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Italian Pages 610 [653] Year 1964
LA MIA AUTOBIOGRAFIA CLUB DEGLI EDITORI - MILANO
Titolo originale: MY AUTOBIOGRAPHY Tutti i diritti riservati © Charles Chaplin 1964 © Arnoldo Mondadori Editore 1964 TRADUZIONE DI VINCENZO MANTOVANI EDIZIONE SU LICENZA DELLA ARNOLDO MONDADORI EDITORE RISERVATA AGLI ADERENTI AL CLUB DEGLI EDITORI
LA MIA AUTOBIOGRAFIA
La mia autobiografia Con un fischietto? Con una filosofia? Chaplin ha fatto tutto quel che ha fatto lavorando con un fischietto; ma forse perché dentro il fischietto c'era anche una filosofia. Cittadino di Kennington Road, Londra, Charlie nasce nel 1889 da un «magnifico» attore-amatore, sempre ubriaco e in bolletta, e da una geniale soubrettina per un mucchio di ragioni (non ultima la denutrizione) predisposta alla debolezza di nervi e alla follia. La prima volta che Charlie mette piede sul palcoscenico ha cinque anni. Canta e mima («Tutti quanti conoscono Jack Jones»), Così incomincia, tra un crampo (da fame) e una capriola, la storia di un ragazzo, poi uomo, poi grand'uomo, poi «vecchio» che tiene sempre sulla corda un ometto da tre soldi, piccoloborghese fallito, a suo modo inappuntabile, che però ha scelto di vivere aiutando a vivere monelli, fioraie cieche, vagabondi, sfruttati, perdigiorno, aspiranti-suicidi, ecc... È Charlot: don Chisciotte in sedicesimo ma senza nessun Sancio Panza che lo tiri per la manica, e che invece di trovarsi addosso la Spagna dei mulini a vento, si trova l'America dei grattacieli, dei piedipiatti, dei magnati del petrolio e dello stagno. I suoi gusti? Non gli piace, per esempio, Shakespeare (eppure gli ha insegnato un mucchio di cose); gli preferisce forse Schopenhauer; ma poi, con uno sgambetto, si ritrova a credere nella felicità, nella vitalità, nella gioia di vivere. Può mettersi a piangere davanti a un fiore e scrollare le spalle davanti a una catastrofe. Ama le donne, ma è felicissimo quando riesce a sganciare un gelato nella scollatura di una robusta matrona. Può tener prediche (è un predicatore di razza) per delle ore, ma poi fa finire tutto in una risata. Eccetera. E Charlot? È Chaplin? Distinguere quel che c'è di Charlot in Chaplin e di Chaplin in Charlot è assurdo. L'America e il mondo, a furia di panini «arrangiati», li conquistano tutti e due. Il comico cinematografico (ma con dentro lame e lame di tragico) lo inventano tutti e due. La sfida ai benpensanti da un lato e al potere dall'altro la lanciano tutti e due. E quando si tratta di presentarsi davanti alla Commissione per le attività antiamericane, in tempi di feroce maccartismo, sono ancora insieme (ma l'America ufficiale non lo intuisce). Poi Chaplin - che pure ha «ucciso» Charlot in Monsieur Verdoux e
in Luci della ribalta - abbandona gli Stati Uniti e si ritira in Svizzera. Da allora - salvo le notizie di Un re a New York - non ne sappiamo più nulla. E anche questo nulla che viene a popolare di cose, fatti, notizie la sua Autobiografia. Chaplin non è più «Sua Maestà il Bambino» (la definizione è di un altro grande del cinema: S. M. Eisenstein); è venuto per lui il tempo della riflessione e della confessione, di mettere ordine non tanto nelle proprie idee quanto in quelle degli altri; di ripercorrere - non con un fischietto ma con una penna un'esperienza unica, e non solo nel nostro secolo. Ma il succo? L' Autobiografia è, in fondo, l'opera che ci si aspettava da lui dopo Luci della ribalta, e che in cinema non abbiamo più avuta. Tutt'altro che una filippica, tutt'altro che un quaderno di doléances c'è dentro quel che aspettavamo di sapere da almeno vent'anni. Le sue idee anzitutto, col nerbo di una vecchiaia ancora verde; e il senso di tutto il suo lavoro, i suoi scontri e incontri, le sue donne (mogli e no, compresi i cosiddetti scandali), i suoi nemici (in testa Hitler e tutti i seguaci di lui, palesi e nascosti,) i suoi amici, le sue avventure in un'America divorata dalla prop:ia crescita, i suoi affetti (dalla madre al padre alla moglie Oona e ai figli). E infine una ricchissima galleria di personaggi: uomini politici, comici del tempo «eroico», registi, scienziati, eccetera: dallo ormai leggendario Mack Sennet a Gandhi, Einstein, Roosevelt, Krusciov, Stravinskij... E sempre in quell'aria di lotta contro i guasti della morte nella vita che è la punta di diamante di tutto ciò che chiamiamo chapliniano.
A Oona
PRELUDIO Prima che il ponte di Westminster venisse aperto al traffico, Kennington Road era solo una mulattiera. Dopo il 1750 fu tracciata una nuova strada che partendo dal ponte collegava direttamente Londra a Brighton. Di conseguenza Kennington Road, dove ho trascorso gran parte della mia infanzia, vantava alcune belle case di notevole valore architettonico, provviste sulla facciata di balconi con la ringhiera di ferro dai quali gli occupanti avevano potuto vedere Giorgio IV passare in carrozza diretto a Brighton. Verso la metà dell'ottocento la maggior parte di queste case erano decadute, ridotte ormai in pensioni e alloggi popolari. Alcune, però, rimaste intatte, erano occupate da medici, ricchi mercanti e stelle del varietà. La domenica mattina, davanti a uno stabile di Kennington Road, non era difficile vedere un calessino tirato da un agile pony, in procinto di partire, con a bordo un artista di varietà, per un viaggio di una quindicina di chilometri fino a Norwood o Merton, sostando poi, sulla via del ritorno, davanti ai vari pub, il White Horse, lo Horns e il Tankard di Kennington Road. A dodici anni me ne stavo spesso davanti al Tankard a guardare questi illustri gentiluomini che scendevano dalla carrozza per entrare nel salone del bar, dove si radunava l'elite del vaudeville, come voleva l'usanza domenicale, a bere l'« ultimo » prima di rincasare per il pasto di mezzodì. Com'erano affascinanti, con quegli abiti a quadrettini e le bombette grige, con gli anelli di diamanti e le spille da cravatta che
mandavano lampi! La domenica, alle due del pomeriggio, il pub chiudeva i battenti e gli avventori uscivano a uno a uno, indugiando nella via prima di salutarsi; e io li guardavo incantato e divertito, perché alcuni di essi si pavoneggiavano in modo ridicolo. Quando l'ultimo aveva rimesso piede sul suo calesse, era come se il sole fosse sparito dietro una nube. E io tornavo a casa, al numero 3 di Pownall Terrace, una fila di catapecchie diroccate dietro Kennington Road, e salivo le scale traballanti che portavano alla nostra piccola soffitta. La casa era deprimente, l'aria viziata dall'odore della risciacquatura dei piatti e di vecchi abiti. Quella domenica mia madre, che sedeva vicino alla finestra guardando fuori, si voltò con un pallido sorriso. Il locale, di pochi metri quadrati, era soffocante, ma quel giorno mi parve ancora più angusto, e il soffitto spiovente più basso. Il tavolo contro il muro era ingombro di tazze da tè e piatti sporchi; e nell'angolo, addossato alla parete più bassa, c'era un vecchio letto di ferro che mia madre aveva dipinto di bianco. Tra il letto e la finestra c'era il caminetto, e ai piedi del letto una vecchia poltrona pieghevole, trasformabile in un letto singolo sul quale dormiva mio fratello Sydney. Ma in quel momento Sydney era via, in mare. Quella domenica la stanza era più malinconica del solito, perché mia madre, chissà per quale motivo, aveva trascurato di rimetterla in ordine. In genere la teneva pulita, perché era una donna allegra, vivace e ancora giovane: non aveva ancora compiuto trentasette anni, e riusciva a dare un'aria confortevole anche a quella miserabile soffitta. Specie la domenica mattina, d'inverno, quando mi portava la colazione a letto e io mi svegliavo in una linda stanzetta con un bel focherello acceso e vedevo il bricco fumante sulla mensola del focolare, e un merluzzo o un'aringa affumicata tenuti in caldo vicino al parafuoco mentre mia madre abbrustoliva il pane. La sua gaia presenza, l'atmosfera accogliente della stanza, il rumore soffocato dell'acqua bollente che fluiva nella teiera in terracotta mentre leggevo il mio giornaletto settimanale, erano le gioie di un sereno mattino domenicale.
Ma quella domenica ella sedeva accanto alla finestra guardando fuori con aria indifferente. Erano tre giorni che stava là, stranamente silenziosa e preoccupata. Sapevo che qualcosa l'angustiava. Sydney era in mare, da due mesi non avevamo sue notizie, e la macchina da cucire presa a nolo con cui mia madre cercava faticosamente di mantenerci ci era stata portata via perché non avevamo pagato le rate arretrate (una procedura non insolita). E il mio contributo settimanale di cinque scellini, che guadagnavo dando lezioni di ballo, era cessato all'improvviso. Riuscivo appena a notarla, quella crisi, perché si viveva in una crisi perenne; ed essendo un bambino dimenticavo facilmente tutti i nostri guai. Come sempre, finita la scuola correvo a casa da mia madre per sbrigare qualche commissione, vuotare la risciacquatura dei piatti e portar su un secchio d'acqua fresca, poi mi precipitavo dai McCarthy, dove trascorrevo la serata: qualsiasi cosa pur di uscire da quell'uggiosa soffitta. I McCarthy erano vecchi amici di mia madre, da lei conosciuti ai tempi in cui lavorava nel vaudeville. Abitavano in un comodo appartamento sito nella parte più elegante di Kennington Road, e finanziariamente stavano piuttosto bene, in confronto a noi. I McCarthy avevano un figlio, Wally, col quale giocavo fino al tramonto, e che mi invitava invariabilmente a prendere il tè con lui. Grazie a questo stratagemma consumavo praticamente tutti i pasti a casa sua. Ogni tanto la signora McCarthy chiedeva notizie di mia madre, e mi domandava come mai non l'avesse vista negli ultimi tempi. E io adducevo sempre qualche scusa, perché da quando era caduta in miseria ben di rado mia madre andava a trovare gli amici con i quali aveva lavorato in teatro. Naturalmente certe volte restavo a casa, e mia madre, col tè, mi serviva pane fritto nel sugo di carne, un piatto che mi piaceva moltissimo; per un'ora mi leggeva qualcosa, perché era un'eccellente lettrice, e io scoprivo il piacere della sua compagnia, rendendomi conto ben presto che mi divertivo di più a stare in casa con lei che ad andare dai McCarthy. Ma allora, quando entrai nella stanza, si voltò a guardarmi con aria di
rimprovero. Rimasi colpito dal suo aspetto; era magra e smunta e i suoi occhi sembravano quelli di un'anima in pena. M'invase una tristezza indicibile, dibattuto com'ero tra l'impulso di stare a casa per tenerle compagnia e il desiderio di fuggire dallo squallore di quella stanza. Mi guardò con un'espressione apatica. « Perché non corri dai McCarthy? » disse. Avevo le lacrime agli occhi. « Perché voglio restare con te. » Lei si voltò a guardare con aria assente fuori dalla finestra. « Va' a mangiare dai McCarthy. Qui non c'è niente per te. » Colsi un tono di rimprovero nella sua voce ma non permisi che mi toccasse il cuore. « Ci vado se me lo dici tu » risposi debolmente. Lei ebbe un pallido sorriso e mi carezzò la testa. « Si, si, va'. » E per quanto la pregassi di lasciarmi restare fu irremovibile e mi costrinse a uscire. Andai, dunque, lasciandola seduta in quella miserabile soffitta, sola, senza pensare al terribile destino che di li a pochi giorni avrebbe deciso della sua vita.
Uno Sono nato il 16 aprile 1889, alle otto di sera, in East Lane, Walworth. Subito dopo ci trasferimmo in West Square, St George's Road, Lambeth. Stando a mia madre, il mio fu un mondo felice. Le nostre condizioni erano relativamente agiate; abitavamo in tre stanze arredate con gusto. Ecco uno dei miei primi ricordi: ogni sera, prima che mia madre andasse a teatro, Sydney e io venivamo messi a letto, tra coperte amorevolmente rimboccate, e affidati alle cure della cameriera. Nel mio mondo di tre anni e mezzo tutto era possibile; se Sydney, che aveva quattro anni più di me, con un abile gioco di prestigio riusciva a ingoiare una moneta e a farsela uscire dalla nuca, potevo farlo anch'io; fu cosi che inghiottii un mezzo penny e mia madre si vide costretta a chiamare il dottore. Ogni notte, quando rincasava dopo il teatro, aveva l'abitudine di lasciare sul comodino qualche leccornia perché Sydney e io ve la trovassimo l'indomani — una fetta di torta napoletana o delle caramelle — con l'intesa che al mattino non facessimo troppo baccano, poiché di solito lei dormiva sino a tardi. Mia madre era soubrette nel teatro di varietà, una mignonne verso la trentina, di carnagione chiara, con occhi tra il viola e l'azzurro e lunghi capelli tra il biondo e il castano che le arrivavano fin sotto la vita. Sydney e io adoravamo nostra madre. Benché non fosse di una bellezza eccezionale, la trovavamo divina. Quanti la conobbero mi dissero poi che era fragile e attraente, e che aveva un fascino irresistibile. Si diver
tiva a metterci tutti in ghingheri per le gite domenicali, Sydney in un completo alla Eton con i calzoni lunghi e io in uno di velluto blu con guanti dello stesso colore. Simili occasioni costituivano vere e proprie orge di vanità, consumate andando a spasso lungo Kennington Road. Londra a quel tempo era una città tranquilla. Il ritmo della vita non era convulso come oggi, anche i tram a cavalli di Westminster Bridge Road procedevano a velocità moderata e ruotavano tranquillamente su una piattaforma girevole al capolinea vicino al ponte. Nei giorni in cui le condizioni di mia madre furono più floride, anche noi abitammo in Westminster Bridge Road. L'atmosfera di quella strada era gaia e accogliente, con bei negozi, ristoranti e music hall. La bottega del fruttivendolo sull'angolo opposto al ponte era una galassia di colori, con le sue piramidi di arance, mele, pere e banane ordinatamente disposte sul marciapiede, in contrasto con la grigia solennità del palazzo del Parlamento, sull'altra sponda del fiume. Fu questa la Londra della mia infanzia, dei miei capricci e delle mie prime esperienze: ricordi di Lambeth in primavera che m'incantano ancora; di oggetti e incidenti banali; di corse con mia madre sull'imperiale di un tram a cavalli cercando di toccare, al passaggio, gli alberi di lillà; dei biglietti dell'autobus e dei loro vari colori — arancione, azzurro, rosa e verde — che costellavano il marciapiede davanti alla fermata; di rubiconde fioraie all'angolo di Westminster Bridge, che facevano gaie boutonnières, manipolando con dita esperte stagnola e felci tremanti; dell'umido odore delle rose annaffiate di fresco che mi comunicava una vaga tristezza; di malinconiche domeniche e pallidi genitori che scortavano insieme ai loro figli palloni colorati sopra il ponte di Westminster; e dei materni vaporetti da un penny che abbassavano dolcemente i fumaioli per scivolarvi sotto. Credo che la mia anima sia nata proprio da queste piccole cose. E poi mi colpirono certi oggetti nella nostra stanza di soggiorno : il quadro a olio a grandezza naturale di Nell Gwyn, che non mi piaceva; le caraffe dal collo lungo sulla credenza, che mi davano una sorta di malinconia, e il piccolo carillon rotondo con la superficie smaltata raffigu
rante alcuni angeli sulle nubi, che mi rallegrava e sconcertava insieme. Ma alla seggiolina comprata dagli zingari per sei pence ero profondamente affezionato perché me ne sentivo l'unico e legittimo proprietario. Ricordi di momenti epici : una visita al Royal Aquarium 1, per assistere con mia madre ai suoi numeri di varietà, sgranando gli occhi davanti a una testa viva di donna che sorrideva tra le fiamme; la pesca della fortuna da sei pence, con mia madre che mi sollevava fino a un grande barile pieno di segatura per farmi prendere un pacchetto a sorpresa contenente un fischietto di zucchero che non suonava e una spilla di rubini falsi. Poi una visita al Canterbury Music Hall per assistere, seduto in una poltrona di peluche rossa, all'esibizione di mio padre... Ma è calata la notte e, avvolto in una coperta a bordo di un tiro a quattro, sono in viaggio con mia madre e gli artisti suoi colleghi, scaldandomi alle risa e all'allegria dei passeggeri, mentre il trombettista con tonante e metallica spavalderia annuncia il nostro passaggio lungo Kennington Road al ritmico tintinnio dei finimenti e al tonfo degli zoccoli dei cavalli. Poi accadde qualcosa! Forse fu un mese o pochi giorni dopo: l'improvvisa percezione che a mia madre e nel mondo esterno non tutto andava liscio. Assentatasi con un'amica per l'intera mattinata, la mamma era tornata a casa in uno stato di profonda eccitazione. Stavo giocando sul pavimento e mi resi conto dell'intenso nervosismo che aleggiava sopra la mia testa, come se tendessi l'orecchio dal fondo di un pozzo. Mia madre piangeva; dalla sua bocca uscivano veementi esclamazioni, nelle quali ricorreva continuamente un nome, Armstrong: Armstrong ha detto questo, Armstrong ha detto quello, Armstrong è un bruto ! La sua eccitazione era cosi profonda e singolare che mi misi a piangere, tanto che mia madre fu costretta a prendermi in braccio per conso 1 Un salone all'angolo di Victoria Street, di fronte all'Abbazia di Westminster, dove si davano grandi ricevimenti e spettacoli di ogni genere. (N. d. A.) '5
larmi. Qualche anno dopo compresi il significato di quel pomeriggio. Mia madre era tornata dal tribunale, dove aveva trascinato mio padre per il mancato sostentamento dei suoi figli, e l'esito della causa non le era stato favorevole. Armstrong era l'avvocato di mio padre. Sapevo appena di avere un padre, e non ricordo che abbia mai vissuto con noi. Anche lui era un artista di varietà, un uomo silenzioso e meditabondo dagli occhi scuri. Mia madre diceva che somigliava a Napoleone. Aveva una voce da baritono leggero ed era considerato un artista di notevole talento. Già allora guadagnava la somma considerevole di quaranta sterline la settimana. Il guaio era che beveva troppo; e questa, disse mia madre, fu la causa della loro separazione. A quei tempi era difficile che un artista di varietà non bevesse, perché l'alcool si vendeva in tutti i teatri e dopo ogni numero si doveva andare al bar a bere con i clienti. Alcuni teatri guadagnavano più col bar che col botteghino; e molti divi ricevevano una grossa paga non solo per il loro talento ma anche perché spendevano quasi tutti i loro soldi al bar del teatro. Fu cosi che parecchi artisti si rovinarono a furia di bere, e mio padre tra essi. Mori alcolizzato a trentasette anni. Mia madre ci parlava di lui con umorismo e malinconia. Quando beveva diventava violento. Durante una delle sue sfuriate lei scappò a Brighton con alcuni amici e in risposta al suo frenetico telegramma: «Che cosa fai? Rispondi immediatamente!». Gli telegrafò: «Balli, feste e merende in campagna, tesoro! ». Mia madre era la maggiore di due sorelle. Suo padre, Charles Hill, un ciabattino irlandese, veniva dalla contea di Cork, in Irlanda. Aveva le guance rosse come due mele mature, una zazzera di capelli bianchi e una barba come quella di Carlyle nel ritratto di Whistler. Girava piegato in due dai reumatismi che si era preso, diceva lui, dormendo nei campi umidi per sfuggire alla polizia durante i moti nazionalisti. Fini per stabilirsi a Londra, dove aprì una bottega di ciabattino in East Lane, Walworth. La nonna era una mezza zingara. Questa era l'onta della famiglia. Ciò nondimeno, la nonna affermava che i suoi avevano sempre pagato
l'affitto della terra. Il suo nome da ragazza era Smith. Me la ricordo come una vecchia signora, piccola e vivace, che mi faceva sempre un sacco di effusioni. Mori prima che io compissi sei anni. Era divisa dal nonno, per ragioni che nessuno dei due volle mai spiegare. Ma secondo zia Kate si trattava del solito triangolo: il nonno aveva sorpreso la nonna con un amante. Misurare la moralità della nostra famiglia col metro consueto sarebbe come voler mettere un termometro nell'acqua bollente. Non c'è da meravigliarsi se, con simili attributi genetici, le due belle figlie del ciabattino abbandonarono ben presto la casa paterna per gravitare verso il palcoscenico. Anche zia Kate, la sorella minore di mia madre, faceva la soubrette; ma di lei sapevamo ben poco, perché entrava e usciva sporadicamente dalla nostra vita. Era bella e capricciosa e non andò mai troppo d'accordo con mia madre. Le sue visite occasionali finivano sempre bruscamente con una lite provocata da qualcosa che mia madre aveva detto o fatto. A diciotto anni mia madre fuggi in Africa con un uomo di mezza età. Parlava spesso dell'esistenza che aveva condotto laggiù, vivendo nel lusso tra piantagioni, servitori e cavalli da sella. Aveva diciotto anni quando nacque mio fratello Sydney. Mi fu detto che era figlio di un lord e che quando fosse diventato maggiorenne avrebbe ereditato una fortuna di duemila sterline, notizie che mi rallegrarono e infastidirono insieme. Mia madre non rimase a lungo in Africa, ma ritornò in Inghilterra e sposò mio padre. Non sapevo che cosa avesse posto fine alla parentesi africana, ma nei momenti di maggiore indigenza la rimproveravo spesso per aver rinunciato a una vita cosi facile. Ridendo, lei rispondeva che era troppo giovane per essere anche saggia o prudente. Non seppi mai quali fossero i suoi veri sentimenti per mio padre; posso dire, però, che ogni volta che parlava di lui lo faceva senza rancore, il che mi induce a sospettare che fosse troppo obiettiva per essere stata profondamente innamorata. A volte ne parlava con simpatia,
e a volte ricordava la sua ubriachezza e la violenza dei modi. Anni più tardi, ogni volta che la facevo arrabbiare mi diceva tristemente: « Finirai in mezzo a una strada come tuo padre ». Mio padre lo aveva conosciuto prima di andare in Africa. Avevano amoreggiato e recitato insieme nello stesso melodramma irlandese dal titolo Shamus O'Brien. A sedici anni lei sosteneva la parte principale. Mentre era in tournée con questa compagnia, conobbe quel tale lord di mezza età e fuggi in Africa con lui. Quando fece ritorno in Inghilterra, mio padre riallacciò i fili spezzati della loro relazione e si unirono in matrimonio. Tre anni dopo nacqui io. Quali altre ragioni c'entrassero oltre al bere, non saprei, ma un anno dopo la mia nascita i miei genitori si separarono. Mia madre non cercò mai di ottenere gli alimenti. Essendo anche lei una stella, e guadagnando venticinque sterline alla settimana, era perfettamente in grado di mantenere se stessa e i suoi figli. Cercò aiuto solo quando la colpi la sventura; altrimenti non sarebbe mai ricorsa a mezzi legali. La voce le aveva dato parecchie preoccupazioni. Non era mai stata robusta, e il minimo raffreddore sfociava in una laringite che durava delle settimane; ma mia madre non poteva smettere di lavorare, e cosi la sua voce andò progressivamente peggiorando. Non c'era da farci assegnamento. Poteva incrinarsi o affievolirsi all'improvviso nel bel mezzo di una canzone, tra le risa e i fischi del pubblico. Fu questo assillo a rovinarle la salute e a trasformarla in un fascio di nervi, un rottame. Di conseguenza i suoi impegni teatrali diminuirono fino ad essere praticamente zero. Fu a causa dello stato della sua voce che all'età di cinque anni io feci la mia prima apparizione sul palcoscenico. Mia madre, di solito, preferiva portarmi con sé in teatro piuttosto che lasciarmi a casa solo, in una camera ammobiliata. A quell'epoca lavorava nel teatro di Aldershot, un locale sporco e di dubbia reputazione frequentato soprattutto da militari. Era un pubblico chiassoso e attaccabrighe, e bastava poco per scatenarne i fischi e le frecciate. Per chi vi si esibiva, Aldershot era una settimana di terrore.
Ricordo che mi trovavo fra le quinte quando la voce di mia madre si ruppe e si ridusse a un mormorio. Il pubblico cominciò a ridere, a cantare in falsetto e a fischiare. Era tutto confuso e non capii che cosa stesse accadendo. Ma il baccano aumentò finché mia madre non fu costretta a lasciare il palcoscenico. Quando tornò fra le quinte era profondamente scossa ed ebbe una discussione col direttore il quale, avendomi visto recitare davanti agli amici di mia madre, propose di mandarmi in scena al posto suo. E ricordo che in tutto quel trambusto egli mi prese per mano e, dopo qualche parola di spiegazione rivolta al pubblico, mi lasciò solo al centro del palcoscenico. Allora, semiaccecato dalle luci della ribalta, davanti a un mare di facce confuse in mezzo al fumo, cominciai a cantare, accompagnato dall'orchestra che stentò un poco a trovare la mia tonalità. Era una canzone popolare, intitolata Jack Jones, che diceva: Jack Jones is well known to everybody Round about the market, don't yer see I've no fault to find with Jack at all, Not when 'e's as 'e used to be. But since 'e's had the bullion left him 'E has altered for the worst, For to see the way he treats all his old pah Fills me with nothing but disgust. Each Sunday morning he reads the Telegraph, Once he was contented with the Star. Since Jack Jones has come into a little bit • ..' of cash, Well, 'e don't know where 'e are1. 1 Tutti quanti conoscono Jack Jones / Dalle parti del mercato, non è vero? / Non ho niente da dire sul suo conto / Se si comporta come ha sempre fatto. / Ma da quando ha ereditato un po' di grana / È cambiato in peggio, / E vedere come tratta i vecchi amici / È una cosa che mi riempie di disgusto. / Ogni domenica mattina legge il Telegraph, / Una volta si accontentava dello Star. / Da quando Jack Jones ha fatto i quattrini, / È montato in superbia e non guarda più in faccia nessuno.
A metà canzone una pioggia di monete investi il palcoscenico. Mi interruppi immediatamente per annunciare che prima avrei raccolto il danaro e poi mi sarei rimesso a cantare. Questa uscita provocò le risa del pubblico. Arrivò il direttore con un fazzoletto per aiutarmi a raccattare i soldi. Io credetti che volesse tenerseli lui. Il pubblico, evidentemente, comprese i miei timori e rise ancora più forte, specie quando egli usci col danaro e io, preoccupato, gli tenni dietro. Non tornai in scena finché non l'ebbe consegnato a mia madre. Ero perfettamente a mio agio. Parlai al pubblico, ballai ed eseguii diverse imitazioni, compresa quella di mia madre mentre cantava una delle sue marcette irlandesi che diceva cosi: Riley, Riley, that's the boy to beguile ye, Riley t Riley, that's the boy for me. In all the Army great and small, There's none so trim and neat As the noble Sergeant Riley Of the gallant Eighty-eight1. E ripetendo il ritornello, imitai in tutta innocenza la voce di mia madre nel momento in cui si era spezzata. Rimasi sorpreso dalla reazione del pubblico. Echeggiarono applausi e risate, poi piovve sul palcoscenico una seconda ondata di monetine; e quando mia madre entrò in scena per portarmi via, la sua presenza suscitò un applauso fragoroso. Quella sera segnò la data della mia prima esibizione in teatro e dell'ultima di mia madre. Quando la sorte s'impadronisce del destino dell'uomo, non usa né pietà né giustizia. Fu cosi che essa trattò mia madre. Ella non ritrovò più la voce. Come l'autunno volge all'inverno, cosi la nostra situazione andò di male in peggio. Per quanto mia madre fosse prudente e avesse 1 Riley, Riley, ecco il tipo che ti metterà nel sacco / Riley, Riley, ecco il tipo che fa per me. / In tutto l'esercito grande e piccolo, / Non c'è nessuno bello ed elegante / Come il nobile sergente Riley / Del prode Ottantottesimo.
risparmiato un po' di danaro, ben presto esso svanì, insieme ai suoi gioielli e ad altri oggettini di valore che ella impegnava per tirare avanti, nella continua speranza che le tornasse la voce. Nel frattempo da tre comode stanze passammo in due, poi in una sola, mentre le nostre masserizie si assottigliavano e i quartieri in cui trovavamo casa erano sempre più squallidi e poveri. Mia madre si votò alla religione, nella speranza, immagino, che le rendesse la sua voce. Frequentava regolarmente la Chiesa di Cristo in Westminster Bridge Road, e ogni domenica ero costretto ad ascoltare la musica d'organo di Bach e, con crescente impazienza, la voce fervida e vibrante del reverendo F. B. Meyer che echeggiava lungo la navata come uno scalpiccio. I suoi sermoni dovevano essere molto commoventi, perché ogni tanto sorprendevo mia madre nell'atto di asciugarsi silenziosamente una lacrima, il che mi imbarazzava un poco. Ricordo bene la Santa Comunione in un caldo giorno d'estate, e il freddo calice d'argento contenente un delizioso succo d'uva che passava dall'uno all'altro membro della congregazione: e la mano di mia madre, dolce ma ferma, che mi scuoteva quando ne bevevo troppo. E ricordo il sollievo che provavo quando il reverendo chiudeva la Bibbia, segno che la predica sarebbe finita presto, dando luogo alle preghiere e all'inno conclusivo. Da quando si era messa ad andare in chiesa, mia madre vedeva di rado gli artisti suoi colleghi. Quel mondo era scomparso, trasformandosi in un semplice ricordo. Ci sembrava di essere sempre stati in precarie condizioni economiche. L'arco di un anno pareva un'intera vita di stenti. Si attraversava un grigio tramonto; era difficile trovare lavoro, e mia madre, che s'intendeva solo di teatro, faceva ancora più fatica. Era piccola, delicata e sensibile, sempre in lotta contro le tremende disuguaglianze dell'era vittoriana in cui ricchezza e povertà non conoscevano mezzi termini, e le donne delle classi meno abbienti non avevano altra scelta che svolgere i lavori più umili o sfacchinare in fabbrica come schiave. Ogni tanto trovava un lavoro da infermiera, ma erano occasioni rare e di breve durata. Ciò nondimeno, era
una donna piena di risorse: essendosi confezionata da sola i propri costumi teatrali, sapeva usare l'ago e riusciva a guadagnare qualche soldo facendo la sarta per i membri della congregazione. Ma era appena sufficiente a mantenerci tutti e tre. Mio padre continuava a bere, e le sue scritture divennero irregolari come il suo contributo settimanale di dieci scellini. Mamma aveva ormai venduto la maggior parte dei suoi averi. L'ultima cosa che le restava era il baule di costumi teatrali. Si attaccava a questi oggetti nella speranza di poter ritrovare la voce e calcare di nuovo le scene. Ogni tanto rovistava nel baule in cerca di qualche cosa; saltava fuori un costume trapunto di lustrini o una parrucca, e io la pregavo di mettere l'uno e l'altra. La ricordo, in tocco e toga da giudice, cantare con la sua voce fioca una delle vecchie canzoni di successo che aveva scritto lei. La canzone, su un vivace tempo tre quarti, diceva cosi: I'm a lady judge, And a good judge too. Judging cases fairlyThey are so very rarelyI mean to teach the lawyers A thing or two, And show them just exactly What the girls can do...1 Allora, con straordinaria naturalezza, si metteva a danzare e, dimenticando il lavoro di sarta, ci intratteneva piacevolmente con altre sue canzoni di successo producendosi nei balli che le accompagnavano fino a restare senza fiato, esausta. Quindi, abbandonandosi ai ricordi, ci mostrava alcune delle sue vecchie locandine teatrali. Una diceva: 1 Sono una donna giudice, / Ed anche un bravo giudice. / Giudicare equamente / È cosa molto rara. / Agli avvocati voglio insegnare / Un paio di cosette, / E far loro vedere / Quello che sanno fare le ragazze...
Rappresentazione straordinaria! Della squisita e bravissima Lily Harley, attrice drammatica, cantante e ballerina. Si esibiva davanti a noi, non solo col suo materiale da vaudeville, ma anche con imitazioni di altre attrici che aveva visto lavorare nel cosiddetto teatro « serio ». Quando ci raccontava una commedia, ne interpretava le varie parti: in The Sign of the Cross 1 ad esempio, fingeva di essere Mercia, che con una luce divina negli occhi entra nell'arena per essere data in pasto ai leoni. Poi imitava l'acuta voce pontificale di Wilson Barrett, che dall'alto delle sue scarpe provviste di un tacco di dodici centimetri (era basso di statura) proclamava: « Che cosa sia questo Cristianesimo io non lo so. Ma so una cosa, che se ha fatto donne come Mercia, Roma, anzi il mondo intero, avrebbe tutto da guadagnarci!». Discorso che mia madre pronunciava con un'ombra d'ironia, ma non senza una sincera ammirazione per il talento di Barrett. Era dotata di un istinto infallibile che le permetteva di riconoscere chi avesse autentiche doti teatrali. Ne sapeva spiegare l'arte, si trattasse dell'attrice Ellen Terry o di Joe Elvin del music hall. Aveva una conoscenza istintiva della tecnica e parlava di teatro come poteva fare solo chi lo amava. Riferiva aneddoti e li recitava, raccontando, ad esempio, un episodio della vita di Napoleone: questi, nella sua biblioteca, si era alzato sulla punta dei piedi per prendere un libro, ma il maresciallo Ney lo aveva fermato (mia madre sosteneva entrambe le parti, ma sempre con molto spirito) : « Sire, permettete che ve lo prenda io. Sono più alto ». E Napoleone, con una smorfia sprezzante: « Più alto? Di statura! ». Recitava con straordinaria vivacità la scena in cui Nell Gwyn, sporgendosi dalle scale del palazzo col suo bimbo in braccio, minacciava Carlo II: «Da' un nome a questo bimbo, se non vuoi che lo getti nel 1 Il segno della croce. 23
vuoto!». E re Carlo rispondeva precipitosamente: «Va bene! Duca di St Albans ». Ricordo una sera nella nostra unica stanza del seminterrato di Oakiey Street. Ero a letto, in convalescenza dopo un attacco febbrile. Sydney era uscito per andare alla scuola serale e io e mia madre eravamo rimasti soli. Calava la notte, e lei sedeva con le spalle alla finestra, leggendo, recitando e spiegando nel suo modo inimitabile il Nuovo Testamento e l'amore e la pietà di Cristo per i poveri e per i bambini. Forse dipese dall'anormalità delle mie condizioni, ma in quel momento ella mi diede la più luminosa e affascinante interpretazione di Cristo che da allora io abbia mai visto o sentito. Parlò della Sua tollerante comprensione per i peccatori, della donna che aveva peccato e doveva essere lapidata dalla folla, e delle parole che Cristo disse loro: «Chi di voi è senza peccato, scagli la prima pietra». Leggeva nella penombra. S'interruppe solo per accendere il lume, poi parlò della fede che Gesù ispirava ai malati, che per guarire dovevano solo toccarGli un lembo della veste. Parlò dell'odio e della gelosia dei Sommi Sacerdoti e dei Farisei, e descrisse Gesù e il Suo arresto e la Sua calma dignità al cospetto di Ponzio Pilato il quale, lavandosi le mani, disse (e qui ricorreva a tutto il suo istrionismo): «In quest'uomo non vedo colpa alcuna». Parlò di come Lo avevano spogliato e flagellato e, mettendoGli sulla testa una corona di spine, Lo avevano coperto d'insulti e di sputi, dicendo: «Salve, Re dei giudei! ». Continuando la lettura, le si empirono gli occhi di lacrime. Parlò di Simone, che Lo aveva aiutato a portare la croce, e dell'occhiata di profonda gratitudine che gli aveva rivolto Gesù; parlò di Barabba, il ladrone, che moriva con Lui sulla croce chiedendo perdono, e di Gesù che diceva: « Oggi sarai con me in Paradiso ». Di quando, dalla croce, abbassando gli occhi su Sua madre, Egli disse : « Donna, guarda tuo figlio ». E di quando, alla fine della Sua straziante agonia, gridò: « Mio Dio, perché mi hai abbandonato? ». E a questo punto scoppiammo in lacrime tutti e due.
« Non vedi » disse piangendo mia madre « com'era umano? Come tutti noi, anche Lui fu assalito dal dubbio. » Mia madre mi aveva talmente commosso che avrei voluto morire quella stessa notte per andare incontro a Gesù. Ma lei non era altrettanto entusiasta. « Gesù vuole prima che tu viva e si compia qui il tuo destino » disse. Nella stanza buia del seminterrato di Oakley Street mia madre mi accese della fiamma più ardente che questo mondo abbia mai visto, e che da allora ha sempre arricchito teatro e letteratura con i suoi temi più grandi e appassionanti: pietà, amore e umanità. Vivendo cosi in basso, sarebbe stato molto facile prendere l'abitudine di trascurare la dizione. Ma mia madre si tenne sempre fuori dal suo ambiente e segui con vigile attenzione il nostro modo di esprimerci, correggendo gli errori di grammatica e facendoci sentire diversi dagli altri bambini. Via via che si sprofondava nella miseria io la rimproveravo, nella mia ignoranza infantile, perché non voleva tornare sulle scene. Sorridendo lei mi diceva che quella era una vita falsa e artificiosa, e che in un mondo simile era assai facile dimenticare Iddio. Eppure, ogni volta che parlava di teatro dimenticava questi discorsi e si lasciava riprendere dall'entusiasmo. Certi giorni, quando, dopo essersi abbandonata ai ricordi, cadeva in un lungo silenzio, curva sopra il suo lavoro di cucito, m'invadeva una profonda tristezza al pensiero che non facevamo più parte di quel mondo cosi affascinante. Allora mia madre alzava gli occhi e, vedendomi tanto avvilito, faceva appello a tutto il suo spirito e cercava di consolarmi. L'inverno era prossimo e Sydney rimase senza vestiti; allora mia madre gli confezionò un cappotto con una sua vecchia giacca di velluto. Aveva le maniche a righe rosse e nere, piene di piegoline fino alle spalle, che lei cercò in tutti i modi di eliminare, ma con scarso successo. Sydney pianse quando fu costretto a indossarlo: « Che cosa penseranno i miei compagni di scuola? ».
« Chi se ne infischia di quello che pensa la gente? » disse lei. « Invece hai un'aria molto distinta. » Il tono di mia madre era cosi persuasivo che Sydney, fino ad oggi, non ha ancora capito come mai si rassegnò all'idea di portarlo. Ma obbedì, e il cappotto, insieme a un paio di scarpe da donna alle quali era stato segato il tacco alto, lo coinvolse, a scuola, in più di una rissa. I compagni lo chiamavano « Giuseppe e il suo cappotto dai vari colori ». E io, con una calzamaglia rossa di mia madre tagliata in modo da ricavarne un paio di calzettoni (che sembravano plissettati) ero soprannominato « Sir Francis Drake, il pirata ». Nel momento più critico di questo doloroso periodo, mia madre cominciò a soffrire di feroci emicranie che la obbligarono ad abbandonare il lavoro di cucito, costringendola al letto per giorni e giorni in una stanza buia con tamponi di foglie di tè sugli occhi. Picasso ebbe un periodo blu. Il nostro fu un periodo grigio, durante il quale vivemmo dell'assistenza municipale, di minestre per i poveri e di pacchi dono. Ciò nondimeno, Sydney vendeva giornali nell'intervallo tra le ore di scuola, e benché il suo contributo non fosse che una goccia in un secchio, ci diede un minimo di aiuto. Ma ogni crisi ha il suo punto culminante: nel nostro caso fu un momento felice. Un giorno, mentre la mamma era in convalescenza, sempre con una benda sugli occhi, Sydney entrò come un razzo nella stanza oscurata, gettando i suoi giornali sul letto ed esclamando: « Ho trovato un borsellino ! ». Glielo porse. Quando lo apri, ella vide un mucchietto di monete d'argento e di rame. Lo chiuse in fretta e poi, vinta dall'emozione, ricadde sul letto. Per vendere i suoi giornali Sydney saliva a bordo degli autobus. Sull'imperiale di un autobus aveva scorto un borsellino in un posto vuoto. Subito, come per caso, vi lasciò cadere sopra un giornale, poi raccolse giornale e borsellino e, in fretta e furia, smontò dall'autobus. Dietro un tabellone, in un'area deserta, apri il borsellino e vide un mucchio di monete d'argento e di rame. Ci disse che aveva avuto un tuffo al cuore. Senza contare il danaro, chiuse il borsellino e corse a casa.
Quando nostra madre si riebbe, ne sparse il contenuto sul letto. Ma il borsellino pesava ancora. C'era un'altra tasca! Mamma l'aprì e vide sette sovrane d'oro. La nostra gioia si tinse d'isterismo. Grazie a Dio il borsellino non conteneva nessun indirizzo, e cosi gli scrupoli religiosi di nostra madre furono messi a tacere. Anche se ci sfiorò il pensiero della sfortuna che aveva avuto il proprietario, esso fu rapidamente scacciato dalla convinzione di nostra madre che Dio ce lo avesse mandato come una grazia dal cielo. Se la malattia di mia madre fosse di natura fisica o psicologica, non saprei. Comunque, si riebbe in una settimana. Appena guari, ce ne andammo in vacanza a Southend-on-Sea, dopo che lei ci ebbe rivestiti entrambi da capo a piedi. La prima visione del mare ebbe su di me un effetto ipnotico. Mentre mi avvicinavo sotto un sole accecante da una strada collinosa, esso sembrava vivo, sospeso, un mostro fremente in procinto di saltarmi addosso. Ci togliemmo le scarpe tutti e tre e cominciammo a sguazzare nell'acqua. Il mare tiepido che mi arrivava al collo del piede, rifluendo attorno alle caviglie, e la sabbia molle e cedevole sotto i calcagni, furono la rivelazione di un piacere sconosciuto. Che giornata fu quella! La spiaggia color zafferano, con i secchielli rosa e azzurri e le palette di legno, tende e ombrelloni colorati, le barche a vele spiegate che saettavano gioconde sui flutti ridenti, e a riva altre barche riverse pigramente sul fianco, odorose di alghe e catrame. Il ricordo di quel giorno è durato, incantevole, tutta una vita. Nel 1957, tornato a Southend, cercai invano la stradicciola collinosa dalla quale avevo visto il mare per la prima volta, ma non ne restava più traccia. A un capo della cittadina c'erano i resti di un villaggio di pescatori, con le sue vecchie botteghe, che mi parve familiare. Qualcosa, nel villaggio, mi ricordava vagamente il passato: forse fu l'odore di alghe e catrame. Come la sabbia in una clessidra, le nostre finanze finirono per esaurirsi e ci trovammo in nuove difficoltà. La mamma cercò un altro impiego, ma c'era poco da cercare. I problemi si accumulavano. Eravamo 27
in arretrato con i pagamenti; di conseguenza ci fu tolta la macchina da cucire. E i dieci scellini settimanali di nostro padre cessarono del tutto. In preda alla disperazione, mia madre cercò un altro avvocato, il quale, vedendo che da una causa c'era poco da guadagnare, le consigliò di ricorrere, insieme ai figli, all'assistenza delle autorità del circondario di Lambeth, per costringere nostro padre a mantenerci. Non c'era alternativa; aveva due figli a carico e una salute cagionevole; perciò fu deciso che saremmo andati tutti e tre all'ospizio di Lambeth.
Due Pur sentendo la vergogna di entrare in un ospizio, quando la mamma ci mise al corrente della decisione sia Sydney che io fummo colpiti dal suo lato avventuroso, e ci rallegrò il pensiero di abbandonare la stanzetta soffocante in cui abitavamo. Ma quel triste giorno non mi resi conto di ciò che stava per accadere finché non avemmo effettivamente varcato la soglia dell'ospizio. Allora rimasi sconvolto dalla sorpresa e dallo sgomento; perché, appena dentro, fummo costretti a separarci: mia madre prese una direzione, verso la camerata delle donne; noi un'altra, verso quella dei bambini. Come ricordo bene l'acuta tristezza di quel primo giorno di visita: il colpo che provai alla vista di mia madre, quando entrò in parlatorio con la divisa dell'ospizio. Com'era misero e imbarazzato il suo aspetto! In una settimana era invecchiata e smagrita, ma quando ci vide il suo volto s'illuminò. Sydney e io cominciammo a piangere; di riflesso, anche nostra madre scoppiò in singhiozzi, e grosse lacrime presero a correrle giù per le gote. Finalmente ella ritrovò la sua compostezza, e sedemmo insieme su una rozza panca, tenendole le mani in grembo mentre lei ce le carezzava dolcemente. Rise, alla vista delle nostre teste rapate, e per consolarci disse che presto saremmo ritornati tutti insieme. Dal grembiule tirò fuori un sacchetto di. dolciumi a base di cocco che aveva comprato allo spaccio dell'ospizio con i soldi guadagnati lavorando all'uncinetto alcuni polsini di pizzo per una delle infermiere. Quando ci separammo, Sydney continuò penosamente a ripetere che era invecchiata: Dio, com'era invecchiata.
Mio fratello e io ci adattammo rapidamente alla vita dell'ospizio, ma un velo di mestizia avvolse tutte le nostre azioni. Ricordo pochi particolari di quella vita, ma il pasto di mezzodì a un lungo tavolo con gli altri bambini era il momento più bello della giornata. Vi presiedeva uno dei ricoverati, un vecchio signore sui settantacinque anni, dall'aria dignitosa, con una barba bianca, rada, e due occhi malinconici. Mi fece sedere accanto a lui perché ero il più piccino e, finché non mi rasero la testa, avevo la capigliatura più ricciuta. Mi chiamava la sua « tigre » e diceva che quando fossi diventato grande avrei portato un cappello a cilindro con una coccarda e mi sarei seduto a braccia conserte dentro la sua carrozza. Quest'onore me lo rese molto simpatico. Ma un paio di giorno dopo entrò in scena un bimbo più piccolo e più ricciuto di me, che prese il mio posto al fianco del vecchio signore, perché, come egli capricciosamente ci spiegò, un ragazzo più giovane e ricciuto aveva sempre la precedenza. Dopo tre settimane fummo trasferiti dall'ospizio di Lambeth alle scuole Hanwell per gli orfani e i bimbi poveri, a una ventina di chilometri da Londra. Fu un viaggio avventuroso a bordo di un furgone per il pane tirato da un cavallo; fu anche un viaggio piuttosto allegro, date le circostanze, perché a quei tempi la campagna intorno a Hanwell era molto bella, con filari di ippocastani, campi di grano in via di maturazione e frutteti rigogliosi. Da allora quell'intenso odore aromatico che mandano i campi dopo la pioggia mi ha sempre ricordato Hanwell. All'arrivo fummo messi in prova al reparto accettazione e tenuti sotto osservazione medica e mentale prima di passare alla scuola propriamente detta; per l'ovvio motivo che fra tre o quattrocento ragazzi un bimbo anormale o malato sarebbe stato nocivo alla scuola, oltre che in una spiacevole situazione egli stesso. Nei primi giorni mi sentii smarrito e infelice, perché all'ospizio avevo sempre avuto la confortante impressione che nostra madre fosse vicina, mentre a Hanwell mi sembrava mille miglia lontana. Sydney e 3°
io superammo il periodo di prova e fummo ammessi alla scuola vera e propria, dove ci separammo: Sydney andò con i grandi, io con i piccini. Dormivamo in camerate diverse, e ci si vedeva di rado. Avevo poco più di sei anni e mi sentivo solo; specie le sere d'estate, durante le preghiere, prima di andare a letto, quando, inginocchiato in camicia da notte con altri venti bambini al centro dello stanzone, alzavo lo sguardo verso il tramonto dai colori sempre più cupi e le colline ondulate, fuori dai finestroni rettangolari, e mi sentivo estraneo a tutto ciò che si svolgeva sotto i miei occhi mentre cantavamo con voci roche e stonate: Abide with me; fast falls the eventide; The darkness deepens: Lord, with me abide; When other helpers fail, and comforts flee, Help of the helpless, O, abide with me 1. Era in quei momenti che toccavo il fondo della mia disperazione. Pur non comprendendo le parole dell'inno, quella musica e il crepuscolo aumentavano la mia malinconia. Ma, con nostra grande sorpresa, di li a due mesi mia madre riuscì a farci uscire dall'istituto. Fummo rispediti a Londra, all'ospizio di Lambeth. Mamma era sulla porta che ci aspettava, senza la brutta divisa dell'ospizio. Aveva chiesto un permesso solo perché desiderava passare la giornata con i suoi figli, con l'intesa che dopo qualche ora trascorsa fuori insieme saremmo tornati indietro lo stesso giorno; essendo mia madre una ricoverata, questo era l'unico stratagemma al quale poteva ricorrere. Prima di entrare ci avevano tolto gli abiti per passarli al vapore; ora ce li resero, senza stirarli. Dovevamo fare proprio una bella figura, tutti e tre, uscendo dall'ospizio. Era un mattino di buon'ora e non 1 Resta con me; rapida scende la notte; / Il buio si fa profondo: Signore, resta con me; / Quando vien meno ogni conforto, e fugge la speranza, / Consolatore dei deboli, deh, resta con me. 31
sapevamo dove andare. Allora, a piedi, ci incamminammo verso Kennington Park, che si trovava a circa due chilometri di distanza. Sydney aveva nove soldi legati in un fazzoletto. Con una parte di quella somma comprammo due etti di ciliegie e trascorremmo la mattinata al Kennington Park, seduti su una panchina, a mangiarle. Poi mio fratello appallottolò un foglio di giornale e vi girò intorno uno spago. Per un poco giocammo tutti e tre a palla prigioniera. A mezzogiorno entrammo in un caffè per investire il resto del nostro capitale in una tortina da due soldi, un'aringa affumicata da un soldo e due tazze di tè da mezzo soldo l'una, che dividemmo tra noi. Poi ritornammo al parco, dove Sydney e io riprendemmo a giocare mentre nostra madre, seduta sulla panchina, lavorava all'uncinetto. Nel pomeriggio ritornammo all'ospizio. Come disse allegramente nostra madre: « Arriveremo giusto in tempo per il tè ». Ma l'indignazione dei funzionari sali alle stelle, perché si rese necessario ripetere tutta la trafila: i nostri indumenti furono di nuovo passati al vapore, e Sydney e io trascorremmo un altro po' di tempo all'ospizio prima di tornare a Hanwell, il che, naturalmente, ci diede la possibilità di rivedere nostra madre. Questa volta restammo a Hanwell quasi un anno: un anno molto formativo, durante il quale cominciai ad andare a scuola e mi fu insegnato a scrivere il mio nome, « Chaplin ». Quella parola mi affascinò: pensai che mi somigliava. L'asilo-orfanotrofio Hanwell era diviso in due, un settore per i maschi e uno per le femmine. Il sabato pomeriggio i bagni erano riservati ai più piccini, che venivano lavati dalle bambine più grandi. Ciò, naturalmente, prima che raggiungessi i sette anni, e in tali occasioni mi prendeva una profonda timidezza; dovermi sottomettere all'ignominia di una ragazzina quattordicenne che mi passava un asciugamano su tutto il corpo fu il primo vero imbarazzo della mia vita. All'età di sette anni mi trasferirono dal reparto dei piccoli a quello dei grandi, che accoglieva i ragazzi dai sette ai quattordici anni. Ormai ero autorizzato a partecipare a tutte le funzioni dei grandi, alle ma
I novre, alle esercitazioni e alle passeggiate che facevamo regolarmente due volte alla settimana. Per quanto a Hanwell fossimo ben custoditi, si conduceva un'esistenza malinconica. La tristezza era nell'aria, in quei viottoli di campagna lungo i quali si marciava, in un centinaio, due per due. Come odiavo quelle passeggiate, e i villaggi che si attraversavano, con la gente del posto che ci guardava ad occhi sgranati ! Eravamo « quelli del manicomio », come in gergo chiamavano l'asilo. Il campo per la ricreazione, completamente lastricato, aveva una superficie di circa un acro. Era circondato da edifìci di mattoni a un piano, adibiti a uffici, magazzini, dispensario medico, ambulatorio dentistico e guardaroba per gli indumenti dei ragazzi. Nell'angolo più buio del cortile c'era una stanza vuota, e confinato là dentro un ragazzo di quattordici anni, un caso disperato secondo i suoi compagni. Aveva cercato di evadere dall'orfanotrofio uscendo sul tetto da una finestra del secondo piano; di là aveva accolto i sorveglianti lanciati al suo inseguimento con una pioggia di missili e castagne matte. I fatti si erano svolti mentre noi piccoli eravamo già a letto, immersi nel sonno: e ne fecero un allarmato resoconto i ragazzi più grandi l'indomani mattina. Per le più gravi infrazioni di questo tipo, la punizione aveva luogo ogni venerdì nell'ampio locale della palestra, un tenebroso stanzone di diciotto metri per dodici col soffitto alto e, da una parte, le funi da scalata appese alle travi maestre. Il venerdì mattina due o trecento ragazzi, dai sette ai quattordici anni d'età, entravano a passo di marcia e si mettevano militarmente in riga, formando i tre lati di un quadrato. Al posto del quarto lato, dietro un banco di scuola della lunghezza di un tavolo da mensa militare, stavano i colpevoli in attesa del processo e della punizione. Sulla destra, di fronte al banco, c'era un cavalletto con alcune cinghie penzoloni, e dal telaio ciondolava, sinistro, uno staffile. Per le infrazioni di minor conto, il colpevole veniva disteso sul lungo banco a faccia in giù, con i piedi legati e tenuti fermi da un sorve 33
gliante, mentre un altro sorvegliante gli sfilava la camicia dai calzoni, passandogliela sopra la testa, e poi gli calava i pantaloni. Il capitano Hindrum, un marinaio in pensione che pesava quasi un quintale, con una mano dietro la schiena, e impugnando con l'altra una verga grossa come il pollice di un adulto e lunga circa un metro e venti, si metteva in posa, prendendo di mira le natiche del colpevole. Poi, lentamente e drammaticamente, la sollevava in aria e con un sibilo l'abbassava sul fondo della schiena del ragazzo. Era uno spettacolo terrificante, e non passava mai una volta senza che qualche ragazzo rompesse le righe crollando a terra svenuto. Il numero minimo di vergate era tre e il massimo sei. Se un colpevole ne riceveva più di tre, le sue grida erano spaventose. A volte manteneva un silenzio sinistro, oppure sveniva. Le vergate erano paralizzanti, tanto che la vittima doveva essere sollevata di peso e adagiata su uno dei materassini della palestra, dove restava a torcersi e a dimenarsi per dieci minuti buoni prima che il dolore passasse, lasciandogli sul fondo della schiena tre strisce rosse larghe quanto il dito di una lavandaia. Lo staffile era diverso. Dopo tre colpi il ragazzo veniva sorretto da due sorveglianti e portato in infermeria per essere medicato. I compagni ti consigliavano di non negare mai un'accusa, anche se eri innocente, perché qualora si fosse provata la tua colpevolezza avresti preso il massimo della pena. Di solito, poi, i ragazzi non sapevano esprimersi con sufficiente chiarezza da poter dimostrare la propria innocenza. Ormai avevo sette anni e mi trovavo nel reparto dei grandi. Ricordo quando assistetti alla mia prima fustigazione, sull'attenti, in silenzio, col cuore in tumulto mentre entravano i funzionari. Dietro il banco c'era il desperado che aveva cercato di scappare dall'orfanotrofio. Riuscivamo appena a scorgerne la testa e le spalle, tanto era piccolo. Aveva un viso magro, triangolare, e due occhi enormi. Il direttore lesse solennemente i capi d'accusa e domandò: « Colpevole o innocente? ».
Il nostro desperado non rispose, ma continuò a fissare il vuoto davanti a sé con aria di sfida; dopodiché venne condotto al cavalletto e, essendo troppo piccolo, fu fatto salire su una cassetta da sapone per potergli fissare le cinghie ai polsi. Ricevette tre nerbate e fu portato in infermeria per la medicazione. Il giovedì, una tromba faceva udire i suoi squilli nel campo per la ricreazione e noi tutti smettevamo di giocare, immobilizzandoci come statue, mentre il capitano Hindrum, con un megafono, leggeva i nomi di coloro che dovevano presentarsi l'indomani per essere puniti. Un giovedì, con profondo stupore, sentii chiamare il mio nome. Non riuscivo a immaginare che cosa avessi fatto. Eppure, per qualche inesplicabile ragione, ero elettrizzato: forse perché mi sentivo al centro di un dramma. Il giorno del processo, feci un passo avanti. Disse il direttore: « Sei accusato di avere dato fuoco al gabinetto ». Non era vero. Alcuni ragazzi avevano acceso qualche pezzo di carta sul pavimento di pietra e mentre bruciava io ero entrato per andare al gabinetto, ma non avevo partecipato a quelle operazioni. « Sei colpevole o innocente? » mi domandò. In preda al nervosismo, e spinto da una forza che sfuggiva al mio controllo, sbottai: «Colpevole». Non provavo né risentimento né un senso d'ingiustizia ma l'impressione di vivere una terrorizzante avven tura mentre mi portavano al banco e mi somministravano tre vergate sul sedere. Il dolore fu cosi intenso che mi mozzò il respiro; ma non apersi bocca e, benché paralizzato e condotto a coricarmi sul materasso, provai un senso di trionfale esultanza. Poiché Sydney lavorava in cucina, non ne seppe nulla fino al giorno del castigo, quando fu fatto entrare in palestra insieme agli altri, a passo di marcia, e con stupore e sgomento vide la mia testa spuntare da dietro il banco. Mi disse poi che quando mi aveva visto ricevere i tre colpi si era messo a piangere di rabbia. Un ragazzo, riferendosi al fratello maggiore, lo chiamava « il mio giovanotto », cosa che gli dava un certo orgoglio e un piccolo margine di sicurezza. E cosi anch'io, ogni tanto, vedevo « il mio giovanotto », Syd
ney, mentre uscivo dal refettorio. Poiché lavorava in cucina, di nascosto mi passava un panino affettato con dentro un bel pezzo di burro, e io me lo cacciavo sotto il maglione per dividerlo con un altro ragazzo: non che fossimo affamati, ma il grosso pezzo di burro era un lusso eccezionale. Però queste leccornie dovevano finire presto, perché Sydney lasciò Hanwell per imbarcarsi sulla nave scuola Exmouth. All'età di undici anni un ragazzo dell'orfanotrofio poteva, a scelta, arruolarsi nell'esercito o in marina. Se optava per la marina, veniva imbarcato sull'Exmouth. Naturalmente non era obbligatorio, ma Sydney scelse la carriera di marinaio. E a Hanwell io rimasi solo. I capelli, per i bambini, sono una cosa strettamente personale e di vitale importanza. Piangono come ossessi, la prima volta che glieli tagliano; per quanto crescano, folti, dritti o ricciuti, essi hanno sempre l'impressione di essere stati defraudati di una parte della loro personalità. A Hanwell era scoppiata un'epidemia di tricofizia e, dato che il morbo è estremamente contagioso, i ragazzi infetti furono rinchiusi nel padiglione d'isolamento al primo piano, quello che dava sul campo per la ricreazione. Spesso, alzando gli occhi alle finestre, vedevamo quei disgraziati che ci guardavano con espressioni piene di rimpianto, la testa completamente rasata e coperta dalle chiazze marrone della tintura di iodio. Era un orribile spettacolo e, contemplandoli, ci sentivamo riempire di disgusto. Cosi, quando in refettorio un'infermiera si fermò di botto alle mie spalle e, dividendomi i capelli nel mezzo annunciò : « Tricofizia ! », scoppiai in un pianto disperato. La cura durò parecchie settimane, che mi parvero un'eternità. Il capo mi fu rasato e spennellato di tintura di iodio; intorno vi portavo un fazzoletto annodato, come un raccoglitore di cotone. Ma una cosa che non facevo mai era affacciarmi alla finestra per vedere i ragazzi che giocavano nel cortile, ben sapendo in quale dispregio ci tenessero.
Durante quel periodo di reclusione venne a trovarmi mia madre. Chissà come, era riuscita a lasciare l'ospizio e stava cercando di mettere su casa. La sua presenza fu come un bouquet di fiori; aveva un'aria cosi fresca e attraente che mi sentii salire le fiamme al viso per il disordine del mio aspetto e la vergogna del capo raso spennellato di tintura di iodio. « Deve scusare la sua faccia sporca » disse l'infermiera. Mia madre rise; ricordo bene le affettuose parole che disse mentre mi gettava le braccia al collo e mi baciava: « Con tutta la tua sporcizia, ti voglio bene lo stesso ». Poco tempo dopo Sydney lasciò l'Exmouth e io Hanwell: nostra madre ci riprese con sé. Affittò una stanza dietro Kennington Park e per qualche tempo fu in grado di mantenerci. Ma non passò molto prima che dovessimo fare ritorno all'ospizio. Ciò dipese in parte dalla difficoltà di mia madre di trovare lavoro, e in parte dalle scritture di mio padre, che si facevano sempre più rare. In quel breve interludio non facemmo che passare da uno stambugio all'altro; era come una partita a dama: ma l'ultima mossa ci riportava sempre all'ospizio. Abitando in un diverso circondario ci mandarono in un ospizio diverso, e di là al brefotrofio di Norwood, che era più squallido di Hanwell; foglie più scure e alberi più alti. Forse la campagna era più bella e imponente, ma vi regnava un'atmosfera senza gioia. Un giorno, mentre Sydney stava giocando a rugby, due infermiere lo fecero uscire dal campo per comunicargli che nostra madre era impazzita: l'avevano ricoverata al manicomio di Cane Hill. Nell'apprendere la notizia Sydney non mostrò alcuna reazione: ritornò in campo e continuò a giocare. Ma dopo la partita corse a rintanarsi in un posto dove nessuno potesse vederlo e pianse. Quando me lo disse non vi potei credere. Non piansi, ma lo stupore e la disperazione ebbero ragione di me. Perché era successa una cosa simile? Come poteva essere impazzita, mia madre, sempre cosi allegra e spensierata? Avevo la vaga impressione che si fosse sottratta di proposito al controllo della propria mente e ci avesse abbandonato. Nella
mia disperazione la vedevo sparire lentamente nel nulla, guardandomi con aria patetica. Una settimana dopo, la notizia ci fu comunicata ufficialmente; venimmo anche a sapere che il tribunale aveva deciso di affidarci alla custodia di nostro padre. La prospettiva di vivere con lui ci riempi di gioia. Lo avevo visto due sole volte in vita mia, una sul palcoscenico, e una passando davanti a una casa di Kennington Road, mentre avanzava con una signora lungo il viale del giardino. Mi ero fermato a guardarlo, sapendo per istinto che era mio padre. Con un cenno m'invitò ad avvicinarmi, poi mi chiese come mi chiamavo. Conscio della drammaticità della situazione, avevo fatto finta di niente, rispondendo: « Charlie Chaplin ». Allora lui lanciò un'occhiata d'intesa alla signora, si frugò in tasca e mi diede mezza corona, e senza por tempo in mezzo io corsi diritto a casa e dissi a mia madre che avevo incontrato mio padre. Ed ora stavamo per andare a vivere con lui. Comunque andassero le cose, Kennington Road era un luogo familiare, non cosi squallido e sconosciuto come Norwood. Sul solito furgone per il pane i funzionari ci portarono al 287 di Kennington Road, la casa dove avevo visto mio padre discendere il vialetto. Venne ad aprire la signora che lo accompagnava quel giorno. Aveva un'aria disfatta e scontenta, però era bella, alta e proporzionata, con labbra piene e occhi tristi da cerbiatta; doveva avere una trentina d'anni. Si chiamava Louise. Evidentemente il signor Chaplin non era in casa, ma dopo le solite formalità e la firma dei documenti il funzionario ci affidò alle cure di Louise, la quale ci condusse al piano di sopra, nel soggiorno. Quando entrammo un bambino piccolo stava giocando sul pavimento, un bellissimo bambino di quattro anni, con grandi occhi scuri e una zazzera castana folta e ricciuta: era il figlio di Louise, il mio fratellastro. La famiglia alloggiava in due stanze e, benché il soggiorno fosse provvisto di ampi finestroni, la luce vi filtrava come in un acquario. Tutto aveva l'aria triste di Louise; la carta da parati, le poltrone imbottite
di crine e il luccio imbalsamato sotto una campana di vetro, che aveva inghiottito un altro luccio grosso quanto lui, la testa del quale gli spuntava dalla bocca. Nella stanza sul retro ella aveva messo un letto in più affinchè vi dormissimo Sydney e io, ma era troppo piccolo. Mio fratello si offerse di dormire sul divano del soggiorno. « Dormirai dove dico io » ribattè Louise. Tornammo nel soggiorno in un silenzio imbarazzante. La sua accoglienza non fu certo entusiastica, e non c'è da stupirsene. Sydney e io le piombavamo improvvisamente tra capo e collo, e per giunta eravamo i figli della moglie abbandonata da nostro padre. Restammo seduti in silenzio tutti e due a guardarla mentre apparecchiava la tavola per mangiare un boccone. « Ecco » disse a Sydney, « renditi utile e va' a riempire il secchio del carbone. E tu » disse a me « va' nella rosticceria vicina al White Hart a prendere uno scellino di carne in scatola. » Ero fin troppo contento di uscire da quella stanza, perché dentro di me cresceva lentamente un vago timore, e cominciavo a desiderare di non essermi mai allontanato da Norwood. Più tardi rincasò il babbo, che ci salutò affettuosamente. Quell'uomo mi affascinava. Durante i pasti seguivo ogni sua mossa, il modo in cui mangiava e il modo in cui teneva il coltello quando tagliava la carne, come se fosse una penna. E per anni lo imitai. Quando Louise gli riferì che Sydney si era lamentato per le insufficienti proporzioni del letto, il babbo propose che mio fratello dormisse sul divano del soggiorno. Questa vittoria di Sydney scatenò l'ostilità di Louise, che non gliela perdonò mai più. Col babbo si lagnava continuamente di lui. Pur essendo irascibile e scontenta, Louise non mi picchiò mai, né minacciò di farlo, ma il fatto che provasse tanta antipatia per Sydney rinfocolava i miei timori. Beveva moltissimo, e la constatazione non serviva certo a tranquillizzarmi. Quand'era in questo stato aveva un che di spaventosamente irresponsabile; sorrideva divertita al suo bambino, dal bel viso d'angelo, che reagiva bestemmiando e insultandola. Io, chissà perché, non ebbi mai nessun contatto col
bambino. Benché fosse il mio fratellastro, non ricordo di avere mai scambiato una parola con lui: certo, aveva quattro anni meno di me. A volte, quando beveva, Louise passava ore e ore immersa nelle sue fantasticherie, e io vivevo in preda al terrore. Ma Sydney le prestava poca attenzione; di rado rincasava prima di notte. Io invece dovevo tornare subito a casa, dopo le lezioni, a sbrigare commissioni e a darle una mano nelle faccende domestiche. Louise ci mandò alla scuola di Kennington Road, e fu un bene perché la presenza degli altri bambini mi fece sentire meno solo. Il sabato era mezza vacanza, ma io non arrivai mai al punto di pregustarne la venuta, perché voleva dire che dovevo tornare a casa a lavare i pavimenti e pulire i coltelli, e quello era il giorno in cui, invariabilmente, Louise cominciava a bere. Mentre io lucidavo i coltelli, lei se ne stava in compagnia di un'amica, a bere, facendosi sempre più cupa e imbronciata. Si lagnava ad alta voce di dover badare a Sydney e a me, dichiarando che era un'ingiustizia. Ricordo che diceva: « Questo è buono » indicandomi « ma l'altro è un lazzarone e dovrebbero mandarlo al riformatorio: per giunta, non è nemmeno figlio di Charlie. » Queste calunnie sul conto di Sydney mi spaventavano e mi gettavano in uno stato di profondo sconforto; andavo tristemente a letto e la notte, innervosito, non riuscivo a chiudere occhio. Non avevo ancora otto anni, ma quelli furono i giorni più lunghi e più tristi della mia vita. A volte, il sabato sera, in preda allo scoramento più nero, sentivo passare sotto la finestra della stanza da letto l'allegra musichetta di un organino, che suonava una marcia montanara accompagnato dalle grida di una squadra di monelli e dalle risatine delle fruttivendole. Quell'energia e quella vitalità sembravano spietatamente indifferenti alla mia infelicità; eppure, mentre la musica si affievoliva in lontananza, provavo un profondo senso di rammarico. A volte passava un banditore. Uno, in particolare, veniva tutte le sere, e sembrava che gridasse: « Rule Britannia », coronando il suo grido con un grugnito ; ma in realtà vendeva ostriche. Dal pub a tre porte di distanza sentivo i clienti,
all'ora della chiusura, berciare ubriachi una canzone triste e sdolcinata che a quei tempi era molto popolare: For old times' sake don't let our enmity live, For old times' sake say you'll forget and forgive. Life's too short to quarrel, Hearts are too precious to break. Shake hands and let us be friends For old times' sake 1. Non ne ho mai apprezzato lo spirito, ma allora sembrava l'accompagnamento più adatto alla mia infelice situazione, e mi conciliava il sonno. Quando Sydney rientrava tardi, e questo accadeva sempre, metteva a sacco la dispensa prima di andare a letto. Ciò mandava Louise su tutte le furie, e una sera che aveva bevuto entrò nella stanza e gli strappò di dosso le coperte ingiungendogli di alzarsi. Ma Sydney era pronto a riceverla. Infilò rapidamente la mano sotto il cuscino e ne trasse un punteruolo, un lungo allacciascarpe che aveva affilato fino a munirlo di una punta acuminata. « Avvicinati » disse « e te lo pianto nella pancia ! » Lei fece un passo indietro, spaventata. « Ah, brutto bastardo ! Vuole ammazzarmi! » « Si » disse Sydney, drammaticamente. « Ti ammazzo ! » « Aspetta che torni a casa il signor Chaplin ! » Ma il signor Chaplin tornava a casa di rado. Ricordo però un sabato sera che Louise e mio padre avevano bevuto, e per qualche ragione eravamo tutti seduti con la padrona di casa e suo marito nel tinello del loro appartamento, al pianterreno. Sotto la luce intensa della lam 1 In nome del passato non insistiamo nella nostra inimicizia, / In nome del passato dimmi che tu dimentichi e perdoni. / Troppo breve è la vita per bisticciare, / Troppo preziosi, i cuori, da spezzare. / Stringiamoci la mano e siamo amici / In nome del passato.
pada il babbo era mortalmente pallido e, di malumore, borbottava tra sé. A un tratto ficcò una mano in tasca, ne trasse un pugno di monete e le gettò con violenza sul pavimento, sparpagliando in tutte le direzioni dischetti d'oro e d'argento. L'effetto fu surreale. Nessuno si mosse. La padrona di casa rimase seduta al suo posto, accigliata, ma io la sorpresi mentre seguiva con l'occhio acceso una sovrana d'oro che rotolava lontano, in un angolo, sotto una sedia; anche il mio sguardo la segui. Con tutto ciò nessuno si mosse, e allora pensai che era meglio mettersi a raccogliere quei soldi; la padrona e gli altri subito mi imitarono, raccattando il resto del danaro sotto l'occhio minaccioso di mio padre, badando a non fare il minimo gesto che potesse insospettirlo. Un sabato, dopo la scuola, tornai a casa e non trovai nessuno. Sydney, al solito, era fuori tutto il giorno a giocare a rugby, e la padrona disse che Louise e suo figlio erano usciti la mattina presto. Dapprima provai un senso di sollievo, perché ciò significava che non avevo pavimenti da lavare e coltelli da pulire. Attesi un bel po' di tempo, l'ora di pranzo era passata da un pezzo, poi cominciai a stare in pena. Che mi avessero abbandonato? Via via che passava il pomeriggio, cominciavo a sentire la loro mancanza. Che diamine era successo? La stanza aveva un'aria squallida e scostante, e la sua desolazione mi spaventò. Cominciavo anche ad aver fame, e allora guardai nella dispensa, ma non c'era niente da mangiare. Non riuscendo più a sopportare il silenzio della casa, uscii in preda a un profondo scoraggiamento, e trascorsi il pomeriggio visitando i mercati della zona. Gironzolai per Lambeth Walk e il Cut, guardando avidamente nelle vetrine delle rosticcerie gli appetitosi arrosti fumanti di manzo e di maiale, e le patate brune e dorate immerse nel sugo. Per ore osservai i « ciarlatani » che vendevano le loro mercanzie. Distraendomi mi calmai e per qualche tempo dimenticai la fame e la stranezza della mia situazione. Quando tornai a casa, era notte; bussai alla porta ma nessuno rispose. Erano tutti fuori. Stanco, raggiunsi l'angolo di Kennington Cross e mi sedetti sul marciapiede, a breve distanza dall'edificio, per tenerlo
d'occhio qualora tornasse qualcuno. Ero esausto e avvilito. Chissà dov'era Sydney. Si stava avvicinando la mezzanotte e Kennington Cross era ormai deserto, a parte un paio di ritardatari. Lentamente cominciarono a spegnersi tutte le luci delle botteghe tranne quelle della farmacia e dei caffè. A un tratto udii una musica. Stupenda ! Veniva dal vestibolo del White Hart, un pub d'angolo, ed echeggiava sonoramente nella piazza vuota. Il motivo era quello di The Honeysuckle and the Bee 1, suonato con straordinario virtuosismo da un armonium e da un clarino. Fino ad allora non avevo mai dedicato soverchia attenzione alla musica, ma era una melodia lirica e bellissima, cosi allegra e gioiosa, cosi calda e rassicurante. Dimenticando la mia disperazione, attraversai la strada per andare dove si trovavano i musicisti. Il suonatore d'armonium era cieco, con due cavità segnate da profonde cicatrici al posto degli occhi; e un volto amaro, abbrutito, soffiava nel clarinetto. Presto fu tutto finito, e la partenza dei suonatori rese la notte ancora più triste e solitaria. Debole e stanco, attraversai la strada in direzione della casa, senza curarmi se era tornato qualcuno o no. Non desideravo altro che mettermi a letto. Allora vidi confusamente due figure sul vialetto che menava al portone. Era Louise, preceduta di corsa da suo figlio. Rimasi sorpreso al vedere che zoppicava in modo esagerato e si piegava da una parte fin quasi a toccar terra. Dapprima pensai che fosse rimasta vittima di un incidente e avesse perso l'uso della gamba, poi mi resi conto che era ubriaca fradicia. Non avevo mai visto prima un ubriaco conciato cosi male. Nel suo stato, ritenni più opportuno girarle al largo, e attesi dunque che fosse entrata in casa. Pochi minuti dopo arrivò la padrona e io andai dentro con lei. Mentre salivo piano piano le scale buie, sperando d'infilarmi sotto le lenzuola senza farmi notare, Louise usci barcollando sul pianerottolo. « Dove diavolo credi di andare? » disse. « Questa non è casa tua. » Rimasi immobile. 1 Il caprifoglio e l'ape. 43
« Tu stanotte qui non ci dormi. Ne ho fin sopra i capelli di voialtri. Vattene ! Tu e tuo fratello ! Si occupi vostro padre, di voi. » Senza esitare, girai sui tacchi, scesi al pianterreno e uscii di casa. Non ero più stanco. Avevo ripreso fiato. Sapendo che mio padre era un assiduo cliente di un pub di Prince's Road, il Queen's Head, a circa ottocento metri di distanza, presi quella direzione, nella speranza di trovarlo là. Ma presto vidi profilarsi nel chiarore di un lampione la sagoma indistinta di mio padre che mi veniva incontro. « Non mi lascia entrare » gemetti « e credo che abbia bevuto. » Barcollava anche lui, mentre camminavamo verso casa. « Non sono mica sobrio nemmeno io » disse. Cercai di rassicurarlo, dandogli sulla voce. « No, sono ubriaco » borbottò con aria colpevole. Apri l'uscio del soggiorno e rimase là in piedi, muto e minaccioso, fissando Louise. Lei era ritta vicino al caminetto, appoggiata alla cappa, e barcollava. « Perché non lo hai fatto entrare? » disse lui. Lei gli lanciò un'occhiata sgomenta, poi brontolò: « Potete andare al diavolo tutti e due! ». A un tratto lui prese dalla credenza una pesante spazzola da vestiti, e in un lampo gliela tirò addosso con violenza, colpendola con la parte del legno su un lato del viso. Louise chiuse gli occhi e crollò esanime sul pavimento, con un tonfo sordo. Quel gesto di mio padre mi fece una profonda impressione; una simile manifestazione di violenza mi fece perdere il rispetto che avevo per lui. Non ricordo più bene che cosa accadde dopo. Credo che Sydney rincasò, più tardi, e nostro padre ci mise a letto tutti e due, poi usci. Venni poi a sapere che quel mattino il babbo e Louise avevano litigato perché lui l'aveva lasciata sola per passare la giornata con suo fratello, Spencer Chaplin, il quale possedeva parecchi pub nel quartiere dì Lambeth. Conscia della sua posizione, Louise non vedeva di buon occhio le visite a quel ramo dei Chaplin, cosi il babbo andava solo, e per vendicarsi Louise trascorreva la giornata altrove.
Era innamorata di mio padre. Pur essendo un bambino glielo lessi negli occhi, la notte che la vidi in piedi accanto al caminetto, atterrita e offesa dalla negligenza di lui. E sono certo che anche lui l'amava. Ebbi modo di constatarlo in molte occasioni. In certi momenti era tenero e gentile, e le dava il bacio della buonanotte prima di uscire per recarsi in teatro. E la domenica mattina, se non aveva bevuto, sedeva a colazione con noi e parlava con Louise dei numeri di varietà che completavano il suo spettacolo, facendoci restare tutti a bocca aperta. Io lo scrutavo con gli occhi di un falco, senza perdere un sol gesto. Quand'era di buonumore, si avvolgeva la testa in un tovagliolo e inseguiva intorno al tavolo il figlioletto, dicendo: « Sono il Re Rabarbaro Turco ». Verso le otto di sera, prima di andare a teatro, ingoiava sei uova crude in un bicchiere di vino di porto; consumava raramente cibi solidi. Questo era tutto ciò che lo sosteneva di giorno in giorno. Tornava a casa di rado e, se lo faceva, era per smaltire la sbornia con una buona dormita. Un giorno Louise ricevette la visita di un funzionario della Società per la Prevenzione della Crudeltà verso l'Infanzia, cosa che la riempi d'indignazione. La visita fu provocata dalla polizia, che lo aveva informato di averci trovato, Sydney e me, addormentati davanti al focherello di un guardiano alle tre del mattino. Era una notte in cui Louise ci aveva chiusi fuori tutti e due, e la polizia l'aveva costretta ad aprire la porta e a lasciarci entrare. Qualche giorno dopo, però, mentre il babbo lavorava in provincia, Louise ricevette una lettera con l'annuncio che nostra madre aveva lasciato il manicomio. Due o tre giorni dopo la padrona di casa venne di sopra per avvertirci che al portone c'era una signora che cercava di Sydney e Charlie. « È vostra madre » disse Louise. Vi fu un momento di confusione. Poi mio fratello corse giù per le scale, lanciandosi tra le sue braccia, seguito da me. Era sempre la stessa donna, dolce e sorridente, e ci strinse in un abbraccio affettuoso.
Louise e nostra madre erano troppo imbarazzate per incontrarsi, e cosi mamma attese sul portone che Sydney e io prendessimo la nostra roba. Nessuna delle due parti mostrò malanimo o rancore. Anzi, l'atteggiamento di Louise fu estremamente corretto. Al momento di congedarsi salutò anche Sydney con grande cordialità. Mamma aveva preso in affitto una stanza in una delle viuzze dietro Kennington Cross, vicino allo stabilimento per la produzione di sottaceti di Hayward, dal quale ogni pomeriggio emanava un odore acido e penetrante. Ma la camera costava poco e noi eravamo di nuovo insieme. La salute di nostra madre sembrava eccellente, e non ci frullò mai per la testa il pensiero che fosse stata molto male. Non ho la più pallida idea di come facessimo a vivere in questo periodo. Eppure, non ricordo di aver dovuto affrontare stenti eccessivi o problemi insolubili. I contributi settimanali di dieci scellini di mio padre erano quasi regolari, e, naturalmente, nostra madre si rimise a fare la sarta e riprese contatto con la chiesa. Di questa fase mi è rimasto impresso un incidente. In fondo alla via c'era un macello, e davanti a casa nostra passavano le pecore ivi destinate. Ricordo che ne scappò una, e corse giù per la strada tra le risa degli astanti. Alcuni tentarono di acciuffarla, altri inciamparono e caddero per terra. Mi ero divertito un mondo alle capriole dell'animale, tanto sembrava comico il suo panico. Ma quando esso fu catturato e ricondotto al macello, compresi tutta la realtà della tragedia e corsi a casa da mia madre strillando e piangendo: « L'ammazzano! L'ammazzano ! ». Per parecchi giorni non riuscii a dimenticare la buffa caccia di quel rigido pomeriggio di primavera; e mi domando se non fu proprio quell'episodio a creare la premessa delle mie future opere cinematografiche: la combinazione di tragico e di comico. La scuola mi apri nuovi orizzonti: storia, poesia, scienza e aritmetica. Ma certe materie erano prosaiche e noiose, specie l'aritmetica: addizione e sottrazione mi facevano pensare a un contabile e a un regi
stratore di cassa: tutta la sua utilità mi pareva consistere nella possi bilità che ti dava di non farti imbrogliare sul resto. La storia era un compendio di violenze e malvagità, una continua teo ria di regicidi e di re che ammazzavano mogli, fratelli e nipoti; la geo grafia una serie di mappe; la poesia nient'altro che un esercizio di memoria. Mi sembrava molto strano che per la mia istruzione dovessi imparare tante cose per le quali provavo un cosi scarso interesse. Se qualcuno fosse ricorso alla parlantina, avesse letto una stimolante introduzione a ogni materia di studio per stuzzicarmi la mente, mi avesse attirato con la fantasia anziché presentarmi i nudi fatti, divertito e intrigato con i giochi di prestigio dei numeri, se avesse immerso le carte geografiche in un alone romantico, dato un'interpretazione della storia e insegnato la musica della poesia, forse sarei diventato uno studioso. Da quando era tornata con noi la mamma, aveva ricominciato a stimolare il mio interesse per il teatro. A furia di parlarne, fini per convincermi che avevo un certo talento. Ma fu solo nelle settimane prenatalizie, quando la scuola mise su una cantata, Cenerentola, che sentii il bisogno di esprimere tutto ciò che mi aveva insegnato mia madre. Per qualche ragione non mi avevano assegnato nessuna parte, e internamente mi rodevo dall'invidia, convinto com'ero di poter recitare nella cantata meglio di quelli sui quali era caduta la scelta. Presi subito a criticare l'interpretazione noiosa e priva di fantasia che i ragazzi davano ai loro ruoli. Le Brutte Sorelle mancavano di brio e di spirito. Recitavano le battute in un falsetto goffo ed erudito, con un'inflessione scolastica e un'enfasi imbarazzante. Come mi sarebbe piaciuto esibirmi nella parte di una delle Brutte Sorelle, con gli insegnamenti che avrebbe potuto impartirmi mia madre! Però rimasi affascinato dalla bambina che interpretava Cenerentola. Era bella, elegante, sui quattordici anni, e m'innamorai segretamente di lei. Ma non ero alla sua altezza, sia socialmente che per l'età. Quando assistetti alla cantata, la trovai orribile, a parte la bellezza della bambina, che mi lasciò un po' triste. Non immaginavo il trionfo che avrei avuto tre mesi dopo, quando mi condussero davanti a ogni
scolaresca per farmi recitare Miss Priscilla's Cat 1. Era una filastrocca umoristica che mia madre aveva visto davanti a un'edicola e trovato cosi comica da copiarla dalla vetrina e portarla subito a casa. In aula, durante un intervallo, la recitai a uno dei miei compagni. Il nostro insegnante, un certo signor Reid, alzò gli occhi da ciò che stava facendo e si diverti tanto che quando la scolaresca tornò in classe me la fece recitare ai compagni, i quali si tennero la pancia dalle risa. Di conseguenza la mia fama si diffuse, e l'indomani mi fecero fare il giro delle classi, maschili e femminili, per ripetere l'esibizione. Benché mi fossi già mostrato in pubblico al posto di mia madre all'età di cinque anni, questa fu la prima volta che ne assaporai tutta la delizia. La scuola cominciò ad entusiasmarmi. Da quel timido e oscuro ragazzetto che ero, divenni il centro dell'interesse sia dei maestri che degli scolari. La cosa ebbe anche l'effetto di migliorare il mio rendimento. Ma questo trionfo e la mia istruzione dovettero interrompersi quando troncai gli studi per aggregarmi a una compagnia di ballerini con gli zoccoli, gli Eight Lancashire Lads 2. 1 Il gatto della signorina Priscilla. 2 Otto monelli del Lancashire.
Tre Il babbo conosceva il signor Jackson, direttore della troupe, e convinse mia madre che per me sarebbe stato un buon inizio. Potevo farmi un nome in teatro e al tempo stesso aiutarla economicamente: a me avrebbero dato vitto e alloggio, a lei mezza corona alla settimana. Dapprima ella esitò, finché non conobbe il signor Jackson e la sua famiglia, e allora si decise ad accettare. Il signor Jackson aveva circa cinquantacinque anni. Era stato maestro di scuola nel Lancashire e aveva quattro figli, tre maschi e una femmina, che facevano tutti parte della troupe degli Eight Lancashire Lads. Era cattolico praticante e dopo la morte della prima moglie si era consultato con i figli sull'opportunità di risposarsi. La seconda moglie aveva qualche anno più di lui, ed egli piamente ci raccontò com'erano arrivati al matrimonio. Aveva messo un annuncio sul giornale, ricevendo oltre trecento lettere. Dopo essersi rivolto al Signore affinchè lo illuminasse, ne aveva aperta una sola, quella spedita dalla signora Jackson. Anche lei aveva fatto la maestra e, quasi il Signore avesse esaudito la sua preghiera, anche lei era cattolica. La signora Jackson non si poteva certo dir bella, e non sembrava un tipo particolarmente sensuale. A quanto ricordo, aveva un volto pallido, smunto, cadaverico, coperto di fitte rughe: dovute, forse, al fatto di avere regalato un bebé al signor Jackson in età piuttosto avanzata. Ciò nondimeno, era una moglie fedele e rispettosa e, pur trovandosi
ancora nella necessità di allattare il bambino, sgobbava sodo per contribuire alla direzione della compagnia. Quando ci diede la propria versione dell'idillio, scoprimmo che differiva leggermente da quella del signor Jackson. C'era stato uno scambio di lettere, ma non si erano mai visti fino al giorno delle nozze. E durante il loro primo colloquio, mentre la famiglia attendeva in un'altra stanza dopo averli lasciati soli nel soggiorno, il signor Jackson disse : « Tu sei tutto ciò che io desidero » e lei ripetè queste parole. Concludendo la storia narrata a noi ragazzi, ella disse con aria compunta: « Ma non avrei mai immaginato di diventare di colpo madre di otto figli ». L'età dei tre figli maschi variava dai dodici ai sedici anni, mentre la femmina ne aveva nove, e portava i capelli tagliati cortissimi onde passare per uno della troupe. Ogni domenica andavano tutti in chiesa tranne me. Essendo l'unico protestante mi sentivo solo, e perciò di tanto in tanto li accompagnavo. Se non fosse stato per il rispetto dovuto agli scrupoli religiosi di mia madre avrei potuto convertirmi al cattolicesimo con la massima facilità, perché mi piacevano il suo misticismo e gli altarini fatti in casa con una Vergine Maria di gesso adorna di fiori e candele accese che i ragazzi erigevano in un angolo della stanza da letto, e davanti ai quali facevano una genuflessione ogni volta che passavano. Dopo sei settimane di esercizi fui in grado di ballare con la troupe. Ma ora, a otto anni compiuti, avevo perso la mia baldanza, e il trovarmi per la prima volta di fronte a un pubblico mi diede un senso di panico. Riuscii appena a muovere le gambe. Occorsero parecchie settimane perché potessi fare degli assolo di danza come gli altri. Ballare con gli zoccoli in una troupe di otto ragazzi non era una cosa che mi entusiasmasse troppo. Anch'io, come gli altri, desideravo fare un numero per conto mio, non solo perché ciò mi avrebbe permesso di guadagnare di più ma perché sentivo, istintivamente, che vi avrei trovato più soddisfazione che nel ballo. Mi sarebbe piaciuto fare l'attore: ma ci voleva del fegato a restarsene da soli in mezzo a un palcoscenico. Ciò nondimeno il mio primo impulso a fare qualcosa di diverso 5°
da una danza doveva essere comico. Il mio ideale era un numero in coppia, due ragazzi vestiti da vagabondi. Ne parlai con uno dei miei colleghi e decidemmo di realizzare insieme questo progetto. Divenne il nostro sogno più ambito. Ci saremmo chiamati « Bristol e Chaplin, i vagabondi milionari » e avremmo portato baffi da vagabondo e grossi anelli di diamanti. Esso compendiava ogni aspetto di ciò che a nostro avviso sarebbe stato comico e redditizio, ma, ahimè, non potè mai realizzarsi. Al pubblico piacevano gli Eight Lancashire Lads perché, come diceva il signor Jackson, noi eravamo profondamente diversi dai soliti bambiniattori. Non ci truccavamo mai, e il signor Jackson era particolarmente fiero di poter affermare che il rosso delle nostre guance era naturale. Se prima di entrare in scena qualcuno di noi appariva un tantino pallido, ci consigliava di pizzicarci le gote. Ma a Londra, dopo esserci esibiti in due o tre music hall per sera, ogni tanto ce ne dimenticavamo e in palcoscenico avevamo un'aria un po' stanca e annoiata, finché tra le quinte non scorgevamo il signor Jackson che si puntava un dito sulla faccia con un sorriso che gli andava da un orecchio all'altro, e l'effetto era cosi elettrizzante che dava immediatamente al nostro volto un'espressione radiosa. Quando si lavorava in provincia, andavamo a scuola per una settimana in una città e per una settimana in un'altra: ciò servi ben poco a migliorare la mia istruzione. Per Natale ci scritturavano all'Hippodrome di Londra, dove facevamo i cani e i gatti in una pantomima di Cenerentola. A quei tempi esso era un teatro nuovo, una via di mezzo tra il circo e il varietà, pieno di decorazioni barocche e di grande effetto. La pista sprofondava, invasa dall'acqua, mentre tutt'intorno si svolgevano complicati balletti. Belle ragazze in corazza scintillante sparivano completamente sott'acqua, marciando, una fila dopo l'altra. Mentre s'immergeva l'ultima fila, entrava con una canna da pesca Marceline, il grande clown francese, dentro un abito da sera che pareva un sacco e con un gibus sulla testa. Si metteva a sedere su una seggiolina pieghevole, apriva un grosso por
tagioie, innescava l'amo con una collana di diamanti e gettava in acqua la lenza. Dopo un po' tentava con gioielli più piccoli, buttanto dentro qualche braccialetto, e finiva per vuotare completamente lo scrigno. A un tratto qualcosa abboccava: Marceline si metteva a piroettare comicamente su se stesso, lottando con la canna da pesca, e finalmente tirava fuori dall'acqua un barboncino ammaestrato che copiava tutto ciò che faceva lui: se si metteva a sedere, si metteva a sedere anche il cane; se si rizzava sulla testa, la bestiola faceva altrettanto. La comicità di Marceline era originale e irresistibile, e Londra impazziva per lui. Nella scena della cucina mi fu assegnata una particina comica con lui. Io ero un gatto, e Marceline, rinculando davanti a un cane, mi cadeva sulla groppa mentre bevevo del latte in un piattino. Si lamentava sempre che non inarcavo abbastanza il dorso da frenare il capitombolo. Portavo una maschera da gatto che aveva un'espressione sorpresa, e durante la prima matinée per i bambini mi avvicinai alle terga di un cane e presi ad annusarlo. Quando il pubblico rise, mi voltai a guardarlo sorpreso, tirando una cordicella che strizzava un occhio sbarrato. Dopo vari annusamenti e strizzatine d'occhi il direttore del teatro irruppe tra le quinte, gesticolando come un forsennato. Ma io non me ne diedi per inteso. Dopo avere fiutato il cane, annusai il proscenio, poi alzai una gamba. Il pubblico scoppiò in una fragorosa risata : probabilmente perché, per un gatto, il gesto era poco ortodosso. Finalmente il direttore s'impose alla mia attenzione e io uscii di scena caprioleggiando, tra gli applausi. « Non farlo mai più! » disse. « Non vorrai che il Lord Ciambellano ci costringa a chiudere il teatro ! » Cenerentola ottenne un grande successo, e benché c'entrasse poco con la storia o l'intreccio, Marceline costituì l'attrazione principale. Anni dopo lavorò all'Hippodrome di New York, dove rinnovò il successo di Londra. Ma quando l'Hippodrome abolì la pista da circo, Marceline fu presto dimenticato. Nel 1918, o giù di li, il circo a tre piste dei Ringling Brothers venne a Los Angeles, e Marceline era con loro. Pensavo che si esibisse in qualche numero di sua creazione, invece rimasi dolorosamente stupito nello
scoprire che era solo uno dei tanti pagliacci che saltabeccavano qua e là per l'enorme arena: un grande artista messo in ombra dalla vistosa pacchianeria di un circo a tre piste. Dopo lo spettacolo lo raggiunsi in camerino, dove mi feci riconoscere, rammentandogli che avevo fatto il Gatto con lui all'Hippodrome di Londra. Ma la sua reazione fu apatica. Anche sotto il trucco da pagliaccio aveva un'aria triste e avvilita, e sembrava immerso in un malinconico torpore. Si suicidò un anno dopo, a New York. Un trafiletto sui giornali riferiva che un inquilino dello stesso stabile aveva udito uno sparo e trovato Marceline disteso sul pavimento con una pistola in mano e un disco ancora sul piatto del grammofono, che suonava Moonlight and Roses 1. Molti celebri comici inglesi morirono suicidi. T. E. Dunville, un uomo straordinariamente buffo, entrando in un bar senti qualcuno che diceva: « Quel tizio è spacciato ». Lo stesso giorno si sparò sulle rive del Tamigi. Mark Sheridan, uno dei migliori comici inglesi, si sparò in un parco di Glasgow perché il pubblico di quella città aveva accolto freddamente i suoi numeri. Frank Coyne, col quale lavorammo nello stesso spettacolo, era un comico brioso e frizzante, celebre per l'allegra canzonetta: You won't catch me on the gee-gee's back again, It's not the kind of horse that I can ride on. The only horse I know that I can ride Is the one the missus dries the clothes on 2!' Fuori scena era affabile e sempre sorridente. Ma un pomeriggio, dopo avere organizzato una gita in calesse con sua moglie, disse a un tratto 1 Chiaro di luna e rose. 2 Tu non mi rivedrai in groppa al cavallino, / Non è una bestia ch'io possa cavalcare. / L'unico cavalletto che so di poter montare / È quello su cui mia moglie stende i panni ad asciugare !
che aveva dimenticato qualcosa e la pregò di attenderlo mentre andava di sopra. Dopo venti minuti andò di sopra anche lei, a vedere perché tardasse tanto, e lo trovò sul pavimento del bagno, in un lago di sangue, con un rasoio in mano: si era tagliato la gola, spiccandosi quasi la testa dal busto. Dei numerosi artisti che vidi da bambino, non sempre m'impressionarono di più quelli che avevano raggiunto il successo ma quelli che erano dotati di una straordinaria personalità fuori scena. Zarmo, il giocoliere, era un uomo disciplinatissimo, e si esercitava per ore ogni mattina appena si apriva il teatro. Tra le quinte, lo vedevamo mettersi una stecca da biliardo in equilibrio sul mento e lanciare in alto una bilia che ricadeva sulla punta della stecca; poi ne lanciava un'altra che ricadeva sopra la prima: ma la seconda parte dell'esercizio la sbagliava spesso. Erano quattro anni, disse al signor Jackson, che provava questo numero, e alla fine della settimana intendeva eseguirlo in pubblico per la prima volta. Quella sera restammo tutti a guardarlo fra le quinte. Lo esegui perfettamente, e al primo tentativo! Lanciò in alto la bilia e la riprese sulla punta della stecca, poi ne lanciò una seconda e la riprese sopra la prima. Ma l'applauso del pubblico fu molto tiepido. Spesso il signor Jackson rievocava quella serata. Disse a Zarmo: « Hai fatto sembrare l'esercizio troppo facile, non gli hai dato importanza. Dovevi sbagliarlo diverse volte, e poi riuscire ». Zarmo si mise a ridere. « Non sono ancora tanto abile da poterlo fare. » Zarmo s'interessava anche di frenologia e sapeva interpretare la scrittura da esperto grafologo. Fu lui a dirmi che qualsiasi arte imparassi, dovevo metterla da parte e farne buon uso. E poi, a confondermi la psicologia, c'erano i Griffiths Brothers, un numero davvero impressionante di trapezisti comici, che mentre si dondolavano insieme fingevano di prendersi a calci in faccia con grosse scarpe imbottite. « Ahi ! » esclamava quello che li aveva presi. « Fallo ancora, se hai il coraggio ! » « Ah si? »... Sbam!
E la vittima si rivolgeva al pubblico dicendo con aria sorpresa: « L'ha fatto ancora! ». Dan Leno, suppongo, fu il più grande comico inglese dai tempi del leggendario Grimaldi. Anche se non lo vidi mai nel fiore degli anni, per me egli fu più un caratterista che un comico. I suoi stravaganti personaggi londinesi, che appartenevano alle classi meno abbienti, erano molto umani e simpatici; cosi almeno mi disse mia madre. La celebre Marie Lloyd passava per una donna frivola; eppure, quando lavorammo insieme al vecchio Tivoli nello Strand, non vidi mai una artista più seria e coscienziosa di lei. Da bambino la guardavo ad occhi sgranati, questa piccola signora ansiosa e rotondetta che passeggiava nervosamente su e giù tra le quinte, irascibile e apprensiva fino al momento di entrare in scena. Allora si calmava di colpo, prendendo un'aria allegra e disinvolta. E Bransby Williams, l'interprete di Dickens, m'incantò con le sue imitazioni di Uriah Heep, Bill Sykes e del vecchio della Bottega dell'antiquario1. I prodigi di abilità di questo giovanotto, bello e dignitoso, che si truccava davanti a un turbolento pubblico di Glasgow per trasformarsi in questi affascinanti personaggi, mi svelò un altro aspetto del teatro: una strana cosa che si chiamava dramma. Bransby Williams fece nascere in me l'amore per la letteratura. Cos'era questa nera visione della vita? Perché questi personaggi dickensiani si cacciavano in cosi strane complicazioni? La letteratura mi svelò un mondo talmente ricco di misteri da infondermi una grandissima voglia di leggere. Ero cosi affascinato da questi personaggi dickensiani che presi a imitare Bransby Williams. Era inevitabile che non si potesse nascondere ancora per molto un simile talento in boccio. Fu cosi che un giorno il signor Jackson mi vide mentre divertivo gli altri ragazzi della troupe con una imitazione del vecchio della Bottega dell'antiquario. Fui proclamato un 1 The Olà Curiosity Shop. 55
genio, li per li, e il signor Jackson decise che il mondo doveva conoscermi. L'importante evento ebbe luogo nel teatro di Middlesbrough. Dopo la solita danza con gli zoccoli il signor Jackson avanzò sul palcoscenico con la faccia seria di chi sta per annunciare l'avvento di un nuovo Redentore, dichiarando di avere scoperto tra i suoi ragazzi un « enfant prodige » il quale avrebbe fatto un'imitazione di Bransby Williams nei panni del vecchio della Bottega dell' antiquario che non riesce a rassegnarsi alla morte della piccola Nell. Il pubblico non era troppo ben disposto, avendo già dovuto sorbirsi uno spettacolo molto noioso. Entrai comunque in scena col mio solito costume da ballerino, composto da una blusa di lino bianco, un colletto di pizzo, calzoni di velluto alla zuava e scarpette rosse, truccato in modo da sembrare un vecchio di novant'anni. Chissà come, e chissà dove, eravamo venuti in possesso di una vecchia parrucca - forse l'aveva comprata il signor Jackson — che però non mi andava bene. Per grossa che fosse la mia testa, la parrucca era ancora più larga; era una parrucca da calvo, con una frangia di capelli grigi, lunghi e filamentosi, si che, quando feci la mia comparsa sulla scena, curvo come un vecchio, dovevo sembrare una specie di scarafaggio; e il pubblico confermò questa impressione con risa ed esclamazioni soffocate. Dopodiché non fu affatto facile farli tacere. Cominciai a parlare piano piano, in un sussurro: « Zitti, zitti, non fate baccano. Sveglierete la mia Nelly ». « Voce ! Voce ! Parla più forte ! » gridarono alcuni tra il pubblico. Ma io continuai a bisbigliare sommessamente, quasi tra me; tanto sommessamente che gli spettatori cominciarono a pestare i piedi. Fu la fine della mia carriera come interprete dei personaggi di Charles Dickens. Per quanto frugale, la vita con gli Eight Lancashire Lads era piacevole. Di tanto in tanto avevamo qualche piccolo dissenso. Ricordo che lavorai nello stesso spettacolo con due giovani apprendisti acrobati, due ragazzi che avevano pressappoco la mia età; essi ci dissero confidenzialmente che le loro madri ricevevano sette scellini e mezzo alla setti
mana, e che ogni lunedì mattina, sotto il piatto di uova e pancetta, ci trovavano uno scellino per le piccole spese. « E dire » si lamentò uno dei nostri ragazzi « che noi prendiamo solo due pence e un po' di pane e marmellata per colazione. » Quando John, il figlio del signor Jackson, senti le nostre lamentele, scoppiò in pianto, dicendoci che a volte, certe settimane che si lavorava nei sobborghi di Londra, suo padre prendeva solo sette sterline per tutta la compagnia, e che loro facevano i salti mortali per sbarcare il lunario. Fu la bella vita che facevano i due giovani apprendisti a metterci in testa l'idea di diventare acrobati. E cosi, per parecchie mattine, appena il teatro apriva i battenti ci esercitavamo nei salti mortali con una fune legata alla cintola e appesa a una carrucola, tenuta da uno di noi. Io me la cavavo benissimo, e feci salti mortali finché caddi slogandomi un pollice. L'incidente pose fine alla mia carriera di acrobata. Oltre al ballo, si cercava sempre d'imparare qualcosa di nuovo. Volevo fare il giocoliere comico, e perciò avevo risparmiato abbastanza soldi per comprare quattro palle di gomma e quattro piatti di stagno: passavo ore e ore sul letto, ad esercitarmi. Il signor Jackson era un uomo di buon cuore. Tre mesi prima che io lasciassi la compagnia ci esibimmo in uno spettacolo a beneficio di mio padre, che era stato molto male; vi parteciparono numerosi artisti di varietà, compresi gli Eight Lancashire Lads del signor Jackson. La sera dello spettacolo mio padre entrò in scena respirando a fatica, e con uno sforzo penoso tenne un discorso. Io ero da un lato del palcoscenico, e lo guardavo, senza rendermi conto di avere sotto gli occhi un moribondo. Quando eravamo a Londra, ogni sabato andavo a trovare mia madre. Lei mi vedeva pallido e magro, e pensava che il ballo mi danneggiasse i polmoni. Se ne angustiò tanto da scrivere in proposito al signor Jackson, il quale s'indignò talmente che fini per rimandarmi a casa, dicendo che non aveva nessuna voglia, per causa mia, di sorbirsi una madre cosi noiosa.
Poche settimane dopo, però, mi venne l'asma. Gli attacchi si fecero cosi violenti da convincere mia madre che ero affetto da tubercolosi. Mi portò immediatamente all'ospedale Brompton, dove mi sottoposero a una visita accuratissima. Mi trovarono i polmoni in perfetto ordine, però l'asma ce l'avevo sul serio. Per qualche mese patii le pene dell'inferno: la malattia m'impediva di respirare. A volte mi veniva una gran voglia di buttarmi dalla finestra. Mi diede un certo sollievo inalare vapori aromatici con una coperta sulla testa; ma, come avevano pronosticato i medici, finalmente guarii. I miei ricordi di questo periodo sono assai confusi. Passammo, mi pare, da una casa all'altra, finendo in una minuscola soffitta al n. 3 di Pownall Terrace. L'impressione generale era di trovarsi in un autentico ginepraio. Non ricordo dove fosse Sydney; avendo quattro anni più di me, entrava solo a tratti nella mia coscienza. Probabilmente stava col nonno, per non gravare sul bilancio di mia madre. Mi rendevo ben conto del marchio che la miseria imprimeva su di noi. Anche il più povero dei bambini, la domenica, sedeva a tavola davanti a un pranzo cucinato in casa. L'arrosto casalingo era un simbolo di rispettabilità, un rito che distingueva una classe povera dall'altra. Quelli che la domenica non potevano pranzare a casa appartenevano alla categoria dei mendicanti, e noi vi rientravamo in pieno. La mamma mi mandava nella rosticceria più vicina a comprare un pasto da sei pence (carne e verdura di due qualità). Che vergogna! La mettevo in croce perché non preparava qualcosa in casa, e lei tentava invano di spiegarmi che cucinare in casa ci sarebbe costato due volte tanto. Tuttavia, un fortunato venerdì, dopo aver vinto cinque scellini alle corse, mia madre, per accontentarmi, si risolse a preparare un pranzo domenicale. Tra le altre ghiottonerie comprò un pezzo di carne che non si capiva se fosse manzo o semplice sugna. Pesava due chili e due etti e sopra c'era un cartellino: « Per arrosto ». La mamma, non avendo il forno, usò quello della padrona di casa, ed essendo troppo timida per entrare e uscire continuamente dalla cucina aveva calcolato a occhio il tempo di cottura. Di conseguenza, con no
stro sgomento, quando andò ad aprire il forno l'arrosto si era ridotto alle proporzioni di una palla da cricket. Ciò nondimeno, malgrado le asserzioni di mia madre, la quale sosteneva che i nostri pranzi da sei pence erano meno faticosi e più saporiti, io gustai quell'arrosto e per una volta ebbi la soddisfazione di vivere all'altezza dei Jones. Improvvisamente la nostra vita cambiò. La mamma aveva incontrato una vecchia amica, una bella donna, giunonica e vistosa, che si era arricchita abbandonando il teatro per diventare l'amante di un vecchio, facoltoso colonnello. Abitava nell'elegante quartiere di Stockwell; e nell'entusiasmo di rivedere mia madre ci invitò a passare l'estate con lei. Poiché Sydney era via, in campagna, a raccogliere il luppolo, non occorse molto per convincere mia madre, che ricorrendo alla magia del proprio ago si rese perfettamente presentabile; e per l'occasione io indossai il vestito della domenica, ereditato dagli Eight Lancashire Lads. Cosi, di punto in bianco, ci trasferimmo in una casa d'angolo molto tranquilla di Lansdowne Square, piena di servitori, di stanze da letto rosa e azzurre, di cinz e pelli d'orso polare; si viveva nella bambagia. Come ricordo bene quegli enormi grappoli di uva nera di serra che adornavano la credenza in sala da pranzo e il mio senso di colpa per il loro misterioso rimpicciolirsi, assumendo di giorno in giorno un aspetto sempre più scheletrito. Il personale domestico era formato da quattro donne: la cuoca e tre cameriere. Oltre a mia madre e me c'era un altro ospite, un bel giovanotto molto nervoso con un paio di baffetti rossi. Era un tipo signorile ed estremamente affascinante, e sembrava un accessorio permanente della casa: fino a quando, cioè, non entrava in scena il colonnello. Allora il bel giovanotto spariva d'incanto. Le visite del colonnello erano sporadiche, una o due volte alla settimana. Quand'era li, una misteriosa onnipresenza pervadeva la casa, e la mamma mi ordinava di non venire tra i piedi e di non farmi vedere.
Un giorno entrai di corsa nella sala mentre il colonnello scendeva le scale. Era un signore alto e maestoso in redingote e cappello a cilindro, rosso in viso, con lunghi favoriti grigi e una testa pelata. Mi sorrise e tirò di lungo. Non capivo che cosa fossero tutte quelle precauzioni, e perché l'arrivo del colonnello avesse un tale effetto. Ma lui non si tratteneva mai a lungo, e presto ritornava il giovanotto dai baffetti rossi e la casa riprendeva a funzionare normalmente. Finii per affezionarmi moltissimo al giovanotto dai baffi rossi. Facevamo insieme lunghe passeggiate attraverso Clapham Common con i due magnifici levrieri della signora. Clapham Common, allora, era una zona molto elegante. Persino la farmacia, dove ogni tanto andavamo a fare qualche acquisto, aveva un'aria raffinata con la sua familiare mescolanza di effluvi aromatici, talchi, saponi e profumi: sempre, da allora, l'odore di certe farmacie mi ha infuso un senso di piacevole nostalgia. Fu lui a consigliare mia madre di curarmi l'asma con un bagno freddo tutte le mattine, e forse essi servirono effettivamente a qualcosa; erano assai tonificanti, e finii per trovarmene contento. È straordinaria la facilità con cui ci si abitua alla vita comoda. Com'è rapida l'assuefazione al lusso e agli agi della ricchezza! In meno di una settimana mi parve di avere sempre fatto quella vita. Che senso di benessere provavo nel compiere quel rito mattutino, portando a spasso i cani, tenendoli per il guinzaglio nuovo di pelle marrone, e poi ritornando in una bella casa piena di domestici ad aspettare il pranzo, servito con estrema raffinatezza su piatti d'argento! Sul nostro giardino posteriore dava un'altra casa i cui abitanti avevano lo stesso numero di domestici che avevamo noi. Era una famiglia di tre persone, moglie, marito e un figlio, che aveva pressappoco la mia età e una stanza piena zeppa di balocchi meravigliosi. M'invitavano spesso a giocare con lui, oppure a cena, e diventammo ottimi amici. Suo padre aveva un posto importante in una banca della City, e sua madre era una donna giovane e molto graziosa. Un giorno colsi una conversazione tra la nostra cameriera e quella del 60
ragazzo, la quale stava dicendo che il mio nuovo amico aveva bisogno di una governante. « Ne avrebbe bisogno anche questo qui » disse la nostra cameriera, alludendo a me. Provai un brivido di piacere al pensiero di essere scambiato per un figlio di ricconi, ma non capii mai bene perché mi avesse elevato a questo rango, a meno che non fosse stato per elevare se stessa facendo credere agli altri che la gente per cui lavorava era facoltosa e rispettabile come i vicini della casa accanto. Dopodiché, ogni volta che cenavo col ragazzo della casa accanto mi sentivo un po' un impostore. Anche se fu un brutto giorno quello in cui lasciammo l'elegante casa di Stockwell per tornare in Pownall Terrace 3, provai un senso di sollievo, al pensiero che avremmo recuperato la nostra libertà; dopo tutto, nella nostra condizione di ospiti avevamo vissuto in un continuo stato di tensione e, come diceva mia madre, gli ospiti erano come il pesce: conservato troppo a lungo, puzzava. Cosi si ruppero i serici fili di un breve e lussuoso interludio, e noi ripiombammo nello squallore e nella miseria consueta.
Quattro Il 1899 fu l'anno dei mustacchi: sovrani, statisti, soldati e marinai, Kruger, Salisbury, Kitchener e giocatori di cricket, tutti baffuti: anni incredibili di pompa e assurdità, di estrema ricchezza e di miseria, di inane faziosità politica da parte della stampa e del giornalismo satirico. Ma l'Inghilterra doveva incassare molti colpi e digerire parecchie indignazioni. Nel Transvaal africano alcuni agricoltori boeri conducevano una guerra sleale, sparando addosso ai nostri soldati in giubba rossa, eccellenti bersagli, da dietro i massi e le rocce. Finalmente il ministero della guerra ci ripensò, e le giubbe rosse furono rapidamente sostituite da divise kaki. Se i boeri non erano d'accordo, tanto peggio per loro. Che ci fosse una guerra lo intuivo vagamente dalle canzoni patnottiche, dai numeri di varietà e dalle figurine dei generali nei pacchetti di sigarette. Il nemico, naturalmente, non era un branco di perfetti mascalzoni. Giungeva la dolorosa notizia che i boeri avevano circondato Ladysmith; poi l'Inghilterra impazziva di gioia isterica alla rivincita di Mafeking. E finalmente si vinse: uscimmo dal rotto della cuffia, insomma. Queste cose io le seppi da tutti tranne che da mia madre. Lei non parlava mai della guerra. Aveva la sua battaglia da combattere. Sydney, che aveva ormai quattordici anni, interruppe gli studi per farsi assumere come fattorino telegrafico all'ufficio postale dello Strand. Con la paga di mio fratello e con ciò che guadagnava la mamma alla macchina da cucire la nostra situazione divenne quasi tollerabile: anche se il
contributo di nostra madre era assai modesto. Lavorava a cottimo per una fabbrica, cucendo camicette a uno scellino e mezzo la dozzina. Benché i modelli fossero consegnati già tagliati, occorrevano dodici ore per confezionare una dozzina di camicette. Il record di mia madre era di cinquantaquattro camicette alla settimana, per un totale di sei scellini e nove pence. Spesso, la notte, giacevo sveglio nella nostra soffitta e la guardavo, curva sulla macchina da cucire, la testa aureolata dal chiarore del lume a petrolio, il viso nell'ombra lieve, le labbra socchiuse dallo sforzo mentre guidava la stoffa tra gli ingranaggi, finché il ronzio non mi faceva riprender sonno. Quando lavorava sino ad ora cosi tarda, era in genere per rispettare una scadenza monetaria. Restava sempre il problema delle rate da pagare. Improvvisamente maturò una crisi. A Sydney occorreva un vestito nuovo. Aveva talmente consumato la divisa da fattorino, portandola tutti i giorni della settimana comprese le domeniche, che i suoi amici cominciarono a prenderlo in giro. Allora restò a casa per un paio di weekend finché la mamma non fu in grado di comprargli un abito di saia blu. Chissà come, riuscì a raggranellare diciotto scellini. Ciò creò una insolvenza nella nostra economia, tanto che la mamma fu costretta a impegnare il vestito ogni lunedì dopo che Sydney era tornato al lavoro con l'uniforme da fattorino. Per il vestito prendeva sette scellini, riscattandolo ogni sabato in modo che mio fratello se lo potesse mettere durante il week-end. Questa pratica settimanale durò più di un anno, trasformandosi in una cerimonia abituale, finché il vestito divenne liso. Allora ci toccò una brutta sorpresa. Un lunedì mattina, al solito, nostra madre andò al monte di pietà. L'uomo ebbe un'esitazione. « Mi rincresce, signora Chaplin, ma non possiamo più darle sette scellini. » Mia madre rimase sbalordita. « Ma perché? » chiese. « È un rischio troppo grande. I calzoni sono lisi. Vede? » disse lui, passando una mano sul fondo dei pantaloni. « Si vede in trasparenza. » « Ma li riscatterò sabato venturo » disse mia madre.
L'agente di pegno scosse il capo. « Il massimo che posso fare sono tre scellini per la giacca e il panciotto. » Mia madre piangeva di rado, ma quello fu un colpo cosi violento che tornò a casa in lacrime. Contava su quei sette scellini per arrivare alla fine della settimana. Frattanto anche i miei indumenti erano, a dire il meno, in condizioni deplorevoli. I resti del costume ereditato dagli Eight Lancashire Lads costituivano uno spettacolo pietoso. C'erano toppe dappertutto, sui gomiti, sui calzoni, su calze e scarpe. E, in questo stato, chi ti incontro se non il mio bell'amichetto di Stockwell? Che diavolo facesse a Kennington non lo sapevo ed ero troppo imbarazzato per domandarglielo. Mi salutò abbastanza cordialmente, ma vidi che aveva notato il mio aspetto lacrimevole. Per vincere l'imbarazzo presi un'aria dégagé e col mio tono più educato l'informai che mi trovavo in tenuta da lavoro perché ero reduce da una lezione di falegnameria. Ma la spiegazione lo interessò poco. Prese un'aria mortificata e cominciò a guardarsi intorno per nascondere l'imbarazzo. Domandò come stava mia madre. Risposi seccamente che era via, in campagna, e portai il discorso su di lui. « Stai sempre nello stesso posto? » « Si » disse, squadrandomi come se avessi commesso un peccato mortale. « Be', ora devo scappare » tagliai corto io. Mi rivolse un pallido sorriso. « Arrivederci » disse, e ci separammo, lui allontanandosi tranquillamente in una direzione e io a corsa precipitosa in quella opposta. Mia madre aveva un detto: « Puoi sempre chinarti e non raccogliere nulla ». Ma lei per prima non si uniformava a questo adagio, e il mio senso di proprietà fu oltraggiato più volte. Un giorno, tornando dall'ospedale di Brompton, mia madre si fermò a sgridare alcuni ragazzacci che tormentavano una povera donna, sporca e lacera fino a essere
grottesca. Aveva i capelli cortissimi, cosa insolita a quel tempo, e i monelli ridevano spingendosi l'uno con l'altro addosso a lei, come se a toccarla corressero il rischio di restare contaminati. Quella donna rimase pateticamente nella posa di un cervo braccato da una muta di cani finché non intervenne mia madre. Allora il suo viso s'illuminò, come se avesse ritrovato una persona di sua conoscenza, « Lil » disse debolmente, chiamando mia madre col suo nome d'arte, « non mi riconosci? Sono Eva Lestock. » Mia madre la riconobbe subito. Era una vecchia amica dei tempi del vaudeville. Pieno d'imbarazzo, tirai diritto per la mia strada fermandomi all'angolo per attendere mia madre. I ragazzi mi passarono davanti, ridendo e schiamazzando. Ero furibondo. Mi voltai per vedere che fine avesse fatto mia madre e, guarda un po', quella donna le si era messa al fianco: insieme, stavano venendo verso di me. Disse la mamma: « Te lo ricordi il piccolo Charlie? ». « Se lo ricordo ! » disse tristemente la donna. « Quante volte l'ho tenuto in braccio, quand'era piccolo ! » Il solo pensiero mi diede il voltastomaco, tanto la donna era sozza e spregevole. Come ci rimettemmo in marcia, notai con imbarazzo che la gente si voltava a guardarci tutti e tre. Quando mia madre l'aveva conosciuta, lavorava nel varietà: era una donna graziosa e vivace, « l'affascinante Eva Lestock ». Ci disse che aveva dovuto farsi ricoverare all'ospedale per una malattia, e che da quando era stata dimessa aveva dormito sotto i ponti e negli ostelli dell'Esercito della Salvezza. Prima mia madre la mandò ai bagni pubblici, poi, con mio orrore, se la rimorchiò nella nostra piccola soffitta. Se si fosse ridotta in quello stato solo a causa della malattia, non lo seppi mai. La cosa più orribile fu che dormi nella poltrona-letto di Sydney. Comunque, mia madre le diede tutti gli indumenti di cui potè privarsi, prestandole anche un paio di scellini. Dopo tre giorni ella se ne andò; fu l'ultima volta che la vedemmo o che sentimmo parlare dell'« affascinante Eva Lestock ! ». 65
Prima che mio padre morisse, la mamma lasciò Pownall Terrace e prese in affitto una stanza nella casa della signora Taylor, una sua amica, appartenente alla congregazione e devota cristiana. Era una donna sui cinquantacinque anni, tozza e di bassa statura, con una mascella quadrata e un viso rugoso e olivastro. Vedendola cantare in chiesa, scopersi che aveva la dentiera. Le cadeva sempre dalle gengive superiori sulla lingua, con un effetto ipnotico. Era un tipo enfatico, dai modi molto energici. Aveva preso mia madre sotto la sua ala cristiana, affittandole a un prezzo assai conveniente una stanza al secondo piano della sua grande casa, attigua a un cimitero. Suo marito, una copia fedele del dickensiano signor Pickwick, fabbricava strumenti di precisione, e aveva l'officina all'ultimo piano. Sul tetto si apriva un lucernario: mi parve un angolo di paradiso, quella stanza, tanto serena era l'atmosfera che vi si respirava. Andavo spesso a vederlo lavorare, e seguivo affascinato le sue mosse, mentre scrutava attentamente attraverso le spesse lenti degli occhiali, servendosi anche di una grossa lente d'ingrandimento, un calibro d'acciaio capace di misurare la cinquantesima parte di un pollice. Lavorava solo, e spesso mi mandava a sbrigare commissioni. La massima aspirazione della signora Taylor era di convertire il marito, che secondo la sua rigida morale cristiana era un peccatore. La figlia, che somigliava in tutto e per tutto alla madre, a parte il colorito, meno olivastro, e naturalmente l'età, sarebbe stata carina se avesse tenuto un atteggiamento meno altero e scostante. Come il padre, non andava mai in chiesa. Ma la signora Taylor non abbandonò mai la speranza di riuscire a convertirli entrambi. La figlia era la pupilla degli occhi di sua madre: ma non di quelli della mia. Un pomeriggio, mentre all'ultimo piano seguivo il lavoro del signor Taylor, udii l'eco di un alterco, da basso, scoppiato tra mia madre e la signorina Taylor. La signora Taylor era fuori. Non so da che cosa fosse stato provocato: comunque, volarono tra loro parole grosse. Quando
raggiunsi il nostro pianerottolo, mia madre si spenzolava dalla ringhiera: « Chi credi di essere? La signora Stronza? ». « Oh ! » esclamò la figlia. « Bel modo di parlare da parte di un cristiano! » « Non temere » disse in fretta mia madre « è nella Bibbia, mia cara ; Deuteronomio, capitolo ventottesimo, versetto trentasettesimo, solo che ci hanno messo un'altra parola. Ma per te stronza va benissimo. » Dopodiché, ritornammo in Pownall Terrace. Il Three Stags di Kennington Road non era uno dei locali che mio padre frequentasse abitualmente; tuttavia, un giorno, passandoci davanti, qualcosa mi spinse a darvi un'occhiatina per vedere se non fosse là. Socchiusi appena la porta del saloon, ed eccolo là, seduto in un angolo ! Stavo per andarmene quando il suo viso s'illuminò e con un cenno egli m'invitò a entrare. Rimasi stupito da una simile accoglienza, perché non era mai stato un tipo molto espansivo. Sembrava che stesse piuttosto male; aveva gli occhi incavati, e il corpo si era gonfiato fino ad assumere enormi proporzioni. Teneva una mano infilata nel panciotto, napoleonicamente, come per alleviare la difficile respirazione. Quella sera fu pieno di premure, chiese notizie di Sydney e della mamma, e prima che me ne andassi mi prese in braccio e per la prima volta mi baciò. Quella fu l'ultima volta che lo vidi ancora vivo. Tre settimane dopo venne ricoverato all'ospedale di St Thomas. Per condurvelo dovettero ubriacarlo. Quando capi dov'era, ingaggiò una lotta furiosa: ma ormai era più di là che di qua. Pur essendo ancora giovanissimo - aveva solo trentasette anni - stava per morire di idropisia. Gli spillarono dal ginocchio diciassette litri di liquido. Mia madre andò a trovarlo spesso, e da ogni visita rincasava molto rattristata. Disse che mio padre voleva tornare con lei e rifarsi una vita in Africa. Vedendo che io m'illuminavo a tale prospettiva, scosse il capo, perché sapeva benissimo come stavano le cose. « Lo ha detto solo per mostrarsi gentile. »
Un giorno tornò dall'ospedale indignata per ciò che aveva detto il reverendo John McNeil, evangelista, quando era andato a trovare mio padre. « Be', Charlie, quando ti guardo posso solo pensare al vecchio proverbio: "Giò che un uomo semina, raccoglie". » « Bel modo di confortare un moribondo » disse la mamma. Pochi giorni dopo il babbo era morto. All'ospedale vollero sapere chi lo avrebbe seppellito. Mia madre, che non aveva un soldo, propose di rivolgersi al Fondo di Beneficenza per gli Artisti di Varietà, un'organizzazione assistenziale per la gente di teatro. La proposta provocò una serie di violente rimostranze da parte dei Chaplin: troppo grande sarebbe stata l'umiliazione di vedere un loro congiunto sepolto grazie alla carità della gente. In quel momento si trovava a Londra un certo zio Albert, fratello minore di mio padre, abitante in Africa, il quale disse che avrebbe pagato lui i funerali. Il giorno della sepoltura dovevamo trovarci all'ospedale di St Thomas, dove avremmo incontrato il resto dei Chaplin; di là saremmo partiti in carrozza per il cimitero di Tooting. Sydney non potè venire perché lavorava. Mia madre e io giungemmo all'ospedale con un paio d'ore di anticipo sul momento fissato perché lei voleva vedere il babbo prima che lo chiudessero nella cassa. La bara era avvolta in un sudario di satin bianco e tutt'intorno, a incorniciare il viso di mio padre, correva una fascia di margheritine bianche. La mamma le trovò molto semplici e commoventi e chiese chi ce le aveva messe. Un inserviente le disse che quel mattino, di buon'ora, era venuta una signora con un bambino piccolo. Si trattava di Louise. Mia madre, lo zio Albert e io prendemmo posto nella prima carrozza. Il viaggio fino a Tooting fu una cosa penosa, perché la mamma non aveva mai visto prima lo zio Albert. Il fratello del babbo era un elegantone e si esprimeva con molta affettazione; per quanto educato, il suo atteggiamento era gelido. Si pensava che fosse molto ricco; possedeva grandi allevamenti di cavalli nel Transvaal e durante la guerra anglo-boera era stato uno dei fornitori del governo britannico. Durante le esequie piovve a dirotto: le zolle di terra che i becchini get
tarono sulla bara mandavano un tonfo brutale. Fu uno spettacolo macabro e spaventoso. Cominciai a piangere. Poi i parenti gettarono nella fossa i fiori e le corone. Mia madre, che non aveva nulla da buttare, mi tolse di mano il prezioso fazzoletto listato di nero. « Ecco, figliolo » sussurrò «questo basterà per tutti e due. » Finita la cerimonia, i Chaplin si fermarono a pranzo in uno dei loro pub, e prima di congedarsi ci chiesero educatamente dove volevamo essere portati. Cosi tornammo a casa in carrozza. Una volta là, scoprimmo che nella credenza non c'era niente da mangiare, all'infuori di un piattino di sugo di carne; mia madre era senza un soldo, perché aveva dato a Sydney i suoi ultimi due pence per pagarsi la colazione. Da quando si era ammalato, mio padre aveva lavorato poco, e ora che ci stavamo avvicinando alla fine della settimana i sette scellini che guadagnava Sydney come fattorino del telegrafo erano già finiti. E dopo il funerale avevamo una gran fame tutti e due. Per fortuna in quel momento passava lo straccivendolo : possedevamo un vecchio fornello a petrolio e cosi, sia pure con riluttanza, mia madre lo vendette per mezzo soldo, col quale comprò un po' di pane da intingere nel sugo. L'indomani mia madre, essendo la vedova legittima di mio padre, fu invitata a passare dall'ospedale per ritirare la sua roba: un vestito nero macchiato di sangue, un po' di biancheria, una camicia, una cravatta nera, una vecchia vestaglia e un paio di pantofole da casa di stoffa scozzese con le punte imbottite di arance. Quando le tolse, una mezza sovrana scivolò fuori dalle pantofole e cadde sul letto. Quello si che fu un dono del cielo! Per varie settimane portai il lutto al braccio. Questo segno di dolore mi fu molto utile quando, un sabato pomeriggio, mi misi a vendere fiori. Avevo persuaso mia madre a prestarmi uno scellino; andai al mercato dei fiori ad acquistare due mazzi di narcisi, e dopo la scuola mi diedi da fare per suddividerli in mazzetti da un soldo. Se fossi riuscito a venderli tutti, avrei realizzato un guadagno del cento per cento. Entravo nei caffè, con l'angoscia dipinta sul viso, e mormoravo: « Nar
cisi, signorina? Narcisi, signora? ». « Chi ti è morto, figliolo? » mi chiedevano sempre le donne. E io abbassavo la voce fino a renderla quasi impercettibile: « Mio padre ». Allora mi davano la mancia. Mia madre restò sbalordita, quella sera, quando dopo un pomeriggio di lavoro rincasai con più di cinque scellini in tasca. Ma un giorno la incontrai mentre uscivo da un pub, e ciò pose fine alla mia attività di fioraio; che suo figlio vendesse fiori nei caffè era una cosa che offendeva i suoi principi religiosi. « Il bere ha ucciso tuo padre, e ogni soldo ricavato da una fonte cosi perversa non ci porterà che disgrazia » disse. Comunque si tenne l'incasso, anche se non mi diede mai più il permesso di rimettermi a vendere fiori. Io avevo una spiccata attitudine per gli affari. Non facevo che elaborare progetti commerciali. Guardavo le botteghe vuote, chiedendomi a quale uso redditizio avrei potuto destinarle, da drogheria a friggitoria di pesce e patate. Non ci si allontanava mai dal capo alimentare. Mi occorreva solo un capitale: ma come si fa a trovare un capitale? Alla fine convinsi mia madre che avrei fatto meglio a interrompere gli studi per cercarmi un lavoro. In brevissimo tempo feci molti mestieri. Prima divenni garzone di un droghiere. Tra una consegna e l'altra lavoravo piacevolmente in cantina, in mezzo a sapone, amido, candele, dolciumi e biscotti, divorando frutta candita fino a star male. Poi passai alle dipendenze di Hool e Kinsey-Taylor, medici per una società di assicurazioni in Throgmorton Avenue, un posto ereditato da Sydney, che mi aveva raccomandato. Era un impiego redditizio, e guadagnavo dodici scellini alla settimana come usciere, con l'obbligo di pulire gli ambulatori dopo che i medici se n'erano andati. Come usciere ottenni un successo strepitoso e mi accattivai le simpatie di tutti i pazienti che facevano anticamera, ma quando si trattò di pulire gli ambulatori mi caddero le braccia: Sydney se l'era cavata assai meglio di me. Non avevo nulla in contrario a svuotare le ampolle di orina, ma pulire quei finestroni di tre metri era davvero un compito superiore alle mie forze; di conseguenza gli ambulatori divennero sempre più bui e polve
rosi finché mi fu detto educatamente che ero troppo piccolo per quel lavoro. Quando mi comunicarono la brutta notizia scoppiai in un pianto dirotto. Il dott. Kinsey-Taylor, marito di una signora molto ricca con un'ampia casa a Lancaster Gate, ebbe pietà di me e disse che mi avrebbe assunto alle sue dipendenze come valletto. Mi si allargò subito il cuore. Valletto in una casa privata: e di gran signori, per giunta! Furono giorni deliziosi, perché ero il beniamino di tutte le cameriere. Mi trattavano come un bambino e prima di andare a letto mi davano il bacio della buonanotte. Ma il destino non volle che diventassi maggiordomo. Un giorno la signora mi ordinò di rimettere in ordine una cantina, dove c'erano mucchi di rottami e cataste di cassette da imballaggio da dividere, raggruppare e sistemare. Mi distrasse dall'impresa un tubo di ferro lungo due metri e mezzo, nel quale mi misi a soffiare come in una tromba. Mentre me la spassavo cosi, apparve la signora: e ricevetti un preavviso di tre giorni. Mi divertii un mondo a lavorare per W. H. Smith e Figli, i cartolai, ma persi il posto appena scoprirono che non avevo ancora l'età necessaria. Poi per un giorno feci il soffiatore di vetro. A scuola avevo letto qualcosa sulla soffiatura del vetro e la credevo una cosa romantica, ma il calore mi sopraffece e dovettero portarmi fuori, esanime, e distendermi su un mucchio di sabbia. L'esperienza mi bastò; non tornai neppure a riscuotere la paga di quella giornata. Poi lavorai nella tipografìa di Straker. Cercai di dar loro a intendere che sapevo usare una stampatrice Wharfedale: una cosa enorme, lunga più di sei metri. L'avevo vista in funzione, sbirciando dalla strada nello scantinato, e sembrava un'operazione molto semplice, facile da eseguire. Un cartello diceva: « Cercasi ragazzo per alimentare una stampatrice Wharfedale ». Quando il capo-officina mi portò al cospetto della macchina, ebbi l'impressione che un mostro mi fosse sorto davanti al naso. Per manovrarla dovevo stare in piedi su una piattaforma alta un metro e mezzo. Mi pareva di essere in cima alla Torre Eiffel. « Dacci dentro ! » disse il capo-officina.
« Darci dentro? » Vedendo la mia esitazione, scoppiò in una risata: « Tu non hai mai lavorato con una Wharfedale ». « Mi dia una possibilità, vedrà che imparerò presto » dissi io. « Darci dentro » voleva dire tirare la leva per mettere in moto il bestione. Egli mi mostrò la leva, poi mise il mostro a mezza velocità. Esso si mosse, arrotando i denti e grugnendo; pensai che stesse per divorarmi. I fogli erano enormi, ne sarebbe bastato uno per incartarmi da capo a piedi. Con un raschietto d'avorio smazzavo i fogli di carta, prendendoli per gli angoli e piazzandoli meticolosamente contro i denti in tempo affinchè il mostro li stringesse fra le ganasce, li divorasse e li rigurgitasse dall'altra parte. Il primo giorno la lotta per non farmi raggiungere da quel mostro mi ridusse uno straccio. Ciò nonostante, venni assunto a dodici scellini alla settimana. Era romantico e avventuroso uscire in quelle fredde mattine, prima dell'alba, per andare al lavoro, le strade mute e deserte ad eccezione di una o due figure indistinte che puntavano verso il faro della sala da tè di Lockhart per fare colazione. Si provava un senso di benessere a sorbire il tè bollente in compagnia dei propri simili alla luce e nel calduccio di quella tregua momentanea prima di una giornata di lavoro. E poi quello di tipografo non era un brutto mestiere; a parte la fatica del sabato, quando si doveva lavare l'inchiosto da quegli alti, grossi rulli di gelatina che pesavano quasi cinquanta chili l'uno, era un lavoro tollerabile. Però, dopo tre settimane di tipografia mi presi l'influenza, e la mamma insistè perché tornassi a scuola. Un giorno Sydney rincasò sprizzando entusiasmo da tutti i pori. Aveva ottenuto un posto di trombettiere su una nave passeggeri della compagnia Donovan e Castle in procinto di salpare per l'Africa. Sarebbe toccato a lui dare i segnali del pranzo, ecc. Aveva imparato a suonare la tromba a bordo della nave scuola Exmouth; ora poteva mettere a frutto quelle lezioni. Avrebbe preso due sterline e mezza al mese, più le mance dei tre tavoli di seconda classe assegnati a lui. Gli era stato promesso un anticipo di trentacinque scellini prima della partenza, che lui,
naturalmente, contava di dare a nostra madre. Con cosi allegre prospettive, ci trasferimmo in due locali sopra un salone di barbiere in Chester Street. Il ritorno di mio fratello dal suo primo viaggio costituì un ottimo pretesto per una festa, perché Sydney giunse a Londra con più di tre sterline di mancia, e tutte in monete d'argento. Ricordo quando si tolse il danaro di tasca e lo sparpagliò sul letto. Mi sembrava di non avere mai visto una somma cosi enorme e non riuscii a trattenermi dall'allungare le mani. Raccolsi le monete, le lasciai cadere, ne feci tante pile e continuai a giocherellare finché mia madre e mio fratello dichiararono che ero un avaro. Che lusso! Che abbondanza! Per noi quell'estate fu il periodo della torta e del gelato: lo prendevamo quasi tutti i pomeriggi. Fu anche il periodo delle aringhe affumicate, del salmone, dei merluzzi e del pane tostato a colazione, e la domenica mattina delle tartine e dei pasticcini da tè. Sydney si prese un raffreddore e rimase a letto per parecchi giorni, assistito da me e da mia madre. Fu allora che ci concedemmo il gelato, un soldo di gelato in un grosso bicchiere da whisky che presentavo al banco della gelateria italiana con grande irritazione del proprietario. Alla seconda visita mi consigliò di portare una vasca da bagno. Una delle nostre bevande estive preferite era il cocktail a base di latte e sorbetto: il sorbetto, che spumeggiava nel latte scremato, era veramente delizioso. Sydney ci narrò molti aneddoti divertenti sul suo viaggio. Prima della partenza aveva quasi perso il posto, quando suonò il primo segnale di tromba per il pranzo. Era fuori esercizio e i soldati a bordo lo accolsero con un coro di fischi. Arrivò il capo cameriere, su tutte le furie: « Che diavolo stai combinando? ». « Mi rincresce, signore » disse Sydney « non mi sono ancora fatto il labbro. » « Be', sarà meglio che tu ti faccia questo labbro della malora prima della partenza della nave, se non vuoi restare a terra. » In cucina, durante i pasti, c'era sempre una lunga fila di camerieri.
Ma quando veniva il suo turno, Sydney aveva dimenticato l'ordinazione, e gli toccava di rifare tutta la coda un'altra volta. Mio fratello disse che mentre tutti finivano il dessert, al suo tavolo lui stava ancora servendo la minestra. Sydney rimase a casa finché non terminarono i suoi soldi. Però ottenne un secondo ingaggio e come al solito gli versarono un anticipo di trentacinque scellini, che lui diede a nostra madre. Ma non durarono a lungo. Dopo tre settimane stavamo grattando il fondo del barile, e ne mancavano altre tre al ritorno di Sydney. Anche se la mamma continuava a lavorare, i suoi guadagni non bastavano a mantenerci tutti e due. Ben presto ci trovammo di nuovo in crisi. Per fortuna io ero pieno di risorse. Mia madre aveva un mucchio di vestiti smessi, e un sabato mattina le dissi che avrei cercato di venderli al mercato. Un po' imbarazzata, lei rispose che non valevano niente. Ciò nondimeno, li incartai in un giornale vecchio e presi la strada di Newington Butts: ivi giunto, sciorinai sul marciapiede la mia mercanzia. Non era un assortimento molto invitante; ritto nella cunetta, prendendo in mano ora una camicia smessa ora un vecchio busto da donna, gridavo: «Gente! Che cosa mi date? Uno scellino, sei pence, tre pence, due pence... ». Nemmeno a un penny riuscii a vendere qualcosa. La gente si fermava, stupita, poi rideva e tirava diritto. Cominciai a sentirmi in imbarazzo, specie quando i commessi della gioielleria di fronte si misero a fissarmi dalla vetrina. Ma nulla mi fermò. A furia di insistere riuscii a vendere per sei pence un paio di ghette che avevano ancora un'aria abbastanza presentabile. Ma più tempo passava, più cresceva il mio disagio. Finalmente mi si avvicinò il padrone della gioielleria, che con forte accento russo mi chiese da quanto tempo facevo quel mestiere. Malgrado la solennità del suo viso, colsi una certa ironia nella sua domanda e gli dissi che avevo appena cominciato. A passo lento egli tornò dai suoi due soci che mi guardavano sorridenti dalla vetrina. Allora ne ebbi abbastanza. Pensai che era giunto il momento di incartare la mia mercanzia e fare ritorno a casa. Quando le dissi
che avevo venduto un paio di ghette per sei pence, mia madre s'indignò. « Dovevano darti di più » disse. « Era un capo bellissimo ! » In queste condizioni l'affitto non costituiva un problema molto grave. Per risolverlo bastava non farsi trovare in casa il giorno in cui veniva l'esattore; e, poiché le nostre suppellettili erano di scarso valore, portarle via sarebbe costato più di quanto dovevamo. Comunque ritornammo in Pownall Terrace 3. Fu allora che feci la conoscenza di un vecchio che lavorava insieme al figlio nelle ex-scuderie dietro Kennington Road. Erano venditori ambulanti di giocattoli che si fabbricavano da sé. Venivano da Glasgow. Costruivano balocchi e li offrivano alla gente girando di città in città. Erano liberi e senza legami, e si attirarono subito la mia invidia. Il loro mestiere non richiedeva grandi capitali. Bastava disporre di uno scellino da investire per mettersi a raccogliere scatole di scarpe, delle quali ogni calzoleria era ben felice di sbarazzarsi, e segatura di sughero del tipo con cui s'imballava l'uva, che ottenevano, anche questa, gratis. Le spese iniziali riguardavano soltanto l'acquisto di un soldo di colla, un soldo di legno, due soldi di spago, un soldo di carta colorata natalizia e tre fogli da due soldi di stagnola di vari colori. Con uno scellino facevano dodici dozzine di barchette da rivendere a un soldo l'una. Le fiancate le ritagliavano dalle scatole da scarpe e le cucivano su una base di cartone; la superficie liscia veniva spalmata di colla, poi cosparsa di segatura. Gli alberi avevano vele di stagnola colorata; bandierine blu, gialle e rosse venivano incollate all'albero maestro e sulla punta delle bombe, a poppa e a prua. Cento o più di queste barchette, con le bandierine e la stagnola colorata, formavano uno spettacolo gaio e festoso che attirava i clienti; ed erano oggetti facili da vendere. In seguito al nostro incontro cominciai ad aiutarli nella confezione delle barche, e ben presto imparai il mestiere. Quando lasciarono il nostro quartiere mi misi a lavorare per conto mio. Con un modesto capitale di sei pence, e coprendomi le mani di vesciche a furia di tagliare cartone, in una settimana riuscii a sfornare tre dozzine di imbarcazioni. Ma nella nostra soffitta non c'era abbastanza posto per il lavoro della
mamma e il mio cantiere. Inoltre, a mia madre dava fastidio l'odore della colla bollente, e il barattolo della colla era una continua minaccia per le sue camicette di lino che, fra parentesi, occupavano quasi tutto lo spazio della stanza. Poiché il mio contributo era inferiore a quello di mia madre, il suo lavoro ebbe la precedenza e il mio mestiere fu presto abbandonato. In tutto questo tempo avevamo visto il nonno molto raramente. Durante l'anno precedente non se l'era passata troppo bene. Aveva le mani enfiate dalla gotta, e ciò gli rendeva difficile continuare la vecchia attività di ciabattino. In passato aveva aiutato mia madre regalandole un paio di scellini ogni volta che poteva. Talora ci faceva da mangiare, cucinando un pasto delizioso a base di avena Quaker e cipolle bollite nel latte con sale e pepe. In una sera d'inverno era quel che ci voleva per resistere al freddo. Da piccolo mi ero fatto l'idea che il nonno fosse un vecchio cocciuto e permaloso, mai contento dei miei modi o della mia grammatica. In seguito a questi brevi incontri avevo finito per trovarlo antipatico. Adesso era all'ospedale con i reumatismi, e la mamma andava a trovarlo ogni giorno di visita. Queste visite erano vantaggiose, perché di solito ella ritornava con una borsa piena di uova fresche, un autentico lusso nella fase piuttosto critica che stavamo attraversando. Quando non poteva andarci lei, mandava me. Non mancava mai di sorprendermi trovare il nonno cosi affabile e felice di vedermi. Era il beniamino delle infermiere. Mi disse poi, più avanti, che soleva scherzare con loro, affermando che malgrado i reumatismi che lo paralizzavano non tutto il suo meccanismo era fuori uso. Questa specie di spacconata divertiva le infermiere. Quando i reumatismi glielo consentivano il nonno lavorava in cucina: era di là che venivano le nostre uova. Nei giorni di visita di solito stava a letto, e dal comodino mi passava di nascosto un grosso sacchetto di uova che prima di congedarmi io nascondevo rapidamente sotto il mio giubbotto da marinaio. Si visse di uova per settimane intere, cotte in tutti i modi, bollite, fritte e sbattute col latte. Malgrado la sicurezza del nonno, il quale fidava
nella complicità delle infermiere e sapeva più o meno come stavano le cose, io ero sempre molto nervoso al momento di lasciare la sala dell'ospedale con quelle uova, per il terrore di scivolare sul pavimento lucidato a cera, o che quel tumorale gonfiore venisse scoperto per ciò che era. Strano, ma quando mi accingevo a salutare il nonno le infermiere brillavano sempre per la loro assenza. Fu un triste giorno per noi, quando il nonno, guarito dai reumatismi, potè lasciare l'ospedale. Intanto erano trascorse tre settimane e Sydney non era ancora tornato. In un primo momento la cosa non allarmò mia madre, ma dopo un'altra settimana di ritardo ella scrisse agli uffici della compagnia di navigazione Donovan e Castle e fu informata che suo figlio era stato sbarcato a Città del Capo e ricoverato all'ospedale per un attacco di febbri reumatiche. La notizia la mise in agitazione, danneggiandole ulteriormente la salute. Ma ella continuò a lavorare alla sua macchina da cucire e io ebbi la fortuna di contribuire al bilancio familiare dando qualche lezione di ballo a una famiglia, dopo scuola, per la somma di cinque scellini alla settimana. Fu pressappoco in questo periodo che i McCarthy vennero ad abitare in Kennington Road. La signora McCarthy era un'ex-attrice comica irlandese, amica di mia madre. Aveva sposato Walter McCarthy, ragioniere diplomato. Ma quando la mamma fu costretta ad abbandonare le scene li perdemmo di vista tutti e due, e non li ritrovammo che sette anni dopo, quando vennero a stare in Walcott Mansions, il tratto elegante di Kennington Road. Il figlio, Wally McCarthy, aveva la mia età. Ricordo che da bambini giocavamo « ai grandi », fingendoci artisti di varietà, fumando i nostri sigari immaginari e correndo di qua e di là sul nostro immaginario calessino, con grande spasso dei nostri genitori. Da quando i McCarthy erano venuti ad abitare in Walcott Mansions, la mamma li aveva visti di rado, ma Wally e io eravamo diventati amici inseparabili. Appena finita la scuola correvo a casa da mia madre per vedere se aveva commissioni da sbrigare, poi mi precipitavo
su dai McCarthy. Si giocava al teatro dietro Walcott Mansions. Essendo il regista, mi arrogavo sempre le parti del cattivo, sapendo per istinto che erano più colorite di quelle dell'eroe. Giocavamo fino all'ora in cui Wally andava a cena. Di solito invitavano anche me. Riuscivo quasi sempre a metterli abilmente in condizione da non potermi rifiutare un invito. C'erano delle occasioni, però, in cui le mie manovre non funzionavano: allora me ne tornavo riluttante a casa. Mia madre che era sempre felice di vedermi, preparava qualcosa da mangiare: pane fritto nel sugo di carne o un uovo del nonno con una tazza di tè. Mi leggeva qualche cosa oppure ce ne stavamo tutti e due seduti alla finestra e lei mi teneva allegro con le osservazioni che faceva sui passanti. Inventava storielle su di loro. Se vedeva un giovanotto dall'andatura vivace e saltellante, esclamava: «Ecco il signor Saltarello. Va a puntare sui cavalli. Se oggi avrà fortuna, si comprerà un tandem di seconda mano per andarci con la ragazza ». Poi passava lentamente un uomo dall'aria afflitta. « Ah, quello sta andando a casa dove a cena lo attendono spezzatino e pastinaca: tutta roba che non può soffrire ! » Poi passava un tale col mento puntato verso il cielo e un'aria di superiorità. « Ecco un giovanotto raffinato » diceva mia madre « ma in questo momento lo preoccupa il buco che ha sul fondo dei calzoni. » Poi ne passava un altro, di gran carriera. « Quel signore ha appena preso una bustina di sali Eno ! » E continuava cosi, facendomi soffocare dalle risa. Era trascorsa un'altra settimana senza notizie di Sydney. Fossi stato meno bambino e più sensibile all'ansia di mia madre, forse avrei avvertito la minaccia che incombeva su di noi. Forse mi sarei accorto che per parecchi giorni mia madre era rimasta seduta svogliatamente alla finestra, aveva trascurato di rassettare la stanza e si era fatta insolitamente silenziosa. Forse mi sarei preoccupato quando i camiciai cominciarono a trovare dei difetti nel suo lavoro e smisero di assegnargliene, quando le portarono via la macchina da cucire per non aver
pagato le rate settimanali e quando i cinque scellini che guadagnavo dando lezioni di ballo cessarono all'improvviso; avrei potuto accorgermi che in tutte queste circostanze mia madre non usci mai dalla sua apatia. A un tratto mori la signora McCarthy. Era malata da qualche tempo, e la sua salute peggiorò rapidamente finché non sopraggiunse la morte. Subito un pensiero mi attraversò la mente: come sarebbe stato bello se il signor McCarthy avesse sposato la mamma, visto che Wally e io eravamo cosi amici ! E sarebbe stata la soluzione ideale di tutti i problemi di mia madre. Subito dopo il funerale ne parlai con la mamma. « Dovresti cercare di vedere il signor McCarthy il più spesso possibile. Scommetto che ti sposerebbe volentieri. » Mia madre mi rivolse un pallido sorriso. « Lascialo respirare, quel pover'uomo » disse. « Se ti mettessi tutta in ghingheri e ti facessi bella come una volta, sono sicuro che non si lascerebbe scappare l'occasione. Ma tu non ci provi nemmeno: non fai altro che startene qui seduta in questa lurida stanza, conciata come sei. » Povera mamma. Come mi pento di quelle parole. Non mi ero mai reso conto di quanto fosse indebolita dalla denutrizione. Eppure l'indomani, con uno sforzo sovrumano, aveva rimesso in ordine la stanza. Erano appena cominciate le vacanze estive, e perciò pensai di andare subito dai McCarthy: qualsiasi cosa pur di uscire dallo squallore della nostra miserabile soffitta. I McCarthy mi avevano invitato a pranzo, ma a un tratto ebbi come il presentimento di dover tornare a casa da mia madre. Quando giunsi in Pownall Terrace, alcuni bimbi del quartiere mi fermarono al cancello. « Tua madre è diventata matta » disse una bambina. Quelle parole furono come uno schiaffo in pieno viso. « Come sarebbe a dire? » balbettai. « È vero » disse un'altra. « Ha bussato a tutte le porte regalando pezzi 79
di carbone. Diceva che erano doni per il compleanno dei bambini. Puoi chiedere a mia madre. » Senza perdere altro tempo, mi lanciai lungo il vialetto, varcai la porta aperta della casa, corsi su per le scale e spalancai l'uscio della nostra stanza. Là mi fermai un momento per riprender fiato, fissandola intensamente. Era un pomeriggio d'estate, dall'atmosfera greve e opprimente. Mia madre sedeva alla finestra, come sempre. Si voltò lentamente a guardarmi, col viso pallido, angosciato. « Mamma ! » quasi gridai. « Che c'è? » chiese svogliatamente lei. Allora le corsi incontro e, cadendo in ginocchio, le nascosi il viso in grembo, scoppiando in un pianto irrefrenabile. « Su, su » disse dolcemente lei, carezzandomi la testa. « C'è qualcosa che non va? » « Tu non stai bene » esclamai tra i singhiozzi. Le sue parole avevano un tono rassicurante. « Ma certo che sto bene. » Sembrava cosi vaga, cosi preoccupata. «No! No! Dicono che sei andata in tutte le case a...» Non potei finire, ma ripresi a singhiozzare. « Cercavo Sydney » disse debolmente lei « me lo tengono lontano. » Allora compresi che quello che avevano detto le bambine era vero. « Oh, mamma, non parlare cosi ! No ! No ! » singhiozzai. « Lascia che vada a chiamarti un dottore. » Lei continuò, carezzandomi il capo: « I McCarthy sanno dov'è, e me lo tengono lontano ». « Mamma, ti prego, lasciami chiamare un dottore » gridai. Levandomi in piedi mi diressi alla porta. Lei mi segui con lo sguardo: aveva un'espressione addolorata. « Dove vai? » chiese lamentosamente. « A chiamare un dottore. Non ci metto molto. » Non rispose, ma mi lanciò un'occhiata ansiosa. In fretta e furia corsi giù per le scale, dalla padrona di casa. « Devo trovare subito un dottore, la mamma non sta bene ! »
« Lo abbiamo già mandato a chiamare » disse la padrona. Il medico del quartiere era vecchio e di umore bisbetico. Dopo aver ascoltato il racconto della padrona, che era uguale a quello delle bambine, sottopose mia madre a una visita superficiale. « Pazza. Mandatela all'ospedale » disse. Il medico scrisse qualcosa su un biglietto. Esso diceva, fra l'altro, che mia madre soffriva di malnutrizione. Il che significava, come mi spiegò il dottore, che era denutrita. « Là starà meglio e mangerà come si deve » disse per consolarmi la padrona di casa. Mi aiutò a radunare i suoi abiti e a vestirla. Mia madre obbediva come una bambina. Era cosi debole che la volontà sembrava averla abbandonata. Quando lasciammo la casa, i bimbi e i vicini si raggrupparono attorno al cancello, guardandoci impauriti. L'ospedale era a circa un chilometro e mezzo. Per tutta la strada mia madre continuò a barcollare per la debolezza come un'ubriaca, pencolando a destra e a sinistra mentre io la sorreggevo. Il crudo sole pomeridiano sembrava voler sciorinare spietatamente la nostra miseria sotto gli occhi di tutti. La gente che incontrammo dovette credere che mia madre fosse sbronza, ma per me erano come i fantasmi di un sogno. Ella non parlò mai, ma sembrava sapere dove stavamo andando e pareva ansiosa di arrivarci. Durante il tragitto cercai di rassicurarla, e lei, troppo debole per aprir bocca, mi rivolse un pallido sorriso. Quando finalmente si giunse all'ospedale, la prese in consegna un giovane medico. Dopo aver letto il biglietto disse gentilmente: « Benissimo, signora Chaplin, da questa parte ». Ella obbedì docilmente. Ma quando le infermiere fecero per condurla via, si voltò di colpo rendendosi conto con dolore che io non la seguivo. « Ci vediamo domani » dissi, sforzandomi di apparire allegro. Mentre la portavano via, continuò a voltarsi indietro, cercandomi con gli occhi. Appena se ne fu andata, il medico si rivolse a me: « Ed ora che sarà di te, giovanotto? ».
Avendone avuto abbastanza di ospizi e orfanotrofi, risposi educatamente: «Oh, andrò a stare da mia zia». Mentre mi allontanavo dall'ospedale per tornare a casa riuscii a provare solo una paralizzante tristezza. Eppure ero sollevato, perché sapevo che sarebbe stata assai meglio all'ospedale che là seduta, sola, in quella stanza buia, senza un tozzo di pane da mangiare. Ma l'occhiata straziante che mi lanciò mentre la portavano via, quella non la dimenticherò mai. Pensai a tutte le sue tenerezze, alla sua allegria, alla sua dolcezza e al suo affetto per noi; a quella figuretta consunta che scendeva lungo la strada con l'aria stanca e preoccupata finché non mi vedeva correre a rotta di collo verso di lei; come faceva presto a passare dalla malinconia al sorriso quando sbirciavo avidamente nel sacchetto di carta in cui teneva le piccole ghiottonerie che ci portava sempre a casa, a Sydney e a me! Anche quel mattino mi aveva tenuto una caramella, per offrirmela mentre le piangevo in grembo. Non andai diritto a casa, non me la sentivo. Presi la direzione del mercato di Newington Butts e guardai le vetrine dei negozi fino al tardo pomeriggio. Quando vi ritornai, la soffitta sembrava vergognosamente vuota. Su una sedia c'era una catinella, mezza piena d'acqua. Dentro stavano a bagno due delle mie camicie e una blusa da donna. Cominciai a guardarmi intorno: nella credenza, tranne un pacchettino di tè semivuoto, non c'era nulla da mangiare. Sulla mensola del caminetto vidi la sua borsetta, dentro la quale trovai tre monetine da mezzo soldo, alcune chiavi e varie polizze di pegno. Sull'angolo della tavola c'era la caramella che mi aveva offerto. Allora cedetti e mi rimisi a piangere. Emotivamente sfinito, quella notte dormii come un ciocco. Al mattino, svegliandomi, mi ritrovai nell'ossessionante desolazione di quella stanza; il sole, entrando a fiotti dalla finestra, sembrava sottolineare l'assenza di mia madre. Più tardi venne di sopra la padrona di casa, per informarmi che potevo restare finché non avesse affittato la stanza: se volevo qualcosa da mangiare dovevo solo farmi avanti. La ringraziai dicendole che al suo ritorno Sydney avrebbe pagato tutti i nostri
debiti. Ma ero troppo timido per chiederle qualcosa da mettere sotto i denti. L'indomani non andai a trovare la mamma, come le avevo promesso. Non me la sentivo: sarebbe stata un'esperienza troppo sconvolgente. Ma la padrona di casa vide il dottore, dal quale apprese che era già stata trasferita al manicomio di Cane Hill. Questa triste notizia mi sgravò la coscienza, perché Cane Hill era a trentacinque chilometri di distanza e io non avevo modo di andarci. Presto sarebbe tornato Sydney e allora avremmo fatto insieme il viaggio sin là. Per una settimana non vidi e non parlai con nessuno dei miei conoscenti. Uscivo furtivamente la mattina presto e stavo fuori tutto il giorno; riuscivo sempre a trovare qualcosa da mangiare, in qualche posto: e saltare un pasto non era poi un sacrificio cosi grande. Un mattino la padrona mi sorprese mentre scendevo le scale piano piano e mi domandò se avevo fatto colazione. Scossi il capo. « Vieni dentro, allora » disse con la sua voce brusca. Mi tenni alla larga dai McCarthy perché non volevo che venissero a sapere di mia madre. Come un evaso, evitavo ogni incontro. Erano trascorse due settimane dalla partenza di mia madre. Conducevo una vita assai precaria di cui peraltro non mi lamentavo. La mia maggiore preoccupazione era la padrona di casa, perché se Sydney non fosse tornato prima o poi ella sarebbe stata costretta a denunciare il mio caso alle autorità municipali, che mi avrebbero rispedito a Hanwell. Evitavo perciò la sua presenza, giungendo persino, di tanto in tanto, a passare la notte fuori. Feci amicizia con alcuni taglialegna che lavoravano in una delle exscuderie dietro Kennington Road, uomini dall'aspetto di mendicanti che sgobbavano sodo nella penombra di una baracca e conversavano tra loro a bassa voce, segando e spaccando legna tutto il giorno, per farne fascine da mezzo soldo. Mi fermavo a guardarli sulla porta aper
ta. Prendevano un ceppo di trenta centimetri quadrati e lo spaccavano in assicelle dello spessore di due centimetri e mezzo, poi mettevano insieme queste assicelle e le spaccavano sino a farne listelli per accendere il fuoco. La rapidità con cui spaccavano la legna m'incantava e faceva sembrare affascinante quel lavoro. Ben presto cominciai ad aiutarli. Acquistavano il legname dalle imprese di demolizione e con un carretto lo portavano nella baracca, dove veniva accatastato; per le due operazioni occorreva almeno un giorno; poi, un giorno segavano la legna e l'altro la spaccavano. Il venerdì e il sabato andavano a venderla. Ma questo non m'interessava; era più divertente lavorare insieme nella baracca. Erano uomini verso la quarantina, taciturni e col cuore in mano, ma sembravano molto più anziani e si comportavano come tali. Il capo (come lo chiamavano loro) aveva un naso rosso da diabetico ed era quasi completamente privo dei denti superiori; gli restava solo un canino. Però il suo viso mansueto ispirava dolcezza. Aveva un ghigno ridicolo che esponeva prodigiosamente l'unica zanna superstite. Quando gli mancava una tazza di tè supplementare prendeva una gamella vuota, la risciacquava e, sorridendo, diceva: « Contentiamoci pure! ». L'altro, benché simpatico, era un tipo silenzioso, olivastro, aveva un paio di labbra tumide e parlava lentamente. Verso l'una il capo alzava gli occhi su di me: « Hai mai assaggiato un Welsh rarebit1 con le croste di formaggio? ». « Lo abbiamo mangiato parecchie volte » rispondevo io. Allora con una risatina soffocata mi dava due soldi, e io andavo da Ashe, il droghiere dell'angolo, al quale ero simpatico e che per i miei quattrini mi dava sempre un sacco di roba, a comprare un soldo di croste di formaggio e un soldo di pane. Dopo avere lavato e grattugiato il formaggio, vi aggiungevamo l'acqua e un pizzico di sale e pepe: a volte il capo vi gettava dentro un pezzo di grasso di pancetta 1 Pane tostato con formaggio fuso. Detto anche Welsh rabbit. (N.d.T.)
e una cipolla affettata; insieme a un pentolino di tè bollente costituiva un pasto molto appetitoso. Anche se non avevo mai chiesto un soldo, alla fine della settimana il capo mi diede sei pence: fu una piacevolissima sorpresa. Joe, quello dal colorito olivastro, soffriva di convulsioni, e per farlo rinvenire il capo gli bruciava della carta gialla sotto il naso. A volte schiumava dalla bocca e si mordeva la lingua: quando tornava in sé aveva un'aria patetica e vergognosa. Gli spaccalegna lavoravano dalle sette del mattino alle sette di sera, talvolta anche più tardi, e io provavo sempre una certa malinconia quando chiudevano a chiave la baracca per andare a casa. Una sera il capo decise di offrirci un posto di galleria da due pence al South London Music Hall. Joe e io ci eravamo già lavati e ripuliti, e lo stavamo aspettando. Io ero al colmo della gioia perché quella settimana vi si rappresentava Early Birds 1, una pantomima di Fred Karno (la compagnia di cui entrai a far parte alcuni anni dopo ). Joe aveva le spalle al muro della ex-scuderia e io gli stavo di fronte, entusiasta ed eccitato, quando a un tratto egli lanciò un urlo e scivolò di sghimbescio contro il muro fino a terra, in preda a uno dei suoi attacchi. L'emozione era stata troppo forte. Il capo voleva restare per prendersi cura di lui, ma Joe insistè che andassimo pure a teatro: l'indomani mattina sarebbe stato benone. La minaccia della scuola era un orco che non mi lasciava mai. Ogni tanto gli spaccalegna m'interrogavano in proposito. Cominciarono ad apparire un po' inquieti alla fine delle vacanze, e allora io presi la precauzione di non presentarmi sino alle quattro e mezzo, quando la scuola aveva chiuso i battenti. Ma era una giornata lunga e solitaria da trascorrere nel riverbero accusatore delle strade, mentre attendevo che venissero le quattro e mezzo per poter tornare al mio ombroso rifugio e agli spaccalegna. 1 Persone mattiniere.
Una sera, mentre salivo le scale piano piano per andare a letto, la padrona di casa mi chiamò. Era rimasta alzata ad attendermi. Tutta eccitata, mi porse un telegramma che diceva: ARRIVO DOMANI ORE 10 STAZIONE WATERLOO. ABBRACCI SYDNEY. Non ero nelle migliori condizioni per riceverlo degnamente alla stazione. Le mie vesti erano lacere e sporche, le scarpe sbadigliavano e la fodera del berretto pendeva come la sottoveste troppo lunga di una donna; la faccia me la lavavo sotto il rubinetto degli spaccalegna, perché ciò mi risparmiava la fatica di portare un secchio d'acqua su per tre rampe di scale passando, per giunta, davanti alla cucina della padrona. Quando andai incontro a Sydney avevo l'ombra della notte negli orecchi e intorno al collo. « Che è successo? » disse lui, squadrandomi attentamente. Non mostrai molto tatto nel dargli la notizia. « La mamma è impazzita e abbiamo dovuto farla ricoverare all'ospedale. » Il suo viso si rannuvolò, ma Sydney non perse il dominio di sé. « Dove abiti? » « Nel solito posto, Pownall Terrace. » Mi voltò le spalle per occuparsi del bagaglio. Notai che appariva pallido e magro. Chiamò una carrozza e i facchini vi accatastarono sopra le valigie: tra le altre cose c'era un casco di banane! « È nostro? » chiesi ingordamente. Annui. « Sono troppo verdi; dovremo aspettare almeno una settimana prima di poterle mangiare. » Strada facendo cominciò a interrogarmi sul conto di nostra madre. Ero troppo eccitato per fargli un rapporto coerente, ma qualcosa in qua e in là riuscì a saperla. Allora mi disse che lo avevano sbarcato a Città del Capo con la febbre tropicale e che durante il viaggio di ritorno aveva guadagnato venti sterline: contava di darla alla mamma, quella somma. Le aveva fatte con i soldati, organizzando tombole e lotterie.
Mi mise a parte dei suoi progetti. Aveva intenzione di abbandonare la carriera del marinaio per mettersi a fare l'attore. Pensava che con quei soldi avremmo potuto vivere venti settimane, e in questo periodo lui si sarebbe trovato un lavoro in teatro. Il nostro arrivo a bordo di una carrozza con in cima un casco di banane fece molta impressione sia ai vicini che alla padrona. Ella disse a Sydney di nostra madre, tacendo però i particolari più strazianti. Lo stesso giorno mio fratello fece il giro dei negozi per comprarmi qualche vestito nuovo, e quella sera, tutti in ghingheri, sedemmo in due poltrone di platea del South London Music Hall. Durante la rappresentazione Sydney non fece che ripetere: « Pensa un po' che cosa avrebbe voluto dire per nostra madre una serata come questa ». Quella settimana andammo a trovarla a Cane Hill. Sedere in parlatorio, e attendere in silenzio, fu una prova quasi intollerabile. Ricordo quando girò la chiave nella toppa ed entrò nostra madre. Le labbra spiccavano bluastre sul pallore del viso e, anche se ci riconobbe, la sua accoglienza mancò di ogni entusiasmo; l'effervescenza di un tempo era scomparsa. L'accompagnava un'infermiera, una donna innocua e ciarliera che si fermò accanto a noi con una gran voglia di chiacchierare. « È un peccato che siate venuti in un momento simile » disse « perché oggi non siamo affatto in forma, vero, cara? » Mia madre si limitò a guardarla educatamente e le fece un mezzo sorriso come se attendesse che si levasse dai piedi. « Dovete tornare quando saremo un po' più in gamba » soggiunse l'infermiera. Finalmente se ne andò, lasciandoci soli. Per quanto Sydney cercasse di distrarla, dicendole della fortuna che gli era capitata e dei soldi che aveva messo insieme, e spiegandole le ragioni della sua lunga assenza, nostra madre si limitò ad ascoltare, là seduta insieme a noi, con qualche breve cenno del capo, senza mai perdere quell'aria vaga e preoccupata. Le disse che si sarebbe rimessa presto. « Certo » disse tristemente lei « se quel pomeriggio mi aveste dato solo una tazza di tè non sarei finita qui. »
Il dottore disse poi a Sydney che la sua mente era stata senza dubbio danneggiata dalla denutrizione, che aveva bisogno di adeguate cure mediche e che, pur avendo dei momenti di lucidità, sarebbero passati molti mesi prima che potesse riprendersi completamente. Ma per giorni e giorni la sua risposta fu come un'ossessione : « Se mi aveste dato solo una tazza di tè non sarei finita qui ».
Cinque A un amico Joseph Conrad scrisse cosi: che la vita gli dava l'impressione di essere un topo cieco con le spalle al muro incapace di sfuggire a una solenne bastonatura. La similitudine potrebbe attagliarsi benissimo alle brutte situazioni in cui finiamo tutti per trovarci, prima o poi. Ciò nonostante, per qualcuno gira il vento della fortuna, ed è questo che accadde a me. Avevo fatto lo strillone, il tipografo, il fabbricante di giocattoli, il soffiatore di vetro, l'usciere, ecc, ma durante queste digressioni professionali, come Sydney, non avevo mai perso di vista il mio vero scopo, che era di diventare attore. Cosi, tra un impiego e l'altro, mi davo una lucidata alle scarpe, una spazzolata al vestito, mettevo un colletto pulito e facevo una capatina all'agenzia teatrale Blackmore in Bedford Street, a due passi dallo Strand. Lo feci finché lo stato dei miei abiti m'impedì altre visite. La prima volta che vi entrai, l'anticamera era adorna di attori d'ambo i sessi, dalle vesti inappuntabili, che stavano in piedi qua e là conversando enfaticamente tra loro. Con trepidazione mi fermai in uno degli angoli più lontani, appena dentro la porta, paralizzato dalla timidezza, cercando di nascondere il mio abito logoro e le scarpe dalle tomaie leggermente bitorzolute. Dall'ufficio interno usciva a tratti un giovane impiegato, e come un mietitore falciava l'alterigia degli attori con una frase laconica: « Niente per lei... né per lei... né per lei... » e l'anticamera si vuotava come una chiesa dopo la funzione. A un certo
punto rimasi solo io. Quando mi vide l'impiegato chiese bruscamente, fermandosi davanti a me: « E tu che vuoi? ». Per un attimo mi parve di essere Oliver Twist quando ne chiede ancora. « Avete parti di ragazzi? » balbettai. « Sei stato registrato? » Scossi il capo. Con mia sorpresa egli m'introdusse nell'ufficio attiguo, dove mi prèse nome, indirizzo e tutti i dati necessari, dicendo che se ci fosse stato qualcosa in vista me lo avrebbe fatto sapere. Me ne andai con la piacevole sensazione di avere compiuto un dovere. Ero anche piuttosto contento che non se ne fosse fatto nulla. Ed ora, un mese dopo il ritorno di Sydney, ricevetti una cartolina che diceva : « Vuol essere tanto gentile da passare dall'agenzia Blackmore, Bedford Street, Strand? ». Col mio vestito nuovo fui introdotto alla presenza del signor Blackmore in persona, che era tutto sorrisi e amabilità. Il signor Blackmore, che avevo immaginato severo e onnipotente, fu di un'estrema gentilezza e mi diede un biglietto da consegnare al signor C. E. Hamilton, del quale dovevo chiedere negli uffici di Charles Frohman. Il signor Hamilton lesse il biglietto e rimase divertito e sorpreso al vedere com'ero piccolo. Naturalmente mentii sulla mia età, dicendogli che avevo quattordici anni: ne avevo dodici appena compiuti. Egli mi spiegò che avrei dovuto fare la parte di Billie, il paggio di Sherlock Holmes, per una tournée di quaranta settimane che doveva iniziare in autunno. « Nel frattempo » disse il signor Hamilton « c'è una parte di ragazzo eccezionalmente buona in una nuova commedia, Jim, the Romance of a Cockney 1, scritta da H. A. Saintsbury, il signore che avrà il ruolo di protagonista in Sherlock Holmes durante l'imminente tournée. » Jim sarebbe stato messo in scena a Kingston per un periodo di prova, pri 1 Jirn, l'idillio di una cockney.
ma della tournée di Holm.es. La paga era di due sterline e mezza alla settimana, la stessa che avrei preso per Sherlock Holmes. Benché la somma mi sembrasse una fortuna piovuta dal cielo, non battei ciglio. « Devo consultare mio fratello sulle condizioni » dissi solennemente. Il signor Hamilton rise e parve immensamente divertito, poi convocò nel suo ufficio tutti i collaboratori affinchè mi dessero un'occhiata. « Ecco il nostro Billie! Che ve ne pare? » disse. Rimasero tutti soddisfatti e mi bombardarono di sorrisi raggianti. Che diamine era successo? Sembrava che il mondo fosse cambiato all'improvviso, che mi avesse stretto in un abbraccio affettuoso e adottato. Poi il signor Hamilton mi diede un biglietto per il signor Saintsbury, dicendomi di portarlo al Green Room Club di Leicester Square. Quando me ne andai, mi sembrava di volare. La stessa cosa accadde al Green Room Club, dove il signor Saintsbury chiamò gli altri soci del circolo perché mi esaminassero. Senza indugio mi consegnò il copione con la parte di Sammy, dicendo che era uno dei personaggi più importanti della sua commedia. Ero un po' nervoso per paura che potesse chiedermi di leggerla immediatamente, cosa che sarebbe stata imbarazzante giacché quasi non sapevo leggere. Per fortuna mi disse di portarla a casa e di leggerla con comodo, poiché le prove non sarebbero iniziate che di li a una settimana. Andai a casa in autobus, stordito dalla felicità, e solo allora cominciai a rendermi pienamente conto di ciò che mi era successo. Mi ero improvvisamente lasciato alle spalle una vita di stenti, e stavo per entrare in quel spgno tanto agognato: un sogno di cui mia madre aveva parlato spesso, dal quale si era lasciata cullare a lungo. Avrei fatto l'attore ! Era successo tutto cosi in fretta, cosi inaspettatamente. Continuavo a sfogliare le pagine del copione - aveva una copertina di carta nuova, marrone - il più importante documento che abbia mai tenuto in mano in vita mia. Durante quella corsa in autobus mi resi conto di avere tagliato un importante traguardo. Non ero più una creatura insignifi
cante uscita dai quartieri poveri, ero ormai un uomo di teatro. E avevo voglia di piangere. Gli occhi di Sydney si velarono quando gli narrai l'accaduto. Sedette sul letto, ingobbito, guardando fuori dalla finestra con aria meditabonda, scuotendo ripetutamente la testa. Poi disse gravemente: « Questa è la svolta decisiva della nostra vita. Come vorrei che la mamma fosse qui per partecipare alla nostra gioia ». « Pensa » continuai io, con entusiasmo. « Quaranta settimane a due sterline e mezza. Ho detto al signor Hamilton che eri tu a occuparti del lato finanziario » soggiunsi animatamente « cosi, forse, potremmo anche prendere di più. Comunque, quest'anno possiamo risparmiare sessanta sterline ! » Quando il nostro entusiasmo fu un tantino sbollito, argomentammo che due sterline e mezza era il minimo che si potesse pagare per una parte cosi lunga. Sydney andò a vedere se poteva alzare il « piatto ». « Tentar non nuoce » dissi io, ma il signor Hamilton fu inflessibile. « Due sterline e mezza è il massimo » disse, e noi fummo ben lieti di accettare. Sydney mi lesse la parte e mi aiutò a imparare a memoria le battute. Era una parte piuttosto lunga, circa trentacinque interventi, ma in tre giorni la sapevo tutta a memoria. Le prove di Jim ebbero luogo nel foyer al piano superiore del Teatro Drury Lane. Sydney mi aveva addestrato con tanto zelo che la mia dizione era quasi perfetta. Una sola parola mi angustiava. La battuta suonava cosi: « Chi ti credi di essere, Pierpont Morgan? ] ». E io dicevo sempre: « Putterpint Morgan ». Il signor Saintsbury riuscì a correggermi. Quelle prime prove furono una rivelazione. Mi svelarono il mondo nuovo della tecnica teatrale. Non avevo idea che esistesse una cosa come la scenotecnica, con le sue pause, le entrate al momento giusto, l'imbeccata per voltarsi o per mettersi a sedere; ma a 1 Famoso banchiere americano. (N. d. T.)
me veniva naturale. Un solo difetto mi corresse il signor Saintsbury: quando parlavo muovevo la testa e facevo troppe smorfie. Dopo avere provato alcune scene egli mi venne incontro pieno di stupore e volle sapere se non avevo mai recitato prima. Che piacere mi diede la soddisfazione del signor Saintsbury e di tutta la compagnia! Comunque, accettai il loro entusiasmo come se fosse un mio naturale diritto di nascita. Jim doveva fare una settimana di prova al teatro di Kingston e un'altra al teatro di Fulham. Era un melodramma sulla falsariga del Silver Ring 1 di Henry Arthur Jones : la storia di un aristocratico sofferente di amnesia che si trova a vivere in una soffitta con una giovane fioraia e uno strillone, Sammy (la mia parte). Moralmente non faceva una grinza: la ragazza dormiva nella credenza, mentre il duca, come lo chiamavamo, riposava sul divano, e io sul pavimento. Il primo atto si svolgeva al numero 7 A di Devereux Court, the Tempie, nell'appartamento di James Seaton Gatlock, un ricco avvocato. Il duca straccione, recatosi a trovare l'antico rivale in amore, gli chiede l'elemosina per aiutare la sua benefattrice malata, la fioraia che lo aveva mantenuto durante l'amnesia. Nel corso di un alterco il cattivo dice al duca : « Vattene ! Va' a morir di fame, tu e quella pezzente della tua amante! ». Il duca, benché debole e di fragile costituzione, prende un tagliacarte dalla scrivania per avventarsi sul cattivo, ma l'arma improvvisamente gli sfugge di mano mentre in preda a un attacco di epilessia egli piomba esanime ai suoi piedi. In quel momento entra nella stanza l'ex-moglie del cattivo, della quale un tempo il duca straccione era innamorato. Anche lei intercede in suo favore, dicendo: « Ha fallito con me; ha fallito con l'Ordine degli avvocati! Tu almeno puoi aiutarlo! ». Ma il cattivo rifiuta. La scena raggiunge il colmo della tensione quan 1 L'anello d'argento. 93
do egli accusa l'ex-moglie di averlo tradito con quel poveretto e insulta anche lei. Folle d'ira, ella afferra il tagliacarte sfuggito di mano al duca e pugnala il cattivo, che cade morto nella sua poltrona, mentre lo sventurato giace sempre esanime ai suoi piedi. La donna si eclissa e il duca, riprendendo i sensi, scopre che il rivale è morto. « Dio, che cosa ho fatto? » dice. L'azione si sviluppa. Il duca fruga nelle tasche del morto, trova un portafoglio contenente parecchie sterline, un anello di diamanti e altri gioielli, che mette in tasca, e mentre esce dalla finestra si volta e dice: « Addio, Gatlock. Mi hai aiutato, dopo tutto ». Sipario. L'atto successivo si svolgeva nella soffitta in cui abitava il duca. All'alzarsi del sipario si vedeva un investigatore che, solo in scena, rovistava dentro una credenza. Entro io, zufolando, poi mi fermo, scorgendo il detective. STRILLONE DETECTIVE STRILLONE DETECTIVE STRILLONE
: Ehi, voi! Non sapete che quella è la stanza da letto di una signora? Come? Quella credenza? Vieni qui! : Che razza di faccia tosta! : Falla finita. Vieni dentro e chiudi la porta. (avvicinandosi) : Siete bene educato, voi, a invitare al gente in casa
propria! DETECTIVE Sono un poliziotto. STRILLONE Cosa? Un piedipiatti? Buonasera! DETECTIVE Non ti farò del male. Cerco solo delle informazioni che serviranno a qualcuno per compiere una buona azione. STRILLONE Una buona azione? Ma davvero! Se a qualcuno, qui, le cose an dranno meglio, non sarà certo per merito dei poliziotti! DETECTIVE Non fare lo stupido. Perché ti avrei detto che sono della polizia? STRILLONE Grazie mille, me ne sarei accorto dalle scarpe. DETECTIVE Chi abita qui? STRILLONE Il duca. DETECTIVE Si, ma qual è il suo vero nome? STRILLONE Non lo so. Il duca è un « nom de guerre », come dice lui : mi pigli un accidente se so quel che vuol dire. DETECTIVE E che aspetto ha? STRILLONE Magro come un'acciuga. Capelli grigi, completamente rasati, ha un
cappello a cilindro e un occhio di vetro. E, accidenti, come ti fissa con quell'occhio! DETECTIVE: E Jim? Chi è questo Jim? STRILLONE: Questo? Vorrà dire questa! DETECTIVE : Ah, è dunque lei la signora che... STRILLONE (interrompendolo) : Che dorme nella credenza. Questa è la nostra stanza, mia e del duca, ecc. ecc. La parte era assai più lunga e, crediatelo o no, il pubblico la trovò molto divertente, grazie al fatto, credo, che sembravo assai più giovane di quello che ero. Ogni battuta che pronunciai strappò una risata. Solo l'aspetto tecnico della rappresentazione mi preoccupava: ad esempio, il problema di fare un vero tè in scena. Non sapevo se mettere nel bricco prima il tè o l'acqua bollente. Potrà sembrare un paradosso, ma mi era più facile recitare le battute che eseguire sul palcoscenico un'azione manuale. Jim non ebbe successo. I critici lo stroncarono senza pietà. Ciò nonostante, le recensioni parlarono bene di me. Una, che mi fu mostrata dal signor Charles Rock, un membro della nostra compagnia, era eccezionalmente favorevole. Rock era un vecchio attore dell'Adelphi, di considerevole reputazione, e io interpretavo con lui la maggior parte delle mie scene. Mi chiamò nel suo camerino. « Giovanotto » disse solennemente « non montarti la testa quando avrai letto questo. » E dopo avermi fatto un fervorino sull'importanza della modestia e dell'umiltà, lesse la recensione sul London Topical Times, che ricordo parola per parola. Dopo avere criticato aspramente la commedia, essa continuava cosi: « Ma c'è una cosa che la riscatta, la parte di Sammy, lo strillone, una specie di astuto levantino londinese sulle spalle del quale grava quasi tutta la comicità dell'opera. Quantunque banale e antiquato, il personaggio di Sammy è stato reso molto divertente da un magistrale Charles Chaplin, un giovanissimo attore spigliato e vigoroso. Fino ad ora non avevo mai sentito parlare di questo ragazzo, ma da lui mi aspetto grandi cose nel prossimo futuro ». Sydney ne comprò una dozzina di copie.
Terminate le due settimane di repliche di Jim, iniziammo le prove di Sherlock Holmes. In tutto questo tempo Sydney e io continuammo ad abitare in Pownall Torace, perché economicamente non ci sentivamo troppo sicuri della nostra posizione. Durante le prove mio fratello e io andammo a trovare nostra madre a Cane Hill. Dapprima le infermiere ci dissero che quel giorno era impossibile vederla perché non stava bene. Tirarono Sydney in disparte, per non farsi udire da me, ma io riuscii egualmente ad afferrare qualche parola. Sentii che diceva: « No, non credo che vorrebbe ». Poi, rivolto a me, chiese tristemente : « Non vuoi vedere la mamma in una stanza dalle pareti imbottite? ». « No ! No ! Non potrei sopportarlo ! » esclamai, facendo un passo indietro. Ma Sydney andò a vederla, e nostra madre lo riconobbe e tornò in sé. Pochi minuti dopo un'infermiera venne a dirmi che la mamma stava abbastanza bene, se desideravo vederla, e sedemmo insieme nella sua stanza imbottita. Prima che ci congedassimo da lei, mi prese da parte e mormorò con voce straziante: « State attenti a non perdervi, perché potrebbero tenervi qui ». Rimase otto mesi a Cane Hill prima di recuperare la salute. Sydney andò regolarmente a trovarla mentre io ero in tournée. Il signor H. A. Saintsbury, che faceva la parte di Holmes, era una copia vivente delle illustrazioni sullo Strand Magazine. Aveva un viso lungo e sensibile e una fronte ispirata. Fra tutti gli interpreti di Holmes era considerato il migliore, meglio ancora di William Gillette, il primo Holmes e l'autore della commedia. Durante la mia prima tournée, la direzione decise di affidarmi ai signori Green, il carpentiere della compagnia e sua moglie, la guardarobiera. La prospettiva non era molto allegra. Come se non bastasse, ogni tanto il signore e la signora Green alzavano il gomito. Infine, non sempre mi andava di mangiare quello che cucinavano loro, né quello
TAVOLE I Alla scuola di Kennington, a sette anni e mezzo Mia madre Mio padre Mio fratello, a diciassette anni Le nostre finestre (indicate dalle frecce) della soffitta al n. 3 di Pownall Terrace, in Kennington Road Il primo piano di Kennington Road 287, dove Sydney e io abitammo con Louise e mio padre La nostra abitazione (indicata dalla freccia) vicino al macello e allo stabilimento per la produzione di sottaceti, dopo che mia madre usci dal manicomio L'ospizio di Lambeth 9 . Marie Doro in Sherlock Holmes Karno e sua moglie, a sinistra, nella loro casa galleggiante a Tagg's Island La squadra di hockey della Compagnia Karno. Io sono il secondo seduto da sinistra. Stan Laurei è in piedi dietro di me Cinque compagnie davanti agli uffici di Karno a Camberwell, in partenza per un giro nei music hall di Londra 13 L'imitazione
del Dr. Walford Bodie, famoso per la sua chirurgia incruenta 14 L'imitazione di Beerbohm Tree nella parte di Fagin 15 « Gentiluomo, sognatore, poeta : il cuore sempre colmo di romanticherie » 16 Prima del successo 17 ...e dopo 18 Con Alf Reeves, sua moglie e Muriel Palmer durante il viaggio in America
che mangiavano loro. Sono certo che la mia convivenza con i Green fu più molesta per loro che per me. Cosi, dopo tre settimane decidemmo di comune accordo di separarci, ed essendo io troppo giovane per vivere con gli altri membri della compagnia me ne rimasi per conto mio. Ero solo in città sconosciute, solo in stanze d'albergo, di rado vedevo qualcuno fino alla recita serale, udivo solo la mia voce quando parlavo tra me. Di tanto in tanto mi recavo nei bar dove si davano appuntamento gli attori della compagnia, per vederli giocare a biliardo. Ma avevo sempre l'impressione che la mia presenza fosse d'impaccio alla loro conversazione, e anch'essi facevano di tutto per farmelo notare. Non potevo sorridere a una freddura senza che qualcuno mi facesse gli occhiacci. Cominciai a soffrire di malinconia. Arrivando la domenica sera in una città del nord, i tristi rintocchi delle campane che udivo camminando per il corso già immerso nelle tenebre erano di poco conforto alla mia solitudine. Nei giorni feriali visitavo il mercato del posto e facevo la spesa, comprando carne e altri generi alimentari da far cucinare alla padrona di casa. A volte mi mettevano a pensione, e allora mangiavo in cucina con la famiglia. Questo mi piaceva, perché le cucine del nord erano ampie e pulite, con alari lustri e focolari azzurri. Quando la padrona faceva il pane, era bello passare dal buio e dal freddo della sera al rosso bagliore di un caminetto del Lancashire, vedere intorno al focolare della cucina vassoi di pagnotte ancora da cuocere e sedersi a prendere il tè con la famiglia: il pane caldissimo e fumante appena tolto dal forno e spalmato di burro fresco veniva gustato con grave solennità. Per sei mesi ero stato in provincia. Frattanto Sydney aveva avuto scarso successo nei suoi tentativi di trovare lavoro in teatro, e perciò fu costretto a rinunciare alle proprie ambizioni e a fare domanda per un posto di barista al Coal Hole dello Strand. Fu accettato fra centocinquanta candidati! Ma, per cosi dire, era davvero caduto molto in basso. Mi scriveva regolarmente per tenermi informato sulle condizioni di nostra madre, ma io rispondevo di rado alle sue lettere; fra l'altro, me
la cavavo piuttosto male con l'ortografia. Una delle sue missive, però, mi commosse profondamente e me lo fece sentire molto vicino; mi rimproverava per il mio silenzio e ricordava la miseria che avevamo patito insieme, la quale, cosi disse, avrebbe dovuto stringere ancora di più i legami che già ci univano. « Da quando la mamma si è ammalata » scriveva Sydney « al mondo io non ho altri che te, e tu altri che me. Ecco perché devi scrivere regolarmente e farmi sentire che ho un fratello. » La sua lettera era cosi commovente che risposi senza indugio. Ora vedevo Sydney in un'altra luce. Quella missiva cementò un amore fraterno che è durato per tutta la vita. Mi avvezzai alla vita solitaria. Ma persi talmente l'abitudine di conversare che quando all'improvviso mi capitava d'incontrare un membro della compagnia provavo un profondo imbarazzo. Non riuscivo a riprendermi con sufficiente prontezza per rispondere intelligentemente alle domande ed essi mi lasciavano, ne sono certo, nutrendo seri dubbi sullo stato delle mie facoltà mentali. La signorina Greta Hahn, ad esempio, la nostra prima attrice, era bella, affascinante e molto gentile; eppure quando la vedevo attraversare la strada e venirmi incontro, mi voltavo in fretta a guardare la vetrina di un negozio o prendevo un'altra direzione per evitarla. Cominciai a trascurare il mio aspetto e a prendere abitudini disordinate. Naturalmente, ciò era in parte dovuto alla mia età. Ero sempre in ritardo alla stazione ferroviaria; arrivavo all'ultimo momento, spettinato e senza colletto, e ciò mi procurava continui rimbrotti. Per avere qualcuno che mi tenesse compagnia acquistai un coniglio, e dovunque mi fermassi lo introducevo di contrabbando in camera mia all'insaputa della padrona di casa. Era un cosino delizioso, quantunque non addomesticato. La sua pelliccia appariva cosi bianca e pulita da smentire il suo odore pungente. Lo tenevo in una gabbia di legno nascosta sotto il letto. La padrona entrava allegramente nella stanza con la colazione, percepiva quell'odore pungente e se ne andava con un'espressione preoccupata e confusa. Appena uscita, mettevo in libertà il coniglio, che riprendeva a scorrazzare per la stanza.
Non mi ci volle molto per insegnargli a correre nella sua cassetta ogni volta che qualcuno bussava alla porta. Se la padrona scopriva il mio segreto facevo eseguire al coniglio questo numero, che di solito otteneva lo scopo d'intenerirla, strappandole il permesso di restare fino alla fine della settimana. Ma a Tonypandy, nel Galles, quando ebbi svelato il mio trucco, la padrona sorrise enigmaticamente senza fare commenti. Quella notte, rincasando dopo la rappresentazione, scopersi che la bestiola era sparita. Quando le chiesi se ne sapesse qualcosa, la padrona si limitò a scuotere il capo. « Sarà scappato o lo avrà rubato qualcuno. » A modo suo, aveva risolto efficacemente il problema. Da Tonypandy passammo nella città mineraria di Ebbw Vale, per sostenervi tre rappresentazioni, e ringraziai il cielo che non fossero di più perché Ebbw Vale era allora una città brutta e umida, con file su file di orribili case tutte uguali composte di quattro stanzette e rischiarate da lumi a petrolio. Quasi tutta la compagnia prese alloggio in un alberghetto. Per fortuna io trovai una stanza nella casa di un minatore che, benché piccola, era comoda e pulita. La notte, dopo la recita, mi lasciavano di solito la cena in caldo davanti al focolare. La padrona, una bella donna di mezza età e di alta statura, aveva intorno come un alone di tragedia. Al mattino mi portava la colazione in camera quasi senza dir parola. Notai, poi, che l'uscio della cucina era sempre chiuso; ogni volta che mi occorreva qualche cosa dovevo bussare, e il battente si apriva solo di pochi centimetri. La seconda notte, mentre stavo cenando, entrò suo marito, un uomo che aveva all'incirca la stessa età della moglie. Quella sera era stato a teatro e la commedia gli era piaciuta molto. Rimase un po' a conversare, tenendo in mano una candela accesa, pronto per andare a letto. A un tratto s'interruppe, come per riflettere su ciò che voleva dire. « Senti, io ho una cosa che forse potrebbe farvi comodo nel vostro mestiere. Hai mai visto una rana umana? Qua, reggi la candela che io prendo il lume. » Mi guidò in cucina e posò il lume sulla credenza, che aveva una ten
da tirata davanti alla parte inferiore, al posto degli sportelli. « Ehi, Gilbert, vieni fuori di li! » disse, tirando la tenda. Un mezzo uomo, senza gambe, un biondino di taglia superiore alla media, con un viso bianco e malaticcio, il naso rincagnato, la bocca grande e spalle e braccia dai muscoli poderosi, usci strisciando dalla credenza. Portava un paio di mutande lunghe di flanella con le gambe tagliate all'altezza delle cosce, dalle quali uscivano dieci dita grosse, tozze. Quell'orribile creatura poteva avere venti o quarant'anni. Alzò lo sguardo e sorrise, mostrando una chiostra di denti gialli, molto spaziati tra loro. « Ehi, Gilbert, salta ! » disse il padre, e quel povero disgraziato si abbassò lentamente, poi gettò le braccia in alto, quasi all'altezza della mia testa. « Non ti sembra che andrebbe bene in un circo? La rana umana! » Il mio orrore era cosi grande che a stento riuscii ad articolare parola. Tuttavia, suggerii come se niente fosse il nome di vari circhi ai quali avrebbe potuto rivolgersi. Egli insistè perché quella disgraziata creatura facesse altri esercizi, saltando, arrampicandosi e rizzandosi con le mani sui braccioli di una sedia a dondolo. Quando finalmente ebbe terminato, finsi il massimo entusiasmo e mi complimentai con lui per le sue prodezze. « Buonanotte, Gilbert » dissi prima di. andarmene, e con voce roca e cavernosa, e la lingua impastata, il poveretto mi rispose : « Buonanotte ». Mi svegliai parecchie volte, durante la notte, e andai a controllare che la porta fosse chiusa a chiave. Il mattino dopo la padrona mi parve sollevata e più loquace. « So che hai visto Gilbert, ieri sera » disse. « Naturalmente dorme sotto la credenza solo quando abbiamo ospiti in casa. » Allora mi colpi l'orribile sospetto di avere dormito nel letto di Gilbert. « Si » risposi, e parlai con misurato entusiasmo delle possibilità che aveva di entrare in un circo. Lei annui. « Ci abbiamo pensato spesso. »
L'entusiasmo -o quello che era - parve compiacere la padrona, e prima di partire andai in cucina a salutare Gilbert. Sforzandomi di apparire indifferente gli strinsi la grossa mano callosa, e lui ricambiò gentilmente la stretta. Dopo quaranta settimane in provincia, ritornammo nei sobborghi di Londra per un periodo di otto settimane. Sherlock Holmes, avendo ottenuto un successo strepitoso, doveva iniziare una seconda tournée tre settimane dopo la conclusione della prima. A questo punto Sydney e io decidemmo di abbandonare l'alloggio di Pownall Terrace per prenderne uno più rispettabile in Kennington Road; volevamo mutar pelle come i serpenti, disfarci di ogni vestigio del passato. Mi rivolsi alla direzione della compagnia chiedendo una particina per Sydney nella prossima tournée di Holmes, e riuscii a fargliela ottenere, a trentacinque scellini la settimana. Finalmente avremmo potuto stare insieme. Mio fratello scriveva alla mamma ogni settimana e verso la fine della seconda tournée ricevemmo dal manicomio di Cane Hill una lettera dalla quale si venne a sapere che aveva recuperato in pieno la salute. Quella si che era una bella notizia. Prendemmo rapidamente accordi per il suo ritorno alla vita di tutti i giorni e organizzammo le cose in modo che ci raggiungesse a Reading. Per festeggiare l'occasione affittammo un appartamento di lusso, formato da due stanze da letto e una camera di soggiorno con un pianoforte, riempiendo di fiori la sua stanza e ordinando, per di più, una cena succulenta. Aspettandola alla stazione, Sydney e io eravamo nervosi e felici; eppure, malgrado la buona notizia, provavo un'ombra di ansietà e mi chiedevo come avrebbe fatto a riadattarsi alla nostra vita, sapendo che gli stretti vincoli di altri tempi non potevano più essere ristabiliti. Finalmente arrivò il treno. Scrutavamo il viso dei passeggeri che scendevano dalle carrozze con un misto di eccitazione e incertezza. Poi
la scorgemmo, finalmente, mentre veniva sorridente verso di noi, con passo tranquillo. Non parve molto emozionata quando le andammo incontro, ma ci salutò con affetto misurato. Era evidente che doveva ancora abituarsi alla nuova vita. Durante quella breve corsa in tassi fino a casa parlammo di cento cose diverse, importanti e no. Passato il primo momento di entusiasmo, dopo averle mostrato l'appartamento e i fiori in camera da letto ci ritrovammo nel soggiorno a guardarci col fiato sospeso. Era una giornata di sole, il nostro appartamento dava su una strada tranquilla, e in quel silenzio tutto sembrava più intenso. Ero contento; eppure, mio malgrado, stentavo a nascondere la delusione. La mia povera mamma, alla quale bastava cosi poco per essere felice, mi ricordava l'infelice passato, pur essendo l'ultima persona al mondo che avrebbe dovuto farmi questo effetto. Comunque, feci del mio meglio per dissimulare il mio stato d'animo. Era un po' invecchiata e aveva messo su pancia. Essendo sempre stato fiero del suo aspetto e del suo abbigliamento, volevo che facesse la migliore figura davanti al resto della compagnia, ma ora aveva un'aria piuttosto trasandata. Ella dovette intuire le mie apprensioni, perché mi rivolse un'occhiata interrogativa. Imbarazzato, le ravviai una ciocca di capelli. « Quando ti presenteremo alla compagnia » dissi « voglio che tu faccia un figurone. » Lei mi guardò, poi tirò fuori il piumino della cipria e se lo passò sul viso. « Sono già contenta di essere viva » disse allegramente. Non occorse molto perché i nostri rapporti si normalizzassero e mi passasse quel senso di scoraggiamento. Che non potessimo più essere con lei in quell'intimità che aveva conosciuto quando eravamo piccoli, lo capiva meglio di noi, e questo anzi ce la rese più cara. In tournée era lei a fare la spesa e a provvedere ai nostri pasti, portando a casa frutta e leccornie e sempre qualche fiore. Perché in passato, per poveri che fossimo, quando il sabato sera andava a fare la spesa era sempre riuscita a comprare un soldo di violacciocche. Di tanto in tanto, però, assumeva un'aria distratta e riservata, rattristandomi con
la sua indifferenza. Si comportava più come un'ospite che come una madre. Dopo un mese volle tornare a Londra, perché era ansiosa di sistemarsi in modo che avessimo una casa dopo la tournée. Inoltre, come disse, sarebbe stato meno caro che viaggiare in lungo e in largo per il paese dovendo pagare per una persona in più. Prese in affitto l'appartamento sopra il salone di barbiere in Chester Street dove una volta avevamo abitato noi, e con dieci sterline comprò a rate un po' di mobilio. Le stanze non erano spaziose come quelle del palazzo di Versailles, e non avevano la sua eleganza; ma nelle camere da letto ella fece mirabilia ricoprendo di cretonne delle cassette da arance in modo che sembrassero canterani. Tra tutti e due, Sydney e io guadagnavamo quattro sterline e cinque scellini alla settimana, di cui mandavamo a nostra madre una sterlina e cinque scellini. Mio fratello e io ritornammo a casa dopo la seconda tournée per trascorrere qualche settimana con lei. Pur essendo felici di trovarci nuovamente con la mamma, sotto sotto non vedevamo l'ora di ripartire, perché Chester Street non aveva le comodità degli appartamenti provinciali: quei piccoli agi ai quali Sydney e io avevamo già fatto l'abitudine. E nostra madre, senza dubbio, se ne rendeva conto. Quando ci accompagnava alla stazione sembrava abbastanza allegra, ma pensavamo tutti e due che aveva l'aria assorta, quando là in piedi sulla piattaforma sorrideva e sventolava il fazzoletto per salutarci mentre il treno si allontanava. Durante la terza tournée la mamma ci scrisse che Louise, con la quale Sydney e io avevamo abitato in Kennington Road, era morta, ironia della sorte, all'ospizio di Lambeth, lo stesso posto dove avevano confinato anche noi. Sopravvisse a nostro padre di soli quattro anni, lasciando orfano il figlioletto, che fu ricoverato in quello stesso orfanotrofio Hanwell dove avevano mandato Sydney e me. La mamma scrisse che era andata a trovare il ragazzo, spiegandogli chi era e che io e mio fratello avevamo abitato con lui, suo padre e
sua madre in Kennington Road. Ma se ne rammentava appena, perché allora aveva solo quattro anni. E non aveva alcun ricordo di suo padre. Stava per compiere dieci anni. Lo avevano immatricolato sotto il nome da ragazza di Louise, e a quanto potè scoprire nostra madre non aveva parenti di sorta. Ce lo descrisse come un bel ragazzo, molto tranquillo, timido e preoccupato. Gli portò un sacchetto di dolciumi, un po' di mele e di arance, e gli promise di andarlo a trovare regolarmente, cosa che fece, credo, finché non tornò ad ammalarsi e fu rispedita a Cane Hill. La notizia della ricaduta di nostra madre fu come una pugnalata. Non ci furono mai resi noti i dettagli. Ricevemmo solo una breve comunicazione ufficiale secondo la quale era stata sorpresa ad aggirarsi per le strade pronunciando frasi incoerenti. Non c'era altro da fare che rassegnarsi all'atroce destino di nostra madre. Non ritornò mai più in possesso di tutte le sue facoltà. Per parecchi anni langui nel manicomio di Cane Hill finché non ci potemmo permettere di farla ricoverare in una clinica privata. A volte gli dèi della sventura si stancano del loro trastullo e mostrano pietà, come fecero con mia madre. Gli ultimi sette anni della sua vita travagliata ella doveva trascorrerli negli agi, tra i fiori e sotto i raggi del sole, vedendo i suoi figli ormai adulti baciati dalla fama e dalla fortuna oltre ogni limite da lei immaginato. Essendo in tournée con Sherlock Holmes, passarono molte settimane prima che Sydney e io potessimo rivedere nostra madre. La compagnia Frohman concluse definitivamente la tournée. Poi il signor Harry York, proprietario del Royal Theatre di Blackburn, acquistò da Frohman i diritti di Holmes per presentarla nelle piazze minori. Mio fratello e io fummo scritturati dalla nuova compagnia, ma con una paga settimanale ridotta di trentacinque scellini ciascuno. Fu un'esperienza scoraggiante, battere le cittadine del nord con una compagnia di second'ordine. Ciò nondimeno, essa acuì il mio senso
critico, permettendomi di fare un confronto tra questa compagnia e quella che avevamo appena lasciato. Cercavo di dissimulare le mie reazioni, ma alle prove, nello zelo di aiutare il nuovo regista, il quale mi interrogava sulla scenotecnica, le entrate, gli attacchi, ecc, gli spiegavo animatamente come si faceva nella compagnia Frohman. Ciò, si capisce, non mi rese particolarmente popolare tra gli altri attori, i quali presero a considerarmi un moccioso antipatico e petulante. Più tardi, un nuovo capocomico sfogò il suo rancore multandomi di dieci scellini perché mi mancava un bottone alla livrea, cosa di cui mi aveva avvertito parecchie volte. William Gillette, l'autore di Sherlock Holmes, venne a Londra con Marie Doro in una commedia intitolata Clarissa, anche questa scritta da lui. I critici si espressero sfavorevolmente sulla commedia e sul modo di parlare di Gillette, il che lo indusse a scrivere una farsa introduttiva, The Painful Predicament of Sherlock Holmes 1, nella quale non diceva una parola. I personaggi erano tre soli: una pazza, Holmes e il suo valletto. Fu come un fulmine a ciel sereno ricevere un telegramma dal signor Postant, il direttore di scena di Gillette, in cui mi si domandava se ero disposto a venire a Londra per interpretare il ruolo di Billie nella farsa di William Gillette. Tremavo d'ansietà, perché non si aveva la certezza che la nostra compagnia potesse sostituire Billie in provincia in così breve tempo, e per parecchi giorni vissi in preda a una tensione insostenibile. Per fortuna riuscirono a trovare un altro Billie. Tornare a Londra per recitare in un teatro del West End non può che definirsi un rinascimento. Mi girava la testa quando la sera mi recai al Teatro Duke of York, dove trovai ad attendermi il signor Postant, direttore di scena, il quale mi portò nel camerino di Gillette. Ricordo ancora con emozione le parole che mi rivolse appena gli fui presentato: « Ti piacerebbe lavorare con me in Sherlock Holmes? » e la mia ner 1 La triste vicenda di Sherlock Holmes.
vosa esplosione di entusiasmo: «Oh, moltissimo, signor Gillette!». E il mattino dopo, mentre sulla scena aspettavo che cominciassero le prove, vidi per la prima volta Marie Doro, con uno stupendo abito bianco da estate. L'improvvisa sorpresa di vedere una donna cosi bella a quell'ora! Era scesa da una carrozza e aveva scoperto una macchia d'inchiostro sull'abito, voleva sapere se il trovarobe aveva qualcosa per toglierla, e alla dubbiosa risposta dell'uomo il suo viso prese un'espressione irritata, ma graziosissima: « Oh, ma non è un'indecenza? ». Era cosi spaventosamente bella da provocare la mia indignazione. M'indignarono le labbra delicate, atteggiate al broncio, i denti bianchi e regolari, il mento adorabile, i capelli corvini e gli occhi scuri, castani. M'indignò la sua finta irritazione e il fascino che ne trasudava. Durante il colloquio con il trovarobe ignorò la mia presenza, benché fossi vicinissimo, con gli occhi sgranati, paralizzato dalla sua avvenenza. Avevo appena compiuto sedici anni, e la prossimità di questo astro fulgente radicò in me la decisione di non lasciarmene ossessionare. Ma, Dio mio, com'era bella! Fu un amore a prima vista. In The Painful Predicament of Sherlock Holmes la signorina Irene Vanbrugh, un'attrice di notevole talento, faceva la parte della pazza, parlando senza posa mentre Holmes se ne stava seduto ad ascoltare. Era questa la beffa giocata ai critici. Le prime battute erano mie: piombo nell'appartamento di Holmes e mi aggrappo alla porta mentre la pazza tenta di penetrare in casa, e poi, quando cerco confusamente di spiegare la situazione al mio padrone, quella donna irrompe nella stanza! Per venti minuti non cessa un istante il suo incoerente vaniloquio su un caso che vorrebbe fargli risolvere. Di nascosto Holmes scrive un biglietto, suona un campanello per chiamarmi e me lo fa scivolare in mano. Poco dopo due robusti infermieri portano via la signora, lasciandoci soli, mentre io dico: « Aveva ragione, signore, era proprio quel manicomio ». I critici stettero allo scherzo, ma la commedia Clarissa, che Gillette aveva scritto per Marie Doro, fu un fiasco. Pur andando in estasi per la bellezza di Marie, scrissero che essa non bastava a salvare una comme
dia cosi melensa, e allora Gillette fini la stagione con la ripresa di Sher lock Holmes, in cui tornarono ad assegnarmi la parte di Billie. Nel mio entusiasmo di recitare col famoso William Gillette, avevo di menticato d'informarmi sulle condizioni. Alla fine della settimana arri vò il signor Postant, con la mia busta paga e un'aria di scusa. « Dav vero mi vergogno a darti questa miseria » disse, « ma nell'ufficio di Frohman mi hanno detto che dovevo darti la stessa paga che prende vi prima con noi: due sterline e mezza. » Rimasi piacevolmente sor preso. Alle prove di Holmes incontrai nuovamente Marie Doro - più bella che mai ! - e malgrado la mia decisione di non lasciarmi stregare dai suoi vezzi, cominciai a sprofondare sempre più nel pantano di un amore silenzioso e disperato. Mi detestavo per questa debolezza ed ero furibondo per la mia mancanza di carattere. Si trattava di un sentimento ambivalente. L'amavo e l'odiavo insieme. Ciò che più conta, Marie era una donna affascinante e per giunta piena di grazia. In Holmes aveva la parte di Alice Faulkner, ma sulla scena non c'incontravamo mai. Attendevo, comunque, e calcolavo il momento in cui poterle passare davanti sulle scale balbettando « Buonasera » per sentirmi rispondere allegramente: « Buonasera ». E questo fu tutto ciò che accadde tra noi. Holmes ottenne un successo immediato. La regina Alessandra assistè alla commedia; seduti con lei nel palco reale c'erano il re di Grecia e il principe Cristiano. Il principe stava evidentemente spiegando la commedia al re e nel momento di maggior silenzio e tensione, mentre Holmes e io eravamo soli in scena, una voce tonante con accento straniero rimbombò nel teatro: «Non dirmi! Dion Boucicault aveva gli uffici mi dava sempre un buffetto sulla come faceva Hall Caine, il quale
Non dirmi!». nel Teatro Duke of York, e nel passare guancia, in segno di approvazione; veniva spesso in camerino per vedere
Gillette. Una volta ricevetti anche un sorriso da Lord Kitchener. Durante il ciclo di rappresentazioni di Sherlock Holmes mori Sir Henry Irving, e io partecipai al funerale nell'Abbazia di Westminster. Essendo
un attore del West End mi fu dato un permesso speciale, cosa di cui andai molto fiero. Alle esequie sedetti tra il solenne Lewis Waller, allora il romantico idolo delle matinée londinesi, e il Dr. Walford Bodie, famoso per la sua chirurgia incruenta, che mi divertii poi a parodiare in un numero di varietà. Waller se ne stava rigidamente seduto, mostrandomi il suo bel profilo, senza guardare né a destra né a sinistra. Ma il Dr. Bodie, per vederci meglio quando calarono Sir Henry nella cripta, continuò a mettere i piedi sul petto di un duca supino, suscitando lo sdegno e l'irritazione di Waller. Io rinunciai all'idea di vedere qualcosa e mi sedetti, rassegnato a godermi lo spettacolo della schiena di coloro che mi stavano davanti. Due settimane prima che Sherlock Holmes fosse tolta dal cartellone, il signor Boucicault mi diede una lettera di presentazione per l'illustre signor Kendal e signora, affinchè potessi ottenere una parte nella loro nuova commedia. Stavano per finire un riuscitissimo ciclo di rappresentazioni al St James' Theatre. L'appuntamento era per le dieci antimeridiane: dovevo incontrare la signora nel ridotto. Aveva venti minuti di ritardo. Finalmente sulla strada comparve una silhouette: era la signora Kendal, una donna robusta e imperiosa che mi salutò con queste parole : « Oh, dunque tu sei il ragazzo ! Stiamo per cominciare una tournée in provincia con una nuova commedia e vorrei sentirti leggere la parte. Ma per il momento siamo occupatissimi. Ti spiace ripassare domattina alla stessa ora? ». « Mi rincresce, signora » risposi freddamente « ma non posso accettare nulla fuori città. » E con ciò mi tolsi il cappello, uscii dal foyer, fermai un tassi di passaggio... e da allora rimasi disoccupato per dieci mesi. Quella sera Sherlock Holmes fu rappresentata per l'ultima volta al Duke of York e Marie Doro si preparò a tornare in America. Io uscii da solo e mi presi una sbornia solenne. Due o tre anni dopo, a Filadelfia, la rividi. Presiedeva all'inaugurazione di un nuovo teatro in cui lavoravo io con la compagnia comica di Karno. Era sempre bella come un tempo. Rimasi a guardarla tra le quinte, già truccato per la rappresen
tazione, mentre teneva un breve discorso, ma ero troppo timido per farmi riconoscere. Quando a Londra finirono le rappresentazioni di Holmes, terminò anche la tournée della compagnia che batteva la provincia, e cosi sia io che mio fratello restammo senza lavoro. Ma Sydney non perse tempo e trovò subito un'altra scrittura. Dopo avere risposto a un annuncio sull'Era, un giornale di teatro, entrò a far parte della troupe di comici di Charlie Manon. A quei tempi ce n'erano parecchie di queste compagnie in giro per i music hall: i Charlie Baldwin's Bank Clerks 1, i Joe Boganny's Lunatic Bakers 2 e la compagnia Boicette, tutti pantomimi. E anche se si esibivano in farse grossolane, i numeri prendevano la forma di balletti con l'accompagnamento di musiche belle e orecchiabili, e a quei tempi erano molto popolari. La compagnia più importante era quella di Fred Karno, che aveva un ampio repertorio di comiche. Nel titolo di ciascuna compariva la parola « Birds » 3. C'erano Jail Birds 4, Early Birds, Mumming Birds 5 ecc. Su questi tre sketch Karno costruì un'impalcatura teatrale di oltre trenta compagnie, il cui repertorio comprendeva pantomime natalizie e complicate commedie musicali, che portarono alla ribalta ottimi artisti e comici come Fred Kitchen, George Graves, Harry Weldon, Billie Reeves, Charlie Bell e molti altri. Fu mentre Sydney lavorava con la compagnia Manon che Fred Karno lo vide e lo scritturò con una paga di quattro sterline alla settimana. Avendo quattro anni meno di lui non ero né carne né pesce per qual siasi forma di teatro, ma avevo messo da parte un po' di danaro durante l'ultima scrittura londinese e mentre mio fratello lavorava in provincia io rimasi a Londra a bighellonare nelle sale da biliardo. 1 2 3 4 5
Gli impiegati di Charlie Baldwin. I fornai pazzi di Joe Boganny. Uccelli. Carcerati. Le belle statuine.
Sei Avevo raggiunto quell'età difficile e sgraziata che va sotto il nome di adolescenza, e il quadro delle mie emozioni era quello tipico degli adolescenti. Adoravo l'ardimento e il melodramma, ero un sognatore e un musone, amavo la vita e la rendevo oggetto del mio furore: un animo ancora nella crisalide, dalla quale erompeva con improvvise esplosioni di maturità. Mi gingillavo in questo labirinto di specchi deformanti, ora spronato dall'ambizione ora sordo al suo richiamo. La parola « arte » non mi era mai entrata nella testa e non apparteneva al mio vocabolario. Il teatro era un mezzo per guadagnarsi la vita e nulla più. Vissi solo in questa nebbia e in questa solitudine. Sgualdrine, prostitute e ogni tanto una bella sbornia caratterizzarono questo periodo della mia vita, ma né il vino né le donne né il canto polarizzarono a lungo il mio interesse. Quello che cercavo era il rischio e l'avventura. Capisco benissimo l'atteggiamento psicologico del teddy boy col suo abito edoardiano; come tutti noi, egli vuole che la sua vita balzi al centro dell'attenzione, evochi il dramma e l'avventura. Perché non dovrebbe abbandonarsi a momenti di sfrenato esibizionismo, come lo scolaro indulge ai vagabondaggi e agli scherzi rumorosi? Non è naturale che quando vede le cosiddette classi abbienti affermare la loro fatuità egli voglia affermare la sua? Di questi tempi egli sa che la macchina obbedisce alla sua volontà come obbedisce a quella dell'esponente di qualsiasi ceto; che per cambiare una marcia o premere un bottone non occorre una speciale intelligenza.
In quest'era insensata egli è pari a qualsiasi Lancillotto, aristocratico o scienziato che sia; il suo dito può distruggere una città con la stessa facilità di un esercito napoleonico. Non è dunque il teddy boy, una fenice che sorge dalle ceneri di una classe dirigente criminale, con un atteggiamento forse motivato da una subconscia convinzione, e cioè che l'uomo è solo un animale semi-addomesticato che per generazioni ha dominato gli altri con l'inganno, la crudeltà e la violenza? Ma, come disse Bernard Shaw : « Sto divagando, come fa sempre chi ha qualcosa da lamentarsi ». Finalmente trovai lavoro in una compagnia di varietà, il Casey's Circus, dove mi esibii nella parodia di Dick Turpin, il rapinatore e del Dr. Walford Bodie. Col Dr. Bodie ottenni un certo successo, per quanto si trattasse di una comicità molto scadente; era la caratterizzazione di uno scienziato dall'aria professorale, ed ebbi la felice idea di truccarmi in modo da somigliargli alla perfezione. Ero la stella della compagnia e guadagnavo tre sterline alla settimana. Lavorava con noi anche una troupe di bambini che giocavano agli adulti in una scena ambientata in un vicolo: credo fosse uno spettacolo orribile, ma mi diede la possibilità di sviluppare il mio talento comico. Quando il Casey's Circus si produsse a Londra, sei di noi presero alloggio in Kennington Road dalla signora Fields, una vecchia vedova di sessantacinque anni, che aveva tre figlie: Frederica, Thelma e Phoebe. Frederica aveva sposato un ebanista russo, un uomo gentile ma estremamente brutto, con una larga faccia tartara, capelli biondi, baffi biondi e un lieve strabismo. Noialtri sei mangiavamo in cucina, e finimmo per conoscere assai bene la famiglia. Se lavorava a Londra, ci veniva ad abitare anche Sydney. Quando finalmente lasciai il Casey's Circus, ritornai in Kennington Road e continuai ad alloggiare dalla signora Fields. La vecchia era gentile, paziente e infaticabile, e tutti i suoi guadagni provenivano dalle stanze che dava in affitto. Frederica, la figlia sposata, la manteneva il marito. Thelma e Phoebe aiutavano in casa. Phoebe aveva quindici anni ed era molto bella. Aveva un naso lungo e aquilino, ed esercitava su di me una
profonda attrazione, sia fìsica che sentimentale; a quest'ultima resistetti perché non avevo ancora compiuto diciassette anni ed ero animato dalle peggiori intenzioni. Ma era una ragazza assai seria e non accadde mai nulla. Le ispirai molta simpatia e presto diventammo ottimi amici. I Fields erano una famiglia molto emotiva e ogni tanto scoppiavano tra loro delle liti clamorose. La ragione era quasi sempre la stessa: a chi toccasse sbrigare le faccende domestiche. Thelma, che aveva una ventina d'anni, era la signora della famiglia, e per giunta piuttosto pigra; per lei era sempre il turno di Frederica o di Phoebe. Presto la discussione degenerava in alterco, durante il quale si tiravano fuori i panni sporchi della famiglia, da sciorinare sotto gli occhi di tutti. La signora Fields rivelava che da quando era scappata di casa per andare a vivere con un giovane avvocato di Liverpool, Thelma amava considerarsi una signora troppo raffinata per sbrigare le faccende domestiche, e concludeva la sua tirata dicendo: « Be', se ti senti tanto signora levati dai piedi e torna dal tuo avvocato di Liverpool. Solo che questa volta lui non ti vorrà ». E per sottolineare le sue parole prendeva una tazza da tè e la spaccava sul pavimento. Thelma non si alzava da tavola per tutta la durata della discussione, conservando un'aria imperturbabile e molto signorile. A un certo punto, con calma, prendeva una tazza e, lasciandola cadere dolcemente sul pavimento, diceva: « Anch'io, sai, posso perdere la pazienza ». Poi ne lasciava cadere un'altra, e un'altra ancora, finché il pavimento non era coperto di cocci. « Anch'io, sai, posso fare una scenata. » E alla povera madre e alle sorelle non restava che assistere, impotenti. « Guardatela! Guardate che cosa fa! » gemeva sua madre. « Ecco ! Eccoti un'altra cosa da rompere ! » diceva, porgendole la zuccheriera, e Thelma la prendeva e con calma la lasciava cadere. In tali occasioni toccava a Phoebe fare da arbitro. Era giusta e leale, godeva del rispetto dei familiari, e di solito sedava la discussione offrendosi di sbrigare personalmente le faccende domestiche, cosa che Thelma non le permetteva di fare.
Per quasi tre mesi ero rimasto disoccupato, e mio fratello mi aveva mantenuto versando alla signora Fields quattordici scellini alla settimana per il vitto e l'alloggio. Sydney era ormai uno dei primi attori comici di Fred Karno, al quale aveva parlato spesso del talento di suo fratello, ma Karno faceva orecchi da mercante perché mi considerava troppo giovane. Era un momento in cui Londra impazziva per i comici ebrei; allora pensai di nascondere la mia giovinezza sotto un bel paio di baffi. Sydney mi diede due sterline, che investii negli arrangiamenti musicali di canzonette e dialoghi comici presi da un libro americano, Madison's Budget1. Per settimane mi esercitai, producendomi davanti alla famiglia Fields. Si mostrarono attenti e incoraggianti, ma nulla più. Avevo ottenuto una settimana di prova senza paga al Foresters' Music Hall, che era un teatrino dalle parti di Mile End Road, al centro del quartiere israelita. Ci avevo già lavorato col Casey's Circus e la direzione pensò bene di accordarmi una possibilità. Le mie speranze e i miei sogni per il futuro riposavano su quella settimana di prova. Dopo il Foresters' avrei lavorato per tutte le catene più importanti d'Inghilterra. Chissà? In capo a un anno avrei potuto diventare uno dei più grandi attori di varietà. Avevo promesso all'intera famiglia Fields di procurare loro i biglietti per la fine della settimana, quando mi fossi trovato perfettamente a mio agio col mio numero. « Immagino che non vorrai più vivere con noi dopo il tuo successo » disse Phoebe. « Ma no, ma no » risposi magnanimamente. Lunedì a mezzogiorno c'erano le prove dell'orchestra per le canzoni e gli attacchi, che andarono benissimo. Ma non avevo riflettuto abbastanza sul trucco da usare. Ero incerto sull'aspetto da prendere. Per ore prima dello spettacolo serale rimasi in camerino a provare, ma per quante parrucche mi mettessi in testa non riuscivo a dissimulare la mia 1 Archivio del Madison. "3
giovane età. Sebbene non fosse colpa mia, il numero era profondamente antisemita, e le battute non erano soltanto vecchie ma insufficienti, come il mio accento ebreo. Ma soprattutto non facevo ridere. Dopo le prime due battute il pubblico cominciò a tirare monete e bucce d'arancia, pestando i piedi e fischiando. Dapprima non mi resi conto di quanto stava succedendo. Poi il panico s'impadronì di me. Cominciai a correre di qua e di là, parlando sempre più in fretta, mentre s'infittivano i fischi, le pernacchie e il lancio di monete e bucce d'arancia. Quando lasciai il palcoscenico non attesi neppure il verdetto della direzione. Andai diritto in camerino, mi tolsi il trucco, lasciai il teatro e non ritornai mai più, nemmeno per riprendere i miei libri di musica. Era tardi quando giunsi in Kennington Road: grazie al cielo, i Fields erano tutti a letto. Al mattino, a colazione, la signora Fields si mostrò ansiosa di sapere com'era andato lo spettacolo. Finsi indifferenza e dissi: « Benissimo, ma occorre qualche ritocco ». Lei disse che Phoebe era venuta a vedermi, ma che non aveva detto niente, perché era troppo stanca e voleva andare a letto. Più tardi, quando la vidi, Phoebe non tornò sull'argomento, e io la imitai; non ne parlò più nemmeno la signora Fields, né alcun altro membro della famiglia, e nessuno mostrò la minima sorpresa per il fatto che non arrivai alla fine della settimana di prova. Grazie a Dio Sydney era in provincia, e mi fu risparmiata l'umiliazione di raccontargli l'accaduto: ma dovette indovinare, o forse glielo dissero i Fields, perché non mi chiese mai nulla. Feci del mio meglio per cancellare dalla mia mente l'orrore di quella sera, ma esso lasciò un'impronta indelebile sulla mia sicurezza. Quell'esperienza spaventosa m'insegnò a vedermi in una luce più vera; mi resi conto che non ero un attore di varietà, non riuscivo a creare col pubblico il contatto necessario; e mi consolai pensando che ero un caratterista comico. Però dovevo subire ancora un paio di delusioni prima di scegliere definitivamente questa strada. A diciassette anni feci l'attor giovane in uno sketch intitolato The Merry
Major 1, uno scoraggiante lavoretto da quattro soldi che resistè solo una settimana. La prima attrice, mia moglie, era una donna di cinquant'an ni. Tutte le sere entrava in scena puzzando di gin e io, marito entusia sta e affettuoso, dovevo prenderla fra le braccia e baciarla. Quell'espe rienza mi tolse ogni ambizione di fare il primo attore. Allora provai a fare l'autore. Composi uno sketch comico dal titolo Twelve Just Men 2, una farsa grossolana su una giuria chiamata a de cidere in merito a un caso di rottura di promessa di matrimonio. Un membro della giuria era sordomuto, un altro un ubriacone e un terzo un ciarlatano. Vendetti l'idea a Charcoate, un ipnotizzatore del teatro di varietà che addormentava un compare e lo faceva girare in landò per la città, con una benda sugli occhi, mentre lui sedeva di dietro lan ciandogli impulsi magnetici. Per quella farsa mi diede tre sterline, a patto che la dirigessi io. Scritturammo gli attori necessari e demmo inizio alle prove sopra i locali del circolo di un pub, The Horns, di Kenning ton Road. Un vecchio attore, insoddisfatto, disse che lo sketch non solo era scritto con i piedi ma decisamente insulso. Il terzo giorno, nel bel mezzo delle prove, Charcoate mi mandò un biglietto per informarmi che aveva deciso di non metterlo in scena. Non essendo particolarmente audace, mi cacciai in tasca il biglietto e continuai a provare. Mi mancava il coraggio di dirlo agli attori. Invece, all'ora di pranzo, li portai nel nostro appartamento di Brixton e dissi che mio fratello desiderava conferire con loro. Chiamai Sydney in camera da letto e gli mostrai il biglietto. Dopo averlo letto egli disse: «Be', non glielo hai detto? ». « No » mormorai. « Be', diglielo. » « Non posso » dissi. « Non posso dirglielo, dopo che hanno provato tre giorni per niente. » « Ma non è colpa tua » disse Sydney. « Vaglielo a dire ! » gridò. 1 L'allegro maggiore. 2 Dodici uomini giusti. "5
Mi persi d'animo e scoppiai in pianto. « Che posso dire? » « Non fare lo stupido ! » Alzatosi, passò nella stanza attigua e mostrò loro la lettera di Charcoate, spiegando l'accaduto, poi c'invitò tutti al pub all'angolo per un panino e una birra. Gli attori sono davvero imprevedibili. Il vecchio che aveva avuto tanto da brontolare si mostrò il più filosofo, e rise quando Sydney gli disse in che stato ero. « Non è colpa tua, figliolo » disse, battendomi una mano sulla spalla. « La colpa è di Charcoate, quel vecchio malandrino. » Dopo il fiasco del Foresters', ogni mia iniziativa culminò in un disastro. Ma le contrarietà non smontano i giovani, i quali sanno per istinto che non può sempre andare di male in peggio, come non si può dire che la strada della virtù è larga o stretta. Prima o poi dev'esserci una de viazione. Ancora una volta, girò la ruota della fortuna. Un giorno Sydney mi informò che il signor Karno voleva vedermi. Pare che fosse scontento di uno dei comici che giocavano contro Harry Weldon in The Football Match 1, uno dei molti sketch di Karno che avevano riscosso un grande successo. Weldon era un comico assai popolare che conservò la propria popolarità fino al giorno della sua morte, avvenuta negli anni fra il '30 e il '40. Karno era un ometto tozzo e abbronzato, dagli occhi vivi e penetranti che non ti perdevano di mira un istante. Aveva cominciato come acrobata alle parallele, poi si mise in società con altri tre comici. Questo quartetto formò il nucleo delle sue pantomime. Egli stesso era un comico eccellente e inventò un'infinità di personaggi. Continuò a recitare anche quando ebbe altre cinque compagnie in tournée. È uno dei suoi primi attori a raccontare la storia del suo ritiro. Una notte, a Manchester, dopo una rappresentazione, la troupe si lagnò che 1 L'incontro di calcio.
Karno aveva sbagliato le entrate, rovinando l'effetto comico. Karno, che aveva ormai accumulato 50 mila sterline con le sue cinque compagnie, disse: « Be', ragazzi, se è cosi che la pensate, io mi ritiro! ». Poi, togliendosi la parrucca, la lasciò cadere sul tavolo del camerino e sorrise. « Fate conto che siano le mie dimissioni. » La casa di Karno era in Coldharbour Lane, Camberwell, annessa a un magazzino in cui teneva le scene dei suoi venti spettacoli. Vi aveva installato anche gli uffici. Quando arrivai mi ricevette con molta cortesia. « Sydney mi ha detto che sei un tipo in gamba » esordi. « Credi che potresti giocare contro Harry Weldon in The Football Match? » Harry Weldon era stato scritturato apposta per questa parte, con una paga di trentaquattro sterline alla settimana. « Quella che mi occorre è l'occasione buona » dissi fiduciosamente. Lui sorrise. « Diciassette anni sono pochi, e tu sembri ancora più giovane. » Alzai le spalle con indifferenza. « È una questione di truccatura. » Karno rise. Fu quella spallucciata, mi disse poi Sydney, ad assicurarmi il posto. « Be', be', vedremo che cosa sai fare » disse. Mi scritturò, in prova, per due settimane, a tre sterline e mezza la settimana. Se fosse rimasto soddisfatto mi avrebbe offerto un contratto di un anno. Avevo una settimana per studiare la parte prima che si alzasse il sipario al Coliseum di Londra. Karno mi disse di andare all'Empire di Shepherd Bush, dove davano The Football Match, a vedere l'uomo che avrei dovuto sostituire. Devo confessare che era goffo e noioso e che, senza falsa modestia, sapevo di poterlo battere. Il personaggio doveva essere più parodistico. Decisi di renderlo tale. Mi furono concesse due sole prove, perché Weldon non si prestò a farne di più. Anzi, si mostrò già abbastanza seccato all'idea di doversi presentare, dato che questo impegno gli aveva mandato a monte la partita di golf.
Alle prove non feci una grande impressione. Essendo un lettore lento, capii che Weldon aveva delle riserve sulla mia competenza. Sydney, che aveva interpretato la stessa parte, avrebbe potuto aiutarmi se fosse stato a Londra, ma in quel momento recitava in provincia in un altro sketch. Sebbene The Football Match fosse una farsa grossolana, non si rideva fino all'entrata in scena di Weldon. Era tutto preparato per il suo ingresso, e naturalmente Weldon, da quello straordinario comico che era, strappava al pubblico una risata dopo l'altra dal momento in cui metteva piede sul palcoscenico. La sera della prima avevo i nervi tesi come corde di violino. Doveva essere l'occasione buona per ritrovare la fiducia in me stesso e cancellare una volta per tutte l'incubo del Foresters'. Dietro l'enorme palcoscenico passeggiavo in su e in giù attanagliato dall'ansia e dalla paura, pregando a fior di labbra. Ed ecco la musica! Si alza il sipario! In scena c'era ancora un coro maschile. Finalmente il coro usciva e il palcoscenico restava deserto. Ora toccava a me. In preda a un caos di emozioni, entrai in scena. O la va o la spacca. Nell'attimo in cui misi piede sul palcoscenico provai un senso di sollievo: tutto fu chiaro. Entrai con le spalle al pubblico: un'idea mia. Visto da tergo avevo un'aria inappuntabile, con la redingote, il cilindro, il bastone da passeggio e le ghette: il tipico « cattivo » edoardiano. Poi mi voltai, mostrando il naso rosso. Scoppiò una risata. Capii che il contatto col pubblco era cosa fatta. Scrollai melodrammaticamente le spalle, feci schioccare le dita e attraversai barcollando il palcoscenico, finendo per inciampare in un manubrio da ginnasta. Poi il manico del bastone s'impigliò nel tirante elastico di un punching ball, che rimbalzò colpendomi al viso. Vacillando feci roteare il bastone, che mi colpi su un lato della testa. Il pubblico scoppiò in una fragorosa risata. Ormai ero calmo e pieno di idee. Avrei potuto restare in scena per cinque minuti e continuare a farli ridere senza proferire parola. Nel bel mezzo dell'azione, mentre attraversavo il palcoscenico con la mia an
datura da smargiasso, cominciarono a cadermi i pantaloni. Avevo perso un bottone. Mi misi a cercarlo. Finsi di raccattare qualcosa, poi, indignato, gettai via ciò che avevo trovato. « Maledetti conigli ! » Un'altra risata. Il faccione di Harry Weldon comparve tra le quinte come una luna piena. Nessuno aveva mai riso prima che entrasse in scena lui. Quando fece il suo ingresso lo presi drammaticamente per un braccio e sussurrai: « Presto! Mi cascano le brache! ». Era tutto improvvisato li per li. Avevo ben preparato il pubblico all'entrata di Harry, che quella sera ottenne un successo strepitoso. Insieme riuscimmo a strappare molte altre risate. Quando calò il sipario, compresi di essermi comportato bene. Parecchi membri della compagnia vennero a stringermi la mano e si congratularono con me. Mentre andava in camerino Weldon si voltò indietro e disse seccamente: « Molto bene. Bravo! ». Quella notte tornai a casa a piedi per scaricare la tensione nervosa. Mi fermai sul ponte di Westminster e mi sporsi dal parapetto a guardare la serica superfìcie dell'acqua nera che vi scorreva sotto. Avevo voglia di piangere di gioia, ma non potei. Continuai a sforzarmi e a fare smorfie, ma le lacrime non vennero, ero vuoto. Dal ponte di Westminster andai a piedi fino a Elephant and Castle, dove mi fermai davanti a un carrettino a bere una tazza di tè. Avevo voglia di parlare con qualcuno, ma Sydney era fuori città. Come avrei desiderato che fosse là, per raccontargli della serata, dell'importanza che aveva avuto per me, specie dopo il fiasco di Foresters'. Non potevo dormire. Da Elephant and Castle proseguii fino a Kennington Gate, dove bevvi un'altra tazza di tè. Per strada continuavo a parlare e a ridere tra me. Erano le cinque del mattino quando andai a letto, esausto. La prima sera Karno non era presente, ma venne la terza, quando il pubblico applaudi alla mia semplice entrata in scena. Mi raggiunse dopo lo spettacolo, con un sorriso raggiante, e mi pregò di passare al mattino dal suo ufficio per firmare il contratto. Non avevo scritto a Sydney della prima sera, ma gli spedii un brevis
simo telegramma: « Firmato contratto per un anno a quattro sterline la settimana. Affettuosamente, Charlie ». The Football Match rimase a Londra quattordici settimane, poi andò in tournée. Il personaggio di Weldon era il tipico cretino, un bifolco del Lancashire lento di parola e di comprendonio. Andò benissimo nell'Inghilterra del nord, ma nel sud non ricevette un'accoglienza troppo favorevole. Bristol, Cardiff, Plymouth, Southampton, erano città poco adatte alla sua comicità; in quelle settimane Weldon, sempre irritabile, recitò senza impegnarsi, dando poi la colpa a me. Durante il numero doveva strapazzarmi senza risparmio. In gergo si chiamava « fare il sonnellino »: vale a dire, lui fingeva di darmi un pugno in faccia, ma tra le quinte qualcuno batteva le mani per creare un effetto realistico. Qualche volta mi picchiò sul serio, e non per finta, provocato, penso, dalla gelosia. A Belfast la crisi entrò nella sua fase decisiva. I critici avevano dato a Weldon una solenne stroncatura, elogiando invece la mia prestazione. Per Weldon era una cosa intollerabile, e quella sera, durante la rappresentazione, mi vibrò un pugno che, smontandomi completamente, mi fece colare il sangue dal naso. Dopodiché io gli dissi che se ci si fosse provato un'altra volta gli avrei rotto la testa con uno dei manubri da ginnastica e aggiunsi che, se era geloso, non doveva prendersela con me. « Geloso di te ! » disse in tono sprezzante, mentre andavamo in camerino. « Ma se ho più talento nel mio culo di quanto tu ne abbia in tutta la tua persona ! » « Infatti è proprio li che sta il tuo talento » rimbeccai, e chiusi in fretta l'uscio del camerino. Quando Sydney venne in città decidemmo di prendere un appartamento in Brixton Road e di stanziare quaranta sterline per arredarlo. Ci recammo in un negozio di mobili usati di Newington Butts, dove informammo il proprietario della somma che eravamo in grado di spendere, dicendogli che avevamo quattro stanze da arredare. Il padrone si occupò personalmente della cosa e trascorse molte ore aiutandoci a scegliere i
mobili. Coprimmo di tappeti il pavimento della stanza più grande, di linoleum quelli delle altre, e acquistammo un salottino: un divano e due poltrone imbottite. In un angolo del soggiorno piazzammo un paravento moresco traforato, illuminato da tergo da una lampadina elettrica gialla, e nell'angolo opposto, su un cavalletto dorato, un pastello in una cornice dorata. Il quadro era di una modella nuda ritta su un piedestallo, che si voltava a guardare un artista barbuto sul punto di scacciarle con la mano una mosca dal sedere. Mi parve che questo objet d'art, insieme al paravento, desse il tocco finale alla stanza. L'effetto conclusivo era di una combinazione tra la tabaccheria moresca e il bordello francese. Ma a noi piacque immensamente. Comprammo persino un piano verticale e, pur superando di quindici sterline il preventivo, non si poteva negare che avessimo fatto un buon affare. L'appartamento al numero 15 di Glenshaw Mansions, Brixton Road, divenne il nostro agognato rifugio. Con che gioia vi facevamo ritorno dopo le nostre tournée provinciali ! Ormai eravamo abbastanza ricchi per dare al nonno un piccolo aiuto finanziario e gli passammo dieci scellini alla settimana; poi stipendiammo una donna di servizio che venisse due volte alla settimana a fare le pulizie, anche se quasi non ce n'era bisogno, perché non toccavamo mai nulla. Ci abitavamo come se fossimo in un tempio consacrato. Sydney e io ci lasciavamo sprofondare con grande soddisfazione nelle poltrone voluminose. Avevamo acquistato un parafuoco di ottone sbalzato, con un sedile di pelle grezza tutt'intorno, e io non facevo che passare dalla poltrona al parafuoco, per saggiarne la comodità. A sedici anni l'idea che mi ero fatto dell'amore derivava da un manifesto teatrale nel centro del quale spiccava una fanciulla ritta su una scogliera col vento tra i capelli che guardava il mare con aria ispirata. Era il mio ideale. Mi vedevo nell'atto di giocare con lei a golf - uno sport che detesto — o di passeggiare all'alba sulle dune coperte di rugiada, col cuore palpitante di dolci sentimenti. Ma il primo amore è
un'altra cosa. Di solito segue lo stesso schema. Per un'occhiata, per qualche parola (quasi sempre molto sciocca), in pochi minuti cambia tutto l'aspetto della vita, la natura canta con noi e ci svela improvvisamente le sue segrete gioie. È quanto accadde a me. Avevo appena diciannove anni ed ero già un attore apprezzato della compagnia Karno, ma mi mancava qualcosa. La primavera se n'era andata com'era venuta e l'estate incombeva su di me con la sua desolazione. La routine quotidiana era noiosa, monotono l'ambiente. Nel futuro non vedevo altro che una somma di banalità tra gente ordinaria e banale. Ridursi a tirare la carretta per sbarcare il lunario non era una prospettiva allettante. Si trattava di una vita servile e priva di fascino. Divenni malinconico e insoddisfatto. La domenica facevo lunghe passeggiate solitarie e ascoltavo i concerti nei parchi pubblici. Non riuscivo a sopportare né la mia compagnia né quella degli altri. E naturalmente accadde l'inevitabile: mi innamorai. Si lavorava all'Empire di Streatham. Ci si esibiva, allora, in due o tre teatri per sera, passando dall'uno all'altro a bordo di un autobus privato. A Streatham eravamo tra i primi ad andare in scena, per poterci ripresentare più tardi al Canterbury Music Hall e poi al Tivoli. Ci si vedeva ancora quando iniziava il nostro numero. Il caldo era opprimente e l'Empire di Streatham semivuoto, il che, incidentalmente, non contribuiva di certo ad alleviare la mia malinconia. Ci precedeva nel programma una troupe di cantanti-ballerine che andava sotto il nome di « Bert Coutts' Yankee-Doodle Girls ». Non le vidi nemmeno. Ma la seconda sera, mentre stavo tra le quinte preoccupato e indifferente, una delle ragazze scivolò durante il ballo e le altre si misero a ridacchiare. Una guardò dalla mia parte per vedere se il piccolo incidente aveva divertito anche me. Mi trovai improvvisamente preso di mira da due grandi occhi castani scintillanti di malizia, che appartenevano a una flessuosa gazzella dal viso ovale e proporzionato, con una bocca carnosa e affascinante, e denti meravigliosi: l'effetto fu
elettrizzante. Quando finì il suo numero, la ragazza mi pregò di reggerle uno specchietto mentre si ravviava i capelli. Ciò mi diede la possibilità di esaminarla attentamente. Questo fu l'inizio. Il mercoledì le avevo già chiesto se la domenica potevo vederla. Lei rise. « Non so nemmeno che faccia hai senza quel naso rosso! » (Allora facevo l'ubriaco di Mumming Birds, in frac e cravatta bianca.) « Il mio naso non è proprio cosi rosso. Spero di non essere cosi decrepito come sembro » dissi « e per provartelo domani sera ti porterò una mia fotografìa. » Le diedi quella che credevo la lusinghiera immagine di un giovane imberbe e malinconico, con la cravatta nera. « Oh, ma sei giovanissimo » disse lei. « Io credevo che tu fossi molto più vecchio. » « Quanti anni mi davi? » « Almeno trenta. » Sorrisi. « Ne ho diciannove appena compiuti. » Poiché ogni giorno avevamo le prove, era impossibile vederla durante la settimana. Tuttavia mi fissò un appuntamento a Kennington Gate per le quattro pomeridiane della domenica successiva. Era un caldissimo giorno d'estate e il sole splendeva in mezzo al cielo. Portavo un vestito nero elegantemente stretto alla vita, con la cravatta nera, e sfoggiavo un bastoncino da passeggio d'avorio nero. Mancavano dieci minuti alle quattro e io ero un fascio di nervi; mordendo il freno, guardavo i passeggeri che scendevano dai tram. Mentre aspettavo mi resi conto che non l'avevo mai vista senza trucco. I suoi lineamenti cominciarono a confondermisi davanti agli occhi. Per quanti sforzi facessi, non riuscivo a rammentare la sua fisionomia. Mi prese un momento di panico. Forse la sua bellezza era solo un artifìcio! Un'illusione! Ogni ragazza insignificante che scendeva dal tram mi precipitava in un abisso di disperazione. Sarei rimasto deluso? Mi ero lasciato ingannare dall'immaginazione o dagli accorgimenti della cosmesi? Alle quattro meno tre minuti una passeggera scese dal tram e mi venne
incontro. Il cuore mi diede un tuffo. Il suo aspetto era scoraggiante. La malinconica prospettiva di passare l'intero pomeriggio con lei, fingendo un entusiasmo che ero ben lungi dal provare, mi tese un velo nero davanti agli occhi. Tuttavia, togliendomi il cappello, abbozzai un sorriso raggiante; lei mi guardò indignata e tirò di lungo. Grazie al cielo, non era la ragazza che aspettavo. Poi, esattamente alle quattro e un minuto, una fanciulla scese dal tram, venne avanti e si fermò davanti a me. Era senza trucco e sembrava più bella che mai, con un semplice cappellino alla marinara, una giacca blu a doppio petto con i bottoni d'oro, le mani sprofondate nelle tasche del soprabito. « Eccomi qua » disse. La sua presenza mi paralizzò talmente che a malapena riuscii ad aprir bocca. M'invase una tremenda agitazione. Non trovavo niente da dire o da fare. « Prendiamo un tassi » dissi con un filo di voce, guardando a destra e a sinistra, poi volgendomi a lei. « Dove ti piacerebbe andare? » Lei alzò le spalle. « Dove vuoi. » « Allora andiamo a mangiare nel West End. » « Ho già mangiato » disse lei, calma. « Ne parliamo in tassi » dissi. L'intensità della mia emozione dovette spaventarla, perché strada facendo non feci che ripetere: « So che rimpiangerò tutto questo... Sei troppo bella ! ». Invano mi sforzai di essere divertente e di farle una buona impressione. Avevo ritirato tre sterline dalla banca e contavo di portarla al Trocadero dove, in un'atmosfera di raffinata eleganza, con l'accompagnamento della musica, avrebbe potuto vedermi sotto i più romantici auspici. Volevo sbalordirla. Ma lei rimase fredda e alquanto sconcertata dalle mie espressioni, e da una in particolare: che ella era la mia Nemesi, parola che avevo appena imparato. Non capi il senso che aveva per me tutto ciò. Il sesso c'entrava poco; più importante era la sua presenza. Non mi accadeva tutti i giorni, nella mia condizione sociale, d'incontrare la classe e l'eleganza. Quella sera al Trocadero cercai di persuaderla a cenare con me, ma sen
za risultato. Disse che avrebbe preso un panino, tanto per farmi compagnia. Poiché occupavamo un intero tavolo in un ristorante di gran lusso, mi parve necessario ordinare un pasto raffinato di cui, in realtà, non avevo nessuna voglia. La cena costituì una prova difficile e solenne: non sapevo da che parte incominciare. Bluffai per tutto il pasto con aria dégagé, anche quando si trattò d'intingere con noncuranza le dita nell'apposita vaschetta, ma credo che fummo contenti tutti e due di lasciare il ristorante e distendere un po' i nervi. Dopo il Trocadero lei decise di tornare a casa. Mi offersi di accompagnarla in tassi, ma preferiva andare a piedi. Poiché abitava a Camberwell, l'idea non avrebbe potuto essere migliore: sarei rimasto ancora un po' con lei. Ora che le mie emozioni si erano chetate mi parve più a suo agio. Quella sera costeggiammo il Tamigi, mentre Hetty parlava delle sue amiche, di cose frivole e sciocche. Ma io la sentivo appena. Sapevo solo che era una notte di estasi: calcavo le nubi del settimo cielo, al colmo della felicità. Quando l'ebbi lasciata tornai sulle rive del Tamigi, stregato ! E, sentendomi pieno di altruismo e di buona volontà, distribuii tra i barboni che dormivano sul lungofiume il resto delle mie tre sterline. Avevamo fissato un appuntamento per le sette del mattino dopo, giacché alle otto lei aveva le prove in un locale di Shaftesbury Avenue. Da casa sua alla stazione della sotterranea di Westminster Bridge Road c'era una camminata di quasi due chilometri e mezzo, e anche se lavoravo sino a tardi e non mi coricavo prima delle due, mi alzai all'alba per rivederla. Camberwell Road era ormai soffusa di una luce magica perché vi abitava Hetty Kelly. Quelle passeggiate mattutine con la mano nella mano per tutta la strada fino alla sotterranea mi colmavano di una beatitudine mista a confusi desideri. La squallida, deprimente Camberwell Road, che una volta evitavo accuratamente, aveva ormai un fascino per me, che camminavo nella sua foschia mattutina, percorso da un brivido all'apparire in lontananza della sagoma di Hetty che mi veniva in
contro. Non ricordo nulla di ciò che disse durante quelle passeggiate. Ero troppo affascinato, convinto che una forza mistica ci avesse fatto incontrare e che la nostra unione dipendesse da un'affinità predestinata. La conoscevo da tre mattine: tre brevi, brevissime mattine che rendevano inesistente il resto della giornata, fino al mattino dopo. Ma la quarta mattina il suo atteggiamento mutò. Mi accolse freddamente, senza entusiasmo, e non mi diede la mano. Glielo feci notare e, per scherzo, l'accusai di non essere innamorata di me. « Tu corri troppo » disse lei. « Dopo tutto ho solo quindici anni e tu hai quattro anni più di me. » Non afferrai il senso della frase. Ma non potei ignorare la barriera che essa aveva improvvisamente alzato tra noi. Hetty aveva lo sguardo fisso davanti a sé, camminando elegantemente con passo da scolaretta, le mani affondate nelle tasche del soprabito. « In altre parole, non mi ami affatto » dissi. « Non so » rispose. Rimasi sbalordito. « Se non lo sai, allora non mi ami. » Per tutta risposta, lei continuò a camminare in silenzio. « Vedi che buon profeta sono stato? » ripresi in tono disinvolto. « Te lo avevo detto che mi sarei pentito anche solo di averti conosciuto. » Cercavo di frugare nel suo cuore per scoprire quali fossero i suoi veri sentimenti per me, ma a tutte le mie domande ella non fece che rispondere: « Non so ». « Mi sposeresti? » le intimai. « Sono troppo giovane. » « Be', se tu fossi costretta a sposarti sceglieresti me o un altro? » Ma Hetty non aveva nessuna voglia di impegnarsi e continuò a ripetere: « Non so... Tu mi piaci... Ma... ». « Ma non mi ami » la interruppi col cuore gonfio. Hetty rimase muta. Era una mattinata nuvolosa e le strade avevano un'aria squallida. « Ho lasciato che questa storia andasse troppo per le lunghe, ecco il guaio » dissi con un filo di voce. Eravamo giunti all'ingresso della sot
terranea. « Credo che faremo meglio a separarci e a non rivederci mai più » dissi, chiedendomi quale sarebbe stata la sua reazione. Hetty aveva un'aria solenne. Le presi la mano e le feci una carezza. « Addio, è meglio cosi. Il potere che hai su di me è già fin troppo grande. » « Addio » rispose lei. « Mi dispiace. » Quelle parole di scusa furono per me un colpo mortale. E mentre Hetty spariva nelle viscere della terra, provai un intollerabile senso di vuoto. Che avevo fatto? Non ero stato troppo precipitoso? Non avrei dovuto metterla alla prova. Mi ero comportato come un idiota, precludendomi ogni possibilità di rivederla senza rendermi ridicolo. Che potevo fare? Soltanto soffrire. « Se potessi affogare nel sonno questa pena fino al prossimo incontro! A tutti i costi devo tenermi alla larga da Hetty finché non sarà lei a volermi rivedere. Forse mi sono mostrato troppo serio, troppo appassionato. La prossima volta sarò frivolo e indifferente. Ma vorrà rivedermi ancora? Deve rivedermi! Non può liberarsi cosi facilmente di me! » L'indomani mattina non potei resistere alla tentazione di ripercorrere Camberwell Road. Non incontrai lei, ma sua madre. « Che cosa ha fatto a Hetty? » disse. « È tornata a casa piangendo e ha detto che non voleva più vederla. » Non le credevo. Alzai le spalle e sorrisi ironicamente : « E lei che cosa ha fatto a me? ». Poi, esitando, chiesi se potevo parlarle. Sua madre scosse il capo, diffidente. « No, non credo proprio che sia il caso. » La invitai a bere qualcosa. Andammo a fare quattro chiacchiere in un pub all'angolo della via, e dopo averla supplicata di lasciarmi vedere sua figlia ella diede il suo consenso. Quando arrivammo a casa, Hetty apri la porta. Parve sorpresa e preoccupata, quando mi vide. Si era appena lavata la faccia con una saponetta Sunlight: com'era fresco il suo profumo! Rimase in piedi sulla soglia, fissandomi con occhio freddo e indagatore. Capii che era una situazione disperata.
« Be' » dissi, cercando di mostrarmi spiritoso, « sono venuto a dirti di nuovo addio. » Lei non rispose, ma capivo benissimo che non vedeva l'ora di sbarazzarsi di me. Le tesi la mano con un sorriso. « Di nuovo addio » dissi. « Addio » rispose freddamente lei. Mi voltai e udii la porta di strada che si chiudeva dolcemente alle mie spalle. Anche se l'avevo vista solo cinque volte, e ogni volta solo per venti minuti, quel breve incontro ebbe su di me un'influenza duratura.
Sette Nel 1909 andai a Parigi. Monsieur Burnell delle Folies Bergère aveva scritturato la compagnia Karno per un mese di rappresentazioni. Com'ero elettrizzato all'idea di recarmi in un paese straniero! La settimana prima d'imbarcarci recitammo a Woolwich: un'umida, miserabile settimana in una miserabile città; non vedevo l'ora di cambiare aria. Dovevamo partire all'alba della domenica. Per un pelo non persi il treno: mi toccò d'inseguirlo lungo la banchina, riuscendo a balzare in extremis sull'ultimo bagagliaio, dove rimasi per tutto il viaggio sino a Dover. Allora ero speciale per perdere i treni. Sulla Manica pioveva a dirotto, ma la prima visione della Francia nella foschia mi diede un brivido indimenticabile. « Non è l'Inghilterra » dovevo ripetermi in continuazione « è il continente ! La Francia ! » Quel paese aveva sempre stimolato la mia immaginazione. Mio padre aveva sangue francese nelle vene; anzi, la famiglia Chaplin proveniva originariamente dalla Francia. Erano sbarcati in Inghilterra al tempo degli Ugonotti. Lo zio di mio padre diceva sempre con orgoglio che era stato un generale francese a fondare il ramo inglese della famiglia Chaplin. Era l'autunno inoltrato, e il viaggio da Calais a Parigi fu triste e uggioso. Ciò nondimeno, via via che Parigi si avvicinava cresceva il mio entusiasmo. Avevamo attraversato una campagna brulla e solitaria. Poi, a poco a poco, un lembo del cielo buio cominciò a rischiararsi. « Quel
lo » disse un francese nel nostro scompartimento « è il riflesso delle luci di Parigi. » Parigi corrispose in pieno alle mie aspettative. Il viaggio dalla Gare du Nord a rue Geoffroy-Marie mi riempi di eccitazione e d'impazienza; volevo fermarmi a ogni angolo per girare a piedi. Erano le sette di sera; le luci dorate splendevano invitanti nei caffè e i loro tavolini all'aperto dicevano che i francesi sapevano godersi la vita. A parte la novità di qualche automobile, era sempre la Parigi di Monet, Pissarro e Renoir. Era domenica e tutti sembravano animati da una gran voglia di divertirsi. Gaiezza e vitalità si respiravano nell'aria. Persino la mia stanza in rue Geoffroy-Marie, col suo pavimento di pietra, che io chiamavo la mia Bastiglia, non riuscì a gettare acqua sul fuoco del mio entusiasmo, perché la vita si svolgeva ai tavoli davanti ai bistro e ai caffè. Avevamo la serata libera, e cosi potemmo assistere allo spettacolo delle Folies Bergère, dove avremmo cominciato a lavorare il lunedì. Nessun teatro, pensai, aveva mai avuto un aspetto cosi affascinante, con i vellu ti e le dorature, gli specchi e i grandi lampadari di cristallo. Sui folti tappeti dei foyer e della prima galleria passeggiava il gran mondo. Principi indiani ingioiellati con turbanti rosa e ufficiali francesi e turchi con elmi piumati sorseggiavano cognac al bar. Nel vasto atrio si diffondevano le note di una canzone, mentre le signore depositavano in guardaroba mantelli e pellicce, scoprendo le bianche spalle. Erano gli habituées che passeggiavano discretamente nei foyer e in prima galleria. A quei tempi regnavano la bellezza e l'eleganza. Le Folies Bergère avevano anche dei linguisti di professione che giravano per il teatro con la parola « Interprete » sul berretto, e io strinsi amicizia col loro capo, che era in grado di parlare fluentemente parecchie lingue. Dopo la rappresentazione indossavo il mio abito da sera di scena, mescolandomi al pubblico. Una gracile creatura dal collo di cigno e la pelle candida mi fece battere il cuore. Era una ragazza alta, tipo Gibson Girl, estremamente bella, con un naso retroussé e lunghe ciglia scure,
e portava un abito di velluto nero con lunghi guanti bianchi. Mentre saliva le scale della prima loggia, gliene cadde uno. Rapidamente lo raccolsi. « Merci » disse. « Vorrei che le cadesse un'altra volta » dissi maliziosamente. « Pardon? » Allora mi resi conto che non capiva l'inglese. Io, d'altronde, non parlavo francese. Corsi subito dal mio amico interprete. « C'è una gentildonna che eccita la mia concupiscenza. Ma sembra molto cara. » Lui alzò le spalle. « Non più di un luigi. » « Bene » dissi io, anche se allora un luigi doveva essere un mucchio di soldi: e lo era per davvero. Mi feci scrivere dall'interprete alcune phrases d'amour sul rovescio di una cartolina: « Je vous adore », « Je vous ai aimée la première fois que je vous ai vue » ecc, che intendevo usare al momento opportuno. Lo pregai di prendere gli accordi preliminari e lui funse da corriere, passando dall'uno all'altra. Finalmente tornò indietro e disse: « È tutto sistemato, un luigi, ma dovrà pagarle il tassì fino al suo appartamento e ritorno ». Temporeggiai un momento. « Dove sta? » chiesi. « Non le costerà più di dieci franchi. » Dieci franchi erano una somma esorbitante, e io non avevo previsto questa spesa supplementare. « Non potrebbe andare a piedi? » dissi per scherzo. « Senta, quella è una ragazza di prim'ordine. Non può fare a meno di pagarle il tassi » disse lui. E cosi mi arresi. Sistemata ogni cosa, le passai davanti sulle scale della prima loggia. Ella sorrise e io mi voltai indietro. « Ce soir! » « Enchantée, monsieur! » Dato che il nostro numero si svolgeva prima dell'intervallo, mi ripromettevo di vederla dopo lo spettacolo. Disse il mio amico: « Lei chiami un tassì mentre io avverto la ragazza, cosi non perdiamo tempo ».
« Non perdiamo tempo? » Mentre percorrevamo il Boulevard des Italiens, con le luci e le ombre che le passavano sul viso e sul lungo collo candido, aveva un'aria incantevole. Di nascosto diedi una sbirciata alla cartolina: « Je vous udore » cominciai. « Je vous ai aimée la première fois que je vous ai vue! » continuai, con passione. Lei rise un'altra volta e mi corresse, spiegando che dovevo usare il « lu », più familiare. Ci pensò un attimo e rise di nuovo. Guardò l'orologio, ma si era fermato. A cenni mi chiese l'ora, spiegandomi che a mezzanotte aveva un importantissimo appuntamento. « Non questa sera » dissi timidamente io. « Oui, ce soir. » « Ma per questa sera sei già impegnata, toute la nuit ! » Ella apparve improvvisamente sorpresa. « Oh non, non, non! Pas toute la nuit! » La cosa stava diventando sordida. « Vingt francs pour le moment? » « C'est qa! » rispose animatamente lei. « Mi spiace » dissi « sarà meglio fermare il tassi. » E dopo aver pagato il conducente affinchè la riportasse alle Folies Bergère, un giovanotto molto triste e disilluso scese dalla macchina. Avremmo potuto restare dieci settimane alle Folies Bergère, poiché il nostro fu un grande successo, ma Karno aveva altri impegni. La mia paga era di sei sterline alla settimana, che spesi fino all'ultimo soldo. Venne a trovarmi un cugino di mio fratello, imparentato in qualche modo con la famìglia del padre di Sydney. Era ricco e apparteneva alla cosiddetta classe abbiente, e durante la sua permanenza a Parigi mi aiutò a spassarmela un mondo. Aveva il pallino del teatro e arrivò al punto di farsi radere i baffi per passare per un membro della nostra compagnia: cosi poteva circolare dietro le quinte e tra i camerini. Disgraziatamente dovette ritornare in Inghilterra dove, a quanto mi risulta, fu fatto segno agli aspri rimbrotti degli augusti genitori e spedito nell'America Latina.
Prima di partire per Parigi avevo saputo che la compagnia di Hetty lavorava alle Folies Bergère; ero dunque deciso a rivederla. La sera del mio arrivo andai a chiedere informazioni tra le quinte, ma da una delle ragazze del balletto appresi che la troupe era partita per Mosca la settimana prima. Mentre stavo parlando con la ragazza, una voce aspra rimbombò sulle scale. « Vieni subito qui ! Come osi parlare con degli sconosciuti? » Era la madre della ragazza. Cercai di spiegarle che volevo solo delle informazioni su una mia amica, ma la donna mi ignorò. « Smettila di parlare con quell'uomo, vieni subito qui. » Tanta maleducazione mi irritò. Più tardi, tuttavia, la conobbi meglio. Alloggiava nello stesso albergo dove stavo io, con le due figlie che facevano parte del balletto delle Folies Bergère. La più giovane, tredicenne, era la première danseuse, molto graziosa e ricca di talento, ma la maggiore, quindicenne, non aveva né grazia né talento. La madre era francese, formosa e sulla quarantina, sposata a uno scozzese residente in Inghilterra. Dopo la nostra prima rappresentazione alle Folies Bergère, venne da me a scusarsi per essere stata cosi brusca. Fu l'inizio di una relazione molto amichevole. Ero continuamente invitato nelle loro stanze a prendere il tè, che preparavano in camera da letto. A ripensarci, mi mostrai di un'ingenuità incredibile. Un pomeriggio che le figlie erano fuori e la mamma e io, soli, stavamo preparando il tè, il suo atteggiamento divenne molto strano e mentre mi versava il tè ella cominciò a tremare. Avevo parlato delle mie speranze e dei miei sogni, dei miei amori e delle mie delusioni, e lei si era commossa fino alle lacrime. Quando mi alzai per posare la tazza sulla tavola, mi si avvicinò. « Sei carino » disse, stringendomi il viso tra le mani e guardandomi fisso negli occhi. « Nessuno dovrebbe far soffrire un ragazzo carino come te. » Il suo sguardo divenne sempre più strano e ipnotico; le tremava la voce. « Ti amo come un figlio, sai » disse, sempre stringendomi il viso tra le mani. Poi, lentamente, avvicinò il suo viso al mio, e mi baciò.
«Grazie» dissi, con sincerità; e innocentemente le restituii il bacio. Lei continuò a trafiggermi con lo sguardo, le labbra tremanti e gli occhi vitrei, poi, dominandosi improvvisamente, si mise a versare un'altra tazza di tè. Il suo atteggiamento mutò e la bocca prese una piega sardonica. « Sei tanto caro » disse « mi sei molto simpatico. » Si confidava con me a proposito delle figlie. « La più piccola è un'ottima ragazza » disse « ma la più grande ha bisogno di sorveglianza, sta diventando un problema. » Dopo lo spettacolo mi invitava a cena nell'ampia stanza da letto in cui dormiva con la figlia minore, e prima di tornare in camera mia davo a madre e figlia il bacio della buonanotte; poi dovevo attraversare la stanzetta in cui dormiva la figlia maggiore. Una sera, mentre passavo, ella mi fece un cenno e sussurrò: « Lascia la porta aperta, verrò da te appena le altre dormono ». Crediatelo o no, la ricacciai indignato sul letto e uscii a grandi passi dalla stanza. Allo scadere della loro scrittura alle Folies Bergère venni a sapere che la figlia maggiore, non ancora sedicenne, era scappata con un ammaestratore di cani, un grosso tedesco di sessant'anni. Ma non ero cosi innocente come sembravo. Insieme ad altri membri della troupe passai parecchie notti gozzovigliando nei bordelli e facendo baldoria come tutti i giovani di questo mondo. Una sera, dopo avere bevuto vari bicchieri di assenzio, attaccai briga con un ex-peso leggero, un pugile professionista di nome Ernie Stone. Il diverbio scoppiò in un ristorante, e dopo che camerieri e poliziotti ci ebbero divisi egli mi disse: « Ci vediamo in albergo » dove stavamo tutti e due. Lui occupava la stanza sopra la mia, e alle quattro del mattino io percorsi vacillando il corridoio e bussai alla sua porta. « Avanti » disse lui in tono spicciativo « e levati le scarpe cosi non facciamo rumore. » In silenzio ci mettemmo a torso nudo, poi in posa l'uno di fronte all'altro. Vibrammo e schivammo colpi per quello che mi parve un tempo interminabile. Parecchie volte egli mi colpi diritto al mento, ma senza risultato. « Credevo tu sapessi tirare di boxe » esclamai, beffardo. Lui
tentò un allungo, sbagliò il bersaglio e andò a sbattere la testa contro il muro, mettendosi quasi fuori combattimento da solo. Cercai di liquidarlo, ma i miei pugni erano deboli. Potevo colpirlo impunemente, ma al mio pugno mancava la castagna. A un tratto ricevetti un cazzotto in piena bocca, che mi fece ballare i denti davanti, ridandomi tutta la mia lucidità. « Basta » dissi « non voglio rimetterci i denti. » Lui si avvicinò per abbracciarmi, poi si guardò allo specchio: gli avevo ridotto la faccia a brandelli. Le mie mani erano gonfie come guantoni da boxe, e il soffitto, le tende e i muri erano spruzzati di sangue. Come fosse schizzato fin là, proprio non lo capivo. Durante la notte il sangue mi usci da un angolo della bocca e mi colò sul collo. La piccola première danseuse, che al mattino mi portava sempre una tazza di tè, cacciò uno strillo, credendo che mi fossi suicidato. Quello fu il mio primo e ultimo pugilato. Una sera l'interprete venne a dirmi che un celebre musicista desiderava conoscermi: non potevo raggiungerlo nel suo palco? L'invito presentava un certo interesse perché nel palco, insieme a lui, c'era una bellissima signora dall'aria esotica, che faceva parte del Balletto Russo. L'interprete mi presentò. Il signore disse che il mio numero lo aveva divertito e che era rimasto sorpreso dalla mia giovane età. A questi complimenti io mi inchinai educatamente, lanciando di tanto in tanto una occhiata furtiva alla sua amica. « Lei ha l'istinto del musicista e del ballerino » disse lui. Rendendomi conto che non potevo rispondere al complimento altro che con un sorriso, lanciai un'occhiata all'interprete e tornai a inchinarmi educatamente. Il musicista si alzò in piedi e mi tese la mano; mi alzai anch'io. « Si » disse, stringendomi la mano « lei è un vero artista. » Dopo esserci congedati, mi rivolsi all'interprete: « Chi era la signora che lo accompagnava? ». « È una danzatrice del Balletto Russo, mademoiselle... » Era un nome molto lungo e difficile. « E come si chiamava quel signore? » domandai. « Debussy » rispose « il celebre compositore. »
« Mai sentito nominare » commentai. Era l'anno del famoso scandalo, seguito dall'altrettanto famoso processo, di Madame Steinheil, che fu assolta dall'accusa di avere assassinato il marito; l'anno del sensazionale «ballo del pompom » nel quale si esibivano coppie volteggianti in modo da offrire uno spettacolo indecente; l'anno in cui furono varate incredibili leggi fiscali che detraevano sei pence da ogni sterlina guadagnata; l'anno in cui Debussy introdusse in Inghilterra il suo Prélude à l'Après-midi d'un Faune, che fu sonoramente fischiato mentre il pubblico abbandonava la sala. Tristemente ritornai in Inghilterra per iniziare una tournée in provincia. Che contrasto con Parigi! Quelle lugubri serate domenicali nelle città del nord: tutto chiuso, e i rintocchi tristi e ammonitori delle campane che accompagnavano le gozzoviglie dei giovanotti e le risa delle ragazze che sfilavano nelle strade e nei vicoli bui. Era il loro unico diversivo domenicale. Mi trovavo in Inghilterra da più di un anno e mi ero ormai rassegnato al solito trantran quando dall'ufficio di Londra giunse una notizia che tinse subito la vita di rosa. Karno mi informava che dovevo prendere il posto di Harry Weldon nella seconda stagione di The Football Match. Ebbi l'impressione che la mia stella stesse per spuntare. Quella era la mia grande occasione. Pur essendomela cavata con onore in Mumming Birds e negli altri sketch del nostro repertorio, quelli erano traguardi minori rispetto al ruolo di protagonista in The Football Match. Per di più, dovevamo iniziare una serie di rappresentazioni all'Oxford, il più importante music hall di Londra. Saremmo stati l'attrazione principale del programma e per la prima volta io avrei avuto il nome in ditta al primo posto. Era un passo considerevole sulla strada del successo. Se all'Oxford fosse andata bene, la mia fama mi avrebbe permesso di chiedere una paga più alta e di mettere finalmente in scena gli sketch ideati da me: insomma era la base di tutta una serie di fantastici progetti. Siccome per The Football Match furono scritturati praticamente gli
stessi attori bastò una settimana di prove. Pensai molto alla caratterizzazione da dare al personaggio. Harry Weldon aveva l'accento del Lancashire. Io decisi di farne un cockney. Ma alla prima prova mi venne un attacco di laringite. Feci di tutto per risparmiare la voce, parlando pianissimo, ricorrendo a inalazioni e spruzzandomi la gola di medicine, finché l'ansia non mi privò del brio e dello spirito necessari alla parte. La sera della prima strapazzai rabbiosamente le mie corde vocali. Ma non riuscii a farmi sentire. Karno venne a trovarmi subito dopo; la sua espressione era un misto di delusione e disprezzo. « Nessuno ha capito una parola » disse in tono di rimprovero. Gli assicurai che la mia voce sarebbe andata meglio la sera dopo, ma non fu cosi. Anzi andò peggio; mi ero tanto sforzato che corsi il rischio di perderla completamente. La sera successiva andò in scena il mio sostituto. Di conseguenza la scrittura fu sospesa dopo la prima settimana. Tutti i miei sogni e le mie speranze erano crollati, e per la delusione mi misi a letto con l'influenza. Non vedevo Hetty da più di un anno. Nello stato di prostrazione e di malinconia in cui mi aveva gettato l'influenza ricominciai a pensare a lei, e una sera a tarda ora m'incamminai verso la sua casa di Camberwell. Ma l'appartamento era vuoto e inalberava un cartello: « Affìttasi ». Continuai a vagabondare senza meta per le vie del quartiere. A un tratto una figuretta sbucò dall'oscurità della notte, attraversando la strada e dirigendosi verso di me. « Charlie ! Che fai di bello da queste parti? » Era Hetty. Portava una pelliccia di foca nera con un cappellino rotondo, pure di foca. « Sono venuto a cercarti » dissi scherzosamente. Lei sorrise. « Come sei magro! » Le dissi che mi ero appena alzato dal letto. Hetty aveva ormai diciassette anni, era molto carina e vestita con eleganza.
« Tu, piuttosto, che fai da queste parti? » domandai. « Sono stata a trovare un'amica e ora vado a casa di mio fratello. Vuoi venire? » disse. Strada facendo m'informò che sua sorella aveva sposato un milionario americano, un certo Frank J. Gould, che abitavano a Nizza e che l'indomani mattina avrebbe lasciato Londra per raggiungerli. Quella sera la vidi ballare con suo fratello. Faceva la civetta, comportandosi piuttosto scioccamente, e mio malgrado non riuscii a sottrarmi all'impressione che la mia passione per lei fosse lievemente diminuita. Era dunque diventata una ragazza come tutte le altre? Il pensiero mi rattristò, e mi sorpresi a osservarla con una certa freddezza. La sua figura si era sviluppata; notai il profilo dei suoi seni e trovai modesto e non troppo seducente il loro volume. L'avrei sposata, anche se avessi potuto permettermelo? No, non avevo nessuna voglia di sposarmi. Accompagnandola a casa, in quella notte fredda e limpida, dovetti apparirle distaccato e malinconico mentre parlavo della possibilità che avesse una vita bella e felice. « Dici delle cose tanto tristi che quasi quasi mi viene da piangere » osservò. Quella notte rincasai con un senso di trionfo, perché le avevo infuso la mia tristezza ed ero riuscito a imporre la mia personalità. Karno mi rimise nel cast di Mumming Birds e, per colmo d'ironia, in meno di un mese recuperai la voce. Per grande che fosse il disappunto datomi da The Football Match, cercai di non pensarci troppo. Ma mi assillava l'idea di non essere, forse, all'altezza di Weldon. E dietro tutto questo aleggiava lo spettro del mio fiasco al Foresters'. Non avendo ritrovato la piena fiducia in me stesso, ogni nuovo sketch in cui sostenevo il ruolo comico principale era una prova che affrontavo in preda al terrore. E venne il giorno della grande decisione, in cui dovevo informare Karno che il mio contratto era scaduto e che volevo un aumento. Karno sapeva essere cinico e crudele con chiunque non gli andasse a genio. Poiché gli ero simpatico, non avevo mai visto quel lato della
sua personalità; ma era perfettamente in grado di demolire un uomo con la sua volgarità. Durante la rappresentazione di una delle sue pantomime, se un comico non gli piaceva si affacciava tra le quinte stringendosi il naso con due dita e manifestando sonoramente la sua disapprovazione. Ma lo fece una volta di troppo e l'attore abbandonò il palcoscenico per saltargli addosso; quella fu l'ultima volta che ricorse a misure cosi volgari. E ora mi trovavo davanti a lui per discutere i termini di un nuovo contratto. « Be' » disse con un sorriso cinico « tu vuoi un aumento e i teatri vogliono una riduzione. » Alzò le spalle. « Dopo quel fiasco dell'Oxford Music Hall non abbiamo avuto che lagne. Dicono che la compagnia non è affiatata: una banda di mezze calzette messe insieme alla rinfusa 1. » « Non possono mica dare la colpa a me » dissi. « Invece la danno » rispose lui, trafiggendomi col suo sguardo imperturbabile. « Di che si lamentano? » chiesi. Lui si schiari la gola e guardò per terra. « Dicono che non sei all'altezza. » La botta mi colpi alla bocca dello stomaco, ma insieme scatenò la mia collera. Tuttavia, risposi con calma: « Be', c'è gente che non la pensa cosi, ed è pronta a darmi più di quello che prendo qui. » Non era vero: non avevo altre offerte. « Dicono che lo spettacolo è un disastro e che il comico fa pena. Ecco » disse, prendendo il telefono « ora chiamo lo Star, Bermondsey, cosi potrai sentirlo con le tue orecchie... Mi risulta che la settimana scorsa avete fatto un mezzo forno » disse all'apparecchio. « Un macello ! » disse una voce. . Karno ghignò. « Come ve lo spiegate? » 1 Nella troupe di Karno occorrevano almeno sei mesi di lavoro in comune per raggiungere un perfetto affiatamento. Fino a quel momento il numero era chiamato scratch crowd (rappresentzione improvvisata). (N. d. A.) 139
« Colpa dello spettacolo. Non vale una cicca ! » « E Chaplin, il comico? Non andava bene? » « Fa schifo ! » disse la voce. Con un sorrisetto, Karno mi passò il ricevitore. « Senti pure. » Presi la cornetta. « Farà schifo, come dice lei, ma non arriva neanche a metà di quella schifezza del vostro teatro! » urlai. Il tentativo di Karno di ridurmi la paga non ebbe successo. Gli dissi che se la pensava cosi non c'era alcun bisogno di rinnovarmi il contratto. Karno, che per molti versi era un uomo furbo, mancava del tutto di psicologia. Anche se facevo schifo, non gli servi a nulla farmelo dire da uno sconosciuto per telefono. Prendevo cinque sterline e, pur sperandoci poco ne chiesi sei. Con mia sorpresa Karno accettò, e ritornai nelle sue buone grazie. Alf Reeves, il direttore della compagnia americana di Karno, ritornò in Inghilterra, e si sparse la voce che stesse cercando un comico da portare negli Stati Uniti. Dal giorno del mio grave infortunio all'Oxford Music Hall non facevo che pensare di andare in America, non solo per il brivido e l'avventura di un viaggio simile, ma anche perché esso avrebbe significato una speranza nuova, un nuovo inizio in un mondo nuovo. Per fortuna Skating 1, uno dei nuovi sketch in cui avevo la parte principale, stava riscuotendo a Birmingham un grande successo, e quando Reeves raggiunse la nostra compagnia ce la misi tutta per far colpo su di lui; col risultato che Reeves telegrafò a Karno di avere trovato il suo uomo. Ma Karno aveva altri progetti per me. Questo fatto sconsolante mi lasciò nel dubbio per parecchie settimane, finché egli non s'interessò a uno sketch intitolato The Wow-wows. Era una parodia sull'iniziazione di un membro di una società segreta. Reeves e io lo trovammo un numero sciocco, 1 Pattinaggio.
fatuo e privo di valore. Ma Karno pareva ossessionato dall'idea: disse che l'America pullulava di società segrete, e che ne avrebbe apprezzato la parodia; e, con mia grande gioia, decise finalmente di affidarmi la parte principale in The Wow-wows per l'America. Quella di andare negli Stati Uniti era proprio l'occasione che mi mancava. Sentivo che in Inghilterra non avrei fatto molta strada: le mie prospettive erano limitate. Gli Stati Uniti, invece, sembravano ricchi di possibilità. Con la mia modestissima istruzione, se avessi fallito come artista di varietà non mi sarebbe rimasto altro da fare che un lavoro manuale. La sera prima della partenza gironzolai per il West End di Londra, sostando in Leicester Square, Coventry Street, nel Mall e a Piccadilly. Pensavo con dolore che vedevo quella città per l'ultima volta, poiché ' avevo deciso di stabilirmi definitivamente in America. Passeggiai fino alle due del mattino, godendomi la poesia delle strade deserte e abbandonandomi alla malinconia. Detesto gli addii. Quali che siano i sentimenti che si nutrono per amici e parenti, farsi accompagnare da loro alla stazione non serve che a peggiorare le cose. Alle sei del mattino ero già in piedi. Perciò non mi curai di svegliare Sydney, ma gli lasciai sul tavolo un biglietto che diceva: « Parto per l'America. Ti farò avere mie notizie. Affettuosamente, Charlie ».
Otto Passammo dodici giorni in alto mare con un tempo terribile, in rotta per Quebec. Per tre giorni restammo alla cappa con un timone guasto. Nonostante ciò, eravamo tutti allegri al pensiero di visitare un altro continente. Costeggiammo il Canada su una nave bestiame, e anche se a bordo di bestiame non ce n'era, c'erano però topi in quantità, che si attestavano con arroganza ai piedi della mia cuccetta finché non li disperdevo con il lancio di una scarpa. Era il principio di settembre e superammo l'isola di Terranova nella nebbia. Finalmente si avvistò la terraferma. Era una giornata piovigginosa e le rive del San Lorenzo avevano un'aria squallida e desolata. Quebec, dal piroscafo, somigliava ai bastioni dove avrebbe potuto passeggiare lo spettro di Amleto, e io cominciai a domandarmi che aspetto avessero gli Stati Uniti. Ma mentre ci si rimetteva in viaggio per Toronto la campagna divenne sempre più bella, vestita dei colori autunnali, e io ripresi animo. A Toronto cambiammo treno, sbrigando le necessarie formalità nell'ufficio immigrazione americano. Alle dieci di una domenica mattina si giunse finalmente a New York. Quando smontammo dal tram in Times Square fu una delusione. La strada e il marciapiede erano coperti di giornali portati dal vento, e Broadway aveva un'aria sciatta, come quella di una donna negligente appena uscita dal letto. Quasi a ogni angolo di strada c'erano alti seggioloni provvisti di poggiapiedi, occupati da gente in maniche di camicia che si faceva lustrare le scarpe. Davano
l'impressione di essere scesi in strada per finire la toletta mattutina. Come me, c'erano molte altre persone dall'aria forestiera, ferme qua e là sui marciapiedi, senza meta, come se avessero appena lasciato la stazione ferroviaria e cercassero un modo per ammazzare il tempo fra un treno e l'altro. Comunque, quella era New York, una città avventurosa, sconcertante, e che metteva un po' paura. Parigi, dal canto suo, mi era parsa più familiare. Anche se non parlavo francese, Parigi mi aveva dato il benvenuto a ogni angolo di strada con i suoi bistro e i caffè dai tavolini disseminati lungo il marciapiede. New York, invece, era essenzialmente un centro d'affari. Gli alti grattacieli sembravano arroganti fino alla crudeltà, e noncuranti delle comodità della gente qualsiasi; anche i bar non avevano posto a sedere per i clienti, solo una lunga sbarra d'ottone sulla quale poggiare un piede, e i ristoranti popolari, benché netti e rivestiti di marmo bianco, avevano l'aria fredda e antisettica di una clinica. Presi una stanza in uno degli stabili di arenaria dalle parti della Quarantatreesima Strada, dove oggi sorge il grattacielo del Times. Era squallida e sporca, e mi fece venire subito la nostalgia di Londra e del nostro appartamentino. Il seminterrato ospitava una lavanderia-stireria, e durante la settimana il fetido lezzo degli indumenti stirati e passati al vapore saliva fino a me accrescendo il mio disagio. Quel primo giorno mi sentii come un pesce fuor d'acqua. Era un affar serio entrare in un ristorante e ordinare qualcosa da mangiare per via del mio accento inglese e del fatto che mi esprimevo con lentezza. Parlavano tutti cosi in fretta, e con parole stranamente smozzicate, da infondermi una gran paura: temevo di mettermi a balbettare e di far loro perdere tempo. Non ero abituato a questo ritmo velocissimo. A New York anche chi fa il mestiere più umile agisce con esperta alacrità. Il lustrascarpe fa schioccare alacremente il suo straccio, il barista ti serve alacremente una birra, facendola scivolare sul banco di legno lucido. Il caffettiere, quando serve un bicchiere di latte all'uovo e malto, sembra un giocoliere durante un
difficile esercizio. In fretta e furia agguanta un bicchiere, in cui rovescia lo zucchero vanigliato, un grumo di gelato, due cucchiaiate di malto, un uovo crudo che rompe con un preciso colpetto, e infine il latte; poi agita e serve il tutto in meno di un minuto. Per la strada, quel primo giorno, molti avevano l'aria di sentirsi come me, soli e abbandonati a se stessi; altri, invece, passavano con andatura spavalda come se fossero i padroni del mondo. L'atteggiamento di molte persone sembrava rigido e metallico, come se mostrarsi simpatici o educati potesse essere scambiato per una debolezza. Ma la sera, quando feci quattro passi per Broadway tra la folla ancora vestita da estate, ripresi animo. Avevamo lasciato l'Inghilterra nel bel mezzo di un gelido settembre, per giungere a New York durante un'estate di San Martino con una temperatura di ventisette gradi; e, mentre passeggiavo, Broadway prese improvvisamente l'aspetto di un gioiello sfavillante, illuminata da una miriade di lampadine elettriche colorate. Nella notte calda cambiò il mio atteggiamento e compresi a un tratto il significato dell'America: gli alti grattacieli, le luci allegre e sfolgoranti, le insegne colorate, tutto ciò m'infuse un senso di speranza e di avventura. « Eccolo ! » mi dissi. « Ecco il mio mondo ! » Tutti, a Broadway, sembravano appartenere al mondo dello spettacolo; ovunque c'erano attori, comici di varietà, artisti del circo e canzonettisti, per la strada, nei ristoranti, negli alberghi e nei grandi magazzini, tutti intenti a parlare di lavoro. Si udivano i nomi dei proprietari dei teatri, Lee Shurbert, Martin Beck, William Morris, Percy Williams, Klaw ed Erlanger, Frohman, Sullivan e Considine, Pantages. Donna delle pulizie, ragazzo dell'ascensore, cameriere, tranviere, barista, lattaio o panettiere, si esprimevano tutti come gente di teatro. Per la strada si coglievano brani di conversazione, vecchie signore dall'aria materna, più simili a mogli di agricoltori, che dicevano: « Ha appena finito una tournée negli stati dell'Ovest: tre al giorno per la Pantages 1. Con un copione adatto 1 La catena dei teatri Pantages, che davano tre recite al giorno. (N. d. A.)
quel ragazzo dovrebbe fare dell'ottimo varietà ». « Hai visto Al Jolson al Winter Garden? » diceva un portiere. « Certo che a Jake gli ha salvato lo spettacolo. » Ogni giorno i quotidiani dedicavano al teatro un'intera pagina, scritta come un notiziario ippico, dove si segnalavano gli spettacoli di varietà piazzatisi al primo, secondo e terzo posto quanto a successo e popolarità, come cavalli da corsa. Noi non eravamo ancora in gara e io ero ansioso di sapere quale posizione avremmo occupato in classifica. Dovevamo lavorare per sei settimane nei teatri della catena di Percy Williams. Dopodiché, non avevamo altre scritture. Dal successo di queste rappresentazioni dipendeva la lunghezza del nostro soggiorno in America. Se avessimo fatto fiasco, saremmo ritornati in Inghilterra. Noleggiammo una sala per le prove. Avevamo una settimana per mettere a punto The Wow-wows. Del cast faceva parte il vecchio Whimsical Walker, il famoso pagliaccio del Drury Lane. Aveva più di settant'anni e una voce fonda, tonante, ma gli mancava completamente la dizione, come si scopri alle prove, e aveva il compito essenziale di spiegare l'in treccio. Una battuta come « Ci divertiremo un mondo, ad libitum » non era capace di dirla, e non riuscì mai a pronunciarla correttamente. La prima sera balbettò: « Ablib-blum » che finalmente divenne « ablibum » ma la parola giusta non gli usci mai di bocca. In America Karno godeva di un'ottima reputazione. Eravamo, perciò, l'attrazione principale in un programma di artisti eccellenti. E benché non potessi soffrire quello sketch, cercai naturalmente di recitarlo il meglio possibile. Speravo anch'io che fosse davvero, come aveva detto Karno « l'ideale per l'America ». Non starò a descrivere la tensione, il timore e l'ansia che precedettero la mia entrata in scena, la prima sera, o il mio imbarazzo mentre gli altri artisti americani, fermi tra le quinte, seguivano il nostro numero. In Inghilterra la mia prima battuta era considerata estremamente comica e costituiva il barometro per sapere come sarebbe andato il resto dello sketch. La scena rappresentava un campeggio. Uscendo da una tenda, entro io con una tazza da tè:
ARCHIE (io) : Buongiorno, Hudson. Puoi darmi un goccio d'acqua? HUDSON: Certo. A che ti serve? ARCHIE : Voglio fare il bagno. (Qualche risatina tra gli spettatori, poi un silenzio gelido.) HUDSON: Come hai dormito stanotte, Archie? ARCHIE : Oh, malissimo. Ho sognato che un bruco m'inseguiva. Un altro silenzio di morte. Tirammo avanti cosi, alla meno peggio, mentre le facce degli americani tra le quinte si allungavano sempre più. Ma prima che finissimo il numero se n'erano bell'e andati. Era uno sketch sciocco e noioso. Lo avevo avvertito, Karno, di non cominciare con quello. Ne avevamo altri, in repertorio, assai più spiritosi, quali Skating, The Dandy Thieves 1, The Post Office 2 e Mr Perkins, M.P.3, che un pubblico americano avrebbe certo trovato divertenti. Ma Karno non se n'era dato per inteso. Un fiasco su una piazza straniera è, a dire il meno, scoraggiante. Comparire ogni sera davanti a un pubblico che ascoltava freddamente e in silenzio un numero che nelle nostre intenzioni doveva essere vivace e spiritoso, era una cosa poco piacevole. Si entrava e si usciva dal teatro come dei ricercati dalla polizia. Per sei settimane sopportammo questa ignominia. Gli altri artisti ci sfuggivano come se avessimo la peste. Quando ci si radunava tra le quinte per andare in scena, vinti e umiliati, pareva che stessimo per essere messi al muro e fucilati. Pur sentendomi solo e abbandonato a me stesso, ringraziavo il cielo di questa fortuna. Almeno non dovevo spartire la mia umiliazione con nessuno. Durante il giorno camminavo senza tregua per lunghi viali che non sembravano portare in nessun posto, visitando gli zoo, i parchi, gli acquari e i musei. Dal giorno del nostro insuccesso New York sembrava ormai inaccessibile, i suoi palazzi troppo alti, la sua opprimente atmosfera di concorrenza. Quelle case magnifiche della Quinta Strada non 1 I ladri gagà. 2 L'ufficio postale. 3 Il signor Perkins, deputato. 146
erano abitazioni ma monumenti innalzati al successo. I suoi grandiosi, torreggianti edifìci, e i negozi alla moda, sembravano li apposta per ricordarmi la mia insufficienza. Feci lunghe passeggiate attraverso la City in direzione dei quartieri poveri, tagliando per il parco in Madison Square, dove vecchi doccioni derelitti sedevano sulle panchine in uno stupore disperato, guardandosi i piedi. Poi proseguii fino alla Terza e alla Seconda Avenue. Qui la miseria era incallita, amara e cinica, una miseria che strisciava, urlava, rideva e piangeva ammassandosi sui portoni, sulle scale da incendio, e vomitando per le strade. Era uno spettacolo molto scoraggiante e mi fece venir voglia di tornare a Broadway di gran carriera. L'americano è un ottimista tormentato da sogni incalzanti, un infaticabile sperimentatore. La sua speranza è di fare in quattro e quattr'otto un « bel colpo ». Raggiungere il successo ! Sfondare ! Sbaraccare tutto ! Fare la grana e via ! Sotto con un altro progetto ! Eppure questo atteggiamento incontrollato mi ridiede animo. Potrà sembrare un paradosso, ma dopo il fiasco cominciai a sentirmi leggero e libero di agire. In America c'erano molte altre possibilità. Perché dovevo rompermi le corna nel mondo dello spettacolo? Non mi ero mica votato all'arte. Sotto con un altro progetto! Cominciai a ritrovare la fiducia. Comunque andassero le cose, ero deciso a restare in America. Per distogliere la mente dall'insuccesso decisi di istruirmi e di migliorare la mia cultura; presi perciò a curiosare intorno alle bancarelle dei libri usati. Comprai parecchi libri di testo — la Retorica di Kellogg, una grammatica inglese e un vocabolario latino-inglese — animato dall'intenzione di studiarli. Ma le mie decisioni non approdarono a nulla. Non appena li ebbi sfogliati li gettai in fondo al baule e li dimenticai : e non tornai ad aprirli fino alla nostra seconda visita agli Stati Uniti. Il programma della prima settimana, a New York, comprendeva un numero intitolato Gus Edwards' School Days 1, interpretato da una 1 I giorni di scuola di Gus Edwards.
squadra di bambini. Di questa troupe faceva parte uno scavezzacollo, piuttosto carino, che sembrava un po' piccolo per i suoi modi leziosi. Aveva la mania di giocare con le figurine delle sigarette, che nelle tabaccherie della United Cigar si potevano scambiare con tutta una serie di articoli, da una caffettiera nichelata a un pianoforte a coda: era sempre pronto a giocare a dadi con i macchinisti o chiunque accettasse di battersi con lui. Gran chiacchierone, si chiamava Walter Winchell; e, anche se non perse mai la sua parlantina a tiro rapido, negli anni che seguirono mancò spesso il bersaglio. Benché il nostro numero non facesse ridere nessuno, personalmente ottenni recensioni molto favorevoli. Mike Simes di Variety disse di me: « C'era, nella troupe, almeno un inglese divertente, che in America farà strada ». Ormai ci eravamo rassegnati a fare fagotto e a tornare in Inghilterra dopo sei settimane. Ma la terza settimana lavorammo nel Teatro della Quinta Strada, davanti a un pubblico composto in gran parte di maggiordomi e domestici inglesi. Con mia sorpresa il lunedì, la sera della prima, riscuotemmo un successo clamoroso. Ogni battuta fu accolta da risate scroscianti. Tutti i membri della compagnia rimasero sbalorditi, me compreso, che mi ero aspettato la solita accoglienza indifferente. Recitando senza il minimo impegno, forse ero perfettamente rilassato. Di conseguenza non potevo sbagliare. Durante la settimana venne a vederci un agente che ci scritturò per una tournée di venti settimane negli stati dell'Ovest, per la catena Sullivan e Considine. Erano teatri di quart'ordine e dovevamo dare tre spettacoli al giorno. Anche se in quella prima tournée per la Sullivan e Considine non riscuotemmo un successo clamoroso, ci dimostrammo all'altezza degli altri numeri. A quei tempi il Middle West aveva un suo fascino. Il ritmo della vita era più lento, romantica l'atmosfera; ogni drug-store e ogni saloon avevano nell'ingresso un tavolino per giocare a dadi dove si scommetteva sui prodotti che vendevano. La domenica mattina per tutto il Corso era un continuo rumore cavernoso di dadi rimbalzanti nel bus
solotto, che mi riusciva simpatico e piacevole; e più di una volta mi capitò di vincere un dollaro di merce con dieci centesimi. La vita era a buon mercato. In un piccolo albergo si poteva mangiare e dormire con sette dollari alla settimana, tre pasti al giorno. Il vitto costava pochissimo. La tavola calda del bar forniva l'alimentazione base a tutta la compagnia. Per un nichelino (cinque cent) si poteva prendere una birra e il fior fiore di tutto un banco di ghiottonerie. C'erano zamponi di maiale, prosciutto affettato, patate in insalata, sardine, formaggio italiano, salumi di ogni genere, liverwurst, salame e salsicce calde. Alcuni membri della nostra compagnia se ne approfittavano, riempiendosi il piatto finché non interveniva il barista. « Ehi ! Dove diavolo avete intenzione di andare con quel carico di provviste... nel Klondike? » In compagnia eravamo una quindicina, eppure ogni membro risparmiava almeno mezza paga, anche dopo essersi pagato la cuccetta sul treno. La mia paga era di settantacinque dollari alla settimana, cinquanta dei quali finivano regolarmente e risolutamente nella Bank of Manhattan. La tournée ci portò sulla costa. In viaggio con noi verso gli stati dell'Ovest, nello stesso spettacolo, c'era un bel giovanotto texano, un trapezista che non riusciva a decidersi se continuare al trapezio col suo socio o diventare pugile professionista. Ogni mattina incrociavo i guantoni con lui, e benché fosse più alto e più pesante di me potevo colpirlo a mio piacere. Diventammo ottimi amici, e dopo qualche ripresa di boxe andavamo a pranzo insieme. I suoi, mi disse, erano semplici agricoltori del Texas; mi parlava spesso e volentieri della vita in campagna. Ben presto cominciammo ad accarezzare il progetto di abbandonare il teatro per dedicarci, in società, all'allevamento dei maiali. Tra tutti e due avevamo duemila dollari e il sogno comune di fare fortuna; si pensava di comprare il terreno nell'Arkansas a cinquanta cent l'acro - duemila acri, tanto per cominciare - e investire il rimanente nell'acquisto dei maiali e nelle spese d'impianto. Se tutto fosse andato bene, avevamo calcolato che con i nuovi maialini, prevedendo in media
una figliata di cinque all'anno, in un quinquennio avremmo potuto guadagnare centomila dollari per uno. In treno, durante il viaggio, guardavamo fuori dal finestrino, vedevamo degli allevamenti di maiali e ci mettevamo a saltare dall'entusiasmo. Mangiavamo, dormivamo e sognavamo maiali. Se non fosse stato per l'acquisto di un libro sull'allevamento scientifico dei maiali, forse avrei abbandonato il teatro per diventare un allevatore, ma quel libro, che illustrava graficamente la tecnica per castrare gli animali, e l'idea di eseguire una simile operazione, gettarono acqua sul fuoco del mio entusiasmo; presto dimenticai il progetto. Durante questa tournée mi portai dietro violino e violoncello. Dall'età di sedici anni mi ero esercitato da quattro a sei ore al giorno in camera da letto. Ogni settimana prendevo lezioni o dal direttore d'orchestra o da qualcuno raccomandatomi da lui. Essendo mancino, il mio violino aveva le corde disposte alla rovescia, con la mentoniera e il ponticello invertiti. Speravo di diventare un concertista o, in mancanza di ciò, di potermene servire per un numero di varietà, ma col passare del tempo mi resi conto che non sarei mai riuscito a combinare granché, e perciò vi rinunciai. Nel 1910 Chicago era attraente nella sua bruttezza, fosca e tenebrosa, una città in cui aleggiava ancora lo spirito vivo ai tempi della « frontiera » una fiorente, eroica metropoli di « fumo e acciaio » come dice Carl Sandburg. La vasta pianura attraverso la quale la si raggiunge è, credo, molto simile alla steppa russa. Aveva una selvaggia gaiezza pionieresca che ravvivava i sensi, ma sotto sotto pulsava una virile solitudine. Per neutralizzare questa specie di indisposizione fisica c'era un diversivo nazionale noto col nome di « burlesque » consistente in una brigata di comici piuttosto volgari spalleggiati da venti ballerine o più. Alcune erano graziose, altre sciupate. Certi comici erano divertenti, ma la maggior parte degli spettacoli erano composti di sconce scenette imperniate sul sesso: una cosa cinica e triviale. C'era un'atmosfera da « uomini soli » carica di un empio antagonismo sessuale che, paradossalmente, isolava il pubblico da ogni normale desiderio che non fosse
quello di mettersi a piagnucolare. Chicago pullulava di questi spettacoli; uno, intitolato Watson's Bee] Trust1, presentava venti donne di mezza età, enormemente grasse, che si esibivano in calzamaglia. Il loro peso complessivo, cosi dicevano i cartelloni, andava calcolato in tonnellate. Le fotografìe davanti al teatro, che le mostravano in timide pose, erano tristi e avvilenti. A Chicago alloggiavamo nella parte alta della città, in un alberghetto di Wabash Avenue. Benché sudicio e tenebroso, esso aveva un certo fascino, perché vi abitavano quasi tutte le ragazze del burlesque. In ogni città si prendeva subito la direzione dell'albergo dove stavano le ballerine, animati da una speranza libidinosa che non si materializzava mai. La notte passavano i treni della sopraelevata, proiettando le loro ombre sul muro della mia stanza da letto come una vecchia lanterna magica. Eppure quell'albergo mi piaceva, anche se non vi accadde mai nulla di avventuroso. C'era una ragazzetta, carina e silenziosa, che, chissà perché, se ne stava sempre per conto suo, aggirandosi qua e là con aria imbarazzata. Ogni tanto la incontravo, entrando e uscendo dall'atrio dell'albergo, ma non ebbi mai l'ardire di attaccare discorso; devo aggiungere che lei mi incoraggiava ben poco. Quando lasciammo Chicago per la costa, viaggiava sullo stesso treno; le compagnie di burlesque che si recavano negli stati dell'Ovest seguivano di solito lo stesso nostro itinerario e lavoravano nelle stesse città. Passando per il corridoio, la vidi parlare con uno della nostra compagnia, che più tardi venne a sedersi vicino a me. « Che tipo è quella ragazza? » chiesi. « Molto carina. Poveretta, mi dispiace per lei. » «Perché?» Si fece più vicino. « Ti ricordi quando dicevano che una delle ragazze dello spettacolo ha la sifìlide? Be', è lei. » 1 Il trust della carne di Watson. 151
A Seattle fu costretta a lasciare la troupe per entrare in ospedale. Si fece una colletta, alla quale contribuirono tutte le compagnie allora in tournée. Poverina, tutti sapevano che cosa aveva. Ciò nondimeno, ci fu grata per la solidarietà e due settimane dopo tornò ad aggregarsi alla compagnia, guarita da una cura di iniezioni di Salvarsan, un nuovo farmaco dell'epoca. A quei tempi i quartieri dalle luci rosse imperversavano in tutta l'America. Chicago era particolarmente nota per la Casa di Tutte le Nazioni, gestita dalle sorelle Everly, due zitelle di mezza età, che vi avevano raccolto donne di ogni nazionalità. Le stanze erano arredate in tutti gli stili: turco, giapponese, Luigi XVI, fino alla tenda araba. Era la casa di tolleranza più lussuosa del mondo, e la più cara. Milionari, magnati dell'industria, ministri del gabinetto, giudici e senatori erano i suoi clienti. I partecipanti a qualche convenzione concludevano solitamente i lavori impadronendosi per una sera del palazzo intero. Un ricco sibarita era noto per averlo eletto a propria dimora per tre settimane di seguito senza vedere la luce del giorno. Più ci spingevamo a ovest, più l'America mi piaceva. Contemplare, fuori dal finestrino, le ampie distese di terra incolta che si susseguivano a perdita d'occhio, fosche e impressionanti, riempiva l'animo di un senso d'attesa. Lo spazio fa bene all'anima. Allarga gli orizzonti. Le mie prospettive si ampliavano sempre più. Città come Cleveland, St Louis, Minneapolis, St Paul, Kansas City, Denver, Butte, Billings, pulsavano del dinamismo del futuro, e io ne ero saturo. Stringemmo molte amicizie con gli attori di altre compagnie di varietà. In ogni città andavamo insieme nel quartiere dalle luci rosse, a sei per volta o anche più. Ogni tanto conquistavamo l'affetto della padrona del bordello, che per quella sera chiudeva il « locale » lasciandoci campo libero. A volte qualche ragazza s'innamorava di un attore e lo seguiva nella città successiva. Il quartiere dalle luci rosse di Butte, nel Montana, consisteva in una lunga strada e in numerose traverse contenenti un centinaio di cubicoli in cui erano esposte, per un dollaro, ragazze giovanissime dai sedici anni
in su. Butte si vantava di avere le più belle donne di qualsiasi quartiere dalle luci rosse del Middle West, e aveva ragione. Se si vedeva una bella ragazza elegantemente vestita, si poteva scommettere che era uscita dal quartiere dalle luci rosse per fare la spesa. Fuori servizio non guardavano né a destra né a sinistra ed erano assolutamente inabbordabili. Anni dopo ebbi una discussione con Somerset Maugham a proposito del personaggio di Sadie Thompson nella sua commedia Pioggia 1. Jeanne Eagels l'aveva vestita in modo piuttosto grottesco, se ben ricordo, con tanto di stivaletti allacciati alla caviglia. Gli dissi che nessuna prostituta di Butte, Montana, avrebbe mai guadagnato un soldo cosi conciata com'era. Nel 1910 Butte era ancora una città « alla Nick Carter » dove i minatori portavano stivali coi risvolti, cappelloni da cowboy e fazzoletti rossi attorno al collo. Vidi con i miei occhi una sparatoria per la strada, di uno sceriffo vecchio e grasso lanciato all'inseguimento di un evaso. Alla fine il fuggitivo fu intrappolato in un vicolo cieco e ripreso senza danni. Il mio cuore si faceva più leggero di mano in mano che ci si spingeva a ovest; le città sembravano più pulite. Il nostro itinerario comprendeva Winnipeg, Tacoma, Seattle, Vancouver, Portland. A Winnipeg e Vancouver il pubblico era essenzialmente inglese e a dispetto delle mie tendenze filo-americane fu piacevole recitare in quei teatri. E finalmente la California! Un paradiso di sole, aranceti, vigneti e palmeti che si stendevano per mille miglia lungo la costa del Pacifico. San Francisco, la porta dell'Oriente, era una città dove si mangiava bene e si spendeva poco; fu la prima a farmi conoscere le zampe di rana à la provengale, la torta di fragole e le pere avocado. Ci arrivammo nel 1910, quando la città era appena risorta dopo il terremoto del 1906; o l'incendio, come si preferisce chiamarlo. Si vedeva ancora qualche crepa nelle strade ondulate, ma non c'era quasi più traccia del disastro. Tutto era nuovo e splendente, compreso il mio alberghetto. 1 Rain.
Lavorammo all'Empress, un teatro di proprietà di Sid Grauman e di suo padre, gente affabile e socievole. Per la prima volta ebbi un cartellone tutto per me, senza il nome di Karno. E il pubblico, che delizia ! Tutto esaurito a ogni rappresentazione, anche se The Wow-wows era un numero noioso, e un diluvio di risate. Grauman disse entusiasticamente: « Se un giorno deciderai di lasciare Karno, torna qui. Metteremo su qualcosa insieme ». Questo entusiasmo mi era nuovo. L'atmosfera di San Francisco era satura di ottimismo e spirito d'iniziativa. Los Angeles, invece, era una brutta città, calda e opprimente, e i suoi abitanti apparivano anemici e gialli in viso. Aveva un clima assai più mite ma non la freschezza di San Francisco; la natura ha dotato la California settentrionale di risorse che dureranno e fioriranno ancora quando Hollywood sarà definitivamente scomparsa nei preistorici pozzi di bitume di Wiltshire Boulevard. Concludemmo la nostra prima tournée a Salt Lake City, la culla dei mormoni, che mi fece pensare a Mosè alla testa dei figli di Israele. È una città vastissima, che sembra tremolare nella calura come un miraggio, provvista di ampie strade quali solo un popolo che aveva attra versato vaste pianure potè concepire. La città, come i mormoni, è austera e distaccata; e tale fu il pubblico. Dopo avere rappresentato The Wow-wows nei teatri della Sullivan e Considine, ritornammo a New York con l'intenzione di imbarcarci per l'Inghilterra, ma il signor William Morris, che si stava battendo contro gli altri trust del varietà, ci diede sei settimane per interpretare tutto il nostro repertorio nel suo teatro della Quarantaduesima Strada, a New York. Inaugurammo il ciclo con A Night in an English Music Hall 1, che ottenne un successo strepitoso. Durante la settimana un giovanotto e un suo amico avevano un appuntamento sul tardi con un paio di ragazze; così, per ammazzare il tempo, fecero una capatina nell'American Music Hall di William Morris, dove 1 Una notte in un music hall inglese. 154
per caso assistettero al nostro numero. Uno di essi osservò : « Se mai diventassi un pezzo grosso, ecco un tizio che mi affretterei a scritturare ». Alludeva alla mia interpretazione dell'ubriaco in A night in an English Music Hall. A quel tempo egli lavorava per D. W. Griffith come comparsa cinematografica della Biograph Company, per cinque dollari al giorno. Era Mack Sennett, che più tardi fondò la Keystone Film Company. Avendo ottenuto un grande successo durante le sei settimane di recite per William Morris a New York, fummo nuovamente scritturati per un'altra tournée di venti settimane dalla catena Sullivan e Considine. Avvicinandosi la fine della nostra seconda tournée, mi prese la malinconia. Ancora tre settimane, San Francisco, San Diego, poi Salt Lake City e il ritorno in Inghilterra. Il giorno prima di lasciare San Francisco feci quattro passi per Market Street, dove m'imbattei in una botteguccia con la vetrina coperta da una tenda e un cartello che diceva: « Fatevi leggere la fortuna sulle mani e sulle carte. Un dollaro ». Entrai, un po' imbarazzato, e mi trovai di fronte a una donna rubiconda sulla quarantina che usci da una stanza interna masticando un boccone del pasto interrotto. Con aria noncurante m'indicò un tavolino addossato al muro opposto alla vetrina, e senza guardarmi disse: « Prego, si accomodi ». Poi sedette davanti a me. I suoi modi erano bruschi. « Mescoli queste carte e tagli il mazzo tre volte, poi metta le mani sul tavolo col palmo in alto, per favore. » Voltò le carte e le sparse sul tavolo, le studiò, poi mi guardò le mani. « Lei sta pensando a un lungo viaggio, il che significa che presto lascerà gli Stati Uniti. Ma vi tornerà fra breve per dedicarsi a un'altra attività... diversa da quella che fa ora. » Qui la donna esitò e parve confondersi. « Be', è quasi la stessa, però è diversa. Vedo un enorme successo coronare questa nuova iniziativa; lei ha davanti a sé una carriera straordinaria, ma non so dirle quale sia. » Per la prima volta alzò lo sguardo su di me, poi mi prese la mano. « Oh si, ecco tre matrimoni: i primi due non riusciranno, ma lei giungerà alla fine dei suoi giorni felicemente ammogliato
e con tre figli. » (Qui si che si sbagliava!) Poi tornò a studiarmi la mano. « Si, farà una fortuna eccezionale, è una mano da soldi la sua. » Scrutandomi in viso, disse: « Morirà di broncopolmonite all'età di ottantadue anni. Un dollaro, prego. Ha qualche domanda da fare? ». « No » dissi ridendo « mi pare che basti. » A Salt Lake City i giornali erano pieni di rapine e assalti alle banche. I clienti dei locali notturni e dei caffè venivano fatti allineare contro il muro e derubati da banditi mascherati con una calza sul viso. Vi furono tre rapine in una sola notte, che piombarono la città nel terrore. Dopo lo spettacolo andavamo di solito a bere un goccio in un vicino saloon, dove qualche volta ci capitava di fare amicizia con i clienti. Una sera, con altri due uomini, entrò un tipo grasso, gioviale, dal viso rotondo. Quello grasso, il più vecchio dei tre, si avvicinò. « Non siete voi che recitate all'Empress, in quella pantomima inglese? » Annuimmo con un sorriso. « Mi pareva di avervi riconosciuto! Ehi, ragazzi avvicinatevi. » Chiamò i suoi due compagni e, dopo averceli presentati, ci offri da bere. Il grassone era inglese, per quanto l'accento non recasse quasi più traccia della sua nazionalità: un uomo sulla cinquantina, bonario, con due occhietti ammiccanti e un faccione florido. Col passare delle ore i suoi due compagni e gli altri membri della compagnia si staccarono da noi dirigendosi al bar, e io rimasi solo con « Ciccio » come lo chiamavano i suoi giovani amici. Egli prese un tono confidenziale. « Tre anni fa sono tornato al paesello » disse « ma non è più lo stesso: questo si che è il posto che fa per me. Ci sono venuto trent'anni fa, bell'idiota, a rompermi la schiena in quelle miniere di rame del Montana... Poi mi sono fatto furbo. "Questo è un lavoro da fessi" mi sono detto. Adesso ho due scagnozzi che sgobbano per me. » Tirò fuori un enorme rotolo di banconote. « Beviamone un altro » disse. « Attento » dissi, scherzando. « Potrebbero rapinarla ! » Mi rivolse un sorrisetto, poi strizzò l'occhio. « A me non la fanno ! » Dopo quella tremenda strizzatina d'occhi mi venne un orribile presen
timento. Ero subito saltato alle conclusioni. Lui continuò a sorridere, senza staccarmi gli occhi di dosso. « Capito? » disse. Annuii, con l'aria di chi la sa lunga. Allora lui parlò più confidenzialmente ancora, accostandomi il viso all'orecchio. « Vede quei due tipi? » mormorò, indicando i suoi amici. « Ecco il mio armamentario, due zucche vuote: non hanno un briciolo di cervello, ma fegato da vendere. » Mi portai prudentemente un dito alle labbra, per indicargli che qualcuno avrebbe potuto sentirlo. « Noi siamo a posto, fratello, stanotte tagliamo la corda. » Poi riprese: « Senti, siamo compatrioti, no? Veniamo dal paesello tutti e due. Ti ho visto più di una volta all'Islington Empire, che ruzzolavi dentro e fuori da quello scatolone ». Fece una smorfia. « Che vitaccia, fratello! » Scoppiai a ridere. Il suo tono divenne sempre più confidenziale. Giurandomi eterna amicizia, volle sapere il mio indirizzo di New York. « Ti manderò due righe, per ricordo » aggiunse. Per fortuna, non ne seppi più nulla.
Nove Non ero troppo turbato all'idea di lasciare gli Stati Uniti, perché avevo deciso di ritornarvi: come e quando, ancora non lo sapevo. Ciò nondimeno, ero ansioso di rivedere l'Inghilterra e il nostro comodo appartamentino. Da quando avevo iniziato la tournée americana era diventato una specie di santuario. Da molto tempo Sydney non mi faceva pervenire sue notizie. L'ultima lettera diceva che nell'appartamento viveva il nonno. Ma, giunto a Londra, mio fratello venne a prendermi alla stazione e m'informò che aveva ceduto l'appartamento, che si era sposato e che ora abitava in alcune stanze ammobiliate di Brixton Road. Per me fu un colpo durissimo: pensare che quel piccolo, allegro rifugio che aveva dato un senso alla mia vita, facendomi provare l'orgoglio di possedere una casa, non esisteva più... Affittai una stanzetta in Brixton Road. Era cosi squallida che decisi di tornare al più presto negli Stati Uniti. Quella prima sera Londra mi parve indifferente al mio ritorno come una macchina a gettone do) po che ci si è messa dentro una moneta. i Sydney era sposato e lavorava tutte le sere, e perciò avevo poche ocj casioni di vederlo; ma una domenica andammo insieme a trovare no| stra madre. Fu una brutta giornata, perché non stava bene. Aveva appena superato una fase della malattia durante la quale non fece che cantare inni a squarciagola, ed era stata confinata in una stanza dalle pareti imbottite. L'infermiera ci aveva avvertiti. Sydney chiese di vederla, ma io non ne ebbi il coraggio e rimasi fuori ad aspettare. Mio 158
fratello ritornò sconvolto, dicendo che l'avevano sottoposta a un trattamento urto a base di docce gelide, e che il suo viso era violaceo. Questo ci decise a farla ricoverare in un istituto privato - ormai potevamo permettercelo - e perciò la facemmo trasferire nello stesso istituto in cui era stato chiuso il più grande comico inglese, il defunto Dan Leno. Di giorno in giorno perdevo il senso della mia identità, e mi sentivo completamente sradicato. Credo che se, al ritorno, avessi ritrovato il nostro appartamentino, i miei sentimenti sarebbero stati diversi. Naturalmente non mi arresi del tutto alla disperazione. Affinità, consuetudine e i miei vincoli con l'Inghilterra erano tutte cose che mi toccavano profondamente dopo il ritorno dagli Stati Uniti. Era una tipica estate inglese, e la sua romantica bellezza non assomigliava a nessun'altra cosa vista altrove. Karno, il principale, m'invitò a Tagg's Island per un week-end sulla sua casa galleggiante. Era un affare piuttosto complicato, rivestito di mogano, con varie stanze di lusso per gli ospiti. A sera era illuminata da festoni di luci colorate tirati tutt'intorno all'imbarcazione, che mi parve allegra e accogliente. Era una bella sera d'estate, e dopo cena sedemmo sul ponte superiore sotto le luci colorate col nostro caffè e le sigarette. Ecco l'Inghilterra che avrebbe potuto strapparmi da qualsiasi altro paese. All'improvviso una voce affettata cominciò a strillare istericamente, in falsetto : « Oh, gente, guardate la mia bella barca ! Guardate la mia bella barca ! E com'è illuminata ! Ah ! Ah ! Ah ! ». Segui una scrosciante risata di scherno. Guardammo nella direzione donde proveniva la voce e scorgemmo un uomo dentro una barca a remi, con un paio di calzoni sportivi di flanella bianca, e una signora adagiata sul sedile posteriore. Nell'insieme sembrava una vignetta di Punch. Karno si sporse dal parapetto e gli fece una sonora pernacchia, ma nulla valse a interrompere quell'isterica risata. « C'è una sola cosa da fare » dissi io. « Mostrarsi volgari come ci crede lui. » E lo investii con un torrente di invettive rabelaisiane che misero in tale imbarazzo la sua signora da costringerlo ad allontanarsi rapidamente.
Il ridicolo sfogo di quell'idiota non era una critica di natura estetica, ma uno snobistico pregiudizio per quella che egli considerava l'ostentazione di una classe inferiore. Non avrebbe mai riso cosi davanti a Buckingham Palace, strillando: « Oh, guarda com'è grande la casa in cui abito ! », come non avrebbe riso davanti alla carrozza dell'Incoronazione. Per tutto il tempo che rimasi in Inghilterra ebbi sempre davanti agli occhi quest'eterna suddivisione in classi. Si direbbe che l'inglese di questo tipo non abbia altro desiderio che quello di misurare l'inferiorità sociale dei suoi simili. La nostra troupe americana si rimise al lavoro, e per quattordici settimane recitammo nei teatri intorno a Londra. Lo spettacolo fu bene accolto e il pubblico magnifico, ma io non facevo che domandarmi di continuo se saremmo mai tornati negli Stati Uniti. Amavo l'Inghilterra, ma mi era impossibile viverci; a causa della mia estrazione mi sentivo rotolare verso gli ultimi gradini della scala sociale. Perciò, quando c'informarono che eravamo stati scritturati per un'altra tournée negli Stati Uniti provai un senso di esultanza. La domenica Sydney e io vedemmo nostra madre: sembrava che la sua salute fosse un po' migliorata, e prima che mio fratello partisse per la provincia andammo a cena insieme. La mia ultima notte a Londra, confuso, triste e amareggiato, tornai a gironzolare malinconicamente per il West End, pensando tra me: « Questa è l'ultima volta che vedo queste strade ». Questa volta ci arrivammo via New York, a bordo dell'Olympic, in seconda classe. Il pulsare dei motori diminuì, segno che stavamo per giungere a destinazione. Negli Stati Uniti mi sentii subito a mio agio: straniero fra stranieri, alleato agli altri. Con tutto l'amore che avevo per New York, non vedevo l'ora di tornare negli stati dell'Ovest, per rivedere quei conoscenti che ormai consideravo cari amici: il barista irlandese di Butte, nel Montana, l'affabile e ospitale milionario di Minneapolis, la bella ragazza di St Paul con la quale
avevo trascorso una romantica settimana, MacAbee, lo scozzese di Salt Lake City proprietario di miniere, il simpatico dentista di Tacoma, e, a San Francisco, i Grauman. Prima di raggiungere la costa del Pacifico lavorammo nei teatrini dei sobborghi di Chicago e Filadelfia e in cittadine industriali come Fall River, Duluth, ecc. Come di consueto, vivevo da solo. La cosa presentava dei vantaggi, dandomi la possibilità di migliorare la mia cultura, una decisione che avevo preso da tempo senza mai metterla in atto. Esiste la grande famiglia di coloro che vogliono appassionatamente apprendere. Io ero uno di loro. Ma i miei motivi non erano cosi disinteressati; volevo imparare non per amore della sapienza ma per difendermi dal disprezzo che il mondo riserva agli ignoranti. Perciò quando avevo un po' di tempo libero andavo a curiosare intorno alle bancarelle dei libri usati. A Filadelfia mi trovai inavvertitamente fra le mani un'edizione degli Essays and Lectures 1 di Robert Ingersoll. Fu una scoperta entusiasmante ; il suo ateismo confermava la mia convinzione che l'orribile crudeltà dell'Antico Testamento fosse degradante per lo spirito umano. Poi feci la scoperta di Emerson. Dopo aver letto il suo saggio sulla « Fiducia in se stessi » ebbi l'impressione che mi fosse stato concesso un prezioso diritto di primogenitura. Lo segui Schopenhauer. Comprai tre volumi del Mondo come volontà e rappresentazione 2, che ho letto a spizzichi, mai interamente, per più di quarant'anni. Foglie d'erba 3 di Walt Whitman mi annoiò e mi annoia tuttora. C'è troppa enfasi amorosa in questo mistico nazionale. E nel mio camerino, tra una rappresentazione e l'altra, ebbi anche il piacere di conoscere Twain, Poe, Hawthorne, Irving e Hazlitt. Forse in quella seconda tournée non assimilai tutta l'istruzione classica che desideravo; certo è che mi dovetti sorbire una 1 Saggi e conferenze. 2 Die Welt als Wille und Vorstellung. 3 Leaves of Grass.
buona dose di noia e di fatica sgobbando come un negro nei più scalcagnati teatri del paese. Era un varietà di quart'ordine presentato in locali squallidi e deprimenti, e le speranze sul mio futuro in America svanirono nella routine quotidiana, che ci obbligava a dare tre e a volte quattro spettacoli al giorno, sette giorni alla settimana. Al confronto il varietà in Inghilterra era un paradiso. Almeno si lavorava sei giorni alla settimana dando solo due recite per sera. L'unica soluzione era che in America si poteva risparmiare qualche soldo. Avevamo battuto « la campagna » per cinque mesi consecutivi e quella vita mi aveva lasciato stanco e scoraggiato; perciò, quando a Filadelfia ci fu concessa una settimana di riposo, tirai un sospiro di sollievo. Avevo bisogno di cambiare aria, perdere la mia identità e diventare un altro. Ne avevo fin sopra i capelli del logorante trantran di quegli spettacoli d'infimo ordine e decisi di abbandonarmi, per una settimana, al piacere di una vita da signore. Avevo risparmiato una somma considerevole e ora, dalla disperazione, decisi di non negarmi più nulla. Perché no? Per risparmiarla avevo vissuto frugalmente, e sarei tornato a vivere frugalmente quando mi fossi trovato senza lavoro; tanto valeva che mi divertissi a spenderne subito una parte. Un giorno comprai una vestaglia carissima e un elegante necessaire da viaggio, che mi costò settantacinque dollari. Il commesso fu di un'estrema cortesia. « Vuole che glielo mandiamo a casa, signore? » Bastarono queste parole a risollevarmi il morale, a conferirmi una certa distinzione. Ora sarei andato a New York per dimenticare il varietà di decimo ordine e la monotonia della mia esistenza. Presi una stanza all'Hotel Astor, che a quei tempi era una cosa veramente grandiosa. Ero in tight, con bombetta e bastone, e naturalmente stringevo in pugno la mia valigetta nuova. Lo sfarzo dell'atrio e la baldanza della gente che vi passeggiava tutta impettita mi fecero tremare leggermente i polsi mentre consegnavo i documenti al portiere. La stanza costava quattro dollari e mezzo al giorno. Chiesi timidamente
se dovevo pagare anticipato. Il portiere si affrettò cortesemente a tranquillizzarmi. « Oh no, signore, non è affatto necessario. » Attraversare l'atrio con tutti i suoi velluti e le dorature mi fece uno strano effetto, tanto che, una volta in camera mia, mi venne voglia di piangere. Vi rimasi più di un'ora, ispezionando il bagno con i suoi rubinetti massicci e provando il getto scrosciante dell'acqua calda e fredda. Come è piacevole e confortante il lusso! Feci il bagno, mi pettinai e indossai la vestaglia nuova, deciso a trarre il massimo godimento dai quattro dollari e mezzo che avevo speso... Se solo avessi avuto qualcosa da leggere, un giornale. Ma non mi azzardavo a telefonare per farmelo portare. Allora presi una sedia e mi accomodai al centro della stanza contemplando ogni cosa con un senso di estatica malinconia. Dopo un po' mi vestii e scesi al pianterreno. Mi feci indicare la sala da pranzo. Era piuttosto presto per la cena; a eccezione di un paio di commensali, la sala era quasi vuota. Il maitre d'hotel mi guidò a un tavolo sotto la finestra. « Le va bene qui, signore? » « Come vuole » risposi col mio migliore accento britannico. All'improvviso un nugolo di camerieri presero a piroettarmi intorno, portando l'acqua ghiacciata, il menu, il pane imburrato. Ero troppo emozionato per avere fame. Tuttavia eseguii la mia pantomima e ordinai consommé, pollo arrosto e un gelato di vaniglia per dessert. Il cameriere mi presentò la lista dei vini e io, dopo attento esame, ordinai una mezza bottiglia di champagne. Ero troppo preoccupato di vivere la parte per gustare il vino o il pasto. Quand'ebbi finito diedi al cameriere un dollaro di mancia, che a quei tempi era una somma straordinariamente generosa. Ma ne valse la pena, con tutti gli inchini e le attenzioni che ricevetti mentre uscivo. Senza una ragione apparente tornai in camera mia, dove rimasi dieci minuti, poi mi lavai le mani e uscii. Era una dolce sera d'estate, perfettamente intonata al mio umore. Camminavo tranquillamente nella direzione del Metropolitan Opera House. Vi davano il Tannhàuser. Non avevo mai visto un'opera lirica, solo
qualche brano nel teatro di varietà, e la detestavo. Ma adesso avevo voglia di andarci. Comprai un biglietto e presi posto in seconda galleria. L'opera era in tedesco e non ne capii una parola; non conoscevo nemmeno l'argomento. Ma quando la defunta regina venne portata in scena alla musica del coro dei pellegrini, piansi amaramente. Mi parve una ricapitolazione di tutte le pene della mia vita. A stento riuscii a dominarmi; non so che cosa dovette pensare la gente che mi sedeva vicino, ma venni via tremante e coi nervi a pezzi, uno straccio. Feci quattro passi, scegliendo le più oscure vie del centro, poiché non me la sentivo di affrontare le chiassose luci di Broadway, né potevo tornare in quella stanza d'albergo finché non mi fosse passata. Quando mi fui ripreso decisi di andare subito a letto. Ero fisicamente ed emotivamente esausto. Sulla soglia dell'albergo m'imbattei all'improvviso in Arthur Kelly, il fratello di Hetty, che una volta era stato il comico della troupe alla qua le apparteneva anche lei. Per via della parentela, me n'ero fatto un amico. Non lo vedevo da parecchi anni. « Charlie ! Dove vai? » disse. Con aria noncurante accennai nella direzione dell'Astor. « Stavo per andare a letto. » Compresi di averlo colpito. Era con due amici, e dopo avermeli presentati m'invitò ad andare con loro nel suo appartamento di Madison Avenue a bere una tazza di caffè e a fare quattro chiacchiere. Era un appartamento molto confortevole e ci sedemmo qua e là a conversare del più e del meno, mentre Arthur evitava con cura ogni allusione al passato. Ciò nonostante, visto che alloggiavo all'Astor, era curioso di spigolare qualche notizia sul mio conto. Ma io gli dissi poco, solo che ero venuto a New York per una vacanza di due o tre giorni. Arthur aveva fatto molta strada da quando abitava a Camberwell. Era ormai un prospero uomo d'affari e lavorava per suo cognato, Frank J. Gould. Là seduto, porgendo l'orecchio ai suoi discorsi mondani, mi
invase un senso di scoraggiamento. Diceva Kelly, alludendo a uno dei suoi amici: « È un ragazzo simpatico, mi risulta che viene da un'ottima famiglia ». Sorrisi tra me per quell'interesse di carattere genealogico e mi resi conto che Arthur e io avevamo ormai poco in comune. A New York rimasi un giorno solo. L'indomani mattina decisi di ritornare a Filadelfia. Avevo avuto il cambiamento che cercavo, ma era stato un giorno emozionante e solitario. Adesso avevo voglia di compagnia. Non vedevo l'ora di ritrovarmi con i membri della compagnia per la recita del lunedì mattina. Per molesto che fosse il pensiero di ritornare al solito trantran, quell'unico giorno di bella vita mi era stato sufficiente. Come giunsi a Filadelfia feci una capatina in teatro. C'era un telegramma indirizzato a Reeves, e il caso volle che fossi presente quando lo apri. « Chissà se si tratta di te » esclamò lui. Il testo diceva: « C'è nella sua compagnia un uomo di nome Chaffìn o qualcosa di simile stop se si è pregato di mettersi in comunicazione con Kessel e Bauman 24 Longacre Building Broadway ». Nella compagnia non c'era nessuno che rispondesse a quel nome, ma, come fece notare Reeves, poteva trattarsi di Chaplin. Allora cominciai ad esaltarmi, perché il Longacre Building, come venni subito a sapere, sorgeva nel centro di Broadway ed era un palazzo pieno di studi legali; ricordando che avevo una zia ricca in qualche angolo degli Stati Uniti, la mia immaginazione prese il volo; magari era morta e mi aveva lasciato una fortuna. Risposi dunque telegraficamente a Kessel e Bauman che nella compagnia c'era un Chaplin: forse era a lui che alludevano. Attesi ansiosamente una risposta, che arrivò lo stesso giorno. Quando aprii il telegramma, esso diceva: « Chaplin è pregato di passare al più presto dai nostri uffici ». Tremando dall'ansia e dall'eccitazione, presi il primo treno del mattino per New York, che era solo a due ore e mezzo da Filadelfia. Non sapevo che cosa mi aspettasse: forse mi avrebbero fatto accomodare nello studio di un avvocato per assistere all'apertura di un testamento. Quando arrivai, però, rimasi alquanto deluso, perché Kessel e Bauman
non erano avvocati ma produttori cinematografici. La realtà della situazione doveva peraltro dimostrarsi emozionante. Charles Kessel, uno dei proprietari della Keystone Comedy Film Company, disse che Mack Sennett mi aveva visto recitare la parte dell'ubriaco all'American Music Hall della 42a Strada: se ero lo stesso uomo, sarebbe stato pronto a scritturarmi al posto di Ford Sterling. Mi ero spesso trastullato con l'idea di fare del cinema, offrendomi persino di entrare in società con Reeves, il nostro direttore, per acquistare i diritti di tutti gli sketch di Karno e ricavarne dei film. Ma Reeves si era mostrato piuttosto scettico, e a ragione, perché non avevamo la minima esperienza cinematografica. Kessel mi chiese se avevo mai visto una « comica » Keystone. Ne avevo viste parecchie, ma non gli dissi quello che pensavo, e cioè che secondo me erano un rozzo mélange di comicità chiassosa e volgarità. Per fortuna una bella ragazza dagli occhi neri di nome Mabel Normand, un tipo davvero affascinante, entrava e usciva da queste comiche giustificandone l'esistenza. Non ero particolarmente entusiasta del genere di comiche realizzate dalla Keystone; però mi rendevo conto del loro valore pubblicitario. Un anno in quell'organizzazione e avrei potuto ritornare al varietà nei panni di una stella di fama internazionale. Inoltre, avrei iniziato una nuova vita in un ambiente simpatico. Kessel disse che per contratto sarei stato tenuto a comparire in tre pellicole alla settimana, con una paga di centocinquanta dollari. Era il doppio di ciò che prendevo con la compagnia Karno. Tuttavia io espressi le mie perplessità e dissi che non potevo accettare per meno di duecento dollari alla settimana. Kessel disse che la decisione spettava a Sennett; gli avrebbe scritto in California, poi si sarebbe fatto vivo con la risposta. Aspettando notizie da Kessel, mi pareva di vivere in un altro mondo. Che avessi chiesto troppo? Finalmente giunse una lettera per informarmi che erano disposti a firmare un contratto di un anno a centocinquanta dollari per i primi tre mesi e a centosettantacinque per i nove restanti: una somma simile non mi era mai stata offerta in vita mia. Il
lavoro sarebbe iniziato al termine della nostra tournée con la Sullivan e Considine. Quando recitammo all'Empress di Los Angeles riscuotemmo un successo strepitoso, grazie a Dio. Era una farsa intitolata A Night at the Club 1. Facevo la parte di un ubriaco vecchio decrepito, e nessuno mi avrebbe dato meno di cinquant'anni. Alla fine della rappresentazione Sennett venne a congratularsi con me. Durante quel breve colloquio vidi un uomo massiccio con due sopracciglia irsute, una bocca tumida e volgare e una mascella quadrata, tutte cose che mi fecero una notevole impressione. Ma chissà come sarebbero stati i nostri futuri rapporti. Mostrai un notevole nervosismo per tutta la durata del colloquio e non capii se Sennett fosse o meno contento di me. Con aria noncurante mi chiese quando pensavo di raggiungerli. Gli dissi che avrei potuto cominciare la prima settimana di settembre, epoca in cui scadeva il mio contratto con la compagnia Karno. Avevo delle inquietudini al pensiero di lasciare la troupe a Kansas City. La compagnia stava per ritornare in Inghilterra e io a Los Angeles, dove avrei dovuto contare sulle mie sole forze, e la prospettiva non era tale da tranquillizzarmi. Prima dell'ultima rappresentazione pagai da bere a tutti. Mi sentivo piuttosto triste al pensiero di separarmi da loro. Un membro della compagnia, un certo Arthur Dando, che chissà perché mi aveva sempre avuto in antipatia, pensò di farmi uno scherzo e, sotto sotto, fece circolare la voce che stavo per ricevere un piccolo dono dalla troupe. Devo confessare che il pensiero mi commosse. Invece non accadde nulla. Quando tutti ebbero lasciato il camerino, Fred Karno jr. confessò che Dando si era ripromesso di fare un discorso e di offrirmi il regalo ma che, dopo che io avevo pagato da bere a tutti, non se l'era sentita di attuare il suo proposito e aveva lasciato il cosiddetto « regalo » dietro la specchiera del camerino. Era una scatola da tabacco, vuota, avvolta in un pezzo di stagnola, contenente rimasugli di cerone ormai secco. 1 Una notte al circolo.
Dieci Ansioso ed emozionato, giunsi a Los Angeles e presi una stanza in un alberghetto, il Great Northern. La prima sera mi concessi una vacanza, per cosi dire, e andai a vedere il secondo spettacolo all'Empress, dove aveva lavorato la compagnia Karno. La maschera mi riconobbe e pochi minuti dopo venne a dirmi che il signor Sennett e la signorina Mabel Normand erano seduti due file dietro e mi pregavano di raggiunger li. Ero emozionato, e dopo frettolose presentazioni a mezza voce assistemmo tutti insieme allo spettacolo. Quando esso ebbe termine si fecero quattro passi lungo il Corso, poi entrammo in un rathskeller 1 a bere qualcosa e mangiare un boccone. Sennett rimase stupito quando vide com'ero giovane. « Ti credevo assai più vecchio » disse. Mi parve di avvertire una punta di preoccupazione nella sua voce, che accrebbe la mia inquietudine. Ricordai, infatti, che tutti i comici di Sennett erano uomini piuttosto in là con gli anni: Fred Mace ne aveva più di cinquanta e Ford Sterling più di quaranta. « Posso truccarmi in modo da avere l'età che preferisce » risposi. Mabel Normand, però, fu più rassicurante. Quali che fossero le sue riserve sul mio conto, non scopri le sue batterie. Sennett disse che non avrei cominciato immediatamente, ma che dovevo recarmi allo studio di Edendale per conoscere gli altri. Usciti dal caffè, ci pigiammo nella sua bella macchina da corsa, a bordo della quale mi accompagnarono in albergo. 1 Taverna o birreria sotterranea. (N.. d. T. )
Il mattino seguente presi il tram per Edendale, un sobborgo di Los Angeles. Era un posto dall'aria anomala: sembrava che non riuscisse a decidere se essere un umile quartiere residenziale o una zona semi-industriale. Aveva piccoli depositi di legname e di rottami, e piccole fattorie lungo la strada che sembravano abbandonate e alle quali erano stati aggiunti uno o due piani di legno traballanti. Dopo avere chiesto la strada a molti passanti mi trovai di fronte allo studio della Keystone. Era uno stabile dall'aria piuttosto malandata, cinto da uno steccato verde, che copriva un'area di circa quattrocentocinquanta metri quadrati. Per entrarvi bisognava percorrere un vialetto attraverso il giardino di un vecchio bungalow: sembrava un posto non meno anomalo di Edendale. Indugiai a contemplarlo sull'altro marciapiede, incerto se entrare o no. Era l'ora di pranzo, e dal punto in cui mi trovavo vidi uomini e donne col trucco sul viso uscire a frotte dal bungalow, tra i quali i Keystone Cops. Attraversarono la strada dirigendosi verso un piccolo emporio che vendeva anche panini e salsicciotti caldi. Certuni si scambiavano richiami con voci alte e rauche: «Ehi, Hank, muoviti! » «Di' a Slim che si spicci! 1 ». Preso da un'improvvisa timidezza, mi allontanai rapidamente. Raggiunsi l'angolo e, da lontano, attesi che uscissero il signor Sennett o la signorina Normand; ma essi non si fecero vivi. Rimasi là fermo per mezz'ora, poi decisi di tornare in albergo. Il problema di entrare nello studio e di affrontare tutta quella gente divenne insormontabile. Per due giorni ripetei la manovra, arrivando davanti allo studio senza avere il coraggio di entrare. Il terzo giorno Sennett telefonò per sapere perché non mi ero ancora fatto vivo. Trovai una scusa. « Vieni subito, ti aspettiamo » disse. Dopodiché mi presentai allo studio, entrai nel bungalow con aria baldanzosa e chiesi del signor Sennett. 1 I Keystone Cops erano i famosi poliziotti delle comiche omonime, dei quali facevano parte anche i due ai quali allude Chaplin: Hank Mann e Slim Summerville. (N.d.T.) 169
Egli fu lieto di vedermi e mi condusse in un grande teatro di posa. Rimasi incantato. Una luce dolce e uniforme pervadeva l'intero studio. Veniva da ampi schermi di tela bianca che diffondevano i raggi del sole e conferivano a ogni cosa un'eterea dimensione. L'espediente serviva per le riprese alla luce diurna. Dopo essere stato presentato a un paio di attori m'interessai a ciò che si stava svolgendo là dentro. C'erano tre teatri di posa, l'uno attiguo all'altro, e tre troupes di comici vi stavano lavorando. Sembrava di passare in rassegna gli stand dell'Esposizione Mondiale. In un teatro di posa Mabel Normand batteva i pugni su una porta gridando: « Fatemi entrare! ». Poi la macchina da presa si fermava e la cosa finiva li. Non avevo idea che i film si facessero cosi, a pezzi e bocconi. In un altro teatro di posa c'era il grande Ford Sterling, l'uomo che dovevo rimpiazzare. Sennett mi presentò. Ford stava per lasciare la Keystone allo scopo di formare una propria troupe con la Universal. Godeva di un'immensa popolarità sia presso il pubblico sia presso il personale dello studio. Seguivano tutti la scena che stava girando e ridevano a crepapelle delle sue trovate. Sennett mi prese in disparte e mi spiegò il loro metodo di lavoro. « Giriamo senza copione: troviamo un'idea, poi seguiamo il corso naturale degli eventi finché esso non sfocia in un inseguimento, che è il nucleo della nostra comica. » La cosa era istruttiva ma non troppo consolante; personalmente non potevo soffrire gli inseguimenti. Annullano la personalità dell'attore; e per poco che m'intendessi di cinema, sapevo che nulla trascende la personalità. Quel giorno passai di teatro in teatro di posa studiando le compagnie al lavoro. Pareva che tutti imitassero Ford Sterling. Era una cosa preoccupante, perché il suo stile non mi si confaceva. Recitava la parte di un olandese sottoposto a ogni genere di vessazioni, che per tutta la scena improvvisava con accento olandese: l'effetto era divertente, ma nel cinema muto andava perduto. Chissà che cosa si aspettava Sennett da
me. Mi aveva visto lavorare e doveva sapere che non ero adatto a interpretare il tipo di comica di Ford; il mio stile era diametralmente opposto. Ma tutte le situazioni e tutti i soggetti ideati nello studio erano, consciamente o inconsciamente, fatti su misura per Sterling; lo imitava persino Roscoe Arbuckle. Lo studio era evidentemente un'ex-fattoria. Il camerino di Mabel Normand si trovava in un vecchio bungalow; nella stanza attigua ce n'era un altro per le attrici della troupe. Dirimpetto al bungalow c'era quella che doveva essere stata una stalla e che ora costituiva il camerino principale degli attori e dei Keystone Cops, i quali erano, per la maggior parte, ex-pagliacci da circo ed ex-pugilatori. A me fu assegnato il camerino dei divi, lo stesso usato da Mack Sennett, Ford Sterling e Roscoe Arbuckle. Era un'altra baracca sul genere della stalla che avrebbe potuto essere la selleria. Oltre a Mabel Normand, c'erano molte altre belle ragazze. Vi si respirava una strana atmosfera, tipo « la bella e la bestia ». Per parecchi giorni girovagai per lo studio, chiedendomi quando avrei cominciato a lavorare. Di tanto in tanto, attraversando un teatro di posa, mi scontravo con Sennett; ma lui non mi vedeva nemmeno, e tirava di lungo con espressione assorta e preoccupata. Avevo la spiacevole impressione che pensasse di aver fatto un errore a scritturarmi, e questo non ottenne certo lo scopo di ridurre la mia tensione nervosa. Ogni giorno la mia tranquillità d'animo dipendeva da Sennett. Se per caso, vedendomi, mi sorrideva, crescevano le mie speranze. Il resto della compagnia manteneva una posizione di attesa ma certuni, lo sapevo, mi consideravano un dubbio sostituto di Ford Sterling. Quando venne il sabato, Sennett parve di ottimo umore. Disse: « Va' in ufficio a ritirare il tuo assegno ». Risposi che avrei preferito mettermi al lavoro. Volevo parlargli delle difficoltà che incontravo a imitare Ford Sterling, ma lui tagliò corto con queste parole: « Non temere, verrà anche il tuo momento ». Erano trascorsi nove giorni d'inattività e la tensione stava diventando insopportabile. Ford, però, era sempre pronto a consolarmi, e dopo il
lavoro mi dava ogni tanto un passaggio fino in centro, dove ci fermavamo al bar dell'Alexandria per bere un goccio e scambiare quattro chiacchiere con alcuni dei suoi amici. Uno di essi, un certo Elmer Ellsworth, per il quale provai un'immediata antipatia e che mi fece l'impressione di essere un tipo piuttosto scorbutico, aveva preso l'abitudine di stuzzicarmi. « Ho saputo che prendi il posto di Ford. Be', sei divertente? » « La modestia mi vieta di esprimere un parere » risposi con riluttanza. Queste punzecchiature erano molto imbarazzanti, specie in presenza di Ford. Ma lui mi toglieva sempre d'impiccio gentilmente, con una delle sue battute. « Non lo hai visto all'Empress nella parte dell'ubriaco? Divertentissimo. » « Be', ancora non mi ha fatto ridere » disse Ellsworth. Era un uomo alto, massiccio, dall'aria linfatica, con una malinconica espressione da furfante, un viso glabro, occhi tristi, una bocca flaccida e un sorriso che scopriva due buchi tra i denti davanti. Ford diceva solennemente che era un'autorità nel campo della letteratura, della finanza e della politica, uno degli uomini meglio informati del paese, e che aveva un grande senso dell'humor. Io però non lo apprezzavo e cercavo di evitarlo. Ma una sera, al bar dell'Alexandria, egli disse: « Non ha ancora cominciato, questo figlio d'Albione? ». « Non ancora » risposi io, con una risata inquieta. « Be', ti converrà essere divertente. » Avendone sopportate di cotte e di crude da parte di quel signore, cercai di rendergli pan per focaccia. « Oh, mi basterà essere divertente la metà di quello che sei tu perché tutto vada a gonfie vele. » « Diavolo ! Uno spirito sarcastico, eh? Stavolta voglio proprio pagargli da bere. » Finalmente giunse il mio momento. Sennett era via con Mabel Normand, a girare in esterni, insieme alla troupe di Ford Sterling, e lo studio era rimasto quasi deserto. Henry Lehrman, il regista più im
portante della Keystone dopo Sennett, doveva cominciare un nuovo film e volle farmi sostenere la parte di un cronista di giornale. Lehrman era un uomo vanesio e molto inorgoglito dal fatto di avere portato al successo alcune comiche avvalendosi di semplici espedienti meccanici. Diceva sempre che non gli occorreva un attore dotato di personalità, che faceva ridere il pubblico ricorrendo ad effetti meccanici e al montaggio della pellicola. Non c'era copione. Doveva essere un documentario sulla stampa con qualche risvolto umoristico. Io portavo finanziera, cilindro e un paio di baffi a manubrio. Quando iniziammo le riprese mi accorsi che Lehrman cercava disperatamente qualche idea. E naturalmente, essendo nuovo alla Keystone, l'uomo che doveva prendere il posto di Ford Sterling, ero ansioso di dare suggerimenti. Fu questo ad attirarmi l'ostilità di Lehrman. In una scena in cui avevo un colloquio col direttore di un giornale stipai ogni gag possibile e immaginabile, arrivando al punto di suggerire spunti e trovate per gli altri attori della troupe. Anche se il film fu completato in tre giorni, credevo che fossimo riusciti a fare una cosetta molto divertente. Ma quando lo vidi finito mi sentii spezzare il cuore, perché il montatore lo aveva talmente mutilato da renderlo irriconoscibile, troncando a metà tutte le mie sequenze più comiche. Rimasi sbalordito e mi chiesi perché mai avessero fatto una cosa simile. Anni dopo Henry Lehrman mi confessò di averlo fatto a ragion veduta, perché, come disse lui, ritenne che la sapessi un po' troppo lunga. Il giorno successivo a quello in cui avevo finito di girare con Lehrman, Sennett ritornò allo studio. Ford Sterling lavorava in un teatro, Arbuckle in un altro; l'enorme piattaforma era invasa da tre troupes in piena attività. Io indossavo i miei panni di tutti i giorni e non avevo niente da fare, perciò rimasi dove Sennett potesse vedermi. Insieme a Mabel egli stava esaminando una scena che rappresentava l'atrio di un albergo, e mordicchiava la punta di un sigaro. « Qui occorre qualche trovata » disse, poi si rivolse a me. « Prova una truccatura comica. Una qualsiasi. » Non sapevo a quale truccatura ricorrere. Il personaggio del giornalista
non mi piaceva. Mentre puntavo verso il guardaroba, pensai di mettermi un paio di calzoni sformati, due scarpe troppo grandi, senza dimenticare il bastone e la bombetta. Volevo che fosse tutto in contrasto: i pantaloni larghi e cascanti, la giacca attillata, il cappello troppo piccolo e le scarpe troppo grandi. Ero incerto se truccarmi da vecchio o da giovane, poi ricordai che Sennett mi aveva creduto un uomo assai più maturo e cosi aggiunsi i baffetti che, argomentai, mi avrebbero invecchiato senza nascondere la mia espressione. Non avevo la minima idea del personaggio. Ma come fui vestito, il costume e la truccatura mi fecero capire che tipo era. Cominciai a conoscerlo, e quando m'incamminai verso l'enorme pedana di legno esso era già venuto al mondo. Invenzioni comiche e trovate spiritose mi turbinavano incessantemente nel cervello. Quando mi trovai al cospetto di Sennett assunsi l'identità del nuovo personaggio e cominciai a passeggiare su e giù, tutto impettito, dondolando il bastoncino, passando e ripassando davanti a lui. Il segreto del successo di Sennett era il suo entusiasmo. Mack era un pubblico ideale e rideva sinceramente di ciò che trovava divertente. Rimase là a ridere finché non cominciò a tremare in tutto il corpo. L'accoglienza m'incoraggiò, e cominciai a illustrare il personaggio : « Vedete, questo è un individuo multiforme, un vagabondo, un gentiluomo, un poeta, un sognatore, un uomo solitario, sempre in cerca di nuove avventure. Vorrebbe farvi credere che è uno scienziato, un musicista, un duca, un giocatore di polo. Però non disdegna di raccattare cicche o di rubare una caramella a un bambino. E, naturalmente, se l'occasione lo giustifica, sarà anche capace di prendere una signora a calci nel didietro: ma solo in casi estremi! ». Continuai cosi per dieci minuti o più, senza permettere a Sennett di riprender fiato. « Benissimo » mi disse lui « va' sul set e vediamo che cosa sai fare. » Come per i film di Lehrman, non sapevo quasi nulla del soggetto, a parte il fatto che Mabel Normand si trova in un imbroglio col marito e l'amante. In tutte le comiche, quello che conta è l'atteggiamento; ma
non sempre è facile trovare un atteggiamento. Tuttavia, là nell'atrio dell'albergo, mi sentii un impostore che cerca di spacciarsi per uno dei clienti; mentre, in realtà, ero un vagabondo che cerca solo un tetto. Entrai, dunque, e inciampai nel piede di una signora. Voltandomi mi tolsi la bombetta per scusarmi, poi mi girai di nuovo e inciampai in una sputacchiera; allora mi voltai e mi tolsi la bombetta davanti alla sputacchiera. Dietro la macchina da presa cominciarono a ridere. Intorno a me si era formato un assembramento; non c'erano solo gli attori delle altre troupes, che avevano abbandonato i loro posti sul set per venire a vedere, ma anche i macchinisti, i carpentieri e le guardarobiere. Quello si che mi fece piacere. E quando ebbimo finito di provare, eravamo al centro di una gran folla che rideva. Ben presto vidi anche la faccia di Ford Sterling spuntare sopra le spalle degli altri. Quando terminarono le riprese, capii di essermela cavata a meraviglia. Alla fine della giornata, quando andai in camerino, Ford Sterling e Roscoe Arbuckle si stavano struccando. Scambiammo poche parole, ma l'atmosfera era satura di elettricità. Sia Ford che Roscoe mi avevano in simpatia, ma francamente ebbi l'impressione che stessero sostenendo una lotta interiore. Era una scena molto lunga, che misurava oltre ventidue metri. In seguito Sennett e Lehrman ne discussero tra loro, non sapendo se lasciarla per intero, poiché in media la scena di una comica non superava quasi mai tre metri. « Se è divertente » dissi io « ha proprio tanta importanza la lunghezza? » E cosi decisero di lasciare tutti i ventidue metri della scena. Dato che gli indumenti mi avevano suggerito il personaggio, decisi là per là di conservare quel costume, comunque andassero le cose. Quella sera tornai a casa in tram con una comparsa. « Accidenti » disse « questa si che è una novità. Nessuno, finora, ha mai fatto tanto ridere sul set, neppure Ford Sterling. E avresti dovuto vedere la sua faccia mentre ti guardava: un poema! » « Speriamo che ridano allo stesso modo in teatro » dissi io, per nascondere la mia esultanza.
Qualche giorno dopo, al bar dell'Alexandria, sentii Ford fare una descrizione del mio personaggio al nostro comune amico Elmer Ellsworth. « È un tipo con i pantaloni larghi e sformati, i piedi piatti, il bastardino dall'aria più miserabile e impataccata che ti sia mai capitato di vedere. Si muove a scatti come se avesse i pidocchi sotto le ascelle. Eppure fa ridere. » Il mio era un personaggio originale e poco familiare agli americani; poco familiare persino a me. Ma una volta nei suoi panni io m'immedesimavo in esso, per me era una realtà e un essere vivente. Anzi m'infiammava di idee folli di tutti i generi, che non avrei mai avuto se non mi fossi messo il suo costume e la sua truccatura. Divenni molto amico di una comparsa che ogni sera, andando a casa in tram, mi faceva un rapporto sulle reazioni che avevo suscitato quel giorno allo studio. « È stata una trovata formidabile, quella di tuffare le dita nella vaschetta per poi asciugarle sui baffi del vecchio. Da queste parti non hanno mai visto nulla di simile. » E via di questo passo, fino a rendermi pazzo di gioia. Mi trovavo bene sotto la direzione di Sennett, perché sul set si faceva tutto con grande spontaneità. Dato che nessuno (nemmeno il regista) era assolutamente sicuro di sé, giunsi alla conclusione che ne sapevo quanto gli altri. Ciò mi diede animo; cominciai ad avanzare suggerimenti che Sennett accolse prontamente. E cosi crebbe la mia fiducia nelle mie doti creative e la convinzione di poter ideare da me i miei soggetti. Era stato lo stesso Sennett a infondermi questa fiducia. Ma, pur avendo accontentato lui, dovevo ancora accontentare il pubblico. Nel film successivo mi assegnarono nuovamente a Lehrman, che era in procinto di lasciare Sennett per unirsi a Sterling e per fargli un piacere era rimasto due settimane più di quelle previste dal contratto. Avevo una quantità di proposte da fare quando ripresi a lavorare con lui. Lehrman mi ascoltava sorridendo ma non le accettava mai. « Sarà comico in teatro » diceva « ma nel cinema non abbiamo tempo. Dobbiamo spicciarci: il film non è che un pretesto per un inseguimento. »
Non ero d'accordo con le sue generalizzazioni, « Lo spirito è spirito » ribattevo « sia al cinema che in teatro. » Ma lui non se ne dava per inteso e continuava a fare ciò che la Keystone aveva sempre fatto. Tutta l'azione doveva essere veloce: il che ci costringeva a correre e arrampicarci sui tetti delle case e dei tram, saltare nei fiumi e tuffarci dalle banchine. Ad onta delle sue teorie cinematografiche mi fu possibile infilare in queste comiche qualche trovatina del mio sacco, ma, come l'altra volta, egli riuscì a farle mutilare in sede di montaggio. Non credo che Lehrman facesse a Sennett un rapporto molto promettente su di me. Dopo Lehrman, mi assegnarono a, un altro regista, un certo Nichols, un uomo anziano, sulla sessantina, che lavorava nel cinema sin dai primordi. Con lui ebbi le medesime difficoltà. Ricorreva sempre alla stessa trovata, che consisteva nel prendere il comico per il collo e sbatacchiarlo di qua e di là da una scena all'altra. Tentai di suggerirgli qualcosa di meno grossolano, ma non mi dava ascolto. « Non c'è tempo, non c'è tempo ! » esclamava. Tutto ciò che voleva era una imitazione di Ford Sterling. Benché la mia fosse un'opposizione all'acqua di rose, sembra che un giorno egli andasse da Sennett dicendo che lavorare con me era un inferno. Fu circa a quest'epoca che il film diretto da Sennett, La strana avventura di Mabel ', venne proiettato in un cinema del centro. Pieno di timore e di trepidazione, vi assistetti mescolato al pubblico. Alla comparsa di Ford Sterling c'era sempre un moto di entusiasmo e uno scoppio di risa, mentre io fui accolto da un freddo silenzio. Tutte le trovate alle quali ero ricorso nell'atrio dell'albergo si guadagnarono appena un sorriso. Ma, via via che la vicenda procedeva, il pubblico cominciò a ridacchiare, poi a ridere, e verso la fine del film si udirono un paio di sonore risate. A quella proiezione scopersi che il pubblico non aveva prevenzioni per gli ultimi arrivati. Dubito che questo primo tentativo rispondesse alle aspettative di Sen 1 Mabel's Strange Predicament, 1914. '77
nett. Credo anzi che egli fosse un po' deluso. Un paio di giorni dopo venne da me. « Senti un po', dicono che è difficile lavorare con te. » Cercai di esporgli i miei scrupoli e di spiegargli che lo facevo solo nell'interesse del film. « Be' » disse freddamente Sennett « fa' come ti dicono e noi saremo soddisfatti. » Ma il giorno seguente ebbi un'altra discussione con Nichols, e questa volta esplosi. « Qualsiasi comparsa da tre dollari al giorno è in grado di fare quello che pretendete da me » dichiarai. « Io voglio combinare qualcosa di buono, e non intendo farmi solo sbatacchiare a destra e a sinistra, o ruzzolare dai tram. Non è per questo che mi danno centocinquanta dollari alla settimana. » Il povero « Papà » Nichols, come lo chiamavamo noi, ci rimase malissimo. « Sono più di dieci anni che faccio questo mestiere » disse. « Che cavolo ne sai tu? » Cercai di farlo ragionare, ma senza esito. Cercai di far intendere le mie ragioni agli altri membri della troupe, ma erano tutti contro di me. « Oh, lui è pratico, è pratico, in questo campo ha molta più esperienza di te » disse un vecchio attore. Feci quattro o cinque film, e in qualcuno di essi ero riuscito a infilare un paio di trovatine del mio sacco, a dispetto dei macellai del reparto montaggio. Conoscendo il loro sistema, potevo infilarci qualche gag solo all'entrata o all'uscita da una scena, ben sapendo che per eliminarle avrebbero incontrato delle difficoltà. Sfruttai ogni occasione possibile per imparare il mestiere. Non facevo che girare per lo stabilimento di sviluppo e stampa e per i locali del reparto montaggio, dove guardavo il montatore mettere insieme le pellicole. Poiché ogni film veniva girato praticamente su misura per Ford Sterling, ero molto ansioso di ideare e dirigere le mie comiche. Ma da quell'orecchio Sennett non ci sentiva. Invece, per il film successivo mi assegnò a Mabel Normand. La cosa mi punse sul vivo. Per carina che fosse, avevo dei dubbi sulla competenza di Mabel nel dirigere una comica. E lo scontro avvenne, inevitabile, il primo giorno. Si girava in esterni nei sobborghi di Los Angeles e in una scena Mabel mi ordinò di prendere un idrante e di annaffiare la strada affinchè la macchina del cattivo vi slittasse sopra. Le proposi di mettere i piedi sul tubo, in mo
do che l'acqua non uscisse; poi, mentre guardavo nella lancia, sarei sceso inavvertitamente dal tubo e il getto d'acqua mi avrebbe inondato il viso. Ma lei mi troncò la parola in bocca: « Non c'è tempo! Non c'è tempo ! Fa' come ti dico ». Fu la goccia che fece traboccare il vaso. Una cosa simile non la potevo sopportare: e da una bella ragazza, per giunta. « Mi rincresce, signorina Normand, ma non farò come dice lei. Non la ritengo abbastanza competente per dirmi quello che devo fare. » La scena si svolgeva in mezzo alla strada, e perciò piantai in asso la troupe e andai a sedermi sul bordo del marciapiede. Povera Mabel! Aveva appena vent'anni, era una donna affascinante, la beniamina dello studio, e tutti l'adoravano. Rimase seduta accanto alla macchina da presa, sbalordita; nessuno le aveva mai parlato cosi. Anch'io ero sensibile al suo fascino e alla sua bellezza, e in segreto avevo un debole per lei, ma questa volta si trattava del mio lavoro. Subito gli attori e il resto della troupe si fecero intorno a Mabel per consultarsi con lei. Un paio di comparse, come mi disse poi la stessa Mabel, volevano darmi una lezione, ma lei li dissuase da tale proposito. Poi mi mandò l'aiuto regista a informarmi se ero disposto a continuare o no. Attraversai la strada fino al punto in cui si trovava lei. « Mi dispiace » dissi in tono di scusa « il fatto è che non mi sembra per nulla comico o divertente. Ma se lei mi consente di fare qualche proposta... » Mabel non rispose. « Benissimo » disse. « Se non vuoi obbedire agli ordini, si torna allo studio. » Benché la situazione fosse disperata, ero rassegnato al peggio e alzai le spalle. Non avevamo perso molto tempo, perché si stava girando dalle nove del mattino. Ormai erano le cinque passate e il sole tramontava rapidamente. Allo studio, mentre mi stavo togliendo il cerone, Sennett piombò in camerino. « Che diavolo t'è saltato in mente? » disse. Cercai di spiegare. « È un soggetto un po' fiacco, occorre qualche trovata » dissi « ma la signorina Normand non vuole sentir ragioni. » « Contratto o non contratto, devi fare quello che ti dicono » ribattè Sennett seccamente.
Ero calmissimo. « Signor Sennett » risposi « mi guadagnavo la pagnotta anche prima di venire qui, e se sono licenziato... be', sono licenziato. Ma svolgo il mio lavoro con la massima diligenza e desidero quanto lei fare dei buoni film. » Senza dire altro, Sennett usci sbattendo la porta. Quella sera, tornando a casa in tram col mio amico, gli raccontai per filo e per segno l'accaduto. « Peccato. Andavi a gonfie vele » disse lui. « Credi che mi licenzieranno? » dissi allegramente, per nascondere la mia ansietà. « Non mi sorprenderebbe affatto. Quando l'ho visto uscire dal tuo camerino sembrava fuori dai gangheri. » « Be', per me va bene. Ho da parte millecinquecento dollari e mi saranno più che sufficienti per pagarmi la traversata in Inghilterra. Comunque, domani mi ripresento allo studio e se non mi vogliono... c'est la vie. » Il mattino seguente dovevamo trovarci allo studio alle otto in punto. Non sapendo che fare, rimasi là seduto in camerino senza truccarmi. Alle otto e dieci Sennett infilò la testa nel vano della porta. « Charlie, devo parlarti, andiamo nel camerino di Mabel. » Il suo tono era sorprendentemente cordiale. « Va bene, signor Sennett » dissi, seguendolo. Mabel non c'era. Si trovava in sala di proiezione a visionare il materiale girato il giorno prima. « Senti » disse Mack « Mabel ti ammira molto, tutti abbiamo molta stima di te e ti consideriamo un ottimo artista. » Rimasi sorpreso da questo brusco cambiamento e cominciai subito a rabbonirmi. « Anch'io ho il massimo rispetto e la più grande ammirazione per la signorina Normand » dissi « ma non credo che sia in grado di dirigere un film: in fin dei conti, è molto giovane. » « Pensala come vuoi, ma ingoia il rospo e cerca di collaborare » disse Sennett, battendomi una mano sulla spalla. « È precisamente quello che ho cercato di fare. »
« Be', fa' del tuo meglio per andare d'accordo con lei. » « Senta, se lei mi lascia dirigere i miei film, non avrà più la minima difficoltà » dissi io. Mack s'interruppe un momento. « E chi paga se non riusciamo a distribuire il film? » « Io » risposi. « Sono pronto a depositare millecinquecento dollari in una banca qualsiasi. Se non riuscirete a distribuire il film, potrete tenervi il danaro. » Mack riflettè un momento. « Hai un'idea? » « Si capisce, quante ne vuole. » « Benissimo » disse Mack « finisci il film con Mabel, poi vedremo. » Ci stringemmo la mano con la massima cordialità. Poi andai da Mabel a presentarle le mie scuse e quella sera Sennett c'invitò fuori a cena tutti e due. Il giorno dopo Mabel non avrebbe potuto essere più gentile. Venne persino da me a chiedermi consiglio. Cosi, tra lo stupore degli operatori e degli altri attori della compagnia, portammo felicemente a termine la pellicola. Tuttavia, l'improvviso cambiamento di rotta di Sennett continuava a stupirmi. Fu solo alcuni mesi dopo che ne scopersi la ragione: pare che Sennett intendesse licenziarmi alla fine della settimana, ma il mattino dopo la mia lite con Mabel ricevette dalla sede di New York un telegramma in cui lo si invitava a spedire al più presto altri film di Chaplin poiché ce n'era una fortissima richiesta. Di una comica Keystone si stampavano, in media, una ventina di copie. Trenta copie volevano dire un successo eccezionale. L'ultimo film, che per me era il quarto, raggiunse le quarantacinque copie, mentre aumentavano le richieste di altre copie. Ecco dunque spiegata la grande cordialità di Mack dopo il telegramma. A quei tempi la meccanica della regia era molto semplice. Bastava sapere distinguere la destra dalla sinistra per le entrate e le uscite. Se da una scena si usciva a destra, in quella successiva si entrava da sinistra; se si usciva di campo verso la macchina da presa, nella scena successiva si entrava con le spalle alla macchina. Queste, naturalmente, erano le regole principali.
Ma, quando ebbi fatto un po' più di esperienza, scopersi che il piazzamento della macchina da presa non era solo psicologico ma articolava la scena; era anzi la base dello stile cinematografico. Se è un po' troppo vicina, o un po' troppo lontana, la macchina può migliorare o sciupare un effetto. Data l'importanza dell'economia del movimento, se non sussiste qualche ragione particolare, non occorre che un attore copra una distanza superflua, perché camminare, in sé, non ha nulla di drammatico. Perciò il piazzamento della macchina da presa dovrebbe dare all'inquadratura il senso della composizione e favorire l'entrata in scena dell'attore. Il piazzamento della macchina da presa è l'inflessione del linguaggio cinematografico. Non esiste una regola fissa per cui un primo piano conferisca al soggetto maggiore risalto di un campo lungo. Il primo piano è una questione di sensibilità; in certi casi un campo lungo può dare un risalto maggiore. Se ne può trovare l'esempio in una delle mie prime comiche, Skating \ Il vagabondo entra in pista e comincia a pattinare con un piede in aria, scivolando e facendo piroette, inciampando, andando a sbattere contro gli altri pattinatori e combinandone di tutti i colori, e finalmente lasciando tutti a terra in primo piano mentre lui si allontana,' sempre pattinando, verso il lato opposto della pista, e, diventato una figura piccolissima sullo sfondo, si siede innocentemente tra gli spettatori a guardare il pandemonio che ha combinato. Eppure la figuretta del vagabondo in lontananza era più comica di quanto lo sarebbe stata in primo piano. Quando cominciai a dirigere il mio primo film non ero cosi sicuro di me come mi aspettavo; ebbi anzi un lieve attacco di timor panico. Ma appena Sennett ebbe esaminato il materiale del primo giorno ripresi animo. Il film s'intitolava Charlot e la sonnambula 2. Non fu una « can 1 Si tratta evidentemente di The Rink (Charlot a rotelle), 1916. Nessuna fonte la cita col titolo indicato da Chaplin. (N. d. T.) 2 Caught in the Rain) 1914. È vero che si tratta del primo film diretto solo da C, ma è preceduto da Caught in a Cabaret (Charlot garzone di caffè, 1914), in cui, praticamente, C. collaborò alla regia con Mabel Normand. (N. d. T.)
nonata » ma risultò divertente ed ebbe successo. Dato l'ultimo giro di manovella, ero ansioso di conoscere la reazione di Sennett. Lo attesi all'uscita della sala di proiezione. « Be', sei pronto a cominciarne un altro? » Da allora in poi scrissi e diressi tutti i miei film. Come incentivo, Sennett mi diede un premio di venticinque dollari per film. Fini praticamente per adottarmi, e tutte le sere m'invitava a cena. Discuteva con me i soggetti per le altre compagnie, e io suggerivo idee pazze e fantastiche che trovavo troppo personali per essere comprese dal pubblico. Ma Sennett rideva e le accettava. Ora, quando vedevo i miei film insieme al pubblico, la reazione era diversa. L'entusiasmo e l'agitazione all'annuncio di una comica Keystone, quei gridolini di gioia provocati dalla mia sola comparsa sullo schermo, prima ancora di avere alzato un dito, mi davano un senso di profonda soddisfazione. Il pubblico mi aveva preso in simpatia: per essere contento mi sarebbe bastato continuare cosi. Col premio guadagnavo duecento dollari alla settimana. Ora che mi trovavo assorbito dal lavoro, avevo poco tempo per il bar dell'Alexandria o il mio sarcastico amico Elmer Ellsworth. Lo incontrai, tuttavia, qualche settimana dopo, per la strada. « Di' un po' » disse « ho visto i tuoi ultimi film, e perdiana, sei bravo ! Hai delle caratteristiche completamente diverse dagli altri. Non scherzo mica. Fai ridere ! Perché diavolo non l'hai detto subito? » Naturalmente, dopo quell'incontro diventammo ottimi amici. Furono molte le cose che m'insegnò la Keystone e molte le cose che insegnai io alla Keystone. Allora s'intendevano poco di tecnica, scenotecnica o movimento, tutte cose nelle quali io portai la mia esperienza teatrale. S'intendevano poco anche di pantomima, che privavano della sua naturalezza. Preparando una scena il regista faceva mettere tre o quattro attori schiamazzanti tutti in fila davanti alla macchina da presa, e con i gesti più esagerati uno di essi mimava: « Voglio-sposare-tuafiglia », indicando prima se stesso, poi il suo anulare, poi la ragazza. Questo tipo di recitazione aveva poco a che fare con la finezza o l'efficacia della semplice azione naturale, e fu cosi, per contrasto, che io
m'imposi. In questi primi film, sapevo di avere molti punti di vantaggio, e che, come un geologo, mi stavo inoltrando in un filone ricco e inesplorato. Fu quello, probabilmente, il periodo più entusiasmante della mia carriera, perché ero alla vigilia di avvenimenti straordinari. Il successo rende simpatici e presto, allo studio, divenni amico di tutti. Ero « Charlie » per le comparse, i macchinisti, le guardarobiere e gli operatori. Benché io non ami fraternizzare, la cosa mi fece molto piacere: sapevo che tanta familiarità era un indice di successo. Ormai avevo fiducia nelle mie idee, e di questo posso ringraziare Sennett poiché, pur essendo poco istruito come me, egli credeva nel proprio gusto, e infuse anche in me un'identica fiducia. La sua osservazione, quel primo giorno allo studio: « Giriamo senza copione. Trovata un'idea, seguiamo il corso naturale degli eventi » mi aveva acceso la fantasia e mi parve la chiave di volta di ogni soggetto. Ad esempio, // suo passato preistorico 1 iniziava con questa trovata: entro vestito da uomo preistorico, con una pelle d'orso, e mentre perlustro l'orizzonte comincio a strapparne i peli per riempirmi la pipa. Sviluppando ed estendendo quest'idea, naturalmente, potevo presentare molti aspetti della vita dell'età della pietra, introducendo temi come l'amore, la gelosia, la rivalità e la caccia. Questo sviluppo di una gag era ciò che intendeva Sennett quando diceva che bisognava seguire il corso naturale degli eventi. Creare in questo modo rendeva entusiasmante la mia attività cinematografica. Il teatro mi aveva costretto a un rigido trantran dal quale non potevo assolutamente scostarmi, che m'impegnava a ripetere la stessa cosa di sera in sera; una volta provato e stabilito il ruolo di ciascuno, ben di rado si cercava d'inventare qualcosa di nuovo. L'unico stimolo, per chi recitava in teatro, era la possibilità di dare una buona o una cattiva interpretazione. Ma il cinema garantiva una maggiore libertà. Mi comunicava un senso d'avventura; non era tanto la tecnica del ci 1 His Prehistoric Past, 1914.
nema, quanto l'atteggiamento di Sennett e il modo in cui egli si dedicava alla realizzazione dei film. « Che te ne pare di questo spunto? » diceva. Quella frase era l'inizio di ogni comica Keystone. Sembrava la cosa più facile del mondo: niente copioni, né soggettisti, né i soliti intrecci banali. Bastava mettersi all'opera e sviluppare l'idea via via che si procedeva. Non mi è difficile risalire al primo momento in cui provai il desiderio di aggiungere ai miei film un'altra dimensione, oltre a quella della comicità. Lavoravo in una comica intitolata Charlot portinaio 1, nella scena in cui il capufficio mi licenzia. Per muoverlo a compassione e convincerlo a ritornare sui suoi passi gli spiegavo, a gesti, di avere una famiglia numerosa con molti bambini piccoli. Dorothy Davenport, una vecchia attrice, assisteva alla scena dai bordi del teatro di posa e durante le prove, alzando lo sguardo, con sorpresa vidi che piangeva. « Lo so che dovrebbe far ridere » mi disse poi « eppure a me viene voglia di piangere. » Fu, questa, la conferma di una cosa che sapevo già: ero in grado di suscitare il pianto, oltre che il riso. La « virile » atmosfera dello • studio sarebbe stata quasi intollerabile se fosse mancato il diversivo della bellezza muliebre. La presenza di Mabel Normand, naturalmente, riempiva lo studio di fascino. Era una ragazza estremamente carina, con grandi occhi dalle ciglia folte e labbra tumide che s'incurvavano delicatamente agli angoli della bocca, tradendo il suo senso dell'umorismo e una profonda indulgenza in tutte le sue gradazioni. Era allegra e spensierata, una buona amica, gentile e generosa; e tutti l'adoravano. Passavano di bocca in bocca aneddoti sulla generosità di Mabel verso il figlio della guardarobiera, sugli scherzi che faceva all'operatore. Mabel mi amava come un fratello, perché a quel tempo aveva una cotta per Mack Sennett. Per via di Mack la vedevo spessissimo; sovente andavamo a cena insieme, tutti e tre, e dopo il pasto Mack si appi 1 The New Janitor, 1914 185
solava nell'atrio dell'albergo: noi passavamo un'ora al cinema o al caffè, poi tornavamo indietro a svegliarlo. Si potrebbe pensare che tanta intimità sfociasse, prima o poi, in un idillio: invece non fu cosi. Restammo, disgraziatamente, solo buoni amici. Una volta, però, quando Mabel, Roscoe Arbuckle e io partecipammo a una recita di beneficenza in uno dei teatri di San Francisco, Mabel e io fummo a un pelo dall'avere un'avventura sentimentale del genere. Era una magnifica serata e tutti e tre ci eravamo prodotti in teatro riscuotendo un enorme successo. Mabel, che aveva lasciato il soprabito in camerino, mi pregò di andarglielo a prendere. Arbuckle e gli altri ci aspettavano di sotto, in macchina. Per un attimo restammo soli. Mabel era di una bellezza sfolgorante. Quando le misi il soprabito sulle spalle la baciai, e lei mi restituì il bacio. Avremmo potuto spingerci più in là, ma gli altri ci aspettavano. Più tardi cercai di dare un seguito all'episodio, ma non ne feci nulla. « No, Charlie » disse bonariamente lei, « io non sono il tuo tipo e tu non sei il mio. » Circa a quest'epoca - Hollywood era ancora in embrione - arrivò a Los Angeles Diamond Jim Brady. Venne con le Dolly Sisters e i loro mariti, e cominciò a dare sfarzosi ricevimenti. A una cena che offri all'Alexandria Hotel parteciparono le gemelle Dolly con i mariti, Carlotta Monterey, Lou Tellegen, primo attore di Sarah Bernhardt, Mack Sennett, Mabel Normand, Bianche Sweet, Nat Goodwin e molti altri. Le gemelle Dolly erano di una bellezza eccezionale. Loro due, con i rispettivi mariti e Diamond Jim Brady, erano quasi inseparabili: formavano un quintetto sconcertante. Diamond Jim era un personaggio straordinario, tipicamente americano. Sembrava un benevolo John Bull. Quella prima sera stentai a credere ai miei occhi, perché portava gemelli di diamanti ai polsini della camicia e bottoni di diamanti sullo sparato, ciascuno dei quali più grosso di uno scellino. Qualche sera dopo cenammo sul molo, al Nat Goodwin's Cafè, e questa volta Diamond Jim comparve con la sua parure di smeraldi, ciascuno dei quali della grandezza di una scatola di fiammiferi. Dapprima credetti che li portasse per scherzo, e inno 186
centemente gli chiesi se erano autentici. Lui disse di si. « Ma sono favolosi » balbettai io, sbalordito. « Se vuoi vedere qualche bello smeraldo, ecco qua. » Sollevò il panciotto, scoprendo una cintura come quella messa in palio nel campionato di boxe della Marchesa di Queensberry, tutta tempestata dei più grossi smeraldi che io abbia mai visto. Fu piuttosto fiero d'informarmi che aveva dieci parures di pietre preziose e che tutte le sere ne metteva una diversa. Era il 1914. Avevo venticinque anni, ero nel fiore dell'età e innamorato del mio lavoro, non solo per il successo che mi aveva permesso di ottenere ma perché si svolgeva in un mondo incantato, dandomi la possibilità di conoscere tutte le stelle del cinema — Mary Pickford, Bianche Sweet, Miriam Cooper, Clara Kimball Young, le sorelle Gish e altre ancora — donne belle e affascinanti delle quali, di volta in volta, fui un fervido ammiratore. Thomas Ince organizzava balli e barbecues 1 nel suo studio, che era nella parte ancora disabitata della zona settentrionale di Santa Monica, sull'Oceano Pacifico. Che notti meravigliose! Gioventù e bellezza volteggianti alla musica di una lamentosa orchestra d'archi, e il dolce suono delle onde che si frangevano sulla spiaggia vicina. Peggy Pierce, una ragazza straordinariamente bella dai lineamenti finementi modellati, con uno stupendo collo bianco e una figura incantevole, fu la mia prima pena d'amore. Non fece la sua comparsa fino alla mia terza settimana allo studio, perché era stata a letto, malata, con l'influenza. Ma nell'attimo in cui c'incontrammo divampò la passione: fu un sentimento reciproco, e il mio cuore esultava. Com'erano romantiche quelle mattine, quando mi recavo al lavoro pregustando il momento in cui l'avrei rivista! Ogni domenica andavo a trovarla in casa dei genitori. Ci si vedeva tutte le sere, e ogni sera era una dichiarazione d'amore. Si, Peggy mi amava, ma era una causa persa. Continuò a opporre resistenza finché, 1 Arrosti di manzo o di maiale cotti direttamente sulla brace: donde il nome del trattenimento. (N. d. T.)
dalla disperazione, non mi diedi per vinto. A quell'epoca non avevo nessuna voglia di sposarmi. La libertà era già un'avventura sin troppo emozionante. Nessuna donna avrebbe mai potuto eguagliare la vaga immagine che aleggiava nella mia mente. Ogni studio era come una famiglia. Le comiche si realizzavano in una settimana, i lungometraggi non prendevano mai più di due o tre settimane. Si girava alla luce del sole. Ecco perché lavoravamo in California: era noto che quella regione godeva di nove mesi di sole all'anno. L'illuminazione artificiale fu introdotta verso il 1915. Ma la Keystone non ne fece mai uso perché la luce tremolava, non era né chiara né forte come quella solare, e occorreva troppo tempo per disporre i riflettori. Una comica Keystone di rado prendeva più di una settimana di lavoro; io ne avevo girato addirittura una in un pomeriggio, col titolo Charlot pazzo per amore 1, che si dimostrò di una comicità irresistibile. Charlot panettiere 2, una comica che ottenne un enorme successo, ci prese nove giorni e costò milleottocento dollari. E, avendo superato il preventivo di mille dollari, che era il limite fissato per una comica Keystone, ci rimisi il mio premio di venticinque dollari. L'unica soluzione, disse Sennett, sarebbe stata quella di distribuirlo come un film in due bobine, cosa che fecero. E solo nel primo anno il film incassò più di centotrentamila dollari. Ormai avevo girato parecchi film di successo, tra i quali Charlot pazzo per amore, Charlot panettiere, Charlot dentista 3 e The Stage Hand 4. In questo periodo Mabel e io avevamo preso parte anche a un lungo 1 Twenty Minutes of Love, 1914. 2 Dough and Dynamite, 1914. 3 Laughing Gas, 1914. 4 Nelle filmografie di C. reperibili in Italia non c'è traccia di una comica con questo titolo. Molto probabilmente C. allude a The Property Man (Dietro le quinte, 1914). (N. d. T.) 188
metraggio con Marie Dressler '. Fu piacevole lavorare con Marie, ma non pensavo che il film valesse gran che. Ero più che contento di tornare a dirigermi da solo. Raccomandai Sydney a Sennett; portando il mio cognome, egli fu ben contento di assicurarsi un altro membro della famiglia. Sennett lo scritturò per un anno con una paga di duecento dollari alla settimana, venticinque più di quelli che prendevo io. Sydney e sua moglie, freschi dall'Inghilterra, vennero allo studio mentre stavo per andare a girare alcuni esterni. Più tardi, la stessa sera, cenammo insieme. Gli chiesi come andavano i miei film in Inghilterra. Lui disse che molti artisti di varietà, non sapendo che era mio fratello, gli avevano parlato con entusiasmo di un nuovo comico americano che avevano appena visto. Mi disse anche che prima di vedere una mia comica aveva telefonato all'agenzia per sapere quando sarebbero state distribuite e, appena aveva detto loro chi era, lo avevano invitato a visionarne tre. Si era seduto, unico spettatore, in sala di proiezione, e aveva riso da tenersi la pancia. « Qual è stata la tua reazione? » gli chiesi. Sydney non espresse grande stupore. « Oh, sapevo che ti saresti fatto onore » disse fiduciosamente. Mack Sennett era membro dell'Athletic Club di Los Angeles; ciò lo autorizzava a dare a un amico una tessera d'iscrizione temporanea, che lui passò a me. Era il quartier generale di tutti gli scapoli e gli uomini d'affari della città, un circolo assai raffinato con una grande sala da pranzo, salotti al primo piano, che la sera erano aperti alle signore, e un ampio bar per cocktail. Io avevo una spaziosa camera d'angolo all'ultimo piano, con un pianoforte e una piccola libreria, vicina a quella di Mose Hamberger, proprietario dei Grandi Magazzini May (i più vasti della città). A quei tempi il costo della vita era notevolmente basso. Per la mia stanza pa 1 Si tratta, evidentemente, di Tillie's Punctured Romance (L'Odissea di Charlot, 1914) diretto da Mack Sennett. {N. d. T.)
gavo dodici dollari alla settimana, e questo mi consentiva l'uso di tutte le comodità del circolo, che vantava lussuose palestre, piscine e un servizio eccellente. Tutto sommato, vivevo sontuosamente con settantacinque dollari alla settimana, che mi permettevano anche di fare bella figura pagando da bere e invitando qualche ospite a cena. Nel circolo regnava uno spirito cameratesco che nemmeno la dichiarazione della prima guerra mondiale valse a turbare. Tutti credevano che in sei mesi sarebbe finita; pareva assurdo pensare, come aveva predetto Lord Kitchener, che sarebbe durata quattro anni. Molti erano piuttosto contenti che fosse scoppiata la guerra, perché ora gliel'avremmo fatta vedere noi, ai tedeschi. Non v'erano dubbi sull'esito: inglesi e francesi li avrebbero liquidati in sei mesi. La guerra doveva ancora cominciare sul serio e la California era assai lontana dal teatro di operazioni. Circa a quest'epoca Sennett cominciò a parlare del rinnovo del contratto, e volle sapere le mie condizioni. Conoscevo fino a un certo punto la misura della mia popolarità, ma sapevo anche quanto poteva essere effimero il successo, e pensavo che, di quel passo, in capo a un altro anno sarei stato completamente spremuto: perciò dovevo battere il ferro finché era caldo. « Voglio mille dollari alla settimana ! » dissi, deciso. Sennett rimase sbalordito. « Ma non li guadagno nemmeno io » disse. « Lo so » risposi « ma il pubblico non fa la coda davanti al botteghino quando vede il tuo nome come fa per il mio. » « Può darsi » disse Sennett « ma senza il sostegno della nostra organizzazione tu saresti spacciato. » Osservò, per mettermi in guardia: « Guarda come vanno le cose a Ford Sterling ». Era vero, perché da quando aveva lasciato la Keystone Ford non se l'era passata troppo bene. Ma io dissi a Sennett: « Per fare una comica non mi serve altro che un parco, un poliziotto e una bella ragazza ». E, a dire il vero, con questi tre elementi avevo girato alcuni dei miei film più riusciti.
Sennett, frattanto, aveva telegrafato a Kessel e Bauman, suoi soci, per sentire il loro parere sul mio contratto e le mie pretese. Poi venne da me con una proposta. « Senti, mancano quattro mesi alla scadenza. Stracceremo il tuo contratto e ti daremo cinquecento dollari subito, settecento l'anno prossimo e millecinquecento quello successivo. Cosi avrai i tuoi mille dollari alla settimana. » « Mack » risposi « sono pronto ad accettare se invertì i termini del contratto: dammi millecinquecento il primo anno, settecento il secondo e cinquecento il terzo. » « Ma è un'idea pazzesca » disse Sennett. E cosi la questione del nuovo contratto non fu più discussa. Mancava un mese alla scadenza del contratto con la Keystone, e sino a quel momento nessun'altra casa di produzione si era fatta avanti. Cominciavo a innervosirmi e immagino che Sennett lo sapesse, e aspettasse un'occasione migliore. Di solito mi veniva a trovare alla fine di un film e scherzosamente m'incitava a cominciarne un altro. Ora, benché fossi a riposo da due settimane, non si fece vivo. Manteneva un atteggiamento cortese ma distaccato. Ciò nonostante, la fiducia non mi abbandonò mai. Se nessuno mi avesse fatto un'offerta mi sarei messo per conto mio. Perché no? Ero sicuro del fatto mio. Ricordo il preciso momento in cui nacque questo sentimento: contro il muro dello studio stavo firmando un modulo per ritirare del materiale. Da quando era entrato a far parte della Keystone Company, Sydney aveva fatto parecchi film di successo. Uno che battè i record degli incassi in tutto il mondo fu The Submarine Pirate 1, in cui Sydney era 1The (o meglio A) Submarine Pirate dalla Keystone-Triangle e diretto, È singolare questa affermazione di del 1915, C. firmò il contratto per la prima del grande successo ottenuto
(Un sottomarino pirata, 1915) fu prodotto in coppia, da Charles Avery e Sydney Chaplin. C, perché mentre il film fu girato alla fine Essanay nel novembre 1914, più di un anno dal fratello. (N. d. T.)
ricorso a trucchi cinematografici di ogni genere. Ottenne un tale successo che pensai di fargli una proposta: unirsi a me e fondare una nostra società. « Non ci occorre altro che una macchina da presa e una squadra di tecnici » dissi. Ma mio fratello non si lasciò convincere. Secondo lui era un rischio troppo grande. « Inoltre » soggiunse « non me la sento di rinunciare a una paga che è la più alta che abbia mai guadagnato in vita mia. » E cosi continuò con là Keystone per un altro anno. Un giorno ricevetti una telefonata da Carl Laemmle, della Universal Company. Era pronto a darmi dodici cent ogni trenta centimetri di pellicola e a finanziare i miei film, ma non mi garantiva mille dollari alla settimana, e perciò non se ne fece nulla. Un giovanotto di nome Jess Robbins, che rappresentava la Essanay Company, disse di avere saputo che volevo un premio di diecimila dollari prima di firmare il contratto e milleduecentocinquanta dollari alla settimana. La cosa mi giunse nuova. Non avevo mai pensato a un premio di diecimila dollari finché non vi accennò lui; ma da quel felice momento divenne un chiodo fisso nella mia mente. Quella sera invitai Robbins a cena e lasciai parlare sempre lui. Egli disse che era venuto per espresso incarico del signor G. M. Anderson, detto Bronco Billy, della Essanay Company, socio del signor George K. Spoor, con un'offerta di milleduecentocinquanta dollari alla settimana; ma che non era sicuro del premio. Alzai le spalle. « Sembra che questo sia un ostacolo per tutti » disse. « Sono pieni di grosse offerte, ma non sganciano un minimo di contante. » Più tardi egli telefonò ad Anderson, a San Francisco, per informarlo che le trattative erano in corso, ma che io volevo subito un premio di diecimila dollari. Ritornò al tavolo giubilante. « Affare fatto » disse. « Domani avrà i suoi diecimila dollari. » Provai un senso di esultanza. Sembrava troppo bello per essere vero. Fu cosi, infatti, perché l'indomani Robbins mi consegnò un assegno di soli seicento dollari, spiegando che il signor Anderson sarebbe venuto personalmente a Los Angeles per concludere l'affare e che si sarebbero
TAVOLE II 19 Durante una festa negli studi di Mack Sennett. Da sinistra a destra: Thomas Ince, io, Mack Sennett, D.W. Griffith 20 Mack Sennett 21 Con D.W. Griffith, a sinistra, che consideravo un genio e Sid Grauman, a destra, grande esperto dello spettacolo 22 Mabel Normand 23 Roscoe Arbuckle 24 La prosperità arrivò agli studi della Keystone dopo che io me ne andai 25 Ford Sterling 26 Ballet Américain : i Keystone Cops 27 G.M. Anderson, conosciuto come Bronco Billy, della Essanay Company, che mi diede il primo compenso straordinario di 600 dollari 28 Un anno dopo, Freuler, presidente della Mutual Film Company, mi consegna un compenso straordinario di 150.000 dollari 29
Lo studio che feci costruire a Hollywood 30 Constance Colli 31 Sir Herbert Beerbohm Tree 32 Iris Tree 33 Parto per Washington con Mary e Douglas 34 Nel Sud a vendere i Buoni della Libertà durante la prima guerra mondiale 35 Con Sydney nella parte del Kaiser
occupati in un secondo tempo della questione dei diecimila dollari. Anderson arrivò pieno di entusiasmo e di fiducia nell'accordo, ma senza i diecimila dollari. « Ci penserà il mio socio, il signor Spoor, quando saremo a Chicago. » Sebbene cominciassi a nutrire dei sospetti, preferii seppellirli nell'ottimismo. Mancavano due settimane alla scadenza del contratto con la Keystone, e mi dedicai anima e corpo alla lavorazione del mio ultimo film, Il suo passato preistorico. Era difficile concentrarsi con tutte le promesse che mi ballavano davanti agli occhi. Ma finalmente il film fu portato a termine.
Undici Fu uno strazio lasciare la Keystone, perché mi ero affezionato a Sen nett e a tutto il personale. Non andai a salutare nessuno, non me la sentivo. Tutto si svolse in modo molto semplice. Terminai di montare il mio film il sabato sera e il lunedì successivo partii con Anderson per San Francisco, dove trovammo ad attenderci la nuova Mercedes verde. Ci fermammo a pranzo al St Francis Hotel, poi proseguimmo per Niles, dove Anderson aveva il piccolo studio, in cui, sotto lo pseudonimo di Bronco Billy, girava i suoi western per la Essanay. (Una sigla ricavata dalle iniziali dei due cognomi Spoor e Anderson.) Niles era a un'ora di viaggio da San Francisco, sulla strada ferrata. Si trattava di un paesino con una popolazione di quattrocento abitanti, le cui uniche risorse erano l'erba medica e l'allevamento del bestiame. Lo studio sorgeva in mezza campagna, a circa sei chilometri e mezzo dal paese. Quando lo vidi provai un tuffo al cuore, perché nulla avrebbe potuto essere più deprimente. Aveva il tetto di vetro, che d'estate lo rendeva un forno. Anderson disse che avrei trovato gli studi di Chicago più di mio gusto e meglio attrezzati per girarvi delle comiche. Rimasi solo un'ora a Niles mentre Anderson sbrigava alcuni affari con i suoi collaboratori. Poi ripartimmo tutti e due per San Francisco, dove salimmo sul treno di Chicago. Anderson mi piaceva; aveva un suo fascino. Sul treno mi trattò come un fratello, e durante le varie fermate mi comprava riviste e caramelle. Era timido e poco comunicativo, e quando parlava di affari osservava
con magnanimità: « Non angustiarti per questo. Andrà tutto a posto ». Parlava poco e sembrava molto preoccupato. Pure, sotto sotto, era sveglio e intelligente. Fu un viaggio interessante. Sul treno c'erano tre uomini. Li notammo per la prima volta nel vagone ristorante. Due avevano un aspetto assai florido, ma il terzo, un tipo ordinario, dall'aria rozza, sembrava un pesce fuor d'acqua. Era strano vederli cenare insieme. Pensammo che i due fossero tecnici e quello male in arnese un operaio addetto ai lavori più umili. Quando lasciammo il vagone ristorante, uno di essi raggiunse il nostro scompartimento e si presentò. Disse che era lo sceriffo di St Louis e che aveva riconosciuto Bronco Billy. Stavano traducendo un criminale dal penitenziario di San Quentin a St Louis, per impiccarlo: non potendo lasciare solo il detenuto, avremmo avuto niente in contrario a recarci nel loro scompartimento per fare quattro chiacchiere col procuratore distrettuale? « Ho pensato che forse v'interesserebbe conoscere i fatti » disse confidenzialmente lo sceriffo. « Questo tipo ha una bella fedina penale. Quando un agente andò ad arrestarlo, a St Louis, chiese il permesso di salire in camera sua a prendere qualche indumento; mentre stava rovistando nel baule, si voltò all'improvviso con una pistola in pugno e fece fuori l'agente, poi fuggi in California, dove fu arrestato per furto con scasso e condannato a tre anni. Quando usci mi trovò ad aspettarlo insieme al procuratore distrettuale. È un caso semplicissimo: lo impiccheremo » disse, compiaciuto. Anderson e io ci recammo nel loro scompartimento. Lo sceriffo era un uomo massiccio, gioviale, con un perpetuo sorriso e un paio d'occhi ammiccanti. Il procuratore distrettuale aveva un'aria più grave. « Accomodatevi » disse lo sceriffo, dopo averci presentato al suo amico. Quindi si rivolse al detenuto. « E questo è Hank » disse. « Lo stiamo riportando a St Louis, dove si troverà in un bell'impiccio. » Hank rise, beffardo, ma non fece commenti. Era un uomo alto un metro e ottanta, verso la cinquantina. Strinse la mano ad Anderson, dicendo: « Ti ho visto un sacco di volte, Bronco Billy, e, perdio, non
mi è mai successo d'incontrare qualcuno che maneggi le pistole e sappia sistemare i rapinatori come te ». Hank, cosi disse, sapeva poco di me. Aveva fatto tre anni a St Quentin « e fuori succedono tante cose che dentro non si vengono a sapere ». Pur ostentando la massima allegria, sotto la nostra giovialità correva una sinistra tensione che sembrava molto diffìcile da sopportare. Non sapevo che cosa dire, e perciò mi limitai a sorridere alle battute dello sceriffo. « È una vita dura » disse Bronco Billy. « Be' » disse lo sceriffo « noi vogliamo renderla meno dura. Hank lo sa. » « Sicuro » disse Hank, brusco. Lo sceriffo cominciò a farci la morale. « È quello che ho detto a Hank quando è uscito da St Quentin. Gli ho detto che se lui gioca a carte scoperte con noi, noi giochiamo a carte scoperte con lui. Non vogliamo ricorrere alle manette o ad altri pasticci. Non ha che un ferro alla caviglia. » « Un ferro alla caviglia? Che cos'è? » domandai. « Non ne ha mai visto uno? » disse lo sceriffo. « Alza il pantalone, Hank. » Hank sollevò la gamba del pantalone ed eccolo là, un anello nichelato lungo circa dodici centimetri e mezzo e grosso sette centimetri e mezzo, fissato alla caviglia, del peso di venti chili. Ci diede lo spunto per parlare degli ultimi modelli di ferri per detenuti. Lo sceriffo spiegò che quello di Hank aveva all'interno una guarnizione di gomma per renderlo meno scomodo a chi lo portava. « E dorme con quell'affare? » « Be', dipende » disse lo sceriffo, guardando Hank di sottecchi. Il sorriso di Hank era cupo ed enigmatico. Restammo con loro fino all'ora di cena e col passare del tempo la conversazione si spostò sul modo in cui Hank era stato arrestato di nuovo. In seguito a uno scambio di informazioni con i penitenziari, spiegò lo sceriffo, avevano ricevuto foto e impronte digitali, e conclu
so che Hank era il loro uomo. Perciò si erano presentati alla porta del penitenziario di St Quentin il giorno in cui Hank doveva essere scarcerato. « Si » disse lo sceriffo, guardando Hank con gli occhietti scintillanti « lo abbiamo atteso sull'altro marciapiede. Ben presto Hank è uscito dalla porticina laterale del cancello della prigione. » Lo sceriffo si passò l'indice su un lato del naso e lo puntò nella direzione di Hank. Poi, con un ghigno diabolico, disse lentamente: « Credo... che sia... lui! ». Anderson e io, affascinati, eravamo tutt'orecchi. « E cosi abbiamo fatto un patto » disse lo sceriffo « che se lui avesse giocato a carte scoperte con noi, noi lo avremmo trattato come si deve. Lo abbiamo portato a fare colazione e gli abbiamo offerto focaccine calde, uova e pancetta. E ora lo vedete viaggiare in prima classe. È meglio che tirarsi dietro le manette e la catena. » Hank sorrise e borbottò: « Avrei potuto oppormi alla vostra richiesta di estradizione, se avessi voluto ». Lo sceriffo lo squadrò freddamente. « Non ti sarebbe servito a nulla, Hank » disse lentamente. « Non avresti ottenuto altro scopo che ritardare un po' le cose. Non è meglio viaggiare comodamente in prima classe? » « Penso di si » disse Hank, a fatica. Eravamo ormai prossimi alla destinazione, quando Hank cominciò a parlare quasi con affetto del carcere di St Louis. Sembrava pregustasse il processo al quale lo avrebbero sottoposto gli altri detenuti. « Sto pensando a quello che mi faranno quei gorilla quando mi troverò di fronte alla Corte del Canguro1 ! Scommetto che mi ripuliranno di tutto il tabacco e delle sigarette che ho in saccoccia! » Il rapporto intercorrente tra sceriffo e procuratore da una parte e 1 La Corte del Canguro è composta dai detenuti, nelle prigioni americane, e ha lo scopo di dividere tra gli anziani gli averi (soldi, tabacco) dei nuovi venuti. {N.d.T.)
Hank dall'altra somigliava all'affetto del matador per il toro che è sul punto di ammazzare. Quando scesero dal treno era l'ultimo giorno di dicembre, e all'atto di separarci lo sceriffo e il procuratore ci augurarono un felice anno nuovo. Anche Hank ci strinse la mano, dicendo cupamente che prima o poi tutto deve finire. Non fu facile trovare il modo di salutarlo. Il suo delitto era stato infame e crudele, eppure mi sorpresi ad augurargli buona fortuna quando scese zoppicando dal treno con la sua palla al piede. Venimmo poi a sapere che era stato impiccato. Quando arrivammo a Chicago fummo ricevuti dal direttore dello studio, ma non dal signor Spoor. Il signor Spoor, disse costui, era via per affari e non sarebbe tornato fin dopo Capodanno. Allora non pensai che l'assenza di Spoor significasse qualcosa, perché nulla sarebbe accaduto allo studio fin dopo tale data. Intanto trascorsi l'ultima sera dell'anno con Anderson, sua moglie e la famiglia. Il giorno di Capodanno Anderson parti per la California, assicurandomi che appena fosse tornato Spoor avrebbe provveduto a tutto, compreso il premio di diecimila dollari. Lo studio sorgeva nella zona industriale ed era, evidentemente, un ex-magazzino. Il mattino in cui vi feci una capatina Spoor non si era ancora visto, e nessuno aveva dato istruzioni per il mio lavoro. Avvertii immediatamente un certo puzzo di bruciato, ed ebbi l'impressione che in ufficio la sapessero più lunga di quanto volessero farmi credere. Ma la cosa non mi preoccupò. Ero sicuro che un buon film avrebbe risolto tutti i miei problemi. Chiesi allora al direttore se sapeva che io dovevo contare sulla piena collaborazione del personale dello studio e avere carte bianche per quanto riguardava tutte le loro facilitazioni. « Ma certo » rispose lui. « Il signor Anderson ha dato istruzioni in merito. » « Allora vorrei mettermi subito al lavoro » dissi. « Benissimo » rispose. « Al primo piano troverà la direttrice dell'ufficio soggetti, la signorina Louella Parsons, che le darà un copione. »
« Io non uso soggetti altrui, me li scrivo da me » sbottai. Tanta vaghezza e l'assenza di Spoor mi avevano reso piuttosto bellicoso. Inoltre i dipendenti dello studio erano dei tipi da mezze maniche che giravano qua e là come impiegati di banca, portando moduli e richieste come se fossero membri della Guaranty Trust Company: l'aspetto commerciale della società faceva una certa impressione, mentre non si sarebbe potuto dire altrettanto per i suoi film. Nell'ufficio al piano di sopra i vari settori erano divisi da tramezzi in cubicoli come quelli dei cassieri. Era un ambiente tutt'altro che favorevole a un lavoro di tipo creativo. Alle sei in punto, anche se un regista era a metà di una scena, si spegneva la luce e si andava tutti a casa. Il mattino dopo mi presentai al cubicolo della distribuzione. « Ho bisogno degli attori per un film » dissi seccamente « vorreste dunque avere la compiacenza di mandarmi i membri della troupe momentaneamente disoccupati? » Mi presentarono chi, secondo loro, poteva fare al caso mio. C'era un tizio, strabico, di nome Ben Turpin, che sembrava sapere il fatto suo e in quel momento combinava assai poco con la Essanay. Mi riuscì subito simpatico, e lo scelsi immediatamente. Ma mi mancava la prima attrice. Dopo numerosi colloqui, trovai una candidata che mi parve avere delle possibilità, una ragazza molto giovane e piuttosto carina che la casa di produzione aveva appena scritturato. Ma, mio Dio !, non riuscii a farle muovere un muscolo. Fu un provino cosi insoddisfacente che mi arresi e la congedai. Anni dopo Gloria Swanson mi disse che era lei quella ragazza e che, nutrendo ambizioni drammatiche e detestando quelle farse grossolane, aveva fatto apposta a non collaborare. Francis X. Bushman, allora divo di prima grandezza della Essanay, avverti la mia antipatia per questo. « Quali che siano le tue idee sullo studio » disse « esso ne è proprio l'antitesi. » Invece non era cosi; lo studio non mi piaceva, come non mi piaceva la parola « antitesi ». Le cose andarono di male in peggio. Quando volevo visionare il materiale appena girato mi proiettavano il negativo per risparmiare la spesa
di una copia positiva. La cosa mi fece inorridire. E quando pretesi che facessero una copia positiva, reagirono come se volessi rovinarli. Erano felici e contenti come pasque. Essendo stati tra i primi a fondare l'industria cinematografica, protetti com'erano da brevetti che davano loro una specie di monopolio, avevano come ultima preoccupazione quella di fare buoni film. E anche se altre società stavano sfidando i loro diritti e producendo film migliori, la Essanay continuava cosi, soddisfatta di sé, distribuendo soggetti come carte da gioco ogni lunedì mattina. Avevo quasi finito il mio primo film, intitolato // debutto di Charlot 1. Erano passate due settimane, ma del signor Spoor non si era ancora vista neanche l'ombra. Non avendo ricevuto né il premio né la paga, usavo un tono sprezzante. « Dov'è questo signor Spoor? » domandavo agli impiegati. Imbarazzati, non sapevano darmi una risposta soddisfacente. Non feci nessuno sforzo per nascondere il mio disprezzo e chiesi loro se i suoi affari li trattava sempre cosi. Alcuni anni dopo fu lo stesso Spoor a dirmi com'erano andate le cose. Sembra che quando Spoor, che allora non aveva mai sentito parlare di me, venne a sapere che Anderson mi aveva scritturato per un anno a milleduecento dollari la settimana, più un premio di diecimila dollari, egli avesse spedito un telegramma furibondo, chiedendogli se era diventato matto. E quando Spoor seppe che Anderson mi aveva scritturato a scatola chiusa, solo per le raccomandazioni di Jess Robbins, andò su tutte le furie. Aveva dei comici, i migliori dei quali prendevano solo settantacinque dollari alla settimana, e i loro film riuscivano appena a pagarsi le spese. Donde la sua assenza da Chicago. Al ritorno, tuttavia, andò a pranzo in uno dei grandi alberghi di Chicago con parecchi amici, i quali, con sua sorpresa, si congratularono con lui per avermi scritturato. E negli uffici della casa di produzione 1 His New Job, 1915.
si rovesciò una valanga di articoli su Charlie Chaplin. Allora egli pensò di fare un esperimento. Diede un quarto di dollaro a un fattorino e mi fece cercare per tutto l'albergo. Mentre il ragazzo girava per l'atrio gridando: « Il signor Charlie Chaplin è desiderato al telefono » i curiosi cominciarono a radunarsi finché il salone non fu pieno zeppo di una folla eccitata e tumultuosa. Questo fu il primo segno della mia popolarità. Il secondo fu dato da ciò che accadde all'agenzia di distribuzione cinematografica durante la sua assenza: si venne a sapere che prima ancora che io avessi cominciato il film c'era già stata una vendita anticipata di sessantacinque copie, un fatto senza precedenti, e quando io lo ebbi terminato del film furono vendute centotrenta copie, mentre gli ordini fioccavano ancora. Alzarono immediatamente il prezzo da tredici a venticinque cent ogni trenta centimetri di pellicola. Quando finalmente Spoor si fece vivo, lo affrontai per parlargli della paga e del premio. Egli si profuse in giustificazioni, spiegandomi che aveva dato incarico alla direzione di occuparsi di tutti i termini del contratto. Lui non lo aveva ancora visto, ma riteneva che la direzione fosse al corrente di ogni particolare. Questa specie di scaricabarile mi fece saltare la mosca al naso. « Di che ha paura? » dissi, laconicamente. « Può sempre rimangiarsi la parola, se crede; anzi, ho idea che lo abbia già fatto. » Spoor era un individuo alto, grosso, garbato e quasi bello, non fosse stato per il viso pallido e flaccido, e un labbro superiore che sporgeva prepotentemente su quello inferiore. « Mi rincresce che lei la pensi cosi » disse « ma come certo saprà, Charlie, la nostra è una ditta seria e ha sempre tenuto fede agli impegni. » « Be', in questo caso non direi » lo interruppi io. « Ci occuperemo immediatamente della cosa » disse. « Non ho fretta » risposi sarcasticamente.
Durante il mio breve soggiorno a Chicago, Spoor fece di tutto per entrare nelle mie buone grazie, ma io non riuscii mai ad averlo veramente in simpatia. Gli dissi che a Chicago non mi trovavo bene e che se voleva dei buoni risultati doveva organizzare le cose in modo da permettermi di tornare a lavorare in California. « Faremo tutto il possibile perché tu sia contento » rispose lui. « Che ne diresti di andare a Niles? » Non ero troppo entusiasta dell'idea, ma preferivo Anderson a Spoor. Perciò, dopo avere completato // debutto di Charlot, mi recai a Niles. A Niles, Bronco Billy girava tutti i suoi film western. Erano in una bobina e a realizzarli impiegava una giornata. Aveva sette intrecci che ripeteva continuamente e con i quali guadagnò parecchi milioni di dollari. Lavorava sporadicamente. A volte sfornava sette western da una bobina in una settimana, poi si faceva sei settimane di vacanza. Intorno allo studio di Niles sorgevano diversi piccoli bungalow californiani che Bronco Billy aveva fatto costruire per i membri della troupe, e uno grande che occupava personalmente. Mi disse che, se lo desideravo, avrei potuto abitarvi con lui. La prospettiva mi riempi di gioia. Vivere con Bronco Billy, il cowboy milionario che a Chicago mi aveva invitato nel sontuoso appartamento della moglie, avrebbe almeno reso tollerabile la permanenza a Niles. Era buio quando entrammo nel suo bungalow, e ci toccò di accendere la luce. In una stanza c'era un vecchio letto di ferro con una lampadina elettrica penzolante dalla testata. Il resto dell'arredamento era composto da un vecchio tavolo traballante e una seggiola. Vicino al letto c'era una cassetta di legno sopra la quale si trovava un portacenere di ottone pieno di vecchi mozziconi di sigaretta. La mia stanza era quasi uguale, Solo che il letto di ferro era più piccolo e mancava la cassetta. Si trattava di una baracca sgangherata. Non c'era nulla che funzionasse. Del bagno meglio non parlare. Bisognava prendere una brocca e riempirla sotto il rubinetto, poi vuotarla giù per il tubo
di scarico per far funzionare lo sciacquone. Questa era la dimora di G. M. Anderson, il cowboy multimilionario. Giunsi alla conclusione che Anderson era un eccentrico. Benché milionario, poco si curava delle comodità. Le sue predilezioni andavano alle automobili dai vivaci colori. Si divertiva ad allenare pugili e a mettere in scena riviste musicali nel teatro di sua proprietà. Quando non lavorava a Niles trascorreva gran parte del suo tempo a San Francisco, dove alloggiava in un piccolo albergo dai prezzi moderati. Era un tipo strano, vago, discontinuo e irrequieto, che amava divertirsi in solitudine. E pur avendo a Chicago una figlia e una moglie incantevole, andava a trovarle di rado. Conducevano vite diverse, separatamente. Passare da uno studio all'altro era una bella seccatura. Dovevo organizzare una nuova troupe, il che voleva dire procurarsi un operatore soddisfacente, un aiuto regista e una compagnia stabile: quest'ultima presentava le maggiori difficoltà perché a Niles c'era poco da scegliere. Oltre alla troupe dei cowboy di Anderson, a Niles c'era solo un'altra compagnia: una squadra di comici insignificanti che mandavano avanti la baracca e servivano a pagare le spese quando G. M. Anderson non lavorava. La compagnia stabile aveva un organico di dodici persone, quasi tutti attori cowboy. Dovevo ancora risolvere il problema di trovare una bella ragazza da trasformare nella mia prima attrice. Ormai non vedevo l'ora di mettermi al lavoro. Pur non avendo ancora pensato al soggetto, ordinai l'allestimento di una scena che rappresentasse l'interno di un caffè, pieno di motivi ornamentali. Quando mi mancavano gli spunti, l'interno di un caffè me ne forniva sempre qualcuno. Mentre me lo allestivano andai a San Francisco con G. M. Anderson, a cercare una prima attrice tra le ballerine della sua commedia musicale: benché fosse un lavoro piacevole, nessuna di esse riuscì fotogenica. Carl Strauss, un bel giovanotto di origine tedesca che lavorava con Anderson nel ruolo di cowboy, disse che conosceva di vista una ragazza che ogni tanto frequentava il Tate's Cafè di Hill Street. Non la conosceva di persona, ma era piuttosto carina e forse il proprietario sapeva il suo indirizzo.
Il signor Tate la conosceva benissimo. Abitava presso una sorella sposata, era di Lovelock, nel Nevada, e si chiamava Edna Purviance. Ci mettemmo subito in contatto con lei e fissammo un appuntamento al St Francis Hotel. Più che carina era bellissima. Per tutto il colloquio ebbe un'aria seria e malinconica. Venni poi a sapere che stava smaltendo proprio allora i postumi di una delusione amorosa. Si era iscritta a un college e aveva frequentato un corso commerciale. Era silenziosa e riservata, con due occhi grandi e bellissimi, denti bianchi e una bocca delicata. Dubitai che fosse in grado di recitare o che avesse un po' di spirito, tanto sembrava seria. Con queste riserve, la scritturammo. Almeno sarebbe stata decorativa. L'indomani ritornammo a Niles, ma la scena del caffè non era pronta e ciò che avevano allestito era una cosa rozza e informe; in fatto di tecnica, allo studio non mancavano le lacune. Dopo avere ordinato alcuni ritocchi, cominciai a pensare al soggetto. Mi venne in mente un titolo: Charlot nottambulo 1 - un ubriaco in cerca di svago - che sarebbe stato più che sufficiente per cominciare. Al locale notturno feci aggiungere una fontana, pensando di poterne ricavare qualche gag, e come spalla mi presi Ben Turpin. Il giorno prima dell'inizio della lavorazione un membro della troupe m'invitò a cena insieme con Anderson. Fu una cosa modesta, a base di birra e panini. Eravamo una ventina, compresa la signorina Purviance. Dopo cena alcuni si misero a giocare a carte mentre gli altri sedettero qua e là a conversare. Il discorso cadde sul tema dell'ipnotismo, e io presi a vantarmi dei miei poteri ipnotici. Qualcuno la bevve, ma Edna no. Sostenevo di poter ipnotizzare in sessanta secondi chiunque tra i presenti. Ed ero tanto convincente che quasi tutta la troupe fini per credere alle mie parole. Edna si mise a ridere. « Che sciocchezze ! Nessuno riuscirebbe a ipnotizzare me! » 1 A Night Out, 1915.
« Tu » dissi io « sei proprio il soggetto ideale. Scommetto dieci dollari che in sessanta secondi ti faccio addormentare. » « D'accordo » disse Edna « ci sto. » « Naturalmente, se poi non ti sentirai bene non dare la colpa a me. Non sarà nulla di grave, si capisce. » Cercavo di farle paura per indurla a tirarsi indietro, ma Edna non si lasciò intimidire. Una donna la pregò di rinunciare. « Sei davvero una sciocca » disse a Edna. « La scommessa è sempre valida » disse con calma la signorina Purviance. « Benissimo » risposi. « Fammi il favore di metterti con le spalle al muro, isolata dagli altri, affinchè io possa polarizzare tutta la tua attenzione. » Ella obbedì con un sorriso di superiorità. Ormai tutti i presenti seguivano le nostre mosse. « Qualcuno guardi l'orologio » dissi io. « Ricordati » disse Edna « devi farmi dormire in sessanta secondi. » « In sessanta secondi sarai assolutamente priva di sensi » risposi. « Via ! » disse il cronometrista. Feci subito due o tre gesti drammatici, fissandola intensamente negli occhi. Poi accostai la bocca al suo viso, dicendo a bassa voce perché gli altri non sentissero : « Fa' fìnta ! » e tornai ad agitare le mani, ingiungendole: « Tu stai per perdere i sensi... hai perso i sensi, sei priva di sensi! ». Poi mi tirai indietro e lei cominciò a barcollare. Rapidamente la presi fra le braccia. Tra gli astanti, due donne cacciarono uno strillo. « Presto ! » dissi. « Aiutatemi a stenderla sul divano. » Quando tornò in sé, ella fìnse un profondo stupore e disse di sentirsi stanca. Pur avendo vinto la scommessa, come le sarebbe stato facile dimostrare a tutti i presenti, aveva preferito rinunciare generosamente al proprio trionfo per amore di un bello scherzo. Questo le guadagnò la mia stima e il mio affetto, e mi convinse che non le mancava il senso dell'umorismo.
A Niles realizzai quattro comiche, ma essendo molto limitate le possibilità offerte dallo studio non mi sentivo per niente soddisfatto e perciò proposi ad Anderson di andare a Los Angeles, che in quel settore disponeva di una migliore attrezzatura. Egli acconsenti, ma per un altro motivo : perché gli stavo monopolizzando lo studio, che non era abbastanza grande né dotato di personale sufficiente per tre compagnie. Trattò quindi l'affìtto di un piccolo studio a Boyle Heights, nel cuore di Los Angeles. Mentre eravamo là, due giovanotti agli inizi della carriera vennero ad affittare una parte dello studio: si chiamavano Hal Roach e Harold Lloyd. Poiché ad ogni nuovo film cresceva il valore monetario delle mie comiche, la Essanay cominciò ad esigere condizioni senza precedenti, addebitando ai gestori un minimo di cinquanta dollari al giorno per il noleggio delle mie comiche in due bobine. Ciò significava che incassavano più di cinquantamila dollari anticipati per ciascun film. Una sera, tornato allo Stoll Hotel, dove alloggiavo, un albergo di poche pretese ma nuovo e confortevole, ricevetti un'urgente comunicazione telefonica da parte dell'Examiner di Los Angeles. Mi lessero un telegramma che avevano ricevuto da New York. Ecco il testo: OFFRIAMO A CHAPLIN 25.00 0 DOLLARI PER DUE SETTIMANE A CONDIZIONE CHE AP PAIA QUINDICI MINUTI OGNI SERA SULLA SCENA DEL NEW YORK HIPPODROME. LA COSA NON INTERFERIRÀ COL SUO LAVORO. Chiamai immediatamente G. M. Anderson a San Francisco. Era tardi e non riuscii a parlargli che alle tre del mattino. Per telefono lo informai del telegramma, pregandolo di concedermi un permesso di due settimane in modo da lasciarmi guadagnare quei venticinquemila dollari. Mi offersi di cominciare una comica sul treno per New York e di finirla appena arrivato. Ma Anderson rifiutò. La mia finestra, aperta, dava sul pozzo di aerazione dell'albergo: bastava alzare la voce per farmi sentire in tutte le stanze. Il collegamento
telefonico era pessimo e perciò dovetti urlare diverse volte: « Non ho nessuna intenzione di rinunciare a venticinquemila dollari per due settimane di lavoro ! ». Una finestra si aprì sopra la mia e una voce rimbeccò: « Piantala di berciare e va' a letto, imbecille ! ». Al telefono Anderson mi disse che se avessi realizzato per la Essanay un'altra comica in due bobine i venticinquemila dollari me li avrebbero dati loro. Accettò di venire a Los Angeles il giorno seguente per consegnarmi l'assegno e redigere il contratto. Dall'alto continuavano le lamentele. Quand'ebbi finito di telefonare spensi la luce e mi accinsi a coricarmi. Poi mi venne in mente la voce di poc'anzi. Scesi dal letto, aprii la finestra e gridai: «Va' all'inferno! ». L'indomani Anderson giunse a Los Angeles con un assegno di venticinquemila dollari, e la società di New York che mi aveva fatto la prima offerta falli due settimane dopo. Dovevo essere nato con la camicia. Ero molto contento di trovarmi nuovamente a Los Angeles. Benché sorgesse in un sobborgo di case povere e decrepite, lo studio di Boyle Heights mi consentiva di stare vicino a mio fratello, che vedevo ogni tanto, la sera. Lavorava sempre per la Keystone e il suo contratto con quella società sarebbe scaduto circa un mese prima della data fissata dalla Essanay per il mio. Il mio successo aveva assunto tali proporzioni che Sydney, ormai, intendeva dedicare tutto il suo tempo ai miei affari. Stando ai « si dice » avevo raggiunto una fama internazionale. Notizie da New York riferivano che le code davanti ai botteghini si allungavano a ogni nuova comica. In tutti i grandi magazzini e in tutti i drugstores si vendevano statuette e riproduzioni del mio personaggio. Le ballerine delle Ziegfeld Follies facevano i numeri di Chaplin, dissimulando la loro bellezza sotto baffi, bombette, scarpacce e pantaloni sformati, e cantando una canzone intitolata: Those Charlie Chaplin Feet 1. 1 Quei piedi di Charlie Chaplin. 207'
Eravamo anche bombardati da proposte commerciali di ogni gene re, relative a libri, abiti, candele, giocattoli, sigarette e dentifrici. La posta degli ammiratori, a mucchi sempre più grandi, diventò un pro blema. Sydney insisteva per rispondere a tutti, senza curarsi mini mamente della spesa che avremmo dovuto sostenere per assumere un'altra segretaria. Fu lui che propose ad Anderson di vendere i miei film separatamente dal resto della produzione. Non era giusto che tutti i soldi li facessero i gestori. Anche se la Essanay vendeva centinaia di copie dei miei film, ciò accadeva attraverso antiquati circuiti di distribuzione. Sydney propose di fare una graduatoria dei maggiori teatri a seconda della capienza. Sulla base di questo piano ogni film sarebbe giunto a incassare centomila dollari o più. Anderson non lo ritenne possibile; sarebbe andato contro la politica dell'intero Motion Picture Trust, coinvolgendo per giunta sedicimila teatri le cui regole e i cui metodi d'acquisto dei film erano irrevocabili; pochi gestori avrebbero accettato condizioni simili. Qualche tempo dopo il Motion Picture Herald annunciò che la Essanay aveva abbandonato il vecchio sistema di vendita e, come si era affrettato a suggerire Sydney, graduava le condizioni a seconda della capienza dei teatri. Ciò, come aveva pronosticato mio fratello, portò gli incassi a centomila dollari per ciascuna delle mie comiche. La notizia mi fece rizzare gli orecchi. Dato che prendevo solo milleduecentocinquanta dollari alla settimana e mi addossavo tutto il lavoro relativo al soggetto, all'interpretazione e alla regia, cominciai a lamentarmi che sgobbavo troppo e che mi occorreva più tempo per realizzare i miei film. Ero in possesso di un contratto annuale e avevo sfornato le comiche con una frequenza bi o trisettimanale. A Chicago si misero subito in azione. Spoor prese un treno per Los Angeles e, per tenermi buono, stabili di assegnarmi un premio di diecimila dollari per ogni film. Grazie a questo rimedio la mia salute migliorò. Fu in questo periodo che D. W. Griffith produsse la sua epopea, La
nascita di una nazione 1, un film che lo trasformò nel più importante regista cinematografico dell'epoca. Egli resta, indubbiamente, un genio del cinema muto. Benché la sua opera fosse melodrammatica e a tratti eccessiva e assurda, i film di Griffith avevano un sapore originale che li rendeva tutti degni di essere visti. De Mille ebbe un inizio molto promettente con The Whispering Chorus 2 e una versione della Carmen 3, ma dopo Maschio e femmina 4 la sua opera non andò mai oltre la camicia da notte e il boudoir. Ciò nonostante, rimasi cosi colpito dalla sua Carmen da farne una parodia in due bobine: fu il mio ultimo film per la Essanay. Quando li lasciai vi aggiunsero tutti gli scarti fino a portarlo a quattro bobine, con un risutato demoralizzante: appena lo ebbi visto, mi misi a letto per un giorno intero. Anche se fu un'azione disonesta, mi rese un servizio, perché da allora in poi ebbi cura di far includere in ogni contratto il divieto di mutilare, allungare o modificare in qualsiasi modo la mia opera finita. L'avvicinarsi della scadenza del mio contratto risospinse Spoor sulla costa con una proposta che, come disse lui, nessun altro avrebbe potuto uguagliare. S'impegnava a darmi trecentocinquantamila dollari se gli avessi consegnato dodici film in due bobine, addossandosi il costo della produzione. Lo informai che alla firma di qualsiasi contratto volevo anzitutto un premio di centocinquantamila dollari. Bastò questo per interrompere le trattative con Spoor. Il futuro, il futuro: il meraviglioso futuro! Dove conduceva? Le prospettive erano affascinanti. Come una valanga, danaro e successo m'investivano con impeto crescente; pur lasciandomi perplesso, e quasi spaventato, era una cosa meravigliosa. 1 2 3 4
The Birth of a Nation, 1915, con Lillian Gish e Henry B. Walthall. (N.d.T.) Il coro in sordina, 1918. Carmen, 1915, con Geraldine Farrar e Wallace Reid. (N. d. T.) Male and Female. 1919, con Gloria Swanson, Thomas Meighan e Lila Lee
(N.d.T.) T 209
Mentre Sydney era a New York per vagliare alcune offerte, io stavo completando le riprese di Carmen 1 e vivevo a Santa Monica in una casa sul mare. Certe sere cenavo al Nat Goodwin's Cafè, in fondo alla banchina di Santa Monica. Nat Goodwin era considerato il più grande attore drammatico e del teatro leggero americano. Aveva avuto una brillante carriera sia come interprete scespiriano sia come attore comico del teatro leggero moderno. Era intimo amico di Sir Henry Irving e si era sposato otto volte, sempre con donne celebri per la loro bellezza. La sua quinta moglie fu MaTTne Elliott, che lui chiamava, per capriccio, « il senatore romano ». « Ma era bellissima e assai intelligente » mi disse. Goodwin era un uomo colto, amabile, avanti negli anni, con un profondo senso dell'umorismo, e aveva ormai abbandonato le scene. Pur non avendolo mai visto recitare in teatro, tenevo in gran conto sia lui che la sua straordinaria reputazione. Diventammo ottimi amici e nelle fredde serate autunnali andavamo insieme a passeggio sulla riva deserta dell'oceano. L'atmosfera cupa e malinconica accentuava il mio entusiasmo. Quando egli seppe che alla fine del film sarei andato a New York, mi diede qualche ottimo consiglio. « Hai ottenuto un successo strepitoso e ti aspetta una vita fantastica se saprai amministrarti... Quando sarai a New York, gira al largo da Broadway, sta lontano dagli occhi del pubblico. L'errore di molti celebri attori è di rendersi troppo accessibili, vogliono farsi vedere e ammirare: col risultato di distruggere l'illusione. » La sua voce era fonda e sonora. « T'inviteranno dappertutto » riprese « ma tu non accettare. Scegliti un paio di amici e il resto accontentati d'immaginarlo. Più di un grande attore ha commesso lo sbaglio di accettare ogni invito mondano. Ad esempio, piglia John Drew: era il beniamino dell'alta società e frequentava tutte le case più eleganti, ma loro nel suo teatro non ci andavano. Ne avevano fatto un ninnolo dei loro salotti. 1 Carmen, 1916.
Tu hai affascinato il mondo e puoi continuare a farlo se ne resti al di fuori » concluse con una punta di nostalgia nella voce. Erano discorsi ammaliatori, seppure un po' tristi, mentre si passeggiava nel crepuscolo autunnale lungo la sponda abbandonata dell'oceano, Nat alla fine della sua camera, io all'inizio della mia. Quand'ebbi finito di montare Carmen, preparai in fretta e furia una valigetta e mi recai direttamente dal camerino al treno delle sei per New York, spedendo a Sydney un telegramma per informarlo dell'ora di partenza e di arrivo. Era un treno lentissimo, che impiegava cinque giorni per giungere a destinazione. Sedevo per conto mio in uno scompartimento aperto: allora nessuno mi riconosceva senza la truccatura usata per le comiche. Viaggiavamo lungo il tronco ferroviario meridionale che passava da Amarillo, nel Texas, dove il treno sarebbe giunto alle sette di sera. Avevo deciso di farmi la barba, ma nella ritirata c'erano altri passeggeri prima di me, e perciò mi toccò di aspettare. Di conseguenza ero ancora in canottiera quando fummo alle porte di Amarillo. Come il treno si arrestò in stazione ci trovammo improvvisamente al centro di un'incredibile baraonda. Sbirciando dal finestrino della ritirata vidi la stazione gremita di gente: una gran folla si assiepava dappertutto. Festoni di bandierine correvano da un pilastro all'altro e sulla banchina c'erano parecchi lunghi tavoli apparecchiati e carichi di rinfreschi. Una manifestazione per festeggiare l'arrivo o la partenza di qualche notabile del posto, pensai. E cominciai a insaponarmi il viso. Ma l'entusiasmo cresceva, poi udii chiaramente delle voci che dicevano: « Dov'è? ». Quindi la carrozza fu invasa da una frotta di persone, che correvano su e giù per il corridoio gridando: « Dov'è? Dov'è Charlie Chaplin? ». « Eh? » risposi io. « In nome del sindaco di Amarillo, nel Texas, e di tutti i suoi ammiratori, la invitiamo a bere qualcosa con noi e a partecipare a un leggero rinfresco. »
Mi colse un improvviso attacco di timor panico. « Ma non posso, in queste condizioni ! » esclamai. « Oh, non si dia pensiero, Charlie. Metta una vestaglia e venga a salutare la folla. » In fretta e furia mi tolsi il sapone dal viso e, mezzo sbarbato com'ero, indossai una camicia, feci il nodo alla cravatta e scesi dal treno abbottonandomi la giacca. Fui accolto da una salva di applausi. Il sindaco cercò di parlare: « Signor Chaplin, in nome dei suoi ammiratori di Amarillo... » ma la sua voce fu soffocata dai battimani. Riprese da capo: « Signor Chaplin, in nome dei suoi ammiratori di Amarillo... ». Poi la folla si fece avanti, spingendomi addosso al sindaco e schiacciandoci tutti e due contro il treno, tanto che per un attimo nessuno pensò più ai discorsi e cercammo solamente di metterci in salvo. « Indietro ! » gridavano gli agenti, caricando la folla per aprirci un passaggio. Il sindaco perse parecchio del suo entusiasmo e si rivolse con una certa asprezza sia a me che agli agenti. « Be', Charlie, sbrighiamoci, cosi lei potrà tornare sul treno. » Dopo l'assalto generale ai tavoli l'atmosfera si calmò e il sindaco potè finalmente tenere il suo discorso. Tamburellò sul tavolo con un cucchiaio : « Signor Chaplin, i suoi amici di Amarillo, nel Texas, desiderano ringraziarla per le ore piacevoli che ha permesso loro di trascorrere e la pregano di unirsi a noi per mangiare un panino e bere una Coca-Cola ». Dopo avere tessuto il suo elogio, mi pregò di dire qualche parola, insistendo perché salissi sul tavolo, dove borbottai che ero felice di essere ad Amarillo e tanto sorpreso da questa meravigliosa, emozionante accoglienza che l'avrei ricordata per il resto dei miei giorni, ecc. Dopodiché mi misi a sedere e cercai di scambiare quattro chiacchiere _ col sindaco. Gli chiesi come avesse fatto a sapere del mio arrivo. « Grazie agli operatori del telegrafo » disse lui, spiegandomi che il telegramma da me
spedito a Sydney era stato trasmesso ad Amarillo, poi a Kansas City, Chicago e New York, e che gli operatori avevano dato la notizia alla stampa. Quando tornai in carrozza sedetti docilmente al mio posto. Ormai tutto il treno sembrava percorso dalla corrente elettrica. La gente cominciò a passare ridacchiando su e giù per il corridoio. Mi pareva di essere il proverbiale pesce rosso. Ancora non riuscivo a capacitarmi dell'accaduto. Sedevo al mio posto, teso, inebriato e depresso tutto in una volta. Mi sentivo segregato, isolato, oggetto di curiosità. Prima che il treno ripartisse mi furono consegnati diversi telegrammi. Uno diceva: « Benvenuto Charlie ti aspettiamo a Kansas City-». Un altro: « Quando arriverà a Chicago troverà una berlina a sua disposizione per passare da una stazione all'altra ». Un terzo: « Non vuole fermarsi per la notte, ospite del Blackstone Hotel? ». Avvicinandoci a Kansas City, la gente si assiepava ai bordi della strada ferrata, gridando e sventolando il cappello. Kansas City, un grosso nodo ferroviario, era gremita di folla. La polizia stentava a controllare tutta la gente ammassata davanti alla stazione. Una scaletta fu appoggiata al treno per consentirmi di salire sul tetto del vagone e mostrarmi alla folla. Mi sorpresi a ripetere le stesse banalità di Amarillo. Mi aspettavano altri telegrammi: non volevo visitare scuole e istituti? Li ficcai nella valigia per rispondere a New York. Da Kansas City a Chicago trovai altra gente in attesa ai nodi ferroviari e nei campi, che salutava il treno al suo passaggio. Pensai che il mondo doveva essere impazzito. Se due o tre comiche come le mie potevano suscitare tutto questo entusiasmo, non c'era un che di fasullo in ogni tipo di celebrità? Ero sbalordito: in quel mondo non mi ci ritrovavo. Ebbi anzi un'insolita reazione. Avevo sempre pensato che mi sarebbe piaciuto essere al centro dell'attenzione generale, col suo calore, e ora il sogno si era avverato. Ma provavo anche un senso di solitudine. A Chicago, dov'era necessario cambiare treno e stazione, la folla si assiepava davanti all'uscita e tra le acclamazioni mi vide salire a bordo
di una berlina. Mi portarono al Blackstone Hotel, dove mi fu asse gnato un appartamento affinchè potessi riposarmi prima di riprendere il viaggio per New York. Al Blackstone c'era un telegramma del capo della polizia di New York, il quale mi pregava di usargli la cortesia di scendere alla 125a Strada, invece di arrivare come previsto alla Grand Central Station, dato che la folla vi si stava già radunando con largo anticipo. Alla 125a Strada Sydney mi aspettava con una berlina, teso ed ecci tato. Parlò a bassa voce. « Che te ne pare? » disse. « La folla ha co minciato a radunarsi alla stazione sin dalle prime ore del mattino e la stampa ha emesso bollettini giornalieri da quando sei partito da Los Angeles. » Mi mostrò un quotidiano che annunciava a grossi carat teri neri: « È qui! ». Un altro titolo: « Charlie si è nascosto! ». Men tre andavamo in albergo m'informò di avere concluso un accordo con la Mutual Film Corporation per una somma di seicentosettantamila dollari all'anno, pagabili a diecimila la settimana, oltre a un premio di centocinquantamila dollari alla firma del contratto dopo aver su perato la visita dei medici delle assicurazioni. Doveva incontrare a pranzo l'avvocato, col quale si sarebbe intrattenuto per il resto della giornata, e perciò mi avrebbe lasciato al Plaza, dove era stata preno tata una stanza per me: ci saremmo rivisti il mattino dopo. Come disse Amleto: « Ora sono solo ». Quel pomeriggio girovagai per le strade guardando le vetrine dei negozi e indugiando senza scopo agli angoli delle vie. Che mi succede? Eccomi all'apice della carriera: tutto in ghingheri e senza un posto dove andare. Come si fa a conoscere gente, gente interessante? Mi venne una crisi di malinconia. Si direbbe che di fronte all'improvviso successo o nelle avversità le nostre reazioni siano le stesse: ci sentiamo smarriti e in preda allo sgomento. Ricordo che un grande attore un giorno mi domandò: « Ora che siamo arrivati, Charlie, che cosa abbiamo ottenuto? ». « Arrivati dove? » risposi. Pensai al consiglio di Nat Goodwin: « Gira al largo da Broadway ». Per quanto mi riguardava, Broadway era un deserto. Pensai ai vecchi
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amici che mi sarebbe piaciuto rivedere portando sulla testa l'aureola del successo: ma avevo vecchi amici a New York, a Londra o in un altro posto qualsiasi? Mi occorreva un pubblico speciale: forse Hetty Kelly. Da quando ero entrato nel mondo del cinema non ne avevo saputo più nulla: sarebbe stato divertente vedere le sue reazioni. Ora viveva a New York con sua sorella, la moglie di Frank Gould. Risalii a piedi la Quinta Avenue: sua sorella abitava all'834. Mi fermai davanti alla casa, chiedendomi se c'era, ma non ebbi il coraggio di suonare il campanello. Però Hetty avrebbe potuto uscire e forse ci saremmo incontrati per caso. Attesi una mezz'ora passeggiando avanti e indietro, ma nessuno entrò né usci di casa. Andai al Childs Restaurant del Columbus Circle, dove ordinai focaccine di frumento e una tazza di caffè. Mi servirono distrattamente finché chiesi alla cameriera un altro po' di burro; allora mi riconobbero. Da quel momento fu una reazione a catena, tutti si misero a guardarmi da ogni angolo del locale. Fui costretto a farmi largo in mezzo a una folla immensa radunatasi dentro e fuori, e a fuggire su un tassi preso al volo. Per due giorni camminai lungo le strade di New York senza incontrare nessuno, oscillando tra l'entusiasmo e la depressione più nera. Frattanto i medici delle assicurazioni mi avevano visitato. Qualche giorno dopo Sydney piombò in albergo, allegrissimo. « È fatta, la visita è andata bene. » Seguirono le formalità relative alla firma del contratto. Mi fotografarono mentre ricevevo l'assegno di centocinquantamila dollari. Quella sera lessi insieme alla folla di Times Square la notizia che balenò lungo l'insegna elettrica che corre intorno al grattacielo del Times. Diceva: « Chaplin firma con la Mutual a seicentosettantamila all'anno ». Là in piedi, la lessi col massimo distacco, come se riguardasse addirittura un'altra persona. Mi erano accadute tante cose che mi sentivo completamente vuoto.
Dodici La solitudine è una cosa repellente. Ha un lievissimo alone di tristezza, non riesce ad attrarre o a interessare; se ne prova un po' di vergogna. Ma, in misura maggiore o minore, è la compagna di tutti. Però, la mia solitudine era deludente perché io avevo tutti i requisiti per farmi degli amici; ero giovane, ricco e famoso, eppure giravo per New York sempre solo e imbarazzato. Ricordo quando incontrai la bellissima Josie Collins, la stella del teatro musicale britannico, che mi venne incontro all'improvviso mentre camminavo lungo la Quinta Strada. « Oh » disse con grande cordialità « che fai tutto solo? » Mi parve di essere stato sorpreso con le mani nel sacco. Sorrisi e dissi che stavo andando, proprio allora, a pranzo con amici. E, anche se mi sarebbe piaciuto confessarle la verità - che ero solo e che sarei stato felice di invitarla a pranzo - la timidezza me lo impedì. Il pomeriggio dello stesso giorno feci una passeggiata fino al teatro Metropolitan e m'imbattei in Maurice Guest, genero di David Belasco. Maurice lo avevo conosciuto a Los Angeles. Aveva cominciato come bagarino, un mestiere molto diffuso la prima volta che arrivai a New York. (Bagarino era un tale che dopo essersi assicurato i posti migliori di un teatro se ne stava accanto all'ingresso per rivenderli a prezzo maggiorato.) Maurice si era fatto un nome come impresario teatrale, dopo una fulminea carriera culminata con la messa in scena del grande spettacolo diretto da Max Reinhardt, intitolato Il miracolo 1. 1 The Miracle. 216
Slavo, pallido, con due grandi occhi a mandorla, una bocca larga e tumida, Maurice sembrava una brutta copia di Oscar Wilde. Era un tipo emotivo che quando parlava pareva sempre avercela con te. « Dove diavolo ti eri cacciato? » Poi, prima che potessi rispondere: « Perché diavolo non sei venuto a trovarmi? ». Gli dissi che stavo solo facendo quattro passi. « Che diamine ! Non dovresti isolarti cosi ! Dove vai? » « In nessun posto » risposi docilmente. « Prendevo solo una boccata d'aria. » « Forza ! » disse lui, dandomi uno strattone e prendendomi a braccetto per precludermi ogni via di scampo. « Ti presenterò io alla gente che conta... a quella che dovresti frequentare. » « Dove andiamo? » chiesi ansiosamente. « Stai per conoscere il mio amico Caruso » disse lui. Ogni protesta fu vana. « Oggi c'è una matinée della Carmen con Enrico Caruso e Geraldine Farrar. » « Ma io... » « Cristo, non avrai mica paura ! Caruso è un tipo formidabile... semplice e umano come te. Sarà felicissimo di conoscerti, concederti un autografo, eccetera. » Cercai di dirgli che preferivo fare quattro passi e prendere una boccata d'aria fresca. « Non temere, ti farà meglio dell'aria fresca ! » E cosi mi trovai sospinto attraverso l'atrio del Metropolitan e giù per la corsia fino a due poltrone vuote. « Siedi qui » mormorò Guest. « Vengo a prenderti nell'intervallo. » Poi tornò sui suoi passi e scomparve. Avevo sentito parecchie volte la musica della Carmen, ma ora mi parve poco familiare. Guardai il programma: si, era mercoledì, e per quel giorno esso annunciava la Carmen. Ma stavano suonando un'altra aria che mi parve altrettanto familiare e che somigliava più al Rigoletto.
Ero confuso. Circa due minuti prima della fine dell'atto, Guest sedette silenziosamente nella poltrona accanto alla mia. « Ma è proprio la Carmen? » sussurrai. « Si » rispose lui. « Non hai il programma? » Me lo strappò di mano. « Si » mormorò « Caruso e Geraldine Farrar, mercoledì, matinée, Carmen: eccola qui!» Calò il sipario e lui mi spinse lungo una fila di poltrone fino all'ingresso laterale che portava nei camerini. Macchinisti dalle scarpe felpate cambiavano la scena dandomi l'impressione di essere sempre tra i piedi. L'atmosfera era quella di un brutto sogno. A un tratto ne usci un uomo alto e snello, austero e solenne, col pizzo e un paio d'occhi da bracco che mi scrutarono dalla sua sommità. Si fermò al centro del palcoscenico, con un'espressione preoccupata, mentre i macchinisti andavano e venivano intorno a lui. « Come sta il mio buon amico, il signor Gatti-Casazza? » disse Maurice Guest tendendogli la mano. Gatti-Casazza la strinse e fece un gesto sprezzante, poi borbottò qualche cosa. Finalmente Guest si rivolse a me. « Hai ragione, non era la Carmen ma il Rigoletto. Geraldine Farrar ha telefonato all'ultimo momento per avvertire che aveva il raffreddore. Questo è Charlie Chaplin » disse Guest. « Lo porto a conoscere Caruso, forse la cosa lo metterà di buonumore. Venga con noi. » Ma Gatti-Casazza scosse tristemente il capo. « Dov'è il suo camerino? » Gatti-Casazza chiamò il direttore di scena. « Glielo indicherà lui. » L'istinto mi diceva di non disturbare Caruso in un momento simile e palesai i miei timori a Guest. « Non fare lo stupido » rispose lui. A tentoni ci dirigemmo lungo il corridoio fino al suo camerino. « Qualcuno ha spento la luce » disse il direttore di scena. « Un momento, cerco l'interruttore. » « Senti » disse Guest « c'è gente che mi aspetta, devo scappare. » « Non vorrai mica andartene? » domandai, in fretta.
« Sta' tranquillo, non ti mangerà. » Prima che potessi rispondere egli scomparve, lasciandomi immerso nelle tenebre. Il direttore di scena accese un fiammifero. « Eccoci qua » disse, e bussò discretamente a una porta. Dall'interno esplose una voce in italiano. L'amico rispose in italiano, finendo con le parole « Charlie Chaplin ! » Si udì un'altra esplosione. « Senta » mormorai « un'altra volta. » « No, no » disse lui; ormai aveva una missione da compiere. La porta si schiuse di pochi centimetri e il costumista aguzzò gli occhi nell'o scurità. In tono addolorato l'amico spiegò chi ero. « Oh ! » disse il costumista, poi tornò ad accostare il battente. La porta si riapri. « Si accomodi, prego! » Questa piccola vittoria parve dare le ali al mio compagno. Quando entrammo Caruso era seduto al tavolo da toletta, davanti a una specchiera, voltandoci le spalle, e si stava spuntando i baffi. « Ah, signore 1 » disse allegramente il mio amico. « È per me un grandissimo piacere presentarle il signor Charlie Chaplin, il Caruso del cinema. » Caruso fece un piccolo inchino allo specchio e continuò a spuntarsi i baffi. Finalmente si alzò, squadrandomi attentamente mentre si affibbiava la cintura. « Ha avuto un grande successo, eh? Sta facendo un mucchio di soldi. » « Si » risposi con un sorriso. , « Dev'essere molto contento. » « Altroché. » Poi guardai il direttore di scena. « Dunque » disse allegramente lui, e il tono della voce mi fece capire che era venuto il momento del congedo. « Ora torno a godermi il resto della Carmen » dissi sorridendo. « Del Rigoletto ! » disse Caruso, stringendomi la mano. « Oh si, certo ! È meraviglioso, meraviglioso ! » 1 In italiano nel testo. (N. d. T.)
Avevo assimilato di New York quant'era possibile date le circostanze, e ritenni che fosse giunto il momento di partire prima che gli svaghi dì quella fiera delle vanità cominciassero a stancarmi. Inoltre, ero ansioso di cominciare il lavoro previsto dal mio nuovo contratto. Quando tornai a Los Angeles presi alloggio all'Alexandria Hotel, all'angolo della Quinta Strada con il Corso, l'albergo più lussuoso della città. Era tutto in stile rococò: colonne di marmo e lampadari di cristallo adornavano l'atrio, al centro del quale si trovava il favoloso « tappeto da un milione di dollari » - la mecca dei grossi affari cinematografici - cosi chiamato, argutamente, per via degli agenti e degli azzeccagarbugli che lo pestavano parlando di cifre astronomiche. Abrahamson fece una fortuna su quel tappeto, vendendo pellicole da quattro soldi che girava in economia dopo avere preso in affitto un teatro di posa e scritturato alcuni attori disoccupati. Tali film erano noti come i prodotti dei « pezzenti del cinema ». Anche Harry Cohn, capo della Columbia Motion Pictures, cominciò cosi. Abrahamson era un realista e ammetteva di non provare nessun interesse per l'arte, ma solo per il danaro. Aveva uno spiccato accento russo e quando dirigeva uno dei suoi film gridava alla prima attrice: « Benissimo, entra dal didietro » (cioè « dal fondo »). « Adesso va' allo specchio e datti un'occhiata. Oooh ! Come sono bella ! Ora gingillati per sei metri » ( cioè « improvvisa per sei metri di pellicola » ). L'eroina di solito era una fanciulla prosperosa con un ampio décolleté, che permetteva un abbondante « pescaggio ». Abrahamson le ordinava di girarsi verso la macchina da presa, chinandosi ad allacciarsi una scarpa, o di far dondolare una culla, o di carezzare un cane. In questo modo fece due milioni di dollari poi, saggiamente, si ritirò a vita privata. Il tappeto da un milione di dollari richiamò Sid Grauman da San Francisco a negoziare la costruzione dei suoi teatri da un milione di dollari di Los Angeles. Via via che prosperava la città, prosperava anche Sid. Aveva il bernoccolo della pubblicità stravagante, e una volta
terrorizzò Los Angeles facendo sfrecciare per le strade due tassi carichi di passeggeri che si scambiavano rivoltellate (a salve), con dei grandi cartelli appesi dietro che annunciavano: « The Underworld1 al Grauman's Million Dollar Theatre ». Era una miniera di trovate. Fu sua la fantastica idea di far imprimere ai divi di Hollywood mani e piedi nel cemento davanti al Chinese Theatre. Essi accettarono, chissà perché, e la cerimonia divenne un onore quasi pari, per importanza, all'assegnazione di un Oscar. Il giorno del mio arrivo all'Alexandria Hotel il portiere mi consegnò una lettera della signorina Maude Fealy, la celebre attrice che era stata primadonna con Sir Henry Irving e William Gillette. Si trattava di un invito a una cena che avrebbe dato in onore della Pavlova, mercoledì, allo Hollywood Hotel. Naturalmente la cosa mi fece un immenso piacere. Pur non avendo mai conosciuto la signorina Fealy, avevo visto tutta Londra tappezzata dalle sue fotografie ed ero un ammira tore della sua bellezza. La vigilia dissi alla segretaria di telefonare per informarsi se era una cenetta alla buona o se dovevo mettere la cravatta nera. « Chi parla? » domandò lei. « La segretaria del signor Chaplin, per l'invito di mercoledì sera... » La signorina Fealy parve un tantino allarmata. « Oh ! Ma certo, una cenetta alla buona » disse. La signorina Fealy era sulla veranda dello Hollywood Hotel, pronta a darmi il benvenuto. Si dimostrò di una squisita cortesia. Sedemmo per almeno mezz'ora conversando del più e del meno, e io cominciavo a domandarmi quando sarebbero arrivati gli altri ospiti. Finalmente ella disse: « Si va a cena? ». Al colmo della sorpresa, scopersi che eravamo solo in due ! La signorina Fealy, oltre ad essere una donna piena di fascino, era anche molto riservata, e, guardandola mentre sedeva di fronte a me, 1 La malavita.
mi chiesi quale poteva essere il motivo di questo tète-à-tète. Pensieri audaci e maliziosi mi frullarono per la testa: ma ella mi parve una donna troppo distinta per le mie sconvenienti congetture. Ciò nonostante cominciai a metter fuori le antenne per scoprire che cosa voleva da me. « È davvero curioso » dissi con esuberanza « cenare cosi, soli ! » Ella mi rivolse un blando sorriso. « Divertiamoci, dopo cena » soggiunsi. « Perché non andiamo in un locale notturno, o in qualche altro posto? » Un'espressione lievemente allarmata le si dipinse sul viso, seguita da un'esitazione. « Questa sera temo di dover andare a letto presto, perché domattina comincio le prove di Macbeth. » Le mie antenne si afflosciarono. Ero in preda alla massima confusione. Per fortuna arrivò la prima portata e per alcuni minuti mangiammo in silenzio. C'era qualcosa che non andava, e lo sapevamo tutti e due. La signorina Fealy esitò. « Ho paura che lei si stia annoiando parecchio, stasera. » « È una cena deliziosa » ribattei. « Mi rincresce che lei non fosse qui tre mesi fa, alla cena che diedi in onore della Pavlova, alla quale, lo so, è legato da amicizia. Ma si trovava a New York, se non sbaglio. » « Mi scusi » dissi, estraendo rapidamente la lettera della signorina Fealy, e per la prima volta controllai la data. Poi gliela porsi. « Vede » dissi ridendo « sono venuto con tre mesi di ritardo ! » Il 1910, a Los Angeles, segnò la fine di un'era di pionieri e di capitalisti, della maggior parte dei quali io fui ospite o amico. Uno fu il defunto William A. Clark, multimilionario, magnate delle ferrovie e re del rame, un musicista dilettante che donava ogni anno 150 mila dollari alla Philharmonic Symphony Orchestra nella quale suonava il secondo violino. « Valle della Morte » Scottie era un fantomatico personaggio, un uomo gioviale e rubicondo che portava un sombrero da cowboy, una ca
micia rossa e un paio di calzoni blu con la pettorina, e spendeva ogni notte migliaia di dollari nei rathskeller di Spring Street e nei locali notturni, organizzando ricevimenti, lasciando ai camerieri mance di cento dollari e poi sparendo misteriosamente per rifarsi vivo con un'altra festa in capo a un mese o giù di li, cosa che fece per anni. Certuni ritenevano che possedesse una miniera nascosta nella Valle della Morte e cercarono di seguirlo laggiù, ma lui riuscì sempre a far perdere le sue tracce e nessuno, fino ad oggi, ha ancora svelato il suo segreto. Prima di morire, nel 1940, si costruì un enorme castello nella Valle della Morte, in mezzo al deserto, un fantastico edificio che gli venne a costare mezzo milione di dollari. Il maniero è ancora là che si sbriciola sotto i raggi del sole. La signora Craney-Gatts di Pasadena era una donna che possedeva quaranta milioni di dollari. Ardente socialista, pagò la difesa legale di numerosi anarchici, socialisti e membri dell'iww 1. A quei tempi Glenn Curtiss lavorava per Sennett, facendo acrobazie aeree, e cercava affannosamente un capitale per finanziare quella che è oggi la grande industria aerea Curtiss. A. P. Giannini dirigeva due piccole banche che più tardi, sviluppandosi, divennero uno dei più grandi istituti finanziari degli Stati Uniti: la Banca d'America. Howard Hughes ereditò un'immensa fortuna da suo padre, l'inventore della moderna sonda petrolifera. Howard moltiplicò i suoi milioni investendoli nell'industria aerea. Era un tipo eccentrico che dirigeva le sue grandi imprese per telefono da una stanza d'albergo di terza categoria e di rado si mostrava in pubblico. Si occupò anche di cinema, ottenendo un considerevole successo con film come Angeli dell'inferno 1 con la defunta Jean Harlow. A quei tempi i miei svaghi abituali consistevano nell'assistere agli in1 Industriai Workers of the World (Associazione mondiale dei lavoratori dell'industria). (N.d.T.) 1 Hell's Angels, 1930, di Lewis Milestone, con Jean Harlow e Ben Lyon. (N. d. T.) 223
contri del venerdì sera da Jack Doyle, a Vernon; nell'andare, il lunedì sera, al varietà del Teatro Orpheum; nell'assistere, il giovedì, alle rappresentazioni della compagnia stabile del Teatro Morosco; e, di tanto in tanto, nell'ascoltare una sinfonia al Clune's Philharmonic Auditorium. L'Athletic Club di Los Angeles era un centro dove all'ora del cocktail si raccoglieva il fior fiore dell'alta società e del mondo degli affari. Pareva di essere in colonia. C'era un giovanotto, che aveva già fatto qualche particina, il quale sedeva spesso nel salone, un tipo solitario venuto a Hollywood in cerca di fortuna che tuttavia non se la passava troppo bene, un certo Valentino. Mi fu presentato da un altro attore fino a quel momento relegato a parti di secondaria importanza, Jack Gilbert. Non rividi Valentino per un anno o giù di li; nel frattempo era diventato un divo. Quando c'incontrammo si mostrò diffidente, finché io dissi: « Dall'ultima volta che ti ho visto, sei entrato nella cerchia degli immortali ». Lui si mise a ridere e abbandonò quell'atteggiamento difensivo, ritrovando tutta la sua cordialità. Valentino aveva sempre un'aria triste. Faceva buon viso al successo, dal quale, tuttavia, pareva quasi schiacciato. Era intelligente, silenzioso e schivo. Pur avendo un grande ascendente sulle donne, aveva con loro poca fortuna, e quelle che portò all'altare lo trattarono piuttosto male. Subito dopo uno dei suoi matrimoni, la moglie allacciò una relazione con uno dei tecnici del laboratorio di sviluppo, insieme al quale spariva spesso nella camera oscura. Nessun uomo ebbe per le donne più fascino di Valentino; nessun uomo fu da loro più ingannato. Mi accinsi dunque ad adempiere alle clausole fissate nel mio contratto da 670.000 dollari. Il signor Caulfield, che rappresentava la Mutual Film Corporation e doveva occuparsi di tutta la parte organizzativa, affittò uno studio nel cuore di Hollywood. Con una troupe piccola ma
esperta, composta da Edna Purviance, Eric Campbell, Henry Bergman, Albert Austin, Lloyd Bacon, John Rand, Frank Jo Coleman e Leo White, ero pronto a mettermi al lavoro. Il mio primo film, Charlot capo-reparto 1, ottenne un successo strepitoso. Si svolgeva in un grande magazzino, nel quale avveniva un inseguimento su una scala mobile. Quando lo vide, Sennett commentò: « Perché diavolo non abbiamo mai pensato a una scala mobile? ». Ben presto mi rimisi al passo, sfornando ogni mese una comica in due bobine. A Charlot capo-reparto seguirono Charlot pompiere 2, Il vagabondo 3, Charlot gentiluomo ubriaco 4, Charlot conte 5, Charlot usu raio '', Charlot macchinista 7 Charlot a rotelle 8, La strada della paura 9, La cura miracolosa 10, L'emigrante 11, L'evaso 12. Per completare queste dodici comiche mi ci vollero sedici mesi in tutto, comprese varie interruzioni per raffreddori e malanni di poco conto. A volte un soggeto presentava qualche difficoltà che stentavo a superare. In questi casi sospendevo il lavoro e cercavo di riflettere, passeggiando su e giù per il camerino o passando ore intere seduto dietro una scena alle prese col mio problema. La sola vista di un funzionario della casa o degli attori che mi stavano a guardare mi metteva in imbarazzo, soprattutto perché la Mutual pagava il costo di produzione, e il signor Caulfield era là apposta per far si che le ruote girassero a dovere. 1 The Floorwalker, 1916. 2 The Fireman, 1916. 3 The Vagabond, 1916. 4 One a.m., 1916. 5 The Count, 1916. 6 The Pawnshop, 1916. 7 Behind in the Screen, 1916. 8The Rink, 1916. 9 Easy 10 The 11 The 12 The 10.
Street, 1917. Cure, 1917. Immigrant, 1917. Adventurer, 1917.
Da lontano lo vedevo attraversare lo studio. Sapevo bene che cosa stava pensando: tutto ancora in alto mare e le spese generali in aumento. Allora, con la grazia di un ippopotamo, gli intimavo che non mi era mai piaciuto aver gente tra i piedi mentre stavo riflettendo, o saperli preoccupati. Alla fine di una giornata infruttuosa me lo trovavo davanti « per caso » al momento di lasciare lo studio. Salutandomi con finta gaiezza, mi chiedeva: « Come viene? ». « Uno schifo ! Sono veramente finito ! Non riesco più a pensare ! » E lui mandava un suono cavernoso, che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto essere una risata. « Non temere, verrà bene. » A volte la soluzione giungeva alla fine della giornata, quand'ero ormai in preda alla disperazione, dopo aver pensato a tutto e tutto scartato. Allora la soluzione si rivelava all'improvviso, come se uno strato di polvere fosse stato spazzato via da un pavimento di marmo: eccolo là, il bel mosaico che cercavo ! Ogni tensione svaniva, lo studio riprendeva l'attività, e come rideva il signor Caulfield! Nessuno si fece mai male lavorando nei nostri film. La violenza veniva provata attentamente e trattata come coreografia. Un ceffone sul viso era sempre truccato. Per caotico che sembrasse un tafferuglio, tutti sapevano quello che facevano, tutto era previsto. Farsi male era imperdonabile, perché nel cinema qualsiasi effetto - violenza, terremoti, naufragi e catastrofi - si può ricreare in studio. In tutta la serie dei dodici film si verificò un solo incidente. Accadde girando La strada della paura. Mentre piegavo un lampione sulla testa del cattivo per addormentarlo col gas, la lanterna si staccò e il suo orlo tagliente di metallo mi colpi al setto nasale. Dovettero darmi due punti di sutura. Quello che passai con la Mutual fu, credo, il periodo più felice della mia carriera. Mi sentivo libero e leggero, avevo ventisette anni, prospettive favolose e, davanti a me, un mondo amico e affascinante. In breve tempo sarei diventato milionario: quella vita sembrava percorsa da un pizzico di follia. Facevo quattrini a palate. I diecimila dollari
che ricevevo ogni settimana si accumularono fino a diventare centomila, poi quattrocentomila, poi cinquecentomila. Ancora non riuscivo a farci l'abitudine. Ricordo che Maxine Elliott, un'amica di J. P. Morgan, mi disse una volta: « Il danaro serve solo a dimenticare ». « Ma è anche una cosa da ricordare » risposi. È indubbio che chi ha raggiunto il successo vive in un mondo diverso; pur essendo intellettualmente un parvenu, le mie opinioni erano tenute in seria considerazione. Quando incontravo qualcuno, scoprivo sempre visi sorridenti ed espressioni improntate alla massima gentilezza. Tutti volevano stringere amicizia con me e partecipare ai miei problemi quasi fossero dei parenti. Certo la cosa mi lusingava, ma la mia natura non ama una simile intimità. Mi piacciono gli amici come la musica: quando sono in vena. Questa libertà, comunque, doveva costarmi lunghi periodi di solitudine. Un giorno, verso la scadenza del contratto, mio fratello irruppe nella mia stanza da letto all'Athletic Club e annunciò allegramente: «Be', Charlie, sei entrato nel novero dei milionari. Ho appena concluso un accordo con la First National: per un milione e duecentomila dollari dovrai fare otto comiche in due bobine ». Avevo appena fatto il bagno e gironzolavo per la stanza con un asciugamano intorno alle reni, suonando / racconti di Hoffmann sul violino. « Uhm, uhm. Una cosa magnifica, se lo dici tu. » Improvvisamente Sydney scoppiò a ridere. « Questo dovrò scriverlo nelle mie memorie: tu con quell'asciugamano intorno ai fianchi, che suoni il violino, e la tua reazione alla notizia che ho firmato un contratto per un milione e duecentocinquantamila ! » Ammetto che c'era un pizzico di posa nel mio atteggiamento: i soldi bisognava pur guadagnarli. Ciò nonostante, la ricchezza non cambiò il mio modo di vivere. Mi ero abituato al danaro, ma non all'uso che potevo farne. I soldi che guadagnavo toccavano cifre leggendarie: simboli astratti, perché in realtà non li avevo mai visti. Perciò dovetti fare qualcosa per dimostrare
a me stesso che li possedevo. Mi procurai dunque un segretario, un cameriere e una macchina con autista. Passando davanti a una vetrina, un giorno, vidi una Locomobile a sette posti, che a quei tempi era considerata la più bella macchina americana. Quel trabiccolo sembrava fin troppo elegante per essere in vendita. Tuttavia entrai nel salone e chiesi: « Quanto? ». « Quattromilanovecento dollari. » « Me la incarti » dissi. L'uomo rimase di stucco e cercò di opporsi a una vendita cosi fulminea. « Non le interesserebbe dare un'occhiata al motore? » chiese. « Cosa vuole che me ne importi. Non me ne intendo » risposi. Però, tanto per darmi un'aria professionale, toccai una gomma col pollice. La transazione fu cosa da poco: non dovetti fare altro che scrivere il mio nome su un pezzo di carta e la macchina passò in mano mia. Quello degli investimenti era un problema di cui m'intendevo poco, ma Sydney aveva il bernoccolo degli affari e sapeva tutto di valori d'inventario, profìtti di capitale, azioni ordinarie e privilegiate, tasse e contributi, buoni e titoli convertibili, fidi e quotazioni bancarie. A quei tempi c'erano abbondanti possibilità d'investimenti. Un agente immobiliare di Los Angeles mi pregò di mettermi in società con lui, per contribuire con duecentocinquantamila dollari ciascuno all'acquisto di un'ampia estensione di terreno nella vallata di Los Angeles. Se mi fossi lasciato convincere a investire dei soldi nel suo progetto la mia parte avrebbe toccato i cinquanta milioni di dollari, perché vi scoprirono il petrolio e la zona divenne una delle più ricche della California.
Tredici Molti illustri visitatori vennero allo studio in questo periodo: la Melba, Leopold Godowski e Paderewski, Nizinskij e la Pavlova. Paderewski era un uomo ricco di fascino, ma aveva un che di borghese, un senso mal inteso ed eccessivo della propria dignità. Faceva impressione con quei capelli lunghi, i severi baffi spioventi e il ciuffetto di peli sotto il labbro inferiore, che mi parve tradire una certa mistica vanità. Ai suoi concerti, con le luci del teatro attenuate e l'atmosfera cupa e imponente, quando stava per sedersi sullo sgabello del pianoforte avevo sempre l'impressione che qualcuno dovesse levarglielo di sotto. Durante la guerra lo incontrai al Ritz Hotel di New York e, salutandolo calorosamente, gli chiesi se fosse là per dare un concerto. Con solennità pontificale rispose: « Non do concerti quando sono al servizio del mio paese ». Paderewski divenne primo ministro della Polonia; ma io la pensavo come Clemenceau, il quale gli disse durante una conferenza per lo sfortunato Trattato di Versailles: « Come ha potuto un grande artista del suo calibro abbassarsi tanto da diventare un uomo politico? ». Dal canto suo, Leopold Godowski, pianista ancora più grande, un ometto dal viso tondo e sorridente, era semplice e spiritoso. Dopo un concerto a Los Angeles vi affittò una casa, e a me capitò spesso di andarlo a trovare. La domenica avevo il piacere di sentirlo mentre si esercitava e di vedere con i miei occhi con quanta facilità le sue mani
eccezionalmente piccole facevano sfoggio di una tecnica portentosa. Venne allo studio anche Nizinskij, con alcuni componenti del Balletto Russo. Era un uomo serio, di bell'aspetto, dagli zigomi alti e dagli occhi malinconici, che dava l'impressione di un monaco in abito laico. Stavamo girando La cura miracolosa. Sedette dietro la macchina da presa, guardandomi lavorare in una scena che credevo divertente, ma non sorrise mai. Anche se gli altri spettatori ridevano, Nizinskij rimase là seduto con un'aria sempre più mesta. Prima di partire venne a stringermi la mano. Con la sua voce cavernosa disse che si era molto divertito a vedermi lavorare e mi chiese il permesso di tornare. « Quando vuole » risposi. Per altri due giorni sedette lugubremente a guardarmi. L'ultimo giorno ordinai all'operatore di non caricare la macchina, sapendo che la malinconica presenza di Nizinskij avrebbe frustrato i miei tentativi di far ridere. Ciò nondimeno, alla fine di ciascuna giornata egli si complimentava con me. « La sua comica sembra un balletto, lei è un vero ballerino. » Non avevo ancora visto il Balletto Russo, né, se è per questo, alcun altro spettacolo del genere. Ma alla fine della settimana m'invitarono ad assistere alla matinée. A teatro mi accolse Djagilev, un uomo di una vitalità e di un entusiasmo eccezionali. Si scusò di non avere il programma che secondo lui mi sarebbe piaciuto di più. « Peccato che non sia L'après-midi d'un faune » disse. « Credo che lo avrebbe trovato di suo gusto. » Poi, senza por tempo in mezzo, si rivolse al suo direttore. « Dica a Nizinskij che dopo l'intervallo mettiamo in scena il Faune per Charlot. » Il primo balletto era Scheherazade. La mia reazione fu più o meno negativa. Si recitava troppo e si ballava troppo poco, e mi parve che la musica di Rimskij-Korsakov si ripetesse. Ma il numero successivo fu un pas de deux con Nizinskij. Nell'attimo in cui apparve rimasi elettrizzato. Ho visto pochi geni sulla terra, ma Nizinskij è stato uno di loro. Era ipnotico, divino, la sua tristezza suggeriva atmosfere di altri mondi; ogni movimento era poesia, ogni balzo un volo nella fantasia più sfrenata.
Aveva pregato Djagilev di portarmi nel suo camerino durante l'intervallo. Ero senza parola. Non ci si può torcere le mani ed esprimere verbalmente la propria ammirazione per un'arte cosi grande. Rimasi là seduto, in silenzio, nel suo camerino, osservando quello strano viso nello specchio mentre lui si truccava per il Faune, tracciandosi intorno alle gote dei circoli verdi. Fu piuttosto maldestro nei suoi tentativi di far conversazione, ponendo domande insignificanti sui miei film, alle quali potevo rispondere solo a monosillabi. Alla fine dell'intervallo squillò il campanello, e io dissi che dovevo tornare al mio posto. « No, no, non ancora » disse lui. Si udì bussare alla porta. « Signor Nizinskij, l'ouverture è finita. » Cominciavo a preoccuparmi. « Va bene » rispose lui. « Abbiamo tutto il tempo che vogliamo. » Sorpreso, non capivo perché si comportasse cosi. « Non crede che farei meglio ad andare? » « No, no, lasci che suonino un'altra ouverture. » Finalmente Djagilev irruppe nel camerino. « Forza, forza ! Il pubblico applaude. » « Fallo aspettare, questo è più interessante » disse Nizinskij, poi ricominciò a pormi altre banalissime domande. Ero in imbarazzo. « Devo proprio tornare al mio posto » dissi. Nessuno ha mai uguagliato Nizinskij nell'Après-midi d'un faune. Il mistico mondo che ha creato, l'invisibile tragedia annidata nell'ombra della bellezza pastorale mentre egli si muoveva attraverso il suo mistero, divinità di appassionata tristezza: riusciva a esprimere tutte queste cose con pochi gesti di estrema semplicità e senza sforzo apparente. Sei mesi dopo Nizinskij impazzi. Mostrò le prime avvisaglie della fine quel pomeriggio nel suo camerino, quando fece aspettare il pubblico. Avevo assistito ai primi passi di un'anima sensibile sulla strada che doveva portarlo da un mondo brutale dilaniato dalla guerra in un altro creato dai suoi sogni. Il sublime è raro in ogni arte o mestiere. E la Pavlova fu uno dei
pochi artisti ai quali si possa riferire questo aggettivo. Non mancò mai di farmi una profonda impressione. La sua danza era pallida e luminosa, delicata come un bianco petalo di rosa. Pure, quando ballava, ogni movimento era il centro di gravità. Appena entrava in scena, per gaia o amabile che fosse, mi veniva voglia di piangere, perché impersonava la tragedia della perfezione. Conobbi « Pav », come la chiamavano gli intimi, mentre era a Hollywood per girare un film prodotto dall'Universal, e diventammo ottimi amici. Fu un peccato che il ritmo accelerato del cinema di una volta non riuscisse a catturare il lirismo della sua danza; e per questo il mondo ha perduto la possibilità di ammirare la sua arte stupenda. In un'occasione il consolato russo diede in suo onore una cena alla quale partecipai anch'io. Fu un incontro internazionale che si svolse in un'atmosfera di grande solennità. Durante la cena vennero pronunciati molti brindisi e discorsi, alcuni in francese e altri in russo. Credo fui l'unico inglese invitato. Però, prima che venisse il mio turno di parlare, un professore russo tenne un brillante panegirico sull'arte della Pavlova, nella sua lingua. A un certo punto scoppiò in lacrime, poi si avvicinò alla ballerina e la baciò con ardore. Dopodiché, compresi che qualsiasi discorso da parte mia sarebbe stato straordinariamente insipido, e allora mi alzai per dire che, essendo il mio inglese del tutto insufficiente ad esprimere la grandezza dell'arte della Pavlova, avrei parlato in cinese. Finsi dunque di parlare in cinese, entusiasmandomi come aveva fatto il professore e finendo per baciare la Pavlova con maggior trasporto di lui: presi anzi un tovagliolo e me lo misi sopra la testa per nascondere quella gragnuola di baci. Tutti i presenti cominciarono a sghignazzare e il ricevimento si spogliò della sua solennità. Sarah Bernhardt recitava al teatro di varietà Orpheum. Era, naturalmente, molto vecchia e alla fine della carriera, e non posso dare un giudizio equilibrato della sua recitazione. Ma quando la Duse venne a Los Angeles nemmeno l'età e la fine incombente poterono oscurare il fulgore del suo genio. L'accompagnava un'eccellente compagnia ita
liana. Prima della sua entrata in scena un giovane e bell'attore forni una prestazione superba, tenendo magnificamente il palcoscenico. Come avrebbe fatto la Duse a superare la straordinaria prestazione di questo giovanotto? Poi, dal fondo del palcoscenico, all'estrema sinistra, la Duse entrò in scena sbucando da un archivolto, piano piano, quasi senza farsi notare. Si fermò dietro un cestello di crisantemi bianchi che troneggiava su un pianoforte a coda e, silenziosamente, cominciò a rimetterli a posto. Un mormorio percorse la platea, e la mia attenzione lasciò immediatamente il giovane attore per concentrarsi sulla Duse. Ella non guardò né il collega né alcuno degli altri personaggi, ma continuò silenziosamente a disporre i fiori nel cestello e ad aggiungerne altri che aveva portato con sé. Quand'ebbe finito attraversò diagonalmente il palcoscenico, sedette in una poltrona accanto al caminetto e guardò il fuoco. Solo una volta fissò il giovanotto, e quell'occhiata racchiudeva tutta la saggezza e il dolore dell'umanità. Poi continuò ad ascoltare e a scaldarsi le mani: quelle mani cosi belle, cosi sensibili. Dopo il veemente discorso di lui, ella parlò pacatamente guardando il fuoco. Non c'era traccia di istrionismo; la sua voce veniva dalle ceneri di una tragica passione. Non compresi una parola, ma mi resi conto di essere alla presenza della più grande attrice che avessi mai visto. Constance Collier, la prima attrice di Sir Herbert Beerbohm Tree, fu scritturata per sostenere insieme a lui la parte di Lady Macbeth in un film della Triangle. Da ragazzo l'avevo vista parecchie volte dal loggione del Teatro di Sua Maestà, ammirandone le memorabili interpretazioni in The Eternai City 1 e Oliver Twist ( dove sosteneva il ruolo di Nancy). Cosi, quando sul mio tavolo al Levy's Cafè piovve un biglietto nel quale era scritto che la signorina Collier desiderava 1 La città eterna.
conoscermi e sarebbe stata lieta di avermi al suo tavolo, accettai con entusiasmo. In quel momento nacque un'amicizia che durò tutta la vita. Constance era una donna generosa, cordiale, animata da una gran gioia di vivere. Si divertiva a organizzare incontri fra sconosciuti. Fu lei a farmi conoscere Sir Herbert e un giovanotto di nome Douglas Fairbanks col quale - come disse - dovevo avere molto in comune. Sir Herbert era il decano del teatro inglese e, secondo me, uno degli attori più raffinati, poiché si appellava al cervello oltre che al cuore. Il suo Fagin, in Oliver Twist, era comico e orripilante insieme. Col minimo sforzo riusciva a creare una tensione quasi insopportabile. Per infondere un senso di terrore gli bastava punzecchiare dolcemente Mastro Tranelli con un forchettone per tostare il pane. Ne diede un esempio col ridicolo Svengali; faceva credere in questo assurdo personaggio, dotandolo non solo di comicità ma di poesia. I critici dicevano che Tree indulgeva ai manierismi; giusto, ma li usava con staordinaria efficacia. La sua recitazione era estremamente moderna. Del Giulio Cesare diede un'interpretazione in chiave intellettuale. Il suo Marco Antonio, nella scena del funerale, invece di arringare la folla con la solita, convenzionale passione, parlava svogliatamente sopra la testa degli ascoltatori con cinismo e velato disprezzo. Da ragazzo, sui quattordici anni, avevo visto Tree in molte delle sue grandi interpretazioni e perciò, quando Constance ebbe l'idea di dare una cenetta in onore di Sir Herbert, di sua figlia Iris e mio, aderii con entusiasmo al progetto. Dovevamo trovarci nell'appartamento di Tree all'Alexandria Hotel. Arrivai apposta in ritardo nella speranza che Constance fosse già là per risparmiarci ogni imbarazzo, ma quando Sir Herbert m'introdusse nelle sue stanze, era solo, a parte John Emerson, il regista del suo film. « Ah, si accomodi, Chaplin » disse Sir Herbert. « Constance mi ha tanto parlato di lei ! » Dopo avermi presentato Emerson, mi spiegò che stavano provando alcune scene di Macbeth. Presto Emerson se ne andò, e io rimasi improvvisamente pietrificato dalla timidezza.
« Mi rincresce di averla fatta aspettare » disse Sir Herbert, sedendo in una poltrona davanti a me. « Stavamo discutendo un effetto per la scena della strega. » « Oh oh » balbettai. « Credo che sarebbe piuttosto efficace attaccare della garza a dei palloni e farli fluttuare qua e là per la scena. Che gliene pare? » « Oh... fantastico! » Sir Herbert s'interruppe e mi guardò. « Lei ha avuto un successo fenomenale, non è vero? » « Roba da niente » mormorai in tono di scusa. « Ma la conoscono in tutto il mondo ! In Francia e in Inghilterra i soldati cantano persino delle canzoni su di lei. » « Ah si? » dissi, fingendomi all'oscuro di tutto. Tornò a guardarmi, con un'espressione dubbiosa e perplessa. Poi si alzò in piedi. « Constance è in ritardo. Vado a telefonare per vedere che cosa è successo. Intanto lei deve conoscere mia figlia Iris » disse mentre usciva dalla stanza. Provai un senso di sollievo, perché per un attimo ebbi la visione di una bimba con la quale avrei potuto parlare al mio livello di scuola e di cinema. Poi una signorina di alta statura entrò nella stanza con un lungo bocchino in mano, dicendo con voce bassa e sonora: « Lieta di conoscerla, signor Chaplin. Credo di essere l'unica persona al mondo che non l'ha ancora vista sullo schermo ». M'inchinai con un sorriso. Con la corta zazzera bionda, il naso camuso e gli occhi celesti, Iris sembrava una ragazza scandinava. Era allora sui diciotto anni, molto carina e straordinariamente sofisticata, avendo pubblicato un libro di poesie all'età di quindici anni. Tornai a sorridere e ad inchinarmi. Finalmente tornò Sir Herbert, per annunciare che Constance, attardata da alcune prove di costumi, non sarebbe venuta, e che avremmo cenato senza di lei.
Buon Dio! Come avrei fatto a resistere per tutta la sera con questi sconosciuti? Con questa idea angosciosa nella testa, uscimmo in silenzio dalla stanza, in silenzio entrammo nell'ascensore e in silenzio varcammo la soglia della sala da pranzo sedendoci a tavola come se fossimo appena tornati da un funerale. Il povero Sir Herbert e Iris fecero del loro meglio per tener viva la conversazione. Presto Iris vi rinunciò, limitandosi a guardarsi in giro. Se almeno ci avessero servito la cena, mangiare avrebbe forse alleviato la mia tremenda tensione... Padre e figlia fecero un po' di conversazione, parlando della Francia meridionale, di Roma e Salisburgo: c'ero mai stato? Avevo mai visto nessuno degli spettacoli di Max Reinhardt? Scossi la testa, demoralizzato. Tree mi lanciò un'occhiata penetrante. « Dovrebbe viaggiare, sa. » Gli dissi che avevo poco tempo per viaggiare, poi ritrovai il mio sangue freddo. « Senta, Sir Herbert, il mio successo è stato cosi improvviso che ho avuto poco tempo per riguadagnare il terreno perduto. Ma da ragazzo, a quattordici anni, l'ho vista nei panni di Svengali, di Fagin, di Antonio, di Falstaff, in certi casi parecchie volte di seguito, e da allora lei è diventato il mio idolo. Non avevo mai pensato alla sua esistenza fuori scena. Lei, per me, era una leggenda. E cenare qui con lei, stasera, a Los Angeles, è un'esperienza che mi paralizza. » Tree rimase commosso. « Ma davvero! » ripetè più volte. « Ma davvero! » Da quella sera diventammo ottimi amici. Ogni tanto mi veniva a trovare e tutti e tre, Iris, Sir Herbert e io, andavamo a cena insieme. Talvolta anche Constance si univa a noi. Andavamo al ristorante Victor Hugo a fantasticare davanti a una tazza di caffè, ascoltando qualche languido brano di musica da camera.
r Da Constance avevo sentito molto parlare del fascino e del talento di Douglas Fairbanks, non solo come attore ma anche come brillante conversatore mondano. A quei tempi non avevo molta simpatia per i giovanotti: e soprattutto per i conversatori mondani. Comunque, una sera mi trovai invitato a cena a casa sua. Esistono due versioni di quella sera, la mia e quella di Douglas. Prima di andare avevo cercato di sottrarmi all'impegno col pretesto che ero malato, ma Constance non ne aveva voluto sapere. Decisi perciò di fingere un'emicrania per potermi congedare al più presto. Fairbanks dice che era nervoso anche lui e che quando suonò il campanello discese rapidamente nello scantinato, dove c'era un tavolo da biliardo, e si mise a giocare da solo. Quella sera segnò l'inizio di un'amicizia durata tutta la vita. Non fu senza ragione che Douglas colpi la fantasia del pubblico, accaparrandosene l'affetto. Lo spirito dei suoi film, il loro ottimismo e l'infallibilità del protagonista, trovavano riscontro nel gusto degli americani, anzi nel gusto del mondo intero. Douglas era dotato di uno straordinario magnetismo, di fascino e di un sincero, infantile entusiasmo che trasmetteva al pubblico. Quando cominciai a conoscerlo più da vicino, lo trovai una persona estremamente schietta: ammetteva di divertirsi a fare lo snob e che la gentte « arrivata » lo affascinava. Pur essendo straordinariamente popolare, Doug era prodigo di lodi per l'altrui talento e molto modesto a proposito del suo. Diceva spesso che Mary Pickford e io avevamo del genio, mentre lui aveva solo un po' di talento. Ma questo non era affatto vero: Douglas aveva un animo d'artista e faceva le cose in grande. Per Robin Hood 1 fece costruire un teatro di posa di dieci acri, un castello con enormi bastioni e ponti levatoi, assai più grande di qualsiasi maniero realmente esistito. Pieno di orgoglio Douglas mi mostrò 1 Robin Hood, 1922; regia di Dwan, con Douglas Fairbanks, Enid Bennett e Wallace Beery. (N. d. T.)
l'immenso ponte levatoio. « Formidabile » dissi. « Che magnifico inizio per una delle mie comiche: si abbassa il ponte levatoio, e io metto fuori il gatto e tiro dentro il latte. » Aveva uno svariato assortimento di amici, dai cowboy ai sovrani, e trovava in ciascuno doti interessanti. Charlie Mack, un cowboy, un tipo loquace e verboso, lo divertiva moltissimo. Mentre eravamo a cena Charlie si fermava sulla soglia e diceva: « Hai proprio un bel posticino, qui, Doug » poi girava lo sguardo per la sala da pranzo: « Solo che il caminetto è troppo lontano dal tavolo per sputarci dentro ». Infine si accovacciava sui talloni per raccontarci di sua moglie, che gli aveva intentato causa di « di-vorzio » per « cruler-tà ». « Io dico, Vostro Onore, che quella donna ha più cruler-tà nel mignolino di quanta ne abbia io dalla testa ai piedi. E non c'è bambola che sappia usare lo schioppo meglio di quella virago. Mi ha fatto saltare e ballare dietro il vecchio albero di casa nostra finché non era cosi bucherellato che potevo guardarci attraverso ! » Mi ero fatto l'idea che Charlie provasse le sue smar giassate prima di venire a trovare Doug. La villa di Douglas era un ex-casino di caccia, un bungalow a due piani piuttosto brutto in cima a una collina tra quelle che allora erano le boscose e deserte Beverly Hills. Alcale e salvia mandavano un odore acido e penetrante che pizzicava la gola e le narici. A quei tempi Beverly Hills sembrava un'area di sviluppo immobiliare abbandonata. I marciapiedi proseguivano per un tratto e poi sparivano in aperta campagna, mentre lampioni provvisti di globi bianchi adornavano strade vuote; gran parte dei globi mancavano, infranti dai gaudenti di ritorno dalle locande per automobilisti. Douglas Fairbanks fu il primo divo del cinema ad abitare a Beverly Hills, e m'invitava spesso a trascorrere il week-end da lui. La notte nella mia camera da letto sentivo gli ululati dei coyotes, che calavano a branchi per rovistare nei bidoni della spazzatura. I loro ululati avevano un suono soprannaturale, simile ai rintocchi di tante campanelle. Douglas aveva sempre due o tre amici che gli facevano compagnia: Tom Geraghty, che gli scriveva i soggetti, Carl, un ex-atleta olimpio
nico, e un paio di cowboy. Tra Tom, Doug e me si strinse un'amicizia tipo quella dei tre moschettieri. La domenica mattina Doug organizzava una carovana e ci alzavamo che era ancora buio per cavalcare incontro all'alba sulle colline. I cowboy legavano i cavalli e accendevano un fuoco da campo per preparare una colazione a base di caffè, frittelle calde e carne di maiale. Mentre assistevamo al levar del sole, Doug diventava loquace e io scherzavo sul sonno perduto, sostenendo che l'unica alba degna di essere vista era quella successiva a una notte passata con una donna. Ciò nondimeno, queste sortite mattutine erano davvero romantiche. Douglas fu l'unico uomo che riuscì a farmi montare a cavallo, malgrado le mie rimostranze: secondo me, il mondo faceva troppo sentimento su quell'animale, che era solo una bestia cocciuta e poco intelligente col carattere litigioso di uno stupido. A quel tempo Doug era diviso dalla prima moglie. La sera aveva sempre amici a cena, compresa Mary Pickford, di cui era follemente innamorato. A tale proposito si comportavano tutti e due come conigli spaventati. Il mio consiglio era di non sposarsi ma di vivere insieme senza badare a ciò che avrebbe detto la gente, ma loro non approvavano queste idee cosi spregiudicate. Mi ero espresso con tanto calore contro il matrimonio che quando finirono per sposarsi sul serio tutti i loro amici vennero invitati alle nozze tranne me. Spesso, con Douglas, si faceva un po' di filosofia spicciola, e io ne approfittavo per dissertare sulla futilità della vita. Douglas, invece, credeva che le nostre vite fossero preordinate e che ci attendesse un destino importante. Quando Douglas si lasciava prendere da questa mistica effervescenza la mia reazione era piuttosto cinica. Ricordo che una calda sera d'estate ci arrampicammo insieme in cima a una grande cisterna per l'acqua e restammo là seduti a chiacchierare nell'immenso deserto di Beverly. Le stelle mandavano un bagliore misterioso e la luna sembrava incandescente: avevo appena detto che la vita era senza scopo. « Guarda » disse Douglas, d'impulso, facendo un gesto circolare che abbracciava tutto il cielo. « La luna ! E quelle miriadi di stelle ! Dev'es
servi certo una ragione per tutta questa bellezza. Deve rispondere a qualche disegno ! Deve rientrare in un piano del quale facciamo parte anche tu e io ! » Poi, come per un'improvvisa ispirazione, si volse a me. « Perché ti è toccato questo talento, quel meraviglioso mezzo espressivo che è il cinema, che fa ridere milioni di persone e dà loro un po' di felicità? » « Perché è toccato a Louis B. Mayer e ai fratelli Warner? » dissi io. Douglas rise, e in seguito ripetè spesso la storiella agli amici. Douglas era un tipo inguaribilmente romantico. Quando passavo il week-end da lui, a volte mi capitava di svegliarmi da un sonno profondo alle tre del mattino, in tempo per vedere, nella foschia, un'orchestra hawaiana che suonava sul prato, facendo la serenata a Mary. Era un'idea molto carina, lo riconosco, ma si stentava a entrare nello spirito quando non ti toccava personalmente. Eppure furono proprio queste caratteristiche infantili a rendermelo assai caro. Douglas era anche un tipo sportivo, con cani lupo e cani poliziotto accucciati sul sedile posteriore della sua Cadillac scoperta. Andava pazzo per queste cose. Hollywood stava rapidamente diventando la mecca degli scrittori, degli attori e degli intellettuali. Autori famosi giungevano da tutte le parti del mondo: Sir Gilbert Parker, William J. Locke, Rex Beach, Joseph Hergesheimer, Somerset Maugham, Gouverneur Morris, Ibanez, Elinor Glyn, Edith Wharton, Kathleen Norris e molti altri. Somerset Maugham non lavorò mai a Hollywood, anche se i suoi racconti erano assai richiesti. Però vi si trattenne alcune settimane prima di raggiungere le isole del Mare del Sud dove scrisse quelle ammirevoli novelle. Ce ne raccontò una durante la cena, a Douglas e a me, la storia di Sadie Thompson, che disse di avere basato su fatti realmente accaduti, e dalla quale fu poi tratta una commedia intitolata Pioggia. Ho sempre considerato Pioggia una commedia modello. Il reverendo Davidson e sua moglie sono personaggi ben definiti, più interessanti di Sa
die Thompson. Come sarebbe stato grande Tree nei panni del reverendo Davidson! Ne avrebbe fatto una figura dolce, spietata, untuosa e terrificante. Al centro di questo milieu letterario hollywoodiano sorgeva una sconnessa costruzione di quint'ordine, molto simile a una stalla, nota col nome di Hollywood Hotel. Era balzata alla ribalta come un'ingenua ragazza di campagna che avesse ereditato una fortuna. Le stanze costavano un occhio della testa solo perché la strada da Los Angeles a Hollywood era quasi impraticabile, e queste celebrità volevano abitare nelle vicinanze degli studi. Ma avevano un'aria smarrita, come se fossero capitati all'indirizzo sbagliato. Elinor Glyn vi occupava due stanze, una delle quali aveva trasformato in soggiorno coprendo i cuscini di stoffa color pastello e sparpagliandoli sul letto in modo da farlo sembrare un sofà. Qui riceveva gli ospiti. Incontrai Elinor per la prima volta quando diede una cena per dieci persone. Dovevamo trovarci nelle sue stanze a bere un cocktail prima di scendere in sala da pranzo. Fui il primo ad arrivare. « Ah » disse lei, stringendomi il viso tra le mani e fissandomi intensamente. « Si lasci guardare. Che strano ! Credevo che avesse gli occhi castani, invece sono decisamente azzurri. » Anche se dapprincipio la trovai un po' invadente, fini per riuscirmi molto simpatica. Elinor, pur essendo un monumento di rispettabilità inglese, aveva scandalizzato il mondo vittoriano col suo romanzo Three weeks \ Il protagonista, Paul, è un giovanotto inglese di buona famiglia che allaccia una relazione amorosa con una regina: è l'ultima evasione che costei si permette prima di sposare il vecchio re. L'erede al trono, il principe della corona, è, naturalmente, figlio di Paul. Mentre aspettavamo che arrivassero gli altri invitati Elinor m'introdusse nell'altra stanza, dove, incorniciati sui muri, c'erano i ritratti di alcuni giovani ufficiali inglesi durante la prima guerra mondiale. Con un ampio gesto che li abbracciò tutti ella disse: « Questi sono tutti i miei Paul ». 1 Tre settimane.
Aveva una fervida passione per l'occultismo. Ricordo che un pomeriggio Mary Pickford si lamentò di essere stanca e di soffrire d'insonnia. Eravamo nella sua stanza da letto. « Indicami il nord » intimò Elinor. Poi puntò dolcemente un dito sulla fronte di Mary e ripetè: « Dormi, ora! ». Douglas e io ci avvicinammo piano piano per dare un'occhiata a Mary, che aveva cominciato a sbattere le palpebre. Ella ci disse poi che aveva dovuto fingere di dormire per più di un'ora, perché Elinor era rimasta a sorvegliarla nella stanza. Elinor si era fatta la reputazione di una scrittrice scandalosa, ma nessuno fu più prude di lei. Le sue idee sull'amore cinematografico erano di un'ingenuità addirittura puerile: signore che carezzavano con le ciglia le gote dei loro innamorati, languendo su pelli di tigre. La trilogia che scrisse per Hollywood pareva improntata a una progressiva mancanza di tempo. La prima parte si intitolava Three weeks, la seconda His Hour 1 e la terza Her Momenta. Her Moment aveva dei punti molto scabrosi. La storia s'impernia sul caso di una distinta signora, interpretata da Gloria Swanson, costretta a sposare un uomo che non ama. Si trovano insieme in una giungla tropicale. Un giorno ella va a fare una cavalcata solitaria e, interessandosi di botanica, smonta di sella per esaminare un fiore raro. Mentre si china sulla pianticella, una vipera velenosa la morde al seno. Gloria si porta le mani al petto e caccia uno strillo, udito dall'uomo che ama, il quale, molto opportunamente, passava di li per caso. È il bel Tommy Meighan, che sbuca all'improvviso dalla boscaglia. « Che è successo? » Gloria indica il rettile velenoso. « Mi ha morso ! » « Dove? » Gloria si mette un dito sul petto. « È la vipera dal veleno più micidiale ! » esclama Tommy alludendo, naturalmente, alla serpe. « Presto, bisogna fare qualcosa ! Non c'è un momento da perdere! » 1 La sua ora. 2 II suo momento.
Il medico più vicino è a molti chilometri di distanza, e il solito rimedio della pinza emostatica - stringere un fazzoletto attorno alla parte colpita per fermare la circolazione del sangue - è inattuabile. A un tratto egli la prende tra le braccia, le strappa la camicetta denudandole le spalle bianche e perlacee, poi la fa girare su se stessa per sottrarla allo sguardo indiscreto della macchina da presa, si piega su di lei e con la bocca sugge il veleno dalla ferita, sputandolo per terra. A seguito dell'operazione la ragazza lo sposa.
Quattordici Scaduto il contratto con la Mutual non vedevo l'ora di cominciare con la First National, ma eravamo senza studio. Decisi di comprare un'area a Hollywood per costruirne uno. Il terreno era all'angolo di Sunset con La Brea: vi sorgeva una bellissima casa di dieci locali al centro di cinque acri di limoni, aranci e peschi. Costruimmo un impianto modello, completo di laboratorio di sviluppo e stampa, sale di montaggio e numerosi uffici. Durante la costruzione dello studio feci un viaggio a Honolulu con Edna Purviance, per un mese di riposo. Hawaii, allora, era un'isola bellissima. Ma il pensiero di abitarci, a duemila miglia dalla terraferma, era deprimente; ad onta della sua smagliante bellezza, degli ananassi, della canna da zucchero, dei frutti e dei fiori esotici, fui lieto di tornare indietro, perché provavo un lievissimo senso di claustrofobia, quasi fossi imprigionato dentro un giglio. Era inevitabile che la vicinanza di una bella ragazza come Edna Purviance finisse per toccare qualche corda del mio cuore. Quando venimmo a lavorare a Los Angeles per la prima volta, Edna affittò un appartamento vicino all'Athletic Club, e quasi tutte le sere ve la portavo a cena. I nostri rapporti erano improntati alla massima correttezza, e sotto sotto io pensavo che un giorno o l'altro avremmo anche potuto sposarci, ma avevo qualche riserva sul conto di Edna. Non ero sicuro dei suoi sentimenti e, se è per questo, non ero sicuro neppure di me. Mantenevo, come si dice, una posizione di attesa.
Nel 1916 fummo inseparabili e partecipammo a tutte le feste e le serate di gala della Croce Rossa. In tali occasioni Edna diventava gelosa e aveva un modo insidioso e caratteristico di farmelo notare. Se qualche ragazza mostrava un eccessivo interesse nei miei confronti, Edna spariva dalla circolazione e qualcuno veniva subito ad avvertirmi che era svenuta e chiedeva di me: naturalmente, passavo con lei il resto della serata. Una volta una graziosa padrona di casa, che dava un ricevimento all'aperto in mio onore, dopo avermi rimorchiato da un'invitata all'altra finalmente mi attirò in un'alcova. Ma in quel momento, ancora una volta, si sparse la voce che Edna era svenuta. Pur essendo lusingato che una ragazza cosi bella chiedesse sempre di me appena ripresi i sensi, pensai che l'abitudine cominciava a diventare piuttosto fastidiosa. La chiarificazione avvenne a una festa data da Fanny Ward, alla quale partecipava una vera galassia di belle ragazze e aitanti giovanotti. Edna svenne un'altra volta. Ma quando tornò in sé chiese di Thomas Meighan, l'alto ed elegante primo attore della Paramount. Io allora non ne seppi nulla. Fu Fanny Ward a dirmelo, l'indomani: conoscendo i miei sentimenti per Edna, non voleva espormi a una ridicola figura. Non potevo crederle. Il mio orgoglio era ferito; mi sentivo profondamente offeso. Se era vero, sarebbe stata la fine dei nostri rapporti. Ma non potevo rinunciare a lei cosi all'improvviso. Il vuoto sarebbe stato troppo grande. Solo allora mi resi conto di ciò che avevamo rappresentato l'uno per l'altra. Il giorno dopo l'incidente non riuscii a lavorare. Nelle prime ore del pomeriggio le telefonai per avere una spiegazione, deciso a fare una scenata; invece il mio carattere ebbe il sopravvento, e presi un tono sarcastico. Arrivai al punto di scherzare allegramente sulla questione. « Mi risulta che alla festa di Fanny Ward hai chiesto dell'uomo sbagliato: si vede che stai perdendo la memoria! » Lei rise, ma nel tono della sua voce mi parve di cogliere una sfumatura d'imbarazzo. « Come sarebbe a dire? » domandò.
Speravo che si affrettasse a negare. Invece si comportò con molta abili tà. Mi chiese chi mi aveva detto tutte queste sciocchezze. « Che importa chi me lo ha detto? Credevo di contare qualcosa, per te, e non immaginavo che alla prima occasione mi avresti esposto al ridicolo di tutti. » Edna era molto calma, e insistè nel dire che mi avevano raccontato un sacco di bugie. Pensai di ferirla con l'ostentazione della mia indifferenza. « Non occorre che tu finga, con me » dissi. « Sei libera di fare quello che ti pare. Non sei mica mia moglie. Continua a lavorare coscienziosamente, questa è l'unica cosa che m'interessa. » Edna rispose amabilmente, riconoscendo la bontà delle mie osservazioni. Disse che non voleva frapporre ostacoli alla nostra collaborazione, e che avremmo sempre potuto essere buoni amici, il che mi rese ancora più infelice. Parlai al telefono per un'ora, nervoso e turbato, cercando la scusa per una riconciliazione. Come accade in tali circostanze, mi riprese un profondo interesse per lei, e la conversazione si concluse con un mio invito a cena per quella sera, col pretesto di discutere la situazione. Edna esitava, ma io insistetti, anzi la pregai e finii per scongiurarla, sentendomi franare sotto i piedi tutto il mio orgoglio e le mie difese. Finalmente ella acconsenti... Quella sera cenammo insieme a uova e pancetta, che lei preparò nel suo appartamento. Ci fu una specie di riconciliazione, e il turbamento in parte ci abbandonò. L'indomani, almeno, fui in grado di lavorare. Ciò nonostante, continuavo a rimproverarmi e a provare un angoscioso senso di vuoto. Mi davo la colpa di averla trascurata più di una volta. Ero in un dilemma. Dovevo troncare definitivamente i miei rapporti con lei o no? E se la storia di Meighan non fosse stata vera? Circa tre settimane dopo ella passò dallo studio a ritirare il suo assegno. La incontrai per caso mentre stava per uscire. Era con un amico. « Conosci Tommy Meighan? » disse ironicamente. Rimasi piuttosto scosso. In quel breve istante Edna divenne un'estranea, come se l'avessi
appena incontrata per la prima volta. « Certo » dissi. « Come va, Tommy? » Meighan era un po' imbarazzato. Ci stringemmo la mano e, dopo esserci scambiati alcuni convenevoli, Edna e Tommy lasciarono lo studio insieme. Ma la vita è solo una lotta che ci concede brevi attimi di tregua. Se non è il problema dell'amore, è qualche altra cosa. Raggiungere il successo era una prospettiva meravigliosa, ma col successo ingigantiva lo sforzo per tenersi al passo con quella ninfa incostante che ha nome popolarità. Ciò nondimeno, trovavo conforto nel lavoro. Ma scrivere, recitare e dirigere cinquantadue settimane all'anno era una strenua fatica che richiedeva un consumo esorbitante di energia nervosa. Giungevo esausto e depresso alla fine di ogni film tanto da dover passare un'intera giornata a letto, per riposarmi. Verso sera mi alzavo e andavo a fare quattro passi in santa pace. In questo stato melanconico curiosavo qua e là per il centro contemplando distrattamente le vetrine. In tali occasioni non mi sforzavo mai di pensare; avevo il cervello annebbiato. Ma facevo presto a recuperare. Di solito, il mattino dopo, recandomi allo studio, mi tornava l'entusiasmo e il cervello riprendeva a funzionare. Con in testa l'abbozzo di un'idea ordinavo le scene che m'interessavano, e durante l'allestimento lo scenografo m'interrogava sui particolari; bluffando, gli dicevo dove avrei voluto le porte e gli archivolti. Cosi, alla disperata, ho cominciato più di una comica. A volte la mia mente si tendeva come una corda di violino e bisognava allentarla in qualche modo. In questi casi era efficacissima una serata di libertà. Non ho mai cercato lo stimolo dell'alcool. Anzi, quando lavoravo avevo la superstiziosa convinzione che il minimo stimolo di qualsiasi genere influisse sulla mia perspicacia. Nulla richiedeva maggiore lucidità di mente dell'ideazione e della regia di una comica. Quanto al sesso, lo spendevo quasi tutto nel lavoro. Quando sollevava la sua deliziosa testolina, la vita era cosi balorda che il mercato ne era saturo o ne registrava una grave penuria. Osservavo comunque una
rigorosa disciplina e prendevo molto sul serio il mio lavoro. Come Balzac, il quale era convinto che una notte di bagordi potesse fargli perdere una buona pagina del suo romanzo, cosi anch'io credevo che potesse farmi perdere una buona giornata di lavoro allo studio. Una romanziera piuttosto nota, saputo che stavo scrivendo la mia autobiografia, disse: « Spero lei abbia il coraggio di dire la verità ». Credevo alludesse alle mie idee politiche, invece si riferiva alla mia vita sessuale. Immagino che in un'autobiografia tutti si aspettino di trovare una dissertazione sulla libidine dell'autore, anche se non ne vedo il motivo. Secondo me essa contribuisce ben poco alla comprensione o all'approfondimento di un carattere. A differenza di Freud, io non credo che il sesso sia l'elemento più importante nella complessità del comportamento. È più facile che incidano sulla psicologia il freddo, la fame e la vergogna della miseria. Come per chiunque altro, la mia vita sessuale ha avuto un andamento ciclico. A volte fu molto attiva, a volte una delusione. Ma non fu mai al centro dei miei interessi. Avevo interessi artistici che mi assorbivano completamente. Comunque, in questo libro non intendo fornire una descrizione minuziosa degli alti e bassi della mia vita sessuale: trovo queste descrizioni prosaiche, ciniche e prive di poesia. Mi sembrano più interessanti le circostanze che introducono al sesso. A tale riguardo, un piacevole imprevisto mi capitò all'Alexandria Hotel la prima notte trascorsa a Los Angeles di ritorno da New York. Mi ero ritirato assai presto in camera mia e avevo cominciato a spogliarmi, canterellando tra me una delle canzonette più in voga a New York. Ogni tanto mi fermavo, assorto nei miei pensieri, e subito dalla stanza attigua una voce femminile riprendeva il motivo dal punto in cui lo avevo interrotto. Io continuavo da dove si era interrotta lei, e il giochetto durò fino alle ultime note della canzone. Che fosse il caso di approfondire la conoscenza? Era una faccenda rischiosa. Inoltre, non
avevo idea dell'aspetto della mia vicina. Ripresi a zufolare il motivetto e la cosa si ripete, tale e quale. « Ah, ah, ah ! Questa è bella ! » esclamai con una risata, temperando l'intonazione in modo che la frase potesse apparire rivolta indifferentemente a lei o a me stesso. Dall'altra stanza venne una voce: « Prego? ». Allora sussurrai dal buco della serratura: « Evidentemente lei è appena arrivata da New York ». « Non sento niente » disse la voce. « Apra la porta, allora » risposi. « L'aprirò un pochino, ma lei si guardi bene dall'entrare. » « Prometto. » Schiuse il battente di dieci centimetri, e mi trovai di fronte a una bionda estremamente affascinante. Non so con esattezza che cosa indossasse; intravidi un negligée di seta, che le dava un'aria molto seducente. « Se entra, strillo ! » disse con voce incantevole, mostrando i graziosi denti bianchi. « Piacere di conoscerla » mormorai, e mi presentai. Sapeva già il mio nome e che avevo la stanza attigua alla sua. Più tardi, quella notte, mi disse che in nessun caso dovevo mostrare pubblicamente di conoscerla, sia pure con un cenno del capo al suo passaggio nell'atrio dell'albergo. Questo fu tutto ciò che mi confidò sul suo conto. La seconda notte, quando tornai in camera mia, battè un franco colpetto all'uscio e ancora una volta ci trovammo a tu per tu. La terza notte cominciavo ad essere piuttosto stanco; inoltre, avevo il lavoro e la carriera a cui pensare. Cosi la quarta notte aprii furtivamente la porta ed entrai nella mia stanza in punta di piedi, sperando di raggiungere il letto senza farmi notare; ma lei mi aveva sentito e cominciò a bussare all'uscio. Questa volta non le badai e mi misi subito a letto. Il giorno dopo, quando la incontrai nell'atrio dell'albergo, mi lanciò un'occhiata gelida.
La notte successiva non bussò, ma la maniglia della porta stridette e la vidi girare lentamente. L'avevo, però, chiusa a chiave dall'interno. Ella girò violentemente la maniglia, poi bussò con impazienza. Il mattino dopo ritenni opportuno lasciare l'albergo, e perciò ripresi alloggio all'Athletic Club. Il mio primo film nel mio studio nuovo fu Vita da cani \ Era una storia a fondo satirico, in cui paragonavo la vita di un cane a quella di un vagabondo. Questo leitmotiv costitui la struttura nella quale innestai una quantità di trovate e situazioni umoristiche. Cominciavo a pensare alla comica in senso strutturale, prendendo atto sempre più della sua forma architettonica. Ciascuna sequenza implicava quella successiva, e tutte quante erano collegate tra loro. La prima sequenza consisteva nel salvataggio di un cane da un parapiglia con altri cani. Quella successiva consisteva nel salvataggio, in una sala da ballo, di una ragazza che faceva anche lei una « vita da cani ». C'erano molte altre sequenze, tutte collegate in una logica concatenazione di fatti. Semplici e ovvie com'erano, queste comiche richiedevano molta riflessione e fantasia. Se una trovata interferiva con la logica dei fatti, per umoristica che fosse non me ne servivo. Ai tempi della Keystone il vagabondo era più libero e meno legato a una trama. Allora il suo cervello non lavorava quasi mai; funzionavano solo i suoi istinti, che miravano all'essenziale: un po' di cibo, un po' di calore e un tetto sulla testa. Ma ad ogni comica successiva il vagabondo divenne più complesso. Nel personaggio cominciava a filtrare il sentimento. Ciò mi creò un problema, perché esso era relegato nei limiti della logica farsesca. Può sembrare un'affermazione pretenziosa, ma anche la farsa esige una psicologia estremamente rigorosa. 1A Dog's Life, 1918.
Trovai la soluzione pensando al vagabondo come a una specie di Pierrot. Sulla base di questa concezione ero più libero di esprimere una gamma di emozioni e di arricchire la comica di sfumature sentimentali. Ma logicamente era difficile far si che una bella ragazza provasse qualche interesse per un vagabondo. Questo era sempre stato un problema nei miei film. Nella Febbre dell'oro 1 l'interesse della ragazza per il vagabondo nasce dalla sua intenzione di fargli uno scherzo, che poi la muove a pietà; ed è questa pietà che lui scambia per amore. La ragazza delle Luci della città " era cieca. Cosi il vagabondo poteva sembrarle romantico e affascinante fino al momento in cui ella ritrovava la vista. A misura che si sviluppava la mia abilità nella costruzione di una sto ria, si riduceva la mia libertà comica. Come mi scrisse un ammiratore che preferiva le mie prime comiche girate per la Keystone a quelle più recenti: «Allora il pubblico era suo schiavo; oggi è lei ad essere schiavo del pubblico ». Ma anche in quelle prime farse grossolane io volevo creare un'atmosfera; e di solito ricorrevo all'aiuto della musica. Una vecchia canzone intitolata Mrs Grundys creò l'atmosfera per L'emigrante. La melodia aveva una struggente tenerezza che mi diede l'idea di due poveri disgraziati che si sposano in una triste giornata di pioggia. Il film inizia con Charlot sulla nave che lo porta in America. Sul ponte di terza classe egli incontra una ragazza con la madre, due poverette come lui. Arrivati a New York, si separano. Alla fine egli torna a incontrare la ragazza, ma questa volta ella è sola e, come lui, non ha fatto fortuna. Mentre stanno conversando, la ragazza si soffia inavvertitamente il naso in un fazzoletto listato a lutto, facendogli cosi capire che sua madre è morta. E, naturalmente, i due protagonisti finiscono per sposarsi in una triste giornata di pioggia. 1 The Gold Rush, 1925. 2 City Lights, 1931. 3 La signora Grundy.
Motivetti molto semplici mi diedero lo spunto per altre comiche. In una che s'intitolava Charlot pazzo per amore, piena di inseguimenti e di tafferugli in un parco, con l'intervento di balie e poliziotti, entravo e uscivo di scena col ritmo di Too Muck Mustard 1, un two-step assai popolare nel 1914. La canzone Violetera creò l'atmosfera delle Luci della città e Auld Lang Syne quella della Febbre dell'oro. Fin dal 1916 avevo parecchie idee per lunghimetraggi. Una era quella di un viaggio nella luna, uno spettacolo comico impostato sullo svolgimento delle Olimpiadi sul satellite, che mi avrebbe permesso di scherzare con la legge di gravità. Doveva essere una satira del progresso. Pensai a una macchina per mangiare, e anche a un cappello elettromagnetico in grado di registrare i pensieri di chi lo porta; e ai guai in cui mi ficco quando me lo metto in testa prima di essere presentato alla seducente consorte del selenita. L'idea della macchina per mangiare finii poi per inserirla in Tempi moderni2. Parecchi intervistatori mi hanno chiesto dove vado a prendere le idee per i miei film e ancor oggi non sono in grado di dare una risposta soddisfacente. Col passare degli anni ho scoperto che le idee vengono quando se ne ha un intenso desiderio; a forza di desiderare, la mente diventa una specie di osservatorio sempre all'erta per cogliere gli incidenti capaci di stimolare l'immaginazione: la musica, un tramonto, possono dare un volto a un'idea. Direi: scegliete un tema in grado di stimolarvi, elaboratelo e svolgetelo, poi, se non riuscite a svilupparlo ulteriormente, scartatelo e pren detene un altro. Questa eliminazione progressiva è il miglior sistema per trovare quello che cercate. Come si fa ad avere delle idee? Perseverando fin quasi a impazzire. Bisogna avere la forza di soffocare l'angoscia e dare sfogo all'entusiasmo per un lungo periodo di tempo. Forse per alcuni è più facile che per altri, ma ho i miei dubbi. 1 Troppa mostarda. 2 Modern Times, 1936. 252
Naturalmente ogni comico in formazione attraversa il periodo delle generalizzazioni filosofìche. « L'elemento della sorpresa e della suspense » era una frase che negli studi della Keystone si sentiva pronunciare un giorno si e uno no. Non tenterò di sondare gli abissi della psicoanalisi per spiegare il comportamento dell'uomo, che è inesplicabile come la stessa vita. Più che dal sesso o da aberrazioni infantili credo che la maggior parte delle nostre costrizioni ideazionali discenda da cause ataviche: però non devo leggere dei libri per sapere che il tema della vita è il conflitto e il dolore. Per istinto, tutta la mia comicità si basava su queste cose. Il mezzo al quale ricorrevo per creare l'intreccio comico era semplicissimo. Non si trattava che di mettere la gente nei guai per poi trarla d'impaccio. Ma l'humour è diverso e più sottile. Max Eastman lo analizza nel suo libro intitolato A Sense of Humour \ dove giunge alla conclusione che esso deriva dall'« allegro dolore ». Egli scrive che l'homo sapiens è un masochista, il quale gode del dolore in molte forme, e che al pubblico piace soffrire per interposta persona : come fanno i bambini quando giocano agli indiani; essi infatti si divertono a farsi sparare addosso e a patire gli spasimi della morte. In questo sono perfettamente d'accordo. Ma si tratta più di un'analisi della tragedia che della comicità, anche se le due cose sono strettamente connesse. Pure, il mio concetto della comicità è lievemente diverso: essa scaturisce dalle sottili discrepanze che percepiamo nel normale comportamento umano. In altre parole, attraverso la comicità vediamo l'irrazionale in ciò che sembra razionale ; il folle in ciò che sembra sensato ; l'insignificante in ciò che sembra pieno d'importanza. Essa ci aiuta anche a sopravvivere preservando il nostro equilibrio mentale. Grazie all'umorismo siamo meno schiacciati dalle vicissitudini della vita. Esso attiva il nostro senso delle proporzioni e c'insegna che in un eccesso di serietà si annida sempre l'assurdo. 1 II senso dell'umorismo.
Per esempio, a un funerale dove amici e parenti sono raccolti in rispettoso silenzio intorno alla bara del defunto, un ritardatario entra proprio mentre la funzione sta per iniziare e in punta di piedi si dirige frettolosamente al proprio posto, dove uno degli uomini in lutto ha lasciato il cilindro. Nella fretta, egli vi si siede accidentalmente sopra, poi con aria solenne, facendo le sue scuse silenziose, lo porge schiacciato al proprietario, il quale lo prende con un'espressione di muto fastidio senza smettere di seguire la funzione. E la solennità della circostanza diventa ridicola.
Quindici Allo scoppio della prima guerra mondiale, l'opinione pubblica pensava che non durasse più di quattro mesi. Eravamo tutti convinti che la scienza della guerra moderna avrebbe riscosso un cosi spaventoso pedaggio di vite umane da indurre l'umanità a chiedere la cessazione di una simile barbarie. Ma ci sbagliavamo. Fummo travolti da una valanga di stragi brutali e folli distruzioni che durò quattro anni riempiendo di sgomento l'umanità. Avevamo dato inizio a un'orrenda emorragia di proporzioni mondiali. E non potevamo fermarla. Centinaia di migliaia di esseri umani combattevano e morivano, e la gente cominciò a domandarsene la ragione, a chiedersi perché fosse scoppiata la guerra. Le spiegazioni non erano troppo chiare. Alcuni sostenevano che dipendeva dall'assassinio di un arciduca; ma questo non sembrava un motivo sufficiente per lo scoppio di una conflagrazione mondiale. La gente aveva bisogno di una spiegazione più realistica. Allora si disse che era una guerra per la difesa della democrazia. Anche se la minoranza aveva più cose da difendere della maggioranza, le perdite furono crudelmente democratiche. Mentre milioni d'individui cadevano sotto il fuoco cominciò a delinearsi la parola « democrazia ». Di conseguenza molti troni furono rovesciati, nuove repubbliche fondate, e mutò tutto il volto dell'Europa. Ma nel 1916 gli Stati Uniti dichiararono di essere « troppo fieri per combattere ». Fu questo a dare al paese lo spunto per la canzone / Didn't Raìse My Boy to Be a Soldier '. La canzone ottenne un enorme 1 Non ho allevato il mio ragazzo per farne un soldato. ,'• • 255
successo di pubblico fino all'affondamento del Lusitania, che diede lo spunto per un'altra canzone, Over There 1, e molte altre ingannevoli strofette. Fino all'incidente del Lusitania il peso della guerra era stato appena avvertito in California. Non mancando nulla, non c'era nulla di razionato. Si organizzavano feste e balli per la Croce Rossa, un buon pretesto per i ricevimenti mondani. A una serata di gala una signora donò ventimila dollari alla Croce Rossa per sedersi vicino a me a un grande banchetto. Ma col passare del tempo tutti dovettero affrontare la dura realtà della guerra. L'America aveva già varato due campagne per il Prestito della Libertà, e ora Mary Pickford, Douglas Fairbanks e io fummo pregati di aprire ufficialmente la terza campagna per il Prestito della Libertà, a Washington. Avevo quasi finito il mio primo film per la First National, Vita da cani. Ed essendomi impegnato a distribuirlo più o meno alla stessa epoca della campagna, rimasi in piedi tre giorni e tre notti per completare il montaggio. Quando ebbi terminato mi misi in treno, esausto, e dormii per due giorni di seguito. Tornato in me, cominciammo tutti e tre a buttar giù i nostri discorsi. Non avendone mai fatto uno serio, ero cosi nervoso e preoccupato che Doug mi consigliò di provarlo sulla folla che ci aspettava nelle stazioni ferroviarie. C'era una fermata, in qualche posto, e una folla di ammiratori si era ammassata dietro il vagone panoramico. E di là Doug presentò Mary, che tenne un discorsetto, poi presentò me, ma avevo appena cominciato che il treno riparti; e mentre esso si allontanava dalla folla, io divenni sempre più drammatico ed eloquente, crescendo la mia fiducia col progressivo rimpicciolirsi della folla. A Washington sfilammo per le strade come sovrani, fino al campo da rugby dove dovevamo tenere il discorso inaugurale. Il palco degli oratori era fatto di rozze tavole di legno coperte di bandiere e bandierine. Tra i rappresentanti dell'esercito e della marina, là 1 Laggiù. 2 fi6
in piedi, c'era un bel giovanotto alto, che occupava il posto al mio fianco e col quale cominciai subito a discorrere. Gli dissi che non avevo mai parlato prima e che la cosa mi preoccupava non poco. « Non c'è da aver paura » disse lui con voce ferma. « Dica le cose come stanno; li inviti a comprare i Buoni della Libertà; non cerchi di fare dello spirito... » « Stai tranquillo, ci sarà poco da ridere » dissi ironicamente io. Ben presto sentii pronunciare il mio nome, e allora balzai sul podio con fairbankiana agilità e senza un attimo di tregua attaccai il mio mitragliamento verbale, interrompendomi solo per tirare il fiato. « I tedeschi sono alla vostra porta! Dobbiamo fermarli! E li fermeremo se comprerete i Buoni della Libertà! Ricordate, ogni buono che comprerete salverà la vita di un soldato, un figlio di mamma, e porterà questa guerra a una rapida vittoria! » Parlavo cosi in fretta e con tanta animazione che scivolai dalla tribuna, tentai di aggrapparmi a Marie Dressler e caddi con lei addosso al mio giovane e bell'amico che, guarda caso, era l'allora vice segretario della marina, Franklin D. Roosevelt. Dopo la cerimonia ufficiale dovevamo recarci alla Casa Bianca per un incontro col presidente Wilson. Tremanti dall'emozione, fummo intro dotti nella Sala Verde. A un tratto si apri la porta e comparve un segretario, che disse in tono spicciativo : « Mettetevi in fila, per favore, e fate tutti un passo avanti ». Poi entrò il presidente. Mary Pickford prese l'iniziativa. « È stata una grande soddisfazione, signor presidente » disse « e sono certa che la diffusione del Prestito supererà le più rosee previsioni. » « Si » intervenni io, al colmo della confusione « è stato e sarà... » II presidente mi guardò con aria incredula, poi raccontò un'amena storiella a proposito di un ministro di gabinetto al quale piaceva il suo whisky. Ridemmo tutti educatamente, poi ci congedammo. Per il loro giro di propaganda Douglas e Mary scelsero gli stati del nord e io quelli del sud, poiché non c'ero mai stato. Invitai ad accompagnarmi un amico di Los Angeles, Rob Wagner, scrittore e ritrattista. Fu u.
una campagna propagandistica organizzata alla perfezione. Vendetti, da solo, Buoni della Libertà per un valore di parecchi milioni di dollari. In una città della Carolina del Nord il capo del comitato organizzatore era l'uomo d'affari più importante della zona. Mi confessò di avere mandato alla stazione dieci dei suoi ragazzi armati di torte alla crema da tirarmi addosso. Ma quando eravamo scesi dal treno, vedendo la serietà del nostro entourage, ci aveva ripensato. Lo stesso signore c'invitò a una cena cui parteciparono parecchi generali americani, tra i quali il generale Scott, che evidentemente non lo aveva in simpatia. Fu lui a dire, durante il banchetto: « Sapete che differenza c'è tra il nostro ospite e una banana? ». Vi fu un attimo di tensione. « Be', una banana la si può pelare. » Quanto alla leggenda del gentiluomo meridionale, credo di averne incontrato uno ad Augusta, nella Georgia: il giudice Henshaw, capo del comitato organizzatore locale. Ci spedi una lettera per informarci che aveva organizzato una festicciola in mio onore al country club, giacché saremmo stati ad Augusta il giorno del mio compleanno. Per un attimo mi vidi al centro di una piccola folla tutta intenta a conversare del più e del meno, ed essendo sfinito decìsi di rifiutare e di andarmene diritto in albergo. Di solito, quando si arrivava alla stazione, c'era una folla enorme a riceverci con la banda. Ad Augusta trovammo solo il giudice Henshaw con una giacca di seta nera e un panama bruciato dal sole. Era un uomo cortese e silenzioso, e dopo essersi presentato mi accompagnò in albergo, insieme a Rob, con un vecchio landò a cavalli. Per qualche tempo restammo in silenzio. Poi, all'improvviso, il giudice prese la parola. « Ciò che mi piace nella sua comicità è la conoscenza dei principi: lei sa che la parte meno nobile dell'anatomia umana è il sedere, e le sue comiche lo provano. Quando lei molla un calcio in quel posto a un distinto signore, lo spoglia di tutta la sua dignità. Persino l'imponenza di un'inaugurazione presidenziale crollerebbe miseramente se lei si avvicinasse al presidente per appioppargli un calcio nel didie
tro. » Per il resto del viaggio, sotto il sole, egli mosse capricciosamente la testa di qua e di là, tutto preso dal suo soliloquio. « È il sedere il nostro punto debole. » Dando una gomitata a Rob, sussurrai: « La festa per il compleanno è cominciata ». Essa ebbe luogo lo stesso giorno del comizio. Henshaw aveva invitato solo altri tre amici, e si scusò per la ristrettezza del ricevimento, dicendo che era un egoista e voleva godersi in santa pace la nostra compagnia. Il circolo del golf sorgeva in una zona bellissima. Le ombre degli alberi altissimi sul prato verde conferivano alla scena una serena eleganza mentre, in sei, sedevamo sul terrazzo, intorno a una tavola rotonda al centro della quale troneggiava la torta con le candeline. Mentre il giudice sbocconcellava un pezzo di sedano, con gli occhi scintillanti, lanciò un'occhiata a Rob e a me. « Non so se ad Augusta venderà molti buoni... Non me la cavo troppo bene nell'organizzazione di queste cose. Comunque, credo che la gente sia al corrente della sua presenza in città. » Cominciai a lodare la bellezza dei luoghi. « Si » disse lui « manca una sola cosa: lo sciroppo di menta. » II discorso si spostò sul proibizionismo, sui suoi mali e sui suoi vantaggi. « Stando alle relazioni mediche » disse Rob « il proibizionismo ha avuto un effetto benefico sulla salute pubblica. Le riviste di medicina affermano che da quando abbiamo smesso di bere whisky vi sono meno ulcere allo stomaco. » Per celia, il giudice prese un'espressione offesa. « Non parli del whisky come se fosse roba per lo stomaco ; è un nutrimento dello spirito ! » Poi si rivolse a me. « Charlie, questo è il suo ventottesimo compleanno: lei non è ancora sposato? » « No » risposi con una risata. « E lei? » « No » sospirò malinconicamente lui. « Ho dovuto giudicare troppi ca si di divorzio. Eppure, se potessi tornare indietro mi sposerei; è una vita troppo solitaria quella dello scapolo. Ad ogni modo, io credo nel divor
zio. Penso di essere il giudice più criticato della Georgia. Se due persone non vogliono vivere insieme, non le costringo. » Dopo un po' Rob consultò l'orologio. « Se il discorso è fissato per le otto e mezzo » disse « sarà meglio che ci affrettiamo. » II giudice stava sbocconcellando pigramente il suo pezzo di sedano. « C'è tempo, c'è tempo » disse. « Chiacchieriamo ancora un poco. Mi piace chiacchierare. » Mentre ci stavamo dirigendo sul luogo del comizio, attraversammo un piccolo parco; dovevano esserci venti o più statue di senatori, dall'aria assurdamente pomposa, alcuni con una mano dietro la schiena e l'altra sul fianco, stretta intorno a una pergamena. Scherzando, osservai che erano proprio i tipi adatti per quel famoso calcio nel sedere di cui ci aveva parlato lui. « Si » disse gaiamente « sembrano davvero dei pavoni con la puzza sotto il naso. » C'invitò a cena a casa sua, una vecchia villa georgiana, molto bella, dove Washington aveva « dormito sul serio » arredata con mobili antichi del settecento americano. « Che meraviglia ! » escamai. « Si, ma senza una moglie è uno scrigno vuoto. Non lasci passare troppo tempo, Charlie. » Nel sud visitammo diversi campi di addestramento militare e vedemmo molte facce cupe e amareggiate. Il nostro giro di propaganda si concluse trionfalmente con un ultimo discorso in Wall Street, a New York, davanti agli uffici del ministero del tesoro, dove Mary, Douglas e io vendemmo buoni per un valore di oltre due milioni di dollari. L'atmosfera di New York era deprimente; l'orco del militarismo trionfava in ogni luogo. Non c'era modo di sfuggirgli. L'America si era gettata in una matrice di obbedienza, e ogni pensiero veniva secondo alla religione della guerra. Era scoraggiante anche il falso ottimismo delle bande militari che vedevo sfilare dalla finestra del mio albergo nel cupo canalone di Madison Avenue, dodici piani sotto di me, accompagnando i reggimenti destinati oltremare.
Malgrado l'atmosfera, ogni tanto si verificava qualche fatterello umoristico. Sette fanfare dovevano attraversare a passo di marcia il Ball Park davanti al governatore di New York. Fuori dallo stadio Wilson Mizner, forte di un distintivo fasullo, fermava ciascuna fanfara per avvertire i musicanti di attaccare l'inno nazionale prima di passare davanti alla tribuna del governatore. Dopo che il governatore e il suo seguito si furono alzati per la quarta volta, ritenne opportuno informare le bande che restavano di piantarla con l'inno nazionale. Prima di lasciare Los Angeles per la campagna del Terzo Prestito della Libertà, avevo incontrato Marie Doro. Era venuta a Hollywood per interpretare alcuni film della Paramount. Era un'ammiratrice di Charlie Chaplin e disse a Constance Collier che l'unica persona che desiderava conoscere a Hollywood era lui: senza sospettare minimamente che avevamo lavorato insieme a Londra, al teatro Duke of York. Rividi dunque Marie Doro. Fu come il secondo atto di una commedia romantica. Appena Constance mi ebbe presentato dissi: « Ma noi ci siamo già conosciuti. Lei mi ha spezzato il cuore. Io ero silenziosamente innamorato di lei ». Marie, più bella che mai, guardandomi attraverso l'occhialino disse: « Com'è emozionante! ». Allora le spiegai che ero il Billy di Sherlock Holmes. Più tardi cenammo nel giardino. Era una calda sera d'estate, e a lume di candela io parlai delle delusioni di un adolescente silenziosamente innamorato di lei e le dissi che al teatro Duke of York calcolavo sempre il momento in cui lei usciva dal camerino per poterla incontrare sulle scale e balbettare "buonasera". Parlammo di Londra e di Parigi; Marie adorava Parigi, e parlammo dei bistro, dei caffè, di Maxim's e dei Champs Elysées... E ora Marie era a New York! Non solo, ma avendo saputo che alloggiavo al Ritz mi aveva scritto una lettera per invitarmi a cena nel suo appartamento. Diceva cosi:
Charlie caro, ho un appartamento vicino ai Champs Elysées (Madison Avenue). Possiamo cenare li, o andare da Maxim's (The Colony). Poi, se lo desideri, possiamo fare un giro in macchina attraverso il Bois (Central Park)... Invece non facemmo nessuna di quelle cose e non andammo in nessuno di quei posti, limitandoci a cenare tranquillamente, noi due soli, nell'appartamento di Marie. Tornato a Los Angeles ripresi alloggio all'Athletic Club, e cominciai a pensare al lavoro. Vita da cani mi aveva preso un po' più di tempo ed era costata più del previsto. Comunque non ero preoccupato perché alla scadenza del contratto tutto sarebbe rientrato nella media. Mi preoccupava invece il soggetto del mio secondo film. Poi mi venne un'idea: perché non fare una comica sulla guerra? Parlai delle mie intenzioni a vari amici, i quali scossero il capo. Disse De Mille: « Di questi tempi è pericoloso scherzare sulla guerra ». Pericoloso o no, l'idea mi entusiasmò. Charlot soldato 3 doveva essere inizialmente un film in cinque bobine. La prima parte si sarebbe imperniata sulla « vita da borghese », la seconda sulla « guerra » e la terza sul « banchetto », col quale tutte le teste coronate dell'Europa avrebbero festeggiato l'atto di eroismo da me compiuto catturando il Kaiser. E alla fine, si capisce, scoprivo che era stato tutto un sogno. Le sequenze prima e dopo la guerra furono scartate. La scena del banchetto, tolta la parte iniziale, non fu mai girata. Gli effetti comici dovevano essere appena accennati. In principio si vedeva Charlot che torna a casa insieme ai quattro figli; si assenta un momento, poi riappare asciugandosi la bocca e ruttando; entra in casa e immediatamente una 1 Shoulder Arms, 1918.
padella attraversa lo schermo e lo colpisce sulla testa. Sua moglie non si vede mai, ma dalla corda per il bucato, in cucina, pende un'enorme camicia, che dà subito agli spettatori un'idea delle sue proporzioni. Nella sequenza successiva Charlot viene sottoposto alla visita medica e fatto spogliare completamente. Sul vetro smerigliato della porta di un ufficio legge un nome: « Dr. Frances». Un'ombra si avvicina per aprire la porta e, credendo che si tratti di una donna, Charlot scappa da un'altra porta e va a finire in un dedalo di uffici, separati gli uni dagli altri da tramezzi di vetro, dove si trovano numerose impiegate tutte prese dal lavoro. Quando un'impiegata alza gli occhi lui si nasconde dietro una scrivania, solo per esporsi alla vista di un'altra, e finalmente fugge da un'altra porta e si smarrisce in un altro labirinto di uffici identici ai primi, allontanandosi sempre più dalla base, fino a trovarsi fuori, nudo, su un balcone sovrastante una via affollata. Questa sequenza, benché girata, non venne mai utilizzata. Ritenni più opportuno fare di Charlot un essere insignificante, comune, senza una storia, e presentarlo già sotto le armi. Charlot soldato fu realizzato nel bel mezzo di una tremenda ondata di caldo. Lavorare dentro un albero camuffato (come feci in una sequenza) era tutt'altro che confortevole. Detesto girare in esterni per le distrazioni che presenta. Concentrazione e ispirazione se ne vanno sulle ali del vento. Il film mi tenne occupato molto tempo e non mi lasciò soddisfatto, tanto che in breve riuscii a comunicare la mia scontentezza a tutto lo studio: poi volle vederlo Douglas Fairbanks. Venne con un amico, e io li avvertii che ero cosi avvilito che pensavo di gettarlo nel bidone della spazzatura. Sedemmo, noi tre soli, in sala di proiezione. Fairbanks cominciò a sghignazzare ai primi fotogrammi, interrompendosi solo per tossire. Caro Douglas, fu il mio miglior pubblico. Quando terminò la proiezione e uscimmo alla luce del giorno, aveva gli occhi umidi a furia di ridere. « Lo trovi davvero divertente? » chiesi, incredulo.
Lui si rivolse all'amico. « Tu che ne dici? Vuole gettarlo nel bidone della spazzatura! » fu l'unico commento di Douglas. Charlot soldato ottenne un enorme successo e fu molto apprezzato dai soldati durante la guerra, ma ancora una volta ci avevo impiegato più tempo del previsto e mi era costato più di Vita da cani. Ormai volevo superarmi, e pensai che la First National potesse venirmi incontro. Da quando mi ero legato a loro con un contratto, facevano quattrini a palate, scritturando produttori e altri divi e pagandoli 250.000 dollari per film oltre a un interesse del cinquanta per cento sui profitti. Quei film costavano meno ed erano più facili da realizzare delle mie comiche: e certo incassavano di meno al botteghino. Quando ne parlai a J. D. Williams, il presidente della First National, egli mi promise di sottoporre la questione ai suoi direttori. Non chiedevo molto, solo il rimborso delle spese supplementari, che non avrebbero superato la cifra di dieci o quindicimila dollari per film. Egli disse che si sarebbero incontrati a Los Angeles entro la settimana, e che avrei potuto interpellarli direttamente. A quei tempi i gestori erano rozzi commercianti per i quali i film non rappresentavano che una mercanzia del costo di un tanto al metro. Mi parve di perorare la mia causa con parole acconce e in perfetta buona fede. Dissi che mi occorreva un piccolo supplemento perché spendevo più del previsto, ma avrei potuto essere benissimo un semplice operaio di fabbrica che chiedeva un aumento alla General Motors. Quand'ebbi finito di parlare vi fu un attimo di silenzio, poi si alzò il loro portavoce. « Be', Charlie, gli affari sono affari » disse. « Hai firmato un contratto e vogliamo sperare che tu abbia intenzione di rispettarlo. » Risposi laconicamente: « Posso consegnarvi i sei film in un paio di mesi, se vi contentate di questa roba ». « Questo è affar tuo, Charlie » disse pacatamente la voce. Continuai : « Vi chiedo un aumento per mantenere alto il livello delle mie opere. La vostra indifferenza è una prova della vostra mancanza di psicologia e della ristrettezza delle vostre vedute. Non è in ballo una partita di salsicce, sapete, ma l'entusiasmo di un uomo ». Tuttavia,
nulla riusci a smuoverli. Non capivo il loro atteggiamento, poiché ero considerato la carta più importante del paese. « Ho idea che la cosa sia in rapporto con la convenzione cinematografica » disse mio fratello. « Corre voce che tutte le case di produzione stiano per amalgamarsi. » II giorno dopo Sydney vide Douglas e Mary. Anch'essi erano turbati perché i loro contratti stavano per scadere e la Paramount non aveva ancora alzato un dito. Come mio fratello, anche Douglas pensava che la cosa fosse in relazione con la ventilata fusione delle società cinematografiche. « Non sarebbe una brutta idea mettergli un investigatore alle calcagna, tanto per sapere che cosa bolle in pentola. » Ci accordammo per assoldare un poliziotto privato. Venne assunta una ragazza molto in gamba, bella ed elegante. Ben presto ella riusci ad avere un abboccamento col dirigente di un'importante casa di produ zione. Dal suo rapporto venimmo a sapere che aveva incontrato il suo uomo nell'atrio dell'Alexandria Hotel e dopo avergli sorriso si era scusata dicendo che lo aveva scambiato per un vecchio amico. Quella sera lui l'aveva invitata a cena. Capimmo dal rapporto che il suo uomo era un linguacciuto fanfarone sempre pronto a correre dietro a ogni gonnella. Per tre sere ella usci con lui, tenendolo a bada con promesse e giustificazioni. Intanto mise insieme la storia completa di ciò che accadeva nell'industria cinematografica. L'amico e i suoi soci stavano brigando per ottenere la fusione di tutte le case di produzione, creando un trust del valore di quaranta milioni di dollari e legando ogni gestore americano con un contratto di cinque anni. Le disse che intendevano fornire all'industria cinematografica un'adeguata base commerciale, invece di lasciarla in balia di un branco di attori scriteriati che pigliavano paghe astronomiche. Il nocciolo era questo, e ormai ne sa-. pevamo abbastanza per agire. Mostrammo il rapporto a D. W. Griffith e a Bill Hart, che ebbero l'identica nostra reazione. Sydney ci disse che avremmo potuto scongiurare la fusione se avessimo annunciato ai gestori che stavamo per formare una nostra casa di produzione e che contavamo di vendere i nostri film sul mercato libero e 265
restare indipendenti. Allora noi rappresentavamo il fior fiore dell'industria cinematografica. Ma non era nostra intenzione realizzare questo progetto. Volevamo soltanto impedire ai gestori di firmare un contratto di cinque anni col trust di cui si vociferava, perché senza i divi esso avrebbe perso ogni valore. Decidemmo che la sera prima della convenzione saremmo andati insieme a cena nel ristorante dell'Alexandria Hotel, e poi avremmo fatto una dichiarazione alla stampa. Quella sera sedemmo tutti insieme a un tavolo del ristorante, Mary Pickford, D. W. Griffith, W. S. Hart, Douglas Fairbanks e io. L'effetto fu superiore a qualsiasi previsione. A un certo punto arrivò J. D. Williams, che ci vide e lasciò in fretta la sala. Uno dopo l'altro i produttori si affacciarono all'ingresso del ristorante, diedero un'occhiata e uscirono rapidamente, mentre noi ci davamo l'aria dei grandi uomini d'affari impugnando una matita e costellando la tovaglia di cifre astronomiche. Ogni volta che uno di essi appariva sulla porta Douglas sparava qualche assurdità. « I cavoli sulle noccioline e le spezie sulla carne di maiale oggigiorno vanno a ruba » diceva. Griffith e Bill Hart credevano che fosse diventato matto. Ben presto sedettero al nostro tavolo una mezza dozzina di giornalisti, prendendo appunti durante la nostra dichiarazione: per difendere la nostra indipedenza e combattere questo grosso cartello avremmo fondato una nuova società, la United Artists. La notizia fu pubblicata in prima pagina da tutti i giornali. L'indomani i capi di varie case di produzione si offersero di dare le dimissioni per assumere la presidenza della nostra società in cambio di un modesto stipendio e di un interesse nei profitti. Vista la reazione, decidemmo di realizzare il progetto per davvero. Cosi fu fondata la United Artists Corporation. Organizzammo una riunione in casa di Mary Pickford. Ciascuno di noi si presentò con un avvocato e un procuratore. Fu un'assemblea cosi numerosa che si aveva l'impressione di parlare in pubblico. In effetti, tutte le volte che toccò a me d'intervenire non riuscii a nascondere un
certo nervosismo. Ma rimasi esterrefatto dall'acume legale mostrato da Mary nelle discussioni preliminari. Conosceva a menadito la terminologia: ammortamenti e titoli di borsa, ecc. Capiva tutti gli articoli dell'atto di costituzione, la discrepanza legale a pagina 7, paragrafo A, articolo 27, e si richiamava freddamente alla coincidenza o alla contraddizione del paragrafo D, articolo 24. In quei momenti mi rattristò, più che stupirmi, perché quello era un aspetto della "fidanzata d'America" che non conoscevo. Una locuzione non l'ho mai dimenticata. Mentre arringava solennemente i nostri rappresentanti saltò fuori con un: « È doveroso, signori... ». Scoppiai in una risata e per un po' non feci che ripetere: «È doveroso! È doveroso! ». Ad onta della sua bellezza, Mary aveva fama di essere una vera volpe in fatto di affari. Ricordo che fu Mabel Normand a presentarmela, con queste parole: «Ecco Hetty Green1 alias Mary Pickford ». La mia partecipazione a queste riunioni era pressoché nulla. Fortunatamente mio fratello aveva un bernoccolo per gli affari non meno grosso di quello di Mary; e Douglas, con la sua aria di spensierata noncuranza, era il più furbo di tutti. Mentre i nostri avvocati si accapigliavano sui cavilli legali, lui faceva le capriole come un ragazzino: ma quando leggeva gli articoli dello statuto non perdeva mai una virgola. Tra i produttori pronti a dare le dimissioni per aggregarsi alla nostra società c'era Adolph Zukor, presidente e fondatore della Paramount. Era un uomo piccolo e mite, dotato di una spiccata personalità, che somigliava a Napoleone ed era altrettanto impetuoso. Quando parlava d'affari usava un tono irresistibile e melodrammatico. « Voi » diceva col suo accento ungherese « voi avete tutto il diritto di trarre ogni vantaggio dai vostri sforzi perché siete artisti! Voi create! È voi che la gente viene a vedere. » Modestamente, non potevamo che essere d'ac 1 Hetty Green, una delle donne più ricche del mondo, aveva uno straordinario senso degli affari che le permise di farsi un patrimonio superiore a 100.000.000 di dollari. (N.d.A.)
cordo. « Voi » continuava « avete finito per fondare quella che io con sidero la più formidabile società del ramo, se... se... » e qui faceva una pausa per dare risalto alle sue parole « se sarà ben diretta. Voi create da una parte, io creo dall'altra. La combinazione non potrebbe essere migliore. » Continuò cosi, assorbendo la nostra attenzione, parlandoci delle sue vedute e delle sue convinzioni; ammetteva di avere in progetto una fusione fra i teatri e gli studi, ma asseriva di essere disposto a rinunciare a tutto ciò per legare la sua sorte alla nostra. Quando parlava, aveva un tono biblico: «Voi mi considerate vostro nemico! Ma io sono vostro amico: amico dell'artista. Ricordate, sono stato io il primo a vederci chiaro ! Chi vi ha spazzato quei luridi nickelodeon *? Chi ci ha fatto mettere poltrone di velluto? Sono stato io a costruire i vostri grandi teatri, io ad alzare i prezzi e a permettervi di aumentare gli incassi dei film. Eppure voi, voi stessi siete quelli che mi vogliono crocifiggere ! ». Zukor era insieme un grande attore e un grande uomo d'affari. Aveva creato la più vasta catena di teatri del mondo. Però, poiché voleva una partecipazione agli utili della nostra casa di produzione, le trattative non approdarono a nulla. Di li a sei mesi Mary e Douglas lavoravano già per la casa di nuova fondazione, ma io avevo ancora sei comiche da girare per la First National. L'atteggiamento inflessibile dei dirigenti di questa società mi aveva cosi amareggiato da ostacolare seriamente i progressi del mio lavoro. Proposi di rilevare il contratto per una somma di cento dollari, ma essi rifiutarono. Essendo gli unici divi a distribuire i loro film attraverso la nostra società, Mary e Doug si lagnavano continuamente con me per le difficoltà derivanti dal fatto di non poter contare sul mio apporto. Distribuivano i loro film a un costo bassissimo del venti per cento, che fece 1 Cosi si chiamarono i primi cinematografi, dove il biglietto d'ingresso costava un nickel (5 cent). (N. d. T.)
incorrere la società in un deficit di un milione di dollari. Tuttavia, con la distribuzione del mio primo film La febbre dell'oro, il debito fu estinto; ciò ridusse notevolmente le preoccupazioni di Mary e Doug, che non si lagnarono mai più. La guerra infuriava. Massacri e distruzioni spietati predominavano in Europa. Nei campi di addestramento agli uomini si insegnava la tecnica dell'attacco all'arma bianca: come bisognava urlare, avventarsi e piantare la baionetta nelle budella del nemico e, nel caso la lama restasse incastrata nell'inguine, come sparare nelle budella dell'uomo per estrargliela. L'isterismo era all'eccesso. Gli imboscati si beccavano cinque anni di carcere e tutti i giovani di leva dovevano portare sempre in tasca il foglio del congedo. L'abito borghese era l'abito della vergogna, perché quasi tutti i giovani erano in divisa e, se uno non lo era, poteva sentirsi domandare il congedo o vedersi offrire da una donna una penna bianca. Alcuni giornali mi criticarono perché non ero sotto le armi. Altri vennero in mio soccorso, dichiarando che erano più utili i miei film del mio contributo militare. L'esercito americano, fresco ed entusiasta quando raggiunse la Francia, voleva attaccare immediatamente, e contro il.fondato consiglio degli inglesi e dei francesi, che da tre anni sostenevano sanguinosi combattimenti, diede battaglia con coraggio e ardimento, ma al prezzo di centinaia di migliaia di caduti. Per settimane le notizie furono disastrose; i giornali pubblicavano lunghi elenchi di morti e feriti. Poi venne un momento di calma e per molti mesi gli americani, come il resto degli alleati, rimasero asserragliati nelle trincee in una noia di fango e di sangue. Finalmente gli alleati cominciarono a muoversi. Sulla carta geografica le nostre bandierine presero a salire. Ogni giorno folle enormi guardavano ansiosamente quelle bandiere. Poi venne lo sfondamento, ma al prezzo di un tremendo sacrificio. Seguirono grossi titoli neri: IL KAISER
FUGGE IN OLANDA! Poi un'intera prima pagina con tre parole: FIRMATO L'ARMISTIZIO ! Quando giunse la notizia, ero solo nella mia stanza all'Athletic Club. Per la strada, sotto la mia finestra, si scatenò il finimondo; i clacson delle automobili, le sirene delle fabbriche, le trombe cominciarono a ululare e continuarono per tutto il giorno e tutta la notte. Il mondo impazziva di gioia: tutti cantavano, ballavano, si abbracciavano, si baciavano e si amavano. La pace, finalmente! Vivere senza guerra fu come trovarsi improvvisamente dimessi dal carcere. Ci avevano addestrati e disciplinati cosi bene che per parecchi mesi dopo l'armistizio non ci azzardammo a mettere il naso fuori dalla porta senza il foglio di congedo. Non di meno gli alleati avevano vinto, checché questo significasse. Ma non erano certi di aver vinto la pace. Una cosa era sicura: la civiltà che avevamo conosciuta non sarebbe mai più stata la stessa - quella fase era tramontata. E tramontati erano pure i suoi cosi detti decori fondamentali - ma, d'altra parte, nessun decoro era stato nulla di straordinario in alcun periodo della storia.
Sedici Tom Harrington capitò per caso al mio servizio, ma ebbe una parte importante alla prima drammatica svolta della mia vita. Era stato costumista e factotum dell'amico Bert Clark, un artista di varietà inglese scritturato dalla Keystone. Bert, uomo incerto e privo di senso pratico, eccellente pianista, una volta mi aveva convinto a mettermi in società con lui nel campo dell'editoria musicale. Avevamo affittato un locale al terzo piano di un palazzo per uffici del centro e stampato duemila copie di due pessime canzoni scritte da me; poi aspettammo i clienti. Fu un'iniziativa goliardica, decisamente pazzesca. Credo che ne vendemmo tre copie, una a Charles Cadman, il compositore americano, e le altre a due pedoni che passarono per caso dal nostro ufficio scendendo le scale. Clark aveva assunto Harrington per fargli dirigere l'ufficio, ma un mese dopo se ne tornò a New York e l'ufficio venne chiuso. Tom, però, rimase dov'era, dicendo che gli sarebbe piaciuto lavorare per me con le stesse mansioni che aveva ricoperto alle dipendenze di Clark. Rimasi sorpreso quando mi disse che da Clark non aveva mai preso uno stipendio, ma solo il rimborso delle spese di vitto e alloggio, che non superavano i sette o otto dollari alla settimana; essendo vegetariano, Tom viveva di tè, pane, burro e patate. Naturalmente la notizia mi sbalordi; gli diedi un salario adeguato per il tempo che aveva lavorato alle dipendenze della società musicale, e Tom divenne il mio factotum, il mio cameriere e il mio segretario.
Era un'anima buona, senza età, dal contegno enigmatico, col viso ascetico e benevolo di San Francesco, labbra sottili, una fronte alta e occhi che consideravano il mondo con una triste obiettività. Era di origine irlandese, un bohémien con un pizzico di mistero, che veniva dall'East Side, i quartieri poveri di New York, ma sembrava più adatto a un monastero che alle frivolezze del mondo dello spettacolo. Al mattino giungeva all'Athletic Club con la posta e i giornali e mi ordinava la colazione. Ogni tanto, senza fare commenti, mi lasciava dei libri vicino al letto: Lafcadio Hearn e Frank Harris, autori che non avevo mai sentito nominare. Fu merito suo se lessi la Vita di Samuel Johnson 1 di Boswell. « È l'ideale per prender sonno la sera » mi disse ridacchiando. Non parlava mai se non era interrogato e aveva il dono di esclissarsi mentre facevo colazione. Tom divenne il sine qua non della mia esistenza. Bastava dirgli di fare una cosa: lui annuiva, ed era fatta. Se il telefono non avesse squillato nel preciso momento in cui stavo lasciando l'Athletic Club, forse il corso della mia vita sarebbe stato diverso. Era Sam Goldwyn. Non volevo scendere alla sua villa al mare per una nuotata? Nient'altro che una nuotata. Fu un allegro, innocuo pomeriggio. Ricordo che c'erano la stupenda Olive Thomas e molte altre belle ragazze. Poco dopo giunse una ragazza che rispondeva al nome di Mildred Harris. Venne con un cavaliere, un certo signor Ham. La trovai carina. Qualcuno disse che aveva una cotta per Elliot Dexter, il quale era presente, e io notai che per tutto il pomeriggio lo bombardò di occhiate assassine. Ma Elliot non le prestò soverchia attenzione. Non ci pensai più finché non fu il momento di partire e lei mi chiese un passaggio fino in città, spiegandomi che aveva litigato con l'amico il quale se n'era già andato. 1 Life of Johnson.
In macchina osservai in tono frivolo che forse il suo amico era geloso di Elliot Dexter. Lei confessò che trovava Elliot molto affascinante. Avevo l'impressione che fosse tutto un trucco per creare un certo interesse sulla sua persona. « È un uomo molto fortunato » dissi con sussiego. Tra una chiacchiera e l'altra, prima che arrivassimo al suo appartamento trovò il tempo di dirmi che lavorava per Lois Weber e che stava interpretando proprio allora un film della Paramount. La lasciai, però, con l'impressione che fosse una ragazzina molto giovane e sciocca, e tornai all'Athletic Club con un senso di sollievo, perché ero contento di essere solo. Ma non avevo rimesso piede nella mia stanza da più di cinque minuti quando squillò il telefono. Era la signorina Harris. « Volevo soltanto sapere che cosa faceva » disse in tono ingenuo. Rimasi stupito dal suo atteggiamento. Pareva che filassimo d'amore e d'accordo da un sacco di tempo. L'informai che avrei cenato in ca mera, poi sarei andato diritto a letto a leggere un libro. « Oh ! » disse tristemente lei. Volle sapere che librò era e com'era la stanza in cui abitavo. Disse che se chiudeva gli occhi mi vedeva, tutto solo, comodamente disteso sul mio lettino. Finii per restare contagiato dalla fatuità di quella conversazione. « Quando potrò rivederla? » domandò lei. E io mi sorpresi a sgridarla scherzosamente per la scarsa fedeltà che mostrava nei confronti di Elliot, porgendo l'orecchio alle sue assicurazioni: oh no, non gliene importava un bel niente di lui... Fu questo a mutare i miei propositi per la serata, inducendomi a invitarla fuori a cena. Anche se quella sera lei fu simpatica e attraente, io non mostrai il brio e l'entusiasmo che di solito dovrebbe ispirare la presenza di una bella ragazza. L'unico interesse che poteva avere per me era di natura sessuale; e fingere di farle la corte, come forse avrei dovuto fare, sarebbe stata una fatica troppo grande. Non ripensai più a lei fino a metà settimana, quando Harrington disse che aveva telefonato. Se Tom non avesse buttato là un'osservazione,
forse non mi sarei dato la pena di rivederla, ma il caso volle che egli mi riferisse le parole dell'autista, il quale gli aveva detto che io ero venuto via dalla villa di Sam Goldwyn con la più bella ragazza che avesse mai visto. Quest'assurda osservazione stuzzicò la mia vanità: e fu il principio. Seguirono cene, balli, serate al chiaro di luna e gite in macchina sulla riva dell'oceano, finché accadde l'inevitabile: Mildred cominciò a preoccuparsi. Qualsiasi cosa pensasse, Tom Harrington la tenne per sé. Quando, un mattino, dopo che mi ebbe portato la colazione in camera, annunciai con aria indifferente che avevo intenzione di sposarmi, lui non battè ciglio. « Che giorno? » chiese con calma. « Che giorno è oggi? » « Oggi è martedì. » « Facciamo venerdì » dissi, senza alzare lo sguardo dal giornale. « Immagino si tratti della signorina Harris. » « Si » dissi. Lui assenti e disse in tono pratico: «Ha l'anello?». « No, sarà meglio chè te lo procuri, e che tu faccia tutti i preparativi: ma acqua in bocca, mi raccomando. » Lui assenti nuovamente e non se ne parlò più fino al giorno delle nozze. Tom organizzò le cose in modo che potessimo sposarci il venerdì sera, alle otto. Quel giorno lavorai allo studio fino a tardi. Alle sette e mezzo Tom entrò silenziosamente nel teatro di posa e mormorò: «Non dimentichi che ha un appuntamento alle otto ». Con un senso di angoscia mi tolsi il trucco e mi vestii, aiutato da Harrington. Non ci scambiammo una parola finché non fummo in macchina. Allora egli mi spiegò che dovevo trovarmi con la signorina Harris a casa del signor Sparks, l'ufficiale di stato civile. Quando arrivammo, Mildred era seduta nella sala. Sorrise ansiosamente, vedendoci entrare, e io provai un po' di pena per lei. Indossava un abito grigio scuro, semplicissimo, ed era molto bella. Harrington mi cacciò rapidamente in mano un anello mentre faceva la sua
comparsa un uomo alto, affabile e simpatico, che c'introdusse in un'altra stanza. Era il signor Sparks. « Be', Charlie » disse « il suo segretario è davvero un tipo in gamba. Ho saputo che si trattava di lei solo mezz'ora fa. » La cerimonia fu terribilmente rapida e semplice. Misi al dito di Mildred l'anello che Harrington mi aveva cacciato in mano. Ormai eravamo marito e moglie. La cerimonia era finita. Mentre stavamo per uscire, si udì la voce del signor Sparks: « Non dimentichi di baciare la sposa, Charlie ». « Oh si, certo » esclamai con un sorriso. I miei sentimenti erano confusi. Avevo l'impressione di essere stato preso nella rete di un banale incidente, sciocco e imprevedibile: quell'unione mancava di una base vitale. Eppure avevo sempre desiderato una moglie, e Mildred era giovane e bella, non ancora diciannovenne, e, sebbene io avessi dieci anni più di lei, forse sarebbe andato tutto liscio. II mattino dopo mi recai allo studio col cuore gonfio. Vi trovai Edna Purviance, che aveva letto i giornali e mentre passavo davanti al suo camerino si fece sulla soglia. « Congratulazioni » disse dolcemente. « Grazie » risposi, e tirai diritto verso il mio camerino. Edna mi mise in un profondo imbarazzo. A Doug confidai che Mildred non era intellettualmente un peso massimo; non avevo nessuna voglia di sposare un'enciclopedia: lo stimolo intellettuale potevo trarlo da una biblioteca. Ma questa ottimistica teoria si basava su una segreta ansietà: il matrimonio avrebbe ostacolato il mio lavoro? Benché Mildred fosse giovane e bella, dovevo sempre starle vicino? Lo desideravo? Ero in un dilemma. Pur non essendo innamorato, ora che mi ero sposato volevo esserlo e volevo che il matrimonio riuscisse. Ma per Mildred il matrimonio fu un'avventura emozionante come la vittoria di un concorso di bellezza. Era una storia che aveva letto sui libri rosa. Mildred mancava del senso della realtà. Io cercavo di par 275
larle seriamente dei nostri progetti, ma nella testa non le entrava nulla. Era in un continuo stato di stupore. Due giorni dopo le nozze Louis B. Mayer, della MGM stese un contratto che offriva a Mildred 50.000 dollari all'anno per sei film. Cercai di persuaderla a non firmare. « Se vuoi continuare a fare del cinema, posso farti avere 50.000 dollari per un solo film. » Con un sorriso alla Monna Lisa lei assentiva sempre, qualsiasi cosa dicessi; ma poi firmò il contratto. Era questa apparente acquiescenza, alla quale poi, in pratica, faceva seguire tutto il contrario, a demoralizzarmi. Me la presi sia con lei che con Mayer, che le era saltato addosso con un contratto prima ancora che l'inchiostro della nostra licenza di matrimonio avesse avuto il tempo di asciugarsi. Circa un mese dopo Mildred incontrò delle difficoltà con la sua casa di produzione e mi pregò di parlarne a Mayer per sistemare la faccenda. Io le dissi che in nessun caso mi sarei incontrato con lui. Invece lei lo aveva già invitato a cena, informandomi solo qualche minuto prima del suo arrivo. Offesissimo, ero al colmo dell'indignazione. « Se lo fai venire qui sarò costretto a insultarlo. » Avevo appena pronunciato queste parole che suonò il campanello del portone. Come un coniglio saltai nella veranda adiacente al soggiorno, una specie di scatolone a vetri senza vie d'uscita. Rimasi nascosto là dentro per quello che mi parve un tempo interminabile mentre Mildred e Mayer, seduti nel soggiorno a qualche metro di distanza, parlavano d'affari. Avevo l'impressione che lui sapesse che mi ero nascosto là dentro, perché le sue parole suonavano equilibrate e paterne. Dopo un attimo di silenzio cominciò a parlare di me, e Mildred disse che forse non sarei rientrato, dopodiché li sentii muoversi e inorridii al pensiero che entrassero nella veranda, sorprendendomi là. Finsi di dormire. Alla fine Mayer si scusò e usci di casa senza restare a cena.
Dopo il matrimonio saltò fuori che la gravidanza di Mildred era stato un falso allarme. Erano trascorsi parecchi mesi, avevo completato solo una comica in tre bobine, Charlot campagnolo \ ed era stato come cavarmi un dente. Senza dubbio il matrimonio aveva avuto un'influenza negativa sulle mie facoltà creative. Dopo Charlot campagnolo ero allo stremo delle risorse: non avevo più un'idea. Trovavo un sollievo, in quello stato, nell'andare all'Orpheum in cerca di distrazioni, e fu cosi che vidi un ballerino eccentrico: nulla di straordinario, ma alla fine del numero egli chiamò in palcoscenico suo figlio, un bimbo di quattro anni, a ringraziare con lui gli spettatori. Dopo essersi inchinato con suo padre egli fece all'improvviso alcuni passi divertenti, poi sbirciò il pubblico con l'aria di chi la sa lunga, agitò una mano e corse via. La sala scoppiò in un fragoroso applauso, tanto che il bimbo fu fatto uscire di nuovo, questa volta per eseguire un balletto tutto diverso. Se si fosse trattato di un altro, forse sarebbe stata una cosa odiosa. Ma Jackie Coogan era incantevole e il pubblico si diverti enormemente. Qualsiasi cosa facesse, quel soldo di cacio mostrava una spiccata personalità. Non ci pensai più fino a una settimana dopo, quando sedevo nel nostro teatro di posa all'aperto insieme agli altri membri della troupe lambiccandomi il cervello per distillarne un'idea atta a cavarne un film. Allora sedevo spesso davanti a loro, perché la loro presenza e le loro reazioni costituivano uno stimolo eccellente. Quel giorno mi ero decisamente incagliato, e malgrado i loro sorrisi educati sapevo che i miei sforzi erano vani. Lasciai errare la mente qua e là, e mi misi a parlare dei numeri che avevo visto eseguire all'Orpheum e dell'incantevole ragazzino, Jackie Coogan, che veniva alla ribalta per inchinarsi con suo padre. Qualcuno disse di avere letto sul giornale del mattino che Jackie Coo 1 Sunnyside, 1919.
gan era stato scritturato da Roscoe Arbuckle per un film. La notizia mi colpi come un fulmine a ciel sereno. « Mio Dio ! Perché non ci ho pensato ! » Ma certo, quel bambino sarebbe stato l'ideale per un film ! E mi misi a enumerare le sue possibilità, le gag e le trovate che avrei potuto realizzare con lui. Ero una miniera di idee. « Pensate al vagabondo che si guadagna la vita aggiustando finestre, e il monello che va in giro per le strade spaccando i vetri, e il vagabondo che finge di passare di li per caso e si offre di ripararle! La poesia del monello e del vagabondo che vivono insieme, e insieme hanno ogni genere di avventure ! » Là seduto, trascorsi un'intera giornata elaborando il soggetto, descrivendo una scena dopo l'altra, mentre gli attori si lanciavano occhiate in tralice, chiedendosi perché mai sciupassi tanto entusiasmo per una causa persa. Per ore e ore continuai a inventare trovate e situazioni. Poi, d'un tratto, tornai alla realtà: « Ma a che serve? Lo ha scritturato Arbuckle, che probabilmente ha le mie stesse idee. Che idiota sono stato a non averci pensato prima! ». Per tutto il pomeriggio e per tutta la notte non potei pensare ad altro che alla possibilità di un film con quel bimbetto. Il mattino seguente, al colmo della depressione, convocai gli attori per le prove: chissà diavolo per quale motivo, dato che non avevo niente da provare e me ne rimasi in teatro a ciondolare con gli attori in preda allo scoraggiamento. Qualcuno suggerì di cercare un altro ragazzo: magari un negretto. Ma io scossi la testa, dubbioso. Non sarebbe stato facile pescare un bambino con la personalità di Jackie. Verso le undici e mezzo Carlisle Robinson, il nostro agente pubblicitario, giunse di corsa in teatro, eccitato e senza fiato. « Non è Jackie Coogan che Arbuckle ha scritturato, ma il padre, Jack Coogan ! » Feci un salto sulla seggiola. « Presto ! Telefona al padre e digli di venire qui subito, è molto importante! » La notizia ci elettrizzò tutti. Alcuni attori mi si affollarono intorno per battermi grandi manate sulle spalle, tanto erano entusiasti. Quando gli
impiegati lo vennero a sapere, uscirono dagli uffici per farmi le congratulazioni. Ma ancora non avevo scritturato Jackie; c'era sempre la possibilità che ad Arbuckle venisse improvvisamente la stessa idea. Allora, raccomandai a Robinson di stare attento a quello che diceva per telefono, di non fare il minimo accenno al bambino. « Nemmeno al padre finché non arriva qui; digli solo che è molto urgente, che dobbiamo vederlo subito, entro mezz'ora. E se non può allontanarsi va' tu da lui. Ma non dirgli niente finché non è qui. » Fecero fatica a rintracciare il padre - non era allo studio - e per un paio d'ore patii le pene dell'inferno. Finalmentte, sorpreso e sgomento, comparve Jack Coogan. Lo afferrai per le braccia. « Sarà un avvenimento sensazionale, la cosa più grande che si sia mai vista ! Non deve fare altro che questo film ! » E continuai cosi, quasi in un delirio. Dovette scambiarmi per un pazzo. « Questo film sarà per suo figlio la più grande occasione della sua vita ! » « Mio figlio? » ' « Si, suo figlio, se me lo dà per questo film. » « Be', certo, lo prenda pure » disse lui. Si dice che bimbi e cani siano i migliori attori cinematografici. Mettete un piccino di dodici mesi in una vasca con un pezzo di sapone, e quando cercherà di prenderlo in mano vi farà morire dal ridere. Tutti i bambini, in una forma o nell'altra, hanno un pizzico di genio; il trucco sta nel tirarglielo fuori. Con Jackie fu facile. C'erano, però, alcune regole mimiche fondamentali da imparare, e Jackie ben presto se ne impadroni. Riusciva a infondere emozione nell'azione e azione nell'emozione, e poteva ripetere una scena innumerevoli volte senza perdere l'effetto di spontaneità. C'è una scena, nel Monello ', nella quale il ragazzo sta per tirare un sasso contro una finestra. Quatto quatto, un poliziotto gli arriva alle spalle, e mentre Jackie porta la mano indietro per il tiro tocca la giacca 1 The Kid, 1921. 279
dell'agente. Alzando gli occhi vede il poliziotto, allora butta scherzosamente in aria il sasso e lo riprende al volo, poi con aria innocente lo getta via e si allontana trotterellando, per spiccare all'improvviso una corsa pazza. Dopo aver elaborato la meccanica della scena, dissi a Jackie di guardarmi, mentre sottolineavo i vari punti : « Tu hai un sasso ; poi guardi la finestra; poi ti prepari a tirarlo; porti indietro la mano e tocchi la giacca di un poliziotto; gli palpi i bottoni, poi alzi gli occhi e scopri che è un poliziotto; butti il sasso in aria, scherzosamente, poi lo getti via, e ti allontani con aria indifferente, per spiccare una gran corsa dopo qualche passo ». Provò la scena tre o quattro volte. Finalmente fu cosi padrone della meccanica che il suo turbamento nasceva da solo. In altre parole, la meccanica produceva l'emozione. La scena fu una delle migliori tra quelle girate da Jackie, e uno dei pezzi forti del film. Naturalmente, non tutte le scene furono realizzate con tanta facilità. Spesso le più semplici lo mettevano in difficoltà, come accade quasi sempre con le scene semplici. A un certo punto volevo che si attaccasse a una porta dondolandosi con naturalezza, ma, non avenda altro per la testa, Jackie non seppe nascondere il proprio imbarazzo e vi dovemmo rinunciare. È difficile recitare con naturalezza se la mente rimane inattiva. In palcoscenico, seguire il suggeritore non è agevole; il dilettante ha la tendenza a irrigidirsi per la tensione. Ma tutte le volte che aveva la mente occupata Jackie fu veramente superbo. Il contratto del padre di Jackie con Arbuckle giunse ben presto alla scadenza. Egli potè venire allo studio con suo figlio, e più avanti fece la parte del borsaiolo nella scena dell'alberghetto. Certe volte ci fu di grande aiuto. Come quando, in una scena, volevamo che Jackie piangesse lacrime vere mentre due funzionari dell'ospizio me lo portano via. Gli raccontai un'infinità di storie strazianti ma Jackie, allegrissimo, aveva una gran voglia di scherzare. Dopo aver aspettato un'ora, suo padre disse: « Lo faccio piangere io ».
« Non lo spaventi e non gli faccia male » dissi, preso dai rimorsi. « Oh no, no » disse il padre. Jackie era cosi allegro che mi mancò il coraggio di restare a vedere che cosa avrebbe fatto il padre, e me ne andai in camerino. Qualche attimo dopo udii Jackie che gridava e piangeva. « È pronto » disse il padre. Era la scena in cui salvo il ragazzo dai funzionari dell'ospizio e mentre piange lo abbraccio e lo bacio. Quando fu terminata chiesi al padre: « Com'è riuscito a farlo piangere? » « Gli ho detto soltanto che se non piangeva lo avremmo allontanato dallo studio e spedito sul serio all'ospizio. » Mi rivolsi a Jackie e lo presi in braccio per consolarlo. Le sue gote erano ancora bagnate di lacrime. « Non temere, nessuno ti porterà via » dissi, per rassicurarlo. « Lo sapevo » mormorò lui. « II babbo fìngeva soltanto. » Gouverneur Morris, autore di racconti che aveva scritto molti soggetti per il cinema, m'invitava spesso a casa sua. « Guvvy » come lo chiamavamo noi, era un tipo simpatico, ricco di fascino, e quando gli parlai del Monello e della forma che andava assumendo, con l'accoppiamento tra umorismo e sentimento, disse: « Non funzionerà. La forma dev'essere pura, o farsa o tragedia. Non puoi mischiarle, se non vuoi che ti venga meno un elemento della storia ». Su questo argomento si svolse tra noi una lunga discussione. Io dissi che il passaggio dalla farsa alla tragedia era una questione di sensibilità e di giudizio nella disposizione delle sequenze. Sostenni che la forma diventava definitiva dopo che la si era creata, che se l'artista pensava a un mondo e vi credeva sinceramente, esso sarebbe stato convincente, qualunque fosse la miscela. Naturalmente la mia teoria si basava soltanto sull'intuizione. C'erano stati satira, farsa, realismo, naturalismo, melodramma e fantasia, ma la fusione tra comicità e sentimento, che costituiva la premessa del Monello fu un'autentica innovazione.
Durante il montaggio del Monello Samuel Reshevsky, il bimbo di sette anni campione mondiale di scacchi, visitò lo studio. Doveva esibirsi all'Athletic Club, disputando venti partite in una volta, una delle quali col Dr. Griffiths, campione della California. Aveva un viso pallido, teso, affilato, con grandi occhi che fissavano bellicosamente le persone che incontrava. Mi avevano avvertito che era un tipo molto suscettibile e che di rado stringeva la mano a qualcuno. Quando il suo procuratore ci ebbe presentati, pronunciando poche parole di circostanza, il ragazzo si mise a fissarmi in silenzio. Io continuai a montare il mio film, esaminando alcuni spezzoni di pellicola. Dopo un attimo mi voltai dalla sua parte. « Ti piacciono le pesche? » « Si » rispose. « Be', nell'orto ne abbiamo un albero carico; potresti arrampicarti e staccarne qualcuna: prendine una anche per me. » II suo viso s'illuminò. « Oh, bene! Dov'è l'albero? » « Te lo mostrerà Carl » dissi, indicandogli il mio agente pubblicitario. Quindici minuti dopo era di ritorno, tutto allegro, con una bracciata di pesche. Fu l'inizio della nostra amicizia. « Sai giocare a scacchi? » domandò. Dovetti confessare di no. « T'insegnerò io. Vieni a vedermi giocare, stasera. Incontro venti uomini tutti in una volta » disse con una certa spavalderia. Promisi, e dissi che dopo lo avrei invitato a cena. « Bene, finirò presto. » Non era necessario intendersi di scacchi per apprezzare la drammaticità di quella serata: venti uomini di mezza età che ponzavano sulla scacchiera, messi in imbarazzo da un bimbette di sette anni che ne dimostrava qualcuno di meno. Vederlo muoversi al centro del tavolo a ferro di cavallo, passando dall'uno all'altro, era una cosa davvero emozionante. C'era un che di surreale in quella scena, mentre un pubblico di trecento persone o più assisteva seduto sulle poltrone disposte in varie file alle due
estremità della sala, guardando in silenzio un bambino che si batteva con la forza del suo cervello contro tutti quei vecchi gravi e severi. Certuni avevano un'aria condiscendente e studiavano il loro gioco con un sorriso enigmatico. Il ragazzo era straordinario, eppure mi turbò, perché ebbi la sensazione, vedendo quel visetto assorto arrossire improvvisamente e poi sbiancare come un lenzuolo, che stesse pagando i suoi sforzi con la salute. « Qui ! » esclamava un giocatore, e il bimbo si avvicinava, studiava la scacchiera per qualche istante, poi faceva bruscamente una mossa o gridava « Scacco matto ! ». E le risate serpeggiavano sommessamente tra il pubblico. Lo vidi dare scacco matto a otto giocatori in rapida successione, in un crescendo di risa e applausi. E ora stava esaminando la scacchiera del Dr. Griffiths. Il pubblico taceva. A un tratto fece una mossa, poi si voltò e mi vide. S'illuminò in viso e mi salutò con la mano, come per dirmi che non ne avrebbe avuto ancora per molto. Dopo avere dato scacco matto a diversi altri giocatori, ritornò dal Dr. Griffiths, che era sempre profondamente assorto nello studio della partita. « Non ha ancora mosso? » disse il ragazzo con impazienza. Il dottore scosse il capo. « Oh, forza, si sbrighi. » Griffiths sorrise. Il bimbette lo guardò bellicosamente. « Lei non può battermi ! Se muove questo, io muovo quello. E se muove qui, io muovo là. » Gli elencò rapidamente sette o otto mosse successive. « Staremo qui tutta la notte, chiudiamo alla pari e non se ne parli più. » II dottore accettò. Pur essendomi molto affezionato a Mildred, eravamo irrimediabilmente male assortiti. Il suo carattere non era gretto, ma felino in modo esasperante. Non riuscivo mai a leggere nel suo animo. Era ingombro di ridicole sciocchezze. Mildred sembrava in uno stato di perpetua sovrec
citazione, sempre in cerca di nuovi orizzonti. Dopo un anno di matrimonio nacque un bambino che visse solo tre giorni. Fu cosi che la nostra unione cominciò ad appassire. Pur vivendo nella stessa casa, ci si vedeva di rado, perché lei era molto occupata nel suo studio e io nel mio. Divenne una casa triste. Tornando dal lavoro trovavo la tavola da pranzo apparecchiata per uno, e mangiavo solo. Di tanto in tanto lei si assentava per una settimana senza avvertirmi, e io me ne accorgevo solo vedendo che la porta della sua camera da letto, vuota, era rimasta aperta. A volte, la domenica, ci s'incontrava per caso mentre lei usciva; mi diceva negligentemente che stava andando a passare il week-end con le Gish o qualche altra amica, e io me ne andavo dai Fairbanks. Poi venne la rottura. Fu durante il montaggio del Monello. Trascorrevo il week-end dai Fairbanks (Douglas e Mary si erano sposati), quando Doug mi riferì alcune voci che circolavano sul conto di Mildred. « Ritengo che dovresti esserne informato » disse. Non ho mai voluto accertare se quelle voci fossero fondate o no; in ogni caso, mi gettarono in uno stato di profondo avvilimento. Quando le chiesi una spiegazione, Mildred negò freddamente. « Comunque, non possiamo tirare avanti cosi » dissi. Vi fu una pausa e lei mi guardò freddamente. « Che intendi fare? » chiese. Il suo tono era cosi spassionato che mi lasciò piuttosto scosso. « Io... io penso che dovremmo divorziare » dissi con un fil di voce, chiedendomi quale sarebbe stata la sua reazione. Ma lei non rispose, sicché, dopo una pausa, continuai: « Credo sia meglio per tutti e due. Tu sei giovane, hai ancora tutta la vita davanti, e naturalmente si può trovare un'amichevole via d'uscita. Manda il tuo avvocato dal mio, penseranno loro a sistemare tutto ». « Io voglio solo un po' di soldi da dare a mia madre » disse lei. « Forse sarà meglio che ne parliate tra voi » azzardai. Lei riflettè un momento, poi concluse : « Va bene, mi consulterò con i miei avvocati ».
« Benissimo » risposi. « Nel frattempo puoi continuare a vivere qui, mentre io tornerò all'Athletic Club. » Ci separammo amichevolmente, accordandoci sul fatto che lei avrebbe chiesto il divorzio per crudeltà mentale, e che non ne avremmo informato la stampa. L'indomani mattina Tom Harrington portò la mia roba all'Athletic Club. Fu un errore, perché si sparse rapidamente la voce che ci eravamo divisi e i giornalisti cominciarono a telefonare a Mildred. Cercarono anche me, al circolo, ma io rifiutai di riceverli e di fare dichiarazioni. Mildred, invece, rilasciò un'intervista sensazionale, da prima pagina, in cui disse che l'avevo abbandonata e che avrebbe chiesto il divorzio per crudeltà mentale. A paragone di quelli odierni, fu un attacco abbastanza moderato. Comunque le telefonai per sapere come mai avesse accettato di ricevere i giornalisti. Mi spiegò che dapprima si era rifiutata, ma essi le avevano detto che io avevo fatto una dichiarazione esplosiva. Naturalmente avevano mentito nel tentativo di metterci l'uno contro l'altro, e io glielo dissi. Lei promise di non fare altre dichiarazioni: ma non mantenne la parola. La Community Property Law della California le riconobbe legalmente il diritto alla somma di 25.000 dollari e io gliene offersi 100.000, che lei decise di accettare a titolo di totale liquidazione della pendenza. Ma quando venne il giorno di firmare gli ultimi documenti, Mildred si tirò improvvisamente indietro senza dare spiegazioni. Il mio avvocato rimase sorpreso. « C'è qualcosa in aria » disse, ed era vero. Avevo avuto degli screzi con la First National a proposito del Monello; era un film in sette bobine, che loro volevano distribuire come se si trattasse di tre comiche da due bobine. In tal modo, per II monello, mi avrebbero pagato solo 405.000 dollari. Poiché mi era costato quasi mezzo milione e diciotto mesi di lavoro, avevo detto loro che l'inferno si sarebbe congelato prima che io accettassi una proposta simile. Minacciarono di adire alle vie legali, ma sapevano benissimo di avere poche probabilità di spuntarla. Decisero perciò di agire su Mildred per ottenere il sequestro del film.
Non avendo ancora finito il montaggio, l'istinto mi disse di andarlo a montare in un altro stato. Cosi partii per Salt Lake City con un paio di assistenti e più di 120.000 metri di pellicola, distribuita in cinquecento bobine. Prendemmo alloggio al Salt Lake Hotel. In una delle stanze da letto sparpagliammo il materiale, utilizzando ogni mobile — mensole, canterani e cassetti - per appoggiarvi le pizze. Essendo illegale tenere in albergo sostanze altamente infiammabili, dovemmo agire con la massima segretezza. In queste condizioni continuammo a montare il film. Dovevamo scegliere fra circa duemila sequenze, e benché fossero numerate ogni tanto se ne perdeva una e passavamo delle ore a cercarla sul letto, sotto il letto, nel bagno, finché non l'avevamo trovata. Tra difficoltà di ogni genere e senza l'attrezzatura necessaria, riuscimmo miracolosamente a completare il montaggio. E ora mi attendeva la prova terribile di proiettarlo, in anteprima, davanti a un pubblico. Lo avevo visto solo attraverso una piccola moviola, mediante la quale un'immagine non più grande di una cartolina veniva proiettata su un asciugamano. Per fortuna avevo visionato il materiale appena girato allo studio su uno schermo di dimensioni normali, ma in quei momenti non riuscii a sottrarmi alla demoralizzante sensazione che quindici mesi di lavoro si fossero svolti al buio. Nessuno aveva visto il film tranne i miei assistenti. Dopo averlo passato un'infinità di volte alla moviola, più nulla ci sembrò interessante o divertente come in un primo momento. Potevamo ritrovare un minimo di tranquillità solo pensando che il nostro primo entusiasmo fosse sbollito. Per sottoporlo alla prova degli acidi organizzammo la proiezione in un cinema locale senza avvertire nessuno. Era un teatro assai vasto, pieno a tre quarti. Sedetti nella sala, sconsolato, in attesa che iniziasse la proiezione. Il pubblico mi sembrava particolarmente diffidente. Credevo di sapere quali fossero i suoi gusti, ma ora cominciavo a dubitarne. Forse avevo commesso un errore. Forse il film avrebbe fatto cilecca e il pubblico si sarebbe sfogato fischiando. Un pensiero sgradevole mi frullò nella testa: « A volte un comico può sbagliarsi di grosso nelle sue idee sulla comicità ».
Mi balzò improvvisamente il cuore in gola quando sullo schermo apparve una diapositiva: « Charlie Chaplin nel suo ultimo film, // monello ». Un grido di gioia sali dalla platea; si udi qualche applauso isolato. Potrà sembrare paradossale, ma questo mi preoccupò: forse si aspettavano chissà cosa e sarebbero rimasti delusi. Le prime scene, lente e solenni, erano quelle dell'abbandono e mi piombarono in un abisso d'incertezza. Una madre si separa dal suo piccino lasciandolo a bordo di una berlina, la macchina viene rubata e alla fine i ladri abbandonano il bambino accanto a un bidone di spazzatura. Qui entravo in scena io, il vagabondo. Scoppiò una risata che crebbe d'intensità. Capivano lo scherzo ! Da quel momento non poteva più andare male. Scoprivo il bambino e lo adottavo. Risero dell'amaca di fortuna ricavata da un vecchio sacco e sghignazzarono quando allattai il neonato con una teiera al beccuccio della quale avevo applicato una tettarella, sbellicandosi addirittura quando feci un buco nel fondo di una vecchia poltrona di vimini, piazzandola sopra un vaso da notte: insomma, si tennero la pancia per tutto il film. Ora che avevamo visto il film ci parve che il montaggio fosse completo, e perciò facemmo i bagagli e lasciammo Salt Lake City per la costa orientale. Al Ritz di New York fui costretto a restare chiuso in camera perché ero perseguitato dagli ufficiali giudiziari, istigati dalla First National, che intendeva approfittare della causa di divorzio intentatami da Mildred per ottenere il sequestro del film. Da tre giorni gli ufficiali giudiziari montavano la guardia nell'atrio dell'albergo, e io cominciavo ad essere stufo. Cosi, quando Frank Harris m'invitò a cena a casa sua, non potei resistere alla tentazione. Quella sera una donna dal viso nascosto dietro una fitta veletta attraversò l'atrio del Ritz per salire su di un tassi: ero io. Mi ero fatto prestare un vestito da mia cognata, che avevo indossato sopra il mio, togliendomelo in tassi prima di arrivare a casa di Frank. 287
Frank Harris, del quale avevo letto e ammirato le opere, era il mio idolo. Frank attraversava continue crisi finanziarie: ogni due settimane il suo periodico, Pearsoris Magazine, stava per chiudere bottega. Dopo la pubblicazione di uno dei soliti appelli gli avevo mandato un contributo in danaro e in segno di gratitudine lui mi spedi due copie del suo libro su Oscar Wilde, alle quali impose la dedica seguente: A Charlie Chaplin, uno dei pochi che mi hanno aiutato senza neppure conoscermi, la cui straordinaria comicità ho spesso ammirato, perché gli uomini che fanno ridere valgono più di quelli che fanno piangere, dal suo amico Frank Harris, che gli manda la sua copia. Agosto 1919. « Io stimo e ammiro soltanto lo scrittore che dice la verità sugli uomini... con le lacrime agli occhi. » Pascal. Quella sera incontrai Frank per la prima volta. Era un uomo basso, tarchiato, con una testa nobile, lineamenti marcati e regolari, e un paio di baffoni a manubrio piuttosto sconcertanti. Aveva una voce fonda, sonora, che usava con grande efficacia. Aveva allora sessantasette anni e una moglie giovane e bellissima, dai capelli rossi, che gli era devota. Frank, benché si professasse socialista, era un grande ammiratore di Bismarck e parlava con un certo disprezzo del socialista Liebknecht. La sua imitazione di Bismarck mentre risponde a Liebknecht, nel Reichstag, con le pause ad effetto e l'accento tedesco, fu di un istrionismo poderoso. Frank avrebbe potuto essere un grande attore. Parlammo fino alle quattro del mattino, e Frank sostenne quasi tutto il peso della conversazione. Decisi di dormire in un altro albergo, nel caso che anche a quell'ora gli ufficiali giudiziari mi attendessero al varco, ma tutti gli alberghi di New York erano al completo. Dopo avermi scarrozzato per più di un'ora, il tassista, un tipo sulla quarantina, dall'aria spicciativa, si voltò e disse: « Senta, a quest'ora lei non mette
TAVOLE III 36 Questa fotografia mi fu fatta da Edward Steichen 37 Al tempo del mio matrimonio con Mildred Harris 38 Maude Fealy 39 Edna Purviance che rimase con la Chaplin Company per tutta la vita 40 Preparo uno scenario senza un'idea in testa 41 Con i miei consiglieri, Upton Sinclair, a sinistra, e Rob Wagner 42 Ai tempi di Vanity Fair a New York. Alice Delysia è seduta fra Georges Carpentier e me; in piedi, da sinistra, Frank Crowninshield, l'ambasciatore Gerrard, Edward Knoblock e Condé Nast 43 In Charlot campagnolo 44-47 Alcune scene dal Monello 48 Con Eric Campbell in Charlot e la maschera di ferro 49 A Parigi 5° A Londra Quando ero
un giovane inesperto
4°
43
44-47
A a
4!)
il naso in nessun albergo. Sarà meglio che venga a casa mia, dove potrà dormire fino al mattino ». Dapprima ebbi qualche scrupolo, ma quando mi parlò di sua moglie e della sua famiglia, capii che sarebbe andato tutto bene; inoltre, sarei stato al sicuro dagli ufficiali giudiziari. « È molto gentile da parte sua » dissi, e mi presentai. Lui rimase sorpreso e scoppiò in una risata. « Chissà come sarà emozionata mia moglie. » Arrivammo in un popoloso rione del Bronx. C'erano file e file di case di arenaria rossiccia. Entrammo in una di esse, poveramente ammobiliata ma molto pulita. Egli mi condusse in una stanza sul retro dove c'era un gran letto, e dentro un ragazzo di dodici anni, suo figlio, profondamente addormentato. « Aspetti » disse, poi sollevò il ragazzo spostandolo verso la sponda, senza svegliarlo. Quindi si rivolse a me e disse: «Si accomodi ». Stavo per tirarmi indietro, ma questa ospitalità era cosi commovente che non potei. Egli mi diede una camicia da notte pulita e cautamente m'infilai sotto le coltri, con una gran paura di svegliare il ragazzo. Quella notte non chiusi occhio. Quando finalmente si svegliò, il ragazzo si alzò e si vesti. Attraverso le palpebre socchiuse vidi che mi gettava un'occhiata indifferente e senza altre reazioni usciva dalla stanza. Pochi minuti dopo, insieme a una signorina di otto anni, evidentemente sua sorella, rientrò piano piano nella stanza. Sempre fingendo di dormire, vidi che mi guardavano, nervosi e con gli occhi sgranati. Poi la bimba si portò le mani alla bocca per soffocare una risatina, e uscirono insieme. Non passò molto tempo prima che il corridoio cominciasse a ronzare di voci. Poi sentii il mormorio soffocato del tassista, il quale apri l'uscio piano piano per vedere se ero sveglio. Risposi affermativamente. « Le abbiamo preparato il bagno » disse. « È in fondo al pianerottolo. » Mi aveva portato una vestaglia, un paio di ciabatte e un asciugamano. « Che cosa preferisce a colazione? » « Quello che vuole » dissi in tono di scusa.
« Quello che vuole lei: uova e pancetta, pane tostato e caffè? » « Fantastico. » Avevano organizzato ogni cosa alla perfezione. Appena ebbi finito di vestirmi, sua moglie entrò nel soggiorno con la colazione fumante. C'erano pochi mobili: un tavolo centrale, una poltrona e un divano, oltre a diverse fotografie incorniciate di gruppi familiari appese sopra il caminetto e lungo il muro sopra il divano. Mentre facevo colazione, da solo, sentivo, fuori, il brusio di una folla di adulti e bambini. « Si è sparsa la voce che lei è qui » disse con un sorriso la moglie del mio ospite, portando il caffè. Poi entrò il tassista, agitatissimo. « Senta » disse « fuori c'è una gran folla, e diventa sempre più grande. Se si lascia vedere da quei bambini, se ne andranno subito, altrimenti i giornali lo verranno a sapere e lei è spacciato! » « Ma certo, li faccia pure entrare » risposi. E cosi entrarono i bambini, ridacchiando, e sfilarono intorno al tavolo mentre io sorbivo il caffè. Il tassista, fuori, ammoniva: «Va bene, non fate baccano, avanti, in fila per due ». Nella stanza entrò una ragazza, dal volto serio e teso. Mi squadrò attentamente, poi scoppiò in lacrime. « No, non è lui, credevo che fosse lui » disse tra i singhiozzi. Pare che un'amica le avesse detto enigmaticamente: « Indovina chi c'è! Non lo crederesti mai ». Ammessa alla mia presenza la ragazza era convinta di trovare il fratello dato per disperso in guerra dai giornali. Decisi di tornare al Ritz, ufficiali giudiziari o no. Per fortuna, non feci brutti incontri. Invece mi aspettava un telegramma del mio avvocato in California per informarmi che era tutto a posto e Mildred aveva ottenuto il divorzio. Il giorno seguente il tassista e sua moglie, tutti in ghingheri, vennero a trovarmi. Lui disse che i giornali avevano insistito affinchè scrivesse un articolo per i supplementi domenicali sul mio breve soggiorno in casa sua. « Ma » disse risolutamente « io non apro bocca se non ho il suo permesso. » «Lo scriva pure » dissi.
E ora i signori della First National mi vennero incontro, metaforicamente, con il cappello in mano. Disse Gordon, uno dei vice-presidenti, grande proprietario di teatri negli stati dell'Est : « Lei vuole un milione e mezzo di dollari e noi non abbiamo nemmeno visto il film ». Riconobbi le loro buone ragioni, e venne organizzata una proiezione. Fu una serata malinconica. Venticinque gestori della First National sfilarono in sala di proiezione come se si recassero all'inchiesta di un coroner, accolta di uomini sgraziati, scettici e poco simpatici. Poi cominciò il film. La didascalia iniziale diceva: « Un film con un sorriso e forse una lacrima ». « Non c'è male » disse Gordon per mostrare la sua magnanimità. Dal giorno dell'anteprima a Salt Lake City avevo ripreso un po' di fiducia, ma prima che il film arrivasse a metà quella fiducia era svanita: mentre nel corso dell'anteprima la pellicola aveva fatto gridare il pubblico di gioia, là nella saletta risuonarono solo un paio di risatine. Quando la proiezione fu finita e si accese la luce, vi fu un attimo di silenzio. Poi gli spettatori cominciarono a stirarsi, a sbattere le palpebre e a parlare d'altro. « Che fai stasera a cena, Harry? » « Porto mia moglie al Plaza, poi andiamo allo spettacolo di Ziegfeld. » « Mi hanno detto che è piuttosto buono. » «Vuoi venire?» « No, lascio New York stasera, voglio essere a casa per il diploma di mio figlio. » Chiacchierarono cosi per qualche minuto; io avevo i nervi a fior di pelle. Finalmente sbottai: « Dunque, signori, qual è il verdetto? ». Alcuni si agitarono, imbarazzati, altri abbassarono lo sguardo fino a terra. Gordon, che evidentemente era il loro portavoce, cominciò a passeggiare lentamente avanti e indietro. Era un uomo tozzo, massiccio, con un viso rotondo da civetta e occhiali dalle spesse lenti. « Be', Charlie » disse « dovrò discuterne con i miei soci. »
« Si, questo lo so » ribattei prontamente « ma il film vi piace si o no? » Egli esitò, poi sorrise. « Charlie, siamo qui per comprarlo, non per dire se ci piace o no. » La battuta si guadagnò un paio di rumorose sghignazzate. « Non vi farò pagare un supplemento, se vi piace » dissi io. Lui esitò. « Francamente, mi aspettavo un'altra cosa. » « Che cosa si aspettava? » Lui parlò lentamente: « Be', Charlie, per un milione e mezzo di dollari... Insomma, non ha tutta quella dinamite ». « Che cosa voleva, il crollo del London Bridge? » « No. Ma per un milione e mezzo... » Spezzandosi, la sua voce prese un tono di falsetto. « Be', signori, questo è il prezzo. Prendere o lasciare » dissi con impazienza. J. D. Williams, il presidente, capi la piega che stava prendendo la discussione, si avvicinò e cominciò ad adularmi: « Charlie, io lo trovo meraviglioso. È umano, diverso...». (Quel «diverso» proprio non mi andò giù.) « Abbi pazienza, vedrai che sistemeremo tutto. » « Non c'è niente da sistemare » dissi seccamente. « Vi do una settimana di tempo per decidere. » Ricordavo benissimo come mi avevano trattato, e conclusi che non si meritavano il minimo rispetto. Comunque, presero rapidamente una decisione, e il mio avvocato stipulò un accordo in base al quale io dovevo ricevere il cinquanta per cento dei profitti appena essi avessero recuperato il loro milione e mezzo. Il film veniva ceduto per cinque anni, dopodiché sarebbe tornato in mano mia, come gli altri. Avendo risolto le mie questioni d'affari e superato le secche del divorzio, mi pareva di camminare tra le nuvole. Per settimane avevo fatto una vita da recluso, senza vedere altro che le quattro pareti della mia stanza d'albergo. Avendo letto l'articolo sulla mia avventura col tassista, gli amici tornarono a farsi vivi: il futuro si tinse di rosa.
L'ospitalità di New York mi rasserenò. Frank Crowninshield, direttore di Vogue e di Vanity Fair, mi fece da guida nel mondo rutilante di New York, e Condé Nast, proprietario ed editore della catena di periodici con questo nome, organizzò i ricevimenti più sfarzosi. Abitava in un grande attico di Madison Avenue dove si dava convegno il fior fiore della bellezza, delle arti e della ricchezza ; vi si potevano incontrare le Ziegfeld Follies Girls più carine, tra le quali l'adorabile Olive Thomas e la magnifica Dolores. Al Ritz, dove alloggiavo, ero sempre al centro degli avvenimenti mondani. Dalla mattina alla sera il telefono squillava per invitarmi in qualche posto. Non volevo passare un week-end qui o assistere a un concorso ippico là? L'atmosfera era decisamente provinciale, ma mi piaceva. New York abbondava di avventure romantiche, cene a mezzanotte, pranzi, banchetti, ricevimenti di ogni genere: non mancarono gli inviti a colazione. Avendo conosciuto la superficie del bel mondo di New York, ora desideravo penetrare nel tessuto sottocutaneo intellettuale del Greenwich Village. Molti attori, cantanti e clown, arrivati al successo a furia di capriole, scoprono in se stessi il desiderio di migliorare la propria cultura; hanno una fame insoddisfatta di manna intellettuale. Si affaccia lo studente nelle persone che meno ti aspetteresti: sarti, sigarai, pugili, camerieri, camionisti. Ricordo di avere parlato, in casa di un amico, al Greenwich Village, delle insormontabili difficoltà che presentava il tentativo di trovare la parola rispondente ai propri pensieri, sostenendo che il normale dizionario era inadeguato. « Si potrebbe certo inventare un sistema » dissi « di elencazione lessicale delle idee, dai termini astratti a quelli concreti, e con processi deduttivi e induttivi giungere alla parola più rispondente al proprio pensiero. » « Un libro simile esiste già » disse un camionista negro « è il Thesaurus di Roget. » Un cameriere che lavorava all'Alexandria Hotel era solito citare Karl Marx e William Blake a ogni piatto che mi serviva. Un acrobata comico con un fortissimo accento di Brooklyn mi racco
mandò YAnatomia della malinconia * di Burton, dicendo che Shakespeare e Sam Johnson ne erano rimasti influenzati. « Ma non occorre imparare il latino. » Intellettualmente, io ero un loro compagno di strada. Dai tempi del vaudeville ho letto parecchio, ma senza approfondire. Essendo un lettore lento, procedo a spizzichi. Una volta afferrati la tesi e lo stile di un autore, il mio interesse diminuisce invariabilmente. Ho letto parola per parola cinque volumi delle Vite parallele di Plutarco; ma non mi è parso che il gioco valesse la candela. Leggo con attenzione, certi libri parecchie volte. Nel corso degli anni ho curiosato tra le pagine di Platone, Locke, Kant, dell' Anatomia della malinconia di Burton, e cosi, a pezzi e bocconi ho spigolato quello che m'interessava. Al Village conobbi Waldo Frank, saggista, storico e romanziere, Hart Crane, il poeta, Max Eastman, direttore del The Masses, Dudley Field Malone, brillante avvocato e controllore del porto di New York, con la moglie Margaret Foster, la suffragetta. Mangiai anche al Christine's Restaurant, dove conobbi vari attori dei Provincetown Players, che vi andavano regolarmente a pranzo durante le prove dell'Imperatore Jones 2, un dramma scritto da un giovane commediografo, Eugene O'Neill (il quale più tardi sarebbe diventato mio suocero). Mi fecero visitare il loro teatro, una specie di camerone non più grande di una stalla per sei cavalli. Feci la conoscenza di Waldo Frank attraverso il suo libro di saggi, Our America 3, pubblicato nel 1919. Il saggio su Mark Twain costituisce una profonda e penetrante analisi dell'uomo. Incidentalmente, Waldo fu il primo a scrivere cose serie sul mio conto. Finimmo, naturalmente, per diventare ottimi amici. Waldo è un incrocio tra il mistico e lo storico, e grazie al suo intuito è riuscito a penetrare in profondità nell'animo delle Americhe, del Nord e del Sud. 1 Anatorny of Melancholy. 2 Emperor Jones. Prima rappresentazione americana: 3 novembre 1920. (N.d.T.) 3 La nostra America.
Al Village trascorremmo insieme parecchie serate interessanti. Grazie a Waldo conobbi Hart Crane, e cenammo insieme nell'appartamentino di Waldo, al Village, chiacchierando fino all'ora di colazione, il mattino dopo. Furono simposi entusiasmanti, durante i quali ci sforzammo tutti e tre di dare ai nostri pensieri la forma più precisa. Hart Crane era disperatamente povero. Suo padre, un industriale dolciario, milionario, voleva che seguisse le proprie orme e tentò di scoraggiarne le tendenze poetiche tagliandogli i viveri. Io non ho né orecchio né simpatia per la poesia moderna, ma mentre scrivevo questo libro lessi // ponte 1 di Hart Grane, un sfogo emotivo, drammatico e singolare, pieno di un dolore straziante e di una fantasia nitida e cristallina, che però trovai un po' troppo urlato. Forse quella stridulità era propria di Hart Crane. E tuttavia aveva una dolcezza sconfinata. Discutemmo sul significato della poesia. Io dissi che era una lettera d'amore indirizzata al mondo. « Un mondo assai piccolo » disse tristemente Hart. Parlò del mio lavoro come inserito nella tradizione della commedia greca. Gli dissi che avevo cercato di leggere una traduzione inglese di Aristofane ma non ero mai riuscito a finirla. Hart finalmente vinse una borsa di studio Guggenheim, ma era troppo tardi. Dopo anni di miseria e di abbandono si era dato al bere e alla dissipazione, e tornando dal Messico negli Stati Uniti a bordo di una nave passeggeri si gettò in mare. Un anno prima di uccidersi mi mandò un libro di poesie intitolato Bianchì edifici2, pubblicato da Boni e Liveright. Sul risguardo scrisse: « A Charles Chaplin da Hart Crane, a ricordo del Monello. 20 gennaio 1928». Una delle poesie s'intolava Chaplinesca3: We make OUT rneek adjustments, Contented with such random consolatìons 1 The Bridge. 2 White Buildings. 3 Chaplinesque.
As the wind deposita In slithered and too ampie pockets. For we can stili love the world, who find A famished kitten on the step, and know Recesses for it from the fury of the Street, A warm torn elbow coverts. We will sidestep, and to the final smirk Daily the doom of that inevitable thumb That slowly chafes its puckered index towards us, Facing the dull squint with what innocence And what surprise! And yet these fine collapses are not lies More than the pirouettes of any pliant cane; Our obsequies are, in a way, no enterprise. We can evade you, and all else but the heart: What blame to us if the heart live on? The game enforces smirks; but we have seen • The moon in lonely alleys make A grail of laughter of an empty ash can, And through all sound of gaiety and quest Have heard a kitten in the wilderness 1. 1 Facciamo i nostri miti compromessi, / Soddisfatti dalle consolazioni casuali / Che il vento vi deposita / In tasche sfondate e troppo grandi. / Perché possiamo ancora amare il mondo, noi, che troviamo / Un micio affamato sugli scalini, e sappiamo / Trovargli un rifugio dal furore della strada, / O il riparo di caldi gomiti sbrindellati. / Camminiamo di sghembo, e sino al sorrisetto conclusivo / Proroghiamo la sentenza del pollice inevitabile / Che sfrega lentamente verso di noi l'indice grinzoso, / E affrontiamo l'ottusa occhiata strabica con quale innocenza / E quale sorpresa ! / E tuttavia questi bei mancamenti non sono menzogne / Né lo sono le piroette d'un bastoncino flessibile; / I nostri omaggi non sono, in certo modo, un'impresa. / Possiamo eludervi, e ogni cosa tranne il cuore: / Che colpa ne abbiamo se il cuore continua a vivere? / II gioco esige smorfie di sorriso; ma abbiamo veduto / La luna in vicoli solitari fare / Un graal di riso d'una pattumiera vuota, / E tra ogni voce d'allegrezza e questua / Udito un micio miagolare nel deserto. (Da Nuovissima Poesia Americana e Poesia Negra 1949-1953. Traduzione di Carlo Izzo; Guanda, Parma 1956.) (N. d:T.)
Dudley Field Malone diede una bella festa al Village e invitò Jan Boissevain, l'industriale olandese, Max Eastman e altri. Un uomo», un tipo interessante che mi fu presentato come « George » (non seppi mai il suo vero nome), sembrava molto nervoso ed eccitato. Più tardi qualcuno disse che era stato un grande favorito del re di Bulgaria, il quale aveva pagato le spese della sua istruzione all'università di Sofia. Ma George si era sbarazzato del patrocinio regale per diventare un « rosso », era emigrato negli Stati Uniti, si era iscritto alla i w w 1 e finalmente era stato condannato a vent'anni di prigione. Aveva scontato due anni e poi, vinto un appello per la revisione del processo, era stato messo in libertà provvisoria. Stava mimando una sciarada, e mentre lo guardavo Dudley Field MaIone mormorò: « Non ha la minima probabilità di spuntarla, in tribunale ». George, avvolto in una tovaglia, stava facendo l'imitazione di Sarah Bernhardt. Scoppiammo a ridere, ma dentro di loro molti pensavano come me, che quell'uomo doveva tornare in galera per altri diciotto anni. Fu una sera strana, movimentata, e mentre stavo per congedarmi George mi gridò dietro: « Cos'è tutta questa fretta, Charlie? Perché te ne vai cosi presto? ». Lo tirai in disparte. Non sapevo che cosa dire. « Posso fare qualcosa per te? » mormorai. Lui mosse la mano come per scacciare quel pensiero molesto, poi strinse la mia e disse con calore: « Non preoccuparti di me, Charlie. Andrà tutto bene ». A New York sarei rimasto volentieri un altro po', ma avevo del lavoro da sbrigare in California. Desideravo anzitutto esaurire gli impegni previsti dal mio contratto con la First National, perché ero ansioso di cominciare con la United Artists. !Vedi Nota 1 a pag. 223.
Il ritorno in California fu una delusione dopo la libertà, la spensieratezza e le ore piacevoli e interessanti che avevo goduto a New York. Girare quattro comiche in due bobine per la First National sembrava un ostacolo insormontabile. Per parecchi giorni me ne rimasi seduto nello studio sforzandomi di riflettere. Come il violino o il pianoforte, anche il pensiero richiede un esercizio quotidiano, del quale avevo perso l'abitudine. Mi ero troppo affezionato alla vita caleidoscopica di New York e non riuscivo a scaricare la tensione nervosa. Allora, col Dr. Cecil Reynolds, un inglese amico mio, decisi di trasferirmi sull'isola di Catalina a fare un po' di pesca. Catalina era il paradiso dei pescatori. Avalon, il suo vecchio villaggio sonnolento, aveva due alberghetti. Si poteva pescare tutto l'anno. Se era la stagione dei tonni, non si trovava una barca da noleggiare. Al mattino, di buon'ora, qualcuno gridava: «Eccoli!». Banchi di tonni del peso variante tra i quindici e i centocinquanta chili nuotavano coprendo il mare di spruzzi a perdita d'occhio. L'atmosfera sonnolenta spariva dall'albergo, che cominciava a ronzare di attività; mancava quasi il tempo di vestirsi, e se eri uno dei fortunati che avevano ordinato una barca in anticipo, vi saltavi dentro mentre ti stavi ancora abbottonando i pantaloni. In una di queste occasioni il dottore e io pescammo otto tonni prima di pranzo, ciascuno dei quali pesava più di quindici chili. Ma i banchi sparivano con la stessa velocità con cui erano venuti, e in tal caso si tornava alle solite medie. A volte pescavamo i tonni con un aquilone attaccato alla lenza che sosteneva l'esca, un pesce volante, facendolo volteggiare sul pelo dell'acqua. Questo tipo di pesca era veramente entusiasmante, perché si vedeva il tonno avventarsi, creando intorno all'esca un vortice di schiuma, poi correre col pesce in bocca per sessanta metri o più. I pesci spada catturati al largo di Catalina vanno dai cinquanta ai trecento chili e rotti. Questo tipo di pesca è più delicato. La lenza è libera e il pesce spada prende dolcemente in bocca l'esca, una piccola
alalonga o una rondine di mare, e si allontana, nuotando, per un centinaio di metri. Poi si ferma e tu arresti la barca e aspetti un minuto buono per dargli il tempo d'ingoiare Fesca, girando lentamente il mulinello finché la lenza è tesa. A questo punto gli dai due o tre robusti strattoni, e comincia il bello. Lui spicca una corsa di cento metri o più, facendo sibilare il mulinello, poi si ferma; tu recuperi rapidamente la lenza, rimettendola in tensione, altrimenti si spezzerebbe come uno spago. Se poi il pesce dovesse fare, correndo, una deviazione improvvisa, la frizione dell'acqua taglierebbe la lenza. Lui comincia a saltare trenta o quaranta volte fuori dall'acqua, scuotendo la testa come un bulldog. Infine si lascia colare a picco. Allora comincia la parte più dura del lavoro, per tirarlo a bordo. L'esemplare più grosso che riuscii a catturare pesava settantanove chili e duecento; per tirarlo a bordo impiegai solo ventidue minuti. Quelli si che furono bei tempi! Con la canna in mano, il dottore e io passavamo sonnecchiando a poppa dell'imbarcazione mattine stupende in cui la foschia dell'oceano e l'orizzonte si fondevano nell'infinito, e il silenzio sconfinato sottolineava le strida dei gabbiani e il pigro tonfare del motore. Il Dr. Reynolds era un asso della chirurgia cerebrale e aveva ottenuto in quel campo risultati miracolosi. Conoscevo molti dei suoi casi clinici. Uno riguardava una bimba con un tumore al cervello, che aveva venti attacchi al giorno e stava progressivamente degenerando nell'idiozia. In seguito all'intervento di Cecil recuperò perfettamente la salute e crebbe fino a diventare una brillante studentessa. Ma Cecil era un « fissato ». Aveva il pallino del teatro. Fu questa insaziabile passione che me lo rese amico. « II teatro nutre lo spirito » diceva sempre. Io ribattevo spesso che la sua attività medica doveva essere abbastanza nutriente di per sé. Che poteva esserci di più drammatico che trasformare una sbavante idiota in una brillante studentessa? « Si tratta solo di sapere dove stanno le fibre nervose » disse il Dr.'
Reynolds « ma recitare è un'esperienza psichica che allarga il cuore. » Gli chiesi perché avesse scelto la chirurgia cerebrale. « Per la drammaticità che comporta » disse lui. Spesso accettava d'interpretare delle particìne all'Amateur Playhouse di Pasadena. Sostenne anche il ruolo del pastore che visita il carcere nel mio film Tempi moderni. Quando tornai dalla pesca m'informarono che la salute di mia madre era migliorata: ora che la guerra era finita avremmo potuto farla venire tranquillamente in California. Mandai Tom in Inghilterra per accompagnarla durante la traversata. Alla lista dei passeggeri venne iscritta sotto falso nome. Durante il viaggio si comportò in modo assolutamente normale. Cenava tutte le sere nel salone principale e durante il giorno partecipava ai giochi che si svolgevano sul ponte. All'arrivo a New York si mostrò perfettamente padrona di sé finché il capo dell'ufficio immigrazione non le andò incontro per salutarla : « Toh, toh, la signora Chaplin ! Questo si che è un vero piacere ! Dunque lei è la madre del nostro celebre . Charlie ». « Si » disse dolcemente mia madre « e lei è Gesù Cristo. » II viso del funzionario era un poema. Egli ebbe un'esitazione, guardò Tom, poi disse educatamente: « Le dispiacerebbe accomodarsi un momento nel mio ufficio, signora Chaplin? ». Tom capi subito che erano nei guai. Tuttavia, dopo una lunga trafila burocratica, quelli dell'ufficio immigrazione furono tanto gentili da autorizzare l'ingresso di mia madre negli Stati Uniti concedendole un permesso di soggiorno rinnovabile di anno in anno a condizione che ella non gravasse sul bilancio dello stato. Non la vedevo dall'ultima volta che ero stato in Inghilterra, dieci anni prima, e perciò rimasi piuttosto scosso quando una piccola, anziana signora scese dal treno a Pasadena. Ci riconobbe subito, Sydney e me, e si comportò in maniera assolutamente normale. La sistemammo in un bungalow sul mare, vicino a noi, con una cop
pia di coniugi per mandare avanti la casa e un'infermiera diplomata che avesse cura di lei. Ogni tanto andavo a trovarla con mio fratello; la sera si faceva qualche gioco di società. Durante il giorno si divertiva a fare gite in macchina e merende all'aria aperta. A volte veniva allo studio, dove le facevo proiettare le mie comiche. Finalmente // monello fu dato a New York, dove ottenne un grande successo. E, come avevo predetto a suo padre il giorno del nostro primo incontro, Jackie Coogan fu sensazionale. Grazie al successo ottenuto nel Monello, Jackie guadagnò durante la sua carriera oltre quattro milioni di dollari. Ogni giorno fioccavano i ritagli di entusiastiche recensioni, e // monello fu proclamato un classico. Ma io non ebbi mai coraggio di andarlo a vedere a New York; preferivo starmene a casa a sentire le notizie della sua marcia trionfale. Il carattere frammentario di questa autobiografia non dovrebbe impe dirmi di buttar giù qualche osservazione sul modo di fare del cinema. Benché sull'argomento siano già stati scritti parecchi libri di grande interesse, il guaio è che nella maggioranza dei casi essi impongono il gusto cinematografico dell'autore. Un libro simile, invece, non dovrebbe essere che un manuale tecnico il quale insegni a conoscere i ferri del mestiere. Quanto agli effetti drammatici, l'allievo dotato di fantasia dovrebbe ricorrere al proprio senso artistico. Se è sostanzialmente un artista, il dilettante ha solo bisogno di apprendere i rudimenti della tecnica cinematografica. Per un artista l'assoluta libertà di fare qualcosa di non ortodosso è in genere estremamente stimolante ed è per questo che il primo film di molti registi presenta doti insolite di freschezza e originalità. L'intellettualizzazione della linea e dello spazio, la composizione, il ritmo, ecc, sono tutte bellissime cose, ma c'entrano poco con la recitazione, e fanno presto a mutarsi in aridi dogmi. In questo campo la semplicità nelFaffrontare il tema prescelto è sempre la cosa migliore. Personalmente non posso soffrire gli effetti troppo ricercati, come ad
esempio riprendere la scena attraverso il caminetto dal punto di vista di un pezzo di carbone o viaggiare con un attore per l'atrio di un albergo come se lo si scortasse in bicicletta; secondo me sono stratagemmi da quattro soldi buoni solo a gettare la polvere negli occhi. Quando il pubblico ha preso confidenza con la scena, non occorrono tante complicazioni per arrivare al nocciolo. Effetti cosi artificiosi rallentano Fazione, sono monotoni, sgradevoli, e sono stati scambiati spesso per quella parola tanto antipatica: « arte ». Quanto a me, cerco sempre di disporre la macchina da presa in modo da favorire la coreografia, i movimenti dell'attore. Quando una mac china da presa è piazzata sul pavimento o va e viene intorno alle narici di un attore; è la macchina a recitare, non l'attore. La macchina non dovrebbe mai far sentire la sua presenza. Nel cinema, il risparmio di tempo è sempre la virtù fondamentale. Lo sapevano benissimo' sia Eisenstein che Griffith. È il rapido stacco da una scena all'altra a creare la dinamica del cinema. Sono sorpreso quando certi critici affermano che la mia tecnica è antiquata, che non mi sono tenuto al passo con i tempi. Che tempi? Per difettosa che sia, la mia tecnica è il risultato delle mie riflessioni, della mia logica e della mia interpretazione; non è presa in prestito dagli altri... Se nell'arte ci si dovesse tenere al passo con i tempi, allora Rembrandt sarebbe un pittore superato rispetto a Van Gogh. Giacché siamo in argomento, alcune brevi parole possono riuscire di qualche utilità a quanti accarezzano l'idea di girare un supercolosso cinematografico: che, a- dire il vero, è il film più facile da realizzare. Esso richiede poca fantasia e poco talento, sia nel regista che negli attori. Non occorrono che dieci milioni di dollari, folle innumerevoli, costumi, scene e ricostruzioni favolose. In un'orgia di colla e cartapesta, si può prendere Cleopatra e farle discendere languidamente il Nilo, immergere ventimila comparse nel Mar Rosso o abbattere le mura di Gerico; basta affidarsi a bravi carpentieri. E mentre il feldmaresciallo siede nella sua poltrona direttoriale con la sceneggiatura e la carta topografica, i suoi sergenti istruttori sudano e
brontolano in zona di operazioni, berciando gli ordini alle divisioni: un fischio significa « diecimila da sinistra », due fischi « diecimila da destra » e tre « tutti sotto e dateci dentro ». Tema della maggior parte di questi spettacoli è il superuomo. L'eroe cinematografico è in grado di saltare, correre, sparare, combattere e amare meglio di tutti. Con questi metodi, anzi, si risolve ogni problema umano: il pensiero è messo al bando. Due parole sulla regia. Nel dirigere gli attori in una scena serve molto la psicologia. Poniamo, ad esempio, che un membro della troupe venga scritturato nel bel mezzo di un film. Pur essendo un attore eccellente, è facile che si lasci innervosire dal nuovo ambiente in cui si trova. È qui che l'umiltà del regista può essere di grande aiuto, come ho constatato personalmente in analoghe circostanze. Pur sapendo ciò che volevo, tiravo in disparte il nuovo attore confidandogli che ero stanco, preoccupato e incerto sul da farsi. Ben presto, cercando di aiutarmi, egli dimenticava il proprio nervosismo e io ottenevo da lui la buona interpretazione che cercavo. Marc Connelly, il drammaturgo, un giorno pose la domanda: su che cosa dovrebbe far leva l'autore che scrive per il teatro, l'idea o il sentimento? Io credo in primo luogo il sentimento, perché in teatro è più interessante dell'idea; il teatro c'è apposta per questo: l'oro e l'avorio dei motivi ornamentali, il rostro, il proscenio, il sipario rosso, tutto il suo falpalà architettonico fa appello al sentimento. Naturalmente vi partecipa anche l'intelletto, ma in via secondaria. Lo sapevano Cechov, Molnàr e molti altri commediografi. Essi conoscevano anche l'importanza della teatralità, che è fondamentalmente l'arte della drammaturgia. Per me teatralità vuol dire abbellimento drammatico: l'arte di un'aposiopesi; il chiudersi improvviso di un libro; l'accensione di una sigaretta; gli effetti fuori scena, un colpo di pistola, un grido, una caduta, un tonfo; un'entrata a effetto; un'uscita a effetto: tutte cose che possono sembrare ovvie e banali, ma che, trattate con discrezione e sensibilità, fanno nascere la poesia del teatro.
Un'idea priva di senso del teatro ha poco valore. È più importante es sere efficaci. Se si possiede il senso del teatro si può essere efficaci quasi con niente. Un esempio di ciò che intendo è costituito dal prologo che misi in sce na a New York col mio film Una donna di Parigi \ Allora tutti i lun ghimetraggi erano accompagnati da un prologo che durava una mez z'oretta. Non avevo idea del soggetto, ma ricordavo una romantica stam pa a colori dal titolo « Sonata di Beethoven » raffigurante uno studio d'artista e un gruppo di bohémien seduti tristemente qua e là nella pe nombra, ad ascoltare un violinista. Mi restavano solo due giorni di tem po, e cosi riprodussi la scena in teatro. Scritturai un pianista, un violinista, alcuni ballerini apache e una cantante, poi ricorsi a tutti i trucchi teatrali che conoscevo. Gli invitati sedevano qua e là sui divani o sul pavimento con le spalle al pubblico, ignorandolo e bevendo liquori, mentre il violinista eseguiva la sua sonata, e in una pausa musicale russava un ubriaco. Quando il violinista ebbe finito di suonare, gli apache di ballare e la cantante di cantare Auprès de ma blonde, furono pronunciate due battute. Disse un invitato: « Sono le tre, devo andare ». Aggiunse un altro: « Si, ce ne dobbiamo andare tutti ». E, mentre uscivano, continuarono a improvvisare su questo tema. Appena l'ultimo se ne fu andato, il padrone di casa accese una sigaretta e cominciò a spegnere le luci dello studio mentre, per la strada, si sentivano le voci cantare Auprès de ma blonde. Quando il palcoscenico piombò nelle tenebre, dissipate a malapena dalla luce della luna che entrava a fiotti dalla finestra centrale, il padrone di casa usci e, mentre il canto si affievoliva in lontananza, calò lentamente il sipario. Per tutta la durata di questo assurdo prologo in sala si sarebbe sentita volare una mosca. Per mezz'ora nessuno aveva detto niente e sulla scena si era svolta una semplicissima pantomima. Eppure la sera della « prima » gli attori dovettero presentarsi nove volte alla ribalta. 1 A woman of Paris, 1923. 3°4
Non posso dire che mi piacciano le tragedie di Shakespeare. Il mio gusto è troppo moderno. Shakespeare richiede un tipo di recitazione che non mi va e che non m'interessa. Mi sembra di ascoltare una dotta orazione. My gentle Puck, come hither. Thou remember'st Sirice once 1 sat upon a promontory, And heard a mermaid on a dolphin's back Uttering such dulcet and harmonious breath, That the rude sea grew civil at her song, And certain stars shot tnadly from their spheres To hear the sea-maid's music 1. Può darsi che siano versi bellissimi, ma in teatro non mi piace questo genere di poesia. Inoltre non amo i temi scespiriani, legati come sono a re, regine, ad augusti personaggi e al loro onore. Forse dipende dalla mia psicologia o magari da un mio peculiare solipsismo. Nella lotta per assicurarmi un tozzo di pane e un boccone di formaggio l'onore ha sempre avuto Scarsissima importanza. Non riesco a immedesimarmi nei problemi di un principe. La madre di Amleto avrebbe anche potuto andare a letto con tutti i cortigiani e io sarei rimasto assolutamente indifferente al dolore inflitto a suo figlio. Quanto alle mie preferenze nella presentazione di una commedia, devo dire che io amo il teatro convenzionale, col proscenio che separa il pubblico dal mondo della finzione. Desidero che la scena venga svelata dall'alzarsi o dallo schiudersi di un sipario. Non amo le commedie che scavalcano le luci della ribalta per mettersi in contatto col pubblico, quelle in cui un personaggio si sporge dal proscenio per spiegare l'intreccio. Ol 1 Vieni qui, mio folletto gentile. Ricordi quella volta che, seduto sull'alto scoglio ascoltavo, rapito, la sirena portata sul dorso da un delfino, esalare un canto cosi dolce e armonioso, che perfino il protervo mare sostò, placato, in ascolto? E quante stelle - ricordi - vedemmo balzare come impazzite dalle loro sfere per ascoltar la voce di quella sirena? (Shakespeare, Sogno di una notte d'estate. Traduzione di Cesare Vico Lodovici; Einaudi 1961.) (N. d. T.) 3°5
tre ad essere scolastico, questo artificio distrugge l'incanto del teatro, ed è un modo prosaico di esporre l'argomento. Per quanto riguarda le scene, voglio quelle che contribuiscono alla real tà dell'ambientazione e nulla più. Se la commedia è moderna, e tratta della vita di ogni giorno, non voglio decorazioni geometriche. Questi effetti strabilianti distruggono la finzione. Alcuni ottimi artisti hanno imposto effusioni sceniche al punto di su bordinarvi sia l'attore che l'opera teatrale. D'altro canto semplici ten daggi e gradinate che salgono all'infinito costituiscono intrusioni ancora peggiori. Puzzano di cerebralismo ed è come se dicessero: « Lasciamo tutto alla vostra sensibilità e alla vostra fantasia! ». Una volta, a una recita di beneficenza, vidi Sir Laurence Olivier esibirsi in abito da sera in un brano del Riccardo III. Anche se riusci a creare, con la sola forza del suo istrionismo, un'atmosfera medioevale, cravatta bianca e frac era no piuttosto assurdi. Qualcuno ha detto che l'arte di recitare distende i nervi. Naturalmente questo principio base vale per tutte le arti, ma l'attore deve possedere so prattutto misura e controllo interiore. Per frenetica che sia la scena, il tecnico entro l'attore dev'essere calmo e rilassato, nel dirigere e guidare il saliscendi delle sue emozioni: tanto è eccitato l'uomo esterno quanto è controllato l'uomo interno. E l'attore vi può arrivare solo tramite il rilassamento. Ma come si fa a rilassarsi? Non è facile. Il mio metodo è piuttosto personale: prima di andare in scena sono sempre estremamen te nervoso ed eccitato, e in questo stato mi esaurisco a un punto tale che al momento di fare la mia entrata sono rilassato. Non credo che si possa insegnare a recitare. Ho visto persone intelli genti fallire miseramente e individui piuttosto ottusi recitare benissimo. Ma per recitare occorre essenzialmente del sentimento. Wainwright, una
autorità in fatto di estetica, amico di Charles Lamb e dei luminari del la letteratura del suo tempo, era un assassino crudele e spietato che av velenò il cugino per ragioni mercenarie. Ecco l'esempio di un uomo in telligente che non avrebbe mai potuto essere un bravo attore perché aveva poco sentimento.
Ricchezza intellettuale e povertà di sentimento possono essere caratteristiche del supercriminale, mentre ricchezza di sentimento e povertà intellettuale caratterizzano l'innocuo idiota. Ma quando intelletto e sentimento sono perfettamente equilibrati allora abbiamo l'attore superlativo. La caratteristica essenziale del grande attore è che egli si piace mentre recita. Non lo dico in senso spregiativo. Spesso ho sentito un attore esclamare: « Come mi piacerebbe interpretare quella parte! » intendendo dire che si piacerebbe in quella parte. Può darsi che sia una forma di egocentrismo. Il grande attore si preoccupa soprattutto del proprio virtuosismo: Irving in The Hells1, Tree nella parte di Svengali, Martin Harvey in A Cigarette Maker's Romance 2, tre commedie scadentissime, ma tre parti eccellenti. Non basta un fervido amore per il teatro; dev'esservi anche un fervido amore per se stessi e un'enorme fiducia nelle proprie capacità. Delle scuole di recitazione m'intendo poco. A quanto pare si concentrano sullo sviluppo della personalità, che in certi attori potrebbe essere benissimo meno sviluppata. Dopo tutto recitare significa fingere di essere un altro. La personalità è una cosa indefinibile che traspare in ogni caso da un'interpretazione. Ma tutti i metodi hanno qualcosa di buono. Stanislavskij, ad esempio, si batte per la « verità interiore », che, a quanto mi risulta, significa « essere il personaggio » anziché « interpretare il personaggio ». Ciò richiede un trasporto, una penetrazione nelle cose: uno dovrebbe poter provare che cosa significa essere un leone o un'aquila, e anche entrare istintivamente nello spirito del personaggio, sapere quali saranno le sue reazioni in ogni circostanza. Questa parte della recitazione non può essere insegnata. Nell'istruire un vero attore o una vera attrice su un certo personaggio spesso può bastare una parola o una frase: « Questa è una figura falstaffiana » o « Questa è una moderna Madame Bovary ». Sembra che 1 Le campane. 2 II romanzo di un fabbricante di sigarette. 3°7
un giorno Jed Harris abbia detto a un'attrice: « Questo personaggio ha la mobilità di un tulipano nero ondeggiante al vento ». Ma qui, forse, si esagera. Che si debba conoscere la biografia del personaggio mi sembra superfluo. Nessuno potrebbe corredare per iscritto una commedia o una parte di quelle fantastiche sfumature che la Duse sapeva trasmettere al pubblico. Dovevano essere dimensioni trascendenti la concezione dell'autore. E la Duse, a quanto mi risulta, non era un'intellettuale. Aborrisco le scuole d'arte drammatica che indulgono in riflessioni e introspezioni per evocare la giusta emozione. Il semplice fatto che si debba operare mentalmente su un aspirante attore è la dimostrazione sufficiente che egli dovrebbe cambiare mestiere. Quanto a quella metafisica parola, la tanto decantata « verità », ve ne sono varie forme e l'una vale l'altra. La recitazione classica della Comédie Francaise è altrettanto incredibile della cosiddetta recitazione realistica in una commedia di Ibsen; si trovano ambedue nel regno del tempo artificiale e hanno lo scopo di dare l'illusione del vero: dopo tutto, in ogni verità alligna il seme del falso. Io non ho mai studiato recitazione, ma da ragazzo ebbi la fortuna di vivere in un'epoca di grandi attori, e la loro esperienza m'insegnò molte cose. Pur essendo abbastanza dotato, mi stupì, alle prove, scoprire quanto avevo da imparare in fatto di tecnica. Anche il principiante di talento deve imparare la tecnica; per grandi che siano le sue doti, egli deve saperle sfruttare efficacemente. L'esperienza mi ha insegnato che per ottenere questa efficacia occorre prima acquisire il senso dell'orientamento; sapere, cioè, dove sei e che cosa stai facendo, in ogni momento, sul palcoscenico. Entrando in scena, bisogna avere l'autorità di sapere dove fermarsi; quando voltarsi; dove stare in piedi; quando e dove mettersi a sedere; se rivolgersi a un personaggio direttamente o indirettamente. L'orientamento conferisce autorità e distingue il professionista dal dilettante. Dirigendo i miei film ho sempre insistito perché gli attori della troupe acquisissero questo orientamento.
Le doti che ammiro di più in un attore sono finezza e misura. John Drew ne fu indubbiamente il compendio più lampante. Era gioviale, spiritoso, sagace e ricco di fascino. È facile essere emotivi - è anzi necessario, in un bravo attore — e naturalmente occorrono voce e dizione. David Warfield possedeva una voce magnifica e la capacità di esprimere le emozioni, ma chissà come si aveva sempre l'impressione che in tutto quello che diceva entrassero i dieci comandamenti. Spesso mi è stato chiesto quali fossero, sulla scena americana, le mie attrici e i miei attori preferiti. È difficile rispondere, perché una scelta farebbe supporre che gli altri fossero inferiori, il che non era. I miei preferiti non erano tutti attori « seri ». Alcuni erano comici, altri canzonettisti addirittura. Al Jolson, ad esempio, fu un grande artista, ricco d'istinto e di magica vitalità. Fu il cantante più straordinario del teatro americano, un menestrello dal viso nero con una robusta voce di baritono, che diceva fiacche barzellette e cantava languide canzoni. Qualsiasi cosa cantasse, ti alzava o ti abbassava al suo livello; persino la sua ridicola canzone Mammy 1 affascinò tutti. Solo un'ombra di Al Jolson apparve sullo schermo, ma nel 1918 egli era all'apice della fama e bastava la sua presenza a elettrizzare il pubblico. Aveva uno strano fascino, con quel corpo elastico, la testa grossa e gli occhi infossati e penetranti. Quando intonava canzoni come There's a Rainbow Round My Shoulder 2 e When I Leave the World Behind 3, faceva letteralmente scattare in piedi gli spettatori. Egli personificava la poesia di Broadway, la sua vitalità e la sua volgarità, le sue mire e i suoi sogni. Sam Bernard, il comico olandese, un altro bravissimo artista, esasperava ogni cosa. « Le uova. Sessanta cent la dozzina... e marce, per giunta! E il prezzo della carne di manzo! Due dollari la paghi! Due dollari... per un pezzettino di carne di manzo! » A questo punto, ricorrendo alla sua 1 Mammina. 2 Ho un arcobaleno sulla spalla. 3 Quando mi lascio il mondo dietro alle spalle.
mimica, esagerava la piccolezza di quel pezzetto di carne, quasi stesse infilando un ago, poi esplodeva, gesticolando e girandosi da tutte le parti : « Ricordo quando per due dollari TI DAVANO TANTA CARNE CHE NON RIUSCIVI A PORTARLA.' ». Fuori scena era un filosofo. Quando Ford Sterling andò da lui piangendo perché sua moglie lo aveva tradito, Sam disse: « Be'? Hanno tradito anche Napoleone! ». Frank Tinney lo vidi la prima volta che giunsi a New York. Era la stella del Winter Garden e riusciva a instaurare col pubblico un rapporto di strettissima intimità. Sporgendosi dal proscenio mormorava: « La prima attrice s'è presa una cotta per me ». Poi lanciava un'occhiata furtiva tra le quinte per assicurarsi che nessuno stesse a origliare. Tornando a rivolgersi al pubblico, confidava: «È patetico. Stasera l'ho incontrata mentre entrava dall'ingresso degli artisti e le ho detto: "Buonasera", ma lei ha una tale cotta per me che non mi ha risposto nemmeno ». A questo punto la prima attrice attraversa il palcoscenico e Tinney si porta rapidamente un dito alle labbra, per avvertire il pubblico di non tradirlo. Poi la saluta allegramente: « Ciao, pupa! ». La ragazza si volta, indignata, e piena di stizza sparisce tra le quinte, lasciando cadere il pettine. Allora lui si volta verso la platea e sussurra: « Che cosa vi avevo detto? Ma in privato siamo cosi ». E accosta l'indice di una mano all'altro. Raccogliendo il pettine, grida al direttore di scena: « Harry, per favore, mettilo nel nostro camerino ». Lo rividi in teatro qualche anno dopo e fu una brutta sorpresa, perché la musa comica lo aveva abbandonato. Era cosi goffo che stentai a credere di trovarmi di fronte allo stesso uomo. Fu questo cambiamento avvenuto in lui a darmi lo spunto per il mio film Luci della ribalta \ Volevo sapere perché aveva perduto il suo spirito e la sua sicurezza. In 1 Limelight, 1952.
Luci della ribalta la ragione era da attribuirsi all'età: Calvero diventava vecchio e riflessivo, acquistando il senso della propria dignità, e questo era fatale allo stretto rapporto da lui allacciato col pubblico. Fra le attrici che vidi negli Stati Uniti citerò la signora Fiske, effervescente, spiritosa e intelligente, e sua nipote, Emily Stevens, un'attrice di talento dallo stile raffinato e dalla mano leggera. Jane Cowl aveva slancio e intensità e la signora Leslie Carter non era meno entusiasmante di lei. Fra le attrici del teatro leggero ammirai Trixie Friganza e, naturalmente, Fanny Brice, il cui grande talento parodistico era arricchito dal suo istrionismo. Noi inglesi avevamo le nostre grandi attrici: Ellen Terry, Ada Reeve, Irene Vanbrugh, Sybil Thorndike e la sagace Pat Campbell. Tranne Pat, le vidi lavorare tutte. John Barrymore passava per il detentore dell'autentica tradizione teatrale, ma aveva la pessima abitudine di portare il suo talento come un paio di calze di seta senza giarrettiere. Ostentava una nonchalance che 10 induceva a trattare ogni cosa in modo piuttosto sprezzante: si trattasse di interpretare YAmleto o di andare a letto con una duchessa, per lui era tutto uno scherzo. Nella sua biografia scritta da Gene Fowler viene riferito un episodio secondo il quale, dopo una terribile sbornia di champagne, egli fu buttato giù dal letto e spinto sulla scena a recitare la parte di Amleto, cosa che fece tra una capatina dietro le quinte e l'altra per vomitare e buttar giù un cordiale. Stando alla versione di Fowler, i critici inglesi salutarono nella sua interpretazione di quella sera il più grande Amleto dell'epoca. Una storia cosi ridicola è un insulto all'intelligenza di chicchessia. La prima volta che lo incontrai, John - allora all'apice del successo sedeva malinconicamente in un ufficio della United Artists. Dopo che ci ebbero presentato restammo soli, e io cominciai a parlare del trionfo che aveva ottenuto nella parte di Amleto. Dissi che Amleto valorizzava 11 suo talento più di qualsiasi altro personaggio di Shakespeare. Lui riflettè un momento. « Anche quella del re non è una brutta parte. Anzi, io la preferisco ad Amleto. » 3"
Mi parve una ben strana affermazione: chissà se era sincero. Fosse stato più semplice e meno vanitoso, Barrymore avrebbe potuto allinearsi con i più grandi attori: Booth, Irving, Mansfield e Tree. Ma essi avevano nobiltà d'animo e larghezza di vedute. Il suo guaio fu di avere un ingenuo, romantico concetto di se stesso come di un genio destinato all'autodistruzione: traguardo che raggiunse nel modo più volgare e clamoroso, dandosi all'alcool fino a trovare la morte. Anche se II monello ottenne un enorme successo i miei problemi non erano finiti: avevo ancora quattro film da produrre per la First National. In uno stato di rassegnata disperazione mi misi a gironzolare per il magazzino nella speranza di trovare uno spunto: avanzi di vecchie scene, la porta di una prigione, un pianoforte o un mangano. Lo sguardo mi cadde su una serie di vecchie mazze da golf. Ecco! Il vagabondo gioca a golf: era nata l'idea di Charlot e la maschera di ferro \ La trama era semplice. Il vagabondo si concede tutti gli agi dei ricchi. Se ne va al sud in cerca della bella stagione, ma viaggia sotto i treni anziché sopra. Gioca a golf con le palline che trova sul campo. Durante un ballo in maschera si mescola ai ricchi, naturalmente vestito da vagabondo, e ha un'avventura con una bella ragazza. Dopo numerose peripezie, fugge inseguito dagli invitati furibondi e si rimette in cammino. Durante le riprese di una delle scene ebbi un lieve incidente con un ferruminatore. Il calore mi attraversò i calzoni foderati di asbesto, tanto che fummo costretti ad aggiungerne un altro strato. Carl Robinson lo ritenne un ottimo spunto pubblicitario e diede la notizia alla stampa. Quella sera, leggendo i giornali, rimasi di stucco nell'apprendere che ero rimasto gravemente ustionato al viso, alle mani e in tutto il corpo. Una valanga di lettere, telegrammi e telefonate si rovesciò sullo studio. 1 The Idle Class, 1921.
Mi affrettai a diramare una smentita, ma pochi giornali la pubblicarono. In seguito a ciò, tra la posta proveniente dall'Inghilterra trovai una lettera di H. G. Wells, in cui il famoso scrittore mi comunicava la sua apprensione per la notizia dell'incidente. Continuava dicendo che ammirava moltissimo la mia opera e che sarebbe stato terribile se io mi fossi trovato in condizione di non poter continuare. Gli spedii immediatamente un telegramma, nel quale esposi i fatti come si erano svolti in realtà. Terminato Charlot e la maschera di ferro pensai di cominciare un altro film in due bobine, e mi trastullai con l'idea di una parodia sul prospero mestiere dell'idraulico. La prima scena doveva mostrare l'arrivo di due di essi (Mack Swain e io) a bordo di una berlina con autista. Ci accoglie con tutti i riguardi la bella padrona di casa, Edna Purviance, che dopo averci offerto da mangiare e da bere ci accompagna nel bagno, dove io mi metto subito al lavoro con uno stetoscopio, appoggiandolo sul pavimento, auscultando le tubazioni e tamburellandovi sopra con le dita come farebbe un medico con un paziente. Non andai più in là di cosi. Non riuscivo a concentrarmi. Non mi ero reso conto della mia stanchezza. Inoltre negli ultimi due mesi mi aveva preso una voglia irresistibile di visitare Londra: ci pensavo continuamente, e la lettera di H. G. Wells riattizzò il mio desiderio. Infine, dopo dieci anni avevo ricevuto una lettera di Hetty Kelly, che scriveva: « Ricordi una sciocca ragazzina...? ». Si era sposata e viveva in Portman Square. Se mi fossi recato a Londra, sarei andato a trovarla? La lettera era piuttosto scialba e le sue parole non mi entusiasmarono. Dopo tutto, in quell'intervallo di dieci anni mi ero innamorato diverse volte. Comunque, sarei andato a trovarla di certo. Dissi a Tom di fare le valigie, e a Reeves di chiudere lo studio e dare una vacanza alla compagnia. Avevo deciso di andare in Inghilterra.
Diciassette La sera prima di lasciare New York diedi all'Elysée Cafè una festa per una quarantina di invitati, tra i quali Mary Pickford, Douglas Fairbanks e Madame Maeterlinck. Si giocò alle sciarade. Douglas e Mary recitarono la prima. Douglas, bigliettaio di autobus, forava un biglietto e lo porgeva a Mary. Per la seconda sillaba essi mimarono un salvataggio: Mary invocava aiuto, Douglas la raggiungeva a nuoto e la portava in salvo sulla riva del fiume. Naturalmente gridammo tutti: « Fairbanks 1 ». Quando l'atmosfera si fu riscaldata, Madame Maeterlinck e io recitammo la scena della morte nella Signora dalle Camelie 2: Madame Maeterlinck fece la parte di Camille e io quella di Armand. Mentre mi moriva tra le braccia, ella cominciò a tossire, dapprima sommessamente, poi con impeto crescente, finché la sua tosse divenne cosi contagiosa che si attaccò a me. La scena si trasformò in una specie di gara a chi tossiva di più. Finii per morire io tra le braccia di Camille. Il giorno dell'imbarco mi svegliarono alle otto e mezzo del mattino. Dopo un bagno, fresco e riposato, mi riprese l'entusiasmo: ero in partenza per l'Inghilterra. Mi accompagnava, a bordo dell'Olympic, l'amico Edward Knoblock, autore di Kismet e altre commedie. 1 In cui fair = gentile e bank = riva. (N. d. T.) 2 Camille, 1921. Regia di Ray C. Smallwood, con Rodolfo Valentino e Alla Nazimova. (iV. d. T.)
Sulla nave mi trovai di fronte a una turba di giornalisti; ebbi la sgradevole impressione che sarebbero rimasti con noi per tutto il viaggio: in effetti ne rimasero due, mentre gli altri abbandonarono la nave col pilota. Finalmente rimasi solo nella mia cabina, che era piena di fiori e cestini di frutta spediti dagli amici... Erano passati dieci anni da quando avevo lasciato l'Inghilterra, e proprio su questa nave con la compagnia di Karno; allora viaggiavamo in seconda classe. Ricordo che lo steward ci aveva fatto fare un giro frettoloso della prima, tanto per darci una idea di come viveva l'altra metà. Aveva parlato del lu^so delle cabine private e del loro prezzo proibitivo, e ora io ne occupavo proprio una, diretto in Inghilterra. A Londra ero un tizio di Lambeth, insignificante e sempre ai ferri corti con la vita; ora, ricco e celebre, pensavo che sarebbe stato come vederla per la prima volta. In due o tre ore l'atmosfera divenne tipicamente inglese. Tutte le sere cenavo con Eddie Knoblock al ristorante Ritz anziché nel salone. Il Ritz era à la carte, con champagne e caviale, anitra à la presse, fagia no e gallo cedrone, vini e salse, e crèpes suzette. Non avendo altro da fare, cedevo alla vanità di mettere tutte le sere la cravatta nera. Fu in tali momenti che compresi i vantaggi del danaro e della notorietà. Pensavo di poter distendere i nervi. Ma al quadro avvisi dell' Olympic venivano affissi i bollettini con le notizie del mio viaggio a Londra. In mezzo all'Atlantico si rovesciò sulla nave una valanga di telegrammi con inviti e richieste. L'isterismo si addensava come una nube temporalesca. Il bollettino dell' Olympic riportava articoli dello United News e del Morning Telegraph. Uno diceva: « Chaplin ritorna da conquistatore! Il viaggio da Southampton a Londra sarà una marcia trionfale ». Un altro diceva: « I bollettini quotidiani sulla traversata della nave e le attività di Charlie a bordo sono stati sostituiti da dispacci orari diramati dal transatlantico, mentre le edizioni straordinarie dei giornali circolano per le strade con ampi servizi su quest'ometto dai piedi spropositati ». 3'5
Un altro diceva: « La vecchia canzone giacobita, Charlie is My Dorling 1, compendia la follia chapliniana che ha spezzato l'Inghilterra in quest'ultima settimana, facendosi sempre più acuta col passare delle ore, mentre YOlympic divorava un miglio dopo l'altro portando Charlie a casa ». Un altro diceva: « Questa notte la nebbia ha impedito alYOlympic di attraccare a Southampton e in città ha vegliato un nutrito esercito di ammiratori venuti a ricevere il piccolo attore. La polizia ha disposto speciali sbarramenti per contenere la folla sui dock e alla cerimonia durante la quale Charlie sarà ricevuto dal sindaco... I giornali, come nei giorni precedenti la parata della vittoria, indicano ai loro lettori i punti più favorevoli dai quali la gente potrà vedere Chaplin ». Non ero preparato a una simile accoglienza. Se avessi saputo ciò che mi aspettava, avrei rinviato la visita sino a quando non me ne fossi sentito all'altezza. Ciò che desideravo era rivedere i vecchi luoghi familiari, girare tranquillamente per le vie di Londra, nei quartieri di Kennington e Brixton, alzare gli occhi alla finestra di Pownall Terrace 3, sbirciare nella baracca di legno annerito dove avevo aiutato i taglialegna, sollevare lo sguardo alla finestra del secondo piano in Kennington Road 287 dove ero vissuto con Louise e mio padre; a un tratto, questa era quasi diventata un'ossessione. Finalmente la nave raggiunse Cherbourg! Molti sbarcavano e molti s'imbarcavano: cineoperatori e giornalisti. Che messaggio avevo per l'Inghilterra? Che messaggio per la Francia? Avrei visitato l'Irlanda? Che ne pensavo della questione irlandese? Mi divoravano, letteralmente. Lasciammo Cherbourg per l'Inghilterra, ma il viaggio si svolse con una lentezza esasperante. Di dormire, neanche parlarne. L'una, le due, le 1 Charlie è il mio beniamino.
tre, e io ero sempre sveglio. Le macchine si fermarono, poi ripresero a marcia indietro, infine tacquero del tutto. Fuori, sentivo dei passi rimbombare lungo il corridoio. Teso e perfettamente sveglio, mi affacciai all'oblò. Ma era buio; e non riuscii a vedere niente; però udii delle voci inglesi ! Spuntò l'alba e, vinto dalla stanchezza, mi addormentai, ma solo per un paio d'ore. Quando il cameriere di bordo mi ebbe portato un po' di caffè caldo e i giornali del mattino, ero sveglio e vispo come un'allodola. Un titolo diceva: L'entusiasmo per il ritorno di Chaplin pari a quello del giorno dell'armistizio Un altro: Tutta Londra parla della visita di Chaplin Un altro: Per Chaplin diretto a Londra in programma festose accoglienze E un altro, a grandi caratteri: Guardate nostro figlio... Naturalmente non mancavano le critiche: Invito all'equilibrio In nome del cielo, ritroviamo l'equilibrio. Il signor Chaplin è indubbiamente una persona degna della massima stima, e m'interessa fino a un certo punto sapere perché la nostalgia, che lo ha cosi pateticamente colpito in questo frangente, non si manifestò durante gli anni neri che videro le case della Gran Bretagna in pericolo sotto la minaccia degli unni. Può essere vero, come è stato osservato, che Charlie Chaplin era più utile davanti a una macchina da presa, a fare smorfie, che ad agire da uomo dietro un fucile.
Al porto mi accolse il sindaco di Southampton, poi mi fecero salire frettolosamente sul treno. Finalmente eravamo in viaggio per Londra! Arthur Kelly, il fratello di Hetty, prese posto nel mio scompartimento. Ricordo che contemplai il mutevole panorama dei campi verdi mentre sedevo con Arthur cercando di fare conversazione. Gli dissi che avevo ricevuto una lettera di sua sorella, la quale m'invitava a cena nella loro casa di Portman Square. Mi guardò in modo strano e parve imbarazzato. « Hetty è morta, sai, due mesi fa. » Rimasi scosso, ma in quel momento non riuscii ad assimilarne tutta la tragicità; troppe cose mi assalivano da ogni parte; però ebbi l'impressione di essere stato defraudato di un'esperienza. Hetty era il solo pubblico del passato che avrei voluto incontrare ancora, specie in queste favolose circostanze. Stavamo attraversando i sobborghi di Londra. Guardai ansiosamente fuori del finestrino sforzandomi invano di riconoscere qualche strada. Mescolato alla mia eccitazione si annidava il timore che Londra fosse molto cambiata nel dopoguerra. Ora la mia eccitazione si faceva via via più intensa. Provavo solo un gran senso di attesa. Che cosa mi aspettavo? Avevo la mente in subbuglio, non riuscivo a riflettere. Vedevo solo distintamente i tetti di Londra, ma la realtà non era quella. Ero paralizzato dall'ansia! Entrammo finalmente nella stazione di Waterloo ! Scendendo dal treno vidi in fondo alla banchina una gran folla trattenuta da cordoni e da file di agenti. Tutto vibrava, sottoposto a una violenta tensione. E quantunque non riuscissi a percepire altro che entusiasmo, mi parve di essere afferrato e sospinto lungo la banchina come un malfattore dopo l'arresto. Quando ci avvicinammo alla folla, la tensione cominciò a scaricarsi: « Eccolo! Eccolo! » « II buon vecchio Charlie! ». Allora scoppiarono gli applausi. In mezzo alla baraonda mi caricarono a bordo di un'automobile chiusa insieme con mio cugino Aubrey che non vedevo da quindici anni. Non ebbi la presenza di spirito di ribellarmi:
mi nascondevano agli occhi della folla che aveva atteso tanto a lungo di vedermi. Pregai Aubrey di assicurarsi che si passasse sul ponte di Westminster. Uscendo da Waterloo e percorrendo York Road, notai che le vecchie case erano sparite, e al loro posto c'era un palazzo nuovo, la sede del LCC \ Ma, come un raggio di sole, quando girammo l'angolo di York Road apparve il ponte di Westminster! Era tale e quale, col palazzo del Parlamento che sorgeva solenne nel medesimo posto, maestoso ed eterna. Tutta la scena era identica a come l'avevo lasciata. Mi vennero le lacrime agli occhi. Scelsi il Ritz perché lo avevano appena costruito quand'ero ragazzo. Passando davanti all'ingresso avevo visto di sfuggita gli stucchi e le dorature dell'interno, e da allora mi era rimasta la curiosità di sapere che aspetto avesse* il resto dell'albergo. Una folla enorme attendeva davanti all'albergo, dove tenni un discorsetto. Quando finalmente mi ebbero sistemato nelle mie stanze, l'impazienza di uscire da solo divenne quasi intollerabile. Ma la gente continuava ad assieparsi davanti al Ritz, gridando e battendo le mani, e fui costretto a uscire diverse volte sul balcone, come un sovrano, per ringraziare. Non è facile descrivere come andarono le cose in quelle straordinarie circostanze. Il mio appartamento era gremito di amici, ma il mio unico desiderio era quello di piantarli in asso. Alle quattro del pomeriggio li informai che avrei fatto un pisolino: ci saremmo rivisti la sera a cena. Appena se ne furono andati mi cambiai frettolosamente d'abito, presi il montacarichi dell'albergo e uscii senza farmi notare dalla porta di servizio. M'incamminai subito per Jermyn Street, salii a bordo di un tassi e via, giù per Haymarket, attraverso Trafalgar Square, giù per Parliament Street e sul ponte di Westminster. Il tassi girò un angolo, e finalmente ecco Kennington Road ! Eccola là ! Incredibile! Nulla era mutato. C'era la Christ Church all'angolo di 1 London County Council (Consiglio della Contea di Londra). (N.d.T.) 3'9
Westminster Bridge Road! C'era il Tankard all'angolo di Brook Street! Fermai il tassi un po' prima di Pownall Terrace 3. M'invase una strana calma mentre mi avvicinavo alla casa a piedi. Indugiai un attimo a contemplare la scena. Pownall Terrace 3 ! Eccola là, che sembrava un vecchio teschio spolpato. Alzai gli occhi alle due finestre dell'ultimo piano : la soffitta dove mia madre, debole e denutrita, aveva smarrito la ragione. Le finestre erano sbarrate. Non tradivano segreti e sembravano indifferenti all'uomo che rimase là a guardarle per tanto tempo, eppure il loro silenzio valeva più di mille parole. Alla fine mi si fecero intorno alcuni bambinetti, incuriositi, e fui costretto a rimettermi in cammino. Mi diressi verso l'ex-scuderia dietro Kennington Road dove un tempo avevo aiutato gli spaccalegna. Ma la porta era stata murata, i taglia legna non c'erano più. Poi raggiunsi il 287 di Kennington Road, dove Sydney e io eravamo vissuti con nostro padre, Louise e il loro bambino. Alzai lo sguardo al secondo piano, sulle finestre della stanza che conosceva cosi bene la mia disperazione infantile. Come sembravano innocue, ora, mute ed enigmatiche. Poi proseguii fino a Kennington Park, passando davanti all'ufficio postale dove avevo un libretto di risparmio con sessanta sterline: soldi che ero riuscito a mettere via fin dal lontano 1908, e che si trovavano ancora là. Kennington Park! Nonostante gli anni, era sempre verde di tristezza. Poi Kennington Gate, il luogo del mio primo appuntamento con Hetty. Indugiai un attimo a guardare un tram che stava fermandosi. Sali qualcuno, ma nessuno scese. Poi via a Brixton Road, al numero 15 di Glenshaw Mansions, l'appartamento che avevo arredato insieme a Sydney. Ma non provavo più alcuna emozione; mi restava solo la curiosità. Al ritorno mi fermai allo Horns a bere qualcosa. Ai suoi tempi era stato un locale piuttosto elegante, col banco di mogano lustro, belle spec
chiere e la sala biliardi. Era nel salone che mio padre aveva bevuto l'ultimo bicchiere. Ora lo Horns aveva un'aria piuttosto malandata, ma tutto era rimasto intatto. A due passi dal locale c'era il centro dei miei due anni d'istruzione, la scuola comunale di Kennington Road. Diedi un'occhiata al campo per la ricreazione; la sua grigia toppa di asfalto si era rimpicciolita ulteriormente nella stretta di altri fabbricati. Mentre giravo per Kennington, tutta la vita ivi trascorsa mi parve un sogno, mentre la realtà era costituita dalle mie esperienze negli Stati Uniti. Eppure provai un senso di lieve disagio. Come se quelle vie miserabili, cosi care al mio cuore, avessero ancora il potere di intrappolarmi nelle sabbie mobili della loro disperazione. Si sono scritte molte sciocchezze sulla malinconia e sulla solitudine di cui tanto soffrirei. Forse mi sono circondato di troppi amici: la celebrità li attira indiscriminatamente. Mi piacciono gli amici come mi piace la musica: quando sono in vena. È facile aiutare un amico in difficoltà, ma non è sempre agevole dedicargli il proprio tempo. Quando ero al colmo della notorietà, amici e conoscenti mi si affollarono eccessivamente intorno. Ed essendo estroverso e introverso insieme, nei momenti in cui prevaleva quest'ultimo stato d'animo dovevo cambiare aria immediatamente. Qui sta forse la spiegazione degli articoli in cui si è scritto che ero elusivo, solitario e incapace di vera amicizia. Tutte sciocchezze. Ho un paio di ottimi amici che rischiarano i miei orizzonti, e quando sono con loro me la passo a meraviglia. Ma le tinte della mia personalità sono state più o meno caricate a seconda della fantasia dello scrittore. Ad esempio, Somerset Maugham ha scritto: Charlie Chaplin... la sua comicità è semplice, dolce, spontanea. Eppure si ha sempre l'impressione che sotto sotto serpeggi una profonda malinconia. Chaplin è un personaggio dall'umore instabile, e non occorre la sua faceta asserzione: « accidenti, ieri sera ho avuto una tale crisi di malinconia che non sapevo dove battere la testa » per farti capire che il suo umorismo è permeato di tristezza. 14. 321
Non ti dà l'impressione di un uomo felice. Secondo me, soffre di nostalgia degli slums. La fama di cui gode, la ricchezza, lo imprigionano in un modo di vivere che rasenta la costrizione. Io credo che ripensi alla libertà della sua difficile gioventù, con la sua miseria e le sue amare privazioni, con un desiderio che non potrà mai essere soddisfatto. Per lui le strade della Londra meridionale sono un teatro di monellerie, gaiezza e avventure stravaganti... Lo vedo tornare a casa e chiedersi che diavolo fa in questa strana dimora. Ho il sospetto che l'unica casa che egli potrà mai considerare tale sia un secondo piano di Kennington Road. Una sera, a Los Angeles, andammo insieme a fare un giro per le strade, e i nostri passi finirono per portarci nel quartiere più povero della città. C'erano sordide case popolari e le botteghe, squallide e vistose, in cui si vendono le merci che i poveri comprano di giorno in giorno. Il suo viso s'illuminò e la sua voce prese un tono allegro quando disse : « Perdiana, questa si che è vita, eh? Tutto il resto non è che mistificazione 1 ». L'atteggiamento di chi vuol rendere la miseria attraente per gli altri è piuttosto antipatico. Devo ancora conoscerlo, un povero che abbia nostalgia della povertà, o che vi veda la libertà. Né Maugham riuscirebbe mai a convincere qualsiasi povero che celebrità e ricchezza significano costrizione. Io non trovo nessuna costrizione nella ricchezza: al contrario, vi trovo molta libertà. Non credo che Maugham attribuirebbe idee cosi false a un qualsiasi personaggio dei suoi romanzi, anche del più scadente. Frasi tipo « le strade della Londra meridionale sono un teatro di monellerie, gaiezza e avventure stravaganti » hanno il sapore delle briose canzonature di Marie-Antoinette. Non ho trovato la miseria né attraente né edificante. Non mi ha insegnato altro che a falsare i valori, a sopravvalutare le virtù e le grazie dei ricchi e dei cosiddetti ceti abbienti. Ricchezza e celebrità, al contrario, mi hanno insegnato a vedere il mondo nella giusta prospettiva, a scoprire che gli uomini importanti, quando li avvicinavo, erano a loro modo deficienti quanto il resto di noi. Ricchezza e celebrità mi hanno anche insegnato a disdegnare le 1 La battuta che mi si attribuisce non è esatta. Eravamo capitati nel quartire messicano e la mia osservazione fu: « C'è più vita qui che a Beverly Hills ». (N. d. A.)
insegne della spada, del bastone da passeggio e del frustino da cavallerizzo come sinonimi di snobismo, a riconoscere che non basta l'accento preso al college per valutare i meriti e l'intelligenza di un uomo, e la paralizzante influenza che questo mito ha esercitato sul cervello della borghesia inglese, a sapere che l'intelligenza non deriva necessariamente dall'istruzione o dalla conoscenza dei classici. A dispetto dell'assunto di Maugham, come chiunque altro io sono ciò che sono: un individuo, unico e diverso, con una storia diretta d'impulsi e suggestioni ancestrali; una storia di sogni, desideri e di particolari esperienze, delle quali io sono il totale. Arrivato a Londra, mi trovai continuamente in compagnia di amici di Hollywood. Volevo cambiare, fare nuove esperienze, vedere facce nuove; sfruttare il fatto che ero una celebrità. Avevo un solo appuntamento, quello con H. G. Wells. Dopodiché, ero libero di andare dove volevo, con la dubbia speranza di conoscere altra gente. « Ti ho organizzato una cena al Garrick Club » disse Eddie Knoblock. « Attori, artisti e autori » dissi scherzando. « Ma dov'è quest'alta società inglese, dove sono queste ville in campagna e questi ricevimenti ai quali nessuno m'invita? » Volevo penetrare nella sfera più raffinata del «bel vivere»: non da snob, ma da turista. Il Garrick Club aveva un'atmosfera ricca di chiaroscuro, penombra, muri di quercia e quadri a olio: un rifugio tenebroso, nel quale conobbi Sir James Barrie, E. V. Lucas, Walter Hackett, George Frampton, Edwin Lutyens, Squire Bancroft e altri illustri signori. Anche se si dimostrò una faccenda piuttosto noiosa, rimasi estremamente commosso dal toccante tributo resomi con la loro presenza da questi distinti gentiluomini. Ma non ebbi l'impressione che la serata fosse riuscita molto bene. Quando si riuniscono insigni personaggi, occorrono un affiatamento e un'intesa non facili da raggiungere se l'ospite d'onore, come in quel
la circostanza, era un celebre parvenu che aveva insistito per non fare discorsi postprandiali; forse fu di questo che si senti la mancanza. Durante la cena Frampton, lo scultore, diede fondo a tutte le risorse della sua brillante conversazione; ma stentò a rischiarare la cupa atmosfera del Garrick Club, mentre tutti gli altri, me compreso, sedevano mangiando tristemente prosciutto bollito e budino di melassa. Nella mia prima intervista alla stampa inglese avevo detto inavvertitamente che ero tornato a rivedere i luoghi della mia infanzia, a risentire il sapore dell'anguilla marinata e del budino di melassa. Di conseguenza mi servirono budino di melassa al Garrick Club; al Ritz; a casa di H. G. Wells; e persino al cenone offerto da Sir Philip Sassoon per dessert ci diedero budino di melassa. Presto la comitiva si sciolse e Eddie Knoblock m'informò sottovoce che Sir James Barrie sarebbe stato lieto di riceverci nel suo appartamento all'Adelphi Terrace per una tazza di tè. L'appartamento di Barrie, formato da un'ampia stanza con una bellissima vista sul Tamigi, sembrava un atelier. Al centro del locale c'era una stufa rotonda il tubo della quale raggiungeva il soffitto. Egli ci condusse a una finestra che dava su un'angusta traversa con un'altra finestra proprio dirimpetto. « Quella è la camera da letto di Shaw » disse maliziosamente con il suo accento scozzese. « Quando vedo la luce accesa tiro contro la finestra dei noccioli di ciliegia o di prugna. Se lui ha voglia di chiacchierare, l'apre, e ci mettiamo a spettegolare un pochino tutti e due come comari affacciate al cortile di casa loro; se non ne ha voglia, non mi dà retta o spegne la luce. Di solito lo chiamo tre volte, poi smetto. » A Hollywood la Paramount stava per girare una versione cinematografica di Peter Pan. « Peter Pan » dissi a Barrie « ha possibilità ancora più grandi come film che come opera teatrale » e lui annui. Desiderava espressamente una scena in cui si vedesse Wendy che raccoglie alcune fate nella corteccia di un albero. Quella sera Barrie disse anche: « Perché ha inserito nel Monello la sequenza del sogno? Spezza la continuità della storia ».
« Perché sono stato influenzato da A Kiss for Cinderella 1 » risposi con franchezza. Il giorno seguente uscii per acquisti con Eddie Knoblock, il quale propose di fare una capatina da Bernard Shaw. Non avevamo alcun appuntamento. « Andiamo direttamente a casa sua » disse Eddie. Alle quattro suonò il campanello in Adelphi Terrace. Nell'attesa mi venne un improvviso attacco di fifa. « Un'altra volta » dissi, e scappai a gambe levate, inseguito da Eddie il quale tentò invano di assicurarmi che non c'era nulla da temere. Fu solo nel 1931 che ebbi il piacere d'incontrare Shaw. L'indomani mattina mi svegliò il telefono che suonava nel soggiorno, poi udii la voce metallica del mio segretario americano. « Chi?... Il principe di Galles? » C'era anche Eddie, che si vantava di conoscere a menadito l'etichetta e tolse il ricevitore dalle mani di Tom. Sentii la sua voce che diceva: « Chi parla? Oh, si. Stasera? Grazie! ». Poi annunciò trafelato al mio segretario che il principe di Galles sarebbe stato lieto d'invitare il signor Chaplin a cena a casa sua per quella sera, e si avviò verso la mia stanza da letto. « Non lo svegli adesso » disse il mio segretario. « Buon Dio, ragazzo, si tratta del principe di Galles ! » disse Eddie, indignato, e gli fece un fervorino sull'etichetta britannica. Un momento dopo sentii girare la maniglia dell'uscio della mia camera e finsi di essermi svegliato solo allora. Eddie entrò e annunciò con simulata indifferenza, trattenendo a stento l'entusiasmo : « Non prendere impegni per questa sera. Sei invitato a cena dal principe di Galles ». Ostentando la stessa noncuranza gli dissi che sarebbe stato piuttosto difficile, perché ero già d'accordo con H. G. Wells per cenare con lui. Eddie ignorò le mie parole e ripete l'annuncio. Naturalmente ero emozionato, al pensiero di cenare col principe a Buckingham Palace ! « Mi 1 Un bacio per Cenerentola.
viene il sospetto che qualcuno voglia prenderci in giro » dissi « perché appena ieri sera leggevo che il principe era in Scozia, a caccia. » Eddie prese di colpo un'aria sciocca. « Forse sarà meglio telefonare a palazzo per assicurarsene. » Tornò con un'espressione impenetrabile e annunciò freddamente: « È vero. È ancora in Scozia ». Quel mattino si sparse la notizia che Fatty Arbuckle, il mio socio alla Keystone Company, era stato accusato di omicidio. Che assurdità: conoscevo Roscoe per un buontempone grasso e cordiale che non avrebbe fatto male a una mosca, e quando m'intervistarono sulla faccenda espressi alla stampa questa opinione. Arbuckle fini per essere completamente scagionato, ma l'incidente gli rovinò la carriera: benché fosse riuscito a riabilitarsi presso il pubblico, la vicenda pretese il suo pedaggio e in capo a un anno o pressappoco Arbuckle mori. Nel pomeriggio avevo appuntamento con Wells alla sede della Oswald Stoll Theatres, dove dovevamo vedere un film tratto da uno dei suoi racconti. Mentre mi avvicinavo notai una fitta folla. Ben presto fui spinto a viva forza in un ascensore e catapultato in un piccolo ufficio zeppo di gente. Il pensiero che il nostro primo incontro avvenisse sotto tali auspici mi riempi di sgomento. Wells era seduto, calmissimo, a una scrivania, con gli occhi tra il blu e il viola dolci e ammiccanti, e sembrava un tantino imbarazzato. Prima che potessimo stringerci la mano c'investi una scarica di lampi al magnesio, mentre i fotografi bloccavano il passaggio. Wells si sporse verso di me e mormorò: « I capri espiatori siamo noi ». Poi fummo introdotti in una sala di proiezione e verso la fine del film Wells bisbigliò: « Che gliene pare? ». Gli dissi francamente che non era gran che. Quando accesero la luce, Wells si piegò frettolosamente su di me. « Dica una parola buona sul ragazzo. » In effetti il ragazzo, George K. Arthur, era l'unico pregio del film. L'atteggiamento di Wells verso il cinema era di benevola tolleranza. « Non esiste un brutto film » diceva « è già abbastanza straordinario il fatto che si muovano! »
Quel pomeriggio non ci fu la minima possibilità di scambiare quattro chiacchiere. Ma lo stesso giorno, più tardi, ricevetti una comunicazione: Non dimentichi la cena. Può gettarsi un soprabito sulle spalle, se lo ritiene opportuno, e sgattaiolare dentro verso le 7,30, in modo che si possa cenare in pace. Quella sera era presente anche Rebecca West. Dapprima la conversazione fu un po' impacciata, ma finalmente il ghiaccio si ruppe. Wells parlò della Russia, dov'era appena stato. « II progresso è lento » disse. « È facile pubblicare manifesti ideologici ma difficile metterli in pratica. » « Qual è la soluzione? » chiesi. « Istruzione. » Gli dissi che non ero bene informato sul socialismo, e osservai scherzosamente che vedevo pochi vantaggi in un sistema nel quale l'uomo deve lavorare per vivere. « Francamente, ne preferisco uno che gli permetta di vivere senza lavorare. » Lui rise. « E i suoi film? » « Quello non è un lavoro: è un gioco da ragazzi » dissi, in tono faceto. Mi chiese che programmi avevo per la mia vacanza europea. Gli dissi che pensavo di andare a Parigi, poi in Spagna a vedere una corrida. « Mi hanno detto che la tecnica è bella e drammatica. » « Verissimo, ma molto crudele con i cavalli » disse lui. « Perché tanta pietà per i cavalli? » Mi sarei preso a calci per aver fatto un'osservazione tanto stupida; fu uno scatto di nervi. Vidi anche che Wells aveva compreso. Ma per tutto il viaggio di ritorno mi rimproverai per essere stato cosi somaro. Il giorno dopo l'amico di Eddie Knoblock, Sir Edwin Lutyens, il celebre architetto, venne in albergo. Stava lavorando al progetto di un nuovo palazzo governativo per la città di Delhi, ed era appena tornato da Buckingham Palace dopo un abboccamento col re Giorgio V. Aveva con sé un gabinetto in miniatura che funzionava perfettamente; era
alto circa quindici centimetri, con una cassetta contenente un piccolo bicchiere da vino pieno d'acqua, e quando si tirava la catena l'acqua scrosciava come in un normale gabinetto. I sovrani ne erano rimasti cosi affascinati e divertiti, tirando la catena e riempiendo ripetutamente la cassetta, che Lutyens aveva proposto di costruirvi intorno una casa di bambola. Poi si mise d'accordo con diversi importanti artisti inglesi affinchè dipingessero dei quadri in miniatura per le stanze principali. Ogni installazione domestica venne riprodotta in miniatura. Quando la casa fu finita la regina ne autorizzò l'esposizione in pubblico, riscuotendo grosse somme di danaro che vennero devolute in beneficenza. Dopo qualche tempo la marea dei miei impegni mondani cominciò a recedere. Mi ero incontrato con i letterati e le più illustri personalità, e avevo rivisto i luoghi della mia infanzia; ormai sembrava non mi restasse altro da fare che salire e scendere dai tassi per sfuggire all'assedio della folla; e poiché Eddie Knoblock era partito per Brighton, per togliermi da quella baraonda decisi improvvisamente di fare i bagagli e andarmene a Parigi. Partimmo senza tanta pubblicità - cosi almeno credevo - ma a Calais ci accolse una gran folla. « Vive Charlot! » gridavano mentre scendevo dalla passerella. La traversata era stata piuttosto difficile, e mezzo Charlot giaceva nella Manica; ciò nondimeno, salutai con la mano e sorrisi debolmente. Tra urti e spintoni mi caricarono sul treno. A Parigi mi accolsero un'altra folla in delirio e un cordone di poliziotti. Quasi travolto dall'entusiasmo popolare riuscii finalmente, con l'aiuto degli agenti, a salire su un tassi. Fu una cosa divertente e, a dire il vero, me la godetti un mondo. Ma era più di quanto potessi sopportare. Anche se fu un'accoglienza commovente, alla fine ero letteralmente esausto. Al Claridge's il telefono suonava insistentemente ogni dieci minuti. Era la segretaria della signorina Anne Morgan. Sapevo che doveva trattarsi di qualche seccatura, poiché Anne era la figlia di J. P. Morgan, e cosi cercammo di parare l'attacco della segretaria. Ma la segretaria non
si diede per vinta: potevo concedere un appuntamento alla signorina Anne Morgan? Non mi avrebbe fatto perdere tempo. Cedetti, promettendo di vederla nel mio albergo alle quattro meno un quarto. Ma la signorina Morgan era in ritardo, e perciò dopo dieci minuti feci per andarmene. Mentre attraversavo l'atrio il direttore mi raggiunse di corsa, molto preoccupato. « La signorina Anne Morgan è qui per vederla, signore. » Ero seccato dall'insistenza e dalla faccia tosta della signorina Morgan: e soprattutto dal suo ritardo ! La salutai con un sorriso. « Mi scusi, ma ho un appuntamento alle quattro. » « Oh, davvero? » disse lei. « Be', non la tratterrò più di cinque minuti. » Consultai l'orologio: erano le quattro meno cinque. « Forse potremmo sederci un momento » disse lei, e cominciò a parlare mentre cercavamo un posto a sedere nell'atrio. « Sto contribuendo in qualche modo a una raccolta di fondi per la ricostruzione della Francia devastata e se potessimo avere il suo film, 77 monello, per una serata di gala al Trocadero, con la sua partecipazione, sono certa che incasseremmo migliaia di dollari. » Le dissi che poteva avere il film per tale occasione, ma di non contare sulla mia presenza. « Ma la sua presenza ci farà incassare qualche migliaio di dollari in più » insistè lei « e sono certa che le conferiranno una decorazione. » Mi sentii invadere da uno spiritello maligno e la guardai fisso. « Ne è certa? » La signorina Morgan si mise a ridere. « Ci si può solo raccomandare al governo » disse « e, si capisce, io farò del mio meglio. » Guardai l'orologio e le tesi la mano. « Mi rincresce terribilmente, ma devo andare. Comunque sarò a Berlino nei prossimi tre giorni, dove lei potrà sempre rintracciarmi. » E con questa enigmatica osservazione la salutai. So che fu una cattiveria, da parte mia, e appena ebbi lasciato l'albergo mi pentii di tanta insolenza.
Le porte dell'alta società si aprono di solito per un caso che, come una scintilla da una pietra focaia, provoca una conflagrazione di impegni mondani: e sei « dentro ». Ricordo ciò che mi dissero due signore venezuelane - ragazze semplici — sul modo in cui avevano « sfondato » nel bel mondo di New York. A bordo di un transatlantico avevano conosciuto uno dei Rockefeller, che le munì di una lettera di presentazione a certi amici: si avviò cosi tutto il meccanismo. Il segreto del loro successo, mi confidò anni dopo una di esse, fu che non attentarono mai alla virtù degli uomini ammogliati; di conseguenza le padrone di casa di New York le adoravano e le invitavano dappertutto: trovarono loro persino un marito. Quanto a me, la mia entrée nell'alta società inglese avvenne in modo del tutto inaspettato, mentre stavo facendo il bagno al Claridge's. Georges Carpentier, che avevo conosciuto a New York prima dell'incontro con Jack Dempsey, venne annunciato ed entrò nella stanza. Dopo un caloroso saluto m'informò sottovoce che seduto nel soggiorno c'era un amico che desiderava presentarmi, un inglese « très important en Angleterre ». Mi gettai sulle spalle un accappatoio, e fu cosi che conobbi Sir Philip Sassoon. In questo modo nacque una carissima amicizia che durò oltre trent'anni. Quella sera cenai con Sir Philip e sua sorella, Lady Sybil Rocksavage, e l'indomani partii per Berlino. A Berlino fu divertente la reazione del pubblico. Mi spogliarono di tutto tranne che della mia personalità, e quella non potè procurarmi nemmeno un buon tavolo al ristorante, perché là i miei film non erano stati ancora proiettati. Fu solo quando mi riconobbe un ufficiale americano, il quale al colmo dell'indignazione mise lo sbalordito proprietario al corrente della mia identità, che almeno ci tolsero da una corrente d'aria. Fu anche divertente vedere la reazione del direttore quando quelli che mi riconobbero si radunarono intorno al nostro tavolo. Uno di essi, un tedesco che era stato prigioniero in Inghilterra e vi aveva visto due o tre delle mie comiche, gridò improvvisamente « Schaarlie ! » e, rivolto agli attoniti clienti, soggiunse : « Ma sapete chi 33«
è questo? Schaarlie! ». Poi, travolto dall'entusiasmo, mi abbracciò e mi baciò. Ma la sua gioia lasciò freddi gli altri commensali. Fu solo quando Pola Negri, la diva del cinema tedesco, che era al centro di tutti gli sguardi, m'invitò al suo tavolo, che gli astanti mostrarono un certo < interesse. Il giorno dopo ricevetti una misteriosa comunicazione. Diceva: Caro Charlie, amico mio, mi sono accadute un'infinità di cose da quando ci siamo conosciuti a New York, al ricevimento di Dudley Field Malone. In questo momento sono all'ospedale, molto malato, per cui ti prego di venirmi a trovare. Sarà una gran gioia per me... Lo scrivente forniva l'indirizzo dell'ospedale firmandosi: « George ». Dapprima non capii di chi potesse trattarsi. Poi mi venne in mente: ma certo, era George il bulgaro, quello che doveva tornare in prigione per diciotto anni. Il tenore della lettera lasciava intendere che George avesse un gran bisogno di soldi. Pensai dunque di portare con me 500 dollari. All'ospedale, con mia sorpresa, venni introdotto in una stanza spaziosa con una scrivania e due telefoni, dove mi accolsero due individui in borghese, ben vestiti, che, come appresi più tardi, erano i segretari di George. Uno di essi mi fece passare nella stanza attigua, dove George era a letto. « Amico mio ! » esclamò, con voce rotta dall'emozione « come sono contento che tu sia venuto. Non ho mai dimenticato la simpatia e la gentilezza che mi hai dimostrato alla festa di Dudley Malone! » Poi diede ordine al segretario di lasciarci soli. Non avendo mai accennato alla sua partenza dagli Stati Uniti, ritenni che sarebbe stato indiscreto fare domande; inoltre, gli interessava troppo avere notizie dei suoi amici di New York. Ero confuso; non capivo la situazione; era come se avessi saltato vari capitoli di un libro. Mi diede la chiave del mistero quando mi spiegò che adesso era un agente del governo bolscevico e si trovava a Berlino per acquistare locomotive e ponti in acciaio. Me ne andai con i miei 500 dollari ancora intatti.
Berlino era deprimente. Vi regnava ancora un'atmosfera di sconfitta, con il suo tragico seguito di soldati senza braccia e senza gambe che chiedevano l'elemosina quasi a ogni angolo di strada. La segretaria della signorina Morgan cominciò a tempestarmi di telegrammi carichi di ansietà, perché la stampa stava già annunciando la mia partecipazione alla serata del Trocadero. Risposi telegraficamente che non mi ero preso nessun impegno, e che per non deludere il pubblico francese avrei dovuto avvertirlo del fatto. Finalmente giunse un telegramma. « Ho l'assoluta certezza che se sarà presente lei verrà decorato ma le assicuro che non è stato facile. Anne Morgan. » Perciò, dopo tre giorni a Berlino, tornai a Parigi. La sera della « prima » al Trocadero ero in un palco con Cécile Sorel, Anne Morgan e molte altre persone. Cécile accostò la bocca al mio orecchio per mettermi a parte di un segreto custodito gelosamente: « Stasera le conferiranno un'onorificenza ». « Che gioia ! » dissi umilmente io. Un uggioso documentario, che sembrava non dovesse finire più, ci fece arrivare all'intervallo. E dopo che ebbi sofferto una noia interminabile la luce si accese e due funzionari mi scortarono fino al palco del ministro. Ci accompagnavano diversi giornalisti, uno dei quali, un furbo corrispondente americano, non cessò un momento di sussurrarmi dentro il colletto: « Ti daranno la Legion d'Onore, figliolo ». Mentre il ministro pronunciava il suo discorso, l'amico continuò a mormorare: « Ti hanno imbrogliato, ragazzo, quello non è il colore giusto... Quella li la danno agli insegnanti. Per quella non ti scoccano i bacioni sulle guance. Ci vuole il nastrino rosso, figliolo ». In realtà, fui molto felice di ricevere gli onori riservati alla categoria degli insegnanti. Il certificato dichiarava: « Charles Chaplin, drammaturgo, artista, Officier de PInstruction Publique... » ecc. Ricevetti una gentilissima lettera di ringraziamenti da parte di Anne Morgan e un invito a pranzo per l'indomani alla Villa Trianon di Versailles : ci saremmo visti là. Fu un pot-pourri di « bella gente » : il
principe Giorgio di Grecia, Lady Sarah Wilson, il marchese di TalleyrandPérigord, il comandante Paul Louis Weiller, Elsa Maxwell e altri. Non ricordo ciò che accadde o si disse in tale festevole occasione: ero troppo occupato a fare sfoggio del mio fascino. Il giorno seguente l'amico Waldo Frank venne in albergo con Jacques Copeau, capo di un nuovo movimento nel teatro francese. Insieme, quella sera, andammo al circo a vedere alcuni ottimi clown; poi, più tardi, cenammo nel quartiere latino con la compagnia di Copeau. Il giorno dopo dovevo essere a Londra per un pranzo con Sir Philip Sassoon e Lord e Lady Rocksavage, dove avrei conosciuto Lloyd George. Ma l'aereo fu costretto ad atterrare sulla costa francese a causa della nebbia sulla Manica e arrivammo con tre ore di ritardo. Una parola su Sir Philip Sassoon. Era stato primo segretario di Lloyd George durante la guerra. Aveva pressappoco la mia età ed era un personaggio pittoresco, bello e dall'aria esotica. Quale rappresentante di Brighton e Hove aveva un seggio in Parlamento. Pur essendo uno degli uomini più ricchi d'Inghilterra non amava stare in ozio, ma si faceva in quattro per riempire la sua giornata di interessanti attività. A Parigi, la prima volta che lo incontrai, avevo detto che ero esausto e sentivo il bisogno di isolarmi; ero anche molto nervoso, e mi lagnai che persino il colore delle pareti dell'albergo mi dava ai nervi. Lui si mise a ridere. « Di che colore le vorrebbe? » « Giallo e oro » dissi per ischerzo. Lui allora si offerse di ospitarmi nella sua tenuta di Lympne, dove avrei potuto sottraimi alla curiosità della gente. Con stupore, quando vi arrivai scopersi che la mia stanza era stata tinteggiata nei colori pastello giallo e oro. La tenuta di Lympne era straordinariamente bella, la casa arredata con sgargiante temerarietà. Philip poteva farlo con successo perché aveva un gusto squisito. Ricordo come rimasi impressionato dal lussuoso appartamento che mi fu messo a disposizione: lo scaldavivande acceso per tenere il brodo in caldo nel caso mi venisse fame durante la notte e al mattino due robusti camerieri che spingevano nella stanza un car
rello trasformato in un'autentica rosticceria, con un assortimento di cereali americani, costolette di pesce, uova e pancetta. Avevo osserva to che da quando mi trovavo in Europa sentivo la mancanza delle fo caccine di frumento americane, ed eccole là, portate al mio capezzale, calde e fumanti, col burro e lo sciroppo d'acero. Pareva di vivere in un mondo da Mille e una notte. Sir Philip sbrigava i suoi affari privati con una mano nella tasca della giacca, tastando le perle di sua madre: un filo lungo più di novanta centimetri, in cui ogni perla aveva le dimensioni dell'unghia di un pollice. « Le porto con me per mantenerle in vita » disse. Quando mi fui riposato, mi chiese se volevo accompagnarlo all'ospedale di Brighton a visitare gli spastici incurabili che erano stati feriti durante la guerra. Fu una cosa molto triste contemplare quei visi giovani e trovarvi la morte di ogni speranza. Un ragazzo era cosi paralizzato che dipingeva con un pennello in bocca, l'unica parte del corpo che era in grado di usare. Un altro aveva i pugni cosi stretti che gli infermieri erano stati obbligati a somministrargli un sedativo per tagliargli le unghie affinchè non gli crescessero nel palmo della mano. Alcuni pazienti erano in condizioni cosi gravi che io non fui autorizzato a vederli: ma Sir Philip si. Dopo Lympne tornammo insieme a Londra, in macchina, nella sua casa di Park Lane, dove teneva l'annuale mostra di pittura Four Georges per beneficenza. Era una casa magnifica con un'ampia serra tappezzata di giacinti azzurri. Il secondo giorno che vi pranzai i giacinti erano stati cambiati e avevano un altro colore. Visitammo lo studio di Sir William Orpen, dove vidi il ritratto della sorella di Philip, Lady Rocksavage, di una bellezza smagliante. La mia reazione fu piuttosto negativa nei confronti di Orpen, il quale ostentò un'espressione incredula ed ottusa che mi parve simulata e arrogante. Un'altra visita fu quella alla casa di campagna di H. G. Wells, nella tenuta della contessa di Warwick, dove egli viveva con la moglie e i due figli che erano appena tornati da Cambridge. Mi avevano invitato a passarvi la notte.
Nel pomeriggio giunsero più di trenta membri del corpo insegnante di Cambridge, che sedettero tutti insieme in giardino come un gruppo scolastico in posa per la foto ricordo, osservandomi in silenzio come avrebbero fatto per un essere di un altro pianeta. La sera, la famiglia Wells face un gioco intitolato « Animale, vegetale o minerale » che mi diede l'impressione di essere sottoposto a un test per la misura del quoziente d'intelligenza. Ma quelle che mi rimasero più impresse nella memoria furono le lenzuola gelate del mio letto quando mi coricai a lume di candela. Fu la notte più fredda che io abbia mai passato. Il mattino dopo, appena mi fui sgelato, H. G. mi chiese come avevo dormito. « Benissimo » risposi educatamente. « Tanti dei nostri ospiti si lamentano che la stanza è fredda » disse innocentemente lui. « Fredda non direi : gelida ! » Si mise a ridere. Qualche altro ricordo di quella visita a H. G. Il suo studio, piccolo e semplice, oscurato dall'ombra degli alberi, fuori, e sotto la finestra il suo antiquato scrittoio, dal piano inclinato; la moglie, fragile e graziosa, che mi faceva da cicerone in una chiesa dell'undicesimo secolo; il colloquio con un vecchio incisore che stava prendendo i calchi delle iscrizioni in ottone su alcune pietre tombali; i daini che vagavano a branchi nei dintorni della casa; l'osservazione di St John Ervine, a pranzo, sull'emozione da lui provata di fronte a una fotografia a colori, e la mia risposta, che non la potevo soffrire; H. G. che leggeva il testo della conferenza di un professore di Cambridge e la mia battuta, quando dissi che il suo stile prolisso sembrava quello di un monaco del quattrocento ; e la storiella di Wells su Frank Harris. Wells disse che quando era ancora un giovane autore agli inizi della carriera, povero e scono sciuto, aveva scritto uno dei primi articoli scientifici sul tema della quarta dimensione, che sottopose senza successo a parecchi direttori di periodici. Finalmente ricevette un biglietto da Frank Harris, che lo pregava di passare dal suo ufficio.
« Benché fossi quasi in bolletta » disse Wells « mi ero comprato per l'occasione un cilindro di seconda mano. Harris mi salutò con un: "Dove diavolo ha pescato quel cappello? E perché diavolo crede di poter vendere articoli del genere alle riviste?". Gettò sulla scrivania il mio manoscritto. "È troppo intelligente: nessuno cerca l'intelligenza in questo mestiere!" Avevo posato con cura il cappello sull'angolo dello scrittoio, e durante il colloquio Frank continuò a battere la mano sulla scrivania per sottolineare il suo discorso, tanto che il mio cilindro saltellava di qua e di là. Ero paralizzato dal terrore che da un momento all'altro il suo pugno potesse abbattersi in pieno su di esso. Tuttavia comprò l'articolo e me ne commissionò degli altri. » A Londra conobbi Thomas Burke, autore di Limehouse Nights \ Burke era un ometto silenzioso, impenetrabile, con un viso che mi faceva pensare al ritratto di Keats. Sedeva immobile, guardando di rado la persona che parlava. Eppure m'indusse a sfogarmi. Provai il desiderio di aprirgli il mio cuore, e lo feci. Con Burke ero a mio perfetto agio, più ancora che con Wells. Passeggiavamo insieme per le vie di Limehouse e Chinatown senza che lui dicesse una parola. Era il suo modo d'illustrarmi quei quartieri. Era un uomo diffidente, e non seppi mai bene che cosa pensasse di me fino a tre o quattro anni dopo, quando mi spedi il suo libro semi-autobiografico dal titolo The Wind and the Rain 2. La sua infanzia era stata simile alla mia. Allora compresi che gli piacevo. Quando si spense l'entusiasmo suscitato dalla mia visita, invitai a cena mio cugino Aubrey e i suoi familiari, e il giorno dopo andai a trovare Jimmy Russell, un ex-collega dei tempi di Karno, che gestiva un pub. Poi cominciai a pensare di fare ritorno negli Stati Uniti. Mi rendevo ormai conto che a trattenermi ancora a Londra l'ozio mi avrebbe reso insofferente. Ero riluttante a lasciare l'Inghilterra. Ma la fama non poteva darmi di più. Ritornavo carico di soddisfazioni, J Notti di Limehouse. 2 II vento e la pioggia.
anche se un poco triste per ciò che mi lasciavo dietro, non solo gli abbracci e le acclamazioni dei ricchi e delle celebrità che mi avevano intrattenuto, ma l'affetto sincero e l'entusiasmo delle folle inglesi e francesi che mi avevano atteso alla stazione di Waterloo e alla Gare du Nord; evitare gli ammiratori e lasciarmi caricare su un tassi senza avere la possibilità di rispondere al loro saluto mi cagionava lo stesso dolore che avrei provato a calpestare un tappeto di fiori. E mi lasciavo dietro anche il mio passato. Quella visita a Kennington, al n. 3 di Pownall Terrace, aveva completato qualcosa dentro di me; adesso ero contento di tornare in California e di rimettermi al lavoro, perché nel lavoro c'era l'equilibrio, e tutto il resto erano chimere.
Diciotto Quando giunsi a New York mi telefonò Marie Doro. Marie Doro al telefono: che cosa avrebbe voluto dire solo qualche anno prima! La invitai a pranzo, poi mi recai alla matinée della commedia in cui recitava allora: Lilies of the Field1. La sera cenai con Max Eastman, sua sorella Crystal Eastman e Claude McKay, il poeta e scaricatore di porto giamaicano. L'ultimo giorno che trascorsi a New York visitai Sing-Sing con Frank Harris. Strada facendo egli mi disse che stava lavorando alla sua autobiografia, ma che temeva di avere tardato troppo. « Sto invecchiando » disse. « L'età ha i suoi vantaggi » azzardai. « Ha minori probabilità di essere intimidita dalla discrezione. » Jim Larkin, il ribelle e organizzatore sindacale irlandese, stava scontando cinque anni a Sing-Sing, e Frank voleva vederlo. Larkin era un brillante oratore che, come disse Frank, era stato condannato da un giudice e da una giuria prevenuti in base alla falsa accusa di aver tentato di rovesciare il governo; e ciò fu dimostrato qualche tempo dopo quando il governatore Al Smith annullò la sentenza, anche se Larkin aveva già scontato vari anni di carcere. Nelle prigioni regna una strana atmosfera, come se lo spirito umano 1 Gigli di campo.
fosse sospeso. A Sing-Sing i vecchi bracci del penitenziario erano cupamente medioevali: anguste stanzette di pietra che ospitavano dai quattro ai sei carcerati per cella. Quale diabolico cervello poteva avere avuto l'idea di costruire tali orrori ! In quel momento le celle erano vuote, essendo i carcerati nel cortile, tranne uno, un giovanotto, che si appoggiava alla porta aperta del suo cubicolo con un'aria triste e preoccupata. Il secondino ci spiegò che i nuovi arrivi condannati a lunghe pene detentive passavano il primo anno nei vecchi bracci prima di occupare le celle di quelli più moderni. Passai davanti al giovanotto per entrare nella sua cella e rimasi paralizzato dall'orrore della claustrofobia. « Mio Dio ! » dissi, uscendo in fretta e furia. « È inumano ! » « Ha ragione » commentò amaramente il giovanotto. Il secondino, un brav'uomo, ci spiegò che Sing-Sing era sovraffollato e che occorrevano stanziamenti per costruire altre celle. « Ma noi siamo sempre gli ultimi; nessun uomo politico si dà troppa pena per le condizioni in cui versa il sistema carcerario. » La vecchia casa della morte sembrava un'aula scolastica, lunga e stretta con un soffitto basso, panche e banchi per i giornalisti e, di fronte ad essi, una rozza struttura di legno, la sedia elettrica. Un filo elettrico, nudo, vi calava sopra dal soffitto. L'orrore della stanza era nella sua semplicità, nella sua mancanza di elementi drammatici, che la rendeva più sinistra del truce patibolo. Subito dietro la sedia c'era un tramezzo di legno. Qui veniva trasportata la vittima immediatamente dopo l'esecuzione, per l'autopsia. « Nel caso la sedia non abbia completato l'opera, il corpo viene chirurgicamente decapitato » ci disse il medico, il quale aggiunse che la temperatura del sangue nel cervello subito dopo l'esecuzione toccava i cento gradi centigradi. Uscimmo dalla casa della morte barcollando. Frank chiese di Jim Larkin e il secondino ci disse che avremmo potuto vederlo; benché fosse contro il regolamento, avrebbe fatto un'eccezione. Larkin si trovava nel calzaturificio, e qui egli ci accolse: era un uomo alto, bello, sul metro e novanta, con un paio di occhi azzurri e penetranti e un sorriso amabile.
Benché fosse contento di vedere Frank, era nervoso e turbato, e parve ansioso di tornare al suo deschetto. Nemmeno le assicurazioni del secondino dissiparono le sue inquietudini. « Per gli altri prigionieri è un danno dal punto di vista morale se a me viene concesso il privilegio di ricevere delle visite durante le ore di lavoro » disse Larkin. Frank gli chiese come lo trattavano e se c'era qualcosa che potesse fare per lui. Lui disse che lo trattavano abbastanza bene, ma che era in pena per sua moglie e i familiari, rimasti in Irlanda, dei quali non aveva saputo più nulla dal giorno dell'incarcerazione. Frank promise di aiutarlo. Quando ce ne andammo Frank disse di sentirsi avvilito di vedere un tipo coraggioso e insofferente come Jim Larkin ridotto all'obbedienza della disciplina carceraria. Tornato a Hollywood andai a trovare mia madre. Sembrava molto allegra e felice, e sapeva tutto della mia visita trionfale a Londra. « Be', che ne pensi di tuo figlio e di tutte queste sciocchezze? » dissi scherzosamente. « È magnifico, ma non preferiresti essere te stesso piuttosto che vivere in questo mondo teatrale d'irrealtà? » « Senti chi parla » dissi ridendo. « Sei tu la responsabile di questa irrealtà. » Lei fece una pausa. « Se tu avessi messo il tuo talento al servizio del Signore, chissà quante anime avresti potuto salvare. » Sorrisi. « Forse avrei salvato delle anime, ma non dei soldi \ » Tornando a casa la signora Reeves, la moglie del mio direttore, che nutriva per mia madre una vera adorazione, m'informò che da quando ero partito ella aveva goduto ottima salute e molto rare erano state le ricadute. Era allegra e serena, priva di ogni senso di responsabilità. La signora Reeves si divertiva ad andare a trovare mia madre 1 C. scherza sul doppio significato del verbo to save: salvare e risparmiare. (N. d. T.) 34°
perché la trovava un tipo molto spassoso, che la faceva schiattare dalle risa narrandole aneddoti del passato. Naturalmente, in certi momenti non nascondeva la propria ostinazione. La signora Reeves mi raccontò del giorno in cui, insieme all'infermiera, aveva portato mia madre in centro per farle provare qualche abito nuovo. Un capriccio improvviso si era impadronito di mia madre che, impuntandosi, non aveva voluto scendere dalla vettura. « Vengano qui loro » insisteva. « In Inghilterra vengono loro alla tua carrozza. » Finalmente si decise a scendere. La servi una giovane commessa, che sciorinò davanti a loro varie pezze di stoffa. Una era di un colore bruno oliva che alla signora Reeves e all'infermiera parve proprio adatto a lei. Ma mia madre si ribellò. E con la sua voce più raffinata disse : « No, no ! quello è il colore della merda... Mi mostri qualcosa di più allegro ». La ragazza obbedì, sbalordita, non credendo ai propri orecchi. La signora Reeves mi parlò anche di quando aveva portato mia madre a visitare un allevamento di struzzi. Il padrone, un uomo educato e cortese, aveva mostrato loro le incubatrici. « Questo » disse, sollevando un uovo di struzzo « si schiuderà la settimana prossima o giù di li. » Poi fu chiamato al telefono e, porgendo l'uovo all'infermiera, dopo essersi scusato si allontanò. Era appena sparito quando mia madre strappò l'uovo di mano all'infermiera dicendo: « Ridatelo a quel povero disgraziato di uno struzzo! » e lo tirò dentro il recinto, dove esso esplose con una forte detonazione. In fretta e furia trascinarono mia madre fuori dall'allevamento di struzzi prima che tornasse il padrone. « Un caldo giorno d'estate » disse ancora la signora Reeves « le salta in mente di offrire il gelato all'autista e a tutte noi. » A un certo punto, mentre la macchina passava lentamente accanto a un tombino, un operaio mise fuori la testa. Mia madre si sporse dal finestrino per dare all'uomo il suo cono, ma prese male le misure e glielo tirò in pieno viso. « Ecco, figliolo, cosi starai più fresco » disse, voltandosi a salutarlo con la mano. 34»
Per quanto cercassi di tenerle nascoste le mie questioni private, sembrava sempre al corrente di tutto. Nel periodo delle difficoltà domestiche con la mia seconda moglie osservò improvvisamente durante una partita a dama (fra parentesi, vinceva sempre lei): «Perché non ti liberi di tutte queste seccature? Fa' un viaggio in Oriente, svagati un po' ». Sorpreso, le chiesi che cosa intendesse dire. « Tutte queste chiacchiere sulle tue faccende private che appaiono sui giornali » disse lei. Mi misi a ridere. « Che ne sai, tu, delle mie faccende private? » Lei alzò le spalle. « Se tu non fossi cosi diffidente, potrei darti qualche consiglio. » Buttava li queste osservazioni, poi taceva. Veniva spesso nella casa di Beverly Hills a vedere i bambini, Charlie e Sydney. Ricordo la sua prima visita. Avevo appena fatto costruire la casa, che era elegantemente arredata e completa della servitù: domestici, cameriere, ecc. Girò gli occhi per la camera, poi guardò fuori dalla finestra, verso l'Oceano Pacifico che si vedeva a più di sei chilometri di distanza. Attendemmo la sua reazione. « È un peccato turbare questo silenzio » disse. Sembrava che il mio successo e le mie ricchezze non la meravigliassero affatto, e non fece mai commenti, finché un giorno ci trovammo sul prato, soli. Stava ammirando il giardino e il modo in cui era tenuto. « Abbiamo due giardinieri » dissi. Lei s'interruppe e mi guardò un istante. « Devi essere molto ricco » disse. « Mamma, in questo momento valgo cinque milioni di dollari. » Lei assenti, pensierosa. « Finché c'è la salute » fu il suo unico com mento. Per i due anni successivi mia madre godette buona salute. Ma durante la lavorazione del Circo 1 m'informarono che stava male. Aveva 1 The Circus, 1928.
già subito un attacco alla cistifellea e si era rimessa. Questa volta i medici mi avvertirono che la ricaduta era grave. L'avevano ricoverata all'ospedale di Glendale, ma i medici sconsigliavano l'intervento operatorio per le cattive condizioni del suo cuore. Quando giunsi all'ospedale era in uno stato di semi incoscienza, essendole stato somministrato un sedativo per alleviarle le sofferenze. « Mamma, sono Charlie » dissi con un fil di voce, poi le presi dolcemente la mano. Reagì debolmente stringendo la mia, poi apri gli occhi. Voleva mettersi a sedere, ma era troppo debole. Era inquieta e si lamentava dei dolori. Cercai di rassicurarla, dicendole che sarebbe guarita. « Forse » disse stancamente, poi mi strinse di nuovo la mano e ricadde in uno stato d'incoscienza. Il giorno seguente, durante le riprese, m'informarono che era morta. Ci ero preparato, perché il medico mi aveva avvertito. Sospesi il lavoro, mi tolsi il trucco e con Harry Crocker, il mio aiuto regista, andai all'ospedale. Harry attese fuori e io entrai nella stanza e mi sedetti su una seggiola tra il letto e la finestra. Le tendine erano semi accostate. Fuori il sole era intenso come il silenzio della stanza. Rimasi là seduto a guardare quella figuretta distesa sul letto, col viso rivolto all'insù, gli occhi chiusi. Persino nella morte la sua espressione sembrava turbata, come se prevedesse di dover soffrire ancora. Era davvero strano che la sua vita fosse finita là, nei dintorni di Hollywood, con tutti i suoi assurdi valori: a 11.000 chilometri da Lambeth, teatro del suo crepacuore. Mi sommerse una marea di ricordi, della sua lunga lotta per sopravvivere, delle sue sofferenze, del suo coraggio e della sua tragica vita sciupata... e scoppiai in lacrime. Passò un'ora prima che potessi riprendere il dominio di me e lasciare la stanza. Harry Crocker non si era mosso e io mi scusai per averlo fatto aspettare tanto. Lui comprese, naturalmente, e in silenzio ritornammo a casa. In quei giorni Sydney era in Eureka, malato, e non potè assistere al funerale. Vi presenziarono i miei figli Charlie e Sydney con la loro
madre, ma io non li vidi. Mi chiesero se volevo che fosse cremata. Un pensiero simile mi riempi di orrore ! No, preferivo che la seppellissero nella terra verde, dove giace ancora, del cimitero di Hollywood. Non so se ho dato di mia madre un ritratto degno di lei. Ma so che portò serenamente il suo fardello. Dolcezza e comprensione furono le sue virtù principali. Benché religiosa, amava i peccatori e s'identificò sempre con loro. Nella sua indole non c'era un atomo di volgarità. Qualunque espressione rabelaisiana usasse, era sempre retoricamente appropriata. E malgrado lo squallore in cui fummo costretti a vivere, aveva tenuto Sydney e me lontani dalla strada e ci aveva fatto sentire che non eravamo il solito prodotto della miseria, ma esseri dotati di una loro personalità e unici nel genere. Quando Clare Sheridan, la scultrice che fece tanto scalpore con il suo libro From Mayjair to Moscow 1, venne a Hollywood, Sam Gold win diede una cena in suo onore alla quale fui invitato anch'io. Giare, alta e bella, era nipote di Winston Churchill e moglie di un diretto discendente di Richard Brinsley Sheridan. Prima inglese a mettere piede in Russia dopo la rivoluzione, aveva ricevuto l'incarico di scolpire i busti dei capi principali del partito bolscevico, compresi Lenin e Trotzkij. Benché filo-bolscevico, il suo libro incontrò scarsa opposizione. Gli americani rimasero disorientati perché l'autrice passava per un'aristocratica inglese. L'alta società di New York le apri i battenti, consentendole di scolpire parecchi busti. Tra gli altri esegui anche quelli di Bayard Swope e Bernard Baruch. Quando la conobbi stava facendo un giro di conferenze accompagnata dal figlio Dicky, di sei anni. Si lagnò che per uno scultore negli Stati Uniti fosse difficile guadagnarsi la vita. « Gli americani non hanno niente in contrario se le loro mo 1 Da Mayfair a Mosca. Mayfair è un quartiere londinese. (N. d. T.)
gli posano per un busto, ma quanto a loro esitano a farlo, tanto sono modesti. » « Io non sono modesto » dissi. Prendemmo dunque accordi affinchè creta e arnesi fossero portati a casa mia. Dopo pranzo posavo per lei sino al tardo pomeriggio. Clare aveva la prerogativa di stimolare la conversazione e io mi trovai a fare sfoggio delle mie doti intellettuali. Quando il busto fu quasi finito, lo esaminai. « Potrebbe essere la testa di un criminale » dissi. « Al contrario » rispose lei con finta solennità « è la testa di un genio. » Mi misi a ridere e le esposi la mia teoria secondo la quale il genio e il criminale hanno molto in comune, essendo ambedue sfegatati individualisti. Lei mi confidò che da quando teneva conferenze sulla Russia si era sentita messa al bando. Sapevo che Clare non era un'agit-prop, e neppure una fanatica. « Lei ha scritto un libro molto interessante sulla Russia: si fermi qui » dissi. « Perché entrare nell'agone politico? È destinata a rimetterci le penne. » « lo tengo conferenze per vivere » disse lei « ma loro non vogliono sentire la verità, e quando parlo spontaneamente io posso farmi guidare solo dalla verità. Inoltre » soggiunse in tono allegro « amo i miei cari bolscevichi. » « I miei cari bolscevichi » ripetei io, e risi. Ciò nondimeno, capivo che sotto sotto Clare aveva una visione chiara e realistica della sua situazione, perché quando la rividi, nel 1931, mi disse che viveva alla periferia di Tunisi. « Ma perché vive là? » domandai. « È meno caro » rispose subito lei. « A Londra, con i miei scarsi guadagni, vivrei in due stanzette nel quartiere di Bloomsbury, mentre a Tunisi posso permettermi una casa e dei domestici, con un bel giardino per Dicky. » Dicky mori all'età di diciannove anni. Fu un colpo tremendo dal quale
sua madre non si riebbe mai. Si converti al cattolicesimo e per un poco visse in un convento cercando, io credo, conforto nella religione. Una volta, nel Sud della Francia, vidi su una lapide la fotografia di una sorridente ragazzina di quattordici anni e sotto, incisa, una sola parola: « Pourquoi? ». Nello sbalordimento in cui siamo gettati da un cosi grande dolore è vano cercare una risposta. Una ricerca del genere non fa che accrescere il tormento e indurre a falsi moralismi: eppure ciò non significa che non esiste risposta. Non posso credere che la nostra esistenza sia insensata e accidentale, come ci assicurano gli scienziati. La vita e la morte sono troppo risolute, troppo implacabili per essere accidentali. I modi casuali della vita e della morte - il genio troncato nel suo sbocciare e gli insensati olocausti e le catastrofi - possono sembrare futili e senza senso. Ma il fatto che queste cose siano accadute è la dimostrazione di un fine risoluto e ostinato che supera i limiti della comprensione della nostra mente tridimensionale. Vi sono dei filosofi i quali postulano che tutto è materia in qualche forma di azione, e che in tutta l'esistenza non si può aggiungere o togliere nulla. Se è cosi, allora ogni azione è eterna, governata dalle leggi della causa e dell'effetto; se lo ci accetta, bisogna riconoscere che ogni azione è preordinata. In tal caso, la predestinazione non vale forse per la stella cadente quanto per me che mi gratto il naso? Il gatto gira intorno alla casa. La foglia si stacca dall'albero. Il bimbo inciam pa e cade. Queste azioni non sono forse riconducibili all'infinito? Non sono predestinate e continue nell'eternità? Conosciamo la causa immediata che ha fatto cadere la foglia o inciampare il bambino, ma non possiamo rintracciarne né l'inizio né la fine. Io non sono religioso in senso dogmatico. Le mie vedute sono simili a quelle di Macaulay, il quale scrisse che gli stessi argomenti religiosi furon dibattuti nel xvi secolo con la stessa sottigliezza filosofica di oggi; e malgrado il progresso scientifico e le nuove conoscenze, nessun filosofo, passato o presente, ha gettato nuova luce sul problema. Io non credo, né mi rifiuto di credere, in nulla. Ciò che si può im 346
,. : | ( •r ^ < [ lH\ maginare è una verità approssimata pari a quella dimostrabile matematicamente. Non ci si avvicina alla verità attraverso la ragione, essa ci confina in una matrice geometrica di pensiero che esige logica e attendibilità; in sogno vediamo i morti e li accettiamo come vivi, sapendo al tempo stesso che sono morti. E benché questo stato di sogno sia privo di ragione, non ha forse una sua attendibilità? Vi sono cose che trascendono la ragione. Come possiamo comprendere la miliardesima parte di un secondo? Eppure esiste, se crediamo alla scienza matematica. Invecchiando, mi attira sempre più il problema della fede. Viviamo di essa più di quanto si pensi e otteniamo per mezzo di essa più di quanto ci si renda conto. Io credo che la fede precorra tutte le nostre idee. Senza fede non avremmo mai potuto evolvere ipotesi o teoria, scienza o matematica. È un'estensione dello spirito, un potere inverso oltre che infinito. Negare la fede è confutare se stessi e lo spirito che genera tutte le nostre forze creative. La mia fede è nell'ignoto, in tutto ciò che non comprendiamo col ragionamento; io credo che ciò che supera la nostra comprensione sia una cosa semplicissima in altre dimensioni, e che nel regno dell'ignoto vi sia un'infinita energia per il bene. A Hollywood ero sempre un lupo solitario, lavoravo nel mio studio e perciò avevo poche occasioni di conoscere gente di altri studi; era dunque difficile farsi nuovi amici. Douglas e Mary furono la mia àncora di salvezza mondana. Da quando si erano sposati sembravano straordinariamente felici. Douglas aveva fatto ricostruire la sua vecchia casa, riammobiliandola elegantemente e aggiungendo varie stanze per gli ospiti. Vivevano in grande stile, avevano un'eccellente servitù, un'eccellente cucina, e Douglas era un eccellente padrone di casa. Allo studio aveva a disposizione parecchie stanze, un camerino provvisto di bagno turco e una piscina. Era là che intratteneva le celebrità,
invitandole a pranzo allo studio, facendo loro visitare i teatri di posa, mostrando loro come si girava un film, poi offrendo loro un bagno di vapore e una nuotata. Dopo sedevano tutti nel suo camerino, avvolti negli accappatoi come senatori romani. Era davvero strano sentirsi presentare al re del Siam quando si era appena usciti dal bagno turco e si stava per fare un tuffo nella piscina. In effetti conobbi molti eminenti personaggi in quel bagno turco, tra i quali il duca d'Alba, il duca di Sutherland, Austen Chamberlain, il marchese di Vienna, il duca di Panaranda e molti altri. Quando un uomo viene letteralmente spogliato di tutte le sue prerogative mondane, lo si può apprezzare per quello che è veramente il suo valore: il duca d'Alba sali moltissimo nella mia stima. Ogni volta che si trovava alle prese con questi potentati Douglas invitava anche me, perché io ero uno dei pezzi forti dello spettacolo. Di solito, dopo un bagno di vapore, si giungeva a « Pickfair L » verso le otto, si cenava alle otto e mezzo e dopo cena si vedeva un film. Non ebbi dunque mai la possibilità di approfondire la conoscenza degli invitati. Ogni tanto, però, i Fairbanks me ne « scaricavano » qualcuno, che ospitavo nella mia villa. Ma confesso di non essere mai stato un padrone di casa cosi in gamba come i Fairbanks. Quando c'erano dei pezzi grossi da intrattenere Douglas e Mary se la cavavano a meraviglia. Sapevano assumere con loro una familiarità dégagée che a me riusciva un po' difficile. Naturalmente, se tra gli invitati c'erano dei duchi la prima sera si sentiva risuonare dappertutto il cerimonioso appellativo di « Vostra Grazia ». Ma non occorreva molto tempo perché « Vostra Grazia » diventasse un confidenziale « Geòrgie » o « Jimmy ». A cena faceva spesso la sua comparsa il cagnolino bastardo di Douglas, il quale con grande disinvoltura lo obbligava a compiere piccoli esercizi che riscaldavano rapidamente quella che avrebbe potuto di 1 Cosi si chiamava la residenza dei due attori, dalla fusione della prima parte dei loro cognomi. (iV. d.T.)
ventare un'atmosfera rigida e formale. Mi capitava spesso di raccogliere i complimenti rivolti a Douglas dagli ospiti. « Una persona cosi deliziosa! » dicevano confidenzialmente le signore. E lo era per davvero. Nessuno avrebbe potuto affascinarle più di Douglas. Ma in un'occasione egli andò incontro alla sua Waterloo. Non faccio nomi per ovvie ragioni ma l'entourage, rigorosamente selezionato, abbondava in titoli nobiliari, e Douglas dedicò una settimana intera al loro svago. Ospite d'onore era una coppia in luna di miele. Si fece il possibile per divertirli. Venne organizzata una partita di pesca a Catalina, su un panfìlo privato, dove Douglas aveva fatto uccidere e affondare in acqua un manzo intero per attirare i pesci (invece non ne presero neanche uno), poi un rodeo privato sul terreno dello studio. Però la giovane sposa, alta e bella, aveva un'aria molto reticente e mostrò sempre un entusiasmo assai tiepido. Ogni sera a cena Douglas faceva del suo meglio per distrarla, ma tutto il suo spirito e la sua effervescenza non riuscivano a sciogliere la sua freddezza. La quarta sera Douglas mi tirò in disparte. « Non ci capisco più niente. Sono cosi imbarazzato che non riesco a parlare con lei » disse « cosi questa sera, a cena, ho fatto in modo che sieda al tuo fianco. » Usci in una risatina. « Le ho detto quanto sei brillante e spiritoso. » Dopo l'incensamento di Douglas, quando presi posto a tavola mi sentivo tranquillo come un paracadutista al momento del lancio. Pensai tuttavia di tentare l'approccio esoterico. Cosi, prendendo dal tavolo il mio tovagliolo mi piegai sulla signora e le sussurrai: «Allegra». Lei si voltò con l'aria di non avere capito bene che cosa avevo detto. « Prego? » «Allegra! » ripetei, enigmaticamente. Lei parve sorpresa, poi sorrise. « Allegra? » « Si » risposi, spiegandomi il tovagliolo sul ginocchio e guardando diritto davanti a me. Lei fece una pausa, studiandomi un momento. « Perché dice cosi? »
Colsi la palla al balzo. « Perché lei è molto triste » e prima che potesse rispondere, continuai: « Vede, ho sangue gitano nelle vene e di queste cose me ne intendo. In che mese è nata, lei? ». « Aprile. » « Ariete, è naturale ! Avrei dovuto immaginarlo. » Lei si animò, diventando istantaneamente più bella. « Immaginare che cosa? » disse con un sorriso. « Questo mese segna il punto più basso della sua vitalità. » Lei riflettè un momento. « È straordinario che lei dica cosi. » « È semplice, basta avere un po' d'intuito : in questo momento lei attraversa un periodo poco felice. » « È evidente? » « Forse agli altri no. » Lei sorrise, poi riflettè un momento e disse con aria pensierosa: « È molto strano che lei mi dica una cosa simile. Naturalmente è vero. Sono molto depressa ». Annuii, comprensivo. « È il suo mese più brutto. » « Sono cosi avvilita, mi sento al colmo della disperazione » continuò la signora. « Credo di capire » dissi, senza immaginare il seguito. Lei riprese, lugubremente: « Se potessi fuggire... fuggire da tutto e da tutti... Farei qualsiasi cosa... Mi cercherei un lavoro... Farei anche la comparsa cinematografica, ma sarebbe un gran dolore per tutti gli interessati, i quali sono troppo generosi per dover subire un trattamento simile ». Parlò al plurale, ma naturalmente compresi che alludeva a suo marito. Allora mi allarmai e, abbandonando ogni finzione, cercai di darle un buon consiglio, che naturalmente risultò banale. « Fuggire non serve a nulla; non riuscirà a sottrarsi alle sue responsabilità » dissi. « La vita è un'espressione del bisogno, nessuno è mai soddisfatto, quindi non faccia nulla di avventato... che debba poi rimpiangere per tutta la vita. » « Credo che lei abbia ragione » disse tristemente la ragazza. « Comun 35°
que, provo un immenso sollievo a parlare con qualcuno che mi capisce. » Di tanto in tanto, tra un discorso e l'altro dei suoi ospiti, Douglas lanciava un'occhiata nella nostra direzione. A questo punto lei si girò dalla sua parte e gli sorrise. Dopo cena Douglas mi tirò in disparte. « Di che diavolo stavate parlando? Credevo che voleste mangiarvi le orecchie! » « Oh, le solite cose » dissi con aria di sufficienza.
Diciannove Stavo ormai per coprire l'ultimo chilometro del mio contratto con la First National e non vedevo l'ora di tagliare il traguardo. Era gente sgarbata, miope e poco simpatica, e desideravo sbarazzarmene. Per giunta, mi assillavano nuove idee per un film a lungometraggio. Produrre gli ultimi tre film mi parve un ostacolo insormontabile. Girato Giorno di paga 1, in due bobine, mi restavano da fare solo altri due film. Il pellegrino 2, la mia comica successiva, prese le proporzioni di un film a lungometraggio. Ciò implicò nuove diffìcili trattative con la First National. Ma, come disse di me Sam Goldwyn: « Chaplin non è un affarista: lui sa soltanto che non può prendere meno di cosi ». Le trattative si conclusero con reciproca soddisfazione. Dopo il fenomenale successo del Monello le condizioni da me imposte per Il pellegrino incontrarono scarsa resistenza: esso avrebbe preso il posto di due comiche e la casa mi avrebbe garantito un guadagno di 400.000 dollari e un interesse nei profitti. Finalmente ero libero di aggregarmi ai miei soci della United Artists. Dietro suggerimento di Douglas e Mary, Joe l'Onesto, come noi chiamavamo Joseph Schenck, entrò nella United Artists con la moglie Norma Talmadge, i cui film sarebbero stati distribuiti dalla nostra società. Joe doveva essere nominato presidente. Pur avendo per lui 1Pay day, 1922. 2 The Pilgrim, 1923.
la massima simpatia, non ritenevo che il suo contributo fosse tanto prezioso da giustificare tale carica e, benché sua moglie fosse un'at trice di un certo nome, gli incassi dei suoi film non potevano compe tere con quelli di Mary o Douglas. Avevamo già rifiutato la compar tecipazione di Adolph Zukor e dunque perché concederla a Joe Schenck, che non era cosi importante come Zukor? Ciò nondimeno, l'entusia smo di Douglas e Mary ebbe la meglio, e Joe divenne presidente e azionista della United Artists, con una quota pari alla nostra. Poco tempo dopo mi arrivò una lettera che sollecitava la mia presenza a una riunione urgente riguardante il futuro della United Artists. Dopo l'ottimistico saluto del nostro presidente, Mary tenne un solenne di scorso, nel quale disse di essere allarmata da ciò che accadeva nell'in dustria — era sempre allarmata — perché le catene dei teatri stavano per formare un grosso trust e, se non avessimo preso dei provvedi menti per rintuzzare queste mosse, il futuro della United Artists sareb be stato compromesso. Questo grido d'allarme non mi spaventò, perché ero convinto che il livello dei nostri film fosse la risposta migliore a un attacco del genere. Ma gli altri non parvero altrettanto tranquilli. Joe Schenck ci avverti con voce grave che, pur essendo la società sostanzialmente sana, dove vamo garantirne il futuro non addossandoci tutti i rischi, ma facendo partecipare parzialmente altre persone ai nostri profitti. Aveva preso contatti con la Dillon Read & C. di Wall Street, che era disposta a investire 40.000.000 di dollari per un'emissione di azioni e un'interessenza nella nostra società. Io dissi francamente che mi opponevo all'intromissione di Wall Street nel mio lavoro, e ripetei che non avevamo nulla da temere dalle fusioni fintantoché avessimo girato dei buoni film. Joe, soffocando la propria irritazione, disse in tono calmo e distaccato che stava cercando di fare qualcosa di costruttivo per la società e che avremmo dovuto approfittarne. Mary chiese di nuovo la parola. Aveva un modo non troppo simpatico di parlare d'affari, perché non si rivolgeva direttamente a me, ma agli altri, facendomi cosi sentire colpevole di un gretto egoismo. Si
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diede a esaltare le virtù di Joe, osservando che aveva lavorato sodo e affrontato immense difficoltà per creare solide basi alla nostra società. « Dobbiamo cercare di essere tutti costruttivi » disse. Ma io fui irremovibile e ribadii la mia posizione: non volevo che nessun altro traesse vantaggio dalle mie iniziative personali; ero pieno di fiducia e desideroso di investire i miei soldi in quelle iniziative. La riunione sfociò in una discussione accalorata — più una lite che una discussione — ma io mantenni il mio punto di vista, dicendo che se gli altri desideravano continuare senza di me potevano farlo benissimo, e io mi sarei ritirato dalla società. Questa minaccia condusse a una solenne, unanime attestazione di fedeltà, corredata dalle dichiarazioni di Joe il quale disse che non voleva fare nulla per rovinare la nostra amicizia o l'armonia dei soci. E cosi la questione di Wall Street venne lasciata cadere. Prima di dare inizio al mio primo film per la United Artists pensavo di lanciare Edna Purviance in un ruolo di grande rilievo. Anche se tra noi due, sentimentalmente parlando, non c'era mai stato nulla, ero pur sempre interessato alla sua carriera. Ma, studiandola obiettivamente, mi convinsi che aveva preso un'aria piuttosto matronale, e questo non quadrava con l'idea che cominciavo a farmi dei miei prossimi film. Inoltre, non volevo confinare i miei soggetti e i miei personaggi nei limiti di un cast comico tradizionale, perché avevo vaghi ma ambiziosi progetti per futuri lunghimetraggi che avrebbero richiesto un cast assai più ampio. Per mesi mi ero baloccato con l'idea di girare insieme con Edna The Trojan Women 1, servendomi dell'adattamento che ne avevo fatto io. Ma più si allargavano le nostre ricerche, più costosa si preannunciava la produzione, e l'idea fu abbandonata. 1 Le troiane.
Allora cominciai a pensare ad altre donne interessanti che Edna avrebbe potuto impersonare. Ma certo, Giuseppina! Il fatto che ciò avrebbe comportato la confezione di costumi dell'epoca e un costo raddoppiato rispetto a The Trojan Women non aveva molta importanza. Ero pieno di entusiasmo. Cominciammo a fare ampie ricerche, leggendo le Memorie di Napoleone Bonaparte di Bourrienne e le memorie di Constant, il domestico di Napoleone. Ma più si scavava nella vita di Giuseppina, più balzava in primo piano la figura di Napoleone. Rimasi cosi affascinato di questo genio straordinario che il progetto di un film su Giuseppina impallidi sempre più, mentre quella di Napoleone diventava una parte che avrei potuto interpretare io. Il film sarebbe stato una rievocazione della sua campagna d'Italia: l'epica storia della volontà e del coraggio di un giovanotto di ventisei anni, che vinse la formidabile opposizione e le gelosie di vecchi, esperti generali. Ma, ahimè, il mio entusiasmo sbolli presto e sia il personaggio di Napoleone che quello di Giusep pina finirono nel dimenticatoio. Fu pressappoco in questo periodo che Peggy Hopkins Joyce, la bellissima ragazza celebre per i molti matrimoni', fece la sua comparsa sulla scena di Hollywood, adorna di gioielli e con un conto in banca di tre milioni di dollari, spillati, come mi disse, ai suoi cinque mariti. Peggy era di umili origini: figlia di un barbiere, era diventata ballerina di Ziegfeld e aveva sposato cinque milionari. Benché fosse sempre una donna molto bella, Peggy aveva l'aria un tantino affaticata. Veniva direttamente da Parigi, tutta vestita di nero perché un giovanotto si era appena suicidato per lei. In questa funerea tenuta, molto chic, diede l'assalto a Hollywood. Durante una tranquilla cenetta a due mi confidò che odiava la notorietà. « Non desidero altro che un buon marito e tanti bambini. In fondo sono una donna semplice » disse, giocherellando col diamante da venti carati e i braccialetti di smeraldi che le coprivano il braccio. Quando era in vena di scherzare li chiamava « i galloni che mi sono conquistata sul campo ».
A proposito di un marito mi raccontò che la notte delle nozze si era chiusa a chiave in camera da letto dicendo che non lo avrebbe fatto entrare se non avesse passato sotto la porta un assegno di 500.000 dollari. « E lui accettò? » chiesi io. « Si » disse lei, in tono petulante e non senza spirito « e al mattino lo incassai immediatamente, prima che si svegliasse. Ma era un fesso e beveva come una spugna. Una volta gli ruppi sulla testa una bottiglia di champagne e lo mandai all'ospedale. » « E fu cosi che vi separaste? » chiesi scherzosamente io. « No » esclamò lei, ridendo. « Sembrava che gli piacesse, e disse che dopo era ancora più pazzo di me. » Thomas Ince c'invitò sul suo panfìlo. Eravamo noi tre soli, Peggy, Tom e io, seduti intorno a un tavolo, in cabina, a bere champagne. Annottava, e la bottiglia di champagne si trovava vicinissima a Peggy. Col passare del tempo, vidi che il suo interesse si spostava da me a Tom Ince. Allora cominciò a fare l'antipatica, ricordandomi che ciò che aveva fatto a suo marito con una bottiglia di champagne poteva farlo a me. Pur avendo bevuto un po', ero sobrio, e le dissi gentilmente che se avessi visto solo l'ombra di un'idea simile attraversarle la bellissima fronte, l'avrei buttata fuori bordo. Dopodiché io caddi in disgrazia e Irving Thalberg, della MGM, divenne il centro focale del suo affetto. Per qualche tempo la sua notorietà abbagliò Thalberg, che era molto giovane. Negli studi della MGM circolarono allarmanti voci di matrimonio, ma quando la febbre lo lasciò tutti i progetti andarono in fumo. Durante la nostra bizzarra e breve relazione Peggy mi narrò vari aneddoti sui suoi rapporti con un noto editore francese. Furono questi aneddoti a ispirarmi il soggetto di Una donna di Parigi, nel quale assegnai a Edna Purviance la parte di protagonista. Non avevo intenzione di recitarvi anch'io, ma lo diressi.
Alcuni critici avevano dichiarato che nel cinema muto non si poteva ricorrere alla psicologia, che l'azione - quella degli eroi che piegano le eroine su un tronco d'albero per respirargli affannosamente sulle tonsille, o le fughe e gli inseguimenti - era la sua unica forma espressiva. Una donna di Parigi fu una sfida. Volevo rendere la psicologia con l'azione. Ad esempio, Edna è una demi-mondaine, e in una scena entra la sua amica e le mostra una rivista mondana, con l'annuncio del matrimonio dell'innamorato di Edna. Edna prende distrattamente la rivista, la guarda, poi la getta via con aria indifferente e si accende una sigaretta. Ma il pubblico intuisce la sua sorpresa. Dopo avere accompagnato alla porta l'amica, salutandola con un sorriso, Edna torna in fretta alla rivista e si mette a leggere con drammatica avidità. Il film era pieno di simili sottintesi. In un'altra scena, nella stanza da letto di Edna, una cameriera apre un cassetto; ne cade accidentalmente sul pavimento un colletto da uomo, svelando cosi la sua relazione con il protagonista (interpretato da Adolphe Menjou). La pellicola ebbe molto successo presso il pubblico più raffinato. Fu il primo film muto ad esprimere ironia e psicologia. Gli fecero presto seguito altri film dello stesso genere, tra i quali // matrimonio in quattro 1 di Ernst Lubitsch, con Menjou che rifaceva pari pari quasi lo stesso personaggio. Adolphe Menjou diventò un divo nel giro di una notte, ma Edna non raggiunse la meta. Ciò nondimeno, ricevette un'offerta di 10.000 dollari per cinque settimane di lavoro: si trattava di girare un film in Italia e, incerta se accettare, Edna chiese il mio parere. Naturalmente la proposta mi entusiasmò; ma Edna esitava a tagliarsi tutti i ponti alle spalle. Allora le suggerii di accettare l'offerta: se la cosa non avesse funzionato sarebbe stata libera di tornare indietro per continuare con me; ci avrebbe sempre guadagnato 10.000 dollari. Edna girò quel film, ma esso non ebbe successo, e lei tornò alla vecchia casa di produzione. 1 The Marriage Circle, 1923.
Prima che completassi Una donna di Parigi Pola Negri fece il suo debutto secondo la più schietta tradizione hollywoodiana. L'ufficio pubblicità della Paramount superò se stesso nei suoi eccessi asinini. In un mélange di gelosie e rivalità prefabbricate, Gloria Swanson e Pola Negri vennero servite in tutte le salse. I titoli annunciavano: « LA NEGRI VUOLE IL CAMERINO DELLA SWANSON ». « GLORIA SWANSON SI RIFIUTA D'INCONTRARE POLA NEGRI. » « LA NEGRI ACCETTA L'INVITO DELLA SWANSON A UN RICEVIMENTO. » E cosi via, ad nausearti. La colpa di queste invenzioni non era né di Gloria né di Pola, che furono ottime amiche fin dal loro primo incontro. Ma una simile, morbosa distorsione dei fatti era una pacchia per l'ufficio pubblicità. Furono organizzati ricevimenti e feste in onore di Pola. Io la incontrai nel bel mezzo della baraonda, a un concerto sinfonico allo Hollywood Bowl. Era seduta nel palco attiguo al mio col suo codazzo di agenti pubblicitari e funzionari della Paramount. «Chaarlee! Perché non ti sei fatto vivo? Non mi hai mai cercato. Non capisci che sono venuta appositamente dalla Germania solo per vedere te? » Le sue parole mi lusingarono, anche se non potevo credere all'ultima battuta, giacché l'avevo vista una volta sola, a Berlino, per venti minuti. « Sei stato molto crudele, Chaarlee, a non telefonare. Da tanto tempo aspettavo tue notizie. Dove lavori? Dammi il tuo numero, ti chiamerò io » disse. Tanto ardore mi lasciò piuttosto scettico, ma le attenzioni della bella Pola non mancarono di farmi un certo effetto. Qualche giorno dopo m'invitò al ricevimento che diede nella casa presa in affitto a Beverly Hills. Fu una festa magnifica, anche per gli standard hollywoodiani, e nonostante la presenza di altri divi Pola concentrò quasi tutta la sua attenzione su di me. Sincera o no, la cosa mi fece molto piacere.
Fu cosi che ebbe inizio la nostra esotica relazione. Per varie settimane ci videro insieme in pubblico e, naturalmente, questo fu un afrodisiaco per i cronisti mondani. Ben presto cominciarono i titoli: « Pola fidanzata di Charlie ». La cosa infastidì notevolmente Pola, la quale disse che avrei dovuto fare una smentita. « L'iniziativa spetta alla signora » risposi. « Che cosa dovrei dire? » Non volevo compromettermi, e alzai le spalle. Il giorno seguente mi dissero che la signorina Negri non poteva vedermi, senza altre spiegazioni. Ma la stessa sera telefonò la cameriera, angosciata, per informarmi che la sua padrona stava molto male: mi scongiurava di andare subito a casa sua. Appena arrivato, una cameriera in lacrime m'introdusse nel salotto, e là trovai padrona Pola supina su un divano, con gli occhi chiusi. Appena li apri, gemette: « Sei crudele! ». E io mi trovai a recitare la parte di Casanova. Un paio di giorni dopo mi telefonò Charlie Hyton, direttore degli studi Paramount: « Ci stai creando un sacco di complicazioni, Charlie. Vorrei parlarti ». « Ma certo ! Vieni a casa mia » dissi. E lui venne. Era quasi mezzanotte quando arrivò. Hyton era un tipo d'uomo prosaico, massiccio, che sarebbe sembrato a casa sua in un magazzino per la vendita all'ingrosso. Sedette e senza tanti preamboli attaccò: « Charlie, tutte queste chiacchiere sui giornali stanno facendo ammalare Pola. Perché non rilasci una dichiarazione per farle cessare? ». Aggredito cosi vivacemente, lo guardai fisso. « Che cosa vuoi che dica? » Per nascondere il suo imbarazzo, lui cercò di fare dello spirito. « Sei innamorato di lei, no? » « Non credo siano affari tuoi » risposi. « Ma noi abbiamo investito dei milioni in quella donna ! E una pubblicità del genere le nuoce » disse Hyton. Poi, dopo una pausa, soggiunse: « Charlie, se l'ami perché non la sposi? ».
Sul momento trovai ben poco da ridere in questo incredibile atteggiamento. « Se credi che voglia sposarmi solo per salvaguardare gli investimenti della Paramount, ti sbagli di grosso ! » « Allora evita di rivederla » disse lui. « Questa è una decisione che spetta a Pola » risposi. Il colloquio che segui si concluse seccamente (e comicamente, dovrei dire) con un'offerta: se l'avessi sposata, mi sarei assicurato un interesse del cinquanta per cento nella Paramount. E la mia relazione con Pola terminò cosi, bruscamente com'era incominciata. Non mi telefonò più. Durante la movimentata avventura con Pola capitò allo studio una ragazza messicana. Era venuta a ipedi da Città del Messico per vedere Charlie Chaplin. Avendo avuto una lunga serie di disavventure con pazzi e squilibrati, ordinai al mio direttore di « disfarsene con le buone ». Non ci pensai più finché una telefonata da casa m'informò che la signora era seduta sul gradino del portone. Mi si rizzarono i capelli in testa. Dissi al maggiordomo di sbarazzarsi della ragazza. Io avrei aspettato allo studio che il campo fosse libero. Dieci minuti dopo arrivò un'altra telefonata: la ragazza se n'era andata. Quella sera Pola, il Dr. Reynolds e sua moglie erano a cena a casa mia e io li informai dell'incidente. Aprimmo il portone e demmo un'occhiata in giro per assicurarci che la ragazza non fosse tornata. Ma a metà della cena il maggiordomo entrò in sala da pranzo come un razzo, pallidissimo. « È di sopra nel suo letto ! » Disse che era andato a prepararmi la stanza per la notte e l'aveva trovata a letto con uno dei miei pigiama. Non sapevo che pesci pigliare. « Le parlerò io » disse Reynolds, alzandosi da tavola per correre di sopra. Noi tre restammo là seduti in attesa degli sviluppi. Poco dopo egli scese. « Ho avuto un lungo colloquio con lei » disse. « È giovane e bella... e si esprime intelligentemente. Le ho chiesto che faceva nel tuo letto. "Voglio conoscere il signor Chaplin" ha risposto. "Ma lo
sa" le ho detto io "che la sua condotta potrebbe essere considerata anormale e costringerci a farla ricoverare in una clinica per malattie mentali?" Non ha mostrato la minima emozione. "Non sono matta" ha detto "sono una semplice ammiratrice dell'arte del signor Chaplin e ho fatto tutta la strada dal Messico fin qui per conoscerlo." Le ho detto che avrebbe fatto meglio a togliersi il tuo pigiama, a vestirsi e ad andarsene immediatamente, altrimenti avremmo chiamato la polizia. » « Vorrei vedere questa ragazza » disse gaiamente Pola. « Falla accomodare nel soggiorno. » Io sollevai qualche obiezione, sapendo che sarebbe stata una cosa imbarazzante per tutti. Comunque, la ragazza entrò nella stanza con aria molto sicura di sé. Reynolds aveva ragio ne: era giovane e bella. Ci disse che aveva aspettato tutto il giorno davanti allo studio. La invitammo a cenare con noi, ma accettò solo un bicchiere di latte. Mentre sorbiva il latte, in nostra compagnia, Pola la tempestò di domande. « È forse innamorata del signor Chaplin? » chiese. (Io trasalii.) La ragazza si mise a ridere. « Innamorata! Oh no, lo ammiro perché è un grande artista. » Disse Pola: « Ha visto qualcuno dei miei film? ». « Oh si » disse lei, con noncuranza. « Che gliene pare? » «Ottimi: ma lei non è un'artista cosi grande come il signor Chaplin. » Il viso di Pola era un poema. Avvertii la ragazza che le sue intenzioni avrebbero potuto essere fraintese, poi le chiesi se aveva i mezzi per ritornare a Città del Messico. Lei disse di si. Dopo averle dato qualche altro consiglio, l'accompagnammo alla porta. Ma il giorno dopo, a mezzodì, il maggiordomo irruppe di nuovo nella stanza, dicendo che la ragazza giaceva in mezzo alla strada: si era avvelenata. Senza perdere tempo telefonammo alla polizia che spedi una ambulanza per portarla all'ospedale.
L'indomani i giornali uscirono con grossi titoli e fotografie della ragazza seduta sul letto all'ospedale. Le avevano praticato una lavanda gastrica e ora poteva ricevere la stampa. Dichiarò che non si era avvelenata ma che aveva soltanto voluto richiamare l'attenzione, che non era innamorata di Charlie Chaplin, ma che era venuta a Hollywood per tentare di fare del cinema. Appena dimessa dall'ospedale fu affidata alla custodia della Welfare League, il cui segretario mi scrisse una lettera molto gentile, chiedendo il mio aiuto per farla tornare a Città del Messico. « È innocua e non è cattiva » diceva la lettera, e cosi le pagammo il viaggio fino a casa. Finalmente ero libero di girare la mia prima comica per la United Artists, e ansioso di eguagliare il successo del Monello. Per settimane mi arrovellai nel tentativo di trovare una buona idea. Pur non avendo l'ombra di uno spunto, ero pieno di entusiasmo e non vedevo l'ora di cominciare. Continuavo a ripetermi: « Il prossimo film dev'essere un'epopea! Il più grande! ». Ma non giungevo a capo a nulla. Poi, una domenica mattina, mentre ero dai Fairbanks per il week-end, mi misi a guardare, con Douglas, dopo colazione, delle diapositive stereoscopiche. Alcune erano vedute dell'Alaska e del Klondike; una era del Chilkoot Pass, con una lunga fila di cercatori che scalavano il monte coperto di ghiaccio, e una didascalia stampata sul rovescio che descriveva i disagi e le difficoltà affrontati per superarlo. Pensai che questo era un tema magnifico. Non fu un'idea improvvisa. Il desiderio di scrivere un soggetto su quell'argomento si fece strada in me a poco a poco. Ma ba stò a stimolare la mia immaginazione. Subito cominciarono a svilup-,parsi le situazioni comich È paradossale che nell'elaborazione di una comica la tragedia stimoli il senso del ridicolo; perché il ridicolo, immagino, è un atteggiamento di sfida: dobbiamo ridere in faccia alla tragedia, alla sfortuna e alla nostra impotenza contro le forze della natura, se non vogliamo impaz
zire. Lessi un libro sulla spedizione Donner che, diretta in California, sbagliò strada e si smarrì sui monti coperti di neve della Sierra Nevada. Su centosessanta pionieri ne sopravvissero soltanto diciotto: per la maggior parte morirono di fame e di freddo. Alcuni si diedero al cannibalismo, divorando i propri caduti, altri arrostirono i mocassini per alleviare i morsi della fame. Fu quest'orribile tragedia a darmi lo spunto per una delle mie scene più comiche. In preda a una fame irresistibile mi bollivo una scarpa e la mangiavo, togliendone i chiodi come se fossero le ossa di un delizioso cappone e mangiando le stringhe come spaghetti. Nel delirio provocato dall'inedia, il mio partner si convince che io sono un pollo e vuole divorarmi. Per sei mesi elaborai una serie di sequenze comiche e cominciai a girare senza soggetto, sicuro che la storia si sarebbe sviluppata da sola. Naturalmente finii in molti vicoli ciechi e furono scartate numerose sequenze divertenti. C'era una scena d'amore in cui una ragazza eschimese insegna al vagabondo a baciare all'eschimese strofinando il naso contro il suo. Prima di partire alla ricerca dell'oro egli strofina appassionatamente il naso contro quello di lei in un affettuoso addio. E incamminandosi si volta e si tocca il naso col medio per gettarle un ultimo bacio, poi di nascosto si asciuga le dita sui calzoni, perché ha un po' di raffreddore. Ma la parte dell'eschimese fu tagliata perché non legava con la storia principale della ragazza della sala da ballo. Durante la lavorazione della Febbre dell'oro mi sposai per la seconda volta. Poiché abbiamo due figli grandi ai quali voglio molto bene, non entrerò in dettagli. Per due anni cercammo di tenere in piedi il nostro matrimonio, ma il tentativo si concluse con un amaro fallimento. La febbre dell'oro fu proiettato allo Strand Theatre di New York e io assistetti alla première. Dal momento in cui il film ebbe inizio, mostrando il vagabondo che camminava allegramente sull'orlo di un burrone senza rendersi conto di essere seguito da un orso, il pubblico non fece che gridare e battere le mani. Fino alla fine echeggiarono tra le risate
sporadici applausi. Hiram Abrams, il direttore delle vendite della United Artists, venne poi ad abbracciarmi. « Charlie, ti garantisco che incasserà almeno sei milioni di dollari » e ci prese. Dopo la première ebbi un collasso. Alloggiavo al Ritz e non riuscivo a respirare, allora telefonai freneticamente a un amico. « Muoio » ansimai. « Chiama il mio avvocato ! » « L'avvocato? Tu hai bisogno di un dottore » disse lui, allarmato. « No, no, l'avvocato, voglio fare testamento. » L'amico, scosso e allarmato, li chiamò entrambi, ma essendo il mio avvocato in Europa, arrivò solo il dottore. Dopo una visita superficiale non mi trovò altro che un attacco di nervi. « È il caldo » disse. « Lasci New York. Vada al mare, dove può stare tranquillo e respirare un po' d'aria buona. » Di li a mezz'ora ero in viaggio per Brighton Beach. Durante il tragitto continuai a piangere senza motivo. Comunque, presi una bella stanza in un albergo sull'oceano e mi sedetti alla finestra a respirare profonde boccate d'aria di mare. Ma la gente cominciò a radunarsi davanti all'albergo: « Ciao, Charlie! », «Bravo, Charlie! » tanto che dovetti ritrarmi dalla finestra per non essere visto. A un tratto echeggiò un urlo che sembrava il latrato di un cane. Era un uomo che stava affogando. I bagnini lo trassero a riva, proprio sotto la mia finestra, e gli prestarono le prime cure, ma era troppo tardi: era morto. Non appena l'ambulanza lo ebbe portato via un altro ba gnante cominciò ad abbaiare. In tutto ne trassero a riva tre: gli altri due si riebbero. Stavo peggio che mai, e decisi di riprendere il treno per New York. Due giorni dopo stavo abbastanza bene per ritornare in California.
Venti Tornato a Beverly Hills, un'amica m'invitò a casa sua per conoscere Gertrude Stein. Quando arrivai la signorina Stein sedeva in poltrona al centro del salotto, vestita di marrone, con un colletto di pizzo, le mani abbandonate in grembo, e somigliava al ritratto di Madame Roulin dipinto da Van Gogh, solo che invece dei capelli rossi raccolti in uno chignon Gertrude aveva una corta zazzera castana. Gli invitati le formavano un cerchio intorno, in piedi, tenendosi a rispettosa distanza. Una dama d'onore sussurrò qualcosa all'orecchio di Gertrude, poi mi venne incontro. « La signorina Gertrude Stein vorrebbe conoscerla. » Feci un balzo in avanti. Non era il momento migliore per scambiare quattro chiacchiere, giacché stavano arrivando altri ospi ti, tutti in attesa di esserle presentati. A pranzo la padrona di casa mi collocò vicino a lei e in un modo o nell'altro si fini per parlare d'arte. Fui io, credo, ad avviare la conversazione, manifestando la mia ammirazione per il panorama che si godeva dalla finestra della sala da pranzo. Ma Gertrude mostrò scarso entusiasmo. « La natura » disse « è banale. L'imitazione è più interessante. » Si dilungò su questa tesi, affermando che il finto marmo era più bello di quello vero e che un tramonto di Turner era più incantevole di qualsiasi cielo vero. Benché fossero affermazioni piuttosto paradossali, per educazione le dissi che ero d'accordo con lei. Teorizzò anche sugli intrecci cinematografici: « Sono troppo triti, complessi e campati per aria ». Le sarebbe piaciuto vedermi in un film
mentre camminavo su per la strada e giravo un angolo, poi un altro, e un altro ancora... Pensai di dirle che quell'idea ricordava la sua enfasi mistica: « Una rosa è una rosa è una rosa » ma l'istinto mi trattenne. Il pranzo fu servito su una bellissima tovaglia di pizzo belga, che riscosse molti complimenti da parte degli ospiti. Fervendo la conversazione, servirono il caffè in leggerissime tazze di lacca e la mia mi fu collocata troppo vicino alla manica, si che appena feci un piccolo movimento con la mano rovesciai il caffè sulla tovaglia. Come rimasi male ! Mentre mi profondevo in scuse alla padrona di casa Gertrude fece esattamente la stessa cosa, rovesciando il suo caffè. Provai un certo sollievo, dentro di me, perché non ero più il solo in imbarazzo. Ma Gertrude non si lasciava mai cogliere alla sprovvista. Disse: « Nulla di grave, non me lo sono rovesciato sul vestito ». John Masefield venne in visita allo studio; era un uomo alto, bello e distinto, gentile e comprensivo. Ma, chissà perché, queste qualità mi resero estremamente timido. Per fortuna avevo appena letto The Widow in the Bye Street1, un libro che ammiravo, e cosi non rimasi com pletamente muto ma ne citai alcuni dei miei versi preferiti: There was a group outside the prison gate, Waiting to hear them ring the passing bell, Waiting as empty people always wait, For the strong toxic of another's hell 2. Durante la lavorazione della Febbre dell'oro ricevetti una telefonata da Elinor Glyn: « Mio caro Charlie, devi conoscere Marion Davies, è un vero tesoro, e muore dalla voglia d'incontrarti, verresti a cena con noi 1 La vedova della via traversa. 2 C'era un gruppo sulla porta della prigione, / Che aspettava di sentirli suonare a morto la campana, / Che aspettava come la gente vuota sempre aspetta, / Il forte veleno di un inferno altrui, 366
all'Ambassador Hotel e poi a Pasadena a vedere il tuo film Charlot e la maschera di ferro? ». Non avevo mai visto Marion, ma mi ero imbattuto spesso nella sua bizzarra pubblicità. Compariva in tutti i giornali e in tutte le riviste del gruppo Hearst, e ti colpiva in pieno viso, ad nauseam. Era talmente esagerata che il nome Marion Davies divenne un buon bersaglio per gli strali di molte barzellette. Ricordo la battuta di Beatrice Lillie quando qualcuno le mostrava le mille luci di Los Angeles. « Che meraviglia! » esclamava Beatrice. « Immagino che poi si fondano tutte insieme per scrivere "Marion Davies" ! » Non si poteva aprire un periodico o un quotidiano del gruppo Hearst senza trovarvi un'enorme fotografia di Marion. Tutto questo servi solo a tenere lontano il pubblico dal botteghino. Ma una sera dai Fairbanks diedero un film con Marion Davies, When Knighthood Was in Flower 1. Scopersi con sorpresa che era un'ottima attrice, ricca di fascino e di talento, e che sarebbe stata a buon diritto una stella senza bisogno della ciclonica pubblicità di Hearst. Alla cena di Elinor Glyn la trovai semplice e incantevole e da quel momento stringemmo una grande amicizia. La relazione tra Hearst e Marion è ormai leggendaria negli Stati Uniti e, forse, in tutto il mondo. Durò più di trent'anni, fino al giorno della morte di lui. Se qualcuno mi domandasse quale personaggio mi ha fatto l'impressione più profonda in vita mia, direi il defunto William Randolph Hearst. Dovrei spiegare che l'impressione non fu sempre piacevole, benché egli avesse notevoli doti. Ad affascinarmi fu l'enigma della sua personalità: la fanciullaggine, la sagacia, la gentilezza, la crudeltà, il potere e le immense ricchezze, e soprattutto la genuina naturalezza. Giudicandolo in base al metro di questo mondo, fu l'uomo più libero che io abbia mai conosciuto. Il suo impero finanziario era vario e favoloso; 1 Quando la cavalleria era in fiore.
consisteva in centinaia di pubblicazioni, grosse holdings immobiliari a New York, miniere e ampie estensioni di terreno nel Messico. Il segretario mi disse che le sue imprese valevano 400.000.000 di dollari: un mucchio di soldi, a quei tempi. Sulla figura di Hearst le opinioni sono divergenti. Alcuni affermano che era un sincero patriota americano, altri che era un opportunista interessato esclusivamente alla diffusione dei suoi giornali e all'accrescimento della sua fortuna. Ma da giovane fu un uomo avventuroso e progressista. Inoltre, poteva sempre contare sul « tesoro » paterno. Si racconta che Russell Sage, il finanziere, incontrò un giorno la madre di Hearst, Phoebe Hearst, nella Quinta Strada, e le disse: « Se suo figlio insiste nell'attaccare Wall Street il suo giornale perderà un milione di dollari all'anno ». « Di questo passo, signor Sage, può continuare la sua attività per altri ottant'anni » disse sua madre. La prima volta che incontrai Hearst commisi un faux pas. Joe Silverman, editore e direttore di Variety, mi portò a pranzo nell'appartamento di Hearst, in Riverside Drive. Era la tipica casa del riccone, con quadri rari, soffitti alti, pareti rivestite di mogano e vetrinette incorporate per le porcellane. Dopo essere stato presentato alla famiglia Hearst, sedemmo tutti a tavola. La signora Hearst era una bella donna dai modi cortesi e disinvolti. Hearst, dal canto suo, aveva gli occhi sgranati e lasciò parlare sempre me. « La prima volta che l'ho vista, signor Hearst » dissi « fu al Beaux Arts Restaurant, dove stava pranzando in compagnia di due signore. Mi venne indicato da un amico. » Sotto il tavolo sentii qualcuno toccarmi un piede. Compresi che era Joe Silverman. « Oh » disse Hearst, con espressione arguta. Cominciai a balbettare. « Be', se non era lei era qualcuno che le somigliava moltissimo... Certo il mio amico non era proprio sicuro » dissi, cercando di fare l'ingenuo.
« Be' » disse Hearst con una strizzatina d'occhi « è molto comodo avere una controfigura. » « Si » esclamai io, ridendo forse un po' troppo rumorosamente. Mi venne in aiuto la signora Hearst. « Si » sottolineò argutamente « è molto comodo. » Ad ogni modo l'incidente fu presto dimenticato e il pranzo si svolse in un'atmosfera molto piacevole. Marion Davies venne a Hollywood a lavorare per la Cosmopolitan Productions di Hearst. Affittò una casa a Beverly Hills e Hearst, attraverso il canale di Panama, portò in acque californiane il suo panfìlo di ottantacinque metri. Da allora in poi la colonia cinematografica entrò in un'era da Mille e una notte. Due o tre volte alla settimana Marion dava stupendi ricevimenti con qualcosa come cento invitati, un mélange di attori, attrici, senatori, giocatori di polo, ballerini, potentati stranieri, funzionari e impiegati del mondo editoriale di Hearst. C'era una curiosa atmosfera di tensione e frivolezza, perché nessuno era in grado di prevedere il mercuriale umore del potente Hearst, che era il barometro sul quale si poteva leggere se la serata sarebbe riuscita o no. Ricordo un incidente a una cena che Marion organizzò nella casa presa in affitto a Beverly. Eravamo una cinquantina, in piedi, sparsi qua e là, mentre Hearst, con la sua aria saturnina, sedeva su una poltrona dall'alto schienale circondato dal suo stato maggiore editoriale. Marion, con un abito alla Madame Recamier, distesa su un divano, era bellissima, ma sempre più taciturna via via che Hearst parlava d'affari con i suoi tirapiedi. A un tratto gridò, indignata: «Ehi, tu! ». Hearst sollevò lo sguardo. « Dici a me? » chiese. « Si, a te ! Vieni qui ! » rispose lei, senza togliergli di dosso i grandi occhi azzurri. Tutto lo stato maggiore fece un passo indietro e la stanza piombò nel silenzio. Hearst, immobile come una sfinge, socchiuse gli occhi, incerto se uscire dai gangheri o no. La fronte s'incupì e le labbra disparvero in una linea sottile, mentre le sue dita tamburellavano nervosamente sul bracciolo di quella poltrona simile a un trono. Provai l'impulso di prendere cap
pello. Ma a un tratto lui si alzò. « Be', immagino di non potermi sotr trarre a quest'ordine » disse comicamente, mentre le si avvicina zoppicando come un buffone. « E che cosa desidera la mia signora? » « Se hai da lavorare, fallo in città » disse Marion, sdegnosamente, « non a casa mia. I miei ospiti hanno sete, dunque muoviti e offri loro qualcosa. » « Va bene, va bene » disse lui, mentre spariva in cucina, sempre zoppicando, e tutti tiravano un sospiro di sollievo. Un giorno, mentre viaggiavo in treno da Los Angeles a New York per occuparmi di alcuni affari urgenti, ricevetti un telegramma da Hearst chi m'invitava ad andare in Messico- con lui. Risposi, con un altro telegramma, che disgraziatamente avevo degli affari da sbrigare a New York. A Kansas City, però, mi vennero incontro due emissari di Hearst. « Siamo qui per farla scendere dal treno » dissero, sorridendo, e mi spiegarono che Hearst avrebbe dato ai suoi legali di New York l'incarico di occuparsi di tutti i miei affari colà. Ma non mi fu possibile accettare. Non ho mai visto una persona profondere le sue ricchezze a piene mani con aria cosi dégagée come Hearst. Rockefeller sentiva il peso morale del danaro, Pierpont Morgan era posseduto dal suo potere, ma Hearst spendeva milioni di dollari con la stessa indifferenza con cui, da ragazzo, avrebbe speso il suo assegno settimanale. La villa al mare che Hearst regalò a Marion a Santa Monica era un palazzo costruito simbolicamente sulla sabbia da muratori fatti venire apposta dall'Italia, un edifìcio georgiano di settanta stanze, largo novanta metri, a tre piani, con una sala da ballo e una sala da pranzo laminate d'oro. Quadri di Reynolds, Lawrence e altri artisti erano appesi dappertutto: non mancavano i falsi. Nella spaziosa biblioteca rivestita di quercia, schiacciando un bottone si alzava una sezione del pavimento che si trasformava in uno schermo cinematografico. La sala da pranzo di Marion ospitava comodamente cento invitati. Diversi eleganti appartamenti erano a disposizione di almeno una ventina di amici. Una piscina di marmo italiano lunga più di trenta metri 37°
e attraversata da un ponte di marmo veneziano era al centro di un giardino cintato sull'oceano. Adiacenti alla piscina erano il bar e una piccola pista da ballo tipo locale notturno. Le autorità di Santa Monica volevano costruire un porto per le navi da crociera e da piccolo cabotaggio, un progetto appoggiato dal Times di Los Angeles. Poiché possedevo anch'io un piccolo panfìlo, la trovai una buona idea e un mattino a colazione lo dissi a Hearst. « Deprezzerebbe tutta la zona ! » esclamò lui, indignato. « Avere un branco di marinai che ti spiano dalla finestra come se questa casa fosse un bordello ! » Non tornammo mai più sull'argomento. Hearst era di una naturalezza straordinaria. Se era in vena ballava il suo charleston preferito con incantevole goffaggine, senza badare a quel che pensava la gente di lui. Non aveva nulla del poseur e si dava da fare solo per ciò che lo interessava. Mi diede l'impressione di essere un uomo ottuso: forse lo era, ma non faceva il minimo sforzo per apparire diverso. Molta gente credeva che i « fondi » quotidiani firmati da Hearst fossero scritti da Arthur Brisbane, ma lo stesso Brisbane mi disse che Hearst era il più brillante fondista del paese. A volte era addirittura puerile e si potevano ferire facilmente i suoi sentimenti. Ricordo che una sera, mentre formavamo le squadre per giocare alle sciarade, si lagnò di essere stato escluso. « Be' » disse Jack Gilbert in tono faceto « faremo una sciarada per conto nostro, e rappresenteremo la "scatola di pillole" : io farò la scatola e tu puoi fare la pillola. » Ma W. R. se l'ebbe a male; gli tremava la voce. « Non mi va di recitare le tue vecchie sciarade » disse, e con questo lasciò la stanza sbattendosi l'uscio alle spalle. I quattrocentomila acri del ranch di Hearst, a San Simeon, si estendevano per quasi cinquanta chilometri lungo la costa del Pacifico. Le abitazioni si trovavano su un altopiano, raggruppate come una cittadella, a centocinquanta metri sul livello del mare e a sei chilometri e mezzo dall'oceano. L'edificio principale era stato costruito con il materiale di diversi castelli europei, imballato e spedito via mare. La facciata sembrava un incrocio tra la Cattedrale di Reims e un gigantesco chalet sviz
zero. Intorno, come avamposti, c'erano cinque ville italiane, costruite sull'orlo della spianata, ciascuna delle quali era in grado di ospitare sei invitati. Erano arredate all'italiana con soffitti barocchi dai quali ti sorridevano serafini e cherubini scolpiti. Nel castello principale c'erano stanze per altri trenta invitati. La sala dei ricevimenti misurava ventisette metri per quindici ed era adorna di arazzi Gobelins, alcuni autentici, altri falsi. In questa atmosfera baronale le due estremità del locale erano occupate da tavoli da sbaraglino e biliardini. La sala da pranzo era una copia, in piccolo, della navata dell'Abbazia di Westminster e ospitava comodamente ottanta invitati. Il personale di servizio comprendeva sessanta tra cameriere, domestici e maggiordomi. A portata di udito del castello c'era un giardino zoologico, con leoni, tigri, orsi, scimmie, oranghi, uccelli e rettili. Dalla portineria al castello c'era un viale di otto chilometri fiancheggiato da cartelli con la scritta: « Gli animali hanno la precedenza ». Si doveva aspettare in macchina che una coppia di struzzi si decidessero a sgomberare la strada. Pecore, daini, alci e bufali vagavano per la tenuta ostacolando la marcia delle automobili. C'erano macchine per andare a prendere gli ospiti alla stazione o, se venivi in aereo, al campo d'aviazione privato. Se per caso arrivavi tra un pasto e l'altro ti mostravano la stanza, t'informavano che la cena era alle otto e che i cocktail sarebbero stati serviti alle sette e mezzo nel salone. Per divertirsi si poteva nuotare, cavalcare, giocare a tennis o visitare lo zoo. Hearst impose una sola regola: che a nessuno venisse servito da bere fino alle sei di sera. Ma Marion radunava le amiche nelle sue stanze dove i cocktail erano serviti di nascosto. Le cene erano raffinate; il menu sembrava quello di un banchetto di Carlo I. C'era selvaggina di stagione: fagiano, anitra selvatica, pernice e carne di daino. Pure, fra tanta opulenza, ci venivano distribuiti tovagliolini di carta, e solo quando era presente la signora Hearst gli ospiti ne ricevevano di lino. La signora Hearst visitava annualmente San Simeon, e non scoppiò mai
una lite. La coesistenza tra Marion e la signora Hearst si basava su un'intesa reciproca: quando si avvicinava il momento dell'arrivo della signora Hearst, Marion, col resto di noi, spariva con grande discrezione o faceva ritorno alla villa di Santa Monica. Conoscevo Millicent Hearst dal 1916 ed eravamo ottimi amici, perciò avevo il salvacondotto per entrambe le località. Quando si rifugiava nel ranch con i suoi amici della buona società di San Francisco, ero sempre invitato a passare il week-end con loro e capitavo da quelle parti come se fosse la mia prima visita della stagione. Ma Millicent non si faceva illusioni. Pur fingendo di ignorare l'esodo appena avvenuto, la prendeva con molto spirito. « Se non fosse Marion sarebbe un'altra » mi disse. Mi parlava spesso in confidenza della relazione tra Marion e W. R., ma mai con amarezza. « Continua a comportarsi come se nulla fosse mai accaduto tra noi e come se Marion non esistesse » diceva. « Quando arrivo io è sempre dolce e premuroso, ma non si trattiene mai più di qualche ora. Ed è sempre la stessa storia : nel bel mezzo della cena il maggiordomo gli porge un biglietto, lui si scusa e lascia la tavola. Quando ritorna dice goffamente che a Los Angeles c'è un affare urgente che richiede la sua immediata presenza, e noi fingiamo di credergli. Naturalmente sappiamo tutti che torna da lei. » Una sera dopo cena andai con Millicent a fare quattro passi nel parco. Il castello spiccava sotto la luna, e aveva un aspetto fantastico e spettrale sullo sfondo selvaggio delle sette cime montane: le stelle traforavano un cielo stupendamente sereno. Indugiammo qualche istante ad ammirare la bellezza del panorama. Dal giardino zoologico provenivano, di tanto in tanto, il ruggito di un leone e l'urlo ininterrotto di un enorme orangutango, echeggiante e rimbombante contro i picchi rocciosi. Era una sensazione bizzarra e terrificante, perché tutte le sere al tramonto lo scimmione attaccava la sua sinfonia, dapprima in sordina, poi a poco a poco raggiungendo un volume infernale che manteneva fino a notte. « Quella povera bestia dev'essere pazza » dissi io. « Tutto il posto è una follia. Ma guardalo ! » disse lei, indicandomi il
castello. « La creazione del pazzo Otto... E continuerà a costruire e ad aggiungere qualcosa fino al giorno della sua morte. Allora a che servirà? Nessuno può permettersi il lusso di mantenerlo. Come albergo non va di sicuro, e se lo lascia allo stato dubito che possano utilizzarlo in qualche modo, anche come università. » Millicent parlava sempre di Hearst in tono materno, il che mi fece sospettare che fosse ancora innamorata di lui. Era una donna dolce e comprensiva, ma negli anni che seguirono, quando divenni politicamente de trop, si mise a trattarmi con sufficienza. Una sera, quando arrivai a San Simeon per trascorrervi il week-end, Marion mi venne incontro nervosa ed eccitata. Uno degli ospiti era stato aggredito a rasoiate mentre stava attraversando il parco. Quand'era eccitata, Marion tartagliava, il che aumentava il suo fascino e le dava una cert'aria da signora in ambasce. « A-a-ancora non sappiamo chi è stato » mormorò « ma W. R. ha sguinzagliato nel parco una squadra di investigatori, e noi stiamo cercando di tenere nascosta la notizia agli altri ospiti. Alcuni ritengono che l'aggressore fosse un filippino, e perciò W. R. ha deciso di allontanare dal ranch ogni filippino finché non sia fatta piena luce. » « Chi è l'uomo che è stato aggredito? » domandai. « Lo vedrai stasera a cena » disse lei. A cena presi posto davanti a un giovanotto che aveva il viso tutto fasciato; non riuscii a vedere altro che i suoi occhi scintillanti e i denti bianchi che scopriva in un perpetuo sorriso. Sotto la tavola, Marion mi toccò il braccio. « È lui » sussurrò. Non pareva affatto turbato dall'aggressione, e mangiava con grande appetito. A tutte le domande in proposito rispondeva con una spallucciata e un sorrisetto. Dopo cena Marion mi mostrò dov'era avvenuta l'aggressione. « È stato dietro quella statua » disse, indicando una copia marmorea della « Vittoria alata ». « Ecco le macchie di sangue. »
« Che faceva dietro la statua? » chiesi io. « Ce-ce-cercava di sfuggire all'aggressore » rispose lei. A un tratto ricomparve il nostro uomo, sbucando dalla notte, col viso grondante sangue, e ci passò davanti barcollando. Marion lanciò un urlo e io feci un salto di un metro. In un baleno venti uomini materializzatisi dal nulla lo circondarono. « Mi hanno assalito un'altra volta » gemette lui. Due poliziotti se lo caricarono in spalla per riportarlo in camera sua, dove fu interrogato. Marion scomparve, ma un'ora dopo la vidi nel salone. « Che è successo? » domandai. Aveva un'aria scettica. « Dicono che ha fatto tutto da solo. È fissato e vuole soltanto far parlare di sé. » Senza tante storie, l'eccentrico esibizionista fu allontanato quella sera stessa e l'indomani mattina i poveri filippini tornarono al lavoro. Uno degli ospiti di San Simeon e della villa al mare di Marion fu Sir Thomas Lipton, un vecchio scozzese, loquace e delizioso, con un'incantevole cadenza dialettale. Non faceva che parlare, rivangando senza posa i suoi ricordi. Diceva: « Charlie, tu sei venuto in America e ti sei fatto una posizione. Io pure. La prima volta che arrivai in questo paese fu su una nave adibita al trasporto del bestiame. Allora mi dissi: la prossima volta arriverò a bordo del mio panfìlo personale. E cosi fu ». Non faceva che lamentarsi, giurando che i suoi dipendenti gli rubavano sotto il naso milioni di sterline. Alexander Moore, ambasciatore in Spagna, Sir Thomas Lipton e io cenammo spesso insieme a Los Angeles; Alex e Sir Thomas si abbandonavano volentieri ai ricordi, lasciando cadere a turno nomi celebri come cicche, e dandomi l'impressione che i membri delle case reali non si esprimessero che per epigrammi. In questo periodo vidi molto spesso Hearst e Marion; poiché mi piaceva la vita stravagante che conducevano, ed ero libero di trascorrere tutti i week-end nella villa al mare di Marion, ne approfittavo spesso, anche perché Doug e Mary si trovavano in Europa. Un mattino, mentre facevamo colazione con vari altri ospiti, Marion mi chiese consiglio su un copione, ma la mia risposta non andò a genio a W. R. Era un
soggetto sul femminismo e io osservai che sono le donne a scegliersi il loro uomo e che gli uomini hanno poca voce in capitolo. W. R. la pensava diversamente. « Oh no » disse « è sempre l'uomo a fare la scelta. » « Cosi crediamo noi » risposi « ma una damigella ti punta il dito contro dicendo: "Prendo quello" e sei spacciato. » « Ti sbagli di grosso » disse Hearst, molto sicuro di sé. « II guaio è » ripresi io « che dissimulano cosi bene la loro tecnica da indurci a credere che abbiamo scelto noi. » A questo punto Hearst picchiò bruscamente un pugno sul tavolo, facendo tremare piatti e bicchieri. « Se io dico che una cosa è bianca, tu dici subito che è nera! » sbottò. Ebbi l'impressione di essere leggermente impallidito. Il caso volle che il cameriere mi stesse servendo il caffè. Alzai gli occhi e dissi: « Abbia la cortesia di farmi fare le valigie da qualcuno e di chiamare un tassi ». Poi, senza una parola, andai di sopra e, entrato nella sala da ballo, mi misi a passeggiare avanti e indietro, ammutolito dalla rabbia. Un momento dopo apparve Marion. « Che ti prende, Charlie? » Mi tremava la voce. « Non permetto a nessuno di usare quel tono con me! Ma chi si crede di essere? Nerone? Napoleone? » Senza rispondere lei girò sui tacchi e lasciò in fretta la stanza. Un attimo dopo, come se niente fosse, apparve W. R. « Che c'è, Charlie? » « Non mi garba che qualcuno alzi la voce con me, specie se sono suo ospite. E perciò me ne vado. Io... » La voce mi mori in gola e non potei finire la frase. W. R. riflettè per qualche istante, poi cominciò anche lui a misurare il pavimento a lunghi passi. « Parliamone un momento » disse con voce tremula. Lo seguii nel corridoio, in una nicchia dove c'era una doppia poltrona antica in stile Chippendale. Hearst era alto un metro e novanta e grosso in proporzione. Si sedette e m'indicò lo spazio che avanzava : « Accomodati, Charlie, e parliamone un momento ». Presi posto al suo fianco, ma ci trovammo pigiati come sardine. Senza una parola lui mi tese
improvvisamente la mano, che io mi sforzai di stringere, senza riuscire a girarmi sulla poltrona. Poi cominciò a spiegarmi, con voce ancora tremante : « Vedi, Charlie, il fatto è che io non voglio che Marion faccia questo film. Ma lei rispetta la tua opinione, e quando tu hai detto che il film ti piaceva... Be', ecco perché forse sono stato un po' bru sco con te ». La rabbia mi sbolli immediatamente e, considerando chiuso l'incidente, insistetti nell'attribuirmene tutta la colpa; e per suggellare la rappacificazione riuscimmo a stringerci di nuovo la mano, poi facemmo per alzarci, ma ci trovammo incastrati nella Chippendale, che cominciò a scricchiolare paurosamente. Dopo parecchi sforzi riuscimmo finalmente a districarci senza danneggiare la poltrona. Pare che dopo avermi visto Marion fosse subito andata da Hearst e lo avesse sgridato per essersi comportato cosi villanamente, ingiungendogli di venirmi a chiedere scusa. Marion sapeva quando parlare e quando tacere, come a volte faceva. « Se ha la luna » diceva « è capace di fare scenate spa-spa-spaventose. » Marion era un tipo allegro e molto simpatico; e quando gli affari chiamavano W. R. a New York, radunava tutti gli amici nella sua casa di Beverly Hills (prima che fosse costruita la villa al mare), dove organizzava delle feste e si giocava alle sciarade fino alle ore piccole. Poi Rodolfo Valentino ci invitava tutti a casa sua e io facevo lo stesso a casa mia. Certe volte si noleggiava un omnibus da servizio pubblico e, dopo averlo stivato di vettovaglie, assoldando anche un suonatore di organino, in dieci o venti si andava sulla spiaggia di Malibu dove si accendeva un falò e a mezzanotte si faceva uno spuntino e si pescavano i muggini. Ci accompagnava invariabilmente Louella Parsons, la cronista mondana di Hearst, scortata da Harry Cracker, che fini per diventare uno dei miei aiuto registi. Da queste spedizioni non si tornava mai prima delle quattro o delle cinque del mattino. Marion diceva a Louella: « Se W. R. lo viene a sapere uno di noi due perderà il posto, e no-no-non sarò io ».
Durante un'allegra cenetta a casa sua, W. R. telefonò da New York. Quando riappese la cornetta Marion era furiosa. « Te lo immagini? » disse, indignata. « W. R. mi ha fatto sorvegliare ! » Al telefono Hearst le aveva letto il rapporto di un investigatore privato che elencava tutti i movimenti di Marion dal giorno della sua partenza, dicendo che era stata vista uscire dalla casa di A alle quattro del mattino, dalla casa di B alle cinque, e cosi via. Marion mi disse poi che W. R. stava per tornare immediatamente a Los Angeles: avrebbero sistemato ogni cosa e si sarebbero divisi. Si capisce che Marion era indignata, perché non aveva fatto altro che divertirsi con amici. Il rapporto dell'investigatore era vero, nella sostanza, ma travisava le cose per dare un'impressione errata. Da Kansas City W. R. spedi un telegramma : HO CAMBIATO IDEA. NON VENGO IN CALIFORNIA PERCHÉ NON POSSO SOPPORTARE IL PENSIERO DI RIVEDERE QUEI POSTI DOVE HO TRASCORSO TANTI GIORNI FELICI. PERCIÒ RITORNO A NEW YORK. Ma subito dopo giunse un altro telegramma con la notizia che stava per arrivare a Los Angeles. Fu un momento di tensione per tutti i presenti quando ritornò W. R. Ma il primo colloquio con Marion ebbe un effetto salutare. Ne nacque un enorme banchetto in onore di W. R. e del suo ritorno a Beverly Hills, per il quale Marion fece aggiungere alla casa presa in affitto una sala da pranzo provvisoria della capienza di centosessanta posti. Fu completata in due giorni: decorata, provvista di luce elettrica, dotata inoltre di una pista da ballo coperta. Bastava che Marion strofinasse la lampada magica perché tutto si avverasse. Quella sera fece la sua comparsa con un nuovo anello di smeraldi da 75.000 dollari — dono di W. R. — e, fra parentesi, nessuno perse il posto. Per non andare sempre a San Simeon o nella villa al mare di Marion, ogni tanto passavamo un week-end sul panfìlo di Hearst, che ci portava in crociera a Catalina o prendeva la rotta del sud, verso San Die
go. Fu durante una di queste crociere che Thomas H. Ince, il quale aveva rilevato la Cosmopolitan Film Productions di Hearst, a San Diego dovette essere sbarcato. Io non ero presente, ma Elinor Glyn, che si trovava a bordo, mi disse che Ince aveva riso e scherzato con tutti, e che durante il pranzo era stato colpito all'improvviso da un dolore lancinante e costretto a lasciare la tavola. Tutti pensarono che si trattasse di una crisi di dispepsia, invece il suo stato peggiorò talmente che parve opportuno sbarcarlo dal panfìlo e farlo ricoverare all'ospedale. Là si scopri che aveva subito un attacco cardiaco. Ince fu rimandato a casa sua, a Beverly Hills, dove tre settimane dopo ebbe un secondo attacco e mori. Cominciò a circolare la voce che Ince era stato ucciso e che Hearst fosse implicato nel delitto. Queste voci calunniose, erano assolutamente infondate. Lo so perché Hearst, Marion e io andammo a trovare Ince a casa sua, due settimane prima che morisse. Egli fu molto felice di vederci, tutti e tre, e manifestò la speranza di rimettersi al più presto. La morte di Ince sconvolse i programmi della Cosmopolitan Productions di Hearst, nei quali le subentrò la Warner Brothers. Ma due anni dopo la Hearst Production passò alla MGM, dove fu costruito uno spe ciale bungalow come camerino per Marion (io lo chiamavo il Tria non). Qui Hearst trattava la maggior parte dei suoi affari giornalistici. Parecchie volte lo vidi seduto al centro della sala di Marion, con venti giornali o più sparsi sul pavimento. Dalla poltrona scorreva i vari titoli. « Quella pagina è fiacca » diceva con la sua voce acuta, indicando un giornale. « E perché il taldeitali dà tanto rilievo a quell'articolo? » Raccoglieva una rivista e ne sfogliava le pagine, soppesandola dubbioso con ambo le mani. « Che succede alle inserzioni del Redbook? È piuttosto leggera questo mese. Telegrafate a Ray Long di venire qui subito. » Nel bel mezzo di questa scena appariva Marion tutta in ghingheri, reduce dal teatro di posa, e con la sua aria moqueuse camminava deliberatamente sui giornali, dicendo : « Butta via tutta questa robaccia, m'ingombra il camerino ».
Hearst poteva essere di una timidezza quasi morbosa. Quando si recava alla première di uno dei film di Marion m'invitava in macchina con loro, e scendeva prima di arrivare davanti al teatro perché non lo vedessero giungere con lei. Eppure quando lo Hearst Examiner e il Times di Los Angeles ingaggiarono una lotta politica, con Hearst che attaccava vigorosamente e il Times che rispondeva per le rime, il Times ricorse a un attacco personale, accusando Hearst di condurre una doppia vita e di mantenere Marion in un nido d'amore a Santa Monica. Hearst non rispose all'attacco sul suo giornale, ma il giorno dopo venne da me (era appena morta la madre di Marion) e disse: « Charlie, vuoi portare la bara insieme a me al funerale della signora Davies? ». E naturalmente io accettai. Attorno al 1933 Hearst m'invitò ad accompagnarlo in Europa. Aveva prenotato per la sua corte mezza nave su uno dei transatlantici della Cunard Line. Ma declinai il suo invito perché, se lo avessi accompagnato, avrei dovuto stare sempre insieme ad altre venti persone, fermarmi dove voleva Hearst e affrettarmi quando voleva lui. Avevo già sperimentato che cosa volesse dire viaggiare con lui l'anno prima, in Messico, durante la gravidanza della mia seconda moglie. Una carovana di dieci automobili tallonava Hearst e Marion lungo strade sassose e io non facevo che maledire il momento in cui mi ero lasciato convincere a seguirlo. Le strade erano talmente impraticabili che dovemmo rinunciare alla nostra destinazione e fermarci per la notte in una fattoria messicana. Eravamo in venti, con due stanze a disposizione, una delle quali fu graziosamente concessa a mia moglie, Elinor Glyn e me. Alcuni dormirono su tavoli e sedie, altri in cucina e nei pollai. Fu una scena fantastica quella che si svolse nella cameretta dove mia moglie giaceva sull'unico letto, io puntellato su due seggiole ed Elinor, vestita come se dovesse andare al Ritz, su un divano sfondato col cappello in testa, i guanti e la veletta. Aveva le mani intrecciate sul petto; supina com'era, sembrava una figura tombale, e dormi indisturbata in quella posizione. Posso dirlo con certezza, perché non mi appisolai nemmeno per un minuto. Al mattino, con la coda dell'oc
chiò, vidi Elinor alzarsi da dove si era sdraiata, senza una piega, senza un capello fuori posto, con la pelle bianca e vellutata, briosa ed effervescente come se stesse per attraversare la sala da tè del Plaza. Nel suo viaggio in Europa Hearst portò con sé Harry Cracker, il mio ex-aiuto regista. Harry era diventato il suo segretario particolare e mi chiese se potevo dare a W. R. una lettera di presentazione per Sir Philip Sassoon, cosa che feci. Philip riservò a Hearst un'accoglienza calorosa e, sapendo che per molti anni era stato accanitamente anti-britannico, gli organizzò un incontro con il principe di Galles. Li chiuse insieme nella sua biblioteca dove, stando alla versione di Philip, di punto in bianco il principe chiese a Hearst perché ce l'avesse tanto con gli inglesi. Vi rimasero due ore, disse, e Philip era convinto che il colloquio con il principe avesse avuto un effetto salutare. Io non riuscii mai a capire i sentimenti anti-britannici di Hearst, che aveva in Inghilterra ricche compagnie finanziarie dalle quali ricavava lauti profitti. Le sue tendenze filo-tedesche risalivano alla prima guerra mondiale quando, in un momento piuttosto critico, la sua amicizia e i suoi rapporti con il conte Bernstorff - allora ambasciatore tedesco rasentarono lo scandalo. Persino l'immenso potere di Hearst riusci a stento a soffocarlo. E anche il suo corrispondente dall'estero americano, Karl von Wegan, scrisse sempre in modo favorevole della Germania fin quasi allo scoppio della seconda guerra mondiale. Durante il suo viaggio in Europa, Hearst visitò la Germania ed ebbe un'intervista con Hitler. Allora nessuno sapeva gran che dei campi di concentramento hitleriani. La prima indicazione venne dagli articoli scritti dal mio amico Cornelius Vanderbilt il quale era riuscito, con un pretesto, a penetrare in uno di essi e aveva descritto le torture che vi venivano perpetrate dai nazisti. Ma le sue testimonianze di quella degenerata brutalità erano talmente incredibili che poca gente vi prestò fede. Vanderbilt mi spedi una serie di fotografie formato cartolina che mostravano Hitler durante un discorso. Il viso era oscenamente comico:
una brutta copia del mio, con i suoi assurdi baffetti, le lunghe ciocche ribelli e una boccuccia disgustosamente sottile. Non riuscivo a prenderlo sul serio. Ogni cartolina ne illustrava una posa diversa: una con le mani simili ad artigli, mentre arringava la folla, un'altra con un braccio levato e l'altro lungo il corpo, come un giocatore di cricket che sta per lanciare la palla, e un'altra con le mani strette davanti a sé come se stesse sollevando un manubrio immaginario. Il saluto con la mano rovesciata all'indietro sulla spalla e col palmo rivolto all'insù mi faceva venir voglia di metterci sopra un vassoio di piatti sporchi. « Questo è matto ! » pensai. Ma quando Einstein e Thomas Mann furono costretti a lasciare la Germania, il viso di Hitler non era più comico ma sinistro. La prima volta che incontrai Einstein fu nel 1926, quando venne in California per una serie di conferenze. Io ho una teoria, secondo la quale scienziati e filosofi non sono che dei romantici idealisti che hanno incanalato le loro passioni in un'altra direzione. Questa teoria si adattava benissimo alla personalità di Einstein. Aveva l'aria del tipico tirolese, nel miglior senso della parola, affabile e gioviale. E benché i suoi modi fossero calmi e gentili, sentii che nascondevano un temperamento estremamente emotivo, e che era da questa fonte che proveniva la sua straordinaria energia intellettuale. Fu Carl Laemmle degli studi Universal a telefonare per informarmi che il professor Einstein desiderava conoscermi. Rimasi elettrizzato. Ci trovammo dunque a pranzo nella sede della Universal, il professore, sua moglie, la sua segretaria Helene Dukas e il suo assistente professor Walter Meyer. La signora Einstein parlava un ottimo inglese, assai migliore di quello del marito. Era una donna quadrata, provvista di una straordinaria vitalità; francamente si divertiva ad essere la moglie di un grand'uomo e non faceva nessun tentativo per nasconderlo; il suo entusiasmo la rendeva simpatica a tutti. Dopo pranzo, mentre Laemmle faceva loro visitare lo studio, la signora
Einstein mi tirò in disparte e sussurrò: « Perché non invita il professore a casa sua? So che gli piacerebbe moltissimo scambiare quattro chiacchiere in santa pace, tra noi ». Dato che la signora Einstein mi aveva pregato di non fare le cose in grande, invitai solo altri due ami ci. A cena ella mi raccontò la storia del mattino in cui suo marito aveva concepito la teoria della relatività. Disse che il dottore era sceso in vestaglia, come sempre, ma aveva appena toccato la colazione. « Capii subito che qualcosa bolliva in pentola e gli chiesi quale problema fosse a tormentarlo. "Cara" disse lui "ho un'idea formidabile." E dopo aver bevuto il caffè andò al piano e si mise a suonare. Di tanto in tanto s'interrompeva, prendeva qualche appunto e ripeteva: "È un'idea formidabile, un'idea fantastica!" « "Allora, per amor del cielo, dimmi di che si tratta" dissi io. "Non tenermi cosi in sospeso." « "È difficile" disse lui. "La devo ancora sviluppare." » Mi disse che continuò a suonare il piano e a prendere appunti per circa mezz'ora, poi sali nel suo studio, informandola che non voleva essere disturbato, e vi rimase due settimane. « Tutti i giorni gli mandavo su i pasti » disse « e la sera faceva una passeggiatina igienica e poi tornava al suo lavoro. » «Finalmente» disse «usci dallo studio: era pallidissimo. "Ecco qua" disse stancamente, posando sul tavolo due fogli di carta. E quella era la teoria della relatività. » II Dr. Reynolds, che mi ero affrettato a invitare perché aveva un'infarinatura di fìsica, chiese al professore durante la cena se avesse letto Esperimento col tempo 1 di Dunne. Einstein scosse il capo. Disse allegramente Reynolds: « Espone un'interessante teoria sulle dimensioni, una specie di... » qui ebbe un'esitazione « ...una specie di estensione di una dimensione. » 1 Experiment with Time.
Einstein si girò maliziosamente verso di me e mormorò: « Un'estensione di una dimensione, was ist das? » Dopo di che Reynolds abbandonò le dimensioni al loro destino e chiese a Einstein se credeva ai fantasmi. Einstein confessò di non averne mai visto uno e soggiunse: « Quando altre dodici persone testimonieranno di avere assistito allo stesso fenomeno nel medesimo tempo, allora forse potrò crederci ». E sorrise. Era un momento in cui a Hollywood infuriava la passione per i fenomeni dello spiritismo. Gli ectoplasmi la coprivano come una nebbia, specie nelle case dei divi del cinema dove avevano luogo sedute spiritiche e dimostrazioni di levitazione e altri fenomeni psichici. Io non partecipavo a queste riunioni, ma Fanny Brice, la celebre attrice, giurava che durante una seduta spiritica aveva visto un tavolo alzarsi e galleggiare nella stanza. Chiesi al professore se avesse mai assistito a un fenomeno siffatto. Lui sorrise ironicamente e scosse il capo. Gli chiesi anche se la sua teoria della relatività non fosse in qualche modo in contrasto con l'ipotesi newtoniana. « Al contrario » ribatte lui « è una sua estensione. » Alla signora Einstein dissi che dopo la « prima » delle Luci della città intendevo recarmi in Europa. « Allora deve venirci a trovare a Berlino » esclamò lei. « Certo non abbiamo una casa tanto grande: il professore non è ricco. Per la sua attività scientifica può disporre di oltre un milione di dollari concessi dalla Fondazione Rockefeller, ma non se n'è mai servito. » Qualche tempo dopo, quando mi recai a Berlino, li andai a trovare nel loro modesto appartamentino. Sembrava uno di quegli alloggi che si possono trovare nel Bronx, con una sola stanza adibita a soggiorno-sala da pranzo, e con il pavimento coperto da vecchi tappeti logori. Il mobile più prezioso era il pianoforte nero sul quale egli prese quegli storici appunti preliminari sulla quarta dimensione. Mi sono chiesto spesso che fine abbia fatto. Può darsi che sia allo Smithsonian Institute o al Metropolitan Museum ; ma può anche darsi che i nazisti se ne siano serviti per accendere il fuoco.
TAVOLE IV 52 Il mio primo incontro con Sir Philip Sassoon, al centro, tramite Carpentier, a Parigi 53 Con Amy Johnson, a sinistra, Lady Astor e Bernard Shaw 54 L'incontro con Gandhi a Londra 55 Winston Churchill propone un brindisi in mio onore dopo la « prima » delle Luci della città 56 Con Jascha Heifetz 57 Il pianista Godowski e la sua famiglia. Il figlio maggiore, alla mia destra, divenne uno degli inventori della fotografia a colori Un film fatto in casa. L'eroina, Lady Mountbatten; il bandito con la pistola, io 59 Annuncio a Lord Mountbatten che non è un attore 60 Randolph e Millicent Hearst 61 San Simeon, la residenza di W. Randolph Hearst 62 Con Randolph Hearst e Marion Davies 63 Col Dr. Cecil Reynolds, chirurgo specialista delle malattie del cervello
e mio amico 64 La casa che feci costruire a Beverly Hills quando ritornai al celibato nel 1923 65 Alf Reeves, il mio fedele manager 66 Una storia di pesci: la cattura di un tonno di 50 kg. al largo dell'isola Catalina con Edward Knoblock 67 La Panacea in ogni senso della parola 68 Con Anna Pavlova agli studi Chaplin 69 Pola Negri 70 Peggy Hopkins Joyce 71 Con Albert Einstein alla « prima » delle Luci della città
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Quando il terrore nazista si abbattè sulla Germania, gli Einstein cercarono asilo negli Stati Uniti. La signora Einstein riferisce un aneddoto interessante sull'ignoranza del professore in materia di danaro. L'università di Princeton cercò di assicurarsene i servigi, aggregandolo al corpo insegnante, e gli scrisse per conoscere le sue condizioni; il professore propose una cifra cosi modesta che Princeton dovette rispondere che le condizioni da lui richieste non sarebbero state sufficienti per poter vivere negli Stati Uniti, e che avrebbe avuto bisogno almeno del triplo. Quando tornarono in California nel 1937 gli Einstein vennero a trovarmi. Il professore mi abbracciò affettuosamente e disse che si sarebbe fatto accompagnare da tre musicisti. « Dopo cena suoneremo per lei. » Quella sera Einstein esegui la sua parte in un quartetto di Mozart. Benché la sua mano non fosse troppo sicura e la sua tecnica un tantino rigida, suonò con passione, chiudendo gli occhi e ondeggiando. I tre musicisti, che non mostravano troppo entusiasmo per la partecipazione del professore, gli proposero con discrezione di riposarsi un po': loro intanto avrebbero suonato qualcosa. Lui accettò, senza sollevare obiezioni, e sedette con gli altri a sentire. Dopo che ebbero eseguito vari pezzi, si voltò per sussurrarmi: « E io quando suono? ». Appena i musicisti se ne furono andati la signora Einstein, piuttosto indignata, rassicurò il marito: « Hai suonato meglio di loro! ». Alcune sere dopo tornarono a cena e invitai Mary Pickford, Douglas Fairbanks, Marion Davies, W. R. Hearst, insieme ad altre due o tre persone. Marion Davies sedeva vicino a Einstein e la signora Einstein alla mia destra, vicino a Hearst. Prima di cena sembrò che tutto andasse a gonfie vele: Hearst era amabile ed Einstein gentilissimo. Ma col passare del tempo, durante la cena, sentii l'atmosfera raffreddarsi progressivamente, finché nessuno disse più una parola. Feci del mio meglio per ravvivare la conversazione ma non trovai un solo argomento che li inducesse ad aprir bocca. La sala da pranzo piombò in un silenzio sinistro. Vidi Hearst che guardava tristemente nel piatto e il profes sore che sorrideva, tranquillamente immerso nei suoi pensieri. 17. 385
Marion, con la solita disinvoltura, aveva bersagliato di frizzi e sarcasmi tutti i presenti tranne Einstein. A un tratto si rivolse al professore e disse con aria sbarazzina : « Ciao ! » poi giocherellò con le dita sulla sua testa dicendo: « Perché non si taglia i capelli? ». Einstein sorrise e io ritenni che fosse giunto il momento di passare nel salotto per prendere il caffè. Eisenstein, il regista russo, venne a Hollywood con la sua troupe, comprendente Grigor Alexandrov e un giovanotto inglese di nome Ivor Montagu. Li vidi molto spesso. Venivano a giocare a tennis (malissimo) sul mio campo: Alexandrov, almeno. Eisenstein doveva girare un film per la Paramount. Venne con la fama del Potemkin e dei Dieci giorni che sconvolsero il mondo; la Paramount aveva pensato che fosse un buon affare scritturarlo per fargli dirigere un film tratto da un soggetto scritto da lui stesso. Ne scrisse infatti uno molto bello, Sutter's Gold 1, basato su un interessante documento risalente agli albori della California. Non c'era un briciolo di propaganda, ma dato che Eisenstein veniva dalla Russia la Paramount fece presto a insospettirsi e il progetto andò a monte. Discutendo con lui sul comunismo, un giorno, gli chiesi se pensava che il proletariato istruito fosse pari, mentalmente, all'aristocratico forte della tradizione culturale delle generazioni che lo avevano preceduto. Credo che rimase sorpreso dalla mia ignoranza. Eisenstein, che proveniva da una famiglia di tecnici appartenente alla borghesia russa, disse : « Date loro la possibilità di istruirsi e là fertilità cerebrale delle masse sarà come un nuovo, ricchissimo humus ». Il suo film Ivan il Terribile, che vidi dopo la seconda guerra mondiale, fu certo il migliore di tutti i film storici. Egli trattò la storia poetica 1 L'oro di Sutter. ,
mente, il che è un ottimo sistema per fare della storia. Quando penso alla distorsione che subiscono anche i fatti più recenti, la storia come tale desta solo il mio scetticismo, laddove un'interpretazione poetica consegue l'effetto generale del periodo. Alla fin fine c'è più autenticità storica nelle opere d'arte che nei libri di storia.
Ventuno Mentre ero a New York, un amico m'informò di avere assistito alla sincronizzazione sonora di un film e predisse che in breve essa avrebbe rivoluzionato l'intera industria cinematografica. Non ci pensai più fino a qualche mese dopo, quando la Warner Brothers produsse la sua prima sequenza parlata. Era un film in costume, nel quale si vedeva un'attrice molto carina - che rimarrà anonima macerarsi in silenzio per un grande dolore, tradendo l'angoscia negli occhioni pieni di sentimento e più eloquenti di Shakespeare. Poi, a un tratto, nel film entrava un nuovo elemento: il rumore che si sente quando ci si porta all'orecchio una conchiglia marina. Allora l'adorabile principessa diceva, come se avesse la gola piena di sabbia: « Sposerò Gregory, a costo di rinunciare al trono ». Fu un colpo tremendo, perché fino a quel momento la principessa ci aveva ammaliato. A misura che il film procedeva il dialogo divenne più ridicolo, ma mai cosi ridicolo come gli effetti sonori. Quando girava la maniglia sulla porta del boudoir si aveva l'impressione che qualcuno avesse dato un colpo di manovella per mettere in moto un trattore agricolo, e quando l'uscio si chiudeva sembrava che si fossero scontrati due autocarri carichi di legname. All'inizio nessuno sapeva dosare il sonoro: il cavaliere errante dentro la sua armatura sferragliava come un'acciaieria, una semplice ce netta in famiglia sembrava l'ora di punta in una trattoria economica e chi versava l'acqua in un bicchiere faceva un rumore da sfondare i timpani. Uscii dal teatro convinto che il sonoro avesse i giorni contati.
Un mese dopo la MGM produsse Melodie di Broadway 1, una commedia musicale sonora a lungometraggio, molto scadente sotto il profilo artistico, ma che ottenne uno strepitoso successo finanziario. Quello fu l'avvio, e nel volger di una notte tutti i teatri presero a telegrafare che volevano pellicole sonore. Era il tramonto del cinema muto. Fu un peccato, perché cominciava a perfezionarsi proprio allora. Murnau, il regista tedesco, si era servito efficacemente di questo mezzo espressivo, e alcuni dei nostri registi americani cominciavano a fare lo stesso. Un buon film muto interessava sia l'intellettuale che la massa degli spettatori. Ma ormai il cinema aveva cambiato strada. Io però ero deciso a continuare a fare film muti, perché credevo che ci fosse posto per ogni sorta di svaghi. Inoltre ero praticamente un mimo, unico nel suo genere, e, senza falsa modestia, un maestro. Proseguii pertanto la lavorazione di un altro film muto, Le luci della città. Esso prendeva le mosse dalla storia di un clown che, in seguito a un incidente occorsogli al circo, aveva perso la vista. Questi ha una figlioletta, una bimba nervosa e malaticcia, e quando torna dall'ospedale il medico gli consiglia di tenerle nascosta la sua cecità finché ella non sarà abbastanza sana e forte per capire, giacché la scossa potrebbe esserle fatale. Le sue cadute e gli urti contro i mobili strappano alla bambina risate di gioia. Ma l'idea era troppo melodrammatica, e il personaggio del clown si trasformò in quello della fioraia cieca delle Luci della città. L'intreccio collaterale si basava su uno spunto con il quale mi trastullavo da anni: due soci di un circolo di ricconi, discutendo sull'instabilità della coscienza umana, decidono di tentare un esperimento con un vagabondo che trovano addormentato sul lungofiume. Lo portano nel loro sontuoso appartamento, lo circondano di donne, vino e musica e quando lui, ubriaco fradicio, si addormenta, lo riportano dove lo avevano trovato. Al risveglio il vagabondo crede che sia stato tutto un so 1The Broadway Melody, 1929. Regia di Leon Beaumont. (N. d. T.)
gno. Da questa idea nacque la storia del milionario delle Luci della città che si mostra amico del vagabondo quando è ubriaco e lo ignora quando è sobrio. Questo tema motiva l'intreccio e permette al vagabondo di fingere con la ragazza cieca dì essere ricco. Dopo il lavoro avevo l'abitudine di raggiungere Doug nel suo studio per fare un bagno di vapore. Vi si radunavano parecchi dei suoi amici - attori, produttori e registi -e stavamo là seduti a sorseggiare il nostro gin and tonic, spettegolando e parlando di cinema. Il fatto che io stessi girando un altro film muto fu per molti una sorpresa. « Hai un bel coraggio » dissero. In passato il mio lavoro aveva sempre stimolato l'interesse dei produttori. Ma adesso erano troppo preoccupati dal successo del sonoro, e col passare del tempo cominciai a sentirmi trascurato; probabilmente mi avevano abituato troppo bene. Joe Schenck, che aveva pubblicamente espresso la sua avversione per il sonoro, si rimangiò ben presto la parola. « Temo che questa novità non passerà di moda tanto facilmente, Charlie » e voleva forse ipotizzare che solo Chaplin avrebbe potuto portare al successo un film muto. Molto gentile da parte sua, ma non troppo consolante dal punto di vista economico, giacché non volevo certo essere l'unico fautore dell'arte del cinema muto. E non era molto rassicurante leggere sulle riviste gli articoli che esprimevano dubbi e timori per il futuro della carriera cinematografica di Charlie Chaplin. Ciò nondimeno Le luci della città era un film muto ideale, e nulla avrebbe potuto impedirmi di realizzarlo. Mi trovavo tuttavia di fronte a vari problemi. Dall'avvento del sonoro, che furoreggiava ormai da tre anni, gli attori avevano quasi disimparato a recitare pantomime. Tutto il loro tempismo se ne andava in chiacchiere e non in azione. Un'altra difficoltà era costituita dal bisogno di trovare una ragazza che potesse sembrare cieca senza che ciò andasse a scapito della sua bellezza. Tante candidate guardavano in su, mostrando il bianco degli occhi: un'esperienza veramente angosciosa. Il fato, però, ebbe ancora una 39°
volta partita vinta. Un giorno vidi una troupe cinematografica al lavoro sulla spiaggia di Santa Monica. C'erano molte belle ragazze in costume da bagno. Una mi salutò con la mano. Si trattava di Virginia Cherrill, che avevo già incontrato altrove. « Quando potrò lavorare per te? » chiese. Vedendola in costume da bagno, non mi sfiorò nemmeno l'idea che potesse interpretare una parte cosi spirituale come quella della ragazza cieca. Ma dopo un'altra sfilza di provini, preso dalla disperazione, le telefonai di venire allo studio. Constatai con sorpresa che riusciva benissimo a fingersi cieca. Le dissi di guardarmi senza vedermi, come fanno i ciechi, e vi riuscì perfettamente. La Cherrill era bella e fotogenica, ma aveva poca esperienza di recitazione. Questo talvolta costituisce un vantaggio, specie nel cinema muto dove la tecnica è tutto. Di solito le attrici esperte sono troppo legate alle proprie abitudini, e nella pantomima la tecnica del movimento è cosi meccanica che le disturba. Quelle che hanno meno esperienza fanno meno fatica ad adattarsi alla meccanica. Dovevo girare la scena in cui il vagabondo si districa da un ingorgo nel traffico entrando in una berlina e uscendo dall'altra parte. Quando sbatte lo sportello la fioraia cieca sente il tonfo e gli offre i suoi fiori, scambiandolo per il padrone della macchina. Con la sua ultima mezza corona lui compra un fiore da infilare all'occhiello. Ma, urtandola ac cidentalmente, le fa cadere il fiore di mano. Posando un ginocchio a terra, la ragazza si mette a cercarlo a tentoni. Lui le indica dov'è, ma lei continua a brancolare. Impaziente, il vagabondo si china a raccattarlo, poi la guarda incredulo. All'improvviso capisce che la ragazza non ci vede e, passandole il fiore davanti agli occhi, si rende conto che è cieca. Allora, scusandosi, l'aiuta a rialzarsi. La scena durava settanta secondi in tutto, ma occorsero cinque giorni di lavoro per girarla a puntino. Non fu colpa della ragazza ma mia, almeno in parte, perché mi ero talmente fissato nell'idea di raggiungere la perfezione da rasentare la nevrosi. Impiegai più di un anno a girare Le luci della città.
Durante la lavorazione la borsa crollò. Per fortuna non rimasi coinvolto nel disastro perché avevo letto Social Credit 1 del maggiore H. Douglas, il quale analizzava accuratamente il nostro sistema economico affermando che nella sostanza tutti i profitti derivavano dai salari. Perciò disoccupazione significava perdita di profitti e riduzione di capitale. Rimasi cosi colpito da questa teoria che nel 1928, quando negli Stati Uniti la disoccupazione raggiunse la cifra di 14.000.000 di unità, vendetti tutti i miei titoli di borsa e mi tenni il capitale in danaro liquido. Il giorno prima del tracollo cenai con Irving Berlin, che era pieno di ottimistica fiducia nella borsa valori. Mi disse che una cameriera del ristorante in cui mangiava di solito aveva guadagnato 40.000 dollari in meno di un anno raddoppiando gli investimenti. Lui stesso possedeva azioni ordinarie per un valore di vari milioni di dollari, che gli garantivano un profitto di oltre un milione. Mi chiese se giocavo in borsa. Gli dissi che non potevo avere fiducia nei titoli di borsa quando c'erano 14.000.000 di disoccupati. Scoppiò una violenta discussione quando gli consigliai di vendere le sue azioni e di tirarsi fuori fin che era in attivo. Berlin s'indignò. « Perbacco, tu vendi l'America allo scoperto ! » disse, e mi accusò di scarso patriottismo. L'indomani la borsa perse cinquanta punti e Irving Berlin fu spazzato via. Un paio di giorni dopo venne a trovarmi nello studio, ancora intontito dalla sorpresa, e dopo avermi fatto le sue scuse mi domandò dove avevo pescato quella preziosa informazione. Finalmente fu completato Le luci della città; non restava da registrare che la musica. Uno dei vantaggi del sonoro consisteva nella possibilità di controllare la musica, che perciò composi personalmente. Cercai di comporre una musica romantica ed elegante, che fosse in contrasto con il personaggio del vagabondo, perché la musica elegante conferiva ai miei film una dimensione emotiva. Questo gli arrangiatori lo capivano di rado. Loro volevano che la musica fosse divertente. Ma io 1 Credito sociale. 392
spiegavo che non volevo fare concorrenza alla comicità dell'azione, volevo che la musica fosse un contrappunto di grazia e delicatezza, che esprimesse il sentimento, senza del quale, come dice Hazlitt, l'opera d'arte è sempre incompleta. Talvolta un musicista, per darsi delle arie, si metteva a parlare degli intervalli limitati della scala cromatica e diatonica, e allora io gli troncavo la parola in bocca con un'osservazione da profano: « Qualunque sia la melodia, il resto non è che improvvisazione ». Dopo avere scritto la musica per un paio di film, cominciai a guardare con occhi professionali lo spartito del direttore e a capire se una composizione era eccessivamente orchestrata o no. Se vedevo un mucchio di note nella parte degli ottoni o delle ance, dicevo: « Troppo cupo questo ottone » oppure: « Troppo invadenti quelle ance ». Non c'è nulla di più avventuroso ed entusiasmante che sentire le arie che si sono composte suonate per la prima volta da un'orchesta di cinquanta professori. Quando finalmente Le luci della città fu sincronizzato, ero ansioso di conoscere il suo destino. E cosi, senza darne l'annuncio, organizzammo un'anteprima in un teatro del centro. Fu un'esperienza spaventosa, perché il nostro film venne proiettato davanti a una platea semivuota. Il pubblico era venuto a vedere una tragedia e non una commedia, e non si riprese dallo smarrimento fino a metà film. Scoppiò qualche risata, ma fiacca. E prima della fine scorsi parechie ombre confuse che si allontanavano lungo la corsia. Diedi una gomitata all'aiuto regista. « Se ne vanno prima della fine. » « Forse vanno al gabinetto » mormorò lui. Dopodiché non riuscii più a concentrarmi sul film, ma attesi di vedere se quelli che si erano allontanati lungo la corsia sarebbero tornati indietro. Dopo qualche minuto bisbigliai: « Non sono tornati ». « C'è gente che deve prendere il treno » disse lui. Lasciai il teatro con la sensazione di avere gettato in una fogna due anni di lavoro e due milioni di dollari. Mentre uscivo incontrai il direttore, che sostava nell'atrio e venne a salutarmi. « È ottimo » disse con un sorriso, e per farmi un complimento che mi parve una pugnalata alla
schiena soggiunse: « Ora voglio proprio vederle fare un film sonoro, Charlie. Lo aspetta il mondo intero ». Cercai di sorridere. La nostra troupe aveva lasciato lemme lemme il teatro e si era radunata sul marciapiede. Li raggiunsi. Reeves, il direttore, sempre serio, mi salutò con una cadenza nella voce: « Mi pare che sia andata piuttosto bene, considerando... ». Le sue ultime parole formularono una sinistra riserva, ma io annuii, pieno di fiducia. « Con la sala piena sarà un successone. Certo occorrono due o tre tagli » soggiunsi. • Poi, come un fulmine, mi colpi il pensiero inquietante che non avevo ancora tentato di vendere il film. Ma la cosa non mi dava troppa pena, perché la fama del mio nome era tale da fare sempre cassetta: cosi almeno speravo. Joe Schenck, il presidente della United Artists, mi avverti che i gestori dei teatri non mi avrebbero fatto le stesse condizioni dei tempi della Febbre dell'oro, e che i grossi circuiti segnavano il passo e mantenevano un atteggiamento prudenziale. In passato i gestori avevano sempre mostrato un profondo interesse per ogni mio nuovo film, ma ora il loro interesse si era molto intiepidito. Sorsero inoltre delle difficoltà per poter presentare il film a New York. Mi fu detto che i cinematografi erano tutti prenotati e che avrei dovuto attendere il mio turno. L'unico teatro disponibile a New York era il George M. Cohan, con una capienza di millecentocmquanta posti a sedere, piuttosto fuori mano e considerato un elefante bianco. Non era nemmeno un cinematografo. Potevo noleggiare le quattro mura a settemila dollari la settimana, impegnandomi per un minimo di otto settimane, ma avrei dovuto provvedere io a tutto il resto: direttore, cassiera, maschere, operatore, macchinisti, oltre alla spesa delle insegne luminose e della pubblicità. Dato che ero fuori con due milioni di dollari - tutti sborsati di tasca mia — tanto valeva correre il rischio di noleggiare il teatro. Frattanto, a Los Angeles, Reeves si era messo d'accordo per proiettare il mio film in un teatro di nuova costruzione. Essendo ancora là, gli Einstein espressero il desiderio di assistere alla « prima » : ma non cre
do che si rendessero conto di ciò che li aspettava. La vigilia della première gli Einstein cenarono a casa mia, poi andammo tutti in centro. Il corso era gremito di gente per parecchi isolati. Ambulanze e macchine della polizia tentavano di farsi largo tra la folla che aveva sfondato le vetrine dei negozi attigui al teatro. Con l'aiuto di una squadra di agenti fummo proiettati nel foyer. Come detesto le « prime ». La tensione nervosa, il miscuglio dei profumi, odore di muschio e tanfo di sudore: è un effetto nauseante che porta all'esasperazione. Il proprietario aveva costruito un bellissimo teatro ma, come molti gestori di sale cinematografìche a quel tempo, s'intendeva assai poco della presentazione dei film. Finalmente la proiezione ebbe inizio. Comparvero i titoli di testa, accolti dal solito applauso delle « prime ». Poi cominciò la prima scena. Il cuore mi batteva a precipizio. Era una scena comica imperniata sull'inaugurazione di una statua. E il pubblico cominciò a ridere ! Le risa dilagarono, trasformandosi in sghignazzate. Li avevo in pugno! Tutti i dubbi e i timori che mi avevano assillato sino a quel momento presero a evaporare. E mi venne una gran voglia di piangere. Gli spettatori risero per tre bobine. E io ridevo con loro, per l'eccitazione e la tensione nervosa. Poi accadde una cosa assolutamente incredibile. A un tratto, nel bel mezzo di una risata, il film fu interrotto. Si accesero le luci in sala e da un altoparlante una voce annunciò: « Prima di riprendere la proiezione di questo bellissimo film, permetteteci di rubarvi cinque minuti per segnalarvi i pregi di questo nuovo, elegante teatro ». Non credevo ai miei orecchi. Ero furioso. Balzai dalla poltrona e di corsa mi lanciai su per la corsia. « Dov'è quell'idiota, quel figlio di puttana del direttore? Ma io lo ammazzo ! » Il pubblico era con me e cominciò a pestare i piedi e a battere le mani mentre l'imbecille continuava a magnificare i pregi del teatro. S'interruppe, tuttavia, quando il pubblico cominciò a fischiare. Occorse un'intera bobina perché le risa riprendessero come prima. Date le circostanze, ebbi l'impressione che il film fosse andato molto bene. Durante la
scena finale notai che Einstein si asciugava gli occhi: ennesima riprova che gli scienziati sono degli inguaribili sentimentali. Il giorno seguente partii per New York senza attendere le recensioni, perché vi sarei arrivato con soli quattro giorni d'anticipo sulla « prima ». Appena là, scopersi con orrore che al film non era stata fatta quasi nessuna pubblicità, all'infuori di un breve annuncio che diceva: « II nostro vecchio amico è tornato fra noi » e altri deboli slogan. Allora feci una paternale ai funzionari della United Artists: « Basta col sentimento, date loro delle notizie; stiamo per proiettare il film in un locale che non è un cinematografo, e per giunta fuori mano ». Ogni giorno compravo mezza pagina sui giornali più importanti di New York, a prezzi esorbitanti, per annunciare con caratteri della stessa grandezza: Charles Chaplin in Le luci della città al Teatro Cohan spettacoli continuati - posti da 50 cent e da un dollaro Feci altri 30.000 dollari di pubblicità sui giornali, poi noleggiai una insegna luminosa per la facciata del teatro che mi costò altri 30.000 dollari. Poiché il tempo era poco e bisognava affrettarsi, rimasi alzato tutta la notte per controllare la proiezione del film, decidere le dimensioni dell'immagine e correggere le distorsioni. Il giorno seguente ricevetti i giornalisti, ai quali spiegai il perché e il percome della mia decisione di fare un film muto. I funzionari della United Artists avevano dei dubbi sui miei prezzi di ammissione perché io facevo pagare un dollaro i primi posti e cinquanta cent gli altri, mentre tutti i cinema di prima visione mettevano i primi posti a ottantacinque cent e gli altri a trentacinque: proiettando un film sonoro preceduto da uno spettacolo di rivista, per giunta. Psicologicamente io mi basavo sul fatto che si trattava di un film muto: proprio questo richiedeva un rincaro dei prezzi, e se il pubblico ci tene
va a vederlo la differenza tra ottantacinque cent e un dollaro non lo avrebbe fermato di certo. Perciò rifiutai ogni compromesso. Alla première il film andò benissimo. Ma le premières non sono indicative. Era il pubblico di tutti i giorni quello che contava. Lo avrebbe interessato un film muto? Questi pensieri mi fecero passare metà della notte in bianco. Al mattino, però, mi destò l'agente pubblicitario, che alle undici irruppe nella mia stanza da letto sprizzando entusiasmo da tutti i pori. « Perdiana, ce l'hai fatta ! Che cannonata ! C'è una coda che gira tutt'intorno all'isolato dalle dieci di stamane bloccando il traffico. Ci saranno almeno dieci poliziotti che cercano di mantenere l'ordine. Fanno a pugni per entrare. E dovresti sentire come gridano! » M'invase un senso di calma e di felicità mentre ordinavo la colazione, e poi mi vestivo. « Dimmi dove ridono di più » dissi. E lui mi fece una minuziosa descrizione dei punti in cui avevano riso, sghignazzato e urlato addirittura. « Vieni a vedere tu stesso » disse. « Ti solleverà il morale. » Ero riluttante a seguirlo, perché nulla avrebbe potuto eguagliare il suo entusiasmo. Però ne vidi una mezz'ora in piedi tra la folla in fondo al teatro, in un'atmosfera satura di allegria, rotta continuamente da improvvisi scoppi di risa. Bastò quello. Venni via soddisfatto e diedi sfogo ai miei sentimenti facendo una passeggiata di quattro ore per le strade di New York. Di tanto in tanto passavo davanti al teatro e rivedevo la lunga coda ininterrotta che circondava l'isolato. Il film ricevette anche critiche unanimemente entusiastiche. In un teatro da 1150 posti incassammo 80.000 dollari la settimana per tre settimane. Il Paramount dirimpetto, con 3000 posti, che presentava un film sonoro e una rivista con Maurice Chevalier, la stessa settimana incassò solamente 38.000 dollari. Le luci della città rimase in cartellone dodici settimane, con un guadagno netto, detratte tutte le spese, di oltre 400.000 dollari. Se fu tolto dalla programmazione dipese solo dalla richiesta delle catene dei teatri di New York, che avevano prenotato il film a condizioni vantaggiose e non volevano che esaurisse il proprio interesse prima di entrare nei loro circuiti.
T Decisi di andare a Londra per lanciarvi Le luci della città. Nei giorni che trascorsi a New York vidi molto spesso l'amico Ralph Barton, uno dei redattori del New Yorker, il quale aveva appena illustrato una nuova edizione delle Sollazzevoli istorie di Balzac. Ralph, che aveva solo trentasette anni, era un tipo eccentrico e molto raffinato. Si era già sposato cinque volte. Negli ultimi tempi, attraversando un periodo di depressione, aveva tentato di suicidarsi ingerendo una dose eccessiva di non so che cosa. Gli proposi di accompagnarmi in Europa, ospite mio, sicuro che il cambiamento gli avrebbe fatto bene. E cosi partimmo insieme sull'Olympic, la stessa nave a bordo della quale avevo compiuto la mia prima traversata in Inghilterra.
Ventidue Dopo dieci anni, ero piuttosto sensibile a quella che sarebbe stata l'accoglienza di Londra: vi avrei trovato molte differenze rispetto alla mia prima visita? Avrei preferito arrivarvi in incognito, senza tanto baccano. Ma ero venuto per assistere alla première delle Luci della città. E la folla che mi diede il benvenuto non mancò di farmi piacere. Questa volta presi alloggio al Carlton, perché era un punto di riferimento più antico del Ritz e mi rendeva Londra più familiare. L'appartamento che mi assegnarono era squisito. La cosa più triste che possa immaginare è l'assuefazione al lusso. Io non mi ci abituerò mai. Ogni volta che mettevo piede al Carlton era come entrare in un paradiso tutto d'oro. Essere ricco a Londra faceva della vita, in qualsiasi momento, un'avventura emozionante. Il mondo era uno spettacolo che ricominciava tutte le mattine. Guardando fuori dalla finestra della mia stanza vidi vari cartelli giù in strada. Uno diceva: « Charlie è sempre il loro beniamino ». Quella frase mi strappò un sorriso. I giornalisti furono di un'estrema gentilezza, perché durante un'intervista io feci una gaffe madornale quando mi chiesero se intendevo visitare Elstree. « Che cos'è? » domandai innocentemente. Sorridendo si scambiarono un'occhiata, poi m'informarono che era il centro dell'industria cinematografica britannica. Il mio imbarazzo fu cosi genuino che nessuno se l'ebbe a male. Questa seconda visita fu commovente ed elettrizzante quasi come la
prima, e senza dubbio più interessante, perché ebbi la fortuna di conoscere molte altre celebri personalità. Sir Philip Sassoon telefonò ripetutamente per invitarmi, con Ralph, a cena nella sua casa di Park Lane e nella sua villa in campagna di Lympne. Pranzammo con lui anche alla Camera dei Comuni, nell'atrio della quale conobbi Lady Astor. Un paio di giorni dopo ella ci invitò al n. 1 di St James's Square. Quando fummo introdotti nella sala di ricevimento, fu come entrare nel museo di Madame Tussaud: ci trovammo di fronte Bernard Shaw, John Maynard Keynes, Lloyd George e parecchi altri, ma tutti in carne e ossa. Lady Astor teneva viva la conversazione col suo spirito inesauribile, finché non fu improvvisamente costretta ad assentarsi, e allora cadde su di noi un silenzio pieno d'imbarazzo. Ma Bernard Shaw, preso il suo posto, raccontò un divertente aneddoto sul diacono Inge il quale, esprimendo la propria indignazione per gli insegnamen ti da da un
di San Paolo, disse: « Ha cosi travisato la parola del nostro Redentore crocifiggerlo, metaforicamente, a testa in giù ». La gentile sollecitudine lui mostrata nel contribuire alla conversazione generale fu altro lato di Shaw che mi sorprese.
Durante il pranzo conversai con Maynard Keynes, l'economista, al quale dissi di avere letto in una rivista inglese un articolo sul funzionamento del credito nella Banca d'Inghilterra, che era allora una società privata: durante la guerra la Banca aveva esaurito le proprie riserve auree, restando solo con 400.000.000 di sterline in titoli esteri, e quando il governo le aveva chiesto un prestito di 500.000.000 di sterline essa non aveva fatto altro che prendere questi titoli, guardarli e rimetterli in camera di sicurezza, per poi effettuare il prestito al governo; e la transazione si era ripetuta diverse volte. Keynes annui e disse: « Si, le cose sono andate pressappoco cosi ». « Ma » chiesi educatamente io « come furono riscattati quei prestiti? » « Con lo stesso danaro fiduciario » disse Keynes. Verso la fine del pranzo Lady Astor copri i suoi denti con quelli sporgenti di una protesi teatrale e fece l'imitazione di una dama vittoriana che
parla a un circolo ippico. I denti le deformavano il viso conferendole un'espressione quanto mai comica. Ella disse con fervore: «Ai nostri tempi noi donne britanniche seguivamo i cani da caccia come si addice a una vera signora: e non a gambe larghe, nello stile volgare di quelle donnette occidentali che vivono in America. Noi cavalcavamo all'amazzone, veloci e impettite, con dignità e muliebre avvenenza ». Lady Astor sarebbe stata un'attrice formidabile. Era un'eccellente padrona di casa e io debbo ringraziarla per i molti, splendidi ricevimenti che mi diedero la possibilità di conoscere numerose personalità inglesi. Dopo pranzo, appena si sciolse l'allegro convivio, Lord Astor ci condusse a vedere il suo ritratto, dipinto da Munnings. Quando arrivammo allo studio Munnings non voleva farci entrare, finché Lord Astor, a furia di insistere, lo persuase a riceverci. Il ritratto rappresentava Lord Astor a cavallo, circondato da una muta di cani da caccia. Io feci colpo su Munnings, perché ammirai parecchi dei rapidi studi preliminari sui movimenti dei cani non meno del ritratto finito. « L'azione è musica » dissi. Munnings si animò e mi fece vedere altri rapidi schizzi. Due o tre giorni dopo andammo a pranzo da Bernard Shaw. Alla fine del pasto G. B. mi condusse nella sua biblioteca — noi due soli — lasciando nel soggiorno Lady Astor e gli altri ospiti. La biblioteca era una stanza allegra e luminosa che guardava sul Tamigi. Trovandomi di fronte a uno scaffale, sopra il caminetto, con i libri di Shaw, mi avvicinai come uno stupido — conoscevo pochissimo quei testi — e dissi: « Ah, tutte le sue opere! ». Allora pensai che forse Shaw aveva scelto proprio quel momento per interrogarmi sui suoi libri. Forse la discussione ci avrebbe talmente assorbiti che gli altri ospiti sarebbero stati costretti a entrare per interromperci. Come speravo che accadesse una cosa simile! Invece vi fu un attimo di silenzio imbarazzato mentre io sorridevo, giravo gli occhi da un'altra parte, guardavo fuori dalla finestra e facevo qualche banale commento sull'atmosfera accogliente della stanza. Dopodiché raggiungemmo di nuovo gli ospiti. In seguito incontrai parecchie volte la signora Shaw. Ricordo che di 401
scussi con lei sulla commedia di G. B. intitolata L'imperatore d'America 1, alla quale i critici avevano riservato un'accoglienza indifferente. La signora Shaw era indignata. Esclamò: « Ho detto a G. B. di non scrivere più commedie. Il pubblico e i critici non le meritano ». Durante le tre settimane successive fummo tempestati di inviti. Uno era del primo ministro, Ramsay MacDonald, un altro di Winston Chur ' chili, altri ancora di Lady Astor, Sir Philip Sassoon e vari esponenti dell'aristocrazia. Il mio primo incontro con Winston Churchill avvenne nella villa al mare di Marion Davies. Una cinquantina di ospiti affollavano la sala da ballo e il salone per i ricevimenti quando lui apparve sulla soglia insieme a Hearst e vi si fermò con una mano infilata nel panciotto, napoleonicamente, a guardare le danze. Sembrava sperduto e fuori posto. W. R. mi vide, con un cenno m'invitò ad avvicinarmi e fece le presentazioni. I modi di Churchill, benché cordiali, erano bruschi. Hearst ci lasciò soli e per qualche tempo restammo là a scambiarci i soliti commenti mentre la gente circolava disordinatamente intorno a noi. Churchill non si animò finché non mi misi a parlare del governo laburista inglese. « Quello che non capisco » dissi « è il fatto che in Inghilterra l'elezione di un governo socialista non altera lo status di un re e di una regina. » La sua occhiata fu rapida e allegramente provocatoria. « Naturalmente no » disse. « Io credevo che i socialisti fossero contrari alla monarchia. » Lui rise. « Se lei abitasse in Inghilterra le taglieremmo la testa per questa osservazione. » Un paio di sere dopo m'invitò a cena nell'appartamento che aveva in albergo. Erano presenti altri due ospiti, oltre al figlio Randolph, un bell'adolescente di sedici anni, avido di discussioni intellettuali, critico 1 The Applecart. ' . . • . ' 402
e intollerante come tutti i giovani della sua età. Mi resi conto che Winston era molto fiero di lui. Fu una serata deliziosa durante la quale padre e figlio non fecero che burlarsi di cose di poco conto. Dopo di allora, e prima che tornasse in Inghilterra, c'incontrammo parecchie altre volte nella villa al mare di Marion. E ora che eravamo a Londra Churchill m'invitò, con Ralph, a Chartwell per il week-end. Per arrivarci dovemmo affrontare un disagevole viaggio in automobile, durante il quale soffrimmo molto il freddo. Chartwell è una vecchia, bellissima casa, arredata modestamente ma con buon gusto, nella quale regna un'atmosfera familiare. Fu solo durante questa seconda visita a Londra che cominciai per davvero a conoscere Churchill. In questo periodo egli era deputato, ma ancora di secondo piano, alla Camera dei Comuni. 10 credo che Sir Winston si sia divertito più di tutti noi. Sulla scena della vita egli ha sostenuto molte parti con coraggio, abnegazione e giovanile entusiasmo. Non ha provato ben pochi dei piaceri che questo mondo può offrire. La vita è stata generosa con lui. Egli ha ben vissuto e ben recitato: si è battuto per le poste più alte e ha vinto. Ha conquistato il potere ma non se n'è mai lasciato ossessionare. Nella sua attivissima esistenza ha trovato il tempo, per gli hobby: le corse dei cavalli, la pittura e i lavori in muratura che eseguiva personalmente in casa sua. Ricordo che in sala da pranzo notai una natura morta sopra il caminetto. Winston si accorse del mio profondo interesse per quel quadro. « L'ho fatto io » disse. « Ma è notevole ! » esclamai, entusiasmato. « Macché ! Ho visto un uomo che dipingeva un paesaggio nella Francia meridionale e mi son detto: "Sono capace anch'io". » 11 mattino seguente mi mostrò le mura intorno a Chartwell che aveva costruito personalmente. Rimasi sbalordito e dissi che fare il muratore non doveva essere cosi facile come sembrava. « Se le mostro come si fa, in cinque minuti avrà imparato anche lei. » A cena, la prima sera, c'erano vari giovani parlamentari seduti meta
fenicamente ai suoi piedi, tra i quali il signor Boothby, ora Lord Boothby, e il defunto Brendan Bracken, che divenne poi Lord Bracken, parlatori piacevoli e interessanti ambedue. Dissi loro che volevo conoscere Gandhi, il quale si trovava a Londra in quel momento. « Abbiamo sopportato quest'uomo anche troppo » disse Bracken. « Scioperi della fame o no, dovrebbero metterlo in galera e tenercelo. Se non usiamo fermezza perderemo l'India. » « Incarcerarlo sarebbe una soluzione semplicissima, se funzionasse » ribattei « ma se mettete al fresco un Gandhi, presto ne spunterà un altro. È il simbolo di ciò che vuole il popolo indiano, e finché non avranno ottenuto ciò che vogliono sforneranno un Gandhi dopo l'altro. » Churchill si rivolse a me con un sorriso. « Lei sarebbe un buon deputato laburista. » II fascino di Churchill consiste nella sua tolleranza e nel suo rispetto per le opinioni altrui. Si direbbe che non nutra né rancore né collera per coloro che non la pensano come lui. Bracken e Boothby partirono quella sera e l'indomani vidi Winston nell'intimità della sua famiglia. Fu un giorno di confusione politica, e Lord Beaverbrook non fece che telefonare a Chartwell interrompendo diverse volte la cena di Churchill. Si era in tempo di elezioni e in piena crisi economica. I pasti mi divertivano, perché Winston teneva allocuzioni politiche a tavola, durante la cena, mentre i familiari se ne stavano là fermi, buoni buoni, per non irritarlo. Si capiva che la cosa accadeva spesso e che ormai ci erano abituati. « II ministero non fa che parlare delle difficoltà che si oppongono al pareggio del bilancio » esclamava Churchill, lanciando un'occhiata furtiva ai familiari, poi a me. « Dice che ha raggiunto il limite dei finanziamenti, che non c'è nient'altro da tassare, quando l'Inghilterra mescola il suo tè come sciroppo. » Fece una pausa a effetto. « Non si potrebbe pareggiare il bilancio con un'altra tassa sul tè? » chiesi io.
Lui mi guardò ed ebbe un attimo di esitazione. « Si » rispose, ma non mi parve convinto. Rimasi affascinato dalla semplicità e dal gusto quasi spartano che regnavano a Chartwell. La camera da letto di Churchill era in parte una biblioteca con un numero enorme di libri accatastati contro il muro, dappertutto. Una parete era interamente occupata dai Rapporti Parlamentari Hansard. C'erano anche molti volumi su Napoleone. « Si » ammise « sono un suo grande ammiratore. » « Ho saputo che le interesserebbe girare un film su Napoleone » disse. « Lo faccia, ha delle enormi possibilità comiche. Napoleone che fa il bagno e suo fratello Gerolamo che irrompe nella stanza tutto in ghingheri nell'uniforme con gli alamari dorati, approfittando della circostanza per metterlo in imbarazzo e costringerlo ad accettare le sue richieste. Ma Napoleone si lascia scivolare apposta nella vasca, spruzzando d'acqua la divisa del fratello, e gli ordina di levarsi dai piedi, obbligandolo a uscire ignominiosamente. Una formidabile scena comica. » Ricordo Churchill e sua moglie quando vennero a pranzo nel ristorante Quaglino. Winston aveva il muso lungo come un ragazzino. Mi avvicinai al loro tavolo per salutarli. « Si direbbe che lei abbia inghiottito il mondo intero » dissi con un sorriso. Churchill m'informò che era appena tornato da un dibattito alla Camera dei Comuni e che non gli piaceva il modo in cui procedeva la discussione sulla Germania. Azzardai un commento spiritoso, ma lui scosse il capo. « Oh no, è molto grave, molto grave davvero. » Poco dopo l'abboccamento con Churchill incontrai Gandhi. Ho sempre rispettato e ammirato Gandhi per l'acume politico e la volontà di ferro da lui dimostrata in innumerevoli occasioni. Ma secondo me la sua visita a Londra fu un errore. La leggendaria importanza della sua figura diminuì sulla scena londinese, e la sua ostentazione religiosa fece poca impressione sulla gente. Nel clima freddo e umido dell'In
ghilterra, con la fascia tradizionale che gli cingeva le reni ricadendogli in disordine attorno alle gambe, egli parve un personaggio assurdo. Fu cosi che la sua presenza a Londra divenne materia per barzellette e caricature. Si fa colpo sulla gente quando si tengono le distanze. Mi era stato chiesto se volevo conoscerlo. Naturalmente accettai con entusiasmo. C'incontrammo in un'umile casupola dei quartieri poveri dalle parti di East India Dock Road. La folla gremiva le strade mentre fotografi e giornalisti stipavano i due piani dello stabile. L'incontro ebbe luogo in una stanza al piano superiore che misurava pochi metri quadrati. Il Mahatma non era ancora arrivato. E mentre aspettavo cominciai a domandarmi che cosa gli avrei detto. Avevo saputo della sua incarcerazione, degli scioperi della fame e della sua lotta per la libertà dell'India, e conoscevo vagamente la sua opposizione all'impiego delle macchine. Quando finalmente arrivò, applausi e risate lo accolsero mentre scendeva dal tassi, stringendosi addosso la veste fluttuante. Fu uno spettacolo bizzarro per quella viuzza affollata vedere quell'esotica figura entrare in un'umile casupola, tra due ali di folla plaudente. Egli sali le scale e si affacciò alla finestra, poi m'invitò a raggiungerlo, e insieme salutammo con la mano la folla sottostante. Mentre stavamo seduti sul divano, la penombra della stanza fu squarciata improvvisamente dai lampi delle macchine fotografiche. Io ero alla destra del Mahatma. Cominciavo a provare una terribile inquietudine, pensando al momento in cui avrei dovuto dire qualcosa di molto intelligente su un argomento di cui sapevo ben poco. Seduta alla mia destra c'era una petulante signorina che continuava a raccontarmi una lunga storia di cui non udii una parola, pur annuendo in segno di approvazione, preso com'ero dalla preoccupazione di ciò che avrei detto a Gandhi. Sapevo che toccava a me rompere il ghiaccio, che non spettava al Mahatma dirmi quanto gli era piaciuto il mio ultimo film, eccetera eccetera: anzi, dubitavo che fosse mai stato al cinema. Comunque la voce autoritaria di una signora indiana interruppe di colpo
la loquace signorina : « Vuol essere tanto gentile da concludere la conversazione e permettere al signor Chaplin di parlare con Gandhi? ». Sulla stanza affollata cadde un silenzio improvviso. E mentre l'espressione imperturbabile del Mahatma era quella di un uomo in attesa 10 ebbi l'impressione che tutta l'India pendesse dalle mie labbra. Allora mi schiarii la gola. « Naturalmente simpatizzo per le aspirazioni dell'India e la sua lotta per la libertà » dissi. « Ciò nondimeno, mi rende piuttosto perplesso l'avversione da lei manifestata per le macchine. » 11 Mahatma annui e sorrise mentre io riprendevo il filo del discorso: « In fin dei conti, se usata in senso altruistico la macchina dovrebbe contribuire a sciogliere l'uomo dal peso della schiavitù, a ridurre le ore del suo travaglio e a dargli il tempo di istruirsi e godersi la vita ». « Capisco » disse lui, parlando con voce pacata « ma prima di poter raggiungere questi obiettivi l'India deve sottrarsi al giogo inglese. In passato le macchine ci hanno fatto dipendere dall'Inghilterra, e l'unico modo che abbiamo per liberarci da questa dipendenza è di boicottare tutte le merci prodotte da queste macchine. Ecco perché abbiamo reso patriottico dovere di ogni indiano filarsi il proprio cotone e tessersi la propria tela. Questa è la nostra forma di attacco a una nazione potente come l'Inghilterra: e, naturalmente, vi sono altre ragioni. L'India ha un clima diverso da quello inglese, diversi sono i suoi bisogni e le sue usanze. In Inghilterra il rigore delle stagioni rende necessaria un'industria sviluppata e una complessa economia. A voi occorrono utensili per mangiare, noi usiamo le dita. E ciò si traduce in molteplici differenze. » Ricevetti una lucida lezione di tattica nella lotta dell'India per la libertà, ispirata, paradossalmente, da un visionario realista e virile dotato della volontà di ferro necessaria per condurla in porto. Egli mi disse anche che la suprema indipendenza consiste nel disfarsi degli oggetti inutili, e che la violenza finisce sempre per distruggere se stessa. Quando la stanza si vuotò, mi chiese se volevo restare a vederli pregare. Il Mahatma si accoccolò sul pavimento, con le gambe incrociate, 407
mentre altre cinque persone sedevano in circolo con lui. Fu uno spettacolo curioso: sei figure accovacciate sul pavimento della stanzetta, nel cuore di uno dei quartieri poveri di Londra, mentre un sole color zafferano calava rapidamente dietro i tetti delle case, e io li guardavo, seduto sul divano, ascoltando la preghiera che intonavano umilmente. Che paradosso, pensai, osservando quest'uomo cosi realista, con la sua mente astuta da avvocato e quel senso profondo della realtà politica che sembravano svanire piano piano in una nenia monotona. Alla « prima » delle Luci della città piovve a torrenti, ma il teatro era pieno e il film andò benissimo. Presi posto in galleria, vicino a Bernard Shaw, e questo suscitò molte risa e battimani. Fummo costretti ad alzarci insieme e a inchinarci. La cosa provocò un secondo e più fragoroso scroscio di risa. Churchill venne alla première e alla cena che segui. Tenne un discorsetto, dicendo di voler brindare all'uomo che, partito da ragazzo dall'altra riva del fiume, si era guadagnato l'affetto del mondo: Charlie Chaplin ! Fu una cosa inaspettata, che mi colse alla sprovvista ; e mi sorprese non poco sentirlo premettere al suo indirizzo le parole: « Eccellenze, signore e signori ». Tuttavia, impressionato — fra l'altro dalla solennità dell'occasione, risposi nello stesso modo: « Eccellenze, signore e signori, quale amico del defunto 1 cancelliere dello scacchiere... ». Non riuscii a proseguire. Tra le risa dei presenti udii una voce tonante che ripeteva: « II defunto, ah, ah! Il defunto, questa è bella! ». Naturalmente era Churchill. Quando mi fui ripreso, osservai: «Be', mi sembrava cosi difficile dire "l'ex-cancelliere dello scacchiere" ». Malcolm MacDonald, figlio del primo ministro laburista Ramsay MacDonald, m'invitò con Ralph a casa sua per conoscere suo padre e passare la notte ai Chequers. Incontrammo il primo ministro per la 1 C. pensa di dire former (ex) e dice late (defunto). (N. d. T.)
strada, mentre faceva la sua passeggiatina igienica in calzoni alla zuava, sciarpa, berretto, pipa e bastone, con l'aria del tipico signorotto di campagna, l'ultima persona della quale si sarebbe detto che era a capo del partito laburista. La mia prima impressione fu di un uomo molto dignitoso, perfettamente consapevole del peso della sua carica politica e dotato di una nobile espressione, non priva di lampi di umorismo. La prima parte della serata fu alquanto contenuta. Ma dopo cena passammo nel famoso, storico Salone a prendere il caffè, e dopo avere visto l'originale maschera mortuaria cromwelliana e altri oggetti storici, cominciammo a chiacchierare alla buona tra noi. Io dissi al primo ministro che dal giorno della mia prima visita avevo notato un grande cambiamento in meglio. Nel 1921 avevo visto a Londra molta miseria, vecchie dai capelli grigi che dormivano sul lungotamigi, ma ora quelle vecchie erano sparite; non c'erano più barboni addormentati sulla riva del fiume. I negozi sembravano ben forniti, i bambini ben nutriti, e questo, indubbiamente, faceva onore al governo laburista. Lui mantenne un'espressione indecifrabile e mi lasciò parlare senza interruzione. Gli chiesi se il governo laburista, che a quanto mi risultava era un governo socialista, avesse il potere di modificare sostanzialmente la costituzione del paese. I suoi occhi scintillarono, e mi rispose con molto spirito: « Dovrebbe, ma questo è il paradosso della politica britannica: appena ci s'impadronisce del potere si diventa impotenti ». Riflettè un momento, poi mi raccontò della prima volta che era stato convocato a Buckingham Palace nella sua nuova veste di primo ministro. Disse il sovrano, accogliendolo con grande cordialità: «Dunque, che avete intenzione di farmi voialtri socialisti?». Lui rise e disse : « Null'altro che cercar di servire Sua Maestà e fare l'interesse del paese ». Durante le elezioni Lady Astor m'invitò con Ralph a passare il weekend nella sua casa di Plymouth, dove avrei potuto conoscere T. E. Lawrence; contava anche lui di trascorrere colà il week-end. Ma per 4°9
qualche ragione Lawrence non si fece vivo. Comunque ella c'invitò nella sua circoscrizione elettorale e poi a un comizio al porto dove avrebbe parlato ai pescatori. Mi chiese se ero disposto a dire qualche parola. Io l'avvertii che ero per i laburisti e non potevo certo appoggiare la sua politica. « Non importa » disse lei « è solo che vorrebbero vederla, ecco tutto. » Era un comizio all'aperto e parlammo da un grosso autocarro. Era presente il vescovo della sua circoscrizione, che mi parve di cattivo umore e ci salutò piuttosto seccamente. Dopo il breve discorso introduttivo di Lady Astor, salii sul camion. « Come state, amici? » dissi. « È molto comodo per noialtri milionari dirvi come dovete votare, ma la nostra situazione è piuttosto diversa dalla vostra. » A un tratto udii un'esclamazione: « Bravo! 1 ». Era il vescovo. Continuai: « Può darsi che voi e Lady Astor abbiate qualcosa in comune: che cosa sia, non lo so. Penso che voi lo sappiate meglio di me ». « Bene ! Benissimo ! » esclamò il vescovo. « Quanto alla sua politica e a ciò che ha fatto quale rappresentante di questo... ehm... ehm... » « Collegio elettorale » disse il vescovo, e ogni volta che esitavo mi suggerì la parola giusta. Continuai cosi, nella stessa vena, concludendo col dire che, a parte la politica, sapevo che Lady Astor era una donna molto dolce e gentile, piena delle migliori intenzioni di questo mondo. Quando scesi dal camion il vescovo era tutto un sorriso: mi strinse cordialmente la mano e volle congratularsi con me. Il clero britannico vanta una tradizione di sincerità e spregiudicatezza che è un riflesso del lato migliore dell'Inghilterra. Sono uomini come il Dr. Hewlett Johnson, il canonico Collins e numerosi altri prelati a conferire alla Chiesa inglese la sua vitalità. 1 In italiano nel testo. (N. d. T.)
L'amico Ralph Barton si comportava in modo strano. Notai, ad esempio, che l'orologio elettrico del soggiorno si era fermato: qualcuno aveva tagliato i fili. Quando glielo feci notare, Ralph osservò : « Si, li ho tagliati io, detesto il ticchettio degli orologi ». Rimasi stupito e piuttosto seccato, ma la presi per una delle solite idiosincrasie di Ralph e non ci pensai più. Da quando aveva lasciato New York mi era parso che si fosse completamente riavuto dalla sua depressione. Ora aveva deciso di tornare negli Stati Uniti. Prima di partire mi pregò di accompagnarlo a visitare sua figlia, che solo un anno prima aveva preso il velo e ora si trovava in un convento cattolico di Hackney. Era la figlia maggiore avuta dalla prima moglie. Ralph aveva parlato spesso di lei, dicendo che all'età di quattordici anni le era venuta la vocazione di farsi suora, benché lui e sua moglie avessero fatto di tutto per dissuaderla. Mi mostrò una sua fotografia, scattata a sedici anni, e io rimasi profondamente colpito dalla sua bellezza: due grandi occhi neri, una bocca piena e sensibile e un sorriso disarmante. « Come ha potuto una ragazza cosi carina entrare in convento? » domandai. Ralph mi spiegò che l'avevano portata in giro per Parigi, a un'infinità di feste e ricevimenti, nella speranza di farla recedere dal suo proposito. L'avevano presentata a un sacco di giovanotti e fatta divertire: e lei se l'era spassata un mondo. Ma nulla aveva potuto distoglierla dall'intenzione di farsi suora. Ralph non la vedeva da diciotto mesi. Aveva già finito il noviziato e preso il velo. 11 convento era uno stabile tetro e annerito nel cuore di uno dei quartieri poveri di Hackney. Là giunti, fummo ricevuti dalla madre superiora e introdotti in una stanzuccia povera e squallida. Qui sedemmo ad aspettare per quello che ci parve un tempo interminabile. Final mente entrò sua figlia. Mi prese un'improvvisa, profonda malinconia, perché era bella come nella fotografia. Solo quando sorrideva mostrava due denti mancanti da un lato della bocca.
Raccolti tutti e tre in quella cupa stanzetta, dovevamo formare una scena assurda. Questo raffinato, disinvolto padre di trentasette anni, con le gambe accavallate, che fumava una sigaretta, e sua figlia, questa graziosa monachina diciannovenne seduta davanti a noi. Scusandomi, gli proposi di attenderlo in macchina. Ma nessuno dei due me 10 permise. Pur essendo allegra e vivace, vidi bene che la ragazza non aveva più alcun interesse per la vita. I suoi gesti erano nervosi e sussultanti. Parlando dei suoi doveri d'insegnante mostrò una certa stanchezza. « È cosi difficile insegnare ai bambini piccoli » disse. « Ma ci farò l'abitudine. » Mentre parlava con lei, fumando una sigaretta, a Ralph brillavano gli occhi dall'orgoglio. Per miscredente che fosse, vedevo che non gli dispiaceva l'idea che sua figlia si fosse fatta suora. Ma questo incontro aveva più l'aria di un malinconico addio. Si capiva che la ragazza era reduce da una crisi spirituale. Bella e giovane com'era, mostrava un viso triste e assorto. Accennò alle entusiastiche accoglienze che Londra ci aveva riservato e chiese notizie di Germaine Taillfer, la quinta moglie di Ralph. Ralph le disse che si erano divisi. « Certo » disse spiritosamente lei, rivolta a me « non riesco a tenere 11 conto delle mogli di papà. » Sia Ralph che io ci mettemmo a ridere, piuttosto imbarazzati. Ralph domandò se sarebbe rimasta a Hackney per molto tempo. Lei scosse il capo e disse che forse l'avrebbero mandata nell'America centrale. « Ma non ci dicono mai quando o dove. » « Be', potrà scrivere a suo padre una volta là » intervenni io. Ella esitò. « Non dovremmo comunicare con nessuno. » « Nemmeno con i genitori? » domandai. « No » disse lei, sforzandosi di non perdere il suo tono disinvolto, poi sorrise a suo padre. Vi fu qualche istante di silenzio. Quando venne il momento del congedo ella prese la mano di suo padre e la tenne a lungo e con affetto, come colpita da un presenti
mento. Mentre ci allontanavamo in macchina Ralph aveva un'aria sottomessa, sebbene ancora indifferente. Due settimane dopo, nel suo appartamento di New York, si suicidò sparandosi mentre era a letto con un lenzuolo sulla testa. Ora vedevo spesso H. G. Wells. Aveva un appartamento in Baker Street. Quando andavo a fargli visita ci trovavo quattro segretarie sepolte sotto una valanga di libri da consultare, che controllavano e prendevano appunti da enciclopedie, manuali tecnici, carte e documenti. « È The Anatomy of Money 1, il mio nuovo libro » disse. « Una vera industria. » « Direi che sono loro a sbrigare la maggior parte del lavoro » osservai scherzosamente. Torno torno alla sua biblioteca, su un alto scaffale, correva una fila di quelli che sembravano grandi barattoli da biscotti, ciascuno dei quali recava un'etichetta: « Materiale biografico », « Lettere personali », « Filosofìa », « Dati scientifici », eccetera. Dopo cena arrivarono gli amici, tra i quali il professor Laski, che aveva ancora un aspetto molto giovanile. Harold era un brillantissimo oratore. Sentii una sua conferenza nella sede dell'Ordine degli Avvocati, in California, dove parlò brillantemente per un'ora senza un'esitazione e senza consultare un appunto. Nell'appartamento di H. G., quella sera, Harold mi mise al corrente delle straordinarie. innovazioni nella filosofia del socialismo. Disse che la minima accelerazione nella velocità si traduce in tremende differenze sociali. La conversazione fu molto interessante fino all'ora in cui H. G. aveva l'abitudine di coricarsi; ora che, con poco tatto, egli indicava guardando prima gli ospiti e poi l'orologio, finché tutti non si fossero congedati. Quando Wells mi venne a trovare in California, nel 1935, lo rimpro 1 L'anatomia del danaro. (JV. d. T.) 4'3
verai per le sue critiche alla Russia. Avevo saputo dei suoi denigratori reportages, volevo una versione di prima mano e rimasi sorpreso nel trovarlo ancora più aspro. « Ma non è troppo presto per giudicare? » obiettai. « Hanno avuto un compito difficile, opposizione e complotti dall'interno e dall'esterno. Non crede che col tempo otterranno dei buoni risultati? » Allora Wells, entusiasta di ciò che aveva realizzato Roosevelt col New Deal, era dell'avviso che in America da un capitalismo moribondo sarebbe uscito un quasi-socialismo. Sembrava particolarmente duro nei confronti di Stalin, che aveva intervistato, e sosteneva che sotto il suo governo la Russia era diventata una tirannica dittatura. « Se lei, socialista, è convinto che il capitalismo sia condannato » dissi 10 « quali speranze restano, al mondo, se il socialismo fallisce in Russia? » « II socialismo non fallirà né in Russia né altrove » disse lui « ma questo suo particolare sviluppo si è tramutato in dittatura. » « È naturale che la Russia abbia commesso degli errori » dissi io « e come le altre nazioni continuerà a farne. Il più grosso, ritengo, fu 11 disconoscimento dei prestiti stranieri, delle obbligazioni russe, ecc, e nell'averli definiti, dopo la rivoluzione, debiti dello zar. Anche se può aver avuto delle buone ragioni per non pagarli, credo che abbia fatto un grosso sbaglio, perché è da questa decisione che sono scaturiti la tensione mondiale, il boicottaggio e le invasioni militari. Alla lunga, le costerà due volte tanto che se li avesse pagati. » Wells ne convenne, almeno in parte, e disse che il mio commento era valido in teoria ma non in pratica; perché il disconoscimento dei debiti dello zar era una delle decisioni che avevano attizzato lo spirito della rivoluzione. Il popolo si sarebbe sentito offeso all'idea di dover pagare i debiti del passato regime. « Ma » obiettai io « se la Russia fosse stata al gioco, e meno idea lista, avrebbe potuto farsi prestare grosse somme di danaro dai paesi capitalisti e ricostruire più rapidamente la propria economia: con le vicissitudini del capitalismo dopo la guerra, l'inflazione e tutto il resto,
avrebbe potuto liquidare facilmente i propri debiti e mantenere la fiducia del mondo. » Wells si mise a ridere. « Ormai è troppo tardi. » Lo vidi molto spesso, H. G., in varie occasioni. Nel sud della Francia si era fatto costruire una casa per la sua amante russa, una signora molto capricciosa. E sopra il caminetto c'era una scritta, a caratteri gotici: «Due innamorati hanno costruito questa casa». «Si» disse lui, dopo avere ascoltato i miei commenti « l'abbiamo fatta mettere e togliere un'infinità di volte. Quando bisticciamo io do ordine al muratore di levarla e quando facciamo la pace lei dà ordine al muratore di rimetterla a posto. È stata messa e tolta tante volte che il muratore ha finito per non darci più ascolto e l'ha lasciata là. » Nel 1931 Wells portò a termine The Anatomy of Money, che gli era costato due anni di lavoro. Aveva l'aria piuttosto stanca. « E ora che farà? » gli domandai. « Scriverò un altro libro » disse lui, con un sorriso affaticato. « Santo cielo » esclamai « non si prende un po' di riposo? Non preferirebbe dedicarsi a qualcos'altro? » « Che altro posso fare? » Le umili origini di Wells avevano lasciato il segno non nella sua opera o nel suo modo di vedere ma, come era accaduto a me, in un eccesso di sensibilità. Ricordo che una volta aspirò un'acca dove non doveva e arrossi fino alla radice dei capelli. Ben poca cosa per fare arrossire un grand'uomo. Ricordo di averlo sentito parlare di uno zio che era capo giardiniere nella tenuta di un aristocratico inglese. L'ambizione di suo zio era che Wells facesse il domestico. Disse ironicamente H. G.: « Con l'aiuto di Dio avrei potuto diventare secondo maggiordomo! ». Wells mi domandò quando fosse nato il mio interesse per il socialismo. Risposi che risaliva alla mia venuta negli Stati Uniti e all'incontro con Upton Sinclair. Stavamo andando in macchina a Pasadena, per pranzare a casa sua, quando mi chiese sommessamente se credevo nel sistema capitalistico. Dissi in tono faceto che per rispondere avrei 4'5
avuto bisogno di un ragioniere. Era una domanda disarmante, ma compresi instintivamente che toccava proprio il nocciolo del problema, e da quel momento cominciai a interessarmi e a vedere la politica non come storia ma come un problema esclusivamente economico. Wells m'interrogò sulla percezione extrasensoriale che io sostenevo di avere. Gli parlai di un incidente che avrebbe potuto essere qualcosa di più di una coincidenza. Un giorno Henri Cochet, il tennista, un altro amico e io entrammo in un bar di Biarritz. Attaccate al muro del locale c'erano le tre ruote di una macchinetta a gettone, ciascuna delle quali numerata da uno a dieci. Con aria drammatica annunciai, tra il serio e il faceto, che mi sentivo in possesso di una straordinaria forza psichica: avrei fatto girare le tre ruote, e la prima si sarebbe fermata sul nove, la seconda sul quattro e la terza sul sette. E, vedi caso, la prima ruota si fermò sul nove, la seconda sul quattro e la terza sul sette: una probabilità su un milione. Wells disse che si trattava di una pura coincidenza. « Ma quando si ripete la coincidenza merita un esame più approfondito » dissi io, e gli raccontai ciò che mi era accaduto da ragazzo. Passando davanti a una drogheria di Camberwell Road notai che, cosa insolita, le serrande erano chiuse. Qualcosa mi spinse ad arrampicarmi sul davanzale per sbirciare nell'interno dal foro romboidale della serranda. Dentro il locale era buio e deserto, ma le mercanzie erano tutte al loro posto, e al centro del pavimento scorsi un'enorme cassa da imballag gio. Balzai giù dal davanzale con un senso di repugnanza e ripresi la mia strada. Poco dopo si diffuse la notizia di un delitto. Edgar Edwards, un vecchio e gentilissimo signore di sessantacinque anni, si era impadronito di cinque drogherie uccidendone i proprietari con un contrappeso da finestra e prendendo il loro posto. In quella bottega di Camberwell, dentro alla cassa da imballaggio, c'erano le sue ultime tre vittime: i coniugi Darby e il fìglioletto. Ma Wells non si lasciò convincere; disse che nella vita di tutti si verificavano ordinariamente numerose coincidenze, e che ciò non dimostrava proprio nulla. La discussione fini li, ma avrei potuto raccon
targli un'altra esperienza, di quando, da ragazzo, mi fermai a chiedere un bicchier d'acqua in un bar di London Bridge Road. Mi servi un signore amabile, cordiale, con un paio di baffi neri. Chissà perché, non riuscii a bere. Finsi di deglutire, ma appena l'uomo si voltò per rispondere a un cliente posai il bicchiere e uscii. Due settimane dopo George Chapman, proprietario del pub Grown in London Bridge Road, fu accusato di avere assassinato cinque mogli avvelenandole con la stricnina. La sua ultima vittima era morta in una stanza sopra il locale il giorno in cui mi diede quel bicchier d'acqua. Sia Chapman che Edwards furono impiccati. A proposito di queste esoteriche esperienze, circa un anno prima di costruirmi una casa a Beverly Hills ricevetti una lettera anonima, l'estensore della quale asseriva di essere un indovino e di avere visto, in sogno, una casa appollaiata in cima a una collina, fronteggiata da un prato che finiva a punta come la prua di una barca, una casa con quaranta finestre e un'ampia sala da concerti col soffitto alto. Il terreno era il luogo sacro sul quale antiche tribù indiane avevano fatto sacrifici umani duemila anni prima. La casa era infestata dagli spiriti e non avrebbe mai dovuto restare al buio. La lettera asseriva che finché io non vi fossi rimasto solo, e la luce avesse continuato a splendere, gli spiriti non si sarebbero fatti vivi. Allora, convintissimo che fosse opera di un pazzo, riposi la lettera in un cassetto per conservarla, tanto era bizzarra e divertente. Ma riesaminando certe carte, due anni dopo, mi capitò tra le mani e la rilessi. Fatto strano, la descrizione della casa e del prato corrispondeva. Non avevo contato le finestre e pensai di farlo: con stupore constatai che erano proprio quaranta. Pur non credendo ai fantasmi, decisi di fare la prova. Quella del mercoledì era la serata libera dei domestici: la casa rimase vuota e io andai a cena fuori. Subito dopo cena tornai a casa ed entrai nella sala dell'organo, che era lunga e stretta come la navata di una chiesa e aveva un soffitto gotico. Dopo avere tirato le tendine, spensi ogni luce. Poi, raggiunta a tentoni una poltrona, sedetti in silenzio per dieci is.
minuti buoni. Il buio fìtto mi stimolò i sensi ed ebbi l'impressione che forme dai vaghi contorni mi fluttuassero davanti agli occhi; ma compresi subito che era la luna: filtrando da un sottilissimo spacco delle tendine, si specchiava in una caraffa di cristallo. Accostai meglio le tendine e le forme indistinte scomparvero. Poi, sem pre al buio, mi rimisi ad aspettare: trascorsero forse cinque minuti. Visto che non accadeva nulla, cominciai a parlare ad alta voce: « Se qui ci sono degli spiriti, sono pregati di farsi vedere ». Attesi un altro po', ma non accadde nulla. Allora ripresi : « Non c'è modo di mettersi in comunicazione? Magari con un segno, un colpo, o attraverso la mia mente, suggerendole di farmi scrivere qualcosa, o forse basterebbe una corrente d'aria gelida per indicare una presenza ». Rimasi là seduto per altri cinque minuti, ma non vi furono correnti d'aria né altre manifestazioni. Il silenzio era assordante e io avevo la mente vuota. Finalmente mi arresi e, rinunciando ai miei propositi, accesi un lume. Poi entrai nel soggiorno. Le tendine non erano state tirate e la luna illuminava il pianoforte, che spiccava sullo sfondo buio. Mi sedetti e cominciai a passare le dita sui tasti. Finalmente trovai un accordo che mi affascinò, e lo ripetei diverse volte fino a far vibrare la stanza intera. Perché? Forse era questo il segno che cercavo ! Continuai a ripetere l'accordo. A un tratto una bianca riga di luce mi avvolse all'altezza della cintura. Balzai come un grillo dal pianoforte e rimasi in piedi, col cuore che mi batteva come un tamburo. Quando mi fui rinfrancato, cercai di ragionare. Il piano si trovava in una nicchia vicino alla finestra. Allora mi resi conto che quella che avevo creduto una cintura di ectoplasma era la luce di un'automobile che scendeva il versante della collina. Per convincermi, tornai a sedermi al piano e ripetei diverse volte lo stesso accordo. All'altro capo del soggiorno c'era un corridoio buio e, oltre il corridoio, la porta della sala da pranzo. Con la coda dell'occhio vidi aprirsi la porta e qualcosa uscire dalla sala da pranzo e attraversare il corridoio buio, un mostro grottesco, nano, con gli occhi cerchiati di bianco come un pagliaccio, che si dirigeva ondeggiando verso la sala dell'organo. Pri
ma che potessi voltare la testa era sparito. Inorridito, mi alzai e cercai d'inseguirlo, ma era scomparso. Convinto che, nel mio nervosismo, un batter di ciglia avesse potuto creare l'illusione, mi rimisi a suonare il piano. Ma non accadde nient'altro, e allora decisi di andare a letto. Infilai il pigiama ed entrai nel bagno. Quando accesi la luce vidi il fantasma seduto nella vasca che mi guardava! Mi tuffai quasi orizzontalmente fuori dalla porta. Era una puzzola! La stessa creaturina che avevo visto con la coda dell'occhio, solo che al pianterreno mi era parsa più grande. Al mattino il maggiordomo mise in una gabbia la bestiola spaventata. Finimmo per addomesticarla. Ma un giorno scomparve e non la rivedemmo mai più. Prima che lasciassi Londra il duca e la duchessa di York m'invitarono a pranzo. Fu una cosa intima, c'erano solo il duca, la duchessa, il padre, la madre e il fratello di lei, un ragazzetto sui tredici anni. Più tardi arrivò Sir Philip Sassoon, e toccò a noi due l'incarico di riportare a Eton il fratellino della duchessa. Era un tipetto silenzioso che ci seguiva strascicando i piedi mentre Sir Philip e io venivamo scortati per i viali della scuola da due prefetti i quali, con parecchi altri studenti, c'invitarono a prendere il tè. Quando entrammo nello spaccio dell'istituto, un posto come un altro che vendeva dolciumi e serviva tè a sei pence l'uno, lui rimase fuori con un centinaio di altri etoniani. In quattro sedemmo intorno a un tavolino in una stanzetta affollata del piano di sopra. Tutto andò a gonfie vele finché non mi fu chiesto se gradivo un'altra tazza di tè e inavvertitamente io risposi di si. Questo provocò una crisi economica, perché il nostro ospite era a corto di quattrini e dovette tenere un conciliabolo con vari altri ragazzi. Philip mormorò: « Ho paura che gli manchino due pence, ma non possiamo farci nulla ». Comunque, riuscirono tra di loro a ordinare un'altra cuccuma di tè, 4'9
che dovemmo tracannare in fretta e furia perché suonò la campana delle lezioni, concedendo loro un solo minuto per varcare i cancelli della scuola. Vi fu un fuggi fuggi generale. Dentro fummo ricevuti dal direttore, che ci mostrò la sala dove Shelley e molti altri illustri personaggi avevano inciso il proprio nome. Finalmente il direttore ci riaffidò ai due prefetti, i quali c'introdussero nel più santo dei sancta sanctorum, la camera un tempo occupata da Shelley. Ma il nostro piccolo amico Bowes-Lyon rimase fuori. Gli chiese il nostro giovane ospite con voce imperiosa: « Si può sapere che cosa vuoi? ». « Oh, è con noi » interruppe Philip, spiegando che lo avevamo riportato da Londra. « Va bene » disse con impazienza il nostro giovane ospite. « Entra. » Sir Philip mormorò: « Gli fanno una grande concessione a lasciarlo entrare. Calpestare abusivamente un cosi sacro terreno metterebbe a repentaglio la carriera di qualsiasi alunno ». Fu solo quando visitai Eton insieme a Lady Astor che mi resi conto della sua spartana disciplina. Faceva molto freddo e c'era buio mentre si avanzava a tentoni lungo il corridoio dalle pareti brune, fiocamente illuminato, che aveva delle vaschette per il pediluvio fissate al muro di fianco alla porta di ciascuna stanza. Finalmente trovammo quella giusta e bussammo. Suo figlio, un ragazzetto pallido, apri l'uscio. Dentro i suoi due compagni se ne stavano rannicchiati sopra una manciata di carboni ardenti al centro del caminetto, scaldandosi le mani. C'era un'atmosfera veramente tenebrosa. Disse Lady Astor: « Volevo sapere se potevi venire su per il weekend ». Conversammo un momento, poi a un tratto risuonò un colpo all'uscio e prima che potessimo dire « Avanti » girò la maniglia ed entrò il direttore, un bell'uomo, biondo e proporzionato, sulla quarantina. « Buonasera » disse bruscamente a Lady Astor, salutandomi con un inchino. Poi appoggiò il gomito sulla cappa del caminetto e si mise
a fumare la pipa. La sua visita era evidentemente inopportuna, perciò Lady Astor cominciò a spiegare: « Sono venuta a vedere se potevo riavere il giovanotto per il week-end ». « Mi rincresce moltissimo, ma non è possibile » fu la secca risposta. « Oh, via » disse Lady Astor nel suo tono più accattivante. « Non sia cosi ostinato. » « Io non sono ostinato. Mi limito a fare una dichiarazione. » « Ma è cosi pallido. » « Sciocchezze, sta benissimo. » Lei si alzò dal letto del ragazzo, sul quale ci eravamo messi a sedere, e gli andò incontro. « Oh, via ! » disse in tono seducente, dandogli quella caratteristica spintarella che le ho visto dare tanto spesso a Lloyd George e a tutti coloro che voleva persuadere. « Lady Astor » disse il direttore « lei ha la brutta abitudine di spingere la gente fino a farle perdere l'equilibrio. Preferirei che se ne astenesse. » Al che Lady Astor perse ogni savoir faire. Chissà come, si fini per parlare di politica, e il direttore tagliò corto con questa laconica osservazione: « II guaio della politica inglese consiste nell'eccessiva interferenza delle donne. E con questo le auguro la buonanotte, Lady Astor ». Poi s'inchinò seccamente e usci dalla stanza. « Che uomo scontroso » disse Lady Astor. Ma il ragazzo insorse in sua difesa. « Oh no, mamma, è una persona gentilissima. » Non potei fare a meno di ammirare quell'uomo, malgrado il suo antifemminismo, perché aveva un'aria franca e leale; mancava forse di spirito ma era un tipo schietto. Non vedendo mio fratello da moltissimi anni, lasciai l'Inghilterra per trascorrere un po' di tempo con lui a Nizza. Sydney aveva sempre detto che quando fosse riuscito a risparmiare 250.000 dollari si sareb
be ritirato a vita privata. Potrei aggiungere che risparmiò una somma considerevolmente superiore. Oltre a essere un abile uomo d'affari era un comico eccellente e aveva girato molti film di successo — Submarine Pilot, The Better 'Ole \ Man in the Box 2 e Charley's Aunt3, fra gli altri - che gli permisero di guadagnare una vera fortuna. E ora Sydney si era ritirato a vita privata, come aveva sempre detto, e viveva a Nizza con la moglie. Quando Frank J. Gould, che abitava a Nizza anche lui, seppe che stavo per venire a trovare mio fratello, mi pregò di essere suo ospite a Juan-les-Pins, e io accettai. Prima di andare a Nizza mi fermai a Parigi per due giorni e corsi subito alle Folies Bergère perché vi lavorava Alfred Jackson, uno dei fratelli della vecchia troupe degli Eight Lancashire Lads. Quando lo vidi, Alfred mi disse che la famiglia Jackson era diventata abbastanza ricca, avendo ora otto compagnie di ballerine che lavoravano per loro, e che suo padre era ancora vivo. Se fossi venuto alle Folies Bergère durante le prove, avrei potuto incontrarlo là. Pur avendo più di ot tant'anni, il vecchiaccio era sempre arzillo e in piena salute. Parlammo dei bei tempi andati, interrompendoci spesso per esclamare: « Chi l'avrebbe mai detto! ». « Sai, Charlie » disse lui « la cosa che mi è rimasta più impressa di te, da bambino, è la tua bontà. » È un errore gingillarsi a lungo con l'adulazione del pubblico; se si lascia passare troppo tempo, si affloscia come un soufflé. A me accadde lo stesso: dopo le prime entusiastiche accoglienze l'atmosfera cominciò a raffreddarsi. La prima corrente d'aria venne dalla stam 1 La cella migliore. 2 L'uomo della cabina. 3 La zia di Carlo. 422
pa. Dopo le loro iperboli di lodi i giornali presero tutt'altro indirizzo. Immagino che fossero a caccia di notizie sensazionali. L'affanno e la confusione di Londra e di Parigi avevano riscosso il loro pedaggio. Ero stanco e avevo bisogno di riposo. Mentre mi rimettevo in forze a Juan-les-Pins m'invitarono a partecipare a uno spettacolo di beneficenza per le forze armate al Palladium di Londra. Invece di accettare mandai un assegno di duecento sterline. Si scatenò un pandemonio. Avevo offeso il re e preso a pesci in faccia il suo Stato maggiore. Non avrei mai pensato che un biglietto del direttore del Palladium corrispondesse a un editto reale. Inoltre, non potevo esibirmi con un preavviso cosi breve. Il secondo attacco venne qualche settimana dopo. Caso volle che mi trovassi sul campo da tennis in attesa dell'avversario quando un giovanotto mi abbordò presentandosi come un amico di un amico. Dopo uno scambio di convenevoli cominciammo a parlare del più e del meno. Era un giovanotto distinto ed estremamente simpatico. Facile come sono a lasciarmi trascinare dall'improvvisa simpatia per qualcuno — specie se si tratta di un buon ascoltatore — parlai di un'infinità di cose. A proposito della situazione mondiale, osservai pessimisticamente che gli affari europei stavano prendendo una brutta piega: si andava verso un'altra guerra. « Be', la prossima non la farò di certo » disse il mio nuovo amico. « Non posso darle torto » risposi. « Non ho il minimo rispetto per coloro che ci mettono nei guai. Non amo sentirmi dire chi devo ammazzare e per che cosa devo morire... e tutto in nome del patriottismo. » Ci separammo con molta cordialità. Fissammo un appuntamento per la sera dopo, con l'intenzione di cenare insieme, ma lui non si fece vivo. E, toh!, anziché confidarmi a un amico, scopersi che avevo parlato con un giornalista. L'indomani trovai un titolo su tutta la pagina: « Charlie Chaplin non è un patriota ! » eccetera. Il che è anche vero; ma allora non avevo nessuna voglia di sbandierare sulla stampa le mie opinioni personali. Il fatto è che io non sono
un patriota non soltanto per ragioni morali o intellettuali, ma perché non mi sento tale. Accade lo stesso col nazionalismo. Come si può tollerare il patriottisma quando sei milioni di ebrei sono stati assassinati in suo nome? Tutto questo è successo in Germania; ma le stesse cellule malate si trovano nel corpo di ogni nazione, pronte a entrare in attività. Io non posso parlare di orgoglio nazionale. Se uno è attaccato alla tradizione familiare, alla casa e al giardino, a un'infanzia felice, alla famiglia e agli amici, posso capire questo sentimento: ma io non ho un passato del genere. Nel migliore dei casi per me il patriottismo si nutre delle usanze locali: corse ippiche, caccia, Yorkshire pudding, hamburger americani e Coca-Cola, ma al giorno d'oggi questi affetti si possono coltivare in ogni parte del mondo. Naturalmente, se il paese in cui vivo stesse per essere invaso, come la maggior parte di noi, credo che sarei pronto al supremo sacrificio. Ma non ho nessuna voglia di rinunciare alla vita o alla carriera per un editto del parlamento o del congresso, se non credo nella causa: non sono un martire per ragioni nazionalistiche e non intendo morire per un presidente, un primo ministro o un dittatore. Un paio di giorni dopo Sir Philip Sassoon mi portò a pranzo in casa di Consuelo Vanderbilt Balsan. Era una bellissima zona nel sud della Francia. Mi colpi in particolar modo uno degli invitati, un uomo alto, magro, con i capelli neri e un paio di baffetti cortissimi, affabile e simpatico, col quale feci conversazione durante il pranzo. Parlai del libro del maggiore Douglas, Economie Democracy 1, e dissi che la sua teoria sul credito avrebbe forse potuto risolvere la crisi mondiale in atto. Ricordo che cosa disse Consuelo Balsan di quel pomeriggio : « È stato molto interessante parlare con Chaplin, del quale ho notato le forti tendenze socialiste ». Dovevo aver detto al signor alto qualcosa che lo aveva molto colpito, perché il suo viso s'illuminò e gli occhi si spalancarono fino a mostrare 1 Democrazia economica.
tutta la sclerotica. Ebbi l'impressione che fosse pienamente d'accordo con me fino al punto cruciale della mia tesi, che invece dovette prendere una direzione contraria al suo pensiero, giacché il mio interlocutore mi parve deluso. Avevo parlato con Sir Oswald Mosley, senza sapere che quest'uomo sarebbe stato il futuro capo delle camicie nere d'Inghilterra: ma quegli occhi, col bianco dilagante intorno alle pupille, e la larga bocca sorridente, spiccano nella mia memoria come una maschera quanto mai bizzarra, per non dire un po' sinistra. Nel sud della Francia conobbi anche Emil Ludwig, corpulento biografo di Napoleone, Bismarck, Balzac e altri. Egli scrisse cose assai interessanti sul conto di Napoleone, ma esagerò nell'applicazione del metodo psicanalitico al punto di ridurre l'interesse della vicenda. Mi spedi un telegramma per dirmi che aveva ammirato Le luci della città e che gli sarebbe piaciuto conoscermi. Lo trovai completamente diverso da come me lo ero immaginato. Sembrava un raffinatissimo Oscar Wilde, con i capelli piuttosto lunghi e la bocca tumida arcuata in una curva femminea. Ci trovammo nel mio albergo, dove egli si presentò in modo piuttosto fiorito e melodrammatico, porgendomi una foglia d'alloro e dicendo: « Quando un romano raggiungeva la grandezza veniva onorato con una corona di foglie di lauro. Mi permetta, dunque, di offrirgliene una ». Mi ci volle qualche minuto per abituarmi a queste effusioni; poi mi resi conto che nascondevano solo una grande timidezza. Quando ritornò alla normalità, mi trovai davanti a un uomo molto intelligente, astuto e interessante. Gli chiesi che cosa ritenesse essenziale nella compilazione di una biografia. Un atteggiamento critico, disse lui. « Allora una biografia è solo una cronaca prevenuta e censurata » obiettai. « II sessantacinque per cento della storia non si racconta mai » rispose lui « perché tocca gli altri troppo da vicino. » Durante la cena mi domandò quali fossero le cose più belle che avessi mai visto. I movimenti di Helen Wills mentre gioca a tennis, gli dissi confidenzialmente: erano pieni di grazia, di spontaneità, e avevano un sano sex appeal. Un'altra era le sequenza cinematografica di un
documentario di attualità, subito dopo l'armistizio, nella quale si vedeva un contadino che arava un campo nelle Fiandre dove erano morti migliaia di soldati. Ludwig descrisse un tramonto su una spiaggia della Florida, una macchina sportiva, scoperta, che costeggiava l'oceano carica di belle ragazze in costume da bagno, una delle quali, appollaiata sul parafango posteriore, aveva una gamba ciondoloni e a misura che l'auto procedeva tracciava sulla sabbia, con l'alluce, una riga ininterrotta. Ma ricordo altri spettacoli meravigliosi: il Perseo di Benvenuto Cellini in Piazza della Signoria, a Firenze. Una notte, con la piazza illuminata, vi fui attirato dalla figura del David di Michelangelo. Ma appena vidi il Perseo tutto il resto passò in seconda linea. Rimasi affascinato dallo straordinario equilibrio delle sue magnifiche proporzioni. Perseo, che leva alta la testa di Medusa col suo corpo patetico contorto ai suoi piedi, è l'epitome della tristezza, e mi fece pensare al mistico verso di Oscar Wilde: « Perché ogni uomo uccide ciò che ama ». Nella lotta di quell'eterno mistero, il bene e il male, il suo scopo era stato raggiunto. Ricevetti un telegramma dal duca d'Alba che m'invitava in Spagna. Ma il giorno seguente grossi titoli apparvero sui giornali: « Rivoluzione in Spagna». Allora andai a Vienna: la triste, inebriante Vienna. Il ricordo più vivo che mi resta è l'avventura che ebbi con una bella ragazza. Fu come l'ultimo capitolo di un romanzo vittoriano: facemmo appassionati giuramenti d'amore e ci scambiammo un bacio d'addio, sapendo che non ci saremmo mai più rivisti. Da Vienna passai a Venezia. Si era d'autunno e la città appariva deserta. La preferisco quando ci sono i turisti, perché essi danno vita e calore a quello che, senza di loro, potrebbe essere un bellissimo cimitero. Mi piacciono i turisti, perché quando è in vacanza e non deve spingere affannosamente le porte girevoli degli uffici la gente è più simpatica. Pur essendo una città molto bella, a Venezia regnava un'atmosfera malinconica, e vi rimasi due sole notti, non avendo altro da fare che
mettere dischi sul fonografo : e anche questo di nascosto, poiché Mussolini aveva proibito che si ballasse o si suonassero dischi alla domenica. Sarei tornato volentieri a Vienna per dare un seguito alla mia avventura amorosa di laggiù. Ma a Parigi avevo un appuntamento al quale non volevo mancare, un pranzo con Aristide Briand, promotore e patrono dell'idea degli Stati Uniti d'Europa. Quando lo incontrai, Monsieur Briand mi fece l'impressione di un uomo cagionevole di salute, disilluso e amareggiato. Il pranzo ebbe luogo a casa di Monsieur Balbi, editore dell'Intransigeant di Parigi, e fu molto interessante anche se io non sapevo il francese. Parlava inglese la contessa di Noailles, una donna brillante e vivace come un uccello, che si mostrò estremamente spiritosa e affascinante. Monsieur Briand la salutò dicendo: « La vedo cosi poco, in questi giorni, che la sua presenza è rara come quella di un'amante liquidata ». Dopo pranzo mi accompagnarono all'Elysée, dove fui nominato Cavaliere della Legion d'Onore. Non descriverò il vivissimo entusiasmo della folla strabocchevole che mi accolse quando giunsi a Berlino per la seconda volta; anche se la tentazione è quasi irresistibile. A questo proposito ricordo l'occasione in cui Mary e Douglas mi proiettarono un documentario sul loro viaggio all'estero. Pensavo che avrei assistito ad alcune riprese molto interessanti. Il film cominciò con una sequenza sull'arrivo a Londra di Mary e Douglas: una folla enorme ed entusiasta alla stazione e una folla enorme ed entusiasta davanti all'albergo; poi assistetti al loro arrivo a Parigi, con una folla ancora più enorme ed entusiasta. Dopo aver visto gli alberghi e le stazioni ferroviarie di Londra, Parigi, Mosca, Vienna e Budapest, chiesi innocentemente: « Quando vedremo un po' della città e del paese? ». Si misero a ridere tutti e due. Riconosco di non essere stato eccessivamente modesto nel descrivere le folle che mi diedero il benvenuto.
A Berlino fui ospite del governo democratico e la contessa York, una ragazza tedesca molto attraente, mi fu assegnata, per cosi dire, come attaché. Era il 1931, subito dopo il putsch nazista, e non mi resi neppure conto che mezza stampa era contro di me, obiettando che ero straniero e che i tedeschi si stavano coprendo di ridicolo con una simile dimostrazione di fanatismo. Naturalmente era la stampa nazista a scrivere queste cose. Ma io, nella mia innocenza, non mi accorsi nemmeno di ciò che succedeva, e me la spassai un mondo. Un nipote del Kaiser, il principe Enrico, mi accompagnò gentilmente a visitare Potsdam e Sans Souci. Per me tutti i grandi palazzi sono assurdi, espressione di pompa e formalismo squallida e di cattivo gusto. A dispetto del loro interesse storico, quando penso a Versailles, al Cremlino, a Potsdam, a Buckingham Palace e al resto di quei mausolei, capisco quali prosaiche fantasie debbano averli immaginati. Il principe Enrico disse che Sans Souci era di gusto migliore, piccolo e più umano; ma mi fece pensare a una borsetta da signora e mi lasciò freddo. Spaventosa e deprimente fu la mia visita al museo della polizia di Berlino: fotografie delle vittime di delitti, di suicidi, di degenerati e anormali di ogni genere. Ringraziai il cielo quando potei uscire dall'edifìcio e respirare nuovamente una boccata d'aria pura. Il Dr. von Fulmuller, autore del Miracolo, m'intrattenne a casa sua, dove conobbi diversi esponenti del mondo delle arti e del teatro tedesco. Un'altra serata la passai con gli Einstein nel loro appartamento. Furono presi accordi per una cena col generale von Hindenburg, ma all'ultimo momento lo colpi un'indisposizione, e io ritornai nel sud della Francia. Ho già detto che parlerò del sesso ma senza dargli troppa importanza, giacché non posso aggiungere nulla di nuovo all'argomento. Però la procreazione è l'occupazione principale della natura e ogni uomo, giovane o vecchio che sia, quando incontra una donna misura immedia
tamente l'attrazione sessuale che esiste tra loro. Anche per me è sempre stato cosi. Sul lavoro le donne non mi hanno mai interessato. Era solo tra un film e l'altro, quando non avevo nulla da fare, che offrivo il fianco. Come disse H. G. Wells: « Quando, nel corso della giornata, ti accorgi di avere scritto al mattino le tue cartelle, sbrigato la corrispondenza nel pomeriggio, e non hai altro da fare, viene il momento in cui ti annoi: ecco l'ora del sesso». E cosi, non avendo niente da fare sulla Còte d'Azur, ebbi la fortuna di essere presentato a una ragazza davvero affascinante che aveva tutti i requisiti per dissipare la noia di quell'ora. Era libera come me e ci accettammo per il nostro valore nominale. Mi confidò di essersi appena ripresa da un'infelice relazione amorosa con un giovane egiziano. I nostri rapporti non furono mai messi in discussione: sapevamo tutti e due che alla fine io sarei tornato in America. Le passavo un assegno settimanale e facevamo insieme il giro dei casinò, dei ristoranti e degli spettacoli di gala. Si andava fuori a cena, si ballava il tango, non si trascurava nulla di ciò che si fa in queste circostanze. Ma a furia di frequentarla rimasi preso nella rete del suo fascino e accadde l'inevitabile, cominciai cioè a sentirmi legato a lei; e quando pensai di tornare in America, non mi garbò troppo l'idea di lasciarmela dietro. II solo pensiero di partire senza di lei mi muoveva a compassione; era gaia, bella e simpatica. Ciò nondimeno, non mancarono le occasioni per alimentare la mia sfiducia. Un pomeriggio, a un thè dansant al casinò, mi afferrò la mano all'improvviso. C'era S., l'amante egiziano, del quale mi aveva tanto parlato. Mi sentii punto sul vivo; comunque, ce ne andammo di li a pochi minuti. Eravamo già nelle vicinanze dell'albergo quando ella scoperse all'improvviso di aver dimenticato i guanti sul tavolo: mi disse di andare avanti, lei sarebbe tornata a prenderli. Era una scusa fin troppo evidente. Non feci resistenza, né commenti, e proseguii verso l'albergo. Quando, dopo due ore, dovetti constatare che non aveva ancora fatto ritorno, giunsi alla conclusione che doveva trattarsi di 429
ben altro che di un paio di guanti. Per quella sera avevo invitato a cena alcuni amici; era quasi ora di uscire e lei non si era ancora fatta viva. Mentre stavo per lasciare la stanza senza di lei, mi comparve davanti all'improvviso, pallida e scarmigliata. « Arrivi troppo tardi per la cena » dissi. « Sarà meglio che te ne ritorni nel tuo bel lettino caldo. » Lei negò, pianse, supplicò, ma non riusci a dare una giustificazione plausibile per una cosi lunga assenza. Ero sicuro che fosse stata con il suo amante egiziano e dopo una sfilza d'invettive uscii senza di lei. Chi non ha passato qualche ora in un locale notturno, alzando la voce per soverchiare il singhiozzo dei sassofoni e il brusio dei clienti, oppresso da una solitudine improvvisa? Siedi in compagnia, nel ruolo di padrone di casa, ma sei depresso e turbato. Quando tornai in albergo, non c'era. Mi colse il panico. Che se ne fosse già andata? Cosi in fretta! Entrai nella sua stanza e con mio grande sollievo vidi che c'erano ancora i suoi abiti e il resto della sua roba. Arrivò dieci minuti dopo, allegra e su di giri, dicendo che era stata al cinema. L'informai freddamente che l'indomani sarei partito per Parigi: desideravo sistemare ogni cosa che la riguardasse perché questa era la fine dei nostri rapporti. Lei continuò a fare di si con la testa; negò, tuttavia, di essere stata con il suo amante egiziano. « Quel po' di amicizia che può essere rimasto tra noi » dissi io « tu lo uccidi perseverando in questo inganno. » Poi, mentendo, dissi che l'avevo fatta pedinare e che sapevo che aveva lasciato il casinò per seguire l'amico egiziano nel suo albergo. Con mia sorpresa ella cedette e confessò che era vero, ma si mise a giurare e a spergiurare che non 10 avrebbe mai più rivisto. 11 mattino seguente, mentre stavo facendo le valige e preparandomi alla partenza, lei cominciò a piangere silenziosamente. Andavo in macchina con un amico, il quale venne su a dirmi che era tutto pronto e che mi avrebbe aspettato di sotto. Lei si morse la nocca dell'indice e continuò a piangere amaramente. « Ti prego, non lasciarmi, ti prego, non lasciarmi... non lasciarmi. » 43»
« Che dovrei fare, secondo te? » le chiesi freddamente. « Lasciami venire con te fino a Parigi. Prometto che non ti darò più fastidio » rispose. Mi fece una tale compassione che m'intenerii. Le dissi che sarebbe stato un viaggio poco allegro e che non le sarebbe servito a niente, perché appena giunti a Parigi ci saremmo separati. Lei disse che non aveva importanza. Quel mattino partimmo tutti e tre per Parigi sulla macchina del mio amico. Il viaggio ebbe un inizio molto solenne: lei era docile e silenziosa, io freddo e compassato. Ma fu un atteggiamento difficile da mantenere perché, strada facendo, ogni volta che qualcosa d'interessante richiamava la nostra attenzione c'era sempre qualcuno che si affrettava a dire la sua. Però non esisteva più, tra noi, la minima intimità. L'accompagnammo subito in albergo, dove le augurammo buona fortuna. Mostrava chiaramente di non credere affatto che la nostra separazione fosse definitiva. Mi ringraziò di tutto ciò che avevo fatto per lei, mi strinse la mano e con un drammatico addio disparve nell'atrio dell'albergo. Ma l'indomani telefonò- per chiedermi se non volevo invitarla a pranzo. Rifiutai. Però, quando insieme al mio amico lasciai l'albergo, chi ti trovo davanti al palazzo se non lei, tutta in ghingheri e impellicciata? Finimmo per andare a pranzo insieme, e dopo visitammo la Malmaison, dove Giuseppina aveva trascorso gli ultimi anni della propria vita dopo il divorzio da Napoleone. Era una casa bellissima, in cui Giuseppina aveva pianto molte lacrime; una grigia giornata d'autunno accentuava la malinconia della nostra situazione. A un tratto sentii la mancanza della mia amica; la trovai in giardino, accoccolata su un sedile di pietra a sciogliersi in lacrime: colpita, cosi mi parve, dall'atmosfera di quel luogo. Il mio cuore si sarebbe intenerito, se glielo avessi permesso, ma non potevo dimenticare il suo amante egiziano. Perciò a Parigi ci separammo e io partii per Londra. 43'
Tornato a Londra, vidi parecchie volte il principe di Galles. Lo avevo incontrato per la prima volta a Biarritz tramite un'amica, Lady Furness. Mi trovavo in un ristorante popolare con Cochet, il tennista, e altre due persone, quando entrarono il principe e Thelma Furness, che ci fece recapitare al tavolo un biglietto con l'invito a raggiungerli più tardi al Russian Club. Fu un incontro brevissimo. Dopo che ci ebbero presentato Sua Altezza ordinò da bere, poi si alzò per ballare con Lady Furness. Quando tornò al tavolo sedette accanto a me e prese a interrogarmi: « Lei è americano, nevvero? » osservò. « No, sono inglese. » Parve sorpreso. « Da quanto tempo si trova negli Stati Uniti? » « Dal 1910. » « Oh » esclamò, chinando il capo con aria pensierosa. « Da prima della guerra? » « Direi di si. » Lui si mise a ridere. Durante la conversazione, quella sera, dissi che Chaliapin voleva dare una festa in mio onore. Come un ragazzo il principe osservò candidamente che gli sarebbe piaciuto venire. « Sono certo, Sir » risposi « che Chaliapin ne sarebbe onorato e felice » e gli chiesi il permesso di organizzare le cose in tal senso. In quella circostanza il principe si guadagnò la mia simpatia facendo compagnia alla madre di Chaliapin, che aveva quasi novant'anni, finché ella non si coricò. Poi si uni a noi divertendosi un mondo. E ora il principe di Galles era a Londra e m'invitò giù a Fort Belvedere, la sua villa in campagna. Era una vecchia fortezza rimodernata e arredata con un gusto piuttosto pacchiano, ma la cucina era eccel lente e il principe un perfetto padrone di casa. Mi mostrò la villa: la sua camera da letto era semplice e disadorna, con un arazzo moderno di seta rossa a capo del letto, recante le insegne reali. Un'altra stanza da letto mi fece sgranare gli occhi: era un affare bianco e rosa,
con un letto a quattro colonne che aveva tre piume rosa in cima a ogni colonna. Poi rammentai, naturalmente, che le piume erano il blasone del principe. Qualcuno, quella sera, introdusse un gioco molto popolare in America, che si chiamava « Date il vostro giudizio ». A ciascuno degli ospiti venne assegnata una scheda comprendente dieci voci: fascino, intelligenza, personalità, sex appeal, bellezza, sincerità, spirito, adattabilità, e via dicendo. Un ospite usciva dalla stanza e dava sulla sua scheda una franca valutazione dei propri requisiti, attribuendosi da un minimo di uno a un massimo di dieci punti: ad esempio, io mi diedi sette per lo spirito, sei per il sex appeal, sei per la bellezza, otto per l'adattabilità, quattro per la sincerità. Frattanto ciascuno degli invitati esprimeva il suo giudizio sulla vittima che aveva lasciato la stanza, contrassegnando segretamente la scheda. Poi entrava la vittima e leggeva i voti che si era attribuita, e uno degli ospiti leggeva ad alta voce le altre schede per vedere se corrispondevano. Quando venne il mio turno, il principe annunciò un tre per il sex appeal; gli invitati, in media, gli diedero quattro; io cinque; alcune schede dicevano soltanto due. Per la bellezza il principe si diede un sei, gli ospiti una media dell'otto e io sette. Per il fascino egli disse cinque e gli ospiti, me compreso, otto. Per la sincerità il principe si diede il massimo, dieci, gli invitati gli assegnarono una media del tre e mezzo e io un quattro. Il principe era indignato. « La sincerità è la dote migliore che credo di possedere » disse. Avendo già solcato le acque dell'alta società, ora provavo il desiderio di fare un giro sui canali proletari del nord. Una volta, da ragazzo, ero vissuto a Manchester per qualche mese. Malgrado il suo grigiore, quella città aveva per me una romantica attrattiva, un bagliore intangibile tra pioggia e fuliggine. Forse era lo spirito della popolazione, o la vampa generosa di un focolare del Lancashire. Volevo ritrovarne l'atmosfera, e perciò noleggiai una berlina e presi la via del nord.
Strada facendo mi fermai a Stratford-on-Avon, una località che non avevo mai visitato. Vi arrivai un sabato sera a tarda ora, e dopo cena feci una passeggiata, nella speranza di trovare la casa di Shakespeare. La notte era nera come la pece ma io svoltai istintivamente per una traversa e mi fermai davanti a uno stabile, accesi un fiammifero e lessi: « Casa di Shakespeare ». Solo lo spirito del Bardo poteva avermi condotto fin là ! Al mattino Sir Archibald Flower, sindaco di Stratford, venne in albergo e mi ricondusse alla casa di Shakespeare. Non riesco proprio ad associarvi la figura del Bardo; che una figura come la sua vi sia mai vissuta, o abbia avuto colà i suoi natali, mi sembra incredibile. È facile immaginare il figlio di un fattore che emigra a Londra e diventa un attore famoso e un proprietario di teatri; ma che sia diventato il più importante poeta epico e il più importante drammaturgo del mondo, e che si sia fatto una simile conoscenza delle corti, dei cardinali e dei sovrani, per me è inconcepibile. Non m'interessa sapere chi scrisse le opere di Shakespeare, se Bacone, Southampton o Richmond, ma stento a credere che possa essere stato il ragazzo di Stratford. Chiunque le abbia scritte, aveva un piglio aristocratico. Il suo assoluto disprezzo per la grammatica può essere stato solo l'atteggiamento di uno spirito dotato e principesco. E dopo avere visto la sua casa e sentito le scarse e frammentarie notizie relative alla sua infanzia contadina, ai suoi poco incoraggianti risultati scolastici, alla sua attività di bracconiere e alla sua zotica mentalità, non riesco a immaginare una metamorfosi intellettuale cosi profonda. L'opera del più grande dei geni deve per forza, in qualche punto, tradire le umili origini del suo autore: ma in Shakespeare non se ne trova la minima traccia. Da Stratford raggiunsi Manchester, dove giunsi verso le tre del pomeriggio. Era domenica e la città sembrava in catalessi: non un'anima viva per le strade. Fui ben felice di risalire in macchina e di rimetter mi in viaggio per Blackburn.
Da ragazzo, quando portavo in tournée Sherlock Holm.es, Blackburn era stata una delle mie piazze preferite. Ricordo che mi fermavo in un piccolo pub per quattordici scellini alla settimana, vitto e alloggio, e nelle ore libere giocavo sul piccolo biliardo del locale. Il pub era frequentato da Billington, il boia d'Inghilterra, e io mi vantavo spesso di avere giocato a biliardo con lui. Pur essendo appena le cinque quando giunsi a Blackburn, le tenebre avevano già avvolto la cittadina: trovai subito il mio pub e vi bevvi un bicchiere senza che nessuno mi riconoscesse. Il locale aveva cambiato padrone, ma il mio vecchio amico, il biliardo, era sempre là. Più tardi mi diressi a tentoni verso la piazza del mercato, circa quattro acri di tenebre che non dovevano essere rischiarate da più di tre o quattro lampioni. Al centro di vari capannelli parlavano alcuni oratori politici. Si era allora in Inghilterra al colmo della depressione. Passai da un gruppo all'altro, porgendo l'orecchio ai vari discorsi, alcuni dei quali erano bruschi e amari. Un oratore parlava del socialismo, un altro del comunismo e un terzo del Piano Douglas che, disgraziatamente, era troppo complicato per essere capito dal lavoratore medio. Ascoltando le discussioni sorte nei capannelli che si formarono dopo il comizio, rimasi sorpreso nel trovare un vecchio conservatore vittoriano che strombazzava le sue opinioni. Disse: « II guaio è che l'Inghilterra è vissuta troppo a lungo sugli allori e il sussidio di disoccupazione sta rovinando il paese ». Al buio non potei resistere e sbottai: « Senza il sussidio non ci sarebbe nemmeno il paese ». Le mie parole furono accolte da un coro di «Senti! Senti! ». Il quadro della situazione politica era tutt'altro che brillante. L'Inghilterra aveva quasi quattro milioni di disoccupati — il numero era in aumento — e tuttavia il programma elettorale laburista non differiva gran che da quello dei conservatori. Andai giù a Woolwich a sentire un comizio di Cunningham Reid, esponente del partito liberale. In un mare di sofismi politici, egli non promise nulla e fece poca impressione su quel collegio elettorale. Una
ragazza cockney, seduta al mio fianco, si mise a urlare: « Piantala con tutte queste chiacchiere, dicci che cosa intendi fare per oltre quattro milioni di disoccupati, allora sapremo se votare per il tuo partito o no ». Se questo era un esempio di come la pensavano le masse, c'era speranza che i laburisti vincessero le elezioni, pensai: ma mi sbagliavo. Dopo il discorso di Snowden alla radio, si registrò la vittoria schiacciante dei conservatori, alla quale si accompagnò un titolo di pari per Snowden. Perciò lasciai l'Inghilterra con un governo conservatore in arrivo e giunsi in America con un governo conservatore in partenza. Una vacanza, anche la migliore, finisce sempre per essere una perdita di tempo. Mi ero gingillato troppo a lungo nelle località più eleganti d'Europa: e sapevo benissimo il perché. Ero incerto e deluso. Dall'avvento del sonoro, non riuscivo a fare progetti per il futuro. Seb bene Le luci della città avesse ottenuto un successo colossale, incassan do più di qualsiasi altro film sonoro dell'epoca, capivo che girare un altro film muto avrebbe voluto dire crearmi seri ostacoli: per giunta, mi ossessionava il timore di non riuscire a tenermi al passo con i tempi. Anche se un buon film muto era più artistico, dovevo ammettere che il sonoro rendeva i personaggi più attuali. Di tanto in tanto riflettevo sulla possibilità di realizzare un film sonoro, ma la prospettiva mi faceva star male, perché mi rendevo conto che non avrei mai potuto raggiungere l'eccellenza delle mie pellicole mute. Avrei dovuto rassegnarmi all'idea di rinunciare completamente al personaggio del vagabondo. Certuni mi dissero che il vagabondo poteva anche acquistare la parola. La cosa era inconcepibile, perché Ja prima parola che avesse pronunciato lo avrebbe trasformato in un'altra persona. Inoltre, la matrice dalla quale era nato era muta come gli stracci che portava. Furono questi malinconici pensieri a prolungare la mia vacanza, ma
la coscienza non faceva che rimordermi: « Torna a Hollywood e mettiti al lavoro! ». Stavo per prenotare i posti per il ritorno in California via New York quando un telegramma di Douglas Fairbanks da St. Moritz scombussolò i miei piani, diceva: VIENI A ST. MORITZ, ORDINERÒ NEVE FRESCA PER IL TUO ARRIVO. TI ASPETTO. AFFETTUOSAMENTE, DOUGLAS. Lo avevo appena letto quando udii un timido colpo all'uscio. « Avanti! » dissi, pensando a un cameriere. Invece nel vano della porta comparve il viso della mia amica della Cote d'Azur. Ero sorpreso, irritato e rassegnato. « Avanti » ripetei, freddamente. Andammo a fare spese da Harrods, dove acquistammo dei costumi da sci, poi in una gioielleria di Bond Street a comprare un braccialetto che mi guadagnò tutta la sua riconoscenza. Un paio di giorni dopo giungemmo a St. Moritz, dove la sola vista di Douglas mi mise di buonumore. Benché Douglas si trovasse, a proposito della sua carriera, nello stesso mio dilemma, nessuno dei due venne sul discorso. Tuttavia quell'incontro tra i monti della Svizzera dissipò la nostra mestizia. Andammo a sciare insieme: per meglio dire, imparammo a sciare insieme. Nello stesso albergo alloggiava l'ex-principe ereditario tedesco, il figlio del Kaiser, ma io non ebbi mai occasione di rivolgergli la parola, anche se, quando il caso volle che mi trovassi con lui in ascensore, gli indirizzai un sorriso compito, pensando alla mia comica Charlot soldato, in cui il principe ereditario era un personaggio assai ridicolo. Durante il soggiorno a St. Moritz invitai mio fratello a unirsi a noi. Non avendo alcuna fretta di tornare a Beverly Hills, decisi di raggiungere la California passando per l'Oriente, e Sydney disse che mi avrebbe accompagnato fino in Giappone. Partimmo per Napoli, dove mi separai dalla mia amica. Ma questa volta era di buonumore. Non vi furono lacrime. Credo fosse rassegnata
e alquanto sollevata, perché dal tempo del soggiorno in Svizzera l'alchimia della nostra attrazione reciproca si era notevolmente diluita, e lo sapevamo entrambi. Ci separammo dunque da buoni amici. Mentre la nave si staccava dalla banchina mi regalò un'imitazione del mio buffo vagabondo che passeggia lungo il molo. Quella fu l'ultima volta che la vidi.
Ventitre Sull'Oriente sono già stati scritti molti eccellenti libri di viaggi, e perciò non abuserò della pazienza del lettore. Ho però una scusa per parlare del Giappone, fornitami dalle strane circostanze in cui mi trovai colà implicato. Avevo letto un libro sul Giappone di Lafcadio Hearn, e fu ciò che egli scrisse della cultura e del teatro giapponese a suscitare il mio desiderio di farvi una capatina. Partimmo a bordo di una nave giapponese. Lasciammo i venti gelidi di gennaio per entrare nel clima soleggiato del Canale di Suez. Al Cairo caricammo nuovi passeggeri, arabi e indù: anzi, caricammo un mondo nuovo ! Al tramonto stendevano le loro stuoie sul ponte e, rivolti alla Mecca, salmodiavano preghiere. Il mattino seguente eravamo nel Mar Rosso: ci liberammo degli abiti da inverno per indossare calzoncini bianchi e leggere camicie di seta. Al Cairo avevamo caricato frutta tropicale e noci di cocco, e cosi c'erano manghi a colazione e latte di cocco ghiacciato a cena. Una sera ci trasformammo in giapponesi e cenammo sul pavimento del ponte. Imparai da un ufficiale di bordo che versando sul riso un goccio di tè se ne migliorava il sapore. Mentre la nave si avvicinava al porto meridionale successivo, cresceva l'emozione. Il comandante giapponese annunciò con molta calma che al mattino saremmo giunti a Colombo. Benché Ceylon fosse già un'esperienza esotica, il nostro unico desiderio era di arrivare a Bali e in Giappone. La tappa successiva fu Singapore, dove entrammo nell'atmosfera di
un azzurro piatto di porcellana cinese: fichi d'India che spuntavano dall'oceano. Il ricordo di Singapore che mi è rimasto più impresso è quello degli attori cinesi che lavoravano al New World Amusement Park, bambini straordinariamente colti e dotati, perché il loro repertorio comprendeva molti classici dei grandi scrittori cinesi. Gli attori si producevano in una pagoda alla maniera tradizionale. Lo spettacolo che vidi durò tre sere. Il primo attore della compagnia, una fanciulla di quindici anni, faceva la parte del principe e cantava con voce stridula e rauca. La drammatica conclusione ebbe luogo la terza sera. A volte è meglio non capire la lingua, perché nulla avrebbe potuto farmi più impressione dell'ultimo atto, con le ironiche intonazioni musicali, i gemiti degli strumenti a corda, il fragore assordante dei gong e la voce rauca e stridente del giovane principe bandito che piangeva con tutta l'angoscia di un'anima perduta in sfere solitarie lasciando definitivamente la scena. Era stato Sydney a raccomandarmi di visitare l'isola di Bali, dicendo che la civiltà non l'aveva ancora rovinata e descrivendomi le sue belle donne col petto in mostra. Le sue parole avevano destato il mio interesse. Avvistammo l'isola al mattino: bianche nubi rigonfie circondavano verdi monti dalle cime che sembravano isole galleggianti. A quei tempi non c'era né porto né aeroporto: si approdava in barca a remi su un vecchio molo di legno. Traversammo villaggi cintati da mura bellissime con portali imponenti dove vivevano dieci o venti famiglie. Più si penetrava nell'interno, più bello si faceva il paese; le argentee superfici delle risaie digradavano fino a un tortuoso fiumicello. A un tratto Sydney mi diede una gomitata. Sul ciglio della strada avanzava una fila di giovani donne dal portamento maestoso, vestite solo di un batik 1 avvolto intorno ai fianchi, a petto nudo, portando sulla testa cesti carichi di frutta. Da allora in poi furono continue gomitate. 1 Pezzo di cotonina stampata. (N. d.T.) 440
Alcune ragazze erano veramente graziose. La nostra guida, un turco americano che sedeva davanti con l'autista, fu particolarmente noioso, perché non faceva che voltarsi con libidinoso interesse a spiare le nostre reazioni, come se egli avesse organizzato lo spettacolo appositamente per noi. L'albergo di Denpasar era stato appena costruito. Ogni stanza di soggiorno era aperta come una veranda e divisa da un tramezzo, con la camera da letto sul fondo, comoda e pulita. Hirschfeld, l'acquarellista americano, si trovava a Bali con la moglie da due mesi, e c'invitò a casa sua, dove prima di lui era vissuto Miguel Govarrubias, l'artista messicano. L'avevano presa in affitto da un nobiluomo balinese e vi abitavano come aristocratici latifondisti per quindici dollari alla settimana. Dopo cena gli Hirschfeld, Sydney e io andammo a fare una passeggiata. Non spirava un alito di vento, poi all'improvviso un mare di lucciole, che si allargava a perdita d'occhio, ricoperse le risaie in mobili ondate di luce azzurra. Da un'altra direzione giunse un suono di tamburelli e gong percossi ritmicamente. « C'è un ballo da qualche parte » disse Hirschfeld « andiamo a vedere. » A circa duecento metri di distanza incontrammo un gruppo d'indigeni, ritti o accovacciati qua e là; le donne sedevano a gambe incrociate con piccole torce e cesti di squisite leccornie da vendere. Tra la folla scorgemmo due bambine sui dieci anni avvolte in sarong ricamati, con complicate acconciature adorne di lamine d'oro sfavillanti alla luce delle fiaccole mentre esse ballavano al suono di note acute in chiave di soprano, con l'accompagnamento dei profondi toni bassi provenienti da grossi gong; le teste ondeggiavano, gli occhi roteavano, le dita fremevano a quella musica diabolica, che in un crescendo travolgente raggiungeva l'impeto di un torrente in piena per poi rimettersi a scorrere come un placido fiume in pianura. La fine fu una sorpresa: le danzatrici s'interruppero bruscamente e disparvero tra la folla. Non vi furono applausi: gli abitanti dell'isola di Bali non applaudono mai, e non hanno nememno una parola per dire « amore » o « grazie ». 44J
Walter Spies, il pittore e musicista, venne a trovarci in albergo e rimase a pranzo con noi. Viveva a Bali da quindici anni e parlava la lingua del posto. Aveva trascritto per il pianoforte una parte della loro musica, che suonò per noi: l'effetto fu quello di un concerto di Bach eseguito raddoppiando il tempo. Egli disse che il loro gusto musicale era assai raffinato; del nostro jazz moderno non volevano neppure sapere, considerandolo monotono e troppo lento. Mozart lo trovavano sentimentale, e solo Bach li interessava perché i suoi ritmi e i suoi schemi musicali erano simili ai loro. Io trovai la loro musica fredda, inumana e piuttosto irritante; anche i brani più malinconici tradivano la brama sinistra di un minotauro affamato. Dopo pranzo Spies ci condusse nell'interno della giungla, dove doveva svolgersi una flagellazione rituale. Per arrivarci fummo costretti a fare oltre sei chilometri a piedi lungo un sentiero in mezzo alla foresta. Quando giungemmo nel luogo indicato trovammo una gran folla assiepata intorno a un altare lungo circa tre metri e mezzo. Fanciulle giovanissime in sgargianti sarong, a petto nudo, facevano la coda con cesti carichi di frutta e altre offerte che un sacerdote, al quale i capelli lunghi fino alla cintola e la veste bianca, davano l'aria di un derviscio, benediva e posava sull'altare. Dopo che i sacerdoti ebbero intonato le preghiere una squadra di adolescenti irruppe gridando sullo spiazzo e mise a sacco l'altare: i giovani cercavano d'impadronirsi delle offerte, mentre i sacerdoti li colpivano violentemente con la frusta. Alcuni furono costretti ad abbandonare il bottino per la violenza delle frustate, che avevano lo scopo di liberarli dagli spiriti maligni che davano loro la tentazione di rubare. Potevamo entrare e uscire a nostro piacere dai templi e dai villaggi, e assistemmo ai combattimenti dei galli e a feste e cerimonie religiose che si svolgevano a qualsiasi ora del giorno e della notte. Ne lasciai una alle cinque del mattino. Le loro divinità sono amanti del piacere, e i balinesi le adorano non con timore ma con affetto. Una sera, a tarda ora, Spies e io c'imbattemmo in un'amazzone dal
l'alta figura che danzava al lume di una torcia, imitata dal figlioletto sullo sfondo. Di tanto in tanto un uomo dall'aria giovanile le dava delle istruzioni. Scoprimmo poi che era suo padre. Spies gli chiese quanti anni avesse. « Quand'è stato il terremoto? » domandò lui. « Dodici anni fa » disse Spies. « Be', allora avevo già tre figlie maritate. » Non soddisfatto della risposta, soggiunse: « Ho un'età di duemila dollari ». Intendeva dire che in vita sua aveva speso tale somma. In molti villaggi vidi berline nuove di zecca usate come pollai. Ne chiesi la ragione a Spies, che mi disse: « II villaggio si regge su basi comuniste, e i soldi che guadagna con l'esportazione di pochi capi di bestiame finiscono in un libretto di risparmio che col passare degli anni raggiunge una somma considerevole. Un giorno un intraprendente piazzista in automobili li ha convinti a comprare delle berline Cadillac. Per i primi due o tre giorni se ne sono andati in giro godendosela un mondo, finché non è finita la benzina. Allora hanno scoperto che il mantenimento di una macchina sarebbe costato loro in un giorno quanto guadagnano in un mese, e perciò le hanno abbondonate nei villaggi, dove si sono trasformate in pollai ». L'umorismo balinese è come il nostro e abbonda di barzellette sul ses so, truismi e giochi di parole. Volli saggiare lo spirito del nostro giovane cameriere d'albergo. « Perché la gallina attraversa la strada? » gli chiesi. La sua reazione fu piuttosto sprezzante. « Questa la sanno tutti » disse all'interprete. « Benissimo, allora » dissi. E domandai: « Chi è nato prima, l'uovo o la gallina? ». La domanda lo mise in imbarazzo. « La gallina... No... » Poi scosse il capo: « L'uovo... No... ». Spinse il turbante sulla nuca e riflettè un momento, poi dichiarò con grande sicurezza: « L'uovo ». « Ma chi ha posato l'uovo? »
« La tartaruga, perché la tartaruga è il primo tra gli animali e posa tutte le uova. » Bali era allora un paradiso. Gli indigeni lavoravano quattro mesi nelle risaie e dedicavano gli altri otto all'arte e alla cultura. Gli svaghi erano gratuiti in tutta l'isola, dove un villaggio si esibiva per l'altro. Ma ormai il paradiso non esiste più nemmeno là. La civiltà ha insegnato alle donne a coprirsi il petto e ad abbandonare le loro divinità amanti del piacere per le usanze occidentali. Poiché avremmo dovuto essere ospiti del governo, Kono, il mio segretario giapponese, espresse il desiderio di andare avanti a predisporre ogni cosa per il nostro arrivo. Nel porto di Kobe fummo accolti da aeroplani che girarono in cerchio sopra la nostra nave facendoci pio vere addosso una miriade di manifestini con parole di benvenuto, mentre migliaia di persone si assiepavano sulla barichina, battendo le mani. La vista di numerosi kimono a vivaci colori sullo sfondo delle ciminiere e dei moli squallidi e grigi fu paradossalmente bella. C'era ben poco, in questa dimostrazione, del mistero o del riserbo che si sogliono attribuire comunemente ai giapponesi. La folla era entusiasta ed eccitata come tutte le altre folle che mi è capitato di vedere. Per portarci a Tokyo il governo mise a nostra disposizione un treno speciale. A ogni stazione crescevano la folla e l'entusiasmo; sulle banchine si stipava una galassia di belle ragazze che ci seppellivano sotto valanghe di doni. L'effetto, mentre ci aspettavano là in piedi nei loro kimono, era quello di una mostra floreale. A Tokyo ci attendeva, davanti alla stazione, una folla che fu valutata in quarantamila per sone. Nella calca Sydney inciampò e cadde, e fu quasi travolto e calpestato dagli ammiratori. Il mistero dell'Oriente è leggendario. Avevo sempre creduto che noi europei lo avessimo un pochino esagerato. Il mistero, però, era nell'aria nell'attimo in cui sbarcammo a Kobe, e ora, a Tokyo, esso cominciò a tesserci intorno le sue trame. Mentre stavamo andando in albergo, la macchina deviò in una zona silenziosa della città. A un tratto, nei
pressi del palazzo dell'imperatore, rallentò fino a fermarsi. Kono guardò ansiosamente dal finestrino della berlina, poi si rivolse a me e mi fece una strana richiesta. Volevo essere tanto gentile da scendere e fare un inchino nella direzione del palazzo? « È l'usanza? » domandai. « Si » disse lui con aria indifferente. « Non occorre che lei s'inchini per davvero, basterà che scenda dalla macchina. » La richiesta mi sconcertò alquanto perché, tolte le due o tre macchine del seguito, non c'era nessuno in giro. Se cosi avesse voluto la tradizione, il pubblico ne sarebbe stato a conoscenza e vi avremmo trovato almeno una piccola folla. Comunque, scesi e m'inchinai. Quando ri montai in macchina Kono mi parve sollevato. Sydney pensava che era una bizzarra pretesa. Osservò che Kono aveva agito in modo strano e gli era parso preoccupato fin da quando avevamo messo piede a terra, nel porto di Kobe. Io non diedi molto peso alla faccenda e dissi che forse aveva lavorato troppo. Quella notte non accadde nulla, ma l'indomani mattina Sydney entrò nel soggiorno in preda a una profonda agitazione. « Non mi piace » disse « qualcuno ha perquisito i miei bagagli e messo sottosopra le mie carte. » Gli dissi che anche se era vera la cosa non aveva molta importanza. Ma nulla valse a dissipare i sospetti di Sydney. « Qui sotto c'è qualcosa di losco » disse. Ma io mi misi a ridere e lo accusai di essere troppo diffidente. Quel mattino il governo ci assegnò un agente di scorta, il quale ci spiegò che in qualunque posto avessimo voluto andare, dovevamo farglielo sapere tramite Kono. Sydney insistè nel dire che eravamo sotto sorveglianza e che Kono ci nascondeva certamente qualcosa. Devo ammettere che col passare delle ore Kono sembrava più ansioso e preoccupato che mai. I sospetti di Sydney non erano infondati, perché quel giorno accadde un fatto strano. Kono disse che un mercante aveva dei quadri pornografici dipinti su seta che avrebbe voluto mostrarmi a casa sua. Gli risposi di riferire all'uomo che la cosa non m'interessava. Kono prese
un'aria preoccupata. « E se invece gli dicessi di lasciarli in albergo? » propose. « Assolutamente no » dissi. « Digli semplicemente di non sprecare il suo tempo. » Lui esitò. « Questa gente non si accontenta di un no. » « Chi sarebbe, "questa gente?" » chiesi io. « Be', da parecchi giorni mi fanno delle minacce. Vi sono degli elementi piuttosto duri, qui a Tokyo. » « Che sciocchezza ! » risposi. « Gli metteremo alle costole la polizia. » Ma Kono scosse il capo. La sera dopo mio fratello, Kono e io stavamo cenando nella saletta privata di un ristorante quando entrarono sei giovanotti. Uno di essi sedette vicino al segretario e incrociò le braccia, mentre gli altri fecero un passo indietro e rimasero in piedi. L'uomo seduto cominciò a parlare con Kono in giapponese, trattenendo a stento l'ira. A un certo punto disse qualcosa che lo fece sbiancare in viso. 10 ero disarmato. Ciò nondimeno, misi una mano nella tasca della giacca come se avessi una pistola e gridai: « Che significa questo? ». Kono, senza alzare lo sguardo dal piatto, borbottò : « Dice che lei ha insultato i suoi antenati rifiutandosi di vedere i suoi quadri ». Scattai in piedi e, senza togliere la mano di tasca, guardai il giovanotto con aria feroce. « Cos'è questa storia? » Poi dissi a Sydney: « Andiamocene di qui. E tu, Kono, chiama un tassi ». Una volta in salvo nella strada, provammo tutti un gran senso di sollievo. Ci stava aspettando un tassi, a bordo del quale ci allontanammo rapidamente. 11 mistero raggiunse il culmine il giorno seguente, quando il figlio del primo ministro c'invitò agli incontri di lotta Suomi. Mentre assistevamo alle gare un funzionario battè una mano sulla spalla di Ken Inukai e gli sussurrò qualcosa. Lui si rivolse a noi pregandoci di scusarlo, disse che era sorta una questione urgente e che doveva lasciarci, ma che sarebbe tornato più tardi. Ritornò verso la fine della riunione, sconvolto e pallidissimo. Gli chiesi se stava poco bene. Lui scosse il 446
capo, poi si copri improvvisamente il volto con le mani. « Mio padre è stato assassinato » disse. Lo portammo con noi in albergo dove gli offrimmo un bicchierino di brandy. Allora ci riferì l'accaduto. Sei cadetti della marina militare avevano ucciso le guardie davanti al palazzo del primo ministro e si erano introdotti nell'appartamento di suo padre, dove lo avevano trovato insieme alla moglie e alla figlia. Sua madre gli narrò il resto della storia: gli assassini tennero per venti minuti suo padre sotto la mira dei fucili spianati, mentre il primo ministro cercava di farli ragionare, ma senza esito. Senza una parola, stavano per ammazzarlo. Ma lui li pregò di non ucciderlo alla presenza della sua famiglia. Allora essi gli permisero di congedarsi dalla moglie e dalla figlia. Con calma egli si alzò e condusse i sicari in un'altra stanza, dove dovette cercare ancora una volta di far loro intendere ragione, perché i suoi familiari trascorsero parecchi minuti di angosciosa attesa prima di sentire i colpi che gli davano la morte. Il delitto era stato commesso mentre il figlio si trovava agli incontri di lotta. Se non fosse stato con noi, egli disse, lo avrebbero ucciso insieme a suo padre. Lo riaccompagnai a casa, e vidi la stanza in cui due ore prima era stato assassinato suo padre. La macchia lasciata da una gran pozza di sangue era ancora umida sulla stuoia. C'era una turba di fotografi e giornalisti, che però ebbero la decenza di non scattare fotografie. Ciò nondimeno, mi costrinsero a fare una dichiarazione. Riuscii solo a dire che era una spaventosa tragedia per la famiglia e per il paese. Il giorno dopo l'attentato avrei dovuto incontrare il defunto primo ministro a un ricevimento ufficiale che, naturalmente, fu annullato. Sydney dichiarò che il delitto rientrava nel mistero e che in qualche modo vi eravamo implicati anche noi. Disse: « È qualcosa di più di una coincidenza il fatto che sei sicari abbiano ucciso il primo ministro e sei uomini siano entrati nel ristorante, quella sera, mentre stavamo cenando ».
Fu solo quando Hugh Byas ebbe scritto il suo interessantissimo libro, Government by Assassination *, pubblicato da Alfred A. Knopf, che tutto il mistero, per quanto mi riguardava, fu chiarito. Sembra che allora fosse molto attiva la società segreta detta « II drago nero » e furono i suoi membri a impormi di inchinarmi davanti al palazzo. Citerò dal libro di Hugh Byas il brano relativo al processo che dovettero affrontare gli assassini del primo ministro. Il tenente Seishi Koga, capo della congiura organizzata dalla marina militare, disse poi alla corte marziale che i cospiratori avevano discusso un piano per costringere il governo alla proclamazione della legge marziale, bombardando la Camera dei Deputati. Dinamitardi in borghese, che potevano ottenere facilmente il lasciapassare, avrebbero dovuto lanciare le bombe dalla galleria riservata al pubblico, mentre giovani ufficiali avrebbero atteso agli ingressi per uccidere i parlamentari quando si fossero precipitati fuori. Un altro piano che potrebbe apparire troppo grottesco per essere credibile se non fosse stato esposto in tribunale contemplava l'uccisione di Charles Chaplin, allora in visita al Giappone. Il primo ministro invitò Chaplin a prendere il tè con lui, e i giovani ufficiali studiarono la possibilità di fare un'incursione nella residenza del primo ministro mentre era in corso il ricevimento. GIUDICE: Che significato avrebbe avuto l'uocisione di Chaplin? KOGA : Chaplin è una figura molto popolare negli Stati Uniti, e il beniamino dei capitalisti. Eravamo convinti che uccidendolo avremmo fatto scoppiare una guerra con l'America, e cosi potevamo prendere due piccioni con una fava. GIUDICE: Perché allora avete rinunciato al vostro splendido piano? KOGA : Perché in seguito i giornali scrissero che il ricevimento in programma era ancora incerto. GIUDICE: Qual era il motivo del piano d'attacco alla residenza ufficiale del primo ministro? KOGA : Volevamo rovesciare il premier, che era anche presidente di un partito politico; in altre parole, volevamo rovesciare il fulcro del governo. GIUDICE: Avevate intenzione di uccidere il primo ministro? KOGA : Si, era questa la mia intenzione. Però non avevo alcun rancore perso nale contro di lui. 1 Governo con l'assassinio.
Lo stesso prigioniero disse che il piano per uccidere Chaplin fu abbandonato perché « era controverso se fosse consigliabile uccidere l'attore, non essendoci la sicurezza che ciò potesse provocare una guerra con gli Stati Uniti e rafforzare il potere dei militari ». Che bellezza se gli assassini avessero attuato il loro progetto, per rendersi conto in seguito che non ero americano ma inglese: « Oh, scusi tanto ! ». Però il mio soggiorno in Giappone non si svolse tutto all'insegna del mistero e della paura; in gran parte fu anzi molto interessante. Il teatro di Kabuki costituì una piacevolissima sorpresa, superiore a ogni mia aspettativa. Il Kabuki non è un teatro puramente formale, ma un misto di antico e moderno. La cosa più importante è il virtuosismo dell'attore, e l'opera non è che il materiale con cui egli si esibisce. Secondo i nostri canoni occidentali la loro tecnica ha limiti ben precisi. S'ignora il realismo dove non lo si può rendere efficacemente. Ad esempio, noi occidentali non possiamo mettere in scena un duello senza una punta di assurdità perché, per accanito che sia, lo scontro tradisce sempre un minimo di prudenza. I giapponesi, dal canto loro, non hanno la pretesa di fare del realismo. Si battono a grande distanza l'uno dall'altro, facendo ampi gesti boriosi con le spade, tentando l'uno di tagliare la testa all'avversario, mirando l'altro alle gambe del nemico. Ciascuno salta, danza e piroetta nella propria sfera. È una specie di balletto. Lo scontro è impressionistico, e si conclude con gli avversari immobilizzati nella posizione del vincitore e del vinto. Questo impressionismo sfocia nel realismo al momento di recitare la scena della morte. L'ironia è il tema di molte delle loro opere teatrali. Ne vidi una che era paragonabile a Giulietta e Romeo, la tragedia di due giovani innamorati il cui matrimonio è osteggiato dai genitori. Veniva recitata su un palcoscenico girevole, che i giapponesi usano da trecento anni. La prima scena rappresentava l'interno della camera nuziale, in cui si vedeva la coppia appena unita in matrimonio. Durante il primo 19. 449
atto alcuni messaggeri cercano di intercedere presso i genitori dei giovani innamorati, i quali sperano in una riconciliazione. Ma la tradizione è troppo forte. I genitori sono irremovibili. Allora gli innamorati decidono di suicidarsi secondo il tradizionale sistema giapponese: ciascuno di essi prepara un tappeto di fiori sul quale morire; poi lo sposo uccide la sposa e si getta sulla propria spada. I commenti degli innamorati, mentre spargono petali di fiori sul pavimento preparandosi alla morte, suscitavano le risa del pubblico. L'interprete mi disse che si trattava di battute a sfondo ironico, come questa: «Vivere dopo una simile notte d'amore sarebbe impossibile». Lo scambio dura una decina di minuti, dopodiché la sposa s'inginocchia sul suo tappeto di fiori, piuttosto lontano da quello del marito, e si denuda la gola; mentre lo sposo sguaina la spada e le si avvicina lentamente, il palcoscenico girevole comincia a muoversi e, prima che la punta della spada raggiunga la gola della giovane moglie, la scena scompare agli occhi del pubblico, sostituita dall'esterno della casa, bagnata dai raggi della luna. Il pubblico attese, paziente, in quello che mi parve un silenzio interminabile. Finalmente si sentono delle voci che si avvicinano. Sono amici dei giovani sposi venuti a recar loro la buona novella che i genitori li hanno perdonati. Sono un po' brilli e non sanno decidere quale di essi dovrebbe dare la notizia. Poi attaccano una serenata e, non ottenendo risposta, bussano alla porta. « Non disturbateli » dice uno « o dormono o sono occupati. » E cosi riprendono il cammino, continuando la serenata, accompagnati da una specie di ticchettio, simile a quello che si otterrebbe tamburellando su una cassetta, che è il segnale della fine della commedia, mentre il sipario cala lentamente sul palcoscenico. Per quanto tempo ancora il Giappone sopravvivrà al virus della ci viltà occidentale è diffìcile dire. Il godimento da parte della sua popolazione di quei semplici momenti nella vita cosi caratteristici della loro cultura — una lunga occhiata a un raggio di luna, un pellegrinaggio per contemplare dei fiori di ciliegio, la silenziosa meditazione della ce 45°
rimonia del tè - sembra destinato a dissolversi nello smog dell'attivismo occidentale. Le mie vacanze erano agli sgoccioli e, pur avendone apprezzato molti aspetti, non erano mancate le esperienze deprimenti. Vidi viveri in via di putrefazione, cataste di mercanzie intorno alle quali girava gente affamata, milioni di disoccupati che andavano in malora con il loro potenziale lavorativo. Durante una cena sentii un tale dichiarare che nulla avrebbe potuto salvare la situazione se non si fosse trovato altro oro. Quando accennai al problema dell'automazione, che riduceva i posti di lavoro, qualcuno disse che il problema si sarebbe risolto da sé perché la manodopera avrebbe finito per essere cosi economica da poter competere con le macchine. La depressione fu davvero una tristissima esperienza.
Ventiquattro Tornato a casa, a Beverly Hills, passai lunghi minuti in piedi al centro del soggiorno. Era un tardo pomeriggio, un tappeto di lunghe ombre copriva il prato e lame di luce dorata penetravano fitte nella stanza. Che aria serena aveva tutto ciò ! Per poco non mi misi a piangere. Mancavo da otto mesi, eppure mi stavo chiedendo se ero davvero felice di essere tornato. Mi sentivo confuso e senza progetti, inquieto e conscio' di un'estrema solitudine. In Europa avevo avuto la vaga speranza d'incontrare qualcuno che potesse dare un orientamento alla mia vita. Ma non era accaduto nulla. Fra tutte le donne che avevo incontrato, poche appartenevano a tale categoria: e quelle che avrebbero potuto fare qualcosa non mostrarono il minimo interesse per me. E ora, tornato in California, mi ritrovavo in un cimitero. Douglas e Mary si erano divisi, e quel mondo non esisteva più. Quella sera avrei dovuto cenare solo, una cosa che non mi è mai piaciuta nella vastità di quella casa. Allora saltai il pasto, in macchina raggiunsi Hollywood, parcheggiai e feci una passeggiata giù per Hollywood Boulevard. Sembrava che non mi fossi mai allontanato di là. C'erano le stesse lunghe file di negozi a un sol piano, gli sconquassati depositi dell'esercito e della marina, i drugstores economici, Woolworth e Kresge, tutto un insieme di cose deprimenti e grossolane. Hollywood non aveva perso il suo aspetto di cittadina divenuta improvvisamente prospera.
Mentre passeggiavo sui boulevard cominciai a domandarmi se non era il caso di ritirarsi, vendere tutto e andare in Cina. Non avevo nulla, a Hollywood, che mi trattenesse. Senza dubbio il cinema muto era finito e non me la sentivo di battermi contro il sonoro. Inoltre, ero isolato. Cercai di pensare a qualcuno che conoscessi tanto a fondo da potergli telefonare per invitarlo a cena senza sentirmi in imbarazzo, ma non trovai nessuno. Tornato a casa, mi avvertirono che Reeves, il mio manager, aveva chiamato per informarmi che era tutto a posto. Ma nessun altro si era fatto vivo. Andare allo studio per occuparsi di affari noiosi fu come fare un tuffo nell'acqua fredda. Comunque mi rallegrò moltissimo apprendere che Le luci della città andava a gonfie vele e che avevamo già in saccoccia 3.000.000 di dollari (netti), mentre assegni superiori ai 100.000 dollari continuavano ad arrivare tutti i mesi. Reeves mi suggerì di andare alla banca di Hollywood a trovare il direttore, tanto per fare la sua conoscenza. Non avendo messo piede in una banca da sette anni, declinai cortesemente l'invito. Il principe Enrico, nipote del Kaiser, venne a trovarmi allo studio, poi cenammo a casa mia, dove si svolse tra noi un'interessante conversazione. Il principe, un tipo affascinante e molto intelligente, parlò della rivoluzione tedesca dopo la prima guerra mondiale come di una sommossa da operetta. « Mio nonno era andato in Olanda » disse « ma le zie rimasero nel palazzo di Potsdam, troppo atterrite per fare un gesto. Quando finalmente marciarono sul palazzo, i rivoluzionari fecero pervenire un biglietto alle zie chiedendo di essere ricevuti, e durante il colloquio garantirono loro ogni protezione: se avevano bisogno di qualcosa, bastava che telefonassero al quartiere generale socialista. Le zie non credevano ai propri orecchi. Ma quando poi il governo le interpellò per sistemare la questione dei loro patrimoni, cominciarono a equivocare e a chiedere di più. » Disse, per concludere: « La rivoluzione russa fu una tragedia, la nostra uno scherzo ». Da quando ero tornato negli Stati Uniti si stava verificando qualcosa di veramente prodigioso. I rovesci economici, per quanto gravi, die
dero la misura della grandezza del popolo americano. La situazione andava di male in peggio. Alcuni stati arrivarono al punto di stampare valuta fiduciaria su legno per poter distribuire le merci rimaste invendute. Frattanto il lugubre Hoover se ne stava là ingrugnato, perché il suo disastroso sofisma economico secondo il quale allogando il danaro in cima alla piramide esso sarebbe filtrato giù giù fino alla gente qualsiasi aveva fatto fiasco. E nel bel mezzo di questa tragedia ebbe la faccia tosta di affermare, durante la campagna elettorale, che se Franklin Roosevelt fosse stato eletto le fondamenta del sistema americano — proprio un bel sistema, in quel momento ! — sarebbero state messe a repentaglio. Ma Franklin D. Roosevelt ottenne la presidenza e il paese non corse altri pericoli. Il suo discorso dell'« uomo dimenticato » fece uscire la politica americana dal suo cinico torpore e segnò l'inizio dell'era più dinamica della storia americana. Ascoltai il discorso alla radio nella villa al mare di Sam Goldwyn. Eravamo in parecchi, tra i quali Bill Paley della Columbia Broadcasting Company, Joe Schenck, Fred Astaire con la moglie, e altri invitati. Il suo slogan « L'unica cosa che abbiamo da temere è il timore stesso » fu come un raggio di sole nelle tenebre. Ma io ero ancora scettico, come la maggior parte di noi. « Troppo bello per essere vero » commentai. Non appena ebbe preso possesso della carica Roosevelt cominciò a far seguire i fatti alle parole, ordinando una bank holiday 1 di dieci giorni per impedire alle banche di crollare. Fu quello il momento in cui l'America diede prova di tutto il suo coraggio. Botteghe e negozi continuarono a lavorare a credito, persino i cinema e i teatri vendevano i biglietti in questo modo, e per dieci giorni, mentre Roosevelt e il suo cosiddetto « trust dei cervelli » formulavano il New Deal, la gente si comportò magnificamente. 1 La bank holiday è una festività legale che in Inghilterra cade il Venerdì Santo, il lunedì di Pasqua, il giorno di Pentecoste, il primo lunedì di agosto, Natale e Santo Stefano. {N.d.T.)
Il Fu varata una legislazione che prevedeva ogni tipo di emergenza: il ristabilimento del credito agricolo per bloccare le ruberie consentite dalle preclusioni nel riscatto delle ipoteche, il finanziamento di lavori pubblici in grande stile, la ratifica del National Recovery Act, l'aumento dei'minimi salariali, la moltiplicazione dei posti di lavoro mediante la riduzione dell'orario e l'incoraggiamento delle organizzazioni sindacali. Si stavano passando i limiti: questo era socialismo, tuonò l'opposizione. Lo fosse o no, salvò il capitalismo da un tracollo che sarebbe stato definitivo. Inaugurò anche alcune delle migliori riforme nella storia degli Stati Uniti. Era entusiasmante vedere con quale rapidità il cittadino americano reagiva alle iniziative di un governo costruttivo. Anche Hollywood stava subendo un profondo cambiamento. Quasi tutti i divi del muto erano scomparsi dalla circolazione: eravamo rimasti in pochi. Ora che il sonoro aveva preso piede, il fascino e la spensieratezza di Hollywood parevano definitivamente tramontati. Nel giro di una notte la Mecca del cinema si era trasformata in un'industria seria e organizzata. I tecnici del suono stavano rinnovando gli studi e costruendo complicate apparecchiature. Nei teatri di posa si muovevano goffamente macchine da presa delle dimensioni di una stanza, come carri di divinità mitologiche. Vennero installati complessi apparati radiofonici, con migliaia di fili elettrici. Uomini in equipaggiamento da astronauti sedevano con la cuffia sulla testa mentre gli attori recitavano sotto i microfoni penzolanti dai cavi come pesci presi all'amo. Era tutto assai complicato e scoraggiante. Come si sarebbe potuto combinare qualcosa di buono in mezzo a quell'ammasso di ferraglia? Non riuscivo a digerire l'idea. Poi qualcuno scopri che tutti questi complicatissimi apparecchi potevano essere resi portabili, e le macchine da presa più mobili, e che si poteva noleggiare l'attrezzatura per una cifra ragionevole. Malgrado i miglioramenti, avevo poca voglia di rimettermi al lavoro. Carezzavo ancora l'idea di levare le tende per stabilirmi in Cina. A
Hong Kong avrei potuto vivere bene e dimenticare il cinema, invece di languire là a Hollywood, marcendo sulla vigna. Per tre settimane me ne rimasi con le mani in mano, poi un giorno Joe Schenck telefonò per invitarmi a trascorrere il week-end sul suo panfìlo: una bella imbarcazione, lunga più di quaranta metri, che poteva ospitare comodamente quattordici persone.. Di solito Joe gettava le ancore al largo di Avalon, davanti all'isola di Catalina. I suoi ospiti erano tipi poco interessanti, per lo più giocatori di poker, e questo gioco non godeva della mia simpatia. Ma per fortuna c'erano altri interessi. In genere Joe prendeva il mare con una frotta di belle ragazze; ed essendo disperatamente solo speravo di trovare almeno un piccolo raggio di sole. Questo è precisamente ciò che accadde: vi conobbi Paulette Goddard. < Era una ragazza spigliata e divertente, e nel corso della serata mi disse j che intendeva investire 50.000 dollari, parte degli alimenti che le paj gava l'ex-marito, nell'industria cinematografica. Aveva portato a bordo ^ tutti i documenti per la firma. Per impedirglielo la presi quasi per la gola. L'affare propostole era con ogni evidenza una truffa bella e buona. Le dissi che facevo del cinema da quando esso aveva mosso i primi passi, e che con la mia esperienza non avrei investito un soldo altro che nei miei film: ed era un rischio anche quello. Osservai che se Hearst, con il suo codazzo di scrittori e la possibilità di ridurre per lo schermo i romanzi e i racconti più popolari degli Stati Uniti, investendo il suo danaro nel cinema ci aveva rimesso 7.000.000 di dollari, quali probabilità poteva avere lei? Finalmente riuscii a convincerla a non rischiare. Questo fu l'inizio della nostra amicizia. Il legame che ci uni fu la solitudine. Paulette era appena giunta da New York e non conosceva nessuno. Come Robinson Crusoe, scoprimmo tutti e due il nostro Venerdì. Durante la settimana avevamo molto da fare, perché Paulette lavorava in un film di Sam Goldwyn e io mi occupavo dei miei affari. Ma la domenica era un giorno miserando. Dalla disperazione facevamo lunghe gite in macchina, anzi perlustrammo l'intera linea costiera della California. Sembrava che non ci fosse 456
nulla da fare. La nostra avventura più emozionante consisteva nel raggiungere il porto di San Pedro per guardare i panfili là ormeggiati. Ce n'era uno in vendita, un'imbarcazione a motore da crociera lunga più di sedici metri con tre cabine passeggeri, una cambusa e una comoda cabina di pilotaggio: proprio la barca che sarebbe piaciuta a me. « Se tu avessi qualcosa del genere » disse Paulette « la domenica potremmo divertirci un mondo, e andare a Catalina. » Allora m'informai sulle condizioni d'acquisto. Apparteneva a un certo signor Mitchell, fabbricante di macchine da presa, il quale ci fece visitare l'imbarcazione. In una settimana la visitammo tre volte, finché la nostra presenza divenne imbarazzante. Ma il signor Mitchell disse che fino a quando non l'avesse venduta eravamo liberi di salire a bordo per visitarla a nostro piacere. All'insaputa di Paulette comprai il panfìlo e lo attrezzai per una crocie ra a Catalina, prendendo a bordo il mio cuoco personale e un ex-poliziotto della Keystone, Andy Anderson, che aveva il brevetto di capitano. La domenica successiva era tutto pronto. Paulette e io partimmo di buon'ora per quella che lei credeva una lunga gita in macchina, con l'intesa di buttar giù una tazza di caffè per andare più tardi a fare colazione in qualche posto. Poi ella si accorse che avevamo imboccato la strada di San Pedro. « Non dirmi che vuoi andare a rivedere quella barca. » « Mi piacerebbe darle un'altra occhiata, per decidere » risposi. « Allora dovrai andare solo, è troppo imbarazzante » disse lei, un po' seccata. « Ti aspetterò in macchina. » Quando ci fermammo davanti all'imbarcadero, nulla potè indurla a scendere dall'auto. « No, dovrai andare solo. Ma spicciati... Non abbiamo ancora fatto colazione. » Due minuti dopo tornai alla macchina e, pur controvoglia, la persuasi a seguirmi a bordo. La cabina era allegramente decorata con una tovaglia rosa e azzurro e stoviglie in tinta, pure rosa e azzurro. Dalla cambusa veniva un delizioso aroma di uova e pancetta che friggevano in padella. « II comandante ci ha gentilmente invitati a colazione »
dissi. « Abbiamo focaccine calde, uova e pancetta, pane tostato e caffè. » Paulette sbirciò nella cambusa e riconobbe il nostro cuoco. « Be' » dissi io « volevi un posto dove andare la domenica, e cosi dopo colazione andremo a Catalina per fare una nuotata. » Poi le dissi che avevo comprato il battello. La sua reazione fu davvero strana. « Aspetta un momento » disse. Si alzò, lasciò l'imbarcazione e fece di corsa una cinquantina di metri lungo la banchina, coprendosi il viso con le mani. « Ehi ! Vieni a fare colazione ! » gridai. Quando fu di nuovo a bordo disse : « Dovevo farlo, per riprendermi dalla sorpresa ». Poi arrivò Freddy, il cuoco giapponese, tutto sorridente, con le focaccine calde. E dopo colazione avviammo le macchine, traversammo il porto e uscimmo nell'Oceano Pacifico puntando sull'isola di Catalina, a trentacinque chilometri dalla costa, dove restammo alla fonda per nove giorni. Ancora nessun progetto immediato di lavoro. Con Paulette si facevano le solite cose. Andavo alle corse, nei locali notturni e a tutte le pubbliche cerimonie: qualsiasi cosa pur di ammazzare il tempo. Non volevo restare solo, né pensare. Ma sotto questi svaghi ingigantiva un continuo senso di colpa: che faccio qui? perché non sono al lavoro? Per di più, mi aveva demoralizzato l'osservazione di un giovane critico il quale aveva scritto che Le luci della città era un ottimo film, ma inclinava paurosamente verso il sentimentalismo, e che nelle mie pellicole future avrei dovuto cercare di avvicinarmi di più al realismo. Mi trovayo d'accordo con lui. Se avessi saputo quello che so adesso, avrei potuto rispondergli che il cosiddetto realismo è spesso, paradossalmente, artificioso, falso, piatto e prosaico; e che in un film l'importante non è la realtà ma ciò che può farne l'immaginazione. E poi per caso, e quando meno me l'aspettavo, mi venne l'improvviso desiderio di girare un altro film muto. Fu una cosa curiosa. Paulette
e io eravamo andati al concorso ippico di Tijuana, in Messico, dove il vincitore di non so quale gara del Kentucky doveva ricevere una coppa d'argento. Paulette fu invitata a consegnare la coppa al fantino vincente e a dire qualche parola con accento meridionale. Non occorse molta persuasione. Rimasi sbalordito nell'udire la sua voce dall'altoparlante. Benché fosse di Brooklyn, Paulette fece un'eccellente imitazione di una dama della buona società kentuckiana. Fu questo a convincermi che sapeva recitare. Il primo stimolo nacque di li. Trovai in Paulette qualcosa della ga mme. Sarebbe stato un magnifico personaggio da portare sullo schermo. Già vedevo il nostro incontro su un cellulare della polizia dove il vagabondo, con la galanteria di un gentiluomo, si alzava in piedi per cederle il posto. Era su questi spunti che costruivo gli intrecci e inventavo le situazioni più comiche dei miei film. Poi mi venne in mente l'intervista che mi aveva fatto un giovane e brillante cronista del World di New York. Essendo venuto a sapere che stavo per recarmi a Detroit, mi aveva parlato delle catene di montaggio adottate dalle fabbriche locali: la storia angosciosa dei robusti giovanotti strappati alle fattorie con la prospettiva di più lauti guadagni, che dopo quattro o cinque anni di lavoro alle catene di montaggio diventavano rottami umani col sistema nervoso rovinato. Fu quella conversazione a darmi lo spunto di Tempi moderni. Mi servii della macchina per mangiare come di un dispositivo per risparmiare tempo, in modo che gli operai potessero continuare a lavorare anche durante l'intervallo per il pranzo. La sequenza della fabbrica si risolveva con l'esaurimento nervoso del vagabondo. La trama seguiva poi il corso naturale degli eventi. Dopo la cura il vagabondo viene arrestato e incontra una gamine, arrestata ella pure per aver rubato del pane. S'incontrano in un cellulare, gremito di delinquenti. Da allora in poi il film è la storia di due persone qualsiasi che cercano di tirare avanti in questi tempi moderni tra crisi, scioperi, dimostrazioni e disoccupazione. Paulette era la monella vestita di stracci. Mancò poco che piangesse, quando le tinsi la faccia per farla sembrare spor
ca. « Quelle macchie sono nei che ti rendono molto più bella » le dissi per consolarla. È facile vestire un'attrice con abiti alla moda e renderla attraente, ma vestire una fioraia e renderla attraente, come nelle Luci della città, fu assai difficile. Il costume della ragazza nella Febbre dell'oro non costituì un grosso problema. Ma l'abbigliamento di Paulette in Tempi moderni richiese la stessa cura e le stesse attenzioni di una creazione di Dior. Se un costume da gamine non è studiato con la necessaria accuratezza, le toppe hanno un'aria artificiosa e poco convincente. Nel vestire un'attrice da monella o da fioraia io miro sempre a creare un effetto poetico e non a sminuire la personalità. Prima della proiezione di Tempi moderni alcuni giornalisti scrissero di aver sentito dire che il film era comunista. Immagino dipendesse dal riassunto della trama già apparso sulla stampa. Tuttavia, i critici più aperti scrissero che non era né pro né contro il comunismo e che metaforicamente io mi ero seduto sullo steccato. Non c'è nulla di più esasperante che ricevere bollettini dai quali apprendi che il pubblico della prima settimana ha battutto tutti i record e che invece la seconda settimana di proiezioni ha fatto registrare una lieve flessione. Perciò, dopo le « prime » eli New York e Los Angeles, il mio unico desiderio era di allontanarmi il più possibile da ogni notizia relativa al film. Perciò decisi di andare a Honolulu, portando con me Paulette e sua madre e dando istruzioni allo studio di non inoltrarmi alcun messaggio. C'imbarcammo a Los Angeles, giungendo a San Francisco sotto un acquazzone. Ma nulla valse a spegnere il nostro entusiasmo. Avevamo appena il tempo di fare qualche acquisto, poi ritornammo a bordo. Passando davanti ai magazzini del porto, vidi stampigliata su alcune casse la parola « Cina ». 563-564 Crowninshield, Frank, 293, 42 Crusoe, Robinson, 456 Cunningham Reid, W., 435 Cura miracolosa, La, 225, 230 Cure, The, 225 Curran, Joseph, 493 Curtiss, Glenn, 223 Daily News, 479, 537, 538, 542 Daily Worker, 499 Dando, Arthur, 167 Dandy Thieves, The, (I ladri gagà), 146 Dane, Clemence, 546 Darby, coniugi, 416 Davenport, Dorothy, 185 Davies, Joseph E., 489, 549 Davies, Marion, 366-367, 369-37OJ 372-380, 385, 402-403, 62 Debussy, Claude, 135-136 Debutto di Charlot, II, 200, 202 De Gaulle, Charles, 563 Delysia, Alice, 42 De Mille, Cecil B., 262 Dempsey, Jack, 330 Dexter, Elliott, 272-273 Dickens, Charles, 55-56 Dieci giorni che sconvolsero il mondo; I, 386 Dietro le quinte, 188 Dillon Read e C, 353 Dior, Christian, 460 Dittatore, II, 472-473, 477"479> 539, 543, 485, 487-488, 73, 73, 80 Djagilev, Sergej, 230-231 Dogs, Life, A, 250 Dokes, John, 513 Dolly Sisters, 186 Dolores, 293 Don Giovanni, 562, g$ Donna di Parigi, Una, 304, 356-358, 74 Donner, spedizione, 363 Donovan e Castle, compagnia di navigazione, 72, 77 Doro, Marie, 105-108, 261-262, 338,5 Dough and Dynamite, 188 Douglas, H., 392, 424 Doyle, Jack, 224 Drago nero, II, società segreta, 448 Dreiser, Helen, 522 Dreiser, Theodore, 522 Dressler, Marie, 189, 257 ; Drew, John, 210, 309
Drury Lane, teatro, 145 Dukas, Helene, 382 Duke of York, teatro, 261 Dunne, J. W., 383 Dunville, T. E., 53 Durant, Tim, 465-466, 468-469, 496, 499-5°°, 504 Durant, Will, 546 Duse, Eleonora, 232-233, 308 Dwan, Allan, 237 Eagles, Jeanne, 153 Early Birds (Persone mattiniere)., 85, 109 Eastman, Crystal, 338 Eastman, Max, 253, 294, 297, 338 Easy Street, 225 Economie Democracy (Democrazia economica), 424
Edendale, studio cinematografico, 168-169 Edoardo, principe di Galles, 381, 432433 Edwards, Edgar, 416-417 Eglewski, Andre, 545 Eight Lancashire Lads, 48-49, 51, 56-57> 59* 64, 422 Einstein, Albert, 382-385, 394-396, 428, 7/ Einstein, moglie di Albert, 382-385 Eisenstein, Sergej, 302, 386 Eisler, Hanns, 477, 521, 535, 538 El Greco, 546 Elliott, Maxime, 210, 227 Ellsworth, Elmer, 172, 176, 183 Elstree, industria cinematografica britannica, 399 Elvin, Joe, 23 Emerson, John, 234 Emerson, Ralph Waldo, 161 Emigrante, L', 225, 251 Emperor Jones, 294 Empire, teatro, 117, 122 Empress Theatre, 154, 156, 167-168, !72, 567 Ena, regina di Spagna, gj Enrico, di Prussia, 428, 453 Epstein, Jerry, 550 Era, giornale, 109 Erlanger, vedi Klaw ed Erlanger Ervine, St John, 335 Esperimento col tempo, 383 Essanay Company, 191-192, 194, 199200, 206-209, 27 Essays and Lectures (Saggi e conferenze), 161 Eternai City, The, 233 Evaso, L', 225 Everly, sorelle, 152 Examiner, giornale, 206 Exmouìh, nave scuola, 36-37, 72 Experiment with Time, 383 Fadiman, Clifton, 500 Fagan, coniugi, 467 Fairbanks, Douglas (Doug), 234, 237240, 242, 256-257, 260, 263-269, 275> 284, 314, 347-349, 35!-353» 362, 375, 385, 390, 427, 437, 452, 473-474. 33, 77, 78 Fairbanks, Douglas jr., 474, 546, 567 Fairbanks, Sylvia, 473 Farrar, Geraldine, 209, 217-218 FBI, 511, 556 Fealy, Maude, 221-222, 38 Febbre dell'oro, La, 251, 252, 269, 363> 366, 394, 460, 540, 25 Ferdinand, Roger, 560, 562 Fewchtwanger, Lion, 467, 518, 521, 537
Fields, Frederica, 111-114 Fields, Phoebe, 111-114 Fields, Thelma, 111 -112 Figaro, Le, 462 Fireman, The, 225 First National Company, 227, 244, 256, 264, 268, 285, 287, 291, 297, 298, 312, 352 Fiske, signora, 311 Floorwalker, The, 225 Flower, Sir Archibald, 434 Flynn, Errol, 510 Foglie d'erba, 161 Folies Bergère, 129-130, 132-134, 422 Football Match, The, (L'incontro di
calcio), II 6-il 8, 120, 136, 138 Ford, Rachel, 565 Foresters' Music Hall, 113, 116, 118 ng, 138 Foster, Margaret, 294 Fowler, Gene, 311 Fox Film Company, 505 Frampton, George, 323-324 Francis, Arlene, 492 Frank, Waldo, 294-295, 333 Freddy, cuoco giapponese, 458 Freud, Sigmund, 248 Freuler, presidente della Mutual Film Co., 28 Friganza, Trixie, 311 Frohman, Charles, 90, 104, 107, 144 Frohman, compagnia, 104-105 From Mayfair to Moscow (Da Mayfair a Mosca), 344 Froman, Jane, 492 Fulmuller, von, Dr., 428 Furness, Lady Thelma, 432 Gandhi, Mahatma, 404-407, 54 Gandhi, signora, 571 Garfield, John, 491 Garland, Judy, go Garrick- Club, 323-324 Gatti-Casazza, Giulio, 218 George, il « bulgaro », 297, 331 Geraghty, Tom, 238-239 Gerrard, ambasciatore, 42 Getty, Paul, 496, 500, 514 Giannini, A. P., 223 Giesler, Jerry, 508-517 Gilbert, lo « sciancato », 100-1 o 1 Gilbert, John (Jack), 224, 371 Gillette, William, 96, 105-107, 221 Giorgio, principe di Grecia, 333 Giorgio I, re di Grecia, 107 Giorgio IV, re d'Inghilterra, g Giorgio V, re d'Inghilterra, 327 Giorno di paga, 352 Gish, sorelle, 187 Gish, Lillian, 209 Giulietta e Romeo, 449 Giulio Cesare, 234 Glyn, Elinor, 240-242, 366-367, 379 381 Goddard, Paulette, 456-460, 462, 465, 471-472, 487-488, 73, 79 Godowski, Léopold, 229, 57 Gold Rush, The, 251 Goldwyn, Samuel, 272, 274, 344, 352,
454, 456 Goodwin, Nat, 186, 210, 214 Gordon, Harry, 291 Gould, Frank J., 138, 164, 215, 422 Government by Assassination (Governo con l'assassinio), 448 Grauman, Sid, 154, 161, 220, 21 Grauman's Million Dollar Theatre, 221 Graves, George, 109 Gray, Tippy, 511-513, 516-517 Great Dictator, The, 472 Great New York Industriai Union Council, 492 Green, Adolph, 553 Green, Hetty, 267 Green Room Club, 91 Green, signori, 96-97 Greene, Graham, 567 Griffith, D. W., 155, 208, 265-266, 302, 19, 21 Griffiths Brothers, 54, 282-283 Grimaldi, comico, 55
Gromiko, Andrej, 569 Guaranty Trust Company, 199 Guest, Maurice, 216-219 Guglielmo, principe ereditario di Germania, 437 Gus Edwards' School Days (I giorni di scuola di Gus Edwards), 147 Gwyn, Neil, 14, 23 Hackett, Walter, 323 Hahn, Greta, 98 Hale, Georgia, 75 Hamberger, Mosè, 189 Hamilton, G. E., 90-92 Hank, detenuto, 195-198 Hardwicke, Sir Cedric, 497 Harley, Lily, 23 Harlow, Jean, 223 Harrington, Tom, 271-275, 285, 300, 313, 325> 356 Harris, Frank, 272, 287-288, 335-336, 338, 340 Harris, Jed, 308 Harris, Mildred, 272-277, 283-285, 287, 37 Hart, W. S., 265-266 Harvey, Martin, 307 Haskil, Clara, 574, 101 Hawthorne, Nathaniel, 161 Hayden, Melissa, 545 Hazlitt, William, 161, 393, 544 Hearn, Lafcadio, 272, 439 Hearst Examiner, giornale, 380, 470 Hearst, Millicent, 368, 372-374, 60 Hearst, Phoebe, 368 Hearst, William Randolph, 367-381, 385, 402-403, 456, 467, 506, 542, 546, 60, 61, 62 Heifetz, Jascha, 56 Helen, cameriera di C, 550, 556, 575-576 HelVs Angels, 223 Henry, maggiordomo di C, 550, 556, 576 Henshaw, giudice, 258-259 Hergesheimer, Joseph, 240 Her Moment (II suo momento), 242 Hill, Charles, nonno di C, 16, 76-77 Hill, Kate, zia di C, 17, 82 Hill Smith, nonna di C, 16-17 Hillman, Sidney, 492 Hindenburg, von, generale, 428 Hindrum, capitano, 34-35 Hirschfeld, Albert, 441 His Hour (La sua ora), 242 His New Job, 200 His Prehistoric Past, 184 Hitchcock, Alfred, 546 Hitler, Adolf, 381-382, 471-473» 484> 488, 492, 521 Hollywood Bowl, 358 Honeysuckle and the Bee, The, (II caprifoglio
e l'ape), 43 Hool, medico, 70 Hoover, Edgar, 511 Hoover, Herbert, 454, 481-484 Hopkins, Harry, 478-479 Horowitz, Vladimir, 475 Hughes, Howard, 223 Huston, John, 546 Hutton, E. F., 466 Huxley, Aldous, 521 Hyton, Charlie, 359 Ibanez, Blasco, 240 Ibsen, Henrik, 308
Idle Class, The, 312 / Didn't Raise My Boy to Be a Soldier (Non ho allevato il mio ragazzo per farne un soldato), 255 Immigrant, The, 225 Imperatore d'America, V, 402 Imperatore Jones, V, 294 Ince, Thomas H., 187, 356, 379, ig Inge, diacono, 400 Ingersoll, Robert, 161 Intransigeant, L', 427 Irving, Sir Henry, 107-108, 210, 231, 307. 312 Irving, Washington, 16 Islington Empire, teatro, 157 Ivan il Terribile, 386 Jack Jones, 19 Jackson, Alfred, 422 Jackson, famiglia, 49-51, 54-57, 422 Jackson, John, 57 Jail Birds, 109 Jeffers, Robinson, 468-469 Jim, the Romance of a Cockney (Jim, l'idillio di una cockney), 90-93, 95-96 Joe, il taglialegna, 85 Joe l'Onesto, vedi Schenck, Joseph Joe Boganny's Lunatic Bakers, 109 John Birch Society, 500 Johnson, Amy, 53 Johnson, Hewlett, 410, gg Johnson, Samuel, 294 Jolson, Al, 145, 309 Jones, Henry Arthur, 93 Joyce, Peggy Hopkins, 355-356, 70 Kabuki, teatro giapponese, 449 Kafka, Franz, 509 Kant, Immanuel, 294 Karno, compagnia, 108-iog, 122, 129, 167-168, 315, 336, //, 12 Karno, Fred, 85, 109, 113, 116-117, 119» '32, 136-141. '45-H6, i54> 159, 166, io Karno, Fred jr., 167 Karno, moglie di Fred, io Kay Kay, governante dei figli di C, 566 Keats, John, 336 Kelly, Arthur, 164-165, 318, 536, 54 •> 543 Kelly, Hetty, 123-128, 133, 137-138, 164, 215, 313, 318, 320 Kellogg, 147 Kendal, signori, 108 , . . Ken Inukai, 446-447 Kent, Rockwell, 499 Kennedy, Merna, j6 ....-.• Kessel, Charles, 166 Kessel e Bauman, 165-166, 191 Keynes, John Maynard, 400
Keystone Cops, 169, 171, 26 Keystone Film Company, 155, 166, 169-170, 173, 177, 181, 183, 185, 188, 190-194, 207, 250-251, 253, 271, 326, 457, 24 Keystone-Triangle, 191 Kid, The, 279 Kinsey-Taylor, medico, 70-71 Kismet, 314 Kiss for Cinderella, A, (Un bacio per Cenerentola), 325 Kitchen, Fred, iog Kitchener, Lord, 62, 107, 190 Klaw ed Erlanger, 144 Knoblock, Edward (Eddie), 314-315, 323-328, 42, 66
Knopf, Alfred A., 448 Koga, Seishi, 448 Kono, segretario giapponese di C, 444-446 Korda, Sir Alexander, 471 Kruger, 62 Krusciov, Nikita, 567-570 Laemmle, Carl, 192, 382 La Guardia, F. H., 493 Lamb, Charles, 306 Landru, 502-503 Larkin, Jim, 338-340 Laski, Harold, 413 Laughing Gas, 188 ' Laurei, Stan, // Laurents, Arthur, 545 Lavai, Pierre, 485 Lawrence, Sir Thomas, 370 Lawrence, T. E., 409 Lawson, John, 522 Lee, Lila, 209 Lehrman, Henry, 172-174, 177 Legione della Decenza, 522, 534 Lenin, Nikolaj, 344 Leno, Dan, 55, 159 Lestock, Eva, 65 Lettres Francaises, Les, 563 Lewis, Sinclair, 497 Life, 551 Lillie, Beatrice, 367 Lillies of the Field (Gigli di campo), 338 Limehouse Nights (Notti di Limehouse), 336 Limelight, 310 Lipton, Sir Thomas, 375 Lloyd, Harold, 206 Lloyd, Marie, 55 Lloyd George, David, 333, 400, 421 Locke, William J., 240, 294 London Topical Times, 95 Long, Ray, 379 Louise, amante del padre di C, 38-46, 68, 103-104, 316, 6 Lubitsch, Ernst, 357 Lucas, E. V., 323 Luce, Clare Boothe, 546 Luci della città, Le, 251-252, 384, 389393> 396-399> 4°8. 425> 436, 453. 458, 460, 540, 572, 55, 71, 72 Luci della ribalta, 310-311, 544, 547, 551, 553, 558, 562, 569-570- 575" 576, 91 Ludwig, Emil, 425-426 Lusitania, nave, 256 Lutyens, Sir Edwin, 323, 327-328 Lyon, Ben, 223 Mabel's Strange Predicament, 177 Mat;Abee, proprietario di miniere, 161 Macaulay, Thomas Babington, 346 Macbeth, 222, 234
MacDonald, Malcolm, 408 MacDonald, Ramsay, 402, 408, 543-544, 33 Pierce, Peggy, 187 Pierre, abate, g6 Pilgrim, The, 352 Pinnie, governante dei figli di C, 566 Pioggia, 153, 240 Pissarro, Camille, 130 Platone, 294 Plutarco, 294 Poe, Edgar Allan, 161 Poletti, Charles, 493 Ponte, II, 295 Post Office, The, (L'ufficio postale), 146 Postant, signor, 105, 107 Potemkin, 386 Prelude à l'Après-midi d'un Faune, 136 President Coolidge, nave, 464 Priestley, J. B., 567 Property Man, The, 188 Provincetown Players, 294 Punch, 159 Purviance, Edna, 204-205, 225, 244247, 275, 3!3> 354-355, 357, 577" 579, 39, 74 Queen Elizabeth, nave, 552 Quill, Michael, 493 Racconti di Hofmann, I, 227 Rachmaninov, Sergej, 475 Rain, 153 Rand, John, 225 Re a New Tork, Un, g2, ioy Recamier, Juliette, 369 Redbook, giornale, 379
Reeve, Alda, 311 Reeves, Alf, 140, 165-166, 313, 394, lS 65 453,> Reeves, Billie, 109 Reeves, moglie di Alf, 340-341, 18 Reid, Cunningham, 435 Reid, Wallace, 209 Reinhardt, Max, editore, 567 Reinhardt, Max, impresario, 216, 236, 497-498 Rembrandt, Harmenszoon var Rijn, 302 Renoir, Pierre-Auguste, 130 . Reshevsky, Samuel, 282 Retorica, 147 Reynolds, Dr. Cecil, 298-300, 360361, 37°, 383-384, 63 Riccardo III, 306 Rigoletto, 217-219 Rimskij-Korsakov, Nikolaj, 230 Ringling Brothers, 52 Rink, The, 182, 225
Roach, Hal, 206 Roan Stallion, 469 Robbins, Jess, ig2, 200 Robin Hood, 237 Robinson, Carlisle (Carl), 278-279, 312 Rock, Charles, 95 Rockefeller, fondazione, 384 Rockefeller, John D., 370 Rocksavage, Lady Sybil, 330, 333-334 Rocksavage, Lord, 333 Rolly, operatore, 576-577 Romanov, ristorante, 496 Roosevelt, Franklin D., 257, 414, 454, 478, 483, 485, 488, 490-492 Rossier, Emile, 574 Rossier, Michael, 574 Roulin, madame, 365 Rubinstein, Arthur, 553 Runser, signorina, 576 Russell, Jimmy, 336 Russian Club, 432 Rutland, ex-duchessa di, 100 Sadie Thompson, 240 Sage, Russell, 368 Saintsbury, H. A., 90-93, g6 Salisbury, Lord, 62, 558 Sandburg, Carl, 150 Sanders, Beni ta, 574 Sanders, George, 574 Sartre, Jean Paul, 563-564 Sassoon, Sir Philip, 324, 330, 333-334, 381, 400, 402, 419-420, 424, 52, 100 Scheherazade, 230 Schenck, Joseph (Joe), 352-354, 390, 394» 454> 456 Schoenberg, Arnold, 477, 521 Schopenhauer, Arthur, 161, 579 Schubert, Lee, 144 Schwartz, Charles, 551 Scott, generale, 258 Scottie, « Valle della Morte », 222 Seers, Grad, 542 Sennett, Mack, 155, 166-178, 180-181, 183-186, 189-191, 196, 223, 225, ig, 20 Sense of Humour, A, (II senso dell'umorismo), 253 Shadow and Substance (Ombra e sostanza), 497-498, 502, 506, 519 Shakespeare, William, 294, 305, 311, 388, 434 Shamus O'Brien, 18 Shaw, G. Bernard, in , 324-325, 400-402, 408, 523, 532, 53 Shaw, signora, 402 Shelley, Percy Bysshe, 420 Sheridan, Clare, 344-346 Shfridan, Dicky, 344, 345
Sheridan, Mark, 53 Sheridan, Richard Brinsley, 344 Sherlock Holmes, 90-91 96 101, 104105, 107-109, 261, 435 Shoulder Arms, 262 Sign of the Cross, The, (II segno della croce), 23 Signora dalle Camelie, La, 314 Silver Ring (L'anello d'argento), 93 Silverman, Joe, 368 Simenon, Georges, 467 Simes, Mike, 148 Sinclair, Upton, 415, 41 Skating (Pattinaggio), 140, 146, 182 Smith, Al, 338 Smith, Gerard K., 500
Smith, Kate, 500 Smith, W. H. e Figlio, 71 Social Credit, 392 Société des Auteurs et Compositeurs Dramatiques, 560 Sollazzevoli istorie, 398 Sorel, Cécile, 332 Sottomarino pirata, Un, igi Sparks, ufficiale di stato civile, 274-275 Spender, Stephen, 521 Spies, Walter, 442-443 Spoor, George K., 192-193, 198-202, 209 Stage Hand, The, 188 Stalin, Josif, 491, 564 Stanislavskij, Constantin, 307 Star-Spangled Banner, The, 492 Stassen, Harold, 569 Steichen, Edward, 36 Stein, Gertrude, 365-366 Steinbeck, John, 467-468 Steinheil, madame, 136 Sterling, Ford, 166, 168, 170-173, 175, 176-178, 190, 310, 25 Stevens, Emily, 311 Stewart, Donald Ogden (Don), 541, 567 Stone, Ernie, 134-135 . Strabolgi, Lord, 558 Strada della paura, La, 225-226 Straker, tipografia, 71 Strana avventura di Mabel, La, 177 Strand Magazine, 96 Strauss, Carl, 203 Stravinskij, Igor, 475-476 Submarine Pilot, 422 Submarine Pirate, The, igi Sullivan e Considine, 144, 148, 154' 55, 167 Sulzberger, Arthur, 481-484 Summerville, Slim, 169 Sunnyside, 277 Suo passato preistorico, II, 184, 193 Sutherland, duca di, 348 Sutter's Gold (L'oro di Sutter), 326 Swaffer, Hannen, 467 Swain, Mack, 313 Swanson, Gloria, 199, 209, 242, 358 Sweet, Bianche, 186-187 Swope, Bayard, 344, 541 Taillfer, Germaine, 412 Talleyrand-Périgord, marchese di, 333 Talmadge, Norma, 352 Tannhaùser, 163 Tate, proprietario di Caffè, 204 Taylor, coniugi, 66, 67 Taylor, Frank, 522 Teatro della Quinta Strada, 148 Teatro di Sua Maestà, 233
Tellegen, Lou, 186 Tempi moderni, 252, 300, 459, 460, 461, 465, 472, 477 Terry, Ellen, 23, 311 Thalberg, Irving, 356 Thesaurus, 293 Thomas, Dylan, 522 Thomas, Olive, 272-293 Thorndike, Sybil, 311 Those Charlie Chaplin Feet (Quei piedi di Charlie Chaplin), 207 Three weeks (Tre settimane), 241-242 Tillie's Punctured Romance, 189 Times di Los Angeles, giornale, 143, 371, 380, 481, 513, 515, 539, 551 Tinney, Frank, 310 Tivoli, teatro, 122
Too Muck Mustard (Troppa mostarda), 252 Tortilla Fiat, 467 Toscanini, Arturo, 475 Tree, Iris, 234-236, 32 Tree, Sir Herbert Beerbohm, 233-236, 24J> 3°7, 312, i4> 31 Triangle Company, 233 Trilby, 507 Trojan Women, The, (Le troiane), 354355 Trotzkij, Lev, 344 Turner, Joseph Mallord, 365 Turpin, Ben, 199, 204 Tussaud, Madame, museo di, 400 Twain, Mark, 161 Twelve Just Men (Dodici uomini giusti), 115 Twenty Minutes of Love, 188 Underworld, The, (La malavita), 221 United Artists Corporation, 266, 297, 311, 352-354. 362, 364, 394, 396, 472, 536"537> 539> 543» 55h 569 United News, 315 United Press, 554 Universal Company, 170, 192, 232, 382 Vagabond, The, 225 Vagabondo, II, 225 Valentino, Rodolfo, 224, 314, 377 Vanbrugh, Irene, 106, 311 Vanderbilt, Cornelius, 381 Van Gogh, Vincent, 302, 365 Vanìty Fair, giornale, 293 Variety, giornale, 148 Vienna, marchese di, 348 Viertel, Salka, 521 Violetera, La, 252 Vita da cani, 250, 256, 262, 264 Vita di Samuel Johnson, 272 Vite parallele, di Plutarco, 294 Vogue, giornale, 293 Wagner, Rob, 257-260, 41 Wainwright, 306 Wallace, Mina, 504-505 Waller, Lewis, 108 Walthall, Henry B., 209 Ward, Fanny, 245 Warfield, David, 309 Warner Brothers, 240, 379, 388 Warner, Jack, 498 Warwick, contessa di, 334 Watsoris Beef Trust (II trust della carne di Watson), 151 Weber, Lois, 273 Wegan, von, Karl, 381 Weiller, Paul Louis, 333 Weldon, Harry, log, 116-120, 136138 Welles, Orson, 499, 502-503
Wells, H. G., 313, 323-327, 334-336, 413-416, 429, 467 West, Rebecca, 327 Wharton, Edith, 240 When Knighthood Was in Flower (Quando la cavalleria era in fiore), 367 Whimsical Walker, pagliaccio, 145 Whispering Chorus, The, (II coro in sordina) , 209 Whistler, James Abbott, 16 White Buildings, 295 White, Leo, 225
Whitman, Walt, 161 Wilde, Oscar, 217, 425-426 Williams, Bransby, 55-56 Williams, J. D., 264, 292 Williams, Percy, 144-145 Willkie, Wendell L., 492 Wills, Helen, 425 Wilson, Earl, 541 Wilson, Lady Sarah, 333 Wilson, Woodrow, 257 Winchell, Walter, 148 Wind and the Rain, The, (II vento e la pioggia), 336 Widow in the Bye Street, The, (La vedova della via traversa), 366 Winter, Ella, 567 Winter Garden, teatro, 145, 310 Woman of Paris, A, 304 Woollcott, Alexander, 467 World, giornale, 459 Wow-wows, The, 140-141, 145, 154 Wright, Lloyd, 506, 508-509 York, duca e duchessa di, 419 York, Harry, 104 Young, Kimball, Clara, 187 Zarmo, giocoliere, 54 Ziegfeld Follies Girls, 207, 293, 355 Zukor, Adolph, 267-268, 353
INDICE DELLE ILLUSTRAZIONI pagina 96 TAVOLE I 1 Alla scuola di Kennington, a sette anni e mezzo 2 Mia madre 3 Mio padre 4 Mio fratello, a diciassette anni 5 Le nostre finestre della soffitta al n. 3 di Pownall Terrace, in Kennington Road 6 Il primo piano di Kennington Road 287, dove Sydney e io abitammo con Louise e mio padre 7 La nostra abitazione vicino al macello e allo stabilimento per la produzione di sottaceti, dopo che mia madre usci dal manicomio 8 L'ospizio di Lambeth 9 Marie Doro in Sherlock Holmes 10 Karno e sua moglie, a sinistra, nella loro casa galleggiante a Tagg's Island 11 La squadra di hockey della Compagnia Karno. Io sono il secondo seduto da sinistra. Stan Laurei è in piedi dietro di me 12 Cinque compagnie davanti agli uffici di Karno a Camberwell, in partenza per un giro nei music hall di Londra 13 L'imitazione del Dr. Walford Bodie, famoso per la sua chirurgia incruenta 14 L'imitazione di Beerbohm Tree nella parte di Fagin 15 « Gentiluomo, sognatore, poeta : il cuore sempre colmo di romanticherie » 16 Prima del successo 17 ... e dopo 605
18 Con Alf Reeves, sua moglie e Muriel Palmer durante il viaggio in America pagina 192 TAVOLE II Durante una festa negli studi di Mack Sennett. Da sinistra a destra: Thomas Ince, io, Mack Sennett, D. W. Griffith 20 Mack Sennett 21 Con D. W. Griffith, a sinistra, che consideravo un genio e Sid Grauman, a destra, grande esperto dello spettacolo 22 Mabel Normand 23 Roscoe Arbuckle 24 La prosperità arrivò agli studi della Keystone dopo che io me 25 26 27
ne andai Ford Sterling Ballet Américain: i Keystone Cops G. M. Anderson, conosciuto come Bronco Billy, della Essanay
Company, che mi diede il primo compenso straordinario di 600 dollari 28 Un anno dopo, Freuler, presidente della Mutual Film Company, mi consegna un compenso straordinario di 150.000 dollari 29 30 31 32 33 34
Lo studio che feci costruire a Hollywood Constance Collier Sir Herbert Beerbohm Tree Iris Tree Parto per Washington con Mary e Douglas Nel Sud a vendere i Buoni della Libertà durante la prima
guerra mondiale 35 Con Sydney nella parte del Kaiser pagina 288 TAVOLE III 36 37 38 39
Questa fotografia mi fu fatta da Edward Steichen Al tempo del mio matrimonio con Mildred Harris Maude Fealy Edna Purviance che rimase con la Chaplin Company per
tutta la vita 40 Preparo uno scenario senza un'idea in testa 41 Con i miei consiglieri, Upton Sinclair, a sinistra, e Rob Wagner 42 Ai tempi di Vanity Fair a New York. Alice Delysia è seduta
fra Georges Carpentier e me. In piedi, da sinistra: Frank Crowninshield, l'ambasciatore Gerrard, Edward Knoblock e Condé Nast 43 In Charlot campagnolo 44-47 Alcune scene dal Monello 48 Con Eric Campbell in Charlot e la maschera di Jerro 49 A Parigi 50 A Londra 51 Quando ero un giovane inesperto pagina 384 TAVOLE IV 52 Il mio primo incontro con Sir Philip Sassoon, al centro, tramite Georges Carpentier, a Parigi 53 Con Amy Johnson, a sinistra, Lady Astor e Bernard Shaw 54 L'incontro con Gandhi a Londra 55 Winston Churchill propone un brindisi in mio onore dopo la « prima » delle Luci delle città 56 Con Jascha Heifetz 57 Il pianista Godowski e la sua famiglia. Il figlio maggiore, alla mia destra, divenne uno degli inventori della fotografia a colori 58 Un film fatto in casa. L'eroina, Lady Mountbatten; il bandito con la pistola, io 59 Annuncio a Lord Mountbatten che non è un attore 60 Randolph e Millicent Hearst 61 San Simeon, la residenza di W. Randolph Hearst 62 Con Randolph Hearst e Marion Davies 63 Col Dr. Cecil Reynolds, chirurgo specialista delle malattie del cervello e mio amico 64 La casa che feci costruire a Beverly Hills quando ritornai al celibato nel 1923 65 Alf Reeves, il mio fedele manager 66 Una storia di pesci: la cattura di un tonno di 50 kg. al largo dell'isola Catalina con Edward Knoblock 67 La Panacea in ogni senso della parola 68 Con Anna Pavlova agli studi Chaplin 69 Pola Negri 70 Peggy Hopkins Joyce 71 Con Albert Einstein alla « prima » delle Luci della città
pagina 480 TAVOLE V 72 Virginia Cherrill nelle Luci della città 73 Paillette Goddard nel Dittatore 74 Edna Purviance in Una donna di Parigi 75 Georgia Hale nella Febbre dell'oro 76 Merna Kennedy nel Circo 77 Douglas Fairbanks: la prima volta che lo incontrai 78 ... e l'ultima 79 Nelle vesti del barbiere nel Dittatore 80 Il dittatore 81 Il meccanismo del montaggio del film 82 In sala di registrazione 83 Spuntino all'aperto 84-86 Marilyn Nash e io in alcune scene da Monsieur Verdoux 87 Sotto inchiesta 88 Oona nel 1942 8g Il clan comincia a crescere. Beverly Hills: con Oona, Mi chael e Geraldine 90 Ricevimento di bambini in onore di Michael nella casa di Beverly Hills : Oona, al centro, e Judy Garland, seduta alla estrema sinistra 91 L'ultimo film che girai in America: Claire Bloom in Luci della ribalta 92 ... e il mio primo film prodotto a Londra: Dawn Addams in Un re a New Tork pagina 576 TAVOLE VI 93 Alla Comédie Francaise durante la recita in nostro onore del Don Giovanni di Molière 94 Col presidente della repubblica fancese, Vincent Auriol 95 Col primo ministro Ramsay MacDonald 96 Con l'abate Pierre 97 Con la regina Ena di Spagna 98 Con Ciu En-lai 99 Con il molto reverendo Hewlett Johnson, ex-arcivescovo di Canterbury 100 In un cabaret con Winston Churchill. L'ex-duchessa di Rutland è alla mia destra e Sir Philip Sassoon alla sua destra 101 Con Clara Haskil e Pablo Casals
102 Con Jean Cocteau 103 Manoir de Ban: riunione natalizia del clan. Da sinistra a destra: Annette, Jane, Eugene, Vicky, Josie e Christopher. Geraldine e Michael si trovavano, a quel tempo, a Londra 104 Mio figlio Sydney 105 Mio figlio Charlie 106 Il Manoir de Ban 107 Dirigo Michael in Un re a New York 108 La pesca di Josephine 109 Victoria in un momento musicale 110 Geraldine 111 Victoria e Josephine 112 Tentativo di ritratto di Oona in acquerello 113 Oona 114 Istantanea scattata da Oona