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Italian Pages 422 [424] Year 2023
Luca Marangolo insegna Letterature moderne comparate all’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. Ha conseguito un dottorato di ricerca presso l’Università degli Studi Roma Tre, è stato visiting scholar presso l’Università della California e ha partecipato a numerosi progetti di ricerca. Suoi saggi sono apparsi in volumi e in riviste come “Between”, “Enthymema”, “Status Quaestionis” e “SigMa”.
32,00 euro
9 788857 589855
LUCA MARANGOLO LA NASCITA DEL DRAMMA MODERNO IN SHAKESPEARE, CALDERÓN, RACINE, LESSING
MIMESIS
ISBN 978-88-5758-985-5 Mimesis Edizioni Forme e ideologie www.mimesisedizioni.it
LUCA MARANGOLO LA NASCITA DEL DRAMMA MODERNO
Una lunga e fortunata tradizione ermeneutica nega lo status di genere letterario alla tragedia, seguendo in ciò la linea del saggio sul tragico di Peter Szondi. Nell’intento di confutare questa tesi, il volume prende avvio da un’analisi comparativa delle tragedie sofoclee Edipo e Antigone, e prosegue su testi di Shakespeare, Calderón, Racine e Lessing, seguendo l’evoluzione materiale e discorsiva del genere in questione e proponendo anche una rivisitazione teorica di un grande classico come Il dio nascosto di Lucien Goldmann. La tragedia moderna vive, infatti, uno stato di perenne contraddizione fra le due forme che, secondo una nota intuizione hegeliana sulla poesia drammatica, la animano e la nutrono sin dalle origini: l’epica e la lirica. L’eroe tragico è una figura epica e, in quanto tale, vorrebbe racchiudere nella propria azione il destino di un’intera comunità. Il senso tragico, tuttavia, scaturisce dalla limitatezza, metonimica e parziale, dello sguardo lirico del poeta moderno nel tratteggiare il carattere dell’eroe e il suo destino, in un processo inesorabile di crisi dei fondamenti del potere: una crisi che riflette la rottura di un fragile equilibrio su cui si fonda l’ideologia di matrice aristocratica.
MIMESIS / FORME E IDEOLOGIE
MIMESIS / FORME E IDEOLOGIE N. 4 Collana diretta da Ugo Maria Olivieri Comitato scientifico Federico Bertoni (Università degli Studi di Bologna), Isabella Pezzini (Università degli Studi di Roma “La Sapienza”), Rosamaria Loretelli (Università degli Studi di Napoli Federico II), Roberto Bigazzi (Università degli Studi di Siena), Fabio Ciaramelli (Università degli Studi di Napoli Federico II)
Luca Marangolo
LA NASCITA DEL DRAMMA MODERNO In Shakespeare, Calderón, Racine, Lessing
MIMESIS
Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari dell’Università di Padova.
MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) www.edizioni.it [email protected] Collana: Forme e ideologie, n. 4 Isbn: 9788857589855 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL Piazza Don Enrico Mapelli, 75 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone: +39 02 24861657 / 02 21100089
INDICE
Nota linguistica Introduzione 1.1 Perché un saggio sull’evoluzione della tragedia 1.2 Contro il concetto di indefinibilità del tragico nell’opera di Peter Szondi 1.3 Una definizione linguistica della tragedia, anzi due 1.4 Aristotele o la tragedia come rovesciamento 1.5 Hegel, ovvero la tragedia come scontro fra i caratteri 1.6 La tragedia come genere letterario: linee evolutive di fondo
9 11 11 17 25 28 35 42
Capitolo I La tragedia antica: una totalità etica compiuta? 61 1.1 Ambiguità 61 1.2 Confini invisibili nel testo dell’Edipo Re68 1.3 Cosmi tragici interconnessi nell’Antigone95 1.4 La tragedia: il genere letterario della volontà 123 Capitolo II La scomparsa del Coro nel teatro di Shakespeare 2.1 La visione tragica di Shakespeare 2.2 Il ritorno della tragedia 2.3. La crisi della Parola 2.4 La crisi dell’Azione 2.5 Una nuova forma di volontà 2.6 Transizione. Un genere letterario non essenzialista, ovvero: le due definizioni di tragedia si scindono
131 131 159 179 196 215 224
Capitolo III La tragedia di Calderón e il pensiero dei Gesuiti 237 3.1 La visione tragica di Calderón (come una totalità etica mancata) 237 3.2 Emblemi tragici della sovranità nel primo Calderón 250 3.3 Lo scontro fra i caratteri ne La vida es sueño268 3.4 El médico de Su Honra: una tragedia del rovesciamento 287 Capitolo IV Ancora su Racine e i Giansenisti 4.1 La visione tragica di Racine (come una totalità etica mancata) 4.2 Drammi intramondani o tragedie intramondane? 4.3 Phèdre 4.4 Le tragedie “del rifiuto”
295 295 310 320 338
Capitolo V Epilogo su Lessing e il dramma borghese 345 5.1 Apologia di un genere letterario. Ovvero sul problema del ‘tragico’. 345 5.2 La sconsacrazione del mito. Come evolve il quadro di comunicazione? 351 5.3 Il genere letterario della volontà. Uno sguardo retrospettivo alla realizzazione sintattico-semantica 359 5.4 I primi esperimenti tragici di Lessing: dal Samuel Henzi al Philotas365 5.5 L’emergere di un nuovo genere: un’analisi dell’Emilia Galotti382 5.6 Conclusione. La forma del dramma moderno 393 Bibliografia Testi primari Letteratura secondaria
403 403 404
Ringraziamenti
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Talvolta la verità di una cosa non sta nel pensiero di essa, ma nel modo di sentirla – Stanley Kubrick
NOTA LINGUISTICA
I testi letterari scelti sono di seguito riportati in lingua originale con traduzione in italiano a fronte. Ciò per permettere ai lettori di controllarli ove necessario e di poter seguire, attraverso la traduzione, tutta l’argomentazione del testo. Chi scrive ha una competenza diseguale di queste lingue. Per correttezza mi sono confrontato con degli specialisti per le lingue di cui ho una conoscenza un po’ più malferma. Devo ringraziare, in particolare, Federica Sconza (“Università della Calabria”) per avermi dato conforto sul testo greco, Alessandra Giovannini (“L’Orientale”) per lo spagnolo e, infine, Beatrice Occhini (“Federico II”) per le parti in tedesco. Nei soli casi in cui non sono risultate disponibili o in commercio traduzioni ufficiali o accreditate (La cisma de Inglaterra, El principe Constante, El médico de su honra, Samuel Henzi e Philotas), si è fornita una traduzione originale.
INTRODUZIONE
1.1 Perché un saggio sull’evoluzione della tragedia 1.2 Contro il concetto di indefinibilità del Tragico nell’opera di Peter Szondi 1.3 Una definizione linguistica della tragedia, anzi due 1.4 Aristotele o la tragedia come rovesciamento 1.5 Hegel, ovvero la tragedia come scontro fra i caratteri 1.6 La tragedia come genere letterario: linee evolutive di fondo
1.1 Perché un saggio sull’evoluzione della tragedia
Lo scopo di questo libro è di tracciare l’evoluzione di un genere, il genere tragico. In particolare, l’oggetto del nostro studio sarà dimostrare come la forma della tragedia antica si adatta all’epoca moderna. Uno dei tratti distintivi del genere è di essere caratterizzato da una forte discontinuità cronologica. Fa la sua comparsa nella Grecia Attica, per poi rinascere in un’epoca di profonda crisi socio-politica legata all’assolutismo: è il Seicento di Shakespeare (1564–1616), di Calderón de la Barca (1600–1681) e di Racine (1639–1699). Attraverso la loro opera vedremo che la forma della tragedia antica si trasforma, progressivamente, seguendo un principio di fondo che nella nuova epoca per essa è sempre più difficile attuare: rappresentare l’azione tragica come una “totalità etica”1. Que1
Sul concetto hegeliano di “totalità etica”, si può confrontare una bibliografia molto vasta; ecco alcuni riferimenti minimi: R. Bodei, La civetta e la talpa. Sistema ed epoca in Hegel, il Mulino, Bologna 2014; F. Chiereghin, Hegel e la metafisica classica, CEDAM, Padova 1990; Id., Note sul modo di tradurre “aufheben”, “Verifiche”, 25, 1996, pp. 233–49; id., Storia della filosofia e si-
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La nascita del dramma moderno
sto termine si trova lungo tutta la produzione della filosofia di
stema: il significato storico-speculativo della trasformazione della metafisica in logica secondo Hegel, in La logica: di Hegel e la storia della filosofia, “Atti del Convegno internazionale di Cagliari”, a cura di G. Movia, Edizioni AV, Cagliari 1996, pp. 25– 47. Per il ruolo della totalità etica nella elaborazione del concetto di Stato moderno utile A.Z. Pelczynski, “The Significance of Hegel’s separation of the state and civil society in A.Z. Pelczynski, (a cura di), The State and Civil Society, Cambridge University Press, Cambridge 1984, pp. 1-13. Il concetto, notorio e su cui torneremo in questa introduzione, parte dall’idea che l’eticità “assoluta” dello Spirito si possa realizzare solo attraverso uno spazio etico che è armonico in sé e per sé, e che nella tragedia è simboleggiato dallo scontro fra caratteri etici. Per rimarcare la differenza fra lo sviluppo hegeliano del concetto e la realtà che si esplica nel dramma, vorrei qui citare quello che scrive Vittorio Morfino che convincentemente riconduce la nozione hegeliana di totalità a una rielaborazione del metodo metafisico che risale quantomeno a Cartesio: “Parlare di totalizzazione dello spazio di interiorità significa pensare Hegel in una sequenza che ha evidentemente come origine Descartes e come termine più prossimo Kant. Significa cioè pensare il sistema hegeliano non solo a partire dalla problematica teorica di questi pensatori, ma anche come tentativo di soluzione di aporie in essa presenti. I due gradi più elevati del dubbio cartesiano, il sogno e il genio maligno, producono come effetto, certo, di desostanzializzare il mondo, ma, soprattutto, di fare di esso un’illusione comunque esistente in un luogo: lo spazio di interiorità, spazio rispetto al quale l’ego non è solo il soggetto grammaticale, ma il vero e proprio soggetto della narrazione filosofica cartesiana. Solo alla prima persona singolare è possibile dubitare dell’esistenza del mondo, così come solo alla prima persona singolare è possibile affermare l’esistenza dello spazio di interiorità. Il contraccolpo di questa duplice mossa è la creazione, l’invenzione di un nuovo elemento all’interno dello spazio di interiorità: l’idea.” Hegel o della totalizzazione dello spazio di interiorità. In G. D’Anna, E. Massimilla, F. Piro, M. Sanna, F. Toto (a cura di), Morfologie del rapporto parti/tutto, Mimesis, Milano 2019, pp. 348-49. Nelle prossime pagine si proverà a spiegare come la nascita del dramma moderno è legata a queste rivoluzione – teorica ma anche culturale – cartesia-
Introduzione13
Hegel, ma qui mi riferisco più precisamente a un passo in cui il filosofo descrive lo scopo ultimo della tragedia moderna, ovvero quello di creare un’armonia formale risolvendo il conflitto tra differenti soggettività: Le potenze etiche e i caratteri in azione sono ora differenti in rapporto al loro contenuto e alla loro apparenza individuale. Se queste forze particolari […] sono chiamate a un’attività palese, il loro accordo viene eliminato e avanzano l’uno contro l’altro in reciproca conchiusione. Ciò che quindi con l’esito tragico viene eliminato è la particolarità unilaterale che non è stata in grado di adattarsi a questa armonia […].2
Questa definizione di tragedia come scontro tra i caratteri che si risolve armonicamente, secondo un criterio che il filosofo di Stoccarda definirebbe “concreto” – e che noi, in-
2
na: la nostra tesi sarà precisamente che la tragedia moderna è una forma che nasce in relazione e in reazione a questa rivoluzione culturale, e tuttavia è anche una forma che, in netta opposizione con l’uso che ne farà Hegel nella sua Estetica, pone tutti i limiti del pensare al conflitto (in questo caso un conflitto drammaturgico) come a una totalità: l’avanzare della tragedia nella cultura moderna al contrario mette in decisa crisi questo slancio post-cartesiano del pensiero. Non è infatti un caso che in Shakespeare, Calderón, Racine e Lessing la pretesa della tragedia come genere, come forma che abbraccia organicamente la totalità dello spazio attraverso l’ideologia del drammaturgo, e attraverso un compromesso formale fra epicità e lirismo, viene profondamente, ancorché progressivamente, sconfessato. A questo proposito segnalo la pubblicazione del Discours sur la méthode cartesiano nel 1637, lo stesso anno in cui viene rappresentata per la prima volta la celebre tragedia calderoniana La Devociòn de la cruz, a poco meno di venti anni dalla morte di Shakespeare e appena due anni prima della nascita di Jean Racine. Questa data è un po’ l’emblema di una rivoluzione nel pensiero umano, che prelude il ritorno della tragedia nella modernità, rivoluzione che nella descrizione della metamorfosi della tragedia sarà necessario tenere in conto. G. W. F. Hegel, Estetica, Bompiani Milano 2012, p. 2825.
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La nascita del dramma moderno
vece, definiremo ideologico – deriva intrinsecamente dalla sua famosa intuizione che vede la poesia drammatica come una sintesi di epicità e lirismo. In realtà, tenere insieme epicità e lirismo, nella tragedia moderna, diventa sempre più difficile, e infine impossibile. È esattamente ciò che spinge la forma tragica a mutare: il poeta tragico deve sintetizzare nella forma della tragedia tutto il materiale drammatico in una sua visione tragica soggettivamente coerente, per certi versi idiosincratica – di qui il lirismo – ma d’altro canto il materiale trattato deve mantenere la stessa pretesa oggettività, e anzi anche la medesima importanza culturale, della poesia epica. Ciò, in una modernità che sconfessa gradualmente le ideologie dei poeti, diviene un’operazione progressivamente più faticosa a realizzarsi, man mano che questo genere letterario si addentra nel Seicento, e infine insostenibile. L’ultima parte del lavoro sarà dedicata a Gotthold Lessing (1729-1781); il venir meno di un simile compromesso formale tra epicità e lirismo ci porterà infatti a rinvenire in Lessing una aurorale forma di dramma moderno, inteso come un nuovo genere. Spiegherò in che senso si può ritenere che il suo dramma non sia più concepibile secondo l’aspetto formale dell’azione come “totalità etica”, nel senso che abbiamo inteso, e come esso possa dar luogo a una genealogia differente di drammi. Mentre i primi capitoli saranno dedicati a seguire l’evoluzione discorsiva del genere, il capitolo lessinghiano sarà strutturato in modo un po’ diverso: servirà da sguardo retrospettivo per isolare i tratti veramente fondamentali per la definizione di una nuova forma, appartenente a un genere differente. In linea con queste premesse, sarà necessario tenere in considerazione due differenti livelli di analisi: il primo di carattere stilistico-discorsivo e il secondo di carattere storico e socio-culturale. Il primo implica che, nonostante la grande distanza fra le epoche che vedono sorgere la tragedia, ci sia una continuità di-
Introduzione15
scorsiva (e più precisamente una continuità evolutiva) fra i diversi contesti in cui compare la forma tragica. Svilupperemo tale tesi in aperta contraddizione con quanto sostenuto dal critico ungherese Peter Szondi nel suo Saggio sul tragico (1961), secondo cui non è dimostrabile un rapporto diretto fra la dimensione poetica del tragico, ovvero stilisticoformale, e il “modo tragico” ovvero il sentimento tragico, ciò che ne connoterebbe l’essenza. Questo stato di cose deriverebbe dalla impossibilità di risalire ad una concezione filosofica del tragico e della tragedia in quanto genere letterario3. Non tratteremo quindi il genere letterario in oggetto come un qualcosa di astratto o metafisico, né come una Stimmung indefinibile, ma come una forma che, in determinati momenti, e per delle ragioni particolari, subisce delle trasformazioni fondamentali. Il secondo livello d’analisi contempla il fatto che la tragedia sorge in epoche diverse e la sua forma assume caratteristiche spesso differenti, che derivano da ragioni storiche. Entrambi i contesti, la Grecia antica e l’età dell’assolutismo, come si vedrà, ne informano le strutture drammaturgiche e sono alla base delle motivazioni sociali che causano il sorgere o risorgere della tragedia nell’epoca presa in considerazione4. Questi due punti, alla base del no3 4
P. Szondi, Saggio sul tragico, Abscondita, Milano 2019, p. 11. Il presente lavoro, oltre a interpretare la teoria del dramma moderno di Gyorgy Lukàcs, si pone come un’ideale prosecuzione e completamento di due ricerche ormai diventate molto famose. La prima è Le dieu caché, di Lucien Goldmann (1956), la seconda è La grande eclissi di Franco Moretti (Segni e stili del moderno, 1984). Il primo di questi due testi è stato inserito, in alcune delle sue asserzioni di fondo, nel novero dei classici dai successivi sviluppi degli studi su Racine; in special modo dal lavoro di Georges Forestier. Un’altra architrave di questo lavoro è, come si vedrà, la lettura dell’Antigone compiuti da Theodor Oudemans e André Lardinois. Dal loro saggio del 1987 ho tratto anche moltissime fonti che hanno arricchito la prospetti-
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La nascita del dramma moderno
stro metodo di ricerca, saranno argomentati seguendo le idee di György Lukàcs espresse nel suo libro Il dramma moderno5. A partire da esse si traccerà un percorso comparativo tra diverse forme della tragedia, definendo i casi di studio e i risultati cui la nostra indagine vuole pervenire. Questo lavoro non coprirà nella sua complessità tutta la tortuosa evoluzione del genere, mancano all’appello chiaramente importanti giganti che potrebbero ampliare il discorso: Lope de Vega6 e Corneille, solo per nominare i più celebri, per non parlare della grande e variegata prateria della tragedia borghese, che sarà appena sfiorata. Anche una ricognizione più ricca della varietà formale interna alla produzione degli autori di cui ci occupiamo arricchirebbe molto il percorso; questi sono indubbiamente tutti limiti del presente lavoro, che non nasconderemo. Al contempo esso nasce da un’esigenza precisa: provare a dare sostanza materiale ad un genere letterario troppo importante per poter essere pensato come un’astratta Stimmung, mostrandone gli aspetti formali e pragmatici nel moderno, provando così a restituire alla forma tragica una dimensione di storicità. Nonostante le inevitabili lacune elencate, credo che un percorso come quello che si proporrà sarà sufficiente a spiegare il processo formale che porta alla nascita di un oggetto che potremo definire “il dramma moderno”.
5 6
va del lavoro. Un’altra risistemazione importante, per me utilissima, è stata la monografia calderoniana scritta da Fausta Antonucci. È evidente che, senza questi prodromi, il seguente studio non avrebbe potuto essere realizzato, al punto che i meriti di chi scrive sono certamente molto pochi se confrontati con la tradizione su cui si regge. G. Lukàcs, Il dramma moderno, SugarCo, Milano 1976. Sul caso di Lope, che qui non tratteremo, si segnala F. D’Artois, Du nom au genre, Lope de Vega, La tragédie et son public, La casa de Velázquez, Madrid 2017.
Introduzione17
1.2 Contro il concetto di indefinibilità del tragico nell’opera di Peter Szondi
Il Saggio sul tragico è un testo che Peter Szondi pubblicò nel 1961, in forma di complemento all’assai più noto e diffuso testo szondiano dal titolo Teoria del dramma moderno (1956). Le due opere sono concepite come un dittico che Szondi ha dedicato alla teoria e alla critica filosofica della drammaturgia. I due testi si devono dunque leggere in modo consequenziale e come propedeutici l’uno all’altro. Tuttavia se in Teoria del dramma moderno Szondi esprime delle tesi di carattere eminentemente storiografico, la stessa impostazione non è data nel Saggio sul Tragico. Leggiamo le stesse parole di Szondi, per intendere approfonditamente in cosa consiste la differenza e iniziamo con Teoria del dramma moderno: Il dramma dell’età moderna è nato nel Rinascimento. Fu l’audacia spirituale dell’uomo, pervenuto a se stesso dopo il crollo della concezione medievale del mondo, quella di costruire la realtà dell’opera d’arte in cui voleva fissare e rispecchiare se stesso, sulla riproduzione dei meri rapporti umani.7
E ancora: La sfera dei rapporti intersoggettivi gli appariva quella essenziale della sua esistenza; Libertà e vincolo, Volontà e decisione come le sue determinazioni più importanti. Il “luogo” in cui egli giungeva a realizzazione drammatica era l’atto di decisione.8
Aprendo con queste righe, Szondi si appresta a tracciare la storia dell’evoluzione della drammaturgia in un’epoca che 7 8
P. Szondi, Teoria del dramma moderno, Einaudi, Torino 1961, p. 9. Ibid.
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La nascita del dramma moderno
va fra il 1880 e il 1950, e qui l’autore ipotizza con ragione che il nuovo dramma – il dramma della modernità – sia iniziato proprio a partire dalla concezione della volontà, totalmente nuova, che l’era di passaggio identificata con il Rinascimento ha dato all’uomo moderno. Traluce dunque una fondamentale coincidenza, ovvero: il rapporto fra evoluzione del dramma e la nozione di volontà. Questa concezione della volontà come si vedrà è essenziale per spiegare l’evoluzione della tragedia. Per adesso notiamo che il lavoro di Szondi prosegue con un’analisi di opere letterarie degli esponenti principali del dramma moderno ottocentesco e novecentesco che, a più riprese, Szondi definisce come un “genere autonomo”. L’analisi di autori ottocenteschi come Cechov, Maeterlinck e Ibsen nella parabola tracciata da Szondi, ruota tutta intorno al fatto che il dramma moderno manca di “epicità” intesa in un senso ripreso da Goethe, ma di per sé molto affine a quello hegeliano9, cioè di esplicita oggettività e al contempo di importanza della materia trattata. Ciò farebbe supporre un’enorme attenzione, da parte di Szondi, alla storicità e, va da sé, anche all’evoluzione della tragedia e il suo confluire nel dramma moderno, attesa che diviene a maggior ragione ancor più legittima se si continua a leggere: Il mezzo espressivo di questi rapporti intersoggettivi era il dialogo. Nel Rinascimento, dopo la soppressione del prologo, del Coro e dell’epilogo, il dialogo divenne, forse, nella storia del teatro (insieme al monologo che rimase episodico, e non era quindi costitutivo della forma drammatica) la sola componente del teatro drammatico.10
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Il riferimento di Szondi è alla lettera di Goethe a Schiller Dramatische Dichtung und epische dichtung, cfr. W. Goethe, Scritti sull’arte e sulla letteratura, Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. 122-123. 10 P. Szondi, Teoria del dramma moderno, cit., p. 9.
Introduzione19
La tesi di Szondi in Teoria del dramma moderno sembra quella di un processo caratterizzato da un costante allontanamento poetico della forma e della drammaturgia tragica da schemi pregressi verso il suo oggetto di studio. Parlando dell’opera di Ibsen Rosmersholm e rimarcando le differenze con i drammi del passato come L’Edipo sofocleo, Szondi delinea la natura del dramma moderno in pagine assai preziose per la sua definizione come “genere autonomo” rispetto alla tragedia precedente: La verità dell’Oedipus Rex è di natura oggettiva. Essa fa parte del mondo: solo Edipo vive nell’ignoranza, e il suo itinerario alla verità costituisce l’azione tragica. In Ibsen la verità è interiore. È nell’interiorità che risiedono i motivi delle decisioni che si manifestano; è in essa che si nasconde, e sopravvive ad ogni trasformazione esterna, il loro effetto traumatico. La tematica di Ibsen manca in questo senso topico del presente richiesto dal dramma. Essa nasce, è vero, interamente dal rapporto interpersonale, ma vive solo nell’intimo di esseri estranei e isolati, come un riflesso di quel rapporto.11
Szondi in questo passo concede al testo ibseniano aspetti sostanziali della poesia drammatica, e che sono tutti riconducibili al piano dell’oggettività: la vicenda di cui tratta il dramma è oggettivamente rappresentata sulla scena ed ha una coerenza nella rappresentazione dei rapporti interumani; il problema è semmai che rispetto alla forma tragica del passato quest’opera non rappresenta esteriormente “la verità di Ibsen”, non rappresenta cioè esplicitamente il senso del dramma impresso da Ibsen, che si ritrae nell’interiorità dei personaggi e di cui possiamo vedere le conseguenze drammatiche esteriormente rappresentate: in una parola non rappresenta più la sua visione tragica, e ideologica; visione che, nella tragedia moderna, si dà solo come totalità 11 Ivi, p. 22.
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La nascita del dramma moderno
etica, oppure non si dà. In questo senso Szondi sta consapevolmente descrivendo una forma drammaturgica, e talora anche tragica, in cui l’aspetto lirico e l’aspetto epico che caratterizzano la tragedia in quanto rappresentazione di una totalità etica sono definitivamente venuti meno: nel nostro lavoro andremo alla ricerca della rottura di questo nesso storico fra epicità e lirismo, proprio dalla rottura di tale vincolo che nasceranno i drammi moderni di cui parla Teoria del dramma moderno. Se ci muoviamo da Teoria del dramma moderno al Saggio sul tragico, notiamo subito che un simile processo genealogico viene abbandonato, a cominciare dalla icastica introduzione del libro: Fin da Aristotele vi è una poetica della tragedia; solo a partire da Schelling vi è una filosofia del tragico. Proponendosi di istruire sull’attività poetica, lo scritto di Aristotele vuole determinare gli elementi dell’arte tragica; suo oggetto è la tragedia, non l’idea di essa. Anche quando si spinge al di là dell’opera d’arte nella sua concretezza, interrogandosi sull’origine e sull’effetto della tragedia, la dottrina che lo anima rimane empirica, e le affermazioni cui esso in tal modo perviene – quelle relative all’impulso mimetico come origine della tragedia – hanno senso non in se stesse, ma nel significato che rivestono per la poesia, la quale deve trarne le proprie leggi.12
Dopo Aristotele Szondi vede una scissione fra la dimensione poetica del genere tragico e la sua dimensione concettuale; ciò che colpisce di più è il passo teorico ulteriore, tale per cui la dottrina aristotelica che riguarda la forma del tragico non può dire, secondo l’autore, nulla della sua storicità e ciò, a detta di Szondi, avverrebbe a causa del fatto che non esiste alcuna reale definizione concettuale, filosofica, del tragico: La storia della filosofia del tragico non è essa stessa priva di tragicità. È simile al volo di Icaro. Infatti, quanto più il 12 Ivi, p. 26.
Introduzione21
pensiero si approssima al concetto generale, tantomeno gli aderisce l’elemento generale a cui deve lo slancio. Al culmine dello sguardo all’interno della struttura del tragico, il pensiero ricade esausto su se stesso. Laddove una filosofia, in quanto filosofia del tragico, diviene qualcosa di più di quel riconoscimento cui concorrono i suoi concetti fondamentali, laddove essa non definisce più la propria tragicità, non è più filosofia.13
Si perdonino le molte citazioni, necessarie però a far comprendere la posizione szondiana: Per tanto la filosofia sembra non concepire il tragico – dunque il tragico non esiste. Questa è la conseguenza tratta da Walter Benjamin. La sua opera sull’origine del dramma barocco tedesco risponde alla crisi cui era caduta questa problematica in Volket e Scheler, alla svolta del secolo. Sebbene Benjamin rinunci al concetto generale di tragico, la strada che egli intraprende non riconduce ad Aristotele.14
Per Szondi, se la filosofia non concepisce il tragico, allora la tragedia in quanto forma non esiste. È vero infatti che Benjamin nella sua premessa gnoseologica al saggio sul Trauerspiel ha affermato di voler formulare un concetto teorico generale che comprenda il tragico olisticamente senza passare attraverso l’indagine testuale15; tuttavia, è qui necessario sottolineare che l’inferenza per cui la presa d’atto di una riflessione generale e filosofica sul tragico implichi l’impossibilità di descriverne le strutture formali in qualunque modo o di definire il genere tramite il rapporto fra storicità della forma ed essenza concettuale non è in Benjamin. Quest’ultimo nella Premessa gnoseologica commenta un 13 P. Szondi, Saggio sul tragico, cit. p. 27 14 Ivi. p. 37. 15 W. Benjamin, Il dramma Barocco tedesco, Einaudi, Torino 19993, p. 19.
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La nascita del dramma moderno
passo tratto da Breviario di Estetica in cui si riassume il ben noto astio di Benedetto Croce verso il concetto di genere letterario, la cui definizione rappresenterebbe, secondo il filosofo italiano, un lavoro ozioso, in quanto: Tra l’universale [dell’intuizione estetica] e il particolare [dell’opera d’arte] non si interpone nessun elemento intermedio, nessuna serie di generi o specie, di generalia.16
Al lapidario giudizio crociano Benjamin così chiosa: Questa considerazione è pienamente giustificata riguardo al concetto di generi estetici. Ma si ferma a metà strada. Infatti, per quanto un’enumerazione di opere d’arte che miri a coglierne l’elemento comune sia un’impresa oziosa, ove non si tratti di una collazione storica e stilistica di esempi bensì del loro nucleo essenziale, è altrettanto impensabile che la filosofia dell’arte si privi delle sue idee più ricche, quelle di tragico e di comico.17
Insomma, sebbene per convalidare la sua tesi Szondi si rifaccia proprio all’opera benjaminiana sul dramma barocco tedesco, risulta con evidenza la differenza fra il Saggio sul tragico szondiano e le posizioni di Walter Benjamin. Tale differenza si palesa in termini più espliciti se si presta attenzione all’inciso benjaminiano: “ove non si tratti di una collazione storica e stilistica”, precisamente in quest’inciso l’autore del saggio sul Trauerspiel sembra concedere più di qualcosa al valore di un’indagine storica delle forme. Benjamin, insomma, non è interessato a studiare l’evoluzione storica del genere letterario, postulando che sia possibile definirlo molto meglio astraendolo dall’ordine discreto delle definizioni storico-critiche, le quali permetterebbero di seguire la sola genesi (è seguendo un sinonimo di questa di16 B. Croce, Breviario di estetica, Adelphi, Milano 199011, p. 57. 17 W. Benjamin, cit., p. 19.
Introduzione23
citura che ho scelto per il titolo “la nascita”) del dramma, secondo la celebre distinzione fra genesi e origine: L’origine, pur essendo una categoria pienamente storica non ha niente a che fare con la genesi. Per origine non si intende il divenire di ciò che scaturisce, bensì al contrario ciò che scaturisce dal divenire al trapassare.18
L’idea di storicità che ha in mente Benjamin, non esclude dunque la possibilità di travalicare il mero ordine cronologico necessario ad un’esposizione lineare della genesi delle forme19, ed è qui che emerge appunto la distinzione fra genesi e origine, derivante, in Benjamin, dalla lettura giovanile di Hölderlin20; Tutto ciò al solo fine di pensare nel modo migliore il concetto di “tragico” così come quello, ad esempio, di “comico”. Nel saggio sul tragico Szondi ritiene invece di doversi rifugiare in delle posizioni rigidamente hegeliane21, estremizzando l’assunto di Walter 18 Ivi, p. 20. 19 Anzi, in alcuni passi del suo saggio sul Trauerspiel, del Frammento Teologico-politico e delle tesi Sul concetto di storia Walter Benjamin sembra addirittura presupporre l’idea di una storicità anti-narrativa, come presupposto per una concezione materialistica della storiografia, ma non parla mai di una sua impossibilità. Cfr. W. Benjamin, Opere complete, Feltrinelli, Milano 2017. 20 W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, cit., 1999, p. 26. 21 Come noto, Szondi confuta la stessa concezione di Hegel per quanto pertiene il rapporto fra tragico e tragedia, riprendendo l’ambiguità interpretativa rintracciabile, a detta di Szondi, nell’interpretazione hegeliana del Macbeth; (P. Szondi cit. Saggio… 2019 pp. 25-35). Il mio “rigidamente hegeliane” va dunque, almeno rapidamente, spiegato. Quel che Szondi salva di Hegel è l’essenza del tragico come dialettica metafisica pura, che può esistere, per il critico, solo a prezzo della sua indefinibilità sul piano della poetica e dell’estetica: è un leggere Hegel oltre Hegel. Il filosofo, come vedremo, in realtà, tenta di tenere insieme forma e modo tragico tanto nella Fenomenologia quan-
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Benjamin per cui la storia delle forme e la concezione del genere letterario in questione sono difficilmente conciliabili affermando, incisivamente, che sono inconciliabili22. Seguendo l’opinione, dunque, del primo Szondi, piuttosto che del secondo, il percorso approntato spiega il processo storico attraverso cui vengono rimossi i vincoli strutturali che consentivano di tenere insieme la rappresentazione drammatica alla Weltanschauung del tragediografo. Quel che manca, probabilmente, per controbattere al secondo Szondi, è una definizione olistica, filosofica del tragico, giacché alla confutazione operata dal critico ungherese dei vari pensatori tragici questo lavoro non può opporre null’altro se non la storicità della forma letteraria e il suo legame con il tragico nei vari autori studiati. Essa, a ben vedere, può contribuire molto a definire il concetto di tragico filosoficamente. In tutti gli autori che tratteremo di fatti il senso tragico è identificabile con l’espressione generica “crisi dei fondamenti” sia essa, come nel caso dei Greci, una crisi dei fondamenti mitici della civiltà, sia essa crisi dei fondamenti culturali legati alla rappresentazione del potere, come nel caso, vedremo, dei tragici moderni23.
to nell’Estetica, almeno fino ad una certa soglia. Sembra, quindi, che cogliendo Hegel in contraddizione nell’interpretazione figurale di Banquo e di Macbeth, nelle pagine dedicate al filosofo, Szondi voglia mostrare un’aporia, fra l’altro anche plausibile, nel compiere questa operazione di conciliazione fra le due istanze, suggerendo l’ipotesi che la dialettica vada pensata come una sorta di a-priori immateriale, come Hegel l’aveva concepita dall’inzio. Un’operazione molto sofisticata dal punto di vista ermeneutico, che però getta nebbia su tutti i tantissimi spunti che si trovano nell’Estetica per la definizione del genere letterario. 22 Cfr. Szondi, Saggio sul tragico, cit., p. 9. 23 J. P. Vernant, P. Vidal-Naquet, Mythe et Tragédie en Grèce ancienne, La Découverte, Paris 2001.
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1.3 Una definizione linguistica della tragedia, anzi due
Per sopperire alle discrasie messe in evidenza nel lavoro szondiano, cerchiamo di comprendere come la “rappresentazione della volontà” del dramma moderno nasca esattamente da questo venir meno della rappresentazione dell’azione drammatica come una totalità etica. Sebbene abbia tratto questo termine dalle lezioni di Estetica, la tesi che cercherò di argomentare è che, nel passare dalla teoria enunciata da Hegel nell’Estetica alla concreta realtà storica dal genere letterario, è necessario integrare all’Estetica la nozione formale di tragedia presente nella Poetica di Aristotele. Partendo da spunti tratti da entrambi questi due testi si definirà la totalità etica della tragedia come “gioco di verità”, ovvero una formazione discorsiva caratterizzata da regole pragmatiche definite, rintracciandone degli aspetti strutturali ben identificabili, tali da poter storicizzare nella sua mutazione, e seguirla nel tempo. Lo spunto per la definizione di un genere letterario come “gioco di verità” nasce da un testo di grande successo critico come Teoria del Romanzo di Guido Mazzoni, il quale si riferisce a sua volta alla tarda elaborazione di Michel Foucault a quella, classica, del secondo Ludwig Wittgenstein: L’espressione “gioco di verità”, riscrive in modo nuovo a un anno e mezzo di distanza ciò che Michel Foucault, all’altezza dell’Archeologia del Sapere, chiamava “formazione discorsiva”. È molto probabile che […] Foucault sia stato influenzato da Wittgenstein e dal concetto di “gioco linguistico”. Le due formule descrivono in parte oggetti diversi, perché l’idea di Wittgenstein si applica a pratiche comuni e fluide (impartire un ordine, descrivere un oggetto, raccontare un avvenimento) […] Ma le affinità sono più interessanti delle differenze: per Wittgenstein come per Foucault […] i discorsi
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che rientrano in questi insiemi non sono legati da norme immutabili, ma da regolarità mobili soggette a metamorfosi.24
Lungo l’analisi dei testi, poi, mi riferirò a questi due giochi di verità con cui definire la forma tragica, per semplificare, come tragedia del conflitto tra caratteri. Un altro modo per affermare ciò è, in sostanza, che entrambe le forme definiscono il genere letterario come un universale in re: non ante rem, dato cioè come un concetto di tragedia definito una volta per tutte e poi applicato, né post rem, ovvero solo dopo che esso sia stato definito, ma attraverso la descrizione di una traiettoria che delinea lo sviluppo del genere in quanto tale. Ed è proprio perché queste due definizioni di tragedia definiscono l’evoluzione del genere in re che ambedue, progressivamente, vanno a risolversi nel dramma moderno. Aristotele nella Poetica definisce la tragedia come un rovesciamento (peripeteia) non solo della sorte, come erroneamente si è ritenuto per secoli nell’esegesi aristotelica25, ma anche delle premesse da cui muove la volon24 G. Mazzoni, Teoria del romanzo, Einaudi, Torino 2010, posizione 149. 25 Nel suo Forms and Ideas of tragedy Henry Asgar Kelly indaga precisamente l’origine di questo pregiudizio “moralistico”, sul genere tragico, nel lungo periodo che il nostro lavoro non prende in considerazione: “We have seen that at the close of classical period, tragedy was a sad serious business that could occur or be presented in a number of grave and sublime ways which could be regarded with pity or contempt or admiration, many of the passages we have examined, and others of a similar nature, will be mined by the writers of the Middle Ages and put to use in quite new context.”, H. A. Kelly, Forms and Ideas of tragedy from Aristotle to the Middle Ages, Cambridge university press, Cambridge 2009, p. 35. Questo détour ci permette una breve considerazione metodologica: lo studio delle forme in cui si sviluppa un gioco linguistico dipende molto dalla elasticità e dalla duttilità delle sue strutture pragmatiche. Nel caso del romanzo, ad esempio, abbiamo di fronte una forma in grado di
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tà del carattere; anzi, a rigore, nella poetica la tragedia raggiunge a pieno la sua essenza quando al rovesciamento si aggiunge il riconoscimento (anagnorisis) delle illusorie premesse da cui partiva tale volontà26. Hegel, invece, come abbiamo fuggevolmente descritto, vede la forma della tragedia non nel rovesciamento della volontà del carattere ma nello scontro fra le coscienze e fra i caratteri, inteso come collisione fra gli interessi, eticamente determinati dalla volontà di tali caratteri (Aneinanderstoßen der Interessen). La prima definizione mette l’accento dunque, esplicitamente, sulla terza ed ultima delle parti in cui tradizionalmente, proprio da Aristotele in poi, si divide il dramma: lo scioglimento. Quella di Hegel, pone l’accento sulla seconda delle tre parti, non dunque sullo scioglimento del conflitto, bensì sulla messa in scena dello scontro stesso: a dispetto di quello che questi due autori definiscono come la parte più importante del dramma, che ne racchiude l’essenza formale. È ovvio che entrambe si interessano di tutte e tre le parti del dramma e questo lavoro muove dalla convinzione che, tenendo presente le regole pragmatiche da entrambe messe in adattarsi in modo straordinariamente duttile e incredibilmente agglutinante: questo implica anche il suo fiorire e svilupparsi in modo molto più ampio e variegato. Nel caso della tragedia, invece, abbiamo una forma molto rigida, ma che si concentra proprio per questa ragione in delle epoche molto determinate. L’evoluzione di un gioco linguistico, fra l’altro, non pensa il genere che in re, implicando una corrispondenza precisa fra la forma e l’idea del genere, e quindi si ritiene che le varie forme e idee di tragedia che sono state ipotizzate nelle epoche da noi non prese in considerazione preparano, genealogicamente, il ritorno della forma in una determinata epoca che si trasforma adattandosi al nuovo contesto, in parte anche grazie al lavoro concettuale effettuato nelle epoche passate. Per questa legge della trasformazione delle forme, una volta mutata, la tragedia dovrà dunque necessariamente implicare l’effetto del passato, anche remoto, che l’ha condotta ad una simile trasformazione. 26 G. W. F. Hegel, cit., p. 2576.
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gioco, si possa compiere una storia della nascita del dramma moderno a partire dalla forma della tragedia. In definitiva, la necessità di ricorrere a entrambe le definizioni deriva proprio dal fatto che esse, formalmente, racchiudono due aspetti irriducibilmente in contraddizione della tragedia moderna, questo in netta contraddizione con quella antica. La ricognizione che si effettuerà nei paragrafi che seguono non servirà però solamente a definire le due forme linguistiche, ma anche per capire in che modo esse potranno essere utilizzate nei vari contesti storici delle tragedie studiate, secondo i principi dei giochi di verità. In un ultimo paragrafo di questa introduzione, tenendo presente entrambe le fonti teoriche e tenendo presente i contesti storici indicati, si preciserà l’evoluzione formale, nel suo insieme, del genere letterario: in che senso, a partire da Lukàcs, si può parlare di unione fra tragico e tragedia – poetica della tragedia e sua esperienza estetico-formale – ponendo delle basi teoriche per l’idea della nascita del dramma moderno. 1.4 Aristotele o la tragedia come rovesciamento
In primo luogo si intende mettere dunque a fuoco come al centro concettuale della Poetica ci sia l’assai influente (ma anche relativamente fraintesa) idea della tragedia come rovesciamento. Rovesciamento, si diceva, non tanto – o almeno non solo, e non soprattutto – della sorte del carattere (Aristotele chiama il carattere: έθη) quanto della sua volontà. Si tralasceranno rassegne troppo approfondite delle interpretazioni del concetto di peripezia basata sul rovesciamento e definita da Aristotele nel capitolo 14 della Poetica. Un altro oggetto che non riguarderà esplicitamente la nostra analisi è il diffusissimo uso del rovesciamento nella tradizione della tragedia regolare, soprattutto in Italia, ma in tutta Europa. Difatti, in un documentatissimo studio cui non posso che rimandare,
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Enrica Zanin27 ha dimostrato che tutta la tradizione aristotelica della tragedia fra Italia, Francia, Spagna e Germania, è una imperfetta e problematica imitazione – spesso un fraintendimento – del concetto di rovesciamento. La nostra tesi è che ciò avviene anche perché, come si proverà a dimostrare, la tragedia della grande stagione assolutista del teatro è un adattamento formale della tragedia antica, fatto per cui questa stagione contrappone all’imitazione di un modello astratto come quello della Poetica l’evoluzione viva del dramma. Quindi ci si concentrerà più che altro su una corretta intellezione del modello proposto dallo Stagirita, contestualizzandolo nel periodo in cui Aristotele lo deduce, con la consapevolezza che ciò ci permetterà di ricondurre a un modello le forme di rovesciamento che incontreremo, da contestualizzare di volta in volta. In questo senso, va precisato che la proposta aristotelica della tragedia come gioco linguistico e rovesciamento della volontà del carattere, attraverso un suo repentino mutamento di stato (la μεταβολή), è essa stessa, in buona parte, un fraintendimento della realtà concreta del dramma antico. Occorrerà dunque anche spiegarne il ruolo all’interno della tra27 E. Zanin, Fins tragiques: poétique et éthique du dénuement dans la tragédie de la première modernité (Italie, France, Espagne, Allemagne) Librairie Droz, Genève 2014. Una delle tesi di questo monumentale studio è che, per via di caratteristiche intrinseche alla forma tragica, la grande tradizione della tragedia aristotelica regolare sia il tentativo di adattare un mal interpretato nesso etico fra μεταβολή aristotelica e la sorte del carattere: “Une critique éthique des textes littéraires est particulièrement pertinente pour les genres modernes, dans la mesure où leur pòetique présent non seulement des normes formelles, mais aussi des précepts moraux. En effet un texte, pour être “beau” doit être “utile” à son lecteur. Chaque genre sert ainsi à l’identification de son public de manière différente. Les premières traductions de la Poétique explicitent une morale du genre, en depite de l’apparente neutralité idéologique du texte d’Aristote […], La poétique de la tragédie est alors proche de celle de l’exemplum.”, pp. 93-96.
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gedia greca, operazione per nulla scontata. Il punto è proprio che il gioco di verità del rovesciamento coglie una realtà linguistica della tragedia che trascende il sistema filosofico che l’ha ideata: Aristotele, per quanto in modo assai filosoficamente mediato, colse insomma un dato formale che non solo si è conservato ed è giunto fino a noi, ma ha anche caratterizzato l’evoluzione viva della tragedia e il suo lento e progressivo sfociare nel dramma moderno. Anzi, si può aggiungere che è proprio l’irrisolta tensione che lega la formalizzazione della tragedia presente nella Poetica ed il passato, remoto di quasi cent’anni, del dramma di cui Aristotele parla, ad essere per noi feconda ermeneuticamente. Detto in altri termini, Aristotele colse l’idea del rovesciamento perché c’erano dei presupposti formali profondi all’interno del dramma greco che permisero la sua codificazione e, anche se i criteri filosofici che egli propone per una formalizzazione del rovesciamento ci interessano relativamente, perché remoti dalla realtà del dramma greco, una comprensione puntuale e accurata della filogenesi di questa idea che inizia nel dramma antico e arriva ad Aristotele non potrà che rafforzare la nostra comprensione della validità di questa prima idea della tragedia come gioco linguistico. In primo luogo va anticipato che, a differenza di Hegel, Aristotele pone l’accento non tanto sulla psicologia del carattere (έθη, appunto) ma sull’azione nel suo complesso, il solo elemento da cui può nascere la felicità o l’infelicità del personaggio28: è dalla struttura e dalle propor28 Aristotele scrive “[…] poiché è imitazione di un’azione ed è agita da alcuni che agiscono, i quali sono di una certa qualità per carattere e pensiero, l’imitazione dell’azione è il racconto (mythos)”. Aristotele, Poetica, a cura di D. Lanza, Rizzoli, Milano 1992, p. 137. È l’azione che conta: il dramma è un prattein ed è ciò che genera il racconto. All’analisi di Diego Lanza nel suo fondamentale saggio introduttivo Perché leggere La Poetica oggi, si devono le idee principali qui esposte sul modello teorico di Aristotele.
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zioni della tragedia che si può verificarne l’efficacia29. Ed è proprio analizzando i vari tipi di mythos che nella Poetica troviamo l’elezione del racconto basato sul rovesciamento e poi sul riconoscimento come il culmine dell’essenza (οὐσία) della tragedia. È noto infatti che la poetica aristotelica, nel classificare i generi letterari e le diverse parti di essi (in particolar modo, Aristotele si sofferma sui diversi aspetti della tragedia) sfrutta un sistema dicotomico che, in base a studi consolidati, sembra derivargli dalla dialettica platonica. Attraverso questo processo di selezione che procede per progressive opposizioni dicotomiche, Aristotele giunge a dimostrare come mai la peripezia, l’idea della tragedia come rovesciamento della volontà, sia la forma ultima, vale a dire l’ultimo stadio di sviluppo della forma tragica, ovvero la realizzazione più completa della sua enègheia30. 29 Qui Aristotele ricorre alla famosa metafora, da cui traspare la visione organicista e biologista che il filosofo aveva per le forme letterarie, con cui egli spiega l’esigenza di definire le proporzioni del mythos: “Per tanto, come per i corpi degli animali ci deve essere una grandezza e questa deve essere facilmente abbracciabile con lo sguardo, così anche per i racconti ci deve essere una durata e questa deve consentire una facile memorizzazione: il limite conforme alla natura del fatto è che è sempre più bello, per quel che riguarda la grandezza, così anche per i racconti ci deve essere una durata che deve rendere più facile la memorizzazione.” Aristotele, cit., p. 139. Già in queste righe si può constatare il legame che c’è fra il concetto espresso e quello di mimesis, nel senso di simulazione della realtà e del suo nesso con la memoria: un mythos deve essere breve perché deve essere comprensibile e memorizzabile, deve essere una sintesi sapientemente compiuta della memoria e dell’esperienza di vita dello spettatore. 30 Aristotele, come appare chiaro da questa forma di procedimento deduttivo, rigetta l’idea per cui l’origine sia ciò su cui bisogna focalizzarsi per comprendere la tragedia, fatto che sembra essere risultato pacifico, in qualche modo, dal neoclassicismo in poi: “poiché noi dunque siamo naturalmente in possesso della capacità di imitare, la musica e il ritmo (i versi, è chiaro, fan-
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Di qui lo schema teorico lega, in modo interessante, il gioco linguistico tragico all’effetto morale che il mythos deve avere sul pubblico: l’eroe tragico, nella visione aristotelica, deve essere spoudaiòs cioè deve essere, diremmo noi, un “uomo medio”, per porsi nella giusta relazione con il pubblico: non deve essere né troppo elevato nei comportamenti, perché ciò comporterebbe una illegittimità del comportamento tragico, impedendo di provare pietà (Eleos) per un personaggio di statura eroica, né troppo cattivo, perché ciò impedirebbe di immedesimarsi e dunque di provare paura (Fobos) per le vicende. Da questa esigenza, Aristotele giunge a riprendere un termine assolutamente chiave per il dramma greco, e cioè quello di hamartia, che però lui legge in un modo diverso (eppure in qualche modo ancora vagamente affine) a quello rinvenibile, con grande frequenza, nel dramma antico. Usualmente traduciamo questo termine come “errore”; va precisato, tuttavia, che il termine è piuttosto lontano dalla semantica di questa scelta traduttiva: l’hamartia aristotelica è qualcosa che si trova a metà fra l’adichema, ovvero la colpa intesa come mancanza di dike, di virtù, e l’atychema, la mera sfortuna, uno scherzo della tyche31. L’errore descritto no parte del ritmo). Dapprincipio coloro che per natura erano portati a questo genere di cose, con un processo graduale delle improvvisazioni (Άὒτοσχεδιαζoματα) dettero vita alla poesia”, Ivi, p. 127. Aristotele notoriamente non valuta gerarchicamente più importante ciò che c’è prima, ma considera in tale rilevanza la poesia, e in particolare la tragedia come compimento della poesia, e ancora più rilevante è la struttura della peripezia del rovesciamento come compimento più perfetto della tragedia. 31 È noto che questa triade, adikema, atykema e hamartema è rintracciabile almeno in un passo dell’Etica Eudamia, ed in un passo della Politica. Questo ci dice molto, chiaramente, della posizione che l’arte poetica doveva avere nello sviluppo sistematico della poesia di Aristotele, oltre che della distanza assai probabile tra la concezione aristotelica dell’hamartia e la concezione dei tragici. Fra gli altri confronta su questo J. P. Ver-
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dalla hamartia aristotelica è, insomma, qualcosa di legato all’ignoranza, all’inconsapevolezza di essere in torto che, inevitabilmente, produce un effetto tragico. Anche questa selezione emerge, come visto, da una dicotomia che corrisponde chiaramente al tipo drammaturgico dello spoudaiòs: dell’uomo dal carattere “medio”, non eccessivamente cattivo, ma non troppo nobile d’animo, e che quindi sarebbe opportuno cadesse per mancanza di consapevolezza, per hamartia, piuttosto che per una sua adikìa o per mera casualità, in modo da favorire il processo di immedesimazione tragica. Lo sfondo di questa riflessione etica è da tenere presente, insomma, per capire il primato della forma della peripezia basata sul rovesciamento, nella visione aristotelica. A quest’ultima deduzione Aristotele giunge attraverso la comparazione di vari mythoi, secondo il già accennato modo dicotomico della speculazione platonica, nonché secondo un crescente livello di “complessità”: I racconti sono alcuni semplici (aploi) e altri complessi (peplegmenoi) perché tali sono anche le azioni di cui i racconti sono imitazioni. Chiamo semplice un’azione nel cui svolgimento, come si è definito, continuo o unitario, ha luogo il mutamento senza rovesciamento o riconoscimento: complessa invece quella dalla quale il mutamento ha luogo insieme con riconoscimento, rovesciamento o entrambi. Questi devono prodursi dalla stessa composizione del racconto, sì che dai fatti precedentemente avvenuti accada che essi sorgano di necessità o secondo verosimiglianza, perché c’è molta differenza che una cosa si produca a causa di un’altra o dopo un’altra.32
Alcuni racconti sono semplici, altri complessi, perché tali racconti seguono di più la condizione della verosimiglianza e la necessità che da questa verosimiglianza procede: necesnant, P. Vidal-Naquet, Mythe et tragedie en Grèce ancienne, La Découverte, Paris 2001 p. 57. 32 Aristotele, Poetica, p. 157.
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sità cioè, chiaramente intesa come virtualità propria dei generi poetici in assoluto e dei vari tipi di mythoi: se l’hamartema è l’errore che più è in grado di esprimere il senso del tragico per Aristotele, la necessità con cui si sviluppano le forme poetiche vuole che la forma che meglio lo esprima, la più complessa, perché in grado di sussumere meglio in se stessa le altre forme, è il rovesciamento, ancor più se il rovesciamento è accompagnato da riconoscimento. Aristotele, in più, delinea vari tipi di riconoscimento, sulla base di alcune forme di azione definite a partire dall’hamartema. Emone nella classificazione della tragicità sarà inferiore, perché il suo protagonista è consapevole di quel che fa e consapevolmente non agisce. Medea invece, è in una posizione leggermente superiore, d’altro canto, è consapevole e sceglie di agire: le sue malefatte generano il tragico per il loro essere truci e tuttavia la consapevolezza mal si concilia con il principio prescrittivo dell’hamartia. I casi migliori, quelli per cui il rovesciamento si basa sull’azione inconsapevole, sono l’Edipo e l’Ifigenia in Tauride, perché si agisce a partire da un’inconsapevolezza e poi il riconoscimento aggiunge vigore al tragico nel caso dell’Edipo, nel secondo caso, ancora migliore, Ifigenia rinunciando a sacrificare il fratello all’ultimo, mette in atto “un’anagnorisis” positiva e dunque più etica, in grado di mostrare come il carattere spudaiòs possa imparare dal proprio hamartema. Come si vede, dunque, la tragedia dotata di rovesciamento e riconoscimento è l’apice della complessità cui può giungere la tragedia, e dunque, la poesia in generale nella sua essenza. Questa breve ed essenziale ricognizione ci autorizza a dire che Aristotele vedeva nel rovesciamento la base della tragedia, quello che oggi definiremmo il suo gioco linguistico. Ma in che modo, dunque, questa costruzione linguistica può aiutarci a definire la tragedia e la sua evoluzione? In che modo si attaglia alle varie forme e alle epoche che
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oggetto di studio? Per arrivare a rispondere a questa domanda dovremo passare attraverso la definizione che troviamo nell’Estetica di Hegel. 1.5 Hegel, ovvero la tragedia come scontro fra i caratteri
Anche una lettura basilare della teoria hegeliana della tragedia mostra chiaramente che la concezione espressa prima nella Fenomenologia e poi nell’Estetica si fonda su di una filosofia che, contrariamente a quella di Szondi, tiene insieme, per molti versi, tragico e tragedia: anche se, chiaramente, per Hegel il tragico è qualcosa di più vasto e di più importante della forma tragica. Basterà qui ripercorrerne le linee generali, mantenendo solo sullo sfondo l’intensa ermeneutica dedicata all’Estetica, e che ha visto una solida tradizione che inizia con Arthur Bradley, e arriva a Robert Pippin e Arthur Danto. A partire dal 1904 fino al 1907, Lukàcs dovette leggere e evidentemente trarre spunto dall’Estetica, per tracciare l’evoluzione della tragedia, ma ricavò molto liberamente idee da questo denso testo. Partendo dalla sezione dei generi della poesia drammatica che il filosofo dedicò tragedia antica, ricordiamo che il modello di questa forma è, in modo celebre, l’Antigone di Sofocle, che però, altrettanto notoriamente, viene vista come il punto di partenza in cui si rompe l’eticità “irriflessa” del mondo greco. In tutta probabilità, per trovare una concezione teoricamente autonoma della tragedia, dobbiamo arrivare alla concezione esposta nella Fenomenologia, nel 1806. Fin dalla Fenomenologia e poi in seguito, Hegel mette a fuoco da subito una concezione del dramma greco che risulterà molto utile per descrivere la tragedia antica e che si può ben riallacciare alla descrizione del dramma antico rievocata quando abbiamo discusso del modello aristotelico. Gli aspetti di rilievo per il nostro discorso, in
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questa concezione sono due: il primo è l’idea della tragedia greca come eticità immediata o irriflessa (Unvermittelalter). Cerchiamo di capire che cosa voglia dire: Infatti, abbiamo la coscienza semplice che rimane irreprensibile e neutrale per sé e per gli altri in una tranquillità indisturbata, per quel tanto che intende la sostanza esclusivamente come identità indivisa dei suoi aspetti particolari […]. Questa coscienza, che nella propria venerazione, fede e fortuna, risulta antecedente rispetto alla particolarizzazione e perciò soltanto universale e che per ciò non può giungere a un’azione determinata, bensì sperimenta un terrore dinnanzi all’antitesi che vi è contenuta.33
Si tratta di un aspetto molto profondo che Hegel sembra cogliere nel dramma antico, e cioè che la “purezza” etica irriflessa dei caratteri antichi non permette loro di giungere a “un’azione determinata”: non permette al carattere protagonista della tragedia antica di essere autonomo e consapevole nel determinare da sé l’azione etica e, di conseguenza, egli vede la natura irriflessa dell’eticità greca come scissa nel pathos (all’inizio in modo inconsapevole) fra “due masse della sostanza etica”, la legge umana e la legge divina. Non potendo contare su se stessa, la coscienza tragica antica deve delegare il principio della riflessione tragica sulla propria azione ad un elemento superiore e, quando poi subentra la necessità dell’azione etica, la scissione fra questi due elementi si manifesta. Hegel mostra, infatti, che l’individualità agente, all’interno del dramma greco, si fa portatrice di un’istanza etica “assoluta”, non riconoscendo il primato dell’istanza etica del suo nemico. Ciò avviene, scrive Hegel, perché nel dramma antico non esiste l’idea della soggettività ma, al contrario, è proprio lo sviluppo della soggettività dram33 G. W. F. Hegel, Estetica, cit., p. 2851.
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maturgica che nasce da questo contrapporsi fra diverse eticità che si percepiscono come assolute, ma che in conclusione devono riconoscere che tali principi etici sono in realtà solamente relativi: Il pathos individuale […] sospinge i caratteri agenti verso la loro antitesi contro gli altri conducendoli in tal modo verso collisione […] in quanto figure incrollabili che sono unicamente quel che sono […] prive di esitazioni nel riconoscere un pathos diverso […].34
Questa natura unilaterale della eticità dei caratteri greci è, in definitiva, intrinsecamente legata, in Hegel, alla tragicità della inconsapevolezza della colpa, l’inconsapevolezza della relatività di questi principi che in esso sono visti come eterni. In accordo con il concetto tragico antico di hamartia, capiamo perché il filosofo vede la personalità dei caratteri tragici antichi come irriflessa: essa è incapace di sviluppare un’etica della responsabilità individuale. Ora, nonostante questa natura innocente e priva di coscienza tragica autonoma dei caratteri antichi, la tragedia greca è in grado di esprimere una eticità perfetta pur nella sua dimensione inconsapevole e irriflessa, come dimostra questo passo: Dunque, nel dialogo, allo stesso modo, è possibile, a sua volta, discernere l’espressione di un pathos soggettivo e di un pathos oggettivo. Il primo fa parte prevalentemente della passione causale e particolare, sia che essa resti contratta in sé […] sia che sappia esplodere fuori di sé, esplicarsi in modo compiuto. […]. Nelle loro tragedie al contrario, gli antichi operavano in modo particolare tramite l’aspetto oggettivo del pathos […].35
34 Ibid. 35 G. W. F Hegel, Estetica, cit., pp. 2771-2773.
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Come può avvenire tale riflessione “oggettiva” sul pathos tragico, se i caratteri sono definiti da questa immota inconsapevolezza? Questa scissione del senso tragico deriverebbe insomma dal fatto che se l’azione drammatica è affidata al carattere, la riflessione sugli eventi è, al contrario, affidata ad un altro elemento drammaturgico specifico: Il Coro esiste in realtà quale coscienza sostanziale, superiore, che allontana dalle false antitesi e prepara la soluzione. Nondimeno esso non è un personaggio meramente esteriore e inattivo al pari degli spettatori, che sia dedito a riflessioni morali […] al contrario costituisce la sostanza reale della vita e dell’azione eroica in senso etico.36
Hegel infatti intuisce nella presenza del Coro greco l’essenza di quel tipo di tragedia, nel senso che è il terreno entro il quale si definisce l’ubi consistam delle determinazioni etiche dei personaggi: Non rappresenta una mera riflessione esteriore, ma è la base degli eroi stessi, la condizione sostanziale, il terreno fecondo sul quale i quadri si formano a fiori ed alberi: è quel che precede. […] Il Coro può essere paragonato all’architettura spirituale che racchiude le statue degli dei, e degli eroi […]. Il Coro è il rappresentante dell’eticità immediata e irriflessa, e dunque di una situazione di quieta staticità e assenza di conflitto. Esso è forza affermativa priva di concetto che, mancando del potere del negativo, […] non è in grado di tenere insieme e di domare la ricchezza e la variopinta pienezza della vita divina, ma lascia che essa vada disperdendosi, e nei suoi inni devoti canta le lodi d’ogni singolo momento come si trattasse di un dio autonomo, di volta in volta questo o quell’altro […].37
36 Ibid. 37 Ivi, p. 2879.
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Questo permette al Coro di sostituire la propria determinazione oggettiva dell’effetto tragico alla prospettiva priva di consapevolezza dei personaggi antichi. Se questa è, in estrema sintesi, la visione hegeliana della tragedia antica, qual è la differenza basilare con la tragedia moderna e qual è, all’interno del sistema hegeliano, il fine che deve compiere la tragedia in quanto forma? Nella concezione dell’Estetica hegeliana la tragedia moderna ha un ruolo importante, viceversa, il ruolo della soggettività: Fin dal principio la tragedia moderna accoglie dunque nel proprio campo il principio della soggettività. Essa rende quindi proprio oggetto e autentico contenuto l’interiorità soggettiva del carattere, che non è l’animazione classica meramente individuale di forze etiche, e consente che sotto il medesimo tipo le azioni giungano a conflitto per mezzo di accidentalità esteriore delle circostanze e che decida o paia decidere dell’esito positivo […].38
Se la tragedia antica si caratterizza per una forma di pathos “oggettivo” tale per cui il senso tragico dell’opera sarebbe concepibile solo osservando l’insieme dello spettacolo ed entrambe le funzioni drammaturgiche – il Coro e i caratteri tragici –, la tragedia moderna si basa su delle soggettività determinate. Queste soggettività, tuttavia, nella propria volontà, tendono a sussumere formalmente dei valori che si sostituiscono alla dimensione universale del passato, e sono rinviabili a determinate istituzioni moderne, che ne definiscono la natura etica dell’agire: Per quanto nella tragedia romantica il fulcro sia costituito dalla soggettività delle affiliazioni e delle passioni, nondimeno nell’agire umano non può non risultare assente la base di 38 Ivi, p. 2881.
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fini determinati ricavati dal terreno concreto della famiglia, dello Stato, della Chiesa ecc. […].39
La tragedia moderna è dunque una tragedia in cui si scontrano differenti prospettive culturali unilaterali, e la sintesi di tale scontro è uno confronto tra differenti valori, che si “auto-selezionano”, per così dire, nel procedere dello Spirito. Non si ha più una visione del singolo subordinato a un’entità superiore, ma di un singolo che ha un’autonomia formale, e la esprime attraverso la propria individualità a prescindere dai valori universali che incarna: Siccome però l’interesse degli individui non è il sostanziale in quanto tale, i fini si particolarizzano in un’ampiezza e una particolarità e al contempo in una specificità nel quale ciò che è veramente essenziale può trasparire soltanto in maniera mutata […]. C’è, d’altronde, il diritto della soggettività in quanto tale, il quale si impone come contenuto unico e assume dunque come scopo privilegiato l’amore, l’onore personale, ecc., tanto che le altre connessioni per un verso possono sembrare unicamente il terreno esteriore sul quale si agitano questi interessi moderni.40
È in questa luce che dobbiamo leggere, per esteso, la citazione con cui abbiamo aperto il nostro discorso: Le potenze etiche e i caratteri in azione sono ora differenti in rapporto al loro contenuto e alla loro apparenza individuale. Se queste forze particolari […] sono chiamate a un’attività palese, il loro accordo viene eliminato e avanzano l’uno contro l’altro in reciproca conchiusione. Ciò che quindi con l’esito tragico viene eliminato è la particolarità unilaterale che non è stata in grado di adattarsi a questa armonia.41
39 Ivi, p. 2883. 40 Ivi, p. 2884. 41 Ivi, p. 2825.
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Questi caratteri tragici moderni, che sussumono nella natura astratta della loro personalità valori culturali (potenze etiche e soggettività individuali psichiche), nel momento in cui giungono ad uno scontro, sintetizzano, in modo hegelianamente concreto, la lotta dello spirito per ritrovare l’eticità già perfetta, compiuta ed espressa tramite un pathos oggettivo, il quale era stato perduto dalla tragedia antica. Ovviamente, questo faticoso processo si renderebbe necessario per trasformare la natura irriflessa dell’eticità dei tragici antichi. È grazie a questo processo di autoconsapevolezza che si disvela lo Stato, inteso come massima forma di totalità etica: la forma tragica intesa come scontro fra i caratteri deve essere dunque vista come un modo attraverso il quale lo spirito del mondo recupera, attraverso il principio della soggettività, la pienezza etica che i personaggi tragici antichi esprimevano senza esserne veramente consapevoli. Tale è in Hegel il nesso tra tragico e tragedia e tale è il compito della tragedia come forma nel sistema delle arti hegeliano. Ovviamente, in quanto comunque espressione di una forma d’arte, la tragedia è più limitata rispetto alla religione o alla filosofia; può arrivare in questo compito fino a un certo punto, e lascerebbe il posto al dramma, che è una forma di poesia priva di dialettica, quando il compito si è esaurito. Vediamo bene che, con un procedimento analogo a quello aristotelico, il sistema hegeliano delle arti seleziona una determinata forma della tragedia e la collega ad uno schema filosofico da realizzare, di più ampio respiro e metafisico. Sebbene sia superfluo dire che tali sistemazioni ci sembrano irricevibili nella loro totalità, a leggerle con attenzione contengono, chiaramente, delle intuizioni estremamente penetranti sulla realtà dell’evoluzione storica della tragedia; una fra tutte, l’intuizione hegeliana del nesso fra lo sviluppo del dramma e l’elaborazione di una soggettività più nettamente rappresentata drammaturgicamente. Quel che è ora necessario fare, dunque, è ripensarle, come formazioni di-
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scorsive, all’interno di uno schema evolutivo storico e verificabile, che spieghi come dalla tragedia derivi il nuovo dramma: ci sono in entrambe delle caratteristiche, degli indizi preziosi per definire la tragedia come genere letterario. E dunque, il gioco linguistico del conflitto tra i caratteri che ruolo ha, realmente, nella visione tragica degli autori moderni? Quali sono le regole formali con cui evolve? 1.6 La tragedia come genere letterario: linee evolutive di fondo
Dopo questa necessaria deviazione all’interno di due sistemi di pensiero di enorme influenza, veniamo adesso alle linee di fondo vere e proprie dell’evoluzione della tragedia. Mettiamo subito a fuoco il principio per cui, a differenza del modello proposto dal sistema hegeliano – in base alla nostra tesi – essa segue caratteristiche analoghe a quelle della storia di altri generi. Secondo una tradizione squisitamente formalista, l’evoluzione dei generi letterari non viene descritta sulla base di trasformazioni storicisticamente orientate, ma da una progressiva rimozione di vincoli. Ciò che porta un genere letterario alla metamorfosi è dunque un adattamento al nuovo contesto, attraverso la perdita di alcune caratteristiche strutturali che ne definivano la forma. Riflettere su questo aspetto basilare della tradizione che concerne l’evoluzione delle forme risulta in tal senso essenziale per il compito che ci siamo preposti, perché è esattamente la chiave per comprendere il modo in cui Lukàcs reinterpreta il modello hegeliano e descrive, nel 1907-1911, la storia dell’evoluzione della tragedia. Infatti, l’evoluzione della tragedia definita da Lukàcs svincola la traiettoria del dramma moderno dalla teleologia metafisica, e sistematica, di Hegel e, pur raccogliendo a piene mani gli aspetti salienti dello sviluppo formale descritto nell’Estetica, rielabora in modo autonomo e creativo la funzione che questi due gio-
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chi linguistici hanno all’interno dell’impianto di quest’opera per adattarlo, infine, alla realtà storica. Ne consegue, di fatto, quella che potremmo definire tranquillamente, nel saggio di Lukàcs sul dramma moderno, come una lettura dell’Estetica di Hegel “al rovescio”: tale lettura da un lato mantiene tutto il valore conoscitivo della tragedia come scontro fra i caratteri, dall’altro assegna un valore altrettanto importante alla forma aristotelica della tragedia come rovesciamento. La prima rimozione di vincolo formale che porta all’adattamento della tragedia alla modernità, il più hegeliano di tutti, è proprio la scomparsa del Coro. Per chiarire in questo senso il suo ruolo nella struttura della tragedia antica, rivolgiamoci alla massima autorità possibile sull’argomento, Jean Pierre Vernant: Ce débat avec un passé toujours vivant creuse au coeur de chaque oeuvre tragique une première distance dont l’interprète doit tenir compte […]. Elle s’exprime dans la forme même du drame, par la tension entre les deux éléments que occupe la scène tragique: d’un côté le choeur, personnage collectif et anonyme incarné par le collège officiel des citoyen et dont les rôle est de s’exprimer dans ses craints, ses espoirs ses jugements, les sentiments qui expriment la communauté civique; de l’autre, joué par un acteur professionnel, le personnage individualisé dont l’action forme le centre du drame, et qui a figure de héros d’un autre âge, toujours plus ou moins étranger à la condition ordinaire du citoyen.42
Ritroviamo i due elementi già identificati nella narrazione hegeliana, e collocati all’interno dei codici culturali che loro competono, i quali insistono, come ampiamente noto, nel rapporto fra la città e il mondo dei miti su cui essa edificava la propria cultura: 42 J. P. Vernant, P. Vidal-Naquet, Mythe et tragédie en Grèce ancienne, cit., p. 26.
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[…] a ce dédoublement du chœur et du héros correspond, dans la langue de la tragédie, une dualité. Mais ici marque déjà l’aspect d’ambiguïté qui nous paraît caractériser le genre tragique. C’est la langue du chœur, dans ces parties chantées, qui prolonge la tradition lyrique d’une poésie célébrant les vertus exemplaires du héros des temps anciens. Chez les protagonistes du drame, la métrique et aussi au contraire voisine à cela de la prose. Dans le moment où le personnage est agrandi aux dimensions d’un des êtres exceptionnels auxquels la cité rend culte, il se trouve rapproché par la langue de l’homme ordinaire. Et ce rapprochement le rend, dans son aventure légendaire, comme contemporain au public.43
Riflettiamo su queste caratteristiche strutturali della tragedia greca: da un lato c’è la lirica, che esprimerebbe il sentimento della collettività attraverso la visione tragica del drammaturgo, poniamo, Eschilo. Dall’altro, c’è l’epica, l’aventure légendaire dell’eroe, che caratterizza la performance degli attori che mettono in scena il materiale drammatico in senso stretto. A questo punto va aggiunta una considerazione fondamentale. Nel modello di Vernant e di Vidal-Naquet, così come di altri interpreti contemporanei e post-vernantiani del dramma, la concezione hegeliana della tragedia come totalità etica “risoluzione armonica dei contrasti” è intrinsecamente contraddetta, in nuce, già da aspetti formali del dramma antico. In particolare, si proverà a mostrare che sebbene esistano finali positivi e armonici nella tragedia antica, il modello di totalità etica in cui la tragedia moderna si produce, o in cui tenta ideologicamente di prodursi, è un adattamento formale, e strutturale, del concetto teorico di tragedia come gestione dell’ambiguità del mito, molto noto agli studiosi del dramma antico – e non solo – a partire dagli studi di Vernant in poi, e da cui dipende in modo profondo il senso tragico antico. Nel passo riportato 43 Ibid.
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anche Vernant menziona, sebbene fuggevolmente, il ruolo centrale della gestione dell’ambiguità da parte della struttura corale del dramma: “mais ici se démarque déjà l’aspect d’ambiguïté qui nous paraît caractériser le genre tragique”. Sebbene, come vedremo, infatti esistano delle interpretazioni evidentemente armonizzanti dell’Antigone, la funzione del Coro non può essere assimilata al senso di pathos oggettivo e di giustizia poetica che, fin dalla Fenomenologia, Hegel attribuisce a questa funzione drammaturgica, nell’Antigone stessa così come, del resto, in altre opere dal finale ancor più palesemente armonico, come Eumenidi. Esattamente come gli altri personaggi, il Coro, nel dramma, ha la funzione ed il fine di gestire l’ambiguità del mito e la sua natura di fondamento culturale in via di disfacimento; è da ciò che l’opera tutta ricava il suo senso tragico: il Coro è in tal senso un personaggio tragico come tutti gli altri, senza particolari capacità di sguardo superiore, come lo vorrebbe la descrizione di Hegel. Questo, però, non esaurisce la particolarità di questa funzione drammaturgica: il punto di vista lirico sulla vicenda gli conferisce un rapporto distanziato e in certi termini dirimente sulla vicenda narrata, anche se non per questo orientata in senso riduzionistico, come vuole una lunga tradizione già ottocentesca e ancora per certi versi persistente44. Si tratta, in definitiva di qualcosa di intermedio, che condiziona il dramma perché in qualche misura più vicino alla voce del drammaturgo che a quella degli altri personaggi in scena. Come per il Coro così per i personaggi il senso tragico antico, che sia quello espresso dal personaggio del Coro o quello espresso dai caratteri in scena, deriva da una condizione di ambiguità che essi vivono in relazione all’universo tragico greco, rappresentato 44 Mi riferisco non solo a Hegel, ma anche alla cosiddetta tradizione filologica ottocentesca “ortodossa”, cfr. cap. 1 di questo volume.
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sulla scena. Per proseguire il nostro discorso con l’Antigone – non a caso modello della tragedia per Hegel – tutti i personaggi agiscono con il fine di ridurre l’ambiguità e la contaminazione (miasma) dal loro punto di vista presente nell’universo tragico: essi abitano un mondo in cui percepiscono la realtà come ontologicamente inquinata e perturbata, e questo vale in primo luogo per il Coro. È alla luce di questa considerazione che dobbiamo vedere il processo di adattamento strutturale della tragedia. Questo tipo di dramma, basato su un orientamento pragmatico così peculiare, come si adatta alla modernità? Ora, è bene sottolinearlo da subito, si tratta di un grosso salto, che necessita grande cautela, lungo la nostra dimostrazione. La distanza culturale, abissale, fra le forme di drammaturgia moderne e la tragedia antica è la chiave della risposta. La forma tragica antica muta adattandosi a schemi logici e soprattutto culturali europei e della prima modernità: Leggendo attraverso le lenti della nostra cosmologia, le nostre interpretazioni impiegano inevitabilmente i nostri schemi e strumenti logici europei: usiamo criteri di chiarezza e distinzione e principi logici di identità e non contraddizione. Con tali strumenti ci avviciniamo a una cosmologia non basata su questi principi e permeata di ambiguità e contraddizioni che dobbiamo rifiutare. Questa fondamentale incoerenza rende estremamente difficile per l’interprete moderno apprezzare gli ossimori […]. La tentazione di assimilare il testo ai propri pregiudizi contemporanei è quasi irresistibile.45
Questa considerazione non vale solo per i moderni ermeneuti e per lo stesso Hegel, ma vale già per Aristotele che, come abbiamo visto, teorizza un modello formale 45 Th. C. W. Oudemans, A. P. M. H. Lardinois, Tragic Ambiguity. Anthropology, Philosophy and Sophocles’ Antigone. E. J. Brill, Leiden – New York – Københaven – Köln 1987, p. 2, tr. it. mia.
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della tragedia che risulta influente soprattutto presso i poeti tragici moderni. È alla luce di questa considerazione che dobbiamo vedere il processo di adattamento strutturale della tragedia. Val la pena leggere, in questa circostanza, le celebri parole di Victor Sklovskij quando spiega le leggi di mutamento stilistico: il procedimento non conserva nei vari casi una funzione unica e identica a quella che aveva inizialmente nel momento in cui è stato creato […] Può accadere persino che, come il colore di una stampa vada oltre il suo contorno, o che nella sua applicazione si acuisca in senso opposto.46
Quando una forma entra in contatto con un nuovo contesto, viene da esso come forzata dall’interno attraverso un processo di rifunzionalizzazione. È esattamente quel che accade alla forma della tragedia, ed è un simile processo di rifunzionalizzazione inconsapevole che porta alla sua trasformazione: da un contesto in cui non esistono le leggi e i principi di non contraddizione, ma intriso di ambiguità, come l’universo tragico antico, ad un contesto, come quello della prima modernità, in cui è inevitabile leggere il tragico secondo dei principi razionalistici e – diremo per alcuni versi – inevitabilmente riduzionistici, alla tragedia greca sconosciuti. La tragedia si adatta alla modernità perché quest’ultima pensa la sua forma basata sulla gestione dell’ambiguità come una totalità etica: l’impossibilità di adattare il modello della tragedia antica ad un’idea di azione come “totalità etica” è quindi per così dire “il seme corrotto da principio”, a causa del quale si innesca il progressivo allentarsi del nesso strutturale tra le due caratteristiche di epicità e lirismo che caratterizzano il dramma. Questo momento di trasformazione primigenia, 46 V. Sklovskij Materiali e leggi di trasformazione stilistica (Saggio su “Guerra e pace”), Pratiche, Parma 1978, p. 128.
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di rifunzionalizzazione ed adattamento della tragedia, avviene nell’opera di Shakespeare. Ed avviene in conseguenza di quella che, nel suo saggio La grande Eclissi, a proposito della tragedia shakespeariana, Franco Moretti chiama sconsacrazione della sovranità. Fin dalle sue premesse, dunque, l’idea della tragedia come una totalità etica “compiuta” – un equivoco culturale, lo abbiamo visto, che si riverbera sul piano strutturale – è irrimediabilmente compromessa. Ne consegue inevitabilmente che le forme tragiche del rovesciamento e dello scontro fra i caratteri, anch’esse contenute, entrambe, nel rapporto di ambiguità che la tragedia greca intrattiene con la cultura successiva, ne siano plasmate. Esse racconteranno un’idea di azione tragica votata all’impossibilità della tragedia come totalità etica, e lo faranno ciascuna a modo proprio, seguendo delle regole formali proprie. È così che inizia la storia della tragedia che giunge al dramma moderno: come due relitti della forma della tragedia antica, lo scontro fra i caratteri e il rovesciamento raccontano una “totalità etica” che, dunque, non c’è mai realmente stata. Se questo processo di rifunzionalizzazione e in seguito adattamento della struttura della tragedia avviene in un contesto i cui codici culturali moderni sono ormai mutati, è basilare, a questo punto, capire di quali codici si tratta. Torniamo, così, ai saggi di Lukàcs del 1907-1911: l’autore suddivide i vari momenti di riflessione sulla tragedia sulla base del contesto sociologico che li accoglie, sottolineando come la ragione di questa comparsa della tragedia, fra 500’ e ‘600, sia motivata da precisi fattori culturali, e questa motivazione trova il suo compimento del fenomeno sociologico ormai classico e molto noto del rapporto fra l’aristocrazia e la corona: All’inizio dell’età moderna, nei paesi in cui nella grande lotta fra feudalesimo e monarchia percorre obliquamente
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l’intero medioevo, la monarchia schiaccia la nobiltà dopo sanguinose lotte e riesce a creare una temporanea situazione di equilibrio.47
E poi: Nel breve periodo di degradazione della nobiltà sorsero brevi, ma intense, epoche drammatiche: è L’epoca di Shakespeare, di Racine e Corneille, di Calderón, Lope de Vega.48
In queste due righe l’autore riassume, fornendogli nome, identità e contesto, quanto abbiamo definito prima, e in altri termini: il momento di crisi sociale che interessa il passaggio dal medioevo all’età moderna è quello del ritorno della tragedia e la condizione sociale della crisi dell’aristocrazia, questa fase di passaggio è la causa sociologica profonda che ha portato al ritorno di questa forma. I casi di autore tragico moderno che studieremo oltre a Shakespeare, ovvero Calderón e Racine, rappresentano sicuramente due fasi di sviluppo ulteriore del disfacimento della immagine simbolica della regalità nell’Antico Regime, ed è esattamente questo, in sintesi, che li rende due fasi del graduale adattamento della forma tragica alla modernità. La crisi dell’immagine della sovranità, come fondamento culturale del potere, è ciò che spinge, anche oltre Shakespeare, la struttura della forma tragica a mutare. Il palesarsi dell’as47 G. Lukàcs, Il dramma moderno, cit, p. 61. La nozione di “equilibrio” fra istanze etiche contraddittorie avvertite dall’aristocrazia nel periodo in cui è progressivamente schiacciata dalla monarchia è fondamentale per il nostro discorso: come si argomenterà anche in seguito alla peripezia è esattamente strutturata al fine di mettere in forma – una forma conflittuale, una forma contraddittoria – spinte e controspinte che, in qualche misura, minano la visione del mondo del poeta tragico di riferimento. 48 Ivi, p. 62.
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senza di una crasi formale fra lirismo ed epicità non implica, infatti, che gli autori tragici dopo Shakespeare non continuino a proporre una simile unità simbolica: le contraddizioni formali riconducibili all’evoluzione della sfera pubblica tardo-medievale condizionano, di fatto, la visione tragica del drammaturgo. Come scrive Àgnes Heller in un suo recente studio sul rapporto fra tragedia e pensiero filosofico, ipostatizzando il lavoro di Christopher Marlowe ad emblema della natura politica di questo teatro: Nelle sue tragedie Marlowe ha messo in scena i tre più grandi poteri della sua epoca: il potere del denaro, quello della conoscenza, e il potere politico – quest’ultimo sul modello di Tamerlano, un tiranno fattosi da sé, un sovrano “innaturale”.49
Se l’analisi dedicata a Shakespeare svelerà, de facto, l’impossibilità della tragedia come una forma di totalità etica compiuta, l’analisi dedicata dell’evoluzione della forma tragica in Calderón e Racine, in modo totalmente rovesciato rispetto alla visione della tragedia moderna di Hegel, ci mostrerà una idea della tragedia come totalità etica mancata. Per cogliere a fondo il principio base l’evoluzione formale della tragedia nella modernità, può essere utile ricorrere non solo al saggio sul dramma moderno di Lukàcs, ma anche ai saggi sul realismo: Realismo significa plasticità, perspicuità, esistenza autonoma dei personaggi e dei rapporti fra i personaggi, esso non comporta affatto la negazione del colorismo, del dinamismo psichico e morale, inseparabili dal mondo moderno. Esso si oppone soltanto al culto del colore […], è manifesto ad ognuno che il brutale fisiologismo dei naturalisti e gli schemi culturali degli scrittori a tendenza esercitano violenza sulla vera rappresentazione dell’individualità dell’“uomo to49 Á. Heller, Tragedia e filosofia, una storia parallela, Castelvecchi, Roma 2020, p. 59.
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tale”. È molto meno palese, ma non per questo meno chiaro obiettivamente, che la pedanteria psicologica della scuola opposta, produca la trasformazione dell’uomo in una caotica fantasticheria.50
Non mi interessa discutere, in questa sede, la validità teorica e filosofica di questa concezione del realismo, già in molta parte discussa da pubblicazioni recenti come il citato Teoria del romanzo o Realismo e letteratura di Federico Bertoni. È un dato di fatto, tuttavia, che la tragedia in quanto genere, evidentemente proprio per via della sua originaria relazione con il mito, organizza i rapporti culturali, formali e drammaturgici non attraverso “perspicuità, esistenza autonoma dei personaggi” rispetto, aggiungeremo noi, ad uno sfondo di credenze ed ideologie. In altri termini, la stilizzazione dei personaggi è impregnata, sul piano retorico, di questa dimensione ideologica e fantasmagorica che, nei tragediografi moderni è, in definitiva, molto semplicemente, l’ideologia di Antico Regime. In questo senso rappresentare con la dovuta estensione questi rapporti drammaturgici e interpersonali in termini di rapporti ideologici e di senso risulta necessario per cogliere, dunque, l’evoluzione di entrambe le due definizioni linguistiche di tragedia che abbiamo presentato come relitti di una “totalità etica”. E, oltretutto, sebbene abbiamo messo in chiaro come questo senso di “totalità etica” sia fondamentalmente generato da un equivoco culturale fra la forma della tragedia antica e la forma della tragedia moderna, rimane tuttavia un punto in comune, come si vedrà, fra le diverse tradizioni che ci consentono di mettere in luce l’evoluzione del dramma, ed è il seguente: l’evoluzione della forma della tragedia è, fondamentalmente, legata a quella di un’immagine. Man mano che perde consisten50 G. Lukàcs, Saggi sul realismo, Einaudi, Torino 1950, p. 13.
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za la forza ideologica con cui si impone l’immagine della sovranità attraverso l’opera di Shakespeare, Calderón e Racine, nella sua capacità di raccogliere in sé secondo “criteri di senso” i rapporti sociali intersoggettivi, tanto più la forma tragica reagisce a ciò, come parte di questo processo, e si trasforma, seguendo strade autonome per entrambi i due giochi linguistici, nel Seicento. Per cogliere questo processo che conduce al dramma borghese di Lessing seguiremo un’impostazione analitica in grado di descriverne compiutamente tutti gli sviluppi, che sarà così suddivisa: – Una prima parte sarà dedicata alla ricostruzione della visione tragica del poeta. Essa si concettualizza esattamente come un insieme di contraddizioni culturali riconducibili all’immagine del sovrano o al rapporto con la sovranità come il fondamento culturale del potere cui la tragedia, come crisi dei fondamenti, reagisce. – Una seconda parte sarà dedicata a una serie di drammi che riflettono bene questa ideologia e il suo corrispettivo in delle funzioni drammaturgiche. Si tratta di drammi che in qualche modo definiscono la forma della dramma moderno così come la stiamo ricercando, a partire dall’evoluzione della tragedia. Sono rappresentazioni in cui la componente “epica”, per usare l’espressione nel senso goethiano che abbiamo definito, è molto presente: drammi in cui è più esplicito il rapporto fra la creazione drammaturgica e l’elaborazione culturale del potere. La ricostruzione dell’ideologia del drammaturgo ci permetterà di individuare con esattezza il modo in cui evolve la forma della tragedia, caratterizzata, precisamente, nei due due giochi linguistici, che evolvono parallelamente e in modo autonomo: l’analisi di questo tipo di drammi ci mostrerà come l’ambiguità del fondamento del potere è ancora al centro della tragedia moderna e ne è l’ispirazione più profonda, è la ragione stessa per il ritorno della tragedia e in questa prima catego-
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ria di drammi, ci mostrerà però un’ambiguità che, nel cosmo tragico moderno, è ormai divisa in polarità inconciliabili e opposte. Il sovrano è buono e misericordioso, il sovrano è un tiranno per Shakespeare e Calderón, oppure, infine: la vita mondana è un auspicabile o un male, per quanto riguarda Racine. Opposti divenuti discorsivamente inconciliabili che si acuiscono con l’evolversi del genere, tutti riconducibili al conflitto ideologico tra aristocrazia e potere assoluto, e che nei drammi troveranno rappresentazione plastica. – La tragedia come conflitto fra i caratteri porta con sé il retaggio formale di questo rapporto ambivalente che caratterizzava già la sovrapposizione fra referenti e significati della tragedia antica. Come vedremo almeno a partire dall’analisi de La vida es sueño, la rappresentazione della tragedia come conflitto fra i caratteri si configura dunque come una rappresentazione che, in sé, incarna le contraddizioni culturali legate alla crisi della sovranità che attraversa tutta la rappresentazione seicentesca. Questa forma di tragedia come conflitto fra i caratteri si configura come una struttura in cui il rapporto fra referenti e significati – i fondamenti – viene messo sotto stress. Ciò è empiricamente dimostrabile confrontando l’evoluzione di questa forma nel passaggio da Calderón a Racine. Finché questo tipo di tragedia sarà presente nella produzione del drammaturgo, sarà una testimonianza del genuino tentativo di mantenere il materiale epico che è parte costitutivo della tragedia coeso in un’unica forma, in una visione tragica e ideologica, insomma, in un’unica totalità ideologica. Sarà nostro compito mostrare come l’incarnazione di questa forma, non a caso duplice, nella modernità, nasce dalla crisi della struttura della tragedia greca basata sulla gestione dell’ambiguità del mito. – Verremo, poi, al secondo gioco linguistico che definisce il genere letterario in re: la tragedia come rovesciamen-
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to. Se, come abbiamo visto, la forma del rovesciamento nella tragedia antica rappresenta in realtà un modo per rielaborare cognitivamente l’esperienza dei fondamenti culturali della collettività, a guardarlo bene, il rovesciamento moderno mantiene, nella forma della volontà del carattere che incarna, in un certo senso, contemporaneamente il destino di se stessi e una collettività: siamo dinanzi a qualcosa di analogo a quel che Hegel descriveva quando diceva che i caratteri moderni esprimono la propria volontà ma, anche, contemporaneamente, dei valori che, nella prospettiva di questa volontà, essi ritengono universale. Tuttavia questa forma, lungo la modernità è prodotta anch’essa dall’impossibilità di rappresentare una totalità etica. I personaggi soggetti al rovesciamento della loro volontà, nella stilizzazione di quest’ultima, sono delle “soggettività formali” che racchiudono nella loro astratta epicità tutti i valori della visione tragica del drammaturgo: la loro volontà, che li porta al rovesciamento, non è insomma una volontà normale, psicologicamente e naturalisticamente orientata, è piuttosto una volontà la cui rovina è la rovina di quegli stessi valori. Se il loro essere il simbolo dei fondamenti culturali di un’intera comunità interpretata dalla visione del drammaturgo è ciò che collega formalmente il rovesciamento della tragedia antica a quello della tragedia moderna, viceversa quello in cui questa forma, ormai mutata, differisce profondamente, è che la rovina dell’eroe rappresenta la crisi di questi stessi valori, più che un modo per riconciliare questi con una nuova realtà culturale, attraverso un rito di purificazione dall’ambiguità, come accade nella tragedia antica. Finora ho elencato tre tipi di forme come il lascito strutturale del genere tragico antico, le riepilogo: 1) rappresentazione “epica”, intesa in un senso vasto e goethiano, della sovranità o, meglio, della sua crisi per polarità inconciliabili, come problematica eredità dell’ambiguità della tragedia antica 2) tragedia come scontro tra i caratteri che entra sotto
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stress, di fronte a queste contraddizioni e polarità distinte 3) rovesciamento. Se ci sono tre forme, perché scontro tra i caratteri e rovesciamento descrivono il genere letterario in re? per spiegarlo si può ricorrere a un semplice schema binario pensato da Jean Marie Schaeffer per definire la forma dei generi letterari come atti discorsivi: Quadro della comunicazione (enunciazione, destinazione, funzione) Atto discorsivo
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Realizzazione: semantica (tratti tematici, norme ermeneutiche, “modi”, opposizione letterale e figurale) sintattica (regole grammaticali, caratteristiche stilistiche, organizzazione macro discorsiva).51
A prescindere dal nome che, in una data epoca e in un dato contesto culturale acquisisce il genere letterario in questione, esso deve essere sempre ricondotto a questi due elementi. Schaeffer aggiunge che il primo dei due rami, quello del quadro dell’enunciazione, è sempre fisso, finché la forma che caratterizza il genere rimane tale; il secondo, quello dedicato alla realizzazione semantico-sintattica, invece, è la parte variabile del genere, quella che lo porta alla trasformazione. Ora, poiché il genere tragico moderno è un risultato contraddittorio della fine della crasi fra epicità e lirismo propria del dramma antico, sul piano della parte variabile del genere (la realizzazione semantico-sintattica) esso avrà sempre una asimmetria di fondo: tale asimmetria è ciò che fa evolvere la tragedia. Questa contraddizione di cui si è detto, trova un correlato 51 J. M. Schaeffer, Che cos’è un genere letterario Pratiche, Parma 1992, p. 137.
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sul piano dell’enunciazione, cioè sul piano della performatività, esattamente nei due giochi di verità dello scontro fra i caratteri e del rovesciamento. Essi dunque completano l’atto discorsivo e senza dubbio definiscono, per caratteristiche realizzative, in re il genere letterario, condensando in sé le contraddizioni espresse dalla prima delle tre forme, quella che rappresenta di più l’epicità. Studiare “l’evoluzione” di un genere letterario significa quindi ricostruire lo sviluppo di un atto discorsivo. Come ha scritto Alastair Folwer “si è afferma spesso che i generi forniscono un mezzo di classificazione. È un errore venerabile […] In realtà […] la teoria generica serve a tutt’altro: svolge una funzione di interpretazione”52. Al contrario studiare l’evoluzione di un genere significa ricostruire il processo di un atto discorsivo ed è per questo che, sul piano enunciativo, le contraddizioni culturali delle rappresentazioni tragiche della sovranità sono sopperite dallo scontro tra i caratteri e dal rovesciamento. Possiamo dunque sintetizzare il modo con cui evolve la tragedia moderna riprendendo l’immagine con cui abbiamo aperto questo excursus. La tragedia moderna evolve seguendo un principio che reinterpreta la traiettoria di questa forma nell’Estetica hegeliana “al rovescio”: la rappresentazione della tragedia come uno scontro fra i caratteri ci mostra la crisi della rappresentazione culturale del potere e la tragedia del rovesciamento ci mostra l’incapacità di tali valori culturali fondamentali nel rispondere in modo sufficientemente adeguato alla crisi politica che dovrebbero raccontare: sono due lati di una totalità etica mancata. La tragedia intesa come scontro tra i caratteri non ci mostra l’emanciparsi dello Spirito dai limiti della 52 A. Fowler, Modes and Genres, an introduction to theory of genre, Oxford University Press; Oxford, 1985, cit. In J. M. Schaeffer, Che cos’è un genere letterario, op. cit., p. 135.
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singolarità individuale, come nel sistema di Hegel, piuttosto ci mostra il venir meno dell’elemento strutturale che rendeva “compiuta”, la totalità etica con cui la tragedia agli albori dramma moderno pensa sé stessa e che non è mai stata realizzata, tantomeno nel dramma antico. La parzialità definitiva cui è inevitabilmente condannata la tragedia moderna è dunque sancita dal rovesciamento del carattere, che pur rappresentando tutti i valori dell’antica totalità etica cui pretendeva di rifarsi la tragedia, li condanna al fallimento con la catastrofe. Rimane un’ultima domanda a cui rispondere: come nasce, da questa epoca di crisi culturale e politica, il dramma moderno? Esso nasce, chiaramente, dalla progressiva precisione con cui viene elaborata la mimesi psicologica dei personaggi tragici. In un modo analogo, in questo, all’evoluzione del romance barocco53, i personaggi tragici rap53 In Teoria del romanzo, Mazzoni spiega come il sottogenere romanzesco del romance ha forti analogie, in effetti, con le trasformazioni della tragedia che intendiamo descrivere. Nel romance, scrive Mazzoni: “i romanzi cavallereschi, e prima ancora i romanzi greci, contengono un elemento individualistico, anarchico e dispersivo, centrifugo radicato nella regio dissimilitudinis: segnano un momento di passaggio nella letteratura non perché raccontino storie di persone come noi, ma perché raccontano storie di persone pubbliche o semipubbliche nell’atto di vivere esperienze private e irregolari dell’amore e dell’avventura.” Mazzoni, cit., posizione 3601. Questa descrizione lascia trasparire una differenza vistosa: i personaggi tragici e le vicende tragiche sono chiaramente rappresentanti della sfera pubblica e con grave miopia si potrebbe confondere, ad esempio, la vicenda d’onore raccontata nel calderoninano El médicode su honra come una vicenda privata, essa coinvolge principi di vassallaggio che fondano la percezione della sfera pubblica. Tuttavia c’è un’analogia formale fra romance e tragedia che non deve sfuggire da una soggettività eroica e formale, manifestazione eroica di un’insieme di valori ad una soggettività basata sulla mimesi della psiche dei personaggi, questo è quello che
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presentano progressivamente sempre meno i valori della sfera pubblica post-medievale, e sempre più se stessi: perdono insomma quella natura di epicità che li legava formalmente alla visione tragica, epica eppure soggettiva e lirica, del poeta54. Se questa condizione di ambivalenza caratterizzata dalla psicologia del personaggio tragico, il suo essere una soggettività “puramente formale”, espressione di una visione tragica, ma anche il suo essere una rappresentazione sempre più accurata della volontà di un individuo, a mano a mano che il rapporto fra valori culturali e rappresentazione ideologica del potere viene meno. È nell’arco di un tale ubi consistam che il gioco linguistico del rovesciamento può esistere nel moderno: ed è così accomuna il romance e la tragedia. C’è da considerare, poi, il ruolo del gioco linguistico del rovesciamento: esso simboleggia il crollo di determinati valori culturali, come abbiamo detto e, dunque, si comprende bene come ci sia un binario parallelo fra la psicologizzazione del romance e la psicologizzazione della tragedia: entrambi nascono dal crollo di determinati valori: se in un genere come il romance – elevato, ma non altrettanto altrettanto elevato, nel sistema culturale dell’epoca – l’irregolarità estetica della vicenda narrata è qualcosa può essere un sintomo della crisi, non sorprende che se ci spostiamo più in alto nella gerarchia dei generi questo non può che significare, per la sfera pubblica postmedievale, una catastrofe. 54 Scrive Terence Cave, nel soppesare il tramonto dell’uso dell’allegoria nel passaggio da Antico Regime: “Dans le récit pré-moderne […] le personnages retrouvent leure place dans une ordre morale, politique établi; ils perdent ce qu’ils ont de particulier, leur caractère comme individus. Pour accéder au général […] cet aspect du récit pré-moderne est marqué d’une manière particulièrement saisissante par le prolongement, à cette époque, de la tradition allégorique. Il est évident que l’interprétation allégorique d’un récit, ou la présentation d’un récit comme allégorie, à l’effet de dégager le caractère exemplaire des personnages, et de transposer leurs aventures dans un plan universelle.” T. Cave, Pré-histoires. Texts troublés au seuil de la modernité, Librairie Droz, Genève 1999, p. 139.
Introduzione59
che viene meno il nesso fra epicità e dramma, individuato da Szondi come quell’ultimo vincolo la cui rimozione caratterizza la nascita del dramma moderno. Esso, per parafrasare di nuovo Szondi “ritrae la verità dell’autore” dietro la rappresentazione psicologica del personaggio, perché il senso tragico che esso esprime non è più un riflesso di quell’azione drammatica in grado di esprimere quella “totalità etica” la tradizione si è illusa di vedere nella tragedia, dopo lo sforzo compiuto per rifunzionalizzare la sua forma antica. E dunque, in sintesi: fin tanto che può esistere questa sorta di compromesso contraddittorio e instabile tra epicità e lirismo caratterizzato dalla tragedia, il gioco linguistico del rovesciamento è possibile. Secondo il criterio dell’evoluzione delle forme come un allentarsi di vincoli, a mano a mano che nella visione tragica del drammaturgo perde consistenza, la possibilità di racchiudere la totalità etica in una soggettività individuale – retaggio della componente lirica del dramma – il rovesciamento potrà esistere, perché potranno esistere personaggi che incarnano questo senso di totalità. La fine di questo senso di “totalità etica” dunque, porrà fine anche al gioco linguistico del rovesciamento e genererà il dramma moderno, che, vedremo, ha caratteristiche simili a quelle codificate dallo stesso Szondi, per lo meno nella prima parte del suo lavoro sul dramma. In questa introduzione si è dato uno schema necessariamente generale dell’evoluzione del genere, provando ad evidenziare i punti salienti. Ci si riserva, chiaramente, di approfondire i vari snodi teorici a mano a mano che sarà necessario. Occorrerà adesso, però, entrare a fondo nei vari contesti culturali di cui ci occupiamo, usando la forma come veicolo per collegarli e dimostrare le linee di fondo essenziali che abbiamo descritto. Dovendo attraversarne molti, chiedo scusa se inevitabilmente dirò cose note agli specialisti di ogni singolo autore che tratterò. Spero
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che, come capita spesso con i lavori di comparatistica, il tracciato di una mappa possa sopperire a questa ed altre eventuali mancanze; in tal senso val la pena di riprendere una frase sfruttata vari anni fa da Franco Moretti e tratta da Dracula; forse metafora, potremmo dire, di un vampiresco e quindi un po’ pericoloso desiderio di conoscenza: “Entrate liberamente, e di vostra spontanea volontà”55.
55 B. Stoker, Dracula, tr. it. M. de Luca, Einaudi, Torino 2019, p. 56.
CAPITOLO I LA TRAGEDIA ANTICA: UNA TOTALITÀ ETICA COMPIUTA?
1.1 Ambiguità 1.2 Confini invisibili nel testo dell’Edipo Re. 1.3 Cosmi tragici interconnessi nell’Antigone 1.4 La tragedia: il genere letterario della volontà.
1.1 Ambiguità
Come preannunciato nell’introduzione, l’evoluzione della tragedia deve consistere necessariamente in una trasformazione del dramma antico che, come approfondiremo, è basato sul controllo, sulla gestione dell’ambiguità del mito. Mettendo a confronto due forme tragiche archetipiche, quella di Edipo Re e quella di Antigone, nelle prossime pagine si intende mostrare come questi due paradigmi, la tragedia del rovesciamento e quella dello scontro fra i caratteri, nell’economia formale di questo tipo di dramma, sono di fatto ambivalenti rispetto alla modernità1. Se la nostra analisi si fermasse alla tragedia antica, una tale puntualizzazione non avrebbe significato, data la dimensione implicitamente collettiva di questo tipo di dramma che, culturalmente, va valutato necessariamente nel suo insieme, tutt’uno, e la nozione di “protagonista” risulterebbe in una certa misura fuorviante, applicata in un simile contesto; un punto, questo, che approfondiremo a breve. Tale precisazio1
Si é scelto di analizzare le due tragedie di Sofocle disponendole assecondando un criterio argomentativo (e narrativo) del testo, piuttosto che quello cronologico (rispettivamente, come noto, 442 per Antigone e 429 circa l’Edipo).
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ne, al contrario, si rende necessaria nella misura in cui intendiamo dimostrare che le due forme della tragedia come rovesciamento e la tragedia come scontro fra i caratteri si diversificano per ruolo, ma come forme in re, lungo la modernità e lungo l’evoluzione della tragedia. Allo scopo di dimostrare questa tesi, oltre all’inevitabile riferimento della attività teorica di Jean Pierre Vernant e Pierre Vidal-Naquet, si è deciso di fare affidamento, in quest’analisi, al lavoro ermeneutico sull’Antigone di due interpreti di valore come Theodor Oudemans e André Lardinois. Non mi è noto, personalmente, uno sforzo di mediazione culturale più profondo, relativamente al concetto di ambiguità, fra il mondo della tragedia antica e la coscienza moderna. Il principale risultato della loro ricerca riguarda, su tutti, la particolare configurazione dell’universo tragico antico come ambiguo in quanto formato da cosmologie interconnesse. Il cosmo tragico è fatto di semiosfere interconnesse2 quando i riferi2
L’analisi dell’Antigone di Oudemans e Lardinois cui si farà riferimento risale all’87, dunque quattro anni prima l’enunciazione definitiva e più compiuta teorica del concetto di semiosfera descritto da Lotman (1991). Si è ritenuto di poter usare sinonimicamente “cosmologie” – preferito da Oudemans e Lardinois – e “semiosfere”, perché il secondo termine sembra palesemente includere il primo, specialmente se lo intendiamo nel senso filosofico valso dal Seicento in poi a partire dall’elaborazione del termine che ne fece, per la prima volta, Alexander Baumgarten nella sua Metafisica, il quale ritiene a che l’osservazione razionale del mondo rappresenti il perno per una elaborazione del suo concetto filosofico. Secondo la notissima elaborazione di Lotman, questo punto di osservazione è il centro di ogni elaborazione di significato. Senza dubbio significativo il fatto che l’“interconnessione” fra sfere di senso nella tragedia antica, per come la descrivono i due autori, è possibile solo perché, come avremo modo di soffermarci, il senso della proairesis, della autonomia decisionale basata sulla volontà, nei caratteri tragici antichi, dalla teoria di Vernant in poi, è pressoché assente. Tale differente statuto della volontà dei caratteri antichi indebolirebbe la
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menti semiotici e culturali diversi sono sovrapposti. Quando, in altri termini, persiste all’interno dello stesso universo un entrelacement di sistemi culturali e semiologici differenti, ognuno dei quali ha le proprie barriere, i propri confini, che però convivono senza segnali molto marcati di rottura, all’interno dello stesso sistema di segni: Ogni qualvolta le culture formulano delle differenze cosmologiche delimitano con attenzione le proprie categorie, tracciandone i confini. Questo non solamente comprende specifiche differenziazioni come soglie o muri; non solamente ciò, ma [tali barriere, N. d. T.] possono anche essere espresse con una grande varietà di codici. La barriera religiosa tra il sacro e il profano, per esempio, può essere definita in termini di spazio (l’accessibilità a spazi sacri), di suono e di sessualità (come ad esempio le restrizioni per i preti, nel cristianesimo, eccetera).3
Le cosmologie separative, scrivono i nostri due autori, sono post-cartesiane, nel senso che concepiscono il mondo simbolico come qualcosa di unito (potremmo dire: “una totalità”) solo dopo la ricostruzione compiuta, a-posteriori, attraverso un punto di vista razionale che si è estraniato dalla continuità del flusso della res extensa: Descartes si sforza di separare quel che è percepibile e dunque mutevole in natura da quel che non è mutevole. Nel suo famoso esempio del pezzo di cera, applica una riduzione a tutte le caratteristiche mutevoli, che sono percepite dai sensi e dall’immaginazione, come la dolcezza, la fragranza, il colore e la forma.4
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capacità post-cartesiana di distinguere il proprio universo di segni sulla base della propria concezione razionale del mondo. Th. Oudemans, A. P. M. H. Lardinois, op. cit., p. 48. Ibid. cit.
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Dobbiamo immaginare il visione tragica antica come un universo in cui una simile separazione operata in termini riduzionistici non è ancora avvenuta o, meglio, non è ancora avvenuta in termini assoluti e totali, come già sembra accadere nelle visioni del mondo premoderne quali quella aristotelica5 o nelle cosmologie moderne. Ma è, per così dire, 5
La cosmologia aristotelica – così come quella platonica – non si risolve, in effetti, in termini riduzionistici; tuttavia neppure in un sistema di semiosfere interconnesse. Ciò semplicemente perché al contrario dell’universo mitico, essa si apre alla speculazione metafisica: nel pensiero di questi filosofi, la realtà non si riduce semplicemente al modello oggettivo dell’osservazione, ma per essere spiegata necessita di rielaborazioni astratte, immanenti o trascendenti. Ne consegue che, anche se non riduzionisti, il pensiero platonico e quello aristotelico sono separativi nel senso che abbiamo descritto perché pongono una linea razionale tra ciò che c’è nel mondo e ciò che non c’è: è quel che Platone chiama “non essere relativo” (Platone, Gorgia, a cura di A. Taglia, Einaudi3, Torino 1997, pp. 46-47), che può essere visto come il più brillante esempio di protrazione dal pensiero mitico della nuova cultura metafisica e post-tragica, e come tiene a precisare lo stesso Platone, in un certo senso antitragica. Il pensiero razionale in questo senso si pone come metodo di lavoro scientifico, quando Cartesio fa assurgere la separazione di spazi semiotici, (ovvero di semiosfere) a criterio per conoscere distintamente gli oggetti. Ma la concezione separativa da lui codificata nell’esempio del pezzo di cera è qualcosa che inizia, in Occidente, già nel processo che i Greci compirono di protrazione dal mito, di emancipazione del pensiero da categorie mitiche. Gli strumenti epistemologici che pongono le basi per un empirismo “post-mitico”, tuttavia, si stabiliscono con Cartesio; successivamente poi, per un empirismo post-metafisico, un empirismo trascendentale – categoria ossimorica che ha i suoi significativi paradossi – con Immanuel Kant. Per capire la tragedia greca dobbiamo immaginare una formazione che crea una crasi, per certi versi scandalosa, in cui si mescola ciò che culturalmente non dovrebbe essere mescolato, in un momento in cui la cultura mitica stava cedendo, e le soglie e le barriere imposte dal mito descritte dalla civiltà vengono “ripensate” dalla cultu-
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in fieri6, nel senso che la tragedia antica compartecipa del lungo lavorìo, eminente nella cultura greca, di emancipazione dalle categorie del mito che comincia, chiaramente, prima di essa attraverso la filosofia della physis presocratica, e prosegue con il pensiero platonico e aristotelico, i quali propongono i primi tentativi di risistemazione razionalista del mondo. Val la pena, credo, rileggere per intero il famoso passo di Descartes per comprendere il senso di questa trasformazione filosofica e culturale: Cominciamo dalla considerazione delle cose più comuni, e che noi crediamo di comprendere nel modo più distinto, cioè i corpi che tocchiamo e vediamo. Io non intendo parlare dei corpi in generale, perché queste nozioni generali sono d’ordinario più confuse, ma di qualche corpo in particolare. Prendiamo, per esempio, questo pezzo di cera, che è stato proprio ora estratto dall’alveare: esso non ha perduto ancora la dolcezza del miele che conteneva, serba ancora qualcosa dell’odore dei fiori, dai quali è stato raccolto; il suo colore, la sua figura, la sua grandezza sono manifesti; è duro, è freddo, tocca, e, se lo colpite, darà qualche suono. Infine, tutte le cose che possono distintamente far conoscere un corpo, s’incontrano in questo. Ma ecco che, mentre vi parlo, lo si avvicina al fuoco: quel che vi restava di sapore esala, l’odore svanisce, il colore si cangia, la figura si perde, la grandezza aumenta, diviene liquido, si riscalda, a mala pena si può toccarlo, e benché lo si batta, non renderà più alcun suono. Ma
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ra civica ateniese. Sulle basi della idea di cosmologia separativa in Aristotele rimando a P. Moraux, Der Aristotelismus bei den Griechen von Andronikos bis Alexander von Aphrodisia; La metafisica aristotelica come prosecuzione delle istanze di fondo della metafisica platonica, in “Pensamiento”, n. 35 1979, pp. 133-143. Vernant ha del resto dimostrato come il pensiero presocratico debba e possa essere già interpretato come un primo tentativo di pensare la physis al di fuori di categorie mitiche, Cfr. J. P. Vernant, Mythe et pensée chez le greques, études de la psychologie historique, La Découverte, Seuil, Paris 1996.
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la cera stessa resta dopo questo cambiamento? Bisogna confessare ch’essa resta; e nessuno può negarlo.7
La riflessione metafisica compiuta da Descartes è in definitiva il paradigma di ogni operazione riduzionista, un’operazione portata qui a ridurre l’essenza di un oggetto conoscitivo al rapporto logico che sussiste fra causa ed effetto: se la cera rimane alla prova del fuoco, bisogna concludere che essa è l’essenza dell’oggetto osservato. Il cosmo tragico per sfere interconnesse, al contrario, viene pensato dai tragici antichi come intrinsecamente ibrido, mescolato, un universo che fonda la realtà eppure è mescolato a cose oscene, inquinato da cose impure. Una simile impurità fa sì che, sul piano culturale e psicologico, la tragedia greca sia piena delle soglie, confini e limiti che ne caratterizzano la visione del mondo. Tuttavia la percezione delle soglie invalicabili e scabrose – in una parola: tragiche – che si manifestano in modo invisibile, o linguisticamente poco marcato, però, all’interno dello spazio tragico, proprio perché le differenti semiosfere che risulta scabroso unire sono in realtà de facto interconnesse; a prescindere dalla volontà dei personaggi. Tipicamente, tali semiosfere interconnesse hanno due funzioni drammaturgiche di riferimento, la cui chiave abbiamo già introdotto e sono del resto molto note: quella del Coro, punto di vista lirico sulla vicenda intera e quella del mito, che abbiamo definito la componente epica – leggendaria – che ha le sue categorie culturali, categorie che agli spettatori dovevano sembrare sempre più distanti e, in una certa misura, paradossali per il loro ambiguo misto di inattualità e presenza, quantomeno sui palcoscenici delle Grandi Dionisie. Tale sovrapposizione, sul piano strettamente linguistico, si esaurisce tutta sul rapporto – ambiva7 Cartesio, Meditazioni metafisiche, tr. it. S. Landucci, Laterza, Roma 2010, p. 24.
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lente, appunto – fra referente e significato: realtà ontologica e significato culturale. E tuttavia tale fatto linguistico, che ci autorizza a parlare di un’evoluzione formale della tragedia, non può essere astratto dal dato culturale per cui la tragedia greca si trova su un crinale che è in definitiva trasformativo in cui differenti principi di legittimità, intesi come soglie simboliche, luoghi sacri e tabù, si sovrappongono fra di loro: Quel che distingue le culture interconnesse dalle culture separative non è la mancanza di separazione. Nelle culture interconnesse la differenziazione è importante altrettanto quanto nelle culture separative, ma non si tratta di un’operazione riduzionista e poi di riassemblamento: nelle cosmologie interconnesse la differenziazione non conduce a categorie definite. Le loro demarcazioni non sono chiare, bensì cumulative: ci sono molti modi interconnessi di esprimere il significato di una differenza cosmologica, e questi modi formano un denso pattern di significati variabili, ricchi e in contrasto fra di loro.8
Per cogliere il senso della mutazione formale dalla tragedia greca alla tragedia moderna è dunque della massima importanza tenere ben presente il fatto culturale (i codici culturali e la posizione di prossimità che essi hanno nei confronti del mito) che abita il segno (ovvero la struttura del dramma); senza mai troppo rapidamente pensare di poter assimilare una medesima formazione semiotica ad un altro contesto. Alla luce di questa importante premessa semiotico-culturale sull’ambiguità del mito, possiamo provare a verificare quanto detto constatando come si declina il gioco di verità del rovesciamento, per come sarà poi codificato da Aristotele, che è incarnato, in una delle sue massime espressioni, dall’Edipo.
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Th. Oudemans, A. P. M. H. Lardinois, op. cit., tr. it. mia; corsivo mio; p. 49.
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1.2 Confini invisibili nel testo dell’Edipo Re
È ampiamente noto che la natura dell’ambiguità tragica di Edipo è annunciata subito dal discorso (rhesis) di apertura, tramite un gioco di parole di cui è chiaro il riferimento nel testo greco: ΟΙΔΙΠΟΥΣ ὦ παῖδες οἰκτροί, γνωτὰ κοὐκ ἄγνωτά μοι προσήλθεθ᾽ ἱμείροντες. εὖ γὰρ οἶδ᾽ ὅτι νοσεῖτε πάντες, καὶ νοσοῦντες, ὡς ἐγὼ οὐκ ἔστιν ὑμῶν ὅστις ἐξ ἴσου νοσεῖ. τὸ μὲν γὰρ ὑμῶν ἄλγος εἰς ἕν᾽ ἔρχεται μόνον καθ᾽ αὑτὸν κοὐδέν᾽ ἄλλον, ἡ δ᾽ ἐμὴ ψυχὴ πόλιν τε κἀμὲ καὶ σ᾽ ὁμοῦ στένει. ὥστ᾽ οὐχ ὕπνῳ γ᾽ εὕδοντά μ᾽ ἐξεγείρετε, ἀλλ᾽ ἴστε πολλὰ μέν με δακρύσαντα δή, πολλὰς δ᾽ ὁδοὺς ἐλθόντα φροντίδος πλάνοις. ἣν δ᾽ εὖ σκοπῶν ηὕρισκον ἴασιν μόνην, ταύτην ἔπραξα· παῖδα γὰρ Μενοικέως Κρέοντ᾽, ἐμαυτοῦ γαμβρόν, ἐς τὰ Πυθικὰ ἔπεμψα Φοίβου δώμαθ᾽, ὡς πύθοιθ᾽ ὅ τι δρῶν ἢ τί φωνῶν τήνδε ῥυσαίμην πόλιν. καί μ᾽ ἦμαρ ἤδη ξυμμετρούμενον χρόνῳ λυπεῖ τί πράσσει· τοῦ γὰρ εἰκότος πέρα ἄπεστι πλείω τοῦ καθήκοντος χρόνου. ὅταν δ᾽ ἵκηται, τηνικαῦτ᾽ ἐγὼ κακὸς μὴ δρῶν ἂν εἴην πάνθ᾽ ὅσ᾽ ἂν δηλοῖ θεός.9
EDIPO Piango con voi, figli. Conosco, non è incognita per me la febbre che vi spinge qui. E decifra, Edipo, tutto: che malati siete, tutti voi, e con voi nel male, anch’io… no, non c’è là in mezzo a voi malato quanto sono io. Ah sì, la vostra è fitta che aggredisce uno, solo lui, se stesso. Non dilaga. Ma io no. La mia anima è tutta un pianto, per Tebe, per me, per te. Vedi, non siete voi, adesso, a scuotermi da beati sogni. Lacrimo da tanto, ve lo dico; da tanto scorro strade, brancola il cervello. Ho studiato tutto, io. E so una terapia, nessun’altra. L’ho applicata già. Eccola: Creonte, di Meneceo, il cognato, va su mio comando alle magiche sale di Febo. Deve farsi dire il gesto, o la parola, con cui faccia scudo, io, alla mia gente. Ma già confronto i giorni, calcolo tempi, e m’angoscia l’esito del viaggio: eh sì, mi pare assenza strana, che supera i limiti del tempo. Arriverà, arriverà. E allora sarà colpa mia, solo mia, se non concreterò le scelte, fino in fondo, che dio limpidamente dice.10
Solo per fare alcuni degli esempi più eclatanti: Edipo dice di sapere quale sia l’origine della malattia che affligge 9 Soph. OT 58-77. La traduzione è tratta da Sofocle, Edipo re – Edipo a Colono – Antigone, Introduzione di U. Albini, Nota storica, traduzione e note di E. Savino, Garzanti, Milano, 19722, da cui riporto anche il testo greco, che segue quello oxoniense di A.C. Pearson (1928) con alcune varianti apportate dal curatore. 10 Ivi, p. 64.
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la città, ma il verbo sapere ha la radice dell’aoristo in oid-: è un pun, un gioco di parole e un’allusione al pubblico, per assonanza al nome di Edipo stesso. Ancora subito dopo: “νοσεῖτε πάντες, καὶ νοσοῦντες, ὡς ἐγὼ οὐκ ἔστιν ὑμῶν ὅστις ἐξ ἴσου νοσεῖ.” Il verbo νοσέω, cioè ammalarsi, è anche essere affetto da un male, “essere infetto” quindi essere fonte di infezione, essere invasato, posseduto, e così via. Per parafrasare: sebbene voi siate infetti io sono il più infetto di tutti; sono, in altri termini, l’infezione, sono l’elemento impuro, ibrido, che infesta la città. È la proverbiale “ironia” di Sofocle: affermando che l’oggetto della conoscenza di cui Edipo si vanta è lui stesso, si crea sin da subito un nesso metonimico fra la parola e l’azione che si proietta molto in là nella trama tragica, fino al momento della anagnorisis. Lo studio di anfibolie e ambivalenze all’interno dell’Edipo, notoriamente, del resto, e ben prima del modello vernantiano, è qualcosa che risale ad una linea che attraversa gli studi di Winnington-Ingram11, A. Hug12 e un noto 11 Cfr. R. P. Winnigton-Ingram: Sophocles, an interpretation, Cambridge university press, Cambridge 1980, p. 236. 12 In un seminale articolo pubblicato sul “Philologus” del 1871, Hug aveva classificato con attenzione tutte le anfibolie e l’uso di ambiguità verbali presenti nell’Edipo. Come abbiamo chiarito, il modello formale della tragedia greca basato sulla tensione che si crea fra il Coro e l’attore in scena, volto a risolvere l’ambivalenza del mito in sé, sarebbe nato solo un secolo dopo, grazie agli sforzi di Vernant; e tuttavia Hug aveva già minutamente classificato quei fenomeni retorici che poi, si sarebbe chiarito, avevano valore strutturale. Ci sono almeno quattro categorie: 1) c’è un’ironia, come quella che abbiamo visto, che nasce da un ammiccamento a qualcosa che poi si rivelerà il suo opposto (Ironie des gegenteils) 2) Un’ambiguità semantica che deriva dalla differenza di significato che i personaggi attribuiscono a ciascuna parola, come nel dialogo che esamineremo con Tiresia e Creonte, 3) c’è poi poi un sistema di omonimie e, infine 4) un sistema di costruzioni ambigue e contraddittorie. Il risultato è una conta di almeno 53 punti di ambiguità in tutto il dramma. A.
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articolo di W. B. Stanford, in una raccolta che ebbe modo di mostrare come il problema dell’ambiguità del mito costituisce una questione di lunga durata nella letteratura greca. Stanford forniva così strumenti, a nostro modo di vedere, per mettere in discussione l’idea espressa da Vernant per cui la cultura tragica antica sarebbe, in tutti i suoi elementi, qualcosa di estremamente situato e concentrato nel periodo della sua effettiva produzione letteraria13. Edipo vive in un cosmo in cui egli è il sovrano che risolve gli enigmi e libera i Tebani dalle piaghe. Tuttavia la semiosfera abitata da Edipo è interconnessa, in questo senso, ad un altro orizzonte semiotico in sé stesso contraddittorio, un universo in cui egli è il colpevole della piaga stessa, al punto di identificarvisi: è un nesso metonimico che, in questo particolare contesto culturale in cui si sovrappongono referenti e significati, innesca il rovesciamento, talora anche a dispetto della coerenza drammaturgica14. Il gioco linguistico del rovesciamento presente dall’Edipo Re, in questo senso, corrisponde all’attraversamento della soglia
Hug, Der doppelsinn in Sophokles Oedipus könig, “Philologus” 31, 1872, pp. 66-84. 13 Stanford documenta l’anfibolia in Omero, nei Poemi del Ciclo, così come in tanta letteratura successiva al fenomeno tragico, cfr. W. B. Stanford, Ambiguity in Greek Literature, Blackwell, Oxford, 1939. 14 Sull’annoso problema della coerenza drammaturgica della tragedia antica rimando a J. P. Vernant: Ébauches de volonté dans la tragédie grecque. in J. P. Vernant, P. Vidal Naquet, op. cit., pp. 44 -74. A lungo si è voluto vedere un valore simbolico (Snell, Rivier) o una doppia motivazione (Lesky) nella stilizzazione dell’agire tragico, perché esso fosse riconducibile a criteri coerenti, talora lontani dalla mimesi psicologica. Il problema, lo vedremo alla fine di questo capitolo, ha a che fare con lo statuto formale del concetto di volontà nel singolare contesto culturale della tragedia attica.
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invisibile fra questi due universi simbolici: l’universo in cui Edipo è il salvatore e quello in cui è il colpevole.
Οι. τάχ᾽ εἰσόμεσθα· ξύμμετρος γὰρ ὡς κλύειν. ἄναξ, ἐμὸν κήδευμα, παῖ Μενοικέως, τίν᾽ ἡμὶν ἥκεις τοῦ θεοῦ φέρων φάτιν; ΚΡΕΩΝ ἐσθλήν· λέγω γὰρ καὶ τὰ δύσφορ᾽, εἰ τύχοι κατ᾽ ὀρθὸν ἐξιόντα, πάντ᾽ ἂν εὐτυχεῖν. Οι. ἔστιν δὲ ποῖον τοὔπος; οὔτε γὰρ θρασὺς οὔτ᾽ οὖν προδείσας εἰμὶ τῷ γε νῦν λόγῳ. Κρ. ε ἰ τῶνδε χρῄζεις πλησιαζόντων κλύειν, ἕτοιμος εἰπεῖν, εἴτε καὶ στείχειν ἔσω. Οι. ἐς πάντας αὔδα. τῶνδε γὰρ πλέον φέρω τὸ πένθος ἢ καὶ τῆς ἐμῆς ψυχῆς πέρι. Κρ. λέγοιμ᾽ ἂν οἷ᾽ ἤκουσα τοῦ θεοῦ πάρα. ἄνωγεν ἡμᾶς Φοῖβος ἐμφανῶς ἄναξ μίασμα χώρας, ὡς τεθραμμένον χθονὶ ἐν τῇδ᾽, ἐλαύνειν μηδ᾽ ἀνήκεστον τρέφειν. Οι. ποίῳ καθαρμῷ; τίς ὁ τρόπος τῆς ξυμφορᾶς; Κρ. ἀ νδρηλατοῦντας ἢ φόνῳ φόνον πάλιν λύοντας, ὡς τόδ᾽ αἷμα χειμάζον πόλιν. Οι. ποίου γὰρ ἀνδρὸς τήνδε μηνύει τύχην;
15 Ivi, vv. 84-102, p.71.
Ed. Ora vedremo. Eccolo, giusto per udirmi. Nobile Creonte, intimo mio: che magica voce d’Apollo ci rechi? CREONTE Perfetta! La mia logica è: ostici casi, se accade che sbocchino a meta diritta, possono farsi totalmente lieti. Ed. Ma la voce, che dice? Non mi rinsalda – e ancora non m’angoscia – quanto dici. Cr. Comandi d’ascoltare con la folla qui vicina? Sono pronto. Oppure dentro, nel palazzo. Ed. A tutti devi dire. Guardali, il mio carico d’amaro è più per loro, che per me stesso. Cr. Posso dirti che voci ho percepito, sorte dal dio. Voci trasparenti. Radioso, l’altissimo, ha ordini per noi: espellere da Tebe lebbra, a cui la terra nostra fa da culla; non cullarla, fino a disperato stadio. Ed. Quali strumenti di purezza? Come si snoda la vicenda? Cr. Caccia all’uomo. A riscatto di morte, morte. Sangue d’allora gela Tebe. Ed. Chi è, che uomo, di chi addita il caso?15
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La tensione allusiva di questo dialogo ci fa comprendere il senso dello spettacolo basato sull’ambiguità. Ciò risiede, precisamente, nello scoprire quanto l’azione di indagare sull’omicidio di Laio sia in qualche modo il rovescio simmetrico dell’averlo ucciso; il pubblico conosce il mito, dunque non si stupisce e molto probabilmente sa quel che accadrà; il gusto, in tutta probabilità si ritiene stia nell’avvertire quello che avverrà dopo, l’anagnorisis della colpa. Quale brigante tenterebbe a tal punto la sorte, qual è l’uomo additato dal caso (“ποίου γὰρ ἀνδρὸς τήνδε μηνύει τύχην;”)? Superfluo insistere, forse, sulla polisemicità del termine τύχη, strategicamente inserito qui per rimarcare un corso e ricorso, concatenato, dei destini: la sorte rischiata dal bandito si sconterà adesso, con il vaticinio della sua identità. La ribellione di Edipo in questo senso è immediata, non appena a questa domanda viene fatto il suo nome; e Creonte viene tacciato di insubordinazione:
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Οι. πότερα δ᾽ ἐν οἴκοις, ἢ ’ν ἀγροῖς ὁ Λάϊος, .ἢ γῆς ἐπ᾽ ἄλλης τῷδε συμπίπτει φόνῳ; Κρ. θεωρός, ὡς ἔφασκεν, ἐκδημῶν πάλιν πρὸς οἶκον οὐκέθ᾽ ἵκεθ᾽, ὡς ἀπεστάλη. Οι. οὐδ᾽ ἄγγελός τις οὐδὲ συμπράκτωρ ὁδοῦ κατεῖδ᾽, ὅτου τις ἐκμαθὼν ἐχρήσατ᾽ ἄν; Κρ. θνῄσκουσι γάρ, πλὴν εἷς τις, ὃς φόβῳ, φυγὼν ὧν εἶδε πλὴν ἓν οὐδὲν εἶχ᾽ εἰδὼς φράσαι. Οι. τὸ ποῖον; ἓν γὰρ πόλλ᾽ ἂν ἐξεύροι μαθεῖν, ἀρχὴν βραχεῖαν εἰ λάβοιμεν ἐλπίδος. Κρ. λῃστὰς ἔφασκε συντυχόντας οὐ μιᾷ ῥώμῃ κτανεῖν νιν, ἀλλὰ σὺν πλήθει χερῶν.
Ed. Qui nelle sale, Laio, o nei poderi precipita nel sangue? O in terra d’altri? Cr. Un’uscita per scrutare il dio, disse. Ma qui non tornò più dopo il distacco. Ed. Neppure un uomo suo, uno della scorta, fu oculare teste? Da scandagliarlo, farsi dire?… Cr. Solo morti. Salvo uno: fuggitivo, ossessionato. Nulla poté dire delle cose viste, tranne che… Ed. Cosa, cosa? Segno isolato può farsi pista chiara, se catturiamo inizio, spiraglio del futuro. Cr. Banditi, gridava, capitatigli addosso, a massacrarlo, non con assalto d’uno: fu nugolo di mani. Ed. Il bandito, possibile? No, no: non senza trama mercenaria, con le radici qui, a Tebe. Non avrebbe mai rischiato tanto. Cr. Così si sospettava. Ma crollato Laio, non sorse giustiziere. Troppo male, addosso a noi.
Οι. πῶς οὖν ὁ λῃστής, εἴ τι μὴ ξὺν ἀργύρῳ ἐπράσσετ᾽ ἐνθένδ᾽, ἐς τόδ᾽ ἂν τόλμης ἔβη; Κρ. δοκοῦντα ταῦτ᾽ ἦν· Λαΐου δ᾽ ὀλωλότος οὐδεὶς ἀρωγὸς ἐν κακοῖς ἐγίγνετο. Οι. κακὸν δὲ ποῖον ἐμποδών, τυραννίδος οὕτω πεσούσης εἶργε τοῦτ᾽ ἐξειδέναι; Κρ. ἡ ποικιλῳδὸς Σφὶγξ τὸ πρὸς ποσὶν σκοπεῖν μεθέντας ἡμᾶς τἀφανῆ προσήγετο.
Ed. Male? Quale, da bloccarvi l’indagine dei fatti, col trono rovesciato in tale modo? Cr. La Sfinge, iridescenti ritmi. Ci inchiodò gli occhi all’oggi, e noi dimenticammo l’ignoto che sfumava.16
È a questo punto, fra il litigio con il cognato Creonte e l’incontro con il mistico indovino Tiresia, che abbiamo il primo canto corale. Come spero si avrà modo di constatare 16 Ivi, vv. 112-131, p. 122.
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con quanto segue il rovesciamento della volontà, la metabolé, è una caratteristica di molte delle tragedie greche per via di caratteristiche formali e culturali del genere. Tuttavia, come mostrano gli stasimi di questa tragedia, la metabolé di Edipo deve essere presa a paradigma della tragedia basata sul rovesciamento perché, in modo diverso da quanto accade, vedremo nell’Antigone, il personaggio principale è l’argomento stesso della tragedia: il re di Tebe è il mito il cui retaggio ambivalente risulta essere in discussione nel dramma, è la sua persona eroica che è in gioco, e i fondamenti culturali da essa incarnati.
ΧΟΡΟΣ ὦ Διὸς ἁδυεπὲς φάτι, τίς ποτε τᾶς πολυχρύσου ὦ Πυθῶνος ἀγλαὰς ἔβας Θήβας; ἐκτέταμαι φοβερὰν φρένα δείματι πάλλων, ἰήιε Δάλιε Παιάν, ἀμφὶ σοὶ ἁζόμενος τί μοι ἢ νέον ἢ περιτελλομέναις ὥραις πάλιν ἐξανύσεις χρέος. εἰπέ μοι, ὦ χρυσέας τέκνον Ἐλπίδος, εἰπέ μἄμβροτε Φάμα.
Coro O eco ridente di Dio, che rivelazione rechi da Delfi carica d’ori a Tebe, tua meta lucente? M’inarco, spaurito, nel profondo, t’attornio tremando, – Delio che sani, che vinci! – nel panico sacro di te: m’è oscuro se carico ignoto, o riemerso dai gorghi del tempo m’addossai. Svelalo, tu, frutto di speranza che spicca, vivida, magica Voce!
πρῶτα σὲ κεκλόμενος, θύγατερ Διός, ἄμβροτ᾽ Ἀθάνα, ὦ γαιάοχόν τ᾽ ἀδελφεὰν Ἄρτεμιν, ἃ κυκλόεντ᾽ ἀγορᾶς θρόνον Εὐκλέα θάσσει, καὶ Φοῖβον ἑκαβόλον, ἰὼ τρισσοὶ ἀλεξίμοροι προφάνητέ μοι, εἴ ποτε καὶ προτέρας ἄτας ὕπερ ὀρνυμένας πόλει ἠνύσατ᾽ ἐκτοπίαν φλόγα πήματος, εἰπέ μ ἔλθετε καὶ νῦν. ὦ πόποι, ἀνάριθμα γὰρ φέρω πήματα· νοσεῖ δέ μοι πρόπας
Per prima chiamo te, figlia di Zeus Atena sovrumana vita; e tua sorella, patrona di zolle Artemide che sul soglio curvo nel cuore di Tebe riposa, Maestosa; e Radioso, volo d’arco; triplice scudo alla morte, brillatemi innanzi! Se contro Maledizione d’altro tempo aggrappata alla gente bandiste febbre di pena, anche oggi apparite! Aaah, non calcolo carico di pene. La gente, la folla è infetta. Non so brandire l’idea
La tragedia antica: una totalità etica compiuta?75 τόλος, οὐδ᾽ ἔνι φροντίδος ἔγχο ᾧ τις ἀλέξεται. οὔτε γὰρ ἔκγον τᾶς χθονὸς αὔξεται οὔτε τόκοισιν τᾶς χθονἰηίω καμάτων ἀνέχουσι γυναῖκες· ἄλλον δ᾽ ἂν προσίδοις ἅπερ εὔπτερον ὄρνιν κρεῖσσον ἀμαιμακέτου πυρὸς ὄρμενον κρεἀκτὰν πρὸς ἑσπέρου θεοῦ· ὧν πόλις ἀνάριθμος ὄλλυται· νηλέα δὲ γένεθλα πρὸς πέδῳ θαναταφόρα κεῖται ἀνοίκτως· ἐν δ᾽ ἄλοχοι πολιαί τ᾽ ἔπι ματέρες ἀκτὰν παρὰ βώμιον ἄλλοθεν ἄλλαι τᾶς χθον λυγρῶν πόνων ἱκετῆρες ἐπιστενάχουσιν. καμάτων παιὰν δὲ λάμπει στονόεσσά τε γῆρυς ὅμαυλος· ὧν ὕπερ, ὦ χρυσέα θύγατερ Διός, κρε εὐῶπα πέμψον ἀλκάν· [...]
17 Ivi, vv. 115-156, p. 74.
che faccia barriera. Illustre questa terra: ma ora non crescono frutti. Non sanno – ululante travaglio – pace di parto le donne. Li vedi: via uno, via l’altro quasi scatto di ali che batte più forte d’incendio travolgente, sfrecciano a lido d’eterno tramonto. È lì, l’agonia che non so calcolare di Tebe. Creature riarse, riverse – fertile morte – che pianto non bagna. Spose, madri ingrigite disperse a sproni d’altare singhiozzano, tese, peso di lutto. Inno divampa. S’intona balbettante la nota del pianto. Figlia di Zeus, tesoro, dacci soccorso, occhi nuovamente chiari. [...]17
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Questo stasimo ci introduce all’idea che la tragedia si può leggere in due modi, che allo sguardo moderno risultano indipendenti e autonomi, ma nella tragedia antica sono irrimediabilmente interconnessi: da un lato c’è l’indagine di Edipo che si produrrà in un rovesciamento e dall’altro c’è un altro interrogativo, rovescio quasi speculare del primo, che riguarda la collettività: qual è l’origine della carestia? Quando Edipo all’inizio si pone come un salvatore, inizia già, ipso facto a divergere dallo sguardo lirico espresso dai notabili tebani, la sua azione inizia a diventare fonte di hybris: è ambigua nel senso profondo in cui è ambiguo il mito nella tragedia antica, è un’azione che va oltre una soglia culturalmente codificata e consapevole; il potere del re è così in questo senso ambivalente in modo pericoloso, minaccioso: in questa canzone ancora la pericolosità dell’agire di Edipo non è chiara, si può però dire che il pathos espresso dal Coro e la sua scoperta che è il re la causa della carestia, corrisponde ad uno sguardo oggettivo, complessivo, sebbene puramente testimoniale, di quello che Edipo vivrà sotto il suo personale, parziale, punto di vista; quello dell’esiliato, del capro espiatorio: espulso perché impuro. Ciò si legge chiaramente, con beffarda ironia, nello stesso discorso che Edipo rivolge al Coro: Oι. αἰτεῖς· ἃ δ᾽ αἰτεῖς, τἄμ᾽ ἐὰν θέλῃς ἔπη κλύων δέχεσθαι τῇ νόσῳ θ᾽ ὑπηρετεῖν, ἀλκὴν λάβοις ἂν κἀνακούφισιν κακῶν· ἁγὼ ξένος μὲν τοῦ λόγου τοῦδ᾽ ἐξερῶ, ξένος δὲ τοῦ πραχθέντος […]. νῦν δ᾽ ὕστερος γὰρ ἀστὸς εἰς ἀστοὺς τελῶ, ὑμῖν προφωνῶ πᾶσι Καδμείοις τάδε· ὅστις ποθ᾽ ὑμῶν Λάϊον τὸν
Ed. Reclami. E reclami cose – presidio, tregua dalla lebbra – che potrai far tue, solo che ti apra, ti faccia penetrare dalle mie parole, e che ti metta al remo, duramente, contro il male. Sì, parlerò io. Io, passante coinvolto in questa storia, […] Oggi io, tebano tardivo iscritto tra gente tebana, grido limpide cose a voi gente di Cadmo: chiunque qui tra voi ci sia che ha avuto sotto gli occhi Laio, e sa da chi fu spento, ordino che quello schiuda tutto, a me. Anche se s’angoscia, dentro: potrà far cadere lui,
La tragedia antica: una totalità etica compiuta?77 Λαβδάκου κάτοιδεν ἀνδρὸς ἐκ τίνος διώλετο, τοῦτον κελεύω πάντα σημαίνειν ἐμοί· κεἰ μὲν φοβεῖται, τοὐπίκλημ᾽ ὑπεξελεῖν αὐτὸν καθ᾽ αὑτοῦ· πείσεται γὰρ ἄλλο μὲν ἀστεργὲς οὐδέν. γῆς δ᾽ ἄπεισιν ἀβλαβής· εἰ δ᾽ αὖ τις ἄλλον οἶδεν ἐξ ἄλλης χθονὸς τὸν αὐτόχειρα, μὴ σιωπάτω· τὸ γὰρ κέρδος τελῶ ’γὼ χἠ χάρις προσκείσεται. εἰ δ᾽ αὖ σιωπήσεσθε, καί τις ἢ φίλου δείσας ἀπώσει τοὔπος ἢ χαὐτοῦ τόδε, ἃκ τῶνδε δράσω, ταῦτα χρὴ κλύειν ἐμοῦ. τὸν ἄνδρ᾽ ἀπαυδῶ τοῦτον, ὅστις ἐστί, γῆς τῆσδ᾽, ἧς ἐγὼ κράτη τε καὶ θρόνους νέμω, μήτ᾽ εἰσδέχεσθαι μήτε προσφωνεῖν τινα, μήτ᾽ ἐν θεῶν εὐχαῖσι μήτε θύμασιν κοινὸν ποεῖσθαι, μήτε χέρνιβας νέμειν· ὠθεῖν δ᾽ ἀπ᾽ οἴκων πάντας, ὡς μιάσματος τοῦδ᾽ ἡμὶν ὄντος, ὡς τὸ Πυθικὸν θεοῦ μαντεῖον ἐξέφηνεν ἀρτίως ἐμοί. ἐγὼ μὲν οὖν τοιόσδε τῷ τε δαίμονι τῷ τ᾽ ἀνδρὶ τῷ θανόντι σύμμαχος πέλω. κατεύχομαι δὲ τὸν δεδρακότ᾽, εἴτε τις εἷς ὢν λέληθεν εἴτε πλειόνων μέτα, κακὸν κακῶς νιν ἄμορον ἐκτρῖψαι βίον. ἐπεύχομαι δ᾽, οἴκοισιν εἰ ξυνέστιος ἐν τοῖς ἐμοῖς γένοιτ᾽ ἐμοῦ συνειδότος, παθεῖν ἅπερ τοῖσδ᾽ ἀρτίως ἠρασάμην.
Ed. Reclami. E reclami cose – presidio, tregua dalla lebbra – che potrai far tue, solo che ti apra, ti faccia penetrare dalle mie parole, e che ti metta al remo, duramente, contro il male. Sì, parlerò io. Io, passante coinvolto in questa storia, […] Oggi io, tebano tardivo iscritto tra gente tebana, grido limpide cose a voi gente di Cadmo: chiunque qui tra voi ci sia che ha avuto sotto gli occhi Laio, e sa da chi fu spento, ordino che quello schiuda tutto, a me. Anche se s’angoscia, dentro: potrà far cadere lui, da sé, la colpa che si sente addosso. Non avrà danni, né amarezze, solo partirà da Tebe, senza colpi. Forse si sa che il braccio del reato è da fuori, da terra forestiera: niente reticenze! Salderò tutto io, fino in fondo, il premio; e ci sarà la mia riconoscenza, in più. Ma forse resterete reticenti, sordi, chiusi al mio decreto: preoccupati, chi per un suo intimo, chi di se stesso. Per questo caso udite bene le concrete decisioni mie: escludo che qualcuno in questa terra – di cui io incarno forza e trono – apra a quell’uomo la sua porta, o gli rivolga voce, o se lo tenga a fianco, quando prega o immola sull’altare, o con lui spartisca acqua di purezza. Rifiutatelo, tutti! Rudere, per strada! Lui, lui è quella lebbra nostra, come apollinea, magica lingua m’ha fatto trasparente, oggi. Ecco, così scendo in campo, io, a fianco del Potente, e di quel nobile, caduto. Io maledico chi decise il colpo: solitario, rimasto nel mistero, o con aiuto d’altri, si spenga disperato, disperatamente spoglio, fragile, corroso. E ancora impreco: se l’uomo tra le mie pareti spartirà il mio fuoco, e io saprò, vedrò, voglio per me la pena di questo mio odierno maledire!18
18 Ivi, OT 16-220; 222-251, p. 81.
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In queste parole c’è qualcosa di più che una ironia legata alla pre-conoscenza del mito da parte del pubblico, di cui si diceva: il punto di vista lirico del Coro, che patisce la sofferenza dovuta alla pestilenza è oggettivo, per così dire, a patto della sua passività, nel senso che, in un cosmo ambiguo e scisso – per usare ancora l’espressione di Hegel – un pathos oggettivo può essere tale solo nella misura in cui nella tragedia l’azione è di per sé errore inconsapevole, violazione di qualche soglia invisibile, un hamartema. È qui che possiamo incominciare a riflettere sul senso, molto diverso, che assume il significato del termine – già aristotelico – di hamartìa: Edipo è inconsapevole della propria colpa perché nella semiosfera da lui abitata lui è veramente un eroe, un sovrano e un liberatore: se però riusciamo a visualizzare che questo suo orizzonte di credenze, che chiaramente sono di ascendenza mitica, è in realtà collocato in un orizzonte di credenze più grande, è intrecciato con una semiosfera politica in cui il potere del sovrano risulta irrimediabilmente squilibrato. Detto in altri termini, come si evince dal fatto che Edipo invoca giustizia per il fantomatico uccisore, l’azione di colui che vuole compiere giustizia è inevitabilmente solo parziale, coglie solo un aspetto della vicenda, un lato dell’ambiguità del mito; mentre la posizione lirica, potremmo dire contemplativa, del Coro, lo porta a scoprire la verità attraverso un percorso di consapevolezza che accompagna coerentemente quell’attraversamento di soglie invisibili che è il processo che conduce all’anagnorisis edipica. Ma prima di giungere alla anagnorisis vorrei soffermarmi almeno sul dialogo con Tiresia. Οι. ὦ πάντα νωμῶν Τειρεσία, διδακτά τε ἄ ρρητά τ᾽, οὐράνιά τε καὶ χθονοστιβῆ, π όλιν μέν, εἰ καὶ μὴ βλέπεις, φρονεῖς δ᾽ ὅμως
Ed. Interpreti tutto, Tiresia: mondi decifrati, mistici silenzi, cose delle stelle, passi sulla terra. Sei cieco, non importa, tu senti Tebe, quale lebbra ha addosso. O maestà, sei tu la mia scoperta, l’ultima
La tragedia antica: una totalità etica compiuta?79 ο ἵᾳ νόσῳ σύνεστιν· ἧς σὲ προστάτην σ ωτῆρά τ᾽, ὦναξ, μοῦνον ἐξευρίσκομεν. Φοῖβος γάρ, εἴ τι μὴ κλύεις τῶν ἀγγέλων, π έμψασιν ἡμῖν ἀντέπεμψεν, ἔκλυσιν μ όνην ἂν ἐλθεῖν τοῦδε τοῦ νοσήματος, εἰ τοὺς κτανόντας Λάιον μαθόντες εὖ κ τείναιμεν, ἢ γῆς φυγάδας ἐκπεμψαίμεθα. σ ὺ δ’ οὖν φθονήσας μήτ᾽ ἀπ᾽ οἰωνῶν φάτιν μήτ᾽ εἴ τιν᾽ ἄλλην μαντικῆς ἔχεις ὁδόν, ῥῦσαι σεαυτὸν καὶ πόλιν, ῥῦσαι δ᾽ ἐμέ, ῥ ῦσαι δὲ πᾶν μίασμα τοῦ τεθνηκότος. ἐν σοὶ γὰρ ἐσμέν· ἄνδρα δ᾽ ὠφελεῖν ἀφ᾽ ὧν ἔ χοι τε καὶ δύναιτο κάλλιστος πόνων.
barriera che ci salva. Radioso – se non t’hanno già parlato i miei corrieri – ai nostri nunzi annuncia che un unico riscatto può venire alla cancrena d’oggi: se comprendiamo chi distrusse Laio, e distruggiamo quella gente, o la scagliamo fuggitiva fuori Tebe. Tu non farti avaro di messaggi d’ali, o di qualunque pista esista d’ispirata scienza. Snoda te stesso, e Tebe, snoda me, schioda la lebbra radicata al morto. Tu ci servi. Soccorrere, con le tue doti, e forze: è più alto impegno d’uomo.
ΤΕΙΡΕΣΙΑΣ φεῦ φεῦ, φρονεῖν ὡς δεινὸν ἔνθα μὴ τέλη λύῃ φρονοῦντι. ταῦτα γὰρ καλῶς ἐγὼ εἰδὼς διώλεσ᾽· οὐ γὰρ ἂν δεῦρ᾽ ἱκόμην. Οι. τί δ᾽ ἔστιν; ὡς ἄθυμος εἰσελήλυθας. Τε. ἄφες μ᾽ ἐς οἴκους· ῥᾷστα γὰρ τὸ σόν τε σὺ κἀγὼ διοίσω τοὐμόν, ἢν ἐμοὶ πίθῃ. Οι. οὔτ᾽ ἔννομ᾽ εἶπας οὔτε προσφιλῆ πόλει Οι. τῇδ᾽, ἥ σ᾽ ἔθρεψε, τήνδ᾽ ἀποστερῶν φάτιν. Τε. ὁρῶ γὰρ οὐδὲ σοὶ τὸ σὸν φώνημ᾽ ἰὸν πρὸς καιρόν· ὡς οὖν μηδ᾽ ἐγὼ ταὐτὸν πάθω… Οι. μὴ πρὸς θεῶν φρονῶν γ᾽ ἀποστραφῇς, ἐπεὶ πάντες σε προσκυνοῦμεν οἵδ᾽ ἱκτήριοι.
TIRESIA Aaah! Intelligenza… che cosa assurda, quando non matura frutto a chi è cosciente. Cosa che sapevo troppo bene, io. E l’ho cancellata. Non sarei da te, adesso. Ed. Che significa? Sei pieno di freddezza. Ti. Lasciami, fammi andare via. Sarà più leggera, a te, la parte tua; a me la mia, fino in fondo, se mi concedi questo. Ed. Parole criminali. Non senti tua la terra che ti fece uomo, se occulti la mistica voce. Ti. Sì, ora vedo che anche quel vociare tuo punta al caos. Purché possa non precipitare anch’io… Ed. Oh no, intelligenza radicata in dio, non volgerci le spalle! Guardaci, in ginocchio, tutti, ci tendiamo. Ti. Vuote intelligenze, tutti! Mai, mai – per dire quanto tengo dentro – mi tocchi, nella luce, disseppellire colpe tue.
80 Τε. πάντες γὰρ οὐ φρονεῖτ᾽. ἐγὼ δ᾽ οὐ μή ποτε, τἄμ᾽ ὡς ἂν εἴπω, μὴ τὰ σ᾽ ἐκφήνω κακά. Οι. τί φής; ξυνειδὼς οὐ φράσεις, ἀλλ᾽ ἐννοεῖς ἡμᾶς προδοῦναι καὶ καταφθεῖραι πόλιν; Τε. ἐγὼ οὔτ᾽ ἐμαυτὸν οὔτε σ᾽ ἀλγυνῶ. τί ταῦτ᾽ Τε. ἄλλως ἐλέγχεις; οὐ γὰρ ἂν πύθοιό μου. Οι. οὐκ, ὦ κακῶν κάκιστε, καὶ γὰρ ἂν πέτρου Οι. φύσιν σύ γ᾽ ὀργάνειας, ἐξερεῖς ποτέ, Οι. ἀλλ᾽ ὧδ᾽ ἄτεγκτος κἀτελεύτητος φανῇ; Τε. ὀργὴν ἐμέμψω τὴν ἐμήν, τὴν σὴν δ᾽ ὁμοῦ ναίουσαν οὐ κατεῖδες, ἀλλ᾽ ἐμὲ ψέγεις. Οι. τίς γὰρ τοιαῦτ᾽ ἂν οὐκ ἂν ὀργίζοιτ᾽ ἔπη κλύων, ἃ νῦν σὺ τήνδ᾽ ἀτιμάζεις πόλιν; Τε. ἥξει γὰρ αὐτά, κἂν ἐγὼ σιγῇ στέγω. Οι. οὐκοῦν ἅ γ᾽ ἥξει καὶ σὲ χρὴ λέγειν ἐμοί. Τε. οὐκ ἂν πέρα φράσαιμι. πρὸς τάδ᾽, εἰ θέλεις, θυμοῦ δι᾽ ὀργῆς ἥτις ἀγριωτάτη. Οι. καὶ μὴν παρήσω γ᾽ οὐδέν, ὡς ὀργῆς ἔχω, ἅπερ ξυνίημ᾽. ἴσθι γὰρ δοκῶν ἐμοὶ καὶ ξυμφυτεῦσαι τοὔργον εἰργάσθαι θ᾽, ὅσον μὴ χερσὶ καίνων· εἰ δ᾽ ἐτύγχανες βλέπων, καὶ τοὔργον ἂν σοῦ τοῦτ᾽ ἔφην εἶναι μόνου. Τε. ἄληθες; ἐννέπω σὲ τῷ κηρύγματι ᾧπερ προεῖπας ἐμμένειν, κἀφ᾽ ἡμέρας τῆς νῦν προσαυδᾶν μήτε τούσδε μήτ᾽ ἐμέ, ὡς ὄντι γῆς τῆσδ᾽ ἀνοσίῳ μιάστορι. Οι. οὕτως ἀναιδῶς ἐξεκίνησας τόδε τὸ ῥῆμα; καὶ ποῦ τοῦτο φεύξεσθαι δοκεῖς;.
La nascita del dramma moderno Ed. Che vuoi dire? Comprendi, e non riveli? Disertare, questo hai in mente? Dissanguare Tebe? Ti. Io non torturerò me stesso, né te. Perché mi frughi? Non ha senso. Da me non cavi nulla. Ed. Sei peggio che maligno. Rocce, inaspriresti. Dunque non t’aprirai. Darai spettacolo, con questa aridità che hai dentro, senza fine. Ti. Critichi l’asprezza mia. La tua, che t’impregna, neanche l’intravedi. E insulti me! Ed. E chi non si farebbe aspro al suono del tuo dire, alla bassezza cui condanni Tebe? Ti. Verrà, la realtà. Anche con la mia barriera muta. Ed. Di’ la realtà in arrivo, a me. È tuo dovere. Ti. Non posso. Qui s’arresta la mia voce. Ora brucia, se credi, d’astio aspro, degradante. Ed. Ah, non ti risparmio niente – mi preda rabbia aspra – di quanto sento in me. Ho fissa idea: hai preparato tu il terreno del delitto, tu, delinquente. Non hai colpito, questo no: se avessi avuto gli occhi sani, io griderei che quel delitto è d’uno solo: tuo! Ti. Sinceramente? Ordino a te la fedeltà al decreto, a quel tuo grido. Da oggi, da ora, non cercare più colloqui con la gente, né con me. Tu, tu sei profanatore, lebbra viva della terra. Ed. Non hai pudore a stanare queste assurdità? Non andrai lontano non illuderti. Ti. Sono già lontano. Può molto la scienza che mi cresce dentro. Ed. Chi t’ha fatto scuola? Non la tua magia. No certo. Ti. Tu. Io riluttavo. Tu m’hai strappato le parole. Ed. Parole? E quali? Parla che capisca chiaro. Ti. Non eri tu l’intelligenza? O saggi il mio sapere?
La tragedia antica: una totalità etica compiuta?81 Οι. πρὸς τοῦ διδαχθείς; οὐ γὰρ ἔκ γε Ed. Non da dire che ho risolto il caso. Sii più chiaro.19 τῆς τέχνης. Τε. πρὸς σοῦ· σὺ γάρ μ᾽ ἄκοντα προυτρέψω λέγειν. Οι. ποῖον λόγον; λέγ᾽ αὖθις, ὡς μᾶλλον μάθω. Τε. οὐχὶ ξυνῆκας πρόσθεν; ἢ ’κπειρᾷ λόγων; Οι. οὐχ ὥστε γ᾽ εἰπεῖν γνωστόν· ἀλλ᾽αὖθις φράσον
È un dialogo molto denso, la cui analisi però ci permetterà di comprendere a fondo il senso tragico fondato su un pathos necessariamente “scisso”, così come già abbiamo visto nell’interpretazione di Hegel esposta nell’introduzione. È noto che tutta questa tragedia è fondata su un meccanismo di scoperta, da parte di Edipo, della colpa ma, come anche notava, nella sua lettura già ormai classica, Segal20, in quanto hamartema, cioè la colpa innocente, inconsapevole – eppure necessariamente colpa – non può che essere basata su un principio di verità parziali e prospettive limitate, che vengono alla luce: come si evince dal dialogo sticomitico, la rivelazione di Tiresia viene a seguito del rimprovero della sua reticenza, della sua vaghezza. Prendiamo, nello specifico, i seguenti versi: Edipo chiede a Tiresia di vaticinare e di non essere avaro di scienza: Ὂἲδιποuς σύ νυν φθονήσας μήτ᾽ ἀπ᾽ οἰωνῶν φάτιν μήτ᾽ εἴ τιν᾽ ἄλλην μαντικῆς ἔχεις ὁδόν, ῥῦσαι σεαυτὸν καὶ πόλιν, ῥῦσαι δ᾽ ἐμέ, ῥῦσαι δὲ πᾶν μίασμα τοῦ τεθνηκότος./Τειρεσίας φεῦ φεῦ,
19 Soph., Edipo, cit. 300-361, p. 72-76. 20 All’attività ermeneutica di Segal e alla ricca e sfaccettata analisi dell’Edipo si rifanno queste poche note ermeneutiche di un’opera complessissima. C. Segal, Edipous Tyrannos, Tragic Heroism and the limits of knowledge, Twaine, New York 1993.
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φρονεῖν ὡς δεινὸν ἔνθα μὴ τέλη λύῃ φρονοῦντι· ταῦτα γὰρ καλῶς ἐγὼ εἰδὼς διώλεσ᾽· οὐ γὰρ ἂν δεῦρ᾽ ἱκόμην. Edipo Snoda te stesso, e Tebe, snoda me, schioda la lebbra radicata al morto. Tu ci servi. Soccorrere, con le tue doti, e forze: è più alto impegno d’uomo./ Tiresia Aaah! Intelligenza… che cosa assurda, quando non matura frutto a chi è cosciente. Cosa che sapevo troppo bene, io. E l’ho cancellata. Non sarei da te, adesso.21
Si tratta di un caso esemplare, probabilmente di ambiguità semantica, che è, in questo universo culturalmente interconnesso, necessariamente collegato al piano della ambiguità drammaturgica; Edipo aveva chiamato Tiresia poco più sopra phronoseos, dotato di intelligenza che è appunto di quel tipo che è in grado di vedere attraverso le cose incerte, e non a caso, quando gli chiede di vaticinare, Edipo si rivolge a lui dicendo “sciogli te stesso” come efficacemente dice la traduzione. Ma questo phronein, però ci dice Tiresia in questa sua risposta, è deinòn: mostruoso e ambiguo, causa in se stesso di una sorta di sciagura ineluttabile, è lo stesso aggettivo che troveremo, come noto nel primo stasimo dell’Antigone. Per capire il nesso fra fra parola e azione basata del resto leggere le battute seguenti che ci fanno comprendere il nesso fra parola e azione. Sarebbe un errore gravemente post-cartesiano e separativo pensare che Tiresia voglia tenere per sé il nome del colpevole per qualche forma di crudeltà o insubordinazione: quel che dobbiamo comprendere è che il linguaggio usato dai due personaggi in un mondo mitico o post-mitico in cui c’è strutturale ambivalenza fra referenti e significati, realtà e semantica si confondono. Da un lato Tiresia sa che rivelando che lui stesso è l’assassino porterebbe Edipo alla catastrofe, e la sua phro21 Ivi, p. 74.
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nesis porterebbe alla rovina la città: la parola phronesis, con i suoi derivati tradotta qui con un’oscillazione fra l’intellegere e il comprendere “Che vuoi dire? Comprendi, e non riveli?”, in cui c’è ambivalenza tra comprendere e intellegere rivela il fatto che le sfumature fra significati delle parole, in un universo culturalmente interconnesso, sono molto di più che dettagli: il litigio che nasce fra i due è quindi molto più legato al fatto che i due vivono in mondi di significato diverso e la sfumatura semantica della parola phronesis è come un confine nebbioso e sfumato fra questi due mondi. Il mondo in cui scoprire l’assassino di Laio per Edipo è salvezza e quello in cui scoprirlo è sciagura. Quando Tiresia si rifiuta, non lo sta facendo dunque per insubordinazione, quanto piuttosto perché è consapevole della natura tragica di una simile rivelazione, e conoscere il significato posseduto da Tiresia della parola phronesis è dunque un po’ come varcare quella soglia invisibile generata dal collasso fra differenti semiosfere, in cui una soglia tragica può essere nascosta anche dietro al significato d’una parola e svelarlo potrebbe risultare un hamartema, un errore fatale. Tuttavia, contro voglia e quasi con timore, Tiresia è obbligato a rivelare il nome dell’assassino per dovere verso la regalità. A queste accuse di reticenza forzata segue l’inaspettata rivelazione dell’assassinio, che anticipa il processo di anagnorisis che inevitabilmente segue. Non si può, a questo punto, non comprendere che tale rivelazione avviene, semplicemente, perché l’indovino e Edipo si trovano su due piani, su due orizzonti del mito disgiunti eppure costretti a convivere necessariamente: “tu domini, ma io riequilibrerò il tuo dire con opposto dire” vuole dunque significare che le reazioni al discorso di Edipo nascono da una disconnessione fra le sue parole – la sua stessa coscienza e la sua consapevolezza dei fatti – le sue azioni, che sono azioni di potere, di dominio, e la realtà. In questo, la battuta finale del dialogo ci rivela con chiarezza il senso del rapporto fra dialogo e azione
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nella tragedia greca: io riequilibrerò il tuo dire con opposto dire vuol intendere opporrò una realtà (una realtà ontologica, diametralmente opposta alla tua) che appianerà la rischiosa ambiguità della tua azione. Poiché il re si trova in una posizione di potere, e il potere implica un’azione più rischiosa in un cosmo tragico fatto di ambivalenze, è necessario riequilibrare la verità delle azioni di Edipo con una verità opposta che ne temperi le convinzioni. Allora il concetto di hamartia aristotelico entra definitivamente in un nuovo circuito teorico, lontano dalla concezione moralistica cui si riferisce il filosofo per assumere una coloritura ontologica: le nostre azioni sono tragiche in quanto fallibili perché fondate sulla limitatezza del cosmo mitico, a maggior ragione se siamo potenti e se siamo figure mitiche su cui il retaggio della cultura civica collettiva si fonda. In tal senso, il dialogo fra Tiresia ed Edipo rappresenta al meglio un topos della tragedia greca che approfondiremo ancor meglio nell’Antigone: e cioè un prospettivismo fondato sull’impossibilità di leggere il reale da parte dei due personaggi che li condanna a un’alienazione fondamentale. Sorvoliamo sul resto della trama perché nota e concentriamoci brevemente sulle peculiarità del rovesciamento tragico, col fine di mostrare come poi tale gioco linguistico evolverà nel moderno: il vaticinio di Tiresia, seguito dalle parole ancor più squilibrate – nel senso che abbiamo cercato di spiegare – così come tutto il dialogo, ha il compito di intensificare la tensione drammaturgica generata dall’ambiguità che domina la scena. Tale ambiguità poi culmina con la progressiva scoperta di Edipo prima di essere l’uccisore di Laio e poi di esserne il figlio, il che già di per sé genera la cosiddetta selffulfilling prophecy per cui non essendo figlio di Polibio e Merope per fuggire dal vaticinio di essere un parricida aveva ottenuto il paradossale effetto di esserlo stato. La tentazione propria di uno sguardo post-cartesiano come il nostro, separativo e riduzionista, è quello di vedere una qualche
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forza divina come la causa diretta del rovesciamento cui va incontro il mitico eroe, di una qualche forma di fato o, ancor più erroneamente, di giustizia poetica come causa del rovesciamento, mentre invece la ragione formalmente corretta, da un punto di vista storico-culturale, di questo rovesciamento è il fatto che Edipo abitava in un cosmo parziale, una semiosfera interconnessa in modo ambiguo ad un altro cosmo più grande, l’ingresso nel quale non può che implicare una colpa di cui si può finalmente prendere coscienza:
ΙΟΚΑΣΤΗ τί δ᾽ ἐστί σοι τοῦτ᾽, Οἰδίπους, ἐνθύμιον; Οι. μήπω μ᾽ ἐρώτα· τὸν δὲ Λάιον φύσιν τίν᾽ ἦλθε φράζε, τίνα δ᾽ ἀκμὴν ἥβης ἔχων. Ιο. μέγας, χνοάζων ἄρτι λευκανθὲς κάρα, μορφῆς δὲ τῆς σῆς οὐκ ἀπεστάτει πολύ. Οι. οἴμοι τάλας: ἔοικ᾽ ἐμαυτὸν εἰς ἀρὰς δεινὰς προβάλλων ἀρτίως οὐκ εἰδέναι. Ιο. πῶς φῄς; ὀκνῶ τοι πρὸς σ᾽ ἀποσκοποῦσ᾽, ἄναξ. Οι. δεινῶς ἀθυμῶ μὴ βλέπων ὁ μάντις ᾖ. δείξεις δὲ μᾶλλον, ἢν ἓν ἐξείπῃς ἔτι. Ιο. καὶ μὴν ὀκνῶ μέν, ἂν δ᾽ ἔρῃ μαθοῦσ᾽ ἐρῶ. Οι. πότερον ἐχώρει βαιός, ἢ πολλοὺς ἔχων ἄνδρας λοχίτας, οἷ᾽ ἀνὴρ ἀρχηγέτης; Ιο. πέντ᾽ ἦσαν οἱ ξύμπαντες, ἐν δ᾽ αὐτοῖσιν ἦν κῆρυξ· ἀπήνη δ᾽ ἦγε Λάιον μία. Οι. αἰαῖ, τάδ᾽ ἤδη διαφανῆ. τίς ἦν ποτὲ ὁ τούσδε λέξας τοὺς λόγους ὑμῖν, γύναι; Ιο. οἰκεύς τις, ὅσπερ ἵκετ᾽ ἐκσωθεὶς μόνος. Οι. ἦ κἀν δόμοισι τυγχάνει τανῦν παρών; Ιο. οὐ δῆτ᾽· ἀφ᾽ οὗ γὰρ κεῖθεν ἦλθε καὶ κράτη
GIOCASTA Che hai? Edipo, che ti bolle, dentro? Ed. Non interrogarmi, non ancora. Spiegami Laio. Che uomo era, e a che fiorire d’anni? Gi. Grande. Germogliava bianco tra i capelli, appena, come polvere. Ecco, come appari tu. Non c’era molta differenza. Ed. Che peso! Ora ho barlumi. Ero cieco. Martellavano me le infernali parole che ho detto. Gi. Cosa? M’inchiodi. Non ti guardo, non posso. Ed. Ho freddo terribile, dentro. Forse il profeta vedeva. Tu puoi darci le prove. Devi trarti di bocca un’altra parola. Gi. Io sono inchiodata. Se so la risposta, dirò. Ed. Viaggiava leggero, o con scorta forte, da uomo che comanda? Gi. Cinque erano in tutto. Tra loro un attendente. Un carro solo, che portava Laio. Ed. Aaah, traspare tutto! Ma chi vi disse i fatti, allora, chi? Gi. Un tale, servo. Lui tornò, unico superstite. Ed. Esiste? È ancora nella casa? Gi. Ah no. Fu quando ritornò dal luogo e vide te padrone del potere. Laio era morto. Mi s’attaccò alla mano mi scongiurò, di metterlo in campagna, ai pascoli di bestie, fuori, fuori dagli occhi della gente.
86 σέ τ᾽ εἶδ᾽ ἔχοντα Λάιόν τ᾽ ὀλωλότα, ἐξικέτευσε τῆς ἐμῆς χειρὸς θιγὼν ἀγρούς σφε πέμψαι κἀπὶ ποιμνίων νομάς, ὡς πλεῖστον εἴη τοῦδ᾽ ἄποπτος ἄστεως. κἄπεμψ᾽ ἐγώ νιν· ἄξιος γὰρ οἷ᾽ ἀνὴρ δοῦλος φέρειν ἦν τῆσδε καὶ μείζω χάριν. Οι. πῶς ἂν μόλοι δῆθ᾽ ἡμὶν ἐν τάχει πάλιν; Ιο. πάρεστιν. ἀλλὰ πρὸς τί τοῦτ᾽ ἐφίεσαι; Οι. δέδοικ᾽ ἐμαυτόν, ὦ γύναι, μὴ πόλλ᾽ ἄγαν εἰρημέν᾽ ᾖ μοι δι᾽ ἅ νιν εἰσιδεῖν θέλω. Ιο. ἀλλ᾽ ἵξεται μέν· ἀξία δέ που μαθεῖν κἀγὼ τά γ᾽ ἐν σοὶ δυσφόρως ἔχοντ᾽, ἄναξ. Οι. κοὐ μὴ στερηθῇς γ᾽ ἐς τοσοῦτον ἐλπίδων [...] καὶ δεινὰ καὶ δύστηνα προύφηνεν λέγων, ὡς μητρὶ μὲν χρείη με μειχθῆναι, γένος δ᾽ ἄτλητον ἀνθρώποισι δηλώσοιμ᾽ ὁρᾶν, φονεὺς δ᾽ ἐσοίμην τοῦ φυτεύσαντος πατρός. κἀγὼ ’πακούσας ταῦτα τὴν Κορινθίαν ἄστροις τὸ λοιπὸν ἐκμετρούμενος χθόνα ἔφευγον, ἔνθα μήποτ᾽ ὀψοίμην κακῶν χρησμῶν ὀνείδη τῶν ἐμῶν τελούμενα. στείχων δ᾽ ἱκνοῦμαι τούσδε τοὺς χώρους ἐν οἷς σὺ τὸν τύραννον τοῦτον ὄλλυσθαι λέγεις. καί σοι, γύναι, τἀληθὲς ἐξερῶ. τριπλῆς ὅτ᾽ ἦ κελεύθου τῆσδ᾽ ὁδοιπορῶν πέλας, ἐνταῦθά μοι κῆρυξ τε κἀπὶ πωλικῆς ἀνὴρ ἀπήνης ἐμβεβώς, οἷον σὺ φῇς, ξυνηντίαζον· κἀξ ὁδοῦ μ᾽ ὅ θ᾽ ἡγεμὼν αὐτός θ᾽ ὁ πρέσβυς πρὸς βίαν ἠλαυνέτην.
La nascita del dramma moderno L’ho lasciato andare. Non era che uno schiavo. Ma meritava il mio regalo, e anche più. Ed. Che torni, immediatamente, qui. È possibile? Gi. È possibile. A che scopo tendi? Ed. Ho paura di me stesso. Forse m’è già uscito di bocca, troppo chiaro, perché sento voglia di vederlo in faccia, l’uomo. Gi. Sta’ tranquillo, sarà qui. Ma credo di avere dei diritti anch’io, devo sapere il peso che ti tieni dentro, Edipo. Ed. No, non posso più lasciarti fuori. Troppa tensione, ai limiti dell’incubo. Tu sei la cosa più importante. A te, soltanto a te posso parlare. E troppo grave il mio momento.
[...] Donna, voglio svelarti tutto. Io, semplice pedone, ero ormai al triangolo di strade, che sappiamo. Là mi venivano incontro l’attendente e, dritto sul carro a cavalli, quell’uomo. L’uomo delle tue parole. Quello alla guida e l’altro, il vecchio, proprio lui, volevano investirmi, farmi rotolare fuori dalla strada. Io mi tendo. Picchio sull’uomo delle redini: lui, mi vuole fuori strada. Anche il vecchio adocchia, mi spia che sfioro la fiancata e, dall’alto mi grandina doppia scudisciata in piena faccia. Pagò: non in proporzione, certo. Un attimo: gli piombò addosso la mia mazza. Fu questa mano, guarda. Lui si spezza. S’affloscia, scivola dal fianco del suo carro. Ammazzo tutti. Se un nodo, un qualunque nodo, esiste tra quel viaggiatore e Laio, chi è disperato più di Edipo? Che vita nausea Potenti, più della sua vita? Vietato a stranieri e Tebani riceverlo in casa. Vietato parlargli! Rifiuto umano! E nessun altro, io, io ho calcato su me la nera condanna. Insudicio il letto del morto, con queste mie mani. Guardate! L’hanno ucciso! Sono male vivente. Colpa pura. Il mio futuro è fuggire.
La tragedia antica: una totalità etica compiuta?87 κἀγὼ τὸν ἐκτρέποντα, τὸν τροχηλάτην, παίω δι᾽ ὀργῆς· καί μ᾽ ὁ πρέσβυς ὡς ὁρᾷ ὄχους παραστείχοντα, τηρήσας μέσον κάρα, διπλοῖς κέντροισί μου καθίκετο. οὐ μὴν ἴσην γ᾽ ἔτισεν, ἀλλὰ συντόμως σκήπτρῳ τυπεὶς ἐκ τῆσδε χειρὸς ὕπτιος μέσης ἀπήνης εὐθὺς ἐκκυλίνδεται· κτείνω δὲ τοὺς ξύμπαντας. εἰ δὲ τῷ ξένῳ τούτῳ προσήκει Λαΐῳ τι συγγενές, τίς τοῦδέ γ᾽ ἀνδρός ἐστιν ἀθλιώτερος, τίς ἐχθροδαίμων μᾶλλον ἂν γένοιτ᾽ ἀνήρ, ὃν μὴ ξένων ἔξεστι μηδ᾽ ἀστῶν τινι δόμοις δέχεσθαι, μηδὲ προσφωνεῖν τινα, ὠθεῖν δ᾽ ἀπ᾽ οἴκων; καὶ τάδ᾽ οὔτις ἄλλος ἦν ἢ ’γὼ ’π᾽ ἐμαυτῷ τάσδ᾽ ἀρὰς ὁ προστιθείς. λέχη δὲ τοῦ θανόντος ἐν χεροῖν ἐμαῖν χραίνω, δι᾽ ὧνπερ ὤλετ᾽. ἆρ᾽ ἔφυν κακός; ἆρ᾽ οὐχὶ πᾶς ἄναγνος; εἴ με χρὴ φυγεῖν, καί μοι φυγόντι μἤστι τοὺς ἐμοὺς ἰδεῖν μηδ᾽ ἐμβατεύειν πατρίδος, ἢ γάμοις με δεῖ μητρὸς ζυγῆναι καὶ πατέρα κατακτανεῖν Πόλυβον, ὃς ἐξέθρεψε κἀξέφυσέ με. ἆρ᾽ οὐκ ἀπ᾽ ὠμοῦ ταῦτα δαίμονός τις ἂν κρίνων ἐπ᾽ ἀνδρὶ τῷδ᾽ ἂν ὀρθοίη λόγον; μὴ δῆτα μὴ δῆτ᾽, ὦ θεῶν ἁγνὸν σέβας, ἴδοιμι ταύτην ἡμέραν, ἀλλ᾽ ἐκ βροτῶν βαίην ἄφαντος πρόσθεν ἢ τοιάνδ᾽ ἰδεῖν κηλῖδ᾽ ἐμαυτῷ συμφορᾶς ἀφιγμένην.
22 Ivi, vv. 739-833, p. 100.
Fuggendo cancellerò dagli occhi i miei, schiverò la patria: o è fatale annodarmi alla madre, nel letto, e abbattere il padre, Pòlibo, mia radice, mia guida di vita. Sarebbe assurdo, di’, intravedere l’atrocità di un dio in questi colpi miei? Noooh, mai, innocenti Potenze, non fate che scorga quel giorno! Cancellatemi dal mondo prima che mi veda, meta, io, Edipo, di peste soffocante!22
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Se leggessimo questa anagnorisis in una chiave storicisticamente anacronistica e separativa, dovremmo concludere necessariamente che Edipo è semplicemente vittima di un hamartema nel senso aristotelico: un errore in buona fede, frutto di un equivoco. Il suo parricidio, l’uccisione di Laio, sarebbe un equivoco dovuto al fatto che Edipo era un orfano che non conosceva suo padre e lo aveva ucciso per errore. Si tratterebbe evidentemente, però, di una lettura scorretta del genere che falsificherebbe così di fatto la comprensione di tutta la tragedia. Innanzitutto perché non spiega il senso dei dialoghi precedenti: in che senso una colpa in buona fede può essere causa di hybris, tracotanza e squilibrio, il senso di aver oltrepassato il segno invalicabile? Sarebbe una colpevolezza veniale e ci farebbe venire in mente il modello aristotelico che permetteva al filosofo di leggere Edipo come uno spoudaiòs un uomo medio a cui non attribuire responsabilità troppo gravi. Una simile lettura è erronea in quanto riduzionista e separativa, ed è per questo che non ci permette di comprendere il nesso fra le dure accuse di Tiresia e l’anagnorisis che abbiamo riportato. In una cultura fondata su semiosfere interconnesse non può esserci differenza fra l’errore in buona fede cui sarebbe tentata di cadere la lettura post-aristotelica (e, in prospettiva, post-cartesiana) dell’Edipo, e la grave colpa, che ha conseguenze radicali sulla vita dell’intera comunità tebana. Se così, si spiega il senso culturale della tragedia come una riflessione sulla messa in discussione fondamentale dell’azione mitica come concentrato culturale, incarnazione di un sistema di valori, squalificato perché culturalmente interconnesso con un nuovo sistema, quello che a partire dal mito ha generato la tragedia. Molto interessante è in tal senso leggere in questa chiave il quinto stasimo: il quarto ci conferma infatti il nesso fra lo squilibrio e il despotismo, il fatto cioè di trovarci sempre in un orizzonte parziale e limitato e dunque di qui la conse-
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guenza per cui ogni azione sarebbe inevitabilmente sbilanciata, fuori misura, ambigua; nel quinto stasimo, il senso tragico del Coro, che, a differenza degli altri è un io lirico: la sua tragicità consiste nel contemplare la scissione irrimediabile del cosmo mitico come un dato unico, scisso al suo interno è certifica definitivamente quanto avevamo detto all’inizio, e cioè che l’ambiguità del mito stesso di cui è oggetto la tragedia di Edipo è l’azione del re, che è ibrida contraddittoria e sporca come il suo stesso incesto, nel senso che collega ciò che dovrebbe essere separato, mescola inevitabilmente ciò che dovrebbe essere distinto: Χο. ἰὼ γενεαὶ βροτῶν, ὡς ὑμᾶς ἴσα καὶ τὸ μη δὲν ζώσας ἐναριθμῶ. τίς γάρ, τίς ἀνὴρ πλέον τᾶς εὐδαιμονίας φέρει ἢ τοσοῦτον ὅσον δοκεῖν καὶ δόξαντ᾽ ἀποκλῖναι; τὸν σόν τοι παράδειγμ᾽ ἔχων, τὸν σὸν δαίμονα, τὸν σόν, ὦ τλᾶμον Οἰδιπόδα, βροτῶν οὐδὲν μακαρίζω·
Co. O vite vissute! Vi calcolo, vi scavo: e la somma è niente. Chi, ditemi, chi sente serenità di dio su di sé? È meno che illusione, e dopo l’illusione c’è tramonto. Tu sei la mia scuola, stanco Edipo. Tu, col tuo inferno: non so immaginare contentezza viva.
[...]
ἐφηῦρέ σ᾽ ἄκονθ᾽ ὁ πάνθ᾽ ὁρῶν χρόνος, δικάζει τ᾽ ἄγαμον γάμον πάλαι τεκνοῦντα καὶ τεκνούμενον. ἰώ, Λαΐειον τέκνον, εἴθε σ᾽ εἴθε μήποτ᾽ εἰδόμαν. δύρομαι γὰρ ὥσ περ ἰήλεμον χέων ἐκ στομάτων. τὸ δ᾽ ὀρθὸν εἰ πεῖν, ἀνέπνευσά τ᾽ ἐκ σέθεν καὶ κατεκοίμασα τοὐμὸν ὄμμα.
Recalcitravi, a tempo, cosmico occhio, ti colse. Castiga sposalizio assurdo di figlio che figlia. Figlio di Laio: ah vorrei, ah vorrei, non averti saputo! Mi mangia il dolore. Ululo cupo mi scroscia da labbra. Ma devo ridirlo: tu fosti radice d’aria nuova. Cullasti il mio sonno.23
23 Ivi, 1186-1222, p. 130.
[...]
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È così che dobbiamo immaginare il pathos oggettivo proprio del Coro sul cosmo scisso di cui parla Hegel nell’Estetica: contemplare la natura tragica dell’ambiguità del cosmo e l’inevitabilità del mescolare ciò che non dovrebbe essere mescolato, come del varcare una soglia invisibile che non dovrebbe essere varcata, ciò a causa della particolare condizione culturale in cui si sviluppa la tragedia greca, è il vero senso tragico del Coro. Se isoliamo alcuni versi dalla citazione vediamo che Edipo è “ἐξ οὗ καὶ βασιλεὺς καλεῖ / βἐμὸς καὶ τὰ μέγιστ᾽ ἐτιμάθης, ταῖς μεγάλαισιν”, “dalla condizione di altissimo sovrano alla condizione di massimo fra i dolori”; allo stesso modo “ἰὼ κλεινὸν/Οἰδίπου κάρα, ἦ στέγας λιμὴν αὑτὸς/ἤρκεσεν παιδὶ καὶ πατρὶ θαλαμηπόλῳ”, Edipo “ha unito il seno materno al letto nuziale”: è in una condizione per cui ha mescolato due cose che avrebbero dovuto essere ben distinte, la sovrapposizione semantica di queste due contraddizioni ci fa comprendere una verità drammaturgica: nella sua semiosfera Edipo non vede queste ambiguità, non ne è consapevole e dunque non può far altro che cadere in una mescolanza a posteriori vista come oscena, è ciò che lo rende ibrido marito di madre. Se scegliessimo solo uno dei due lati di questo paradosso, verrebbe meno la natura di Edipo in quanto pharmakos, e cioè oggetto volto a placare l’ansia legata alla perdita di fondamento della cultura mitica, la problematicità e la paradossalità della doppiezza del suo agire incarna, ad un livello profondo, esattamente questo problema. È dunque in questa luce che possiamo fare un ulteriore passo avanti: la risistemazione aristotelica è un fraintendimento della tragedia antica ma, proprio in quanto tale – come si è accennato quando abbiamo discusso della Poetica – conserva, come fa qualsiasi anacronismo, alcune legami, in forma di tensione profonda, con l’oggetto che sta descrivendo. Nel suo modello teorico infatti Aristotele ci aveva spiegato come l’anagnorisis fosse un compimento,
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ancor più pieno e totale, del gioco di verità del rovesciamento. Tuttavia dobbiamo riflettere sul fatto che, dal punto di vista strettamente drammaturgico, il momento del riconoscimento non avrebbe nessun senso, nessuna linearità di fatto a meno di pensarlo in un universo ambiguo. In un cosmo lineare, separativo e basato sul principio di non-contraddizione nessun personaggio potrebbe, senza alcuna ragione, cambiare idea sul suo stato di colpevolezza a partire da una dimensione di innocenza conclamata, compiendo l’ammissione di un Hamartema. A dimostrarlo, del resto, ci sono decenni di tentativi più o meno incerti di drammaturghi cinquecenteschi che si sono sforzati di applicare il gioco linguistico del rovesciamento secondo i dettami del filosofo, rischiando moralismi e incoerenze psicologiche24. Contestualizzato nel suo retaggio di prossimità al mito, questo gioco di verità acquisisce una sua coerenza, non drammaturgica, ma culturale, che consiste nell’accostare ere di credenze diverse. Ancor di più, nelle cosmologie interconnesse le differenziazioni non sono distinte, ma disperse. Attraverso un processo di trasformazione, una differenza categoriale può essere trasposta in una differenza da una categoria ad un’altra. Per esempio la violazione di relazioni sociali che riguardano l’incesto (come la confusione di confini fra confini di famiglia e matrimonio) può essere coinsderata un’intrusione di natura selvaggia. Questo implica che l’incesto possa avere conseguenze sulla fertilità femminile, ma anche per la fertilità della terra. Gli alimenti o la carestia non possono che essere viste come conseguenze dell’incesto e sono in oltre considerate punizioni divine, e per questo guardate come l’esecuzione della volontà divina.25
24 E. Zanin, op. cit., p. 120. 25 Th. Oudemans, A. Lardinois, op. cit., p. 34.
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Tutte le forme di anfibolia che ritroviamo in bocca al personaggio del Coro così come in bocca al personaggio del re di Tebe sono in realtà il segno del fatto che i due personaggi si trovano, come si diceva, su due piani diversi dell’evoluzione del cosmo culturale greco. Come mostrano chiaramente questi versi anche il Coro soffre dello statuto ambiguo di Edipo e in qualche modo possiede la chiave della sua ambivalenza. Alla luce di questa analisi dell’Edipo possiamo fare qualche riflessione sul ruolo del gioco linguistico del rovesciamento – in termini evolutivi – se confrontiamo l’analisi viva del dramma con la codificazione aristotelica. Quello di Edipo è senza dubbio un hamartema con tutte le sfumature semantiche che questo significato ha nella stratificata semantica dell’antica grecia e tuttavia: l’inconsapevolezza dell’errore per come è stato codificato da Aristotele nella nostra ricostruzione, che vedeva il rovesciamento perfetto, come abbiamo visto, nel rovesciamento con anagnorisis per via di fini etici, così come vedeva nello spoudaios “l’uomo medio” non troppo nobile, ma neanche troppo infimo, il protagonista della tragedia. Hamartema, qui, un secolo prima della Poetica, vuol dire ambivalenza strutturale tra la volontà di Edipo nel compiere l’omicidio e congiungersi con la madre e le forze soprannaturali che avevano profetizzato il tutto: scegliere fra uno di questi due aspetti significa rinunciare implicitamente a uno dei due lati dell’ambiguità di Edipo in quanto mito, in quanto enigma, più che suo risolutore. La classificazione del rovesciamento che, lo abbiamo visto, si basava sulla capacità di far prendere consapevolezza dell’hamartema così come la necessità di scegliere un uomo medio, sono indicazioni di un fraintendimento culturale per cui tale codificazione aristotelica si basa su una concezione, quella della filosofia della physis aristotelica, che è separativa: non conosce insomma l’ambiguità del mito come principio base della cosmologia tragica. Aristotele stava cercando di ricostruire “in provetta”, l’i-
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dea del rovesciamento come base linguistica della tragedia: e se le osserviamo da vicino, troviamo una tensione segreta e nascosta fra l’hamartia tragica basata sull’ambiguità e l’hamartia tragica basata sul suo razionalismo etico aristotelico. La tensione culturale fra codificazione poetologica aristotelica e dramma antico consiste essenzialmente nel fatto, a mio modo di vedere, che l’hamartia connotata moralmente non è altro che una eco lontana, quasi sorda – per così dire – della condizione di instabilità formale della volontà del carattere tragico: che vive in un ambiente inquinato ed è percepito dalla collettività come un elemento di disturbo, una figura ibrida che turba con la sua presenza il cosmo tragico e che deve, quindi, in qualche modo essere espulsa. Il suo insistere sulla categoria di hamartia, dunque, è in qualche modo un remoto rimando al nesso imprescindibile che c’è tra azione tragica è perturbamento dell’ambiente: in definitiva la filosofia etica di Aristotele si fonda su una concezione della physis che è figlia di questo percorso eudaimonistico, in base a un criterio per cui l’uomo giusto è in qualche modo innocente. Quel che va notato però è che, irrigidendo il concetto di hamartia in una categoria etica, che nella realtà del dramma è un fatto strutturale, drammaturgico e dunque semiotico del dramma antico, Aristotele già compartecipa della cultura post-tragica e post-mitica che è necessariamente separativa nel senso di Oudemans e Lardinois. Non coglie a nostro giudizio gli elementi di collegamento metonimico che provocano il rovesciamento tragico di Sofocle in questo, galleggiando da una semiosfera ad un’altra, ma cerca di coglierne il retaggio a suo modo: l’eccellenza tragica dell’individuo “medio” deriva in altri termini comunque da una cultura che si è sbarazzata della grande rilevanza politica e culturale del mito e vuole in qualche modo addomesticarlo. La tragedia, come momento di tensione culturale che porta allo sbiadimento di questo ruolo se non, secondo alcuni critici, alla censura vera e pro-
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pria della cultura mitica. Per contraltare la concezione dell’hamartema come punto di equilibrio fra Adikema e Atuchema è in definitiva la sorda eco già tutta interna ad una coscienza razionalista della ibridezza; ambiguità morale intrinseca al gesto di hybris che porta, inconsapevolmente, lo abbiamo visto, al rovesciamento. Nel confronto fra l’Edipo sofocleo e la codificazione aristotelica abbiamo già avuto un assaggio di come funziona il metodo che consiste nello storicizzare le forme dei generi letterari sulla base di giochi linguistici: è ovvio che la codificazione aristotelica deriva dalla realtà del rovesciamento generato da questa ambiguità tragica strutturale: far assurgere il rovesciamento a gioco linguistico ha senso solo se si riesce a dimostrare che esso è appunto per la tragedia un universale semiotico in re che, per quanto in forma variata nella storia della tragedia, e in un modo che per la tragedia è qualcosa che, per usare l’espressione di Guido Mazzoni, sono “delle regolarità mobili soggette a delle variabilità”. Una tale considerazione sulla tensione latente fra l’Edipo sofocleo e Aristotele non sembri infatti priva di interesse per il nostro percorso evolutivo. tal proposito, proprio per i fini di storicizzazione del dramma che ci siamo preposti, va rilevata a questo punto un’ultima considerazione: come dimostra l’analisi comparata fra stasimi ed episodi nella forma in questa prima ed archetipica struttura di rovesciamento tragico, possiamo rilevare proprio che le due componenti formali della tragedia sono qui in equilibrio non, chiaramente, per via di qualche aurorale perfezione della tragedia antica: piuttosto perché il punto di vista lirico del Coro negli stasimi risulta formalmente interconnesso all’struttura dell’azione drammatica rappresentata negli episodi, nella sua possibilità di sguardo generale all’interno di un sistema di orizzonti parziali; questo ancor più di Tiresia che ha sì capacità divinatorie, ma indica solamente, senza avere l’ultima parola, sulla natura ibrida di Edipo. Questo è un primo indizio del fatto che il
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nesso fra epicità e lirismo proprio del genere tragico ha a che fare, a ben vedere, con una epoca della tragedia irrimediabilmente separata dalla nostra in cui il fondamento mitico, in crisi, inquina e si sovrappone al mondo civico in un passato culturale ormai dimenticato nel nostro mondo. 1.2 Cosmi tragici interconnessi nell’Antigone
Alla luce dell’analisi della struttura della tragedia antica incentrata sull’ambiguità del personaggio di Edipo nell’Edipo re e sul suo rapporto con la più tarda codificazione di Aristotele, possiamo finalmente giungere all’Antigone per argomentare la tesi principalmente necessaria per spiegare l’evoluzione della tragedia e il suo prodursi nel dramma moderno. E cioè l’ambivalenza e la coincidenza del gioco linguistico del rovesciamento per come è inscenato nell’Edipo e del gioco linguistico basato sullo scontro fra i caratteri, di cui, ça va sans dire il modello è Antigone. La codificazione di questi due giochi esprime tutta la lontananza fra il cosmo tragico antico interconnesso e il cosmo tragico moderno, separativo. La già citata interpretazione di André Lardinois e Theodor Oudemans sarà una base inaggirabile per questa dimostrazione, ma rispetto ai due autori, che si occupano di confutare per lo più le interpretazioni della grande filologia otto-novecentesca, dando ad Hegel uno spazio di minor rilievo, vorrei mostrare soprattutto come una puntuale analisi dell’Antigone sofoclea metta in luce la fondamentale differenza e alterità della realtà drammaturgica di questa tragedia rispetto alla interpretazione moderna – anche hegeliana – e come questa ci debba portare a concludere che questa particolare opera, par excellence interpretata come un modello dell’espressione della totalità etica hegeliana, fondi, volendovi estrarre un modello strut-
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turale – l’evoluzione della tragedia come una storia dell’impossibilità di esprimere quella totalità etica. In altri termini, è esattamente uscendo dall’equivoco post-cartesiano sulla tragedia, in cui cade lo stesso Hegel riguardo ad Antigone, che potremo poi ripensare l’evoluzione della tragedia come lettura dell’Estetica “alla rovescia”, nel senso inteso nell’introduzione. Oudemans e Lardinois rileggono i punti cardine dell’interpretazione hegeliana dell’Antigone e la differenziano dall’interpretazione separativa di natura filologica che va da Schlegel26 a Jebb27, Mül26 Sul problema dell’interpretazione romantica di Antigone si può confrontare G. Steiner, Antigoni, un grande mito classico nell’arte e nella letteratura dell’occidente, Garzanti, Torino 1995. Per Schlegel in particolare: A. W. Schlegel, Lectures on Dramatic Art and Literature (1768-1803), in German Romantic Criticism, ed. A. Leslie Wilson, Continuum, New York 1982, pp. 175-218 27 Molto interessanti, per il nostro discorso, le osservazioni di Sir Richard C. Jebb, quando legge il senso etico della tragedia: “But how did Sophocles intend us to view the result? What is the moral intended? What is the drift of the words at the end, which say that “wisdom is the supreme part of happiness”? If this wisdom, or prudence (“τὸ φρονεῖν”), means, generally, the observance of due limit, may not the suggested moral be that both the parties to the conflict were censurable? As Creon overstepped the due limit when, by his edict, he infringed the divine law, so Antigone also overstepped it when she defied the edict. The drama would thus be a conflict between two persons, each of whom defends an intrinsically sound principle, but defends it in a mistaken way; and both persons are therefore punished. […] A difference will be made, too, in our conception of Antigone’s character, and therefore in our judgment as to the measure of skill with which the poet has portrayed her. A careful study of the play itself will suffice (I think) to show that the second of the two views above mentioned is the true one. Sophocles has allowed Creon to put his case ably, and (in a measure from which an inferior artist might have shrunk) he has been content to make Antigone merely a nobly heroic woman, not a being exempt from human passion and human weakness; but none the
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ler, a Reinhardt28 e a molti altri. In base a questo tradizionale tipo di interpretazione, il sistema di valori sofocleo less does he mean us to feel that, in this controversy, the right is wholly with her, and the wrong wholly with her judge” R.C. Jebb, Preface in Sophocles: the plays and fragments. With critical notes comments and translation in English prose, Cambridge university press, Cambridge, 1906. pp XXII-XXIII. Jebb si incarica di confutare la tesi, che aveva ottenuto credito e successo tramite Hegel, chiarendo che un attento studio teatrologico sui personaggi ci farebbe supporre una qualche assiologia drammaturgica a favore dell’eroina; l’opera di commento di Jebb è ancora una volta vittima del nesso pregiudizievole – separativo in senso cartesiano, ormai lo abbiamo visto – fra psicologia dei personaggi e le forze che realmente abitano le loro azioni. 28 Riporto anche io, come i due autori, le parole di Reinhardt, la cui posizione inequivocabilmente evidenzia una superiorità del diritto divino rispetto al diritto umano: “Hier steht nicht Recht gegen Recht, Idee gegen Idee, sondern Göttliche, als Allumfandigendes mit dem das junge Mädchen sich in Einklang weiss, gegen das Menschliche als das Beschränkte, Blinde, von sich selbst Gejagte, in sich selbst Verstellte und Verfälschte” Reinhardt, Sophokles, Frankfurt am Mein 1964, p. 86. Reinhardt segue la linea di Jebb dodici anni dopo l’uscita dell’edizione commentata del filologo anglosassone: “qui non c’è diritto contro diritto, o idea contro idea” scrive Reinhardt “ma piuttosto un divino totalizzante con cui la giovane fanciulla è consapevole di essere in armonia, contro un mondo umano che si è autolimitato, cieco, che si è messo in gabbia da solo, e che si è falsificato” (tr. it.). La filologia otto-novecentesca ortodossa continua a fraintendere la forma della tragedia greca, per due motivi: non riesce a concepire un universo in cui non c’è separazione simbolica fra valori e azioni, e soprattutto (cosa che è, in effetti, il rovescio della prima) non riesce a pensare a un mondo in cui la volontà, sebbene determini l’identificazione di una qualche forma di proto-soggettività, non implichi la possibilità di una forma di autonomia decisionale. Esempi su questo tipo di fraintendimento si potrebbero ancora fare a iosa e senza dubbio per una lettura più approfondita di questo discorso, così determinante per comprendere l’evoluzione della tragedia, rimando alla lettura di Oudemans e Lardinois.
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sarebbe orientato verso un’assiologia precisa, dando all’Antigone una chiave di lettura essenzialmente di tipo etico, per cui Antigone è eroica e Creonte è il nemico. Il punto di vista hegeliano, che ci interessa maggiormente, invece, avrebbe la capacità di interpretare con maggior accuratezza, per lo meno rispetto all’interpretazione filologica classica “ortodossa” – come viene definita questa corrente di interpretazione29 – tutto il grande sistema di opposizioni semantiche e di trasformazioni tra soglie simboliche che attraversano l’opera. È notorio che, nella concezione di Hegel, Creonte e Antigone rappresentano due poteri etici di eguale forza e giustizia, e come l’equilibrio etico che si genera fra queste due figure rappresenti l’archetipo della bella eticità immota di cui abbiamo reso conto nella nostra introduzione. Va tuttavia aggiunto che una simile interpretazione, basata su queste due macro-sfere semantiche – come sembrano confermare anche letture filologiche recenti30 – avrebbe avuto il merito di mettere in luce come i sei elementi di macro-opposizione semantiche su cui si regge, e cioè quella fra uomo e natura, fra maschile e femminile, fra dei e mortali, fratelli e sorelle31, non 29 Questa etichetta risale a un saggio di Hester, del 1972 dal titolo Sophocles, the unphilosophical, il quale si domanda secondo quale criterio storico – filologico il personaggio di Antigone possa essere pensato da Sofocle come al di sopra dell’epoca, indipendente da codici culturali del tempo, fermi, osservanti della legge della polis: “a plot of this kind would, doubtless, satisfy the moral sense, but it would inspire neither pity nor fear; for pity is aroused by unmerited misfortune, fear by the misfortune of a man like ourselves.” D. A. Hester, Sophocles the unphilosophical, a study on the Antigone, Brill, Leiden 1971, p. 11. 30 A. Rodighiero, La parola, la morte, l’eroe, aspetti della poetica sofoclea, Imprimitur, Padova 2000. 31 Sull’interpretazione hegeliana dell’Antigone, negli ultimi anni, è stato scritto molto. Riporto qui alcuni dei principali riferimenti bibliografici: Sulla natura esemplare dell’Antigone e su validità e limiti dell’interpretazione hegeliana si veda anche Houlgate: Hegel’s Theory of Tragedy in Hegel and the Arts a cura di
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siano delle differenze omogenee, nette e impenetrabili, ma sono al contrario frammentate al loro interno, e contaminate dai loro opposti. Questo a nostro avviso è un punto molto importante dell’interpretazione di Hegel: egli aveva già intuito che i principi di famiglia e stato, maschile e femminile, uomo e natura sono in realtà interconnessi, inseparabili e l’uno il rovescio contraddittorio dell’altro: Ciascuno vede il diritto solamente dalla propria parte e il torto dall’altra, ora le due coscienze, quella che appartiene alla legge divina scorge nell’altro lato un agire violento, accidentale e umano; invece, quella che sta dalla parte della legge umana scorge nell’altro lato l’ostinazione e la disobbedienza dell’essere-per-sé dell’interiorità.32
Tralasciando, in questa sede, il nesso fra la presente citazione e la complessa interpretazione figurale che Hegel fa del personaggio di Antigone, appare chiaro che, al contrario della visione ortodossa, questo aspetto dell’interpretazione giustifica hegeliana il fatto drammaturgico, verificabile puntualmente sul piano testuale, che non solo Creonte è soggetto al rovesciamento, ma entrambi i due personaggi devono riconoscere un torto e finiscono in un rovesciamento del loro fato ed entrambi devono riconoscere la loro haS. Houlgate, Northwestern University Press, Evanston, IL, 2007. L’interpretazione hegeliana dell’Antigone è stata inoltre oggetto di molte letture femministe e di studi di genere. Per un bilancio generale e ulteriori rimandi bibliografici su Hegel e Antigone si vedano anche F. Iannelli, Oltre Antigone. Figure della soggettività nella Fenomenologia dello spirito di G.W.F. Hegel, Roma Carocci, 2006 e C. Ferrini, La dialettica di eticità e linguaggio in Hegel interprete dell’eroicità di Antigone, in Antichi e nuovi dialoghi di sapienti ed eroi. Etica, linguaggio, dialettica fra tragedia greca e filosofia, a cura di L. M. Napolitano, Valditara, EUT, Trieste 2002. 32 G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, Einaudi, Torino 2006, p. 308.
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martia33. Ora, il punto messo in luce dai due studiosi, che risulta cruciale per il nostro percorso, è che a Hegel essenzialmente sfuggirebbe come sia che è l’azione ad essere intrinsecamente oggetto di un miasma: cioè, per l’appunto, una contaminazione implicita che, all’interno della tragedia, significherebbe l’attraversamento indebito di una soglia simbolica invisibile, eppure culturalmente connotata. L’intuizione di Hegel per cui le opposizioni semantiche su cui si definisce la tragedia sarebbero labili e reversibili, secondo questa lettura, sarebbe importante proprio perché è dall’oltrepassare una soglia culturale all’altra che nascerebbe il tragico. Molte azioni, nel dramma greco in generale, hanno lo scopo di contenere l’ambiguità, ovvero la problematicità scaturita da una singola azione, ad esempio la prescrizione che Polinice debba rimanere insepolto. L’ambivalenza fra le opposizioni semantiche su cui si basa la tragedia indica come, in un mondo in cui le soglie simboliche sono invisibili e non sono chiaramente connotate, ogni azione si rovesci esattamente nel suo contrario, proprio perché il vero oggetto della tragedia non è lo scontro fra il personaggio di Antigone e quello di Creonte – quantomeno non in un sen33 Commenta Francesco Campana: “In questa situazione, Antigone diviene colpevole non tanto perché commette un affronto nei confronti del potere della polis, ma per il fatto stesso di agire e produrre, tramite la propria azione, una frattura all’interno della totalità armonica della bella eticità. È il suo stesso agire, prima ancora di dare luogo a una tragedia, ad essere intrinsecamente tragico. La condizione per cui “questo singolo vale solamente in quanto ombra priva di realtà effettiva”, in cui Antigone si trova prima di seppellire il fratello come componente del nucleo familiare e privato, si trasforma, attraverso la stessa azione, nell’affermazione di una soggettività presente nella realtà.” F. Campana, Ironia di Antigone nella lettura di Hegel in La concezione hegeliana dell’ironia e il corso berlinese del 1828-29, “Studi di estetica”, 16, 2020, pp. 129-145.
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so psicologistico moderno – piuttosto è rappresentare il cosmo tragico come un universo in squilibrio che deve essere equilibrato. Nessuno dei due lati di questo universo ambiguo, rappresentato da un sistema semantico oppositivo, deve, quindi, prevalere. E così ci avviciniamo al senso della nostra tesi di fondo: mentre il tema della tragedia precedente era Edipo, il mito a lui legato e rappresentato dalla sua figura, nell’Antigone, il tema è il mito letto come questo insieme di opposizioni fondamentali. In un universo intrinsecamente impersonale, dove contano le forze incarnate dai personaggi piuttosto che la loro individualità, dove non ci può essere un’opposizione fondamentale tra la natura pur individuale di un personaggio, i valori che esso incarna e le forze trascendenti che la spingono, quel che conta non è la quantità dei rovesciamenti in atto: vale a dire se sia uno, che occupa il centro della scena, come in Edipo o due come nell’Antigone. Non sembra un caso che il Coro dei dignitari Tebani, personaggio collettivo il cui senso tragico consisterebbe per l’appunto nel tentativo di tenere insieme ciò che è inevitabilmente ambiguo e scisso, nel primo stasimo declini simili opposizioni semantiche: ΧΟΡΟΣ ΧΟ. πολλὰ τὰ δεινὰ κοὐδὲν ἀν- θρώπου δεινότερον πέλει· τοῦτο καὶ πολιοῦ πέραν πόντου χειμερίῳ νότῳ χωρεῖ, περιβρυχίοισιν περῶν ὑπ᾽ οἴδμασιν, θεῶν τε τὰν ὑπερτάταν, Γᾶν ἄφθιτον, ἀκαμάταν ἀποτρύεται, ἰλλομένων ἀρότρων ἔτος εἰς ἔτος ἱππείῳ γένει πολεύων.
Coro Molti sono i tabù e nulla più dell’essere umano è tabù. È lui che il mucido attraverso mare nell’invernale vento s’insinua, fin dentro il muggito delle onde, e degli dèi la suprema, quella Terra che non muore e non manca, miete, con gli aratri che la rivoltano d’anno in anno, grazie alle mule.
κουφονόων τε φῦλον ὀρ- νίθων ἀμφιβαλὼν ἄγει καὶ θηρῶν ἀγρίων ἔθνη πόντου τ᾽ εἰναλίαν φύσιν σπείραισι δικτυοκλώστοις
La specie degli uccelli testa vuota cattura, le schiere di bestie selvagge, le forme viventi del mare tra maglie di reti annodate
102 περιφραδὴς ἀνήρ· κρατεῖ δὲ μηχαναῖς ἀγραύλου θηρὸς ὀρεσσιβάτα, λασιαύχενά θ᾽ ἵππον ὑπαγάγετ’ ἀμφίλοφον ζυγὸν οὔρειόν τ᾽ ἀκμῆτα ταῦρον. καὶ φθέγμα καὶ ἀνεμόεν φρόνημα καὶ ἀστυνόμους ὀργὰς ἐδιδάξατο, καὶ δυσαύλων πάγων ὑπαίθρεια καὶ δύσομβρα φεύγειν βέλη παντοπόρος· ἄπορος ἐπ᾽ οὐδὲν ἔρχεται τὸ μέλλον· Ἅιδα μόνον φεῦξιν οὐκ ἐπάξεται, νόσων δ᾽ ἀμηχάνων φυγὰς ξυμπέφρασται. σοφόν τι τὸ μηχανόεν τέχνας ὑπὲρ ἐλπίδ᾽ ἔχων τοτὲ μὲν κακόν, ἄλλοτ᾽ ἐπ᾽ ἐσθλὸν ἕρπει, νόμους γεραίρων χθονὸς θεῶν τ᾽ ἔνορκον δίκαν, ὑψίπολις· ἄπολις ὅτῳ τὸ μὴ καλὸν ξύνεστι τόλμας χάριν. μήτ᾽ ἐμοὶ παρέστιος γένοιτο μήτ᾽ ἴσον φρονῶν ὃς τάδ᾽ ἔρδει. ἐς δαιμόνιον τέρας ἀμφινοῶ τόδε· πῶς εἰδὼς ἀντιλογήσω τήνδ᾽ οὐκ εἶναι παῖδ᾽ Ἀντιγόνην. ὦ δύστηνος καὶ δυστήνου πατρὸς Οἰδιπόδα, τί ποτ᾽; οὐ δή που σέ γ᾽ ἀπιστοῦσαν τοῖς βασιλείοισιν ἄγουσι νόμοις καὶ ἐν ἀφροσύνῃ καθελόντες;34
La nascita del dramma moderno l’uomo pensante; doma con nodi le bestie dei campi e dei monti e la crinïera del collo del cavallo lega e il toro dei monti instancabile. Parola e raffica di vento del volere ed impulso a darsi regole s’insegnò, e dei geli inospitali l’aria aperta e piogge sferzanti a scampare, geniale; bestiale non muove verso il futuro; Morte solo non scamperà: ma di mali indesiderabili rimedi apprestò. Con un formidabile meccanismo d’invenzione, oltre ogni attesa, ora al male, ora al bene striscia. Quando le regole rispetta della città e la giustizia giurata ai cieli, riverito; bandito chi il male fa per arroganza. Non mi si accosti a tavola né condivida volontà chi compie queste azioni.
Mi chiedo se sia inganno del demonio: come, se la riconosco, dirò che quella ragazzina non è Antigone? O sventurata e di uno sventurato padre, Edipo, che c’è? Non te che trasgredisci le regole dei re portano qui, sorpresa al colmo dell’oscenità?35
34 Soph. Ant. 332-383. Il testo greco e la traduzione sono tratti da Sofocle, Antigone, a cura di G. Greco, Feltrinelli, Milano 2013. In questo caso la traduzione è stata condotta – al netto di poche divergenze – sul testo stabilito da Sophocles, Antigones, a cura di M. Griffith, Cambridge University Press, Cambridge 1999. 35 Ivi, p. 267.
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A leggerlo con attenzione questo stasimo presenta in sé il senso perfetto della tragedia, ovvero il seguente: il mondo della physis e il mondo umano sono due forze dotate di ambiguità e minacciosità, nei termini che abbiamo chiarito sopra. Nella protrazione culturale compiuta dal mondo greco verso il mito, questi due universi devono rimanere separati o, ancor meglio, la linea di demarcazione fra essi deve essere sempre tracciata, proprio perché il fine posto dal genere è quello di riequilibrare lo squilibrio indotto da un azione. Si rammenti l’analisi dei pun dell’Edipo; osserviamo ora che i giochi di parole che ci segnalano la natura ontologicamente ambigua di queste due forze: Per esempio la forza dell’uomo, nota Kamerbeek36, è affidata al gioco etimologico fra il participio Peran che sta letteralmente attraversare il mare, e il termine onde (paron) nel muoversi in circolo (chorei): è un continuo spostarsi. Ma il gioco linguistico in questo stasimo non risparmia del resto neanche il mare, esso è, in questi versi, è sia pontos che poros: in questo senso, per decifrare tale tipo di ambiguità della forza naturale del mare è stato rievocato un passo di Jean Pierre Vernant e Marcel Detienne nel loro saggio sul concetto di metis: Le poros, c’est le trajet, le passage à travers […]; à côté d’une divinité de la mer, il exprime le passage d’une étendue marine chaotique à un espace qualifié et ordonné […] s’applique aussi par opposition à la surface de l’eau, au fond de la mer, vu comme un gouffre, laitma, […] Pontos est cet abysson pelagos, cet abîme marin qu’il n’est pas facile de traverser […] Toute navigation en haute mer, en tant que franchissement du pontos, est […] un poros qu’il faut ouvrir et tracer sans cesse sur l’étendue liquide comme si jamais 36 J. C. Kamerbeek, Plays of Sophocles, commentaries 3: Antigone. Brill academic, Leiden 1997, p. 34.
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encore il n’avait été frayé; […] Qualifié d’apeiron, pontos trouve sa contrepartie dans poros, puissance cosmogonique […] et le passage ouvert dans un point d’eau, la route, le chemin que le navigateur doit s’ouvrir dans le pontos […].37
Sembra che incrociare la lettura di questo brano con quella del primo stasimo sia particolarmente fecondo: è proprio sulla sfumatura semantica del poros come tragitto attraversabile e il pontos (l’alto mare), che il poeta affida il senso dell’ambiguità che il cosmo tragico intravede nelle crudeli forze della natura. L’immagine è particolarmente felice perché l’ambiguità delle forze naturali in essa si riferisce al concetto di misura, limite, o, se si vuole, perimetrabilità dell’azione drammaturgica: finché è poros il mare è navigabile e la natura sta al suo posto, agitandosi la forza della natura sconfina dalla sfera semantica cui è relegata per giungere in quella in cui essa è collegata, e cioè quella dell’uomo e lo fa come forza indomabile, come pontos, oscuro mare aperto, crudele e minaccioso: che ondeggia indomabile al di fuori della portata dominatrice dell’uomo. Si noti, a questo punto, la sottigliezza della questione: il mare è poros e non pontos perché è l’uomo a renderlo tale; viceversa la forza dell’uomo rivela la propria ambiguità quando lede il mondo naturale, lo profana nella sua più intima essenza. Siamo di fronte a due facce di un’unica medaglia: in un universo interconnesso in cui due forze sono minacciose l’una per l’altra e possono riequilibrarsi a vicenda reciprocamente, con il rischio di sconfinare dalla propria misura, di essere miasma, cioè un’impurità: una violenza profanatrice l’una per l’altra. Come ha scritto Robert Parker, nel suo monumentale saggio sul concetto di miasma:
37 M. Detienne, J.P. Vernant, Les ruses de l’intelligence chez le grecs, Flammarion, Lausanne 2011, pp. 153-157.
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Il tratto distintivo del “taboo” pertiene al fatto che si associa il sacro e l’impuro in una sola categoria, quella del proibito […] La spiegazione di questa ambiguità non risiede nell’incapacità di differenziare il sacro dall’impuro, ma piuttosto dall’eventualità di una consacrazione di questo tipo abbia con sé una sfumatura di tipo punitivo. Il fatto di essere intoccabile – e di qui il miasma.38
Leggere queste parole alla luce del primo stasimo ci aiuta a comprendere il senso stesso dell’Antigone, l’articolazione drammaturgica del suo senso tragico. Una simile reversibilità fra sacro e profano, o se si vuole, fra addomesticato e selvaggio – laddove l’addomesticato è tale perché è al suo posto e l’addomesticante rischia di essere minaccioso con il semplice gesto civilizzatore – è l’essenza stessa dell’ambiguità. Nell’universo ambiguo fatto di semiosfere interconnesse non c’è elevazione gerarchica per alcun personaggio, perché non c’è orientamento semantico: qualunque elemento può rivelarsi tragicamente impuro in quanto sacro e viceversa. Ciò che risulta buono e positivo nell’universo in cui culture diverse si collegano, proprio per questi motivi, può risultare drammaticamente violento per la stessa ragione. A mio giudizio è dunque nel senso di Parker che, giustamente, il traduttore di questa versione dell’Antigone decide di rendere il famosissimo deinòs non come “tremendo”, bensì con il termine “tabù”, indicando con ciò qualcosa che, proprio perché ha in sé del mirabile, è perché è stato impuro. O può potenzialmente esserlo nel varcare, da un momento all’altro, quella soglia invisibile di cui abbiamo detto. Con la premessa dello sguardo lirico rilevato dalla lettura del primo stasimo, osserviamo come 38 R. Parker, Miasma, Souillure et purification dans la religion Grecque archaique et classique, tr. it. mia, Les belles lettres, Paris 2019, p. 44.
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l’ambiguità sia già presente nei primi discorsi dei due personaggi principali: ΚΡΕΩΝ ἄνδρες, τὰ μὲν δὴ πόλεος ἀσφαλῶς θεοὶ πολλῷ σάλῳ σείσαντες ὤρθωσαν πάλιν· ὑμᾶς δ᾽ ἐγὼ πομποῖσιν ἐκ πάντων δίχα ἔστειλ᾽ ἱκέσθαι, τοῦτο μὲν τὰ Λαΐουσέβοντας εἰδὼς εὖ θρόνων ἀεὶ κράτη, τοῦτ᾽ αὖθις ἡνίκ᾽ Οἰδίπους ὤρθου πόλιν, κἀπεὶ διώλετ᾽ ἀμφὶ τοὺς κείνων ἔτι παῖδας μένοντας ἐμπέδοις
CREONTE Uomini, le sorti della città forte Cieli, che tempestarono, hanno corretto. Voi io con guardïe da tutti in disparte chiamai che veniste, di questo, di Laio rispettando, ben conscio, i poteri regi, come quando Edipo correggeva Tebe, come dopo che morì con quelli ancora di loro rimasti figli non mutaste.
φρονήμασιν. ὅτ᾽ οὖν ἐκεῖνοι πρὸς διπλῆς μοίρας μίαν καθ᾽ ἡμέραν ὤλοντο παίσαν πληγέντες αὐτόχειρι σὺν μιάσματι, ἐγὼ κράτη δὴ πάντα καὶ θρόνους ἔχω γένους κατ᾽ ἀγχιστεῖα τῶν ὀλωλότων. ἀμήχανον δὲ παντὸς ἀνδρὸς ἐκμαθεῖν ψυχήν τε καὶ φρόνημα καὶ γνώμην, πρὶν ἂν ἀρχαῖς τε καὶ νόμοισιν ἐντριβὴς φανῇ. ἐμοὶ γὰρ ὅστις πᾶσαν εὐθύνων πόλιν μὴ τῶν ἀρίστων ἅπτεται βουλευμάτων ἀλλ᾽ ἐκ φόβου του γλῶσσαν ἐγκλῄσας ἔχει κάκιστος εἶναι νῦν τε καὶ πάλα καὶ μεῖζον ὅστις ἀντὶ τῆς αὑτοῦ πάτρας φίλον νομίζει, τοῦτον οὐδαμοῦ λέγω. ἐγὼ γάρ, ἴστω Ζεὺς ὁ πάνθ᾽ ὁρῶν ἀεί, οὔτ᾽ ἂν σιωπήσαιμι τὴν ἄτην ὁρῶν στείχουσαν ἀστοῖς ἀντὶ τῆς σωτηρίας, οὔτ᾽ ἂν φίλον ποτ᾽ ἄνδρα δυσμενῆ χθονὸς θείμην ἐμαυτῷ, τοῦτο γιγνώσκων ὅτι ἥδ᾽ ἐστὶν ἡ σῴζουσα, καὶ ταύτης ἔπι πλέοντες ὀρθῆς τοὺς φίλους ποιούμεθα
Quando quelli per un destino gemello in un giorno solo morirono colpiti e piagati da peste autolesionista. Io il potere tutto ed il trono possiedo per prossimità di parentela ai morti. Non c’è desiderio d’ogni uomo a indagare respiro e volere e credo prima che a comandi e a regole rotto si mostri. A me chi l’intera reggendo città le migliori non persegue decisioni ma di paura di un altro la lingua ha stretta, pessimo ora come in passato mi pare; e migliore chi invece della sua patria. l’amico ritiene, lo dico da nulla. Io, lo sappia il Cielo che tutto vede sempre, né mi starei zitto ossessione nel vedere che incombe sui nostri e non sicurezza, né amico mai un uomo nemico alla patria. considererei, questo sapendo che è questa che dà sicurezza e su questa con rotta corretta amici ci facciamo.39
I due interpreti a questo punto ci dicono che questo monologo di Creonte deve essere letto come un tentativo di prevenire l’ambiguità40. È il passaggio fondamentale in cui il signore legislatore mette in gioco delle scelte rituali, lega39 Ivi, 162-190, p. 289. 40 Oudemans, Th, Lardinois P.H., cit., p. 212.
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te alla nozione di miasma. È evidente da questo passo che Creonte è preoccupato che l’azione di seppellire il genero possa causare una contaminazione. Una interpretazione moderna e superficiale della tragedia potrebbe portarci a leggere il gesto del re come qualcosa di vagamente analogo ad un concetto – solo metaforico – di purghe cui ogni vincitore sottopone il vinto alla fine dei conflitti. Il problema del re è, più che altro, quindi, evitare che il sepoltura del congiunto possa portare con sé la maledizione dei vinti, proprio in quanto congiunti: è insomma un gesto esorcistico, potremmo dire con una certa approssimazione, protettivo della città: seppellire il cognato sarebbe un gesto che condurrebbe ad una irrimediabile contaminazione di Tebe; in altri termini in questo monologo di Creonte non c’è risentimento, così come altre forme di lettura psicologistiche sarebbero fuorvianti. C’è solo l’idea che in un cosmo interconnesso, in cui è impossibile separare le azioni dal loro significato profondo; è impossibile ristabilire delle soglie simboliche, dei limiti culturali, giacché in un universo privo di assiologie semantiche, tutto rischia costantemente di mescolarsi e ciascuno rischia di di unire ciò che non dovrebbe essere unito. Soph. Ant. 1-10
108 ΑΝΤΙΓΟΝΗ ὦ κοινὸν αὐτάδελφον Ἰσμήνης κάρα, ἆρ᾽ οἶσθ᾽ ὅ τι Ζεὺς τῶν ἀπ᾽ Οἰδίπου κακῶν ὁποῖον οὐχὶ νῷν ἔτι ζώσαιν τελεῖ; οὐδὲν γὰρ οὔτ᾽ ἀλγεινὸν οὔτ᾽ ἀτήριον οὔτ᾽ αἰσχρὸν οὔτ᾽ ἄτιμόν ἐσθ᾽, ὁποῖον οὐ τῶν σῶν τε κἀμῶν οὐκ ὄπωπ᾽ ἐγὼ κακῶν. καὶ νῦν τί τοῦτ᾽ αὖ φασι πανδήμῳ πόλει κήρυγμα θεῖναι τὸν στρατηγὸν ἀρτίως; ἔχεις τι κεἰσήκουσας; ἤ σε λανθάνει πρὸς τοὺς φίλους στείχοντα τῶν ἐχθρῶν κακά; […]
La nascita del dramma moderno ANTIGONE O volto d’Ismene che è il mïo, lo stesso del fratello, sai il Cielo quale dei mali d’Edipo su noi ancora vive non chiuda? Nulla c’è, né dolore né ossessione né vergogna né disprezzo, proprio nulla che dei tuoi e miei non abbia io visto di mali. E ora cos’è che dicono che il signor generale ha imposto un bando alla città? Hai sentito qualcosa? O non ti sei accorta che su chi amiamo incombe chi ci è nemico? […]
Non è un caso che il discorso di Antigone, che più o meno simmetricamente si contrappone a quello di Creonte, ha la stessa funzione “contenitiva” di quella di suo zio:
ΑΝΤΙΓΟΝΗ
ANTIGONE
La tragedia antica: una totalità etica compiuta?109 οὐ γὰρ τάφου νῷν τὼ κασιγνήτω Κρέων τὸν μὲν προτίσας, τὸν δ᾽ ἀτιμάσας ἔχει; Ἐτεοκλέα μέν, ὡς λέγουσι, σὺν δίκῃ χρῆσθαι δικαιῶν τῷ νόμῳ κατὰ χθονὸς ἔκρυψε, τοῖς ἔνερθεν ἔντιμον νεκροῖς· τὸν δ᾽ ἀθλίως θανόντα Πολυνείκους νέκυν ἀστοῖσί φασιν ἐκκεκηρῦχθαι τὸ μὴ τάφῳ καλύψαι μηδὲ κωκῦσαί τινα, ἐᾶν δ᾽ ἄκλαυτον, ἄταφον, οἰωνοῖς γλυκὺν θησαυρὸν εἰσορῶσι πρὸς χάριν βορᾶς. τοιαῦτά φασι τὸν ἀγαθὸν Κρέοντα σοὶ – κἀμοί, λέγω γὰρ κἀμέ – κηρύξαντ᾽ ἔχειν, καὶ δεῦρο νεῖσθαι ταῦτα τοῖσι μὴ εἰδόσιν σαφῆ προκηρύξοντα, καὶ τὸ πρᾶγμ᾽ ἄγειν οὐχ ὡς παρ᾽ οὐδέν, ἀλλ᾽ ὃς ἂν τούτων τι δρᾷ φόνον προκεῖσθαι δημόλευστον ἐν πόλει. οὕτως ἔχει σοι ταῦτα, καὶ δείξεις τάχα εἴτ᾽ εὐγενὴς πέφυκας εἴτ᾽ ἐσθλῶν κακή.
Non di tomba, dei due fratelli, Creonte ha degnato l’uno ed ha l’altro sdegnato? Eteocle, a quel che dicono, la giustizia giusta e la legge seguendo sotto terra lo nascose, un onore agli occhi dei morti; ma il miseramente ammazzato cadavere di Polinice ai cittadini si dice con bando di non seppellirlo né piangerlo, lasciarlo non pianto, non sepolto, ghiotta riserva agli uccelli che puntano preda. Queste cose, dicono, il buonista, Creonte, a te ed a me, dico a me, abbia decretato e viene qui per quelli che non le sanno a ridirle chiare, e non la pensa roba da niente, ma chi fa una sola di queste, sia ucciso davanti a tutti a colpi di pietra. Così stanno i fatti, e presto mostrerai se sei di tuo padre o figlia bastarda41
L’emotività del passaggio non ci deve distrarre da alcuni elementi linguistici che ci segnalano la presenza della preoccupazione per il contenimento dell’ambiguità. Come notano Oudemans e Lardinois, questo dialogo è già pregno di una condizione ambigua del dialogo fra Ismene e Antigone e poi, fra Antigone e il Coro esplicitamente e ontologicamente incerta; è un passo tratto dal dialogo con Ismene: la sorella le mostra la natura ambigua del suo comportamento, più esattamente quando le spiega che il suo atteggiamento potrebbe avere anche un significato diverso da quello che 41 Ivi, vv. 321-38, p. 290.
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lei le attribuisce; Antigone, al contrario, nel verso successivo, spiega che lei sa separare quel che va separato, e che Ismene sbaglierebbe a rimanere nella legge della città perché non è molto esplicita nel rivendicare il suo essere nel giusto. Come si vede, la simmetria è perfetta fra il dialogo tra Creonte e la guardia e il dialogo fra Ismene e Antigone. Entrambi i personaggi saranno portati, poi, a pagare questo loro convincimento con un rovesciamento. Cominciamo da quello di Antigone:
ΑΝTIGONE. ὦ τύμβος, ὦ νυμφεῖον, ὦ κατασκαφὴς οἴκησις ἀείφρουρος, οἷ πορεύομαι πρὸς τοὺς ἐμαυτῆς, ὧν ἀριθμὸν ἐν νεκροῖς πλεῖστον δέδεκται Φερσέφασσ᾽ ὀλωλότων· ὧν λοισθία ’γὼ καὶ κάκιστα δὴ μακρῷ κάτειμι, πρίν μοι μοῖραν ἐξήκειν βίου. ἐλθοῦσα μέντοι κάρτ᾽ ἐν ἐλπίσιν τρέφω φίλη μὲν ἥξειν πατρί, προσφιλὴς δὲ σοί, μῆτερ, φίλη δὲ σοί, κασίγνητον κάρα. ἐπεὶ θανόντας αὐτόχειρ ὑμᾶς ἐγὼ ἔλουσα κἀκόσμησα κἀπιτυμβίους χοὰς ἔδωκα· νῦν δέ, Πολύνεικες, τὸ
ANTIGONE Tomba, letto, casa sotterranea, eterna dove mi avvio da quelli che sono miei, di cui numero tra i cadaveri immenso ha accolto l’Amore della Morte, morti: tra loro come ultima e la più abietta scendo, prima che a me il momento arrivi. Giunta certo molto di speranze nutro amata arrivare al padre, amata molto a te, madre, e amata a te, volto di fratello. Perché morti questa mano voi io ho preso e ho lavato e sulla tomba offerte
La tragedia antica: una totalità etica compiuta?111 σὸν δέμας περιστέλλουσα τοιάδ᾽ ἄρνυμαι. καίτοι σ᾽ ἐγὼ ’τίμησα τοῖς φρονοῦσιν εὖ· οὐ γάρ ποτ᾽ οὔτ᾽ ἄν εἰ τέκνων μήτηρ ἔφυν οὔτ᾽ εἰ πόσις μοι κατθανὼν ἐτήκετο, βίᾳ πολιτῶν τόνδ᾽ ἂν ᾐρόμην πόνον. τίνος νόμου δὴ ταῦτα πρὸς χάριν λέγω; πόσις μὲν ἄν μοι κατθανόντος ἄλλος ἦν, καὶ παῖς ἀπ᾽ ἄλλου φωτός, εἰ τοῦδ᾽ ἤμπλακον· μητρὸς δ᾽ ἐν Ἅιδου καὶ πατρὸς κεκευθότοιν οὐκ ἔστ᾽ ἀδελφὸς ὅστις ἂν βλάστοι ποτέ. τοιῷδε μέντοι σ᾽ ἐκπροτιμήσασ᾽ ἐγὼ νόμῳ, Κρέοντι ταῦτ᾽ ἔδοξ᾽ ἁμαρτάνειν καὶ δεινὰ τολμᾶν, ὦ κασίγνητον κάρα. καὶ νῦν ἄγει με διὰ χερῶν οὕτω λαβὼν ἄλεκτρον, ἀνυμέναιον, οὔτε του γάμου μέρος λαχοῦσαν οὔτε παιδείου τροφῆς, ἀλλ᾽ ὧδ᾽ ἔρημος πρὸς φίλων ἡ δύσμορος ζῶσ᾽ εἰς θανόντων ἔρχομαι κατασκαφάς· ποίαν παρεξελθοῦσα δαιμόνων δίκην;
ho versato; ma ora, Polinice, che il tuo corpo ho vestito questo ne ottengo. Sì, t’ho riverito per chi ben ragiona; né mai se di figli fossi stata madre né se marito a me tra i morti marcisse, contro la città questa avrei scelto pena. Per che legge queste cose dunque dico? Morto un marito ce ne sarebbe un altro, figlio da un altro uomo, se uno ne perdessi; ma madre di Morte in casa e padre chiusi, non c’è fratello che possa mai spuntare. Per questa più d’ogni altro t’ho riverito legge, e Creonte ha deciso che sbagliavo e tabù infrangevo, volto di fratello. Ed ora mi tira così per le mani, non un letto, non canto d’imene, non di nozze il momento né di latte ai figli, lasciata così da chi amo, fuori parte, viva alle caverne dei morti m’avvio: quale ho calpestato dei Cieli giustizia42
Questo monologo è tratto dal quarto episodio ed è molto famoso è, sostanzialmente, è il momento dell’anagnorisis di Antigone; la sua celebrità deriva dal fatto che è tradizionalmente una crux filologica. Infatti, chi pensa ad una tragedia modellata su un cosmo con un ontologia chiara, e 42 Ivi, vv. 891-921, p. 11.
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dunque con valori definiti, non riesce a comprendere per quale ragione Antigone, in queste pagine, si redima. E si redima, a modo di vedere di molti ermeneuti, anche con una inusuale amarezza che stona con il suo carattere eroico. Si veda ad esempio quel che scrive, nel suo The Heroic Temper, B. W. Knox: For Antigone this surprising development is brought on suddenly by the immediate prospect of death. She made light of death before, welcomed it as a gain, claimed it as her choice but now she is face to face with it, alone. Antigone does not weaken, but her mood does change. Before Creon she defiantly proclaimed her right and principle but now, she sings her own funeral lament. […] Her Time has come, she is looking death in the face. There is no point now in explaining or defending her action to Creon […].43
Knox non sa rendersi conto di come mai un essere puro e innocente possa essersi espressa in modo così brutale nei confronti della sua progenie, quasi dimenticandosi della dimensione ideale e pura della propria ispirazione divina. Come è possibile tutto ciò? Muovendoci indietro nel tempo, potremmo arrivare almeno fino al lapidario giudizio di Goethe, che, nelle sue conversazioni con Eckermann, definisce l’opera qualcosa di “Ganz Schlecht”, che potremmo tradurre eufemisticamente con “troppo inferiore” rispetto al dettato sofocleo e all’altezza di principi professata dall’eroina44. L’incapacità di ritrovare il rovesciamento di Antigone è un caso tipico di lettura separativa che, esattamente come avviene con Edipo, separa, appunto, la psicologia di Antigone dai principi che ella professa e non tiene conto del contesto culturale del dramma in cui le semiosfere culturali dei per43 B. Knox, The heroic temper, University of California press, Berkeley 1985, p. 125. 44 J.P. Eckermann, Colloqui con Goethe, tr. it. G. V. Amoretti, Sansoni, Torino 1957, p. 797.
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sonaggi sono interconnesse e, esattamente come con l’Edipo, il personaggio si trova ad attraversare una soglia invisibile, semioticamente non marcata oppure semplicemente marcata in modo molto lieve, ad esempio con allusioni al destino del personaggio o alla natura intrinsecamente ambigua e problematica del suo agire. Chi non coglie questo passaggio, che coinvolge intimamente l’ambiguità del mito – inteso come storia o semplicemente come personaggio – non può cogliere la coerenza drammaturgica del passo, poiché la osserva con gli occhi di una cultura non sufficientemente associativa, come quella post-mitica o legata a forme di tragico moderne, di cui ci occuperemo più in là nel nostro discorso. Tenendo presente questo problema, il lettore antropologicamente e culturalmente avveduto sul contesto culturale del dramma antico può cogliere la ragione per cui Antigone dal verso 823 in poi comincia a paragonarsi a tutta una serie di figure mitiche che sono state punite per essersi alienate – in un modo o nell’altro – al mondo umano. Ad esempio, il paragone con Niobe enfatizza la metamorfosi in pietra come qualcosa di osceno in quanto lontano dal mondo umano. Niobe, infatti, condannata da Apollo a piangere in eterno nonostante la trasformazione in pietra, rappresenterebbe in tal senso secondo questi versi un qualcosa di amorfo – ambiguo e quindi in qualche misura mostruoso – proprio perché parte della natura selvaggia. Veniamo infine al rovesciamento di Creonte, e commentiamo brevemente il suo iter:
ΚΡ. ὦ πρέσβυ, πάντες ὥστε τοξόται σκοποῦ τοξεύετ᾽ ἀνδρὸς τοῦδε, κοὐδὲ μαντικῆς ἄπρακτος ὑμῖν εἰμι· τῶν δ᾽ ὑπαὶ γένους
CR. Vecchio, tutti come arcieri a bersaglio tirate a quest’uomo né dagli indovini risparmiato a voi sono: la loro razza m’ha fatto feticcio di merce da tempo. Diventate ricchi, comprate da Sardi
114 ἐξημπόλημαι κἀκπεφόρτισμαι πάλαι. κερδαίνετ᾽, ἐμπολᾶτε τἀπὸ Σάρδεων ἤλεκτρον, εἰ βούλεσθε, καὶ τὸν Ἰνδικὸν χρυσόν· τάφῳ δ᾽ ἐκεῖνον οὐχὶ κρύψετε, οὐδ᾽ εἰ θέλουσ᾽ οἱ Ζηνὸς αἰετοὶ βορὰν φέρειν νιν ἁρπάζοντες ἐς Διὸς θρόνους· οὐδ᾽ ὣς μίασμα τοῦτο μὴ τρέσας ἐγὼ θάπτειν παρήσω κεῖνον· εὖ γὰρ οἶδ᾽ ὅτι θεοὺς μιαίνειν οὔτις ἀνθρώπων σθένει. πίπτουσι δ᾽, ὦ γεραιὲ Τειρεσία, βροτῶν χοἰ πολλὰ δεινοὶ πτώματ᾽ αἴσχρ᾽, ὅταν λόγους αἰσχροὺς καλῶς λέγωσι τοῦ κέρδους χάριν. [...] ΤΕ. ἀλλ᾽ εὖ γέ τοι κάτισθι μὴ πολλοὺς ἔτι τρόχους ἁμιλλητῆρας ἡλίου τελῶν, ἐν οἷσι τῶν σῶν αὐτὸς ἐκ σπλάγχνων ἕνα νέκυν νεκρῶν ἀμοιβὸν ἀντιδοὺς ἔσῃ, ἀνθ᾽ ὧν ἔχεις μὲν τῶν ἄνω βαλὼν κάτω, ψυχήν τ᾽ ἀτίμως ἐν τάφῳ κατῴκισας, ἔχεις δὲ τῶν κάτωθεν ἐνθάδ᾽ αὖ θεῶν ἄμοιρον, ἀκτέριστον, ἀνόσιον νέκυν. ὧν οὔτε σοὶ μέτεστιν οὔτε τοῖς ἄνω θεοῖσιν, ἀλλ᾽ ἐκ σοῦ βιάζονται τάδε. τούτων σε λωβητῆρες ὑστεροφθόροι λοχῶσιν Ἅιδου καὶ θεῶν Ἐρινύες, ἐν τοῖσιν αὐτοῖς τοῖσδε ληφθῆναι κακοῖς. καὶ ταῦτ᾽ ἄθρησον εἰ κατηργυρωμένος λέγω· φανεῖ γὰρ οὐ μακροῦ χρόνου τριβὴ ἀνδρῶν γυναικῶν σοῖς δόμοις κωκύματα. ἐχθραὶ δὲ πᾶσαι συνταράσσονται πόλεις ὅσων σπαράγματ᾽ ἢ κύνες καθήγνισαν ἢ θῆρες ἤ τις πτηνὸς οἰωνός, φέρων
La nascita del dramma moderno moneta, se avete voglia, e l’oro d’India; nella tomba quello non nasconderete, neanche se volessero aquile del Cielo per pasto portarlo, preso, in paradiso Nemmeno così, per paura di peste, seppellire quello lascerò: so bene che i Cieli insozzare nessuno ha la forza. Cadono, Tiresia vecchio, fra i mortali anche i più agguerriti, vergognosamente, se discorsi turpi incipriano per soldi. TI. Ma tu allora sappi bene che non molte ancora rincorse rapide del sole finirai, prima che tu dalle tue viscere un morto di morti in cambio sarai a dare, al posto di questi su che giù hai gettato, [...] respirava e, sprezzante, in tomba l’hai accasata, e trattieni qui dei doveri profondi senza parte, senza riti, impuro un cadavere. Di questi non tocca a te e neanche a princìpi esteriori, ma anzi fai loro violenza. Proprio perciò te esiziali, senza fretta, attendono i Morsi della Morte, vindici, perché negli stessi ti colgano mali. E giudica ciò, se per brama di soldi dico: si vedrà, sciupio di poco tempo, di femmine e maschi in casa tua frignare. Per l’odio in subbuglio sono le città, di quante i brandelli o cani onorarono o bestie o un uccello alato, che trasporta impuro fetore nelle case in città. Così a te, ché mi fai male, come arciere ho tirato d’ira dritte al cuore frecce appuntite, il cui assillo non fuggirai. Ragazzo, tu portami a casa, perché la rabbia costui su più giovani sfoghi e sappia nutrire una lingua più calma e un controllo più forte dei nervi di ora.
La tragedia antica: una totalità etica compiuta?115 ἀνόσιον ὀσμὴν ἑστιοῦχον ἐς πόλιν. τοιαῦτά σοι, λυπεῖς γάρ, ὥστε τοξότης ἀφῆκα θυμῷ καρδίας τοξεύματα βέβαια, τῶν σὺ θάλπος οὐχ ὑπεκδραμῇ. ὦ παῖ, σὺ δ᾽ ἡμᾶς ἄπαγε πρὸς δόμους, ἵνα τὸν θυμὸν οὗτος ἐς νεωτέρους ἀφῇ, καὶ γνῷ τρέφειν τὴν γλῶσσαν ἡσυχαιτέραν τὸν νοῦν τ᾽ ἀμείνω τῶν φρενῶν ὧν νῦν φέρει ΧΟ. ἁνήρ, ἄναξ, βέβηκε δεινὰ θεσπίσας. ἐπιστάμεσθα δ᾽, ἐξ ὅτου λευκὴν ἐγὼ τήνδ᾽ ἐκ μελαίνης ἀμφιβάλλομαι τρίχα, μή πώ ποτ᾽ αὐτὸν ψεῦδος ἐς πόλιν λακεῖν. ΚΡ. ἔ γνωκα καὐτὸς καὶ ταράσσομαι φρένας· τό τ᾽ εἰκαθεῖν γὰρ δεινόν, ἀντιστάντα δὲ Ἄτῃ πατάξαι θυμὸν ἐν δεινῷ πάρα. ΧΟ. ε ὐβουλίαν δεῖ, παῖ Μενοικέως, λαβεῖν. ΚΡ. τί δῆτα χρὴ δρᾶν; φράζε· πείσομαι δ᾽ ἐγώ. ΧΟ. ἐλθὼν κόρην μὲν ἐκ κατώρυχος στέγης ἄνες, κτίσον δὲ τῷ προκειμένῳ τάφον. ΚΡ. κ αὶ ταῦτ᾽ ἐπαινεῖς καὶ δοκεῖς παρεικαθεῖν; ΧΟ. ὅσον γ᾽, ἄναξ, τάχιστα· συντέμνουσι γὰρ θεῶν ποδώκεις τοὺς κακόφρονας Βλάβαι. ΚΡ. ο ἴμοι· μόλις μέν, καρδίας δ᾽ ἐξίσταμαι τὸ δρᾶν· ἀνάγκῃ δ᾽ οὐχὶ δυσμαχητέον. ΧΟ. δ ρᾶ νυν τάδ᾽ ἐλθὼν μηδ᾽ ἐπ᾽ ἄλλοισιν τρέπε.
45 Ivi, vv. 1033-1114, pp. 82-84.
CO. Signore, se n’è andato urlando terribile. Sappiamo da che bianchi questi io da neri che erano porto capelli, non una volta mai bugia abbia detto alla città. CR. Lo so da me e ne sento sconvolti i nervi: cedere è tremendo, però che resiste alla rovina ira tirare lo è più. CO. Buon volere ci vuole, figlio di Meneceo. CR. Che bisogna fare? Di’: ti obbedirò. CO. Va’ dalla ragazza, dalla grotta casa falla uscire e fa’ al lasciato esposto tomba. CR. Questo approvi e credi opportuno cedere? CO. Signore, al più presto; s’abbattono infatti dai cieli veloci sui malvagi i Morsi. CR. Ahi, a stento certo, ma il cuore mutare devo: all’inevitabile è vano opporsi. CO. Fallo mentre vai e ad altri non lasciarlo. CR. Come posso io vada: andate, andate, servi, presenti ed assenti, le asce nelle mani, muovetevi al luogo che si vede là. Ed io, dopoché l’idea su lei è girata, io l’ho imprigionata, io la libererò. Temo che le regole prestabilite meglio sia salvandole finir la vita .45
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ΚΡ. ὧδ᾽ ὡς ἔχω στείχοιμ᾽ ἄν· ἴτ᾽ ἴτ᾽ ὀπάονες, οἵ τ᾽ ὄντες οἵ τ᾽ ἀπόντες, ἀξίνας χεροῖν ὁρμᾶσθ᾽ ἑλόντες εἰς ἐπόψιον τόπον. ἐγὼ δ᾽, ἐπειδὴ δόξα τῇδ᾽ ἐπεστράφη, αὐτός τ᾽ ἔδησα καὶ παρὼν ἐκλύσομαι. δέδοικα γὰρ μὴ τοὺς καθεστῶτας νόμους ἄριστον ᾖ σῴζοντα τὸν βίον τελεῖν.
La polisemia dei termini descritti nel primo stasimo, frutto del potere di uomo e natura sarebbe, secondo questa interpretazione, definitivamente riequilibrata quando entrambi i principi vengono contenuti nella loro oscenità fondamentale, in reazione al loro oltrepassare il limite. È per questo che i due autori, nel leggere la tragedia pongono l’accento, ad esempio, sull’imagery degli uccelli evocati nel dialogo con Tiresia. Questi uccelli, che precedentemente avevano assunto l’immagine di Polinice, incarnerebbero il mondo naturale che perseguita la tirannia dell’umano. La forma di questa agnorisis è abbastanza simile, e sicuramente più riconoscibile rispetto al caso di Antigone. Al verso 1325, risulta chiaro il senso di questo rovesciamento: con un paradosso chiasticamente simmetrico a quello di Antigone, l’aver dominato la legge degli uomini ha spinto Creonte al di fuori di questa stessa legge; tale è il mathos che deve essere tratto dalla vicenda. Il rovesciamento comincia con Tiresia che protesta l’ambiguità delle pratiche rituali messe in atto da Creonte. Gli uccelli nominati da Tiresia assumono dunque la forma di quella soglia simbolica culturalmente denotata che espone il re al paradosso per cui, per contenere l’ambiguità del mondo naturale, si produce nella minacciosa ambiguità della hybris umana46. 46 Th. Oudemans, A. Lardinois, Tragic Ambiguity, cit., p.193. Ma, precedentemente, anche B. Knox, op. cit., p. 68, ed anche R.
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Prima di trarre le conclusioni su quanto detto a proposito dell’Antigone, occorre un’ulteriore, fondamentale, precisazione. Se è vero che Hegel comprende la natura concatenata e interconnessa delle colpe dei due protagonisti, tuttavia anche il filosofo tedesco, come già Aristotele nell’interpretare l’hamartema edipico, commette un errore di tipo separativo, Hegel infatti interpreta il Coro di questa tragedia in termini di giustizia poetica, dando a questa funzione drammaturgica un valore armonizzante, trasformando il doppio rovesciamento da lui correttamente individuato, in una riflessione ideologica su quella che egli – come abbiamo visto nell’introduzione – chiama la bella eticità immota47. Una lettura del quinto stasimo di questa tragedia, inno a Dioniso, contraddice questo errore separativo in modo definitivo:
COROS πολυώνυμε, Καδμείας ἄγαλμα νύμφας καὶ Διὸς βαρυβρεμέτα γένος, κλυτὰν ὃς ἀμφέπεις Ἰταλίαν, μέδεις δὲ παγκοίνοις, Ἐλευσινίας Δῃοῦς ἐν κόλποις, Βακχεῦ Βακχᾶν ὁ ματρόπολιν Θήβαν ναιετῶν παρ᾽ ὑγρῶν Ἰσμηνοῦ ῥείθρων ἀγρίου τ᾽ ἐπὶ σπορᾷ
CORO Quanti nomi hai, tu vanto della figlia di Cadmo e stirpe di Zeus che pesante tuona che la famosa custodisci Italia e regni sulle sconfinate di Demetra eleusina vallate, o Bacco, tu che la città madre delle Menadi abiti Tebe presso le correnti umide dell’Ismeno ed il seme del drago.
Jebb, op. cit., p. 237. Entrambi questi predecessori descrivono il rovesciamento in questi termini, ma assimilano essenzialmente Creonte ad Edipo non cogliendo così il senso globale della tragedia che, in quanto spettacolo e rito collettivo descrivente l’ambiguità dell’universo tragico, ha in sé la necessità di riequibirarlo. 47 Hegel, Estetica, cit., p. 2322.
118 δράκοντος. σὲ δ᾽ ὑπὲρ διλόφου πέτρας στέροψ ὄπωπε λιγνύς, ἔνθα Κωρύκιαι στείχουσι νύμφαι Βακχίδες, Κασταλίας τε νᾶμα. καί σε Νυσαίων ὀρέων κισσήρεις ὄχθαι χλωρά τ᾽ ἀκτὰ πολυστάφυλος πέμπει, ἀμβρότων ἐπέων εὐαζόντων Θηβαΐας ἐπισκοποῦντ᾽ ἀγυιάς. τὰν ἐκ πᾶσαι τιμᾷς ὑπερτάταν πόλεων ματρὶ σὺν κεραυνίᾳ· καὶ νῦν, ὡς βιαίας ἔχεται πάνδαμος πόλις ἐπὶ νόσου, μολεῖν καθαρσίῳ ποδὶ Παρνασίαν ὑπὲρ κλιτὺν ἢ στονόεντα πορθμόν. ἰὼ πῦρ πνειόντων χοράγ᾽ ἄστρων, νυχίων φθεγμάτων ἐπίσκοπε, παῖ Διὸς γένεθλον, προφάνηθ᾽ ὦναξ, σαῖς ἅμα περιπόλοις Θυίαισιν, αἵ σε μαινόμεναι πάννυχοι χορεύουσι τὸν ταμίαν Ἴακχον.
La nascita del dramma moderno Te sulla rupe doppia il lampo vide di torce, dove di Corico vanno le Ninfe bacchiche e la fonte Castalia. Te dei monti Nisei le alture d’edera, la verde costa ricca di vigneti mandano quando detti d’ambrosia suonano l’evviva a visitar le contrade di Tebe. Lei che di tutte apprezzi al sommo le città con la madre colpita da quel fulmine; e ora che è da violenta la città tutta presa malattia, passa con piede purificatore il parnaso e lo stretto che fa gemiti. Tu degli astri che soffiano fuoco, avanguardia, di sussurri notturni custode, figlio di Zeus, appari, signore, insieme a quelle che ti attorniano Tiadi, che te pazze tutta notte danzano, il tesoro dionisiaco.48
Correttamente Hegel vede nel Coro una funzione che interpreta le determinazioni sostanziali dei personaggi e che li anticipa, definendone, in qualche modo, la traiettoria. Ma ciò è solo perché avere uno sguardo lirico in un universo semiotico interconnesso, in cui i due personaggi hanno una visione parziale degli eventi, è indubbiamente un vantaggio. Avere una visione unitaria dei fatti, avere la possibilità di descrivere un pathos unitario non significa avere una visione superiore. Come anticipato nell’introduzione, il Coro è uno dei personaggi che compartecipano nella funzione rituale del dramma, ovvero la gestione dell’ambiguità del 48 Sofocle, Antigone, vv. 1115-1152, cit, p. 112.
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mito narrato a teatro, come si evince chiaramente nel parodo, alla fine dell’opera, con un’invocazione alla doppiezza di Dioniso, dio ambiguo par excellence, per rievocare quiete sulla vicenda; isoliamone un passaggio: Te dei monti Nisei le alture d’edera,/la verde costa ricca di vigneti/ mandano quando/detti d’ambrosia/suonano l’evviva/a visitar le contrade di Tebe./Lei che di tutte apprezzi/al sommo le città/con la madre colpita da quel fulmine;/e ora che è da violenta/la città tutta presa malattia,/passa con piede purificatore/il parnaso e lo stretto che fa gemiti.
Non è un ristabilire una giustizia, una “totalità etica”, come indica chiaramente la natura patetica dell’invocazione, ma solamente una richiesta per far si che le azioni ambigue e minacciose, perché semanticamente impure malgré soi, si plachino. Quello del Coro è, dunque, semplicemente un sguardo che – esattamente nella sua dimensione lirica e dunque intimamente portata al tropo – alla connessione associativa di quel che non dovrebbe essere associato, percepisce la tragicità dell’interconnessione dei due cosmi tragici, la sfera semantica abitata da Antigone e quella abitata da Creonte. La sua tragicità intrinseca consiste nel percepire la città divisa, ovvero come un uno ciò che è un due, attraverso una sorta di sguardo impotente. Questa puntualizzazione ci permette di precisare la tesi del nostro intero studio. La tragedia moderna traccia, per così dire, una sorta di percorso alla rovescia rispetto a quello tracciato dall’Estetica: il gioco linguistico dello scontro fra i caratteri, nella tragedia moderna rappresenterà sempre una totalità etica mancata proprio perché l’afflato della forma tragica da cui deriva non aveva, intrinsecamente, il senso di questa eticità ma, al contrario, quello di una sorta di cieca desolazione. Alla luce di questi punti di analisi di Edipo e Antigone, e se accettiamo l’interpretazione che di quest’opera dànno Oudemans e Lardinois, qui riassunta, possiamo infine spie-
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gare il senso dell’ambivalenza fra il modello tragico hegeliano e quello aristotelico, ravvisabile, essenzialmente, nel seguente schema:
A dispetto della quantità dei protagonisti e valori trattati, come si vede, entrambe le tragedie mettono in mostra qual è il fine pragmatico e strutturale, a livello profondo, della forma tragica antica, per cui i valori e i destini dei personaggi sono semioticamente interconnessi, tra di loro e con lo sguardo lirico del Coro, a causa dell’ambivalenza strutturale fra significati e referenti, propria del pensiero mitico e del suo rapporto con l’universo tragico, come codificato da Vernant e Vidal negli anni ’70. Non si tratta qui, chiaramente, di
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ricadere nell’annosa e ben nota Charakterfrage49 che si è concentrata nel dibattito su lla facoltà o meno dei personaggi di essere rappresentati secondo criteri psicologici precisi e realistici, più o meno sfumati o articolati ovvero se ci possano essere dei personaggi più o meno preminenti e rilevanti all’interno della singola tragedia. Al contrario la questione è che, a prescindere da tutti questi aspetti culturali che ci sembrano dirimenti per definire un genere letterario nella nostra modernità, di fatto, tutti questi elementi, nella pragmatica di questo particolare genere non sono ciò che conta. è noto infatti che, a prescindere da tutti questi aspetti stilistici più o meno definiti l’uomo greco non concepirebbe l’idea di un protagonista in termini attuali; come già scriveva Vernant50, ciò che molto più probabilmente si avvicina all’idea che noi abbiamo di protagonista è la città che, in un sistema di semiosfere interconnesse come quello del dramma antico, non può che prender voce attraverso lo sguardo lirico del drammaturgo. E proprio facendo un confronto fra i Cori del49 A. Garzya Sul problema della rappresentazione della individualità nella tragedia greca. In Cuadernos De Filología Clásica. Estudios Griegos e Indoeuropeos, 15, p. 35-47, 2005. Garzya ha ricostruito con dovizia di particolari una lunga polemica che si sviluppa grosso modo a cavallo fra gli anno ’80 dell’Ottocento e gli anni ‘30 del Novecento. Possono i tragediografi antichi rappresentare l’io dei caratteri? La risposta è che possono, chiaramente, e Garzya si perita di fornire innumerevoli esempi. Mi preme sottolineare che non va confuso, tuttavia, lo statuto culturale dell’io dei personaggi e la capacità di rappresentarne finemente la psiche; sono chiaramente due campi che non hanno una reale tangenza: un conto è la visione culturale dell’io tragico e in generale psicologico che attiene alla cultura in cui si sedimenta la tragedia, e un conto è la rappresentazione di quest’ultimo; per parafrasare Kirkegaard, il carattere drammaturgico è portato a muoversi liberamente, ma al contempo rimane vincolato alle proprie determinazioni sostanziali. 50 Vidal-Naquet, J. P. Vernant, Mythe et Tragedie deux, La Découverte, Paris, p.55
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le due opere analizzate fin ora che la cosa risulta evidente: il Coro del quarto stasimo che metteva in luce l’ambivalenza del mito di Edipo per la città ha come correlativo l’ambivalenza formale fra natura e cultura, fra tecnica e mondo selvaggio fra la mano umana e lo stato brado del mondo extraumano. Da questo punto di vista, la questione centrale torna ad essere il rapporto col mito: in un mondo in quest’ultimo sta perdendo di consistenza ontologica, proponendo realtà alternative, per non dire talora opposte e contradditorie, la tragedia greca compie una funzione di temperamento e gestione dell’ambiguità in cui è precipitato l’universo della polis in un crinale cronologicamente molto lungo in cui la cultura greca stava rifondando i suoi valori razionali; il modo di interagire del Coro con i personaggi dunque risponde a questo, essenzialmente. Come anticipato a inizio capitolo, se il nostro lavoro si esaurisse alla tragedia antica, non ci sarebbe neanche necessità di sottolineare l’ambivalenza fra i due modelli linguistici della tragedia che ho proposto per descriverne l’evoluzione, sarebbe pacifica e una distinzione insensata, se non fosse, per l’appunto che è proprio questa ambivalenza fondamentale a costringerci a pensare all’evoluzione della tragedia attraverso entrambi i modelli linguistici: a ben vedere tale ambivalenza è il frutto della distanza percettiva che abbiamo nei confronti della polisemia antica. La cultura propria dell’adattamento formale e dell’evoluzione della tragedia è infatti per lo più moderna e post-cartesiana, si pensa cioè in un orizzonte in cui i nessi metonimici che collegano le semiosfere dei personaggi tragici non possono essere concepiti. C’è tuttavia un ultimo passo che dobbiamo compiere all’interno del dramma antico per comprendere come si sviluppa la forma tragica – il genere tragico, lungo la modernità, mostrando come tale genere, cosmologicamente interconnesso, si adatta al cosmo post-empirista e post-razionalista di tipo cartesiano, e riguarda la volontà del carattere.
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Sempre nell’analisi dell’Edipo abbiamo mostrato che la volontà di quest’ultimo dipende molto di più dalla semiosfera in cui abita, che non da qualcosa che egli ha interiorizzato psicologicamente: è il modo in cui si caratterizza la volontà del carattere, la sua drammatizzazione psicologica, cui dedicheremo l’ultimo paragrafo di questa ricognizione nel dramma antico. 1.4 La tragedia: il genere letterario della volontà
Fino ad ora, utilizzando la metafora delle semiosfere interconnesse, ci siamo occupati dell’aspetto meramente culturale dell’ambiguità tragica; adesso ci andremo ad occupare di un ultimo aspetto, quello della volontà del carattere. Vorrei cominciare da un fenomeno ampiamente noto agli specialisti di questo dramma, e che per la sua frequenza e la sua ovvietà, forse, non ha ricevuto la giusta attenzione da parte degli studiosi ma, come vedremo, esso ha un ruolo molto importante per l’evoluzione della tragedia lungo la modernità. Per cmeglio introdurlo, facciamo un esempio: in una visione del mondo separativa, post-platonica e postcartesiana, che si pensa al centro di una semiosfera coerente, il momento di esitazione, il momento di indecisione e di dubbio, è sempre connesso ad una causa più o meno esplicitata. In un universo interconnesso, invece, un personaggio può esitare perché vede qualcosa che non comprende, vale a dire che percepisce qualcosa di ambiguo che non è esattamente riconducibile a lui e al suo universo e che però gli si para davanti. In un passo tratto dal terzo libro Guerra e Pace, Nikolaj si trova a dover prendere la decisione su se dover inseguire un maestoso lupo nella foresta: Non, può essere! Pensò Rostov, respirando pesantemente, come respira chi veda compiersi una cosa che da tanto tempo
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aspettava. La più grande delle fortune si stava avverando, e così, semplicemente, senza né clamore né splendore, senza nulla che lo annunciasse come che sia. […] “devo lanciarli? Non devo?” si chiedeva Nikolaj mentre il lupo veniva verso di lui, allontanandosi nel bosco. All’improvviso, tutta la fisionomia del lupo mutò; trasalì, seguendo due occhi umani fissi su di lui – e con ogni probabilità non doveva averne visti mai prima d’allora. Si fermò, svolgendo leggermente il capo verso il cacciatore: che fare? Andare avanti o tornare indietro? Bah, tanto vale, andrò avanti!” parve dire a sé stesso. E si lanciò avanti, senza più guardarsi attorno, con un galoppo morbido, largo, disinvolto ma risoluto.51
In una cosmologia separativa, post-cartesiana e basata sul principio di non contraddizione le decisioni sono spesso prese tenendo in considerazione nessi razionali che sono desunti dalla coerenza del mondo di significati da noi esperito. In una cosmologia interconnessa come è quella tragica antica, invece, le decisioni rassomigliano molto a quelle prese nell’incontro fra il giovane conte Rostov e il lupo nella battuta di caccia. Uomo e animale sono presi alla sprovvista da un fenomeno di cui non possono realmente valutare le conseguenze, ovvero una differenza irriducibile al sistema della propria semiosfera eppure prossima, per l’appunto, ambigua. Nikolaj si approssima al lupo e grida “devo lanciarli o non devo?” si chiede Nikolaj e lo stesso vale per il lupo: “Andare avanti o non andare?” Questo passo sembra riecheggiare del dramma in antico in cui ad un’esitazione, una decisione di fronte ad un fenomeno di ambiguità segue un rovesciamento, causato dall’oltrepassamento, che è sempre un oltrepassamento tragico, della soglia di ambiguità, impercettibile, e che, di solito, precede ogni rovesciamento. Prendere una decisione in un cosmo tragico interconnesso e ambiguo non per51 L. Tolstoj, Guerra e Pace, a cura di Igor Sibaldi, Mondadori, Milano 1996, p. 657.
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mette di connettere psicologicamente in modo così coerente e articolato le proprie valutazioni, semplicemente perché decidere se fare o non fare una cosa, come uccidere o no Clitemnestra, o decidere o no se uccidere o meno il proprio antagonista, esitare, è qualcosa di simile alla sensazione di essere sospinti verso un burrone, un precipizio verso la quale si è attratti fatalmente. L’ambiguità non può che consistere nel doversi relazionare con qualcosa che viene percepito come radicalmente estraneo eppure in qualche modo siamo fatalmente legati. Questo esitare senza un apparente scopo, chiaramente, ci ricorda un famoso shakespeariano di cui per adesso non faremo il nome, e che, come vedremo, darà il via all’evoluzione del dramma moderno. L’esitazione di fronte a universi culturali avvertiti come estranei è però un sotto-aspetto di un problema più grande: come abbiamo avuto modo di accennare, nell’incipit esatto del suo saggio sul dramma moderno Gyorgy Lukàcs chiarisce da subito qual è l’elemento chiave che definisce l’evoluzione della tragedia. Il dramma è il genere letterario della volontà: descrivere il modo in cui questa forma letteraria rappresenta la volontà dei caratteri è in effetti fondamentale per tracciare il passaggio dalla tragedia al dramma moderno. Forti della lettura teorica che abbiamo fatto fin ora dell’Edipo e dell’Antigone, possiamo giungere a collegarci dal problema dell’ambiguità del mito all’altro questione che riguarda più strettamente l’evoluzione del dramma, per l’appunto la volontà dei caratteri. Per quanto concerne il legame con la tragedia antica, anche in questo caso, il problema è noto agli specialisti, ciò che resta da fare è appunto riorganizzare ciò che sappiamo sul fatto nell’ottica della nascita del dramma moderno. Capitale risulta, in questo senso, ancor oggi, il saggio di Vernant, apparso nel 1972, in occasione delle celebrazioni del suo maestro Ignace Meyerson:
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La catégorie de volonté, chez l’homme d’aujourd’hui, ne suppose seulment une orientation de la personne vers l’action, une valorisation de l’agir et de l’accomplissment pratique, sous les diverses formes, mais bien davantage une prééminence reconnue dans l’action, à l’agent au sujet humain posé comm origine, cause productrice de tous les actes qui émanent de lui.52
Secondo la tecnica oratoria questo di Vernant è quello che definiremmo un incipit antifrastico, egli sta descrivendo alcuni truismi validi da Cartesio in poi sul concetto di volontà, per poi mostrare ai suoi lettori l’ennesimo e per certi versi il più importante tratto di alterità del dramma antico. Tuttavia, quel che c’è da comprendere è che anche l’idea stessa dell’autonomia decisionale è una conquista culturale; il cogito cartesiano, in questo senso, con il suo astrarre il suo punto di vista dal flusso dell’esperienza, è esattamente l’ostacolo epistemologico che ci impedisce di vedere come l’autonomia del sistema della volontà dipenda di fatto da un progresso, anche piuttosto faticoso, nella costruzione “narrativa” dell’io e dello spessore dell’individualità. Torniamo al paradigma formale della semiosfera: in un mondo post-cartesiano la soggettività esperiente è al centro della propria sfera di segni, che ne regge il proprio sistema di significati e di riferimenti semiotici generali, in un cosmo tragico come quello dell’Antigone, ad esempio, l’atto di decisione non è mai proairesis cioè non è mai al centro della propria semiosfera, e infatti l’autore scrive: Décision sans choix, responsabilité indépendante des intentions telles seraient, nous dit-on, les formes de la volonté chez les Grecs. Tout le problème est de savoir ce que les Grecs, entendaient eux même par choix, par responsabilité et d’intention, ne sont directement applicables à la mentalité 52 J. P. Vernant, P. Vidal-Naquet, Mythe et tragedie en Gréce ancienne, cit. p. 36.
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ancienne où ils se présentent avec des valeurs et suivant une configuration qui risquent de déconcentrer un esprit moderne.53
Mi vorrei soffermare su queste parole per ritornare, in questo, al ruolo del Coro, e dell’ambivalenza fra i due grandi archetipi della tragedia che abbiamo analizzato rispetto alla modernità: per un carattere drammaturgico che non possiede, in sé, la totalità del proprio potere decisionale inevitabilmente a disposizione, la forza del proprio agire risulterà come avvolta da un’incertezza quanto mai generale. È in questo profondo senso di smarrimento che si constatano contemporaneamente la somiglianza e la differenza fra il senso tragico, nell’Antigone, del Coro e quello dei due protagonisti: avere un senso di unitarietà attraverso una modalità lirica del mondo, per un soggetto come quello greco, che non possiede la capacità di compiere una proairesis, una scelta autonoma, vuol dire qualcosa di molto di più, in una simile dimensione antropologico-culturale, dell’esprimere un sentimento lirico all’interno di un universo separativo e riduzionista. Vuol dire percepire, sul piano dell’intuizione, l’inconciliabilità di un reale che il Coro percepisce come scisso e statutariamente ambiguo. Se dunque lo spirito lirico nel mondo moderno coincide sempre più con il tropo, con qualcosa di metonimico, di associativo e inevitabilmente parziale, in un mondo in cui la volontà del carattere era tale come la conosciamo oggi, essa acquisisce una vena tragica importante perché rappresenta l’impossibilità di percepire unitarietà laddove il reale offre solo una dimensione di ambiguità; privilegio quest’ultimo, lo abbiamo visto, del Coro. Tuttavia, e vorrei, qui, venire al punto, l’assenza di proairesis non caratterizza semplicemente il senso tragico, nella forma del rovesciamento della forma antica. Riprendiamo, in una prospettiva evolutiva gli 53 Ivi, p. 39.
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episodi di rovesciamento che abbiamo analizzato: sia nel caso dei Creonte che nel caso di Antigone il rovesciamento avviene dopo un momento di esitazione legato all’ambiguità del reale: se il personaggio tragico antico avesse in sé le strutture psichiche per scegliere il proprio destino, non esisterebbe il senso tragico antico. Tuttavia è il caso, alla luce di quel che abbiamo scritto sul dramma antico, di considerare anche quello che questa incapacità formale nell’agire consapevolmente significa, per il genere, in sé nella forma del gioco di verità del rovesciamento. Ricordiamo dunque le parole di Hegel da noi, la soggettività tragica moderna incarna i valori della cultura del drammaturgo, è una “soggettività formale”: se aggiungiamo a quest’assunto che il gioco di verità del rovesciamento nasce nella sede di un cosmo tragico non-separativo come quello antico, capiamo ancora qualcosa in più del processo che conduce dalla specifica natura del rovesciamento al dramma moderno: tale processo è di psicologizzazione esattamente perché è possibile fin tanto che si mantiene il nesso originario fra epicità e lirismo che lo produce nell’universo interconnesso dei tragici antichi: il rovesciamento moderno è dunque una forma che si trova in perenne contraddizione fra l’essere originato in un simile universo caratterizzato da un “pathos scisso” in cui la libertà di scelta non è contemplata, e il suo prodursi in un sistema di valori culturalmente e semioticamente determinato come quello dell’Antico Regime, quando Vernant scrive, con riferimento proprio all’Edipo Re, e più precisamente alla sequenza finale, in cui si definisce la responsabilità di Edipo in tutto ciò che è accaduto: Quand Oedipe tue son père, épouse sa mére, sans savoir, il est joué par un destin que les dieux ont lui joué sans savoir, sans vouloir, il est jouet d’un destin que les dieux ont lui imposé des avant sa naissance […] L’opposition àkon-hekón, deux fois soulignée dans le texte et renforcée par le contraste parallèle entre ce qui est causé par le daimon – ce qui est
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personnellement choisi, parait aussi strict et rigoureuse possible. On serait tenté qu’elle trace dans la texture du drame une ligne de démarcation entre ce qui impose la fatalité de l’oracle à ce qui relève sa décision personnel.54
In questo punto Vernant ci mette in guardia dallo scindere culturalmente i valori fondamentali del drammaturgo dall’azione del personaggio. Questa linea di demarcazione che l’osservatore moderno sul dramma è irresistibilmente tentato di tracciare fra soggettività drammaturgica antica e coscienza moderna, esprime già in sé tutta la distanza culturale tra il dramma antico e il pensiero moderno, ed esprime anche il senso dell’equivoco formale che darà presto luogo al processo di rifunzionalizzazione della tragedia greca nella modernità: l’ubi consistam del rovesciamento esiste e può esistere ancora come relitto della forma della tragedia antica, esattamente e fin tanto che l’azione che tale rovesciamento racconta contiene in sé quella inseparabilità fra l’azione e dei valori universali che, nella visione tragica greca, corrispondono a forze concettualmente inseparabili dall’azione del carattere, solo che esse saranno, come vedremo, imbrigliate in ideologia, cultura, visione tragica, ha scritto Soren Kirkegaard: “benché si muovesse liberamente, l’eroe tragico restava nelle sue determinazioni sostanziali: nello Stato, nella famiglia, nel fato […] la rovina dell’eroe non è dunque solo una conseguenza del suo patire ma atto […] la nostra epoca ha perduto tutte le sue determinazioni sostanziali di famiglia, Stato, stirpe”55. Il filosofo qui sembra intuire che l’anagnorisis di Edipo è il segno del fatto che il suo agire volontario ha un’identità che non si può 54 J.P. Vernant, Ebouches de Volonté en Grèce ancienne in Mythe et tragédie en Grèce ancienne, cit., p. 44. 55 S. Kirkegaard, Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno, esperimenti di una ricerca frammentaria, il Melangolo, Genova 2012, p. 32.
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separare da entità più grandi, il diritto per Antigone e Creonte, la stirpe e gli dei per Edipo. La variante formalista di questo concetto è che la tragedia moderna progressivamente perde le determinazioni sostanziali che definiscono il suo agire, quando ciò avverrà avremo qualcosa da poter definire “il dramma moderno”.
CAPITOLO II LA SCOMPARSA DEL CORO NEL TEATRO DI SHAKESPEARE
2.1 La visione tragica di Shakespeare 2.2 il ritorno della tragedia 2.3 La crisi della parola 2.4 La crisi dell’azione 2.5 Una nuova forma di volontà 2.6 Transizione. Un genere letterario non essenzialista: ovvero, le due definizioni di tragedia si scindono.
2.1 La visione tragica di Shakespeare
Non solo nel mondo antico esistevano delle soglie culturali invisibili; esse esistono anche nel mondo moderno, con la differenza che l’uomo moderno le ha talora dimenticate, ma ne rispetta i misteriosi confini, qualche volta senza saperlo. Questa semplice verità ci dischiuderà il passaggio dalla tragedia antica a quella moderna, così come le premesse per coglierne l’evoluzione. Con un grande salto temporale, infatti, è possibile dimostrare come le principali opere tragiche shakespeariane non siano nient’altro che un adattamento strutturale della forma tragica antica: solo comprendendo il processo formale che caratterizza questo adattamento potremo analizzare gli sviluppi successivi del genere che stiamo studiando. Può sembrare forse poco credibile all’occhio della critica specialistica, ma le tragedie shakespeariane che compongono il suo corpus principale, che va da Romeo and Juliet (1594 c.a) fino al teatro politico di King Lear (1606 c.a)1, 1
Escludendo, in altri termini, il Titus, l’unica altra esperienza tragica shakespeariana precedente a Romeo and Juliet ed esclu-
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sono un ritorno, adattato formalmente, della tragedia antica. Questo dà il via alla grande stagione drammaturgica che ha come protagonista la retorica dello Stato assoluto. In uno splendido articolo, estremamente denso di riferimenti socio-culturali di quell’era che nel nostro discorso è ormai alle porte, ed edito per la prima volta su Calibano del 1979, Franco Moretti ha già a suo tempo mostrato come la tragedia shakespeariana debba essere vista, intrinsecamente, come un prodotto della crisi dell’apparato ideologico di questa forma statuale. Una conseguenza fondamentale di tale tesi è stata quella di rendere più comprensibile allo sguardo post-cartesiano e separativo – nel senso che abbiamo inteso nel capitolo precedente – alcune delle opere più strane della storia della drammaturgia occidentale, i cosiddetti poblem plays – o, come li chiama Moretti, drammi della restaurazione – nonché la tragedia che campeggia al centro del corpus shakespeariano: Hamlet. dendo, nella nostra trattazione, le tragedie che non sono di argomento più esplicitamente politico come l’Othello o Antonius and Cleopatra. In sostanza le tragedie che portano alla trasformazione della tragedia nella modernità sono Romeo and Juliet e quelle della crisi della sovranità: Hamlet, King Lear e Macbeth che, come scrive già Moretti, è l’archetipo di molti personaggi shakespeariani come il re in Hamlet o lo stesso Lear. Tuttavia, il “un riferimento fugace a Othello e Antonius and Cleopatra, perché alcuni aspetti della loro forma è utile a spiegare l’evoluzione della tragedia, come la forma del rovesciamento in esse presente che è, come si vedrà, accostabile alla trasformazione della forma del rovesciamento che definisce la tragedia nella modernità. In tutte queste tragedie la rovina di una figura pubblica nasce dal conflitto fra variazioni psicologiche di Will e Reason come versione contemporanea dell’ hamartia tragica: «É L’essere “to double business bound” di Claudio e la “distraction” di Amleto, il vagare tra Roma e l’Egitto di Antonio e e il dichiararsi “perplexed in the extreme” di Otello (...)» Franco Moretti, La grande eclissi, cit., p. 78.
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In questo capitolo mostreremo che essi sono, in realtà, anche una trasformazione della forma della tragedia antica. Va ricordato come Moretti, in quel saggio pionieristico, rievochi tutte le tesi più importanti legate alle profonde ragioni che portano la tragedia antica a ritornare nella tragedia moderna. In primo luogo, egli ricorda che la tragedia moderna nasce dall’esigenza di dissolvere una vecchia idea, l’ideologia monarchica alle porte della rivoluzione del ‘49, dando corpo all’intimo paradosso, sentito dal poeta, riguardante la crisi e alla dissoluzione dell’impalcatura retorico-ideologica legata alla cultura monarchica. Tutto a partire, spiega, dal problema della decisione del Re; è infatti la decisione come atto tirannico del sovrano a generare la crisi: quella forza che il re manifesta nella sua decisione, non solo lo dichiara tiranno, ma anche incapace di governare. L’esercizio conseguente della sovranità porta a una completa anarchia: le due cose fanno tutt’uno. L’assolutismo appare alla cultura tragica – e ne vedremo le conseguenze – come un autentico paradosso.2
In secondo luogo dobbiamo segnalare un’analogia basilare fra la tragedia antica alla tragedia shakespeariana e che genera il ritorno formale della tragedia: la forza del sovrano è ambivalente, non è né buona né cattiva o – meglio – è positiva e malvagia al contempo. King Lear, spiega Moretti, abdica, esercitando, con ciò, una forza politica ambigua, da un lato concessagli dalla società e dall’insieme dello Stato che ne riveste il potere sotto l’egida di un’investitura trascendente, dall’altro tale potere si rivela negativo perché egli lo usa per abdicare, venendo 2
F. Moretti, La grande Eclissi, forma tragica e sconsacrazione della sovranità in Segni e stili del moderno, Einaudi, Torino 1984, p. 56.
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meno al senso dell’investitura regale. In tal modo la visione trascendente, che eleva l’uomo al di sopra del rango degli altri, risulta tragica, almeno sotto questo aspetto, in un modo esattamente identico a quello per cui risultava tragica l’esperienza degli antichi. La natura intimamente paradossale del tragico moderno è stata anticipata nell’introduzione, utilizzando le mirabili parole di Àgnes Heller, oltre al noto armamentario sul problema storiografico legato alla crisi dell’aristocrazia. Questo il vero Leitmotiv della Kulturkritik dell’Antico regime – ormai datato, ma pur sempre per il nostro discorso necessario – e dell’analisi dei rapporti fra aristocrazia e potere. Sebbene molte siano le tesi condivisibili di quel saggio, un’altra cosa da ricordare è l’idea che la forma tragica, nel corpus shakespeariano, per la prima volta, ritorna nella modernità non per esprimere o tantomeno confermare l’ideologia della cultura assolutista, bensì, al contrario, per dissolverla. Un’altra tesi, che abbiamo anticipato nell’introduzione e che ritornerà nel nostro percorso, sostiene che la tragedia moderna nasca per dare voce a una cultura che è naturwüchsig, cioè modellata su un’idea naturalistica, o naturalizzata, dei rapporti culturali: i rapporti di corte che definiscono i legami fra le gerarchie sociali nella grande tragedia seicentesca. Questa idea di fondo ritorna nel saggio di Lukàcs del 1911 e nelle sue teorie sulla metafisica della tragedia: La legittimità del potere deriva da un’investitura divina. Il potere si fonda su un disegno trascendente, su un ordine intenzionale e dotato di senso […] ciò avviene perché la sfera della cultura non ha dunque rilievo sovrastrutturale; investe, viceversa, le basi stesse d’esistenza del dominio politico.3 3
Ivi, p. 57.
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Man mano che ci lasceremo alle spalle l’analisi della tragedia antica e ci addentreremo nella tragedia moderna, questa idea acquisirà sempre più rilevanza: la cultura dell’Antico Regime esiste fintanto che esiste l’idea della cultura monarchica come un qualcosa di legato a un’idea del potere in senso trascendente e ontologicamente fondato dei rapporti politico-culturali, che persisterà nella tragedia come genere letterario. Fintanto che i rapporti sociali e culturalmente fondati sono sotto l’egida, quasi ipnotica, della retorica dello Stato assoluto, il noto rapporto problematico tra l’aristocratico e il potere, stilizzato e inciso nei caratteri drammaturgici del poeta tragico – in quanto latore di senso poiché legato alla narrazione del mito della sovranità – non sarà mai in grado di distinguere ciò che è un prodotto della cultura – come appunto i rapporti politici – e ciò che proviene invece dal regno della natura4. 4
A questa considerazione andrebbe aggiunta l’osservazione di due fenomeni apparentemente distinti e remotissimi, eppure in realtà correlati. Il primo riguarda il rapporto fra la nascita della tragedia dall’ambiguità del mito, intesa come momento di passaggio del pensiero attraverso la filosofia della physis e la sua relazione, l’altra è la relazione tra l’elaborazione della teoria politica seicentesca. Nel 1677 esce postumo il Tractatus Teologico-politicus di Spinoza. In quell’opera, notoriamente, l’autore rielabora la lezione di un pensatore come Hobbes alla cui dottrina politica aveva sinora guardato, rimarcando, tuttavia, la differenza fra il suo pensiero e quello hobbesiano, evidenziando come lo Stato non debba reggersi sulla base di contratto pacificatore, bensì sui jure, per un diritto intrinseco. Sembra chiaro che Spinoza sta rielaborando la dottrina dell’assolutismo sulla base della propria teologia della natura: ed è proprio su questo punto che il dibattito sul potere assoluto fra questi due grandi pensatori può farci comprendere il senso dell’evoluzione del pensiero sull’assolutismo. L’occasionalismo spinoziano si trova ideologicamente, a mio avviso, in una sorta di interessante impasse culturale per cui la filosofia della natura non può evitare di pensare il mondo politico come “un impero nell’impero” per
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La critica neostoricista, da allora in poi, ha prodotto tantissime letture di grande interesse che corroborano questa concezione del teatro shakespeariano. Ancor di più: i critici di impostazione neostoricista ci hanno spiegato in che senso la concezione – in questo, ideologicamente conservatrice – di Shakespeare dovette provare ansia e angoscia per il dissolversi dell’apparato culturale cui era legato l’ordine sociale che faceva capo ai Tudor, soprattutto negli anni in cui, approssimativamente, l’Hamlet shakespeariano dovette essere composto pressappoco in coincidenza con la dipartita della Virgin Queen, Elizabeth I, nel 16035. Gli storiografi della letteratura e della cultura assolutista più recenti insistono molto sul problema, quasi angosciante per gli elisabettiani, e che dovette essere quasi una fantasia strutturante alla base dell’esperienza drammaturgica di molta loro produzione teatrale. Per fare qualche esempio, ricordiamo le osservazioni relativamente recenti di tipo ne-
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parafrasare un celebre motto spinoziano. Tutta la cultura aristocratica che genuinamente crede nella retorica della sovranità coltiverà questa idea di una sorta di unità fra mondo naturale e mondo culturale. Paradossalmente, però, come la demolizione di ogni nostro antropocentrismo ci ha insegnato, non per de-localizzare e marginalizzare le istanze culturali, bensì per ipostatizzarle in un sistema che sembra trascenderle, come la natura. Val la pena ricordare la relativa problematicità della datazione di Hamlet, non tanto – o comunque non solo – per un doveroso puntiglio filologico, quanto piuttosto per cogliere a pieno la densità di riferimenti alla crisi dell’ideologia aristocratica, di cui Shakespeare è il cantore, legata alla morte della Virgin Queen e alla sua mancata successione. Ma anche perché lungo l’analisi di Hamlet io mi rifarò al contempo al testo dell’infolio del 1623 (di solito indicato, convenzionalmente, con F1) e al testo dei due Quartos, (Q1 e Q2) – soprattutto il primo dei due – canovacci a cui, dal lavoro di Chambers in poi, si tende a fare affidamento ad alcune importanti testimonianze legate all’edizione di Hamlet.
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ostoricista di Kurland che, nel suo Hamlet and the Scottish Succession?, pianta bene i piedi nel contesto storico della successione di James VI di Scozia alla morente regina: Unlike some modern readers, Shakespeare’s audience would have been unlikely to see in Hamlet’s story merely a private tragedy or in Fortinbras’ succession to the Danish throne a welcome and unproblematic restoration of order’.6
La lettura di Kurland, che enfatizza gli aspetti di sovrapposizione cronologica fra la successione monarchica e la prima rappresentazione della tragedia, ci è utile per rievocare alcuni aspetti di questa crisi politico-culturale. Con una precisione sagittale dal punto di vista cronologico, Kurland 6
S. Kurland, Hamlet and the Scottish Succession?, in “Studies in English literature”, 34, 1994, p. 291. Kurland riprende in forma interrogativa il titolo di una ricostruzione di un nutrito volume del 1921 scritto da Lilian Winstanley. Per quanto Kurland rigetti, nella sua disamina, le inferenze letterali rintracciate nel testo di Hamlet dalla Winstanley sul contesto politico – dato che quest’ultima identificava addirittura la figura James IV con il personaggio di Hamlet stesso – la tesi di Hamlet come una tragedia della crisi della sovranità e della successione monarchica sembrerebbe confermata. Si tratta di un’opera composta in un clima di voci e paure per l’avvento del nuovo sovrano: “The political world of the play is surrounded by a climate of uncertainty engendered by James VI’s maneuvers and threats to secure the English succession”, ivi, p. 293. Argomenti ripresi nel 2004 anche da Andrew Hadfield, in un suo articolo su Edmund Spenser e le sue relazioni ideologiche con il casato di Scozia: “Why Shakespeare would not have been able to write that dealt directly with the scottish succession is easier to comprehend: Elizabeth had forbidden the discussion on the succession and by the last year of the sixteenth century the most likely successor to Elizabeth was James VI of Scotland.” E. Spencer, Shakespeare, Spenser, and the matter of Britain, in C. C. Brown, A. Hadfield (a cura di) Early modern literature in history, Palgrave, 2004 London, p. 93.
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corrobora la tesi di Lukàcs che lega l’emergere della tragedia sempre a grandi crisi della cultura assolutista. Il pubblico non leggeva – come potrebbero fare i nostri contemporanei – il giungere di Fortinbras alla fine della tragedia come una sorta di pacificatio delle due parti in gioco in quell’opera drammaturgica che, nell’intero corpus shakespeariano, rappresenta con maggior forza e problematicità il crollo della dinastia imperiale dei Tudor. Secondo Kurland, Fortinbras rappresenta l’avvento di un successore estraneo, forse proprio il re di Scozia, il quale avrebbe messo tutto il reame sotto il lume di un futuro incerto, proprio a causa della nota investitura simbolica, fortissima, di cui la visione del mondo elisabettiana investiva la sovrana, e sulla quale necessariamente torneremo. Sempre nell’ottica di leggere la grande tragedia shakespeariana come uno specchio della crisi Tudor, ci sono delle varianti gender che vale la pena, almeno, ricordare. Ad esempio, secondo Bruce Boherer, la morbosa attenzione di Hamlet per la madre Gertrude sublimerebbe l’ossessione della cultura assolutista elisabettiana per la natura matrilineare della successione al trono, della sua nota volontà di non avere figli e di morire nubile; questa tesi – se vogliamo estrema – non è altro che la testimonianza più eclatante della natura dell’investimento emotivo con cui il pubblico vedeva questa ideologia legata alla regalità: In facing and surviving the death of its royal house, Hamlet enacts the promised end of Tudor imperial culture: an end feared and contemplated by English monarchs and subjects at least since Henry VIII divorced Catherine of Aragon, and an end that was by 1599 almost inevitable. In affirming an order beyond this chaos, the play may at last manage through wishful thinking to free itself from female influence.7 7
B. T. Boehrer, Monarchy and incest in Rainassance England: Literature, Culture, kinship and kingship, Philadelphia, Uni-
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Si tratta di sfumature misogine legate al problema di successione della regina, ma che sono interessanti perché riflettono, dal nostro punto di vista, la fragilità di un’ideologia organicista: è per via di questo sentimento di fragilità profonda per un sistema culturale intero, che sovrapponeva diritto naturale e cultura politica, dramma politico e complessi edipici in una sorta di strano regime di ambivalenza, che possiamo parlare della tragedia come dissoluzione di un sistema ideale. La concezione alla base di questa sociologia delle forme letterarie è che un costrutto culturale deve dissolversi affinché da esso possano emergere nuove idee, poiché esso ne rappresenta una sorta di ostacolo epistemologico. Ancora per questa via, troviamo il citato legame, già annunciato nell’introduzione, fra la tragedia moderna e il paradosso. La tragedia manifesta l’inadeguatezza della cultura post-feudale alle sfide della modernità, ci si “scontra” e non può che manifestare il senso tragico come conflitto fra il pensiero del drammaturgo e un nuovo evento, per lo più un evento politico. In cosa consiste questo fenomeno moderno, a cui il crollo dell’ideologia Tudor prelude? Anche la risposta a questa domanda è già nota: si tratta del colpo di scure inferto a Whithall alla testa di Carlo I, nel ‘49; se l’ideologia dello Stato assoluto non fosse crollata, secondo Moretti, quella cromwelliana non avrebbe potuto sostituirvisi. Torneremo sulle tesi di Moretti a breve. Occorrerà, però, prima, approfondire la visione tragica di Shakespeare, e non solo per comprendere come essa possa aiutarci a descrivere le funzioni drammaturgiche delle principali espressioni tragiche di questo autore. Sarà necessario, al contrario, partire da questi presupposti per capire come – in un senso squisitamente sklovskijano – tale forma tragica sia versity of Pennsylvania Press, Philadelphia 1992, p. 66.
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un’espressione dell’intrinseco paradosso legato alla crisi della sovranità, e sia anche una rifunzionalizzazione, quindi un adattamento, della struttura formale della tragedia antica basata sulla gestione dell’ambiguità del mito, in un contesto moderno. Quello della rifunzionalizzazione è, del resto, un movimento classico dei generi letterari, e nella sua materiale concretezza, ci smarca in modo abbastanza radicale dalla tesi che il tragico sia solo un modo, ovvero un sentimento, privo di genere: la tragedia è genere e modo, proprio per un processo formale che sfida, come proveremo a dimostrare, circa duemila anni di storia. Non aggiungeremo solo questo, tuttavia, alla tesi della tragedia shakespeariana come crisi della sovranità. La tragedia shakespeariana è infatti anche uno snodo formale fondamentale: ciò perché trasforma i due paradigmi di tragedia che abbiamo scelto per sussumere il genere in re e li prepara al loro sviluppo moderno. Occorrerà capire dunque anche in che forma la turbolenta crisi della sovranità Tudor – di cui sono espressione le tragedie shakespeariane – crei delle strutture che continueranno l’evoluzione del genere. Quest’ultima tesi, si vedrà, coincide bene con la tesi hegeliana – da cui Lukàcs è chiaramente influenzato – che abbiamo già rievocato, per cui la tragedia moderna, al contrario di quella antica, ci presenta delle soggettività formali che esprimono, nella stilizzazione del loro carattere drammaturgico, tutta la forza della loro singola individualità, ma anche di quello che tale individualità rappresenta. Lo Stato, il regno, la sfera pubblica istituzionalizzata che, lentamente, come ampiamente noto, si libera dai vincoli culturali della forma feudale: la tragedia rinasce nella modernità per liberarla dai residui ideologici della cultura tardo medievale, di cui la visione del mondo elisabettiana è solo un frammento.
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Questo aspetto, si vedrà, è importante soprattutto per formalizzare la tragedia in quanto genere. Ciò ha valore in tutti i tragediografi che si prenderanno in considerazione, ma, probabilmente, fra tutti è Calderón che dona l’esempio migliore. Nella cultura di questo autore più concezioni culturali della tragedia si accavallano; esse sono state concepite, in diverse fasi della storia del tragico e confluiranno nel rappresentare i caratteri nella concezione postmedievale della sfera pubblica. Tuttavia è proprio a causa del passaggio legato alla scomparsa del Coro tragico nel teatro di Shakespeare che otterremo delle forme in grado di definire in re tali generi, perché riferiti ai paradigmi formali di tragedia da cui siamo partiti, quello del rovesciamento e quello dello scontro dei caratteri, i cui codici culturali saranno genealogicamente riconducibili nella tragedia postmedioevale. Per lo meno nella forma in cui la crisi della sovranità del teatro di Shakespeare le avrà trasformate. Come formalizzare tutto ciò? Come arrivare a dimostrare che proprio il corpus delle tragedie di Shakespeare rappresenta il passaggio formale da una tragedia nella visione hegeliana, basata su un pathos scisso, in cui i protagonisti non sono realmente coerenti – padroni delle proprie azioni – ad una tragedia basata sulla certezza formale della propria individualità, sulla granitica certezza di racchiudere su di sé il destino di una comunità e tutta la sua sostanza etica? E inoltre, in questo già arduo passaggio da un modello di tragedia ad un altro, come si trasformano le due definizioni linguistiche della tragedia che abbiamo riferito come rappresentanti il genere letterario in re. La risposta parte dalla seguente considerazione: il corpus delle tragedie shakespeariane, nell’essere una rifunzionalizzazione della tragedia antica, rappresenta una forma
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unica di passaggio da una tragedia basata su un cosmo interconnesso come in quella greca, ad un cosmo separativo, che sarà poi quello di tutta la tragedia moderna. Come spero potrà vedersi, questa tesi potrà forse dare il là alla storia formale di questo genere immaginato da Lukàcs e misconosciuta dalla tesi szondiana dell’indefinibilità del tragico. Non appena enunciata, però, tale tesi ha bisogno subito di un corollario. Infatti, non solo la tragedia shakespeariana come momento di passaggio da una forma all’altra racconta la transizione ad un cosmo separativo; in un certo senso anche il resto delle tragedie moderne dello Stato assolutista raccontano questo genere letterario nel suo adattarsi al nuovo cosmo, moderno e separativo, della tragedia. Quest’idea si collega a quanto abbiamo scritto nell’introduzione, ovvero che la tragedia moderna tende inevitabilmente verso il realismo, attraverso una serie di compromessi contraddittori fra epicità e lirismo. Verificheremo infatti che la crasi tra queste due istanze sarà stata possibile solo nella singolarissima condizione del cosmo tragico interconnesso antico: è proprio l’origine della tragedia in un cosmo tragico interconnesso8 che pro8
Al contrario di quanto sostiene Vernant, il quale ha notoriamente descritto la questione dell’origine della tragedia “un falso problema” (J. P.Vernant, Mythe et Tragédie en Grèce ancienne, cit., p. 9), l’interconnessione fra campi semantici richiama i problemi che si collegano direttamente alla sua origine, oltre che alla sua nascita, nel senso che hanno a che fare con lo scaturire del senso tragico assieme al nascere della forma. In questo senso, le parole di Kierkegaard che ho citato nel capitolo precedente potrebbero essere rilette in una chiave formalista: nella tragedia moderna il personaggio tragico si emancipa dalle sue determinazioni sostanziali perché è responsabile delle proprie azioni e non delle componenti ideologiche che lo caratterizzano. Ma la tragedia è, come vedremo, un progressivo adattarsi della coscienza soggettiva attraverso un processo
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voca, secondo una serie di trasformazioni a catena che si producono nel Seicento, la nascita del dramma moderno: è abbastanza evidente in effetti – la cosa non ha bisogno di molte specificazioni – che l’universo tragico shakespeariano è dominato da una visione tragica più prossima alla nostra in quanto separativa, che porta, infine, alla nascita del nuovo dramma. Ancora una volta va dunque messo in evidenza con forza che non siamo di fronte ad un cambiamento autonomo della forma in sé, quanto piuttosto a come la forma reagisce a cambiamenti di semiotica della cultura. In altri termini è il contatto con un sistema di segni, un codice culturale di riferimento di tipo separativo, che provoca la trasformazione formale e produrrà delle forme che continueranno a reagire alla natura contraddittoria delle ideologie e delle visioni tragiche del mondo – il mito della sovranità assoluta come fondamento del mondo – che è alla base della poesia tragica moderna. Detto ancora diversamente: se la tragedia non avesse avuto origine in un cosmo tragico interconnesso, non avrebbe prodotto delle forme che reagiscono in modo contraddittorio al cosmo separativo. Proprio per questo aspetto di graduale passaggio della tragedia dal cosmo interconnesso che ne accoglieva la forma al cosmo separativo, è bene fare alcune precisazioni sulla natura quest’ultimo tra cui, come mostreremo, c’è anche la visione cosmologica tragica di Shakespeare, sussunta nella ben nota, e classicissima, Elizabethan world picture: In Europa ci troviamo di fronte a una cosmologia che è basata sulla separazione di entità e categorie e la loro conseemancipazione da tali determinazioni: ancora una volta, l’enfasi è sulla parola processo, trasformativo, come quello che va messo in luce nella evoluzione della tragedia.
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guente unificazione, mentre in altre cosmologie entità e categorie sono altrettanto distinte, ma le distinzioni non sono assolute. Ogni categorizzazione è una differenziazione, ma la differenziazione e l’unificazione sono complementari. Al di sotto delle separazioni razionali delle cosmologie europee ci sono, nascoste, tracce di interconnessione, che ingaggiano un conflitto con l’atteggiamento separativo.9
Mentre nella tragedia antica le barriere culturali, i confini tra mondi sono mescolati e sovrapposti in un chaos che ci sembra – e si crede anche ai Greci dovesse sembrare – ungenheuer, mostruoso per usare un termine caro all’ermeneutica filosofica del Novecento, i confini semiotici del nostro mondo sono ben definiti, strutturati, anche se, ci avverte Oudemans, al di sotto delle separazioni cosmologiche – siano esse quelle medievali, rinascimentali, o moderne – ci sono sempre delle interconnessioni di base che, talora, possono entrare in conflitto con l’atteggiamento separativo. Come l’ambiguità tragica dei Greci non si preclude la separazione, ma al contrario la porta all’interno del universo drammaturgico come una forma di scissione del pathos – per parafrasare l’espressione di Hegel che ho già citato – così, secondo una logica esattamente rovesciata in senso simmetrico, la natura separativa dei costrutti ideologici dei moderni si fonda su delle connessioni, delle associazioni metonimiche – o, se si vuole usare un termine della narratologia contemporanea – dei cognitive blending che ne informano la visione del mondo. In che senso avviene ciò? Le categorie con con cui costruiamo il nostro mondo come denso di significati, cioè come una semiosfera unitaria e ordinata, per quanto giustificate da principi razionali, in realtà sono sempre frutto di associazioni arbitrarie fatte con il fine di operare una separazione: 9
T. C. W. Oudemans, A. Lardinois, op. cit., tr. it. mia, cit., p. 32.
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Nessuno negherà che le cosmologie separative sono risultate estremamente efficaci nel controllare conflitti logici ed esistenziali. Ma a quale prezzo ci è stato dato questo cosmo armonioso ci è stato donato? Separare significa instaurare un ordine, ma non significa anche espellere, rigettare, e reprimere il disordine?10
Chiedo scusa per il brusco passaggio da questioni di stretta contestualità storica, come i conflitti ideologici sotterranei alla ideologia di casa Tudor, a questioni di astratta semiotica: ma la divagazione è solo apparente. Il gesto di connettere significati per automaticamente separarli da una componente parziale dei loro referenti psichici sul piano discorsivo è un fenomeno alla base di ogni semiologia della cultura. Ogni sistema di segni seleziona in modo più o meno inconscio e inconsapevole cosa inserire e cosa escludere da questa relazione: in tal modo, essa apre uno iato fra referenti e significati. Solo la tragedia antica, al contrario – e lo abbiamo visto nell’analisi dei drammi antichi – abbraccia il caos della interconnessione fra fatti culturali che non sono stati preventivamente separati da altri. Tuttavia, poi, nei fatti, la pratica antica del rovesciamento non è altro che un modo per espellere ciò che è impuro – ambiguo – proprio perché derivante esattamente da questo scomodo stato di interconnessione (o ibridazione) fra mondi. Il mondo della polis e quello del mito, nella tragedia antica come quello della phronesis filosofica vivono di una convivenza forzata eppure necessaria: se si vuole, lo status dell’ambiguità tragica è essenzialmente questo. Si badi, invece, che la visione del mondo separativa moderna separa per congiungere e viceversa, congiunge sempre per separare: in altri termini per costruire alcune associazioni mentali che forniscono la propria visione del mondo, se ne scartano delle altre che però servono a creare 10 Ibid.
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delle opposizioni semantiche nette, che invece la tragedia greca non poteva conoscere con il suo universo contraddittoriamente polisemico. Nelle pagine seguenti, si vuol mostrare che la tragedia shakespeariana è una frizione formale fra questi due modelli: è dallo scontro fra cosmo tragico interconnesso e statutariamente ambiguo degli antichi e quello ordinato, separativo e post-medievale degli elisabettiani, che si adatta, strutturalmente, la forma tragica. È un procedimento di mutazione che Sklovskij spiega con grande chiarezza nel suo saggio sulle leggi di trasformazione stilistica; la storia delle forme è un polemos11, conflitto fra modelli culturali e formali che si succedono nella storia dei generi letterari e dalla cui frizione si producono in nuove forme. L’unicità della tragedia, nella circostanza, sta semplicemente nel fatto che essa è una forma che – proprio per via del suo legame con il pensiero mitico – non può scindersi da quegli aspetti paratestuali che Lotman identificava con il testo sesso, cioè quell’incrocio di codici culturali di contesto che definiscono la nostra semiosfera Ora, come annunciato, il riferimento inevitabile per questa visione tragica, è ancora e sempre l’Elisabethan World Picture, decodificata in modo classico da E. M. W. Tillyard nel suo libro del 1946:
11 In questo senso vanno rivalutate le osservazioni di Paul Steiner su come il formalismo russo possa ancora aiutarci a tracciare una storia delle forme letterarie, anche grazie agli sviluppi più recenti della narratologia: “ Il sistema letterario non è una struttura equilibrata, armoniosa, come la langue, ma è intrinsecamente instabile, lacerato da tendenze che lottano per preservare lo status quo o per modificarlo”; P. Steiner, Il formalismo russo, Il mulino, Bologna 1991, p. 126.
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Coming to the world picture itself, one can say dogmatically that it was still solidly theocentric, and that it was a simplified version of a much more complicated medieval picture. Now the Middle Ages derived their world picture from an amalgam of Plato and the Old Testament, invented by the Jews of Alexandria and vivified by the new religion of Christ. It was unlike paganism (apart from Platonism and some mystery cults) in being theocentric, and it resembled Platonism and other theocentric cults in being perpetually subjected to the conflicting claims of this and another world.12
Il mito è un’immagine: nella tragedia moderna – splendido specchio, nel suo sviluppo, della crisi dell’aristocrazia – quest’immagine è quella del re. Chi è disposto a credere a quest’immagine è racchiuso all’interno del corpo politico, che il sovrano abbraccia e condiziona con la sua azione, determinando tutto il cosiddetto body politic. Prima di arrivare all’immagine del re, però, per i nostri fini, dedichiamoci a tutto il contorno: è molto interessante, in effetti, come nella riflessione di apertura a questo grande classico, Tylliard sottolinei il nesso del rapporto fra questa visione del mondo e il platonismo – abbastanza comune nella cosmologia tardo-rinascimentale: essa è tesa costantemente fra una dimensione ideale (la reason, suona già qui il motto amletico – metateatrale par excellence – “to hold up a mirror up to nature”, che contrappone la natura alla idealità di un modello superiore) e una realtà naturale che è inclusa in un sistema cosmologico teocentrico attraverso una serie di interconnessioni. Queste dimostrerebbero la dimensione trascendente del potere assoluto e il suo essere un legame privilegiato tra la reason, che avvi-
12 E. M. W. Tillyard, Elizabethan world picture, Random House, London 2012, p. 1.
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cina uomini e angeli, e la nature, caratteristica terrena e da modellare su basi razionali. Commentando il discorso del degree shakespeariano affidato al personaggio di Ulysses di Troilus and Cressida Eustache Tillyard spiega come funzionano queste interconnessioni analogiche: The point here is that so many things are included simultaneously within this “degree” or order, and so strong a sense is given of their interconnections. The passage is at once cosmic and domestic. The sun, the king, primogeniture hang together; the war of the planets is echoed by the war of the elements and by civil war on earth; the homely brotherhoods or guilds in cities are found along with an oblique reference to creation out of the confusion of chaos. Here is a picture of immense and varied activity. Costantly threatned with dissolution, and yet preserved from it by a superior unifiyng power […]13
La prima cosa che deve attrarre la nostra attenzione è, per l’appunto, lo “strong sense that is given to their interconnections”14. Sono tesi molto note, si direbbe classiche, ma invito a valutarle per comprendere la plausibilità di un processo di rifunzionalizzazione. L’interconnessione è alla base del mito del body politic; in tal modo si sussume che i rapporti fra le cose abbiano, parvenza naturale, mentre invece tale processo analogico è squisitamente culturale agganciando la nature a un universo trascendente. Non è un caso che, genealogicamente, Tillyard faccia venire la visione del mondo elisabettiana dal platonismo proprio per questa tensione – particolarmente instabile in questa precisa circostanza – fra un’ideale cosmologia fondata e unificata sul modello di forze trascendenti e un chaos informe, quando scrive che questo Ordine postmedievale è 13 Ivi, Elizabethan world picture, pp. 5-6. 14 L’enfasi è mia.
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costantemente minacciato da una dissoluzione. “Constantly threatened with dissolution, and yet preserved from it by a superior unifying power”. È precisamente fra questa contrapposizione binaristica fra Order e Chaos che possiamo trovare l’elemento di discontinuità di questa forma di versione in miniatura del cosmo ordinato medievale com’è l’Elizabethan World Picture, e l’universo tragico antico. Nella tragedia antica questa opposizione è culturalmente data, o data su basi trascendenti, non avrebbe senso perché i campi semantici sono sempre, problematicamente, mescolati: la dimensione lirico-tragica espressa dal Coro, infatti, nasceva, come abbiamo visto, da un contemplare, quasi impotente, cose interconnesse e mescolate in modo osceno. Nel mondo elisabettiano il disordine, identificato con termini quali la nature e la mutabilitie (concetti simili pur nel novero di uno spettro di sfumature che, notoriamente, vi attribuiscono Spenser, Shakespeare, Hooker o Raleigh) è stato culturalmente collocato e ordinatoe in un sistema di significati, è stato definito – attraverso un gesto separativo che per l’appunto correttamente Tillyard definisce come platonizzante – in un posto preciso di un sistema organico di riferimenti culturali connotati teologicamente. Il chaos è stato dunque separato e collocato in un punto semanticamente opposto, nella visione del mondo elisabettiana, all’Order; cosa, lo abbiamo visto, per la tragedia, niente affatto scontata, ma anzi decisiva innovazione formale. Il prossimo passo è tratto da Sir Thomas Elyot, The Booke named the Governour (1531) uno dei primissimi trattati in forma di speculum principis: Take away order from all things, what should then remain? Certes nothing finally, except some man would imagine eftsoons chaos, which of some is expounded, a confuse mixture.
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Also where there is any lack of order needs must be perpetual conflict. And in things subject to nature nothing of himself only may be nourished.15
Il chaos è una confuse mixture fuori dall’universo, è – in un passaggio dove suona il retaggio del creazionismo platonico del Timeo – un perpetual conflict: ne consegue che l’atto di interconnettere significati in una chain of being, al cui centro campeggia l’immagine del sovrano, è implicitamente un modo per scegliere le cose che vengono percepite come rassicuranti scartando quelle che vengono percepite come angoscianti, separare le une dalle altre e collocare le prime in un ordine ideologicamente instabile che ha una veste trascendente. È l’atteggiamento separativo tout-court, quello che ottiene implicitamente dalla connessione metonimica una separazione, per cui da un lato ci sono le associazioni di idee, le concatenazioni formali che definiscono l’ordine, e dall’altro tutto quello che in queste connotazioni è al di fuori, per cui si creano assiologie semantiche: The heavens themselves, the planets, and this centre Observe degree, priority, and place, Insisture, course, proportion, season, form, Office, and custom, in all line of order; And therefore is the glorious planet Sol In noble eminence enthron’d and spher’d Amidst the other; whose med’cinable eye Corrects the ill aspects of planets evil, And posts, like the commandment of a king, Sans check, to good and bad:16
15 T. Elyot, The booke named the Governour, Piccadilly, London 1884, p. 3. 16 W. Shakespeare, Troilus and Cressida, A. Dawson (a cura di), New Cambridge Shakespeare, Cambridge university press, Cambridge 2009, p. 109.
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La Degree priority and place è un principio di matrice platonica che osservano gli stessi cieli “the heavens themselves”, al cui centro verticisticamente c’è “the glorious planet sol”, che governa, come un sovrano con il suo regno, il resto del cosmo; dall’altro lato c’è l’indefinibile, il disordine, che è sempre dietro l’angolo: but when the planets In evil mixture to disorder wander, What plagues, and what portents, what mutiny, What raging of the sea, shaking of earth, Commotion in the winds, frights, changes, horrors, Divert and crack, rend and deracinate The unity and married calm of states Quite from their fixure! O! when degree is shak’d, Which is the ladder to all high designs, The enterprise is sick. How could communities, degrees in schools, and brotherhoods in cities, peaceful commerce from dividable shores, The primogeniture and due of birth, prerogative of age, crowns, sceptres, laurels, But by degree, stand in authentic place?17
Senza il rispetto del degree, lo stesso concetto di comunità è in pericolo: la natura, ha senso solo se inserita in un sistema trascendente che ne rappresenta il modello a cui, spontaneamente, deve tendere. Per comprendere l’evoluzione della tragedia verso il dramma moderno il primo passo da compiere è questo: capire che l’organicismo elisabettiano porta, attraverso questo meccanismo di interconnessioni formali, al ritorno della tragedia, intesa come espressione della crisi dei fondamenti culturali del potere. Questo sistema di interconnessioni ha, però, una fondamentale differenza rispetto alla tragedia antica: il processo di trasformazione in fieri fra l’universo del mito e quello proprio della città e della flilosofia non permetteva a nessuno de17 Ibid.
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gli attori in gioco all’interno del dramma di percepire un orizzonte diverso dall’interconnessione. Anche laddove le soglie culturali invisibili erano percepite – come avviene, abbiamo visto, con il rovesciamento di Creonte e i presagi di Tiresia, ad esempio – esse rappresentavano un confine quasi impossibile da evitare, una voragine irresistibile in cui precipitare, per la semplice ragione che la coscienza stessa del carattere drammaturgico ne era interconnessa, non potendovisi ribellare. Nella nostra analisi abbiamo infatti messo in luce come i riferimenti semiotici dei caratteri antichi, essendo condivisi con quelli degli altri, non consentivano una proairesis, un’autonomia decisionale, per la quale un singolo individuo condivideva uno spazio simbolico in modo problematico: retaggio, questo, chiaramente, del sentire e del destino comune che accomunava i personaggi dell’epica l’orizzonte dei significati. In questo sistema semiotico, è tutto molto diverso: la soglia simbolica invisibile che separa il rapporto formale fra i caretteri che vanno, hegelianamente, in reciproca conchiusone, non è dunque un “danno collaterale”, per così dire, derivante da un processo di protrazione della mente dal pensiero mitico. È anch’essa il prodotto di un lavorìo culturale, di un’elaborazione linguistica che rimarca ciò che è nell’orizzonte referenziale e ciò che non lo è. Altri due riferimenti culturali e poi, infine, saremo pronti a riprendere la tesi di Franco Moretti del 1979. Questo è Richard Hooker, il grande ideologo della cultura Tudor: Now if nature should intermit her course and leave altogether, though it were but for a while, the observation of her own laws; if those principal and mother elements of the world, whereof all things in this lower world are made, should lose the qualities which now they have; if the frame of that heavenly arch erected over our heads should loosen and dissolve itself; if celestial spheres should forget their wonted motions and by irregular volubility turn themselves any way
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as it might happen; if the prince of the lights of heaven, which now as a giant doth run his unwearied course, should as it were through a languishing faintness begin to stand and to rest himself; if the moon should wander from her beaten way, the times and seasons of the year blend themselves by disordered and confused mixture, the winds breathe out their last gasp, the clouds yield no rain, the earth be defeated of heavenly influence, the fruits of the earth pine away as children at the withered breasts of their mother no longer able to yield them relief: what would become of man himself […]?18
Esiste un ordine ideale che è il modello del corpo politico ed è quello delle “celestial spheres”, l’“heavenly arch erected our heads”, e poi esiste la “nature”, una hyle, per così dire, che potrebbe sgretolarsi se il mondo naturale smettesse di rispettare le leggi con cui è modellato il cosmo, che sono, si diceva, trascendenti. Se il mondo materiale, e lo Stato in particolare, non è disegnato dunque sulla base del modello celeste, il tempo esce “fuor di sesto”, per usare le parole di Hamlet, o per riprendere questo stesso passaggio di Hooker: “the times and seasons of the year blend themselves by disordered and confused mixture”, una oscena mescolanza dell’ordine delle cose che però esiste solo se crolla il degree della Elizabethan world picture. Per avere uno schema visivo chiaro di quest’ultima, e del suo ruolo strutturale all’interno del processo di rifunzionalizzazione della forma tragica antica basata sulla gestione dell’ambiguità, è forse utile fare un raffronto mentale fra lo schema basato su un sistema per semiosfere interconnesse della tragedia antica e la rappresentazione del body politic nella copertina del celebre trattato neoaristotelico di John Case, la Sphaera civitatis: 18 R. Hooker, Of the laws of ecclesiastical polity, preface, book I, A. S. McGrade (a cura di), Raymond Guess Cambridge University press, Cambridge 1989, p. 60.
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Se facciamo un confronto fra lo schema visuale delle semiosfere interconnesse del capitolo sul dramma antico e questo, ricavato sul modello aristotelico dei cieli concentrici, comprendiamo la differenza fra i due contesti culturali. Mentre nello schema che faceva riferimento al contesto precedente l’interconnessione delle sfere non aveva un centro, qui il centro invece è ben evidente: è l’“iustitia immobilis”19. 19 Per un’analisi dettagliata dell’uso del globo come metafora cognitiva dello Stato e del regno in epoca elisabettiana rimando a
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Si tratta della giustizia immobile che è esercitata dalla Sovrana, che è il centro di un modello del cosmo per cieli concentrici di matrice aristotelica. Se osserviamo bene possiamo anche notare come i vari cerchi concentrici che caratterizzano questa visione tragica associno macrocosmo e microcosmo secondo principi analogici ben definiti, poiché associano le virtù cardinali – attributi necessari al buon governo, che è possibile osservare in basso, nel disegno – e i simboli dei pianeti che ruotano al centro. È un mondo fittamente interconnesso, ma la serie di connessioni nella mente del poeta nasce al prezzo di una chiusura, una separazione del cosmo tragico, che qui coincide con il corpo politico, che deve essere unico, unitario e compatto sotto l’abbraccio della sovrana che quasi mima il gesto di questa separazione. È anche questo il senso con il quale si intende che interconnessione (ovvero associazione mentale) e separazione, nella creazione di una visione del mondo, sono inevitabilmente collegate. Il sistema di analogie presuppone un collegamento fra le virtù cardinale i nove cieli. Cosa ancor più interessante, nella penultima sfera c’è un riferimento alla Star Chamber. Possiamo qui vedere come l’ideologia Tudor non solo si era inserita nella visione del mondo elisabettiana come suo perno indissolubile, ma in uno dei suoi emblemi più suggestivi si riferisce, nell’esaltare il potere conservatore della retorica assolutista, a quello che fu il braccio più potente di gestione del potere assoluto e di soppressione dei vincoli feudali che uno stato in rapida riorganizzazione politico-amministrativa avesse a disposizione20. E. Kipplekott, Power and Politics: the use of the globe in Reinassance portraiture in “Globe studies” n. 49/50, 2001/2002, pp. 121-138. 20 Il grande poeta novecentesco E. L. Masters pubblicò, nel 1904, una raccolta di saggi dal titolo The new Star chamber and other
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Nel manifestare l’incarnazione della propria natura trascendente, lo Stato assoluto cela nell’immagine del potere anche un indizio di ciò che è al di sotto della sua retorica: ciò ne rivela la profonda ambiguità. Alla luce di questa esplicita tematizzazione del conflitto contraddittorio fra interconnessione di significati e di loro separazione, come qualcosa da cui dipende la sorte dell’intero Stato, possiamo tornare alla tesi di Moretti e del suo saggio del ’79: Ho detto che in Gorboduc il re appare come un tiranno, e la cosa va chiarita, perché a prima vista sembra vero il contrario. Come si può essere tiranni se si cessa di essere re? Ma la contraddizione è solo apparente. Nel senso che si manifesta come essays, in cui ricorda il noto ruolo di questa corte giuridica nella gestione dei nemici aristocratici della Corona: “For liberty was never attacked under the banner of despotism; but always under the banner of liberty. Religious and political persecutions and the sanguinary administration of internal government have always held aloft the standard of liberty, or the general welfare. Nor is it remarkable now that the sponsors of the “labor injunction” should urge in its defense its efficacy in preserving the liberty of the employer to hire whom he pleases; and the liberty of all men to obtain work without molestation. This is the outworn sophistry of kings and the complaint and ferocious magistrates who did their will” (E. L. Masters, The new Star chamber and other essays, Wentworth Press, Chicago 2019, p. 15). Il bersaglio di Edgar Lee Masters, in questi saggi è la politica neocoloniale che il governo degli Stati Uniti stava compiendo anche grazie alla vittoria nella guerra ispano americana del 1898. Ma è molto significativo che l’autore scelga come titolo un’istituzione di antico regime come la Star chamber per mettere sotto accusa le politiche espansionistiche del governo americano, coperte da una legittimità legale come quella fornita ai Tudor dalla suddetta corte. Fra gli studi più aggiornati sull’argomento, che ricostruiscono i vari sviluppi della corte come braccio armato dell’assolutismo, segnalo J. G. Crawford, A Star Chamber Court in Ireland – the Court of Castle Chamber 1571-1641 Four Courts Press, Dublin 2005.
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una decisione sovrana, atto d’arbitrio. Il vero conflitto è tra la volontà di Gorboduc e la ragione dei consiglieri. In parole elisabettiane fra Will e Reason.21
L’autore è qui molto chiaro: sebbene si debba tenere presente l’immagine del mondo elisabettiana per comprendere la tragedia, questa ci spiega la realtà delle cose solo in parte. La tragedia, infatti, può funzionare da momento di distruzione ideologica di quell’immagine e non di sua conferma. E qui c’è un’altra grande differenza fra la tragedia antica e la tragedia moderna, che è necessario mettere in luce prima di potere descriverne la trasformazione dall’una all’altra. La tragedia antica, infatti, non aveva questa funzione di contrasto, di demolizione del sistema ideologico, ne aveva tuttavia una, – come mostrato – di sollievo derivante dallo scioglimento di una serie di contraddizioni culturali all’interno di un sistema di significati, e nel contesto della polis era questo il primo gesto politico, così come una sua peculiare forma di mathos. La proposta che si cercherà di argomentare nel capitolo successivo è dunque questa: è esattamente attraverso la contraddizione generata dalla frizione fra le due forme, la prima tipica di un cosmo interconnesso, la seconda tipica del cosmo separativo, che si crea il processo di rifunzionalizzazione. Per capirlo dobbiamo rivolgerci ai due termini base della trattatistica etico politica ricavati dalla Elizabethan World Picture, la Will intesa come volontà di comando del sovrano, universale e politicamente autodeterminata, e la Reason, intesa come funzione di legittimazione etico razionale di tale potere: incarnata dagli aristocratici lealisti, così come dai soldati e i “liegeman” che circondano le figure regali 21 F. Moretti, La grande Eclissi, cit., p. 57.
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nelle opere shakespeariane. Come ha scritto Nigel Wolket in uno studio di vasto respiro edito nel 2003 sulla filosofia della mente alla base del riformismo hookeriano, Will e Reason erano effettivamente categorie con le quali si concettualizzava culturalmente il senso della natura umana, si sovrapponeva, di nuovo, la natura e la cultura: However much scholastic theories of mind may differ in points of substance, they tend to have very basic common features, most notably the tendency to see the mind in terms of interaction of such discrete faculties or powers of the reason, the will and sensitive appetite.22
Si proverà a mostrare nel capitolo successivo: la Will shakespeariana del monarca è interconnessa alla Reason nel senso che abbiamo spiegato nel capitolo precedente. Ad essa sono associate tutta una serie di caratteristiche culturali proprie della forma assolutista al punto che, per la forma tragica, è impossibile pensarla scissa da altre componenti culturali come, la ragione che collega gesto di violento arbitrio del monarca a quel ruolo preciso nel sistema etico razionale che abbiamo provato a descrivere finora. È proprio questa interconnessione formale fra le due facoltà hookeriane, residuo (chiaramente, solo sul piano formale) dell’interconnessione semantica del rapporto della tragedia antica con il mito, a generare la crisi e, di conseguenza, a portare al ritorno della tragedia nella modernità. In questo processo di riattivazione e ritorno della tragedia, tuttavia, trovandoci in un contesto separativo, il processo rituale della peripezia antica, basata sulla gestione dell’ambiguità, sarà interrotto e non potrà avvenire; è essenzialmente questa contraddizione che porterà, attra22 N. Voak, Richard Hooker and reformed theology, a study on reason, will and grace, Oxford university press, Oxford 2003, p. 25.
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verso il processo di rifunzionalizzazione della forma, a mostrare come la tragedia muti. 2.2 Il ritorno della tragedia
È arrivato il momento di mostrare come una parte del corpus delle tragedie shakespeariane debba essere visto come una rifunzionalizzazione del modello strutturale della tragedia antica; un adattamento che darà vita così alle forme della tragedia moderna. Ciò implica una trasformazione da una tragedia basata sulla gestione dell’ambiguità del mito ad una tragedia basata su un’idea di “totalità etica”. La conseguenza di questa trasformazione è precisamente il fatto che i due giochi linguistici che raccontano l’ambiguità su cui si fonda la tragedia, racconteranno sì la totalità etica, ma lo faranno ciascuno “a modo proprio”, come ogni gioco linguistico, di fatto, fa sempre. Per di più, poiché la nascita di tale forma si basa su un fondamento ambiguo, su un fondamento incerto e semanticamente inaffidabile – così come abbiamo visto essere la consistenza del mito all’interno del dramma antico – inevitabilmente ciò implicherà il fatto che la totalità tragica che queste due forme raccontano sarà sempre, come in una reazione a catena, una totalità etica mancata. Conviene anche, a questo punto, riprendere quanto detto nell’introduzione e anticipare quale sarà, in termini genealogici, la funzione di queste due forme, la quale ci accompagnerà lungo tutto il percorso di questo genere letterario nel suo rapporto con la tragedia antica. La tragedia come scontro fra i caratteri, in definitiva, rimarrà nel successivo sviluppo della tragedia come relitto della forma basata su semiosfere interconnesse. Ha pienamente dunque ragione Hegel a pensare al dialogo come l’essenza più intima di questo genere tragico,
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per quanto, nella realtà della tragedia antica, sia abbiamo visto esso un dialogo basato su equivoci. E, di conseguenza, ha perfettamente ragione lo Szondi autore de Il dramma moderno – a dispetto dello Szondi autore del Saggio sul tragico – a pensare all’essenza della nascita del dramma moderno come a una perdita della struttura intimamente dialogica della tragedia antica, come illustrato nel capitolo precedente: l’adattamento formale della tragedia, e il suo sfociare in un nuovo genere letterario corrisponde, esattamente, a tale perdita. Se la tragedia come scontro tra i caratteri è dunque un relitto del genere tragico antico e interconnesso, interpretare le grandi tragedie shakespeariane della crisi della sovranità come un venir meno della struttura formale e rituale della tragedia del rovesciamento ci permetterà di creare inferenze sul senso del rovesciamento in chiave moderna. Da un lato, ricordiamo, il rovesciamento antico avveniva per via dell’assenza di proairesis, autonomia decisionale dei personaggi tragici, e per l’attraversamento di una soglia culturale invisibile. Il rovesciamento tragico moderno vi è collegato genealogicamente: esso deriva dall’ambivalenza strutturale fra azione drammaturgica e valori nel dramma antico; ed è precisamente ciò che permetterà di storicizzare questo gioco linguistico della tragedia. Man mano che il carattere mantiene tutto il senso dei valori drammaturgici che definiscono l’ideologia del drammaturgo, la forma del rovesciamento potrà avvenire. Il processo di rifunzionalizzazione della struttura tragedia antica nel nuovo contesto culturale comincia con il secondo lavoro tragico mai scritto da Shakespeare, Romeo and Juliet. In questo preciso dramma, pur mantenendo strutture semantiche e sintattiche della tragedia della propria epoca, in un determinata scena del dramma Shakespeare ha attivato la forma enunciativa della trage-
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dia antica, forma enunciativa che poi, subito, sarà portata a trasformazione. Per ragioni argomentative, vorrei cominciare l’analisi di questo testo shakespeariano precisamente da questo punto del dramma: si tratta della seconda scena del terzo atto; subito dopo tornerò indietro nell’opera e si ripercorrerà brevemente il testo da principio. Si tratta del momento in cui la Nurse avverte Juliet del feroce scontro alla spada fra l’amato “kinsman”23 Romeo, e un altro “kinsman”, Tybalt. È solo uno fra i moltissimi giochi di parole che costellano questa tragedia, a cominciare da quelli sulla “maidenhead” (la verginità) che aprono il primo atto durante la scaramuccia verbale fra Sampson e Gregory; questi ultimi preludono chiaramente, a nostro modo di vedere, al monologo di ispirazione ovidiana “Gallop apace”, in cui Juliet esprime trepidante attesa per la perdita della sua virtù, prossima, annunciata e implicata nella famosa scena in cui Romeo parte per l’esilio. Terminata questa scena, la nutrice, dopo un breve istante di reticenza, comunica a Juliet la morte di Tybalt, il cugino di primo grado, per mano dell’amato Romeo. È un momento di grande incertezza per la giovinetta, in cui il personaggio risulta sbalordito, posto fra due istanze contraddittorie e per lei incomprensibili, l’amore sentimentale per Romeo e il legame di sangue per Tybalt:
23 Chiaramente, l’ambivalenza strutturale che caratterizza questo dramma ha come primo indizio esattamente questo pun dove kinsman sta per congiunto, sia esso l’amato sposato in segrete nozze, sia esso nel senso di cugino che nel senso di marito.
162 Juliet Now, nurse, what news? What hast thou there? the cords That Romeo bid thee fetch? Nurse Ay, ay, the cords. Throws them down Juliet Ay me! what news? why dost thou wring thy hands? Nurse Ah, well-a-day! he’s dead, he’s dead, he’s dead! We are undone, lady, we are undone! Alack the day! he’s gone, he’s kill’d, he’s dead! Juliet Can heaven be so envious? Nurse Romeo can, Though heaven cannot: O Romeo, Romeo! Who ever would have thought it? Romeo! Juliet What devil art thou, that dost torment me thus? This torture should be roar’d in dismal hell. Hath Romeo slain himself? say thou but “I,” And that bare vowel “I” shall poison more Than the death-darting eye of cockatrice: I am not I, if there be such an I; Or those eyes shut, that make thee answer “I.” If he be slain, say “I”; or if not, no: Brief sounds determine of my weal or woe [...] What storm is this that blows so contrary? Is Romeo slaughter’d, and is Tybalt dead? My dear-loved cousin, and my dearer lord?
La nascita del dramma moderno Giulietta Dunque, nutrice, che notizie mi porti? Che hai lì? Le corde che Romeo ti disse di procurare Nutrice Sì, sì, le corde. [Le getta per terra] Giulietta Ahimè, che notizie hai? Perché tormenti così le tue mani? Nutrice Ah, che giorno! Egli è morto, è morto, è morto! Siamo perdute, o signora, siamo perdute! Ah, che giorno! È andato, è stato ucciso, è morto! Giulietta II Cielo può essere così crudele? Nutrice Romeo può esserlo, ma il Cielo non può. O Romeo! Romeo! Chi l’avrebbe mai immaginato? Romeo! Giulietta Che diavolo sei tu, che mi tormenti così? Questo supplizio farebbe ruggire anche nel tremendo [inferno! Romeo si è ucciso? Dimmi soltanto sì, e questa sillaba “sì” sarà più velenosa degli occhi del basilisco che lanciano frecce di morte. Io non son io, se vive questo “sì” o chiuderò quegli occhi che ti fan dire “sì”. Se egli è morto, dimmi “sì”, altrimenti, dimmi “no”. Queste due sillabe decideranno per me la felicità o la sventura [...] Nutrice O Tebaldo, Tebaldo, o mio più caro amico! O gentile Tebaldo, vero gentiluomo! Non fossi mai tanto vissuta da vederti morto!
La scomparsa del Coro nel teatro di Shakespeare 163 Then, dreadful trumpet, sound the general doom! For who is living, if those two are gone? Nurse Tybalt is gone, and Romeo banished; Romeo that kill’d him, he is banished. Juliet O God! did Romeo’s hand shed Tybalt’s blood? Nurse It did, it did; alas the day, it did! Juliet O serpent heart, hid with a flowering face! Did ever dragon keep so fair a cave? Beautiful tyrant! fiend angelical! Dove-feather’d raven! wolvish-ravening lamb! Despised substance of divinest show! Just opposite to what thou justly seem’st, A damned saint, an honourable villain! O nature, what hadst thou to do in hell, When thou didst bower the spirit of a fiend In moral paradise of such sweet flesh? Was ever book containing such vile matter So fairly bound? O that deceit should dwell In such a gorgeous palace! Nurse There’s no trust, No faith, no honesty in men; all perjured, All forsworn, all naught, all dissemblers.24
Giulietta Che bufera infuria in ogni senso! Romeo è ucciso? E Tebaldo è morto? Il mio carissimo cugino e il mio signore ancora a me più caro? Allora, o spaventosa tromba, suona il Giudizio Universale! Chi può vivere ancora se loro sono morti? Nutrice Tebaldo è morto, e Romeo è messo al bando. Romeo ha ucciso Tebaldo e sarà mandato in esilio. Giulietta O Dio! La mano di Romeo ha sparso il sangue di Tebaldo? L’ha sparso, l’ha sparso, maledetto giorno, l’ha sparso! Giulietta O cuore di serpente, in un corpo simile a un fiore! Quale drago abitò in un antro così bello? Bellissimo tiranno! Angelico demonio! Corvo con ali di colomba, agnello famelico come un lupo! Lurida materia dall’apparenza divina! Perfetto contrario di quello che sembravi! Santo dannato! Nobile farabutto! O natura, che metterai nell’inferno, se hai accolto lo spirito di un demonio dentro il paradiso mortale di un corpo così perfetto? Vi fu mai un libro così ben rilegato, e di contenuto così vile? Può l’inganno abitare in un palazzo così sontuoso? Nutrice Non c’è lealtà, né fede, né onestà negli uomini! Tutti spergiuri, tutti bugiardi, tutti malvagi, tutti ipocriti. 25
24 25
24 W. Shakespeare, Romeo and Juliet, new edition, a cura di, René Weis, London, Bloomsbury 2012, p. 250. 25 W. Shakespeare, Romeo e Giulietta, tr. it., a cura di G. Melchiori, Mondadori, Milano 1995, p. 312.
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La scena è stata relativamente trascurata dalla critica, ed è per lo più vista come un interludio momentaneo dopo i fatti avvenuti nel duello che, secondo le molte analisi della critica shakespeariana classica italiana26, divide questa tragedia in due parti. La prima parte assimilabile per lo più al repertorio della commedia classica shakespeariana come Much Ado o i Two Gentlemen – che condivide tra l’altro con Romeo and Juliet l’ambientazione veronese, adatta per argomento tradizionalmente alla commedia e al Romance, ma non alla tragedia; – e una seconda parte, che consiste essenzialmente nel precipitare degli eventi tragici dopo l’esilio di Romeo, il suo ritorno a Verona e la morte tragica degli amanti nel finale. Oltre al pun sulla parola kinsman, che sintetizza in un unico termine lo statuto ambiguo assunto da Romeo in questo momento del dramma, congiunto (perché i due infatti sono già sposati) che uccide un altro congiunto, il cugino27: è un momento di radicale indecisione, per Juliet, in cui è confusa e non sa a quale sentimento, fra i due contrastanti, cedere. Questa breve scena è in realtà un momento che alla luce della teoria della tragedia antica acquisisce grande valore. La cosa non era sfuggita, del resto, a un fine ermeneuta della tragedia greca come René Girard, che infatti inizialmente vi dedica uno spazio molto grande nel progetto del suo libro shakespeariano, Teatro dell’invidia; la riflessione si amplia a tal punto, poi, che Girard decide addirittura 26 Su questo cfr., imprescindibile, G. Melchiori, Shakespeare, genesi e struttura delle opere, Laterza, Roma – Bari 2005, pp. 455-464. 27 R. Girard, Shakespeare, Teatro dell’invidia, Adelphi, Milano 1998, posizione 193.
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di trasferire il materiale in un saggio autonomo, dal titolo evocativo: The passionate oxymoron. Il critico prende in considerazione la serie di ossimori cui reagisce Juliet alla fine dello scambio riportato, quando Juliet reagisce alla battuta della Nurse che la coglie la contraddizione ossimorica “will you speak well of him who killed your cousin?”: When considered in and by themselves, these oxymora make little sense. Take the expression “fiend angelical” for instance. A “fiend” and an “angel” are poles apart and to associate the two seems absurd. If Juliet regards Romeo as a fiend, she should say so and leave it at that. If she regards him as an angel, she should says so and keep quiet. To fuse the two together and call Romeo a “fiend angelical” is a contradiction in terms and it should be avoided.28
Nel considerare il ruolo strutturale di questo passaggio all’interno dell’opera, è interessante che Girard, poco dopo, chiarisca come questi ossimori indichino che “l’odio nell’amore” di Juliet per Romeo gioca il ruolo del pharmakon all’interno della tragedia greca. In Romeo and Juliet, the hate inside the love plays a role equivalent to that of the pharmakon ritual in the dionysiac cult of ancient Greece. This violence is good and bad at the same time, violent and peaceful more or less simultaneously.29
Abbiamo visto infatti che il pharmakon, all’interno della forma antica, era un personaggio interconnesso e ambiguo la cui espulsione doveva essere “mimata”, per così dire, ritualmente, nella forma del rovesciamento, per gestire l’ambivalenza semantica della componente mitica di 28 R. Girard, The passionate oxymoron in Romeo and Juliet, in “Société française Shakespeare”, 7, 2007 p. 42. 29 Ivi, p. 46.
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questa particolare forma di dramma, minacciosa eppure buona, crudele eppure amabile. Si badi ora al fatto che Girard non dice che è Romeo a svolgere il ruolo del pharmakon all’interno della tragedia. È, al contrario, il sentimento di odio e amore stesso di Juliet nei confronti di Romeo a svolgere tale ruolo. A ben vedere, in Romeo and Juliet non c’è un mythos, ovverosia non c’è un plot che riproduca anche minimamente la peripezia antica, intesa come rovesciamento della volontà, ma, al contrario, il senso tragico è comunicato solo dai sentimenti dei personaggi, e in particolare da un personaggio, Juliet: Shakespeare is aware, I feel, of the real impression conveyed by Juliet’s tirade and, far from emphasizing the secret décalage with the plot, he seems eager to reinforce the feeling the delicate reader must have that something is slightly out of kilter.30
Slightly of kilter, c’è qualcosa fuori posto fin dall’inizio all’interno dell’opera nell’atteggiamento di Juliet nei confronti di Romeo, è questo sentimento di pathos contraddittorio che viene espulso dalla potente catarsi finale di questo dramma che il lettore o lo spettatore devono avvertire per coglierne il senso tragico. A partire da questa semplice intuizione girardiana è possibile dimostrare che Romeo and Juliet è una prima fase dell’adattamento strutturale della tragedia antica nella modernità proprio a causa del processo di crisi della sovranità in atto di cui il corpus maggiore shakespeariano è un’espressione. Ricordiamo, in proposito, il senso più strettamente linguistico del concetto di ambiguità, ovvero ambivalenza strutturale fra referente e significato. Un’analisi della tragedia dall’inizio ci potrà facilmente dimostrare che la rifunzionalizzazione della tragedia antica si basa sulla pre30 Ivi, p. 51.
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senza di un rapporto che i personaggi instaurano tra di loro, di interconnessione semantica, ovvero di credenza reciproca nel momento in cui tale credenza comincia a vacillare, si scatena la tragedia. La dinamica tragica si svilupperà infatti proprio grazie a quella interconnessione fra Parola e Azione che abbiamo imparato a conoscere nel dramma antico: la Parola del personaggio che svolge la funzione drammaturgica del Coro, perché conserva un punto privilegiato sui valori personali del drammaturgo (e questo è il personaggio di Juliet31), e l’Azione del personaggio che più di ogni altro porta al precipitare rovinoso degli eventi (Romeo), sono dunque interconnesse esattamente in questo senso. La nostra mente, educata secondo i criteri moderni e separativi, è tentata di instaurare un nesso causale e dunque consequenziale fra questi due fattori: l’incertezza di Juliet nei confronti di Romeo e la furia di quest’ultimo, che esprime tutta la sua mutabilità e incostanza giovanile – messa in chiaro durante tutta la tragedia – che conduce al drammatico equivoco finale che rovescia il setting del dramma da commedia in tragedia. La interconnessione, tuttavia, chiaramente, non è causale, armonizzante o etica, a meno di non voler cadere in una concezione ottocentesca del Coro che abbiamo ormai screditato; essa è al contrario metonimica ed indica un confine 31 Se il Coro debba essere o no il punto di vista del drammaturgo è oggetto di dibattito: è sicuramente un io lirico che abbraccia in sé un punto di vista univoco sui fatti, in un tipo di dramma dove di univoco non c’è nulla.Va evidenziato che molti critici hanno voluto vedere nella caratterizzazione del personaggio di Juliet la voce del drammaturgo stesso. Al punto che R. Rutelli, riadatta addirittura il motto flaubertiano coniato per Madame Bovary, asserendo che il drammaturgo vorrebbe suggerici “Giulietta c’est moi” R. Rutelli, L’effabile, analisi di una riflessione sul linguaggio, Liguori, Napoli 1985, p. 32.
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ormai labile fra le semiosfere al cui centro ci sarebbero i due personaggi. Questa coincidenza fra referente e significato verrà, per l’appunto, bruscamente interrotta proprio alla fine del terzo atto (My only love sprung from my only hate! Too early seen unknown, and known too late! Prodigous birth of love it i sto me, That I must love a loathed enemy.)
introducendo in essa un’ambivalenza nel rapporto di identità di Romeo and Juliet che porterà alla tragedia. A questo punto, occorre rileggere alla luce di questo nesso semantico fondato sulla interconnessione tra i personaggi, tutta una serie di tesi classiche dedicate a questa giovanile tragedia shakespeariana. In primo luogo la connotazione semiotica è preannunciata, come ampiamente noto a chi conosce questa tragedia, dall’articolazione retorica delle parole di Romeo, che fin da subito viene caratterizzato come da una sorta di caricatura della figura del cavaliere cortese: sfoderando una poesia ridondante che proviene dall’arsenale trobadorico (da leggersi, chiaramente, in chiave parodica) potremmo cominciare dal momento in cui Shakespeare infarcisce di retorica cortese volutamente stucchevole le frasi d’amore di Romeo per Rosalina:
La scomparsa del Coro nel teatro di Shakespeare 169 Romeo she’ll not be hit With Cupid’s arrow; she hath Dian’s wit; And, in strong proof of chastity well arm’d, From love’s weak childish bow she lives unharm’d. She will not stay the siege of loving terms, Nor bide the encounter of assailing eyes, Nor ope her lap to saint-seducing gold: O, she is rich in beauty, only poor, That when she dies with beauty dies her store. […] Benvolio Then she hath sworn that she will still live chaste? Romeo She hath, and in that sparing makes huge waste, For beauty starved with her severity Cuts beauty off from all posterity. She is too fair, too wise, wisely too fair, To merit bliss by making me despair: She hath forsworn to love, and in that vow Do I live dead that live to tell it now.32
Romeo essa non sarà colpita dalla freccia di Cupido perché ha la saggezza di Diana; poi è ben difesa nella forte armatura della sua castità e vive serena, lontana dal debole e infantile arco [d’Amore. Essa non permette di essere assediata da parole amo[rose, evita gli sguardi che tentano l’assalto, e non apre il grembo nemmeno all’oro che seduce perfino i santi. Essa è ricca di bellezza ed è soltanto povera in questo: che quando morirà, con la bellezza morirà la sua ricchezza. [...] Benvolio Ha dunque fatto voto di castità? Romeo Sì, e così risparmiandosi ha fatto un [enorme spreco, perché la bellezza, lasciata a digiuno [d’amore per eccesso di severità, deruba il futuro dell’eredità del [suo splendore. È troppo bella, troppo astuta, troppo [astutamente bella per meritare il paradiso [condannandomi all’inferno. 33
E ancora, sul finire del primo atto:
32 Ivi, p. 140. 33 W. Shakespeare, Romeo e Giulietta, cit., posizione 1232.
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Romeo When the devout religion of mine eye Maintains such falsehood, then turn
Romeo se la viva fedeltà dei miei occhi si dimostrasse cosi
tears to fires; And these, who often drown’d could never die,
possano le mie lacrime mutarsi in fuoco. [falsa,
Transparent heretics, be burnt for liars! One fairer than my love! the all-seeing sun Ne’er saw her match since first the world begun.34
E questi trasparenti eretici, che non possono morire (e tante volte annegarono nel pianto), siano bruciati come stregoni. Un’altra donna più bella del mio amore! Il sole, che tutto vede, non ne vide mai una simile a lei, dal principio del mondo.35
La critica tradizionale ha da subito individuato i versi di Romeo come sgraziati, malcerti ed una parodia dell’amore cortese36, che mettono in luce la sua sprovvedutezza, la sua avventatezza e immaturità attraverso uno dei tanti sbeffeggiamenti di Mercutio, proprio nel terzo atto, quello che taglia in due il dramma, è ancora più esplicito nel dipingerlo come tale: Mercutio Romeo, humorous, madman, passion, lover! Appear thou in the likeness of sigh; Speak but one rhyme and I am satisfied: Cry but one rhyme and I am satisfied: Speak but one rhyme and I am satisfied Cry but “Ay me” pronounce but “love” and “dove”;
Mercutio Non solo, ma lo evocherò: Romeo! Capriccioso! Pazzo! Amante furioso! Rivelati almeno con un sospiro, con una rima, e io sarò soddisfatto. Grida un semplice ahimè, pronuncia solo; bella; e stella; trova una dolce parola
34 W. Shakespeare, Romeo and Juliet, cit., p. 147. 35 Ivi, posizione 1333. 36 G. Melchiori, Shakespeare, genesi e struttura, cit., pp. 576-578.
La scomparsa del Coro nel teatro di Shakespeare 171 Speak to my gossip Venus one fair word, One nickname for her purblind son and heir, Young Abrahm Cupid, he that shot so trim When King Cophetua loved the beggar maid.37
per Venere, la mia comare, un soprannome per il figlio cieco, il suo erede, il giovane Abramo Cupido, che colpì nel segno quando il re Cofetua si innamorò della fanciulla povera.38
La serie di esempi potrebbe andare avanti ancora a lungo; quel che importa è che, per capire il processo di rifunzionalizzazione della tragedia antica il lettore mantenga sullo sfondo la serie di ossimori individuata da Girard nel centro esatto del dramma – quando la commedia progettata da Shakespeare si sta trasformando in tragedia – e li metta in relazione con una ambivalenza fra res e verba o più precisamente fra parola e azione che è a sua volta il riflesso della oscillazione semantica fra le semiosfere interconnesse dei due amanti. La testimonianza di come questa interconnessione venga percepita come autentica. Del resto è il famoso shared sonnet, in cui l’autenticità del rapporto fra i due viene conclamata: Romeo If I profane with my unworthiest hand This holy shrine, the gentle fine is this: My lips, two blushing pilgrims, ready stand To smooth that rough touch with a tender kiss. Juliet Good pilgrim, you do wrong your hand too much, Which mannerly devotion shows in this; For saints have hands that pilgrims’ hands do touch,
Romeo Se credete che io profani con la mano più indegna questa sacra reliquia (peccato degli umili, del resto), le mie labbra rosse come due timidi pellegrini cerche[ranno di rendere morbido l’aspro contatto con un tenero Giulietta [bacio. Buon pellegrino, voi fate un grave torto alla vostra mano, che non ha fatto altro
37 W. Shakespeare, Romeo and Juliet, cit., p. 181. 38 W. Shakespeare, Romeo e Giulietta cit., posizione 1724 -1725.
172 And palm to palm is holy palmers’ kiss. Romeo Have not saints lips, and holy palmers too? Juliet Ay, pilgrim, lips that they must use in prayer. Romeo O, then, dear saint, let lips do what hands do; They pray, grant thou, lest faith turn to despair. Juliet Saints do not move, though grant for prayers’ sake. Romeo Then move not, while my prayer’s effect I take. Thus from my lips, by yours, my sin is purged. Juliet Then have my lips the sin that they have took. Romeo Sin from thy lips? O trespass sweetly urged! Give me my sin again.39
La nascita del dramma moderno che dimostrare un’umile devozione. Anche i santi hanno le mani, e le mani dei pellegrini le toccano; palma contro palma: infatti è questo il bacio sacro dei palmieri. Romeo Ma i santi e i palmieri non hanno labbra? Giulietta Sì, pellegrino, labbra che servono per!a preghiera. Romeo Oh, allora, dolce santa, lascia che le tue labbra facciano come le tue mani; esse pregano, tu esaudiscile, in modo che la fede non si muti in disperazione. Giulietta I santi non si muovono, eppure esaudiscono coloro che li pregano. Romeo Allora non muoverti, così la mia preghiera sarà esaudita. [La bacia] Ecco, le tue labbra hanno tolto il peccato dalle mie.40
Questi versi meritano di essere ricordati perché, fuori di metafora, ci mostrano che è proprio la lirica – e di tragedia lirica, nel caso di Romeo and Juliet che stiamo parlando – lo strumento tramite il quale il poeta tragico si oppone culturalmente alla crisi dei fondamenti, alla crisi del rapporto di credenza fra la verità concessa ad un personaggio e la squalificazione – in progress come quella compiuta dal mito – per ribadire una identità – sperata più che realistica – fra referenti e significati, che sarà tradita con lo sviluppo della tragedia. 39 W. Shakespeare, Romeo and Juliet, cit., p. 172. 40 W. Shakespeare, Romeo e Giulietta, cit., posizione 1619.
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Come ha scritto Romana Rutelli, in un testo fortemente influenzato dal gergo strutturalista, ma ormai ampiamente divenuto un classico, in tutte le prime battute di Romeo, per lo meno fino alla fine del primo atto, “la funzione conativa è decisamente sopravanzata dalla riflessione metalinguistica e parodica sul codice cortese41” di cui questa serie di versi, praticamente in apertura del dramma, rappresenta un necessariamente parziale catalogo. Tuttavia, se è vero che, hegelianamente, la tragedia è dialogo, non possiamo che leggere, a questo punto, una tensione semantica fra lo shared sonnet da un lato, e la scadente lirica di maniera affidata al personaggio di Romeo, dall’altro. Tensione semantica fra realtà amorosa e autenticità intesa come spazio dialogico interconnesso ed espresso attraverso la recitazione di un sonetto caudato, pronunciato in comune fra le due principali funzioni drammaturgiche dell’opera, che poi sfocerà nella conclamata ambiguità del personaggio di Romeo alla fine del terzo atto, nel suo essere un personaggio contraddittorio, del suo essere “fied angelical”, “beautiful tyrant”. La tensione formale che sfocia nella ambiguità fra realtà e finzione, autenticità dell’Essere che è nei referenti e la falsità, la corrività e dunque la pericolosità delle parole, del resto, è affidata al liliale pathos di Juliet che l’avverte fin dall’inizio del dramma, nella Balcony scene, in cui dubita della loro veridicità in relazione allo status sociale del personaggio di Romeo: Tis but thy name is thy enemy, thou art thy self, thug not a Mondegue. O be some other name! What’s Montegue? It is nor hand, nor foot, nor harm, nor face, Nor any part belonging to a man.42 41 R. Rutelli, Romeo e Giulietta “l’effabile”, cit., p. 112. 42 W. Shakespeare, Romeo and Juliet, cit., p. 148.
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Se leggiamo, per rievocare le parole di Girard, queste frasi di Juliet come dei “delicate readers”, notiamo che il senso di tensione fra il referente e il significato testimoniato da queste battute molto famose debba essere interpretato alla luce di una relazione di tensione semantica più profonda, quella tra la parola di lei e l’azione di lui. Lo si vede chiaramente quando Juliet diffida del suo giurare, in questo passo: O, swear not by the moon, the inconstant moon, That monthly changes in her circled orb, Lest that thy love prove likewise variable.43
La distanza della voce del Coro – la voce “dell’autore”, impersonata dal personaggio di Juliet, e l’azione drammaturgica come mero referente, privo di significato culturale. I due si amano, ma se la cautela anima il personaggio di lei, la più tipica delle irruenze anima il personaggio di lui. Sul piano del sottotesto drammaturgico, dunque, la tragedia Romeo and Juliet è interpretabile come tragedia in sé, cioè come una struttura che porta verso quella che potremmo definire una catastrofe in senso tecnico, cioè un cambiamento di stato, solo se individuiamo le caratteristiche di asimmetria che costituiscono il dramma, ovvero – si perdoni la rapida semplificazione – la cautela del personaggio di lei e l’irruenza del personaggio di lui. Senza tenere presente la frizione fondamentale fra questi due elementi, non c’è modo di interpretare Romeo and Juliet come una tragedia in senso proprio. L’anomalia di questo dramma – tanto criticamente discussa nella storia degli studi shakespeariani – sta dunque nel fatto che la catastrofe non può che riguardare ambedue al contempo, al contrario per esempio dell’Edipo; questo elemento sarà in effetti il punto di base per rileggere tale anomalia 43 Ivi, p. 14.
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come l’effetto della trasformazione della tragedia, piuttosto che una stranezza immotivata. Juliet By a name, I know not how to tell thee who I am. My name, dear saint is hateful to myself Because it is an enemy to thee. Had I it written, I would tear that word.44
La riflessione tra la distanza fra referenti e significati – che, in un certo senso, è presente praticamente in tutto Shakespeare – in quanto traccia evidente del processo di trasformazione della tragedia dal paradigma antico al paradigma moderno, è ottenuta in uno scambio di battute che sfrutta l’aggancio della parola word che ritorna con tutta evidenza nella frase di Juliet che subito segue: “My ears have yet not drunk a hundred words Of thy tongue’s uttering, yet i know the sound.”45 Gli elementi di contrapposizione tra semantica e universo fisico-referenziale non possono quindi sfuggire per quanto concerne il personaggio di Juliet, come di quel personaggio che ne avverte la distanza e, in relazione a ciò il personaggio di Romeo può risultare “falso, incredibile o dall’esito incerto: “I know thou wilt say ‘Ay’, and Il take thy word. Yet, if thou swearest, Thou mayst prove false.”46 Il personaggio di Juliet percepisce, insomma, il rapporto ambivalente fra la parola e l’azione, fra linguaggio e volontà del carattere drammaturgico. Non deve meravigliare dunque, se questo rapporto di tensione semantica porta poi alla furia di Romeo nel quinto atto.
44 Ivi, p. 57. 45 Ivi, p. 217. 46 W. Shakespeare, Romeo e Giulietta cit., p. 112.
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È questo ciò che intendiamo per reversibilità, rapporto metonimico fra parola e azione, slittamento semantico fra ciò che un personaggio posto in un ruolo particolare pensa e l’azione drammaturgica. Senza questo elemento drammaturgico non abbiamo la tragedia. Arriviamo, dunque alla soluzione tragica: Romeo Give me that mattock and the wrenching iron. Hold, take this letter; early in the morning See thou deliver it to my lord and father. Give me the light: upon thy life, I charge thee, Whate’er thou hear’st or seest, stand all aloof, And do not interrupt me in my course. Why I descend into this bed of death, Is partly to behold my lady’s face; But chiefly to take thence from her dead finger A precious ring, a ring that I must use In dear employment: therefore hence, be gone: But if thou, jealous, dost return to pry In what I further shall intend to do, By heaven, I will tear thee joint by joint And strew this hungry churchyard with thy limbs: The time and my intents are savagewild, More fierce and more inexorable far Than empty tigers or the roaring sea.47
Romeo Prendi quel piccone e la leva di ferro. Tieni, prendi questa lettera; domani mattina consegnala a mio padre. Dammi la torcia. E ora, allontanati: qualunque cosa tu senta o veda, pena la vita, non interrompere il mio lavoro. Io scendo in questo letto di morte per ammirare ancora il volto della mia donna, e per togliere dal suo dito un anello prezioso, del quale ho bisogno per un uso a me caro. dunque! Ma se tu tornassi per spiare Il mio lavoro, per il Cielo, ti farò a pezzi e disperderò le tue membra per questo cimitero insaziabile. Questo momento, e ciò che decido, sono feroci, selvaggi e inesorabili più delle tigri affamate e del mare che rugge.48
Romeo è una furia: e con la sua furia esprime il lato negativo del pharmakos preconizzato da Juliet nel terzo atto, il momento in cui avviene la rifunzionalizzazione della forma tragica basata sull’ambiguità: senza questa sfuriata di Romeo che produce una climax molto grande nel dramma, 47 W. Shakespeare, Romeo and Juliet, cit., p. 228,. Corsivi miei. 48 W. Shakespeare, Romeo e Giulietta, cit., p. 123.
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non avremmo la catarsi finale e non avremmo dunque neanche la tragedia. E tuttavia: non capiremmo la tragedia se non comprendessimo che i due personaggi sono interconnessi,u il che vale a dire che la preconizzazione dell’ambiguità tragica di Romeo, la furia del personaggio e l’espulsione del male quando Juliet, nella scena finale, tira fuori il pugnale e si dà la morte nella cripta, sono parte di un unico processo formale, non scomponibile perché basato su un rapporto associativo e non logico o di causa ed effetto; qual è, appunto quello della interconnessione, l’interdipendenza fra la parola del Coro e l’Azione drammaturgica. A partire da questa breve analisi, possiamo tornare al punto principale; all’inizio di questo lavoro abbiamo scritto di come la tragedia, nella sua evoluzione, riguardi essenzialmente due epoche, l’epoca antica: su cui ci siamo soffermati nel capitolo precedente e l’epoca moderna, che è ormai prossima a vedersi. Per capire come la vicenda di Romeo and Juliet possa essere il primo passo del processo di rifunzionalizzazione della prima verso il secondo dobbiamo rievocare il problema fondamentale per cui la forma interconnessa del dramma – quella per cui senso e significato slittano fra il piano delle parole e quello dell’azione teatrale – è in realtà in un rapporto secondario rispetto al contesto culturale e al sistema di segni in cui ci troviamo. È proprio perché la forma interconnessa del dramma è un materiale rifunzionalizzato da un’altra epoca, che la tragedia ora analizzata non ha un mythos: abbiamo infatti verificato che in alcune circostanze – per esempio, ricordiamo, nel parodo dell’Antigone – è il Coro ad avere l’aspetto di un personaggio tragico. Ciò nondimeno, nel setting drammaturgico, il mythos è essenziale: c’è sempre una componente drammaturgica che racconta la storia di un personaggio tragico la cui volontà viene rovesciata attraverso una peripezia o, come nel caso di Antigone, abbiamo visto, due rovesciamenti.
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La ragione per cui in Romeo and Juliet manca un mythos chiaro e rintracciabile dipende esattamente dal fatto che si tratta di una tragedia moderna dalla forma antica basata sull’interconnessione, che però si trova in un contesto culturale di tipo separativo, ed è perciò coinvolta in un processo di rifunzionalizzazione più grande della forma tragica antica che, in Shakespeare, si identifica con la crisi della sovranità; ma che porterà anche alla crisi e all’adattamento formale del modello drammaturgico precedente. L’assenza di mythos, cioè di mito del rovesciamento, è insomma l’indice che la forma interconnessa che tiene insieme fatti e valori sta andando in crisi: e la crisi di questa forma si concreta, esattamente, come vedremo passando a Hamlet nell’impossibilità di operare una struttura rituale del rovesciamento antico all’interno del sistema di una Weltanschauung separativa. Detto ancora in altri termini, Romeo and Juliet è il primo ed ultimo esempio di tragedia con una componente lirica che possa avere un ruolo come quello della tragedia antica, laddove, lungo la rifunzionalizzazione della tragedia operata dalla crisi della sovranità, sarà la componente epica a essere messa in discussione. Quest’ultima, essenzialmente rappresentata dall’immagine del sovrano, la quale, proprio attraverso la forma della tragedia, sarà sconsacrata. Come accade spesso nella storia delle forme, per ottenere un risultato, in questo caso la sconsacrazione di un’immagine regale, si ottiene, secondo un processo di rifunzionalizzazione, anche la modifica della forma di partenza.
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2.3. La crisi della Parola
La struttura di Hamlet dimostra la tesi appena enunciata, nell’essere – assieme ai drammi problematici – par excellance, la crisi della forma interconnessa: in Hamlet l’interconnessione epico-tragica e la separazione moderna fra universi tragici si incontrano e si contrappongono, dando il via al vero e proprio processo di rifunzionalizzazione. Come in Romeo and Juliet, in Hamlet, infatti, troviamo entrambe le due forme che caratterizzano la struttura tragica interconnessa, la Parola e l’Azione (il Coro e il Mito): occorrerà, però, capire quel che è cambiato. Ora, quando si parla di crisi dell’Azione in una tragedia come Hamlet, il riferimento al triste protagonista è fin troppo evidente. Anche se, come andrebbe precisato e si preciserà lungo l’analisi, la messa in discussione dell’azione regale non riguarda solo Hamlet, ma anche Claudius, il personaggio dell’usurpatore che, come noto, nell’in-folio della tragedia è semplicemente annotato come “King”. Più difficile, silenziosa e insidiosa, nella tragedia che ci apprestiamo ad analizzare è la crisi della Parola, portatrice dei valori cui l’azione corrisponde, secondo il regime dell’interconnessione. La risposta va cercata all’inzio del dramma, e si tratta, chiaramente, di quel gruppo di personaggi della tragedia che rimane sempre fedele all’erede al trono di Danimarca, che compaiono fin dalla prima battuta del dramma “Who’s there?”: Enter Barnardo and Francisco, two sentinels. Barnardo Who’s there? Francisco Nay, answer me. Stand and unfold yourself. Barnardo Long live the King.
Entrano Bernardo e Francesco, sentinelle Bernardo Chi vive? Francesco Alto là! Ditelo voi, piuttosto. Chi siete? Bernardo Viva il re! Francesco
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Francisco Barnardo? Barnardo He. Francisco You come most carefully upon your hour. Barnardo ’Tis now struck twelve. Get thee to bed, Francisco. Francisco For this relief much thanks. ’Tis bitter cold And I am sick at heart. Barnardo Have you had quiet guard?
Bernardo? Bernardo Proprio lui. Francesco Puntuale fino allo scrupolo. Bernardo È mezzanotte suonata; va a letto, Francesco. Francesco Grazie del cambio; non reggo più, qui si gela. Bernardo È andato tutto liscio? Francesco Non s’è mosso un topo.
Francisco Not a mouse stirring. Barnardo Well, goodnight. If you do meet Horatio and Marcellus, The rivals of my watch, bid them make haste. Enter Horatio and Marcellus. Francisco I think I hear them. Stand ho, who is there? Horatio Friends to this ground. Marcellus And liegemen to the Dane.49
Bernardo Buona notte, allora. E se incontri i miei compagni di guardia, Orazio e Marcello, digli di spicciarsi. Entrano Orazio e Marcello. Francesco Mi par di sentirli. Alto là! Chi vive? Orazio Amici. Marcello Vassalli del danese.50
L’espressione “liegeman to the Dane” già fornisce molti indizi: in primo luogo ci fornisce un indicazione decisiva sul perché, fra tutti i personaggi del trama sia proprio la guardia armata di Danimarca a rivestire il ruolo – sul piano enunciativo, beninteso – che fu del Coro. Hamlet è infatti un dramma sulla lotta per la legittimità della successione al trono: inevitabile dunque che a svolgere il ruolo di quella funzione drammaturgica che porta con sé i valori culturali del drammaturgo sia lo schieramento di due fa49 W. Shakespeare, Hamlet, a cura di N. Taylor, A. Thompson, Bloomsbury, London 2007, p. 166. 50 W. Shakespeare, Amleto, tr. it. E. Montale, Mondadori, Milano 1993, posizione 123.
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zioni: da un lato i fedeli al regno del vecchio Hamlet, e in seguito, più avanti, il personaggio di Claudius, l’usurpatore al trono. Sebbene di grado inferiore all’interno della scala gerarchica, rispetto a nobili come Kent e Gloucester, questi personaggi, Marcellus, Francisco, Horatio, fanno parte di quell’insieme di caratteri che anche in altre tragedie come King Lear sono quanto più assimilabili alla Reason, che eleva il mero appetite del sovrano ad una Will che permette al re, come abbiamo ricordato nel paragrafo precedente, di essere sollevato al di sopra del corpo politico e di essere il protettore dello Stato, secondo l’ideologia feudale al cui vincolo questi soldati chiaramente ancora si ispirano. Proprio ponendo il discorso in questi termini, è noto tradizionalmente come, in questo gruppo di personaggi, Horatio avrebbe uno statuto di eccellenza del tutto particolare. Iniziamo dall’osservazione banale e basilare per cui, oltre alla romanità del nome evocata dal carattere, è il suo nome stesso a portare con sé innanzitutto la facoltà della Parola (oratio)51 chiaramente, ma anche la ratio, la razionalità cioè la reason, con tutte le implicazioni culturali cui abbiamo accennato: Marcellus: Thou art a scholar – speak to it, Horatio. Barnardo: Looks ’a not like the King? Mark it, Horatio. Horatio: Most like. It harrows me with fear and wonder. Barnardo: It would be spoke to. Marcellus: Speak to it, Horatio. Thou art a scholar – speak to it Horatio.52
51 Sono convinto che ci sia più di un’eco del genere letterario, reso celebre fra i dotti (scholars) da Pico de la Mirandola nel 1489, nella scelta del nome di questo personaggio così importante per la comprensione di Hamlet, per ragioni strutturali di cui si dirà a breve. 52 W. Shakespeare, Hamlet, cit., p. 167.
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Sull’apparizione dello spettro ai lealisti della Corona e sul ruolo culturale di Horatio in questa scena, e sul suo essere uno “scholar”, un dotto, a differenza di Marcellus e Barnardo, riflette Jacques Derrida nell’esordio del suo spettri di Marx53. Proprio sulle pagine di Derrida che Warley ha costruito la sua interpretazione di questo personaggio. Da un lato, infatti, in riferimento alla battuta “friends to this ground”54, Warley scrive “the first information we have is that of a political alliance”55, permettendomi di enfatizzare, così, quello che ho appena sostenuto, e cioè che il personaggio fa parte di un sistema di alleanze fedele all’erede naturale che, come mostrano le analisi quantitative su questo gruppo di personaggi56, parlano solo tra loro (con l’eccezione di alcuni minori come Gravedigger o Osric) creando di fatto un mondo a parte nella tragedia, quel mondo in cui essi sono tutti “Liegemen” della Corona danese. Al contempo, Warley giunge all’importante conclusione su come il rapporto fra Horatio e Hamlet sia qualcosa di più ambiguo della semplice lealtà che viene dichiarata sulla scena: Why does Hamlet think he can trust Horatio? Horatio is, as far as Hamlet is concerned, a complete nobody who has “no revenue” but his “good spirits”/ to feed and Clothe” him. This social abjectness autorizes Hamlet as interpreter and signals his election as one who takes “Fortune buffets and rewards” “with equal thanks”. Horatio is, claims Hamlet not passion slave – how becomes merely a “pipe” for fortune to play on […] 53 J. Derrida, Spettri di Marx, Debito, lavoro del lutto, e nuova internazionale, Raffaello cortina, Milano 1994, p. 82. 54 Ivi, p. 117. 55 C. Warley, Specters of Horatio, in “ELH” n. 4, Johns Hopkins University press, Baltimora 2008, p. 1026. 56 J. Stiller, D. Nattle, R. I. Dumbar, The small world of Shakespeare’s plays, in Human nature, vol. 14, n. 4, 2003, pp. 396-408.
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Because he is poor Horatio seems exempt from the world of Court and its misdirections. Such poverty provides Hamlet with a disintersted, objective, interpreter. “Poor”, for Hamlet does not, or rather, should not, name a specific social or economic position, it names a state of being. Horatio’s ontological poorness is supposed to signal Hamlet ontological nobility.57
Per quanto riguarda pertiene il nostro percorso di analisi formale, segnalo, a questo punto, due cose: la prima è che questa argomentazione permette di riallacciarci alla tesi enunciata all’inizio di questo capitolo, e cioè che la tragedia moderna tende ad ontologizzare i rapporti culturali, a proiettare questi rapporti nei termini di una eternità da attribuire alla natura, quando, invece, si tratta di costruzioni socioculturali e in ultima analisi semiotiche. “Horatio’s ontological poorness is supposed to signal Hamlet ontological nobility”: per tutta l’opera il rapporto fra i due, che si configura come uno dei più fitti in termini di scambi di battute fra tutti i personaggi dell’intero dramma58, si esplica come un rapporto di distinzione sociale, nel noto senso enunciato da Pierre Bourdieu59. Lo sguardo dell’uno, cioè, legittima l’altro in un senso scambievole, creando così un legame di affinità semantica perché se da un lato il Sovrano elegge il suo fedele, dall’altro lato il Sovrano ottiene legittimazione del suo status superiore. 57 C. Warley, Specters of Horatio, cit., p. 1033. 58 J. Stiller, D. Nettle, R. I. E. Dunbar, The small world cit., p. 354. Ciò che emerge chiaramente se contiamo non la quantità di parole pronunciate dai personaggi in sé, ma esattamente il numero di battute, di botta e risposta; per cui il relativamente lungo monologo di Horatio che legge la lettera inviatagli da Hamlet dall’Inghilterra vale uno in termini quantitativi quanto lo scambio di una riga. Se contiamo in termini di botta e risposta, il primato spetta decisamente ad Hamlet e al suo confidente. 59 P. Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto, Il Mulino, Bologna 2001.
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La seconda cosa da osservare è ad essa consequenziale, ma è molto più importante: il rapporto di reciproca legittimazione culturale fra Horatio e Hamlet deve essere visto in continuità formale con il legame di interconnessione semantica della forma tragica di Romeo and Juliet, come parte del processo di rifunzionalizzazione della forma tragica antica. C’è, però, una differenza: i due principi di legittimità qui espressi non possono più far funzionare la forma interconnessa, perché entrano in contatto con i codici culturali dell’assolutismo, intesi come una grande costruzione semiotico-culturale che, per forza di cose, come ogni costruzione semiotico-culturale separativa, include qualcosa per escludere qualcos’altro. Non a caso, le battute di esordio di Horatio vanno lette come prova del fatto che questo personaggio ha senso solo come una parte di un tutto più grande, come una riflessione sull’interdipendenza tra il soldato, studioso e confidente, e la regalità del principe ereditario. La battuta “Horatio there? [...] A piece of him” acquisisce a mio modo di vedere un ulteriore senso alla luce della battuta con cui Horatio commenta i dubbi sulla veridicità dell’apparizione del fantasma quando viene comunicata dal drappello di guardie al principe ( “So I’ve heard, and do in part60 believe it”61). Infatti, entrambe le battute alludono e al particolare statuto e alla natura di “confidente” del personaggio di Hamlet: alla sua natura parziale, non solo in quanto schierata politicamente, ma anche nei termini dell’interdipendenza di senso, ovvero di un personaggio parte di un senso più grande da conferire all’azione drammaturgica. Prova ne è che il Horatio vive essenzialmente, e totalmente, in funzione di Hamlet. Horatio è un personaggio che “ne ha passate tante”, per così dire, come dimostra il suo dialogo con i perso60 W. Shakespeare, Hamlet, cit., p. 355. Corsivo mio. 61 Ivi, p. 357.
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naggi della guardia reale. È il più saggio e colto tra di loro ed è anche colui è spossato e diviso fra la fedeltà ai suoi principi filosofici e la rivelazione soprannaturale (“tush, tush, ‘t will not appear”, dice a Marcellus un momento prima del suo colloquio con lo spettro). Appare dunque significativo anche in questa luce – sembra – che il più fedele fra i fedeli sia colui che dubiti dello spettro. Abbiamo detto che il dubbio di Horatio è stato notato sia da Derrida che Warley, ma appare evidente soprattutto se si tiene in conto del valore simbolico del fantasma che, come noto, appare solo ai “Liegemen” e non viene visto da Getrude nella closet scene, come già notava acutamente sir Wilson Knight62. Horatio è quindi “a piece of him”, anche perché è in parte un sostenitore del principe, della causa del figlio del re Hamlet, ma, dubitando del fantasma, si segnala fra i più scettici di quella che è, la più evidente delle prove dell’ambivalenza dello statuto della discendenza del trono danese: è ereditaria dunque naturale ma, al contempo esistono delle forze trascendenti discese dal Purgatorio per legittimarla, come avviene, in un modo o in un altro, sempre per i rapporti culturali nell’era dell’assolutismo. In definitiva, dunque, il dubbio di questo sostenitore del principe è il primissimo segno della sconsacrazione simbolica della sovranità assoluta, che è sacra ma creata, trascendente ma culturalmente fondata. Tenendo presente questa interpretazione del personaggio e prima di esaminare più nel dettaglio il destino che lungo la sconsacrazione della sovranità avrà lo stesso Horatio, come personaggio che porta con sé i valori della storia attraverso la sua Parola, val la pena rileggere con più attenzione il passo citato da Warely. Questo per dimostrare la interdipendenza fra Horatio e 62 G. W. Knight, The Wheel of fire, interpretations of Shakespearian Tragedy, Metheuen, London 1998, p. 167.
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Hamlet intesi rispettivamente come personaggio la cui Parola porta con sé i valori della vicenda e Hamlet, personaggio le cui Azioni dovrebbero portare a compimento i valori di tale vicenda: Hamlet What ho, Horatio! Horatio Here sweet lord, at your service. Hamlet Thou art e’en as just a man As every conversation coped withal Horatio oh my dear lord – Hamlet Nay, do not think I flatter For what advancement may I hope from thee, that no revenue hast but good spirits To feed and clothe thee? Why should the poor be flattered No, let the candied tongue lick absurd pomp And crook the pregnant hinges of the knee Where thrift may follow fawning. Dost thou hear? Since my dear soul was mistress of her choice And could of men distinguish her election Sh’ath sealed thee for herself. For thou hast been As one in suffering all that suffers nothing – A man that Fortune’s buffets and rewards Hast ta’en with equal thanks. And blest are those Whose blood and judgement are so well co-meddled That they are not a pipe for Fortune’s finger To sound what stop she please. Give me that man that is not passion slave and I will wear him in my heart’s core.63
Amleto Ehi! Orazio! Orazio Sono qui al vostro servizio, mio dolce signore. Amleto Orazio, tu sei veramente l’uomo più giusto ch’io abbia mai incontrato. Orazio Oh, mio signore! Amleto Non credere ch’io voglia lisciarti. Che avanzamento potrei sperare da chi, come te, non ha altro che il suo buon umore per nutrirsi e vestirsi? Perché si dovrebbe adulare il povero? Eh no, le lingue inzuccherate leccano solo il ridicolo sfarzo; le pieghevoli giunture dei ginocchi si curvano solo quando la piaggeria può intascare il suo lucro. M’intendi? Da quando l’anima mia fu signora della sua scelta e seppe distinguere fra gli uomini, essa ti ha suggellato per sé, perché tu sei uno che soffrendo di tutto non soffre di nulla, uno che accoglie favori e ceffoni della Fortuna con lo stesso spirito imperturbabile. Benedetti davvero coloro che per giusta dosatura di sangue e di ragione non sono come flauti su cui la Fortuna fa suonare il foro che più le piace. Datemi un uomo che non sia schiavo della passione, ed io lo terrò nel più profondo del cuore come faccio con te.64
63 W. Shakespeare, Hamlet, cit., p. 127. 64 W. Shakespeare, Amleto, cit., posizione 197.
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Si tratta dello scambio tenuto da Hamlet e Horatio poco prima della messa in scena della mouse trap, nel terzo atto. Subito dopo questo scambio di battute, Hamlet affiderà ad Horatio il compito di osservare la “changing nature” dello zio usurpatore. In quanto suddito eletto e giusto per antonomasia, ha il compito di verificare la veridicità delle parole del fantasma. Ma la raccolta di questa prova, nell’economia strutturale del dramma, è anche, e più in generale, una prova della natura dell’agire regale: Claudius ha la natura di un tiranno o no? La sua “occulted guilt” sarà disvelata a teatro, oppure no? In questo scambio abbiamo dunque l’essenza dello snodo fra fatti e valori nella tragedia: [...]; since my dear soul was mistress of her choice, and could of men distinguish her election / She hath seal’d thee to herself [...]
In quanto uomo scelto fra i “Liegemen” è legittimato a compiere un gesto di fiducia nei confronti del re, è legittimato a giudicare il volto del tiranno e a compiere una “censure of his seeming”. Così come avveniva con lo shared sonnet, in cui la marca stilistica della lirica ci suggeriva un legame di senso fra i due personaggi, riflesso, sul piano paradigmatico, del rapporto ideologico fra Parola e Azione, così questo scambio, sebbene senza l’uso della lirica, allude al rapporto tragico fra referenti e significati nella forma tragica. Essenzialmente, il suggerimento di un simile legame fra parola e azione è lo stesso, cosa che, credo, si manifesterà con più evidenza lungo l’analisi. Se è sulla base di tali tesi, dunque, che la figura regale di Hamlet assieme ai suoi soldati e, in particolar modo al personaggio di Horatio, rappresenta quella sovrapposizione fra fatti e valori che caratterizza la tragedia dalla sua origine, prestiamoci ad analizzare, effettivamente, in che
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modo il personaggio che rappresenta la Parola esprime questa sua eloquenza. Per esempio quando riassume, proprio come nella forma del prologos tragico che avveniva nei drammi antichi, i fatti politici che preludono la vicenda di Hamlet. Fin da subito incarna il suo compito di narrazione e prolusione agli eventi strettamente drammaturgici, ma anche quello di istanza di adesione lealista alla monarchia ereditaria di Danimarca: Marcellus Good now, sit down, and tell me, he that knows, Why this same strict and most observant watch So nightly toils the subject of the land, And why such daily cast of brazen cannon, And foreign mart for implements of war; Why such impress of shipwrights, whose sore task Does not divide the Sunday from the week; What might be toward, that this sweaty haste Doth make the night joint-labourer with the day: Who is’t that can inform me? Horatio That can I; At least, the whisper goes so. Our last king, Whose image even but now appear’d to us, Was, as you know, by Fortinbras of Norway, Thereto prick’d on by a most emulate pride, Dared to the combat; in which our valiant Hamlet-For so this side of our known world esteem’d him--
Marcello Bene, sediamoci. E mi dica chi lo sa perché mai questa severa guardia, ogni notte, affligge i nostri sudditi; e perché si fondono ogni giorno cannoni di bronzo e si conducono con altri paesi traffici di guerra; e che vuol dire cotesto stracanarsi di calafati, che vengono arruolati in quantità e che non han pace neppure la domenica. A quale scopo tanto sudore e fretta per far della notte la compagna di lavoro del giorno? Chi può dirmene qualcosa? Orazio Io. O almeno, eccoti ciò che si va buccinando intorno. Il nostro defunto re Amleto – l’immagine del quale ci è apparsa or ora – fu sfidato, lo sapete, da Fortebraccio di Norvegia, punto da gelosia e da orgoglio, a singolar tenzone; e in essa il nostro valoroso re (tale era stimato in questa parte del mondo a noi nota) uccise Fortebraccio. Questi, in virtù di un patto sigillato con tutte le forme delle leggi e del blasone, aveva ceduto, con la vita, anche le sue terre al vincitore; in cambio di che una giusta parte del proprio avere fu posta in palio dal nostro re, per essere assegnata a Fortebraccio, nel caso fosse riuscito vincitore; così come, in virtù della stessa convenzione e del medesimo articolo, la sua toccò ad Amleto.65
65 W. Shakespeare, Amleto, cit., posizione 128.
La scomparsa del Coro nel teatro di Shakespeare 189 Did slay this Fortinbras; who by a seal’d compact, Well ratified by law and heraldry, Did forfeit, with his life, all those his lands Which he stood seized of, to the conqueror: Against the which, a moiety competent Was gaged by our king; which had return’d To the inheritance of Fortinbras, Had he been vanquisher; as, by the same covenant, And carriage of the article design’d, His fell to Hamlet.66
Da sottolineare, in questa sede, la cura dell’eloquio: il personaggio mostra tutte le sue qualità di erudito (come in frasi quali “Thereto prick’d on by a most emulate pride, Dared to the combat; in which our valiant Hamlet” o “To the inheritance of Fortinbras, Had he been vanquisher; as, by the same covenant, And carriage of the article design’d, His fell to Hamlet.”), di personaggio prossimo alla Corte e al principe. Ancora più interessante, dal punto di vista stilistico è, probabilmente, per una serie di ragioni, quello che si potrebbe definire “il monologo della Grande Eclissi”: Horatio A mote it is to trouble the mind’s eye. In the most high and palmy state of Rome A little ere the mightiest Julius fell The graves stood tenantless and the Sheeted dead did squeak and gibber in the Roman streets; At the stars with the trains of fire and dews of blood Disasters in the Sun to offer it the shown of fire Upon whose influence Neptune’s empire stands Was sick
Orazio È come un pruno nell’occhio della mente. Nei tempi più alti e più gloriosi di Roma, poco prima che cadesse il grande Giulio, le tombe si voltarono, i morti nei loro sudari gemettero e mugolarono nelle vie di Roma, le stelle ebbero code di fuoco e rugiada di sangue, il sole fu pieno di disastri e l’umido pianeta sotto l’influsso del quale è l’impero di
66 W. Shakespeare, Hamlet, cit., p. 169
190 almost to doomsday with eclipse. And even the like precurse of feared events, As harbingers preceding still the fates And prologue to the omen coming on, Have heaven and earth togate demonstrated unto our climature and countrymen.67
La nascita del dramma moderno Nettuno, fu oscurato da un’eclissi da giorno del Giudizio. Simili funesti presagi, araldi che anticipano i fati e preludono a incombenti sciagure, furono già largiti dal cielo e dalla terra ai nostri climi e alle nostre popolazioni.68
Lo stile qui si eleva, per quanto per poche righe, quasi in tono apocalittico: “have heaven and heart togate demonstrated unto our climature”; i personaggi minori di solito, che hanno solo un mero aspetto funzionale, nei testi shakespeariani non meritano versi di tale cura e tale vis stilistica. La marca stilistica è un segno del valore del personaggio, che lo contrappone a Marcellus e a Barnardo: cosa che, del resto, poi verrà confermata dalla scelta di Hamlet come suo confidente. In questa tragedia di vendetta, ci si immaginerebbe che un simile personaggio trovi un ruolo di rilievo all’interno di una trama complessa come Hamlet – pur certamente rimanendo comunque funzionale al protagonista. Eppure, a prima vista, non è così. Se si fa un conto delle interazioni drammaturgiche del personaggio di Horatio, si nota che, innanzitutto, questi interagisce nella stragrande maggioranza dei casi con Hamlet69, chiaramente, ma che poi di fatto quasi tutte le sue interazioni e battute si riducono ad un mero esercizio di risposte prive di significato o valore drammaturgico fondamentale. Se dovessimo riassumere il ruolo del personaggio, potremmo dunque dire che – con l’eccezione dei discorsi pronunciati nel primo atto e l’eccezione parziale del dialogo con Hamlet prima della rappresentazione di corte (dove, per la verità, è assai più chiamato in causa dal prin67 W. Shakespeare, Amleto, cit., posizione 124. 68 W. Shakespeare, Hamlet, cit., p. 170. 69 W. Shakespeare, Amleto, cit., posizione, 130.
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cipe stesso, limitandosi a rispondere a monosillabi) e in fine quella, non casuale, del monologo finale in cui riassume in un modo totalmente incoerente con la realtà70 i fatti di sangue avvenuti nella reggia – il personaggio essenzialmente è caratterizzato da una serie di battute prive di un reale costrutto drammaturgico. Vediamone alcune. Dopo la recita, Hamlet chiede a Horatio: Hamlet Why let the strike deer go weep, the hart ungalled play, For some must watch while some must sleep. Thus runs the world away. Would not this, sir, and forest of featers, with provincial roses on my raze shoes, get me a fellowship in a cry of players? Horatio: Half a share. Hamlet A whole one, I. For thou dost know, O Damon dear, This realm dismantled was Of Jove himself, and now reigns here Horatio you might have rhymed.71.
Amleto Sicuro! Pianga il daino ferito e si lamenti, il cervo sano e salvo saltabecchi qua e là. Su! Noi stiamo a vegliare, ma gli altri s’addormentano… e così il mondo va! Se la mia sorte mi rinnegasse, con un tal discorso, con una selva di piume e rose di Damasco sui calzari traforati, potrei far figura anch’io in una compagnia di comici, o no? Orazio Sareste padrone di mezza quota. Amleto Padrone intero, io dico. Perché tu sai, Damone, che il regno fu spogliato di un Giove; e incoronato hanno un pavone. Orazio Si poteva rimare meglio.72
E Horatio risponde “You might have rhymed”, “m’aspettavo una rima più calzante” rispetto alla mera assonanza fra tra “dear” e “here”. Da un lato si “comprende che il senso della battuta di spirito, per quanto fiacca, è funzionale a far risaltare la complicità e l’intimità fra i due personaggi, dall’altro, non si comprende il perché un personaggio di una tale caratura, nelle stesse parole del principe, si limiti a una grigia battuta, senza affermare un punto di vista. Questo a meno di non pen70 W. Shakespeare Hamlet, cit., p. 172. 71 W. Shakespeare, Hamlet, cit., p. 232. 72 W. Shakespeare, Amleto, cit., posizione 127.
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sare, come scrive Warley, che tale decantata nobiltà d’animo sia solo funzionale alla legittimazione culturale della nobiltà del principe. E quando chiede conferma al suo alleato su se Claudius abbia reagito con paura alla visione dello spettacolo, Horatio risponde “I very well noted him”. L’inutilità di questa battuta di risposta di Horatio e del suo contributo, sul piano concreto all’indagine sull’omicidio del padre è, insomma, interessante proprio nella misura in cui è inversamente proporzionale alla grande importanza attribuita al personaggio, che sembrava, almeno inizialmente, garantita dai primi discorsi. Horatio è il “Just” Horatio, equilibrato, saggio, colto, giusto e così via, eppure il drammaturgo non sente di dover aaccordargli che qualche monosillabo, non una risposta più articolata che magari mostri la forza dell’ideologia che coinvolge i due personaggi nella lotta. È dunque, in un certo senso, molto più importante quello che il personaggio rappresenta nel momento in cui Hamlet lo interroga, che non il suo reale contributo al dramma – proprio perché Horatio rappresenta l’ubi consistam che legittima ontologicamente l’azione del sovrano. In altri termini è come se, Hamlet stesse parlando ancora con se stesso, come se la voce che caratterizza il suo alleato sia una blanda conferma, un’asserzione di quello che sta dicendo lui. Facciamo qualche altro esempio. Nella scena del dialogo con il Gravedigger, Hamlet interroga Horatio sul gioco di arguzie filosofiche che scambia con il macabro comprimario di questa tragica lotta per il potere, e dell’altrettanto macabro ritrovamento dello teschio di Yorick:
La scomparsa del Coro nel teatro di Shakespeare 193 Hamlet There’s another! Why, may not that be the skull of a lawyer? Where be his quiddities now – his quillets, his cases, his tenures and his tricks? Why does he suffer this mad knave now to knock him about the sconce with a dirty shovel and will not tell him of his action of battery? Hum! This fellow might be in’s time a great buyer of land, with his statutes, his recognizances, his fines, his double vouchers, his recoveries. To have his fine pate full of fine dirt! Will vouchers vouch him no more of his purchases and
Amleto Eccone un altro. Perché non potrebbe essere di un leguleio? Dove sono ora i suoi quid, i suoi quodlibet, le sue cause, le sue carte e i suoi trucchi. Perché permette che ora un simile zotico gli sbatta la sudicia pala sulla zucca, e non lo denuncia per aggressione e percosse? Uhm! Questo galantuomo è stato forse un gran compratore di terra, con atti, malleverie, caparre, doppie garanzie, e il ricupero dei suoi ricuperi, è questo di sentirsi riempire di terra la capoccia? Non è ora garantito con doppia garanzia, più che da
doubles than the length and breadth of a pair of indentures? The very conveyances of his lands will scarcely lie in this box, and must th’inheritor himself have no more, ha? Horatio Not a jot more, my lord. Hamlet Is not parchment made of sheepskins? Horatio Ay, my lord, and of calves’ skins too Hamlet They are sheep and calves which seek out assurance in that. I will speak to this fellow. Whose grave’s this, sirrah?73
un contratto lungo e largo così? I soli suoi titoli di proprietà entrerebbero a malapena in questa scatola; e al proprietario non deve restar più niente? Orazio Niente di niente, signore. Amleto La pergamena non è fatta di pelle di pecora, Orazio? Orazio Sì, mio signore, e anche di pelle di vitello. Amleto Sono pecore e vitelli quelli che cercano di assicurarsi così. Voglio parlare a costui. Di chi è questa tomba, buon uomo?.74
Il dialogo fra Hamlet e Horatio è essenzialmente tutto di questo tipo. In questo passo Hamlet sta facendo una riflessione, per quanto beffarda e vagamente prosaica, profonda, sul ruolo della morte nelle cure umane. Il personaggio di Horatio si limita ad annuire e a manifestare la sua semplice presenza. Nessun personaggio fra i comprimari delle tragedie che affronteremo (dal Clarìn calderoniano, all’Ismene raciniana fino ai personaggi minori dei drammi lessinghiani) ha, al contempo, una simile centralità drammaturgica ed una così bassa caratura retorica. 73 W. Shakespeare, Hamlet, cit., p. 298. 74 W. Shakespeare, Amleto, cit. posizione 167.
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Franco Moretti, in un pamphlet del 2011, elaborato presso il literary lab dell’università di Stanford, aveva pienamente compreso e già segnalato che la grande importanza strutturale del personaggio risiede proprio nella sua assenza o, più precisamente, sulla mancanza di reale significato della sua semplice presenza: Horatio has a function in the play, but not a motivation, not a aim. No emotions, no language, really worthy of Hamlet. I can think of no other charachter so central in Shakespeare and so flat in style, flat, just like the state (or at least, the beurocracy). Flat, like the typical utterances we encounter at the periphery of Hamlet: […] Orders and news must avoid ambiguity and so, the plays “figurality rate” (to use a concept of Francesco Orlando’s) drops.75
Se lo stile è questo, qual è, dunque, la funzione di questo personaggio? In base ad un’indagine quantitativa condotta dallo stesso Moretti in quella sede, la funzione principale di Horatio sarebbe quella di fare da collettore fra il mondo periferico dei soldati fedeli ad Hamlet e il mondo della Corte. Non è un caso che, nel primo monologo, fra i soldati, si dimostra di gran lunga il più informato sulle vicende del conflitto in atto per la successione al trono, delle minacce all’indipendenza dello Stato generate dall’erede di Fortinbras e dall’interruzione della successione dinastica. Infatti se, dunque, dividiamo la tragedia per schieramenti – uno certamente più articolato e dominante come la Corte ed uno più periferico come quello dei soldati fedeli ad Hamlet – è stato verificato che Horatio sia l’unico per-
75 F. Moretti, Network theory, plot analysis, Stanford Literary Lab Pamphlets, 2, 2011, p. 6.
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sonaggio fra i “liegemen”, assieme al principe, a parlare con entrambe le due sfere76. Da un lato egli ha una funzione di interconnessione fra le principali strutture drammatiche della tragedia, apparentemente quindi un ruolo importante; dall’altro non ha una personalità drammaturgica, non ha una vera stilizzazione drammatica che caratterizzi il senso delle sue azioni. Tale senso viene proiettato sul personaggio dal protagonista stesso – e dal drammaturgo per via del personaggio – all’inzio, quando i due si incontrano e Horatio si presenta come servitore e viene dichiarato un fedele amico (“Horatio, or I do forget myself”, “the same, my good lord, your servant ever”77, “Sir, my friend, I’ll change that name with you”78), e in tutta la tragedia, dopo il prologo del Fantasma, in cui compaiono gli altri soldati, è l’unico personaggio a condividere i valori del principe. A questi dati, dobbiamo aggiungere anche quanto rilevato dagli studi di ecdotica teatrale: di fatto, sugli aspetti performativi della tragedia hanno dimostrato che praticamente tutti gli attori che interpretano sudditi lealisti di Hamlet possono essere soggetti alla pratica del doubling, cioè possono interpretare personaggi ancor minori come messaggeri, attendenti, guardie e così via; solo l’attore che interpreta il ruolo di Horatio non può essere doppiato perché deve essere presente in scena anche solo per una battuta, praticamente tutte del tenore che abbiamo mostrato. Il lavoro editoriale effettuato sul testo, segnala in tal senso, altri dati interessanti: ha per esempio riscontrato la difficoltà, dati i lunghi periodi di silenzio in scena del personaggio Horatio, a riscontrare la sua effettiva presenza o meno sul palcoscenico in determinati momenti. 76 Ivi, cit., p. 12. 77 William Shakespeare, Hamlet, cit., p. 35-36. 78 William Shakespeare, Amleto, cit., posizione 11.
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Per esempio nell’Atto terzo, quando Hamlet pronuncia il breve monologo “This time the watching time of night…”, addirittura, nella versione di Q1, il famoso Ur-Hamlet, al silenzioso confidente viene esplicitamente data la possibilità di congedarsi dal principe79. La sua silenziosa presenza è infatti segnalata dalle indicazioni di scena di entrata, ma non da quelle di uscita: era presente, assieme a tutti gli altri personaggi della scena, solo nel primo in-quarto80. 2.4 La crisi dell’Azione
Tale ridursi a mera funzione drammaturgica da parte del confidente di Hamlet sopraggiunge, in modo abbastanza chiaro, quando, assieme alla crisi della Parola, si fa strada la crisi dell’Azione. Le sue battute riprendono, relativamente, di tenore e di importanza solo al momento del monologo finale, all’arrivo delle truppe di Fortinbras. Questo silenzio, o questa vistosa eccezione ai criteri rinascimentali di stilizzazione drammaturgica tale per cui a personaggi di riconosciuta importanza, rilevata da più autori, deve corrispondere un linguaggio adeguato e una serie di pensieri adeguata, non è, a mio giudizio casuale. Esso al contrario è il segno del fatto che il cognitive blanding, per così dire, la reversibilità fra parola e azione che abbiamo rilevato in Romeo and Juliet e che ci ha portato a ricondurre, con Girard, la struttura di quella tragedia alla tragedia antica, non scompare, bensì muta. Alla luce di quanto detto possiamo infatti notare che c’è un rapporto di quasi perfetta specularità fra la tragedia di
79 Su questo si confronti la efficace disamina di Q1 ad opera di Thompson e Taylor in Hamlet, cit., pp. 74-79. 80 Ibid.
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Hamlet, come crisi della Parola, e la tragedia come crisi dell’Azione, che analizzeremo subito. La crisi dell’Azione regale comincia evidentemente con Hamlet, che già nel primo atto segnala l’ambiguità del suo agire: Hamlet
Amleto
O that this too too sallied flesh would melt, Thaw and resolve itself into a dew, Or that the Everlasting had not fixed His canon ’gainst self-slaughter. O God, God, How weary, stale, flat and unprofitable Seem to me all the uses of this world! Fie on’t, ah, fie, ’tis an unweeded garden That grows to seed, things rank and gross in nature Possess it merely. That it should come thus: But two months dead – nay not so much, not two – So excellent a king, that was to this Hyperion to a satyr, so loving to my mother That he might not beteem the winds of heaven Visit her face too roughly. Heaven and earth, Must I remember? Why, she should hang on him As if increase of appetite had grown By what it fed on. And yet within a month (Let me not think on’t – Frailty, thy name is Woman) A little month, or e’er those shoes were old, With which she followed my poor father’s body, Like Niobe, all tears. Why, she O God, a beast that wants discourse of reason
Oh, se questa mia carne troppo dura si sciogliesse, dal suo gelo, in rugiada! Oh se l’eterno non avesse opposto la sua legge al suicidio! O Dio! o Dio! Come sembrano sterili e ammuffite e piatte le abitudini di qui! Che ribrezzo! È un giardino di gramigna che va in seme, e vi regnano soltanto cose fetide. A questo s’è arrivati! È morto da due mesi, oh no, non tanti! un re eccellente, un Iperione, – e l’altro, a suo confronto, un satiro, – sì tenero con mia madre che in volto non voleva la pungessero i venti… Cielo e terra! Debbo pensarci? Ma se lei pendeva dal re come se il proprio desiderio di sé s’alimentasse… E ora… in un mese? O no! fragilità, il tuo nome è femmina. Un mese appena; prima che invecchiassero le scarpette con cui seguì la salma come una Niobe in lacrime; e costei – oh Dio, una bestia priva di ragione avrebbe pianto assai di più! – sposata a lui, fratello di mio padre e simile a mio padre com’io a Ercole. Un mese! Prima ancora che il sale delle sconce sue lacrime lasciasse quei suoi occhi gonfi, sposata e accorsa così svelta e leggera al suo letto incestuoso! Non è bene e non può dar bene. Ma ora spezzati, cuore, e tu frenati, lingua!81
81 W. Shakespeare, Amleto, cit., posizione 334.
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Would have mourned longer – married with my uncle, My father’s brother (but no more like my father Than I to Hercules). Within a month, Ere yet the salt of most unrighteous tears Had left the flushing in her galled eyes, She married. O most wicked speed! To post With such dexterity to incestuous sheets, It is not, nor it cannot come to good; But break, my heart, for I must hold my tongue.82
L’ambiguità dell’agire di Hamlet è segnalata semanticamente già in questo punto del testo, nel primo soliloquio della tragedia e, più precisamente, essa oscilla fra due poli: da un aparte il modello di sovrano proposto dall’immagine del mondo shakespeariana e, dall’altra, la verità del suo agire che lo rivela come una forma rex inutilis a causa della sua malinconia, secondo una nota tradizione medievale recentemente ricostruita in un robusto studio, che non è in grado di agire a causa di un’eccessiva cogitatio83. Il rischio della malinconia, che priva il legittimo erede della capacità di fare il proprio dovere è, di fatto, ciò che rende ambiguo nel senso tragico che abbiamo spiegato in apertura, il personaggio del principe. La sua Reason, come facoltà positiva in grado di congiungere la figura del re a quella di un angelo (secondo il modello di incarnazione eucaristico descritto da Hooker e da Tyndale), si rivela al contempo negativa perché eccessiva, paralizzante per il personaggio e potenzialmente dannosa per lo Stato. 82 W. Shakespeare, Hamlet, cit., p. 122. 83 E. Peters, The Shadow King Rex inutilis in medieval law and literature in medieval law and literature, 751-1397, Yale University Press, New Haven- London 1970.
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Prendiamo, ad esempio i versi iniziali e quelli finali del monologo “so excellent a King, so that was to this Hyperion to a Satyr”, recitano le famose parole. Già in questa serie di paragoni, si vede la natura interconnessa del personaggio, nel senso che la sua psicologia, e la sua stilizzazione drammaturgica oscillano su un piano di reversibilità fra, la modellizzazione del personaggio regale, la dimensione naturale della volontà del sovrano e il senso della sua inutilità e fragilità, derivante, per l’appunto, dalla sua eccessiva capacità riflessiva, come denota appunto la seconda strofa del monologo: My father’s brother (but no more like my father Than I to Hercules). […] Beggar that I am, I am ever poor in thanks, but I thank you, and sure, dear friends, my thanks are too dear a halfpenny.
Qui è ancora più chiaro: la Reason del personaggio, che è eminentemente la facoltà regale che i sudditi attribuiscono al sovrano – soldati e intellettuali come Horatio, nobili come saranno i sudditi leali a Lear nella grande tragedia finale – parte essenziale della Will – la volontà di agire del sovrano stesso come modello umano che racchiude il destino dello Stato – è essa stessa fonte di ambiguità. In questo momento del monologo, lo sguardo separativo non riconosce la natura interconnessa del personaggio di Hamlet come modello di sovrano possibile, o, meglio, la crisi di tale modello. In altri termini, lo sguardo separativo non percepisce il fatto che il senso della sua azione – o meglio, la crisi del suo senso – è legato anche alla crisi dei fondamenti culturali che quel potere rappresenta. Quand’è che ci accorgiamo che la poca fiducia nell’agire di Hamlet non è semplicemente un momento del suo agire, ma è frutto intrinseco del legame fra Parola e Azione, fondamento della struttura della tragedia antica?
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Ciò avviene quando il carattere drammaturgico di Hamlet sembra avere acquisito una motivazione, ma al contempo non riesce a trovare una motivazione. È in questo punto della tragedia che lo sguardo separativo si stranisce, e non comprende perché Hamlet non riesca ad agire. Hamlet Now might I do it. But now ’a is a-praying. And now I’ll do it [Draws sword.] – and so ’a goes to heaven, And so am I revenged! That would be scanned: A villain kills my father, and for that I, his sole son, do this same villain send To heaven. Why, then can I not repent? This is base and silly, A took my father grossly full of beard, With all hs crimes broad blown as flush as May, and how his audit stands who knows save heaven, But in our circumstance and course of thought this heavy with him
Amleto Sarebbe proprio a tiro, ora che sta pregando. Lo farò senz’altro. Lo spedisco in Cielo e sono vendicato. Devo rifletterci, però. Un furfante ha ucciso mio padre, ed io, unico figlio di quel padre, in cambio lo mando in Cielo. Questo è fargli un regalo, non una vendetta. Egli ha agito di sorpresa, mentre mio padre se ne stava a bocca piena, colmo di peccato, aperto come un fiore di maggio. Ma qui, solo il Cielo sa a che punto siano i suoi conti. È un grave peso il suo, secondo la nostra condizione e il nostro modo di pensare. Ed io sarei dunque vendicato cogliendolo così, mentre si purga l’anima, pronto e
With all his crimes broad blown, as flush as May, And how his audit stands who knows, save heaven, But in our circumstance and course of thought ’ Tis heavy with him. And am I then revenged To take him in the purging of his soul When he is fit and seasoned for his passage? No. Up sword, and now thou a more horrid hent: When he is drunk, asleep or in his rage, Or in the incestuous pleasure of his bed, at game swearing, or about some act that has no relish of salvation in it.84
maturo al trapasso? Oh no! Torna al tuo posto, spada, e sappi che dovrai colpirlo in modo più orribile: quando sarà ubriaco, addormentato o in furia o nel piacere incestuoso del suo letto; o tra le bestemmie del giuoco o in qualche azione che non abbia sapore di salvezza.85
84 W. Shakespeare, Hamlet, cit., p. 242. 85 W. Shakespeare, Amleto, cit., posizione 1435.
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Chi non comprende la natura ambigua del personaggio Hamlet, non arriva a comprendere questo momento, nella prayer scene, dove lo sguardo separativo finalmente ha un appiglio per rendersi conto che l’esitare di Hamlet dipende dalla natura del suo agire, dall’oscillare fra l’incarnare dei Valori e l’essere contemporaneamente Azione. Quando Hamlet, infatti, dice: “And am I then revenged /to take him in the purging of his soul/ When he is fit and seasoned for his passage?” si interroga su se sia appropriato togliere la vita a Claudius nel momento in cui sta pregando. In tal modo però questo scrupolo incarna proprio il fallimento della vendetta, per via della estrema incertezza che fa vacillare l’azione regale in quanto modello. Visto in questi termini l’esitare di Hamlet, e poi il definitivo scegliere di non compiere la vendetta, è il segno che la componente culturale più fragile del suo statuto ambiguo ha definitivamente vinto: è dunque una tragedia come crisi dei fondamenti perché pone in luce la fragilità del fondamento del regno. Anche quando si palesa chiaramente che, come i caratteri antichi, Hamlet non ha una proairesis, se non all’interno dell’orizzonte culturale in cui è interconnesso. Cosa più importante di tutte, infine, è che come i personaggi tragici antichi che abbiamo precedentemente analizzato, questo esitare porta a rappresentare il limite culturale del personaggio come un vuoto di senso all’interno del corpo politico, nello spazio formale della tragedia. Nei monologhi precedenti alla prayer scene, Hamlet esplora questa soglia culturale invisibile, questa differenza cosmologica che gli impedisce di portare a termine l’azione proprio perché, come scrivono Oudemans e Lardinois parlando dell’Antigone “ci sono molti modi interconnessi di esprimere il significato di una differenza cosmologica, e questi modi formano un denso pattern di significati variabili, ricchi e in contrasto fra di loro”86. 86 Th. Oudemans, A. Lardinois, Tragic ambiguity, cit., p. 79.
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Fra questi modi, abbiamo, ad esempio, il paragone fra se stesso e un attore, ed un personaggio in scena durante una prova: Hamlet O, what a rogue and peasant slave am I! Is it not monstrous that this player here, But in a fiction, in a dream of passion, Could force his soul so to his own conceit That from her working all the visage wanned Tears in his eyes, distraction in his aspect, A broken voice, and his whole function suiting With forms to his conceit – and all for nothing, For Hecuba? What’s Hecuba to him, or he to her, That he should weep for her? What would he do Had he the motive and that for passion That I have? He would drown the stage with tears And cleave the general ear with horrid speech, Make mad the guilty and appal the free, Confound the ignorant and amaze indeed The very faculties of eyes and ears. Yet I, A dull and muddy-mettled rascal, peak Like John-a-dreams, unpregnant of my cause, And can say nothing. No, not for a king Upon whose property and most dear life A damned defeat was made. Am I a coward? Who calls me villain, breaks my pate across, Plucks off my beard and blows it in my face, Tweaks me by the nose, gives me the lie i’th’ throat As deep as to the lungs? Who does me this, Ha? ’Swounds, I should take it. For it cannot be But I am pigeon-livered and lack gall To
Amleto Sì, sì, sì… Dio vi guardi. – Eccomi solo. Oh il servile buffone e la canaglia che sono! È mostruoso che un attore, pur fingendo, in un sogno di passione possa forzare l’anima a un concetto, così da scolorare tutto in volto e piangersi e sconvolgersi, con voce rotta e con gesti che disegnan forme rispondenti all’idea. E tutto per nulla! Per Écuba? Ma per lui che cos’è? Chi è lui, per Écuba, da farne tanti gemiti? Se avesse costui la molla che si muove, questa mia angoscia, che vedremmo? Il palcoscenico affogato di lacrime, l’orecchio del pubblico spaccarsi dal frastuono, come pazzi i colpevoli, atterriti gl’innocenti, gl’ignari a bocca aperta – e occhi e orecchi che a se stessi credere non possono! Ed io vigliacco… resto a crogiolarmi nel fango come un povero bamboccio che sogna, la mia causa non mi tocca e non so dire nulla; no, nemmeno per un sovrano amato, a cui fu tolto da un orrido delitto vita e averi. Son dunque un vile? Chi me lo ripete? Chi mi spacca la testa, chi mi strappa la barba e me la getta in faccia, chi mi tira per il naso e mi sbugiarda fino al gozzo e giù giù… fino ai polmoni? Ah questo, sangue di Dio, mi ci vorrebbe! Ho dunque fegato di piccione, senza il fiele che restituisca amaro a chi l’opprime, s’io della sua carogna di gaglioffo non ho ingrassato gli avvoltoi? Crudele, libidinoso, sconcio traditore!87
87 W. Shakespeare, Amleto, cit., posizione 1029.
La scomparsa del Coro nel teatro di Shakespeare 203 make oppression bitter, or ere this I should ha’ fatted all the region kites With this slave’s offal – bloody, bawdy villain, Remorseless, treacherous, lecherous, kindless villain.88
La separazione cosmologica inserita all’interno dello spazio della tragedia è appunto quella fra la natura del carattere da un lato (vile, mutevole e incostante) e il suo modello regale dall’altro (forte e vendicativo, che veste, in sé stessa, l’azione di regalità). Sono questi, come detto, i due poli della sua ambivalenza tragica, e l’espediente metateatrale non può che far risaltare la distanza ideale tra la natura umana e lo specchio sul quale tale natura debba essere modellata per poter fungere da fondamento politico solido. A questo punto comprendiamo che Hamlet esita perché si trova davanti ad una soglia invisibile, esattamente come accade ad Antigone, come Creonte, e come gli altri personaggi privi di proairesis che abbiamo analizzato, nella forma della tragedia antica. C’è però una grande differenza fra la forma di esitazione di questi caratteri antichi e quella di Hamlet che è la vera ragione dell’evoluzione della tragedia. La soglia cosmologica invisibile che impedisce ad Hamlet di agire è incredibilmente più consistente rispetto quella – provvisoria e attraversabile – che caratterizza i mondi di Antigone e Creonte. Essa non è null’altro che la soglia (invisibile, sì, ma semioticamente elaborata e costruita) della Elizabethan world picture, la visione del mondo elisabettiana separativa, per cui la mutevolezza caratteriale del principe, in quanto fonte di caos per il regno, deve essere separata, tenuta lontana dallo Stato, perché pericolo-
88 W. Shakespeare, Hamlet, cit., p. 227.
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sa, in grado di essere una minaccia per il corpo politico, così come la distraction di questo modello di sovrano. In sintesi, come scrive lo stesso Moretti89, l’esitazione di Hamlet corrisponde al fatto che l’azione reale del sovrano è sempre in difetto rispetto al modello astratto, metastorico e razionale, del principe da lui incarnato: questi i poli dell’interconnessione di Hamlet, del suo essere contemporaneamente azione e valore. Torniamo dunque a quella che è stata la nostra tesi di partenza; la rappresentazione della crisi della sovranità, in quanto formulazione del pericolo di un sovrano tirannico che non sa decidere quel che è giusto per lo Stato, è anche, in sé, un adattamento strutturale della tragedia antica in quanto rappresentazione di un personaggio la cui ambiguità non trova una acquiescenza semantica. Nell’Hamlet il personaggio del principe ereditario non può trasformarsi in un carattere che esprima valori che rovesciano quelli espressi dal personaggio al momento di questo monologo; come, invece, abbiamo visto, avviene nell’Antigone quando Creonte esita di fronte alla soglia invisibile degli Uccelli che rivelano l’ambiguità del suo agire. Non può farlo come avviene ad Antigone stessa, in cui il rovesciamento rivela l’altro lato dell’ambiguità di quel carattere, tale per cui l’eroina dotata di valori familiari diviene un outcast, parte della natura selvaggia. Ciò non può avvenire perché questo tipo di rovesciamento antico prevedeva una visione tragica interconnessa in cui la lirica aveva la capacità di percepire tragicamente entrambi i lati dell’universo tragico. In questo universo semanticamente separativo e articolato secondo un’assiologia di valori univoca, consoli-
89 F. Moretti, La grande eclissi, cit., p. 112.
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data, l’istanza catartica implicita nell’ambiguità del re non può trovar sfogo. Abbiamo compreso che, l’inazione di Hamlet non è che un retaggio della forma da cui discende la tragedia. Ne consegue che, per comprendere in che senso la tragedia si adatta alla modernità dello Stato assoluto, la domanda da porre non è dunque “perché Hamlet non riesce ad agire”, ma piuttosto una domanda drammaturgicamente più tecnica e meno romantica, formulabile nel modo seguente: “perché, se il non agire di Hamlet manifesta l’Ambiguità del sovrano, in questo tipo aurorale di tragedia moderna il procedimento del rovesciamento come gestione dell’Ambiguità dell’agire, ad opera della visione tragica del Coro, non può avvenire?” Se, infatti, il momento del rovesciamento antico non dipende né dalla Parola in sé del Coro, qui impersonata da Horatio, né dall’Azione, incarnata Hamlet, che qui rappresenta la componente mitica del dramma, da che dipende? Cos’è cambiato? La risposta è che, in questo tipo di dramma ciò che è cambiato è per l’appunto la Weltanschauung del drammaturgo, la sua visione tragica, il rapporto fra Parola e Azione ne è dunque inevitabilmente condizionato. Chiarito questo aspetto, prima che il processo di adattamento della tragedia si compia, dobbiamo tenere presente anche un altro personaggio presente nella tragedia Hamlet che è altrettanto fondamentale nel completare la rappresentazione di questo genere letterario, e cioè Claudius, il re usurpatore. Bisognerà mostrare che il re è altrettanto importante al principe nell’economia di questo processo di trasformazione, ed è essenziale per realizzare il processo formale tramite cui l’immagine della sovranità nasce come fondamento semantico di un cosmo tragico e, successivamente, si ribella all’idea di Sovrano buono che, a seguito di una
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crisi decisionale, diviene un tiranno. Come Hamlet anche Claudius è un personaggio ambiguo; anzi, nell’essere, all’interno del cosmo tragico shakespeariano una sorta di figura del sovrano direttamente speculare ad Hamlet, Claudius è, come sarà anche Macbeth qualche anno dopo di lui, con tutta evidenza, un machiavellico. La natura machiavellica di Claudius ci viene segnalata, del resto, fin dalle prime battute dedicate allo zio di Hamlet. In quanto stilizzazione drammaturgica del principe machiavellico, la Reason, la ragionevolezza e la pacatezza di Claudius consistono nel giustificare la presa di potere con la necessità di una saldezza dello Stato, della sua pacificazione; ciò lo si evince, chiaramente, quando questi tratta con sussiego il principe ereditario: King Tis sweet and commendable in your nature, Hamlet, To give these mourning duties to your father. But you must know your father lost a father, That father lost, lost his, and the survivor bound In filial obligation for some term To do obsequious sorrow. But to persever In obstinate condolement is a course Of impious stubbornness. ‘Tis unmanly grief. It shows a will most incorrect to heaven, A heart unfortified, a mind impatient, An understanding simple and unschooled. For what we know must be and is as common As any the most vulgar thing to sense, Why should we in our peevish opposition Take it to heart? Fie! ‘Tis a fault to heaven, A fault against the dead, a fault to nature, To reason most absurd, whose common theme
Re È ben degno di te, Amleto, e della tua natura, il lutto che porti per tuo padre. Pure, lo sai, tuo padre perdé un padre, e quel padre perduto perse il suo. È obbligo filiale di chi sopravvive manifestare per qualche tempo il proprio cordoglio.Ma insistere in tale luttuoso contegno è poi indizio di empia caparbietà; è un dolore da femminuccia, che rivela una volontà indocile al Cielo, un cuore debole, uno spirito impaziente, un giudizio assai rudimentale ed incolto. Perché dovremmo noi prender a cuore con tanta insistenza e petulanza ciò che sappiamo inevitabile e comune a tutti? No, no! È colpa verso il Cielo, peccato contro i morti e contro natura; ed è cosa assurda, perché la ragione non fa che parlarci della morte dei padri ed essa ha gridato sempre, dal giorno del primo cadavere fino al morto d’oggi, “così dev’essere”. Noi ti preghiamo dunque, getta a terra questo vano dolore e pensa a noi come a un padre; perché tu, e lo sappiano tutti, sei colui ch’è più prossimo al nostro trono, ed io voglio rivolgere a te tutto
La scomparsa del Coro nel teatro di Shakespeare 207 Is death of fathers, and who still hath cried, From the first corse till he that died today, “This must be so.” We pray you, throw to earth This unprevailing woe, and think of us As of a father. For let the world take note, You are the most immediate to our throne90
l’affetto che il più tenero padre può portare a un figlio. In quanto poi alla tua intenzione di tornare a scuola a Vittemberga, essa è assai lontana dal nostro desiderio. Ti preghiamo perciò di acconciarti a restar qui, letizia e conforto dei nostri occhi, ornamento della nostra corte, nipote e figlio nostro.91
Si può dire che in questo discorso, preceduto dal famoso “I know no seems” del principe, Claudius manifesti tutto il suo condiscendente sprezzo per la concezione patrilineare dello Stato: esistono valori più importanti della stirpe. Tale sussiego ci segnala un approccio di Claudius al potere che diniega i valori ontologicamente fondanti – o supposti tali – del potere a favore di un approccio legato alla ragion di Stato. Non a caso già Franco Moretti, per parlare di questo personaggio, nel saggio cui abbiamo fatto riferimento, cita uno dei principi teorici enunciati nel Principe92. Quello cioè per 90 W. Shakespeare, Hamlet, cit., p. 166. 91 W. Shakespeare, Amleto, cit., posizione 348. 92 N. Machiavelli, Il Principe, a cura di G. Inglese, Einaudi, Torino 2006, pp. 111-112: “Credo che questo avvenga dalle crudeltà male usate o bene usate. Bene usate si possono chiamare quelle (se del male è licito dire bene) che si fanno ad uno tratto, per necessità dello assicurarsi, e di poi non vi si insiste drento ma si convertiscono in più utilità de’ sudditi che si può. Male usate sono quelle le quali, ancora che nel principio sieno poche, più tosto col tempo crescono che le si spenghino. Coloro che osservano el primo modo, possono con Dio e con li uomini avere allo Stato loro qualche remedio, come ebbe Agatocle; quelli altri è impossibile si mantenghino. Onde è da notare che, nel pigliare uno Stato, debbe l’occupatore di esso discorrere tutte quelle offese che li è necessario fare; e tutte farle a un tratto, per non le avere a rinnovare ogni dí, e potere, non le innovando, assicurare li uomini e guadagnarseli con beneficarli.”
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cui l’ambizione che conduce al potere è di per sé funzionale alla comunità perché frutto di un percorso di “eletione” ovvero, di elevazione della natura umana, tale per cui una simile dote, per quanto abbia come motore fini egoistici, è in sé frutto di una superiorità antropologica, di una elevazione culturale del Sovrano, che agisce non per necessità – e dunque per mera sopravvivenza – ma al contrario per un atto di libera scelta. Questo è particolarmente evidente se leggiamo i soliloqui di Macbeth all’inizio della sua tragedia, tenendo proprio presente che il re Claudius è un tipo drammaturgico sul quale si svilupperà poi la tragica storia del re di Scozia, nel 1608, cioè quattro o cinque anni dalla pubblicazione di Hamlet. Questa Will, intesa come accordo fra istanze e appetiti individuali e principi generali che sono funzionali allo Stato, a ben vedere è una costruzione culturale fondamentale che, per l’ennesima volta, sovrappone valori culturali e realtà drammaturgica, stilizzazione psicologica, azione sul palcoscenico teatrale e senso simbolico che, nel Corpo politico, assume il potere. Tale surrettizia concezione, al pari e in modo direttamente simmetrico a quella di Hamlet, in Claudius si rivela tuttavia ambigua molto presto. Ciò avviene nella misura in cui i codici culturali del machiavellismo, e dell’antropologia culturale del potere machiavellica, interferiscono con quelli della Elizabethan world picture, in special modo quando “i due solitari estremi in cui l’immagine del sovrano si è decomposta”93 e cioè Hamlet e Claudius, avanzano in reciproca conchiusione. Siamo di nuovo nel terzo atto di Hamlet alla prayer scene, quando Claudius esprime pentimento e terrore per il colpo di Stato, e rivede la posizione tale per cui l’usurpa93 Franco Moretti, La grande eclissi, cit., p.122.
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tore debba essere visto come eletto per la propria natura superiore: King […] O, my offence is rank: it smells to heaven; It hath the primal eldest curse upon’t – A brother’s murder. Pray can I not: My stronger guilt defeats my strong intent And like a man to double business bound I stand in pause where I shall first begin And both neglect. What if this cursed hand Were thicker than itself with brother’s blood? Is there not rain enough in the sweet heavens To wash it white as snow? Whereto serves mercy But to confront the visage of offence? And what’s in prayer but this twofold force – To be forestalled ere we come to fall Or pardoned, being down? Then I’ll look up My fault is past. But O, what form of prayer Can serve my turn: “Forgive me my foul murder”? That cannot be, since I am still possessed Of those effects for which I did the murder, My crown, mine own ambition and my Queen. May one be pardoned and retain th’offence? In the corrupted currents of this world Offence’s gilded hand may shove by justice [...]. What then? What rests? Try what repentance can – what can it not? – Yet what can it, when one cannot repent?94
Re […] Oh, è putrido il mio delitto! Appesta anche il cielo! E porta il segno dell’antica e originaria maledizione: l’assassinio d’un fratello! Pregare? Vorrei, ma non posso; la colpa è più forte di me e sconfigge la mia volontà. Son come un uomo che è intento a un doppio affare ed è incerto, esitante, non sa quale debba avere la precedenza e li trascura così tutti e due. E dunque, fosse ancor più incrostata di sangue fraterno questa mano maledetta, non vi sarebbe in cielo pioggia sufficiente per renderla bianca come la neve? A che serve la grazia se non per affrontare faccia a faccia il delitto? E che cos’è la preghiera se non un duplice mezzo di prevenzione prima della caduta, e di perdono dopo la colpa? In alto debbo guardare: la mia colpa è passata. Ma quale forma di preghiera può valermi? “Perdona il mio orrido delitto”… non serve perché sono ancora in possesso degli oggetti per i quali ho ucciso: la corona, la regina, la mia ambizione stessa. Si può essere perdonati e tenersi il frutto del crimine? Nella corruzione di questo mondo, la mano dorata del delitto può scansare la giustizia [...]. Ma lassù? Non ci sono scappatoie, lassù; l’azione si mostra così com’è, e noi siamo posti faccia a faccia con le nostre colpe per renderne conto. E allora? Che resta da fare? Il pentimento? Non può fare tutto? Ma che cosa vale quando uno non può pentirsi?95
94 W. Shakespeare, Hamlet, cit., p. 240. 95 W. Shakespeare, Amleto, cit., posizione 2047.
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I poli dell’ambiguità dell’agire di Claudius sono dunque i seguenti: da un lato abbiamo la superiorità culturale del principe machiavellico, la cui crudeltà si rivelerebbe positiva per la società per via della natura eccezionale del condottiero; e dall’altro la natura caduta, di matrice hookeriana, il cui conservatorismo ideologico, proprio della Elizabethan World Picture, mette in crisi la costruzione ideologica di Machiavelli, poiché in grado di minare un altro principio culturale che vorrebbe dirsi eterno, e cioè la discendenza naturale del regno. Claudius ci dice: My fault is past. But O, what form of prayer /Can serve my turn: ‘Forgive me my foul murder’? That cannot be, since I am still possessed /Of those effects for which I did the murder My crown, mine own ambition and my Queen. May one be pardoned and retain th’offence? In the corrupted currents of this world Offence’s gilded hand may shove by justice.
Può la ragion di Stato giustificare il delitto compiuto? Oppure l’appetite dell’usurpatore, di fronte alla legge eterna viene, disvelato nella sua fallen nature, la fragilità e la mutabilità dell’animo di chi questo delitto lo ha compiuto viene allo scoperto e l’appetito crudele del tiranno viene alla luce. Anche il personaggio del re, come Hamlet, dunque, oscilla fra due poli (è, letteralmente, come dice lui stesso, “in double business bound”), secondo il principio dell’ambiguità semantica dei caratteri propria del dramma antico che, attraverso l’azione, proprio perché personaggi interconnessi, sono contemporaneamente, valore, fondamento e azione. Notiamo, a questo punto, sul piano dei codici culturali, che per entrambi i personaggi di questa tragedia l’ambiguità riguarda per l’appunto in sé la forma con cui si esplica l’Azione del potere nel suo volersi fondare su di un piano trascendente.
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In modi specularmente opposti, queste due ambiguità ci dicono da due prospettive diverse quanto tale identificazione possa essere rischiosa. Da un lato perché irrigidisce l’azione se essa tenta di uniformarsi eccessivamente a un modello immutabile e metastorico (Hamlet); e dall’altro che la superiorità (puramente teorica) della natura ambiziosa del sovrano, secondo la teoria della ragion di Stato, può rivelare una natura crudele di cui sarebbe meglio pentirsi finché non è troppo tardi (Claudius). Questa ambiguità strutturale dei personaggi è dunque fondamentale per comprendere come la tragedia shakespeariana, in sé, non sia altro che un adattamento formale di una tragedia della tragedia antica. E tuttavia, anche per quanto riguarda Claudius, se di adattamento si tratta, dobbiamo chiederci: perché il rapporto culturale dell’ambivalenza con il potere, com’era in Hamlet, anche in Claudius, non genera quel sollievo catartico che strutturalmente, nel dramma antico, doveva generare? Ancora una volta, esattamente come con Hamlet, anche con Claudius la risposta deve essere trovata non nell’azione dell’Eroe (o antieroe, in sé, a seconda delle prospettive) né tantomeno nella Parola del Coro, rappresentata da Horatio, che tace muta di fronte alla messa in discussione dei valori culturali cui è interconnessa. Se dunque non è nella crisi della Parola, né la crisi dell’Azione a generare la trasformazione della tragedia basata sull’ambiguità e sull’interconnessione fra Parola e Azione, in cosa consiste, in questo caso, la trasformazione? Ancora una volta dobbiamo rispondere che questa trasformazione ha luogo nella Weltanschauung, nella visione tragica separativa che impedisce il processo catartico, anche per Claudius, del modello basato sulla gestione dell’Ambiguità dei personaggi tragici che, in una visione tragica interconnessa, avrebbe generato un rovesciamento.
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C’è anche un esperimento mentale che noi possiamo compiere per comprendere la differenza fra un cosmo tragico interconnesso come quello dell’Antigone e il cosmo tragico separativo di Hamlet. Perché il dubbio nel compiere l’Azione di Hamlet ci rende perplessi e invece quella di Claudius non ci stranisce ma, al contrario, ci risulta naturale? Perché, per usare ancora le parole di Moretti, Hamlet è, insomma, “il protagonista sbagliato”? La risposta sta nel fatto che il dubbio morale di Claudius è in linea con un orientamento semantico da noi facilmente identificabile: un’assiologia tale per cui l’azione, che consiste nella presa del potere, può essere collocata all’interno di uno schema semiotico-culturale con degli orientamenti chiari. Mentre nella tragedia Antigone le cosmologie alternative di Antigone e Creonte sono ambivalenti tra loro e parallele, nel cosmo tragico shakespeariano l’ambivalenza fra Hamlet e Claudius non è perfetta: se la natura del principe ereditario risulta infatti insufficiente rispetto al modello di sovrano che rappresenta, rimane comunque che la visione tragica del drammaturgo, che orienta semanticamente l’azione di questo dramma, vede nel personaggio del principe (e nella componente ideale della sua Will, intesa come volontà regale) la possibilità di salvare lo Stato, ed è per questo che siamo straniti quando vediamo che a questo professare principi ideali non segue una vendetta. Al rovescio, invece, Claudius è la rappresentazione di come la costruzione ideale di un Sovrano possa sfociare in principi pericolosi, tali per cui lo spirito dell’usurpazione, nel voler ottenere il bene del regno compiendo il male, svelano la fallen nature l’appetito più crudele che si cela dietro la pretesa di pacificazione del regno per via della propria ambizione personale. Per usare le parole di Macbeth, che a questo punto ci pare chiaramente l’alter ego di Claudius:
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Stars hide your fire, let not light that see my black and deep desires the eye wink at the end/yet let that be, which the eye fears when its done to see.
Se Hamlet non riteneva se stesso degno dell’azione regale da compiere, Claudius/Macbeth non ritiene la sua azione degna di un re: è proprio il segno di un’assiologia semantica, un orientamento culturale univoco, che esattamente quello che mancava nell’Antigone. Un’ulteriore modo per esprimere questa tesi, infine, è che l’esitazione di Hamlet stranisce perché non siamo abituati, nel nostro cosmo separativo, a personaggi che si fermano davanti ad una soglia culturale. Ciò perché nella costruzione semiotica millenaria, in questo tipo di cosmologia moderna, la nostra volontà ha acquisito una proairesis, una capacità di agire a prescindere condizionamenti o da valori esterni alla nostra volontà, che rappresentino l’ubi consistam del nostro agire. Sembra dunque, in questa prospettiva, che Hamlet sia un personaggio drammaturgicamente veramente unico. Il suo esitare è la testimonianza di quanto il passato interconnesso della tragedia, connesso a valori che trascendono l’azione del singolo in un mondo in cui esistono differenti prospettive e orizzonti polisemici, sia catapultato – secondo misteriosi criteri dell’evoluzione delle forme letterarie – in un cosmo orientato semanticamente e in cui i personaggi dovrebbero avere gli strumenti culturali per agire di conseguenza, ma così non è. Viceversa, se Hamlet non riesce a superare la soglia simbolica rappresentata dal vuoto della propria azione che, come i caratteri antichi, egli pone al centro dello spazio drammaturgico come una soglia culturale invisibile, Claudius è già al di là di quella soglia: la sua azione resta muta, priva di giustificazione culturale all’interno di questo siste-
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ma semanticamente orientato, in cui i fondamenti semantici dovrebbero avere raggiunto una loro saldezza. “Dovrebbero”, perché a questo punto della nostra analisi comparativa possiamo comprendere che, se il ragionamento fin qui compiuto è esatto, il vero principio formale del ritorno della tragedia antica nella modernità e della sua successiva evoluzione nasce proprio da una questione di crisi dei fondamenti culturali. Il suo adattamento formale nasce dal fatto che il dispositivo catartico messo in atto dal dramma antico non può esistere all’interno di una Weltanschauung separativa; e tuttavia il suo ritorno, come abbiamo anticipato nell’introduzione, deriva proprio dalla natura ambivalente e semanticamente inaffidabile dell’agire del sovrano. Prima di passare al risultato di questo processo di adattamento, e cioè King Lear, per completare il ragionamento occorre dire anche una parola sui cosiddetti drammi problematici o drammi della restaurazione Measure for Measure e All’s Well What’s End Well, composte non a caso fra il 1603 e il 1604, in stretta prossimità cronologica con Hamlet. Possiamo affermare, a questo punto, che la loro peculiare struttura, caratterizzata da membri dell’aristocrazia disorientati e monarchi che decidono del loro destino, è un prodotto dello scontro fra le visioni tragiche presenti nella tragedia. Essi segnalano l’impossibilità del riequilibrio formale fra fatti e valori previsto dal dispositivo tragico antico. In questo senso, sebbene chiaramente aliena dalla forma tragica nella propria incarnazione in senso stretto, la struttura di questi drammi ne è comunque un risultato formale. Dobbiamo pensare infatti che, anche proprio a livello di realizzazione performativa, il rapporto di interconnessione fra la componente lirica della tragedia e quella epica, ovvero il mito, è per l’appunto un rapporto di credenza, di mutua riflessione, sia patica e performativa.
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Tutti i personaggi di questi drammi, da Berthram a Helena a Capilet, ad Angelo e Isabella caratterizzati così bene dalla loro relazione con l’immagine del sovrano, definiscono la crisi di tale relazione proprio sul piano performativo, laddove Horatio, nella mappatura di Hamlet stesso la definiva sul piano verbale. Essi sono tutti personaggi riconducibili culturalmente al novero dei personaggi leali al re, dipendenti dal re, e che si comportano nel modo descritto proprio perché viene meno, il rapporto di interconnessione, fra il rapporto di mutua coerenza fra Parola e Azione. 2.5 Una nuova forma di volontà
Se lasciamo Hamlet e i drammi problematici e passiamo a King Lear, tuttavia, possiamo apprezzare come la tragedia moderna, intesa come rappresentazione di una “totalità etica”, si fondi sul vizio di fondo dell’ambiguità semantica tipica dei caratteri del modello della tragedia antica. Lasciando il 1603 e spostandoci nel 1611, possiamo provare a comprendere in che senso rappresenta il compimento del processo di adattamento della tragedia antica dal cosmo interconnesso a quello separativo. L’Azione del sovrano, infatti, rappresenta chiaramente il risultato di un agire semanticamente ambiguo, ma la grande differenza fra l’ambiguità per cui si caratterizzano i personaggi tragici antichi e l’ambiguità del personaggio di Lear, è che la componente lirica (il Coro) interconnessa alla sua azione non può più far nulla per placare la follia del suo gesto:
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Lear Meantime we shall express our darker purpose. Give me the map there. Know that we have divided In three our kingdom: and ‘tis our fast intent
Lear Noi nel frattempo riveleremo il nostro proposito più oscuro. Datemi quella mappa. Sappiate che il nostro regno noi lo abbiamo diviso in tre – ed è nostro fermo intento scrollare tutte le incombenze e le cure dai nostri vecchi anni per
To shake all cares and business from our age; Conferring them on younger strengths, while we Unburthen’d crawl toward death. Our son of Cornwall, And you, our no less loving son of Albany, We have this hour a constant will to publish Our daughters’ several dowers, that future strife May be prevented now. The princes, France and Burgundy, Great rivals in our youngest daughter’s love, Long in our court have made their amorous sojourn, And here are to be answer’d. Tell me, my daughters,-Since now we will divest us both of rule, Interest of territory, cares of state,-Which of you shall we say doth love us most? That we our largest bounty may extend Where nature doth with merit challenge. Goneril, Our eldest-born, speak first.96
affidarle a forze più giovani, mentre noi, leggeri, strisciamo verso la morte. Tu, nostro figlio di Cornovaglia, e tu, non meno amato figlio di Albany, è nostra salda volontà in quest’ora di render pubbliche le diverse doti delle nostre figlie, sì da prevenire ogni disputa futura. I principi di Francia e di Borgogna, grandi rivali nell’amore della nostra figlia più giovane, a lungo nella nostra corte hanno protratto il loro soggiorno d’amore e qui debbono avere una risposta. Ditemi, figlie mie (poiché noi ora ci spogliamo del potere, d’ogni interesse di territorio, delle cure dello Stato), quale di voi diremo che ci ama di più, sì che la nostra maggior munificenza vada dove la natura col merito gareggia? Goneril, primogenita nostra, parla tu per prima.97
L’atto in questione è per l’appunto quello, pronunciato in questo monologo, ed ha, sul piano performativo una grande polisemia. Da un lato Lear sta dividendo il regno in tre par96 W. Shakespeare, King Lear, a cura di R. A. Foaks, Bloomsbury, London 1997, p. 112. 97 W. Shakespeare, Re Lear, tr. it. Agostino Lombardo, Mondadori, Milano 1991, posizione 1082.
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ti, e quindi fa esercizio della sovranità assoluta come atto formale; dall’altro però, svela la sua umanità, la sua natura senile e la sua mutabilità, virtù semanticamente collegate fra di loro, ma anche in contraddizione con l’investitura trascendente della sua azione. Se da un lato la stessa azione di Lear incarna la crisi dell’agire monarchico come atto trascendente nel senso che abbiamo già visto in Hamlet, dall’altro però, al contrario di Hamlet, l’aspetto mutevole e incostante del sovrano non è inncuo e impotente, ma è violento come quello di Claudius. Il gesto di Lear è ambiguo perché è gravido di conseguenze per la ragione che abbiamo detto all’inizio. Il suo “darker purpose” ha infatti due lati: è buono e cattivo al contempo esattamente come l’azione del re Edipo, e ciò perché da un lato viene dal re, percepito come rappresentazione del fondamento culturale dello Stato, secondo la rappresentazione elisabettiana; dall’altro però, proprio l’immenso potere e prestigio attribuito alla sua volontà in quanto Will, è intrecciata alla ragione, che ne ha elevato lo spirito dal mero Appetite. Eppure questa visione ideologica rivela ben presto l’altro lato della sua ambiguità quando il potere attribuito alla figura del re si rivolta contro la società. Ciò avviene esattamente a partire dal passo che abbiamo citato perché è il suo essere fondamento che si rivela senza freni, è in grado di mandare all’aria l’ordine. È vero dunque che l’atto di Lear esso ha un doppio statuto: da un lato il suo abdicare in favore del caos generato dalla guerra civile è il segno del cedimento della natura regale ad un difetto di umanità, come accade, sebbene in vie diverse a Claudius e Macbeth. Lear è la testimonianza che il monarca è un uomo, caratterizzato da quella incostant nature che può caratterizzare tutti gli uomini ed è più crudele perché come Claudius/Macbeth è un tiranno che rivela l’incostante natura del suo animo in modo estremamente umano.
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Al contempo, però, Lear incarna anche l’ambiguità di Hamlet perché rappresenta il fallimento dell’istituzione. Lear è già crasi fra azione e modello regale che informa, neoplatonicamente, dell’avvento l’azione del monarca: ciò sta proprio nello statuto formale di cui è investito. Possiamo dunque spingerci oltre, nella nostra interpretazione, e finalmente formalizzare l’ambiguità di Lear come qualcosa che ha uno statuto diverso da quello dell’ambiguità dei personaggi antichi; ma anche dell’ambiguità di Claudius e Hamlet. Se è vero, in primo luogo, e come abbiamo verificato secondo dei codici culturali specifici, che King Lear sussume in sé in forma singolare i poli delle due ambiguità opposte e complementari delle due ipostasi del sovrano presenti in Hamlet, è pur vero che la linea di separazione marcata all’interno del corpo politico dalla crisi dell’azione di questi due personaggi è una traccia della linea di separazione semiotica implicita nella creazione del personaggio interconnesso Lear. Sul piano dell’evoluzione della tragedia dunque, l’opposizione fra Claudius e Hamlet, dal punto di vista strutturale, funziona come un binarismo oppositivo che prelude e prepara la rappresentazione del piena della tragedia shakespeariana come crisi dell’azione monarchica. Concentriamoci, adesso, quindi, sul vero tratto evolutivo manifestato da King Lear rispetto alla tragedia emersa dalla filosofia della physis e di cui questo sovrano shakespeariano manifesta ancora i tratti formali: il tratto più lampante che emerge è l’assoluto – e incontrastato – peso tematico dell’azione drammatica e del pathos tragico caratterizzato dall’azione di Lear. Più precisamente, dalla prima scena del secondo atto fino alla quarta del quinto atto, le scene sono tutte dedicate a Lear e allo spettacolo delle conseguenze della follia, la fallen nature del suo agire, specialmente nelle scene in
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cui Lear paga le conseguenze per l’ingenuità del proprio comportamento: King Lear Blow, winds, and crack your cheeks! rage! blow! You cataracts and hurricanoes, spout Till you have drench’d our steeples, drown’d the cocks! You sulphurous and thought-executing fires, Vaunt-couriers to oak-cleaving thunderbolts, Singe my white head! And thou, all-shaking thunder, Smite flat the thick rotundity o’ the world! Crack nature’s moulds, an germens spill at once, That make ingrateful man! Fool O nuncle, court holy-water in a dry house is better than this rain-water out o’ door. Good nuncle, in, and ask thy daughters’ blessing: here’s a night pities neither wise man nor fool. King Lear Rumble thy bellyful! Spit, fire! spout, rain! Nor rain, wind, thunder, fire, are my daughters: I tax not you, you elements, with unkindness; I never gave you kingdom, call’d you children, You owe me no subscription: then let fall Your horrible pleasure: here I stand, your slave, A poor, infirm, weak, and despised old man: But yet I call you servile ministers, That have with two pernicious daughters join’d Your high engender’d battles ‘gainst a head So old and white as this. O! O! ‘tis foul!
Re Lear Soffiate, venti, e rompetevi le guance! Infuriate! Soffiate! Voi, cateratte e uragani, eruttate finché non avrete sommerso i nostri campanili e annegato i galli sui tetti! Voi fuochi sulfurei, e veloci più del pensiero, voi avanguardie di fulmini che fendono le querce, bruciate la mia testa bianca! E tu, tuono che tutto scuoti, spiana la spessa rotondità del mondo, infrangi gli stampi della natura, distruggi tutti i semi che fanno l’uomo ingrato! Matto O Zietto, acquasanta di corte in una casa asciutta è meglio di quest’acqua piovana all’aperto. Dentro, buon Zietto, e chiedi la benedizione alle tue figlie. Questa è una notte che non ha pietà né per savi né per Matti. Re Lear Rutta quanto vuoi! Sputa, fuoco! Scroscia, pioggia! Né la pioggia, né il vento, né il tuono, né il fuoco sono mie figlie. Voi elementi, non vi accuso di crudeltà: a voi non ho mai dato un regno, non vi ho chiamato figlie. Voi non mi dovete sottomissione, e perciò fate cadere come vi piace il vostro orrore. Io sono qui, vostro schiavo, un vecchio povero, infermo, debole e disprezzato. Eppure vi chiamo ministri servili perché uniti a due figlie perniciose scatenate battaglioni celesti contro una testa vecchia e bianca come questa. Oh! è turpe. Matto Chi ha una casa dove mettere la testa ha un bel copricapo. La brachetta che vuole casa Prima che ce l’abbia la testa Si troverà impidocchiata. Così molti sposati son pezzenti.
220 Fool He that has a house to put’s head in has a good head-piece. The cod-piece that will house Before the head has any, The head and he shall louse; So beggars marry many. The man that makes his toe What he his heart should make Shall of a corn cry woe, And turn his sleep to wake. For there was never yet fair woman but she made mouths in a glass.98
La nascita del dramma moderno L’uomo che al posto del cuore Ci mette il ditone Per un callo griderà di dolore E farà del suo sonno una veglia. Perché non c’è mai stata bella donna che non abbia fatto le boccacce allo specchio.99
Perché questa ampiezza tematica della componente epica della tragedia rappresenta un tratto evolutivo per la tragedia rispetto al modello formale interconnesso? La risposta sta nel fatto che, se ricordiamo l’analisi della tragedia antica, dobbiamo ricordarci che essa avveniva sempre secondo il criterio di una doppia logica: poiché l’azione – ambivalente, per l’appunto – da un lato era espressione di valori culturali di cui era detentore il drammaturgo attraverso la funzione del Coro, e dall’altro era espressione di una volontà che, in quanto priva di proairesis, era subordinata a questi valori. In King Lear non è più così, perché se l’azione del re domina la scena, la componente che esprime i valori che si riflettono secondo il principio dell’interconnessione fra parola e azione che caratterizza questo tipo di dramma tace o balbetta, esattamente come Horatio taceva o balbettava. Sia Gloucester che Kent, i massimi sostenitori del potere monarchico a fronte della minaccia di usurpazione del trono di Britannia, in momenti diversi del dramma si comportano come Horatio, rispondendo alla furia e all’inco98 W. Shakespeare, King Lear, cit., p. 357. 99 W. Shakespeare, Re Lear, cit., posizione 2347.
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scienza di Lear con delle frasi prive di sostanza e di costrutto alcuno. A questo punto siamo autorizzati a chiederci: in che senso Lear è il risultato di un’evoluzione della forma drammaturgica interconnessa, proprio via di questa “libertà formale” del suo agire, del suo essere ab-solutus, sciolto da ogni condizionamento? Ancora una volta la risposta la dobbiamo trovare nel confronto fra la Weltanschauung tragica antica e la Weltanschauung shakespeariana. Come era già avvenuto per il nesso tra parola e azione con la rappresentazione del Sovrano in Hamlet e in Claudius l’interconnessione tra questi due elementi del dramma avviene in un contesto separativo, ovvero un contesto in cui i riferimenti semantici sono già stati ordinati, sistemati e articolati secondo un sistema binaristico oppositivo, come scrivevamo prima, che la tragedia antica non conosce. Se confrontiamo, anzi, la stilizzazione di Lear con quella delle due figure drammaturgiche che dominano Hamlet, ci rendiamo conto che la soglia che separa i due caratteri rappresenta la soglia di separazione semiotica necessaria a stilizzare un carattere drammaturgico che non sia solamente rappresentante di se stesso, ma rappresenti “una totalità”, ciò cui è chiamata genealogicamente a rappresentare la tragedia – probabilmente per il suo discendere dal mito e dall’epos – nella modernità. Se è vero, in primo luogo, che Lear sussume in se i poli delle due ambiguità opposte e complementari delle due ipostasi del sovrano presenti in Hamlet, è pur vero che la linea di separazione marcata all’interno del corpo politico dalla crisi dell’azione di questi due personaggi è una traccia della linea di separazione semiotica implicita nella creazione del personaggio interconnesso Lear. Detto ancora in altri termini: poiché abbiamo sostenuto che la tragedia shakespeariana, non può che avvenire all’in-
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terno di una Weltanschauung separativa basata su binarismi oppositivi, come order and chaos, nature and form, nel momento in cui era necessario rappresentare un personaggio come Lear che li tiene insieme contraddittoriamente, era anche necessario rappresentare un dramma come Hamlet, in cui tali attributi contraddittori del monarca, la Will e la Reason, venivano rappresentati secondo un sistema di polarità valoriali oppositive. Tramite questo processo, dunque, possiamo spiegare la ragione per cui il personaggio di Lear sia il primo dei personaggi tragici che “si emancipa dalle sue determinazioni sostanziali” per riprendere la citazione di Kierkegaard che abbiamo menzionato nel capitolo dedicato alla tragedia antica. Tale emancipazione dalla interconnessione fra azione drammatica e valori fondamentali propria della tragedia antica può avvenire solo se si accetta che il fondamento mitico rappresentato dalla tragedia di Lear si trova, ancora una volta, all’interno di un regime culturale tale per cui la sua rappresentazione regale ha una codificazione semiotica precisa. Se si vuole, Hamlet e Claudius non sono dunque altro che tracce, in contraddizione tra loro, dell’azione rappresentata e incarnata da Lear, così come all’interno di uno schema che tiene insieme un referente con un significato: l’azione di un povero pazzo che però è anche re. Ci deve essere un percorso che inocula questa apparente contraddizione culturale in un segno, e mostra la separazione fra ciò che è percepito come fondamento simbolico del Potere e ciò che è invece l’azione materiale del carattere. Solo dirimendo referente e azione da questa ambivalenza fondamentale si può rappresentare il fondamento culturale del potere all’interno della Weltanschauung separativa propria del cosmo shakespeariano e, se questa interpretazione è giusta, il conflitto fra i caratteri dei due personaggi incarnanti il re rappresenta esattamente un simile processo di adattamento formale.
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Una volta spiegate le ragioni per cui Lear può essere considerato come il primo personaggio “che si emancipa dalle sue determinazioni sostanziali e che incarna, hegelianamente, la totalità formale di tutto il suo Stato, vorrei anche però, subito, sfumare, questa tesi. In realtà, lungo il processo di evoluzione della tragedia, l’emancipazione “dalle determinazioni sostanziali” è un ongoing process. Tutti i personaggi della grande tragedia dello Stato assolutista rappresentano delle soggettività formali: tutte incarnano, con la loro azione, dei valori che sono inoculati semanticamente nel loro gesto tragico; sia Don Gutierre, sia Segismundo, sia Phèdre. La differenza è che, dopo Lear, questo statuto ambiguo dei caratteri tragici non avverrà secondo il regime dell’interconnessione, come avveniva nelle tragedie antiche e, ancora in Romeo and Juliet, essa sarà inoculata nella stilizzazione formale della loro azione. Il Don Gutierre di Calderón agisce secondo la sua volontà personale, ma questa volontà è formalizzata e stilizzata dal poeta tragico come propria, come autonoma, risponde a criteri e valori simbolici propri della cultura del drammaturgo. Se prima questi valori erano comunicati attraverso un processo metonimico inconscio secondo il regime formale della interconnessione, dopo Hamlet, che mette in crisi la forma interconnessa, e dopo Lear, che incarna il risultato semiotico di questa crisi, ciò avverrà secondo i criteri di connotazione ideologica propri di tutte le visioni del mondo separative che mettono in opera delle associazioni mentali, rimuovendo, al contempo, il gesto linguistico separativo che le ha prodotte. La tragedia del rovesciamento in chiave moderna, sarà dunque, l’esempio della crisi dei valori culturali incarnati da quel determinato personaggio, discendente di Lear, il personaggio tragico incarnerà non solo sé stesso ma anche i valori del drammaturgo, e, non nel regime dell’interconnes-
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sione ma in quello della cosmologia separativa, che è più propria delle cosmologie moderne. Tuttavia, come spiegheremo meglio nel prossimo capitolo, proprio il gesto di adeguamento alla cosmologia separativa rappresentato da Hamlet, ci consegna da un lato, certamente, una nuova forma di rovesciamento, di cui troviamo esempi già nello stesso Shakespeare, dall’altro un’ambivalenza formale fra tragedia dello scontro fra i caratteri e tragedia del rovesciamento, retaggio ancestrale, della natura intimamente dialogica di questo genere letterario. Abbiamo dunque mostrato come la crisi della sovranità nel teatro di Shakespeare, proprio in quanto crisi dei fondamenti, rievochi la tragedia a causa dell’esperienza del paradosso, sentimento comune a entrambi i poeti tragici che abbiamo, analizzato. Nel prossimo paragrafo toccherà studiare con ancor più esattezza come la trasformazione e l’adeguamento della tragedia all’interno del cosmo separativo possa fornirci dei paradigmi formali per analizzare il resto del cammino compiuto dalla tragedia moderna. 2.6 Transizione. Un genere letterario non essenzialista, ovvero: le due definizioni di tragedia si scindono
La nostra analisi testuale era cominciata a partire dalla lettura di due classici sofoclei, Edipo e Antigone. Abbiamo molto insistito sul fatto che la pragmatica del dramma e lo status culturale del concetto di soggettività all’interno di essi ci portavano necessariamente a concludere un’ambivalenza fra queste due forme. Ciò se la concezione alla base non è tanto l’idea di destino individuale in sé del carattere drammaturgico, quanto piuttosto quel che l’individuo vuol dire per il destino della città.
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La constatazione, senza dubbio passibile di molte variazioni da dramma a dramma, ma dotata di una sua plausibilità, ci permette di comprendere come la definizione di questi modelli formali sia in grado di definire l’evoluzione di questo genere letterario in re. Ciò che conta, per l’evoluzione della tragedia, è che nel momento in cui la sua forma ha dovuto adeguarsi al cosmo separativo del poeta tragico moderno, essa abbia sfruttato l’ambivalenza formale fra i due modelli di tragedia che abbiamo rilevato in precedenza. Pensare l’evoluzione dei generi letterari in re (e quindi non ante rem o post rem) significa per l’appunto tecnicamente valutare l’importanza di una peculiare forma tragica a partire dal momento in cui questa diventa rilevante nel processo di evoluzione e di rifunzionalizzazione del genere in questione. La nostra tesi è che il modello hegeliano di tragedia come scontro fra i caratteri diventa rilevante ai fini della evoluzione del dramma, per l’appunto, nel momento in cui, con la crisi della sovranità nel teatro di Shakespeare, quest’ultimo utilizza lo scontro fra i due caratteri Hamlet e Claudius come un modo per rappresentare l’inconciliabilità fra queste due concezioni culturali del potere all’interno di un cosmo separativo. Nel cosmo interconnesso dell’Antigone, dove, come abbiamo visto, non vige il principio di non-contraddizione, due concetti culturali di potere potevano, o meglio, dovevano, per quanto assai problematicamente, convivere. Nella visione tragica shakespeariana ciò non può avvenire se non a prezzo della distruzione del body politic, che, non a caso, come spiega Moretti, la tragedia de facto decreta. In particolare, la lettura peculiare e filologicamente fondata dell’Antigone compiuta da Oudemans e Lardinois, ci ha permesso di intravedere tale connessione evolutiva, e di unificare, di fatto, la teoria della tragedia antica con quella
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shakespeariana, mostrando che non si tratta solo di crisi della sovranità ma anche, attraverso la crisi, evoluzione, adattamento, rifunzionalizzazione della tragedia. Manca ora un ultimo passo, a trasformazione avvenuta: qual è la nuova funzione delle forme che a partire da questo processo, sono emerse? Non ci stupiremo certamente se vi troveremo esattamente quei tipi di forme che abbiamo elencato nell’introduzione, e che sono, in definitiva il lascito della scomoda unità simbolica del cosmo tragico interconnesso del dramma antico. Non indugiamo oltre nel mostrarle:
Fig. 3 curva gaussiana che mostra il rapporto fra spazio drammaturgico e i personaggi in scena nel King Lear.
Questa stilizzazione di King Lear mostra bene quanto la tragedia moderna, emersa all’alba del dominio della sfera pubblica rappresentativa da parte della cultura assolutista e monarchica, sia legata all’“importanza”, l’epicità, del per-
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sonaggio del re. Lo spazio formale e tematico dedicato alla figura del sovrano rappresenta il peso semantico e di conseguenza anche sintattico che caratterizza i personaggi tragici più importanti nella modernità. Per una questione di Stiltrennung la figura del re deve, in tutte le sue forme, essere il soggetto necessariamente più importante e valido di cui partecipa la tragedia moderna, una volta che si è adattata a partire dalla forma antica. Questo senso di “totalità”, espresso dalla figura di King Lear, caratterizza molti personaggi tragici successivi lungo la tragedia moderna, come ad esempio i sovrani calderoniani, su cui verremo a breve. In questo senso l’ambiguità del fondamento su cui si realizza la tragedia moderna, anche oltre Shakespeare, agisce secondo le regole dell’universo separativo: come vedremo nel caso di studio successivo, ci sono tutta una serie di tragedie assimilabili genealogicamente a King Lear. Ciò nel senso che si concentrano, attraverso l’esaltazione e l’esibizione tragica del destino di figure regali altamente e densamente simboliche, sul destino della monarchia, nel suo valore epico per l’ideologia aristocratica e sulla fiducia che essa ripone nel destino e nel monarca, ma foriera anche del sentimento lirico del singolo poeta che ne è cantore. L’ambiguità di Lear riflette dunque anche la ragione per cui, necessariamente, la tragedia moderna si trova in una contraddizione fra epicità e lirismo: il referente reale del fondamento, ormai escluso dal meccanismo di reciproca ambivalenza che caratterizzava Parola e Azione nel dramma antico, continuerà a far sentire il peso della sua polisemicità. Osserviamo la prima delle tre forme che abbiamo individuato essere il lascito dell’unità simbolica del genere letterario antico, ovvero quella della tragedia come rappresentazione epica, semanticamente importante, di un fondamento culturale: è il caso di King Lear.
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È qui che si esprime con chiarezza l’inevitabile contraddizione fra epicità e lirismo della tragedia, non appena passiamo da una visione tragica antica ad una moderna. Anche nella prima delle tre forme che abbiamo identificato nella nostra introduzione teorica come essere il lascito dell’unità simbolica del dramma antico, questa asimmetria è inevitabilmente visibile. Come in Lear sono contenuti la bontà e la malvagità del monarca, così, nella tragedia moderna potremo classificare un tipo di forma che risulta essere sempre ispirata ad una doppiezza inattingibile. È solo apparentemente paradossale, infatti, che il mito, una volta passati all’universo separativo della tragedia moderna, risulti ancor più distante e problematico, nella sua intrinseca contraddittorietà. È solo apparentemente paradossale, cioè, che lo scarto fra significato e referente simboleggiato da Hamlet, conceda, come abbiamo visto, la libera volontà all’agire di Lear, sciogliendolo dal rapporto di interconnessione che caratterizza la peripezia antica (le nostre “determinazioni sostanziali”) e renda la pienezza del mito ancor più inarrivabile e distante. Potremmo allora affermare, in conclusione, che l’elemento dinamico che produce strutturalmente l’evoluzione formale della tragedia è il continuo sfuggire di un’immagine fondativa che è al contempo referente dell’azione tragica e pretende di esserne pienezza di significato. In Calderón, vedremo, ci sono molte tragedie, con nomi di genere differenti, ma tutte accomunabili genealogicamente a questo tipo di crisi dei fondamenti del potere all’interno della rappresentazione culturale della sfera pubblica: rappresentazione tragica della morte di individui eccezionali, oppure, per converso, esplicito tradimento del monarca del suo ruolo di fondamento. Non deve stupire, dunque, che nel momento in cui il fondamento trova una sua rappresentazione all’interno del cosmo separativo, la polisemicità del suo essere, già proble-
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matica nella rappresentazione del dramma antico, diventerà, se possibile, ancora più problematica in quello moderno. In questa dinamica fra significati contraddittori che devono essere tenuti in qualche modo insieme, e che poi vengono sistematicamente sconfessati dalla realtà politica e ideologica, le altre due forme di cui si serve la tragedia nel suo cammino trasformativo, sono, come abbiamo detto, lo scontro tra i caratteri e il rovesciamento. Passiamo dunque alla seconda forma, che è di per sé un relitto della struttura della tragedia antica: nata sotto il segno del suo adattamento strutturale, la tragedia dello scontro fra i caratteri, qui rappresentata visivamente da Hamlet.
Fig. 4 Le due ipostasi del sovrano stilizzate come uno scontro fra caratteri in reciproca conchiusione. Sul piano della evoluzione delle forme, questo modello di tragedia rimarrà come relitto della forma tragica interconnessa descritta da Oudemans e Lardinois.
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Il rettangolo in grigio chiaro sullo sfondo del disegno cerca di rimarcare il rapporto di interconnessione fra fatti e valori (quest’ultimi affidati alla parola di Horatio) che rimane tale pur se portato a contraddizione, come abbiamo visto dall’incontro della forma tragica con la cosmologia separativa shakespeariana. Come abbiamo anticipato nell’introduzione, è proprio per via della contraddizione fra i valori incarnati dai personaggi, rappresentati come in lotta e in reciproca conchiusione (Gegeneinander, ricordiamo il termine di Hegel), e le azioni che, senza riuscire, essi sono demandati a compiere, che emerge il secondo tipo di forma fra quelle che abbiamo descritto nell’introduzione. Lo spazio vuoto e privo di colore al centro di questo schema della tragedia simboleggia la distanza cosmologica fra le due ipostasi che incarnano la crisi dell’azione regale, la cui inconciliabilità è legata alla distanza formale, in definitiva, fra la rappresentazione simbolica e l’azione effettiva. Il rapporto fra le due forme, in questo senso, è già la rappresentazione plastica di ciò che le caratterizzerà in re l’evoluzione di questo genere letterario. Se la prima di queste due forme rappresentava, come abbiamo scritto nell’introduzione, il tentativo di mostrare, attraverso l’imponenza del Sovrano, la totalità del corpo politico, Hamlet, invece, ci comunica plasticamente la natura ambigua e incerta di un tale fondamento. Quando Szondi, nel suo saggio sul dramma moderno, ci dice che quest’ultimo nasce dalla fine dalla dimensione dialogica della tragedia come genere è a questo tipo di forma che è necessario pensare: essa è il relitto della struttura della tragedia basata sul dialogo e sarà tale anche in Calderón. È il retaggio del cosmo interconnesso degli antichi, una forma che, come un relitto, reagirà, posta sotto stress, alle contraddizioni della Weltanschauung del suo autore. Preciso subito che, come credo sarà evi-
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dente dall’analisi di Phèdre, l’ambivalenza primigenia fra la forma antica del rovesciamento, dotata di anagnorisis, e questa forma che rappresenta caratteri in reciproca conchiusione rimarrà sottotraccia: ciò semplicemente per il fatto che non solo nel dramma antico, ma anche in quello moderno, un eroe rappresenta un insieme di valori talora anche in contraddizione tra loro. Phèdre rappresenta la grandeur dei personaggi raciniani, ma rappresenta – come è ampiamente noto, allegoricamente – anche due valori in contraddizione per le classi aristocratiche dell’epoca. Questa ambivalenza, del resto, è visibile anche nel caso shakespeariano se ci rammentiamo che Lear sussume in sé la duplicità di Claudius e Hamlet. Possiamo dire, dunque, che l’ambivalenza fra le due forme originarie della tragedia da un’ambivalenza di tipo pragmatico della tragedia antica, che consisteva nel mantenere in equilibrio un mondo contraddittorio, diviene un’ambivalenza legata all’epicità. Rimane ora da comprendere come nasce il rovesciamento moderno, parte più attiva e proattiva del progresso formale della tragedia intesa come crisi dei fondamenti: azioni e valori insieme. Per questo possiamo rivolgerci ancora un’ultima volta alle tragedie dello stesso Shakespeare, che produce tutta una serie di tragedie del rovesciamento che rappresentano ormai non più la sovrapposizione fra fatti e valori della tragedia antica, ma al contrario la crisi del sistema dei valori dello stesso drammaturgo. Se dunque, le tragedie della crisi della sovranità ci mostrano la crisi del dispositivo antico, lungo l’evoluzione formale della tragedia, esistono delle tragedie che sono assimilabili ad una forma moderna. Il più evidente di tutti è il rovesciamento – ironico quasi in modo sofocleo – di Macbeth.
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Ricordiamone brevemente la dinamica: dopo la seconda visita alle streghe Macbeth si interroga su se la tirannia ottenuta sul treno di Scozia – attraverso il regicidio esattamente come il suo omologo sul piano drammaturgico, Claudius – potrà durare. Le streghe gli rispondono tramite due profezie, non sarà mai ucciso da uomo nato da donna, né sconfitto come tiranno fin tanto che la foresta di Birnam non si muoverà. Chiaramente, questi due presagi si realizzano con l’arrivo delle forze inglesi all’assedio del castello di Dunsinane, in cui è barricato, verrà ucciso da Mcduff, nato da parto cesareo, e la foresta sarà null’altro che una mascherata tramite la quale i soldati espugneranno il castello e detronizzeranno l’usurpatore. Ora, ciò che va inteso è che questo tipo di rovesciamento non nasce dalla trasformazione del materiale del dramma antico, come abbiamo mostrato essere nella realtà i drammi shakespeariani della crisi della sovranità, ma nasce come una necessità di dare sfogo alle contraddizioni culturali ad essa intrinseche. È una forma, dicevamo nell’introduzione, che si inserisce performativamente per completare la doppiezza, la duplicità insita nella crisi dei fondamenti culturali del potere. Nel caso di specie, essa ha e ancora sulla stilizzazione drammaturgica di Macbeth e sul suo essere, come abbiamo mostrato, una riflessione culturale sulla natura del potere ottenuto secondo una filosofia del potere machiavellica. Per converso, la riflessione religiosa di matrice hookeriana spinge a pentirsi dell’atto. Quando questo accade a Claudius, la cosa finisce con la morte di entrambi i protagonisti della tragedia, in Macbeth la mancata redenzione del tiranno ha seguito con un rovesciamento. Sebbene prima dell’incontro con le streghe dubiti a causa di tutti i presagi onirici che lo attendono, prende coraggio dopo il conforto delle streghe, e allora questo nuovo
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slancio di ambizione si scontra duramente, amaramente, con la realtà tragica. Quel che è importante rilevare è che il rovesciamento di Macbeth avviene sul crinale ambivalente del suo essere contemporaneamente un tipo che incarna una serie di valori e, al contrario di Claudius, nel momento in cui cede alla sua natura caduta e non ragiona più sulle implicazioni culturali del tirannicidio, deve soccombere: Macbeth Bring me no more reports; let them fly all: Till Birnam wood remove to Dunsinane, I cannot taint with fear. What’s the boy Malcolm? Was he not born of woman? The spirits that know All mortal consequences have pronounced me thus: ‘Fear not, Macbeth; no man that’s born of woman Shall e’er have power upon thee.’ Then fly, false thanes, And mingle with the English epicures: The mind I sway by and the heart I bear Shall never sag with doubt nor shake with fear […] Messenger As I did stand my watch upon the hill, I look’d toward Birnam, and anon, methought, The wood began to move. Macbeth Liar and slave!
Macbeth Non voglio più rapporti. Se ne scappino tutti. Finché la selva di Birnan non si sposta a Dunsinane, la paura non può infettarmi. Chi è questo ragazzo Malcolm? Non è nato di donna? Gli spiriti che sanno tutti gli eventi umani m’han dato questo verdetto: “Non temere, Macbeth, nessun nato da donna avrà potere su te.” E allora scappate, falsi vassalli, imbrancatevi pure con gli epicuri inglesi. La mente che mi regge e il cuore che porto non cederanno al dubbio, non tremeranno di paura. [...] Staffetta Mentre montavo la guardia sulla collina ho girato l’occhio verso Birnan e a un tratto m’è parso che il bosco incominciasse a muoversi. Macbeth Bugiardo schifoso! Staffetta Subirò la vostra ira se non è vero.100
100 W. Shakespeare, Macbeth, tr..it. a cura di N. d’Agostino, Garzanti, Milano posizione 3009.
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Messenger Let me endure your wrath, if’t be not so: Within this three mile may you see it coming; I say, a moving grove.101
Notiamo che una simile ambivalenza del nuovo eroe tragico è di forma totalmente diversa dall’ambivalenza formale dei personaggi tragici antichi e dei personaggi shakespeariani che ancora seguono la forma tragica basata sulla interconnessione. Eppure è ad essa genealogicamente legata, come si preannunciava in apertura di questo capitolo, perché i valori culturali incarnati dall’agire di Macbeth ne definiscono l’agire in modo stringente. Eppure siamo già oltre la soglia dell’universo separativo, come con Claudius, così che non c’è più il rapporto formale fra la componente epica della tragedia e quella lirica. Come approfondiremo, questo tipo di rovesciamento è possibile ed è plausibile fin tanto che, nel suo procedere verso il realismo, la tragedia incarna valori culturali nelle proprie azioni; quando ciò non sarà più possibile, avremo a che fare con una nuova forma. Abbiamo finora mostrato come non solo la tragedia shakespeariana sia un adattamento formale di quella antica, ma anche come tale adattamento ci abbia portato esattamente nell’articolazione discorsiva attraverso cui, adesso, la tragedia evolverà lungo la modernità. Abbiamo una prima serie di forme, rappresentate qui da King Lear che incarnano il bisogno della tragedia moderna di rappresentare l’importanza dei propri protagonisti come esseri in grado di abbracciare la comunità, come soggettività formali, “nella loro totalità”, ma nel modo contraddittorio e ambiguo descritto. 101 W. Shakespeare, Macbeth, a cura di S. Clark e P. Mason, Bloomsbury, London 2002, posizione 5802.
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Infine abbiamo due forme che, inevitabilmente, ci mostreranno la decadenza di questa utopia dello Stato assolutista, descrivendo performativamente il genere in re, la prima rappresentante: come un relitto, quel che resta del cosmo interconnesso; la seconda, il rovesciamento, che ancora più esplicitamente e proattivamente definisce la crisi: per usare le parole di Moretti, esse tendono alla totalità, dei loro valori universali, ma questa pretesa di universalità – come ad esempio il primato culturale della forza teorizzato da Machiavelli per ottenere il potere – si rivela, per loro, inevitabilmente fatale: esso si pone come un’immagine di sovranità che si presuppone trascendente ma che, inevitabilmente – come abbiamo visto con Claudius – risulta inevitabilmente fallace e parziale.
CAPITOLO III LA TRAGEDIA DI CALDERÓN E IL PENSIERO DEI GESUITI
3.1 La visione tragica di Calderón (come una totalità etica mancata) 3.2 Emblemi della sovranità nel primo Calderón 3.3 Lo scontro dei caratteri ne La vida es sueño 3.4 El médico de su honra: una tragedia del rovesciamento.
3.1 La visione tragica di Calderón (come una totalità etica mancata)
Nel capitolo precedente abbiamo insistito molto sul fatto che l’ambiguità che caratterizza il referente dell’azione tragica – a partire dal genere nella sua forma antica – è ciò che sostiene essenzialmente anche il ritorno di tale genere letterario nell’epoca proto-moderna. Va ora messo in luce il fatto che la principale forma di evoluzione della tragedia nel teatro di Shakespeare è stata quella di escludere il referente, come immagine fondativa e fondamentale, dalla problematica logica di interconnessione fra caratteri, tratto peculiare del dramma antico. Come si avrà modo di argomentare illustrando la visione tragica di Calderón, questo si riverbera direttamente sui codici culturali di quest’ultimo e sul dibattito sullo statuto del fondamento etico-politico del potere che, come era accaduto per Shakespeare, anche in questo caso è la causa scatenante del tragico e – oramai si auspica dimostrato – anche della tragedia come forma. La connessione discorsiva entro cui si sviluppa il genere tragico, una volta che esso si è formalmente ri-articolato a partire dalla struttura antica, riguarda proprio il prosieguo del dibattito sulla monarchia.
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Ricordiamo che nel caso shakespeariano l’evento scatenante la tragedia era un concetto che lasciava di per sé in rebus la teoria elisabettiana del sovrano assoluto. Il fondamento del potere è trascendente o naturale? È naturale in quanto trascendente: è esattamente questo il paradosso incarnato da King Lear, che cade perché interpreta la sua regalità come una fallen nature, una natura caduta. La discussione teorica che riguarda la figura del monarca, e dunque implicitamente il fondamento mitico della tragedia, è direttamente discendente da questo problema. Posto infatti che la costruzione teorica post-feudale elisabettiana trova nel ritorno della tragedia la contraddizione implicita tra natura e cultura come radice del potere, la conseguenza diretta di ciò è che la tradizione probabilistica gesuitica1, di cui era in1
La produzione sul probabilismo e casuismo gesuitico è ampia e aggiornata costantemente; oltre alle fonti dirette e riferimenti puntuali che citerò, mi richiamerò a questa bibliografia, che comprende recenti e non sugli autori che saranno presi in considerazione. M. Z. Hafter, Deviousness in Saavedra Fajardo’s “Idea de un principe” in “Romanic Review”, vol. XLIX, 3, New York 1958, pp. 161-179; B. Hamilton, A study of political ideas of Vitoria, de Soto, Sudrez, and Molina, Clarendon Press, Oxford 1963, pp. 627-638; D. Bleznik, La “Polìtica de Dios” de Quevedo y el Pensamiento político del Siglo de Oro, Spanish reaction to Machiavelli, Nueva Revista de Filología Hispánica”, vol. IX, 4, Ciudad de México 1958, pp. 358-393; C. Schmitt, Römischer Katholizismus und politische Form, J. Hegner Hellerau, Munich 1923; A. H. P. Forcada, Maquiavelo y el Maquiavelismo en España, Siglos XVI y XVII, in J. M. Forte Monge, P. L. Álvarez, (a cura di) Maquiavelo y Nueva, Editorial Biblioteca nueva, Madrid 2008, pp. 41-60; J A. Fernandez-Santamaria, Diego Saavedra Fajardo Reason of state in the Spanish Baroque, in Il Pensiero Politico”, vol. XII, 1, Firenze 1979, pp. 19-37; M. Batllori, Gracián y el Barroco, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1958; R. Barthes, Sade, Fourier, Loyola, Seuil, Paris 1971; H. Puigdoménech, Maquiavelo y maquiavelismo en España. Presencia de sus obras en los siglos XVI y XVII, in J. M. Forte Monge, P. L. Álvarez, cit., Ma-
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formata la mentalità tragica calderoniana, ragiona in ogni modo per porre un freno ai problemi derivanti dall’inconciliabilità di questi due aspetti contraddittori, visti come due lati dello stesso ambiguo fondamento. Proprio per tali ragioni, la visione tragica calderoniana si presenta, a differenza di quella shakespeariana, come intimamente sbilanciata e sbilenca. Come precedentemente detto, la teorizzazione hookeriana, di cui abbiamo parlato in Shakespeare, prevede una interconnessione fra principi che sono contemporaneamente psicologici e culturali come la Will e la Reason. Essi rappresentavano anche lo sgretolarsi delle istanze formali che la peripezia della tragedia antica doveva tenere in equilibrio, e che, in definitiva fallendo, si riflettevano nella forma tragica shakespeariana lungo processo stesso di adattamento strutturale. Da adesso in poi, la forma tragica, come vedremo, si svilupperà secondo una visione culturale del mondo che è in coerenza con la trasformazione che abbiamo descritto: passiamo ad illustrarla. Precisamente a causa del nuovo statuto del mito all’interno della tragedia, a dibattere la crisi del rapporto fra Will e Reason nel caso di Calderón, avremo necessariamente tre posizioni che riflettono l’incipiente crisi del sidrid 2008, pp. 41-60; G. M. Barbuto, Il Principe e l’Anticristo. Gesuiti e ideologie politiche, Napoli 1994; M. Olivieri, “Lo scudo di carta” del reverendo padre (l’Antimachiavelli di Pedro Ribadeneyra S.J.), in “Annali dell’Università per Stranieri di Perugia”, Perugia 1994, pp. 131-163; H. Höpfl, Jesuit political thought: the Society of Jesus and the State, c. 1540-1630, Cambridge University Press, Cambridge 2008, pp. 339-360; V. Dini, Machiavelli e Gracián: arte della prudenza, politica, elaborazione del mito dello Stato, in Dopo Machiavelli, a cura di L. Bianchi, A. Postigliola (a cura di), Napoli 2009, pp. 127-151; E. Iserloh, J. G. Hubert Jedin, Riforma e Controriforma, (in H. Jedin, “Storia della Chiesa”, vol VI,), Jaca Book, Milano 2001; J. W. O’Malley, I primi gesuiti, Vita e Pensiero, Milano 1999.
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stema imperiale spagnolo (le cui cause sono state ampiamente studiate nelle loro profondità) e porteranno a una ridefinizione provvisoria dello statuto della monarchia2. Anche in Spagna il carisma del re permane come fattore culturale centrale, per quanto, come vedremo subito, il conflitto fra aristocrazia e sovrano in questa fase comincia ad essere palpabile e problematizzato. Non si tratta, infatti, semplicemente, di una frattura ideologica inconscia e in una certa misura irrazionale, come avviene, lo abbiamo visto, nelle tragedie shakespeariane, dove il re è percepito come pericoloso proprio in quanto considerato ancora un saldo fondamento della filosofia politica post-feudale3. Il 2
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Come troviamo scritto già nella Legazione di Spagna del Guicciardini, il dominio culturale di questo paese in Occidente sembrava venire meno già agli albori del diciassettesimo secolo, a causa della cogente mancanza delle risorse auree. Questo, tuttavia, non andava a discapito dello sfarzo dello spettacolo teatrale, che al contrario restava certamente di una ricchezza progressivamente sempre più sproporzionata rispetto alle risorse economiche: “La povertà vi è grande, e credo proceda non tanto per la qualità del paese, quanto per la natura loro di non volere dare agli esercizi; e non che vadino fuori di Spagna, più tosto mandano in altre nazioni la materia che nasce nel loro regno per comperarla poi da altri formata come si vede nella lana e seta quale vendono a altri per comperare poi da loro e panni e drappi.” Francesco Guicciardini individua in queste righe il nesso fra la fragilità politica di fondo della Spagna e il mancato sviluppo industriale man mano che si esaurivano le risorse. F. Guicciardini, Legazione di Spagna dal carteggio tenuto dal Guicciardini, M. Cellini e Comp., Firenze 1864, posizione 4272-4653. Ciò nonostante, come scrive Wardropper, i soli ritratti consentiti in sala erano quelli del re e della regina, che vengono rappresentati sia come parte del pubblico che come parte della messa in scena, quasi a metaforizzare e problematizzare in sé la doppiezza della condizione della figura e del corpo regale, che era ormai sotto gli occhi di tutti gli intellettuali e teorici del governo. B. Wardropper, Introducción al teatro religioso del Siglo de
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nodo che lega ideologia e prassi sociale, nel caso spagnolo, è essenzialmente questo: l’indebolirsi progressivo del potere della monarchia portò teorici e uomini di cultura, appartenenti per lo più al clero di matrice gesuita o all’aristocrazia lealista, a rielaborare gli elementi fondamentali sui quali si basavano i presupposti della monarchia, per cercare di confutare le sempre più evidenti pretese assolutistiche opponendovi un altro modello; pretese le quali, all’epoca di Felipe IV, come ampiamente noto, divenivano sempre più stringenti nella misura in cui erano necessarie per mantenere salda l’unità del regno. Il mito per cui il monarca ereditario debba porsi, essenzialmente, in opposizione a qualunque tentazione machiavellica, come un esempio di virtù e debba vincere le proprie passioni e pulsioni implica sia necessario disciplinare nel modo più serrato la sua sfera personale e istintuale. Come sintetizzato da un’espressione calderoniana, a tal punto frequente da essere quasi, si direbbe, proverbiale, il monarca deve avere la capacità di vincersi, vencerse: dominare le proprie pulsioni autoritarie per essere, solo così, un modello positivo di autorità. Con l’inasprirsi dell’assolutismo, si era riaperto il dibattito sul problema della successione monarchica: la legittimità del sovrano medievale, che derivava dalla fedeltà ai suoi vassalli, era, in estrema sintesi, costantemente messa in pericolo dalla tentazione di subordinare la razón d’estado alla cultura monarchica tradizionale. Infatti, la cesura storica avvenuta fra l’ideale monarchico feudale e la realtà a Calderón coeva, risulta ormai evidente a questo stadio del processo sociale di trasformazione dell’assolutismo. Ed è proprio questo il senso di paradosso che sarà espresso dalla struttura della tragedia. Oro: la evolución del auto sacramental: 1500-1648, in “Revista de Occidente”, 1, Madrid 1953, pp. 328-330.
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Veniamo al primo riferimento critico: si tratta di Diego Saavedra Fajardo, autore di uno degli speculum principis più celebre dell’epoca, Idea de un principe politico-christiano: Propongo a V.A. la idea de un príncipe político-Christiano representada con el buril y con la pluma, para que por los ojos y por los oídos (instrumentos de saber) quede más informado el ánimo de V. A. en la ciencia de reynar, y sirvan las figuras de memoria artificiosa. Y porque en las materias políticas se suele engañar el discurso, si la experiencia de los casos no las asegura, y ningunos ejemplos mueven màs al sucesor que los de sus antepasados; me valgo de las acciones de los de V. A. y así no lisonjero sus memorias encubriendo sus defectos: porque no alcanzaría el fin, de que en ellos aprenda V. A. á gobernar.4 4
Anche nel caso di Saavedra mi limito a indicare i necessari riferimenti generici: Cartas de Saavedra Fajardo (1643-1648), in Col. de documentos inéditos, LXXXII, Madrid 1884, pp. 3-62 e 501-557; per l’esegesi si veda O. de Roche y J. P. Tejera, Saavedra Fajardo: sus pensamientos, sus poesías, sus opúsculos, Fortanet, Madrid 1884; F. Cortines y Murube, Ideas jurídicas de Saavedra Fajardo, Librería e Imprenta de Izquierdo y C., Sevilla 1907; E. de Benito, Juicio crítico de las “Empresas políticas”, M. Sevilla, Zaragoza 1904; J. Márquez, El mercantilismo de Saavedra Fajardo, in “El Trimestre Económico”, vol. X, 38, 1943, pp. 247-286; M. A. Galino, Don Diego de Saavedra Fajardo, in “Revista Española de Pedagogía”, vol. III, 12, La Rioja 1945, pp. 377-390; E. T. Galván, Saavedra Fajardo, teórico y ciudadano del estado barroco, in Revista Española de Derecho Internacional, vol. I, 2/3, 1948, pp. 467476, M. Z. Hafter, The Enlightenment’s Interpretation of Saavedra Fajardo, in “Hispanic Review”, vol. XLI, 4, Philadelphia 1973, pp. 639-653; J. L. Gómez Martínez, Los supuestos modelos de las Empresas de Saavedra Fajardo y su carácter ensayístico, in “Nueva Revista de Filología Hispánica”, vol. XXVIII, 2, Ciudad de México 1979, pp. 374-384; R. Lundelius, Concerning Diego de Saavedra Fajardo: Baroque Essayist, in “Revista Canadiense de Estudios Hispánicos”, vol. IV, 2, Edmonton 1980, pp. 206-217.
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Questo testo fornisce un ottimo esempio di come la cultura aristocratica, di cui Calderón era imbevuto, cerchi di opporre, alla concezione assolutista dello Stato incipiente, un modello ideale di principe che si basi sull’esperienza storica. In un certo senso, potremmo affermare che Saavedra Fajardo esprime, rispetto agli esempi di teoria del principato da noi menzionati in Shakespeare, aspetti di analogia; crede nella modellizzazione del prìncipe sulla base di ideali cristiani e tale influenza può essere determinante, a tal punto, da sostenere che la virtù insegnata possa prevenire la crudeltà e ogni atteggiamento machiavellico e di malgoverno: Por esta razón nadie me podrá acusar que les pierdo el respeto, porque ninguna libertad màs importante á los Reyes, y a los Reynos, que la que sin malicia ni pasión refiere, como fueron las acciones de los gobiernos pasados para enmienda de los presentes. Solo este bien queda de haber tenido un Príncipe malo, en cuyo cadaver haga anatomía la prudencìa, conociendo por él las enfermedades de un mal gobierno, para curarlas, los Pintores, y estatuarios tienen Museos con diversas pinturas, y fragmentos de estatuas, donde observan los aciertos, o errores de los antiguos. Con este fin refiere la historia libremente los hechos pasados, para que las virtudes queden por exemplo, y se repriman los vicios con el temor de la memoria de la infamia.5
Come il pittore osserva una pittura antica per apprendere la tecnica da errori e talenti, così il principe può plasmare il suo comportamento sulla base dell’exemplum storico, reprimendo vizi e virtù6. Tale modello ideale di autenticità com5 6
Cartas de Saavedra Fajardo, cit., pp. 7-10. Per un resoconto molto analitico e strutturato delle forme dell’allegoresi cui è sottoposta la figura del re, ideale è S. Rupp, Allegories of kingship, Calderón and the antimachiavellan tradition, Pennsylvania university press, Philadelphia 1995.
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portamentale era infatti visto in opposizione alla teoria machiavellica per cui fosse necessario sembrare virtuosi per essere dei prìncipi adeguati: Spanish writers seized every opportunity to dispute Machiavelli. They repeatedly insisted that dissimulation by a monarch is improper, and insisted that he be virtuous. Nevertheless, although ideally there should be no place for secrecy in a king’s activities, Riyadeneira, Quevedo, and Saavedra Fajardo eventually admitted that, practically speaking, concealment is at times advisable. In fact, as the disarray in Spain’s domestic and foreign affairs grew more alarming, her treatises on statecraft began to assimilate many pragmatic concepts originally suggested by Machiavelli.7
Dunque questi pensatori politici forniscono elementi utili per definire la visione tragica di Calderón de la Barca, che si basa essenzialmente sulla problematizzazione dei fondamenti culturali su cui si regge l’essenza stessa del potere. Molto notoriamente, Juan de Mariana nel suo saggio Del Rey y de la institución espone una delle posizioni più ortodosse nello schierarsi contro la tentazione del potere assoluto. Per lui il re ottiene la legittimazione del potere da un patto con i suoi vassalli, ed è per questo che necessita di essere educato e disciplinato: Para conservar la tranquilidad interior no hay indudablemente cosa mejor que designar por una ley los que han de suceder a la Corona; no se deja asì lugar ni a las pasiones de los pueblos ni al antojo de los príncipes, y queda orillado todo motivo de discordia. Esta sola concideración basta para que me decida en favor de una monarquía hereditaria; pero advierto, además, que es fácil corregir por medio de una buona educación, sobre todo en la infancia las faltas de los príncipes que en una buena educación 7
D. Fox, Kings in Calderón, a study in characterization and political theory, Boydell and Brewer, Martslam 1994, p. 34.
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encuentran freno hasta las más depravadas naturalezas y, gracias a su saludable influencia, sufren un completo cambio;[…].8
Mariana è a tal punto convinto della bontà delle sue argomentazioni che arriva alla radicale proposizione per cui un sovrano, sebbene legittimato dall’ereditarietà, debba essere addirittura deposto qualora si provi a contraddire le linee guida cui debba attenersi un re giudizioso: Que si acontece [El rey] de otra manera y no corresponde el éxito a los deseos ni a los esfuerzos de los que están encargados de dirigir, es útil sobrellevarlo [El rey] en cuanto permita la salud del reino y las acciones corrompidas del príncipe queden ocultas en lo interior de su palacio. Podrá suceder que, por sus desaciertos y maldades, pongan algunos la república en inminente riesgo, desprecien la religión nacional, rechacen todo freno y se hagan del todo 8
J. de Mariana, De rege et de regis istitutione in Obras de Juan de Mariana F. Pi y Margall (a cura di), Madrid Ediciones, Atlas 1950; sull’argomento, H. E. Braun, Juan de Mariana And Early Modern Spanish Political Thought, Ashgate Publishing, Aldershot 2007; G. Cirot, Études sur l’historiographie espagnole; Mariana, Historien, Bordeaux Feret & Fils, Paris 1904; G. Lewy, Constitutionalism and Statecraft during the Golden Age of Spain: A Study of the Political Philosophy of Juan de Mariana, Libraire E. Droz, Genève, 1960; F. M. Serra, Tutti ugualmente sudditi, ma diversamente liberi. Libertà, uguaglianza e ius resistentiae attraverso il De rege et regis institutione di Juan de Mariana, in G. Barberis, A. Catanzaro, F. Falchi, C. Morganti, S. Quirico, A. Serra (a cura di), Libertà, uguaglianza, sicurezza. Un dibattito fra storia del pensiero e teoria politica, Ronzani Edizioni Scientifiche, Dueville 2020, pp. 35-46; G. Smith, Jesuit Thinkers of the Renaissance, Milwakee Marquette University Press, Milwakee 1939, pp. 157-92; F. Asensio, Juan de Mariana y la Poliglota de Amberes: censura oficial y sugerencias de M. Bataillon, in “Bibliographie universelle ancienne et moderne”, vol. XXXVI, 1, Paris 1955, pp. 50-80.
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incorregibles; mas ¿por qué no lo hemos entonces destronar como han hecho más de una vez nuestros mayores?9
Nel caso in cui il re si faccia prendere da tentazioni assolutiste, venendo meno all’educazione che gli è stata impartita, è dunque quasi un dovere dei vassalli deporlo, cosa che è perfettamente in linea con il senso dei fondamenti politici della monarchia stessa, che affondano la loro origine nel passato Medioevo in cui l’istituzione monarchica era basata su di un patto fra vassalli. Chiaramente siamo a conoscenza che il favore di Mariana nei confronti del regicidio, posizione che ha reso famoso questo gesuita, sia nel Rinascimento che nel dibattito contemporaneo, andrebbe ampiamente contestualizzato all’interno di una linea di progresso teorico-politico del costituzionalismo rinascimentale. Cosa che certamente, in una linea molto estesa, non potremo fare in questa sede. Sembra necessario però almeno rievocare i punti salienti del discorso. Innanzitutto si vuol rilevare che, al di là della scandalosa tesi del tirannicidio – sulla quale andrebbero fatti opportuni distinguo –, colpiscono le vistose differenze fra gli storici nella ricezione di quest’opera. Per esempio, un pensatore della caratura di Quentin Skinner annovera il Gesuita non solo fra gli antimachiavellici ma anche fra gli antitatticistici privilegiando così l’integralismo di questo teorico, tralasciando invece le istanze di mediazione filosofica che il principio dell’educazione del sovrano, presenti nel De rege, presupporrebbero10. È interessante questo approccio oscillatorio dei teorici nei confronti dell’opera di Mariana, perché è utile, come si vedrà, alla definizione della tragedia di Calderón a partire dalla stessa visione tragica di quest’ultimo; ci si rifà, in questa sede, a un poderoso studio pubblicato da Herald nel 2016 in cui l’autore scrive: 9 J. de Mariana, De rege et de regis istitutione, cit., p. 474. 10 Q. Skinner, The foundations of political Thought, Cambridge university press, Cambridge 1978, p. 312.
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Spanish contemporaries did not perceive Mariana as a regicide. The death of Philip II produced a welter of treatises outlining proposals for reform. Mariana is one of these authors, who are commonly referred to as arbitristas. Yet he is an arbitrista with a difference. He writes on behalf of the secular clergy of Castile rather than a prince. His surprising foresight and fierce patriotism unite his breathtakingly independent stance on the political role of the Castilian clergy with more mainstream contemporary discourse.11
L’innovazione teorica di Mariana sarebbe stata quindi quella di fornire elementi di resistenza politica ad un contesto culturale che aveva una sua identità ben definita, e la precettistica teorizzata nel De rege avrebbe una simile funzione di resistenza. Francisco de Quevedo, uno dei talenti letterari più fulgidi dell’arte dell’epoca, era notoriamente ‒ al contrario ‒ fra i più espliciti sostenitori di una posizione conservatrice. Anche egli, come Mariana, si allinea alla posizione gesuitica per cui il re debba essere educato, ma si oppone decisamente alla possibilità di deporlo: El rey bueno se ha de amar; el malo se ha de sufrir, y no le consentirà el vasallo, que debe obedecerle. […] No necesita el brazo de Dios de nuestros puñales para sus castigos, ni de nuestras manos para sus venganzas.12
L’elaborazione formale del pensiero di Quevedo è importante, per la ricostruzione della visione tragica calderoniana, nella misura in cui, come ci ricorda Walter Ghia nella sua elaborata ricostruzione, esso è conservatore dal punto di vista teorico in quanto filomonarchico, ma ha anche delle analogie con il modus cogitandi proprio della rivoluzione 11 H. E. Braun, Juan de Mariana and Early modern, cit., p.116. 12 F. Quevedo, Vida de Marco Bruto, Linkgua ediciones, Barcelona 2006, cit., p.77.
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teorica di Machiavelli. Ciò, per via del suo crudo realismo: “la descrizione disincantata del mondo com’è non dà luogo ad alcuna progettualità riformatrice” come invece, abbiamo visto, avviene in Juan de Mariana; ma si oppone anche al pensiero politico machiavellico: la distinzione fra Quevedo e Machiavelli non è infatti per il troppo scarso realismo, ma per la mancanza di idealismo, per il fatto che ai suoi occhi non presenta alcuna credibilità in vista del futuro il modello machiavelliano della Repubblica libera ed espansiva […] la distinzione tra Quevedo e Machiavelli non sta dunque sull’asse politica-morale, ma si riferisce alla possibilità o all’impossibilità di plasmare la materia storica attraverso il progetto politico.13
La difesa quevediana dell’immagine del monarca non avviene assolutamente per i fini della sua idealizzazione, come avveniva nei teorici della Elizabethan World picture. Non c’è alcuna fede, da parte di Quevedo, sulla natura trascendente del potere monarchico. In un’ideale scala di valori fra fede nel mito e disincanto nei confronti di quest’ultimo, Quevedo si troverebbe al grado più basso. La posizione conservatrice, suggerita dalla citazione, nasce dunque da un pragmatismo dalla venatura quasi scettica. Essa è il polo inferiore di una dialettica intimamente barocca fra senso di consacrazione del mito alla base della tragedia e sua sconsacrazione come elemento, invece, evolutivo. Mentre nel teatro di Shakespeare ‒ ispirato dal nesso fra volontà (will), ragione (reason) e grazia divina ‒ la teoria machiavellica degli arcana imperii semplicemente scuote dall’interno il corpo politico governato dal re, qui la percezione dell’inganno machiavellico è maggiormente distinta. 13 W. Ghia, Il pensiero politico di Francisco di Quevedo, ETS, Lungarno mediceo 1994, p. 44.
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Le due personae del corpo regale, quella privata e quella pubblica, presentano quindi un divario maggiore. Ciò perché l’istituzione simbolica della monarchia come fondamento culturale, rispetto a quanto avviene in Shakespeare, viene di fatto messa in discussione. Ognuna delle tre tesi sopra esposte (Saavedra Fajardo, Mariana, Quevedo) mette infatti in discussione, pur di salvarli, i fondamenti culturali della concezione politica monarchica cui fanno riferimento. È a partire da questa triplice posizione filosofica che dobbiamo riallacciarci ai risultati finora ottenuti dall’analisi dello sviluppo formale della tragedia come genere letterario. Il principale esito dell’indagine è stato quello di asserire l’esclusione formale del referente dallo spazio linguistico del genere tragico interconnesso, a seguito della crisi della sovranità elisabettiana. Dobbiamo allora riconoscere gli effetti di una simile modificazione formale all’interno delle posizioni teoriche qui proposte. Il punto essenziale è che il rapporto tra mito e tragedia si è modificato dopo Shakespeare, al punto tale che adesso è riconoscibile una distinzione fra questi due piani. L’effetto del passaggio dal cosmo interconnesso al cosmo separativo della tragedia moderna si concreta dunque con la comparsa di una terza posizione, identificabile in quella di Juan de Mariana, che fa da contraltare e tenta di mediare fra la dimensione del mito, con tutta la sua carica di fede nel trascendente, e la dimensione della realtà referenziale. Le posizioni di Saavedra Fajardo e di Francisco Quevedo, contraddittoriamente riprese nella visione tragica di Calderón, riflettono per l’appunto le due polarità del referente ambiguo implicito nell’azione tragica fin dagli esordi. Il passaggio della tragedia dalla cosmologia interconnessa a quella separativa ha quindi generato l’effetto, sul piano dell’articolazione discorsiva della tragedia, dell’impossibilità di accedere in modo definitivo a tale referente e ha condannato il poeta tragico, come si vedrà, ad un atteggiamen-
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to oscillatorio fra la fede e la mancanza di fede, con il peculiare arbitrismo di Mariana come forma mediana di resistenza all’arbitrio del monarca, da parte ideale del fondamento trascendente. Ma se rimane vero che la tragedia come forma, fin dal suo esordio shakespeariano nella modernità, sconfessa l’ideologia e il mito della monarchia, bisogna dire che la visione tragica calderoniana prova a porre un freno allo scollamento fra la dimensione metafisica ereditata dal mito e il referente dell’azione tragica. Come scritto nell’introduzione, la tragedia, come genere letterario, tende verso il realismo; ma, al contempo, essendo una forma nata in un momento di passaggio interstiziale fra universo mitico e ridefinizione razionale del reale, appare del tutto plausibile che la sua vita formale, nell’epoca moderna, si svolga sempre in bilico fra queste due realtà. In sintesi, la storia della forma tragica, adattatasi nel modo che abbiamo visto in Shakespeare, è dunque una storia di resistenza del suo retaggio mitico contro l’irrompere di un referente (l’azione del re) che non può più essere ingenuamente sovrapposto con la credenza culturale che lo aveva generato. A questo punto è possibile riallacciarsi all’oggetto della nostra analisi per comprendere come la scansione delle opere calderoniane debba essere vista in continuità con l’articolazione del genere tragico come atto discorsivo. Si procede quindi subito con l’analisi testuale. 3.2 Emblemi tragici della sovranità nel primo Calderón
Nell’introduzione si è specificato, utilizzando una nota citazione di Alastair Fowler, come ricostruire la storia di un genere letterario non significhi affatto classificare tutti gli “esemplari” che caratterizzano tale genere. Come visto, studiare l’evoluzione di un genere letterario Significa piut-
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tosto rintracciare nel modo più preciso possibile un medesimo approccio discorsivo ed enunciativo, come esso muti e proceda nel tempo. Nel capitolo precedente, dedicato alla crisi della sovranità in Shakespeare, si è mostrato come sia possibile definire un simile assetto enunciativo a partire da un processo formale di adattamento dal dramma antico. Se le conclusioni di una tale analisi sono corrette, dobbiamo altresì concludere che il processo enunciativo emerso dalla crisi della sovranità shakespeariana si presenta in un assetto molto chiaro, in cui una serie di forme rappresentano emblematicamente la degenerazione simbolica dell’immagine del sovrano e altre, nate nel momento in cui la tragedia si è formalmente adattata, ne rappresentano performativamente la crisi. Si può identificare la prima classe di forme anche in Calderón: il riferimento è alla prima serie di tragedie che rappresentano l’immagine ambivalente del sovrano: El príncipe constante e La cisma de Inglaterra. È facile, come si vedrà, ricondurre queste due tragedie al loro essere una rielaborazione formale del processo di sconsacrazione dell’immagine del sovrano, rappresentato da King Lear nell’opera shakespeariana. Per quanto riguarda le altre forme, La vida es sueño è la diretta discendente del modello di tragedia come scontro fra i caratteri, descritta in Hamlet. È noto lo statuto controverso di tale opera calderoniana quanto al genere; per questa ragione, si intende discutere a fondo le ragioni per cui si ritiene che, in una prospettiva genealogica, proprio La vida es sueño debba essere vista come un testo che spiega l’evoluzione formale della tragedia. Infine, c’è il modello del gioco di verità aristotelico, rappresentato dal rovesciamento che, come sanno gli specialisti calderoniani e non solo, è rappresentato da El médico de su honra.
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Cominciamo, dunque, col registrare come, per il retaggio intrinseco dell’ambiguità del fondamento mitico della tragedia, la polisemia dell’immagine del sovrano si riverbera nell’opera calderoniana. In tal senso, è utile ricapitolare rapidamente la trama e le premesse storiche de El príncipe constante. Come noto, la vicenda narra di Don Fernando di Portogallo che viene fatto prigioniero dai mori a seguito di un fallito tentativo di mediazione, quando, nel 1385 il Portogallo subisce una pesante sconfitta ad Aljuvarrota, e cade in battaglia, dove viene ucciso anche il principe erede al trono. La casa regnante resta senza discendenti e si insedia sul trono la dinastia degli Avis, con il principe Joao I che nel 1415 conquista la città di Ceuta. Nel 1433 don Duarte si avvicenda al trono al defunto Joao. In quello stesso anno Ceuta viene assediata dai mori, che vogliono riconquistarla. La difesa è economicamente onerosa e don Duarte inizia a scoraggiarsi. Don Enrique però, non è d’accordo – bisogna mantenere Ceuta e continuare la politica espansiva in Africa – e convince don Fernando, Infante di Portogallo, a promuovere la conquista di Tangeri. Don Enrique porta il trattato per la cessione di Ceuta ai mori a don Duarte in modo che lo possa firmare, lascia in pegno suo fratello Fernando e porta con sé in pegno il figlio del re di Tangeri. Don Enrique non vuole rispettare l’accordo e cerca l’appoggio della Chiesa, che accetta, e del re. L’accordo resta in sospeso, il re di Tangeri si rende conto di essere stato ingannato e don Fernando muore in una prigionia molto violenta. Don Fernando viene tenuto in isolamento e attaccato dai parassiti, consapevole di essere stato abbandonato; quando il confessore riesce a visitarlo lo trova agonizzante, mentre chiede di morire. Alla sua morte il suo cadavere viene svuotato, riempito di paglia e appeso a testa in giù sulla porta della città. Ora, il dispositivo tragico dell’opera si sviluppa, essenzialmente, a partire dalla descrizione atroce dei supplizi in-
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flitti al principe. Questi, per di più, viene dipinto notoriamente come strenuamente stoico di fronte a tali vessazioni, al punto che l’inflessibilità del suo carattere lo porta ad acuire la già aspra situazione. Il brano che andremo a leggere appartiene al novero di quelli che rappresentano la prova maggiormente dirimente, all’interno del dibattito fra gli storici della letteratura14, 14 Alcuni riferimenti minimi sul dibattito e sulla classificazione di queste e le altre tragedie calderoniane più importanti in M. R. Álvarez Sellers, Análisis y evolucion de la tragedia española en el Siglo de Oro: La tragedia amorosa, voll. I, II, III, Kassel, Reichenberger 1997; F. Antonucci, Algunas calas en el tratamiento del modelo trágico por el joven Calderón, in M. Blanco (a cura di), Tres momentos de cambio en la creación literaria del Siglo de Oro, la Casa de Velázquez, ILII, 1, 2012, pp. 145-162. Della stessa autrice interessante il contributo che, attraverso la riflessione sul metro, aiuta le nostre considerazioni sul nesso genealogico fra epica e tragedia che stiamo discutendo: F. Antoniucci, La octava real entre épica y tragedia en las comedias de la Primera parte de Calderón, in W. Aichinger, M. Meidl, M. Rössner (a cura di), Melos y Opsis en el Siglo de Oro. Ritmo, imagen y emoción en el teatro y en la poesía lírica, Iberoromania, 75-76, 2013, pp. 142-159; F. Antoniucci, La tragedia nueva y sus problemas, in C. Couderc e H. Tropé (a cura di), La tragédie espagnole et son contexte européen. XVIe-XVIIe siécles, Paris pp. 239-247; W. Kayser, Zur Struktur des Standhaften Prinzen von Calderón in H. Flasche (a cura di), Calderón de la Barca, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft 1971, pp. 321-346; Gestaltprobleme der Dichtung, Bonn, Bouvier 1957, pp. 67-82; M. L. Lobato, R. Alewin, Calderón, autor trágico, in Estado actual de los estudios calderonianos, in L. García Lorenzo (a cura di), Kassel, Reichenberger 2000, pp. 61-98; I. Arellano, Calderón y su escuela dramática, Laberinto, Madrid 2001; Id., Lo trágico y lo cómico mezclado: de mezclas y mixturas en el teatro del Siglo de Oro, in J, E. Duarte, C. Mata Induráin (a cura di), “Rilce”, 27, Navarra 2011, pp. 9-24; Id., Cuestiones taxonómicas y tragedias calderonianas, in C. Couderc, H. Tropé (a cura di), La tragédie espagnole et son contexte européen, XVIe-
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della natura tragica di questo giovanile capolavoro caldeXVIIe siècles, cit., pp. 249-256; I. H. Morata, Introducción, in P. Calderón de la Barca, El príncipe constante, a cura di Id., Madrid/Frankfurt am Main, Iberoamericana/Vervuert, 2015, pp. 23-34; L. Iglesias Feijoo, Nueva idea de la tragedia nueva, in En buena compañía. Estudios en honor de Luciano García Lorenzo, a cura di J. Álvarez Barrientos, O. Cornago Bernal, A. Madroñal Durány, C. Menéndez-Onrubia, Madrid, CSIC, 2015, pp. 1155-1169; C. Couderc e H. Tropé, La tragedia nueva y sus problemas, in La tragédie espagnole et son contexte européen. XVIe-XVIIe siècles, cit., pp. 239-247; W. Kayser, Zur Struktur des Standhaften Prinzen von Calderón, in Calderón de la Barca, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1971, a cura di H. Flasche pp. 321-346. M. L. Lobato, Calderón, autor trágico, Estado actual de los estudios calderonianos, Kassel, Reichenberger 2000, a cura di L. Garcia Lorenzo pp. 61-98; Á. L. Luján Atienza, El príncipe constante, de Calderón de la Barca (El gran poema del mundo), in Análisis de la dramaturgia. Nueve obras y un método, cura di J. L. Garcia Barrientos, Fundamentos, Madrid 2007, pp. 195-228; A. Lumsden-Kouvel, El príncipe constante, drama de la Contrarreforma. La tragedia de un santo mártir, in Calderón, Actas del Congreso Internacional sobre Calderón y el teatro del Siglo de Oro, cura di L. Garcia Lorenzo, CSIC, vol. I, Madrid 1983, pp. 495-501; A. Lumsden-Kouvel, A Counter-Reformation Hero: the Saint and Martyr in Calderón’s El príncipe constante, in “Bulletin of Hispanic Studies”, 77, pp. 101-110; J. G. Maestro, Los límites de una interpretación trágica y contemporánea del teatro calderoniano en el príncipe constante, in Teatro calderoniano sobre el tablado. Decimotercer Coloquio Anglogermano sobre Calderón, a cura di M. Tietz, Franz Steiner, Stuttgart 2003, pp. 285-327; J. G. Maestro, ¿Hay un Calderón trágico? in Genealogía de la Literatura. De los orígenes de la Literatura, construcción histórica y categorial, y destrucción posmoderna, de los materiales literarios, a cura di J. Pons Domingus, Academia del Hispanismo, Vigo 2012, pp. 342-345; J. E. Maraniss, El príncipe constante, in On Calderón, Columbia, Londres 1978, University of Missouri Press, pp. 43-56; C. Morón Arroyo, El príncipe constante, in C. Morón Arroyo, Calderón. Pensamiento y teatro, Sociedad Menéndez Pelayo, Santander 2000,
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roniano: Rey ¿Posible es que en tales penas, blasones y te consuele si tú de ti no te dueles? siendo propias? ¿Qué condenas no me duelan, siendo ajenas; Qué pues tu muerte causó tu misma mano, y yo no, no esperes piedad de mí. Ten lástima de ti, Y tendréla yo
Re È possibile che in tali dolori, Ti vanti e ti consoli, se tu non ti duoli delle tue stesse sofferenze, sappi che le tue ingiurie non mi feriscono, straniero; Ebbene, la tua morte è stata causata dalla tua stessa mano e non da me, non aspettarti pietà da me, abbi pietà di te, e l’avrò anche io
(Vase)
(esce)
Fernando Señor, vuestra majestad me valga Tarudante ǃQué de sventura! Fernando Si es alma de la hermosura esa divina deidad, vos, señora me emparad con el reyFenix
Fernando Signore, sua maestà mi stia bene Tarudante Che sventura! Fernando Se l’anima della Bellezza quella divinità divina, tu, signora, mi sequestri col re Fenix
pp. 74-77; J, A. Parr, El príncipe constante and the Issue of Christian Tragedy, in Studies in Honour of William C. McCrary, a cura di R. L. Fiore, E.W. Hesse, J. E. Keller, J. A. Madrigal, Society of Spanish and Spanish-American Studies, Lincoln 1986, pp. 165-175; Charlene, Suscavage: “The Tragedy of the Hero’s Achievement. El príncipe constante”, in Calderón. The Imagery of tragedy, Peter Lang, New York 1991, pp. 115-141; A.Telaude, Le saint mis en scène, Les Éditions du Cerf, Paris 2012; Á. Valbuena Briones, in Perspectiva crítica de los dramas de Calderón, Rialph, Madrid-MéxicoPamplona 1965, pp. 110-119; K. D. Vincent, A Critique of Concepts of Tragedy and “El príncipe constante” as Christian Tragedy, Tesis doctoral, University of Southern California, 1976; M. Vitse, Calderón trágico, in Pedro Calderón de la Barca. El teatro como representación y fusión de las artes, “Anthropos”, Extra 1, 1997, pp. 61-64.
256 !Que Gran dolor! Fernando A Hacéis bien; que vuestros ojos no son para aver enojos Fenix ¡Qué lástima! ¡Qué pavor!15
La nascita del dramma moderno Che grande dolore! Fernando Fate bene; i vostri occhi non son fatti per provare rabbia Fenix Che pena, che terrore!
Come ha scritto Isabel Hernando Morata, nella sua recente ricostruzione di questo dibattito, volta ad argomentare la pertinenza della forma tragica nell’opera in questione: “Las reacciones de los personajes dirigen la respuesta emocional del público”16. I personaggi cui si riferisce l’autrice ‒ come il Coro nella tragedia antica ‒ soffrono assieme al protagonista, facendo assurgere ad una statura epica e tragica la sua sofferenza, direzionando così i sentimenti del pubblico. In ciò viene richiamata anche, ed implicitamente, una definizione di Hegel che, nell’Estetica, denomina il Coro “pubblico interno”17. Dunque, all’interno del dibattito critico, il legame formale con la classificazione del genere passa, in modo decisivo, attraverso il ruolo di quello che fu il Coro tragico. Dal nostro punto di vista possiamo asserire 15 P. Calderón de la Barca, El príncipe constante, a cura di I. Hernando Morata, Iberoamericana Editorial Vervuert, Frankfurt 2015, p. 133. 16 F. Antonucci, Algunas calas en el tratamiento del modelo trágico en el joven Calderón in M. Blanco (a cura di), Tres momento de cambio en la creación literaria del Siglo de Oro “Melanges La casa de Velasquez”, 42, 1, Madrid 2012, pp. 145-162. 17 “De hay que muchas secuencias teatralizan (y verbalicen) el llanto y la conmoción que experimentan los personajes, espectadores “internos” de una representación o relato de desgracias que está evidentemente construido para producir los mismos efectos en los espectadores externos”. Per l’appunto questo è il legame formale che si riverbera sul piano metrico; F. Antonucci, La octava real entre épica y tragedia en las comedias de la Primera parte de Calderón, cit., pp. 149-152.
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senza esitazioni che anche in chiave genealogico-formale questi personaggi – così importanti per collocare El príncipe constante all’interno del genere – sono diretti discendenti dei nobili lealisti (Kent, Gloucester, Albany) che pativano attorno a King Lear e, ancor più a ritroso, dei personaggi del Coro antico. El príncipe constante trova ancora intatto questo legame formale che si instaura fra la componente epica e la componente lirica di questo genere. Dobbiamo infatti ricordare che, dopo King Lear, e in generale dopo l’adattamento della struttura della tragedia antica alle caratteristiche del cosmo separativo, si è persa ormai quella funzione di riequilibrio costante del fondamento mitico all’interno dell’universo tragico che caratterizza la tragedia antica come forma. Non si è perso, però, tuttavia, il nesso epico-lirico che – legato a doppio filo col senso di paradosso del poeta e con la crisi dei fondamenti – permette il ritorno di questo genere letterario nel moderno. A questo stadio dell’evoluzione della tragedia, come vedremo subito, una traccia formale del genere come gestione dell’ambiguità del mito permane, anche se ormai l’articolazione discorsiva, dopo Shakespeare, si è ampiamente trasformata. Prima di procedere e mostrare dove essa risieda, si ritiene però utile soffermarsi ancora su questo passo e analizzarlo alla luce di tre punti di vista diversi. Dal punto di vista ermeneutico, anche prendendo in un serio esame l’obiezione szondiana classica, questo passo testimonia come El príncipe constante possa e debba essere visto come un testo storicizzabile in quanto forma tragica. Ciò deriva dalla contraddizione intima e insanabile che nasce fra i valori portati con sé dall’azione tragica e il sistema culturale di riferimento, che sfocia nel necessario sacrificio di Don Fernando di fronte al paganesimo. Leggendo il dialogo sopracitato, non possiamo non percepire, da lettori, come in gioco ci sia ben più del destino di
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un singolo: il destino di un universo di credenze valoriali legate a questo singolo. In altri termini, dobbiamo riconoscere che è la Weltanschauung del drammaturgo, che lavora come una sorta di “terzo incluso”, ovvero come un legame ideologico (quindi non solo psicologico) fra la sofferenza di Don Fernando e Félix, Tarudant e Muley, coloro che soffrono per lui. È solamente perché essi non sono solo dei personaggi psicologicamente definiti ma anche frutto dello sguardo lirico del drammaturgo, che possono dare statuto tragico alla figura epica di Don Fernando. Se comprendiamo che la presa in considerazione dell’“apparente” tertium non datur della visione tragica di Calderón aggira il problema della definizione della forma tragica di questo dramma, compiamo così anche un passo avanti per storicizzarla. E qui veniamo al secondo punto da cui è interessante analizzare El príncipe constante. Si deve considerare che l’obiezione ermeneutica dell’indefinibilità del tragico espone, tradizionalmente, la critica di fronte all’impossibilità di definire un rapporto fra generi e sottogeneri. Come ha sintetizzato efficacemente Cristophe Couderc, l’obiezione ermeneutica szondiana sulla tragedia in quanto forma, ha infatti un nesso diretto con questo problema: nous sommes confronté efficacement sur ce point au fameux cercle herméneutique, c’est-à-dire à la contradiction indépassable dans toute réflexion théorique sur un genre littéraire particulier puisque la définition d’un genre, la tragédie, se fait en fonction de texts sélectionnées; les tragédies, tandis que la sélection d’un corpus suppose implicitement une définition du genre: le tout et le parties sont mutuellement interdépendants.18 18 C. Couderc, Le Théâtre Tragique au Siècle d’Or. Cristóbal de Virués, Lope de Vega, Calderón de La Barca, Presses universitaires de France, Paris 2012, Posizione 92-100.
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Il critico calderoniano enuncia qui uno dei paradossi fondamentali della tesi szondiana: come possiamo definire materialisticamente il genere tragico, se l’esperienza del tragico trascende l’esperienza dell’umano, almeno per quanto concerne i personaggi in scena? Nel caso del rapporto fra il genere e i suoi sottogeneri, qualunque corpus prenderemo in considerazione sarà limitato all’esperienza del singolo lettore e, supposta questa lettura metafisica del tragico, il punto di vista di colui il quale vorrebbe creare un corpus di tragedie in grado di definire questo genere letterario in re, sarebbe inevitabilmente limitato e parziale. Questa tesi, per quanto suggestiva e intrigante, confonde e sovrappone troppo rapidamente il piano ermeneutico e il piano testuale: fra i due piani del processo critico c’è per l’appunto anche un terzo piano che è quello dei codici storici e, più in particolare, della visione tragica dell’autore. Se infatti si concede la tesi secondo la quale King Lear è un adattamento formale della tragedia antica basata sulla gestione dell’ambiguità, si può concedere altresì l’ipotesi che gli altri esemplari di tragedie ad essa successivi, come appunto El Príncipe Constante, ne siano diretti successori. Tenendo a mente questa distinzione, comprendiamo anche la plausibilità di come questo dialogo, che tiene insieme i caratteri drammaturgici di Don Fernando, di Tarudante e di Fénix, non possa essere altro che il retaggio formale di una crasi tra epicità e lirismo che era propria già del dramma antico e che derivava, necessariamente, dalla peculiare forma in cui il modo di sentire dell’epos stava svanendo, e tutto ciò era vissuto dal poeta come un’esperienza tragica. Si tratta del legame intimamente dialogico che crea un nesso fra questi elementi (l’epica e la lirica), che nel nuovo contesto culturale collega il sentimento di Don Fernando e dei suoi pietosi alleati. Ma una volta decaduta l’obiezione ermeneutica, decade anche l’obiezione legata al rapporto gerarchico fra il genere e il sottogenere della tragedia. La
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visione tragica del drammaturgo, in quanto apparente tertium non datur del testo, collega discorsivamente la tragedia Costumata – questo il nome del sottogenere cui appartiene El príncipe constante all’interno dello schema dei generi aurisecolare – alla storia della tragedia come genere tout court. Attraverso il legame con la visione tragica dell’autore è insomma dimostrabile che quest’opera non è semplicemente un fenomeno isolato, ma è inserita nella catena enunciativa dell’atto discorsivo che stiamo seguendo. Ma se così è, qual è il collegamento, sul piano dei codici? Cosa ha a che fare, in altri termini, un’opera apparentemente così idilliaca e idealizzante del sovrano, con l’antica ambiguità del mito e con la fallen nature di King Lear? Per capirlo è necessario fare un confronto fra El príncipe constante e l’opera, non casualmente coeva, dal titolo La cisma de Inglaterra, che ci permetterà di passare a un terzo punto di vista: quello storico-genealogico. È proprio il riuso strutturale delle formazioni nate con il processo di trasformazione progressivo della tragedia che acquisisce valore. Analogie e differenze fra questi due testi mostrano come, secondo una legge propria dell’evoluzione delle forme, altri aspetti dell’antica ambiguità della tragedia permangono nel nuovo contesto. La cisma de Inglaterra si apre con un colloquio tra Enrico VIII e il Cardinal Wosley a proposito di un misterioso sogno fatto dal re la notte precedente: Ay Cardenal! escucha, conocerás si fue mi pena mucha. Ya sabes (pero es forzoso repetirlo aunque lo sepas) Como yo soy el Octavio Enrique de Inglaterra, hijo del Septimo Enrique, que por la muerte violenta de Arturo, dexò en mis seines
Ah cardinale! ascolta, saprai se è stato molto il mio dolore. Lo sai (ma è necessario ripeterlo anche se lo sai) Poiché io sono l’Octavio Enrique d’Inghilterra, figlio del Settimo Enrico, che per morte violenta di Arturo, dex nelle mie senes
La tragedia di Calderón e il pensiero dei Gesuiti261 la soberana Diadema, siendo heredero, no solo de dos Imperios por ella, ino del la mas hermosa, y mas Cathólica Reyna, que tuvieron los Ingleses desde que en fu edad primera fueron sus hombros Columna de la Militante Iglesia; […] Escribiendo estaba (oye, que aquí empieza el horror de más espanto, el prodigio de más fuerza, que entre las sombras del sueño imágenes dio a la idea). Escribiendo estaba, pues, (en Sacramento era del Matrimonio: ¡Ay de mí!) y cargada la cabeza, entorpecido el ingenio de un pesado sueño, apenas a su fuerza me rendí, cuando vi entrar por la puerta una muger (aquí el alma dentro de mí mismo tiembla, barba, y cabello se eriza, toda la sangre se yela, late el corazón, la voz salta, enmudece la lengua.) Esta legó a mí, y turbado De considerarla, y verla, Ya no acertaba a escribir.19
il sovrano Diadema, essere erede, non solo di due imperi per lei, ma la più bella, e ancora Catholica Reyna, cosa avevano gli inglesi? fin dalla mia prima età erano le sue spalle Colonna della Militante chiesa; […] Scrivendo con più forza, Che tra le ombre del sonno Le immagini mi hanno dato un’idea: Scrivendo ero, allora, a Sacramento era del Matrimonio: Me misero! e la mente greve l’intelletto ostacolato di un sogno greve, pesante? solo alla sua forza ho rinunciato, quando ho visto entrare dalla porta una donna (qui l’anima dentro di me trema, barba e capelli rizzano, tutto il sangue si gela batte il cuore, la voce salta e si ammutolisce la lingua Costei è venuta da me, e turbato Nel contemplarla, e vederla, non riuscivo più a scrivere.20
A nostro giudizio non deve sfuggire sul piano tematico – ovvero, come è stato scritto argutamente, sul piano della tensione fra il senso e l’argomento della tragedia21 – il ruolo figurale e semantico del sogno nella poetica calderoniana. Come noto, la tematica del sogno deve essere necessa19 Calderón de la Barca, La cisma de Inglaterra, Ayutamiento – Alycante, Biblioteca Virtual Miguel de Cervantes, Madrid 2013, pp. 3-4. 20 Tr. it. mia. 21 D. Giglioli, Tema, La nuova italia, Firenze 2001, pp. 20-21.
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riamente ricondotta ad una filosofia di carattere stoico-tatticista. È quanto ha scritto Yves Campbell, nella sua lettura neostoicista del principale capolavoro calderoniano La vida es sueño22: dove la vita è un sogno perché essa rappresenta un fatum, fatto di passioni che impediscono al sovrano di decidere liberamente in accordo con il cosmo cristiano, in un ideale ascetismo cui dovrebbe corrispondere la virtù del sovrano. Questa nota interpretazione, tuttavia, ai fini dell’evoluzione della tragedia deve tener conto del movimento formale compiuto da questo genere letterario. Come abbiamo già visto in Shakespeare, la tragedia non nasce nella modernità per confermare formalmente l’ideologia che la ha prodotta, bensì per sconfessarla. Come si vedrà meglio, a una simile sconfessione si possono opporre delle forme di resistenza, attraverso un armamentario formale prodotto dalle trasformazioni che questo genere ha subito. Per il momento, si noti che questi brani mostrano la connotazione simbolica e ideologica di cui è rivestito il sovrano; essa, per ragioni anche sociali, fa sì che anche l’azione di Enrique possa portare ad una crisi dei valori di tutti i personaggi intorno, come era stato per i compagni di don Fernando, che dalla sofferenza regale sono condizionati. Si segua a questo punto la concezione e lo sviluppo dell’azione, che, come era per l’ambiguità del mito antico e soprattutto per l’ambiguità di Lear, risultava malvagia eppure inevitabilmente buona, perché proveniente dal re. Come mostrano queste righe, al pari di Lear anche Enrique ha una natura fragile ed esile dietro al suo lato simbolico (“y cargada la cabeza, entorpecido el ingenio de un pesado sueño”). Siamo nella scena finale della Jornada primera 22 Y. Campbell, Maquiavelismo y tacitismo en La vida es sueño, Biblioteca Virtual Miguel de Cervantes, Alicante 2012.
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ed è il momento in cui Re Enrique inserisce nel plot le cause generali per l’innesto del tragico in quest’opera: Rey Re Otra vez alma ¿os turbáis? ¿Ojos, otra Anima, di nuovo, sei turbata? vez mirais sombras en el aire vano? Occhi, di nuovo, vedete ombre nel vano ¿Otrá vez, prodigio humano, soffio? rendido a tu vista estoy? Ancora una volta, prodigio umano, Esta es la misma que oy mi sono arreso alla tua vista? alma de mi sueño ha sido; [...] Questo è lo stesso che è accaduto all’aniy entre piedad, y rigor ma del mio sogno [...] me enamoras, y me espantas; e tra pietà e terrore y al fin, entre dichas tantas mi fai innamorare e mi fai paura; te tengo miedo, y amor e alla fine, fra tante parole, Voloseo ho detto che ho paura di te e ti amo Disimula Voloseo Rey Disimula A tanta pena Re disimular no es consuelo. Tanto dolore da nascondere non è consoAlzad no estéis en el suelo lazione bellísima Ana Bolena; Alzatevi, non state a terra, bella Ana Boy si el Cielo me condena lena; haver sus luces tenido e se il cielo mi condanna per aver avuto à mis pies, disculpa ha sido le sue stelle el haver, Ana, quedado ai miei piedi, mi dispiace essere rimasto entre tanto fuego helado bloccato, Anna, tra tanto fuoco gelato y en tanta nieve está encendido.23
tra tanta neve sono infuocato.24
Questo monologo, brevemente interrotto dal cardinal Voloseo, ci mostra che ciò che innescherà l’azione tragica è il cedere ad un istinto: si vede che il re – proprio perché tale – avrebbe in sé gli strumenti per governare i propri istinti: “tengo miedo y amor” dove quel miedo deve essere interpretato, a nostro giudizio, come una pietas di chi si espone a queste stesse vicissitudini tragiche. 23 P. Calderón de la Barca, La cisma de Inglaterra: Biblioteca Virtual Miguel de Cervantes, Madrid: Ayuntamiento, Alicante 2013, p. 24. 24 Tr. it. mia.
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Arriviamo a un Leitmotiv della nostra indagine e cioè che esprimere un’azione tragica vuol dire prendere una decisione. Analizzando questo dialogo, che è il punto in cui la decisione di Enrique genera sconcerto fra tutti i suoi sottoposti, notiamo che è possibile, dal punto di vista formale, collegare la decisione di Enrique e l’effetto tragico: Carlos No he visto en toda mi vida teatro más lastimoso! Capitano ¡Que tyranìa! Thomas ¡Que agravio! Dion ¡Que assombro! […] Reyna Yo os lo perdono, aunque veo que el cordero và entre las manos del lobo. Boleno, pues que las canas son el freno de los mozos, decid al Rey quanto yerra.25
Carlos Non ho mai visto uno spettacolo più pietoso in vita mia! Capitano Che Tirannia! Tommaso Che insulto! Dion incredibile! […] Regina ti perdono, anche se vedo che l’agnello è nelle mani del lupo. Boleno, poiché i capelli grigi sono il freno dei giovani, dite al Re quanto sta sbagliando.26
Siamo nella scena in cui i vassalli del re vengono a sapere della sua intenzione di rompere il matrimonio con la casata di Spagna e di allontanarsi dalla cristianità, a causa del consiglio malevolo del machiavellico Voloseo sedotto da un’Ana Bolena che si rivelerà un’arrampicatrice sociale. Anche ne La cisma, la questione non è cambiata, di fatto: la definizione del tragico deve passare attraverso la reazione della regina Cathalina e dei feudatari del Re. Al contrario di quanto accade ne El prìncipe, la cosa si nota meno perché, semplicemente mediata dalla gerarchia 25 P. Calderón de la Barca, La cisma de Inglaterra, cit., p. 32. 26 Tr. it. mia.
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che lega più esplicitamente i personaggi; se il re si rivela preda degli istinti, sconvolge ipso facto i valori dei personaggi e ne condiziona il modo in cui si relazionano con i valori della vicenda. Ancora una volta dunque, per la definizione del genere, va postulata una ideologia di fondo – la visione tragica del drammaturgo, come crisi dei fondamenti, che rende tragica l’opera. Ricordiamo, a questo punto, il darker purpose di Lear, e ricordiamo come era stata la sua decisione regale ad essere il vero motore della tragedia. Questo è il nesso discorsivo che stavamo cercando. Possiamo infatti vedere una linea evolutiva che inizia con l’azione mitica antica un tempo ambigua. Essa si adatta al cosmo separativo ma, nonostante questo, mantiene il suo potenziale di crisi dei fondamenti, cioè di crisi dei codici culturali e semantici che governano il cosmo tragico. Il rapporto formale che si instaura con El príncipe constante è dunque un rapporto di ulteriore tensione di carattere discorsivo, possibile nel cosmo separativo della tragedia moderna, fra la visione culturale del sovrano, – neostoica, stilizzata e ascetica come quella di don Fernando – e, l’altro lato del volto ambiguo del sovrano che, come mostra il monologo del Rey Enrique citato precedentemente, è sempre e costantemente sul punto di cedere alla sua nature, per usare il lessico shakespeariano. In questa forma di tragedia è ancora visibile, in modo molto forte e con estrema limpidezza, l’emergere dell’idea del dramma come una totalità organica, in cui l’universo tragico è pensato dal drammaturgo come filtrato da un legame ideologico unitario, nel segno della monarchia. Se dunque si è visto che entrambe le tragedie sono collocabili storicamente e aggirano il problema del circolo ermeneutico posto da Szondi, si può comprendere come queste rappresenti un conflitto ideologico latente fra elemento trascendente ed elemento naturale del potere.
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Le due polarità intrinseche all’ambiguità del mito riemerse sotto la forma dei codici del conflitto fra natura e cultura del potere, si estremizzano ancora di più di quanto non avessero fatto nel testo shakespeariano, la cui crisi derivava proprio dal contrasto tra l’ambiguità del gesto di Lear e l’ormai granitica importanza del mito del sovrano. La polarizzazione dei due lati dell’ambiguità, tra il modello del sovrano e la sua corrispondente versione naturale, e caratterialmente intemperante, è dunque ciò che sostiene il nesso discorsivo fra il processo di evoluzione del genere e i due sottogeneri della tragedia rappresentati da El príncipe e da La cisma. Come noto, queste due tragedie, all’interno del sistema dei generi calderoniano, differiscono per classificazione: sono dunque realizzazioni semantiche dello stesso genere letterario. Ricordiamo a questo punto lo schema discorsivo elaborato da Schaeffer: la realizzazione, in questo caso, semantica – a fronte di realizzazioni sintattiche differenti che caratterizzano il genere ‒ precede sempre la definzione dei codici storici di un genere in una data epoca. Tramite la lettura comparativa e contrastiva di queste due tragedie, possiamo riconoscere, dal punto di vista dell’articolazione discorsiva, la distanza apertasi fra referenti e significati che avevamo ravvisato in King Lear e che è direttamente passata a queste due tragedie. La forma delle tragedie shakespeariane aveva già sconfessato la possibilità di conciliare la natura del sovrano e la sua funzione trascendente; i due drammi analizzati portano con sé le contraddizioni implicite di tale sconfitta. Per concludere il ragionamento, possiamo osservare che quanto detto non può che influire sulla classificazione de La cisma sul piano teorico. Sebbene ad oggi molte classificazioni inseriscano queste opere nel novero dei drammi storici, possiamo affermare che senza dubbio tale opera ri-
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entra nella produzione tragica di Calderón. A sostegno, esistono molte ragioni storiche riguardanti i codici culturali dell’epoca. La principale è, al di là dell’ambientazione che ricorda le Histories shakespeariane (ma comune, del resto, anche a El médico de su honra, il cui statuto di tragedia non è certo messo in discussione), l’indubbio legame formale con un sottogenere della tragedia, riconoscibilissimo nell’orizzonte d’attesa del pubblico dell’epoca, come la tragedia morata. Qui, secondo lo schema medievale, il bene prevale sul male dopo la catastrofe che sconvolge l’universo dei personaggi tragici. Ma a questo punto ciò che più conta dal punto di vista teorico (e genealogico) per la tragedia, e lo si ribadirà ancora durante le nostre prossime analisi testuali, è il concetto di genere dal punto di vista enunciativo. Jean Marie Schaeffer, parlando di un caso che rispecchia esattamente quello esaminato, spiega come determinate forme siano riutilizzate in un nuovo contesto: Evidentemente non vi sono regole generali che permettano di dire come simili riutilizzazioni generiche funzioneranno in un contesto nuovo: la loro sorte probabilmente dipende sia dai testi che vi sono impliciti che dal grado di conformità del testo moderno con le regole arcaiche. Nel regime della modulazione generica le determinazioni non sono di ordine globale, bensì parziale, esse cioè non determinano l’opera in rapporto all’atteggiamento pragmatico e discorsivo che essa porta avanti, ma ne motiva alcuni segmenti sintattici e semantici […] quando il nome di genere si riferisce al livello intenzionale, il testo realizzato resta genericamente inerte: è proprio questo il motivo per cui non può esemplificare l’atto di comunicazione e cioè possedere la proprietà cui si riferisce e che lo denota.27
27 J. M. Schaeffer, Che cos’è un genere letterario, cit., p. 44.
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Si potrà obiettare che, per quanto risulti plausibile sia sul piano della descrizione enunciativa che dei codici culturali, non è necessario ipotizzare che questa doppia natura del sovrano, tragica perché idealmente stilizzata e perché negletta rispetto al modello neostoico, derivi necessariamente da uno scollamento fra il mito e la tragedia che abbiamo, invece, ravvisato in Shakespeare. In altri termini: esistono altre caratteristiche, nelle tragedie successive, che ci permettono di dimostrare come la forma della tragedia calderoniana derivi da un mutamento nella concezione della totalità epica? Una risposta a questa domanda affiora se analizziamo con cura i contenuti culturali e le strutture enunciazionali de La vida es sueño. 3.3 Lo scontro fra i caratteri ne La vida es sueño
È necessario ora porre al capolavoro calderoniano una serie di questioni: la prima consiste nel mostrare in che modo la forma de La vida es sueño rimedia alla contraddizione tra epicità e lirismo propria delle tragedie precedenti. La seconda, ad essa collegata, è come tale sua relazione, di carattere genealogico, con le altre tragedie ci permette di intervenire – si crede in modo dirimente – nel dibattito teorico sull’attribuzione di quest’opera letteraria alla tragedia. La prima risposta, da cui discendono tutte le altre, è la seguente: La vida es sueño è genealogicamente proveniente dalla forma della tragedia come scontro fra i caratteri nella trasformazione che ha subito in Hamlet, e porta le tracce di tale trasformazione nella funzione che acquisirà d’ora in poi il gioco linguistico hegeliano. La rifunzionalizzazione del genere in Calderón consiste precisamente nel sopperire alle contraddizioni formali dei
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due drammi analizzati precedentemente, come tentativi di rappresentare la totalità organica del mito e il mondo epico. Tale forma ha perso la capacità di portare all’interno del proprio spazio formale le differenze fra i caratteri in conflitto, ma permane la raffigurazione di due emblemi che avanzano in reciproca conchiusione. Come si è visto, sia ne El príncipe che ne La cisma il senso tragico sta nel fatto che, per via dell’azione di un singolo entrano in crisi i valori dell’intera comunità. Per lo meno così come li percepisce il poeta nel momento in cui, avverte, nel pathos drammaturgico, la realtà come una totalità. El príncipe constante e La cisma de Inglaterra mostravano dunque la contraddizione ideologica fra epica e lirica che si era abbattuta sulla forma tragica; La vida es sueño mostra invece una continuità formale pressoché inscalfibile fra i fatti drammaturgici e i valori espressi dalle tragedie che la precedono. Questa caratteristica deriva intimamente dall’ambivalenza strutturale fra fatti e valori che ha caratterizzato l’evoluzione della tragedia finora. L’interpretazione in chiave neostoica del dramma è nota; è necessario ripensarla tuttavia per capire come essa, derivando dal suo diretto antenato Hamlet, possa svolgere un ruolo nel progressivo distaccarsi della tragedia dalla forma antica. In più, nell’ottica di un confronto con Racine, sarà necessario dividere il testo in macrosequenze, per studiare come questo tipo di forma registri a “modo proprio” le caratteristiche dell’evoluzione della tragedia. Essa è nata con Hamlet per trasportare la tragedia dal cosmo interconnesso al cosmo separativo e troverà un analogo, per ruolo strutturale ed enunciativo, nella Phèdre raciniana. Nella prima sequenza si presentano le forze in conflitto, nella seconda si espone il conflitto stesso; nell’ultima il finale, in cui l’autore, intermediario assente, propone un’ipotesi ideologica per sanarlo.
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Una simile divisione ci porterà a dimostrare una tesi di fondo: colta nella intrinseca contraddizione formale che caratterizza la sua evoluzione, la tragedia moderna deve creare una strategia di resistenza alla frizione tra epicità e lirismo. La forma dello scontro fra i caratteri ne La vida es sueño cerca di opporsi alla distanza tra referenti e significati che abbiamo visto acuirsi nelle prime due tragedie analizzate nel precedente paragrafo, e a loro volta discendenti da Lear. Iniziamo dunque dalla prima sequenza. Nel primo atto, dalle primissime righe di questo testo, è possibile ravvisare come la caratterizzazione dei personaggi e la struttura drammaturgica di fondo, non abbiano alcun altro scopo principale che quello di fornire al pubblico che osserva lo spettacolo dei significati politici. Se da un lato rappresentazione esemplare dei caratteri occupa la parte centrale, dall’altro il conflitto è, praticamente, ridotto a zero: quando Rosaura, disarcionata dal suo cavallo, piomba in Polonia, fin da subito allude nella sue battute al sostrato allegorico, metaforico (o – come direbbe Lukàcs – di stilizzazione drammaturgica) che fa riferimento all’idea del “principe-bestia”, presentandoci così uno dei due poli ideologici del dramma. Il riferimento è al principe dotato di diritto naturale, personaggio che nell’assiologia, nel sistema di valori che abbiamo definito, è una delle due ipotesi di sovranità in conflitto nella visione tragica di Calderón: Rosaura ¿No es breve luz aquella caduca exhalación, pàlida estrella, que en trémulos desmayos pulsando ardores y latiendo rayos, hace màs tenebrosa la obscura habitación con luz dudosa?
Rosaura Non è una tenue luce, fugace esalazione, stella pallida, che in sfinimenti tremuli, palpiti ardenti e battiti di raggi, rende più tenebrosa la stanza buia con l’incerta luce?
La tragedia di Calderón e il pensiero dei Gesuiti271 Sí, pues a sus reflejos puedo determinar, aunque de lejos, una prisión obscura; que es de un vivo cadáver sepultura; y porque más me asombre, en el traje de fiera yace un hombre de prisiones cargado y sólo de la luz acompañado. Pues huir no podemos, aquí sus desdichas escuchemos. Sepamos lo que dice.28
Sì, giacché al suo riflesso resco a vedere, anche se da lontano, una prigione buia che è di un vivo cadavere la tomba; e, per fare più grande il mio stupore, in abiti da belva giace un uomo, carico di catene, con la luce come unica compagna. Se fuggir non possiamo, le sue sventure quaggiù ascoltiamo; sentiamo cosa dice.29
Nella battuta di Rosaura si può leggere con chiarezza un fine fondamentale: la necessità di alludere al fatto che il principe ereditario è visto come relegato ai margini del regno, privo di quella forza e di quella libertà di azione che sarebbe necessaria al sovrano per poter gestirlo il regno. La quantità di riferimenti figurali, da qui in poi, è altissima e, quando prende la parola Segismundo, vi è un lungo quanto celebre gioco metaforico sulla sua doppia natura, ferina e regale al contempo, che occupa quasi ottanta versi (102-180). Dopo un breve dialogo, c’è una battuta di Segismundo su cui è utile soffermarci proprio per via della sua verbosità, che sottende ancora l’intento di presentare il personaggio in tutto il tuo peso simbolico più che aderire alla mimesi dell’azione: Segismundo […] Y aunque nunca vi ni hablé sino a un hombre solamente que aquí mi desidchas siente, porque la noticias sé del cielo y tierra; y aunque
Segismundo […] e anche se ho visto e parlato sempre ad un uomo soltanto che qui sa le mie sventure da cui ho avuto notizia di cielo e terra e anche se
28 P. Calderón de la Barca, La vita è sogno, tr. it. di F. Antonucci, Marsilio, Venezia 2009, p. 54. 29 Ivi, p. 55.
272 aquí, por que más te asombres y monstruo humano me nombres, este asombros y quimeras, soy un hombre de las fieras y una fiera de los hombres.30
La nascita del dramma moderno qui, perché tu sbigottisca e mostro umano mi chiami tra spaventose chimere sono un uomo tra le fiere, ed una fiera tra gli uomini31
Sia il lungo monologo con cui si introduce il protagonista, sia la lunga risposta che questi dà a Rosaura rendono ancora più chiaro quanto, in questo primo atto, il rapporto sia sbilanciato fra simbolo e funzione drammaturgica, a favore del primo. Si sono citati solo i versi in cui Segismundo ribadisce con più forza il suo isolamento dal mondo e il suo essere hombre de las fieras y fiera de los hombres ma la semplice risposta a Rosaura, nella Primera Jornada consta di ben 50 versi: dal 190 al 240. Coerentemente con ciò è cruciale notare che nel primo atto è quasi completamente assente ogni conflitto drammaturgico. Ad eccezione del brusco scambio fra Clotaldo e i due transfughi, non c’è veramente azione drammatica, ma solo informazione e caratterizzazione. Anche il rapido scambio che c’è fra Segismondo e Clotaldo il carceriere del Principe, è chiaramente allegorico e dal contenuto politico: sebbene sia un’allegoria più debole, si tratta, già, di una prima lieve frecciata contro il concetto di razón destado. Mostra inoltre il conflitto ideologico fra i due poli, il sovrano incline a tentazioni machiavelliche, votato agli arcana imperii e il Principe che, proprio in quanto puro, ha il difficile compito di dominare gli istinti: Segismundo Primero, tirano dueño, que los ofendas y agravies,
30 Ivi, p. 60. 31 Ivi, p. 61.
Segismundo Padrone tiranno, prima che tu li offenda ed oltraggi,
La tragedia di Calderón e il pensiero dei Gesuiti273 será mi vida despojo de estos lazos miserables; pues en ellos, ¡vive Dios!, tengo de despedazarme con las manos, con los dientes, entre aquestas peñas, antes que su desdicha consienta y que llore sus ultrajes. Clotaldo Si sabes que tus desdichas, Segismundo, son tan grandes, que antes de nacer moriste por ley del cielo; si sabes que aquestas prisiones son de tus furias arrogantes un freno que las detenga y una rienda que las pare, ¿por qué blasonas? La puerta (a los soldados) cerrad de esa estrecha cárcel; escondedle en ella.32
la mia vita sarà preda di questi miseri lacci; perché in essi, vivaddio, mi farò a brani da solo con le mani, con i denti, fra queste rocce, piuttosto che accettarne la sventura e lamentarne il sopruso. Clotaldo Se sai quanto sono grandi le tue sventure, che prima di nascondere eri già morto, Segismundo, per decreto Del cielo; se sai che questi ceppi devono esser freno e redini che trattengano i tuoi furori arroganti, perché ti esalti? La porta chiudete di qusto carcere; vi resti nascosto.33
La condizione di cattività del principe-bestia è subito spiegata nella scena successiva quando il re di Polonia, Basilio, mostra chiaramente tutto il suo valore simbolico-metaforico in quanto carattere. Il lungo monologo del re è un grande esempio di quella ipocrisia assolutista da cui i trattatisti gesuiti volevano mettere in guardia vassalli e regnanti: Basilio Ya sabéis – estadme atentos, amados sobrinos míos, corte ilustre de Polonia, vasallo, deudos y amigos –, […] los pinceles de Timantes, los mármoles de Lisipo, en el ámbito del orbe
32 Ivi, p. 68. 33 Ivi, p. 69.
Basilio Già sapete – state attenti Nipoti miei molto amati, corte illustre di Polonia, vassalli, parenti, amici. […] che, contro il tempo e l’oblio, i pannelli di Timante ed i marmi di Lisippo
274 me aclaman el gran Basilio. Ya sabéis que son las ciencias que màs curso y más estimo, matemáticas sutiles, por quien al tiempo le quito, por quien a la fama rompo la jurisdicción y oficio de enseñar más cada día; […].34
La nascita del dramma moderno mi proclamano per tutto l’universo il gran Basilio. Già sapete che è la scienza che più pratico ed apprezzo la sottile matematica, che grazie a lei tolgo al tempo grazie a lei rubo alla fama la giurisdizione e il compito di mostrare cose nuove ogni giorno; […].35
Basilio esalta la sua figura di saggio e di monarca che è in grado di opporre agli eventi tutta la sua astuzia. Questo, nella visione tragica di Calderón, non può che essere interpretato come un segno di tracotanza e di prevaricazione di quei vassalli che pure va paternalisticamente esaltando nell’incipit del suo lungo monologo. Di seguito Basilio racconta della prova cui vuole sottoporre Segismundo, di come vuole testare le doti di tiranno: se si comporterà male, in quel caso, ricondurlo in prigione sarà pena, non ferocia. Basilio En Clorilene, mi esposa, tuve un infelice hijo, en cuyo parto los cielos se agotaron de prodigios. […] un monstruo en forma de hombre, y entre su sangre teñido, le daba muerte, naciendo, víbora humana del siglo. Llegó de su parto el día, y los presagios cumplidos – porque tarde o nunca son mentirosos los impíos –, nació en horóscopo tal, que el sol, en su sangre tinto, entraba sañudamente
34 Ivi, p. 84. 35 Ivi, p. 85.
Basilio Da Clorilene, mia sposa, ebbi un figlio sventurato, sulla cui nascita i cieli si esaurirono in presagi […] un mostro a forma di uomo e bagnato di sangue, le dava la morte nascendo, come una vipera umana. Arrivò il giorno del parto e compiendosi i presagi – ché, se crudeli, è difficile risultino menzogneri – nacque proprio nel momento che il sole, rosso di sangue, si sfidava bellicoso
La tragedia di Calderón e il pensiero dei Gesuiti275 con la luna en desafío […] y él, de su furor llevado, entre asombros y delitos, […] Las graves penas y leyes, que con públicos editos declararon que ninguno entrase a un vedado sitio del monte, se ocasionaron de las causas que os he dicho. Allí Segismundo vive mísero, pobre y cautivo, adonde sólo Clotaldo o le ha hablado, tratado y visto.36
ad un duello con la luna […] e, [era] trascinato dal furore, tra spaventosi delitti […] Le leggi e pene severe, che con i pubblici proclami che dichiararono a chiccessìa di non inoltrarsi per quei monti, si spiegano con gli eventi che ho appena raccontato. Lì vive Segismundo, misero, povero e prigioniero. Dove solo Clotaldo gli ha parlato e lo ha visto.37
Descrivendo il futuro sovrano/principe come ferino, Basilio si arroga così il diritto di averlo manipolato e soprattutto di aver trattato i vassalli come se fossero oggetti, contravvenendo alla visione per cui è proprio da loro che deriva la legittimazione del sovrano, e non dalla scienza, come egli afferma: Basilio Éste le ha enseñado ciencias; este en la ley le ha instruído católica, siendo solo de sus miserias testigo. Aquí hay tres cosas: la una que yo, Polonia, os estimo tanto, que os quiero librar
Basilio Egli gli ha insegnato le scienze; lui l’ha istruito alla fede cattolica, e solo lui presenzia la sua miseria. Ed ecco adesso tre cose; la prima è che, oh Polonia, io ti amo tanto
de la opresión y servicio de un rey tirano, porque no fuera señor benigno el que su patria y su imperio pusiera en tanto peligro.38
da volerti evitare l’oppressione di un re tiranno perché non sarebbe un buon sovrano colui che la sua patria e il suo regno esponesse a tanto rischio.39
36 37 38 39
Ivi, pp. 85-92. Ivi, pp. 86-93. Ivi, p. 92. Ivi, p. 93.
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Di qui la spiccata tendenza manipolativa del sovrano che lo rende riconoscibile come un tiranno e che lo porterà all’espediente di liberare il principe solo se è in grado di dominare i suoi istinti: Basilio La otra es considerar que, si a mi sangre le quito el derecho que le dieron humano fuero divino, no es cristiana caridad; […] es la última y tercera El ver cuanto yerro dar crédito facilmente à los sucesos previstos; […].40
Basilio La seconda è che, se privo Il mio sangue di diritti che gli spettano per legge umana e divina, manco di cristiana carità […] E la terza e ultima, è vedere che grave errore sia stato con leggerezza dar credito ai fatti pronosticati; […].41
In realtà Basilio sembra più preoccupato per sé stesso che per l’infante o per il regno: è un intellectual narcissus, usa il suo intelletto non tanto per placare le passioni, quanto per confermare il suo status di re in grado di prevedere gli eventi e manipolarli. A parte i versi dedicati alla sottotrama costituita dal rapporto fra Clotaldo e Rosaura, questa serie di monologhi costituisce la prima macrosequenza. Si tratta di quasi settecento versi, ovvero quasi l’intera Primera Jornada, che consta di poco più di novecentottantaversi in cui qui l’azione è ridotta al minimo e la maggior parte dello spazio drammaturgico è occupato da caratterizzazioni simbolico-politiche. Passiamo alla seconda macrosequenza, cioè quella in cui si dipana il conflitto tra istanze etiche contraddittorie. È facilissimo notare quanto essa, di fatto, sia grosso modo grande meno della metà della prima. 40 Ivi, p. 95. 41 Ibidem.
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In primo luogo, il conflitto principale dell’opera è tutto concentrato nella Segunda Jornada, ma se si esclude il lungo dialogo fra Basilio e Clotaldo che la apre, e se si escludono poche sporadiche battute in cui Segismundo continua a mostrare la sua intemperanza, la fase in cui si scontrano le due ipostasi di sovranità consta di poco più che 450 versi, all’interno di un’opera di circa 3020. Comincia con i primi segni di autoritarismo del principe ereditario: Segismundo Pues, vil, infame, traidor, ¿qué tengo más que saber, después de saber quién soy, para mostrar desde hoy mi soberbia y mi poder? ¿Cómo a tu patria le has hecho tal traición, que me ocultaste a mí pues que me negaste, contra razón y derecho, este estado?42
Segismundo Vile, infame e traditore, che devo sapere ancora, sapendo oramai chi sono, per mostrare da oggi in poi la mia superbia e mio potere? Come hai potuto tradire a tal punto la tua patria da nascondermi e negarmi, contro ragione e diritto, questo stato?43
È il momento in cui Segismundo, una volta presa coscienza del suo status regale ed uscito dallo stato di cattività, ex abrupto identifica sé stesso con l’autorità assoluta, concretando così i timori sulla sua capacità di controllare le sue pulsioni, di identificarsi in modo autoritario con la legge e con il diritto. L’alternativa a questo autoritarismo violento e inconsapevole può essere l’assolutismo? Di fatto in questi 450 versi si consuma il conflitto fra i due poli del dramma, fra un’ipotesi di sovranità culturalmente e filosoficamente mediata, 42 Ivi, p. 126. 43 Ivi, p. 127.
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rappresentata da Basilio, e l’infante, un sovrano la cui legittimazione risale all’antica monarchia feudale. Dopo lo scontro con Clotaldo, Segismundo mostra tutta la sua ferinità e getta dalla finestra uno dei musici di fronte alla corte per la sola colpa di averlo contraddetto. Poco dopo fa il suo ingresso il re che, immediatamente, deve constatare il fallimento del suo esperimento: Basilio ¿Qué ha sido esto? Segismundo Nada ha sido. A un hombre que me ha cansado, de ese balcón he arrojado. Clarín Que es el rey está advertido. […] Basilio Pésame mucho que cuando, príncipe, a verte he venido, pensado hallarte advertido, de hados y estrellas triunfando, con tanto rigor te vea, y que la primera acción que has hecho en esta ocasión, un grave homicidio sea.44
Basilio Che è successo? Segismundo Proprio nulla, Da quel balcone ho gettato un uomo che mi ha seccato Clarín (Stai attento, quello è il re,) [...] Basilio Principe, vengo a trovarti, pensando che, cauto, stessi di stelle e fato trionfando, ti vedo invece crudele al punto che il primo gesto che hai tatto in questa occasione è stato un grave omicidio.45
Siamo di fronte al problema culturale della sovranità prefigurato nelle opere di Mariana, Quevedo e Saavedra Fajardo: se un re si comporta da tiranno come si deve reagire? Nella terza e ultima macrosequenza che compone la peripezia spiegheremo come il drammaturgo sceglie una via mediana fra la sovversione e la sottomissione, fra la rottura del foedus vassallatico e l’accettazione acritica della tirannia. 44 Ivi, p. 137. 45 Ibidem.
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E infatti la Jornada Tercera si apre con la soluzione politica e l’azione drammatica, da adesso in poi, sarà più che altro evocata o rappresentata scenicamente. Il conflitto drammaturgico sarà, per lo più eclissato da una rappresentazione ideologizzata dalla lotta per la successione dinastica: Soldado 1º Entrad dentro. Soldado 2º: Aquí está. Clarín: No está. Todos: Señor… Clarín: (¿Si vienen borrachos éstos?) Aparte Soldado 2º: Tú nuestro príncipe eres. Ni admitimos ni queremos sino al señor natural y no príncipe extranjero46.
Soldato 1º: Entrate dentro Soldato 2 º: Si trova qui Clarín Non c’è Tutti Signore… Clarín Che questi sian tutti ubriachi? Soldato 2º: tu sei il nostro principe; noi vogliamo ed accettiamo solo il sovrano legittimo, non un principe straniero47.
Sin dall’inizio del terzo atto, subito dopo un breve monologo di Clarín, si capisce qual è la risposta del drammaturgo al dilemma teorico-politico che concerne la successione: i soldati scelgono il loro señor natural e lo aiutano a liberarsi. È iniziata l’ultima macrosequenza, quella che porta allo scioglimento della tragedia. Sebbene l’azione drammatica sia tutto sommato poca, la sequenza è molto lunga perché rappresenta in primo luogo la riconquista del potere da parte del principe senza praticamente alcuna resistenza. Poi, nuovamente, una lunga serie di monologhi che chiudono il dramma che eliminano anche le ultime ombre di 46 Ivi, p. 138. 47 Ivi, p. 139.
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azione drammatica – già rada – e forniscono informazioni molto importanti per capire il senso politico della storia. Vi è il lunghissimo monologo di Rosaura (vv. 2690-2920) e , infine, il lungo discorso di Segismundo con cui si insedia come nuovo sovrano. È un monologo importante ai fini della tesi che si sta argomentando: Corte ilustre de Polonia, que de admiraciones tantas sois testigos, atended, que à vuestro príncipe os habla. Lo que està determinado del cielo, y en azul tabla Dios con el dedo escribió, de quien son cifras y estampas tantos papeles azules que adornan letras doradas;48
Corte illustre di Polonia, che di tante meraviglie sei testimone, ora ascolta, il tuo principe ti parla. Quel che è stato stabilito dal cielo, e su azzurra tela ha scritto Dio con il dito, lasciandolo impresso su tante pergamene azzurre di lettere d’oro adorne;49
Si tratta di un’altra trasformazione drammaturgica che, chiaramente, non è basata su criteri psicologici, ma ideologici: il re, non appena si è insediato, cambia carattere e diventa savio, e lo dimostra perdonando il re precedente. Ed è proprio questo il segno della sua nuova saggezza: Segismondo rispetta ora monarchica nel suo complesso, e non nella semplice sovversione della tirannide. Attraverso il plauso che la corte dà a Segismundo, l’autore dimostra che il sovrano legittimo ha in sé gli strumenti per vincere la sua natura bestiale e non occorrono espedienti politici per preservare il potere. Nell’ottica di un confronto, con l’universo drammaturgico di Racine, è necessaria una sintesi.
48 Ivi, p. 237. 49 Ivi, p. 238.
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Sottraendo lo spazio dedicato alle sottotrame dell’opera, la prima sequenza analizzata, in cui si presentano le ipotesi etiche in conflitto, consta di circa 780 versi, cioè quasi l’intera Jornada Primera. La seconda sequenza, quella in cui si sviluppa il conflitto etico-poilitico e ideologico, consta di 650 versi, e corrisponde per lo più alla parte della Jornada Segunda che va dal momento in cui Segismundo si ribella a Clotaldo a quando il re interviene per fermare la sua furia. Infine, altri 820 versi costituiscono la terza sequenza: la sconfitta del sovrano e i lunghi monologhi di Segismundo. Come si vede chiaramente da questa analisi, lo scontro fra i caratteri rappresentato in quest’opera mostra l’esigenza di riequilibrare le contraddizioni etiche legate al rapporto fra l’intemperanza del sovrano e il neostoicismo teorizzato dai gesuiti. Si trova effettivamente una forma in grado di offrire una qualche di resistenza alla contraddizione fra concezione ideale del sovrano e sua sregolatezza. Ma, soprattutto, la forma della tragedia come totalità organica trova un complemento attraverso la messa in scena di personaggi che incarnano determinati valori. La funzione strutturale di questo dramma sul piano macrodiscorsivo del genere, tende a riequilibrare la contraddizione fra epicità e lirismo della tragedia visibile ne El principe e La cisma. Si vede dunque come interagiscono i due lasciti formali della forma simbolica della tragedia antica. Se gli emblemi tragici della sovranità delle prime tragedie calderoniane sono un inasprimento della contraddizione fra natura e cultura nella visione del mondo assolutista presente in King Lear, lo scontro fra i caratteri de La vida es sueño, come rifunzionalizzazione della forma di Hamlet, serve per riequilibrare sul piano discorsivo tale contraddizione, completando in tal modo il processo di rifunzionalizzazione della tragedia antica nella modernità.
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C’è un rapporto, che potremo ulteriormente verificare nel capitolo successivo, fra la concezione dello spazio della tragedia come una totalità organica ed il rapporto fra le prime due forme che rappresentano l’eredità formale e discorsiva della tragedia antica. Come si è premesso all’inizio di quest’analisi per sequenze, in tale fase dell’evoluzione formale della tragedia, è molto più importante l’esposizione degli emblemi della sovranità che non l’esposizione del conflitto fra sistemi di valori. L’evoluzione del genere in esame consisterà difatti in un restringersi ed in un problematizzare l’antico nesso fra epica e lirica. Le proporzioni strutturali che abbiamo qui rilevato mettono in evidenza il fatto che la polarizzazione fra queste due istanze è ancora relativamente contenuta. Si può rilevare che esiste infatti un rapporto fra l’estremizzarsi del conflitto fra le due istanze legate alla monarchia nel testo calderoniano e uno iato fra le due immagini emblematiche di Don Enrique e Don Fernando. Con l’evolvere della tragedia – vedremo ancora in seguito – il compito di riequilibrio formale delle polarità intrinseche delle forme della tragedia fin dal dramma antico risulterà sempre più impervio, perché la sconsacrazione degli ideali assolutistici metterà alla prova la funzione di resistenza che caratterizza questa forma.
Fig 5 Una mappa de La vida es sueño. Le tre macrosequenze definiscono le contraddizioni culturali cui reagisce quest’opera
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Come mostra quest’ immagine de La vida es sueño, le polarità del dramma colorate in un rosso più intenso coincidono quantitativamente per approsimazione a due sequenze di medesima estensione ricavate da Hamlet e che definiscono uno spazio centrale, coincidente con la preyer scene. È la scena in cui, quando leggiamo Hamlet, possiamo renderci conto che il malinconico protagonista non compie la propria azione vendicativa non perché inetto in sé, ma perché la forma della tragedia prevede un’ambivalenza fra fatti e valori, e alla crisi dei valori corrisponde la crisi dei fatti. Se il cosmo tragico interconnesso permetteva di interiorizzare il conflitto, nell’insieme dei suoi codici culturali e discorsivi esso è ormai esterno, ed identificato nella contraddizione ideologica fra i due emblemi. La forma dello scontro fra i caratteri attraverso questa peculiare caratteristica morfologica reagisce alle contraddizioni del conflitto fra valori ed entra sotto stress. La sua nuova funzione è dunque – in linea con il tatticismo di de Mariana – di rallentare la crisi e il sopravvento del conflitto fra ideale e realtà. Questo sforzo di riequilibrio formale può e deve vedersi come un retaggio formale del dramma antico, che cercava, nella sua pragmatica, di ristabilire la quiete del rapporto fra il referente del mito, in questo caso il ferino erede al trono, e il suo significato, ovvero la sua immagine neostoica. Alla luce di questa disamina strutturale e dell’approccio genealogico fin qui seguito, possiamo intervenire sull’annoso dibattito concernente la collocazione di quest’opera all’interno di un genere letterario. Per farlo si è scelto di partire dalle considerazioni di Miguel Zugasti, il quale, a partire da questioni formali molto precise, ritiene di dover rappresentare La vida es sueño al di fuori della concezione della tragedia:
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La vida es sueño entra nella lista dei capolavori, portatrice di una molteplicità di messaggi e di una tale densità di temi e motivi da meritarsi le etichette più disparate. Se ci atteniamo alla cornice generica, è stata chiamata commedia ideale (Alberto Lista), dramma profano e inventivo (Hartzenbusch), commedia filosofica (Menéndez Pelayo, Valbuena Prat), commedia dell’intreccio (Domínguez Cavia), una varietà di mantelli e spada (McKendrick), dramma d’onore (Resin), ecc. Ci sono legioni di studiosi che lo leggono in chiave tragica: Parker, Ruiz Ramón, Vitse, Trías, Molho, Rodríguez Cuadros, Àlvarez Sellers […].50
Sebbene ci sia una “Legión” di studiosi che leggono il dramma in chiave tragica (Parker, Ruiz Ramón, Vitse…), esistono delle chiare spie che permetterebbero di incasellare l’opera nella ben più usuale, sul piano della ricezione generica, forma della comedia palatina.Vediamone alcune: Il doppio allontanamento dallo spazio drammatico e dal tempo di rappresentazione aiuta a stabilire nello spettatore un’attesa di sublimazione della realtà, molto tipica dell’ambiente palatino, generando una sensazione di novità ed esotismo, il cui scopo è catturare l’attenzione su ciò che accade sul palco. Infine, questo distanziamento consente a Calderón di affrontare nel testo temi spinosi con una grande libertà creativa, poiché si parte dalla premessa che non è un’opera di teatro “realista” e di “denuncia” della Spagna del momento. Si tratta cioè di un meccanismo di sicurezza che permette al drammaturgo di mostrare chiaramente gli errori di vario genere commessi da re Basilio, l’iniziale ribellione del principe Segismundo con i suoi accessi d’ira, la tentata rivolta popolare che guida un anonimo soldato [….] Lancia tutti questi riferimenti molto infausti che riflettono il lato più oscuro di re, governanti e sudditi, che, fortunatamente ‒ penserà il pubblico con sollievo ‒, non sono spagno50 M. Zugasti, A vueltas con el Género de La vida es sueño, in “Cuadernos de teatro clásico”, XXXI, Madrid 2015, pp. 257296.
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li, ma polacchi, idealmente lontani dai nostri confini. Soprattutto, fluttua nell’ambiente una certa pedagogia alla reggenza de prìncipi, di avvertimento per un buon governo, di educare le teste degli altri, ma senza la necessità di identificarsi in nessun re o potente spagnolo contemporaneo.51
Tutte queste questioni formali e tematiche che rievocano la comedia palatina come genere letterario, ritenute più adatte a descrivere La vida es sueño in tale forma, sono difficilmente confutabili. E tuttavia il problema di fondo è che nonostante la loro precisione argomentativa, dal punto di vista teorico, non dimostrano ciò che dovrebbero dimostrare. Quel che va compreso è che la definizione del genere non passa, sul piano genealogico, a partire dal sistema dei codici culturali dell’autore: essa passa piuttosto dal piano enunciativo. Per una definizione del genere tragico non è necessario che l’autore riconosca nel proprio orizzonte d’attesa. Al contrario, non può che basarsi sul ruolo strutturale e soprattutto pragmatico che la tragedia svolge come forma. È per questo che Antonucci può scrivere: Situazione tragica quant’altre mai, quella di vedere un monarca, un padre, ai piedi del figlio ribelle, come ribadisce lo stesso Segismundo utilizzando un lessico che insiste su effetti emozionali che si consideravano propri della tragedia (“la strana meraviglia” congiunta all’“orrore”).52
Le tracce lessicali sono le stesse, del resto, di quelle che abbiamo trovato ne El principe constante e ne La cisma, in reazione alla crisi dei fondamenti politici: il senso tragico del drammaturgo è legato a tali nessi enunciativi che definiscono il legame con la totalità organica del mito al di 51 Ivi, p. 287. 52 F. Antonucci, Calderón de la Barca, Salerno, Roma 2020, p. 86.
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sotto della tragedia. Del resto c’è tutta una lunga serie di studiosi calderoniani che, nella storia dell’esegesi di quest’opera, la leggono in chiave tragica, sulla base dei processi enunciativi di cui abbiamo parlato: Parker53, Ruiz Ramón54, Álvarez Sellers55 e molti altri. Quel che mancava, e a cui speriamo di aver sopperito, era piuttosto una prospettiva genealogica che potesse motivare tali elementi di carattere enunciativo su un piano macro-discorsivo riguardante il genere. Essi assumono il compito di esprimere l’esperienza tragica come forma di contraddizione fra senso lirico del poeta e crisi dei suoi fondamenti etico-politici. Quest’ultima rappresenta il piano enunciativo basilare della tragedia come atto discorsivo e come forma, nel momento in cui essa si adatta. Come si vede bene, esattamente come ne La cisma de Inglaterra e El príncipe constante, il senso tragico espresso dai personaggi deriva dal fatto che essi percepiscono la totalità, nella stilizzazione formale che viene fatta dei loro caratteri, attraverso lo sguardo lirico del drammaturgo. Questo rapporto tra epicità e lirismo è minato alla base della contraddizione binaria che caratterizza l’immagine del sovrano. Se finora abbiamo mostrato come la crisi della sovranità nel teatro di Calderón possa e debba essere interpretata 53 A. A. Parker, The mind and art of Calderón, Cambridge University press, Cambridge 2012, pp. 312-316. 54 F. Ruiz Ramón, Mitos del poder: “La vida es sueño”, En torno al teatro del Siglo de Oro. Actas de las Jornadas VII-VIII celebradas en Almería, Almería 1992, pp. 61-77. 55 M. R. Álvarez Sellers, La tragedia española en el Siglo de Oro: “La vida es sueño” o el delito del nacimiento, Diputación Foral de Álava, Vitoria-Gasteiz 1995; M. R. Álvarez Sellers, Análisis y evolución de la tragedia española en el Siglo de Oro: la tragedia amorosa, in “Teatro del Siglo de Oro. Estudios de Literatura”, voll. 33, 34, 35, Kassel Reichenberger, Kassel 1997.
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come un modo per riequilibrare le contraddizioni in gioco nel voler pensare all’azione tragica del sovrano come una totalità organica, con l’analisi della prossima tragedia mostreremo come questa concezione di istanze ideologiche in equilibrio ha, in sé, dei limiti di resistenza. 3.4 El médico de su honra: una tragedia del rovesciamento
Veniamo adesso al secondo della “trilogia”, per così dire, dei drammi calderoniani dell’onore. Fino ad ora si è verificato come la “logica generica” che caratterizza i drammi moderni si basi sostanzialmente sulla tensione strutturale che si genera fra le opere. Il motore di questo processo rimane l’ambiguità dell’immagine del sovrano che, pure secondo le logiche dell’universo separativo della tragedia moderna, continua a influenzare la struttura tragica dei testi attraverso la Weltanschauung dell’autore. Esistono però anche tragedie che mettono in dubbio questo sforzo di riequilibrio fra istanze contraddittorie. Per una questione di economia di analisi ci si limiterà solo all’analisi della struttura di uno dei due rovesciamenti de El médico de su honra. Se dunque la Tragedia morata ed El principe Constante implicavano l’impossibilità di rappresentare, mai nella sua totalità, l’ambiguità dell’immagine del sovrano sul piano semantico, La vida es sueño e El médico de su honra rappresentano questa impossibilità sul piano performativo. Nonostante il finale lieto, infatti, La vida es sueño sembra rappresentare decisamente una totalità etica mancata, perché la contraddizione fra valori in gioco può essere solo temporaneamente conciliata e la definitiva crisi viene rappresentata esplicitamente ne El médico.
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La vicenda, così come l’opera, è altrettanto ben nota, quindi la si riassumerà brevemente. La molla tragica del dramma emerge, notoriamente, dal tradimento, solamente supposto e mai avvenuto, di Doña Mencía con l’infante di Spagna, don Enrique. Questi dapprima si ritrova nella casa di Don Gutierre, hidalgo vero protagonista tragico della vicenda, e ricorda un vecchio amore che li legava prima del matrimonio di lei. Nel frattempo, Gutierre viene ricevuto dal re, don Pedro, che lo interroga sulla sua condotta passata tenuta con un’altra donna, Leonor, la quale ha chiesto aiuto, a sua volta, al sovrano per ottenere indietro il suo amante perduto, ritenendo di essere stata abbandonata, secondo i codici di allora, per ragioni non onorevoli. Dal punto di vista sociopolitico questa trama parallela è fondamentale per la lettura del dramma: infatti quando Don Pedro troverà che Gutierre è colpevole dell’assassinio di Mencía, lo punirà facendolo sposare con Leonor, approfittando del fatto che lui è sotto ricatto per via dell’omicidio. Il rovesciamento di Gutierre, sul piano epico, simboleggia la crisi di giudizio del re, o meglio, la capacità di esprimere giudizio sulla base di un arbitrio. Il paradosso, quasi sofocleo, vissuto da Gutierre consiste nella perdita di fiducia nell’arbitrio del re, con in più la perdita della sposa per sua stessa mano. Più concentrata drammaturgicamente è la metabolé di Mencía, la quale, come noto, comincia con lo sconvolgimento della sua vita coniugale e con il giungere dell’infante nell’esistenza della coppia: Mencía Desde la torre los vi, y aunque quien son podré distinguir, Jacinta, sé que una gran desdicha allí
Mencía Dalla torre li vidi, e sebbene potró distinguere chi sono Giacinta, lo so è grande disgrazia lì
La tragedia di Calderón e il pensiero dei Gesuiti289 he sucedido. Venía un bizarro caballero en bruto tan ligero, ha que en el viento parecía un pàjaro que volaba; y es razón que lo presumas porque un penacho de plumas mantiche al aire daba. El campo y el sol en ellas Compitieron resplandores; que el campo le dio sus flores, y el sol le dio sus estrellas; […].56
è successa. Veniva un bizzarro signore grezzo, così leggero, che nel vento sembrava un uccello che volava; e a ragione lo presumi poiché un pennacchio di piume mantiche all’aria dava. La campagna e il sole in loro gareggiarono in bagliori; che la campagna gli diede i suoi fiori, e il sole gli diede le sue stelle; […].57
È molto interessante notare, ai fini del nostro discorso, che, pur non avendolo identificato con certezza, è Mencía ad avvistare, e ad annunciare al pubblico, l’avvento dell’infante, attraverso questo fiorito monologo. Per una storicizzazione compiuta della forma tragica del rovesciamento, dobbiamo comprendere che già in questa prima, fase, l’effetto performativo del rovesciamento – sul piano anche strettamente scenico – deriva da questo monologo, che lo anticipa. Qui ha sede, del resto, l’ambivalenza formale, che avevamo trovato già in Shakespeare, fra la visione poetica (e tragica) dell’autore e la psicologia del personaggio che lo pronuncia, in questo caso Mencía, al punto che, senza di esso, non sarebbe possibile cogliere la sorpresa nelle battute successive: Mencía ¿Qué es esto? Enrique Un atraviamento a quien bien se discolpen tantos años de
Mencia Che cos’è questo? Enrico un ostacolo A cui si sono ben scusati tanti anni di
56 P. Calderón de La Barca, El médico de su honra, Cátedra, Madrid 2012, p. 122. 57 Tr. it. mia.
290 esperanza Mencía: ¿pues senor vos? […] En mi casa temer que así a una mujer distruye Y que así ofende un vasallo tan generoso e ilustre.58
La nascita del dramma moderno speranza Mencia: Ebbene, signore, lei? […] che in casa mia temere che così a una donna distrugge E questo offende un vassallo tanto così generoso e illustre.59
Attraverso una fiorita retorica barocca, che si sovrappone alla volontà del personaggio, si ritrova l’importanza dell’avvento dell’infante nella sua vita coniugale e, di conseguenza, anche il senso di rovesciamento della volontà nel momento in cui ne emergono le premesse Il rovesciamento consiste dunque non solo e non tanto nell’accadimento imprevisto; esso rappresenta prevalentemente lo sconvolgimento dell’esistenza di questo personaggio drammaturgico all’interno del sistema etico culturale in cui il drammaturgo la colloca. In definitiva, dunque, la metabolé, in quanto effetto scenico, viene prodotta come un’estremizzazione del senso di impotenza davanti alla crisi del sistema di valori che si è riscontrata anche negli altri vassalli ne La cisma. Un simile scioglimento vale anche per l’altro personaggio tragico del dramma, Don Gutierre. Sebbene El médico de su honra sia strutturalmente rappresentata da una serie di rovesciamenti concatenati che portano allo scioglimento beffardo per il protagonista, nonostante la pura casualità con cui questi rovesciamenti avvengono, il finale di per sé mostra il senso ironico quasi faceto con il quale termina la vicenda per l’hidalgo. Egli è esplicitamente distrutto per la morte di sua moglie, che è stato costretto, controvoglia, ad uccidere per ottemperare agli stringenti codici dell’onore dell’epoca. È inoltre 58 Ivi, p. 124. 59 Tr. it. mia.
La tragedia di Calderón e il pensiero dei Gesuiti291
punito dal Sovrano per tale omicidio, a fronte, per di più, dell’assoluta innocenza di doña Mencía, ben nota al pubblico che assiste alla serie di equivoci che convincono l’hidalgo dell’omicidio. Si rileva, dunque, la prosecuzione della concatenazione enunciativa iniziata con Shakespeare, che rappresenta il cammino della tragedia come adattamento prima e, infine, rifunzionalizzazione. Si osservi, a questo punto l’evoluzione del rovesciamento di Mencía dal punto in cui è annunciato l’arrivo dell’infante: Jacinta: ¡Ay señora! En casa ha entrado… Mencía: ¿Quién? Jacinta …un confuso tropel de gente. Mencía: ¿Mas que con él a nuestra quinta han llegado?
Giacinta: Oh signora! è entrato in casa… Mencia: Chi? Giacinta …una folla confusa di persone. Mencia: ma che con lui sono arrivati nella nostra casa?
(Salen don Arias y don Diego, (Escono don Arias e don Diego, y sacan al infante don Enrique, y siénta- e tirano fuori l’infante Don Enrique, e lo le en una silla) fanno sedere su una sedia) Diego En las casas de los nobles tiene tan divino imperio la sangre del rey, que ha dado en la vuestra atrevimiento para entrar de esta manera. Mencía (¿Qué es esto que miro? ¡Ay cielos!) El infante don Enrique, hermano del rey don Pedro, a vuestras puertas cayó y llega aquí medio muerto. Mencía ¡Válgame Dios, qué desdicha! Arias Decidnos a qué aposento podrá retirarse, en tanto que vuelva al primero aliento su vida. ¿Pero qué miro? ¡Señora¡ […]
Diego Nelle case dei nobili ha un tale impero divino sangue di re, che ha dato nel vostro coraggio per entrare in questo modo. Mencía (Cos’è ció che vedo? Oh cielo!) L’infante don Enrico, fratello del re Don Pedro, cadde alle tue porte e arriva qui mezzo morto. Mencía Buon Dio, che disgrazia! Arias Dicci in quale stanza può ritirarsi, intanto che torni al primo respiro la sua vita. Ma cosa vedo? Signora! […]
292 Creo que es sueño fingido cuanto estoy escuchando y viendo. Que el infante don Enrique, más amante que primero, vuelva a Sevilla, y te halle con tan infeliz encuentro, ¿puede ser verdad? Mencía Sí es; ¡y ojalá que fuera sueño!60
La nascita del dramma moderno Penso che sia un sogno falso quanto ascolto e vedo. Che l’infante Don Enrico, più focoso di prima, torni a Siviglia, ti trovi in tale infelice incontro, Può essere vero? Mencía Sì lo è Ah vorrei che fosse un sogno!61
All’inizio della dinamica del rovesciamento di Mencía, la moglie dell’hidalgo sviluppa una dinamica basata sull’oscillazione fra due valori. Sul piano culturale, stiamo entrando in un processo tragico legato ad un conflitto interno non solo alla psiche del personaggio, ma anche ai valori del drammaturgo. Questo ci è segnalato dall’importante spia lessicale e terminologica del dialogo appena precedente fra Mencía e Don Arias. Come accadeva già con Macbeth, le due polarità che portano Mencía all’esitazione e poi al rovesciamento sono le stesse, trasposte drammaturgicamente, che abbiamo visto rappresentate come ne La vida es sueño. Esse inoltre si contraddittoriamente nei primi esperimenti tragici de La cisma de Inglaterra o El príncipe constante: l’intemperanza dell’infante genera l’equivoco e il moderno hamartema di Mencía, che crede, illusoriamente, nel primato dei rapporti politico-culturali sulla mera passione: Mencía Ya se fueron, ya he quedado sola. ¡Oh quién pudiera, ah cielos, con licencia de su honor
60 Ivi, p. 122. 61 Tr. it. mia.
Mencía Sono andati via, sono rimasta sola. Oh chi potrebbe, oh cielo, mettendo da parte il proprio onore
La tragedia di Calderón e il pensiero dei Gesuiti293 hacer aquí sentimientos! ¡Oh quién pudiera dar voces, y romper con el silencio cárceles de nieve, donde está aprisionado el fuego, que ya, resuelto en cenizas, es ruina que está diciendo: “Aquí fue amor!” Mas ¿qué digo? ¿Qué es esto, cielos, qué es esto? Yo soy quien soy. Vuelva el aire los repetidos acentos que llevó; porque han perdidos,
cedere ai sentimenti! Oh chi potrebbe dare voce, e rompere con il silenzio le prigioni di neve, in cui è imprigionato il fuoco che già, risolto in cenere, è una rovina che dice: “Qui c’era l’amore!” Ma cosa dico? Cos’è questo, cielo, cos’è questo? Sono chi sono. Torni l’aria gli accenti ripetuti
no es bien que publiquen ellos lo que yo debo callar, porque ya, con más acuerdo, ni para sentir soy mía; y solamente me huelgo de tener hoy que sentir, por tener en mis deseos que vencer; pues no hay virtud sin experiencia.62
che ha portato; perché si sono persi, non è bene che pubblichino cosa devo tacere, perché ora, con più accordo, nemmeno per sentire sono mia e mi sento più libera di provare dei sentimenti, poiché devo tenere a bada una parte dei miei desideri; perché non c’è virtù che non sia messa alla prova.63
62 Ivi, p. 124. 63 Tr. it. mia.
CAPITOLO IV ANCORA SU RACINE E I GIANSENISTI
4.1 La visione tragica di Racine (come una totalità etica mancata) 4.2 Drammi intramondani o tragedie intramondane? 4.3 Phèdre 4.4 Le tragedie “del rifiuto”.
4.1 La visione tragica di Racine (come una totalità etica mancata)
Arrivati alla visione tragica di Racine, il nostro genere letterario ormai ha compiuto già molta strada: si è riarticolato strutturalmente a partire dalla visione tragica separativa dei suoi autori moderni e ha costituito, così, una nuova forma di rovesciamento basato sul rapporto tra la stilizzazione della volontà del carattere e l’ideologia del drammaturgo che la compie. Ha acuito, infine, nella crisi della sovranità del teatro calderoniano, ancor di più, la distanza formale tra epicità e lirismo che erano, come ormai sappiamo, gli elementi base della gestione formale dell’ambiguità del mito. Quindi, ha specializzato la nuova forma di rovesciamento, generatasi nel moderno, che rappresenta non solo la crisi di un carattere, ma anche la crisi dell’intero insieme dei valori del drammaturgo. È con questo percorso alle spalle che possiamo rivolgere lo sguardo all’ultimo degli autori della forma tragica qui studiata ‒ prima di giungere alla nascita del nuovo dramma – Jean Racine. Ed è a partire dal percorso ormai compiuto dalla tragedia che possiamo rivolgere uno sguardo differente, a più di settant’anni dalla pubblicazione de Le dieu ca-
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La nascita del dramma moderno
ché, alla visione tragica di questo autore. Sarà uno sguardo diverso perché sarà uno sguardo unificato, in cui i drammi raciniani sono osservati a partire da un assetto discorsivo che la tragedia ha dovuto acquisire nel momento in cui vi è stata la necessità di adattarsi al moderno. Nell’analisi dell’opera shakespeariana e dell’opera calderoniana, si è visto come, per definire la tragedia, è necessario sempre tenere presente un elemento formale che ne caratterizza uno degli aspetti più profondi, lungo l’evoluzione del genere: ovvero la natura al contempo individuale e collettiva di questa forma. Va ricordato infatti che, sia per definire le prime opere tragiche sofoclee analizzate all’inizio del nostro percorso, sia quando abbiamo constatato la crisi del rapporto fra aristocrazia e potere in Shakespeare che, infine, quando abbiamo visto acuirsi il divario fra la dimensione epica e la dimensione lirica nella crisi della sovranità calderoniana, la collettività e l’eroe sono sempre in qualche misura tenuti insieme, per quanto in modo sbilenco e contraddittorio. Anche in questa sede, rimane il dato che il poeta deve pensare la statura dell’eroe tragico in relazione alla collettività e, soprattutto, deve mediare il rapporto fra individuo e collettività attraverso il suo sguardo lirico. Dovremo allora inserire l’opera di Racine all’interno di una simile concatenazione enunciativa, così come abbiamo fatto finora con Shakespeare e Calderón. È necessario tenere a mente questo aspetto come una resistente caratteristica della forma tragica anche dopo che essa si è adattata e trasformata nel moderno; anche dopo che essa ha fatto, per così dire, “un bagno di realismo” a causa del progredire della condizione di crisi. Gli eroi di Racine – è del resto molto noto – sono infatti delle figure regali, esotiche, talora arcaiche o addirittura mitiche, che allegorizzano anch’esse il rapporto con il potere. Va però detto che, rispetto a quanto era accaduto nel caso di studio precedente, la pressione formale dello Stato sull’i-
Ancora su Racine e i Giansenisti297
deologia del drammaturgo si è acuita, così come lla problematicità di quest’ultimo nel percepire la realtà come una totalità organica, ovvero la rappresentazione della forma di vita in cui sono ambientati i drammi come un tutto organico sotto l’egida del potere. Inevitabile, a questo punto, rifarsi alla ricostruzione compiuta da Goldmann sui rapporti fra il Giansenismo di Port-Royale e Racine, che si concentra, notoriamente, sull’analisi di pochissimi anni, e i dati sociologici essenziali sulla base dei quali interpretare il senso della visione tragica del drammaturgo riguardano un ristretto novero di fatti politici e culturali: Un ensemble de faits politiques, sociaux et idéologiques qui ont profondément influencé la vie matérielle et intellectuelle (dans le sens le plus vaste du mot) de la societé française entre 1637 et 1677, dates qui séparent la retraite du premier solitaire Antoine Le Maitre (et l’arrestation de SaintCyran en 1638) de la première représentation de Phèdre, dernière tragédie de Racine.1
L’Abbé Jean du Vergière de Hauranne, detto SaintCyran, compagno di fede, intimo amico di Cornelius Jansen e precursore spirituale, in molti sensi2, del Gianseni1
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Le dieu caché, Gallimard, Paris 1977, fa coincidere notoriamente con la messa in scena della Phèdre la ricezione del pensiero di Pascal; dovremo rinunciare a questo racconto biografico, come si vedrà a breve, per ottenere la genealogia della forma tragica. Dal resoconto presente ne Le dieu caché vari studi di interesse sono stati prodotti sulla figura di questo teologo. Ne segnalo alcune cui implicitamente farò riferimento. Ottima l’opera a lui dedicata sulla base delle fonti storiche nell da Bernard de Chédauzeau, a cominciare alla voce a lui dedicata nel Dictionnaire de Spiriutalité edito da Beauchesne, la cui edizione prima risale al 1964, otto anni dopo Le dieu caché. Il riferimento completo è il seguente: B. Chadeazeau, Saint-Cyran, Jean Duvergiere de Hauronne, prétre, 1581- 1643, Editions Beauchesne,
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La nascita del dramma moderno
smo era infatti una voce di estrema influenza in quella fazione politica ‒ spesso di ispirazione religiosa – che in parlamento, in modo sempre più esposto, si opponeva alla politica del cardinale Richelieu. D’altronde, questa fu la ragione reale, mascherata dall’accusa di eresia, della detenzione di Saint-Cyran del ’38 di cui riferisce lo stesso Goldmann3. Da questo momento in poi, la setta giansenista fu perseguitata per motivi religiosi. E così, la fine della lunga detenzione dell’Abbé gli consentì appena il tempo, prima di morire, di assistere alla condanna del movimento da parte di Urbano VIII nel 1643. Ed è riprendendo le linee fondamentali della tesi de Le dieu caché che possiamo verificare come si instauri un nesso strutturale tra la crisi dell’aristocrazia – con il progredire della forma statale assolutista – e il sentimento tragico ispirato dalla fede giansenista. Il nesso strutturale individuato a suo tempo, è infatti ancora valido, e consiste, – ancora ed essenzialmente – nel legare il sentimento tragico dei giansenisti al senso di profonda emarginazione sociale che la setta religiosa dovette provare – legata com’era, da sempre alla nobiltà togata. Si determina così l’inasprirsi della sua teologia morale: Dans cette période, ils arrivent au développement d’une idéologie, d’une idée d’impossibilité radicale de réaliser une vie valable dans le monde, idéologie, ou plus exactement
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Paris 1991; e ancora oggi nella ricostruzione è risultato fondamentale J. Orcibal, La spiritualità de Saint-Cyran, avec ses écrits de piété inedits, Librairie philosophique J. Vrin, Paris 1962. Aggiornatissima di fonti documentali la monografia recente, Irenée carré, Les pedagogies de Port-royale, Saint-Cyran de Saci, Lancelot, Guyot, Counsel, Le maitre, Nicole, Arnauld, etc. Jacqueline Pascal, histoire des petites Écoles. Extraits et analyses avec des notes. Ulan Press, Neully-sur-Seine 2012. L. Goldmann, Le dieu caché, cit., p. 288.
Ancora su Racine e i Giansenisti299
vision totale – idéologie, affectivité et comportement – que nous avons qualifiée tragique.4
Il sentimento tragico o, come l’abbiamo definito, la “visione” tragica (Weltanschaaung) dei Giansenisti, consisterebbe dunque nell’ipotesi fondamentale dell’indegnità morale del mondo. Questo contemptus mundi, coerentemente con le nostre premesse di indagine, ha un’origine sociale ben definita, che possiamo agevolmente rintracciare nella terza fase di quella che nello studio sinottico, ormai classico, di Perry Anderson viene definita “la grande e silenziosa forza strutturale” dell’assolutismo5. In questa circostanza, però, a differenza dei due casi tracciati in precedenza ci troviamo in presenza di un punto estremo di tale processo: Quant au jansénisme, sa naissance autour des années 16371638 se situe pendant la poussée décisive de l’absolutisme monarchique, puisqu’elle aboutit à la création de l’appareil bureaucratique propre, indispensable à tout gouvernement absolu et qu’elle sera suivie après le ralentissement bref et peutêtre plus apparent que réel de la Fronde, par l’apogée de la monarchie absolue dans la seconde moitié du XVII sieclé.6 4
5 6
“In questo periodo essi giungono a sviluppare un’ideologia di impossibilità radicale di realizzare una vita che abbia un qualche valore nel mondo. Ideologia o, più precisamente, affettività, comportamento che noi abbiamo qualificato come tragico”. L.Goldmann, Le dieu caché, cit. 1977, pp. 170-171 P. Anderson, Lo stato assoluto. Origini e sviluppo delle monarchie assolute europee, traduzione di R. Pasta, Collana La Cultura n.842, Il Saggiatore, Milano 2014, pp. 83-87. Riguardo al Giansenismo, la sua nascita attorno agli anni 163738 si situa fra la spinta decisiva dell’assolutismo, che consistette nella creazione dell’apparato burocratico necessario al controllo del potere assoluto, che era seguito al suo rallentamento breve e più che apparente che reale della Fronda, ed precedette l’era dello strapotere assoluto del XVII secolo. L. Goldmann, Le dieu caché, cit., p. 116.
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Il Giansenismo nasce, in base a questa tesi, come estremo rifugio filosofico-teologico della nobiltà all’interno di uno Stato già ampiamente secolarizzato e centralizzato, o comunque in via di definitiva secolarizzazione, che, al contrario della situazione che abbiamo visto essere nella Spagna di Felipe IV e ancor più nell’Inghilterra dei Tudor e degli Stuart, era stato già ampiamente rinnovato al prezzo di aspri conflitti. Il riferimento è, ovviamente, alla lega Protestante e alla Fronda del 16487. Si tratta dunque di un movimento dalla struttura ideologica molto chiusa e rigida, che si sviluppa fra gli intellettuali conservatori di cui è informata – anzi, totalmente impregnata – la visione tragica di Racine: non usarono più il teologia per non più per giustificare la necessità della monarchia feudale e per difenderla da princìpi teorico-politici nuovi e minacciosi quali la ragion di stato. In questo contesto, la trasformazione inevitabile, temuta da Juan de Mariana e da Quevedo, dello stato moderno è già avvenuta8. Gli eventi che hanno visto spazzare via una idea culturale estremamente radicata nelle coscienze, come la concezione feudale dello stato, si erano già in gran parte realizzati. Ecco perché i principali intellettuali di riferimento di Racine, più che occuparsi di come ripristinare una concezione della sovranità essenzialmente ormai sorpassata, si dividevano ideologicamente su come corrispondere all’esigenza di creare una relazione etica con un mondo che ormai non condividevano più. In questa fase dell’evoluzione della tragedia, non troviamo alcun segno della teoria dei due corpi del re che era servita, in larga misura, negli altri due contesti che abbia7 8
Cfr. P. Anderson, Lo Stato assoluto, cit. pp. 83-87. Ivi, p. 85; Specificamente, sulle rapide trasformazioni statali nel contesto francese, e sulla politica di Louis XIV si può confrontare l’ottima monografia di E. L. Ladurie, L’ancien régime: le triomphe de l’absolutisme, de Louis XIII à Louis XIV, Pluriel, Paris 2000.
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mo analizzato, a giustificare ed interpretare, con gradi diversi di resistenza, il comportamento ambiguo del monarca con i suoi sottoposti. In questo caso, la pressione politica si fa più stringente, e per questa ragione il nesso fra la crisi dell’aristocrazia post-feudale la crisi formale del genere, in un certo senso, è più evidente. Prima di verificare, ancora una volta, questa tesi all’interno dell’opera di Racine per poter, così, efficacemente adempiere al nostro intento comparativo, rileviamo che, esattamente come nel caso dei tratadistas spagnoli, la compagine dei teologi e degli intellettuali giansenisti si scinde simmetricamente proprio a causa di questa condizione sociale e culturale paradossale, in tre posizioni, così come in tre posizioni si scindeva l’ideologia conservatrice che permeava l’arte drammatica di Calderón. Anche in questo caso, si tratta di una posizione più progressista, di apertura a borghesia e assolutismo, capeggiata da Arnauld e Nicole (sarebbe il cosiddetto “centrismo” arnaldiano), una più conservatrice, che fa capo a Martin de Barcos (l’“estremismo” barcosiano) e al centro, fra queste due posizioni, c’è quella che accomuna Pascal e Racine, i quali nel tentativo di conciliare i due poli, vivranno più intimamente e fortemente il paradosso esistenziale della crisi degli aristocratici. Lavorando in analogia con Calderón risulta chiaro più che mai, che questa scissione ideologica riflette una asimmetria formale del genere in ambito moderno, molto più di quanto non rifletta il modo tragico giansenista. Nel caso dei Giansenisti, le posizioni rispetto al nuovo contesto sociale rispecchiano l’itinerario politico e intellettuale di Saint-Cyran, che all’inizio della sua carriera filosofica e politica è vicino a Le grand Arnauld nel progetto di convertire il mondo ad una morale cristiana più sincera e contrita ma che, dopo la reazione di Richelieu, sotto l’influenza di Martin de Barcos, si decide a praticare
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il ritiro dal mondo e il rifiuto della cultura mondana. Va ricordato poi che la posizione di Pascal e di Racine è, infine, fra l’altro, quella in cui si potrebbero inserire la maggior parte dei giansenisti: giansenisti che, socialmente, culturalmente ed economicamente sono più vicini alla borghesia che non alla nobiltà togata, e quindi proprio per questo esposti alle contraddizioni sociologiche di cui abbiamo parlato: J’en dis de même des soupçons qu’on a voulu donner de moi à celui à qui vous nous avez soumis, et pour qui vous nous commandez d’avoir une fidélité inviolable, comme d’un homme d’intrigues et de cabale. Car vous connaissez, o mon Dieu, qui sonde le fond des coeurs, quelle est la disposition du mien envers ce grand Prince, quels sont les voeux que je fais tous les jours pour sa Personne sacrée, quelle est ma passion pour son service, et combien je suis éloigné, quand je le pourrois, d’exciter les moindres brouilleries dans son Etat; rien ne me paroissent plus contraire au devoir d’un vrai chretien, et encore plus d’une personne qui vous étant consacrée, de ne doit se mêler des affaires de votre Royaume.9
Si tratta, di scommettere ciecamente sul fatto che Dio, distante dal mondo, guidi per mano i giusti nel riformare la Chiesa e lo Stato, ecco perché la via teorizzata da Pascal, in una certa misura, è in grado di conciliare il tragismo di Barcos e l’idea politica di apertura di Arnauld. Se questa esplorazione sui rapporti ideologici fra Pascal e i massimi teorici del Giansenismo, che segue le linee guida del monumentale studio di Goldmann, può risultare sufficiente, quantomeno per comprendere il profondo conflitto fra ideologia e condizione sociale, non ci resta che dedica9
A. Arnauld, Testement spirituel de Messir A. Arnauld, Prete, Docteur en Théologie de la Faculté de Paris, et de la Maison de Paris, cit. in C. Senofonte, Ragione e moderna e teologia, l’uomo in Arnauld, Guida, Napoli 1989, p. 357
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re alcuni cenni al rapporto ideologico profondo che lega Pascal e Racine, con alcuni frammenti dei Pansées: La conduite de Dieu, qui dispose toutes choses avec douceur, est de mettre la religion dans l’esprit par les raisons et dans le coeur par la grâce, mais de la vouloir mettre dans l’esprit et dans le coeur par la force et parles menaces, ce n’est pas y mettre la religion mais la terreur. Terrorem potius quam religionem. Si on soumet tout à la raison notre religion n’aura rien de mystérieux et de surnaturel. Si on choque les principes de la raison notre religion sera absurde et ridicule. Saint Augustin. La raison ne se soumettrait jamais si elle ne jugeait qu’il y a des occasions où elle sedoit soumettre. Il est donc juste qu’elle se soumette quand elle juge qu’elle se doit soumettre.10
Pascal, qui, cerca di estrarre dei principi etici generali dalla sua concezione mistica della ragione e del rapporto con Dio. La ragione è un dono di Dio ed è un segno della grazia, ne consegue che l’uomo in quanto tale ha in sé il seme della giustizia e della redenzione, nel momento in cui, agostinianamente, è dotato di ragione. Il rapporto mistico paradossale che c’è tra fede e ragione in Pascal intride di fatto la giustizia poetica dei drammi di Racine11: l’uomo, in quanto essere legato al mondo, rischia costantemente di peccare. Quindi, conciliando con questa visione il sentimento di necessaria contrizione, cioè di rapporto autentico tra il peccato e il pentimento, Pascal vede nell’uomo un fondo essenziale di bontà che lo porta a pentirsi nel momento in cui da giusto che è, comprende il suo errore. Nell’interpretazione, molto conosciuta, che viene data nell’importante testo di Glodmann, sarà infatti l’ammissione fondamen10 B. Pascal, Pensées, opuscules et lettres, a cura di Philippe Sellier, edizione critica, Éditions Classiques Garnier, Paris 2011, p. 192. 11 L. Goldmann, Le dieu caché, 1969, p. 322.
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tale della sua colpa – la colpa d’amore illegittima – a scatenare l’agnizione finale, e a dar luogo alla mesta catastrofe che chiude il dramma. Racine infatti – e avremo modo di argomentarlo fra poco – di fatto modellerà Phèdre sull’immagine, profondamente giansenista, del giusto peccatore: il giusto peccatore è colui che è già salvo, possiede già la grazia e dunque in quanto tale è innatamente vicino a Dio. Phèdre, come tutti i grandi protagonisti di Racine è tracciata con grande complessità: la sua anima è animata da sentimenti nobili, alti, che si ispirano alla grandeur teorizzata dai teologi coevi12, e tuttavia è peccatrice. Tale paradosso ci svela con nettezza quanto il massimo fra tutti i caratteri di Racine incarni di fatto le contraddizioni morali sentite da Pascal, da Racine e probabilmente da molti giansenisti costretti a vivere nel mondo e a operare in un contesto culturale di cui non condividono le regole etiche; ella pecca, sebbene i suoi motivi siano nobili, e grazie alla sua medesima nobiltà –la sua grandeur, sentimento di fierezza castale tipico della nobiltà togata13 – comprende di essere in errore. Lungi dall’essere una chiave di accesso, come vorrebbe Goldmann, del sentimento tragico dei giansenisti, tale nesso fra grandeur del personaggio e senso dell’errore è una versione moderna del concetto di hamartia. Come abbiamo visto infatti, nella forma tragica moderna si produce il rovesciamento non solo del personaggio, ma dell’insieme dei suoi valori etici. Bisogna precisare inoltre che, per il nostro intento genealogico, un approccio biografistico come quello praticato da Goldmann è inservibile. 12 Non è di questa opinione Seillier, che nel 1979 argomenta la problematicità del nesso tra giansenismo e poetica raciniana. P. Sellier Le Jansenisme des piéces de Racine: réalité ou illusion? Congres de l’association, Cahiers de l’Aef, 79, 1978. 13 L. Goldmann, Le dieu caché, cit., p. 290.
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Al contrario di quanto era accaduto con Calderón, la successione lineare dell’evoluzione delle tragedie di Racine lungo la sua vita non ci permette di espletare il nostro fine basilare, ovvero quello di ricostruire l’evoluzione formale della tragedia intesa in quanto genere letterario, ovvero come un atto discorsivo nel senso di Jean Marie Schaeffer. Se seguiamo l’evoluzione cronologica delle tragedie di Racine, inevitabilmente, l’evolversi di questa catena enunciativa si interrompe: una simile evoluzione lineare prevederebbe le cosiddette “tragedie del rifiuto del mondo” caratterizzate, come vedremo, dall’assenza del gioco di verità del rovesciamento (metabolé), seguirebbero i cosiddetti “drammi intramondani”, in cui Racine riacquisterebbe gradualmente la fiducia nel mondo attraverso il compromesso di posizioni razionaliste e irrazionaliste, e infine la Phèdre che sarebbe il definitivo “sì” pascaliano a una visione trascendente del mondo. Immaginando la successione cronologica delle opere di Racine e la narrazione genealogica della tragedia come genere letterario come due assi ortogonali, dobbiamo prendere atto che il movimento con cui la tragedia evolve non coincide con quello del pensiero biografico di Racine. Le innovazioni formali che avvicinano la tragedia al dramma moderno, nostro vero ed ultimo obiettivo finale, non si situano su un immaginario asse “orizzontale” biografico quale quello tracciato da Le dieu caché, ma piuttosto sull’asse “verticale” e genealogico della storia della tragedia. Per coglierlo sarà dunque utile trasgredire l’ordine cronologico di composizione delle pièces, per crearne uno, certamente finzionale, che aderisca quanto più possibile al nostro asse verticale. Per capire, quindi, in cosa consista l’essenza basilare di questo asse verticale bisogna rievocare i principi evolutivi della tragedia enunciati in apertura e verificati in tutto il percorso finora svolto.
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Se è vero che non c’è traccia dell’antica ambiguità del mito nella tragedia che stiamo per analizzare, è altrettanto vero che l’aspetto in grado di legare il segmento raciniano di questo genere letterario all’insieme della sua evoluzione discorsiva è la concezione di base della realtà politica come una totalità organica. Lo abbiamo visto sin da Shakespeare: quando si adatta al cosmo separativo, la realtà vista dal drammaturgo è concepita come un tutto organico, che si muove attorno all’eroe. Da quel punto in poi viene meno, se si vuole, il senso di sfiducia nei confronti del mito che caratterizzava la tragedia antica, acquisire poi spessore ideologico e culturale di colpo, nell’immagine fondativa del sovrano. La resa formale e plastica di questa nuova importanza della componente mitica della tragedia, nel momento in cui si adatta, è del resto plasticamente rappresentata da Lear e dal peso simbolico che questi ha nella trama tragica, per ovvie ragioni di Stiltrennung. D’altro canto, però, per come la stiamo descrivendo, da quell’esatto punto in poi, l’evoluzione della tragedia è un continuo e progressivo sconfessare le ideologie dei poeti e, di conseguenza, uno sconfessare anche questa idea di totalità organica che viene dalla componente epica del genere tragico, il quale, come ben sappiamo, può vivere il proprio equilibrio tra epica e lirica unicamente nel cosmo tragico greco. L’esperienza di Racine, in tal senso, non fa eccezione. Per quanto la sua esperienza biografica lo abbia portato ad uno stato di tarda esaltazione nei confronti del mondo come totalità organica e alla composizione di Phèdre, la storia della tragedia come genere ha una traiettoria ben diversa. Essa è la storia del crollo delle ideologie dei poeti, intese come rinegoziazione costante del mito fondativo epico di un’unità fra eroe e mondo, vero movimento profondo dell’evoluzione della tragedia.
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La stessa ideologia giansenista della nobiltà togata sarà del resto ampiamente ridimensionata, ben oltre Racine e divorata dalla macchina dello Stato assoluto. Se pensiamo dunque come base fondamentale dell’evoluzione della tragedia un principio tale per cui due lati opposti di una totalità organica erano in equilibrio nella crasi, propria della tragedia antica, fra epicità e lirismo e poi, man mano che si va avanti la rinegoziazione di questo sguardo lirico sulla totalità diviene sempre più difficile, dobbiamo convenire che è necessario modificare l’ordine delle pièces affinché, al di là dell’ottimismo pascaliano, la crisi di questa totalità emerga e, con essa, le innovazioni formali sul dramma. Nel passaggio dalla tragedia shakespeariana alla tragedia calderoniana il vero elemento evolutivo era infatti la riarticolazione del quadro comunicativo di questo genere letterario a partire dalla rimozione del problematico rapporto con il referente mitico della tragedia antica. Nel caso di studio raciniano, come vedremo, il quadro enunciativo rimane sostanzialmente immutato. Ciò che è, invece, cambia è il rapporto fra l’universo referenziale da un lato e la concettualizzazione e la rinegoziazione formale del mito che sostiene la tragedia dall’altro. Le posizioni del giovane Arnauld e di Pascal, infatti, svolgono all’interno della visione tragica raciniana un ruolo analogo a quello svolto dalle posizioni di Mariana e Saavedra Fajardo nella forma della tragedia siglodorista. Ovvero, quello di rinegoziare il mito che tiene insieme l’eroe e la totalità organica, che in questo caso, come ampiamente noto, nella tragédie classique rappresenta invece, nelle innumerevoli forme allegoriche e miticotragiche che essa assume in Racine e che analizzeremo a breve. La posizione di Barcos invece, inglobata all’interno della visione raciniana della crisi rappresenta l’idea che la tragedia è sempre in conflitto con questa visione ideologica, ha una postura sbilenca rispetto alla totalità che il poeta
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vuol fondare, e interferisce, nei codici culturali dell’autore, nella piena identificazione fra eroe e mondo. C’è dunque, alla base dell’evoluzione della tragedia un doppio movimento, da un lato l’enunciazione del mito che fonda la tragedia – che deve rimanere invariata affinché di tragedia si possa parlare e affinché la tragedia possa esistere –, dall’altro c’è un sempre più evidente anacronismo della visione che lega epicità e lirismo nelle condizioni storiche che il poeta vive. Una frizione, all’interno del mito che fonda la tragedia, più intensa e grave e che si riverbera su tutti e tre gli assi formali su cui si regge l’elaborazione della forma tragica da quando essa si è ri-articolata con Shakespeare. Se infatti la distanza fra l’immagine di Don Fernando e quella di Don Enrique era già tale ed evidente da esigere una forma di riequilibrio, qui la mitopoiesi del rapporto fra il re e i sudditi avverrà in delle condizioni ancor più contraddittorie, e genererà una frizione ancor più evidente fra il modello astratto del rapporto fra lo Stato e il re e la realtà delle cose; il riequilibrio formale cui la tragedia come totalità etica cerca di tendere diventerà più aspro e stritolante; infine, cosa più importante, i limiti della resistenza al potere propri di questa forma, rappresentati tradizionalmente dallo schema del rovesciamento, implicheranno, come vedremo, una problematicità maggiore, nella relazione fra i personaggi tragici e la totalità dei valori del drammaturgo. Di seguito dunque, sempre con il fine di ricostruire una concatenazione enunciativa, analizzerò le opere nel seguente modo: quelli che l’autore de Le dieu caché chiamava “drammi intramondani”, sia sul piano tematico che su quello formale, sono evidenti le contraddizioni cui incorre il poeta tragico nel voler ricostruire il mondo come una totalità di giusti; essi saranno fondamentali per fornire epicità, cioè contesto, al gesto lirico del poeta di ripensare l’universo tragico. Viceversa un’analisi sequenziale simmetricamente a
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quella compiuta per La vida es sueño ci porterà a concludere che Phèdre ha un ruolo analogo a quello svolto dal capolavoro calderoniano, nel segmento evolutivo della tragedia storicamente coperto dall’opera di Racine. Venendo, infine, alla forma del rovesciamento ricostruiremo il movimento formale che costituisce la lettura dell’Estetica “alla rovescia” della teoria dell’evoluzione della tragedia di Lukàcs e quali sono i dati formali che legano anche questa tragedia a quella basata sull’assenza di proairesis in ambito antico. Essa non racconta certamente il percorso di ritrovato ottimismo raciniano, ma ci permette di ricostruire la catena enunciativa della tragedia come atto discorsivo; preparandoci infine a comprendere come da essa emerga un oggetto formale che chiameremo “dramma moderno”14. 14 Anche in questo caso, per questioni di economia espositiva, si condenseranno i molti riferimenti critici alla base dell’approccio qui tenuto all’opera di Racine, autore che, fra quelli affrontati, è sicuramente, da chi scrive il meno dominato. Si tratta perlopiù di testi, molti dei quali conosciuti attraverso l’opera di Georges Forestier, che hanno informato in modo più o meno incisivo la presente lettura: A. Adam, Histoire de la littérature française au xviie siècle, 5 voll., Paris Domat, 1948-56, Tragédies grecques et tragédie classique française (15371677), Del Duca Paris, 1962; T. Alonge, thèse de l’université Paris-Sorbonne, Paris 2015; H., Baby, La Tragicomédie de Corneille à Quinault, Klincksieck, Paris 2001. C., Barbafieri, Atrée et Céladon. La galanterie dans le théâtre tragique de la France classique (1634-1702), Presses Universitaires de Rennes, Rennes 2006; B. Beugnot Les Muses classiques. Essai de bibliographie rhétorique et poétique, Klincksieck, Paris 1996; C. Biet, Œdipe en monarchie. Tragédie et théorie juridique à l’âge classique, Klincksieck, Paris 1994; Id. L’avenir des illusions, ou le théâtre et l’illusion perdue, in “Littératures classiques”, 44, 2002, p. 175-214; G. Brereton, Principles of tragedy. A rational examination of the tragic concept in life and literature, Routledge, London 1968; R. Bray, La Formation de la doctrine classique en France, Paris Nizet, 1966; J. Campbell, The tragedy of Britannicus, French Studies, XXXVII, 4, 1983, p. 391-
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4.2 Drammi intramondani o tragedie intramondane?
Nell’introdurre l’analisi delle opere letterarie raciniane, vorrei riportare alcune preziose riflessioni teoriche di Georges Forestier nel suo lavoro Regles classiques, passions tragiques: On traite aujourd’hui avec quelque condescendance l’approche de la tragédie racinienne qu’avait proposée au milieu du xxe siècle Lucien Goldmann dans son Dieu caché: il était conduit à distinguer, à l’intérieur même de l’œuvre de Racine, entre vraies tragédies et drames intramondains parce que sa théorie structuralo-marxiste d’une “vision tragique” janséniste ne marchait que pour les unes et pas pour les autres. Mais Goldmann n’était que le représentant de la pointe extrême de l’appréhension philosophique du tragique de la tragédie, qui nourrit depuis deux siècles l’approche “normale” du genre tragique. Après tout, sa position n’était pas tellement plus aberrante que la doxa qui s’est imposée depuis un siècle et demi et qui consiste à dire que Racine est plus tragique que Corneille. Car Goldmann avait raison de son point de vue, et il est bien vrai finalement que si l’on applique la notion moderne de tragique à l’ensemble du théâtre racinien, il est impossible d’envisager de la même manière Mithridate et Phèdre; et si on le fait au théâtre cornélien, on sera peut-être conduit à sauver le seul Suréna […].15
Questa riflessione fatta en passant in un saggio in cui Forestier riflette sul senso della storicità che Racine aveva della tragedia – legata infine ancora al paradosso e alle passio-
403; Id., Questioning Racinian Tragedy, University of North Carolina press, Chapel hill 2000; C. Fabien, Alexandre Hardy et le rêve perdu de la renaissance. Spectacles violents, émotions, concorde civile au début du xviie siècle. 15 G. Forestier: Passions tragiques, règles classiques, Dunod, Paris 2016, p. 275.
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ni suscitate da tale sentimento16 – ci è molto utile per riflettere sui fini del nostro lavoro. Condividiamo, senza dubbio, l’opinione di Forestier nel ritenere troppo ingenua e decisamente anacronistica la classificazione goldmanniana dei testi raciniani come tragedie e non-tragedie sulla base della sola visione tragica; parimenti, si condivide l’impossibilità di fondare la definizione del genere tragico sulla base di criteri filosoficamente rigidi, che inevitabilmente si bloccherebbero in capziose disquisizioni di carattere culturalista. Se è del tutto palese che il sentimento tragico provato dagli spettatori dell’Attica non ha molto a che fare con quello provato dai moderni sul piano dei codici culturali con cui viene declinato, e soprattutto sul piano dei fini con cui viene elaborato lo spettacolo, è errato pensare di poter legare in modo troppo diretto il destino del modo al genere. Nella genealogia che stiamo approntando infatti la storia del modo tragico è indipendente da quella del genere, e ha a che fare con la sua definizione discorsiva, almeno tanto quanto il modo romanzesco non abbia a che fare con la storia del romanzo piuttosto che con un vago senso dell’avventura e dell’esotico. Il punto è, viceversa, che la problematicità della classificazione dei “drammi intramondani” Bajazet, Mithridate e Iphigenie nasceva dal fatto la prospettiva di Goldmann era, in sé, estremamente coerente, ma inadatta per via della sua inevitabile limitatezza di indagine: queste opere non sarebbero “tragedie” perché non rappresenterebbero lo scontro di valori culturali tra giansenismo e potere che contraddistinguono la definizione di tragedia fornita in quel testo. Non c’è dubbio infatti che la volontà di rimarcare la coerenza 16 A proposito di tragico e tragedia, Forestier fra l’altro ci conforta quando scrive: “La tragédie racinienne ne recherche pas le tragique au sens que nous l’entendons aujourd’hui, mais le tragique au sense de l’exacerbation de l’émotions, c’est à dire, à proprement parler, le pathétique.” Ivi, p. 282.
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della ricostruzione porta l’autore a trascurare il “sentimento” tragico, che rimane comunque ben presente, che causa l’effetto di queste tragedie rispetto a Athalie dello stesso Racine, o Surena di Corneille. Se tuttavia ampliamo lo sguardo è del tutto evidente che la ricostruzione che stiamo approntando non ci costringe affatto a privare Bajazet, Mithridate, e Iphigenie della definizione di tragedie e e, anzi, ci consente di collocarle in un certo punto del processo di adattamento del genere tragico moderno. Per capire la fallacia nel metodo “structural-marxiste” – come lo definisce Forestier – e del discorso di Goldmann, è parimenti necessario comprendere che le tragedie “del rifiuto”, che – in base a quella classificazione – vanno da Andromaque a Tithe e Berenice sono già il frutto di una evoluzione ed adattamento della tragedia nella modernità, adattamento formale che abbiamo descritto finora e che segue le linee della crisi dell’aristocrazia. Come accade a El médico de su honra tutte le tragedie “del rifiuto” sono frutto dell’adattamento della forma del rovesciamento moderno. Nel senso che i personaggi incarnano tutti i valori del drammaturgo che si scontrano con un sistema di potere i cui codici sono incarnati nella caratterizzazione dei personaggi. Si dirà, a questo punto, che l’autore de Le dieu caché a suo tempo non le classifica come tragedie del rovesciamento, ma, anzi, “del rifiuto” del mondo, chiarendo che il rovesciamento manca del tutto17. Un rifiuto che porta gli eroi raciniani a scontrarsi con la realtà circostante non riuscendo mai in alcun modo a negoziare i propri valori con essa. Il problema, tuttavia, è che queste tragedie evitano il rovesciamento perché l’espressione della loro volontà, come ci informa lo stesso Racine, è simile a quella dei caratteri antichi: essi sono “ni tout à fait bons ni tout à fait mechant”18 perché il senso del17 L. Goldmann, Le dieu caché, cit., p. 322. 18 J. Racine, Andromaque, in Oeuvres completes, Bnf Ebook collection, Paris, p. 127.
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la loro esitazione deriva – ancora una volta – da un atto di decisione. Sebbene il rovesciamento in queste tragedie non si realizzi, esse sono comunque dell’adattamento formale del gioco linguistico aristotelico. La loro scelta, fra valori trascendenti e realtà mondana, è una versione adattata dell’hamartema antico, come in tutti i casi di rovesciamento precedentemente studiati. È dunque lo statuto allegorico – nel senso tutto specifico che assume il termine, notoriamente, tanto nella tragedia come nel Romance di Antico Regime – che impedisce ai personaggi tragici di Racine di aderire ai valori del mondo, essendo più vicini alle posizioni di Barcos, all’interno della triade tramite la quale il drammaturgo è portato a rinegoziare la propria visione della realtà come una totalità organica.Una realtà in cui l’eroe è tutt’uno con il mondo che esprime, nel senso che è vincolato a un ruolo, e la posizione che assume in questa realtà lo vincola e ne definisce l’azione. In questo senso, il momento di rovesciamento di Phèdre ‒ essendo anche l’unico presente nelle tragedie raciniane ‒ definisce anche i limiti della resistenza che il poeta è in grado di imprimere nei personaggi che rifiutano il mondo, esattamente come il rovesciamento di Mencía e di Gutierre esprimeva i limiti di resistenza al potere monarchico nella fase precedente dell’evoluzione di questa serie di atti discorsivi. È noto che, in base a questa interpretazione, se il rovesciamento di Phèdre sancisce i limiti di resistenza al potere monarchico, l’anagnorisis in quest’opera, per converso, rappresenta “la scommessa” pascaliana di voler vivere nel mondo e di voler credere in un universo dei giusti. Quel di cui difetta, fondamentalmente, l’interpretazione di Goldmann, risiede ancora una volta nel paradosso ermeneutico per cui la nozione di genere non viene pensata in re, cioè non vincolandolo alla storia dei testi, ma ad un astratto scontro fra i valori del drammaturgo e la realtà, non comprendendo che tale scontro è frutto di un intimo stato di contraddizione che la tragedia moderna e del suo discendere dall’epica, che il drammaturgo deve rinegoziare costantemente.
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La teoria di Goldmann non colse che la visione tragica e lirica del drammaturgo si pone essa stessa in un continuum enunciativo fatto di contraddizioni formali, che non possiamo evitare di prendere in considerazione per la definizione del genere in re. In quest’ottica, “i drammi intramondani” fanno parte a pieno titolo del processo di evoluzione della tragedia, nella misura in cui essi servono al poeta a rinegoziare il rapporto di centralità dell’eroe nei confronti del mondo e sono la più cogente forma della contraddizione fra dimensione epica e dimensione lirica in cui si dibatte la tragedia moderna, in un double-bind che la spinge ad allontanarsi sempre di più dal suo legame con l’epica. È per questo che si è scelto di trattarli per primi, venendo meno all’ordine cronologico delle opere di Racine scelto da Goldmann. Perché i “drammi intramondani”, come si vedrà, specularmente a quanto accade ne La cisma e ne El Príncipe Constante, ci permettono di mostrare genealogicamente come è aumentato il divario fra la visione ideologica del mondo, intesa come una totalità organica di rapporti interpersonali definiti su base ideologica, e la realtà sociale. Sempre in analogia con quanto abbiamo visto in Calderón, al centro di questa catena enunciativa c’è Phèdre che, in modo analogo a La vida es sueño, tenta di riequilibrare questo rapporto fra realtà e visione del mondo del drammaturgo. In questo nuovo ordine, non cronologico, ma genealogico, inevitabilmente le tragedie del rifiuto sono poste alla fine della catena enunciativa di questo atto discorsivo: quanto più il personaggio tragico rifiuta la fatalità del proprio destino, tanto più è evidente che la forma tragica, in questo stadio della propria evoluzione, ha opacizzato la dimensione allegorica che muove la volontà dei caratteri moderni e tende verso il proprio sviluppo formale. Cominciamo:
Ancora su Racine e i Giansenisti315 Acomat Viens, suis moi. La sultane en ce lieu se Osmin doit rendre… Et, depuis quand, Seigneur, entr-t-on dans ces lieux, Dont l’accès était même interdit à nos yeux? Jadis une morte prompte eut suivi cette audace.19
Acomat Vieni seguimi. La sultana in questo posto Osmin deve tornare… E da quanto tempo, oh Signore, entriamo in questi luoghi, il cui accesso è stato persino proibito l’accesso ai nostri occhi? Un tempo una morte immediata sarebbe seguita a questa audacia.20
All’inizio di Bajazet, Roxane e Acomat complottano per preparare un colpo di Stato ed erigere Bajazet al trono sbarazzandosi del tirannico sovrano Amurat. Ma in questo complotto si vede subito che tutti i personaggi, Bajazet compreso, non sono mai eticamente puri come i personaggi allegoria dei giansenisti delle tragedie di Racine basate sul rovesciamento, sono, invece, come dice Lucien Goldmann “mi-vertueux et mi-coupables”21. Ad esempio, il personaggio di Roxane prende parte alla rivolta, ma non si capisce mai veramente bene se lo fa perché vuole portare al potere Bajazet, il suo amato, o vuole disinteressatamente il bene sul regno. Nella terza scena del primo atto, tuttavia, abbandona Bajazet, mostrando di essere mossa da principi etici, e non da innamoramento cieco: Roxane Quand je fais tout pour lui, s’il ne fait tout pour moi, Dès le meme moment, sans songer si je l’aime, Sans consulter enfin si je me perds moimême.
Roxane Dato che faccio tutto per lui, se lui non fa tutto per me, Senza pensare se lo amo, senza finalmente consultarmi se sto perdendo me stessa, sbbandono l’ingrato e lo lascio ripiombare nello stato miserabile in cui
19 J. Racine, Bajazet, Bnf partenariats, Paris 2018, posizione 12-17. 20 Tr. it. mia. 21 L. Goldmann, Le dieu caché, cit. p. 217.
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J’abandonne l’ingrat et le rentrer entrer l’avevo trascinato. Dans l’état malheureux où je l’ai eu tiré.22
I principi di Stiltrennung sembrano stranamente scomparsi. Dall’altro lato, Amurat, assieme al Gran Vizir Acomat, che in questa pièce raciniana dovrebbero essere gli usurpatori, hanno tutt’altro tono nella versificazione alludendo, in tal senso, a un sistema di valori che, nell’assiologia formale del drammaturgo, potrebbe essere assimilabile all’auspicabile unità dello Stato. Ancora Bajazet, che dovrebbe essere l’eroe della tragedia, risulta se non una sorta di demi-caractère, un personaggio che solo problematicamente può assurgere allo status di eroe tragico, come si evince quando dichiara con candore che dalla sua amata dipende il suo impero: Bajazet Oui, je tiens tout de vous; et j’avais lieu de croire Que c’était pour vous-même une assez grande gloire, En voyant devant moi tout l’empire à genoux, De m’entendre avouer que je tiens tout de vous. Je ne m’en défends point, ma bouche le confesse Et mon respect saura le confirmer sans cesse.23
Bajazet Sì, devo tutto a voi; e avevo ragione di credere Che fosse per voi una gloria piuttosto grande, vedere l’intero impero in ginocchio davanti a me, e sentirmi confessare che vi devo tutto. Non lo nego, la mia bocca lo confessa E il mio rispetto saprà confermarlo costantemente.24
Come si vede, stando a questa interpretazione, in queste pièces raciniane non c’è assiologia valoriale definita, nonostante temi ricorrenti all’interno dell’opera di Racine siano 22 Racine, Bajazet, cit., p. 27. 23 Ivi, p. 312. 24 Tr. it. mia
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l’amore per lo Stato e la gloria; non c’è qui alcun personaggio in grado di incarnarli totalmente. Ma perché abbiamo bisogno, nel nostro intento genealogico, di queste composizioni per storicizzare l’evoluzione della tragedia e inserire la tragedie classique raciniana nel percorso evolutivo che porta al dramma moderno? Per spiegarlo, ci si servirà di questo monologo del quinto atto, sempre tratto dal Bajazet, e che contiene degli indizi fondamentali: Atalide Vous, de qui j’ai troublé la gloire et le repos, Héros, qui deviez tous revivre en ce héros… Infortuné vizir, amis désespéré toi, mère malheureuse, et qui dès notre enfance Me confias son cœur dans une autre espérance; Infortuné vizir, amis désespérés, Roxane, venez tous, contre moi conjurés, Tourmenter à la fois une amante éperdue; Et prenez la vengeance enfin qui vous est due.25
Athalide Voi, di cui ho turbato la gloria e il riposo, Eroi, che dovevano vivere di nuovo in questo eroe… Sfortunato visir, amici disperati tu, madre infelice, e chi della nostra infanzia Mi ha confidato il suo cuore in un’altra speranza; Sfortunato visir, amici disperati, Roxane, venite tutti, hanno cospirato contro di me, Tormentare allo stesso tempo un amante sconvolto; E finalmente prendete la vendetta che vi è dovuta.26
Poiché, secondo l’interpretazione che troviamo ne Le dieu caché27, non c’è all’interno dell’opera uno scontro fra valori contrapposti, non possiamo ipotizzare fino in fondo che la morte di Bajazet sia un fatto negativo, che mette in crisi i fondamenti culturali del drammaturgo. Quello di Atalide è un monologo tragico indubitabilmente, nel senso che esprime un sentimento di contraddizione fra i valori del personaggio e gli eventi in corso.
25 Ivi p. 412. 26 Tr. it. mia. 27 L. Goldmann Le dieu caché, cit., p. 321.
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Qui, dunque, il punto è l’errore ermeneutico commesso da Goldmann e l’importanza, sul piano geneologico, dei drammi intramondani: proprio perché sono tragedie che contraddicono l’assiologia della tragedia raciniana, fanno parte di una concatenazione enunciativa che pone in crisi la visione tragica del drammaturgo. Confrontando questa circostanza con il caso Calderón, notiamo che lo spazio formale di compromesso fra valori in contraddizione era in quest’ultimo, più ampio perché partiva da una visione tragica che ancora aveva, come opzioni binarie da tenere insieme, il modello di sovrano buono neo-stoico e stilizzato in senso trascendente come Don Fernando e l’intemperanza del re Enrique Octavio, primo archetipo del principe-bestia. Quelli che definiamo “i drammi intramondani” ci mettono davanti ad una scelta binaria a cui deve andare incontro il senso tragico del poeta, che si riflette sull’esperienza dei personaggi in modo molto più stringente: da un lato calarsi nel mondo, dall’altro rinunciare. Le contraddizioni sentite dal poeta nel pensare la realtà tragica come una dimensione mitica, in cui ipostasi allegoriche si stringono attorno all’immagine del sovrano diventa ancora più difficile a realizzarsi. Se infatti questa dimensione della totalità in Calderón si produceva in uno iato formale che, da par suo, corrispondeva alla distanza che c’era fra l’ideale del sovrano e la sua realtà tirannica, qui, al contrario, come ha mostrato la nostra revisione critica della visione tragica raciniana, le cose sono ancor più gravi: rispetto al caso di studio spagnolo il divario ideologico qui corrisponde all’idea di uno Stato abitabile dalla noblità di toga ed uno Stato che decisamente si rifiuta di accoglierla e per questo deve essere rifiutato. Racine aveva infatti scritto tali pièces a metà della sua carriera per cercare di conciliare gli opposti formali che caratterizzano la propria visione ideologica di sé e dello Stato. Un simile iato si riverbera, fra l’altro, nella contraddizione fra Mithridate come personaggio storico ed eroe tragico allegorico della
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condizione umana, mi riferisco al momento in cui Goldmann argomenta una contraddizione interna alla psicologia del re del Ponto. Data la densità, lunghezza e centralità del passaggio si è scelto di renderlo in Italiano: Lo stesso Mithridate è come Pyrrhus o Nerone, tranne per il fatto che ha una missione storica – quella di combattere contro i romani – che finalmente gli conferisce un valore positivo sul piano umano. Come cittadino privato e pubblico insieme, amante e re allo stesso tempo, Mithridate sarebbe l’uomo completo se non per il fatto che la dualità tra l’uomo e il mondo, che è abolita nella commedia, non si ripresenta – e che quasi senza sintesi organica – all’interno del suo stesso carattere. Questa dualità non sta nel contrasto tra la sua lotta contro i romani e il suo amore geloso, autoritario e del tutto immorale per Monime, poiché entrambe queste due caratteristiche possono essere giustificate da considerazioni di psicologia realistica e dalle intenzioni di Racine nella commedia. Ciò che importa è che i due elementi sono abbastanza autonomi e non si influenzano in alcun modo a vicenda. Naturalmente, Mitridate non pensa mai di raggiungere un’intesa con i romani che gli consentirà di dedicare il suo tempo a Monime. Ma, al contrario, non accetta mai, tranne che alla fine dell’opera, l’amore tra Xiphares e Monime come un fattore che potrebbe aiutarlo nella sua lotta contro i romani.28
Questa doppiezza del sovrano fa dunque il paio con la doppiezza del monarca shakespeariano, che si esplicava nella contraddizione tra l’incontrollabilità della volontà e la necessità di usare la ragione, ed il medesimo conflitto, ritrovato nell’intemperanza del re di Inghilterra e nella santità dell’Infante di Portogallo in Calderón. Se da un lato è proprio questa doppiezza fra re reale e re ideale che salda all’interno della concatenazione enunciativa che costituisce l’evoluzione del genere già in questo rilievo di Goldmann, dall’altro lato, ci sono delle caratteristiche 28 L. Goldmann, Le dieu caché, cit., p. 319, tr. it. mia.
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evolutive da mettere in luce rispetto alle forme e agli esemplari del genere precedentemente analizzati, sintetizzabili in un maggiore realismo. Come abbiamo annunciato in apertura, il progresso formale che caratterizza la tragedia è un lento perdere la dimensione dell’epicità, per usare un termine szondiano; va notata qui ancora l’opposizione fra il re come figura allegorica, ovvero simbolo del rapporto fra il mondo degli eroi tragici (pur essendo qui il sovrano rappresentato come un personaggio mondano, ad esempio, Pirro e Nerone), e il sovrano con una dimensione umana e storica. Come noto Mithridate, nella sua trama essenziale, è un’anticipazione del triangolo incestuoso che caratterizzerà poi Phèdre, con la differenza che l’ambientazione non è nell’Atene greca ma nel Ponto, durante le campagne romane guidate da Pompeo. Una simile ambientazione permette di mettere a fuoco le contraddizioni, interne alla visione tragica di Racine nella rappresentazione del re che, se paragonate al corrispettivo di Teseo in Phèdre, sono più acuite proprio grazie a questa oscillazione di registro. 4.3 Phèdre
Veniamo dunque al testo tragico che emerge da queste contraddizioni culturali e cerca di sussumerle in sé stesso: si tratta di Phèdre, l’opera tragica strutturata sulla base della peripezia, di Jean Racine. Il primo punto dell’interpretazione di Goldmann è che c’è una grande differenza fra la préface di Phèdre e quella delle altre opere di Racine perché in quest’opera Racine cita esplicitamente la morale giansenista, guardandosi bene dal farlo nelle altre opere29. Ciò avverrebbe in quanto la forma della peripezia, all’interno del29 L. Goldmann, Le dieu caché, p. 321.
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la drammaturgia, interverrebbe esattamente per adempiere alla medesima funzione che aveva La vida es sueño: quella di creare una sintesi di strutture ideologiche che altrimenti sarebbero assolutamente contraddittorie. Al pari di quantoavviene con La vida es sueño infatti, in base a questa tesi, anche in Phèdre, la peripezia è strutturata, plasmata, per descrivere le conseguenze direttamente politiche della crisi. Ma se è così, in cosa consiste lo sviluppo della forma tragica? Man mano che, progressivamente, la “forza invisibile” dell’assolutismo schiaccia la cultura aristocratica, diventa sempre più difficile per la forma della peripezia conciliare i poli opposti della propria struttura; cosa che risulta essere il suo compito essenziale in ambito moderno, a causa della scomparsa del Coro. Alla luce della visione tragica di Racine non è difficile individuare questa contraddizione. Phèdre, infatti, la riassume nella misura in cui si innamora di Hyppolite perché vede in lui l’unica persona in grado di condividere la sua visione nobile de aristocratica della realtà, ma sente profondamente il peccato di amare il figlio del re. Rimane la tesi, secondo cui allegoricamente – secondo una allegoria che è più o meno inconscia – questa contraddizione amorosa simboleggia precisamente il sentimento contrastante sentito dai nobili in una fase così avanzata dello Stato assoluto. Il forte bisogno di identità culturale e di identità di classe si rispecchia nell’amore e nel sentimento di esclusivismo che Phèdre prova per Hyppolite. Le conseguenze etiche di un tale sentimento non solo causano il finale contraddittorio della peripezia, ma si esplicano anche nel rapporto conflittuale che la classe aristocratica aveva con il nuovo ordine deciso dal sovrano: di cui è palese allegoria la trama politica, che vede Phèdre come esclusa dalla città in quanto straniera, isolata un po’ come isolati si sentivano i membri della classe di allora. A questa interpretazione, che è ormai storica e fa parte del retaggio de Le dieu caché, possiamo aggiungere questa osservazione: quanto più
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la contraddizione fra ideali aristocratici e sovranità diventa stringente, tanto più la parte centrale di questa forma di peripezia si allunga, e ciò perché il drammaturgo è costretto a disporre la peripezia in modo tale da conciliare drammaturgia e ideologia, cultura e mimesi dell’azione in un modo più difficoltoso di quanto non avviene ne La vida es sueño, tragedia che svolge, all’interno dell’opera calderoniana, un ruolo simmetrico. Esattamente come accade ai caratteri de La vida es sueño, il personaggio di Phèdre ha un valore simbolico e una componente strutturale che si sovrappongono. L’opera inizia con una rapida presentazione delle cose, che dura meno di 300 versi. Già qui si può evincere la grande differenza fra il modo in cui Calderón distribuisce il suo materiale drammaturgico e il modo in cui lo fa Racine. La prima – brevissima – macrosequenza, principia con le celeberrime parole con cui Hyppolite si congeda da Térzène: Hyppolite Le dessein en est pris: je pars, cher Théramène, Et quitte le séjour de l’aimable Trézène. Dans le doute mortel dont je suis agité, Je commence à rougir de mon oisiveté. Depuis plus de six mois éloigné de mon père, J’ignore le destin d’une tête si chère; J’ignore jusqu’aux lieux qui peuvent le cacher.30
Ippolito Ormai ho deciso: parto, Teramene. Io devo abbandonare gli agi della dolce Trezene. Nel dubbio mortale che m’agita non posso sopportare più oltre la vergogna dell’ozio. Non vedo ormai mio padre da quasi sette mesi. Ignoro la sua sorte, non so nemmeno i luoghi che possano nascondermi la sua cara persona.31
Non avremo modo di tornare molto sul senso simbolico del personaggio di Hyppolite, che pure c’è: nella sua purezza estrema simboleggia una perfezione morale che lo eleva 30 J. Racine, Phèdre, In Oeuvres Complètes, Gallimard, Paris, 2007, p. 112. 31 J. Racine, Fedra, tr. it. Nazareno luigi Todarello, Latorre Editore, Novi Ligure, 2020, p. 19.
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alla dignità dell’amore per la regina. Notiamo piuttosto un’altra cosa: questo valore simbolico non è espresso in grandi monologhi i quali – pur presenti nell’opera – sono assolutamente distribuiti in modo uniforme in tutte e tre le macrosequenze della peripezia. Il valore simbolico del personaggio di Hyppolite è comunicato in modo infinitamente più verisimile rispetto ai tipi di Calderón, così come di Phèdre: l’unica spia di tale valore, in queste prime battute, deriva unicamente dal contesto e dalle implicite intenzioni del personaggio, ovvero la volontà di fuggire dalla città, non solo e non tanto per ritrovare il padre ma, come rivela il seguito della storia, per fuggire dal peccato. Tale innovazione drammaturgica – una più accurata mimesi dell’azione – avrà, nel personaggio della regina, deflagranti effetti sulla peripezia, come vedremo subito. Proseguiamo: Hippolyte Ami, qu’oses-tu dire? Toi qui connais mon cœur depuis que je respire, Des sentiments d’un cœur si fier, si dédaigneux, Peux-tu me demander le désaveu honteux? C’est peu qu’avec son lait une mère amazone M’a fait sucer encor cet orgueil qui t’étonne; Dans un âge plus mûr moi-même parvenu Je me suis applaudi quand je me suis connu. Quand même ma fierté pourrait s’être adoucie, Aurais-je pour vainqueur dû choisir Aricie? […] Théramène
Ippolito Che cosa dici, amico? Eppure mi conosci da quando io respiro. Da me non puoi aspettarti che rinneghi il disdegno di un cuore tanto fiero. Sono figlio d’amazzone. Con il latte ho succhiato questo orgoglio grandissimo che ancora ti stupisce. Quando, adulto, conobbi la mia natura fiera, di essa fui felice. E quand’anche il mio orgoglio si potesse addolcire, avrei dovuto scegliere per vincitrice Aricia? […] Teramene Ah, signore, se è giunta l’ora per voi prescritta, poco importa agli dei di ogni ragionamento. Teseo vi apre gli occhi col tentare di chiuderveli. Il suo rancore attizza una fiamma ribelle e aumenta così il fascino della vostra nemica. Perché infine temere un amore, se è onesto?
324 Ah, seigneur! Si votre heure est une fois marquée, Le ciel de nos raisons ne sait point s’informer. Thésée ouvre vos yeux, en voulant les fermer; Et sa haine irritant une flamme rebelle, Prête à son ennemi une grâce nouvelle. Enfin d’un chaste amour pourquoi vous effrayer? […] Hippolyte Théramène, je pars, et vais chercher mon père. Théramène Ne verrez-vous point Phèdre avant que de partir, Seigneur? Hippolyte Seigneur? C’est mon dessein: tu peux l’en avertir. Voyons-la, puisque ainsi mon devoir me l’ordonne. Mais quel nouveau malheur trouble sa chère Œnone?32
La nascita del dramma moderno E se ha qualche dolcezza, perché mai non gustarla? […] Ippolito Io parto, Teramene. Ritroverò mio padre. Teramene Non salutate Fedra prima della partenza? Ippolito Lo farò, Teramene. Vai pure ad avvertirla. La vedrò, se così ordina il mio dovere. Ma quale altra sventura sconvolge la sua Enone?33
In questi primi 140 versi, come prima accennato, è cogente la forma opposta attraverso la quale Racine presenta il materiale rispetto a Calderón: comprendiamo la reale ragione che spinge Hyppolite a fuggire, la paura del suo amore, ma Théramène è l’unico in grado di svelarcela, attraverso quasi un procedimento maieutico che egli compie sul principe. Nei monologhi principali de La vida es sueño anche laddove il senso è spesso alluso, inespresso, il ruolo simbolico e politico è sempre manifestato con mezzi poetici molto forti. In questa sede invece l’allusione è veicolata attraverso la psicologia del personaggio, il quale ammette solo tardivamente l’amore colpevole per Aricie, vietato dal padre perché la giovane è rampolla di un’altra stirpe. Si 32 J. Racine, Phèdre, cit., pp. 112-118. 33 J. Racine, Fedra, cit., p. 23.
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noti dunque com’è diverso l’impianto drammatico della presentazione: in questo dialogo capiamo si tutto ciò che c’è da capire sul personaggio, ma, non possiamo più scindere allegoria e dramma, ideologia e mimesi dell’azione, i due piani sono sovrapposti e inscindibili. È esattamente questo, come vedremo subito di seguito a rappresentare la ragione per cui è impossibile rintracciare alcun ordine aristotelico all’interno del dramma di Racine: a questo stadio della cultura assolutista è difficilissimo per il poeta tenere insieme, in un’azione compatta, una forma etica, poiché essa si scontra con la dura realtà sociale. Vediamo di seguito come Racine prova a farlo e, nonostante le difficoltà, più aspre, rispetto a Calderón, ancora vi riesce: Phèdre N’allons point plus avant. Demeurons, chère Œnone. Je ne me soutiens plus; ma force m’abandonne: Mes yeux sont éblouis du jour que je revoi, Et mes genoux tremblants se dérobent sous moi. (Elle s’assied.) Œenone Dieux tout-puissants, que nos pleurs vous apaisent! Phèdre Que ces vains ornements, que ces voiles me pèsent! Quelle importune main, en formant tous ces nœuds, A pris soin sur mon front d’assembler mes cheveux? Tout m’afflige, et me nuit, et conspire à me nuire. Œenone Comme on voit tous ses vœux l’un l’autre se détruire! Vous-même, condamnant vos injustes desseins, Tantôt à vous parer vous excitiez nos mains;
Fedra Non andiamo più avanti, cara Enone. Fermiamoci. Non mi reggo più in piedi. Le forze mi abbandonano. Mi si abbagliano gli occhi a vedere la luce. Le mie ginocchia tremano e vacillano, ahimè! (Si siede.) Enone O dei onnipotenti, vi plachi il nostro pianto! Fedra Questi ornamenti inutili, questi veli mi pesano! Quale mano importuna mi ha stretto in tanti nodi sulla fronte i capelli? Tutto mi dà fastidio! Tutto contro di me. Tutto cospira a nuocermi. Enone I vostri desideri si uccidono l’un l’altro! Proprio voi, condannando un ingiusto proposito, chiedeste alle mie mani di ornarvi. [...] Fedra Fulgido capostipite di una stirpe infelice, tu, del quale mia madre osava dirsi figlia, ora forse arrossisci vedendomi così. Questa è l’ultima volta, o Sole, che ti guardo. Enone
326 [...] Phèdre Noble et brillant auteur d’une triste famille, Toi dont ma mère osait se vanter d’être fille, Qui peut-être rougis du trouble où tu me vois, Soleil, je te viens voir pour la dernière fois! Oenone Quoi! vous ne perdrez point cette cruelle envie? Vous verrai-je toujours, renonçant à la vie, Faire de votre mort les funestes apprêts? Phèdre Dieux! que ne suis-je assise à l’ombre des forêts! Quand pourrai-je, au travers d’une noble poussière, Suivre de l’œil un char fuyant dans la carrière? […]
La nascita del dramma moderno Mai abbandonerete questo atroce proposito? Dovrò sempre vedervi rinunciare alla vita, prepararvi voi stessa le vostre tristi esequie? Fedra O dei, perché non siedo sotto alberi ombrosi? Quando potrò fissare, nella polvere d’oro sollevata dal carro, la corsa vorticosa, il suo nobile volo […]34
E, infine, la rivelazione: Phèdre J’aime… Œenone Qui? Tu connais ce fils de l’Amazone, Ce prince si longtemps par moi-même opprimé… Œenone Hippolyte? Grands dieux!35
Fedra Amo… Enone Chi? Fedra Tu conosci il figlio dell’Amazzone, il principe che a lungo fu da me angariato. Enone O dei! Ma forse… Ippolito297
Sono i primissimi dialoghi fra Phèdre e la sua confidente e si nota subito che il meccanismo è uguale al dialogo precedente: un personaggio che nega, tende all’introspezione e 34 J. Racine, Fedra, cit., p. 122. 35 J. Racine, Phèdre, cit., p. 122.
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così facendo implicitamente cela il significato allegorico che ha e, per converso un confidente che ha il compito di tirarlo fuori. Certo, la funzione del personaggio di Oenone sarà anche quella di una sorta di Mefistofele ante-litteram, che compirà delle azioni disdicevoli per per consentire a Phèdre di raggiungere il potere, la regina che, lo vedremo, in forma progressivamente sempre più forte, sente la contraddizione fra i suoi desideri ed un’alta concezione morale di sé. A partire dal verso finale, comincia, di fatto, la seconda delle tre macrosequenze in cui si è divisa la struttura della peripezia: “Puisque Venus le Veut, de ce sang deplorable / Je péris la derniére et la plus miserable.” È con questa serie di battute che inizia la fase della peripezia segnata dalla contraddizione: Venus, la dea Venere, è infatti il simbolo all’interno dell’opera del desiderio di Phèdre, ma questo desiderio è profondamente intrecciato con il rapporto paradossale con il Sole, in sentimento della stirpe nobile che può, da un lato accettare di rivolgere le proprie attenzioni sentimentali ad una persona nobile come Ippolito, dall’altro è segnata tuttavia dall’onta della natura illegittima del trasporto. Sotto questa luce è dunque evidente, come nella nostra lettura potrà risultare, che, mentre ne La vida es sueño c’è una suddivisione abbastanza precisa fra il momento della presentazione, tutto concentrato nel primo atto, lo sviluppo drammatico “tutto nel secondo atto” e la conclusione, nel terzo, qui, invece, l’accuratezza drammaturgica con cui viene ritratta Phèdre è il mezzo con il quale il drammaturgo può esprimere in modo migliore la contraddizione, ed è il nucleo semantico profondo della peripezia. Il percorso che va dalla tragedia antica alla tragedia moderna è dunque un percorso che va dalla ideologia alla psicologia e poiché anche Phèdre esprime lo stesso stato culturale di paradosso, Racine userà tutti gli strumenti della mimesi psicologica per rappresentarlo:
328 Phèdre Mon mal vient de plus loin. À peine au fils d’Égée Sous les lois de l’hymen je m’étais engagée, Mon repos, mon bonheur semblait être affermi; Athènes me montra mon superbe ennemi: Je le vis, je rougis, je pâlis à sa vue; Un trouble s’éleva dans mon âme éperdue; Mes yeux ne voyaient plus, je ne pouvais parler; Je sentis tout mon corps et transir et brûler: Je reconnus Vénus et ses feux redoutables, D’un sang qu’elle poursuit tourments inévitables! Par des vœux assidus je crus les détourner: Je lui bâtis un temple, et pris soin de l’orner; […] J’adorais Hippolyte; et, le voyant sans cesse, Même au pied des autels que je faisais fumer, J’offrais tout à ce dieu que je n’osais nommer. Je l’évitais partout. Ô comble de misère! Mes yeux le retrouvaient dans les traits de son père.36
La nascita del dramma moderno Fedra Il mio male è più antico. Quando al figlio d’Egeo io mi fui sottoposta per le leggi d’Imene, la mia felicità, la mia pace era certa. Atene mi mostrò il superbo nemico. Lo vidi e arrossii, impallidii a vederlo. Nell’anima smarrita irruppe lo scompiglio. Non vedevo più niente, non potevo parlare. Poi sentii il mio corpo bruciare e raggelarsi. Io riconobbi Venere, i suoi fuochi che atroci senza tregua tormentano un sangue che lei odia. Sì, cercai di sviarli con preghiere e con voti. Feci un tempio alla dea, l’ornai con ogni cura. [...] io veneravo Ippolito. Tutti i giorni i miei occhi lo vedevano, lì, ai piedi degli altari che annebbiavo di fumo, dove pregavo muta il dio a cui offrivo tutto. Lo evitavo dovunque, ma, o misera sorte, lo vedevo nei tratti del volto di suo padre. Infine con coraggio contro me stessa presi la folle decisione: far bandire il nemico che io idolatravo. Ostentai i rancori di una matrigna ingiusta. Pretendevo il suo esilio. Con continue querele lo strappai dal cuore, dalle braccia del padre. 37.
In questa fase, siamo ancora nel primo atto eppure già ci troviamo d’emblée in piena condizione di conflitto, il quale, poi, si acuirà, sempre più, in vari passaggi più o meno complessi del dramma, che vedremo con ordine. Quel che è importante notare ai fini del nostro lavoro è quanto segue: il fatto che Phèdre menzioni Venere e il sole implica che, tramite la definizione della psicologia del personaggio, Racine introietti una conciliazione di poli opposti, che in Calderón 36 J.Racine, Phèdre, cit., p.137. 37 J. Racine, Fedra, cit., p. 29.
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era scissa in due caratteri diversi, nella psiche di un unico personaggio. Ciò, gli consente un’elasticità e un’aleatorietà maggiore nel gestire il portato simbolico e politico del carattere e la densità del teatro politico si perde dunque nella struttura della psiche. Se facciamo delle mere osservazioni quantitative, inoltre, notiamo che la parte introduttiva dei due poli in conflitto – la prima macrosequenza –, ne La vida es sueño consta di 890 versi, in cui l’azione era azzerata e il concetto era amplificato – si tratta di quasi un terzo del dramma – nella Phèdre consta di soli 300 versi, a fronte di un dramma che ne conta poco più di 1600: é, insomma, un quinto dell’opera. Proseguendo nella nostra lettura non potremo far altro che notare che nella seconda macrosequenza, tale conflitto simbolico, fra Venere e Sole, fra amore e gloire, non solo rappresenterà l’asse portante del dramma ma, attraverso una sorta di stratégie du gonflement, estenderà assai lo spazio formale delle sottotrame e mostrerà chiaramente questo assunto. Lo scontro fra la legittimità naturale del Principe e il machiavellismo incipiente contro cui si opponevano i gesuiti era molto più facilmente gestibile, in una peripezia dello scontro fra l’idea di uno Stato burocratizzato, secolarizzato e la morale religiosa di origine cristiana, di cui i giansenisti si fanno ancora portatori. Vediamo questa stratégie du gonflement all’opera. Nel secondo atto, Phèdre, raggiunge un livello di complessità drammatica tale da fingere di essere innamorata del Re suo marito, e non di Hippolyte, e cerca di persuadere quest’ultimo che i suoi incipienti sospetti su di lei sono infondati: Phèdre Oui, Prince, je languis, je brûle pour Thésée. Je l’aime, non point tel que l’ont vu les enfers, Volage adorateur de mille objets divers, Qui va du dieu des morts déshonorer la
Fedra Sì, principe, io tremo, io brucio per Teseo. Io l’amo. So che gli inferi conoscono l’amante mille volte volubile, pronto a disonorare il letto di Plutone. Ma io amo lo sposo degno di fede, fiero, il giovane scontroso che affascina e trascina gli
330 couche, Mais fidèle, mais fier, et même un peu farouche, Charmant, jeune, traînant tous les coeurs après soi, Tel qu’on dépeint nos dieux, ou tel que je vous vois. Il avait votre port, vos yeux, votre langage, Cette noble pudeur colorait son visage, Lorsque de notre Crète il traversa les flots, Digne sujet des voeux des filles de Minos. Que faisiez−vous alors? Pourquoi, sans Hippolyte, Des héros de la Grèce assembla−t−il l’élite?38
La nascita del dramma moderno occhi e i cuori con sé, simile a un dio dipinto, o a voi che vedo qui. Aveva i vostri occhi, il vostro stesso modo di dire, il portamento. Questo fiero pudore gli coloriva il viso quando passò le onde dell’isola di Creta, degno oggetto dei voti delle giovani figlie di Minosse. Ma voi, che facevate allora? Perché non vi chiamò Teseo, quando raccolse il meglio degli eroi?39
Ma subito dopo, non appena Hyppolite esce di scena, si rivela la vera condizione spirituale del personaggio: Phèdre è terrorizzata, sa di essere in pericolo e di essere scoperta. Si sta delineando con chiarezza l’opposizione fondamentale fra il protagonista e il resto del mondo, che è il vero leitmotiv dell’intero dramma. È proprio questa opposizione fra personaggio principale e sfondo – mondo etico – che permette al dilemma di Phèdre di allungare la parte centrale della peripezia. Le sottotrame dell’opera, al contrario di quel che accade ne La vida es sueño, dipendono infatti dal destino del personaggio principale in modo molto meno evidente e molto meno forte sintatticamente di quanto non avvenga nell’opera di Calderón: e ciò proprio perché la forte densità paradigmatica dell’asse principale, nel dramma caderoniano, è schiacciante rispetto alla struttura lineare del racconto. Qui invece è l’opposto: in Phèdre, molto dello spazio drammaturgico viene occupato dalle sottotrame, essenzialmente prima la storia d’amore fra Aricie e Hyppolite, dopo la drammatica vicenda di Thésée. Nonostante questa sproporzione, la struttura della peripezia dipende ancora 38 J. Racine, Phédre cit., p. 145. 39 J. Racine, Fedra, cit., p. 147.
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dall’agire di Phèdre, e ciò semplicemente perché sarà proprio la volontà di Phèdre a completare, come vedremo, il senso di tutta la vicenda, secondo uno schema di compromesso che abbiamo già visto in Calderón. Sia assottigliando il suo spessore allegorico, che allungandosi sul piano sintattico, la forma della peripezia si proietta sempre più verso la modernità e rende ancora più difficile la sua opera di conciliazione, che é conciliazione sia socio-simbolica che psicologica, fra polarità opposte. Il lunghissimo monologo di Phèdre, già alla fine di questo secondo atto, ha esattamente questa funzione dilatoria e, sempre alla scoperta della psiche e della mauvaise foi, proietta i suoi spettatori verso un finale catastrofico: Phèdre Objet infortuné des vengeances célestes, Je m’abhorre encore plus que tu ne me détestes. Les dieux m’en sont témoins, ces dieux qui dans mon flanc Ont allumé le feu fatal à tout mon sang; Ces dieux qui se sont fait une gloire cruelle De séduire le cœur d’une faible mortelle. Toi même en ton esprit rappelle le passé. […]
Fedra Gli dei mi fanno oggetto della loro vendetta. Io mi detesto più di quanto voi mi odiate. Mi è testimone il cielo, gli dei che nel mio ventre hanno acceso quel fuoco che arse la mia razza, gli dei che crudelmente si gloriano a sedurre il mio cuore mortale. Tu conosci il passato […]
Ancora ritroviamo l’oscillare fra due principi ideologici: amore (cioè l’apertura al mondo, la posizione di Nicole e Arnauld) e gloria (cioè chiusura ideologica, la cui radicalizzazione non può essere che l’elitismo di Barcos). Ciò nondi meno, è qui evidente in pratica quello che affermavamo solo in teoria: sia l’amore di Aricie e Hyppolite che la tragedia di Thésée dipendono da se Phèdre sceglierà l’uno o l’altra. Facendo da sponda alle sottotrame, in questa luce, il monologismo di Phèdre ha una fortissima funzione di proiezione in avanti della vicenda: i dialoghi dei personaggi
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espongono la trama, ma è il conflitto interiore del personaggio “superiore per eccellenza” che li risolve. Continuiamo e passiamo direttamente al terzo atto: Phèdre Juste ciel! qu’ai-je fait aujourd’hui! Mon époux va paraître, et son fils avec lui! Je verrai le témoin de ma flamme adultère Observer de quel front j’ose aborder son père, Le cœur gros de soupirs qu’il n’a point écoutés, L’œil humide de pleurs par l’ingrat rebutés! Penses-tu que, sensible à l’honneur de Thésée, Il lui cache l’ardeur dont je suis embrasée? Laissera-t-il trahir et son père et son roi? Pourra-t-il contenir l’horreur qu’il a pour moi? Il se tairait en vain: je sais mes perfidies, Œnone, et ne suis point de ces femmes hardies Qui, goûtant dans le crime une tranquille paix, Ont su se faire un front qui ne rougit jamais. Je connais mes fureurs, je les rappelle toutes: Il me semble déjà que ces murs, que ces voûtes Vont prendre la parole, et prêts à m’accuser, […].40
Fedra Giusti dei, che cosa ho fatto oggi? Sta arrivando il mio sposo, e suo figlio è con lui. Lo vedrò, il testimone della mia fiamma adultera, guardare con che faccia affronterò suo padre, il cuore ancora gonfio dei sospiri che lui non ascoltò, con gli occhi umidi delle lacrime respinte dall’ingrato. Tu credi che, sensibile all’onore del padre, nasconderà l’amore di cui sono infiammata? Che lascerà che io inganni il genitore e il re? Che potrà contenere l’orrore che gli provoco? D’altronde tacerebbe invano perché io conosco il mio delitto e non sono una donna che, godendo tranquilla una pace colpevole, sappia farsi una maschera che non possa arrossire. Io so la mia passione. Mi sembra già che i muri ne vogliano parlare, che le volte, ora mute, attendano il mio sposo pronte a disingannarlo svelando i miei furori. […].41
Se si contestualizza bene questo monologo si comprende bene quello che intende Hegel quando parla, proprio con riferimento a questo monologo, della individualità come per40 J. Racine, Phèdre, cit., p. 47. 41 J. Racine, Fedra, cit., p. 52.
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no etico del carattere moderno a discapito dell’innocenza dei personaggi nei drammi antichi. Non c’è traccia né di simbolismo né di metafora, eppure è proprio all’ambiguità fra metafora e mimesi del reale, che il carattere può slittare agilmente dal piano di simbolo a quello di attante; e grazie a questa ambiguità la paura di Phèdre di essere scoperta agli occhi del Re per colpa di Hyppolite, da un lato ci proietta verso la fine, dilazionando quest’ultima ulteriormente rispetto a una tragedia più regolare come La vida es sueño, e dall’altro lato ci informa ancora che il finale, la catastrofe. Deriverà proprio dalla scelta che il personaggio farà fra la paura e l’isolamento da una parte e i suoi principi etici dall’altro lato. Altro esempio è il seguente monologo, del quarto atto: Phèdre Ils s’aimeront toujours! Au moment que je parle, ah, mortelle pensée! Ils bravent la fureur d’une amante insensée! Malgré ce même exil qui va les écarter, Ils font mille serments de ne se point quitter… Non, je ne puis souffrir un bonheur qui m’outrage; Œnone, prends pitié de ma jalouse rage. Il faut perdre Aricie; il faut de mon époux Contre un sang odieux réveiller le courroux: Qu’il ne se borne pas à des peines légères! Le crime de la sœur passe celui des frères. Dans mes jaloux transports je le veux implorer. Que fais-je? où ma raison se va-t-elle égarer? Moi jalouse! et Thésée est celui que j’implore! Mon époux est vivant, et moi je brûle
Fedra Si ameranno per sempre. Mentre ti parlo, loro, pensiero insopportabile!, giurano di lottare contro la mia follia e, malgrado l’esilio che sta per separarli, fanno mille promesse di non lasciarsi mai. Sono felici. Ah, non posso sopportarlo! Enone, abbi pietà della mia gelosia. Voglio perdere Aricia. Bisogna risvegliare la rabbia di Teseo contro quel sangue odiato. Non si limiterà a lievi punizioni: col suo crimine Aricia supera i suoi fratelli. La gelosia darà forza alle mie preghiere… Ma cosa sto dicendo? Mi vacilla la mente. Io, gelosa, a implorare il mio sposo? Teseo è vivo e ancora brucio. E per chi? Quale uomo pretende la mia voglia? […] Che sento? Che consigli mi dai? Con che coraggio? Così, fino alla fine, tu mi vuoi avvelenare. Maledetta, ecco come mi hai rovinata. Al giorno, che volevo evitare, tu mi hai condotta, tu. Tu, con le tue preghiere, mi strappasti al dovere. Io lo evitavo, Ippolito, e tu me lo mostrasti. Per ché ti sei immischiata? Perché quell’empia bocca, accusandolo, ha osato
334 encore! Pour qui? quel est le cœur où prétendent mes vœux? […] Qu’entends-je! quels conseils ose-t-on me donner? Ainsi donc jusqu’au bout tu veux m’empoisonner, Malheureuse! voilà comme tu m’as perdue; Au jour que je fuyais c’est toi qui m’as rendue. Tes prières m’ont fait oublier mon devoir; J’évitais Hippolyte, et tu me l’as fait voir. De quoi te chargeais-tu? pourquoi ta bouche impie A-t-elle, en l’accusant, osé noircir sa vie? Il en mourra peut-être, et d’un père insensé Le sacrilège vœu peut-être est exaucé. Je ne t’écoute plus. Va-t’en, monstre exécrable; Va, laisse-moi le soin de mon sort déplorable. Puisse le juste ciel dignement te payer! Et puisse ton supplice à jamais effrayer Tous ceux qui, comme toi, par de lâches adresses, Des princes malheureux nourrissent les faiblesses, Les poussent au penchant où leur cœur est enclin, Et leur osent du crime aplanir le chemin! Détestables flatteurs, présent le plus funeste Que puisse faire aux rois la colère céleste!43
La nascita del dramma moderno oscurargli la vita? Forse lui morirà, forse il voto sacrilego di un padre dissennato è già stato esaudito. Io non ti ascolto. Vattene, esecrabile, va’ e lascia a me la cura del mio destino infame. Possa il cielo pagarti degnamente. E il supplizio che meriti spaventi quelli che, come te, con vilissime astuzie aiutano chi è principe nelle sue debolezze, lo spingono agli abissi a cui tende il suo cuore, spianandogli la strada del delitto. diosissimi adulatori, voi: il dono più funesto di quanti ne dia il cielo ai re.42
In questo scambio fra Phèdre e la confidente, si possono rilevare diverse cose. Si tratta del momento di disinganno della regina, in cui ella scopre che il principe è innamorato della giovane Aricie. Secondo un meccanismo psicologico 42 J. Racine, Fedra, cit., p. 61 43 J. Racine, Phèdre, cit., p. 58.
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che sembrerebbe essere impossibile all’interno della tragedia antica, dominata dalla forma della rappresentazione ideologica, qui Phèdre sconfessa le tentazioni di prevaricazione che, nel corso del secondo e nel terzo, atto l’avevano portata a dare credito e Oenone; questo momento è, senza dubbio, di grande importanza: perché i due poli ideologici entro cui si dibatte la psiche di Phèdre, la gloria della sua stirpe e l’amore per la purezza di Hyppolite non possono più coesistere. Ciò da un lato la porta a spingere indirettamente Oenone al suicidio, dall’altro la porterà a completare il finale analitico della tragedia. Nel monologo successivo, infatti, è possibile constatare come, a mano a mano, la profondità psicologica viene meno e l’ideologia prende il sopravvento; sarà proprio il peso allegorico, ideologico, che questa figura tragica tuttora ha, a permettere la terza fase della peripezia, come mostreremo di seguito. Per il momento, soffermiamoci sulla trasformazione. In nessuna delle porzioni di testo, fra quelle che abbiamo analizzato fin ora, compaiono tanti riferimenti alla parola gloire come in questo dialogo alla fine del quarto atto: è un chiaro segno che la contraddittoria personalità di Phèdre sta definitivamente avvicinandosi verso uno dei due poli su cui oscilla la sua psicomachia: la nobiltà dello spirito è più forte della mondanità, i valori aristocratici, nonostante la vicenda della cultura feudale a questa altezza cronologica sia ormai dissolta, stanno per avere la meglio. È dunque il momento di riprendere in mano le quantità strutturali che stiamo tenendo d’occhio. Ne La vida es sueño, un’opera nella quale la problematicità dello Stato assolutista è ancora incipiente, la sezione dedicata al conflitto ideologico era, più o meno, pari alla prima sequenza, e cioè di circa 780 versi. La retorica spesa per enfatizzare i caratteri che costituiscono il centro simbolico del dramma, costituiscono il grosso dell’inizio e della fine dell’opera, mentre il conflitto drammatico è relegato in questi versi. Il parago-
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ne fra questi dati e la distribuzione del materiale drammaturgico di Phèdre ci sembra la definitiva obiezione alla nozione szondiana di indefinibilità del tragico, da collocare a suggello del ragionamento che abbiamo svolto per tutte le fasi della tragedia, dal dramma antico al dramma moderno: in assenza di un Coro che delinea finzione e realtà, quanto più la crisi dell’aristocrazia diventa forte e stringente, tanto più la necessità di rappresentare accuratamente la psicologia dei personaggi diventa un’esigenza storica, dovuta al progressivo venir meno del loro peso simbolico. Questa tendenza implica un allungamento della struttura ideologizzata e compatta della peripezia. Dai 480 versi del dramma calderóniano su 3020 di dramma, ai 1250 raciniani versi con cui viene rappresentata la contraddizione ideologica dei giansenisti all’interno di Phèdre, su un dramma di poco più di 1600 versi. La proporzione rende icasticamente quanto, in assenza del Coro, la peripezia in quanto struttura drammaturgica subisce un fortissimo stress dovuto all’inasprirsi del rapporto fra la realtà che metaforicamente rappresenta e il contesto in cui effettivamente si sviluppa. È esattamente questo processo stilistico che porta il dramma antico ad adattarsi alla modernità. Abbiamo finora evidenziato come, però, questa verità superiore non sia in realtà indecifrabile, ma sia ideologia: più precisamente, la capacità di trovare un compromesso alle contraddizioni ideologiche del drammaturgo. In questi termini è fondamentale tenere presente il fatto che la personalità di Phèdre fondi ex-post il suo ruolo strutturale all’interno della forma chiusa della peripezia. In sostanza, il finale pone un freno alla contraddizione: è beninteso, un freno provvisorio perché, col proseguire della crisi dello Stato autoritario sarà sempre più difficile per la peripezia avere questo ruolo di “contenimento” delle contraddizioni; tuttavia esso rimane un momento nel processo simbolico di mutazione dello Stato. Si analizza di seguito anche l’ultimo stralcio di Phèdre, quan-
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tomeno dal verso numero 1995 – cioè da quando Phèdre decide di redimersi – fino alla fine: c’è, di fatto, la conclusione del dramma. Se concordiamo con l’interpretazione allegorica dell’opera, a prescindere da quanto mimesi e senso si distribuiscono in misura diseguale, per segnalare tale chiave interpretativa nel testo, dobbiamo interpretare anche questo finale come un completamento di tale significato allegorico. Vari sono i personaggi che cercano di portare Thesée al disinganno. Hyppolite si è suicidato perché non sostiene l’onta dell’accusa paterna, interviene Aricie, che si tace all’ultimo nel rivelare il suicidio del suo amato, a causa di una promessa a lui fatta all’inizio dell’atto precendente: alla fine, dopo una climax, arriva la rivelazione. Sulla base di questa rivelazione la catastrofe non si manifesterebbe, però, nel suo pieno significato simbolico se non fosse per Phèdre: Phèdre Déjà je vois plus qu’à travers une nuage Et le ciel, et l’époux que ma présence outrage; et la mort, à mes yeux dérobant la clarté, Rend au jour qu’ils souillaient, toute sa pureté.44
Con le sue ultime parole, Phèdre, giocando anche con la notoria opposizione semantica luce-ombra, completa l’allegoria, e in modo perfettamente identico a La vida es sueño, completa l’orizzonte di senso definito dalla peripezia, affermando che è stata lei, sebbene, indirettamente, ad ammazzare Hyppolite. Si creano così un compromesso tra il rigorismo morale elitista di Barcos e la mondanità cui tendono Arnauld e Nicole: con la differenza, rispetto a Calderón, che lo stress cui è sottoposta la peripezia non le permette di farlo se non dopo un lungo lamento, che corrisponde al divario fra gli ideali morali dell’aristocrazia, 44 Ivi, p. 69.
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che vorrebbe mantenersi pura, e la realtà etica in cui tanti nobili togati come Racine si ritrovavano. Tuttavia, per il nostro discorso comparativo un’ulteriore osservazione è importante: se infatti la distribuzione del materiale formale è cruciale per tracciare l’evoluzione della tragedia moderna, lo è altrettanto la constatazione che il realismo è appare il motore che porta all’evoluzione del dramma. Siamo lontanissimi dalla psicologia svuotata di reale autonomia della tragedia antica, e tuttavia è proprio il sovrapporsi fra realtà e finzione ad essere il motore dell’evoluzione. L’anagnorisis, viceversa, come dimostra la nostra analisi comparativa, ha in sé la funzione analoga del “momento della verità” che si risolve nella conversione di Segismundo, nel caso di studio precedente. Il retaggio formale dell’epica porta l’inesausta forma di evoluzione della tragedia a sussumere, in modo sempre più problematico e impossibile, il contraddittorio destino di un mondo in un emblema eroico.
Fig. 6 L’immagine illustra il rapporto fra sequenze della peripezia di Phèdre
4.4 Le tragedie “del rifiuto”
La scelta di inserire le tragedie “del rifiuto” alla fine di questa catena enunciativa non consiste, come si spiegava all’inizio di questo capitolo, nel fatto che le stesse non si
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saldino, altrimenti, nella concatenazione discorsiva della tragedia espressa dall’opera raciniana. Al contrario, la ragione risiede nel fatto che, in tale catena enunciativa, esse sono molto più avanzate lungo l’evoluzione del genere per come la stiamo descrivendo, e cioè come un lento allontanarsi della forma tragica dal rapporto che si instaura fra la stilizzazione dei caratteri e la totalità organica. Sul piano della resa comunicativa, le tragedie del rifiuto, necessariamente sono definite da due fattori: il primo è il fatto che con l’avanzare della contraddizione formale fra il referente dell’azione tragica e la stilizzazione del loro carattere rispetto ai casi studiati precedentemente, esse tendono al realismo psicologico. Il secondo è il loro rapporto con il rovesciamento di Phèdre. Se quest’ultima tenta di ricostituire in nesso culturale tra ideali del drammaturgo e azione tragica, le tragedie che non compiono rovesciamento e il successivo riconoscimento che completa una tale forma sono più lontane, all’interno dell’evoluzione del genere letterario come atto discorsivo, dalla forma antica rispetto a Phèdre stessa. Anche tra di loro possono essere classificate secondo un analogo criterio discorsivo; avendo rinunciato, per ragioni di economia espositiva, ad una ricognizione completa, che non farebbe avanzare più di tanto le tesi de Le dieu caché, si faranno solo due esempi. Quanto più si allunga la sequenza del confltto fra valori, che consiste nell’aderire o meno alle lusinghe del mondo, tanto più è il segno che in questa forma di tragedia la componente mitico-ideologica, come totalità organica, è sfidata. Il primo caso in questo ordine progressivo è Britannicus, e qui la sequenza del dubbio comincia dall’atto terzo, e finisce nel quarto, con il crollo di Junie, la vera rappresentante del rifiuto del mondo in questa tragedia raciniana:
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Junie Et que sais-je? Il y va, seigneur, de votre vie. Tout m’est suspect: je crains que tout ne soit séduit; je crains Néron; je crains le malheur qui me suit. D’un noir pressentiment malgré moi prévenue, je vous laisse à regret éloigner de ma vue. Hélas! Si cette paix dont vous vous repaissez couvroit contre vos jours quelques pièges dressés; si Néron, irrité de notre intelligence, avoit choisi la nuit pour cacher sa vengeance! S’il préparoit ses coups, tandis que je vous vois et si je vous parlois pour la dernière fois! […] Junie Après tous les ennuis que ce jour m’a coûtés, ai-je pu rassurer mes esprits agités? […] Junie Hélas! à peine encor je conçois ce miracle. Quand même à vos bontés je craindrois quelque obstacle, le changement, madame, est commun à la cour; et toujours quelque crainte accompagne l’amour.45
Si sono accorpate delle citazioni in cui Junie conclama i valori in conflitto della visione tragica di Racine – gesto tragico par excellence. – Esattamente come Phèdre, nella seconda citazione, Junie prende le conseguenze di tale conflitto interiore e muore assieme al suo amato Britannicus. Nello spazio formale che intercorre tra questi due momenti, si sviluppa il dispositivo tragico che deriva, esattamente come in Phèdre, dallo statuto ancora epico di tali caratteri tragici. Un caso speciale è riservato ad Andromaque che “non a caso” l’autore di Le dieu caché poneva tra le tragedie del rifiuto come quella meno tragica. In questa, il momento su se decidere o meno di cedere alle lusinghe di Phyrrus viene dilazionato tantissimo, in un ondeggiare di 45 Jean Racine, Britannicus, in cit. Gallimard, 2011, pp. 235-345.
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incertezza decisionale che va dal secondo al quinto atto. Riporto uno dei passi più eclatanti, proprio per rendere l’idea di quanto il momento di incertezza che precede lo scontro fatale con la realtà si sia allungato tantissimo dai tempi di Macbeth e dai tempi de El medico: Chephise Qu’attendez-vous? Rompez ce silence obstiné. Andromaque Il a promis mon fils. Céphise Il ne l’a pas donné. Andromaque Non, non, j’ai beau pleurer, sa mort est résolue. Pyrrhus Daigne-t-elle sur nous tourner au moins la vue? Quel orgueil! Andromaque Je ne fais que l’irriter encor. Sortons. Pyrrhus Allons aux Grecs livrer le fils d’Hector. Andromaque Ah! Seigneur, arrêtez! Que prétendez-vous faire? […]46
Il dubbio di Andromaque, genealogicamente, deriva dal dubbio di Oreste, Creonte, Antigone nello scegliere il proprio destino. Quel che è cambiato, fondamentalmente, è che il rapporto, ormai mutato, con il materiale epico non presuppone quella relazione di ambivalenza fra parola e azione su cui si basava il dramma antico. L’evoluzione formale della tragedia corrisponde ad un lento perdersi di quel che resta di un simile rapporto, che permane nella stilizzazione formale del carattere drammaturgico. È evidente che in tutti i casi analizzati di tragedie “del rifiuto”, a prescindere dalla trama specifica di questi esempi, l’interpretazione allegorica fornita ne Le dieu caché rimane 46 J. Racine, Andromaque, Gallimard, Paris, pp. 157-443.
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valida. Ciò che va piuttosto messo in evidenza in base alla teoria di Schaeffer è che, proprio perché la tragedia moderna è rinegoziazione dell’epica in condizioni culturali sempre più difficili da raggiungere, la trama tragica che meno si avvicina questo momento di completamento di questa “totalità etica mancata”, ovvero di concezione dello spazio drammaturgico come una totalità organica sempre più complicata da contraddizioni ideologiche interne. E sarà maggiormente indice della distanza formale che ha acquisito il rapporto fra la stilizzazione della soggettività formale del personaggio e l’ideologia del drammaturgo, che vi si cela dietro. È bene ricordare la dinamica del rovesciamento doppio di Doña Mencía: essa avveniva sempre perché ad un certo punto i personaggi tragici calderoniani compivano un atto decisionale che consisteva nell’aderire ad un codice di valori, delineavano così un sistema di vassallaggio che ne definiva in modo dirimente la psiche. Ciò non deve stupire: come ho scritto nell’introduzione la tragedia segue il destino del Romance barocco nel rappresentare i personaggi più in base alla loro dimensione emblematica che non in base ad una realtà psichica ben definita. Il confronto formale però tra Andromaque e Britannicus mostra chiaramente che “a seconda dei casi” l’una o l’altra tragedia mettono in evidenza con maggior chiarezza la lontananza che si è aperta tra la volontà del carattere e l’allegoria dietro tale volontà. Constatiamo dunque i risultati che il nostro metodo genealogico ha ottenuto rispetto alla definizione della visione tragica di Racine. Abbiamo mostrato come la catena enunciativa che caratterizza l’evoluzione della tragedia si ripropone essenzialmente identica sia nelle opere raciniane che in quelle calderoniane, garantendo l’evoluzione della tragedia come atto discorsivo. La frizione fra idealità e realtà ha prodotto, sull’evoluzione della tragedia, risultati importanti, sconfessando l’idea errata – di
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Goldmann, fondata su circolo ermeneutico essenzialmente viziato – che la tragedia sia definita dallo scontro fra valori nettamente contrapposti. A un simile concetto abbiamo infine contrapposto, ponendoci nel senso di una continuità dialettica con questo classico della storia letteraria, l’idea di un’evoluzione dei generi letterari basata sulla progressiva rimozione di vincoli. Andromaque, in questo senso, è emblematica: se confrontata con El médico de su honra è l’evidente segno che quanto più ci si allontana dalla matrice originaria del genere, tanto più si rimuovono i vincoli ideologici che caratterizzano la tragedia, in quanto genere letterario della volontà. Come si vede, dunque, nella reinterpretazione genealogica dei risultati ottenuti da Le dieu caché, nel processo discorsivo di evoluzione della tragedia, le tre “tragèdies du refus” qui analizzate ripetono allegoricamente lo schema di decisione e scontro con i valori del mondo, già visto in Phèdre. Quel che di decisivo possiamo aggiungere a partire dalla nostra démarche è quindi che le tragedie del rifiuto si allontanano progressivamente dal compromesso formale fra epicità e lirismo (che definisce la forma tragica) quanto più la resistenza che esse esercitano nei confronti del potere è traslata drammaturgicamente dalla fase che li vede evitare il compromesso con il mondo. In tal modo portano alla tragedia. La nostra tesi è, d’altro canto, che il rovesciamento descritto e ripercorso dalla forma di Phèdre, proprio per il nesso che ancora sussiste tra azione e valori drammaturgici, vero retaggio della forma antica, descrive in re i limiti di quest’evoluzione formale. In altri termini, se, come mostrato, Andromaque, in base a questa logica, rappresenta formalmente il massimo grado di evoluzione della tragedia nel contesto raciniano, Phèdre, in quanto dramma rappresentante della vecchia idea di tota-
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lità etica, e dell’utopico nesso fra eroe e mondo che lega la tragedia al mito, rappresenta necessariamente anche i limiti oltre cui questa evoluzione non può andare; i limiti intrinseci alla visione del mondo dell’autore. In tal modo, ci siamo posti dialetticamente nei confronti del lavoro di Lucien Goldmann, inserendo l’opera di Racine nella giusta prospettiva. Nella parte conclusiva di questo lavoro, attraverso il caso di studio di una tragedia lessinghiana, secondo i principi di concatenazione discorsiva che ci siamo prefissati, mostreremo perché il dramma borghese di questo autore può essere visto dal punto di vista formale come un nuovo genere letterario, permettendoci così di arrivare ad una sintesi e ad una conclusione del percorso finora svolto, giungendo, finalmente, ad una definizione, su base formalistica, del “dramma moderno”.
CAPITOLO V EPILOGO SU LESSING E IL DRAMMA BORGHESE
5.1 Apologia di un genere letterario. Ovvero il problema del ‘tragico’ 5.2 La sconsacrazione del mito. Come evolve il quadro di comunicazione? 5.3 Il genere letterario della volontà. L’evolversi della realizzazione semantico-sintattica. 5.4 I primi esperimenti tragici di Lessing. Dal Samuel Henzi al Philotas. 5.5 L’emergere di un nuovo genere: un’analisi dell’Emilia Galotti. Conclusione. La forma del dramma moderno
5.1 Apologia di un genere letterario. Ovvero il problema del ‘tragico’
Il compito di questo capitolo sarà duplice: da un lato ripercorrere l’itinerario svolto, dall’altro – nel riepilogare – isolare i tratti formali necessari per poter chiudere il nostro percorso con una definizione, szondiana, di dramma moderno. Come premessa a quest’ultimo obiettivo, è necessario, però, riprendere a piene mani “il problema” del tragico. Il testo da cui partire, in tal senso, è un felice studio di Florence Dupont, le cui perentorie parole sono condivise da chi scrive. Dupont si sofferma su alcuni dei più gravi equivoci riguardanti la ricezione del dramma antico: Il teatro greco sarebbe dunque al contempo un teatro e il metateatro. Questo postulato è incluso nella formulazione tautologica “tragedia greca” poiché la tragedia o è greca o non esiste, così come il Kabuki è giapponese o il Katakhali indiano. […] è necessario dire che questa “tragedia greca” è un’illusione retrospettiva, un artefatto della nostra storia let-
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teraria e che la sua stessa denominazione è un serpente che si morde la coda.1
Per Dupont, la definizione di “tragedia” si basa erroneamente sulla tragedia greca. Ci sarebbe infatti un vizio di fondo che conduce, come in una reazione a catena, a confondere tutti gli esemplari del genere letterario in questione sulla base di una sorta di ologramma archetipico, corrispondente ad un’idea di tragedia greca falsata, che a sua volta falsa a catena tutti gli altri “esemplari” del genere: Parlare, in effetti, di tragedia precisando “greca”, e farlo come si trattasse di un genere letterario, significa sottintendere che la tragedia esistesse già. La categoria del tragico permette così di pensare che la tragedia esisterebbe in generale nelle letterature europee dall’Antichità, dopo essere esistita per la prima volta nell’epoca della tragedia antica. Ci sarà stata la tragedia greca, poi la tragedia romana, e poi di nuovo, a partire dal Rinascimento, la tragedia italiana, poi la tragedia francese ecc. Questa incarnazione storica si giustificherebbe con il contesto storico, dato che la presenza di tragedie proverebbe che un’epoca e una società sarebbe “tragica”; ove questo tragico concentrerà in sé stesso il nucleo semantico della tragedia, di cui il teatro tragico non sarebbe che la manifestazione estetica più concreta.2
Sono parole importanti, che mettono in evidenza con chiarezza il pregiudizio culturale e teorico che impedisce di fatto una storia materiale della tragedia come genere letterario e – sia detto per inciso – anche una storicizzazione concreta del “modo” tragico. Ancora: 1 2
F. Dupont, L’insignifiance tragique, “Les Choefores” d’Eschyle, “L’Electre” de Sophocle, “L’Electre” d’Euripide Paris Gallimard, 2001 tr. it. mia. Ivi, p. 11.
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È necessario precisare che tutto ciò posa su un circolo vizioso e che implica simultaneamente una negazione del teatro? […] La nozione di tragedia “tragica” è sotto ogni aspetto una nozione circolare, dal momento che la tragedia greca diviene il proprio modello. Detto in altri termini, la tragedia greca serve […] per definire tutte le tragedie in generale attraverso una procedura che consiste nel separare arbitrariamente quel che sarà l’ordine dell’accidente storico e da quel che sarà l’universale.3
Il senso del percorso effettuato finora consiste proprio nel fornire uno strumento ermeneutico per evitare questo errore separativo – profondamente radicato –, qui segnalato con chiarezza da Florence Dupont e compiuto dallo sguardo moderno sul genere tragico. Ricostruire l’evoluzione di un genere non consiste, come già abbiamo avuto modo di accennare, nel definire la storia di “tutte” le tragedie – di per sé, cosa impossibile – ma nel dimostrare, al contrario, che una storia materiale della forma tragica, nelle sue premesse enunciative, è possibile. Di conseguenza qualsiasi speculazione formale “sul tragico” di una singola manifestazione del genere, può essere sempre riportata ad una forma in grado di spiegarne lo sviluppo e l’evoluzione in re. Nel suo saggio, Dupont ad esempio dimostra che L’Orestea di Eschilo ha poco a che fare con l’idea di una vendetta ancestrale contrapposta ad un insieme di leggi cittadine, così come dimostra la natura “impermanente” di qualsiasi fissazione testuale della performance teatrale antica, come un rituale, e solo dopo, in maniera molto mediata, come un testo: Questa analisi della tragedia come rituale ha per conseguenza logica quella che noi chiameremo la sua insignificanza tragica, il testo è, di fatto, il luogo dove si negozia l’attua-
3
Ivi, p. 12.
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lizzazione delle regole rituali. Il testo prodotto è bloccato in delle costrizioni frutto di tale negoziazione.4
Questo aspetto dell’enunciazione dello spettacolo antico è la chiave di volta con la quale Dupont de-fatalizzerebbe alcuni dei pregiudizi sulla tragedia antica; ad esempio, sempre a proposito dell’Orestea, è presente l’idea che il personaggio epico, in questo caso Oreste, sia divenuto un enigma per la comunità. Tutte queste precisazioni culturali e filologiche sono necessarie per allontanarsi dall’immagine mentale errata che abbiamo della tragedia antica, partendo da un’idea di tragico formatasi a posteriori; ma è proprio al dialogo fra le varie difformità specialistiche che la nozione di “genere letterario” – categoria eminentemente comparatistica – deve servire. Essa serve perché, in quanto definizione di un fenomeno artistico in re ha la possibilità di essere allargata, almeno in potenza, proprio alle differenze morfologiche che tale o tal altro “esemplare” del suddetto genere presenta. In altri termini, il genere permette evitare di definire un esemplare del suo alveo discorsivo partendo da categorie culturali elaborate da un punto di osservazione pregiudizievole, come, ad esempio, il nostro; deformato dalla suggestiva lente dell’idealismo tedesco. Questo per permetterci di risalire filologicamente dalla difformità presentata da un determinato esemplare alla articolazione discorsiva del genere in sé. Ad esempio, tutti gli osservatori dovranno concordare che per comprendere l’Orestea bisogni risalire alle categorie culturali, antropologiche, sociologiche e psicologiche che hanno prodotto anche la forma del rovesciamento, a cominciare dall’ambivalenza del protagonista della trilogia, Oreste, contemporaneamente io epico dell’opera a lui dedi4
Ivi, p.15.
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cata, ma anche un oggetto simbolico attraverso cui lo sguardo della comunità trovava una sintesi in uno sguardo lirico, esattamente come Edipo. Per quanto, quindi, ogni genere letterario sia un’astrazione – E Dupont chiarisce che non è possibile astrarsi dai singoli casi di indagine5 – un genere letterario è una astrazione quanto mai feconda, se confrontata con l’errore separativo di attribuire nozioni contemporanee o sette-ottocentesche a testi antichi. Dimostrare l’esistenza di un genere significa, in breve, fornire uno strumento per la “filologia dell’immanenza”, utilizzando una classica espressione di Hans Georg Gadamer, di tutti quei fenomeni che possono essere ricondotti, nei modi più diversi, a quella concatenazione enunciativa. Possiamo produrre anche un altro, altrettanto rilevante, esempio. In una ricerca che si è già avuto modo di citare, Enrica Zanin ha dimostrato come la nozione di “finale catastrofico”, per la forma tragica, sia diventata di rilievo nella storia del genere a causa di una serie fraintendimenti e sovrapposizioni contraddittorie, di matrice cinquecentesca, riguardanti Poetica aristotelica: L’eredità medievale quindi pesa sulla concezione moderna della tragedia e “i colpi di fortuna che rovesciano i regni” di Boezio, alimentano il pensiero moderno sulla tragedia e prefigurano la filosofia tragica: all’origine della tragedia non ci sono gli autori greci e Aristotele, ma la comprensione di Aristotele e degli autori greci attraverso la moderna ricezione della tragedia. […] Il tragico di Schelling, così come il tragico di Schlegel fanno stranamente eco alla tradizione medievale e ai termini della Consolazione della filosofia.6
Le prove si accumulano tra le mani della ricercatrice, e non c’è dubbio che il suo testo abbia mostrato come l’idea 5 6
Ivi, p. 17. E. Zanin, cit., p.134.
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di catastrofe legata alla concezione culturale della tragedia sia il frutto di una complessa e contorta episteme che si stava ammassando fra Cinque e Seicento e preparava il ritorno del genere tragico. È in un simile milieu culturale che nasce la nostra definizione di “tragico”? Certamente no, dato che, come dimostra il lavoro di Georges Forestier7, una simile nozione era ancora assente anche cento anni dopo, nel teatro di Racine. Eppure, al contempo, il lavoro di Zanin ci dice molto della preistoria di una nozione – maturata molto tardi nella nostra cultura – come quella di “tragico” nell’accezione moderna, ed è la preziosa base per decostruirla e in un futuro meglio comprenderla. Parimenti, sapere che esiste una concatenazione formale fra le varie stagioni del genere, inteso come atto discorsivo, significa già creare una tensione ermeneuticamente feconda, sul piano storico, fra la natura linguistica e materiale del genere e i vari modi in cui essa è stata interpretata nel tempo. Per il momento, registriamo che fra i problemi posti da Dupont e quelli posti da Zanin non può che intravedersi, dunque, un rapporto di continuità interpretativa. L’applicazione a-posteriori della nozione di tragico tanto alle tragedie da noi analizzate, quanto a testi come l’Orestea è dunque un vizio epistemologico da rimuovere decostruendo la nozione di tragico a partire dalla sua filogenesi materiale e della sua elaborazione concettuale a cavallo tra Cinquecento e Seicento, periodo in cui la nozione incomincia a prender forma per poi giungere a maturazione concettuale nell’Ottocento, in ambito idealistico tedesco. Esiste qualcosa di assimilabile al tragico dell’idealismo tedesco espresso nelle Coefore o anche nella Andromaque raciniana? Probabilmente molto poco: ma il punto è che per risalire all’ipotesi di un legame non si può che partire dalla dimensione materiale ed enunciativa del teatro e del 7
G. Forestier, Règles classiques, passions tragiques, cit., p. 322.
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genere letterario, che è atto perché è performativo, ma è discorsivo perché concatena gli aspetti enunciativi dei vari contesti in una medesima evoluzione morfologica. 5.2 La sconsacrazione del mito. Come evolve il quadro di comunicazione?
Possiamo con queste premesse tornare al nostro sforzo ermeneutico, cui manca, in effetti, un ultimo, fondamentale passaggio. Tornando dunque al caso Szondi, è possibile parlare di un nuovo genere, diverso da quello della tragedia per come l’abbiamo, fin ora, definito? La risposta a questa domanda è sicuramente affermativa e la base di ciò è eloquentemente espressa proprio nello studio szondiano del 1956 cui abbiamo fatto riferimento in apertura: Il dramma è assoluto. Per poter essere puro rapporto, cioè essenzialmente drammatico, esso deve essere staccato da tutto ciò che gli è esterno. Il dramma non conosce nulla fuori di sé. Il drammaturgo è assente dal dramma. Egli non parla; ha fondato e istituito la comunicazione. Il dramma non è scritto, bensì “posto” Le parole dette nel dramma sono tutte “decisione”.8
Il dramma moderno si distingue dalla tragedia non tanto perché meno “tragico” ma perché forza dall’interno, ancora una volta, le categorie strutturali della concatenazione enunciativa iniziata con il dramma antico. Più esattamente, quanto detto è verificabile se isoliamo dei particolari emersi lungo tutto il percorso che abbiamo descritto fin ora, i quali ci possono essere sfuggiti lungo l’analisi, ma che, per determinare la definizione formale del dramma moderno, risultano dirimenti. Cominciamo pro8
P. Szondi, Teoria del dramma moderno, cit., p. 10.
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prio dal tracciare l’evoluzione di ciò che rimane più costante all’interno del genere, ovvero proprio il “quadro di comunicazione”. Va subito detto che esso coincide con l’antico rapporto con il mito e per quanto rimanga costante, in tutta l’evoluzione del genere, è possibile isolare dei momenti di progressione dei dei suoi termini di enunciazione. King Lear è, secondo questa genealogia, la prima tragedia moderna perché il suo atto di decisione è “sciolto”, per la prima volta, dal rapporto di interconnessione che c’è fra parola del Coro e l’azione del personaggio. Ma tale rapporto fra la parola del drammaturgo e l’azione del personaggio è qualcosa di cui il dramma, per essere un nuovo genere, deve liberarsi definitivamente: questo rapporto, nella teoria di Jean Marie Schaeffer, corrisponde proprio al “quadro della comunicazione”, la parte fissa del genere che ne definisce le strutture pragmatiche. E nei drammaturghi che abbiamo analizzato, l’evoluzione del genere consiste esattamente nel liberarsi dal retaggio dell’interconnessione antica. La logica con cui avviene questo lento emanciparsi dall’io epico della tragedia antica e giungere ad una nuova forma di dramma è ancora quella propria dei generi letterari: l’“evoluzione” del genere avviene in modo tale che fra i due “esemplari” di esso ci sia una realtà extratestuale (nel nostro caso sociale) che la influenza e la modifica indirettamente. Questa realtà extratestuale è, in breve, tutta le quella serie di fenomeni sociali che “sconsacrano” il mito dell’aristocrazia e del suo legame con la corona. I monologhi che adesso si analizzeranno brevemente implicano un progressivo realismo psicologico, e sebbene siano pressoché identici nel loro scopo drammaturgico è proprio il progressivo realismo che ci permette di trovare una traccia dell’evoluzione formale della dramma:
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Mencía ¡Oh quién pudiera, ah cielos, con licencia de su honor hacer aquí sentimientos! ¡Oh quién pudiera dar voces, y romper con el silencio cárceles de nieve, donde está aprisionado el fuego, que ya, resuelto en cenizas, es ruina que está diciendo: “Aquí fue amor”! Mas ¿qué digo? ¿Qué es esto, cielos, qué es esto? Yo soy quien soy. Vuelva el aire los repetidos acentos que llevó; porque aùn perdidos, no es bien que publiquen ellos lo que yo debo callar, porque ya, con más acuerdo, ni para sentir soy mía; y solamente me huelgo de tener hoy que sentir.9
Questo è il monologo in cui Mencía prima ondeggia ricordando l’amore per Enrique, e poi decide per la fedeltà a Gutierre. Al contrario di quanto avviene nel momento di aggressione dell’Infante, in cui Mencía reagisce solamente, nel monologo, in cui è lasciata sola con i suoi pensieri, si intravede l’ideologia che è tutt’uno con la sua psicologia drammatica, l’ordine sociale che la costringe a ritornare alla fedeltà maritale. Questo momento di scelta è necessario per comprendere il suo rovesciamento e – eventualmente – anche il suo “tragico”; senza questo rapporto fra ideologia e pensiero drammaturgico non ci sarebbe rovesciamento e non ci sarebbe tragedia. Il lento staccarsi dell’ideologia dalla rappresentazione della performance porta verso il nuovo dramma, un dramma disciolto da quel che rimane del meccanismo di interconnessione tipico di quello antico, qui rimasto solo in termini di ideologia e retorica. Sebbene il mo9
P. Calderón de la Barca, El medico, cit., p. 112.
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nologo di Mencía, paragonato al monologo che segue di Andromaque, abbia una medesima funzione, ovvero quella di inoculare nell’atto di decisione un elemento “allotropo” (ovvero la volontà, implicita, dell’autore) i due testi rivelano il progressivo assolutizzarsi della forma drammatica: Andromaque Non, non, je te défends, Céphise de me suivre. Je confie à tes soins mon unique trésor. Si tu vivais pour moi, vis pour le fils d’Hector. De l’espoir des Troyens seule dépositaire, Songe à combien de rois tu deviens nécessaire. Veille auprès de Pyrrhus; fais-lui garder sa foi: S’il le faut, je consens qu’on lui parle de moi; Fais-lui valoir l’hymen où je me suis rangée, Dis-lui qu’avant ma mort je lui fus engagée, Que ses ressentiments doivent être effacés, Qu’en lui laissant mon fils, c’est l’estimer assez.10
Nel secondo monologo, a ben vedere, infatti, il nesso fra ideologia e forma drammatica è necessariamente più flebile e difficilmente rintracciabile. L’“allegoria” nel senso tipico dell’Antico Regime, che lega psicologia del personaggio e forma drammatica, è mediata dall’opacità data dalla situazione di argomento mitico; ed è inoltre difficile comprendere il nesso fra giansenismo e tragedia: il fatto, cioè, che l’indecisione di questi personaggi tragici simboleggi un rapporto problematico con il potere. Andromaque, qui, sta proibendo alla sua confidente di seguirla verso la morte e le chiede di sopravvivere per lei. Inoculando questi sentimenti nel personaggio, comprendiamo che la nobiltà d’animo della principessa è consustanziale al suo agire: la psiche vincola l’azione, che è a sua volta vincolata dall’ideologia. Solo che, rispetto alla psiche che è più in trasparenza, l’ideologia è più opaca. Lo si può evincere da 10 J. Racine, Andromaque, cit., p. 67.
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più punti: dal fatto che Andromaque disegni la costrizione cui la lega il fato tramite una serie di parentesi quasi melodrammatiche che danno respiro alle fantasie della sua mente; lo si evince poi dal fatto che la natura mitica del personaggio opacizza, con i suoi codici culturali, il ruolo ideologico-allegorico che c’è dietro alla stilizzazione drammaturgica del personaggio. Facciamo altri due esempi di questo percorso, ripartendo da Calderón: Ya sabéis que son las ciencias que más curso y más estimo, matemáticas sutiles, por quien al tiempo le quito, por quien a la fama rompo la jurisdicción y oficio de enseñar más cada día; pues cuando en mis tablas miro presentes las novedades de los venideros siglos, le gano al tiempo las gracias de contar lo que yo he dicho.11
Se Basilio non dichiarasse la sua capacità di veggente, non sussisterebbe la hybris machiavellica di cui il personaggio si macchia, e non vi sarebbe la sua personale tragedia. Anche in questo caso, dunque, il monologo, cioè il momento in cui l’azione è ferma e il personaggio non reagisce, ma al contrario esprime la sua natura di carattere drammaturgico – di emblema ci offre una traccia del tutto evidente dell’antica ambivalenza fra Parola e Azione. Il personaggio è quello che esprime tramite la sua Parola, ma tramite questa Parola trasmette un senso che è proprio di quell’ambiguità che lega la tragedia ad un passato mitico. Passando di nuovo a Racine, vediamo che lo schema si ripete: 11 P. Calderón de la Barca, La vida es sueño, cit., p. 127.
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Ah bien! connais donc Phèdre et toute sa fureur: J’aime! Ne pense pas qu’au moment que je t’aime, Innocente à mes yeux, je m’approuve moi-même; Ni que du fol amour qui trouble ma raison Ma lâche complaisance ait nourri le poison; Objet infortuné des vengeances célestes, Je m’abhorre encor plus que tu ne me détestes. Les dieux m’en sont témoins, ces dieux qui dans mon flanc Ont allumé le feu fatal à tout mon sang; Ces dieux qui se sont fait une gloire cruelle De séduire le cœur d’une faible mortelle. Toi-même en ton esprit rappelle le passé: C’est peu de t’avoir fui, cruel, je t’ai chassé;12
La risposta a Hyppolite, come spesso accade nella tragedia, diventa monologante e nelle parole “ne pense pas qu’au moment que je t’aime, Innocente à mes yeux, je m’approuve moi même” condensa tutta la contraddizione culturale non solo del personaggio, ma anche della classe sociale che ha espresso il dramma. Ma se anche stavolta il nesso epico-lirico fra parola e azione è ben presente, con il proseguire del processo di crisi che interessa la tragedia, esso si è opacizzato: come nel caso di Andromaque, anche nel caso di Phèdre il legame immaginario fra la stilizzazione del carattere e l’ideologia giansenista è diventato meno evidente rispetto a quello di Basilio e del suo machiavellismo. Non ci sono segnali del ruolo sociale aristocratico rappresentato da Phèdre, ma solo un rinvio epico-allegorico che è flebilmente intuibile: l’amore per Hyppolite come apertura al mondo si contrappone ad una istanza moralistica sublimata nella psiche del carattere, la cui dimensione emblematica giunge ad un grado di astrazione maggiore. Tutto ciò per dimostrare che l’epicità è quella componente formale della tragedia che caratterizza il quadro di comunicazione e l’organizzazione macro-discorsiva del genere ancora molto oltre il punto in cui il dramma antico si adatta. Vale a dire, in 12 J. Racine, Phèdre, cit., p. 212.
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breve, che è per via del fatto che esiste un io epico dietro il tragico che tutti i drammi la cui evoluzione abbiamo fin ora analizzato procedono secondo un criterio – per quanto problematico – di totalità organica. Questa epicità è, in altre parole il retaggio di un’epoca remota in cui la parola del drammaturgo e l’azione del personaggio si trovavano in un rapporto di ambivalenza. Con il progredire della crisi, quindi, viene posta sotto stress l’organizzazione macro-discrosiva dei drammi e il loro evolvere come “una totalità”. Sappiamo che la decisione del personaggio porterà verso la catastrofe; ma se teniamo presente solo il personaggio, senza metterlo in relazione all’io epico-lirico del drammaturgo e a tutta la sua opera, intrisa di una visione tragica idiosincratica, non cogliamo quanto il medesimo momento, con la stessa funzione, ci porti verso quella che Szondi chiama “l’assolutezza” del dramma moderno. Possiamo, infine, per sostanziare ancora queste asserzioni, e con essa le premesse per la nascita di un nuovo genere. C’è poi un’altra forma che ci racconta il mettere alla prova il quadro di comunicazione del genere, che possiamo osservare qui in immagine:
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la coerenza formale fra azione e valori culturali trova in questi due particolari drammi, La vida es sueño e Phèdre, una particolare analogia morfologica, al punto da rendere le forme, per come illustrate un esempio plastico del relitto formale del cosmo tragico interconnesso. In più, il fatto che rappresentino i due giochi di verità da cui siamo partiti nella ricostruzione formale del genere, quello hegeliano e quello aristotelico, è di per sé la traccia che l’ambivalenza fra di essi è ancora presente come segno latente e profondo della tragedia antica, nel cui universo ambiguo e polisemico “un uno” è sempre anche “un due”. Va messo in luce, tuttavia, che proprio per tali ragioni lo stress strutturale evidenziato dalla forma sinusoidale dell’illustrazione da un lato, e il progressivo psicologizzarsi dei personaggi dall’altro, ravvisabile nel perdersi del nesso ideologia-psicologia che emerge nei monologhi, non sono che due facce della stessa medaglia. Quanto più la tragedia tende verso il realismo psicologico, tanto più è posta sotto stress la forma che più di ogni altra ricorda l’universo in cui l’ambivalenza fra azione e parola era immanente al fatto drammaturgico. Con l’acuirsi della crisi ideologica, si acuisce anche la crisi della forma come totalità organica. Questo processo di stilizzazione progressiva dei personaggi che si trasformano assieme alla totalità organica di cui sono compartecipi, conduce esattamente al dramma che Szondi chiama “assoluto”, sciolto da ogni nesso fra la psicologia del personaggio da un lato e i valori in conflitto della tragedia dall’altro. Tuttavia, non ci sono solo aspetti strutturali del quadro di comunicazione da isolare per spiegare come emerge il nuovo dramma, e ciò per una semplice ragione: per quanto questo legame epico fra Parola e Azione, fin da quando l’abbiamo individuato, è sempre stato prima di tutto un’orizzonte culturale; qualcosa da cui il drammaturgo deve emanciparsi per scelta, e attraverso un lavorio interno della forma che stiamo analizzando, in grado di creare il giusto grado di
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consapevolezza sia all’autore che ai personaggi da quest’ultimo rappresentati. Per comprenderli dovremo osservare l’evoluzione viva del dramma. 5.3. Il genere letterario della volontà. Uno sguardo retrospettivo alla realizzazione sintattico-semantica
Il modo migliore per spiegare come evolve la “realizzazione semantico-sintattica” – o, ancor meglio, gli elementi strutturali di tale evoluzione realmente necessari all’emergere del nuovo dramma dal dramma precedente – è riprendere il paragone, già accennato più volte, fra la tragedia moderna e il romance barocco: La poetica normativa dell’epos prevede invece l’unità dell’azione e del carattere: occorre che il racconto si organizzi attorno a una grande impresa collettiva e a un grande eroe esemplare; occorre che i personaggi agiscano per scopi sostanziali, che non si smarriscano, che non si lascino attraversare da passioni peccaminose, o comunque estranee al fine etico per il quale si combatte [...] L’ossessione per l’unità attraversa l’epoca del platonismo estetico cristiano e del classicismo. […]13
Se ciò è vero, tuttavia i teorici contemporanei del romanzo hanno verificato un ruolo strutturale dell’entrelacement all’interno del romanzo: man mano che la trama del romanzo si complica, il ritardo cognitivo generato fra l’attesa e la suspense squalifica ontologicamente lo status epico dell’eroe e lascia più spazio alla psicologia personale del personaggio. Lo status, in altri termini, del personaggio eroico inteso come fondamento culturale, e che informa di sé le aspettative culturali di un’intera civiltà. Romance e tragedia 13 Guido Mazzoni, Teoria del Romanzo, cit., posizione 3,023.
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– ci sembra oramai chiaro – condividono strutturalmente questo nesso formale mitico fra eroe e azione: il blending cognitivo che caratterizza al contempo l’effetto tragico come crisi dei fondamenti culturali e la struttura compatta e composita dell’epos. Ma romance e tragedia condividono anche un’analogia formale nel processo evolutivo. Come avviene con il sospendu e l’entralcement del romance, anche la tragedia vede un’evoluzione, sul piano della realizzazione semantica concreta, consistente in un lento emanciparsi cognitivo della psicologia del carattere dal sistema fideistico e di credenze che essa condivide con il romance. Il realismo cui tende la tragedia è, fondamentalmente, realismo psicologico. Solo che mentre la forma-romanzo, col suo proto-genere il romance, vede un coinvolgimento attivo dell’autore, che – volutamente e sempre più elaboratamente – infittisce le trame romanzesche, l’autore del genere tragico risulta molto più passivo lungo il processo di raffinamento piscologico dei personaggi e questo, essenzialmente, per due ragioni fra di loro logicamente connesse. In primo luogo perché si cimenta in una forma essenzialmente molto più rigida e conservatrice del romanzo che, soprattutto, trova le sue radici in un passato post-mitico e lontano, piuttosto che, come avviene con il romanzo, nella forma compiuta del novel ottocentesco. Di conseguenza è esattamente lo scontro quasi brutale e implicito fra la Weltanschauung, conservatrice e idealizzata dell’autore tragico e la realtà moderna che gli si para davanti, a creare questo processo. In altri termini, mentre nel romance l’evoluzione psicologica dei caratteri vede l’autore parte attiva, nella tragedia un simile fenomeno avviene per un’inerzia formale di fondo. Carattere e Autore, Parola e Azione, quadro di comunicazione e realizzazione pragmatica condividono infatti la crisi di un medesimo orizzonte politico-culturale e partecipano entrambi di un’evoluzione cognitiva che, invece, nel caso del romance, caratterizza solo il personaggio eroico.
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Così, inevitabilmente, man mano che l’ideologia dell’autore tragico viene sconfessata dall’evolvere dell’orizzonte socio-politico in cui è incardinata, l’io epico dell’autore si ritrae e la volontà del personaggio si fa più manifesta all’interno dello spazio drammaturgico. Abbiamo ottenuto una prima risposta alla domanda con cui si è chiuso il paragrafo precedente: la volontà del carattere e l’autonomia dell’azione tragica aumenta fin tanto che, all’interno della forma tragica, è in corso questo processo di apprendimento cognitivo. Ora, l’ambivalenza – strutturale in tutto il genere tragico – fra io epico e io lirico rende difficile vedere questo sviluppo formale della volontà dei caratteri; tale fenomeno deriva direttamente dall’assenza di proairesis dei caratteri antichi cui dava sostegno lo sguardo lirico del drammaturgo. Tuttavia possiamo ricavare delle prove di un simile processo se teniamo presente che, per quanto il quadro di comunicazione rimanga costante per tutto il genere, la realizzazione semantica subisce delle decisive trasformazioni. In altri termini, come don Gutierre, anche Phédre condivide con l’autore i termini culturali in cui si muove la scelta tragica che dà luogo al rovesciamento. Nel primo caso è il fondamento culturale della sovranità, in grado di impartire giustizia all’hidalgo; nel secondo caso è la fiducia o meno nella vita mondana, ma sempre sul crinale dell’ambivalenza strutturale fra Parola e Azione. Anche Phédre, come Don Gutierre, oscilla fra due poli di una scelta tragica, ma l’evoluzione cognitiva che caratterizza i personaggi tragici permette quella che, un po’ arditamente, abbiamo definito a proposito di Phédre, una stratégie du gounflement, un riempimento, da parte dell’autore, di lunghi monologhi in cui Phédre protesta l’assurdità della scelta tragica cui deve esser sottoposta e che hanno l’effetto dilazionare l’azione. Sebbene l’io epico vincoli quello lirico proprio a questa scelta tragica, è inevitabile – se teniamo conto della lunghezza di questo tergi-
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versare – che lo spazio psicologico dedicato alla regina provochi un ritrarsi dell’istanza epica e un avanzare dell’io drammaturgico nel personaggio di Phédre. È proprio il contrasto fra la complessità di articolazione psicologica del personaggio e la necessità, tipica dell’epica, di mantenere tutto il materiale all’interno di un orizzonte ideologico coerente, ciò che provoca lo stress strutturale della forma tragica. Il medesimo processo di raffinamento psichico, dovuto alla sconsacrazione ideologica della visione tragica, lo si nota se paragoniamo, ad esempio, il rovesciamento di Mencìa allo scontro, duro ed emblematico, fra Andromaque e la tragica realtà, che dura per tutta la piéce. In Andromaque, come in Phédre, troviamo il medesimo processo dilatorio del momento che caratterizza la scelta tragica, un rigonfiamento della struttura tragica caratterizzato da monologhi molto più riflessivi e lunghi che caratterizzano la principessa troiana. Come si è documentato lungo l’analisi, il progressivo allungarsi del monologo è la testimonianza dell’evoluzione psichica dei personaggi tragici in stretta analogia con quella degli eroi dell’epica barocca, così come un chiaro segnale dell’ “assolutizzarsi”, progressivo, del dramma. Si legga quanto scrive lo stesso Szondi, commentando il monologo nel dramma moderno, ed opponendolo a quello della tragedia: Non si tratta di monologhi nel senso tradizionale della parola. Alla loro base non è la situazione, ma la tematica. Il monologo drammatico (come ha messo in chiaro Lukács) non esprime nulla che si sottragga per principio alla comunicazione. Altrimenti qui. Le parole sono pronunciate in presenza degli altri, non quando il personaggio è solo; ma sono proprio esse ad isolare chi le pronuncia. Cosí, quasi impercettibilmente, un dialogo inessenziale trapassa in una serie di soliloqui essenziali. Essi non rappresentano monologhi isolati, inseriti
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in un’opera dialogica; in essi, anzi, l’opera nel suo complesso abbandona il piano drammatico e si fa lirica.14
In questo passo sta descrivendo alcuni monologhi di Anton Checov la cui funzione è ormai a totale detrimento dello scambio drammaturgico, perché non fornisce più alcun contesto culturale ed “epico” allo scambio dialogico. Nel contesto evolutivo che stiamo analizzando, la situazione è un po’ diversa. I monologhi di Phédre e Andromaque mantengono entrambe le funzioni qui messe in evidenza. Da un lato, forniscono informazioni sul contesto ideologico “epicizzando”, come si è già visto, il dramma, spiegando così che le due principesse sono allegoria di un giansenismo tragico; dall’altro però forniscono, e molto di più rispetto al caso calderoniano, informazioni riguardanti la psiche del personaggio: ne consegue, a ciò, che è l’intera struttura epica del dramma ad “assolutizzarsi”, ovvero a distaccarsi liricamente dal piano di realtà cui si riferisce. Da questo punto di vista, probabilmente, un corpus più esteso del nostro potrebbe senza dubbio avere una visione più graduata e progressiva di un simile mutamento formale, per esempio includendo importanti opere lopesche come Fuente Ovejuna o El caballero de Olmedo, oppure come i cosiddetti drammi del dilemma corneilliano15, quali Le Cid o Horace, nel proprio computo. Tuttavia, anche volgendo lo sguardo agli autori che abbiamo esaminato, potremo trovare elementi di prova del mutamento formale della tragedia e del suo evolvere nel dramma moderno anche in quest’ambito. Se il quadro di comunicazione, necessariamente, per così dire, ‘subisce’ il progresso formale del genere, mostrandosi sempre più inadeguato all’orizzonte moderno, la dimensione performativa concreta della tragedia – in tutti i casi in cui 14 P. Szondi, Teoria del dramma moderno, cit., posizione 907. 15 Si veda su questo, ad esempio, il classico di Serge Doubrovsky, Corneille et la dialéctique du Heros, Gallimard, Paris 1982.
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l’abbiamo analizzata fin ora – necessita di questa asimmetria fra quadro di comunicazione e realizzazione sintatticosemantica, che è la sua reale ragion d’essere. Importante, in tal senso, è infine ricordare l’ambivalenza strutturale, nell’arco formale del rovesciamento, fra l’hamartia dei personaggi tragici moderni e la crisi dell’universo tragico e ideologico che ne informa la psiche. Fin tanto che il teatro tragico sarà teatro epico, sarà hamartia e dunque rovesciamento dei valori del drammaturgo e del personaggio insieme: quando verrà meno questo processo, ci sarà una simmetria totale fra i punti di vista dei personaggi in scena e non ci sarà più un primato dell’io epico sugli altri ego drammatici; solo allora, il dramma potrà smettere di essere rovesciamento, inteso come crisi al contempo di un Eroe e di una Weltanschaaung. Come si vede, siamo alla dialettica fra “libertà e vincolo, volontà e decisione”: sono le parole con cui Szondi commenta la descrizione lukacsiana della tragedia. Ma la psiche tragica può essere libera – come mostrano Phédre e Andromaque – solo nel momento di tragica scelta tra la crisi dei fondamenti culturali e il rovesciamento, nello slancio lirico in cui l’eroe patisce. In sintesi, per comprendere il nesso fra la forma tragica precedente e il nuovo dramma si tratta di intravedere l’evoluzione formale del genere tragico nella forma in cui è stata descritta, e il progressivo venir meno del nesso culturale fra Parola e Azione che persiste fino a Racine sia sul piano del quadro della comunicazione sia sul piano della realizzazione effettiva del genere. Se il quadro della comunicazione ci aveva mostrato come la società, nello sconsacrare l’ideologia del drammaturgo lo allontana dal referente mitico, la realizzazione concreta del dramma ci mostra che quanto più la psicologia del personaggio emerge in trasparenza dall’opacità dell’ideologia, tantopiù l’espressione lirica di questa psiche allontana
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quest’ultima dalla rappresentazione di un emblema. Si crea un processo ricorsivo per cui l’evoluzione psichica del personaggio contribuisce ad emanciparsi dalla retorica che descrive la forma tragica. Può la Parola emanciparsi dalle credenze che informano l’Azione tragica? Ovvero, ponendo la questione sul piano della realizzazione formale del genere, può L’Azione non più emergere da un fondo di credenze ed ideologie? Il divario fra il mito, vero quadro enunciazionale del vecchio genere, e l’effettiva realizzazione di quest’ultimo cresce sempre di più fino ad aprire uno iato culturale fra Parola e Azione incolmabile. Il legame cognitivo fra il quadro della comunicazione (Parola) e l’effettiva realizzazione (Azione), sarà, come vedremo, ravvisabile anche nell’opera di Lessing, stavolta, tuttavia, il divario formale fra la credenza mitica e l’azione drammaturgica non potrà essere più ricomposto e porterà, secondo una legge tipica della storia delle forme, all’esigenza di plasmare un nuovo genere. 5.4 I primi esperimenti tragici di Lessing: dal Samuel Henzi al Philotas.
Arrivati a questo punto, notiamo che il nostro problema formale ha mutato aspetto: se il tratto evolutivo della tragedia sin ora è consistito nel forzare dall’interno il quadro della comunicazione del genere e letterario, la nascita di un nuovo genere deve essere caratterizzata dalla realizzazione pragmatica della una nuova forma. La quale implicitamente spezzi il filo invisibile che, attraverso l’epicità, lega la realizzazione formale della tragedia alla concatenazione enunciativa fin ora esposta. Questa nuova forma di dénouement, necessariamente, dovrà emanciparsi da quella versione moderna di hamartia su cui si basa il rovesciamento del genere tragico, caratterizzante l’epoca del dramma precedente. Ciò
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avviene perché la nuova classe borghese deve trovare un proprio codice espressivo, e che quindi si caratterizzi per consapevolezza, soprattutto della propria finitudine e delle forze in gioco che generano al tragedia. Il paradosso formale dentro il quale si proverà a far emergere una tale forma è dunque quello di un dramma che eredita una forma in cui da sempre i valori e le idee sono state concepite universali, ma deve adattarli ad una condizione cognitiva e spirituale in cui il poeta è divenuto consapevole, in verità, di essere storicamente collocato e in cui tali idee devono entrare in una nuova relazione dialettica con l’esterno. Nell’ambito di quella tensione riformistica che caratterizzò la nascita del dramma moderno, da Diderot allo stesso Lessing, una delle principali ragioni di interesse della produzione drammaturgica lessinghiana consiste nel fatto che essa permette di seguire l’evoluzione formale che conduce a questa nuova modalità di enunciazione tragica e ad un nuovo posizionamento dell’io tragico in rapporto alle forze sociali che producono la crisi del sistema di valori del drammaturgo. Il nostro modo di fare affiorare il nuovo dramma dalla tragedia consiste nel rispondere alla domanda su come esso possa esprimere “a modo proprio” il tragico, quali siano le conseguenze, in questa nuova modalità di espressione del tragico, sul genere in sé. L’estetica del larmoyante, ampiamente nota e studiata nel secolo lessinghiano, ha un nesso certo con il processo di raffinamento psicologico da noi registrato fin ora nel dramma. Tuttavia, proprio per stabilire un nesso evolutivo – al contempo formale e culturale – tra il dramma precedente e il nuovo dramma, sembra più importante stabilire quali siano le conseguenze di una simile trasformazione sul modo tragico. La nostra tesi è che per giungere a questo risultato – che vedremo, caratterizza l’Emilia Galotti, nella sua espressione più chiara – acquisiscono un notevole valore epistemologico due opere precedenti, con i quali Lessing tentò la
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tragedia, nonché il primo Bürgherische Trauerspiel da Lessing scritto, Miẞ Sara Sampson. Come si accennava sopra, secondo un aspetto tipico dell’evoluzione delle forme anche nel caso di questi due frammenti ed esperimenti drammaturgici ritroviamo in piccolo un’idea codificata dal formalismo russo e basata sul polemos fra forme e visioni del mondo. Più specificamente, sia in Samuel Henzi che nel Philotas, l’autore replicò il quadro comunicativo del genere tragico precedente, ovvero l’epica, fondendo la psicologia tragica del personaggio con la propria ideologia, e alla persistente presenza di un io epico, ma fallendo, in un modo o nell’altro, nel concludere l’enunciazione. Lo iato culturale fra il mito e l’azione tragica è ormai troppo grande perché tale operazione formale potesse andare a buon fine, e il disincanto nei confronti del mito, generato dal progredire della forma tragica, era arrivato a tal punto che Parola e Azione, quadro di comunicazione, io epico-lirico e psicologia drammaturgica, non potevano più essere tenute insieme. Per enunciare il tragico Lessing dovrà prendere atto di questa dissonanza fra l’io epico e l’azione drammatica, causando definitive variazioni formali nel genere. Il primo dramma, dalla coloritura politica, narra le vicende di un giornalista oppositore al regime oligarchico del Consiglio di Ginevra nei tumulti che attraversarono Berna appena dieci anni prima della composizione dell’opera16. La metrica 16 “Nel 1749 i cittadini di Berna non rappresentati nei Consigli tentarono di rovesciare il patriziato cittadino al governo, che riuniva ca. 80 delle 350 famiglie cittadine. Questa lotta di potere, a Berna denominata inizialmente “chiasso dei cittadini” (Burgerlärm) – il termine congiura di Henzi venne coniato solo più tardi da giornali stranieri – ebbe motivazioni simili ad altre rivolte cittadine avvenute nei Cantoni aristocratici nel corso del XVII-XVIII sec. La congiura si diresse contro l’oligarchia di un numero sempre minore di famiglie., che monopolizzavano i seg-
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in alessandrini del Samuel Henzi non fa che confermare la solennità con cui viene percepito l’eloquio, e dunque anche l’importanza dell’eroe tragico che li declama. Tuttavia è proprio lo sviluppo cognitivo della psicologia tragica – la quale coinvolge, ricordiamo, al contempo drammaturgo e personaggio – che porta ad un imbarazzo strutturale nel concludere l’enunciazione della tragedia. Siamo alla nostra tesi di fondo: se c’è una via con cui far emergere il nuovo dramma a partire dalla tragedia precedente, è quella di un definitivo distacco tra il quadro di comunicazione “mitico” in cui si esprimeva la vecchia forma, basato sul principio per cui il senso epico dei fatti è ormai invisibile, ma ciò può avvenire solo tramite una scelta “culturale” cui il processo formale stesso conduce. Come noto, Samuel Henzi è un eroe creato al fine di corrispondere al repubblicanesimo non-violento che informava anche la mentalità lessinghiana. Ciò corrisponde ad una declamazione di princìpi, da parte del ribelle ginevrino, che lo portarono a rifuggire la rivolta e lo scontro aperto, il cui modello e negativo è incarnato invece dal perfido Dücret, agitatore di folle. Si riporta qui sotto un dialogo fra i due, in cui si contendono l’appoggio dei Bernesi, esemplificati qui dal personaggio di Werneir: gi nei Consigli e di conseguenza anche le cariche pubbliche più lucrative. Il malcontento dei cittadini bernesi si era già manifestato nel 1710, 1735 e 1744 con la stesura di memoriali che esigevano un cambiamento del sistema elettorale per il Gran Consiglio e l’apertura dell’élite aristocratica in modo da rendere il governo accessibile a tutte le famiglie cittadine. Il patriziato cittadino specie nel 1744 aveva reagito con severe punizioni (tra l’altro bandendo Samuel Henzi, autore del memoriale).” Dubler, A. M., Henzi, congiura di, in Dizionario storico della Svizzera (DSS), tr. It. S. Mantovani. Online: https://hls-dhs-dss.ch/it/articles/017206/2006-08-30/, versione del 30.08.2006. Cfr. anche su questo U. Hafner, Auf der Suche nach Bürgertugend. Die Verfasstheit der Republik Bern in der Sicht der Opposition von 1749, in Republikanische Tugend, a cura di M. Böhler, M. Böhler, E. Hofmann, P. H. Reill, e S. Zurbuchen, 2000, 283-299.
Epilogo su Lessing e il dramma borghese369 Dücret Ha! alles steht uns bei. Hat Henzi Mut genug, so sind wir morgen frei. Henzi Ein Geist wie du, hat stets die Vorsicht ausgeschlagen. Was wüßtest du auch mehr, als tollkühn dich zu wagen? An Mute fehlt mirs nicht. Doch an Bedacht fehlts dir. Dücret O an Bedacht! Doch sprich, war Wernier nicht hier? Vertraust du dich dem auch? Henzi Kann ich mich dir vertrauen, So kann ich doch wohl auch auf einen Berner bauen. Dücret Trau, Henzi, traue nur, bis du verraten bist. Was hilfts ein Berner sein, wenn man ein Sklave ist? Ich kenn ihn mehr als du. Er ist dem Rat gewogen, Sonst hätt er längst mit mir ein festes Band vollzogen. Warum nimmt er mich nicht zu seinem Tochtermann? Weil er den Feind des Rats in mir nicht lieben kann.17
Dücret Ah! Tutto è dalla nostra parte. Se Henzi ha abbastanza coraggio, domani saremo liberi. Henzi Una mente come la tua ha sempre rifiutato la prudenza. Cosa sapresti di più che osare avventatamente? Il coraggio non mi manca. Ma a te manca la prudenza. Dücret Oh la prudenza! Ma dimmi, Wernier non era qui? Ti fidi anche di lui? Henzi Se posso fidarmi di te, posso sicuramente contare su un Bernese. Dücret Fidati, Henzi, fidati finché non sarai tradito. A che serve essere un Bernese se sei uno schiavo? Lo conosco meglio di te, è ben disposto verso il Consiglio, altrimenti si sarebbe legato molto tempo a con me. Perché non mi prende come marito di sua figlia? Perché non può amare in me il nemico del Consiglio.18
Di questo dramma, che testimonia tutta la lontananza di Lessing da ogni forma di violenza ed ogni forma di ribellismo rivoluzionario, è importante sottolineare il grande rilievo che ancora assume la caratterizzazione del personaggio tragico – tutt’ora, a questo stadio di evoluzione della tragedia – come portatore di una serie di valori culturali; lo si nota, in primo luogo, nelle lunghe tirades che Samuel pronuncia nel terzo atto in favore della libertà umana (Freiheit) e della verità (Warheit):
17 Lessing, G. E. Samuel Henzi in G. E. Lessing, Die wichtigsten Dramen von Gotthold Ephreim Lessing, Indipendent publishers group, Chicago 2017, p. 745. 18 Tr. it. mia.
370 Bin ich noch euer Freund? – – Bestürzt euch diese Frage, So gönnt mir, daß ich euch als Freund die Wahrheit sage. Der große Tag ist da, der Bern und euer Wohl, Mit Bitten oder Macht, stets billig, richten soll. Doch wünsch ich blieb er nur so lange noch entfernet, Bis ihr was Tugend sei, was eure Pflicht, gelernet. Noch kennt ihr beides nicht. Und wünschet frei zu sein? Wißt, Pflicht und Tugend nur muß dieses Glück verleihn. Ein Lasterhafter kann zwar ohne Herrscher leben, Stolz ohne Ketten gehn, vor keinem Richtstuhl beben; Doch alles dieses ist der Freiheit kleinster Teil. Nur gleichgeteilte Sorg um das gemeine Heil; Nur fromme Sicherheit, rechtschaffen ungezwungen, Nicht unbelohnt zu sein, und nie zur Lehr gedrungen, Der Wahrheit die man fühlt, nicht die der Priester sehn, […]19
La nascita del dramma moderno Sono ancora vostro amico? Se questa domanda vi sgomenta, permettetemi di dirvi la verità come amico. È giunto il grande giorno, che giudicherà Berna e il vostro benessere, con supplica o potere, sempre a buon mercato. Ma vorrei solamente che rimanesse lontano così a lungo, finché non abbiate imparato qualcosa di virtù, del vostro dovere. Ancora non conoscete nessuno dei due/ Entrambi vi sono ancora sconosciuti. E desiderate essere liberi? Sappiate che solo il dovere e la virtù deve conferire questa felicità. Un uomo vizioso può vivere senza un governante, l’orgoglio può camminare senza catene, senza tremare davanti ad alcun giudizio; ma tutto questo è solo la più parte più infima della libertà. […] la verità che si sente, non quella che i sacerdoti ci insegnano, […]20
In quel che viene considerato il primissimo esperimento tragico di Lessing, abbiamo un chiaro riferimento all’uso alto del linguaggio tragico applicato a quel che, per la prima volta, doveva sembrare importante a Lessing stesso: non più il fondamento mitico (o storico-politico), ma un fatto di cronaca recente, la cui dignità richiedeva, però, l’altezza del metro. E tuttavia l’ambivalenza strutturale fra Parola e Azione, che accompagna l’evoluzione del nostro genere letterario dalla sua origine, ci insegna che lo statuto tragico del genere è consustanziale all’espressione verbale di chi lo pratica. Lessing, insomma, in Samuel Henzi, utilizzando un metro tradizionalmente tragico mostra di sposare (consciamente o inconsciamente) il legame fra l’epicità e la psicologia del personaggio, in un contesto che però, cognitivamente, aveva già maturato un’emancipazione parziale dall’epicità; tanto della ideologia del drammaturgo 19 Ivi, p. 767. 20 Tr. It. mia.
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quanto del personaggio. Il fatto che Samuel Henzi giaccia incompiuto, è esattamente la testimonianza che questa ambivalenza fra Parola e Azione non può che essere oramai radicalmente problematizzata. Nel suo monumentale studio lessinghiano, Hugh Barr Nesbit ha ricostruito le ragioni più probabili che portarono Lessing a lasciare incompiuta l’opera: Varie spiegazioni sono state suggerite per il suo abbandono del frammento – per esempio che gli ideali che hanno ispirato Henzi non potevano essere espressi in modo drammatico, e anche che Henzi era succeduto al suo governo (non eletto) avrebbe negato gli stessi ideali per cui ha combattuto. Ma poiché l’opera è una tragedia, è proprio il fallimento di Henzi che Lessing si preoccupa di drammatizzare. Il dilemma morale rimane, e Lessing certamente non era amico della rivoluzione violenta. Ma nessuna rivoluzione era prevista dal dramma pianificato, cosicché la necessità di affrontarla difficilmente poteva essere da impedimento nel portare a termine il suo compito. Il suo stesso commento al dramma ci indica, tuttavia, alcune difficoltà più serie. Lo scopo del lavoro, come dichiara, era di presentare ‘l’agitatore in opposizione al vero Patriota. Henzi è il Patriota, Dücret l’agitatore, Steiger il vero capo di Stato, questo o quel Cancelliere l’oppressore’. La vaghezza sull’identità dell’oppressore rivela una grande difficoltà. Se avesse completato il frammento, avrebbe dovuto individuare un singolo soggetto reale come la vera incarnazione di simili qualità oppressive […]. Etichettarlo come oppressore, avrebbe rischiato ripercussioni politiche, anche in Prussia, e non avrebbe fatto bene alla causa per cui Henzi stava combattendo.21
Il biografo in questo brano sintetizza almeno due diverse ragioni della rinuncia lessinghiana a concludere l’opera. La prima22 sembrebbe descrivere una sorta di double-bind con21 H. B. Nesbit, Gotthold Ephreim Lessing, his life, his works, his thought, Oxford University Press, Oxford 2013, p.197. 22 H. Kraft, Gleichheit und Heldentum. Lessingsentwurf eines burgerlichen Drama im Fragment “Samuel Henzi” in Genius
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traddittorio fra la necessità di terminare l’opera e la necessità di rispettare i valori etici professati da Henzi; il valori professati dall’attivista svizzero sarebbero troppo preziosi per essere rappresentati con uno stile drammatico, e per essere condotti alla rovina. La seconda farebbe riferimento alla inappropriatezza politica di un dramma che espliciti un’avversità ideologica verso l’autorità di un paese straniero; ma, potremmo dire, verso qualsiasi evento politico di tale prossimità geografico-temporale. In entrambi i casi, e in particolar modo nel primo, la rinuncia a concludere Samuel Henzi assume interessante rilievo per l’evoluzione viva del dramma. Si è visto come tutta la rassegna dei drammi barocchi fin ora presentati mostrano un’ambivalenza strutturale fra la crisi della visione tragica dei poeti e crisi dei caratteri. Solo l’evoluzione cognitiva che caratterizza un percorso verso il dramma moderno potrebbe giustificare un simile double-bind. Quando Nesbit scrive, per sottrarre credito alla prima ipotesi, che in ogni caso Lessing non avrebbe dovuto far altro che rappresentare la crisi dei valori repubblicani in un’opera tragica, non tiene conto del ruolo ambivalente che caratterizza l’hamartia tragica lungo lo sviluppo formale di questo genere letterario: crollo, inconsapevole, sia dei valori che dell’eroe. Il fatto che il soggetto incarnante i valori del frammento, o meglio l’io epico che si nasconde dietro quello drammaturgico di Samuel, sia giunto ad una maturazione cognitiva diversa, che emancipa i valori culturali dall’idea di un hamartia tragica di questi valori, è già un segno dell’evoluzione del genere, e potrebbe essere un primo indizio di un’evoluzione interna al corpus lessinghiano, dalla tragedia barocca al dramma. La prospettiva che dobbiamo assumere è dunque quella di una dissonanza fra l’io epico dell’autore Lessing e huius loci. Dank an Leiva Petersen, a cura di D. Kuhn e B. Zeller, Bölhau 1982, pp.17-31.
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la tragedia basata sull’hamartia, intesa nel senso moderno che abbiamo chiarito ancora nel paragrafo precedente. La prima tesi avrebbe un senso, dunque, se pensiamo alla realizzazione di una tragedia basata sui criteri formali del genere che abbiamo sin ora descritto in re, che confligge con nuova consapevolezza del poeta, riguardante i rapporti di forza fra gli ideali da lui professati e il contesto sociale. L’imbarazzo formale nel concludere la tragedia sarebbe dunque legato a questa non-coincidenza – maturata nel tempo attraverso il conflitto tra epica e lirica – fra l’evoluzione della tragedia e la sua elaborazione formale sempre frutto, in un modo o nell’altro, di un hamartema, per così dire, sia della visione del mondo del poeta, sia del carattere: in questo caso il poeta è consapevole dei rischi impliciti nel rappresentare la propria visione del mondo. Anche accettando la seconda delle due tesi, effettivamente caldeggiata da Nesbit, dovremmo concludere che la noncompiutezza del Samuel Henzi deriva da una dissonanza formale fra l’io epico e il senso tragico esplicitato nel frammento. Difatti, quello che lo stesso Nesbit definisce “a complicated campound between baroque and realism”23 rappresentava in chiave tragica un evento politico prossimo al poeta stesso. Questa stessa caratteristica mette in crisi un aspetto strutturale del genere tragico per come è stato descritto sin ora: l’epicità di un fatto è qualcosa che avviene in un passato che è fondamento delle credenze di un drammaturgo, e che deve essere reiterato in una sorta di pseudo-presente finzionale. È dai tempi della censura ateniese della Presa di Mileto di Frinico che la tradizione tragica è consapevole del rischio di rappresentare fatti troppo prossimi alla memoria: e si ricordi anche quanto abbiamo già rievocato con la veste da a proposito de La vida es sueño di Calderón, tragedia travestita da Comedia Palatina per evitare riferimenti alla realtà concreta. 23 H. B. Nesbit, Gotthold Ephreim Lessing, cit., p. 219.
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L’impossibilità di nascondere i propri valori e la propria visione del mondo in un passato mitico, e la presa di consapevolezza che essi debbano essere raccontati in un contesto come il presente, può aver preso in contropiede il poeta nell’uso della componente epica della tragedia, dissuadendolo dal portarla a termine. Entrambe le ipotesi, dunque, ci testimoniano che Samuel Henzi è una valida traccia del processo di crisi strutturale della forma tragica, intesa come crasi fra epicità e lirismo. Tutti questi indizi ci dimostrano, insomma, che l’incompiutezza di questo Trauerspiel ha a che fare con il processo di evoluzione del quadro di comunicazione del genere precedente, quando Parola e Azione ancora convivevano. Per dimostrare che un simile processo di crisi di una vecchia forma venga portato a termine in Lessing, dovremo aspettare l’Emilia Galotti, anche se Miẞ Sara Sampson ha già i tratti del Bürgerliche Trauespiel. Ciò sia per la forma larmoyante del dramma, sia per l’uso della prosa borghese realista, sia per l’ambientazione e i temi borghesi, il tipo di dénuement patetico e lacrimevole, con Miss Sara morente nel letto e Mellefont al suo capezzale, non ci dice molto della evoluzione delle forme tragiche in re: il patetismo del finale nel letto è il segno che il nuovo dramma è già in qualche modo compiuto nella penna di Lessing, ma il dénuement di quest’opera non mostra come tale compimento sia stato possibile attraverso l’evoluzione cognitiva che porta quest’ultimo ad emanciparsi dalla forma del rovesciamento e dell’hamartia come crisi di un intero sistema di valori. D’altro canto, sono stati individuati in Miẞ Sara alcuni elementi formali della tragedia classica, come l’attenzione a concentrare, nel presente, degli eventi sulla scena24. Nello specifico, Anne Schmeising, attraverso una sottile analisi ha dimostrato come la stilizzazione psicologica dei personaggi prinicipali di que24 A. Schmeising, Remebering and forgetting in Miẞ Sara Sampson, in Lessing Yearbook, 35 Chicago 1995 pp. 17-32.
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sto Trauerspiel, non corrisponde ad esigenze di mimesi psicolgica, ma di compattamento strutturale dell’azione. Così come non mancano evidenti limiti, in questo primo Bürgerliche Trauerspiel, all’applicazione di questo modello: Ci sono, in ogni caso, grandi ostacoli nel paragonare l’azione con quella della tragedia classica. La morte di Sarah è almeno in parte il risultato di circostanze fortuite (…) ed è, in ogni caso, al di là di ogni proporzione colpa sua, colpa della quale, in ogni caso, si è pentita e di cui è stata perdonata (…) non c’è certamente giustizia poetica in questa circostanza.25
Concentrandosi un’istante su quelle che Nesbit rileva essere le contraddizioni fra il modello classico di tragedia e Miẞ Sara; notiamo con chiarezza come siano elementi legati al nuovo statuto psicologico del dramma, e al sottrarsi di un rapporto fra la rappresentazione psicologica dei personaggi e la loro statura etica: lo dimostra il finale di Miẞ Sara, molto più larmoyante che tragico, molto più incline a far piangere che a descrivere lo statuto del modo tragico nel nuovo dramma. Con cautela, però, possiamo affermare che l’estrema concentrazione spazio-temporale dell’azione rilevata dalla critica potrebbe essere un indizio della permanenza del teatro epico all’interno di una maturazione cognitiva già esplicitamente larmoyante. Ma se entrambe le tesi sono giuste, quella di Schmeising. e quella di Nesbit, dobbiamo necessariamente concludere che è in corso, in Miẞ Sara Sampson, una sovrapposizione di codici fra il vecchio genere e quello nuovo, l’effetto cercato è quello lacrimevole, ma la gestione del materiale drammatico risponde a regole culturali e psicologiche legate al vecchio genere. Torniamo, dunque, al problema iniziale: all’interno di un quadro di comunicazione ormai mutato, può il nuovo genere esprimere il tragico? E qual è il legame di questo nuovo 25 H. B. Nesbit, Gotthold Ephreim Lessing, cit. p.198.
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genere con il teatro epico? Le due domande si tengono insieme. Non è, questo, problema che abbia a che fare con valutazioni ideologiche sullo statuto tradizionalmente controverso, del dramma borghese26, quanto proprio con la definizione del genere in sé. Il fatto che una simile trasformazione formale sia in corso è del resto testimoniata dal successivo esperimento tragico, Philotas. Nel Philotas, piccolo dramma di un atto, è più che evidente la crisi di quello che sin dall’inizio ha caratterizzato il nostro genere letterario: il legame, ambivalente, fra azione e ideologia. Innanzitutto, a proposito di quest’opera, notiamo alcuni elementi simmetricamente rovesciati rispetto al Samuel Henzi. Se quest’ultimo era una tragedia in versi solenni di argomento quasi contemporaneo, il Philotas è un’opera totalmente in prosa, ma ambientata in un passato arcaico e prossimo all’epica. La trama vede il giovane Philotas prigioniero durante la sua prima battaglia. Mentre è in carcere, Philotas riceve la visita del re Arideus, legato da una remota amicizia con il padre del giovane, ma ormai avversario di guerra: per tutto il dramma Philotas mostrerà per il padre una venerazione ai limiti dell’ossessività. Arideus gli rivelerà che anche suo figlio è stato fatto prigioniero dall’altra parte del campo, e che i due sovrani stanno pianificando uno scambio di prigionieri. Terrorizzato dall’idea che il padre possa scoprire l’onta di essere stato catturato, Philotas commetterà alla fine del dramma una sorta di versione grottesca del suicidio stoico cornelliano, da cui traspare tutta la sua incertezza e la sua immaturità: 26 Il termine “Bürgerliche Trauerspiel” ha una sua polisemia su cui dibattono i critici; dalla traduzione “dramma da camera” a quella, di ascendenza marxista, che mette più l’accento sulla divisione per classi; è stata fra l’altro contestata da Lothar Plkulik per la presenza di molti personaggi aristocratici all’interno della produzione di quegli anni. Cfr. Zum Gebrauch der Begriffe ‘Burger’ und ‘burgerlich’ bei Lessing, in Neophilologus, 51; L. Plikulik, ‘Burgerlich Trauerspiel und Empdindsmakeit, Böhlau, Köln 1993.
Epilogo su Lessing e il dramma borghese377 Philotas Nur mit meinem Vater sprach ich nicht; denn ich zitterte, wenn er mich noch einmal sähe, er möchte sein Wort widerrufen. – Nun zogen wir aus! An der Seite der unsterblichen Götter kann man nicht glücklicher sein, als ich an der Seite Aristodems mich fühlte! Auf jeden seiner anfeuernden Blicke hätte ich, ich allein, ein Heer angegriffen und mich in der feindlichen Eisen gewissesten Tod gestürzet. In stiller Entschlossenheit freute ich mich auf jeden Hügel, von dem ich in der Ebene Feinde zu entdecken hoffte; auf jede Krümmung des Tals, hinter der ich auf sie zu stoßen mir schmeichelte. Und da ich sie endlich von der waldigten Höhe auf uns stürzen sahe; ihnen bergan entgegen flog – rufe dir, ruhmvoller Greis, die seligste deiner jugendlichen Entzückungen zurück – du konntest nie entzückter sein! – Aber nun, nun sieh mich, Strato, sieh mich von dem Gipfel meiner hohen Erwartungen schimpflich herabstürzen! (…)27
Philotas Solo con mio padre io non ho parlato; poiché temevo potesse ritrarre la sua parola se mi avesse rivisto. Al fianco degli dei immortali nessuno può sentirsi felice più di quanto io non mi sia sentito a fianco di Aristodemo. Uno sguardo di incoraggiamento da parte sua, e avrei attaccato il nemico da solo, e mi sarei gettato verso morte certa per mezzo delle spade nemiche. Con quieta determinazione avrei gioito ad ogni collina, da cui avrei potuto discernere il nemico nella piana sottostante, ad ogni fianco della vallata mi sarei esaltato all’idea che ci saremmo abbattuti su di loro. E quando infine li ho visti correre verso di noi dalle altezze boscose, volai su di loro – rammenta, oh rinomato vegliardo, la più felice delle estasi della tua gioventù! – Ma adesso guardami, Oh Strato, guardami cadere con tale ignominia dall’altezza delle mie aspettative! (…) 28
Difficile sintetizzare, qui il lungo dibattito sulla legittimità del suicidio stoico di Philotas, su quanto debba essere visto come una parodia del teatro eroico di Corneille29. In uno storico saggio Leonello Vincenti si interrogava su quanto il Philotas fosse da intendersi tanto combaciare all’“ispirazione tragica”:
27 Philotas in G. E. Lessing, Die wichtigsten Dramen von Gotthold Ephereim Lessing, cit., p. 745. 28 Tr. it. mia. 29 Sulle problematiche della tragedia, più recente cfr. H. J. Schneider, Aufklärung des Tragödie, Lessings, Philotas in Hannelore Mundt, E. Schwartz, W. Lillyman (a cura di) Horizonte, Festschrift, fur Herbert Lernrdt aum 65 Geburstag, Tübingen, 1990.
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Soddisfa questa esigenza il Philotas, o non piuttosto deve il suo effetto drammatico all’ammirazione, allo stupore perfino destato dal carattere del protagonista? […] Fosse il Philotas opera di un altro, si sarebbe stati più facilmente disposti ad accettarlo e a giudicarlo per quello che è. Essendo dell’autore del Nathan, si è continuato a fare a undipresso come il Gleim, non si è riconosciuto Lessing, perché il giovanotto suicida non pareva degno di lui […] Nella tensione volontaristica di un’epoca di guerra eran possibili gli anticipi, pagandoli però con quel tanto d’inverisimile, che han tutti li sforzi improvvisi […] La sua estremità, la sua ostinazione all’eroismo non sono qualcosa di voluto o artificioso, perché hanno vita dal centro di un’anima. Il lettore – più ancora dello spettatore – avrà non disprezzabili ragioni per pensare che il poeta abbia trattato con qualche eccesso razionalistico e arbitrio strutturale il caso immaginato; ma questo è da valutarsi in un secondo tempo, quando si dovrà studiare come potesse un Lessing ideare un siffatto personaggio e come gli avvenissi di trattarlo. Intanto basta constatare che la sua intenzione è genuina e concretamente rappresentata.30
Fra i nomi illustri che obiettarono l’incoerenza strutturale del Philotas c’è sicuramente Johann W. Gleim, che appena lesse il dramma ritenne di doverlo versificare per fargli avere una coerenza strutturale maggiore: ovvero riportare il testo al codice del genere da cui esso, al contrario, si stava emancipando. Se molta parte della tradizione suggerisce che la ripresa dello stile pomposamente patriottico del Philotas è dovuta alla frettolosa e altisonante riproposizione dello stile epico nel dramma barocco per la celebrazione di un martire della Guerra dei Sette Anni come Ewe Kleist31, è necessario 30 L. Vincenti, Il Philotas di Lessing Saggi di Letteratura Tedesca, Riccardo Ricciardi Editore, Milano – Napoli 1953, p.29. 31 Nesbit, nella sua biografia, sembra ridimensionare molto, nella genesi del Philotas l’ispirazione alla vicenda di Kleist, tradizionale e sostenuta anche da Vincenti. Allo stesso tempo, Nesbit è costretto ad ammettere che il Philotas sarebbe qualcosa di più
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in ogni caso vedere come una simile sovrapposizione di stili, così come la conseguente implausibilità del finale tragico assume nel nostro discorso sull’evoluzione della tragedia un ruolo centrale. Non sfugga l’analogia, del resto, con quel che sarà il finale dell’Emilia Galotti: il giovane Philotas non si pugnala da solo: chiede aiuto al compagno di cella Strato, così come Emilia farà con Odoardo. Anche questa mistura fra realismo psichico, intimismo e retorica patriottica nel Philotas è un indizio del double-bind della forma tragica ancora dopo la pubblicazione di Miẞ Sara Sampson proprio perché il nuovo dramma deve trovare ancora le parole per esprimere da sé il tragico: come fare a coniugare l’idea di una forma, da sempre espressione di valori universali, come l’amore per la patria e la solennità dei fasti bellici, con lo sviluppo di un patetismo e un larmoyante, già vera conquista formale e cognitiva del nuovo dramma? Non possiamo, del resto, non renderci conto del fatto che i lunghi monologhi di Philotas sono essi stessi frutto del processo di elaborazione cognitiva della psiche tragica da noi fin ora illustrata e sintetizzata nel paragrafo precedente. Sono monologhi lirici nel senso in cui lo sono quelli di Phédre e di Andromaque e in un senso in cui quelli di Mencia non possono ancora essere. È proprio questo double-bind che rende entrambi i drammi interessanti dal punto di vista teorico per l’evoluzione della tragedia, vero e proprio ponte verso una nuova forma. Nel Philotas l’io epico sembra non rendersi conto della dissonanza che crea nello spettatore l’associare il registro patriottico e le venature della morale stoica enunciate dal personaggio, con il ritratto del fanciullo vivido, commosso e spaventato descritto da Vincenti, affidate ad un registro liri(“something more”) di una semplice parodia di Corneille, senza chiarire a cosa altro debba attribuirsi l’incongruità fra i due registri. Se la nostra tesi è corretta, essa deriva dal permanere di un compromesso epico-lirico nel dramma, ben oltre le possibilità espresse dalla sua forma. Cfr. Nesbit, Lessing, cit., p. 217
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co. Philotas è lirico, nel senso che i lunghi monologhi sul desiderio puerile di guadagnarsi la gloria in battaglia, un’io primo di funzioni deittiche dello pseudo realismo dell’epica. Epica e lirica convivono ancora nella stessa forma, ma si contraddicono ormai inevitabilmente: senza lo sviluppo lirico dei monologhi di Phédre, non potremmo avere Philotas, ma al contrario del caso precedente, la forma epica non può contenere quella lirica, in questo dramma, senza entrarvi irrimediabilmente in contraddizione: tutto sembra segnalare come l’evoluzione strutturale del genere porti a questo dramma come sua ultima propaggine. Proprio una simile contraddizione fra l’epicità delle due figure tragiche – Samuel e Philotas – e il contesto culturale e discorsivo in cui si trova Lessing, è ciò che spingerà l’autore a creare una tragedia che, per ottenere di nuovo un effetto scontro tra forze inarrestabili, ovvero uno scontro tragico, debba spezzare il nesso ideologico fra la parte iniziale della tragedia e il suo dénuement. Come vedremo di seguito, il perno dell’effetto tragico dell’Emilia Galotti, anche grazie al noto stile prosastico, è il conflitto interiore fra il senso di innocenza provato dalla protagonista e la scoperta del desiderio erotico. Se da un lato questo implica una interiorizzazione definitiva del conflitto tragico, tale interiorizzazione permette alla tragedia di aggirare lo schema tragico dell’hamartia e di completare così l’evoluzione cognitiva che caratterizza l’evoluzione della tragedia lungo la modernità, permettendo al personaggio di vedere anche oltre la Weltanschaaung del poeta. Lessing abbia dovuto scrivere una tragedia in cui la protagonista si mostra consapevole della parzialità del proprio sentimento tragico, dando vita non più a un dramma basato sulla rappresentazione della realtà come totalità, bensì sull’idea dell’io drammaturgico come frammento. Ancora una volta, la trasformazione fra le forme nasce per via una contraddizione interna ormai percepita come insostenibile, così Szondi:
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è possibile sviluppare una vera e propria semantica della forma, e la dialettica di forma e contenuto appare come dialettica tra enunciazione formale ed enunciazione contenutistica. Ma cosí è data anche la possibilità che l’enunciazione contenutistica entri in contraddizione con quella formale. Se infatti, quando forma e contenuto si corrispondono, la tematica contenutistica si muove per cosí dire nell’ambito dell’enunciazione formale, come qualcosa di problematico entro qualcosa di non problematico, la contraddizione si determina quando l’enunciazione formale – fissa e non problematica – è resa problematica dal contenuto. 32
Esattamente quanto accade nel Philotas: il nesso fra epica e lirica, dato formale che rimane fisso e silenzioso nella forma tragica, a causa dei mutamenti strutturali dovuti a fattori interni ed esterni che abbiamo descritto, diviene a un certo punto problematico ed inadeguato a svolgere la funzione che aveva svolto fin ora, e cioè raccontare lo scontro tragico dal punto di vista privilegiato dell’io epico. La contraddizione fra i valori universali ed un io non più in grado di percepirsi al centro del mondo rappresentano un nesso discorsivo sicuro, interno all’opera di Lessing, fra Il Philotas e l’Emilia Galotti; l’eliminazione dell’io epico, in questa nuova forma, nasce però da una contraddizione al contempo culturale, formale e cognitiva che non è frutto, come si è mostrato, della sola poetica di Lessing; è piuttosto interna al genere precedente, ed il Philotas ne è la punta discorsiva. Tale condizione riflette, repressa nella struttura formale, la contraddizone alla base dei drammi di Lessing che stiamo studiando: la necessità di rappresentare dei valori universali attraverso la consapevolezza di un’esistenza parziale, sia sul piano della Parola che sul piano dell’Azione. Philotas ci mostra che l’evoluzione del dramma è giunta a maturare uno stile psicologicamente realistico, ma ciò non si dà nel concreto dell’Azione. Quando 32 P. Szondi, Teoria del dramma moderno cit,. p. 21.
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Emilia Galotti rivivrà la stessa contraddizione fra valori universali e coscienza individuale, rinuncerà però a entrambi gli stili che avevano contribuito, fin ora, a rappresentare queste due emozioni: l’epica e la lirica. 5.5 L’emergere di un nuovo genere: un’analisi dell’Emilia Galotti
La tesi che si dimostra adesso è per l’appunto che l’Emilia Galotti risolve la dissonanza fra io epico e io drammatico di Samuel Henzi e, soprattutto, di Philotas. Per descrivere il testo, si vogliono seguire le considerazioni emerse dall’analisi del saggio di Oliver Simons, dal titolo Literary conclusions. Per cercare di fornire un’interpretazione del problematico finale di questa tragedia, Simons si interroga su quale sia il punto adatto di questo dramma da cui cominciare l’analisi del finale. Da dove “comincia” il finale di un’opera, seguendo la tradizione? La risposta risiederebbe nel modello aristotelico basato sull’hamartia: Secondo la poetica di Aristotele, il punto di partenza per una simile indagine è il concetto di Hamartia, l’errore segnato da un fato infelice che provoca nell’eroe una serie di tragici eventi […] nonostante il suo scetticismo nei confronti dell’interpretazione precedente del concetto di Hamartia, Lessing sembra utilizzarlo quantomeno come uno dei tanti catalizzatori per innescare una serie di eventi tragici.33
In questo caso l’hamartema, secondo tale condivisibile interpretazione, potrebbe verificarsi nella scena sesta del 33 O. Simons, Literary conclusions: The poetics of ending in Lessing, Goethe and Kleist, Northwestern university press, Evanston 2022.
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secondo atto, quando Emilia entra ex abrupto nella camera di Claudia, sua madre, e racconta delle avances ricevute dal Principe Guastella: Emilia Eben hatt’ ich mich – weiter von dem Altare, als ich sonst pflege – denn ich kam zu spaet –, auf meine Knie gelassen. Eben fing ich an, mein Herz zu erheben: als dicht hinter mir etwas seinen Platz nahm. So dicht hinter mir! – Ich konnte
Emilia Mi ero appena… piú lontano del solito dall’altare, ero arrivata tardi… mi ero appena inginocchiata… avevo cominciato a elevare l’animo verso Dio… quando qualcuno ha preso posto dietro di me… ma proprio vicino, proprio dietro… Non
weder vor noch zur Seite ruecken – so gern ich auch wollte; aus Furcht, dass eines andern Andacht mich in meiner stoeren moechte. – Andacht! das war das Schlimmste, was ich besorgte. – Aber es waehrte nicht lange, so hört’ ich, ganz nah an meinem Ohre – nach einem tiefen Seufzer – nicht den Namen einer Heiligen – den Namen – zuernen Sie nicht, meine Mutter – den Namen Ihrer Tochter! – Meinen Namen! – O dass laute Donner mich verhindert haetten, mehr zu hören! – Es sprach von Schönheit, von Liebe – Es klagte, dass dieser Tag, welcher mein Glueck mache – wenn er es anders mache –34
potevo spostarmi né avanti né di lato anche se avrei voluto, per timore che la devozione di un altro potesse distrarmi nella preghiera… Devozione! Era il peggio che mi aspettavo… E invece… non durò a lungo che intesi sussurrare all’orecchio… dopo un profondo sospiro… non il nome di una santa… ma il nome… non adiratevi, madre mia… il nome di vostra figlia, sì… il mio nome… Ah, se il rumore dei tuoni mi avesse impedito di sentire di piú!… Lo sconosciuto parlava di bellezza, di amore… Lamentava che questo giorno, il giorno della mia felicità… se pure era davvero tale… era…35
L’hamartema, qui, risiederebbe nel sentimento ambivalente provato da Emilia nei confronti delle avances del principe: Non si tratta certo del primo incontro di Emilia con il principe, che incontrò per la prima volta presso il cancelliere Grimaldi prima che si alzasse il sipario, dopo che era già fidanzata con il conte Appiani. Ma qual è esattamente l’Hamartia di 34 G. E. Lessing, Emilia Galotti Iohannes Deikas, Martin Heider, Schöning, Lubek 1998. 35 G. E. Lessing, Emilia Galotti, tr. it., Nello Saìto, Einaudi, Torino posizione 518.
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Emilia lontano del solito dall’altare, come se il suo imminente matrimonio avesse già sciolto il suo legame con Dio? Che si sia girata per vedere chi le stava sussurrando all’orecchio? O che si vergognava? Come suggerisce il lungo monologo di Emilia, tutti questi incidenti separati sono strettamente correlati e fanno parte di una narrativa più ampia. Le sue prime parole sono già rivelatrici in modo fondamentale: è venuta “più fervente” (più meschina) alla messa quotidiana, progettando di pregare con più devozione che mai […].36
Ciò che Simons sostiene, e su cui possiamo concordare, è che l’hamartia per Emilia corrisponde al senso di “caduta” derivante dal piacere ambivalente, suggerito dall’aggettivo brüstiger (superlativo di “fervente”, ma anche di “meschina”) il quale implica che la preghiera di Emilia sarebbe, in quel giorno speciale, più fervente perché legata al senso di colpa e di perdita della grazia derivante dalla fatalità dell’incontro col principe. Con questo senso di contraddizione fra il desiderio e il senso morale, Lessing qui sembra risolvere la dissonanza fra l’io epico e l’io drammaturgico che caratterizzava il Philotas e Samuel Henzi, ma tutto a favore della psicologia del personaggio. I valori psicologici non sono più declamati ed esterni alla psiche del personaggio ma scompaiono nell’’opacità della sua mente. Inoltre, in modo non molto dissimile da Mencía e da Andromaque o ancora dalla stessa Phèdre, la colpa le è in qualche misura venuta addosso inconsapevolmente, eppure è inevitabilmente parte di lei. L’elemento strutturalmente innovativo, però, rispetto ai casi di studio che abbiamo indagato fin ora, è che per quanto una colpa sia percepita come immanente alla propria volontà la nuova forma di stilizzazione della volontà del carattere smonta totalmente 36 O. Simons, Literary endings, cit., p. 35.
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l’arco drammaturgico che scaturisce aristotelicamente dall’hamartia: L’hamartia di Aristotele inaugura l’arco drammatico e avvia l’azione, che alla fine porta all’atto di riconoscimento e intuizione dell’eroe, ma in Lessing questo arco crolla all’inizio dell’opera. Subito dopo aver raccontato gli eventi accaduti durante la messa mattutina, Emilia scompare come personaggio, una coincidenza che si potrebbe ancora una volta paragonare alla caduta dell’uomo. Nel racconto biblico, disobbedienza e intuizione sono immediatamente collegate, come segnala il senso di vergogna del peccatore. Dopo la sua caduta e dopo essere diventata un soggetto con desideri, viene ritratta come un personaggio che impara a ragionare e sviluppare i suoi pensieri attraverso inferenze logiche che le consentono di vedere il suo errore da un punto di vista diverso. Il dialogo che si svolge subito dopo la sua confessione sugli incidenti in chiesa lo dimostra nel modo più chiaro. Dimostra che il ragionamento non è solo una capacità che le permette di scoprire il suo errore, ma diventa la base della sua condizione umana.37
La nostra tesi è che questo sbriciolarsi dell’arco drammatico aristotelico basato sul rovesciamento, grazie al nuovo e peculiare modo di ragionare di Emilia e dei personaggi dei Bürgerlische Trauerspiele, deve essere per l’appunto visto sul piano del progresso formale della tragedia, che attraverso il progressivo allentarsi del nesso fra ideologia e volontà del carattere ha incrinato anche quello tra errore tragico, ideologia del drammaturgo e gioco di verità del rovesciamento:
37 O. Simons, Literary endings, cit., posizione 769.
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Emilia Und suendigen wollen auch suendigen. Claudia Das hat meine Emilia nicht wollen! Emilia Nein, meine Mutter; so tief liess mich die Gnade nicht sinken. – Aber dass fremdes Laster uns, wider unsern Willen, zu Mitschuldigen machen kann! […] […]
Emilia E anche la volontà di peccare è un peccato. Claudia Ma tu, Emilia, non hai certo voluto peccare! Emilia No, madre mia: la grazia ha impedito ch’io cadessi cosí in basso… Ma il vizio altrui può renderci complici anche contro la nostra volontà! […] Emilia Ma, madre mia… Il conte dovrà ben saperlo. Bisogna che glielo dica. […]
Claudia Schwachheit! verliebte Schwachheit! – Nein, durchaus nicht, meine Tochter! Sag ihm nichts. Lass ihn nichts merken! Emilia Nun ja, meine Mutter! Ich habe keinen Willen gegen den Ihrigen. – Aha! (Mit einem tiefen Atemzuge.) Auch wird mir wieder ganz leicht. – Was fuer ein albernes, furchtsames Ding ich bin! – Nicht, meine Mutter? – Ich haette mich noch wohl anders dabei nehmen können und wuerde mir ebensowenig vergeben haben. Claudia Ich wollte dir das nicht sagen, meine Tochter, bevor dir es dein eigner gesunder Verstand sagte. Und ich wusste, er wurde dir es sagen, sobald du wieder zu dir selbst gekommen. – Der Prinz ist galant. Du bist die unbedeutende Sprache der Galanterie zu wenig gewohnt.38
Claudia Ah, debolezza! debolezza di un cuore innamorato! No, figlia mia, no. Non dirgli nulla. Non fargli notare nulla!… Emilia Come volete, madre mia. Non mi oppongo mai alla vostra volontà. Ah!… (Tirando un profondo sospiro) Mi sento di nuovo sollevata!… Ma che sciocca, che paurosa che sono!… No? Madre mia… Avrei potuto comportarmi in maniera assolutamente differente… non mi sarei affatto compromessa… Claudia Non volevo dirtelo io, figlia mia, io ero certa che te l’avrebbe detto il buon senso. Il principe è Galante, e tu non sei avvezza al linguaggio vacuo della galanteria39.
Immediatamente dopo la fine del resoconto di Emilia, il dialogo con la madre convince in effetti l’eroina a evitare di innescare l’inevitabile crisi tragica che deriverebbe dalla confessione di quel momento di vergogna, piombato come una 38 G. E. Lessing, cit., p. 27. 39 G.E. Lessing, cit., posizione 520.
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fatalità sulle vicende del personaggio. Il dato strutturale che interessa notare, tuttavia, è che se viene meno il nesso di concatenazioni causali che portano al rovesciamento, ciò deriva dal dialogismo implicito nella scena qui riportata. In questo dialogo, i valori in conflitto, impliciti nella percezione del peccato da parte di Emilia, sono annebbiati e offuscati, e il ragionamento sul “buon senso” permette di evitare o, quantomeno, ritardare la tragedia. Quando Claudia pronuncia addirittura la frase “il principe è Galante”, il dialogo slitta rapidamente dall’apparato narrativo-ideologico di Emilia, che vede su di lei l’ombra del peccato nell’accostarsi del principe ad uno schema in cui il conflitto fra i valori in gioco viene stemperato e introiettato nel sentire psicologico dei personaggi, che reagiscono in un modo tale da non permettere di riferirli troppo rapidamente a valori altri e universali. Ad esempio, il sospiro di sollievo di Emilia, che nasce da lei spontaneamente, quasi in contrasto con l’imperativo tragico che le era venuto inizialmente in mente. Il contraltare di un’operazione formale del genere è che le forze valoriali in conflitto, inserite all’interno della visione tragica dei poeti studiati, devono qui essere quasi separate dalla stilizzazione drammaturgica dei personaggi. Da un lato, dunque, notiamo che la contraddizione intima fra valori assoluti e tratti psicologici salda discorsivamente la psicologia del personaggio al Philotas, Ad una mente non avvezza alla concezione degli stili nell’antico regime può dunque sembrare difficilmente comprensibile, ma è proprio l’abbassamento dello stile l’innovazione formale che permette di sviluppare le tragedie mancate precedenti. Ma é proprio la rimozione dell’io epicolirico, ovvero del nesso culturale che persiste fin ora nella tragedia a permettere, per paradosso, e per la prima volta in Lessing, il tragico. Le forze che scontrandosi conducono alla tragedia hanno un nome e un volto, proprio per questo possono finalmente essere rappresentate al di sotto della retorica. I princìpi che producono lo scontro etico non possono passare
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più dalla crisi intrinseca alla volontà dei caratteri drammaturgici. Piuttosto attraverso una presa di consapevolezza secondo cui i valori, percepiti come universali, sono in realtà profondamente localizzati socialmente e non più legati all’idea di un tutto unitario in disfacimento. Da questo momento in poi del plot, il personaggio di Emilia non declamerà più questa contraddizione fra il suo senso morale e il desiderio del principe. Questo sentimento, vero motore del tragico, si nasconde dietro l’opacità della mente di Emilia in modo impenetrabile. Il plot sarà solo “reazione” e “decisione”: il Principe rapirà le due donne e Odoardo cercherà Orsina per avere un pugnale con cui vendicare Emilia. Non c’è traccia della contraddizione intimamente sentita dal personaggio di Emilia fra desiderio e senso etico di sè stessa. Non ci sono monologhi, né letti in chiave epica, nè in chiave lirica. Per questo paradosso ermeneutico del Trauerspiel noi osservatori esterni non intravediamo un legame di senso fra il Philotas e L’Emilia Galotti, eppure questo legame formale c’è: come Philotas anche Emilia ha una serie di valori universali che sono da difendere; come Philotas, anche Emilia ha una rappresentazione sviluppata della propria interiorità, frutto del processo di mimesi psicologica del genere tragico. A differenza del Philotas, però, non avendo un apparato epico-lirico, la tragedia può eliminare la contraddizione retorica e prassi drammaturgica che contraddistingueva l’opera precedente e correre verso il finale tragico. Vista in quest’ottica, l’innovazione formale di eliminare l’io epico, può essere vista come il risultato della contraddizione fra una forma che era tradizionalmente abituata a rappresentare contenuti universali ed una ormai troppo elevata consapevolezza della propria finitudine. Essa, ancora una volta, come il dialogo precedente, non sembra causare la tragedia partendo dall’errore di giudizio di Odoardo quanto, piuttosto, dalla volontà della protagonista di rivendicare principi universali, consapevolmente. Il protagonista si rende, in altre parole, partecipe delle forze sociali che
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muovono la tragedia, ma, ciò nonostante, la volontà di Emilia invoca per se stessa il finale tragico: Odoardo Ich ward auch so wuetend, dass ich schon nach diesem Dolche griff (ihn herausziehend), um einem von beiden – beiden! – das Herz zu durchstossen. Odoardo Kind, es ist keine Haarnadel. Emilia So werde die Haarnadel zum Dolche! – Gleichviel.Odoardo. Was? Dahin waere es gekommen? Nicht doch; nicht doch! Besinne dich. – Auch du hast nur ein Leben zu verlieren. Emilia. Und nur eine Unschuld! Odoardo. Die ueber alle Gewalt erhaben ist. – Emilia. Aber nicht ueber alle Verfuehrung. – Gewalt! Gewalt! wer kann der Gewalt nicht trotzen? Was Gewalt heisst, ist nichts: Verfuehrung ist die wahre Gewalt. – Ich habe Blut, mein Vater, so jugendliches, so warmes Blut als eine. Auch meine Sinne sind Sinne. Ich stehe fuer nichts. Ich bin fuer nichts gut. Ich kenne das Haus der Grimaldi. Es ist das Haus der Freude. Eine Stunde da, unter den Augen meiner Mutter – und es erhob sich so mancher Tumult in meiner Seele, den die strengsten Uebungen der Religion kaum in Wochen besaenftigen konnten! – Der Religion! Und welcher Religion? – Nichts Schlimmers zu vermeiden, sprangen Tausende in die Fluten und sind Heilige! – Geben Sie mir, mein Vater, geben Sie mir diesen Dolch. Odoardo. Und wenn du ihn kenntest, diesen Dolch! – Odoardo Kind, es ist keine Haarnadel. Emilia.
Odoardo Ero talmente infuriato… che ho afferrato questo pugnale (estraendolo) per trafiggere il cuore ad uno dei due… a tutti e due! Odoardo Figlia mia, non è una spilla per i tuoi capelli. Emilia E allora una spilla sarà il mio pugnale!… Tanto è lo stesso… Odoardo Cosa fai? A questo punto saremmo arrivati? No! No! Pensaci!… Anche tu hai una sola vita da perdere. Emilia Ed una sola innocenza! Odoardo Che è piú forte di ogni violenza. Emilia Ma non di ogni seduzione… Violenza! Violenza! Chi non può opporsi alla violenza? Quello che si chiama violenza è niente: la seduzione è la vera violenza!… Io ho sangue nelle vene, padre mio, sangue giovane e caldo come ogni altra donna. Anche i sensi sono sensi. Non garantisco nulla. Non rispondo di nulla. Conosco la casa dei Grimaldi. È la casa del piacere. Una sola ora sono stata lí, sotto gli occhi di mia madre… e nella mia anima si è sollevato un tale tumulto di sensazioni… ci sono voluti i piú rigorosi esercizi di religione per calmarlo, e a fatica… dopo qualche settimana… Religione? Quale religione? Per sfuggire a un pericolo non peggiore di questo, migliaia prima di me si precipitarono nei flutti, e divennero sante!… Date a me, padre mio, questo pugnale, datelo a me. Odoardo Oh, se tu conoscessi questo pugnale. Emilia
390 So werde die Haarnadel zum Dolche! – Gleichviel.Odoardo. Was? Dahin waere es gekommen? Nicht doch; nicht doch! Besinne dich. – Auch du hast nur ein Leben zu verlieren. Emilia. Und nur eine Unschuld! Odoardo. Die ueber alle Gewalt erhaben ist. – Emilia. Aber nicht ueber alle Verfuehrung. – Gewalt! Gewalt! wer kann der Gewalt nicht trotzen? Was Gewalt heisst, ist nichts: Verfuehrung ist die wahre Gewalt. – Ich habe Blut, mein Vater, so jugendliches, so warmes Blut als eine. Auch meine Sinne sind Sinne. Ich stehe fuer nichts. Ich bin fuer nichts gut. Ich kenne das Haus der Grimaldi. Es ist das Haus der Freude. Eine Stunde da, unter den Augen meiner Mutter – und es erhob sich so mancher Tumult in meiner Seele, den die strengsten Uebungen der Religion kaum in Wochen besaenftigen konnten! – Der Religion! Und welcher Religion? – Nichts Schlimmers zu vermeiden, sprangen Tausende in die Fluten und sind Heilige!40
La nascita del dramma moderno Se anche non lo conoscessi… Un amico sconosciuto è lo stesso un amico… Datemelo, padre mio. Odoardo Ma se io adesso te lo do… Tieni! (Glielo dà). Emilia Ecco! (Sta per trafiggersi ma il padre glielo strappa di nuovo dalle mani). Odoardo Dio, e in un momento! Ma… no, questo Odoardo Dio, e in un momento! Ma… no, questo non è per la tua mano… Emilia È vero… È con una spilla dei miei capelli ch’io… (Porta la mano ai capelli per cercarne una e trova la rosa) Tu, ancora qui?… Via!… Non stai bene tra i capelli di una… di una… quale mio padre vorrebbe ch’io diventassi! Odoardo Figlia mia! Emilia Oh, padre mio, se io indovinassi il vostro pensiero!… No, no: questo voi non lo volete neanche. Altrimenti perché esitereste? (In tono amaro, sfogliando la rosa) È vero, un tempo ci fu un padre che pur di salvare la figlia dal disonore le immerse nel petto il primo ferro che trovò… e con questo le donò per la seconda volta la vita.41
Se da un lato il dialogo fra Claudia ed Emilia, citato in apertura, dimostra quanto la stilizzazione realistica e non epica dei personaggi permetta di allontanare li dramma dalla dimensione del rovesicamento, dall’altro, il finale è basato sulla scelta quasi razionale della tragedia, così come sull’immanenza della volontà del personaggio nel suo agire, ovvero l’opposto dell’hamartia tragica. Ciò, rivela il paradosso intrinseco di questa nuova forma di dramma, in cui la rappresentazione drammaturgica è svincolata dall’ideo40 G. E. Lessing, cit., p. 122. 20 G. E. Lessing, cit., p. 79.
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logia, per quanto di essa sia comunque un prodotto. Emilia si rende conto dell’amoralità che la conduce alla fine e delle forze contraddittorie che la portano il conflitto verso la tragedia. È, insomma consapevole – al contrario dei personaggi raciniani, dei personaggi calderoniani e dei personaggi delle tragedie precedentemente analizzate – della natura socialmente siutata, della sua visione del mondo e del rapporto con le forze che la minacciano. Non sfugga, in tal senso, un dato importante: il conflitto, tutto interiore, fra l’attrazione nei confronti del principe e il senso etico personale ritorna nel finale, proprio nell’esitazione del personaggio a compiere l’estremo gesto. Il suo è dunque uno scontro tragico che necessariamente deve ripensare il rapporto fra i valori che animano il dramma e il modo in cui i personaggi si muovono sulla scena. In questo modo, si porta a termine il principio di crisi della visione del mondo da cui il tragico si generava, tale per cui i principi universali a cui appellarsi risultano sempre inevitabilmente parziali, socialmente collocati e determinati. Esattamente l’inverso di quanto avviene nell’epica e nel romance.
Alla fine di questa rapida lettura, nulla più di una visualizzazione può permetterci di comprendere in cosa consiste il nuovo risultato formale. Questo disegno è pensato da
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osservarsi in opposizione alla figura precedente, che mostrava la forma della tragedia moderna in re. Quel che va subito notato in questo disegno sono le linee in grigio, che devono essere viste in opposizione alla linea in azzurro; mentre quest’ultima rappresenta l’avanzare del plot, le prime rappresentano la psiche del personaggio tragico principale: Emilia. Il contrasto fra i colori rappresenta Il décalage che si è creato fra l’io del personaggio tragico e il genere in sé; esso, in questa forma, può essere descritto con una traiettoria a sé, senza nessi con lo spazio formale della tragedia e l’avanzare del suo plot. Come mostrano simbolicamente le linee trasversali al centro dello schema, l’io tragico non declama più sé stesso, ma “si ritrae” dietro il meccanismo di azione e reazione della trama. D’altra parte all’inizio e alla fine della linea verticale del plot sono disegnate come “assoluti”, ovvero sciolti da qualsiasi nesso discorsivo fra di loro in cui emerge il senso tragico che muove la protagonista: la contraddizione basilare – tutta interna alla sua psiche – fra valori etici ritenuti da lei universali e la sua coscienza individuale. È importante notare, però, sul piano discorsivo e sul piano della sociologia delle forme, che è proprio questa contraddizione interna al personaggio – vera motivazione tragica dell’opera – che lo lega discorsivamente alla contraddizione interna al Philotas. Dalla contraddizione intrinseca all’essere portatrice di valori tragici universali, come la purezza e la superiorità etica, e l’essere ormai però consapevole di non essere più il centro di “un sistema” ordinato secondo certi valori, emerge il senso tragico dell’Emilia Galotti. Questo percorso, in sé è una forma di evoluzione cognitiva che abbiamo documentato essere all’interno della produzione di Lessing e, sul piano formale, della tragedia stessa. Questi sono i due elementi strutturali del nuovo dramma, risultato dell’evoluzione formale dal dramma precedente, ovvero: 1) il distacco, ormai definitivo, dell’io tragico dallo sfon-
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do epico da cui emergeva tradizionalmente e 2) la conseguente simmetria tra il soggetto drammaturgico e l’oggetto dell’opera drammatica, ovvero il fatto che le forze sociali in gioco nel dramma non possano che essere percepite “di pari livello” sono due elementi strutturali – speculari tra loro – che derivano dalla rimozione, nell’opera di Lessing, dell’io epico, come elemento base del quadro di comunicazione del genere precedente e, come vedremo subito, anche il punto di partenza per una nuova filogenesi di nuovi drammi. Come, concludendo, approfondiremo nel prossimo paragrafo, questo sbilanciamento fra principi universali da un lato e una rappresentazione della realtà ormai inevitabilmente collocata nella psicologia del personaggio è il paradosso intrinseco di un dramma che discendeva da una realtà che si era percepita universale e che adesso si intuisce localizzata e determinata. Il dramma moderno, come si è già sintetizzato con Szondi, è dunque basato sul progressivo conflitto fra l’assolutezza del dialogo e la perdita dell’io epico, che abbiamo visto discendere dalla tragedia. Anche questa nuova forma, tuttavia, ha una storia, di cui ci limiteremo ad accennare l’evoluzione. 5.6 Conclusione. La forma del dramma moderno
Con l’analisi dell’Emilia Galotti si è in definitiva dimostrato come il sentimento tragico sia prodotto da un’azione drammaturgica che si distacca dal processo di concatenazione enunciativa posto in essere nella tragedia moderna di Shakespeare, Calderón, Racine. Tramite una simile indagine formale possiamo a buon diritto, dunque, pensare all’Emilia come al prodotto di un nuovo genere legato all’evoluzione discorsiva della tragedia antica, nella forma di cui si è detto. Quel che segue è molto meno di quan-
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to fatto finora, ma è una risposta necessaria da dare per completare il compito che ci siamo preposti. Come si comporta, dunque, questa nuova forma? Se la forma di comunicazione del dramma antico non funziona più, come procede questa nuova forma da esso derivata? Quel che si farà è seguire le indicazioni del saggio di Lukàcs del 1911, per tracciare la storia della nuova forma e per capire come si comporti questo nuovo genere, e in che modo esso generi il tragico. Le prime parole fondamentali sembrano le seguenti: Dunque, riassumendo, questi drammi sono da un lato tragedie dell’individualismo, dell’egoismo, perché il loro contenuto ruota intorno a questo punto: la verifica di quale e quanta forza e autorità l’individuo abbia per intervenire nella vita di altri, da un altro punto di vista sono invece le tragedie dell’idealismo, giacché il conflitto tragico nasce dalla eterna discordanza, dalla inconciliabilità di idea e fatto.42
Mentre i drammi di Calderón, Racine e Shakespeare mettevano in scena dei personaggi che incarnavano valori ritenuti illusoriamente universali dalla visione tragica dell’autore, in questo luogo in cui gli individui valgono solo sé stessi, le grandi ideologie trovano una difficoltà ad essere rappresentate tragicamente. Il dramma precedente, proprio per via della natura della tragedia espressa – prima interconnessa, e poi allegoricoemblematica nei suoi esemplari protomoderni – racconta il progressivo crollo di un senso di unità fra sé stessi e il mondo; in questa sede ciò che scatena il tragico è precisamente l’ambivalenza fra questo senso di totalità ancora perdurante e la prospettiva inevitabilmente parziale della sua natura:
42 Ivi, p. 28-29.
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Quasi in ogni tragedia l’eroe corre ciecamente incontro alla propria rovina, ma allora qual è la differenza tra la cecità di Edipo e quella di Egmont, tra la cecità di Macbeth e quella di Otello? Forse l’essenza della diversità potrebbe essere vista così. La cecità degli eroi delle tragedie antiche era l’impossibilità di riconoscere una data situazione. Molto spesso, di non capire l’altro […] Nei nuovi drammi, per contro, si assiste di nuovo alla sovrapposizione di alcunché di astratto, di assoluto, si dà cioè un a priori […] ed è assolutamente casuale che l’indifferente estraneità a persone e cose si manifesti nei fatti.43
È per questo, d’altronde, che abbiamo dovuto ricorrere a diversi eroi tragici, a volte di rango diverso, lungo l’analisi: il re Enrique Octavio de La cisma è un personaggio tragico tanto quanto i due hidalgos don Gutierre e Mencía, ma, nel caso calderoniano, questo può essere perché c’è un ambivalenza – garantita dal latente nesso fra epica e lirica – fra la visione tragica del protagonista e la stilizzazione drammaturgica. Nel dramma moderno quest’ambivalenza non scompare realmente del tutto, ma rimane come una remota traccia della dissonanza fra io epico e io drammatico, rinvenuta nei drammi lessinghiani analizzati; quel che scompare è l’idea di un universo ordinato tale per cui il gesto di un sovrano può generare una crisi tragica che lega tutti i personaggi, connessi insieme da una totalità organica perdurante. Vi sono più personaggi tragici – talora, come visto, di rango diverso –, nella tragedia di Shakespeare, Calderón e Racine, proprio perché è tutta la totalità organica che, nello scontro tragico, fa crollare le certezze dei loro valori, e lo scontro fra i due valori prima incarnati da Claudius e Hamlet, poi da Basilio e Segismundo e infine fra i due momenti di incertezza entro cui oscilla Phèdre, contribuisce a lasciare intatto il quadro di 43 Ivi, p. 34.
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comunicazione della vecchia tragedia, intesa come unità simbolica fra l’eroe e la realtà. Dopo l’Emilia, per le cause formali che abbiamo discusso in queste ultime pagine, le cose stanno in modo diverso: Ma a quest’epoca il problema del destino resta prevalentemente un problema estetico che provoca una profonda dissonanza nella concezione della tragicità. L’essenza di tale dissonanza permane la questione della colpa tragica, ovvero l’interrogativo: in quale misura l’uomo è responsabile di ciò che fa? E: dato che egli e il suo destino sono quali il dramma raffigura, in che senso si può considerare espiazione quanto gli succede nella tragedia?44
All’interno di questa nuova formazione discorsiva inaugurata dall’Emilia Galotti, l’essenza del tragico nasce, sì, come in tutte le tragedie che abbiamo analizzato, da una dissonanza fra i valori del carattere e la realtà delle cose, ma prima dell’Emilia Galotti, questo insieme di valori corrispondeva ad un sistema organicisticamente ordinato presieduto dall’ideologia dell’autore. Ora, noi possiamo intravedere una consonanza ideologica, sforzandoci in misura maggiore o minore a seconda dei casi, fra i valori del carattere e quelli del drammaturgo. Ma è cosa diversa dalla confusione formale fra l’azione come portatrice di un valore in sé, e qualcosa che non possiede più quest’intrinseca caratteristica nella rappresentazione: l’azione è psicologicamente connotata su basi che prescindono l’etica del personaggio. Se il tragico del dramma moderno rappresenta un insieme di valori che crollano, questo non implica che, sul piano della stilizzazione drammaturgica, l’azione che procede da questi valori ne sia lo specchio; anzi, formalmente, il dramma moderno arriverebbe a perfezione formale – e diventando più “tragico”, necessariamente 44 Ivi, p. 36.
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– quando la catastrofe da esso rappresentata torna a caricarsi di un’assiologia valoriale definita: In Lessing, la dissonanza è ancora inconciliabilità tra teoria e prassi. Lessing, che nella polemica contro Corneille esprime vigorosamente la convinzione secondo la quale non esisterebbe pensiero più fecondo che il riconoscere come gli uomini piombino nell’infelicità pur senza macchiarsi di alcuna colpa, ciò non di meno con la sua unica vera tragedia riscrive la tragedia dell’innocenza.45
L’unica tragedia di Lessing sarebbe l’Emilia Galotti perché questo drammaturgo, intuendo l’impossibilità di un eroe dalla dimensione epica, sente che la nuova tragedia può essere rappresentata dal sentimento di innocenza caratterizzato da un’azione drammaturgica “assoluta”, cioè sciolta da nessi ideologici retaggio del cosmo tragico, interconnesso con l’epica. Ma quella di Lessing, cerca di argomentare Lukàcs, è solo ancora una forma aurorale del nuovo dramma, che deve essere perfezionato e riacquisire vigore qualora ritorni a rappresentare valori etici, metafisici profondi: Nell’Egmont, questa relazione è trasparentissima e come in nessun altro dramma goethiano ad eccezione del Götz, lo sfondo è così bello e ricco. E tuttavia ciò non accade a Egmont, non riesce a stabilire un rapporto intenso e autentico con lo sfondo. […] Lo sfondo, l’accadimento non è assolutamente necessario per la tragedia di Egmont, o più esattamente: ci sono momenti in cui pare tutto perfettamente interconnesso, ma ce ne sono altri in cui si ha l’impressione opposta, cioè un’assoluta mancanza di interrelazione tra uomo e sfondo […]46
E ancora, in modo più chiaro: 45 Ivi, p. 37. 46 Ivi, p. 41.
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Il problema è dunque: il grande schema va riempito, senza che si rompa, con la maggiore quantità di contenuto possibile. Ma è possibile risolvere questi problemi? Un dramma scritto nello stile di Götz, può essere veramente unitario? O, detto in altre parole: il nuovo dramma può imitare? Può avere come modello Shakespeare?47
Questo sembra un punto dirimente, per delineare, sul piano formale, il dramma moderno come nuovo atto discorsivo. I grandi poeti del classicismo e del romanticismo, come noto, si ispirano a Shakespeare, qui menzionato fuggevolmente: ma l’ispirazione legata al suo vigore tragico potrà essere ripresa, nella drammaturgia successiva, solo a patto di capire che il personaggio tragico non è più un emblema, la sua azione non ha più niente di sovrumano come quella di Lear o di re Enrique né, tantomeno, la grandeur di Phèdre. Diversamente, per quanto talora carica di valori universali, l’azione tragica non rimanda più ad una collocazione all’interno di una totalità organica, ma, come Emilia, ricade solo su se stessa. Anzi, l’effetto tragico giunge a perfezione quando diviene palese il contrasto – che Lukàcs chiama qui dissonanza – fra un’azione che, sul piano della resa drammaturgica, rappresenta quell’insieme di valori ideologici, culturali e metafisici che generano il tragico. Questo meccanismo di contrasto fra valori universali e azione non più emblematica, ma individuale, è massimamente presente – su questo Lukàcs non ha dubbi – nella poetica di Hebbel: In Hebbel la dialettica e le profonde dissonanze della nuova vita sono diventate una visione tragica: perché la sua nuova forma scaturisce direttamente dai contenuti medesimi della vita. Infatti, mentre in tutti gli altri poeti i problemi si dissolvono, si atomizzano ancora nella forza della visione ar-
47 Ivi, p. 42.
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tistica spontanea, nella visione del mondo di Hebbel vita e forma confluiscono in un unico centro tragygotaton48
Ma esistono anche altre strategie per rappresentare valori universali in un mondo in cui ciò che per l’eroe produce senso si percepisce, ormai, come localizzato: Hebbel sulla via che gli consente di inserire il massimo di relatività in uno schema che è dominante con forza assoluta, senza tuttavia romperlo; Ibsen parte dal relativismo e lo porta alle sue estreme dissolventi conseguenze, confidando che alla fine di tutto possa sussistere la tragedia, credendo cioè che l’affermazione del nulla sia una base altrettanto positiva quanto l’affermazione di qualcosa.49
Il personaggio giunge carico di valori religiosi, metafisici e romantici, ma il tragico rivela una propria singolare caducità dell’azione individuale, che non può farsi carico di tali sistemi universali, perché il nesso fra tutti questi orizzonti semantici e la sua azione è andato via: esso era il retaggio del nesso fra tragedia ed epica. Hebbel infatti, per far risaltare la tragicità del proprio personaggio, introdurrebbe il contrasto fra valori assoluti e singolarità individuali, estremizzando in modo scientifico quanto a avvenuto nell’Emilia. Ibsen, invece, farebbe scaturire il tragico da una visione nichilistica del tutto. Questo conferma l’idea che è solo dal nesso – che la tragedia protomoderna da noi analizzata condivide discorsivamente con il romance barocco – fra epicità e lirismo che parte l’evoluzione della tragedia. Ma poiché, come abbiamo visto in Calderón e Racine, la stessa evoluzione formale della tragedia lo mette in discussione, il dramma moderno si caratterizza inevitabilmente come un atto discorsivo in cui è solo il singolo a crol48 Ivi, p. 108. 49 Ivi, p. 110.
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lare, mentre ancora all’altezza dei drammi studiati ne Le dieu caché era un’idea di sistema universale a essere messa in discussione assieme alla sorte del personaggio. Lo stesso schema che l’autore ritrova nella poetica di Hebbel, si rinviene infatti in quella di Ibsen, per quanto i due si caratterizzino per una diametralmente opposta interpretazione della stessa forma: Hebbel scende da un’altezza e procede incontro a Ibsen. Il fine di Ibsen, dunque, si colloca là dove Hebbel era partito […] La causa di tale diversità nell’effetto tra i drammi di Hebbel e quelli di Ibsen non va ricercata in essa diversità, è in sostanza solo il sintomo di una causa più profonda. È: L’eroismo incrinabile e solido nonostante i forti dubbi relativizzanti e quindi corrosivi, quell’eroismo insomma che aveva informato di sé il lavoro di tutta la vita di Hebbel, in Ibsen si era già molto indebolito. Il pericolo avvistato da Hebbel mentre parlava della tragicommedia, minacciava Ibsen in maniera molto più forte di quanto non avesse minacciato lui stesso.50
La descrizione delle caratteristiche formali di questo nuovo dramma può sussistere, dunque, sia per Hebbel che per Ibsen, solo nell’ambito della nuova riarticolazione discorsiva ottenuta attraverso il processo da noi qui descritto e di cui l’Emilia Galotti può essere vista come il culmine. Ci sono altre tappe lungo questo percorso, descritte acutamente dal critico ungherese e che riguardano il naturalismo di Tolstoj e Grilleprezer così come l’estetismo di D’Annunizio o di Hoffmansthal. Sono un’espressione più avanzata di tale forma di dramma, ma lo schema discorsivo rimarrà sempre quello: un tragico prodotto da un’azione che rappresenta solo un singolo individuo, non più un’azione che ha nella sua rappresentazione implicita una visione epica della totalità del mondo. 50 Ivi, p. 116-117.
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In conclusione va infine rievocato, in questo senso, lo studio di Szondi menzionato in apertura. Se da un lato, attraverso il nostro percorso, abbiamo mostrato come la nozione di tragico possa – almeno potenzialmente – essere descritta in re dal suo genere, non possiamo che constatare che le premesse formali del nuovo dramma – messe in luce nel presente lavoro – sono esattamente le stesse da cui parte l’importante studio di Szondi sulla Teoria del dramma moderno. In questo, relativamente al periodo fin de siécle, egli scrive che: La funzionalizzazione drammatica, che ha generalmente il compito di elaborare la struttura causale e finale di un’azione unitaria, deve colmare qui l’abisso esistente fra il presente e il passato che si sottrae all’attualizzazione. Raramente Ibsen è riuscito a ottenere che l’azione presente fosse tematicamente all’altezza di quella evocata e che si fondesse omogeneamente con essa. Anche sotto questo aspetto Rosmersholm si può considerare il suo capolavoro. Il tema politico attuale e quello interiore del passato, che, in Rosmersholm, non è relegato negli abissi delle anime, ma continua a vivere in tutta la casa, non divergono quasi mai.51
Dal percorso che abbiamo ricavato, si può evincere che la crisi del dramma descritta da Szondi in quel suo seminale studio trova le sue premesse esattamente nella fine dell’epicità come orizzonte comunicativo del genere “tragedia”. Il passaggio da una tragedia fondata sul nesso fra epica e lirica è dunque la premessa fondamentale anche per la grande crisi del dramma come forma in sé, da quest’ultimo codificata e collocata fra il 1865 e il 1950; parlando di Beckett, ad esempio, Szondi scrive: La limitazione – altrimenti solo formale – del dramma alla conversazione, diventa qui tematica: per gli uomini che 51 P. Szondi, Teoria del dramma moderno, cit., p. 122.
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aspettano Godot, di questo deus non solo absconditus ma anche dubitabile, non resta, a conferma della loro esistenza, che il vuoto conversare. Ma nel vuoto spazio metafisico, che fa diventare ogni cosa significativa, la conversazione priva di senso, che tende perennemente all’abisso del silenzio, e gli è sempre di nuovo e faticosamente estorta, è in grado di rivelare la “misère de l’homme sans Dieu”. È vero che, a questo stadio, la forma drammatica non cela piú una contraddizione critica, e la conversazione non è più un mezzo per superarla. Tutto è a pezzi: il dialogo, l’insieme formale, l’esistenza umana. Valore espressivo, spetta più solo alla negatività: all’automaticità senza senso del discorso e al mancato adempimento della forma drammatica. Vi si esprime la negatività di un’esistenza in attesa, che ha bisogno della trascendenza ma non ne è capace.52
Sia Pirandello, che Beckett che Brecht, trovano soluzioni diverse alla mancanza di una dimensione epica della tragedia: ma da dove proviene questa esigenza intrinseca di epicità? Essa proviene per l’appunto dal periodo di crisi che aveva generato una nuova forma di cui L’Emilia Galotti è il primo esemplare e che porta a definitiva conclusione il quadro comunicativo del genere nella sua forma antica. La storia di questa nuova forma, che inizia con Lessing, prosegue con Goethe, Kleist e altri esponenti del dramma classico tedesco, giungendo – in questo medesimo assetto discorsivo – tanto a Pirandello quanto a Samuel Beckett, ha una vita propria e una evoluzione sua propria in quanto nuova forma e nuovo atto discorsivo. Questa vita e questa evoluzione meritano senza dubbio una descrizione formale accurata quanto quella degli autori che sono stati oggetto del nostro studio. Ad essa occorrerà, dunque, dedicare una nuova ricerca.
52 Ivi, p. 140.
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RINGRAZIAMENTI
Per il lavoro su questo libro devo ringraziare molte persone, con cui ho contratto, negli anni, importanti debiti, di vario genere. Il primo debito è con i miei tutor di dottorato, Maria Del Sapio Garbero e Francesco Fiorentino, che hanno riposto in me una grande fiducia e hanno seguito il mio lavoro con pazienza. In particolare, alla generosità di Francesco Fiorentino devo molte delle conoscenze alla base di questa ricerca, e a Maria del Sapio devo un percorso umano e formativo importante. Un ringraziamento speciale va a Francesco de Cristofaro, da cui ho imparato molto e che mi ha spronato a portare a termine questo lavoro a dispetto dei molti momenti di scoraggiamento. Grande gratitudine va ai miei genitori e a mio fratello, senza il cui sostegno, umano e materiale, non sarei andato molto lontano. Ringrazio tutte le persone coinvolte nella redazione e nella revisione di questo volume, la dottoressa Luciana Trama, Elisabetta Abignente, Serena Satriano e i suoi genitori, Piera Stangherlin cui si devono le immagini presenti nel testo e le persone che mi hanno aiutato con i testi in lingua originale. Un ringraziamento importante va a Franco Moretti, Massimo Fusillo, Maurizio Bettini, Carmen Gallo, Rocco Coronato, Enrica Zanin, Gennaro Schiano, Stefano Brugnolo, Valentina Sturli, Ugo Maria Olivieri, Flavia Gherardi, Matteo Palumbo e Giancarlo Alfano fra gli altri, con cui ho avuto rilevanti momenti di confronto intellettuale, a volte nati dal caso, che hanno molto influenzato la scrittura di questo testo, quando ancora era un progetto in corso. Un ringraziamento va in oltre ad Albert Ascoli per avermi ospitato a
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La nascita del dramma moderno
Berkeley, per un periodo di studi molto importante, ad Ugo Mattei e Elisabetta Grande per avermi fatto sentire a casa mentre mi trovavo lì. Infine ringrazio cari amici al cui sostegno umano e intellettuale attribuisco grande valore, come Lorenzo Marmo e Lorenzo Battistini, Guido Mattia Gallerani, Mimmo Cangiano, Federico Bellini, Marco Viscardi, Emanuele Canzaniello, Giuseppe Episcopo, Antonio Bibbò, Riccardo Capoferro, Beatrice Occhini, Micol Vicidomini, Pasquale Palmieri, Giorgio Marino, Davide Boerio e tanti altri. Ringrazio i miei coabitanti di questi anni per aver contribuito all’equilibrio mentale e alla serenità necessari al mio lavoro e, in modo particolare, tutti i miei studenti. Il libro è dedicato a Serena e a mio nipote, Gianmaria
FORME E IDEOLOGIE Collana diretta da Ugo Maria Olivieri 1. 2. 3.
Ugo Maria Olivieri, Jacopo Corbinelli. Un esule a corte nel Cinquecento Daniela Baroncini (a cura di), Moda, metropoli e modernità Valentina Sturli, Estremi Occidenti. Frontiere del contemporaneo in Walter Siti e Michel Houellebecq
Finito di stampare nel mese di aprile 2023 da Digital Team – Fano (Pu)