita da cui promana – in aderenza al principio di cui all’art. 1376 c.c. – l’immediato effetto traslativo e dall’altro il contratto preliminare, con cui ci si obbliga a trasferire e che richiede un successivo adempimento tramite uno specifico atto traslativo12. Limite di simile approccio risulta, tuttavia, essere l’eccessiva assimilazione del contratto preliminare al solo contratto preliminare preordinato al trasferimento della proprietà, con ciò omettendo la polifunzionalità che la contrattazione preliminare dimostra in potenza (tanto più che dalla lettera dell’art. 2932 c.c. non emerge alcuna riferibilità necessaria dell’obbligo di concludere un contratto al solo obbligo di concludere un contratto di alienazione). Vi è da segnalare che le tesi sopra riportate, seppur nella notevole schematicità cui sono state ridotte per esigenze di sintesi, rappresentano lo spettro degli estremi delle posizioni che è possibile riconoscere nella materia, al netto, evidentemente, delle rilevanti sfumature interne13. partes in virtù dell’attività programmata con il preliminare. Per una critica della tesi riportata vedi F. Gazzoni, Il contratto preliminare, Torino, 2010, p. 18 ss. 11 A. Chianale, Trascrizione del contratto preliminare e trasferimento della proprietà, Torino, 1998, pp. 18 ss. 12 Cfr. anche M. Giorgianni, Contratto preliminare, esecuzione in forma specifica e forma del mandato, in Giust. civ., 1961, I, p. 64 e ss. 13 Vedi, per una ricostruzione critica, R. Speciale, Contratti preliminari e intese precontrattuali, Milano, 1990, p. 203.
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Esse mettono d’altra parte in luce due aspetti complementari e significativi per la comprensione della vicenda, vale a dire l’esigenza che vi possa essere una programmazione per fasi di un percorso negoziale unitario (anche se al prezzo della svalutazione della forza coercitiva del primo frammento, il preliminare14) e la necessità di prestare attenzione alla prassi commerciale, nella quale incide maggiormente l’attrazione del preliminare verso il contratto di vendita. In aggiunta, è stato correttamente osservato come sia possibile individuare una nota di fondo che lega le diverse posizioni, la quale – come si vedrà – assume un pregnante rilievo anche nel contesto del problema affrontato dalle Sezioni Unite. La questione al cuore di entrambe le tesi è, infatti, la necessità attribuire un fondamento saldo al contratto preliminare e, quindi, di fissarne l’interesse tipico che ad esso compete15. Dunque, sussiste un bisogno di teorizzazione per supplire alla carenza di dati orientativi rinvenibili nelle scarne disposizioni dedicate alla disciplina del contratto preliminare, con il rischio, però, di irrigidire eccessivamente la duttilità intrinseca alla contrattazione preliminare, il cui dinamismo non è altro che il riflesso della concreta variabilità promossa dall’autonomia negoziale.
3. (segue) Dinamismo operativo nella contrattazione preliminare Il “preliminare di preliminare”, così come anche il “preliminare di vendita ad esecuzione anticipata”16, manifestano in via esemplare l’evoluzione della figura negoziale del preliminare, al cui momento teorico, tutto teso «all’individuazione del “che cosa” [sia] oggi il Contro anche alcune interpretazioni più risalenti, per cui il preliminare non sarebbe un tipo contrattuale a sé stante, ad esempio A. Pino, L’eccessiva onerosità della prestazione, Padova, 1952, p. 170. 15 M. Farina, Contrattazione preliminare e autonomia negoziale, Napoli, 2017, pp. 75 ss. 16 Su cui vedi, ampiamente, R. De Matteis, La contrattazione preliminare ad effetti anticipati, Padova, 1991, pp. 170 ss. 14
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contratto preliminare»17 si associa la proliferazione di tecniche negoziali che scindono in vario modo tempi e modalità del contrarre in vista della proiezione verso un acquisto definitivo, il quale viene modulato in base agli interessi compositi che si riversano nella singola operazione economica. Da qui l’emersione delle fattispecie negoziali appena menzionate, rispetto alle quali si pone la questione del rapporto rispetto al modello – di cui indubbiamente arricchiscono il profilo effettuale18 – ai fini dell’inquadramento della disciplina e che da alcuni sono concepite come semplici varianti19 e da altri come fattispecie connotate da marcata atipicità20. Orbene, il legame tra modello e variante – e, per quello che qui ci interessa, tra contratto preliminare e cosiddetto “preliminare di preliminare” – non può prescindere dall’apprezzamento del ruolo che alla contrattazione preliminare si voglia riconoscere nell’articolazione dinamica dell’autonomia negoziale. Da questo punto di vista, la funzione dell’obbligo di contrarre può, in primo luogo, essere circoscritta alla cooperazione preordinata alla stipulazione del futuro contratto definitivo21. Che ciò sia poi declinato nell’ottica procedimentale o programmatoria ovvero,
R. De Matteis, La sequenza preliminare-definitivo e la modularità del vincolo nelle fonti convenzionali dell’obbligo a contrarre, in Ead. (a cura di), La contrattazione preliminare. Dall’inquadramento teorico alle questioni nella pratica giudiziaria, Torino, 2017, p. 6. 18 Rispetto al preliminare ad effetti anticipati si pensi all’elemento ulteriore, rispetto al mero obbligo di contrarre il contratto definitivo, costituito dalla previsione aggiuntiva per cui tutte o parte delle prestazioni che il contratto definitivo porrebbe a carico dei contraenti vengono eseguite in un momento antecedente al perfezionamento del definitivo medesimo. Tale anticipazione risponde, in termini più generali, ad assicurare reciproche esigenze di garanzia, permettendo di controllare – ben prima dell’occorrenza dell’effetto traslativo – l’esattezza degli adempimenti medio tempore compiuti. 19 V. Roppo, Il contratto, II ed., Milano, 2016, p. 617. 20 A Luminoso, Contratto preliminare, sue false applicazioni e regole di circolazione dei diritti, in Riv. dir. civ., 2016, pp. 929 ss. 21 V. R. Sacco – G. De Nova, Il contratto, II, in Trattato di diritto civile, diretto da R. Sacco, Torino, 2004, p. 281. 17
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in senso opposto, sia proiettato sulla dimensione dell’attuazione del rapporto tramite il contratto definitivo, alla stregua di una vendita ad effetti obbligatori, non muta – nella sostanza – il ridimensionamento delle potenzialità espresse dal negozio preliminare nella misura in cui ci si concentra sulle finalità prima ancora che sull’attualità dell’obbligo. In senso contrario, tuttavia, il preliminare può essere inteso come origine di un preciso rapporto giuridico, regolatore già di per sé di un dato assetto di interessi e quindi di un programma già attuale, con una propria forza obbligante rispetto alla combinazione di tali interessi. Questa lente focale rivolta al preliminare, che astragga da una lettura troppo appiattita sul negozio finale, ne recupera la colorazione neutra in rapporto ai diversi tipi negoziali con i quali può in definitiva combinarsi22 e, dunque, consente di disancorare l’obbligo di «concludere un contratto» dalla categoria della prestazione tipica. Questo vuol dire, d’altra parte, che l’art. 1351 c.c. non delinea in alcun modo un modello di operazione economica autosufficiente, ma – come è stato efficacemente detto – «una tecnica contrattuale»23, la quale, viceversa, si caratterizza per la sua peculiare neutralità da cogliere nell’ottica dinamica del procedimento. Si è perciò innanzi a una sequenza (quella tra negozio preliminare e negozio definitivo) in cui si deve valorizzare il primo segmento quale schema di contrattazione che «consente, attraverso la combinazione di un primo impegno promissorio con un altro schema (più o meno) tipico, di modulare gli effetti che, normalmente, si produrrebbero istantaneamente»24. Sottrarre, pertanto, il preliminare dall’area fortemente evocativa del contratto tipico favorisce il recupero della funzione procedimentalizzante idonea a regolare lo svolgimento della contrattazione tra le parti in un’operazione economica più o meno articolata in vista
R. Rascio, Il contratto preliminare, Napoli, 1967, p. 173. R. De Matteis, La contrattazione preliminare ad effetti anticipati, cit., p. 128. 24 M. Farina, op. cit., p. 92. 22 23
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delle esigenze attuali e delle finalità più disparate, facendo dell’obbligo a concludere il contratto un vero laboratorio della capacità espressiva dell’autonomia dei privati.
4. Il c.d. preliminare di preliminare Il peculiare procedimento traslativo cui si riferisce l’espressione “preliminare di preliminare” trova il suo campo di elezione principale, come d’altronde si ricava nella sentenza in commento, nel settore delle compravendite immobiliari, a dimostrazione dell’eccezionale duttilità dello strumento del negozio preliminare ad adattarsi alle esigenze dei traffici privati. Accomunate dalla categoria un po’ generica del “preliminare di preliminare” si riscontrano ipotesi dal contenuto piuttosto eterogeneo, le quali tuttavia condividono la medesima scansione tripartita delle fasi preordinate al momento traslativo della proprietà di un immobile25. La progressione delle fasi dell’operazione, in linea con il caso oggetto della pronuncia delle Sezioni Unite, vede un iniziale accordo in forma di scrittura privata su un nucleo primario di elementi dell’operazione, cui si associa la corresponsione – da parte del promittente acquirente – di una somma a titolo di caparra confirmatoria e l’impegno a concludere un nuovo preliminare26 dal contenuto
E, in alcuni casi, anche riferite all’acquisto di un diritto di superficie su aree destinate allo sviluppo di impianti industriali. Si vedano per una ricognizione della prassi, U. La Porta, La (salutare) nullità del contratto inutile, in Notar., 2010, p. 48 ss.; M.G. Salvadori, La validità del c.d. preliminare di preliminare: una questione (non ancora) risolta, in Nuova giur. civ. comm., 2009, I, p. 1001 ss. 26 Appunto dall’impegno a concludere un nuovo preliminare origina l’espressione “preliminare di preliminare”, con ciò volendosi intendere l’obbligo nascente dall’accordo di stipulare un ulteriore preliminare. Alcuni autori fanno impiego della formula «pre-preliminare» (G. D’Amico, Sul c.d. preliminare di preliminare, in Riv. dir. civ., 2016, pp. 40 ss.), mentre altri identificano lo stesso quale «preliminare aperto» e quello concluso ad esito del primo negozio come preliminare «chiuso» (C. Mazzù, La funzione del «preliminare aperto» ed il suo regime giuridico, in Aa.Vv., La prassi della contrattazione immobiliare tra attualità e prospettive, Milano, 2007, pp. 32 ss.). 25
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più esteso e in forma di atto pubblico o di scrittura privata autenticata. Al “preliminare di preliminare” segue poi il preliminare vero e proprio con dazione di un ulteriore acconto sul prezzo del bene e, infine, il trasferimento della proprietà dell’immobile, a mezzo della conclusione del contratto definitivo di compravendita. Il “preliminare di preliminare”, dunque, potrebbe sinteticamente descriversi come obbligo assunto dalle parti a formalizzare in un secondo momento l’impegno a stipulare il contratto conclusivo dell’operazione traslativa. Da questo nucleo essenziale di sostanza pattizia deriva, però, tutta la problematicità della figura nella ricostruzione della specifica natura giuridica. In due direzioni tutto sommato parallele, in effetti, se ne può astrattamente mettere in discussione la rilevanza poiché – da un lato – da un punto di vista contenutistico i “preliminari di preliminare” manifesterebbero una debole coloritura precettiva a metà tra la stabilizzazione di intese preliminari in un processo di negoziazione e vincolo giuridico vero e proprio, mentre – dall’altro – l’“obbligo ad obbligarsi” si connoterebbe per essere una duplicazione concettuale inutile, un negozio aggiuntivo dalla discutibile utilità nell’economia dell’operazione. Queste le ragioni del dibattito animatosi in dottrina e in giurisprudenza27 attorno all’ammissibilità e all’individuazione di possibili spazi di rilevanza di una fattispecie socialmente riconosciuta che, in definitiva, si sovrappone a quella tipica del contratto preliminare. Vi è da dire che l’impostazione tradizionale in dottrina ha sempre mostrato un atteggiamento piuttosto avverso alla validità di un contratto preliminare di altro preliminare, soffermandosi segnatamente sull’asserita assenza di un requisito causale idoneo a sorreggere adeguatamente il negozio28.
27 Vedi, anche di recente, Cass. civ., 28 ottobre 2020, n. 23736, in Riv. Not., 2021, p. 122 ss., con nota di M. Rinaldo, La discussa natura del contratto preliminare di preliminare e l’individuazione del giusto rimedio in caso di violazione dell’obbligo a prestare il consenso. 28 E. Perego, I vincoli preliminari e il contratto, Milano 1974, p. 125; F. Gazzoni, op. cit., pp. 50 ss.
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Come correttamente fatto notare29, tale rigorosa posizione concettuale discende pianamente da un certo intendimento della funzione del contratto preliminare, che si riassume nella considerazione che esso sarebbe preordinato a vincolare i contraenti alla stipulazione del contratto definitivo – tuttavia scindendo la vicenda traslativa in due momenti distinti – allo scopo di assicurare alle parti il controllo sulla sussistenza dei presupposti essenziali della contrattazione prima ancora di consolidare l’intento traslativo divisato dai contraenti30. È pertanto intuibile come, adottando l’angolo di visuale descritto, la funzione della contrattazione preliminare non sarebbe ulteriormente suscettibile di suddivisione: l’anticipazione del controllo rispetto all’assunzione del vincolo contrattuale finale non sarebbe a propria volta anticipabile tramite un precedente negozio, giacché tale “anticipazione dell’anticipazione” potrebbe al più risolversi in una superflua ripetizione di contenuto31. In aggiunta, un contratto preliminare che obblighi ad un successivo contratto preliminare porterebbe con sé un punto di torsione teorico che, muovendo da una concezione astratta della fattispecie, riuscirebbe difficilmente superabile. Ciò in quanto dal “preliminare di preliminare” sorgerebbe un diritto di credito orientato verso un’ulteriore situazione giuridica strumentale, quindi un diritto di credito ad acquisire un ulteriore diritto di credito difficilmente distinguibile dal primo, con la differenza che, mentre per quest’ultimo è riconoscibile una tensione verso un’utilità finale (il contratto definitivo)32, nel primo ciò è del tutto assente.
U. Stefini, Il «preliminare di preliminare» e le intese precontrattuali nella contrattazione immobiliare, in Riv. dir. civ., 2016, pp. 1239 ss. 30 Cfr. G. Gabrielli, Il contratto preliminare, Milano 1970, p. 152 ss.; A. Chianale, voce Contratto preliminare, in Dig. disc. priv., sez. civ., IV, Torino, 2001, p. 279. 31 U. Stefini, Il «preliminare di preliminare», cit. 32 M. Farina, op. cit., p. 214, dove anche si precisa (n. 374) che ciò è «quanto accade nella classica sequenza preliminare-definitivo, che scandisce il trapasso dall’avere un credito all’essere proprietario ed il cui senso è icasticamente racchiuso nella formula «diritto al diritto»». 29
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È pertanto comprensibile che l’aderenza alla tesi tradizionale induca a svalutare la rilevanza giuridica del preliminare anticipato33. Seguendo il filo del ragionamento in particolare questo potrebbe essere inteso, dunque, (i) come contratto nullo per assenza di causa, stante la sovrapposizione causale con il secondo preliminare; (ii) come semplice puntuazione tra le parti di aspetti dell’affare su cui si è trovato un consenso minimo, privo di valore negoziale e pienamente inserito nella fase pre-contrattuale della vicenda; ovvero (iii) ove constino difformità tra il “pre-preliminare” e il secondo preliminare, al più come contratto preliminare successivamente soggetto a negozio integrativo o modificativo, anche volendo tener conto della posizione in base alla quale deve esserci perfetta corrispondenza tra il contratto preliminare e il contratto stipulato in esecuzione dell’obbligo a contrarre34. L’orientamento succintamente riportato è stato quello inizialmente condiviso dalla giurisprudenza della Suprema Corte con la sentenza 2 aprile 2009, n. 803835. I giudici di legittimità, nello specifico, chiamati a prendere posizione nei confronti della forma di contrattazione tripartita, hanno in effetti adottato il punto di vista meno favorevole agli accordi di cui si discute, affermando la carenza di presupposti logico-giuridici idonei a corroborare la producibilità di effetti del preliminare anticipatorio. Proprio quest’ultimo è stato censurato di immeritevolezza di protezione rispetto ai fini perseguiti, giacché gli è stata imputata la natura di «inconcludente
33 Nel senso della non configurabilità del preliminare di preliminare nel nostro ordinamento propende anche P. Carbone, Contratto preliminare di preliminare: un contratto inutile? (nota a Trib. Napoli, 20 febbraio 1995, n. 2039), in Dir. giur., 1995, pp. 464 ss. 34 Cfr., ad esempio, F. Gazzoni, Il contratto preliminare, cit., p. 51. 35 Cass. civ., 2 aprile 2009, n. 8038, in Not., 2010, p. 40 ss., con note di A. Chianale, Il preliminare di preliminare: intentio certa sese obligandi e di U. La Porta, La (salutare) nullità del contratto inutile, cit.; in Nuova giur. civ. comm., 2009, I, pp. 998 ss., con nota di M.G. Salvadori, La validità del c.d. preliminare di preliminare: una questione (non ancora) risolta, cit. e in Cont., 2009, pp. 986 ss., con commento di F. Toschi Vespasiani, Il “preliminare di preliminare” e la “proposta di acquisto accettata”.
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superfetazione»36, ravvisandovi «una singolare architettura giuridica che non avrebbe altro scopo che quello di aumentare inutilmente il contenzioso»37. Con maggior forza, la Corte ha anche voluto sottolineare l’assoluta eccentricità di un simile procedere negoziale, in cui si è voluto vedere «qualcosa di estraneo alla tipicità normativa costituita dalla progressione contratto preliminare-definitivo»38 e da ciò si è fatta seguire, con chiarezza, la negazione dell’ammissibilità del preliminare di preliminare e la conseguente declaratoria di nullità per mancanza di causa di un negozio reputato «inutile»39, quale sarebbe qualsiasi pattuizione in cui i contraenti promettessero di obbligarsi40.
5. L’evoluzione giurisprudenziale e i profili di rilevanza giuridica del preliminare di preliminare L’atteggiamento di netta chiusura verso qualsiasi spiraglio di potenziale validità del “pre-preliminare” ha conosciuto una decisa mitigazione con la pronuncia a sezioni unite n. 4628, del 6 marzo 201541, oggetto della presente sezione.
Cass. civ., 2 aprile 2009, n. 8038. Cass. civ., 10 settembre 2009, n. 19557, in dejure. 38 Cass. civ., 2 aprile 2009, n. 8038, ma richiamando App. Genova, 21 febbraio 2006, in Obbl. contr., 2006, p. 648. 39 Così sempre Cass. civ., 2 aprile 2009, n. 8038. 40 Sul punto, si segnala un’ampia giurisprudenza di merito, vedi, ex multis, Trib. Salerno, 23 luglio 1948, in Dir. giur., 1949, p. 101; Trib. Napoli, 23 novembre 1982, in Giust. civ., 1983, I, p. 283; Trib. Napoli, 21 febbraio 1985, in Dir. giur., 1985, p. 725; Trib. Napoli, 22 marzo 2003, in Giur. napoletana, 2003, p. 265; App. Napoli, 1° ottobre 2003, in Giur. merito, 2004, p. 62; Trib. Roma, 28 febbraio 2012, consultabile su www.ilcaso.it. 41 Tra i numerosi commenti dedicati alla pronuncia si segnalano, senza pretesa di completezza, A.M. Benedetti, Autonomia di procedimenti formativi? La vicenda del «preliminare di preliminare», in Dir. civ. cont., 11 maggio 2015; A. Plaia, Da “inconcludente superfetazione” a quasi contratto: la parabola ascendente del “preliminare di preliminare”, ivi, 14 maggio 2015; G. Palermo, L’atipicità dei procedimenti di formazione del contratto, in Giur. it., 2015, 5, pp. 1071 ss.; U. Stefini, Il «preliminare di preliminare», cit.; C. Cicero, Il concetto di pre-pre36 37
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La decisione, in primo luogo, compie una certa inversione, apprezzabile, nell’approccio metodologico al problema, poiché evita di soffermarsi su un piano di riflessione puramente astratta che avrebbe portato, inevitabilmente, al reiterato e aprioristico rifiuto valoriale della segmentazione in due fasi del procedimento anteriore al definitivo, privilegiando, al contrario, la necessità di compiere un’analisi puntuale degli scopi concreti perseguiti dai contratti attraverso la scissione procedimentale, per poi da qui procedere alla valutazione di meritevolezza della funzione espletata dall’operazione negoziale. Per far ciò, e per sottrarre dunque la modulazione pattizia dalle sacche della nullità o dalla fase pre-negoziale delle trattative, le Sezioni Unite ricorrono con profitto al concetto di causa intesa quale “scopo pratico del negozio”, la quale consentirebbe di «riconsiderare gli approdi schematici ai quali sono pervenute in passato dottrina e giurisprudenza», facendo emergere l’utilità di quei preliminari di preliminare che non si risolvano «in un mero obbligo di obbligarsi a produrre un vincolo che non abbia né possa avere contenuto ulteriore o differenziato»42. La pronuncia, dunque, si pone il compito di verificare se la segmentazione del procedimento di vendita immobiliare, attuata per il tramite del pre-preliminare, sia da ritenere meritevole di tutela e nel far ciò adotta, quale chiave di lettura, il piano di osservazione della «causa concreta»43, vale a dire dell’interesse che l’operazione è concretamente diretta a realizzare. liminare nel procedimento di formazione del contratto “a tutele crescenti”, in Riv. notar., 2015, pp. 608 ss.; F. Festi, Il contratto preliminare di preliminare, in Corr. giur., 2015, pp. 626 ss.; V. Brizzolari, Il preliminare di preliminare: l’intervento delle Sezioni Unite, in Contratti, 2015, pp. 550 ss.; O. Clarizia – G. Carapezza Figlia, Puntuazione vincolante o preliminare di preliminare? (a proposito di una pronuncia delle Sezioni Unite), in Contr. impr., 2015, pp. 874 ss.; D. Pittella, Il prepreliminare (ancora) nel limbo tra trattative e contratto, Approfondimento del 4 dicembre 2015, in giustiziacivile.com. 42 Cass. civ. sezioni unite, 6 marzo 2015 n. 4628. 43 Sulla quale ci si limita a rinviare a anche P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-comunitario delle fonti, IV, Attività e responsabilità, Napoli, 2020, p. 99 ss.; C.M. Bianca, Causa concreta del contratto e diritto effettivo, in Riv. dir. civ., 2014, p. 251 ss.; V. Roppo, Causa concreta: una
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Il tentativo delle Sezioni Unite è tutto positivamente orientato nel senso di recuperare spazi di legittimità alla multiforme prassi dei negozi tra privati e in ciò, senza dubbio, ne risiede la nota di merito. Residuano, nondimeno, degli eccessi di astrazione che ne frenano la porta innovativa. Volendo procedere con ordine, la Corte, in prima battuta, reitera l’argomento già a suo tempo sviluppato dalla Cassazione del 2009, per cui l’identità di contenuto tra il primo ed il secondo accordo imporrebbe una valutazione negativa sulla validità dell’accordo ripetitivo. La persistenza di una forma di cautela nel superamento del precedente orientamento44, viene parzialmente mitigata dallo slittamento dell’oggetto del giudizio di censura, in quanto andrebbe escluso che «sia nullo il contratto che contenga la previsione della successiva stipula di un contratto preliminare, allorquando il primo accordo già contenga gli estremi del preliminare»45. La nullità per assenza di causa sarebbe attributo del secondo accordo, non del primo giacché l’identità di contenuto priverebbe di ragion d’essere il successivo preliminare, potendosi già considerare contratto pienamente preliminare l’inziale segmento dell’operazione. Con un decisivo problema teorico: il pre-preliminare per poter valere quale preliminare dovrebbe di per sé contenere l’obbligo attuale di stipulare il contratto definitivo – tuttavia tale obbligo è raramente presente46 – a meno che non si voglia optare per un’ipotesi di conversione di contratto nullo, in linea con una certa dottrina47, e alla trasformazione del secondo preliminare in un contratto definitistoria di successo? Dialogo (non reticente, né compiacente) con la giurisprudenza di legittimità e di merito, in Riv. dir. civ., 2013, pp. 957 ss. In giurisprudenza, Cass. civ., 8 maggio 2006, n. 10490, in Contratti, 2007, pp. 624 ss., con nota di F. Rimoldi, La causa quale ragione in concreto del singolo contratto. 44 Lo fa notare G. D’Amico, Sul c.d. preliminare di preliminare, cit., p. 41. 45 Cass. civ. sezioni unite, 6 marzo 2015 n. 4628. 46 D. Pittella, Il prepreliminare (ancora) nel limbo tra trattative e contratto, cit., p. 6. 47 G. Gabrielli, Prassi della compravendita immobiliare in tre fasi: consensi a mani dell’intermediario, scrittura privata preliminare, atto notarile definitivo», in Riv. not., 1994, pp. 23 ss.
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vo da ripetersi successivamente in forma notarile. Ma ciò varrebbe a negare il ragionamento della Corte, secondo la quale il preliminare di preliminare rimarrebbe pienamente valido e andrebbe semplicemente interpretato ex art. 1367 c.c. quale preliminare di vendita. Non a torto, nella ricostruzione dei giudici di legittimità si è voluto vedere un difetto di teorizzazione attorno al requisito causale48, che ha però omesso di tenere in debito conto come la prassi difficilmente – e non se ne capirebbe d’altronde il motivo – conosca accordi che si limitino ad obbligare alla conclusione di un preliminare dal contenuto identico al precedente. Operata questa prima categorizzazione, la pronuncia offre una seconda classificazione relativa a quegli accordi da cui traspaiono stadi prenegoziali molto avanzati, in cui le parti hanno raggiunto un’intesa su alcuni profili del contratto e a cui corrisponderebbe «un vincolo obbligatorio di carattere ancora prenegoziale […] che vede intensificato e meglio praticato l’obbligo di buona fede di cui all’art. 1337 c.c.»49. Si sarebbe qui in presenza di un accordo esito di una sufficientemente elaborata attività di negoziazione tra le parti, nel quale le stesse procedono a fissare i punti di intesa raggiunti obbligandosi a definire gli elementi ulteriori in un diverso contratto. Secondo tale diversa schematizzazione, il secondo ambito dei cosiddetti “preliminari di preliminare” racchiuderebbe ipotesi contenutisticamente ben distinte, del tutto carenti di un identificabile obbligo a contrarre, bensì incentrate su un obbligo che impegnerebbe le parti a proseguire le negoziazioni e, quindi, a contrattare. Un diverso interesse sarebbe a fondamento delle esigenze delle parti e, segnatamente, l’intenzione di impedire che operi – rispetto al contenuto contrattuale parzialmente incompleto – il meccanismo di integrazione del contratto previsto dall’art. 1374 c.c.50. L’elemen-
U. Stefini, Il «preliminare di preliminare», cit., p. 1242. Così sempre Cass. civ. sezioni unite, 6 marzo 2015 n. 4628. 50 Nelle parole della Corte, evitare di «riempire i contenuti rimasti in sospeso con il meccanismo di cui all’art. 1374 c.c., integratore rispetto al primo accordo incompleto». 48 49
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to programmatico, di cui si è fatta menzione nelle pagine precedenti, emergerebbe qui – nell’opinione della Corte – con maggior vivacità e sarebbe in grado di giustificare tanto la scansione temporale dell’operazione quanto la tripartizione in “pre-preliminare”, contratto preliminare e contratto definitivo, ognuno dotato di una propria giustificazione causale e di interessi la cui meritevolezza è possibile accertare in concreto. Tuttavia, tale accordo non potrebbe più constare quale vero preliminare di preliminare – privo com’è dell’obbligo a contrarre – ma come impegno a negoziare: costruzione teorica debole ad ogni modo. E in effetti, pur a voler tralasciare la rigidità schematizzante della categoria tracciata, appare allo stesso tempo peregrino ricercare un fondamento logico sul solo dato dell’esclusione dell’art. 1374 c.c., fosse anche solo a motivo del fatto che la capacità integrativa prescinde dalla completezza o meno del contratto (un contratto “completo”51 – qualunque cosa ciò voglia dire – sarà in ogni modo integrato ex art. 1374 c.c.52).
Sul contratto complete, o meglio “incompleto”, vedi (per tutti, v. G. Bel-
51
lantuono, I contratti incompleti nel diritto e nell’economia, Padova, 2000; A. Fici,
Il contratto “incompleto”, Torino, 2005; D. Valentino, Il contratto incompleto, in Riv. dir. priv., 2008, p. 509 ss.). La fecondità degli studi non si è fermata all’adozione descrittiva della categoria, ma ne ha cercato la valorizzazione da un punto di vista normativo. In sintesi, si può descrivere un contratto come economicamente incompleto «se non tutte le decisioni che riguardano la transazione, inclusi i payoff di ciascun contraente in ogni possibile stato del mondo, vengono specificati ex ante senza errore e se le azioni che ciascuna parte è in grado di produrre non sono osservabili e/o verificabili da parte di un giudice esterno» (R. Nisticò, Contratti incompleti e teorie del make-or-buy: modelli consolidati e alcuni sviluppi recenti, in Economia Politica, 2009, p. 357). Diversamente, il contratto giuridicamente incompleto è quello obligationally incomplete (I. Ayres – R. Gertner, Strategic Contractual Inefficiency and the Optimal Choice of Legal Rules, in 101 Yale L.J 4 1992, p. 730) vale a dire quello in cui le obbligazioni dedotte non sono pienamente specificate. 52 Il rimando non può che farsi a S. Rodotà, Le fonti di integrazione del contratto, Milano, 1969. Vedi anche M. Franzoni, Degli effetti del contratto, II, Integrazione del contratto. Suoi effetti reali e obbligatori, II ed., in Cod. civ. Commentario Schlesinger, diretto da Busnelli, Milano, 2013.
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Ciononostante, è ancor maggiormente malferma da un punto di vista concettuale la qualificazione della obbligazione di contrattare operata dalle sezioni unite53. La sentenza, infatti, ammessa la rilevanza negoziale del pre-preliminare (o del “negozio a contrarre”), precisa i termini delle conseguenze della sua violazione nell’insorgere di una «responsabilità contrattuale da inadempimento di un’obbligazione specifica sorta nel corso della formazione del contratto, riconducibile alla terza delle categorie considerate nell’art. 1173 c.c.»54. Un cortocircuito logico da cui appare difficile districarsi, così come viene particolarmente arduo tenere assieme il riconoscimento di una natura negoziale – e meritevolezza – all’accordo che obbliga a contrarre, e l’affermazione della natura della responsabilità che l’eventuale inadempimento genererebbe secondo i canoni dell’ogni altro atto o fatto idoneo a produrre obbligazioni in conformità dell’ordinamento giuridico. Un negozio, in definitiva, che non avrebbe la forza di produrre una responsabilità contrattuale – perché «sorta nel corso della formazione del contratto e non propriamente ex contractu» – ma altra (precontrattuale?), difficilmente potrebbe però essere qualificato come contratto. E, a fortiori, così inteso diverrebbe ozioso persino discutere del pre-preliminare come categoria utile all’interprete, per il quale esso verrebbe ricacciato nell’ambito del pre-negoziale e degli accordi di puntuazione più o meno estesi, senza necessità di dover a tutti i costi scomodare la nozione di causa concreta.
6. Osservazioni conclusive Quanto emerge dalla ricostruzione operata dalla Suprema Corte è un tentativo di salvare la riflessione sul preliminare di preliminare da una visione statica della sequenza contratto preliminare-con-
Cfr. D. Pittella, op. cit., p. 8 ss., per un’ampia disamina della questione. Sempre Cass. civ. sezioni unite, 6 marzo 2015 n. 4628. Sul punto, con incisività, G. D’Amico, Sul c.d. preliminare di preliminare, cit., p. 54. 53
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tratto definitivo e dalle petizioni di principio sulla sua necessaria invalidità, tuttavia al prezzo di tracciare un confine non chiaro tra prenegozialità e negozialità della figura in discussione, riflesso anche nella riduzione della stessa al perimetro dell’“obbligo a contrattare”. Quest’ultimo pare infatti, nella seconda categoria di pre-preliminari enucleati dalle Sezioni Unite, funzionale ad evitare una rottura troppo forte con i precedenti giurisprudenziali, tutti fermi nel ritenere impensabile un obbligo a contrarre che avesse ad oggetto un contratto preliminare. Di qui il declassamento concettuale dell’obbligo a contrarre in un diverso obbligo a contrattare, il quale però non esprime appieno l’effettivo contesto fattuale in cui si originano i preliminari di preliminare e che vede nella scansione in tre fasi del procedimento, e precisamente nell’obbligo a stipulare un preliminare, un momento ricorrente. L’invito dei giudici di legittimità a comprendere in concreto la valutazione circa la meritevolezza degli interessi perseguiti dalle parti nell’operazione è però il vero spunto da cogliere per segnare i contorni dell’interpretazione del preliminare rafforzato. Da questo punto di vista, la soluzione reiterata dall’arresto del 2009 – ovvero della nullità automatica del pre-preliminare – deve ritenersi pienamente superata e per i vizi concettuali da cui pare evidentemente affetta55 e per gli esiti inappaganti sul piano delle conseguenze nei rapporti tra le parti56. La questione rimane, dunque, comprendere i motivi che inducono le parti a scandire in un certo modo la contrattazione e verificare se gli interessi perseguiti attraverso tale attività negoziale si presentino leciti e meritevoli di tutela. Posto in questi termini, il problema non è più quello di giustificare o meno un astratto schema di obbligo di stipulare un diverso pre Vale a dire, come già ricordato, per essere ancorata a una nozione di causa in astratto, di scarsa utilità teorica. Sul superamento della nozione di causa in astratto si vedano anche v. G.B. Ferri, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Milano, 1966, pp. 247 ss.; M. Bessone – V. Roppo, La causa nei suoi profili attuali (materiali per una discussione), in Causa e consideration, Padova, 1984, pp. 3 ss. 56 Come osserva, ad esempio, R. De Matteis, Accordi preliminari e modularità del vincolo a contrarre, cit., p. 394, giacché la nullità «offrirebbe alla parte, non più interessata all’operazione, un ottimo escamotage per sottrarsi ad essa». 55
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liminare57, bensì di considerare l’assetto di interessi sottostanti allo specifico impegno pattizio a concludere tale preliminare. Vengono in rilievo, dunque, le potenzialità dell’autonomia dei privati58 nell’adeguarsi alle molteplici esigenze del gioco negoziale e del preliminare «proprio quale strumento per modulare variamente la progressione verso l’effetto finale»59. E così procedendo, diviene difficile non riuscire ad ammettere l’esistenza di variegate circostanze in cui risulti pienamente utile per i contraenti ricorre a due distinti contratti preliminari60. Lo è, ad esempio, nel contesto di operazioni economiche articolate in cui l’acquisto di un diritto reale (spesso diritto di superficie) su un immobile è la prima fase di un procedimento negoziale complesso. Si immaginino le attività preordinate alla realizzazione di un impianto di produzione di energia rinnovabile, in cui tipicamente le aree su cui sorgerà l’opera sono individuate dal soggetto imprenditoriale che si occupa dello sviluppo iniziale del progetto e che, tuttavia, non sempre coincide con il diverso soggetto imprenditoriale che si occuperà della costruzione dell’opera. Il primo avrà interesse a concludere un accordo preliminare con il proprietario delle aree in cui fissare prezzo e durata del contratto definitivo (addivenendo quindi a una rapida definizione dei termini essenziali) e ad includervi l’impegno a stipulare un diverso preliminare più dettagliato, preliminare che sarà a propria volta negoziato dall’impresa che si occuperà della realizzazione finale dell’opera sulla base delle specifiche esigenze tecniche del progetto61. Una simile articolazio-
57 A.M. Benedetti, Il preliminare di preliminare nella prospettiva procedimentale, in Riv. dir. priv., 2017, p. 386. 58 Cfr. A. Plaia, Da “inconcludente superfetazione” a quasi contratto, cit. 59 M. Farina, Contrattazione preliminare e autonomia negoziale, cit., p. 221. 60 Vedi sul punto anche le riflessioni di F. Festi, Il contratto preliminare di preliminare, pp. 626 ss.; G. Napoli, Il contratto preliminare del preliminare, Riv. dir. civ., 2010, II, p. 93. 61 Il secondo preliminare, ad esempio, includerà quale condizione sospensiva alla stipula del definitivo l’assenza di contestazioni e/o impugnazioni delle autorizzazioni necessarie per la realizzazione dell’opera ovvero l’assenza di interventi normativi che possano incidere negativamente sulla redditività attesa dall’impian-
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ne realizza interessi sicuramente promuovibili dall’ordinamento e in alcun modo censurabili62. Ancora, l’utilità per le parti di scindere il processo in un contratto preliminare di preliminare e in un secondo contratto preliminare si può ravvisare laddove venga esclusa pattiziamente, rispetto al primo, l’applicabilità dell’art. 2932 c.c.: in tal modo, le parti consentono ad una liberazione più agevole dall’operazione, nell’ottica della nota “efficient breach theory” che lascia ai contraenti la scelta sulla convenienza tra il costo dell’adempimento e quello dell’inadempimento63. Non solo, ma l’obbligo a ripetere il preliminare ben può trovare valide ragioni persino ove non si intenda – come negli esempi precedenti – arricchire il contenuto contrattuale o modulare gli effetti dell’inadempimento, ma reiterare l’identico accordo in forma di atto pubblico, trascrivibile e pertanto opponibile ai terzi. In simile circostanza, predicare la nullità sull’assunto puramente teorico dell’identità di contenuto tra i due negozi dimostra, nuovamente, la disattenzione verso gli scopi pratici che i privati ritengono rilevante perseguire e che appaiono del tutto legittimi64. La concreta utilità sul piano giuridico, ad ogni modo, può essere molteplice e una ricognizione della pratica degli affari immobiliari (ma non solo) ne potrebbe offrire anche esempi ulteriori. Rimane però centrale il percorso metodologico che rispetto al preliminare di preliminare deve indurre ad attribuire i predicati dell’eventuale to o possano rendere la costruzione e gestione dello stesso economicamente non conveniente per la società. 62 Per esempi tratti da un diverso contesto vedi V. Carbone, Il diritto vivente dei contratti preliminari, in Corr. giur., 2015, p. 609 ss. 63 Così D. Pittella, op. cit., p. 16 di cui all’art. 2932 c.c., sebbene per l’Autore il rimedio della esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre dovrebbe ritenersi implicitamente escluso dalla previsione di una seconda fase alla quale l’art. 2932 c.c. è senz’altro applicabile. 64 Contra U. Stefini, Il «preliminare di preliminare», cit., pp. 1241-124, per il quale il preliminare di preliminare «in senso stretto (che cioè obbliga a concludere un successivo preliminare dall’identico contenuto)» sarebbe «qualcosa di completamente inutile, e come tale nullo per mancanza di causa», come d’altra parte ritenuto dalla giurisprudenza.
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illeceità o immeritevolezza non al tipo astratto bensì alla specifica operazione e agli specifici interessi che spingono alla procedimentalizzazione in più fasi della contrattazione immobiliare. Ciò precisato, il passaggio logico successivo impone di superare o meno i limiti alla qualificazione in termini di contratto dell’impegno a concludere un preliminare e completare il discorso che le Sezioni Unite hanno portato a metà del guado, fermandosi sulle soglie della contrattualità (e della connessa natura della responsabilità). Così come per la valutazione degli interessi perseguiti, anche l’interpretazione della natura contrattuale ovvero precontrattuale dell’intesa pre-preliminare necessita di un approccio calibrato sul caso concreto e, tuttavia, alcuni indici possono essere offerti alla riflessione. Il più importante, probabilmente, è quello che si può trarre dalla documentazione di cui – con più o meno frequenza – è fatto impiego nelle modalità di contrattazione tripartita. Si può notare, infatti, come il procedimento inizi tramite sottoscrizione di una proposta irrevocabile di acquisto da parte di uno o più interessati all’acquisto su presentazione da parte dell’intermediario (versando altresì una somma di denaro a garanzia della conclusione dell’affare)65, cui segue da parte del legittimato a disporre dell’immobile la sottoscrizione per accettazione della proposta di acquisto che ritiene preferibile, la quale prevede anche l’impegno a stipulare un successivo contratto con cui stabilire le modalità esatte secondo cui dovranno svolgersi gli adempimenti a carico delle parti66. Difficile negare, proprio sulla scorta di un processo che vede uno scambio tra proposta e accettazione, la replica del tipico procedimento di conclusione del contratto e, soprattutto, l’emersione di una concreta volontà di obbligarsi da parte dei contraenti.
65 P Vitucci, Impegni assunti col mediatore e proposta contrattuale, in Riv. notariato, 1994, p. 17. 66 A.M. Benedetti, Autonomia privata procedimentale, cit., p. 114 ss. intravede nello scambio tra proposta irrevocabile e accettazione un modo semplificato di conclusione dell’accordo, caratterizzato da un’accettazione «più sicura».
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Non meno rilevante è il ruolo assunto dalla corresponsione della somma di denaro da parte del promittente acquirente unitamente alla sottoscrizione della proposta irrevocabile, la quale, nel momento antecedente all’accettazione, assume la funzione di deposito cauzionale in cui depositario è il mediatore67 e di caparra confirmatoria una volta ricevuta l’accettazione del promittente venditore68. La compresenza dell’interazione tra proposta e accettazione e il rafforzamento della volontà di vincolarsi che deve farsi discendere – per sua natura – dalla caparra confirmatoria possono portare a conclusioni diverse dalla qualificazione del preliminare di preliminare quale contratto solo ove si persista in un atteggiamento di cautela verso la tradizione giurisprudenziale. Gli elementi suindicati – se ne si assume fino in fondo la rilevanza giuridica – facilitano non di poco il lavoro dell’interprete. Tuttavia, essi potrebbero in ipotesi mancare e allora non vi sarà altra possibilità che quella di procedere allo scrutinio della volontà delle parti per comprendere la sussistenza di una portata precettiva all’impegno assunto e, quindi, a segnare la strada tra ambito precontrattuale e ambito contrattuale. L’assenza degli indicatori segnalati rende certamente meno immediata la disamina sulla negozialità dell’accordo, in special modo dove l’intesa sia accompagnata da riserve rispetto al bene – ad esempio nel caso in cui il promittente acquirente voglia mantenere uno spazio di manovra al fine di controllare con certezza l’assenza di violazione della normativa edilizia o di altra normativa rilevante – e ciò non sia declinato negozialmente tramite l’apposizione di un elemento condizionale69. F. Toschi Vespasiani, Il preliminare di preliminare e la proposta di acquisto accettata, cit., p. 994; U. Stefini, Il «preliminare di preliminare», cit., p. 1235. 68 M. Farina, Contrattazione preliminare e autonomia negoziale, cit., p. 232. 69 O rispetto a elementi soggettivi dell’affare come indicato da Cass., Sez. Un., 6 marzo 2015, n. 4628, cit., per la quale «Vi sono esigenze, in una società complessa, interessata da pervasivi fenomeni criminosi, da sospette manipolazioni nel tessuto economico, da un fiorire incontrollabile di nullità contrattuali “minori”, ma non per questo meno incisive negozialmente, di riservare il consenso vincolante, sottomesso all’esecuzione coattiva, a verifiche che sono da valutare sogget67
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Evidentemente, l’interprete sarà di volta in volta chiamato a comprendere se la riserva investa un nucleo centrale dell’affare – quale sicuramente è il bene da acquistare nella circostanza in cui la riserva ad esso si riferisca – ovvero un aspetto secondario, non determinante rispetto alla volontà o meno di assumere il vincolo. Di necessità, l’attività andrà condotta nel merito della singola intesa70, sulla base di un’accurata analisi degli indici testuali offerti dalle parti e, stante l’eterogeneità delle vicende afferenti all’area del preliminare di preliminare, senza volerne ricavare principi validi in via generale, a riconferma della connaturata flessibilità dell’“obbligo a contrarre”.
tivamente». Pare evidente come, in tale ipotesi, vincolatività non possa esserci se la riserva investe appunto il referente soggettivo e, quindi, in radice l’opportunità di manifestare il consenso al vincolo con una specifica controparte. 70 Cfr. G. Sicchiero, La clausola contrattuale, Padova, 2003, pp. 268 ss.
Corte di Cassazione – Sezione Terza Civile 10 luglio 2018, n. 18047 (sent.) Presidente Chiarini, Relatore Di Florio Impossibilità sopravvenuta – Inutilizzabilità della prestazione – Interesse creditorio – Causa concreta del contratto – Presupposizione L’impossibilità sopravvenuta della prestazione si ha non solo nel caso in cui sia divenuta impossibile l’esecuzione della prestazione del debitore, ma anche nel caso in cui sia divenuta impossibile l’utilizzazione della prestazione della controparte, quando tale impossibilità sia comunque non imputabile al creditore e il suo interesse a riceverla sia venuto meno, verificandosi, in tal caso, la sopravvenuta irrealizzabilità della finalità essenziale in cui consiste la causa concreta del contratto e la conseguente estinzione dell’obbligazione.
Dalla motivazione (omissis) 1. Con il primo motivo, la società ricorrente deduce ex art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli artt. 1463, 1256, 1325 e 1345 c.c., ed art. 3 Cost., nonché, ex art. 360 c.p.c., n. 5, l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio. Al riguardo: a. contesta l’interpretazione degli artt. 1463 e 1345 c.c., assumendo che il giudice d’appello aveva confuso la causa del contratto con i motivi di esso; b. deduce l’inconferenza degli arresti di legittimità richiamati, riguardanti la diversa ipotesi di impossibilità sopravvenuta per un fatto ascrivibile a terzi e non alle parti: assume che non era stato considerato che la mancata partecipazione al viaggio non era dipesa da fatti relativi all’esercizio dell’attività imprenditoriale, ma ad
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un impedimento soggettivo del fruitore della prestazione che non poteva determinare un effetto completamente liberatorio/risolutorio in suo favore; c. assume che l’art. 1463 c.c., non prescriveva una regolamentazione inderogabile né l’inserimento di clausole che potessero implicare uno sbilanciamento del sinallagma contrattuale con trasferimento del rischio solo a carico dell’operatore turistico. 1bis. Il motivo è complessivamente infondato. Circa il primo rilievo, si osserva che il Tribunale ha fatto corretta applicazione delle norme sopra richiamate, inquadrando la fattispecie in esame nell’ipotesi in cui la causa del contratto, consistente nella fruizione di un viaggio con finalità turistica, diviene inattuabile per una causa di forza maggiore, non prevedibile e non ascrivibile alla condotta dei contraenti. Al riguardo, questa Corte ha avuto modo di chiarire che “la causa in concreto – intesa quale scopo pratico del contratto, in quanto sintesi degli interessi che il singolo negozio è concretamente diretto a realizzare, al di là del modello negoziale utilizzato – conferisce rilevanza ai motivi, sempre che questi abbiano assunto un valore determinante nell’economia del negozio, assurgendo a presupposti causali, e siano comuni alle parti o, se riferibili ad una sola di esse, siano comunque conoscibili dall’altra” (cfr. Cass. 8100/2013; Cass. 12069/2017). Pertanto il Tribunale, nella congiunta valutazione della causa e dei motivi che avevano indotto all’acquisto del pacchetto turistico, ha dato forma al concetto di “causa concreta del contratto” attinente all’aspetto della funzione economico – sociale del negozio giuridico posto in essere (cfr. anche in motivazione Cass. 26958/2007) e, valutando il gravissimo impedimento che non aveva consentito ai contraenti di fruirne, ha correttamente applicato il principio sopra enunciato con il quale la previsione di cui all’art. 1463 c.c., risulta perfettamente compatibile, con riferimento a tutti i contraenti. E, tanto premesso, anche il secondo rilievo non è condivisibile. Questa Corte ha affermato che “la risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta della prestazione, con la conseguente
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possibilità di attivare i rimedi restitutori, ai sensi dell’art. 1463 c.c., può essere invocata da entrambe le parti del rapporto obbligatorio sinallagmatico, e cioè sia dalla parte la cui prestazione sia divenuta impossibile sia da quella la cui prestazione sia rimasta possibile. In particolare, l’impossibilità sopravvenuta della prestazione si ha non solo nel caso in cui sia divenuta impossibile l’esecuzione della prestazione del debitore, ma anche nel caso in cui sia divenuta impossibile l’utilizzazione della prestazione della controparte, quando tale impossibilità sia comunque non imputabile al creditore e il suo interesse a riceverla sia venuto meno, verificandosi in tal caso la sopravvenuta irrealizzabilità della finalità essenziale in cui consiste la causa concreta del contratto e la conseguente estinzione dell’obbligazione” (cfr. Cass. 26958/2007). Tale arresto che, per gli aspetti fattuali, risulta sovrapponibile al caso in esame contiene principi ai quali questo collegio intende dare seguito, dovendosi escludere che l’impossibilità sopravvenuta debba essere – come prospettato dal ricorrente – necessariamente ricollegata al fatto di un terzo: la non imputabilità al debitore (v. art. 1256 c.c.) non restringe il campo delle ipotesi ma, per quanto sopra argomentato, consente di allargare l’applicazione della norma a tutti i casi, meritevoli di tutela, in cui sia impossibile, per eventi imprevedibili e sopravvenuti, utilizzare la prestazione oggetto del contratto. Anche il terzo rilievo non può essere condiviso. La società ricorrente lamenta, infatti, che la decisione impugnata contiene argomentazioni che si traducono in uno sbilanciamento del sinallagma contrattuale e nel trasferimento del rischio dell’evento accidentale a totale carico del tour operator, con conseguente costituzione di una sorta di responsabilità oggettiva. L’assunto è infondato. L’art. 1463 c.c., assume una funzione di protezione in relazione alla parte impossibilitata a fruire della prestazione pattuita e ciò è funzionale, in linea generale, proprio alla ricostituzione del sinallagma compromesso, non spostando l’ambito contrattuale della responsabilità.
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2. Con il secondo motivo, la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1463 e 2033 c.c.: assume che la malattia dell’A. si era verificata il giorno prima della partenza quando la prestazione era già iniziata, e che la società aveva iniziato ed in parte completato l’esecuzione del contratto. Si configurava, in tal modo, a suo carico un’ipotesi di indebito arricchimento in favore della parte attrice. Il motivo è infondato. Le parti contraenti, infatti, non hanno minimamente fruito della prestazione: al riguardo questa Corte ha avuto modo di chiarire che “l’azione generale di arricchimento ingiustificato, avendo natura sussidiaria, può essere esercitata solo quando manchi un titolo specifico sul quale fondare un diritto di credito” (Cfr. Cass. 26199/2017): nel caso di specie, le pretese dell’odierna parte controricorrente si fondano legittimamente sull’applicazione dell’art. 1463 c.c., e trovano pertanto un fondamento specifico che non consente neanche di ipotizzare l’ipotesi di cui all’art. 2033 c.c. 3. Con il terzo motivo, la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, con riferimento all’art. 1385 c.c., ed alla direttiva comunitaria 90/314 in tema di recesso del viaggiatore; lamenta altresì l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti e consistente nella mancata stipula della polizza assicurativa che era stata offerta ai contraenti per garantire gli derivanti da inconvenienti imprevedibili. Il motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato. La censura, infatti, è espressamente riferita agli artt. 90 e 91, del Codice del Consumo sui quali il Tribunale ha congruamente argomentato (cfr. p. 6 della sentenza): il ricorrente, chiede, dunque, pur denunciando formalmente il vizio di violazione di legge, una rivisitazione del merito e della motivazione della controversia sul punto, preclusa in sede di legittimità in presenza di motivazione logica e sufficiente. Né la mancata stipula, da parte dei contraenti, della polizza assicurativa volta a coprire eventi imprevedibili come quello in esame, sposta i termini della decisione.
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Tale possibilità, infatti, all’epoca in cui venne acquistato il pacchetto turistico costituiva una mera facoltà sia per il cliente che per l’operatore turistico: ciò non incide, dunque, sulla valutazione dell’impossibilità sopravvenuta alla prestazione, secondo quanto sinora argomentato. Vale al riguardo rilevare che proprio la recente Direttiva Comunitaria del 2015/2302 sui pacchetti turistici, richiamata dal ricorrente, è stata recentemente recepita ma non è ancora in vigore nel nostro ordinamento: ciò rafforza la dimostrazione che all’epoca della controversia prevaleva la disciplina correttamente applicata dal Tribunale, la cui interpretazione deve tenere conto sia del rischio generale connaturato all’attività imprenditoriale sia del dovere di solidarietà sociale universalmente applicabile (Cass. 14662/2015). 4. Con il quarto motivo, la ricorrente, deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1463 e 1672 c.c., nonché l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti, consistente nell’applicazione delle norme relative al contratto di trasporto ed al contratto di mandato; censura, altresì, il richiamo del Tribunale all’art. 1672 c.c., ritenendolo inconferente rispetto al caso in esame. Il motivo è inammissibile. Nonostante la formale evocazione del vizio di violazione di legge, il ricorrente chiede una diversa motivazione della sentenza prospettando un vizio che non può più trovare ingresso in sede di legittimità, vista la modifica dell’art. 360, n. 5, introdotta con al L. n. 134 del 2012. Circa la postulata applicazione degli artt. 1686 e 1720 c.c., si osserva, poi, che la censura risulta nuova e quindi inammissibile. 5. Infine, con il quinto motivo, il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, dell’art. 91 c.p.c.: chiede la compensazione delle spese anche del primo grado visto che l’appello era stato parzialmente accolto. Il motivo è inammissibile, in quanto, in presenza di parziale soccombenza in appello la statuizione di compensazione delle spese di primo grado non è sindacabile in sede di legittimità (cfr. ex multis Cass. 18236/2003; Cass. 4799/2006; Cass. 30599/2017).
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In conclusione, il ricorso deve essere rigettato. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso proposto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente a rifondere del grado che liquida in Euro 1.400,00 per compensi, Euro 200,00 per esborsi oltre accessori e rimborso spese generali nella misura di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso proposto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis. (omissis)
SOPRAVVENUTA IMPOSSIBILITÀ DI BENEFICIARE DELLA PRESTAZIONE ALTRUI E RISOLUZIONE DEL CONTRATTO, EX ART. 1463 C.C. Massimiliano Fadda (Assegnista di ricerca presso l’Università degli Studi di Sassari)
Sommario: 1. Il caso. – 2. Premesse. – 3. Inquadramento generale delle sopravvenienze nell’obbligazione e nel contratto. – 3.1. La non imputabilità dell’impossibilità sopravvenuta. – 4. Interesse creditorio e impossibilità sopravvenuta. – 5. L’interesse del creditore e la causa concreta del contratto. – 6. I rimedi. – 7. Conclusioni.
1. Il caso Il caso affrontato dalla sentenza in esame può essere sintetizzato come segue. A.A. e L.L. hanno convenuto in giudizio la Settemari S.p.a., dinanzi al giudice di pace di Bologna, esponendo di aver acquistato, presso la predetta società, un pacchetto turistico “all inclusive” al quale, ancor prima della partenza, avevano dovuto rinunciare a causa di una grave ed improvvisa patologia che aveva colpito A.A. Per tali ragioni gli attori hanno chiesto la condanna della società alla restituzione dell’intera somma versata quale prezzo della prestazione pattuita. Il giudice di primo grado ha accolto la domanda attorea. Per quanto di interesse ai fini della presente trattazione, il Tribunale di Bologna ha respinto l’appello della Settemari S.p.a. La Becana S.r.l. in liquidazione (già Settemari S.p.a.) ha, pertanto, proposto ricorso per la cassazione della sentenza del giudice dell’appello, affidandosi a cinque motivi. A.A. e L.L. hanno resistito con controricorso.
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a) Con il primo motivo la società ricorrente ha contestato l’interpretazione degli artt. 1463 e 1345 c.c., sostenendo che il giudice d’appello avesse confuso la causa del contratto con i motivi di esso. Inoltre, il ricorrente ha osservato come la giurisprudenza richiamata riguardi la fattispecie dell’impossibilità sopravvenuta per fatto ascrivibile a terzi e non alle stesse parti; al contrario, la mancata partecipazione al viaggio risultava esser stata determinata unicamente da un impedimento soggettivo del creditore della prestazione. Pertanto, non poteva essersi realizzato un effetto completamente liberatorio/risolutorio in favore dello stesso creditore. Infine, il ricorrente ha rilevato che l’art. 1463 c.c. non ha prescritto una regolamentazione inderogabile né l’inserimento di clausole che potessero implicare uno sbilanciamento del sinallagma contrattuale con conseguente trasferimento del rischio solo a carico dell’operatore turistico. Invero, la Corte di Cassazione ha ritenuto corretto l’inquadramento giuridico che il Tribunale, in funzione di giudice dell’appello, ha dato alla fattispecie in analisi. La causa del contratto stipulato fra le parti consisteva nella fruizione di un viaggio con finalità turistica, divenuto inattuabile per una causa di forza maggiore, non prevedibile e non ascrivibile alla condotta di nessuno dei contraenti. La Corte, richiamando un orientamento consolidato, ha precisato che “la causa in concreto”, ossia lo scopo pratico del contratto, quale complessivo assetto di interessi che il singolo negozio è concretamente diretto a realizzare, conferisce rilevanza ai motivi, sempre che questi abbiano assunto un valore determinante nell’economia del negozio, elevandosi a presupposti causali, e siano comuni alle parti o, se riferibili ad una sola di esse, siano comunque conoscibili dall’altra1. Invero, il Tribunale, valorizzando l’aspetto della funzione economico-sociale del negozio giuridico, con la propria sentenza ha
Cass., Sezione III, 8 febbraio/3 aprile 2013, n. 8100; Cass., Sezione I, 16 maggio 2017, n. 12069. 1
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dato attuazione al detto principio di “causa concreta del contratto”, operando una congiunta valutazione della causa e dei motivi che avevano indotto alla stipulazione di quel preciso contratto: pacchetto turistico2. Pertanto, considerando il gravissimo impedimento che non aveva consentito ai contraenti di godere della prestazione, il Giudice dell’appello ha applicato il principio sopra enunciato, del tutto compatibile con il disposto dell’art. 1463 c.c., con riferimento a tutti i contraenti. La Suprema Corte, condividendo la decisione assunta dal Tribunale, ha ritenuto di dover dare seguito all’orientamento già espresso con la richiamata sentenza del 2007, peraltro, perfettamente sovrapponibile al caso in esame, secondo il quale “l’impossibilità sopravvenuta della prestazione si ha non solo nel caso in cui sia divenuta impossibile l’esecuzione della prestazione del debitore, ma anche nel caso in cui sia divenuta impossibile l’utilizzazione della prestazione della controparte, quando tale impossibilità sia comunque non imputabile al creditore e il suo interesse a riceverla sia venuto meno, verificandosi in tal caso la sopravvenuta irrealizzabilità della finalità essenziale in cui consiste la causa concreta del contratto e la conseguente estinzione dell’obbligazione”. Dunque, si è mostrato di ritenere più corretta una lettura dell’art. 1256 c.c. secondo la quale la non imputabilità al debitore della impossibilità sopravvenuta non debba essere ricollegata esclusivamente al fatto di un terzo, al fine di apprestare tutela a tutti i casi in cui sia impossibile utilizzare la prestazione oggetto del contratto per eventi imprevedibili e sopravvenuti. Non ha trovato il consenso della Corte neppure il terzo rilievo proposto dal ricorrente nel primo motivo del ricorso. Infatti, a differenza di quanto vorrebbe il ricorrente, il giudicante ha chiarito come l’art. 1463 c.c. assuma una funzione di protezione della parte impossibilitata a beneficiare della prestazione pattuita,
Cass., Sezione III, 20 dicembre 2007, n. 26958.
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riequilibrando il sinallagma compromesso, senza che ciò costituisca una rimodulazione della responsabilità contrattuale. b) Con il secondo motivo, la ricorrente ha dedotto la violazione e falsa applicazione degli artt. 1463 e 2033 c.c., affermando che la malattia dell’A. si era verificata il giorno prima della partenza, quando la prestazione era già iniziata, e che la società aveva iniziato ed in parte completato l’esecuzione del contratto. Dunque, i controricorrenti resistenti avrebbero conseguito un indebito arricchimento a danno della ricorrente. La Corte ha ritenuto infondato anche il secondo motivo del ricorso, precisando come, in realtà, le parti creditrici non siano avvalse della prestazione, neppure in parte. Richiamando il principio reso con ordinanza dalla Sesta Sezione, la stessa Corte ha giudicato legittimamente fondate sull’applicazione dell’art. 1463 c.c. le pretese di parte controricorrente, escludendo a favore del ricorrente “l’azione generale di arricchimento ingiustificato, avendo natura sussidiaria, può essere esercitata solo quando manchi un titolo specifico sul quale fondare un diritto di credito”3. Le questioni sottese alla sentenza in oggetto concernono: a) le sopravvenienze nell’obbligazione e nel contratto; b) l’impossibilità sopravvenuta a ricevere la prestazione; c) l’interesse del creditore; d) il riequilibrio; e) le pretese restitutorie.
2. Premesse Da lungo tempo la Corte di Cassazione ha introdotto il rimedio giurisprudenziale della risoluzione per “inutilizzabilità della prestazione” da parte del creditore; ricostruzione, peraltro, già nota in dottrina. Il caso affrontato con la sentenza oggetto di esame si pone tra i precedenti più recenti e significativi affrontati dalla giurisprudenza, un precedente analogo di particolare interesse, a cui fa richiamo la
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Cass., Sezione VI, 3 novembre 2017, n. 26199.
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predetta pronuncia, è quello deciso dalla stessa Corte in relazione alla vicenda di un soggetto a cui è deceduto il coniuge, con il quale avrebbe dovuto condividere il viaggio, nei giorni immediatamente antecedenti alla partenza4. Benché, nei casi in esame, la prestazione del debitore sia rimasta oggettivamente possibile, si è ritenuto che l’evento, inerente alla sfera creditoria, fosse tale da rendere quella prestazione priva della capacità di assolvere alla propria funzione concreta e, pertanto, equiparabile all’impossibilità sopravvenuta, con l’effetto di produrre la risoluzione del contratto. La Corte di Cassazione, nel suo percorso argomentativo logico-giuridico, ha rilevato come l’utilità del contratto sia stata vanificata da cause sopravvenute non imputabili a nessuna delle parti, facendo venire meno l’interesse creditorio all’esecuzione della prestazione, di conseguenza, privando l’intero contratto della c.d. causa concreta. Infatti, la stessa Corte ha consacrato la sussistenza di una stretta relazione tra interesse del creditore, in quanto elemento funzionale del rapporto obbligatorio, ed il concetto di causa del contratto in concreto, quale “sintesi concreta degli interessi che il contratto è volto a soddisfare”, a prescindere dal modello contrattuale utilizzato; conferendo, ad una determinata utilità contrattuale, rilievo oggettivo nel contratto.
3. Inquadramento generale delle sopravvenienze nell’obbligazione e nel contratto L’assetto degli interessi che le parti hanno concordato e regolamentato con il contratto può risultare compromesso dal sopravvenire di circostanze che ne rendono impossibile la realizzazione. L’ordinamento considera tali evenienze, che devono necessariamente essere sopravvenute (poiché se fossero originarie impedirebbero
Cass., Sezione III, 20 dicembre 2007, n. 26958.
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sin dall’inizio il sorgere del vincolo), come idonee ad influire sulla permanenza del contratto5. A questo proposito vengono in considerazione le c.d. patologie funzionali, inerenti all’attuazione del rapporto contrattuale, ossia al sinallagma o nesso di corrispettività tra le prestazioni. La risoluzione è il rimedio che il legislatore ha approntato per consentire lo scioglimento dei contratti a prestazioni corrispettive per i casi di: inadempimento di uno dei contraenti (artt. 1453-1462), impossibilità sopravvenuta della prestazione (artt. 1463-1466) e di eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione (artt. 1467-1469); inoltre, secondo un diffuso orientamento dottrinale, anche il venir meno della presupposizione potrebbe dare luogo alla risoluzione del contratto6. Questa forma di risoluzione, cosiddetta rimediale, ha dunque lo scopo di reagire a un malfunzionamento del contratto, essa trova fonte nella legge e, nello specifico caso dell’impossibilità sopravvenuta, opera automaticamente7. Il codice civile ha dettato una disciplina generale delle sopravvenienze nell’ambito di quella delle obbligazioni, disponendo, proprio con riguardo alla singola obbligazione, che, quando una prestazione diviene impossibile per causa non imputabile al debitore, l’obbligazione si estingue e il debitore è liberato (art. 1256, co. 1, c.c.); mentre, nel caso di impossibilità parziale, quest’ultimo si libera con l’esecuzione della parte di prestazione rimasta possibile (art. 1258, co. 1, c.c.). Tuttavia, allor quando si tratti di obbligazioni nascenti da contratto sinallagmatico, occorre stabilire la sorte dell’obbligazione corrispettiva a quella che si è estinta per impossibilità della prestazione. L’art. 1463 c.c., confermando il principio di cui all’art. 1256 c.c., stabilisce che, laddove l’obbligazione posta a carico del creditore
5 A. Lombardi, La risoluzione per impossibilità sopravvenuta, Milano, 2007, p. 5. 6 L. Nivarra – V. Ricciuto – C. Scognamiglio, Istituzioni di diritto privato, Torino, 2003, pp. 214 ss. 7 V. Roppo, Il contratto, in Trattato di diritto privato, Milano, 2001, pp. 940 ss.
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della prestazione divenuta impossibile non sia stata adempiuta, essa rimane estinta ipso iure nello stesso momento in cui la prestazione della corrispondente obbligazione diventa impossibile. Più precisamente, entrambe le obbligazioni corrispettive si estinguono ipso iure, simultaneamente, una in virtù dell’art. 1256, l’altra dell’art. 1463. Mentre, qualora l’obbligazione a carico del creditore della prestazione divenuta impossibile fosse stata adempiuta, il solvens acquista, ex lege, il diritto di ripetere la prestazione eseguita ex art. 2033 c.c., che dovrebbe essere qualificata come conditio ob causam finitam8. Dunque, nel nostro ordinamento positivo, così come sotto la vigenza del codice del 1865, vige il principio casum sentit debitor, in forza del quale le conseguenze economiche negative, derivanti dal mancato conseguimento della controprestazione, ricadono sul debitore della prestazione divenuta impossibile. La disciplina dell’impossibilità sopravvenuta per causa non imputabile al debitore realizza un automatismo a carico del debitore sotto il profilo della ripartizione del rischio della controprestazione, senza che assuma rilievo la responsabilità della parte colpita da impossibilità né quella della controparte, liberata dall’obbligo di eseguire la controprestazione9. Il suddetto automatismo, come detto, esplica i suoi effetti dapprima sul piano dell’obbligazione (artt. 1256, 1258 c.c.) e, come immediata conseguenza, sul piano del contratto a prestazioni corrispettive (artt. 1463, 1464 c.c.), laddove, alla liberazione del debitore si assomma la risoluzione del contratto. L. Cabella Pisu, Impossibilità della prestazione, adempimento dell’obbligazione, risoluzione del contratto. Spunti sistematici, Scintillae iuris (Studi in memoria di G. Gorla), VIII, Milano, 1994, pp. 1781 ss. 9 Diverse disposizioni codicistiche possono essere lette in chiave di ripartizione dei rischi contrattuali per il manifestarsi di accadimenti sfavorevoli; fra gli altri, si può ricordare il principio consensualistico di cui all’art. 1376 c.c., a cui consegue l’effetto del res perit domino, ex art. 1465 c.c., in virtù del quale lo scambio del consenso, anche in assenza della traditio, riversa sul compratore il rischio del perimento del bene, senza che si estingua la sua controprestazione. 8
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In sostanza, il venir meno di una delle obbligazioni travolge l’intero contratto in quanto ne rende irrealizzabile la causa; di talché, la tutela del sinallagma funzionale si pone quale espressione dell’interdipendenza delle prestazioni nell’attuazione della causa concreta del contratto. In questo modo l’ordinamento opera il riequilibrio del rapporto di corrispettività teleologica tra gli arricchimenti, così come voluto dalle parti con il contratto, venuto meno a causa della sopravvenienza, col fine ultimo di impedire un arricchimento unilaterale10. 3.1. La non imputabilità dell’impossibilità sopravvenuta Poiché il codice civile non ha specificato con alcuna aggettivazione il contenuto dell’impossibilità, spetta necessariamente all’interprete delinearne l’estensione applicativa11. La dottrina tradizionale ha ricostruito il concetto di impossibilità in termini di assolutezza e oggettività, attribuendo al debitore la responsabilità per il fatto stesso dell’inadempimento, a prescindere da ogni valutazione sull’impiego della diligenza dovuta, salvo il caso in cui l’impedimento alla corretta esecuzione della prestazione derivi da un evento che non è oggettivamente riconducibile alla sfera personale del debitore, né appaia in alcun modo superabile. Essa trae origine dalla generalizzazione della regola contenuta nel codice del 1865 che, all’art. 1298, prevedeva il perimento o la messa fuori commercio del bene quali cause di estinzione. L’impossibilità assoluta si differenzia da quella relativa in ragione dell’intensità dell’impedimento, individuando un impedimento non superabile a prescindere dallo sforzo applicato.
10 G. Gorla, Del rischio e pericolo nelle obbligazioni, Padova, 1934, p. 201; F. Panarello, Impossibilità sopravvenuta e strumenti di distribuzione del rischio: il rimedio della risoluzione e le clausole di deroga, Torino, 2003, p. 26. 11 G. Cottino, L’impossibilità sopravvenuta della prestazione e la responsabilità del debitore, Problemi generali, Milano, 1955, p. 29.
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Accanto al fondamento naturale dell’impossibilità della prestazione, che si può individuare nel perimento della cosa, si colloca quello giuridico, c.d. factum principis. L’impossibilità oggettiva, che concerne la prestazione in sé e per sé, tanto da rendere impossibile a chiunque l’adempimento, si distingue da quella soggettiva, inerente alle condizioni personali o patrimoniali del debitore, in quanto solo questi è incapace di adempiere, ma la prestazione resta suscettibile di adempimento12. Dunque, secondo tale impostazione, l’impossibilità idonea ad incidere sul vincolo contrattuale è esclusivamente quella che impedisce a chiunque e con qualunque mezzo lecito di adempiere correttamente l’obbligazione13. In realtà, si può affermare che il codice tenda a smentire il requisito della oggettività. La previsione dell’art. 1257 c.c. dispone la liberazione del debitore nel caso di smarrimento della cosa, senza che si possa provare il perimento, rimanendo la possibilità di adempiere ad opera del terzo che, in ipotesi, la ritrovi. Altresì, nelle obbligazioni di fare, gli impedimenti che colpiscono la persona del debitore possono essere liberatori14. Altra autorevole dottrina, orientata ad inquadrare l’impossibilità sopravvenuta in termini soggettivi e relativi, ha ritenuto imputabile alla responsabilità del debitore soltanto quell’inadempimento che lo stesso avrebbe potuto evitare con lo sforzo richiesto in concreto, in relazione al tipo di rapporto ed alla natura della pre stazione.
G. Osti, Revisione critica della teoria sulla impossibilità della prestazione, Riv. dir. civ., 1918, pp. 209 ss.; Id., voce Impossibilità sopravveniente, in Noviss. Dig. it., VIII, Torino, 1962, p. 288; N. Di Prisco, Impossibilità sopravvenuta per causa non imputabile al debitore, in Tratt. Dir. Priv., diretto da P. Rescigno, IX, 1, II ed., Torino, 1999, p. 355; C. M. Bianca, Diritto civile, IV, L’obbligazione, Milano, 1993, pp. 530 ss. 13 G. Cian – A. Trabucchi, Commentario breve al codice civile, IX ed., Padova, 2009, p. 1301. 14 G. Osti, voce Impossibilità sopravveniente, cit., p. 295; C. M. Bianca, Diritto civile, IV, L’obbligazione, cit., p. 532. 12
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Infatti, in virtù del principio di correttezza e buona fede, ricavabile dall’art. 1175 c.c., il creditore non può esigere l’esecuzione della prestazione ove la stessa non sia realizzabile con i mezzi dedotti in obbligazione15. A seguito di tali osservazioni, la posizione più rigida risulta mitigata, ravvisando l’impossibilità liberatoria in ogni impedimento che abbia diretta attinenza alla specifica prestazione, secondo l’esatta delimitazione del contenuto del rapporto e che sia indipendente da condizioni personali o patrimoniali proprie del debitore16. Secondo altro orientamento, l’impossibilità liberatoria deve determinarsi alla stregua dell’art. 1176 c.c., il quale prescrive che, nell’adempiere, il debitore impieghi una diligenza corrispondente a quella del buon padre di famiglia, ossia, quello sforzo volitivo e tecnico normalmente adeguato a produrre il soddisfacimento dell’interesse creditorio; risultando così specularmente ancorata alla responsabilità per inadempimento ex art. 1218 c.c. Nella fase preparatoria, così come durante l’esecuzione della prestazione, il debitore è tenuto a porre in essere ogni attività idonea a prevenire e impedire ogni evento prevedibile o ad attenuare gli effetti degli eventi che si siano già verificati, che ostacolino l’adempimento, alla stregua dell’ordinaria diligenza; in caso contrario, lo stesso impedimento sopravvenuto non potrà che essergli imputato. Al contrario, il debitore non risponderà dell’inadempimento in presenza di impedimenti non prevedibili e non superabili pur impiegando lo sforzo diligente dovuto. In altre parole, ove lo sforzo necessario a superare l’impedimento sopravvenuto richieda un impegno superiore a quello corrisponden-
N. Coviello, Del caso fortuito in rapporto all’estinzione delle obbligazioni, Lanciano, 1895, pp. 12 ss.; E. Betti, Teoria generale delle obbligazioni, I, Milano, 1953-55, p. 48; P. Rescigno, L’abuso del diritto, in Riv dir. civ., 1965, p. 276; L. Mengoni, voce Responsabilità contrattuale (dir. vig.), in Enc. dir., XXXIX, Milano, 1988, pp. 1089 ss. 16 P. Perlingieri, Dei modi di estinzione delle obbligazioni diversi dall’adempimento, Art. 1230-1259, in Commentario del codice civile, a cura di A. Scialoja e G. Branca, Bologna, 1975, p. 447. 15
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te alla normale diligenza, non sarebbe configurabile un inadempimento imputabile al debitore17. In questo modo, “l’assenza di colpa” sarebbe sovrapponibile alla “causa non imputabile”. Se, dunque, l’obbligo di diligenza, così come configurato dalla dottrina, deve essere inteso nel senso di imputare alla negligenza e dunque alla colpa del debitore il non aver dispiegato tutte le misure atte a prevenire l’impossibilità, il criterio di imputazione dell’inadempimento non è altro che la riconducibilità dell’evento alla sfera di controllo dell’obbligato; il quale, non avendo impiegato i mezzi dedotti in obbligazione per prevenire l’impedimento, è considerato per ciò stesso responsabile18. In merito a quest’ultimo orientamento si è obiettato come, in realtà, l’impossibilità liberatoria possa operare autonomamente rispetto alla presenza o meno della diligenza e come, d’altro canto, la prestazione potrebbe rimanere possibile a prescindere dall’impiego della diligenza. Inoltre, si è osservato come, a differenza di quanto accadeva nel codice del 1865, in cui le norma che disciplinavano la diligenza del buon padre di famiglia nell’adempimento dell’obbligazione erano poste in successione con quelle che regolavano la responsabilità del debitore per inadempimento, la struttura sistematica dell’attuale codice civile induce a ritenere che si sia voluto eliminare ogni collegamento tra l’art. 1176 c.c., inserito tra le disposizioni che disciplinano l’adempimento e l’art. 1218 c.c., il quale è stato collocato tra le disposizioni che regolano l’inadempimento19. Dunque, diligenza ed impossibilità risulterebbero dirette a regolare aspetti distinti di un medesimo fenomeno.
M. Giorgianni, L’inadempimento. Corso di diritto civile, Milano, 1975, pp. 228 ss.; C.M. Bianca, Diritto civile, IV, L’obbligazione, cit., pp. 534 ss. 18 L. Mosco, voce Impossibilità sopravvenuta, in Enc. del diritto, XX, 1970, p. 422; L. Cabella Pisu, Dell’impossibilità sopravvenuta, art. 1463-1466, in F. Galgano (a cura di), Comm. cod. civ., Scialoja-Branca, Bologna, 2002, pp. 76-77; F. Galgano, Diritto civile e commerciale, I, Padova, 2004, p. 63. 19 G. Osti, Voce Impossibilità sopravveniente, cit., pp. 293 ss 17
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Posizione, peraltro, strenuamente criticata dalla dottrina che segue la tesi dell’oggettività dell’impedimento, la quale ha ricostruito una connessione tra la nozione di impossibilità sopravvenuta e quella di caso fortuito, ricomprendendovi tutti gli ostacoli caratterizzati, sotto il profilo causale, dall’estraneità alla sfera di influenza del debitore; rimanendo imputabile al debitore ogni evento impeditivo che renda impossibile la prestazione, rientrante nella sua sfera di competenza e di organizzazione, evitabile con i mezzi dedotti in obbligazione. Mentre, per quanto riguarda gli ostacoli inevitabili, si ritengono imputabili al debitore solo quelli che ricadano nell’ambito della sua sfera di controllo20. Oltreché sulla natura della attività esercitata dall’obbligato, art. 1176 c.c., comma secondo, il concetto di diligenza ha assunto sempre più un contenuto calibrato sulla concreta prestazione oggetto del contratto. Pertanto, il debitore risulterà esonerato da responsabilità, con risoluzione automatica del contratto, quando l’ostacolo sia non superabile con i mezzi dedotti in obbligazione ed estraneo al rischio tipico relativo all’attività del debitore. In questo caso, i criteri di imputazione della causa non imputabile mutano in relazione alla natura dell’attività svolta dalla parte debitrice; il medesimo impedimento, infatti, sarà suscettibile di essere imputato al debitore a seconda del concreto ambito di estensione della sfera di controllo allo stesso riconducibile, sulla base del regolamento di interessi e dalla distribuzione dei rischi contenuta in contratto. A titolo esemplificativo, nell’ambito delle attività di impresa dovranno essere imputati al debitore tutti gli eventi che realizzano rischi tipicamente collegati con la propria attività di cui lo stesso è obbligato a tener conto nella fase di assunzione dell’obbligazione, pur avendo utilizzato la diligenza dovuta per evitarne il verificarsi; inoltre, dovranno ritenersi rientranti sotto la sfera di controllo del
G. Visintini, Inadempimento e mora del debitore, art. 1218-1221, in Commentario del codice civile, diretto da P. Schlesinger, Milano, 1987, p. 353. 20
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debitore anche quegli eventi che è tenuto a controllare per legge o in virtù dell’assunzione dell’obbligo concreto, cioè del rischio contrattualmente assunto. Ne deriva che la non imputabilità verrà apprezzata in maniera più severa se si tratta di una prestazione d’impresa divenuta impossibile, mentre risulterà meno rigorosa per il caso di un debitore non imprenditore21. Indipendentemente dall’impostazione dottrinale a cui si ritenga di dover aderire, la giurisprudenza risulta concorde nell’escludere la rilevanza di impedimenti alla prestazione che si iscrivono nella mera difficultas praestandi; dovendo, l’ordinamento, assicurare un alto livello di “tenuta” del vincolo obbligatorio22.
4. Interesse creditorio e impossibilità sopravvenuta L’interesse del creditore viene in considerazione quale elemento funzionale del rapporto obbligatorio. Esso può essere definito come un bisogno obiettivamente valutabile di beni e servizi, che la prestazione è volta a soddisfare. A norma dell’art. 1174 c.c. l’interesse creditorio può avere anche natura non patrimoniale, potendo ben avere, a titolo esemplificativo, natura morale o artistica. L’interesse che la prestazione deve soddisfare è quello che entra nel rapporto obbligatorio così come risulta dal titolo, in assenza di specificazioni si dovrà fare riferimento all’interesse tipico connesso alla prestazione. Le utilità ulteriori della prestazione, che non entrano nel contenuto obbligatorio, non rientrano nell’interesse creditorio che la
21 L. Cabella Pisu, La risoluzione per impossibilità sopravvenuta, in Trattato della responsabilità contrattuale, I, diretto da G. Visintini, Padova, 2009, p. 219 e p. 487. 22 A. Lombardi, La risoluzione per impossibilità sopravvenuta, cit., pp. 36 ss.; L. Cabella Pisu, La risoluzione per impossibilità sopravvenuta, cit., pp. 201-202; A. Di Majo, Le tutele contrattuali, Torino, 2009, pp. 210 ss.
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prestazione è diretta a soddisfare; al più, possono rilevare in virtù del principio di buona fede ed il debitore dovrà tenerne conto nei limiti dell’apprezzabile sacrificio. Oltre che come elemento funzionale, l’interesse del creditore assume rilievo altresì come elemento costitutivo del rapporto obbligatorio. Pertanto, in assenza di tale interesse, o se la prestazione non è suscettibile di soddisfarlo, l’obbligazione non sorge23. D’altro canto, il venir meno dell’interesse del creditore a ricevere la prestazione si configura come un evento che compromette l’elemento funzionale del rapporto obbligatorio, provocandone l’estinzione24. L’interesse può cessare giacché è stato soddisfatto al di fuori dell’adempimento o degli altri modi estintivi tipici, mediante rimpiazzo della prestazione o per fatti accidentali estranei alla sfera giuridica del debitore oppure in quanto la prestazione non è più utilizzabile dal creditore. Parte della dottrina ha inteso ricondurre il venir meno dell’interesse del creditore alla categoria dell’impossibilità sopravvenuta, in quanto il debitore non potrebbe più effettuare la prestazione. Tuttavia, si è osservato come la cessazione dell’interesse creditorio attenga esclusivamente alla sfera del creditore e non implichi necessariamente una ineseguibilità della prestazione da parte del debitore; quindi, risulta più pertinente prendere in esame l’ipotesi della inutilizzabilità della prestazione. Pertanto, occorre individuare la linea di confine tra impossibilità sopravvenuta della prestazione e le ipotesi di mora accipiendi. E. Betti, Teoria generale delle obbligazioni, Milano, 1953, I, p. 9; L. BarasLa teoria generale delle obbligazioni, I, Milano, 1964, p. 56; A. Di Majo, Delle Obbligazioni in generale, Bologna, 1988, p. 267; B. Carpino, Pagamento con surrogazione, Art. 1201–1205, in Commentario del codice civile, a cura di A. Scialoja e G. Branca, Bologna, 1988, p. 13; C.M. Bianca, Diritto civile, IV, L’obbligazione, cit., p. 41-44. 24 S. Orlando Cascio, Estinzione dell’obbligazione per conseguimento dello scopo, Milano, 1938, p. 197; G. Amadio – F. Macario, Diritto civile, I, Bologna, 2014, pp. 326-327. 23
si,
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L’art. 1206 c.c. dispone che il creditore è in mora quando, senza un legittimo motivo, non riceve il pagamento offertogli o non compie quanto necessario affinché il debitore possa adempiere alla propria obbligazione. Atteso che la cooperazione all’adempimento non costituisce un obbligo bensì un onere cui è tenuto il creditore, occorre comprendere se la mora accipiendi possa trovare applicazione esclusivamente nel caso in cui la mancata collaborazione sia imputabile a colpa del creditore, ovvero se questi soggiacerà agli effetti di cui agli artt. 1206 c.c. e ss. anche nel caso in cui la mancata liberazione del debitore sia dipesa da un evento non imputabile allo stesso creditore25. La predetta disposizione parrebbe disciplinare esclusivamente le ipotesi di mora culpata, tuttavia, non viene univocamente interpretata dalla dottrina per quanto concerne la mora inculpata, ossia tutti quegli eventi non imputabili al creditore. L’orientamento tradizionale26 ha accolto l’interpretazione della mora accipiendi inculpata, evocando il principio generale dell’ordinamento in virtù del quale l’impossibilità di servirsi del bene deve essere sopportata dal soggetto titolare del diritto; il creditore, in quanto titolare del diritto di far proprie le utilità conferite dal debitore, laddove non sia in grado di compiere quegli atti che gli consentirebbero di recepire l’adempimento da parte del debitore, seppur a causa di un evento esterno e a lui non imputabile, deve sopportarne le conseguenze negative. Si è ritenuto che il debitore non debba rimanere gravato dei costi sopportati nel compimento dell’attività solutoria a seguito di un evento che si verifica nell’altrui sfera di rischio; non potendosi affermare che l’impossibilità sopravvenuta non imputabile sia riconducibile al “motivo legittimo”, di cui all’art. 1206 c.c., idoneo a sollevare il creditore dall’onere di cooperare, applicabile esclusivamente quando risulti “giustificata” da altra norma dell’ordina-
G. Stella, Impossibilità della prestazione per fatto imputabile al creditore, Milano, 1995, pp. 45 ss. 26 Vedi nota 28. 25
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mento che faccia sorgere in capo al creditore un legittimo interesse ad astenersi dal cooperare, ossia in caso di inesattezza della prestazione resa rispetto a quella dovuta, ovvero dell’offerta di cose corrispondenti a quelle dovute ma di cui il debitore non poteva disporre, o ancora dell’adempimento del terzo se la prestazione è infungibile27. Ciò nonostante, altro più recente orientamento dottrinale ha ritenuto di ravvisare nell’art. 1206 c.c. una lettura in chiave di mora culpata, in analogia alla mora debendi. Il creditore risponderà della mancata cooperazione quando la stessa sia a lui imputabile; al contrario, qualora l’evento impeditivo sia esterno alla sua “sfera di rischio” le conseguenze negative della mancata liberazione ricadranno sul debitore. Dunque, quale “motivo legittimo” di cui all’art. 1206 c.c. deve intendersi ricompreso l’impedimento sopravvenuto a recepire l’adempimento per causa non imputabile al creditore, il quale, provando l’assenza di colpa, è esonerato dall’obbligo di risarcimento e non deve essere costituito in mora28. Conseguentemente, la sopravvenuta impossibilità a ricevere la prestazione comporterebbe l’estinzione dell’obbligazione, escludendo l’applicazione della disciplina della mora del creditore29. Ha così assunto rilievo giuridico la figura della “inutilizzabilità della prestazione” che incide pur sempre nella sfera del creditore ma che, come è evidente, costituisce un impedimento che attiene non alla prestazione in sé ma alla sua utilizzazione; vale a dire, ad un momento diverso e ulteriore rispetto a quello della sua esecuzione, che, tuttavia, resta possibile30.
G. Cattaneo, Della mora del creditore, Art. 1206-1217, in Commentario del Codice Civile, a cura di A. Scialoja e G. Branca, Bologna, 1974, pp. 64 ss.; G. Cattaneo, La cooperazione del creditore nell’adempimento, Milano, 1964, p. 147. 28 A. Falzea, L’offerta reale e la liberazione coattiva del debitore, Milano, 1947, pp. 50 ss., p. 77 e pp 162 ss. 29 C.M. Bianca, Diritto civile, IV, L’obbligazione, cit., p. 547. 30 L. Cabella Pisu, La risoluzione per impossibilità sopravvenuta, cit., pp. 510510; G. Cian, A. Trabucchi, Commentario breve al codice civile, cit., p. 1549. 27
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5. L’interesse del creditore e la causa concreta del contratto Quando l’obbligazione si inserisce all’interno di un contratto l’interesse creditorio concorre ad integrarne la causa concreta, ossia la sua funzione pratica, individuando il complessivo interesse concretamente perseguito dalle parti per mezzo dell’operazione negoziale31. Essa si pone quale metodo di analisi degli atti di autonomia privata al fine di valorizzare le operazioni economiche che si intendono realizzare con il contratto. L’indagine sulla funzione economico individuale del contratto consente di determinare gli elementi che sono entrati, sia pure tacitamente, a far parte dell’economia dell’affare32. Pertanto, la causa assume un ruolo decisivo, fra l’altro, in relazione alla sopravvivenza del rapporto negoziale, oltre che per i casi di parziale nullità, in ragione delle sopravvenienze che colpiscono le singole obbligazioni. La giurisprudenza ne ha fatto espressamente applicazione soprattutto nella necessità di individuare la disciplina migliore al fine di tutelare l’interesse che, proprio rispetto alla causa concreta, risulti pregiudicato in ipotesi in cui emergano problemi relativi alla funzionalità, oltreché alla meritevolezza, del contratto.33 Tuttavia, se è vero che l’interesse creditorio concorre a individuare la causa in concreto del contratto, allo stesso tempo quest’ultima non consente di individuare come quell’interesse possa rilevare.
C.M. Bianca, Diritto civile, IV, L’obbligazione, cit., p. 45. G.B. Ferri, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Milano, 1966, p. 249; M. Bessone, Adempimento e rischio contrattuale, Milano, 1969, p. 207; M. Nuzzo, Utilità sociale e autonomia privata, Milano, 1974, p. 91; A. Di Majo, Obbligazioni e contratti, Roma, 1978, p. 209; C.M. Bianca, Diritto civile, III, Il contratto, Milano, 1998, pp. 425 ss. 33 R. Rolli, Causa in astratto e causa in concreto, Padova, 2008, pp. 109 ss.; E. La Rosa, Percorsi della causa nel sistema, Torino, 2014, p. 29; G. Vettori, Il contratto europeo fra regole e principi, Giappichelli, Torino, 2015, pp. 98-105; P. Peruzzi, La inutilizzabilità della prestazione, Firenze, 2017, pp. 102-103. 31
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Per colmare questo passaggio si è fatto ricorso alla categoria della presupposizione, strettamente connessa alla tematica della causa concreta del contratto, elaborata al fine di dare rilevanza giuridica a diverse ipotesi di sopravvenienze atipiche34. Più precisamente, essa è sorta quale strumento di attribuzione di rilevanza giuridica ad interessi posti a base (presupposti) del contratto, non regolati né per via pattizia né in via normativa, la cui frustrazione si è ritenuto influire sul ragionevole mantenimento in vita del contratto35. La presupposizione, secondo la ricostruzione operata dalla Corte di Cassazione36, consiste in una circostanza che, seppur non espressamente dedotta come condizione, costituisce uno specifico presupposto del contratto, assumendo per entrambe le parti, o anche per una sola di esse, ma con riconoscimento da parte dell’altra, valore determinante ai fini del mantenimento del vincolo contrattuale. La dottrina ha individuato la distinzione tra presupposti causali e presupposti oggettivi. In virtù di questa suddivisione, quest’ultima tipologia di presupposti assume rilievo esclusivamente se esterna al contratto e se è stata determinante per il sorgere del contratto; mentre la prima tipologia assume rilievo in quanto, irrompendo nella struttura causale del contratto, incida sulla validità e o risolubilità del vincolo37. Invero, anche i presupposti oggettivi, affinché assumano rilievo giuridico, devono incidere sul rapporto di funzionalità tra le prestazioni dedotte in contratto; in difetto rimarranno fuori dal contratto e dalla sfera del rilevante giuridico. In sostanza, la figura della presupposizione rileva solo quando abbia effetti condizionanti sulla causa del contratto, in caso con R. Sacco – G. De Nova, Il Contratto, I, in Trattato di diritto civile, diretto da R. Sacco, Torino, 2004, pp. 722 ss. 35 A. Belfiore, La presupposizione, in Trattato di diritto privato, diretto da M. Bessone, Torino, 2003, p. 35. 36 E. Carbone, in Rassegna della giurisprudenza di legittimità, Gli orientamenti delle Sezioni Civili, I, Roma, 2013, p. 142; Cass., Sezione II, 14 giugno 2013, n. 15025. 37 C.M. Bianca, Diritto civile, IV, L’obbligazione, cit., p. 41. 34
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trario si tratta di meri interessi confinati sul piano delle economie soggettive. Dunque, secondo questa ricostruzione, la figura dei presupposti contrattuali sarebbe assorbita dal concetto di causa in concreto, restando, tuttavia, irrisolta la problematica relativa alla individuazione degli interessi delle parti giuridicamente rilevanti; dovendosi, pur sempre, far riferimento al programma negoziale per valutare l’incidenza delle sopravvenienze nel rapporto negoziale, che si tratti di impossibilità ovvero di inutilità/inutilizzabilità della prestazione, così come di eccessiva onerosità. Autorevole dottrina38 ha ravvisato il fondamento giuridico della presupposizione nel principio di buona fede, al fine di ricondurre tale figura atipica nel novero dei rimedi giuridici. Infatti, si ritiene che proprio nella buona fede si possa rinvenire il fondamento di obbligazioni secondarie incidenti, fra l’altro, sul mantenimento in vita, o meno, del contratto. Pertanto, se, come si è visto, attraverso l’analisi del programma negoziale si valuta la rilevanza della sopravvenienza nel contratto, sarà attraverso l’applicazione dei criteri oggettivi della buona fede che si potrà porvi rimedio. In quest’ottica la giurisprudenza ha fatto ricorso al principio della buona fede come regola utile per configurare il rimedio sulla inutilizzabilità della prestazione, alla quale applica, quanto agli effetti sul rapporto, la disciplina della risoluzione per impossibilità della prestazione ex art. 1463 c.c.39. In questo contesto, l’inutilizzabilità parrebbe essersi affermata come categoria autonoma, operante sul medesimo piano della presupposizione e della causa concreta, la quale consente di compiere una valutazione sull’utilità del contratto rispetto all’interesse cre-
Vedi nota 39. E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, in Trattato di diritto civile italiano, diretto da F. Vassalli, XV, t. II, Torino, 1952, pp. 453 ss.; V. Roppo, Il contratto, in Trattato di diritto privato, cit., p. 1041; R. Sacco – G. De Nova, Il Contratto, cit., p. 546. 38
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ditorio, del quale si perviene ad identificazione procedendo all’esame della funzione concreta del contratto. Sul piano operativo, l’inutilizzabilità ha il compito di vagliare la funzione oggettiva del contratto di soddisfacimento degli interessi concreti delle parti, tenendo fuori l’aspetto rappresentativo/volitivo; mentre la presupposizione fa riferimento alle circostanze “prospettate” dalle parti, rimandando ad un accertamento della volontà reale (erronea, in quanto non esistente) e presunta (per la valutazione della essenzialità del presupposto) delle parti40. Come detto, per quanto concerne gli effetti sul rapporto, alla fattispecie dell’inutilizzabilità della prestazione viene data applicazione delle disposizioni del codice civile in materia di impossibilità sopravvenuta, nondimeno, occorre tenere presente che sul piano concettuale si tratta, pur sempre, di due ipotesi distinte, sebbene interconnesse. Infatti, mentre l’impossibilità si riferisce al contenuto obbligatorio del contratto divenuto impossibile, rendendo non attuabile la prestazione, l’inutilizzabilità riguarda una prestazione ancora possibile ma incapace di realizzare l’interesse creditorio; in entrambi i casi risultando ingiustificata la conservazione del vincolo contrattuale41.
6. I rimedi A fronte di una ricostruzione dello statuto della inutilizzabilità della prestazione, segnatamente all’effetto rispetto alla sorte del contratto, nell’alveo dell’art. 1463 c.c., occorre individuare quale dovrà essere il destino delle prestazioni anticipate o di quelle funzionali al contratto, quali la caparra o le spese e le prestazioni svolte
40 V. Roppo, Il contratto, in Trattato di diritto privato, cit., p. 36; A. Belfiore, La presupposizione, in Trattato di diritto privato, cit., pp. 3 ss. e 34 ss.; F. Di Giovanni, Le promesse unilaterali, Padova, 2010, p. 13 ss.; G. Amadio – F. Macario, Diritto civile, I, cit., pp. 585 ss.; P. Peruzzi, La inutilizzabilità della prestazione, cit., pp. 105 ss. 41 P. Peruzzi, La inutilizzabilità della prestazione, cit., pp. 111-112.
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dai contraenti in vista del contratto, le prestazioni non ripetibili, essenzialmente di fare, e le prestazioni eseguite da terzi per conto del debitore; i quali potrebbero dover sopportare il costo delle stesse, posto che l’impedimento, come non è imputabile al creditore, del pari, non è imputabile al debitore contraente con il terzo42. Mentre, segnatamente alla problematica dei rimedi di tipo manutentivo, questi sarebbero esclusi in radice dal tenore letterale dell’art. 1463 c.c. che prevede la risoluzione automatica del contratto, essendo venuto meno il sinallagma. Per quanto riguarda le prestazioni anticipate e, in genere, le attività preordinate strumentali alla esecuzione ovvero corrispondenti ad un inizio dell’esecuzione stessa, il regime di efficacia retroattiva dell’art. 1463 c.c. impone in via generale la regola della restitio in integrum (a differenza di quanto previsto per quanto concerne i contratti ad esecuzione continuata o periodica, nei quali l’impossibilità o l’inutilizzabilità colpisce solo le prestazioni future, l’art. 1458 c.c. dispone che sono fatte salve le prestazioni già eseguite, che in qualche forma compenserebbero anche l’attività preparatoria svolta oltre che le prestazioni già esaurite)43. L’attività strumentale all’esecuzione della prestazione dedotta in contratto ha valenza oggettiva sul piano obbligatorio ed ha autonoma rilevanza sul piano della esattezza dell’adempimento. Infatti, l’attività preparatoria all’adempimento si inserisce nel programma negoziale ed integra l’esecuzione della prestazione secondo i parametri di diligenza44.
L. Cabella Pisu, L’impossibilità della prestazione e la “sfera” del creditore nei contratti a prestazioni corrispettive, in Contratto e impresa, XIV, Padova, 1998, pp. 560 ss. 43 L. Cabella Pisu, Dell’impossibilità sopravvenuta, Art. 1463-1466, cit., p. 133; R. Sacco – G. De Nova, Il Contratto, cit., p. 691; M. Tamponi, La risoluzione per impossibilità sopravvenuta, in E. Gabrielli (a cura di), I Contratti in generale, in Trattato dei contratti, diretto da P. Rescigno e E. Gabrielli, Torino, 1999-2008, I, p. 1794; E. Bargelli, Il sinallagma rovesciato, Milano, 2010, p. 468. 44 C. M. Bianca, Diritto civile, IV, L’obbligazione, cit., pp. 75 ss.; C. M. Bianca, Diritto civile, V, La responsabilità, Milano, 2012, p. 332. 42
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Rientrano fra le suddette attività quelle compiute dalle parti in vista dell’esecuzione, in particolare, le prestazioni accessorie di fare, per natura non ripetibili o ancora l’inizio dell’esecuzione della prestazione principale da parte del debitore. Tutte queste attività risultano prive di utilità per l’altro contraente ove si manifesti una sopravvenienza non imputabile alle parti. In assenza di regole convenzionali di ripartizione del rischio contrattuale devono trovare attuazione le regole legali, ricostruite sulla base degli obblighi restitutori dall’art. 1463 c.c. Pertanto, le spese sostenute in vista della corretta esecuzione del contratto rimarranno a carico del debitore, salvo che non abbiano costituito una fonte di arricchimento o di utilità. Benché non sostenuto da alcun fondamento normativo, in dottrina si è affermata l’introduzione di una prestazione indennitaria, qualora si verifichino sopravvenienze non imputabili che rendono non più utilmente proseguibile il rapporto contrattuale, a compensazione della frustrazione dell’interesse della parte del contratto la cui prestazione è rimasta possibile. Il principio ispiratore dell’ordinamento, della causalità delle attribuzioni patrimoniali, concreta una ipotesi che un costante orientamento qualifica come mancanza sopravvenuta della causa solvendi. Venuto meno il contratto dal quale trae fonte l’obbligazione, in virtù della retroattività degli effetti, la prestazione rimane priva ex tunc della propria causa giustificativa, divenendo un pagamento indebito che obbliga il contraente accipiens alla restituzione. Nell’ordinamento italiano, così come in quello francese, la mancanza sopravvenuta della causa solvendi va posta sullo stesso piano della inesistenza originaria, non emergendo alcun elemento che possa far propendere per una disciplina differenziata45. Invero, nelle ipotesi in cui venga meno la causa obligandi in corso di rapporto, fra cui rientra l’impossibilità e, dunque, l’inutilizzabilità sopravvenuta, viene a mancare la giustificazione dello spostamento
E. Moscati, Caducazione degli effetti del contratto e pretese di restituzione, a cura di L. Vacca, Torino, 2006, pp. 143 ss. 45
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patrimoniale, conseguentemente niente sarà dovuto e quanto pagato, divenuto non dovuto, dovrà essere restituito, come precisa l’art. 1463 c.c., “secondo le norme relative alla ripetizione dell’indebito”46. Sotto il profilo sistematico si è osservato come anche l’art. 1422 c.c., in tema di nullità, rinvia espressamente all’applicazione della disciplina sull’indebito, giungendo alla conclusione che quest’ultima abbia carattere generale e trovi attuazione in tutti i casi di inesistenza originaria o sopravvenuta del titolo giustificativo dell’attribuzione patrimoniale47. La dottrina più recente ha riletto la retroattività come una tecnica giuridica volta a creare una realtà il più possibile prossima a quella che si sarebbe verificata se i fatti o gli effetti che si intende rimuovere non si fossero mai generati; fatta salva la irreversibilità delle situazioni derivanti dall’attuazione di quegli effetti48. Nello specifico, per quanto riguarda il versamento a titolo di acconto appare indiscutibile la sua ripetibilità a seguito del venir meno del titolo49. Maggiore approfondimento merita il caso del versamento di una somma a titolo di caparra confirmatoria. Il meccanismo della caparra, come configurato all’art. 1385 c.c., prevede che la somma (o le cose fungibili) versata per il suddetto titolo, in caso di adempimento, venga restituita o imputata alla prestazione dovuta, mentre, in caso di inadempimento, potrà essere trattenuta dal contraente adempiente che la ha ricevuta, se adempiente, mentre lo stesso sarà obbligato al versamento del doppio all’altra parte, qualora egli rimarrà inadempiente. Ai fini della presente trattazione risulta priva di interesse l’eventualità in cui si sia già configurato un inadempimento, nel qual caso A. Lombardi, La risoluzione per impossibilità sopravvenuta, cit., pp. 194 ss.; E. Bargelli, Il sinallagma rovesciato, cit., pp. 46 e 79 ss.; C. Marchesini, L’impossibilità sopravvenuta, nei recenti orientamenti giurisprudenziali, Milano, 2008, pp. 174 ss.; V. Roppo, Il contratto, in Trattato di diritto privato, cit., p. 949. 47 P. Peruzzi, La inutilizzabilità della prestazione, cit., p. 117. 48 E. Bargelli, Il sinallagma rovesciato, cit., pp. 338 ss. 49 C. Cossu, Il recesso, in W. Bigiavi (fondata da), Giurisprudenza sistematica di diritto civile e commerciale, Torino, 1991, pp. 446 ss. 46
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la somma versata a titolo di caparra non dovrà essere retrocessa, costituendo, quanto meno, un risarcimento forfettario del danno. Al contrario, nel caso di risoluzione per fatto non imputabile, ossia, fintantoché non si sia manifestato alcun inadempimento, in ragione del collegamento necessario con il negozio principale, al venir meno di quest’ultimo, la somma ricevuta dovrà essere restituita50. Infatti, si è ritenuto unanimemente che l’autonomia negoziale riconosciuta alla caparra non sia tale da poter vincere il nesso con il contratto principale; per cui, il venir meno dell’uno necessariamente travolge simultaneamente anche l’altro51. Nondimeno, rimane possibile l’attribuzione alla stessa di una ulteriore funzione di garanzia come autonomo patto di assunzione del rischio, esplicitamente convenuto dai contraenti, avente ad oggetto la ripartizione del rischio fra le parti; ponendola al riparo dalle vicende che travolgono il rapporto principale. Per concludere, si evidenzia che proprio l’art. 36, c. 1, lett. d, Cod. Tur. dispone espressamente che l’importo versato per la prenotazione del viaggio deve essere qualificato “a titolo di caparra”; precisando che “gli effetti di cui all’articolo 1385 del codice civile non si producono qualora il recesso dipenda da fatto sopraggiunto non imputabile…”52.
7. Conclusioni La giurisprudenza ha orientato i propri sforzi interpretativi verso l’individuazione di una soluzione maggiormente obiettiva al fine
G. De Nova, Le clausole penali e la caparra confirmatoria, in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, Obbligazioni e contratti, II, X, Torino, 1997, pp. 422 ss.; R. Sacco – G. De Nova, Il Contratto, II, cit., p. 172. 51 M. Bellante, La caparra, Milano, 2008, pp. 19 ss. 52 C. Alvisi, Recesso e disdette turistiche, in Diritto del Turismo, n.3/2005, p. 214; N. Zorzi Galgano, Il recesso di protezione del consumatore nella nuova disciplina del turismo e della multiproprietà, in Contratto e impresa, Padova, 2011, 1209 ss.; P. Peruzzi, La inutilizzabilità della prestazione, cit., pp. 119-120. 50
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di risolvere la problematica relativa alla frustrazione degli scopi negoziali. L’introduzione della categoria rimediale della inutilizzabilità della prestazione e la sua riconduzione, per quanto riguarda gli effetti, alla disciplina dell’impossibilità sopravvenuta totale appare come la soluzione maggiormente idonea a soddisfare tale obiettivo, accordando un rimedio certo al problema. Pur tuttavia, è rimasta aperta, per un verso, la questione relativa all’individuazione dell’interesse creditorio o della utilità giuridicamente rilevante assicurata dal contratto; per altro verso, l’applicazione del rimedio restitutorio totale ha lasciato aperti interrogativi sulla necessità di compensare le attività preparatorie, quelle di inizio dell’adempimento, nonché, sull’impossibilità di fare ricorso a rimedi manutentivi del contratto. In relazione alla prima questione una risposta convincente perviene proprio dalle argomentazioni della richiamata sentenza della Corte di Cassazione53. La Suprema Corte ha ritenuto di dover riportare la propria analisi sul piano del sinallagma contrattuale e quindi della causa negoziale intesa nel suo aspetto funzionale. Nel richiamare il proprio orientamento, la Corte ha ribadito il principio secondo cui il concetto di causa, quale criterio di ermeneutica contrattuale, debba più correttamente essere ricostruito in termini di “causa concreta”, evidenziandone la stretta correlazione con l’aspetto funzionale del contenuto minimo di un determinato negozio. Quindi, si è ritenuto di dover affermare che, non soltanto, la totale impossibilità sopravvenuta della esecuzione della prestazione integra una ipotesi di automatica estinzione dell’obbligazione ex art. 1256 c.c., comma 1, con conseguente risoluzione del contratto che ne costituisce la fonte, ex art. 1463 c.c., in ragione del venir meno
Cass., Sezione III, 20 dicembre 2007, n. 26958, in S. Nardi, Contratto di viaggio “tutto compreso” e irrealizzabilità della sua funzione concreta, in La nuova giurisprudenza civile commentata, n. 5, parte I, Padova, 2008, pp. 542 ss. 53
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della relazione di interdipendenza funzionale tra le due prestazioni corrispettive, ma che, al medesimo esito conduce l’impossibilità di utilizzazione della prestazione da parte del creditore; principio già in precedenza affermato54. La finalità, nel caso di specie turistica, non rappresenta un motivo del contratto, che, non assumendo rilievo esterno, rimane nella sfera volitiva interna del creditore della prestazione, costituendo il semplice impulso psichico interiore che lo spinge alla stipulazione del contratto; al contrario, essa, anche implicitamente, costituisce un interesse obiettivo che il medesimo contratto è funzionalmente diretto a soddisfare, rappresentandone la sua causa in concreto55. Dunque, qualora si verifichi una sopravvenienza che incide sullo sviluppo del rapporto negoziale, riflettendosi negativamente sull’interesse del creditore, l’elemento causale del contratto risulta travolto laddove se ne accerti l’impossibilità della realizzazione. La Corte, nel richiamare la propria giurisprudenza, ormai consolidata, ha ribadito come la distinzione concettuale tra sopravvenuta impossibilità di esecuzione e sopravvenuta impossibilità di utilizzazione della prestazione non osti alla applicazione della medesima disciplina di cui all’art. 1463 c.c. per quanto riguarda gli effetti; posto che il venir meno dell’interesse creditorio determina l’estinzione del rapporto obbligatorio in ragione del sopravvenuto difetto del suo elemento funzionale in virtù del dettato di cui all’art. 1174 c.c. e, conseguenzialmente, ove il rapporto obbligatorio trovi fonte in un contratto, il venir meno del predetto interesse costituisce una sopravvenuta irrealizzabilità della causa concreta del contratto stesso, rappresentando una autonoma causa di estinzione. Cass., Sezione III, 24 luglio 2007, n. 16315, in A. Fede, Sopravvenuta inutilizzabilità della prestazione, in Studium iuris, 2008, 7/8, pp. 877 ss. e in I. Bernardino, Causa in concreto e sopravvenienze nel contratto di viaggio vacanza tutto compreso, in Giurisprudenza italiana, 2008, 5, pp. 1139 ss. 55 Cass., Sezione III, 25 maggio 2007, n. 12235; Cass., Sezione III, 24 luglio 2007, n. 16315, in C. Rossello, Nel contratto di viaggio “tutto compreso” la mancata realizzazione della finalità turistica comporta l’estinzione del contratto, in Il diritto Marittimo, 2009, 3, pp. 726 ss. 54
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Mentre, restano del tutto irrilevanti le finalità ulteriori per le quali il contraente-creditore si induce a stipulare il contratto, in cui si sostanziano i motivi impulsivi sottesi. Sulla scorta di tali argomentazioni e in accordo con il prevalente orientamento dottrinale, la Suprema Corte ha riconosciuto che l’impossibilità di utilizzazione della prestazione, pur se non espressamente disciplinata, rappresenta, analogamente all’impossibilità di esecuzione della prestazione, una autonoma causa di estinzione dell’obbligazione, con esonero delle parti dalle rispettive obbligazioni o controprestazioni contrattuali. Da ultimo occorre rimarcare come la Corte abbia precisato che la sopravvenuta impossibilità di utilizzazione della prestazione, quale vicenda che attiene esclusivamente alla sfera giuridico-economico del creditore, non debba essere a lui imputabile ai fini della produzione degli effetti di cui all’art. 1463 c.c.; per le considerazioni relative alla non imputabilità si fa richiamo al punto 3.1. Infine, alcune considerazioni devono essere spese in relazione alla compensazione delle attività preparatorie o di inizio di esecuzione, affrontate da una delle parti del contratto, ed alla possibilità di ricorso a rimedi manutentivi del contratto. In dottrina è prevalsa la tesi della necessità di accordare un indennizzo a fronte di eventi sopravvenuti; tuttavia, il fondamento in termini assoluti di questa misura rimediale appare discutibile. Invero, l’ordinamento conosce norme settoriali che contemplano detti meccanismi, applicabili analogicamente esclusivamente per fattispecie che presentino analogie tipologiche56. Nell’obiettivo di ancorare siffatta misura rimediale ad un dato normativo di carattere generale si è teorizzato il ricorso alla regola contenuta nell’art. 1464 c.c.57. L’applicazione generalizzata della previsione contenuta nella regolamentazione delle sopravvenienze per i casi di impossibilità parziale, il cui ambito applicativo è esteso ai contratti a lungo termine,
R. Sacco – G. De Nova, Il Contratto, I, cit., pp. 438 ss. P. Peruzzi, La inutilizzabilità della prestazione, cit., pp. 164-165.
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che consente la possibilità di riduzione della controprestazione e dispone un meccanismo non automatico di risoluzione, nell’ottica di un interesse particolare del creditore al mantenimento in vita del contratto, risulterebbe maggiormente conciliabile con la prospettiva conservativa; introducendo il ricorso alle regole di buona fede e correttezza. Si è osservato come la risoluzione del contratto, indipendentemente dal fatto che si debba procedere o meno ad una restituzione, instaurerebbe tra le parti un rapporto giuridico volto a disciplinare le conseguenze del pregresso rapporto contrattuale, caratterizzato, come ogni altro rapporto giuridico di matrice obbligatoria, dal rispetto degli obblighi di buona fede; ritenendo la sussistenza di un legame tra rapporto originario contrattuale e rapporto restitutorio derivato di matrice legale58. Pertanto, le attività preparatorie e di inizio dell’esecuzione già effettuate finirebbero per influire nella vicenda restitutoria, giungendo ad affermare la rilevanza delle regole contrattuali finanche in materia restitutoria, la quale verrebbe a perdere ogni autonomia rispetto alla vicenda che ha dato luogo all’indebito. In questa prospettiva, le regole di buona fede ed equità che sovraintendono ai rapporti negoziali porrebbero le parti dinanzi all’alternativa tra addivenire ad una rinegoziazione delle condizioni contrattuali o risolvere il contratto a condizioni sostenibili ed esigibili per entrambi i contraenti; in ogni caso, senza che ciò comporti una apertura a pretese risarcitorie. Partendo dal presupposto che le suddette attività sono state effettuate da un contraente nell’interesse dell’altro, l’assetto descritto giustificherebbe la compartecipazione nelle perdite causate da fatti esterni non imputabili alle parti, laddove la sopportazione del peso economico delle stesse, esclusivamente in capo ad una sola di esse, risulterebbe ingiusto.
A. Di Majo, Le tutele contrattuali, cit., pp. 241 ss.; E. Bargelli, Il sinallagma rovesciato, cit., pp. 338 ss. 58
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Pertanto, il potere di risoluzione del contratto, conferito dall’art. 1464 c.c., deve essere esercitato nei limiti e con l’osservanza degli obblighi previsti dall’ordinamento, tra i quali quello della buona fede. Dunque, anche ove non regolamentato in sede di risoluzione, la disciplina sull’integrazione del contratto implica che esso produca anche gli effetti che la legge, gli usi o l’equità prevedono in relazione a ciascuna singola fattispecie, art. 1374 c.c.; procedendo in via suppletiva, allorquando le parti nulla abbiano disposto e non risulti applicabile nessun altro criterio di ripartizione del peso della risoluzione, salvo ipotesi particolari. La misura della compartecipazione dovrebbe però tener conto di ogni possibile elemento idoneo a graduare l’allocazione dei costi a carico dei contraenti in ragione di negligenze, tanto nella fase di regolazione quanto in quella preparatoria o in quella esecutiva59. Fra i parametri di diligenza si è altresì ipotizzato di poter attribuire rilievo anche al criterio del contraente maggiormente in grado di far fronte alle sopravvenienze; ossia la parte che avrebbe avuto maggiore capacità di predisporre o comunque proporre una regolazione delle stesse, alla quale è possibile richiedere un maggior grado di diligenza, anche precontrattuale60. Proprio la mancata regolazione potrebbe dunque costituire una autonoma forma di negligenza. La ricostruzione che precede, per quanto notevolmente avvincente non appare del tutto persuasiva. Infatti, rimane priva di convincente motivazione la ragione che giustifica il ricorso all’applicazione della disciplina sulla impossibilità parziale della prestazione a fronte di una fattispecie concreta di inutilizzabilità totale della stessa; per la quale risulterebbe ermeneuticamente più corretta l’applicazione analogica della disciplina di cui all’art. 1463 c.c.
P. Peruzzi, La inutilizzabilità della prestazione, cit., pp. 164-166. U. Breccia, Le obbligazioni, in G. Iudica – P. Zatti (a cura di), Trattato di Diritto Privato, Milano, 1991, pp. 461 ss.; V. Roppo, Il contratto, in Trattato di diritto privato, cit., pp. 175 ss. 59 60
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MASSIMILIANO FADDA
Allo stesso tempo, non parrebbe adeguatamente giustificato il discostamento dal principio, pacifico in dottrina e giurisprudenza, della autonomia della obbligazione restitutoria rispetto alla fonte del rapporto fondamentale. Fin dal Code Civil, artt. 1370-1381, al quale si è ispirato il codice civile italiano del 1865, artt. 1140-1150, il pagamento dell’indebito costituiva una fonte diversa dal contratto, confluendo nella categoria dei quasi contratti; altresì, dalla sistematica del codice civile vigente si trae ulteriore conferma della autonomia tra azione di ripetizione e rimedi contrattuali. Difatti, nell’ipotesi di caducazione di un contratto a prestazioni corrispettive, ciascuna delle prestazioni è considerata autonomamente, rispetto all’altra, ai fini della ripetizione, tanto che risalente la giurisprudenza ha escluso la possibilità di ricorso all’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. per le obbligazioni restitutorie61. Vi è più, dalla lettura dell’art. 1422 c.c., dalla quale si assume che non vi sia nessuna incompatibilità tra l’azione di nullità, imprescrittibile, e l’azione di ripetizione, con prescrizione decennale, si trova conferma ulteriore della autonomia tra ripetizione dell’indebito e contratti. Pertanto, si è affermato che l’azione di restituzione non ha mai natura contrattuale; infatti, la domanda di restituzione non risulta implicita in quella di accertamento della risoluzione ex art. 1463 c.c. (né nelle domande di annullamento, rescissione o inefficacia) ma attraverso una domanda autonoma con la quale si fa valere il difetto sopravvenuto della causa solvendi 62.
Cass.,Sezione III, 11 novembre 1992, n. 12121. E. Moscati, Caducazione degli effetti del contratto e pretese di restituzione, cit., pp. 150 ss. 61 62
Corte di Cassazione – Sezione Terza Civile 8 febbraio 2013, n. 3080 (sent.) Presidente Amatucci, Estensore De Stefano Contratto atipico – Causa in concreto e controllo di meritevolezza ex art. 1322 c.c. – La tutela della concorrenza quale principio costituzionale – Limiti all’autonomia privata Non è sanzionabile in via disciplinare il titolare di una farmacia resosi inadempiente all’intesa, liberamente raggiunta con altri appartenenti al medesimo ordine professionale, la quale vieti l’apertura al pubblico al di fuori dei turni minimi, tale patto, infatti, restringe l’esercizio di facoltà spettanti ex lege ad ogni imprenditore operante nel settore della vendita al dettaglio dei medicinali, a detrimento di un’effettiva concorrenzialità del mercato. L’accordo con il quale i titolari di farmacie convengono una peculiare turnazione degli orari di apertura e chiusura dei rispettivi esercizi commerciali integra un contratto (atipico) non meritevole di tutela ex art. 1322 c.c., comma 2, c.c. perché in contrasto con i principi generali dell’ordinamento giuridico e, in special modo, con la garanzia di un assetto del mercato autenticamente concorrenziale (massima ufficiale CED Cassazione).
Dalla motivazione (omissis) 7. Ritiene il Collegio che non possa costituire comportamento illegittimo – e, quindi, tanto meno sanzionabile in via disciplinare – per un appartenente ad un ordine professionale avvalersi di una facoltà riconosciuta da una norma di legge e disattendere le prescrizioni di un’intesa, in modo di certo libero raggiunta con gli altri professionisti, ma che, in quanto contratto atipico, siccome diretto a restringere e limitare convenzionalmente l’esercizio di facoltà legittimamente spettanti all’imprenditore (nel caso in esame farmacista), non supera il vaglio di meritevolezza degli interessi perseguiti, ai sensi dell’art. 1322 cpv. cod. civ., in relazione alle esigenze
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di effettiva realizzazione di un assetto concorrenziale del mercato e, all’interno di questo, anche di quello della vendita al dettaglio dei prodotti farmaceutici; e l’esclusione del carattere illegittimo della condotta contestata elide, di conseguenza, pure la dedotta illegittimità dell’attività della sua pubblicizzazione. 8. In effetti: 8.1. I controlli insiti nell’ordinamento positivo relativi all’esplicazione dell’autonomia negoziale, riferiti alla meritevolezza di tutela degli interessi regolati convenzionalmente, devono essere in ogni caso parametrati ai superiori valori costituzionali – oggi come interpretati e reciprocamele influenzati dai principi dell’ordinamento dell’Unione Europea e da quelli desumi dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo – previsti a garanzia degli specifici interessi perseguiti (Cass. 19 giugno 2009, n. 14343); 8.2. in tal senso si deve ormai intendere la nozione di “ordinamento giuridico”, cui fa riferimento la norma generale sul riconoscimento dell’autonomia negoziale al privati, attesa l’interazione, sulle previgenti norme codicistiche, delle superiori, e successive norme di rango costituzionale e sovranazionale comunque applicabili quali principi informatori o fondanti dell’ordinamento stesso (Cass. 1 aprile 2011, n. 7557; Cass., 10 gennaio 2012, n. 65); 8.3. pertanto, del contratto atipico va quindi individuata la causa concreta, la quale definisce lo scopo pratico del negozio, la sintesi, cioè, degli interessi che lo stesso è concretamente diretto a realizzare, quale funzione individuale della singola e specifica negoziazione, al di là dei modello astratto utilizzato: infatti, la causa, “ancora iscritta nell’orbita della dimensione funzionale dell’atto”, non può essere che “funzione individuale del singolo, specifico contratto posto in essere, a prescindere dal relativo stereotipo astratto, seguendo un iter evolutivo del concetto di funzione economico – sociale del negozio che, muovendo dalla cristallizzazione normativa dei vari tipi contrattuali, si volga al fine a cogliere l’uso che di ciascuno di essi hanno inteso compiere i contraenti adottando quella determinata, specifica (a suo modo unica) convenzione negoziale” (in tali espressi sensi, con argomentazioni approfondite e convin-
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centi, si esprime Cass. 8 maggio 2006, n. 10490, ripresa – tra le altre – da Cass. 12 novembre 2009, n. 23941, nonché da Cass. 7557 del 2011); 8.4. e la stessa struttura della norma comporta che il non superamento del vaglio preliminare di meritevolezza (della causa concreta) del contratto atipico, pur non incidendo sulla struttura intrinseca dell’accordo, impedisce però in radice di ricollegare ad esso qualsiasi effetto giuridico, tanto che l’accordo in parola non assurge, dal rango originario fatto naturalisticamente inteso, a quello di atto introduttivo di effetti giuridici e resta pertanto estraneo all’ordinamento, tanto da non potere fondare alcuna pretesa, da quest’ultimo riconosciuta e coercibile dall’ordinamento stesso, in favore e tanto meno a danno ai chi ne è stato parte. 9. Orbene, quanto ai principi generali dell’ordinamento contro i quali si infrange la causa concreta della “intesa” liberamente raggiunta tra i farmacisti (in data 24.11.08, recepita poi in provvedimento dell’ASL […], U.O.C. Farmaceutica territoriale, prot. N. 599 del 20.7.09, peraltro indicato – v. p. 6 del ricorso – come annullato con sentenza T.A.R. Campania – Napoli, sez. V, n. 6161 del 21.10.09) e la cui violazione è fatta assurgere a presupposto dell’irrogata sanzione, si osserva: 9.1. che anche il farmacista si sussume nella nozione di imprenditore rilevante ai fini della tutela della libertà della concorrenza: in relazione alla normativa nazionale (ai sensi della legge 10 ottobre 1990, n. 287) e comunitaria (di cui agli artt. 82 e 86 trattato C.E., ora art. 106 trattato U.E.), per “impresa” deve intendersi qualsiasi entità, la quale eserciti in modo organizzato e durevole un’attività economica sul mercato, al di là del suo status giuridico e della definizione che di essa diano i singoli ordinamenti nazionali (Cass. Sez. Un., 30 dicembre 2011, n. 30175); 9.2. che, nonostante la divaricazione fra le differenti legislazioni regionali e, talvolta, le oscillazioni all’interno di una medesima legislazione regionale (come, quanto alla Campania, rileva, icasticamente qualificandone “ondivago” l’atteggiamento, il T.A.R. Campania – Napoli, sez. V, 10 febbraio 2012, in controversia pro-
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mossa dalla stessa odierna ricorrente), a mente della giurisprudenza costituzionale (in tali, espressi sensi, v. C. Cost. 19 dicembre 2012, n. 299): 9.2.1. l’aspetto dinamico della tutela della concorrenza va individuato in ogni intervento che miri ad aprire un mercato o a consolidarne l’apertura, eliminando barriere all’entrata, riducendo o eliminando vincoli al libero esplicarsi della capacità imprenditoriale e della competizione tra imprese, rimuovendo, cioè, in generale, i vincoli alle modalità di esercizio delle attività economiche (ex multis Corte Cost., n. 270 e n. 45 del 2010, n. 160 del 2009, n. 430 e n. 401 del 2007); 9.2.2. in questa seconda accezione, attraverso la “tutela della concorrenza”, vengono perseguite finalità di ampliamento dell’area di libera scelta dei cittadini e delle imprese, queste ultime anche quali fruitrici, a loro volta, di beni e di servizi (Corte Cost., n. 401 del 2007); 9.2.3. si tratta dell’aspetto più precisamente di promozione della concorrenza, che costituisce una delle leve della politica economica pubblica e, pertanto, non può essere intesa soltanto in senso statico, come garanzia di interventi di regolazione e ripristino di un equilibrio perduto, ma anche in quell’accezione dinamica, ben nota al diritto comunitario, che giustifica misure pubbliche volto a ridurre squilibri, a favorire le condizioni di un sufficiente sviluppo del mercato o ad instaurare assetti concorrenziali (Corte Cost., n. 80 del 2006, nn. 242 e 175 del 2005, nn. 272 e 14 del 2004); 9.2.4. ed anzi la liberalizzazione, da intendersi come razionalizzazione della regolazione, costituisce uno degli strumenti di promozione della concorrenza capace di produrre effetti virtuosi per il circuito economico; 9.2.5. l’eliminazione dei limiti agli orari e ai giorni di apertura al pubblico degli esercizi commerciali favorisce quindi, a beneficio dei consumatori, la creazione di un mercato più dinamico e più aperto all’ingresso di nuovi operatori ed amplia la possibilità di scelta del consumatore: ed è pertanto coerente con l’obiettivo
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di promuovere la concorrenza, risultando proporzionato allo scopo di garantire l’assetto concorrenziale nel mercato di riferimento relativo alla distribuzione commerciale tanto che, in precedenti occasioni, si è ritenuto legittimo l’esercizio della competenza in materia di commercio da parte del legislatore regionale solo nel caso in cui le norme introdotte non determinassero un vulnus alla “tutela della concorrenza”: Corte Cost. n. 150 del 2011 e n. 288 del 2010); 9.3. che non convince la correlazione, sovente prospettata a giustificazione della necessità di mantenere i turni obbligatori di chiusura, tra limitazione dei tempi di apertura delle farmacie ed il rischio di scomparsa degli esercizi minori e quindi della rete capillare (di diffusione) dell’offerta farmaceutica: 9.3.1. nel caso della Regione Campania, il tenore testuale della norma applicabile ratione temporis (prima delle ulteriori modificazioni pure intervenute), fonda con tutta evidenza il diritto del singolo farmacista a mantenere aperta la farmacia ai di là dei turni di apertura, da intendersi quindi come “minimi” garantiti; 9.3.2. comunque: da un lato, il descritto rischio è conseguenza normale dello sviluppo del mercato e della sua intrinseca finalizzazione ai conseguimento di maggiore efficienza di ogni, impresa; dall’altro lato, la diffusione capillare sul territorio pare ormai un obiettivo recessivo dinanzi alla sempre più pressante esigenza di minori costi del servizio farmaceutico; 9.3.3. la garanzia del contingentamento territoriale e dei turni, ma intesi come minimi di apertura e non anche di obbligatoria chiusura, sopperisce adeguatamente all’esigenza di una fruibilità diffusa sul territorio del mercato o servizio farmaceutico, oltretutto caratterizzato da una sempre maggiore fungibilità e liberalizzata reperibilità delle prestazioni e degli stessi beni offerti; 9.3.4. il paventato processo di marginalizzazione dei piccoli esercizi, poi, da un lato corrisponde allo sviluppo di un’ordinaria dinamica di mercato, attraverso una più o meno spontanea riaggregazione e concentrazione in esercizi di grandi dimensioni e a discapito degli esercizi di dimensioni minori;
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9.3.5. dall’altro lato, è sempre possibile comunque intervenire contro le distorsioni, del relativo processo con gli strumenti previsti proprio dalla normativa a tutela della concorrenza; 9.3.6. del resto, la liberalizzazione dell’orario degli esercizi commerciali così come delle giornate di apertura, tuttavia, non determina alcuna deroga rispetto agli obblighi e alle prescrizioni cui tali esercizi sono tenuti in base alla legislazione posta a tutela di altri interessi costituzionalmente rilevanti quali l’ambiente, l’ordine pubblico, la pubblica sicurezza, la salute e la quiete pubblica; 9.3.7. infine, come posto in luce anche dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (segnalazione 381 del 2007, richiamata nella segnalazione 871 del 2011), la possibilità di prestare servizio al di là dei limiti di apertura e chiusura consentirebbe infatti, agli operatori del settore di articolare la propria offerta anche in termini di apertura al pubblico, rendendola più congeniale alle esigenze dei consumatori ed evitando così che il bacino d’utenza di ciascuna farmacia venga a cristallizzarsi artificiosamente; ed il tutto puro in considerazione del fatto che l’ingresso sul mercato di nuovi operatori per effetto dell’articolo 5 della L. 248/2006 (che consente la vendita di farmaci da banco da parte di esercizi commerciali diversi dalle farmacie), rende ancora più pressante la necessità per queste ultime di disporre di una maggiore libertà nel compimento delle proprie scelte commerciali. 10. in applicazione di tali principi alla fattispecie, allora: 10.1. la regolamentazione regionale, vigente ed applicabile al momento in cui sono state poste in essere le condotte sanzionate, non poteva giammai interpretarsi nel senso di limitare le facoltà di esercizio dell’attività di impresa del farmacista, ma soltanto nel senso di assicurare comunque un servizio minimo offerto alla generalità dei fruitori del servizio: nel senso, quindi, di prevedere ed imporre una apertura certa in determinati orari e turni settimanali, quale minima erogazione garantita, ma non anche di impedirla ai di fuori di quelli;
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10.2. parallelamente, l’accordo tra gli imprenditori farmacisti, tendente a vietare l’apertura ai di fuori dei turni minimi (tanto da presupporre che gli stessi divenissero turni di chiusura obbligatoria al di fuori di quanto espressamente consentito) integra un contratto atipico, che persegue solamente una finalità di regolamentazione del flussi di clientela a beneficio esclusivo dei partecipanti all’accordo, ma con positiva frustrazione delle finalità di incremento della concorrenza insite nelle previsioni regionali e comunque imposte dall’ordinamento nazionale e comunitario; 10.3. in tal senso la finalità perseguita è meramente economica e personale dei partecipanti all’accordo e, siccome idonea a vanificare il perseguimento dei principi generali dell’ordinamento di effettività della concorrenza anche nel settore farmaceutico e quindi a perturbarne o sminuirne la maggiore ampiezza di accesso possibile per l’indifferenziato pubblico del consumatori, connota di non meritevolezza di tutela, da parte dell’ordinamento giuridico, l’accordo stesso; (omissis) 11.1. non può la Dott.ssa P. essere sanzionata, sotto il profilo di concorrenza sleale o di scorrettezza nei confronti dei colleghi, per essersi avvalsa di una facoltà legittima, inefficacemente limitata da un accordo integrante un contratto atipico, da sottoporre al vaglio preventivo di meritevolezza dell’interesse perseguito ai sensi dell’art. 1322 cpv. cod. civ. – con quegli stessi colleghi al quale l’ordinamento non può ricollegare alcuna efficacia giuridica, siccome in contrasto coi principi generali dell’ordinamento giuridico; e, di conseguenza, è fondato il primo motivo; P.Q.M. La Corte accoglie il primo ed il secondo motivo di ricorso, dichiarato assorbito il terzo; per l’effetto, cassa la gravata sentenza e, decidendo nel merito, annulla il provvedimento adottato con la
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delibera 16.9.09 dell’Ordine dei Farmacisti della Provincia di Caserta, di irrogazione della sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio professionale per giorni trenta nei confronti di P.C.; compensa tra le parti le spese dell’intero giudizio.
CAUSA IN CONCRETO E CONTROLLO DI MERITEVOLEZZA EX ART. 1322 Giovanni Gandino (Dottorando di ricerca presso l’Università degli Studi di Sassari)
Sommario: 1. Il caso; – 2. Cenni sulla causa in concreto e sul controllo di meritevolezza degli interessi perseguiti; – 3. La causa in concreto ed il giudizio di meritevolezza: l’osservazione dal punto di vista della Giurisprudenza; – 4. (segue) Riflessioni sulla funzione della clausola generale della meritevolezza; – 5. Una rilettura dell’art. 1322 co. 2; – 6. Conclusioni.
1. Il caso La sentenza da cui prende spunto la seguente ricostruzione teorica può essere così compendiata: La dottoressa P.C., titolare della farmacia X, aveva aderito ad una convenzione, unitamente agli appartenenti di categoria, con la quale veniva previsto il divieto di apertura del proprio esercizio commerciale al di fuori dei turni minimi obbligatori. Ciò nonostante, la titolare si determinava tuttavia a tenere aperta la farmacia pubblicizzandone l’orario. A fronte dell’inadempimento, la suddetta, aveva ricevuto dall’ordine di appartenenza una sanzione disciplinare consistente nella sospensione dall’esercizio della professione per trenta giorni, per non aver osservato i doveri deontologici di cui agli artt. 3 co. 2 b), 16 co. 1, 20 co. 4 e 37 del relativo codice. La violazione alle sopracitate disposizioni si manifestava da una parte, nella mancanza di correttezza intrinseca al comportamento inottemperante della farmacista rispetto alla convenzione intrapresa, determinatosi nell’apertura della farmacia e nella relativa pubblicizzazione, peraltro, senza darne preventiva informazione; dall’altra,
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nella violazione ai doveri di colleganza improntati alla correttezza ed alla collaborazione professionale. Presentato infruttuosamente ricorso presso la CCEPS1 competente, veniva rigettata l’impugnazione della dottoressa P.C. La stessa ricorreva quindi dinnanzi alla Corte di legittimità reclamando il proprio buon diritto, adducendo di non ritenersi vincolata alla convenzione in questione, in virtù delle facoltà riconosciutele dalle normative regionali e statali. Quanto alle prime, artt. 3, 4 e 9, l.r. Campania n. 7/1980 e art. 34 co. 6 l.r. Campania n. 1/2007, la stessa rappresentava di aver diritto a tenere aperta la farmacia anche nei giorni non di turno; quanto alle seconde, d.l. 24 gennaio n. 1/2012 convertito con modificazioni dalla legge 24 marzo n. 27/2012, in particolare art. 11 co. 8, la ricorrente non deduceva alcun impedimento nell’apertura della farmacia in orari diversi da quelli obbligatori. A fronte delle soprarichiamate normative, la Suprema Corte accoglieva le doglianze contenute nel ricorso riconoscendo la legittimità dei comportamenti tenuti dalla ricorrente ed annullava il provvedimento sanzionatorio adottato dall’Ordine dei farmacisti. A parere dei giudici di legittimità il contratto plurilaterale atipico finalizzato a regolamentare il turn over degli esercizi commerciali, al quale avevano aderito i vari farmacisti fra cui la dottoressa P.C., non poteva in alcun modo ritenersi vincolante per le parti in quanto invalido ed inefficace, poiché immeritevole di tutela. Nella motivazione, il Supremo Collegio, aveva rivolto la sua attenzione ai principi sovracodicistici e sovranazionali cui devono necessariamente sottostare gli interessi privati, dichiarando fermamente l’esistenza di un ulteriore limite all’autonomia privata rappresentato dai «superiori valori costituzionali – oggi come interpretati e reciprocamente influenzati dai principi dell’ordinamento dell’Unione Europea e da quelli desumibili dalla Con-
Il ricorso veniva proposto presso la Commissione Centrale per gli Esercenti delle Professioni Sanitarie, quale organo giurisdizionale speciale competente in gravame all’interno della fattispecie de qua. 1
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venzione Europea dei Diritti dell’Uomo – previsti a garanzia degli specifici interessi perseguiti»2 specificando che l’aderenza a tali principi viene integrata dal riferimento normativo – contenuto nell’art. 1322 co. 2, c.c. – alla nozione di ordinamento giuridico «cui fa riferimento la norma generale sul riconoscimento dell’autonomia negoziale ai privati, attesa l’interazione, sulle previgenti norme codicistiche, delle superiori, e successive norme di rango costituzionale e sovranazionale comunque applicabili quali principi informatori o fondanti dell’ordinamento stesso»3. Nel caso di specie, la Suprema Corte ha rilevato come «giuridicamente inefficace» la convenzione in questione, poichè contraria ai principi che sanciscono la libertà della concorrenza, precisando che non poteva ritenersi meritevole di tutela un accordo volto a limitare convenzionalmente l’esercizio delle facoltà spettanti ad un imprenditore, peraltro richiamate all’interno delle normative regionali e statali. Per questi motivi, la Corte aveva cassato la decisione della Commissione Centrale annullando il provvedimento disciplinare.
2. Cenni sulla causa in concreto e sul controllo di meritevolezza degli interessi perseguiti La presente disamina si propone di approfondire il tema della causa del contratto e della sua relazione con l’art. 1322 co. 2, c.c., rubricato “Autonomia contrattuale”; questione che prende odiernamente attenzione per le divergenti opinioni in dottrina e giurisprudenza circa il ruolo di quell’indice di meritevolezza cui devono sottostare gli interessi privati perseguiti dalle parti nella costituzione di un rapporto contrattuale. Lo scopo di questa indagine trae origine dalle recenti tendenze giurisprudenziali atte ad individuare,
Dalla sentenza 8.1. Dalla sentenza 8.2.
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nella clausola generale della meritevolezza, un limite negativo alla libera esplicazione dell’autonomia negoziale che si affiancherebbe a quello della liceità degli interessi perseguiti4. Al fine di procedere ad una compiuta indagine risulta utile, a parere di chi scrive, individuare quelle che sono le premesse di ordine sistematico che ci introducono al tema, al fine di rappresentare al meglio gli orientamenti giurisprudenziali e dottrinali che verranno seguitamente illustrati. Il punto di partenza di siffatto lavoro è quello di inquadrare correttamente la nozione di causa, quale elemento essenziale del contratto ai sensi dell’art. 1325 c.c.5, che descrive, secondo un’opinione ormai comune, il complesso degli interessi perseguiti dalle parti contraenti6. Si tratta, dunque, di quell’elemento che consente allo strumento di autonomia privata, quale è il contratto, di trovare la propria giustificazione all’interno dell’ordinamento7, predisponendo l’assetto degli interessi contrattuali alla stregua di precetto normativo che assume forza di legge tra le parti secondo il dettato dell’art. 1372 c.c. Ora, per quanto attiene all’elemento causale, il combinato disposto degli artt. 1325 e 1418 c.c. illustra da una parte, l’essenzialità della predisposizione all’interno della fattispecie contrattuale
Sul punto, viene osservato da A. Guarnieri, Il contratto immeritevole e il rasoio di Occam, in G. Alpa – P. Zatti (a cura di), Nuova giur. civ. comm., 2018, 2, p. 253, che «il crescente numero di richiami alla clausola generale di meritevolezza dell’interesse, operato dalla Corte Suprema e dalle Corti di merito, induce l’interprete a riesaminare la vicenda storica di tale regola, come introdotta dal legislatore del codice civile italiano del 1942 all’art. 1322 co. 2, cod. civ., come elaborata dalla dottrina e come applicata dalla giurisprudenza». 5 Derogano al requisito dell’essenzialità dell’elemento causale i negozi astratti, ossia quei negozi che si perfezionano a prescindere dalla causa. 6 Ci si riferisce ordunque alla causa in concreto, ossia all’interesse meritevole di tutela che le parti contraenti mirano ad assolvere con il programma negoziale. 7 C.M. Bianca, Diritto civile, III, Il contratto, III ed., Milano, 2019, p. 410, secondo cui «La causa costituisce il fondamento della rilevanza giuridica del contratto. Affinché il contratto sia riconosciuto come giuridicamente impegnativo non è sufficiente che sussista l’accordo ma, come si è detto, occorre anche che l’accordo sia giustificato da un interesse meritevole di tutela». 4
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della causa del contratto8, dall’altra, manifesta la necessaria ri spondenza di questa al criterio della liceità stabilita dall’art. 1343 c.c. e ss.9 Vi è di più, lo strumento contrattuale, assegnato dal legislatore ai soggetti privati al fine di regolare i propri interessi di natura privata, manifesta quell’autonomia di iniziativa economica che assurge ad interesse di natura costituzionale secondo il dettato dell’art. 41 Cost., e che, alla luce dell’articolo in questione, non può porsi in contrasto con l’utilità sociale 10.
8 L’omissione dell’elemento causale fa sì che il contratto risulti invalido ed inefficace – rectius nullo – secondo il dettato dell’art. 1418 c.c. allorquando manchi ab origine; qualora invece difetti, per la sua mancanza, in un momento successivo alla conclusione del contratto lo squilibrio contrattuale potrà trovare rimedio nei meccanismi risolutori. 9 Sintetizzando quanto s’è detto, lo strumento contrattuale al fine di assumere un valore giuridico e, dunque, per vincolare le parti al suo contenuto, necessita non solo dell’accordo, bensì richiede che l’operazione economica predisposta dalle parti contraenti sia impressa all’interno del contratto – ora in via implicita, ora in via esplicita – e che sia lecita e degna (nel senso di non dannosa per l’utilità sociale) di tutela. 10 È necessario evidenziare che la libertà d’iniziativa economica «è costituzionalmente tutelata purché non si svolga in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana” così C.M. Bianca, Causa concreta del contratto e diritto effettivo, in Riv. dir. civ., 2014, 2, p. 253; Id., Diritto civile, cit., p. 24 ss., il quale sottolinea come «L’autonomia privata rappresenta ancora un aspetto ineliminabile della libertà della persona, e cioè la libertà negoziale. Ma l’idea secondo la quale solo ed esclusivamente l’individuo può essere giudice dei suoi interessi non ha più riscontro nella società del nostro tempo. Il riconoscimento della libertà del singolo inserisce ormai in una concezione dell’ordinamento che s’ispira al prevalente valore della solidarietà sociale, quale valore di fondo della nostra Costituzione […] lo Stato non può allora limitarsi a riconoscere il diritto di ciascuno di regolare da sé i propri interessi se questo diritto diviene uno strumento di abuso a danno degli altri. L’intangibilità della volontà individuale cede di fronte all’esigenza di giustizia sociale. Con particolare riguardo all’iniziativa privata economica, essa è costituzionalmente garantita, ma tale iniziativa non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale»; sul punto anche F. Gazzoni, Atipicità del contratto, giuridicità del vincolo e funzionalizzazione degli interessi, in Riv. dir. civ., 1978, 1, p. 85, secondo il quale «l’utilità sociale può incidere solo come limite negativo, nel senso di ampliare i confini del giudizio di liceità, allo scopo di colpire gli atti di autonomia privata socialmente dannosi».
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È bene, dunque, rilevare che non tutti i negozi giuridici11 causali possono assumere valore giuridico: privo di efficacia ed indegno di protezione giuridica è infatti il contratto avente causa illecita, ossia quella causa che si pone in contrasto ora con le norme imperative, ora con i principi che regolano l’ordine pubblico ed il buon costume; allo stesso modo, privo di tutela da parte dell’ordinamento è il contratto immeritevole da individuare nel contratto socialmente dannoso 12. Quanto finora esaminato ha messo in luce gli aspetti caratterizzanti dell’elemento causale all’interno del contratto dettati dalla lettera della legge, dalla quale, a contrario, non è evincibile un concetto in merito alla nozione di causa13. Sul punto, dottrina e giurisprudenza appaiono ormai sinergiche identificando la causa del contratto nella c.d. causa in concreto14, ossia nella sintesi degli inte11 Si fa riferimento alla categoria dei negozi giuridici in quanto si vuole evidenziare come le norme relative ai contratti si applicano non solo a questi ultimi, ma anche ai negozi giuridici unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale secondo il dettato dell’art. 1324 c.c. 12 Sul contratto socialmente dannoso cfr. C.M. Bianca, Diritto civile, cit., p. 413, l’autore offre un’analitica esemplificazione di quest’ultimo, rappresentando che la contrarietà all’utilità sociale si ravvisa nei contratti socialmente dannosi, rectius immeritevoli di tutela, quali «i contratti aventi ad oggetto la trasmissione di programmi diseducativi, la pubblicità di prodotti dannosi per la salute, attività pregiudizievoli per l’ambiente, comportamenti contrari alla solidarietà sociale…». 13 Nel silenzio normativo si sono susseguite una serie di teorie in ordine all’identificazione del concetto di causa. Dapprima, tale assiologia, veniva rinvenuta nella dottrina del Betti (cfr. E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, ristampa a cura di P. Perlingieri, Napoli, 1994, passim) il quale individuava nell’elemento causale l’interesse sociale che il contratto mira ad assolvere, per la quale solo i contratti non futili e non estranei al bene comune potevano essere riconosciuti quali meritevoli di tutela. Di poi, abbandonato il precedente orientamento di matrice statalista che individuava nella causa del contratto una funzione economico sociale, si è giunti ad affermare in dottrina (cfr. G.B. Ferri, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Giuffrè, Milano, 1966, passim) che l’unico limite idoneo ad incidere sulla libertà d’iniziativa economica delle parti, che si manifesta all’interno del programma contrattuale, risiederebbe nel solo limite della liceità del contratto. 14 Cfr. V. Roppo, Causa concreta: una storia di successo? Dialogo (non reticente, né compiacente) con la giurisprudenza di legittimità e di merito, in Riv. dir. civ., 2013, 2, p. 958, negli stessi termini riferisce che «La causa concreta esibisce in primo luogo un successo quantitativo […] fino a non molto tempo fa la formula era
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ressi delle parti private che definiscono lo scopo pratico dello schema contrattuale15. È bene dunque rilevare che lo scopo immediato del contratto individua l’interesse meritevole di tutela che l’operazione economica si determina di assolvere e che, peraltro, distingue la causa del contratto dai motivi. Questi ultimi, quali obiettivi ulteriori delle parti private, differentemente dagli scopi particolari e diretti che s’inseriscono nel rapporto contrattuale non sono, invece, destinati ad incidere sul programma negoziale, salvo i casi predeterminati dalla legge16. Tale interpretazione distingue inoltre l’elemento causale dall’elemento oggettivo del contratto, per il quale, il primo, individua lo schema negoziale inteso quale operazione economica complessiva
sostanzialmente sconosciuta in giurisprudenza, da qualche anno compare, in modo sempre più pervasivo, nelle motivazioni di molte e molte sentenze, di merito e di legittimità, rese nelle fattispecie e negli ambiti più diversi» osservando tuttavia che il riconoscimento della causa in concreto si palesa quale «conquista rilevante dell’evoluzione giurisprudenziale, da suggerire alle stesse sezioni unite della Cassazione di esibirla come un fiore all’occhiello anche nei contesti nei quali il suo richiamo non appare particolarmente chiaro ai fini della decisione». Con nota critica, viene segnalato da C.M. Bianca, Causa concreta del contratto e diritto effettivo, cit., p. 256, che «l’assenza della causa nelle decisioni dei nostri giudici è stata però nettamente smentita dalla giurisprudenza degli ultimi anni. La causa del contratto, intesa nei termini della causa concreta, ossia nell’interesse che l’operazione è concretamente diretta a realizzare, ha infatti trovato sempre più spazio nelle sentenze». 15 C.M. Bianca, Diritto civile, cit., p. 410, secondo cui «La causa del contratto, va precisato è la causa concreta cioè l’interesse che il contratto stipulato dalle parti è in concreto diretto a realizzare». 16 Sulla divergenza fra lo scopo immediato ed il motivo è bene rilevare che da una parte, il primo, racchiude gli interessi che il contratto è diretto a realizzare; dall’altra, il secondo, attiene alle finalità esterne rispetto al contenuto del contratto e che, dunque, rappresentandosi quale «impulso psichico che non si traduce nell’atto di volontà negoziale» (C.M. Bianca, Diritto civile, cit., p. 419), che non può incidere sul rapporto contrattuale. Derogano a tale regime il motivo illecito comune alle parti contraenti ex art. 1345 c.c., l’errore sul motivo nel contratto di donazione ex 787 c.c.; peraltro, merita particolare attenzione la fattispecie della presupposizione che, analogamente al motivo, risulta al di fuori del programma negoziale, ma, diversamente da quest’ultimo, descrivendo un presupposto oggettivo del contratto taciuto dalle parti rileva quale condizione (esterna) del contratto che assume rilevanza giuridica avendo riguardo ai criteri relativi all’interpretazione del contratto.
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che le parti intendono attuare, il secondo si riferisce, invece, alle prestazioni dedotte all’interno del programma contrattuale17. Tuttavia, il riconoscimento della causa in concreto all’interno del contratto manifesta la propria rilevanza18 – oltre che nell’essenzialità del programma negoziale – in altri profili quali: l’interpretazione del contratto, la qualificazione del contratto19, le vicende successive alla formazione del contratto che ruotano intorno alla sopravvenuta mancanza dell’elemento causale e, infine, al parametro di liceità20. Prima di individuare la (presunta)21 relazione tra la causa in concreto e la clausola di meritevolezza degli interessi perseguiti, occorre rilevare che cosa s’intenda per quest’ultima. Anzitutto, è necessario rilevare la diversa collocazione sistematica della norma in questione rispetto al requisito causale. Con tale assunto si fa riferimento alla differenza fra la causa e l’oggetto del contratto, per la quale, la prima, si riferisce allo schema negoziale predisposto dalle parti contraenti, l’esempio di scuola è rappresentato dal programma della vendita che si determina nello scambio della cosa contro il prezzo; per quanto attiene al secondo elemento, invece, si suole indicare il contenuto dell’accordo dedotto all’interno del contratto (es.: il bene oggetto della compravendita). 18 Cfr. C.M. Bianca, Causa concreta del contratto e diritto effettivo, cit., p. 256; sul punto anche D. Achille, La funzione ermeneutica della causa concreta del contratto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2017, 1, p. 4, in merito all’utilizzo della formula sulla causa in concreto rileva che «vengono attribuiti dalla giurisprudenza più recente, sulla scorta della dottrina che ha coniato la nozione, molteplici ruoli inediti, oltre ovviamente a quelli espressamente indicati dal legislatore. In tal senso, si è attribuito alla causa il ruolo di strumento di qualificazione del contratto, quello di controllo di meritevolezza degli interessi divisati dalle parti e quello […] di interpretazione del contratto». 19 Inquadrabile nell’operazione con cui si sussume alla tipologia contrattuale eventualmente descritta dal legislatore. 20 L’origine del concetto (moderno) di causa del contratto risale alla dottrina di Aristone cfr. T. Dalla Massara, Alle origini della causa del contratto. Elaborazione di un concetto nella giurisprudenza classica, in Pubblicazioni della facoltà di giurisprudenza dell’università di Padova, Padova, 2004, p. 382, per quanto poi attiene al profilo della atipicità lo stesso autore segnala che «nell’impostazione aristoniana, la tutelabilità civile dei contratti atipici è condizionata al riscontro del sussistere della causa, nella quale deve vedersi rappresentata la funzione, ritenuta riconoscibile, realizzata dal contratto» p. 378. 21 Presunta in quanto rispetto alla collocazione sistematica della norma, i giudici di legittimità utilizzano detta clausola al fine di pronunciarsi sulla validità o meno del contratto, analogamente al caso di specie. 17
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Tale premessa risulta di fondamentale rilievo per la trattazione, in quanto, come verrà analizzato nelle pagine che seguono, l’indice di meritevolezza, ascritto alla norma di cui all’art. 1322, è andato sostanzialmente a sconfinare all’interno della materia della illiceità del contratto, nonostante già agli albori del codice civile vi era chi individuava, nella meritevolezza, un carattere a sé stante rispetto al tema dell’invalidità e l’inefficacia del contratto regolata dalle norme imperative e ai principi che regolano l’ordine pubblico ed il buon costume22. Il legislatore, infatti, la predispone quale parametro di scelta per i privati in ordine alla utilizzazione di tipologie contrattuali particolari che non trovano la propria fonte nella legge, ma nell’originalità delle parti contraenti. Tale fenomenologia attiene alla classica distinzione che classifica i contratti atipici – c.d. innominati –, che si differenziano dai contratti tipici, c.d. nominati. La difformità fra le due diverse classificazioni si coglie nel fatto che i secondi ritrovano positivamente iscritto nella legge il proprio schema negoziale – astrattamente – lecito e degno di tutela. Al più dev’essere osservato che anche nelle tipologie contrattuali speciali, l’interprete dovrà comunque guardare alla causa in concreto onde individuare eventuali scopi illeciti che possono ben perseguirsi anche attraverso l’utilizzo di schemi negoziali predisposti dal legislatore.
3. La causa in concreto ed il giudizio di meritevolezza: l’osservazione dal punto di vista della Giurisprudenza Fatte le dovute premesse, risulta ora necessario muovere l’indagine sul rapporto intercorrente fra la causa in concreto e l’indice Con tale assunto si fa riferimento alla teoria del Betti che, individuando la causa nella funzione economico sociale dell’operazione economica, assegna agli interessi perseguiti dei soggetti privati uno scopo socialmente utile, dando perciò rilievo al criterio di cui all’art. 1322 co. 2 ed assegnando un ruolo del tutto autonomo e distinto rispetto a quello sancito dall’art. 1343 atto a colpire con la nullità i negozi causali contrari a norme imperative, ordine pubblico e buon costume (cfr. E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, cit., passim). 22
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di meritevolezza degli interessi così come inteso nelle più recenti pronunce giurisprudenziali. Nel diritto vivente si assiste da tempo ad una sovrapposizione dei due istituti; motivo per il quale si tende a riconoscere nella clausola di meritevolezza un ulteriore limite idoneo ad incidere sull’autonomia privata. Siffatta considerazione prende le mosse dall’àmbito sistematico in cui il precetto normativo dell’art. 1322 viene inserito, in quanto, almeno nella sua ordinaria concezione, l’unica tipologia di controllo in seno all’autonomia negoziale veniva generalmente individuato nel sindacato di legittimità di cui all’art. 1343 relativamente alla causa giustificatrice del regolamento contrattuale23. L’interpretazione estensiva rispetto alla collocazione sistematica dell’art. 1322 co. 2, si è detto, viene ripetutamente richiamata dalla giurisprudenza recente, fra le quali si segnala la sentenza oggetto della presente disamina, nella quale la Corte amplia la portata della disposizione dell’art. 1322 ai principi sovracodicistici e sovranazionali: rendendo di fatto operativo tale ulteriore tipologia di controllo. Si tratta, peraltro, di un fil rouge su cui muove la Corte, considerato che in passato la clausola in questione, anche quando non riceveva quasi mai espressa menzione, veniva di fatto individuata quale sinonimo di liceità24. Sotto questo profilo risulta doveroso sottolineare il quid pluris che viene argomentato dalla Cassazione oggetto della presente nota, nella quale gli ermellini sono andati oltre la considerazione che gli interessi meritevoli di tutela sono quelli che non sono contrari alle 23 Tale tipologia di controllo attinente alla causa del contratto e dunque allo schema programmatico nel quale assumono rilevanza gli scopi immediati delle parti contraenti e si distingue dal controllo in merito all’oggetto del contratto ex art. 1346 c.c., per il quale l’indagine muove intorno ai requisiti della prestazione che dev’essere lecita, possibile e determinata o determinabile. 24 Sul punto, viene segnalato da A. Guarnieri, Il contratto immeritevole e il rasoio di Occam, cit., p. 260, che l’identificazione della clausola di meritevolezza a quella della liceità è apparsa anche nelle pronunce dei giudici di legittimità meno recenti. In via esemplificativa viene menzionata la sentenza n. 3142/1980 in cui la Corte di legittimità deduce che «è consentito alle parti dar vita anche a negozi atipici purché meritevoli di tutela e non quindi in contrasto con la legge, l’ordine pubblico e il buon costume».
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norme imperative, all’ordine pubblico e al buon costume, deducendo che la nozione di ordinamento giuridico – cui fa riferimento il precetto su cui si fonda la libertà negoziale (art. 1322) – racchiude l’interazione tra «le previgenti norme codicistiche, le norme superiori e le successive norme di rango costituzionale e sovranazionale comunque applicabili quali principi informatori o fondanti dell’ordinamento stesso». Si tratterebbe, in altri termini, di un profilo (almeno apparentemente) distinto dal mero vaglio di liceità della causa del contratto, ma pacificamente idoneo ad incidere sull’efficacia dell’atto negoziale. Difatti, a parere del Supremo Collegio, l’intesa liberamente conclusa tra i farmacisti è giuridicamente inefficace – rectius nulla – poiché la causa in concreto di tale negozio, più che contraria alle normative statali25 e regionali, si pone in contrasto con i principi costituzionali e sovranazionali miranti a tutelare la concorrenza, giacché la tipologia di accordo in questione risulta idoneo ad incidere in senso restrittivo sulle facoltà concorrenziali riconosciute agli imprenditori. Il portato di tale esegesi conduce l’interprete a soffermarsi su due conclusioni: – il vaglio di meritevolezza degli interessi, così come il vaglio di liceità del contratto, ha ad oggetto la causa in concreto; – ruotando attorno all’orbita della causa in concreto, la clausola de qua, avrebbe allora una portata generale, ben potendo incidere – quale indice di meritevolezza – su ogni tipologia di contratto a prescindere dal modello astratto prescelto dalle parti contraenti. Risulta doveroso allora osservare che, alla luce dell’interpretazione estensiva della Corte di Cassazione, considerata l’operatività del controllo di meritevolezza a prescindere dal modello astratto utilizzato, viene meno la tradizionale distinzione fra contratti atipi25 Tra le normative statali, come osservato da S. Tonetti, Intesa anticoncorrenziale, in Rass. dir. civ., 2014, 4, p. 1311, dev’essere segnalata anche l’art. 2 della l. n. 287/1990 legge Antitrust che proibisce le intese tra professionisti che hanno come finalità o come effetto la restrizione del mercato concorrenziale.
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ci e contratti tipici giacché, il giudizio circa la meritevolezza degli interessi deve valutarsi in concreto a prescindere dallo schema negoziale predisposto dalle parti contraenti. Pertanto, la Suprema Corte, riconosce nell’indice di meritevolezza un giudizio che consente di valutare caso per caso se il programma negoziale predisposto dalle parti contraenti, sia esso nominato o innominato, superi o meno il vaglio di meritevolezza degli interessi perseguiti. Dev’essere dunque preliminarmente osservato che, contenutisticamente, la clausola della meritevolezza opererebbe quale strumento di controllo analogo (se non totalmente identico) al sindacato di liceità.
4. (segue) Riflessioni sulla funzione della clausola generale della meritevolezza L’orientamento giurisprudenziale sopradescritto, seppur convincente e non privo di pregio giuridico, ha suscitato più di qualche perplessità fra gli interpreti. Il punto di partenza della riflessione muove dal seguente quesito: i giudici di legittimità avrebbero potuto ritenere invalida ed inefficace la convenzione in questione pur in assenza della clausola generale della meritevolezza? La risposta non può che essere positiva, giacché l’intesa liberamente raggiunta tra i farmacisti risulta confliggente rispetto alla normativa Antitrust che colpisce con nullità «le intese tra imprese che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza […] attraverso attività consistenti nell’impedire o limitare […] gli accessi al mercato (art. 2 co. 2 l. n. 287/1990)»26.
26 Come autorevolmente sostenuto da S. Tonetti, Intesa anticoncorrenziale, cit., p. 1311, «Ci si deve chiedere, infatti, perché la Cassazione, nel decidere la fattispecie in esame, ricorra al giudizio di meritevolezza ex art. 1322 c.c. quando, nell’ordinamento italiano le intese fra professionisti che abbiano come finalità o come effetto la restrizione del mercato concorrenziale sono considerate nulle»;
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Ancora, effettuando un’ulteriore sottrazione (all’equazione fittizia sottesa al quesito), vi è da chiedersi se in assenza della normativa Antitrust – volendo, peraltro, ricomprendere anche le normative regionali e statali27 – il contratto in questione sarebbe stato idoneo ad acquisire forza di legge fra le parti. Effettuando anche tale operazione matematica, il risultato non cambia: il contratto non potrebbe superare il vaglio della liceità in quanto contrario all’ordine pubblico, che ricomprende i principi posti a tutela della struttura politica ed economica dell’ordinamento fra i quali vi rientra anche la tutela della concorrenza28. Sicché resta da chiedersi se l’interpretazione estensiva della clausola della meritevolezza possa avere una qualche funzione pratica senza sfociare nel sindacato di liceità, giacché come osservato dalle più attente dottrine – ed è qui che nasce il dibattito – la meritevolezza, di per sé, non avrebbe una propria valenza autonoma, nonostante vi sia in dottrina chi ne individua una certa autonomia29, in
peraltro, l’autore osserva che nel caso di specie, trattandosi di un’ipotesi di nullità assoluta, i giudici avrebbero dovuto rilevarla d’ufficio. 27 Ci si riferisce ai precetti normativi richiamati dalla dottoressa P.C. nel ricorso – artt. 3, 4 e 9, l.r. Campania n. 7/1980 – art. 34 co. 6, l.r. Campania n. 1/2007 – art. 11 co. 8, d.l. n.1/2012, convertito con modificazioni dalla l. 24 marzo n. 27/2012 – atti a facoltizzare il comportamento vietato dall’intesa con gli altri farmacisti. 28 Sotto tale profilo viene osservato che «se i giudici, decidendo la fattispecie in esame, avessero fatto rientrare anche i principi costituzionali nel parametro della conformità alle norme imperative (giudizio di liceità) – posto che la tutela dell’assetto concorrenziale del mercato è un principio di ordine pubblico economico costituzionale –, avrebbero dichiarato l’accordo intercorso tra le parti nullo non tanto perché non meritevole di tutela, ma in quanto già di per sé illecito». Così S. Tonetti, Intesa anticoncorrenziale, cit., p. 1310. 29 Fra le dottrine che individuano nella meritevolezza un criterio di giudizio autonomo rispetto al criterio di liceità si segnala quella del Perlingieri (si veda P. Perlingieri, Profili istituzionali del diritto civile, Napoli, 1975, passim) secondo il quale il primo rappresenterebbe uno strumento di controllo dell’autonomia privata in ottica di una valutazione positiva rispetto al sistema dei valori fondanti l’ordinamento. Sulla dottrina del Perlingieri offre una puntuale analisi V. Guida, Piano finanziario 4you, contratto (im)meritevole di tutela e nullità da disvalore, in Foro nap., 2015, 3, p. 770, la quale riferisce che l’impostazione del Perlingieri «è il coerente sviluppo dell’idea che l’atto negoziale è valido, non tanto perché voluto, ma se, e soltanto se, destinato a realizzare, secondo un ordinamento fonda-
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maniera poco suggestiva. Difatti, sarebbe impensabile che il legislatore, in assenza del vaglio della meritevolezza, possa riconoscere come validi dei contratti socialmente pericolosi o immorali, considerato che opererebbe la clausola di liceità ex art. 134330. Un altro profilo da prendere in considerazione attiene alle ricadute applicative di siffatta clausola che svuoterebbe di significato la tradizionale distinzione tra contratti nominati e innominati, assunta la generale operatività dell’indice di meritevolezza, a prescindere dalla tipicità o meno del modello astratto selezionato dalle parti contraenti. Osservata dunque tale omogeneità vi è chi suggerisce una lettura abrogativa dell’art. 1322 poiché si configurerebbe quale inutile doppione dell’art. 134331, considerato che siffatta clausola viene utilizzata dai giudici di legittimità per motivare delle dichiarazioni di
to sul personalismo e sul solidarismo, un interesse meritevole di tutela. In questa prospettiva i principi costituzionali rappresentano le coordinate che indirizzano l’autonomia negoziale. Si tratta di limiti ‘positivi’, che impongono all’agire umano di orientarsi in maniera assiologicamente virtuosa. Il controllo di meritevolezza, secondo questa impostazione, è strumento idoneo a sanzionare, non solo le manifestazioni dell’autonomia negoziale che perseguono interessi costituzionalmente riprovevoli, ma anche quelle che non sono in grado di far progredire l’ordinamento verso un pieno avveramento del dettato costituzionale». 30 Cfr. R. Sacco, La qualificazione, in R. Sacco – G. De Nova (a cura di), Tratt. Rescigno, IV ed., 2022 p. 567 ss., il quale afferma che «è difficile comprendere perché un contratto tipico, a differenza di quello atipico, venga convalidato dalla legge anche quando persegua un interesse non meritevole di tutela. È del tutto assurdo pensare che, quando il contratto è tipico, la legge protegga gli interessi che essa definisce come non meritevoli di tutela secondo l’ordinamento. Ergo gli interessi da proteggere saranno i medesimi entro e fuori lo steccato dei contratti tipici». 31 Si fa riferimento alla dottrina di A. Guarnieri, Il contratto immeritevole e il rasoio di Occam, cit., p. 261 e ss., il quale individua che nelle varie ipotesi applicative dove emerge il richiamo alla clausola di meritevolezza «la nullità è da ascriversi a ragioni estranee al capoverso dell’art. 1322 c.c. e attesta la mancanza di indipendenza della categoria dell’interesse non meritevole» lo stesso adduce infatti che «se si esamina solo la giurisprudenza domestica fin quasi alla fine del secolo scorso e talvolta anche oltre, non si riesce a rintracciare una casistica giurisprudenziale in cui il giudizio di non meritevolezza dell’interesse operi come causa di nullità del contratto, autonoma e distinta dal giudizio di illiceità, al di là di declamazioni obiter, e quindi assurga ad una rilevanza propria».
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nullità di schemi negoziali già «pacificamente ascrivibili alla categoria dei contratti illeciti»32.
5. Una rilettura dell’art. 1322 co. 2 Una più attenta e puntuale dottrina ha inteso rimarcare la differente funzione dei due istituti, escludendone, pertanto, una sovrapposizione in luogo di interpretazioni ora estensive, ora abrogative, dell’art. 132233. Il portato di tale contributo ha dunque voluto ridefinire il contenuto assiologico della norma che lega i concetti di autonomia privata e di meritevolezza degli interessi34, riesaminando la vicenda storica e dottrinale che ha portato all’esegesi che vede in siffatta clausola un (ulteriore) limite all’autonomia contrattuale. L’orientamento a cui ci si riferisce, al fine di confutare la dogmatica omogeneità fra la clausola della liceità e della meritevolezza, ha concentrato il proprio studio nella diversa collocazione sistematica
Cfr. A. Guarnieri, Il contratto immeritevole e il rasoio di Occam, cit., p. 259. Si tratta della dottrina di M. Bianca, Alcune riflessioni sul concetto di meritevolezza degli interessi, in Riv. dir. civ., 2011, 6, p. 789 e ss., che in virtù dell’inserimento della clausola della meritevolezza all’interno dell’art. 2645 ter c.c., si è interrogata sulla corretta definizione di tale indice affermando che «il rinvio all’art. 1322 c.c. nel contesto di una disposizione dedicata agli atti negoziali di destinazione, ha fatto riemergere i dubbi del passato, con in più il problema sistematico di scegliere se individuare un concetto unico di meritevolezza, valido per ogni atto negoziale, compreso l’atto negoziale di destinazione, ovvero se individuare due diversi concetti di meritevolezza, l’uno del contratto, l’altro dell’atto di destinazione patrimoniale» spiegando inoltre che «oltre a questi problemi di carattere sistematico, i tentativi di lettura dell’art. 2645 ter c.c. hanno svelato, proprio con riferimento al rinvio all’art. 1322 e alla nozione di meritevolezza, una situazione di incertezza in ordine alla sua esatta definizione». 34 Secondo la dottrina di M. Bianca, Alcune riflessioni sulla meritevolezza degli interessi, cit., p. 791, l’interpretazione del concetto di meritevolezza è stato legato indissolubilmente «al ruolo che l’autonomia negoziale ha di volta in volta assunto nell’evoluzione del pensiero giuridico e del sistema privatistico». Ed è appunto per tale motivo che la riflessione dell’autrice muove dall’analisi storica della clausola contenuta nell’art. 1322 al fine di spiegarne l’effettiva correlazione tra quest’ultima e l’autonomia contrattuale. 32
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degli articoli in questione attraverso l’analisi delle dottrine che, nel silenzio del legislatore, si sono interrogate sul concetto di causa. La discrasia fra le suddette limitazioni (della liceità e della meritevolezza) viene in luce già agli albori del codice civile, dove il ruolo della meritevolezza non assume il valore negativo35 che odiernamente le viene ascritto rispetto al perseguimento di interessi privati, giacché, riprendendo fedelmente la relazione al codice civile «il nuovo codice non costringe l’autonomia privata a utilizzare soltanto i tipi contrattuali regolati dal codice, ma le consente di spaziare in una più vasta orbita e di formare contratti di tipo nuovo se il risultato pratico che i soggetti si propongono con essi di perseguire sia ammesso dalla coscienza civile e politica, dall’economia nazionale e dal buon costume»36. Va da sé che la possibilità di spaziare al di là dei confini tracciati dall’ordinamento assume, allora, un valore positivo che consente e non limita le possibilità dei privati di perseguire degli interessi diversi da quelli già presi in considerazione dal legislatore. Alla luce di quanto anzidetto, la clausola di cui al 1322 palesava la propria funzionalità solo per quelle tipologie contrattuali sprovviste di una disciplina particolare e, dunque, relativamente ai contratti atipici. Per cui – lungi dalla lettura estensiva della clausola in questione offerta dalla dottrina successiva e dipoi ripresa dalla giurisprudenza più recente – occorre rilevare che il concetto della meritevolezza, assente nel codice del 1865 ed apparso all’interno delle disposizioni preliminari dei contratti in generale nel codice del 1942, ha rivestito un ruolo del tutto autonomo e distinto rispetto alla clausola di liceità37. Rilevava, infatti, quale predicato dell’autonomia negoziale Per quanto attiene al valore negativo si vuol rappresentare l’ideologia tale per cui la clausola in questione viene odiernamente concepita quale limite all’autonomia contrattuale che si affianca al sindacato di liceità. 36 Cfr. Relazione al codice civile del 1942, n. 603. 37 Negli stessi termini M. Bianca, Alcune riflessioni sul concetto di meritevolezza degli interessi, cit., p. 791, riconosce l’autonomia della clausola in questione, identificando nella meritevolezza non un limite dell’autonomia privata, bensì un predicato della stessa «dato che gli interessi meritevoli segnano il campo in cui 35
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che consentiva alle parti contraenti di creare ed utilizzare schemi contrattuali, non astrattamente predeterminati, al fine di realizzare interessi meritevoli di tutela. È necessario perciò osservare che quantomeno nella sua primigenia interpretazione, la clausola de qua, assumeva una funzione propria che, non appiattendo il significato della meritevolezza in quello della liceità – a contrario dell’orientamento rappresentato dalla dottrina richiamata nel paragrafo che precede38 –, conservava la sistematica differenziazione negli ambiti in cui l’operatività di tale criterio si esplica39. Tuttavia, resta da chiedersi il perché dell’origine dell’interpretazione estensiva dell’art. 1322 rappresentata dalla corrente giurisprudenza. Al fine di risolvere il quesito soprainteso, dev’essere previamente messo in luce un aspetto caratterizzante dell’interpretazione precedentemente esposta circa il concetto di meritevolezza. Per questo motivo occorre segnalare che, secondo la teorica del Betti a cui si fa risalire la definizione che segue, la funzione economico-sociale attribuita alla causa del contratto limitava gli spazi concessi all’autonomia privata agli interessi della collettività40. Si trattava dunque di una limitazione coerente con la visione statalista dell’epoca che, da una parte, salvaguardava la libertà d’inizia-
l’autonomia privata può spaziare al di là dei confini dettati dai contratti tipici». L’unico limite atto ad incidere sull’autonomia negoziale allora poteva essere rappresentato, in ragione della collocazione sistematica della norma, dalla sanzione della nullità che accompagna l’illiceità del contratto. 38 Ci si riferisce alla lettura abrogativa dell’art. 1322 proposta dal A. Guarnieri, Il contratto immeritevole e il rasoio di Occam, cit., passim. 39 In altre parole, con tale assunto si vuol rappresentare che la clausola di meritevolezza e quella di liceità, in passato, rivestivano due funzioni differenti, l’una, rivolta alla possibilità del privato di servirsi di contratti innominati al fine di realizzare interessi meritevoli di tutela, l’altra, devoluta al controllo degli interessi privati nel limite delle norme imperative, del buon costume e dell’ordine pubblico. 40 Per quanto attiene agli interessi della collettività si fa riferimento agli interessi dell’economia nazionale, della coscienza civile e politica, dell’ordine pubblico e del buon costume cfr. M. Bianca, Alcune riflessioni sul concetto di meritevolezza degli interessi, cit., p. 793.
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tiva economica del privato nella possibilità espressa dall’art. 1322, dall’altra, funzionalizzava i fini perseguibili richiamandoli ad un’ottica socialmente orientata. Il risultato di tale operazione, quindi, faceva si che al privato fosse riconosciuto il potere di regolamentare i propri interessi attraverso l’utilizzo di contratti atipici purché gli scopi sottesi allo schema negoziale fossero in linea con la complessiva politica economica del tempo41, giacché – per riprendere le parole della Relazione al codice civile – «l’ordine giuridico… non può apprestare protezione al mero capriccio individuale, ma a funzioni utili che abbiano una rilevanza sociale, e come tali, meritino di essere tutelate dal diritto»42. Le dottrine successive – ed è qui che nasce l’equivoco interpretativo43 – fortemente influenzate dagli orientamenti liberisti che si sono sviluppati alla caduta del regime fascista, hanno inteso la formula dell’art. 1322 non già in un’ottica positiva, bensì quale ulteriore limite all’autonomia privata44.
Sull’interpretazione della dottrina del Betti, S. Tonetti, Intesa anticoncorrenziale, cit., p. 1303, riferisce che la causa giustificatrice del contratto non può dirsi superata dal vaglio rappresentato dalla condizione di liceità, ma occorre anche che quest’ultimo sia «al contempo diretto a realizzare una funzione d’interesse sociale e, quindi, non può risultare meramente destinato a soddisfare il capriccio o la vanità delle parti». 42 Cfr. Relazione al codice civile, n. 603. 43 Secondo la dottrina di M. Bianca,M. Bianca, Alcune riflessioni sul concetto di meritevolezza degli interessi, cit., p. 790, tale equivoco rappresenterebbe «il peccato originale del giudizio di meritevolezza» che secondo le dottrine successive è stato concepito quale limite, e non quale predicato, dell’autonomia negoziale segnandone «inevitabilmente il destino». 44 Cfr. A. Guarnieri, Il contratto immeritevole e il rasoio di Occam, cit., p. 254, secondo il quale «Per Betti, l’illiceità del negozio e cioè la contrarietà a norme imperative, all’ordine pubblico, al buon costume, non è più, come vuole la dottrina tradizionale, l’unica ipotesi di esclusione della sanzionabilità del contratto: affinché una promessa contrattuale sia coercibile, occorre che sia assistita da una causa non solo lecita, ma anche idonea a realizzare funzioni socialmente utili e per ciò giustificative dell’intervento sanzionatorio dell’ordinamento. In tal modo accanto ai tradizionali limiti negativi dell’autonomia privata il cui superamento determina l’illiceità del negozio, viene posta la nuova clausola di utilità sociale, intesa come limite positivo dell’autonomia privata, che richiede cioè la positiva rispondenza del contratto agli interessi generali della società». 41
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Le dottrine a cui si fa riferimento hanno appunto valutato l’interpretazione bettiana come antiliberista45, ascrivendo alla clausola in questione un contenuto negativo volto ad incidere sull’autonomia privata in virtù della meritevolezza o meno del contratto, a prescindere dalla tipologia – tipica o atipica – prescelta, assegnando di fatto alla clausola in questione il potere di determinare la nullità del contratto alla stregua della clausola di liceità46. La genesi di tale orientamento si deve al passaggio dall’interpretazione della causa, quale funzione economico-sociale, alla causa quale funzione economico-individuale del contratto47, che vede 45 È qui che sorge l’errore, difatti, come autorevolmente osservato da M. BianAlcune riflessioni sul concetto di meritevolezza degli interessi, cit., p. 794, «una lettura del pensiero bettiano che non si fermi superficialmente ad una etichettatura normativista e antiliberista, deve individuare in quelle riflessioni uno dei riconoscimenti più significativi dell’intendimento del principio di autonomia negoziale quale valore che trascende la norma giuridica, collocandosi in una sfera extra statuale dotata di una sua percettività originaria ma abbisognosa di una ricezione da parte dell’ordinamento». 46 Le stesse considerazioni vengono svolte da M. Bianca, Alcune riflessioni sul concetto di meritevolezza degli interessi, cit., p. 796, la quale rappresenta che «tutte le successive teorie sulla meritevolezza […] pur nella diversità delle impostazioni, sono accomunate dal timore di riprodurre un modello di meritevolezza valutato negativamente quale limite e controllo dell’autonomia negoziale […] in tutte le teorie postbettiane la meritevolezza rimane infatti ingabbiata in una valutazione negativa che la concepisce quale giudizio che in quanto tale definisce la patologia dell’atto di autonomia negoziale, al pari di quanto avviene per il giudizio di illiceità». L’autrice, rappresenta inoltre che da siffatta interpretazione (equivoca) in merito alla definizione di meritevolezza, sorge l’idea che la clausola di cui all’art. 1322 debba essere intesa non già quale predicato dell’autonomia contrattuale, bensì quale ulteriore limite. Tale aspetto si coglie anche nella interpretazione anti liberale che viene fatta da A. Guarnieri, Il contratto immeritevole e il rasoio di Occam, cit., p. 254, con riferimento alla Relazione ministeriale al codice sull’art. 1322 «l’autonomia privata non è limitata ai tipi di contratto regolati dal codice, ma può spaziare in una più vasta orbita, se il risultato pratico che i soggetti si propongono di perseguire sia ammesso dalla coscienza civile e politica, dall’economia nazionale, dal buon costume e dall’ordine pubblico (art. 152, comma 2). Ciò vuol dire che l’ordinamento giuridico non appresta protezione al mero capriccio individuale, ma a funzioni utili, che abbiano una rilevanza sociale, e, come tali, meritino di essere tutelate dal diritto; il che rappresenta ancora un vincolo alla volontà privata». 47 La teoria della causa del contratto quale funzione economico individuale si deve al G.B. Ferri, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, cit., p. 370 ss.
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quale unico limite ascrivibile all’autonomia negoziale: l’illiceità del contratto. Secondo tale dottrina la causa del contratto ritroverebbe la propria funzione non già nella funzione sociale, bensì nell’interesse individuale manifestato dalle parti contraenti48. Il portato di tale esegesi, che si fa risalire alla dottrina del Ferri, adduce alla clausola di meritevolezza un ruolo identico alla clausola di liceità, giacché il criterio da cui si deduce l’immeritevolezza del contratto attiene alla rispondenza di quest’ultimo alle norme imperative49. In altre parole, l’identificazione fra il giudizio di meritevolezza ed il giudizio di liceità risiede nel fatto che per pervenire al primo, si deve necessariamente fare riferimento ai criteri dettati dal secondo e, dunque, al contenuto normativo di cui all’art. 1343 c.c.50; tale assunto si coglie appieno nella sentenza ad oggetto della presente nota, nella quale la Corte di legittimità, come si è detto, deduce l’immeritevolezza e, quindi, l’inefficacia giuridica del contratto plurilaterale atipico siglato dalla farmacista con gli appartenenti di categoria, in quanto contrario ai principi di ordine pubblico che mirano a tutelare (e a favorire) la concorrenza.
Cfr. G.B. Ferri, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, cit., passim. Avendo riguardo all’opera di G.B. Ferri, Il negozio giuridico fra libertà e norma, Rimini, 1992, p. 128, l’autore riferisce che se da una parte il legislatore nella relazione al codice civile ha tentato di introdurre, con il criterio della meritevolezza, un giudizio nuovo e diverso rispetto a quello della liceità «non possiamo dire che essi (riferito agli intenti del legislatore) si siano realizzati. Innanzitutto perché nello stabilire quali dovessero essere i criteri alla luce dei quali valutare la meritevolezza dell’interesse contrattuale, la Relazione al codice civile n. 603 […] già aveva espressamente fatto riferimento sia all’ordine pubblico sia al buon costume e l’autonomo (rispetto ai predetti principi) richiamo alla coscienza civile e politica e agli indirizzi dell’economia nazionale lascia intendere come, con esso, si volesse alludere all’unica formula ulteriore in cui la coscienza civile e polita e l’economia nazionale potevano emergere quali criteri vincolanti di valutazione e cioè a norme e regole, necessariamente imperative». 50 Fra gli autori che identificano il criterio di meritevolezza e quello di liceità devono segnalarsi V. Roppo, Il Contratto, in Tratt. Iudica-Zatti, Milano, 2001, p. 424 ss. e A. Guarnieri, Meritevolezza dell’interesse e utilità sociale del contratto, cit., p. 800 ss. 48
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La dogmatica omogeneità fra le clausole sopracitate sorge dunque da un’interpretazione errata della formula bettiana, ciò in quanto solo allorquando la clausola di meritevolezza viene omogeneizzata alla clausola di liceità, la prima può assumere un valore negativo atto ad incidere sull’autonomia negoziale e, perciò, potrebbe essere utilizzata (come nel caso di specie) quale criterio di giudizio afferente alla inefficacia giuridica del contratto51. Secondo quanto anzidetto è evidente che la Suprema Corte, nel caso di specie, ha utilizzato non già il criterio della causa in concreto, quanto, piuttosto il criterio della causa quale funzione economico-individuale del contratto52. Risulta perciò necessario prendere le distanze dall’interpretazione offerta dalla Cassazione, che seppur facente riferimento alla teoria della causa in concreto, di fatto utilizza tutt’altro concetto di causa53. Il nodo cruciale del tema si evince nella necessaria determinazione di ciò che s’intende per causa in concreto e ciò che s’intende
Cfr. S. Tonetti, Intesa anticoncorrenziale, p. 1304, il quale sostiene che «Sulla base delle predette teorie, in definitiva, i contratti atipici immeritevoli di tutela altro non sarebbero che accordi contrari a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume». 52 L’applicazione di tale criterio induce a privare l’art. 1322 del suo ruolo tipico, giacché come autorevolmente sostenuto da D. Achille, La funzione ermeneutica della causa concreta del contratto, cit., p. 3, «è noto come la funzione economico individuale della causa, al fine ultimo di contrastare le istanze dirigistiche connesse al legame tra la causa del contratto e del tipo negoziale, finisce per ricondurre il controllo di meritevolezza alla liceità, escludendo qualsiasi rilevanza della nozione di meritevolezza che si identificherebbe nel controllo di liceità di cui all’art. 1343 c.c., con una sostanziale abrogazione del dettato normativo di cui all’art. 1322, comma 2, c.c.». 53 Per dovere di precisazione, la presente nota non intende criticare la decisione della Corte in merito alla nullità dell’intesa raggiunta tra i farmacisti, giacché alla nullità della medesima si sarebbe giunti anche in applicazione del disposto di cui all’art. 1343. A contrario, l’intento di chi scrive vuol rappresentare che l’iter argomentativo mosso dalla Suprema Corte, si rappresenterebbe come errato poiché facente riferimento ad un concetto di causa ormai desueto, che non può attribuire all’art.1322 un ruolo di controllo rispetto al sindacato di legittimità previsto in un altro articolo (1343). 51
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per causa quale funzione economico individuale54. È stato precedentemente rilevato che la seconda tipologia di definizione di causa sfugge dal contenuto normativo del 1322 co. 2 appiattendolo al significato della illiceità anche allorquando, come nel caso di specie, si fa riferimento ai principi generali dell’ordinamento giuridico. Il portato di tale interpretazione fa sì che l’autonomia negoziale consacrata nell’articolo in questione assuma le vesti di clausola generale, alla stregua della clausola della liceità e della buona fede. Per quanto attiene, invece, alla causa in concreto deve dirsi che l’adozione di tale tipologia di criterio conserva l’originaria distinzione sistematicamente determinata dagli artt. 1322 e 134355, per la quale la meritevolezza degli interessi perseguiti rimane un carattere a sé stante, che descrive il connotato sociale che devono rivestire gli interessi delle parti contraenti. Diversamente dalla nozione di causa precedentemente individuata, la teoria della causa in concreto permette di prendere in considerazione tanto l’elemento soggettivo, rappresentato dallo scopo programmatico che le parti assegnano all’operazione negoziale, quanto l’elemento oggettivo, contrassegnato appunto dall’indice di meritevolezza, che
54 Sul punto D. Achille, La funzione ermeneutica della causa concreta del contratto, cit., p. 3, segnala che «sembra opportuno un chiarimento preliminare circa l’assimilazione della causa concreta del contratto alla diversa nozione di causa quale funzione economico-individuale, vale a dire alla differente opinione dottrinale che si è affacciata nella letteratura più recente in luogo della nozione bettiana di causa quale funzione economico-sociale del contratto. In merito non sembra inutile precisare che le due nozioni […] sono e restano non assimilabili, mentre non di rado dottrina e giurisprudenza mostrano di ignorare la distinzione, confondendo e non tenendo in debito conto le differenze fra le stesse» analogamente a quanto accade nel caso di specie. 55 Cfr. D. Achille, La funzione ermeneutica della causa concreta del contratto, cit., p. 3, adduce che diversamente dalla determinazione del ruolo della meritevolezza nella teorica della causa quale funzione economico-individuale «la ricostruzione della causa in concreto evidenzia come la meritevolezza condivida con la causa la funzione di strumento di selezione degli interessi riconosciuti dall’ordinamento in quanto socialmente rilevanti, considerando l’elemento causale quale requisito di meritevolezza degli interessi perseguiti, ma non mancando di evidenziare l’impossibilità di ridurre nel profilo causale la meritevolezza, stante il differente ambito applicativo dei due concetti».
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consente all’ordinamento di selezionare gli interessi socialmente rilevanti. Delle due interpretazioni, allora, soltanto una riconosce positivamente alla meritevolezza un ruolo autonomo, separato e coerente con la collocazione sistematica di cui all’art. 1322 co. 2 e con l’interpretazione offerta dalla Relazione al codice civile, appurato che la nozione di meritevolezza operata dall’altra teoria priva quest’ultima di ogni valenza assiologica56. Pare opportuno dunque procedere ad una rilettura dell’art. 1322 co. 2 al fine di individuare distintamente il contenuto dispositivo della norma in questione che contiene non già un limite all’autonomia privata, bensì un principio che individua nella meritevolezza un predicato dell’autonomia negoziale. Occorre perciò rilevare una necessaria dicotomia fra la meritevolezza e la liceità per la quale, la prima, attiene alla possibilità di individuare al di fuori delle tipologie contrattuali predeterminate dal legislatore degli scopi socialmente rilevanti, la seconda individua un vero e proprio strumento di controllo dell’autonomia negoziale. È solo l’illiceità, infatti, che può ricondursi alla generalità delle tipologie contrattuali considerato che la stessa è rivolta ad individuare, secondo i criteri che vengono predeterminati dalla legge, i contratti privi di giustificazione in quanto rivolti a realizzare interessi immeritevoli di tutela57. Per quanto attiene al principio
D. Achille, La funzione ermeneutica della causa concreta del contratto, cit., p. 4, secondo cui «Emerge quindi con evidenza, tanto in base al concetto di interesse quanto in ragione del ruolo della meritevolezza dell’interesse presi in considerazione dalle due riferite nozioni di causa, come la differenza fondamentale attenga alla valutazione ed alla rilevanza sociale dell’atto di autonomia privata, che mentre vengono private di qualsiasi importanza nella concezione della causa come funzione economica-individuale, assumono un rilievo centrale determinante nella nozione di causa in concreto». 57 Secondo quanto affermato da R. Sacco, La qualificazione, cit., p. 568, «Il contratto è volto a costituire, regolare o estinguere un rapporto. Questo rapporto tutela un interesse. Il legislatore regolamenta il contratto con divieti generici (art. 1343) e con divieti specifici, adottati a proposito dei tipi contrattuali, la cui violazione darà luogo a nullità. Poiché i divieti legali, rivolti a concludere un contratto tipico, colpiscono l’immeritevolezza di un rapporto, l’art. 1322 avverte che non 56
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ricondotto al 1322 si deve necessariamente disconoscere, in luogo delle interpretazioni estensive della clausola in questione, un’operatività generale, considerato che attiene all’alveo dei contratti atipici.
6. Conclusioni Solo attraverso la rilettura dell’art. 1322 co. 2 nell’ottica della causa in concreto può affermarsi l’autonomia ed il portato sistematico del principio di meritevolezza, che nelle vesti di giudizio – ossia di controllo dell’autonomia negoziale – sfugge dal proprio significato oltre che, naturalmente, dalla sua funzionalità58. È stato rappresentato che solo attraverso un’interpretazione fuorviante dell’articolo in questione si può individuare in quest’ultimo un ulteriore tipologia di controllo che, peraltro, svuoterebbe di ogni ragione la distinzione tra contratti tipici e atipici. Volendo aderire alla tesi di M. Bianca, a cui si è fatto riferimento nel paragrafo precedente, dev’essere rilevato che dall’articolo in questione può trarsi non già una clausola generale, bensì un principio dell’ordinamento atto a riconoscere nell’autonomia contrattuale un diritto fondamentale dell’individuo, che ascrive alla meritevolezza il ruolo di predicato di tale autonomia e non di strumento di controllo59; motivo per cui dev’essere necessariamente attribuita alla sfugge alla nullità colui che, per evitare il rapporto vietato, conclude un contratto che vuol proteggere quello stesso interesse con un rapporto diverso da quello che corrisponde al contratto tipico». 58 Sul punto appare utile richiamare l’opinione critica del Sacco (R. Sacco, La qualificazione, cit., p. 568) in merito all’inoperatività in senso generale della clausola in questione «gli autori che hanno rivolto la loro attenzione all’art. 1322, salutandolo come una regola dalla grande capacità espansiva, non hanno mai portato un esempio, reale o anche solo immaginario, in cui la nullità del contratto dipenda proprio da tale articolo». 59 «In realtà si tratta di accogliere la distinzione tra principi e clausole generali, individuando nell’autonomia negoziale un principio dell’ordinamento e nella buona fede una clausola generale che impone all’interprete un giudizio valutativo di rinvio al principio di solidarietà. Tale distonia può essere superata solo ove si
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meritevolezza un’interpretazione positiva che riconosce, nell’autonomia negoziale, espressamente sancita all’art. 1322, un principio coerente all’assetto ordinamentale interno e comunitario60. Come autorevolmente sostenuto dalla giurista, siffatta interpretazione, che riconosce nell’autonomia negoziale un diritto fondamentale61, ritrova il proprio limite nel principio di solidarietà sociale garantito dalla clausola generale di buona fede che, vietando l’abuso della libera autonomia, funge da parametro di conformità dell’atto di autonomia negoziale al principio di solidarietà62. Appare dunque significativo osservare che la formula della meritevolezza dev’essere riletta alla luce di quella che fu la teoria bettiana che, secondo l’interpretazione offerta dal codice civile, assegnava un’autonomia funzionale a detta formula identificando i fini perseguibili e, perciò meritevoli di tutela, dei privati. Motivo per il quale deve ribadirsi che va nettamente disconosciuta la dogmatica omogeneità fra la clausola di liceità e l’indice di meritevolezza cui devono dirigersi le parti contraenti, appurato che il principio descritto dall’art. 1322 racchiude in sé il riconoscimento codicistico e costituzionale della possibilità, prevista da parte dell’ordinamento
accolga questa distinzione e si acceda ad una moderna concezione dell’autonomia negoziale che, se pure espressione della libertà dell’individuo, non possa svolgersi in contrasto con il principio di solidarietà sociale». Così M. Bianca, Alcune riflessioni sul concetto di meritevolezza degli interessi, cit., p. 804. 60 Cfr. M. Bianca, Alcune riflessioni sul concetto di meritevolezza degli interessi, cit., p. 812, la quale sostiene che «può ritenersi allora che la meritevolezza, in quanto specchio dei principi di un ordinamento, consente di superare il dettato di norme ordinarie di carattere generale, in quanto strumento che consente di allargare le maglie dell’autonomia privata. Nel dialogo mai sopito tra norme e principi, la meritevolezza consente di superare non solo, come ha evidenziato l’analisi giurisprudenziale, le strettoie della disciplina di un tipo negoziale, ma consente altresì, proprio in considerazione dei principi, di superare i limiti posti da norme ordinarie, se la posta in gioco è la realizzazione di valori che in un dato momento storico sono ritenuti conformi all’assetto ordinamentale di una data società». 61 Cfr. M. Bianca, Alcune riflessioni sul concetto di meritevolezza degli interessi, cit., p. 804. 62 Negli stessi termini M. Bianca, Alcune riflessioni sul concetto di meritevolezza degli interessi, cit., p. 814.
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giuridico, di concludere contratti atipici in funzione di interessi socialmente rilevanti63. Per concludere, attraverso l’interpretazione positiva di siffatto principio, si può dedurre l’originaria ed originale funzione della nozione di meritevolezza nelle vesti di predicato dell’autonomia negoziale, che non afferisce alla struttura del programma negoziale alla stregua del sindacato di legittimità, ma che si concretizza quale strumento atto ad individuare gli interessi socialmente rilevanti che possono essere perseguiti attraverso figure le contrattuali atipiche64. Deve perciò ribadirsi che nella sentenza oggetto della presente nota, la Suprema Corte ha utilizzato un iter logico inadatto per pervenire alla nullità del contratto, appurato che l’indice di meritevolezza funge esclusivamente da criterio di selezione degli scopi perseguibili dai privati, motivo per il quale sarebbe stato più corretto dedurre l’immeritevolezza della convenzione intrapresa tra i farmacisti per l’illiceità della causa contrassegnata dalla contrarietà ai principi che mirano a tutelare la concorrenza fra imprenditori.
M. Bianca, Alcune riflessioni sul concetto di meritevolezza degli interessi, cit., p. 814, per riprendere gli stessi termini «La meritevolezza, non essendo un giudizio, non può essere accostata al giudizio di illiceità del contratto, né tantomeno, seguendo retaggi del passato, al controllo di utilità sociale del contratto. Essa, al contrario, è il grimaldello che consente l’accesso dei privati al sistema dei valori […]. La meritevolezza, non essendo un giudizio, non incide sulla validità dell’atto di autonomia negoziale ma indica unicamente i binari entro i quali lo stesso può spaziare. Pertanto, la valutazione della meritevolezza è principalmente demandata al legislatore mentre al giudice spetta il compito, non di sanzionare l’atto immeritevole, il quale sarebbe nullo, ma inesistente, ma di identificare i valori che rappresentano i binari della meritevolezza». 64 M. Bianca, Alcune riflessioni sul concetto di meritevolezza degli interessi, cit., p. 815, deduce inoltre che «il piano in cui opera la meritevolezza è più ampio di quello del singolo rapporto contrattuale e della giustificazione dello stesso. La nozione di meritevolezza non si limita alla valutazione della giustificazione della singola operazione contrattuale, investendo una valutazione più complessa dell’atto di autonomia negoziale. La causa e il giudizio di liceità sono circoscritti ai rapporti contrattuali e quindi agli atti di autonomia a contenuto patrimoniale, mentre la meritevolezza esprime la funzione di qualsiasi atto di autonomia, anche a contenuto non patrimoniale». 63
Corte di Cassazione – Sezione Seconda Civile 26 maggio 2021, n. 14585 (sent.) Presidente Manna, Relatore Oricchio Permuta di cosa futura – Determinabilità dell’oggetto contrattuale – Autonomia privata Il preliminare di permuta di cosa presente contro cosa futura è nullo per indeterminatezza dell’oggetto quando abbia ad oggetto rispettivamente una porzione di un terreno ed immobili da costruire quando i terreni e i fabbricati siano determinati unicamente nella loro misura con riferimento ad una percentuale, senza indicazione della loro collocazione e della dimensione dei fabbricati (massima non ufficiale).
Dalla motivazione (omissis) Più specificamente risulta che la Corte distrettuale ha espressamente considerato il “riferimento al 75% ed al 25%”, ritenendolo comunque indeterminabile come oggetto del contratto preliminare per mancanza della “esatta collocazione della parte di terreno” e della “esatta collocazione delle costruzioni”, con indicazione omessa di dimensioni ed ubicazione dei fabbricati. Quanto al denunciato preteso vizio di violazione di legge con riguardo alle norme innanzi indicate il motivo è infondato in quanto – a differenza di ciò che prospetta il ricorrente – la Corte territoriale non ha fatto malgoverno di norme e di principi. Risultano, anzi, interpretati ed applicati correttamente arresti giurisprudenziali di questa Corte enunciati proprio per fattispecie analoghe. Al riguardo non possono che richiamarsi il condiviso e qui ribadito principio che questa Corte ha già avuto modo di enunciare allorché ha affermato che:
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La vendita di cose generiche, appartenenti ad un “genus limitandum” è ammissibile, in virtù del principio di conservazione del negozio giuridico sancito dall’art. 1367 c.c., anche rispetto agli immobili, relativamente al “genus limitatum” costituito dal complesso di un determinato fondo. Più in particolare, nella compravendita di un terreno che debba essere distaccato da una maggiore estensione, e indicato soltanto quantitativamente nella misura della sua superficie, sussiste il requisito della determinabilità dell’oggetto quando sia accertato che le parti avevano considerato la maggior estensione di proprietà del venditore come “genus”, essendo stata la stessa perfettamente individuata nel contratto, nonché stabilito la misura della estensione da distaccare, e sempre che per la determinazione del terreno venduto non debba richiedersi una nuova manifestazione di volontà delle parti, null’altro occorrendo, ai fini della sussistenza del suddetto requisito, se non l’adempimento del venditore che deve prestare la cosa determinata solo nel genere attenendosi al disposto dell’art. 1178 c.c. Tale requisito di determinabilità dell’oggetto sussiste quando nel contratto siano contenuti elementi prestabiliti dalle parti, che possono consistere anche nel riferimento a dati di fatto esistenti e sicuramente accertabili, i quali siano idonei alla identificazione del terreno da trasferire mediante un procedimento tecnico di mera attuazione che ne individui la dislocazione nell’ambito del fondo maggiore, per cui la consegna di una parte piuttosto che di un’altra risulti di per sé irrilevante, essendo i diversi tratti di terreno del tutto equivalenti: per esempio, indicando l’ubicazione e la forma all’interno della più ampia superficie, ovvero demandando ad un terzo o a una delle parti la determinazione. Rileva per contro l’impossibilità di determinare la esatta consistenza del terreno da trasferire nel caso in cui sussistano margini di dubbio sulla identità del terreno venduto e si renda perciò necessario tornare alla determinazione dell’oggetto con un patto successivo. (Nella specie la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva dichiarato la nullità del contratto di vendita di un terreno per totale indeterminatezza ed indeterminabilità dell’oggetto, in quanto che, mentre era esattamente individuato, con l’indica-
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zione dei confini, il terreno dal quale operare il distacco, in base agli elementi contenuti nel contratto non risultava in alcun modo specificata la ubicazione e la forma della superficie venduta all’interno della più ampia superficie, con la conseguente impossibilità di individuarla) (Cass. civ., Sez. Seconda, Sent. 29 marzo 2006, n. 7279, nonché – in precedenza e conformemente – Cass. n. 13098/1997 e, con riferimento ad altri profili fattuali – Cass. n. 24172/2013, con la quale comunque si affermava la necessità quantomeno di una concreta determinabilità “della porzione dell’edificio che il permutante costruttore si è impegnato a realizzare”). Il motivo va, dunque e nel suo complesso, respinto. (omissis) 6. Il ricorso va, pertanto, rigettato. 7. Le spese seguono la soccombenza e si determinano come in dispositivo. (omissis) P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento in favore delle parti controricorrenti delle spese del giudizio (omissis).
PERMUTA DI COSA FUTURA E DETERMINABILITÀ DELL’OGGETTO CONTRATTUALE Pietro Libeccio (Dottore di ricerca presso l’Università degli Studi di Sassari)
Sommario: 1. Il caso. – 2. L’oggetto del contratto: alcune nozioni di base. – 3. L’oggetto futuro. – 4. Le domande dell’oggetto del contratto. Le risposte del giurista. – 5. Considerazioni di sintesi.
1. Il caso Il caso affrontato dalla sentenza in esame può essere così riassunto: due sorelle stipulano con il loro fratello un contratto preliminare di permuta di cosa presente (costituita dal 75% dei loro terreni, indicati e identificati) contro cosa futura (ossia il 25% delle costruzioni che il fratello avrebbe realizzato sui medesimi terreni). Giunto il termine entro cui, in adempimento del contatto preliminare, le parti avrebbero dovuto stipulare il contratto definitivo, le sorelle si rifiutano di firmare e di cedere i loro terreni. Pertanto, il fratello conviene in giudizio le sorelle domandando al Tribunale di pronunciare con sentenza il trasferimento della proprietà in proprio favore ex art. 2932 c.c. e, in subordine, di condannare le sorelle al pagamento della penale pattuita nel contratto preliminare. Il Tribunale in via preliminare rileva e dichiara la nullità del contratto preliminare per indeterminabilità dell’oggetto, e conseguentemente rigetta le domande dell’attore. Infatti, secondo quanto affermato dal Tribunale, il riferimento contenuto nel contratto a semplici percentuali non sarebbe sufficiente a rendere determinabile l’oggetto del contratto, mancando
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dati per individuare l’esatta collocazione della parte di terreno e l’esatta collocazione delle costruzioni, nonché delle loro dimensioni. La sentenza è confermata in Appello e viene impugnata mediante ricorso per Cassazione con cui il fratello lamenta, tra l’altro, l’errata interpretazione ed applicazione da parte della Corte di Appello degli artt. 1346 e 1367 c.c. Sebbene le argomentazioni del ricorso non siano interamente esplicitate dal testo della sentenza, dai riferimenti agli artt. 1346 e 1367 c.c. è possibile dedurre che il ricorrente abbia sostenuto che il requisito della determinabilità dell’oggetto del contratto sia rispettato anche in caso di semplice riferimento a porzioni per percentuali (del terreno e dei fabbricati) e che in ogni caso il principio di conservazione del contratto imponga di interpretare il contratto in modo da evitarne, per quanto possibile, l’invalidità. La Corte di Cassazione rigetta il ricorso osservando, tra l’altro, come in caso di contratti aventi ad oggetto beni determinati soltanto nel genere (limitato) la determinabilità sussista quando le parti abbiano indicato dettagli sufficienti a consentire l’“identificazione del terreno da trasferire mediante un procedimento tecnico di mera attuazione che ne individui la dislocazione nell’ambito del fondo maggiore, per cui la consegna di una parte piuttosto che di un’altra risulti di per sé irrilevante, essendo i diversi tratti di terreno del tutto equivalenti” e ciò mancherebbe quando non sia “in alcun modo specificata la ubicazione e la forma della superficie venduta all’interno della più ampia superficie, con la conseguente impossibilità di individuarla”. La questione oggetto della sentenza – e su cui ci si soffermerà in queste pagine – è quindi il concetto di determinabilità dell’oggetto contrattuale. Come si vedrà, si tratta di concetto non semplice e che apre molte domande di difficile soluzione operativa per il giurista chiamato ad applicare la legge.
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2. L’oggetto del contratto: alcune nozioni di base L’oggetto del contratto è nominato dal codice civile tra i requisiti essenziali del contratto (art. 1325 c.c.), ne sono indicati i requisiti (art. 1346 c.c.) ed è dettata una parziale disciplina (artt. 1347, 1348, 1349 c.c.). Tuttavia, il codice civile non definisce cosa sia l’oggetto. La dottrina ha correttamente osservato come il significato di “oggetto” del contratto vari a seconda del contesto in cui il termine ricorre: talvolta indica il “bene” toccato dagli effetti contrattuali (come nei casi di cui agli artt. 1472 e 1531 c.c.), altre volte indica le “prestazioni” contrattuali (come nei casi di cui agli artt. 1347, 1348, 1349 c.c.)1. Più sinteticamente l’oggetto del contratto è il suo contenuto sostanziale2. Potrebbe sembrare scontato (quasi ovvio) definire l’oggetto del contratto con il “che cosa” del contratto. E con tale identificazione pensare di aver a che fare con uno dei requisiti del contratto più semplici. Eppure, come si avrà modo di vedere, proprio uno degli elementi apparentemente più semplici del contratto nasconde complessi equilibri, fonte di dubbi e liti come quelle di cui alla sentenza in commento. Dall’art. 1346 c.c. sappiamo che l’oggetto del contratto deve essere determinato o determinabile (su cui si soffermerà la presente riflessione). La dottrina correttamente puntualizza come il contratto ad oggetto indeterminabile sia diverso dal contratto con oggetto generico ossia il cui oggetto è indicato con riferimento a un genere. Mentre il contratto ad oggetto indeterminabile è nullo, il contratto ad oggetto generico è valido essendo determinabile secondo le regole indica V. Roppo, Il contratto, Milano, 2011, pp. 315-318. In questo senso C.M. Bianca, Diritto civile III. Il contratto, Milano, 2020, p. 286. In senso ancora più rigoroso N. Irti, Oggetto del negozio giuridico, in Noviss. dig. it., XI, p. 804. Altra parte della dottrina distingue l’oggetto dal contratto dal contenuto del contratto che avrebbe un significato più ampio, riferendosi a «l’oggetto del contratto qualificato dalla causa» (in questo senso V. Roppo, Il contratto, Milano, 2011, p. 319. Similmente A. Torrente, P. Schlesinger, Manuale di diritto privato, Milano, 2019, p. 587). 1
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te dall’art. 1178 c.c. (che, rubricato Obbligazione generica, dispone che «quando l’obbligazione ha per oggetto la prestazione di cose determinate soltanto nel genere, il debitore deve prestare cose di qualità non inferiore alla media»)3. Infatti, l’oggetto del contratto «è determinabile quando i criteri convenzionali e legali consentono di fissarne il contenuto»4, come nel caso dell’oggetto generico alla cui determinazione provvedono i citati criteri di cui all’art. 1178 c.c. La ragione per cui l’indeterminatezza dell’oggetto comporta nullità del contratto sembra quindi semplice: l’incertezza in ordine a ciò che è dovuto al debitore rende anche inapplicabile la tutela giuridica5. Non è possibile “tutelare” senza sapere cosa “tutelare”.
3. L’oggetto futuro Il contratto può avere ad oggetto anche cose future. Infatti, l’art. 1348 c.c. espressamente ammette che «la prestazione di cose future può essere dedotta in contratto, salvi i particolari divieti della legge». Il punto richiede due precisazioni. La prima precisazione è che la futurità dell’oggetto di cui all’art. 1348 c.c., anche detta futurità in senso oggettivo, va distinta nettamente dalla c.d. futurità in senso soggettivo, che invece ricorre quando la cosa già esiste in rerum natura ma non è nella titolarità del soggetto disponente (bensì in quella di altro soggetto). La futurità C.M. Bianca, Diritto civile III. Il contratto, Milano, 2019, p. 111 «L’obbligazione generica non è come tale un’obbligazione ad oggetto parzialmente indeterminato. La genericità dell’obbligazione non esclude infatti che il ben dovuto sia interamente determinato in ragione della sua appartenenza al genere e in applicazione dei criteri legali e negoziali di determinazione della prestazione. Criterio valevole per tutte le obbligazioni generiche è quello della qualità media». 4 C.M. Bianca, Diritto civile III. Il contratto, Milano, 2020, p. 295. 5 C.M. Bianca, Diritto civile IV. L’obbligazione, Milano, 2019, p. 84. 3
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in senso oggettivo, come si vedrà a breve, pone il problema della determinabilità dell’oggetto; la futurità in senso soggettivo pone il problema della disponibilità dell’oggetto6. La seconda precisazione è terminologica. Si è soliti riferirsi al contratto con oggetto futuro o alla futurità dell’oggetto. Tuttavia, ciò che è futuro non è l’oggetto del contratto ma l’esistenza della cosa che è descritta dall’oggetto descritto nel contratto (ossia pattuito). Infatti, l’oggetto del contratto deve necessariamente esistere, essere indicato (esplicitamente o implicitamente), pena la nullità del contratto per mancanza di uno dei suoi requisiti essenziali (artt. 1325 e 1418 c. 1 c.c.). Il codice civile stesso prevede alcune ipotesi di contratti con oggetto futuro. Talvolta per vietare che determinati tipi contrattuali possano avere ad oggetto beni futuri (come è il caso della donazione – art. 771 c.c.), altre volte per garantire che l’impegno contrattuale sia sufficientemente comprensibile alle parti (artt. 1938 e 1956 c.c.), altre volte ancora per supplire a possibili mancanze di determinabilità dell’oggetto futuro (art. 1560 c.c.). Pertanto, la legge ammette espressamente che il contratto possa avere ad oggetto cose future (art. 1348 cod. civ.) ma sempre a condizione che si tratti di cose determinate o determinabili (art. 1346 cod. civ.). Per tale ragione il legislatore ha dapprima indicato i requisiti dell’oggetto del contratto richiedendone quantomeno la determinabilità (art. 1346 c.c.) e dopo ha avvertito l’esigenza di ammettere espressamente la possibilità per la prestazione di avere ad oggetto cose future (art. 1348 c.c.). Futura può essere la cosa oggetto di prestazione ma non anche la sua determinabilità. Il contratto deve già contenere criteri in grado di consentire di rappresentare (ossia di rendere presenti) gli impegni contrattuali.
Esemplificativa della differenza tra futurità in senso oggettivo e futurità in senso soggettivo è la discussione circa la validità della donazione di beni altrui su cui si sono espresse le Sezioni Unite con la sent. n. 5068/2016. 6
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Infatti, la futurità dell’oggetto contrattuale non esime dalla chiara determinabilità del contenuto e, anzi, proprio la difficile prevedibilità di circostanze future accentua l’esigenza che i confini dell’impegno siano chiaramente delimitati e conoscibili per l’assuntore. Altrimenti il soggetto debitore non sarebbe in grado di rappresentarsi in modo sufficientemente chiaro e concreto (quindi determinabile) il significato del suo impegno7. Studiare il requisito della determinabilità dell’oggetto in relazione al contratto con oggetto futuro permette di illuminare una delle ragioni per cui l’oggetto del contratto deve essere almeno determinabile. La ragione, spesso rimasta in ombra nella dottrina e nella giurisprudenza, è la tutela dell’autonomia privata o, come è stato autorevolmente scritto «il requisito presidia la serietà dell’impegno contrattuale8». Se il contratto (e, più in generale, il negozio giuridico) è strumento dell’autonomia privata9 e richiede a pena di nullità l’accordo delle parti allora anche il suo contenuto non deve essere imponderabile altrimenti il contratto non esprimerebbe il consenso delle parti contraenti ma il loro assoggettamento a regole non volute. Per questa ragione si ritiene che lo ius variandi unilaterale del contratto sia valido (e non contrario a norme imperative) solo in
7 A tal fine, come si dirà infra in nota, verrebbe da chiedersi se talvolta il contratto con oggetto indeterminabile (nel senso di inestimabile) sia un contratto oscuro. Se così fosse allora la conseguenza non sarebbe sempre la nullità del contratto per indeterminabilità dell’oggetto ma la sua conservazione tramite “integrazione” secondo la regola prevista dall’art. 1371 c.c. 8 V. Roppo, Il contratto, Milano, 2011, p. 327. 9 Come noto l’autonomia privata è stata intesa in due sensi. Da parte della dottrina in senso naturalistico (ossia come potere dei privati preesistente le norme giuridiche e riconosciuto dal diritto), da altra parte della dottrina in senso normativo (ossia come facoltà riconosciuta ai privati dal diritto – e non ad esso preesistente – di “produrre” determinati effetti) – si v. per tutti N. Irti, Per una concezione normativa dell’autonomia privata, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2, 2018, pp. 555 ss. e spec. p. 560. Comunque si intenda l’autonomia privata, il contratto resta strumento di autonomia privata. Se l’autonomia privata è intesa in senso naturalistico perché con esso le parti esercitano un loro diritto naturale e preesistente ossia quello di regolare i rapporti tra privati; se l’autonomia privata è intesa in senso giuridico perché gli effetti sono posti non a prescindere dal consenso delle parti ma come loro conseguenza, seppure in quanto previsto dalla legge.
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quanto limitato da criteri che ne orientino e dirigano l’esercizio e che ne consentano il ragionevole controllo10. Sempre per questa ragione anche la determinazione dell’oggetto rimessa al c.d. mero arbitrio del terzo non è del tutto “arbitraria” ma incontra «limiti più generali, discendenti da senso stesso dell’atto di autonomia privata. Così, non sembra ammissibile che sia un terzo a determinare totalmente la prestazione contrattuale, di cui le parti non abbiano indicato almeno qualche elemento di identificazione»11 in grado di orientare e circoscrivere l’intervento del terzo arbitratore. Infine, proprio per tutelare il significato del contratto come atto di autonomia privata il legislatore, quando ha disciplinato ipotesi in cui è particolarmente avvertita la difficoltà per le parti di ponderare l’impegno contrattuale, ha richiesto per il soddisfacimento della determinabilità l’indicazione di un limite o quantitativo o temporale o oggettivo. Così ha fatto per la fideiussione per obbligazioni future in cui è richiesta l’indicazione dell’importo massimo garantito (art. 1938 cod. civ.)12, per la cessione dei crediti futuri in factoring in cui è richiesta l’indicazione di un limite temporale massimo entro il quale i crediti ceduti devono venire ad esistenza (art. 3, l. n. 52/1991) e così ha fatto la giurisprudenza in relazione alla cessione
10 La giurisprudenza è consolidata in questo senso (tra le molte pronunce si v. Cass. civ., Sez. II, 20 ottobre 2021, n. 29164). In dottrina si v. C.M. Bianca, Diritto civile III. Il contratto, Milano, 2020, p. 308. È invece generalmente ammesso il c.d. “contratto al buio” cioè il contratto firmato dalle parti senza leggerne il contenuto. Ciò che infatti la legge intende preservare non è l’effettiva conoscenza del contenuto contrattuale ma la sua effettiva conoscibilità v. C.M. Bianca, Diritto civile III. Il contratto, Milano, 2000, pp. 291 ss. Peraltro, la legge tollera il contratto al buio ma non anche il contratto “oscuro”: infatti l’art. 1371 c.c. dispone le regole finali per interpretare il contratto qualora, nonostante l’applicazione degli altri canoni ermeneutici, il contratto rimanga oscuro. Il punto apre prospettive affascinanti. Potrebbe chiedersi se talvolta il contratto con oggetto indeterminabile (ne senso di inestimabile) sia un contratto oscuro. Se così fosse allora la conseguenza non sarebbe sempre la nullità del contratto ma la sua “integrazione” tramite la regola prevista dall’art. 1371 c.c. 11 V. Roppo, Il contratto, Milano, 2011, p. 332. 12 La disposizione è stata novellata dalla l. n. 154/1992 che, proprio per evitare la nullità della fideiussione omnibus per indeterminatezza dell’oggetto futuro garantito, ha richiesto l’indicazione “dell’importo massimo garantito”.
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di crediti futuri, ammessa solamente a condizione che «nel negozio dispositivo sia individuata la fonte del credito»13.
4. Le domande dell’oggetto del contratto. Le risposte del giurista Come visto i requisiti dell’oggetto contrattuale non garantiscono solamente che il contratto abbia un contenuto e possa, dunque, esistere ed essere eseguito ma anche che il contratto sia espressione dell’autonomia privata dei contraenti. La determinabilità dell’oggetto contrattuale non soltanto domanda al giurista “che cosa” ma anche “chi” debba determinarne il contenuto e “perché”. Tre esempi di particolare attualità aiutano a comprendere come queste tre domande siano strettamente connesse e a prendere consapevolezza della complessità sottesa alla determinazione dell’oggetto contrattuale di cui si è occupata la sentenza in commento. In particolare si tratta di tre clausole convenzionali: (i) la clausola di rinegoziazione del contratto, (ii) la clausola di accollo di debiti futuri, (iii) la clausola di completezza. La prima clausola che esaminiamo è quella di rinegoziazione del contratto. Con la clausola di rinegoziazione le parti in caso di sopravvenienze (ad esempio, ipotesi di forza maggiore, impossibilità, eccessiva onerosità sopravvenuta etc.) al posto di attivare i rimedi che portano allo scioglimento del contratto (quali quelli previsti dal codice civile – c.d. rimedi risolutori) si impegnano a rinegoziare il contratto in buona fede per adeguarlo al mutato contesto socio-economico. Le parti al momento in cui concludono il contratto non sono ancora in grado di prevedere cosa potrà succedere in futuro, quali saranno i loro interessi al momento in cui si verificherà una sopravvenienza, né come converrà modificare il contratto per adattarlo
Ex multis v Cass. civ., Sez. I, 10 dicembre 2018, n. 31896.
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alle nuove circostanze. Tuttavia non vogliono rinunciare a concludere un contratto di lungo periodo e così prevedono che «in caso di sopravvenienze le parti si obbligano a rinegoziare il contratto secondo buona fede». La clausola di rinegoziazione ha suscitato ampio dibattito in dottrina e in giurisprudenza14. Tra i vari temi esaminati dalla dottrina si è discusso proprio quello relativo alla validità di una simile clausola. Secondo una prima opinione, sostenuta da autorevole dottrina, la clausola, se redatta genericamente (come sopra), sarebbe nulla per indeterminabilità del suo oggetto ossia per mancanza dei criteri con cui apportare le modifiche al contratto: «[…] una clausola che contempli il dovere di “rivedere” o “rideterminare” le condizioni del contratto, se redatta in maniera generica, può far dubitare addirittura della sua validità. Le clausole che rinviano a determinazioni future delle parti o di terzi una, o più specificazione del contenuto del contratto, debbono invero rivestire carattere di certezza in ordine ai criteri alla stregua dei quali deve compiersi la relatio e ai modi della loro operatività»15. Altra parte della dottrina ha invece sostenuto la validità delle clausole di rinegoziazione, anche quando redatte in modo non specifico, perché il contenuto delle modifiche al contratto da rinegoziare sarebbe comunque determinabile in sede di lite ad opera del giudice ricorrendo al criterio della natura dell’affare e al criterio della buona fede. Inoltre, dichiarare nullo il contratto contra14 Tra i molti si v. a favore della rinegoziazione F. Macario, Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Napoli, 1996, passim, e spec. p. 312 e ss. e p. 320 e ss. e, per un’efficace critica, A. Gentili, La replica della stipula: riproduzione, rinnovazione, rinegoziazione del contratto, in Contratto e impresa, I, 2003, pp. 708 e ss. Si segnala che il tema è tornato recentemente di attualità a causa dell’emergenza sanitaria: una sintesi operativa delle sentenze più recenti si può leggere in M. Manelli, Sopravvenienze e Covid-19: prime applicazioni giurisprudenziali della rinegoziazione secondo la relazione tematica della Cassazione num. 56/2020, in Contratti, 2, 2021, pp. 161 ss. 15 P. Rescigno, L’adeguamento del contratto nel diritto italiano, in Inadempimento, adattamento, arbitrato. Patologie dei contratti e rimedi, Milano, 1992, p. 305.
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sterebbe proprio con la volontà delle parti che, con l’introduzione di una simile clausola, manifestano la preferenza per la conservazione del contratto invece del suo scioglimento (che avverrebbe in assenza della clausola ricorrendo ai rimedi del codice civile). Infine, un’interpretazione conservativa del contratto che consenta di ritenere determinabile l’obbligo di rinegoziazione perché guidato dalle clausole generali (come la buona fede) si imporrebbe anche in virtù dell’art. 1367 c.c. che prescrive di interpretare le clausole del contratto nel senso che consenta di conservarne un’utilità (e, dunque, di evitarne la nullità). Non interessa in questa sede prendere posizione sul punto (e tantomeno interessa esaminare tutti i profili degli obblighi di rinegoziazione). Piuttosto ciò che interessa è osservare quali siano le domande dietro alle due posizioni. Chi sostiene la nullità di simili clausole per indeterminabilità dell’oggetto osserva che leggendo la clausola non è possibile comprenderne il contenuto, contenuto che dovrebbe essere determinabile secondo quanto indicato dalle parti contraenti al momento della conclusione del contratto. Tuttavia, non avendo le parti indicato alcunché al momento della conclusione del contratto (ma avendo preferito rinviare al futuro la ri-negoziazione), il suo contenuto verrebbe determinato quasi arbitrariamente ex post da parte del giudice secondo il sentire sociale o criteri di apparente razionalità economica (buona fede) e così il contratto perderebbe il suo significato di atto di autonomia privata, di atto che vincola solamente a condizione che sussista il consenso delle parti. Tanto è vero che eventuali successivi accordi per modificare il contratto sarebbero nuovi contratti che, per essere conclusi, richiedono una nuova manifestazione del consenso. Secondo questo primo orientamento, l’oggetto del contratto è determinabile se sono indicati criteri (“che cosa”) previsti dalle parti (“chi”) essendo il contratto atto della loro autonomia privata in grado di vincolarle solamente in base al consenso manifestato (“perché”).
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Chi sostiene la validità di simili clausole ne afferma invece la determinabilità osservando che l’autonomia privata delle parti si esaurisce nella scelta di volere il contratto mentre il resto potrebbe anche essere determinato successivamente dal giudice in base alla legge o a criteri di giustizia o efficienza economica (rappresentanti giuridicamente dalla “buona fede” e dall’“equità”). Tanto è vero che l’art. 1374 c.c. espressamente afferma che «Il contratto obbliga le parti non solo a quanto è nel medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge, o, in mancanza, secondo gli usi e l’equità». Come si vede la scelta tra ritenere determinabile l’oggetto della clausola o ritenerlo indeterminabile (e quindi nullo) dipende dalla scelta tra il chi debba determinare il contenuto del contratto (se le parti ora per allora, o il giudice). E tale ultima scelta dipende a sua volta dal perché (ossia per quale ragione) l’ordinamento riconosce l’autonomia privata dei contraenti, ossia dal significato che si intende dare al concetto di autonomia privata. La seconda clausola che esaminiamo è quella di accollo (art. 1273 c.c.), fattispecie che, come noto, si ha quando una parte (accollante) si accorda con il debitore (accollato) di assumere il relativo debito. L’accollo può avere ad oggetto anche debiti futuri ossia debiti che sorgeranno successivamente al momento in cui è stipulato l’accollo16. Tra i molti contratti in cui ricorre l’accollo di debiti futuri vi sono le cessioni di azienda, in cui è frequente incontrare clausole con cui si prevede che «… l’acquirente si assume tutto il contenzioso, anche futuro, anche relativo ai rapporti cessati …» senz’altra specificazione.
16 Il tema della determinabilità in caso di accollo di debiti futuri è sentito tanto da indurre una diffusa manualistica a precisare che «L’accollo di debiti futuri, al pari delle altre ipotesi di assunzioni di debiti futuri altrui (come la fideiussione, art. 1938 c.c.), soggiace alle stesse limitazioni relative all’oggetto del contratto: il debito, quindi, pur se futuro, deve soddisfare i requisiti di determinabilità di cui all’art. 1346 c.c.» (così G. Chiné – A. Zoppini, Manuale di diritto civile, 2020, p. 933).
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Se per determinabilità intendiamo il requisito che deve essere soddisfatto semplicemente perché il contratto possa essere in concreto eseguito allora, perché il contratto sia determinabile, è sufficiente la semplice comprensione letterale e completezza (il “che cosa giuridico” in senso lato). E in questo caso la lettera è chiara: «il contenzioso anche futuro». Se per determinabilità invece intendiamo il requisito che deve essere soddisfatto per garantire che il contratto sia espressione dell’autonomia privata, ossia la possibilità per i contraenti di percepire e stimare l’impegno contrattuale (il “che cosa giuridico-economico”), allora la disposizione potrebbe mancare di sufficiente concretezza e di determinabilità. Del resto, si potrebbe sostenere l’indeterminatezza di simili “garanzie” considerando che l’assunzione di responsabilità è estesa al contenzioso anche futuro, senza alcun limite di tempo entro cui detto contenzioso possa sopravvenire, senza limitazione a particolari categorie di eventi o tipi di contenzioso e financo estesa a rapporti già cessati di cui l’acquirente non è detto abbia contezza in base alla documentazione aziendale e di cui non è quindi in grado di conoscerne né il numero né la storia e quindi di stimare e di comprendere – neppure per sommi capi – la probabilità, l’entità e il tipo di contenzioso e quindi dell’impegno garantito. Come è stato autorevolmente sostenuto «Il principio della determinatezza dell’oggetto non enuncia un mero requisito di completezza del contratto ma esprime l’esigenza che il suo contenuto abbia quel minimo di concretezza che consenta alle parti di sapere quale vincolo esse assumono. Questo minimo di concretezza può essere dato o dal riferimento ad un determinato affare … oppure dalla fissazione dell’ammontare massimo della garanzia»17. Del resto, che la determinabilità esiga anche la possibilità di rappresentarsi (sia pure per sommi capi) la portata degli impegni assunti sarebbe dimostrato anche dai principi generali di cui è espressione l’art. 1938 c.c.18. Nell’ipotetica clausola come sopra indicata l’accol C.M. Bianca, Diritto civile V. La responsabilità, Milano, 2012, p. 499. L’art. 1938 c.c. disciplina le fideiussioni per obbligazioni future (o condi-
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lo di debiti futuri non soltanto manca di un ammontare massimo della garanzia o di uno stretto limite temporale ma neppure è prezionali). La disposizione è stata novellata dalla l. n. 154/1992 che, per evitare la nullità della fideiussione omnibus per indeterminatezza dell’oggetto futuro garantito, ha richiesto l’indicazione “dell’importo massimo garantito”. Solamente la presenza di un limite quantitativo consente di rendere determinato l’oggetto futuro e permette all’assuntore di rappresentarsi con sufficiente chiarezza l’impegno di debiti futuri, evitando che i debiti garantiti si estendano in modo inconoscibile e imprevedibile. Come affermato in giurisprudenza (ex multis v. Cass. civ., Sez. III, 26 gennaio 2010, n. 1520; Cass., civ., Sez. III, 23 settembre 2015, n. 18771), l’indicazione dell’importo massimo garantito è requisito richiesto ad validitatem per l’assunzione dei debiti futuri altrui dall’art. 1938 c.c. norma che, «pur essendo inserita nella disciplina tipica dello istituto della fideiussione, introduce un principio generale di garanzia e di ordine pubblico economico, suscettibile di valenza generale anche per le garanzie personali atipiche» (Cass. nn. 1520/2010 e 18771/2015) e quindi «deve ritenersi che la norma dell’art. 1938, seppure diretta a differente istituto, costituisca principio generale della materia applicabile anche ad impegni di natura ed esiti analoghi, seppure fondati su differenti fattispecie negoziali» (così Trib. Roma 18 dicembre 2002 in Giur. it., 2004, p. 989 e in Le Società, 2003, p. 1005. In questo senso in dottrina anche A. Torrente – P. Schlesinger, Manuale di diritto privato, Milano, 2015, p. 838; A. Greco, La determinabilità dell’oggetto nell’accollo di debiti futuri, 2008; A. Franchi, Riflessioni sulla manleva, in Contr. impr., 1, 2017, pp. 158 ss.; C. Ghigi, Il limite dell’importo massimo garantito: principio di garanzia e di ordine pubblico economico, in Giur. comm., 3, 2011, pp. 530 ss.; M. Angelone, Divieto di garanzie personali atipiche «omnibus», in Rass. dir. civ., 2011, p. 1267: «l’art. 1938 c.c., infatti, quale norma “transtipica” detta una disciplina “neutrale” il cui campo oggettivo di efficacia oltrepassa la ben delimitata area definita dal tipo»; G. Vaccaro, Le lettere di patronage. L’indicazione dell’importo massimo garantito (nota a Cassazione, 26 gennaio 2010, n. 1520), in Il Nuovo dir. delle soc., 2011, p. 33). L’esigenza di determinatezza dell’oggetto futuro garantito (intesa come conoscibilità dell’estensione dell’impegno al momento dell’assunzione) e di evitare l’accollo di un rischio economico indeterminato, è comune a tutte le garanzie personali in senso ampio (tipiche e atipiche) il che giustifica l’estensione analogica del requisito dell’importo massimo garantito. Infatti, l’obbligo di manleva (o accollo interno) ha funzione di garanzia personale atipica risolvendosi nell’obbligo di tenere indenne l’accollato (o manlevato) di quanto da egli dovuto al creditore. E il terzo-accollante, così come il fideiussore, deve conoscere con chiarezza (ex ante) la soglia massima della sua esposizione (rectius: assunzione) debitoria. Sul punto si v. anche la giurisprudenza di merito precedente e successiva la decisione di Cass. 1520/2010 che, in quanto espressione di un principio generale, ha ritenuto applicabile l’art. 1938 cod. civ. non soltanto alle fideiussioni ma a ogni altra ipotesi di assunzione del debito futuro altrui (come, per es. le lettere di patronage)
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sente il riferimento a uno specifico affare sicché l’impegno della garanzia resta sostanzialmente indefinibile per il garante. Ancora una volta la scelta tra le due soluzioni (ritenere determinabile o indeterminabile l’oggetto della clausola) dipende dal “perché” del requisito della determinabilità ossia dalla sua ratio. Se semplice requisito per la comprensione del contenuto dello scambio o se requisito per la tutela dell’autonomia privata dei contraenti (e, anche qui, dovrebbe poi chiarirsi cosa si intende con autonomia privata). La terza clausola di cui ci occupiamo e che rivela le domande sottese al problema della determinabilità dell’oggetto contrattuale è la clausola di completezza. La clausola di completezza (anche conosciuta con il nome di clausola d’intero accordo o merger clauses o entire agreement clauses)19 di regola viene inserita in contratti frutto di lunghe e complesse tratv. ex multis C. App. Bari 6 ottobre 2014 (in Giur. it., 2016, 1879); e Trib. Pistoia 31 luglio 2008 (in Fallimento, 2008,11, p. 1308 con nota di Costanza). 19 M. Confortini, Clausola di completezza, in M. Confortini (a cura di), Clausole negoziali, Milano, 2017, pp. 975 ss. nota 1, riporta tre esempi di clausola di completezza dal seguente tenore: «Il presente Contratto, e tutti gli allegati dello stesso, in esso contenuti o ai quali si rimandi, costituisce l’intero accordo tra le Parti in relazione all’oggetto ivi contemplato, e annulla e sostituisce tutte le dichiarazioni, gli impegni, le assunzioni, gli obblighi, le comunicazioni in forma verbale o scritta, le intese e gli accordi precedentemente intercorsi tra le Parti in relazione o in connessione con qualsiasi delle questioni a cui il presente Contratto si applica o si riferisce». «Il presente Contratto e i suoi allegati, che ne formano parte integrante e sostanziale, costituiscono l’intero e unico Accordo tra le parti; esso supera e sostituisce ogni precedente accordo o intesa scritta o verbale intervenuta tra le parti, qualsiasi dichiarazione, informazione o rappresentazione resa dalle parti nello svolgimento delle trattative, così come i documenti formati nel corso delle trattative devono intendersi superati dal presente Contratto e non possono essere invocati allo scopo di attribuire al Contratto a ogni sua singola clausola un significato diverso da quello risultante dal testo». «Il presente Accordo contiene tutte le clausole del contratto; qualsiasi dichiarazione, promessa, accordo, anche posteriore al closing, che non siano espressamente previsti, riprodotti o richiamati, devono considerarsi estranei alla volontà delle parti e non fanno parte del presente Accordo. Le dichiarazioni delle parti che hanno preceduto, accompagnato o seguito la stipulazione dell’Accordo, non possono essere usati per attribuire all’Accordo un significato diverso da quello risultante dal suo testo». Altre formulazioni della clausola, ma in lingua inglese,
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tative per limitare la possibilità che il giudice e terze parti possano cambiare le conseguenze volute dalle parti ricorrendo all’interpretazione e all’integrazione del contratto. La clausola di completezza mira quindi a “sigillare il contratto” rendendolo resistente all’ingerenza di elementi esterni a quelli indicati nel testo contrattuale. Volendo ricostruire una clausola di completezza tipo combinando quelle riferite in nota si potrebbe dire che essa si compone di almeno tre affermazioni: (i) il contratto e i suoi allegati costituiscono l’intero e unico accordo; (ii) sono sostituite, superate, estinte o novate tutte le intese precedenti al contratto; (iii) ogni dichiarazione o comunicazione o informazione resa durante le trattative non può essere invocata per attribuire al contratto un significato diverso da quello risultante dal suo testo. La clausola di completezza, così come generalmente diffusa, ha quindi una duplice funzione: (i) quella di evitare integrazioni del contratto (funzione anti-integrativa)20; (ii) quella di evitare interpretazioni del contratto diverse da quella “voluta” dalle parti (funzione anti-interpretativa)21. La funzione anti-integrativa è perseguita dichiarando che il contratto costituisce “l’unico e solo accordo” ed estinguendo (“superando, novando”, ecc.) ogni altra precedente intesa che possa essere intesa come integrazione del contratto; la funzione anti-interpretativa è perseguita o restringendo il novero del materiale interpretativo a quanto indicato e descritto nel preambolo ovvero, al limite, dichiarando il significato letterale l’unico senso contrattualmente rilevante. sono riferite da G. De Nova, Il contratto alieno, Torino, 2010, p. 95-96. Sul tema si v. anche M. Foglia, Il contratto autoregolato: le merger clauses, 2015, passim. 20 Rispetto alla quale le clausole di completezza pongono problemi anche in punto di responsabilità precontrattuale, vizi del consenso, derogabilità dell’integrazione contrattuale (v. De Nova). 21 La rubrica “clausola di completezza” affermando la completezza dell’accordo esalta immediatamente la funzione anti-integrativa e lascia in ombra la funzione anti-interpretativa che pure emerge costante dal tenore letterale delle clausole diffuse nella prassi.
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Viene da chiedersi fino a che punto queste clausole possano escludere un intervento esterno del giudice senza incorrere in nullità. Si tratta cioè di capire se possa essere escluso o limitato un eventuale intervento del giudice nella determinazione dell’oggetto contrattuale. Anche qui non interessa ora soffermarsi sulla risposta ed esaminare approfonditamente tali clausole. Ciò che preme sottolineare è che tale clausola esprime l’esigenza delle parti di riaffermare il contratto come strumento della loro autonomia privata e non della determinazione di un terzo atteso che solamente i contraenti sono in grado di verificare se un determinato contratto corrisponda ai loro interessi22. Non è un caso che, economicamente parlando il contatto è efficiente solamente in quanto espressione di interessi delle parti, atteso che produce l’effetto di lasciare i contraenti più soddisfatti di quanto non lo fossero prima di stipularlo23. Infatti, il contratto ha come primo requisito essenziale proprio l’accordo delle parti e che siano previsti rimedi contro i vizi del consenso per evitare contratti non voluti o imposti. La clausola di completezza induce quindi il giurista a chiedersi quando la determinazione dell’oggetto contrattuale ad opera del giudice o della legge sia modo per conservare il contratto come atto di autonomia privata e quando invece debba arrestarsi perché finirebbe per snaturare tale significato.
La clausola di completezza è espressione di quella prassi che tende ad accentuare la funzione rappresentativa del contratto come atto in grado di cristallizzare la volontà delle parti rappresentandola nella sua interezza senza che possa in futuro essere modificata. Di tale prassi sono anche espressione i c.d. discrete contracts (su cui si v. I. Macneil, The New Social Contract: An Inquiry into Modern Contractual Relations, Yale, 1981) e i c.d. smart contract (su cui si v. M.F. Campagna, Gli scambi attraverso algoritmi e il problema del linguaggio. Appunti minimi, in Analisi giuridica dell’economia, 1, 2019, pp. 153 ss. e P. Libeccio, Tecniche di tutela del diritto d’autore e tecnologia blockchain gli smart contracts degli artisti, Tesi di dottorato depositata presso l’Università degli Studi di Sassari, 2021, p. 149). 23 Si v. il tradizionale R. Cooter – U. Mattei – P.G. Monateri – R. Pardolesi – T. Ulen, Il mercato delle regole. Analisi economica del diritto civile. I. Fondamenti, Bologna 2006, passim. 22
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Riepiloghiamo brevemente il punto. Da una prima e agile lettura delle tre clausole (quella di rinegoziazione, quella di accollo di debito futuro, quella di completezza) è più chiaro come il requisito della determinabilità dell’oggetto contrattuale sia tutt’altro che scontato. Infatti per capire quando l’oggetto del contratto sia determinabile occorre preliminarmente rispondere alle domande: (i fino a che punto il giudice (e la legge) attualmente possono integrare il contenuto del contratto (per salvarlo dall’indeterminatezza)?; (ii) cosa si intende per autonomia privata? A queste domande non è possibile dare ora risposta. Ma sono domande che devono sempre accompagnare lo studio del contratto per dare profondità e finezza a requisiti e istituti che apparentemente potrebbero sembrare semplici e non meritare particolare attenzione.
5. Considerazioni di sintesi Il caso esaminato dalla sentenza in commento mostra con particolare evidenza come il requisito della determinabilità dell’oggetto contrattuale sia espressione di sintesi che non risolve da sola il conflitto tra due esigenze: quella di conservazione del contratto (tramite la sua integrazione legale e giudiziale) e quella di evitare contratti non voluti, preservandone il significato di atto di autonomia privata dei contraenti. Nella sentenza si legge che il contratto di permuta aveva ad oggetto una cosa presente (il 75% dei terreni indicati in atti) contro una cosa futura (il 25% degli immobili che l’altra parte avrebbe costruito sui terreni). Il giudice ha ritenuto insufficiente a rendere determinabile l’oggetto del contratto il riferimento ai terreni e alle percentuali di terreno e di immobili da costruire oggetto di permuta. In particolare, secondo la sentenza mancherebbero l’esatta collocazione della parte di terreno, l’esatta collocazione delle costruzioni nonché l’indicazione della loro dimensione.
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Provando a leggere la decisione in commento con i criteri che abbiamo sopra indicato dovremmo concludere che secondo i giudici le parti, indicando “troppo poco” nel contratto, avrebbero in realtà manifestato l’intenzione di non vincolarsi ad alcunché sicché la nullità del contratto non farebbe che prenderne atto. Altre strade avrebbero potuto essere seguite. I giudici avrebbero potuto ritenere determinabile il contratto con diverse argomentazioni: (i) integrando la volontà delle parti tramite i criteri legali di determinazione del contenuto contrattuale (art. 1178 c.c.) e così fare riferimento a costruzioni nella media, (ii) ricostruendo la volontà (presunta) delle parti tramite l’interpretazione conservativa del contratto (art. 1367 c.c.) e a quella secondo buona fede (art. 1366 c.c.) ve così valorizzare, ad esempio, la necessità di proporzione tra prezzo e qualità degli edifici da costruire e valore dei terreni permutati24, l’eventuale corrispondenza precontrattuale da cui emergessero dettagli sul tipo di immobile atteso e sull’indifferenza per la porzione di terreno oggetto di cessione da individuarsi nella più ampia parte di terreno. Fino a che punto spingersi nel ricostruire/integrare il contratto? Fino a che punto dichiarare nullo il contratto comporta più costi sociali ed economici rispetto alla scelta di conservarlo ma integrato con la volontà presunta delle parti (che non necessariamente rispecchia e soddisfa gli interessi di tutte le parti)? Il giurista è così chiamato a una difficile operazione: comprendere la ragione per cui il contratto vincola le parti e così decidere se conservarlo (perché conforme alla volontà implicita delle parti) o dichiararlo nullo (perché non pienamente compreso nei suoi tratti essenziali e quindi non voluto dalle parti). Il che, in fondo, significa
24 C.M. Bianca, Diritto civile IV. L’obbligazione, Milano, 2019, p. 98: «Le determinazioni contrattuali possono essere tacite, desumibili, ad es., dai precedenti rapporti intercorsi tra le parti o dalla pubblicità di campioni di qualità superiore. Il prezzo non è di per sé un elemento decisivo, ma può concorrere a interpretare il contratto nel senso che il venditore sia tenuto a prestare beni della qualità corrispondente secondo i valori di mercato».
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poter discernere quando un contratto possa dirsi determinabile e quando invece debba essere dichiarato nullo per indeterminabilità dell’oggetto contrattuale.
Corte di Cassazione – Sezione Sesta Civile (Sottosez. 2) 24 settembre 2021, n. 25968 (ord.) Presidente Orilia, Estensore Giannacari Contratti – Dolo contrattuale – Requisiti – Annullabilità del contratto – Annullabilità della procura per atto pubblico – Errore sugli effetti giuridici dell’atto Ai sensi dell’art. 1439 c.c., il dolo conduce all’annullamento del contratto solo qualora sia stato tale da determinare la volontà del deceptus nella conclusione del contratto stesso, ossia quando gli artifici ed i raggiri perpetrati in danno dall’altro contraente lo abbiano indotto in errore a norma dell’art. 1429 c.c. (i.e. errore essenziale), non essendo sufficiente una qualunque influenza psicologia. In definitiva, ciò che rileva ai fini dell’annullabilità del contratto è la sussistenza e prova della effettiva efficienza casuale del comportamento del deceptor sulla determinazione a contrarre della controparte negoziale, che è da escludersi qualora sia dimostrato che il contraente caduto in errore avrebbe potuto evitare l’errore facendo uso della diligenza richiesta dal caso concreto. (Massima non ufficiale)
Dalla motivazione (omissis) – con il secondo motivo di ricorso si deduce la “violazione e falsa applicazione di norme di diritto in ordine alla richiesta di annullamento della procura notarile dell’11.12.2000 ai sensi dell’art. 1439 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 “perché la corte di merito non avrebbe accertato il dolo in quanto il ricorrente sarebbe stato indotto in errore nella sottoscrizione della procura da parte della società 3G nella convinzione che l’atto fosse necessario per ottenere le autorizzazioni amministrative”; – il motivo è inammissibile; – il ricorrente, sotto lo schermo della violazione di legge, chiede una rivalutazione dei fatti di causa volta all’accertamento del rag-
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giro subito, laddove la corte di merito ha correttamente ritenuto che non integrasse il raggiro l’incomprensione degli effetti giuridici dell’atto notarile con la quale egli aveva rilasciato la procura a vendere in quanto vi era stata una compiuta illustrazione da parte del Notaio rogante, non assumendo rilevanza gli accordi, dedotti ma non dimostrati, in ordine alle rassicurazioni ricevute dal G.G. sui tempi della vendita dell’immobile oggetto della permuta e sulla partecipazione dei terzi nel consilum fraudis; – ne consegue l’inammissibilità del ricorso anche ai sensi dell’art. 360 bis, n. 1 c.p.c. per essere la decisione della corte distrettuale conforme alla giurisprudenza consolidata di questa Corte in materia di annullamento del contratto per dolo (Cassazione civile sez. un., 21/03/2017, n. 7155); – a norma dell’art. 1439 c.c., infatti, il dolo è causa di annullamento del contratto quando i raggiri usati siano stati tali che, senza di essi, l’altra parte non avrebbe prestato il proprio consenso per la conclusione del contratto, ossia quando, determinando la volontà del contraente, abbiano ingenerato nel “deceptus” una rappresentazione alterata della realtà, provocando nel suo meccanismo volitivo un errore da considerarsi essenziale ai sensi dell’art. 1429 c.c. Ne consegue che a produrre l’annullamento del contratto non è sufficiente una qualunque influenza psicologica sull’altro contraente, ma sono necessari artifici o raggiri, o anche semplici menzogne che abbiano avuto comunque un’efficienza causale sulla determinazione volitiva della controparte e, quindi, sul consenso di quest’ultima (Cassazione civile sez. VI, 08/05/2018, n. 11009; Cassazione civile sez. III, 23/06/2015, n. 12892); – il ricorso va, pertanto, dichiarato inammissibile (omissis). P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità (omissis).
I REQUISITI DEL DOLO CONTRATTUALE ED I SUOI EFFETTI SUL NEGOZIO Salvatore Mistretta (Dottorando presso l’Università degli Studi di Sassari e Avvocato del Foro di Sassari)
Sommario: 1. Il caso. – 2. La nozione di dolo contrattuale, la sua disciplina e collocazione sistematica. – 3. La reticenza come causa di annullamento. – 4. Il dolus bonus e la pubblicità. – 5. Il dolo incidente ed il danno differenziale. – 6. Il dolo quale causa di responsabilità precontrattuale e gli obblighi informativi delle parti. – 7. I cc.dd. vizi “incompleti” del consenso. – 8. Rilievi conclusivi.
1. Il caso La vicenda processuale in commento trae origine dall’atto di citazione con cui D.M.L. conveniva in giudizio, nanti il Tribunale di Modena, G.G.G., g.g.g., l’impresa Costruzioni 3 G. s.r.l., la Valle s.r.l., nonché i Sigg. S.G. e G.K. L’attore lamentava di essere stato vittima di un disegno fraudolento messo in atto da tutte le parti convenute e, per l’effetto, domandava che fosse dichiarata la nullità ovvero la annullabilità della procura speciale rilasciata per atto pubblico in favore di G.G.G. – legale rappresentate della Costruzioni 3 G. s.r.l. – e, conseguentemente, del contratto di compravendita immobiliare stipulato in favore di G.S. e K.G., in forza della menzionata procura. Segnatamente, secondo la ricostruzione attorea, con contratto preliminare, la Costruzione 3 G. s.r.l. si era obbligata a vendere al D.M. un immobile sito in Modena, in fase di ristrutturazione e di proprietà della Valle s.r.l., ricevendo in permuta, come parte del prezzo, l’edificio per il quale il promissario acquirente aveva rila-
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sciato, la procura speciale in favore di G.G.G, con regolare atto formalizzato dinnanzi ad un Notaio in data 11.12.2000. Solo in seguito alla formulazione di un parere contrario da parte della Commissione Edilizia, in merito all’immobile oggetto della ristrutturazione, D.M.L. sarebbe venuto a conoscenza della frode posta in essere da parte di tutti convenuti, consistente – a suo dire – nella scelta dello stabile oggetto della permuta e, ancora prima, nella formulazione della procura speciale a vendere, posto che, in forza della medesima, l’immobile di proprietà dell’attore veniva alienato a S.G. e G.K, complici del mentovato raggiro. In particolare, l’attore sosteneva di essere stato indotto in errore, dal momento che il legale rappresentante della società Costruzioni 3 G. s.r.l. gli avrebbe fatto credere che la sottoscrizione della procura a vendere fosse necessaria per ottenere le autorizzazioni amministrative. Il Tribunale rigettava la domanda così azionata, motivando sul difetto di prova della frode; a seguito di gravame proposto da D.M.L., nello stesso senso si pronunciava anche la Corte d’Appello di Bologna, che confermava in toto la sentenza di primo grado. L’appellante soccombente interponeva, quindi, ricorso per Cassazione, lamentando: (i) l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, avente ad oggetto i vizi della procura stipulata in data 11.12.2000 e, di riflesso, dell’atto di vendita; (ii) la “violazione e falsa applicazione di norme di diritto in ordine alla richiesta di annullamento della procura notarile dell’11.12.2000 ai sensi dell’art. 1439 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, poiché la Corte distrettuale non avrebbe considerato che il ricorrente era stato indotto in errore nella sottoscrizione del menzionato atto, essendo stato convinto dal legale rappresentante della ditta Costruzioni G. s.r.l. che questo fosse necessario per ottenere le autorizzazioni amministrative. Tuttavia, con l’ordinanza annotata, la Suprema Corte dichiarava inammissibile il ricorso. In particolare, i giudici della legittimità escludevano l’ammissibilità del primo motivo, in base alla disciplina di cui all’art. 348 ter
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c.p.c., comma 5, come novellato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito nella L. n. 134 del 2012, applicabile a tutti i giudizi introdotti – come nella vicenda che ci occupa – con ricorso depositato (o con citazione di cui sia stata chiesta la notificazione) in data successiva all’11.09.2012. La normativa richiamata preclude, infatti, la deduzione di un vizio motivazionale qualora vi sia stata una c.d. “doppia conforme”, ossia quando – come nel caso di specie – il giudizio d’appello abbia integralmente confermato la sentenza del Tribunale1. Il secondo motivo veniva, invece, dichiarato inammissibile ai sensi dell’art. 360 bis, n. 1 c.p.c., poiché il Supremo Consesso riteneva che il provvedimento impugnato fosse conforme alla costante giurisprudenza di legittimità in materia di annullamento del contratto per dolo. Secondo l’ormai granitico orientamento della Cassazione2, infatti, il dolo costituisce causa di annullamento del contratto (e, per
Pare utile sottolineare che da tempo la dottrina processualcivilistica denuncia l’irragionevolezza di tale disciplina. Si veda, ex multis, G. Balena, Istituzioni di diritto processuale civile, vol. II, Bari, 2019, p. 444, il quale, dopo aver dato conto della querelle ermeneutica relativa alla citata novella, osserva che “ad ogni buon conto, quale che sia l’interpretazione più corretta di tale limitazione, resta il fatto ch’essa appare del tutto irrazionale e di dubbia legittimità costituzionale, essendo difficile comprendere perché la mera reiterazione del vizio (magari particolarmente grave ed evidente), da parte del giudice d’appello, debba sottrarre senz’altro il vizio medesimo al possibile sindacato della Corte suprema”. 2 Si veda, ad esempio, Cass. civ., 8 maggio 2018, n. 11009, in Dejure, che, con riferimento ad un contratto di compravendita immobiliare, escludeva che il silenzio serbato dal venditore, nella fase delle trattative, sulla possibilità di un imminente recesso della banca conduttrice dei locali oggetto del contratto, potesse integrare una ipotesi di dolo omissivo, ritenendo decisiva la circostanza che nel contratto di locazione tra la venditrice e la banca era prevista la facoltà – nota all’acquirente – di recesso ad nutum del conduttore, con la ovvia conseguenza che il reddito derivante dal canone locatizio non poteva essere considerato sicuro. Questa la massima della sentenza richiamata: “il dolo omissivo rileva quale vizio della volontà, idoneo a determinare l’annullamento del contratto, solo quando l’inerzia della parte si inserisca in un complesso comportamento adeguatamente preordinato, con malizia o astuzia, a realizzare l’inganno perseguito; pertanto, il semplice silenzio e la reticenza, anche su situazioni di interesse della controparte, non immutando la rappresentazione della realtà, ma limitandosi a non contrastare 1
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estensione, della procura) solo nelle ipotesi in cui abbia indotto il deceptus in errore su uno degli elementi essenziali del negozio3 ed abbia avuto una efficienza causale sul processo volitivo del contraente tale che, senza quella indotta falsa rappresentazione delle realtà, questi non avrebbe certamente concluso il contratto di cui chiede l’annullamento. Nel caso de quo, il Collegio rilevava che, poiché la procura a vendere era stata formata per atto pubblico, il Notaio rogante aveva informato in maniera compiuta il ricorrente circa gli effetti giuridici del negozio che si accingeva a sottoscrivere, di talché l’eventuale incomprensione delle conseguenze dell’atto non poteva integrare un raggiro ex art.1439 c.c. Pertanto, ai fini del dolo non si consideravano rilevanti né le dedotte (ma comunque non provate) rassicurazioni provenienti dalle controparti, né gli accordi intercorrenti tra le stesse o l’asserito consilum fraudis che – secondo le prospettazioni attoree – avrebbe viziato l’atto.
la percezione di essa alla quale sia pervenuto l’altro contraente, non costituiscono causa invalidante del contratto”. Di identico tenore il principio di diritto riportato nell’altra pronuncia richiamata dall’ordinanza in commento, ossia Cass. civ., 23 giugno 2015, n. 12892, in Dejure: “in tema di vizi del consenso, il dolo, a norma dell’art. 1439 c.c., è causa di annullamento del contratto quando i raggiri usati da una parte abbiano determinato la volontà a contrarre del “deceptus”, avendo ingenerato in lui una rappresentazione alterata della realtà, che abbia provocato nel suo meccanismo volitivo un errore essenziale ai sensi dell’art. 1429 c.c. In particolare, ricorre il “dolus malus” solo se, in relazione alle circostanze di fatto e personali del contraente, il mendacio sia accompagnato da malizie ed astuzie volte a realizzare l’inganno voluto ed idonee in concreto a sorprendere una persona di normale diligenza e sussista, quindi, in chi se ne proclami vittima, assenza di negligenza o di incolpevole ignoranza”. Nello stesso senso si vedano anche Cass. civ., 23 giugno 2009, n. 14628, in Dejure e Cass. civ., 27 ottobre 2004, n. 20792, in Dejure, entrambe contenenti identiche massime. 3 Precisamente ci si riferisce all’errore ex art. 1429 c.c. che si definisce essenziale quando: (i) cade sulla natura o sull’oggetto del contratto; (ii) cade sull’identità dell’oggetto della prestazione ovvero sopra una qualità dello stesso che, secondo il comune apprezzamento o in relazione alle circostanze, deve ritenersi determinante del consenso; (iii) cade sull’identità o sulle qualità della persona dell’altro contraente, sempre che l’una o le altre siano state determinanti del consenso; (iv) trattandosi di errore di diritto, è stata la ragione unica o principale del contratto.
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Per quanto supra rappresentato, la Cassazione dichiarava inammissibile il ricorso, perché manifestamente infondato, condannando il ricorrente alla rifusione delle spese processuali.
2. La nozione di dolo contrattuale, la sua disciplina e collocazione sistematica Nell’architettura codicistica, il dolo civilistico trova la sua disciplina nel Libro IV (Delle Obbligazioni)4, Titolo II, (Dei contratti in generale)5, Capo XII (Dell’Annullamento del contratto), Sezione II (Dei vizi del consenso), artt. 1439 ss. c.c. Come desumibile già dalla sua collocazione sistematica, il dolo costituisce uno dei vizi del consenso (i.e. di quelle perturbazioni idonee ad inficiare la volontà a contrarre), che – insieme all’incapacità legale o naturale di agire6 e ad altre ipotesi oggetto di specifica previsione normativa7 – possono determinare l’annulla La materia contrattuale è disciplinata nel Libro delle obbligazioni poiché, a norma dell’art. 1173 c.c., il contratto è una delle fonti del rapporto obbligatorio, insieme al fatto illecito e ad ogni altro atto o fatto idoneo a produrre obbligazioni in conformità dell’ordinamento giuridico. 5 Come è noto, oltre che applicarsi a tutti i contratti tipici ed atipici, la disciplina generale del contratto si estende ex art. 1324 c.c. anche – in quanto compatibile e salvo diversa disposizione di legge – agli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale, tra cui rientra la procura; non sono infatti impugnabili per dolo, ad esempio, la confessione e il riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio, non avendo natura negoziale. 6 L’art. 1425 c.c., rubricato “incapacità delle parti”, dispone che “il contratto è annullabile se una delle parti era legalmente incapace di contrarre. È parimenti annullabile, quando ricorrono le condizioni stabilite dall’art. 428, il contratto stipulato da persona incapace d’intendere e di volere”. 7 A titolo esemplificativo è possibile citare gli acquisti vietati ai genitori di beni o diritti di proprietà dei figli minori (art. 323, co. 2); il contratto concluso in conflitto di interessi e il contratto con se stesso (artt. 1394-1395); le compravendite stipulate in violazione dell’art. 1471, n. 3-4 (art. 1471, co. 2); gli atti di straordinaria amministrazione aventi ad oggetti beni immobili o mobili registrati in comunione legale e compiuti senza l’assenso dell’altro coniuge (art. 184, co. 1-2), sottolineando che la comune ratio di tali previsioni risiede, come nelle altre ipotesi di annullabilità, nella tutela di un interesse individuale. 4
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bilità del negozio, incidendo su uno dei requisiti fondamentali del contratto. Tra questi ultimi, giova ricordarlo, l’art. 1325 c.c. annovera anche – oltre a causa, oggetto e forma, quando prescritta ad substantiam – l’accordo delle parti: di conseguenza, presupposto indefettibile per la validità e l’efficacia del contratto è che la concorde volontà degli stipulanti si sia formata correttamente ed il consensus in idem placitum sia stato manifestato legittimamente. Sebbene la disciplina richiamata non offra un’espressa definizione dell’istituto del dolo, è comunque possibile ricostruirne la nozione, muovendo dalle indicazioni implicite fornite dallo stesso legislatore. Ai sensi dell’art. 1439, comma primo, c.c.: “il dolo è causa di annullamento del contratto quando i raggiri usati da uno dei contraenti sono stati tali che, senza di essi, l’altra parte non avrebbe contrattato”. Il secondo comma della medesima disposizione precisa che anche i raggiri orditi da un terzo possono determinare l’annullamento del contratto, ove questi fossero noti all’altro contraente, il quale deve, altresì, averne tratto vantaggio. Questa ipotesi, comunemente indicata come dolo vizio o dolo determinante (causam dans)8, assurge a causa di annullabilità del negozio, dal momento che i raggiri impiegati inducono un soggetto a concludere un contratto che altrimenti non avrebbe stipulato9. Oltre a poter travolgere la validità del negozio, tale istituto obbliga le parti a restituire le prestazioni già eseguite, pur non comportando, di per sé solo, il risarcimento dei danni, che, comunque, potrebbe essere richiesto dal soggetto indotto in errore, appellan-
In tal senso C.M. Bianca, Il contratto, in Diritto Civile, vol. III, Milano, 2019, p. 619. 9 Si veda Cass. civ., 29 agosto 1991, n. 9227, in Dejure, secondo cui “il dolo, quale causa di annullamento del contratto, consiste in raggiri maliziosi, posti in essere da un contraente, i quali siano idonei, in concreto, a trarre in inganno l’altra parte, così inducendola a concludere un contratto (nella specie, compravendita di azioni) che non avrebbe altrimenti concluso”. 8
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dosi alle norme sulla responsabilità precontrattuale (si tratterebbe del c.d. danno negativo)10. Ben diversa, invece, è la disciplina dettata dall’art. 1440 c.c.11, in relazione al dolo incidente (incidens): con tale espressione ci si riferisce a tutte quelle mistificazioni della realtà che non hanno avuto una efficacia determinante sulla volontà a contrarre, poiché, in assenza di esse, il deceptus avrebbe comunque concluso il contratto, ancorché a condizioni differenti. In queste ipotesi, il dolo contrattuale non conduce alla annullabilità del negozio (i.e. non costituisce un vizio invalidante dello stesso), ma legittima la parte danneggiata a chiedere il risarcimento dei danni subiti in forza di condizioni contrattuali deteriori, che non avrebbe accettato qualora la condotta della controparte fosse stata conforme a buona fede. Per quanto detto è possibile affermare che il dolo (inteso come vizio della volontà) consiste in artifici e raggiri con cui un soggetto (c.d. deceptor) induce un altro soggetto (c.d. deceptus) in errore, persuadendolo a porre in essere un negozio che, a seconda dei casi, non sarebbe stato concluso o avrebbe presentato termini diversi. Ad ogni buon conto, il dolo capace di determinare l’annullabilità del negozio è soltanto il primo, essendo l’unico idoneo a spiegare una efficacia causale tale da carpire la volontà dell’altro contraente in ordine alla nascita o meno dell’intero rapporto negoziale, essendo irrilevante l’esistenza di un pregiudizio patrimoniale quale conseguenza delle altrui malizie12.
10 Così anche C. Colombo, Il dolo nei contratti: idoneità del mezzo fraudolento e rilevanza della condotta del deceptus, in Riv. dir. comm., I, 1993, p. 347 ss.; per quanto attiene la nozione e natura della responsabilità precontrattuale si veda infra. 11 La norma richiamata dispone che “se i raggiri non sono stati tali da determinare il consenso, il contratto è valido, benché senza di essi sarebbe stato concluso a condizioni diverse; ma il contraente in mala fede risponde dei danni”. 12 In tal senso si veda Cass. civ., 8 gennaio 1980, n. 140, in Dejure, secondo la quale la fondatezza dell’azione di annullamento del contratto da dolo prescinde da un nocumento patrimoniale del deceptus, sebbene lo stesso possa essere indice dell’animus decipiendi.
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Già nel diritto romano il dolo veniva definito come omnis calliditas, fallacia, machinatio ad circunveniendum, fallendum, decipiendum alterum adhibita13: conseguentemente, non pare ardito affermare che la fisionomia dell’istituto sia rimasta pressoché immutata sino ai giorni nostri. In estrema sintesi, dunque, il dolo è un istituto che, quale fatto illecito14, incide – viziandolo – sul procedimento decisorio del contraente, così differenziandosi da quei casi in cui sia ravvisabile una mera discrasia tra volontà e dichiarazione della stessa15. Come è noto, oltre al dolo, gli altri vizi della volontà disciplinati dal Codice Civile ai fini dell’annullamento del contratto ex art. 1427 c.c.16 – sempre che ricorrano tutti i presupposti di legge – sono l’errore e la violenza. L’errore (cui sono dedicati gli artt. 1428 ss. c.c.) è, in breve, una falsa rappresentazione della realtà che induce il soggetto a volere qualcosa che, in assenza di tale travisamento, non avrebbe voluto17. Affinché l’errore possa essere causa di annullamento del contratto devono ricorrere un requisito oggettivo ed uno soggettivo:
Per una disamina dei profili storici dell’istituto sia consentito rinviare a M. Mantovani, «Vizi incompleti» del contratto e rimedio risarcitorio, Torino, 1995, p. 31, ove è riportata la definizione citata, che, secondo Ulpiano, in D.4.3.1.2., sarebbe stata elaborata dal più prolifico giureconsulto dell’età augustea, Marco Antistio Labeone. 14 A. Trabucchi, Il dolo nella teoria dei vizi del volere, Padova, 1937, p. 342, osserva che anche quando si tratti di dolo vizio, stante la sua natura illecita, la vittima potrebbe limitarsi a chiedere il risarcimento del danno a prescindere dall’esperimento dell’azione di annullamento. 15 Tale distinzione manifesta la diversa ratio della disciplina richiamata, assimilabile sotto diversi aspetti a quella prevista per l’errore c.d. ostativo e quello c.d. vizio: il primo attiene alla manifestazione esteriore della volontà validamente formata (errore nella dichiarazione ed errore nella trasmissione della dichiarazione); il secondo, al pari degli altri vizi del consenso, incide sul processo di formazione della volontà. 16 Così testualmente, l’articolo citato: “il contraente, il cui consenso fu dato per errore, estorto con violenza o carpito con dolo, può chiedere l’annullamento del contratto secondo le disposizioni seguenti”. 17 M. C. Diener, Il contratto in generale, in G. Capozzi (a cura di), Collana Notarile, Milano, 2015, pp. 796 ss. 13
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l’essenzialità e la riconoscibilità dello stesso. Tali condizioni sono necessarie al fine di bilanciare gli antitetici principi di affidamento nella dichiarazione negoziale della controparte e di responsabilità in ordine alle conseguenze della stessa. L’errore si definisce essenziale quando, ai sensi dell’art. 1429 c.c., cade sulla natura o sull’oggetto del contratto, sull’identità dell’oggetto della prestazione ovvero sopra una qualità dello stesso che, secondo il comune apprezzamento o in relazione alle circostanze, deve ritenersi determinante per il consenso 18, oppure, ancora, sull’identità o sulle qualità della persona dell’altro contraente (sempre che l’una o l’altra siano state determinanti del consenso), ovvero sulla disciplina giuridica del rapporto. L’istituto in discorso è caratterizzato dal fatto che la falsa rappresentazione della realtà deve aver inciso significativamente sulla volontà a contrarre della parte caduta in errore. Ad ogni modo, la dottrina e la giurisprudenza maggioritarie ritengono che l’elencazione di cui all’art. 1429 c.c. non abbia carattere tassativo, ma meramente esemplificativo19. Ciò che accumunerebbe le fattispecie di cui alla richiamata norma sarebbe quindi l’identica ratio: l’essenzialità dell’errore si risolve nella sua efficacia causale in ordine alla determinazione del consenso, che si presume laddove la falsa rappresentazione della realtà ricada sulla causa (i.e. “natura del contratto”) ovvero sull’oggetto (e non su qualità accessorie dello stesso) ex art. 1429, n. 1, c.c., poiché a norma dell’art. 1325 c.c. questi sono elementi essenziali del contratto tout court. In tutte le restanti ipotesi – tipiche o atipiche che siano – la valutazione dell’incidenza dell’errore sulla volontà a contrarre è rilasciata al prudente apprezzamento del Giudice, attraverso una quaestio facti, in ragione delle peculiarità del caso concreto. Occorre sottolineare che, secondo la dottrina maggioritaria, le ipotesi previste dai primi due numeri dell’articolo in discorso, in realtà, non differiscono, dal momento che l’errore sulla natura o sull’oggetto del contratto incide sull’intero negozio e l’errore sulla natura del contratto o sul suo oggetto non è altro che un errore sullo stesso negozio concluso. In tal senso si veda G. Mirabelli, Dei contratti in generale, Torino, 1958, p. 540. 19 M. C. Diener, Il contratto in generale, cit., p.797, nonché Cass. civ., 21 maggio 2018, n. 12453. 18
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L’errore è, invece, riconoscibile ex art. 1431 c.c. “quando, in relazione al contenuto, alle circostanze del contratto ovvero alla qualità dei contraenti, una persona di normale diligenza avrebbe potuto rilevarlo”. Tale previsione, evidentemente, consente di contemperare l’esigenza di tutelare tanto la persona caduta in errore, quanto la controparte negoziale, impedendo l’annullamento del contratto ogni volta che la falsa percezione della realtà non fosse riconoscibile utilizzando la normale diligenza20, salvaguardando in tal modo il legittimo affidamento nella stabilità dei traffici commerciali, in ossequio al più generale principio della buona fede, da intendersi, in tal caso, in senso oggettivo, ossia quale regola di condotta e canone di comportamento che impone ad una parte di attivarsi per salvaguardare l’utilità dell’altra nei limiti, tuttavia, di un non apprezzabile sacrificio21. Differentemente, l’istituto della violenza consiste in un costringimento psicologico o fisico, che limita – o esclude in radice – la libertà di scelta del soggetto che la subisce. Dalla disciplina di riferimento (artt. 1434 ss. c.c.), si evince che la violenza rilevante ai fini dell’annullabilità del contratto è quella psicologica, da intendersi
20 La giurisprudenza ha individuato il fondamento di tale requisito nel principio di affidamento, cioè nell’esigenza di tutelare la buona fede dell’altro contraente. La riconoscibilità dell’errore deve essere misurata in astratto, in quanto occorre fare riferimento ad una persona di media accortezza, senza però escludere che vi possano essere circostanze di fatto che consentono lo stesso di riconoscere l’errore in relazione alle particolari circostanze del caso concreto; nella giurisprudenza tale principio è stato da ultimo applicato in sede di merito da Tribunale Torino, sez. VIII, 31 dicembre 2018, n. 6075 ed in sede di legittimità da Cass. civ., 28 novembre 2019, n. 31078, in Dejure. Pare utile, comunque, passare rapidamente in rassegna alcune peculiari ipotesi di errore, oggetto di una disciplina ad hoc. Laddove entrambe le parti cadano in errore (c.d. comune) sul medesimo elemento del contratto, l’annullamento dipende esclusivamente dal requisito dell’essenzialità, non rilevando la riconoscibilità dello stesso. Se, invece, i contraenti sono in errore su elementi diversi, trova applicazione la disciplina ordinaria degli artt. 1428 ss. c.c. Infine, si parla di fraintendimento qualora il destinatario della proposta negoziale ne abbia completamente mal interpretato il contenuto essenziale, derivandone un’ipotesi di nullità ex art. 1418, comma 2, c.c., per difetto della concorde volontà delle parti. 21 Così, da ultimo, Cass. civ., 20 gennaio 2022, n.1825, n Dejure.
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quale minaccia, ossia la rappresentazione di un male ingiusto22 che riguardi la persona o i beni del destinatario della stessa, ovvero di lui coniuge, i suoi ascendenti o discenti, oppure altre persone a lui vicine, ma, in quest’ultima ipotesi, la valutazione circa l’idoneità della condotta intimidatoria ad incidere in modo significativo sul processo di formazione della volontà è rimessa al prudente apprezzamento del Giudice23. Per poter condurre all’annullamento del contratto, la violenza psicologica deve presentare due caratteri, previsti dall’art. 1435 c.c.: il primo, oggettivo, attiene alla natura della stessa, che deve essere tale da fare impressione su di una persona sensata, in modo da farle temere di esporre sé o i suoi beni, ad un male ingiusto e notevole; il secondo, soggettivo, impone di valutare le caratteristiche del destinatario della minaccia (età, sesso e condizione della persona), circoscrivendo così l’annullabilità soltanto al caso in cui il contratto sia stato concluso in forza di un’illegittima intrusione nella libertà negoziale della controparte. Secondo un ormai concorde orientamento dottrinale e giurisprudenziale, dalle ipotesi di cui agli artt. 1434 ss. c.c., riconducibili alla logica del coactus voluit, sed voluit, va tenuta distinta la violenza fisica (c.d. vis absoluta), ovvero la coercizione materiale capace di azzerare la volontà dell’individuo24, conducendo, di riflesso, alla nullità del contratto, posto che, in questo caso, il negozio difette-
Il male minacciato è ingiusto quando, qualora si concretizzasse, darebbe luogo a responsabilità civile. Diversa, invece, la disciplina prevista dall’art. 1438 c.c. per la minaccia di far valere un diritto, idonea a determinare l’annullabilità del contratto soltanto ove diretta a conseguire vantaggi ingiusti, ossia non aventi alcun rapporto con il diritto prospettato. In questo caso, il minacciato esercizio del diritto non è qualificabile, di per sé, come male ingiusto, essendo tali soltanto le conseguenza patrimoniali positive che il soggetto si ripromette di ottenere, 23 Cfr. art. 1436, secondo comma, c.c. 24 Si pensi al caso di scuola in cui un individuo privo di sensi venga materialmente preso per la mano e forzato a sottoscrivere un contratto, oppure, ancora, alla firma di un contratto estorta grazie ad una pistola puntata alla tempia della controparte. 22
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rebbe di uno dei suoi requisiti essenziali a norma dell’art. 1325 c.c., ossia del consenso25. Ebbene, è questo il contesto in cui è calata la disciplina del dolo contrattuale, che, dunque, può essere considerato come una di quelle fattispecie in cui il processo volitivo del contraente, sebbene corrotto, è comunque esistente. Alla luce di queste considerazioni, deve approfondirsi la stretta correlazione esistente tra dolo ed errore, considerando che, già a livello lessicale, il nostro ordinamento conosce disposizioni giuridiche che lasciano intravedere una commistione delle due fattispecie. Il riferimento, in particolare, è al delitto di truffa, previsto e punito dall’art. 640 c.p., a norma del quale “chiunque, con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da euro 51 a euro 1.032” 26. Stante l’assodato rapporto di reciproca e tendenziale autonomia tra l’ordinamento civile e quello penale, è chiaro che ai fini dell’integrazione del dolo contrattuale non è necessaria la consumazione del delitto di truffa e viceversa27; tuttavia, in una prospettiva ermeneutica, il raffronto tra le due discipline – e i relativi indirizzi interpretativi – potrebbe essere dirimente allo scopo di meglio comprendere la volontà del legislatore nelle scelte lessicali operate, in forza del c.d. principio di coerenza dell’ordinamento giuridico, ricavabile anche dall’art. 12 prel. Ciò posto, come anticipato, gli “artifici” cui fa riferimento l’art. 1439 c.c. – analogamente a quanto accade in materia penale – de-
In questo caso la nullità è comminata dall’art. 1418, comma secondo, c.c. La dottrina e la giurisprudenza riconducono il reato di truffa entro il genus dei c.d. “reati in contratto”, ossia quei reati commessi nell’attività di conclusione di un contratto, che si differenzia dall’ipotesi dei reati che consistono nel concludere un determinato contratto, in sé vietato, cioè dei c.d. “reati contratto”, di cui può essere un esempio il reato di corruzione; in giurisprudenza tale qualificazione è stata recentemente confermata da Cass. penale, 28 marzo 2018, n. 23896, in Dejure; in dottrina I. Leoncini, Reato e contratto nei loro reciproci rapporti, Milano, 2006, pp. 150 ss. 27 Cfr., da ultimo, Cass. civ., 17 gennaio 2022, n. 1169. 25 26
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vono essere funzionali ad indurre in errore il deceputs, ossia a procurargli una falsa rappresentazione della realtà in relazione ai presupposti, agli elementi o agli effetti del contratto, alla convenienza dello stesso o alla sua esecuzione28. Si può quindi affermare che, mentre la disciplina dell’errore attiene ad una spontanea dispercezione della realtà – ingenerata, cioè, da una dubbia presentazione della stessa –, quella del dolo, invece, richiama un errore volontariamente indotto ad opera di un terzo. Appare evidente, a questo punto, che nell’esame dell’istituto in discorso non si possa prescindere dal raffronto con quello di cui all’art. 1428 c.c.: si ritiene ormai pacificamente – come affermato anche nell’ordinanza in commento – che il perfezionamento del dolo contrattuale esiga che gli artifici o i raggiri posti in essere abbiano ingenerato nel deceptus un errore che deve avere le caratteristiche oggettive previste dall’art. 1429 c.c.29. Ai fini del dolo, tuttavia, non rileva il requisito della riconoscibilità, che, invece, è elemento costitutivo della fattispecie dell’errore. La ragione di tale discrasia è logica: mentre in materia di errore deve essere fatta salva la buona fede ovvero l’affidamento dell’altro contraente, che ben può essere ignaro del vizio incidente sul consenso della controparte, nelle ipotesi di dolo vi è normalmente coincidenza tra deceptor e una delle parti contrattuali; pertanto, la conoscenza del vizio volitivo sussiste in re ipsa ed esso rileva anche qualora cada su circostanze estrinseche al contratto. Nel caso in cui, invece, i raggiri siano stati perpetrati da un terzo, ai sensi dell’art. 1439, comma secondo c.c., l’annullabilità del contratto è prevista soltanto qualora l’altro contraente, che deve averne profittato, ne fosse a conoscenza. Anche in questa ipotesi, pertanto, non può parlarsi di affidamento della controparte, po28 Questi gli elementi in relazione ai quali il contraente potrebbe essere indotto in errore secondo C.M. Bianca, Il contratto, cit., pp. 619-620. 29 In tal senso, tra le tante, si veda Cass. civ., 23 giugno 2015, n. 12892, richiamata e confermata anche dall’ordinanza in commento.
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sto che essa ha tratto consapevole giovamento dal consenso viziato dell’altro30. In ciò il dolo si distingue, altresì, dalla violenza minacciata da un soggetto estraneo al negozio, che, ex art. 1434 c.c., è sempre causa di annullamento del contratto, anche se ignorata dalla controparte31. Qualora, al contrario, la condotta dolosa del terzo non fosse nota alle parti del contratto, viene in soccorso la disciplina dell’errore: ferma restando la responsabilità extracontrattuale del deceptor32, per quanto attiene le sorti del negozio così concluso, questo sarà annullabile nella ipotesi in cui l’errore prodotto dai raggiri del terzo abbia i requisiti della essenzialità e della riconoscibilità. Un’ulteriore ipotesi è quella del dolo c.d. reciproco o bilaterale, che sussiste laddove gli artifici e le macchinazioni siano stati posti in essere da entrambi i contraenti. Superando un risalente orientamento che, muovendo da una sorta di vicendevole neutralizzazione delle cause di annullamento, considerava tali negozi validi, oggi è assolutamente maggioritaria la tesi volta a riconoscere a ciascuna delle parti la possibilità di agire giudizialmente per ottenere l’annullamento del contratto così viziato33. Nei negozi mortis causa, invece, il dolo normalmente viene definito captazione. Con questo termine si indicano i raggiri attuati per indurre qualcuno a testare a proprio favore. Non possono essere considerate captazione, tuttavia, le misure dirette a procacciarsi la benevolenza e il favore del testatore, a meno che non sfocino in ipotesi fraudolente34. La distinzione tra dolo in ambi30 Sull’ultima applicazione dei principi in esame e del conseguente divieto di venire contra factum proprium, si veda Cass. civ., 15 giugno 2021, n. 16890, in Dejure. 31 M. C. Diener, Il contratto in generale, cit., p. 797, ravvisa la ratio di tale trattamento differenziato nel fatto che “la tutela del contraente minacciato è assoluta, mentre quella del contraente ingannato si deve valutare sempre in relazione alla scorrettezza e all’approfittamento della controparte”. 32 Il terzo, infatti, risponderà ex art. 2043 c.c., avendo posto in essere un illecito che ha causato un danno ingiusto al deceptus. 33 In tal senso C. Colombo, Il dolo nei contratti: idoneità del mezzo fraudolento e rilevanza della condotta del deceptus, cit, p. 349. 34 Ibidem.
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to contrattuale e captazione in ambito testamentario è di fondamentale importanza perché, mentre nei contratti il dolo è causa di annullamento soltanto ove idoneo ad indurre in errore un soggetto mediamente accorto, nei negozi mortis causa, invece, l’annullamento si fonda esclusivamente sulla sussistenza della captazione, non essendo necessario indagare l’affidamento della controparte. Quanto alle modalità esecutive del dolo, l’errore può essere indotto nella controparte, ad esempio, oltre che con macchinazioni fattuali anche attraverso la menzogna, ossia l’affermazione del falso o la negazione del vero, purché le dichiarazioni mendaci si inseriscano in un “complesso comportamento adeguatamente preordinato, con malizia o astuzia”35, a farle apparire convincenti36. Occorre sottolineare che, in ogni caso, qualora i raggiri si spingano fino al punto di far credere ad una parte che il contratto che si accinge a sottoscrivere abbia un contenuto diverso da quello reale, la giurisprudenza ritiene che si esuli dalle ipotesi di annullamento per dolo, trattandosi, piuttosto, di negozio nullo per mancanza assoluta di volontà37.
35 Locuzione impiegata in Cass. civ., 8 maggio 2018, n. 11009, in Dejure richiamata nell’ordinanza annotata. 36 Si veda in tal senso Cass. civ., 23 giugno 2015, n. 12892, in Dejure, anch’essa citata dal provvedimento commentato: “in particolare, ricorre il “dolus malus” solo se, in relazione alle circostanze di fatto e personali del contraente, il mendacio sia accompagnato da malizie ed astuzie volte a realizzare l’inganno voluto ed idonee in concreto a sorprendere una persona di normale diligenza e sussista, quindi, in chi se ne proclami vittima, assenza di negligenza o di incolpevole ignoranza”. 37 Così C.M. Bianca, Il contratto, cit., p. 621, che riporta Cass. civ., 13 gennaio 1977, n. 163, secondo cui “qualora uno dei contraenti sottoscriva, su invito dell’altro, una dichiarazione negoziale documentata, essendo tratto in inganno circa il contenuto ( nella specie, era presentato come concernente l’affidamento in temporaneo esperimento di un biliardo, un modulo che contemplava, invece, la vendita dello stesso) non ricorre l’ipotesi di dolo – che è integrata quando il raggiro abbia inciso sulla formazione della volontà negoziale – ma si ha difetto assoluto di volontà, e perciò il contratto non è annullabile ex art. 1439 c.c., ma è assolutamente nullo ex artt. 1418 e 1325, n.1”.
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Posta tale premessa, può affermarsi che assumono rilievo tutti i mezzi utili a carpire l’altrui consenso38, purché siano idonei a trarre in inganno la vittima inducendola a concludere un contratto che altrimenti non avrebbe concluso o, quantomeno, non a quelle condizioni. Secondo la giurisprudenza maggioritaria e parte della dottrina, il requisito dell’idoneità del dolo dovrebbe valere ad escludere l’annullabilità del contratto o il risarcimento del danno laddove la vittima sia stata indotta in errore inescusabile, ossia evitabile da una persona normalmente diligente e sensata (e questa è la posizione su cui si attesta l’ordinanza commentata che richiama espressamente i requisiti di cui all’art. 1429 c.c.)39; al contrario, secondo un diverso filone di pensiero, tale carattere indicherebbe l’esigenza di accertare il nesso di causalità tra gli artifizi orditi dalla controparte e la stipulazione del contratto o l’alterazione del suo contenuto: in assenza di tale correlazione, difetterebbe la prova circa il condizionamento della volontà negoziale40. I segnalati orientamenti, per quanto trovino divergenza nelle rispettive fondamenta di pensiero (elemento soggettivo il primo, elemento oggettivo il secondo) arrivano a conclusioni sovrapponibili, perché entrambi – in verità – discorrono dell’incidenza causale del comportamento doloso, ancorché da due diverse angolazioni pro-
A titolo esemplificativo, si pensi a due casi in cui la giurisprudenza di legittimità ravvisava gli estremi del dolo: Cass. civ., 26 gennaio 1995, n. 975, in Dejure, relativa al presidente di una squadra di calcio che aveva reso false dichiarazioni circa l’acquisto di campioni di spessore, inducendo fraudolentemente i tifosi ad abbonarsi e Cass. civ., 2 febbraio 2012, n. 1480, in Dejure, concernente l’assai diffusa alterazione del contachilometri, finalizzata a convincere l’acquirente di un’autovettura della non rilevante usura della stessa. 39 In tal senso si sono espresse Cass. civ., 20 gennaio 2017, n. 1585, in Dejure e Cass. civ., 28 ottobre 1993, n. 10718, in Contratti, 1994, pp. 129 ss. (con nota critica di F. Realmonte). 40 Questa posizione è stata sviluppata, ad esempio, da C.M. Bianca, Il contratto, cit., p. 622, che contesta l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale il dolo non rileverebbe ogni qualvolta la vittima avrebbe potuto evitare l’inganno utilizzando l’ordinaria diligenza. 38
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spettiche: il concorso colposo del deceputs, da un lato, ed il rapporto tra dolo e conclusione del contratto, dall’altro. Sintetizzando i due pensieri, quindi, si può concludere che tra dolo contrattuale e conclusione del contratto – ai fini dell’annullabilità di quest’ultimo – è necessario sussista un nesso eziologico, come generalmente inteso nel sistema civilistico, ossia il rapporto di causa effetto tra comportamento ed evento (da intendersi in questo caso come conclusione del contrato), facendo applicazioni della regola probatoria del “più probabile che non”41, fermo restano che tale nesso può essere interrotto anche dal comportamento del deceptus, che avrebbe potuto evitare il danno facendo uso della ordinaria diligenza richiesta dal caso concreto, secondo la regola di auto-responsabilità e correttezza sancita dall’art. 1227, comma secondo, e art. 1175 c.c.42.
3. La reticenza come causa di annullamento Per consolidato orientamento ermeneutico, il dolo c.d. causam dans – ossia quello idoneo a determinare l’annullabilità del contratto – potrebbe atteggiarsi anche a condotta omissiva43, consistente “nel nascondere alla conoscenza altrui fatti o circostanze decisive, come nella reticenza: tuttavia, la reticenza o il silenzio, al pari del
Per applicazione della regola processuale citata, si veda, ex multis, Cass. civ., 11 novembre 2019, n. 28985, in Dejure. 42 Sulla ratio del principio richiamo si veda Cass. civ., 05 agosto 2021, n. 22352, in Dejure, per cui l’art. 1227, comma 2, c.c., escludendo il risarcimento per il danno che il creditore avrebbe potuto evitare con l’uso della normale diligenza, impone a quest’ultimo una condotta attiva, espressione dell’obbligo generale di buona fede, diretta a limitare le conseguenze dell’altrui comportamento dannoso, intendendosi comprese nell’ambito dell’ordinaria diligenza, a tal fine richiesta, soltanto quelle attività che non siano gravose o eccezionali o tali da comportare notevoli rischi o rilevanti sacrifici. 43 Si veda, a tal proposito, Cass. civ., 2 febbraio 2012, n. 1480, in Dejure, secondo cui “il dolo quale causa di annullamento del contratto può essere tanto commissivo, quanto omissivo, laddove si nascondano alla conoscenza del ‘deceptus’, con silenzio o reticenza, fatti o circostanze decisive per la manifestazione del consenso”. 41
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mendacio, non bastano da sole a costituire il dolo se non in rapporto alle circostanza che, se note, avrebbero fatto desistere l’altra parte dal concludere il contratto, e in rapporto, altresì, alle qualità e condizioni soggettive dell’altro contraente, e al complesso comportamento che determina l’errore, occorrendo che alla reticenza si accompagni tutta una condotta in cui si concretino le malizie e le astuzie volte a realizzare l’inganno che l’animus persegue”44. In taluni casi è lo stesso legislatore ad attribuire rilievo al silenzio: ad esempio, nel contratto di assicurazione il comportamento reticente è sanzionato in modo rigoroso, perché ai fini del calcolo del rischio contrattuale, le informazioni fornite dall’assicurato rivestono una importanza dirimente. In relazione a tale schema negoziale, dunque, ai sensi dell’art. 1892 c.c., la reticenza è causa di annullamento, se dipende da dolo o da colpa grave dell’assicurato, mentre in mancanza, pur non essendo equiparata ad un vizio del consenso, consente all’assicuratore di recedere dal contratto. Al di fuori di tali peculiari ipotesi, la dottrina e la giurisprudenza maggioritarie ritengono che la reticenza sia causa di annullamento ove si rinvenga un nesso causale tra il comportamento omissivo e la stipulazione del negozio, mentre secondo un altro orientamento – senz’altro minoritario – ciò sarebbe possibile solo in forza di un’espressa previsione di legge, come in materia assicurativa45. Appare opportuno precisare che il primo orientamento segnalato sia da considerarsi il più coerente con la stessa nozione di “artifici” ovvero “raggiri”, posto che tali categorie descrivono una forma comportamentale talmente ampia da ricomprendere ogni condotta idonea a mistificare la realtà, anche sottacendo elementi utili alla comprensione della stessa. Da un punto di vista normativo, infatti, lo stesso legislatore pone un dovere generale di informativa sugli elementi essenziali della 44 Così, testualmente, Cass. civ., 18 gennaio 1979, n. 363, in Dejure; di identico tenore anche Cass. civ., 11 ottobre 1995, n. 8295, in Dejure. 45 Di cui rende conto C. Colombo, Il dolo nei contratti: idoneità del mezzo fraudolento e rilevanza della condotta del deceptus, cit., p. 349.
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fattispecie, ovvero su quelli che potrebbero determinare un danno alla controparte: l’art. 1338 c.c. impone di informare la controparte contrattuale sull’esistenza di possibili cause invalidità del negozio, quale specificazione del più generale dovere di buona fede e correttezza nelle trattative ex art. 1337 c.c46. A prescindere da specifiche discipline settoriali, comunque, da un punto di vista pratico ciò che maggiormente rileva è l’individuazione del limite oltre il quale l’omissione di notizie utili assuma i tratti del dolo contrattuale (determinante o incidente). In questo caso, il principio di buona fede precontrattuale dovrebbe consentire di individuare, caso per caso, il discrimen tra l’obbligo di informare, posto a tutela della trasparenza delle transazioni, e l’onere di informarsi, non potendosi valutare positivamente l’inerzia di chi non si sia attivato per ottenere notizie facilmente reperibili. Tale linea di demarcazione, non essendo possibile comporre ex ante i menzionati interessi confliggenti, dipende dalle peculiarità della fattispecie concreta 47. In definitiva, il silenzio serbato da una parte, per rilevare quale causa di annullamento del contratto, deve inserirsi in una condotta complessivamente stridente con il principio di buona fede precontrattuale di cui all’art. 1337 c.c. ed in generale preordinata all’induzione in errore dell’altro contraente48. Sulla ratio della norma citata, si veda, da ultimo, Cass. civ., 14 febbraio 2022, in Dejure. 47 Si pensi al caso di scuola dell’antiquario che, pur conscio del fraintendimento, ometta di informare il cliente sulla circostanza che il quadro che si accinge ad acquistare non è un originale, ma una copia. 48 In tal senso Cass. civ., 17 maggio 2012, n. 7751, secondo cui “nel contratto di lavoro, il semplice silenzio serbato da una delle parti, anche in ordine a situazioni di interesse della controparte, e la reticenza, non immutando la rappresentazione della realtà, ma limitandosi a non contrastare la percezione della realtà alla quale sia pervenuto l’altro contraente, non integrano – salvo che l’inerzia della parte si inserisca in un complesso comportamento, adeguatamente preordinato, con malizia o astuzia, a realizzare l’inganno perseguito, determinando l’errore del deceptus, gli estremi del dolo omissivo rilevante ai sensi dell’art. 1439 c.c., e non costituiscono di per sé causa invalidante del contratto, tanto più ove il silenzio non riguardi elementi costitutivi del rapporto o qualità essenziali del lavoratore, ma circostanze non essenziali, che la parte non è tenuta a dichiarare in sede di trattative”. La vicenda scaturiva significativamente dalla richiesta di una Provincia di annullamento del 46
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4. Il dolus bonus e la pubblicità Con l’espressione dolus bonus ci si riferisce al complesso di vanterie ed esaltazione delle qualità o capacità dei prodotti ovvero dei servizi offerti sul mercato, assai diffuse nel mondo pubblicitario. Pur trattandosi di attività lato sensu ingannatorie, le stesse, di norma, non sono tali da incidere sull’iter genetico della volontà contrattuale né, tantomeno, da indurre la controparte ad accettare condizioni diverse – e svantaggiose – rispetto a quelle che sarebbero state previste in assenza di tali esagerazioni. Ciò consente di comprendere la dicotomia dolus malus/dolus bonus: il primo, caratterizzato da raggiri fraudolenti49, traducendosi in un’arbitraria ingerenza nell’altrui libertà negoziale – nella forma del dolo determinante ovvero in quella del dolo incidente – assume rilevanza sul piano caducatorio o risarcitorio; il secondo, invece, quale millantata esaltazione di un bene o di un servizio, è di norma irrilevante, stante la sua (presunta) inidoneità a trarre in inganno il cliente50. Emblematico, a tale proposito, un risalente, ma costante, orientamento di legittimità: le dichiarazioni precontrattuali con le quali una parte cerchi di rappresentare la realtà nel modo più favorevole ai propri interessi (nella specie, riguardanti l’affidamento che un’impresa riscuote sul mercato) non integrano gli estremi del dolus malus quando, nel contesto dato, non sia ragionevole supporre che l’altra parte possa aver attribuito a quelle dichiarazioni un peso particolare, considerato il modesto livello di attendibilità che, in una determinata situazione di tempo, di luogo e di persone, è da presumere che possa essere riconosciuta a “certe affermazioconferimento dell’incarico di direttore generale in relazione alla circostanza che il nominato non aveva riferito di rilievi contabili mossigli in relazione ad un precedente incarico con altra Provincia. 49 M. C. Diener, Il contratto in generale, cit., p. 800. 50 Secondo C.M. Bianca, Il contratto, cit., p. 622: “la normale inidoneità di tale pratica a trarre in inganno il cliente vale a far presumere che questi in concreto non sia stato tratto in inganno. In quanto normalmente inidonea all’inganno, l’esaltazione millantata dei beni e servizi d’impresa non costituisce come tale una pratica fraudolenta”.
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ni consuete negli schemi dialettici di una trattativa” (sempre che ad esse non si accompagni la predisposizione di ulteriori artifici o raggiri, idonei a travisare la realtà cui quelle affermazioni si riferiscono)51. Il valutare se, in concreto, ricorre un’ipotesi di dolus malus ovvero di dolus bonus è compito precipuo del giudice di merito. Pertanto, l’enfatizzazione delle qualità della prestazione o dei prodotti offerti è, di norma, lecita, posto che chiunque dovrebbe presumersi in condizione di comprendere le finalità segnatamente pubblicitarie di tali esagerazioni. Esiste, tuttavia, un limite: la falsa attribuzione ad un bene o ad un servizio reclamizzato di specifiche qualità di fatto non esistenti rende la pubblicità ingannevole, determinando il sorgere di una vera e propria ipotesi di responsabilità aquiliana. Laddove l’esaltazione dei propri prodotti sia qualificabile come menzognera, sarà possibile applicare l’art. 1439 c.c., ritenendo che la partecipazione o l’approfittamento dell’operatore economico siano idonei – in questi casi estremi – a trarre in inganno la controparte, inducendola a concludere un contratto che non avrebbe stipulato in assenza delle condotte sleali. Sebbene non sia questa la sede opportuna per una siffatta trattazione, giova sottolineare che oggi, colmato un vuoto normativo che durava da decenni, i consumatori sono tutelati nei loro rapporti con le imprese commerciali, anche grazie all’introduzione di una disciplina contro la pubblicità ingannevole e quella comparativa illecita (originariamente d.lgs. n. 74/1992, attualmente d.lgs. n. 145/2007), che prevede un controllo amministrativo affidato all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. Si definiscono ingannevoli, oltre alle pratiche commerciali che comportano confusione con i prodotti o i segni distintivi di un altro concorrente, anche quelle che, in quanto aventi informazioni false, ovvero per la loro presentazione o per altri caratteri, sono idonee a trarre in errore il consumatore medio su elementi essenziali dell’operazione commerciale
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Cass. civ., 1° aprile 1996, n. 3001, in Dejure.
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(caratteri del prodotto, prezzo, qualifiche del professionista, diritti del consumatore) e possono indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che altrimenti non avrebbe preso. La stessa disciplina si applica qualora il professionista taccia o presenti in modo oscuro informazioni rilevanti per le scelte d’acquisto del consumatore. In tutti questi casi il potere di controllo dell’Autorità Garante – finalizzato all’inibizione delle pratiche scorrette e all’irrogazione di sanzioni pecuniarie – concorre con quella del giudice ordinario, competente per eventuali azioni di annullamento o di risarcimento52. In conclusione, fuori di questi casi-limite, la millantata esaltazione delle qualità di un prodotto in ambito pubblicitario – in quanto normalmente inidonea a trarre in inganno i consumatori – non è rilevante ai fini dell’annullamento del contratto concluso in forza della stessa.
5. Il dolo incidente ed il danno differenziale All’interno delle disposizioni della Sezione II del Capo XII del Titolo II del Libro IV del Codice Civile occorre approfondire la peculiare disciplina del già richiamato art. 1440 c.c. Come già accennato, tale norma stabilisce che “se i raggiri non sono stati tali da determinare il consenso, il contratto è valido, benché senza di essi sarebbe stato concluso a condizioni diverse; ma il contraente in mala fede risponde dei danni”. Alla figura del dolo incidente, dunque, il legislatore ricollega conseguenze meramente risarcitorie, posto che, pur essendovi un’arbitraria ingerenza nel processo formativo della volontà di una parte, il condizionamento non è tale da determinare il sorgere di un consenso che altrimenti non vi sarebbe stato, limitandosi ad incidere sulle condizioni contrattuali, ossia 52 Sul tema delle pratiche commerciali scorrette tra imprese e consumatori sia consentito rinviare, per una trattazione organica, a G. F. Campobasso, Diritto dell’impresa, in M. Campobasso (a cura di), Diritto Commerciale, vol. I, Torino, 2019, pp. 259 ss.
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falsando – in peius per la vittima degli artifici – quello che sarebbe stato il normale equilibrio delle prestazioni53. In altri termini, in tali fattispecie i raggiri inducono il deceptus a stipulare un contratto, cui si era già spontaneamente auto-determinato, ma a condizioni inique, in quanto differenti rispetto a quelle che sarebbero state pattuite in assenza delle macchinazioni altrui. Il dolus incidens, pertanto, deve essere tenuto ben distinto dal dolus causam dans, giacché solo il secondo, caratterizzandosi in artifici che inducono la controparte a stipulare un negozio che altrimenti non avrebbe concluso, può atteggiarsi a causa di annullamento del contratto; il primo, invece, pur rilevando come vizio della volontà, non inficia la validità del negozio, posto che la volontà a contrarre si è formata a prescindere dalle malizie altrui. In ogni caso, si considera in mala fede non soltanto l’autore materiale delle condotte ingannevoli, ma anche il contraente che consapevolmente approfitti degli artifici di un terzo. Un’altra significativa differenza tra le due figure attiene alle modalità di determinazione del danno risarcibile. Anche in caso di dolo determinante, infatti, trattandosi comunque di un illecito lesivo della libertà negoziale, il deceptus potrebbe pretendere (cumulativamente o alternativamente all’annullamento del contratto) il ristoro del pregiudizio patito; questo, tuttavia, dovrebbe essere parametrato al c.d. interesse negativo, ossia all’interesse a non concludere il contratto, posto che la stipulazione è stata determinata esclusivamente dall’altrui condotta fraudolenta54. Viceversa, nel caso di dolo incidente, il danno risarcibile deve essere liquidato in funzione del nocumento derivante dalla minore convenienza dell’affare (che sarebbe stato comunque concluso, sebbene a condizioni diverse): esso, dunque, coinciderà con il minor vantaggio o il maggior aggravio economico derivante dall’incidenza degli artifici sulla
53 C. Colombo, Il dolo nei contratti: idoneità del mezzo fraudolento e rilevanza della condotta del deceptus, cit., p. 349. 54 Così, ex multis, A. Trabucchi, Il dolo nella teoria dei vizi del volere, cit., p. 124.
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determinazione delle clausole contrattuali55. Tale danno viene definito “differenziale”, poiché è costituito dalla differenza tra le condizioni effettivamente accettate e quelle – più vantaggiose – che sarebbero state previste qualora la volontà di una delle parti non fosse stata viziata da dolo, e riguarda quell’ipotesi di responsabilità precontrattuale riscontrabile in presenza di un contratto valido ed efficace, ma svantaggioso56. A conclusione della disamina degli aspetti risarcitori, pare utile sottolineare che, tanto nel dolo incidente, quanto in quello determinante, qualora la condotta fraudolenta sia stata posta in essere da un soggetto terzo, con la responsabilità di quest’ultimo concorrerebbe anche quella del contraente che, consapevole degli artifizi orditi dal primo, abbia tratto giovamento dall’inganno. Ebbene, tanto chiarito in materia di dolo incidente, si comprende che la relativa disciplina non sia altro – in verità – che specificazione del generale principio imposto dall’art. 1337 c.c., con una Sul punto si veda C.M. Bianca, Il contratto, cit., pp. 619-620, secondo cui “nell’ipotesi di dolo incidente il risarcimento del danno si adegua ad un criterio analogo a quello valevole per l’inadempimento. Ciò si spiega tenendo presente che il contratto rimane validamente concluso, e che la vittima non lamenta il pregiudizio per l’invalidità del contratto ma la mancanza di quel risultato economico positivo che essa avrebbe raggiunto se la controparte avesse agito lealmente”. 56 Si veda Cass. civ., 16 febbraio 2012, n. 5965, in Dejure, per cui in ipotesi di domanda di risarcimento per dolo incidente relativa al danno derivante da un contratto valido ed efficace ma sconveniente, l’eventuale esistenza dell’inganno nella formazione del consenso non incide sulla possibilità di far valere i diritti sorti dal medesimo contratto, ma comporta soltanto che il contraente, il quale abbia violato l’obbligo di buona fede, è responsabile del danno provocato dal suo comportamento illecito, commisurato al minor vantaggio ovvero al maggior aggravio economico prodotto dallo stesso. Tuttavia, pur non avendo il contraente diritto di occultare i fatti, la cui conoscenza sia indispensabile alla controparte per una corretta formazione della propria volontà contrattuale, l’obbligo informativo non può essere esteso fino al punto di imporre al medesimo contraente di manifestare i motivi per i quali stipula il contratto, così da consentire all’altra parte di trarre vantaggio non dall’oggetto della trattativa, ma dalle altrui motivazioni e risorse. Nella specie, la circostanza taciuta riguardava il fatto che sul terreno, venduto come destinato a verde ed a parcheggi, sarebbe stata trasferita l’edificabilità da altri immobili di proprietà dell’acquirente, con conseguente incremento del valore del suolo. 55
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ratio in perfetta armonia con quella già tracciata in materia di dolo determinate: premesso il divieto di ledere la libertà negoziale altrui, dovendosi i consociati astenere dall’ingerire illecitamente nel procedimento volitivo della controparte in sede di trattative, il deceptor è obbligato a risarcire quei danni che siano causalmente collegati (a norma dell’art. 1223 c.c.) ai suoi artifici o raggiri, siano essi ricollegati ad un contratto che non si sarebbe altrimenti concluso (e quindi annullabile) ovvero ad un contratto che pur voluto (quindi perfettamente valido) sia risultato a causa di essi iniquo.
6. Il dolo quale causa di responsabilità precontrattuale e gli obblighi informativi delle parti Da quanto argomentato nei paragrafi che precedono si comprende la stretta correlazione esistente tra dolo contrattuale e responsabilità ex art. 1337 c.c. La responsabilità civile si definisce “precontrattuale”, infatti, quando attiene ai danni cagionati da un comportamento illecito tenuto in una fase precedente alla conclusione del contratto. Come già si è visto, tanto il dolo determinante quanto quello incidente comportano il sorgere di un’ipotesi di responsabilità, stante la loro natura illecita. In entrambi i casi, infatti, è possibile agire giudizialmente per ottenere il risarcimento del danno (solo o congiunto all’annullamento del contratto nel caso del dolus causam dans), sebbene questo assuma una fisionomia diversa a seconda dell’incidenza che i raggiri abbiano avuto sul sorgere della volontà del deceptus. L’illiceità civile della condotta dolosa (al pari di quella violenta) deriva del fatto che la stessa si traduce in un’arbitraria ingerenza nella libertà negoziale, ossia nella libera esplicazione dell’autonomia privata. In altre parole, “dolo e violenza, oltre che come vizi del volere, sono considerabili anche dal profilo dell’atto illecito; come tali, stanno fuori del negozio, operano prima della sua formazione, sono illeciti extracontrattuali: l’evento pregiudizievole, da essi prodotto,
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consiste tipicamente, salvo ulteriori sviluppi contingenti, nella nascita di un negozio che, senza il loro intervento, non si sarebbe formato o almeno non in quel modo”57. In questo senso, pare evidente che l’art. 1440 c.c., nel preservare la validità del contratto affetto da dolo incidente, circoscrivendo la tutela al piano risarcitorio, costituisca applicazione del modello di responsabilità precontrattuale, derivante dalla violazione del principio di buona fede che deve animare la fase delle trattative. Da questa considerazione deriva un’ovvia conseguenza: la responsabilità precontrattuale non sorge soltanto qualora la violazione del principio di cui all’art. 1337 c.c. abbia impedito di pervenire alla conclusione di un contratto valido ed efficace, ma anche qualora le trattative siano sfociate nella stipula di un contratto valido ed efficace, ma ingiusto. Si può, dunque, affermare che il principio di buona fede non comporta una relazione biunivoca tra tutela risarcitoria, da un lato, ed invalidità o inefficacia del contratto stipulato in seguito a trattative scorrette, dall’altro58. In dottrina si è emblematicamente parlato di una emancipazione della responsabilità precontrattuale dalla tradizionale posizione ancillare rispetto all’invalidità59, per sottolineare come la prima stia acquisendo progressivamente sempre maggior rilievo, non solo con riferimento al pregiudizio derivante dall’ingiustificato ritardo nella conclusione del contratto, ma, soprattutto, per quanto riguarda il danno da violazione degli obblighi di informazione. Intanto occorre premettere che non esiste un generale diritto all’informazione da parte dei terzi, ma, se l’informazione viene effettivamente resa, diviene fonte di responsabilità qualora leda interessi tutelati (in particolare, si pensi alla libertà negoziale)60. Incontrovertibile, sul punto, la pronuncia della Suprema Corte
G. Scaduto – D. Rubino, Illecito (atto) (diritto moderno) voce, in M. D’A(a cura di), Nuovo Digesto italiano, Torino, 1938., pp. 153 ss. 58 Così anche Cass. civ., 14 febbraio 2022, n. 4715, cit. 59 N. Sapone, La responsabilità precontrattuale, Milano, 2008, p. 102. 60 C.M. Bianca, La responsabilità, in Diritto Civile, vol. V, Milano, 1994, p. 593. 57
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che aveva confermato la condanna al risarcimento del danno di un noto pittore per aver falsamente attestato la paternità di un quadro non suo, così inducendo in errore l’acquirente circa l’autenticità dell’opera61. Ad ogni modo, esistono, pur non essendo generalizzati, specifici obblighi di informazione, in relazione a determinati rapporti o a particolari soggetti: si pensi alle puntuali previsioni dei codici di deontologia forense o medica, alla disciplina del codice del consumo62 o agli obblighi posti dall’art. 21 d.lgs. 58/1998 a carico dei soggetti abilitati alla prestazione di servizi di investimento. Come già accennato, una volta iniziata la fase delle trattative, invece, per quello che più interessa, il generale principio di buona fede cristallizzato nell’art. 1337 c.c. si sostanzia in una serie indefinita di obblighi informativi, la cui portata non è determinabile a priori, ma deve essere di volta in volta individuata con riferimento alla singola fattispecie contrattuale, dovendosi addivenire ad un equo bilanciamento tra dovere di informazione e principio di auto-responsabilità. Da ciò discende che, secondo l’opinione prevalente, il contraente che abbia taciuto alla controparte informazioni necessarie – o le abbia comunicate in modo inesatto o reticente – risponde dei danni cagionati, in forza dell’istituto della responsabilità precontrattuale. In questi casi, in linea di massima, è fatta salva la validità del contratto, a patto che – come detto – il silenzio o la reticenza non siano la concreta forma di manifestazione di un più ampio disegno artificioso, riconducibile entro la previsione dell’art. 1439 c.c. Tale principio è stato ribadito, in materia di intermediazione finanziaria, dalla Corte di Cassazione nella sua più autorevole com Si tratta del noto caso De Chirico, citato da F. Galgano, Le mobili frontiere del danno ingiusto, in Contr. impr., 1985, pp. 159 ss.; Cass. civ., 4 maggio 1982, n. 2765, in Dejure. 62 L’art. 2, comma 2, lett. c) del d.lgs. 206/2005 tra i diritti fondamentali del consumatore indica anche quello “ad un’adeguata informazione e ad una corretta pubblicità”. In caso di violazione è integrata un’ipotesi di responsabilità extra-contrattuale, che dà diritto al risarcimento del danno e, ove ne ricorrano gli estremi, finanche ad azioni di annullamento. 61
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posizione, con la nota pronuncia del 2007: “la violazione dei doveri d’informazione del cliente e di corretta esecuzione delle operazioni, che la legge pone a carico dei soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi di investimento finanziario, può dar luogo a responsabilità precontrattuale, con conseguente obbligo di risarcimento dei danni, ove tali violazioni avvengano nella fase precedente o coincidente con la stipulazione del contratto d’intermediazione destinato a regolare i successivi rapporti tra le parti. Può, invece, dar luogo a responsabilità contrattuale ed eventualmente condurre alla risoluzione del predetto contratto, ove si tratti di violazioni riguardanti operazioni di investimento o disinvestimento compiute in esecuzione del contratto d’intermediazione finanziaria in questione. In nessun caso, in difetto di previsione normativa in tal senso, la violazione dei suaccennati doveri di comportamento può, però, determinare la nullità del contratto d’intermediazione o dei singoli atti negoziali conseguenti, a norma dell’art. 1418, comma 1, c.c.”63. Così la Suprema Corte ha risolto un’annosa querelle relativa alle conseguenze giuridiche dell’inosservanza degli obblighi di informazione, sconfessando l’orientamento di parte della giurisprudenza di merito che riteneva il negozio così concluso nullo per violazione di norme imperative. Infatti, sebbene tali siano le disposizioni che prevedono obblighi di informazione, esse non riguardano la validità del contratto, ma si limitano a prescrivere doveri comportamentali, al pari del generale principio di buona fede, la cui violazione, pur trattandosi di norma imperativa capace di incidere talvolta sulla sopravvivenza del negozio, non ne determina mai la nullità assoluta. Il dolo contrattuale (quale dolo determinate ovvero dolo incidente) si pone quindi nel solco della responsabilità precontrattuale, ove il legislatore si è curato di bilanciare le contrapposte esigenze di buona fede e correttezza nelle trattative, nonché di auto-responsabilità delle parti negoziali. Posto in tal senso il dovere di informativa reciproca, sicuramente è contrario a buona fede il comportamento di chi carpisce ovvero
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Così testualmente Cass. civ., SS.UU., 19 dicembre 2007, n. 26724, in Dejure.
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altera l’altrui procedimento volitivo attraverso false informazioni (ovvero sottacendone di essenziali) e, per l’effetto, l’obbligo risarcitario sarà naturale conseguenza ex art. 1337 c.c., mentre l’annullamento contrattuale sarà sanzione eccezionale, posta a tutela del libero consenso del contraente tratto in inganno. Fermo restando che la responsabilità precontrattuale è di norma ricondotta al più ampio genus di quella aquiliana (con le note conseguenze in tema di onere probatorio e prescrizione), occorre dare conto dell’orientamento minoritario – ma comunque rilevante – per cui la responsabilità in parola si porrebbe come responsabilità contrattuale in tutte quelle ipotesi in cui si possa configurare la fattispecie del c.d. “contatto sociale qualificato”. Brevemente, seppure gli obblighi pre-negoziali siano generalmente espressione dei principi di buona fede e correttezza, nonché del generale dovere di neminem laedere, come già accennato, in talune peculiari fattispecie è il legislatore ad imporre specifici comportamenti in sede precontrattuale. Si è detto, per esempio, dei doveri di informativa in ambito di rapporti finanziari, ma si veda anche la peculiare posizione della P.A. in sede di contrattazione a pubblica evidenza, ove il legislatore qualifica uno dei contraenti, imponendogli per legge un preciso dovere di salvaguardia dell’interesse del terzo che con questi entri in contatto. Ciò posto, quindi, secondo una certa giurisprudenza, si ritiene che qualora la negoziazione si venga ad instaurare con un soggetto qualificato, tale per cui in capo al terzo possa ingenerarsi un legittimo ed incolpevole affidamento circa la legittimità del suo comportamento, allora gli obblighi di fonte legale in capo al soggetto qualificato sarebbero idonei a rendere contrattuale la responsabilità precontrattuale, essendo la speciale disciplina di riferimento fonte autonoma di un rapporto obbligatorio64. In tal senso, quindi, an-
In tal senso si veda Cass. civ., 12 luglio 2016, n. 1418, con nota di A. ScaLa responsabilità precontrattuale ha natura di responsabilità contrattuale da “contatto sociale qualificato”, in Ridare.it, 26 settembre 2016. 64
lera,
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che il dolo contrattuale potrebbe condurre il deceptor a rispondere ex art. 1218 c.c.
7. I cc.dd. vizi “incompleti” del consenso Nonostante in passato si sostenesse che l’art. 1440 c.c., quale norma eccezionale, non sarebbe stato applicabile analogicamente ai sensi dell’art. 14 prel. c.c., come si è detto, oggi la dottrina maggioritaria ritiene di poter desumere da tale disciplina il principio generale secondo cui la responsabilità precontrattuale è autonoma rispetto alle cause di invalidità del contratto. Il legislatore, infatti, trattando di errore, violenza e dolo determinante, ha scelto di elevare una regola di comportamento a regola di validità, capace di incidere sulle sorti del vincolo contrattuale in ragione del significativo influsso esercitato su uno dei suoi elementi essenziali; viceversa, nel dolo incidente, la regola di comportamento codificata non assurge a causa di annullabilità, conservando il suo ordinario rilievo soltanto sul piano risarcitorio. Di recente, la responsabilità precontrattuale ha costituito il campo di elezione per approntare rimedi idonei a ripristinare l’equilibrio delle prestazioni ogniqualvolta la posizione di preminenza di una delle parti nella fase delle trattative, pur senza incidere sulla validità del contratto, ne abbia distorto il sinallagma. In particolare, la riflessione sull’art. 1440 c.c. ha condotto alla teorizzazione dei cc.dd. “vizi incompleti della volontà o del consenso”65, ossia di ipotesi in cui la condotta scorretta serbata da uno dei contraenti presenti connotati tali da non poter essere riportata né entro la disciplina dei vizi determinanti del consenso, né entro quella peculiare del dolo incidente, eppure, ciononostante, abbia comunque influito sugli equilibri contrattuali, inducendo, in viola-
Per una approfondita disamina della evoluzione dottrinale sul tema, si veda G. D’amico, Responsabilità contrattuale anche in caso di contratto valido?, in Giustizia Civile Din. Trim., 1, 2014, pp. 94 ss. 65
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zione del generale principio di buona fede, la controparte ad accettare condizioni svantaggiose che altrimenti non avrebbe accettato. Tale posizione è stata da ultimo accolta, seguendo le orme della pronuncia delle SS.UU. del 2007, anche dalla Terza Sezione Civile, nella celebre decisione sul c.d. lodo Mondadori, ove si enunciava il seguente principio di diritto: “l’azione di risarcimento danni ex art. 2043 c.c. per lesione della libertà negoziale è esperibile allorché ricorra una violazione della regola di buona fede nelle trattative contrattuali – nella specie, finalizzate alla stipulazione di una transazione – che abbia dato luogo ad un assetto d’interessi più svantaggioso per la parte che abbia subìto le conseguenze della condotta contraria a buona fede, e ciò pur in presenza di un contratto valido, ovvero, nell’ipotesi di invalidità dello stesso, in assenza di una sua impugnativa basata sugli ordinari rimedi contrattuali”66. Dunque, il Supremo Collegio riteneva applicabile un rimedio di fatto identico a quello previsto dall’art. 1440 c.c. – ossia risarcimento del danno differenziale senza inficiare la validità del contratto – sebbene non si rientrasse in un’ipotesi di dolo incidente. Osserva infatti il Supremo Collegio che nei confronti della parte che abbia “callidamente e scorrettamente insidiato l’autonoma determinazione negoziale dell’altra deve ritenersi configurabile in via generale una responsabilità risarcitoria anche quando il comportamento contrario a buona fede non sia tale da integrare il paradigma normativo di uno dei vizi del consenso, così come disciplinati dal codice civile, dando luogo, piuttosto, ad un vizio atipico, qualificabile in termini di errore o violenza incidenti”. In questo modo, evidentemente, è possibile predisporre una tutela adeguata per tutti quei casi in cui condotte sleali abbiano portato alla stipula di un contratto valido, ma svantaggioso, senza comunque essere sussumibili entro le disposizioni del Capo dedicato a “L’annullamento del contratto”. A onor del vero, pare corretto dar conto delle molteplici critiche cui la teoria dei c.d. vizi incompleti del consenso presta il fianco:
Così la massima ufficiale di Cass. civ., 17 settembre 2013, n. 21255, in Dejure.
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sembrerebbe difficile, in assenza di puntuali previsioni legislative, individuare il limite oltre il quale il condizionamento della volontà della controparte debba far sorgere una responsabilità precontrattuale; tale difficoltà rischierebbe di tradursi, all’atto pratico, in un esteso – quanto arbitrario – sindacato giudiziale sull’equilibrio contrattuale, sindacato che il legislatore aveva inteso prudentemente circoscrivere ad ipotesi eccezionali. Per di più, la soluzione prospettata non considera, inoltre, che l’asimmetria esistente tra dolo (disciplinato anche nella forma incidente), da un lato, ed errore e violenza, dall’altro, potrebbe non essere una lacuna, quanto, piuttosto, una ponderata scelta politica, finalizzata a garantire la stabilità dei traffici commerciali67. L’irrilevanza di tali osservazioni – seppur logicamente coerenti – discende dall’esigenza di offrire effettiva protezione alla libertà negoziale della parte lesa da una condotta scorretta di gravità tale da trascendere la semplice violazione del canone di buona fede, pur senza essere sussumibile entro uno dei vizi del consenso espressamente disciplinati dal Codice. La giurisprudenza sul tema afferma, infatti, che ove il comportamento sleale si caratterizzi per “un quid pluris e per un quid alii rispetto ad una semplice violazione del dovere comportamentale di cui all’art. 1337 c.c., imprescindibili esigenze di effettività della tutela giurisdizionale impongono di riconoscere spazio applicativo alla proposizione di un’autonoma domanda risarcitoria ex art. 2043 c.c.”68. Innumerevoli paiono le potenzialità applicative della teoria de qua: si potrebbe far valere la responsabilità precontrattuale di chi abbia concluso un contratto con un soggetto caduto in errore non essenziale o di chi tragga vantaggio dall’inesperienza o dall’imma-
Dà conto di tale pensiero critico M. Mantovani, Vizi incompleti del contratto e rimedio risarcitorio, Torino, 1995, p. 253. 68 Così Cass. civ., 17 settembre 2013, n. 21255, in Dejure. Nel caso de quo la violazione del canone di buona fede precontrattuale non era circoscritta alla semplice reticenza di informazioni circa la convenienza dell’affare, ma arrivava fino alla completa alterazione dei presupposti della trattativa, attraverso la consumazione di un illecito penale (corruzione in atti giudiziari). 67
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turità della controparte maggiorenne69; ancora, potrebbe essere condannato al risarcimento dei danni colui che abbia condizionato l’altrui volontà a contrarre mediante pressioni psicologiche non qualificabili come violenza, ma efficaci soltanto in considerazione della situazione di particolare fragilità della vittima; infine, pur non essendo rescindibile il contratto, non ricorrendo i presupposti di cui agli artt. 1448 ss. c.c., potrebbe sussistere un’ipotesi di responsabilità precontrattuale a carico di chi, approfittando dell’altrui stato di bisogno, induca l’indigente a stipulare un contratto svantaggioso, ma non connotato da una sproporzione ultra dimidium70.
8. Rilievi conclusivi Esposti i principi elaborati da dottrina e giurisprudenza a proposito del dolo contrattuale, occorre ora calare tali indirizzi ermeneutici nella vicenda sulla quale si pronunciava l’ordinanza in commento, dichiarando inammissibile il ricorso proposto da D.M.L., il quale censurava la sentenza della Corte d’appello di Bologna nella parte in cui, a suo dire, non avrebbe accertato il dolo. Il ricorrente, infatti, assumeva di essere stato indotto in errore nella sottoscrizione della procura speciale da parte della società 3 G. nella convinzione che tale atto fosse necessario per ottenere autorizzazioni amministrative. A parere del Supremo Collegio, tuttavia, la Corte territoriale aveva correttamente ritenuto che il fraintendimento degli effetti dell’atto non integrasse un raggiro rilevante ai fini dell’art. 1439 c.c., in quanto le asserite rassicurazioni ricevute dalle controparti circa i
Diversamente il contratto sarebbe annullabile ai sensi dell’art. 1425 c.c., purché, a tenore della disposizione successiva, il minore non abbia con raggiri occultato la sua minore età, non essendo, a tal fine, sufficiente la semplice dichiarazione di essere maggiorenne. 70 Si sottolinea che, laddove l’errore sebbene non riconoscibile fosse comunque noto alla controparte, il silenzio di quest’ultima rileverebbe come dolo omissivo, incidente o determinante a seconda dei casi. 69
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tempi della vendita non assumevano alcuna rilevanza. Soprattutto, deve considerarsi dirimente la circostanza che il Notaio rogante avesse compiutamente illustrato al ricorrente gli effetti giuridici dell’atto. Il ricorso doveva, pertanto, considerarsi inammissibile perché la decisione del giudice di merito era conforme alla consolidata giurisprudenza di legittimità e – si potrebbe aggiungere – agli orientamenti dottrinali sul punto. L’annullabilità del contratto presuppone, infatti, che i raggiri del deceptor abbiano inciso sull’iter volitivo della controparte, ingenerando in questa una distorsione della realtà equiparabile ad un errore essenziale ai sensi dell’art. 1429 c.c. Tale dispercezione artificiosamente indotta deve aver fatto sorgere nel deceptus il proposito di stipulare un contratto che, in assenza di tale condotta artificiosa, non avrebbe concluso. Ai fini della sussistenza del dolus causam dans, in sostanza, non sono sufficienti semplici influenze psicologiche, essendo semmai necessari artifici, macchinazioni o menzogne che abbiano avuto un’efficacia causale decisiva sulla genesi della volontà delle controporte e, in sintesi, sul suo consenso. In soccorso della tesi del ricorrente non paiono neppure le discipline del dolo incidente né della buona fede pre-contrattuale latamente intesa: fermo restando infatti che nel caso di specie difettasse la prova del comportamento contrario ai canoni codicistici della controparte, comunque l’azione del Notaio rogante – che ben spiegava gli effetti giuridici dell’atto prima delle suo perfezionamento – è stata tale da elidere completamente il nesso eziologico tra raggiro e danno, ovvero conclusione del negozio, posto che l’errore sugli effetti della procura ben poteva essere evitato dal ricorrente comprendendo quanto spiegatogli dal professionista. Tutto ciò considerato, la pronuncia annotata ha fatto sostanziale buongoverno delle acquisizioni – a dire il vero pacifiche sul punto – di dottrina e giurisprudenza: eventuali rassicurazioni circa i tempi di conclusione dell’operazione non avrebbero potuto ingenerare in D.M.L. una situazione di errore avente i caratteri della essenzialità, soprattutto in considerazione del fatto che, di fronte alle delucida-
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zioni fornite da un professionista del diritto, nessuna persona normalmente ragionevole avrebbe potuto fraintendere gli effetti di una procura a vendere. Come correttamente stabilito nei due gradi del giudizio di merito, in sintesi, i presunti raggiri erano, in concreto, privi di qualsivoglia incidenza sulla genesi della volontà negoziale del ricorrente.
Corte di Cassazione – Sezioni Unite 4 novembre 2019, n. 28314 (sent.) Presidente Mammone, Estensore Acierno Contratti finanziari – Forma scritta – Nullità di protezione – Nullità selettive – Consumatore “La nullità per difetto di forma scritta, contenuta nel D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 23, comma 3, può essere fatta valere esclusivamente dall’investitore con la conseguenza che gli effetti processuali e sostanziali dell’accertamento operano soltanto a suo vantaggio. L’intermediario, tuttavia, ove la domanda sia diretta a colpire soltanto alcuni ordini di acquisto, può opporre l’eccezione di buona fede, se la selezione della nullità determini un ingiustificato sacrificio economico a suo danno, alla luce della complessiva esecuzione degli ordini, conseguiti alla conclusione del contratto quadro” (massima ufficiale).
Dalla motivazione (omissis) 5. Nel primo motivo di ricorso viene dedotta la violazione degli artt. 1292,1388,1704 e 1705 c.c. e art. 61 reg. Consob n. 11522 del 1998 in relazione alla ritenuta carenza di legittimazione attiva del ricorrente in relazione all’operazione del 4/5/99. Afferma il ricorrente che il contratto d’intermediazione e quello di conto corrente erano cointestati a lui ed a sua madre. Ciascuno di essi, secondo quanto stabilito nel contratto poteva impartire ordini di acquisto titoli. Da ciò conseguiva che essi, anche singolarmente, agivano anche in rappresentanza dell’altro cointestatario ed avevano entrambi legittimazione ad agire in giudizio a tutela dei propri investimenti. Inoltre l’attestato di eseguito recava l’espressa dizione “Vi informiamo di avere eseguito […] la seguente operazione da voi disposta”. Secondo quanto stabilito nell’art. 61 Reg. Consob tale informazione viene fornita all’investitore e non ad altri. Doveva
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pertanto trovare applicazione l’art. 1704 c.c. in relazione alla ratifica e non l’art. 1705 c.c. oltre che l’art. 1399 c.c. Infine, anche applicando l’art. 1705 c.c. il credito derivante dall’azione di nullità poteva essere esercitato dal mandante. 6. Nel secondo motivo viene dedotta la violazione dell’art. 23 T.U.F. in relazione all’accoglimento dell’eccezione riconvenzionale di compensazione formulata dalla intermediaria. In primo luogo il ricorrente rileva che l’accertamento della nullità dell’intero contratto quadro è stata richiesta in via meramente incidentale e strumentale alla declaratoria di nullità dei due ordini sopra identificati. Tale limitazione risulta legittima in quanto gli ordini hanno una propria autonoma valenza negoziale che postula la formazione di un consenso ad hoc per la loro esecuzione mediante la prestazione dell’intermediario. Al riguardo non può pretendersi, in violazione patente dell’art. 100 c.p.c., che l’investitore debba denunziare la nullità di operazioni, eseguite in perfetta buona fede e che hanno comportato un utile, con ciò aggravando il danno già subito. Ove l’investitore dovesse scegliere tra il far valere la nullità dell’intero rapporto o subire, per evitare un maggior danno, la violazione dell’intermediario, ciò farebbe venire meno il carattere protettivo della nullità ed anche la funzione di tutelare l’integrità e la correttezza del mercato. 7. Nel terzo motivo viene dedotto il vizio di ultrapetizione della sentenza impugnata, per essere stata accertata con valore di giudicato la nullità del contratto quadro laddove ne era stato chiesto l’accertamento soltanto incidenter tantum. 8. Nel quarto motivo viene dedotta la violazione del D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 10, comma 2 bis, per l’erronea affermazione contenuta nella sentenza impugnata riguardante la asserita non contestazione dell’entità delle cedole incassate dalla intermediaria in relazione agli ordini di acquisti scaturenti dal contratto quadro nullo. I documenti da cui si desume il fatto non contestato sono gli estratti conto prodotti dalla banca che riportano genericamente accrediti ed addebiti senza alcuna distinzione tra le operazioni disposte dai singoli cointestatari o cedole o dividendi provenienti da operazioni diverse. Il ricorrente, peraltro, riportando ampi stralci del quarto motivo
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d’appello, precisa di aver contestato anche in relazione alla legittimazione attiva della banca la riconduzione dell’importo complessivo a titolo di cedole nel rapporto giustificato dal contratto quadro. L’effetto probante della non contestazione non può prodursi se è necessario che i fatti accertati siano integrati da ulteriori prove e se abbia ad oggetto solo fatti secondari. L’applicazione illegittima del principio di non contestazione ha determinato nella specie l’alterazione della regola di giudizio fissata nell’art. 2697 c.c. 9. Nel quinto motivo viene dedotta la violazione degli artt. 820, 1148 e 2033 c.c. in relazione al dedotto obbligo dell’investitore di restituire le cedole riscosse in buona fede nel corso del rapporto. Il ricorrente aveva già prospettato il rilievo in questione precisando che le cedole nella specie erano state pagate dagli emittenti dei titoli e non dalla banca con la conseguenza che la stessa difettava di legittimazione. L’affermazione, secondo la quale, con la declaratoria di nullità i titoli restavano di proprietà della banca non faceva venire meno la conseguenza che il pagamento delle cedole era stato effettuato in buona fede al soggetto che in virtù del possesso del titolo figurava esserne il proprietario. Le norme sopra indicate stabiliscono il principio secondo il quale il possesso di buona fede fa sì che i frutti riscossi siano dovuti solo dal giorno della domanda e non dal momento della loro materializzazione. Il giudice d’appello ha errato nel dare rilievo invece che al possesso di buona fede alla titolarità delle obbligazioni. Essendo stata esclusa la malafede della banca doveva a maggior ragione essere esclusa la malafede del cliente. La corte d’Appello ha erroneamente ritenuto la banca legittimata alla ripetizione di indebito oggettivo. 10. Nel sesto motivo viene dedotta la violazione degli artt. 1147, 1338 e 2033 c.c. nonché del D.Lgs. n. 59 del 1998, art. 23 in relazione al rigetto della domanda attorea di pagamento degli interessi sulla somma investita dalla data degli investimenti anziché dalla domanda. Il difetto di sottoscrizione del contratto quadro da parte della banca porta a ritenere accertato che la stessa fosse a conoscenza dell’invalidità dello stesso e degli ordini relativi ai titoli argentini con la conseguenza dell’indebito originario in relazione ai pagamen-
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ti per i loro acquisti. L’obbligo di forma è posto ad esclusiva tutela del cliente e costituisce il primo livello di tutela dell’asimmetria informativa. Ne consegue la presunzione di consapevolezza della banca che a colmare tale squilibrio è tenuta. 11. La questione di cui sono state investite le Sezioni Unite è affrontata nel secondo motivo di ricorso. Il contrasto che si è determinato all’interno della prima sezione riguarda, come già rilevato, la legittimità della limitazione degli effetti derivanti dall’accertamento della nullità del contratto quadro ai soli ordini oggetto della domanda proposta dall’investitore, contrapponendosi a tale impostazione, quella, ad essa alternativa, che si fonda sull’estensione degli effetti di tale dichiarazione di nullità anche alle operazioni di acquisto che non hanno formato oggetto della domanda proposta dal cliente, con le conseguenze compensative e restitutorie che ne possono derivare ove trovino ingresso nel processo come eccezioni o domande riconvenzionali. 12. Prima di esaminare il secondo motivo di ricorso è necessario affrontare il terzo motivo relativo al vizio di ultrapetizione, nel quale sarebbe incorsa la sentenza impugnata per aver ritenuto che l’accertamento della nullità del contratto quadro avesse valore di giudicato. Al riguardo deve osservarsi che la parte ricorrente ha affermato che l’accertamento della nullità del contratto quadro era stata richiesta soltanto “incidenter tantum”, ed esclusivamente al fine di far valere l’invalidità degli ordini di acquisto indicati nella domanda. Secondo questa prospettazione, l’eccezione di compensazione, accolta dalla Corte d’Appello, è viziata da extrapetizione perché fondata sull’accertamento con valore di giudicato, della nullità del contratto quadro, e sulla conseguente invalidità di tutti gli ordini di acquisto con efficacia ex tunc. 13. La censura non è fondata. In primo luogo deve rilevarsi che l’accertamento “incidenter tantum” può riguardare soltanto un rapporto diverso da quello dedotto in giudizio che si ponga come mero antecedente logico della decisione da adottare. La giurisprudenza di legittimità ha individuato le caratteristiche distintive di tale accertamento, ad efficacia esclusivamente endoprocessuale, rispetto
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a quello con valore di giudicato, attraverso gli orientamenti relativi al regolamento di competenza sui provvedimenti di sospensione del processo, la cui legittimità è stata limitata agli accertamenti giurisdizionali che si pongano in relazione di pregiudizialità tecnica o giuridica con quello o quelli inerenti il processo sospeso. Alla luce dei principi indicati, l’accertamento ha valore di giudicato quando riguarda un presupposto giuridico eziologicamente collegato con la domanda tanto da costituirne premessa ineludibile. Ulteriore caratteristica distintiva è l’attitudine ad avere rilievo autonomo ed efficacia che può propagarsi oltre il perimetro endoprocessuale. (Cass.14578 del 2005, nella quale è stato escluso che l’accertamento della proprietà di un muro in una causa di risarcimento dei danni dovuta al suo crollo potesse essere idonea alla formazione giudicato, trattandosi di rapporto diverso da quello dedotto in giudizio e 16995 del 2007). Nella fattispecie dedotta nel presente giudizio l’accertamento della nullità del contratto quadro costituisce il presupposto non solo logico ma tecnico-giuridico della domanda oltre ad essere stato posto a base da parte dell’intermediario, dell’eccezione riconvenzionale di compensazione. 13.1. L’attitudine al giudicato dell’accertamento relativo alla nullità del contratto quadro e la conseguente infondatezza della censura prospettata nel terzo motivo, non esclude, tuttavia, la necessità di affrontare la correlata questione, relativa alla legittimazione ad agire dell’intermediario, in via di azione o di eccezione, al fine di far valere gli effetti della nullità del contratto quadro anche in relazione ad ordini di acquisto diversi di quelli indicati nella domanda. Tale profilo costituisce parte integrante della censura formulata nel secondo motivo e della questione sottoposto all’esame delle Sezioni Unite, dovendo essere affrontata alla luce del peculiare regime delle nullità di protezione, all’interno delle quali si colloca, incontestatamente, la nullità per difetto di forma del contratto quadro, stabilita nell’art. 23 del t.u. n. 58 del 1998. 14. L’esame del secondo motivo richiede una precisazione preliminare. Nel giudizio di merito si è formato il giudicato sulla nul-
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lità del contratto quadro per difetto di forma, nonostante emerga dal ricorso (pag.8), e dalla sentenza impugnata (pag. 7 in fine) che il predetto contratto (quello del 25/8/98) sia stato sottoscritto dagli investitori (il ricorrente e sua madre). L’esistenza di un testo completo e sottoscritto da uno dei contraenti, ancorché costituisca circostanza irrilevante, in relazione all’accertamento della nullità, perché coperta da giudicato, non può essere del tutto ignorata, in relazione alla valutazione della legittimità delle diverse forme di tutela dell’intermediario determinate dall’uso selettivo delle nullità di protezione. 14.1. In particolare, deve escludersi l’applicabilità, nel caso di specie, dei principi contenuti nell’ordinanza della prima sezione civile, n. 10116 del 2018, secondo i quali l’intermediario non può legittimamente opporsi ad un’azione fondata sull’uso selettivo della nullità ex art. 23 T.U.F. quando un contratto quadro manchi del tutto, né attraverso l’exceptio doli (di cui si tratterà nei parr. 18, 19, 20) né, in ragione della protrazione nel tempo del rapporto, per effetto della sopravvenuta sanatoria del negozio nullo per rinuncia a valersi della nullità o per convalida di esso, l’una e l’altra essendo prospettabili solo in relazione ad un contratto quadro formalmente esistente. 15. Si ritiene necessaria, in primo luogo, la ricognizione del quadro legislativo delle nullità di protezione non limitando l’esame soltanto alle norme del T.U.F ratione temporis applicabili, ma estendendo l’indagine ad aree contigue, in modo da avere un prospetto comparativo della peculiarità del regime giuridico di tale tipologia di nullità. 15.1. Al rapporto dedotto in giudizio si applica il D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 23 nella sua formulazione originaria. Il testo normativo è, infatti, entrato in vigore il 1/7/1998 ed il contratto quadro è stato stipulato nell’agosto del 1998. Gli ordini di cui si chiede la dichiarazione di nullità sono stati emessi nel 1999. Il testo normativo ratione temporis applicabile è il seguente: 1. I contratti relativi alla prestazione dei servizi di investimento e accessori sono redatti per iscritto e un esemplare è consegnato ai
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clienti. La CONSOB, sentita la Banca d’Italia, può prevedere con regolamento che, per motivate ragioni tecniche o in relazione alla natura professionale dei contraenti, particolari tipi di contratto possano o debbano essere stipulati in altra forma. Nei casi di inosservanza della forma prescritta, il contratto è nullo. 2. È nulla ogni pattuizione di rinvio agli usi per la determinazione del corrispettivo dovuto dal cliente e di ogni altro onere a suo carico. In tal casi nulla è dovuto. 3. Nei casi previsti dai commi 1 e 2 la nullità può essere fatta valere solo dal cliente. Il comma 3 non è mutato nella versione della norma attualmente vigente. Analogo sistema di tutela del cliente si rinviene nel D.Lgs. n. 385 del 1993 (d’ora in avanti denominato T.U. bancario), sia in relazione alla previsione della nullità del contratto per difetto di forma (art. 117, commi 1 e 3, rimasti immutati), sia in relazione all’applicazione delle nullità di protezione disciplinate nell’art. 127, così formulato: “1. Le disposizioni del presente titolo sono derogabili solo in senso più favorevole al cliente. 2. Le nullità previste dal presente titolo possono essere fatte valere solo dal cliente”. Con la modifica introdotta dal D.Lgs. n. 141 del 2010, art. 4, comma 3, l’attuale formulazione dell’art. 127, comma 4, si è conformata al regime giuridico del Codice del Consumo (D.Lgs. n. 206 del 2005) ed è la seguente: “Le nullità previste dal presente titolo operano soltanto a vantaggio del cliente e possono essere rilevate d’ufficio dal giudice”. Deve, infatti rilevarsi, che le nullità di protezione sono state introdotte nel codice civile in relazione all’inefficacia delle clausole vessatorie nei contratti conclusi con i consumatori. Al riguardo nell’art. 1469 quinquies c.c., ratione temporis applicabile, è stato previsto che “l’inefficacia opera soltanto a vantaggio del consumatore e può essere rilevata d’ufficio dal giudice”. Con l’introduzione del Codice del Consumo (D.Lgs. n. 206 del 2005), e l’abrogazione delle norme codicistiche in tema di clausole vessatorie, l’art. 36, comma 3, ha esteso la tutela prevista per le clausole vessa-
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torie alla nullità, stabilendo che: “La nullità opera soltanto a vantaggio del consumatore e può essere rilevata d’ufficio dal giudice”. 15.2. Il confronto tra le norme sopra illustrate pone in luce come, pur in presenza di differenze testuali non prive di rilievo, il tratto unificante del regime giuridico delle nullità di protezione sia la legittimazione esclusiva del cliente ad agire in giudizio. Le conseguenze sostanziali di questo regime peculiare di legittimazione sono espresse nella regola normativa: La nullità opera soltanto a vantaggio del consumatore e può essere rilevata d’ufficio dal giudice”, che, tuttavia, non è testualmente riprodotta nell’art. 23 T.U.F. Al riguardo deve osservarsi che il rilievo officioso delle nullità di protezione deve ritenersi generalmente applicabile a tutte le tipologie di contratti nei quali è previsto in favore del cliente tale regime di protezione in considerazione dei principi stabiliti nella sentenza delle S.U. n. 26642 del 2014 così massimati: “La rilevabilità officiosa delle nullità negoziali deve estendersi anche a quelle cosiddette di protezione, da configurarsi, alla stregua delle indicazioni provenienti dalla Corte di giustizia, come una “species” del più ampio “genus” rappresentato dalle prime, tutelando le stesse interessi e valori fondamentali – quali il corretto funzionamento del mercato (art. 41 Cost.) e l’uguaglianza almeno formale tra contraenti forti e deboli (art. 3 Cost.) – che trascendono quelli del singolo” (cfr. anche la più recente Cass. 26614 del 2018, nella quale si precisa che il rilievo d’ufficio è, tuttavia, subordinato ad una manifestazione d’interesse del legittimato). Il testo, immutato, dell’art. 23, comma 3, deve, pertanto, essere interpretato in modo costituzionalmente orientato e coerentemente con i principi del diritto eurounitario, così da non escluderne né il rilievo d’ufficio né l’operatività a vantaggio esclusivo del cliente. Deve, tuttavia, rilevarsi che la configurazione normativa e l’elaborazione giurisprudenziale relativa alle nullità di protezione ne evidenziano la vocazione funzionale, ancorché non esclusiva, alla correzione parziale del contratto, limitatamente alle parti che pregiudicano la parte contraente che in via esclusiva può farle valere. Tale carattere è stato largamente sottolineato dalla dottrina che
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più autorevolmente si è occupata della loro collocazione nel sistema dei rimedi e delle disfunzioni del contratto. L’originaria destinazione all’eliminazione delle clausole inefficaci ne sottolinea tale profilo ed evidenzia le difficoltà di adattamento dello strumento in relazione alla produzione dell’effetto dell’invalidità dell’intero contratto. Questo ampliamento dell’ambito di applicazione delle nullità di protezione costituisce il nucleo problematico della questione sottoposta all’esame delle S.U. Può, infatti, rilevarsi che l’incidenza diretta sui requisiti di forma ad substantiam è prevista in particolare per i contratti bancari e per i contratti d’investimento. Per questi ultimi si pone in concreto l’interrogativo della legittimità e liceità dello strumento delle nullità cd. selettive. È la conformazione bifasica dell’impegno negoziale assunto dalle parti a determinare l’insorgenza delle criticità applicative del regime delle nullità di protezione. Il contratto quadro ha una funzione conformativa e normativa. Deve a pena d’invalidità, essere redatto per iscritto, contenendo la definizione specifica della tipologia d’investimenti da eseguire, il range di rischio coerente con il profilo del cliente e la determinazione degli obblighi che l’intermediario è tenuto ad adempiere (Cass.12937 del 2017). Il suo perfezionamento, tuttavia, costituisce la condizione necessaria ma non sufficiente perché si realizzino tutti gli effetti scaturenti dal vincolo negoziale assunto dalle parti. Ad esso deve seguire l’effettuazione degli investimenti finanziari, attraverso l’esecuzione degli ordini di acquisto da parte dell’intermediario. Nonostante l’impegno economico per il cliente si determini con la trasmissione degli ordini, la forma scritta, in linea generale, è imposta soltanto per il contratto quadro, salvo diversa disposizione contrattuale voluta dalle parti, perché in questo testo negoziale si cristallizzano gli obblighi dell’intermediario che il legislatore ha inteso rendere trasparenti, in primo luogo, con la predisposizione di un regolamento scritto. Tale obbligo, come specificato nella recente sentenza delle S.U. n. 898 del 2018 ha natura e contenuto funzionali e costituisce il primo, (ma non l’unico) ineliminabile strumento di superamento dello squilibrio contrattuale e dell’asimmetria informativa delle parti. L’obbligo della forma scrit-
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ta, nell’impostazione funzionale prescelta dalle S.U., deve ritenersi assolto anche se il contratto quadro è sottoscritto soltanto dall’investitore, essendo destinato alla protezione effettiva del cliente senza tuttavia legittimare l’esercizio dell’azione di nullità in forma abusiva, in modo da trarne ingiusti vantaggi. Deve, pertanto, rilevarsi, come già nella sentenza delle S.U. n. 898 del 2018, siano state adombrate le criticità applicative che possono derivare dall’adozione del regime giuridico delle nullità di protezione per forme d’invalidità che colpiscano l’intero testo contrattuale. L’opzione, fortemente funzionalistica, adottata dalle S.U. nella conformazione dell’obbligo della forma scritta, contenuto nell’art. 23 T.U. n. 58 del 1998, è determinata dall’esigenza di non trascurare l’applicazione dei principi di buona fede e correttezza anche nell’esercizio dei diritti in sede giurisdizionale. Nell’affrontare il quesito posto dall’ordinanza di rimessione, il Collegio ritiene di dover dare continuità al richiamo contenuto nei principi elaborati nella sentenza n. 898 del 2018, al fine di verificare se può configurarsi un esercizio del diritto a far valere, da parte dell’esclusivo legittimato, le nullità di protezione in un modo selettivo o se tale esercizio possa ed in quali limiti qualificarsi abusivo o contrario al canone, costituzionalmente fondato, della buona fede. 15.3 Per poter svolgere l’indagine sopra delineata occorre in primo luogo definire l’ambito effettivo della deroga ai principi generali riguardanti il regime d’invalidità dei contratti desumibile dal peculiare regime giuridico delle nullità protettive. Sarà necessario, inoltre, verificare se possa configurarsi una disciplina generale comune a tutte le nullità di protezione, salvo differenze di dettaglio ove previste da una normativa specifica di settore o se vi sia la coesistenza di differenziate forme di nullità di protezione, ciascuna dotata di un proprio statuto giuridico autonomo eventualmente anche in relazione all’esercizio selettivo dell’azione di nullità. 16. Il regime giuridico della legittimazione a far valere tale forma di nullità contrasta con il disposto dell’art. 1421 c.c.: le nullità di protezione, sia che investano singole clausole sia che riguardino l’intero contratto non possono essere fatte valere che da una sola
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parte, salvo il rilievo d’ufficio del giudice nei limiti indicati dalle S.U. nella pronuncia n. 26442 del 2014, proprio in applicazione del principio solidaristico e costituzionalmente fondato, della buona fede. La legittimazione dell’altra parte è radicalmente esclusa, trattandosi di nullità che operano al fine di ricomporre un equilibrio quanto meno formale (S.U. 26442 del 2014) tra le parti. Tale esclusione è il frutto della predeterminazione legislativa della posizione di squilibrio contrattuale tra le parti in relazione ad alcune tipologie contrattuali. Con riferimento ai contratti d’investimento, lo squilibrio che viene ad emersione giuridica ha carattere prevalentemente conoscitivo-informativo, fondandosi sull’elevato grado di competenza tecnica richiesta a chi opera nell’ambito degli investimenti finanziari. I rimedi volti a limitare od a colmare l’asimmetria informativa, riconosciuta come elemento caratterizzante l’intervento correttivo del legislatore, non sono riconducibili soltanto alle nullità di protezione. Proprio in funzione dell’effettiva attuazione del principio di buona fede, la nullità di protezione, applicata in via generale ed indifferenziata ad esclusivo vantaggio del cliente, opera sul requisito della forma (peraltro in chiave funzionale, come chiarito da S.U. 898 del 2018) del contratto quadro ma non in relazione a tutti gli obblighi informativi dell’intermediario, essendo la gran parte di essi conformati sul profilo del cliente e sul grado di rischiosità contrattualmente assunto. Ristabilito l’equilibrio formale con il testo contrattuale scritto, la condizione soggettiva dell’investitore e le scelte d’investimento connotano peculiarmente gli obblighi informativi dell’intermediario ed incidono sullo scrutinio dell’adempimento dell’intermediario ai fini del risarcimento del danno o della risoluzione del contratto, tenendo conto in concreto della buona fede del cliente al momento della discovery delle sue caratteristiche d’investitore e del suo grado di conoscenza delle dinamiche degli investimenti finanziari (S.U. 26724 del 2007). Deve, pertanto, ritenersi che il principio di buona fede e correttezza contrattuale, così come sostenuto dai principi solidaristici di matrice costituzionale, operi, in relazione agli interessi dell’investitore, mediante la pre-
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determinazione legislativa delle nullità di protezione predisposte a suo esclusivo vantaggio, in funzione di riequilibrio generale ed astratto delle condizioni negoziali garantite dalla conoscenza del testo del contratto quadro, nonché in concreto mediante la previsione di un rigido sistema di obblighi informativi a carico dell’intermediario. Tuttavia, non può escludersi la configurabilità di un obbligo di lealtà dell’investitore in funzione di garanzia per l’intermediario che abbia correttamente assunto le informazioni necessarie a determinare il profilo soggettivo del cliente al fine di conformare gli investimenti alle sue caratteristiche, alle sue capacità economiche e alla sua propensione al rischio. Può, pertanto, rilevarsi che anche nei contratti, quali quello dedotto nel presente giudizio, caratterizzati da uno statuto di norme non derogabili dall’autonomia contrattuale volte a proteggere il contraente che strutturalmente è in una posizione di squilibrio rispetto all’altro, il principio di buona fede possa avere un ambito di operatività trasversale non limitata soltanto alla definizione del sistema di protezione del cliente, in particolare se gli strumenti normativi di riequilibrio possono essere utilizzati, anche in sede giurisdizionale, non soltanto per rimuovere le condizioni di svantaggio di una parte derivanti dalla violazione delle regole imposte al contraente “forte” ma anche per arrecare un ingiustificato pregiudizio all’altra, pur se applicate conformemente al paradigma legale. 17. Ritiene, pertanto, il Collegio, che la questione della legittimità dell’uso selettivo delle nullità di protezione nei contratti aventi ad oggetto servizi d’investimento debba essere affrontata assumendo come criterio ordinante l’applicazione del principio di buona fede, al fine di accertare se sia necessario alterare il regime giuridico peculiare di tale tipologia di nullità, sotto il profilo della legittimazione e degli effetti, per evitare che l’esercizio dell’azione in sede giurisdizionale possa produrre effetti distorsivi ed estranei alla ratio riequilibratrice in funzione della quale lo strumento di tutela è stato introdotto. 17.1. Per svolgere in modo esauriente tale indagine è necessario, in primo luogo, illustrare le opzioni alternative che si confrontano in
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dottrina e sono rappresentate in due pronunce della prima sezione civile, la n. 8395 del 2016 e la n. 6664 del 2018. 17.1.1. Il nucleo centrale della divergenza risiede proprio nella diversa declinazione dell’ambito di operatività delle nullità di protezione, in relazione alla correlazione tra legittimazione e propalazione degli effetti. Ove si ritenga che il regime di protezione si esaurisca nella legittimazione esclusiva del cliente (o nella rilevabilità d’ufficio, nei limiti precisati nel par. 15.2) a far valere la nullità per difetto di forma, una volta dichiarata l’invalidità del contratto quadro, gli effetti caducatori e restitutori che ne derivano possono essere fatti valere da entrambe le parti. Il principio, posto a base dell’accurata requisitoria dell’Avvocato Generale, è stato così espresso in Cass. n. 6664 del 2018: “una volta che sia privo di effetti il contratto d’intermediazione finanziaria destinato a regolare i successivi rapporti tra le parti in quanto esso sia dichiarato nullo, operano le regole comuni dell’indebito (art. 2033 c.c.) non altrimenti derogate. La disciplina del pagamento dell’indebito è invero richiamata dall’art. 1422 c.c.: accertata la mancanza di una causa adquirendi – in caso di nullità […] l’azione accordata dalla legge per ottenere la restituzione di quanto prestato in esecuzione dello stesso è quella di ripetizione dell’indebito oggettivo; la pronuncia del giudice è l’evenienza che priva di causa giustificativa le reciproche obbligazioni dei contraenti e dà fondamento alla domanda del solvens di restituzione della prestazione rimasta senza causa”. 17.1.2. L’opinione radicalmente contraria si fonda invece sull’operatività piena, processuale e sostanziale, del regime giuridico delle nullità di protezione esclusivamente a vantaggio del cliente (nella specie dell’investitore), anche ove l’invalidità riguardi l’intero contratto. L’intermediario non può avvalersi della dichiarazione di nullità in relazione alle conseguenze, in particolare restitutorie, che ne possono scaturire a suo vantaggio, dal momento che il regime delle nullità di protezione opera esclusivamente in favore dell’investitore. Il contraente privo della legittimazione a far valere le nullità di protezione può, di conseguenza, subire soltanto gli effetti della dichiarazione di nullità selettivamente definiti nell’azione proposta
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dalla parte esclusiva legittimata, non potendo far valere qualsiasi effetto “vantaggioso” che consegua a tale declaratoria. L’indebito, così come previsto nell’art. 1422 c.c., può operare solo ove la legge non limiti con norma inderogabile la facoltà di far valere la nullità ed i suoi effetti in capo ad uno dei contraenti, essendo direttamente inciso dallo “statuto” speciale della nullità cui si riferisce. Le nullità di protezione sono poste a presidio esclusivo del cliente. Egli ex lege ne può trarre i vantaggi (leciti) che ritiene convenienti. La selezione degli ordini sui quali dirigere la nullità è una conseguenza dell’esercizio di un diritto predisposto esclusivamente in suo favore. Una diversa interpretazione del sistema delle nullità di protezione condurrebbe all’effetto, certamente non voluto dal legislatore, della sostanziale abrogazione dello speciale regime d’intangibilità ed impermeabilità proprio delle nullità di protezione (Cass. 8395 del 2016). In particolare, con riferimento alla tipologia contrattuale oggetto del presente giudizio, l’investitore, ove fosse consentito all’intermediario di agire ex art. 2033 c.c., non potrebbe mai far valere il difetto di forma di alcuni ordini in relazione ad un rapporto di lunga durata che abbia avuto parziale esecuzione, perché le conseguenze economico patrimoniali sarebbero per lui verosimilmente quasi sempre pregiudizievoli, così vanificandosi la previsione legale di un regime di protezione destinato ad operare a suo esclusivo vantaggio. 18. Vi è una terza opzione che rinviene nel principio della buona fede, variamene declinato, lo strumento più adeguato, per affrontare il tema dell’uso eventualmente distorsivo dello strumento delle nullità di protezione in funzione selettiva, perché, senza alterarne il regime giuridico ed in particolare l’unilateralità dello strumento di tutela legislativamente previsto, consente, per la sua adattabilità al caso concreto, di ricostituire l’equilibrio effettivo della posizione contrattuale delle parti, impedendo effetti di azioni esercitate in modo arbitrario o nelle quali può cogliersi l’abuso dello strumento di “protezione” ad esclusivo detrimento dell’altra parte. Già nelle ordinanze interlocutorie n. 12388, 12389 e 12390 del 2017, nelle quali la questione della legittimità dell’uso selettivo della nullità era
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subordinata a quella principale relativa alla validità, sotto il profilo del requisito di forma, del contratto quadro sottoscritto dal solo investitore, era stata prospettata l’esperibilità dell’exceptio doli generalis, al fine di paralizzare l’uso selettivo della nullità, ritenendo centrale nell’esaminare la questione, il rilievo della buona fede “come criterio valutativo della regola contrattuale”. Nell’ordinanza interlocutoria n. 23927 del 2018, dalla quale è scaturito il presente giudizio, anche alla luce degli orientamenti, ancorché non univoci che sono intervenuti medio tempore (Cass. 6664 e 10116 del 2018) è stata posta in evidenza la questione della compatibilità tra il peculiare regime delle nullità protettive nei contratti d’intermediazione finanziaria e l’opponibilità della “eccezione di correttezza e di buona fede”, in funzione della individuazione di un punto di equilibrio tra le esigenze di garanzia degli investimenti dei privati in relazione alla collocazione dei propri risparmi (art. 47 Cost.) e la tutela dell’intermediario anche in funzione della certezza dei mercati in materia d’investimenti finanziari. 19. La dottrina non ha prospettato soluzioni univoche, formulando indicazioni variamente assimilabili a quelle che hanno caratterizzato gli orientamenti giurisprudenziali sopra illustrati. Come riscontrato anche nel confronto tra le due ordinanze interlocutorie che hanno posto alle S.U. la questione della legittimità dell’uso selettivo delle nullità di protezione, il principio di buona fede non è stato preso in considerazione in modo univoco. Si è affermato che attraverso la formulazione dell’exceptio doli generalis si possa impedire in via generale l’uso selettivo delle nullità di protezione, in quanto dettato esclusivamente dall’intento di colpire gli investimenti non redditizi (la tesi viene prospettata seppure in via ipotetica nelle ordinanze interlocutorie n. 12388,12389 12390 del 2017). In questa lettura l’azione di nullità, ove sia diretta a colpire alcuni soltanto degli ordini eseguiti, viene ritenuta intrinsecamente connotata da un intento opportunistico che va oltre la funzione di protezione voluta dal legislatore. Rispetto alla tesi illustrata nel par. 17.1.1, la differenza si può cogliere nell’effetto esclusivamente paralizzante conseguente alla formulazione dell’eccezione,
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rimanendo preclusa all’intermediario l’esercizio dell’azione di ripetizione dell’indebito. La tesi esposta postula che l’uso selettivo delle nullità di protezione determini sempre la violazione del canone di buona fede. L’investitore, ove intraprenda l’azione, si pone nella condizione di produrre un pregiudizio economico ingiustificato all’altra parte dovuto alla natura potestativa ed unilaterale della selezione operata. L’exceptio doli, così configurata, ricorrerebbe sempre in via generale ed astratta e deriverebbe dall’uso della nullità selettiva, ancorché astrattamente lecito. La tesi viene criticata per la sua assolutezza perché, pur non escludendo la formale applicazione dello statuto normativo delle nullità di protezione, ne trascura la funzione di reintegrazione di una preesistente condizione di squilibrio strutturale che permea le fattispecie contrattuali nelle quali trova applicazione e d’inveramento del sistema assiologico fondato sui principi di uguaglianza, solidarietà e tutela del risparmiatore ritraibili dalla Costituzione. Inoltre, con tale impostazione, si trascura la strutturale vocazione delle nullità protettive ad un uso selettivo, ancorché non arbitrario, in quanto correlato alla operatività a vantaggio esclusivo di uno dei contraenti. 20. Nel solco dell’applicazione in chiave riequilibratrice del principio di buona fede si collocano posizioni intermedie che, partendo dalla legittimità dell’azione di nullità cd. selettiva da parte del cliente, ovvero di una domanda formulata in relazione ad alcuni ordini d’investimento, ritengono che da parte dell’intermediario possa essere fatta valere l’exceptio doli generalis ove l’esercizio del diritto da parte dell’investitore sia avvenuto in malafede attraverso una valutazione che deve essere svolta in concreto secondo parametri oggettivi e soggettivi sui quali, tuttavia, non si riscontra unitarietà di vedute. Viene escluso, al riguardo, che il possibile conflitto tra la specifica istanza di solidarietà costituita dal regime peculiare delle nullità di protezione e quella che scaturisce dal principio di affidamento, possa trovare una soluzione, stabilendo un criterio di prevalenza applicabile in ogni ipotesi, tenuto conto che la dinamica selettiva è
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ipotizzabile esclusivamente nelle nullità di protezione. L’affidamento, che costituisce il nucleo costitutivo della nozione di buona fede, ha un sicuro ancoraggio costituzionale nell’art. 2 Cost. Le nullità di protezione, come evidenziato da S.U. 26242 del 2014, fondano l’inderogabilità del loro statuto, contrassegnato dall’operatività a “vantaggio” del cliente, non solo sull’art. 2 ma anche sull’art. 3 (essendo finalizzate a rimuovere il primo grado dell’asimmetria informativa) e sull’art. 41 cui si aggiunge, per l’intermediazione finanziaria, la tutela del risparmio (art. 47 Cost.). Poiché le nullità di protezione costituiscono, dunque, una diretta attuazione di principi costituzionali, tale qualificazione non è priva di conseguenze in relazione alla concorrente operatività del principio di buona fede come criterio arginante l’uso arbitrario dello strumento di tutela. Ne consegue che la mera invocazione di effetti selettivi da parte del cliente non può giustificare di per sé – pena lo svuotamento e la vanificazione della funzione delle nullità di protezione e della connessa tutela giurisdizionale – l’automatica opponibilità da parte dell’intermediario dell’exceptio doli generalis. L’eccezione, secondo una delle tesi in campo, può essere proposta per paralizzare l’azione volta a far valere le nullità di protezione in funzione selettiva, tutte le volte che l’investitore ponga in essere una condotta soggettivamente connotata da malafede o frode ovvero preordinata alla produzione di un pregiudizio per l’intermediario, non ravvisandosi alcuna incompatibilità tra l’esercizio dell’azione di nullità e la predetta eccezione ma solo la necessità di un adeguato bilanciamento da svolgersi secondo il paradigma contenuto nell’art. 1993 c.c., comma 2, e art. 2384 c.c., comma 2, individuabile nel non potere agire, neanche attraverso l’esercizio di un proprio diritto, arrecando intenzionalmente danno all’altra parte. Lo statuto protettivo dell’investitore non può determinare a suo vantaggio, un regime di sostanziale irresponsabilità ed esonerarlo dal controllo della conformità del suo agire, in quanto la regola di buona fede, assiologicamente espressiva del dovere di solidarietà costituzionale e costituente il tessuto connettivo dei rapporti contrattuali, impone tale verifica di conformità purché svolta in concreto.
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In conclusione, secondo questa prospettazione, occorre verificare se l’azione è stata preordinata alla produzione di un pregiudizio per l’altro contraente. 21. La tesi sopra illustrata si espone a rilievi critici per aver limitato l’opponibilità dell’exceptio doli alla valutazione della buona fede soggettiva così da escludere ogni rilevanza alla oggettiva determinazione di un ingiustificato e sproporzionato sacrificio di una sola controparte contrattuale. Al fine di poter svolgere un giudizio comparativo che tenga conto anche della eventuale violazione della buona fede sotto il profilo oggettivo del pregiudizio arrecabile ad una sola delle parti, si è fatto ricorso alla categoria dell’abuso del diritto, in relazione al quale non è sufficiente che una parte del contratto abbia tenuto una condotta non idonea a salvaguardare gli interessi dell’altra, quando tale condotta persegua un risultato lecito attraverso mezzi legittimi, essendo, invece, configurabile allorché il titolare di un diritto soggettivo, pur in assenza di divieti formali, lo eserciti con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà sono attribuiti (Cass. 15885 del 2013; 10568 del 2018). Non è configurabile un abuso che derivi soltanto dall’aver voluto conseguire un proprio vantaggio economico mediante uno strumento di tutela previsto dall’ordinamento che, peraltro, deriva, dall’attivazione di uno statuto di tutela inderogabile, essendo necessario che il fine dell’azione sia incoerente rispetto a quello legale in funzione del quale è stato attribuito il diritto di agire (Cass.29792 del 2017, in relazione alla configurabilità dell’abuso del diritto potestativo dei soci di una società di capitali che rappresentino un terzo del capitale sociale, di chiedere il differimento dell’assemblea ove dichiarino di non essere stati sufficientemente informati) o determini effetti del tutto sproporzionati rispetto al fine di tutela per cui si è agito. 22. Alla luce delle considerazioni svolte, ritiene il Collegio, in risposta al quesito formulato nel par. 17, di dovere, preliminarmente, escludere entrambe le opzioni che prescindono del tutto dalla considerazione del principio di buona fede o perché negano la legittimità
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dell’uso selettivo delle nullità di protezione fino al riconoscimento del diritto a richiedere la ripetizione dell’indebito in relazione agli investimenti non selezionati dall’investitore ma travolti dalla nullità del contratto quadro, o perché ne considerano legittima l’azione senza alcun limitazione, ritenendo tale soluzione l’unica coerente con l’operatività ad esclusivo vantaggio del cliente delle nullità di protezione. In contrasto con le tesi criticate, il Collegio reputa che la questione della legittimità dell’uso selettivo delle nullità di protezione nei contratti aventi ad oggetto servizi d’investimento, possa essere risolta ricorrendo, come criterio ordinante, al principio di buona fede, da assumere, tuttavia, in modo non del tutto coincidente con le illustrate declinazioni dell’exceptio doli generalis e dell’abuso del diritto. 22.1. Al riguardo si ritiene di dover ribadire che, in relazione ai contratti d’investimento che costituiscono l’oggetto del presente giudizio, della dichiarata invalidità del contratto quadro, ancorché accertata con valore di giudicato, come già rilevato nei parr. 13 e 13.1, può avvalersi soltanto l’investitore, sia sul piano sostanziale della legittimazione esclusiva che su quello sostanziale dell’operatività ad esclusivo vantaggio di esso. 22.2. L’uso selettivo del rilievo della nullità del contratto quadro non contrasta, in via generale, con lo statuto normativo delle nullità di protezione ma la sua operatività deve essere modulata e conformata dal principio di buona fede secondo un parametro da assumersi in modo univoco e coerente. Ove si ritenga che l’uso selettivo delle nullità di protezione sia da stigmatizzare ex se, come contrario alla buona fede, solo perché limitato ad alcuni ordini di acquisto, si determinerà un effetto sostanzialmente abrogativo del regime giuridico delle nullità di protezione, dal momento che si stabilisce un’equivalenza, senza alcuna verifica di effettività, tra uso selettivo delle nullità e violazione del canone di buona fede. Deve rilevarsi, tuttavia, l’insufficienza anche della esclusiva valorizzazione della buona fede soggettiva, ove ravvisabile solo se si dimostri un intento dolosamente preordinato a determinare effetti pregiudizievoli per l’altra parte.
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22.3. Al fine di modulare correttamente il meccanismo di riequilibrio effettivo delle parti contrattuali di fronte all’uso selettivo delle nullità di protezione, non può mancare un esame degli investimenti complessivamente eseguiti, ponendo in comparazione quelli oggetto dell’azione di nullità, derivata dal vizio di forma del contratto quadro, con quelli che ne sono esclusi, al fine di verificare se permanga un pregiudizio per l’investitore corrispondente al petitum azionato. In questa ultima ipotesi deve ritenersi che l’investitore abbia agito coerentemente con la funzione tipica delle nullità protettive, ovvero quella di operare a vantaggio di chi le fa valere. Pertanto, per accertare se l’uso selettivo della nullità di protezione sia stato oggettivamente finalizzato ad arrecare un pregiudizio all’intermediario, si deve verificare l’esito degli ordini non colpiti dall’azione di nullità e, ove sia stato vantaggioso per l’investitore, porlo in correlazione con il petitum azionato in conseguenza della proposta azione di nullità. Può accertarsi che gli ordini non colpiti dall’azione di nullità abbiano prodotto un rendimento economico superiore al pregiudizio confluito nel petitum. In tale ipotesi, può essere opposta, ed al solo effetto di paralizzare gli effetti della dichiarazione di nullità degli ordini selezionati, l’eccezione di buona fede, al fine di non determinare un ingiustificato sacrificio economico in capo all’intermediario stesso. Può, tuttavia, accertarsi che un danno per l’investitore, anche al netto dei rendimenti degli investimenti relativi agli ordini non colpiti dall’azione di nullità, si sia comunque determinato. Entro il limite del pregiudizio per l’investitore accertato in giudizio, l’azione di nullità non contrasta con il principio di buona fede. Oltre tale limite, opera, ove sia oggetto di allegazione, l’effetto paralizzante dell’eccezione di buona fede. Ne consegue che, se, come nel caso di specie, i rendimenti degli investimenti non colpiti dall’azione di nullità superino il petitum, l’effetto impeditivo è integrale, ove invece si determini un danno per l’investitore, anche all’esito della comparazione con gli altri investimenti non colpiti dalla nullità selettiva, l’effetto paralizzante dell’eccezione opererà nei limiti del vantaggio ingiustificato conseguito.
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23. La soluzione della questione sottoposta all’esame del Collegio può, in conclusione, così essere sintetizzata. Anche in relazione al D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 23, comma 3, il regime giuridico delle nullità di protezione opera sul piano della legittimazione processuale e degli effetti sostanziali esclusivamente a favore dell’investitore, in deroga agli artt. 1421 e 1422 c.c. L’azione rivolta a far valere la nullità di alcuni ordini di acquisto richiede l’accertamento dell’invalidità del contratto quadro. Tale accertamento ha valore di giudicato ma l’intermediario, alla luce del peculiare regime giuridico delle nullità di protezione, non può avvalersi degli effetti diretti di tale nullità e non è conseguentemente legittimato ad agire in via riconvenzionale od in via autonoma ex artt. 1422 e 2033 c.c. I principi di solidarietà ed uguaglianza sostanziale, di derivazione costituzionale (artt. 2,3,41 e 47 Cost., quest’ultimo con specifico riferimento ai contratti d’investimento) sui quali le S.U., con la pronuncia n. 26642 del 2014, hanno riposto il fondamento e la ratio delle nullità di protezione operano, tuttavia, anche in funzione di riequilibrio effettivo endocontrattuale quando l’azione di nullità, utilizzata, come nella specie, in forma selettiva, determini esclusivamente un sacrificio economico sproporzionato nell’altra parte. Limitatamente a tali ipotesi, l’intermediario può opporre all’investitore un’eccezione, qualificabile come di buona fede, idonea a paralizzare gli effetti restitutori dell’azione di nullità selettiva proposta soltanto in relazione ad alcuni ordini. L’eccezione sarà opponibile, nei limiti del petitum azionato, come conseguenza dell’azione di nullità, ove gli investimenti, relativi agli ordini non coinvolti dall’azione, abbiano prodotto vantaggi economici per l’investitore. Ove il petitum sia pari od inferiore ai vantaggi conseguiti, l’effetto impeditivo dell’azione restitutoria promossa dall’investitore sarà integrale. L’effetto impeditivo sarà, invece, parziale, ove gli investimenti non colpiti dall’azione di nullità abbiano prodotto risultati positivi ma questi siano di entità inferiore al pregiudizio determinato nel petitum.
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L’eccezione di buona fede operando su un piano diverso da quello dell’estensione degli effetti della nullità dichiarata, non è configurabile come eccezione in senso stretto non agendo sui fatti costitutivi dell’azione (di nullità) dalla quale scaturiscono gli effetti restitutori, ma sulle modalità di esercizio dei poteri endocontrattuali delle parti. Deve essere, tuttavia, oggetto di specifica allegazione. (omissis)
LA FUNZIONE DELLE «NULLITÀ SELETTIVE» TRA MERCATO E CONTRATTAZIONE ASIMMETRICA (OSSERVAZIONI A CASS., SEZ. UN., SENT. N. 28314/2019)
Raimondo Motroni (Professore associato presso l’Università degli Studi di Sassari)
Sommario: 1. Il fatto, la questione controversa e la decisione (salomonica) delle SS.UU. – 2. La forma scritta «di protezione». – 3. Profili critici dell’iter argomentativo delle SS.UU.
1. Il fatto La pronuncia in esame riguarda il rapporto contrattuale tra una banca ed un investitore, avente ad oggetto il mandato per gli ordini d’acquisto di prodotti finanziari. Tra le diverse questioni giuridiche sottoposte dal cliente della banca al vaglio di legittimità, la principale riguarda la nullità «di protezione» per difetto di forma scritta, relativa al c.d. contratto quadro. Infatti, nel caso concreto, i moduli contrattuali erano stati sottoscritti solo dal cliente e non anche dalla banca mandataria, impingendo nella fattispecie dei contratti bancari c.d. monofirma1.
La problematica dei contratti bancari «monofirma» e dei loro effetti sostanziali e processuali ha destato un ampio dibatto dottrinale di cui non è possibile dar conto in questa sede; per una completa ricostruzione del tema si rinvia, tra gli altri, a S. Pagliantini, Usi (ed abusi) di una concezione teleologica della forma: a proposito dei contratti bancari cc.dd. monofirma (tra legalità del caso e creatività giurisprudenziale), in Contratti, 2017, p. 692; C. Scognamiglio, Contratti monofirma nei servizi di investimento e scopo di protezione della forma, in Nuova giur. civ. comm., 2018, pp. 747 ss.; C. Colombo, La forma dei contratti quadro di investimento: il responso delle Sezioni unite, in Giur. It., 2018, pp. 572 ss.; A. Mirone, Le Sezioni unite e il c.d. contratto monofirma, in Banca, borsa, tit. cred., 2018, pp. 275 ss. 1
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Tale nullità derivava dalla violazione dell’articolo 23, comma 3, del D.Lgs. n. 58 del 1998 (Testo unico della finanza, da qui in poi TUF), che, in riferimento alla fattispecie in esame, può essere azionata solo dal cliente e limita, perciò, le conseguenze della sua declaratoria ai soli effetti vantaggiosi per quest’ultimo. Nel caso di specie, sulla base della nullità del «contratto quadro» e del collegamento negoziale con i diversi ordini di acquisto di prodotti finanziari impartiti medio tempore, il cliente ha chiesto la declaratoria di nullità – solo – di alcuni di essi rivelatisi, ex post, particolarmente svantaggiosi. Si tratta, cioè, di una domanda giudiziale proposta dall’investitore concernente la nullità selettiva2, già esaminata in giurisprudenza3, di alcuni tra gli ordini anzidetti, che lascia impre-
La questione delle nullità selettive è stata affrontata da U. Malvagna, Nullità di protezione e nullità “selettive”. A proposito dell’ordinanza di rimessione alle Sezioni unite n. 12390/2017, in Banca, borsa, tit. cred., 2017, pp. 828 ss. G. Berti De Marinis, Uso e abuso dell’esercizio selettivo della nullità relativa, in Banca, borsa, tit. cred., 2014, pp. 619 ss. Con riferimento alla sentenza in commento, in forma monografica v. C. Robustella, Forma di protezione e nullità selettiva nei contratti del mercato finanziario, Torino, 2020, passim. Cfr. anche A. Candian, Nullità di protezione e selezione degli atti impugnati, Nota a sentenza Corte suprema di Cassazione civile sezioni unite 4 novembre 2019, n. 28314 (R.F. vs Banca Antoniana Veneta s.p.a.), in Banca borsa tit. cred., 2020, pp. 720 ss.; F. Ruggiero, Nullità selettive o regime restitutorio unilaterale? Le Sezioni Unite fanno chiarezza e delineano uno statuto normativo unitario per le nullità di protezione, Nota a sentenza Corte suprema di Cassazione civile sezioni unite 4 novembre 2019, n. 28314 (R.F. vs Banca Antoniana Veneta s.p.a.), in Danno resp., 2020, pp. 717 ss.; C. Scognamiglio, Le Sezioni Unite e le nullità selettive tra statuto normativo delle nullità di protezione ed eccezione di buona fede, Nota a sent. Cass. civ. sez. un. 4 novembre 2019 n. 28314 (R.F. vs Banca Antoniana Veneta s.p.a.), in Nuova Giur. Civ. Comm., 2020, pp. 176 ss.; C. Scognamiglio, Le Sezioni Unite e le nullità selettive: un nuovo spazio di operatività per la clausola generale di buona fede, Nota a sent. Cass. civ. sez. un. 4 novembre 2019 n. 28314 (R.F. vs Banca Antoniana Veneta s.p.a.), in Corriere giur., 2020, pp. 5 ss.; S. Pagliantini, Un giro d’orizzonte sulle nullità del terzo millennio, in Persona Merc., 2021, pp. 31 ss.; S. Pagliantini, Usi (ed abusi) di una concezione teleologica della forma: a proposito dei contratti bancari c.d. monofirma (tra legalità del caso e creatività giurisprudenziale), in Contratti, 2017, pp. 679 ss. 3 Cfr. Cass. 28 febbraio 2019, n. 5794; Cass. 30 luglio 2018, n. 20069; Cass. 12 marzo 2014, n. 5779; Cass. 28 aprile 2010, n. 10215; Cass. 26 maggio 2008, n. 13561. 2
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giudicata la validità degli altri ordini i quali si erano, invece, rivelati economicamente vantaggiosi. Le Sezioni unite hanno ritenuto che l’accertamento della nullità del contratto quadro avesse valore di giudicato in quanto era relativa a un presupposto giuridico e teologicamente collegato con la domanda, tanto da costituirne una premessa ineludibile. In sostanza l’accertamento della nullità del contratto quadro costituisce il presupposto non solo logico, ma tecnico giuridico, della domanda di nullità dei singoli ordini selezionati dal cliente. La questione controversa riguarda, dunque, gli effetti sostanziali e processuali della c.d. nullità di protezione del contratto quadro rispetto ai singoli ordini di acquisto, in riferimento ai quali la giurisprudenza di legittimità ha seguìto due diversi orientamenti. In particolare, la tesi più aderente alla norma applicabile al caso di specie, rinvenuta nell’art. 23, comma 3, TUF, tende a valorizzare4 gli effetti della nullità a (solo) «vantaggio del cliente» sul piano sia sostanziale, sia processuale. Ne deriva, per l’impresa finanziaria, l’impossibilità di giovarsi in alcun modo degli effetti della declaratoria di nullità del contratto quadro nel processo instaurato dal cliente stesso. Più precisamente, risulterà preclusa qualsiasi possibilità di svolgere domande o eccezioni volte a far valere gli – eventuali – effetti restitutori dell’invalidità del contratto quadro con riferimento a quanto pagato medio tempore in favore del cliente. Tale interpretazione della norma renderebbe, pertanto, del tutto legittima la selezione dei singoli ordini su cui il cliente può incardinare il giudizio di nullità derivante dall’invalidità del contratto quadro al fine di ripetere le somme infruttuosamente versate. D’altro lato, verrebbe così impedito all’impresa di potersi avvantaggiare in alcun modo della declaratoria di nullità al fine di ottenere la restituzione delle somme pagate alla controparte a titolo di interessi per i prodotti finanziari acquistati con ordini diversi da quelli azionati dal cliente nel corso del rapporto contrattuale. 4 Il Supremo Collegio si era già pronunciato seguendo questa impostazione con la sentenza Cass., 27 aprile 2016, n. 8395. Cfr. anche nella giurisprudenza di merito: Trib. Torino 12 febbraio 2007; Trib. Milano 11 aprile 2008; Trib. Udine 16 gennaio 2009: Trib. Mantova 22 gennaio 2009, tutte in Ilcaso.it.
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Un altro orientamento della Cassazione Civile riconoscerebbe la possibilità ad entrambe le parti di giovarsi degli effetti della declaratoria di nullità per difetto di forma scritta del contratto quadro, anche se azionata dall’unico soggetto processualmente legittimato, ovverosia il cliente, o fatta valere nel corso di un giudizio, d’ufficio, dal giudice. In tale caso, anche l’impresa finanziaria convenuta potrebbe in via riconvenzionale5 o di eccezione di compensazione far valere gli effetti restitutori derivanti dal pagamento dell’indebito ex art. 2033 c.c. Nei casi in cui il contratto quadro depositato in giudizio fosse stato sottoscritto unicamente dal cliente, la Cassazione aveva già affermato la contrarietà al canone della buona fede6 nei rapporti contrattuali dell’uso della nullità selettiva e la conseguente esperibilità dell’«exceptio doli generalis» da parte del professionista. Si rinviene in tale orientamento7 un tentativo di riequilibrare la posizione del contraente, il quale, a causa di un mero vizio di forma privo di effetti sulla funzione informativa (di protezione) svolta dalla norma azionata, possa subire un pregiudizio sproporzionato. Tuttavia, un’applicazione indiscriminata di tale principio alle azioni (selettive) di nullità potrebbe condurre ad una inapplicabilità – di fatto – delle
5 Il principio, posto a base dell’accurata requisitoria dell’Avvocato Generale, è stato così espresso in Cass. n. 6664 del 2018: «una volta che sia privo di effetti il contratto d’intermediazione finanziaria destinato a regolare i successivi rapporti tra le parti in quanto esso sia dichiarato nullo, operano le regole comuni dell’indebito (art. 2033 c.c.) non altrimenti derogate. La disciplina del pagamento dell’indebito è invero richiamata dall’art. 1422 c.c.: accertata la mancanza di una causa adquirendi – in caso di nullità […] l’azione accordata dalla legge per ottenere la restituzione di quanto prestato in esecuzione dello stesso è quella di ripetizione dell’indebito oggettivo; la pronuncia del giudice è l’evenienza che priva di causa giustificativa le reciproche obbligazioni dei contraenti e dà fondamento alla domanda del solvens di restituzione della prestazione rimasta senza causa». 6 In dottrina, sull’uso della buona fede quale criterio di valutazione dell’esatta esecuzione del contratto v amplius G.M. Uda, La buona fede nell’esecuzione del contratto, Padova, 2004, passim. 7 Nella giurisprudenza di merito, viene ravvisato l’abuso del processo nell’ipotesi delle nullità selettive; vedi tra le altre: Trib. Torino 7 marzo 2011; Trib. Como 14 febbraio 2012; Trib. Reggio Emilia 28 aprile 2015; Trib. Bari 27 maggio 2016, tutte in De jure.
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norme di protezione del contraente debole, dovuta ai rischi intrinseci di un giudizio in cui siano ammesse domande riconvenzionali restitutorie o eccezioni di compensazione dell’impresa finanziaria basate sulla nullità del contratto quadro. Le Sezioni Unite hanno rilevato che l’applicazione delle norme contenenti le diverse ipotesi di nullità, poste a protezione del contraente debole8, possono svolgere efficacemente la loro funzione solo ove siano interpretate in modo unidirezionale. In caso contrario, si finirebbe per svuotarne di significato il carattere peculiare rispetto alla normativa codicistica, con l’effetto di rendere, per il cliente, rischioso o sconveniente avvalersene. Tuttavia, con la pronuncia in esame, le Sezioni unite hanno individuato una terza soluzione rispetto alle due sinteticamente descritte in precedenza, con cui è stata valorizzata proprio la cogenza del principio di buona fede nella disciplina dei contratti a prestazioni corrispettive e, segnatamente, nelle ipotesi in cui uno dei contraenti tenga un ingiustificato comportamento pregiudizievole per gli interessi della controparte. In quest’àmbito andrebbe inquadrato l’uso selettivo della nullità di protezione ove teso ad abusare9 della normativa posta a protezione del contraente debole. Secondo la sentenza in commento vi è, dunque, da escludere che le azioni (selettive) di nullità possano essere sempre paralizzate da un’eccezione di buona fede. Rimane, pertanto, in capo all’investitore la facoltà di far valere in via esclusiva la nullità derivante dalla violazione dell’obbligo di forma scritta sancito dall’art. 23 TUF, e di giovarsi dei relativi effetti. Occorrerebbe, tuttavia, un esame obiettivo, eseguito in concreto dal giudice di merito, degli interessi controversi, che possa condurre all’inibizione delle pretese del cliente Secondo Cass., 27 Aprile 2016, n. 8395, «nel contratto d’intermediazione finanziaria, la produzione in giudizio del modulo negoziale relativo al contratto quadro sottoscritto soltanto dall’investitore, non soddisfa l’obbligo della forma scritta ad substantiam imposto a pena di nullità dall’art. 23 d.lgs n. 58 del 1998. Tale nullità può essere eccepita anche limitatamente ad alcuni degli ordini di acquisto eseguiti in virtù del contratto viziato». 9 Le stesse Sezioni Unite richiamano in proposito le ordinanze interlocutorie della Cass. nn. 12388, 12389 e 12390 del 2017. 8
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solo quando «ponga in essere una condotta soggettivamente connotata da malafede o frode ovvero preordinata alla produzione di un pregiudizio per l’intermediario, non ravvisandosi alcuna incompatibilità tra l’esercizio dell’azione di nullità e la predetta eccezione ma solo la necessità di un adeguato bilanciamento» di interessi. Il fondamento giuridico del bilanciamento di interessi prospettato dalle Sezioni unite andrebbe rinvenuto nella rilettura costituzionalmente orientata delle norme di protezione del contraente debole. In particolare, il principio di uguaglianza sostanziale, di cui all’art. 3 Cost., e i doveri solidaristici sanciti dall’art. 2 Cost.10, opportunamente contemperati, dovrebbero indurre ad un’applicazione «modulabile» della normativa di protezione del contraente debole. Tale conclusione ancor più si giustifica nel settore finanziario, là dove il diritto di iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost. incontra il limite della tutela del risparmio contenuto nell’art. 47 Cost.11. La conclusione appena prospettata non pare del tutto condivisibile in quanto è basata su una comparazione economica e non giuridica delle posizioni delle due parti scaturenti dal giudizio e trascura la funzione svolta dal «diritto privato regolatorio»12 (in cui va
10 Cfr. Cass., Sez. Un., 12 dicembre 2014, n. 26242, secondo cui la «rilevabilità officiosa delle nullità negoziali deve estendersi anche a quelle cosiddette di protezione, da configurarsi, alla stregua delle indicazioni provenienti dalla Corte di giustizia, come una “species” del più ampio “genus” rappresentato dalle prime, tutelando le stesse interessi e valori fondamentali – quali il corretto funzionamento del mercato (art. 41 cost.) e l’uguaglianza almeno formale tra contraenti forti e deboli (art. 3 cost.) – che trascendono quelli del singolo». 11 L’art. 47 Cost. andrebbe letto come una specificazione dell’art. 41 Cost.; in questa prospettiva «il carattere imprenditoriale dell’attività bancaria viene ritenuto compatibile con la previsione di un sistema di controlli pubblicistici sulla stessa; donde la piena conciliabilità tra gli strumenti di vigilanza sugli enti creditizi e l’obiettivo della tutela del risparmio»; così: F. Capriglione, Fonti normative, in Manuale di diritto bancario e finanziario, a cura di F. Capriglione, Milano, 2019, p. 7. Per la natura (sempre più) privatistica della protezione del risparmiatore-investitore contenuta nella più recente normativa anche di derivazione eurounitaria v. F. Pedrini, Consumo, risparmio, finanza, Torino, 2019, pp. 284 ss. 12 Per una corretta impostazione del problema v. A. Zoppini, Diritto privato “VS” Diritto amministrativo (ovvero alla ricerca dei confini tra Stato e mercato), Relazione al Convegno “Il diritti civile, e gli “altri””, Roma, 2 e 3 dicembre 2011, in
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inserita anche la fattispecie prevista dall’art. 23 TUF) che è teso a conformare le fattispecie contrattuali alle esigenze di buon funzionamento dei mercati.
2. La forma scritta «di protezione» L’articolo 23 TUF13 è stato posto alla base della decisione in esame con specifico riferimento alla violazione dell’obbligo di stipulare in forma scritta i contratti di finanziari, sanzionato con la nullità. In particolare, il primo comma precisa che i contratti: «relativi alla prestazione dei servizi di investimento, e, se previsto, i contratti relativi alla prestazione dei servizi accessori, sono redatti per iscritto, in conformità a quanto previsto dagli atti delegati delRiv. dir. civ., 2013, pp. 515 ss. Sul diritto privato regolatorio cfr. da ultimo l’analitica indagine di C. Attanasio, Profili ricostruttivi del diritto privato regolatorio, Napoli, 2022, passim. 13 La versione originale dell’art. 23 (Contratti) TUF, ratione temporis applicata dal Supremo Collegio, prevedeva che: «1. I contratti relativi alla prestazione dei servizi di investimento e accessori sono redatti per iscritto e un esemplare è consegnato ai clienti. La CONSOB, sentita la Banca d’Italia, può prevedere con regolamento che, per motivate ragioni tecniche o in relazione alla natura professionale dei contraenti, particolari tipi di contratto possano o debbano essere stipulati in altra forma. Nei casi di inosservanza della forma prescritta, il contratto è nullo. 2. È nulla ogni pattuizione di rinvio agli usi per la determinazione del corrispettivo dovuto dal cliente e di ogni altro o nere a suo carico. In tal casi nulla è dovuto. 3. Nei casi previsti dai commi 1 e 2 la nullità può essere fatta valere solo dal cliente. 4. Le disposizioni del titolo VI, capo I, del T.U. bancario non si applicano ai servizi di investimento né al servizio accessorio previsto dall’articolo 1, comma 6, lettera f). 5. Nell’ambito della prestazione dei servizi di investimento, agli strumenti finanziari derivati nonché a quelli analoghi individuati ai sensi dell’articolo 18, comma 5, lettera a), non si applica l’articolo 1933 del codice civile. 6. Nei giudizi di risarcimento dei danni cagionati al cliente nello svolgimento dei servizi di investimento e di quelli accessori, spetta ai soggetti abilitati l’onere della prova di aver agito con la specifica diligenza richiesta». Con il D.lgs n. 164/2007 (Attuazione della direttiva 2004/39/CE relativa ai mercati degli strumenti finanziari, che modifica le direttive 85/611/CEE, 93/6/CEE e 2000/12/CE e abroga la direttiva 93/22/CEE), la norma in parola è stata modificata dall’art. 4 del D.Lgs. n. 164 del 17.9.2007 e, successivamente, è stata sostituita dall’art. 2 del D.Lgs. n. 129 del 3.8.2017.
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la direttiva 2014/65/UE, e un esemplare è consegnato ai clienti». Successivamente, al terzo comma, è precisato che tale «nullità può essere fatta valere solo dal cliente». Sotto tale profilo la norma rappresenta un’eccezione rispetto al generale principio della libertà delle forme, così come si evince dalla disciplina generale del contratto, segnatamente dagli articoli 1325, 1350 e 1418, i quali delineano un’ipotesi di invalidità particolarmente rigorosa fondata sulla presenza di vizi strutturali di forma, tali da implicare un’assoluta irrilevanza, e financo l’inesistenza, sul piano giuridico dell’accordo contrattuale. Per converso, la norma speciale sopra richiamata concerne un particolare tipo di nullità, nota come «nullità di protezione» o «nullità relativa». Invero, essa consente che il contratto privo di forma scritta esplichi comunque i propri effetti, ad eccezione di quelli che si rivelassero sconvenienti per il cliente in ragione della propria condizione di debolezza all’interno del rapporto contrattuale14. Vi è, dunque, da ritenere che la disciplina contenuta nel TUF sia inscrivibile tra le ormai numerosissime eccezioni che hanno delineato lo statuto delle c.d. nullità speciali. In questo senso, e come rilevato dalle stesse Sezioni Unite, la sua formulazione ricalca le ipotesi di nullità prevista per i contratti bancari nel TUB e, ancorché letteralmente differente, presenta dei punti di contatto anche con la disci-
Vedono nel cliente dei mercati finanziari un soggetto connotato da un’intrinseca debolezza dovuta all’asimmetria informativa e allo squilibrio di potere contrattuale: A. Di Majo, La correttezza nell’attività dio intermediazione mobiliare, in Banca, borsa tit. cred., 1993, I, p. 289; F. Realmonte, Doveri di informazione e responsabilità precontrattuale nell’attività di intermediazione mobiliare, in Banca, borsa tit. cred., 1994, I, pp. 617 ss.; A. Urbani, Forme di tutela del cliente, in F. Capriglione (a cura di), L’ordinamento finanziario italiano, I, Padova, 2005, pp. 316 ss.; F. Capriglione, Intermediari finanziari, investitori, mercati. Il recepimento della MiFID. Profili sistematici, Padova, 2008, p. 7; Id., Dalla trasparenza alla best execution: il difficile percorso verso il giusto prezzo, in Banca, borsa tit. cred., 2009, p. 476; M. Barcellona, Mercato mobiliare e tutela del risparmio, Milano, 2009, pp. 2 ss.; D. Maffeis, Le stagioni dell’orrore in Europa: da Frankenstein ai derivati, in Banca bors. tit. cred., 2012, I, pp. 280 ss. V. Ricciuto, La tutela dell’investitore finanziario. Prime riflessioni su contratto, vigilanza e regolazione del mercato nella c.d. MIiFiD 2, in Riv. dir. imp., 2016, pp. 17 ss. 14
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plina dettata in materia di contratti con il «consumatore» contenuta nel Codice del consumo15. Tuttavia, non possono sottacersi taluni aspetti peculiari della norma del TUF, che implicano alcune differenze rispetto agli altri casi di nullità di protezione disciplinati in altrettante norme speciali. In particolare, occorre notare che la disciplina dettata dal codice del consumo, tipicamente applicabile anche ai contratti finanziari, è destinata ad operare verso i soli «contratti con il consumatore», inteso quale persona fisica che opera fuori dall’attività professionale svolta16. Tale norma giustifica la base di un generale principio di centralità della persona sia nelle norme costituzionali, sia nelle fonti del diritto eurounitario17. Giova, invece, rilevare che la norma del TUF in esame si estende ben oltre l’ampia figura del «consumatore» ed é tale da ricomprendere tutti i soggetti di diritto riconducibili alla categoria del c.d. «cliente». In tal modo, si prescinde dal generale principio di tutela della persona per estendere la tutela del contraente debole a qualsiasi soggetto che possa venire in contatto con l’impresa finanziaria per finalità contrattuali. La maggiore estensione dell’àmbito soggettivo di applicazione della norma in discorso alle persone giuridiche e, pertanto, anche a soggetti che in concreto esercitano (o possono esercitare) attività d’impresa ne allontana la ratio dalla tutela della persona, per ricon-
D.Lgs 6 settembre 2005, n. 206, Codice del consumo, a norma dell’articolo 7 della legge 29 luglio 2003, n. 229. 16 L’art. 3, Cod. cons., definisce il «consumatore o utente» come «la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta». 17 Non deve essere, tuttavia, dimenticato come anche nel considerando 7 della direttiva 93/13/CE si legga che i «venditori di beni e i prestatori di servizi saranno facilitati nelle loro attività commerciali sia nel proprio Stato che in tutto il mercato unico e che sarà stimolata la concorrenza, contribuendo così a maggiori possibilità di scelta per i cittadini comunitari in quanto consumatori». Cfr. R. Costi, Informazione e contratto nel mercato finanziario, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1993, p. 721. Sul rapporto tra tutela della persona e protezione dei mercati nei contratti finanziari cfr. S. Mazzamuto, Il problema della forma nei contratti di intermediazione mobiliare, in Contr. impr., 1994, pp. 45 ss. 15
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durla alla preservazione dell’integrità e del buon funzionamento dei mercati finanziari. Deve essere valorizzata, per converso, la funzione moralizzatrice del mercato e pro-concorrenziale di talune norme di «diritto privato regolatorio» e, specificamente, delle norme del TUF. Invero, il soggetto debole da proteggere viene individuato sulla base del mercato (o della sua area) di riferimento18 e delle specifiche insidie che essa presenta, ciò che implica l’assunzione, per la regola di tutela, dei caratteri tipici di una norma speciale. Proprio nel settore dei contratti finanziari si può affermare che lo scopo del cliente è quello di ottenere una preservazione duratura del proprio patrimonio che, auspicabilmente, dovrebbe incrementarsi con il passare del tempo. Merita, dunque, di essere condivisa l’esigenza di tutela derivante dall’intrinseca debolezza dell’investitore connessa sia al maggiore potere contrattuale dell’impresa finanziaria sia all’asimmetria informativa dovuta alla complessità, e diversità, dei prodotti finanziari acquistabili. Deve però essere posta in evidenza la peculiarità dei mercati finanziari, là dove il diffondersi di pratiche commerciali scorrette può avere gravissime ripercussioni sistemiche sull’economia nazionale e sui mercati internazionali, come è accaduto, ad esempio, nella vicenda dei «mutui subprime». Anche per questa ragione, il legislatore nazionale ed eurounitario tiene conto della duplice finalità svolta dalle norme concernenti i contratti asimmetrici19 nei mercati La rilevanza della tutela del mercato nella disciplina di protezione del contraente debole è posta in evidenza da N. Irti, L’ordine giuridico del mercato, Roma Bari, 2004, pp. 43 ss.; A. Urbani, Forme di tutela del cliente, in L’ordinamento finanziario italiano, I, a cura di F. Capriglione, Padova, 2005, pp. 316 ss.; R. Senigaglia, Accesso alle informazioni e trasparenza. Profili della conoscenza nel diritto dei contratti, Padova, 2007, pp. 71 s. 19 Per l’uso di tale terminologia si veda, V. Roppo, Contratto di diritto comune, contratto del consumatore, contratto con asimmetria di potere contrattuale: genesi e sviluppi di un nuovo paradigma, in Riv. dir. priv., 2001, p. 788; Id., Il contratto del duemila, Torino, 2011, pp. 86 s.; A. Zoppini, Il contratto asimmetrico tra parte generale, contratti di impresa e disciplina della concorrenza, in Riv. dir. civ., I, 2008, pp. 536 ss.; A.M. Benedetti, Contratto asimmetrico, in Enc. dir., Annali, V, 2012, 384; inoltre, da ultimo si veda l’ampia ed esaustiva analisi compiuta da M.L. Chia18
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finanziari, che consente di tutelare il risparmiatore e l’integrità ed efficienza del mercato. Lo stesso articolo 47 Cost., richiamato nella sentenza in esame, svolge una funzione programmatica e vede come oggetto della tutela il risparmio e non direttamente il (singolo) risparmiatore, come se l’interesse del singolo risparmiatore debba essere perseguito principalmente attraverso norme di ordine pubblico economico dirette alla tutela dell’integrità e del buon funzionamento dei mercati finanziari20. Con specifico riferimento alla forma del contratto, vale ricordare che essa attiene alle informazioni che il risparmiatore deve conoscere preliminarmente al fine di poter verificare e confrontare le offerte più convenienti nel mercato. Tale norma svolge, quindi, una funzione strettamente pro-concorrenziale, in quanto il rispetto dell’obbligo di forma scritta rende comparabili le diverse offerte sul mercato e consente di verificare anche ex post la condotta dell’impresa finanziaria rispetto agli obblighi derivanti dal contenuto del contratto. La finalità informativa circa il contenuto delle proposte contrattuali potrebbe essere raggiunta anche secondo modalità diverse dalla forma scritta del contratto, ma la nullità derivante dal vizio di forma svolge un’insostituibile funzione dissuasiva rispetto a comportamenti illeciti e induce le imprese finanziarie a contrarre nel rispetto delle norme del TUF, in ragione degli effetti restitutori (unidirezionali) della declaratoria di nullità che colpisce tali contratti.
rella,
Contrattazione asimmetrica, segmenti normativi e costruzione unitaria, Milano, 2016, pp. 24 ss. 20 L’art. 47 Cost. deve essere considerato «il pilastro sul quale si fondano tutti i pubblici poteri nazionali di regolamentazione e di controllo delle attività finanziarie delle più diverse specie: bancarie, di intermediazione in senso stretto, assicurative e relative alla previdenza complementare, perché tutte hanno in comune la “materia prima”, appunto il risparmio. In sintesi: l’art. 47 è divenuto l’“ombrello costituzionale” cui sono riconducibili le regolamentazioni, in senso lato, di tutte le attività finanziarie»; così: S. Amorosino, La “costituzione economica”: note esplicative di una nozione controversa, in Riv. trim. dir. ec., 2014, pp. 234 s. Sull’intervento pubblico nel settore bancario e finanziario cfr. F. Capriglione, Intervento pubblico e ordinamento del credito, Milano 1978, pp. 47 ss.
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3. Profili critici dell’iter argomentativo delle SS.UU. Le Sezioni Unite hanno ribadito l’azionabilità unidirezionale delle «nullità relative», chiarendo inoltre quali siano le conseguenze, sul piano sostanziale, della declaratoria di tale nullità speciale (di protezione) quando sia riferita al c.d. contratto quadro21. In particolare, poiché i singoli ordini hanno una loro autonomia negoziale, ancorché siano collegati funzionalmente ed economicamente al contratto quadro, gli effetti della nullità di protezione invocata a proprio vantaggio dal cliente potranno operare solo sui singoli ordini specificamente individuati nella domanda. Nell’àmbito di ciascun singolo ordine dichiarato nullo l’impresa finanziaria ha diritto di ripetere quanto indebitamente venduto (o pagato) al cliente, ma non può sfruttare la declaratoria di nullità del contratto quadro per estenderla – a proprio vantaggio – ad altri negozi (rectius: ordini di acquisto o pagamenti) ad esso collegati, proprio in ragione della natura unidirezionale della norma violata. In sostanza, il contratto quadro dichiarato «relativamente nullo» non può produrre vantaggi a favore del professionista che ha generato la causa di invalidità per vizio di forma del rapporto contrattuale dedotto nel giudizio. La ratio della nullità di protezione per difetto di forma ex art. 23 TUF va rinvenuta nella necessità di riequilibrare la posizione di asimmetria informativa del cliente nel peculiare settore del mercato di prodotti finanziari. Tuttavia, la Cassazione sembra aver degradato la forma scritta ad substantiam, ancorché «di protezione», da elemento strutturale della fattispecie a un mero profilo funzionale o teleologico della norma, equiparabile ad un obbligo di informazione. Appare, invece, più appropriato valorizzare la funzione mora-
Contesta la possibilità di rilevare d’ufficio la nullità del contratto quadro quando la domanda riguardi solo alcuni ordini di acquisto effettuati dal cliente in costanza di rapporto U. Malvagna, op. cit., pp. 853 ss.; contra C. Robustella, op. cit., pp. 176 ss., la quale ritiene che, a séguito della declaratoria di nullità del contratto quadro, il cliente non possa governare gli effetti di tale nullità in modo selettivo, consentendo alla banca l’azione ex art. 2033 c.c., non derogata dalle norme di protezione. 21
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lizzatrice del mercato e pro-concorrenziale degli obblighi di forma sanciti dal TUF, così che i profili di tutela perseguiti dalla norma in parola non si esauriscano nei soli interessi del contraente debole, ma debbano essere rinvenuti anche negli effetti dissuasivi per l’impresa finanziaria che la sentenza di condanna svolge nel mercato di riferimento. La nullità di protezione per difetto di forma comminata ad un contratto del mercato finanziario svolge anche una finalità coercitiva indiretta per le imprese che devono assumere un determinato comportamento (redazione in forma scritta dei contratti), così da rendere diffuse le condotte virtuose per il corretto funzionamento dei meccanismi concorrenziali. La mancata reiterata conformazione dell’impresa alle condotte volute dal legislatore dovrebbe produrre per l’impresa stessa conseguenze sul piano economico tali– in extrema ratio – da espungerla dal mercato. Il contraente debole diviene, così, non solo soggetto destinatario delle norme di «diritto privato regolatorio», ma ne assume indirettamente i connotati di uno strumento para-sanzionatorio22, quando, con le proprie azioni giudiziarie, produca qualsiasi conseguenza negativa in capo all’impresa che viola tali norme. In altre parole e nel caso concreto, l’impresa che ha omesso gli obblighi di forma contrattuale si è esposta all’azione selettiva delle nullità di protezione subendo il danno di perdere somme di denaro ben maggiori rispetto a quanto sarebbe conseguenza di una nullità ordinaria (1418 c.c. ss.). Mentre il cliente, sulla base di una selezione opportunistica degli ordini da assoggettare a nullità di protezione, può conseguire la restituzione di quanto di pagato (solo) per gli ordini rivelatisi ex post meno convenienti.
In questo senso pare orientata anche la direttiva 2004/39/CE che ha originariamente novellato il TUF pur senza modificare la nullità di protezione di cui al ridetto art. 23. In essa appare chiaro l’intento sanzionatorio rispetto all’inosservanza degli obblighi di condotta imposti agli intermediari finanziari a tutela del buon funzionamento dei mercati. In questa prospettiva si spiegano le sanzioni amministrative previste per talune omissioni di cui all’art. 51 della predetta direttiva. 22
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In tal modo, l’uso incondizionato delle nullità selettive da parte del contraente debole conseguirebbe proprio l’effetto moralizzatore voluto dal TUF e dalla normativa eurounitaria, effetto che si estende sempre più spesso a numerosi settori di mercato. L’obiettivo è incentivare una maggiore attenzione da parte delle imprese nella fase di sottoscrizione dei contratti con i clienti, fornendo le copie adeguatamente sottoscritte da entrambe le parti, con i conseguenti effetti informativi e probatori derivanti da tale condotta. Seguendo l’interpretazione teleologica delle norme di diritto privato regolatorio, nel caso in esame, l’impresa finanziaria soccombente non avrebbe subito un sacrificio economico «ingiustificato» come sostenuto dalle SS.UU., ma il pregiudizio economico sarebbe la conseguenza diretta, prevista e voluta dalla norma azionata. Le SS.UU. hanno opinato diversamente, ritenendo di dover limitare gli effetti dell’uso selettivo della nullità di protezione, al fine di non aggravare ingiustificatamente la posizione dell’impresa finanziaria23. A tal fine, la clausola di buona fede, di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., è stata elevata a rango di principio generale cogente nel diritto dei contratti (asimmetrici), riconducibile al più ampio principio solidaristico di cui all’art. 2 Cost. Sulla base del principio di buona fede gli effetti di tutela del contraente debole prodotti dalla norma del TUF sarebbero derogabili quando essa sia utilizzata per arrecare un pregiudizio ingiustificato all’impresa finanziaria, attraverso l’istanza selettiva di nullità. Tuttavia, la clausola generale di buona fede non trova alcuna collocazione nelle normative speciali (es. TUF e TUB) e, financo, nel Codice del consumo, al fine di evitare qualunque interpretazione delle norme ivi contenute che possa compromettere la certezza dei diritti del contraente debole, conferendo ad esse il massimo grado di cogenza in fase applicativa. L’uso della buona fede nei rapporti contrattuali asimmetrici consegue l’effetto ineliminabile di rendere l’esito del giudizio più in23 Cfr. le sentenze Cass., 17 maggio 2017, nn. 12388, 12389, 12390; nella giurisprudenza di merito, cfr. Trib. Torino 7 marzo 2011; Trib. Como 14 febbraio 2012; Trib. Verona 28 giugno 2019, in Ilcaso.it.
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certo, così che il contraente debole potrebbe essere disincentivato dall’azionare i propri diritti, in quanto le barriere economiche di accesso alla giustizia, l’intrinseca incertezza dell’esito dei giudizi civili e l’uso – di fatto – discrezionale della buona fede da parte del giudice, quale criterio riequilibratore, pongono nel nulla le finalità perseguite dalle norme di protezione. Si dovrebbe, dunque, concludere che l’uso della clausola generale di buona fede in materia consumeristica o, latamente, nel settore della contrattazione asimmetrica, ha un profondo effetto dissuasivo verso le azioni del contraente debole e, addirittura, vanificatore della normativa di protezione. Invero, seguendo la criticata impostazione delle SS.UU., un simile principio potrebbe applicarsi anche ad altri istituti tipicamente consumeristici quali lo jus poenitendi, i diritti all’informazione, i divieti di contrarre, le garanzie nei beni di consumo, così da limitare la tutela del contraente debole per via giudiziaria. La riduzione del contenzioso consumeristico potrebbe produrre anche un ingiustificato pregiudizio per la funzione moralizzatrice del mercato svolta dalle norme di protezione del contraente debole. Si osservi, infine, che l’applicazione del «principio di buona fede» nella sentenza in esame assume una connotazione meramente economica, in quanto si basa sulla valutazione dello squilibrio patrimoniale per effetto dell’azione (lecita) di nullità selettiva all’esito del giudizio. Si consideri, a questo proposito, che proprio le controversie del settore finanziario consentono di stabilire l’esatto quantum delle reciproche pretese solo all’esito di una – spesso complessa – CTU contabile di tipo percipiente. L’indagine tecnica viene effettuata, di regola, anche a distanza di anni, in una fase del giudizio in cui il valore dei singoli prodotti finanziari oggetto della controversia può essersi modificato sensibilmente rispetto alla fase introduttiva del giudizio in ragione della volatilità dei mercati di riferimento. Potrebbe, dunque, verificarsi l’ipotesi in cui la proporzione esistente tra le pretese del cliente e quelle addotte in via di azione riconvenzionale o di eccezione possa determinarsi solo in uno stadio avanzato della controversia, con rischi inattesi
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di soccombenza del contraente debole anche con riguardo al regolamento delle spese processuali. Si può concludere che l’impostazione delle SS.UU. rende del tutto incerto e, dunque, imprevedibile, l’esito del giudizio proposto dal destinatario della disciplina di protezione, così da vanificare la funzione svolta dalle nullità relative a diretta tutela del contraente debole e a indiretta tutela del buon funzionamento del mercato finanziario.
Corte di Cassazione – Sezioni Unite 6 marzo 2020, n. 6459 (sent.) Presidente Spirito, Estensore Giusti Contratti – Patto fiduciario – Immobili – Forma scritta – Esecuzione in forma specifica – Promessa di pagamento Per il patto fiduciario con oggetto immobiliare, che si innesta su un acquisto effettuato dal fiduciario per conto del fiduciante, non è richiesta la forma scritta ad substantiam, trattandosi di atto meramente interno tra fiduciante e fiduciario che dà luogo ad un assetto di interessi che si esplica esclusivamente sul piano obbligatorio; ne consegue che tale accordo, una volta provato in giudizio, è idoneo a giustificare l’accoglimento della domanda di esecuzione specifica dell’obbligo di ritrasferimento gravante sul fiduciario. La dichiarazione unilaterale scritta dal fiduciario, ricognitiva dell’intestazione fiduciaria dell’immobile e promissiva del suo ritrasferimento al fiduciante, non costituisce autonoma fonte di obbligazione, ma, rappresentando una promessa di pagamento, ha soltanto effetto confermativo del preesistente rapporto nascente dal patto fiduciario, realizzando, ai sensi dell’art. 1988 c.c., una astrazione processuale della causa, con conseguente esonero a favore del fiduciante, destinatario della contra se pronuntiatio, dell’onere della prova del rapporto fondamentale, che si presume fino a prova contraria (massima ufficiale).
Dalla motivazione (omissis) 1. La questione rimessa all’esame delle Sezioni Unite concerne la forma del patto fiduciario con oggetto immobiliare. Premesso che il patto fiduciario dà luogo ad un assetto di rapporti sul piano obbligatorio in forza del quale il fiduciario è tenuto verso il fiduciante a tenere una certa condotta nell’esercizio del diritto fiduciariamente acquistato, ivi compreso il ritrasferimento del diritto al fiduciante o a un terzo da lui designato, l’interrogativo sollevato
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dall’ordinanza interlocutoria è se possa ritenersi rispettato il requisito della forma scritta del patto fiduciario coinvolgente diritti reali immobiliari da una dichiarazione unilaterale scritta del fiduciario che risulti espressione della causa fiduciaria esistente in concreto, pur se espressa verbalmente tra fiduciante e fiduciario; più in particolare, se valida fonte dell’obbligazione di ritrasferire sia soltanto un atto bilaterale e scritto, coevo all’acquisto del fiduciario, o se sia sufficiente un atto unilaterale, ricognitivo, posteriore e scritto del fiduciario, a monte del quale vi sia un impegno espresso oralmente dalle parti. 2. Si impongono, preliminarmente, alcune premesse di inquadramento. 3. Il fenomeno fiduciario consiste in una operazione negoziale che consente ad una parte (il fiduciante) di far amministrare o gestire per finalità particolari un bene da parte di un’altra (il fiduciario), trasferendo direttamente al fiduciario la proprietà del bene o fornendogli i mezzi per l’acquisto in nome proprio da un terzo, con il vincolo che il fiduciario rispetti un complesso di obblighi volti a soddisfare le esigenze del fiduciante e ritrasferisca il bene al fiduciante o a un terzo da lui designato. Attraverso il negozio fiduciario la proprietà del bene viene trasferita da un soggetto a un altro con l’intesa che il secondo, dopo essersene servito per un determinato scopo, lo ritrasferisca al fiduciante, oppure il bene viene acquistato dal fiduciario con denaro fornito dal fiduciante, al quale, secondo l’accordo, il bene stesso dovrà essere, in un tempo successivo, ritrasferito. 3.1. Il negozio fiduciario si presenta non come una fattispecie, ma come una casistica: all’unicità del nome corrispondono operazioni diverse per struttura, per funzione e per pratici effetti. Innanzitutto perché l’investitura del fiduciario nella titolarità del diritto può realizzarsi secondo distinti moduli procedimentali: le parti possono dare origine alla situazione di titolarità fiduciaria sia attraverso un atto di alienazione dal fiduciante al fiduciario, sia – come nel caso da cui è sorta la presente controversia – mediante un acquisto compiuto dal fiduciario in nome proprio da un terzo con denaro forni-
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to dal fiduciante. In secondo luogo perché l’effetto traslativo non è essenziale per la configurabilità di un accordo fiduciario. Accanto alla fiducia dinamica, caratterizzata dall’effetto traslativo strumentale, un modo di costituzione della titolarità fiduciaria è rappresentato dalla fiducia statica, che si ha quando manca del tutto un atto di trasferimento, perché il soggetto è già investito ad altro titolo di un determinato diritto, e il relativo titolare, che sino a un dato momento esercitava il diritto nel proprio esclusivo interesse, si impegna a esercitare le proprie prerogative nell’interesse altrui, in conformità a quanto previsto dal pactum fiduciae. Nello schema del negozio fiduciario – afferma Cass., Sez. II, 7 agosto 1982, n. 4438 – rientra, oltre quello di tipo traslativo, anche la fiducia statica, i cui estremi sono appunto rappresentati dalla preesistenza di una situazione giuridica attiva facente capo ad un soggetto che venga poi assunto come fiduciario e si dichiari disposto ad attuare un certo disegno del fiduciante mediante l’utilizzazione non già di una situazione giuridica all’uopo creata (come nel negozio fiduciario di tipo traslativo), ma di quella preesistente, che viene così dirottata dal suo naturale esito, a ciò potendosi determinare proprio perché a lui fa capo la situazione giuridica di cui si tratta. In terzo luogo perché il negozio fiduciario risponde ad una molteplicità di funzioni, di pratici intenti, essendo diversi i tipi di interessi che possono sorreggere l’operazione. Nella fiducia cum amico la creazione della titolarità è funzionale alla realizzazione di una detenzione e gestione del bene nell’interesse del fiduciante ed in vista di un successivo ulteriore trasferimento della titolarità, allo stesso fiduciante o a un terzo. Nella fiducia cum creditore, invece, il contratto fiduciario intercorre tra debitore e creditore: l’interesse del fiduciante è trasferire la proprietà di un suo bene al fiduciario, suo creditore, a garanzia del diritto di credito, con l’impegno del fiduciario a ritrasferire il bene al fiduciante, se questi adempie regolarmente al proprio debito. Questa seconda tipologia – la fiducia cum creditore – esige una attenta valutazione nel caso concreto, onde accertare che non integri un contratto in frode alla legge e precisamente in violazione del divieto di patto commissorio (art. 2744 c.c.).
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3.2. La dottrina ha a lungo dibattuto alla ricerca di una sistemazione appagante del fenomeno fiduciario sotto il profilo del suo fondamento causale. Vi è chi, riducendo il negozio fiduciario ad un tipo negoziale, seppure innominato, lo costruisce come un contratto unitario, avente una propria causa interna, la causa fiduciae, consistente in un trasferimento di proprietà, da un lato, e nell’assunzione di un obbligo, dall’altro. In questa prospettiva, l’effetto obbligatorio non costituisce un limite dell’effetto reale, ma si trova con esso in un rapporto di interdipendenza, non già nel senso di corrispettività economica, ma nel senso che l’attribuzione patrimoniale è il mezzo per rendere possibile al fiduciario quel suo comportamento in ordine al diritto trasferitogli: l’effetto obbligatorio rappresenta dunque la causa giustificatrice dell’effetto reale. Da parte di altri si ritiene che nell’operazione de qua siano destinati a venire in rilievo singoli negozi tipici, con causa diversa da quella fiduciae, relativamente ai quali la fiducia non opera o non è in grado di operare sul terreno della causa in senso oggettivo, ma su quello dei motivi o su quello delle determinazioni accessorie di volontà. Altri ancora – dopo avere qualificato il contratto fiduciario come il negozio mediante il quale si persegue uno scopo diverso dalla causa del contratto prescelto, avendo il pactum fiduciae la funzione di piegare il contratto prescelto alla realizzazione dello scopo perseguito – ritengono impossibile ricondurre il fenomeno pratico ad una unitaria categoria giuridica e considerano il contratto traslativo e il patto fiduciario come contratti separati, tra loro collegati, nei quali la causa fiduciae esprime il collegamento fra i due contratti. Tale orientamento costruisce il fenomeno in forma pluralistica, vedendovi un collegamento funzionale tra trasferimenti e obblighi, in attuazione del programma fiduciario: di talché l’interno vincolo obbligatorio (con il quale il fiduciario si obbliga, nel rispetto della fiducia, al compimento del negozio che ne costituisce adempimento), non autonomamente isolabile, interagisce con l’effetto reale esterno. 3.3. Anche in giurisprudenza non mancano prese di posizione sulla natura giuridica del negozio fiduciario. Così, talvolta le pro-
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nunce di questa Corte vedono nel contratto fiduciario un caso di negozio indiretto: un negozio, cioè, con cui le parti perseguono risultati diversi da quelli tipicamente propri del negozio impiegato, e corrispondenti a quelli di un negozio diverso. Il negozio fiduciario – si afferma – rientra nella categoria più generale dei negozi indiretti, caratterizzati dal fatto di realizzare un determinato effetto giuridico non in via diretta, bensì indiretta: il negozio, che è realmente voluto dalle parti, viene infatti posto in essere in vista di un fine pratico diverso da quello suo tipico, e corrispondente in sostanza alla funzione di un negozio diverso. L’intestazione fiduciaria di un bene comporta un vero e proprio trasferimento in favore del fiduciario, limitato però dagli obblighi stabiliti inter partes, compreso quello del trasferimento al fiduciante, in cui si ravvisa il contenuto del pactum fiduciae (Cass., Sez. III, 2 aprile 2009, n. 8024; Cass., Sez. II, 9 maggio 2011, n. 10163; Cass., Sez. I, 17 settembre 2019, n. 23093). Altre volte si opta per un inquadramento in termini di pluralità di negozi connessi da una comune congruenza funzionale ovvero da un’unica finalità economica: nel rapporto fiduciario si ha il concorso di due negozi, l’uno di disposizione e l’altro, che è anche causa del primo, di obbligazione, i quali sono distinti, pur se collegati, e non fusi unitariamente (Cass., Sez. II, 18 aprile 1957, n. 1331); il negozio fiduciario si realizza mediante il collegamento di due negozi, parimenti voluti, l’uno di carattere esterno, efficace verso i terzi, e l’altro, inter partes ed obbligatorio, diretto a modificare il risultato finale del primo, per cui il fiduciario è tenuto a ritrasferire il bene al fiduciante o al terzo (Cass., Sez. II, 7 agosto 1982, n. 4438; Cass., Sez. II, 1° aprile 2003, n. 4886; Cass., Sez. I, 8 settembre 2015, n. 17785). Una terza impostazione si distacca dalle ricostruzioni che descrivono il negozio fiduciario come articolato in due negozi (uno esterno e con effetti reali, l’altro interno e obbligatorio), per sostenere che “qualora tra due parti intercorra un accordo fiduciario, esso comprende l’intera operazione e la connota di una causa unitaria, quella… di realizzare il programma fiduciario, mentre per la sua realizzazione possono essere posti in essere diversi negozi giuridici, che a seconda dei casi e degli obiet-
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tivi che con l’accordo fiduciario ci si propone di realizzare possono essere diversi sia nel numero che nella tipologia” (Cass., Sez. III, 15 maggio 2014, n. 10633). 4. Il fondamento causale e l’inquadramento teorico del negozio fiduciario possono rimanere in questa sede soltanto accennati, perché il quesito posto dall’ordinanza interlocutoria della Seconda Sezione pone in realtà un problema pratico relativo alla individuazione di una regola di dettaglio la cui soluzione prescinde dall’adesione all’una o all’altra tra le tesi appena esposte. La questione sollevata, infatti, concerne, come si è visto, la forma dell’impegno con cui il fiduciario si obbliga nei rapporti interni verso il fiduciante, in forza del pactum fiduciae, a ritrasferirgli l’immobile. In considerazione del già rilevato multiforme atteggiarsi del fenomeno fiduciario, tale interrogativo viene esaminato dalle Sezioni Unite nei limiti della sua rilevanza, ossia avendo riguardo all’orizzonte di attesa della fattispecie concreta, la quale si caratterizza per essere il fiduciario divenuto titolare del diritto avendolo acquistato in nome proprio da un terzo con mezzi somministratigli dal fiduciante. 5. Conviene, allora, passare in rassegna gli indirizzi giurisprudenziali che si sono manifestati sulla specifica questione. 5.1. Quando l’impegno all’ulteriore trasferimento ad opera del fiduciario riguardi un bene immobile, l’orientamento dominante condiziona la rilevanza del patto fiduciario alla circostanza che i soggetti abbiano consegnato in un atto scritto il pactum. Tale indirizzo, infatti, assimila, quoad effectum, il patto fiduciario, sotto il profilo dell’assunzione dell’obbligo a ritrasferire da parte del fiduciario, al contratto preliminare, con la conseguente necessità di osservare la forma vincolata per relationem prevista dall’art. 1351 c.c. In base a tale orientamento, il negozio fiduciario, nel quale sia previsto l’obbligo di una parte di modificare la situazione giuridica a lui facente capo a favore del fiduciante o di altro soggetto da quest’ultimo designato, richiede la forma scritta ad substantiam qualora riguardi beni immobili, atteso che esso è sostanzialmente equiparabile al contratto preliminare – per il quale l’art. 1351 c.c., prescrive la stessa forma del contratto definitivo – in relazione all’obbligo as-
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sunto dal fiduciario di emettere la dichiarazione di volontà diretta alla conclusione del contratto voluto dal fiduciante (Cass., Sez. II, 18 ottobre 1988, n. 5663; Cass., Sez. II, 29 maggio 1993, n. 6024; Cass., Sez. II, 19 luglio 2000, n. 9489; Cass., Sez. II, 7 aprile 2011, n. 8001; Cass., Sez. I, 26 maggio 2014, n. 11757; Cass., Sez. II, 25 maggio 2017, n. 13216; Cass., Sez. I, 17 settembre 2019, n. 23093). In questa prospettiva, la valida fonte dell’obbligazione di ritrasferire del fiduciario può essere solo un atto negoziale avente struttura bilaterale e dispositiva. Onere del fiduciante – si legge in Cass., Sez. II, 7 aprile 2011, n. 8001, cit. è quello “di dimostrare l’esistenza dell’accordo scritto fiduciario, che (ha) preceduto o accompagnato la stipula del contratto di acquisto, con l’assunzione, da parte del fiduciario, dell’obbligo di retrocessione… del bene immobile”. La dichiarazione unilaterale del fiduciario non è ritenuta sufficiente allo scopo, giacché una ricognizione ex post di un atto solenne ab origine perfezionato informalmente non vale a supplire al difetto della forma richiesta dalla legge ai fini della validità dell’atto (Cass., Sez. I, 18 aprile 1994, n. 3706): ai fini del trasferimento della proprietà immobiliare (e relativi preliminari), il requisito della forma scritta prevista ad substantiam “non può essere sostituito da una dichiarazione confessoria dell’altra parte, non valendo tale dichiarazione né quale elemento integrante il contratto né – quando anche contenga il preciso riferimento ad un contratto concluso per iscritto – come prova del medesimo; pertanto, il requisito di forma può ritenersi soddisfatto solo se il documento costituisca l’estrinsecazione formale diretta della volontà negoziale delle parti e non anche quando esso si limiti a richiamare un accordo altrimenti concluso, essendo in tal caso necessario che anche tale accordo rivesta la forma scritta e contenga tutti gli elementi essenziali del contratto non risultanti dall’altro documento, senza alcuna possibilità di integrazione attraverso il ricorso a prove storiche, non consentite dall’art. 2725 c.c.” (Cass., Sez. II, 9 maggio 2011, n. 10163). Nel ribadire la necessità dell’atto bilaterale scritto, talvolta la giurisprudenza ne mitiga le conseguenze applicando il principio secondo cui la produzione in giudizio di una scrittura, contro la parte dalla quale proviene, equi-
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vale a perfezionamento dell’accordo bilaterale. È ben vero – afferma Cass., Sez. II, 1° aprile 2003, n. 4886 – che l’unilateralità della dichiarazione resa dal fiduciario “contrasta con la necessaria bilateralità del negozio fiduciario, ma, poiché ad avvalersene in giudizio è il contraente del quale manca la sottoscrizione”, trova applicazione il consolidato principio per cui “quando … la parte che non abbia sottoscritto l’atto a forma vincolata la produca in giudizio, invocandone a proprio favore gli effetti e così dando la propria adesione, se l’altra parte non abbia nel frattempo revocato il consenso prima manifestato, il requisito della necessaria consensualità deve ritenersi validamente esistente”. 5.2. Un indirizzo minoritario, inaugurato da Cass., Sez. III, 15 maggio 2014, n. 10633, ritiene invece che l’accordo fiduciario non necessiti indefettibilmente della forma scritta a fini di validità, ben potendo la prescrizione di forma venire soddisfatta dalla dichiarazione unilaterale redatta per iscritto e sottoscritta con cui il fiduciario si impegni a trasferire determinati beni al fiduciante, in attuazione esplicita (ossia con expressio causae) del medesimo pactum fiduciae. Secondo questo orientamento, a monte della dichiarazione unilaterale con cui il soggetto, riconoscendo il carattere fiduciario dell’intestazione, promette il trasferimento del bene al fiduciante, può stare anche un impegno orale delle parti, e la dichiarazione unilaterale, in quanto volta ad attuare il pactum preesistente, ha una propria “dignità”, che la rende idonea a costituire autonoma fonte dell’obbligazione del promittente, purché contenga la chiara enunciazione dell’impegno e del contenuto della prestazione. Il nuovo indirizzo muove dalla constatazione della prassi, nella quale “non è infrequente che l’accordo fiduciario non sia scritto, ma che il soggetto in quel momento beneficiario della intestazione si impegni unilateralmente a modificare in un futuro la situazione” secondo gli accordi presi con l’altro soggetto; e dalla considerazione che “una dichiarazione unilaterale non costituisce necessariamente ed esclusivamente una semplice promessa di pagamento, di valore meramente ricognitivo rispetto ad un impegno ad essa esterno”. Più precisamente, anche “un impegno che nasce
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come unilaterale… ha una propria dignità atta a costituire fonte di obbligazioni in quanto volto ad attuare l’accordo fiduciario preesistente”: “la fiducia è la causa dell’intera operazione economica posta in essere, che si articola in diversi negozi giuridici e che colora di liceità e di meritevolezza l’impegno di ritrasferimento assunto (dal fiduciario) con la sottoscrizione del suo impegno unilaterale”. La pronuncia che ha innovato l’orientamento tradizionale richiama, intravedendovi profili di affinità, la svolta di giurisprudenza realizzatasi, con la sentenza 2 settembre 2013, n. 20051, della Terza Sezione, in relazione al mandato senza rappresentanza all’acquisto di beni immobili, per il quale la Corte ha escluso la necessità della forma scritta e ha affermato che si può fare ricorso al rimedio dell’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere il contratto nei casi in cui ci sia una dichiarazione unilaterale scritta del mandatario, anche successiva all’acquisto, che contenga un preciso impegno e una sufficiente indicazione degli immobili da trasferire. L’orientamento inaugurato dalla sentenza 15 maggio 2014, n. 10633, è compendiato nella seguente massima: “La dichiarazione unilaterale scritta con cui un soggetto si impegna a trasferire ad altri la proprietà di uno o più beni immobili in esecuzione di un precedente accordo fiduciario non costituisce semplice promessa di pagamento ma autonoma fonte di obbligazioni se contiene un impegno attuale e preciso al ritrasferimento, e, qualora il firmatario non dia esecuzione a quanto contenuto nell’impegno unilaterale, è suscettibile di esecuzione in forma specifica ex art. 2932 c.c., purché l’atto unilaterale contenga l’esatta individuazione dell’immobile, con l’indicazione dei confini e dei dati catastali”. 5.3. Nel complessivo panorama giurisprudenziale non possono essere tralasciate altre due pronunce. Dalla prima – si tratta di Cass., Sez. III, 30 gennaio 1985, n. 560 – si ricava il principio secondo cui deve rivestire ad substantiam forma scritta il negozio traslativo di beni immobili dal fiduciario al fiduciante in esecuzione del pactum fiduciae, ma non anche quest’ultimo. La motivazione della sentenza contiene infatti il seguente passaggio argomentativo: “Quanto, poi, all’assunto del ricorrente, secondo cui non solo
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il negozio traslativo di beni immobili dal fiduciario al fiduciante in esecuzione del pactum fiduciae, ma anche quest’ultimo deve rivestire ad substantiam forma scritta, basterà ricordare che siffatta tesi… non trova […] riscontro nella costruzione dogmatica del negozio fiduciario”. Cass., Sez. II, 27 agosto 2012, n. 14654, a sua volta, pronunciando in un caso riguardante l’intestazione fiduciaria di somme in un conto corrente, si preoccupa tuttavia, in generale, non solo di offrire la definizione di negozio fiduciario, ma anche, in quest’ambito, di dare indicazioni sulla sua forma, nei seguenti termini: la fattispecie del negozio fiduciario “si sostanzia in un accordo tra due soggetti, con cui il primo trasferisce (o costituisce) in capo al secondo una situazione giuridica soggettiva (reale o personale) per il conseguimento di uno scopo pratico ulteriore, ed il fiduciario, per la realizzazione di tale risultato, assume l’obbligo di utilizzare nei tempi e nei modi convenuti la situazione soggettiva, in funzione strumentale, e di porre in essere un proprio comportamento coerente e congruo. Trattandosi di fattispecie non espressamente disciplinata dalla legge, in mancanza di una disposizione espressa in senso contrario, il pactum fiduciae non può che essere affidato al principio generale della libertà della forma”. 6. L’indirizzo dominante, nel richiedere la forma scritta ad validitatem del patto fiduciario con oggetto immobiliare, muove da un’equiparazione del patto al contratto preliminare: sia per la somiglianza strutturale (obbligatorietà del futuro contrahere) tra l’uno e l’altro negozio, sia per la similitudine effettuale, che si risolverebbe nell’eadem ratio del requisito di forma imposto dall’art. 1351 c.c. In sostanza, si riconosce l’esistenza di un collegamento tra l’art. 1351 c.c. e l’art. 2932 c.c., nel senso che, riferendosi l’art. 2932 c.c. a tutti i contratti produttivi di un obbligo a contrarre, anche l’art. 1351 c.c. dovrebbe estendersi a tutti i contratti che obblighino i contraenti a stipulare un ulteriore negozio formale, con la conseguenza che la norma non riguarderebbe soltanto il contratto preliminare, ma ogni negozio fonte di successivi obblighi a contrarre, e tra questi il patto fiduciario. 6.1. Questo orientamento – dalla dottrina talvolta condiviso o ritenuto plausibile, talaltra considerato frutto di forti e patenti ap-
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prossimazioni – deve essere rimeditato. Nel rapporto che si realizza per mezzo di un acquisto compiuto dal fiduciario, per conto del fiduciante, direttamente da un terzo, il pactum fiduciae – con cui il fiduciario si obbliga a gestire la posizione giuridica di cui è investito secondo modalità predeterminate e a ritrasferire la stessa al fiduciante – è assimilabile, ad avviso del Collegio, al mandato senza rappresentanza, non al contratto preliminare. In questo senso convergono le indicazioni della giurisprudenza e le analisi della dottrina. Quando pone l’accento sulla struttura e sulla funzione del pactum fiduciae, la giurisprudenza (Cass., Sez. I, 20 maggio 1976, n. 1798) non esita a ricondurre al mandato senza rappresentanza (in particolare, ai rapporti interni tra mandante e mandatario) il patto di ritrasferire al fiduciante il diritto acquistato dal fiduciario. “L’eventualità che la fiducia si estrinsechi attraverso il patto di ritrasferire al fiduciante il diritto acquisito dal fiduciario e che, quindi, venga ad atteggiarsi come un mandato senza rappresentanza […] è da ritenere […] perfettamente conforme alla potenziale estensione ed articolabilità del patto relativo”: “il mandato senza rappresentanza, infatti, costituendo lo strumento tipico dell’agire per conto (ma non nel nome) altrui, non solo può piegarsi alle esigenze di un pactum fiduciae che contempli l’obbligo del fiduciario di ritrasferire al fiduciante un diritto, ma si pone anzi come la figura negoziale praticamente meglio idonea ad assorbire, senza residui e senza necessità di ulteriori combinazioni, […] quel determinato intento”. La dottrina, dal canto suo, evidenzia come mandato (in nome proprio) e negozio fiduciario si presentino entrambi come espressioni della interposizione reale di persona: in particolare, con specifico riguardo all’ipotesi, che qui viene in rilievo, del soggetto che abbia acquistato un bene utilizzando la provvista di altri e per seguire le istruzioni ricevute, essa perviene alla conclusione che tale posizione può essere qualificata come mandato o come fiducia, ma che le norme applicabili sono comunque le stesse. Sul versante del rapporto tra preliminare e patto fiduciario – al di là della affinità legata al fatto che anche nel pactum fiduciae, come nell’obbligo nascente dal contratto preliminare, è ravvisabile un
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momento iniziale con funzione strumentale rispetto ad un momento finale – la riflessione in sede scientifica mette in luce la diversità degli assetti d’interessi perseguiti dall’una e dall’altra figura. Nel preliminare, infatti, l’effetto obbligatorio è strumentale all’effetto reale, e lo precede; nel contratto fiduciario l’effetto reale viene prima, e su di esso s’innesta l’effetto obbligatorio, la cui funzione non è propiziare un effetto reale già prodotto, ma conformarlo in coerenza con l’interesse delle parti. Ne consegue che, mentre l’obbligo di trasferire inerente al preliminare di vendita immobiliare è destinato a realizzare la consueta funzione commutativa, la prestazione traslativa stabilita nell’accordo fiduciario serve, invece, essenzialmente per neutralizzare il consolidamento abusivo di una situazione patrimoniale vantaggiosa per il fiduciario a danno del fiduciante. Inoltre, l’obbligo nascente dal contratto preliminare si riferisce alla prestazione del consenso relativo alla conclusione di un contratto causale tipico (quale la vendita), con la conseguenza che il successivo atto traslativo è qualificato da una causa propria ed è perciò improntato ad una funzione negoziale tipica; diversamente, nell’atto di trasferimento del fiduciario – analogamente a quanto avviene nel mandato senza rappresentanza (art. 1706 c.c., comma 2) – si ha un’ipotesi di pagamento traslativo, perché l’atto di trasferimento si identifica in un negozio traslativo di esecuzione, il quale trova il proprio fondamento causale nell’accordo fiduciario e nella obbligazione di dare che da esso origina. Le differenze esistenti tra il contratto preliminare e il pactum fiduciae escludono, dunque, la possibilità di equiparare le due figure ai fini di un eguale trattamento del regime formale. Quanto, poi, al collegamento tra la natura immobiliare del bene acquistato dal fiduciario e l’esecuzione specifica dell’obbligo di trasferimento rimasto inadempiuto, si è chiarito che il rimedio dell’esecuzione in forma specifica non è legato alla forma del negozio da cui deriva l’obbligo di contrattare, potendo l’art. 2932 c.c., trovare applicazione anche là dove l’obbligo di concludere un contratto riguardi cose mobili e si trovi pertanto contenuto in un contratto non formale, perché volto, appunto, al trasferimento di beni mobili.
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6.2. La riconduzione allo schema del mandato senza rappresentanza del pactum fiduciae che s’innesta sull’intestazione in capo al fiduciario di un bene da questo acquistato utilizzando la provvista fornita dal fiduciante, orienta la soluzione del problema della forma dell’impegno dell’accordo fiduciario con oggetto immobiliare. Invero, al fine di stabilire se un contratto atipico sia o meno soggetto al vincolo di forma, occorre procedere – secondo l’insegnamento di autorevole dottrina – con il metodo dell’analogia, ed accertare se il rapporto di somiglianza intercorra con un contratto tipico a struttura debole (tale essendo quello strutturato dal legislatore sui tre elementi dell’accordo, della causa e dell’oggetto, senza alcun requisito di forma) o con un contratto tipico a struttura forte (nel quale invece il requisito della forma concorre ad integrare la fattispecie), perché soltanto nel secondo caso anche per il negozio atipico è configurabile il requisito di forma. 6.3. Ora, il mandato senza rappresentanza che abbia per oggetto l’acquisto di beni immobili per conto del mandante e in nome del mandatario, è un contratto a struttura debole. Superando l’orientamento, che risaliva a una pronuncia delle Sezioni Unite (Cass., Sez. Un., 19 ottobre 1954, n. 3861), che, considerato l’esito reale mediato, garantito da un meccanismo legale munito di forte effettività, estendeva al mandato il vincolo di forma prescritto per il contratto traslativo immobiliare, la giurisprudenza di questa Corte – a partire dalla citata sentenza della Terza Sezione 2 settembre 2013, n. 20051, alla quale ha fatto seguito Cass., Sez. III, 28 ottobre 2016, n. 21805 – ha infatti statuito che, in ossequio al principio di libertà della forma, il mandato senza rappresentanza per l’acquisto di beni immobili non necessita della forma scritta e che il rimedio dell’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di trasferire al mandante l’immobile acquistato dal mandatario è esperibile anche quando il contratto di mandato senza rappresentanza sia privo di forma scritta. A tale approdo la giurisprudenza di legittimità è pervenuta rilevando che: – tra il mandante e il mandatario senza rappresentanza trova applicazione il solo rapporto interno, laddove la necessità della forma scritta si impone per gli atti che co-
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stituiscono titolo per la realizzazione dell’effetto reale in capo alla parte del negozio; – le esigenze di responsabilizzazione del consenso e di certezza dell’atto, sottese all’imposizione della forma scritta quale requisito di validità del contratto traslativo del diritto reale sul bene immobile, non si pongono con riferimento al mandato ad acquistare senza rappresentanza, dal quale non sorgono effetti reali, ma meramente obbligatori; – i requisiti di forma scritta concernono esclusivamente l’acquisto che il mandatario effettua dal terzo (rapporto esterno) e per quello di successivo trasferimento in capo al mandante del diritto reale sul bene immobile a tale stregua acquistato; l’art. 1351 c.c. è norma eccezionale, come tale non suscettibile di applicazione analogica, e neppure di applicazione estensiva, attesa l’autonomia e la netta distinzione sussistente tra mandato e contratto preliminare. 6.4. Analogamente a quanto avviene nel mandato senza rappresentanza, dunque, anche per la validità del pactum fiduciae prevedente l’obbligo di ritrasferire al fiduciante il bene immobile intestato al fiduciario per averlo questi acquistato da un terzo, non è richiesta la forma scritta ad substantiam, trattandosi di atto meramente interno tra fiduciante e fiduciario che dà luogo ad un assetto di interessi che si esplica esclusivamente sul piano obbligatorio. L’accordo concluso verbalmente è fonte dell’obbligo del fiduciario di procedere al successivo trasferimento al fiduciante anche quando il diritto acquistato dal fiduciario per conto del fiduciante abbia natura immobiliare. Se le parti non hanno formalizzato il loro accordo fiduciario in una scrittura, ma lo hanno concluso verbalmente, potrà porsi un problema di prova, non di validità del pactum. L’osservanza del requisito della forma scritta è invece imposta, in base all’art. 1350 c.c., per gli atti traslativi: per il contratto, iniziale, di acquisto dell’immobile da parte del fiduciario e per il successivo atto di ritrasferimento ad opera del medesimo. 6.5. L’esclusione della necessità della forma scritta per il pactum fiduciae con oggetto immobiliare riconcilia la soluzione giurisprudenziale con la storia e con l’esperienza pratica del negozio fiduciario. La dottrina italiana sulla teoria generale del negozio giuridico
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ha infatti consegnato alla comunità degli interpreti l’affermazione che non è necessario che l’intesa fiduciaria, rivolta a limitare i poteri del fiduciario, risulti dal tenore documentale del negozio. Questo insegnamento – che corrisponde ad un’idea risalente, ossia al rilievo che il pactum fiduciae è soggetto ad una intesa segreta – non è rimasto privo di riscontro negli svolgimenti giurisprudenziali. Si è infatti statuito (Cass., 13 gennaio 1941, n. 90) che il contratto fiduciario è perfettamente configurabile nel diritto vigente, in quanto con esso si ponga in essere, effettivamente, il contratto che appare dallo scritto, ma con un vincolo o con una limitazione o condizione non espressa ed affidata alla fiducia dell’altro contraente. In questa stessa prospettiva, si è ribadito (Cass., Sez. I, 22 maggio 1947, n. 794) che si ha negozio fiduciario quando, oltre ai patti risultanti dallo scritto, si ponga in essere un patto non espresso affidato alla fiducia di uno dei contraenti. D’altra parte, la dimensione pratica del fenomeno fiduciario, quale emerge dal contesto complessivo delle controversie venute all’esame dei giudici, offre un quadro variegato di accordi fiduciari verbali tra coniugi, conviventi e familiari relativi alla intestazione di immobili acquistati in tutto o in parte con denaro di uno solo di essi, nel quale le parti, per motivi di opportunità, di lealtà e di fiducia reciproca, sono restie a consegnare in un atto scritto il pactum tra di esse intervenuto. Proprio rivolgendo l’analisi all’esperienza e ai modi di attuazione dei comportamenti, un’autorevole dottrina è giunta alla conclusione che condizionare all’osservanza della forma scritta la validità del patto fiduciario significherebbe praticamente escludere la rilevanza pratica della fiducia in molte ipotesi di fiducia cum amico, dato che la formalità del patto finirebbe quasi sempre per incidere sulla dimensione pratica del comportamento, escludendone la fiduciarietà dal punto di vista della morfologia del fenomeno empirico. 7. Fissato il principio secondo cui non è richiesta la forma scritta per la validità del patto fiduciario avente ad oggetto l’obbligazione del fiduciario di ritrasferire al fiduciante l’immobile dal primo acquistato da un terzo in nome proprio, si tratta di stabilire la rilevanza della posteriore dichiarazione scritta con cui l’interposto,
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riconosciuta l’intestazione fiduciaria, si impegna ad effettuare, in favore del fiduciante o di un terzo da lui indicato, il ritrasferimento finale. 7.1. Le Sezioni Unite ritengono che la dichiarazione ricognitiva dell’interposizione reale e promissiva del ritrasferimento non rappresenti il vestimentum per mezzo del quale dare vigore giuridico, con la forma richiesta dalla natura del bene, a quello che, altrimenti, sarebbe un nudo patto. Infatti, una volta ammessa la validità del patto fiduciario immobiliare anche se stipulato verbis, il fiduciario dichiarante è già destinatario di una obbligazione di ritrasferimento, e tale patto non scritto è il titolo che giustifica l’accoglimento della domanda giudiziale di esecuzione specifica dell’obbligo di ritrasferimento su di lui gravante. 7.1.1. D’altra parte, non sussistono ostacoli ad ammettere, a tutela del fiduciante deluso, il particolare rimedio di cui all’art. 2932 c.c.: avendo questa Corte chiarito che l’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto è applicabile non solo nelle ipotesi di contratto preliminare non seguito da quello definitivo, ma anche in qualsiasi altra fattispecie dalla quale sorga l’obbligazione di prestare il consenso per il trasferimento o la costituzione di un diritto, sia in relazione ad altro negozio, sia in relazione ad un atto o fatto dai quali detto obbligo possa discendere ex lege (Cass., Sez. II, 30 marzo 2012, n. 5160); ed avendo la dottrina riconosciuto la possibilità di ricorrere al meccanismo che l’art. 2932 c.c. tipicamente configura per ottenere in forma specifica l’esecuzione dell’obbligo, che il fiduciario si è assunto con la stipulazione del pactum, di ritrasferire al fiduciante – o a un terzo da lui designato – il bene o la posizione di titolarità. 7.2. Il fiduciante deluso che si affidi ad un patto stipulato verbis, tuttavia, potrebbe avere difficoltà di dimostrare in giudizio l’intervenuta stipulazione dell’accordo e di ottenere la sentenza costitutiva nei confronti del fiduciario infedele. 7.3. Si spiegano, allora, il ruolo e il significato della dichiarazione scritta del fiduciario. La dichiarazione ricognitiva dell’intestazione fiduciaria e promissiva del ritrasferimento è infatti un atto unilate-
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rale riconducibile alla figura della promessa di pagamento, ai sensi dell’art. 1988 c.c., la cui funzione è quella di dispensare “colui a favore del quale è fatta dall’onere di provare il rapporto fondamentale”, l’esistenza di questo presumendosi fino a prova contraria. Da tale dichiarazione non dipende la nascita dell’obbligo del fiduciario di ritrasferire l’immobile al fiduciante: essa non costituisce fonte autonoma di tale obbligo, che deriva anche se stipulato soltanto verbalmente, ma è produttiva dell’effetto di determinare la relevatio ab onere probandi e di rafforzare così la posizione del fiduciante destinatario della dichiarazione stessa, il quale, in virtù di questa, è esonerato dall’onere di dimostrare il rapporto fondamentale. Si è dunque in presenza di una astrazione processuale, perché il rapporto fondamentale deve bensì sempre esistere (in tal senso non vi è astrazione sostanziale o materiale), ma la sua esistenza, a seguito della dichiarazione ricognitiva e promissiva del fiduciario, è presunta iuris tantum, risolvendosi così la vicenda in un’inversione dell’onere della prova. In altri termini, rendendo la dichiarazione, il fiduciario non assume l’obbligazione di ritrasferimento, essendo egli già obbligato in forza del pactum fiduciae, ancorché stipulato verbalmente; assume, piuttosto, l’onere di dare l’eventuale prova contraria dell’esistenza, validità, efficacia, esigibilità o non avvenuta estinzione del pactum, così come dei suoi limiti e contenuto, ove difformi da quanto promesso o riconosciuto. Tale soluzione si pone in linea con l’insegnamento di questa Corte (Cass., Sez. I, 13 ottobre 2016, n. 20689), secondo cui la promessa di pagamento non costituisce autonoma fonte di obbligazione, ma ha solo effetto confermativo di un preesistente rapporto fondamentale, determinando, ex art. 1988 c.c., un’astrazione meramente processuale della causa debendi, da cui deriva una semplice relevatio ab onere probandi che dispensa il destinatario della dichiarazione dall’onere di provare quel rapporto, che si presume fino a prova contraria, ma dalla cui esistenza o validità non può prescindersi sotto il profilo sostanziale, venendo, così, meno ogni effetto vincolante ove rimanga giudizialmente provato che il rapporto suddetto non è mai sorto, o è invalido, o si è estinto, ovvero che esista una condizione
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o un altro elemento ad esso attinente che possa comunque incidere sull’obbligazione derivante dal riconoscimento o dalla promessa. Occorre evidenziare che dall’art. 1988 c.c., non è richiesto che promessa di pagamento e ricognizione di debito contengano un riferimento al titolo dell’obbligazione, e che le dichiarazioni titolate sono tuttavia ammissibili e riconducibili alla disciplina dettata da tale disposizione. Si è infatti affermato che la ricognizione di debito titolata, che comporta la presunzione fino a prova contraria del rapporto fondamentale, si differenzia dalla confessione, che ha per oggetto l’ammissione di fatti sfavorevoli al dichiarante e favorevoli all’altra parte: ne consegue che la promessa di pagamento, ancorché titolata, non ha natura confessoria, sicché il promittente può dimostrare l’inesistenza della causa e la nullità della promessa (Cass., Sez. III, 5 luglio 2004, n. 12285; Cass., Sez. III, 31 luglio 2012, n. 13689; Cass., Sez. II, 5 ottobre 2017, n. 23246). 8. Preme sottolineare che una prospettiva analoga è stata delineata, nell’udienza di discussione, dall’Ufficio della Procura Generale, parte pubblica chiamata, nel processo civile di cassazione, a collaborare all’attuazione dell’ordinamento in maniera indipendente rispetto agli interessi concreti delle parti. Il pubblico ministero ha infatti messo in luce che “non sussistono né principi generali dell’ordinamento, né disposizioni di legge che consentano di negare la possibilità di attribuire efficacia all’atto scritto unilaterale ricognitivo di un precedente negozio fiduciario tra le parti, che in esecuzione di tale accordo, raggiunto nel rispetto del principio di libertà delle forme, contenga l’impegno a trasferire un immobile”: “non i principi in materia di forma, dominati dal principio della libertà delle forme, le cui deroghe non sono suscettibili di applicazione analogica ex art. 14 preleggi”; “non la necessaria liceità causale e meritevolezza dell’impegno negoziale assunto dalle parti, poiché la prospettiva più favorevole alla libertà delle forme non impedisce tale apprezzamento da parte del giudice chiamato a dirimere le relative controversie”. 9. Conclusivamente, a risoluzione del contrasto di giurisprudenza sollevato con l’ordinanza interlocutoria della Seconda Sezione,
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le Sezioni Unite enunciano i seguenti principi di diritto: “Per il patto fiduciario con oggetto immobiliare che s’innesta su un acquisto effettuato dal fiduciario per conto del fiduciante, non è richiesta la forma scritta ad substantiam; ne consegue che tale accordo, una volta provato in giudizio, è idoneo a giustificare l’accoglimento della domanda di esecuzione specifica dell’obbligo di ritrasferimento gravante sul fiduciario”; “La dichiarazione unilaterale scritta del fiduciario, ricognitiva dell’intestazione fiduciaria dell’immobile e promissiva del suo ritrasferimento al fiduciante, non costituisce autonoma fonte di obbligazione, ma, rappresentando una promessa di pagamento, ha soltanto effetto confermativo del preesistente rapporto nascente dal patto fiduciario, realizzando, ai sensi dell’art. 1988 c.c., un’astrazione processuale della causa, con conseguente esonero a favore del fiduciante, destinatario della contra se pronuntiatio, dell’onere della prova del rapporto fondamentale, che si presume fino a prova contraria”. (omissis)
“LE PAROLE TRA NOI LEGGÈRE”: LA TOPICA DEI RIMEDÎ E IL PROBLEMA DELLA FORMA NEL PACTUM FIDUCIAE IMMOBILIARE (OSSERVAZIONI A CASS., SEZ. UN., SENT. N. 6459/2020)*
Luigi Nonne (Professore associato presso l’Università degli Studi di Sassari)
Sommario: 1. Premesse all’analisi del problema: la casistica fiduciaria. – 2. La fattispecie concreta. – 3. La ricostruzione sistematica della c.d. fiducia cum amico. – 4. La forma del pactum fiduciae immobiliare al vaglio dell’evoluzione giurisprudenziale. – 5. La sentenza n. 6459/2020 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione. – 6 (segue) Profili critici. – 7. La conferma dell’orientamento formalista alla prova del sistema. – 8. La natura giuridica e gli effetti della dichiarazione ricognitiva. – 9. Osservazioni conclusive.
1. Premesse all’analisi del problema: la casistica fiduciaria Nelle seguenti riflessioni, occasionate da un’assai dibattuta pronuncia della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, precisamente la sentenza n. 6459 del 6 marzo 20201, verrà discusso il profilo formale
* Questo lavoro costituisce la rielaborazione, con gli essenziali riferimenti bibliografici, dell’intervento dal titolo “Forma del pactum fiduciae immobiliare (Cass. Sez. Un. 6459/2020)” presentato il giorno 28 novembre 2020 al webinar “Il diritto vivente tra legge e giurisprudenza”. 1 Vedila in Nuova giur. civ. comm., 2020, pp. 859-866, con commento di C. Natoli, Forma e struttura dei negozi fiduciari immobiliari: la soluzione delle Sezioni Unite e le suggestioni dell’esperienza notarile, ivi, pp. 851-859; in I Contratti, 2020, pp. 257-264, con nota di U. Carnevali, Le Sezioni unite sulla forma del pactum fiduciae con oggetto immobiliare, ivi, pp. 265-270; in Il Corr. giur., 2020, pp. 589-595, con osservazioni di A. Gentili, Un dialogo con la giurisprudenza sulla forma del “mandato fiduciario” immobiliare, ivi, pp. 596-611; in Nota-
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del negozio fiduciario, in quanto oggetto precipuo degli argomenti prospettati dalla Suprema Corte. Ritengo, però, che una siffatta particolare prospettiva possa costituire anche un punto di osservazione privilegiato per verificare, in termini più generali, il progressivo distacco della giurisprudenza, anche su impulso di certa parte della dottrina, dall’approccio dogmatico-sistematico in favore di una più netta opzione verso la “topica dei rimedî”2. Che una tale via sia percorribile con esiti positivi mi pare fin d’ora lecito dubitare; se, poi, essa costituisca un’ulteriore fase di quella che è stata suggestivamente definita come “eclissi del diritto civile”3, lo si potrà verificare là dove la tendenza che essa esprime giungerà a consolidarsi effettivamente. Ciò premesso, prima di esaminare nel dettaglio gli argomenti e la conclusione cui, rispettivamente, fanno ricorso e pervengono le Seriato, 2020, pp. 282-289, con nota di U. Morello, La “ricognizione” degli accordi fiduciari, ivi, pp. 290-293. La sola massima si rinviene in Imm. & propr., 2020, con osservazioni di M. Monegat, Il pactum fiduciae immobiliare non richiede la forma scritta quando è accompagnato da una dichiarazione contenente la promessa del fiduciario di trasferire lo stesso immobile al fiduciante che perciò può agire ex art. 2932 c.c., ivi, pp. 257-259. Cfr. anche L. Collura, Negozio fiduciario: la forma del pactum fiduciae secondo le Sezioni Unite, in Studium iuris, 2020, pp. 687-693; V. De Lorenzi, Validità del patto fiduciario immobiliare con forma verbale: la sentenza delle Sezioni Unite, 6 marzo 2020, n. 6459. Note critiche, in Banca borsa tit. cred., 2020, I, pp. 484515; D. Muritano, Le Sezioni Unite intervengono sulla forma del patto fiduciario immobiliare, in Soc. e contr., bil. e rev., 2020, pp. 14-22; R. Lenzi, Struttura e forma del pactum fiduciae nella ricostruzione delle Sezioni Unite, in Nuove leggi civ. comm., 2020, pp. 1107-1130; A. Reali, Le Sezioni Unite sulla forma della fiducia immobiliare, tra trasparenza e riservatezza, in Nuova giur. civ. comm., 2020, pp. 957-969; C. Cicero, La forma del negozio fiduciario in materia immobiliare, in Riv. not., 2021, pp. 312-329. 2 Intendo tale espressione come comprensiva di quella pluralità di considerazioni, ormai divenute consuete nel ragionamento giurisprudenziale, che fanno leva in via esclusiva sull’esigenza di tutela dei soggetti interessati e che vengono consapevolmente ribadite anche a costo di incrinare la coerenza del sistema (e di prospettare, come si vedrà, soluzioni che, contraddicendo le premesse, si rivelano operativamente insostenibili). 3 Il riferimento, ictu oculi avvertibile, è a C. Castronovo, Eclissi del diritto civile, Milano, 2015, passim.
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zioni Unite, merita illustrare, seppure sinteticamente, le varie letture che, in decenni di elaborazione dottrinale e a fronte della varietà di indirizzi presente nella giurisprudenza4, si sono attestate in materia di fiducia, le quali letture costituiscono lo sfondo ove si inscrive la pronuncia in commento. Difatti, nonostante il caso su cui si appunta l’attenzione nomofilattica della Cassazione si riferisca alla forma del solo patto di trasferimento (nella fiducia statica) o ritrasferimento (nella fiducia dinamica), e non della pluralità di negozî in cui si articola l’operazione fiduciaria, in realtà una precisa presa di posizione di natura generale in questo àmbito può dirsi sposata dalla Suprema Corte5, nei termini che appresso tenterò di descrivere. Anzitutto, sono presenti nel provvedimento alcuni rilievi in merito alla struttura e alla funzione del c.d. negozio fiduciario, i cui contenuti possono dirsi ormai acquisiti nella trattazione della relativa fattispecie. Alla ricostruzione, innovativa ma densa di profili problematici6, in base alla quale gli atti in cui si articola l’operazione fiduciaria sarebbero caratterizzati da una causa unitaria, per l’appunto Puntualmente riepilogati nella sentenza n. 6459/2020, rispettivamente ai §§ 3.2 e 3.3 della motivazione. 5 In passato, peraltro, la Cassazione, nell’affrontare il problema della prova inerente al pactum fiduciae, aveva affermato l’ininfluenza, per impostarne la soluzione, di individuare la relativa struttura formale: così Cass., Sez. II, sent. 21 novembre 1988, n. 6263, in Foro it., 1991, cc. 2495-2506, con nota di G. Vettori, La prova del pactum fiduciae, ivi, cc. 2496-2505, il quale, per contro, afferma espressamente la rilevanza della qualificazione concernente il pactum rispetto alla sua prova, dal momento che l’interprete dovrà valutarne la natura di patto aggiunto o contrario al contenuto di un documento (in ordine all’art. 2722 c.c.) e – ciò che assume particolare importanza per la questione in esame – accertare se per esso sussista un requisito formale il quale renda applicabile l’art. 2725 c.c., con le sue ancor più rigorose limitazioni alla prova per testi. 6 Non ultima, l’ipotizzata contraddizione con il principio di tipicità dei diritti reali, già messa (severamente) in luce da S. Pugliatti, Fiducia e rappresentanza indiretta, in Diritto civile. Metodo-Teoria-Pratica. Saggi, Milano, 1951, pp. 201333, alle pp. 270-278, il quale afferma espressamente che la proprietà fiduciaria, in quanto proprietà formale e strumentale, rivela una contraddizione tra il sostantivo e l’aggettivo che l’accompagna tale per cui essa sarebbe qualcosa di affatto diverso rispetto alla proprietà legislativamente prevista e conformata, così da potersi ammettere solo là dove la stessa legge intervenisse a regolarla (il che, all’evidenza, non è). 4
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la causa fiduciae7, si contrappone l’orientamento che vede in questa operazione il risultato del collegamento tra un atto traslativo, volto all’attribuzione del bene dal fiduciante al fiduciario, e un patto avente natura obbligatoria, fonte del vincolo per il fiduciario di rispettare le istruzioni, inerenti all’uso e alla destinazione del bene, fornitegli dal fiduciante. Si tratterebbe, in particolare, di un (mero) fenomeno, e non di una categoria giuridica, ove la posizione acquisita dal fiduciario eccede, come mezzo, lo scopo per cui essa è programmata dalle parti8, il che confina la fiducia nell’irrilevanza dei motivi9. Ciò premesso, nota e consolidata è, anzitutto, la rappresentazione del fenomeno fiduciario nei termini di una casistica10, della quale, alle partizioni generali in fiducia cum amico e cum creditore, fiducia dinamica, statica spuria e statica classica, fiducia romanistica e germanistica, si danno giustificazioni sistematiche radicalmente contrapposte in riferimento all’autonomia e alla compatibilità di esse
7 Cfr. C. Grassetti, Del negozio fiduciario e della sua ammissibilità nel nostro ordinamento giuridico, in Riv. dir. comm., I, pp. 345-378, spec. pp. 377-378, ove, con riferimento alla causa fiduciae, si afferma che «questa causa è atipica nel senso che attraverso l’elemento di fatto di ogni negozio fiduciario le parti perseguono un intento che non è dal legislatore previsto in via specifica. E detto intento, almeno per i casi di fiducia cum amico, è non tanto un dare per riavere, quanto un dare per aver da riavere, o per far avere ad altri» (p. 378). 8 Per questa classica affermazione si v. S. Pugliatti, Fiducia e rappresentanza indiretta, cit., p. 251, che pone criticamente in luce la difficoltà di un approccio quantitativo insito nella formula per cui il mezzo sarebbe più esteso di quanto necessario per il conseguimento dello scopo previsto. In particolare, si evidenzia anzitutto la difficoltà di raffrontare i varî mezzi giuridici e di individuare le modalità per misurarne l’ampiezza, oltre poi a doversi necessariamente determinare le conseguenze della diversa estensione dei mezzi sugli scopi (ciò che, in base all’attuale stato della scienza giuridica, appare all’Autore arduo da effettuarsi in un’ottica meramente quantitativa). 9 Così F. Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile9, Napoli, 2012, pp. 179-182, secondo cui deve escludersi che la c.d. causa fiduciae possa, nei termini sopra esposti, rendere ammissibile il relativo negozio nel nostro ordinamento, in quanto la medesima si risolverebbe in una arbitraria e non consentita astrazione parziale dalla causa del negozio tipico (conseguendone, allora, che essa non sarebbe nulla più che un motivo, inidoneo a influenzare l’atto cui accede). 10 Così A. Gentili, La forma scritta nel patto fiduciario immobiliare, in Il Corr. giur., 2019, pp. 1475-1480, alla p. 1476.
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con il nostro ordinamento. Se poniamo mente alla dicotomia tra fiducia cum creditore e cum amico consegnataci dalla tradizione, già possiamo notare come, in realtà, non si rinvenga alcunché di fiduciario nel primo termine dell’alternativa. In effetti, il trasferimento di un cespite del debitore in proprietà del creditore allo scopo di garantire quest’ultimo nell’ipotesi di inadempimento11 testimonia l’esatto contrario di un intento fondato sulla fiducia, in quanto lo scopo pratico perseguito dalle parti è il rafforzamento della tutela creditoria in base ad un’operazione su cui, peraltro, incombe di per sé il sospetto di violare il divieto di patto commissorio. In assenza di adeguati meccanismi di riequilibrio, allora, il consolidamento della titolarità del bene in capo al creditore nel momento in cui non vi sia adempimento del debito – al quale si suole assegnare il compito di fungere da condizione risolutiva dell’acquisto o sospensiva dell’impegno a ritrasferire – fulmina di nullità, ex art. 2744 c.c., una siffatta (s)fiducia12, a tacere di ulteriori profili di dubbia integrazione della medesima nel sistema civilistico. Infine, con riguardo alla bipartizione tra fiducia romanistica, ove parte essenziale dell’operazione è il mutamento della proprietà sul bene dal fiduciante al fiduciario, e fiducia germanistica, in base alla quale non muta l’intestatario che, peraltro, ad opera di un c.d. negozio di autorizzazione, può consentire ad altro soggetto di compiere atti di disposizione sul proprio bene13, la sostanziale creazione
Trasferimento che è essenziale nella tipologia di fiducia in discorso, la quale, allora, si può caratterizzare esclusivamente in senso dinamico, a differenza della fiducia cum amico di cui è ipotizzabile anche la variante statica (classica e spuria). 12 In termini generali, e a prescindere dallo specifico discorso affrontato nel testo, si fa riferimento a un modello “sfiduciario” là dove sussista il ricorso alla minaccia e all’esercizio della coazione (quindi, in un àmbito riservato espressamente alla dinamica del diritto); cfr. in questo senso T. Greco, Il diritto della fiducia, in A. Petrucci (a cura di), I rapporti fiduciari: temi e problemi, Torino, 2020, pp. 195-225, spec. pp. 197-203. 13 Si v. anche R. Sacco, voce Fiducia, in Dig. disc. priv., sez. civ., Aggiornamento *******, Milanofiori Assago, 2012, pp. 511-514, il quale descrive la fiducia germanistica come un modello in cui «il fiduciante garantisce le proprie ragioni in modo più automatico, sottoponendo il diritto del fiduciario ad una condizione risolutiva, che maturerà in caso d’infedeltà» (p. 511). 11
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in virtù dell’autonomia privata di un diritto reale atipico, consentita nell’ordinamento tedesco dal § 185 BGB ma esclusa nel nostro, impedisce di dare ingresso a tale variante del fenomeno nelle operazioni fiduciarie ammesse dal sistema italiano14. Prima di procedere a illustrare i tratti salienti della fiducia cum amico, però, è opportuno riferire del caso da cui prende le mosse la decisione in esame, così da poterne più efficacemente inserire le peculiarità nel contesto che, a un tal tipo di fiducia, guarda in modo significativo.
2. La fattispecie concreta Volendo fornire una sommaria descrizione della vicenda in commento, va considerato che il profilo fattuale, e segnatamente il particolare atteggiarsi in concreto degli interessi facenti capo ai soggetti coinvolti, ha condizionato in maniera evidente la Suprema Corte verso la soluzione del problema sottopostole. La controversia trae origine da un accordo nel quale Tizio, il fratello Caio con la propria consorte e la vedova di un terzo fratello Sempronio avevano stabilito che marito, moglie e cognata vedova acquistassero, con denaro del primo fratello, una pluralità di beni immobili, impegnandosi a trasferire al sovventore (o alla persona da lui indicata) i suddetti beni. Poiché gli intestatari non avevano dato corso al trasferimento promesso, il fornitore della provvista aveva agito in giudizio per sentire dichiarare l’interposizione reale e, per l’effetto, vedersi attribuita la titolarità del bene. Cfr. per tutti sul punto A. Gentili, Un dialogo con la giurisprudenza sulla forma del “mandato fiduciario” immobiliare, cit., p. 600. Non costituiscono un’eccezione a tale assunto le società fiduciarie, le quali compiono atti di gestione delle partecipazioni ad esse intestate, mentre il titolare effettivo del diritto rimane l’unico legittimato ad esperire le azioni a tutela del medesimo; difatti, si è in presenza di un mandato senza rappresentanza nei confronti delle suddette società. Per tale affermazione, che ormai può dirsi consolidata, cfr. da ultimo V. Occorsio, Il segreto e la forma del patto fiduciario, in Nuovo dir. civ., 2020, pp. 201-220, spec. pp. 209-210. 14
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Nel corso del giudizio di primo grado il secondo fratello e la moglie stipulavano una transazione con l’attore, in base alla quale i primi trasferivano gli immobili a questi che, per contro, si obbligava a corrispondere loro un rimborso pari a euro 25.000,00. Avverso la sentenza di primo grado, che accoglieva la domanda nei confronti della cognata vedova, la stessa proponeva appello lamentando che: i) la scrittura con cui, secondo la prospettazione dell’attore, i convenuti avevano affermato la natura fiduciaria dell’intestazione a loro favore, in quanto essa era da qualificarsi come mero atto confessorio non era sufficiente ad integrare la forma scritta del pactum fiduciae, il quale, nel caso di specie, aveva ad oggetto beni immobili; ii) la transazione intervenuta tra l’appellato e i restanti convenuti in primo grado non vincolava l’appellante, poiché la medesima era terza rispetto alla suddetta transazione; iii) nel momento in cui la scrittura ricognitiva del pactum era stata redatta, il diritto dell’appellato al trasferimento dell’immobile si era estinto per prescrizione, che l’appellante non aveva mai rinunziato a fare valere. La Corte d’appello territorialmente competente confermava la decisione del giudice di prime cure, così che, avverso tale ultima sentenza, la soccombente proponeva ricorso in Cassazione, esponendo quattro motivi di censura di cui in questa sede viene discusso esclusivamente il primo. La ricorrente, difatti, ha denunziato la violazione e/o la falsa applicazione di norme di diritto (art. 360, n. 3, c.p.c.), precisamente dell’art. 1325 c.c., comma 1 (sic!), n. 2, degli artt. 1418, 1324 e 2697 c.c., nonché dell’art. 115 c.p.c., oltre alla nullità della sentenza (ai sensi dell’art. 360, n. 4, c.p.c.). La censura, pertanto, si è indirizzata verso l’approccio del provvedimento impugnato al problema causale della fiducia (specie con riguardo alla dichiarazione ricognitiva della medesima, la quale, come atto unilaterale tra vivi ex art. 1324 c.c., vede applicarsi in quanto compatibili le norme sul contratto in generale), con i relativi riflessi in termini di invalidità. Inoltre, a fondamento del ricorso viene addotta anche l’errata valutazione delle prove (da qui il riferimento al relativo onere ex art. 2697 c.c., nonché al principio di disponibilità delle suddette
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prove sancito dall’art. 115 c.p.c.). Secondo la ricostruzione della ricorrente, in particolare, la Corte locale aveva proceduto a distinguere, nella scrittura ricognitiva del pactum fiduciae, tre elementi: i) il riconoscimento in capo al resistente della proprietà degli immobili acquistati dalla ricorrente a nome proprio e, successivamente, ultimati dal primo; ii) il riconoscimento dei lavori effettuati dal resistente e dei rimborsi da questi corrisposti alla ricorrente per spese e imposte; iii) l’impegno da parte della ricorrente a trasferire, su semplice richiesta del congiunto, gli immobili in discorso, allo stesso resistente o a persona da questi indicata. Sulla base di tale prospettazione, nella sentenza di secondo grado era stata affermata la sussistenza di un’interposizione reale di persona (giacché l’alienante vendette effettivamente gli immobili al fratello e alle cognate dell’attore di prime cure, il quale aveva reso disponibile la provvista per l’acquisto), per cui il patto fiduciario, che implicava un obbligo a contrarre per il ritrasferimento al fiduciante, dovendosi equiparare al contratto preliminare, ai sensi dell’art. 1351 c.c. avrebbe dovuto essere stipulato, a pena di nullità, in forma scritta. Poiché una tale forma non era stata osservata nel caso di specie, il suddetto patto era necessariamente nullo e, pertanto, nessun obbligo di ritrasferimento coercibile ai sensi dell’art. 2932 c.c. poteva dirsi sussistere in capo alla ricorrente, in quanto non era dato ravvisarne la fonte. Tuttavia, in séguito all’affermazione per cui il valore confessorio dell’atto ricognitivo lo rendeva inidoneo a comprovare la proprietà dei beni immobili, la Corte d’appello, a parere della ricorrente, avrebbe compiuto un salto logico talmente significativo da rendere contraddittoria la motivazione della sentenza impugnata – o, comunque, sarebbe incorsa in gravi errori giuridici – nel momento in cui ha assegnato alla terza parte della scrittura, relativa all’impegno della ricorrente al ritrasferimento del compendio immobiliare in capo al sovventore, il valore di una dichiarazione unilaterale di per sé sufficiente a costituire fonte dell’obbligo di ritrasferire; difatti, si lamenta, tale valore è stato attribuito senza valutare il difetto di causa di un siffatto negozio, dato che il requisito causale non poteva essere ravvisato, per relationem, nell’esistenza
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di un patto fiduciario anteriore all’acquisto dei beni, esistenza che la stessa Corte locale aveva, prima, negato. La Sezione Seconda della Cassazione, chiamata a valutare il ricorso, sulla base della affermata sussistenza di un contrasto tra l’orientamento tradizionale, richiedente la forma scritta del patto fiduciario relativo ai diritti immobiliari, e la nuova prospettiva che attenua il rigore formale di tali negozî15, con ordinanza del 5 agosto 2019, n. 2093416, ne ha rimesso alle Sezioni Unite la composizione17.
3. La ricostruzione sistematica della c.d. fiducia cum amico La vicenda concreta palesa, in effetti, molteplici affinità dell’operazione programmata dalle parti con una tra le varianti in cui si articola la c.d. fiducia cum amico, in merito alla quale è bene fornire qualche nota per sottoporre poi a una più consapevole disamina la posizione assunta in merito dalla Suprema Corte. La tripartizione della suddetta fiducia cum amico18 in fiducia dinamica – caratterizzata dal trasferimento di un bene dal fiduciante
Sulla quale vedi infra il § 3. La si legge in Il Corr. giur., 2019, pp. 1473-1475, con nota di A. Gentili, La forma scritta nel patto fiduciario immobiliare, cit.; in I Contratti, 2020, pp. 57-59, con nota di U. Carnevali, Sulla forma del pactum fiduciae con oggetto immobiliare, ivi, pp. 59-63; in Giur. it., 2020, pp. 283-285, con nota di C. A. Valenza, Forma del patto fiduciario avente ad oggetto beni immobili, ivi, pp. 285-291. Per una visione di insieme si v., inoltre, G. De Nova, La forma del negozio fiduciario in materia immobiliare, in Jus civile, 2019, pp. 557-559. 17 Più precisamente, la Seconda Sezione ha investito il Primo Presidente della questione inerente alla risoluzione del contrasto, il quale ha poi disposto la pronuncia della Corte a Sezioni Unite ai sensi dell’art. 374, 2° co., c.p.c., sia poiché si tratta di questione di diritto decisa in senso difforme dalle sezioni semplici (anche se tale assunto è stato contestato da autorevole dottrina: cfr. A. Gentili, La forma scritta nel patto fiduciario immobiliare, cit., p. 1478, il quale, pur riconoscendo la sussistenza di questioni precedentemente decise in senso difforme, nega la possibilità di ravvisare un divergente orientamento frutto di possibili argomentazioni alternative), sia in quanto essa presenta profili di particolare importanza. 18 L’ipotesi della fiducia cum amico ricorre nel caso che ha costituito l’occasione per la pronuncia delle Sezioni Unite, le quali ne hanno fornito una descri15 16
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al fiduciario affinché quest’ultimo ne sia intestatario servendosene, se del caso19, secondo le indicazioni dell’alienante per poi ritrasferirglielo20 –, fiducia statica spuria – là dove, cioè, il fiduciario acquista, con provvista fornita dal fiduciante, un bene mobile o immobile allo scopo di attribuirlo a quest’ultimo o ad altra persona da lui designata21 – e fiducia statica classica o pura22 – che vede il titolare di un bene farne l’uso concordato con un terzo nell’interesse di questi23 – consente di impostare in termini strutturali il problema del fenomeno fiduciario che, come risulta anche dalla sentenza delle Se-
zione affermando che «la creazione della titolarità è funzionale alla realizzazione di una detenzione e gestione del bene nell’interesse del fiduciante ed in vista di un successivo ulteriore trasferimento della titolarità, allo stesso fiduciante o a un terzo» (sent. n. 6459/2020, § 3.1. della motivazione). 19 Difatti, come pone giustamente in evidenza L. Collura, Negozio fiduciario: la forma del pactum fiduciae secondo le Sezioni Unite, cit., p. 689, lo scopo del trasferimento dal fiduciante al fiduciario può anche risolversi nel solo successivo ritrasferimento all’originario titolare. 20 Per una sintesi degli indirizzi e dei problemi inerenti al negozio fiduciario tradizionalmente inteso in senso dinamico si v. M. Patrone, Variazioni e forma del “negozio fiduciario”, in Nuovo dir. civ., 2020, pp. 397-430, alle pp. 399-408. 21 Il profilo traslativo, pertanto, è qui presente nei termini del solo trasferimento finale dal fiduciario al fiduciante – mancando, allora, un previo trasferimento strumentale dal fiduciante al fiduciario – e, con tali caratteristiche, esso è un aspetto comune anche alla c.d. fiducia dinamica. Cfr. M. Patrone, Variazioni e forma del “negozio fiduciario”, cit., pp. 412-416. 22 Sulla fiducia statica rinvio in termini riassuntivi sempre a M. Patrone, Variazioni e forma del “negozio fiduciario”, cit., pp. 411-412. Essa pare essere stata tralasciata dalla sentenza n. 6459/2020 con specifico riferimento alla descrizione della fiducia cum amico, in quanto, nel § 3.1 della motivazione (citato supra alla nota 18), si suppone un duplice atto traslativo, per cui il Collegio, nel visualizzare l’antecedente fattuale della suddetta fiducia cum amico, ne ha preso in considerazione la sola variante dinamica o statica spuria. Ciò, peraltro, non si accorda con la visione fatta propria dalla Suprema Corte e improntata alla valenza disciplinare del mandato senza rappresentanza, di cui la fiducia statica pura rappresenta una manifestazione palese. 23 Si v. M. Patrone, Variazioni e forma del “negozio fiduciario”, cit., p. 429, il quale, a proposito della forma nuncupativa, osserva come nella fiducia statica pura forse non siano ravvisabili le esigenze di responsabilizzazione del consenso consegnate dal legislatore all’art. 1351 c.c., proprio in quanto il fiduciario si impegna a trasferire (ma, in effetti, anche a gestire in una direzione concordata con il fiduciante) un bene proprio e non all’uopo trasferito o acquistato.
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zioni Unite, mostra un’indubbia similitudine con il mandato senza rappresentanza. Il fatto che in entrambe le ipotesi sia dato ravvisare un’interposizione reale di persona, in quanto i rapporti tra il mandatario-fiduciario e i terzi escludono qualsivoglia coinvolgimento del mandante-fiduciante24, non esclude, peraltro, che si debba individuare un discrimen tra i due negozî e, sulla base di ciò, determinarne la differente disciplina25. Concentrando per ora l’attenzione sul primo profilo, si può in questa sede confermare l’ipotesi in base alla quale, anche con riferimento alle relative nozioni (legislativa del mandato, ex art. 1703 c.c., e storico-dottrinale della fiducia), ciò che rileva per il mandante è l’attività gestoria del mandatario, mentre per il fiduciante scopo principale è l’intestazione del bene al fiduciario26. In altre parole, mentre la causa del mandato può descriversi come causa di azione, quella della fiducia si presenta come causa di posizione (che vede disgiunta la titolarità formale da quella sostanziale del bene)27. Sotto l’aspetto disciplinare, la distinzione
Con le eccezioni segnalate negli artt. 1705, 2° co., e 1706, 1° co., c.c., sulle quali si v. A. Luminoso, Il mandato, Torino, 2000, rispettivamente alle pp. 84-88 e 88-91. 25 Difatti, nonostante l’affermazione contenuta nella sentenza n. 6459/2020 in base alla quale mandato e fiducia, pur essendo differenti, si vedrebbero applicare le medesime regole in virtù della similitudine che li accomuna (specie nella variante della fiducia statica spuria), in realtà, se si concepisce un’autonomia ontologica dei relativi negozî, essi dovrebbero disciplinarsi distintamente. 26 In tal senso, con la consueta efficacia, cfr. R. Sacco, voce Fiducia, cit., spec. pp. 513 (testo) e 514 (nota 20). Argomenta da questo rilievo le opportune implicazioni sul distinguo tra attività di gestione e mera titolarità per conto altrui V. Occorsio, Il segreto e la forma del patto fiduciario, cit., pp. 206-210, secondo il quale «La prestazione del fiduciario consiste nell’asservimento della propria sfera giuridica ad un’altra sfera giuridica, quella del fiduciante, tramite la conservazione della titolarità per suo conto. La figura del fiduciario si distingue da quella del mandatario perché la sua prestazione soddisfa l’interesse del creditore non tramite un facere, come nel mandato, ossia tramite il ‘compimento’ di atti giuridici, ma tramite un non facere, più precisamente tramite l’avere, ossia il mantenimento della titolarità per conto altrui» (questa citazione si rinviene alla p. 208). Cfr., inoltre, Id., Titolarità e gestione nei rapporti fiduciari, Napoli, 2020, passim e, riassuntivamente, pp. 110-120, ove maggiori sviluppi in termini dogmatici della succitata distinzione. 27 R. Sacco, voce Fiducia, cit., p. 514, nega peraltro che la fiducia abbia una causa in senso proprio, in quanto essa possiederebbe esclusivamente una causa 24
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ipotizzata non rimane priva di conseguenze, le quali attengono ai limiti di integrazione del mandato, con l’ampiezza di rimedî che lo contraddistingue, rispetto alla fiducia; questa, infatti, ontologicamente non può aspirare al medesimo livello di tutela di cui gode il mandato in quanto essa è radicata nel fatto e nella dimensione etico- sociale, piuttosto che in quella giuridica28. Accogliendo la prospettiva causale dell’operazione, come già anticipato, i confini proprî della casistica fiduciaria si radicano nelle ipotesi in cui ricorre un interesse alla titolarità, piuttosto che alla gestione. Tale interesse, in effetti ravvisabile nella fiducia cum creditore – a prescindere dai profili sopra evidenziati concernenti la compatibilità di un siffatto schema con alcuni princìpi fondamentali positivamente espressi – atteso che la garanzia è qui integrata, per l’appunto, tramite la titolarità, può invece escludersi con riguardo alla fiducia cum amico nella sua versione statica, in quanto la destinazione di un proprio bene a scopi e usi individuati ab extrinseco fa senz’altro supporre la preminenza, se non l’esclusività, dell’interesse gestorio. Quanto, poi, al modello dinamico e a quello statico spurio, la qualificazione in termini fiduciarî o, all’opposto, la riconduzione al mandato senza rappresentanza, in astratto pianamente integrabili nella struttura di questi modelli, saranno effettuate all’esito di un’interpretazione complessiva dell’operazione economica divisata, così da fare emergere gli interessi ad essa sottesi. Anticipando un riferimento sul punto alla sentenza in discorso, da parte di alcuni commentatori si è fatto opportunamente notare come le Sezioni Unite, pur ritenendo di doversi diffondere sul-
soggettiva e, in quanto tale, inidonea a giustificare il negozio (pur se l’accettazione del bene – nella fiducia dinamica – o l’iniziata esecuzione – in merito alla fiducia statica –, secondo le regole proprie del mandato gratuito, vincolano alla gestione diligente). 28 R. Sacco, voce Fiducia, cit., p. 511, non concorda con l’esclusione dall’àmbito giuridico della fiducia, sotto il profilo della vincolatività del pactum in cui essa si sostanzia (salvo, però, dichiarare l’assenza di causa del medesimo pactum e ricondurre l’obbligo di gestire diligentemente ad opera del fiduciario all’accettazione di quest’ultimo, come sopra precisato, alla p. 514). Per una recente rilettura della questione cfr. T. Greco, Il diritto della fiducia, cit., passim.
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le varie ricostruzioni del negozio fiduciario sotto il profilo causale che vengono accolte in dottrina e in giurisprudenza, ne abbiano poi rilevato la non decisività ai fini della questione da dirimere29; per contro, l’accoglimento dell’una o dell’altra proposta relativa alla natura della fiducia potrebbe, in realtà, influenzare sensibilmente la soluzione del problema rilevante in concreto, ossia l’aspetto formale del patto30. Per vero, la sentenza in discorso imposta la descrizione della fiducia esaltandone le similitudini con il mandato senza rappresentanza e lasciando sostanzialmente in ombra il profilo dell’intestazione31, ma, come si è dianzi rilevato, il caso concreto motiva la riconduzione del patto che in esso emerge al mandato senza rappresentanza, dal momento che i profili gestorî emergono con maggiore nettezza rispetto all’esigenza di scindere la titolarità formale da quella sostanziale32.
29 «Il fondamento causale e l’inquadramento teorico del negozio fiduciario possono rimanere in questa sede soltanto accennati, perché il quesito posto dall’ordinanza interlocutoria della Seconda Sezione pone in realtà un problema pratico relativo alla individuazione di una regola di dettaglio la cui soluzione prescinde dall’adesione all’una o all’altra tra le tesi appena esposte» (sent. n. 6459/2020, § 4 della motivazione). 30 Come dimostra puntualmente A. Gentili, Un dialogo con la giurisprudenza sulla forma del “mandato fiduciario” immobiliare, cit., pp. 600-601. 31 Peraltro, un chiarimento significativo sotto l’aspetto della ricostruzione strutturale del negozio fiduciario è rinvenibile in quella recente giurisprudenza a mente della quale «qualora tra due parti intercorra un accordo fiduciario, esso comprende l’intera operazione e la connota di una causa unitaria, quella … di realizzare il programma fiduciario, mentre per la sua realizzazione possono essere posti in essere diversi negozi giuridici, che a seconda dei casi e degli obiettivi che con l’accordo fiduciario ci si propone di realizzare possono essere diversi sia nel numero che nella tipologia» (Cass., Sez. III, 15 maggio 2014, n. 10633). Tale pronuncia, citata dalla stessa Cass., Sez. Un., sent. n. 6459/2020, al § 3.3. della motivazione, si può leggere in I Contratti, 2015, pp. 12-16, con commento di M. Patrone, (s. t. ma) Impegno unilaterale del fiduciario al trasferimento del bene ed esecuzione in forma specifica, ivi, pp. 16-24. Sul provvedimento si v. anche E. Camilleri, L’impegno unilaterale al trasferimento dei beni quale dispositivo idoneo (ed eseguibile in forma specifica) ai fini attuativi del “pactum fiduciae”, in Dir. civ. cont., 29 marzo 2015. 32 In ciò, difatti, assumono un peculiare rilievo gli accordi transattivi inerenti ai rimborsi per le spese occorse ai fiduciarî – rectius, mandatarî – nella gestione del bene; cfr. supra § 2.
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Proprio la disamina del profilo formale del mandato senza rappresentanza avente ad oggetto l’acquisto di immobili ha segnato la prima tappa del percorso che ha portato la giurisprudenza teorica a considerare diversamente il medesimo aspetto anche per il pactum fiduciae.
4. La forma del pactum fiduciae immobiliare al vaglio dell’evoluzione giurisprudenziale L’articolato percorso che ha condotto la Cassazione a mutare indirizzo relativamente alla forma del pactum fiduciae immobiliare33 origina dalla sentenza n. 20051 del 2 settembre 201334. Con tale provvedimento, discostandosi dai precedenti, la Terza Sezione della Suprema Corte ha ritenuto di escludere il mandato immobiliare dal campo applicativo delle regole formali indicate agli artt. 1325, n. 4, e 1350 c.c.35 In tal modo, per la validità ed efficacia del negozio anche ai fini del rimedio ex art. 2932 c.c., basterebbe che il mandato
Sia qui sufficiente, per una impostazione generale del problema, il richiamo a G. B. Ferri, Forma e autonomia negoziale, in Quadrimestre, 1987, pp. 313-329, e a P. Perlingieri, Forma dei negozi e formalismo degli interpreti, Napoli, 1987, passim e in part. il cap. I (pp. 11-63). 34 Ma vedi anche Cass. civ., sez. II, sent. 1° aprile 2003, n. 4886, in Il Corr. giur., 2003, pp. 1041-1042, con nota di V. Mariconda, Una decisione della Cassazione “a critica libera” sulla rilevanza della intestazione fiduciaria di immobili, ivi, pp. 1042-1048. 35 Si era autorevolmente espresso in tal senso già M. Giorgianni, Sulla forma del mandato senza rappresentanza, in Studi in onore di Antonio Cicu, vol. I, Milano, 1951, pp. 413-429, il quale, alla p. 428, osserva come la non formalità del mandato possa ricevere conferma dal potere in capo al mandante di ratificare l’operato del mandatario il quale abbia ecceduto i limiti delle istruzioni ricevute, ai sensi dell’art. 1711, 1° co., c.c. In effetti, tale ratifica farà sorgere in capo al mandatario un obbligo di trasferimento, qualora si versi nelle ipotesi di cui all’art. 1706 c.c. e, peraltro, per essa non è prevista alcuna forma solenne. Trattandosi, poi, di un atto unilaterale del mandante, non può richiamarsi l’art. 1351 c.c., in quanto non vi sarebbe alcuna assunzione (volontaria) dell’obbligo da parte del mandatario, per cui la relativa fattispecie risulterebbe ultronea rispetto al contratto preliminare. 33
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fosse richiamato in modo sufficientemente specifico da una dichiarazione, ad esso successiva, con cui il mandatario riconosce l’obbligo di ritrasferire al mandante la proprietà del bene, in esecuzione dell’incarico ricevuto. Successivamente, con la sentenza n. 10633 del 15 maggio 2014, la stessa Terza Sezione ha esteso la chiave di lettura dell’interposizione reale di persona applicata al mandato anche al contratto fiduciario36, per cui può costituire valida fonte dell’obbligazione di ritrasferimento al fiduciante del bene immobile intestato al fiduciario anche una dichiarazione unilaterale scritta con cui questi, successivamente alla stipulazione verbis del pactum fiduciae, ne riconosce l’esistenza descrivendo in modo sufficientemente specifico il bene oggetto del patto37. La connessione tra i due mutamenti di indirizzo, allora, dà conto dell’esigenza posta dalla succitata ordinanza del 5 agosto 2019, n. 20934, con cui la Seconda Sezione ha investito le Sezioni Unite del compito di comporre il suddetto contrasto. All’interno di questo contesto si innesta la sentenza n. 6459/2020, che merita di essere esaminata, anzitutto, nei suoi contenuti sistematici e nelle argomentazioni con cui sviluppa e supporta i medesimi. All’esito, proverò a delineare taluni rilievi critici sia sotto il profilo dogmatico sia in merito alla sostenibilità operativa della soluzione cui perviene la Suprema Corte.
36 Si v. M. Graziadei, Proprietà fiduciaria e proprietà del mandatario, in Quadrimestre, 1990, pp. 1-13. 37 «La dichiarazione unilaterale scritta con cui un soggetto si impegna a trasferire ad altri la proprietà di uno o più beni immobili in esecuzione di un precedente accordo fiduciario non costituisce semplice promessa di pagamento ma autonoma fonte di obbligazioni se contiene un impegno attuale e preciso al ritrasferimento, e, qualora il firmatario non dia esecuzione a quanto contenuto nell’impegno unilaterale, è suscettibile di esecuzione in forma specifica ex art. 2932 cod. civ., purché l’atto unilaterale contenga l’esatta individuazione dell’immobile, con l’indicazione dei confini e dei dati catastali» (Cass., sent. n. 10633/2014, massima ufficiale).
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5. La sentenza n. 6459/2020 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione Con l’intervento suscitato dall’ordinanza di rimessione le Sezioni Unite, premessa l’ampiezza della casistica fiduciaria, hanno inteso comporre il contrasto giurisprudenziale demandato alla loro attenzione secondo una prospettiva innovata rispetto agli orientamenti contrapposti delle sezioni semplici38. Peraltro, oltre al quesito inerente alla forma del pactum fiduciae immobiliare, è stato posto l’interrogativo se possa essere valida fonte dell’obbligazione di ritrasferire soltanto un atto bilaterale, scritto e coevo all’acquisto del fiduciario, o se sia sufficiente un atto unilaterale e scritto, ma ricognitivo e posteriore, del fiduciario, fondato su un impegno espresso oralmente dalle parti. Merita esordire indicando il primo dei due principî di diritto che costituiscono l’esito dello sforzo argomentativo profuso dalla Suprema Corte e, su questa base, ripercorrerne le ragioni. Con precipuo riguardo alla questione formale, infatti, «Per il patto fiduciario con oggetto immobiliare che s’innesta su un acquisto effettuato dal fiduciario per conto del fiduciante, non è richiesta la forma scritta ad substantiam; ne consegue che tale accordo, una volta provato in giudizio, è idoneo a giustificare l’accoglimento della domanda di esecuzione specifica dell’obbligo di ritrasferimento gravante sul fiduciario». Tale risultato è stato raggiunto sulla base di alcuni passaggi che sintetizzo in questa sede: i) anzitutto, l’assimilazione del pactum fiduciae rispetto al contratto preliminare, prospettata dall’orientamento dominante e dalla quale discende la corrispondenza formale tra l’accordo che consacra il rapporto obbligatorio e l’atto a rilevanza reale di esecuzione del medesimo39, deve essere disattesa; ii) tale conse-
38 Ha colto l’occasione per fornire in merito spunti sistematici di notevole profondità G. Vettori, Sulla morfologia del contratto. Il patto fiduciario e le Sezioni Unite della Cassazione, in Pers. merc., 2020, pp. 161-170. 39 Ciò sulla base di un rapporto di corrispondenza biunivoca tra gli artt. 2932 e 1351 c.c., per cui, come il primo si attaglia a tutte le ipotesi di obbligo a con-
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guenza si fonda sull’impossibilità di ravvisare un’analoga struttura tra i due negozî (né, peraltro, essi presentano una funzione simile, il che esclude l’applicabilità al patto fiduciario della regola di forma dettata per il preliminare; iii) oltre alla insussistenza di una eadem ratio, impedisce il ricorso all’art. 1351 c.c. la natura eccezionale di tale disciplina, la quale, pertanto, non è estensibile in via analogica; iv) la corrispondenza strutturale e funzionale dalla quale ritrarre argomenti volti a risolvere il problema formale del pactum fiduciae si ha con il mandato senza rappresentanza40; v) per tale istituto si è chiarito che la forma del mandato, poiché questo è destinato a regolare i soli rapporti interni tra le parti, si esplica liberamente: difatti, da un lato, tale forma non è prevista in modo espresso dalla legge a pena di nullità ex artt. 1325, n. 4, e 1350 c.c., e, dall’altro lato, essa non può ricavarsi da imposizioni formali dettate a diverso riguardo in quanto, nell’alternativa tra contratti a struttura debole (costituiti dai soli accordo, causa ed oggetto) e contratti a struttura forte (in cui la forma prevista dalla legge assurge al rango di requisito essenziale ed indefettibile)41, il mandato senza rappresentantrarre per consentirne l’esecuzione forzata, così il secondo, che di quelle ipotesi costituisce il paradigma, esprimerebbe un principio da estendersi oltre la fattispecie del contratto preliminare, coinvolgendo allora anche il patto fiduciario (cfr. il riferimento all’indirizzo dominante esplicato in tal senso da Cass., Sez. Un., n. 6459/2020, § 6 della motivazione). 40 A. Gentili, Un dialogo con la giurisprudenza sulla forma del “mandato fiduciario” immobiliare, cit., p. 601, fa difatti notare che «il mandato assorbe senza residui tutti gli ingredienti della classica operazione fiduciaria, e cioè l’acquisto del bene dal mandante-fiduciante o dal terzo, l’incarico gestorio, la promessa di ritrasferimento, traducendoli rispettivamente nella somministrazione dei mezzi necessari per l’esecuzione (art. 1719 c.c.), nel compimento degli atti giuridici delegati (art. 1703 c.c.), nell’obbligo coercibile di ritrasferimento (art. 1706, comma 2, c.c.)». Conseguentemente, tale assimilazione comporta in modo inevitabile il venir meno della fiduciarietà come caratteristica (declamata, ma insussistente sotto il profilo qualificatorio) dell’operazione. 41 Il riferimento è agevolmente identificabile nelle dense pagine di N. Irti, Strutture forti e strutture deboli (Del falso principio di libertà delle forme), in Studi sul formalismo negoziale, Padova, 1997, pp. 137-158, spec. pp. 142-153 (ma già prima in Idola libertatis. Tre esercizi sul formalismo giuridico, Milano, 1985). Sulle riflessioni dell’Irti si vedano le chiose di B. Grasso, La forma tra regola ed eccezione (a proposito di un libro recente), in Rass. dir. civ., 1986, pp. 49-53, che ricostruisce
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za deve essere ascritto alla prima categoria; vi) ne consegue che, là dove il pactum fiduciae sia sufficientemente specifico con riguardo all’oggetto e possa darsene compiutamente prova, in caso di infedele esecuzione da parte del fiduciario con riguardo all’obbligo di (ri)trasferimento, il fiduciante può attivare il rimedio ex art. 2932 c.c. anche nell’ipotesi di patto orale.
6. (segue) Profili critici Il ragionamento prospettato dalle Sezioni Unite, pur suscitando condivisione per rilevanti aspetti (non ultimo, quello inerente alla natura ed agli effetti della dichiarazione ricognitiva posta in essere dal fiduciario42), si presta, peraltro, a talune obiezioni con riguardo ai passaggi argomentativi essenziali tramite cui perviene alla soluzione della forma libera da ascrivere al pactum fiduciae avente oggetto immobiliare. Merita, allora, affrontare il problema anzitutto in termini generali, verificando, seppure sinteticamente, la corretta impostazione dell’analisi cui sottoporre il requisito formale e, di séguito, calando i risultati in tal modo conseguiti nel contesto dei fatti sui quali è stata chiamata a pronunciarsi la Cassazione. Venendo al primo passaggio argomentativo, va anzitutto rilevato, sposando l’assunto di attenta dottrina, come, nel diritto dei contratti, una risposta al problema della forma possa essere fornita solo il rapporto regola-eccezione, con riferimento alla forma del contratto, in base ad una lettura innovata dell’art. 1325 c.c. Esso, difatti, conterrebbe due norme, delle quali l’una impone il requisito della forma prescritta dalla legge a pena di nullità (eccezione) e l’altra, invece, lo esclude (regola); conseguentemente, le previsioni che impongono uno specifico onere formale, delle quali l’Irti ha dimostrato la natura non eccezionale in merito ad un (inesistente) principio di libertà delle forme, sarebbero comunque derogatorie (e, in quanto tali, comunque eccezionali) della norma generale ove si esclude la forma ad substantiam. Cfr., inoltre, P. Vitucci, Applicazioni e portata del principio di tassatività delle forme solenni, in Aa.Vv., La forma degli atti nel diritto privato. Studi in onore di Michele Giorgianni, Napoli, 1988, pp. 809-830. 42 Come si vedrà infra al § 8.
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mediante l’esame dell’art. 1325 c.c. e delle regole inerenti alla circolazione dei beni43. Difatti, com’è noto, il requisito formale non coinvolge esclusivamente gli interessi dei contraenti ma, riverberandosi all’esterno del rapporto negoziale, mira a soddisfare interessi che pertengono a quanti da uno specifico accordo possono derivare la titolarità di diritti. Ora, la riflessione sui negozî di secondo grado, in relazione ai quali la giurisprudenza valorizza nettamente il succitato requisito formale, può orientare l’inquadramento della questione in esame, giacché, là dove non sussista una specifica previsione ai sensi dell’art. 1325, n. 4, c.c., solo la coerenza sistematica e l’analogia tra le vicende traslative immobiliari può giustificare l’opzione rigorista su cui si attestano le decisioni giudiziarie44. Un esplicito profilo di contraddizione – si potrebbe dire, in apicibus – nel ragionamento operato dalle Sezioni Unite, è stato allora rilevato45 in quanto, se per i suddetti negozî di secondo grado la coerenza e l’analogia fondate sul sistema sono costantemente poste alla base delle soluzioni giurisprudenziali, non si vede il perché, in merito al pactum fiduciae immobiliare, un siffatto argomentare sia mancato nella disamina della forma.
43 Così, espressamente, G. Vettori, Sulla morfologia del contratto. Il patto fiduciario e le Sezioni Unite della Cassazione, cit., pp. 166-167, il quale sottolinea come i princìpi di certezza e di stabilità non comportino un ampliamento delle tutele, ma esigano il rispetto di un’esigenza di ordine che responsabilizza chi contrae in vista di un effetto traslativo rilevante anche per i terzi (creditori o altre categorie interessate). 44 Lo esplicita puntualmente G. Vettori, Sulla morfologia del contratto. Il patto fiduciario e le Sezioni Unite della Cassazione, cit., p. 168, affermando che «Non esistono negozi tipici o atipici senza forma. L’assenza di una norma sulla forma non legittima la scelta per una forma libera, perché la soluzione va ricercata nella comprensione dell’art. 1325 n. 4 c.c. oltre il significato letterale delle parole. Quando si indica la forma “prescritta dalla legge sotto pena di nullità” si intende la forma solenne richiesta nell’art. 1350 c.c. e in tutte le altre norme speciali che richiedono, per fini speciali, un requisito formale. Norme che non sono eccezionali, perché non esiste un principio di libertà delle forme». 45 E, per l’appunto, è stato rilevato, con la consueta raffinatezza, da G. Vettori, Sulla morfologia del contratto. Il patto fiduciario e le Sezioni Unite della Cassazione, cit., p. 168.
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Se, difatti, l’assimilazione di questo patto al mandato ad acquistare senza rappresentanza è sistematicamente fondata con riguardo all’articolarsi del rapporto tra incarico ed esecuzione degli atti conseguenti, specie se si considera la peculiare fattispecie concreta da cui la sentenza prende le mosse, la sostanziale svalutazione del ruolo e dell’àmbito di applicazione da riconoscere all’art. 1351 c.c. non appare conforme al dato positivo interpretato alla luce della ratio sottesa alle prescrizioni formali. Più precisamente, la fiducia statica spuria, ove la provvista fornita dal fiduciante consente al fiduciario l’acquisto del bene in vista del trasferimento al sovventore, condivide con il preliminare il sorgere del vincolo obbligatorio per la realizzazione dell’atto traslativo; quest’ultimo, lungi dall’avere il solo scopo di neutralizzare il consolidamento abusivo di una situazione patrimoniale vantaggiosa per il fiduciario a danno del fiduciante46, mira a produrre un effetto reale connesso all’interesse per cui lo stesso fiduciante ha consentito (o, più frequentemente, ha dato corso) al programma fiduciario47. Inoltre, è assai discutibile rilevare, come afferma la Suprema Corte, che l’atto di trasferimento attuativo del preliminare sarebbe connotato da una causa propria e, pertanto, da una funzione tipica derivante dall’essere una fase della vendita, mentre il trasferimento connesso alla fiducia sarebbe un mero pagamento traslativo avente causa nell’accordo fiduciario48, giacché in entrambe le ipotesi il trasferimento trova la propria giustificazione causale nell’obbligazione generata dal contratto “programmatico” e, pertanto, di questa obbligazione costituisce adempimento.
Così, invece, la sentenza n. 6459/2020, al § 6.1 della motivazione. Erra pertanto la Suprema Corte là dove nella sentenza in commento afferma (sempre al § 6.1) che nel preliminare l’effetto obbligatorio è strumentale all’effetto reale e lo precede, mentre nel contratto fiduciario l’effetto reale viene prima e su di esso si va ad innestare quello obbligatorio, dato che proprio nell’ipotesi di fiducia statica spuria, qual è quella su cui si innesta la decisione, esattamente come avviene nel preliminare l’effetto obbligatorio precede quello reale ed è strumentale ad esso (ciò che è giustamente evidenziato da L. Collura, Negozio fiduciario: la forma del pactum fiduciae secondo le Sezioni Unite, cit., p. 691, alla nota 21). 48 Cfr. la sentenza n. 6459/2020, sempre al § 6.1 della motivazione. 46
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Quanto all’argomento in base al quale l’art. 1351 c.c. non varrebbe nel caso di specie a giustificare una forma vincolata, dato che l’art. 2932 c.c., il quale ne costituisce lo strumento attuativo, è applicabile pur in assenza di contratti formali qualora avesse ad oggetto il trasferimento coattivo di beni mobili49, va anzitutto rilevato come esso non sia stato sviluppato in modo preciso. In particolare, l’assimilazione della fiducia al mandato senza rappresentanza fa sì che non si possa ipotizzare un’esecuzione in forma specifica dell’obbligo a contrarre là dove la fiducia – anche statica spuria – avesse ad oggetto beni mobili non registrati, giacché, insistendo le Sezioni Unite sull’unicità di disciplina che contraddistingue l’obbligo del fiduciario e quello del mandatario, troverebbe applicazione anche al caso di specie l’art. 1706, 1° co., c.c., in materia di rivendica dei beni mobili acquistati per conto del mandante. Ne consegue che la funzione dell’art. 2932 c.c., nel contesto che ci occupa, si giustificherebbe solo in presenza di diritti aventi ad oggetti beni mobili registrati o immobili, espressamente indicati dall’art. 1706, 2° co., c.c., come suscettibili di trasferimento coattivo. In sintesi, l’esecuzione forzata dell’obbligo a contrarre trova una sua giustificazione nell’àmbito del preliminare senza limiti (quando esso abbia ad oggetto beni mobili o immobili) o, per quanto attiene al mandato senza rappresentanza, in presenza del vincolo a concludere un accordo traslativo di beni immobili o beni mobili registrati. Se, comunque, il richiamo all’art. 2932 c.c.50 non viene ritenuto decisivo Cfr. la sentenza n. 6459/2020, sempre al § 6.1 della motivazione. Tuttavia, «il fatto che in certi casi si possa agire in giudizio ai sensi dell’art. 2932 c.c. sulla base di un contratto verbale non dimostra che il patto fiduciario immobiliare (come il mandato senza rappresentanza ad acquistare immobili) possa essere verbale, non dimostra la piena validità di un patto fiduciario immobiliare verbale (o di un mandato senza rappresentanza ad acquistare immobili verbale), e che sul fondamento di esso si possa agire in giudizio in base all’art. 2932 c.c., per ottenere il trasferimento della proprietà dell’immobile», come giustamente osserva V. De Lorenzi, Validità del patto fiduciario immobiliare con forma verbale: la sentenza delle Sezioni Unite, 6 marzo 2020, n. 6459. Note critiche, cit., p. 505. 50 Pur se, in realtà, la questione deve essere posta nella corretta prospettiva, come fa opportunamente, V. De Lorenzi, Validità del patto fiduciario immobiliare con forma verbale: la sentenza delle Sezioni Unite, 6 marzo 2020, n. 6459. Note cri49
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per fondare sul programma finalizzato all’acquisto immobiliare la connessione della fiducia con i vincoli di forma dei quali l’art. 1351 c.c. costituisce il più significativo paradigma51, si rende necessario valutare ulteriori aspetti del problema, più nettamente inerenti ad una sua lettura sistematica.
7. La conferma dell’orientamento formalista alla prova del sistema Accogliendo, pertanto, la dicotomia tra contratti tipici a struttura forte e a struttura debole, l’assimilazione del mandato senza rappresentanza alla seconda categoria, operata nella sentenza, poggia sull’argomento (invero alquanto discutibile) dell’assenza di un vincolo formale prescritto dalla legge. Inoltre, per accertare se un siffatto vincolo ricorra o meno, la Cassazione ritiene non fondato porre in rilievo l’effetto reale mediato derivante dall’atto programmatico a contenuto obbligatorio, nel che si sostanzia il mandato (e, conseguentemente, la fiducia); in effetti, se si pone l’accento sul piano effettuale, l’atto che programma la successiva attribuzione esige la medesima forma del conseguente negozio ad efficacia traslativa immediata.
tiche, cit., p. 505, secondo la quale «se è vero che si può esercitare l’azione di cui all’art. 2932 c.c. per ottenere l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di concludere qualunque contratto, è diverso se si agisca in giudizio [a]i sensi dell’art. 2932 c.c. per ottenere una sentenza traslativa di un diritto di proprietà su beni immobili, o su beni mobili. E quando si eserciti l’azione per chiedere e ottenere il trasferimento coattivo con sentenza della proprietà di beni immobili (come nel caso portato all’esame della Corte) è necessario che il patto, il contratto in base al quale si agisce in giudizio sia redatto per iscritto per la validità. Altrimenti l’azione di cui all’art. 2932 c.c. è negata». 51 Cfr. M. Giorgianni, Sulla forma del mandato senza rappresentanza, cit., p. 427, il quale, in modo più approfondito e puntuale rispetto a quanto osserva la Cassazione, respinge il collegamento tra la forma del mandato e l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di trasferire gravante sul mandatario senza rappresentanza; l’art. 1706, 2° co., c.c., infatti, prevede tale esecuzione anche nell’ipotesi di beni mobili registrati, come gli autoveicoli, in relazione ai quali non sussiste la necessità di una forma vincolata del mandato relativo al loro acquisto.
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Proprio a questo proposito, allora, ci si chiede se sia coerente sotto il profilo logico e sistematico considerare la forma scritta come un onere ascrivibile in via esclusiva agli atti traslativi immobiliari, pur quando unilaterali e caratterizzati da una causa esterna, in quanto funzionali al trasferimento della titolarità del bene, e al contempo negare la necessità di una siffatta forma in riferimento agli atti da cui sorge l’obbligo a trasferire, che dei primi rappresentano la causa giustificativa52. Se la soluzione del problema viene ricercata mirando alla coerenza tra il profilo valoriale e l’inquadramento sistematico53, si deve ammettere che, nonostante il mandato riguardi i rapporti interni tra mandante e mandatario, la responsabilizzazione della volontà alla quale è connesso il vincolo formale sussiste integralmente in tale atto, poiché esso pianifica il successivo acquisto al quale presta già il necessario consenso (e ciò al di là del fatto che lo stesso consenso vada necessariamente ripetuto per l’intestazione del bene immobile). Può certamente concordarsi con quanto afferma la Suprema Corte quando ascrive l’esigenza di certezza al contratto tramite il quale si trasferisce il diritto reale sul bene immobile; tuttavia, innegabilmente la volizione dell’acquisto immobiliare – acquisto che è strumentale per il mandatario e finale per il mandante – è presente, per l’appunto, fin dal mandato e nella forma scritta di esso deve trovare un adeguato strumento di ponderazione. Invero, non solo nella giurisprudenza teorica ma anche nella dottrina più sensibile alle questioni qui affrontate è presente l’idea di
52 Lo pone in evidenza, con icastica lucidità, A. Gentili, Un dialogo con la giurisprudenza sulla forma del “mandato fiduciario” immobiliare, cit., p. 604, il quale metaforicamente precisa che una tale logica avallerebbe la richiesta del porto d’armi per i proiettili che feriscono e non per le pistole che li sparano. 53 Come, mi pare, prospetti opportunamente F. Azzarri, La forma del contratto fiduciario e il problema della tipicità delle promesse unilaterali, in Nuovo dir. civ., 2020, pp. 91-132, spec. p. 120, secondo il quale quello della veste del pactum fiduciae immobiliare si risolva quasi in un “falso” problema, atteso che non si rinvengono nel diritto positivo elementi sufficienti a sorreggere una conclusione diversa da quella della solennità (almeno per la pattuizione inerente all’obbligo di dare del fiduciario).
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distinguere necessariamente, nel patto fiduciario, tra il profilo interno – ossia quello inerente al regolamento fra le parti – e il profilo esterno – il quale attiene al titolo per il trasferimento dei beni e, in quanto tale, coinvolge i terzi – per risolvere il problema interpretativo dell’estensione analogica di norme che prescrivono oneri formali (tra cui, l’art. 1351 c.c.)54. Su questa premessa, è stato sostenuto che il mandato senza rappresentanza e il patto fiduciario si possono ritenere validi ed efficaci fra le parti anche se stipulati oralmente; ciò non ostante, per essi si pone il problema del titolo dell’acquisto in presenza sia di un trasferimento fra fiduciante e fiduciario (il quale, benché intercorra tra le parti del patto, è suscettibile di produrre effetti riflessi nei confronti dei terzi aventi causa dal secondo e, nel ritrasferimento, dallo stesso fiduciante) sia di una cessione diretta del bene immobile a terzi, anche in esecuzione della fiducia. In tali casi, si afferma, la forma scritta è imposta da esigenze inderogabili di coerenza sistematica e di controllo55. In merito alla soluzione ricavabile da una siffatta prospettiva, dato che è comunque richiesta la forma scritta per l’atto di trasferimento (anche unilaterale)56, gli interessi dei terzi intersecati dalle vi-
54 Contro una rigida separazione dei due profili si esprime U. Carnevali, Sulla forma del pactum fiduciae con oggetto immobiliare, cit., pp. 62-63, il quale evidenzia come l’effetto reale acquisitivo dell’immobile vada riportato al pactum fiduciae e che l’art. 1350 c.c., nello stabilire la necessità della forma scritta, utilizza il parametro dell’efficacia (e non, aggiungerei, della struttura) che attiene agli atti ivi indicati (il che pare faccia propendere l’Autore per la forma scritta ad substantiam dell’accordo fiduciario, ma v. infra quanto osservato alla nota 84). 55 G. Vettori, Sulla morfologia del contratto. Il patto fiduciario e le Sezioni Unite della Cassazione, cit., p. 168, che riprende le proprie riflessioni formulate in La prova del pactum fiduciae, cit., c. 2500. 56 Difatti, coerentemente alle premesse da cui muove, G. Vettori, Sulla morfologia del contratto. Il patto fiduciario e le Sezioni Unite della Cassazione, cit., p. 169, condivide l’idea che l’atto unilaterale scritto, presentando una expressio causae o, comunque, se correlato ad un patto orale valido, possa formare un titolo idoneo all’acquisto, tenuto conto del ruolo che svolge la promessa avente ad oggetto il trasferimento e del fatto che la produzione dell’effetto reale immobiliare non necessiterebbe sempre di un atto bilaterale scritto. Inoltre, coerentemente alla tutela da accordare al fiduciante, l’Autore evidenzia che la validità del patto orale consente di agire nell’ipotesi di un suo inadempimento, così che eventuali
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cende circolatorie verrebbero comunque soddisfatti57. Come ho già precisato poc’anzi, mi pare, però, che non solo la certezza dell’acquisto, ma anche la responsabilizzazione della volontà di trasferire sia di eguale rilevanza nell’esigere la formalità, per cui il pactum fiduciae nuncupativo non consente a una tale responsabilizzazione di dispiegarsi adeguatamente. Ma vi è di più. Ai dubbî qui sollevati sulla dicotomia patto obbligatorio informale – atto traslativo formale, infatti, fornisce ulteriori argomenti chi si è soffermato sull’ipotesi in cui un fiduciario (rectius, mandatario), volendo osservare le istruzioni del fiduciante (rectius, mandante) e applicando il principio di diritto formulato dalle Sezioni Unite, in esecuzione del (suppostamente valido) pactum fiduciae stipulato in forma orale confezioni un atto solutorio unilaterale scritto, così che il mandante trascriva e renda opponibile ai terzi la proprietà in tal modo acquisita. Tale esemplificazione mostra le ricadute negative dell’approccio giurisprudenziale improntato alla libertà formale del patto fiduciario. Difatti, come persuasivamente argomentato, il ritrasferimento del fiduciario (o mandatario) in capo al fiduciante (o mandante), in quanto unilaterale e solutorio, si risolverebbe in un atto a causa esterna, collocandosi quest’ultima nel mandato che obbliga il mandatario a un siffatto ritrasferimento. Saremmo, allora, al cospetto di una scissione tra il modus adquirendi, rinvenibile nell’atto solutorio con cui il mandante-fiduciante acquisisce la proprietà del bene, e il titulus adquirendi che, per contro, è costituito dal mandato. La scissione anzidetta condiziona anche il contesto pubblicitario, giacché ci si chiede se sia sufficiente trascrivere il modus adquirendi (quindi, l’atto solutorio traslativo redatto per iscritto) senza il titulus adquirendi (ossia il mandato, valido anrestituzioni fornirebbero all’interessato una tutela effettiva, senza il ricorso all’art. 2932 c.c. (ponendosi, allora, solo un problema di prova). 57 A tal proposito G. Vettori, Sulla morfologia del contratto. Il patto fiduciario e le Sezioni Unite della Cassazione, cit., p. 169, nota 68, mette in evidenza come, seguendo il risultato della sentenza, il fiduciante, pur in assenza di un atto scritto, possa richiedere e trascrivere, se e in quanto possibile, la domanda di sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c., la quale, in attesa della prova dell’esistenza dell’atto, paralizzerebbe ogni interesse o garanzia dei creditori e dei terzi.
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che se orale). La fisionomia normativa e la prassi che ineriscono alla conservatoria dei registri immobiliari, poste in evidenza da una pluralità di commentatori (orientati in senso dogmatico58 ovvero propensi ad esaltare il momento applicativo59), farebbero propendere per la soluzione contraria, essendo allora necessario trascrivere entrambi i profili dell’acquisto60. Inoltre, anche là dove non si ritenesse dirimente un espresso richiamo al titulus ai fini della trascrizione, per attribuire la proprietà al fiduciante-mandante con un atto solutorio sarebbe necessario verificare che questi si esprima favorevolmente a tale proposito. Il consenso dell’interessato, allora, può ricavarsi in base a tre differenti alternative: i) anzitutto, considerandone l’accettazione come
Si v. in tal senso, pur se con diverse sfumature, R. Lenzi, Struttura e forma del pactum fiduciae nella ricostruzione delle Sezioni Unite, cit., pp. 1110-1113, che, a séguito di una serrata esposizione dei varî profili problematici che derivano dalla forma orale del pactum fiduciae immobiliare, parla di una ricostruzione “eversiva” giacché essa, preludendo al nudum pactum, contraddice l’effettività del sistema causalista; A. Reali, Le Sezioni Unite sulla forma della fiducia immobiliare, tra trasparenza e riservatezza, cit., pp. 968-969, secondo il quale, nell’àmbito di un’impostazione del problema connessa alla necessaria trasparenza delle operazioni fiduciarie (in un contesto normativo nel quale la suddetta trasparenza è ormai cogente nel diritto positivo), se si qualifica la fiducia come contratto atipico caratterizzato da una causa autonoma (per l’appunto, la causa fiduciae), sussiste la possibilità di «trascrivere la mera qualità di fiduciario in capo all’intestatario del bene immobile, per rendere noto il pactum fiduciae, e trasformare, così, lo strumento in oggetto, in una fiducia opponibile ai terzi, efficace anche al fine del compimento degli atti dispositivi sui beni oggetto di fiducia». In termini causali si esprime, invece, U. Morello, La “ricognizione” degli accordi fiduciari, cit., p. 293, il quale osserva come un atto scritto, ove si indichino le finalità perseguite dalle parti mediante l’affidamento fiduciario, impedisce o rende più complesso occultare le ragioni effettive su cui si fonda la concreta operazione fiduciaria, agevolandone pertanto l’accertamento della causa in concreto. 59 C. Natoli, Forma e struttura dei negozi fiduciari immobiliari: la soluzione delle Sezioni Unite e le suggestioni dell’esperienza notarile, cit., p. 858, ove si evidenzia che la mancata riconducibilità del negozio fiduciario al contratto preliminare impedisce che il primo sia trascritto ai sensi dell’art. 2645-bis c.c. 60 Cfr. in tal senso A. Gentili, Un dialogo con la giurisprudenza sulla forma del “mandato fiduciario” immobiliare, cit., p. 603, il quale fa opportunamente notare come sia il titulus e non il modus ad esprimere sotto il profilo causale la giustificazione dell’acquisto, il che ne imporrebbe la redazione per iscritto. 58
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preventivamente contenuta nel contratto programmatico; ii) inoltre, esigendo una specifica accettazione dell’atto solutorio, così che, in sostanza, le parti concludono un contratto traslativo (ciò che, però, pare escluso dalla pronuncia in esame, la quale ammetterebbe la natura unilaterale di questo atto); iii) infine, ricavando l’accettazione implicita dal fatto che l’interessato chiede la trascrizione in proprio favore. La prima alternativa implica la necessità di esibire il mandato o patto fiduciario e, pertanto, la forma scritta di questo. La seconda opzione produce conseguenze contraddittorie, nel momento in cui l’interessato, per divenire titolare del bene, rinnova un consenso che era già stato rilasciato nel contratto programmatico. L’ultima soluzione, che è parsa maggiormente conforme al quadro teorico delineato dalle Sezioni Unite, pur se non richiede una nuova accettazione, si fonda sulla dicotomia “patto obbligatorio-patto traslativo”, secondo un paradigma pianamente riconducibile alla sequenza “contratto preliminare-contratto definitivo”; tale sequenza, peraltro, esige l’applicazione della regola formale ex art. 1351 c.c., la quale, invece, è respinta dalla Suprema Corte61. Infine, pare sistematicamente infondato definire l’art. 1351 c.c. come norma eccezionale e, pertanto, insuscettibile di applicazione analogica62. Più precisamente, pur confermando per il preliminare immobiliare l’esigenza della forma scritta indicata nell’art. 1351 c.c., la sentenza in discorso, col dichiararne l’eccezionalità, ne ha escluso l’applicazione al contratto fiduciario, al mandato ad acquistare e, in termini generali, a qualsiasi patto, diverso dal contratto preliminare, da cui sorga l’obbligo ad effettuare un atto traslativo Così, ancóra, A. Gentili, Un dialogo con la giurisprudenza sulla forma del “mandato fiduciario” immobiliare, cit., p. 604. 62 Afferma la non eccezionalità dell’art. 1351 c.c. anche G. Vettori, Sulla morfologia del contratto. Il patto fiduciario e le Sezioni Unite della Cassazione, cit., p. 169, evidenziando che i) la tutela del fiduciante non può prevalere su quella di tutti i terzi e ii) non si può disattendere l’esigenza di controllo dell’eventuale illiceità del patto fiduciario per violazione delle norme antiriciclaggio, delle disposizioni fiscali o penali, e, comunque, del divieto costituzionale di violare l’utilità sociale di cui all’art. 41, 2° comma, Cost. 61
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di un immobile; ciò, pertanto, ha fatto sorgere il quesito inerente alla natura o meno di contratti preliminari per gli accordi che vincolino al trasferimento di un immobile 63. Su una simile base, merita considerare le critiche che a questo profilo sono state rivolte, sia in riferimento alla natura eccezionale dell’art. 1351 c.c., sia con riguardo all’esclusione del mandato senza rappresentanza dal novero dei pacta de contrahendo, il cui paradigma, per l’appunto, è costituito dal contratto preliminare. Quanto al primo aspetto, l’eccezionalità della norma è stata esclusa in base all’esigenza della parità di trattamento per situazioni uguali sancita dall’art. 3 Cost., per cui sarebbe (oltre che irrazionale, anche) incostituzionale prevedere una forma vincolata per relationem con riguardo al preliminare ed escluderla per ogni altro patto che vincoli ad effettuare un trasferimento immobiliare. Per giustificare una siffatta disparità, e la conseguente applicazione di regole distinte, sarebbe allora necessario individuare una differenza tra il preliminare e i suddetti patti, differenza che, invece, deve essere esclusa sotto il profilo logico-sistematico64. Infatti, e si affronta così il secondo aspetto, i) il contratto preliminare è un pactum de contrahendo con cui si predetermina il contenuto essenziale del patto da contrarre; ii) un patto che vincoli a concludere un contratto avente un contenuto predeterminato è, specularmente, un pactum de contrahendo; iii) tutti i patti che vincolano a concludere patti predeterminati sono, pertanto, contratti preliminari, non rilevando se siano autonomamente stipulati o se costituiscano clausole inserite in accordi di più ampio contenuto. Attesa l’evidenza di quanto sopra indicato, la supposta, e infondata, eccezionalità dell’art. 1351 c.c. non impedisce di affermare che la regola, da esso prevista, concernente la forma per relationem si applica (direttamente, e non estensivamente) a tutti i patti che impegnano alla conclusione di accordi il cui contenuto è da essi, nelle 63 A. Gentili, Un dialogo con la giurisprudenza sulla forma del “mandato fiduciario” immobiliare, cit., p. 604, nota 39. 64 A. Gentili, Un dialogo con la giurisprudenza sulla forma del “mandato fiduciario” immobiliare, cit., p. 607.
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linee essenziali, predeterminato. Se, allora, si ribadisse comunque – peraltro, senza argomenti di pregio – la natura eccezionale dell’art. 1351 c.c., da ciò non potrebbe ritrarsi la forma libera del mandato e del patto fiduciario immobiliare, i quali, essendo pacta de contrahendo, sono direttamente regolati da tale norma, che è stata pensata per disciplinare la forma del paradigma di tali pacta, ossia del contratto preliminare65. Per concludere, e in aggiunta agli argomenti suesposti, può precisarsi che le Sezioni Unite, nel rileggere l’imposizione di vincoli formali per gli atti immobiliari alla luce dell’art. 1351 c.c., hanno effettuato una lettura riduzionistica di tale previsione; al contrario, la regola ad essa sottesa concerne unicamente il principio di corrispondenza tra forma dell’atto programmatico e forma del negozio esecutivo, la cui concretizzazione si rinviene anche negli artt. 1392 (forma della procura), 1399, 1° co. (forma della ratifica), 1403 1° co. (forma della procura e dell’accettazione nel contratto per persona da nominare), c.c., ossia là dove possa ravvisarsi una sequenza procedimentale tra negozî collegati al fine di realizzare un interesse unitario66. Anche ciò (mi) pare escludere l’eccezionalità declamata con
65 Così A. Gentili, Un dialogo con la giurisprudenza sulla forma del “mandato fiduciario” immobiliare, cit., p. 608. 66 Nega vigorosamente la rilevanza delle norme succitate al fine di risolvere il problema formale del mandato senza rappresentanza M. Giorgianni, Sulla forma del mandato senza rappresentanza, cit., p. 421, in base all’assunto che l’art. 1392 c.c., oltre a concernere il collegamento tra la procura e il negozio compiuto dal rappresentante col terzo, sarebbe norma eccezionale e che le previsioni in materia di ratifica e contratto per persona da nominare riguarderebbero fenomeni assolutamente estranei al mandato senza rappresentanza (in quanto relativi a proiezioni del negozio che vanno oltre i soggetti tra cui esso intercorre). L’illustre Autore, nel valorizzare la necessità di rinvenire nei rapporti interni tra mandante e mandatario l’esigenza di una forma ad substantiam, esclude tale esigenza sulla base di argomenti, peraltro di sicura profondità (vedili alle pp. 425-428), che precludono anche il richiamo all’art. 1351 c.c. Tuttavia, il riferimento all’eccezionalità delle norme qui richiamate nel tentativo di fondare la non formalità del mandato senza rappresentanza immobiliare a mio avviso non supera i rilievi, formulati nel testo, inerenti all’applicazione diretta e non analogica dell’art. 1351 c.c. e alla sequenza atto programmatico-negozio di attuazione che si rinviene nel caso di specie (e ciò al di là dell’àmbito soggettivo in cui tale ultimo negozio si esplica).
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riguardo alla norma sul contratto preliminare e, pertanto, rafforza l’idea che l’accordo diretto a produrre effetti reali mediati debba seguire la forma stabilita per i relativi contr(atti) di attuazione.
8. La natura giuridica e gli effetti della dichiarazione ricognitiva Con riguardo, invece, alla prova del pactum fiduciae, le Sezioni Unite, enunciando il secondo principio di diritto, hanno inteso ridefinire, in modo del tutto condivisibile67, i confini operativi della dichiarazione unilaterale, la quale spesso si accompagna, menzionandone in forma scritta la stipulazione68, al suddetto pactum. La Suprema Corte, difatti, ha precisato che «La dichiarazione unilaterale scritta del fiduciario, ricognitiva dell’intestazione fiduciaria dell’immobile e promissiva del suo ritrasferimento al fiduciante, non costituisce autonoma fonte di obbligazione, ma, rappresentando una promessa di pagamento, ha soltanto effetto confermativo del preesistente rapporto nascente dal patto fiduciario, realizzando, ai sensi dell’art. 1988 cod. civ., un’astrazione processuale della causa, con conseguente esonero a favore del fiduciante, destinatario della contra se pronuntiatio, dell’onere della prova del rapporto fondamentale, che si presume fino a prova contraria»69.
Adesivamente si v. anche C. Cicero, La forma del negozio fiduciario in materia immobiliare, cit., pp. 322-323. 68 Per un’ipotesi di indubbio interesse nella quale la dichiarazione ricognitiva è stata espressamente qualificata dal dichiarante come negozio testamentario cfr. Cass., Sez. II, 24 luglio – 26 novembre 2020, n. 26998 (ord., inedita), la quale, facendo applicazione del principio di diritto indicato dalle Sezioni Unite del 2020, nell’escludere la natura testamentaria della suddetta dichiarazione ha espressamente affermato che la dichiarazione unilaterale scritta dal fiduciario, ricognitiva dell’intestazione fiduciaria dell’immobile, può essere contenuta anche in un testamento, con la precisazione che essa non costituisce autonoma fonte di obbligazione, ma ha soltanto effetto confermativo del preesistente rapporto nascente dal patto fiduciario (da cui il consueto esonero, a favore del fiduciante, dall’onere di provare il rapporto fondamentale, invece presunto fino a prova contraria). 69 Cfr. il § 9 della motivazione. 67
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In tal modo si è escluso che la dichiarazione unilaterale ricognitiva del patto fiduciario – se contenente una corretta descrizione dell’immobile e là dove in essa si faccia riferimento alla causa fiduciae esplicitata nell’accordo orale70 – assurga a fonte dell’obbligo di trasferimento al fiduciante incombente sul fiduciario71, ciò che aveva suscitato varî rilievi in dissenso: difatti, è stato correttamente notato come in tal modo, da un lato, si contravvenga al chiaro disposto degli artt. 1987 (tipicità delle promesse unilaterali)72 e 1988 (che alla ricognizione di debito connette la sola astrazione processuale) c.c. e, dall’altro lato, si operi una confusione concettuale e funzionale tra prova e fonte dell’obbligo73 (i quali, nel caso di specie, sono Difatti, come rileva U. Carnevali, Sulla forma del pactum fiduciae con oggetto immobiliare, cit., p. 60, la questione non ha neanche modo di porsi qualora il dichiarante si limitasse a riconoscere l’altrui proprietà del bene e promettesse di ritrasferirlo al titolare sostanziale omettendo di indicare nell’operazione fiduciaria la causa di una tale promessa. 71 Possibilista in tal senso si mostra, invece, G. De Nova, La forma del negozio fiduciario in materia immobiliare, cit., p. 559. 72 Cfr., per una diversa prospettiva, l’argomentata proposta di F. Azzarri, La forma del contratto fiduciario e il problema della tipicità delle promesse unilaterali, cit., pp. 114-120, all’esito della quale l’Autore, muovendosi nella prospettiva di una rilettura del senso da attribuire all’art. 1987 c.c. e valorizzando la concezione della causa incentrata sulla funzione di garantire l’originaria realizzabilità dell’assetto di interessi programmato dalle parti, ritiene che le regole generali, se opportunamente interpretate, consentano di individuare la fonte dell’impegno a trasferire nella dichiarazione unilaterale del fiduciario, in quanto ogni pericolo di astrazione sostanziale della causa sarebbe fugato dalla presenza di essa nell’accordo fiduciario concluso verbalmente; questo, «per i contenuti diversi dalla previsione dell’obbligo di dare (ossia, i contenuti gestori e amministrativi) risulterà, infatti, perfettamente valido, non essendone gli effetti (puramente obbligatori) subordinati al rispetto della forma scritta ad substantiam, né appartenendo, di per sé, il contratto ad alcuno dei tipi per i quali la legge richiede un tale onere» (p. 120). 73 In specie, la dichiarazione può alternativamente presentare un contenuto assertivo o prescrittivo, in base alla formula prescelta dalle parti, a seconda del suo tenore semantico. Nella prima ipotesi, si è di fronte al riconoscimento dell’altrui titolarità esclusiva dell’immobile e della natura meramente fiduciaria della propria intestazione; per contro, nel secondo caso è rinvenibile un impegno espresso del fiduciario al trasferimento del bene secondo le istruzioni del fiduciante (quindi, al medesimo o ad altra persona da questi indicata). Qualora si riscontrasse un profilo assertivo, la dichiarazione avrebbe natura di prova a carattere confessorio, concernendo fatti sfavorevoli al dichiarante e favorevoli al destinatario di essa, men70
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ricollegati dalla Cassazione ad atti diversi). Inoltre, la sentenza in esame ha avuto modo di precisare che la promessa di pagamento, anche se titolata, non può qualificarsi in senso confessorio, il che consente al dichiarante di dare dimostrazione dell’inesistenza della causa, della nullità della suddetta promessa o del diverso contenuto presentato dal rapporto sottostante rispetto a quanto risulta dalla propria dichiarazione74. Entrambe le obiezioni alla prospettiva che riconduce nell’àmbito della dichiarazione unilaterale la fonte del vincolo a contrarre meritano di essere sviluppate, anche tenendo conto del fatto che lo stesso Procuratore generale presso la Suprema Corte, in sede di conclusioni, ha caldeggiato una tale soluzione75, poi disattesa dalle Sezioni Unite76. Un’attenta dottrina ha argomentato sul punto alcuni efficaci rilievi, in base ai quali: i) attribuire alla dichiarazione unilaterale, ricognitiva dell’impegno a trasferire, la dignità di autonoma fonte dell’obbligazione si risolve in una violazione di legge ad opera della giurisprudenza (ossia, in un assunto contra legem); ii) una simile affermazione, inoltre, è contraddittoria, giacché o la fonte in discorso è il contratto fiduciario, valido anche se orale e, pertanto, idoneo a giustificare il vincolo coercibile in forma specifica al trasferimento immobiliare, oppure l’effetto costitutivo deriva dalla dichiarazione che riconosce l’avere stipulato questo patto, per cui tertium non datur in quanto tale effetto non può derivare da due fonti; iii) l’atto ricognitivo, se è fonte, non è attuativo, giacché riconoscere è affatto diverso dal costituire l’impegno riconducibile alla fiducia; iv) mentre la ripetizione del patto, volta a realizzare un
tre, in presenza di un valore prescrittivo, la dichiarazione dovrebbe qualificarsi come promessa unilaterale atipica di trasferimento, in violazione del principio di tipicità delle promesse unilaterali, sancito, come già detto, dall’art. 1987 c.c. Per queste notazioni cfr. C. A. Valenza, Forma del patto fiduciario avente ad oggetto beni immobili, cit., pp. 288-289. 74 Così al § 7.3 della motivazione. 75 Lo mette giustamente in rilievo G. Vettori, Sulla morfologia del contratto. Il patto fiduciario e le Sezioni Unite della Cassazione, cit., p. 162. 76 Le quali, sul punto, non evidenziano peraltro il contrasto: cfr. il § 8 della motivazione.
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progresso formale, è senz’altro ammissibile là dove bilaterale, non assume questo valore lo scritto proveniente da una delle parti77; v) poiché elemento essenziale del patto fiduciario è il vincolo a (ri)trasferire, esso non può collocarsi al di fuori del patto, che sarebbe un accordo bilaterale ma non fiduciario, né in una dichiarazione unilaterale, che resterebbe fiduciaria ma non sarebbe patto78. Alla luce di quanto osservato, peraltro, resta da verificare un’ulteriore ipotesi ricostruttiva, la quale potrebbe riassegnare alla dichiarazione unilaterale una valenza non meramente probatoria ma costitutiva dell’impegno al trasferimento, senza contraddire i profili critici finora illustrati (e condivisi). In particolare, si è sostenuta la possibilità di ascrivere alla dichiarazione unilaterale, ricognitiva dell’intestazione fiduciaria e promissiva del ritrasferimento, il ruolo di frammento scritto del complessivo patto fiduciario, per la parte restante invece orale, là dove questa dichiarazione sia coeva e di significato idoneo a palesarne il nesso con l’ulteriore porzione dell’accordo79. Un’eventuale ulteriore riconsiderazione da parte della giurisprudenza teorica del problema formale connesso alla fiducia immobiliare potrebbe, in effetti, percorrere proficuamente questa via, così componendo le varie prospettive che, in merito alla dichiarazione, sono state seguite nei suoi varî pronunciamenti. Tenendo conto del fatto che la Cassazione, nella sentenza n. 10633/2014, ha espressamente escluso, in quanto artificiosa, la qualifica della dichiarazione unilaterale come proposta di un contratto unilaterale, poi accettata dal fiduciante nel momento in cui ne chiede l’adempimento in giudizio, atteso che la relativa ricostruzione utilizza, in riferimento ad un atto che nasce come unilaterale, una giurisprudenza nata per supplire al difetto di sottoscrizione di un contratto. Condivide la critica U. Carnevali, Sulla forma del pactum fiduciae con oggetto immobiliare, cit., p. 60, nota 5. Cfr., inoltre, M. Patrone, Variazioni e forma del “negozio fiduciario”, cit., p. 416. 78 Le cinque ragioni indicate nel testo si devono ad A. Gentili, La forma scritta nel patto fiduciario immobiliare, cit., pp. 1478-1479. 79 Così A. Gentili, La forma scritta nel patto fiduciario immobiliare, cit., p. 1480, il quale precisa come non risulti precluso un complesso, ma unitario, patto a forma mista; inoltre, qualora la dichiarazione scritta di impegno a ritrasferire richiamasse il patto fiduciario, in tal modo connettendovisi, ne farebbe parte e non potrebbe più essere considerata unilaterale, in quanto rientrerebbe nello scambio di consensi assumendo, però, la forma richiesta dalla natura del bene. 77
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9. Osservazioni conclusive Un primo – e necessariamente provvisorio – bilancio di quanto emerso nell’analisi precedente consente, anzitutto, di ridisegnare i confini che, rispettivamente, pertengono alla fiducia e al mandato senza rappresentanza. La casistica fiduciaria sopra menzionata, se la si riguarda con un approccio sistematico e non concettualistico80, vede ridursi il proprio àmbito in senso proporzionale all’espansione del mandato, secondo il binomio titolarità-fiducia e gestione-mandato che si è accolto in precedenza come chiave di lettura causale dei confini tra i due istituti. Pertanto, ripercorrendo brevemente quanto già esposto, mentre la fiducia cum creditore può senz’altro essere confermata nel tradizionale elenco tassonomico dei patti fiduciarî, ne fuoriesce la fiducia cum amico a carattere statico puro, giacché il profilo gestorio appare in essa assorbente. Riterrei, inoltre, che la riconduzione della fiducia cum amico a carattere dinamico e statico spurio nell’uno o nell’altro campo disciplinare si risolva in una questione ermeneutica, che impone di accertare quale tra i due interessi astrattamente ricorrenti prevalga in concreto81. Ciò premesso, è necessario stabilire se il problema formale si atteggi secondo modalità differenti nell’una (fiducia) e nell’altra (mandato) ipotesi; più precisamente, il quesito concerne l’eguale rilevanza in entrambe di un siffatto problema. A mio avviso, mentre la forma palesa la sua indubbia significatività con riguardo al mandato senza rappresentanza, a tale risultato non può giungersi
Quindi, facendo opportuna applicazione del rasoio di Ockham. In effetti, quanto alla fiducia statica spuria, di per sé, il profilo gestorio andrebbe ravvisato nell’incarico di acquistare il bene, anche se in séguito si richiedesse al fiduciario in via esclusiva di mantenerne la titolarità. Tuttavia, la riconduzione alla fiducia o al mandato può astrattamente porsi come alternativa, giacché tra la titolarità e la gestione andrebbe accertato quale di essi sia prevalente nella fattispecie concreta (in altre parole, la compresenza dei due aspetti può sussistere senza pregiudizio di una qualificazione nell’uno o nell’altro senso, ai cui fini, però, va accertato quale tra essi le parti abbiano messo in esponente nell’operazione programmata). 80
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per la fiducia82, se non altro in quanto, sotto il profilo dell’interesse che essa esprime, vi è una coincidenza tra l’effetto per suo mezzo prodotto e la relativa giustificazione. Più precisamente, poiché la fiducia è caratterizzata dalla titolarità del bene che trascorre dal fiduciante al fiduciario (o che quest’ultimo acquista con mezzi forniti dal primo), il trasferimento del suddetto bene realizza tale titolarità in conseguenza dell’effetto traslativo; la proprietà del fiduciario, in tal modo, sarebbe “giustificata” da se stessa, così che la sua giuridica rilevanza è fondatamente discutibile alla luce del principio causalistico. Là dove, allora, sorgessero questioni inerenti al lamentato inadempimento di un vincolo restitutorio o traslativo, per le ragioni anzidette mai venuto ad esistenza, esse vanno risolte in base alle premesse ora evidenziate83: nel caso di fiducia dinamica, il fiduciante che intendesse recuperare il bene non ritrasferitogli agirà per sentire dichiarare nulla l’attribuzione di titolarità originaria in quanto essa è priva di causa, mentre, per la fiducia statica spuria, sarà la ripetizione di indebito a consentire che il suddetto fiduciante recuperi una provvista la quale, destinata a supportare l’altrui proprietà senza intento liberale, è oggetto di una prestazione ingiustificata. Pertanto, la rilevanza del problema formale non sussiste in quanto essa viene assorbita dal profilo causale, secondo quanto dianzi prospettato. Se, per contro, l’interesse gestorio assurge a connotato qualificante della concreta operazione programmata dalle parti, la causa è per definizione ravvisabile, così che la forma, venendo in rilievo, Pur se la dottrina evidenzia come la fiducia, lungi dall’essere un contratto senza forma, possieda caratteristiche formali coerenti ai suoi effetti e al complesso dell’operazione economica in cui si inscrive; cfr. in tal senso G. Vettori, Sulla morfologia del contratto. Il patto fiduciario e le Sezioni Unite della Cassazione, cit., p. 169. 83 A conclusioni diverse, pur muovendo dalle medesime premesse relative alla dicotomia tra titolarità-fiducia e gestione-mandato, giunge V. Occorsio, Titolarità e gestione nei rapporti fiduciari, cit., nel cap. VIII (ma v., esemplificativamente, alla p. 315), ove si sviluppa l’assunto in base al quale l’insoddisfazione della richiesta da parte del fiduciante di riottenere la titolarità del cespite costituisce un vero e proprio inadempimento contrattuale. Tuttavia, mi pare che in tal modo le differenze tra i due istituti in esame vadano palesemente assottigliandosi, sì che la loro differenziazione causale si risolve in una mera operazione concettualistica. 82
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costituisce un aspetto su cui si innesta la riflessione finora condotta. In riferimento al caso sottoposto all’attenzione delle Sezioni Unite mi pare appropriato qualificare la relativa fattispecie in termini di mandato senza rappresentanza, essendo un inutile artificio retorico – e, peraltro, un’aporia rispetto all’origine storica e alla dimensione sociale della fiducia – discorrere di applicazione al patto fiduciario della disciplina inerente al mandato. In questa prospettiva, è stata qui verificata la tenuta del ragionamento operato dalla Suprema Corte e, da una tale verifica, è emerso come la riaffermazione del tradizionale orientamento formalista appaia sistematicamente fondata84. Inoltre, neanche le considerazioni di politica del diritto verso le quali sembra indulgere la Cassazione85 sono tali da asseverare,
Si assiste, peraltro, in dottrina a oscillazioni relativamente al problema qui affrontato; cfr. per un’esemplificazione U. Carnevali, Sulla forma del pactum fiduciae con oggetto immobiliare, cit., p. 63, ove, a commento dell’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite n. 20934/2019, pare accogliersi l’idea della forma vincolata per l’accordo fiduciario relativo al trasferimento di immobili (nei termini indicati supra alla nota 54), salvo poi in Id., Le Sezioni unite sulla forma del pactum fiduciae con oggetto immobiliare, cit., p. 268, affermare, in séguito alla sentenza n. 6459/2020, che non vi sono plausibili ragioni per estendere al suddetto patto la ratio sottesa all’onere della forma scritta, richiesta dall’art. 1350, n. 1, c.c. per i contratti traslativi immobiliari. Mi pare, peraltro, che una tale mutata prospettiva derivi dalla convinzione secondo cui, con il principio di diritto consacrato nel provvedimento in esame, la tutela del fiduciante sia al meglio assicurata (e si veda in tal senso le pp. 269-270 dell’ultimo contributo qui citato), secondo una tendenza che ha ricevuto, in effetti, numerose adesioni. 85 Con considerazioni che, per vero, paiono condivise anche da attenta dottrina: cfr. N. Lipari, Oltre la fiducia. Per una teoria della prassi, in Foro it., 2020, I, cc. 1951-1953, il quale sottolinea come sia sottesa alla soluzione proposta dalla Suprema Corte la convinzione che il concetto di validità non possa confinarsi in una mera conformità procedurale, ma imponga di essere parametrato ai valori costituzionali, in base ai quali l’atto di autonomia non può contraddire all’utilità sociale e, comunque, vada inteso in chiave di solidarietà. L’affermazione è di per sé condivisibile e può darsi – anzi, è altamente probabile – che la Cassazione sia stata mossa da esigenze di natura prettamente assiologica, nella convinzione di attribuire la giusta, e non solo la sistematicamente corretta, protezione agli interessati dalla vicenda. Tuttavia, come ho provato a dimostrare, la polarizzazione tra un “sistema di norme poste” e i “modi di svolgimento dell’esperienza”, per ricorrere alle icastiche formulazioni dell’Autore in questione, oltre a rivelarsi, talvolta, una petizione di principio più che una presa d’atto dell’attuale dimensio84
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se non la plausibilità, almeno l’opportunità di un approccio liberale al problema del pactum fiduciae – ma, in questo caso, mandato – immobiliare. Difatti, la constatazione che la fiducia cum amico, per la natura familiare delle relazioni tra i soggetti dell’accordo, sfugge alla consacrazione solenne del medesimo, se da un lato trova smentita nella predisposizione da parte del fiduciario di dichiarazioni unilaterali scritte (sollecitate, secondo la comune esperienza, dallo stesso familiare fiduciante e comprovanti la natura di mandato senza rappresentanza del rapporto così instaurato)86, dall’altro lato non appare priva di rimedî atti a ristorare l’esborso economico del sovventore; tra questi, in parallelo con quanto affermato per la fiducia propriamente intesa, si può anzitutto menzionare la ripetizione della somma indebitamente percepita87 (non essendovi un titulus idoneo a giustificarne la corresponsione)88 e, in ultima istanza, l’ingiustificato arricchimento del fiduciario infedele89. Si potrà discutere circa l’efficacia di siffatti strumenti ma, richiamando la stessa
ne della giuridicità, non è stata composta in maniera efficace dalla decisione in esame, giacché proprio il lato empirico e applicativo (quindi, la prospettiva della prassi) ne esalta le lacune e le storture rispetto allo scopo di tutela che con essa ci si prefigge di raggiungere. 86 A. Gentili, Un dialogo con la giurisprudenza sulla forma del “mandato fiduciario” immobiliare, cit., p. 610 (ma già Id., La forma scritta nel patto fiduciario immobiliare, cit., p. 1480). 87 Come già evidenziato da Cass., Sez. I, 3 agosto 1960, n. 2271, in Giust. civ., 1961, I, pp. 64-73, con nota di M. Giorgianni, Contratto preliminare, esecuzione in forma specifica e forma del mandato, ivi, pp. 64-71. 88 A. Gentili, Un dialogo con la giurisprudenza sulla forma del “mandato fiduciario” immobiliare, cit., p. 610, il quale precisa che in caso di trasferimento fiduciario dell’immobile il fiduciante, derivando esso da un atto nullo, potrebbe senz’altro pretenderne la restituzione. 89 Coglie con acutezza il punto G. De Nova, La forma del negozio fiduciario in materia immobiliare, cit., p. 559 (ne discorre anche A. Gentili, La forma scritta nel patto fiduciario immobiliare, cit., p. 1480, salvo poi precisare in Id., Un dialogo con la giurisprudenza sulla forma del “mandato fiduciario” immobiliare, cit., p. 609, nota 55, che l’arricchimento del fiduciario consistente nel ritenere la proprietà del bene è sì ingiustificato, ma l’azione a tutela del fiduciante sarebbe comunque a carattere restitutorio in quanto avente ad oggetto il recupero della provvista somministrata e, pertanto, sul modello delle prestazioni eseguite in base ad un contratto nullo, riconducibile agli artt. 2033 ss. c.c.).
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opportunità fattuale su cui la Cassazione fonda gli esiti della sentenza in oggetto90, un’eventuale minorata soddisfazione dei proprî interessi91 costituisce per il fiduciante (mandante) il contraltare delle finalità, non sempre commendevoli, al cui perseguimento la fiducia cum amico, che si risolve in un mandato senza rappresentanza, è frequentemente piegata92. All’esito dell’analisi qui compiuta, oltre alla conferma del fatto che lo sforzo argomentativo della Cassazione, apparentemente condotto in una prospettiva sistematica, è invece finalizzato, con taluni salti logici, alla tutela del fiduciante (rectius, mandante) – il quale viene apoditticamente considerato come soggetto “debole” dell’accordo fiduciario ma, una volta qualificato come mandante, si avvarrebbe delle prerogative a questi riservate –, si può a mio avviso constatare il sostanziale fallimento di ciò che, in esordio, ho richiamato discorrendo di “topica dei rimedî”. Difatti, l’oscillante applicazione dei princìpi a seconda delle esigenze valoriali ravvisate nel caso concreto ha qui condotto a prospettare una soluzione che, incerta sotto il profilo dogmatico, si palesa inutile e fuorviante dal lato operativo. La contrapposizione tra il metodo formale e l’approccio assiologico costituisce anche in questo caso una declamazione priva di riscontro e foriera di equivoci, avvalorando vieppiù l’idea che
Sempre con la dovuta attenzione ad una conseguenza affatto eversiva del l’ordinamento, in base alla quale «chi per decidere si ispira alle esigenze del fatto non si sta preoccupando della logica del diritto, e decide in base a quello che il diritto (secondo lui) dovrebbe dire più che in base a quel che dice», come avverte opportunamente A. Gentili, Un dialogo con la giurisprudenza sulla forma del “mandato fiduciario” immobiliare, cit., p. 609. 91 Giacché, ad esempio, il fiduciante non potrà pretendere il trasferimento dell’immobile acquistato ad opera del fiduciario col suo denaro dal terzo (così anche A. Gentili, Un dialogo con la giurisprudenza sulla forma del “mandato fiduciario” immobiliare, cit., p. 610). 92 Lo rileva già F. Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile9, cit., p. 181. Cfr. anche A. Gentili, Un dialogo con la giurisprudenza sulla forma del “mandato fiduciario” immobiliare, cit., pp. 610-611, che esprime perplessità su una ricostruzione del fenomeno in base alla quale l’atto è governato dalla fiducia ma l’effetto viene disciplinato secondo diritto (e, peraltro, esclusivamente sotto il profilo formale). 90
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solo la sintesi tra le due prospettive in coerenza con il sistema, oltre a essere sempre auspicabile nella disamina scientifica dei problemi, sia anche idonea a realizzare risultati concretamente sostenibili e satisfattivi degli interessi coinvolti93.
Autorevole dottrina, difatti, ha dato ulteriore conferma della fecondità di una siffatta prospettiva nell’affrontare il problema oggetto del presente scritto: cfr. G. Vettori, Sulla morfologia del contratto. Il patto fiduciario e le Sezioni Unite della Cassazione, cit., passim e in part. pp. 168-169, ove la proposta ermeneutica formulata, al di là dell’adesione o meno ad essa, costituisce in termini metodologici un apprezzabile esito della contestuale attenzione ai valori e al sistema come perni equiordinati attorno ai quali deve condursi l’analisi (non solo) giusprivatistica. 93
Corte di Cassazione – Sezioni Unite 17 dicembre 2020, n. 28972 (sent.) Presidente Curzio, Relatore Di Marzio Condominio – Diritto di uso esclusivo – Preclusione La pattuizione avente ad oggetto la creazione del c.d. “diritto reale di uso esclusivo” su una porzione di cortile condominiale, costituente come tale parte comune dell’edificio, mirando alla creazione di una figura atipica di diritto reale limitato, tale da incidere, privandolo di concreto contenuto, sul nucleo essenziale del diritto dei condomini di uso paritario della cosa comune, sancito dall’art. 1102 c.c., è preclusa dal principio, insito nel sistema codicistico, del numerus clausus dei diritti reali e della tipicità di essi.
Fatti di causa 1. Tre sorelle, comproprietarie in regime di comunione di un edificio situato in (omissis), costituito, nell’arco temporale che qui rileva, da tre unità immobiliari ad uso commerciale al piano terra ed altre tre unità ad uso residenziale al primo piano, oltre che da parti comuni, in particolare un cortile retrostante ed un’area antistante i locali commerciali, procedettero nel (omissis) allo scioglimento della comunione, all’esito del quale una delle tre condividenti, Br.As., divenne proprietaria esclusiva di un appartamento al primo piano nonché del “negozio posto al piano terra con l’uso esclusivo della porzione di corte antistante distinti al N.C.E.U. alla pagina (omissis) – foglio (omissis) particella (omissis)”. Determinatasi per effetto dello scioglimento della comunione una situazione di condominio dell’edificio, Br.As. alienò a R.L. e O.E., nel (omissis), il proprio appartamento al primo piano ed il “negozio posto al piano terra con l’uso esclusivo della porzione di corte antistante, distinto al N.C.E.U. di detto Comune alla partita (omissis) foglio (omissis) particella (omissis)”. Nel cortile retrostante
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il fabbricato, cortile costituente parte comune ai soli appartamenti ad uso residenziale al primo piano, le tre originarie comproprietarie avevano inoltre realizzato un vano destinato a servizio igienico. 2. B.G. e Be.Pi., divenuti proprietari per acquisto fattone, all’esito di una procedura espropriativa, degli altri due appartamenti ad uso residenziale al primo piano, convennero in giudizio R.L. e O.E., nel 2002, dinanzi al Tribunale di Rimini chiedendo accertarsi: […] che i convenuti si erano appropriati dell’area comune condominiale antistante il loro negozio, lungo la (omissis), mediante l’installazione di una tettoia e di una chiusura a pannelli, essendo viceversa essi privi, al riguardo, di un valido titolo giustificativo […]. 3. R.L. e O.E. si costituirono e resistettero alla domanda. […] Quanto all’area antistante il negozio, lungo la (omissis), chiesero respingersi la domanda per aver diritto all’uso esclusivo in forza del titolo, ovvero per usucapione della relativa servitù, ovvero in forza dell’art. 1021 c.c. 4. L’adito Tribunale rigettò integralmente le domande principali e riconvenzionali, con compensazione integrale di spese. 5. B.G. e Be.Pi. proposero appello al quale R.L. e O.E. resistettero, spiegando a loro volta appello incidentale. 6. Con sentenza del 23 luglio 2015 la Corte d’appello di Bologna respinse l’appello principale e, in accoglimento dell’appello incidentale spiegato da R.L. e O.E., dichiarò che i manufatti esistenti nel cortile retrostante il fabbricato avevano natura condominiale ed ordinò a B.G. e Be.Pi. di cessare l’uso esclusivo, al fine di consentire a tutti i condomini il pari utilizzo, regolando le spese di lite in applicazione del principio della soccombenza. Osservò la Corte territoriale che: – la consulenza tecnica d’ufficio espletata in primo grado aveva dato indicazioni equivoche sulla natura condominiale dell’area antistante i locali commerciali, giacché l’ausiliare aveva per un verso evidenziato essere senz’altro condominiale il cortile retrostante, risultando invece, sulla base delle schede catastali, l’area verso (omissis) e (omissis) “a disposizione dei negozi al piano terra”, ma per altro verso aveva infine concluso che le verande realizzate sull’area
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antistante il negozio R. O. “insistono anche loro totalmente su area condominiale”, affermazione, questa, che non trovava però alcun riscontro né nei documenti acquisiti dal tecnico e neppure nella descrizione degli accertamenti catastali da lui compiuti; – la locuzione “uso esclusivo della corte antistante”, contenuta sia nell’atto di divisione del 1980 che in quello di compravendita del 1983, non era dirimente, potendo essa rivelare l’intento dei contraenti di riconoscere, con l’uso esclusivo, la natura pertinenziale delle corti antistanti i singoli negozi, in quanto destinate in modo permanente al servizio di quei locali; – all’atto della costituzione del Condominio, prodottasi per effetto della divisione del 1980, le condividenti avevano indicato come incluso nelle parti comuni il terreno sottostante e circostante il fabbricato, “salvo gli usi esclusivi delle porzioni di corte antistanti i negozi”, manifestando così l’unanime volontà di escludere tali corti dalle parti comuni, esclusione contro la quale gli attori-appellanti nulla avevano comprovato; – in ogni caso l’uso esclusivo menzionato nella divisione e nella successiva compravendita andava ricondotto “all’uso delle parti condominiali ex artt. 1102 e 1122 c.c., proprio in considerazione del contesto nel quale l’uso venne costituito”; – l’uso esclusivo delle parti comuni, difatti, non sarebbe vietato da alcuna norma di legge e, al contrario, sarebbe espressamente contemplato dall’art. 1122 c.c.; al fine, poi, di determinare la portata e l’estensione del godimento spettante a ciascun partecipante sui beni comuni, nonché di accertare l’esistenza, in favore del singolo condominio, di particolari diritti di utilizzazione, contrastanti con la normale destinazione dei beni medesimi, occorrerebbe tener presente la situazione al momento della nascita del condominio, in relazione alle disposizioni del suo atto costitutivo e del regolamento se esistente; – nella specie l’uso esclusivo delle corti antistanti il negozio era stato attribuito alla condividente Br.As. concordemente da tutti i condomini con l’atto di costituzione del condominio in data 3 luglio 1980, regolarmente trascritto nei registri immobiliari, ed era stato
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poi trasferito agli odierni appellati dalla stessa condomina con la compravendita del 1983; – l’utilizzo delle corti, a voler ammettere la loro natura condominiale, anche se preclusivo di analoga possibilità di godimento da parte degli altri comproprietari, era comunque legittimo perché voluto in origine da tutti i condomini. 7. Per la cassazione della sentenza B.G. e Be.Pi. hanno proposto ricorso per sei mezzi. 8. R.L. e O.E. hanno resistito con controricorso. 9. Con ordinanza del 2 dicembre 2019, n. 31420, la seconda sezione civile di questa Corte ha disposto la trasmissione degli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, tanto per esigenza di composizione di contrasto, quanto per la particolare importanza della questione, sulla natura dell’uso esclusivo in ambito condominiale. (omissis) Ragioni della decisione 1. Il ricorso contiene sei motivi. 1.1. Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1362,1117 e 950 c.c., nonché nullità della sentenza in relazione all’art. 112 c.p.c. Le tre sorelle Br., secondo i ricorrenti, con l’atto di divisione di cui si è detto sarebbero divenute ciascuna proprietaria esclusiva dei singoli appartamenti e negozi di cui si componeva l’edificio, lasciando tra le “parti ed enti comuni” il “terreno sottostante e circostante il fabbricato”, fatti salvi gli “usi esclusivi” delle porzioni di corte antistanti i negozi: il che – si sostiene – non comportava l’attribuzione alle condividenti della piena ed esclusiva proprietà delle corti antistanti i negozi, come poteva anche desumersi dallo stato dei locali al piano terra all’epoca della divisione. 1.2. Il secondo motivo di ricorso censura la violazione e falsa applicazione dell’art. 11 disp. gen. e dell’art. 1122 c.c., come rifor-
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mulato dalla L. n. 220 del 2012, avendo la Corte d’appello errato nel motivare la propria sentenza anche sulla scorta del disposto di tale disposizione come novellata, non applicabile ratione temporis. 1.3. Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1102 c.c., avendo errato la Corte di appello nel fare applicazione dei principi in tema di uso della cosa comune, pur dopo aver negato la configurabilità di un diritto reale d’uso ex art. 1021 c.c. 1.4. Il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1021 e 1024 c.c. e art. 112 c.p.c., avendo errato la Corte d’appello nell’escludere che con l’atto di divisione le sorelle Br. avessero costituito in favore di Br.As. un diritto reale di uso, in conformità alla previsione dell’art. 1021 c.c., concernente la porzione antistante il negozio poi venduto ai convenuti. Venuto ad esistenza il condominio con l’atto di divisione, difatti, l’intera corte circostante il fabbricato – secondo i ricorrenti – aveva acquisito la natura di parte comune, con attribuzione a Br.As. dell’uso esclusivo della porzione antistante il negozio assegnatole allo scioglimento della comunione, ai sensi del citato art. 1021 c.c.: ma, non essendo stata pattuita l’alienabilità di siffatto diritto d’uso, la cessione di esso, nel 1983, dalla Br.As. a R.L. e O.E. doveva reputarsi nulla in forza del disposto dell’art. 1024 c.c. 1.5. Il quinto motivo denuncia nullità della sentenza in relazione all’art. 112 c.p.c., nonché la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 11 disp. gen., in relazione all’accoglimento dell’appello incidentale. Si sostiene che non era affatto controversa tra le parti la natura condominiale della corte posteriore al fabbricato e dei relativi manufatti ivi realizzati, così come non era controverso che i convenuti avessero l’uso esclusivo di una delle cantine poste sul retro dell’edificio, avendo piuttosto costoro replicato che gli attori avessero a loro volta l’uso esclusivo di altre due cantine. Tale ultima circostanza era stata reputata dalla Corte d’appello non contestata da B. Be., quantunque essi non fossero esposti ad un onere di contestazione specifica dei fatti di causa, in quanto nel
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processo non trovava applicazione ratione temporis l’art. 115 c.p.c., come novellato dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 45, comma 14. 1.6. Il sesto motivo di ricorso denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., avendo la Corte di appello erroneamente pronunciato la condanna alle spese, senza tener conto della condotta processuale dei convenuti. 1.7. Il ricorso, nelle pagine da 42 a 46, contiene poi richiami ad alcuni temi di lite, in previsione dell’eventuale giudizio di rinvio e delle difese eventuali degli intimati, senza svolgere, peraltro, ulteriori specifici motivi di censura riconducibili ad alcuna delle categorie previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1. 2. La rinuncia al ricorso accettata comporta dichiarazione di estinzione del processo, senza spese. 3. Ritengono tuttavia queste Sezioni Unite che occorra pronunciare nell’interesse della legge il principio di cui si dirà, in risposta al quesito posto dall’ordinanza di rimessione (per l’affermazione del principio di diritto in caso di rinuncia v. Cass., Sez. Un., 6 settembre 2010, n. 19051). 4. I primi quattro motivi di ricorso, è difatti osservato dall’ordinanza di questa Corte del 2 dicembre 2019, n. 31420, impongono di esaminare una questione di diritto decisa in senso difforme dalle sezioni semplici, e comunque investono una questione di massima di particolare importanza: quella della natura del c.d. “diritto reale di uso esclusivo” di parti comuni dell’edificio in ambito condominiale. Si osserva nell’ordinanza di rimessione: – a partire da Cass. 16 ottobre 2017, n. 24301 (seguita da Cass. 10 ottobre 2018, n. 24958; Cass. 31 maggio 2019, n. 15021; Cass. 4 luglio 2019, n. 18024; Cass. 3 settembre 2019, n. 22059) è stato affermato che non può ricondursi al diritto di uso previsto dall’art. 1021 c.c., il vincolo reale di “uso esclusivo” su parti comuni dell’edificio, riconosciuto, al momento della costituzione di un condominio, in favore di una unità immobiliare di proprietà individuale, in maniera da incidere sulla disciplina del godimento della cosa comune, nel senso di precluderne l’uso collettivo mediante attribuzione a taluno dei partecipanti di una facoltà integrale di servirsi
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della res e di trarne tutte le utilità compatibili con la sua destinazione economica; – la capostipite di tale orientamento, facendo leva sulle nozioni di “uso esclusivo”, contenuta nell’art. 1126 c.c. e di “uso individuale”, prevista dal novellato art. 1122 c.c., ha ritenuto che tali previsioni pattizie di “uso esclusivo”, senza escludere del tutto la fruizione “di una qualche utilità sul bene” in favore degli altri comproprietari, costituiscono deroghe all’art. 1102 c.c., espressione dell’autonomia privata, con effetto di conformazione dei rispettivi godimenti; entro tale inquadramento, l’uso esclusivo sì trasmetterebbe, al pari degli ordinari poteri dominicali sulle parti comuni, anche ai successivi aventi causa dell’unità cui l’uso stesso accede; l’uso esclusivo in ambito condominiale, così come prospettato, sarebbe, quindi, “tendenzialmente perpetuo e trasferibile”, e non riconducibile al diritto reale d’uso di cui agli artt. 1021 c.c. e segg., sicché non condividerebbe con quest’ultimo istituto né i limiti di durata, né i limiti di trasferibilità, e nemmeno le modalità di estinzione; neppure vi sarebbe alcun contrasto con il numerus clausus dei diritti reali, in quanto l’uso esclusivo condominiale sarebbe, piuttosto, una “manifestazione del diritto del condomino sulle parti comuni”; – questa configurazione appaga le diffuse esigenze avvertite dalla pratica notarile di dare al cosiddetto “uso esclusivo” di parti condominiali il rango di un diritto perpetuo e trasmissibile, a contenuto, dunque, non strettamente personale, e cioè stabilito a favore del solo usuario, collegando la facoltà di usare il bene non ad un soggetto, ma ad una porzione in proprietà individuale senza limiti temporali; – per converso, la qualificazione del diritto di uso esclusivo quale diritto “quasi uti dominus”, ma pur sempre con il limite di cui all’art. 1102 c.c., non risolve il problema della trascrivibilità, e quindi dell’opponibilità, dell’uso esclusivo sulla cosa comune, avuto riguardo al rilievo che di modificazioni del diritto di proprietà, di comunione o di condominio non si parla in alcuno dei primi tredici numeri dell’art. 2643 c.c., né nell’art. 2645 c.c., che prevede la trascrizione di “ogni altro atto o provvedimento che produce… taluni degli effetti dei contratti menzionati nell’art. 2643”, mentre solo il
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n. 14 dell’art. 2643 c.c., parla di sentenze (Le. non di atti negoziali) che operano “la modificazione” di uno dei diritti menzionati nei numeri precedenti; – il diritto di uso esclusivo di un bene condominiale, riservato soltanto al proprietario di una delle unità immobiliari, che non può assimilarsi ad una servitù prediale, né può essere ricostruito in termini di obbligazione propter rem, deve d’altronde confrontarsi con la diffusa considerazione che il godimento concreta una facoltà intrinseca del diritto di comunione, sicché la modifica del contenuto essenziale della comproprietà, consistente nella negazione della facoltà di uso del bene comune ad alcuni condomini, può discendere soltanto dalla costituzione di un diritto reale in favore dell’usuario, il che però appare precluso dall’osservazione che il nostro ordinamento tuttora non consente all’autonomia privata di scavalcare il principio del numero chiuso dei diritti reali. Invero – osserva tra l’altro l’ordinanza di rimessione – “la questione, cui occorre dare soluzione per decidere i primi quattro motivi di ricorso, circa la natura, i limiti e la opponibilità del diritto di uso esclusivo su beni comuni, involge evidentemente il più classico problema della utilizzabilità delle obbligazioni come espressioni di autonomia privata volte a regolare le modalità di esercizio dei diritti reali, opponendosi dai teorici che la libertà negoziale possa conformare unicamente i rapporti di debito, e non anche le situazioni reali: tale severa conclusione trova il suo fondamento sempre nel tradizionale principio del numerus clausus dei diritti reali, il quale si reputa ispirato da una esigenza di ordine pubblico, restando riservata al legislatore la facoltà di dar vita a nuove figure che arricchiscano i “tipi” reali normativi”. Dopodiché, nell’ordinanza che ha rimesso gli atti al Primo Presidente è segnalata sia la non uniformità dei responsi concernenti la natura del diritto di uso esclusivo, sia il suo rilievo di questione di massima di particolare importanza. Ed in effetti, come si vedrà, Cass. 16 ottobre 2017, n. 24301, più che porsi in diretto contrasto con un formato indirizzo giurisprudenziale precedente, ha prospettato una ricostruzione nuova. Tut-
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tavia, se, come osservato, il principio affermato da tale decisione è stato successivamente ribadito, è altrettanto vero che, ancor più di recente, la seconda sezione si è pronunciata in senso opposto, affermando che non può ipotizzarsi la costituzione di un uso reale atipico, esclusivo e perpetuo, che priverebbe del tutto di utilità la proprietà e darebbe vita a un diritto reale incompatibile con l’ordinamento (Cass. 9 gennaio 2020, n. 193). Sicché anche il contrasto è comunque allo stato effettivamente sussistente. 5. La questione si pone in generale nei termini seguenti. 5.1. Quanto all’origine del c.d. “diritto reale di uso esclusivo”, in ambito condominiale, si trova affermato, in dottrina, che esso sarebbe il frutto di una creazione giurisprudenziale, pur se relativamente tralaticia, di dubbia validità. In effetti, però, la clausola mediante la quale si concede ad una singola unità immobiliare l’uso esclusivo di un’area, nel nostro caso (e di solito) adibita come si vedrà a cortile, non nasce – come è del resto ovvio – dalla giurisprudenza, ma si è diffusa attraverso la prassi negoziale, in particolare notarile: e si è in particolare ipotizzato che tale diffusione possa aver trovato la sua ragion d’essere, almeno in taluni casi, quale escamotage per risolvere, tramite la qualificazione surrettizia, problemi catastali, ad esempio – è stato detto – per il mancato frazionamento dell’area comune. Nondimeno, è vero che nella giurisprudenza di questa Corte non è raro imbattersi in decisioni rese nell’ambito di liti in cui si controverteva della pretesa titolarità in capo ad un condomino (o ad alcuni condomini) di un diritto di uso esclusivo su una porzione, perlopiù cortilizia, dunque di una parte comune, ai sensi dell’art. 1117 c.c. A mero titolo di esempio possono rammentarsi pronunce concernenti: la compatibilità della funzione naturale di un cortile condominiale con la destinazione di esso all’uso esclusivo di uno o più condomini (Cass. 20 febbraio 1984, n. 1209); il diritto di godere in via esclusiva di un giardino comune conferito in uso al proprietario del piano terreno (Cass. 27 luglio 1984, n. 4451); la legittimità
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dell’installazione di una tenda su di uno spazio di proprietà comune, da parte del condomino del piano terreno che lo abbia in uso esclusivo e destinato a ristorante (Cass. 25 ottobre 1991, n. 11392); la possibilità di inserimento in un regolamento condominiale contrattuale della previsione dell’uso esclusivo di una parte dell’edificio definita comune a favore di una frazione di proprietà esclusiva (Cass. 4 giugno 1992, n. 6892; e v. al riguardo, ancora senza alcuna pretesa di completezza, Cass. 27 giugno 1978, n. 3169; Cass. 10 luglio 1975, n. 2727; Cass. 24 aprile 1975, n. 1600; Cass. 14 marzo 1975, n. 970); la destinazione di un bene, dall’originario proprietario dell’intero immobile, ad un uso esclusivo (Cass. 28 aprile 2004, n. 8119); l’uso esclusivo di un’area esterna al fabbricato, altrimenti idonea a soddisfare le esigenze di accesso all’edificio di tutti i partecipanti (Cass. 4 settembre 2017, n. 20712). 5.2. Nonostante la diffusione del fenomeno, tuttavia, non risulta che, prima di Cass. 16 ottobre 2017, n. 24301, sulla quale tra breve si tornerà, questa Corte abbia mai chiaramente preso posizione sul fondamento della configurabilità di un c.d. “diritto reale di uso esclusivo” di una parte comune – formula, varrà subito osservare, dalla forte caratterizzazione di ossimoro, laddove coniuga l’esclusività dell’uso con l’appartenenza della porzione a più condomini – e sulla sua natura: se, cioè, l’attribuzione ad un condomino di un diritto di uso esclusivo altro non sia, almeno in taluni casi, che una formula da intendersi come equivalente dell’attribuzione a lui della proprietà solitaria sulla porzione in discorso; se e come il diritto di uso esclusivo di una parte comune possa armonizzarsi con la regola basilare dettata dall’art. 1102 c.c., senz’altro applicabile al condominio per il rinvio dell’art. 1139 c.c., secondo cui ciascun comunista può servirsi della cosa comune; se il diritto di uso esclusivo abbia natura di diritto reale atipico o sia riconducibile ad una delle figure tipiche di diritto reale di godimento, ovvero se abbia natura non di diritto reale, bensì di diritto di credito. 5.3. In particolare, non sembra potersi isolare un indirizzo giurisprudenziale che riconduca il c.d. “diritto reale di uso esclusivo” alle servitù prediali.
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Si rinviene, difatti, una ormai non recente decisione nella quale si afferma, in generale, in relazione alle formule impiegate nei regolamenti condominiali contrattuali i quali stabiliscano “pesi sulle cose comuni a vantaggio dei piani o delle porzioni di piano”, che le soluzioni oscillerebbero tra le obbligazioni propter rem, gli oneri reali e le servitù reciproche, e che quest’ultima soluzione sarebbe quella preferibile, dal momento che “detti vincoli possono essere trascritti nei registri immobiliari” (Cass. 15 aprile 1999, n. 3749): ma tale pronuncia non si misura con le specifiche caratteristiche del c.d. “diritto reale di uso esclusivo”, il quale consiste non già nella semplice creazione di pesi sulle cose comuni a vantaggio di una o più proprietà solitarie, ma, come si avrà modo di dire, in un sostanziale svuotamento del diritto di proprietà sul fondo servente. 5.4. Con la pronuncia del 2017 poc’anzi richiamata si è affermato, come ha già rammentato l’ordinanza di rimessione, che l’“uso esclusivo” su parti comuni dell’edificio, riconosciuto, al momento della costituzione di un condominio, in favore di unità immobiliari in proprietà esclusiva, al fine di garantirne il migliore godimento, incide non sull’appartenenza delle dette parti comuni alla collettività, ma sul riparto delle correlate facoltà di godimento fra i condomini, che avviene secondo modalità non paritarie determinate dal titolo, in deroga a quello altrimenti presunto ex artt. 1102 e 1117 c.c. Tale diritto non è riconducibile al diritto reale d’uso previsto dall’art. 1021 c.c. e, pertanto, oltre a non mutuarne le modalità di estinzione, è tendenzialmente perpetuo e trasferibile ai successivi aventi causa dell’unità immobiliare cui accede (Cass. 16 ottobre 2017, n. 24301, che ha confermato la decisione di merito, che aveva respinto la domanda del condominio attore, tesa ad accertare che il diritto d’uso esclusivo su due porzioni del cortile, concesso con il primo atto di vendita dall’originario unico proprietario dell’intero edificio in favore di un’unità immobiliare e menzionato anche nell’allegato regolamento, non era cedibile, né poteva eccedere i trent’anni). Il ragionamento posto a base del principio di diritto così massimato si snoda come segue:
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– l’art. 1117 c.c., nell’indicare le parti comuni di un edificio in condominio, “se non risulta il contrario dal titolo”, consente che, al momento di costituzione del condominio, alcune delle parti altrimenti comuni possono essere sottratte alla presunzione di comunione; – se ciò è possibile, a fortiori è possibile, nella medesima sede costitutiva del condominio, che le parti convengano l’uso esclusivo di una parte comune in favore di uno o più condomini; – sotto la dizione sintetica di “uso esclusivo”, impiegata dall’art. 1126 c.c., contrapposta a quella di “uso comune”, contenuta nel l’art. 1122 c.c., nella formulazione risultante dalla L. n. 220 del 2012, ove è precisata una nozione già desumibile dal sistema, si cela la coesistenza, su parti comuni, di facoltà individuali dell’usuario e facoltà degli altri partecipanti (mai in effetti realmente del tutto esclusi dalla fruizione di una qualche utilità sul bene c.d. in uso esclusivo altrui), secondo modalità non paritarie, in funzione del migliore godimento di porzioni di piano in proprietà esclusiva cui detti godimenti individuali accedano; – deve riconoscersi nella parte comune, anche se sottoposta ad uso esclusivo, il permanere della sua qualità, appunto, comune, giacché l’attribuzione dell’uso esclusivo costituisce soltanto deroga da parte dell’autonomia privata al disposto dell’art. 1102 c.c., altrimenti applicabile anche al condominio, che consente ai partecipanti di fare uso della cosa comune “secondo il loro diritto”; – i partecipanti diversi dall’usuario esclusivo vedono diversamente conformati dal titolo i rispettivi godimenti, con maggiori utilità per l’usuario e minori utilità per gli altri condomini; – dalla qualifica della cosa in uso esclusivo nell’ambito del condominio quale parte comune di spettanza di tutti i partecipanti, tutti comproprietari, ma secondo un rapporto di riparto delle facoltà di godimento diverso, in quanto fissato dal titolo, da quello altrimenti presunto ex artt. 1117 e 1102 c.c., derivano i corollari dell’inerenza di tale rapporto a tutte le unità in condominio, con la conseguenza che l’uso esclusivo si trasmette, al pari degli ordinari poteri dominicali sulle parti comuni, anche ai successivi aventi causa sia dell’u-
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nità cui l’uso stesso accede che delle altre correlativamente fruenti di minori utilità; – l’uso esclusivo, quale connotazione del diritto di proprietà ex art. 832 c.c., o dell’altro diritto eventualmente spettante sull’unità immobiliare esclusiva cui accede, tendenzialmente perpetuo e trasferibile (nei limiti di trasferibilità delle parti comuni del condominio), non è riconducibile al diritto reale d’uso di cui all’art. 1021 c.c., di cui l’uso esclusivo di parte comune nel condominio non mutua i limiti di durata, trasferibilità e modalità di estinzione; – il riconoscimento dell’uso esclusivo non si pone in contrasto con il numerus clausus dei diritti reali. 5.4. Sulla configurabilità del c.d. “diritto reale di uso esclusivo” in ambito condominiale la dottrina non sembra aver fornito indicazioni univoche. 5.4.1. Si suggerisce anzitutto da alcuni di tener distinti i casi in cui la formula “uso esclusivo” sia impiegata al fine di identificare un diritto di contenuto diverso dalla proprietà ed i casi in cui, invece, la formula, ad esempio attraverso la previsione della perpetuità e trasmissibilità del diritto, miri proprio all’attribuzione del diritto di proprietà, con la finalità, come si accennava, di rimediare a problemi catastali. 5.4.2. Quanto al “diritto reale di uso esclusivo”, inteso in senso proprio, si afferma essere dubbia la validità di un accordo interno fra i comunisti che, in deroga all’art. 1102 c.c., assegni l’uso esclusivo, anche se di una parte del bene comune, solo ad uno o più comunisti. Difatti – si sottolinea – l’art. 1102 c.c., pone in evidenza un aspetto strutturale della comunione, il godimento, aspetto che, secondo un’opinione ampiamente accolta, non sarebbe suscettibile di subire modificazioni, beninteso sostanziali. 5.4.3. Nel tentativo di supportare sia il dato giurisprudenziale, formatosi anteriormente a Cass. 16 ottobre 2017, n. 24301, sia la prassi, si indica ancora in dottrina, come più rilevante appiglio, pur senza tacere le controindicazioni, l’art. 1126 c.c. 5.4.4. È stato affermato, inoltre, che un riconoscimento legislativo degli usi esclusivi, tali da determinare una modificazione del
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diritto di comproprietà, suscettibile quindi di trascrizione, potrebbe rinvenirsi nel D.Lgs. 20 maggio 2005, n. 122, art. 6, comma 2, lett. b), che impone al costruttore di indicare nel contratto relativo ad una futura costruzione le parti condominiali e le “pertinenze esclusive”. 5.4.5. Secondo altri, dopo alcune perplessità sull’utilizzazione del termine “uso”, tale da evocare il diritto reale di cui all’art. 1021 c.c., sarebbe stata superata ogni esitazione definendo tali diritti con l’espressione “uso esclusivo”, senza alcuna altra precisazione, ma nella consapevolezza che esso discenderebbe da un rapporto di servitù. Il fondo servente sarebbe costituito dal cortile, nella parte asservita; il fondo dominante sarebbe l’unità immobiliare a cui favore l’area è asservita; il peso imposto consisterebbe nella facoltà esclusiva per il condomino a cui favore è costituita la servitù di godere del cortile. Non osterebbe alla configurabilità di una servitù a favore del bene di proprietà esclusiva di un condomino ed a carico del condominio (o viceversa) il principio nemini res sua servit in quanto l’intersoggettività del rapporto sarebbe garantita dal concorso di altri titolari sul bene comune. 5.4.6. L’“uso esclusivo” di cui si discute, in ogni caso, non potrebbe essere ricondotto alla previsione dell’art. 1021 c.c. Difatti, l’“uso” ivi previsto è manifestazione del diritto, per il titolare, di servirsi di una cosa (e, se fruttifera, di raccoglierne i frutti) per quanto occorra ai bisogni suoi e della sua famiglia. Inoltre, secondo l’art. 1024 c.c., il diritto d’uso non si può cedere o dare in locazione, e la durata dello stesso, secondo l’art. 979 c.c., richiamato dall’art. 1026 c.c., non può eccedere la vita del titolare, se persona fisica, o trenta anni, se persona giuridica. Ne deriva che, per lo più, la locuzione “uso esclusivo” attiene alla destinazione del bene, e non alla qualificazione del diritto, sussumibile entro l’ambito di applicazione dell’art. 1021 c.c. 5.4.7. Vi è infine da rammentare, più in generale, che parte della dottrina ammette la creazione per contratto di diritti reali atipici, il
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che, se fosse vero, farebbe cadere ogni ostacolo al sorgere del c.d. “diritto reale di uso esclusivo”. 6. Ritengono le Sezioni Unite che il tema del c.d. “diritto reale di uso esclusivo” di parti comuni dell’edificio in ambito condominiale debba essere inquadrato nei termini che seguono. 6.1. Nell’art. 1102 c.c., rubricato “uso della cosa comune”, dettato per la comunione ma applicabile al condominio per il tramite dell’art. 1139 c.c., il vocabolo “uso” si traduce nel significato del “servirsi della cosa comune”. Nell’art. 1117 c.c., che apre il capo dedicato al condominio, ricorre per tre volte, in ciascuno dei numeri in cui la norma si suddivide, l’espressione “uso comune”, che ripete e sintetizza la previsione dell’art. 1102 c.c. Nella locuzione “servirsi della cosa comune” si riassumono le facoltà ed i poteri attraverso i quali il partecipante alla comunione, ovvero il condomino, ritrae dalla cosa le utilità di cui essa è capace, entro i limiti oggettivi della sua “destinazione”, cui pure si riferisce l’art. 1102 c.c. L’“uso”, quale sintesi di facoltà e poteri, costituisce allora parte essenziale del contenuto intrinseco, caratterizzante, del diritto di comproprietà, come, ovviamente, di quello di proprietà, a tenore del dettato dell’art. 832 c.c. L’uso è cioè (non diritto, bensì) uno dei modi attraverso i quali può esercitarsi il diritto, e forma parte intrinseca e caratterizzante, nucleo essenziale, del suo contenuto. L’art. 1102 c.c., ribadisce ulteriormente il carattere intrinseco e caratterizzante dell’“uso della cosa comune” laddove istituisce l’obbligo del partecipante di non impedire agli altri “di farne parimenti uso secondo il loro diritto”. 6.2. Nella formula “parimenti uso” si riassumono i connotati, per così dire normali, dell’uso della cosa comune nell’ambito della comunione e del condominio, uso in linea di principio, ed almeno in potenza, per l’appunto indistintamente paritario, promiscuo e simultaneo. Ciò non esclude la possibilità di un “uso” più intenso da parte di un condomino rispetto agli altri (Cass. 30 maggio 2003, n. 8808; Cass. 27 febbraio 2007, n. 4617; Cass. 21 ottobre 2009, n. 22341;
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Cass. 16 aprile 2018, n. 9278), tanto più che l’art. 1123 c.c., comma 2, contempla espressamente la possibile esistenza di cose destinate a servire i condomini “in misura diversa”, regolando il riparto delle spese in proporzione dell’uso, previsione che trova ulteriore specificazione nel successivo art. 1124 c.c., con riguardo alla manutenzione e sostituzione di scale e ascensori. L’uso della cosa comune può assumere inoltre caratteri differenziati rispetto alla regola della indistinta paritarietà, tuttavia pur sempre mantenuta ferma mediante un congegno di reciprocità: così, entro limiti che qui non occorre approfondire, per l’uso frazionato (Cass. 14 luglio 2015, n. 14694; Cass. 11 aprile 2006, n. 8429; Cass. 14 ottobre 1998, n. 10175; Cass. 28 gennaio 1985, n. 434; Cass. 6 dicembre 1979, n. 6338) e per l’uso turnario (Cass. 12 dicembre 2017, n. 29747; Cass. 19 luglio 2012, n. 12485; Cass. 3 dicembre 2010, n. 24647; Cass. 4 dicembre 1991, n. 13036), ipotesi, quest’ultima, ricorrente nel caso della destinazione di cortili a posti auto in numero insufficiente a soddisfare simultaneamente le esigenze di tutti i condomini. È inoltre ben vero che l’art. 1102 c.c., nel prescrivere che ciascun partecipante può servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto, non pone una norma inderogabile, i cui limiti non possano essere resi più severi dal regolamento condominiale (Cass. 20 luglio 1971, n. 2369). Se, però, i suddetti limiti possono essere resi più rigorosi dal regolamento condominiale, resta fermo che non è consentita l’introduzione di un divieto di utilizzazione generalizzato delle parti comuni (Cass. 29 gennaio 2018, n. 2114; Cass. 4 dicembre 2013, n. 27233). 6.3. Questo essendo il quadro, il c.d. “diritto reale di uso esclusivo” va evidentemente a collocarsi al di là dell’osservanza della regola del “farne parimenti uso”, pur declinata nelle forme particolari di cui si è detto: uso frazionato e uso turnario. Nel caso dell’“uso esclusivo”, proprio perché esclusivo, cioè, si elide – rimanendo da verificare se ed in che limiti ciò sia giuridicamente fattibile – il collegamento tra il diritto ed il suo contenuto,
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concentrandosi l’uso in capo ad uno o alcuni condomini soltanto: tant’è che si è parlato in proposito, come già accennato, di uso “quasi uti dominus”. 6.4. Qualora l’esegesi dell’atto induca a ritenere che l’attribuzione abbia effettivamente riguardato, secondo la volontà delle parti, non la proprietà, sia pure in veste “mascherata”, ma il c.d. “diritto reale di uso esclusivo” su una parte comune, ferma la titolarità della proprietà di essa in capo al condominio, è da escludere che un simile diritto, con connotazione di realità, possa trovare fondamento sull’art. 1126 c.c. La norma stabilisce che, quando l’uso dei lastrici solari o di una parte di essi non è comune a tutti i condomini, quelli che ne hanno l’uso esclusivo sono tenuti a contribuire per un terzo nella spesa delle riparazioni o ricostruzioni del lastrico: gli altri due terzi sono a carico di tutti i condomini dell’edificio o della parte di questo a cui il lastrico solare serve in proporzione del valore del piano o della porzione di piano di ciascuno. Nella giurisprudenza di questa Corte sembra rinvenirsi un unico precedente in cui l’uso esclusivo ivi menzionato è espressamente qualificato come diritto reale di godimento, come tale usucapibile. Si afferma cioè essere esatto che i lastrici solari, necessari all’uso comune dell’edificio, del quale svolgono la funzione di copertura, non possono in generale essere usucapiti, mentre possono essere ceduti in proprietà ad un solo condomino. Si rammenta, difatti, che l’usucapione non può aver luogo in ordine ai lastrici solari, per i quali sono concettualmente insopprimibili le utilità tratte dagli altri partecipi della comunione, per effetto della connaturata destinazione di tali cose alla copertura ed alla protezione del fabbricato. Ma si aggiunge che l’art. 1126 c.c., prevede espressamente che uno dei condomini possa avere l’uso esclusivo del calpestio del lastrico e dunque possa usucapire il diritto di calpestio esclusivo. E si ricorda che la dottrina definisce tale uso esclusivo di calpestio come diritto reale equivalente ad una servitù, perfettamente usucapibile. Sicché nulla esclude l’acquisto per usucapione non della proprietà del lastrico solare, ma, appunto, del diritto esclusivo di calpestio,
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che si presenta oggettivamente come autonomo dal diritto di proprietà (così Cass. 17 aprile 1973, n. 1103). Ciò detto, la previsione dettata dall’art. 1126 c.c., è riferita ad una situazione del tutto peculiare, quale quella dei lastrici solari, che, pur svolgendo una funzione necessaria di copertura dell’edificio, e costituendo come tali parti comuni, possono però essere oggetto di calpestio, per la loro conformazione ed ubicazione, soltanto da uno o alcuni condomini, sicché l’uso esclusivo nel senso sopra descritto non priva gli altri condomini di alcunché, perché essi non vi potrebbero comunque di fatto accedere. Dalla previsione dell’art. 1126 c.c., allora, può semmai desumersi a contrario che non sono configurabili ulteriori ipotesi di uso esclusivo, le quali, in violazione della regola generale stabilita dal già richiamato art. 1102 c.c., nonché dei principi, di cui si parlerà più avanti, del numerus clausus e di quello di tipicità dei diritti reali (principi secondo cui i privati non possono creare figure di diritti reali nuovi rispetto a quelli riconosciuti dalla legge, né mutarne il contenuto essenziale), sottraggano a taluni condomini il diritto di godimento della cosa comune loro spettante. L’art. 1126 c.c., avuto riguardo ai menzionati principi, non si presta dunque a fungere da punto d’appoggio per la costruzione di un più ampio “diritto reale di uso esclusivo” delle parti comuni, ma, tutt’al più, ove ne ricorrano i presupposti, ad una cauta applicazione estensiva, come per le terrazze che fungano da copertura di un edificio, le quali rispetto al lastrico offrono utilità ulteriori, ovverosia il comodo accesso e la possibilità di trattenersi (la distinzione è evidenziata p. es. da Cass. 22 novembre 1996, n. 10323). 6.5. Neppure rileva che la riforma del condominio del 2012 abbia introdotto talune ipotesi di concessione a singoli condomini di un godimento apparentemente non paritario, giacché, pur volendo tralasciare che tali previsioni, per la loro eccezionalità, non possono concorrere alla costruzione di un principio generale, è da escludere che esse comportino modificazioni strutturali alla comproprietà delle parti comuni in favore del titolare dell’uso.
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L’art. 1122 c.c., comma 1, prevede che nelle parti normalmente destinate all’uso comune che sono state destinate all’“uso individuale” il condomino non può eseguire opere che determinino pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza o al decoro architettonico dell’edificio. Al riguardo, è agevole osservare che la norma neppure fa riferimento univoco ad un ipotetico “diritto reale di uso esclusivo”, mentre essa ben può essere riferita al caso, già ricordato, dell’uso frazionato delle parti comuni. L’art. 1120 c.c., comma 2, n. 2, poi, consente, tra l’altro, che i condomini, con una maggioranza meno rigorosa di quella prevista per le innovazione in genere, possono disporre opere ed interventi per la realizzazione di parcheggi destinati a servizio delle unità immobiliari. E tuttavia la norma non chiarisce se i posti auto realizzati debbano essere attribuiti in proprietà esclusiva, costituendo in tal caso pertinenze delle singole unità immobiliari, o in godimento frazionato in favore dei proprietari di tali unità immobiliari: – nel primo caso si tratterebbe di attribuzione in proprietà (la qual cosa si è già accennato essere pienamente compatibile con la regola generale dettata dall’art. 1117 c.c., che, riferendosi al “titolo diverso”, consente di assegnare in proprietà esclusiva porzioni dell’edificio che altrimenti ricadrebbero nelle parti comuni) e non del c.d. “diritto reale di uso esclusivo”; – nel secondo caso si rientrerebbe nell’ipotesi di uso frazionato già considerata. L’art. 1122 bis c.c., comma 2, ancora, consente la installazione di impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili destinati al servizio di singole unità immobiliari del condominio sul lastrico solare e su ogni altra idonea superficie comune. In base al comma 3 l’assemblea provvede, su richiesta degli interessati, a ripartire l’uso del lastrico solare e delle altre superfici comuni, salvaguardando le diverse forme di utilizzo previste dal regolamento di condominio o comunque in atto. Anche qui non emerge la configurabilità di un “diritto reale di uso esclusivo”. Ed anzi, il fatto che il godimento venga concesso a
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maggioranza dall’assemblea esclude che possa ricorrere una ipotesi di modificazione del contenuto del diritto di comproprietà. 6.6. È parimenti priva di fondamento la tesi, talora affermata, secondo cui un riconoscimento legislativo degli usi esclusivi, tali da determinare una modificazione del diritto di comproprietà, potrebbe desumersi dal D.Lgs. 20 maggio 2005, n. 122, art. 6, comma 2, lett. b), che obbliga il costruttore a indicare nel contratto relativo a futura costruzione le parti condominiali e le “pertinenze esclusive”. È già risolutivo osservare che si tratta di una norma eccezionale, dalla quale non potrebbe in ogni caso desumersi l’istituzione di un generale “diritto reale di uso esclusivo”. Ma, al di là di questo, la norma parla di pertinenze, e dunque ancora una volta di attribuzione in proprietà, secondo quanto si è già visto compatibile con l’assetto condominiale. 6.7. Posto che l’art. 1102 c.c., come si diceva applicabile al condominio, stabilisce che ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto, è da escludere che, così come talune parti altrimenti comuni, alla stregua dell’art. 1117 c.c., possono essere attribuite in proprietà esclusiva ad un singolo condomino, a maggior ragione esse possano essere attribuite, con caratteri di realità, ad un singolo condomino, in uso esclusivo. L’impiego dell’argomento a fortiori è difatti in tal caso un artificio retorico volto a dare per dimostrato ciò che doveva invece dimostrarsi: ossia che possa configurarsi una sostanzialmente totale compressione del godimento spettante ai condomini sulla cosa comune, con la speculare creazione di un atipico diritto reale di godimento, il diritto di uso esclusivo, in favore di uno o alcuni, di essi. Ed è parimenti un artificio retorico quello insito nell’affermazione secondo cui il c.d. “diritto di uso esclusivo” non sarebbe in realtà davvero esclusivo, poiché agli altri condomini rimarrebbe (nient’altro che) la possibilità di prendere aria e luce, nonché di esercitare la veduta in appiombo.
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Un diritto reale di godimento di uso esclusivo, in capo ad un condomino, di una parte comune dell’edificio, privando gli altri condomini del relativo godimento, e cioè riservando ad essi un diritto di comproprietà svuotato del suo nucleo fondamentale, determinerebbe, invece, un radicale, strutturale snaturamento di tale diritto, non potendosi dubitare che il godimento sia un aspetto intrinseco della proprietà, come della comproprietà: salvo, naturalmente, che la separazione del godimento dalla proprietà non sia il frutto della creazione di un diritto reale di godimento normativamente previsto. 6.8. Siffatto c.d. “diritto reale di uso esclusivo” non è inquadrabile tra le servitù prediali. Si è già visto che non esiste un orientamento giurisprudenziale in tal senso. All’inquadramento non osta il principio nemini res sua servit, il quale trova applicazione soltanto quando un unico soggetto è titolare del fondo servente e di quello dominante e non anche quando il proprietario di uno di essi sia anche comproprietario dell’altro, giacché in tal caso l’intersoggettività del rapporto è data dal concorso di altri titolari del bene comune (Cass. 6 agosto 2019, n. 21020, e già Cass. 27 luglio 1984, n. 4457; Cass. 24 giugno 1967, n. 1560; Cass. 22 luglio 1966, n. 2003). Vi osta la conformazione della servitù, che può sì essere modellata in funzione delle più svariate utilizzazioni, pur riguardate dall’angolo visuale dell’obbiettivo rapporto di servizio tra i fondi e non dell’utilità del proprietario del fondo dominante, ma non può mai tradursi in un diritto di godimento generale del fondo servente, il che determinerebbe lo svuotamento della proprietà di esso, ancora una volta, nel suo nucleo fondamentale. Ed è perciò che questa Corte ha da lungo tempo affermato, ad esempio, che, essendo requisiti essenziali della nozione di servitù il carattere di peso e l’utilità del rapporto di dipendenza tra i due fondi, deve ritenersi contraria all’ordine pubblico, ove non rientri negli schemi dell’uso, dell’usufrutto o dell’abitazione, la convenzione, con la quale il proprietario del c.d. fondo servente si riserva la sola utilizzazione del legname per uso di carbonizzazione e la facoltà di
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compiere soltanto lavori attinenti alla sua industria di produzione di energia elettrica, e concede al proprietario del c.d. fondo dominante il diritto di far proprio ogni altro prodotto (Cass. 31 maggio 1950, n. 1343); ed ha ribadito che la costituzione della servitù, concretandosi in un rapporto di assoggettamento tra due fondi, importa una restrizione delle facoltà di godimento del fondo servente, ma tale restrizione, se pur commisurata al contenuto ed al tipo della servitù, non può, tuttavia, risolversi nella totale elisione delle facoltà di godimento del fondo servente. Al proprietario, pertanto, del fondo gravato da una servitù di passaggio, non può essere inibito di chiudere il fondo, purché lasci libero e comodo l’ingresso a chi esercita la servitù di passaggio o lasci, comunque, al di fuori della recinzione la zona del fondo, sulla quale, a tenore del titolo, la servitù deve esercitarsi (Cass. 22 aprile 1966, n. 1037). Ora, è del tutto evidente che, se ad un condomino spettasse a titolo di servitù l’“uso esclusivo” di una porzione di parte comune, agli altri condomini non rimarrebbe nulla, se non un vuoto simulacro. 6.9. Resta da chiedersi se la creazione di un atipico “diritto reale di uso esclusivo”, tale da svuotare di contenuto il diritto di comproprietà, possa essere il prodotto dell’autonomia negoziale. Il che è da escludere, essendovi di ostacolo il principio, o i principi, sovente in dottrina tenuti distinti, sebbene in gran parte sovrapponibili, del numerus clausus dei diritti reali e della tipicità di essi: in forza del primo solo la legge può istituire figure di diritti reali; per effetto del secondo i privati non possono incidere sul contenuto, snaturandolo, dei diritti reali che la legge ha istituito. Parte della dottrina, certo minoritaria, predica, non solo in Italia, il vanificarsi del dogma – così talora definito, in alternativa ad altre qualificazioni in termini di mistero od enigma – del numerus clausus e della tipicità dei diritti reali. Contro di esso si invoca, in breve, una sorta di pari dignità dei diritti reali e dei diritti di credito, riguardati nella prospettiva dell’autonomia privata, che, dall’uno e dall’altro versante, non incontrerebbe altro limite, se non quello derivante dalla contrarietà
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all’ordine pubblico, dall’illiceità del contratto e dalla meritevolezza dell’interesse perseguito. Di guisa che i privati potrebbero così dar vita per contratto ad ogni genere di diritto, di natura reale od obbligatoria, purché nel rispetto dei principi inderogabili dell’ordinamento giuridico. Si è osservato, sotto altro aspetto, che nessuno meglio delle parti stesse potrebbe rispondere, tempestivamente, alle sempre nuove esigenze che il traffico giuridico pone, mentre il legislatore non riuscirebbe a garantire eguale tempestività, né completezza di strumenti. Dall’angolo visuale dell’analisi economica del diritto si è detto che i principi in discorso determinerebbero diseconomie, sulle quali non è per vero il caso qui di soffermarsi. E può aggiungersi che l’atteggiamento di disfavore verso i menzionati principi ha avuto qualche riscontro in giurisprudenza, a partire dal 2012, con l’arret Maison de poesie, proprio laddove essi si sono riaffermati con la codificazione ottocentesca, dopo una parentesi – come è stato detto – di oltre otto secoli. Ora, ad evidenziare quanto fallace sia l’idea di diritti reali creati per contratto, dovrebbe essere sufficiente osservare che le situazioni reali si caratterizzano per la sequela, per l’opponibilità ai terzi: i diritti reali, cioè, si impongono per forza propria ai successivi acquirenti della cosa alla quale essi sono inerenti, che tali acquirenti lo vogliano o non lo vogliano: creare diritti reali atipici per contratto vorrebbe dire perciò incidere non solo sulle parti, ma, al di fuori dei casi in cui la legge lo consente, anche sugli acquirenti della cosa: ed in definitiva, paradossalmente, vincolare terzi estranei, in nome dell’autonomia contrattuale, ad un regolamento eteronimo. Quando si afferma, allora, che i principi in discorso non sarebbero espressione di una norma positivamente codificata, ma tutt’al più si radicherebbero semplicemente nella tradizione, in vista di un generico scopo di certezza dei traffici giuridici – scopo, occorre aggiungere, che peraltro basterebbe da solo a rendere ragione dei principi medesimi –, sicché nulla osterebbe a far sorgere dall’autonomia contrattuale diritti reali atipici, non si tiene nella necessaria considerazione che una espressa disposizione in tal senso sarebbe stata superflua, in un sistema che, dopo aver minuziosamente tipizzato e
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regolato gli iura in re aliena (cosa già di per sé scarsamente comprensibile, ove potessero crearsene di atipici in numero infinito), pone al centro della disciplina del contratto, come la dottrina ha da assai lungo tempo evidenziato, l’art. 1372 c.c., che limita gli effetti di esso alle parti, con la precisazione che solo la legge può contemplare la produzione di effetti rispetto ai terzi: escludendo così in radice che il contratto, se non sia la legge a stabilirlo, possa produrre effetti destinati a riflettersi nella sfera di soggetti estranei alla negoziazione. Tale impianto del codice civile, di per sé autosufficiente, si rafforza poi nel quadro costituzionale, in applicazione dell’art. 42 Cost., laddove esso pone una riserva di legge in ordine ai modi di acquisto e, per l’appunto, di godimento, oltre che ai limiti, allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti, senza che la funzionalizzazione della proprietà offra alcun sensato argomento che spinga nel senso della configurabilità di diritti reali limitati creati per contratto. Il principio del numerus clausus e della tipicità, infine, non incontra ostacoli nell’ordinamento Eurounitario, giacché l’art. 345 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea lascia “del tutto impregiudicato il regime di proprietà esistente negli Stati membri”. A rincalzo delle raggiunte conclusioni, può ulteriormente osservarsi: – che l’art. 1322 c.c., colloca nel comparto contrattuale il principio dell’autonomia; – che l’ordinamento mostra di guardare sotto ogni aspetto con sfavore a limitazioni particolarmente incisive del diritto di proprietà, in particolare connotate da perpetuità, finanche tra le stesse parti, come si desume dalla disposizione dell’art. 1379 c.c., con riguardo alle condizioni di validità del divieto convenzionale di alienare (v. per la portata generale della regola Cass. 17 novembre 1999, n. 12769; Cass. 11 aprile 1990, n. 3082; e da ult. Cass. 20 giugno 2017, n. 15240, in relazione al vincolo perpetuo di destinazione imposto dal testatore con clausola modale); – che l’art. 2643 c.c., contiene un’elencazione tassativa dei diritti reali soggetti a trascrizione, il che ineluttabilmente conferma trattarsi di numerus clausus.
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Quanto all’adempimento della formalità della trascrizione, del resto, essa vale a risolvere i conflitti tra successivi acquirenti a titolo derivativo (sugli acquisti a titolo originario, in relazione al rilievo della trascrizione, v. ex multis Cass. 3 febbraio 2005, n. 2161; Cass. 10 luglio 2008, n. 18888, con riguardo alla servitù acquistata per usucapione), ma, essendo dotata di efficacia meramente dichiarativa (Cass. 19 agosto 2002, n. 12236), non incide sulla validità ed efficacia di essi, ed è quindi priva di efficacia sanante dei vizi di cui sia affetto l’atto negoziale, ed inidonea ad attribuirgli la validità di cui esso sia altrimenti privo (Cass. 14 novembre 2016, n. 23127). E dunque, ammesso e non concesso che una simile trascrizione sia oggi tecnicamente possibile, non ha cittadinanza nel diritto vigente una regola generale che faccia discendere dalla trascrizione – se non sia il legislatore, ovviamente, a stabilirlo – l’efficacia erga omnes di un diritto che non abbia già in sé il carattere della realità. Ciò – sia detto per inciso – a tacere del rilievo, rimanendo alla trascrizione, che il c.d. “diritto reale di uso esclusivo”, ove inteso come prodotto della atipica modificazione negoziale del diritto di comproprietà, non sarebbe comunque trascrivibile, dal momento che l’art. 2643 c.c., contempla al numero 14 la trascrizione delle sentenze, non degli atti negoziali, che operano la modificazione di uno dei diritti precedentemente elencati dalla norma. 6.10. Ecco, dunque, che nella giurisprudenza di questa Corte il principio della tipicità del diritti reali, con quello sovrapponibile del numerus clausus, è fermo. E cioè, non è configurabile la costituzione di diritti reali al di fuori dei tipi tassativamente previsti dalla legge (Cass. 26 marzo 1968, n. 944). Difatti, “la proprietà non deve essere asservita per ragioni privatistiche in modo tale da rendersi quasi illusoria e priva di contenuto, inetta quindi a realizzare i propri fini essenziali, convergenti da un lato alla integrazione e allo sviluppo della personalità individuale e dall’altro al benessere e al progresso della comunità attraverso l’incremento della produzione e l’attivazione degli scambi. Di qui la necessità di non abbandonare all’autonomia privata la materia dei diritti reali (iura in re aliena) e di mantenere la loro creazione entro
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schemi inderogabili fissati da esigenze di ordine pubblico” (Cass. 31 maggio 1950, n. 1343). È stata così rimarcata la differenza dal punto di vista sostanziale e contenutistico, del diritto reale d’uso e del diritto personale di godimento, che va colta proprio nella ampiezza ed illimitatezza del primo, conformemente al canone di tipicità dei diritti reali delineato dalla legge, rispetto alla multiforme atteggiabilità del secondo, che proprio in ragione della natura obbligatoria e non reale del rapporto giuridico prodotto, può essere diversamente regolato dalle parti nei suoi aspetti di sostanza e di contenuto. Sicché, è da tener fermo che “il principio di tipicità legale necessaria dei diritti reali… si traduce nella regola secondo cui i privati non possono creare figure di diritti reali al di fuori di quelle previste dalla legge, né possono modificarne il regime. Ciò comporta che i poteri che scaturiscono dal singolo diritto reale in favore del suo titolare sono quelli determinati dalla legge e non possono essere validamente modificati dagli interessati” (Cass. 26 febbraio 2008, n. 5034; richiamata da ultimo da Cass. 3 settembre 2019, n. 21965). Nello stesso senso si osservato che la potenziale estensione delle facoltà dell’usuario a tutte le possibilità di uso diretto della cosa è connotato distintivo del diritto di uso, e se, quindi, può ammettersi che il titolo costitutivo restringa il contenuto del diritto con l’esclusione di talune facoltà in esso naturalmente comprese, deve, al contrario, ritenersi che l’attribuzione di una soltanto tra le facoltà di uso consentite dalla natura del bene – tanto più se trattisi di un’utilità del tutto speciale ed estranea alla destinazione fondamentale della cosa – possa dar vita ad un rapporto obbligatorio, ma non possa configurarsi come costitutiva di un diritto reale di uso, che sarebbe essenzialmente diverso da quello previsto dalla legge e come tale inammissibile nel nostro ordinamento nel quale e mantenuto il principio della tipicità dei diritti reali (Cass. 12 novembre 1966, n. 2755). In applicazione del principio di tipicità dei diritti reali di godimento è stato stabilito che non è configurabile un rapporto di così detto dominio utile, corrispondente a uno ius in re aliena, cioè un diritto di godere di un fondo altrui in perpetuo, non essendo
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consentiti, al di fuori dei casi previsti alla legge, rapporti di natura perpetua, in quanto contrari a interessi di natura pubblicistica (Cass. 26 settembre 2000, n. 12765). E si è ripetuto che le obbligazioni propter rem, come pure gli oneri reali, sono caratterizzati dal requisito della tipicità, con la conseguenza che possono sorgere per contratto solo nei casi e col contenuto espressamente previsti dalla legge (Cass. 4 dicembre 2007, n. 25289; Cass. 11 marzo 2010, n. 5888; Cass. 26 febbraio 2014, n. 4572; Cass. 15 ottobre 2018, n. 25673; Cass. 2 gennaio 1997, n. 8; Cass. 22 luglio 1966, n. 2003; contra isolatamente e senza specifici argomenti Cass. 6 marzo 2003, n. 3341, ove tuttavia si riconosce che “al principio di tipicità sono vincolati i diritti reali”). Ciò sulla scia di Cass. 18 gennaio 1951, n. 141, secondo cui oneri reali e obbligazioni propter rem “non possono avere un’applicazione generale e illimitata, ma costituiscono figure ammissibili soltanto nei casi previsti dalla legge”. La qual cosa, a parte l’obbiettiva difficoltà di guardare al c.d. “diritto di uso esclusivo” come ad una obbligazione propter rem, esclude anche la possibilità di tale ricostruzione. Atteso il principio di tipicità dei diritti reali la trascrizione della donazione modale non fa acquisire all’onere carattere reale (Cass. 9 giugno 2014, n. 12959). Né, “stante il principio di tipicità dei diritti reali, è possibile rimettere tout court alla scelta dei privati la creazione di figure di proprietà che presentino uno sdoppiamento tra la titolarità formale e quella sostanziale dei beni o forme di dissociazione tra titolarità e legittimazione” (Cass. 10 febbraio 2020, n. 3128). D’altronde, la tematica delle c.d. servitù irregolari muove proprio dal principio di tipicità dei diritti reali, potendo così esse dar vita esclusivamente a rapporti obbligatori, nel quadro di applicazione del principio dell’autonomia contrattuale di cui all’art. 1322 c.c. (Cass. 11 marzo 1981, n. 1387; Cass. 4 febbraio 2010, n. 2651, e, da ult. Cass. 9 ottobre 2018, n. 24919). 6.11. In definitiva, va affermato il principio che segue: “La pattuizione avente ad oggetto la creazione del c.d. “diritto reale di
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uso esclusivo” su una porzione di cortile condominiale, costituente come tale parte comune dell’edificio, mirando alla creazione di una figura atipica di diritto reale limitato, tale da incidere, privandolo di concreto contenuto, sul nucleo essenziale del diritto dei condomini di uso paritario della cosa comune, sancito dall’art. 1102 c.c., è preclusa dal principio, insito nel sistema codicistico, del numerus clausus dei diritti reali e della tipicità di essi”. Restando ovviamente riservata al legislatore la facoltà di dar vita a nuove figure che arricchiscano i tipi reali normativi. 7. Esclusa la validità della costituzione di un diritto reale di uso esclusivo di una parte comune dell’edificio, in ambito condominiale, sorge il problema della sorte del titolo negoziale che, invece, tale costituzione abbia contemplato. 7.1. Una volta ricordato che l’art. 1117 c.c., nel porre una presunzione di condominialità, consente l’attribuzione ad un solo condomino della proprietà esclusiva di una parte altrimenti comune, occorre anzitutto approfonditamente verificare, nel rispetto dei criteri di ermeneutica applicabili, se le parti, al momento della costituzione del condominio, abbiano effettivamente inteso limitarsi alla attribuzione dell’uso esclusivo, riservando la proprietà all’alienante, e non abbiano invece voluto trasferire la proprietà. Vero è che l’art. 1362 c.c., richiama al comma 1, il senso letterale delle parole, senso che, nel caso dell’impiego della formula “diritto di uso esclusivo”, depone senz’altro contro l’interpretazione dell’atto come diretto al trasferimento della proprietà; ma anche vero è che il dato letterale, pur di fondamentale rilievo, non è mai, da solo, decisivo, atteso che il significato delle dichiarazioni negoziali può ritenersi acquisito esclusivamente al termine del processo interpretativo che deve considerare tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extratestuali, indicati dal legislatore, anche quando le espressioni appaiano di per sé non bisognose di approfondimenti interpretativi, dal momento che un’espressione prima facie chiara può non apparire più tale se collegata alle altre contenute nella stessa dichiarazione o posta in relazione al comportamento com-
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plessivo delle parti (p. es. Cass. 1 dicembre 2016, n. 24560; Cass. 11 gennaio 2006, n. 261). 7.2. In tale prospettiva può leggersi, a esempio, la decisione di questa Corte in un caso in cui il regolamento condominiale richiamato in un preliminare di vendita contemplava “l’uso esclusivo dei balconcini esistenti nei ripiani intermedi a favore dei condomini proprietari di alloggi non aventi prospicienza diretta verso il cortile”: è stato in tal caso affermato che il regolamento condominiale contrattuale può contenere la previsione dell’uso esclusivo di una parte dell’edificio altrimenti comune a favore di una frazione di proprietà esclusiva, ed in tal caso il rapporto ha natura pertinenziale, essendo stato posto in essere dall’originario unico proprietario dell’edificio, con l’ulteriore conseguenza che, attenendo siffatto rapporto alla consistenza della frazione di proprietà esclusiva, il richiamo puro e semplice del regolamento condominiale in un successivo atto di vendita (o promessa di vendita) da parte del titolare della frazione di proprietà esclusiva, a cui favore sia previsto l’uso esclusivo di una parte comune, può essere considerato sufficiente ai fini dell’indicazione della consistenza della frazione stessa venduta o promessa in vendita (Cass. 4 giugno 1992, n. 6892, sulla scia di Cass. 29 marzo 1982, n. 1947; nella stessa linea più di recente, Cass. 4 settembre 2017, n. 20712). 7.3. Non è escluso che il diritto di uso esclusivo, sussistendone i presupposti normativamente previsti, possa altresì essere in realtà da ricondurre nel diritto reale d’uso di cui all’art. 1021 c.c., se del caso attraverso l’applicazione dell’art. 1419 c.c., comma 1. 7.4. Rimane poi aperta la verifica della sussistenza dei presupposti per la conversione del contratto volto alla creazione del diritto reale di uso esclusivo, in applicazione art. 1424 c.c., in contratto avente ad oggetto la concessione di un uso esclusivo e perpetuo (perpetuo inter partes, ovviamente) di natura obbligatoria. Ciò sia dal versante della meritevolezza, sia quanto all’accertamento se, avuto riguardo allo scopo perseguito dalle parti, queste avrebbero voluto il diverso contratto.
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P.Q.M. Dichiara estinto il processo ed enuncia nell’interesse della legge il principio di diritto di cui in motivazione. (omissis)
IL DIRITTO DEL SINGOLO CONDOMINO ALL’USO ESCLUSIVO DI PARTI COMUNI Giuseppe Werther Romagno (Professore associato presso l’Università degli Studi di Sassari)
Sommario: 1. – Il caso. – 2. Il diritto di uso esclusivo su parti comuni e condominiali. – 3. Il complesso quadro giurisprudenziale e dottrinale. – 4. La decisione delle Sezioni Unite n. 28972/2020. – 5. Ulteriori corollari derivanti dall’inammissibilità di una situazione reale di uso esclusivo.
1. Il caso In sede di divisione di un edificio a più piani, i condividenti convengono di lasciare in comunione l’area circostante il fabbricato, riconoscendo a ciascuno di essi l’uso esclusivo di una porzione antistante l’immobile assegnato in proprietà solitaria. Successivamente uno dei condividenti aliena il bene assegnatogli, unitamente all’uso esclusivo della porzione di cortile antistante. Gli aventi causa degli altri condividenti intentano apposita azione giudiziale, contestando la validità della pattuizione attributiva del diritto di uso esclusivo di una parte del cortile condominiale. Dopo le pronunce di merito, la vicenda viene infine rimessa all’attenzione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, affinché prendano posizione sulla natura del diritto de quo e, conseguentemente, si pronuncino sulla sua ammissibilità.
2. Il diritto di uso esclusivo su parti comuni e condominiali Nell’ambito delle transazioni immobiliari è frequente il ricorso a disposizioni, appositamente inserite negli atti di acquisto delle singole unità immobiliari oppure nel regolamento condominia-
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le1, volte a consentire a singoli condomini o gruppi di condomini specifici diritti di uso, da esercitare in via esclusiva e in modo duraturo, su alcune parti dell’edificio aventi natura condominiale, con conseguente limitazione al potere di godimento degli altri condomini2. In tal modo vengono introdotte rilevanti modificazioni al regime condominiale del bene, il quale, pur conservando formalmente la sua qualificazione giuridica, sostanzialmente viene sottratto, in tutto o in parte, alla sua destinazione naturale, per recare una utilità solamente a uno o a più condomini. Per certi versi, si è in presenza di un fenomeno antitetico rispetto a quello riscontrabile nelle clausole regolamentari di matrice contrattuale dirette a comprimere le facoltà di utilizzo degli immobili di proprietà esclusiva, su cui si è incentrata l’attenzione della dottrina e della giurisprudenza fin da epoca risalente3. Queste ultime tendenzialmente sono funzionali a preservare la coesione e l’armonia all’interno della comunità condominiale e, quindi, il sacrificio imposto alla posizione individuale del condomino aspira a soddisfare un’esigenza riferibile alla collettività. Al contrario, le clausole
La giurisprudenza ritiene pacificamente che sia possibile inserire nel regolamento condominiale contrattuale la previsione dell’uso esclusivo di una parte di edificio comune. Al riguardo si vedano Cass., 4 giugno 1992, n. 6892; Cass., 27 giugno 1978, n. 3169; Cass., 10 luglio 1975, n. 2727; Cass., 24 aprile 1975, n. 1600. 2 Su tale prassi negoziale cfr. R. Triola, Il condominio, in Tratt. dir. priv. Bessone, VII, 3, Torino, 2002, pp. 99 ss.; D. Spallanzani, Il notariato nella evoluzione del condominio, in E. Marmocchi (a cura di), Il condominio negli edifici tra realità e personalità, Milano, 2007, pp. 68-69; A. Torroni, Clausole riguardanti gli spazi per parcheggio e gli usi esclusivi condominiali, ivi, pp. 142 ss.; G. Baralis, Condominialità di natura ambigua: sottotetti, usi esclusivi, posti-auto, ivi, pp. 175 ss.; E. Marmocchi, L’uso delle parti comuni: dal pari uso all’uso esclusivo, in Riv. not., 2008, pp. 91 ss.; D. Bertani, Diritto di uso esclusivo su di una porzione comune condominiale. Inquadramento quale riparto pattizio delle facoltà di godimento sulle parti comuni, ivi, 2018, pp. 1197 ss. 3 Sull’argomento, si vedano, in particolare, M. Andreoli, I regolamenti di condominio, Torino, 1961; F. Ruscello, I regolamenti di condominio, Napoli, 1980; E. Del Prato, I regolamenti privati, Milano, 1988; A. Nicoletti e R. Redivo, Il regolamento e l’assemblea nel condominio degli edifici, Padova, 1990; R. Corona, Regolamento contrattuale di condominio, Torino, 2009; Triola, Il regolamento, in R. Triola (a cura di), Il nuovo condominio, 2ª ed., Torino, 2017, pp. 397 ss. 1
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attributive dell’uso esclusivo su parti comuni sono rivolte al soddisfacimento di un interesse individuale, siccome riferibile unicamente al beneficiario dell’attribuzione, con conseguente compressione delle facoltà di fruizione altrimenti spettanti agli altri partecipanti alla comunione. Peraltro, nonostante questa radicale differenza di prospettiva, le due tipologie negoziali presentano alcuni denominatori comuni. In particolare, entrambe le previsioni hanno una genesi simile, perché non sono adottate dalla collettività condominiale, magari in ambito assembleare, ma sono predisposte unilateralmente dall’originario proprietario dell’edificio (il quale, non di rado, è lo stesso soggetto che lo ha realizzato) e successivamente fatte accettare per adesione ai suoi aventi causa a titolo particolare nei rispettivi atti di acquisto4. Inoltre, come dimostra l’ampia casistica giurisprudenziale, assai spesso il predisponente è un imprenditore del settore immobiliare, la cui azione è essenzialmente rivolta a dare alle relazioni condominiali un assetto giuridico confacente al perseguimento dei suoi interessi economici5. Tale constatazione, in qualche modo, aiuta a comprendere la ragione della peculiare tecnica contrattuale con la quale il singolo condomino consegue il diritto all’utilizzazione esclusiva su parti comuni dello stabile. Infatti, costui, anziché sottrarre il bene dal regi-
Al riguardo si suole discorrere di regolamento “esterno”, in quanto il testo regolamentare è elaborato unilateralmente dal proprietario dell’immobile ancora prima della costituzione del condominio (e, assai spesso, pure della ultimazione dell’edificio) e successivamente fatto accettare adesivamente dai suoi aventi causa in occasione del trasferimento delle singole unità immobiliari che compongono lo stabile. Sul punto cfr. A. Visco, Le case in condominio. Trattato teorico-pratico, 4ª ed., Milano, 1964, p. 521; M. Dogliotti e A. Figone, Il condominio, in Giur. sist. dir. civ. comm. Bigiavi, Torino, 2001, p. 437. A differenza del regolamento adottato in seno all’assemblea, il quale costituisce una manifestazione dell’autonomia negoziale dei condomini, nel caso in esame si è in presenza di un atto di eteronomia, in quanto le regole sono elaborate al di fuori dell’ambito condominiale. 5 Con specifico riferimento al diritto di uso esclusivo in ambito condominiale, cfr. A. Torroni, Il diritto di uso esclusivo in ambito condominiale al vaglio delle Sezioni Unite. La Cassazione snobba le servitù e mette all’indice l’uso esclusivo, in Riv. not., 2021, pp. 70-71. 4
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me condominiale, per riservarsene la proprietà esclusiva, con tutti i relativi vantaggi ed oneri, preferisce lasciare immutata l’appartenenza del bene, che resta formalmente ad appannaggio del consorzio condominiale, per concentrarsi sulle modalità di godimento del bene, le quali vengono opportunamente modellate in funzione della realizzazione delle sue esigenze. Da questo punto di vista, si potrebbe ritenere che, tenuto conto dell’interesse sotteso, nelle clausole in discorso, l’uso esclusivo riguarda non tanto il contenuto del diritto attribuito al singolo condomino, quanto la destinazione funzionale del bene comune6, con i corollari conseguenti per quanto concerne la disciplina applicabile al relativo titolo costitutivo7. Per entrambe le previsioni negoziali, la realizzazione dell’interesse che vi è sotteso passa necessariamente attraverso il reperimento di un congegno giuridico capace di assicurarne l’opponibilità in via autonoma, cioè indipendentemente dalla partecipazione del destinatario della regola, alla luce dei concomitanti principi del numerus clausus e di tipicità che, secondo il radicato convincimento della dottrina8 A. Marsala, Parcheggi condominiali in uso esclusivo, in FederNotizie, 1998. Sul punto si veda anche E. Del Prato, Uso esclusivo permanente di un condomino e tipicità dei diritti reali, in Nuova giur. civ. comm., 2021, p. 429. 7 In particolare, qualora si voglia dare credito alla ricostruzione teorica che riconosce la natura reale del diritto di uso esclusivo, il relativo titolo costitutivo deve rispettare tutti i requisiti di forma e di contenuto (si pensi, per esempio, alle dichiarazioni concernenti la conformità catastale e alle menzioni urbanistiche del bene concesso in suo esclusivo) prescritti in generale per gli atti costitutivi o modificativi di diritti reali su beni immobili. 8 Secondo la dogmatica tradizionale, pur in assenza di una puntuale norma di riferimento, il legislatore ha inteso avocare a sé medesimo l’azione ordinante le situazioni reali, attesa l’importanza che tali rapporti assumono, sotto il profilo sociale ed economico, nell’utilizzazione dei beni e nell’assetto generale dei diritti patrimoniali. Tale riserva si esprime con l’accoglimento di due principi, concettualmente distinti seppure complementari: il principio del numerus clausus, attraverso il quale l’ordinamento giuridico sancisce la propria esclusiva competenza nella creazione di nuove fattispecie di diritti reali e il principio di tipicità, relativo alla determinazione del contenuto e degli effetti derivanti dagli schemi per mezzo dei quali la legge regola l’attività di godimento e di utilizzazione dei beni. Sull’individuazione delle ragioni che variamente giustificano tale scelta e delle basi giuridiche da cui è possibile desumere l’esistenza dei principi di tipicità e del numero chiuso dei diritti reali, si vedano in particolare M. Giorgianni, Contributo alla te6
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e della giurisprudenza9, dominano la materia dei diritti sulle cose, ancorché non si trovino espressamente enunciati in alcuna norma. A questo riguardo occorre chiarire incidentalmente che si è in presenza di regole volontarie dirette a realizzare una finalità radicalmente differente rispetto a quella assolta dalle disposizioni regolamentari tipiche, benché, al pari di queste ultime, siano in qualche modo rivolte a disciplinare «l’uso delle cose comuni», volendo appositamente impiegare la stessa espressione presente nella formulazione dell’art. 1138, comma 1, c.c. Conseguentemente, le clausole di cui si discorre, anche quando hanno la loro fonte nei regolamenti condominiali, necessitano per la loro adozione del consenso di tutti i condomini e, correlativamente, sono sprovviste di quella forza
oria dei diritti di godimento su cosa altrui, Milano, 1940, pp. 169 ss.; L. Barassi, I diritti reali nel nuovo codice civile, Milano, 1943, pp. 38 ss.; M. Allara, Le nozioni fondamentali del diritto civile, Torino, 1953, pp. 384 ss.; F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale, II, 9ª ed., Milano, 1965, pp. 567-568; Fr. Romano, Diritto e obbligo nella teoria del diritto reale, Napoli, 1967, pp. 62 ss.; B. Biondi, Le servitù, in Tratt. dir. civ. comm. Cicu e Messineo, Milano, 1967, pp. 46-47; A. Belfiore, Interpretazione e dommatica nella teoria dei diritti reali, Milano, 1979, pp. 447, ss.; M. Costanza, Il contratto atipico, Milano, 1981, pp. 119 ss.; M. Comporti, Contributo allo studio del diritto reale, Milano, 1977, pp. 287 ss.; Id., Diritti reali in generale, in Tratt. dir. civ. comm. Cicu e Messineo, Milano, 2011, pp. 225 ss.; A. Burdese, Considerazioni in tema di diritti reali (a proposito di una recente monografia), in Riv. dir. civ., II, 1977, pp. 325; Id., Ancora sulla natura e sulla tipicità dei diritti reali, ivi, 1983, II, pp. 236-238; S. Sangiorgi, Multiproprietà immobiliare e funzione del contratto, Napoli, 1983, pp. 14 ss.; A. Natucci, La tipicità dei diritti reali, 2ª ed., Padova, 1988, pp. 31 ss.; Id., Numerus clausus e analisi economica del diritto, in Nuova giur. civ. e comm., 2011, pp. 319 ss.; P. Rescigno, voce Proprietà (dir. priv.), in Enc. dir., XXXVII, Milano, 1988, p. 296; A. Gambaro, Note sul principio di tipicità dei diritti reali, in L. Cabella Pisu – L. Nanni, Clausole e principi generali nell’argomentazione giurisprudenziale degli anni Novanta, Padova, 1998, pp. 223 ss.; P. Pollice, Introduzione allo studio dei diritti reali, Torino, 1999, pp. 155 ss.; A. Fusaro, Il numero chiuso dei diritti reali, in Riv. crit. dir. priv., 2000, pp. 439 ss.; U. Morello, Tipicità e numerus clausus dei diritti reali, in Tratt. dir. reali Gambaro e Morello, I, Milano, 2008, pp. 67 ss.; E. Moscati, Il problema del numero chiuso dei diritti reali nell’esperienza italiana, in Aa.Vv., Liber amicorum per Angelo Luminoso. Contratto e mercato, Milano, 2013, I, pp. 441 ss.; F. Mezzanotte, La conformazione negoziale delle situazioni di appartenenza, Napoli, 2015. 9 Da ultimo si veda Cass., 9 gennaio 2020, n. 193.
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impositiva che caratterizza, sul piano dell’efficacia, le norme regolamentari in senso stretto10. Pertanto, il problema consiste nell’individuazione dello strumento tipico attraverso il quale è possibile ammantare di realità le situazioni giuridiche derivanti dalle clausole in discorso, con conseguente idoneità a trasmettersi, sia dal lato attivo sia dal lato passivo, ai successivi acquirenti delle unità immobiliari facenti parte del condominio11.
3. Il complesso quadro giurisprudenziale e dottrinale L’esigenza sottesa alla prassi negoziale di sottrarre il bene comune al godimento collettivo, per attribuirlo in uso esclusivo ad un
10 Il contenuto tipico del regolamento condominiale riceve la sua forza impositiva direttamente dalla legge e, pertanto, prescinde dalla conoscenza o, a fortiori, dall’accettazione da parte dei potenziali destinatari della regola. Tale efficacia, quindi, si esplica, per così dire, erga omnes, cioè sia verso i condomini assenti o dissenzienti, sia nei confronti gli aventi causa del singolo condomino, vale a dire nei confronti di soggetti che, ratione temporis, risultano completamente esclusi dal processo formativo della disposizione regolamentare. Questa affermazione si giustifica sulla scorta sia dell’art. 1137, comma 1, c.c., applicabile nel caso di specie per il richiamo all’art. 1136 c.c. operato dall’art. 1138, comma 3, c.c., sia dell’art. 1107, ultimo comma, c.c., richiamato dall’art. 1139 c.c. Sul punto sia consentito il rinvio a G.W. Romagno, Osservazioni riguardo all’efficacia delle disposizioni dei regolamenti condominiali. Il decoro dell’edificio come condizione di esplicazione della dignità umana, in Giust. civ., 2019, pp. 783 ss. 11 Un aspetto problematico non sufficientemente approfondito in dottrina concerne l’ammissibilità per il titolare di far circolare il diritto di uso esclusivo in modo autonomo o, comunque, dissociato rispetto al bene di cui è pieno ed esclusivo proprietario. Condivisibili i dubbi espressi al riguardo da G. Baralis – C. Caccavale, Diritti di “uso esclusivo” nell’ambito condominiale, Studio CNN n. 4459-2003, reperibile nella Banca dati RUN. Sul punto si vedano altresì R. Calvo, Comunione e uso esclusivo tra autonomia e tipicità, in Giur. it., 2021, p. 563, nonché R. Franco, Il diritto di uso esclusivo condominiale tra categorie e interessi, in Persona e mercato, 2020, p. 258, il quale dà per scontato che il diritto di uso esclusivo condominiale non possa mai assumere piena autonomia, essendo destinato a restare sempre correlato al diritto principale sulla porzione immobiliare in diritto esclusivo.
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solo condomino, ha incontrato l’interesse della dottrina, la quale si è sforzata di reperire una soluzione più appagante rispetto a quella iniziale, propensa a far riferimento al tipico diritto reale di uso12. In particolare, l’attenzione si è rivolta verso il collaudato schema concettuale delle servitù prediali13, il quale, in ragione della sua
12 La configurazione del diritto di uso esclusivo quale onere reale o, meglio, obbligazione propter rem non ha avuto seguito a causa della profonda incertezza dogmatica che storicamente circonda tali figure dogmatiche. Sull’argomento cfr. M. Giorgianni, voce Diritti reali (diritto civile), in Noviss. Dig. it., V, Torino, 1960, pp. 752-753; G. Palermo, Enfiteusi – Superficie – Oneri reali – Usi civici, in Giur. sist. civ. e comm. Bigiavi, Torino, 1965, pp. 518 ss., spec. pp. 548 ss.; G. Gandolfi, voce Onere reale, in Enc. dir., XXX, Milano, 1980, pp. 127 ss., spec. pp. 141 ss.; L. Bigliazzi-Geri, Oneri reali e obbligazioni propter rem, in Tratt. dir. civ. e comm. Cicu e Mesineo, Milano, 1984, pp. 2 ss.; M. Comporti, Diritti reali in generale, cit., pp. 231 ss. e 235 ss.; A. Natucci, La tipicità dei diritti reali, cit., pp. 321 ss.; O. Conti, voce Oneri reali, in Enc. for., V, Milano, 1960, pp. 325 s.; G. Balbi, voce Obbligazione reale, in Noviss. dig. it., XI, Torino, 1965, pp. 667 s.; A. Fusaro, voce Obbligazione «propter rem» e onere reale, in Dig. disc. priv. (sez. civ.), XII, Torino, 1995, pp. 391 ss. Del resto, con specifico riferimento alle obbligazioni propter rem, tale operazione ermeneutica deve fare i conti con il consolidato indirizzo giurisprudenziale che nega ai privati il potere di creare rapporti obbligatori dotati di inerenza reale anche al di fuori dei casi espressamente contemplati dalla legge. Si vedano, ex multis, Cass., 26 giugno 1952, n. 1896, in Giur. it., 1953, I, 1, c. 147; Cass., 23 apr. 1955, n. 1143, ivi, 1956, I, 1, c. 157; Cass., 28 ottobre 1955, n. 3554, in Foro Pad., 1956, I, c. 581; Cass., 14 giugno 1956, n. 2069, in Foro it., 1956, I, 1, c. 1582; Cass., 22 luglio 1966, n. 2003, in Giust. civ., 1966, 2136; Cass., 7 settembre 1978, n. 4045, in Giur. it., 1979, I, 1, c. 796. Per la giurisprudenza più recente si vedano Cass., 24 ottobre 2018, n. 26987; Cass., 15 ottobre 2018, n. 25673; Cass., 26 febbraio 2014, n. 4572; Cass., 4 dicembre 2007, n. 25289. 13 A. Torroni, Clausole riguardanti gli spazi per parcheggio e gli usi esclusivi condominiali, cit., p. 143; M. Corona, L’uso esclusivo dei beni condominiali e le Sez. Un. della Corte di Cassazione, in Riv. not., 2021, pp. 481 ss. Nello stesso ordine di idee si colloca anche la posizione di D. Bertani, Diritto di uso esclusivo su di una porzione comune condominiale. Inquadramento quale riparto pattizio delle facoltà di godimento sulle parti comuni, cit., p. 1203. Anche la giurisprudenza più recente, mutando il radicato convincimento espresso in precedenza (Cass., 21 gennaio 2002, n. 1551; Cass., 28 aprile 2004, n. 8137; Cass., 22 settembre 2009, n. 20409; Cass., 13 settembre 2012, n.15334; Cass., 7 marzo 2013, n. 5769; Cass., 6 novembre 2014, n.23708), ha ritenuto che lo schema normativo della servitù prediale possa essere impiegato per recepire gli accordi diretti a disciplinare l’attribuzione in via esclusiva ai condomini dei posti auto ricavati negli spazi condominiali.
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straordinaria versatilità, si presta ad essere proficuamente impiegato per rafforzare sul piano dell’efficacia le molteplici forme di godimento sui beni altrui14. Infatti, a differenza di quanto avviene per gli altri diritti reali, il legislatore, mediante la proposizione dell’art. 1027 c.c., ha evitato volutamente di stabilire, in maniera generale ed uniforme, il contenuto del diritto di servitù, limitandosi a delineare un paradigma strutturale, entro il quale i privati godono di un ampio spazio di manovra, funzionale alla migliore realizzazione degli interessi da perseguire15. Seguendo questa impostazione, nella convenzione attributiva al singolo condomino del diritto di uso Per tale orientamento si vedano v. Cass., 6 luglio 2017, n. 16698; Cass., 18 marzo 2019, n.7561. In dottrina si segnala il contributo di G. Rizzi, I posti auto condominiali e la disciplina in tema di conformità catastale, in Notariato, 2019, pp. 7 ss. Per una sintetica rassegna delle varie posizioni dottrinali e giurisprudenziali, si veda G. Musolino, La (impossibilità di costituire una) servitù prediale di parcheggio, in Riv. not., 2017, pp. 334 ss. 14 Sul piano sistematico, proprio l’enorme duttilità dell’istituto ha permesso di mitigare le gravose conseguenze discendenti dalle restrizioni imposte dall’ordinamento giuridico all’autonomia negoziale in materia di situazioni reali. Su questo aspetto è doveroso il riferimento a P. Vitucci, Utilità ed interesse nelle servitù prediali. La costituzione convenzionale di servitù, Milano, 1974, passim, spec. pp. 50 ss. Si vedano anche le considerazioni di A. Belfiore, Interpretazione e dommatica nella teoria dei diritti reali, cit., pp. 519 ss., nonché di P. Pollice, Introduzione allo studio dei diritti reali, cit., pp. 149-150. 15 L’immagine antropomorfa dei fondi contenuta nell’art. 1027 c.c., sebbene possa essere criticabile sotto il profilo squisitamente tecnico, siccome il rapporto giuridico si instaura pur sempre fra i proprietari dei due predi, riesce ad evidenziare efficacemente la duplice inerenza reale, la quale costituisce la caratteristica strutturale saliente della servitù. Sul punto cfr. L. Cariota Ferrara, Delle servitù prediali, in Comm. cod. civ. D’Amelio, Firenze, 1942, pp. 719-720; F. Messineo, Le servitù, Milano, 1949, 38; G. Grosso – G. Deiana, Le servitù prediali, I, in Tratt. dir. civ. Vassalli, 3ª ed., Torino, 1963, pp. 12 ss., spec. pp. 14-15; B. Biondi, Le servitù, in Tratt. dir. civ. e comm. Cicu e Messineo, Milano, 1967, pp. 62 ss.; G. Branca, Servitù prediali, in Comm. cod. civ. Scialoja e Branca, 6ª ed. Bologna-Roma, 1987, pp. 3 ss.; S. Palazzolo, voce Servitù, in Enc. giur, XXVIII, Roma, 1992, pp. 2-3; Fr. Romano, Diritto e obbligo nella teoria del diritto reale, cit., p. 130; M. Comporti, voce Servitù, in Enc. dir., XLII, Milano, 1990, pp. 276-277; G. Tamburrino, Le servitù, in Giur. sist. civ. e comm. Bigiavi, 2ª ed., Torino, 1977, pp. 17-18; A. Natucci, Le servitù, in P. Gallo – A. Natucci (a cura di), Beni, proprietà e diritti reali, II, in Tratt. dir. priv. Bessone, Torino, 2001, pp. 89 ss.; R. Triola, Le servitù, in Comm. cod. civ. Schlesinger, Milano, 2008, pp. 23-24; P. Pollice, Introduzione
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esclusivo sulle parti comuni si è ravvisata l’esistenza di un rapporto di servitù, nel quale il fondo dominante sarebbe il bene di proprietà individuale e il fondo servente sarebbe il bene comune, gravato del peso consistente nella facoltà di uso esclusivo concesso al proprietario del fondo dominante. Tale configurazione non trova impedimento nel principio nemini res sua servit, siccome nelle relazioni fra parti condominiali e parti di proprietà esclusiva è pur sempre rinvenibile quella dualità di posizioni che permette al diritto reale di arrecare un’utilità altrimenti non consentita16. Nella giurisprudenza di legittimità, soprattutto quella più recente, si riscontra l’interesse verso altre configurazioni dogmatiche, attraverso percorsi argomentativi più articolati e impegnativi. Un primo orientamento ritiene che il regolamento condominiale cosiddetto contrattuale possa contenere la previsione dell’uso esclusivo di una parte comune del complesso condominiale a favore di una unità immobiliare di proprietà esclusiva di un condomino. In tal caso, il rapporto instaurato fra il bene appartenente al singolo condomino e quello comune, di cui lo stesso soggetto ha l’uso esclusivo, è di natura pertinenziale. Pertanto, in caso di successivo trasferimento della cosa principale, si trasferisce all’acquirente anche il diritto all’uso esclusivo, quale sua pertinenza, ai sensi dell’art. 818, comma 1, c.c.17 Secondo un altro indirizzo interpretativo18, le clausole attributive dell’uso esclusivo su parti condominiali dell’edificio si configurano allo studio dei diritti reali, cit., p. 150. In giurisprudenza, di recente, v. Cass., 17 novembre 2017, n. 27321. 16 Si tratta, del resto, di un’affermazione risalente, v. Cass., 22 luglio 1966, n. 2003, in Giust. civ., 1966, I, p. 2135. Per la giurisprudenza più recente si vedano, in particolare, Cass., 28 agosto 2020, n. 18038; Cass., 21 ottobre 2019 n. 26807. Sull’argomento cfr. L. Salis, Condominio e servitù, in Studi economico-giuridici dell’Università di Cagliari, Milano, 1971, ora in L. Salis, Scritti in tema di condominio, raccolti da G.M. Uda, Torino, 1997, pp. 17 ss. Ma si veda, in senso critico alla soluzione interpretativa dominante, R. Triola, Le servitù, cit., pp. 17 ss. 17 Cass., 4 settembre 2017, n. 20712; Cass., 4 giugno 1992, n. 6892. 18 Cass., 16 ottobre 2017, n. 24301. Sostanzialmente conformi Cass., 10 ottobre 2018, n. 24958, Cass., 31 maggio 2019, n. 15021; Cass., 4 luglio 2019, n.
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come mere modificazioni dell’ordinario riparto delle facoltà di godimento sul bene comune, deputate a conformare il contenuto del diritto di comproprietà dei condomini in modo differente rispetto alla configurazione datane dal legislatore. Da tale configurazione discende il corollario dell’inerenza del rapporto così costituito a tutte le unità in condominio, in guisa che l’uso esclusivo si trasmette anche ai successivi aventi causa, al pari delle altre facoltà dominicali sulle parti comuni19. Quest’ultima prospettazione sembra trovare precisi riscontri nel dato normativo e, in particolare, nell’art. 1102, comma 1, c.c. (applicabile al condominio in forza del rinvio operato dall’art. 1139 c.c.)20, là dove consente a ciascun partecipante alla comunione di servirsi della cosa comune, purché non impedisca agli altri partecipanti di farne uso «secondo il loro diritto», con ciò lasciando intendere che tale diritto possa essere conformato in modo da contemplare una restrizione alle facoltà di godimento sulla res communis21. Un’ulteriore conferma è rinvenibile sia nell’art. 1122, comma 1, c.c.22, nel punto in cui inibisce al singolo condomino il potere di compiere determinate attività nell’unità immobiliare di sua proprietà ovvero nelle parti normalmente destinate all’uso comune, «che siano state attribuite in proprietà esclusiva o destinate all’uso individuale», sia nell’art. 1126 c.c., che espressamente si riferisce all’ipotesi di alcuni condomini aventi «l’uso esclusivo» dei lastrici
18024; Cass., 3 settembre 2019, n. 22059. In ordine alla compatibilità con la disciplina condominiale dell’atto negoziale che riservi parti comuni a uso esclusivo e perpetuo di un condomino, si v. App. Milano, 31 ottobre 2007, n. 2873. In dottrina cfr. R. Triola, Il condominio, cit., p. 99. 19 Cass., 27 aprile 2012, n. 6582; Cass., 26 febbraio 2008, n. 5034; Cass., 9 dicembre 1989, n. 5456. 20 Per l’opinabilità di tale operazione ermeneutica, si veda M. Basile, Regime condominiale ed esigenze abitative, Milano, 1979, pp. 263 ss. Per una sintesi delle differenze sostanziali fra comunione e condominio, cfr. A. Ciatti Caimi, Il diritto di uso esclusivo del condomino (dopo la decisione delle sezioni Unite della Cassazione), Studio CNN n. 30-2021, reperibile nella Banca dati RUN, pp. 7 ss. 21 Per le deroghe pattizie all’art. 1102 c.c., v. Cass., 5 ottobre 1992, n. 10895. 22 La norma è stata modificata dalla legge di riforma del condominio (legge 11 dicembre 2012 n. 220).
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solari, i quali rientrano fisiologicamente fra le parti comuni dell’edificio, ai sensi dell’art. 1117 c.c.23 Del resto, se quest’ultima norma consente di sottrarre totalmente alcuni dei beni ivi contemplati dalla presunzione di comunione, allora, a fortiori, deve ritenersi consentita la previsione negoziale che, in modo meno drastico, conferisce l’uso esclusivo degli stessi beni solamente a taluno dei condomini. Nonostante l’ampia argomentazione addotta a sostegno del diritto reale di uso da parte del filone giurisprudenziale di cui si è dato conto poc’anzi, in tempi assai più recenti, la Suprema Corte si è pronunciata in senso opposto24, affermando che non è configurabile la costituzione di un diritto di uso esclusivo e perpetuo, la cui ampiezza è tale da privare del tutto il contenuto dell’altrui diritto dominicale, perché darebbe vita ad un risultato che è precluso all’autonomia negoziale, alla luce del principio del numerus clausus dei diritti reali.
4. La decisione delle Sezioni Unite n. 28972/2020 Di fronte alle differenti prospettazioni teoriche avanzate dalla riflessione dottrinale e all’inesistenza di una soluzione interpretativa omogenea in seno alla giurisprudenza, la questione attinente alla natura giuridica del diritto di uso esclusivo su parti comuni è stata rimessa alla decisione della Corte di Cassazione a sezioni unite25, in ragione della particolare importanza giuridica rivestita dal tema26.
In modo adesivo cfr. M. Corona, L’uso esclusivo dei beni condominiali e le Sez. Un. della Corte di Cassazione, in Riv. not., 2021, pp. 469-470. 24 Cass., 9 gennaio 2020, n. 193. 25 Cass., 2 dicembre 2019, n. 31420, la quale ha rimesso gli atti al Primo Presidente affinché il nodo problematico fosse risolto dalla decisione delle Sezioni Unite, adducendo «le difformità di pronunce delle sezioni semplici, nonché la particolare importanza della questione di massima da decidere, anche alla luce della diffusa pratica negoziale implicata». 26 Al riguardo, cfr. D. Bertani, Alle Sezioni Unite la decisione circa l’esatta natura giuridica dell’uso esclusivo su parti condominiali, in Riv. not., 2020, II, pp. 23
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Investite della questione, le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno approntato un’imponente struttura argomentativa per pervenire alla definizione del controverso problema27. Preliminarmente, le Sezioni Unite hanno avuto cura di precisare che, diversamente da quanto opinato in dottrina, la figura di cui si discorre non costituisce una creazione di matrice giurisprudenziale. In realtà, il diritto di uso esclusivo su parti comuni trova la sua genesi nella prassi negoziale, attraverso la sapiente opera di adeguamento alle istanze provenienti dalla realtà economica o sociale da parte del ceto notarile. Infatti, sovente il riconoscimento del diritto di cui si discorre ha costituito un espediente per superare ostacoli di indole squisitamente tecnica, legati all’identificazione della porzione di bene comune destinato al godimento solitario, che impedivano l’attribuzione in piena ed esclusiva proprietà al singolo condomino. Tuttavia, nonostante la diffusione del fenomeno, non risulta che la giurisprudenza di legittimità abbia riflettuto adeguatamente sulla natura del diritto di uso esclusivo previsto dalle convenzioni elaborate dalla prassi negoziale. In particolare, ad avviso dei giudici, è mancata una precisa presa di posizione su alcuni punto nodali, non essendo mai stato chiarito se il diritto de quo ha carattere meramente obbligatorio oppure reale e, in quest’ultima ipotesi, se si
281 ss.; M. Monegat, Il diritto d’uso esclusivo del cortile, parte comune, si configura come diritto reale ex art. 1021 c.c. o come deroga al principio di cui all’art. 1102 c.c.? La questione è controversa ma riveste particolare importanza per la trasferibilità di tale diritto ed esige perciò l’intervento delle Sezioni Unite, in Immobili & proprietà, 2020, pp. 49 ss.; M.L. Chiarella, Rimessa alle Sezioni Unite la qualificazione giuridica del c.d. diritto d’uso esclusivo, in Giur. it., 2021, pp. 790 ss.; R. Franco, Il diritto di uso esclusivo condominiale tra categorie e interessi, cit., pp. 245 ss. 27 Come è stato prontamente evidenziato (M. Monegat, Non è conforme a diritto la previsione dell’uso esclusivo, a favore di un condomino, su una porzione di bene destinato ad uso comune, quale, ad esempio, il cortile, in Immobili & proprietà, 2021, p. 119; V. Nardi, La natura del diritto d’uso esclusivo di un bene comune in ambito condominiale: intervengono le Sezioni Unite, in Corr. giur., 2021, p. 1214), le Sezioni Unite si sono pronunciate sulla questione sottoposta al loro esame, nonostante l’estinzione del processo conseguente alla rinuncia al ricorso accettata dai controricorrenti, nell’intesse della legge.
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tratta di una situazione giuridica riconducibile ad uno dei tipici diritti reali oppure se si configura come un diritto reale atipico, con conseguente valutazione della sua compatibilità con i principi del numerus clausus e di tipicità dei diritti reali. Un’autentica eccezione al riguardo è rappresentata dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 24301 del 2017, la quale ha avuto un approccio metodologicamente più corretto, volto ad evidenziare primariamente l’intima essenza delle clausole attributive dell’uso esclusivo su parti comuni dell’edificio. Da questo punto di vista, tale decisione si segnala per aver evidenziato come tali previsioni pattizie incidano non già sull’appartenenza delle parti comuni alla collettività, ma sul riparto delle correlate facoltà di godimento fra i condomini, il quale avviene secondo modalità non paritarie, in deroga a quello altrimenti presunto, ai sensi degli artt. 1102 e 1117 c.c. Pertanto, il diritto di uso conferito in via esclusiva al singolo condomino, lungi da poter essere ricondotto ad alcuna delle tipiche situazioni reali su cosa altrui28, si atteggia a mera esplicazione del diritto di comunione. Questa ricostruzione – alla quale deve essere riconosciuto il merito di essere pervenuta ad una puntuale ricostruzione dogmatica della fattispecie sottoposta al suo esame, riconducendola entro il perimetro concettuale della comunione – permette di impostare in modo tecnicamente più preciso la questione del diritto di uso esclusivo. Segnatamente, si tratta di capire se l’elasticità concessa all’autonomia privata dall’art. 1102 c.c. cui fa riscontro, nei complessi condominiali di dimensioni più consistenti, la possibilità di disciplinare l’uso tramite apposite norme regolamentari, ex art. 1138 c.c. legittima l’esercizio di un potere di modulazione del godimento collettivo così esteso da annichilire la solidarietà insita nel fenomeno
28 In particolare, la Corte di Cassazione (oltre a Cass., 16 ottobre 2017, n. 24301, si veda anche Cass., 10 ottobre 2018, n. 24958) esclude che, nonostante l’assonanza dovuta al nomen iuris, il diritto all’uso esclusivo su parti comuni possa essere ricondotto al tipico diritto reale di uso, contemplato dall’art. 1021 c.c., con i conseguenti corollari circa le modalità di estinzione e la cedibilità.
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della comunione, attraverso l’esclusione di uno o più partecipanti dalla fruizione del bene comune29. A questo proposito le Sezioni Unite muovono dalla constatazione secondo cui l’art. 1102 c.c., là dove consente a ciascun partecipante alla comunione di «servirsi della cosa comune», intende fare riferimento, con una formula sintetica, a tutte le facoltà ed i poteri che il contitolare del diritto di proprietà può ritrarre dalla cosa comune, in quanto ricompreso nel contenuto del suo diritto dominicale. Peraltro, la stessa norma ha cura di precisare che la fruizione della cosa comune, oltreché compatibilmente con la sua destinazione, deve svolgersi in modo tale da non impedire agli altri partecipanti alla comunione «di farne parimenti uso secondo il loro diritto»30. L’uso paritario, dunque, costituisce il connotato solamente fisiologico o normale del diritto di comunione, il quale, come lascia intendere chiaramente l’art. 1102 c.c., non esclude la possibilità di una differente modulazione, affinché un condomino sia in condizione di ricavare dal bene comune un’utilità più intensa o, comunque, differente rispetto a quella degli altri condomini31. Del resto, questa possibilità trova ulteriori conferme nel tessuto normativo, sia nell’art. 1123, comma 2, c.c., là dove ammette che i beni comuni possano servire i condomini «in misura diversa», regolando il riparto delle spese in proporzione dell’uso, sia nel successivo art. 1124 c.c., con specifico riferimento alla manutenzione e alla sostituzione di scale e ascensori.
Cass., 24 novembre 2021, n. 36480. Sul significato di tale locuzione verbale, cfr. G. Branca, Comunione. Condominio negli edifici, in Comm. cod. civ. Scialoja e Branca, 6ª ed. Bologna-Roma, 1982, pp. 78 ss. 31 Cass., 30 maggio 2003, n. 8808; Cass., 27 febbraio 2007, n. 4617; Cass., 21 ottobre 2009, n. 22341; Cass., 16 aprile 2018, n. 9278. Senza pretesa di esaustività, per l’uso frazionato si vedano Cass., 14 luglio 2015, n. 14694; Cass., 11 aprile 2006, n. 8429; Cass., 14 ottobre 1998, n. 10175; Cass., 28 gennaio 1985, n. 434; Cass., 6 dicembre 1979, n. 6338. Per l’uso turnario si vedano Cass., 12 dicembre 2017, n. 29747; Cass., 19 luglio 2012, n. 12485; Cass., 3 dicembre 2010, n. 24647; Cass., 4 dicembre 1991, n. 13036. 29 30
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Tuttavia, le Sezioni Unite rilevano che, benché la regola paritaria prevista dall’art. 1102 c.c. abbia una valenza solamente tendenziale e non indefettibile, l’uso della cosa comune deve sempre svolgersi in modo promiscuo e simultaneo, coerentemente con la solidarietà insita nel fenomeno della contitolarità di diritti32. A ben vedere, proprio l’analisi dell’art. 1102 c.c. consente all’interprete di cogliere un tratto qualificante la conformazione della comunione e del condominio, i quali postulano la concorrente facoltà di tutti i partecipanti di fruire del bene33, ancorché non necessariamente in misura proporzionale alla titolarità delle rispettive quote di diritto. Pertanto, un eventuale patto ad excluendum travalica la tipologia legale degli istituti34, siccome introduce un elemento incompatibile con un connotato essenziale alla contitolarità della proprietà e delle altre situazioni reali. I giudici del Supremo Collegio hanno cura di confutare analiticamente tutti gli argomenti addotti a sostegno della tesi più permissiva. In primo luogo, l’ammissibilità di un uso esclusivo a rilievo reale non può trovare appiglio nell’art. 1126 c.c., poiché la norma si rife-
32 Da questo punto di vista, la posizione espressa dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 24301 del 2017 appare viziato da una petizione di principio, perché pone a base del suo ragionamento proprio il dato da dimostrare. Segnatamente, il ragionamento condotto dai giudici per poter pervenire al riconoscimento del diritto di uso esclusivo a vantaggio di un condomino, muove dall’assunto secondo cui l’art. 1102 c.c., al pari degli artt. 1122 e 1126 c.c., legittima, praticamente senza limiti, il potere autodeterminativo dei privati in punto di modulazione delle facoltà di godimento sui beni comuni. A rigore il problema deve essere impostato in termini esattamente invertiti. Occorre cioè stabilire prioritariamente se, alla luce dei principi della tipicità e del numero chiuso dei diritti reali, l’ordinamento giuridico consente all’autonomia negoziale di alterare, in modo strutturale e permanente, il regime della proprietà condominiale, fino al punto da ottenere l’estromissione di uno o più partecipanti dal godimento del bene comune. 33 R. Calvo, Comunione e uso esclusivo tra autonomia e tipicità, cit., pp. 558 e 560 ss. 34 Al riguardo la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di affermare che non è consentita l’introduzione di un divieto di utilizzazione generalizzato delle parti comuni. In questo senso, v. Cass., 29 gennaio 2018, n. 2114; Cass., 4 dicembre 2013, n. 27233.
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risce ad una situazione affatto peculiare35, quale è quella dei lastrici solari36. Questi costituiscono parti comuni che, pur svolgendo una funzione necessaria di copertura dell’edificio, per la loro conformazione e ubicazione possono essere oggetto di calpestio soltanto da alcuni condomini (ovvero i proprietari dell’ultimo piano dell’edificio)37, cosicché il loro uso esclusivo non priva di alcuna facoltà di godimento i restanti condomini, i quali, in ogni caso, non hanno il libero accesso. Semmai dall’art. 1126 c.c. si può desumere un’indicazione esattamente di segno contrario, perché lascia intendere che non sono configurabili ulteriori ipotesi di sottrazione totale della facoltà di fruizione del bene comune, concessa in termini generali ai partecipanti alla comunione dall’art. 1102 c.c.38
R. Calvo, Comunione e uso esclusivo tra autonomia e tipicità, cit., pp. 561 ss. Dissentono sul punto M. Corona, L’uso esclusivo dei beni condominiali e le Sez. Un. della Corte di Cassazione, cit., p. 471; F. Mezzanotte, L’«uso esclusivo» e il «numerus clausus dei diritti reali» secondo le Sezioni Unite, in Riv. trim. dir e proc. civ., 2021, pp. 557 ss. Per una timida apertura dell’art. 1126 c.c. a tutti i casi in cui un’area di uso esclusivo funge da copertura dello stabile, cfr. M. Cavallaro, Il condominio negli edifici, in Comm. cod. civ. Schlesinger, Milano, 2009, pp. 257258. In ogni caso, come è stato osservato (G. Baralis – C. Caccavale, Diritti di “uso esclusivo” nell’ambito condominiale, cit.) si tratta di una norma che non si presta ed eccessive dilatazioni. 36 Sulla funzione assolta dai lastrici solari si vedano, in particolare, le decisioni di Cass., 21 maggio 2020, n. 9380; Cass., Sez. Un., 10 maggio 2016, n. 9449. 37 L’art. 1126 c.c., avuto riguardo ai menzionati principi, non si presta dunque a fungere da punto d’appoggio per la costruzione di un più ampio “diritto reale di uso esclusivo” delle parti comuni, ma, tutt’al più, ove ne ricorrano i presupposti, ad una cauta applicazione estensiva, come per le terrazze che fungano da copertura di un edificio, le quali rispetto al lastrico offrono utilità ulteriori, ovverosia il comodo accesso e la possibilità di trattenersi (la distinzione è evidenziata da Cass., 22 novembre 1996, n. 10323). 38 A ben vedere, gli artt. 1102, 1122 e 1126 c.c. risultano del tutto inconferenti ai fini della questione di cui si tratta, perché sono rivolti a dare una soluzione ad un differente ordine di problemi, senza interferire sul profilo attinente alla forza intrinseca degli accordi attributivi dell’esclusività su parti comuni dello stabile. In particolare, l’art. 1126 c.c., nel punto in cui prevede la possibilità di un uso esclusivo del lastrico solare, «non specifica la natura giuridica di tale diritto, il quale può avere carattere reale o personale, ma deve comunque risultare dal titolo». Così Cass., 23 agosto 2017, n. 20287. 35
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In secondo luogo, ai fini della questione in esame non rileva neppure la concessione a singoli condomini, ad opera della legge di riforma del condominio, di un godimento apparentemente non paritario, poiché tali previsioni, oltre a non poter concorre alla formazione di un principio di carattere generale, in ragione della loro specificità, non comportano modificazioni strutturali alla comproprietà delle parti comuni in favore del titolare dell’uso39. Del pari è priva di fondamento l’argomentazione che rinviene un riconoscimento legislativo degli usi esclusivi, tali da determinare una modificazione del diritto di comproprietà, nell’art. 6, comma 2, lett. b), del D. Lgs. 20 maggio 2005, n. 122, che obbliga il costruttore a indicare nel contratto relativo a futura costruzione le
L’art. 1122, comma 1, c.c. prevede che, nelle parti normalmente destinate all’uso comune che sono state destinate all’uso individuale, il condomino non può eseguire opere che possano recare pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza o al decoro architettonico dell’edificio. Al riguardo, è agevole osservare che la norma, lungi da fare riferimento puntuale ad un ipotetico diritto reale di uso esclusivo, può essere riferita anche al caso dell’uso frazionato delle parti comuni. L’art. 1120, comma 2, n. 2, c.c. consente che i condomini possono disporre opere ed interventi per la realizzazione di parcheggi destinati a servizio delle unità immobiliari, con una maggioranza meno rigorosa di quella prevista in generale per le innovazioni della cosa comune. Tuttavia, la norma non chiarisce se, in deroga alla presunzione di comunione posta dall’art. 1117 c.c., i posti auto realizzati debbano essere attribuiti in proprietà esclusiva, costituendo in tal caso pertinenze delle singole unità immobiliari di proprietà esclusiva, oppure in godimento frazionato in favore dei proprietari di tali unità immobiliari. In entrambi i casi si è al di fuori della previsione di un diritto reale di uso sulle parti comuni. Infine, non può essere invocato neanche l’art. 1122 bis c.c., il quale permette l’installazione di impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili destinati al servizio di singole unità immobiliari del condominio sul lastrico solare e su ogni altra idonea superficie comune. In tal caso, l’assemblea provvede, su richiesta degli interessati, a ripartire l’uso del lastrico solare e delle altre superfici comuni, salvaguardando le diverse forme di utilizzo previste dal regolamento di condominio o comunque in atto. La norma, lungi da legittimare il diritto reale di uso esclusivo sulle parti comuni, nel punto in cui consente che il godimento venga concesso dall’assemblea a maggioranza, esclude la presenza di una modificazione del contenuto del diritto di comproprietà. Per un differente punto di vista, cfr. F. Mezzanotte, L’«uso esclusivo» e il «numerus clausus dei diritti reali» secondo le Sezioni Unite, cit., pp. 558-559. 39
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parti condominiali e le «pertinenze esclusive»40. Infatti, anche qualora non si reputi sufficiente il rilievo relativo al carattere eccezionale della disposizione41, la norma appare inconferente, perché si riferisce testualmente alle pertinenze esclusive, le quali si prestano ad identificare un quid diverso dal diritto di uso. Infine, anche a voler concedere credito alla ricostruzione accolta da una parte della giurisprudenza di legittimità, l’inquadramento dell’attribuzione dell’uso esclusivo sulle parti comuni come deroga convenzionale all’art. 1102 c.c. si imbatte necessariamente in una difficoltà operativa, in ragione della regola di tassatività degli atti soggetti a segnalazione nei pubblici registri immobiliari42. Infatti, il titolo recante le limitazioni alle facoltà di godimento dei condomini
Per tale argomentazione cfr. G. Baralis, Condominialità di natura ambigua: sottotetti, usi esclusivi, posti-auto, cit., p. 187, nt. 35. In realtà, ai fini che qui interessano, un riferimento più specifico è contenuto nella lettera b) del comma 1 della medesima disposizione, il quale prevede che il contratto preliminare ed ogni altro contratto diretto al successivo acquisto in capo ad una persona fisica della proprietà o di altro diritto reale su un immobile ancora da costruire debbano contenere la descrizione dell’immobile e «di tutte le sue pertinenze di uso esclusivo». 41 R. Triola, Il c.d. diritto di uso esclusivo di parti comuni, in Corr. giur., 2020, p. 507. 42 Incidentalmente, i giudici delle Sezioni Unite hanno cura di chiarire che, sotto il profilo dell’opponibilità, risulta irrilevante l’eventuale pubblicazione nei registri immobiliari dell’atto recante la concessione del c.d. diritto di uso esclusivo (si pensi, per esempio, all’eventualità che sia trascritto l’intero regolamento di condominio contenente, fra le altre previsioni, anche quella di cui si discorre), siccome l’istituto della trascrizione risulta incapace di conferire al diritto sostanziale una forza di cui è intrinsecamente privo. In proposito cfr. M. Giorgianni, voce Diritti reali, cit., p. 753; L. Ferri – P. Zanelli, Della trascrizione, in Comm. cod. civ. Scialoja-Branca, 3ª ed., Bologna-Roma, 1995, pp. 30 ss.; S. Sangiorgi, Multiproprietà immobiliare e funzione del contratto, Napoli, 1983, p. 113; A. Natucci, La tipicità dei diritti reali, cit., p. 136; E. Del Prato, I regolamenti privati, cit., p. 126; F. Gazzoni, La trascrizione immobiliare, in Comm. cod. civ. Schlesinger, 2ª ed., Milano, 1998, pp. 71 ss., spec. p. 83. Pertanto, se la previsione negoziale è insuscettibile di sussunzione entro lo schema concettuale di alcuno dei tipici diritti reali, un’eventuale pubblicità curata attraverso i registri immobiliari – anche qualora sia reputata ammissibile – sarebbe del tutto sterile, siccome incapace di assicurare alla situazione giuridica soggettiva in discorso quell’efficacia verso i terzi di cui è sprovvista sul piano sostanziale. 40
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non risulta sussumibile in nessuna delle ipotesi contemplate dall’art. 2643 c.c.43, con la conseguenza che il diritto riconosciuto al singolo condomino risulta opponibile ai successivi aventi causa solo in termini astratti44, perché, in difetto di trascrizione, l’art. 2644 c.c. mette al riparo l’acquisto incompatibile da parte di altri soggetti, allorché sia stato debitamente trascritto nei registri immobiliari. Ad avviso delle Sezioni Unite, dunque, il riconoscimento in capo ad un condomino di un diritto reale di godimento, avente ad oggetto l’uso esclusivo di una parte comune dell’edificio, nella misura in cui priva gli altri condomini di farne parimenti uso, finisce per svuotare il nucleo fondamentale del diritto di comproprietà spettante a questi ultimi45, pervenendo ad un radicale e strutturale snaturamento di tale diritto, al di fuori delle fattispecie legali tipiche. Del resto, il diritto di uso esclusivo non si presta ad essere sussunto entro lo schema normativo delle servitù prediali delineato dall’art. 1027 c.c., il quale esclude che il peso imposto al fondo servente possa tradursi nel godimento generale dell’immobile, perché finirebbe Capovolgendo l’impostazione, si potrebbe obiettare che proprio l’assenza di una previsione specifica in materia di trascrizione costituisce l’indice rilevatore dell’atteggiamento con cui l’ordinamento giuridico valuta le variazioni convenzionali al modello legale della proprietà condominiale. Più esattamente, se il legislatore avesse considerato tali accordi dotati di rilevanza reale e, quindi, capaci di coinvolgere i terzi, avrebbe immediatamente avvertito la necessità di tutelare la posizione dei successivi aventi causa, assoggettandone l’efficacia al rispetto delle regole pubblicitarie che presidiano la circolazione immobiliare. 44 In particolare, la convenzione conformativa della proprietà comune non appare riconducibile né all’art. 2643, n. 3, c.c., il quale si riferisce testualmente ai contratti che costituiscono la comunione dei diritti reali previsti dai numeri immeditatamente precedenti, né ai nn. 2 e 4 della stessa norma, i quali riguardano i tipici diritti reali limitati. 45 In senso critico verso questa affermazione M. Corona, L’uso esclusivo dei beni condominiali e le Sez. Un. della Corte di Cassazione, cit., pp. 473-474, il quale sottolinea come la previsione pattizia in esame, per un verso, consente agli altri condomini di ritrarre comunque dal bene comune oggetto di uso esclusivo una qualche utilità e, per altro verso, lascia inalterato il potere dispositivo sul medesimo bene, il quale continua a spettare alla totalità dei condomini. Senza tralasciare, poi, che in capo ai condomini sussiste un potere di controllo rispetto all’utilizzazione del bene comune da parte del condomino titolare del diritto di uso esclusivo. 43
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per svuotare di contenuto il diritto del proprietario46. Conseguentemente, è evidente che, se fosse possibile riconoscere ad un condomino il diritto di servitù all’uso esclusivo di un bene comune, agli altri condomini «non rimarrebbe nulla, se non un vuoto simulacro». A questo punto, per le Sezioni Unite, resta solamente da chiedersi se la creazione di un atipico diritto reale di uso esclusivo, suscettibile di svuotare di contenuto il diritto di comproprietà, possa essere il prodotto dell’autonomia negoziale. Un simile risultato è precluso dai complementari principi del numerus clausus e di tipicità dei diritti reali che, per un verso, rimettono al legislatore la competenza esclusiva a istituire figure dotate di inerenza reale e, per altro verso impediscono ai privati di alterare le caratteristiche fisionomiche della disciplina legale. In definitiva, per le Sezioni Unite, va affermato il principio che segue: «La pattuizione avente ad oggetto la creazione del c.d. diritto reale di uso esclusivo su una porzione di cortile condominiale, costituente come tale parte comune dell’edificio, mirando alla creazione di una figura atipica di diritto reale limitato, tale da incidere, privandolo di concreto contenuto, sul nucleo essenziale del diritto dei condomini di uso paritario della cosa comune, sancito dall’art. 1102 c.c., è preclusa dal principio, insito nel sistema codicistico, del numerus clausus dei diritti reali e della tipicità di essi». La clausola negoziale attributiva del diritto di uso esclusivo su un bene condominiale è da intendersi vietata perché, traducendosi in una permanente alterazione al regime della proprietà condomi-
46 La Corte di Cassazione, fin da epoca risalente, ha affermato il principio secondo cui la costituzione della servitù, concretandosi in un rapporto di assoggettamento tra due fondi, importa una restrizione delle facoltà di godimento del fondo servente, ma tale restrizione, se pur commisurata al contenuto ed al tipo della servitù, non può, tuttavia, risolversi nella totale elisione delle facoltà di godimento del fondo servente. Al riguardo v. Cass., 22 aprile 1966, n. 1037. Più recentemente v. Cass., 6 luglio 2017, n. 16698, secondo cui «l’asservimento del fondo servente deve essere tale da non esaurire ogni risorsa ovvero ogni utilità che il fondo servente può dare e il proprietario deve poter continuare a fare ogni e qualsiasi uso del fondo che non confligga con l’utilitas concessa. Diversamente si è fuori dallo schema tipico della servitù».
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niale (e, in particolare, della previsione dell’art. 1102 c.c.), realizza un risultato precluso all’autonomina privata. Più esattamente tale configurazione pattizia è da reputarsi radicalmente nulla47, con le conseguenti ricadute applicative in punto di legittimazione a far vale il vizio (art. 1421 c.c.), di durata della relativa azione (art. 1422 c.c.) e di preclusione alla convalida (art. 1423 c.c.)48.
5. Ulteriori corollari derivanti dall’inammissibilità di una situazione reale di uso esclusivo Una volta esclusa la validità della costituzione di un diritto reale di uso esclusivo di una parte comune dell’edificio, le Sezioni Unite affrontano il problema della sorte riservata al titolo negoziale che contempla il risultato vietato dalla legge49. Innanzitutto occorre appurare, nel rispetto dei criteri di ermeneutica applicabili, se le parti abbiano effettivamente inteso limitarsi all’attribuzione di un diritto all’uso esclusivo del bene oppure, di là del dato testuale, abbiano voluto trasferire la proprietà dello stesso bene50. A questo proposito è d’uopo rammentare che, ai
47 Ma, a questo riguardo, si vedano le considerazioni di A. Ciatti Caimi, Il diritto di uso esclusivo del condomino (dopo la decisione delle sezioni Unite della Cassazione), cit., pp. 10 ss. 48 Sul punto, si veda più diffusamente P. Scalettaris, Gli effetti dell’esclusione della configurabilità del diritto reale di uso esclusivo su una parte comune nel condominio, in Immobili & proprietà, 2021, p. 364. 49 La Corte Suprema ha soffermato l’attenzione unicamente sul titolo costitutivo del diritto di uso esclusivo, tralasciando di considerare gli effetti della nullità della convenzione sugli atti ulteriori, a principiare da quello avente ad oggetto il trasferimento del diritto de quo. Al riguardo cfr. P. Scalettaris, Gli effetti dell’esclusione della configurabilità del diritto reale di uso esclusivo su una parte comune nel condominio, cit., pp. 367 ss. Sul tema specifico cfr. R. Calvo, Uso condominiale esclusivo e sostituzione della clausola di perpetuità, in Nuove leggi civ. comm., 2021, pp. 59 ss. 50 Successivamente alla sentenza in esame si veda Cass., 21 marzo 2022, n. 9069. Sul punto specifico, per la dottrina cfr. R. Calvo, Uso condominiale esclusivo e sostituzione della clausola di perpetuità, cit., pp. 61 ss.; Id., Comunione e uso esclusivo tra autonomia e tipicità cit., p. 654.
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fini della ricostruzione della regola convenzionale, le espressioni linguistiche concretamente adoperate, pur costituendo il referente fondamentale per l’interprete, non possono considerarsi decisive, siccome il significato delle dichiarazioni negoziali può ritenersi acquisito solamente al termine di un articolato processo ermeneutico, capace di considerare anche gli ulteriori elementi extra-testuali, i quali contribuiscono a rivelare il reale intento perseguito dalle parti51. Pertanto, occorre capire se le parti abbiano effettivamente voluto creare un diritto reale di godimento atipico oppure abbiano inteso trasferire la proprietà del bene52. In seconda battuta, la sentenza suggerisce di verificare se la clausola sospetta possa essere diretta a costituire il tipico diritto d’uso, contemplato dall’art. 1021 c.c.53 In questa eventualità, il soggetto destinatario dell’attribuzione diviene titolare di una situazione giuridica certamente dotata di rilevanza reale, ma fortemente ridimensionata sia nella durata sia nel contenuto, il quale è circoscritto ai bisogni dell’usuario e dei suoi familiari, ai sensi dell’art. 1021 c.c., oltreché nel potere dispositivo, alla luce del divieto posto dall’art. 1024 c.c. Infine, la Suprema Corte suggerisce di verificare, in applicazione dell’art. 1424 c.c., la sussistenza dei presupposti per la conversione dell’atto nullo, siccome volto alla creazione del diritto reale atipico, in una diversa convenzione avente ad oggetto la concessione di un uso esclusivo di natura obbligatoria54. In particolare, si tratta di constatare, oltre alla meritevolezza dell’interesse perseguito, la ri51 In particolare, relativamente al tema trattato, evidenzia la valenza polisemica del termine “uso” E. Marmocchi, L’uso delle parti comuni: dal pari uso all’uso esclusivo, cit., p. 91. 52 In senso critico verso la prospettiva delineata, cfr. P. Scalettaris, Gli effetti dell’esclusione della configurabilità del diritto reale di uso esclusivo su una parte comune nel condominio, cit., pp. 365 ss. 53 Al riguardo si vedano anche le osservazioni di R. Triola, Il c.d. diritto di uso esclusivo di parti comuni, cit., p. 509. 54 D. Bertani, L’uso esclusivo non è reale, in Riv. not., 2021, pp. 269-270. Per l’efficacia meramente obbligatoria dei patti modificativi dell’uso della cosa comune, cfr. C. Cicero, Della Comunione, in Comm. cod. civ. Schlesinger, Milano, 2017, pp. 64 ss.
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correnza della volontà ipotetica delle parti, le quali, qualora avessero saputo della nullità dell’atto posto in essere, avrebbero voluto il diverso contratto di carattere obbligatorio55. La soluzione prospettata, per quanto animata dal pregevole intento di salvaguardare l’attività giuridica, finisce per configurare un diritto fortemente limitato, in quanto la sua rilevanza è circoscritta alle parti del rapporto, essendo incapace di affermarsi autonomamente nei confronti dei successivi aventi causa.
R. Gambardella, Da reale obbligatoria: la natura del diritto d’uso esclusivo secondo la Corte di Cassazione, in Notariato, 2021, pp. 259-260; F. Galelli, Diritto reale di uso esclusivo su una parte comune dell’edificio, ivi, 2021, pp. 203-204. 55
Quaderni dell’Archivio Giuridico Sassarese Collana di studi giuridici diretta da Giovanni Maria Uda
1. Stefania Fusco, Specialiter autem iniuria dicitur contumelia. 2. Iole Fargnoli (a cura di), «Heimat di tutti i giuristi». Il contributo di Philipp Lotmar al diritto romano. 3. Rosanna Ortu, Il ruolo giuridico delle Vestali tra immunità e processo. 4. Maria Teresa Nurra, La legittima difesa nel sistema del diritto privato. 5. Rosanna Ortu, Dal diritto romano al diritto brasiliano. Fondamenti romanistici della disciplina sui vizi occulti nel contratto di compravendita. 6. Tania Bortolu, Le comunità familiari “formalizzate”: evoluzione e disciplina. Un’indagine comparatistica. 7. Francesco Meglio, Sul contenuto c.d. «negativo» del testamento tra formula descrittiva e categoria precettiva. 8. Antonio Riviezzo e Roberto Borrello (a cura di), Il governo dell’economia e la comunicazione pubblica ai tempi del Covid-19. La prospettiva giuridica. Seminari seno-turritani. Atti del Convegno del 28 maggio 2021. 9. Claudio Colombo e Luigi Nonne (a cura di), La parte generale del contratto nella giurisprudenza della Cassazione civile.
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Claudio Colombo è Ordinario di Diritto civile presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Sassari. Luigi Nonne è Associato di Diritto civile presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Sassari.
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ISBN ebook 9788855293761