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Italian Pages 678 Year 2017
Free Ebrei – Documenti
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Adolf Hitler
La mia battaglia volume I: Edizione critica
a cura di Vincenzo Pinto
traduzione di Alessandra Cambatzu e Vincenzo Pinto
In copertina: alcuni bambini tedeschi giocano con la cartamoneta svalutata del 1923. In quarta di copertina: alcuni bambini internati nel campo di concentramento di Theresienstadt.
I edizione, aprile 2017 © 2017 Free Ebrei, Torino ISBN 978-88-940324-2-0
Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633)
Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume anche solo parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.
Alla memoria di Alessandra
Indice Introduzione del curatore
V
Premessa di Richard Overy
XI
Cronologia
XV
La mia battaglia I. Resa dei conti Premessa dell’autore
5
1. Nella casa dei genitori
7
2. Anni di apprendistato e di dolore viennesi
23
3. Considerazioni politiche generali sul mio periodo viennese e altro ancora
63
4. Monaco
109
5. La Guerra mondiale
133
6. La propaganda di guerra
151
7. La Rivoluzione
163
8. Gli esordi della mia attività politica
183
9. Il Partito tedesco dei lavoratori
195
10. Cause del tracollo
205
11. Popolo e razza
249
12. Le fasi iniziali del Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori
289
II. Il movimento nazionalsocialista 1. Visione del mondo e partito
325
2. Lo Stato
341
3. Membri dello Stato e cittadini
383
4. Personalità e concezione nazionalpopolare dello Stato
389
5. Visione del mondo e organizzazione
399
6. La battaglia degli esordi. L’importanza del discorso
411
7. La lotta contro il fronte rosso
429
8. “E scompagnato è fortissimo il forte”
453
9. Idee fondamentali sul senso e sull’organizzazione del Reparto d’assalto (S.A.)
463
10. Il federalismo come maschera
495
11. Propaganda e organizzazione
519
12. La questione sindacale
537
13. La politica di alleanza tedesca del dopoguerra
549
14. Svolta orientale e politica orientale
577
15. Legittima difesa come diritto
603
Glossario
625
Indice dei nomi
635
Annotazioni
639
Introduzione del curatore
Explodatur haec quoque somniorum divinatio pariter cum ceteris. Nam, ut vere loquamur, superstitio fusa per gentis oppressit omnium fere animos atque hominum imbecillitatem occupavit. M. T. Cicerone, De divinatione (148) “Imparare” la storia significa scoprire e individuare le forze che provocano quegli effetti che noi vediamo di fronte ai nostri occhi in forma di avvenimenti storici. A. Hitler, Mein Kampf, 1-I In generale, la dote di ogni grande capopopolo si misura innanzitutto nella capacità di non disperdere l’attenzione di un popolo, ma di concentrarla sempre su un unico nemico. A. Hitler, Mein Kampf, 3-I
1. Premessa
A settant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale è giunto il momento di pubblicare un’edizione critica della “Bibbia” del nazionalismo. Il Mein Kampf (La mia battaglia) fu l’autobiografia che Hitler preparò a partire dal periodo di prigionia successiva al fallito colpo di Stato del 9 novembre 1923. I due volumi (Resa dei conti e Il movimento nazionalsocialista) uscirono tra l’estate del 1925 e la fine del 1926. Non si tratta di una vera e propria biografia (peraltro difficilmente ipotizzabile per un giovane leader di un partito tutt’altro che rilevante nella Germania dell’epoca), ma di un vero e proprio manifesto politico: la profezia del “redentore” agli adepti socialisti-nazionali. Il Mein Kampf non è stato un libro molto letto. Fu sì molto venduto e diffuso nella Germania nazista (per ovvie ragioni). Circolò anche all’estero in numerose edizioni più o meno autorizzate dopo la “presa del potere”. Ma ben pochi lettori si cimentarono nell’ardua impresa di leggere e di comprendere in profondità un testo così lungo. I motivi sono universalmente noti: per i sostenitori il testo era una conferma assiomatica del necessario “martirio” del Capo per la redenzione della Germania; per i detrattori era un pamphlet propagandistico mal scritto, confuso, privo di spessore e di qualsiasi rilevanza “estetica”. Non mancarono le recensioni e gli sguardi critici sul testo, recentemente analizzati e pubblicati nel ponderoso lavoro dello storico austriaco Othmar Plöckinger1. Eppure, ben poco si sa del Mein Kampf, se non che conterrebbe la dimostrazione storica dell’Olocausto, la prova di una coerenza politica diabolica (giusto per estremizzare la visione “intenzionalista”)2. Un lettore medio e informato potrebbe chiedersi che cosa ci sia di particolare in un lungo testo logorroico, confuso e ridondante (che noi abbiamo tentato di rendere leggibile e comprensibile). Potrebbe anche chiedersi se non sia preferibile dedicare O. Plöckinger, Quellen und Dokumente zur Geschichte von “Mein Kampf”, 1924-1945, Stoccarda, Franz Steiner Verlag, 2016. 2 La posizione intenzionalista sostiene che Hitler avesse sempre voluto realizzare uno sterminio sistematico del popolo ebraico. Cfr. D. Goldhagen, I volenterosi carnefici di Hitler, Milano, Mondadori, 1998. 1
VI tempo e spazio a lavori “pedagogicamente” più formativi per la nostra democrazia liberale perennemente zoppa. Lavori, in altre parole, non solo esteticamente meritevoli, ma eticamente esemplari di umanità, di rettitudine, di pluralismo ecc.3 Egli potrebbe facilmente ritenere il Mein Kampf un residuo di un’epoca ormai passata, che non ha più nulla da dire e da “dare” al secondo decennio del nuovo millennio. Certo, l’autore è il personaggio storico forse più noto di tutti i tempi (se escludiamo i fondatori delle grandi religioni): basta inserire il suo nome in un qualsiasi motore di ricerca della rete per rendersene conto. Ma è anche l’incarnazione del “male” (quantomeno nell’Europa occidentale, che non è stata toccata dallo stalinismo), per i criminosi piani di sterminio di massa attuati durante la breve parentesi del Terzo Impero. Se Hitler è il “male”, perché ripubblicare il Mein Kampf e non un’altra testimonianza di un sopravvissuto? Perché il “carnefice” deve avere diritto di parola? Il “male” è pedagogicamente sterile oppure, come crediamo noi, va capito e compreso in profondità? Ripetiamo in profondità, perché fermarsi alla superficie delle cose è un’operazione tanto ricorrente nel mondo politico, giornalistico e intellettuale, quanto eticamente e didatticamente inutile, se è vero che dopo oltre settant’anni non sembrano affatto risolti i nodi che hanno portato all’ascesa del nazismo, al proliferare dell’antisemitismo e, più in generale, all’odio del diverso. Se tutti i nodi restano ancora irrisolti e se la politica e la legislazione non sono altro che lodevoli palliativi per contenere la proliferazione di determinate idee nell’epoca della democrazia virtuale di massa globalizzata, è forse giusto tentare di scardinare in profondità il meccanismo retorico che alimenta la cultura del nazionalsocialismo nell’unico modo possibile: vivisezionandolo. Quando parliamo di cultura del nazionalsocialismo siamo consapevoli che il termine “cultura” è sempre stato argomento di discussione in riferimento ai movimenti totalitari di destra che hanno letteralmente sradicato ogni forma di espressione che fuoriusciva dal proprio rigido canone (ved l’arte “degenerata”, per esempio) e che sono stati condannati come espressioni di “barbarie”. Ma è importante chiarire che di cultura si tratta (ancorché sui generis) e che questa cultura nazionalpopolare non è affatto una parentesi storicamente limitata, determinata o esaurita. La “divinazione” è un fenomeno storico-politico di lunga durata (come le parole di Cicerone ci insegnano), ma non può essere derubricata come semplice incultura o superstizione. La cultura nazionalpopolare non è soltanto un insieme di stereotipi superficiali che il demagogo utilizza per guidare il sentimento delle “masse” arrabbiate. Non è nemmeno gramscianamente il “concreto” rapporto fra intellettuale e nazione che i liberali non sarebbero in grado di creare. È la matrice da cui sorge il socialismo nazionale, quello che oggi chiamiamo qualunquismo, “populismo” (termine per lo più connotato negativamente), dittatura della maggioranza, anti-elitarismo, ecc. Se non si comprende veramente la cultura nazionalpopolare (le sue “idee” e le sue “parole”), è impossibile comprendere il successo del nazionalsocialismo e di quelle forze politiche che si rifanno al “mito”. 3
Alludiamo alla polemica scoppiata nel giugno 2016 a seguito della ristampa anastatica del Mein Kampf (edizione Bompiani del 1934, tradotta dall’ebreo Angelo Treves) a opera de “Il Giornale” della famiglia Berlusconi (con un’introduzione di Francesco Perfetti), che tuttavia va contestualizzata nel dibattito successivo all’approvazione della c.d. legge sul negazionismo. La Milano civica e antifascista ha reagito all’evento con una lettura collettiva del Diario di Anna Frank.
VII Siccome il socialismo nazionale è un fenomeno politico di lungo periodo e non può essere etichettato semplicemente come socialismo degli “imbecilli” (come è chiaro dal lessico, dalle idee e dalle politiche avanzate da numerose formazioni europee di oggi e dalle sterili barricate dei loro avversari “responsabili”), è lecito chiedersi come nasca e dove attinga il suo bagaglio storico-culturale. Che cos’è il mito? O meglio come funziona? Questo è il nostro obiettivo: mettere fra parentesi i sentimenti contrastanti sull’autore (come ogni storico dovrebbe fare) e tentare di comprendere un testo storicamente così complesso e ignorato come il Mein Kampf. Non crediamo che la comprensione del testo comporti la giustificazione degli atti postumi del suo autore (sempre che un libro sia strumento di morte e non di comprensione di una realtà storica). Non crediamo nemmeno che l’elevazione delle persone passi unicamente attraverso la somministrazione di buoni intenti, di “valori” spesso disattesi dai suoi portatori. Crediamo invece che l’essere umano debba capire e comprendere in profondità la realtà, che è fatta di sentimenti, di persone diverse, di contrasti, di pluralità, evitando di trincerarsi dietro la paura del “male”, l’opportunità del momento oppure il “fortino” della propria identità (“vegetariana” o “carnivora” che sia). Soprattutto i giovani, che si affacciano nel mondo degli adulti con tante speranze e con tante paure, possono e debbono contribuire in piccola misura a cambiare le cose. Non certo e non solo con i buoni sentimenti (di cui è lastricata la via dell’inferno), ma anche – e crediamo – soprattutto vedendo l’uomo per quello che è e per quello che è capace di fare se le circostanze storiche, l’inettitudine delle classi dirigenti e i sentimenti umani sono lasciati al loro destino ferino. Conoscere veramente l’uomo nella sua totalità è il primo e forse unico modo per rendere il nostro cammino terreno un po’ più lieve.
2. La nostra edizione critica La ripubblicazione (e ritraduzione) del Mein Kampf non è stata più autorizzata dopo la Seconda guerra mondiale. I diritti di autore passarono infatti al Land di Baviera. In Germania il divieto di pubblicazione integrale è rimasto in vigore sino alla fine del 2015 (secondo i canonici settant’anni). Tuttora sono vietate le edizioni del testo prive di un’elaborazione critica. In Italia sono circolate numerose edizioni clandestine sin dal secondo dopoguerra, stampe anastatiche dell’edizione Bompiani di epoca fascista per mano di editori quali Pegaso, La Bussola, Sentinella d’Italia, AR e altri ancora (spesso vicini alla destra radicale antisemita e negazionista). A fine anni Sessanta la Sansoni di Federigo Gentile provò a ripubblicare un’edizione del testo (partendo dall’edizione Bompiani), corredata da un lungo saggio critico, ma l’esperimento non andò in porto (probabilmente per l’assenza di curatori di spessore)4. Nel 2002 Kaos Edizioni pubblicò un’edizione integrale del Mein Kampf (decurtata nel 2006 per ragioni di diritti d’autore), corredata da un buon apparato critico a cura del politologo Giorgio Galli. Nel 2016 Thule Italia ha pubblicato i due volumi del Mein Kampf (la ritraduzione è a cura di Marco Linguardo e di Monica Mainardi), con una corposa appendice documentaria. Quest’edizione è priva tuttavia di un apparato 4
Archivio Bompiani, fascicolo 3.3. (Hitler Adolf).
VIII critico, ritenuto dai curatori “inutile” e “fuorviante”. Circolano da anni (quantomeno dall’esplosione del web) numerose copie clandestine online. Ma la vera “svolta” a livello editoriale è stata inferta dall’edizione critica tedesca dell’Istituto di storia contemporanea di Monaco. L’edizione critica dell’Istituto di storia contemporanea di Monaco, a cura di Christian Hartmann, Thomas Vordermeyer, Othmar Plöckinger e Roman Toppel, ha rappresentato il primo serio (e forse irripetibile) tentativo di “analizzare” e di contestualizzare le affermazioni hitleriane (il Mein Kampf, infatti, è un “classico” di retorica politica). Lo ha fatto non tanto ricorrendo ai saggi critici introduttivi, quanto costruendo un apparato di note a dir poco imponente, frutto del lavoro pluriennale di decine di studiosi che hanno tentato di svelare ogni arcano riferimento contenuto nel testo. In particolare, l’equipe guidata da Christian Hartmann ha passato al setaccio ogni affermazione hitleriana e, se necessario, l’ha smentita alla prova dei “fatti” (cioè dei documenti). Questo è ciò che l’esegesi delle fonti può e deve fare. Si tratta di un lavoro lodevole, anche perché ha contribuito a fare chiarezza su alcuni aspetti meno noti del primo movimento hitleriano (attraverso i resoconti delle forze di polizia bavaresi, per esempio). L’edizione tedesca non è sfuggita alle critiche di alcuni studiosi e dei rappresentanti di alcune forze politiche, che hanno sostenuto l’inutilità del lavoro critico (illeggibile nelle sue oltre duemila note per un pubblico profano) oppure la necessità di non divulgare l’opera di Adolf Hitler (maneggiabile solo da studiosi “pronti” e “consapevoli” nelle sedi opportune). Considerazioni di natura politica e di natura scientifica non hanno però fermato gli studiosi dell’Istituto di Monaco, a dimostrazione che la maturità del lettore va anche testata sul campo apertis verbis. Con tutti i limiti di un lavoro critico condotto da un’equipe di soli storici (manca infatti un’analisi approfondita della retorica hitleriana), oggi il panorama editoriale tedesco e, forse, mondiale dispone di un imponente dimostrazione di come i documenti storici possano fare “storia contemporanea”. La nostra edizione critica non poteva non partire dall’imponente lavoro condotto dall’Istituto di storia contemporanea di Monaco. Non si tratta – chiariamolo subito – della traduzione italiana (operazione quantitativamente incongrua e non autorizzata). La nostra edizione ha rielaborato alcune note e ha rimandato a quelle più importanti presenti nella Kritische Ausgabe (per chi conosca il tedesco o voglia approfondire alcuni aspetti). La ritraduzione integrale del Mein Kampf, basata sulla prima edizione (192526), è presentata da una sinossi contente la genesi, il contenuto e l’analisi di ogni singolo capitolo, l’individuazione di parole-chiave e una bibliografia aggiornata coi principali titoli sulle origini del nazismo (in lingua italiana, se possibile). Abbiamo anche arricchito il testo con alcune immagini dell’epoca, tratte da alcune importanti pubblicazioni (come il catalogo della mostra München und der Nationalsozialismus) e dalla fonte inesauribile della rete (come l’Historisches Lexikon Bayerns). Al termine di ogni capitolo abbiamo poi aggiunto un approfondimento didattico, costituito da due sezioni: analisi retorica e analisi storico-culturale. Si tratta di alcuni spunti forniti al lettore o al docente che vogliano cimentarsi nell’approfondire la struttura del testo e il contesto storico-culturale in cui è emerso. La parte didattica è un piccolo valore aggiunto della nostra edizione critica. Il tema è delicato, perché educare alla tolleranza attraverso la comprensione
IX dell’intolleranza è ritenuto da molti addetti ai lavori un cortocircuito pericoloso, un esperimento “innaturale” se rivolto a giovani impreparati e indifesi. Il tema dell’educazione al “nazismo” è ben presente nel dibattito pedagogico tedesco degli ultimi anni, come dimostrano le numerose pubblicazioni che tentano di analizzare scientificamente gli assiomi della metafisica razziale e di declinarli educativamente, senza paura di cadere nell’apologia della barbarie o di forgiare nuove “onde” totalitarie (come il film Die Welle ha mostrato alcuni anni fa). I nostri spunti didattici, che saranno affrontati più criticamente nel secondo volume dedicato più specificamente al Mein Kampf, sono limitati più modestamente a una breve disamina retorica del testo hitleriano (partendo da alcuni spunti offerti dal bel lavoro del docente e filosofo Andrea Gilardoni)5 e a un’analisi storico-culturale (dedicata a discutere il contesto in cui nacquero, sorsero e si sedimentarono le culture nazionalpopolari che diedero il via al nazionalsocialismo). Questi due piani sono fondamentali per comprendere un lavoro di retorica politica come il testo hitleriano. Non bastano tuttavia a comprendere a fondo il libro se il lettore (o il docente) non riesce a introdursi nell’epoca in cui è stato scritto, meditato e lanciato, se non riesce a comprendere in profondità il “mito”. Solo con l’interazione fra il testo e il contesto è possibile comprendere in profondità un libro di scarso valore estetico, ma di grandissima rilevanza storica, politica e, a suo modo, “etica”. Il lettore avrà modo anche di avvicinarsi alle fonti hitleriane (che sono varie e spesso disordinate) e alla logica dell’autore (tutt’altro che “elementare” e “confusa”). L’obiettivo principale di Hitler nel corso dell’intera autobiografia (e specialmente nel primo volume) è stato quello di dimostrare la sua conversione all’antisemitismo e, in particolare, l’utilità storico-politica dell’antisemitismo attraverso un percorso “divinatorio”, mostrando la sua “esperienza interiore” dell’”“altro” per antonomasia: l’ebreo. Quando parliamo di utilità ci riferiamo all’aspetto pragmatico ed “economico” dell’antisemitismo. Le testimonianze in nostro possesso e la lettura del testo ci portano infatti a ritenere l’antisemitismo un’arma politica utilizzata per ragioni pragmatiche nel primo dopoguerra. La tesi di Hitler come “alfiere” del paradigma indiziario, formulata di recente nel bel saggio di Ben Novak6, fu già da noi affrontata alcuni anni fa nel nostro lavoro di storia delle idee, quando, occupandoci di Julius Langbehn (precursore del Terzo Impero), avevamo sostenuto l’uso politico del paradigma indiziario nei movimenti totalitari del Novecento7. In parole povere, Hitler e altri politici populisti non vanno compresi attraverso una logica deduttiva o induttiva, semmai abduttiva, nel senso fornito da Peirce, teorizzato storiograficamente da Carlo Ginzburg e semioticamente da Umberto Eco8. Di fatti, l’antisemitismo di Hitler non è un semplice assioma del nazionalsocialismo, né il prodotto dell’osservazione (più o meno distorta) di singoli episodi della vita reale. È invece la deduzione “a ritroso” del medico5
A. Gilardoni, Logica e argomentazione. Un prontuario, Milano, Mimesis, 2008. V. Pinto, Apoteosi della germanicità. I sentieri di Julius Langbehn, critico della cultura tedesco di fine Ottocento, Lecce, Icaro, 2009. 7 B. Novak, Hitler and the abductive logic. The strategy of a tyrant, Lanham (Maryland), Lexington Books, 2014. L’edizione italiana curata da “Free Ebrei” uscirà nel 2018. 8 U. Eco, T.A. Sebeok (cur.), Il segno dei tre. Holmes, Dupin, Peirce, traduzione di G. Proni, Milano, Bompiani, 2004. 6
X detective che analizza i “presagi”: i sintomi di decadenza fisica e morale lo portano a “scoprire” una “malattia” più profonda che poi va “giustificata” sul campo. Qui sta la grande forza del mito nazionalsocialista nella democrazia di massa, ma anche la sua intrinseca debolezza: è l’espressione di un sentimento umano atavico (il bisogno di un capro espiatorio) che può essere risvegliato, ma che può anche essere messo a tacere dalle armi dei “semplici” fatti.
3. Ringraziamenti
L’idea di pubblicare un’edizione critica italiana del Mein Kampf è sorta alla fine del 2015. Io e mia moglie Alessandra, pur avendo alle spalle diverse formazioni e diverse sensibilità (io sono uno storico delle idee, lei era una filologa dell’area germanica), eravamo accomunati dal desiderio di tradurre e di rendere disponibili in italiano anche testi così discussi e così difficili. Mentre Alessandra aveva tradotto per lo più dallo yiddish e dal tedesco, io mi ero cimentato nel corso degli anni nella traduzione di testi “precursori” del nazismo, come quello di Julius Langbehn Rembrandt come educatore (testo sottovalutato o poco capito, vero bestseller della Germania di fine Ottocento)9. La confluenza fra la sua passione per la traduzione e la mia “strana” mania di storicotraduttore ci hanno portato a collaborare alla preparazione di questo mastodontico lavoro filologico, che sarà arricchito da un volume di saggi critici di studiosi italiani e stranieri. Oltre all’edizione critica di Monaco ci siamo avvalsi dei principali lavori biografici dedicati a Hitler (Kershaw e Fest su tutti) e, in particolare, della marea di pubblicazioni (spesso in tedesco) dedicate ai primi anni Venti e alla Germania weimariana (temi, come detto, poco trattati e tradotti in Italia, dove ha sempre e solo contato il nazismo di governo). Questo periodo storico, poco studiato in Italia, è la vera fucina del socialismo nazionale e, più in generale, permette di comprendere la trasformazione della Germania da paese tradizionalmente autoritario a totalitario. La vera democrazia liberale, in quel caso (come in altri), non fece salti. Ringrazio naturalmente l’Istituto di storia contemporanea di Monaco per il grande lavoro critico ed esegetico condotto sul Mein Kampf, senza il quale non sarebbe stata pensabile la nostra edizione italiana. Ringrazio il personale delle biblioteche tedesche (berlinesi) e italiane (torinesi) che mi hanno fornito il materiale bibliografico necessario alla preparazione dell’edizione critica. Dedico questo libro a mia moglie Alessandra, che ci ha lasciato prematuramente nel settembre 2016. A lei si deve la traduzione dei primi due capitoli “biografici” e la prima revisione di tutta l’opera. Naturalmente io mi assumo qualsiasi responsabilità per il contenuto del testo. Berlino, novembre 2016
9
A.J. Langbehn, Rembrandt come educatore, a cura di V. Pinto, Torino, Free Ebrei, 2013.
Premessa di Richard Overy Pochi libri dell’età moderna hanno suscitato così tante discussioni e analisi come il Mein Kampf di Adolf Hitler, pubblicato originariamente in due volumi fra il 1925 e il 1926 durante la Germania weimariana. Il testo è stato ripetutamente utilizzato prima del 1945 per spiegare la china hitleriana verso il conflitto e verso il genocidio, ma è stato anche ritenuto dall’opinione pubblica internazionale degli anni Trenta come il simbolo di una nuova “età oscura” che aveva sopraffatto la Germania dopo il 1933 e come un testo basilare per comprendere la via imboccata dal Terzo Impero. In una conferenza tenuta al Royal Institute of International Affairs del 1939, il famoso storico britannico Robert Ensor descrisse il Mein Kampf come un “libro folle”, ma allo stesso tempo “estremamente potente”. Ensor concludeva affermando che la lettura del libro permetteva di chiarire il “pericolo mondiale” rappresentato dal leader tedesco1. Il libro fu scritto o meglio dettato durante il breve periodo di prigionia di Hitler a Landsberg nel 1924 successivo al fallito putsch di novembre. Il primo volume, intitolato Resa dei conti, delineava il percorso autobiografico hitleriano da artista frustrato e pangermanista nella Vienna prebellica sino alla guida del Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori prima dell’imprigionamento a Landsberg am Lech. La maggior parte delle affermazioni è fabbricata e distorta alla prova della ricerca storica, in particolare il racconto sul servizio militare durante la guerra, che Hitler dovette stilizzare per presentarsi come un ordinario soldato tedesco che diventava un umile eroe di guerra2. Il secondo volume, pubblicato col titolo di Movimento nazionalsocialista, è storicamente molto più importante. Qui Hitler descrisse a grandi linee la base politica e filosofica della sua Weltanschauung (visione del mondo). Anche se i capitoli della seconda parte sono stati spesso sottovalutati in quanto confusi e incomprensibili, essi forniscono uno spaccato indispensabile sul modo in cui Hitler intendeva i sistemi politici, la natura della leadership, lo scopo dello Stato e l’importanza della teoria razziale e nazionale moderna. Hitler non giunse a quelle idee di punto in bianco; idee, peraltro, tutt’altro che originali. Nel corso degli anni abbiamo potuto ricostruire la maggior parte delle influenze fondamentali sul suo pensiero3. Fra i molti libri letti, Hitler fu impressionato dall’opera dei teorici razziali, da Alfred Ploetz, il biologo tedesco che coniò l’espressione “igiene razziale” nell’ultimo decennio del XIX secolo, ai genetici ed eugenetisti Eugen Fischer e Fritz Lenz, il cui libro sulla razza e sull’eredità apparve a Monaco nel 1921. Hitler s’interessava delle visioni politiche e psicologiche del suo tempo relative all’importanza della “personalità”, anche se è improbabile che abbia mai letto la discussione weberiana sul “carisma”. Il suo amanuense e poi numero due
Professore di storia all’Università di Exeter. R.K. Ensor, Mein Kampf and Europe, in “International Affairs”, 18, 1939, pp. 479, 487-88. 2 B. Hamann, Hitler. Gli anni dell’apprendistato, Milano, Corbaccio, 1998. 3 T.W. Ryback, La biblioteca di Hitler. Cosa leggeva il Führer, Milano, Mondadori, 1998.
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XII Rudolf Hess, che stese la bozza del Mein Kampf in prigione insieme a Emil Maurice, introdusse Hitler all’opera di Karl Haushofer e di altri geografi tedeschi. Ad Haushofer si deve l’introduzione della disciplina della geopolitica. L’interesse di Hitler era rivolto alla tesi del geografo tedesco Friedrich Ratzel, secondo cui ogni razza civilizzata e vigorosa doveva conquistarsi un Lebensraum (spazio vitale) – cioè un territorio sufficiente ampio dove potersi adeguatamente riprodurre, in cui i popoli inferiori sarebbero stati governati dalle razze superiori4. Questo era il modello dell’imperialismo europeo di fine Ottocento, ed è un’espressione centrale per comprendere la futura ossessione hitleriana per l’acquisizione di spazio fisico. Hitler lesse anche e fu colpito dai Protocolli dei savi anziani di Sion, un falso che sostiene la congiura mondiale ebraica, piuttosto diffuso negli ambienti dell’estrema destra nella Germania degli anni Venti. Tutte queste teorie influirono chiaramente sulle idee distillate nel Mein Kampf. Secondo Hitler, lo Stato moderno non è un fine, ma un mezzo in vista di quel fine: il sostentamento di una razza pura e lo sviluppo di una cultura superiore. In Europa ciò significava la tutela della razza “ariana”, una mistica descrizione dei popoli germanici che Hitler aveva preso in prestito da una generazione di scritti razziali e antropologici. I popoli ariani erano i difensori della cultura e della civiltà europee contro l’Oriente barbaro e contro la “decomposizione” ebraica. Dal 1925 Hitler ha iniziato a considerarsi il potenziale salvatore inviato in Germania per proteggere la razza, per salvare l’Europa e per creare un nuovo Impero tedesco che riflettesse lo status superiore dell’ariano, così come l’Impero britannico rifletteva all’epoca il potere civilizzatore e la forza razziale del popolo britannico. L’eterno nemico della missione ariana era l’ebreo. È chiaro dai riferimenti nei suoi discorsi dei primi anni Venti che Hitler aveva già assorbito l’idea dell’ebreo quale nemico irriducibile del popolo tedesco: che fosse rappresentato dal marxismo o dal capitale finanziario, l’ebreo era, nella distorta realtà hitleriana, il nemico storico universale, una minaccia cosmopolita per ogni razza pura e per ogni cultura avanzata5. Per Hitler l’ebreo divenne la metafora per indicare l’influenza nefasta dell’età moderna. I principi annunciati nel Mein Kampf sembravano spiegare agli osservatori contemporanei e agli storici il tentativo successivo di erigere un impero nell’Unione sovietica e lo sterminio degli ebrei. Il libro fu una prova importante durante il processo di Norimberga sui crimini di guerra. Gli accusatori sovietici sostennero che i commenti hitleriani sul bisogno di spazio (Lebensraum) per rendere la Germania una potenza mondiale e, in particolare, la singola affermazione: “Ma se oggi parliamo di nuova terra in Europa, dobbiamo pensare innanzitutto alla Russia”6, fossero dimostrazioni sufficienti a conferma del fatto che Hitler avesse sempre pianificato l’operazione Barbarossa7. Allo stesso modo, i continui riferimenti all’ebreo come 4 Cfr. F. Ebeling, Geopolitik. Karl Haushofer und seine Raumwissenschaft, 1919-1945, Berlino, Akademie Verlag, 1994. 5 Cfr. W. Maser, Hitler segreto. Lettere e appunti inediti, traduzione di E. Massa, Milano, Garzanti, 1974; Id., Mein Kampf: Der Farhplan eines Welteroberers: Geschichte, Auszüge, Kommentare, Esslingen, Bechtle, 1974. 6 A. Hitler, La mia battaglia, vol. 1: Edizione critica, a cura di V. Pinto, traduzione di A. Cambatzu e V. Pinto, Torino, Free Ebrei, 2017, cap. 14-II, p. 591. 7 Cfr. R. Overy, Interrogatori. Come gli alleati hanno scoperto la terribile realtà del Terzo Reich, Milano, Mondadori, 2002.
XIII agente della decomposizione, le cui macchinazioni andavano smascherate dal popolo tedesco, erano le prove che Hitler aveva sempre pensato al genocidio degli ebrei europei. È storicamente molto problematico considerare il Mein Kampf una guida programmatica a ciò che sarebbe accaduto quando Hitler avesse preso il potere. Quando scrisse il libro, egli era un terrorista politico in prigione, momentaneamente apolide dopo che il governo austriaco gli aveva revocato la cittadinanza, dal futuro politico incerto, capo di una piccola fazione della destra radicale nazionalista tedesca. Le sue riflessioni nel Mein Kampf confermano indubbiamente la visione del mondo generale che Hitler aveva raccolto dalle sue letture di geopolitica, di teoria razziale e di storia universale, ma queste non sono dichiarazioni politiche. Le sue visioni sulla Russia aleggiavano tra l’idea di un’alleanza politica, suggerita dall’amico di Hess Haushofer, e una lotta contro la minaccia del marxismo. Il suo impegno verso l’idea che il popolo tedesco necessitasse di maggiore spazio vitale per diventare una potenza mondiale, non anticipò i fatti degli anni Trenta. L’espressione citata dagli accusatori sovietici fu di fatto la sola vera prova che Hitler pensasse all’Est come all’area in cui la Germania avrebbe trovato il suo spazio vitale – un’idea che circolava nei circoli nazionalisti tedeschi da almeno una generazione; ma era una speculazione, non un impegno all’azione politica8. Gli obiettivi hitleriani di politica estera dopo il 1933 includevano certamente la ricerca di spazio vitale in Europa orientale, ma non ci sono prove sino alla crisi bellica del 1940-41 che Hitler pensasse alla necessità della conquista dell’Unione sovietica. Lo stesso problema insorge pensando alle origini dell’Olocausto. Quando stava scrivendo il libro, era impossibile che Hitler potesse immaginarsi una Germania capace di dominare il continente europeo, di governare un’area contenente la maggioranza degli ebrei europei o di risolvere con l’annientamento la “questione ebraica”. Ciò che il Mein Kampf rivela è il percorso casuale con cui il capo nazista ha preso in prestito la retorica antisemita della destra radicale nazionalista tedesca per trovare un nemico su cui scaricare le responsabilità della sconfitta del 1918 e la successiva impotenza tedesca. Allo stesso tempo il libro trasuda ripugnanza viscerale verso il marxismo (una filosofia che Hitler non riuscì a comprendere o ad affrontare) e un’identificazione del bolscevico con l’ebreo. Questo sarebbe diventato l’asse centrale del suo ragionamento del 1941, secondo cui l’operazione Barbarossa avrebbe dovuto condurre alla distruzione fisica del “bolscevismo ebraico” attraverso un assassinio di massa organizzato in Russia, anche se ciò non è esplicitato nel Mein Kampf. Piuttosto che cercare il piano dell’Olocausto, è più utile considerare il libro come una tappa nel percorso hitleriano verso la discriminazione, la persecuzione e l’eliminazione. Lo stesso dicasi per le sue idee sull’espansione territoriale. Non ci sono progetti o programmi nel Mein Kampf, ma nessun lettore del libro potrebbe dubitare che uno dei punti nevralgici della piattaforma politica hitleriana fosse la convinzione storicouniversale che il destino del popolo tedesco fosse quello di conquistare e di governare Sulle visioni tedesche dell’Oriente vedi V. Liulevicius, The German Myth of te East: 1800 to the Present, Oxford, Oxford University Press, 2009; G. Koenen, Der Russland-Komplex: Die Deutschen und der Osten 1900-1945, Monaco, C.H. Beck, 2005. 8
XIV un impero territoriale europeo grande abbastanza da rendere la Germania una potenza mondiale. Nel 1924-25 si trattava del pio desiderio di una figura politica marginale. Una volta al potere nel 1933, Hitler dovette venire a patti con le realtà geopolitiche ed economiche, che ne delimitarono le possibilità operative. Il Mein Kampf può fornire indizi su come Hitler avrebbe reagito nella nuova situazione, ma non era ancora il “libro estremamente potente” descritto da Ensor nel 1939. Il Mein Kampf contiene le riflessioni di un sognatore politico che non avrebbe mai immaginato che la storia gli avrebbe dato l’opportunità di trasformare i suoi sogni in una terribile realtà.
Cronologia della vita di Adolf Hitler (1889-1926)
1889, 20 aprile 1889, 22 aprile
Nascita di Adolf Hitler a Braunau sull’Inn da Alois e Klara Pölzl Adolf Hitler è battezzato nella chiesa di Santo Stefano di Braunau sull’Inn
1892, agosto
Alois si trasferisce con la famiglia a Passau
1894, 24 marzo 1894, 1° aprile
Nasce Edmund, il quinto figlio di Klara Hitler Alois si trasferisce a Linz, ma la famiglia resta a Passau
1895, 4 febbraio 1895, aprile 1895, 2 maggio 1895, giugno
Alois acquista una fattoria vicino a Fischlham (Lambach) La famiglia di Alois si trasferisce nella fattoria di Fischlham Adolf inizia a frequentare la Volksschule di Fischlham Alois si pensiona dopo quarant’anni di servizio statale
1896, 21 gennaio 1896, aprile
Nasce Paula, la sesta figlia di Klara Hitler Adolf è promosso alla scuola del monastero benedettino di Lambach
1897, gennaio
Alois acquista un immobile ad Hafeld, dove si trasferisce con la famiglia. Adolf frequenta la Volksschule e la corale del monastero di Lambach
1898, gennaio 1898, novembre
La famiglia Hitler si trasferisce a Lambach Alois acquista un’immobile a Leonding, vicino Linz
1899, febbraio
La famiglia Hitler si trasferisce a Leonding. Adolf frequenta il quarto anno della Volksschule. Legge le riviste sulla guerra franco-tedesca e le storie d’avventura di Karl May
1900, 2 febbraio Muore Edmund Hitler 1900, maggio Adolf frequenta il quinto anno della Volksschule di Leonding 1900, 17 settembre Adolf frequenta la Realschule di Linz. I migliori voti li ottiene in storia, geografia e disegno 1901
Adolf ripete il primo anno della Realschule a causa delle insufficienze in storia naturale e matematica
1902
Adolf frequenta il secondo anno della Realschule
P. Bruppacher, Adolf Hitler und die Geschichte der NSDAP. Eine Chronik, terza edizione, Norderstedt, Books on Demand, 2014, parte I: 1889-1937.
XVI
1903, 3 gennaio 1903, maggio
Alois Hitler muore all’età di 65 anni per emottisi. Adolf deve fare gli esami di riparazione per accedere al terzo anno Hitler frequenta il terzo anno della Realschule
1904, 22 maggio Hitler è cresimato 1904, 5 settembre Hitler termina il terzo anno della Realschule, ma promette di lasciare la scuola 1904, 15 settembre Hitler frequenta il quarto anno della Realschule di Steyr 1905, 21 giugno Klara Hitler vende la casa di Leonding e si trasferisce con i figli e la sorella a Linz 1905, 16 settembre Hitler promette alla madre di terminare la Realschule 1905, ottobre Hitler soffre di debolezza polmonare. Lascia la Realschule di Steyr. Inizia a frequentare biblioteche, caffè, teatri e opere 1905, novembre Hitler frequenta l’Opera di Linz con l’amico August Kubizek 1906, 21 febbraio 1906, 7 maggio 1906, 8 maggio 1906, 9 maggio 1906, giugno 1906, 2 ottobre 1906, 13 ottobre 1906, novembre
Hitler ottiene dalla città di Linz un Heimatschein (certificato di cittadinanza) Hitler scrive una lettera all’amico August Kubizek da Vienna Hitler assiste al Tristano diretto da Gustav Mahler all’Opera di Vienna Hitler assiste all’Olandese volante all’Opera di Vienna Hitler torna a Linz Hitler prende lezioni di piano e continua le frequentazioni bohème con l’amico August Kubizek Hitler assiste alla Vedova allegra di Lehár al teatro di Linz Hitler e August Kubizek assistono al Rienzi di Wagner al teatro di Linz
Klara Hitler consulta il medico ebreo Eduard Bloch, che pronostica un tumore al seno 1907, 15 gennaio Eduard Bloch comunica a Paula e ad Adolf la malattia della madre 1907, 17 gennaio Klara è ricoverata all’ospedale “Sorelle caritatevoli” di Linz 1907, 31 gennaio Hitler termina le sue lezioni di piano 1907, 5 febbraio Klara è dimessa dall’ospedale 1907, 2 maggio La famiglia Hitler si trasferisce in un’abitazione più economica 1907, 16 maggio Altro trasferimento della famiglia Hitler 1907, settembre Hitler lascia Linz e si trasferisce a Vienna per sostenere l’esame d’ammissione all’Accademia di Belle Arti 1907, 9 settembre Hitler invia 4 disegni con una lettera di accompagnamento all’Accademia di Belle Arti 1907, 1° ottobre Hitler è promosso alla seconda prova d’ammissione, ma fallisce per l’insufficienza nella prova di disegno 1907, 22 ottobre Hitler torna a Linz per volere materno. Eduard Bloch gli rivela che la situazione della madre è disperata 1907, 21 dicembre Klara Hitler muore all’età di 47 anni 1907, 24 dicembre Hitler visita con la famiglia il dottor Bloch 1907, 14 gennaio
Adolf e Paula ottengono una pensione per orfani di 50 corone (il primo sino al 19 aprile 1913, la seconda fino al 20 gennaio 1920) 1908, 4 febbraio Hitler ottiene una lettera di referenze per il prof. Alfred Roller di Vienna, ma non ne fa alcun uso 1908, 10 febbraio Hitler scrive all’ufficio finanziario di Linz per ottenere la pensione per orfani 1908, 14 febbraio Hitler lascia definitivamente Linz diretto a Vienna 1908, 1° gennaio
XVII 1908, 17 febbraio Hitler vive presso la signora Zakreys in Stumpergasse 31 1908, 22 febbraio August Kubizek raggiunge Hitler a Vienna per studiare musica 1908, agosto Hitler visita la zia materna Johanna (Hannitante), che lo sostiene finanziariamente 1908, settembre Hitler decide di ripetere la prova di ammissione all’Accademia di Belle Arti 1908, 18 settembre Hitler si trasferisce in Felberstrasse 22 da Helene Riedl Hitler annuncia il mancato rinnovo della tessera all’associazione museale di Linz Hitler compie 20 anni Hitler lascia la stanza in Felberstrasse 22 Hitler si trasferisce brevemente in Sechshauserstrasse 58 dalla signora Antonia Oberlechner 1909, 16 settembre Hitler non comunica alla polizia il suo cambiamento di indirizzo, probabilmente per sottrarsi alla chiamata della leva militare. Si trasferisce in Simon-Denk-Gasse 11 1909, novembre Hitler si trasferisce in Humboldtgasse 36 1909, dicembre Hitler si trasferisce nel dormitorio di Meidling, in Asylgasse 4. Qui conosce Reinhold Hanisch che poi smercerà le sue cartoline postali
1909, 4 marzo 1909, 20 aprile 1909, 20 agosto 1909, 22 agosto
1910, 28 gennaio 1910, 9 febbraio 1910, 21 giugno 1910, 26 giugno 1910, 12 luglio 1910, agosto 1910, 4 agosto 1910, 5 agosto 1910, 11 agosto
L’ebreo Josef Neumann, manovale e lavapiatti, conosce Hitler Il finanziamento di Hannitante permette a Hitler di trasferirsi nel dormitorio di Meldemannstrasse 27 Hitler e Josef Neumann lasciano il dormitorio per trasferirsi in Germania Hitler ritorna nell’asilo di Meldemannstrasse 27 Josef Neumann, che vende anch’egli le cartoline postali di Hitler, ritorna a Vienna Hitler e Reinhold Hanisch discutono su un acquerello trafugato e venduto di nascosto al commerciante ebreo Siegfried Löffner Siegfried Löffner dichiara alla polizia di aver acquistato alcune opere di Hanisch Hitler dichiara alla polizia che Hanisch gli ha sottratto un acquarello Reinhold Hanisch è condannato a sette giorni di prigionia. Si conclude il rapporto con Hitler che d’ora in avanti venderà lui stesso gli acquerelli
1911, 29 marzo 1911, 4 maggio 1911, 1° giugno
Muore Hannitante in ospedale Hitler deve rinunciare alla pensione per orfani a favore della sorella Paula Hitler rinuncia alla sua quota di pensione per orfani
1912
Hitler vive nel dormitorio di Meldemannstrasse 27, dove legge, dipinge e vende acquerelli. Conosce la rivista “Ostara” di Jörg Lanz von Liebenfels Hitler assiste probabilmente a una conferenza di Karl May a Vienna
1912, 22 marzo
Hitler conosce nel dormitorio Rudolf Häusler, con cui assiste a varie rappresentazioni operistiche 1913, 20 aprile Hitler riceve la quota ereditaria paterna di 819 corone e 98 centesimi 1913, 25 maggio Hitler lascia il dormitorio di Meldemannstrasse 27 e si reca a Monaco con Rudolf Häusler. Affittano una camera dal sarto Joseph Popp in Schleissheimer Strasse 34 1913, 11 agosto La magistratura di Linz si mette alla ricerca del precettato Hitler 1913, 21 dicembre Dopo ampie ricerche, la magistratura di Linz si rivolge alla direzione di polizia di Monaco 1913, 4 febbraio
1914, 18 gennaio
La polizia di Monaco consegna a Hitler una cartolina di precetto per il 29 gennaio a Linz
XVIII Hitler invia al magistrato di Linz tramite il consolato di Monaco un memoriale difensivo, in cui spiega i motivi della sua renitenza 1914, 23 gennaio La magistratura di Linz chiede a Hitler di presentarsi il 5 febbraio a Linz 1914, 5 febbraio Hitler ottiene l’esonero dal servizio militare per ragioni fisiche 1914, 15 febbraio Rudolf Häusler lascia la camera di Schleissheimer Strasse 34 1914, 2 agosto Hitler partecipa alla grande manifestazione patriottica in Odeonsplatz 1914, 5 agosto Hitler chiede di potersi arruolare come volontario in un reggimento bavarese 1914, 16 agosto Hitler si addestra presso il II Battaglione riservista del II Reggimento fanteria 1914, 1° settembre Hitler è assegnato alla I Compagnia del I Battaglione del XVI Reggimento fanteria “List” 1914, 13 ottobre Il I Battaglione del XVI Reggimento è acquartierato presso il monastero di Lechfeld 1914, 21 ottobre Il XVI Reggimento parte per le Fiandre 1914, 23 ottobre Il XVI Reggimento giunge a Lille 1914, 31 ottobre Il colonnello List muore sul campo 1914, 1° novembre Il XVI Reggimento lascia il fronte diretto a Werwick. Circa il 70% dei soldati sono morti e feriti 1914, 4 novembre Il battaglione di Hitler si reca a Comines 1914, 9 novembre Il XVI Reggimento marcia su Bethléem 1914, 22 novembre Karl Lippert diventa il nuovo comandante del XVI Reggimento 1914, 24 novembre Hitler si reca col suo reggimento a Messines 1914, 2 dicembre Hitler riceve la Croce di Ferro di II classe 1914, 19 gennaio
1915, 17 marzo Il XVI Reggimento è dislocato a Formelles, dove inizia la guerra di posizione 1915, 24 luglio Hitler torna col suo reggimento nelle Fiandre 1915, 25 settembre Hitler torna col suo reggimento a La Bassée e Arras 1915, 7 ottobre Hitler è assegnato alla III Compagnia del XVI Reggimento 1915, 14 ottobre Il XVI Reggimento è dislocato nelle Fiandre 1915, 27 ottobre Hitler è assegnato nuovamente alla III Compagnia del I Battaglione 1916, 9 marzo Karl Lippert lascia la guida del XVI Reggimento 1916, 24 giugno Hitler giunge col suo reggimento sulla Somme 1916, 27 settembre Il XVI Reggimento lascia Formelles dopo sei mesi ed è dislocato in treno a Iwuy 1916, 5 ottobre Hitler è ferito alla coscia sinistra a La Basse a causa di una granata 1916, 6 ottobre Hitler è curato nel lazzaretto di Hermies 1916, 9 ottobre Hitler giunge nel lazzaretto della Croce Rossa di Beelitz (Berlino) 1916, 3 novembre Hitler visita brevemente Berlino 1916, 2 dicembre Hitler lascia il lazzaretto diretto a Monaco 1916, 3 dicembre Hitler si presenta al II Reggimento fanteria (riservista) 1917, 5 marzo Hitler torna a La Basse presso il XVI Reggimento 1917, 23 aprile Il barone Anton von Rubeuf è il nuovo comandante del XVI Reggimento 1917, 27 aprile Il XVI Reggimento torna ad Arras 1917, 21 maggio Il XVI Reggimento giunge ad Artois (Fiandre) 1917, 12 luglio Hitler partecipa col suo reggimento alla “battaglia delle Fiandre” (presso Gheluvelt) 1917, 1° agosto Il XVI Reggimento è dislocato nei pressi di Mulhouse (Alsazia) 1917, 17 settembre Hitler riceve la Croce al merito militare di III classe 1917, 30 settembre Hitler ottiene la prima licenza e si reca con alcuni commilitoni a Dresda 1917, 2 ottobre Hitler è ospite a Berlino dai genitori di un suo commilitone 1917, 17 ottobre Hitler ritorna al suo reggimento, che ora si trova ad Ailette (Champagne-Ardenne) 1918, 28 marzo
Il XVI Reggimento è acquartierato presso il Canale Croizat
XIX Il XVI Reggimento giunge ad Avre (Montdidier) Il XVI Reggimento torna ad Ailette Hitler ottiene un Regimentsdiplom (diploma reggimentale) per il coraggio di fronte al nemico a Fontaine 1918, 18 maggio Hitler ottiene il Distintivo per feriti 1918, 27 maggio Il XVI Reggimento è dislocato a Soissons (Reims) 1918, 12 giugno Il XVI Reggimento lascia il fronte ed è acquartierato a Courselles 1918, 15 luglio Il XVI Reggimento partecipa alla “battaglia della Marna” 1918, 1° agosto Il XVI Reggimento lascia il fronte ed è acquartierato a Le Cateau 1918, 4 agosto Hitler ottiene dal comandante del Reggimento la Croce di ferro di I classe per l’attività di portaordini 1918, 15 agosto Il XVI Reggimento è dislocato a Cambrai 1918, 25 agosto Hitler ottiene la Dienstauszeichnung (Onorificenza di servizio) di III classe 1918, 10 settembre Hitler si reca in licenza a Berlino 1918, 27 settembre Hitler ritorna al fronte nelle Fiandre 1918, 29 settembre Il XVI Reggimento patisce presso Comines l’uso del gas velenoso inglese 1918, 13 ottobre Hitler è colpito agli occhi dal gas inglese nei pressi di Wervik (Ypern) 1918, 15 ottobre Hitler è curato nel lazzaretto da campo bavarese 53 1918, 21 ottobre Hitler giunge nel lazzaretto di Pasewalk (Stettino). È diagnosticato come “psicopatico con sintomi isterici” 1918, 10 novembre Hitler e altri feriti ricevono la visita di un pastore, che annuncia loro la fine della monarchia e la proclamazione della Repubblica 1918, 19 novembre Hitler lascia il lazzaretto di Pasewalk 1918, 20 novembre Hitler visita brevemente Berlino 1918, 21 novembre Hitler giunge a Monaco, dove è acquartierato alla VII Compagnia del I battaglione riservista del II Reggimento fanteria 1918, 6 dicembre Hitler si reca col suo commilitone Ernst Schmidt a Traunstein
1918, 7 aprile 1918, 28 aprile 1918, 9 maggio
Anton Drexler, Michael Lotter e altri 24 membri creano a Monaco la Deutsche Arbeiterpartei (Partito tedesco dei lavoratori) 1919, 25 gennaio Hitler torna con Schmidt a Monaco 1919, 12 febbraio Hitler è spedito alla II Compagnia di smobilitazione in previsione del congedo dall’esercito 1919, 15 febbraio Hitler diventa fiduciario presso il battaglione di smobilitazione del II Reggimento fanteria, dove trasmette il pensiero democratico-repubblicano ai suoi commilitoni 1919, 16 febbraio Hitler marcia col suo reggimento in una dimostrazione organizzata dal Consiglio dei soldati 1919, 20 febbraio Hitler è comandato a guardia della stazione ferroviaria di Monaco 1919, 26 febbraio Hitler marcia nella delegazione di condoglianze del II Reggimento fanteria per la morte di Kurt Eisner 1919, 7 marzo Hitler conosce il capitano Ernst Röhm 1919, 19 marzo Hitler torna nella caserma del II Reggimento fanteria 1919, 5 aprile Il II Reggimento fanteria sostiene la proclamazione della Repubblica consiliare 1919, 15 aprile Hitler è eletto rappresentante nel Consiglio di caserma 1919, 30 aprile Hitler decide di non entrare nell’Armata rossa, perché le truppe federali stanno accerchiando Monaco 1919, maggio Nasce a Monaco su iniziativa del barone Rudolf von Sebottendorff (Società Thule) la Deutschsozialistische Partei (Partito socialista tedesco) 1919, 9 maggio Hitler è coinvolto per la prima volta in attività controrivoluzionarie nella commissione di congedo e d’inchiesta del II Reggimento 1919, 23 maggio Hitler testimonia come membro della commissione davanti alla Corte marziale di Monaco 1919, 31 maggio Il programma del Partito socialista tedesco è pubblicato sul “Münchner Beobachter” 1919, 3 giugno Hitler è invitato a partecipare al corso sulla propaganda nella truppa
1919, 5 gennaio
XX Hitler frequenta come “propagandatore” il corso di formazione antibolscevica all’Università di Monaco. Fra i docenti: Karl Alexander Müller (Storia tedesca), Karl von Bothmer (Socialismo), Michael Horlacher (Situazione agricola e condizione di pace). Parlano anche Gottfried Feder e Joseph Hofmiller 1919, 19 luglio Hitler termina il suo corso di formazione 1919, 22 luglio Hitler ottiene dal capitano Karl Mayr il compito di tenere conferenze nelle caserme di Monaco e dintorni 1919, 19 agosto Il comando di propaganda di cui fa parte Hitler, sotto la guida di Rudolf Beyschlag, si trova nel campo di Lechfeld 1919, 20 agosto Hitler è incaricato di impartire come V-Mann (uomo di fiducia) sentimenti nazionalisti e antibolscevichi nella truppa “avvelenata” dal bolscevismo e dallo spartachismo 1919, 23 agosto Hitler parla a Lechfeld sul tema “condizioni di pace e ricostruzione” 1919, 24 agosto Hitler parla di “emigrazione” 1919, 25 agosto Hitler parla di “fecondità del capitale internazionale”. Primi riferimenti antisemitici. Hitler ritorna a Monaco 1919, settembre Hitler, proseguendo le sua attività per conto del capitano Mayr, conosce il giornalista bohème Dietrich Eckart, che influenzerà la sua visione del mondo e lo introdurrà nei salotti della buona società monacense 1919, 12 settembre Karl Mayr incarica Hitler di partecipare all’assemblea del Partito tedesco dei lavoratori presso il ristorante Sterneckerbräu. Anton Drexler gli regala una copia del suo pamphlet Il mio risveglio politico 1919, 13 settembre Hitler riceve una cartolina dal comitato di partito che lo invita a una seduta del 16 settembre presso la trattoria Altes Rosenbad. 1919, 16 settembre Hitler partecipa alla seduta del comitato e aderisce al Partito tedesco dei lavoratori, probabilmente su consiglio di Mayr. In una lettera ad Adolf Gemlich per ordine dello stesso Mayr, Hitler espone per la prima volta una visione organica dell’antisemitismo e della questione ebraica 1919, 3 ottobre Hitler partecipa a un’adunanza del Partito tedesco dei lavoratori allo Sterneckerbräu e poi redige un rapporto per il capitano Mayr 1919, 16 ottobre Hitler parla per la prima volta come oratore del Partito tedesco dei lavoratori allo Hofbräukeller 1919, 19 ottobre Hitler chiede di aderire al Partito tedesco dei lavoratori 1919, 13 novembre Adunanza del Partito tedesco dei lavoratori all’Eberbräukeller. Hitler parla dei trattati di pace di Brest-Litovsk e di Versailles 1919, 24 novembre Creazione del gruppo norimberghese del Partito socialista tedesco per merito di Julius Streicher 1919, 10 dicembre Adunanza del Partito tedesco dei lavoratori nella locanda Deutsches Reich. Hitler parla della “Germania di fronte alla sua più profonda umiliazione” 1919, 10 luglio
Rudolf Schüssler è ingaggiato a Hitler come primo gerente del Partito tedesco dei lavoratori. Hitler ottiene la tessera n. 555 del Partito (le tessere partivano dal numero 501) 1920, 5 gennaio Karl Harrer si dimette dal posto di Primo presidente a causa di divergenze di vedute con Hitler. Al suo posto è eletto Anton Drexler 1920, 7 gennaio Hitler partecipa presso il Kindl-Keller alla prima adunanza di massa antisemitica del Deutschvölkischer Schutz- und Trutzbund (Lega nazionalpopolare tedesca a protezione e a difesa) 1920, 15 gennaio Il Partito tedesco dei lavoratori fissa la sua sede nello Sterneckerbräu 1920, 26 gennaio Hitler tiene per alcuni giorni discorsi in un corso di formazione dell’esercito sul tema “trattato di Versailles e significato dei partiti politici” 1920, 23 gennaio Hitler tiene, in occasione dell’adunanza del Partito tedesco dei lavoratori al Deutsches Reich, un intervento sulla frantumazione del paese da parte francese 1920, 22 febbraio Hitler e Drexler dettano a macchina il “Programma dei Venticinque Punti” 1920, 1° gennaio
XXI 1920, 24 febbraio Adunanza del Partito tedesco dei lavoratori allo Hofbräuhaus. Hitler parla dopo Johannes Dingfelder del nuovo programma. Nasce ufficialmente la Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei (Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori) 1920, 4 marzo Hitler parla a un’adunanza nazionalsocialista nel salone dello Hofbräuhaus sui trattati di pace 1920, 16 marzo Hitler vola con Eckart e il tenente Robert von Greim a Berlino per stringere un accordo con i putschisti di Kapp 1920, 17 marzo Hitler conosce a Berlino il generale Ludendorff, il leader dei Corpi franchi Walther Stennes e lo scrittore Ernst zu Reventlow 1920, 18 maggio Hitler ed Eckart rientrano a Monaco 1920, 31 marzo Hitler è congedato dall’esercito. Si mantiene con gli onorari dei discorsi e con le donazioni di alcuni esponenti dell’alta società di Monaco 1920, 6 aprile Hitler parla durante un discorso nel salone dello Hofbräuhaus degli ebrei orientali e sostiene la loro espulsione 1920, 9 aprile Hitler parla nello Hofbräuhaus sulla situazione politica bavarese e tedesca 1920, 20 aprile Hitler interviene all’adunanza della Arbeitsgemeinschaft Deutschvölkische Verbände (Gruppo di lavoro delle leghe nazionalpopolari tedesche) nel Löwenbräukeller di Monaco 1920, 24 aprile Alfred Brunner fonda ad Hannover il Partito socialista tedesco 1920, 27 aprile Hitler parla durante un discorso nel salone dello Hofbräuhaus di politica ed ebraismo 1920, 1° maggio Hitler si trasferisce in una camera ammobiliata presso Maria Reichert in Thierstrasse 41/I 1920, 7 maggio Hitler parla dei trattati di pace su invito del gruppo di Stoccarda della Lega nazionalpopolare tedesca a protezione e a difesa 1920, 10 maggio Hitler parla nello Sterneckerbräu di lavoratore ed ebreo 1920, 11 maggio Hitler parla durante un discorso nel salone dello Hofbräuhaus degli obiettivi del nazionalsocialismo 1920, 15 maggio Hitler espone durante un discorso presso lo Hofbräuhaus il programma del nazionalsocialismo 1920, 19 maggio Hitler parla a un’adunanza nazionalsocialista nel salone dello Hofbräuhaus degli scopi del nazionalsocialismo 1920, 21 maggio Il comitato del Partito nazionalsocialista assume la bandiera con la svastica 1920, 26 maggio Hitler parla degli “artefici della guerra” a un’adunanza della Lega nazionalpopolare tedesca a protezione e a difesa 1920, 31 maggio Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso il Bürgerbräu di ebraismo cosmopolita 1920, 2 giugno Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso il Bürgerbräukeller del programma di partito 1920, 9 giugno Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso lo Sterneckerbräu del termine “nazionale” 1920, 11 giugno Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso il Bürgerbräukeller di elezioni e battaglia politica 1920, 16 giugno Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso lo Sterneckerbräu dell’attuale situazione politica 1920, 17 giugno Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso lo Hofbräuhaus degli artefici della guerra mondiale 1920, 19 giugno Hitler parla al gruppo nazionalsocialista di Rosenheim sulle paci di Brest-Litovsk e di Versailles 1920, 21 giugno Hitler interviene all’adunanza del Bayernbund (Lega bavarese) presso lo Hofbräuhaus di marxismo, bolscevismo e dominio ebraico in Russia 1920, 24 giugno Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso il Bürgerbräukeller di ebreo come capo dei lavoratori 1920, 26 giugno Hitler parla al gruppo nazionalsocialista di Rosenheim di politica e germanesimo
XXII Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso lo Sterneckerbräu di “vita quotidiana” 1920, 6 luglio Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso il Bürgerbräukeller del significato economico e politico del trattato di Versailles 1920, 15 luglio Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso lo Hofbräuhaus di BrestLitovsk e Versailles 1920, 28 luglio Contributo di Hitler all’adunanza del Bund der Beobachterfreunde (Lega degli amici dell’Osservatore) nel Kreuzbräuhaus di Monaco 1920, agosto Joseph Füss elabora il distintivo di partito su incarico di Hitler e di Friedrich Krohn 1920, 1° agosto Hitler parla a Norimberga sul trattato di pace di Versailles su incarico del Bund deutscher Kriegsteilnehmer (Lega dei reduci tedeschi) 1920, 6 agosto Hitler parla al gruppo nazionalsocialista di Rosenheim sul tema “Spa, Mosca o noi” 1920, 7 agosto Hitler e Drexler si recano a Salisburgo su invito del Partito nazionalsocialista tedesco dei Sudeti 1920, 8 agosto Hitler parla all’incontro a Salisburgo all’organizzato dal Partito nazionalsocialista tedesco dei Sudeti 1920, 13 agosto Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso il salone dello Hofbräuhaus di antisemitismo 1920, 25 agosto Hitler parla all’assemblea nazionalsocialista presso lo Hofbräuhaus di Germania come libero Stato 1920, 31 agosto Hitler parla al gruppo nazionalsocialista di Rosenheim sull’antisemitismo nazionalsocialista 1920, 5 agosto Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso il salone del Kindl-Keller di “imbrogli, tradimenti e vendite” 1920, 9 settembre Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso lo Hofbräuhaus di frantumazione del paese da parte francese 1920, 20 settembre Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso il Kindl-Keller di potere o diritto 1920, 22 settembre Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso lo Hofbräuhaus di pace, rappacificazione e autodifesa 1920, 24 settembre Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso il Kindl-Keller di solidarietà internazionale e autodifesa 1920, 29 settembre Hitler parla all’assemblea nazionalsocialista nella sala municipale di Innsbruck 1920, 1° ottobre Hitler parla a Salisburgo 1920, 2 ottobre Hitler parla ad Hallein (Austria), ma il suo discorso è interrotto da alcuni socialdemocratici 1920, 3 ottobre Hitler parla a Braunau sull’Inn 1920, 8 ottobre Hitler parla a Vienna nella sala Gschwandtner. Incontra per la prima volta sua sorella Paula dopo il 1908 1920, 9 ottobre Hitler parla a Vienna al Marokkaner (Prater) 1920, 10 ottobre Hitler parla davanti a un pubblico nazionalsocialista di Gmünd (Waldviertel) di asservimento del popolo tedesco per mezzo dei trattati di pace 1920, 11 ottobre Hitler parla nella sala municipale di Sankt Pölten 1920, 13 ottobre Hitler parla davanti al gruppo locale nazista di Krems sul Danubio 1920, 18 ottobre Hitler espone un resoconto del suo viaggio austriaco alla dirigenza del partito allo Hofbräuhaus 1920, 26 ottobre Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso il Kindl-Keller di benessere popolare e pensiero nazionale 1920, 3 novembre Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso la sala Mathilde di Monaco del “conflitto mondiale” 1920, 5 novembre Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso il Kindl-Keller contro la Società delle nazioni 1920, 19 novembre Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso lo Hofbräuhaus di lavoratore nella Germania futura 1920, 24 novembre Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso lo Hofbräuhaus di Versailles come annientamento della Germania 1920, 5 luglio
XXIII 1920, 30 novembre Hitler parla al gruppo nazionalsocialista di Rosenheim di lavoratore nella Germania futura 1920, 8 dicembre Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso il salone Hofbräuhaus di politica di partito e questione ebraica 1920, 17 dicembre Acquisizione del “Völkischer Beobachter” da parte del Franz Eher Verlag grazie ai contributi di Dietrich Eckart, di Franz von Epp e dell’industriale Gottfried Grandel 1920, 31 dicembre Da febbraio a fine anno il Partito nazionalsocialista ha organizzato 46 adunanze pubbliche a Monaco. Hitler ha parlato più di 50 volte a Monaco e fuori città. I membri del partito ammontano a circa 3.000 unità Hitler pubblica sul “Völkischer Beobachter” l’articolo Il pensiero nazionalpopolare e il partito 1921, 3 gennaio Alfred Rosenberg diventa redattore del “Völkischer Beobachter” 1921, 4 gennaio Hitler parla al Kindl-Keller di “stupidità o crimine” 1921, 11 gennaio Hitler parla al Café Maximilian di Augusta sul “lavoratore nella Germania avvenire” 1921, 17 gennaio Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso il Kindl-Keller del 18 gennaio 1871 e del popolo creatore 1921, 21 gennaio Assemblea generale dei membri del Partito nazionalsocialista nella sala dello Hofbräuhaus. Anton Drexler è confermato Primo presidente, Oskar Körner è eletto Secondo presidente 1921, 27 gennaio Hitler, capo della propaganda di partito, pubblica sul “Völkischer Beobachter” l’editoriale La creazione di un giornale rivolto alla grande massa è una necessità nazionale? 1921, 29 gennaio Hitler è condannato dal tribunale di Monaco all’ammenda pecuniaria di 1000 marchi 1921, 3 febbraio Prima adunanza di massa nazionalsocialista al Circo Krone. Hitler parla sul tema “futuro o declino”. La bandiera con la svastica è esposta per la prima volta in pubblico 1921, 6 febbraio Hitler parla all’assemblea di protesta delle Leghe patriottiche davanti alla Feldherrnhalle 1921, 24 febbraio Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso lo Hofbräuhaus del primo anno di storia del movimento 1921, 28 febbraio Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista di Landshut sul tema “guerra mondiale e i suoi artefici” 1921, 6 marzo Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso il Circo Krone su “Londra e noi” 1921, 15 marzo Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso il Circo Krone su “statisti e criminali nazionali” 1921, 26 marzo Drexler, Streicher e Jung discutono a Zeitz di una possibile fusione tra i rispettivi movimenti con sede a Berlino. Hitler è contrario 1921, 8 aprile Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso il salone dello Hofbräuhaus di “risveglio tedesco” 1921, 3 maggio Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso il salone dello Hofbräuhaus di Erzberger e soci 1921, 6 maggio Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso il salone dello Hofbräuhaus di lavoratori e gioventù tedeschi 1921, 10 maggio Hitler parla ad Augusta su “Versailles e l’annientamento tedesco” 1921, 14 maggio Il presidente della Baviera Gustav von Kahr invita una delegazione nazista guidata da Hitler a uno scambio di vedute. Nella delegazione nazista è presente anche Rudolf Hess 1921, 24 maggio Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso il salone dello Hofbräuhaus di “rivoluzione dei lavoratori o degli ebrei” 1921, 31 maggio Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso il salone dello Hofbräuhaus di “lavoratori tedeschi e trattati di pace” 1921, giugno Appare l’edizione tedesca del libro di Henry Ford L’ebreo internazionale 1921, 2 giugno Assemblea nazionalsocialista di partito, dove si discute la fusione col Partito socialista tedesco
1921, 1° gennaio
XXIV Hitler si reca con Eckart e con Esser a Berlino per raccogliere finanziamenti per il “Völkischer Beobachter”. Qui è ospite dei coniugi Beckstein 1921, 26 giugno Il “Völkischer Beobachter” è nuovamente vietato. Al suo posto appare “Der Nationalsozialist” 1921, 2 giugno Bruno Wenzel fonda ad Hannover con Gustav Seifert il primo gruppo nazionalsocialista nella Germania del Nord 1921, 10 luglio Sotto la direzione di Otto Dickel si svolge ad Augusta una discussione con Streicher, Drexler e altri uomini circa un’unificazione di tutti i socialisti nazionali. Hitler ritorna subito da Berlino per esprimere il suo netto dissenso 1921, 11 luglio Hitler minaccia le dimissioni di fronte al comitato di partito 1921, 14 luglio Hitler invia al comitato di partito una lettera di 6 pagine con le motivazioni delle sue dimissioni 1921, 21 luglio Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso il Circo Krone sulla centralità di Monaco. Karl Harrer è cacciato dal partito. Rudolf Schüssler lascia il posto di gerente 1921, 22 luglio Il “Völkischer Beobachter” riprende le pubblicazioni 1921, 26 luglio Assemblea dei membri preparatoria nello Sterneckerbräu. Compromesso tra Drexler e Hitler grazie alla mediazione di Eckart. Hitler rientra nel partito con la tessera n. 3680 1921, 29 luglio All’assemblea straordinaria dei membri, Hitler è eletto Primo presidente su proposta di Drexler e ottiene poteri dittatoriali 1921, 3 agosto Fondazione della “Sezione ginnica e sportiva” (poi Sturmabteilung, Reparto d’assalto) del Partito nazionalsocialista, sotto la guida di Ulrich Klintzsch 1921, 4 agosto Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso il Circo Krone sul tema “La Russia sovietica morente” 1921, 11 agosto Dietrich Eckart diventa redattore-capo del “Völkischer Beobachter”, Alfred Rosenberg suo vice 1921, 12 agosto Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso il salone dello Hofbräuhaus di “protesta per il carovita e truffa ebraica” 1921, 19 agosto Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso il Saubräukeller di Rosenheim di “protesta per il carovita e truffa ebraica” 1921, 25 agosto Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso il Circo Krone di solidarietà internazionale come imbroglio mondiale ebraico 1921, 31 agosto Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso il Circo Krone di escrescenze popolari e dominio ebraico 1921, 12 settembre Gustav von Kahr si dimette dalla carica di presidente della Baviera. Anche Ernst Pöhner lascia la carica di presidente della polizia 1921, 14 settembre Assemblea della Lega bavarese al Löwenbräukeller di Monaco guidata da Otto Ballerstedt. Hitler e altri nazionalsocialisti interrompono l’assemblea e gettano Ballerstedt giù dal palco 1921, 16 settembre Hitler parla al Kindl-Keller sul tema “il paese, la Baviera e noi nazionalsocialisti” 1921, 17 settembre Il Partito nazionalsocialista organizza una campagna di volantinaggio illegale in tutta la città 1921, 21 settembre Hitler è arrestato per sospetta cospirazione (preparazione di un putsch) 1921, 22 settembre Hitler è rilasciato per mancanza di prove 1921, 30 settembre Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso il salone dello Hofbräuhaus di “opposizione al bolscevismo” 1921, 5 ottobre Hitler parla all’adunanza del Reparto d’assalto di Monaco 1921, 6 ottobre Il “Völkischer Beobachter” è nuovamente vietato (sino al 14 ottobre) 1921, 11 ottobre Nasce a Zwickau (Sassonia) la prima sede nazista al di fuori della Baviera 1921, 21 ottobre Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso il Circo Krone di “Alta Slesia e sacrificio del parlamento borsistico” 1921, 25 ottobre Hitler è convocato e interrogato dalla polizia sull’assemblea al Circo Krone 1921, 26 ottobre Hitler parla all’adunanza del Reparto d’assalto presso il ristorante Adelmann di Monaco 1921, 1° novembre Il Partito nazionalsocialista trasferisce la sua sede in Corneliusstrasse 12 1921, 5 giugno
XXV 1921, 4 novembre Assemblea di massa nazista presso il salone dello Hofbräuhaus. Scontri con i socialdemocratici 1921, 11 novembre Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso il salone dello Hofbräuhaus di minaccia della Repubblica 1921, 16 dicembre Hitler dichiara presso il tribunale commerciale di essere proprietario del partito del “Völkischer Beobachter” e di Franz Eher Verlag 1921, 2 dicembre Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso il salone dello Hofbräuhaus di ebreo come filantropo 1921, 8 dicembre Hitler parla a Berlino davanti al Nationalklub von 1919 (Club nazionale del 1919) 1921, 16 dicembre Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso il salone dello Hofbräuhaus di “donna tedesca ed ebreo” 1921, 28 dicembre Hitler parla all’assemblea dell’Associazione nazionalsocialista dell’Austria tedesca al vecchio municipio di Vienna 1921, 31 dicembre I membri del partito ammontano a circa 6.000 unità 1922, 9 gennaio 1922, 12 gennaio 1922, 29 gennaio 1922, 30 gennaio 1922, 2 febbraio 1922, 14 febbraio 1922, 17 febbraio 1922, 18 febbraio 1922, 23 febbraio 1922, 24 febbraio 1922, 1° marzo 1922, 8 marzo 1922, 17 marzo 1922, 29 marzo 1922, aprile 1922, 2 aprile 1922, 5 agosto 1922, 20 aprile 1922, 13 maggio 1922, 17 maggio 1922, 29 maggio 1922, 5 giugno 1922, 14 giugno 1922, 17 giugno
Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso il salone dello Hofbräuhaus Hitler, Esser, Körner e altri nazisti sono condannati dal tribunale popolare di Monaco a 3 mesi di reclusione per disturbo della quiete pubblica (assemblea del 14 settembre scorso) Assemblea ordinaria generale dei membri di partito presso il salone dello Hofbräuhaus. Dal 24 febbraio 1920 il partito ha tenuto 81 adunanze pubbliche a Monaco ed è cresciuto sino a 6.000 membri Discorso conclusivo di Adolf Hitler nel salone dello Hofbräuhaus Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso il Circo Krone di “Germania nella sua più profonda umiliazione” Sorge il gruppo locale nazista a Berchtesgaden Il governo bavarese discute dell’espulsione di Adolf Hitler Hitler, Esser, Körner e altri nazisti condannati il 12 gennaio per disturbo della quiete pubblica ottengono uno sconto della pena Hitler parla nel salone dello Hofbräuhaus Hitler tiene un discorso celebrativo per l’anniversario di partito presso il Bürgerbräukeller Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso il salone dello Hofbräuhaus di “lotta di classe e truffa di borsa” Hitler si reca a Berlino per raccogliere fondi per il giornale e per ampliare i suoi contatti. È fondato lo Jugendbund der Nationalsozialistischen Deutschen Arbeiterpartei (Lega giovanile del Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori) Il ministero dell’interno bavarese Franz Scheyer discute coi leader di partito sull’espulsione di Hitler, ma non c’è concordanza di vedute Hitler rientra a Monaco Max Amann assume la guida del Franz Eher Verlag e del “Völkischer Beobachter” Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso il salone dello Hofbräuhaus Il presidente bavarese Hugo von Lechenfeld-Köfering lascia intendere a Hitler che la sua presenza è “tollerata” in Baviera Si festeggia per la prima volta il compleanno di Hitler fra alcuni membri di partito Adolf Lenk fonda nel Bürgerbräukeller lo Jungsturm Adolf Hitler (Assalto giovanile Adolf Hitler) Hitler si reca nuovamente a Berlino Hitler parla al “Club nazionale” di Berlino del Partito nazionalsocialista tedesco Hitler tiene la seconda conferenza davanti al “Club nazionale” di Berlino Consultazioni a Monaco fra Ludendorff, von Kahr, von Epp, Pittinger e Hitler Hitler parla all’adunanza dell’Associazione nazionalsocialista dell’Austria tedesca presso il salone Sofia di Vienna di “nazionalsocialismo e Germania avvenire”
XXVI Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso il Circo Krone di “veridicità come fondamento dell’agire politico” 1922, 24 giugno Hitler sconta la sua pena per disturbo della quiete pubblica nel penitenziario di Monaco-Stadelheim 1922, 27 luglio Rilascio anticipato di Hitler 1922, 28 luglio Hitler parla al Bürgerbräukeller di libero Stato e asservimento 1922, 7 agosto Hitler parla nel salone dello Schmeroldkeller di Passau di “socialismo nazionale come futuro della Germania” 1922, 11 agosto Hitler parla al Bürgerbräukeller di rincaro e dei suoi responsabili 1922, 16 agosto Prima grande marcia all’aperto del Reparto d’assalto in Königsplatz a Monaco in occasione della manifestazione di protesta delle Leghe patriottiche contro la legge per la difesa della Repubblica 1922, 25 agosto Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso il Kindl-Keller dopo il divieto comminato alla manifestazione di protesta delle Leghe patriottiche 1922, 28 agosto Il progetto di putsch “Lega Baviera e Paese”, con a capo Otto Pittinger e Hitler, non ottiene il consenso dell’esercito 1922, 10 settembre Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista nella sala dello Schaftlerbräu di Bad Tölz 1922, 23 settembre Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso il Müllerbräu a Pfaffenhofen sull’Inn di “socialismo nazionale e futuro della Germania” 1922, 1° ottobre Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista di Egern 1922, 5 ottobre Trasformazione del Reparto d’assalto da servizio d’ordine a lega difensiva. I suoi membri sono addestrati e armati dall’esercito 1922, 8 ottobre Streicher decide di lasciare il Partito socialista tedesco per aderire al Partito nazionalsocialista 1922, 12 ottobre Hitler discute nel “Club nazionale” con i nazionalsocialisti del Nord, con membri delle Leghe patriottiche unite di Germania e con membri dello Stahlhelm. Primo incontro con Hermann Göring 1922, 14 ottobre Ottocento uomini del Reparto d’assalto si recano con Hitler alla “Giornata tedesca” di Coburgo 1922, 15 ottobre Hitler incontra a Coburgo Carl Eduard di Sassonia-Coburgo-Gotha 1922, 20 ottobre Streicher crea il gruppo locale nazionalsocialista di Norimberga 1922, 22 ottobre Hitler incarica Otto Gahr e Maria Auer di preparare gli stendardi del Reparto d’assalto 1922, 25 ottobre Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso il salone dello Hofbräuhaus di “Germania e parlamentarismo” 1922, 2 novembre Dimissioni del governo di Hugo von Lechenfeld 1922, 8 novembre Nuovo governo bavarese sotto la guida di Eugen von Knilling 1922, 9 novembre Le leghe di destra bavaresi si uniscono nei Vereinigte Vaterländische Verbände Bayern (Leghe patriottiche unite di Baviera) 1922, 15 novembre Il partito nazista è vietato in Prussia, poi Sassonia, Turingia e Schaumburgo-Lippe 1922, 16 novembre Hitler aderisce all’Arbeitsgemeinschaft der Vaterländischen Verbände (Gruppo di lavoro delle leghe patriottiche) 1922, 19 novembre Malgrado il divieto di associazione, sorge a Berlino il Partito grande-tedesco dei lavoratori guidato da Gerhard Rossbach, leader dei Corpi franchi 1922, 21 novembre Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso il Salvadorenkeller di “successo nazista” 1922, 30 novembre Cinque manifestazioni del “movimento hitleriano” a Monaco sul tema “Il tracollo del del marxismo nella prassi” 1922, 3 dicembre Hitler parla all’adunanza della Lega giovanile nazista presso la locanda Belvedere di Monaco di “dovere, fedeltà e obbedienza” 1922, 8 dicembre Hitler tiene nella palestra di Traunstein un discorso sul tema “Chi ci può salvare”? 1922, 13 dicembre Il Partito nazionalsocialista organizza dieci manifestazioni di massa in dieci diverse birrerie della città di Monaco 1922, 17 dicembre Hitler parla alla festa natalizia del partito presso il Bürgerbräukeller di Monaco 1922, 22 giugno
XXVII 1922, 25 dicembre Hitler trascorre il giorno di Natale con Eugenie Haug presso il funzionario delle ferrovie Theodor Lauboeck e signora 1922, 31 dicembre Nell’anno solare sono stati creati sessanta gruppi locali dentro e fuori della Baviera. Il numero dei membri del partito ammonta a circa 20.000 unità 1923, 3 gennaio 1923, 10 gennaio 1923, 11 gennaio 1923, 14 gennaio 1923, 18 gennaio 1923, 25 gennaio 1923, 26 gennaio 1923, 27 gennaio 1923, 29 gennaio 1923, 4 febbraio 1923, 8 febbraio 1923, 10 febbraio 1923, 20 febbraio 1923, 26 febbraio 1923, 1° marzo 1923, 10 marzo 1923, 11 marzo 1923, 13 marzo 1923, 14 marzo 1923, 23 marzo 1923, 25 marzo 1923, 6 aprile 1923, 13 aprile 1923, 17 aprile 1923, 20 aprile 1923, 23 aprile 1923, 24 aprile 1923, 27 aprile 1923, 29 aprile
Hitler parla al “Colosseo” di Norimberga del concetto di “nazionalpopolare” Il Partito grande-tedesco dei lavoratori è vietato a Berlino Assemblea di massa nazista nel Circo Krone contro i “criminali novembrini” Hitler si rifiuta di parlare davanti alle Leghe patriottiche unitarie di Baviera Adunanza al Circo Krone, dove Hitler parla insieme al minatore inglese Henry Beamish Hitler promette al generale Otto von Lossow un contegno tranquillo durante il congresso di partito Hitler promette un contegno tranquillo al presidente della polizia durante il congresso di partito Prima giornata nazionale del partito nazista a Monaco (27-29 gennaio) Assemblea generale dei membri di partito nell’edificio del circo sul Campo di Marte Ernst Röhm ordina la fusione del Reparto d’assalto e delle altre leghe difensive bavaresi nell’Arbeitsgemeinschaft der Vaterländischen Kampfverbände (Gruppo di lavoro delle leghe patriottiche combattenti) Il “Völkischer Beobachter” diventa quotidiano con cinque colonne. Il direttore è Dietrich Eckart Rossbach passa coi suoi sostenitori alla Deutschvölkische Freiheitspartei (Partito nazionalpopolare tedesco della libertà) Hitler parla davanti al Nationalverband deutscher Offiziere (Lega nazionale degli ufficiali tedeschi) di “volontà di resistenza e opposizione attiva” Hitler parla al Löwenbräukeller di Monaco sul tema “studente e lavoratore tedeschi come portatori dell’avvenire” Hermann Göring diventa il capo del Reparto d’assalto a Monaco Hitler sostituisce Dietrich Eckart alla guida del “Völkischer Beobachter” con Alfred Rosenberg Hitler incontra il generale Hans von Seeckt al ministero della guerra bavarese Accordo fra le diverse leghe combattenti patriottiche bavaresi, sotto la guida del tenente colonnello Hermann Kriebel Il tribunale di Stato di Lipsia conferma il divieto del partito nazista in Prussia, Sassonia, Baden, Mecklenburgo-Schwerin, Amburgo e Brema Il ministero dell’interno prussiano proibisce il Partito nazionalpopolare tedesco della libertà Nel parco Forsterrieder di Monaco avviene l’esercitazione militare delle leghe combattenti del Gruppo di lavoro, organizzata da Ernst Röhm Hitler parla al Löwenbräukeller di Monaco sul tema “il movimento nazionalsocialista, i funzionari e gli impiegati statali” Hitler parla al Circo Krone di ebraismo cosmopolita e borsa mondiale quali responsabili della guerra mondiale Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso il Circo Krone di “trattato di pace di Versailles come eterna maledizione della Repubblica novembrina” Il compleanno di Hitler è festeggiato nel Circo Krone con la musica militare e con la parata del Reparto d’assalto Emil Maurice accompagna Hitler, la sorella Paula e Christian Weber per la prima volta a Berchtesgaden Julius Streicher fonda il periodico “Der Stürmer” (L’assalitore) Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso il Circo Krone di “paradiso degli ebrei o Stato popolare tedesco” Il Partito nazionalsocialista è vietato anche in Assia
XXVIII Marcia del Reparto d’assalto e delle leghe patriottiche sull’Oberwiesenfeld di Monaco Hitler parla al Circo Krone della “capitolazione di Cuno” Hitler parla a un’adunanza nazista presso la sala del Colosseo di Erlangen Leo Schlageter è giustiziato dai francesi nei pressi di Düsseldorf. Diverrà uno dei martiri più popolari del nazismo 1923, 1° giugno Hitler parla al Circo Krone sul tema “incudine o martello” 1923, 10 giugno Manifestazione a favore di Leo Schlageter in Königsplatz a Monaco 1923, 17 giugno Hitler parla a un’adunanza nazista presso lo Schmeroldkeller di Passau 1923, 27 giugno Hitler parla alla compagnia d’assalto “Schlageter” del Partito nazionalsocialista in occasione dell’anniversario della morte 1923, 1° luglio Hitler parla a Berchtesgaden sul tema “il futuro del nostro popolo” 1923, 8 luglio Hitler parla a un’adunanza nazista nell’Exerzierhalle di Ingolstadt 1923, 15 luglio La polizia di Monaco impedisce un corteo di Reparto d’assalto e Partito nazionalsocialista in occasione della festa ginnica tedesca 1923, 25 luglio Hitler parla al Bürgerbräukeller in occasione di una “cerimonia tedesca” della I Compagnia del Reparto d’assalto 1923, 1° agosto Hitler parla al Circo Krone di “carovita, Repubblica e pericolo fascista” 1923, 14 agosto Hitler parla al congresso di partito dei nazionalsocialisti austriaci di Salisburgo 1923, 20 agosto Max Amann stringe un accordo commerciale col produttore di caffè berlinese Richard Frank 1923, 28 agosto Il “Völkischer Beobachter” appare per la prima volta nell’inusuale grande formato a sei colonne 1923, 30 agosto Hitler visita la villa Schönberg di Zurigo, ospite di Ulrich Wille, dove parla a una dozzina di ospiti del Club nazionale 1923, 1° settembre A Norimberga inizia la “Giornata tedesca” delle leghe patriottiche. Fondazione del Deutscher Kampfbund (Lega combattente tedesca) come organizzazione di controllo del Gruppo di lavoro 1923, 2 settembre Parata in Marktplatz di Norimberga delle leghe patriottiche 1923, 12 settembre Hitler parla all’adunanza nazionalsocialista presso il Circo Krone del tracollo della Repubblica novembrina e della missione nazista 1923, 16 settembre A Hof ha luogo un’altra “Giornata tedesca”, cui partecipano circa 75.000 membri delle leghe patriottiche combattenti 1923, 18 settembre Hitler si reca a Berlino 1923, 20 settembre Hitler ritorna a Monaco 1923, 23 settembre Hitler propone ai leader della Lega combattente la creazione di una dittatura e di un esercito nazionali a Monaco sotto la guida di Ludendorff 1923, 26 settembre Gustav von Kahr ottiene poteri dittatoriali in Baviera e proibisce le 14 manifestazioni di massa naziste in programma 1923, 27 settembre Von Kahr fa sciogliere i reparti di sicurezza socialdemocratici 1923, 30 settembre Inizia la “Giornata tedesca” di Bayreuth. Hitler incontra Houston Stewart Chamberlain e la famiglia Wagner 1923, 1° ottobre Hitler visita per la prima volta Villa Wahnfried a Bayreuth 1923, 2 ottobre In un’intervista a “The Daily Mail” Hitler si definisce come il “Mussolini tedesco” 1923, 19 ottobre Von Kahr rifiuta di proibire il “Völkischer Beobachter” e di destituire il comandante distrettuale von Lossow, disobbedendo a un ordine del presidente della Repubblica Ebert e del generale Hans von Seeckt 1923, 28 ottobre Hitler e il partito proibiscono una marcia del Reparto d’assalto con esercitazioni militari 1923, 4 novembre Nel giorno dei morti, presso il museo dell’esercito di Monaco, il principe ereditario Ruprecht, il generale Otto von Lossow e altri generali partecipano a una sfilata delle truppe attive e volontarie 1923, 6 novembre Gustav von Kahr, Otto von Lossow e il comandante della polizia regionale Hans von Seisser discutono coi rappresentanti delle leghe patriottiche circa il proseguimento della lotta contro il governo centrale di Berlino
1923, 1° maggio 1923, 4 maggio 1923, 17 maggio 1923, 26 maggio
XXIX 1923, 7 novembre Hitler decide con Göring, Weber, Kriebel, Scheubner-Richter, Pöhner e Frick di effettuare il colpo di Stato per il giorno successivo 1923, 8 novembre Hitler irrompe nella sala del Bürgerbräu dove Kahr teneva un discorso. Discute con Kahr, Lossow e Seisser del suo progetto di “governo nazionale”. Hitler lascia il locale, ma Ludendorff consente agli altri congiurati di tornare nei loro uffici 1923, 9 novembre Hitler marcia sicuro verso la Feldherrnhalle, ma avviene uno scontro a fuoco con la polizia. Muoiono 16 nazisti e 4 poliziotti. Hitler è ferito. Il partito e il giornale sono sciolti 1923, 11 novembre Hitler è arrestato dalla polizia e tradotto nella fortezza di Landsberg am Lech. Sono arrestati anche Pöhner, Weber, Röhm, Frick, Amann, Hühnlein, Brückner, Heines, Maurice, Gregor Strasser, Fiehler, Hewel, Kaufmann e altri 1923, 15 novembre Anche Eckart è arrestato e tradotto a Landsberg 1923, 19 novembre Hitler confessa allo psicologo della prigione Alois Ott le sue idee suicide 1923, 24 novembre Drexler persuade Hitler, con l’aiuto dell’avvocato Lorenz Roder, a desistere dai suoi progetti suicidi 1923, 1° dicembre Una sottoscrizione di personalità di Bayereuth (tra cui la famiglia Wagner) chiede il rilascio di Hitler 1923, 13 dicembre Hans Ehard, procuratore di Stato, interroga Hitler in prigione 1923, 20 dicembre Eckart è rilasciato dalla prigione a causa delle sue pessime condizioni di salute 1923, 26 dicembre Eckart muore all’età di 55 anni Alfred Rosenberg annuncia la creazione della Grossdeutsche Volksgeimeinschaft (Comunità nazionalpopolare grande-tedesca) come sostitutiva delle attività naziste 1924, 6 gennaio Alexander Glaser, Rudolf Xylander e Rudolf Bultmann creano il Völkischer Block (Blocco nazionalpopolare) di Baviera 1924, 12 agosto Julius Streicher è imprigionato per il tentativo di ricreare sotto altro nome il Partito nazionalsocialista 1924, 15 gennaio La Comunità nazionalpopolare grande-tedesca si registra ufficialmente come organizzazione 1924, 19 gennaio Julius Streicher è tradotto a Landsberg per la partecipazione al putsch di novembre 1924, 22 febbraio Adolf Hitler e gli altri accusati sono trasferiti nel carcere giudiziario di Monaco 1924, 26 febbraio Inizia il processo per alto tradimento da frante al tribunale popolare di Monaco per Hitler e altri 9 accusati 1924, 27 febbraio Julius Streicher è rilasciato dalla prigione di Landsberg 1924, 1° marzo Adolf Hitler, Ernst Röhm, Christian Weber e Wilhelm Brück sono interrogati dal procuratore di Stato 1924, 27 marzo Nel discorso conclusivo del processo, Hitler si definisce come “tamburino” del movimento nazionalpopolare 1924, 1° aprile Hitler è condannato per alto tradimento a 5 anni di reclusione con la prospettiva di condono dopo 6 mesi e di una pena pecuniaria di 200 marchi oro. Ludendorff è assolto. Röhm e Frick sono rilasciati in libertà condizionale 1924, 5 aprile Hitler incarica Hermann Göring tramite la moglie Carin di prendere contatti con Mussolini 1924, 6 aprile Gregor Strasser è rilasciato dalla prigione di Landsberg ed è eletto nel Landtag bavarese per il Blocco nazionalpopolare 1924, 20 aprile Hitler riceve numerosi regali per il suo compleanno 1924, 22 aprile Ernst Röhm è congedato dall’esercito per la partecipazione al putsch di novembre ed è condannato a 15 mesi di prigione con la condizionale 1924, 4 maggio Seconde elezioni politiche del Reichstag. La lista comprendente i nazionalsocialisti e il Partito nazionalpopolare tedesco della libertà ottiene 32 mandati (22 il secondo). Nasce il gruppo parlamentare della Nationalsozialistische Freiheitspartei (Partito nazionalsocialista della libertà), guidato da Albrecht von Graefe 1924, 1° gennaio
XXX Convegno del Reparto d’assalto a Salisburgo. Röhm si impone come nuovo capo e redige le nuove linee guida per la ricostruzione delle S.A. 1924, giugno Appare il primo numero della rivista di Alfred Rosenberg “Der Weltkampf” (La battaglia mondiale). Hitler inizia a lavorare al Mein Kampf 1924, 2 giugno Il partito nazionalsocialista e il partito comunista provocano disordini nel Reichstag 1924, luglio Heinrich Himmler inizia a lavorare per Gregor Strasser a Landshut 1924, 9 luglio Assemblea generale della Comunità nazionalpopolare grande-tedesca, presieduta da Streicher ed Esser 1924, 20 luglio Convegno dei funzionari nazionalsocialisti a Weimar sotto la presidenza di Röhm e Rosenberg. È discusso il proseguimento dell’alleanza con il Partito nazionalpopolare tedesco della libertà 1924, 15 agosto Inizia il congresso partitico unitario della Comunità popolare grande-tedesca e del Partito nazionalpopolare tedesco della libertà a Weimar 1924, 18 agosto I nazionalpopolari e i nazionalsocialisti si uniscono nella Nationalsozialistische Freiheitsbewegung (Movimento nazionalsocialista della libertà), guidata da Ludendorff, von Graefe e Strasser 1924, 28 agosto Per aggirare il divieto del Reparto d’assalto, Röhm crea il Frontbann (Fascino del fronte) 1924, 18 settembre Otto Leybold, direttore della fortezza di Landsberg, consiglia al ministero di giustizia bavarese il rilascio di Hitler 1924, 22 settembre Il ministero di giustizia consiglia di soprassedere al rilascio per il 1° ottobre 1924, 6 ottobre L’Alto tribunale regionale nega il rilascio a Hitler 1924, 7 dicembre Terze elezioni politiche del Reichstag. Il Gruppo di lavoro nazionalpopolare e i nazionalsocialisti, riuniti nel Movimento nazionalsocialista della libertà, poi Deutschvölkische Freiheitsbewegung (Movimento nazionalpopolare della libertà), ottiene solo 14 mandati. I nazionalsocialisti ottengono 11 seggi nel Landtag prussiano 1924, 19 dicembre Otto Leybold comunica a Hitler che il governo bavarese ha concesso il rilascio per il giorno successivo 1924, 20 dicembre Hitler lascia la prigione di Landsberg 1924, 24 dicembre Hitler visita Ernst Hanfstaengl, al quale confessa di voler diventare vegetariano e di smettere di fumare 1924, 17 maggio
1925, 4 gennaio 1925, 27 gennaio 1925, 31 gennaio 1925, 12 febbraio 1925, 16 febbraio 1925, 27 febbraio
1925, 28 gennaio 1925, 9 marzo 1925, 11 marzo 1925, 12 marzo
Con la mediazione di Theodor von Camer-Klett, Hitler è ricevuto dal presidente bavarese Heinrich Held. Gli promette di aver imboccato la via legalitaria e di sostenerlo nella lotta contro il comunismo Emil Maurice, l’autista di Hitler, è rilasciato dalla fortezza di Landsberg Anton Drexler è congedato dall’esercito per via della sua attività politica Erich Ludendorff lascia ufficialmente la guida del Movimento nazionalsocialista della libertà insieme ad Albrecht von Graefe e a Gregor Strasser È abrogato il divieto bavarese contro il Partito nazionalsocialista. Il “Völkischer Beobachter” riprende le sue pubblicazioni in Baviera sotto la guida di Alfred Rosenberg. Hitler comunica di voler rifondare il partito Rifondazione del Partito nazionalsocialista con una manifestazione presso il Bürgerbräukeller di Monaco. La rifondazione accelera lo scioglimento di altre organizzazioni nazionalpopolari, come molti gruppi locali del Blocco nazionalpopolare Hitler convince Ludendorff a presentarsi alle prossime elezioni presidenziali come candidato nazista Il governo bavarese impone il divieto di parola a Hitler a seguito di alcune affermazioni fatte il 27 febbraio in occasione della rifondazione del partito Hitler incarica Gregor Strasser di organizzare la costruzione del partito nella Germania nord-occidentale Scioglimento della Comunità nazionalpopolare grande-tedesca e affluenza nel nuovo partito nazionalsocialista
XXXI Hitler discute a Berlino, con i rappresentanti del Partito nazionalpopolare tedesco della libertà, della candidatura di Ludendorff alle elezioni presidenziali 1925, 14 marzo Hitler certifica la fondazione del Gau di Berlino 1925, 15 marzo Fondazione del Gau di Slesia 1925, 22 marzo Fondazione del Gau di Mecklenburgo-Lubecca 1925, 24 marzo Riprende la pubblicazione del periodico “Der Stürmer” 1925, 25 marzo Fondazione del Gau di Baden 1925, 27 marzo Fondazione del Gau di Schleswig-Holstein 1925, 29 marzo Al primo turno delle elezioni presidenziali Ludendorff ottiene solo l’1,06% dei consensi e lascia il partito nazionalsocialista 1925, 2 aprile Julius Streicher diventa Gauleiter di Franconia 1925, 10 aprile Hitler sostiene sul “Völkischer Beobachter” la candidatura di Paul von Hindenburg alle elezioni presidenziali 1925, 11 aprile Ernst Pöhner muore a seguito di un incidente stradale 1925, 16 aprile Hitler discute con Röhm circa la struttura futura del Reparto d’assalto 1925, 19 aprile Hitler parla a Rosenheim 1925, 24 marzo Il Partito nazionalsocialista organizza cinque manifestazioni parallele a Monaco, ma la polizia rinnova il divieto di parola contro Hitler 1925, 27 aprile Hitler chiede la revoca della cittadinanza austriaca al magistrato di Linz 1925, 30 aprile Il Consolato generale austriaco di Monaco riceve dal tribunale regionale di Linz la comunicazione che Hitler è apolide 1925, 1° maggio Röhm rinuncia alla guida del Reparto d’assalto e del Fascino del fronte per differenza di vedute con Hitler 1925, 4 giugno Il Partito nazionalsocialista trasferisce la sua sede in Schellingstrasse 50 1925, 24 giugno Inaugurazione della nuova sede del partito 1925, 10 luglio Gregor Strasser inizia l’organizzazione del nazionalsocialismo nel Nord della Germania 1925, 12 luglio Hitler incontra per la prima volta Joseph Goebbels al convegno di partito di Weimar 1925, 18 luglio Eher Verlag pubblica il primo volume del Mein Kampf (Resa dei conti) con una tiratura di 10.000 esemplari 1925, 25 luglio Hitler e Streicher parlano a un’adunanza di Rosenheim 1925, 4 agosto Assemblea dei capi di sezione nazisti a Monaco. Hermann Esser è nominato capo della propaganda in tutto il paese 1925, 10 settembre Fondazione ad Hannover della Arbeitsgemeinschaft Nordwest (Gruppo di lavoro nordoccidentale), sotto la guida di Gregor Strasser 1925, 24 settembre I nazionalsocialisti si separano nel Landtag bavarese dal “Blocco nazionalpopolare” e creano un proprio gruppo 1925, 25 settembre Divieto di parola per Hitler in Prussia 1925, 27 settembre Karl Kaufmann diventa Gauleiter della Renania settentrionale 1925, 1° ottobre Appare il primo numero delle “Nationalsozialistische Briefe” (Lettere nazionalsocialiste) a cura di Gregor Strasser 1925, 24 ottobre Le proteste di Goebbels e Julius Streicher portano a scontri di strada a Dortmund 1925, 30 ottobre Divieto di parola per Hitler in Anhalt 1925, 6 novembre Hitler parla ad Hannover e incontra per la seconda volta Goebbels 1925, 9 novembre Julius Schreck diventa capo federale delle Schutzstaffeln (Squadre di protezione, SS), mentre Maurice è il suo vice 1925, 20 novembre Hitler parla al convegno dei capi di partito a Plauen 1925, 22 novembre Conferenza ad Hannover dei Gauleiter del Gruppo di lavoro nord-occidentale. Gregor Strasser elabora un nuovo programma di partito all’insaputa di Hitler 1925, 2 dicembre Appare la seconda tiratura del Mein Kampf in altri 10.000 esemplari 1925, 8 dicembre Fondazione del Nationalsozialistischer Deutscher Studentenbund (Lega nazionalsocialista tedesca degli studenti), guidato da Wilhelm Tempel 1925, 31 dicembre Il nuovo Partito nazionalsocialista conta circa 27.000 membri 1925, 13 marzo
XXXII 1926, 24 gennaio Incontro dei Gauleiter del Gruppo di lavoro nord-occidentale ad Hannover. Feder rappresenta Hitler. Discussione sul nuovo programma di partito che affronti il problema del latifondo e della statalizzazione delle società per azioni 1926, febbraio Divieto di parola per Hitler in Sassonia e in Oldenburgo 1926, 14 febbraio Convegno dei capi di partito a Bamberga. Hitler si oppone alla sinistra capeggiata da Gregor Strasser e da Joseph Goebbels. Il programma del 1920 è ritenuto inviolabile. L’esproprio principesco è descritto come una “razzia ebraica” 1926, 28 febbraio Hitler parla ad Amburgo all’incontro del “Club nazionale del 1919” 1926, marzo Hitler riceve il divieto di comizio a Lippe e a Lubecca 1926, 7 marzo Goebbels assume la guida della propaganda nel Gau di Renania-Vestfalia, Karl Kaufmann si occupa del personale, Franz Felix Pfeffer von Salomon dell’organizzazione e del Reparto d’assalto 1926, 20 marzo Fondazione del gruppo berlinese del Reparto d’assalto con a capo Kurt Daluege 1926, 24 marzo Josef Bürckel è nominato Gau della Renania-Palatinato 1926, 8 aprile Hitler invita Goebbels, Kaufmann e Pfeffer von Salomon a Monaco per cercare di eliminare le divergenze di vedute. Il tribunale regionale di Monaco abbrevia la condizionale a 2 anni 1926, 16 aprile Hitler discute a Monaco con Goebbels di politica orientale e occidentale 1926, 22 maggio Revoca del diritto di parola in Oldenburgo. L’assemblea generale dei membri di partito nel Bürgerbräukeller stabilisce che Hitler ha i pieni poteri di nominare e di destituire i Gauleiter 1926, 9 giugno Josef Berchtold assume la guida delle Squadre di protezione. Hitler diventa il primo capo federale delle S.S. 1926, 15 giugno Hitler parla a porte chiuse in un’assemblea dei membri di Bochum 1926, 16 giugno Hitler parla a porte chiuse in un’assemblea dei membri di Essen 1926, 18 giugno Hitler parla agli industriali della Ruhr di politica economica del partito 1926, 20 giugno Karl Kaufmann diventa l’unico Gauileter della Ruhr. Ernst Schlange si dimette dall’ufficio di Gauleiter di Berlino 1926, 1° luglio Hitler elabora per iscritto le linee guida dei Gau e dei gruppi locali del partito 1926, 3 luglio Secondo convegno federale di partito a Weimar. Su consiglio di Streicher l’Assalto giovanile muta il nome in Hitlerjugend (Gioventù hitleriana). Hitler nomina Kurt Gruber primo capo federale della Gioventù hitleriana, nonché responsabile dei problemi della gioventù 1926, 4 luglio Hitler subordina le Squadre di protezione al Reparto d’assalto 1926, 7 luglio È fondato il Bund deutscher Arbeiterjugend (Lega tedesca dei giovani lavoratori) come organizzazione giovanile delle leghe combattenti nazionalsocialiste 1926, 22 luglio Hitler si intrattiene con Goebbels, Gregor Strasser e Bernhard Rust nell’Obersalzberg 1926, 10 agosto Il giurista Hans Frank lascia il partito per divergenze con Hitler sulla questione sudtirolese 1926, 12 agosto Hitler incontra a Passau la dirigenza dei nazionalsocialisti austriaci 1926, 5 settembre Muore Karl Harrer, primo presidente del Partito tedesco dei lavoratori 1926, 16 settembre Gregor Strasser è nominato da Hermann Esser nuovo capo della propaganda nazista in tutto il paese 1926, 1° ottobre Gregor Strasser comunica per iscritto lo scioglimento del Gruppo di lavoro nordoccidentale 1926, 2 ottobre Assemblea del Nationalsozialistischer Volksbund (Lega popolare nazionalsocialista) a Monaco 1926, 28 ottobre Hitler nomina Joseph Goebbels Gauleiter della Grande-Berlino 1926, 30 ottobre Elezioni regionali in Sassonia. Il Partito nazionalsocialista ottiene l’1,6% dei consensi e 2 mandati 1926, 1° novembre Franz Felix Pfeffer von Salomon è nominato capo supremo del Reparto d’assalto, al quale sono subordinate le Squadre di Protezione e la Gioventù hitleriana 1926, 5 novembre Goebbels incontra Hitler a Monaco e ottiene i pieni poteri per “conquistare” Berlino
XXXIII 1926, 9 novembre Fondazione del Gau di Berlino-Brandeburgo dalla fusione di quello della Grande-Berlino e di Potsdam, sotto la guida di Goebbels 1926, 11 novembre Assemblea generale dei membri nazisti a Berlino 1926, 26 novembre Il gruppo nazionalsocialista nel Landtag bavarese tenta senza successo di rimuovere il divieto di parola comminato a Hitler 1926, 28 novembre Scontri a Berlino fra il Reichsbanner Schwarz-Gold-Rot socialista e i nazionalsocialisti 1926, 3 dicembre Hitler parla a Essen di fronte agli industriali della Ruhr 1926, 5 dicembre Linee guida per i rapporti fra partito e Gioventù hitleriana 1926, 11 dicembre Eher Verlag pubblica il secondo volume del Mein Kampf (Il movimento nazionalsocialista). Entrambi i volumi saranno poi riuniti e venduti sino al 1945 in oltre 10 milioni di esemplari per un introito di oltre 25 milioni di marchi 1926, 18 dicembre Hitler parla alla festa natalizia del partito presso lo Hofbräukeller di Monaco 1926, 31 dicembre A fine anno il partito conta poco meno di 50.000 membri
La mia battaglia
I. Resa dei conti
Premessa
Il 1° aprile 1924 dovetti iniziare la mia reclusione nella fortezza di Landsberg am Lech per via della sentenza di condanna comminata dal tribunale popolare di Monaco1. In tal modo mi fu offerta, dopo anni di incessante lavoro, la prima opportunità di occuparmi di un’opera che molti richiedevano e che io stesso ritenevo opportuna per il futuro del movimento. Decisi quindi di non solo di spiegare in due volumi gli scopi del nostro movimento, ma anche di illustrarne il quadro evolutivo. Tutto questo era assai più istruttivo rispetto a qualsiasi trattazione puramente dottrinaria. Ebbi così l’opportunità di descrivere la mia maturazione personale, necessaria alla comprensione dei due volumi e al fine di distruggere l’immagine leggendaria negativa sulla mia persona offerta dalla stampa ebraica. Con quest’opera io non mi rivolgo agli estranei, ma ai membri del nostro movimento che avvertono un legame emotivo e che lottano con la ragione per un chiarimento più profondo. Io so che gli uomini si conquistano non tanto con la parola scritta, ma con la parola parlata, che ogni grande movimento di questo mondo deve la sua crescita ai grandi oratori e non ai grandi scrittori2. Bisogna tuttavia fissare un volta per tutte i punti essenziali della nostra dottrina. Questi due volumi devono fungere da pietre miliari alla nostra opera complessiva. L’autore
Dopo il putsch Hitler fu imprigionato dall’11 novembre 1923 al 20 dicembre 1924 nella fortezza di Landsberg am Lech, prima sotto custodia protettiva, poi dal 14 novembre sotto custodia cautelare, infine dal 1° aprile 1924 con l’entrata in vigore della condanna per alto tradimento. La pena di 5 anni e di 200 marchi oro di multa fu ridotta a 6 mesi per buona condotta. 2 Vedi capitolo 3-I. 1
Capitolo I. Nella casa dei genitori
Sinossi 1. Genesi Il capitolo 1-I, che doveva intitolarsi originariamente Come giunsi alla politica (secondo un volantino del giugno 1924), fu pensato inizialmente a se stante. La stesura deve essere stata molto faticosa, come dimostrano gli appunti conservati sulle prime quattro pagine. Hitler tenta di ridurre i riferimenti alle discusse origini paterne e di riallacciarsi alla parabola dei lavoratori della vigna contenuta nel Vangelo di Matteo (20,1-16): “gli ultimi saranno i primi e i primi saranno gli ultimi”1. 2. Contenuto Il capitolo 1-I descrive i primi anni di vita del giovane Adolf sino alla morte della madre nel 1907, caratterizzati dall’esistenza randagia paterna per via dell’impiego doganale e dal problema del futuro professionale. Hitler tenta di valorizzare la sua cittadina (Braunau sull’Inn, luogo natio di Johannes Palm), la figura paterna (Alois, descritto come un uomo dotato di forte volontà), il suo sentimento nazionalista e pantedesco, le sue inclinazioni artistiche e il suo interesse per la storia. Trapela inoltre la sua passione per il mondo operistico e per la liturgia cattolica. Già dalle prime pagine Hitler stilizza la differenza generazionale e politica tra il giovane studente e l’arcigno funzionario doganale austriaco: l’arte si contrappone alla vita, l’individualità alla serialità, il patriottismo tedesco alla fedeltà dinastica. La “malattia” salva il giovane Adolf dal percorso “seriale”, incarnato dalla Realschule (scuola tecnico-professionale): il rifiuto del mondo borghese (la tisi) è un espediente decadentistico per sfuggire al “soffocamento” paterno e per sognare una vita libera, artistica e “rivoluzionaria”. 3. Analisi Il motivo principale per cui Hitler decise di dedicare alcune pagine alla descrizione-confessione della sua infanzia e della sua adolescenza, è piuttosto chiaro: dimostrare la sua conversione al credo nazionalista già nei primi anni di vita (quelli fondamentali per l’orientamento intellettuale e morale di ogni ragazzo). Questo credo si basa non solo sull’opposizione alla vecchia casata asburgica (descritta come interessata unicamente alla sopravvivenza dinastica), ma anche, indirettamente, al progetto bismarckiano, ignaro, con la sua Realpolitik (realismo politico), della sorte del germanesimo disperso al di fuori dell’Impero. Entrambe le soluzioni della questione tedesca sembrano ignorare l’oggettosoggetto: il popolo tedesco. Inferire la scelta nazionalistica partendo dalla raccolta di sintomi, di spie: si affaccia dalle prime pagine del Mein Kampf il metodo genealogico o indiziario-divinatorio che caratterizza l’impianto dell’intero libro e, più in generale, la visione del mondo hitleriana. Partendo da un fenomeno strano e “insolito” (la mancata unione di tutti i tedeschi in un unico Stato), si elabora un’ipotesi di lettura (la mancanza di patriottismo) e poi si cercano una serie di conferme empiriche (la politica asburgica, lo 1
A. Hitler, Mein Kampf. Eine kritische Edition, a cura di C. Hartmann, T. Vordermeyer, O. Plöckinger e R. Töppel, Monaco-Berlino, Institut für Zeitgeschichte, 2016, vol. I, p. 91 [d’ora in avanti KA].
8 scarso senso della storia). L’architrave del sillogismo hitleriano è la “certezza” della premessa maggiore e la “probabilità” della premessa minore. Il “piccolo chirurgo-detective”, lettore vorace dei romanzi d’avventura di Karl May, dedica pagine importanti al conflitto con il padre, che è anche un conflitto logico-metodologico fra l’esperienza (la ragione) e l’intuizione (il sentimento). Alois ragiona in termini induttivi: siccome ha fatto certe esperienze che lo hanno portato a essere quello che è e ad avere un posto rispettabile nel mondo, il figlio deve seguire le sue “orme”. Adolf, invece, per vari motivi, ragiona diversamente: siccome scorge delle cose che non gli piacciono e che dipendono dalla mancanza di ideale (il mondo degli adulti è seriale, soffocante, sterile, ecc.), allora vuole cercare di diventare un’artista. Certo, qui si parla solo di “pittura”, di “decorazione” o di architettura (l’arte pubblica per eccellenza), non di politica in senso stretto. Ma è chiaro che il conflitto genitore-figlio stilizzato da Hitler segnerà il destino del futuro dittatore nazista. Un’ultima considerazione sulla disciplina della storia. Hitler cita le letture nella biblioteca paterna e l’insegnamento di Leopold Pötsch, che gli avrebbero trasmesso l’amore per la storia tedesca. La lezione di storia non è un “ammassare” dati, nozioni e nomi, ma scoprire e individuare le forze profonde che agiscono sui tempi presenti. Quella che dovrebbe essere un’elaborazione “probabilistica” e creativa (perché intuitiva) si basa su una serie di “indizi” (la stranezza della divisione dei tedeschi, l’esistenza di un Impero tedesco, la slealtà asburgica). Molti indizi possono (anzi devono) fare una “prova” che andrebbe poi vagliata alla ricerca di ulteriori conferme. Tuttavia la visione hitleriana accentua l’aspetto individualistico e “geniale” del pensiero retro-duttivo, anticamera del dogmatismo metafisico. Chi sa scovare l’essenziale, il “dettaglio” (come avrebbe detto Aby Warburg, ma prima di lui Julius Langbehn), può “vedere” il mondo e “avvicinarsi” a Dio. 4. Parole-chiave Arte, Asburgo, Austro-tedesco, Bismarck, Carattere nazionalpopolare, Esperienza interiore, Genio, Germanesimo, Malattia, Nazionalismo pantedesco, Istruzione, Storia. 5. Bibliografia essenziale - D. Bavendamm, Der junge Hitler. Korrekturen einer Biographie 1889-1914, Graz, Ares-Verlag, 2009; - A. Bullock, Hitler. Studio sulla tirannide, Milano, Res Gestae, 2014; - K. Burke, Die Rhetorik in Hitlers “Mein Kampf” und andere Essays zur Strategie der Überredung, Francoforte sul Meno, Suhrkamp, 1967; - D. Capozza, C. Volpato, Le intuizioni psicosociali di Hitler. Un’analisi del “Mein Kampf”, Bologna, Patron, 2004; - W. Carr, Hitler. Studio sul rapporto tra personalità e politica, Napoli, Liguori, 1985; - G. Corni, Hitler, Bologna, Il Mulino, 2007; - J. Fest, Hitler. Una biografia, traduzione di F. Saba Sardi, Milano, Garzanti 2005; - B. Hamann, Hitler. Gli anni dell’apprendistato, Milano, Corbaccio, 1998; - L. Herbst, Il carisma di Hitler. L’invenzione di un messia tedesco, traduzione di U. Gandini, Milano, Feltrinelli, 2011; - A. Hitler, Conversazioni a tavola, 1941-1944, ordinate e annotate da M. Bormann, prefazione di H. TrevorRoper, Gorizia, Libreria editrice goriziana, 2010; - F. Jeztinger, Hitlers Jugend. Phantasien, Lügen und die Wahrheit, Vienna, Europe-Verlag, 1956; - G. Keller, Der Schüler Adolf Hitler. Die Geschichte eines lebenslangen Amofklaufs, Berlino, Lit Verlag, 2010; - S.F. Kellerhoff, Il libro proibito di Hitler. Storia del Mein Kampf, Milano, Rizzoli, 2016; - I. Kershaw, Hitler, vol. 1: 1889-1936, Milano, Bompiani, 2003; - W.C. Langer, Psicanalisi di Hitler. Rapporto segreto del tempo di guerra, Milano, Garzanti, 1975; - P. Longerich, Hitler. Biographie, Monaco, Siedler Verlag, 2015;
9 - K. Mann, Karl May. Hitler’s literary mentor, in “Kenyon Review”, XI, 2, 1940, pp. 391-400; - W. Maser, Adolf Hitler, Roma, Ciarrapico, 1978; - A. Miller, La persecuzione del bambino. Le radici della violenza, traduzione di M.A. Massimello, Torino, Bollati Boringhieri, 2012; - C. Mulack, Klara Hitler. Muttersein im Patriarch, Rüsselheim sul Meno, Göttertverlag, 2005; - A. Musolff, Metaphor, nation and the Holocaust. The concept of the body politic, New York, Routledge, 2011; - B. Novak, Hitler and the abductive logic. The strategy of a tyrant, Lanham (Maryland), Lexington Books, 2014; - O. Plöckinger, Geschichte eines Buches. Adolf Hitlers “Mein Kampf”, 1922-1945. Eine Veröffentlichung des Instituts für Zeitgeschichte, Monaco, Oldenbourg, 2011; - Id., Quellen und Dokumente zur Geschichte von “Mein Kampf”, 1924-1945, Stoccarda, Franz Steiner Verlag, 2016; - W. Pyta, Hitler. Der Künstler als Politiker und Feldherr. Eine Herrschaftsanalyse, Monaco, Siedler Verlag, 2015; - F.J. Rash, The language of violence. Adolf Hitler’s “Mein Kampf”, New York, Peter Lang, 2006; - P.R. Range, La genesi del Mein Kampf. 1924: l’anno che cambiò la storia, Roma, Newton Compton, 2017; - R.G. Reuth, Hitler. Eine politische Biographie, Monaco, Piper, 2003; - R. Rosenbaum, Explaining Hitler. The search for the origins of his evil, seconda edizione, Boston (Massachusetts), Capo Press, 2014; - B. Schwarz, Geniewahn. Hitler und die Kunst, Vienna, Böhlau Verlag, 2009; - B.F. Smith, Adolf Hitler. His family, childhood, and youth, Stanford (California), Stanford University Press, 1967; - H. Steinhaus, Hitlers pädagogische Maximen. “Mein Kampf” und die Destruktion der Erziehung im Nationalsozialismus, Francoforte sul Meno, Peter Lang, 1981; - H. Stierlin, Adolf Hitler. Le influenze della famiglia, prefazione di A. Mitscherlich, Roma, NIS, 1993; - J. Toland, Adolf Hitler. The definitive biography, New York, Doubleday, 1976; - V. Ullrich, Adolf Hitler. Biographie, vol. 1: Die Jahre des Aufstiegs 1889-1939, Francoforte sul Meno, S. Fischer, 2013; - M. Vermeeren, De jeugd van Adolf Hitler 1889-1907 en zijn familie en voorouders, Soesterberg, Aspekt, 2007; - A. Viktine, “Mein Kampf”. Storia di un libro, traduzione di G. Zucca, Milano, Cairo, 2010; - S.O. Zalampas, Adolf Hitler. A psychological interpretation of his views on architecture, art and music, Bowling Green (Ohio), Bowling Green University Press, 1990 - W. Zdral, La famiglia Hitler, traduzione di C. Carosso, Torino, UTET libreria, 2008; - B. Zehnpfennig, Hitlers “Mein Kampf”. Eine Interpretation, Monaco, Fink, 2000; - R. Zitelmann, Hitler, Roma-Bari, Laterza, 1991.
Figura 1 Il piccolo Adolf Hitler [fonte: pinterest.com]
10 Il destino ha voluto che io nascessi, per una fortunata coincidenza, a Braunau sull’Inn2, cittadina situata al confine di due Stati tedeschi, la cui riunificazione è oggi per noi, giovani generazioni, un compito di vitale importanza. Il territorio austro-tedesco3 deve ritornare a essere un’unica madrepatria tedesca, e non certo per considerazioni puramente economiche. Dirò di più: anche se la riunificazione fosse economicamente insignificante o addirittura dannosa, dovrebbe comunque aver luogo. Stesso luogo, stesso sangue. Il popolo tedesco non avrà più alcun diritto di fare una politica coloniale4 finché non saprà includere tutti i suoi figli in un unico Stato. Finché i confini territoriali non comprenderanno anche solo l’ultimo tedesco e finché non potranno garantirne la sopravvivenza, il popolo ha il dovere morale di conquistare territori stranieri5. L’aratro diventerà una spada e dalle lacrime della guerra sarà prodotto il pane per sfamare i nostri figli6. Questa cittadina di confine, seppur così piccola, mi sembra il simbolo di una missione importante. Ma è di monito anche per un altro motivo. Da più di un secolo, Braunau, angolo invisibile e sciagurato, ha avuto il privilegio d’essere immortalata negli annali della storia tedesca. Nel momento di maggiore avvilimento della nostra patria vi cadde per la sua Germania, amata anche nella sventura, il norimberghese Johannes Palm, libraio, convinto nazionalista e nemico dei francesi7. Cocciutamente si era rifiutato di indicare i suoi complici, o meglio i principali responsabili. Proprio come Leo Schlageter8, anche Palm fu denunciato alla Francia da un collaborazionista. Fu un questore di Augusta a guadagnarsi questa triste palma9, fornendo il nuovo modello amministrativo nella persona del signor Severing10. Cittadina dell’Alta Austria nord-occidentale, al confine con la Baviera (di cui fece parte sino al 1779). L’espressione “Austria tedesca” indicava originariamente le zone germanofone dell’Impero austriaco. Il 12 novembre 1918 un gruppo di rivoluzionari proclamò ufficialmente la Repubblica dell’Austria tedesca, comprendente i territori germanofoni del vecchio impero asburgico. La nuova repubblica non fu mai riconosciuta dalle potenze vincitrici che, con il trattato di pace di Saint-Germain (settembre 1919), imposero il nome di Repubblica di Austria e vietarono esplicitamente l’unione con la Germania (articolo 88). Bibliografia: G. Marsico, Il problema dell’Anschluss austro-tedesco 1918-1922, Milano, Giuffrè, 1983. 4 Sul tema della politica coloniale tedesca vedi capitoli 4-I e 14-II. 5 Il tema del Lebensraum (spazio vitale) sarà affrontato più diffusamente nel capitolo 14-II. 6 Possibile allusione biblica a un passo del Libro di Isaia (2,4). 7 Johannes Palm (1768-1806), editore tedesco giustiziato durante le guerre napoleoniche a Braunau il 26 agosto 1806 per via del suo opuscolo antifrancese Deutschland in seiner tiefen Erniedrigung (La Germania nella sua profonda umiliazione). 8 Albert Leo Schlageter (1894-1923), militare tedesco volontario nel 1914, lottò coi Corpi franchi attivi nelle zone baltiche, nella Ruhr e nell’Alta Slesia nel primo dopoguerra. Durante l’occupazione franco-belga della Ruhr, fu autore di alcuni sabotaggi. Catturato il 7 aprile, fu processato e condannato a morte il 26 maggio 1923. Bibliografia: S. Zwicker, “Nationale Märtyrer”. Albert Leo Schlagater und Julius Fučik. Heldenkult, Propaganda und Erinnerungskult, Paderborn, Schöningh, 2006. 9 Allusione all’ufficiale di polizia Ferdinand von Andrian-Werbung, che però non denunciò Friedrich von Janisch, proprietario di una libreria dove furono trovate copie del testo di Palm, ma fu tratto di fronte a un tribunale civile di Monaco [KA, n. 10]. 10 Carl Severing (1875-1952), politico socialdemocratico tedesco, ministro degli interni prussiano dal novembre 1921 all’ottobre 1926, da sempre avversario politico dichiarato di Hitler. Le accuse di essere responsabile della morte di Schlageter spinsero Severing a imporre il Redeverbot (divieto di parola) di Hitler in Prussia dal settembre 1925 al settembre 1928. Bibliografia: T. Alexander, Carl Severing. Ein Demokrat und Sozialist in Weimar, Francoforte sul Meno, P. Lang, 1996, 2 voll. 2
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11 In questa cittadina sull’Inn illuminata dai raggi del martirio tedesco, bavarese di sangue, ma appartenente allo Stato austriaco, abitavano i miei genitori alla fine del 188011. Mio padre era un ligio funzionario statale, mentre mia madre una casalinga dedita alla cura amorevole dei suoi figlioli12. Ricordo ben poco di quegli anni, perché, poco tempo dopo, mio padre dovette lasciare l’amata cittadina di confine per spostarsi a valle dell’Inn, a Passau, in Germania.
Figura 2 Johannes Palm (a sinistra) e Albert Leo Schlageter (a destra) [fonte: wikipedia.de]
Persino il trasferimento di un funzionario doganale austriaco si definiva a quel tempo “migrazione”13. Poco dopo, mio padre si trasferì a Linz e andò in pensione. Ovviamente, ciò non significò “riposo” per l’anziano signore. Figlio di un piccolo proprietario assai povero, mio padre non aveva mai conosciuto la quiete nemmeno a casa sua. A soli tredici anni aveva fatto fagotto e aveva abbandonato il suo luogo natio: il Waldviertel14. Nonostante l’opinione sfavorevole degli “esperti” pensionati del villaggio, Alois si era recato a Vienna per impararvi un mestiere. Questo accadde intorno al 1850. Una triste decisione quella di mettersi in cammino verso l’ignoto con soli tre fiorini in tasca. Quando ebbe diciassette anni, mio padre sostenne l’esame di apprendistato, ma non fu soddisfatto. Anzi, il lungo periodo di miseria rafforzò in lui la decisione di rinunciare al mestiere imparato per cercare di meglio 15. Se prima il
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Alois Hitler (nato Schicklgruber, 1837-1903) e Klara Hitler (nata Pölzl, 1860-1907). Dei sei figli, solo due sopravvissero all’infanzia: Adolf e la sorella Paula (1896-1960). 13 Il trasferimento a Passau del 1892 era legato a una promozione. Alois Hitler restò al servizio della dogana austriaca, pur lavorando dal lato tedesco del confine [KA, n. 14]. 14 Regione nordoccidentale nella Bassa Austria. 15 Alois si formò a Vienna come calzolaio. Poi dal 1855 lavoro con funzionario di confine e dal 1864 come supervisore doganale [KA, n. 16].
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12 parroco incarnava l’ideale di un uomo di villaggio, nella città in rapida espansione quel posto spettava alla carica di funzionario statale. Con tutta la durezza di una persona maturata in un’infanzia difficile, il diciassettenne prese testardamente la decisione di diventare un funzionario. E ci riuscì, all’età di ventitré anni. Sembrava che ci fossero tutti i presupposti per il conseguimento di un altro sogno accarezzato già da tempo: non tornare nell’amato villaggio paterno senza esser diventato qualcuno. L’obiettivo fu raggiunto, ma nessuno nel villaggio si ricordava di quel ragazzino e a lui stesso il villaggio era diventato estraneo. Quando finalmente andò in pensione all’età di cinquantasei anni, mio padre non avrebbe tollerato di trascorrere neppure un giorno a oziare. Comprò un podere nelle vicinanze del mercato di Lambach, si mise a coltivarlo e ritornò così al mestiere paterno dopo una vita lunga e laboriosa16.
Figura 3 I genitori di Adolf: Alois Hitler e Klara Pölzl [fonte: wikipedia.en]
Fu proprio allora che andai elaborando i miei primi ideali. Ruzzolando all’aperto, percorrendo il lungo sentiero che conduceva alla scuola17, frequentando giovani di notevole possanza fisica (fonte di apprensione per mia madre), mi trasformai nell’esatto contrario di un pantofolaio. Se allora ero ben poco interessato al futuro, mi sentivo altrettanto lontano dal percorso paterno. Credo che il mio talento oratorio si formò più o meno consapevolmente nella contrapposizione con i miei compagni. Ero diventato una specie di caporione, che a scuola andava bene, ma ero un tipo scontroso. Dato che nel tempo libero prendevo lezioni di canto presso la corale di 16
Il giovane Adolf frequentò dal maggio 1895 la Volksschule di Fischlham (Lambach). Dopo il trasferimento a Leonding, frequentò la locale Volkschule. Dal 1900 frequentò la Realschule di Linz e dal 1904 quella di Steyr. 17 Sul valore dell’arte oratoria vedi capitolo 6-II.
13 Lambach, potevo inebriarmi con lo sfarzo delle splendide feste religiose18. Era naturale che vedessi nell’abate l’ideale più altamente desiderabile, esattamente come per mio padre lo era stato il piccolo curato di villaggio. Così fu almeno per un po’ di tempo. Anche se il signor padre non poteva apprezzare il talento oratorio del figliolo litigioso, né ci vedeva alcunché di positivo per il suo futuro, non poteva tuttavia nascondere una certa simpatia per quelle inclinazioni giovanili e osservava preoccupato il dissidio generazionale. In effetti l’aspirazione oratoria scemò ben presto, per far posto a ciò che meglio si addiceva al mio temperamento. Rovistando nella biblioteca paterna19, mi ero imbattuto in diversi libri di argomento militare, tra cui un’edizione popolare della guerra franco-tedesca del 1870-71. C’erano anche due volumi di una rivista illustrata di quegli anni, che divennero la mia lettura preferita. Non ci volle molto tempo prima che l’eroica battaglia diventasse la mia esperienza interiore più importante20. Da allora mi entusiasmai per tutto quello che riguardava la guerra o il mestiere delle armi. Ma quelle letture furono importanti anche per un altro motivo. Per la prima volta mi chiesi seriamente quale fosse la differenza fra i tedeschi che avevano combattuto in quelle battaglie e gli altri. Come mai gli austriaci non avevano preso parte alla guerra? Perché mio padre e gli altri non avevano combattuto? Non siamo forse anche noi tedeschi? Non apparteniamo allo stesso gruppo? Questo pensiero cominciava a frullare nella mia testolina. Con grande invidia appresi, a seguito di caute domande, che non tutti i tedeschi hanno la fortuna di appartenere al grande Impero di Bismarck. Ma non riuscivo a capirlo. Dovevo studiare. Stando alla mia natura e al mio temperamento, mio padre trasse la conclusione che un ginnasio umanistico non sarebbe stato adatto. Una Realschule21 gli sembrava più consona. La sua convinzione era rafforzata dal fatto che avevo una chiara predisposizione per il disegno; una disciplina che, a suo parere, era secondaria nel curricolo ginnasiale. A tale opinione aveva contribuito anche il duro lavoro di una vita: gli studi umanistici gli sembravano poco pratici e, quindi, poco degni di considerazione. In sostanza, mio padre era dell’opinione che anche il figlio dovesse essere un funzionario statale. Una difficile giovinezza gli faceva apprezzare enormemente quello che aveva raggiunto grazie a una ferrea volontà e a una straordinaria energia. L’orgoglio dell’uomo fattosi da sé lo persuadeva a voler condurre il figlio sulla stessa strada, se non in direzione di vette più elevate, in modo da agevolarne il percorso esistenziale con la sua esemplare diligenza. 18
Mentre si trovava a Fischlham, Hitler frequentò per breve tempo la scuola corale del monastero benedettino di Lambach. 19 L’esistenza di una biblioteca paterna non è supportata dalle fonti a nostra disposizione [KA, n. 25]. 20 Probabile allusione al saggio Der Kampf als inneres Erlebnis (La lotta come esperienza interiore, 1922) di Ernst Jünger, con cui Hitler ebbe uno scambio epistolare nei primi anni Venti. Bibliografia: E. Jünger, La battaglia come esperienza interiore, traduzione di S. Buttazzi, Prato, Piano B, 2014. 21 La Realschule era una scuola tecnica della durata di sei anni (dai 10 ai 16). Nel sistema scolastico austriaco, si caratterizzava per l’assenza del latino, per lo studio delle lingue straniere e per l’enfasi sulla formazione scientifico-matematico.
14 Mio padre non capiva perché io rifiutassi il senso della sua intera esistenza. Quindi la sua decisione era semplice, chiara, naturale e ovvia ai suoi occhi. Per una natura dispotica rafforzata dalla dura lotta per l’esistenza non era pensabile lasciare una simile decisione a un ragazzo così inesperto e irresponsabile. Gli sembrava una pessima e riprovevole debolezza nell’esercizio dell’autorità e della responsabilità paterne non decidere delle sorti future del proprio figliolo. Questo che non corrispondeva per nulla al suo senso del dovere. Ma le cose andarono diversamente. Fui spinto a oppormi per la prima volta all’età di appena undici anni. Se il padre era così duro e deciso nell’imporre i suoi progetti, il figlio era altrettanto ostinato e recalcitrante verso una prospettiva poco o per nulla allettante. Io non volevo diventare un funzionario. Non sortirono alcun effetto i suoi tentativi di persuasione, né i duri rimproveri ammorbidirono la mia resistenza. Ogni tentativo paterno di suscitare l’amore per il suo mestiere, attraverso la testimonianza della sua vita, ebbe l’effetto contrario. Ero profondamente nauseato dall’idea di essere imprigionato in un ufficio, di non essere padrone del mio tempo e di passare tutta la vita a riempire scartoffie. Che razza di pensieri risvegliarono tutto ciò in un fanciullo che non era certo “bravo” nel senso corrente del termine! Il ridicolo impegno scolastico mi lasciava molto tempo libero, tanto che passavo più tempo all’aperto che nella mia stanza a studiare22. Quando i miei avversari politici di oggi esaminano premurosamente la mia infanzia per stabilire con sollievo l’incessante lotta sostenuta dal piccolo “Hitler”, ringrazio il cielo di avere ancora qualche ricordo di quei giorni felici. Prati e boschi erano i luoghi dove appianavamo i nostri continui “contrasti”. Anche la frequenza della Realschule non fu da freno. A dire il vero dovetti condurre un’altra dura battaglia. Finché mi rifiutavo di eseguire l’ordine paterno di diventare funzionario, il conflitto era tollerabile. Tenevo per me i convincimenti più profondi e non c’era sempre bisogno di contraddirlo. Bastava la mia ferma opposizione a rasserenarmi. Si trattava di una decisione irrevocabile. Ben altro problema era elaborare un piano tutto mio. Ciò avvenne a dodici anni. E come ci arrivai non mi è chiaro nemmeno oggi. Un giorno capii improvvisamente che sarei diventato un pittore. Il mio talento era indiscutibile, tanto che fu motivo della mia iscrizione alla Realschule. Mio padre, però, non aveva pensato che io potessi imboccare quella strada. Al contrario, quando mi chiese per la prima volta, dopo l’ennesimo rifiuto, che cosa volessi diventare, me ne uscii di punto in bianco con l’aspirazione artistica, diventata nel frattempo ben salda, togliendogli le parole di bocca. “Decoratore? Pittore?” Pensava che sragionassi e non credeva alle sue orecchie. Dopo che gli spiegai il mio proposito e capì la serietà del progetto, mio padre si oppose con tutte le sue forze.
Il contrasto tra individuo talentuoso e l’ambiente “borghese” è un tema ricorrente del culto del genio di fine XIX secolo. Bibliografia: J. Schmidt, Die Geschichte des Genie-Gedankens in der deutschen Literatur, Philosophie und Politik, 1770-1945, Heidelberg, Universitätsverlag Winter, 2004, 2 voll. 22
15 La sua decisione fu netta, senza la benché minima considerazione delle mie pur indiscutibili doti. “Non diventerai mai un pittore finché campo!” Il figlio, oltre a diverse altre caratteristiche, aveva ereditato dal padre la stessa cocciutaggine. La risposta fu la stessa, ma di senso opposto. Entrambe le parti non sentivano ragione. Il padre insisteva nel suo “mai”, mentre io rafforzavo il mio “lo farò comunque”. Naturalmente ne pagai le conseguenze. L’anziano signore s’irrigidì e io pure, sebbene gli volessi profondamente bene. Non tollerava la possibilità che io diventassi un pittore. Io feci un passo in avanti e affermai che non avrei più studiato. Affermazione non certo priva di conseguenze, giacché il vecchio decise di imporre senza pietà la sua autorità. Poi tacqui, ma misi in pratica la mia minaccia. Credevo che, se avesse visto gli scarsi progressi scolastici, avrebbe acconsentito, volente o nolente, alla realizzazione della mia aspirazione. Non sapevo se il mio calcolo fosse corretto, ma il mio fallimento scolastico era certo. Imparavo ciò che mi piaceva, soprattutto ciò che pensavo mi sarebbe tornato utile quando fossi diventato un pittore. Ignoravo completamente ciò che mi sembrava insignificante o poco interessante. La mia pagella scolastica mostrava sempre voti estremi, a seconda della materia: accanto ai “lodevole” e agli “eccellente” c’erano i “sufficiente” e gli “insufficiente”. Decisamente buone erano le mie valutazioni in geografia e in storia, le due materie più amate, nelle quali primeggiavo23. Analizzando dopo tanti anni i risultati di allora, due fatti mi saltano agli occhi: 1. ero diventato un nazionalista; 2. studiavo la storia per apprenderne il senso più profondo. La vecchia Austria era uno “Stato di nazionalità”24. I tedeschi di Germania non potevano comprendere appieno, perlomeno allora, quale significato avesse quel concetto nella vita quotidiana del singolo cittadino austriaco. Dopo la vittoriosa marcia trionfale dell’eroico esercito nella guerra francotedesca, l’Impero bismarckiano si era allontanato sempre più dal germanesimo estero25, in parte perché non lo apprezzava oppure perché, addirittura, non lo conosceva affatto. Gli austro-tedeschi confondevano spesso la deteriore dinastia asburgica con le sane radici del popolo. Non si capiva che, se non fosse stato di sangue buono, l’austro-tedesco non avrebbe mai potuto dare la sua impronta a uno Stato di cinquantadue milioni di persone. Sorse quindi in Germania l’erronea opinione che l’Austria fosse uno Stato 23
Hitler dovette ripetere la prima classe della Realschule per brutti voti in storia naturale e in matematica. Nel 1904 dovette fare gli esami di riparazione per l’insufficienza in francese. Poi si trasferì a Steyr, dove lasciò la scuola per le insufficienze in tedesco e in stenografia [KA, n. 38]. 24 Sul problema multietnico della doppia monarchia vedi capitoli 2-I e 3-I. 25 Con Auslandsdeutschtum (germanesimo estero) Hitler indicava i cittadini tedeschi residenti all’estero, che avevano conservato un solido legame linguistico, biologico e culturale con la madrepatria. Esso non va confuso con Reichsdeutschtum (germanesimo interno) e Volksdeutschtum (germanesimo etnico, popolare), che si differenziano per la residenza entro i confini dello Stato tedesco o per l’assenza di cittadinanza tedesca. Bibliografia: T. Luther, Volkstumspolitik des Deutschen Reiches, 1933-1938. Die Auslandsdeutschen im Spannungsfeld zwischen Traditionalisten und Nationalisten, Stoccarda, Franz Steiner Verlag, 2004.
16 tedesco. Un errore dalle gravissime conseguenze, ma anche un illuminante attestato per i dieci milioni di tedeschi della Marca Orientale26. Pochi erano i tedeschi di Germania che avevano idea della lotta spietata per la lingua, per la scuola e per l’identità tedesche combattuta in Austria. Solo ora che la triste miseria attanaglia molti milioni di tedeschi, che sotto un giogo straniero sognano nostalgicamente un’unica patria o perlomeno il sacrosanto diritto a mantenere la propria lingua, si capisce bene il senso di una lotta per il proprio carattere nazionalpopolare27. Oggi chiunque è in grado di valutare la grandezza del germanesimo della vecchia Marca Orientale che, autonomamente, protesse l’ala orientale del paese, conservando i confini linguistici tedeschi attraverso una snervante guerriglia, in un momento in cui l’Impero tedesco si interessava delle colonie, ignorando la carne e il sangue dei propri confratelli austriaci. Come sempre in ogni lotta, anche in quella linguistica austriaca ci furono tre schieramenti: i combattenti, i tiepidi e i traditori. La suddivisione iniziava già a scuola. L’aspetto più interessante della lotta linguistica è che, in generale, i suoi riflessi lambiscono soprattutto la scuola, vivaio delle future generazioni. Il bambino è condotto in battaglia e a lui s’indirizza il primo appello della contesa: “Bambino, non dimenticare che sei tedesco!”28 “Bambina, ricorda che diventerai una madre tedesca!”29 Chi conosce l’animo giovanile può ben capire quanto i ragazzi siano sensibili alle grida di battaglia. Essi conducono la contesa in mille forme diverse, con le proprie modalità e con le proprie armi. Si rifiutano di intonare canti non tedeschi, si infatuano per gli eroi tedeschi quanto più si cerca di tenerli lontani. Raccolgono ogni soldino risparmiato faticosamente per battagliare da grande30; sono straordinariamente guardinghi e maldisposti nei confronti dei docenti non tedeschi. Indossano l’emblema vietato del loro popolo e sono lieti di essere puniti o addirittura picchiati a sua difesa. Quel ragazzo è lo specchio fedele dell’adulto, in un senso, se possibile, ancora più elevato e più genuino. Anch’io ebbi la possibilità, ancora in giovane età, di partecipare alla lotta nazionale della vecchia Austria. Facemmo la colletta per la Südmark31 e per lo
Con Ostmark (Marca Orientale) si indicavano nell’Alto Medioevo i territori della Baviera orientale (Alta e Bassa Austria, Stiria e Carinzia) che Carlo Magno creò a protezione delle popolazioni slave. 27 Il termine Volkstum indica il carattere nazionalpopolare e il folclore delle minoranze etniche. L’espressione, coniata durante le guerre di liberazione antinapoleoniche, era centrale nella politica dei movimenti völkisch (nazionalpopolari) sorti in Germania dalla fine dell’Ottocento. Abbiamo deciso di tradurlo con “carattere nazionalpopolare” (e non semplicemente nazionale oppure popolare) per non perdere la pluralità semantica dell’espressione, che indica sia l’appartenenza a una nazione in termini etnici e razziali, sia la sua declinazione popolare e non elitaria. Bibliografia: W. Emmerich, Zur Kritik der Volkstumsideologie, Francoforte sul Meno, Suhrkamp, 1971. 28 Allusione alla sentenza di Federico Guglielmo di Brandeburgo: “Sappi di essere tedesco” [KA, n. 48]. 29 Sull’educazione dei giovani tedeschi vedi capitolo 2-II. 30 Qui Hitler allude al Kampfschatz (caparra di combattimento, cautio de duello prosequendo ab actore praestanda), che indicava nel diritto vehmico una sorta di deposito cauzionale versato al giudice a garanzia del duello. 31 La Südmark (Marca meridionale) fu un’associazione difensiva fondata a Graz nel 1899. Concentrò le sue attività in Carinzia, in Stiria e in Carniola, ma fu attiva anche in Tirolo, in Voralberg e in Bassa Austria. Sostenne il rafforzamento dei tedeschi frontalieri ed esteri attraverso sovvenzioni finanziarie. 26
17 Schulverein32, sottolineammo il nostro sentimento coi fiordalisi, salutammo con un “Heil”33 e, al posto del Kaiserleid34, intonammo Deutschland über alles, nonostante gli ammonimenti e le punizioni. La gioventù era politicamente formata in un’epoca in cui i membri dello “Stato nazionale” sapevano ben poco del loro carattere nazionalpopolare, e tanto meno della lingua. Non mi stupisco affatto che i tiepidi stessero in silenzio. Divenni rapidamente un fanatico “nazionaltedesco”, sebbene non nel senso dell’omonimo partito di oggi35. La mia maturazione fu così rapida che, a quindici anni, distinguevo chiaramente tra “patriottismo dinastico” e “nazionalismo popolare”. E ormai conoscevo solo il secondo. Per coloro che non si sono mai presi la briga di analizzare la monarchia asburgica, la dinamica può apparire poco chiara. Solo le lezioni scolastiche di storia universale in uno Stato del genere potevano condurre all’idea che potesse esistere una storia specificamente austriaca. Il destino di quello Stato è così legato alla vita e alla crescita del germanesimo da rendere impensabile una demarcazione fra storia tedesca e storia austriaca. Proprio la separazione della Germania in due sfere d’influenza segnò la storia tedesca36. Le insegne imperiali custodite a Vienna avevano l’effetto magico di un pegno di una comunione eterna. Il grido impetuoso del popolo austro-tedesco a favore della riunificazione tedesca nei giorni del tracollo asburgico fu la manifestazione di un sentimento assopito, ma profondamente radicato nel cuore di tutto il popolo, di nostalgia per il ritorno nella mai dimenticata casa paterna37. Ciò non sarebbe mai stato chiaro se l’istruzione storica del singolo austro-tedesco non fosse stata la causa di quello struggimento comune. Ecco una fonte inesauribile che, soprattutto nei periodi di oblio, al di là del benessere momentaneo, funge da monito silenzioso che sussurrerà di un nuovo futuro attraverso il ricordo del passato. Le lezioni di storia universale nella cosiddetta scuola media sono deplorevoli. Pochi insegnanti capiscono che studiare la storia non significa imparare a memoria una serie di date e di avvenimenti. Non importa che il ragazzo sappia esattamente chi ha perso una battaglia, quando è nato un condottiero o quando un monarca (perlopiù di nessuna importanza) è stato incoronato. Quant’è vero iddio, non ha alcuna importanza! Il Deutsche Schulverein (Associazione scolastica tedesca) fu fondata a Vienna nel 1880 con l’obiettivo di mantenere scuole tedesche nelle isole linguistiche della doppia monarchia. 33 Il fiordaliso, i colori grandi-tedeschi e l’appello “viva” erano segni distintivi dei pantedeschi austriaci. 34 Canto dinastico, testo del Lied dell’inno ufficiale imperiale austriaco, basato sulla melodia di Franz Joseph Haydn. 35 Allusione alla Deutschnationale Volkspartei (Partito popolare nazionaltedesco), capeggiato da Johann Friedrich Winckler, che partecipò per la prima volta nel 1925 a un governo di coalizione weimariano. Bibliografia: M. Ohnezeit, Zwischen “schärfe Opposition” und dem “Wille zur Macht”. Die Deutschnationale Volkspartei (DNVP) in der Weimarer Republik, 1918-1928, Düsseldorf, Droste, 2011. 36 Allusione al dualismo fra soluzione grande-tedesca (austriaca) e piccolo-tedesca (prussiana) della questione tedesca. 37 L’articolo 88 del Trattato di pace Saint-Germain (1919) proibiva l’indicazione di Austria tedesca e l’unificazione con la Germania, benché fosse l’auspicio della maggior parte degli austriaci e anche degli stessi socialdemocratici. 32
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Figura 4 La Repubblica austro-tedesca proclamata nel 1918 (in rosso i confini attuali) [fonte: wikipedia.it]
“Imparare” la storia significa scoprire e individuare le forze che provocano quegli effetti che noi vediamo di fronte ai nostri occhi in forma di avvenimenti storici. L’arte di leggere e d’imparare sta nel trattenere l’essenziale e nel dimenticare il superfluo. Fu probabilmente decisivo per la mia vita successiva l’avere avuto come docente uno dei pochi insegnanti di storia capaci di padroneggiare quel punto di vista. Il mio vecchio professore Ludwig Pötsch38 incarnava al meglio quel requisito. Era un anziano signore dal contegno benevolo ma fermo, capace non solo di incantarci con la sua eloquenza trascinante, ma anche letteralmente di entusiasmarci. Ricordo ancora oggi con lieve commozione l’uomo ingrigito che, infervorato dalla sua descrizione, ci faceva dimenticare il presente e, come per incanto, ci riportava indietro nel tempo, facendo rivivere dalla nebbia millenaria i morti ricordi del passato. Noi sedevamo, ascoltandolo pieni di ardore, commossi talora fino alle lacrime. Eravamo al settimo cielo quando il docente riusciva a illuminarci il passato a partire dal presente, traendone le conseguenze per il presente. Riusciva così bene a spiegare i problemi quotidiani da farci rimanere a bocca aperta. Il nostro piccolo fanatismo nazionalistico era l’unico mezzo educativo con cui Pötsch metteva in riga monelli così difficili da inquadrare. La storia divenne la mia materia preferita e mi trasformò involontariamente in un piccolo rivoluzionario. Chi, con un simile insegnante di storia tedesca, non sarebbe diventato nemico di quello Stato che, attraverso la sua dinastia, aveva avuto un influsso così nefasto sui destini della nostra nazione?
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In realtà si tratta di Leopold Pötsch (1853-1942), docente di storia di Hitler alla Realschule di Linz e di simpatie pangermaniste. Bibliografia: E. Kandl, Hitlers Österreichsbild, Universität Wien, dissertazione dottorale, 1963, pp. 25-39.
19 Chi sarebbe rimasto fedele a una dinastia che aveva tradito vergognosamente le aspettative del popolo tedesco?39 Non sapevamo forse anche noi, pur essendo così giovani, che uno Stato austriaco incapace di amarci non poteva pretendere di essere riamato? L’ammissione storica degli effetti nefasti della casata asburgica era corroborata dall’esperienza quotidiana. A Nord e a Sud il veleno straniero corrodeva il corpo del nostro carattere nazionalpopolare. La stessa Vienna diventava a vista d’occhio sempre meno tedesca. La “dinastia” cèchizzava a più non posso e fu il pugno della dèa dell’eterna giustizia e della inesorabile vendetta a far cadere il granduca Francesco Ferdinando con una pallottola che aveva lui stesso contribuito a forgiare quale santo patrono della slavizzazione dell’Austria!40 Immane fu il peso sulle spalle del popolo tedesco, inaudito il suo contributo in termini di tasse e di sangue. Ma, come avrebbe ammesso anche un cieco, era tutto perfettamente inutile. Quel che ci addolorava maggiormente era che il sistema era moralmente giustificato dall’alleanza con la Germania, che contribuiva in una certa misura al lento disfacimento del germanesimo della vecchia monarchia asburgica. L’ipocrisia con cui gli Asburgo tentavano di salvare le apparenze di uno Stato ancora germanico, accrebbe il nostro odio verso quella casata regnante fino alla rivolta e al disprezzo. I nostri cosiddetti “esperti” non ci capivano un accidente. Vagavano come ciechi al fianco di un cadavere pensando che i segni di decomposizione fossero il segnale di una “nuova” vita. L’infelice comunione tra il giovane Impero tedesco e lo Stato fantasma austriaco racchiudeva il germe della vicina guerra mondiale e del tracollo successivo. Nel corso del libro io mi occuperò approfonditamente di questo problema41. Qui basti sottolineare che, in buona sostanza, già prima della pubertà ero giunto a una conclusione che non ho mai abbandonato e che, anzi, si è rafforzata nel corso del tempo: la salvaguardia della Germania presupponeva l’annientamento dell’Austria, il sentimento nazionale non ha nulla a che vedere con il patriottismo dinastico e, soprattutto, la dinastia asburgica era la disgrazia della nazione tedesca. Già allora io ne avevo tratto le debite conseguenze: amore ardente nei confronti della mia patria austro-tedesca e odio profondo nei confronti dello Stato “austriaco”. Il senso storico appreso a scuola non mi ha abbandonato neppure negli anni successivi. La storia universale divenne per me una fonte inesauribile per comprendere il presente e, dunque, la politica. Io non volevo “impararla”, era lei a insegnarmi. Divenni non solo un precoce “rivoluzionario” politico, ma anche un rivoluzionario dal punto di vista artistico.
39 L’arciduca
ed erede al trono Francesco Ferdinando d’Este, ucciso con la moglie a Sarajevo il 28 giugno 1914, era accusato di essere slavofilo per via del progetto di creare una terza costola slava dell’Impero. 40 Allusione alla Duplice Alleanza stretta il 7 ottobre 1879 fra Austria-Ungheria e Germania, antesignana della Triplice con l’Italia (1882). 41 Sul tema dell’incapacità diagnostica degli “esperti” vedi capitoli 2-I, 3-I e 10-I.
20 Il capoluogo dell’Alta Austria possedeva un teatro niente affatto disprezzabile, dove si recitava un po’ di tutto. A dodici anni vidi per la prima volta il Guglielmo Tell42, pochi mesi dopo aver assistito alla prima opera della mia vita: il Lohengrin43. Ne fui letteralmente affascinato. Il mio entusiasmo giovanile per il maestro di Bayreuth era sconfinato. Ero continuamente attratto dalla sua opera e, malgrado la modestia delle rappresentazioni provinciali delle sue opere, sono conscio della fortuna di averle potute vedere. Tutto ciò, specie dopo un’adolescenza particolarmente problematica, rafforzò la mia profonda avversione nei confronti della professione desiderata da mio padre. Ero sempre più convinto che io non sarei mai stato felice come funzionario. Quando anche la Realschule riconobbe il mio talento artistico, la mia decisione divenne ancor più salda. Né le preghiere, né le minacce mi fecero cambiare idea. L’aspetto più curioso è che, col passare del tempo, crebbe l’interesse per l’architettura. Allora pensavo che si trattasse del naturale completamento della mia inclinazione artistica e mi rallegravo di ampliare il mio raggio d’azione. Non avrei mai pensato che le cose sarebbero andate diversamente. La matassa del mio futuro lavorativo si dipanò più velocemente del previsto. A tredici anni persi improvvisamente mio padre. Un colpo apoplettico colpì il signore ancora robusto. Si concluse nel modo più doloroso possibile il suo cammino terreno, gettandoci nel più profondo sconforto44. La sua massima aspirazione (modellare l’esistenza di suo figlio per proteggerlo da un avvenire difficile) non si era realizzata. Fu lui però, sia pure inconsapevolmente, a gettare le basi per un futuro che né lui né io avremmo potuto immaginare. Inizialmente tutto rimase apparentemente come prima. Mia madre si sentiva obbligata a guidare la mia educazione secondo i desideri paterni, indirizzandomi cioè alla carriera di funzionario. Ma io ero deciso a oppormi. Trascurai tutto ciò che era distante dal mio ideale nei programmi e nei tirocini scolastici. Mi fu di “aiuto” una malattia improvvisa, che decise in poche settimane del mio futuro e della lunga battaglia paterna. La mia grave malattia polmonare fece sì che il medico sconsigliasse vivamente a mia madre di farmi rinchiudere in un ufficio45. La frequenza della Realschule fu interrotta per almeno un anno. Grazie alla malattia si realizzò tutto ciò che avevo silenziosamente desiderato e per cui avevo lottato46. 42
Dramma schilleriano del 1804, che rappresenta Guglielmo Tell come paladino svizzero contro il dominio asburgico, rappresentato al Landtheater di Linz nel 1905. Bibliografia: G. Ruppelt, Schiller im nationalsozialistischen Deutschland. Der Versuch einer Gleichschaltung, Stoccarda, Metzler, 1979. 43 Nel 1905 il Lohengrin e il Rienzi di Wagner furono rappresentati nel Landteather di Linz [KA, n. 72] 44 Alois morì il 3 gennaio 1903. Klara ricevette una pensione di reversibilità e vendette l’abitazione di Leonding. 45 Il medico di casa Hitler era Eduard Bloch (1872-1945), originario di una famiglia ebraica della Boemia meridionale. Bibliografia: B. Hamann, Hitlers Edeljude. Das Leben des Armenarztes Eduard Bloch, Monaco, Piper, 2010. 46 La frequentazione della Realschule di Steyr terminò nel giugno 1905. Hitler visse poi due anni a Linz con la madre, con la sorella e con la zia, dedicandosi a letture, concerti, arte, ecc..
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Figura 5 Eduard Bloch, il medico ebreo della famiglia Hitler [fonte: zapiskispodpoduszki.blogspot.com]
L’apprensione per la malattia indusse mia madre a porre fine alla mia frequenza della Realschule e a permettermi di iscrivermi all’Accademia di Belle Arti. Furono i giorni più felici della mia vita. Mi sembrava di sognare. Ma il sogno rimase tale. Due anni più tardi, la morte di mia madre interruppe improvvisamente tutti i miei bei piani47. Fu la conclusione di una lunga e dolorosa malattia che lasciava ben poche speranze di guarigione. Il colpo fu durissimo, perché mio padre lo rispettavo, mentre mia madre la amavo. Il bisogno e la dura realtà mi costrinsero a prendere una decisione veloce. Gli scarsi mezzi paterni erano stati in gran parte consumati dalla grave malattia di mia madre. Il sussidio di orfano non mi bastava e mi trovai nella necessità di procurarmi da vivere in qualche modo48. Partii per Vienna con una valigia di vestiti, con la biancheria in mano e con un’incrollabile volontà nel cuore49. Quel che era riuscito a mio padre cinquant’anni 47
Klara Hitler morì il 21 dicembre 1907, ma Adolf era già andato a Vienna a inizio settembre per sostenere l’esame di ammissione all’Accademia di Belle Arti. A metà ottobre tornò a Linz, quando le condizioni della madre peggiorarono. 48 Il 10 febbraio 1908 Adolf e Paula Hitler chiesero all’ufficio finanziario di Linz il sussidio quali orfani. Ricevettero metà della reversibilità materna e 25 corone al mese, a condizione che concludessero i loro studi. Adolf ricevette poco dopo un prestito di oltre 900 corone dalla zia materna Johanna [KA, n. 79]. 49 Il trasferimento definitivo a Vienna avvenne nel febbraio 1908. Hitler affittò con l’amico August Kubizek un appartamento in Stumpergasse, vicino al Westbahnhof.
22 prima, speravo di riuscirlo a strappare anch’io al destino. Volevo diventare “qualcuno” e, in ogni caso, non un funzionario.
Approfondimenti didattici 1. Analisi retorica e stilistica
- Individua le principali figure retoriche; - Individua l’esistenza di fallacie retoriche; - Individua i principali “loci” e “topoi”; - Individua la presenza di stereotipi e pregiudizi.
2. Analisi storico-culturale
- Il problema delle nazionalità nell’Impero austro-ungarico: analizza la tesi “pangermanista” e le diverse posizioni assunte sul problema della convivenza multietnica all’interno della doppia monarchia dalla fine dell’Ottocento sino allo scoppio della Prima guerra mondiale; - Il problema del rapporto fra arte e vita: analizza la contrapposizione generazionale fra padre e figlio in chiave politica e artistica alla luce del rapporto fra decadentismo e vitalismo; - Il problema dell’insegnamento della storia: analizza il tema dello studio della storia partendo, per esempio, dalla seconda considerazione inattuale di Friedrich Nietzsche Sull’utilità e il danno della storia per la vita (1874).
A. Gilardoni, Logica e argomentazione. Un prontuario, Milano, Mimesis, 2008.
Capitolo II. Anni di apprendistato e di dolore viennesi
Sinossi 1. Genesi Il capitolo 2-I, che costituisce un’unità tematica con quello successivo, era già stato previsto nel piano dell’opera e pubblicizzato con un volantino del giugno 1924. Fu probabilmente redatto a inizio estate di quell’anno. La parte dedicata alla questione sindacale, poi sviluppata nel capitolo 12-II, fu pubblicata in anteprima sul “Völkischer Beobachter” (Osservatore nazionalpopolare) nel maggio 1925 e su altri fogli nazionalsocialisti austriaci. Va osservata l’analogia strutturale fra questo capitolo e lo scritto di Anton Drexler Il risveglio politico (1919), ambientato a Berlino1. 2. Contenuto Il capitolo 2-I, che descrive il soggiorno viennese dalla fine del 1907 al maggio 1913, affronta una serie di tematiche: il fallimento “artistico”, l’incipiente proletarizzazione, l’osservazione dei bassifondi, l’analisi della risposta marxista al disagio sociale e, infine, la questione ebraica. Può essere considerato quello metodologicamente e contenutisticamente più importante dell’intera opera, sia perché spiega la “trasformazione” antisemita, sia perché mostra chiaramente la logica abduttiva (a “ritroso”) utilizzata da Hitler per fondare la sua visione del mondo. Gli unici testimoni parziali del giovane Adolf sono il musicista August Kubizek (1888-1956) e il pittore Reinhold Hanisch (1884-1937). Il giovane Hitler, una volta rifiutata la via “sicura” paterna, scommette sulle proprie doti artistiche, ma fallisce miseramente. Dopo la bocciatura all’Accademia e l’impossibilità di intraprendere un percorso di studi architettonici, non gli resta che la “vita” in tutta la sua sordida durezza. La caduta nel subproletariato urbano e nella precarietà esistenziale è descritta con i toni di uno scrittore naturalista: frustrazione, dolore, sporcizia, rabbia, risentimento anche in famiglia. Lo spazio “vitale” mancante provoca l’emersione dei peggiori istinti già fra le mura domestiche. Il giovane Hitler cade in quella classe sociale che suo padre aveva faticosamente cercato di abbandonare. Ma il dolore può anche essere fonte di esperienza e di formazione. A Vienna Hitler capisce il fallimento della filantropia borghese, la cecità delle classi alte, interessante soltanto a lavarsi la coscienza o a dar sfoggio di virtù caritatevoli. I giovani contadini sono vittime di loro stessi, della loro ingenua fiducia nel progresso. La “nazionalizzazione” di un popolo dipende dalla soluzione della questione sociale: solo in questo modo è possibile curare il “corpo popolare” dai “parassiti” che lo stanno erodendo nella metropoli anonima. Il giovane Hitler lavora per vivere e, soprattutto, per studiare. Legge molto e osserva molto: cerca l’essenziale, il dettaglio in ogni vicenda quotidiana. Se la borghesia fallisce per cecità, per attaccamento alla “roba”, la socialdemocrazia non è da meno: distrugge le fondamenta dell’economia nazionale attraverso l’arma sindacale, parla di “rivoluzione”, ma di fatto aiuta l’elevazione del popolo altrui. Si potrebbe definire “benaltrista”. E gli scritti marxisti? Un guazzabuglio di paroloni, di espressioni
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KA I, p. 127.
24 stereotipate e artefatte, di “parole senza idee” (per rovesciare la nota espressione di Furio Jesi sulla cultura di destra). E l’ebreo? La sua figura appare strada facendo, al termine dell’analisi. Il giovane Hitler è sì un nazionalista pantedesco, ma si descrive come un “razionalista laico”. La “ragione” non dà spazio al “sentimento”, all’odio irrazionale verso gli ebrei. Finché non gli appare la figura dell’Ostjude, dell’ebreo in caffettano emigrato dalla Galizia. Chi è? Che cos’è? È diverso dal tedesco? Ricurvo, “puzzolente”, “degenerato”, l’ebreo è l’artefice di tutto ciò che di peggio può immaginarsi. Dai giornali liberali francofili alla prostituzione, dal marxismo alla disintegrazione dei popoli. Ecco trovata la risposta di tutto. Ecco l’architrave dell’intero sistema. 3. Analisi Il breve romanzo formativo di Hitler si ispira – almeno nel titolo – a Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister di Johann Wolfgang Goethe (1795). La differenza essenziale è che il protagonista non trova la pace col mondo dopo la contrapposizione giovanile, ma anzi raccoglie esperienze per cercarlo di cambiare. Hitler rifiuta categoricamente l’integrazione nella società asburgica, ritenuta ormai sull’orlo del tracollo, perché antitedesca e filoslava. Anni di formazione e di dolore, forse ispiratisi nel titolo all’omonimo scritto di Ada Cramer sulla vita del marito Ludwig (imprenditore tedesco emigrato in Africa sud-occidentale e dichiaratamente razzista), ma in senso inverso: l’uomo “superiore” deve patire il dolore arrecato dagli “inferiori”. La sofferenza fortifica il “puro” ragazzo di provincia, che sembra abbandonare la “malattia” artistica per elaborare la sua “granitica” visione del mondo. Proprio nei primi anni viennesi, Hitler sostiene di essersi creato la sua “visione del mondo” nazionalpopolare. Lo fa non dall’alto verso il basso (che sarebbe come dire in modo deduttivo, tipico dei borghesi “chiacchieroni” e “sentimentali”, che deducono sulla base della filantropia), né semplicemente dal basso verso l’alto (tipico degli “esperti” che affastellano i dati ed elaborano teorie induttive prive di radicamento popolare): osserva i sintomi, elabora una diagnosi e poi avanza una prognosi. La vita diventa così un “gioco” fortuito, al quale lo spettatore può assistere col fine di partecipare in prima persona al momento giusto. Hitler decide di “assistere” e di capire come funziona questa macchina ben strana e curiosa. Osserva le misure inefficaci delle classi elevate, che predicano tolleranza e poi disdegnano i loro simili. Osserva i giovani triturati dalla precarietà della metropoli. Osserva l’azione della “medicina socialdemocratica” porta dal “libero sindacato”. Tutti palliativi, il malato non si riprende, anzi continua a peggiorare ed è destinato a morire. Secondo Hitler, la responsabilità dei borghesi e dei socialisti è quella di essere oggettivi, cioè di aver perso di vista la propria appartenenza più profonda, la propria nazione, il proprio popolo (contrariamente ai “soggettivi” francesi). “Io – osserva – posso lottare solo per ciò che amo, amare ciò di cui ho rispetto e rispettare quel che conosco”. La peste infesta la città e nessuno se ne rende conto. Non abbiamo certo il medico Bernard Rieux della Peste di Albert Camus. Il giovane osservatore nazionalista non vuole curare un malato inguaribile. Attende che la malattia faccia il suo corso e che arrivi il “momento giusto”. A Vienna Hitler dà fondamento teorico alla realtà e verifica le sue teorie. Il medico-stregone non ha ancora trovato il farmaco giusto per curare il corpo popolare. Non lo è nemmeno la socialdemocrazia, che aiuta sì a demolire lo Stato asburgico, che vuole sì (almeno a parole) il bene dei lavoratori. Ma l’obiettivo è sbagliato: intende salvare il popolo uccidendone lo spirito patriottico. Si
25 tratta di quindi di “pestilenza travestita” da virtù. Non è superficiale come la medicina borghese, ma è il farmaco di un ciarlatano. Da che cosa lo deduce? Hitler osserva i sindacati in azione, legge la sua stampa (assai più istruttiva degli scritti teorici). Trova sempre nuove conferme “empiriche” alla sua “regola” (cioè che il marxismo sia antipatriottico). Il marxismo è un male “inconsapevole”, perché tenta di distruggere le radici dell’umanità, finendo poi per favorire solo alcuni popoli a danno degli altri. Ma c’è qualcosa d’altro: il socialismo è il bubbone, è il sintomo di un’altra malattia, quella vera. E questa malattia è l’ebraismo. Hitler ci dice che il nemico nella Vienna di inizio Novecento non è il marxismo, non è nemmeno lo slavismo. È l’ebreo, la sua figura, a costituire il “male”. L’elaborazione dell’antisemitismo nazionalsocialista traspare con una chiarezza sconcertante da queste pagine: il giovane Hitler è giunto all’ebreo attraverso una confluenza di sentimenti religiosi e sociali. Partendo da ciò che vede e da ciò che legge, risale all’ipotesi dell’altro per eccellenza della società cristiana e ne deduce le conseguenze “asportative”. C’è ben poco di “scientifico” in tutto questo (nel senso galileiano del termine). C’è l’elaborazione pragmatica di una teoria che ha radici saldissime e inestirpabili nella cultura occidentale, fino a quando esisteranno l’ebraismo rabbinico e il cristianesimo paolino. L’ebreo è dunque il “tumore”, il “bacillo”, è qualcosa che cresce dentro un corpo, che ha bisogno di nutrirsi di quel corpo. È il male, presente ovunque e da nessuna parte. La lotta è molto difficile, perché è “mutante”: si adatta darwinisticamente all’ambiente. È visibile e invisibile: appare e scompare a suo piacimento. Assume le vesti del liberalismo e del sionismo, che poi finiscono sempre per essere quelli che sono: prodotti dell’ebraismo. L’ebreo ha pure l’ardire di essere visibile, ma poi si cela tra le righe. Solo chi è dotato di una grandissima sensibilità, di un grandissimo acume (come il giovane Adolf) è riuscito a “capirlo”. Da “debole cosmopolita” è diventato un “fanatico antisemita”: l’apprendistato e il dolore lo hanno portato dalla ragione al sentimento. Ma la domanda è: il popolo tedesco ha il diritto di opporsi all’ebreo? Ha diritto di scacciare il “diavolo”? Lo fa solo per sé oppure per l’umanità intera? Il marxismo, sintomo quintessenziale della “malattia ebraica”, è contro natura, non si oppone semplicemente al capitalismo, al denaro, alle nazioni. Mette in discussioni i principî del creato, opera di Dio. Hitler, quindi, sente di essere la nuova spada armata, il salvatore del mondo, è l’incarnazione del “redentore” (come l’amato Wagner), è la parusia alla fine dei tempi. 4. Parole-chiave Antisemitismo, Arte, Asburgo, Carattere nazionalpopolare, Comunità nazionalpopolare, Degenerazione, Ebreo, Ebraismo, Genio, Germanesimo, Karl Lueger, Intellighenzia, Marxismo, Nazionalizzazione, Oggettività, Questione sociale, Sindacato, Sionismo, Socialismo, Socialdemocrazia, Sindacato, Umanitarismo, Vienna, Visione del mondo, Visione soggettiva. 5. Bibliografia essenziale - D. Bavendamm, Der junge Hitler. Korrekturen einer Biographie 1889-1914, Graz, Ares-Verlag, 2009; - K. Burke, Die Rethorik in Hitlers “Mein Kampf” und andere Essays zur Strategie der Überredung, Francoforte sul Meno, Suhrkamp, 1967; - A. Bullock, Hitler. Studio sulla tirannide, Milano, Res Gestae, 2014; - D. Capozza, C. Volpato, Le intuizioni psicosociali di Hitler. Un’analisi del “Mein Kampf”, Bologna, Patron, 2004;
26 - W. Carr, Hitler. Studio sul rapporto tra personalità e politica, Napoli, Liguori, 1985; - E. Collotti, M. Riccardo, Gli acquerelli di Hitler, Firenze, Alinari, 1984; - G. Corni, Hitler, Bologna, Il Mulino, 2007; - C.A. Defanti, Richard Wagner. Genio e antisemitismo, Torino, Lindau, 2013; - M. Ferrari Zumbini, Le radici del male. L’antisemitismo in Germania da Bismarck a Hitler, Bologna, Il Mulino, 2001; - J. Fest, Hitler. Una biografia, traduzione di F. Saba Sardi, Milano, Garzanti 2005; - B. Fuchs, “Rasse”, “Volk”, “Geschlecht”. Anthropologische Diskurs im Österreich, 1850-1960, Francoforte sul Meno, Campus Verlag, 2003; - B. Hamann, Hitler. Gli anni dell’apprendistato, Milano, Corbaccio, 1998; - R. Hanisch, I was Hitler’s buddy, in “New Republic”, XII, 19, 5 aprile 1939, pp. 193-199; - L. Herbst, Il carisma di Hitler. L’invenzione di un messia tedesco, traduzione di U. Gandini, Milano, Feltrinelli, 2011; - K. Hödl, Als Bettler in die Leopoldstadt. Galizische Juden auf dem Weg nach Wien, Vienna, Böhlau, 1994; - E. Jäckel (ed.), Hitler: Sämtliche Aufzeichnungen, 1905-1924, Stoccarda, Deutsche Verlags-Anstalt, 1980; - F. Jeztinger, Hitlers Jugend. Phantasien, Lügen und die Wahrheit, Vienna, Europe-Verlag, 1956; - S.F. Kellerhoff, Il libro proibito di Hitler. Storia del Mein Kampf, Milano, Rizzoli, 2016; - I. Kershaw, Hitler, vol. 1: 1889-1936, Milano, Bompiani, 2003; - A. Kubizek, Adolf Hitler. Il mio amico di gioventù, Roma, Thule Italia, 2015; - W.C. Langer, Psicanalisi di Hitler. Rapporto segreto del tempo di guerra, Milano, Garzanti, 1975; - P. Longerich, Hitler. Biographie, Monaco, Siedler Verlag, 2015; - W. Maderthaner, C. Müller (ed.), Die Organisation der österreichischen Sozialdemokratie. Von den Anfänge bis 1999, Vienna, Löcker, 1996; - W. Maser, Adolf Hitler, Roma, Ciarrapico, 1978; - A. Miller, La persecuzione del bambino. Le radici della violenza, traduzione di M.A. Massimello, Torino, Bollati Boringhieri, 2012; - A. Musolff, Metaphor, nation and the Holocaust. The concept of the body politic, New York, Routledge, 2011; - G.L. Mosse, Le origini culturali del Terzo Reich, traduzione di F. Saba Sardi, Milano, Il Saggiatore, 2015; - O. Plöckinger, Geschichte eines Buches. Adolf Hitlers “Mein Kampf”, 1922-1945. Eine Veröffentlichung des Instituts für Zeitgeschichte, Monaco, Oldenbourg, 2011; - Id., Quellen und Dokumente zur Geschichte von “Mein Kampf”, 1924-1945, Stoccarda, Franz Steiner Verlag, 2016; - W. Pyta, Hitler. Der Künstler als Politiker und Feldherr. Eine Herrschaftsanalyse, Monaco, Siedler Verlag, 2015; - B.F. Price, Adolf Hitler als Maler und Zeichner. Ein Werkkatalog der Ölgemälde, Aquarelle, Zeichnungen und Architekturskizzen, Zug, Gallant-Verlag, 1983; - P.R. Range, La genesi del Mein Kampf. 1924: l’anno che cambiò la storia, Roma, Newton Compton, 2017; - F.J. Rash, The language of violence. Adolf Hitler’s “Mein Kampf”, New York, Peter Lang, 2000; - R.G. Reuth, Hitler. Eine politische Biographie, Monaco, Piper, 2003; - M.L. Rozenblitt, The Jews of Vienna. Assimilation and identity, Albany (New York), SUNY Press, 1983; - T.W. Ryback, La biblioteca di Hitler. Cosa leggeva il Führer, Milano, A. Mondadori, 1998; - C.E. Schorske, Vienna fin de siècle, Milano, Bompiani, 2004; - B. Schwarz, Geniewahn. Hitler und die Kunst, Vienna, Böhlau Verlag, 2009; - J. Toland, Adolf Hitler. The definitive biography, New York, Doubleday, 1976; - V. Ullrich, Adolf Hitler. Biographie, vol. 1: Die Jahre des Aufstiegs 1889-1939, Francoforte sul Meno, S. Fischer, 2013; - A. Vitkine, “Mein Kampf”. Storia di un libro, traduzione di G. Zucca, Milano, Cairo, 2010; - A. Wandruszka, La socialdemocrazia austriaca, 1867-1920, Bologna, Il Mulino 1978; - R.S. Wistrich, Gli ebrei di Vienna, traduzione di A. Serafini, Milano, Rizzoli, 1994; - E. Schwarz, Wien und die Juden. Essays zum Fin de Siècle, Monaco, C.H. Beck, 2014; - S.O. Zalampas, Adolf Hitler. A psychological interpretation of his views on architecture, art and music, Bowling Green (Ohio), Bowling Green University Press, 1990; - W. Zdral, La famiglia Hitler, traduzione di D. Carosso, Torino, UTET libreria, 2008; - B. Zehnpfennig, Hitlers “Mein Kampf”. Eine Interpretation, Monaco, Fink, 2000; - R. Zitelmann, Hitler, Roma-Bari, Laterza, 1991.
27 Quando mia madre morì2, il destino aveva già deciso cosa fare di me. Negli ultimi mesi di dolore mi ero recato a Vienna per sostenere l’esame di ammissione all’Accademia di Belle Arti. Armato di un portafoglio di disegni, mi ero messo in viaggio, pensando che avrei potuto superare facilmente l’esame3. Alla Realschule ero stato il miglior disegnatore della mia classe. Il mio talento si era così straordinariamente sviluppato che mi faceva sperare per il meglio4. Solo un aspetto mi preoccupava: il mio talento pittorico sembrava inferiore alla mia capacità di disegno architettonico, che cresceva di giorno in giorno. Il mio interesse crebbe quando, non ancora sedicenne, mi fermai per la prima volta a Vienna per due settimane. Ci andai per visitare la galleria dello Hofmuseum5, ma avevo occhi solo per l’edificio museale. Trascorsi giornate intere passando da un monumento all’altro. Ma erano sempre e solo gli edifici ad affascinarmi. Potevo stare per ore basito di fronte all’Opera6 e al Parlamento7. L’intera Ringstrasse mi appariva una meraviglia degna delle Mille e una notte8. Mi trovavo quindi per la seconda volta nella bella città e aspettavo con trepidazione, ma anche con fiducia, l’esito del mio esame. Ero così convinto del mio successo che la notizia della bocciatura fu un colpo durissimo da incassare. Fui letteralmente cacciato dal paradiso. E tuttavia era accaduto. Quando incontrai il Rettore per chiedergli il motivo della mia mancata ammissione9, egli mi disse che i miei disegni mostravano un certo talento architettonico e non pittorico e che quindi avrei dovuto frequentare il Politecnico. Non capiva come mai non avessi mai frequentato un corso, né lezioni di architettura. Abbattuto, lasciai il magnifico palazzo di von Hansen sulla Schillerplatz10. Per la prima volta in vita mia ero combattuto con me stesso. Le parole del Rettore sulle mie capacità aveva illuminato come un lampo accecante un dissidio di cui da tempo soffrivo senza capirne bene il motivo. Nel giro di pochi giorni capii che avrei potuto diventare solo un architetto11.
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A Linz il 21 dicembre 1907. Alcuni dei lavori sottoposti (come gli acquarelli paesaggistici) ci sono noti. Hitler fu ammesso alla prova di disegno nell’ottobre 1907, ma fu respinto. Ci riprovò l’anno dopo, senza successo [KA, n. 1]. 4 Nella pagella dell’anno scolastico 1904-05 Hitler ottenne “2” (cioè 9) in disegno libero. Solo in ginnastica andò meglio con “1” (cioè 10). Peggio in tedesco, matematica e stenografia con “5” [KA, n. 2]. 5 Insieme al Museo di storia naturale, lo Hofmuseum era uno degli edifici museali più importanti della Ringstrasse. Qui era esposta l’importante collezione artistica degli Asburgo. 6 La Staatsoper di Vienna (già Hofoper), eretta dal 1861 al 1899 dall’architetto Eduard van der Nüll e August Sicard von Sicardsburg, era uno dei più antichi edifici del Ring. 7 Sulla costruzione e sul ruolo del Parlamento austriaco vedi capitolo 3-I. 8 La Ringstrasse (letteralmente strada circolare, circonvallazione) è una serie di viali ottocenteschi, il cui percorso ricalca il tracciato delle mura medievali intorno al centro storico di Vienna. Voluta dall’imperatore Francesco Giuseppe, fu creata dal 1859 al 1865. 9 Il direttore dell’Accademia era il pittore storico e paesaggista Siegmund L’Allemand (1849-1910). 10 L’Accademia di Belle Arti viennese fu eretta, come il Parlamento, secondo un progetto dell’architetto danese Theophil von Hansen. 11 L’architettura fu sempre una grande passione di Hitler. Bibliografia: K. Backes, Hitler und bildenden Künsten. Kulturverständnis und Kunstpolitik im Dritten Reich, Colonia, DuMont Verlag, 1988.
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28 La strada da percorrere era incredibilmente ardua, perché le mie lacune scolastiche si sarebbero prese la loro amara rivincita. La frequenza della facoltà di architettura era legata alla scuola tecnica superiore12 e l’ammissione presupponeva una maturità liceale. Era dunque umanamente impossibile esaudire la mia aspirazione artistica13.
Figura 1 Accademia di Belle Arti di Vienna [fonte: aeiou.at]
Quando tornai a Vienna per la terza volta, dopo la morte di mia madre, e stavolta per restarvi molti anni, ero sereno e risoluto. Avevo riacquisito l’ostinazione pregressa e avevo nuovamente un obiettivo da raggiungere: volevo diventare un architetto. Gli ostacoli non esistono per condurci alla resa, ma per essere affrontati e superati. E io volevo riuscirci, con l’immagine di mio padre davanti a me, che da povero villano e garzone di calzolaio era diventato un funzionario statale. Le mie basi erano più solide e le risorse volitive maggiori. Quel che allora mi sembrava un destino infausto, oggi mi appare la saggezza della Provvidenza. Mentre la dèa del bisogno14 mi stringeva tra le braccia e minacciava di spezzarmi, crebbe la mia forza di volontà e, alla fine, ebbe la meglio. Ringrazio questa fase della vita per avermi permesso di rafforzare il carattere. E ancor più la ringrazio per avermi strappato dal vuoto dalla vita agiata che trascorrono i
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Scuola di costruzione al Politecnico di Vienna. Hitler stilizzò la fallita ammissione all’Accademia come l’esito del genio incompreso, perché il successo artistico sarebbe dipeso dalle raccomandazioni. Hitler ebbe una lettera di presentazione dell’architetto Alfred Roller, ma non volle andarlo a trovare a Vienna per mostrargli le sue opere, temendone la disapprovazione [KA, n. 17]. 14 Allusione a Pea, dèa della povertà e del bisogno, musa delle arti.
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29 mammoni dalle mani molli e per avermi dato come nuova madre la necessità15, per aver gettato un ragazzo timido nel mondo del bisogno e della povertà e per avergli fatto capire ciò per cui avrebbe dovuto lottare16. All’epoca mi si aprirono gli occhi di fronte a due pericoli, di cui non conoscevo altro che i nomi e di cui non avrei mai potuto capire il terribile significato per l’esistenza del popolo tedesco. Vienna, da molti ritenuta il simbolo di un’innocua allegria, il luogo festoso per persone allegre, divenne il ricordo vivente del periodo più triste della mia vita. Ancor oggi quella città risveglia in me cupi pensieri. Cinque anni di miseria e di sofferenza ho trascorso in quella città di feaci17. Cinque anni in cui, prima come garzone, poi come decoratore, mi dovetti guadagnare il pane quotidiano, un pane veramente misero che non bastava mai a saziare la mia fame. Essa era la mia guardiana fedele, l’unica a non abbandonarmi mai, capace di dividere onestamente ogni cosa con me. Ogni libro che mi procuravo suscitava il suo interesse, ogni spettacolo all’Opera faceva sì che mi tenesse compagnia per giorni e giorni. Ingaggiavo una lotta continua con la mia spietata amica. Tuttavia quegli anni mi sono serviti da lezione come nient’altro. Al di fuori dell’architettura e degli spettacoli all’Opera per cui mi toglievo il pane di bocca, erano i libri l’unica mia gioia quotidiana. Leggevo in continuazione e con grande attenzione. I ritagli del mio lavoro li passavo interamente a studiare. In pochi anni mi costruii le basi di un sapere ancor oggi utile18. Ma ancor di più, in quel periodo mi costruii un’immagine e una visione del mondo19, che sono diventate le granitiche fondamenta del mio agire. Non c’è stato bisogno né di aggiungere, né di cambiare nulla rispetto a quanto avevo appreso allora. Credo fermamente che il pensiero creativo faccia la sua comparsa in quella fase della gioventù, sempre che uno ce l’abbia. Distinguo tra la saggezza dell’età, frutto delle esperienze di una lunga vita, e la genialità giovanile, che produce inesauribili
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Hitler usò metafore simili nella lettera inoltrata al magistrato di Linz del 21 gennaio 1914, in cui tentò di giustificare la renitenza alla leva dell’autunno 1909. Dal 1908 Hitler visse grazie al sussidio per gli orfani, all’eredità materna e al prestito della zia Johanna. A metà 1909 Hitler esaurì i mezzi finanziari. Dal 1910 il lavoro di pittore di cartoline gli permise di condurre un’esistenza modesta [KA, n. 21]. 16 Nel 1905 la vendita di casa Hitler a Leonding fruttò circa 5.500 corone. I traslochi, le frequentazioni scolastiche a Steyr e i viaggi a Vienna ridussero il patrimonio, così come le spese mediche per le cure materne. La somma dell’eredità materna ammontava a circa 2.000 corone. Inoltre Hitler e la sorella ricevevano circa 25 corone al mese come sussidio per gli orfani. L’eredità paterna di 652 corone era bloccata fino al compimento del ventiquattresimo anno di età. Con la somma di circa 1.000 corone e il sussidio mensile Hitler poté vivere un annetto a Vienna senza lavorare [KA, n. 22]. 17 Popolazione mitica dell’Odissea omerica, sinonimo di godimento spensierato. 18 Fino al 1910 Hitler non lavorò affatto a Vienna. 19 Il termine di Weltanschauung (visione del mondo) fu usato per la prima volta da Immanuel Kant nella Critica del giudizio (1790) per indicare la rappresentazione soggettiva del mondo. Il termine, che corrisponde in italiano a “filosofia”, a visione delle cose, indicava per il nazionalsocialismo un sistema di valori fissato dalla razza, dal carattere e dal destino. Bibliografia: E. Jäckel, Hitlers Weltanschauung. Entwurf einer Herrschaft. Erweiterte und überarbeitete Neuausgabe, seconda edizione, Stoccarda, Deutsche VerlagsAnstalt, 1983; D.K. Naugle, Worldview. The history of a concept, Grand Rapids (Michigan), Eerdmans, 2002.
30 pensieri inutilizzabili a causa del loro gran numero20. La gioventù fornisce la materia prima e i piani per il futuro, da cui l’età prende le pietre, le sgrossa e guida la costruzione finché la “saggezza dell’età” non stroncherà la genialità giovanile.
Figura 2 August Kubizek (a sinistra) e Reinhold Hanisch (a destra) [fonte: wikipedia.de]
La mia vita nella casa paterna non differiva da quella degli altri ragazzi: vivevo spensieratamente giorno dopo giorno e non esistevano problemi sociali. L’ambiente della mia giovinezza era quello della piccola borghesia che aveva ben pochi rapporti con i lavoratori manuali. Non bisogna meravigliarsi se esiste un abisso così profondo tra il mio ceto economicamente non brillante e il lavoratore manuale. Il motivo dell’“inimicizia” risiede nella paura da parte del mio gruppo sociale, che ha da poco abbandonato il lavoro manuale, di tornare alla condizione precedente di strato sociale ben poco considerato o, perlomeno, di esser ritenuto alla sua pari. Per non parlare del terribile ricordo della miseria culturale di quella classe inferiore, della rozzezza sociale che rendeva intollerabile anche il più piccolo contatto con quella cultura e con quello stile di vita. Pertanto accadeva spesso che chi si trovava in una posizione superiore guardasse dall’alto in basso i suoi prossimi meno fortunati, come se si trattasse di “parvenu”. Perché parvenu sono tutti coloro che, attraverso la loro attività, si elevano dalla loro attuale posizione sociale a un gradino superiore. Spesso quella lotta assai aspra finisce per uccidere la compassione. La lotta dolorosa per l’esistenza uccide la sensibilità verso la miseria di chi è rimasto indietro. In tal senso, il destino fu benevolo verso di me. Da una parte mi costrinse a ritornare in quel mondo di povertà e d’insicurezza che mio padre aveva abbandonato nel corso della sua esistenza; ma dall’altra, mi tolse il paraocchi da un’educazione piccolo-borghese. Solo così imparai a conoscere gli uomini: imparai a distinguere la vuota apparenza, la brutale esteriorità e la profonda interiorità. 20
Sulle “astrazioni intellettuali” dei giovani sradicati vedi capitolo 2-II.
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Figura 3 Senza tetto nel Wiener Kanal intorno al 1900 [fonte: derstandard.at]
A fine Ottocento Vienna era una città con profonde diseguaglianze sociali. La più abbagliante ricchezza e la più ripugnante povertà si alternavano senza sosta. Nel centro e nei quartieri contigui si udiva il battito dell’Impero di cinquantaduemilioni di persone e l’inquietante magia dello Stato delle nazionalità. La corte, con il suo sfarzo luccicante, attraeva come un magnete l’intellighenzia e la ricchezza da tutto il paese. Di qui la forte centralizzazione della monarchia asburgica21. Solo così era possibile tenere insieme quel coacervo di popoli così diversi. Ecco spiegata la straordinaria concentrazione di alti uffici nella principale città dell’Impero. Ma Vienna non era solo politicamente e intellettualmente la capitale della vecchia monarchia danubiana. Lo era anche economicamente. Accanto a una schiera di alti ufficiali, di funzionari statali, di artisti e di dotti c’era anche un esercito ancora più grande di lavoratori. Di fronte alla ricchezza dell’aristocrazia e del commercio c’era una povertà macchiata di sangue. Davanti ai palazzi della Ringstrasse morivano di fame migliaia di disoccupati; e sotto questa via triumphalis della vecchia Austria dimoravano i senzatetto nei canali di scolo oscuri e fangosi22. In nessun’altra città tedesca era possibile studiare la questione sociale meglio che a Vienna. Ma non bisogna farsi illusioni. Lo “studio” non può avvenire dall’alto in basso. Chi non si trova nelle spire soffocanti di quel serpente, non potrà mai assaggiarne la velenosità. In tutti gli altri casi si tratta di chiacchiera superficiale o di Con l’Ausgleich (compromesso) del 1867, l’Impero d’Austria divenne Austria-Ungheria, una doppia monarchia con due governi, due parlamenti e un solo imperatore. 22 A causa degli angusti spazi abitativi, dei rincari e dei scarsi diritti dei conduttori, gli sfratti e i senzatetto erano all’ordine del giorno nella Vienna prebellica. Hitler visse fino al 18 novembre 1908 con Kubizek in Stumpergasse da Maria Zekreys, fino al 20 agosto 1908 da Helene Riedl e dal 22 agosto al 16 settembre 1909 da Antonia Oberlechner. Dall’autunno 1909 visse nel Männerheim di Meidling [KA, n. 42].
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32 falso sentimentalismo. Entrambi sono sentimenti deleteri: la prima non permette di arrivare al cuore del problema, il secondo gli passa accanto. Non so cosa sia peggio: se l’indifferenza di fronte alla miseria quotidianamente dimostrata dalla maggioranza delle persone baciate dalla fortuna o dalle persone che si sono elevate per meriti propri, oppure la supponenza indelicata di certe donne alla moda in giacca e pantaloni “sensibili alle sorti popolari”23. Queste persone peccano molto più di quanto non pensino. Con loro somma meraviglia, l’effetto della loro attività sociale è pressoché nullo. Anzi, spesso tale attività è accolta con un indignato rifiuto, a “naturale” testimonianza dell’ingratitudine popolare. Che un’attività sociale abbia poco a che fare con la carità e, soprattutto, non debba pretendere ringraziamento poiché non distribuisce misericordia, semmai deve ristabilire la giustizia, è un concetto estraneo a quelle menti umanitarie. Io evitai di sperimentare la questione sociale in tal modo. Entrando nella sfera d’influenza della sofferenza, essa non sembrava invitarmi a “imparare” la lezione, semmai a mettermi alla prova. È inutile che il coniglio sopravviva sano e salvo alle operazioni. Se provo a ricostruire il nugolo di sensazioni di allora, ci riesco solo approssimativamente. Le impressioni più essenziali e sconvolgenti possono essere illustrate dai pochi insegnamenti che trassi allora. Allora non fu troppo difficile procurarmi un lavoro. Pur non essendo un esperto artigiano, potei guadagnarmi il pane come garzone o come lavoratore occasionale. Mi mettevo nei panni di tutti coloro che si scuotevano i piedi dalla polvere europea, con l’incrollabile proposito di crearsi nel Nuovo Mondo una nuova esistenza e di conquistare una nuova patria. Liberatesi da ogni paralizzante idea di lavoro e di posizione sociale, di ambiente e di tradizione, queste persone fanno tesoro di ogni lavoro offerto, arrivando alla conclusione che un lavoro onesto è comunque onorevole. Anch’io ero deciso a recarmi nel mio “Nuovo Mondo” per farmi strada. Che ci fosse lavoro, lo imparai ben presto; ma imparai anche quanto fosse facile perderlo. L’incertezza del pane quotidiano mi apparve il lato peggiore della nuova vita. Il lavoratore “esperto” non è gettato per strada così frequentemente come quello che lo è meno. Salvo che nemmeno il primo è completamente immune da quella sorte. Ma può contrastare con la serrata o con lo sciopero la perdita del “pane” dovuta alla disoccupazione. Solo che l’incertezza della paga quotidiana si vendica atrocemente su tutta l’economia. Il contadinotto che vaga per la grande città attratto da un lavoro poco faticoso, da un orario breve e, soprattutto, dalla luce splendente della metropoli, è abituato a I ceti superiori non erano del tutto indifferenti all’indigenza e alla povertà, come attestano la Società contro il pauperismo e l’accattonaggio, fondata nel 1880, nonché l’alto numero di filantropi anche ebrei della Società per la creazione e per il mantenimento di stanze calde, cui ricorse lo stesso Hitler [KA, n. 45].
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33 guadagnare con una certa sicurezza. Si preoccupa di lasciare il vecchio posto di lavoro solo se ne ha un altro in vista. Così la penuria di lavoratori agricoli è grande, mentre la probabilità di una prolungata disoccupazione è bassa. È sbagliato ritenere che il ragazzotto a zonzo per la città sia intagliato in un legno “cattivo”, dato che non è più foraggiato dalle zolle campagnole. Al contrario, l’esperienza insegna che tutti gli emigranti sono persone sane e attive. A questa schiera appartengono non solo l’emigrato in America, ma anche il giovane che abbandona il villaggio natio per andare nella grande città24. Anch’egli è disposto ad affrontare un destino incerto. Possiede un gruzzoletto di denaro e, inizialmente, non si perde d’animo se la fortuna non gli arride. La cosa peggiore è perdere subito un lavoro appena conquistato: trovarne uno nuovo, soprattutto d’inverno, è difficile se non impossibile. Passano le prime settimane, riceve un sussidio di disoccupazione dal suo sindacato e si arrangia come può. Ma quando ha speso anche l’ultimo centesimo e non ha più diritto al sussidio, ecco che inizia l’indigenza. Allora vagabonda affamato dopo aver venduto anche l’ultimo oggetto. Indossa il suo unico vestito e precipita esteriormente in una condizione che gli fa male fisicamente e lo avvelena moralmente. È senza tetto e, come spesso accade, l’inverno accresce la sua sofferenza. Finalmente trova un lavoro, ma il gioco si ripete: la seconda volta resta ancora più duramente colpito, la terza volta è ancor peggio, finché non impara a sopportare l’incertezza con sempre maggior indifferenza, abituandosene. Così si piega una persona attiva, che finisce per obbedire alle necessità dei bisogni immediati. È stata così spesso disoccupata senza motivo che ignora se si tratti della lotta per i diritti economici o della distruzione dei diritti civili, sociali o culturali. Se non ha più voglia di scioperare, diventa indifferente a qualsiasi avvenimento esterno25. Io ho potuto verificare migliaia di volte questo processo con i miei occhi. Quanto più vedevo il “gioco”, tanto più aumentava la mia avversione nei confronti della metropoli, che attirava avidamente le persone per poi triturarle crudelmente. Non appena giunte in città, le persone appartenevano ancora al popolo. Se vi restavano, non più. Anch’io ero stato sballottato nella grande città e avevo vissuto sulla mia pelle quell’infausto destino. Osservavo il veloce passaggio dal lavoro alla disoccupazione e viceversa, così come le conseguenti oscillazioni di reddito e di condizione, che distruggevano alla lunga il senso di parsimonia e la capacità di un saggio risparmio. Il corpo si abituava a scialacquare nei tempi di grassa e a soffrire la fame in quelli di magra. Anzi, la fame eliminava ogni buon proposito di una saggia parsimonia nei tempi migliori, attirando chi è angustiato con immagini illusorie di un benessere continuo. E questo sogno genera una tale nostalgia che l’ansia distrugge ogni proposito di moderazione non appena si ha un po’ di denaro e un salario. Una volta avuto un lavoro, il giovane abbandona ogni ragionevolezza, anziché mantenere una certa moderazione. Rovescia il piccolo ménage settimanale, pone fine a una saggia parsimonia. All’inizio ci vogliono cinque giorni anziché sette, poi tre, alla fine solo uno per scialacquare tutta la paga alla prima notte. La mobilità spaziale aumentò nell’Ottocento. Nella doppia monarchia, intorno al 1910, erano circa novemilioni e mezzo i migranti interni, che non vivevano più nel loro luogo di nascita [KA, n. 49]. 25 Sul problema dello sciopero vedi capitolo 12-II.
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34 A casa ci sono moglie e figli; talvolta anche loro sono contagiati da questa vita. In particolare se l’uomo è buono e li ama. Il salario sarà dunque consumato in due o tre giorni; si mangia e si beve finché c’è denaro e poi negli ultimi giorni si fa la fame. Allora la moglie sgattaiola fra i vicini, si fa prestare qualcosa, fa piccoli debiti con il bottegaio e cerca di tener duro fino agli ultimi giorni. A mezzogiorno, moglie e marito siedono di fronte alle loro scodelle misere, talvolta completamente vuote; attendono il prossimo salario, ne parlano, fanno progetti e, mentre languono per la fame, sognano della felicità avvenire. Così i bambini conoscono questa sofferenza già dalla prima infanzia. Peggio ancora se il marito va subito per la sua strada e la moglie, per amore dei figli, gli si rivolta contro. Allora sorgono le liti e le accuse reciproche. E quanto più marito e moglie si allontanano, tanto più l’alcool fa la sua comparsa. Il marito si ubriaca ogni sabato. L’istinto d’autoconservazione per sé e per i bambini porta la moglie ad azzuffarsi per strappargli pochi centesimi, perlopiù lungo la strada dalla fabbrica alla bettola. Alla fine il marito arriva a casa la domenica o il lunedì ubriaco fradicio e brutale, senza più neanche un centesimo. E giù con scenate incredibili. Ho visto centinaia di casi simili. Dapprima ne ero disgustato e indignato. Poi capii tutta la tragicità di quella sofferenza e ne compresi le cause profonde. Vittime infelici di circostanze infauste. Ancor più cupe erano le condizioni delle abitazioni a Vienna. Le condizioni abitative dei lavoratori non qualificati erano spaventose. Rabbrividisco ancor oggi al pensiero di quei tuguri miserabili, di quegli alloggi affollati, a quelle immagini tetre di rifiuti, di sporco ripugnante e di rabbia. Cosa sarebbe accaduto se quegli schiavi liberati dai buchi obbrobriosi si fossero riversati sugli altri, sui propri simili senza pietà! Poiché l’altro mondo è sconsiderato. Lascia stupidamente che le cose facciano il loro corso, privo della sensibilità di intuire che il destino potrebbe vendicarsi se le persone non si rappacificassero con la loro sorte. Come sono grato alla Provvidenza per avermi fatto frequentare una scuola simile, dove non si può ignorare ciò che non ci piace. Mi ha fatto crescere velocemente e a fondo. Per non cedere alla disperazione del ambiente dovevo imparare a scindere tra l’apparenza esteriore, la vita e le cause dello sviluppo. Solo così potevo tollerare quella miseria senza perdermi d’animo. Da tutta quella infelicità e da quella sofferenza, dai rifiuti e dall’abbandono non emergono uomini, ma solo tristi risultati di leggi deplorevoli. Proteggendomi dalla durezza di una lotta per l’esistenza molto difficile, evitavo di arrendermi al lamentoso sentimentalismo di fronte ai degradati esiti finali di quel processo. No, non bisogna intenderlo così. Già allora osservai che solo due strade potevano condurre al miglioramento sociale: un profondo senso sociale di responsabilità per la creazione di condizioni migliori, insieme a una brutale determinazione nel recidere le escrescenze inguaribili.
35 Come la natura pone la massima cura non alla conservazione dell’esistente, ma all’allevamento delle nuove generazioni, rappresentanti della specie, così nella vita umana non si tratta solo di innestare artificialmente un’esistenza debole, inaccettabile nel 99% dei casi all’indole umana, ma di garantire un percorso più sicuro al mondo avvenire. Già durante la mia lotta per l’esistenza viennese mi fu chiaro che l’attività sociale non deve essere considerata un’assistenza ridicola e inutile, ma deve annullare quei limiti organizzativi della vita culturale ed economica, che devono condurre o possono favorire le degenerazioni individuali26. La difficoltà di procedere con mezzi brutali e risolutivi contro la delinquenza asociale deriva in gran parte dall’incertezza se ci siano dei moventi o delle cause profonde di tali fenomeni. Questa incertezza è attribuibile al senso di colpa di fronte a quelle tragedie, che paralizza la determinazione e favorisce il ricorso a misure oscillanti, deboli e palliative di autoconservazione. Soltanto quando un’epoca non sarà più infestata dalle ombre del senso di colpa, avrà anche la forza interiore, brutale e spietata di asportare i germogli selvatici, di sradicare le erbacce. Poiché lo Stato austriaco ha una giurisdizione e una legislazione sociali pressoché nulle, grande è la sua debolezza nel combattere le maligne escrescenze visibili. Non so che cosa mi indignasse di più all’epoca: se l’indigenza dei miei compagni, la rozzezza dei costumi o il loro basso livello culturale27. Spesso la nostra borghesia non avverte sdegno morale quando sente dalla bocca di un qualunque miserabile vagabondo che non gli importa di essere tedesco, ma solo di ricevere il suo sussidio. La mancanza di “orgoglio nazionale” è profondamente deplorata e la borghesia esprime un profondo disprezzo di fronte a tale indifferenza. Quanti di loro, però, si sono chiesti se la causa non sia la loro pusillanimità? Quanti di loro comprendono veramente l’infinità di singole reminiscenze di grandezza patriottica e nazionale, da tutti gli ambiti della vita artistica e culturale, che permette loro di essere orgogliosi di appartenere a un popolo così dotato?
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Il termine di Entartung (degenerazione) fu popolarizzato dal medico-scrittore ungherese di origine ebraica Max Nordau (1849-1923) nell’omonimo libro del 1892 per criticare l’arte e la cultura moderne. L’espressione di “arte degenerata” fu usata per definire le avanguardie antifigurali dopo la Prima guerra mondiale e fu lo stesso nazismo a farne un modello negativo (come nell’omonima mostra inaugurata a Monaco il 18 luglio 1937). Bibliografia: G. Pelloni, Tra razza, medicina ed estetica. Il concetto di degenerazione nella critica culturale della Fin de siècle, Padova, Unipress, 2008. 27 La cerchia sociale di Hitler era limitata all’amico Kubizek. Nulla si sa circa le frequentazioni femminili, mentre alcuni studiosi sospettano relazioni omosessuali. Oltre ai compagni del Männerheim vanno segnalati i partner commerciali ebrei Jakob Altenberg e Samuel Morgenstern. Bibliografia: L. Machtan, Il segreto di Hitler, Milano, Rizzoli, 2001.
36 Quanti di loro sanno che l’orgoglio patriottico è strettamente legato alla conoscenza della propria grandezza in tutti quegli ambiti? I nostri circoli borghesi riflettono su quanto siano meschini i presupposti dell’orgoglio patriottico trasmesso al “popolo”? Dicono sempre che “tutto il mondo è paese”. Ma altrove il lavoratore è considerato parte integrante del suo carattere nazionalpopolare. Se anche avessero ragione, questo non giustificherebbe la loro omissione. Ma così non è. Ciò che noi indichiamo con educazione “sciovinista” a proposito, per esempio, dei francesi, non è altro che lo straordinario risalto in ogni ambito culturale o, come gli stessi francesi dicono, della “civilizzazione”28. Il giovane francese non è allevato nell’oggettività29, ma nella visione soggettiva, che è immaginabile se è in gioco il ruolo culturale e politico della sua patria. Questa educazione dovrà limitarsi sempre a punti di vista generali, ma importanti, che, se necessario, andranno impressi nella memoria e nel sentimento popolare con un’eterna ripetizione. È un peccato di omissione distruggere quel poco di positivo che si ha la fortuna di imparare a scuola. I ratti che avvelenano politicamente il nostro popolo divorano anche quel poco orgoglio dal cuore e dalla memoria delle masse, sempre che non portino addirittura alla povertà e alla sofferenza30. Si provi a immaginare la seguente situazione: in uno scantinato costituito da due cupe camere si stipa una famiglia operaia di sette persone. Tra i figli abbiamo un bambino di tre anni, età in cui le prime impressioni infantili si imprimono indelebilmente nella coscienza31. Nelle persone sensibili si trovano fino a età avanzata le tracce di quei ricordi. Ristrettezza e sovraffollamento non sono certo le condizioni migliori di vita. Liti e lamentele sorgono in continuazione. Le persone non vivono insieme, ma si soffocano a vicenda. I contrasti che avvengono in case spaziose, possono essere appianati dalla separazione, quindi si risolvono praticamente da sé, mentre nei tuguri non è possibile. I bambini riescono a sopportarlo. Finiscono per litigare continuamente, ma anche per dimenticarsene velocemente. Ma quando la lotta è combattuta quotidianamente dai genitori in forme così brutali da non lasciare presagire nulla di buono, è inevitabile che ci siano delle conseguenze, sia pure lente, e che i risultati di queste “lezioni” si mostrino sui bambini. Quale forma possano assumere quei contrasti (dagli eccessi di violenza brutale del marito sulla moglie ai maltrattamenti in stato di ubriachezza), è difficile capirlo per chi non conosce quell’ambiente socio-familiare. A soli sei anni il bambino sperimenta situazioni di fronte alle quali anche un adulto proverebbe orrore. Avvelenato psicologicamente, La contrapposizione fra “civiltà” e “civilizzazione” fu resa famosa dalle Considerazioni di un impolitico di Thomas Mann (1918). Bibliografia: A. Deoriti, S. Paolucci, R. Ropa (ed.), Germania pallida madre. Cultura tedesca e Weltanschauung nazista, Chiaravalle, L’orecchio di Van Gogh, 2002. 29 Hitler spesso cita l’“oggettività” come uno dei sintomi del malessere tedesco, l’incapacità di superare la “ragione” astratta per far spazio al “sentimento” concreto. Bibliografia: S. Ranulf, Hitlers Kampf gegen die Objektivität, Copenaghen, Munksgaard, 1946. 30 Sull’interpretazione hitleriana della didattica della storia vedi capitolo 2-II. 31 Questa descrizione si baserebbe, secondo Alice Miller, sulle esperienze del piccolo Adolf [KA, n. 67].
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37 denutrito fisicamente, con la testolina piena di pidocchi, il piccolo “cittadino” va alla scuola elementare. È ovvio che imparerà a leggere e a scrivere con grande fatica. Di studiare a casa neanche a parlarne32. Al contrario, i genitori parlano in modo osceno di scuola di fronte ai bambini e agli insegnanti; sono pronti a dire grossolanità oppure a picchiare i bambini per riportarli alla “ragione”. Tutto ciò che i bambini avvertono a casa non favorisce certo il rispetto dei loro simili. Niente di buono sull’umanità, nessuna istituzione è esclusa. A cominciare dall’insegnante sino alle più alte cariche statali, che si tratti di religione o di morale, dello Stato o della società, tutto è insultato, trascinato nel turpe fango di idee vili. Quando il ragazzo termina la scuola dell’obbligo, è difficile capire se sia peggio la grande ottusità conoscitiva oppure l’insolenza educativa collegata all’amoralità adolescenziale, che fanno rizzare i capelli in testa. Quale posizione può occupare una persona che non rispetta alcunché, che disprezza la grandezza, ma che conosce la miseria quotidiana e che non sa cosa fare della sua vita? Dal bambino di tre anni è uscito un quindicenne che non rispetta alcuna autorità. Oltre allo sporco e ai rifiuti, il giovane non ha conosciuto altro, nulla che gli possa suscitare un po’ di entusiasmo. Ora inizia la scuola superiore dell’esistenza. Affronta quella vita che ha assorbito da suo padre negli anni dell’infanzia. Vagabonda qua e là, torna a casa quando vuole, picchia, tanto per cambiare, quella creatura già straziata di sua madre, per un qualche motivo è condannato e finisce in un carcere minorile. Ed ecco la goccia che fa traboccare il vaso. I cari borghesi sono sconcertati dalla mancanza di entusiasmo nazionale del giovane “cittadino”. Essi vedono come a teatro, al cinema, nella letteratura dozzinale33 e nei giornali di infimo livello siano versati giorno dopo giorno quintali di veleno sul popolo e poi si stupiscono della “corruzione” dei costumi e dell’“indifferenza” delle masse popolari! Come se il cattivo gusto del cinema, i romanzetti da quattro soldi e fango simile potessero costituire i fondamenti consapevoli della grandezza patriottica! Ma sull’educazione passata neanche una parola. Quel che prima non avevo neanche immaginato, a Vienna lo imparai velocemente e a fondo. Il problema della “nazionalizzazione”34 di un popolo è strettamente collegato a quello della creazione di condizioni sociali sane, fondamento plausibile dell’educazione del singolo. Solo chi, Dal 1774 l’obbligo scolastico nella Cisletania era dai 6 al 12 anni. Dal 1869 fu portato a 7 anni, con due anni facoltativi. 33 A partire dagli anni Venti si sviluppò in Germania un’industria del divertimento popolare, che comprendeva gare sportive, fiere, teatri, cinema, radio, musica, club ecc. Molti parlarono di americanizzazione e di impoverimento culturale. La Legge federale per la difesa della gioventù dalla letteratura dozzinale (dicembre 1926) elencava una serie di espressioni da tenere sotto controllo. Il tema dell’americanizzazione della cultura fu ripreso dalla Scuola di Francoforte con l’espressione “industria culturale” [KA, n. 73]. 34 L’espressione “nazionalizzazione” si riferisce storicamente al processo attuato dai totalitarismi novecenteschi per coinvolgere le masse democratiche nell’arena politica attraverso l’uso di simboli e di 32
38 attraverso l’educazione e la scuola, impara a conoscere la grandezza economica e culturale della propria patria, saprà e vorrà appartenere a un popolo simile. Io posso lottare solo per ciò che amo, amare ciò di cui ho rispetto e rispettare quel che conosco. Non appena iniziai a interessarmi della questione sociale, cominciai a studiarla a fondo e mi si schiuse un mondo finora ignoto. Dopo il 1910 la mia situazione economica era migliorata. Non lavoravo più come manovale, ma come disegnatore e acquarellista35. Se da una parte il salario era così basso che mi bastava appena per campare, d’altra parte era funzionale alla professione che desideravo svolgere. Ora non tornavo più a casa così stanco da non poter più aprire un libro, senza addormentarmi all’istante. Il mio attuale lavoro correva parallelamente alla mia professione futura. Potevo gestire il mio tempo molto meglio di prima. Dipingevo per vivere e studiavo per mio diletto. Potevo così farmi le basi anche teoriche della questione sociale. Leggevo con attenzione tutto ciò che riguardava quell’ambito e sprofondavo nelle mie riflessioni. Credo che i miei conoscenti mi ritenessero un tipo un po’ strano. Ovviamente, mi dedicavo con fervore alla mia amata architettura. Dopo la musica, la ritenevo la regina delle arti. Il mio lavoro, per certi versi, non era un dovere, ma un piacere. Potevo leggere o disegnare fino a tarda notte e non ero mai stanco. Questo rafforzò la mia fiducia nel fatto che, sia pure dopo lunghi anni, il mio sogno si sarebbe avverato. Non trovavo strano il profondo interesse per la politica. Anzi, mi sembrava il dovere di ogni persona in grado di pensare. Chi non se occupa, perde ogni diritto di critica e di lamentela. Anche sulla politica lessi e imparai molto. Ovviamente con “leggere” intendo qualcosa di diverso rispetto alla media della nostra cosiddetta “intellighenzia”36. Conosco persone che leggono costantemente, pagine dopo pagine, libri dopo libri e che definirei “eruditi”. Possiedono una cultura enciclopedica, ma il loro cervello non è in grado di organizzare e di ordinare il materiale. Manca loro la capacità di separare, nei libri, ciò che utile da ciò che non lo è, ciò che bisogna tenere a mente e ciò che bisogna tralasciare, in quanto superfluo. Leggere è un mezzo, non un fine: dovrebbe servire anzitutto a “riempire la cornice” che costituisce il talento e la dote di ciascuno di noi. Inoltre la lettura deve fornire gli strumenti e il materiale utili alla vita pratica, che si tratti di guadagnare il pane quotidiano o di soddisfare uno scopo più rituali aggregativi. Qui Hitler lamenta la scarsa inclusione delle masse nella vita politica. Bibliografia: G.L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (1815-1933), introduzione di R. De Felice, Bologna, Il Mulino, 1974. 35 Alla fine del 1909 Hitler conobbe Reinhold Hanisch nel Männerheim di Meidling. Hanisch si prestò come mediatore nella vendita di cartoline e di acquerelli. La collaborazione finì pochi mesi dopo, quando Hitler accusò Hanisch di vendere furtivamente alcune sue opere. 36 Sul disprezzo hitleriano per l’intellighenzia vedi capitoli 6-I e 4-II.
39 nobile. In secondo luogo, deve trasmettere una visione del mondo. In entrambi i casi è necessario che il materiale letto non sia stipato come una sequenza ordinata di libri, ma come tessere di un mosaico che contribuisce a elaborare un’immagine del mondo nella testa del lettore. Altrimenti otterremo un guazzabuglio di elementi raccogliticci inutili, che rendono lo sfortunato lettore un pedante presuntuoso. Egli crederà veramente di essere “colto”, di conoscere la vita e di saperla lunga, mentre, come tutte le escrescenze di quella “formazione”, sarà alieno alla verità esistenziale e finirà in un sanatorio oppure siederà da “politico” in Parlamento. Egli non riuscirà mai a trarre dal caos del suo “sapere” ciò che gli è più utile all’occorrenza, poiché il suo fardello intellettuale non è sulla stessa lunghezza d’onda della vita, ma sulla serie dei libri, sul modo in cui li ha letti e ne ha immagazzinato il contenuto37. Se il destino volesse mostrarci il corretto utilizzo quotidiano di ciò che abbiamo letto, dovrebbe indicarci il libro e la pagina, altrimenti quel poveretto non troverebbe mai il giusto riferimento. Dato che non lo fa, i cosiddetti “intellettuali” sono inermi al momento critico: cercano disordinatamente i precedenti e afferrano con mortifera sicurezza il rimedio sbagliato. Se così non fosse, sarebbe impossibile comprendere l’operato politico dei nostri eroici governanti nelle loro più alte cariche, a meno che non si decida di considerare gli infamanti gesti di viltà delle mere predisposizioni patologiche. Chi invece ha interiorizzato l’arte della lettura, avrà la capacità di rendersi velocemente conto, leggendo libri, giornali od opuscoli, di ciò che va trattenuto stabilmente (perché conveniente o interessante). Non appena il materiale letto si integra in un quadro onnipresente, che ha creato una rappresentazione di questo o quell’oggetto, esso agirà in modo correttivo o integrativo, aumentandone quindi la bontà o la chiarezza. Se la vita presenta improvvisamente un problema da risolvere, la memoria delle letture passate si rivolgerà immediatamente all’immagine esemplare e ne trarrà i singoli elementi necessari raccolti in passato. Così sottoporrà la ragione a nuovi punti di vista, finché la questione non sarà chiarita del tutto. Solo così la lettura avrà un senso e uno scopo. Un oratore, per esempio, che non sottoponga al vaglio della ragione il materiale necessario, non sarà mai in grado di sostenere il suo punto di vista in una disputa serrata, anche se avesse dalla sua parte tutte le ragioni del mondo. In ogni discussione la memoria lo pianterà vergognosamente in asso e non troverà motivi sufficienti per rafforzare la sua posizione, né per confutare l’avversario. Finché si tratta, come accade a un oratore, di mortificare un singolo, che passi pure. Peggio sarà quando il destino porrà quel “sapientone” inetto alla guida di uno Stato. Sin dall’infanzia mi sono sforzato di leggere in modo corretto e, fortunatamente, fui aiutato dall’intelligenza e dalla memoria. Da questo punto di vista, gli anni viennesi mi furono particolarmente utili. Le esperienze quotidiane mi spingevano allo studio delle più diverse questioni. Essendo capace di dare un fondamento teorico alla realtà e 37
Kubizek sostiene Hitler lesse a Linz e a Vienna numerosissimi libri, fra cui i classici e filosofi come Schopenhauer. La Hamann sostiene che Hitler non avesse particolare interesse per le lettere, se non per gli aforismi. La biblioteca privata oggi conservata al Congresso americano è carente di classici [KA, n. 84].
40 di verificare la teoria all’atto pratico, fui in grado di non teorizzare eccessivamente, ma neanche di appiattirmi sulla realtà. In quegli anni le esperienze mi portarono a considerare altri due problemi importanti, oltre a quello sociale e all’indigenza. Chissà quando avrei approfondito lo studio e l’essenza del marxismo se non avessi letteralmente sbattuto il muso sul problema dell’indigenza! Quel che io nella mia giovinezza sapevo della socialdemocrazia era veramente poco e quel poco inesatto. Ero lieto che la socialdemocrazia combattesse per il suffragio universale segreto38, perché sapevo che ciò avrebbe indebolito l’odiato governo asburgico. Convinto che lo Stato danubiano non sarebbe sopravvissuto al sacrificio del germanesimo, che la lenta slavizzazione dell’elemento tedesco non avrebbe garantito la sopravvivenza dell’Impero, poiché la forza dell’elemento slavo era assai discutibile, vedevo con favore ogni sviluppo che avrebbe condotto al tracollo di quello Stato impossibile, responsabile della condanna a morte di dieci milioni di tedeschi. Quanto più la babele linguistica corrodeva e lacerava il Parlamento, tanto più si avvicinava l’ora del disfacimento dello Stato “babilonese” e, quindi, la liberazione del mio popolo austro-tedesco. Solo così poteva verificarsi l’annessione alla vecchia madrepatria39. Perciò l’attività dei socialdemocratici non mi era affatto antipatica. Il fatto che quel partito, come la mia ingenuità mi portava a credere, mirasse a migliorare le condizioni di vita dei lavoratori, mi sembrava un argomento a suo favore, ma anche contrario. Quel che più mi irritava era la posizione contraria alla lotta per la conservazione del germanesimo, il penoso tentativo di ottenere il consenso dei “compagni” slavi in cambio di concessioni materiali, perché, in caso contrario, essi si sarebbero rifiutati arrogantemente e presuntuosamente di dare il loro sudato salario a quei mendicanti molesti40. Quindi la parola “marxismo” mi era quasi sconosciuta all’età di sedici anni, mentre “socialdemocrazia” e “socialismo” mi sembravano la stessa cosa. Ci volle il pugno del destino41 per aprirmi gli occhi sull’inaudito imbroglio ai danni del popolo. Se fino a quel momento avevo conosciuto il partito socialdemocratico da semplice osservatore durante alcune manifestazioni di massa42, senza avere neppure la 38
Il suffragio austro-ungarico fu progressivamente ampliato sino alla legge del gennaio 1907 che regolava il voto nella metà austriaca dell’Impero. Il voto attivo era esteso agli uomini di oltre 24 anni, quello passivo di oltre 30. La socialdemocrazia austriaca, sostenitrice della riforma, ottenne dal 1911 la maggioranza nel parlamento austriaco [KA, n. 89]. 39 Sul tema dell’Anschluss vedi capitolo 1-I. 40 Col programma di Brunn (settembre 1899) la Sozialdemokratische Partei Österreichs (Partito socialdemocratico austriaco) sostenne l’equiparazione dei diritti di tutti i popoli della monarchia e pretese la sua trasformazione in uno Stato federale democratico di nazionalità. Bibliografia: H. e S. Lehmann, Die Nationalitätenproblem in Österreich, 1848-1918, Gottinga, Vandenhoeck & Ruprecht, 1973. 41 Possibile all’allusione agli omonimi film muti di Alwin Neuss (1917) o di Alfred Schirokauer (1921). 42 Il 26 febbraio 1918 Hitler assistette con Kubizek a una manifestazione di disoccupati davanti al Parlamento, dispersa dalla polizia.
41 più pallida idea della mentalità dei loro appartenenti o delle loro teorie, ora venni di colpo a contatto con i prodotti della loro educazione e della loro “visione del mondo”. E ciò che si sarebbe verificato solo dopo decenni, accadde nel giro di pochi mesi: compresi che si trattava di una pestilenza travestita da virtù sociale e da amore per il prossimo, da cui bisognava liberare velocemente l’umanità, perché, in caso contrario, l’umanità sarebbe scomparsa dalla faccia della terra. Il mio primo incontro con i socialdemocratici avvenne nel cantiere43. Sin dall’inizio non fu un incontro amichevole: i miei abiti erano in ordine, il modo di esprimermi curato e il mio comportamento riservato. Ero così impegnato a costruire il mio futuro da occuparmi ben poco di ciò che mi accadeva intorno. Lavoravo giusto per non morir di fame, in modo da proseguire la mia lenta formazione. Me ne sarei stato per i fatti miei, se già al terzo o quarto giorno non ci fosse stato un avvenimento che mi costrinse a prendere posizione: fui invitato a entrare nell’organizzazione. Le mie conoscenze sull’organizzazione sindacale erano pari a zero. Non sarei riuscito a dimostrarne né l’utilità, né il nocumento per la causa dei lavoratori. Poiché mi fu detto che io avrei dovuto entrare a farne parte, decisi di rifiutarmi. Motivai la cosa affermando di non capire queste cose e che, soprattutto, non volevo essere costretto a farlo. Fu questo il motivo principale per cui, forse, non fui sbattuto subito fuori. Speravano forse di convertirmi in un paio di giorni o di ammorbidire la mia intransigenza. Ma si sbagliavano di grosso. In due settimane imparai a conoscere da vicino l’ambiente che mi circondava. E niente al mondo avrebbe potuto spingermi a entrare in un’organizzazione, i cui rappresentanti mi apparivano sotto una luce così sfavorevole. I primi giorni fui irritato. A mezzogiorno una parte dei miei compagni andava in un’osteria delle vicinanze, mentre un’altra parte restava in cantiere a consumare un misero pasto. Si trattava degli uomini sposati, ai quali le mogli portavano la zuppa in povere stoviglie. Verso la fine della settimana il numero di queste persone divenne più grande. Il motivo lo capii dopo: erano stati politicizzati. Io bevevo la mia bottiglia di latte e mangiavo il mio pezzo di pane in disparte, osservando con attenzione l’ambiente o riflettendo sul mio destino avverso. Ma capivo ciò che mi serviva. E mi sembrava spesso che volessero accostarsi a me per spingermi a prendere partito. In ogni modo, ciò che udivo aveva il dono di farmi arrabbiare. Rifiutavano tutto: la nazione come invenzione delle classi “capitalistiche” (espressione che sentivo piuttosto spesso); la patria come strumento della borghesia per sfruttare i lavoratori; l’autorità della legge come mezzo per sottomettere il proletariato; la scuola come istituzione per l’allevamento di manodopera schiavista, ma anche di schiavisti; la religione come mezzo per rimbambire i popoli destinati allo sfruttamento; la morale come segno di una stupida pazienza. Non c’era nulla che non fosse gettato nel fango.
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Non esistono prove circa l’attività di manovale di Hitler.
42 All’inizio decisi di non intervenire, ma poi non mi trattenni più. Cominciai a prendere posizione e a contraddirli. Dovetti però riconoscere che era assolutamente inutile, almeno finché io non avessi acquisito determinate conoscenze sui punti controversi. Così cominciai a frugare tra le fonti da cui loro traevano la loro presunta saggezza. Lessi libro dopo libro, opuscolo dopo opuscolo. Nel cantiere regnava l’agitazione. Io litigavo, sempre più consapevole delle teorie socialiste rispetto ai miei stessi avversari, finché un giorno si arrivò a quel mezzo che prevale facilmente sulla ragione: il terrore, la violenza44. Alcuni dei loro portavoce mi costrinsero a lasciare il cantiere, altrimenti mi avrebbero fatto volare giù dall’impalcatura. Essendo solo, la mia resistenza non aveva senso. Preferii seguire il loro consiglio amichevole, anche per arricchire la mia esperienza personale. Me ne andai nauseato, ma anche sconvolto da qualcosa che non avrei mai potuto dimenticare. No, dopo l’indignazione fu l’ostinazione ad avere la meglio. Io ero fermamente deciso a tornare a lavorare in un cantiere. Decisione rafforzata dal bisogno che si fece sentire alcune settimane più tardi, quando finii tutto il salario che avevo messo da parte e che mi spinse di nuovo tra le loro braccia, volente o nolente. Il gioco ricominciò per poi finire nello stesso modo in cui era iniziato. Dentro di me ero molto combattuto. Mi chiedevo se quella gente fosse degna di appartenere a un grande popolo. Una domanda angosciante: se la risposta fosse stata affermativa, non avrebbe avuto senso che i migliori avessero lottato e si fossero sacrificati per un carattere nazionalpopolare composto da una feccia di tale risma. Se la risposta fosse stata negativa, avrebbe significato che il nostro popolo mancava di uomini veri. Con l’animo oppresso scrutavo, in quei giorni di fantasticheria e di tormento, le masse di inaffidabili antipatrioti gonfiarsi in un esercito minaccioso. Un giorno fissai con ben altri sentimenti le schiere di una dimostrazione operaia viennese, disposte su quattro file45. Rimasi in piedi per quasi due ore a osservare col fiato sospeso l’enorme verme umano che si srotolava lentamente46. Colto da un penoso avvilimento, abbandonai la piazza e mi avviai verso casa. Lungo la strada vidi in una tabaccheria l’“Arbeiterzeitung”, l’organo centrale della socialdemocrazia austriaca47. Mi sedetti in una modesta caffetteria, dove mi recavo spesso per leggere il giornale. Lo aprii, ma mi resi conto che il tono di quel miserabile fogliaccio aveva su di me l’effetto del vetriolo. Non resistetti più di due minuti. Depresso della dimostrazione di piazza, una voce interiore mi incitò a comprare il giornale e a
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Sul tema della legittimità della violenza politica vedi capitolo 5-II. I tafferugli per strada non erano rari in quegli anni, specialmente a seguito del carovita. Hitler probabilmente partecipò in prima persona alla dimostrazione del 17 settembre 1911 [KA, n. 105]. 46 Il Drachenwurm (filaria di Medina o verme di Guinea) è un endoparassita che provoca la dracunculosi, malattia infettiva diffusa in Africa, in Medio Oriente e nel subcontinente indiano. Karl May descrisse nel romanzo La carovana di schiavi (1893) un caso di dracunculosi. 47 L’“Arbeiter Zeitung” (Giornale dei lavoratori) era l’organo centrale della Partito socialdemocratico austriaco, diretto all’epoca da Friedrich Austerlitz, di origine ebraica. Bibliografia: P. Pulzer, Die Reaktion auf den Antisemitismus, in S.M. Lowenstein et al. (ed.), Deutsch-jüdische Geschichte in der Neuzeit, III volume: 1871-1918, Monaco, C.H. Beck, 1997, pp. 249 ss. 45
43 leggerlo con attenzione. Lo feci quella sera, cercando di superare il senso di rabbia montante verso quell’ammasso di menzogne.
Figura 4 Dimostrazione contro il carovita a Vienna (1911) [fonte: protestwanderweg.at]
La stampa quotidiana socialdemocratica era assai più utile degli scritti teorici per capire l’essenza del pensiero socialista. Che differenza tra le frasi scintillanti di libertà, di bellezza e di dignità dei saggi teorici, fra quelle ciance di fatua saggezza, tra quella morale schifosamente umanitaria48 – il tutto vergato con la profonda sicurezza del profeta – e quei giornali operai “lenitori” della nuova umanità, pieni di insulti, capaci di mentire come pochi! La letteratura era per i merli della media e alta intellighenzia, la stampa per le masse. Approfondire i saggi e la stampa socialista significava riscoprire il mio popolo. Quel che mi sembrava un baratro senza fondo, mi apparve ora motivo di un amore ancora più grande. Solo un pazzo può maledire la vittima di fronte a quell’enorme azione venefica. Quanto più mi formavo una visione autonoma delle cose, tanto più scrutavo a distanza le cause profonde dei successi socialdemocratici. Capii il significato della brutale pretesa di avere solo giornali rossi, di frequentare solo riunioni rosse, di leggere solo libri rossi, ecc. Vidi con estrema chiarezza l’inevitabile risultato di una teoria intollerante. La psiche delle masse non è sensibile ai mezzi toni e alla debolezza49. Sulla critica hitleriana dell’umanitarismo vedi capitolo 10-I. La visione hitleriana della massa, che si ispirava alla Psicologia delle folle di Gustave Le Bon (1895), era ambivalente: pur essendo minacciosa, la massa era considerata la forza del futuro, da disciplinare e
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44 Proprio come le donne, la cui sensibilità non è determinata dalla ragione astratta, ma da un’impalpabile nostalgia sentimentale verso una forza complementare e che, quindi, si piega volentieri alla forza bruta50, così il popolo ama più i dominatori che gli oranti e si sente intimamente più soddisfatto da una teoria intollerante che dalla concessione della libertà. La massa ha in genere poco a che fare con libertà e vi fa poco affidamento. Comprende assai poco la sfacciataggine del terrorismo intellettuale, così come l’abuso della libertà umana, ma non si rende conto della follia della teoria socialista: vede solo la forza spietata e la brutalità delle sue manifestazioni, a cui si piega. Alla socialdemocrazia si potrà opporre, sia pure dopo una lunga lotta, una teoria che avrà la stessa brutalità, ma una maggiore veridicità. Nel giro di un paio anni afferrai la linea teorica e i mezzi della socialdemocrazia. Compresi a fondo l’infame terrore intellettuale che quel movimento esercitava su una borghesia immatura moralmente e psicologicamente, quando, all’occorrenza, avviava un martellamento di bugie e di diffamazioni contro un nemico pericoloso, fino a piegare i nervi degli aggrediti e a costringerli a sacrificare l’elemento inviso. Lo stolto non ha alcuna requie51. Il gioco ricomincia daccapo, finché la paura nei confronti del cagnaccio non produce una suggestiva paralisi. Poiché la socialdemocrazia conosce per esperienza il valore della forza, si scaglia contro coloro che sono fatti della sua stessa pasta. Di contro, elogia la debolezza della controparte timidamente o apertamente, a seconda delle doti intellettuali riconosciute o presunte. La socialdemocrazia non teme un genio debole e passivo, ma la forza della natura seppur dotata di spirito modesto. Cerca insistentemente di infondere spirito e forza nei deboli. Deve dare l’impressione di mantenere la quiete, mentre, con saggia ma imperterrita cautela, conquista posizioni su posizioni, ora con silenzioso ricatto, ora con veri e propri furti nei momenti in cui l’attenzione generale è rivolta altrove, sia perché non vuole essere disturbata, sia perché ritiene la circostanza di scarsa importanza per suscitare grosso scalpore e per provocare così il nemico. La tattica di far leva sulle debolezze umane conduce al successo con precisione quasi matematica, a meno che la controparte non impari a combattere allo stesso modo (gas velenoso contro gas velenoso)52. forgiare secondo la propria volontà. La massa era “femminea” e quindi manipolabile, ma anche istintiva e alla base di una forte organizzazione sindacale. Bibliografia: O. Plöckinger, Rhetorik, Propaganda und Masse in Hitlers “Mein Kampf”, in K. Kopperschmidt (ed.), Hitler der Redner, Monaco, Fink, 2003, pp. 115-141; J.Y. Gonen, The roots of Nazi psychology. Hitler’s utopian barbarism, Lexington (Kentucky), The University of Kentucky Press, 2013. 50 Allusione al modello borghese-vittoriano di carattere sessuale femminile e maschile diffuso all’epoca a partire dalla Psycopathia sexualis di Richard von Krafft-Ebbing (1886). 51 Possibile riferimento al passo biblico dei Proverbi (29,9). 52 Allusione all’esperienza bellica poi esposta nel capitolo 5-I.
45 Alle nature deboli bisogna dire: essere o non essere53. Compresi pure il significato del terrore fisico contro il singolo e contro la massa. Anche qui vi era un calcolo degli effetti psicologici. Il terrore sul posto di lavoro, in fabbrica, nelle riunioni e in occasione di dimostrazioni di massa, ha sempre successo, fintantoché non subentra una paura maggiore. In tal caso il partito sbraiterà come un forsennato, strillando come vecchio spregiatore di ogni autorità statale, per raggiungere lo scopo nel caos generale. Troverà, infatti, uno stupido alto funzionario che, nella vana speranza di compiacere un nemico pericoloso, collaborerà alla distruzione dell’avversario di questa vera e propria peste planetaria54. Quale impressione eserciti tale successo sulle masse degli aderenti o dei rivali, può capirlo solo colui che conosce l’anima di un popolo non solo dai libri, ma anche di prima mano. Poiché, mentre nelle file degli aderenti la vittoria appare ormai come il trionfo della giustizia, il rivale battuto comincia a dubitare dell’utilità di un’ulteriore resistenza. Quanto più a fondo conoscevo i metodi del terrore fisico, tanto più cresceva la mia comprensione nei confronti di chi cedeva. Ringrazio di questo soprattutto il mio doloroso periodo viennese, che mi riportò al popolo e che mi permise di distinguere le vittime dai seduttori. Infatti i prodotti di quella seduzione di massa non sono altro che delle vittime. Se io mi sforzassi di fornire alcuni schizzi degli strati “inferiori” popolari, dovrei ammettere anche che, in tale oscurità, scorgevo la luce nelle forme di una sempre più rara volontà di sacrificio, di fedele cameratismo, di straordinaria sobrietà e di grande modestia, in particolare fra i vecchi operai. Anche se quelle virtù sono perdute fra le giovani generazioni soprattutto per colpa della grande città, ci sono molte persone, il cui buon sangue è rimasto integro nonostante le avversità della vita. Se questa brava gente entra nelle file dei nemici mortali del nostro carattere nazionalpopolare e li aiuta a indebolirlo, dipende dal fatto che non capiscono la bassezza della nuova teoria. Perché nessuno si prenderebbe la briga di preoccuparsi che i rapporti sociali diventino più forti di qualsiasi altra cosa al mondo e della mutua volontà. Il bisogno impellente li spinge sempre più tra le braccia della socialdemocrazia. Poiché la borghesia ha fatto comunella innumerevoli volte in maniera goffa e immorale contro richieste umanamente comprensibili, senza peraltro ottenere alcun beneficio o pensare di poterlo ottenere, l’onesto lavoratore si sente spinto dai sindacati a fare politica attiva. Milioni di lavoratori erano sicuramente nemici, inizialmente, del Partito socialdemocratico, ma la loro resistenza fu fiaccata dal modo folle e irragionevole in cui i partiti borghesi si opposero a ogni istanza di riforma sociale. L’ottuso rifiuto di migliorare le loro condizioni lavorative, di proteggerli contro la meccanizzazione, di impedire il lavoro minorile e di difendere la donna perlomeno nei mesi d’attesa del Prima allusione al noto dilemma dell’Amleto shakespeareano (atto III, scena 1). Lo slogan di Weltpest (peste planetaria) fu usato per la prima volta nell’articolo La posizione di Hitler sulla questione ebraica, apparso su “Der Nationalsozialist” (Il nazionalsocialista) del 17 agosto 1924. L’espressione sarà usata nuovamente a un’adunanza nazista di Monaco del 27 febbraio 1925 [KA, n. 120].
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46 futuro membro della comunità nazionalpopolare55, ha contribuito a far cadere le masse nella rete della socialdemocrazia, che le ha attirate grazie a idee misericordiose. Nessun può porre rimedio alla nostra “borghesia” politica irremissibile. Contrastando ogni tentativo di eliminare le sofferenze sociali, essa ha alimentato l’odio e ha giustificato le affermazioni dei nemici del popolo, secondo cui solo la socialdemocrazia rappresenterebbe veramente gli interessi dei lavoratori. Sorse così, per prima cosa, il fondamento morale per l’esistenza dei sindacati, che sono i più importanti fiancheggiatori dei partiti politici. Nei miei anni di apprendistato viennese fui anche costretto, volente o nolente, a prendere posizione sulla questione sindacale56. Poiché lo consideravo una parte inscindibile dal partito, la mia decisione fu veloce, e sbagliata. Io rifiutai categoricamente il problema. Anche qui il destino mi diede una bella lezione. Il risultato fu un capovolgimento della mia posizione iniziale. A vent’anni avevo imparato a distinguere tra il sindacato come mezzo per la difesa dei diritti sociali del lavoratore e della lotta per il conseguimento di migliori condizioni di vita, e il sindacato come strumento del partito per la lotta di classe. Il fatto che la socialdemocrazia desse grande importanza al movimento sindacale, le garantiva lo strumento e insieme il successo. Ma anche l’incomprensione borghese aveva ripercussioni sulla sua posizione politica: credeva di eliminare il sindacato con un presuntuoso “rifiuto”, semplicemente dirottandolo su un binario morto. Era una folle menzogna la tesi che il movimento sindacale fosse antipatriottico. Era vero il contrario: se l’attività sindacale si pone come fine il miglioramento di uno strato sociale fondamentale della nazione, non è né nemica della patria, né dello Stato. Semmai è autenticamente “nazionale”. E lo è anche creando i presupposti sociali per un’educazione nazionale. Ottiene un enorme profitto terrorizzando i cancri della società, eliminando gli agenti patogeni spirituali e fisici, contribuendo quindi alla salute del corpo popolare57. È irrilevante chiedersi se il sindacato sia o meno importante.
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Il concetto di Volksgenosse (membro della comunità nazionalpopolare) era sinonimo da fine Ottocento di connazionale, senza particolare coloritura politica o razziale. A inizio Novecento assunse anche una coloritura sociale. Durante la guerra, gli autori nazionalpopolari iniziarono a connotarlo biologicamente e razzialmente. Nel “Programma dei Venticinque Punti” (1920) il Volksgenosse era opposto all’ebreo. 56 Le Freie Gewerkschaften Österreichs (Liberi sindacati d’Austria), fondate come organizzazione centralizzata nel 1892, rappresentavano l’ala socialdemocratica del movimento sindacale austriaco. La base sindacale fu spesso scuola di reclutamento partitico. Bibliografia: F. Klenner, Die österreichische Gewerkschaftsbewegung, Vienna, ÖGB-Verlag, 1999. 57 Il concetto di Volkskörper (corpo popolare), proveniente della demografia ottocentesca, era utilizzato in pressoché in tutte le aree politiche weimariane. Sorto inizialmente con connotazione neutra, il termine assunse una coloritura razziale grazie alle influenze socialdarwinistiche di fine Ottocento. Gli ebrei furono diffamati come “agenti patogeni”. Bibliografia: B. Neumann, The phenomenology of the German people’s body (Volkskörper) and the extermination of the Jewish body, in “New German Critique”, 36, 2009, pp. 149-181.
47 Finché tra i lavoratori ci saranno persone con una ristretta sensibilità sociale e con uno scarso senso della giustizia, non è solo un diritto, ma anche un dovere da parte dei dirigenti di una parte del nostro carattere nazionalpopolare proteggere gli interessi della comunità dalla cupidigia e dall’irragionevolezza del singolo. Il mantenimento della lealtà e della fiducia nel corpo popolare è interesse della nazione, così come la conservazione della salute del popolo. Entrambe sono minacciate da imprenditori indegni che non si sentono parte integrante della comunità nazionalpopolare58. La loro avidità e spietatezza saranno cause avvenire di danni irreparabili. Eliminare le cause di tale sviluppo sarebbe meritevole per la nazione, e non il contrario. Non si dica che ognuno è libero di trarre le proprie conseguenze da un’ingiustizia, vera o presunta che sia. È una bugia, è un tentativo di distrarre l’attenzione generale. L’eliminazione delle pratiche antisociali deve avvenire nell’esclusivo interesse della nazione. Se così sarà, la lotta avverrà con armi che consentiranno di ottenere la vittoria. Il singolo lavoratore non è in grado di opporsi allo strapotere delle grandi imprese, poiché qui non si tratta della vittoria della giustizia (in tal caso, lo sciopero non avrebbe motivo di essere), ma di puro potere. In altri casi, il senso di giustizia porrebbe fine allo sciopero in maniera più onorevole, e sarebbe giusto così. No, quando un trattamento asociale e indegno delle persone spinge alla resistenza, la lotta si deciderà a favore del più forte, finché le autorità legislative e giuridiche non elimineranno gli effetti nocivi. È ovvio che al singolo individuo e, quindi, alla forza concentrata dell’imprenditore possa opporsi soltanto la massa di lavoratori sintetizzata in un singolo individuo, per non rinunciare da principio alla possibile vittoria. Perciò il sindacato può condurre a un rafforzamento pratico del pensiero sociale nella vita di tutti i giorni e, quindi, all’eliminazione delle cause scatenanti del malcontento. Se non avviene, è colpa di coloro che, grazie al loro influsso politico, ostacolano l’eliminazione dei mali sociali. Mentre la borghesia non comprese il significato del sindacato e si oppose alla sua rivolta, la socialdemocrazia si occupò del discusso movimento. Costruì, quindi, una solida base su cui fare affidamento nei momenti difficili. Naturalmente, lo scopo originario finì per far spazio ad altri moventi. La socialdemocrazia non ha mai pensato di conseguire gli scopi originari del suo movimento “professionale”. No, non l’ha mai pensato.
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Il concetto di Volksgemeinschaft (comunità nazionalpopolare) è considerato il nucleo centrale del pensiero nazionalsocialista. Definiva una comunità popolare basata sulla comunanza di sangue, di destino e di politica, estranea ai conflitti classisti. L’appartenenza alla “razza ariana” era condizione necessaria, ma non sufficiente per l’inclusione nella comunità nazionalpopolare. Bisogna infatti adottare una visione del mondo nazista. Bibliografia: C. Essner, La Volksgemeinschaft e l’esclusione dei “diversi”, in M. Cattaruzza et al., Storia della Shoah, vol. I: La crisi dell’Europa e lo sterminio degli ebrei , Torino, UTET, 2008, p. 699 ss.
48 In pochi decenni, sotto le sue mani esperte, il sindacato, da sostegno dei diritti dei lavoratori, si è trasformato nello strumento per la distruzione dell’economia nazionale. Gli interessi dei lavoratori non dovevano minimamente ostacolarlo. L’utilizzo della leva economica consente infatti di esercitare continui ricatti anche politici, in presenza del necessario cinismo e della stupida imbecillità. Come avvenne in questo caso. Già a fine secolo i movimenti sindacali avevano concluso da tempo la loro missione storica. Anno dopo anno furono emarginati della politica socialdemocratica, per diventare solo una pezza d’appoggio alla lotta di classe59. I sindacati avrebbero dovuto abbattere l’intero corpo economico, faticosamente costruito, attraverso continue spallate. Alla fine lo Stato, privato delle sue fondamenta economiche, avrebbe fatto la sua stessa fine. La rappresentanza dei bisogni reali dei lavoratori non era più così rilevante, poiché l’astuzia politica non dava più importanza all’alleviamento delle condizioni sociali e culturali della massa popolare. C’era il rischio che, soddisfatti i suoi bisogni, la massa non potesse più fungere da esercito acefalo. Molti dirigenti socialisti ebbero il timore che una simile burrasca avrebbe indotto la massa all’acquiescenza, a contrastare l’eventuale rivoluzione. Per giustificare questo presunto e incomprensibile comportamento, i sindacati non dovevano apparire timorosi. Alzando l’asticella delle loro richieste, il soddisfacimento appariva così marginale e insignificante da far credere alla massa che si trattasse del diabolico tentativo borghese di indebolire la forza d’urto dei lavoratori o, addirittura, di paralizzarla. Vista la limitata capacità riflessiva della massa, la dirigenza sindacale non dubitava del suo successo. La borghesia s’indignava di fronte alla palese ipocrisia socialdemocratica, senza però trarne la benché minima conclusione per una nuova linea politica60. Il timore socialdemocratico di fronte a un futuro perfezionamento culturale e sociale del popolo avrebbe dovuto spingere la borghesia a togliere di mano lo strumento dai rappresentanti della lotta di classe. Ma così non avvenne. Invece di attaccare la posizione nemica, i borghesi furono indotti a ricorrere a palliativi insufficienti e inefficaci. Quindi tutto restò come prima, ma il malcontento crebbe a dismisura. Il “libero sindacato” incombeva come una tempesta minacciosa sull’orizzonte politico e sul destino del singolo. Era uno dei più pericolosi strumenti terroristici contro la sicurezza e l’indipendenza dell’economia nazionale, contro la solidità dello Stato e la libertà della persona.
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Sulle differente di vedute sulla questione sindacale nella destra nazionalpopolare vedi capitolo 12-II. Sul rapporto ambivalente di Hitler verso la massa vedi capitolo 4-II.
49 Fu quel sindacato a ridicolizzare il concetto di democrazia, a danneggiare la libertà e a oltraggiare il sentimento di fratellanza con l’espressione: “se non vuoi diventar compagno, in testa ti colpiremo” 61. Così imparai a conoscere quell’“amico del popolo”62. Nel corso degli anni ho approfondito la sua conoscenza, ma non ho mai cambiato opinione in merito. Quanto più osservavo dall’esterno la socialdemocrazia, tanto più sorgeva in me il desiderio di impossessarmi del nucleo più profondo della sua teoria. La letteratura ufficiale di partito era assolutamente inutile. Sui problemi economici fa affermazioni e dimostrazioni scorrette, ma mente sugli obiettivi politici. Inoltre mi ripugnavano le espressioni particolarmente saccenti e i suoi ragionamenti. Le frasi erano costruite con un enorme dispendio di parole poco chiare o incomprensibili: volendo apparire molto intelligenti, esse finivano per essere insensate. Solo la decadente bohème metropolitana poteva sentirsi a suo agio in quel labirinto intellettuale, ricavando una “esperienza interiore” da quel letamaio di dadaismo letterario63, sorretto dalla proverbiale modestia di una parte del nostro popolo che scorge profonde verità nelle cose più incomprensibili. Solamente confrontando la menzogna teorica e l’insensatezza di quella teoria con la realtà della sua manifestazione, mi feci un quadro chiaro sul suo obiettivo. In quei frangenti ero attanagliato da cupi presentimenti e da paure. Percepivo una teoria basata sull’egoismo e sull’odio, costruita matematicamente per la vittoria, che avrebbe portato alla fine dell’umanità. Nel frattempo, avevo imparato a comprendere i legami tra quella teoria distruttiva e l’essenza di un popolo, cosa fino a quel momento sconosciuti. Solo la conoscenza dell’ebraismo mi offrì la chiave per la comprensione delle più intime intenzioni della socialdemocrazia. Chi conosce il popolo ebraico, squarcia il velo sulle opinioni fuorvianti relative allo scopo e al senso del partito socialdemocratico64. E dall’oscurità e dalla nebbia dei proclami sociali si svela il volto ghignante del marxismo65. Ancora oggi è difficile, se non impossibile, dire quando la parola “ebreo” fu per la prima volta causa della mia riflessione. Nella casa paterna non ricordo assolutamente di averla mai sentita. Credo che l’anziano signore avrebbe considerato
In origine: “E non vuoi essere mio fratello, così ti rompo la testa”. Il proverbio del 1848 era un richiamo al motto della Rivoluzione francese: fraternità o morte. In campo nazionalpopolare era ritenuto un motto bolscevico, anche se stesso lo stesso Anton Drexler ne faceva uso [KA, n. 139]. 62 Ironica allusione a Jean-Paul Marat (1743-1793). 63 Sul dadaismo vedi capitolo 10-I. 64 Possibile allusione al “velo di Maya” di Schopenhauer. Attraverso la socialdemocrazia è possibile risalire a “ciò che sta dietro”: cioè l’ebraismo. 65 La visione hitleriana del marxismo quale “rappresentazione” della “volontà” ebraica è ricorrente in tutto il libro, finendo per sussumere indifferentemente tutte le forme di attivismo politico di sinistra.
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50 un sintomo di arretratezza culturale l’enfasi su quel termine66. Nel corso della sua vita aveva acquisito una certa visione cosmopolita, che mi aveva influenzato insieme a un rigido sentimento nazionalista. Anche la scuola non mi diede mai l’occasione di cambiare l’immagine che mi ero fatto. Nella Realschule conobbi un ragazzo ebreo taciturno, che trattavamo tutti con cura, ma di cui non ci fidavamo perché smaliziato da precedenti esperienze. Non avevamo particolari idee al riguardo67.
Figura 5 Adolf Hitler e Ludwig Wittgenstein alla Realschule di Linz (1903-04) [fonte: openculture.com]
Soltanto verso i quattordici, quindici anni venni a contatto con la parola “ebreo”, in parte per via dei discorsi politici. Avvertivo una leggera avversione nei suoi riguardi e non riuscivo a reprimere una certa spiacevolezza che serpeggiava in me quando si trattava di grane confessionali. Allora non ci vedevo nient’altro. A Linz non c’erano molti ebrei68. Nel corso dei secoli, essi avevano secolarizzato il loro aspetto e si erano “umanizzati”69. Anzi, li ritenevo dei veri tedeschi. L’insensatezza di quell’illusione non mi era chiara, perché notavo solo differenze confessionali. La persecuzione antiebraica (così credevo) mi provocava addirittura ribrezzo verso le espressioni discriminatorie. Non avevo idea che esistesse un’inimicizia sistematica contro gli ebrei. 66
Non conosciamo la posizione politica di Alois Hitler. Nel necrologio è descritto con idee progressiste, ma non socialiste. Non si dice nulla del rapporto con gli ebrei [KA, n. 151]. 67 Fra gli allievi ebrei della Realschule di Linz vi era anche il filosofo Ludwig Wittgenstein. Bibliografia: K. Cornish, The Jew of Linz. Hitler, Wittgenstein and their secret battle for the mind, Londra, Century, 1998. 68 La comunità ebraica di Linz era composta da meno di seicento membri intorno al 1900, con relativamente pochi ortodossi. Nell’Alta Austria vivevano solo 1.100 ebrei in totale. Bibliografia: V. Wagner, Jüdisches Leben in Linz, 1849-1943, Linz, Wagner Verlag, 2008. 69 Menschlich (letteralmente umanizzato).
51 Così giunsi a Vienna. Colpito dalle bellezze architettoniche, avvilito dalle difficoltà esistenziali, non avevo certo occhi per la stratificazione sociale della metropoli. Non mi accorsi che la città contava circa duecentomila ebrei su un totale di due milioni di abitanti70. L’occhio e il senso non erano ancora addestrati alla tempesta intellettuale e materiale delle prime settimane. Soltanto quando recuperai un po’ di quiete e il quadro tumultuoso mi divenne più chiaro, scrutai più a fondo nel mio nuovo mondo e mi imbattei nella questione ebraica. Non voglio dire che la circostanza particolare sia stata particolarmente piacevole. Vedevo negli ebrei solo una confessione e, in nome della tolleranza, rifiutavo il conflitto religioso. Quindi il tono antisemita della stampa viennese mi sembrava indegno della tradizione culturale di un grande popolo71. Mi rammentavo di simili eventi nel Medioevo che non volevo si ripetessero72. Poiché quei giornali non erano certo ritenuti autorevoli (ma non ne conoscevo la ragione), li consideravo per lo più il prodotto di un’invidia velenosa piuttosto che il risultato di un’idea fondata – per quanto sbagliata. La mia opinione era rafforzata dal fatto che, almeno in apparenza, la stampa più autorevole rispondeva a quegli attacchi in forme decisamente più rispettabili e – cosa che mi appariva assai apprezzabile – rispondeva con un silenzio di tomba agli antisemiti. Io leggevo avidamente la cosiddetta stampa internazionale (la “Neue Freie Presse”73, il “Wiener Tagblatt”74, ecc.) e mi stupivo della grande offerta al lettore e dell’oggettività della rappresentazione dettagliata. Apprezzavo il tono solenne, anche se trovavo a volte stucchevole e poco piacevole l’esuberanza dello stile. Ma anche questo mi sembrava in linea con la città. Trattandosi di Vienna, credevo che bastasse questa spiegazione. Ciò che mi dava fastidio era il modo squallido in cui la stampa “liberale” si ingraziava la corte. Non c’era avvenimento mondano che non fosse riferito con entusiasmo al lettore oppure con lacrimoso sbigottimento. Smancerie che,
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Intorno al 1910 vivevano a Vienna circa 175.000 ebrei, corrispondenti a circa al 9% della popolazione totale (duemilioni). 71 Fra i giornali dichiaratamente antisemiti presenti a Vienna prima della guerra vi erano l’“Alldeutsches Tageblatt” (Quotidiano pantedesco), la “Deutsche Zeitung” (Giornale tedesco), il “Reichspost” (Posta imperiale) e il “Deutsches Volksblatt” (Foglio tedesco del popolo). Bibliografia: D.M. Vyleta, Crime, Jews and News. Vienna 1895-1914, New York-Oxford, Berghahn Books, 2007. 72 Allusione al segno distintivo, alla ghettizzazione degli ebrei e ai pogrom medievali. 73 La “Neue Freie Presse” (La nuova Stampa liberale), oggi “Die Presse” (La Stampa), sorse nel 1864 come giornale della borghesia conservatrice viennese. Il proprietario e caporedattore era all’epoca Moritz Benedikt (1849-1920), di origini ebraiche morave. Bibliografia: A. Wandruszka, Geschichte einer Zeitung, Vienna, Presse Druck, 1958. 74 Il “Neues Wiener Tagblatt” (Il nuovo Quotidiano viennese), fondato nel 1867 e pubblicato fino al 1945, era di tendenze liberaldemocratiche e antimarxiste. Il redattore capo era all’epoca Wilhelm Singer (1847-1917), di origini ebraiche.
52 specialmente se si trattava del “monarca più saggio di sempre”75, mi sembravano più degne di un gallo cedrone in amore. Questo mi appariva un limite della democrazia liberale. Cercare il favore della corte in forme così indecorose era come svilire la dignità della nazione. Questa fu la prima ombra che offuscò il mio rapporto con la “grande” stampa viennese. Come in precedenza, anche qui io seguii gli avvenimenti della Germania con grande attenzione, in politica e nella cultura. Pieno di orgogliosa ammirazione, paragonavo l’ascesa dell’Impero al lento crepuscolo dello Stato austriaco76. Se gli avvenimenti di politica estera procuravano una gioia unanime, la politica interna, invece, era fonte di vibrante preoccupazione nell’opinione pubblica. Non approvavo la critica di allora contro Guglielmo II77. Non lo consideravo solo il Kaiser tedesco, ma anche il creatore della flotta tedesca78. Il divieto di parola impostogli dal Reichtstag mi irritava enormemente, perché proveniva da un pulpito che, a mio parere, non aveva alcuna diritto di comminarlo. Durante una seduta ordinaria, quelle oche starnazzavano più stupidaggini di quante non fossero mai state prodotte in tutta la vita della dinastia, inclusi tutti i suoi esponenti più indecorosi. Mi indignava il fatto che, in uno Stato dove ogni folle non solo si riteneva in diritto di esercitare la sua critica, ma gli era pure permesso di farlo come “legislatore”, la corona imperiale fosse rimproverata dalla più bassa congrega di chiacchieroni di tutti i tempi79. Ero ancor più sdegnato dal fatto che la stampa viennese, ossequiosa anche di fronte all’ultimo ronzino di corte e prona davanti a ogni sventolio di coda, prendesse posizione contro l’imperatore con apparente preoccupazione, ma in realtà con malcelata malignità. Che non le fosse mai venuto in mente di immischiarsi nelle faccende dell’Impero tedesco, no, Dio ce ne scampi! Mettendo il dito nella piaga, compie il dovere imposto dallo spirito dell’alleanza80, che viceversa soddisfa la verità giornalistica. E come gira quel dito nella ferita! In quei casi il sangue mi saliva alla testa. Di qui la mia crescente diffidenza nei confronti della grande stampa. 75
Soprannome di Francesco Giuseppe I. Vedi capitolo 1-I. 77 Allusione al caso “Daily Telegraph” dell’autunno 1908. Le improvvide rivelazioni fatte da Guglielmo II durante un’intervista provocarono uno scontro istituzionale con il Reichstag e col cancelliere von Bülow. Bibliografia: P. Winzen, Das Kaiserreich am Abbrund. Die Daily Telegraph-Affäre und das Hale-Interview von 1908. Darstellung und Dokumentation, Stoccarda, Franz Steiner, 2002. 78 Guglielmo II, affascinato sin da bambino dalla Marina, avviò una politica di ampliamento della flotta dopo le dimissioni di Bismarck nel 1890. Di qui il progetto di Weltpolitik (politica mondiale). Dal 1897 Alfred von Tirpitz, segretario di Stato alla Marina, fu incaricato di ampliare la flotta. Bibliografia: J. Rüger, The great naval game. Britain and Germany in the age of empire, Cambridge, Cambridge University Press, 2007. 79 Il cliché del parlamento come covo di chiacchieroni era un luogo comune di tutti i partiti weimariani. Bibliografia: W. Durner, Antiparlamentarismus in Deutschland, Würzburg, Königshausen und Neumann, 1997. 80 Allusione alla Duplice Intesa del 1879. 76
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Figura 6 Frontespizio del “Deutsches Volksblatt” (30 luglio 1907) [fonte: photowien.weebly.com]
Dovetti ammettere che un giornale antisemita (il “Deutsches Volksblatt”)81 si era comportato correttamente nell’occasione. Quel che più mi dava sui nervi era il vero e proprio culto giornalistico della Francia82. Mi vergognavo di essere tedesco di fronte a quelle lodi sperticate verso la “grande nazione culturale”83. Questa pietosa smanceria scoraggiava la mia lettura della “stampa internazionale”. Preferivo leggere il “Volksblatt”, un giornaletto che mi sembrava più approfondito su quei temi. Non ero d’accordo con i suoi duri toni antisemiti, ma quel che leggevo mi offriva alcuni spunti di riflessione. In ogni caso, conobbi il movimento e l’uomo che allora guidava il destino di Vienna: il dottor Karl Lueger e il Partito cristiano-sociale, verso cui, nei primi tempi, nutrivo una profonda avversione84. Il mio abituale senso di giustizia mi spinse a cambiare idea non appena ebbi l’occasione di conoscere la figura e l’opera di quell’uomo. Il giudizio equilibrato lasciò spazio a una malcelata ammirazione. Oggi lo ritengo il più grande sindaco tedesco di tutti i tempi85. Fu così che cambiai radicalmente molte delle mie opinioni nei confronti dei cristiano-sociali. Maturai lentamente un cambiamento di vedute nei confronti dell’antisemitismo.
L’antisemita “Deutsches Volksblatt” fu fondato nel 1888 dall’ingegnere edile Ernst Vergani. Inizialmente vicino ai pantedeschi, si spostò poi verso i cristiano-sociali. Fu pubblicato sino al 1922. 82 Sull’idea di Francia come “nemico ereditario” vedi capitolo 13-II. 83 Per Kulturnation si intende una comunità umana unita da una lingua, tradizione, cultura e religione all’interno di un’unica civiltà. La formazione di Stati-nazione come l’Italia e la Germania nel corso dell’Ottocento si deve in larga parte all’esistenza di questo sostrato culturale comune. 84 La Christlichsoziale Partei (Partito cristiano-sociale) fu fondata da Karl Lueger nel 1893. L’aggettivo cristiano fu usato per distinguersi dal mondo ebraico. Il partito era borghese, clericale e monarchico. Bibliografia: J.W. Boyer, Culture and Political Crisis in Vienna. Christian Socialism in Power, 1897-1918, Chicago e Londra, University of Chicago Press, 1995. 85 Sulla figura di Karl Lueger vedi capitolo 3-I.
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54 Ciò mi costò un’enorme lotta interiore, e soltanto dopo infinite battaglie tra ragione e sentimento, la vittoria arrise alla prima. Due anni più tardi il sentimento seguì la ragione e ne divenne il fedele guardiano e protettore86. Nel periodo di lotta più cruenta tra educazione mentale e fredda ragione, mi fu di enorme aiuto la lezione impartita dalle strade viennesi. Giunse il momento in cui io non attraversai più ciecamente le strade della grande città, ma osservai con occhi bene aperti gli uomini, non soltanto le costruzioni. Mentre una volta camminavo in centro, mi imbattei in un individuo dal lungo caffettano e dai riccioli neri87. Ma questo è un ebreo? Mi chiesi.
Figura 7 Ebrei ortodossi a Vienna (1915) [fonte: wikipedia.en]
A Linz non erano affatto così. Osservai l’uomo rapito e cauto. Quanto più fissavo quel viso straniero e ne studiavo i tratti fisiognomici, tanto più si faceva largo in me un’altra domanda: “ma quest’uomo è anche tedesco?” Come sempre cercai una spiegazione ai miei dubbi nei libri. Mi comprai per pochi centesimi i primi opuscoli antisemiti della mia vita. Purtroppo partivano tutti dal Hitler postulò per la prima volta un “antisemitismo della ragione” in una lettera del 16 settembre 1919 ad Adolf Gemlich. Hitler riteneva determinante la lotta e la liquidazione giuridica di tutti i diritti degli ebrei e il loro allontanamento dalla Germania. Il pogrom era il prodotto del “sentimento” popolare. 87 Il caffettano è un cappotto orientale tipico degli ebrei religiosi e tradizionalisti. La maggioranza dei nuovi cittadini ebrei viennesi giungeva dalla Galizia, dall’Ungheria e dalla Romania, anche se si trattava spesso di un transito verso il Nuovo Continente. 86
55 punto di vista che il lettore avesse già una certa dimestichezza sulla questione ebraica. Tra l’altro, il tono era tale che mi convinsi si trattasse di scritti superficiali e privi di qualsivoglia base scientifica88. Piombai nello stato d’animo di alcuni mesi prima. La faccenda mi sembrava così enorme, l’accusa così esagerata che, tormentato dalla paura di sbagliare, ridivenni insicuro. Indubbiamente non si trattava di un tedesco con una propria confessione religiosa, ma di un popolo a se stante. Dopo che cominciai a occuparmi del problema e a prestare attenzione agli ebrei, vidi Vienna sotto un’altra luce. Dovunque andassi non vedevo altro che ebrei profondamente diversi dalle altre persone. In particolare, la città vecchia e i quartieri a nord del canale del Danubio pullulavano di un popolo che esteriormente non aveva nulla a che fare con quello tedesco89. I pochi dubbi mi furono fugati dalla presa di posizione di una parte degli ebrei. Un importante movimento diffuso anche a Vienna fu decisivo per il riconoscimento del carattere nazionalpopolare degli ebrei: il sionismo90. In apparenza sembrava che solo una parte degli ebrei approvasse i suoi progetti, mentre la maggioranza lo giudicasse negativamente o addirittura lo rifiutasse. Ma, a uno sguardo più attento, l’apparenza scompariva in una nebbia oscura di scuse inopportune, per non dire di bugie. Il cosiddetto ebraismo liberale, infatti, rifiutava i sionisti non perché non ebrei, ma in quanto ebrei dalla confessione scomoda, se non addirittura pericolosa91. Nulla mutò rispetto alla loro coesione interna. Questa lotta apparente tra sionisti e liberali finì per darmi il voltastomaco. Era falsa, ipocrita, e poco adatta alle vette morali e alla purezza del popolo ebraico92. Proprio la purezza morale era un aspetto importante. Che non si trattasse di minuzie, lo si vedeva dall’aspetto esteriore, ma anche a occhi chiusi. L’odore degli uomini in caffettano mi nauseava. Per non parlare dei vestiti sporchi e della corporatura non certo robusta. L’antisemitismo era molto popolare nell’Austria di inizio Novecento. Oltre alla versione “cristianosociale” di Lueger vi erano quella pangermanista di Schönerer e quella esoterica di Lanz von Liebenfels. Bibliografia: G. Botz (ed.), Eine zerstörte Kultur. Jüdisches Leben und Antisemitismus in Wien seit dem 19. Jahrhundert, Vienna, Czernin Verlag, 2002. 89 Intorno al 1910, gli ebrei viennesi erano concentrati in alcuni quartieri: Leopoldstadt (34%), Alsergrund (21%), Innere Stadt (20%), Brigittenau (14%), Mariahilf (13%) e Neubau (11%) [KA, n. 174]. 90 A Vienna il sionismo fu propagandato dapprima dal pubblicista Nathan Birnbaum e poi dal più noto giornalista Theodor Herzl. La comunità ebraica era tendenzialmente ostile. Il sionismo era un movimento importante, ma non certo di massa. Bibliografia: V. Pinto, L’ebreo nuovo nazionalista nell’opera di Nathan Birnbaum, “Studi Storici”, 40, 3, 1999, pp. 713-753; T. Herzl, La bella Rosalinda. Racconti filosofici, a cura di V. Pinto, Milano, M&B, 2004. 91 Come in altri paesi occidentali, larga parte della borghesia ebraica si distanziava dal sionismo per timore dell’antisemitismo. Molti ebrei si consideravano cittadini dello Stato e non parte di una nazione. 92 La posizione degli autori antisemiti sul sionismo non era omogenea. Una parte lo riteneva uno strumento per favorire l’espulsione di massa degli ebrei, un’altra un mero “paravento” dell’ebraismo internazionalista. Qui, come nel celebre capitolo 11-I, Hitler dimostra di sostenere la seconda tesi, che peraltro ben si sposa con la sua visione apocalittica e “mondialista” della questione ebraica. 88
56 Tutto questo non era molto bello, ma la sporcizia fisica fu accantonata quando scoprii il sudiciume morale del popolo eletto93. Niente mi impressionò in così breve tempo come la consapevolezza della loro attività in certi settori. Dovunque l’ebreo ci mettesse lo zampino, c’era una tale sporcizia, una tale indecenza, specie nella vita culturale!94 Non appena si fosse inciso chirurgicamente quel tumore, si sarebbe trovato, come un verme in un corpo decomposto, illuminato da un’improvvisa luce: un ebreuccio. Era accuse molto gravi quelle a carico dell’ebraismo, quando io conobbi la sua attività nella stampa, nell’arte, nella letteratura e nel teatro. A poco o nulla servivano tutte le melliflue dichiarazioni. Bastava guardava i manifesti, i nomi dei creatori di quegli orrendi spettacoli per il cinema e il teatro, allora tanto decantati, per rimanere di sale. Era pestilenza, pestilenza spirituale, peggio della morte nera che in passato aveva contagiato il popolo. E come si diffondeva quel veleno! Naturalmente, quanto più è infimo il livello spirituale e morale di quei fabbricanti d’arte, tanto maggiore è la loro prolificità, come un ragazzino che getta in faccia ai passanti i suoi rifiuti con una fionda. Si pensi al loro numero sconfinato95, si pensi al fatto che la natura abbia messo migliaia di quegli scribacchini su un Goethe, quei batteri della peggior specie che avvelenano gli animi96. Era orribile, ma non si poteva dimenticare che proprio l’ebreo era stato selezionato in gran numero dalla natura per quello scopo ignominioso. Ma perché era stato prescelto? Cominciai allora a esaminare accuratamente tutti i nomi dei creatori di quei malsani prodotti culturali97. Crebbe così la mia avversione nei confronti degli ebrei. Per quanto il sentimento lottasse, la ragione trasse le sue conclusioni. Il fatto che nove decimi di immondizia letteraria, di kitsch artistico e di sciocchezze teatrali fossero prodotti del popolo ebraico, che ammontava a un centesimo di tutta la popolazione mondiale, era innegabile. Era così e basta. Il rapporto fra “bellezza” fisica e “bontà” morale è uno degli artifizi retorici ricorrenti di Hitler. La costruzione del corpo “sano” passava anche attraverso l’elaborazione visiva di un corpo “malato”, rappresentato dagli ebrei orientali e dalla loro gracilità, sporcizia, ecc. Bibliografia: S.L. Gilman, The Jew’s Body, New York-Londra, Routledge, 1991; G.L. Mosse, L’immagine dell’uomo. Lo stereotipo maschile nell’età moderna, Torino, Einaudi, 1997. 94 Il contributo di autori ebrei (o di origine ebraica) al modernismo culturale viennese si spiegava anche col fatto che le carriere statali e militari erano tradizionalmente precluse loro. Bibliografia: S. Beller, Vienna and the Jews, 1867-1938. A cultura history, Cambridge, Cambridge University Press, 1989. 95 Gli ebrei, come detto, costituivano a Vienna poco meno il 9% della popolazione totale. 96 La posizione di Goethe sul mondo ebraico era molto sfumata. Bibliografia: P. Varga, Goethe Judenbild und das Goethebild der Juden. Goethes Verhältnis zum Judentum. aktuelles und Historisches, in O. Gutjahr e H. Segeberg (ed.), Klassik und Anti-Klassik. Goethe und seine Epoche, Würzburg, Königshausen und Neumann, 2001, pp. 185 ss. 97 Prima del 1914 era idea comune che gli ebrei fossero riconoscibili dal nome e dall’aspetto. In campo nazionalpopolare furono coniati termini come “semi-Gotha” o “semi-Kürschner” (semi-pellicciaio) per indicare l’influsso ebraico sulla nobiltà, sulla finanza, sulla politica e sull’arte. Semi-Kürschner era il titolo dello scritto di Philipp Stauff del dicembre 1913. [KA, 189].
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57 Iniziai a esaminare la mia cara “stampa internazionale” da questo punto di vista98. Quanto più sondavo la stampa, tanto più diminuiva la mia meraviglia. Lo stile mi era sempre meno tollerabile, il contenuto era banale e insulso, l’oggettività della rappresentazione mi sembrava una balla, anziché la realtà. E gli autori erano ebrei… Mille cose che prima notavo appena, divennero ora più evidenti. E altre cose che già prima mi davano da pensare, le compresi sempre meglio. Il sentimento liberale lo vidi sotto una diversa luce. Il tono elevato in risposta agli attacchi e il silenzio apparivano un trucco furbo e infame. Le loro estasiate critiche teatrali erano di penna ebraica; e mai osservai disapprovazione se non verso i tedeschi99. Il punzecchiamento contro Guglielmo II azionò sistematicamente il loro metodo, così come l’ossequiosità di fronte alla civiltà e alla civilizzazione francesi. Il cattivo gusto dei romanzi divenne volgarità. E dalla lingua percepivo la loro estraneità100. Il senso generale era così negativo per il germanesimo da apparire intenzionale. Ma chi mai poteva avere un tale interesse? Era una pura coincidenza? L’elaborazione fu accelerata da uno sguardo gettato altrove. Bastava osservare e vedere in azione l’intera concezione dei costumi e della morale di gran parte dell’ebraismo. Fu ancora la strada a offrirmi una dura lezione di vita. Il rapporto dell’ebraismo con la prostituzione e con la tratta delle ragazze era così evidente a Vienna come in nessun’altra città occidentale101, a parte forse i porti della Francia meridionale. Chi camminava per le strade e per i vicoli di Leopoldstadt102, era, volente o nolente, testimone di commerci sconosciuti alla maggior parte dei tedeschi, finché le operazioni belliche sul fronte orientale non avrebbero dato l’occasione di vedere qualcosa di simile103.
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Come detto, la preclusione alle carriere pubbliche e militari spinse molti ebrei verso le professioni liberali e l’imprenditoria giornalistica. Leopold Sonnemann fondò la “Frankfurter Zeitung” nel 1856 (oggi “Frankfurter Allgemeine Zeitung”). Rudolf Mosse (nonno dello storico George) fondò il “Berliner Tageblatt” nel 1872 e Leopold Ullstein fu editore del “Morgenpost” dal 1898. La “Neue Freie Presse” era edita da Bacher, mentre la “Deutsche Wochenschrift” da Friedjung. 99 La stampa viennese non risparmiava critiche verso gli autori e attori ebrei. Karl Kraus, nato ebreo ma poi convertitosi al cattolicesimo, derise Arthur Schnitzler in varie occasioni sulla sua rivista Die Fackel (La fiaccola). Bibliografia: W.B. Iggers, Karl Kraus. A Viennese critic of the twentieth century, L’Aia, Martinus Nijhoff, 2012. 100 Allusione al cliché antisemita dell’ebreo che “biascica” il tedesco (cioè parla yiddish). Vedi capitolo 2II. 101 Le accuse di induzione alla prostituzione e di “tratta delle ragazze ebraiche” erano tipici argomenti antisemitici di quegli anni. Bibliografia: E.J. Bristow, Prostitution and prejudice. The Jewish fight against white slavery (1870-1939), Oxford, Clarendon Press, 1982. 102 Una delle principali arterie di Leopoldstadt, zona insediativa preferita di molti ebrei orientali, conduceva al quartiere del divertimento. 103 La Prima guerra mondiale stroncò la tratta internazionale delle bianche, ma promosse la prostituzione per scopi “ricreativi”. Hitler ritornerà su questo tema nel capitolo 10-I, quando parlerà delle malattie sessuali (sifilide).
58 Quando io mi accorsi che gli ebrei erano i capofila freddi e implacabili di quel commercio vergognoso nella feccia metropolitana, mi corse un brivido lungo la schiena. Mi arrabbiai. Non evitai più la discussione sulla questione ebraica, anzi la cercai. Non appena imparai a individuare in tutte le forme culturali e artistiche i diversi aspetti della presenza ebraica, mi imbattei in un altro luogo, dove non avrei sospettato di trovarli. Riconoscendo gli ebrei a capo della socialdemocrazia104, mi cadde la benda dagli occhi. Terminò così un lungo conflitto interiore105. Nelle discussioni quotidiane con i miei compagni ero colpito dalla straordinaria versatilità con cui essi assumevano posizioni diverse su un unico problema, talvolta nell’arco di pochi giorni o addirittura di ore. Mi era difficile capire come persone ragionevoli perdessero la trebisonda non appena si giungesse a toccare la sfera d’influenza della massa. Che disperazione! Quando, dopo infinite discussioni, ero convinto di aver finalmente rotto il ghiaccio o di aver dimostrato l’insensatezza della loro posizione (e me ne rallegravo), dovevo accorgermi che il giorno seguente bisognava ricominciare tutto daccapo: era stato tutto inutile. La follia delle loro opinioni oscillava come un pendolo. Capivo ogni cosa: la loro insoddisfazione, l’imprecazione verso il destino infausto; l’odio verso i padroni, apparenti esecutori spietati di quel destino. Insultavano le autorità che, ai loro occhi, non avevano alcuna comprensione della loro condizione. Capivo perfettamente le rimostranze contro il carovita e che scendessero per strada a difesa dei loro diritti. Ma non capivo l’odio sconfinato rivolto al loro carattere nazionalpopolare, di cui diffamavano la grandezza, insozzavano la storia, gettando nel fango i grandi uomini106. Questa lotta intestina contro la propria specie, contro il proprio nido e la propria patria era insensata e incomprensibile, innaturale. Si poteva guarire da quel vizio temporaneamente, per qualche giorno, per qualche settimana. Ma chi appariva convinto, tornava poi sulle sue posizioni. L’artificio li aveva di nuovo in suo potere. Lentamente compresi che la stampa socialdemocratica era costituita prevalentemente da ebrei. Ma non diedi particolare importanza alla cosa, poiché accadeva anche in altri giornali. Un unico aspetto mi saltava agli occhi: non c’era foglio su cui scrivevano gli ebrei che fosse nazionalista, almeno per come la pensavo io e per come ero stato educato. 104
Sul topos della socialdemocrazia ebraizzata vedi capitolo 5-I. La datazione della conversione hitleriana dal cosmopolitismo all’antisemitismo, qui riprodotto come “naturale evoluzione”, è molto controversa. Negli anni viennesi sono attestati buoni rapporti commerciali con gli ebrei. In questo passaggio Hitler tenta chiaramente di dimostrare la “razionalità” e la “bontà” del suo antisemitismo scevro da motivazioni sentimentali o momentanee. Bibliografia: R.G. Reuth, Hitlers Judenhass. Klischee und Wirklichkeit, Monaco, Piper, 2009. 106 Sugli effetti del “bolscevismo culturale” vedi capitolo 2-II. 105
59 Dato che mi sforzavo di leggere la stampa marxista, la mia avversione cresceva all’inverosimile. Cercai così di conoscere più da vicino gli autori di quella porcheria. Erano tutti ebrei, a cominciare dagli editori. Mi procurai tutti gli opuscoli socialdemocratici che potei e cercai i nomi dei loro autori: ebrei. Mi segnai i nomi di quasi tutti i capi: erano perlopiù esponenti del “popolo eletto”, che fossero rappresentanti in parlamento, segretari del sindacato, presidenti delle organizzazioni o agitatori di popolo. Si trattava sempre della stessa immagine inquietante: i nomi di Austerlitz, David, Adler, Ellenbogen, ecc. non me li dimenticherò mai. Ora mi era chiaro: il partito che affrontavo da mesi in una battaglia spietata, era quasi esclusivamente in mano a un popolo straniero. Avevo finalmente capito, con mia grande soddisfazione, che l’ebreo non era tedesco. Solo allora imparai a conoscere i seduttori del nostro popolo. Un anno di permanenza a Vienna mi aveva insegnato che non c’è lavoratore, per quanto ostinato, che non possa essere persuaso dalla conoscenza e dalle spiegazioni sensate. Ero diventato un perfetto conoscitore della teoria socialista e la utilizzai come arma nella lotta a favore delle mie convinzioni più profonde. Quasi sempre ebbi la meglio. Bisognava salvare le grandi masse, anche a costo di sacrificare tempo e pazienza. Un ebreo non sarebbe mai stato affrancato dalle sue opinioni. Allora ero così ingenuo da voler dimostrare l’insensatezza della loro teoria parlando nella mia piccola cerchia fino a dolermi la lingua e a sgolarmi. Pensavo che sarei riuscito a convincerli della pericolosità della follia marxista, ma ottenni l’effetto inverso. Sembrava che un esame sempre più approfondito degli effetti devastanti delle teorie socialdemocratiche e del loro compimento rafforzasse la loro convinzione. Quanto più mi scontravo con loro, tanto più apprendevo la loro dialettica107. Dapprima contavano sulla stupidità degli avversari, poi, quando non c’era altra via, facevano i finti tonti. Se non bastava, cambiavano immediatamente discorso, dicendo ovvietà basate su argomenti differenti, per poi riaffrontarli, schivandoli e rimanendo sul vago. Se si cercava di attaccare un apostolo socialista, la mano restava appiccata alla loro bava; una volta staccata, le dita sembravano nuovamente appiccicose. Anche se l’ebreo appariva così colpito che, di fronte agli altri, non poteva far altro che acconsentire, il giorno successivo non sembrava avere la minima idea di quel che gli fosse successo, raccontava nuovamente le stesse sciocchezze, come se non fosse accaduto nulla. E se qualcuno gli ricordava l’accaduto, fingeva di non ricordarsi nulla, se non della bontà delle sue affermazioni passate. Spesso quest’atteggiamento mi sbalordiva.
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Le doti dialettiche degli ebrei, che, secondo gli antisemiti, dipendevano dalla tradizione talmudica, li porterebbero a primeggiare nell’arena pubblica, in politica come nella stampa. Bibliografia: S.L. Gilman, Il mito dell’intelligenza ebraica, traduzione di C. Spinoglio, Torino, UTET, 2007.
60 Anzi, non so che cosa mi colpisse di più, se la loro prontezza o l’arte della menzogna108. Così, lentamente, cominciai a odiarli. La cosa buona era che dovunque mi capitasse a tiro un rappresentante o un sostenitore della socialdemocrazia, cresceva l’amore per il mio popolo. Chi poteva maledire la vittima infausta di un diabolico corruttore? Quanto era difficile padroneggiare l’ipocrisia dialettica di quella razza! Quanto inutile era il successo con persone che distorcevano la verità, che rinnegavano ciò che avevano appena detto, per servirsene subito dopo. No, quanto più conoscevo gli ebrei, tanto più mi sentivo di giustificare il lavoratore. La colpa maggiore non era sua, ma di coloro che non si davano la pena, con ostinata inflessibilità, di dare al figlio del popolo quanto gli spettava e di sbattere al muro i corruttori e i distruttori. Spinto dall’esperienza quotidiana, iniziai a esaminare da solo le fonti marxiste. Il loro effetto mi era chiaro nel dettaglio, il suo successo era evidente alla luce del sole e le conseguenze erano facilmente immaginabili. Mi chiedevo se i fondatori avessero ben chiaro il risultato della loro creazione oppure se fossero loro stessi vittime di un errore. A mio parere, entrambe le ipotesi erano plausibili. In ogni caso, un essere pensante aveva il dovere di opporsi a quel movimento sciagurato, per impedirne le manifestazioni più evidenti. Certo, i responsabili di quella malattia popolare erano veri e propri demoni109, poiché solo una mente mostruosa poteva concepire il piano di quella organizzazione, la cui azione avrebbe condotto al tracollo dalla civiltà umana e allo spopolamento del mondo. Non restava che l’ultima spiaggia della lotta, della lotta con ogni arma: lo spirito umano, la ragione e la volontà avrebbero permesso di capire da quale parte sarebbe pesa la bilancia. Cominciai a frequentare i fondatori della teoria marxista, per studiare le basi del movimento socialdemocratico. Il fatto di essere giunto alla mèta più velocemente del previsto, lo dovevo alla mia conoscenza, seppur non approfondita, della questione ebraica. Essa mi permise di confrontare la realtà con le frottole teoriche degli apostoli fondatori della socialdemocrazia, poiché mi aveva permesso di imparare la lingua del popolo. Essi parlano per nascondere o per velare i pensieri. Il loro vero scopo non si scorge dalle parole, ma da ciò che è ben nascosto tra le righe. Era tempo di compiere la mia più grande rivoluzione interiore: trasformarmi da debole cosmopolita in fanatico antisemita110. 108
Vecchio stereotipo antisemita che risale allo scritto di Lutero Sugli ebrei e sulle loro bugie (1543), citato da Fritsch e da Eckart, insieme al famoso detto di Schopenhauer. Qui non si tratta di eventi storici, ma di prodotti dell’immaginazione [KA, n. 221]. 109 Sull’associazione fra ebraismo e “Satana” vedi capitolo 11-I. 110 Come detto, una datazione precisa della “conversione” è difficile da stabilire (molti studiosi sostengono che sia avvenuta in seno alla propaganda dell’esercito nell’immediato dopoguerra).
61 Fui colpito per l’ultima volta da pensieri cupi e angosciosi. Quando esaminai a lungo gli effetti della presenza ebraica, sorse in me una terribile domanda: il fato indecifrabile a noi poveri mortali aveva previsto la vittoria finale di quel piccolo popolo? E se a quel popolo fosse stata promessa come ricompensa la terra? Abbiamo il diritto oggettivo di lottare per la nostra sopravvivenza? Oppure è solo un’aspirazione soggettiva? Approfondendo la conoscenza del marxismo e, quindi, comprendendo gli effetti della popolazione ebraica, fu lo stesso destino a darmi una risposta. La teoria ebraica del marxismo rifiutava il principio aristocratico della natura111 e, al posto dell’eterno diritto della forza, poneva la massa del numero e il suo peso morto. Essa rifiutava il valore individuale dell’uomo, negava il significato del carattere nazionalpopolare e della razza e sottraeva all’umanità il presupposto della sua stessa esistenza e della civiltà. Quella teoria avrebbe condotto alla fine di ogni ordine umanamente comprensibile all’interno dell’universo. E se il caos fosse l’unico esito dell’applicazione del marxismo ebraico a quel gigantesco organismo, l’abitante terrestre sarebbe destinato al tramonto112. Se, con l’aiuto della fede marxista, l’ebreo sconfiggerà i popoli della terra, la sua corona sarà la ghirlanda funebre dell’umanità e il nostro pianeta fluttuerà nell’etere completamente disabitato come centinaia di migliaia di anni fa. L’eterna natura si vendica spietatamente con chi viola le sue leggi. Quindi oggi io credo di agire secondo i dettami del Creatore onnipotente: resistendo all’ebreo, io combatto per l’opera di nostro Signore113.
Approfondimenti didattici 1. Analisi retorica e stilistica
- Individua le principali figure retoriche; - Individua l’esistenza di fallacie retoriche; - Individua i principali “loci” e “topoi”; - Individua la presenza di stereotipi e pregiudizi.
Allusione ai principi di lotta per l’esistenza, selezione naturale e diritto del più forte di ascendenza socialdarwinista. Vedi capitolo 1-II. 112 Sulla visione manichea hitleriana vedi capitolo 11-I. 113 Questa frase (una delle più citate del Mein Kampf), era ripetuta nei calendari e nei manifesti, nonché in numerosi scritti [KA, n. 228]. A. Gilardoni, Logica e argomentazione. Un prontuario, Milano, Mimesis, 2008.
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62 2. Analisi storico-culturale
- Biografia e politica: analizzare l’auto-rappresentazione hitleriana come “genio incompreso” e cerca di confrontarla con altri esempi letterari dell’epoca; - La questione sociale nella Vienna di inizio Novecento: analizza la questione sociale nell’età dell’Imperialismo e, nel caso specifico, la trasformazione del tessuto socio-economico europeo alla vigilia della Prima guerra mondiale; - La socialdemocrazia austriaca e la questione sindacale: analizza la nascita del Partito socialista e il nesso con la questione sindacale, concentrandoti sull’evoluzione legislativa, sul suffragio universale e sul caso dell’“austro-marxismo”; - Emigrazione ebraica e antisemitismo nazionalpopolare nella Vienna di inizio Novecento: analizza la nascita dell’antisemitismo popolare austriaco e confrontalo con altri casi europei (come quello francese); - Antisemitismo religioso e antisemitismo scientifico: analizza la commistione fra antigiudaismo religioso e antisemitismo scientifico alla base dei movimenti popolari europei di inizio Novecento.
Capitolo III. Considerazioni politiche generali sul mio periodo viennese e altro ancora
Sinossi 1. Genesi Il capitolo 3-I è databile al tardo inverno-inizio primavera del 1925 stando ai temi affrontati. All’inizio del 1925 Hitler fu molto criticato dai nazisti del Nord della Germania per aver fatto la “pace con Roma”, cioè per cercare un accordo col governo cattolico bavarese retto da Heinrich Held. La risposta è la riproposizione dei suoi due grandi modelli viennesi: Karl Lueger e Georg von Schönerer. Altri indizi importanti sono la maggiore scorrevolezza della scrittura rispetto al capitolo precedente e la linea “legalitaria” assunta dopo la scarcerazione di fine 1924. Alcune parti furono pubblicate in anteprima sul “Völkischer Beobachter”1. 2. Contenuto Il capitolo 3-I esordisce con une petizione di principio quasi “romana”: bisogna fare politica dopo i trent’anni. Ecco retrospettivamente spiegato il motivo per cui Hitler passò cinque anni di letture e di osservazioni senza fare politica attiva nella sua Vienna e decise di entrare in politica nell’autunno del 1919. L’età è anche segno di maturità e, nel caso specifico, di tempistica. L’Austria pre-bellica era un paese irriformabile, destinato al tracollo per colpa della dinastia asburgica e per l’assenza di piena consapevolezza nazionale nell’elemento austro-tedesco. Secondo Hitler, la socialdemocrazia, usufruendo del suffragio universale introdotto nel 1907, ha favorito il processo di “de-tedeschizzazione” dell’Impero e, in un’ironica alleanza con gli Asburgo filoslavi, ha affossato la parte migliore e più sana della doppia monarchia. Il parlamentarismo, teoricamente una bella idea (almeno così lo era in Inghilterra), si è dimostrato alla prova dei fatti una sciagura per i tedeschi, che ormai sono una minoranza in un organo politico che rappresenta la visione distorta della volontà popolare: meschino, irresponsabile, cialtrone. Tutto cambia perché tutto resti come prima. Hitler dedica alcune pagine significative alla “fenomenologia” della stampa democratica (tema su cui tornerà più avanti, per la funzione pedagogica della stampa nell’economia di uno Stato nazionalsocialista e nazionalpopolare). Critica la “libertà di stampa” (che a suo giudizio non è altro che libertà di “infangare” le persone perbene) e lega indissolubilmente la stampa democratica al parlamentarismo: entrambi si reggono sullo stesso principio, cioè sull’irresponsabilità personale di ciò che si dice e di ciò che si fa. Hitler parla dell’Austria riferendosi però chiaramente alla Repubblica di Weimar: l’asse parlamento-stampa favorisce l’affossamento della grandezza, premia l’astuzia a scapito del coraggio, premia l’imbroglio a scapito dell’onestà. Accenna alla “democrazia germanica” (una sorta di versione plebiscitaria e autoritaria) quale panacea dei mali occidentali. A fronte dei giochi dinastici asburgici e 1
KA I, p. 233.
64 dell’azione distruttiva socialdemocratica, due movimenti e i suoi leader hanno tentato di salvaguardare a loro modo il germanesimo austriaco: Georg von Schönerer e la l’Associazione pantedesca, Karl Lueger e il Partito cristiano-sociale. Hitler si dilunga sull’analisi politica dei due partiti austriaci ritenuti i suoi veri precursori. Ne analizza i punti di forza e quelli di debolezza, cercando di dimostrare come il nuovo Partito nazionalsocialista debba trarre il meglio dell’uno e dell’altro, evitando di cadere negli errori che condussero entrambi all’insuccesso. L’Associazione pantedesca di Schönerer ha dimostrato che lo Stato ha diritto di essere rispettato solo se rispetta i suoi cittadini, nella fattispecie l’elemento austrotedesco. Ma, in concomitanza con l’ascesa del Partito cristiano-sociale, ha finito per perdere consensi e per scomparire dalla scena. Perché? Schönerer era un profeta (cioè un programmatore), ma non era un buon politico: capì quali erano i problemi da affrontare, ma ignorò gli strumenti per risolverli. Non concentrò la sua propaganda sulla massa e sulla questione sociale. Lueger, al contrario, lo capì, ma ebbe la sfortuna di trovarsi di fronte a un corpo ormai senescente e vicino alla morte: il più grande sindaco tedesco di tutti i tempi fu superiore al più grande statista austriaco della sua epoca, ma non capì il problema che attanagliava l’Austria. Se Schönerer fu “presbite”, Lueger fu “miope”: l’uno capì il fine, l’altro il mezzo. La presbiopia dell’Associazione pantedesca consisteva nell’ignoranza della questione sociale, cioè nell’aver sventolato i nobili valori senza avervi mai dato un contenuto tangibile; nell’ingresso nel Parlamento, che condusse all’assuefazione da “scranno” e all’incapacità di gestire la stampa ostile; nella lotta contro la Chiesa cattolica, giustificabile in base ai giochi dinastici asburgici, ma incapace di vedere la realtà più complessiva del clero. Il problema dell’Associazione pantedesca fu dunque quello di aver visto giusto in prospettiva, ma nell’essersi dispersa su vari fronti, contro troppi nemici. La volontà fu pura, ma la via “sbagliata”. La miopia del Partito cristiano-sociale, che aveva brillantemente superato i limiti dell’Associazione pantedesca (tanto da decretarne la fine politica fra il 1907 e il 1908), consisteva nell’antisemitismo religioso erroneo e annacquato, dettato dall’esigenza sociale di non tagliar fuori l’appoggio della minoranza slava a Vienna (costituita prevalentemente da piccoli commercianti indeboliti dal grande capitalismo commerciale e finanziario). Cedendo alle esigenze tattiche, Lueger aveva finito per essere una meteora nel firmamento del cielo austriaco: scomparsa la sua persona, scomparve di fatto il suo partito. Se quindi l’Associazione pantedesca aveva visto giusto sull’antisemitismo razziale, ma aveva imboccato la via sbagliata (separando il nazionalismo dal socialismo), il Partito cristiano-sociale aveva commesso l’errore opposto: aveva imboccato la via giusta senza una visione del mondo. L’uno era stato troppo “deduttivo”, l’altro troppo “induttivo”: l’uno aveva tentato di derivare necessariamente la sua posizione politica dal principio senza confronto con la situazione pratica, l’altro aveva tentato di ricostruire un antisemitismo per via empirica senza un’ipotesi di lettura salda (cioè di una metafisica). Entrambi erano destinati a fallire per colpa dello Stato austro-ungarico. 3. Analisi La differenza strutturale fra il secondo e il terzo capitolo è notevole. Mentre nel secondo Hitler descrive letteralmente la sua esperienza personale e il suo avvicinamento logico-abduttivo all’antisemitismo, qui compie una resa dei conti politica con il suo passato e lancia un chiaro monito
65 al futuro. Una volta descritta la sua trasformazione in “antisemita fanatico”, deve ora dimostrare ai suoi concorrenti del momento (i “protestanti nordici” raccolti attorno a Ludendorff e a von Graefe) la forza del suo apparato teorico e della sua ideologia. Se la fine dell’Austria si deve agli Asburgo e ai loro “giochi” dinastici, la Germania può tornare a contare qualcosa solo se le diverse forze nazionalpopolari sapranno trarre la lezione dalle esperienze passate, unendo le forze sotto un unico partito (il suo). Le teorie sono belle, ma vanno adeguatamente vagliate alla prova dei fatti: il “medico-detective” Hitler sembra assurgere al rango di epistemologo del corpo popolare. Importare i sistemi altrui credendo che funzionino in quanto tali, è un errore politico e antistorico. Il Parlamento austriaco ha fallito sia perché la struttura statale era ormai debole, sia perché gli Asburgo non capirono che bisognava puntare sull’elemento austro-tedesco. Non lo capirono perché “non potevano capirlo”: il loro orizzonte consisteva nella conservazione dei possedimenti dinastici a tutti i costi. Non c’era alcuna intenzione di risollevare l’elemento tedesco, ma di “sopravvivere” il più a lungo possibile, conservando una salute debole e precaria ingurgitando la “cèchizzazione” di Francesco Ferdinando. Il fallimento storico degli Asburgo va di pari passo con l’impianto del sistema parlamentare che non funziona laddove non ci sono “uomini veri”. Quando Hitler dice di puntare a una democrazia germanica, intende chiaramente riferirsi a un sistema idealizzato, dove le persone fanno esclusivamente il bene comune e sono disposte a pagare per i propri errori. Un sistema del genere, di per sé di difficile realizzazione, lo è a maggior ragione in un paese multinazionale, dove ogni gruppo etnico tentava di strappare qualche concessione a costo di “bloccare” il funzionamento della macchina parlamentare, dove l’elemento tedesco, preda della sua “oggettività” (cioè imparzialità), non era più in grado di reggere le sorti di un paese antistorico come la “Kakania”. La malattia austriaca non fu curata né con il movimento pantedesco, né con il partito cristianosociale per i motivi addotti. Hitler ritorna a essere “metodologo” della politica in un passaggio forse esiziale: la massa ha bisogno di un nemico in cui sintetizzare tutti i “mali” che il movimento-medico intende sanare e guarire. Ecco la lezione tattica di Lueger: inutile perdersi in questioni dottrinarie o sociali. Inutile mescolare la politica con le questioni religiose: un movimento vincente deve puntare al cuore delle masse, deve trovare un’àncora inamovibile e imperturbabile di fronte alle tempeste quotidiane. Il problema è uno: l’ebraismo. E va affrontato con un movimento che sia pantedesco come quello di Schönerer, ma che sia socialista come quello di Lueger. Deve cioè essere “razzialmente” esclusivo come il primo e “socialmente” popolare come il secondo. Il limite dell’antisemitismo religioso è quello di avere radici deboli. I tentativi di “arianizzare” Cristo o di creare una religione “runica” possono essere pure belli, ma sono storicamente sterili e perdenti. La realtà è che il popolo tedesco è stato cristianizzato. Il cristianesimo non va eliminato, ma semmai incanalato verso qualcosa di più profondo, verso una “medicina” più importante e più misteriosa (agli occhi dei più, quanto meno). Schönerer l’ha capito, ma gli è mancata l’analisi politica per costruire adeguatamente il suo farmaco. Lueger ha sì elaborato un farmaco, ma l’effetto era tardivo perché non abbastanza forte da sconfiggere il veleno. Un solo uomo ha capito tutto questo, ha capito come prendere il meglio dell’uomo e dell’altro, come fondere teoria e prassi in un sistema “sintetico e a priori”: il suo nome è Adolf Hitler.
66 4. Parole-chiave Asburgo, Antisemitismo, Austro-tedesco, Chiesa cattolica, Clero tedesco, Democrazia germanica, Democrazia occidentale, De-tedeschizzazione, Ebraismo, Genio, Germanesimo, Georg von Schönerer, Giuseppe II, Karl Lueger, Legalità, Liberalismo manchesteriano, Maggioranza, Marxismo, Movimento pantedesco, Oggettività, Opinione pubblica, Politico, Psiche della massa, Questione ebraica, Questione sociale, Parlamentarismo, Parola parlata, Partito cristiano-sociale, Protestantesimo, Reichsrat, Reichstag, Responsabilità, Rivoluzione del 1918, Socialdemocrazia, Socialismo internazionalista, Soggettività, Vienna, Visione del Mondo. 5. Bibliografia essenziale - D. Bavendamm, Der junge Hitler. Korrekturen einer Biographie 1889-1914, Graz, Ares-Verlag, 2009; - J.W. Boyer, Karl Lueger (1844-1910). Christlichsoziale Politik als Beruf, Vienna, Böhlau, 2010; - D. Brandes, D. Kovac, J. Pesek (ed.), Wendepunkte in den Beziehungen zwischen Deutschen, Tschechen und Slowaken, 1848-1919, Essen, Klartext, 2007; - A. Bullock, Hitler. Studio sulla tirannide, Milano, Res Gestae, 2014; - K. Burke, Die Rethorik in Hitlers “Mein Kampf” und andere Essays zur Strategie der Überredung, Francoforte sul Meno, Suhrkamp, 1967; - D. Capozza, C. Volpato, Le intuizioni psicosociali di Hitler. Un’analisi del “Mein Kampf”, Bologna, Patron, 2004; - W. Carr, Hitler. Studio sul rapporto tra personalità e politica, Napoli, Liguori, 1985; - R. Coaloa, Franz Ferdinand: da Mayerling a Sarajevo. L’erede al trono Francesco Ferdinando d’Austria-Este (18631914), prefazione di M. d’Austria-Este, postfazione di L. Mascilli Migliorini, Piacenza, Parallelo45 edizioni, 2014; - E. Collotti, M. Riccardo, Gli acquerelli di Hitler, Firenze, Alinari, 1984; - M. Ferrari Zumbini, Le radici del male. L’antisemitismo in Germania da Bismarck a Hitler, Bologna, Il Mulino, 2001; - J. Fest, Hitler. Una biografia, traduzione di F. Saba Sardi, Milano, Garzanti 2005; - B. Fuchs, “Rasse”, “Volk”, “Geschlecht”. Anthropologische Diskurs im Österreich, 1850-1960, Francoforte sul Meno, Campus Verlag, 2003; - B. Hamann, Hitler. Gli anni dell’apprendistato, Milano, Corbaccio, 1998; - R. Haynes e M. Rady (ed.), In the shadow of Hitler. Personalities of the right in Central and Eastern Europe, New York-Londra, I.B. Tauris, 2011; - J. Hawlik, Der Bürgerkaiser. Karl Lueger und seine Zeit, Vienna, Herold, 1985; - L. Herbst, Il carisma di Hitler. L’invenzione di un messia tedesco, traduzione di U. Gandini, Milano, Feltrinelli, 2011; - K. Hödl, Als Bettler in die Leopoldstadt. Galizische Juden auf dem Weg nach Wien, Vienna, Böhlau, 1994; - E. Jäckel (ed.), Hitler: Sämtliche Aufzeichnungen, 1905-1924, Stoccarda, Deutsche Verlags-Anstalt, 1980; - F. Jeztinger, Hitlers Jugend. Phantasien, Lügen und die Wahrheit, Vienna, Europe-Verlag, 1956; - S.F. Kellerhoff, Il libro proibito di Hitler. Storia del Mein Kampf, Milano, Rizzoli, 2016; - I. Kershaw, Hitler, vol. 1: 1889-1936, Milano, Bompiani, 2003; - A. Kubizek, Adolf Hitler. Il mio amico di gioventù, Roma, Thule Italia, 2015; - W.C. Langer, Psicanalisi di Hitler. Rapporto segreto del tempo di guerra, Milano, Garzanti, 1975; - P. Longerich, Hitler. Biographie, Monaco, Siedler Verlag, 2015; - W. Maser, Adolf Hitler, Roma, Ciarrapico, 1978; - G.L. Mosse, Le origini culturali del Terzo Reich, traduzione di F. Saba Sardi, Milano, Il Saggiatore, 2015; - A. Musolff, Metaphor, nation and the Holocaust. The concept of the body politic, New York, Routledge, 2011; - O. Plöckinger, Geschichte eines Buches. Adolf Hitlers “Mein Kampf”, 1922-1945. Eine Veröffentlichung des Instituts für Zeitgeschichte, Monaco, Oldenbourg, 2011; - Id., Quellen und Dokumente zur Geschichte von “Mein Kampf”, 1924-1945, Stoccarda, Franz Steiner Verlag, 2016; - W. Pyta, Hitler. Der Künstler als Politiker und Feldherr. Eine Herrschaftsanalyse, Monaco, Siedler Verlag, 2015; - P.R. Range, La genesi del Mein Kampf. 1924: l’anno che cambiò la storia, Roma, Newton Compton, 2017;
67 - F.J. Rash, The language of violence. Adolf Hitler’s “Mein Kampf”, New York, Peter Lang, 2000; - R.G. Reuth, Hitler. Eine politische Biographie, Monaco, Piper, 2003; - Id., Hitlers Judenhass. Klischee und Wirchlikeit, Monaco, Piper Verlag, 2009; - M.L. Rozenblitt, The Jews of Vienna. Assimilation and Identity, Albany (New York), SUNY Press, 1983; - C.E. Schorske, Vienna fin de siècle, Milano, Bompiani, 2004; - B. Schwarz, Geniewahn. Hitler und die Kunst, Vienna, Böhlau Verlag, 2009; - E. Schwarz, Wien und die Juden. Essays zum Fin de Siècle, Monaco, C.H. Beck, 2014; - A. Sked, The declin and the fall of the Habsburg Empire, 1815-1918, Londra, Longman, 1989; - H. Steinhaus, Hitlers pädagogische Maximen. “Mein Kampf” und die Destruktion der Erziehung im Nationalsozialismus, Francoforte sul Meno, Peter Lang, 1981; - J. Toland, Adolf Hitler. The definitive biography, New York, Doubleday, 1976; - V. Ullrich, Adolf Hitler. Biographie, vol. 1: Die Jahre des Aufstiegs 1889-1939, Francoforte sul Meno, S. Fischer, 2013; - A. Vitkine, “Mein Kampf”. Storia di un libro, traduzione di G. Zucca, Milano, Cairo, 2010; - A. Wandruszka, P. Urbanitsch (ed.), Die Habsburgermonarchie, 1848-1919, Vienna, Verlag der österreichischen Akademie der Wissenschaften, 1973-2014, 11 voll.; - A.G. Whiteside, The socialism of fools. Georg Ritter von Schönerer and Austrian pan-Germanism, Berkeley (CA), University of California Press, 1975; - R.S. Wistrich, Gli ebrei di Vienna, traduzione di A. Serafini, Milano, Rizzoli, 1994; - M. Wladika: Hitlers Vätergeneration. Die Ursprünge des Nationalozialismus in der k.u.k. Monarchie, Vienna, Böhlau, 2005; - W. Zdral, La famiglia Hitler, traduzione di D. Carosso, Torino, UTET libreria, 2008; - B. Zehnpfennig, Hitlers “Mein Kampf”. Eine Interpretation, Monaco, Fink, 2000; - R. Zitelmann, Hitler, Roma-Bari, Laterza, 1991.
Oggi sono convinto che l’uomo, salvo casi particolarissimi, non debba fare politica prima dei trent’anni2, perché deve crearsi prima una piattaforma generale su cui esaminare i diversi problemi politici e definire la sua posizione. Solo dopo aver conseguito una propria visione del mondo e una costanza nel modo di considerare i singoli problemi quotidiani, l’uomo ormai maturo può e deve contribuire alla guida politica della sua collettività. In caso contrario, egli corre il rischio di cambiare posizione sui problemi cruciali oppure di fissarsi su una visione delle cose già da tempo rifiutata dall’intelligenza e dalla sua convinzione più intima. Il primo caso è personalmente assai penoso, perché l’uomo titubante non ha più il diritto di attendersi la fede assoluta dei suoi sostenitori; negli aderenti, il cedimento del capo porta irrequietezza e, non di rado, un senso di vergogna per ciò che hanno sostenuto finora3. Nel secondo caso si verifica un fenomeno oggi assai ricorrente: se il capo non crede più in ciò che ha detto, il suo sostegno diventa insulso e scialbo, mentre la scelta dei mezzi sbagliata. Mentre il capo non crede più seriamente nelle sue rivelazioni politiche (non si muore per ciò in cui Non esistono riferimenti circa l’impegno politico di Hitler negli “anni di formazioni”. Il fatto che sia entrato in politica a trent’anni (1919), non ha nulla a che vedere con l’idea greco-romana. In Austria, dal 1907 il diritto di voto passivo riguardava gli uomini oltre i trent’anni [KA, n. 1]. 3 Il concetto di Führer (capo, guida carismatica) si diffuse in Germania dal XIX secolo come reazione al crescente pluralismo, alla democratizzazione della società e alla delusione per la politica dell’Imperatore Guglielmo II. Il termine fu usato dalla Lega pantedesca (Alldeutscher Verband) di Heinrich Claß. Max Weber formalizzò il concetto di “autorità carismatica” nei suoi scritti di sociologia della religione. Bibliografia: F. Tuccari, Carisma e leadership nel pensiero di Max Weber, Milano, F. Angeli, 1991; I. Kershaw, Il mito di Hitler. Immagine e realtà nel Terzo Reich, Torino, Bollati Boringhieri, 1998. 2
68 non si crede), le richieste dei sostenitori si fanno sempre più esorbitanti e indecenti, finché egli non rinuncia alle ultime vestigia della sua autorità per trasformarsi in un “politico”. Il politico è una persona, la cui unica convinzione è l’assenza di convinzioni, accoppiata a una sfacciata aggressività e a una spudorata arte della menzogna4. Se un tipo del genere finisce in Parlamento, per sfortuna della gente perbene si può prevedere sin dall’inizio che la politica non sarà altro che l’eroica lotta per il possesso duraturo del biberon, per sé e per la sua famiglia. Quanto più madre e figlio resteranno attaccati a quel biberon, tanto più il politico resterà attaccato al suo mandato. Ogni uomo dotato di istinto politico è un suo nemico personale. In ogni nuovo movimento, il politico fiuterà il possibile segnale della sua fine, in ogni grand’uomo il più insidioso pericolo per la sua carriera. Parlerò ancora a fondo di questa varietà di cimice parlamentare5. Il trentenne imparerà molte cose nel corso della sua vita, ma si tratterà solo di dettagli all’interno della cornice fornita dalla sua visione del mondo. Il suo apprendimento non comporterà un mutamento ideologico, semmai un suo approfondimento. I suoi seguaci non dovranno trangugiare la spiacevole sensazione di aver ricevuto un insegnamento sbagliato. Al contrario, saranno ben lieti dall’evidente crescita organica del loro capo, poiché il suo apprendimento non sarà altro che un approfondimento della loro dottrina. Tutto ciò, ai loro occhi, dimostra la bontà dalle sue attuali visioni delle cose. Un capo che abbandoni la sua visione del mondo, perché errata, è un uomo d’onore solo se è pronto a trarne le estreme conseguenze. Dovrà quantomeno rinunciare all’esercizio pubblico di ogni attività politica. Perché, essendo già incorso nell’errore, è possibile che accada di nuovo. Ma non ha più alcun diritto di pretendere o di esigere la fiducia dei suoi concittadini. La scelleratezza della gentaglia che si sente chiamata a “fare” politica è la prova di come oggi manchi il senso della decenza. Pochi sono predestinati a fare politica. Negli anni viennesi io mi guardai bene dall’assumere una posizione pubblica, sebbene fossi interessato alla politica ben più di molti altri. Parlavo solo a una ristretta cerchia di conoscenti delle mie tribolazioni interiori. Tutto questa aveva molti aspetti positivi: non imparai a “parlare”, ma a conoscere gli uomini nelle loro spesso primitive visioni e obiezioni6. Quindi, con tutta calma, andai formandomi le convinzioni più profonde. Le circostanze erano sicuramente più propizie a Vienna rispetto a qualsiasi altro posto in Germania. Il dibattito politico nella vecchia monarchia danubiana era assai più ampio e interessante rispetto a quello della Germania guglielmina, eccetto forse che in Prussia, ad Amburgo e sulle coste del Mar del Nord. Tuttavia, con “Austria” intendo quel territorio dell’Impero asburgico che, a seguito della colonizzazione tedesca, fu non Allusione all’espressione utilizzata da Arthur Schopenhauer nei Parerga e paralipomena (§ 174). Sulla polemica hitleriana contro il parlamentarismo vedi capitoli 2-I e 10-I. 6 Sull’idea di “primitività” delle masse vedi capitoli 2-I e 4-II.
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69 solo la ragione principale della formazione di quello Stato, ma conteneva anche nella sua popolazione la forza in grado di conferire da secoli una vita culturale interiore a quella costruzione artificiosa. Col passare del tempo, l’esistenza e il futuro dello Stato austriaco dipendevano in misura maggiore dalla conservazione del nucleo primitivo dell’Impero. Se i territori della corona7 erano il cuore che pulsava sangue fresco nell’apparato circolatorio della vita imperiale, Vienna ne era allo stesso tempo la mente e la volontà. Già esteriormente, quella città possedeva la forza di troneggiare come una regina su quel conglomerato di popoli. Faceva dimenticare, con lo splendore della sua bellezza, i sintomi sgradevoli del suo invecchiamento. Benché l’Impero fosse agitato violentemente dalle lotte intestine delle singole nazionalità, i paesi stranieri, e specialmente la Germania, lo consideravano alla luce dell’immagine affabile della sua capitale. L’illusione era tanto maggiore, in quanto Vienna ricevette all’epoca l’ultimo grande impulso ancora visibile. Sotto la guida di un borgomastro geniale8, la venerata residenza imperiale9 si destò a nuova e misteriosa vita. L’ultimo grande tedesco partorito dalle file del popolo colonizzatore della Marca Orientale non era uno “statista”. Realizzando quasi per magia, quale borgomastro della Vienna “capitale e residenza”, incredibili contribuiti in tutti i campi della politica economica e culturale10, il dottor Lueger rafforzò il cuore di tutto l’Impero e divenne così uno statista superiore a quanto non lo fossero tutti i “diplomatici” del tempo. Il triste finale di quella costruzione dei popoli chiamata “Austria” non può misconoscere le doti politiche del germanesimo della vecchia Marca Orientale. Fu l’esito inevitabile dell’impossibilità di poter conservare, a lungo andare, uno Stato di cinquanta milioni di persone di diverse nazioni con soli dieci milioni di uomini11, in mancanza di determinati presupposti. L’austro-tedesco12 pensava sempre in grande. Era abituato a vivere nella cornice di un grande Impero e non aveva perso il senso dei doveri che ne derivavano. Era l’unico cittadino capace di vedere al di là dei confini del suo piccolo Stato, ben oltre quelli dei possedimenti regi. Quando il destino lo separò dalla patria comune, l’austro-tedesco cercò di realizzare il compito immane di custodire il germanesimo, proprio come i nostri padri fecero nelle lunghe lotte contro l’Oriente13. Ciò non poteva più accadere con forze divisive, anche se il cuore e
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Riferimento alla Cisletania, corrispondente alla parte occidente e settentrionale della duplice monarchia, patrimonio ereditario asburgico dal Medioevo. 8 Allusione a Karl Lueger. 9 Gli Asburgo detennero la corona di imperatori del Sacro Romano Impero Germanico dal 1438 al 1806. 10 Karl Lueger (1844-1910) fu borgomastro (sindaco) di Vienna dal 1897 al 1910. Figura politicamente controversa per via del suo antisemitismo socio-religioso (ma non razziale), Lueger è comunque ricordato come un sindaco importante: contribuì a modernizzare la città con l’elettrificazione, col gas, coi mezzi di trasporto e creando edifici pubblici e popolari. Bibliografia: R.S. Wistrich, Karl Lueger and the ambiguities of Viennese anti-Semitism, in “Jewish Social Studies”, 45, 1985, pp. 251-262. 11 Il gruppo germanofono era quello numericamente principale nella doppia monarchia. Nel 1910 rappresentava il 25% della popolazione totale (circa diecimilioni su un totale di cinquantadue). 12 Sul concetto di “austro-tedesco” vedi capitolo 1-I. 13 Sulla colonizzazione orientale vedi capitolo 14-II.
70 il ricordo dei migliori non avevano mai smesso di amare la vera madrepatria, mentre solo una parte era indirizzato all’Austria. L’orizzonte generale dell’austro-tedesco era molto più ampio. I suoi rapporti commerciali abbracciavano tutto l’Impero. Quasi ogni impresa realmente importante si trovava in mano sua; il personale direttivo dei tecnici e dei funzionari proveniva in larga parte dai suoi ranghi. Era anche l’artefice del commercio estero, sempre che l’ebraismo non avesse allungato le sue mani su quella tradizionale sfera di competenza14. Era l’austro-tedesco a conservare politicamente l’unità dello Stato. Il servizio militare lo catapultava al di fuori degli angusti confini del suo paese. La recluta austro-tedesca era incorporata in un reggimento tedesco, solo che il reggimento poteva essere di stanza in Erzegovina15, come a Vienna o in Galizia. Il corpo degli ufficiali era sempre tedesco, i funzionari statali superiori lo erano in prevalenza. Anche l’arte e la scienza erano tedesche. A prescindere dal cattivo gusto delle correnti artistiche contemporanee, i cui prodotti sarebbero degni di un popolo negro16, il detentore e il diffusore del vero gusto artistico era sempre e soltanto il tedesco. Nella musica, nell’architettura, nella scultura e nella pittura, Vienna era la fonte inesauribile di tutta la doppia monarchia. Il germanesimo era il detentore di tutta la politica estera, salvo alcuni ungheresi17. Tuttavia ogni tentativo di salvaguardare l’Impero fu vano, poiché mancava il presupposto essenziale. Lo Stato multietnico austriaco aveva un solo modo per sconfiggere le forze centrifughe delle singole nazioni: doveva essere governato in modo centralizzato e così organizzato al suo interno. Altrimenti, non era più immaginabile18. In alcuni momenti di lucidità, i “piani alti” ne furono consapevoli, salvo poi dimenticarsene poco dopo o accantonare l’idea perché di difficile realizzazione. Ogni progetto di organizzazione federale sarebbe necessariamente fallito in mancanza di un forte nucleo statale dotato di forza superiore. A questo si aggiungano le diverse premesse interne rispetto all’Impero bismarckiano. In Germania non si trattò solo di superare le diverse tradizioni politiche, giacché esisteva già una base culturale comune. L’Impero tedesco, salvo alcuni frammenti stranieri, era formato solo da membri di un unico popolo19. Il tema dell’influsso ebraico in ambito economico fu affrontato dall’economista e sociologo tedesco Werner Sombart nello scritto Die Juden und das Wirtschaftsleben (Gli ebrei e la vita economica, 1911), poi ripreso dai teorici nazionalpopolari. Bibliografia: A. Mortara, L’etica ebraica e lo spirito del capitalismo, in D. Bidussa, E. Collotti Pischel e R. Scardi (ed.), Identità e storia degli ebrei, Milano, F. Angeli, 2000, pp. 34-48. 15 Il Congresso di Berlino del 1878 decise di assegnare l’amministrazione della Bosnia-Erzegovina all’Austria, che l’annesse nel 1908 in occasione della rivoluzione dei “Giovani Turchi”. 16 L’equiparazione fra arte moderna e arte africana fu una reazione alla scoperta della seconda e alla nascita di musei etnologici a fine Ottocento. Bibliografia: M.G. Messina (ed.), Primitivismo nelle avanguardie. Letture critiche e realtà operative, Roma, Carocci, 2004. 17 La politica estera della doppia monarchia era detenuta dal monarca e dal ministro degli esteri. Quest’ultimo poteva non essere tedesco, come nel caso dell’ungherese Andrássy il vecchio (1871-1879). 18 Sul rigetto generale del federalismo vedi capitolo 10-II. 19 Lo Stato nazionale tedesco era etnicamente più omogeneo rispetto all’Austria-Ungheria, anche se nella zona orientale (Slesia, Posnania, Prussia occidentale e orientale) vi era una forte presenza polacca. Bibliografia, P. Ther, Deutsche Geschichte als imperiale Geschichte. Polen, slawophone Minderheiten und das Kaiserreich 14
71 In Austria le condizioni erano esattamente contrarie. Qui il ricordo politico della propria grandezza, salvo il caso ungherese, non esisteva oppure era sbiadito, confuso e indefinito. Inoltre, nell’età delle nazionalità si svilupparono forze popolari nei singoli territori imperiali, il cui superamento era reso più arduo proprio perché, ai confini della monarchia, iniziavano a formarsi Stati nazionali, i cui popoli, razzialmente affini oppure uguali ai frammenti austriaci, riuscivano a esercitare una maggiore forza attrattiva rispetto all’austro-tedesco20. Nemmeno Vienna riuscì più a sostenere a lungo andare questa lotta. Con lo sviluppo metropolitano di Budapest si creò per la prima volta una città rivale, il cui compito non era più la sintesi di tutta la monarchia, ma il rafforzamento di una sua parte. Poco tempo dopo, anche Praga seguì il suo esempio; poi fu la volta di Leopoli, di Lubiana ecc. Con l’ascesa di queste vecchie città provinciali al rango di capitali nazionali di singoli paesi, si formarono anche centri culturali più o meno indipendenti. Gli istinti politici nazionalpopolari trovarono quindi la loro giustificazione e il loro approfondimento spirituale. Stava per avvicinarsi il momento in cui le forze motrici dei singoli popoli sarebbero diventate più forti rispetto a quelle interessate all’unità. E così avvenne in Austria. Il corso degli eventi fu chiaramente visibile dopo la morte di Giuseppe II. La sua rapidità era dettata da una serie di fattori che, in parte, dipendevano dalla monarchia, in parte rappresentavano l’esito della posizione dell’Impero nello scacchiere internazionale dell’epoca. Per intraprendere seriamente una lotta per la conservazione dello Stato era necessaria una centralizzazione implacabile e ostinata. Bisognava rafforzare l’appartenenza puramente formale imponendo un’unica lingua statale, che avrebbe fornito all’amministrazione l’ausilio tecnico necessario dello Stato unitario. Allo stesso modo, un sentimento statale unitario era coltivabile, a lungo andare, solo mediante la scuola e l’insegnamento. Il processo non si sarebbe realizzato in dieci o vent’anni, ma attraverso lunghi secoli di duro lavoro. Come peraltro avviene nei problemi relativi alle colonie, la perseveranza è più importante rispetto all’impulso del momento. Inoltre l’amministrazione e la direzione politica vanno esercitate in maniera rigidamente unitaria. Fu per me infinitamente istruttivo comprendere perché tutto ciò non avvenne o, meglio, perché non fu fatto un bel niente. Il colpevole di tale omissione è responsabile del tracollo dell’Impero. La vecchia Austria era legata, più di qualsiasi altro Stato, alla grandezza della sua guida politica. Mancavano le fondamenta dello Stato nazionale, che ha la forza di conservarsi negli strati popolari, se il governo fallisce. Lo Stato popolare unitario, in virtù della naturale pigrizia dei suoi abitanti e della loro conseguente ritrosia, può anche tollerare per lunghi periodi un’amministrazione e una guida incapaci, senza collassare al suo interno. Accade spesso che in quel corpo non ci sia più vita alcuna. È als kontinentales Empire, in S. Conrad, J. Osterhammel (ed.), Das Kaiserreich transnational. Deutschland in der Welt, 1871-1914, seconda edizione, Gottinga, Vandenhoeck & Ruprecht, 2006, pp. 129-148. 20 Alla vigilia della Prima guerra mondiale, cinque delle undici nazionalità esistevano interamente nella doppia monarchia (croati, ungheresi, slovacchi, sloveni e cèchi), mentre altre sei esistevano anche al di fuori: tedeschi, italiani, polacchi, ruteni, rumeni e serbi. La nascita degli Stati-nazione di Italia, Germania, Romania e Serbia creò ovviamente problemi di “irredentismo”.
72 come se fosse morto o intorpidito, finché improvvisamente il corpo ritenuto morto non si rialza e fornisce mirabili segnali della sua indistruttibile forza vitale al resto dell’umanità. Questo non accade a un Impero composto da popoli diversi, tenuto insieme non dallo stesso sangue, ma da un unico pugno. Qualsiasi segno di debolezza della classe dirigente non porterà al letargo dello Stato, ma al risveglio di tutti gli istinti individualistici presenti nel sangue, incapaci di esprimersi in epoche di volontà straordinaria. Il pericolo può essere alleviato solo da una secolare educazione comune, da una tradizione comune, da interessi comuni, ecc. Perciò queste costruzioni statali, specie se più recenti, dipendono a maggior ragione dalla grandezza della classe dirigente e, in quanto prodotti di uomini straordinariamente dotati o di eroi spirituali, cadranno a pezzi dopo la morte dei loro fondatori. Quei pericoli non saranno evitati nemmeno dopo secoli; saranno semplicemente latenti, per poi ridestarsi improvvisamente, non appena la debolezza della classe dirigente unitaria, la forza dell’educazione e la superiorità di ogni tradizione non sapranno più soffocare lo slancio del singolo impulso vitale delle diverse nazionalità. La colpa più tragica della casata asburgica è stata quella di non averlo capito. Uno solo fra gli Asburgo resse la torcia avvenire del suo paese, che poi si spense per sempre. Giuseppe II, imperatore romano della nazione tedesca, si accorse con sgomento che la sua casata, spinta sino ai limiti estremi dell’Impero, correva il rischio di sparire nel vortice di una Babele di popoli, se non avesse posto rimedio in extremis alle negligenze dei suoi padri21. Con forza sovrumana, il “filantropo” si oppose all’indolenza degli antenati e cercò in un decennio di fare ciò che non si era fatto nei secoli precedenti. Se gli fossero stati concessi quarant’anni di lavoro e due generazioni avessero proseguito la sua opera, il miracolo sarebbe probabilmente riuscito. Ma dopo appena dieci anni di governo, logorato nel corpo e nello spirito, Giuseppe II morì, e il suo lavoro lo seguì nella tomba, esalando l’ultimo respiro nella Cripta dei cappuccini22, senza più ridestarsi. I suoi successori non furono all’altezza del suo compito né per spirito, né per forza di volontà. Quando i primi segni rivoluzionari di una nuova epoca infiammarono l’Europa, anche l’Austria iniziò lentamente a bruciare. Solo che l’incendio non fu attizzato da motivi sociali, economici o politici, ma dalla forza motrice della primavera dei popoli. La Rivoluzione del 1848 poteva essere ovunque una lotta di classe, ma in Austria fu sin dall’inizio una disputa razziale23. Il tedesco, immemore o ignaro della sua origine, si mise al servizio dell’insurrezione rivoluzionaria, segnando in tal modo il suo 21
Giuseppe II (1741-1790), imperatore del Sacro Romano Impero dal 1765 e re di Boemia, Croazia e Ungheria dal 1780, fu un monarca assoluto, ma “illuminato”. L’erronea interpretazione di Hitler non era solo l’esito del culto giuseppinico, ma anche un segno della letteratura esistente al suo tempo. La fonte più probabile fu il romanzo “politico” Joseph der Deutsche (Giuseppe il tedesco) di Adam Müller-Guttenbrunn (1917), membro dell’associazione nazionalistica e antisemitica degli scrittori austro-tedeschi [KA, n. 51]. 22 La sepoltura nella Chiesa dei Cappuccini fu inaugurata da Anna d’Asburgo nel 1618. 23 La “Primavera dei popoli” del 1848-49 non scoppiò solo per motivi “razziali” (nazionali), ma anche culturali, sociali ed economici. Bibliografia: R. Price, Le rivoluzioni del 1848, Bologna, Il Mulino, 2004.
73 destino. Contribuì a destare lo spirito della democrazia occidentale che, in breve tempo, lo privò delle basi della sua esistenza. La formazione di un corpo rappresentativo parlamentare, senza la preventiva rinuncia o il consolidamento di una lingua statale comune24, fu l’inizio della fine della supremazia tedesca nella monarchia. Da quel momento, anche lo Stato fu perduto. Tutto ciò che ne seguì fu solo la liquidazione storica di un Impero. Seguire la dissoluzione austriaca fu sconvolgente quanto istruttivo. L’esecuzione di un giudizio storico si realizzò in migliaia e migliaia di forme. Il fatto che gran parte degli uomini passeggiasse ignaro attraverso quei fenomeni di decadenza, non dimostrava altro che la volontà divina di annientare l’Austria. Qui non voglio perdermi in dettagli, poiché non è lo scopo di questo libro. Voglio solo esaminare quegli eventi che, trattandosi di motivazioni ricorrenti nella decadenza dei popoli e degli Stati, hanno un grande significato per la nostra epoca e che, alla fine, hanno contributo a formare le basi della mia mentalità politica. Tra le istituzioni che potevano mostrare in modo più chiaro l’erosione della monarchia austriaca al filisteo poco avveduto, la principale era forse la sua massima creazione: il Parlamento o, come si chiama in Austria, il Reichsrat25.
Figura 1 Acquarello di Hitler raffigurante il Parlamento di Vienna [fonte: germaniainternational.com]
Il modello di quest’organo legislativo si trovava chiaramente in Inghilterra, terra della “democrazia” classica. Fu lì che si andò a prendere quell’ordinamento e che fu poi impiantato paro paro a Vienna. 24
Nel 1880 il Primo Ministro della Cisletania Eduard Taafe (1833-1895) emise un regolamento sulla politica linguistica che consentiva l’uso della lingua cèca nei territori di Boemia e di Moravia [KA, n. 60]. 25 Il Reichsrat fu il parlamento imperiale dal 1861 e cisletanico dal 1867 al 1918. Era costituito da una camera alta (Camera dei Signori) e da una camera bassa (Camera dei Deputati). Bibliografia: H. Schambeck, Österreichs Parlamentarismus, Berlino, Duncker & Humblot, 1986.
74 Il sistema bicamerale inglese celebrò la sua risurrezione con la Camera dei Comuni e quella dei Lord. Ma le “Camere” erano ben diverse. Quando fece edificare il palazzo del Parlamento dai flutti del Tamigi, Barry26 entrò nella storia dell’impero mondiale britannico e ne trasse la decorazione per milleduecento nicchie, colonne e sale del suo splendido edificio. In campo scultoreo e pittorico, quell’edificio divenne il tempio della gloria nazionale. Ma ecco la prima differenza con Vienna: quando il danese Hansen ebbe terminato il primo frontone dell’edificio marmoreo della rappresentanza popolare, non gli restò altro che prendere in prestito qualche ornamento dagli antichi27. Gli statisti e i filosofi greco-romani adornano l’edificio teatrale della “democrazia occidentale” e, con simbolica ironia, le quadrighe sulle due Camere si irradiano verso i quattro punti cardinali, esprimendo al meglio l’impulso intimo ed esteriore dell’epoca. Le “nazionalità” avevano ritenuto offensivo e provocatorio che quell’opera celebrasse la storia austriaca, come pure che nell’Impero tedesco si osasse celebrare, sotto il tuono delle battaglie mondiali, l’edificio del Reichstag di Wallot con la dedica “Al popolo tedesco”28. Quando io, non ancora ventenne, entrai per la prima volta nel sontuoso edificio sul Frenzensring29 per assistere a una seduta della Camera dei deputati, fui colto da sentimenti contrastanti. Odiavo da sempre il Parlamento, non come istituzione in sé. Al contrario, come uomo di sentimenti liberali non potevo immaginarmi nessun’altra forma di governo, perché l’idea di una dittatura, data la mia posizione verso la casata asburgica, mi sarebbe apparsa come un tradimento della libertà e contraria al principio di ragione. Non meno importante fu il fatto che le innumerevoli letture giovanili avessero creato in me una certa ammirazione per il Parlamento inglese, che non mi fu facile da superare. Ero molto impressionato dalla dignità, con cui compiva i suoi doveri anche la Camera dei Comuni (che la nostra stampa riusciva a illustrare con bellissime parole). Era mai possibile una forma più solenne di autogoverno di un carattere nazionalpopolare? Proprio per questo io ero contrario al Parlamento austriaco. Ritenevo il suo funzionamento indegno del grande modello. Ma poi accadde che il destino del germanesimo nello Stato austriaco dipendesse dalla sua posizione nel Reichsrat. Con l’introduzione del suffragio universale e segreto si conservò ancora in parlamento una maggioranza tedesca, per quanto esigua. Circostanza preoccupante, poiché la socialdemocrazia, che aveva una posizione ambigua sui problemi nazionali, tendeva a esprimersi contro gli interessi tedeschi sui problemi critici del germanesimo, per non perdere il consenso dei suoi sostenitori di altre nazionalità. Già allora la socialdemocrazia non poteva più considerarsi un partito 26
Charles Barry (1795-1860), architetto inglese, noto soprattutto per la ricostruzione a metà Ottocento del Palazzo di Westminster. 27 Teophil von Hansen (1813-1891), architetto danese di gusto neoclassico, autore a Vienna del Palazzo del Parlamento (1873-1883). 28 Johann Paul Wallot (1841-1912), architetto tedesco, eresse l’edificio del Reichstag dal 1884 al 1894. La dedica “Al popolo tedesco” fu probabilmente inserita su iniziativa di Guglielmo II. 29 Nome del quartiere della Ringstrasse tra Bellariastrasse e Schottengasse dal 1872 al 1919.
75 tedesco. Poi, con l’introduzione del suffragio universale, cessò anche la superiorità numerica tedesca: non esisteva più alcun ostacolo alla de-tedeschizzazione dello Stato asburgico. Per questo motivo, l’istinto d’autoconservazione nazionale mi faceva amare assai poco una rappresentanza popolare che tradiva il germanesimo, anziché “rappresentarlo”. Si trattava di limiti, come molti altri, ascrivibili non al sistema in sé, ma allo Stato austriaco. All’epoca credevo che, ricostruendo una maggioranza tedesca nei corpi rappresentativi, non ci sarebbe stato più alcun bisogno di assumere una posizione pregiudizialmente contraria al sistema rappresentativo, finché si fosse conservato il vecchio Stato. Con questa visione delle cose, io misi piede per la prima volta nelle sacre stanze. Esse, però, erano benedette solo dalla bellezza imponente dello splendido edificio: una meravigliosa costruzione ellenica su suolo tedesco. Ma mi indignai rapidamente non appena vidi la commedia miserabile che svolgeva davanti ai miei occhi30. Erano presenti alcune centinaia di rappresentanti popolari31 che dovevano votare su un problema di particolare rilevanza economica. Mi bastò quell’unico giorno per suggerirmi materiale di riflessione di settimane intere. Il contenuto intellettuale delle proposte era di un “livello” veramente avvilente, per quanto si poteva capire dai loro discorsi. Alcuni di quei signori non parlavano in tedesco, ma nelle loro madrelingue slave o, meglio, nei dialetti32. Ebbi l’opportunità di sentire con le mie orecchie ciò che finora avevo capito solo leggendo i giornali. Una massa selvaggia gesticolante, che sbraitava in maniera disordinata, su cui si ergeva un attempato e tranquillo signore33, che si sforzava col sudore della fronte di salvare il decoro della Camera agitando violentemente una campanella e gridando a volte con tono compassato, a volte con tono minaccioso. Mi venne da ridere. Alcune settimane dopo tornai nel Reichsrat. Il quadro era mutato: era quasi irriconoscibile. La sala era vuota. Si dormiva negli scranni inferiori. Alcuni deputati ai loro posti stavano sbadigliando, uno di loro “parlava”. Il vicepresidente della Camera guardava nell’aula con aria chiaramente annoiata. Comincia a preoccuparmi. Tornai in parlamento non appena ne ebbi la possibilità, per considerare con calma e con attenzione quello spettacolo. Sentii i discorsi, per quanto comprensibili, studiai i visi più o meno intelligenti degli eletti di questo povero Stato – e cominciai a farmi un’opinione.
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Dopo la riforma elettorale del 1896, che ampliava la base elettorale maschile e la crisi relativa al decreto linguistico Badeni del 1897(che equiparava il cèco e il tedesco nei territori boemi), il parlamento fu di fatto ingovernabile sino allo scoppio della guerra mondiale. Bibliografia: H. Mommsen, Die Badeni-Krise als Wendepunkt in den deutsch-tschechischen Beziehungen, in D. Brandes (ed.), Wendepunkte in den Beziehungen zwischen Deutschen, Tschechen und Slowaken, 1848-1989, Essen, Klartext, 2007, pp. 111-118. 31 Dal 1907 al 1911 il parlamento cisletanico fu il più grosso d’Europa con i suoi cinquecentosedici seggi. 32 Il regolamento parlamentare austriaco consentiva ai deputati di tenere i discorsi nelle lingue nazionali. 33 Dal 1907 al 1909 fu presidente della Camera dei deputati il cristiano-sociale Richard Weiskirchner.
76 Bastò un anno di silenziosa osservazione per cambiare o eliminare del tutto la mia precedente opinione sulla natura dell’istituzione parlamentare. Dentro di me presi sempre più posizione contro quella forma deforme assunta in Austria. No, non potevo più riconoscere la legittimità del Parlamento. Da allora mi resi conto che la disgrazia del Reichsrat non consisteva nella mancanza di una maggioranza tedesca, ma nell’essenza stessa dell’istituzione. All’epoca sorsero in me una serie di domande. Iniziai a familiarizzare col principio democratico della maggioranza quale fondamento dell’intera istituzione parlamentare, ma prestai non meno attenzione ai valori spirituali e morali dei signori che dovevano servirla quali rappresentanti eletti. Imparai così a conoscere l’istituzione e i suoi rappresentanti. Nel corso di alcuni anni conobbi con plastica chiarezza il grave fenomeno contemporaneo del parlamentare, che si impresse in modo indelebile nella mia mente. Anche in questo caso, la lezione pratica aveva evitato di farmi annegare in una teoria che, a prima vista, sembra così seducente, ma che va considerata uno tra i fenomeni di decadenza dell’umanità. La democrazia occidentale di oggi è l’antesignana del marxismo, senza la quale non sarebbe immaginabile34. Essa fornisce l’humus per diffondere l’epidemia della peste planetaria. Nella sua forma esteriore (il parlamentarismo), la democrazia creò un “ibrido di fango e di fuoco”35, in cui mi sembra ahimè che il “fuoco” si sia momentaneamente spento. Devo essere assai grato alla sorte per avermi fatto esaminare il problema parlamentare a Vienna, perché temo che all’epoca in Germania la risposta sarebbe stata troppo semplice. Se avessi conosciuto prima a Berlino quella ridicola istituzione chiamata “Parlamento”, sarei forse finito nel campo opposto e, senza un’apparente ragione, mi sarei messo al fianco di coloro che scorgevano la salvezza del popolo e dell’Impero nel sostegno esclusivo all’idea imperiale e che, in tal modo, erano ciechi ed estranei alla loro epoca e al loro mondo. In Austria non era così semplice farsi ingannare. Se il Parlamento aveva scarso valore, gli Asburgo ne avevano ancora meno. Il rifiuto del “parlamentarismo” non era ancora sufficiente. E poi? Il rifiuto e l’eliminazione del Reichsrat ci avrebbe lasciato quale unica forza di governo la casata asburgica, un’idea per me insopportabile. Ciò che mi dava soprattutto da pensare era l’assenza di una qualsiasi responsabilità personale. Nessuno era veramente responsabile di qualsiasi decisione prendesse il Parlamento, specie se dall’esito disastroso36. È prova di senso di responsabilità se, dopo una paralisi senza fine, il governo colpevole si dimette, se la coalizione cambia o il parlamento si scioglie? Può una maggioranza oscillante di uomini essere responsabile di qualcosa? L’idea di responsabilità non è legata alla persona? Sul nesso “logico” fra democrazia, socialismo e marxismo vedi capitoli 2-I e 4-II. Passo rielaborato dal Faust di Goethe (Faust, I, v. 3536). 36 Possibile allusione di Hitler alla Duplice Alleanza del 1879 fra Austria-Ungheria e Germania, siglata dai monarchi (la voce in capitolo dei parlamenti in tema di politica estera era pressoché nulla). Il Reichsrat fu aggiornato dal marzo 1914 e fu quindi del tutto escluso dal processo decisionale della crisi del luglio 1914.
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77 Ma come si può responsabilizzare la persona a capo di un governo se la genesi e la realizzazione delle sue azioni sono addebitabili alla volontà e alla predisposizione di una molteplicità di uomini? Il compito dello statista a capo del governo non è quello di assistere alla nascita di pensieri o di progetti creativi, ma di far comprendere la genialità dei suoi progetti a un branco di zucche vuote, per poi mendicarne la benevola approvazione? Lo statista non è colui che possiede l’arte della persuasione in misura eguale all’intelligenza con cui impartisce grandi direttive o prende decisioni? L’inettitudine di un capo non si dimostra nell’incapacità di convincere la maggioranza di una massa agitata da una serie di casi più o meno fortuiti? Ora, una massa ha mai concepito un’idea prima che il successo ne abbia certificato la grandezza? Ogni azione geniale di questo mondo non è la protesta visibile del genio contro la pigrizia della massa? Cosa deve fare lo statista incapace di conquistare il favore della massa per i suoi progetti? Deve comprarsela? Oppure, di fronte alla stupidità dei suoi concittadini, deve rinunciare alla realizzazione dei suoi doveri vitali? Deve dimettersi oppure restare al suo posto? In tal caso, il vero uomo giunge a un conflitto insolubile tra consapevolezza e buone maniere o, meglio, sentimenti onorevoli? Dov’è il confine fra il dovere verso la collettività e il senso dell’onore personale? Ogni autentico capo deve permettersi di farsi degradare al rango di trafficante politico? E, viceversa, ogni trafficante deve sentirsi chiamato a “fare” politica, visto che la responsabilità finale non sarà mai sua, semmai della massa inafferrabile? Il nostro principio maggioritario democratico deve portare allo sfascio dell’idea del capo? Crediamo che il progresso umano discenda dalla mente delle maggioranze e non dalle teste dei singoli? Crediamo di poter fare a meno in futuro del presupposto individuale della civiltà umana? Oppure quel presupposto ci appare oggi più necessario che mai? Respingendo l’autorità della persona e sostituendola col numero del momento, il principio della maggioranza parlamentare pecca contro il principio aristocratico della natura37. La sua visione della nobiltà non si personifica affatto nell’attuale decadenza dei nostri diecimila rappresentanti delle classi superiori. Le devastazioni provocate dal dominio parlamentare democratico sono inimmaginabili per un lettore dei giornali ebraici, a meno che non abbia imparato a pensare o a esaminare con la propria testa. Quel dominio è alla base dell’incredibile profluvio di fenomeni politici così scadenti dei giorni nostri. Il motivo per cui l’autentico capo abbandonerà un’attività politica che, in larga parte, non è costituita da un servizio e da un lavoro creativi, quanto piuttosto da mercanteggiamenti e da 37
Allusione al concetto socialdarwinistico di “diritto del più forte”.
78 trattative a favore di una maggioranza, consiste nel fatto che l’attività corrisponderà massimamente a quello spirito meschino e tenderà, quindi, a piegarsi ai suoi interessi. Quanto più è limitato un pellaio38 di oggi per intelligenza e per capacità, tanto più sarà chiara la consapevolezza della meschinità della sua figura39, tanto più elogerà un sistema che non esige l’energia e la genialità di un gigante, ma che si accontenta della prontezza di spirito di un capo villaggio, che preferisce, quindi, quel genere di saggezza a quella di un Pericle40. Contemporaneamente, quel poveraccio non si sforzerà mai di assumere la responsabilità del suo operato. Anzi, ne è dispensato, poiché sa bene che, qualunque sia l’esito del suo pasticcio “politico”, la sua fine non è iscritta nel firmamento celeste: un giorno farà spazio a un altro spirito altrettanto “elevato”. Il degrado è contraddistinto proprio dalla mancanza di grandi statisti, che aumenta nella misura in cui diminuisce il criterio di valutazione del singolo. Ma lo “statista” dovrà farsi sempre più piccolo vista la crescente forza dalla maggioranza parlamentare, poiché i grandi spiriti si rifiuteranno di essere i lacchè di incapaci o ciarlieri e, viceversa, i rappresentanti della maggioranza (per stupidità) odiano massimamente le teste pensanti. È sempre confortante per il consiglio municipale di Schilda41 avere alla sua testa un capo dalla saggezza consona al livello dei presenti. Ognuno di loro ha il piacere di esibire periodicamente il proprio spirito – soprattutto se si chiama Tizio, Caio o Sempronio. Ma l’invenzione della democrazia è il pendant esatto di una qualità che, ultimamente, ha attecchito in modo così vergognoso: la viltà di larga parte della nostra “classe dirigente”. Che bello nascondersi dietro la giacca di una maggioranza in occasione di ogni decisione veramente importante! Si osservi quel brigante politico che, preoccupato dei suoi doveri, mendica l’approvazione della maggioranza, per assicurarsi i complici necessari a sgravarsi della propria responsabilità. Questo è il motivo principale per cui l’attività politica ripugna a un uomo veramente perbene o coraggioso, mentre calza a pennello a tutte le figure squallide – e chi non vuole assumersi personalmente la responsabilità delle proprie azioni, ma cerca protezione, è solo un vile farabutto. Ma non appena la classe dirigente di una nazione è costituita da questi esseri smidollati, i nodi vengono al pettine. Non si avrà più il coraggio di essere risoluti, si finirà per accettare supinamente qualsiasi infamia, anche la più vergognosa, piuttosto che prendere una decisione. E non ci sarà più nessuno disposto a rischiare la propria vita e la propria testa per prendere una decisione inesorabile42. 38
Allusione al presidente della Repubblica tedesca Friedrich Ebert (1871-1925), in origine sellaio. Bibliografia: W. Mühlhausen, Friedrich Ebert, 1871-1925, Reichspräsident der Weimarer Republik, seconda edizione, Bonn, J.H.W. Dietz Verlag, 2007. 39 Il 24 agosto 1919, tre giorni dopo la nomina a presidente, la “Berliner Illustrierte Zeitung” (Giornale illustrato berlinese) pubblicò una foto che ritraeva Eber in costume da bagno. La stampa d’opposizione ne approfittò per evidenziarne la scarsa attitudine al ruolo di comando [KA, n. 95]. 40 Pericle (495 o 490-429), statista ateniese. 41 Allusione al romanzo picaresco Die Schildbürger (Gli abitanti di Schilda, 1598), incarnazione della stupidità umana. 42 Nei primi anni della Repubblica di Weimar si assistette a un’escalation della violenza, spesso indirizzata contro i rappresentanti dei governi moderati. Il 26 agosto 1921 fu ucciso l’ex ministro delle finanze
79 Non bisogna mai dimenticarselo: la maggioranza non può mai sostituire il vero uomo. Essa non rappresenta soltanto la stupidità, ma anche la viltà. E se cento zucche vuote non fanno un saggio, cento vigliacchi non fanno un gesto eroico. Ma quanto più è ridotta la responsabilità di un singolo capo, tanto più crescerà meschinamente il numero di coloro che si sentiranno chiamati a mettere a disposizione della nazione le loro forze immortali. Ecco, non vorranno più mettersi in fila: si incolonneranno e conteranno con dispiacere il numero di coloro che stanno davanti a loro. Aspetteranno il momento giusto per salire sul carro dei vincitori. Quindi aspirano a ogni avvicendamento nell’ufficio ambito e sono grati se uno scandalo accorcerà la fila dinnanzi a loro. Chiunque si rifiuti di cedere la poltrona, contravviene al sacro vincolo della solidarietà comune. Allora gli aspiranti si arrabbieranno e non avranno pace finché lo spudorato non sarà cacciato via e non avrà nuovamente messo a disposizione della collettività la sua calda postazione. Non sarà facile riconquistare la poltrona con facilità: non appena, infatti, una di quelle creature sarà costretta a lasciarla, cercherà nuovamente di infilarsi nella coda “in attesa”, a meno che le crescenti grida e le invettive degli altri non glielo impediscano. La conseguenza di quello spettacolo pietoso è l’avvicendamento repentino nei posti e negli uffici statali più importanti, con conseguenze negative, se non infauste. Perché non solo gli stupidi e gli inetti saranno preda di quella consuetudine, ma anche i veri capi, ammesso (e non concesso) che il destino riuscirà ancora a portarli a quegli incarichi. Non appena un capo emerge dalla mischia, ecco formarsi subito un compatto fronte difensivo contro il tentativo da parte di una testa pensante, estranea alle sue file, di introdursi nella sublime compagnia. Nessuno vuole essergli sottomesso per principio e odia alacremente qualsiasi zucca che, in mezzo a quegli zeri, possa valerne dieci. E l’istinto si orienta in modo tanto più energico quanto più è carente nelle zucche vuote. L’esito sarà quindi un progressivo impoverimento intellettuale della classe dirigente. Chiunque può trarne le conseguenze per la nazione e per lo Stato, pur non facendo parte di quella varietà di “capi”. La vecchia Austria era un regime parlamentare allo stato puro. Anche se i primi ministri erano nominati dall’Imperatore e dal Re43, la nomina non era nient’altro che l’esecuzione della volontà parlamentare. I mercanteggiamenti e i traffici per le singole cariche ministeriali erano già democrazia occidentale allo stato puro44. Ma gli esiti corrispondevano ai principî impiegati. In particolare, l’avvicendamento delle singole personalità era sempre più frequente, finendo per diventare una vera e propria cacciata. Allo stesso tempo, anche la grandezza degli “statisti” era sempre inferiore, finché non restò altro che quel piccolo trafficante Matthias Erzberger, mentre il 24 giugno 1922 fu la volta del ministro degli esteri Walther Rathenau a opera dell’Organizzazione Consul, composta da ex appartenenti alla brigata marina Erhardt, uno dei Corpi franchi coinvolti nel fallito putsch di Kapp del 1920. Hitler avrà modo di criticare l’associazionismo segreto e vehmico nel capitolo 9-II. Bibliografia: W. Selig, Organisation Consul, in W. Benz (ed.), Handbuch des Antisemitismus, vol. 5: Organisationen, Berlino, de Gruyter, 2012, pp. 465-466. 43 Dopo il 1867 l’Austria-Ungheria non possedeva una vera e propria costituzione, ma cinque leggi fondamentali dello Stato e la legge delega del dicembre 1867 [KA, n. 108]. 44 Il governo austriaco era affidato innanzitutto all’Imperatore, mentre la formazione del governo non era vincolata alle volontà parlamentari e partitiche. Qui Hitler tenta di ritrarre il sistema weimariano.
80 parlamentare, il cui valore politico era misurato o riconosciuto in base alla capacità con cui riusciva ad affastellare coalizioni momentanee, a condurre trattative politiche in grado di giustificare l’attitudine al lavoro pratico di quel rappresentante del popolo. La scuola viennese era ineguagliabile in tale settore. Meno allettante era il confronto fra la capacità e la preparazione di quei rappresentanti popolari e i compiti che li attendevano. Nolenti o volenti, dovevamo occuparci più da vicino dell’orizzonte intellettuale di quei signori eletti. Quindi è inevitabile dedicare la dovuta attenzione agli avvenimenti che ci portano a rivelare queste magnificenze della vita pubblica. Valeva la pena di esaminare scrupolosamente i modi in cui la capacità effettiva di quei signori era utilizzata al servizio della patria, quindi l’evento tecnico della loro attività. L’intero quadro della vita parlamentare appariva tanto più miserevole, quanto più uno si addentrava nelle questioni interne, studiava persone e moventi con dura e spietata oggettività. Questo è tanto più opportuno di fronte a un’istituzione, i cui sostenitori si sentono obbligati ogni due frasi ad accennare all’unico principio legittimo dell’“oggettività”. Non esiste alcun principio che, oggettivamente parlando, sia tanto ingiusto quanto quello parlamentare. Tuttavia non si può rinunciare al modo in cui si svolge l’elezione dei rappresentanti popolari, al modo in cui ottengono i loro uffici e il loro titoli. Che si tratti pure in piccolissima parte di un desiderio o di un bisogno generale, chiunque si renderà conto che la comprensione politica della grande massa non si è sviluppata ancora al punto da giungere autonomamente a determinate visioni politiche generali e, quindi, da scegliersi le persone giuste da eleggere. Ciò che indichiamo con l’espressione “opinione pubblica”, si basa in piccolissima parte su esperienze proprie o su cognizioni individuali, ma è piuttosto l’immagine provocata da un genere piuttosto incisivo e ostinato di “informazione”. Se è vero che la scelta confessionale è il prodotto dell’educazione45 e il bisogno religioso è latente in ogni uomo, lo è altrettanto che l’opinione politica della massa rappresenta il prodotto finale di un lavorio a volte incredibilmente tenace e scrupoloso dell’anima e dell’intelligenza. La quota di gran lunga più importante dell’“educazione” politica che noi indichiamo col termine propaganda, è attribuibile alla stampa46. Essa si preoccupa innanzitutto di quel “lavoro di informazione” e rappresenta una sorta di scuola per adulti. Solo che la lezione non è in mano allo Stato, ma nelle grinfie di forze largamente inferiori. Proprio a Vienna ebbi l’opportunità migliore di conoscere i responsabili e gli autori di questa macchina educativa di massa. Inizialmente mi stupii in quanto breve tempo quella malvagia potenza interna potesse fabbricare una determinata opinione, anche se si trattava di una completa falsificazione di desideri o visioni presenti nella collettività. In pochi giorni, una faccenda ridicola diventava un affare di Stato della massima importanza, mentre, viceversa, i problemi più importanti 45 46
Sul concetto hitleriano di educazione vedi capitolo 2-II. Sul ruolo della stampa vedi capitolo 6-II.
81 erano soggetti all’oblio generale, anzi erano letteralmente sottratti alla memoria o al ricordo delle masse. Nel giro di poche settimane, la stampa riusciva a inventarsi dal nulla dei nomi, a farne dipendere speranze incredibili per le grandi masse, a dar loro una popolarità che, spesso, nemmeno l’uomo importante avrebbe raggiunto in tutta la sua vita. Nomi che, il mese successivo, non conosceva più nessuno o non si sentivano più in giro, mentre, contemporaneamente, sparivano dalla circolazione personaggi vecchi e importanti della vita pubblica che godevano di ottima salute, oppure erano coperti da tali ingiurie che il loro nome rischiava di diventare il simbolo di un’infamia o di una mascalzonata ben precisa. È possibile apprezzare il pericolo di quella spazzatura solo studiando l’infame maniera ebraica di infangare l’abito pulito di uomini con una sola macchia oppure, con una formula magica, di diffamare e calunniare in centinaia di modi queste persone. Non c’è nulla che un predone intellettuale non farebbe per raggiungere i suoi scopi “puliti”. Ficcherà il naso nei più reconditi affari di famiglia e non smetterà di farlo prima che il suo istinto tartufesco non avrà scovato qualche miserabile episodio destinato a far fuori la vittima di turno. Ma se nella sfera pubblica, come in quella privata, non spunta fuori nulla, ecco che il tipaccio ricorre alla semplice calunnia, convinto che, anche alla millesima smentita, resti sempre appiccicato qualcosa di sporco47 e che, alla centesima ripetizione della calunnia per opera dei suoi compari, la vittima non avrà più la forza di reagire48. Peraltro quella gentaglia non intraprende mai un’iniziativa per motivi convincenti o, quantomeno, plausibili. Dio ce ne guardi! Assalendo in modo abietto la gente perbene, quella piovra gigante49 ci avvolge in una nuvola di conformismo e di espressioni altisonanti, blatera di dovere “giornalistico” e di simili ipocrite stupidaggini, ha perfino l’ardire, ai convegni e ai congressi (occasioni frequentatissime da quelle piaghe sociali) di sproloquiare di un “onore” del tutto particolare (quello giornalistico), confermato poi in modo solenne dalla marmaglia raccolta. Quella gentaglia fabbrica più di due terzi dell’opinione “pubblica”50, dalla cui schiuma fuoriesce l’Afrodite parlamentare51. Per illustrare al meglio tutto ciò e per rappresentarli nella loro ipocrita falsità bisognerebbe scrivere interi volumi. Se anche non lo facessimo e ci limitassimo a considerare l’esito della loro attività, questo sarebbe già sufficiente a rilevare l’oggettiva follia dell’istituzione anche per gli animi più osservanti. Capiremo meglio questo smarrimento umano folle e pericoloso confrontando il parlamentarismo democratico con un’autentica democrazia germanica52. Possibile allusione al detto: “calunnia senza timore, qualcosa resta sempre attaccato”. Sull’efficacia propagandistica della “ripetizione” vedi capitolo 6-I. 49 L’immagine della piovra gigante simboleggiava nella propaganda antisemita il “dominio mondiale ebraico”. L’ebreo fu anche associato al maiale e al serpente. Bibliografia: C. Kugelmann, F. Backhaus (ed.), Jüdische Figuren in Film und Karikatur. Die Rothschilds und Joseph Süss Oppenheimer, Sigmaringa, Thorbecke, 1995. 50 Sul topos antisemita della stampa “ebraizzata” vedi capitolo 10-I. 51 Afrodite, la dèa greca dell’amore, della bellezza e del desiderio, emerge come figlia della schiuma marina. 52 Sulla “democrazia germanica” vedi capitolo 12-I. 47
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82 L’aspetto più rilevante del parlamentarismo consiste nel fatto che a un numero di persone elette (diciamo cinquecento uomini o, di recente, persino donne)53 spetta il compito di prendere collegialmente una decisione definitiva. I parlamentari rappresentano praticamente il governo, perché, se anche quelli eleggessero un gabinetto che assumesse esternamente la conduzione degli affari di Stato, esso lo farebbe solo in apparenza. Di fatto il governo non può fare anche un solo passo senza avere incassato prima la fiducia dell’assemblea generale. In tal modo, però, non è responsabile di niente, perché la decisione finale spetta sempre alla maggioranza parlamentare. Essa, a sua volta, esegue solo la volontà maggioritaria del momento. Si potrebbe giudicare la sua capacità politica solo dall’arte con cui riesce ad adattarsi alla volontà della maggioranza o a servirsene. Ma così un governo vero si abbassa a mendicare la fiducia della maggioranza del momento. Ecco, il suo compito prioritario consiste nell’assicurasi caso per caso il favore della maggioranza esistente oppure di crearsene una più favorevole. Se gli riesce, può “governare” ancora per un po’, altrimenti è finito. La bontà delle sue intenzioni non ha più alcuna importanza. In questo modo si elimina ogni senso di responsabilità. Gli esiti di tutto questo si evincono da una semplice osservazione. La composizione interna dei cinquecento rappresentanti eletti, in base alla loro professionalità o competenza, fornisce un quadro preoccupante e lacerante. Non si crederà che gli eletti della nazione siano anche eletti dello spirito o anche solo dell’intelligenza? Non si crederà che i voti di un corpo elettorale tutt’altro che intelligente producano centinaia di statisti? È assurdo pensare che le elezioni generali creino dei geni. Da un lato, un vero “statista” appare all’orizzonte di una nazione solo in epoche benedette, e non cento, semmai uno alla volta. Dall’altro, l’avversione della massa contro il genio è qualcosa di istintivo. È più facile che un cammello passi dalla cruna dell’ago54 che un grand’uomo sia “scelto” da un’elezione. Ciò che travalica veramente la comprensione della maggioranza, si annuncia di solito individualmente nella storia universale. Ma così cinquecento persone mediamente modeste si mettono d’accordo sugli interessi più importanti della nazione, designano governi che debbono conquistarsi la fiducia dell’illustre consesso in ogni singolo caso o in ogni problema particolare. Quindi, di fatto, la politica è fatta da cinquecento persone. E così appare il più delle volte. Ma, escludendo la genialità di un rappresentante popolare, e se pensiamo a come siano complessi i problemi da affrontare e le decisioni da prendere, si comprenderà assai bene quanto inadeguata sia un’istituzione di governo che conferisce l’ultima parola a un’assemblea di persone, di cui solo una frazione piccolissima ha le conoscenze e l’esperienza adeguate al caso. I principali provvedimenti economici sono sottoposti a un consesso che solo in un decimo dei suoi membri ha la necessaria preparazione tecnica. Ciò significa porre la decisione finale nelle mani di uomini che mancano dei requisiti necessari. Il decreto per l’elezione all’assemblea costituente tedesca del 30 novembre 1918 estese il diritto di voto attivo e passivo a uomini e a donne maggiori di vent’anni. 54 Allusione al noto passo del Vangelo di Marco (10,17-30).
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83 Questo vale per ogni genere di problema. Decide sempre una maggioranza di ignoranti e di incompetenti, poiché la composizione dell’istituzione parlamentare resta invariata, mentre i problemi da trattare riguardano quasi ogni settore della sfera pubblica, e quindi richiederebbero un avvicendamento costante dei deputati chiamati a decidere e a giudicare. Ma è impossibile disporre sui problemi dei trasporti degli stessi uomini preparati su nodo importante di politica estera. Dovrebbe esistere un autentico genio universale, uno di quelli apparsi rarissimamente nei secoli passati. Purtroppo qui non si tratta più di “teste”, ma di dilettanti limitati, presuntuosi e tronfi, demi-monde intellettuale della peggior risma. Per non parlare di quell’incomprensibile leggerezza, con cui questi signori parlano e decidono di cose che costerebbero difficili riflessioni ai grandi uomini. Decisioni assai gravi per l’avvenire di uno Stato, di una nazione, sono assunte come se sul tavolo fosse in ballo una vincita migliore di schafkopf55 o del tarocco e non, invece, il destino di una razza. Sarebbe comunque ingiusto credere che ogni deputato del parlamento sia stato sempre affetto da un senso così modesto di responsabilità. No, assolutamente no. Ma il sistema, costringendo il singolo a prendere posizione su problemi che non gli competono, tende a guastarne il carattere. Nessuno avrà il coraggio di affermare: “Signori miei, credo che non ci stiamo capendo un bel niente, quantomeno io”. (Cambierebbe poco, perché quel genere di franchezza non è capita e, difficilmente, un asino onesto può rovinare il gioco). Ma chi conosce il mondo, saprà anche che, in una società così illustre, un uomo non vorrà essere considerato uno stupido e, in certi frangenti, l’onesta è sempre sinonimo di stupidità. Quindi anche il rappresentante più integerrimo si getterà inevitabilmente sulla via dell’imbroglio e dell’ipocrisia. La convinzione che la sua mancata partecipazione non cambierebbe nulla, uccide sul nascere ogni moto onorevole che possa sorgere nell’una o nell’altra persona. Alla fine l’uomo si metterà in testa di non essere peggiore degli altri e, forse, di aver impedito con la sua partecipazione qualcosa di ben peggiore. Qualcuno obietterà che il singolo deputato non aveva alcuna particolare competenza in questa o in quella faccenda, ma che la sua decisione fu deliberata dal gruppo parlamentare, la sua guida politica. Dirà che il gruppo parlamentare ha le sue commissioni ad hoc che saranno illuminate più che a sufficienza dai tecnici. Ciò sembra giusto, a prima vista. Ma perché si eleggono cinquecento persone se solo alcuni hanno la necessaria competenza per prendere decisioni sui problemi più importanti? Ecco il nocciolo della questione. Lo scopo del nostro parlamentarismo democratico non è quello di creare un’assemblea di saggi, ma piuttosto di raccogliere una massa di nullità intellettualmente dipendenti, la cui conduzione, soggetta a determinate direttive, sarà tanto più semplice quanto più è grande la mediocrità dei singoli. Solo così si può fare politica di partito nel senso peggiore del termine. Ma solo così è possibile che il vero regista occulto resti sempre prudentemente nell’ombra, senza esser mai ritenuto personalmente responsabile di un bel niente. In questo modo, ogni decisione nociva 55
Gioco di carte molto popolare in Baviera e in Austria a fine Ottocento.
84 per la nazione non sarò addebitata sul conto di un farabutto visibile a tutti, ma sarà scaricata sulle spalle di un singolo gruppo parlamentare. Così si elimina di fatto ogni responsabilità pratica, che può esserci solo nell’obbligo di una singola persona e non in un consesso di chiacchieroni parlamentari. L’istituzione parlamentare può essere utile e gradita solo ai lacchè più disonesti e timorosi della luce del giorno, mentre è detestata da ogni persona onesta e retta, pronta ad assumersi la propria responsabilità. Ecco perché la democrazia è diventata lo strumento di quella razza che, per conseguire i suoi reali obiettivi, evita la luce del sole, ora e per sempre. Solo l’ebreo può lodare un’istituzione sporca e falsa come lui. All’istituzione parlamentare si contrappone l’autentica democrazia germanica della libera scelta del capo, con l’obbligo della piena assunzione di responsabilità per il suo operato56. Non esiste alcun voto della maggioranza sui singoli provvedimenti, ma la scelta di un singolo che deve rispondere delle sue decisioni con i suoi beni e con la sua vita. Ma se qualcuno obietta che, con tali presupposti, è difficile trovare qualcuno disposto a consacrare la sua persona a un compito così rischioso, gli rispondiamo: vivaddio! Ecco il senso di una democrazia germanica: non è il primo indegno arrivista e lo scansafatiche morale a giungere per vie traverse al governo dei suoi connazionali, perché gli incapaci e i vigliacchi si tirano indietro di fronte alla grandezza della responsabilità da assumere. Se tuttavia qualche tipaccio cercasse di introdursi furtivamente, sarebbe più facile individuarlo e apostrofarlo implacabilmente: “Via da qui, vile farabutto! Giù le zampe, sporchi i gradini! La scalinata del Pantheon della storia57 non è riservata ai furbi, ma solo agli eroi!” A questa visione delle cose giunsi dopo due anni di frequentazioni del parlamento viennese. Non ci misi più piede. Il regime parlamentare determinò anche l’indebolimento crescente del vecchio Stato asburgico. Quanto più diminuiva il predominio del germanesimo al suo interno, tanto più rapidamente lo Stato fu preda delle contrapposizioni nazionali. Nel Reichsrat questo avveniva sempre a spese dei tedeschi e quindi, alla fine, dell’Impero. Perché, alla svolta del secolo, anche i più ingenui si erano resi conto che la forza attrattiva della monarchia non riusciva più a scongiurare i movimenti separatisti dei diversi paesi. Al contrario, quanto più miseri erano i mezzi utilizzati dallo Stato ai fini della sua autoconservazione, tanto più cresceva il disprezzo popolare nei suoi riguardi. Non solo in Ungheria, ma anche nelle singole province slave si avvertiva assai poca identità di vedute con la monarchia: le sue debolezze non erano più condivise. Anzi, tutti si rallegravano delle avvisaglie dell’incipiente declino; tutti speravano più nella morte che nella guarigione.
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Sull’educazione alla responsabilità vedi capitolo 2-II. Possibile riferimento al Pantheon parigino, eretto tra il 1764 e il 1790.
85 In Parlamento il tracollo definitivo fu ritardato dal continuo cedimento ai ricatti che poi avrebbero pagato i tedeschi. Nel paese questo comportò un’abile neutralizzazione delle rivalità dei singoli popoli. Peccato che la linea generale del processo fosse rivolta contro i tedeschi. Specialmente dopo che l’entourage dell’arciduca Francesco Ferdinando tentò di introdurre una “cèchizzazione” dall’alto58. Il futuro signore della doppia monarchia cercò in ogni modo di promuovere la detedeschizzazione oppure di dissimularla. Località completamente tedesche furono lentamente trascinate nelle zone bilingue mediante i funzionari statali. Il processo si fece più rapido proprio nella Bassa Austria. Vienna aveva lo stesso numero di cèchi di Praga59. Il principio guida dell’ultimo Asburgo, la cui famiglia parlava solo cèco (la consorte dell’arciduca, ex contessa cèca, si era unita morganaticamente col principe)60, era quello di innalzare lentamente in Europa centrale uno Stato slavo che fosse posto a difesa della Russia ortodossa su basi rigidamente cattoliche. Come spesso accadeva agli Asburgo, la religione era utilizzata al servizio di un progetto puramente politico e, per giunta, infausto (come minimo dal punto di vista tedesco). L’esito fu deplorevole sotto molti punti di vista. Né la casata d’Asburgo, né la Chiesa cattolica ottennero l’attesa ricompensa. Gli Asburgo persero il trono, Roma un grande Stato cattolico. Perché la corona, ponendo la religione al servizio della politica, evocò uno spettro imprevedibile. Il tentativo di distruggere a ogni costo il germanesimo della vecchia monarchia, partorì il movimento pantedesco in Austria61. Negli anni Ottanta il liberalismo manchesteriano di stampo ebraico62 aveva raggiunto il suo apogeo anche in seno alla monarchia, o forse l’aveva oltrepassato. La reazione, come ogni cosa della vecchia Austria, non ebbe motivazioni sociali, ma nazionali. L’istinto d’autoconservazione costrinse il germanesimo a difendersi in forma più drastica. Le considerazioni economiche ottennero un influsso determinante solo in un secondo tempo. Così, dalla confusione politica generale, si delinearono due partiti: uno di tendenza più nazionale, l’altro più sociale, ma entrambi erano altamente interessanti e istruttivi per le sorti future. Dopo la fine avvilente della guerra del 1866, la casata asburgica maturò il proposito di una nuova rivincita sul campo di battaglia. Solo la morte dell’Imperatore Massimiliano del Messico, le cui responsabilità della sfortunata spedizione erano addebitate a Napoleone III, e il cui abbandono francese aveva sollevato lo sdegno
Sulla “cèchizzazione” di Francesco Ferdinando d’Austria-Este vedi capitolo 1-I. Con una presenza di quasi cinquecentomila unità, Vienna a inizio 1900 era la più grande città cèca al mondo. Questo spiega anche la scelta politica di Lueger di non sposare una posizione apertamente pangermanista e antislava. Bibliografia: M. Gettler, Böhmisches Wien, Monaco-Vienna, Herold, 1985. 60 Il matrimonio morganatico era un matrimonio contratto tra persone di diverso rango sociale, che impediva il passaggio alla moglie dei titoli e dei privilegi del marito. 61 L’Alldeutsche Vereinigung (Associazione pantedesca) fu un partito nazionalista, anticlericale e antisemita austriaco sorto nel 1891. Hitler si riferisce al movimento pantedesco più in generale, anche se va ricordato che il “fratello” tedesco rifiutò sempre la nomea di partito. 62 Con liberalismo manchesteriano o manchesterismo si intendeva sia una corrente politica, sia una teoria economico-politica liberista sorta a inizio Ottocento in Inghilterra per mano di Richard Cobden e John Bright.
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86 generale63, impedì un’alleanza più stretta con la Francia. Tuttavia gli Asburgo attesero l’occasione giusta. Se la guerra del 1870-71 non fosse diventata una marcia trionfale così rapida, la corte viennese avrebbe osato vendicarsi di Sadowa64. Ma quando giunse l’eco delle prime gesta eroiche prussiane sui campi di battaglia, mirabili e incredibili, ma reali, ecco che il più “saggio” di tutti i monarchi ammise che il momento non era opportuno e fece buon viso a cattivo gioco. Le battaglie eroiche della guerra franco-tedesca avevano compiuto un miracolo ancora maggiore. La nuova presa di posizione asburgica non corrispondeva a un impulso del cuore, ma alla necessità delle circostanze. Il popolo tedesco della vecchia Marca Orientale si fece trasportare dall’ebbrezza della vittoria dell’Impero tedesco e vide con profonda commozione la ricostituzione del sogno dei padri tramutarsi in una magnifica realtà65. Ma non bisogna farsi ingannare: il vero austro-tedesco aveva riconosciuto in Sadowa il presupposto tragico – ma necessario – per la risurrezione di un Impero che non fosse più affetto dal putrido marasma della vecchia Confederazione66 – e che non lo sarebbe più stato. Imparò soprattutto a sentire più profondamente con la propria pancia che la casata d’Asburgo aveva concluso la sua missione storica e che il nuovo Impero poteva crearlo solo un re che avrebbe fornito una testa degna ed eroica alla “corona del Reno”67. Quanto bisognava ringraziare il destino per aver scelto il discendente di una casata che, in Federico il Grande68, aveva già saputo regalare alla nazione in tempi difficili il simbolo imperituro dell’insurrezione tedesca69. Ma quando, dopo la guerra franco-tedesca, la casata d’Asburgo si apprestò, con estrema risolutezza, a estirpare lentamente ma inesorabilmente della doppia monarchia il pericoloso germanesimo (la cui fedeltà era indubbia) – perché questo era lo scopo della politica di slavizzazione –, ecco che sorse e divampò la resistenza del popolo destinato a una brutta fine in una forma che la storia tedesca moderna non aveva ancora conosciuto. Inizialmente si ribellarono gli uomini di sentimenti nazionali e patriottici. Ribelli non contro la nazione, né contro lo Stato in sé, ma contro un tipo di governo che, ai loro occhi, avrebbe rovinato il loro carattere nazionalpopolare. Per la prima volta nella storia tedesca recente, il patriottismo dinastico si separò dall’amore nazionale per la patria e per il popolo.
Massimiliano d’Asburgo fu imperatore del Messico per iniziativa di Napoleone III dal 1864 al 1867. Nei pressi del villaggio di Sadowa (Königgratz), in Boemia, ebbe luogo il 3 luglio 1866 la battaglia decisiva del conflitto austro-prussiano. 65 Il culto bismarckiano sorse in alcune zone germanofone in funzione anti-ausburgica. Bibliografia: J. Sonnleitner, Bismarck in der österreichischen Literatur, in K. Amann, K. Wagner (ed.), Literatur und Nation. Die Gründung des Deutschen Reiches 1871 in der deutschsprachigen Literatur, Vienna, Böhlau, 1996, pp. 267 ss. 66 Allusione alla Confederazione germanica (1815-1866). 67 Allusione alla poesia Das Herz am Rhein (Il cuore sul Reno) di Heinrich Dippel [KA, n. 155]. 68 Federico II di Hohenzollern, detto il Grande (1712-1786), re di Prussia dal 1740. Bibliografia: K. Barthel, Friedrich der Grosse in Hitlers Geschichtsbild, Wiesbaden, Franz Steiner Verlag, 1977. 69 Allusione alle guerre di Federico il Grande contro l’Austria e i suoi alleati per il controllo della Slesia.
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87 Il merito del movimento pantedesco austriaco degli anni Novanta70 è quello di aver diagnosticato in modo chiaro e univoco che un’autorità statale ha il diritto di pretendere rispetto e protezione solo se corrisponde agli interessi del carattere nazionalpopolare o, quantomeno, non li danneggia. L’autorità statale come fine in sé non è ammissibile, poiché, in tal caso, ogni tirannia a questo mondo sarebbe inattaccabile e inviolabile. Quando, con il ricorso alla forza statale, un carattere nazionalpopolare è condotto alla rovina, la ribellione di ogni membro del popolo non è solo un diritto, ma è anzi un dovere. Il problema della tempistica non è stabilito a tavolino, ma dalla forza e – dal successo. Poiché ogni forza di governo ha il dovere di conservare l’autorità statale, per quanto sia pessimo e contrario agli interessi del carattere nazionalpopolare, l’istinto nazionalpopolare d’autoconservazione dovrà conseguire la libertà o l’indipendenza con le stesse armi con cui l’avversario tenta di conservarsi. La lotta sarà condotta con mezzi “legali”, finché li usa anche la forza da rovesciare. Ma si ricorrerà anche a mezzi illegali, se saranno utilizzati dall’oppressore. Non bisogna mai dimenticarsi che lo scopo supremo dell’esistenza umana non è la conservazione di uno Stato o di un governo, ma la protezione della specie. Ma se questa è messa in pericolo, è oppressa o eliminata, il problema della legalità dei mezzi non è più prioritario. Può darsi che, se anche la potenza dominante si serve di mezzi “legali”, l’istinto d’autoconservazione degli oppressi sia sempre la giustificazione più solenne per la lotta con ogni mezzo possibile. Solo riconoscendo questo principio, le lotte di liberazione contro l’asservimento interno o esterno dei popoli hanno offerto esempi storici così importanti. Il diritto degli uomini piega il diritto dello Stato71. Ma se un popolo soccombe nella lotta per i suoi diritti umani, ciò significa che la bilancia del destino l’ha giudicato troppo inconsistente per esigere la gioia di perpetuarsi ancora sulla terra. A chi non è pronto o capace di combattere per la propria esistenza, la Provvidenza, sempre giusta, ne decreta la rovina. Il mondo non appartiene ai popoli vili. L’esempio dell’Austria mostra quanto sia facile per una tirannia ammantarsi di “legalità”. I poteri legali si basavano all’epoca su un parlamento ostile ai tedeschi, a maggioranza non tedesca – e su una casata regnante altrettanto ostile ai tedeschi. L’autorità statale s’incarnava in quei due fattori. Era assurdo voler cambiare il destino del popolo austro-tedesco da questo versante. Quindi, secondo i nostri adoratori della via “legale”, tutti avrebbero dovuto astenersi da ogni forma di resistenza che travalicasse certi limiti. Questo avrebbe significato necessariamente la fine del popolo
L’apice del consenso elettorale dell’Alldeutsche Vereinigung austriaca fu raggiunto nel 1901 con ventuno deputati nel Reichsrat, ma nel 1907, dopo lotte intestine fra Schönerer e Wolf, il movimento ottenne tre mandati e perse progressivamente di importanza politica a scapito del Partito cristiano-sociale. 71 Allusione al motto spesso usato da Schönerer, diffuso da Theodor Fritsch e dalla sua rivista “Der Hammer” (Il martello) [KA, n. 161]. 70
88 tedesco nella monarchia asburgica – e forse in breve tempo. Di fatto, il germanesimo è stato “salvato” dal tracollo dello Stato asburgico. Certo, l’occhialuto teorico preferirebbe morir per la sua idea piuttosto che per il suo popolo. Poiché si fanno le leggi, gli uomini dovrebbero vivere in funzione di esse. Merito del movimento pantedesco austriaco dell’epoca fu quello di aver fatto piazza pulita di quelle assurdità, suscitando lo scandalo dei teorici e dei feticisti dello Stato. Mentre gli Asburgo cercavano con ogni mezzo di schiacciare il germanesimo, il movimento pantedesco assalì la “solenne” casata reale in modo impietoso72. Calò per la prima volta la sonda in quello Stato cialtrone per aprire gli occhi a centinaia di migliaia di persone. È merito del movimento pantedesco aver liberato il magnifico concetto di amor patrio dalla stretta di quella triste dinastia. Il seguito dei primi tempi era straordinariamente massiccio, minacciò perfino di trasformarsi in una valanga73. Solo che il suo successo non durò a lungo. Quando giunsi a Vienna, il movimento pantedesco era stato sopravanzato già da tempo dal Partito cristiano-sociale, giunto al potere in quegli anni. Pareva ormai condannato alla totale irrilevanza. La dinamica degli eventi e dell’evoluzione del movimento pantedesco, da una parte, e l’ascesa del Partito cristiano-sociale, dall’altra, divennero per me materia classica di studio, della massima importanza. Quando giunsi a Vienna, tutte le mie simpatie andavano completamente alla tendenza pantedesca. Il fatto che qualcuno avesse il coraggio di gridare in Parlamento “Viva gli Hohenzollern”, mi impressionava e mi rallegrava a dismisura. Ero lieto che i pantedeschi si considerassero sempre una parte separata dell’Impero tedesco e non passasse anche un solo istante che non lo dichiarassero pubblicamente. L’unica via per salvare il nostro popolo era quella che, in tutti i problemi concernenti il germanesimo, si mostrassero implacabilmente i propri colori senza scendere a compromessi. Ma non capivo perché il movimento stesse perdendo consensi dopo un’ascesa così gloriosa. Ancor meno perché il Partito cristiano-sociale riuscisse contemporaneamente a ottenere una forza così dirompente. In quegli anni era all’apice della sua fortuna. Mentre mi accingevo a confrontare i due movimenti, il destino, accelerato dalla mia triste situazione, mi impartì la migliore lezione per comprendere i motivi di quell’enigma. Inizio la mia valutazione dai due uomini che vanno considerati i capi i e fondatori dei due partiti: Georg von Schönerer e il dottor Karl Lueger. Umanamente parlando, entrambi si ergono ben oltre la cornice e la statura dei “parlamentari”. Tutta la loro vita si conservò pura e intangibile nel pantano di una corruzione politica generale. Tuttavia la mia simpatia personale andò inizialmente allo Schönerer pantedesco, per poi rivolgendosi progressivamente al capo cristiano-sociale.
Il principale obiettivo di Schönerer era l’unificazione delle parti tedesche dell’Austria-Ungheria con l’Impero tedesco. Il movimento “Los-von-Rom” (Via da Roma) creò non poche frizioni con le alte sfere asburgiche e non sortì particolari risultati. 73 I sostenitori di Schönerer ammontavano a cento-centocinquantamila persone. Hitler si riferisce alle proteste susseguenti al decreto Badeni 1897 nelle zone sudete e nella Stiria [KA, n. 166]. 72
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Figura 2 Georg von Schönerer (a sinistra) e Karl Lueger (a destra) [fonti: alchetron.com, wikipedia commons]
Confrontando le loro doti, all’epoca Schönerer mi sembrava un pensatore migliore e più scrupoloso nei problemi più importanti74. Egli aveva riconosciuto la fine ineluttabile dello Stato austriaco in modo così chiaro come nessun altro. Se nell’Impero si fosse dato ascolto ai suoi moniti contro la monarchia asburgica, la disgraziata guerra mondiale della Germania contro il resto dell’Europa non avrebbe mai avuto luogo. Ma benché Schönerer capisse la natura dei problemi, si sbagliava nella scelta degli uomini. Questa era la forza del dottor Lueger. Il sindaco di Vienna era un singolare conoscitore degli uomini: si guardava bene dal ritenerli migliori di quello che erano75. Inoltre egli faceva affidamento sulle reali possibilità della vita, mentre Schönerer aveva una minore capacità introspettiva. Il pensiero del pantedesco era giusto in teoria, solo che gli mancava la forza e la comprensione di mediare l’assunto teorico alla massa, di formare adeguatamente la grande massa popolare (che è e resta limitata). La sua esperienza restava pura saggezza profetica, ma non divenne mai attività politica76. L’assenza di conoscenza oggettiva degli uomini lo avrebbe spinto a un’errata valutazione sia delle forze del suo movimento, sia delle istituzioni vetuste. Schönerer aveva pure ammesso che si trattava di un problema di visione del mondo, ma non aveva compreso che sempre e solo le grandi masse popolari sono idonee a rappresentare quelle convinzioni quasi religiose. Comprese la straordinaria mediocrità 74
Probabilmente Hitler lesse i discorsi e la biografia di Eduard Pichl: Georg Schönerer und die Entwicklung des Alldeutschtums in der Ostmark, Vienna, Selbstverlag, 1912-1923. [KA, n. 175]. 75 Lueger fu originariamente un liberale di sinistra e poi si fece la fama di tribuno del popolo. Bibliografia: K.B. Brown, Karl Lueger, the liberal years. Democracy, municipal reform, and the struggle for power in the Vienna City Council, 1875-1882, New York-Londra, Garland Publishing, 1987. 76 Si confronti l’illuminante analisi di Theodor Heuss sull’influenza dei due uomini nel percorso politico hitleriano: Hitlers Weg. Ein historisch-politische Studie über den Nationalsozialismus, Stoccarda, Union Deutsche Verlagsgesellschaft, 1932 [KA, n. 180].
90 della volontà combattiva dei circoli “borghesi” per via della loro rendita economica, che portava il singolo al timore di perdere la propria posizione e che lo spingeva a defilarsi dall’agone politico. In generale una visione del mondo ha speranza di successo solo se la grande massa è disposta a rappresentare la nuova dottrina e a ingaggiare la lotta necessaria. Alla scarsa comprensione dell’importanza degli strati popolari inferiori si aggiunse una concezione del tutto inadeguata della questione sociale. Il dottor Lueger era in tal senso l’esatto opposto di Schönerer. La profonda conoscenza degli uomini gli permise di giudicare le forze possibili in modo così preciso da evitare una sottovalutazione delle istituzioni esistenti, e forse per questo imparò a servirsene ancora come mezzo per il conseguimento dei suoi obiettivi. Lueger comprese lucidamente che la capacità politica di lotta dell’alta borghesia dei suoi tempi era limitata e non era sufficiente a portare alla vittoria un nuovo grande movimento. Ragion per cui diede maggiore importanza alla conquista di quegli strati sociali minacciati, la cui condizione, quindi, era da stimolo, anziché da blocco, alla volontà combattiva. Allo stesso tempo, egli fu incline a servirsi di tutti i mezzi di potere allora esistenti per accattivarsi le istituzioni e per trarre da quelle vecchie sorgenti di forza il maggior vantaggio possibile per il suo movimento. Perciò il suo nuovo partito fu adattato innanzitutto al ceto medio minacciato dalla crisi e si garantì così un seguito difficilmente vacillante, dotato di spirito di abnegazione e di forza combattiva. I suoi rapporti infinitamente astuti con la Chiesa cattolica77 gli permisero di guadagnare in breve tempo il clero più giovane in una misura tale che il vecchio partito clericale fu costretto a liberare il campo di battaglia oppure a legarsi più astutamente al nuovo partito, per guadagnare lentamente le posizioni perdute. Ma faremmo torto a Lueger se ignorassimo la qualità essenziale dell’uomo. Perché, all’astuto tattico si associavano anche le capacità del riformatore grande e geniale. Certo, anche qui la sua comprensione si basava su una conoscenza precisa delle reali possibilità e della capacità della sua stessa persona. Lo scopo pratico di quest’uomo veramente importante era la conquista di Vienna. Vienna era il cuore della monarchia: la città esalava l’ultimo alito vitale del corpo malato e ormai vecchio del fatiscente Impero. Se il cuore fosse stato più sano, il resto del corpo avrebbe avuto maggior vigore. Un’idea giusta in principio, ma che poteva messa in pratica solo per un lasso temporale determinato e limitato. Ed ecco le debolezze di Lueger. Ciò che ha fatto come borgomastro della città di Vienna, è immortale nel senso migliore del termine. Ma non riuscì a salvare la monarchia: era troppo tardi. Questo l’aveva previsto chiaramente il suo avversario Schönerer. Ciò che il dottor Lueger tentò di fare, gli riuscì in modo stupendo. Ciò che sperava di ottenere, non si verificò. 77
Lueger e il Partito cristiano-sociale avevano un rapporto complesso con la Chiesa cattolica. La definizione di “Partito cristiano-riformatore” del 1895 e l’antisemitismo popolare crearono frizioni con la vecchia gerarchia cattolica austriaca e lo costrinsero ad assumere posizioni più moderate [KA, n. 184].
91 Ciò che Schönerer voleva non gli riuscì. Ciò che temeva finì purtroppo per avverarsi in modo così spaventoso. Quindi entrambi gli uomini non hanno raggiunto il loro obiettivo finale. Lueger non poteva più salvare l’Austria e Schönerer non poteva più salvare il popolo tedesco dal declino. È infinitamente istruttivo studiare oggi i motivi del fallimento di entrambi i partiti. Lo è, in particolare, per i miei amici78, giacché le condizioni attuali sono per certi versi molto simili a quelle di allora. Potranno così evitare gli errori che condussero alla fine di un movimento e all’irrilevanza dell’altro. A mio avviso, i motivi del tracollo del movimento pantedesco in Austria furono tre. Innanzitutto la scarsa importanza conferita alla questione sociale per un partito essenzialmente rivoluzionario. Dato che Schönerer e il suo entourage si rivolsero soprattutto ai ceti borghesi, il risultato non poteva che essere molto scarso e tiepido. La borghesia tedesca, specialmente nei ceti superiori, è pacifista sino all’autonegazione, quando si tratta di faccende interne alla nazione o allo Stato79. In epoche prospere, cioè – nel caso specifico – di buon governo, il pacifismo è alla base del valore straordinario che quel ceto riveste per lo Stato. In epoche di cattiva autorità, il pacifismo si dimostra addirittura catastrofico. Per condurre una lotta veramente seria, il movimento pantedesco avrebbe dovuto dedicarsi soprattutto alla conquista delle masse. Non avendolo fatto, il movimento si privò immediatamente dello slancio elementare necessario per non affievolirsi in breve tempo. Non prendendo in considerazione o conseguendo la conquista delle masse, il nuovo partito perde così la possibilità di recuperare il tempo perduto. L’accoglienza di elementi borghesi molto rispettabili e moderati indirizzerà l’impostazione interna del movimento, ma così verrà meno la prospettiva di conquistare forze degne di nota fra le masse popolari. Un movimento del genere non andrà oltre un pallido brontolio e la critica fine a se stessa. La fede più o meno religiosa, unita a un analogo spirito di abnegazione, finiranno per scomparire. Al loro posto potrebbe apparire solo l’aspirazione a smussare lentamente gli spigoli dello scontro politico per mezzo di una collaborazione “positiva”80, cioè, nel caso specifico, riconoscendo i dati di fatto, per poi approdare a una pigra indolenza. Ciò avvenne nel movimento pantedesco, perché sin da principio non aveva dato maggiore importanza alla conquista del consenso fra le grandi masse. Divenne “borghesemente raffinato”, “radicalmente moscio”. Da questo sbaglio derivò anche il secondo motivo del suo rapido declino.
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Qui Hitler allude probabilmente ad altre formazioni nazionalpopolari come la Deutschvölkische Freiheitsbewegung (Movimento nazionalpopolare tedesco per la libertà) di Erich Ludendorff e Albrecht von Graefe e la Deutschsoziale Partei (Partito sociale tedesco) di Richard Kunze. Il primo, diffuso soprattutto nel Nord della Germania, era assimilabile al movimento pangermanista: mancava di base popolare ed era anti-cattolico. Il secondo dava troppa enfasi alla questione sociale, invischiandosi nelle beghe sindacali. Bibliografia: R. Wullf, Die Deutschvölkische Freiheitspartei, 1922-1928, Universität Marburg, dissertazione dottorale, 1968; B. Kruppa, Rechtradikalismus in Berlin, 1918-1928, Berlino, Overall Verlag, 1988. 79 Sul tema del “pacifismo borghese” vedi capitoli 4-I e 10-I. 80 Possibile allusione alla cooperazione con la Bayerische Volkspartei (Partito popolare bavarese) dal gennaio 1925 (che guidava il Land con Heinrich Held), sulla base di una piattaforma antimarxista.
92 La posizione del germanesimo in Austria era già disperata all’epoca dell’entrata in scena del movimento pantedesco. Di anno in anno, il parlamento era diventato l’istituzione del lento annientamento del popolo tedesco. Ogni tentativo di salvarlo in extremis avrebbe avuto una piccola possibilità di successo solo eliminando quella stessa istituzione. Quindi il movimento pantedesco si pose di fronte a un dilemma fondamentale: entrare in parlamento per distruggerlo, per “minarlo dall’interno” (come si diceva allora)? Oppure condurre una feroce lotta esterna contro questa istituzione? Si decise per la prima strada: bisognava entrarvi. Condurre una lotta esterna contro il parlamentarismo significa armarsi di incrollabile coraggio, ma essere pronti anche a immani sacrifici. Se si prende il toro per le corna, si riceveranno numerose cornate, a volte si cadrà pure a terra, per forse rialzarsi con le ossa rotte, e, dopo uno scontro durissimo, la vittoria arriderà all’audace assalitore. Solo la grandezza del sacrificio porterà nuovi combattenti alla causa e, alla fine, il successo arriderà agli audaci. Ma per questo c’è bisogno dei figli del popolo provenienti dalle grandi masse, abbastanza robusti e risoluti da condurre la disputa sino alle sanguinose conseguenze. Il movimento pantedesco non li aveva conquistati, quindi non gli restò altro da fare che entrare in parlamento. Sarebbe sbagliato credere che quella decisione fosse dettata da un lungo travaglio spirituale o anche solo dalle fredde riflessioni. No, non fu affatto meditata: fu l’espressione di idee generali e confuse sull’importanza e sull’effetto di una partecipazione a un’istituzione ritenuta sbagliata per principio. In generale, si sperava di facilitare l’educazione delle grandi masse popolari, cogliendo l’occasione di parlare dal “consesso di tutta la nazione”. Sembrava evidente che l’attacco alla radice del male avesse maggiori probabilità di successo rispetto all’assalto esterno. La sicurezza dei singoli precursori sarebbe stata rafforzata dalla difesa dell’immunità e la forza dell’attacco avrebbe potuto solo accrescersi. Ma in realtà le cose andarono diversamente. Il consesso, davanti al quale parlavano i deputati pantedeschi, non era diventato più grande, semmai più piccolo. Ciascuno parla davanti al circolo che può ascoltarlo o che ottiene un resoconto del discorso sulla stampa. Il grande consesso degli uditori non è rappresentato dall’aula parlamentare, ma dalla grande adunanza popolare pubblica. Qui abbiamo migliaia di persone giunte solo per esaminare ciò che gli dice l’oratore, mentre nell’aula parlamentare ci sono solo alcune centinaia di persone, presenti solo per intascare la diaria, non certo per farsi illuminare dalla saggezza di uno o dell’altro “rappresentante popolare”. Parliamo soprattutto dello stesso pubblico che si rifiuterà sempre di apprendere ciò che non comprende, anche se non manca di una certa buona volontà. Nessuno di questi rappresentanti popolari avrà l’onore di mettersi al suo servizio di una verità superiore. No, non lo farà nessuno, a meno che non abbia motivo di ottenere un altro mandato. Quindi, non appena tira una brutta aria per il suo partito alle prossime elezioni, questi esempi di virilità studiano come approdare in altri partiti o in posizioni dalle prospettive apparentemente migliori, anche se il riposizionamento avviene
93 solitamente sotto una coltre di giustificazioni morali. Perciò, se il loro partito è inviso al popolo e si fiuta aria di sconfitta, ecco il grande esodo: i ratti parlamentari abbandonano la nave del partito. Questo non ha nulla a che fare con una superiore consapevolezza o con una maggiore volontà, ma solo con quel talento chiaroveggente tipico di quella cimice parlamentare e che la spinge su un altro letto partitico. Parlare davanti a quel “consesso” significa gettare perle ai porci. Non ne vale la pena. L’esito non può che essere nullo. E così fu. I deputati pantedeschi potevano sgolarsi quanto volevano: l’effetto era nullo. La stampa li ignorava oppure stralciava i loro discorsi in modo tale da eliminare qualsiasi nesso o da distorcerne il senso. L’opinione pubblica riceveva un quadro assai negativo delle intenzioni del nuovo movimento. Era del tutto irrilevante ciò che dicevano i singoli; contava ciò che si riusciva a leggere su di loro: un estratto dei loro discorsi che, così stralciati, potevano apparire assurdi – e dovevano esserlo. Intanto, il singolare consesso di fronte al quale parlavano veramente era formato da appena cinquecento parlamentari. E questo voleva pur dire qualcosa! Ma la cosa peggiore era che il movimento pantedesco avrebbe avuto successo solo se avesse capito subito che non poteva considerarsi un semplice partito, ma una nuova visione del mondo. Solo una visione del mondo avrebbe fornito le forze interiori necessarie a sostenere quella lotta immane. Ma solo le teste migliori e più coraggiose avrebbero potuto condurla. Se la lotta per una visione del mondo non sarà condotta da eroi disposti al sacrificio, in breve tempo svaniranno i combattenti sprezzanti del pericolo. Chi lotta per la propria esistenza, non ha molta considerazione per la collettività. Ma per questo è necessario che la gente sappia che il nuovo movimento, oltre all’onore e alla fama dei posteri, non ha nulla da offrire al presente. Quanto più sono facilmente arraffabili le poltrone e gli incarichi di un movimento, tanto maggiore sarà l’afflusso di gentaglia di scarso valore, finché i lavoratori occasionali della politica non invaderanno il partito vittorioso in un numero tale che il combattente onesto di un tempo non riconoscerà più il suo vecchio movimento e il nuovo arrivato lo riterrà un fastidioso “intruso”. Ma così viene la meno la “missione” di un movimento rivoluzionario. Non appena il movimento pantedesco si spostò in parlamento, ottenne “parlamentari” invece di capi e di combattenti. Così si abbassò al livello di uno dei tanti partiti attuali e perse la forza di affrontare il destino infausto con l’ostinazione del martirio. Invece di lottare, il movimento imparò a “parlare” e a “trattare”. Ma il nuovo parlamentare avvertì ben presto il dovere più carino e meno rischioso di sostenere la nuova visione del mondo con le armi “intellettuali” dell’eloquenza parlamentare, piuttosto che scendere in battaglia a rischio, se necessario, della propria vita. L’esito della battaglia era incerto, in ogni caso non poteva fruttargli nulla. Quando si sedettero in Parlamento, i sostenitori esterni iniziarono a sperare in un miracolo che naturalmente non avvenne e non avrebbe potuto avvenire. Si fecero presto impazienti, anche perché le parole dei loro deputati non corrispondevano affatto alle promesse elettorali. Questo era del tutto ovvio, dato che la stampa nemica
94 evitava accuratamente di fornire al popolo un quadro veritiero dell’operato dei rappresenti pantedeschi. Ma quanto più i nuovi rappresentanti popolari prendevano gusto nell’arte più lieve della lotta “rivoluzionaria” in Parlamento e nei Landtag81, tanto meno erano pronti a tornare al più pericoloso lavoro educativo dei grandi strati popolari. Fu quindi progressivamente accantonata l’adunanza di massa, l’unica via diretta per influire efficacemente sulle masse, l’unico modo per conquistare ampi settori popolari82. Ma, non appena il tavolo da birra fu scambiato con la tribuna parlamentare, da cui si pronunciavano discorsi non diretti al popolo ma alle teste dei suoi “eletti”, anche il movimento pantedesco cessò di essere un movimento popolare e si ridusse in breve tempo a un club più o meno serio di discussione accademica. La cattiva immagine fornita dalla stampa non fu più rattoppata dall’attività parlamentare dei singoli eletti. Anche il termine “pantedesco” divenne fastidioso agli occhi dell’ampio popolo. Lo provano tutti i cavalieri e i damerini scribacchini: le più grandi trasformazioni storiche non sono mai avvenute col calamaio!83 No, la penna serve a giustificare la teoria. La forza capace di azionare le grandi valanghe storiche religiose e politiche fu sempre il potere magico della parola parlata84. La grande massa popolare è soggetta soprattutto alla forza del discorso. Tutti i grandi movimenti sono movimenti popolari, sono eruzioni vulcaniche di passioni umane e di sentimenti psicologici, smossi dalla crudele dèa della miseria o dalla fiaccola attizzata della parola lanciata in mezzo alla folla, non certo effusioni gassose di letterati e di eroi salottieri estetizzanti85. Il destino dei popoli può rivoltarlo solo una tempesta di calda passione, ma la passione può destarla solo chi ce l’ha dentro di sé. Solo la passione conferisce al prescelto le parole che riescono ad aprire, come colpi di maglio, le porte del cuore popolare. Ma chi ne è privo e tace non è destinato ad annunciare la volontà divina86. Quindi, che ogni scribacchino resti pure a teorizzare col suo calamaio in mano, se ha abbastanza intelligenza e capacità per farlo. Ma non è né nato né scelto per essere un vero capo. Un movimento ambizioso deve preoccuparsi di non perdere il legame con l’ampia massa popolare. Esso deve esaminare le cose anzitutto da questo punto di vista e prendere le decisioni in tal senso. Inoltre deve evitare tutto ciò che possa ridurre o indebolire la sua capacità di influire sulla massa, non per motivi “demagogici”, ma solo per la banale consapevolezza che, senza la forza suadente della
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Parlamenti degli Stati federati austriaci. Sull’idea hitleriana di adunanze di massa si vedano i capitoli 6-II e 7-II. 83 La critica è rivolta anzitutto agli ideologi avversari del campo nazionalpopolare. Vedi capitolo 12-I. 84 Hitler nega qualsiasi ruolo politico alla parola stampata nella storia dell’umanità e, in particolare, in quella tedesca. Vedi capitolo 6-II. 85 Sull’utilizzo peggiorativo del concetto di “estetica” nella letteratura nazionalpopolare vedi capitolo 6-I. 86 Riferimento al Vangelo di Matteo (12,34): “La bocca parla dalla pienezza del cuore”. 82
95 massa popolare, non è realizzabile nessuna grande idea, per quanto sublime ed elevata che sia. La dura verità stabilisce il percorso da intraprendere. Evitare percorsi sgradevoli significa spesso, nolenti o volenti, rinunciare a perseguire la propria mèta.
Figura 3 Vignetta satirica dell’Associazione pantedesca (a sinistra) e manifesto elettorale del Partito cristiano-sociale [fonte: wikipedia.de]
Non appena preferì il parlamento al popolo, il movimento pantedesco perse il futuro e ottenne in cambio magri successi momentanei. Scelse la via più semplice, ma così perse di vista la vittoria finale87. Io ho già esaminato attentamente il problema durante il periodo viennese. Il suo mancato riconoscimento è una delle cause principali del tracollo di un movimento che, a mio giudizio, avrebbe dovuto guidare il germanesimo. I due primi errori alla base del fallimento del movimento pantedesco, erano contigui. L’ignoranza delle profonde forze motrici dei cambiamenti storici condusse a sottovalutare l’importanza delle ampie masse popolari. Di qui lo scarso interesse per le questioni sociali, la carente e insufficiente propaganda per conquistare l’anima degli strati inferiori, così come un’eccessiva compiacenza verso il Parlamento. Se il movimento avesse riconosciuto nella forza inaudita della massa l’alfiere della resistenza rivoluzionaria di ogni tempo, avrebbe agito diversamente in ambito sociale e propagandistico. Non avrebbe dato la massima importanza al Parlamento, semmai alle officine e alle strade. 87
Riferimento al conflitto tra Schönerer e Karl Hermann Wolf, che determinò una scissione nel movimento pantedesco austriaco. Nel 1902 Wolf fondò la Freialldeutsche Vereinigung (Libera Associazione pantedesca), poi trasformatasi l’anno successivo nella Deutschradikale Partei (Partito radicale tedesco). I motivi del contendere riguardavano il sostegno al movimento Los-von Rom e l’idea di un partito di quadri, progetti entrambi avversati da Wolf. Bibliografia: C. Weber, Karl Hermann Wolf (1862-1914), Universität Wien, dissertazione dottorale, 1975.
96 Anche il terzo sbaglio deriva dal misconoscimento del valore della massa, che, indirizzata nella giusta direzione dagli spiriti superiori, è un volano che conferisce forza e perseveranza al vigore dell’attacco. La dura lotta che il movimento pantedesco sostenne contro la Chiesa cattolica, si deve alla scarsa comprensione dell’indole spirituale del popolo. All’origine dell’attacco violento contro Roma vi era la decisione asburgica di trasformare l’Austria in uno Stato slavo ricorrendo a ogni mezzo a sua disposizione. Anche le istituzioni religiose austriache furono poste scrupolosamente al servizio della nuova “idea statale”. L’utilizzo del basso clero e dei pastori cèchi fu uno dei molti mezzi utilizzati per slavizzare l’Austria. Le cose andarono così. Nelle comunità puramente tedesche furono impiegati pastori cèchi che, lentamente, iniziarono ad anteporre gli interessi del loro popolo a quelli della Chiesa e divennero così i nuclei primari del processo di detedeschizzazione. Il clero tedesco non riuscì a opporsi al corso degli eventi, non solo perché era del tutto inutilizzabile in quel contesto, ma anche perché non fu nemmeno in grado di affrontare con la necessaria veemenza gli attacchi slavi. Il germanesimo fu così lentamente ma inesorabilmente represso per mezzo dell’abuso confessionale, da una parte, e di una difesa insufficiente, dall’altra. Le cose furono le stesse su scala più ampia. Anche qui i tentativi antitedeschi degli Asburgo non incontrarono la necessaria resistenza da parte dell’alto clero, mentre la difesa degli interessi tedeschi era completamente messa in secondo piano. L’impressione generale fu una grande lesione dei diritti tedeschi avvenuta per mano del clero cattolico. La Chiesa non sembrava quindi solidarizzare col popolo tedesco, ma spalleggiava il nemico. La radice di tutto il male, soprattutto secondo Schönerer, consisteva nel fatto che la classe dirigente cattolica non si trovava in Germania, come pure nell’ostilità di fronte agli interessi del nostro carattere nazionalpopolare. I problemi “culturali”, come quasi ogni cosa nell’Austria di allora, erano del tutto secondari. L’atteggiamento del movimento pantedesco verso la Chiesa cattolica non fu determinato dalla sua posizione verso la scienza ecc., quanto piuttosto dall’insufficiente difesa dei diritti tedeschi e, viceversa, dal continuo sostegno fornito all’arroganza e alla cupidigia degli slavi. Georg Schönerer non era un uomo che lasciava le cose incompiute88. Intraprese una lotta contro la Chiesa, convinto che solo così avrebbe potuto salvare il popolo tedesco. Il movimento Via da Roma sembrò il principale metodo offensivo, ma anche il più difficile per distruggere la roccaforte nemica. Se avesse avuto successo, l’insana scissione ecclesiastica tedesca sarebbe stata lenita e la forza interna dell’Impero e della nazione tedesca si sarebbe enormemente accresciuta89. Purtroppo non erano giusti né il presupposto, né l’obiettivo della lotta. Indubbiamente la resistenza nazionale del clero cattolico di nazionalità tedesca in ogni problema riguardante il germanesimo fu minore rispetto a quella dei colleghi non Sul rimprovero politico dei “palliativi” (mezze misure) vedi capitolo 10-I. Malgrado l’incompatibilità ideologica con il cristianesimo, Hitler comprese la necessità di evitare pubblici contrasti con le gerarchie cattoliche, specie intorno alla metà degli anni Venti. Bibliografia: H. Wolf, Il Papa e il diavolo. Il Vaticano e il Terzo Reich, Roma, Donzelli, 2008.
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97 tedeschi, soprattutto cèchi. Solo un ignorante non si accorse che il clero tedesco era quasi del tutto disinteressato a una difesa attiva degli interessi tedeschi. Ma è anche vero che solo un cieco non si rendeva conto che ciò dipendeva da una circostanza particolarmente penosa: la nostra ineguagliabile “oggettività” in merito al nostro carattere nazionalpopolare. Mentre il clero cèco affrontava soggettivamente il suo popolo e oggettivamente la Chiesa, il pastore tedesco era, viceversa, soggettivo verso la Chiesa e oggettivo verso la propria nazione. Un fenomeno che, per nostra sfortuna, era riscontrabile in migliaia di altri casi. Non è solo un tipico retaggio cattolico, ma intacca in breve tempo quasi ogni istituzione, specialmente se spirituale e statale. Si confronti anche solo la posizione assunta, per esempio, dai nostri funzionari di fronte ai tentativi di rinascita nazionale90 con quella dei funzionari di un altro popolo. Pensiamo veramente che gli ufficiali del mondo intero avrebbero subordinato gli interessi nazionali all’“autorità statale”, come è naturale qui in Germania negli ultimi cinque anni? Oppure che si tratta di un comportamento particolarmente lodevole? Per esempio, sulla questione ebraica le due confessioni cristiane hanno un punto di vista conforme agli interessi nazionali o alle reali esigenze religiose?91 Si confronti la posizione di un rabbino ebreo su tutte le questioni rilevanti per la razza ebraica con la mentalità di gran parte del nostro clero, di entrambe le confessioni!92 Inoltre questo fenomeno compare sempre quando si tratta di difendere un’idea astratta. “Autorità statale”, “democrazia”, “pacifismo”, “solidarietà internazionale”, ecc. sono concetti divenuti così rigidi, così dottrinari che qualsiasi valutazione delle necessità vitali nazionali avviene esclusivamente dal loro punto di vista. Quel modo infausto di considerare gli interessi da una prospettiva storica preconcetta priva i tedeschi di qualsiasi capacità di comprendere soggettivamente eventi che contraddicono oggettivamente la loro dottrina, e porta alla completa inversione del mezzo col fine. La gente si rivolta contro ogni tentativo di sollevazione nazionale capace di eliminare un regime cattivo e pernicioso, poiché significherebbe colpire l’“autorità dello Stato”. L’“autorità dello Stato” non è un mezzo per un fine, ma rappresenta, secondo i fanatici “oggettivi”, il fine in sé capace di appagare tutta la loro miserabile esistenza93. Per fare un esempio, questi signori si opporranno indignati contro ogni dittatura, anche se il suo sostenitore fosse Federico il Grande e gli attuali statisti della maggioranza parlamentare fossero dei nanerottoli inetti o inferiori, perché, per quei dottrinari, la democrazia è più sacra del benessere nazionale. Perciò quel signore sosterrà, da una parte, la peggiore tirannia in grado di rovinare la vita del popolo, poiché l’“autorità dello Stato” si personifica momentaneamente in essa. Dall’altra, rifiuterà un governo benefico, se non corrisponderà alla sua visione della “democrazia”. Allo stesso modo, il nostro pacifista tedesco ignorerebbe ogni grave lesione della nazione, anche se prodotta dalla peggiore forza militare, se una resistenza anche 90
Sulla polemica hitleriana contro i funzionari statali della Repubblica di Weimar vedi capitolo 10-I. Sull’antigiudaismo e sull’antisemitismo nelle chiese cristiane vedi capitolo 10-II. 92 Sugli ebrei “razziali” vedi capitolo 11-I. 93 Sulla visione hitleriana di autorità statale e di colpo di Stato vedi capitolo 12-I. 91
98 violenta potesse cambiare il suo destino, perché questo contraddirebbe lo spirito della sua società pacificista94. Il socialista tedesco internazionalista può essere depredato solidalmente dall’estero, reagisce con affetto fraterno e non pensa alla ritorsione o anche solo alla protesta, perché è tedesco. Tutto ciò è triste, ma per cambiare la realtà bisogna innanzitutto riconoscerla. La stessa debole difesa degli interessi tedeschi da parte del clero non dipende né dalla cattiva volontà, né dagli ordini superiori, ma è l’esito di una carente educazione giovanile al germanesimo, così come del totale asservimento all’idea feticizzata. L’educazione alla democrazia, al socialismo internazionale, al pacifismo ecc., è così inflessibile ed esclusiva, è considerata così soggettivamente da influenzare anche la cornice generale delle cose, mentre la posizione verso il germanesimo era molto oggettiva sin dalla gioventù. Il pacifista, piegandosi continuamente alla soggettività della sua idea, scorgerà sempre ragioni “oggettive” in ogni minaccia ingiusta e inaccettabile rivolta al suo popolo (se è tedesco), non si porrà mai nelle file del suo gregge per difendere l’autoconservazione. Ora vedremo quanto tutto ciò valga per le singole confessioni cristiane. Il Protestantesimo difende spontaneamente gli interessi del germanesimo per nascita e per tradizione. Ma fallisce nell’istante in cui la difesa degli interessi nazionali avviene al di fuori della cornice generale del suo immaginario e della sua evoluzione tradizionale oppure viene meno per un qualche altro motivo. Quindi il Protestantesimo si schiererà sempre a favore della promozione del germanesimo, se si tratta di pulizia interna o di approfondimento nazionale, di difesa dell’essenza, della lingua o anche della libertà tedesche, poiché è insito nella sua natura. Ma combatte ostinatamente ogni tentativo di salvare la nazione dalla stretta del suo nemico mortale, poiché la sua posizione verso l’ebraismo è dogmaticamente prestabilita. Un problema che, se non risolto, impedisce ogni tentativo di rinascita o sollevazione tedesca. Durante il mio soggiorno viennese, io ebbi tempo e modo di esaminare la questione ebraica senza pregiudizi e potei constatare migliaia di volte l’efficacia di questa visione delle cose nella mia vita quotidiana. In quel momento cruciale della lotta nazionale mi fu subito chiaro che il pacifista tedesco cerca sempre di trattare oggettivamente la sua nazione, non così l’ebreo con il suo popolo. Solo il socialista tedesco è “internazionalista”, nel senso di mendicare giustizia per il suo popolo fra i suoi compagni intenzionali; mai lo è quello cèco, polacco ecc. In breve, io compresi già allora che la disgrazia consisteva in parte nella dottrina socialista, in parte nella nostra inadeguata educazione del carattere nazionalpopolare e, quindi, in una minore dedizione nei suoi riguardi95. Così veniva meno la prima giustificazione teorica della lotta del movimento pantedesco contro il Cattolicesimo. Si educhi sin dalla gioventù il popolo tedesco 94
Possibile allusione alla Deutsche Friedensgesellschaft (Società pacifista tedesca) fondata a Berlino nel 1892. I suoi leader (fra cui Ludwig Quidde) sostennero una equa suddivisione delle responsabilità belliche, una revisione del trattato di pace e l’entrata nella Germania nella Società delle Nazioni. Bibliografia: R. Chickering, Imperial Germany and a world without war. The peace movement and German society, 1892-1918, Princeton (New Jersey), Princeton University Press, 1975. 95 Sull’educazione nazionalsocialista vedi capitolo 2-II.
99 all’esclusivo riconoscimento dei diritti del suo carattere nazionalpopolare e non si appesti il cuore dei ragazzi con la bestemmia della nostra “oggettività”96 anche in faccende riguardanti la conservazione del proprio ego. In breve tempo vedremo (con un governo radical-nazionale) che, come in Irlanda, Polonia o Francia, anche in Germania il cattolico sarà sempre tedesco. La migliore dimostrazione l’abbiamo nell’ultima circostanza in cui il nostro popolo si difese di fronte al tribunale della storia per la vita e per la morte. Finché non venne meno la guida dall’alto, il popolo ha adempiuto il suo dovere in modo impeccabile. Il pastore protestante o il prete cattolico ebbero un ruolo infinitamente positivo nella preservazione della nostra resistenza non solo sul fronte, ma anche in patria. In quegli anni, specialmente allo scoppio della guerra, per entrambe le confessioni esisteva un unico sacro Impero tedesco. E pregavano Iddio per augurare l’esistenza e l’avvenire della nostra patria. Il movimento pantedesco in Austria avrebbe dovuto chiedersi se la conservazione del germanesimo austriaco fosse stata possibile sotto la fede cattolica. In caso affermativo, il partito politico non doveva preoccuparsi di cose religiose o confessionali. In caso negativo, bisognava ricorrere a una Riforma e non a un partito politico. Chi crede di realizzare una Riforma religiosa per via di un’organizzazione politica, dimostra di non avere capito affatto lo sviluppo delle idee religiose, della dottrina religiosa o degli influssi ecclesiastici. Non si possono servire due padroni97. Per questo io ritengo la fondazione o la distruzione di una religione assai più difficile che quelle di uno Stato, tanto meno di un partito98. Non si dica che si trattò di una tattica difensiva! Sicuramente, in ogni epoca, ci furono individui privi di scrupoli che non ebbero mai il timore di strumentalizzare la religione per i loro affari politici (perché di questo si trattò). Ma è sbagliato incolpare la religione o la confessione per la quantità di farabutti che le usano, così come di qualsiasi altra cosa posta al servizio dei loro bassi istinti. Quel perdigiorno o fannullone parlamentare non vede l’ora che gli sia offerta l’opportunità di discolparsi per la sua truffa politica. Perché, non appena si incolpa la religione o la confessione per le malvagità dei singoli, e quindi le si attacca, quello sporco bugiardo si appellerà con urla terribili a tutto il mondo, riterrà legittimo il suo modo di procedere e sosterrà che la salvezza della religione e della Chiesa dipende unicamente da lui e dalla sua loquacità. Il mondo così stupido e smemorato non riconoscerà o non si ricorderà il più delle volte del vero L’enfasi sull’oggettività e sui “dati di fatto” (economici, sociali, ecc.) era la critica principale dei partiti populistici a quelli borghesi. Storicamente parlando, la critica all’oggettività si colloca nell’ambito della Lebensreformbewegung (movimento per la riforma della vita), sorta a fine Ottocento e ben rappresentata dal diffusissimo testo Rembrandt als educatore (Rembrandt come Educatore) di Langbehn (1890). Bibliografia: A.J. Langbehn, Rembrandt come educatore, a cura di V. Pinto, Torino, Free Ebrei, 2013. 97 Possibile allusione al noto motto di Gesù: “Dare a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”, contenuto nei Vangeli di Matteo (22,21), Marco (12,17) e Luca (20,25). 98 Hitler critica l’ala esoterica nel campo nazionalpopolare, che anteponeva i problemi spirituali a quelli politici. A ulteriore dimostrazione che il “nazismo esoterico” ebbe sempre una funzione strumentale nella sua visione politica. 96
100 responsabile della lotta per via delle forti grida. E la gentaglia avrà quindi ottenuto il suo obiettivo. Una volpe assai astuta sa bene che ciò non ha nulla a che fare con la religione. Se la riderà silenziosamente sotto i baffi, mentre il suo onorevole e maldestro avversario perderà la partita, finendo un giorno per ritirarsi, disperando della buona fede dell’umanità. D’altro canto, sarebbe ingiusto che la religione oppure la Chiesa si assumessero la responsabilità per le debolezze dei singoli. Si confronti l’evidente grandezza dell’organizzazione ecclesiastica con l’imperfezione dell’uomo medio: ammetteremo che la proporzione tra bene e male è migliore che altrove. Certo, ci sono preti per cui l’ufficio sacro è solo un mezzo per soddisfare la propria ambizione, che nella lotta politica dimenticano spesso miseramente di essere i tutori di una verità superiore e non i difensori di bugie e di calunnie99. Su questi aspetti indegni fanno i conti gli onesti pastori dediti completamente alla loro missione, che, in un’epoca così ipocrita e corrotta come la nostra, appaiono isolotti in un pantano generale. Non posso condannare tutta la Chiesa se un soggetto corrotto in abito talare manca indegnamente di moralità! Lo stesso dicasi se un individuo insudicia e tradisce il suo carattere nazionalpopolare nelle cose quotidiane. Oggi non si dimentichi che, accanto a questo Efialte100, abbiamo avuto migliaia di persone che, col cuore insanguinato, condividono la disgrazia del nostro popolo e, come i migliori rappresentanti della nostra nazione, desiderano che il cielo ci aiuti. Ma chi obietta che non si tratta di un problema contingente, ma di un problema fondamentale o dogmatico, gli rispondiamo: se credi di essere stato prescelto dal destino ad annunciare la verità, fallo; ma abbi almeno il coraggio di non volerlo fare per mezzo di un partito politico – perché sarebbe un imbroglio. Meglio un uovo oggi che una gallina domani. Se non hai il coraggio di farlo oppure non ti è chiara la priorità, non occupartene. Non cercare di ottenere per via politica ciò che non hai il coraggio fare alla luce del sole. I partiti politici, se non minano il costume e la morale della propria razza con elementi stranieri, non hanno nulla a che fare con i problemi religiosi. Esattamente come la religione non va confusa con le sciocchezze di partito. Se i dignitari ecclesiastici si servono di istituzioni o dottrine religiose per danneggiare il loro carattere nazionalpopolare, non bisognerà mai seguirli su questa via e bisognerà combatterli con le loro stesse armi. Per il capo politico, la dottrina e le istituzioni religiose del suo popolo devono restare sempre inviolabili, altrimenti non potrà essere un politico, semmai diventerà un riformatore, se ne possiede la stoffa!101 Un’altra posizione condurrebbe alla catastrofe, soprattutto in Germania.
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Possibile allusione al Zentrum, il partito cattolico sorto in Germania nel 1870 e storico sostenitore della Repubblica di Weimar insieme ai socialdemocratici e ai liberaldemocratici. 100 Efialte di Tracia, pastore greco che nel 480 a.C. tradì gli spartani di Leonida durante la battaglia delle Termopili, era l’icona della viltà e del tradimento durante il nazismo. 101 Vedi capitoli 1-II, 5-II e 10-II.
101 Studiando il movimento pantedesco e la sua lotta contro Roma nel corso degli anni, sono giunto a queste conclusioni: la sua comprensione miope della questione sociale gli costò la massa autenticamente pugnace del popolo; l’ingresso in parlamento lo privò dello slancio potente e lo gravò di tutte le debolezze tipiche di questa istituzione; la lotta contro la Chiesa cattolica la rese impresentabile in numerosi strati sociali piccoli e medi e lo privò di molti dei migliori elementi della nazione. Il risultato pratico della lotta austriaca per la civiltà fu pressoché nullo102. Il movimento pantedesco riuscì a strappare alla Chiesa cattolica circa centomila membri, senza arrecarle danni particolari103. Essa non dovette versare alcuna lacrima per le “pecorelle” smarrite, perché perse solo quelle che non le apparteneva più già da tempo. La vera differenza tra la Riforma luterana e quella recente era che, nella prima, lasciarono la Chiesa molti dei migliori elementi per intima convinzione religiosa, mentre la seconda riguardò persone miti e o spinte da “motivazioni” politiche. Ma il risultato fu irrisorio e triste proprio dal punto di vista politico. Un movimento politico salvifico assai promettente fu rovinato perché non fu condotto con la necessaria e implacabile sobrietà, perdendosi in meandri che lo condussero alla disintegrazione. Una cosa è certa: il movimento pantedesco non avrebbe mai commesso questo errore se non avesse avuto una visione così inadeguata della psiche della massa104. Se i suoi capi avessero saputo che, per ragioni psicologiche, non bisogna mai indicare alla massa due o più avversari alla volta (perché così si disintegra la sua forza combattiva), il movimento pantedesco si sarebbe concentrato su un unico avversario. Non c’è nulla di più pericoloso per un partito politico che avere alla propria testa dei maneggioni incapaci di commisurare i mezzi ai fini105. Se anche dovesse conferire tanta importanza alla singola confessione, il partito politico non dovrebbe mai perdere di vista il fatto che, nella storia, nessun partito è mai riuscito a realizzare una Riforma religiosa in una situazione simile. Ma non si studi la storia se poi praticamente non se ne trae una lezione o si crede che le cose andrebbero diversamente, che, quindi, le sue verità siano inutili. Ma la si studi per applicarla al presente. Chi non riesce a farlo, non creda di essere un “capo” politico. È un banale e presuntuoso poveraccio e la sua buona volontà non giustifica la sua inettitudine pratica. In generale la dote di ogni grande capopopolo si misura innanzitutto nella capacità di non disperdere l’attenzione di un popolo, ma di concentrarla sempre su un unico nemico. Quanto più omogeneo è l’impiego della volontà combattiva di un popolo, tanto maggiore sarà la forza attrattiva di un movimento e tanto più potente l’impeto della sua spinta. La genialità di un grande capo consiste nella capacità di incasellare l’avversario distante sempre e comunque in una precisa categoria, perché 102
Paragone ironico con il Kulturkampf (lotta per la civiltà) di Bismarck. Il movimento “Los-von-Rom” provocò il passaggio di 40.000 cattolici verso le Chiese protestanti e di 15.000 verso quella “vetero-cattolica” tra il 1898 e il 1908 [KA, n. 245]. 104 Sulla visione hitleriana della “massa” vedi capitoli 2-I, 6-I e 4-II. 105 Passaggio fondamentale della visione del mondo di Hitler: dopo aver individuato i sintomi della “malattia”, la prognosi deve essere chiara e la medicina univoca. L’ebreo è l’unico nemico storicamente e politicamente possibile di un movimento nazionalpopolare occidentale. È chiaro che qui Hitler sta alludendo alle divisioni allora esistenti nel campo nazionalpopolare tedesco e intende imporre la sua “infallibilità” su tutti gli avversari, rei – a suo giudizio – di avere una visione limitata o errata delle cose. 103
102 l’ammissione dell’esistenza di diversi nemici può solo indurre i caratteri deboli e insicuri a dubitare delle loro ragioni106. Non appena la massa esitante fronteggia troppi nemici, ecco insorgere l’oggettività e la domanda: gli altri hanno veramente torto? Il nostro popolo o il nostro movimento è l’unico ad aver ragione? Ciò porta a una paralisi iniziale della forza combattiva. Una moltitudine di nemici profondamente diversi va quindi sintetizzata in modo che, alla vista della massa dei propri aderenti, la lotta sia condotta sempre e soltanto contro un solo nemico. Questo rafforza la fede nel proprio diritto e accresce il risentimento contro l’assalitore. Il fatto di non averlo capito costò la vittoria al movimento pantedesco. Il suo scopo era ben chiaro, la volontà pura, ma la via imboccata sbagliata. Il movimento assomigliava a un alpinista che scruta lucidamente la cima da scalare, si mette in marcia provvisto di grande determinazione e di forza, solo che non presta attenzione al percorso, guarda sempre e soltanto la cima, senza vedere, senza esaminare le condizioni della scalata e finisce così per fallire. Viceversa, sembravano esserci tutte le condizioni del successo nel suo grande concorrente: il Partito cristiano-sociale. In quasi tutti gli aspetti in cui era carente il movimento pantedesco, l’impostazione del Partito cristiano-sociale era giusta e metodica. Esso aveva ben compreso l’importanza della massa e se ne garantì al meno una parte sottolineando pubblicamente il suo carattere sociale fin dal primo giorno. Conquistando il ceto artigianale medio-basso, il partito ottenne un seguito fedele, duraturo e disposto al sacrificio. Il Partito cristiano-sociale evitò qualsiasi contrapposizione con l’istituzione religiosa e si garantì così il sostegno di un’organizzazione potentissima come la Chiesa di allora. Aveva solo un unico avversario veramente temibile, riconobbe il valore della propaganda su vasta scala e influenzò abilmente gli istinti psicologici della grande massa dei suoi aderenti. Il fatto che non sia riuscito a realizzare il sogno di salvare l’Austria, si doveva alla vaghezza del suo obiettivo e a due errori tattici. L’antisemitismo del nuovo movimento era costruito su basi religiose, non razziali107. La causa di questo errore fu la stessa del secondo. Se il Partito cristiano-sociale avesse voluto salvare l’Austria, non avrebbe dovuto sostenere il principio razziale, secondo l’opinione dei fondatori, poiché altrimenti si sarebbe verificata la disgregazione dello Stato. In particolare, la situazione di Vienna, secondo il capo del partito, richiedeva l’eliminazione di ogni fattore divisivo e la sostituzione con i fattori aggregativi. A Vienna, all’epoca, era assai difficile fronteggiare gli elementi cèchi, perché solo la massima tolleranza sui problemi razziali poteva trattenerli in un partito “tedesco”. Per salvare l’Austria, non si poteva rinunciare a loro. Quindi si cercò di conquistare i numerosi piccoli commercianti cèchi di Vienna lottando contro il manchesterismo
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Altro passo centrale della visione politica hitleriana. Sul nesso tra antigiudaismo cristiano e antisemitismo moderno vedi capitolo 10-I.
103 liberale108. Inoltre si pensò di aver trovato nella lotta antiebraica su basi religiose uno slogan capace di oltrepassare tutte le differenze nazionali della vecchia Austria. È evidente che una lotta su basi religiose avrebbe procurato ben poche preoccupazioni agli ebrei. Nei casi peggiori, uno spruzzo d’acqua battesimale avrebbe salvato capra e cavoli109. Una simile motivazione superficiale impediva una trattazione scientificamente seria del problema e teneva alla larga tutti coloro che ritenevano incomprensibile quel genere di antisemitismo. La forza propagandistica dell’idea agiva quasi esclusivamente su una cerchia intellettualmente limitata, sempre che si volesse ottenere una conoscenza autentica del problema per via istintiva. L’intellighenzia era fondamentalmente contraria. La cosa assunse progressivamente la parvenza di essere un nuovo tentativo di conversione degli ebrei o l’espressione di una certa invidia per la loro concorrenza. Ma così la lotta perse la sua caratteristica di elevata missione interiore e apparve a molti – e non proprio ai peggiori – immorale e ripugnante. Mancò la convinzione che si trattasse di una questione vitale per tutta l’umanità, dalla cui soluzione sarebbe dipeso il destino di tutti i popoli non semiti. L’ambiguità privò di valore l’impostazione antisemita del Partito cristiano-sociale. Era un antisemitismo di facciata, quasi peggio che se non ci fosse stato, perché illudeva i suoi aderenti di avere in pugno il nemico, ma in realtà erano soltanto presi in giro. L’ebreo si era abituato così presto a quel genere di antisemitismo che la sua presenza non avrebbe ostacolato più di tanto i suoi movimenti. Se i sacrifici per lo Stato nazionale erano così gravosi, ben peggiori lo erano per la difesa del germanesimo. Per non perdere consenso, il Partito cristiano-sociale non poteva essere “nazionalista” a Vienna. Sperava ancora di salvare lo Stato asburgico aggirando prudentemente il problema, ma, così facendo, ne provocava la rovina. Il movimento esaurì così quelle energie fresche che, a lungo andare, avrebbero fornito la spinta propulsiva interna al partito. Il movimento cristiano-sociale divenne così un partito come gli altri. All’epoca io seguii entrambi i movimenti con la massima attenzione, l’uno dal suo cuore pulsante, l’altro affascinato dall’ammirazione per l’uomo insolito che mi appariva un simbolo amarissimo del germanesimo austriaco. Quando il solenne corteo funebre portò il corpo del borgomastro dal Municipio alla Ringstrasse, mi trovavo anch’io tra le molte centinaia di migliaia di persone che assistettero alla tragedia110. Con profonda commozione interiore mi dissi che l’opera di quell’uomo era stata resa vana da un destino avverso che avrebbe inevitabilmente condotto al tramonto dello Stato asburgico. Se il dottor Lueger fosse vissuto in
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Gli immigrati cèchi a Vienna, inizialmente contadini e domestici, si spostarono prima della guerra anche nell’industria e nell’artigianato [KA, n. 253]. 109 L’assimilazione degli ebrei austriaci è visibile nell’abbandono della comunità viennese, che nel 1910 fu di circa il 7%. Il motivo principale era il matrimonio interconfessionale [KA, n. 256]. 110 I funerali di Lueger furono quasi reali. Vi parteciparono tutte le principali personalità austriache.
104 Germania, sarebbe stato considerato una delle grandi teste del nostro popolo. Il fatto di agire in uno Stato impossibile, fu la sventura della sua opera e della sua persona.
Figura 4 Corteo funebre del borgomastro Karl Lueger (14 novembre 1911) [fonte: ak-ansichtskarten.de]
Quando morì, la fiammella sui Balcani iniziò a divampare giorno dopo giorno111. Il destino gli impedì di vedere ciò che riteneva di poter evitare. Cercando di scoprire le ragioni dal fallimento di un movimento e dall’insuccesso del secondo, io giunsi alla convinzione assoluta che, a prescindere dall’impossibilità di consolidare uno Stato nella vecchia Austria, gli errori dei due partiti fossero i seguenti. Il movimento pantedesco aveva certamente ragione sullo scopo di un rinnovamento tedesco, ma fu incapace di imboccare la via giusta. Esso era nazionalistico, senza essere sufficientemente sociale per guadagnare il consenso delle masse. Il suo antisemitismo si basava sul corretto riconoscimento dell’importanza del problema razziale e non sull’impossibilità delle idee religiose. La sua lotta contro una confessione cristiana fu oggettivamente, tatticamente e strategicamente sbagliata. Il movimento cristiano-sociale non aveva un’idea molto chiara sullo scopo della rinascita tedesca, ma fu bravo e fortunato nel trovare la sua via giusta. Comprese l’importanza della questione sociale, sbagliò nella lotta contro l’ebraismo e non ebbe alcun presentimento sulla forza dell’idea nazionale. Se il Partito cristiano-sociale avesse aggiunto al problema razziale al suo astuto riconoscimento delle grandi masse una corretta attenzione o se fosse stato nazionalista (come il movimento pantedesco), o se il movimento pantedesco avesse aggiunto l’intelligenza pratica del Partito cristiano-sociale al corretto riconoscimento dello scopo della questione ebraica e dell’importanza dell’idea nazionale, specialmente il suo 111
Allusione alle guerra balcaniche del 1912-1913.
105 modo di vedere il socialismo, all’epoca sarebbe forse sorto quel movimento che, a mio avviso, avrebbe potuto intervenire con successo sul destino tedesco. Questo non accadde in larga parte a causa della natura stessa dello Stato austriaco. Dato che la mia visione delle cose non era messa in pratica da nessun partito, decisi di non entrare a far parte di una delle organizzazioni esistenti o di lottare a loro favore112. All’epoca ritenevo tutti i movimenti politici inconcludenti e incapaci di realizzare una rinascita nazionale del popolo tedesco su scala non solo esteriore. La mia intima avversione per lo Stato asburgico, però, si accrebbe notevolmente. Quando iniziai a occuparmi di problemi di politica estera, si fece largo in me la convinzione che lo Stato asburgico avrebbe rappresentato una disgrazia per il germanesimo. Scorsi anche in modo più nitido che il destino della nazione tedesca non sarebbe stato più deciso a Vienna, ma nell’Impero tedesco. E questo non solo per problemi di natura politica, ma anche per tutti i fenomeni culturali. Lo Stato austriaco mostrava anche in ambito culturale o artistico un tipico processo di afflosciamento, era ormai irrilevante per la nazione tedesca. Questo valeva a maggior ragione in ambito architettonico. In Austria l’architettura moderna non poté conseguire particolari successi, perché, dopo l’ampliamento della Ringstrasse, i problemi urbanistici viennesi divennero assai più irrilevanti rispetto a quelli tedeschi113. Così io iniziai a condurre una doppia vita: la ragione e la realtà mi facevano sopportare in Austria un periodo di apprendistato crudele, ma benefico, mentre il mio cuore era già altrove. Un opprimente senso d’insoddisfazione si era impossessato della mia persona: riconoscevo l’intima futilità di questo Stato, l’impossibilità di salvarlo, ero certo che rappresentava in ogni caso una sventura per il popolo tedesco. Ero convinto che lo Stato austriaco avrebbe oppresso o limitato ogni tedesco autenticamente grande, così come, viceversa, avrebbe favorito ogni fenomeno non tedesco. Trovavo ripugnante quel conglomerato di razze della capitale imperiale, quel miscuglio di popoli cèchi, polacchi, ungheresi, ruteni, serbi, croati ecc. – e soprattutto quegli eterni batteri dell’umanità: gli ebrei e ancora gli ebrei114. L’enorme città mi sembrava la personificazione dell’incesto115. Il tedesco della mia giovinezza era il dialetto della Bassa Baviera. Io non riuscivo a dimenticarlo, né imparai il gergo viennese. Quanto più soggiornavo in quella città, tanto più aumentava il mio odio verso quel coacervo di popoli stranieri che divoravano l’antica metropoli culturale tedesca. E l’idea che quello Stato dovesse conservarsi ancora a lungo, mi sembrava veramente ridicola già all’epoca. L’Austria di allora era come un vecchio mosaico, il cui mastice che unisce le singole tessere si è asciugato ed è diventato friabile. Finché non lo si tocca, il mosaico La mancata partecipazione alla vita politica era dettata dalla situazione economica e dall’impossibilità di non poter votare prima dell’aprile 1913 (al compimento del ventiquattresimo anno d’età). 113 Hitler ignorava l’influenza importante dello Jugendstil (stile liberty) e della figura di Otto Wagner, che influenzò pesantemente l’architettura viennese del primo Novecento. 114 Nella doppia monarchia vivevano duemilioni e trecentomila ebrei (circa il 4% della popolazione totale). A Vienna, nel 1910, costituivano poco meno del 9% (circa centosettantacinquemila) [KA, n. 270]. 115 Sul topos della città “incestuosa” vedi capitolo 11-I. 112
106 conserva una parvenza di solidità, ma non appena riceve un colpo, si sbriciola in mille pezzi. La domanda era quando sarebbe avvenuto l’urto. Poiché il mio cuore non aveva mai battuto per la monarchia austriaca, ma sempre e solo per l’Impero tedesco, l’ora in cui si sarebbe disintegrato quello Stato mi appariva solo l’inizio della salvezza della nazione tedesca. Per questi motivi, aumentò dentro di me la nostalgia di recarmi nel posto in cui, sin dall’infanzia, mi spingevano reconditi desideri e un segreto amore. Speravo all’epoca di farmi un nome come architetto e che quindi, in un modo o nell’altro, il destino mi avrebbe permesso di rendere il mio onesto servigio alla nazione. Alla fine il destino mi concesse la gioia di poter vivere e agire nel luogo in cui un giorno si sarebbe realizzato il mio profondo e ardente desiderio: l’annessione del mio amato paese alla patria comune (l’Impero tedesco). Molti non capirebbero nemmeno oggi la dimensione di una simile nostalgia. Ma io mi rivolgo a coloro cui il destino li ha privati della felicità. Mi rivolgo a tutti coloro che, staccati dalla madrepatria, devono combattere per il bene supremo della lingua; che, per la loro fedeltà alla patria, sono perseguitati e torturati e che attendono con dolorosa commozione il momento in cui riusciranno a tornare in seno della carissima madre. Mi rivolgo a tutti loro e so che mi capiranno!116 Solo colui che prova sulla propria carne che cosa significa essere tedesco, senza poter appartenere all’amata patria, può comprendere il profondo struggimento che da sempre arde nel cuore dei figli separati dalla madrepatria. Quel desiderio tormenta coloro che ne sono colti e li priva di qualsiasi gioia, finché non si riaprono le porte della casa paterna e il sangue comune non ritrova pace e quiete nel paese comune. Vienna fu e restò per me la scuola più seria e più importante della mia esistenza. Vi ero giunto da adolescente e la lasciai da uomo ormai serio e tranquillo117. Vi trovai i fondamenti di una visione del mondo e un determinato modo di considerare i problemi politici, che più tardi avrei dovuto solo integrare, ma che non avrei cambiato mai più. Solo oggi riesco a dare il giusto valore a quegli anni di apprendistato. Per questo motivo ho deciso di dilungarmi sul periodo viennese. Qui trassi la prima lezione didattica sui problemi fondamentali di quel partito che, in fase di timida gestazione, sarebbe diventato un grande movimento di massa nel corso di soli cinque anni118. Non so quale sarebbe oggi la mia posizione sull’ebraismo, sulla democrazia o meglio sull’intero marxismo, sulla questione sociale ecc. se già allora non mi fossi formato un nucleo essenziale di visioni personali sotto il peso del destino – e dell’apprendimento. Perché, anche se la sciagura della patria stimola la riflessione a migliaia di persone sui motivi intimi del suo tracollo119, essa non conduce mai a quella visione scrupolosa e accurata delle cose che ottiene solo chi, dopo una lotta pluriennale, è diventato artefice del proprio destino.
Sul germanesimo “estero” vedi capitolo 1-I. Hitler lasciò Vienna nel maggio 2013, dopo aver ottenuto l’eredità paterna al compimento del ventiquattresimo anno e per sfuggire alla leva militare in un paese che non amava. 118 Sulla storia del Partito nazionalsocialista vedi capitoli 12-I, 1-II e 9-II. 119 Sulle cause profonde del “tracollo” tedesco vedi capitolo 10-I. 116 117
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Approfondimenti didattici 1. Analisi retorica e stilistica
- Individua le principali figure retoriche; - Individua l’esistenza di fallacie retoriche; - Individua i principali “loci” e “topoi”; - Individua la presenza di stereotipi e pregiudizi.
2. Analisi storico-culturale
- La nascita della democrazia parlamentare: analizza l’evoluzione del parlamentarismo liberale di fine Ottocento in concomitanza con l’ampliamento del suffragio universale; - Il tema della responsabilità politica: analizza il problema della responsabilità politica nei regimi parlamentari moderni alla luce degli assetti costituzionali e della critica populistica; - Antisemitismo religioso e antisemitismo scientifico: analizza la commistione fra antigiudaismo religioso e antisemitismo scientifico alla base dei movimenti popolari europei di inizio Novecento; - Il pangermanesimo in Austria: analizza lo sviluppo del movimento pangermanista nell’Austria di fine Ottocento e inizio Novecento, in concomitanza con l’introduzione del suffragio universale; - Cristianesimo e società: analizza la formazione della dottrina sociale della Chiesa, il rapporto con il capitalismo moderno e con l’antisemitismo dalla fine dell’Ottocento in poi; - Ragione populistica: analizza le cause storiche della formazione del populismo dal punto di vista sociale, culturale e politico.
A. Gilardoni, Logica e argomentazione. Un prontuario, Milano, Mimesis, 2008.
Capitolo IV. Monaco
Sinossi 1. Genesi Il capitolo 4-I rappresenta una svolta contenutistica e di prospettiva. Malgrado il titolo, non ci sono riferimenti biografici. Per la prima volta Hitler preparò bozze concettuali per un capitolo contenente le prime riflessioni sulla politica estera. Il capitolo, scritto nella tarda primavera-inizio estate 1924, si basa sull’articolo Perché giungemmo all’8 novembre, apparso sulla rivista “Deutsche Erneuerung” (Rinnovamento tedesco) nell’aprile 1924. Contiene anche le prime considerazioni sul Lebensraum (spazio vitale), assenti nelle bozze concettuali, e probabilmente elaborate grazie a Rudolf Hess e a Karl Haushofer. Le riflessioni di politica estera saranno affrontate e ampliate nei capitoli 13-II e 14-II1. 2. Contenuto Il capitolo 4-I inizia con una descrizione entusiasta della città “tedesca” per eccellenza: la Monaco artistica e neoclassica, la “vera” patria culturale della Germania. In attesa di “intraprendere” la carriera di architetto, Hitler osserva la gente e l’opinione pubblica. Il risultato è desolante: nessuno è consapevole della “natura” dell’Austria. La Triplice Alleanza sarà del tutto inutile, visto che l’Italia non scenderà mai in campo a fianco dell’Austria e visto che l’Austria stessa finirà per affossare la Germania. Se la scelta di Bismarck era comprensibile in base ai “dati” dell’epoca, oggi non lo è più, perché l’Austria non è più uno Stato tedesco. Vista l’impossibilità di allearsi con l’Inghilterra e con la Russia, vista l’alleanza con la “mummia” asburgica, che fare? Hitler compie una digressione sul problema della sicurezza militare tedesca. I modi per garantire una potenza statale (cioè una popolazione numerosa e sana su un territorio sufficientemente ampio) sono quattro: limitare artificialmente le nascite alla francese; intensificare la colonizzazione interna; intensificare la politica coloniale e la colonizzazione esterna; rafforzare l’industria e il commercio. La prima via si è tradotta nel suo esatto contrario: salvare “tutti” per ragioni umanitarie e quindi indebolire la “discendenza” futura di un paese. La seconda via è percorribile fino a un certo punto, perché, “malthusianamente”, la crescita della popolazione è sempre superiore al possibile sfruttamento del suolo. La terza via è stata tardiva e scentrata, perché avrebbe dovuto rivolgersi verso la colonizzazione europea (cioè orientale) e non verso i “resti” dei territori africani. La quarta via ha condotto direttamente alla guerra: il teorema della “conquista pacifica” per via economica è stato smentito dai fatti. Le quattro vie “sbagliate” si spiegano, secondo Hitler, con l’assenza di un pensiero politico all’altezza, che non è altro che un pensiero politico di potenza. Lo Stato è lo strumento di una volontà etnica, salvaguarda e rafforza una comunità nazionalpopolare. Il primato dell’economia sulla politica ha condotto a una prosperità apparente, ma mai radicata e duratura. Ha anzi favorito la 1
KA I, p. 371.
110 perpetuazione e il “rafforzamento” dei “parassiti”, che hanno avuto tempo e modo di intaccare il “corpo sano” della nazione, approfittando della sua via “umanitaria” e ipocrita alla pace mondiale. Quando l’uomo si sostituisce alla natura, finisce solo per darsi la “zappa” sui piedi, non usandola per rivoltare terra. L’ultima parte del capitolo risale, come sempre, dal fenomeno “strano” alla “visione del mondo” e poi alle prove (probabilistiche) a sua conferma. Come spiegare la cecità di un grande paese di fronte al “cadavere” asburgico? Come spiegare il pacifismo? Mancano le virtù eroiche sostituite da quelle commerciali. Chi compra e chi vende tutto, secondo Hitler, non è in grado di morire per le proprie idee. Chi è responsabile di questa “paralisi” psico-fisica? L’ebreo, che ha iniettato il veleno nel “corpo popolare” sotto le vesti di pacifismo e di marxismo. 3. Analisi Come detto, questo capitolo, dal titolo fuorviante (di ciò che Hitler abbia fatto a Monaco dal 1913 non sappiamo quasi nulla), si discosta dagli altri tre non solo perché abbandona l’Austria, ma anche perché inizia a mostrare l’apparato teorico della geopolitica nazista. Dopo aver speso pagine di critica per la miopia degli “esperti” e per la stupidità dei “filistei”, Hitler enumera le quattro vie fondamentali per mantenere e preservare una nazione “sana”, che sono, su scala ridotta, i modi a disposizione di ogni individuo per adattarsi all’ambiente: la prima via è quella dell’auto-contenimento (potremmo dire della moderazione); la seconda è quella dell’approfondimento interiore (potremmo dire dell’introspezione); la terza è quella dell’espansione spaziale (potremmo dire dell’estroversione); la quarta è quella dell’ipocrisia (potremmo dire della finzione). Le quattro vie hanno tutti difetti ben precisi. La prima è innaturale perché un organismo si “castra” per sopravvivere nel proprio raggio di azione e finisce, inevitabilmente, per indebolirsi e per soccombere di fronte a un altro. La seconda lo è altrettanto, perché la “castrazione” diventa psicologica: l’organismo finisce per rinchiudersi in se stesso, per sfinire le risorse interiori e per cadere in una sorta di depressione senza fondo. La terza via non coglie l’obiettivo finale: l’organismo non può reggersi sull’espansione della propria capacità puramente economica, perché le risorse “esterne” sono limitate e incontrollabili. La quarta via è quella “sociale”: comprare l’accettazione altrui con un’ipocrisia maggiore degli altri. Ma nessun organismo finisce per crederci. Hitler accenna all’unica via percorribile dall’organismo tedesco (e individuale): quella dell’espansione del proprio “spazio vitale” a danno del più debole. Per sopravvivere non c’è altro modo che attaccare chi non è in grado di difendersi per ragioni spaziali, morali ed economiche. Una volta scartati l’Occidente e l’Africa, non resta che l’Oriente slavo. Questa è la via per salvaguardare la salute del corpo popolare. Solo impiantando salde colonie contadine è possibile rafforzare quel legame fra terra e sangue in grado di preservare la “razza” germanica. Solo il primato della politica (di potenza) sull’economia (della pace) è in grado di farlo. Ma perché non è successo? Ed ecco che Hitler, dove aver osservato i sintomi e aver già delineato la sua diagnosi, ritorna a parlare della malattia. E lo fa, per certi versi, dalla città tedesca artisticamente ritenuta la patria del neoclassicismo, ritenuta dai nazionalpopolari l’asilo dell’arte “sana”. La malattia è decadentisticamente una via per la lucidità, ma non è fine a se stessa. Il suo scopo è quello di aprire gli occhi sulla “paralisi fisica” del corpo popolare. Le prove “empiriche” ci sono tutte: l’attaccamento ai privilegi dei latifondisti, il pacifismo ipocrita dei politici e quello stupido dei filistei, le utopie del movimento di riforma della vita, i dibattiti sugli strumenti anticoncezionali. Tutte prove che la teoria ci ha visto “giusto”: le virtù sono paralizzate.
111 Le virtù eroiche sono le uniche su cui possa reggersi uno Stato vero. Non è il commerciante, ma il guerriero-contadino a sostenere le sorti di un paese nel corso dei secoli. Questo è chiaro per Hitler, che non perde occasione per sfoderare le massime del suo nichilismo virile. I sintomi della malattia erano ben chiari nella politica estera (cioè della natalità) prebellica tedesca (oltre che austriaca), ma nessuno ebbe il “coraggio” di cercarne le “cause profonde”. Il motivo? La “malattia” insita nell’organismo, il veleno che lo corrodeva e ne paralizzava l’azione. Nessuno vede l’uovo di Colombo. Nessuno guarda le cose nella “giusta prospettiva”. Ma come si fa a guardarle nella giusta prospettiva se mancano le forze per farlo? 4. Parole-chiave Anima popolare, Animo sensibile, Asburgo, Austro-tedesco, Bismarck Colonizzazione interna, Colonizzazione europea, Conquista pacifica, Controllo delle nascite, Democrazia, Detedeschizzazione, Ebraismo, Ebreo, Germanesimo, Intelletto calcolatore, Libero gioco delle forze, Ludendorff, Marxismo, Monaco, Ordine naturale, Politica coloniale, Politica commerciale, Politica di alleanza, Psicologia dei popoli, Razza ebraica, Rivoluzione del 1918, Slavizzazione, Spazio vitale, Stato ebraico, Triplice Alleanza, Umanitarismo, Unione americana, Visione del mondo. 5. Bibliografia essenziale - D. Bavendamm, Der junge Hitler. Korrekturen einer Biographie 1889-1914, Graz, Ares-Verlag, 2009; - H. Bauer, E. Tworek (ed.), Schwabing. Kunst und Leben um 1900, Monaco, Münchner Stadtmuseum, 1998; - F.R. Bridge, The Habsburg monarchy among the great powers, 1815-1918, New York, Berg, 1990; - A. Bullock, Hitler. Studio sulla tirannide, Milano, Res Gestae, 2014; - K. Burke, Die Rhetorik in Hitlers “Mein Kampf” und andere Essays zur Strategie der Überredung, Francoforte sul Meno, Suhrkamp, 1967; - D. Capozza, C. Volpato, Le intuizioni psicosociali di Hitler. Un’analisi del “Mein Kampf”, Bologna, Patron, 2004; - W. Carr, Hitler. Studio sul rapporto tra personalità e politica, Napoli, Liguori, 1985; - E. Collotti, M. Riccardo, Gli acquerelli di Hitler, Firenze, Alinari, 1984; - G. Corni, Hitler, Bologna, Il Mulino, 2007; - A. D’Onofrio, Razza, sangue e suolo. Utopie della razza e progetti eugenetici nel ruralismo nazista, Napol, Cliopress, 2007; - M. Ferrari Zumbini, Le radici del male. L’antisemitismo in Germania da Bismarck a Hitler, Bologna, Il Mulino, 2001; - J. Fest, Hitler. Una biografia, traduzione di F. Saba Sardi, Milano, Garzanti 2005; - B. Hamann, Hitler. Gli anni dell’apprendistato, Milano, Corbaccio, 1998; - R. Haynes e M. Rady (ed.), In the shadow of Hitler. Personalities of the right in Central and Eastern Europe, New York-Londra, I.B. Tauris, 2011; - L. Herbst, Il carisma di Hitler. L’invenzione di un messia tedesco, traduzione di U. Gandini, Milano, Feltrinelli, 2011; - H.H. Hervig, The demon of geopolitics. How Karl Haushofer “educated” Hitler and Hess, Londra, Rowman & Littlefield, 2016; - B. Hipler, Hitlers Lehrmeister. Karl Haushofer als Vater der NS-Ideologie, St. Ottilien, Eos, 1996; - U. Hossfeld, Geschichte der biologischen Anthropologie in Deutschland, Stoccarda, Franz Steiner Verlag, 2010; - J. Hürter, G.E. Rusconi (ed.), L’entrata in guerra dell’Italia nel 1915, Bologna, Il Mulino, 2010; - N. Huse, Kleine Kunstgeschichte Münchens, Monaco, C.H. Beck, 2004; - A. Joachimsthaler, Hitler in München, 1908-1920, Francoforte sul Meno, Ullstein, 1992; - S.F. Kellerhoff, Il libro proibito di Hitler. Storia del Mein Kampf, Milano, Rizzoli, 2016; - I. Kershaw, Hitler, vol. 1: 1889-1936, Milano, Bompiani, 2003; - B. Kundrus (ed.), Phansasiereiche. Zur Kulturgeschichte des deutschen Kolonialismus, Francoforte sul Meno, Campus Verlag, 2003;
112 - W.C. Langer, Psicanalisi di Hitler. Rapporto segreto del tempo di guerra, Milano, Garzanti, 1975; - U. Linse, Züruck, o Mensch zur Mutter Erde. Landkommunen in Deutschland, 1890-1933, Monaco, DTV Deutscher Taschenbuch, 1983; - P. Longerich, Hitler. Biographie, Monaco, Siedler Verlag, 2015; - W. Maser, Adolf Hitler, Roma, Ciarrapico, 1978; - G.L. Mosse, Le origini culturali del Terzo Reich, traduzione di F. Saba Sardi, Milano, Il Saggiatore, 2015; - A. Musolff, Metaphor, nation and the Holocaust. The concept of the body politic, New York, Routledge, 2011; - O. Plöckinger, Geschichte eines Buches. Adolf Hitlers “Mein Kampf”, 1922-1945. Eine Veröffentlichung des Instituts für Zeitgeschichte, Monaco, Oldenbourg, 2011; - Id., Quellen und Dokumente zur Geschichte von “Mein Kampf”, 1924-1945, Stoccarda, Franz Steiner Verlag, 2016; - W. Pyta, Hitler. Der Künstler als Politiker und Feldherr. Eine Herrschaftsanalyse, Monaco, Siedler Verlag, 2015; - P.R. Range, La genesi del Mein Kampf. 1924: l’anno che cambiò la storia, Roma, Newton Compton, 2017; - F.J. Rash, The language of violence. Adolf Hitler’s “Mein Kampf”, New York, Peter Lang, 2006; - E. Reichardt, Health, “race” and empire. Popular-scientific spectacles and national identity in imperial Germany, 1871-1914, Raleigh (North Carolina), Lulu.com, 2008; - R.G. Reuth, Hitler. Eine politische Biographie, Monaco, Piper, 2003; - Id., Hitlers Judenhass. Klischee und Wirchlikeit, Monaco, Piper Verlag, 2009; - W. Speitkamp, Deutsche Kolonialgeschichte, Stoccarda, Reclam, 2005; - H. Steinhaus, Hitlers pädagogische Maximen. “Mein Kampf” und die Destruktion der Erziehung im Nationalsozialismus, Francoforte sul Meno, Peter Lang, 1981; - J. Toland, Adolf Hitler. The definitive biography, New York, Doubleday, 1976; - V. Ullrich, Adolf Hitler. Biographie, vol. 1: Die Jahre des Aufstiegs 1889-1939, Francoforte sul Meno, S. Fischer, 2013; - A. Viktine, “Mein Kampf”. Storia di un libro, traduzione di G. Zucca, Milano, Cairo, 2010; - B. Zehnpfennig, Hitlers “Mein Kampf”. Eine Interpretation, Monaco, Fink, 2000; - R. Zitelmann, Hitler, Roma-Bari, Laterza, 1991.
Giunsi definitivamente a Monaco nella primavera del 19122. Conoscevo assai bene quella città. Era come se vivessi tra le sue mura già da molti anni. I miei studi si focalizzavano continuamente sulla metropoli artistica tedesca. Non si poteva dire di aver visto la Germania senza conoscere Monaco. Non si poteva dire di conoscere l’arte tedesca, senza aver visto Monaco. In ogni caso, gli anni monacensi prebellici furono i più felici e i più sereni della mia vita. Malgrado le entrate assai modeste, io non vivevo per dipingere, ma dipingevo per garantirmi la possibilità di vivere, o meglio per permettermi di proseguire gli studi3. Ero convinto che, in un modo o nell’altro, avrei raggiunto lo scopo che mi ero prefisso4. E questo mi consentiva di sopportare facilmente e serenamente le piccole preoccupazioni della vita quotidiana. A tutto ciò va aggiunto il grande amore, scoppiato subito dopo il mio arrivo, per quella città rispetto a qualsiasi altro luogo a me noto. Una città tedesca! Che differenza con Vienna. Stavo male al solo pensiero di quella Babele di razze. Per non parlare del dialetto molto simile al mio che, specialmente nei dintorni della Bassa Baviera, mi 2
Hitler lasciò Vienna il 25 maggio 1913, probabilmente per sfuggire alla leva militare, che aveva evitato dal 1909, e per poter ricevere l’eredità paterna al compimento del ventiquattresimo anno. La partenza fu retrodatata di un anno per occultare la renitenza [KA, n. 1]. 3 A Monaco Hitler non proseguì la sua formazione, ma si guadagnò da vivere vendendo acquerelli e cartoline postali. 4 Allusione alle sue ambizioni di proseguire gli studi architettonici.
113 ricordava l’infanzia. C’erano migliaia di cose che amavo intimamente e che erano o mi sarebbe diventate care. Mi attraeva soprattutto il meraviglioso connubio tra forza genuina e sottile raffinatezza artistica, l’unica linea dallo Hofbräuhaus5 all’Odeon6, dall’Oktoberfest7 alla Pinacoteca ecc.8 Oggi io mi sento più legato a questa città rispetto a qualsiasi altro luogo sulla faccia della terra, perché qui io sono veramente maturato. Inoltre la gioia di quegli anni era da ascrivere all’incantesimo che la meravigliosa residenza dei Wittelsbach9 esercita su ogni persona non solo dotata di intelletto calcolatore, ma anche di animo sensibile10.
Figura 1 Acquarello di Hitler raffigurante la corte dell’altica Residenza reale di Monaco (1914) [fonte: wikipedia.org]
Oltre alla mia attività professionale, in quegli anni ero molto interessato all’analisi degli eventi politici quotidiani, specie se di politica estera. Ero interessato alla politica di alleanza tedesca che, già dal mio soggiorno viennese, ritenevo sbagliata. Tuttavia, a Vienna non mi era ancora diventata chiara l’entità dell’illusione tedesca: ero incline ad accettare (oppure era una semplice giustificazione) l’idea che a Berlino sapessero già quanto sarebbe stato debole e poco affidabile l’alleato asburgico. Ma, per motivi a me Lo Hofbräuhaus, costruita tra il 1896 e il 1897, è la più celebre birreria di Monaco ed è legata all’ascesa del nazismo. Qui ebbe luogo l’adunanza costitutiva del Partito il 24 febbraio 1920. Vedi capitolo 12-I. 6 L’Odeonplatz, concepita a inizio Ottocento da Leo von Klenz, era un spazio di raccolta per quei festeggiamenti inadatti agli interni della residenza reale. 7 L’Oktoberfest fu introdotta nel 1910 e il Partito nazionalsocialista la usò a scopi propagandistici. 8 Allusione all’Alte Pinakothek (Vecchia Pinacoteca) di Monaco, inaugurata nel 1836 secondo i piani di Leo von Klenz. Qui erano raccolti soprattutto i lavori del romanticismo pittorico tedesco. 9 Allusione alla residenza originaria del re bavarese, distrutta nell’aprile 1944. 10 La distinzione tra “intelletto calcolatore” e “animo sensibile” era tipica dell’antirazionalismo di fine Ottocento. Fu Rembrandt als Erzieher (Rembrandt come educatore, 1890) di Langbehn a utilizzare per primo in maniera sistematica questa contrapposizione. Bibliografia: A.J. Langbehn, Rembrandt come educatore, a cura di V. Pinto, Torino, Free Ebrei, 2013. 5
114 oscuri, non intendevano dirlo, per conservare un’alleanza fondata dallo stesso Bismarck11 e la cui rottura improvvisa non era auspicabile, sia per non “spaventare” i paesi stranieri sempre in agguato, sia per non inquietare i filistei interni. Le mie frequentazioni interpersonali mi fecero constatare con grande raccapriccio che la mia speranza era infondata. Con mia grande sorpresa dovetti constatare che nessuno fra gli ambienti più informati aveva la più pallida idea della reale natura della monarchia asburgica. Il popolo si illudeva che l’alleato fosse una potenza affidabile, pronta a fornire manforte al momento del bisogno. La massa riteneva ancora la monarchia asburgica uno Stato “tedesco” e credeva di poterci fare affidamento. Pensava che la sua forza si potesse misurare con i milioni di abitanti, un po’ come in Germania, ignorando del tutto che l’Austria aveva cessato da tempo di essere uno Stato tedesco e che, in secondo luogo, la situazione interna spingeva inevitabilmente verso la sua dissoluzione. All’epoca conoscevo quel paese assai meglio della “diplomazia” ufficiale che, miope come sempre, barcollava in direzione della catastrofe. Lo stato d’animo popolare era sempre il prodotto di ciò che si inculcava dall’alto nell’opinione pubblica. Ma le alte sfere attribuivano all’“alleato” un culto simile a quello del vitello d’oro12. Si sperava di ricambiare con la cortesia ciò che mancava di sincerità. Quindi si prendevano tutte le parole per oro colato. Già a Vienna mi arrabbiavo ogni volta che osservavo la discrepanza fra il discorso degli statisti ufficiali e il contenuto della stampa locale. E Vienna era ancora una città tedesca, almeno in apparenza. Ma le cose stavano diversamente se, allontanandosi dalla capitale o, meglio, dall’Austria tedesca13, ci recavamo nelle province slave dell’Impero. Bastava prendere in mano i giornali praghesi14 per vedere come fosse giudicato sul posto quel sublime gioco di prestigio chiamato Triplice Alleanza15. Di quella magistrale opera di uno “statista” non restava altro che ironia e disprezzo. Già in tempo di pace, quando i due imperatori si scambiavano ancora i baci sulla fronte, non si faceva alcun mistero che l’alleanza sarebbe finita il giorno stesso in cui si fosse cercato di realizzare in pratica il bagliore dell’ideale nibelungico16. Come si sarebbero agitati gli animi alcuni anni dopo, quando, alla prova dei fatti, l’Italia si sarebbe defilata, lasciando i due alleati per unirsi ai nemici. Solo un diplomatico accecato non aveva capito che l’Italia non avrebbe mai combattuto al fianco dell’Austria. Solo che in Austria le cose non erano affatto differenti. Qui i sostenitori della politica di alleanza erano solo gli Asburgo e i tedeschi. I primi per calcolo e per necessità, i secondi per buona fede e per stupidità politica. Per buona fede, perché si credeva con la Triplice di arrecare un grande servigio all’Impero tedesco, di rafforzarlo o di aiutarlo. Per stupidità politica, perché questo non era esatto. Anzi l’alleanza finì per legare l’Impero tedesco a un cadavere statale che 11
Allusione alla Duplice intesa stipolata nel 1879. Allusione al libro dell’Esodo (32). 13 Sul topos dell’Austria tedesca vedi capitolo 1-I. 14 Allusione ai giornali praghesi in lingua tedesca che, secondo Theodor Fritsch, erano in larga parte “ebraizzati” [KA, n. 27]. 15 Nel maggio 1982 la Duplice Alleanza si allargò all’Italia, divenendo la Triplice Alleanza. 16 La Nibelungentreu (“fedeltà nibelungica”) fu menzionata dal cancelliere tedesco Bernhard von Bülow in un famoso discorso al Reichstag del 29 marzo 1909. Bibliografia: J. Heinzler, K. Klein (ed.), Die Nibelungen. Sage – Ephos – Mythos, Wiesbaden, Reichert, 2003. 12
115 avrebbe trascinato entrambi nell’abisso. L’alleanza, infatti, aumentava il processo di de-tedeschizzazione. Alleandosi con la Germania e garantendosi il suo intervento, gli Asburgo riuscirono a realizzare la loro politica interna di lenta eliminazione del germanesimo in modo semplice e sicuro. Non solo perché, con la citata “oggettività”, non c’era più bisogno di temere alcun intervento da parte del governo tedesco, ma anche perché si poteva tappare la bocca al germanesimo austriaco riferendosi all’alleanza ogni volta che si levava una protesta contro ogni meschino tentativo di slavizzazione. Cosa doveva fare l’austro-tedesco se il germanesimo tedesco esprimeva stima e fiducia per il governo asburgico? Doveva forse resistere, per poi essere tacciato da tutta l’opinione pubblica tedesca di tradimento nazionalpopolare? Proprio quel germanesimo che da decenni aveva compiuto sacrifici inauditi per il suo carattere nazionalpopolare! Quale sarebbe stato il valore dell’alleanza se il germanesimo fosse stato estirpato dalla monarchia asburgica? La Germania sperava di conservare l’egemonia tedesca in Austria? Oppure credeva veramente di mantenere l’alleanza con un Impero asburgico slavizzato? La posizione ufficiale della diplomazia e dell’opinione pubblica tedesche verso il problema austriaco delle nazionalità non era solo stupida, ma era semplicemente assurda. Si costruiva un’alleanza, si basavano il futuro e la sicurezza di un popolo di settanta milioni di persone17 – e si assisteva alla distruzione del fondamento dell’alleanza da parte del partner, anno dopo anno. Alla fine sarebbe rimasto un “trattato” con la diplomazia viennese, ma si sarebbe perso il sostegno di un Impero. Nel caso italiano, la situazione era sin dall’inizio identica. Se in Germania si fosse studiata bene la storia e si fosse dato spazio alla psicologia dei popoli18, non si sarebbe mai pensato che il Quirinale e lo Hofburg19 austriaco avrebbero potuto trovarsi sullo stesso fronte di battaglia. L’Italia avrebbe eruttato come un vulcano se un governo avesse osato mandare anche un solo soldato sul campo di battaglia a fianco dell’odiata monarchia asburgica, se non da nemico. Più di una volta ho visto esplodere da Vienna l’accalorato disprezzo e l’odio inaudito dell’italiano nei confronti dello Stato austriaco. Le colpe imputate alla casata asburgica contro la libertà e l’indipendenza italiane erano troppo gravi da poter essere dimenticate così in fretta, con tutta la buona volontà. Volontà che non c’era né nel popolo, né nel governo italiano. L’Italia aveva due sole possibilità di convivere con l’Austria: o alleandosi o combattendola. Scegliendo l’alleanza, riuscì a preparare con calma la guerra. Poiché anche le relazioni austriache con la Russia stavano precipitando verso il confronto bellico, la politica di alleanza tedesca era insensata e pericolosa. Era un classico esempio che mette in evidenza la mancanza di una giusta e grande linea di pensiero. Perché strinse l’alleanza? La Germania avrebbe potuto tutelare meglio da Secondo il censimento del dicembre 1910, la popolazione dell’Impero tedesco ammontava a quasi sessantacinquemilioni abitanti. 18 La Völkerpsychologie (psicologia dei popoli) era una disciplina scientifica sorta e sviluppatasi nel corso dell’Ottocento che si poneva l’obiettivo di studiare i processi psichici di singoli popoli, etnie e culturali. Oggi la disciplina è stata soppiantata e sostituita dall’etnologia e dalla sociologia della cultura. Fondatore della disciplina fu lo psicologo, fisiologo e filosofo tedesco Wilhelm Wundt (1832-1920). 19 Residenza dell’Imperatore austriaco e oggi del Presidente federale. 17
116 sola il proprio futuro. Ma il futuro dell’Impero tedesco non era altro che il problema della sopravvivenza del popolo tedesco. Il problema si poneva in questi termini: come si poteva immaginare la vita della nazione tedesca in un futuro prossimo? E come si potevano garantire le basi e la sicurezza necessarie nel quadro dei complessivi rapporti di forza europei? Considerando attentamente i presupposti della politica estera tedesca, si giungeva alla seguente conclusione. La Germania registrava un aumento di popolazione annuo di circa novecentomila unità20. La difficoltà di approvvigionamento di questo esercito di nuovi cittadini sarebbero diventate sempre maggiori e avrebbero portato a una catastrofe, se non si fossero trovati i mezzi e le vie per prevenire in tempo il pericolo della fame21. C’era quattro vie per sfuggire a questo futuro orrendo. 1. Su modello francese, si poteva limitare artificialmente l’aumento delle nascite per affrontare la sovrappopolazione22. La natura, nei periodi di grande miseria, di condizioni climatiche cattive o di scarsa rendita fondiaria, è solita limitare la crescita della popolazione di certi paesi o di certe razze. Lo fa con un metodo tanto saggio quanto spietato: non ostacola la capacità procreativa, ma la prosecuzione della vita delle nuove creature, esponendole a duri disagi e a privazioni che rimandano al creatore i meno resistenti e i meno sani. Coloro che sopravvivono all’iniquità dell’esistenza, ne escono rinforzati, duri e adatti a procreare nuovamente, per proseguire la selezione naturale. Agendo in modo così brutale contro il singolo e richiamandolo nel suo seno se non è all’altezza delle tempeste esistenziali, la natura rafforza la resistenza della razza e della specie, le rende capaci di prestazioni superiori23. Quindi la riduzione del numero apporta un rafforzamento dei singoli, un rafforzamento della specie. Altra cosa è se l’uomo si accinge a operare una riduzione dei neonati. La selezione non è più naturale, ma “umana”. L’uomo crede di saperla più lunga della regina spietata di ogni saggezza. Non limita la conservazione dei neonati, ma la loro procreazione. Ciò gli sembra più umano e più giusto, perché considera solo il suo bene e non quello della razza. Ma anche qui le conseguenze sono invertite. Mentre la natura, lasciando libertà di procreazione, espone le creature alle prove più difficili e seleziona le migliori, le più degne di vivere in mezzo a un gran numero di esse, rendendole quindi le portatrici della specie, l’uomo limita la procreazione, si preoccupa affannosamente di conservare a tutti i costi ogni nuova creatura24. La La popolazione dell’Impero tedesco crebbe nel giro di quarant’anni di quasi il 60%, passando da quarantuno a sessantacinquemilioni di abitanti. Bibliografia: M. Hubert, Deutschland im Wandel. Geschichte der deutschen Bevölkerung seit 1815, Stoccarda, Franz Steiner Verlag, 1998. 21 Possibile allusione a An essay on the principle of population (Saggio sul principio di popolazione, 1798) di Thomas Malthus, dove l’economista inglese sostiene che l’incremento demografico cresce in termini geometrici, mentre lo sfruttamento del suolo in termini aritmetici. Bibliografia: C. Viviani (ed.), Thomas Malthus. Teoria della popolazione, Roma, Luis University Press, 2008. 22 Sullo sviluppo stagnante della popolazione francese prima della guerra vedi capitolo 15-II. 23 La diagnosi hitleriana è darwiniana (sopravvivono i più “adatti”), mentre l’inferenza è socialdarwinistica (sopravvivono i più “forti”). Bibliografia: A. La Vergata, Guerra e darwinismo sociale, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino, 2015. 24 Sul tema del controllo delle nascite vedi capitoli 10-I e 2-II. 20
117 revisione della volontà divina gli sembra saggia e “umana”. L’uomo si rallegra di aver sconfitto la natura e di averne dimostrato l’imperfezione. Ma l’amata scimmietta del Signore non vuole sentirsi dire di aver ridotto il numero e, quindi, il valore dei singoli25. Infatti, quando la procreazione è stata limitata e cala il numero di nascituri, al posto della lotta naturale per l’esistenza, che lascia in vita solo i più forti e più sani, subentra l’ovvia smania di “salvare” a ogni costo anche i più deboli, i più malati. In tal modo si crea il nucleo di una discendenza che diverrà sempre più debole, quanto più durerà lo scherno della natura e della sua volontà. Il risultato finale sarà che, prima o poi, quel popolo sarà eliminato dalla faccia della terra. L’uomo può, per un certo periodo, sfidare le leggi eterne della volontà di preservazione, solo che la natura prima o poi si vendicherà26. Una stirpe più forte scaccerà quella più debole, poiché la lotta per l’esistenza distrugge di continuo ogni ridicolo legame umanitario del singolo, per sostituirlo con l’umanitarismo naturale che distrugge i deboli per far spazio ai più forti. Chi vuole assicurare l’esistenza del popolo tedesco con un auto-controllo delle nascite, lo priva del suo futuro. 2. Una seconda via sarebbe quella spesso proposta e decantata oggigiorno: la colonizzazione interna27. Questo progetto, da molti avanzato in buona fede, è solitamente mal interpretato dalla maggior parte delle persone e provoca danni maggiori di quanto non si riesca e immaginare. Indubbiamente la produttività di un suolo può aumentare sino a un certo limite; fino a quel limite e non oltre. La crescita del popolo tedesco si potrà bilanciare per un certo periodo aumentando la produttività del nostro suolo, senza temere la fame. Peccato che i bisogni aumentino più rapidamente rispetto al numero della popolazione. I bisogni degli uomini in fatto di nutrimento e di abbigliamento diverranno ogni anno maggiori e non sono paragonabili a quelli dei nostri antenati di un secolo fa. È folle credere che ogni aumento di produzione favorisca la crescita della popolazione. No, questo è vero sino a un certo punto, dato che almeno una parte della sovrapproduzione del suolo deve soddisfare le accresciute esigenze degli uomini. Quindi, malgrado un maggiore controllo delle nascite e una più alacre operosità, ci sarà un limite rappresentato dal suolo stesso. Anche con tutta la buona volontà, non si riuscirà a ricavare di più. Riapparirà così, a scoppio ritardato, la fame. Essa si manifesterà in un primo momento periodicamente, per esempio coi cattivi raccolti. Con l’aumento della popolazione, la fame si presenterà più soventemente, scomparendo solo nelle rare annate di raccolti più abbondanti. Ma arriverà il momento in cui la miseria non sarà più alleviata e la fame diverrà l’eterna compagna di un popolo. La natura dovrà correre in aiuto selezionando le creature più resistenti, oppure ci proverà l’uomo stesso ricorrendo al controllo artificiale delle nascite con tutte le tremende conseguenze sopra descritte per la razza e per la specie28.
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Allusione sarcastica alla teoria della discendenza darwiniana. Sul timore di “estinzione” della razza germanica vedi capitolo 11-I. 27 Allusione all’insediamento di contadini tedeschi nelle province baltiche orientali. Vedi capitolo 14-II. 28 Sull’uso di metodi contraccettivi per il controllo delle nascite vedi capitolo 2-II. 26
118 Qualcuno obietterà che un simile scenario incombe su tutta l’umanità e che, quindi, nessun popolo può sfuggirvi. Questo è corretto, a prima vista. Ma si può aggiungere anche che, in un determinato momento, vista l’impossibilità di bilanciare la fecondità del suolo col numero crescente di popolazione, tutta l’umanità sarà costretta a interrompere la crescita della specie, lasciando decidere alla natura o intervenendo di propria iniziativa, per ristabilire l’equilibrio necessario. L’operazione riguarderà tutti i popoli, mentre oggi sono interessate solo quelle razze che non hanno sufficientemente forza e vigore per assicurarsi il suolo necessario. Perché oggi, su questa terra, ci sono infiniti territori ancora vergini che aspettano di essere coltivati. Certo, quei territori non sono stati conservati per una determinata nazione o razza, ma spettano a quei popoli che avranno la forza di conquistarli e la capacità di coltivarli. La natura non conosce frontiere politiche: dissemina gli organismi sulla terra e osserva il libero gioco delle forze. Il più forte per coraggio e per diligenza ottiene, come figlio prediletto, il diritto signorile dell’esistenza. Se un popolo si limita alla colonizzazione interna, mentre le altre razze si assicurano le più smisurate superfici territoriali della terra, esso sarà costretto a ricorrere al controllo delle nascite nel momento in cui gli altri popoli continueranno a moltiplicarsi. Un caso del genere finirà per verificarsi tanto prima quanto più è ristretto lo spazio vitale29 a disposizione di un popolo. Dato che, generalmente parlando, sono le nazioni migliori o, per meglio dire, le razze veramente civilizzate, portatrici di progresso umano, a decidere in un momento di obnubilamento pacifista di rinunciare alle nuove acquisizioni territoriali per limitarsi alla colonizzazione “interna”, mentre le nazioni inferiori sanno ancora garantirsi le enormi superfici vitali su questa terra, l’esito sarà invertito. Le razze culturalmente superiori, ma meno spietate, dovrebbero limitare a un certo punto la loro crescita per carenza di suolo, poiché i popoli culturalmente inferiori, ma naturalmente più brutali, riescono ancora a procreare, perché sanno procurarsi gli spazi necessari. In altri termini, il mondo sarà dominato dai popoli meno civilizzati30, ma più energici. Anche in un futuro non troppo lontano ci sono solo due possibilità: o il mondo sarà retto dalle idee della nostra moderna democrazia, e quindi il maggior peso decisionale ricadrà sulle razze più numerose, oppure sarà dominato dalle leggi dell’ordine naturale, e allora vinceranno i popoli dotati di una volontà più brutale e non certo le nazioni che limitano le nascite. Ma nessuno può dubitare che il mondo di domani dovrà assistere a lotte ancor più dure per l’esistenza. Alla fine vincerà sempre l’istinto di autoconservazione, sotto il quale si scioglie come neve al sole di marzo l’umanitarismo, espressione di un miscuglio di stupidità, di viltà e di saccenteria. L’umanità è cresciuta nell’eterna lotta e nell’eterna pace andrà in rovina31. Ma per noi tedeschi lo slogan della “colonizzazione interna” è tanto più infausto, in quanto rafforza la convinzione di aver trovato un mezzo adeguato alla mentalità pacifista e di poterci “conquistare” l’esistenza in un dolce dormiveglia. Se questa 29
Sul concetto di Lebensraum (spazio vitale) vedi capitolo 14-II. Allusione ai popoli slavi, ritenuti incolti e brutali. Vedi capitoli 10-I e 2-II. 31 Sull’idea di guerra come “igiene dei popoli” vedi capitolo 10-I.
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119 dottrina fosse presa sul serio, significherebbe la fine ogni sforzo di garantirci il posto che ci spetta su questo mondo32. Se il tedesco medio si convincesse di potersi garantire la vita e il futuro per questa via, affosserebbe ogni tentativo di difesa attiva e positiva delle necessità vitali tedesche. Sarebbe anche la fine di ogni politica estera efficace e, in generale, dell’avvenire del popolo tedesco. Non a caso l’ebreo, che ne coglie lucidamente le conseguenze, cerca di seminare nel nostro popolo quei ragionamenti mortiferi. Egli conosce sin troppo bene i suoi polli33 per non sapere che sono le vittime preferite di ogni “truffatore spagnolo”34 che riesca a millantare di aver trovato il mezzo per ingannare la natura, per neutralizzare la dura e inesorabile lotta per l’esistenza, per promuoverli a signori del pianeta col lavoro o col semplice ozio. Bisogna sottolinearlo ancora una volta: ogni colonizzazione interna tedesca deve innanzitutto servire a eliminare i malcostumi sociali, a fronteggiare la speculazione generale, ma non può mai garantire il futuro della nazione senza l’acquisizione di nuovi terreni. Altrimenti, in breve tempo, giungeremo non solo allo stremo della nostra terra, ma anche della nostra forza. Infine bisogna aggiungere che il limitarsi a una determinata superficie territoriale, come esige la colonizzazione interna, così come il controllo delle nascite, comportano una situazione militare sfavorevole. Alla vastità territoriale di un popolo è legata essenzialmente la sua sicurezza esterna. Quanto più grande è lo spazio a disposizione di un popolo, tanto maggiore è anche la sua difesa naturale. Perché gli interventi militari contro popoli raggruppati su superfici più ristrette saranno più semplici e radicali rispetto a quanto non accadrebbe per paesi territorialmente più vasti. La vastità territoriale di uno Stato è quindi una difesa sicura contro gli attacchi sconsiderati, dato che il successo arriderà al nemico solo dopo lunghe lotte e, quindi, il rischio di un’aggressione sarà giustificato solo da ragioni eccezionali. La vastità dello Stato consente una migliore conservazione della libertà e dell’indipendenza di un popolo, mentre, viceversa, la limitatezza territoriale sembra quasi invitare all’occupazione35. In effetti, entrambe le possibilità di creare un equilibrio tra popolazione crescente e terra stagnante furono respinte dai circoli nazionalisti. I motivi dell’opposizione erano certamente diversi da quelli sopra descritti. Il controllo delle nascite era rigettato per ragioni morali. La colonizzazione interna era respinta con indignazione, poiché si fiutava un attacco contro il latifondo e l’inizio di una lotta contro la proprietà privata. Forse non a torto, considerando la forma in cui era consigliata la dottrina salvifica36. In ogni caso, i suoi sostenitori non furono particolarmente accorti di fronte alla grande massa e non toccarono mai il nocciolo della questione. 32
Il passaggio ricorda il noto Platz an der Sonne (posto al sole) reclamato dal cancelliere von Bülow nel discorso al Reichstag del 6 dicembre 1897. 33 Possibile richiamo a un passaggio della Morte di Wallenstein di Friedrich Schiller (1800) [KA, n. 70]. 34 Truffa consistente nel richiedere denaro per corrispondenza per riscattare possibili proprietà. 35 Le “ragioni eccezionali” spinsero Hitler ad avviare l’Operazione Barbarossa e a invadere l’Unione Sovietica nel giugno 1941. 36 Il diciassettesimo punto del “Programma dei Venticinque punti” prevedeva la lotta per la riforma fondiaria, la creazione di una legge per l’esproprio senza indennizzo, l’abolizione della rendita fondiaria e l’impedimento di ogni speculazione su base fondiaria. Vedi capitolo 10-II.
120 Non restavano che altre due vie per assicurare lavoro e pane alla crescente popolazione. 3. Si potevano conquistare nuovi territori, per spedirvi annualmente i milioni di persone in eccedenza e, quindi, mantenere la nazione sulla base dell’autosostentamento. 4. Oppure si aumentavano le esportazioni con l’industria e con il commercio, per vivere del ricavato del lavoro.
Figura 2 Caricatura sulla politica coloniale di Bismarck (1885) [fonte: wikipedia.de]
Quindi: politica territoriale e coloniale oppure politica commerciale. Entrambe le vie furono vagliate, consigliate e osteggiate da diversi punti di vista, finché non si decise per la seconda. La migliore via sarebbe stata indubbiamente la prima. L’acquisizione di nuovi territori per insidiare la popolazione crescente offriva infinitamente più vantaggi, specialmente in prospettiva futura. La possibilità di conservare un ceto contadino sano come base di tutta la nazione non può mai esser sufficientemente lodata. Molti dei mali moderni sono in larga parte l’esito del rapporto insano tra città e campagna37. Un solido ceppo di piccoli e medi contadini fu sempre il 37
Sulla critica all’inurbamento crescente della Germania di fine Ottocento vedi capitolo 10-I.
121 migliore argine contro i mali sociali che oggi ci opprimono. E questa è anche l’unica soluzione che permette a una nazione di procacciarsi il pane quotidiano nell’apparato circolatorio interno di un’economia. L’industria e il commercio rinunciano alla loro insana posizione dominante e si integrano nel quadro generale di un’economia nazionale che bilanci fabbisogno e perequazione. Entrambe non sono più il fondamento del nutrimento della nazione, ma un semplice mezzo. Dovendo servire a equilibrare la produzione e il fabbisogno, l’industria e il commercio rendono anche l’intero fabbisogno interno più o meno indipendente dall’estero, collaborano quindi a garantire la libertà dello Stato e l’indipendenza della nazione, specialmente nei momenti difficili38. Tuttavia questa politica territoriale non può realizzarsi in Camerun39, ma solo in Europa. Bisogna affermare freddamente e serenamente che non fu certo intenzione del cielo dare a un popolo un territorio cinquanta volte più grande rispetto a un altro. I confini politici non possono limitare il diritto eterno. Se su questa terra c’è davvero spazio per tutti, ci sarà anche la terra necessaria alla nostra vita. Tutto ciò non sarà certamente pacifico. Entrerà in azione il diritto all’autoconservazione: la terra si otterrà con le buone o con le cattive. Se le decisioni dei nostri antenati fossero dipese dagli assurdi principî pacifisti, oggi possederemmo neanche un terzo dei nostri attuali territori. E il popolo tedesco avrebbe poco da dire all’Europa. No, la nostra naturale determinazione alla lotta per la nostra esistenza la dobbiamo alle due marche orientali e, quindi, a quelle forze interne che simboleggiano la grandezza del nostro territorio statale e popolare, e che ci lasciano resistere fino a oggi. La colonizzazione europea sarebbe la soluzione giusta anche per un altro motivo. Molti Stati europei di oggi sembrano piramidi rovesciate. Il loro territorio metropolitano è irrisorio rispetto al peso delle colonie. In campo commerciale, possiamo dire che il vertice è in Europa, mentre la base è nel resto del mondo. Contrariamente all’Unione americana, che possiede la base sul proprio continente e tocca il resto del mondo con la sua punta. Di qui l’incredibile forza interna dello Stato americano e la debolezza della maggior parte delle potenze coloniali europee. Anche l’Inghilterra non dimostra il contrario, perché, considerando l’Impero britannico, s’ignora il mondo anglosassone alle sue spalle. La posizione dell’Inghilterra, vista la comunanza linguistica e culturale con l’Unione americana, è senza eguali in Europa. La Germania poteva condurre una sana politica territoriale solo acquisendo nuovi territori in Europa stessa. Le colonie erano inutili, nella misura in cui non erano adatte all’insediamento europeo su vasta scala40. Ma i possedimenti coloniali non erano più acquisibili pacificamente nel secolo passato. Quindi la politica coloniale sarebbe stata Allusione all’autarchia economica nei frangenti storici difficili. Il Camerun, colonia tedesca nel 1884, ospitava nel 1913 circa milletrecento cittadini tedeschi. Particolarmente criticati furono i duri metodi del governatore Jesko von Puttkamer. Bibliografia: F. Hoffmann, Okkupation und Militärverwaltung in Kamerun. Etablierung und Institutionalisierung des kolonialen Gewaltmonopols, 1891-1914, Gottinga, Cuvillier Verlag, 2007. 40 Il numero totale di cittadini tedeschi nelle colonie e nei protettorati ammontava nel 1913 a circa ventiduemilaquattrocento unità [KA, n. 88].
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122 realizzabile solo per via di un duro conflitto bellico, che sarebbe stato più opportuno sostenere non per territori extra-europei, ma per quelli continentali. Una tale decisione richiedeva naturalmente una dedizione unanime. Non possiamo dedicarci ambiguamente a una missione perseguibile solo ricorrendo a tutte le energie. Anche la classe dirigente imperiale avrebbe dovuto consacrarsi esclusivamente a questo scopo. Non bisognava intraprendere alcun passo che non fosse accompagnato dal riconoscimento di quella missione e delle sue condizioni. Bisognava avere ben chiaro che la missione era conseguibile solo mediante la lotta; e il ricorso alle armi era ovvio e naturale. Quindi tutte le alleanze andavano esaminate esclusivamente da questo punto di vista, come pure la loro utilità. I territori europei erano ottenibili solo a danno della Russia. Il nuovo Impero tedesco avrebbe dovuto riprendere la marcia dei vecchi cavalieri teutonici41, per consegnare con la spada la zolla all’aratro tedesco, per dare alla nazione il suo pane quotidiano. Ma una politica del genere era conseguibile solo con un alleato: l’Inghilterra42. Solo avendo le spalle coperte dall’Inghilterra era possibile iniziare una nuova migrazione germanica. Il suo diritto non sarebbe stato inferiore a quello dei nostri antenati. Nessuno dei nostri pacifisti si rifiuta di mangiare il pane orientale, anche se la prima zolla fu conquistata con la “spada”! Per guadagnarsi l’approvazione inglese non bisogna badare a spese. Bisognava rinunciare alle colonie e al predominio sui mari, evitando la concorrenza con l’industria inglese. Solo un’impostazione assolutamente chiara poteva condurre al nostro scopo: rinuncia al commercio mondiale e alle colonie; rinuncia a una flotta da guerra tedesca43. Concentrazione di tutta la potenza statale sulla fanteria. L’esito sarebbe stato una momentanea limitazione, precondizione di un grande e potente futuro. Ci fu un momento in cui l’Inghilterra avrebbe potuto parlarne. Poiché aveva capito che, a seguito dell’incremento demografico, la Germania avrebbe cercato una qualche via di uscita e che l’avrebbe trovata in Europa con l’Inghilterra, oppure nel mondo contro l’Inghilterra. Questo spiega perché, alla svolta del secolo, Londra cercò di avvicinarsi alla Germania. Allora si verificò per la prima volta ciò che poi avremmo osservato con raccapriccio. Ci preoccupavamo esclusivamente di togliere le “castagne” dal fuoco all’Inghilterra44. Come se esistesse un’alleanza su una base diversa se non il reciproco interesse. Salvo che, con l’Inghilterra, il reciproco interesse erano conseguibile alquanto bene. La diplomazia inglese era abbastanza saggia da comprendere che non avrebbe avuto alcun tornaconto senza una contropartita.
L’Ordine Teutonico, fondato nel 1190 su basi caritatevoli, divenne presto un ordine di cavalieri armato a difesa dei pellegrini. La sconfitta di Tannenberg nel luglio 1410 per mano dei polacchi e dei lituani pose fine alle sue mire egemoniche nelle terre baltiche. Nel 1525 i territori dell’Ordine passarono sotto il controllo degli Hohenzollern. L’Ordine fu definitivamente soppresso da Napoleone nel 1809. 42 Sull’idea hitleriana di Inghilterra come partner ideale della Germania vedi capitolo 13-II. 43 Sull’armamento della flotta tedesca vedi capitolo 10-I. 44 Allusione alla favola La scimmia e il gatto di Jean La Fontaine [KA, n. 96]. 41
123 Supponiamo che una lungimirante politica estera tedesca avesse assunto il ruolo del Giappone nel 1904. Oggi non sarebbero comprensibili gli esiti della scelta tedesca45. Non saremmo mai giunti a una “guerra mondiale”. Il sangue sparso nel 1904 avrebbe risparmiato il sangue dieci volte superiore del 1914-18. Ma quale posizione occuperebbe oggi la Germania nel mondo? Certo, l’alleanza con l’Austria era un’assurdità. Perché quella mummia statale si era alleata con la Germania non per combattere una guerra, ma per mantenere una pace perpetua, che la monarchia asburgica avrebbe potuto utilizzare per annientare lentamente e intelligentemente il germanesimo interno. Ma l’alleanza nibelungica era improbabile anche perché non potevamo attenderci una difesa attiva degli interessi nazionali tedeschi, se uno Stato non aveva né la forza, né la determinazione di opporsi al processo di de-tedeschizzazione ai suoi immediati confini. Se la Germania non aveva un sufficiente sentimento nazionale, né la necessaria brutalità per togliere di mano all’improbabile Stato asburgico il controllo sul destino di dieci milioni di connazionali, non potevamo nemmeno attenderci che offrisse il suo appoggio a piani così audaci e di ampio respiro. La posizione del vecchio Impero verso il problema austriaco fu il banco di prova della sua condotta nella lotta fatale che incombeva su tutta la nazione. In ogni caso, non si poteva assistere passivamente alla progressiva repressione del germanesimo, proprio perché il valore di un’alleanza austriaca avrebbe dovuto consistere esclusivamente nella conservazione dell’elemento tedesco. Solo che non si percorse questa via. Nulla si temeva maggiormente all’epoca della guerra, salvo poi esser costretti a ricorrervi nel momento più inopportuno. Volevamo sfuggire al destino e ne fummo raggiunti. Sognavamo di conservare la pace mondiale e giungemmo alla guerra mondiale. E questo fu il motivo principale per cui fu scartata la terza via “coloniale”. Sapevamo che l’acquisizione di nuovi territori era possibile solo a Est, intravvedevamo il conflitto necessario, ma volevamo conservare la pace a ogni costo. Il motto della politica estera tedesca non era più “conservazione della nazione tedesca a ogni costo”, ma “conservazione della pace mondiale a ogni costo”46. È oggi sappiamo come andò a finire. Tornerò a occuparmene in dettaglio47. Non restava quindi che la quarta via: industria e commercio mondiale, potenza marittima e colonie. Questa pista era percorribile in modo più semplice e rapido. La colonizzazione territoriale è un processo lento, spesso secolare. La sua forza intima va cercata nel fatto che non si tratta di una fiammata improvvisa, ma di una crescita lenta, accurata e persistente. A differenza di uno sviluppo industriale, che può essere gonfiato nel giro di pochi anni, per poi assomigliare più a una bolla di sapone che a una forza massiccia. Una flotta si costruisce più velocemente rispetto alla dura preparazione di poderi o di fattorie. Solo che la flotta si distrugge anche con maggiore facilità. Sull’avvicinamento anglo-giapponese precedente al conflitto russo-giapponese vedi capitolo 5-I. L’affermazione, presente anche nelle memorie di Eric Ludendorff, partiva dal presupposto comune alle destre che il cancelliere tedesco Bethmann-Hollweg fosse debole e arrendevole [KA, n. 104]. 47 Vedi capitoli 10-I e 14-II.
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124 Se dunque la Germania intraprese la quarta via, doveva ammettere quantomeno che quel tragitto avrebbe condotto alla guerra. Era puerile credere di potersi andare a prendere le “banane” con una competizione pacifica48 e con una continua enfasi pacifista, come si balbettava bellamente allora, senza dover mai ricorrere alle armi.
Figura 3 La Germania verso il mare (cartolina postale del 1900) [fonte: bpb.de]
No, se si fosse imboccata quella via, l’Inghilterra sarebbe diventata inevitabilmente nostra nemica. Era assurdo scandalizzarsi (tipico della nostra ingenua visione delle cose) che l’Inghilterra avrebbe deciso di opporsi ai nostri pacifici sforzi con il suo brutale egoismo. Purtroppo noi non l’avremmo fatto. Se non avessimo condotto una politica territoriale europea contro la Russia e insieme all’Inghilterra, avremmo dovuto perseguire una politica coloniale e commerciale mondiale contro l’Inghilterra e insieme alla Russia. Ma anche in questo caso bisognava trarne le estreme conseguenze e, soprattutto, lasciare perdere l’Austria. Da qualsiasi punto di vista, l’alleanza asburgica era una vera follia alla svolta del secolo. Solo che la classe dirigente tedesca non pensò affatto di allearsi con la Russia contro l’Inghilterra, né con l’Inghilterra contro la Russia, perché in entrambi i casi l’esito sarebbe stato una guerra, e per evitarla si decise di perseguire una politica commerciale e industriale. La conquista “economica” del mondo49 era la ricetta per abolire definitivamente la politica della forza dell’epoca. A volte non eravamo del tutti sicuri di fare la cosa giusta, specie quando dall’Inghilterra filtravano vaghe minacce ai nostri danni. Per questo la Germania decise di costruire una flotta, non per attaccare o distruggere l’Inghilterra, ma per “difendere” la “pace mondiale”, la conquista L’espressione “competizione pacifica” fu popolarizzata da Guglielmo II durante un discorso davanti al Senato di Amburgo del 27 agosto 1911 a seguito della seconda crisi marocchina [KA, n. 106]. 49 Possibile allusione alla Friedensresolution (risoluzione per la pace) avanzata nel Reichstag dai socialdemocratici, dai cattolici e da alcuni popolari il 19 luglio 1917.
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125 “pacifica” del mondo. Perciò fu tenuta entro limiti modesti, non solo per numero, ma anche per tonnellaggio e per armamento delle singole navi, per mostrare al mondo il proposito “pacifico” finale. Le dicerie sulla conquista “economica pacifica” erano la più grande assurdità mai assurta a principio-guida della politica estera di uno Stato. Quest’assurdità era ulteriormente ingigantita dal fatto che non si volle chiamare l’Inghilterra quale supertestimone di tale impresa. È difficilmente risarcibile il danno arrecato al popolo dalle nostre teorie professorali della storia50, una dimostrazione lampante di come molta gente “studi” la storia senza capirla a fondo. Proprio l’Inghilterra rappresentava la smentita più lampante di ogni teoria. Nessun popolo è stato così pronto a preparare e a difendere le sue conquiste economiche con la stessa brutalità come gli inglesi. Non è forse tipicamente britannico trarre dalla forza politica le acquisizioni economiche e di trasformare subito ogni rafforzamento economico in potenza politica? È una sciocchezza pensare che l’Inghilterra sarebbe stata così “vile” da non difendere col sangue la sua politica economica. Né prova del contrario il fatto che il popolo inglese non abbia alcun “esercito popolare”51. Perché non si tratta della forma dell’esercito, ma della volontà e della determinazione di impiegare quello a disposizione. L’Inghilterra ha sempre posseduto gli armamenti, ha sempre combattuto con le armi necessarie al successo. Usò i mercenari finché servirono. Fece ricorso alla riserva di sangue più prezioso di tutta la nazione, se quel sacrificio poteva condurre alla vittoria. Ma la determinazione e la tenacia, così come la conduzione spietata, hanno sempre caratterizzato la sua condotta politica. In Germania, invece, si propagava gradualmente, per mezzo della scuola, della stampa e del giornalismo umoristico, una visione degli inglesi e, soprattutto, del loro impero che avrebbe causato una delle illusioni più amare. Tutti fummo contagiati da tali assurdità. Ciò portò a una sottovalutazione dell’avversario, poi scontata amaramente sul campo di battaglia. L’intensità della falsificazione era tale che eravamo convinti che l’inglese fosse un astuto e vile uomo d’affari. Nessuno dei nostri insigni professorini capì che un impero mondiale di tali dimensioni non si costruisce solo con imbrogli e con tranelli52. Le poche Cassandre non furono ascoltate oppure furono messe a tacere. Mi ricordo nitidamente i volti stupiti dei miei commilitoni quando nelle Fiandre si trovarono di fronte ai “Tommies”53. Il giorno dopo sorse nelle nostre menti la convinzione che quei scozzesi non corrispondevano affatto ai ritratti dei giornali umoristici o dei rapporti telegrafati. Fu allora che iniziai a riflettere sull’opportunità dell’attività propagandistica54. Ma questa falsificazione aveva qualcosa di buono per chi la diffondeva: riusciva a dimostrare, ancorché con un esempio sbagliato, la bontà della conquista economica del mondo. Se ci erano riusciti gli inglesi, dovevamo riuscirci anche noi, col vantaggio Sulla critica hitleriana all’insegnamento della storia contemporanea vedi capitoli 1-I e 2-II. Il Regno Unito introdusse solo due volte la leva obbligatoria (national service): dal 1916 al 1920 e dal 1939 al 1960. Non così per la marina e per l’aeronautica, specialmente la prima, decisiva nel commercio mondiale e nell’espansione britannica [KA, n. 114]. 52 Sullo stereotipo del commerciante inglese vedi capitoli 6-I e 9-I. 53 Espressione riassuntiva dei soldati britannici. 54 Vedi capitolo 6-I. 50
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126 della nostra rettitudine dovuta alla mancanza di “perfidia” inglese. Speravamo di guadagnare facilmente la simpatia delle piccole nazioni e la fiducia di quelle grandi. Era impensabile che la nostra rettitudine non piacesse agli altri, anche perché noi ci credevamo veramente, mentre il resto del mondo la riteneva espressione di un’astutissima ipocrisia. Finché, con grande sorpresa, la Rivoluzione ci fece comprendere la sconfinata stupidità del nostro profondo sentimento. Partendo dall’assurdità della “conquista economica pacifica” del mondo, diventava chiara anche l’assurdità della Triplice Alleanza. Con quale altro Stato avremmo potuto allearci? Con l’Austria non c’era modo di ottenere conquiste importanti, neppure in Europa. Ed ecco il peccato originale dell’alleanza: mentre Bismarck l’aveva usata come espediente, non così fu dai suoi inetti successori, tantomeno in un periodo in cui erano venuti a mancare i presupposti essenziali di quell’alleanza. Perché Bismarck credeva di vedere uno Stato tedesco nell’Austria. Ma, con la graduale introduzione del suffragio universale, l’Austria era diventata uno Stato parlamentare, precipitando in una confusione non tedesca. Quindi l’alleanza con l’Austria era deleteria anche da un punto di vista razziale. Si tollerava lo sviluppo di una nuova grande potenza slava ai confini dell’Impero tedesco55, che, prima o poi, si sarebbe comportata in modo diverso rispetto, per esempio, alla Russia. Inoltre l’alleanza diventava sempre più vacua e inconsistente, dato che gli unici sostenitori dell’idea avevano perso d’importanza nella monarchia ed erano stati rimossi dalle posizioni di comando56. Già alla svolta del secolo l’alleanza con l’Austria aveva raggiunto lo stesso stadio di quella tra Austria e Italia. Anche qui c’erano solo due possibilità: o restare alleati della monarchia asburgica oppure contrastarne la rimozione del germanesimo. Una volta intrapresa la seconda, l’esito sarebbe stato inevitabilmente il conflitto aperto. Il valore della Triplice Alleanza era anche psicologicamente modesto, perché la solidità di un’alleanza aumenta nella misura in cui i singoli contraenti sperano di ottenervi determinati obiettivi espansionistici e tangibili. Un’alleanza sarà viceversa tanto più fragile, quanto più si limiterà alla conservazione dell’esistente. Anche qui, come sempre, la miglior difesa è l’attacco. Molte persone ne erano ben consapevoli, non purtroppo gli “addetti ai lavori”. In particolare, Ludendorff, allora colonnello dello Stato Maggiore, indicò chiaramente quelle debolezze in un memoriale del 1912. Naturalmente gli “statisti” non ci fecero caso57. Sembra quasi che la lucidità abbondi solo fra i comuni mortali, mentre sia carente fra i “diplomatici”. Per la Germania fu una fortuna che la guerra del 1914 scoppiò per colpa dell’Austria, che quindi gli Asburgo dovettero prendervi parte. In caso contrario, la Germania sarebbe rimasta sola. Lo Stato asburgico non avrebbe mai partecipato a una guerra “provocata” dalla Germania. L’Austria avrebbe anticipato la critica poi mossa 55
Allusione al Regno di Serbia proclamato nel 1882. In realtà l’alta burocrazia e il corpo ufficiali asburgici erano dominati dai tedeschi, come lo stesso Hitler ammette nel capitolo 3-I. 57 Sulla Denkschrift (Memoriale) di Ludendorff e sulla reazione della classe dirigente tedesca prebellica vedi capitolo 10-I.
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127 all’Italia: sarebbe rimasta “neutrale”, per salvare lo Stato dalla rivoluzione. Lo slavismo austriaco avrebbe annientato la monarchia asburgica già nel 1914, prima che la Germania potesse aiutarla. Allora ben pochi capirono quanto fossero grandi i pericoli e le complicazioni insiti in un’alleanza con la monarchia asburgica. Innanzitutto l’Austria aveva troppi nemici desiderosi di trarre vantaggio da quello Stato marcio, che poi avrebbero finito per sviluppare un certo odio contro la Germania, ritenuta la causa della mancata e auspicata dissoluzione della monarchia. Si giunse alla conclusione che Vienna era abbattibile passando per Berlino. In secondo luogo la Germania perse le possibilità di alleanze migliori e più proficue. Crebbero le tensioni con la Russia e con la stessa Italia. Specialmente a Roma, lo stato d’animo generale di ogni italiano era tanto filo-tedesco quanto antiaustriaco. Essendoci gettati sulla politica commerciale e industriale, non c’era più alcun motivo che la Germania combattesse contro la Russia. Solo i nemici delle due nazioni potevano nutrire ancora un interesse concreto a metterle una contro l’altra. Gli ebrei e i socialisti fomentarono con ogni mezzo la guerra tra i due Stati58. In terzo e ultimo luogo l’alleanza nascondeva un’enorme insidia per la Germania, proprio perché, in ogni momento, una potenza nemica dell’Impero bismarckiano avrebbe potuto mobilitare facilmente una serie di paesi contro la Germania, non appena avesse prospettato loro guadagni a spese dell’alleato austriaco. Contro la monarchia danubiana si potevano mettere in subbuglio tutta l’Europa orientale, la Russia e l’Italia. Mai si sarebbe realizzata la coalizione planetaria prospettata da re Edoardo59 se l’Austria, come alleato della Germania, non fosse stata un’eredità troppo allettante agli occhi di tutti. Solo così era possibile creare un unico fronte offensivo nutrito da desideri e da obiettivi così eterogenei. Chiunque poteva sperare di ottenere qualcosa dall’Austria, combattendo contro la Germania. Il pericolo fu rafforzato dalla partecipazione turca alla sciagurata alleanza. La finanzia mondiale ebraica internazionalista aveva bisogno di una simile esca per attuare il piano a lungo desiderato di distruggere la Germania, non ancora assoggettata al suo controllo finanziario ed economico sovrastatale60. Solo in questo modo si poteva saldare quella coalizione, rafforzata e ringalluzzita dal numero impressionante di eserciti marcianti disposti a stare addosso al cornuto Sigfrido61. L’alleanza con la monarchia asburgica, che mi aveva sempre riempito di malumore già a Vienna, iniziò a diventare motivo di un lungo esame interiore che fortificò sempre più la mia opinione iniziale. Allora, nei piccoli circoli che frequentavo, non facevo mistero della mia posizione che l’alleanza con uno Stato destinato al tramonto avrebbe avuto un esito catastrofico 58
La socialdemocrazia tedesca sollevò molte riserve di natura economica e politica sulla Russia zarista e poi bolscevica (come Karl Kautsky, più volte critico del leninismo). Bibliografia: J. Zarusky, Die deutschen Sozialdemokraten und das sowjetische Modell. Ideologische Auseinandersetzung und aussenpolitische Konzeptionen, 19171933, Monaco, Oldenbourg, 1992. 59 Edoardo VII fu un sostenitore dell’Intesa cordiale con la Francia, stipulata nel 1904. 60 Sull’idea di “complotto ebraico” vedi capitolo 2-II. 61 Allusione al Libro popolare del Sigfrido con le corna, parte della saga di Sigfrido (XVI secolo).
128 anche per la Germania, se non fosse riuscita a staccarsene in tempo. Né la mia ferma convinzione ha vacillato per un solo istante, anche quando la tempesta della guerra mondiale sembrava aver sospeso qualsiasi considerazione sensata e la vertigine dell’entusiasmo colse anche chi avrebbe dovuto mantenere la mente fredda e razionale62. Anche al fronte, dovunque ne parlassi, sostenevo la mia tesi che l’alleanza avrebbe dovuto essere rotta il più presto possibile e che l’abbandono della monarchia asburgica non sarebbe stato un sacrificio, se la Germania avesse potuto ridurre i suoi avversari. Perché i milioni di soldati tedeschi non si erano legati l’elmo d’acciaio per conservare una dinastia depravata, ma per salvare la nazione tedesca. Talvolta, prima della guerra, sembrava che quantomeno i militari sollevassero qualche dubbio sulla bontà politica dell’alleanza. I circoli conservatori tedeschi iniziavano di tanto in tanto a mettere in guardia di fronte all’eccessiva faciloneria, ma, come detto, le considerazioni ragionevoli restavano inascoltate. Eravamo convinti di essere sulla retta via per “conquistare” il mondo. Il successo sarebbe stato enorme e il sacrificio quasi inesistente. Ai “profani” non restava altro che assistere silenziosamente come gli “addetti ai lavori” marciassero direttamente verso la rovina, trascinando con loro l’amato popolo, come il pifferaio di Hamelin63. La ragione più profonda dietro l’assurda via politica della “conquista economica” e il fine politico della conservazione della “pace mondiale”, è insita nella malattia generale del nostro pensiero politico. La marcia trionfale della tecnica e dell’industria, i successi del commercio fecero perdere la consapevolezza generale che tutto ciò fosse possibile solo grazie a uno Stato forte. Al contrario, molti circoli ebbero l’ardire di sostenere che lo Stato dovesse la sua vita a un’istituzione economica, che fosse guidato da interessi economici e che, quindi, anche la sua esistenza dipendesse dall’economia. Tutto ciò era ritenuto la cosa più sana e naturale al mondo. Lo Stato, però, non ha nulla a che fare con una teoria economica, né con la crescita economica64. Lo Stato non è un agglomerato di contraenti economici in uno spazio vitale ben circoscritto, per realizzare obiettivi economici, ma è l’organizzazione di una comunità di organismi fisicamente e spiritualmente affini per consentire la preservazione della sua specie e il conseguimento degli obiettivi della sua esistenza, prestabiliti dalla Provvidenza. Solo questo è lo scopo e il senso di uno Stato. L’economia è solo uno dei molti mezzi necessari al suo conseguimento. Non è mai la causa o lo scopo di uno Stato, a meno che non si basi sin dal principio su basi errate, perché innaturali. Solo così comprendiamo perché lo Stato non abbia mai bisogno di presupporre una precisa delimitazione territoriale. Essa sarà necessaria solo ai popoli che intendano garantirsi il sostentamento dei suoi simili, che siano quindi pronti a sostenere autonomamente la lotta per l’esistenza. I popoli che si insinuano come parassiti nel resto dell’umanità, per Sull’Augusterlebnis del 1914 (lo spirito di agosto, una sorta di analogo delle “radiose giornate di maggio” dannunziane) vedi capitolo 5-I. 63 Fiaba tedesca raccolta dai fratelli Grimm. 64 Sul primato della politica di potenza e sulla funzione accessoria dell’economia vedi capitoli 8-I e 14-II. 62
129 farla faticare al loro posto con qualsiasi pretesto, possono indubbiamente formare Stati privi di uno spazio vitale ben definito. Questo vale soprattutto per un popolo, la cui azione parassitaria tormenta oggi tutta l’umanità onesta: l’ebraismo. Lo Stato ebraico non ebbe mai confini territoriali, ne fu sempre privo; fu sempre delimitato dal consesso di una razza. Quel popolo crea sempre uno Stato negli Stati. È uno degli espedienti più geniali mai escogitati quello di spacciare per “religione” lo Stato ebraico e di assicurarsi così una tolleranza che l’ariano è sempre pronto a concedere alla confessione religiosa. Di fatto, la religione mosaica non è altro che una dottrina di conservazione della razza ebraica, che comprende quasi ogni ambito sociologico, politico ed economico. L’istinto d’autoconservazione della specie è la prima ragione per la formazione di comunità umane. Quindi lo Stato è un organismo nazionalpopolare e non un’organizzazione economica. Una differenza così grande, ma così incomprensibile agli “statisti” di oggi. Essi pensano di erigere persino uno Stato per via economica65, mentre, in realtà, non è altro che il risultato dell’azionamento delle doti insite nella volontà di autoconservazione della specie e della razza. Quelle doti sono sempre virtù eroiche, non certo l’egoismo bottegaio, poiché la conservazione dell’esistenza di una specie presuppone la disponibilità al sacrificio individuale. Ecco il senso del detto poetico “mercarsi la vita non sa, chi posta in pericolo non ha”66. Il sacrificio dell’esistenza personale è necessario per garantire la conservazione della specie. Quindi il presupposto essenziale per la formazione e per la conservazione di uno Stato è la presenza di un determinato senso di appartenenza basato sulla stessa natura o sulla stessa specie, così come la disponibilità a contribuirvi con ogni mezzo. Il senso di appartenenza condurrà i popoli stanziali alla formazione di virtù eroiche, i parassiti alla maligna ipocrisia e alla perfida crudeltà. In altre parole, quelle caratteristiche devono già essere innate per consentire l’esistenza di uno Stato formalmente così diverso. Ma la formazione di uno Stato avverrà sempre solo con l’impiego di quelle caratteristiche originarie. Nella lotta per l’autoconservazione saranno sopraffatti, cioè si estingueranno quei popoli dotati di minori virtù eroiche oppure incapaci di opporsi all’astuzia ipocrita dei parassiti. Anche qui non si tratta di scarsa intelligenza, ma di mancanza di determinazione e di coraggio, che si ammanta di sentimento umanitario. Il fatto che le doti in grado di formare e di conservare lo Stato siano legate assai poco all’economia, prova come la forza interna di uno Stato crolli rarissimamente insieme alla prosperità economica, mentre la seconda annunci spessissimo la rovina dello Stato. Se dovessimo attribuire la formazione di collettività umana alle forze o agli impulsi economici, il massimo sviluppo economico dovrebbe corrispondere alla massima potenza dello Stato e non il contrario. La convinzione nella forza statuale dell’economia è particolarmente incomprensibile in un paese che mostra storicamente l’esatto contrario. Proprio la Prussia dimostra in modo incontrovertibile che non sono le capacità materiali, ma le virtù ideali a contribuire alla formazione di uno Stato. L’economia può prosperare solo La tesi della via economica “pacifica” fu sostenuta nel dopoguerra non solo da grandi industriali come Hugo Stinnes, ma anche dai principali politici tedeschi. Vedi capitoli 15-II. 66 Citazione dal Campo di Wallenstein di Friedrich Schiller (1798). 65
130 sotto la sua egida, fin quando, con il tracollo delle virtù statali, non va in rovina anch’essa. Un fatto che oggi possiamo constatare in modo così deplorevole. Gli interessi materiali degli uomini prosperano al meglio all’ombra delle virtù eroiche. Ma non appena cercano di assumere la guida dell’esistenza, tali interessi ne distruggono il suo presupposto67. Ogniqualvolta in Germania ci fu una ripresa della politica di potenza, anche l’economia iniziò a sollevarsi. Viceversa, quando l’economia divenne l’unico contenuto dell’esistenza popolare e soffocò tutte le virtù ideali, lo Stato collassò e trascinò inevitabilmente in rovina anche l’economia. Le forze in grado di formare o conservare uno Stato sono la disponibilità e la volontà di sacrificio del singolo a favore collettività68. Ma che le due virtù abbiano ben poco a che fare con l’economia, lo dimostra il semplice fatto che l’uomo non si sacrifica mai per ragioni economiche, cioè non muore mai per gli affari, ma solo per le idee. Niente testimonia al meglio la superiorità psicologica dell’inglese nella comprensione dell’anima popolare se non i motivi addotti per la sua battaglia. Mentre noi lottavamo per il pane, l’Inghilterra lo faceva per la “libertà”; non solo per la propria, ma anche per quella delle piccole nazioni. Noi ridevamo di quell’insolenza oppure ci infastidiva, dimostrando così quanto fosse insulsa la nostra capacità politica prebellica. Nessuno comprendeva la natura della forza che trascina gli uomini a morire di propria volontà. Nel 1914 il popolo tedesco resistette finché pensò ancora di lottare per le idee. Non appena si mise a combattere solo per il pane quotidiano, le energie vennero meno. I nostri “statisti” intelligenti si stupirono di fronte al cambio di sentimento. Non avevano mai capito che un uomo evita la morte se lotta per un interesse economico, poiché la sua dipartita gli toglierebbe il gusto di godere della ricompensa. La preoccupazione per la salvezza dei propri figli rende eroica anche la madre più fragile. Solo la lotta per la conservazione della specie, del gregge o la difesa dello Stato spinge gli uomini di ogni tempo contro le lance nemiche. Bisogna accettare la seguente massima eternamente valida: uno Stato non fu mai fondato con mezzi economici pacifici, ma sorse sempre dagli istinti d’autoconservazione della specie, che si tratti di virtù eroiche o di astuta scaltrezza. Nel primo caso abbiamo gli Stati ariani di civiltà e di lavoro, nel secondo le colonie parassitarie ebraiche. Non appena l’economia sopravanza quegli istinti, essa determina l’assoggettamento o l’oppressione di un popolo o di uno Stato. La credenza prebellica di poter conquistare il mondo per via di una pacifica politica commerciale e coloniale, era un classico esempio della perdita di quelle virtù capaci di formare e di conservare uno Stato, in altre parole: forza, volontà e determinazione. La quietanza naturale fu la guerra mondiale e le sue conseguenze. A prima vista, quell’atteggiamento della nazione tedesca (perché era veramente generalizzato) poteva apparire un enigma insolubile. La Germania era un meraviglioso esempio di impero sorto sulla base di una pura politica di potenza. La Prussia, il 67
Hitler allude al fatto che la Prussia creò un grande esercito malgrado le risorse limitate a disposizione. Bibliografia: C. Clark, Iron Kingdom. The rise and downfall of Prussia, 1600-1947, Londra, Penguin Books, 2007. 68 Vedi capitolo 11-I.
131 nucleo del paese, sorse grazie all’eroismo radioso e non certo grazie a operazioni finanziarie o transazioni commerciali. L’Impero stesso fu la ricompensa più splendida a una classe dirigente basata sulla politica di potenza e sul coraggio militare. Come mai toccò proprio al popolo tedesco una tale malattia dell’istinto politico? Perché qui non si tratta di un singolo fenomeno, ma di una decadenza generalizzata che divampò con spaventosa rapidità, che corruppe il corpo popolare oppure corrose la nazione come ulcere venefiche. Sembrava quasi che una potenza misteriosa avesse introdotto un sempiterno flusso venefico nei vasi sanguigni più estremi di un corpo un tempo eroico, con l’obiettivo di determinare una paralisi progressiva della ragione sana, del naturale istinto di autoconservazione. Scorrendo migliaia di volte questi problemi, condizionato dalla mia posizione sulla politica di alleanza e sulla politica economica tedesca fra il 1912 e il 1914, io potei risolvere il mistero riferendomi unicamente a quella potenza che avevo già conosciuto a Vienna, seppur da un altro punto di vista: la dottrina e la visione del mondo marxiste e i suoi effetti organizzativi. Per la seconda volta in vita mia penetrai in quella dottrina distruttiva. Questa volta non ero più guidato dalle impressioni e dagli effetti del mio ambiente sociale, ma dall’osservazione degli eventi generali della vita politica. Approfondendo la letteratura di quel mondo teorico e riuscendo a comprenderne i possibili effetti, io confrontai il marxismo coi fenomeni e con gli eventi concreti che proponeva nella vita politica, culturale ed economica. Per la prima volta, io rivolsi la mia attenzione anche ai modi in cui sconfiggere quella peste planetaria. Studiai la legislazione eccezionale bismarckiana (le intenzioni, la lotta e gli esiti)69. Gradualmente acquisii una base così granitica per la mia convinzione che non fui più costretto a mutare alcunché nella mia visione delle cose. Esaminai scrupolosamente anche il rapporto fra marxismo ed ebraismo. Ma se da Vienna la Germania mi sembrava un colosso indistruttibile, a Monaco iniziarono a farsi strada in me alcuni dubbi. Discussi animatamente fra i miei conoscenti della politica estera tedesca, del modo incredibilmente avventato in cui si affrontava il tema fondamentale del marxismo, soprattutto in Germania. Non riuscivo a capire come si riuscisse a essere così ciechi di fronte a un pericolo, i cui effetti, nelle parole dei suoi stessi sostenitori, sarebbe stati così enormi. Già all’epoca avevo ammonito i miei conoscenti, come faccio oggi dappertutto, di fronte alla giaculatoria di quei vili smidollati: “Tanto non può succederci niente!” Una simile pestilenza aveva già distrutto un enorme impero70. La Germania doveva essere sottoposta alle leggi di tutte altre comunità umane? Nel 1913-14 avevo iniziato a esprimere in diversi circoli, che oggi appoggiano in parte il nostro movimento, la mia convinzione che l’avvenire della nazione tedesca fosse legato alla distruzione del marxismo. Nell’infausta politica di alleanze tedesca vidi solo uno degli effetti dal lavoro distruttivo compiuto da quella dottrina. La cosa più spaventosa era proprio che quel veleno corrodeva invisibilmente tutte le basi di una visione sana dello Stato e 69 70
Allusione alle Leggi antisocialiste bismarckiane in vigore dal 1878 al 1890. Allusione alla Russia.
132 dell’economia, senza che le persone colpite si rendessero conto di quanto la loro condotta e la loro volontà fossero il prodotto di una visione del mondo che loro rifiutavano categoricamente. Il declino interiore del popolo tedesco era già avviato da tempo, senza che gli uomini, come spesso succede nella vita, si fossero resi conto degli agenti distruttori della loro esistenza. Talvolta si cercava di curare la malattia, ma si confondevano i sintomi con l’agente patogeno. Dato che non si voleva o non si poteva conoscere il virus, la lotta contro il marxismo ebbe il valore dello sproloquio di un ciarlatano.
Approfondimenti didattici 1. Analisi retorica e stilistica
- Individua le principali figure retoriche; - Individua l’esistenza di fallacie retoriche; - Individua i principali “loci” e “topoi”; - Individua la presenza di stereotipi e pregiudizi.
2. Analisi storico-culturale
- Arte e vita: analizza l’evoluzione il binomio decadentista alla luce delle diverse posizioni politiche assunte dall’esteta armato alla vigilia della Prima guerra mondiale; - Il tema del controllo delle nascite: analizza l’evoluzione demografica europea alla luce delle scoperte mediche, della secolarizzazione della società e dell’emancipazione della donna; - Il colonialismo europeo: analizza il tema delle colonie di popolamento e quelle di sfruttamento nell’epoca dell’imperialismo, con particolare attenzione per il caso tedesco; - La Triplice Alleanza: analizza la genesi del patto militare difensivo alla luce degli interessi divergenti dei tre paesi contraenti; - Darwinismo sociale: analizza la genesi dell’evoluzionismo darwiniano e le sue diverse letture in ambito sociale, politico ed economico; - Economia e politica: analizza il rapporto fra economia e politica nell’epoca dell’imperialismo e, in special modo, il contrasto fra società tradizionale e società moderna alla luce della visione hitleriana della “politica di potenza”.
A. Gilardoni, Logica e argomentazione. Un prontuario, Milano, Mimesi, 2008.
Capitolo V. La Guerra mondiale
Sinossi 1. Genesi Il capitolo 5-I, anticipato sui giornali nella tarda primavera del 1925, conserva le bozze concettuali risalenti esattamente a un anno prima. Hitler aveva pensato di redigere un capitolo unico contenente la sua esperienza bellica e la propaganda, ma poi decise di dividerlo in due. Il capitolo si attiene alla bozza concettuale, salvo alcuni passaggi relativi all’ultimatum austriaco, al problema della responsabilità di guerra e al “battesimo di fuoco” dei volontari. I riferimenti biografici non sono molti, probabilmente perché Hitler temeva che alcuni suoi commilitoni del Reggimento List ancora in vita potessero smentire pubblicamente le sue affermazioni1. 2. Contenuto Il capitolo 5-I esordisce col dilemma “sombartiano”: commercianti o eroi? I giovani tedeschi desiderosi di “lasciare il segno” hanno finalmente la possibilità di agire. Hitler ripercorre a ritroso i conflitti bellici che avevano fatto “opinione” a inizio Novecento: la guerra anglo-boera e quella russogiapponese. Entrambi questi eventi avevano solleticato l’attenzione dei giovani proprio per la sproporzione del confronto (una potenza coloniale contro un gruppo di contadini nel primo caso, un paese sconfinato contro uno Stato quasi sconosciuto nel secondo). È anche il caso della Prima guerra mondiale? Qui Hitler ritorna a parlare del tema delle responsabilità di guerra. L’Austria ha fatto quello che doveva fare, non poteva tirarsi indietro (pena la rabbia dell’opinione pubblica). I socialisti tedeschi erano “pacifisti” a parole, ma da anni criticavano pesantemente la situazione della Russia zarista (sostenendo l’abbattimento del regime autocratico). La Germania, impegnata a “conservare la pace”, non è apparsa adeguatamente preparata al conflitto imminente. La “responsabilità della guerra” è in realtà di coloro che volevano porre fine all’insicurezza generale e volevano dimostrare nei fatti il loro spirito patriottico. Dopo questo excursus, Hitler descrive il suo arruolamento in Baviera, il breve addestramento e il raggiungimento del fronte insieme al Reggimento List. I primi entusiasmi, che i “benpensanti” a casa tentano in ogni modo di smorzare, lasciano spesso il posto alla maturazione sul campo. Le retrovie, invece di sostenere il fronte, tentano di minarlo. Non sono certo i lavoratori, “marxisti” solo fino al 1914. Sono in parte i parlamentari e i partiti. Ma lo sono soprattutto i “registi occulti”: gli ebrei. Se si fosse eliminata sul nascere l’idea con un’altra idea e con la forza fisica, probabilmente la guerra non sarebbe stata persa. Qui Hitler spiega il motivo per cui il nazionalsocialismo è – a suo giudizio – l’unica risposta possibile al marxismo-ebraismo: solo un’idea altrettanto potente e armata è in grado di sconfiggerne un’altra. L’oggettività borghese è inadeguata, così come i partiti di opinione che sottovalutano o disprezzano le masse. Ecco spiegato il mancato impegno politico del giovane decoratore austriaco e il 1
KA I, p. 441.
134 suo impegno militare. Il vuoto del 1914 sarebbe stato riempito solo alcuni anni dopo, quando la Germania si sarebbe resa conto della “malattia” che l’aveva ormai paralizzata. 3. Analisi Rileggendo le poche pagine dedicate all’arrivo nelle Fiandre sorge spontaneo il confronto con le descrizioni di Erich Maria Remarque nel suo celeberrimo romanzo pacifista Niente di nuovo sul fronte occidentale (1929), dove la guerra è descritta come un destino ineluttabile che spezzerà tutti i fili sottili degli innocenti protagonisti. Più simile è la descrizione di Ernst Jünger in La lotta come esperienza interiore (1922). Nel racconto hitleriano non c’è quotidianità. Non ci sono gesti di vicinanza. C’è solo il problema della coscienza: perché combattere? Perché non combattere? Anche qui c’è la paura di morire, di non tornare a casa, di non essere all’altezza del compito immane. Ma tutto sembra risolversi nella presa di coscienza del proprio dovere: combattere per la propria patria. Certo, è retorica bellicista, necessaria a sostenere una posizione politica ben precisa, a distinguere fra chi ha coraggio e chi non lo ha, fra chi guarda le cose in faccia e chi manda avanti gli altri, fra chi ha un “animo” e chi la “ragione”. Ma è proprio questo l’aspetto più importante: elaborare un discorso basato sui sentimenti e mostrarne la loro autenticità, unicità e superiorità. Non è retorica “vuota” (come alcuni potrebbero pensare) o “insensata” (cioè priva di un filo razionale-umanitario). È una retorica ben architettata, ben costruita e molto stringente, difficilmente intaccabile con le armi dei “dati” o dei buoni sentimenti, proprio perché parte di un discorso logico molto chiaro. La retorica del “dovere bellico” riposa su un “dato” ben preciso: l’esistenza di una malattia. Hitler dice chiaramente che molti volevano porre fine a un rinvio senza fine, a un’ansia che li attanagliava. I giovani “sognatori” di inizio Novecento (come lui), spinti in paesi lontani dai romanzi popolari di Karl May (incarnati nell’“ariano errante” Old Shatterhand), hanno voglia di dimostrare il loro valore. Sono unici, sono irripetibili, non sono una “serie”, non vogliono una vita borghese fatta di casa, di ufficio e di rispettabilità. Vedono i boeri (come gli indiani d’America) fronteggiare il colosso britannico. Vedono il piccolo Giappone sconfiggere l’enorme Impero russo. Vedono e si chiedono se avranno anche loro la possibilità di emergere. Ecco il problema: emergere. Uscire fuori dalla “malattia” dell’anonimato, della sterilità creativa, della “fine della storia”. Mentre la parte “sana” della nazione combatte per la sua esistenza (ben esemplificata nell’amletico dilemma sull’essere), la parte “insana” borghese e materialista cerca di “uccidere” i sentimenti. Il corpo tenta di agire, ma una parte vuole immobilizzarlo, “paralizzarlo” col veleno del dubbio, della pace, dell’amore. Un processo sommario nel 1914 avrebbe forse evitato la sconfitta: avrebbe ucciso i “traditori” ebrei e quindi permesso al corpo popolare tedesco di agire liberamente e di non “irrigidirsi” nella guerra di posizione. Tutto ciò non era possibile, ovviamente. Hitler apporta ulteriore “prove empiriche” al suo discorso logico, corroborando la sua tesi: la malattia non era estirpata, ma anzi stava compiendo il suo corso. Queste “prove” sono sentimentali, emotive, non si basano sulla “ragione borghese” dei “dati”, dell’oggettività. La malattia ha bisogno di un antidoto forte, un antidoto ideologico e violento. Niente palliativo, niente ambiguità: il veleno non aspetta. Borghesi e proletari si scannano sui giornali per ragioni economiche, dimostrandosi due facce della stessa medaglia. Mancava l’eroe “ariano” capace di guidare il suo popolo. I tempi non erano ancora maturi.
135 4. Parole-chiave Asburgo, Carattere nazionalpopolare, Competizione pacifica, Ebreo, Francesco Ferdinando, Guerra anglo-boera, Guerra russo-giapponese, Marxismo, Ordine e quiete, Prima guerra mondiale, Psiche della massa, Reggimento List, Rivoluzione del 1918, Socialdemocrazia, Visione del mondo. 5. Bibliografia essenziale - M. Alessi, Gli scrittori tedeschi e la Grande Guerra, Roma, Settimo Sigillo, 2001; - S. Bruendel, Volksgemeinschaft oder Volksstaat. Die “Ideen von 1914” und die Neuordnung Deutschlands im Ersten Weltkrieg, Berlino, Akademie Verlag, 2003; - A. Bullock, Hitler. Studio sulla tirannide, Milano, Res Gestae, 2014; - K. Burke, Die Rhetorik in Hitlers “Mein Kampf” und andere Essays zur Strategie der Überredung, Francoforte sul Meno, Suhrkamp, 1967; - D. Capozza, C. Volpato, Le intuizioni psicosociali di Hitler. Un’analisi del “Mein Kampf”, Bologna, Patron, 2004; - W. Carr, Hitler. Studio sul rapporto tra personalità e politica, Napoli, Liguori, 1985; - G. Corni, Hitler, Bologna, Il Mulino, 2007; - J. Düffer, J. Holl (ed.), Bereit zum Krieg. Kriegsmentalität im wilhelminischen Deutschland, 1890-1915, Gottinga, Vandenhoeck & Ruprecht, 1986; - M. Ferrari Zumbini, Le radici del male. L’antisemitismo in Germania da Bismarck a Hitler, Bologna, Il Mulino, 2001; - J. Fest, Hitler. Una biografia, traduzione di F. Saba Sardi, Milano, Garzanti 2005; - L. Herbst, Il carisma di Hitler. L’invenzione di un messia tedesco, traduzione di U. Gandini, Milano, Feltrinelli, 2011; - G. Hirschfeld et al. (ed.), Kriegserfahrungen. Studien zur Sozial- und Mentalitätsgeschichte des Ersten Weltkrieges, Essen, Klartext Verlag, 1997; - J. Hürter, G.E. Rusconi (ed.), L’entrata in guerra dell’Italia nel 1915, Bologna, Il Mulino, 2010; - A. Joachimsthaler, Hitler in München, 1908-1920, Francoforte sul Meno, Ullstein, 1992; - S.F. Kellerhoff, Il libro proibito di Hitler. Storia del Mein Kampf, Milano, Rizzoli, 2016; - I. Kershaw, Hitler, vol. 1: 1889-1936, Milano, Bompiani, 2003; - W.C. Langer, Psicanalisi di Hitler. Rapporto segreto del tempo di guerra, Milano, Garzanti, 1975; - M. van der Linden et al. (ed.), Kriegsbegeisterung und mentale Kriegsvorbereitung. Interdisziplinäre Studien, Berlino, Duncker & Humblot, 1991; - A. Lipp, Meinungslenkung im Krieg. Kriegserfahrungen deutscher Soldaten und ihre Deutung, 1914-1918, Gottinga, Vandenhoeck & Ruprecht, 2003; - P. Longerich, Hitler. Biographie, Monaco, Siedler Verlag, 2015; - W. Maser, Adolf Hitler, Roma, Ciarrapico, 1978; - G.L. Mosse, Le origini culturali del Terzo Reich, traduzione di F. Saba Sardi, Milano, Il Saggiatore, 2015; - H.-H. Müller, Der Krieg und die Schriftsteller. Der Kriegsroman der Weimarer Republik, Stoccarda, J.B. Metzler, 1986; - A. Musolff, Metaphor, nation and the Holocaust. The concept of the body politic, New York, Routledge, 2011; - O. Plöckinger, Geschichte eines Buches. Adolf Hitlers “Mein Kampf”, 1922-1945. Eine Veröffentlichung des Instituts für Zeitgeschichte, Monaco, Oldenbourg, 2011; - Id., Quellen und Dokumente zur Geschichte von “Mein Kampf”, 1924-1945, Stoccarda, Franz Steiner Verlag, 2016; - W. Pyta, Hitler. Der Künstler als Politiker und Feldherr. Eine Herrschaftsanalyse, Monaco, Siedler Verlag, 2015; - P.R. Range, La genesi del Mein Kampf. 1924: l’anno che cambiò la storia, Roma, Newton Compton, 2017; - F.J. Rash, The language of violence. Adolf Hitler’s “Mein Kampf”, New York, Peter Lang, 2006; - M. Rauchensteiner, Der Erste Weltkrieg und das Ende der Habsburgermonarchie, 1914-1918, Vienna, Böhlau, 2013; - R.G. Reuth, Hitler. Eine politische Biographie, Monaco, Piper, 2003; - Id., Hitlers Judenhass. Klischee und Wirchlikeit, Monaco, Piper Verlag, 2009; - D.J. Smith, Una mattina a Sarajevo: 28 giugno 1914, traduzione di R. Macuz Varrocchi, Gorizia, LEG, 2014;
136 - H. Steinhaus, Hitlers pädagogische Maximen. “Mein Kampf” und die Destruktion der Erziehung im Nationalsozialismus, Francoforte sul Meno, Peter Lang, 1981; - K. Theweleit, Fantasie virili, traduzione di G. Cospito, Milano, Il Saggiatore, 1997; - J. Toland, Adolf Hitler. The definitive biography, New York, Doubleday, 1976; - T. Schneider (ed.), Die Autoren und Bücher der deutschsprachigen Literatur zum Ersten Weltkrieg, 1914-1939, Gottinga, Vandenhoeck & Ruprecht, 2006; - B. Ulrich, B. Ziemann (ed.), Krieg im Frieden. Die umkämpfte Erinnerung an den Ersten Weltkrieg, Francoforte sul Meno, Fischer, 1997; - V. Ullrich, Adolf Hitler. Biographie, vol. 1: Die Jahre des Aufstiegs 1889-1939, Francoforte sul Meno, S. Fischer, 2013; - J. Verhey, Der “Geist von 1914” und die Erfindung der Volksgemeinschaft, Amburgo, HIS Verlag, 2000; - A. Viktine, “Mein Kampf”. Storia di un libro, traduzione di G. Zucca, Milano, Cairo, 2010; - T. Weber, Hitler’s First War. Adolf Hitler, the men of the List Regiment, and the First World war, Oxford, Oxford University Press, 2010; - J.F. Williams, Corporal Hitler and the Great War, 1914-1918. The List Regiment, Londra, F. Cass, 2005; - B. Zehnpfennig, Hitlers “Mein Kampf”. Eine Interpretation, Monaco, Fink, 2000; - R. Zitelmann, Hitler, Roma-Bari, Laterza, 1991.
Quando ero un piccolo diavoletto, mi rammaricavo molto di essere nato in un’epoca che avrebbe raccolto nel suo pantheon solo bottegai o funzionari statali. I flutti della storia sembravano essersi placati così tanto che l’avvenire pareva appartenere solo alla “competizione pacifica dei popoli”, cioè a un tacito imbroglio con l’esclusione del ricorso alla forza. Gli Stati andavano assomigliando sempre più ad aziende che tentavano di fregarsi a vicenda, che si strappavano clienti e contratti e che inscenavano innocui e fragorosi starnazzi. Questo processo non sembrava arrestarsi, anzi – secondo la vulgata generale – avrebbe dovuto trasformare tutto il mondo in un unico grande magazzino, nel cui atrio sarebbero stati ammassati i busti dei pescecani più scaltri e dei funzionari pubblici più innocui. I commercianti potevano essere inglesi, i funzionari pubblici i tedeschi; come gestori dovevano “sacrificarsi” gli ebrei, che, per loro stessa ammissione, non hanno mai nulla da guadagnarci, ma “pagano” sempre per gli altri. E parlano la maggior parte delle lingue. Perché non ero nato cent’anni prima? All’epoca delle guerre di liberazione, quando l’uomo valeva ancora qualcosa, anche senza una “bottega”!?2 Spesso pensavo con malinconia al mio tardivo viaggio terreno e vedevo nell’epoca imminente di “ordine e quiete” un’immeritata beffa del destino. Da ragazzo non ero “pacifista” e ogni tentativo educativo in tal senso era stato vano. La guerra anglo-boera scoppiò come un fulmine a ciel sereno3. Sbirciavo i quotidiani e divoravo i telegrammi e i resoconti. Ero felice di poter essere almeno testimone lontano di quell’eroica disfida.
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Possibile allusione alla prima strofa del Reiterlied (Canto dei cavalieri) di Friedrich Schiller (1797). Le guerre di liberazione sono quelle contro al Francia napoleonica del 1813-15 [KA, n. 4]. 3 La guerra anglo-boera del 1899-1902 vide contrapposti l’Impero britannico e le repubbliche boere sudafricane. Bibliografia: T. Pakenham, La guerra anglo-boera, traduzione di G. Pilone Colombo, Milano, Rizzoli, 1982; S. Bender, Der Burenkrieg und die deutschsprachige Presse. Wahrnehmung und Deutung zwischen Bureneuphorie und Anglophobie, 1899-1902, Paderborn, Schöningh, 2009.
137 La guerra russo-giapponese4 mi colse già più maturo, quindi con maggiore attenzione. Mi ero già schierato per motivi nazionali dalla parte dei giapponesi. Nella sconfitta russa scorgevo una disfatta dello slavismo austriaco. Passarono molti anni. Se da ragazzo mi sembrava una lenta e putrida cachessia, ora mi appariva la quiete prima della tempesta. Già nei miei anni viennesi stazionava sui Balcani quell’atmosfera rarefatta che annuncia solitamente l’uragano e che provoca talora un bagliore luminoso, che poi scompare rapidamente nella tenebra oscura. Poi scoppiò la guerra balcanica5, la prima folata di vento sull’Europa ormai inquieta. I mesi seguenti pesarono come un incubo; erano opprimenti come una calura tropicale: il presentimento della catastrofe incombente divenne quasi una nostalgia. Che il cielo desse il via al destino ineluttabile! Finalmente il primo lampo si abbatté sulla terra: si scatenò la tempesta e i tuoni celesti si mescolarono al rimbombo d’artiglieria della guerra mondiale6. Quando ci giunse a Monaco la notizia dell’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando (mi trovavo a casa e udii vagamente la dinamica degli eventi), temetti subito che i colpi fossero partiti dalle rivoltelle di studenti tedeschi che, indignati dell’azione slavizzante dell’erede al trono austriaco, volevano liberare il popolo tedesco dal nemico interno. Gli esiti di quel gesto erano facilmente prevedibili: una nuova ondata di persecuzioni, facilmente “giustificate” agli occhi del mondo intero. Non appena udii il nome del presunto attentatore e lessi che si trattava di un serbo, cominciò a insinuarsi in me un lieve timore sull’ironia del destino imperscrutabile. Il più grande slavofilo cadeva sotto i colpi di un fanatico slavista. Chi aveva avuto l’opportunità di studiare i rapporti austro-serbi degli ultimi anni, non poteva dubitare che si trattasse della goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso. È ingiusto biasimare a posteriori il governo viennese per la forma e per il contenuto dell’ultimatum consegnato alla Serbia7. Nessun’altra potenza al mondo avrebbe agito diversamente. L’Austria aveva al suo confine meridionale un nemico irriducibile che minacciava la monarchia a intervalli sempre più brevi e che non avrebbe mai mollato la presa finché non avesse sfasciato l’Impero danubiano. C’erano motivi fondati di credere che tutto ciò sarebbe avvenuto con la morte del vecchio imperatore. La monarchia, forse, non sarebbe più stata in grado di opporre una seria resistenza alle forze separatiste. Tutto lo Stato guardava con apprensione a Francesco Giuseppe, poiché la morte dell’antica incarnazione dell’Impero, agli occhi delle grandi Con la vittoria del 1905 il Giappone divenne la prima potenza dell’Asia orientale a scapito della Russia. Bibliografia: G. Jukes, La guerra russo-giapponese, 1904-1905, traduzione di M. Pascolat, Gorizia, LEG, 2014. 5 La Seconda Guerra balcanica avviata dalla Bulgaria contro la Serbia e la Grecia si concluse con una disfatta bulgara nel settembre 1913. Bibliografia: E. Ivetic, Le guerre balcaniche, Bologna, Il Mulino, 2016. 6 Lo stato d’animo descritto da Hitler (l’Augusterlebnis, cioè lo spirito di agosto) assomiglia molto al “radioso maggio” di dannunziana memoria. Bibliografia: R. Stöber, Vom “Augusterlebnis” zur “Novemberrevolution”. Öffentlichkeit zwischen Kriegsbegeisterung und Herbstdepression, in “Jahrbuch für Kommunikationsgeschichte”, XV, 2014, pp. 89-122; J. Ebert, Vom Augusat-erlebnis zur November-revolution. Briefe aus dem Weltkrieg, 1914-1919, Gottinga, Wallstein, 2014. 7 Il 23 luglio 1914 l’Austria-Ungheria inviò un ultimatum al governo serbo perché si assumesse la responsabilità dell’attentato e cessasse la propaganda antiasburgica. La Serbia, sostenuta dalla Russia e dalla Francia, rifiutò di accettare la condizione che i funzionari austriaci partecipassero alla commissione d’inchiesta sulla morte di Francesco Ferdinando. 4
138 masse, coincideva con quella dell’istituzione stessa. Anzi una delle mosse più astute della politica slava era stata quella dare l’impressione che lo Stato austriaco dovesse la sua esistenza alle sole doti straordinarie di quel monarca. Piaggeria assai apprezzata all’Hofburg, tanto più che corrispondeva ai meriti reali dell’imperatore. Ma la classe dirigente austriaca non individuava la spina nascosta nella lode sperticata. Non vedeva oppure fingeva di non vedere che quanto più la monarchia fosse dipesa dalle doti straordinarie del monarca “più saggio” di sempre (come si diceva allora), tanto più catastrofica sarebbe stata la situazione se un giorno il destino avesse bussato alla porta per cogliere il suo tributo. Era ancora immaginabile la vecchia Austria senza il suo vecchio imperatore? Non si sarebbe ripetuta la tragedia già capitata a Maria Teresa?8 No, si farebbe torto al governo viennese se gli si rimproverasse di non aver evitato il conflitto. La guerra non era evitabile, poteva tutt’al più essere rinviata di uno o due anni. L’unica maledizione della diplomazia tedesca e austriaca fu quella di non aver cercato di rimandare l’inevitabile resa dei conti, fin a dover combattere al momento più inopportuno. Di sicuro un ulteriore tentativo di salvare la pace avrebbe rinviato la guerra a un momento ancora peggiore. No, chi non voleva la guerra doveva almeno avere il coraggio di trarre le dovute conseguenze: abbandonare l’Austria. La guerra sarebbe comunque scoppiata, non più in forma di una lotta di tutti contro tutti, ma di una spartizione della monarchia asburgica. Bisognava solo decidere se parteciparvi o stare alla finestra, lasciando che il destino facesse il suo corso a mani vuote9. E proprio coloro che oggi maledicono più di tutti l’inizio della guerra e la giudicano con prudenza, erano quelli che contribuirono maggiormente a spingere in tale direzione. La socialdemocrazia aveva condotto da decenni la più canagliesca campagna guerrafondaia contro la Russia, mentre il Zentrum, per motivi religiosi, riteneva lo Stato austriaco il centro e il fulcro della politica tedesca10. Ora bisognava raccogliere i frutti di tale assurdità. Il corso degli eventi era inevitabile. La colpa del governo tedesco fu quella di aver perso l’attimo fuggente per l’attacco a sorpresa (intendeva conservare la pace), di essersi impelagato nell’alleanza asburgica per la “pace mondiale” e di essere diventato così il capro espiatorio della coalizione nemica, che al tentativo di “conservare la pace” oppose la determinatezza bellica. Se il governo viennese avesse dato all’ultimatum una forma diversa, più accomodante, non sarebbe cambiato nulla; tutt’al più sarebbe stato spazzato via dall’indignazione popolare. Agli occhi delle grandi masse, il tono dell’ultimatum non L’ascesa al trono d’Austria di Maria Teresa nel 1745 per via della Prammatica Sanzione (che aboliva la legge salica e consentiva la successione al trono anche per via femminile) causò lo scoppio della guerra di successione austriaca (1740-1748). 9 La tesi che l’Austria-Ungheria non avesse scelta nell’estate 1914 fu sostenuta da numerosi storici, politici e militari nell’epoca weimariana, tra cui Maximilian von Montgelas o Hans Delbrück [KA, n. 22]. 10 La Deutsche Zentrumspartei (Partito tedesco di centro, o semplicemente Zentrum), sorta nel 1870, fu un partito confessionale cattolico e uno dei principali partiti del Secondo Impero tedesco. Sostenne la collaborazione con la monarchia asburgica per motivi confessionali, anche per proseguire l’unificazione tedesca, includendo un’Austria de-slavizzata. Bibliografia: A. Linsenmann, M. Raasch (ed.), Die Zentrumspartei im Kaiserreich. Bilanz und Perspektiven, Münster, Aschendorff, 2015.
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139 era abbastanza forte, era poco brutale e risoluto. Chi oggi tenta di negarlo, o è una zucca vuota smemorata oppure un autentico mentitore. La guerra del 1914 non fu imposta a nessuno, quant’è vero Iddio, ma fu profondamente desiderata da tutto il popolo. Si voleva porre fine a una condizione d’insicurezza generale. Solo così si capisce perché oltre due milioni di uomini e giovani tedeschi accorsero volontariamente alle armi, pronti a difendere la bandiera fino all’ultima goccia del loro sangue11. Quei frangenti mi sembrarono una vera liberazione dalle fastidiose sensazioni della mia giovinezza. Non mi vergogno di dire oggi che allora, immobilizzato dall’entusiasmo burrascoso, caddi sulle ginocchia e ringraziai con tutto il cuore il cielo di avermi concesso la fortuna di vivere quei momenti12. Era scoppiata una lotta per la liberazione dalle dimensioni sconosciute agli occhi del mondo. Perché, non appena il destino fece il suo corso, anche le grandi masse si convinsero che non si trattava della Serbia o dell’Austria, ma dell’essere o non essere13 della nazione tedesca. Per la prima volta dopo molti anni, il popolo presagiva il suo futuro. All’inizio dell’immane confronto, l’ebbrezza dell’entusiasmo caloroso fu necessariamente sfumata. La consapevolezza dell’evento trasformò la sollevazione nazionale in qualcosa di più che un semplice fuoco di paglia. Ciò era tanto più necessario, dato che all’epoca nessuno si era reso conto della possibile durata del conflitto. Tutti sognavano di tornare a casa entro l’inverno e di proseguire il loro lavoro in santa pace. L’uomo spera e crede ciò che desidera. La stragrande maggioranza delle persone non tollerava più la perenne incertezza. Era ovvio, quindi, che non si credesse più a una conciliazione pacifica del confitto austro-serbo e si sperasse in un confronto finale. Io facevo parte di quei milioni di persone. Non appena seppi dell’attentato, feci due considerazioni dentro di me: la guerra sarebbe stata inevitabile; lo Stato asburgico sarebbe stato costretto a rispettare l’alleanza. Temevo soprattutto la possibilità che la Germania, proprio a causa dell’alleanza, potesse trovarsi in guerra senza che l’Austria avesse motivo immediato di aiutarla e che quindi non trovasse la forza di decidersi a seguire l’alleato, per ragioni di politica interna. La maggioranza slava dell’Impero avrebbe iniziato a sabotare l’ingresso in guerra e avrebbe preferito ridurre in macerie tutto lo Stato piuttosto che fornire manforte all’alleato germanico. Ma il pericolo fu scongiurato. Il vecchio Stato doveva combattere, che lo volesse o meno. La mia posizione sul conflitto non era affatto semplice e chiara. L’Austria non combatteva per ottenere soddisfazione dalla Serbia, mentre per la Germania si trattava della propria esistenza, dell’essere o non essere della nazione tedesca, della libertà e del suo avvenire. L’opera bismarckiana andava distrutta. Ciò che i nostri padri avevano
11 Il numero dei volontari si aggirò intorno a centottantamila unità. Il motivo non era solo l’entusiasmo, ma anche il riconoscimento sociale e le prospettive di assicurazione sociale ed economica. Bibliografia: W. Wette (ed.), Der Krieg des kleinen Mannes. Eine Militärgeschichte von unten, Monaco, Piper, 1992. 12 Il 2 agosto, il giorno dopo la dichiarazione di guerra tedesca contro la Russia, un gruppo di persone entusiaste si radunò presso la Feldherrnhalle di Monaco. Hitler sarebbe stato tra questi [KA, n. 29]. 13 Allusione all’Amleto (atto III, scena 1).
140 conquistato col sangue eroico nelle battaglie da Wissenburg a Sedan14, la nuova Germania doveva riguadagnarlo sul campo. Se la guerra si fosse conclusa vittoriosamente, il nostro popolo sarebbe entrato nel gotha delle grandi potenze mondiali e l’Impero tedesco avrebbe potuto affermarsi come un’oasi di pace, senza dover ridurre il pane quotidiano ai suoi figli per amore della pace. All’epoca mi ero augurato spesso di poter mostrare almeno una volta coi fatti la bontà del mio entusiasmo nazionale. Mi sembrava quasi un peccato gridare urrà senza averne alcun diritto. Chi poteva farlo senza aver compreso almeno una volta le conseguenze di quell’espressione? Chi poteva farlo senza che la mano inesorabile del destino iniziasse soppesare la veridicità e la presenza di tale convinzione? Come per altri milioni di persone, anche il mio cuore traboccò di felicità alla possibilità di liberarmi di quel senso di paralisi. Avevo così spesso cantato e urlato a squarciagola Deutschland über alles15 che mi sembrava una grazia tardiva la possibilità di testimoniare davanti al tribunale divino la veridicità del mio sentimento. Perché ero certo che, in caso di guerra (ormai inevitabile), avrei comunque abbandonato i libri. Ma sapevo anche che la mia voce interiore avrebbe indicato il mio posto. Innanzitutto avevo abbandonato l’Austria per motivi politici16. Ovviamente, quando scoppiò la guerra dovetti tener conto del mio sentimento antiaustriaco. Non volevo combattere per gli Asburgo, ma ero pronto a morire per il mio popolo e per l’Impero che lo incarnava. Il 3 agosto inviai a Sua Maestà Ludovico III17 la richiesta urgente di arruolarmi in un reggimento bavarese. La cancelleria del gabinetto era sicuramente molto impegnata in quei giorni. La mia gioia fu quindi enorme quando ottenni quello stesso giorno la risposta alla mia richiesta. Quando aprii la missiva con le mani tremanti e lessi l’autorizzazione e l’invito a presentarmi a un reggimento bavarese, il mio giubilo e la mia riconoscenza furono enormi. Pochi giorni dopo indossai la divisa che mi sarei tolto solo sei anni dopo18. Come per ogni tedesco, anche per me iniziò la fase più indimenticabile e più importante dell’esistenza terrena. Di fronte a quegli avvenimenti, tutte le cose passate sembravano irrilevanti. Ripenso con fiera malinconia a quei giorni (ricorre oggi il decimo anniversario), ritorno alle settimane iniziali della lotta eroica del nostro popolo, cui il destino mi concesse la grazia di partecipare. Quando ieri ho ripensato a quei giorni, mi sono rivisto in divisa fra i miei amati commilitoni, poi durante la prima marcia e le prime esercitazioni, sino al momento della partenza per il fronte. 14
A Wissenburg (Alsazia) ci fu il primo scontro franco-prussiano il 4 agosto 1870, a Sedan (ChampagneArdenne) quello decisivo il 1º settembre. 15 Allusione al Deutschlandlied (inno nazionale tedesco). Vedi capitolo 7-II. 16 Il trasferimento a Monaco si doveva non solo all’amore per l’arte e per l’architettura, ma anche alla possibilità di evitare la leve militare austriaca e alla vicinanza con i suoi luoghi natii [KA, n. 39]. 17 Ludovico III di Baviera (1845-1921), principe reggente del cugino Ottone I nel 1912-13 e ultimo re di Baviera dal 1913 al 1918. 18 L’affermazione hitleriana è poco credibile. La cancelleria del gabinetto non aveva la facoltà di accettare i volontari stranieri, tutt’al più il ministero della guerra. Hitler era ancora cittadino austriaco. Anche la tempistica è alquanto improbabile. Non esiste alcuna prova della richiesta urgente. Hitler giunse al battaglione di riserva del II Reggimento di fanteria il 16 agosto, due settimane dopo l’autorizzazione della sua richiesta urgente [KA, n. 41].
141 Una sola cosa mi preoccupava all’epoca, a me come agli altri: saremmo giunti al fronte troppo tardi? Solo questo mi angustiava. Così, dietro alla gioia per ogni azione eroica vittoriosa si celava una piccola lacrima di amarezza: mi sembrava che ogni successo mettesse a rischio la nostra partenza19.
Figura 1 Hitler appare giubilante alla Feldherrnhalle di Monaco il 2 agosto 1914 [fonte: welt.de]20
Giunse finalmente il giorno in cui lasciammo Monaco per adempiere il nostro dovere21. Vidi per la prima volta il Reno, costeggiando le onde silenziose della sua riva occidentale, per proteggere dall’avidità del vecchio nemico il fiume tedesco per eccellenza22. Non appena i miti raggi del sole fecero brillare il monumento del Nierderwald23 attraverso la coltre sottile della nebbia mattutina, l’antica guardia del Reno24 rumoreggiò attraverso il lunghissimo convoglio ferroviario. Il mio petto stava per scoppiare. E poi, alla fine, l’umida e fredda notte delle Fiandre25, che noi attraversammo con una marcia silenziosa. Quando la luce mattutina iniziò a trapassare le nebbie, un saluto 19
La conquista di Liegi e Bruxelles, nonché la battaglia di Lorena (20-22 agosto), sembrò presagire una rapida vittoria tedesca. Le vittorie di Metz da parte della VI Armata guidata dal principe bavarese Rupprecht suscitarono molta euforia a Monaco. 20 L’autenticità della foto di Henrich Hoffmann è stata seriamente messa in discussione negli ultimi anni. 21 Il reggimento di Hitler lasciò Monaco con una parata l’8 ottobre 1914. Dopo dieci giorni di esercitazioni presso Augusta, il reggimento giunse sul fronte di guerra [KA, n. 45]. 22 Allusione alla Francia. Vedi capitolo 13-II. 23 Monumento di Rüdesheim sul Reno (1871), a ricordo della fondazione del Secondo Impero. 24 Die Wacht am Rhein (La guardia al Reno, 1840) di Max Schneckenburger (1819-1849, musicata nel 1854 da Carl Wilhelm (1815-1873), fu il canto più popolare durante la guerra franco-prussiana e fu l’inno ufficioso della Germania imperiale. 25 A fine ottobre 1914 Hitler partecipò agli scontri di Gheluvelt e Wytschaete durante la prima battaglia delle Fiandre (Ypern).
142 metallico sfrecciò sopra le nostre teste e le piccole pallottole scoppiarono tra le nostre file, scuotendo il terreno umido. Non appena le piccole nuvole si diradarono, duecento gole rimbombarono il primo urrà di fronte al primo messaggero di morte. Poi tutti iniziarono a scoppiettare e a rimbombare, a cantare e a urlare, e con occhi febbrili ognuno si trascinava in avanti, sempre più velocemente, finendo per lottare corpo a corpo nei campi di rape e di rose canine. In lontananza, i suoni di un Lied giunsero ai nostri orecchi, iniziarono ad avvicinarsi sempre di più, rimbalzavano di compagnia in compagnia. Proprio dove la morte entrava indaffarata nelle nostre file, intonavamo Deutschland, Deutschland über alles, über alles in der Welt!
Figura 2 Hitler (a destra) con alcuni commilitoni del Reggimento List nelle Fiandre (1914) [fonte: dailymail.co.uk]
Tornammo indietro dopo quattro giorni. Il passo di marcia era cambiato: i ragazzi di sedici anni sembravano uomini. I volontari del Reggimento List26 non avevano forse imparato a combattere in modo corretto, ma sapevano morire come vecchi soldati. Le cose proseguirono così anno dopo anno. Al posto del romanticismo battagliero subentrò il terrore. L’entusiasmo andò raffreddandosi e il giubilo caloroso fu soffocato dalla paura di morire. Prima o poi, ognuno di noi dovette combattere tra l’istinto d’autoconservazione e il richiamo del dovere. Quando la morte era a caccia di trofei, un che di imponderabile cercava di rivoltarsi, si sforzava di apparire ragionevole di fronte al corpo debole. Era solo la vigliaccheria che cercava di irretire il singolo sotto diverse spoglie. Si levavano un pesante dolore e un avvertimento: contava solo il residuo di coscienza dentro ognuno di noi. Ma quanto più aumentava il richiamo alla 26
Il XVI Reggimento di fanteria riservista reale bavarese era chiamato List per via del suo comandante (il colonnello Julius List). Il 12 dicembre 1918 fu sciolto. Hitler apparteneva inizialmente alla I Compagnia del I Battaglione. A fine anno 1918 fece domanda di trasferimento allo Stato Maggiore del reggimento, dove, a causa delle sue condizioni di salute, rimase sino al termine della guerra.
143 prudenza, tanto più si consolidavano la resistenza e la tenacia, fino a quando il senso del dovere non finiva per prevalere dopo un lungo conflitto interiore. Già nell’inverno del 1915-16 la mia battaglia fu vinta: la volontà ebbe la meglio. Se i primi giorni mi gettavo nella mischia con gioia e con entusiasmo, ora lo facevo con serenità e con determinazione. Quello spirito era diventato ormai qualcosa di duraturo. Solo ora il destino avrebbe potuto pormi di fronte alla prova finale, senza farmi sragionare o esaurire. Ero ormai diventato un vecchio soldato. Ma la stessa trasformazione era avvenuta in tutto l’esercito, che era diventato vecchio e forte grazie alle continue battaglie. Ciò che non resisteva all’assalto, si spezzava. Bisognava giudicare il nostro esercito solo dopo due o tre anni, nei quali si era gettato di battaglia in battaglia, fronteggiando sempre un nemico superiore per numero e per armamento, patendo la fame e sopportando ogni privazione. Bisognava valutare la qualità del nostro esercito. Passino pure i millenni, ma giammai si potrà dire e parlare dell’eroismo senza menzionare l’esercito tedesco della guerra mondiale. Poi dal velo del passato si scorgerà la fronte tenace dell’elmetto grigio, che non vacilla e non arretra mai, un vero monumento all’immortalità. Finché vivranno, i tedeschi ricorderanno quei figli del loro popolo27. All’epoca ero un soldato e non volevo fare politica. Non era il momento opportuno. Nutro tuttora la convinzione che l’ultimo bracciante abbia fornito alla patria un servizio migliore rispetto al primo “parlamentare”. Odiavo quei chiacchieroni soprattutto allora, poiché ogni uomo degno di questo nome urla in faccia al nemico ciò che pensa, oppure si zittisce e compie silenziosamente il proprio dovere. Già, odiavo quei “politici” e, se fosse dipeso da me, avrei subito formato un battaglione di spalatori parlamentari28. Lì avrebbero chiacchierato quanto volevano, senza infastidire o nuocere alle persone perbene. Allora non volevo saperne di politica. Prendevo posizione solo su certi fenomeni che riguardavano la nazione, specialmente i soldati. Due cose mi infastidivano particolarmente e le ritenevo deleterie. Già dopo le prime notizie vittoriose, una certa stampa iniziò a lasciar cadere lentamente – senza che molti inizialmente lo capissero – alcune gocce di assenzio sull’entusiasmo generale. Tutto ciò mascherato da una certa benevolenza, se non da una certa apprensione. Si nutrivano dubbi circa l’utilità di festeggiare esageratamente i successi. Si temeva che quell’entusiasmo non si addicesse a un grande paese: il valore e il coraggio dei soldati tedeschi sarebbero qualità così ovvie che non bisognerebbe farsi prendere da sconsiderati eccessi per rispetto dei paesi stranieri, che preferiscono una forma tranquilla e dignitosa di gioia. Infine noi tedeschi non dovevamo dimenticarci che la guerra non era il nostro obiettivo, che quindi non dovevamo vergognarci di 27
Curiosamente Hitler non cita le sue onorificenze belliche, non tanto la Croce di ferro di seconda classe (relativamente comune), ma quella di prima classe ottenuta il 4 agosto 1918, che fu assegnata solo ad altri 472 soldati ed era generalmente un riconoscimento riservato agli ufficiali e ai sottoufficiali [KA, n. 57]. 28 Riferimento al battaglione di spalatori, proposto alla costruzione e alla riparazione delle trincee e dei rifugi nelle retrovie. In questo battaglione erano utilizzate le leve fisicamente meno resistenti o politicamente meno affidabili (Liebknecht, Ossietzy, Tucholsky o Zweig) [KA, n. 58].
144 confessare apertamente che avremmo sempre contribuito alla rappacificazione dell’umanità. Quindi non sarebbe saggio macchiare le azioni dell’esercito con urla troppo sguaiate, poiché il resto del mondo non comprenderebbe tali smancerie. Nulla è più meraviglioso della discrezione con cui un vero eroe dimentica silenziosamente le proprie gesta. Tutto si riduce a questo. Invece di afferrare per le orecchie un farabutto e di appenderlo a un palo della luce, affinché la nazione non offendesse il senso estetico del pennivendolo, alcuni iniziarono a esortare contro quel genere “improprio” di giubilo. Non avevano la più pallida idea che l’entusiasmo, una volta smorzato, non sarebbe stato risuscitato a comando. Si tratta di ebbrezza e così si conserverà. Come si poteva continuare una lotta che, a giudizio umano, avrebbe richiesto enormi sforzi alle doti spirituali della nazione? Conoscevo sin troppo bene la psiche della massa29 per non sapere che la raffinatezza “estetica”30 non avrebbe alimentato la fiamma necessaria a mantenere il ferro caldo. A mio avviso era folle che non si facesse nulla per non accrescere la passione. Non riuscivo a capire perché si tentasse di smorzare l’entusiasmo della gente. In secondo luogo ero infastidito dal modo in cui si affrontava il marxismo. Ciò dimostrava ai miei occhi che non si aveva la più pallida idea di cosa fosse quella pestilenza. Si credeva seriamente di aver compreso e contenuto il marxismo rassicurando di non conoscere alcun partito31. Che non si tratti di un partito, ma di una dottrina che porterà alla distruzione di tutta l’umanità, non lo si capiva tanto dai banchi delle università ebraizzate32, quanto fra i nostri saccenti alti funzionari, che reputavano inutile afferrare qualche libro per imparare qualcosa che non facesse parte del curricolo della loro scuola superiore. La trasformazione più violenta non lascia alcun segno in quelle “teste”. Ragion per cui anche le istituzioni statali arrancano sempre dietro a quelle private. Per loro, quant’è vero iddio, vale sempre il detto popolare: il contadino non mangia quello che non conosce. Le eccezioni confermano la regola. Era una grande assurdità identificare i lavoratori tedeschi col marxismo nell’agosto 1914. Il lavoratore tedesco si era liberato in quelle ore dall’abbraccio dell’epidemia velenosa, perché altrimenti non sarebbe mai più riuscito a scendere in battaglia. Molti erano così sciocchi da ritenere che il marxismo si sarebbe “nazionalizzato”. Un colpo di genio che dimostra ancora una volta come, in quei lunghi anni, nessun alto rappresentante delle istituzioni abbia mai voluto studiare a fondo quella dottrina, perché altrimenti non avrebbero commesso un errore del genere.
Sulla visione hitleriani della “massa” vedi capitoli 2-I, 6-I e 4-II. Sulla visione negativa di “estetica” negli autori nazionalpopolari vedi capitolo 6-I. 31 Possibile allusione alla Balkonrede (discorso dal balcone) di Guglielmo II del I agosto 1914: non conosco partiti o confessioni, ma solo fratelli tedeschi. 32 In realtà, nel 1910 solo il 2,5% degli impiegati tedeschi erano di origine ebraica, mentre fra i docenti privati circa il 12%. Gli studenti ebrei erano l’1% circa dell’intera popolazione [KA, n. 68]. 29
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145 Il marxismo, il cui scopo finale resta sempre l’annientamento di tutti gli Stati nazionali non ebraici33, si stupì del fatto che, nel luglio 1914, la classe lavoratrice irretita si destasse per mettersi al servizio della patria. In pochi giorni tutta la foschia e l’imbroglio dell’infame traditore del popolo si erano diradati. La marmaglia ebraica restò improvvisamente sola e abbandonata, come se non ci fosse più traccia alcuna dell’assurdità e della follia instillate nelle masse per sessant’anni. Un brutto momento per i traditori della classe lavoratrice del popolo tedesco. Ma non appena i capi riconobbero il pericolo imminente, indossarono il mantello della menzogna e finsero sfacciatamente la sollevazione nazionale. Quello sarebbe stato il momento giusto per intervenire contro la cooperativa fraudolenta degli avvelenatori del popolo. Essi andavano processati all’istante, ignorando gli schiamazzi o, ancor meglio, ogni lamentela. Nell’agosto 1914 gli intrallazzi della solidarietà internazionalista erano spariti di colpo dalle teste della classe lavoratrice tedesca. Al loro posto, poche settimane dopo, gli shrapnel americani gettarono i benefici della fratellanza sugli elmi delle colonne in marcia34. Un governo preoccupato avrebbe dovuto sterminare senza pietà gli aizzatori del carattere nazionalpopolare. Se al fronte cadevano i migliori, a casa si potevano almeno sterminare i parassiti. Invece Sua Maestà il Kaiser allungò la mano verso i vecchi criminali e concesse ai perfidi traditori il controllo interno della nazione. Il serpente poteva continuare a strisciare, più prudente di prima, ma in modo ancor più pericoloso. Mentre le persone perbene sognavano una tregua nel confronto parlamentare, i criminali spergiuri organizzavano la Rivoluzione. Fui molto deluso del fatto che all’epoca si ricorresse a un palliativo. Non avevo creduto che la conclusione sarebbe stata così orrenda. Che fare? Bisognava imprigionare i capi di quel movimento, processarli e levarseli di torno, ricorrendo a ogni mezzo militare per annientare definitivamente quella pestilenza. I partiti andavano sciolti, il Reichstag, se necessario, riportato alla ragione con le baionette, oppure chiuso all’istante. Se oggi la Repubblica ha la facoltà di sciogliere i partiti35, all’epoca quel mezzo era più necessario che mai. Era in gioco l’essere o non essere di un popolo intero! Ma chiediamoci: le idee si possono annientare con la spada? Si possono fronteggiare le “visioni del mondo”36 col semplice ricorso alla forza bruta? Ho esaminato più volte questo problema. Sulla base dell’esperienza storica, specialmente dei casi religiosi, possiamo affermare che i pensieri e le idee, così come i movimenti dotati di chiari principî spirituali (falsi o veri che siano), vanno stroncati in un preciso momento del loro sviluppo con uno strumento di potere tecnico, se le armi
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Sul mito della congiura mondiale ebraica vedi capitolo 2-I. Gli shrapnel erano un proiettile per artiglieria creato a fine Settecento dall’omonimo inventore inglese. 35 Allusione al Republikschutzgesetz (Legge per la difesa della Repubblica), approvato il 21 luglio 1922 sotto il governo del cattolico Joseph Wirth come reazione all’attentato contro Scheidemann e all’assassinio di Rathenau di fine giugno. La legge avallò la messa fuori legge dei nazisti e dei comunisti nel novembre 1923. Il provvedimento, rinnovato il 25 marzo 1930, fu abolito nel 1932. 36 Sul concetto di Weltanschauung (visione del mondo) vedi capitolo 2-I.
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146 fisiche sono anche portatrici di un nuovo pensiero incendiario, di un’idea o di una visione del mondo. Il ricorso alla forza bruta soltanto, priva del presupposto di una forza motrice, non può mai condurre alla distruzione di un’idea o impedirne la diffusione, salvo eliminarne il sostenitore o distruggerne la tradizione. Ma questo comporterebbe l’esclusione di uno Stato dal gotha delle grandi potenze a tempo indeterminato, se non per sempre, perché il sacrificio di sangue colpirebbe generalmente la parte migliore di un carattere nazionalpopolare. Ogni persecuzione priva di un presupposto spirituale appare moralmente infondata e suscita la protesta di settori importanti della popolazione, che poi si appropria del contenuto intellettuale del movimento ingiustamente perseguitato. Ma questa è spesso una reazione spontanea contro ogni tentativo di prendere a manganellate un’idea. Quindi, all’aumentare della persecuzione aumenta anche il numero dei sostenitori interni dell’idea. La distruzione continua della nuova dottrina comporterà un dispendio di energie tale da sottrarre al popolo o allo Stato tutto il sangue degno di valore. Ma la natura si vendicherà, dando vita a una pulizia “interna”, a spese dell’impotenza generale. La persecuzione sarà quindi vana se la dottrina avversaria si sarà estesa oltre una piccola cerchia di adepti. Anche qui, come in ogni fase di maturazione, l’infanzia è maggiormente esposta alla possibile distruzione, mentre, con l’andare degli anni, aumenta la resistenza dell’organismo, che cede nuovamente il posto alla debolezza con l’approssimarsi della vecchia, in forme e per ragioni differenti. Ogni tentativo di annientare una dottrina o i suoi effetti organizzativi con la pura violenza (in assenza di fondamenta intellettuali), è destinato a fallire. Anzi, non di rado conduce al risultato opposto. Eccone il motivo. Il vero presupposto per il ricorso alla lotta armata resta sempre la perseveranza. In altre parole solo il continuo e regolare ricorso alla repressione di una dottrina permette di conseguire il proprio obiettivo. Ma non appena l’esitazione è scambiata per indulgenza, non solo la dottrina perseguitata rialzerà il capo, ma sarà addirittura in grado di valorizzare le persecuzioni, attirando nuovi adepti, dopo la fine dell’ondata repressiva, grazie all’indignazione suscitata dalla sofferenza patita. I sostenitori già presenti si attaccheranno all’ideale con maggiore ostinazione e con odio ancor più profondo rispetto al passato. I rinnegati cercheranno di ritornare alle origini una volta scampato il pericolo. Solo il ricorso continuo e costante alla forza è il vero presupposto del successo. La perseveranza, però, è l’esito di una convinzione intellettuale ben precisa. La forza che non attecchisca su un terreno intellettuale solido, sarà sempre vacillante e insicura. Manca della stabilità fornita da una fanatica visione del mondo. Essa è anche il frutto dell’energia e della brutale determinazione di un singolo, dipende quindi dalla personalità, dal carattere e della forza. Ma c’è dell’altro. Ogni visione del mondo, politica o religiosa che sia (il confine è spesso labile), non lotta tanto per distruggere il mondo ideale avversario, quanto per realizzare il proprio. Quindi la sua battaglia è più un attacco che una difesa. Inoltre la definizione dell’obiettivo rappresenta un vantaggio, poiché lo scopo consiste nella vittoria della propria idea, mentre, viceversa, è difficile da stabilire quando sia stato raggiunto lo scopo negativo di una dottrina avversaria. Perciò l’attacco della visione
147 del mondo deve essere più ponderato e superiore alla sua difesa. Come peraltro, in generale, la decisione spetta sempre all’attacco e non alla difesa. La lotta contro una potenza intellettuale col ricorso alla forza è difensiva, finché la spada non si presenta come portatrice, annunciatrice ed emanatrice di una nuova dottrina intellettuale. In sintesi possiamo dire che ogni tentativo di combattere una visione del mondo con gli strumenti di potere è destinato a fallire se la lotta non assume la forma di attacco a favore di una nuova visione delle cose. Solo nella lotta fra due visioni del mondo, l’arma della violenza brutale, impiegata in modo insistente e implacabile, può stabilire il successo della parte che la utilizza. Perciò la lotta contro il marxismo è stata finora fallimentare. Per lo stesso motivo fallì e doveva fallire la legislazione antisocialista bismarckiana37. Mancava la piattaforma di una visione del mondo, la cui promozione richiedeva il ricorso alla lotta. Solo la proverbiale saggezza degli alti funzionari ministeriali riesce a credere che le balle dell’“autorità statale” oppure dell’“ordine e quiete” possano essere il fondamento per promuovere spiritualmente una lotta per la vita e per la morte. La mancanza di un autentico alfiere intellettuale della lotta antisocialista indusse Bismarck a lasciare la realizzazione della legislazione antisocialista alla discrezione e alla volontà di quell’istituzione che era il prodotto della visione marxista. Il cancelliere di ferro fece il lupo pecoraio consegnando il destino della sua lotta antimarxista alla benevolenza della democrazia borghese. Ecco l’esito necessario in mancanza di una seria visione del mondo dotata di entusiastica volontà conquistatrice da contrapporre al marxismo: una cocente delusione. Ma le condizioni erano le stesse all’inizio e durante la guerra mondiale? Purtroppo no. Quanto più esaminavo, all’epoca, il possibile cambiamento della posizione governativa verso la socialdemocrazia, attuale personificazione del marxismo, tanto più ammettevo l’assenza di un sostituto adeguato. Cosa avremmo dato alle masse una volta piegata la socialdemocrazia? Non esisteva un movimento in grado di attrarre il gregge di lavoratori privi di una guida. È assurdo e stupido pensare che il fanatico internazionalista classista farà istantaneamente il suo ingresso in un partito borghese, cioè in una nuova organizzazione di classe. Per quanto siano organizzazioni sgradite, è innegabile che i politici borghesi ritengano la divisione classista altrettanto ovvia, purché agisca politicamente a loro vantaggio. Negare questo fatto dimostra solo l’insolenza e la stupidità del mentitore. Bisogna evitare di considerare la massa più stupida di quanto non lo sia. In politica, il sentimento è spesso più giusto della ragione38. Ma l’idea che l’inesattezza del sentimento della massa dipenda solo dallo stupido atteggiamento internazionalista, può essere facilmente confutata dal semplice indizio che la democrazia pacifista non è meno folle e che il suo sostenitore proviene quasi esclusivamente dalla borghesia. Finché milioni di borghesi adoreranno quotidianamente la loro stampa democratica ebraica, è molto difficile per quei signori burlarsi della stupidità del “compagno” che 37
Una volta abolita la legislazione bismarckiana antisocialista nel 1890, la socialdemocrazia tedesca ottenne il 20% dei suffragi alle prime elezioni parlamentari, sino a raggiungere quasi il 35% nel 1912. 38 Sul confronto tra “ragione” e “sentimento” vedi capitolo 4-I.
148 finisce per divorare la stessa spazzatura, per quanto in un formato editoriale differente. In entrambi i casi l’artefice è ebreo. Bisogna stare molto attenti a vedere le cose per quelle che sono. Il fatto che la lotta di classe non riguardi i problemi spirituali, come si vorrebbe far credere specialmente prima delle elezioni, è innegabile. La spocchia di larga parte del nostro popolo, così come la sottovalutazione dell’artigiano, è un fenomeno che non deriva dalla fantasia di un sonnambulo. È sintomo generale della grettezza spirituale della nostra intellighenzia il fatto non capire di non poter impedire l’emersione di una peste come il marxismo e, a maggior ragione, di non poter più recuperare il terreno perduto. I partiti “borghesi”, come amano chiamarsi, non riusciranno più a calamitare le masse operaie verso di loro, poiché si fronteggiano due mondi, separati in parte naturalmente, in parte artificialmente, che si possono conservare solo nella lotta reciproca. Ma vincerà solo quello più giovane, cioè il marxismo. In effetti, nel 1914 era ipotizzabile una lotta contro la socialdemocrazia, solo che era molto dubbio se lo stato di cose si sarebbe conservato in mancanza di un sostituto pratico. C’era un gran vuoto. La pensavo così già prima della guerra. Per questo motivo non riuscii ad accostarmi ad alcun partito esistente. La guerra rafforzò la mia opinione di non potere intraprendere una lotta implacabile contro la socialdemocrazia in mancanza di un movimento che non andasse oltre il semplice partito “parlamentare”. Fui molto chiaro fra i miei conoscenti. Inoltre cominciai a meditare l’impegno politico. All’occorrenza li assicurai spesso che, nel dopoguerra, avrei fatto anche l’oratore, oltre alla mia attività lavorativa. Ero molto serio su questo punto39.
Approfondimenti didattici 1. Analisi retorica e stilistica
- Individua le principali figure retoriche; - Individua l’esistenza di fallacie retoriche; - Individua i principali “loci” e “topoi”; - Individua la presenza di stereotipi e pregiudizi.
Nelle bozze concettuali del capitolo 5-I risalenti all’estate 1924, Hitler scrisse di non sapere se sarebbe diventato seriamente un oratore [KA, n. 94]. A. Gilardoni, Logica e argomentazione. Un prontuario, Milano, Mimesis, 2008. 39
149 2. Analisi storico-culturale - Le cause della Grande Guerra: analizza il domino politico-diplomatico che portò allo scoppio della Prima guerra mondiale; - L’esperienza di agosto: analizza la vigilia della Prima guerra mondiale nella stampa dei paesi europei, alla luce del confronto tra neutralisti e interventisti; - L’esperienza del fronte: analizza la descrizione della vita al fronte attraverso romanzi, diari e memorialistica nell’immediato primo dopoguerra; - Socialismo e prima guerra mondiale: ripercorri le diverse posizioni del socialismo di fronte alla guerra, concentrandoti sulla dialettica fra “neutralità” e interventismo; - La corporalizzazione della politica: analizza il tema della “malattia” del corpo politico con particolare riferimento all’antisemitismo; - Visione del mondo: analizza il problema della “visione del mondo” e l’estetica della politica nell’età delle masse, dai movimenti socialisti a quelli fascisti.
Capitolo VI. La propaganda di guerra
Sinossi 1. Genesi Il capitolo 6-I, redatto nel marzo-aprile 1925, doveva essere parte di quello dedicato alla Grande guerra. Lo scorporo dal capitolo precedente si spiega probabilmente con la rilevanza del tema della propaganda in quegli anni, sia in ambito politico generale, sia nella stessa visione hitleriana del partito. Indubbiamente Hitler si avvalse delle numerose pubblicazioni sulla propaganda e sulla pubblicità commerciale apparse in quegli anni (come i lavori di Gerhard Schultze Pfaelzer e di Victor Mataja). Il capitolo corrisponde quasi alla lettera alla bozza concettuale conservata1. 2. Contenuto “Imparare la lezione”: sembra questo il monito che Hitler lancia all’inizio del capitolo 6-I. Impararla dagli avversari interni ed esterni, cioè dai socialisti-marxisti e dagli inglesi. “Formalmente insufficiente e psicologicamente sbagliata”: con queste parole l’ex caporale del Reggimento List bolla l’azione propagandistica tedesca durante la guerra e, di fatto, lancia un monito preciso al suo partito, che si era ricostituito alla fine di febbraio del 1925, quattordici mesi dopo lo scioglimento. La propaganda non è un fine in sé, ma è un mezzo. Il suo target non sono le persone colte e “raziocinanti”, ma la massa semplice, elementare e “femminea”, che vede tutto in chiaro-scuro, che non conosce mezze misure. I manifesti pubblicitari devono attirare l’attenzione e la curiosità della folla, devono invogliare a comprare il prodotto. Il modo? Non certo fornire un quadro “oggettivo”, ma enfatizzarne unilateralmente ogni aspetto, ricorrendo anche il discredito di quello concorrente. Questo è l’abbici della propaganda politica, che è un’arte popolare. La Germania ha perso la guerra e il “dopoguerra” perché non ha saputo preparare bene i suoi giovani allo scontro fatale contro i suoi nemici storici. Ne ha fornito un’immagine caricaturale. La propaganda non deve sottovalutare il nemico, ma deve enfatizzarne la forza e mostrarne i punti deboli. La smania di oggettività, che ha fatto della propaganda una “scienza”, unita alla scarsa considerazione degli avversari, hanno reso un pessimo servigio al paese. La colpa è da attribuire alla classe dirigente e ai partiti borghesi, che non hanno avuto la modestia e l’intelligenza di capire il popolo. 3. Analisi Questo breve capitolo metodologico ha una funzione spesso sottovaluta nell’economia del Mein Kampf. Non offre descrizioni inquietanti, metafore violente. È un semplice avviamento allo studio dell’animo popolare. La propaganda è la chiave per entrare in contatto con la massa. Non lo è di certo la ricerca scientifica di alto livello (tante parole e poche “idee”, secondo la visione hitleriana). Non lo è nemmeno l’arte astratta che rovista nell’animo individuale. È il messaggio nella sua 1
KA I, p. 487.
152 semplicità e chiarezza, nella sua “immediatezza”: il nero si contrappone al bianco. Non sono ammesse le sfumature di grigio che ben si addicono alla realtà complessa “oggettiva”, ma che assai poco comprendono la soggettività del conflitto. La propaganda di guerra va studiata e capita, ovviamente da chi ne ha gli strumenti. Gli inglesi hanno sparso zizzania fra le etnie tedesche (secondo il vecchio adagio divide et impera), mentre in patria i socialisti hanno continuato a contrapporre lavoratori a nazione (il riferimento è alla risoluzione pacifica del 1917). Cos’hanno fatto i “borghesi”? Hanno semplicemente detto che ci sono “delle ragioni”, quando in realtà c’e solo la “mia ragione” e il “tuo torto”. Nei sentimenti non c’è spazio per le ambiguità, specie in guerra, specie di fronte alla massa. L’uso della propaganda è un’arte del tutto particolare. Non può certo essere data in mano agli esteti o agli snob, intenti a cercare sensazioni sempre nuove, prigionieri del loro labirinto mentale. Solo chi è ha contatto con la gente, con l’animo popolare ha la forza e l’intelligenza di mettere la propaganda al servizio del bene comune, cioè il bene del paese e – nel caso specifico – della “razza germanica”. Hitler, memore della lezione bellica e della pubblicità commerciale, ha compreso che un partito di massa può avere successo solo grazie all’estetica del messaggio. Tutto il resto conta poco. 4. Parole-chiave Ebrei, Estetica, Intellinghezia, Oggettività, Propaganda di guerra, Ragione e sentimento, Razza creatrice, Rivoluzione del 1918, Soggettività, Umanitarismo. 5. Bibliografia essenziale - K. Barck, R. Faber (ed.), Ästhetik des Politischen, Politik der Ästhetischen, Würzburg, Königshausen & Neumann, 1999; - K. Bremm, Propaganda im Ersten Weltkrieg, Darmstadt, Theiss-Verlag, 2013; - G.P. Brunetta et al. (ed.), L’estetica della politica. Europa e America negli anni Trenta, Roma, Laterza, 1989; - A. Bullock, Hitler. Studio sulla tirannide, Milano, Res Gestae, 2014; - K. Burke, Die Rhetorik in Hitlers “Mein Kampf” und andere Essays zur Strategie der Überredung, Francoforte sul Meno, Suhrkamp, 1967; - D. Capozza, C. Volpato, Le intuizioni psicosociali di Hitler. Un’analisi del “Mein Kampf”, Bologna, Patron, 2004; - W. Carr, Hitler. Studio sul rapporto tra personalità e politica, Napoli, Liguori, 1985; - M. Chiais, La propaganda nella storia. Strategie di potere dall’antichità ai nostri giorni, Milano, Lupetti, 2010; - G. Corni, Hitler, Bologna, Il Mulino, 2007; - J. Ellul, Storia della propaganda, Napoli, ESI, 1983; - J. Fest, Hitler. Una biografia, traduzione di F. Saba Sardi, Milano, Garzanti 2005; - L. Herbst, Il carisma di Hitler. L’invenzione di un messia tedesco, traduzione di U. Gandini, Milano, Feltrinelli, 2011; - S.F. Kellerhoff, Il libro proibito di Hitler. Storia del Mein Kampf, Milano, Rizzoli, 2016; - I. Kershaw, Hitler, vol. 1: 1889-1936, Milano, Bompiani, 2003; - K. Kirchner, Flugblattpropaganda im Ersten Weltkrieg, vol. 1: Flugblättter aus England, 1914-1918, Erlangen, Verlag D+C, 1985; - C. Koch, Werbung für den Grossen Krieg. Bildpropagana für deutsche Kriegsanleihen im Ersten Weltkrieg, Amburgo, Bachelor Master Publishing, 2014 - N. Labanca, C. Zadra (ed.), Costruire un nemico. Studi di storia della propaganda di guerra, Milano, Unicopli, 2011; - W.C. Langer, Psicanalisi di Hitler. Rapporto segreto del tempo di guerra, Milano, Garzanti, 1975; - P. Longerich, Hitler. Biographie, Monaco, Siedler Verlag, 2015;
153 - W. Maser, Adolf Hitler, Roma, Ciarrapico, 1978; - J. Meissner (ed.), Strategien der Werbekunst, 1850-1933, Berlino, Deutsches Historisches Museum, 2004; - G.L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (1815-1933), Bologna, Il Mulino, 2009; - A. Musolff, Metaphor, nation and the Holocaust. The concept of the body politic, New York, Routledge, 2011; - O. Plöckinger, Geschichte eines Buches. Adolf Hitlers “Mein Kampf”, 1922-1945. Eine Veröffentlichung des Instituts für Zeitgeschichte, Monaco, Oldenbourg, 2011; - Id., Quellen und Dokumente zur Geschichte von “Mein Kampf”, 1924-1945, Stoccarda, Franz Steiner Verlag, 2016; - W. Pyta, Hitler. Der Künstler als Politiker und Feldherr. Eine Herrschaftsanalyse, Monaco, Siedler Verlag, 2015; - P.R. Range, La genesi del Mein Kampf. 1924: l’anno che cambiò la storia, Roma, Newton Compton, 2017; - F.J. Rash, The language of violence. Adolf Hitler’s “Mein Kampf”, New York, Peter Lang, 2006; - R.G. Reuth, Hitler. Eine politische Biographie, Monaco, Piper, 2003; - M.L. Sanders, P.M. Taylor (ed.), British propaganda during the First World War, 1914-18, Londra, Basingstoke, 1982; - M. Schramm, Das Deutschlandbild in der britischen Presse, 1912-1919, Berlino, Akademie Verlag, 2007; - H. Steinhaus, Hitlers pädagogische Maximen. “Mein Kampf” und die Destruktion der Erziehung im Nationalsozialismus, Francoforte sul Meno, Peter Lang, 1981; - J. Toland, Adolf Hitler. The definitive biography, New York, Doubleday, 1976; - M. Tungate, Storia della pubblicità. Gli uomini e le idee che hanno cambiato il mondo, edizione italiana a cura di M. Coviello, Milano, F. Angeli, 2010; - V. Ullrich, Adolf Hitler. Biographie, vol. 1: Die Jahre des Aufstiegs 1889-1939, Francoforte sul Meno, S. Fischer, 2013; - A. Viktine, “Mein Kampf”. Storia di un libro, traduzione di G. Zucca, Milano, Cairo, 2010; - T. Weber, Hitler’s First War. Adolf Hitler, the men of the List Regiment, and the First World war, Oxford, Oxford University Press, 2010; - N. Weise, Der “lustige” Krieg. Propaganda in deutschen Witzblättern 1914-1918, Rahden, VMK, 2004; - J.F. Williams, Corporal Hitler and the Great War, 1914-1918. The List Regiment, Londra, F. Cass, 2005; - B. Zehnpfennig, Hitlers “Mein Kampf”. Eine Interpretation, Monaco, Fink, 2000; - R. Zitelmann, Hitler, Roma-Bari, Laterza, 1991; - R. Zühlke (ed.), Bildpropaganda im Ersten Weltkrieg, Amburgo, Ingrid Kämpfer, 2000.
Nel corso della mia attenta osservazione degli affari politici mi ero sempre particolarmente interessato della propaganda. La consideravo uno strumento che le organizzazioni marxiste-socialiste adoperavano e sapevano utilizzare con grande maestria. Imparai ben presto a comprendere che il corretto uso della propaganda è una vera arte2, quasi del tutto sconosciuta ai partiti borghesi. Solo il movimento cristiano-sociale, all’epoca di Lueger, seppe adoperarla con una certa abilità e le dovette gran parte del suo successo3. Bastava pensare alla guerra per comprendere quali risultati potesse conseguire un uso corretto della propaganda. Qui purtroppo bisogna studiare la parte avversa,
L’idea dell’arte della propaganda non era solo tipica della destra, ma anche di altri settori politici. I modelli erano soprattutto i paesi anglosassoni, di cui si occupò lo studioso tedesco Friedrich Schönemann nel saggio Die Kunst der Massenbeinflussung in den Vereinigten Staaten von America (L’arte dell’influenza di massa negli Stati Uniti d’America, 1924) [KA, n. 2]. 3 Vedi capitoli 2-I e 3-I. 2
154 perché la propaganda tedesca si dimostrò sempre assai mediocre4. Proprio il suo totale fallimento, lampante agli occhi di ogni soldato, fu il motivo che mi spinse a occuparmi insistentemente di questo problema. Di tempo per pensarci ne avevo a sufficienza, ma il nemico ci impartì una lezione pratica sin troppo chiara. Il nemico sapeva colpire le nostre debolezze con incredibile maestria e con un calcolo veramente geniale. Ho imparato moltissimo dalla propaganda di guerra nemica. Ma il tempo passò senza lasciare traccia alcuna nelle teste che avrebbero dovuto imparare la lezione. Credevano, da una parte, di essere troppo intelligenti per ricevere degli insegnamenti; dall’altra, mancavano di buona volontà. Ma si poteva dire di avere un sistema propagandistico? Purtroppo la risposta è negativa. Tutto ciò che fu fatto in tal senso era così inadeguato e sbagliato che non servì a nulla, anzi finì per essere persino deleterio. Formalmente insufficiente, psicologicamente sbagliata: ecco un bilancio accorato della propaganda di guerra tedesca. Già una prima domanda nasconde una certa confusione: la propaganda è un mezzo o un fine? La propaganda è un mezzo e come tale va giudicato in vista del fine. La sua forma deve essere quindi commisurata al fine. Ma è anche chiaro che l’importanza del fine può cambiare in base alle esigenze generali e che, quindi, la propaganda muta in base al valore intrinseco del fine. Lo scopo per cui si combatteva la guerra era il più solenne e il più elevato che un uomo si potesse mai immaginare: la libertà e l’indipendenza del nostro popolo, la certezza del sostentamento futuro5 e l’onore della nazione. Motivi che, malgrado l’opinione contraria dominante, ci sono ancora oggi o, meglio, devono esserci (i popoli disonorati perdono prima o poi la libertà e l’indipendenza) e che corrispondono a una giustizia superiore, poiché le generazioni pezzenti dei vigliacchi non meritano alcuna libertà. Un vile schiavo non ha alcun onore, poiché altrimenti non diverrebbe vittima del pubblico ludibrio. Il popolo tedesco lottava per la sua esistenza terrena. Lo scopo della propaganda di guerra doveva sostenere la lotta e condurre alla vittoria. Quando i popoli lottano per la loro esistenza terrena, quando è in gioco il problema cruciale di essere o non essere6, tutte le considerazioni umanitarie7 o estetiche8 finiscono in subordine. Le idee non si librano nell’etere, ma nascono dalla fantasia dell’uomo e sono legate al suo destino. La scomparsa dell’uomo farebbe 4
Durante la guerra, lo studio della propaganda nemica fu affidata a numerose istituzioni tedesche: l’Ufficio centrale per il servizio estero, guidato da Matthias Erzberger (1914), l’ufficio stampa di guerra dello Stato Maggiore dell’Esercito (1915) e quello del Ministero degli Esteri. Secondo molti osservatori, la propaganda militare fu relativamente buona, meno quella economica e politica, anche a causa degli scarsi fondi destinati [KA, n. 4]. 5 Sul problema dell’approvvigionamento vedi capitoli 4-I, 14-II. 6 Altra allusione all’Amleto (Atto I, scena 3). 7 Vedi capitolo 10-I. 8 Il termine “estetica” nel campo nazionalpopolare era connotato negativamente e assimilato a “decadenza” e a “degenerazione”. Hitler lo usava per negare l’arte moderna e per giustificare il suo fallimento nell’ammissione all’Accademia di Belle Arti.
155 svanire anche quei concetti ignoti alla natura. Ma quelle idee sono anche tipiche di pochi popoli, o meglio razze, dato che provengono dal loro sentimento più profondo. Umanitarismo ed estetica svanirebbero persino in un mondo abitato da uomini, se venissero meno le razze creatrici e portatrici di tali idee. Tutte le idee assumono un’importanza secondaria, quando un popolo lotta per la sua esistenza terrena. Anzi sarebbero eliminate dalle manifestazioni della lotta, se la forza d’autoconservazione di un popolo risultasse esserne paralizzata. Questo è l’unico esito apparente. Sul problema dell’umanitarismo Moltke disse che in guerra il suo procedimento è drasticamente abbreviato, cioè il combattimento peggiore corrisponde massimamente a esso. Ma se cerchiamo di avvicinarci alla guerra con discorsi estetici ecc., l’unica risposta che otteniamo è che i problemi cruciali di un popolo esulano da qualsiasi obbligo estetico. L’aspetto più terribile della vita umana è e resta il giogo della schiavitù. O forse i decadenti schwabinghesi9 ritengono “estetico” l’attuale destino della nazione tedesca? Non c’è bisogno di discuterne con gli ebrei, inventori moderni di quella vacua fragranza culturale. Tutta la loro esistenza non è altro che la protesta incarnata contro l’estetica dell’uomo fatto a immagine del Signore10. Ma se si elimina dalla guerra il punto di vista umanitario ed estetico, esso non può più essere utilizzato come criterio della propaganda. La propaganda di guerra era un mezzo per un fine, che era la lotta per l’esistenza del popolo tedesco. Quindi la propaganda poteva essere applicata partendo da quel principio fondamentale. Le armi più spietate erano “umane” se comportavano una vittoria più rapida; i metodi “belli” erano quelli che aiutavano a garantire alla nazione la dignità della libertà. Questo era l’unica visione possibile sul problema della propaganda di guerra nella lotta per la vita e per la morte. Se si fosse chiarita questo aspetto, non avremmo mai avuto dubbi sulla forma e sull’utilizzo di quell’arma. Perché si tratta solo di un’arma, seppur terribile in mano a un intenditore. Il secondo problema d’importanza essenziale era il seguente: a chi doveva rivolgersi la propaganda? All’intellighenzia colta o alla massa meno istruita? Alla seconda: deve sempre rivolgersi alla massa! All’intellighenzia (o a quello che oggi si indica con questo nome) non serve la propaganda, ma l’istruzione scientifica. Il contenuto della propaganda è così poco scientifico come lo è il manifesto pubblicitario per l’arte. L’arte della cartellonistica consiste nella capacità di attirare l’attenzione della moltitudine con la forma e con il colore. Il manifesto della mostra artistica deve solo richiamare l’attenzione sull’arte della mostra. Se ci riesce, tanto migliore è l’arte della cartellonistica. Il manifesto deve trasmettere alla massa una rappresentazione dell’importanza della mostra, ma non 9
Schwabing è un quartiere a Nord di Monaco, noto per essere stato il centro della vita bohémien a cavallo del Novecento. Qui visse Hitler dopo il suo arrivo da Vienna, in Schleissheimerstrasse 34, affittuario del sarto Josef Popp. L’espressione Schwabingertum (schwabingheria) era sinonimo di modernismo artistico sradicato, specie dopo l’esperienza della Repubblica consiliare del 1919. 10 Allusione alla Genesi. Hitler utilizzerà spesso questa metafora, a dimostrazione del compito storico e “cosmico” di salvare il mondo nell’autorappresentazione nazista.
156 deve essere un surrogato dell’arte. Chi voglia occuparsi d’arte non può limitarsi a studiare il manifesto, né gli basterà passeggiare per le sale della mostra. Dovrà immergersi con sguardo attento nelle singole opere d’arte e formarsi lentamente un giudizio critico.
Figura 1 Manifesto propagandistico di guerra inglese [fonte: roberthorvat30.wordpress.com]
Lo stesso vale per ciò che intendiamo col termine propaganda. Il suo compito non consiste in un apprendistato scientifico del singolo, ma in un rinvio a certi fatti, eventi, necessità ecc., la cui importanza va spostata all’attenzione della massa. L’arte consiste esclusivamente nel dar vita a una convinzione generale sulla realtà di un fatto, sulla necessità di un avvenimento, sulla bontà di qualcosa di necessario ecc. Poiché non è e non può essere scienza (il suo compito, come il manifesto, è quello di destare l’attenzione della moltitudine e non insegnare l’esperienza scientifica o formare il giudizio del ricercatore), il suo influsso deve orientarsi sempre al sentimento e solo secondariamente alla ragione. La propaganda deve essere nazionalpopolare e deve commisurare il suo livello intellettuale alla capacità ricettiva delle persone più limitate tra coloro alle quali intende rivolgersi. Perciò il suo livello deve essere tanto più basso, quanto più ampia sarà la massa umana su cui intende agire. Nel caso della propaganda di guerra si tratta di attrarre tutto il popolo nella sua sfera d’azione, poiché la cautela non è mai troppa di fronte a condizioni spirituali superiori. Quanto più modesta è la sua zavorra scientifica
157 e quanto più si limita al sentimento della massa, tanto più strepitoso sarà il successo della propaganda. Solo questa sarà la prova più lampante della sua bontà o meno, giammai la soddisfazione di qualche studioso o di “languide scimmie estetizzanti”. L’arte della propaganda consiste proprio nel fatto che, comprendendo l’immaginario emotivo della grande moltitudine, conquista in forma psicologicamente giusta l’attenzione e il cuore delle masse. Il fatto che questo non sia mai stato capito dai nostri sputasentenze, dimostra la loro tipica pigrizia o presunzione. Se si comprende la necessità d’impostare l’arte pubblicitaria della propaganda sulla grande massa, la lezione da trarne è la seguente. È sbagliato conferire alla propaganda la versatilità dell’insegnamento scientifico. La capacità ricettiva della massa è assai limitata, la comprensione ridotta, la smemoratezza diffusa. Per questi motivi, una propaganda efficace deve limitarsi a pochi punti da ripetere in forma di slogan, finché la persona meno dotata non riuscirà a metabolizzare definitivamente i concetti espressi. Non appena si sacrifica quel principio a favore della versatilità, l’effetto della propaganda sarà indebolito, poiché la moltitudine non riesce né a trattenere, né a digerire l’eccessivo materiale offerto. L’effetto indebolito, alla fine, svanirà del tutto. Quanto più semplice e ampia deve essere la linea descrittiva, tanto più psicologicamente accurata deve essere la sua scelta tattica. Per esempio è profondamente sbagliato coprire di ridicolo l’avversario, come fece soprattutto la propaganda umoristica austriaca e tedesca. Lo è perché lo scontro effettivo col nemico forniva un quadro del tutto diverso dell’avversario, che si vendicava in maniera spaventosa dell’immagine. Il soldato tedesco, a contatto con la resistenza del nemico, si sentiva ingannato dai suoi istruttori. Anziché rafforzare la voglia di combattere o anche di resistere, accadeva l’esatto opposto: l’uomo si abbatteva11. Al contrario, la propaganda di guerra inglese e americana era psicologicamente giusta. Presentando al proprio popolo i tedeschi come barbari e unni12, la propaganda preparava i singoli soldati agli orrori della guerra e contribuiva così a proteggerli dalle delusioni. L’arma più micidiale usata contro di lui giustificava l’istruzione ricevuta e la fede nella bontà delle affermazioni governative, aumentando il coraggio e l’odio contro il nemico scellerato. L’effetto crudele dell’arma, che il soldato imparava a conoscere personalmente in mano nemica, gli appariva la prova migliore della proverbiale brutalità unnica del barbaro nemico, senza che perdesse anche solo un istante a pensare se le sue armi fossero più spaventose. Perciò il soldato inglese non si sentì mai disinformato dalla madrepatria. Il tedesco, invece, riteneva un “imbroglio” o una “fesseria” tutto ciò che gli arrivava da casa. Dove si credeva di poter incaricare della propaganda il primo asino (o un uomo I più noti giornali satirici tedeschi dell’epoca era il “Kladderadatsch” di Berlino, i “Lustigen Blätter” di Amburgo e il “Simplicissimus” di Monaco. 12 Hitler accenna probabilmente alla Hunnenrede (discorso degli unni) di Guglielmo II a Bremerhaven il 27 luglio 1900 prima della partenza della spedizione contro la rivolta dei boxer in Cina. Bibliografia: T. Klein, Die Hunnenrede (1900), in J. Zimmerer (ed.), Kein Platz an der Sonne. Erinnerungsorte der deutschen Kolonialgeschichte, Francoforte sul Meno, Campus Verlag, 2013, pp. 164-176. 11
158 “solamente” assennato), invece di comprendere che quel posto competeva ai più acuti conoscitori dell’animo umano. Così la propaganda di guerra tedesca offrì un esempio istruttivo per “chiarire” gli effetti contrari indesiderati, in assenza di una corretta valutazione psicologica. C’era molto da imparare dall’avversario per chi sapeva osservare, con occhi aperti e con sensibilità vigile, la marea di propaganda nemica13 affluita nei quattro anni e mezzo di guerra. Tuttavia l’aspetto peggiore era il modo di intendere il primissimo presupposto di ogni attività propagandistica: la soggettività e l’unitarietà di ogni problema considerato. In tal senso, la classe dirigente tedesca si era sbagliata sin dall’inizio della guerra, quando potevamo dubitare che tale assurdità fosse dovuta solo alla stupidità umana. Che cosa si direbbe, per esempio, di un manifesto che deve tessere le lodi di un nuovo sapone, ma che afferma anche la “bontà” di un altro? Una persona normale scuoterebbe il capo. Lo stesso vale per la réclame politica. Il compito della propaganda non è quello di bilanciare i diversi diritti, ma di enfatizzare esclusivamente il proprio. Non deve cercare la verità oggettiva, se favorisce la parte avversa, e poi esporla alla massa con sincerità dottrinaria; deve piuttosto servire incessantemente la propria!
Figura 2 Illustrazione apparsa sul “New York Tribune” (1914) [fonte: torontothenandnow.blogspot]
Era profondamente sbagliato discutere il problema della colpa della guerra partendo dal fatto che non solo la Germania andasse ritenuta responsabile. Sarebbe 13
Vedi capitolo 7-I.
159 stato giusto addossarla incessantemente all’avversario, anche se ciò non corrispondeva alla realtà dei fatti14. Ma quale fu l’esito di quell’incertezza? La grande massa popolare non è fatta da diplomatici o da giuristi, né da persone assennate in grado di giudicare, semmai è composta da bambinoni esitanti, incostanti e insicuri. Non appena la propaganda attribuisce un barlume di diritto alla parte avversa, dà subito motivo di dubitare anche della propria ragione. La massa non è in grado di capire dove finisca il torto avversario e dove inizi il proprio. Quindi essa diverrà insicura e diffidente, specialmente se il nemico non commette lo stesso errore, ma addossa ogni colpa all’avversario. È chiaro che il popolo finirà per credere alla propaganda nemica, che procede più compatta e unitaria rispetto alla propria. Specie se si tratta di un popolo (come quello tedesco) che soffre pesantemente della smania di oggettività. Ognuno si sforzerà di non essere ingiusto col nemico, a rischio di caricare eccessivamente il proprio popolo, di distruggere lui e il proprio Stato. La massa non è consapevole del fatto che gli organi competenti non la pensino così. Il popolo, in prevalenza, è femmineo: il suo modo di pensare e di agire è stabilito non tanto dalla riflessione razionale, ma dalla sensibilità emotiva. La massa non è complicata, ma è semplice ed esclusiva. Non ci sono molte differenziazioni, ma un lato positivo o uno negativo: amore e odio, diritto o torto, verità o menzogna. Non sono ammesse indecisioni. E questo l’ha compreso in modo geniale la propaganda inglese. Non ci furono quelle ambiguità che avrebbero potuto suscitare il dubbio. Il segno di una lucida conoscenza della primitività della grande massa sta proprio nella propaganda degli orrori adatta alle circostanze15, che assicurò in modo spietato quanto geniale le premesse per una resistenza morale sul fronte anche in caso di gravi sconfitte materiali. Nonché nella schiacciante insistenza sul nemico tedesco quale unica parte responsabile per lo scoppio della guerra. Una menzogna basata sulla visione sentimentale sempre estrema del grande popolo, che fu creduta solo grazie alla testardaggine unilaterale e audace con cui fu esposta. L’efficacia della propaganda inglese dimostrò chiaramente il fatto che, dopo quattro anni, non solo era riuscita a dare gran manforte al nemico, ma aveva anche iniziato a intaccare il popolo tedesco. Non dobbiamo affatto meravigliarci se la nostra propaganda fu così fallimentare. La sua inefficacia era insita nella sua incertezza. Era assai inverosimile che, nel suo contenuto, avrebbe suscitato la giusta impressione fra le masse. Solo i nostri seriosi “statisti” potevano sperare di riuscire con quell’insipida risciacquatura pacifista a inebriare gli uomini sino alla morte. Miserabile robaccia insensata, se non deleteria. La reazione dell’opinione pubblica tedesca fu quasi unanimemente negativa di fronte all’articolo 231 del trattato di Versailles, che addossava le responsabilità del conflitto alla Germania e ai suoi alleati. Bibliografia: U. Heinemann, Die verdrängte Niederlage. Politische Öffentlichkeit und Kriegsschuldfrage in der Weimarer Republik, Gottinga, Vandenhoeck & Ruprecht, 1983. 15 Al centro della propaganda degli orrori alleata vi era il cosiddetto Rape of Belgium (stupro del Belgio), cioè la rappresentazione dei crimini tedeschi su bambini, donne, sacerdoti e caduti dopo la violazione della neutralità del Belgio. Bibliografia: J. Horne, A. Kramer, German atrocities, 1914. A history of denial, New Haven (Connecticut), Yale University Press, 2001; L. Zuckerman, The rape of Belgium. The untold story of World War I, New York, New York University Press, 2004.
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160 Una propaganda, per quanto geniale, non avrà alcun successo se non terrà sempre a mente un principio fondamentale: deve limitarsi a poche cose e ripeterle incessantemente. La perseveranza, qui come in molte altre cose al mondo, è il primo e più importante presupposto del successo. Proprio in campo propagandistico non bisogna mai farsi guidare da esteti o da snob: dai primi perché altrimenti svilupperanno il loro contenuto in una forma espressiva più adatta alle società letterarie che alla massa. Dai secondi bisogna stare particolarmente attenti, poiché la loro mancanza di fresche sensazioni li porta sempre alla ricerca di nuovi stimoli. Questa gente è presto nauseata da ogni cosa: arde dal desiderio del nuovo e non riesce mai a immedesimarsi nelle esigenze di un mondo così prosaico, che non capisce affatto. Gli snob sono sempre i primi critici della propaganda o meglio del suo contenuto, che sembra loro così asfittico, trito, superato ecc. Vogliono sempre il nuovo, cercano uno svago e diventano così i nemici mortali di ogni movimento di massa. Perché, non appena si inizia a indirizzare l’organizzazione e il contenuto di una propaganda secondo le loro direttive, verrà meno ogni stabilità e si disintegrerà ogni cosa. La propaganda non vuole procurare variazioni interessanti a quegli esseri spocchiosi, ma convincere, e convincere la massa. E la massa, intellettualmente pigra, necessita sempre di un certo periodo prima che sia pronta ad afferrare concetti semplicissimi, che memorizzerà solo alla millesima ripetizione. Ogni variazione propagandistica non può mai mutare il contenuto del messaggio, ma deve sempre contribuire a ripetere la stessa cosa. Un motto può essere illuminato da diverse angolature, ma alla fine deve essere sempre lo stesso. Solo così la propaganda può operare in modo unitario e compatto. Solo su questa linea si arriverà al successo finale, enfatizzando insistentemente il medesimo scopo. Solo allora ci accorgeremo con stupore a quale esiti enormi, a stento immaginabili, possa condurre una tale perseveranza. Ogni réclame commerciale o politica ha successo grazie alla durata e alla regolare uniformità della sua diffusione. Anche qui fu esemplare la propaganda nemica. Essa si limitava a poche cose, era pensata esclusivamente per le masse e perseguita con indefessa perseveranza. Durante tutta la guerra furono utilizzati i concetti fondamentali o le forme argomentative opportune, senza che fosse mai compiuto anche il più piccolo cambiamento. La propaganda sembrò inizialmente folle per la sfacciataggine delle sue affermazioni, poi divenne sgradevole e, alla fine, persuasiva. Dopo quattro anni e mezzo scoppiò la Rivoluzione in Germania. Le sue parole d’ordine provenivano dalla propaganda di guerra nemica16. In Inghilterra si pensava ad altro: il possibile successo di quell’arma intellettuale consisteva nel suo utilizzo massiccio, ma il successo copriva abbondantemente i costi.
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Solo alcuni slogan della Rivoluzione erano gli stessi utilizzati dalla propaganda nemica. Bibliografia: S. Wenisch (ed.), Plakate als Spiegel der politischen Parteien in der Weimarer Republik, Monaco, Bayerisches Hauptstaatsarchiv, 1996.
161 La propaganda era ritenuta un’arma di primaria importanza, mentre da noi rappresentava un comodo dopolavoro per politici trombati o per i mediocri17. Il suo successo fu comunque pari a zero.
Approfondimenti didattici 1. Analisi retorica e stilistica - Individua le principali figure retoriche; - Individua l’esistenza di fallacie retoriche; - Individua i principali “loci” e “topoi”; - Individua la presenza di stereotipi e pregiudizi.
2. Analisi storico-culturale - Propaganda di guerra: analizza le rappresentazioni delle diverse propagande di guerra e cerca di delinearne i motivi ricorrenti; - Nascita e diffusione della pubblicità: analizza le origini della moderna réclame sulla stampa di fine Ottocento e tenta di delineare una possibile evoluzione nel periodo interbellico sui nuovi mass media; - L’estetica della politica: analizza l’importanza dell’immagine visiva nella politica di massa del periodo interbellico e le differenze rispetto al passato.
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In Germania furono attive nella propaganda alcune importanti personalità, come il citato Erzberger (capo dell’Ufficio centrale per il servizio estero dall’ottobre 1914) e Harry Kessler (capo della propaganda culturale tedesca presso l’ambasciata di Berna). Bibliografia: C. Dowe (ed.), Matthias Erzberger. Ein Demokrat in Zeiten des Hasses, Stoccarda, Klein Buch Verlag, 2013; C. Stölzl (ed.), Harry Graf Kessler. Flaneur durch die Moderne, Berlino, Nicolai, 2016. A. Gilardoni, Logica e argomentazione. Un prontuario, Milano, Mimesis, 2008.
Capitolo VII. La Rivoluzione
Sinossi 1. Genesi Il capitolo 7-I, probabilmente redatto nell’estate del 1924, contiene poche bozze concettuali, a dimostrazione del fatto che Hitler si sentiva sicuro circa il suo contenuto. La scelta del 1915 come “inizio della Rivoluzione” era piuttosto condivisa fra gli autori della destra nazionalpopolare, che si ispiravano alle dichiarazioni di importanti figure del mondo militare oppure alle affermazioni di alcuni politici. Il grande interesse sul tema è dimostrato dalla pubblicazione in anteprima del capitolo sul foglio salisburghese “Volksruf” (Voce del popolo) nel luglio 19251. 2. Contenuto Il capitolo 7-I riprende il tema della fallita propaganda tedesca in tempo di guerra, legando con doppio filo l’azione anglo-francese e quella dei “nemici” interni. Mentre però il capitolo precedente tentava di spiegare la funzione e l’azione della propaganda, qui Hitler parla direttamente dei contenuti: divide et impera, aizzare i bavaresi contro i prussiani, seminare zizzania fra le etnie tedesche. I modi? Non solo i volantini antiprussiani, ma anche le “lacrimose” lettere dai familiari, che toccano i nervi scoperti dei soldati al fronte. Tutto “inutile”, però, perché gli eroici soldati tedeschi fanno diligentemente il loro dovere. Hitler riassume le vesti di “osservatore” del fronte interno durante i suoi due soggiorni forzati nel lazzaretto di Beelitz (1916) e quello di Pasewalk (1918). Qui trova conferme alla sua diagnosi “medica”: il male alberga dentro il corpo tedesco. Il male è rappresentato dagli “imboscati”, dai “vigliacchi”, da tutti coloro che dividono il paese nel momento più importante e decisivo della sua storia. Mentre i “veri” tedeschi combattono, gli altri guadagnano e lucrano sulle sorti della povera gente. Pullulano le “società di guerra” gestite dagli ebrei. Le speranze di vittoria tedesca, dopo la rotta italiana di Caporetto e la pace di Brest-Litovsk, durano poco: gli scioperi mettono in ginocchio il fronte. L’Intesa respinge così l’ultima offensiva tedesca della primavera. Hitler, momentaneamente accecato dal gas, ritorna nel lazzaretto, dove assiste ai fatidici giorni dell’armistizio e della “Rivoluzione”. Tanti sacrifici inutili: Guglielmo II e l’intera classe dirigente imperiale sono i primi responsabili per non aver “asportato” il “cancro” prima che fosse troppo tardi. Sulla base di questa consapevolezza, l’impegno politico – per Hitler – è ormai “necessario”. 3. Analisi Il capitolo 7-I, come in altri casi, non parla del tema indicato nel titolo. La rivoluzione non è il centro e nemmeno la fine (o il fine) del capitolo. È l’esito, la conseguenza “ineluttabile” della “malattia”. L’aspetto interessante, rispetto per esempio ai capitoli precedenti, è che Hitler riassume le 1
KA I, p. 515.
164 vesti del patologo e osserva il clima che si respira a casa (gli odori, secondo la sua colorita espressione): annusa l’aria che tira e ne trae le dovute conseguenze (cioè la diagnosi). Se la Germania ha perso la guerra (e poi avrebbe “perso” il dopoguerra), ciò non si deve agli alleati, ma ai nemici interni. La “stranezza” della sconfitta del 1918 (tutti i presupposti sembravano essere pro-tedeschi: il fronte meridionale e orientale “neutralizzati”, quantomeno secondo Hitler) necessita di un’ipotesi di lavoro: l’azione di un “ragno”, di un nemico interno del popolo tedesco. La “divinazione”, che risponde alle esigenze di sconfiggere l’incertezza del futuro, spinge il patologo-politico a individuare una serie di indizi: la risoluzione pacificista dell’estate 1917 (che porta alle dimissioni del cancelliere Bethmann-Hollweg), gli scioperi di inizio 1818, la presenza di “imboscati” nei lazzaretti, le lettere lacrimose da casa. Sono tutti i “segni-presagi” dell’esistenza del male, che Cicerone (De divinatione) riteneva lo strumento per il controllo dello Stato e per l’equilibrio delle istituzioni. La Rivoluzione, quindi, non porta a un sovvertimento dell’ordine in vista di un cambiamento salutare. Non è il “farmaco” della malattia (il militarismo tedesco, la morte in guerra, le ingiustizie sociali, ecc.). È esattamente il suo contrario: è la “liberazione” della malattia in tutto il corpo “sano”. Non è quindi la causa del male, ma semmai è l’espressione manifesta di qualcosa che “covava”, che era in incubazione, che solo il medico-indovino-vate avrebbe potuto scoprire, curare ed “espellere” grazie alla divinazione abduttiva: l’evento inspiegabile porta all’intuizione di un’entità maligna “rivelata” attraverso i suoi segni-presagi. Ecco gettati tutti i presupposti della Dolchstosslegende (leggenda della “pugnalata alla schiena”). 4. Parole-chiave Battaglia della Somme, Battaglia di Tannenberg, Case dei soldati, Croce gialla, Ebraismo finanziario, Ebrei, Lazzaretto di Beelitz, Lazzaretto di Pasewalk, Leggenda della pugnalata alla schiena, Marxismo, Militarismo prussiano, Propaganda di guerra, Rivoluzione del 1918, Sciopero delle munizioni Sciopero generale, Società di guerra. 5. Bibliografia essenziale - J. Ambruster, Die Behandlung Adolf Hitler im Lazarett Pasewalk 1918. Historische Mythenbildung durch einseitige bzw. speculative Pathographie, in “Journal für Neurochirurgie und Psychiatrie, X, 4, 2009, pp. 18-23; - B. Barth, Dolchstosslegenden und politischen Desintegration. Das Traume der deutschen Niederlage im Ersten Weltkrieg, 1914-1933, Düsseldorf, Droste, 2003; - K. Bremm, Propaganda im Ersten Weltkrieg, Darmstadt, Theiss-Verlag, 2013; - A. Bullock, Hitler. Studio sulla tirannide, Milano, Res Gestae, 2014; - K. Burke, Die Rhetorik in Hitlers “Mein Kampf” und andere Essays zur Strategie der Überredung, Francoforte sul Meno, Suhrkamp, 1967; - D. Capozza, C. Volpato, Le intuizioni psicosociali di Hitler. Un’analisi del “Mein Kampf”, Bologna, Patron, 2004; - W. Carr, Hitler. Studio sul rapporto tra personalità e politica, Napoli, Liguori, 1985; - M. Chiais, La propaganda nella storia. strategie di potere dall’antichità ai nostri giorni, Milano, Lupetti, 2010; - G. Corni, Hitler, Bologna, Il Mulino, 2007;1 - J. Ellul, Storia della propaganda, Napoli, ESI, 1983; - J. Fest, Hitler. Una biografia, traduzione di F. Saba Sardi, Milano, Garzanti 2005; - L. Herbst, Il carisma di Hitler. L’invenzione di un messia tedesco, traduzione di U. Gandini, Milano, Feltrinelli, 2011; - B. Horstmann, Hitler in Pasewalk. Die Hypnose und ihre Folgen, Düsseldorf, Droste, 2014; - A. Joachimsthaler, Hitler in München, 1908-1920, Francoforte sul Meno, Ullstein, 1992; - M. Karl, Die Münchener Räterrepublik. Porträts einer Revolution, Düsseldorf, Patmos, 2008;
165 - L.-B. Keil, S.F. Kellerhoff, Deutsche Legenden. Vom “Dolchstoss” und anderen Mythen der Geschichte, Berlino, Links Verlag, 2002; - S.F. Kellerhoff, Il libro proibito di Hitler. Storia del Mein Kampf, Milano, Rizzoli, 2016; - I. Kershaw, Hitler, vol. 1: 1889-1936, Milano, Bompiani, 2003; - K. Kirchner, Flugblattpropaganda im Ersten Weltkrieg, vol. 1: Flugblättter aus England, 1914-1918, Erlangen, Verlag D+C, 1985; - C. Koch, Werbung für den Grossen Krieg. Bildpropagana für deutsche Kriegsanleihen im Ersten Weltkrieg, Amburgo, Bachelor Master Publishing, 2014; - G. Köpf, Hitler psychogene Erblindung. Geschichte einer Krankenarte, in “Nervenheilkunde”, XXIV, 2005, pp. 783-790; - N. Labanca, C. Zadra (ed.), Costruire un nemico. Studi di storia della propaganda di guerra, Milano, Unicopli, 2011; - W.C. Langer, Psicanalisi di Hitler. Rapporto segreto del tempo di guerra, Milano, Garzanti, 1975; - P. Longerich, Hitler. Biographie, Monaco, Siedler Verlag, 2015; - W. Maser, Adolf Hitler, Roma, Ciarrapico, 1978; - G.L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (1815-1933), Bologna, Il Mulino, 2009; - A. Musolff, Metaphor, nation and the Holocaust. The concept of the body politic, New York, Routledge, 2011; - W. Niess, Die Revolution von 1918/19 in der deutschen Geschichtsschreibung. Deutungen von der Weimarer Republik bis ins 21. Jahrhundert, Berlino, de Gruyter, 2013; - S. Panter, Jüdische Erfahrungen und Loyalitätskonflikte im Ersten Weltkrieg, Gottinga, Vandenhoeck & Ruprecht, 2014; - O. Plöckinger, Geschichte eines Buches. Adolf Hitlers “Mein Kampf”, 1922-1945. Eine Veröffentlichung des Instituts für Zeitgeschichte, Monaco, Oldenbourg, 2011; - Id., Unter Soldaten und Agitatoren. Hitlers prägende Jahre im deutschen Militär, 1918-1920, Paderborn, Schöningh, 2013; - Id., Quellen und Dokumente zur Geschichte von “Mein Kampf”, 1924-1945, Stoccarda, Franz Steiner Verlag, 2016; - W. Pyta, Hitler. Der Künstler als Politiker und Feldherr. Eine Herrschaftsanalyse, Monaco, Siedler Verlag, 2015; - P.R. Range, La genesi del Mein Kampf. 1924: l’anno che cambiò la storia, Roma, Newton Compton, 2017; - F.J. Rash, The language of violence. Adolf Hitler’s “Mein Kampf”, New York, Peter Lang, 2006; - R.G. Reuth, Hitler. Eine politische Biographie, Monaco, Piper, 2003; - J. Rosenthal, “Die Ehre des jüdischen Soldaten”. Die Judenerzählung im Ersten Weltkrieg und ihre Folgen, Francoforte sul Meno, Campus Verlag, 2007; - M.L. Sanders, P.M. Taylor (ed.), British propaganda during the First World War, 1914-18, Londra, Basingstoke, 1982; - J.H. Schoeps, J. Schlör (ed.), Antisemitismus. Vorurteile und Mythen, Monaco, Piper, 1994; - H. Steinhaus, Hitlers pädagogische Maximen. “Mein Kampf” und die Destruktion der Erziehung im Nationalsozialismus, Francoforte sul Meno, Peter Lang, 1981; - J. Toland, Adolf Hitler. The definitive biography, New York, Doubleday, 1976; - M. Tungate, Storia della pubblicità. Gli uomini e le idee che hanno cambiato il mondo, edizione italiana a cura di M. Coviello, Milano, F. Angeli, 2010; - V. Ullrich, Adolf Hitler. Biographie, vol. 1: Die Jahre des Aufstiegs 1889-1939, Francoforte sul Meno, S. Fischer, 2013; - A. Viktine, “Mein Kampf”. Storia di un libro, traduzione di G. Zucca, Milano, Cairo, 2010; - T. Weber, Hitler’s First War. Adolf Hitler, the men of the List Regiment, and the First World war, Oxford, Oxford University Press, 2010; - N. Weise, Der “lustige” Krieg. Propaganda in deutschen Witzblättern 1914-1918, Rahden, VMK, 2004; - J.F. Williams, Corporal Hitler and the Great War, 1914-1918. The List Regiment, Londra, F. Cass, 2005; - B. Zehnpfennig, Hitlers “Mein Kampf”. Eine Interpretation, Monaco, Fink, 2000; - R. Zitelmann, Hitler, Roma-Bari, Laterza, 1991; - R. Zühlke (ed.), Bildpropaganda im Ersten Weltkrieg, Amburgo, Ingrid Kämpfer, 2000.
166 Nel 1915 la propaganda nemica giunse sul fronte tedesco. L’anno successivo divenne sempre più intensa, fino a ingrossarsi all’inizio del 1918 in una marea ufficiale. Solo oggi comprendiamo gli effetti di quella “pesca di anime”2. L’esercito imparò lentamente a pensare come voleva il nemico. La reazione tedesca fu assolutamente fallimentare3. La classe dirigente dell’esercito aveva la volontà e la determinazione di ingaggiare la guerra anche su questo terreno, solo che le mancava lo strumento necessario. Psicologicamente era sbagliato lasciare che le truppe si facessero autonomamente un’idea delle cose. Per essere efficace, la difesa avrebbe dovuto giungere dalla madrepatria. Solo così avrebbe agito sugli uomini che, dopo quasi quattro anni di guerra, avrebbero finito per compiere atti imperituri di eroismo e di rinunce per amor patrio. Ma che cosa successe a casa? Il fallimento si dovette alla stupidità o al tradimento? In piena estate del 1918, dopo l’abbandono della riva meridionale della Marna4, la stampa tedesca si comportò in maniera così miserabilmente maldestra e stupidamente criminale che quotidianamente mi chiedevo con crescente livore se non ci fosse qualcuno in grado di porre fine a quella dilapidazione d’eroismo militare5. Cosa accadde in Francia dopo il nostro inaudito assalto vittorioso del 1914? Cosa fece l’Italia nei giorni del tracollo del fronte sull’Isonzo?6 Cosa fece la Francia all’inizio del 1918, quando la tempesta offensiva delle divisioni tedesche sembrava scalzarla dalle sue posizioni e la lunga gittata della batteria pesante iniziò a bussare alle porte di Parigi?7 Come fu sferzato l’ardore dell’entusiasmo nazionale nei volti dei reggimenti in ritirata! Come agirono la propaganda e il geniale condizionamento delle masse per martellare nei cuori del fronte infranto la fede nella vittoria finale! Ma cosa avvenne da noi? Niente, o peggio ancora. Ero arrabbiato e indignato quando appresi dai giornali l’assassinio psicologico di massa perpetrato ai nostri danni. Spesso ero tormentato dal pensiero che, se il destino mi avesse messo al posto degli
Possibile allusione alle parole di Gesù rivolte agli apostoli nei Vangeli di Matteo (4-18-22), Marco (1,14-20) e Luca (5,1-11). 3 Lo Stato Maggiore tedesco non ritenne i volantini alleati una seria minaccia al morale dei soldati. Dall’estate 1916, però, reagì con la detenzione per chi avesse conservato o diffuso i volantini nemici. L’anno dopo si tentò con una ricompensa per la consegna dei volantini. Nel 1918 si provò un terzo strumento: la “lezione patriottica”, che contrastava in modo argomentativo il loro contenuto [KA, n. 2]. 4 Nel luglio 1918 l’esercito tedesco lanciò l’ultima offensiva verso Parigi, che si arenò a fine mese sulla Marna. Con la battaglia di Amiens iniziò l’“offensiva dei cento giorni” da parte alleata, che pose fine alla guerra mondiale. Bibliografia: J.L. McWilliams, R.J. Steel, Amiens 1918: The Last Great Battle, Stroud, Tempus, 2007. 5 Il 24 giugno 1918 il ministro degli esteri tedesco Richard von Kühlmann propose in un discorso al Reichstag un accordo di pace negoziato per via diplomatica. L’8 luglio fu costretto a dimettersi su pressione dello Stato Maggiore dell’Esercito. Bibliografia: E.R. Huber, Dokumente zur deutschen Verfassungsgeschichte, vol. 3: Deutsche Verfassungsdokumente, 1900-1918, terza edizione Stoccarda, Kohlhammer, 1986, docc. 173-176. 6 Allusione alla rotta di Caporetto (o dodicesima battaglia dell’Isonzo) di fine ottobre 1917. 7 Dal marzo al luglio 1918 Parigi divenne un nuovo obiettivo dell’artiglieria di lunga gittata tedesca. Pur provocando pochi danni, l’impatto psicologico sulla popolazione francese fu grande.
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167 inetti o incapaci criminali del nostro servizio di propaganda, le sorti della guerra sarebbero state diverse. In quei mesi avvertii per la prima volta l’ingiustizia del destino avverso che mi teneva al fronte, dove avrei potuto morire casualmente per mano di un negro8, mentre avrei potuto rendere ben altri servigi alla patria. Ero abbastanza presuntuoso da credere che avrei potuto farlo. Solo che ero un uomo qualunque, un signor nessuno in mezzo a otto milioni di soldati! Era meglio tenere la bocca chiusa e fare silenziosamente il proprio dovere. Nell’estate del 1915 ci capitarono in mano i primi volantini nemici. Il loro contenuto era quasi sempre lo stesso, salvo alcune variazioni grafiche: la miseria in Germania era sempre maggiore; la durata della guerra era interminabile, mentre le probabilità di vittoria andavano riducendosi; il popolo a casa voleva la pace, solo che il “militarismo” e il “Kaiser” la impedivano; tutto il mondo non combatteva contro il popolo tedesco, ma solo contro l’unico colpevole: il Kaiser; la guerra non sarebbe terminata finché non fosse stato rimosso quel nemico della pace; dopo la fine della guerra, le nazioni libere e democratiche avrebbero accolto il popolo tedesco nella lega della pace perpetua mondiale, possibile solo dopo la distruzione del “militarismo” prussiano9. Per meglio illustrare tali affermazioni erano spesso riprodotte le “lettere da casa”, il cui contenuto sembrava confermare le tesi nemiche. In generale noi ridevamo di quelle parole. I volantini erano letti, poi rispediti ai comandi superiori e per lo più dimenticati, finché il vento favorevole non ne trasportava nelle trincee un altro carico. Erano per lo più gli aerei nemici a diffondere quei fogli. Un aspetto attirava la mia attenzione: in ogni segmento del fronte in cui si trovavano i bavaresi, quei fogli prendevano sempre posizione contro la Prussia con conseguenze straordinarie. La Prussia era descritta come l’unica colpevole e responsabile di tutta la guerra. Inoltre non esisteva la minima inimicizia tra l’Intesa e la Baviera. Naturalmente, la guerra sarebbe andata avanti, finché la Baviera avesse collaborato a togliere le castagne dal fuoco al militarismo prussiano. Il condizionamento propagandistico iniziò a ottenere alcuni effetti nel 1915. Lo stato d’animo antiprussiano crebbe notevolmente anche fra la truppa – senza che dall’alto non si facesse niente per neutralizzarlo. Non si trattava soltanto di un’imperdonabile negligenza, che prima o poi avremmo pagato cara – e non solo la “Prussia”, ma tutto il popolo tedesco (e quindi anche la Baviera). In tal senso la propaganda nemica iniziò a mietere grandi successi già prima del 1916. 8
La Francia utilizzò durante la guerra circa quattrocentottantamila truppe coloniali, mentre i britannici circa centocinquantamila unità. Bibliografia: C. Koller, “Von Wilden aller Rassen niedergemetzelt”. Die Diskussion um die Verweundung von Kolonialtruppen in Europa zwischen Rassismus, Kolonial- und Militärpolitik, 1914-1930, Stoccarda, Franz Steiner Verlag, 2001. 9 Il progetto di una “Società delle nazioni” fu parte del programma che il presidente democratico Woodrow Wilson sottoposto al Congresso americano l’8 gennaio 1918. Bibliografia: G. Bottaro, Pace, libertà e leadership. Il pensiero politico di Woodrow Wilson, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino, 2007.
168 Allo stesso modo le lettere piagnucolose giunte da casa esercitavano da tempo il loro effetto nefasto. Non era neanche più necessario che il nemico le inviasse nelle trincee con i volantini. Anche qui non si fece nulla, eccetto qualche “esortazione” psicologicamente idiota da “parte del governo”. Il fronte era sempre inondato da quel veleno fabbricato a casa dalle femminucce scriteriate, che non intuivano di essere un mezzo per rafforzare esternamente la fiducia nella vittoria nemica, quindi per prolungare e per aumentare la sofferenza dei loro cari in trincea. Le lettere insensate delle donne tedesche costarono la vita a centinaia di migliaia di uomini. Fu così che nel 1916 si verificarono diversi fenomeni preoccupanti. Al fronte i soldati imprecavano e “chiacchieravano”, erano scontenti di molte cose e, a volte, con ragione. Mentre il fronte soffriva e pativa la fame, i cari a casa vivevano in misera, mentre alcuni ambienti conoscevano sovrabbondanza e sperpero. Certo, persino sul fronte di guerra non tutte le cose erano al posto giusto. Esisteva un senso latente di crisi, che era ancora “interiorizzato”. Lo stesso uomo che aveva imprecato e brontolato, compiva pochi minuti dopo il suo dovere silenziosamente, come se fosse la cosa più naturale al mondo. La stessa compagnia prima scontenta si aggrappava alla sua parte di trincea, come se il destino della Germania dipendesse da poche centinaia di metri di camminamenti di fango. Era ancora il fronte del vecchio e splendido esercito di eroi! La differenza tra noi e il paese dovetti apprenderla a seguito di un violento cambiamento. Alla fine di settembre 1916 la mia divisione prese parte alla battaglia della Somme10. Fu per noi la prima di una serie di grandi scontri materiali e l’impatto era difficilmente descrivibile. Sembrava di essere all’inferno, non in guerra. Nell’uragano del tambureggiamento, il fronte tedesco resistette per intere settimane, a volte fu respinto e ricacciato, ma non cedette mai di un metro. Il 7 ottobre 1916 fui ferito11. Fortunatamente riuscii a tornarmene indietro e partii con un trasporto diretto in Germania. Erano trascorsi solo due anni da quando non vedevo più casa, un lasso temporale quasi infinito in quelle circostanze. Non riuscivo neanche a immaginarmi come fosse un tedesco senza l’uniforme. Un giorno, mentre mi trovavo nel lazzaretto di Hermies12, trasalii quasi dallo spavento nel sentire la voce di un’infermiera tedesca accanto al letto del mio vicino. La prima voce femminile dopo due anni! Quanto più vicino il treno si avvicinava al confine tedesco, tanto più ognuno di noi diventava inquieto. Attraversavamo tutte le località dove eravamo stati due anni prima da giovani reclute: Bruxelles, Lovanio, Liegi. Credevamo persino di riconoscere la prima abitazione dal timpano superiore dalle belle imposte. A casa! Per alleggerire il peso bellico delle truppe francesi a Verdun, gli alleati inaugurarono un’offensiva sulla Somme il 1º luglio 1916. Morirono quasi un milione di persone. Il reggimento di Hitler, contrariamente ad altre parti della VI Divisione riservista bavarese, partecipò solo in parte alla battaglia e quindi non ebbe esperienza diretta della carneficina. Hitler accenna infatti alla sua divisione e non al suo reggimento [KA, n. 23]. 11 La battaglia della Somme iniziò per il Reggimento List il 7 ottobre 1916. Hitler fu ferito due giorni dopo alla coscia sinistra a causa di una granata. 12 Villaggio a sud di Lilla nella Francia settentrionale.
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169 Nell’ottobre 1914 noi ardevamo tutti di entusiasmo tempestoso al solo passaggio di frontiera; ora regnavano il silenzio e la commozione. Ognuno di noi era felice che il destino gli facesse ancora vedere ciò che aveva difeso così duramente con la propria vita. E ognuno di noi quasi si vergognava di farselo leggere in volto. Quasi nell’anniversario della mia partenza giunsi nel lazzaretto di Beelitz vicino a Berlino13. Che trasformazione! Dal fango della battaglia della Somme al letto bianco di quello splendido edificio! Non osavamo nemmeno stenderci per bene. Solo pian piano riuscivamo a riabituarci a quel nuovo mondo. Purtroppo il mondo era nuovo anche in un altro senso. Lo spirito dell’esercito al fronte non sembrava sfiorare quel luogo. Qui sentii per la prima volta qualcosa che non conoscevo: l’elogio della vigliaccheria! Perché ciò che si sentiva imprecare e chiacchierare al fronte, non era mai l’invito all’elusione del dovere o l’esaltazione del coniglio. No, il vigliacco restava sempre un vigliacco. E il disprezzo era ancora unanime, così come l’ammirazione per il vero eroe. Ma qui nel lazzaretto era quasi il contrario: alcuni agitatori amorali tenevano dei discorsi e cercavano per mezzo della loro miserabile eloquenza di ridicolizzare il soldato perbene ed esaltare la pusillanimità del vile. Un paio di brutti ceffi dava il tono alla conversazione. Uno si vantava di aver messo apposta la mano sul reticolato spinato per venire al lazzaretto14. Malgrado la ferita irrisoria, mi sembrava che ci fosse da tempo immemorabile, da quando era ritornato in Germania con l’imbroglio. Questo essere velenoso arrivava a presentare sfrontatamente la sua vigliaccheria come il frutto di una prodezza superiore alla morte eroica del soldato perbene. Molti ascoltavano in silenzio, altri se ne andavano, ma alcuni acconsentivano. Mi venne la nausea a vedere l’agitatore accolto silenziosamente nell’ospedale. Che fare? Chi e che cosa fosse quell’essere dovevano saperlo al comando, e lo sapevano. Ma non si fece nulla.
Figura 1 Il lazzaretto di Beelitz [fonte: brandenburg-33.de] 13
Cittadina a sud di Potsdam, sede di un lazzaretto della Croce Rossa, dove Hitler soggiornò dal 9 ottobre al 1º dicembre 2016. 14 Le automutilazioni si verificarono spesso nell’inverno 1914-15 sul fronte occidentale. Dal 1918, insieme all’insubordinazione e alla diserzione, divennero uno fenomeni più ricorrenti nell’esercito tedesco, mettendo a serio rischio la forza combattiva della fanteria [KA, n. 30].
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Figura 2 Hitler (secondo in piedi da destra nell'ultima fila) al lazzaretto di Beelitz (fine 1916) [fonte: urban-explora.com]
Quando fui in grado di camminare, ottenni il permesso di recarmi a Berlino. La miseria della gente era generalizzata. Una metropoli pativa la fame. Il malcontento era diffuso15. In numerose case dei soldati16 il tono delle conversazioni era simile a quello del lazzaretto. Mi sembrò quasi che i disfattisti si recassero appositamente in quei luoghi per diffondere le loro idee. Ma la situazione era ben peggiore a Monaco! Quando mi dimisero dal lazzaretto per essere spedito al battaglione riservista17, mi sembrò di non riconoscere più la città. Rabbia, sfiducia e imprecazioni ovunque. Nel battaglione riservista lo stato d’animo era piuttosto critico. Qui osservavamo il modo maldestro in cui i soldati del fronte erano trattati dai vecchi ufficiali istruttori18, che non erano mai stati sul campo e che quindi riuscivano a comportarsi decentemente solo coi loro coetanei. I soldati del fronte avevano certe doti comprensibili solo al fronte, differenti rispetto agli ufficiali riservisti (che sapevano comprendere solo i loro parigrado). Quelle doti erano naturalmente assai più apprezzate dalla truppa che dai comandanti delle retrovie. A parte questo, il morale generale era sotto i tacchi. Imboscarsi era ritenuto segno di intelligenza superiore, la fedele resistenza al fronte un segno di intima debolezza e di ottusità. Le cancellerie erano occupate dagli ebrei. Quasi ogni scrivano era ebreo e ogni ebreo era scrivano. Mi stupivo nel vedere quell’infinità di combattenti del popolo 15
Il blocco navale britannico creò seri problemi di approvvigionamento alla Germania. Durante la guerra morirono circa ottocentomila civili per inedia. Bibliografia: C.P. Vincent, The Politics of Hunger. The Allied blockade of Germany, 1915-1919, Atene (Ohio), Ohio University Press, 1985. 16 I Soldatenheime (“case dei soldati”) erano istituzioni in parte pubbliche, in parte private, che sorgevano nelle retrovie e in patria. Qui trovavano ristoro e divertimento i soldati durante il tempo libero o le licenze. 17 Hitler fu assegnato al II Reggimento di fanteria bavarese di Monaco (I Battaglione riservista, IV Compagnia) dal 1º dicembre 1916 al 1º marzo 1917. 18 Gli ufficiali istruttori erano formatori delle unità riserviste in patria.
171 eletto e non potevo fare a meno di paragonarli al numero esiguo dei loro rappresentanti al fronte19.
Figura 3 Volantino del Reichsbund jüdischer Frontsoldaten (1920) [fonte: dhm.de]
Ancor peggio andavano le cose nell’economia. Qui il popolo ebraico era diventato effettivamente “indispensabile”: il ragno iniziò a succhiare lentamente il sangue popolare da tutti i pori. Per via delle società di guerra, gli ebrei avevano trovato lo strumento per uccidere lentamente la libera economia nazionale20. Gli ebrei sottolineavano la necessità di un’illimitata centralizzazione dell’economia. In effetti, già nel 1916-17 quasi tutta la produzione era sotto il controllo dell’ebraismo finanziario. Ma contro chi si rivolse l’odio popolare? All’epoca io vidi avvicinarsi con raccapriccio una sciagura che, se non scongiurata in tempo, ci avrebbe condotto al tracollo. Mentre derubava tutta la nazione e la spremeva sotto il suo dominio, l’ebreo aizzava tutti contro la “Prussia”. Esattamente come al fronte, anche a casa la classe dirigente non fece nulla contro quella propaganda velenosa. Nessuno sembrava rendersi conto che il tracollo della Prussia non avrebbe comportato il rilancio della Baviera, ma, al contrario, avrebbe irrimediabilmente spinto nell’abisso anche l’altra. Tutto questo mi faceva infinitamente male. Quel comportamento mi sembrava solo un geniale espediente dell’ebreo per distrarre l’attenzione della massa. Mentre i bavaresi e i prussiani litigavano, l’ebreo li derubava sotto il loro naso. Mentre i bavaresi protestavano contro la Prussia, l’ebreo organizzava la rivoluzione e distruggeva 19 L’accusa di “infingardaggine” mossa agli ebrei era un topos antisemita già durante la guerra. Nel dopoguerra il Reichsbund jüdischer Frontsoldaten (l’Unione dei veterani ebrei) si oppose a tali insinuazioni e pubblicò l’elenco dei caduti di origine ebraica. Bibliografia: B. Welker, “Ich hatt’ einen Kameraden”. Der Reichsbund jüdischer Frontsoldaten und das Gedanken an die Gefallenne des Ersten Weltkrieges, in S. Hank e S. Hermann (ed.), “Bis der Krieg uns lehrt, was der Friede bedeutet”. Das Ehrenfeld für die jüdischen Gefallenen des Weltkrieges auf dem Friedhof der Berliner Jüdischen Gemeinde, Berlino, Stiftung Neue Synagoge, 2004, pp. 33-50. 20 Le cosiddette Kriegsgesellaschaften (società di guerra) furono create in tempo di guerra come istituzioni incaricate di affiancare lo Stato in materia di approvvigionamento delle materie prime, dei viveri, ecc. Bibliografia: C. Nübel, Die Mobilisierung der Kriegsgesellschaft. Propaganda und Alltag im Ersten Weltkrieg, Münster, Waxmann, 2008.
172 contemporaneamente Prussia e Baviera. Non potevo sopportare quella maledetta discordia tra le etnie tedesche e fui lieto di tornarmene al fronte, per cui mi resi subito disponibile dopo il mio arrivo a Monaco. All’inizio di marzo 1917 ritornai al mio reggimento21. Verso la fine di gennaio 1917 sembrava ormai superato il punto più basso della depressione generale. L’esercito attinse nuova speranza e nuovo coraggio dopo il tracollo della Russia22. Si diffuse fra la truppa la convinzione che la guerra dovesse concludersi con una vittoria tedesca. Udivo nuovamente le canzoni e gli uccellacci del malaugurio diminuirono di numero. Credevamo nuovamente nell’avvenire della patria. In particolare il tracollo italiano dell’autunno 1917 aveva esercitato un effetto portentoso. La rotta di Caporetto23 sembrava dimostrare che si poteva sfondare il fronte anche lontano dallo scenario bellico russo. Una mirabile fede riempì nuovamente i cuori di milioni di soldati che attendevano con rinnovata fiducia la primavera del 1918. Il nemico era chiaramente depresso. L’inverno fu più tranquillo del solito. Era la quiete prima della tempesta. Mentre il fronte compiva i preparativi finali per concludere la lunghissima guerra, mentre infiniti trasporti di uomini e di materiale affluivano sul fronte occidentale e la truppa era addestrata in vista dell’assalto finale24, in Germania scoppiò la più grande infamia di tutta la guerra, almeno fino a quel momento. La Germania non doveva vincere. Perciò all’ultimo momento, quando la vittoria sembrava arridere alle bandiere tedesche, si ricorse al mezzo più consono a soffocare sul nascere l’assalto tedesco di primavera e a impedirne la vittoria: lo sciopero delle munizioni25. Se fosse riuscito, il fronte tedesco sarebbe collassato e si sarebbe realizzata la speranza del “Vorwärts” di perdere la guerra26. Il fronte sarebbe stato sfondato nel giro poche settimane per mancanza di munizioni, l’offensiva sarebbe stata impossibile, l’Intesa sarebbe stata salvata e il capitale internazionale sarebbe diventato padrone della Germania. Perché questo era lo scopo finale dell’imbroglio marxista dei popoli. Distruzione dell’economia nazionale per creare il dominio del capitale internazionale: lo scopo è riuscito a quei signori grazie alla stupidità e all’ingenuità degli uni e alla viltà abissale degli altri. 21
Hitler raggiunse il Reggimento List il 5 marzo 1917. Non visse la drammatica esperienza della battaglia della Somme. 22 Il 15 dicembre 1917 fu stipulato un armistizio tra Germania e Russia bolscevica, che portò alla pace di Brest-Litovsk del 3 marzo 1918, che pose fine alla guerra sul fronte orientale e sancì la resa della Russia. 23 Sulla “rotta di Caporetto” vedi M. Silvestri, Caporetto, una battaglia e un enigma, Milano, BUR, 2006. 24 La Kaiserschlacht (battaglia dell’imperatore, meglio nota come “offensiva di primavera”) fu l’ultimo tentativo tedesco di sfondare il fronte alleato. Dopo l’estate, però, fu chiaro che l’esito del conflitto era segnato. Bibliografia: M. Kitchen, The German Offensive of 1918, Stroud, Tempus, 2001. 25 Allusione allo Januarstreik (“sciopero di gennaio”), sostenuto dal Partito socialdemocratico indipendente tedesco e dalla Lega di Spartaco il 28 gennaio 1918 al grido “Pace e pane!” Lo sciopero terminò il 2 febbraio. Bibliografia: C. Boebel, L. Wentzel (ed.), Streiken gegen den Krieg. Die Bedeutung der Massenstreiks in der Metallindustrie von Januar 1918, Amburgo, VSA-Verlag, 2008. 26 Allusione a un articolo sul “Vorwärts!” (Avanti, organo ufficiale della socialdemocrazia tedesca) del 20 ottobre 1918, che parlava di pace e rendeva la Germania corresponsabile della guerra. Questo articolo contribuì a fomentare la cosiddetta Dolchstosslegende (il mito della “pugnalata alla schiena”) [KA, n. 51].
173 Tuttavia, lo sciopero delle munizioni non aveva conseguito il risultato sperato di affamare di armi il fronte: fu interrotto prima che la carenza di munizioni potesse condannare l’esercito alla sconfitta, come aveva previsto il piano. Solo che il danno morale fu veramente terribile!
Figura 4 Manifesto antibolscevico del Partito popolare bavarese (1919) [fonte: forum.nationstates.net]
Innanzitutto, per chi combatteva l’esercito se il fronte interno non voleva la vittoria? Per chi compiere enormi sacrifici e rinunce? Il soldato combatte per la vittoria, mentre a casa si sciopera contro la guerra! Inoltre, quale fu l’effetto sul nemico? Nell’inverno 1917-18 si levarono per la prima volta nubi minacciose sull’Intesa. Per quattro anni si era cercato di abbattere il gladiatore tedesco, senza riuscirci. Egli poteva difendere liberamente il braccio solo con lo scudo, mentre con l’altro doveva brandire la spada per colpire a volte a Est, a volte a Sud27. Ma ora il gigante aveva le spalle libere. Furono versati fiumi di sangue prima di soffocare definitivamente ogni nemico. Adesso poteva brandire la sua spada a Occidente. E se al nemico non era ancora riuscito a spezzarne lo scudo, l’assalto tedesco poteva colpirlo in pieno petto. L’Intesa temeva l’assalto tedesco e, quindi, la vittoria. A Londra e a Parigi si susseguiva una discussione dopo l’altra, mentre al fronte dominava un silenzio plumbeo. Quei signori non erano più sfrontati. Anche la propaganda nemica era imbarazzata: non era più così facile dimostrare l’impossibilità della vittoria tedesca. 27
Allusione al fronte balcanico, italiano, caucasico e mediorientale.
174 Peccato che lo stesso stato d’animo ci fosse anche al fronte. Anche nei loro occhi spuntò lentamente una luce sinistra. La loro visione del soldato tedesco era mutata. Se finora era stato considerato un buffone destinato alla sconfitta, ora appariva il distruttore dell’alleato russo. La limitazione necessaria dell’offensiva tedesca a Oriente sembrava ora una tattica geniale. Per tre anni i tedeschi si erano scagliati contro i russi, apparentemente senza la benché minima possibilità di vincere. Alcuni sorridevano di quei vani assalti, perché il gigante russo avrebbe finito per prevalere grazie alla differenza numerica. La Germania si sarebbe dissanguata. La realtà sembrava confermare le loro speranze. Dal settembre 1914, quando iniziarono a riversarsi sulle strade e sulle ferrovie le enormi colonne di prigionieri russi della battaglia di Tannenberg28, la corrente appariva inarrestabile. Solo che dopo ogni esercito battuto e arreso ne spuntava fuori uno nuovo. L’enorme impero forniva inesauribilmente allo zar29 nuovi soldati e alla guerra nuove vittime. Quanto poteva durare la Germania? Quante vittorie tedesche ci sarebbero ancora state dopo l’eterno affluire di truppe russe? E dunque? A giudizio umano, la vittoria della Russia era rimandata, ma inevitabile. Adesso tutte le speranze erano scemate. L’alleato, che aveva compiuto il più grande sacrificio di sangue sull’altare degli interessi comuni, era allo stremo delle forze e giaceva a terra davanti allo spietato assalitore. Timore e terrore si insinuarono nei cuori dei soldati finora creduloni. Si temeva l’arrivo della primavera. Perché, se non si era ancora riusciti a piegare il tedesco, di cui solo una parte era schierata sul fronte occidentale, come si poteva contare sulla vittoria ora che tutta la forza dell’eroico Stato sembrava pronta all’offensiva? Le ombre delle montagne sudtirolesi opprimevano la fantasia; i visi depressi degli eserciti sconfitti di Cadorna30 fantasticavano sino alle nebbie fiamminghe. La fiducia nella vittoria cedeva il posto al timore dell’imminente sconfitta. Proprio quando credevamo di udire nelle notti rigide il passo regolare dell’esercito assalitore in avvicinamento e osservavamo con vibrante preoccupazione il giudizio imminente, guizzò improvvisamente sulla Germania una luce rossastra che gettò i bagliori sino all’ultimo cratere di granata del fronte nemico. Nell’istante in cui le divisioni tedesche compivano le esercitazioni finali prima dell’assalto decisivo, scoppiò in Germania lo sciopero generale. Il mondo rimase inizialmente di stucco. Poi la propaganda nemica accolse con un sospiro di sollievo l’aiuto della dodicesima ora. In un colpo solo fu trovato il mezzo per risollevare la fiducia dei soldati alleati, per rafforzare la probabilità di vittoria e per trasformare la preoccupazione in fiducia per l’avvenire. Bisognava ora trasmettere ai reggimenti in attesa dell’attacco tedesco la convinzione che, nella più grande battaglia di tutti i tempi, la temerarietà della tempesta tedesca non avrebbe deciso le sorti della 28
Le battaglie del 1914 sul fronte orientale (Tannenberg in particolare) fecero del generale Paul von Hindenburg un mito della propaganda bellica tedesca. Alla fine del 1916 subentrò a von Falkenhayn a capo dello Stato Maggiore dell’Esercito. Bibliografia: J. Von Hoegen, Der Held von Tannenberg. Genese und Funktion des Hindenburgs-Mythos, Colonia, Böhlau, 2007. 29 Allusione a Nicola II, zar di tutte le Russie dal 1894 al 1917. 30 Luigi Cadorna (1850-1928), capo di Stato Maggiore dell’Esercito italiano fino al 25 ottobre 1917, quando fu sostituito da Armando Diaz.
175 guerra, ma sarebbe bastata la saldezza della sua difesa. Per quante battaglie i tedeschi vincessero, a casa si attendevano la rivoluzione e non l’esercito vittorioso. Queste convinzioni furono nuovamente instillate nei cuori dei lettori dai giornali americani, francesi e inglesi, mentre una propaganda infinitamente abile sollevò il morale delle truppe al fronte. “La Germania di fronte alla rivoluzione. La vittoria degli Alleati inevitabile”. Quale miglior medicina per ristabilire i vacillanti Poilus e Tommies?31 Ora si potevano utilizzare nuovamente i fucili e le mitragliatrici e, al posto di una fuga dettata dal panico generale, subentrò una speranzosa resistenza. L’esito dello sciopero delle munizioni fu quello di rafforzare la convinzione nella vittoria fra i popoli nemici e di rimuovere la paralizzante disperazione dal fronte alleato. Alla fine ci lasciarono la vita migliaia di soldati tedeschi. Ma gli autori di quell’infame sciopero aspiravano a occupare i posti di comando della Germania rivoluzionaria. Inizialmente, da parte tedesca, la ripercussione dello scioperò non fu grave, non così da parte avversaria. La resistenza non temeva più un esercito ormai dato per sconfitto. Al suo posto subentrò l’esasperazione di una lotta per la vittoria. Perché, a detta di tutti, la vittoria sarebbe giunta se il fronte occidentale avesse retto solo pochi mesi all’assalto tedesco. Nei parlamenti dell’Intesa si riconobbe la probabilità di un futuro migliore e si concessero mezzi inauditi per proseguire la propaganda per la distruzione della Germania. Io ebbi la fortuna di poter partecipare alle prime due e all’ultima offensiva32. Sono le più formidabili esperienze della mia vita: per la prima volta dal 1914, la lotta perse il carattere difensivo per assumere un piglio offensivo. Un enorme sospiro di sollievo attraversò le trincee e le gallerie dell’esercito tedesco, quando, dopo oltre tre anni di resistenza sul suolo nemico, giunse il giorno della vendetta. I battaglioni vittoriosi esultarono di nuovo e le bandiere vittoriose si adornarono delle ultime corone di lauro imperituro. I canti patriottici si levarono verso il cielo dalle sterminate colonne marcianti e, per l’ultima volta, la grazia del Signore arrise ai suoi figli ingrati. In piena estate del 1918 aleggiava sul fronte un’atmosfera pesante. A casa si litigava. Per cosa? Giravano molte voci nei reparti dello Stato maggiore: la guerra sarebbe inutile, e solo un folle potrebbe pensare alla vittoria finale; il popolo non avrebbe interesse a proseguire la resistenza, ma solo il capitale e la monarchia. Questo filtrava da casa e si discuteva al fronte. Inizialmente, la reazione non fu particolare. Che ce ne veniva del suffragio universale?33 Avevamo forse combattuto quattro anni per quello? Era un infame colpo basso derubare gli eroi morti in guerra. Non solo con l’appello “viva il suffragio universale e segreto” i giovani reggimenti erano mandati a morire nelle Fiandre, ma
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Indicazione colloquiale per soldato francese e inglese durante la Prima guerra mondiale. Hitler prese parte nell’ottobre 1914 agli scontri di Gheluvelt e Wytschaete all’interno della “Prima battaglia delle Fiandre” [KA, n. 63]. 33 La riforma elettorale, sostenuta dalla socialdemocrazia, pur annunciata da Guglielmo II nella Pasqua del 1917, fu realizzata solo dopo la guerra [KA, n. 64].
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176 anche al grido Deutschland über alles in der Welt34. Una piccola, ma non insignificante differenza. Ma coloro che strillavano per il suffragio universale erano gli stessi che, in larga parte, non erano stati dove bisognava ottenerlo. Il fronte non conosceva quei politicastri. Era difficile vedere quei parlamentari fra i tedeschi dotati di attributi. La vecchia guardia dell’esercito era poco sensibile ai nuovi obiettivi bellici dei signori Ebert, Scheidemann, Barth, Liebknecht ecc.35 Né si capiva come gli imboscati avessero il diritto di puntare al controllo dello Stato servendosi dell’esercito. La mia posizione personale fu subito chiara: odiavo tutta quella banda di miserabili farabutti partitici e di traditori popolari. Mi era chiaro già da tempo che quella gentaglia non voleva il bene della nazione, semmai riempire le sue tasche vuote. Ai miei occhi erano degni del capestro quegli individui pronti a sacrificare tutto il popolo e, se necessario, la Germania a loro esclusivo vantaggio. Pensare solo al loro tornaconto personale voleva dire sacrificare gli interessi dei lavoratori a favore di alcuni sfaticati. Realizzarli significava rinunciare alla Germania. Così la pensavano quasi tutti gli eserciti combattenti. Ma il livello degli ultimi rinforzi provenienti da casa era gradualmente peggiorato; il loro arrivo non portò ad alcun rafforzamento, semmai a un indebolimento della nostra forza combattiva. Specialmente i più giovani erano pressoché inutili. Era assai difficile da credere che fossero i figli dello stesso popolo che, qualche anno prima, aveva mandato i giovani a combattere a Ypern36. Fra agosto e settembre i segni della disgregazione andarono intensificandosi velocemente, anche se l’azione offensiva del nemico non era paragonabile agli orrori delle battaglie difensive passate. La Somme e le Fiandre erano ormai un terribile ricordo. A fine settembre la mia divisione giunse per la terza volta nelle posizioni che avevamo conquistato quattro anni prima. Quanti ricordi! Fra l’ottobre e il novembre del 1914 essa aveva ricevuto il battesimo del fuoco37. L’amore patrio nel cuore e i canti sulle labbra avevano accompagnato il nostro giovane reggimento in battaglia, come a un ballo. Versammo gioiosamente il sangue più prezioso nella convinzione di garantire indipendenza e libertà alla nostra patria. Nel luglio 1917 mettemmo piede per la seconda volta sul suolo a noi più sacro. Qui riposavano i nostri migliori commilitoni, ancora quasi ragazzi, che all’epoca si erano precipitati con occhi radiosi incontro alla morte per l’amatissima patria! Noi più navigati, giunti all’epoca col reggimento, ci trovavamo con riverente commozione in quel luogo di giuramento di “fedeltà e obbedienza sino alla morte”38. Allusione al “mito di Langemarck”, località fortificata nelle Fiandre dove fu massacrato un gruppo di volontari tedeschi nell’ottobre 1914. Bibliografia: U.-K. Ketelsen, “Die Jugend von Langemarck”. Ein poetischpolitisches Motiv der Zwischenkriegszeit, in T. Koebner et al. (ed.), “Mit uns zieht die neue Zeit”. Der Mythos Jugend, Francoforte sul Meno, Suhrkamp, 1985, pp. 68-96. 35 Politici della sinistra politica tedesca: oltre a Ebert (socialdemocrazia, presidente della Repubblica di Weimar sino al febbraio 1925) abbiamo Philipp Scheidemann (socialdemocrazia), Emil Barth (socialdemocrazia indipendente), Karl Liebknecht (Lega di Spartaco). 36 Vedi capitolo 5-I. 37 Siamo nei pressi di Ypern, nelle Fiandre. 38 Citazione dal dramma I masnadieri (atto I, scena 2) di Friedrich Schiller (1781).
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177 Quella stessa terra, assaltata tre anni prima, andava ora difesa nella più difficile battaglia difensiva. Con un bombardamento di tre settimane, l’Inghilterra preparò la grande offensiva delle Fiandre. Sembravano risuscitati gli spiriti dei caduti. Il reggimento affondò nella sudicia melma, si aggrappò alle singole buche e ai singoli crateri, non cedette, non vacillò, divenne sempre più esiguo di numero, finché l’offensiva inglese non cessò il 31 luglio 191739. A inizio agosto fummo rimpiazzati40. Il reggimento si era ridotto ad alcune compagnie che rientrarono incrostate di fango, più simili a fantasmi che a uomini. L’inglese se l’era vista brutta fuori degli enormi crateri delle granate. Ora, nell’autunno del 1818 ci trovavamo per la terza volta sul luogo dell’assalto del 1914. La cittadina del nostro vecchio ristoro (Comines)41 era ormai un campo di battaglia. Anche se la zona di guerra era la stessa, gli uomini erano cambiati: la truppa si era “politicizzata”. Il veleno di casa iniziò a sortire i suoi effetti nefasti al fronte. Le nuove reclute fallivano miseramente: provenivano da casa. Nella notte fra il 13 e il 14 ottobre iniziò il lancio di gas inglese dal fronte meridionale davanti a Ypern. Era la “Croce Gialla”, di cui non conoscevamo ancora gli effetti sulla nostra pelle42. Li sperimentai personalmente quella notte. La sera del 13 ottobre, su un colle a sud di Wervick43, fummo sottoposti a un bombardamento prolungato di granate a gas, che si protrasse per tutta la notte in modo più o meno violento. Verso mezzanotte, molti commilitoni ci lasciarono per sempre. Alle prime luci dell’alba fui colto da un dolore sempre più atroce, a intervalli di quarti d’ora. Alle sette me ne tornai indietro barcollando con gli occhi ardenti, l’ultimo regalo della guerra. Alcune ore più tardi, gli occhi si erano trasformati in veri e propri tizzoni ardenti: non vedevo più niente44. Fui spedito nel lazzaretto di Pasewalk, in Pomerania, dove assistetti alla più grossa infamia del secolo. Aleggiava già da tempo qualcosa di indefinito, ma fastidioso. Si raccontava che sarebbe “scoppiata” nel giro di poche settimane, ma non riuscivo a immaginarmi di che cosa si trattasse. Pensai inizialmente a uno sciopero simile a quello primaverile. Odori sgradevoli giungevano di continuo dalla Marina, che si diceva fosse in Il 31 luglio 1917 scoppiò la “Terza Battaglia delle Fiandre” con un attacco delle truppe britanniche alle postazioni tedesche. La battaglia si concluse il1 0 novembre 1917. 40 Il bombardamento preparatorio alla “Terza Battaglia delle Fiandre” fiaccò il morale del Reggimento List. Nell’agosto 1917 Hitler fu spedito in Alsazia. A metà ottobre stazionò a 150 km a nord-ovest di Parigi, dove rimase sino a inizio 1918. Hitler non accenna al conferimento della Croce di Ferro di I classe del 4 agosto 1918 [KA, n. 74]. 41 Città al confine franco-belga a sud di Ypern. 42 La Croce Gialla (poi noto come Croce Verde) fu un gas velenoso usato per la prima volta dalle truppe tedesche nel luglio 1917. 43 Wervik, cittadina a Sud di Ypern. 44 Dopo il ferimento tra la notte del 13-14 ottobre 1918, Hitler finì nel lazzaretto di Pasewalk presso Stettino, dove rimase sino al 19 novembre. Non è chiara la motivazione dell’accecamento-offuscamento della vista [KA, n. 79]. 39
178 subbuglio. Solo che mi sembrava il parto della fantasia di alcuni piuttosto che un fatto di portata generale. Nel lazzaretto stesso si parlava di un’immediata conclusione della guerra, solo che nessuno contava sull’“immediato”. I quotidiani non potevo leggerli per via della vista. In novembre crebbe la tensione generale. E un giorno avvenne improvvisamente e inaspettatamente la disgrazia. I marinai giunsero sugli autocarri annunciando la rivoluzione. Un paio di giovani ebrei erano i “capi” della lotta per la “libertà”, per la “bellezza” e per la “dignità” dell’esistenza del nostro popolo. Nessuno di loro era stato al fronte. Per via del “lazzaretto della gonorrea”45, i tre orientali erano stati rispediti nelle retrovie. Ora issavano gli stracci rossi.
Figura 5 Il lazzaretto di Pasewalk [fonte: firstlightforum.wordpress.com]
Negli ultimi tempi la mia salute era migliorata. Il dolore lancinante nelle orbite oculari si era attenuato. Riuscivo lentamente a distinguere i contorni grossolani degli oggetti. Potevo sperare di tornare a vedere, per poi cercarmi un lavoro. Certo, non speravo più di tornare a disegnare. Mi trovavo comunque sulla via della guarigione, quando avvenne una cosa orrenda. La mia prima speranza era sempre quella che il tradimento46 fosse solo una cosa più o meno circoscritta. Cercai anche di convincerne alcuni commilitoni. Erano preoccupati soprattutto i miei compagni di lazzaretto bavaresi. Lo stato d’animo era tutt’altro che “rivoluzionario”. Non riuscivo a immaginarmi che anche Monaco fosse 45
I soldati con malattie sessuali erano confinati in precisi settori del lazzaretto. Landesverrat (tradimento) è genericamente riferito al tradimento contro la sicurezza dello Stato (come l’assassinio di una personalità di spicco delle istituzioni). Lo Hochverrat (alto tradimento) si riferisce più propriamente alla sicurezza esterna. Nel 1924 Hitler fu processato per alto tradimento.
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179 in preda a quella follia. La fedeltà verso la riverita casata dei Wittelsbach47 mi sembrava più salda che la volontà di qualche ebreo. Perciò ritenevo che si trattasse di un colpo di stato della Marina che sarebbe stato represso nel giro di pochi giorni.
Figura 6 Adolf Hitler (seduto a destra) con i compagni del Reggimento List al lazzaretto di Pasewalk (fine 1918) [fonte: Bundesarchiv]
Pochi giorni dopo ebbi la più orrenda certezza della mia vita. Gli odori erano sempre più soffocanti. L’evento circoscritto si era trasformato in una rivoluzione generale. Per non parlare delle umilianti notizie dal fronte. Lo Stato maggiore intendeva capitolare. Com’era anche solo immaginabile una cosa del genere? Il 10 novembre giunse nel lazzaretto un pastore per tenere un breve discorso. Ci raccontò tutto. Io ero molto irritato, ma presenziai alla sua breve orazione. Il vecchio e rispettabile signore mi sembrava trepidante, quando ci comunicò che la casata degli Hohenzollern48 non avrebbe più indossato la corona imperiale, che la patria sarebbe diventata una repubblica49 e che bisogna pregare l’Onnipotente di non privarci della Sua benedizione e di non abbandonare il nostro popolo in futuro. Non poté dire altro, doveva commemorare la casata reale, voleva che il suo servigio fosse apprezzato in Pomerania, in Prussia, anzi in tutta la Germania. Quando iniziò a piangere, nella saletta scese una profonda depressione su tutti i nostri cuori. Credo che nessuno riuscì 47
Il 7 novembre 1918 Kurt Eisner, leader della socialdemocrazia indipendente bavarese, dichiarò la deposizione di Ludovico III di Baviera e annunciò la creazione dello Stato libero di Baviera. La notte stessa il re fuggì, senza mai formalmente abdicare o rinunciare al trono. 48 Casata regnante tedesca originaria di Hohenzollern (Baden-Württemberg). I suoi discendenti furono principi ereditari del Brandeburgo dal 1415, re di Prussia dal 1701 e imperatori di Germania dal 1871. 49 Il 9 novembre 1918 il cancelliere Massimiliano di Baden annunciò l’abdicazione di Guglielmo II. Lo stesso giorno Scheidemann, nuovo cancelliere, proclamò la Repubblica tedesca, mentre Karl Liebknecht proclamò la Libera Repubblica socialista.
180 a trattenere le lacrime. Ma quando l’anziano signore cercò di proseguire e iniziò a comunicare che la guerra era da ritenersi conclusa, che la nostra patria sarebbe stata sottoposa a dure prove, poiché aveva perso la guerra e si sarebbe rimessa alla mercé del vincitore, che l’armistizio sarebbe stato accettato solo per magnanimità dei nostri vecchi nemici50, non ce la feci più. Non potei più restare lì. Mentre la mia vista tornava a offuscarsi, me ne andai barcollando verso il dormitorio, mi gettai sul giaciglio e seppellii il mio capo in fiamme sotto le coperte e il cuscino. Il giorno che mi ero trovato davanti alla tomba di mia madre51 avevo giurato che non avrei mai più pianto in vita mia. La mia ostinazione era cresciuta ogni volta che, in gioventù, il destino mi aveva inferto qualche duro colpo. Quando, nei lunghi anni di guerra, la morte si era presa così tanti amati commilitoni e amici dalle nostre file, mi era sembrato sbagliato lamentarmi. Morivano per la Germania! E quando, negli ultimi giorni della lotta più spaventosa, fui colpito silenziosamente dal gas, che iniziò a corrodermi gli occhi e temetti per un attimo di aver perso la vista, la voce della coscienza tuonò dentro di me: miserabile smidollato, vuoi strillare mentre centinaia di migliaia di tuoi commilitoni stanno peggio di te!? Così accettai silenziosamente e indifferentemente il mio destino. Ora non ce la facevo più. Per la prima volta, mi rendevo conto che la sofferenza personale svaniva di fronte alla disgrazia della patria. Tutto era stato vano: ogni sacrificio e privazione, la fame e la sete di mesi a volte interminabili. Vane furono le ore in cui, attanagliati dalla paura di morire, avevamo fatto comunque il nostro dovere. Vana fu la morte di due milioni di uomini caduti in guerra52. Non bisognava aprire le tombe di tutte quelle centinaia di migliaia di persone, trascinate dalla fede nella patria e mai più giunte a casa? Non bisognava aprire e spedire a casa gli spiriti vendicatori degli eroi silenziosi, cosparsi di fango e di sangue, truffati beffardamente del più supremo sacrificio che un uomo possa compiere per il proprio popolo? Per cosa erano morti i soldati dell’agosto e del settembre 1914? Perché i reggimenti di volontari avevano seguito i commilitoni più anziani nell’autunno di quell’anno? Per cosa morirono quei giovani diciassettenni in terra fiamminga? Qual è il senso del sacrificio offerto dalla madre tedesca alla patria, quando col cuore addolorato aveva visto partire i giovani più cari che non avrebbe rivisto mai più? Per cosa aveva resistito il soldato tedesco di fronte al sole cocente e alla tempesta invernale, affamato, assetato, gelato, stanco per notti insonni e per marce infinite? Per cosa era finito nell’inferno del bombardamento o nella frenesia della lotta dei gas, senza cedere, memore continuamente dell’unico dovere di salvare la patria di fronte all’invasione del nemico? Anche quegli eroi meritavano una lapide sepolcrale:
Le trattative del governo per l’armistizio avvennero su pressione dello Stato Maggiore dell’Esercito. L’armistizio fu firmato a Compiègne l’11 novembre 1918. 51 La madre Klara morì a Linz il 21 dicembre 1907. 52 Secondo le statistiche ufficiali, morirono in guerra circa un milione e duecentomila soldati tedeschi, mentre i dispersi furono circa settecentosettantamila [KA, n. 92]. 50
181 “Viandante, tu che torni in Germania, annuncia alla patria che noi siamo qui, fedeli alla patria e ligi al dovere”53. E a casa? Era forse questo l’unico sacrificio da considerare? La Germania passata aveva meno valore? Non c’era forse un dover di fronte alla storia? Potevamo ancora appellarci alla gloria passata? Ma come si poteva giustificare quell’azione di fronte ai posteri? Miserabili e criminali depravati! Quanto più tentavo di comprendere la portata di quell’enorme evento, tanto più provavo vergogna, indignazione e umiliazione dentro di me. Cos’era il dolore degli occhi di fronte a quello strazio? Seguirono giorni orribili e notti ancor peggiori. Sapevo che tutto era perduto. Solo un pazzo, un bugiardo o un criminale poteva sperare nella grazia del nemico. In quelle notti crebbe il mio odio contro gli autori di quei misfatti. In quei giorni presi coscienza del mio destino. Sorridevo al pensiero del mio avvenire, che poco tempo prima mi aveva procurato così tanta preoccupazione. Non era ingenuo erigere le case su quelle fondamenta? Alla fine capii che si era avverato ciò che avevo tanto temuto, che non avevo voluto istintivamente credere. Il Kaiser Guglielmo II, come primo imperatore tedesco54, aveva teso la mano conciliante al marxismo, senza sospettare che i furfanti non hanno onore. Mentre tenevano ancora la mano imperiale nella propria, con l’altra cercavano di pugnalarlo55. Con l’ebreo non si può venire a patti, ma si può fare solo una scelta netta: o contro o a favore. Allora decisi di fare politica56.
Approfondimenti didattici 1. Analisi retorica e stilistica
- Individua le principali figure retoriche; - Individua l’esistenza di fallacie retoriche; - Individua i principali “loci” e “topoi”; - Individua la presenza di stereotipi e pregiudizi.
Forma mutuata dell’epigramma in ricordo della sconfitta greca alle Termopolii del 480 a.C. Schiller lo tradusse nella sua composizione poetica La passeggiata (1795) [KA, n. 94]. 54 Guglielmo II fu il terzo imperatore tedesco, dopo Guglielmo I (1871-1888) e Federico III (1888). 55 Sulla leggenda della “pugnalata alla schiena” vedi capitolo 10-I. 56 Nello schizzo autobiografico del novembre 1921 manca del tutto la stilizzazione finale. Qui Hitler sposava la tesi clausewitziana che la politica fosse la prosecuzione della guerra con altri mezzi e un presupposto necessario per la futura rivincita militare [KA, n. 97]. A. Gilardoni, Logica e argomentazione. Un prontuario, Milano, Mimesis, 2008. 53
182 2. Analisi storico-culturale - Propaganda di guerra: analizza le rappresentazioni delle diverse propagande di guerra e cerca di delinearne i motivi ricorrenti; - Economia di guerra: analizza la conversione dell’economia tedesca in tempo di guerra (con il ricorso alle cosiddette “società di guerra”) e tenta di abbozzare le possibili conseguenze sullo scenario postbellico; - Baviera e Prussia: analizza il problema del federalismo tedesco dalla nascita del Secondo Impero sino al primo dopoguerra; - Guerra e rivoluzione: analizza l’arma politica dello sciopero durante l’ultimo anno di guerra; - La “pugnalata alla schiena”: analizza la genesi del mito del “tradimento” in patria e tenta di delinearne l’elaborazione retorica.
Capitolo VIII. Gli esordi della mia attività politica
Sinossi 1. Genesi Il capitolo 8-I, insieme a quello successivo, è stato redatto nel giugno 1924. Malgrado la brevità, ne è stato scorporato. Questo si spiega probabilmente con l’inserimento della parte dedicata al rapporto fra programmatore e politico. L’aggiunta dei capitoli 8-I e 9-I taglia il volume in due parti, separando il capitolo sulla Rivoluzione da quello dedicato alle sue “cause profonde”. Hitler decise di introdurre il suo ingresso politico quale conseguenza della Rivoluzione e del successivo tracollo postbellico1. 2. Contenuto Il capitolo 8-I descrive brevemente gli eventi esteriori della vita di Hitler dal novembre 1918 al maggio 1919. In quei sei mesi febbrili l’ex caporale del Reggimento List vive in prima persona la breve parentesi dell’esperienza consiliare bavarese (alla quale oppone una “fiera opposizione”) e il “ritorno alla normalità”. Sono mesi in cui Hitler avrebbe iniziato a prendere consapevolezza delle sue qualità oratorie e della sua missione personale terrena: tentare di salvare la Germania dalla deriva rivoluzionaria mortifera e, successivamente, dalla “viltà” della Repubblica di Weimar. Durante quei mesi Hitler viene a conoscenza degli scritti teorici di Gottfried Feder e della sua critica nazionalpopolare al capitalismo speculativo e borsistico. La “bontà” e la “bellezza” di quelle espressioni vanno però calate nella realtà pratica. Il programmatore (cioè Feder-Eckart) ha bisogno del politico (cioè Hitler), del “volgarizzatore”, del tramite fra l’idea e la sua espressione concreta. Entrambe le figure intellettuali sono importanti perché elaborano la linea temporale ininterrotta dal passato al presente e dal presente sino al futuro. Non così i politicanti “realisti” intenti solo a “tirare a campare” offrendo soddisfazione momentanea alla pancia dei loro elettori. Volere l’impossibile, sognare un mondo migliore. Poche volte nella storia il programmatore e il politico si sono sintetizzati in una persona sola. Hitler fa gli esempi di Lutero, di Federico il Grande e di Wagner. Il “sogno” deve scontrarsi con le obiezioni di natura pratica, ma il medico-patologo-vate ha di fronte a sé il fallimento di altre ricette (siamo all’indomani dell’iperinflazione del 1923, il punto più basso della Repubblica di Weimar postbellica). Le idee non sono un fine, ma un mezzo in vista di un fine: non vanno “irrigidite” in teorie astratte (come Marx e il marxismo). Bisogna “nazionalizzare la truppa” per renderla parte meritevole e integrante dell’avvenire tedesco. 3. Analisi Il capitolo 8-I funge da trait d’union fra la Rivoluzione e la ricostruzione delle sue “cause profonde”. È sintomatico come il tema principale non sia la politica quotidiana, cioè la Repubblica consiliare bavarese del 1919. Non è nemmeno la figura di Gottfried Feder, il teorico di un capitale 1
KA I, p. 559.
184 produttivo e “nazionale”. Ma è il concetto di “politico”. È sul politico che si concentra l’attenzione di Hitler. Questo, chiaramente, porta acqua al suo mulino: dimostrando la sua ritrosia a scendere in politica prima del 1919 (cioè del trentesimo anno di età) e accusando i politici coevi di scarsa lungimiranza oppure di velleitarismo, il decoratore austriaco prepara la sua discesa in campo. Questo capitolo, come molti altri, parla ben poco delle vicende reali di Hitler, a ulteriore dimostrazione di come la preparazione del Mein Kampf, e in special modo della Resa dei conti, fosse soprattutto una sorta di auto-confessione in forma di comizio. Mancano sempre le “dimostrazioni” fattuali delle affermazioni. Non abbiamo mai prove quantificabili, ma solo segnipresagi di un disegno politico “superiore”. Ma parlare di “irrazionalismo” è riduttivo e non coglie la coerenza della strategia oratoria e la validità della sintassi politica hitleriana. Il problema alla base del nazionalsocialismo è di natura metafisica, logica e politica. Se Hitler ha voluto elaborare il comizio in forma di libro, soffermandosi sulle tracce della “malattia”, è perché il ruolo che vuole assumere (e che assumerà dopo la scarcerazione da Landsberg) sarà quello di “visionario”, di “profeta”, coi piedi ben saldi a terra. Il capo del nazismo si rappresenta come una sintesi fra Gesù, Pietro e Paolo, è uno e trino in un’unica persona. Come Gesù, si sente incaricato di una missione divina, in quanto “generato” dal Creatore. Come Pietro, è un pescatore di anime, cioè deve diffondere una nuova religione tra i filistei. Come Paolo, deve organizzare la nuova religione nazionalpopolare. 4. Parole-chiave Capitale borsistico, Capitale produttivo, Capitale speculativo, Consigli dei soldati, Crimine novembrino, Economia nazionale Gottfried Feder, Karl Marx, Partito tedesco dei lavoratori, Politica di alleanza, Politico, Programmatore, Rivoluzione del 1918, Socialdemocrazia, Umanità, Zentrum. 5. Bibliografia essenziale - B. Barth, Dolchstosslegenden und politischen Desintegration. Das Traume der deutschen Niederlage im Ersten Weltkrieg, 1914-1933, Düsseldorf, Droste, 2003; - A. Bullock, Hitler. Studio sulla tirannide, Milano, Res Gestae, 2014; - K. Burke, Die Rhetorik in Hitlers “Mein Kampf” und andere Essays zur Strategie der Überredung, Francoforte sul Meno, Suhrkamp, 1967; - D. Capozza, C. Volpato, Le intuizioni psicosociali di Hitler. Un’analisi del “Mein Kampf”, Bologna, Patron, 2004; - W. Carr, Hitler. Studio sul rapporto tra personalità e politica, Napoli, Liguori, 1985; - G. Corni, Hitler, Bologna, Il Mulino, 2007; - Id., Breve storia del nazismo, 1920-1945, Bologna, Il Mulino, 2015; - G. Feder, Il manifesto per spezzare l’asservimento dell’interesse del denaro, traduzione di M. Linguardo, revisione di M. Mainardi, Roma, Thule Italia, 2015; - G.D. Feldman, The great disorder. Politics, economics and society in the German inflation, 1914-1924, New York, Oxford University Press, 1993; - J. Fest, Hitler. Una biografia, traduzione di F. Saba Sardi, Milano, Garzanti 2005; - L.-B. Keil, S.F. Kellerhoff, Deutsche Legenden. Vom “Dolchstoss” und anderen Mythen der Geschichte, Berlino, Links Verlag, 2002; - L. Herbst, Il carisma di Hitler. L’invenzione di un messia tedesco, traduzione di U. Gandini, Milano, Feltrinelli, 2011; - A. Joachimsthaler, Hitler in München, 1908-1920, Francoforte sul Meno, Ullstein, 1992; - M. Karl, Die Münchener Räterrepublik. Porträts einer Revolution, Düsseldorf, Patmos, 2008; - S.F. Kellerhoff, Il libro proibito di Hitler. Storia del Mein Kampf, Milano, Rizzoli, 2016;
185 - B. Kent, The spoil of war. The politics, economics, and diplomacy of reparations, 1918-1932, Oxford, Clarendon Press, 1989; - I. Kershaw, Hitler, vol. 1: 1889-1936, Milano, Bompiani, 2003; - G. Köglmeier, Die Zentralen Rätgremein und Rätrepublik in Bayern, 1918/19, Monaco, Bayerische Landesgeschichte, 2001; - P. Krüger, Deutschland und die Reparationen, 1918/19. Die Genesis des Reparationsproblems in Deutschland zwischen Waffenstillstand und Versailler Friedensschluss, Stoccarda, Deutsche Verlags-Anstalt, 1973; - W.C. Langer, Psicanalisi di Hitler. Rapporto segreto del tempo di guerra, Milano, Garzanti, 1975; - P. Longerich, Hitler. Biographie, Monaco, Siedler Verlag, 2015; - W. Maser, Adolf Hitler, Roma, Ciarrapico, 1978; - G.L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (1815-1933), Bologna, Il Mulino, 2009; - A. Musolff, Metaphor, nation and the Holocaust. The concept of the body politic, New York, Routledge, 2011; - W. Nerdinger (ed.), München und der Nationalsozialismus. Katalog des NS-Dokumentations-zentrum München, Monaco, C.H. Beck, 2015; - W. Niess, Die Revolution von 1918/19 in der deutschen Geschichtsschreibung. Deutungen von der Weimarer Republik bis ins 21. Jahrhundert, Berlino, de Gruyter, 2013; - O. Plöckinger, Adolf Hitler als Hörer an der Universität München im Jahr 1919. Zum Verhältnis zwischen Reichswehr und Universität, in E. Kraus (ed.), Die Universität München im Dritten Reich, Monaco, Herbert Utz Verlag, 2008, pp. 113-147; - Id., Geschichte eines Buches. Adolf Hitlers “Mein Kampf”, 1922-1945. Eine Veröffentlichung des Instituts für Zeitgeschichte, Monaco, Oldenbourg, 2011; - Id., Unter Soldaten und Agitatoren. Hitlers prägende Jahre im deutschen Militär, 1918-1920, Paderborn, Schöningh, 2013; - Id., Quellen und Dokumente zur Geschichte von “Mein Kampf”, 1924-1945, Stoccarda, Franz Steiner Verlag, 2016; - W. Pyta, Hitler. Der Künstler als Politiker und Feldherr. Eine Herrschaftsanalyse, Monaco, Siedler Verlag, 2015; - P.R. Range, La genesi del Mein Kampf. 1924: l’anno che cambiò la storia, Roma, Newton Compton, 2017; - F.J. Rash, The language of violence. Adolf Hitler’s “Mein Kampf”, New York, Peter Lang, 2006; - R.G. Reuth, Hitler. Eine politische Biographie, Monaco, Piper, 2003; - M. Seligmann, Aufständ der Räte. Die erste bayerische Republik vom 7. April 1919, Grafenau-Döffingen, Trotzdem-Verlag, 1989, 2 volumi; - H. Steinhaus, Hitlers pädagogische Maximen. “Mein Kampf” und die Destruktion der Erziehung im Nationalsozialismus, Francoforte sul Meno, Peter Lang, 1981; - J. Toland, Adolf Hitler. The definitive biography, New York, Doubleday, 1976; - A. Tyrrell, Vom “Trommler” zum Führer. Der Wandel von Hitlers Selbstverständnis zwischen 1919 und 1924 und die Entwicklung der NSDAP, Monaco, Fink, 1975; - V. Ullrich, Adolf Hitler. Biographie, vol. 1: Die Jahre des Aufstiegs 1889-1939, Francoforte sul Meno, S. Fischer, 2013; - A. Viktine, “Mein Kampf”. Storia di un libro, traduzione di G. Zucca, Milano, Cairo, 2010; - B. Zehnpfennig, Hitlers “Mein Kampf”. Eine Interpretation, Monaco, Fink, 2000; - R. Zitelmann, Hitler, Roma-Bari, Laterza, 1991; - R. Zühlke (ed.), Bildpropaganda im Ersten Weltkrieg, Amburgo, Ingrid Kämpfer, 2000.
Tornai a Monaco a fine novembre 1918. Mi presentai al battaglione riservista del mio reggimento2, che si trovava nelle mani dei “Consigli dei soldati”3. La cosa era così Hitler fu congedato il 19 novembre 1918 dal lazzaretto di Pasewalk. Il 21 novembre raggiunse la VII Compagnia del Battaglione riservista del II Reggimento fanteria di Monaco [KA, n. 1]. 3 Da fine ottobre 1918, oltre ai Consigli dei soldati sorsero commissioni interne all’esercito, elette dai soldati, che intendevano concordare i termini della ritirata dal suolo francese. Alcuni Consigli dei soldati ebbero maggiore coloritura politica, come durante lo sciopero generale di Augusta e la nascita della
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186 ripugnante che decisi di andarmene via al più presto. Con un fedele commilitone, Ernst Schmiedt4, mi recai a Traunstein e ci rimasi sino allo scioglimento del campo. Nel marzo 1919 ritornammo a Monaco5.
Figura 1 Il corteo funebre di Kurt Eisner (26 febbraio 1919) [fonte: br.de]
Figura 2 Esponenti del Consiglio dei soldati occupano la stazione di Monaco (maggio 1919) [fonte: München und der Nationalsozialismus, 2015]
Seconda Repubblica consiliare del 13 aprile 1919. Bibliografia: U. Kluge, Soldantenräte und Revolution. Studien zur Militärpolitik in Deutschland, 1918/19, Gottinga, Vandenhoeck & Ruprecht, 1975. 4 Ernst Schmidt (1892-1975), studioso di termodinamica e docente di scuola superiore. 5 Dal dicembre 1918 Hitler fu comandato nel campo dei prigionieri di guerra di Traunstein, dove esisteva anche un Consiglio dei soldati. A inizio 1919 tornò a Monaco, dove la sua unità fu spedita per problemi disciplinari. Qui tentò, con falsi riferimenti temporali, di non dare l’impressione di aver partecipato alla Repubblica consiliare e di non aver svolto alcuna attività politica a suo favore [KA, n. 4].
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La situazione era ormai insostenibile e spingeva ineluttabilmente verso la prosecuzione della Rivoluzione. La morte di Eisner accelerò il processo e condusse alla dittatura consiliare, espressa nel dominio transitorio degli ebrei, obiettivo originario dell’intera Rivoluzione6. All’epoca mi frullavano per la mente un’infinità di progetti. Per giorni riflettevo su cosa fare. Solo che spesso la conclusione era l’oggettiva constatazione che un signor nessuno come me non aveva la benché minima possibilità svolgere una qualsiasi attività utile al suo paese. Tornerò poi sui motivi che mi spinsero a entrare in un partito esistente. Nel corso della Rivoluzione consiliare mi comportai in modo da attirare la disapprovazione del Consiglio centrale. Il 27 aprile 1919, di primo mattino, dovevo essere arrestato. I tre brutti ceffi venuti a prendermi, di fronte alla mia carabina spianata, non ebbero il coraggio necessario di arrestarmi e se ne andarono via a mani vuote. Pochi giorni dopo la liberazione di Monaco, fui comandato alla Commissione d’inchiesta sugli eventi rivoluzionari del II Reggimento di fanteria. Si trattava della mia prima attività più o meno politica7.
Figura 3 Karl Mayr in uniforme alla sinistra di Gustav Norske [fonte: historytoday.com]
L’assassinio del presidente Eisner il 21 febbraio 1919 per mano dell’antisemita Arco auf Valley accelerò la nascita della prima Repubblica consiliare di Monaco, avvenuta il 7 aprile 1919. La propaganda nazionalpopolare concentrò i suoi attacchi sugli esponenti ebrei Landauer, Toller cc., ignorando gli altri. 7 Il 7 maggio il comando cittadino di Monaco ordinò di formare una commissione di inchiesta per analizzare il comportamento di soldati e ufficiali durante la Repubblica consiliare. Il 9 maggio Hitler fu spedito col suo tenente nella commissione del suo reggimento, fino a inizio giugno [KA, n. 9]. 6
188 Alcune settimane dopo ricevetti l’ordine di partecipare a un “corso” destinato ai membri dell’esercito. Il soldato doveva ricevere i primi rudimenti di un pensiero civico8. Per me l’unico valore dell’istituzione consisteva nella possibilità di conoscere alcuni commilitoni con il mio stesso orientamento ideologico, con cui discutere a fondo la situazione attuale. Eravamo tutti più o meno convinti che la Germania non si sarebbe più salvata dal tracollo imminente per mezzo dei partiti responsabili del crimine novembrino (Zentrum e socialdemocrazia), anche perché le formazioni “nazional-borghesi” non erano in grado di porvi rimedio. Mancavano di tutta una serie di presupposti, senza cui la ricostruzione era impossibile. Gli eventi ci avrebbero dato ragione. Nella nostra piccola cerchia discutemmo della formazione di un nuovo partito. I principî basilari erano gli stessi che avremmo poi utilizzato per il “Partito tedesco dei lavoratori”. Il nome del nuovo movimento avrebbe dovuto offrirci sin da subito la possibilità di accostarci alle grandi masse. Altrimenti tutto il lavoro sarebbe stato inutile. Così giungemmo al nome di Partito “socialista rivoluzionario”, perché le visioni sociali della nuova creazione erano in effetti rivoluzionarie9. La ragione più profonda era che, quando avevo iniziato a occuparmi di problemi economici, i partiti si limitavano più o meno tutti a considerazioni di carattere sociale. Più tardi ampliai la mia visione delle cose grazie all’esame della politica di alleanza tedesca10, il prodotto di un’errata valutazione dell’economia, nonché della mancanza di chiarezza sui possibili fondamenti del sostentamento popolare avvenire. Ma tutti quei pensieri si basavano sull’opinione che il capitale fosse l’esito del lavoro e che quindi dipendesse dalla trasformazione di quei fattori che possono sostenere oppure ostacolare la produzione umana. Qui starebbe la sua rilevanza nazionale: la grandezza, la libertà e la potenza dello Stato (cioè della nazione) dipendono dal legame che, per semplice istinto d’autoconservazione, spingerebbe il capitale all’ulteriore accumulazione. La dipendenza del capitale da un libero Stato indipendente lo costringerebbe a sostenere la libertà, la potenza, la forza ecc. della nazione. Quindi il compito dello Stato di fronte al capitale era relativamente chiaro e semplice: doveva preoccuparsi solo che restasse il servitore dello Stato e non cercasse di diventare il padrone dell’intera nazione. Questa mia visione era sostenibile entro due paletti: conservazione di un’economia nazionale, indipendente e vitale; tutela dei diritti sociali del lavoratore. All’epoca non mi era ancora chiara la distinzione tra capitale produttivo e capitale speculativo. Mi mancava ancora lo stimolo iniziale, che ricevetti proprio allora. Lo spunto mi giunse in maniera approfondita da uno dei signori che insegnavano a quel corso: Gottfried Feder11. Per la prima volta in vita mia capii le peculiarità del Nel giugno 1919 il capitano Karl Mayr (1883-1945) del IV Comando del Reichswehr fu messo a capo del settore propaganda ib/P, incaricato di organizzare a Monaco corsi di formazione per trasformare soldati e ufficiali in oratori e agitatori antibolscevichi. L’impresa ebbe poco successo e si concluse nel novembre 1919. Hitler partecipò al terzo corso di “formazione antibolscevica” (10-19 luglio). 9 Non ci sono prove o testimonianze di questa elaborazione politica. 10 Vedi capitolo 4-I e 13-II. 11 Gottfried Feder (1883-1941) fu uno dei numerosi referenti nazionalconservatori del corso di “formazione antibolscevica”. La conferenza qui citata ebbe luogo il 15 luglio 1919. Bibliografia: A.
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189 capitale borsistico e mutuato internazionale. Dopo aver udito la prima conferenza di Feder, mi balenò subito l’idea di aver trovato una premessa fondamentale per fondare un nuovo partito. Il merito di Feder consisteva ai miei occhi nel fatto di aver individuato con cruda brutalità il carattere speculativo e antipopolare del capitale borsistico e mutuato, di aver svelato gli eterni presupposti dell’usura. Le sue argomentazioni erano così convincenti che anche i critici non contestavano la bontà teorica dell’idea, semmai la sua possibile realizzazione pratica. Solo che ciò che agli occhi degli altri appariva un limite delle sue argomentazioni, era una forza ai miei12.
Figura 4 Copertina del Manifesto per spezzare l’asservimento dell’interesse del denaro di Gottfried Feder (1919) [fonte: zvab.org]
Il compito del programmatore non è quello di stabilire i diversi gradi di realizzabilità pratica di una teoria, semmai di chiarirla. In altre parole, egli non deve occuparsi della via, ma della mèta. Conta la bontà fondamentale di un’idea, non la sua difficile realizzabilità. Non appena il programmatore si concentra sulla “utilità pratica” invece che sull’utilità assoluta, il suo lavoro cesserà di essere la stella popolare dell’umanità, per diventare una ricetta politica di tutti i giorni. Il programmatore deve concentrarsi sulla mèta di un movimento, il politico sulla sua realizzabilità. La grandezza del primo consiste nell’assoluta bontà astratta dell’idea, quella del secondo Tyrrell, Gottfried Feder. Der gescheiterte Programmatiker, in R. Smelser, R. Zitelmann (ed.), Die braune Elite. 22 biographische Skizzen, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1989, pp. 28-40. 12 Nel 1923 Feder pubblicò il saggio Der deutsche Staat auf nationaler und sozialer Grundlage (Lo Stato tedesco su base nazionale e sociale), che lo resero uno dei teorici di punta del nazionalsocialismo.
190 nella considerazione esatta dei dati di fatto e nella loro utile applicazione. Lo scopo del programmatore fungerà da bussola. Mentre il banco di prova dell’importanza di un politico si può considerare il successo dei suoi progetti e delle sue azioni, cioè il loro “divenire-realtà”, la realizzazione dell’intenzione finale del programmatore è impossibile, poiché il pensiero umano sa certamente comprendere le verità, sa certo porsi scopi elevati, solo che la loro piena realizzazione è impossibile a causa delle debolezze umane. Quanto più sarà astrattamente giusta e, quindi potente, l’idea, tanto più impossibile ne sarà la realizzazione, finché dipenderà dagli uomini. Perciò il significato del programmatore non può essere misurato in base alla realizzazione dei suoi scopi, ma alla loro bontà e all’influsso che esercitano sullo sviluppo umano. Altrimenti i fondatori delle religioni non potrebbero mai essere ritenuti tra i più grandi spiriti umani, perché la realizzazione dei loro propositi non sarebbe neanche lontanamente eguagliabile. Anche la religione dell’amore è, in effetti, solo un debole riverbero della volontà del suo sublime fondatore13. Ma la sua importanza consiste nella direzione che cercò di imprimere alla civiltà, ai costumi e alla morale dell’umanità. La grande differenza di mansioni tra il programmatore e il politico è anche il motivo per cui è quasi impossibile trovar riunite le due qualità in un’unica persona. Questo vale soprattutto per il politicante “realista”, la cui attività è sempre un’“arte del possibile”, stando alla sobria definizione della politica fornita da Bismarck14. Quanto più un simile “politico” si terrà alla larga dalle grandi idee, tanto più facilmente, visibilmente e rapidamente esse avranno successo. Certo, i suoi successi sono condannati alla fugacità terrena e, talora, non sopravvivono nemmeno alla morte dei suoi padri. L’opera del politico “realista” è generalmente irrilevante per i posteri, perché il suo successo attuale si basa solo sull’evitare ogni problema e pensiero realmente importante e decisivo per le generazioni future. La realizzazione di scopi rilevanti per i posteri è poco proficua e non incontra il sostegno delle grandi masse, che comprendono più facilmente il salasso della birra e del latte15 piuttosto che lungimiranti piani avveniristici, la cui realizzazione potrà ben avvenire in un futuro lontano, ma la cui utilità è a esclusivo vantaggio dei posteri. Quindi, per una certa vanità, spesso parente stretta della stupidità, la grande massa dei politici si terrà ben lontana dai progetti avveniristici di difficile realizzazione, per non perdere la simpatia momentanea del gregge. Il successo e l’importanza di quel politicante si limitano al presente e sono inesistenti per i posteri. Ma le teste mediocri non se ne vergognano: a loro va bene così. Ben diversa è la situazione del programmatore. La sua importanza è quasi solitamente rivolta al futuro. Egli spesso è un “alienato”. Se l’arte del politico è quella Allusione al cristianesimo e a Gesù. Hitler tentò spesso di rappresentarsi come il “vero” e “unico” interprete del pensiero bismarckiano, anche se non mancò in privato di criticarne alcune scelte (come l’alleanza con l’Austria-Ungheria). Bibliografia: T. Hirschmüller, Geschichte gegen Demokratie. Bedeutung und Funktion von Friedrich dem Grossen und Otto von Bismarck in den politischen Reden Hitlers zuer Zeit der Weimarer Republik, in “Jahrbuch der HambachGesellschaft”, XVIII, 2010, pp. 189-216. 15 Il 6 luglio 1923 il Reichstag aumentò le accise sulla birra. Ciò condusse a proteste a Monaco. Nel giugno 1924 e nel maggio 1925 sorsero problemi relativi alla scarsa qualità del latte che spinsero il Reichstag a disposizioni per l’elevazione della qualità del prodotto [KA, n. 27]. 13 14
191 del possibile, il programmatore fa parte di coloro che si dicono graditi agli dèi se cercano e vogliono l’impossibile. Egli dovrà quasi sempre rinunciare al riconoscimento del presente, ma otterrà la fama dei posteri, se i suoi pensieri sono veramente immortali. Solo a lunghi intervalli temporali può accadere che il politico si unisca al programmatore. Ma quanto più intima è la fusione, tanto maggiori saranno le resistenze che si oppongono all’operato del politico. Egli non lavora più per le necessità evidenti al primo filisteo di turno, ma per mète che comprendono in pochissimi. Egli è lacerato fra amore e odio. La protesta attuale, incapace di comprendere l’uomo, cozza contro il riconoscimento dei posteri, per cui lavora. Perché, quanto più grandi sono le opere di un uomo rivolto al futuro, tanto meno sono comprensibili ai suoi contemporanei, quindi tanto più difficile è la sua lotta e tanto più raro sarà il successo. Ma se qualcuno ci riesce nel corso dei secoli, forse un lieve chiarore di fama avvenire può circondarlo già nei suoi ultimi giorni terreni. Certo, questi grandi spiriti sono i maratoneti della storia. La corona d’alloro del tempo presente cingerà solo le tempie degli eroi morenti16. Fra di loro ci sono i grandi combattenti che, incompresi dal loro tempo, sono pronti a lottare per i loro ideali. Sono quelli che un giorno saranno più vicini al cuore del popolo. Sembra quasi che ognuno di loro si senta in dovere di rimediare ai torti dei contemporanei. La loro vita e la loro opera sono studiate con commovente e riconoscente meraviglia e, soprattutto nei giorni tristi, riescono a dar forza ai cuori spezzati e alle anime disperate. A questa categoria non appartengono solo i grandi statisti, ma anche i grandi riformatori. Accanto a Federico il Grande abbiamo Martin Lutero e Richard Wagner. Mentre ascoltavo la prima conferenza di Gottfried Feder sull’Eliminazione dell’asservimento dell’interesse, capii subito che si trattava di una verità teorica che sarebbe diventata di immenso valore per il futuro del popolo tedesco17. Il drastico divorzio tra capitale borsististico ed economia nazionale permetteva di opporsi all’internazionalizzazione dell’economia tedesca senza minare il fondamento di un’autoconservazione nazionalpopolare indipendente nella lotta contro il capitale18. Lo sviluppo della Germania mi era sin troppo chiaro, pur ignorando che la battaglia più difficile non sarebbe stata sostenuta contro i popoli nemici, quanto piuttosto contro il capitale internazionale. Nella conferenza di Feder udii una potente parola d’ordine per la lotta avvenire. Ma anche qui il corso degli eventi dimostrò quanto fossero giuste le nostre sensazioni di allora. Oggi i furbi politici borghesi non ridono più di noi. Hanno capito (sempre che non siano dei bugiardi patentati) che il capitale borsistico internazionale Qui Hitler si riferisce al suo mentore Dietrich Eckart, morto il 26 dicembre 1923 e al quale dedicò il Mein Kampf. Vedi capitolo 15-II. 17 Il concetto nazionalpopolare di “asservimento dell’interesse” (con relative connotazioni antisemite) fu utilizzato già prima della guerra da Rudolf Jung nel 1913 e Theodor Fritsch nel 1917. Il prestito a interesse (usura) era considerato un’invenzione ebraica [KA, n. 31]. 18 I progetti di denaro nazionale, credito nazionale o dell’abolizione dell’interesse circolavano già nel primo dopoguerra (vedi gli opuscoli di Heinrich Dolle e Karl Rohn). Anche Jung in Der nationale Sozialismus (Il socialismo nazionale, 1919) mostrò il suo interesse per Feder e per Silvio Gesell [KA, n. 32]. 16
192 non fu solo il grande aizzatore della guerra19, ma che non lasciò neanche nulla di intentato pur di trasformare la pace in un inferno. La lotta contro il capitale finanziario e mutuato internazionale è diventato il principale punto programmatico della lotta per l’indipendenza e per la libertà della nazione tedesca. Per ciò che riguarda le obiezioni degli uomini pratici, possiamo rispondere così. Tutti i nostri timori sulle terribili conseguenze economiche dell’“eliminazione dell’asservimento dell’interesse” sono superflui. In primo luogo tutte le vostre ricette si sono dimostrate decisamente nocive per il popolo tedesco20. Le vostre posizioni sui problemi dell’autoaffermazione nazionale ci ricordano vividamente le perizie di altri esperti del passato, per esempio quelli della Commissione medica bavarese sul problema dell’introduzione della ferrovia. Tutti i timori di quella nobile corporazione si sono rivelati infondati: il viaggiatore sui vagoni del nuovo “cavallo a vapore” non ebbe le vertigini, lo spettatore non si ammalò e si evitò di elevare barriere che rendessero invisibili le ferrovie. Ai posteri non sono rimasti che i tramezzi nelle teste degli “esperti”21. In secondo luogo bisogna constatare che ogni idea (anche la migliore) corre spesso il pericolo di ritenersi un fine in sé, mentre non è altro che un mezzo per un fine. Per me e per ogni vero nazionalsocialista c’è solo una dottrina: il popolo e la patria. Noi dobbiamo combattere per assicurare l’esistenza e la crescita della nostra razza e del nostro popolo, il sostentamento dei nostri figli e la purezza del sangue, la libertà e l’indipendenza della patria, affinché il nostro popolo riesca a realizzare la missione assegnatagli dal Creatore dell’universo. Ogni pensiero, idea, dottrina e sapere devono servire a questo scopo. Tutto va esaminato da questo punto di vista e va utilizzato o respinto a seconda dell’applicabilità. Nessuna teoria può irrigidirsi in una dottrina mortifera, poiché tutto deve servire solo alla vita. Le nozioni di Gottfried Feder furono il motivo per cui mi occupai approfonditamente di quell’ambito a me poco noto all’epoca. Ripresi a studiare e giunsi a comprendere il contento e la volontà del lavoro più importante dell’ebreo Karl Marx22. Il suo Capitale mi fu chiaro per la prima volta, così come la lotta della socialdemocrazia contro l’economia nazionale, preparatoria al dominio del capitale borsistico e finanziario internazionale. Il corso dell’esercito ebbe un grande effetto su di me per un altro motivo. Un giorno chiesi la parola per un chiarimento. Uno dei partecipanti aveva spezzato una lancia a favore degli ebrei e iniziò a difenderli con lunghe argomentazioni. Questo
Sul mito del complotto mondiale ebraico vedi capitoli 2-I e 10-I. Allusione alla politica monetaria tedesca del 1923 che, tentando di onorare il debito delle riparazioni, produsse l’iperinflazione, poi scongiurata col successivo piano Dawes. Vedi capitolo 15-II. 21 Allusione a una perizia della commissione medica bavarese del 1835, citata da Heinrich Treitschke nella sua Deutsche Geschichte im neunzehnten Jahrhundert (Storia tedesca nel XIX secolo, 1879-1894) [KA, n. 38]. 22 Karl Marx (1818-1883) fu battezzato come luterano nel 1824 e fu critico dello “spirito” capitalistico espresso dall’ebraismo nell’articolo Zur Judenfrage (Sulla questione ebraica, 1844). Bibliografia: K. Marx, Sulla questione ebraica, introduzione, traduzione, note e apparati di D. Fusaro, Milano, Bompiani, 2007. 19
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193 suscitò la mia replica. La maggior parte dei presenti si schierò dalla mia parte23. L’esito di quel discorso fu che pochi giorni fui destinato a un reggimento monacense come “ufficiale formatore”24. All’epoca la disciplina della truppa era assai fiacca. Soffriva degli effetti del periodo consiliare. Solo lentamente e prudentemente si procedette a reintrodurre l’obbedienza militare al posto della “obbedienza volontaria” (come si usava chiamare il troiaio di Kurt Eisner.)25. Allo stesso modo bisognava che la truppa imparasse a pensare e a sentirsi nazionale, patriottica. Gli ambiti della mia nuova attività erano rivolti in quelle due direzioni. Iniziai con entusiasmo e con passione. Una volta mi fu concessa l’opportunità di parlare davanti a un grande uditorio. E ciò che prima avevo solo intuito dentro di me, si rivelò fondato: sapevo “parlare”. Anche la voce era migliorata a tal punto che era sufficientemente comprensibile anche nelle piccole camerate della truppa. Nessun compito mi rendeva più felice. Prima del mio congedo, riuscii a fornire utili servigi all’istituzione che mi era sempre rimasta nel cuore: l’esercito. Si trattava di un successo. Con i miei discorsi ho ricondotto al popolo e alla patria molte centinaia, se non migliaia di commilitoni. Io “nazionalizzai” la truppa e contribuii così a rafforzare la disciplina generale. Inoltre conobbi anche numerosi commilitoni con il mio stesso orientamento ideologico, che poi avrebbero formato la base del nuovo movimento26.
Approfondimenti didattici 1. Analisi retorica e stilistica
- Individua le principali figure retoriche; - Individua l’esistenza di fallacie retoriche; - Individua i principali “loci” e “topoi”; - Individua la presenza di stereotipi e pregiudizi.
È improbabile che Hitler abbia avuto una discussione aperta e dettagliata. Manca ogni riferimento nel diario di Feder. Inoltre, Hitler partecipò non al primo, ma al terzo corso, che si svolse altrove [KA, n. 42]. 24 Hitler fu comandato al Reggimento di fucilieri bavarese tre mesi dopo il corso accennato. 25 Kurt Eisner (1867-1919), giornalista e politico tedesco di origine ebraica, esponente del Partito socialdemocratico indipendente e a capo della rivoluzione repubblicana di Monaco del 7 novembre 1918 sino al 21 febbraio 1919. Bibliografia: B. Grau, Kurt Eisner, 1867-1919. Eine Biographie, Monaco, C.H. Beck, 2001; R. Altieri, Der Pazifist Kurt Eisner, Amburgo, Verlag Dr. Kovac, 2015. 26 Tra la fine 1919 e il maggio 1920 vi erano ventisette soldati fra i membri del Partito tedesco dei lavoratori (poi nazionalsocialista), cioè circa il 4%. Anche i commilitoni del Reggimento List non mostrarono particolare apprezzamento o sostennero direttamente il partito [KA, n. 49]. A. Gilardoni, Logica e argomentazione. Un prontuario, Milano, Mimesis, 2008.
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194 2. Analisi storico-culturale
- Consigli dei soldati: analizza l’esperienza democratica consiliare nella Baviera postbellica; - Capitale speculativo e capitale produttivo: ricostruisci le origini storiche del capitalismo speculativo e finanziario in seno al pensiero socialista e nazionalista e, se possibile, tenta di attualizzare il dibattito politico; - Le origini del capitalismo: ricostruisci il dibattito sulla genesi del capitalismo, il presunto ruolo esercitato dagli ebrei e il nesso fra usura, cristianesimo e partiti politici di massa; - Programmatore e politico: analizza la contrapposizione fra idealismo politico e realismo politico attraverso alcuni esempi storici.
Capitolo IX. Il Partito tedesco dei lavoratori
Sinossi 1. Genesi Mentre il capitolo 8-I è incentrato sulla trasformazione personale in agitatore politico, qui abbiamo la storia vera e propria del partito. Hitler, che non fu comandato dall’ufficio di Mayr di recarsi all’assemblea del Partito tedesco dei lavoratori, omette di citare l’esperienza di oratore al campo di transito di Lechfeld (Augusta), dove parlò a fine agosto 19191. 2. Contenuto Hitler descrive il lento avvicinamento all’attività politica, che è la conseguenza del timore nutrito dagli ufficiali “rivoluzionari” verso la “politicizzazione” nazionale della truppa. Tutto appare frutto del caso. “Inviato” a osservare il piccolo Partito dei lavoratori (dove avrebbe parlato Feder), Hitler ha modo di assistere a uno spettacolo indecoroso. Tanta buona volontà, tanta passione, ma assenza completa di organizzazione e di slancio politico. Un club borghese come altri, molto attento al decoro e alla forma. L’opuscolo portogli da Anton Drexler lo sprona però a vederci più chiaro. Il dilemma è chiaro: aderire a un piccolo partito insignificante oppure crearne uno proprio? Hitler, che non intende entrare nelle formazioni esistenti (incapaci – a suo giudizio – di affrontare i problemi reali del paese), decide di aderire. Dopo gli anni di vagabondaggio-apprendistato e l’esperienza cameratesca bellica, decide finalmente di entrare nel “mondo”, nell’arena politica. Certo, il lavoro da fare è molto, ma si tratta di un passo necessario e irrevocabile: un “uomo vero” non torna indietro sui suoi passi ed è disposto ad assumersi le responsabilità della sua azione. 3. Analisi “Eccezionalità” e “mediocrità”: questi sembrano i due estremi che caratterizzano il “risveglio politico” di Hitler poco prima della smobilitazione definitiva. Da semplice oratore antibolscevico a responsabile della propaganda in una piccola formazione monacense del dopoguerra. L’adesione al Partito dei lavoratori tedeschi è simbolica: è la dimostrazione che la ricostruzione della Germania deve ripartire dalla base, non dal vertice; una base, però, che non è in mano alle forze progressiste e marxiste, ma alla nazione. Il lavoratore (non l’operaio) può e deve essere nazionale. Non molto dissimile è il senso fornito poco dopo da Ernst Jünger in Der Arbeiter (Il lavoratore, 1932). Hitler stilizza il suo ingresso in politica. Pur vivendo nella miseria (la metafora dei topini che si rincorrono per un pezzetto di pane è emblematica), l’ex caporale del Reichswehr ha ben chiaro quale dovrà essere il percorso politico della rinascita: inculcare nei borghesi i più alti valori dell’esercito. L’avvicinamento al Partito dei lavoratori è contrastato: attrazione verso un’idea innovativa (quella di lavoratori “nazionali”), ma repulsione verso le liturgie borghesi. Il vero cambiamento di prospettiva è quello di “dogmatizzare” il partito politico attraverso la visione del mondo: la salvezza del singolo, 1
KA I, p. 581.
196 della razza e del mondo può avvenire solo cambiando la prospettiva delle cose. Ed è questo ciò che Hitler intende fare. 4. Parole-chiave Anton Drexler, Gottfried Feder, Karl Harrer, Intellighenzia, Partito tedesco dei lavoratori, Ragione e sentimento, Socialdemocrazia, Zentrum. 5. Bibliografia essenziale - A. Bullock, Hitler. Studio sulla tirannide, Milano, Res Gestae, 2014; - K. Burke, Die Rhetorik in Hitlers “Mein Kampf” und andere Essays zur Strategie der Überredung, Francoforte sul Meno, Suhrkamp, 1967; - D. Capozza, C. Volpato, Le intuizioni psicosociali di Hitler. Un’analisi del “Mein Kampf”, Bologna, Patron, 2004; - W. Carr, Hitler. Studio sul rapporto tra personalità e politica, Napoli, Liguori, 1985; - G. Corni, Hitler, Bologna, Il Mulino, 2007; - Id., Breve storia del nazismo, 1920-1945, Bologna, Il Mulino, 2015; - A. Drexler, Il mio risveglio politico, traduzione di M. Linguardo, a cura di M. Rossi, Roma, Thule Italia, 2012; - G. Feder, Il manifesto per spezzare l’asservimento dell’interesse del denaro, traduzione di M. Linguardo, revisione di M. Mainardi, Roma, Thule Italia, 2015; - G.D. Feldman, The great disorder. Politics, economics and society in the German inflation, 1914-1924, New York, Oxford University Press, 1993; - J. Fest, Hitler. Una biografia, traduzione di F. Saba Sardi, Milano, Garzanti 2005; - L. Herbst, Il carisma di Hitler. L’invenzione di un messia tedesco, traduzione di U. Gandini, Milano, Feltrinelli, 2011; - A. Joachimsthaler, Hitler in München, 1908-1920, Francoforte sul Meno, Ullstein, 1992; - Id., Hitlers Weg begann in München, 1913-1923, Monaco, Herbig, 2000; - B. Kent, The spoils of war. The politics, economics and diplomacy of reparations, 1918-1932, Oxford, Clarendon Press, 1989; - S.F. Kellerhoff, Il libro proibito di Hitler. Storia del Mein Kampf, Milano, Rizzoli, 2016; - I. Kershaw, Hitler, vol. 1: 1889-1936, Milano, Bompiani, 2003; - W.C. Langer, Psicanalisi di Hitler. Rapporto segreto del tempo di guerra, Milano, Garzanti, 1975; - U. Lohalm, Völkischer Radikalismus. Die Geschichte des Deutschvölkischen Schutz- und Trutz-Bundes, 1919-1923, Amburgo, Leibniz Verlag, 1970; - P. Longerich, Hitler. Biographie, Monaco, Siedler Verlag, 2015; - W. Maser, Adolf Hitler, Roma, Ciarrapico, 1978; - A. Musolff, Metaphor, nation and the Holocaust. The concept of the body politic, New York, Routledge, 2011; - W. Nerdinger (ed.), München und der Nationalsozialismus. Katalog des NS-Dokumentations-zentrum München, Monaco, C.H. Beck, 2015; - O. Plöckinger, Adolf Hitler als Hörer an der Universität München im Jahr 1919. Zum Verhältnis zwischen Reichswehr und Universität, in E. Kraus (ed.), Die Universität München im Dritten Reich, Monaco, Herbert Utz Verlag, 2008, pp. 113-147; - Id., Geschichte eines Buches. Adolf Hitlers “Mein Kampf”, 1922-1945. Eine Veröffentlichung des Instituts für Zeitgeschichte, Monaco, Oldenbourg, 2011; - Id., Unter Soldaten und Agitatoren. Hitlers prägende Jahre im deutschen Militär, 1918-1920, Paderborn, Schöningh, 2013; - Id., Quellen und Dokumente zur Geschichte von “Mein Kampf”, 1924-1945, Stoccarda, Franz Steiner Verlag, 2016; - W. Pyta, Hitler. Der Künstler als Politiker und Feldherr. Eine Herrschaftsanalyse, Monaco, Siedler Verlag, 2015; - P.R. Range, La genesi del Mein Kampf. 1924: l’anno che cambiò la storia, Roma, Newton Compton, 2017; - F.J. Rash, The language of violence. Adolf Hitler’s “Mein Kampf”, New York, Peter Lang, 2006; - R.G. Reuth, Hitler. Eine politische Biographie, Monaco, Piper, 2003;
197 - D. Schmidt, M. Sturm, M. Livi (ed.), Wegbereiter des Nationalsozialismus. Personen, Organisationen und Netzwerke der extremen Rechten zwischen 1918 und 1933, Essen, Klartext, 2015; - H. Steinhaus, Hitlers pädagogische Maximen. “Mein Kampf” und die Destruktion der Erziehung im Nationalsozialismus, Francoforte sul Meno, Peter Lang, 1981; - J. Toland, Adolf Hitler. The definitive biography, New York, Doubleday, 1976; - A. Tyrrell, Vom “Trommler” zum Führer. Der Wandel von Hitlers Selbstverständnis zwischen 1919 und 1924 und die Entwicklung der NSDAP, Monaco, Fink, 1975; - V. Ullrich, Adolf Hitler. Biographie, vol. 1: Die Jahre des Aufstiegs 1889-1939, Francoforte sul Meno, S. Fischer, 2013; - A. Viktine, “Mein Kampf”. Storia di un libro, traduzione di G. Zucca, Milano, Cairo, 2010; - B. Zehnpfennig, Hitlers “Mein Kampf”. Eine Interpretation, Monaco, Fink, 2000; - R. Zitelmann, Hitler, Roma-Bari, Laterza, 1991.
Un giorno ricevetti dal mio ufficio superiore l’ordine di controllare l’associazione “politica” che, col nome di Partito tedesco dei lavoratori, aveva intenzione di tenere un’assemblea in cui avrebbe parlato Gottfried Feder. Avrei dovuto osservare l’associazione e poi farne un resoconto2. La curiosità nutrita dall’esercito per i partiti politici di allora era più che comprensibile. La Rivoluzione aveva concesso al soldato il diritto di attività politica, di cui potevano fare ampio uso anche i meno esperti3. Ma, nell’istante in cui socialdemocrazia e Zentrum dovettero ammettere a malincuore che le simpatie dei soldati iniziavano a rivolgersi dai partiti rivoluzionari ai movimenti nazionali, si videro costretti a revocare il diritto di voto alla truppa e a vietarne l’attività politica. Il fatto che Zentrum e marxismo fossero ricorsi a tale misura, era comprensibile perché, se non avessero compiuto una restrizione dei “diritti civili” (come fu definita allora l’equiparazione politica dei diritti del soldato dopo la Rivoluzione), non ci sarebbe stata alcuna Rivoluzione pochi anni dopo, né un’ulteriore infamia o vergogna nazionale. All’epoca la truppa si apprestava a scuoter di dosso dal corpo nazionale le sanguisughe e i tirapiedi dell’Intesa4. Il fatto che anche i partiti “nazionali” appoggiassero entusiasti quella svolta ideologica dei criminali novembrini e contribuissero quindi a rendere inoffensivo lo strumento della sollevazione nazionale, dimostrò fin dove portassero le visioni dottrinarie del più ingenuo fra gli ingenui. La borghesia arteriosclerotica era profondamente convinta che l’esercito sarebbe tornato a essere ciò che era stato, cioè un bastione della difesa tedesca, mentre Zentrum e marxismo intendevano cavargli le pericolose zanne nazionali, senza le quali l’esercito sarebbe diventato semplicemente “polizia”, non più truppa in grado di combattere contro il nemico esterno. Un fenomeno che in seguito avremmo visto in azione. Oppure i nostri “politici nazionali” credevano che l’esercito non avrebbe potuto avere un’evoluzione nazionale? Maledettamente tipico della mentalità di questi signori! Hitler partecipò il 12 settembre 1919 a un’assemblea della Deutsche Arbeiterpartei (Partito tedesco dei lavoratori) con sette soldati di sua conoscenza. Karl Mayr aveva già preso contatti col partito e, quindi, la visita di Hitler fu un tentativo di portar nuovi simpatizzanti alla causa nazionalista [KA, n. 1]. 3 Il Decreto sull’elezione dell’Assemblea nazionale costituzionale tedesca del 30 novembre 1918 concesse anche ai soldati diritto di voto, nonché la partecipazione ad assemblee e la possibilità di essere membri di associazioni politiche. La Legge per la difesa del 23 marzo 1921 vietò ai soldati l’attività politica [KA, n. 3]. 4 Allusione ai numerosi Corpi franchi, associazioni difensive paramilitari e attive specialmente nei territori contesi. Bibliografia: D. Venner, Baltikum. La storia dei Corpi franchi in Germania, Roma, Ciarrapico, 1981.
2
198 In tempo di guerra, anziché soldati al fronte erano rimasti chiacchieroni parlamentari che non avevano alcuna idea di cosa ci fosse nel cuore degli uomini, memori del loro grande passato, quando erano i più grandi soldati al mondo. Così decisi di andare all’assemblea di un partito finora sconosciuto. Quella sera, quando giunsi nella storica “sala dei veterani” dello Sterneckerbräu di Monaco, incontrai circa 20-25 persone degli strati popolari5. La conferenza di Feder mi era nota già dai corsi, quindi potei dedicarmi a esaminare l’associazione. Non mi fece una particolare impressione: era una formazione come tantissime altre. All’epoca ognuno si sentiva chiamato a creare un partito, scontento della situazione attuale e privo di fiducia verso le formazioni esistenti. Così le associazioni spuntavano come funghi, per poi scomparire nel giro di poco tempo, senza lasciare alcuna traccia6. I fondatori non avevano la minima idea di ciò che significava creare un nuovo partito o un nuovo movimento. Perciò quelle formazioni affogavano quasi sempre nel loro ridicolo filisteismo. Non la pensai diversamente dopo aver udito per due ore i membri del Partito tedesco dei lavoratori. Quando Feder finì di parlare, ero soddisfatto. Avevo visto abbastanza e volevo andarmene, ma un ragionevole e franco contraddittorio mi spinse a restare. Anche qui non sentii nulla di particolare, finché improvvisamente non prese la parola un “professore” che dubitava della bontà delle argomentazioni di Feder, dichiarandosi di porsi sul terreno dei “fatti” (dopo una buona replica alle sue obiezioni), non senza consigliare al giovane partito di introdurre nel suo programma la lotta per la “secessione” della Baviera dalla Prussia. Il professore osservò, con grande faccia tosta, che, in tal caso, gli austro-tedeschi avrebbero dovuto unirsi subito alla Baviera, perché avrebbero ottenuto migliori condizioni di pace e assurdità del genere. Allora non potei fare a meno di prendere la parola per spiegare al dotto signore la mia opinione al riguardo, con il risultato che il professore, prima che io avessi finito, abbandonò il locale come un cane bastonato7. Mentre parlavo, la gente mi ascoltava a bocca aperta. E quando mi accinsi a salutare l’assemblea e cercai di andarmene, mi balzò davanti un uomo che si presentò (non avevo afferrato bene il suo nome)8 e mi mise in mano un quadernetto (chiaramente un opuscolo politico), con la preghiera urgente di leggerlo. La cosa mi fece molto piacere, perché speravo così di conoscere meglio quella noiosa combriccola, senza dover frequentare altre riunioni. Del resto, quel lavoratore mi aveva fatto una buona impressione. Così me ne andai a casa. All’epoca abitavo nella caserma del II Reggimento di fanteria, in una stanzetta che recava ancora i segni tangibili della Rivoluzione. Durante il giorno mi trovavo per 5
La prima adunanza del Partito tedesco dei lavoratori nello Sterneckerbräu avvenne il 12 settembre 1919. Nel 1919 sorsero a Monaco numerose associazioni riconducibili alla destra radicale e nazionalpopolare. Accanto ai gruppi paramilitari erano attivi la Thule Gesellschaft (Società Thule), il Deutschvölkischer Schutz- und Trutzbund (Lega nazionalpopolare tedesca a protezione e a difesa) e la Deutschsozialistische Partei (Partito socialista tedesco). Bibliografia: S. Breuer, Die Völkischen in Deutschland: Kaiserreich und Weimarer Republik, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 2008. 7 Allusione ad Adalbert Baumann (1870-1943), che partecipò il 16 ottobre e il 12 novembre 1919 alle assemblee del Partito tedesco dei lavoratori. 8 Allusione ad Anton Drexler. 6
199 lo più al XLI Reggimento di fucilieri oppure ad adunanze e conferenze di qualche altro reparto della truppa ecc. Tornavo nel mio alloggio di notte solo per dormire. Poiché mi alzavo ogni mattina prima delle 5, mi ero abituato al giochetto di spargere sul pavimento pezzettini di mollica o di crosta di pane duro per sfamare una famiglia di topini, e di restare a guardare come quei deliziosi animaletti si sarebbero inseguiti per arraffare le piccole leccornie. Avevo patito così tanto la fame in vita mia che non mi era difficile capire la gioia di quelle piccole creature. Anche il mattino dopo quell’assemblea giacevo sveglio sulla mia branda a osservare lo zampettare e il viavai dei topini. Dato che non riuscivo a riaddormentarmi, mi ricordai improvvisamente della sera prima e dell’opuscolo del lavoratore. Iniziai a leggerlo. Era un opuscoletto, in cui l’autore, forse quel lavoratore stesso, illustrava come fosse giunto al pensiero nazionale dalla confusa fraseologia marxista e sindacale. Di qui il titolo Il mio risveglio politico. Una volta iniziato, lo lessi da cima a fondo con interesse. Nell’opuscolo si rifletteva un processo intellettuale che io stesso avevo sperimentato dodici anni prima sulla mia pelle. Involontariamente mi sembrò di viverlo ancora9. Nel corso della giornata ripensai più volte all’accaduto, stavo quasi per dimenticarmene, quando non molte settimane dopo ricevetti con sorpresa una cartolina postale che comunicava la mia ammissione al Partito tedesco dei lavoratori. Volevano che rispondessi e che mi recassi il mercoledì successivo a una seduta del loro commissione. Ero più che stupito di essere “divenuto” membro del partito e non sapevo bene se arrabbiarmi oppure sorriderne. Non pensavo affatto di entrare in partito già esistente, semmai volevo fondarne uno mio. Quella richiesta non l’avevo presa in considerazione. Volevo inviare una risposta per iscritto a quei signori, quando, spinto dalla curiosità, decisi di farmi vivo il giorno prestabilito, per illustrare oralmente le mie convinzioni. Venne mercoledì. La trattoria in cui doveva aver luogo la riunione era l’Altes Rosenbad in Herrenstrasse. Un locale molto squallido, poco frequentato. Ciò non mi meravigliava affatto nel 1919, dato che anche il menù delle principali osterie era alquanto misero e scadente. Ma l’osteria non la conoscevo ancora. Attraversai la sala principale poco illuminata, in cui non c’era nessuno. Cercai la porta della saletta e mi trovai di fronte al “convegno”. Alla luce crepuscolare di una lampada a gas quasi scassata sedevano attorno a un tavolo quattro giovani, tra cui anche l’autore dell’opuscoletto, che mi salutarono subito affettuosamente e mi diedero il benvenuto come nuovo membro del Partito tedesco dei lavoratori. Ero a dir poco sbalordito. Poiché mi avevano detto che sarebbe giunto il “presidente nazionale”10, volli aspettarlo anch’io per fargli la mia dichiarazione. Finalmente apparve. Si trattava del presidente dell’assemblea nello Sterneckerbräu durante la conferenza di Feder. Intanto io mi ero nuovamente incuriosito e aspettavo con ansia l’evolversi delle cose. Seppi almeno i nomi dei signori presenti. Il presidente “nazionale” era il signor Hitler si riferisce all’opuscolo Drexler Mein politisches Erwachen (Il mio risveglio politico), apparso a Monaco nell’estate 1919. 10 Allusione a Karl Harrer. All’epoca non esisteva alcun gruppo del Partito dei lavoratori fuori da Monaco e, quindi, il titolo di “presidente nazionale” era inutile o ironico. Il primo gruppo esterno del Partito nazionalsocialista (fondato nel marzo 1920) fu creato a Rosenheim il 18 aprile 1920.
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200 Harrer11, quello di Monaco Anton Drexler12. Venne poi letto e approvato il protocollo dell’ultima seduta. Poi fu la volta del resoconto di cassa (l’associazione possedeva 7 marchi e 50 pfennig!) e anche la fiducia del cassiere fu verbalizzata. Poi il primo presidente lesse le risposte a una lettera da Kiel, da Düsseldorf e da Berlino. Tutti furono d’accordo. Fu poi comunicato l’ordine di arrivo delle risposte: Berlino, Düsseldorf e poi Kiel. Anche questo sembrava suscitare la soddisfazione generale. Il traffico postale era considerato il segno intangibile della crescente influenza del “Partito tedesco dei lavoratori”. Poi ebbe luogo una lunga discussione sulle risposte da dare alle epistole.
Figura 1 Esterno dello Sterneckerbräu, sede del Partito tedesco dei lavoratori [fonte: München und der Nationalsozialismus, 2015]
Terribile, veramente terribile. Che attaccamento filisteo della peggior risma al proprio circolo! Dovevo entrarci pure io? Poi si affrontò il tema dei nuovi iscritti, cioè si discusse il mio accalappiamento. Iniziai a fare alcune domande. Non c’era un programma, salvo alcuni principî generali. Nessun volantino, niente di stampato, nessuna tessera di appartenenza, nemmeno un misero timbro, solo tanta fede e buona volontà. 11
Karl Harrer (1890-1926), giornalista sportivo, cofondatore del Partito tedesco dei lavoratori il 5 gennaio 1919. 12 Anton Drexler (1884-1942), fabbro attrezzista, cofondatore del Partito tedesco dei lavoratori.
201 Mi era passata la voglia di ridere. Che cos’era tutto ciò se non il tipico segnale del totale disorientamento e avvilimento dei partiti dell’epoca, dei loro programmi, delle loro intenzioni e delle loro attività? Quei giovanotti lì riuniti in modo così ridicolo non erano altro che il prodotto della loro voce interiore che, più istintivamente che coscientemente, faceva apparire ai loro occhi tutti i partiti inadatti alla riscossa nazionale e alla guarigione dei guasti interni. Lessi velocemente i principî-guida stipati nella macchina da scrivere13: un’aspirazione più che una conoscenza. Alcune cose erano molto vaghe o confuse, altre carenti, ma nulla avrebbe potuto diventare il segno di una coscienza combattiva. Sapevo bene cosa sentivano quelle persone. Era la nostalgia di un nuovo movimento che fosse superiore e migliore rispetto a un semplice partito di allora. Quando quella sera me ne tornai in caserma, mi ero già fatto un’idea di quell’associazione. Ero di fronte al dilemma più difficile della mia vita: aderire oppure no? La ragione non poteva che consigliare il rifiuto, ma il sentimento non mi lasciava tregua. E quanto più consideravo l’assurdità di quel club, tanto più il sentimento mi portava a difenderlo14. Nei giorni successivi non ebbi pace. Iniziai a rifletterci su. Già da tempo ero deciso a occuparmi di politica. Mi era chiaro che sarei riuscito a farlo solo in un nuovo movimento. Mi era finora mancata la spinta all’azione. Non ero fra coloro che iniziano qualcosa cosa per poi interromperla il giorno successivo, e poi, se possibile, passavano ad altro. Proprio per questo motivo non riuscivo a decidermi a fondare un nuovo partito. Sapevo che la mia decisione sarebbe stata definitiva, che non sarei più tornato “indietro”. Non si trattava di un passatempo, ma di qualcosa di maledettamente serio. All’epoca nutrivo un’istintiva avversione verso gli uomini che iniziano tante cose senza mai portarle a termine. Detestavo i faccendieri inconcludenti. Il loro attivismo mi sembrava peggiore dell’ozio assoluto. Per questo motivo ero titubante nel creare un partito come molti altri, perché doveva diventare tutto, altrimenti sarebbe stato meglio che non fosse esistito. Ora il destino sembrava darmi un’indicazione. Non ero mai entrato a far parte di uno dei grandi partiti esistenti e ne spiegherò i motivi15. Quella piccola e ridicola associazione con pochi membri mi sembrò avere il pregio di non essersi ancora irrigidita in una “organizzazione” e mi forniva la possibilità di svolgere una vera attività personale. Il vantaggio era che si poteva ancora agire. E quanto più piccolo era il movimento, tanto maggiore era la possibilità di plasmarlo. C’era ancora modo di determinate il contenuto, lo scopo e la via; tutte cose impossibili nei grandi partiti esistenti. Quanto più ci pensavo, tanto più cresceva in me la convinzione che proprio da quel piccolo movimento avrebbe potuto sorgere un giorno la riscossa della nazione, 13
I principî-guida del Partito tedesco dei lavoratori erano ristretti, mancavano i riferimenti antiebraici, anche se l’antisemitismo era un elemento ideologico centrale, come dimostra il discorso di Drexler del 3 maggio 1919 [KA, n. 31]. 14 Sulla contrapposizione tra ragione e sentimento vedi capitolo 4-I. 15 Vedi i capitoli 12-I, 1-II e 5-II.
202 giammai dai partiti politici parlamentari, legati a idee superate o a compromessi col nuovo regime. Bisognava annunciare una nuova visione del mondo, non un nuovo slogan elettorale.
Figura 2 La tessera d’iscrizione di Adolf Hitler al Partito tedesco dei lavoratori [fonte: portalestoria.net]
Tuttavia era assai difficile mettere in pratica la mia intenzione. Quali erano i presupposti di questa missione? Il fatto di essere povero e nullatenente16 non era un problema. La cosa più difficile era che ero un signor nessuno: uno dei milioni di individui vivi per caso o richiamati dall’esistenza, ignorati dal loro ambiente. A tutto questo si aggiungeva la difficoltà derivante dalla mia scarsa scolarizzazione. L’“intellighenzia” guardava sempre con disprezzo a coloro che non erano passati dalle scuole dell’obbligo e che non si erano fatti iniettare la conoscenza necessaria. Il problema non era mai “cosa può fare”, ma “cosa ha studiato”. Per questi “dotti” la più grande testa vuota, purché fornita dei titoli necessari, vale assai più che il giovane ragazzo sveglio privo dei “preziosi” requisiti17. Potevo facilmente immaginarmi come mi avrebbe giudicato il mondo “colto”. E mi sbagliavo a ritenere gli uomini migliori di quanto non lo fossero spesso nella nuda realtà. Certo, vi erano alcune lodevoli eccezioni. Imparai così a distinguere tra gli eterni “scolari” e i veri esperti. Dopo due giorni di strazianti riflessioni presi la decisione di compiere il passo18. Fu la decisione più importante della mia vita. Non potevo e non dovevo più tornare indietro. Così m’iscrissi al Partito tedesco dei lavoratori e ottenni una tessera provvisoria col numero 719. All’epoca Hitler riceveva vitto, alloggio, stipendio e diaria pur non avendo preso parte alla soppressione della Repubblica consiliare [KA, n. 37]. 17 Sul disprezzo hitleriano dei dotti e dell’intellettuale vedi capitolo 6-I. 18 L’ingresso di Hitler è databile al 19 settembre 1919, anche se Drexler parla del 20 settembre e altrove sono indicate altre date (Hitler stesso parlò di giugno) [KA, n. 40]. 19 All’epoca il Partito contava circa cinquanta membri. La tessera di Hitler del 1° gennaio 1920 portava il numero di 555. L’indicazione di Hitler si riferiva al comitato esecutivo di sette persone. Hitler non apprezzava la struttura democratica del partito e tentò di mutarla già nel dicembre 1919 [KA, n. 41].
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Approfondimenti didattici 1. Analisi retorica e stilistica
- Individua le principali figure retoriche; - Individua l’esistenza di fallacie retoriche; - Individua i principali “loci” e “topoi”; - Individua la presenza di stereotipi e pregiudizi.
2. Analisi storico-culturale - Esercito e antisemitismo: ricostruisci il possibile ruolo esercitato dai corsi di formazione dell’esercito nella formazione della visione del mondo antisemita di Hitler; - Socialismo nazionale o internazionale: ricostruisci il dibattito sorto già a inizio Novecento sulle diverse interpretazioni del marxismo e sul nesso fra laburismo progressista e laburismo protezionista; - La discesa in campo: analizza le giustificazioni fornite da Hitler alla sua “discesa in campo” e tenta di confrontarle con quelle (posteriori) di altri leader carismatici novecenteschi.
A. Gilardoni, Logica e argomentazione. Un prontuario, Milano, Mimesis, 2008.
Capitolo X. Cause del tracollo
Sinossi 1. Genesi Il capitolo 10-I è forse uno dei più importanti di tutto il Mein Kampf, perché qui Hitler spiega le cause del tracollo politico e nazionale della Germania postbellica. Di questo lungo capitolo molto disomogeneo, redatto fra la primavera e la fine del 1924 durante la detenzione a Landsberg, esistono ben sei bozze concettuali. La difficile storia di questo capitolo e le lunghe divagazioni presenti testimoniano la necessità da parte di Hitler di chiarire attentamente alcuni passaggi logici e di preparare il lettore alla “filosofia della storia” del capitolo 11-I. Si riscontrano alcuni parallelismi concettuali col pamphlet Judas Schuldbuch (Registro dei debiti di Giuda) di Paul Bang (1919) e il testo Wenn ich der Kaiser wär (Se io fossi l’Imperatore) di Heinrich Claß (1912)1. 2. Contenuto Hitler esordisce nel capitolo 10-I con un dilemma “faustiano” e “miltoniano”: come spiegare la caduta dal paradiso? Come “ritornarvici”? È “razionalmente” (scientificamente) comprensibile il tracollo tedesco? La risposta è, ovviamente, negativa. La guerra persa può essere una spiegazione plausibile, ma non basta a comprendere lo “sfacelo morale” del corpo popolare tedesco rappresentato dalla Repubblica di Weimar e dal degrado sociale e politico generalizzato. Bisogna quindi risalire dagli indizi-presagi alle cause superficiali e poi “profonde” della cacciata dal “paradiso della tecnica”. Hitler parte da un distinguo molto chiaro: apparenza e profondità, economia e politica. Il Dio Mammona ha ormai scalciato i vecchi dèi (cristiani o pagani che fossero): tutto si mercifica, tutto ha un prezzo, niente vale di per sé. Il degrado dei valori è ben espresso dalla classe dirigente guglielmina, formata in prevalenza da “ruffiani” della corona, incapaci di individuare la “malattia” e di curarla alla “radice”, limitandosi a “palliativi”, a “mezze misure”. Anzi la nobiltà d’arme è “degenerata” in “nobiltà finanziaria”, la borsa ha preso il sopravvento sulla proprietà fondiaria, il marxismo si è fatto strada tra i ceti popolari disagiati. È la vittoria del materialismo superficiale. Hitler passa in rassegna diversi “fenomeni” del tracollo. La stampa innanzitutto, strumento dell’istituzione parlamentare, la più “irresponsabile” di tutti i tempi. La stampa “ebraicodemocratica” ha saputo cogliere la natura della società di massa: la maggior parte dei lettori è costituita da creduloni e da pigri (gli increduli o i critici non fanno “numero”). Vende tutto ciò che vuole, manipola l’informazione con il solo obiettivo di indebolire la spina dorsale del paese. La stampa, che è l’educazione dell’uomo maturo, va tolta dal principio “assurdo” liberale e restituita in mano allo Stato. Dopo la stampa è la volta di un secondo “presagio”: la sifilide. La malattia sessuale, alla quale Hitler dedica molto spazio, è emblematica del passaggio da una società “profonda” e “di valori” a una “apparente” e “superficiale”. La “prostituzione dell’amore” non è una forma di libertà e autodeterminazione, ma è un “peccato capitale” contro il popolo e contro Dio. Qui Hitler critica 1
KA 1, pp. 600-601.
206 chiaramente la “scienza positiva”, incapace di trovare una cura sociale al problema, e propone una soluzione: l’anticipazione del matrimonio e l’educazione fisica. L’educazione “intellettuale” produce “alienati”, “saputelli” e “smidollati”, schiavi delle loro “fantasie più perverse”. C’è dunque bisogno di rafforzare il fisico e di indirizzare l’uomo verso il suo dovere sociale attraverso una nuova educazione. Legato al tema della sifilide e della prostituzione è anche quello dell’abitazione. La trasformazione delle città in enormi conglomerati di case fatiscenti per famiglie operaie numerose, sfuggite dall’aria sana della campagna, ha finito per indebolire il legame fra la persona e il suo luogo, se non fra le persone stesse. Anche qui è tutto “superficiale”: nessun monumento pubblico (come in passato), chiese più interessate alle missioni africane e asiatiche che alle “pecorelle” locali. La religione è diventata uno strumento politico in mano a certi partiti, è diventata un’idea come le altre. E la politica? Nessuna visione del mondo, nessuna prospettiva, ma “arte del possibile” nel senso peggiore del termine: non il ricorso a qualsiasi mezzo per ottenere un fine (come pensava Bismarck), semmai il ricorso a qualsiasi mezzo per “tirare a campare”, ambiguità e incertezza di fronte alle sfide storiche (la scelta delle alleanze, la minoranza polacca e il problema alsazianolorenese). L’irresponsabilità parlamentare è stata evidente nella politica prebellica degli armamenti della Marina: mentre l’Esercito, poco rappresentato in Parlamento, lavorava e pianificava la vittoria, la Marina militare ha dilapidato risorse inseguendo fatui disegni di grandezza. Malgrado questi “presagi”, Hitler afferma che il “corpo popolare” non era del tutto degradato grazie a tre bastioni: la forma statale monarchica, la burocrazia e l’Esercito. Mentre l’errore dei monarchici è stato quello di tentare di salvare i rappresentanti e non l’istituzione (ben funzionante, se in mano adatte), l’Esercito è stato la palestra della responsabilità e dell’eroismo in un mondo irresponsabile e vile. La sua unica debolezza è stata quella di aver isolato l’intellighenzia. La stessa burocrazia, per quanto rigida, è stata un modello per altri paesi. Non più dopo la Rivoluzione, quando ha perso la sua apartiticità ed è stata “lottizzata” dalle varie forze politiche. Se coesistevano forze e debolezze in epoca imperiale, come mai il “corpo” della Germania è caduto dal cielo? Cosa ha condotto a questo tonfo dalle dimensioni storico-metafisiche? Se le scienze “esatte” si limitano a fornire spiegazioni “superficiali” e “oggettive” (guerra persa, militarismo, monarchia, ecc.), la scienza “divinatoria” sa e può leggere dietro i fenomeni, sa guardare i “presagi”, sa cogliere le cause più profonde della malattia e sa anche come curarla. La vera causa del tracollo è stata l’ignoranza del problema razziale. 3. Analisi L’arte divinatoria è ritenuta dalla scienza “sperimentale” una forma di “misticismo”, perché manca il nesso “dimostrabile” tra il segno interpretato e il risultato previsto. L’abduzione probabilistica manca del nesso causale necessario fra un evento e la sua spiegazione. Eppure, nei momenti di crisi queste pratiche “divinatorie” sembrano pullulare: tutti cercano di capire il perché, tutti formulano ipotesi per spiegare la “caduta”. Lo “scetticismo” scientifico ritiene da sempre la divinazione una mera superstizione, come peraltro il monoteismo religioso: per il primo la strada della scienza è lastricata da ipotesi verificabili; per il secondo c’è solo Dio o i suoi profeti in grado di “vedere” le cause profonde e nascoste del mondo. Hitler, quindi, come intende porsi? È chiaro che Hitler intende spiegare per via “induttiva” le cause del tracollo e, alla fine, ammette di non riuscirci neanche lui con le semplici armi della critica. Il dottor Wagner del Faust di Goethe, richiamato all’inizio del capitolo (allusione importante proprio perché è una contrapposizione
207 così nota da essere data per scontata), sembra corroborare l’“incapacità” di capire le cose: se la scienza non trova una risposta soddisfacente, se la religione è incapace di agire, non resta che la “magia”. Ma la magia è “bianca” o “nera”? La religione ufficialmente non l’apprezza di certo. Eppure la magia consente di ritornare in cielo dopo la “caduta”. A quale prezzo? Per Hitler non resta che la strada della “poli-manzia”, cioè della divinazione della politica. Il primo passo è quello di leggere i diversi presagi, che non sono le “cause” del tracollo, semmai i suoi “effetti”. Bisogna ragionare a ritroso: partire dai fenomeni, adeguare la mente alla realtà e, tramite l’intuizione, spiegarli per via deduttiva. Certo, l’essenziale è la presenza del tracollo, di qualcosa di “inspiegabile” con le armi della ragione (e della religione). Tutto parte da lì: senza l’inspiegabile non ci sarebbe bisogno di affidarsi alla “magia”. Senza l’inspiegabile non ci sarebbe bisogno del “vate”, cioè di Adolf Hitler. Egli, non a caso, compare sulla scena politica proprio nel 1919, non prima. La “magia” esisteva anche prima, ma non ce n’era “bisogno”. Ora, invece, sì. A cosa si deve il tracollo del Secondo Impero? Innanzitutto – secondo Hitler – all’incapacità politica di saper leggere tra le righe, di guardare al “dettaglio”, di possedere una visione d’insieme delle cose, di essere “magica”. Dottrinari, positivisti, realisti, ambivalenti: persone attaccate all’idea, incapaci di agire nella realtà, di unire ragione e sentimento. La politica del Secondo Impero si era andata “ammalando” di parlamentarismo, si era massificata, aveva perso di vista l’importanza dell’uomo, della personalità, a favore del consenso. Tutto era uguale, indifferente in un mondo “mammonizzato”: l’uomo ha ceduto alle tentazioni del “diavolo”, è sceso in terra e sembra aver perso il legame con Dio. L’incapacità politica è ben espressa nella mancata lettura dei presagi del tracollo, dei sintomi manifesti di una malattia latente eppure presente. Come tradire l’opera di Dio? Innanzitutto “deturpando” l’immagine dell’uomo attraverso le malattie sessuali, la prostituzione, la promiscuità forzata, il disprezzo degli antenati. Manca la monumentalità nell’arte, l’idea di eternità, sostituita dall’espressione di sé, dalla caducità delle cose, dalla sfera privata ormai esasperata. Alcune istituzioni hanno sorretto la baracca (monarchia, esercito e burocrazia), ma anche loro sembrano ormai aver perso di vista l’interesse comune e superiore. Sono diventate “di parte”. Tutti i segni lasciano presagire l’inevitabile tracollo bellico e la Repubblica di Weimar. È un problema di “uomini”, non di “teorie”. Il “vate” ha quindi osservato il fatto sorprendente, ha formulato l’ipotesi in grado di spiegarlo e ha quindi dedotto le conseguenze del caso. La teoria è “plausibile”, perché l’osservazione è compatibile con le deduzioni tratte dall’ipotesi di partenza. Cos’è mancato alla classe dirigente passata? Cos’ha portato allo “sfacelo” weimariano? Hitler accenna soltanto al problema razziale, poi affrontato nel capitolo 11-I, ma è chiaro che ormai il “grosso” è fatto: è stato formulato il nesso causale in grado di spiegare tutto. 4. Parole-chiave Anima popolare, Bolscevismo, Burocrazia, Carattere nazionalpopolare Causa profonda, Civiltà e Civilizzazione, Confederazione germanica, Corpo popolare, Cubismo, Dadaismo, Decadenza, Degenerazione, Democrazia occidentale, Educazione, Ebraismo, Esercito, Esperienza interiore, Futurismo, Impero tedesco, Intellighenzia, Leggenda della pugnalata alla schiena, Malattie sessuali, Marina militare, Marxismo, Matrimonio, Militarismo, Monarchia, Onta razziale, Pacifismo, Parlamentarismo, Peccato di sangue, Politica di alleanza, Politica polacca, Problema alsaziano-lorenese, Propaganda, Prostituzione, Ragione e sentimento, Rivoluzione del 1918, Sifilide, Socialdemocrazia, Società delle Nazioni, Stampa, Umanitarismo, Visione del mondo, Zentrum.
208 5. Bibliografia essenziale - A. Bagel-Bohlan, M. Selewski (ed.), Sexualmoral und Zeitgeschichte im 19. und 20. Jahrhundert, Opladen, Leske & Budrich, 1990; - V. Berghahn, Das Kaiserreich, 1871-1914. Industriegesellschaft, bürgerliche Kultur und autoritärer Staat, Stoccarda, Klett-Cotta, 2003; - C. Bernheimer, Decadent subjects. The idea of decadence in art, literature, philosophy, and cultur of the fin de siècle, Baltimora (Maryland), Johns Hopkins University Press, 2002; - S. Breuer, Ordnungen der Ungleichkeit. Die politische Rechte im Widerstreit ihrer Ideen, 1871-1945, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 2001; - A. Bullock, Hitler. Studio sulla tirannide, Milano, Res Gestae, 2014; - K. Burke, Die Rhetorik in Hitlers “Mein Kampf” und andere Essays zur Strategie der Überredung, Francoforte sul Meno, Suhrkamp, 1967; - D. Capozza, C. Volpato, Le intuizioni psicosociali di Hitler. Un’analisi del “Mein Kampf”, Bologna, Patron, 2004; - W. Carr, Hitler. Studio sul rapporto tra personalità e politica, Napoli, Liguori, 1985; - G. Corni, Hitler, Bologna, Il Mulino, 2007; - W. Durner, Antiparlamentarismus in Deutschland, Würzburg, Königshausen und Neumann, 1997; - G.D. Feldman, The great disorder. Politics, economics and society in the German inflation, 1914-1924, New York, Oxford University Press, 1993; - J. Fest, Hitler. Una biografia, traduzione di F. Saba Sardi, Milano, Garzanti 2005; - U. Frevert, Frauengeschichte. Zwischen bürgerlicher Verbesserung und neuer Weiblichkeit, Francoforte sul Meno, Suhrkamp, 1986; - B. Fulda, Press and politics in the Weimar Republic, Oxford, Oxford University Press, 2009; - S. Geenz, M. Lücke (ed.), Verhandlungen im Zwielicht. Momente der Prostitution in Geschichte und Gegenwart, Bielefeld, Transcript Verlag, 2006; - L. Herbst, Il carisma di Hitler. L’invenzione di un messia tedesco, traduzione di U. Gandini, Milano, Feltrinelli, 2011; - S.F. Kellerhoff, Il libro proibito di Hitler. Storia del Mein Kampf, Milano, Rizzoli, 2016; - I. Kershaw, Hitler, vol. 1: 1889-1936, Milano, Bompiani, 2003; - M. Kohlrausch, Der Monarchie im Skandal. Die Logik der Massenmedien und die Transformation der wilhelminischen Monarchie, Berlino, Akademie Verlag, 2005; - C. Lamberty, Reklame in Deutschland, 1890-1914. Wahrnehmung, Professionalisierung und Kritik der Wirtschaftswerbung, Berlino, Duncker & Humblot, 2000; - W.C. Langer, Psicanalisi di Hitler. Rapporto segreto del tempo di guerra, Milano, Garzanti, 1975; - P. Longerich, Hitler. Biographie, Monaco, Siedler Verlag, 2015; - W. Maser, Adolf Hitler, Roma, Ciarrapico, 1978; - E. Meirowsky et al. (ed.), Die Syphilis. Kurzes Lehrbuch der gesamten Syphilis mit besonderer Berücksichtigung der inneren Organe, Berlino, Springer, 1923; - A. Musolff, Metaphor, nation and the Holocaust. The concept of the body politic, New York, Routledge, 2011; - B. Novak, Hitler and the abductive logic. The strategy of a tyrant, Lanham (Maryland), Lexington Books, 2014; - O. Plöckinger, Geschichte eines Buches. Adolf Hitlers “Mein Kampf”, 1922-1945. Eine Veröffentlichung des Instituts für Zeitgeschichte, Monaco, Oldenbourg, 2011; - Id., Unter Soldaten und Agitatoren. Hitlers prägende Jahre im deutschen Militär, 1918-1920, Paderborn, Schöningh, 2013; - Id., Quellen und Dokumente zur Geschichte von “Mein Kampf”, 1924-1945, Stoccarda, Franz Steiner Verlag, 2016; - W. Pyta, Hitler. Der Künstler als Politiker und Feldherr. Eine Herrschaftsanalyse, Monaco, Siedler Verlag, 2015; - U. Puschner, Die völkische Bewegung im wilhelminischen Kaiserreich. Sprache, Rasse, Religion, Darmstadt, Hausser, 2001, 2 voll. - P.R. Range, La genesi del Mein Kampf. 1924: l’anno che cambiò la storia, Roma, Newton Compton, 2017; - F.J. Rash, The language of violence. Adolf Hitler’s “Mein Kampf”, New York, Peter Lang, 2006; - J. Reulecke (ed.), Stadt und Gesundheit. Zum Wandel von “Volksgesundheit” und kommunaler Gesundheit um 19. und 20. Jahrhundert, Stoccarda, Franz Steiner Verlag, 1991; - R.G. Reuth, Hitler. Eine politische Biographie, Monaco, Piper, 2003; - G.E. Rusconi, L’egemonia vulnerabile. La Germania e la sindrome Bismarck, Bologna, Il Mulino, 2010;
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La profondità della caduta di un corpo è sempre relativa alla distanza del suo luogo finale da quello iniziale. Questo vale anche per la caduta dei popoli e degli Stati. Bisogna quindi comprendere la situazione precedente, o meglio la sua “vetta”. Solo ciò che tende a elevarsi oltre i limiti normali può cadere e crollare così in basso2. Ciò che rende così spaventoso il tracollo della Germania per una persona dotata di sentimenti e di pensieri profondi è il fatto di esser avvenuto da una vetta oggi difficilmente immaginabile, se confrontata con l’attuale umiliazione. La stessa fondazione dell’Impero apparve circondata dall’aura di un evento capace di elevare tutta la nazione. Dopo un percorso vittorioso senza eguali era sorto per figli e per nipoti un Impero, ricompensa di un eroismo immortale. In maniera più o meno cosciente, i tedeschi avevano la sensazione che l’Impero troneggiasse ben oltre i limiti degli altri paesi in virtù della sua solenne fondazione, avvenuta non nel cicaleccio delle manovre parlamentari, ma nel tuono e nel fuoco dell’assedio di Parigi3. I tedeschi, i principi e il popolo, si decisero a formare un nuovo Impero e a elevare nuovamente la corona imperiale quale suo simbolo4. E ciò non avvenne per merito di Possibile allusione al Faust di Goethe, in particolare alla figura del dottor Wagner, assistente di Faust, che incarna il “positivista” incapace di comprendere la natura profonda delle cose (Atto V). 3 Allusione all’assedio di Parigi da parte delle truppe prussiane (settembre 1870-gennaio 1871). 4 Allusione alla proclamazione dell’Impero tedesco nella sala dei cristalli di Versailles il 18 gennaio 1871. 2
210 un assassinio proditorio. Non furono i disertori e gli imboscati a fondare lo Stato bismarckiano, ma i reggimenti del fronte. Quest’unica nascita, questo battesimo del fuoco circondavano l’Impero di un alone di gloria storica che spettò raramente anche agli Stati antichissimi. E che sviluppo! La libertà esterna dava a tutti i cittadini il pane quotidiano. La nazione divenne ricca per numero e per beni terreni5. Ma l’onore dello Stato, e con esso quello di tutto il popolo, era protetto da un esercito ben diverso rispetto alla vecchia Confederazione germanica6.
Figura 1 “Tedesco, pensaci!” Caricatura della leggenda della pugnalata alla schiena [fonte: bpb.de]
La caduta dell’Impero e del popolo tedesco fu così profonda che siamo colti da vertigine: ci sembra addirittura di aver perso i sensi. Non riusciamo neppure a ricordarci le vette di un tempo, poiché quella grandezza e quello splendore ci appaiono così irreali rispetto alla miseria attuale. È quindi comprensibile che, affascinati dalla solennità passata, dimentichiamo di cercare i presagi del tracollo immane, che dovevano essere in qualche modo già presenti. Questo vale naturalmente per coloro che non ritengono la Germania una semplice combriccola finanziaria, ma che avvertono il peso del tracollo attuale. Per gli altri non è che il coronamento dei loro desideri inappagati. Ma i presagi erano già chiaramente visibili, anche se pochissimi cercarono di trarne una lezione proficua. Oggi va fatto. Come per curare una malattia è necessario individuare l’agente patogeno, così bisogna fare per guarire le lesioni politiche. Certo, è più facile scorgere la forma Nel 1871 l’Impero tedesco, con quarantun milioni di abitanti, era il paese più popoloso d’Europa dopo la Russia. Grazie ai miglioramenti igienici, sanitari, alimentari e all’immigrazione la popolazione crebbe in quattro decenni sino a sessantacinquemilioni [KA, n. 4] 6 Il Congresso di Vienna sancì la nascita della Confederazione germanica presieduta da un parlamento con sede a Francoforte e un congresso generale presieduto dall’Austria.
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211 esteriore di una malattia, il suo aspetto visibile, piuttosto che la sua causa profonda. Questo è anche il motivo per cui tanti uomini si limitano agli effetti esteriori e, quindi, finiscono per scambiarli con le cause, negando l’esistenza di una causa più profonda. Infatti, oggi per molti di noi il tracollo tedesco è l’esito della crisi economica generale e delle sue conseguenze. Il fatto che i problemi riguardino quasi ogni tedesco, li rende una valida spiegazione della catastrofe attuale. La grande massa scorge appena il tracollo politico, culturale e morale. Molti si rifiutano di usare la ragione e il sentimento. È comprensibile che ciò accada per le grandi masse. Ma la mancata convalescenza si deve al fatto che i circoli dell’intellighenzia ritengono il tracollo tedesco una “catastrofe economica” e, quindi, auspicano il risanamento dell’economia. Se ammettiamo che all’economia spetta solo un ruolo secondario rispetto ai fattori politici, morali e militari, riusciremo a comprendere i motivi della disgrazia attuale e, quindi, a trovare il mezzo e le vie per il risanamento7. Comprendere le cause del tracollo tedesco è di importanza capitale, specie per un movimento politico che si ponga l’obiettivo di superare la sconfitta. Ma, studiando il passato, bisogna evitare di scambiare gli effetti manifesti con le cause latenti. Il motivo più semplice e, quindi, più diffuso dell’attuale disgrazia è che sia l’esito di una guerra persa: la sconfitta sarebbe la ragione della nostra sventura. Può darsi che alcuni credano in buona fede a tale assurdità. Per molti altri, quella motivazione è solo una bugia e una falsità intenzionali. Questo vale soprattutto per coloro aggrappati alla mangiatoia governativa. I messaggeri della rivoluzione non hanno sempre rimproverato che l’esito della guerra sarebbe stato indifferente alla massa popolare? Non hanno seriamente sostenuto che solo il “grande capitale” avrebbe avuto interesse a una conclusione vittoriosa dell’immane battaglia dei popoli, giammai il popolo o i lavoratori tedeschi? Gli apostoli della conciliazione universale non dichiaravano che la sconfitta tedesca avrebbe distrutto solo il “militarismo”, mentre il popolo tedesco avrebbe festeggiato una rinascita più splendente di prima? Quei circoli non lodavano la generosità dell’Intesa e non addossavano tutta la colpa alla Germania? Tutto ciò senza spiegare che la sconfitta militare non avrebbe avuto conseguenze particolari sulla nazione? La Rivoluzione non aveva diffuso la parola d’ordine che, impedendo la vittoria della bandiera tedesca, il popolo tedesco sarebbe andato incontro alla libertà interna ed esterna? Non dissero pressappoco così, quei miserabili e bugiardi criminali? Ci vuole la tipica sfrontatezza ebraica8 per attribuire la colpa del tracollo alla sconfitta militare, mentre l’organo centrale dei traditori del paese (il “Vortwärts!” berlinese) scriveva che il popolo tedesco non avrebbe più riportato a casa le sue bandiere vittoriose!
Sulla scarsa rilevanza dell’economia nella visione del mondo hitleriana vedi capitoli 12-I, 12-II e 14-II. La Jüdische Frechheit (sfrontatezza ebraica) è uno stereotipo antisemita diffuso non solo in ambienti nazionalpopolari, ma anche fra autori ebrei e progressisti. Oltre a Otto Weininger in Geschlecht und Charakter (Sesso e carattere, 1903), nel dopoguerra abbiamo Heinrich Mann nel romanzo Der Untertan (Il suddito, 1918). Il topos circola tuttora. Bibliografia: M. Schwarz-Friesel, J. Reinharz, Die Sprache der Jugenfeindschaft im 21. Jahrhundert, Berlino, de Gruyter, 2013. 7
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212 E sarebbe questo il motivo del nostro tracollo? Certo, sarebbe del tutto inutile discutere con simili bugiardi smemorati, e non vorrei perderci del tempo se l’assurdità non fosse ripetuta costantemente da quegli sconsiderati, senza dover attribuire loro una particolare malignità o un’intenzionale falsità. Inoltre le nostre discussioni devono chiarire la situazione ai nostri militanti, poiché qualcuno tende a deformare i fatti. La tesi che la guerra persa sia la causa del tracollo tedesco, è sostenibile fino a un certo punto. Certo, la sconfitta ebbe un impatto spaventoso sul futuro della nostra patria. Ma non è la causa, bensì una delle sue conseguenze. Ogni osservatore in buonafede ammette che una conclusione disgraziata dalla lotta per l’esistenza avrebbe avuto effetti devastanti. Purtroppo molti non se ne resero conto al momento giusto, oppure, contrariamente a quanto sapevano, contestarono i fatti. Si tratta in larga parte di coloro che, una volta realizzato il loro segreto auspicio, compresero tardivamente l’entità della catastrofe provocata dai loro simili. Sono loro i veri responsabili del tracollo, e non la guerra persa, come oggi vanno ripetendo. La sconfitta fu solo una conseguenza del loro operato e non, come affermano tuttora, l’esito di una “pessima” gestione9. Anche il nemico non era composto solo da vigliacchi, anche lui “sapeva” morire; il suo numero era inizialmente maggiore rispetto al nostro esercito, gli arsenali di tutti il mondo erano a sua disposizione. È innegabile che le vittorie tedesche, ottenute con l’eroismo e con l’“organizzazione” in quattro anni di lotte contro il mondo intero, furono l’esito di una gestione migliore. L’organizzazione e la guida dell’esercito tedesco erano le migliori che la terra avesse mai conosciuto. I suoi difetti consistevano nei limiti delle generali debolezze umane. Il tracollo dell’esercito non è alla base della nostra disgrazia, che è l’esito di altri crimini; un esito che doveva dare inizio a un ulteriore tracollo meno visibile. Eccone la dimostrazione. Quando mai una sconfitta militare determina la totale prostrazione di una nazione e di uno Stato? Da quando in qua la prostrazione è l’esito di una guerra perduta? I popoli vanno in rovina dopo una guerra persa? La risposta è assai concisa: solo quando i popoli ottengono con la sconfitta militare la quietanza della loro putrefazione, della viltà, della mancanza di carattere, in breve dell’indegnità interna. Altrimenti, la sconfitta militare diventa uno stimolo a una ripresa più gloriosa, giammai una lapide della loro esistenza. La storia ci offre infiniti esempi a conferma della nostra affermazione. Purtroppo la sconfitta militare del popolo tedesco non è una catastrofe ingiusta, ma è un castigo meritato da parte del tribunale divino. Noi abbiamo meritato di perdere. Fu solo il fenomeno di degrado più vistoso fra una lunga serie di altri fenomeni interni, forse visibilmente occultati allo sguardo della maggior parte delle persone, oppure ignorati alla maniera dello struzzo. Si considerino soltanto i fenomeni concomitanti con cui il popolo tedesco accettò la sconfitta. Molti non gioirono spudoratamente per la disgrazia della nostra patria? E chi fa questo, non si merita una punizione del genere? Alcuni non giunsero a 9
Hitler, come altri autori della destra nazionalpopolare, sosteneva le tesi di Hindenburg e di Ludendorff, a capo dello Stato Maggiore dell’Esercito dall’agosto 1916, secondo cui la colpa della sconfitta era addebitabile al governo e alla sinistra radicale. Di qui la Dolchstosslegende (leggenda della “pugnalata alla schiena”), diffusa non solo nella destra politica [KA, n. 13].
213 vantarsi di aver contributo al crollo del fronte? Non il nemico, no, ma molti tedeschi! La disgrazia fu casuale? Da quando si sproloquia attribuendoci la responsabilità della guerra? E contro verità e coscienza! No, e ancora no: il modo in cui il popolo tedesco accettò la sconfitta testimonia come la vera ragione del tracollo non vada ricercata nella perdita militare di qualche posizione o nel fallimento di un’offensiva. Perché se il fronte avesse veramente ceduto e la sorte avversa fosse giunta in patria, il popolo tedesco avrebbe reagito diversamente. Avrebbe tollerato la disgrazia a denti stretti o si sarebbe lamentato, sconvolto dal dolore. I cuori pieni di rabbia e d’indignazione si sarebbe rivolti contro un nemico vincitore per volere del fato. La nazione sarebbe andata incontro alle divisioni sconfitte come faceva il Senato romano, portando il ringraziamento della patria per il sacrificio sopportato e con la preghiera di non disperare per il proprio paese10. La capitolazione sarebbe stata sottoscritta con intelligenza, mentre il cuore avrebbe sobbalzato all’idea di una futura sollevazione. Così sarebbe stata accettata una sconfitta attribuita alla sorte avversa. Non si sarebbe riso o danzato, non si sarebbe elogiata la viltà ed esaltata la sconfitta, non si sarebbe dileggiata la truppa combattente o trascinate nel fango le sue bandiere e coccarde. Ma, soprattutto, non sarebbe mai accaduto quel fenomeno spaventoso che un ufficiale inglese (il colonnello Repington) descrisse con una sprezzante affermazione: “Un terzo dei tedeschi è composto da traditori”11. No, quella pestilenza non avrebbe mai raggiunto quel livello soffocante capace di affogare da cinque anni ciò che resta della nostra stima nel mondo. È falso sostenere che il motivo del tracollo tedesco sia la guerra persa. No, il tracollo militare fu solo la conseguenza di una serie di fenomeni patologici e di agenti patogeni che avevano già da tempo intaccato la nazione tedesca. La sconfitta non fu che la prima catastrofica conseguenza visibile di un avvelenamento etico e morale, di una diminuzione dell’istinto d’autoconservazione e di presupposti che avevano già iniziato a minare da quattro anni le fondamenta del popolo e dell’Impero. Ci voleva tutta l’ipocrisia dell’ebraismo e della sua organizzazione di lotta marxista per addossare la colpa all’uomo che da solo cercò, con forza di volontà e d’azione sovrumana, di prevenire la catastrofe prevista e di risparmiare alla nazione la tremenda umiliazione e lo smacco. Bollando Ludendorff come colpevole della sconfitta bellica si tolse di mano l’arma morale all’unico serio accusatore che tentò di lottare contro i traditori della patria12. Si partì dal giusto principio che, nell’enormità della bugia, ci sia sempre un certo grado di verità e che, quindi, la grande massa Allusione alla battaglia di Canne (216 a.C.), dove l’esercito romano subì una pesante sconfitta per mano di Annibale. 11 Riferimento a Charles à Court Repington (1858-1925), che dopo la carriera militare assunse quella di corrispondente di guerra ed era noto per i suoi sentimenti antitedeschi. 12 Erich Friedrich Wilhelm Ludendorff (1865-1937), generale tedesco, principale collaboratore di Hindenburg durante la Prima guerra mondiale. Nel dopoguerra, trasferitosi a Monaco, fu a contatto con il Partito nazionalsocialista di Hitler e partecipò simbolicamente al putsch del 9 novembre 1923. Riuscì a evitare l’accusa di tradimento e la reclusione a Landsberg grazie ai trascorsi militari. Attivo politicamente nel Partito tedesco nazionalpopolare della libertà durante il 1924, l’anno dopo Ludendorff fu sostenuto dai nazisti alle elezioni presidenziali, dove ottenne poco più dell’1%. La sua attività politica terminò qui. Bibliografia: M. Nebelin, Ludendorff. Diktator im Ersten Weltkrieg, Monaco, Siedler Verlag, 2011. 10
214 popolare, nel più profondo del suo cuore, può essere guasta, ma è non coscientemente cattiva. Perciò, a causa della sua primitiva ingenuità, essa cade più facilmente vittima di una grande bugia rispetto a una piccola, perché la massa tende a dire piccole bugie, ma si vergognerebbe di mentire su cose importanti. Perciò non le verrà mai in mente che altri avranno la sfrontatezza di distorcere le cose in maniera così ignobile. La massa dubita e vacilla a lungo anche se informata e tenderà a credere ancora alla menzogna. Per questo motivo, la bugia più sfacciata tenderà sempre a lasciare un segno. Un aspetto che tutti i grandi artisti della menzogna e le associazioni truffaldine di questo mondo sanno molto bene e che, quindi, applicano in modo infame. I migliori maestri nell’arte della falsità e delle calunnie sono sempre stati gli ebrei. Tutta la loro esistenza è costruita su un’unica grande menzogna: che sono una comunità religiosa, mentre non sono altro che una razza – e che razza13. Uno dei più grandi spiriti dell’umanità l’ha inchiodata in un aforisma di fondamentale verità: li ha chiamati “i grandi maestri della menzogna”14. Chi intende negarlo, non contribuirà mai alla vittoria della verità su questo mondo. Per il popolo tedesco fu quasi una fortuna che il periodo d’incubazione della malattia fosse abbreviato da una catastrofe così orrenda, perché, altrimenti, la nazione sarebbe andata in rovina più lentamente, ma senza alcuna remissione. La malattia si sarebbe cronicizzata, mentre fu riconoscibile almeno agli occhi di una grande moltitudine nella forma acuta del tracollo. L’uomo ebbe più facilmente ragione della tubercolosi che della peste. Perché la seconda sopraggiunge in terribili ondate mortifere che scuotono l’umanità, mentre la prima avanza lentamente; la seconda arreca uno spaventoso timore, la prima una progressiva indifferenza. Perciò l’uomo si oppone alla peste con tutte le sue forze, mentre cerca di arginare il mal sottile con mezzi blandi. Così ebbe ragione della peste15, mentre la tubercolosi regnava sovrana nel suo corpo16. Lo stesso avviene per le malattie dei corpi popolari17. Se non si manifestano in modo catastrofico, l’uomo inizia ad abituarsene lentamente e finisce per andare in rovina, anche se dopo molto tempo. È quasi una consolazione (ancorché magra) se il destino ha deciso di intervenire nel lento processo di putrefazione per mostrare in un colpo solo la fine della malattia a chi l’ha contratta. Solo così è possibile venire a capo di catastrofi del genere e si può intraprendere con determinazione la via della guarigione. Ma anche qui bisogna individuare le cause profonde che hanno fatto ammalare la persona. Il dibattito sulla “razza ebraica” riguardò studiosi più o meno noti a cavallo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Bibliografia: G. Gotzmann et al. (ed.), Juden, Bürger, Deutsche. Zur Geschichte von Vielfalt und Differenz, Tubinga, Mohr Siebeck, 2001. 14 Altra citazione ripresa dai Parerga e paralipomena di Schopenhauer (§ 174). 15 Le ultime grandi epidemie di peste in Europa scoppiarono nel 1720 a Marsiglia e nel 1751 a Mosca. A fine Ottocento giunse negli Stati Uniti un focolaio di origine cinese. 16 Nel primo dopoguerra, grazie ai medici francesi Camille Guérin e Albert Calmette, fu sperimentato il primo vaccino, poi diffusosi anche in Germania a fine anni Venti. 17 Sul concetto di “corpo popolare” vedi capitolo 2-I.
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215 Anche qui la cosa più importante è distinguere gli agenti patogeni dai fenomeni esteriori. Distinzione tanto più difficile, quanto più a lungo il virus alberga nel corpo popolare e quanto più ne è diventato parte costitutiva. Capita spesso che, dopo un certo lasso temporale, veleni assolutamente dannosi non si ritengano più “estranei”, ma che siano invece considerati endemici di un carattere nazionalpopolare o che, tutt’al più, vadano sopportati come mali necessari. Ragion per cui la diagnosi degli agenti patogeni estranei potrebbe non essere ritenuta necessaria. Così, durante la lunga pace guglielmina apparvero numerosi pericoli che furono senz’altro riconosciuti, ma s’ignorarono gli agenti patogeni stessi, salvo alcune eccezioni. Fu il caso dei fenomeni economici, a conoscenza di pochi, rispetto ai danni in un’intera serie di altri settori. I numerosi segnali di degrado avrebbero dovuto stimolare una seria riflessione. Economicamente parlando, potremmo dire che, col vertiginoso incremento della popolazione tedesca prebellica, il problema del sostentamento fosse la priorità di ogni pensiero e di ogni azione politica ed economica. Purtroppo non fu presa un’unica soluzione corretta, ma si pensò di raggiungere lo scopo per vie traverse. Rinunciando alla conquista di nuovi territori e ricorrendo alla folle conquista economica mondiale, l’esito fu un’industrializzazione illimitata quanto dannosa18. La prima conseguenza di una certa rilevanza fu l’indebolimento dello strato contadino. La contemporanea crescita della massa proletaria urbana fece perdere di vista l’equilibrio necessario. Ed ecco il brusco passaggio dalla povertà alla ricchezza. Sovrabbondanza e miseria convivevano spesso una accanto all’altra, e le conseguenze non potevano che essere tristi. Indigenza e disoccupazione iniziarono a giocare con le vite degli uomini, seminando infelicità e amarezza. Di qui la divisione politica classista. Anche nei momenti di crescita economica, la frustrazione finiva per aumentare e per approfondirsi, fino a generare la convinzione che “le cose non potevano andare avanti così ancora a lungo”. Ma gli uomini non riuscivano a immaginarsi come fosse accaduto. Erano i tipici segnali di un profondo malessere sociale. Ma peggiori effetti li ebbe la mercificazione della nazione. Nella misura in cui l’economia si ergeva a dominatrice dello Stato, il denaro divenne il dio da venerare e da riverire. Col tempo gli dèi del cielo apparvero vecchi e superati e, al loro posto, fu incensato l’idolo di Mammona19. Iniziò così un grave processo di degenerazione20, perché avvenne in un’epoca in cui la nazione avrebbe avuto maggior bisogno di sentimenti eroici. La Germania avrebbe dovuto prepararsi a garantirsi con la spada il nutrimento per via di un “lavoro economico e pacifico”21. 18
Qui Hitler ripete un pensiero centrale esposto nel capitolo 4-I. Termine utilizzato nei Vangeli di Matteo (6,24) e di Luca (16,13), che indica sia l’impossibilità di servire due signori (prescrizione monoteistica), sia di servire il “denaro” (personificazione del demonio). Bibliografia: J. Weiss, Mammon. Eine Motivgeschichte zur Religiosität des Geldes, Universität Mannheim, dissertazione universitaria, 2004. 20 Termine coniato dal medico ungherese Max Nordau. Vedi capitolo 2-I. 21 Sul topos della colonizzazione orientale vedi capitoli 4-I e 14-II.
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Figura 2 Mammona e i suoi schiavi di Sascha Scheider (1896) [fonte: wikipedia.de]
Il dominio del denaro fu sanzionato da quell’istituzione che avrebbe dovuto opporvisi. Sua Maestà il Kaiser sbagliò a introdurre la nobiltà nel nuovo capitale finanziario22. Certo, si può sostenere che lo stesso Bismarck ignorò quel pericolo23. Ma così le virtù cavalleresche cedettero il posto al valore del denaro, perché era chiaro che, a lungo andare, la nobiltà di spada avrebbe lasciato il passo a quella finanziaria. Le operazioni finanziarie erano più semplici delle battaglie. I veri eroi o gli statisti non amavano paragonarsi al vicino banchiere ebreo, perché l’uomo d’onore non aveva più alcun interesse al conferimento di decorazioni elargite a buon mercato, ma le rifiutava cortesemente. Un’evoluzione tristissima dal punto di vista del sangue: il nobile perse progressivamente il presupposto razziale della sua esistenza. Adesso gli addiceva maggiormente l’aggettivo di “plebeo”24. Un grave fenomeno di decadenza economica fu la graduale scomparsa del diritto personale di proprietà e il graduale passaggio di tutta l’economia sotto il controllo delle società per azioni25. Il lavoro era degradato a oggetto speculativo di manovre borsistiche, l’alienazione della proprietà di fronte all’operaio s’ingigantì all’infinito. Iniziarono i trionfi della borsa, che si accinse a prendere lentamente, ma inevitabilmente, il controllo della vita nazione. La percentuale di ebrei nobilitati dal Kaiser fu di circa dell’1% (7 su 739) [KA, n. 43]. Pur apprezzandolo molto, gli agitatori antisemiti criticarono i legami di Bismarck con le banche ebraiche (come Gerson von Bleichröder). Bibliografia: W.E. Mosse, Gli ebrei e l’economia tedesca. Storia di un’élite economica, 1820-1935, Bologna, Il Mulino, 1990. 24 Lo scenario di tali critiche era il crescente numero di matrimoni misti fra borghesi e nobili dopo il 1871, conclusi anche da numerose famiglie ebraiche. In realtà, il numero rimase basso, così come quello interetnico [KA, n. 46]. 25 Altro stereotipo antisemita: il passaggio dal possesso “familiare” e “reale” della proprietà all’economia “speculativa” simboleggiata dalle società per azioni. Bibliografia: J. Schäfer, Vermessen – gezeichnet – verlacht. Judenbilder in populären Zeitschrift, 1918-1933, Francoforte sul Meno, Campus Verlag, 2005.
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217 L’internazionalizzazione dell’economia tedesca era iniziata prima della guerra per via del capitale azionario. Certo, una parte dell’industria tedesca cercò di opporsi con decisione a quel destino. Ma alla fine cadde di fronte dell’attacco congiunto dell’avido capitale finanziario, sostenuto dal suo più fedele alleato: il movimento marxista. La guerra infinita contro “l’industria pesante” tedesca era il segno tangibile dell’internazionalizzazione dell’economia tedesca sostenuta dal marxismo, che tuttavia poté celebrare il suo trionfo solo con la vittoria rivoluzionaria postbellica. Mentre scrivo queste righe, quei soggetti hanno attaccato anche le ferrovie statali, che sono passate in mano al capitale finanziario internazionale. La socialdemocrazia “internazionalista” ha raggiunto uno dei suoi obiettivi più importanti26. Il grado di “mercificazione” del popolo tedesco si desume dal fatto lampante che, dopo la guerra, una delle menti più importanti dell’industria tedesca (e soprattutto del commercio) osò affermare che solo l’economia sarebbe stata capace di risollevare la Germania27. Affermazione assurda, dal momento che la Francia stessa riportava i fondamenti dei suoi programmi scolastici alle basi umanistiche, per sfatare così l’idea che la nazione e lo Stato esistessero solo grazie all’economia e non a valori ideali imperituri28. L’affermazione di Hugo Stinnes provocò uno sconcerto incredibile. Fu subito ripresa, per diventare con incredibile rapidità il motto di ciarlatani e di parolai che la Germania postrivoluzionaria aveva trasformato in “statisti”. Uno dei peggiori fenomeni di degrado nella Germania prebellica era l’incertezza generalizzata, conseguenza fatale dell’insicurezza, della viltà e di altre ragioni. Fu una patologia sostenuta dall’educazione. L’educazione tedesca prebellica era affetta da moltissime debolezze. Era unilateralmente impostata sulla coltivazione del puro “sapere”, era meno orientata alla “capacità”, ancor meno alla formazione del carattere individuale (per quanto sia possibile!), ancor meno alla promozione dell’assunzione di responsabilità e ignorava del tutto l’educazione alla volontà e alla risolutezza. I suoi prodotti non furono affatto uomini forti, ma “saputelli” remissivi, generalmente molto apprezzati prima della guerra29. La gente amava il tedesco, poiché era capace di far tutto, ma non lo si rispettava, per via dell’ignavia. Non a caso, egli perdeva più facilmente nazionalità e patria rispetto a tutti gli altri popoli. Il bel detto “andare a zonzo col cappello in mano” dice tutto. La remissività divenne fatale quando fu la forma con cui accostarsi al monarca. Cioè: non contraddirlo mai, approvare qualsiasi cosa dicesse o facesse. Proprio dove sarebbe stata assai necessaria la dignità dell’uomo libero, per evitare la rovina dell’istituzione monarchica in preda al servilismo. Perché di servilismo si trattava e di nient’altro, di miseri adulatori e di lacchè. In sintesi decadenti che sapevano meglio 26
Sul Piano Dawes vedi capitolo 15-II. Allusione al capitano d’industria Hugo Dieter Stinnes (1870-1924). Bibliografia: G. Feldman, Hugo Stinnes. Biographie eines Industriellen, 1870-1924, Monaco, C.H. Beck, 1998. 28 Allusione alla riforma scolastica francese del 1923 (c.d. Berard), che tendeva a imprimere un carattere prevalentemente umanistico alle scuole superiori, imponendo quattro anni di latino e due di greco a scapito delle scienze naturali e matematiche. Nel 1925 la riforma fu modificata, ristabilendo una perequazione tra le materie classiche e quelle moderne. Bibliografia: J.E. Talbott, The politics of education reform in France, 1918-1940, Princeton (New Jersey), Princeton University Press, 1969. 29 Sulle massime educative hitleriane vedi 2-II.
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218 rapportarsi col trono rispetto alle anime oneste e onorevoli, perché si riteneva l’unica forma possibile di rapporto coi monarchi. Queste creature “sottomesse”, umili di fronte ai loro signori e sfamatori, avevano già dato prova di grande insolenza di fronte agli altri uomini, soprattutto quando avevano il coraggio di presentarsi come gli unici “monarchici”. Una vera spudoratezza tipica solo di un verme nobilitato. Perché, in realtà, furono quegli uomini i veri affossatori della monarchia e dell’ideale monarchico. E non poteva essere altrimenti. Un uomo disposto a sposare completamente una causa non può e non sarà mai un vile o un adulatore smidollato. Quando le cose si fanno difficili per un’istituzione, il vero uomo la difenderà sino all’ultimo battito del suo cuore e non tollererà alcuna debolezza, non andrà in giro sbraitando ai quattro venti, come fecero ipocritamente gli “amici” democratici della monarchia. Inoltre egli avvertirà onestamente Sua Maestà, portatore della corona stessa, e cercherà di determinarne l’operato. Non crederà che Sua Maestà possa agire a capriccio, specie se il suo operato è disgraziato, ma cercherà di proteggere la monarchia dal monarca stesso, a ogni costo. Perché se il valore dell’istituzione consistesse nella persona del monarca del momento, sarebbe la peggiore istituzione possibile, visto che i monarchi sono solo in rarissimi casi modelli di saggezza, di ragione o di carattere, come si vorrebbe far credere. Lo credono solo gli adulatori o gli approfittatori di professione, mentre i veri uomini (quelli di maggior valore per uno Stato!) provano fastidio di fronte a tali sciocchezze. Per loro la storia è storia e la verità è verità, anche quando si tratta del monarca. No, la fortuna di avere come monarca un grand’uomo capita assai di rado nella storia dei popoli, che devono essere lieti se il destino evita loro il peggio. Perciò il valore dell’idea monarchica non consiste nella persona del monarca, a meno che il cielo non decida di porre la corona sulla testa di un eroe geniale come Federico il Grande30 o di un carattere saggio come Guglielmo I31. Questo accade una volta ogni secolo, e non di più. Altrimenti è bene anteporre l’idea alla persona: il senso dell’istituzione poggia solo se stessa. Così il monarca stesso entra nella cerchia dei servitori della nazione. Anch’egli è solo una ruota dell’ingranaggio e ne è subordinato. Anch’egli deve piegarsi ai suoi fini superiori. E “monarchico” non sarà più chi permette silenziosamente al portatore della corona di commettere un sacrilegio, ma chi lo impedisce. In caso contrario, non si potrebbe mai destituire un principe chiaramente pazzo, se il senso non riposasse nell’idea, ma sulla persona “sacra” a ogni costo. Oggi è necessario ribadirlo, perché spuntano strani personaggi dalla penombra, il cui miserabile comportamento ha contribuito al tracollo della monarchia. Con una certa ingenua impertinenza, questi signori parlano ancora oggi del “loro” re (quel re che, alcuni anni prima, avevano piantato in asso al momento critico) e sputano sentenze su chiunque non sottoscriva ogni loro ipocrita invettiva. In verità sono proprio loro i conigli che, nel 1918, scapparono a gambe levate di fronte a ogni bracciale rosso, mollando da solo il re. Scambiarono rapidamente le alabarde con un bastone da passeggio, indossarono cravatte neutrali e sparirono nella massa dei 30 31
Sul rapporto di Hitler con Federico il Grande vedi capitolo 14-II. Guglielmo I (1797-1888), re di Prussia dal 1861 al 1888 e imperatore di Germania dal 1871 al 1888.
219 “cittadini” pacifici senza lasciare alcuna traccia32. Quei lealisti si dispersero in un battibaleno. Fu solo dopo che, grazie all’azione altrui, si era placato il vento burrascoso rivoluzionario e si poteva urlare ai sette venti “Evviva, evviva il re”33, che quei “servitori e consiglieri” della corona iniziarono a rispuntare all’orizzonte. Eccoli lì che gettano uno sguardo avido sullo stufato egiziano34, che non stanno più nella pelle dalla voglia di dimostrare il loro lealismo e il loro dinamismo, finché non riapparirà un nuovo bracciale rosso che li disperderà ai sette venti, come fa il gatto col topo. Se i monarchi non fossero in parte responsabili di questa situazione, avremmo ragione di rammaricarci profondamente dei loro attuali paladini. Debbono in ogni caso convincersi che con simili cavalieri è possibile perdere un trono, non certo guadagnarlo. Anche la deferenza dinastica fu uno sbaglio della nostra educazione che si vendicò nel modo più tremendo. Perché così quei miserabili individui poterono circolare liberamente in tutte le corti e minare lentamente le basi della monarchia. Non appena l’edificio cominciò a vacillare, tutti sparirono come per incanto. Naturalmente, adulatori e lacchè non si fanno uccidere per i loro signori. È sempre stata la rovina dei monarchi non averlo mai compreso veramente. Uno dei fenomeni più terribili di decadenza fu la crescente viltà di fronte alla responsabilità e, quindi, l’incertezza generalizzata. Il focolaio di questa epidemia si trova nell’istituzione parlamentare, dove si coltiva l’irresponsabilità allo stato puro. Purtroppo quella malattia si propaga seriamente in tutti gli ambienti, specialmente nello Stato. La gente inizia a evitare la responsabilità e preferisce ricorrere a norme interlocutorie o insufficienti. Così la responsabilità individuale è ridotta ai minimi termini. Si pensi solo alla posizione dei singoli governi di fronte a una serie di fenomeni dannosi della nostra vita pubblica e si riconoscerà facilmente l’importanza spaventosa dell’incertezza e della viltà irresponsabile. Mi limito a fare alcuni esempi fra la massa a nostra disposizione. Solitamente gli ambienti giornalistici indicano la stampa come un “potere” nello Stato. In effetti, la sua importanza è veramente grande. La stampa non può mai essere sottovalutata: è la prosecuzione dell’educazione della gioventù in età adulta. Possiamo distinguere i lettori in tre gruppi: 1) quelli che credono a tutto ciò che leggono; 2) quelli che non credono più a niente; 3) quelli che esaminano criticamente ciò che leggono e poi lo giudicano. Il primo gruppo è numericamente di gran lunga più importante. È formato dalla grande massa del popolo e rappresenta quindi la parte intellettualmente più limitata della nazione. Questo gruppo non può essere classificato in base alle professioni, tutt’al più per gradi di intelligenza. Alla massa appartengono tutti coloro che non sono La polemica di Hitler si rivolge soprattutto contro i sostenitori della Bayerische Königspartei (Partito reale bavarese, 1919) e quelli del Bayerische Heimat- und Königsbund (Lega bavarese per la patria e per il Re, 1912). I rapporti fra i due partiti e il nazismo furono sempre ambivalenti. La Lega si sciolse spontaneamente il 6 luglio 1933 [KA, n. 63]. 33 Titolo e prima strofa dell’inno bavarese (1806-1918). 34 Riferimento all’Esodo (16,3).
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220 stati educati o che non sono portati a pensare autonomamente, e che, per incapacità o inettitudine, credono a tutto ciò che leggono. A questa categoria appartengono anche coloro che sanno pensare, ma che per indolenza tendono a riprendere ciò che è già stato pensato da altri, sostenendo di essersi sforzati abbastanza. L’influenza della stampa può essere enorme su tutti gli uomini della grande massa. Essi non possono o non vogliono esaminare da sé ciò che leggono, quindi ogni loro posizione sui problemi quotidiani è manipolabile. Ciò può essere vantaggioso se il chiarimento è compiuto da gente seria e onesta, ma è una sventura se eseguita da farabutti o da bugiardi. Il secondo gruppo è numericamente più esiguo. Esso è composto in parte da elementi che prima appartenevano al primo gruppo, ma che poi si sono trasformati nell’esatto contrario dopo lunghe e amare delusioni. Ora non credono più a nulla di ciò che leggono. Essi odiano i giornali, non li leggono oppure s’indignano per ogni cosa, poiché, a loro avviso, tutto è bugia e falsità. Questi uomini sono difficili da trattare, poiché oppongono sempre la sfiducia alla verità. Sono quindi “persi” per qualsiasi propaganda positiva. Infine il terzo gruppo è ancora più esiguo. È formato da teste intellettualmente molto fini che hanno imparato a pensare autonomamente per indole naturale o per educazione, che cercano di farsi sempre un giudizio su tutto e che sottopongono tutto ciò che leggono a un esame scrupoloso e attento. Essi non prenderanno mai un giornale in mano, senza prima elaborarlo nella loro mente. E il redattore non ha vita facile. I giornalisti non amano particolarmente quel genere di lettori. Per questo terzo gruppo le sciocchezze scarabocchiate su un quotidiano non sono pericolose o non hanno particolare importanza. I suoi membri sono già abituati a considerare ogni giornalista un farabutto che dice solo alcune verità. Purtroppo l’importanza di queste splendide persone consiste quasi esclusivamente nella loro intelligenza, e non nel numero esiguo. Una vera disgrazia in un’epoca in cui la saggezza non conta più nulla e in cui la maggioranza è tutto. Oggi, quando a decidere è la scheda elettorale, il peso determinante ce l’ha il gruppo più numeroso, cioè il primo: il gruppo degli ingenui o dei creduloni. È priorità del popolo e dello Stato impedire che gli uomini del primo gruppo finiscano nelle mani di educatori cattivi, ignoranti o malvagi. Lo Stato ha il dovere di tenere sotto controllo la sua educazione e di impedire ogni malefatta. Deve tenere d’occhio la stampa, perché la sua influenza è decisamente maggiore e più incisiva, perché non è occasionale, ma continua. La sua incredibile importanza consiste nella regolarità e nell’incessante ripetizione dei suoi insegnamenti. Lo Stato non deve mai dimenticare che tutto fa brodo. Lo Stato non deve farsi confondere e convincere dalle frottole della “libertà di stampa” per tralasciare il suo dovere, ma proporre alla nazione la dieta di cui ha bisogno. Lo Stato deve garantirsi con ogni mezzo quello strumento di educazione popolare e porlo al servizio della nazione35.
Con il Decreto presidenziale per la difesa del popolo e dello Stato (28 febbraio 1933) il Partito nazista eliminò la libertà di stampa e di opinione. Bibliografia: K.D. Abel, Presselenkung im NS-Staat. Eine Studie zur Geschichte der Publizistik in der nationalsozialistischen Zeit, Berlino, Colloquium, 1968; C. Studt, “Diener des Staates” oder “Widerstand zwischen den Zeilen”? Die Rolle der Presse im Dritten Reich, Berlino, Lit Verlag, 2007. 35
221 Ma quale dieta ha consigliato la stampa tedesca prebellica ai nostri lettori? Non fu il veleno più amaro che si potesse immaginare? Non s’inculcò nel cuore del nostro popolo il peggior pacifismo36 in un’epoca in cui il resto del mondo si apprestava a strozzare lentamente, ma inesorabilmente la Germania? La stampa non aveva già introdotto in tempo di pace nel cervello del popolo il dubbio sulle nostre ragioni, per limitare così la scelta dei mezzi a nostra difesa? Non fu la stampa tedesca a cercare di rendere appetibile l’assurda “democrazia occidentale”, finché il nostro popolo, affascinato da quella fiumana entusiasta di parole, pensò di affidare il suo avvenire a una Società delle Nazioni?37 La stampa non ha forse contribuito a educare il popolo a una sciagurata dissolutezza? Non irrise la morale e il costume, interpretati come feticci arretrati e filistei, finché anche il popolo non decise di “modernizzarsi”? Non ha minato le basi dell’autorità statale con i suoi continui attacchi, finché non gli bastò una singola spinta per demolire l’intero edificio? Non ha osteggiato con tutti i mezzi la volontà di dare allo Stato ciò che merita, non ha sminuito l’esercito con una critica costante, non ha sabotato la leva militare obbligatoria38, non ha esortato al rifiuto dei crediti militari, finché non ha raggiunto il suo obiettivo? L’attività della “stampa libera” fu un’opera mortifera per il popolo e per il paese. Per non parlare dei mendaci fogli marxisti. Per loro la menzogna è una necessità vitale come i topi per il gatto. Il loro compito è quello di spezzare la spina dorsale del popolo, per renderlo così pronto al giogo schiavista del capitale internazionale e dei suoi signori: gli ebrei. Ma cos’ha fatto lo Stato contro questo veleno di massa? Niente, assolutamente niente. Un paio di ordinanze ridicole, un paio di multe contro certe esagerazioni e basta39. Così sperava di alleviare l’epidemia con le lusinghe, riconoscendo il “valore” della stampa, il “significato” della sua “missione educativa” e sciocchezze simili. Tutti propositi a quali l’ebreo rispondeva cinicamente con ipocriti ringraziamenti. Il motivo del vergognoso fallimento statale non era il misconoscimento del pericolo, quanto l’inaudita vigliaccheria e la conseguente ambiguità politica. Nessuno aveva il coraggio di ricorrere a drastici mezzi radicali, ma si ricorreva a palliativi temporanei, invece di colpire al cuore il problema. Si stuzzicava il serpente col risultato che non solo le cose restavano come prima, ma che, al contrario, la potenza delle istituzioni da combattere cresceva di anno in anno. La lotta difensiva dei governi tedeschi contro l’orda giornalistica che rovinava lentamente la nazione (di origine ebraica o prodotta da giornali ebraici), era priva di una linea, di determinazione, ma soprattutto non aveva un obiettivo chiaro. Ecco il fallimento completo dei consiglieri segreti, sia nella valutazione dell’importanza della lotta, sia nella scelta dei mezzi, sia nella fissazione di un piano ben preciso. Si cercò di arrangiare le cose alla bell’e meglio. A volte si rinchiudeva al fresco qualche vipera
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Sul pacifismo vedi capitoli 3-I, 4-I e 11-I. La Germania entrò nella Società delle Nazioni nel settembre 1926, ma ne uscì nell’ottobre 1933 dopo il fallimento della Conferenza sul disarmo di Ginevra. 38 La coscrizione obbligatoria universale fu introdotta in Francia nel 1793. 39 In Germania vigeva la libertà di stampa dal 1874. Durante le leggi antisocialiste (1878-1890), la libertà di stampa fu tolta alle testate d’area socialista.
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222 giornalistica per alcuni settimane o per alcuni mesi, se i morsi erano troppo forti. Ma il covo delle serpi era integro. Ciò fu in parte l’esito dell’abilissima tattica degli ebrei, da una parte, e della miserabile stupidità o ingenuità dei consiglieri segreti, dall’altra. L’ebreo era troppo intelligente per lanciare un attacco frontale con tutta la sua stampa. No, una parte serviva a coprire l’altra. Mentre i giornali marxisti attaccavano in modo abietto tutto ciò che vi è di più sacro, e insudiciavano in modo infame Stato e governo aizzando una contro l’altra le diverse parti del popolo, i fogli democratici e borghesi degli ebrei davano una parvenza di celebre “oggettività”, evitando penosamente tutte le espressioni eccessive, ben sapendo che le zucche vuote giudicano solo superficialmente e non sono in grado di penetrare i fenomeni. Una cosa viene giudicata solo dalla forma, non certo dal contenuto. Una debolezza umana alla quale devono la considerazione di cui godono. Per questa gente la “Frankfurter Zeitung” era ed è evidentemente la quintessenza della serietà40. Quel giornale non utilizza mai espressioni grossolane, rifiuta ogni brutalità fisica e si appella sempre all’uso di armi “intellettuali”, che stranamente stanno a cuore alle persone più banali. Altro prodotto della nostra pseudocultura che allontana gli uomini dall’istinto naturale, inietta un certo sapere, senza portarli alle conoscenze ultime. Lo zelo e la buona volontà non servono a nulla se non sono accompagnati dall’intelligenza necessaria e, soprattutto, innata. La conoscenza finale è sempre comprensione delle sorgenti dell’istinto. In altre parole l’uomo non crederà mai alla follia di essere divenuto signore e padrone della natura, come la boriosa pseudocultura gli vorrebbe far credere, ma deve comprendere la necessità fondamentale della natura e capire che anche la sua esistenza è soggetta alle sue leggi: l’eterna lotta verso il cielo. Solo allora capirà che non esistono leggi speciali per gli uomini in un universo, in cui gravitano pianeti e soli, in cui si attirano lune e pianeti, dove solo la forza è padrona della debolezza che deve servire o va distrutta. Anche per l’uomo valgono le eterne leggi di questa suprema saggezza. Egli può cercare di comprenderle, ma non può mai riuscire a liberarsene. È proprio per il demi-monde intellettuale che l’ebreo pubblica la sua stampa raffinata. La “Frankfurter Zeitung” e il “Berliner Tageblatt” sono fatti per lui41, il tono gli si addice, agisce su di lui. Evitando accuratamente ogni apparente e chiara volgarità, quei giornali introiettano il veleno di altri recipienti nel cuore dei loro lettori. Con una chiacchiera di buon tono e di luoghi comuni, essi cullano i loro lettori nella convinzione che la scienza e la morale pure siano le forze motrici dell’azione umana, mentre in realtà è solo l’arte geniale e maligna con cui privare gli avversari delle armi contro la stampa. Perché, trasudando buona educazione, tutti gli imbecilli credono ai giornali e ritengono che piccoli eccessi non possano mai condurre alla violazione della La “Frankfurter Zeitung” (Giornale francofortese), acquisito nel 1934 dall’industria chimica IG Farben, non fu vietato sino all’agosto 1943, per evitare di intaccare la fama internazionale del quotidiano. 41 La “Frankfurter Zeitung”, fondata da Leopold Sonnemann e Heinrich Bernhard Rosenthal nel 1856, e il “Berliner Tageblatt”, fondato da Rudolf Mosse nel 1872, entrambi schierati su posizioni liberalconservatrici, erano considerati i prototipi della “stampa ebraica” antipopolare. Bibliografia: B. Suchy, Die jüdische Presse im Kaiserreich und in der Weimarer Republik, in J.H. Schoeps (ed.), Juden als Träger bürgerlicher Kultur in Deutschland, Stoccarda, Burg Verlag, 1989, pp. 167-191.
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223 libertà di stampa (come si indica quella sciocca e impunita menzogna, quell’avvelenamento popolare). Si evita quindi di agire contro quei banditi, nel timore di trovarsi contro tutta la stampa “perbene”. Un timore peraltro fondato. Perché, non appena si cerca di agire contro uno di quei fogli vergognosi, tutti gli altri prendono le sue parti, non certo per approvare la loro polemica (Dio ce ne scampi). Si tratta solo del principio della libertà di stampa e della libertà dell’opinione pubblica. Questo solo va difeso. Di fronte a tale frastuono, anche gli uomini più forti sono irretiti, specie se esce dalla bocca di tutti i giornali “perbene”… Così il veleno poté insinuarsi e agire indisturbato nell’apparato circolatorio del nostro popolo, senza che lo Stato avesse la forza di sconfiggere quella malattia. I ridicoli palliativi utilizzati testimoniano la decadenza incombente dell’Impero. Perché un’istituzione che non sia più pronta a difendersi con tutte le armi, è praticamente perduta. I palliativi sono il segno visibile della decadenza interiore, cui prima o poi seguirà il tracollo esteriore. Io credo che la nostra generazione, se ben guidata, potrebbe avere la meglio su quel pericolo. Ha assistito a diverse dimostrazioni in grado di rafforzare i nostri nervi. Certo, in futuro l’ebreo solleverà un tale baccano sui suoi giornali quando si allungherà la mano sulla sua amata scodella per porre fine allo scandalo della stampa, che sarà posta al servizio dello Stato togliendola di mano ai nemici del popolo o agli stranieri. Ma io credo che il frastuono infastidirà meno i giovani rispetto ai loro padri. Una granata di trenta centimetri fischia sempre più forte rispetto a mille vipere ebraiche dei quotidiani. Facciamola quindi fischiare. Ecco un altro esempio dell’indecisione e della debolezza nella gestione prebellica dei problemi vitali più importanti della nazione. Parallelamente alla contaminazione politica, morale ed etica del nostro popolo avvenne un non meno pericoloso avvelenamento del corpo popolare. La sifilide iniziò a dilagare soprattutto nelle grandi città42, mentre la tubercolosi mieteva regolarmente vittime nelle campagne43. Benché le conseguenze fossero in entrambi i casi orribili, nessuno decise di opporre drastiche misure. Specialmente di fronte alla sifilide, la gestione del governo fu una completa capitolazione. Bisognava combattere la piaga in maniera più energica di quanto non si fece44. La scoperta di un rimedio discutibile e il suo utilizzo commerciale non possono sconfiggere questa epidemia45. Anche qui bisognava sconfiggere le cause e non A causa della mancanza d’obbligo di denuncia e delle diagnosi errate non è possibile valutare la diffusione della sifilide durante il Secondo Impero tedesco. Bibliografia: L. Sauerteig, Krankheit, Sexualität, Gesellschaft. Geschlechtskrankheiten und Gesundheitspolitik in Deutschland im 19. Jahrhundert und frühen 20. Jahrhundert, Stoccarda, Franz Steiner Verlag, 1999. 43 Anche dopo la scoperta dell’agente patogeno della tubercolosi grazie a Robert Koch (1882), la malattia restò la principale causa di morte in Europa. 44 Hitler ignora l’introduzione dell’assicurazione sociale (1903) o la Legge per la lotta contro le malattie trasmissibili (1905), che riguardava il monitoraggio e l’obbligo di trattamento delle prostitute infette [KA, n. 97]. 45 Allusione al farmaco Salvarsan, che dal 1910 consentì un trattamento positivo della sifilide. Fu sviluppato a Francoforte dal medico ebreo Paul Ehrlich (poi Nobel per la medicina) e dal suo assistente giapponese Sahachiro Hata. 42
224 eliminare gli effetti. Ma l’origine è innanzitutto la prostituzione dell’amore46. Anche se il risultato peggiore non fosse quella temibile epidemia, sarebbe comunque molto nocivo per il popolo, perché basterebbero le sue devastazioni morali a distruggerlo lentamente, ma inesorabilmente. L’ebraizzazione della nostra vita interiore47, la mammonizzazione dell’istinto di accoppiamento finiranno per insudiciare la nostra prole futura, sostituendo i figli sani di un sentimento naturale con i miserabili effetti di un accoppiamento venale. Perché questa sarà la base e l’unico presupposto del matrimonio. Ma l’amore si sfoga altrove. Si può irridere la natura per un certo periodo, ma la sua vendetta sarà implicabile, si manifesterà solo più tardi o, meglio, sarà riconosciuta dagli uomini quando ormai è troppo tardi. Anche la nostra nobiltà è un esempio di quanto siano devastanti le conseguenze di un continuo disprezzo dei presupposti naturali dell’amore. Ecco i risultati di una riproduzione fondata in parte su obblighi puramente sociali, in parte su motivi finanziari. I primi conducono all’indebolimento, i secondi all’avvelenamento del sangue. La prima ebrea figlia di un proprietario di grandi magazzini è adatta a garantire la discendenza di sua “Altezza”. O almeno così pare. In entrambi i casi l’esito è la degenerazione finale.
Figura 3 Un protettore attende la prostituta dopo un controllo medico (Berlino, 19890) [fonte: wikipedia.de]
La nostra “borghesia” si sforza di intraprendere la stessa via e approderà al medesimo risultato. Si cerca di costeggiare verità sgradevoli con indifferenza, come se le cose si potessero aggiustare. No, il fatto che la nostra popolazione urbana prostituisca sempre più la vita amorosa e sia vittima in settori sempre più ampi dell’epidemia sifilitica, è 46
Il nesso diretto fra prostituzione e diffusione della sifilide era piuttosto noto nel dibattito coevo, come dimostra il lavoro di Alfred Blaschko Die Gefahren der Syphilis und die Reglementierung der Prostitution (I pericoli della sifilide e la regolamentazione della prostituzione, 1914) [KA, n. 101]. 47 Sul nesso fra ebraismo e prostituzione vedi capitolo 2-I.
225 difficilmente innegabile, ma così stanno le cose. L’esito più evidente dell’epidemia si trova, da un lato, nell’ospedale psichiatrico e, dall’altro, nei nostri figli48. Specialmente questi ultimi sono il frutto sciagurato della pestilenza ormai inarrestabile della nostra vita sessuale. Nelle malattie dei figli si manifestano spesso i peccati dei genitori. Ci sono diversi modi per reagire a questi orrendi fenomeni. Il primo è far finta di non vedere o non voler vedere, cioè ignorare il fenomeno (la posizione più semplice e più comoda). Il secondo è ammantarsi di una ridicola e ipocrita pruderie, parlarne come di un grave peccato e mostrarsi profondamente indignati di fronte a ogni peccatore colto in flagrante, per poi chiudere gli occhi, con pia indignazione, di fronte all’empia epidemia e pregare l’amato Signore di gettare pece e zolfo (possibilmente dopo la morte dei malati) sulle odierne Sodoma e Gomorra, dando così un nuovo esempio edificante alla spudorata umanità. Il terzo modo è vedere lucidamente le spaventose conseguenze dell’epidemia, ma scrollare le spalle, convinti di non poter far nulla, perché le cose faranno il loro corso. Tutti modi comodi e semplici, ignari del fatto che una nazione cadrà così in rovina. La scusa che gli altri non se la passino meglio, non cambia affatto il proprio imminente declino, sarebbe come dire “mal comune mezzo gaudio”. Quale popolo riuscirà per primo ad aver ragione di una simile peste e quale nazione andrà in rovina? Ecco ciò che conta. Si tratta del banco di prova del valore di una razza: perire o far spazio ad altre razze più sane, più forti e più resistenti. Perché il problema riguarda le generazioni future, coloro di cui si dice con spaventosa esattezza che le colpe dei padri ricadranno sui figli, sino alla decima generazione49. Un sacrilegio per il sangue e per la razza. Il peccato di sangue50 e l’onta razziale51 sono i peccati ereditari di questo mondo e la fine di un’umanità che cede di fronte a essi. Il problema fu affrontato in modo miserabile dalla Germania prebellica. Cosa si fece per porre un freno alla pestilenza della nostra gioventù urbana? Cosa si fece contro la contaminazione e la mammonizzazione della vita amorosa? Cosa si fece per combattere l’aggressione sifilitica del corpo popolare? Le risposte si ricavano constatando ciò che non fu fatto. Innanzitutto non bisognava prendere alla leggera il problema, ma comprendere che la felicità o la rovina delle generazioni future, l’avvenire del nostro popolo, dipendevano dalla sua soluzione, se mai ce ne fosse una. Una tale ammissione richiedeva misure e azioni drastiche. Bisognava convincersi che l’attenzione di tutta la nazione andava concentrata su quel pericolo orrendo, affinché tutti fossero realmente consapevoli dell’importanza di questa lotta. Tutto diventa 48
La sifilide non è ereditaria, ma può essere innata. Il contagio può avvenire per via materna. Allusione a un passo del Deuteronomio (23,3-4). 50 L’utilizzo ideologico-razziale del concetto di Blutsünde (peccato di sangue) era ricorrente in ambito nazionalpopolare. L’originario significato di incesto fu ampliato con una connotazione antisemitica. Il termine fu popolarizzato da Artur Dinter nel romanzo Die Sünde wider das Blut (I peccati contro il sangue, 1917), dove l’autore espose le conseguenze “nefaste” dell’amore fra uomini ebrei e donne tedesche. Bibliografia: G. Henschel, Neidgeschrei. Antisemitismus und Sexualität, Amburgo, Hoffmann & Campe, 2008. 51 Il concetto di Rassenschande (onta razziale) risale all’epoca coloniale e fu utilizzato dal movimento pantedesco per stigmatizzare i rapporti fra donne bianche e uomini neri. Anche il romanziere Hans Grimm utilizza analoghi argomenti nel romanzo Volk ohne Raum (Popolo senza spazio, 1926). Bibliografia: A. Przyrembel, “Rassenschande”. Reinheitsmythos und Vernichtungslegitimation im Nationalsozialismus, Gottinga, Vandenhoeck & Ruprecht, 2003. 49
226 sopportabile se ciascuno ammette, oltre alla costrizione, l’intima necessità della cosa. L’immane educazione sessuale deve eliminare tutti i problemi quotidiani che finiscono per distrarre l’attenzione generale. In tutti i casi in cui si tratta di esaudire richieste o compiti apparentemente impossibili bisogna concentrare l’attenzione generale solo su un problema, come se dalla sua soluzione dipendesse l’essere o il non essere52. Solo così un popolo sarà disposto e capace di compiere azioni e sforzi veramente importanti.
Figura 4 Inserzione pubblicitaria del Salvarsan [fonte: georg-speyer-haus.de]
Lo stesso principio vale anche per chiunque intenda raggiungere grandi obiettivi. Bisogna salire un gradino alla volta. Bisogna concentrare tutti gli sforzi per il conseguimento di un obiettivo ben preciso. E, dopo averlo raggiunto, si potrà pensare al gradino successivo. Chi non suddivide il percorso in singole tappe e non mira a raggiungerle singolarmente con la massima concentrazione di tutte le sue energie, non riuscirà a mai a raggiungere l’obiettivo finale, ma si fermerà da qualche parte lungo il percorso, forse a grande distanza. L’avvicinamento alla mèta finale è un’arte che richiede il dispendio di tutte le energie necessarie a percorrere un passo alla volta. Il primissimo presupposto per affrontare un tratto così difficile della via umana consiste nella capacità governativa di convincere la massa popolare che la tappa parziale è l’unica cosa che conti: dalla sua conquista dipende tutto il percorso. La grande moltitudine popolare non è in grado di scorgere tutta la via davanti a sé, senza abbattersi o dubitare della prova. Riuscirà a scorgere la mèta fino a un certo punto, ma saprà abbracciare la via solo a piccoli passi. È come un viandante consapevole della fine del suo viaggio, ma che riesce a percorrere l’infinito tragitto solo suddividendolo in singole tappe e marciando in direzione di ognuna, come se fosse l’unica cosa importante. Solo così riesce ad andare avanti senza perdersi d’animo. 52
Ennesima allusione all’Amleto (Atto III, Scena 1).
227 Ricorrendo a ogni strumento propagandistico, bisognerebbe rappresentare il tema della lotta contro la sifilide come la missione della nazione, non come una qualsiasi. Bisognerebbe descrivere la sifilide come la peggior disgrazia che esista, finché tutta la nazione non si convincerà che il suo avvenire o il suo declino dipende unicamente dalla soluzione del problema. Dopo questa fase preliminare, lunga alcuni anni (se necessario), che ha suscitato l’attenzione e la determinazione popolare, si potrà far ricorso a misure più drastiche, senza correre il pericolo di essere incompresi o di essere piantati in asso sul più bello. Perché, per affrontare seriamente questa pestilenza, sono necessari enormi sacrifici e tantissima fatica. La lotta contro la sifilide comporta una lotta contro la prostituzione, contro i pregiudizi e contro le vecchie abitudini, contro le idee attuali, contro le visioni generali, fra cui l’ipocrita pruderie di certi ambienti. Il presupposto morale è quello di garantire un accoppiamento anticipato alle generazioni future. Il matrimonio tardivo contribuisce al mantenimento di un’istituzione che, comunque la si metta, è una vergogna dell’umanità; un’istituzione ben poco adatta a un essere fatto a immagine e a somiglianza di Dio. La prostituzione è un’onta dell’umanità, non si può eliminare con lezioni morali, con la pia volontà ecc. Il suo contenimento e la sua soppressione finale comportano l’eliminazione di un’infinità di presupposti. Il primo è la possibilità di anticipare naturalmente il matrimonio dell’uomo. La donna è in ogni caso solo la parte passiva53. Per quanto smarrito e incomprensibile sia diventato l’uomo di oggi, non di rado si sente dire dalle madri dell’“alta” società che apprezzerebbero per la loro figlia un marito che si “sia già dato da fare” ecc. Poiché questa è la norma, la povera fanciulla sarà ben lieta di trovare un Sigfrido scornato54 e i figli saranno il risultato visibile di un matrimonio “assennato”. Se pensiamo alla riduzione delle nascite55, alla fine della selezione naturale per la conservazione di esseri meno resistenti, c’è da chiedersi perché l’istituzione matrimoniale esista ancora e quale sia il suo scopo. È lo stesso della prostituzione? Le generazioni future non hanno più importanza? Oppure non si sa quale discendente maledire per aver salvaguardato in modo così sciagurato i diritti e i doveri della natura? Così i popoli portatori di civiltà degenerano e sono condannati al declino. Anche il matrimonio non è un fine in sé, ma deve servire a scopi superiori come la riproduzione e la conservazione della specie e della razza. Questo è il suo senso e la sua missione56. Ma se così è, la sua bontà può essere commisurata solo dal modo in cui persegue questo scopo. È giusto anticipare il matrimonio, per conferire alla giovane coppia la capacità necessaria di creare una prole sana e resistente. Certo, esistono alcuni 53
Eugenetisti e igienisti razziali utilizzavano già dalla svolta del secolo il nesso tra prostituzione, sifilide ed età matrimoniale. Bibliografia: M.A. Wolf, Eugenische Vernunft: Eingriffe in die reproduktive Kultur durch die Medizin, 1900-2000, Vienna, Böhlau, 2008. 54 Allusione a Sigfrido della Saga dei Nibelunghi, privo dell’elmo magico di Fáfnir. 55 La critica alla politica familiare statale era una parte importante del pensiero nazionalpopolare. Dal 1923 furono introdotti gli assegni familiari e dal 1926 le donne ottennero a certe condizioni una gravidanza assicurata [KA, n. 123]. 56 La Legge sulla difesa del sangue e dell’onore tedeschi del 15 settembre 1935 applicò il principio del matrimonio su basi razziali e biologiche.
228 presupposti sociali, senza cui è impensabile un matrimonio anticipato. Perciò questo grosso problema può essere risolto solo applicando misure socialmente drastiche. Per capirne il significato si pensi a come oggi la Repubblica “sociale” impedisca i matrimoni non risolvendo il problema degli alloggi e favorendo così la prostituzione. L’assurda ripartizione dei salari, che ignora il problema della famiglia e del suo sostentamento, rende in ogni caso impossibile un matrimonio anticipato57. Una vera lotta contro la prostituzione necessita di un cambiamento sostanziale dei rapporti sociali: un matrimonio anticipato è il primissimo presupposto. In secondo luogo bisogna intervenire sull’educazione e sulla formazione, bilanciando l’insegnamento intellettuale e l’attività fisica. Il ginnasio attuale è uno scherno del modello greco. La nostra educazione ignora completamente che uno spirito sano può dimorare solo in corpo sano58. Specialmente quando, salvo alcune lodevoli eccezioni, il motto non ha alcuna corrispondenza nella realtà. Nella Germania prebellica ci fu un momento in cui si ignorò questa verità. Peccando contro il corpo si pensò che l’unilaterale istruzione “intellettuale” fosse una sicura garanzia di grandezza nazionale. Uno sbaglio pagato ben prima del previsto. Non è un caso che la marea bolscevica abbia mietuto maggiori consensi proprio fra gli strati sociali prodotti della fame e della malnutrizione: nella Germania centrale, in Sassonia e nella Ruhr. Qui non esiste più una seria resistenza dell’intellighenzia contro quella malattia ebraica59, perché la stessa intellighenzia è fisicamente corrotta, anche se per motivi educativi. La formazione puramente intellettuale dei ceti superiori li rende incapaci di agire e di imporsi nei momenti in cui non è lo spirito, ma il pugno a fare la differenza. L’infermità fisica è spesso causa di viltà personale. L’enfasi eccessiva sull’insegnamento puramente intellettuale e la trascuratezza dell’educazione fisica favoriscono nella gioventù l’insorgere anticipato di fantasie sessuali. Il giovane irrobustito con lo sport e con la ginnastica è meno soggetto alle esigenze carnali rispetto al pantofolaio nutrito esclusivamente di libri. Un’educazione assennata deve tenerlo a mente. Non deve ignorare che le aspettative di un uomo sano di fronte a una donna saranno diverse rispetto a quelle di un pappamolle malaticcio. Il tempo libero del fanciullo deve essere dedicato all’educazione fisica. Egli non ha il diritto di ciondolare ozioso, standosene per strada e al cinema, ma deve temprare e consolidare il suo giovane corpo quotidianamente, in modo che un giorno sappia affrontare virilmente i problemi della vita. L’educazione della gioventù deve intraprendere, eseguire e dirigere quel processo, non limitandosi a propinare solo nozioni intellettuali. L’educazione deve eliminare l’idea che la cura del corpo sia un fatto individuale. Nessuno è libero di peccare contro le generazioni future e, quindi, contro la razza. Insieme all’educazione fisica bisogna lottare contro l’avvelenamento dell’anima. Tutta la vita mondana assomiglia a una serra di fantasie e di stimoli sessuali. Basti guardare il tabellone dei nostri cinema, dei varietà e dei teatri. Come lamentarci se non Sul problema di una “saggia” differenziazione salariale vedi capitolo 2-II. Allusione al detto latino mens sana in corpore sano. 59 Il concetto di Judenkrankheit (malattia ebraica) derivava dal dibattito medico sul problema della specifica cagionevolezza o resistenza degli ebrei a certe malattie. Bibliografia: S. Gilman (ed.), Race in contemporary medicine, Londra, Routledge, 2008.
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229 vi troviamo il giusto nutrimento per i nostri giovani?60 Nelle vetrine e negli spazi espositivi si ricorre ai mezzi più meschini per attirare l’attenzione delle masse. Chiunque sappia mettersi nei loro panni capirà i danni che tutto ciò produce sulla nostra gioventù. L’atmosfera sensualmente soffocante provoca fantasie ed eccitazioni in un’età in cui il fanciullo non ha una piena consapevolezza della sessualità. Il risultato è visibile sulla gioventù di oggi: è precoce, ma anche sin troppo matura. Dalle sale dei tribunali filtrano spesso notizie di procedimenti che gettano ombre inquietanti sulla vita intellettuale dei nostri adolescenti. Come meravigliarsi se la sifilide mieta le sue vittime anche fra gli adolescenti? Non è ignobile che alcuni giovanotti fisicamente deboli e intellettualmente corrotti si preparino al matrimonio per mezzo delle prostitute urbane? No, chi vuole affrontare seriamente la prostituzione deve innanzitutto contribuire a eliminarne il presupposto spirituale. Deve eliminare l’immondizia morale della “cultura” metropolitana61, deve essere implacabile e risoluto di fronte alle grida e agli strilli che saranno inevitabilmente lanciati. Se non tiriamo fuori la gioventù dal pantano del loro ambiente, finiranno per affondarci del tutto. Chi non lo vede, o è favorevole o è corresponsabile della lenta prostituzione del nostro futuro, perché la malattia si trasmette alle generazioni avvenire. La pulizia della cultura deve riguardare ogni settore. Teatro, arte, letteratura, cinema, stampa, manifesti, vetrine vanno ripuliti dai fermenti di un mondo in putrefazione e posti al servizio di una visione politica e culturale morale62. La vita pubblica va liberata dal profumo asfissiante dell’erotismo moderno, così come da ogni ipocrisia effeminata. In tutte queste operazioni, lo scopo e il mezzo debbono occuparsi di conservare la salute spirituale e fisica del nostro popolo. Il diritto della libertà personale va subordinato al dovere della conservazione della razza. Una volta comminate queste misure, la lotta medica contro l’epidemia ha maggiori possibilità di successo. Non servono palliativi, ma bisogna ricorrere ai mezzi più drastici. È un palliativo consentire a uomini ormai contagiati di contaminare quelli sani. È un atto umanitario che, per non danneggiare una persona, finisce per mandare in rovina centinaia di altre. La richiesta che l’uomo difettoso non procrei altri uomini difettosi, è del tutto ragionevole. Se realizzata in modo pianificato, è la dimostrazione più umanitaria dell’umanità. A milioni di disgraziati sarà risparmiata una sofferenza ingiusta, che in futuro darà vita a innumerevoli guarigioni. L’azione risoluta porrà un argine alla diffusione mondiale delle malattie sessuali. Se necessario, bisognerà procedere a uno spietato isolamento del malato incurabile. Una misura barbara per lo sfortunato interessato, ma una benedizione per il suo mondo e per le generazioni
La difesa della gioventù fu considerata nella Legge cinematografica del maggio 1920, che introduceva la censura con un ufficio apposito e i limiti di età alla visione di certi film [KA, n. 137]. 61 Sul problema della grande città e del “decadimento” della cultura tedesca vedi capitoli 2-I e 2-II. 62 Il Partito nazionalsocialista cercò di realizzare l’esigenza pedagogica totalitaria con una politica culturale centralizzata sotto il Ministero per l’educazione popolare e per la propaganda diretto da Joseph Goebbels dal 13 marzo 1933. Bibliografia: L. Hachmeister, M. Kloft (ed.), Das Goebbels-Experiment. propaganda und Politik, Monaco, DVA, 2005. 60
230 avvenire. Il dispiacere provvisorio di un secolo può liberare e libererà dalla sofferenza quelli avvenire63. La lotta contro la sifilide e la sua antesignana (la prostituzione) è una delle missioni più importanti dell’umanità, immane proprio perché non si tratta di risolvere un singolo problema, ma di eliminare una serie intera di concause dell’epidemia. La malattia fisica è solo l’esito di una malattia degli istinti razziali, morali e sociali. Solo fra cinquecento anni vedremo se questa battaglia è stata affrontata con indolenza o con viltà. Potrebbero esserci meno esseri fatti a immagine e a somiglianza di Dio, senza voler commettere sacrilegio contro l’Onnipotente. Ma come si tentò di affrontare l’epidemia nella vecchia Germania? A un’attenta analisi dei fatti si ottiene una risposta sconfortante. Certo, negli ambienti governativi si conoscevano assai bene i danni terribili della malattia, forse si rifletteva sulle sue conseguenze. Solo che essi rifiutarono di contrastarla e ricorsero, invece che a riforme drastiche, a semplici palliativi. Cercarono di curare alla peggio la malattia, senza occuparsi delle sue cause. Sottoponevano la singola prostituita a un esame clinico, vagliavano attentamente l’esito e, in caso di prognosi precisa, era inviata in qualche lazzaretto, da cui poi era rispedita nel mondo dopo un’apparente guarigione. Certo, si introdussero i “paragrafi di salvaguardia”, secondo cui il soggetto non del tutto sano o curato, in caso di pena detentiva, avrebbe dovuto evitare i rapporti sessuali64. Una misura di per sé giusta, solo che fallì completamente all’atto pratico. In primo luogo la donna, una volta contratta una sciagura sessuale, tenderà per educazione a rifiutare di farsi trascinare in tribunale per testimoniare contro il miserabile ladro della sua salute (circostanza davvero penosa). D’altro canto si fa ricorso di rado al tribunale: nella maggior parte dei casi, la donna sarà la parte offesa, perché riceverà maggior disprezzo dal suo freddo ambiente rispetto all’uomo. Infine, che farà se il portatore della malattia è suo marito? Dovrà fargli causa? Oppure? Nel caso di un uomo va aggiunto che egli contrae spesso questa pestilenza per via del grande consumo di alcolici, poiché così può giudicare meglio gli “attributi” femminili. Circostanza ben nota alla prostituta malata, che pesca sempre uomini ubriachi. Alla fine l’uomo basito non riesce a ricordarsi la misericordiosa benefattrice di un tempo; il che non deve meravigliarci in città come Berlino o Monaco. Inoltre si tratta spesso di un visitatore provinciale che affronta disorientato la magia della grande città. E poi, chi può saperlo di essere malato? Non accade spesso che una persona guarita sia recidiva e che provochi involontariamente un danno terribile?65 L’effetto pratico della salvaguardia legale è pressoché nullo. Lo stesso vale per la sorveglianza delle prostitute: anche la guarigione è tuttora incerta e dubbia. Quel che è certo è che l’epidemia si espande a macchia d’olio malgrado i provvedimenti assunti. A Qui Hitler accenna agli argomenti dell’eugenetica negativa, circolanti dalla fine dell’Ottocento. L’idea guida era quello di ridurre la crescita dei soggetti “tarati” con la proibizione matrimoniale e con la sterilizzazione forzata. Durante il Terzo Impero furono sterilizzate circa quattrocentomila persone. Bibliografia: C. Merkel, ”Tod den Idioten”. Eugenik und Euthanasie in juristischer Rezeption von Kaiserreich zur Hitlerzeit, Berlino, Logos Verlag, 2007. 64 Qui Hitler pensava al Decreto per la lotta delle malattie sessuali del dicembre 1918 [KA, n. 148]. 65 La sifilide va incontro a un periodo di latenza nella seconda fase. I pericoli della terza fase li ha illustrati Blaschko nel suo studio Syphilis und Prostitution vom Standpunkte der öffentlichen Gesundheitspflege (Sifilide e prostituzione dal punto di vista della cura della salute pubblica, 1893) [KA, n. 151].
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231 ulteriore conferma della loro inefficacia. Perché i provvedimenti erano irrisori e insufficienti. La lotta contro la prostituzione dell’anima popolare fallisce su tutta la linea: sarebbe stato meglio non far nulla. Chi insiste nel sottovalutare il problema, che si studi almeno le statistiche della diffusione della sifilide, che compari la sua crescita nel corso dei secoli, che approfondisca i dati. Dovrebbe avere l’ingenuità di un somaro se non provasse un brivido spiacevole lungo la schiena. La debolezza e l’incertezza con cui si affrontò il problema in epoca imperiale vanno ritenuti segni tangibili della decadenza popolare. Se non c’è più la forza di combattere per la propria salute, il popolo non ha più il diritto di vivere su questo mondo implacabile. Il mondo è fatto per il forte “tutto” e non per il debole “mezzo”.
Figura 5 “Bolscevismo senza maschera” Manifesto propagandistico nazista del 1937 [fonte: onemorecastle.wordpress.com]
Uno dei fenomeni di decadenza più evidenti del vecchio Impero fu il lento declino del livello culturale generale; anche se con civiltà non intendo “civilizzazione”, acerrima nemica dell’autentica vetta spirituale e vitale. Già prima della svolta del secolo iniziò a insinuarsi nella nostra civiltà un elemento allora ritenuto estraneo e sconosciuto. Anche in passato c’erano stati temporanei smarrimenti estetici, solo che si era trattato di sbandamenti artistici, ai quali i posteri avevano riconosciuto un certo valore storico, piuttosto che prodotti di insipida degenerazione66. Quegli smarrimenti furono culturalmente antesignani del tracollo politico, poi visibile. 66
Sul concetto di “degenerazione” vedi capitolo 2-I.
232 Il bolscevismo dell’arte67 è l’unica forma di vita culturalmente possibile e l’unica espressione intellettuale del bolscevismo. Basti analizzare con sconcerto l’arte degli Stati felicemente bolscevizzati e potremo ammirare con orrore le aberrazioni malate di artisti dementi o corrotti, ai quali affibbiammo i nomi di cubismo68 o dadaismo69 alla svolta del secolo, ormai divenuti arte di Stato70. Il fenomeno emerse proprio nell’intermezzo della Repubblica consiliare bavarese. Tutti i manifesti ufficiali, le raffigurazioni propagandistiche dei giornali, ecc. recavano il marchio non solo del degrado politico, ma anche di quello culturale. Se sessant’anni fa un tracollo politico era inimmaginabile in base alla grandezza del momento, tanto meno lo sarebbe stato il declino culturale che iniziò a manifestarsi nei ritratti futuristici e cubisti dopo il 190071. Sessant’anni fa sarebbe apparsa impossibile un’esibizione di “esperienze” dadaiste72 e gli organizzatori sarebbero stati rinchiusi in manicomio, mentre oggi presiedono addirittura le “associazioni artistiche”. L’epidemia artistica non poteva affiorare all’epoca, perché l’opinione pubblica non l’avrebbe ammesso, né lo Stato sarebbe stato a guardare senza far nulla. Perché è un affare di Stato, cioè della sua classe dirigente, impedire che un popolo sia spinto tra le braccia della follia spirituale. Se quel genere di arte rappresentasse un giorno la visione generale, assisteremmo a una delle più grandi trasformazioni dell’umanità. Inizierebbe la regressione dell’encefalo umano e l’esito sarebbe inimmaginabile. Non appena esaminiamo il corso della vita culturale degli ultimi venticinque anni sotto questa luce, osserviamo con sgomento un regresso incipiente. Ovunque ci imbattiamo nei germi che indicano l’inizio di aberrazioni che prima o poi condurranno alla rovina la nostra civiltà. Qui possiamo ravvisare i fenomeni di un mondo lentamente degradato. Guai ai popoli che non vengono a capo della malattia! Quelle malattie possiamo osservarle quasi in ogni settore artistico e culturale tedesco. Tutto sembrava aver raggiunto l’apice e precipitare nell’abisso. Il teatro sprofondava a vista d’occhio e non sarebbe più stato un fattore culturale se lo Hoftheater non avesse preso posizione contro questa prostituzione dell’arte. A parte alcune lodevoli eccezioni, le rappresentazioni teatrali erano di un livello tale che sarebbe stato meglio non assistervi. Un triste segnale della decadenza interna era il divieto di accesso dei giovani ai “centri artistici”, come ammetteva in modo sfacciato l’avviso generale all’ingresso: “vietato l’ingresso ai ragazzi!” Si pensi che quelle misure prudenziali erano adottate in luoghi preposti alla formazione della gioventù, non certo da sollazzo a vecchi snob. Che cosa avrebbero detto i più grandi drammaturghi di tutti i tempi di fronte a tali direttive e, soprattutto, alle circostanze che le determinarono? Come sarebbe esploso uno Schiller e come si sarebbe rivoltato un Goethe! Il Kulturbolschewismus (bolscevismo culturale) fu un’espressione utilizzata per definire le avanguardie artistiche, con l’obiettivo di screditarne il valore estetico. Bibliografia: B. Laser, Kulturbolschewismus! Zur Diskurssemantik der “totalen Krise”, 1929-1933, Francoforte sul Meno, Peter Lang, 2008. 68 Il cubismo è una corrente artistica sorto a Parigi nel 1907. 69 Il dadaismo è una corrente artistica sorta a Zurigo nel 1916. 70 Allusione al “realismo socialista” che sarebbe diventato arte di Stato sovietica nell’aprile 1932. 71 Il futurismo è una corrente artistica sorta a Parigi nel 1909. 72 Possibile riferimento alla Prima fiera internazionale dadaista svoltasi a Berlino nel giugno-agosto 1920.
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233 Certo, chi sono Schiller, Goethe o Shakespeare di fronte agli “eroi” della nuova poesia tedesca? Vecchi fenomeni logori e sopravvissuti, anzi “superati”. Tipico della nostra epoca è non solo di produrre maggiore spazzatura, ma anche di imbrattare rabbiosamente le grandi opere del passato. Un fenomeno che si può ravvisare in periodi simili ai nostri. Quanto più infami e spregevoli sono i prodotti di un’epoca e dei suoi rappresentanti, tanto più si odiano i testimoni della grandezza e della dignità passate. In quei frangenti si vorrebbe sradicare il ricordo del passato, per spacciare il proprio cattivo gusto come arte, eliminando ogni possibile comparazione. Quindi ogni nuova istituzione cercherà, specie se è più spregevole e miserabile, di spegnere le ultime tracce dell’epoca passata, mentre ogni importante rinnovamento può allacciarsi direttamente alle conquiste passate, anzi cerca di farlo. Non teme di impallidire di fronte al passato, ma offre un contributo valido al patrimonio generale della civiltà umana, manterrà vivo il ricordo delle opere passate, per assicurare ai contemporanei la comprensione dei risultati conseguiti. Solo chi non è in grado di offrire al mondo niente di significativo, ma cerca di farlo (e Dio solo sa cosa intenda donare), odierà le creazioni passate oppure tenterà di negarle o di distruggerle. Ciò non vale solo per i “nuovi fenomeni” culturali, ma anche per quelli politici. I nuovi movimenti rivoluzionari odieranno maggiormente le vecchie forme nella misura in cui avvertono la loro inferiorità. Anche qui l’ansia di presentare il proprio cattivo gusto come qualcosa di meritevole conduce all’odio cieco verso i valori del passato. Finché, per esempio, persiste la memoria storica di un Federico il Grande, un Ebert non può che suscitare una certa meraviglia. L’eroe di Sans Souci73, rispetto al vecchio bottegaio di Brema74, è come il sole con la luna: la seconda è visibile solo quando i raggi del primo si spengono. Quindi è comprensibile l’odio di ogni luna nuova verso le stelle fisse. In politica, quando la sorte assegna loro momentaneamente il potere, quelle nullità non solo imbrattano e insudiciano costantemente il passato, ma sfuggono anche con tutti i mezzi più estremi alla critica generale. Valga come esempio la legislazione per la difesa della Repubblica75. Quando una nuova idea, una dottrina, una visione del mondo o un movimento economico o politico cercano di negare, di abbruttire o sminuire il passato, ecco un buon motivo per stare estremamente attenti e guardinghi. Il motivo generale di un simile odio è il senso di inferiorità o la malafede. Un rinnovamento autenticamente benefico dell’umanità dovrà proseguire la costruzione sulle solide fondamenta passate. Il rinnovamento non dovrà vergognarsi di utilizzare verità già esistenti. Tutta la civiltà umana e anche l’uomo stesso non sono altro che il risultato di un lungo e unico sviluppo, in cui ogni generazione ha apportato il proprio contributo. Il senso e lo scopo delle rivoluzioni non sono quelli di demolire tutto l’edificio, ma di rimuovere i 73
Sans Souci fu un castello eretto a Potsdam da Federico II di Prussia fra il 1745 e il 1747. Friedrich Ebert fu presidente della socialdemocrazia di Brema tra il 1894 e il 1900 e aprì un’osteria nel quartiere Neustadt (Città nuova). 75 L’articolo 118 della costituzione weimariana garantiva a tutti i cittadini tedeschi libertà di espressione orale, scritta e iconografica. La Legge per la difesa della Repubblica introdotta il 21 luglio 1922 limitava la libertà di espressione e prevedeva anche la reclusione. Il provvedimento fu prolungato sino al 31 dicembre 1932. Bibliografia: G. Jasper, Der Schutz der Republik. Studien zur staatlichen Sicherung der Demokratie in der Weimarer Republik, 1922-1930, Tubinga, Mohr, 1963. 74
234 materiali inadeguati a proseguire la costruzione su basi sane e solide. Solo allora potremo parlare di progresso dell’umanità. Altrimenti, il mondo non si libererà mai dal caos, poiché ogni generazione avrebbe il diritto di rifiutare il passato e potrebbe distruggere ogni cosa per far spazio al proprio lavoro. L’aspetto triste nella decomposizione della nostra civiltà prebellica non consiste tanto nella manifesta impotenza della forza creativa artistica e culturale, quanto nell’odio con cui è stato macchiato e cancellato il ricordo del passato più glorioso. Alla svolta del secolo, quasi in ogni settore artistico e specialmente teatrale e letterario furono prodotte ben poche opere significative. Si cercò di svilire la migliore produzione passata e di presentarla come inferiore e superata. Era come se quell’epoca dovesse “superare” il proprio vergognoso senso di inferiorità. Lo sforzo di negare il passato era il sintomo evidente della cattiva coscienza di quegli “apostoli” del futuro. Avremmo dovuto riconoscere che non si trattava di nuove visioni artistiche, per quanto sbagliate, ma di un processo di distruzione dei fondamenti della cultura, di uno sfregio sul senso artistico sano – di una preparazione intellettuale al bolscevismo politico. Perché se l’età di Pericle ci appare personificata dal Partenone76, il presente bolscevico lo è da una smorfia cubista. Al riguardo bisogna accennare alla manifesta viltà di una parte del nostro popolo che, per formazione e per posizione, avrebbe dovuto far fronte comune contro questa vergogna culturale. Temendo il frastuono degli apostoli bolscevichi dell’arte, che l’avrebbe attaccato violentemente e inchiodato come filisteo retrogrado, chi non intendeva riconoscere la loro potenza creativa rinunciava a ogni seria resistenza e si rassegnava all’inevitabile. Si aveva letteralmente paura di essere tacciati di scarsa comprensione da questi pseudo-buffoni o furfanti. Come se fosse una vergogna non capire i prodotti di degenerati spirituali o di scaltri imbroglioni. Questi apostoli dell’arte avevano un mezzo alquanto semplice per spacciare – Dio solo sa – le loro idiozie come espressioni di genio: rappresentando ogni prodotto comprensibile e chiaramente folle come “esperienza interiore”77, privavano anticipatamente della replica la maggior parte degli uomini. Perché era indubbio che si trattasse di esperienze interiori. Ma era il caso di offrire al mondo sano le allucinazioni di malati di mente o di criminali? L’opera di un Moritz von Schwind78 o di un Böcklin79 erano sì “esperienze interiori”, ma di artisti divinamente dotati e non di buffoni80. Ma proprio qui scorgiamo con chiarezza la miserabile viltà della nostra “intellighenzia”81, che evitava ogni seria resistenza contro l’avvelenamento del sano istinto popolare e si rassegnava a queste impudenti assurdità. Per non passare da incompetenti, gli intellettuali mettevano in conto qualsiasi ludibrio artistico, diventando incapaci di giudicare il valore delle opere. 76
Il Partenone fu eretto tra il 447 e il 438 a.C. per volere di Pericle. Il concetto di “esperienza interiore” è usato da Hitler in senso dispregiativo, ma anche positivo, a seconda delle circostanze. Vedi capitolo 1-I. 78 Moritz Ludwig von Schwind (1804-1871), pittore austriaco, esponente del tardo-romanticismo. 79 Arnold Böcklin (1827-1901), pittore svizzero, esponente del simbolismo. 80 Hitler esalta pittori come Schwind e Böcklin ravvisando nella loro arte una riproposizione di temi classici. In termini analoghi si espresse Julius Langbehn in Rembrandt als Erzieher (Rembrandt come educatore, 1890). 81 Sul disprezzo hitleriano per gli intellettuali e per i professori vedi capitolo 6-I. 77
235 In breve, si trattava di segnali di imbarbarimento. Un altro segnale preoccupante era che, nel diciannovesimo secolo, le nostre città iniziarono a perdere progressivamente il carattere di “centri artistici”, diventando semplici “agglomerati umani”. Lo scarso legame che unisce il nostro proletariato urbano al luogo di abitazione è la conseguenza del fatto che si tratta solo di una residenza occasionale e nient’altro. In parte ciò si deve al frequente cambio di abitazione per via delle condizioni sociali, che non concede all’uomo il tempo di legarsi profondamente alla propria città. Dall’altra parte, però, la causa va ricercata nella generale irrilevanza culturale e nella povertà delle odierne metropoli82. Ancora al tempo delle guerre di liberazione, le città tedesche erano piccole per numero di abitanti e modeste per dimensioni. Le poche metropoli erano in larga parte capitali e avevano quindi un preciso valore culturale e spesso una precisa immagine artistica. Le poche località con oltre cinquantamila abitanti, rispetto alle città odierne di eguale popolazione, erano molto più ricche di tesori scientifici e artistici83. Quando raggiunse le sessantamila anime84, Monaco si accinse a diventare il centro culturale della Germania85. Oggi quasi ogni centro industriale ha raggiunto quel numero di abitanti, se non l’ha più volte superato, ma non ha la benché minima rilevanza culturale. Pure concentrazioni di casermoni e nulla più. Perché mai qualcuno dovrebbe legarsi a un luogo del genere? Nessuno si legherà mai a una città che può offrirgli lo stesso trattamento di un’altra qualsiasi, che è priva di ogni caratteristica individuale, che è attenta a evitare tutto ciò che avrebbe una qualche parvenza artistica. Oltretutto le vere metropoli, pur aumentando esponenzialmente il numero degli abitanti, diventano sempre più povere di vere opere d’arte. Esse appaiono sempre logore e offrono sempre lo stesso quadro, anche su vastissima scala, delle piccole città industriali. È davvero insufficiente ciò che la nostra epoca ha aggiunto al contenuto culturale delle nostre metropoli. Tutte le città si nutrono di fama e di tesori passati. Si tolga alla Monaco di oggi tutti i monumenti di Ludovico I, e si vedrà con raccapriccio quanto sia misero l’apporto moderno. Lo stesso vale per Berlino e per le altre principali metropoli. L’aspetto fondamentale è che le nostre attuali metropoli non hanno alcun monumento che sovrasti la fisionomia urbana, che in qualche modo possa definirsi un simbolo del nostro tempo. Questo accadeva alle città medievali, perché quasi ognuna andava fiera di un particolare monumento. L’aspetto saliente della città antica non era l’edilizia privata, ma i monumenti della collettività, che non erano destinati a quell’epoca, ma all’eternità. In quei monumenti non si rispecchiava la ricchezza di un 82
La grande crescita di popolazione del Secondo Impero tedesco determinò un grande inurbamento e un crescente sentimento di odio verso le metropoli, che trovò una sua espressione particolare nell’Heimatkunstbewegung (movimento per l’arte paesana). Bibliografia: S. Grazzini, Il progetto culturale “Heimatkunst”. Programma, movimento, produzione letteraria, Roma, Carocci, 2010. 83 A inizio Ottocento le uniche città tedesche oltre centomila abitanti erano Vienna, Berlino e Amburgo. Oltre i cinquantamila abitanti rientravano Dresda, Breslavia, Königsberg e Colonia [KA, nn. 182, 184]. 84 Nel 1871 Monaco contava oltre centocinquantamila abitanti. 85 Di fatto, Monaco divenne sotto Ludovico I (1824-1848) una delle principali città artistiche tedesche, grazie agli architetti classici come Leo von Klenze e Friedrich von Gärtner. Bibliografia: G. Reichmayr, Geschichte der Stadt München, Erfurt, Sutton Verlag, 2013.
236 solo proprietario, ma la grandezza e l’importanza della collettività. Così sorsero monumenti capaci di unire i singoli abitanti alla propria città, che oggi ci sembrerebbero quasi incomprensibili. Perché ciò che quegli abitanti vedevano, non erano tanto le modeste dimore dei proprietari privati, quanto gli edifici sontuosi di tutta la comunità. Di fronte ai quali, l’abitazione privata aveva una rilevanza secondaria. Se confrontiamo le dimensioni dell’architettura statale antica con le abitazioni private di oggi, comprenderemo subito il grande slancio e l’esaltazione offerte alle opere pubbliche. Ciò che oggi ci meraviglia dei cumuli di macerie e delle rovine del mondo antico (nei pochi colossi ancora in piedi), non sono certo gli edifici commerciali di un tempo, semmai i templi e gli edifici pubblici. Opere di proprietà collettiva. Perfino nello sfarzo della Roma tardo-antica, il primo posto non spettava alle ville o ai palazzi dei patrizi, ma al tempio e alle terme, agli stadi, ai circhi, agli acquedotti, alle basiliche ecc. statali, cioè di tutto il popolo. Anche il Medioevo germanico si fondava sugli stessi principî, per quanto avesse concezioni artistiche differenti. Proprio ciò che l’antichità espresse nell’Acropoli86 o nel Pantheon87, assunse ora la forma del duomo gotico. Quegli edifici mastodontici si ergevano sul piccolo brulichio di case con travature a traliccio, in legno o in mattoni della città medievale e divennero così i simboli che ancora oggi, accanto ai casermoni, conferiscono un carattere a quei luoghi. Cattedrali, municipi e mercati dei cereali, così come le torri di guardia, sono i segni tangibili di una visione che, in ultima analisi, corrispondeva a quella degli antichi. Com’è desolante il rapporto attuale tra l’architettura statale e quella privata. Se il destino di Roma colpisse quello di Berlino, i posteri potrebbero ammirare come opere più importanti della nostra epoca i grandi magazzini di alcuni ebrei88 e gli alberghi di alcune società. Si confronti la grave sproporzione in una città come Berlino tra gli edifici statali e quelli finanziari e commerciali. La somma stanziata per gli edifici statali è veramente ridicola. Non si creano opere per l’eternità, ma solo per il fabbisogno momentaneo. Non prevale una grande visione. Quando fu costruito, il castello di Berlino89 era certamente un’altra opera rispetto a nuova biblioteca di oggi90. Mentre una singola corazzata costava circa sessanta milioni di marchi, l’edificio sontuoso destinato all’eternità (il Reichstag) ne ottenne circa la metà. Anzi, quando bisognò decidere gli arredi interni, la Camera “Alta” votò contro l’impiego di pietra viva e ordinò di rivestire le pareti col gesso91. E stranamente i “parlamentari” hanno agito al meglio: le teste di gesso non si confanno ai muri di pietra. Allusione all’Acropoli di Atene. Il Pantheon di Roma fu eretto da Adriano nel 118-125 d.C. sui resti di un tempio pagano bruciato. 88 Qui Hitler si riferisce probabilmente alla catena commerciale Tietz creata negli anni Ottanta dell’Ottocento. Oscar Tietz, di origine ebraica, fu anche il fondatore dell’Unione dei commercianti all’ingrosso (1903) [KA, n. 199]. 89 Il Castello di Berlino, eretto nel XV secolo e sede dell’incoronazione d Federico I di Prussia nel 1701, divenne un museo nel 1918. Nel 1950 fu distrutto dal governo socialista della Germania Est. 90 Allusione alla Biblioteca reale di Berlino, eretta fra il 1903 e il 1914 secondo i piani dell’architetto Ernst von Ihne. 91 Il palazzo del Reichstag fu eretto tra il 1884 e il 1894 su progetto dell’architetto Paul Wallot. 86 87
237 Le nostre città sono quindi prive di simboli della comunità nazionalpopolare92. E non possiamo meravigliarci se esse non abbiano alcun monumento. Tale inaridimento si riflette praticamente sulla quasi totale indifferenza dei cittadini verso il destino della loro città. Ecco un altro segnale della nostra cultura decadente e del nostro tracollo generale. L’epoca affoga nelle meschinità quotidiane o, per meglio dire, al servizio del denaro. Non possiamo meravigliarci se l’eroismo scarseggi all’ombra di tali divinità. Oggi raccogliamo quanto seminato nel passato recente.
Figura 6 Grande magazzino Tietz a Berlino, Alexanderplatz (1911) [fonte: wikipedia.de]
Tutti questi fenomeni di decadenza non sono altro che l’esito della mancanza di una visione del mondo precisa e condivisa, così come dell’insicurezza generale nella valutazione e nell’atteggiamento verso i grandi problemi del tempo. A partire dall’educazione, tutto è mediocre e incerto, rifugge dalla responsabilità e porta alla vile ammissione dei danni compiuti. Il rimbambimento umanitario va di moda. Cedendo debolmente alle aberrazioni e avendo riguardo solo per i singoli si finisce per sacrificare il futuro di milioni di persone. Studiando la situazione religiosa prebellica è possibile valutare la dimensione della lacerazione generale. Anche qui si era perso da tempo un autentico sentimento unitario in larghi strati della popolazione. Coloro che abbandonano ufficialmente dalle chiese hanno un’importanza relativa rispetto agli indifferenti. Mentre sostengono le missioni in Africa e in Asia93 per convertire nuove anime al cristianesimo (un’attività che presenta scarsissimi risultati a fronte della penetrazione della fede musulmana)94, Sul concetto di “comunità nazionalpopolare” vedi capitolo 2-I. Sulle missioni cristiane nel XIX secolo vedi capitolo 2-II. 94 Nell’epoca dell’imperialismo (1870-1914) l’Islam si diffuse più del cristianesimo in Africa e in Asia, perché la religione era ritenuta più vicina alle popolazioni indigene (gli imperialisti erano sostenuti dai notabili). La diffusione fu facilitata anche dai migliori mezzi di trasporto. Bibliografia, D. Motadel (ed.), Islam and the European empires, Oxford, Oxford University Press, 2014. 92 93
238 entrambe le confessioni perdono in Europa milioni e milioni di aderenti, estranei alla vita religiosa o intenti a percorrere una via personale. Le conseguenze non sono affatto positive soprattutto dal punto di vista morale. Notevole è anche la lotta sempre più aspra contro i fondamenti dogmatici delle singole chiese, senza i quali, nel mondo umano, non sarebbe possibile l’esistenza pratica di una confessione religiosa. Dato che la grande massa popolare non consiste di filosofi, la fede appare spesso l’unico fondamento di una visione morale del mondo. I diversi succedanei non si sono dimostrati così efficaci, né si possono considerare un utile sostituto delle confessioni religiose esistenti. Ma se le dottrine religiose devono includere le grandi masse, l’assoluta autorità della fede è la premessa indispensabile. Ciò che è lo stile di vita per l’esistenza generale, senza il quale centinaia di migliaia di persone civili saprebbero vivere in modo dignitoso e assennato, mentre gli altri milioni non andrebbero certo in rovina, lo sono le leggi fondamentali per lo Stato e i dogmi per la religione. Solo così un’idea imprecisa e discutibile riceve la sua forma definitiva, presupposto per farne una nuova fede. In caso contrario, l’idea resterebbe una dottrina metafisica o un’opinione filosofica. L’attacco contro i dogmi assomiglia alla lotta contro le leggi fondamentali dello Stato. Come lo Stato troverà la sua rovina nella completa anarchia, così le Chiese la troveranno in uno sterile nichilismo religioso95. Ma un politico svaluta una religione non a causa delle sue manchevolezze, quanto per la presenza di un miglior sostituto. Fino a quel momento, la religione può essere distrutta da buffoni o da criminali96. I problemi ecclesiastici si devono anche a coloro che introducono nella religione visioni troppo terrene e determinano così un conflitto spesso sterile con la “scienza esatta”. La vittoria, anche se dopo un’aspra battaglia, arriderà quasi sempre alla scienza, mentre la religione soffrirà dure perdite agli occhi di coloro che sapranno elevarsi al di sopra della mera conoscenza esteriore. Tuttavia, peggiori sono le devastazioni prodotte dalla strumentalizzazione politica della religione97. Sono insopportabili quei miserabili ciarlatani che vedono nella religione uno strumento politico o meglio affaristico. Quegli sfacciati millantatori sbraitano con voce stentorea la loro confessione in modo che possano udirli tutti i peccatori, non certo per offrirsi come martiri, ma solo per approfittarne. La fede per loro è un semplice affare politico. Per ottenere dieci mandati parlamentari, quella gente si alleerebbe con i marxisti, acerrimi nemici di ogni religione – e per una poltrona ministeriale si sposerebbero pure col diavolo, sempre che egli non rifiuti l’unione per un briciolo di decenza98. 95
Sulla visione hitleriana del dogmatismo cattolico vedi capitolo 5-II. Critica rivolta ai progetti religiosi neopagani che intendevano sradicare le radici ebraiche del cristianesimo e il suo universalismo. Bibliografia: S. von Schurbein, J.H. Hulbricht (ed.), Völkische Religion und Krise der Moderne. Entwürfe “arteingener” Glaubenssysteme seit der Jahrhundertwende, Würzburg, Könighshausen & Neumann, 2001. 97 Il miscuglio fra politica, lingua e simboli religiosi era un elemento essenziale anche del nazismo, dove Hitler era raffigurato come messia, redentore e salvatore. Bibliografia: M. Burleigh, In nome di Dio. religione, politica e totalitarismo da Hitler ad Al Qaeda, traduzione di A. Pandolfi e M. Scaglione, Milano, Rizzoli, 2007. 98 La coalizione weimariana fra cattolici, socialdemocratici e liberaldemocratici si interruppe di fatto col secondo gabinetto Stresemann (ottobre-novembre 1923). I tre partiti tornarono al governo solo con il secondo gabinetto Müller (giugno 1928-marzo 1930). 96
239 Il fatto che, nella Germania prebellica, la vita religiosa avesse per molti uno sgradevole retrogusto, si doveva alla strumentalizzazione politica del partito “cristiano”, nonché all’indecenza con cui si tentò di identificare la fede cattolica in un solo partito99. Attribuzione fatale: fruttò a un mucchio di scellerati un mandato parlamentare, ma la Chiesa subì gravi danni. Tutta la nazione dovette sopportare l’esito dell’operazione: il rilassamento religioso si verificò proprio in un’epoca di profonda incertezza, in cui i tradizionali fondamenti morali minacciavano di crollare. Tutti gli strappi e le crepe potevano apparire innocui finché il corpo popolare non avesse sopportato un carico particolarmente gravoso, ma sarebbero diventati una disgrazia quando, a seguito di gravissimi eventi, fosse diventata fondamentale la stabilità interna della nazione. Anche in campo politico, un occhio attento poteva cogliere le avvisaglie che, in mancanza di un miglioramento o un cambiamento, avrebbero condotto alla rovina dell’Impero. La confusione in politica interna ed estera era palese a ogni persona in buona fede. L’economia del compromesso sembrava corrispondere alla visione bismarckiana della politica quale “arte del possibile”100. Solo che fra Bismarck e i successivi cancellieri vi era una piccola differenza che permetteva al primo di farsi scappare quel motto sulla politica, mentre per gli altri assumeva ben altro significato. Con quell’espressione Bismarck intendeva dire che, per conseguire un fine politico, bisognava servirsi di tutti i mezzi a disposizione. I suoi predecessori videro in quel motto il pretesto per evitare di formulare obiettivi o pensieri politici. Ma il governo imperiale sembrava privo di scopi politici: mancava infatti il supporto necessario di una chiara visione del mondo, così come la lucidità necessaria sulle leggi evolutive della vita politica. Non pochi politici erano miopi, stigmatizzavano l’assenza di piani e di idee dei governi e ammettevano la loro debolezza e futilità. Peccato che non ricoprissero posti di comando. Gli uomini di governo erano indifferenti alle lezioni di Houston Stewart Chamberlain101, come peraltro avviene tutt’ora. Erano troppo stupidi per pensare autonomamente e troppo presuntuosi per imparare dagli altri. Così ogni consiglio ministeriale rappresentava un atomo di quella verità eterna che spinse Oxenstierna a esclamare: “Il mondo è retto solo da un frammento di saggezza”102. (Da quando la 99 Dopo la rifondazione del febbraio 1925, il Partito nazionalsocialista si era accostato alla Bayerische Volkspartei (Partito popolare bavarese), che si era distanziata dal Zentrum per via di una visione federalista. Nel marzo 1925 il popolare Stützel, ministero degli interni bavarese, emise un Redeverbot (divieto di parola) contro Hitler, che durò due anni. Bibliografia: M. Rösch, Die Münchner NSDAP, 1925-1933. Eine Untersuchung zu inneren Struktur der NSDAP in der Weimarer Republik, Monaco, Oldenbourg, 2002. 100 L’espressione non si trova nelle opere di Bismarck, ma fu riportata dal giornalista Friedrich Meyer von Waldeck in una conversazione col cancelliere dell’11 agosto 1867. 101 Houston Stewart Chamberlain (1855-1927), teorico nazionalista e antisemita britannico naturalizzato tedesco, noto per la sua opera Die Grundlagen des neunzehnten Jahrhunderts (I fondamenti del XIX secolo, 1899), modello per l’opera di Rosenberg sul “mito del XX secolo”. Il 30 settembre 1923 Chamberlain incontrò personalmente Hitler a Bayreuth. Bibliografia: G.G. Field, Evangelist of race. The Germanic vision of Houston Stewart Chamberlain, New York, Columbia University Press, 1981; H.S. Chamberlain, I fondamenti del 19. secolo, introduzione alla prima edizione italiana di L.L. Rimbotti, Roma, Thule Italia, 2015. 102 Axel Gustafsson Oxenstierna (1583-1654), alto cancelliere di Svezia dal 1612 sino alla morte.
240 Germania è diventata una repubblica, non è più così. Con la legge per la difesa della Repubblica è vietato pensare o discutere di qualsiasi cosa. Ma Oxenstierna ha avuto la fortuna di vivere in passato e non nell’assennata repubblica di oggi). La principale debolezza della Germania prebellica era l’istituzione che avrebbe dovuto personificare le forze dell’Impero: il parlamento (il Reichstag). Vigliaccheria e irresponsabilità erano presenti in modo esemplare. Una delle più grandi stupidaggini, oggi spesso ripetute, è che il parlamentarismo in Germania “ha fallito dopo la Rivoluzione”. Così sembrerebbe che le cose prima andassero bene. A dire il vero, l’istituzione parlamentare ha solo effetti distruttivi – e li aveva anche in passato, quando la maggior parte delle persone coi paraocchi non vide nulla o finse di non vedere. Perché era colpa in piccolissima parte del Reichstag se la Germania stava andando a catafascio, ma non può nemmeno essere merito suo se la catastrofe non si manifestò anticipatamente. Semmai era merito della resistenza opposta già in tempo di pace all’azione di quei becchini della nazione tedesca. Fra il subisso di danni arrecati dall’istituzione parlamentare voglio accennare solo a uno tipico dell’istituzione più irresponsabile di tutti i tempi. La spaventosa indecisione o debolezza nella gestione politica interna ed estera si deve anzitutto al Reichstag, causa principale del tracollo politico imperiale. Incerto era tutto ciò che dipendeva dalla sua influenza, in un modo o nell’altro. Indecisa e debole era la politica di alleanza estera. Pur volendo mantenere la pace, l’Impero si incamminava inesorabilmente verso la guerra. Indecisa era pure la politica polacca. Si punzecchiava, senza alcun intervento energico. Il risultato non fu né una conciliazione coi polacchi, né una vittoria del germanesimo, ma l’inimicizia con la Russia103. Salomonica fu la soluzione del problema alsaziano-lorenese. Invece di schiacciare con un pugno secco l’idra francese, per concedere poi agli alsaziani pari diritti, non si fece niente104. (Né si poteva farlo, dato che nelle file dei grandi partiti sedevano anche i più grandi traditori del paese. Nel Zentrum, per esempio, il signor Wetterlé)105. Tutto ciò sarebbe stato tollerabile se l’indecisione generale non avesse sacrificato anche la potenza, da cui dipendeva l’esistenza dell’Impero: l’esercito. Il peccato commesso dal “Reichstag tedesco” su quel versante basta da solo a coprirlo per sempre delle imprecazioni della nazione tedesca. Per motivi assai meschini, quei farabutti parlamentari hanno tolto di mano l’arma dell’autoconservazione, l’unica difesa della libertà e dell’indipendenza del nostro popolo106. Se oggi si aprissero le tombe della pianura fiamminga, risorgerebbero gli Sulla critica alla politica polacca “puramente linguistica” del Secondo Impero vedi capitolo 2-II. L’Alsazia e la Lorena ottennero uno statuto speciale dopo l’annessione all’Impero tedesco, che delegava inizialmente i poteri all’Imperatore e poi a un ministero apposito creato nel 1879. Solo nel 1911 ci fu una piena equiparazione con gli altri Stati federati anche dal punto di vista elettorale. Bibliografia: S. Fisch, Das Elsass in deutschen Kaiserreich (1870/71-1918), in M. Erbe (ed.), Das Elsass. Historische Landschaft im Wandel der Zeit, Stoccarda, Kohlhammer, 2003, pp. 123-146. 105 Émile Wetterlé (1861-1931), prelato, giornalista e politico francese di origine alsaziana, membro del Zentrum al Reichstag dal 1898 al 1915, sostenitore di una posizione autonomista e anticentralista. 106 Le spese militari andavano approvate dal Reichstag. Nel 1913 (con il voto socialdemocratico) il Reichstag aveva approvato l’ampliamento dell’esercito in tempo di pace da 136.000 a 786.000 unità. I
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241 accusatori insanguinati. Centinaia di migliaia dei migliori giovani tedeschi furono spinte tra le braccia della morte, malpreparati o preparati superficialmente proprio per l’incoscienza di quei criminali parlamentari. La patria ha perso quei milioni di giovani solo per consentire ad alcune centinaia di traditori i loro traffici, i loro ricatti o la recita mnemonica di teorie dogmatiche107. Mentre l’ebraismo diffondeva in tutto il mondo, con la stampa democratica e marxista, le menzogne del “militarismo” tedesco e mirava così a danneggiare la Germania con ogni mezzo, gli stessi partiti rifiutavano un’ampia preparazione della forza popolare tedesca. Un crimine enorme, se solo si pensa che, in caso di guerra, la nazione dovrebbe armarsi e che quindi, a causa della mascalzonata degli onesti “rappresentanti del popolo”, milioni di tedeschi sarebbero spediti contro il nemico con un addestramento militare insufficiente, inadeguato o parziale. Ma se anche ignorassimo le conseguenze dall’incoscienza degli sfruttatori parlamentari, non dovremmo dimenticarci che la carenza di soldati ben preparati ci avrebbe condotto alla sconfitta. Come sperimentammo amaramente durante la guerra mondiale. La sconfitta nella lotta per la libertà e per l’indipendenza è il risultato dell’indecisione e della debolezza già presenti in tempo di pace circa l’utilizzo di tutta la forza popolare tedesca a difesa della patria. Se via terra ben poche reclute erano addestrate, la stessa indecisione via mare doveva rendere più o meno inutili le armi dell’autoconservazione nazionale. Purtroppo la classe dirigente della Marina era contagiata dallo stesso veleno. La tendenza a costruire navi sempre più piccole rispetto a quelle inglesi era poco lungimirante e ancor meno geniale. Una flotta che non possa contare sugli stessi numeri del probabile avversario, deve puntare a sopperire all’inferiorità numerica con la superiore forza combattiva delle singole navi. Non conta un bel niente la leggendaria “superiorità” dei materiali. La tecnica moderna è così progredita e diffusa in tutti gli Stati civilizzati che è impossibile dare alle navi una potenza di fuoco superiore rispetto a quelle di eguale tonnellaggio di altri paesi. Ancor meno è possibile ottenere la superiorità con piccoli dislocamenti rispetto a un tonnellaggio superiore108. Infatti il tonnellaggio inferiore delle navi tedesche poteva essere compensato solo da una maggiore velocità e da un migliore armamento. L’espressione con cui si cercò di giustificare il tutto, mostrava l’illogicità dei nostri organi competenti in tempo di pace. Si affermò che l’artiglieria tedesca era così chiaramente superiore a quella britannica che il cannone tedesco da 280 millimetri non era inferiore per gittata a quello britannico da 305 millimetri! Ragion per cui sarebbe stato meglio passare al cannone da 305 millimetri per ottenere una gittata superiore. Altrimenti sarebbe stata problemi di Moltke e di Ludendorff derivavano dall’opposizione del ministro della guerra von Heeringen [KA, n. 231]. 107 Nell’estate 1914 fu mobilitata la metà degli uomini disponibili, per motivi politici, finanziari e militari. Il disastro del Reggimento List nel 1914 si dovette anche alla carente formazione militare [KA, n. 233]. 108 Hitler inizia una disamina della Marina imperiale tedesca, dimostrando di avere una buona conoscenza delle sue peculiarità tecniche e della Risikotheorie (teoria del rischio) concepita da Tirpitz. Il tonnellaggio tedesco era inferiore a quello inglese, perché le navi tedesche era concepite per una battaglia vicino alle coste ed erano dotate di armi di calibro inferiore. Inoltre le corazzate tedesche, pur qualitativamente superiori alle britanniche, erano quantitativamente inferiori di numero [KA, nn. 238-239].
242 inutile l’ordinazione del mortaio da 420 millimetri, dato che quello tedesco da 210 millimetri era di gran lunga superiore al cannone d’artiglieria francese, anche se le fortezze potevano essere distrutte anche del cannone da 305 millimetri. Lo Stato Maggiore dell’Esercito aveva ragione, la Marina purtroppo no109. La rinuncia alla superiorità dell’artiglieria, così come a una superiore velocità, dipendeva da una errata “visione del rischio”. La dirigenza della Marina rinunciò a una prospettiva offensiva e ricorse a una difensiva. E così si rinunciò alla vittoria, che consiste sempre e solo nell’attacco. Una nave poco veloce e peggio armata sarà affondata dall’avversario più rapido e meglio equipaggiato, favorito dalla migliore gittata dei suoi cannoni. Un dato amaramente sperimentato da molti nostri incrociatori110. L’errata visione della dirigenza della Marina ci costrinse in tempo di guerra a riarmare le vecchie navi e a migliorare le nuove. Ma se nella battaglia navale di Skagerrak le navi tedesche avessero avuto lo stesso tonnellaggio, armamento e velocità di quelle inglesi, la flotta inglese sarebbe affondata in una tomba bagnata sotto la tempesta delle superiori granate tedesche da 380 millimetri111. Il Giappone aveva intrapreso una politica della flotta ben diversa. La priorità fu data alla maggiore forza combattiva di ogni singola nave rispetto al possibile avversario. Questo comportò una prospettiva offensiva della flotta112.
Figura 7 Cartolina postale artistica della battaglia dello Jutland [fonte: akpool.co.uk] 109
I numeri forniti da Hitler intendono dimostrare che gli errori tecnici della Marina derivavano dal fatto di essere in balia delle forze politiche-parlamentari e non degli esperti (come accadeva all’Esercito). 110 Allusione alle battaglie di Helgoland (28 agosto 1914), delle Isole Falkland (8 dicembre 1914) e di Doggerbank (24 gennaio 1915), con ingenti perdite per la flotta tedesca. 111 Nel 1912 la Royal Navy britannica iniziò la costruzione di corazzate dotate di cannoni calibro 381 mm, poi emulata dalla Marina imperiale tedesca. Dopo la battaglia dello Jutland (maggio-giugno 1916), la Marina imperiale tedesca decise di abbandonare la guerra di superficie per concentrarsi su quella sottomarina per tentare di spezzare il blocco navale britannico. Bibliografia: R.K. Massie, Castles of steel. Britain, Germany, and the winning of the great war at sea, Londra, Randhom House, 2003. 112 Nella guerra russo-giapponese (1904-05) fu decisiva la forza e la qualità della marina di guerra giapponese. Bibliografia, S. Saaler, I. Chiharu (ed.), Der Russisch-Janpanische Krieg 1904/05 im Spiegel deutscher Bilderbogen, Tokio, Deutschen Institut für Japanstudien, 2005.
243 Mentre lo Stato Maggiore dell’Esercito non aveva sbagliato i principî guida, la Marina, meglio rappresentata a livello “parlamentare”, fu vittima dello spirito democratico. Era guidata dalla solita indecisione e agì di conseguenza. La gloria imperitura conquistata in battaglia si doveva all’ottimo lavoro degli arsenali, alle doti e all’eroismo impareggiabile dei singoli ufficiali e degli equipaggi. Ma se la dirigenza della Marina avesse avuto le stesse doti, i sacrifici non sarebbero stati vani. Le maggiori doti politiche dei vertici della Marina arrecarono danni in tempo di pace, visto che le ragioni parlamentari prevalsero su quelle militari. L’indecisione e la debolezza, così come l’assenza di logica, tipici del parlamentarismo, influenzarono la dirigenza della flotta. La fanteria, come detto, aveva evitato quegli errori. Specialmente il colonnello dello Stato Maggiore Generale (Ludendorff) condusse una lotta disperata contro le criminose indecisioni e debolezze, con cui il Reichstag affrontò le questioni decisive della nazione – e spesso le negava pure. La sua lotta fu vanificata a causa del parlamento, nonché della visione meschina e debole del cancelliere BethmannHollweg113. Ciò non impedì ai colpevoli del tracollo tedesco di addossare la colpa all’unica persona contraria all’abbandono dell’interesse nazionale114. (A questi avventurieri nati non importa di dire una menzogna in più o in meno). Chi ripensa a tutti i sacrifici affrontati dalla nazione a causa dall’imperdonabile leggerezza di quegli irresponsabili, chi osserva tutti i morti e gli storpi sacrificati senza motivo, così come l’infinita onta e vergogna, la miseria sconfinata di oggi, e sa che tutto ciò avvenne solo per dar via libera a un mucchio di carrieristi e arrivisti senza scrupoli, ebbene costui capirà perché definiamo questa gente canaglie, farabutti, furfanti e criminali. Altrimenti non si comprenderebbe, né giustificherebbe il senso e l’esistenza di quelle espressioni. Perché di fronte ai traditori della nazione, anche l’ultimo ruffiano è un galantuomo. Tutte quelle pagine oscure della vecchia Germania furono chiarite solo quando la solidità interna della nazione fu danneggiata. In quei casi le verità scomode furono strillate alle grandi masse, mentre solitamente si preferiva passarle sotto silenzio o negarle. Questo avvenne quando le cose sarebbero migliorate con una franca discussione pubblica del problema. Inoltre i governi non compresero affatto il valore e la natura della propaganda. Solo l’ebreo sapeva bene che, con un uso intelligente e continuo, si può far credere a un popolo mari o monti, e quindi, trasformare la vita più misera in un paradiso. Il tedesco, cioè il suo governo, non lo capiva. La dura resa dei conti avvenne durante la guerra. Accanto a tutti quei danni vi erano però numerosi vantaggi. Con un esame spassionato bisogna ammettere che molti dei nostri malanni era comuni ad altri paesi e ad altri popoli. Alcuni ne avevano di più, ma molte nazioni mancavano dei nostri pregi. 113 Theobald
von Bethmann-Hollweg (1856-1921), cancelliere tedesco dal 1909 al 1917. Nel 1912 Ludendorff sostenne la creazione di tre ulteriori corpi d’armata per attuare il piano Schlieffen. Bibliografia: T. Zuber, Inventing the Schlieffen Plan. German war planning, 1871-1914, New York, Oxford University Press, 2002. 114
244 Il primo pregio è che il popolo tedesco, fra quelli europei, riuscì a salvaguardare al meglio il carattere nazionale della sua economia e, malgrado alcune brutte avvisaglie, era meno asservito al controllo della finanza internazionale. Un vantaggio pericoloso che poi divenne il più grande agente patogeno della guerra mondiale. Inoltre bisogna considerare, tra l’enorme quantità di forze sane della nazione, tre istituzioni che, a loro modo, rimasero esemplari e in parte ineguagliabili. La prima fu la forma statale espressa nella Germania imperiale. Non contano i singoli monarchi, che come uomini sono soggetti a tutte le debolezze che solitamente devastano la terra e i suoi figli (altrimenti oggi non ci resterebbe che la disperazione). I rappresentanti del governo attuale sono le personalità intellettualmente e moralmente più mediocri che si possano immaginare. Se commisuriamo il “valore” della Rivoluzione tedesca alla grandezza dei suoi capi, bisogna gettare un velo pietoso sul giudizio dei posteri, ai quali non si potrà tappar la bocca con le leggi per la difesa della Repubblica, e che quindi proclameranno ciò che oggi tutti sanno: l’intelligenza e la virtù dei nuovi dirigenti tedeschi sono inversamente proporzionali alle loro bocche e ai loro vizi. Certo, la monarchia si era alienata le simpatie di molte persone, soprattutto della grande massa. I monarchi non furono sempre circondati da persone “illuminate” e sincere. Preferivano gli adulatori alle nature rette, e quindi erano “illuminati” dai primi115. Un danno gravissimo in un’epoca in cui il mondo affrontava una grande trasformazione che, naturalmente, non si arrestava di fronte al giudizio di alcune vecchie tradizioni. Perciò, alla svolta del secolo, l’uomo comune non si meravigliava affatto di fronte a una principessa che cavalcava in uniforme al fronte. Non potevamo farci un’idea precisa sull’effetto di tale parata agli occhi popolari, altrimenti non saremmo mai giunti a quello spettacolo inverecondo. Anche l’ipocrita sbornia umanitaria dei circoli monarchici ebbe effetti negativi. Se, per esempio, la Principessa X si compiaceva di assaggiare i cibi di una cucina popolare (con l’effetto pratico che tutti conosciamo), forse in passato era ritenuto un gesto positivo, ma all’epoca non lo era più. Si può facilmente supporre che l’Altezza non sapesse che il cibo di quel giorno era alquanto diverso da quello d’uso quotidiano. Ma bastava che lo sapesse la gente. Così anche la migliore intenzione appariva ridicola, se non provocatoria. Le solite descrizioni sulla proverbiale frugalità del monarca, la sua levata mattutina sempre più anticipata, così come il suo indefesso lavoro sino a tarda notte, a rischio continuo di sottonutrizione, suscitarono commenti poco favorevoli. Nessuno voleva conoscere le sue abitudini alimentari. Poteva mangiare quel che voleva. Nessuno voleva negargli il riposo necessario. Tutti speravano solo che, come uomo e come carattere, il Kaiser fosse degno della sua casata e della sua nazione e adempisse i doveri di governante. I racconti favolosi servivano a poco, anzi erano spesso deleteri. Ma tutto ciò erano solo inezie. Ben peggiore era la convinzione crescente che non si governasse dall’alto e che il singolo non dovesse interessarsene. Finché il Allusioni a Guglielmo II e ai condizionamenti del suo entourage (il “circolo Liebenberger”). Bibliografia: I.V. Hull, The entourage of Kaiser Wilhelm II. 1888-1918, Cambridge, Cambridge University Press, 1982.
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245 governo agiva bene o desiderava il meglio, le cose potevano andare avanti. Ma guai se un giorno, al posto del vecchio governo benintenzionato, fosse subentrato uno meno coscienzioso. La passiva docilità e l’infantile fiducia producevano le disgrazie peggiori che si potessero immaginare. Accanto a queste e a molte altre debolezze vi erano anche valori indiscutibili. Innanzitutto la stabilità della gestione statale, determinata dalla forma monarchica, così come la salvaguardia delle principali posizioni governative dal trambusto della speculazione di politici voraci. Per non parlare della venerabilità dell’istituzione monarchica, così come della sua autorevolezza, della superiorità della burocrazia e, specialmente, dell’esercito rispetto agli obblighi partitici. A ciò si aggiungano il vantaggio della personificazione statale nella persona del monarca e l’esempio di una responsabilità che gravava più sul re che sulla casuale maggioranza parlamentare. (La proverbiale onestà dell’amministrazione tedesca derivava da queste premesse). Infine l’importanza culturale della monarchia era molto elevata per il popolo tedesco e riusciva a compensare a molti altri svantaggi. Le capitali tedesche erano ancora i centri di un senso artistico che, nella nostra epoca materialistica, rischia di scomparire. L’azione dei principi tedeschi a favore dell’arte e della scienza nel secolo passato fu veramente esemplare. L’epoca attuale non può in ogni caso essere paragonabile al passato recente. Il principale valore aggiunto nell’epoca di lenta e progressiva decomposizione del nostro corpo popolare era l’esercito. Si trattava della scuola più importante della nazione tedesca. Non a caso, l’odio di tutti i nemici era diretto proprio contro quello schermo protettivo dell’autoconservazione e della libertà della Germania. Nessun monumento più splendente può essere innalzato a memoria di quest’unica istituzione se non la constatazione che fu calunniato, odiato, osteggiato e temuto da tutti gli spiriti meschini. Il fatto che la rabbia degli sfruttatori internazionali del popolo tedesco riuniti a Versailles si diresse anzitutto contro il nostro vecchio esercito116, gli conferisce il ruolo di bastione della libertà popolare di fronte al potere della borsa. Senza questa forza ammonitrice, lo spirito di Versailles si sarebbe già abbattuto sul nostro popolo. Il popolo tedesco deve tutto all’esercito. L’esercito formò all’incondizionata responsabilità in un’epoca in cui quella dote era diventata merce rara ed era normale evitarla, partendo dal modello ineguagliabile di irresponsabilità: il parlamento. Inoltre l’esercito formò al coraggio personale in un epoca in cui la viltà minacciava di diventare una malattia dilagante e la predisposizione al sacrificio per il bene comune appariva stupida, e intelligente sembrava solo colui che riusciva a favorire il proprio “ego”. L’esercito fu l’unica scuola che insegnò ai singoli tedeschi a cercare la salvezza della nazione non nelle espressioni ipocrite di una fratellanza internazionale di negri, tedeschi, cinesi, francesi, inglesi, ecc.117, ma nella forza e nella compattezza del proprio carattere nazionalpopolare. 116
Allusione al trattato di pace di Versailles che, nel titolo V, fissava minuziosamente il carattere e l’armamento della forza bellica tedesca, riducendo l’esercito permanente, la marina, vietando l’uso di armi moderne, la costruzione di fortezze di confine, la limitazione dell’esercito per compiti di ordine pubblico interno. 117 Allusione alla Società delle Nazioni, di cui la Germania fece parte dal settembre 1926.
246 L’esercito formò alla determinazione, mentre nella vita civile l’irresolutezza e il dubbio iniziarono a caratterizzare l’operato degli uomini. In un’epoca in cui gli sputasentenze dettavano l’atmosfera generale, l’esercito onorava il principio che un comando è sempre meglio di niente. Quel principio racchiude una salute ancora incorrotta e robusta, che oggi sarebbe andata perduta da tempo se l’esercito e la sua educazione non si fossero preoccupati di rinnovare continuamente quella forza primigenia. Basti vedere solo la spaventosa irresolutezza del nostro attuale governo, che non riesce a far nulla, salvo l’estorta sottoscrizione di un diktat predatorio. Ora il governo rifiuta di assumersi qualsiasi responsabilità e sottoscrive con la rapidità di uno stenografo parlamentare tutto ciò che deve firmare, perché la decisione è facile da prendere: gli è “dettata”. Inoltre l’esercito formò all’idealismo, alla dedizione e alla grandezza della patria, mentre nella vita civile dilagava l’avidità e il materialismo. Esso formò un unico popolo, opponendosi alla separazione classista. Il suo unico errore fu, forse, la leva volontaria annuale. Errore perché così derogò al principio dell’assoluta eguaglianza e le persone più istruite furono prelevate dal quadro generale del popolo, mentre sarebbe stato meglio il contrario. Rispetto alla grande alienazione degli strati superiori, così come all’estraniamento sempre maggiore dal popolo, l’esercito avrebbe potuto agire con successo se tra le sue file avesse evitato l’isolamento dell’“intellighenzia”. Fu un errore. Ma quale istituzione è perfetta? Nell’esercito prevalsero comunque gli aspetti positivi rispetto agli errori, che rimasero sotto il livello medio dell’umana inadeguatezza. Il principale merito dell’esercito imperiale fu quello di aver posto, in un’epoca di generale livellamento, la testa sopra la maggioranza. L’esercito onorò, di fronte al pensiero ebraico-democratico della cieca adorazione del numero, quello della personalità. Così formò anche ciò di cui c’era particolare bisogno: gli uomini. Nel pantano generale del rammollimento e dell’effeminatezza118 sprizzarono dalle sue file circa trecentocinquantamila giovani leoni che, dopo un addestramento biennale119, persero la mollezza giovanile e si forgiarono corpi duri come l’acciaio120. Il giovane, che durante il servizio militare fu abituato all’ubbidienza, imparò a comandare. I soldati in borghese si riconoscevano già dall’andatura. L’esercito fu la migliore scuola superiore della nazione tedesca, e non a caso attirò l’odio astioso di coloro che, per invidia o avidità, desideravano l’impotenza tedesca e il carattere inerme dei cittadini. Ciò che molti tedeschi non videro per miopia o per cattiva volontà, lo riconobbe lo straniero: l’esercito era arma più potente al servizio della libertà della nazione tedesca e del sostentamento dei suoi figli.
Hitler ripete un cliché diffuso: la vita dell’Impero tedesco era pomposa, lussuosa e oziosa. Bibliografia: U. Planert, Antifeminismus im Kaiserreich. Diskurs, soziale Formation und politische Mentalität, Gottinga, Vandenhoeck & Ruprecht, 1998. 119 Il numero di Hitler non è del tutto lontano dal vero: l’esercito del Secondo Impero formava militarmente ogni anno tra le duecento e le trecentomila reclute. Nel 1893 la durata del servizio militare fu ridotta dal cancelliere Leo von Caprivi da tre a due anni [KA, nn. 282-283]. 120 Sull’educazione nazionalsocialista vedi capitolo 2-II.
118
247 Alla forma statuale e all’esercito si aggiungeva l’impareggiabile burocrazia imperiale. La Germania era il paese meglio organizzato e amministrato al mondo. Per quanto si criticassero i funzionari statali tedeschi per la rigidità burocratica, negli altri Stati era così, se non peggio. Ma gli altri Stati non avevano la specchiata solidità del nostro apparato, così come l’incorruttibile e dignitosa onestà dei suoi rappresentanti. Meglio qualcosa di rigido, ma onesto e leale, piuttosto che illuminato e moderno, ma debosciato e, come succede spesso oggi, incapace e incompetente. Coloro che sostengono che l’amministrazione tedesca prebellica fosse burocraticamente solida, ma commercialmente incompetente, dovrebbero chiedersi quale paese al mondo abbia un organismo meglio gestito ed economicamente così organizzato come le ferrovie statali tedesche. Solo la Rivoluzione distrusse quella macchina esemplare, non appena sfuggì di mano alla nazione e fu “socializzata” in senso repubblicano, cioè servì il capitale di borsa internazionale, mandante della Rivoluzione tedesca. La caratteristica principale del corpo burocratico e dell’apparato amministrativo tedeschi era la sua autonomia da ogni governo: la coloritura politica non poteva esercitare alcun influsso sull’azione dei funzionari statali. La Rivoluzione ha cambiato tutto questo. Al posto dei competenti e dei capaci subentrò la logica dell’appartenenza di partito, mentre l’autonomia e l’indipendenza di pensiero erano ostacolo, anziché un merito. La forza del vecchio Impero consisteva nella sua forma statuale, nell’esercito e nella burocrazia. Queste erano le premesse di una dote oggi del tutto assente: l’autorità statale! Perché essa non si basa sulle chiacchiere dei parlamenti o delle camere regionali, né sulle leggi per la difesa della Repubblica o sulle sentenze di tribunale che li protegge dai critici impenitenti ecc., ma sulla fiducia generale che può e deve essere dimostrata dalla gestione e dell’amministrazione di una collettività. Questa fiducia è il risultato della convinzione profonda nell’abnegazione e nella rettitudine del governo e dell’amministrazione di un paese, così come nella corrispondenza fra spirito della legge e senso morale generale. Perché, a lungo andare, i sistemi di governo non si reggono sull’uso della forza, ma sulla convinzione nella bontà e nella sincerità con cui difendono e promuovono gli interessi di un popolo. Per quanto gravi fossero i danni prebellici che minacciarono di erodere le forze interne della nazione, non bisogna dimenticare che altri Stati soffrirono di malattie ben peggiori rispetto alla Germania e, tuttavia, al momento critico, non fallirono, né andarono in rovina. Se le debolezze tedesche prebelliche convivevano con altrettante forze, la ragione finale del tracollo va ricercata altrove. E così fu. La ragione finale e più profonda del tramonto del vecchio Impero fu la mancata ammissione del problema razziale e della sua importanza nello sviluppo storico dei popoli. Tutti gli avvenimenti della vita dei popoli non sono affidati al caso, ma seguono la legge naturale dell’istinto d’autoconservazione e d’accrescimento della specie e della razza, anche se gli uomini ignorano le ragioni profonde della loro condotta.
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Approfondimenti didattici 1. Analisi retorica e stilistica
- Individua le principali figure retoriche; - Individua l’esistenza di fallacie retoriche; - Individua i principali “loci” e “topoi”; - Individua la presenza di stereotipi e pregiudizi.
2. Analisi storico-culturale
- Arte divinatoria: analizza l’uso del paradigma indiziario per l’elaborazione di una visione del mondo; - Abduzione: analizza la valenza conoscitiva del ragionamento abduttivo rispetto a quello deduttivo e a quello induttivo e tenta di inquadrare la peculiarità della forma hitleriana; - La corporalizzazione della politica: analizza il tema della “malattia” del corpo politico con particolare riferimento all’antisemitismo; - Il mammonismo: analizza le origini dell’espressione, il suo uso in ambito religioso e politico, con particolare riferimento ai partiti di massa del periodo interbellico; - Sifilide e prostituzione: ricostruisci la storia sociale della sifilide e il suo nesso con la prostituzione alla luce della Seconda Rivoluzione industriale; - Educazione sessuale e “razziale”: analizza la tesi hitleriana sugli effetti benefici del matrimonio anticipato, il nesso fra salute “fisica” e salute “mentale” e adduci alcuni esempi in un senso o nell’altro; - Eugenetica: analizza le tesi hitleriane sulla “selezione” degli accoppiamenti e tenta di ricostruire il dibattito europeo e americano del periodo interbellico; - La stampa: analizza la nascita di una stampa di massa a cavallo del XIX e del XX secolo e tenta di inquadrare il ruolo crescente esercitato dal “quarto potere” nell’orientamento dell’opinione pubblica; - La guerra navale: analizza la corsa agli armamenti alla vigilia della Prima guerra mondiale e la rilevanza esercitata dal “dominio sui mari”; - Le istituzioni-guida: analizzala la tesi hitleriana delle tre istituzioni-guida (monarchia, esercito e burocrazia) e cerca di individuare l’esistenza di casi analoghi nel secondo dopoguerra.
A. Gilardoni, Logica e argomentazione. Un prontuario, Milano, Mimesis, 2008.
Capitolo XI. Popolo e razza
Sinossi 1. Genesi Il capitolo 11-I è il più noto e il più diffuso dell’intero Mein Kampf, tanto da essere stato pubblicato come volume a se stante a partire dal 1936 (insieme a stralci del capitolo 2-II sullo Stato nazionalsocialista). La formazione del capitolo è stratificata: la prima parte di “storia naturale” è stata elaborata nella tarda primavera del 1924; la seconda sull’ariano e sull’ebreo è stata elaborata nell’estate del 1924 (dopo la “scoperta” del concetto di spazio vitale); la terza parte, invece, è anteriore e risale probabilmente al 1922 e al 1923. Il capitolo 11-I completa il capitolo precedente, mostrando la diagnosi della “malattia” tedesca. Agli occhi di molti critici, però, Volk und Rasse appare meno persuasivo di altri capitoli1. 2. Contenuto Hitler esordisce con il famoso aneddoto sull’“uovo di Colombo”: ciò che è tanto ovvio spesso non si vede. La cosa “ovvia” è che la natura non fa sconti, né tantomeno salti: vuole semplicemente che si rispettino le sue leggi. Le sue leggi sono molto “chiare”: il simile va col simile, il forte col forte. Ecco il darwinismo sociale all’opera: il forte sopravvive proprio perché non fa sconti “umanitari”, il debole, invece, finisce per soccombere e per trascinare con sé anche gli altri (gli indecisi, coloro che rifiutano di guardare le cose per quello che sono). Se l’uomo si ribella alla natura, finisce per esserne sconfitto. Il “premio” è la scomparsa dalla faccia della terra, la mera estinzione. A questo punto Hitler introduce un inciso decisamente “anticartesiano” sull’esistenza dell’idea. L’idea non esiste in sé, né è un prodotto della mente umana, ma è l’esistenza dell’uomo stesso a renderla possibile. Quindi niente cogito, ergo sum, semmai sum, ergo cogito. Un radicale empirismo volto a dimostrare che la sopravvivenza dell’uomo consiste nella conoscenza e nel rispetto delle “leggi di natura”: chi tenta di aggirarle, di ingabbiarle oppure di ingannarle finisce per produrre disastri ancor peggiori. La vita è lotta, è affermazione di sé, non sopravvivenza “forzata” di tutto e di tutti. E il riferimento diretto è al pacifismo tedesco. La seconda parte del capitolo è genealogica. Hitler cerca di spiegare l’origine della civiltà umana “ipotizzando” l’esistenza di una popolazione superiore: quella ariana. Questa popolazione “mitica” sarebbe alla base di tutto ciò che di meglio è stato mai realizzato a questo mondo. Innanzitutto il relativismo culturale è fallace, perché le civiltà non sono tutte uguali o capaci di apportare un contributo all’umanità. È il “genio” ariano che ha dato al mondo la tecnica e l’ha trasportato e porto alle altre popolazioni (come nel caso giapponese). È il “genio” ariano (innato) che ha saputo creare la civiltà in giro per il mondo, soggiogando i popoli “inferiori” e, successivamente, gli animali. L’ariano superiore sottomette le popolazioni locali che incontra nelle sue “migrazioni” storiche, elimina la “libertà” (sterile) a favore della “schiavitù” (feconda) e fornisce la tecnica e l’ingegno alle popolazioni locali. La decadenza ariana inizia quando avviene il miscuglio del sangue e il 1
KA I, pp. 734-735.
250 livellamento, quando la “casta dei signori” abbandona la sua purezza e decide di “socializzare” con le popolazioni locali. La forza dell’ariano non consiste tanto nelle sue doti intellettuali, quanto nel suo spirito di sacrificio e nel suo idealismo. Il concetto di “lavoro” indica infatti una creazione in armonia con gli interessi della collettività. L’idealismo ariano sa vedere tutto sotto specie dell’eternità, non si accontenta dell’istante come l’egoista materialista. L’antitesi dell’ariano non è la popolazione stanziale, ma è l’ebreo. Qui Hitler espone chiaramente la sua concezione “divinatoria” della storia. Tutto ciò è ebraico non è ariano: egoismo contro idealismo, creatività contro sterilità, disonestà contro onestà, oscurità contro chiarezza, sfruttamento contro abnegazione. L’ebreo è privo di uno Stato, non per via della diaspora, ma perché non è dotato della necessaria forza d’animo per poterlo sorreggere. Non è un nomade, ma è semplicemente un “parassita”: sfrutta il corpo che incontra sulla sua strada, nutrendosi delle sue energie vitali. Tutto è un mezzo in vista di un unico fine: la distruzione della trascendenza. A questo punto Hitler spiega per punti il processo di “ebraizzazione” storica della società: 1) la comparsa dell’ebreo come mercante; 2) l’assunzione della funzione economica di intermediario; 3) la stanzialità negli Stati medievali in corso di formazione; 4) il monopolio della finanza; 5) l’acquisizione della terra e le prime persecuzioni antiebraiche; 6) la trasformazione in “ebrei di corte” al servizio dei principi scialacquatori; 7) la rovina dei principi e la tentata conversione al cristianesimo; 8) il ricorso ai matrimoni misti e l’ulteriore malcontento popolare; 9) l’equiparazione “illuministica” dei diritti civili; 10) il ricorso alla borghesia; 11) il ricorso al marxismo. Hitler tenta di mostrare un “modello costante”: l’ebreo si insinua in un ceto sociale, lo usa per i suoi fini mondani e poi, non appena il corpo si rende conto dell’azione “parassitaria” oppure è inutile, si sposta altrove. L’ultima “vittima” è l’operaio moderno, strumento di potere ebraico all’ennesima potenza nelle vesti del marxismo-partito e marxismo-sindacato. L’ebreo dirige i lavoratori non certo per sostenere i suoi diritti, ma per distruggere l’economia nazionale e sancire il trionfo del capitalismo finanziario internazionale. Le armi di “distrazione di massa” sono la stampa, la democrazia e il sionismo. L’obiettivo è distruggere lo strumento di autoconservazione del popolo (lo Stato). La rivoluzione bolscevica, che ben rientra nei piani dei Protocolli dei savi anziani di Sion, dimostra chiaramente una cosa: se muore l’ospite, muore anche il parassita. Nel caso russo, una volta fatta fuori la burocrazia di origine tedesca, lo Stato russo si è disintegrato. La causa del tracollo tedesco non è stata la sconfitta bellica, ma il misconoscimento del problema razziale. La “purezza del sangue” consente di superare ogni ostacolo. Tutti i fenomeni di decadenza prebellici hanno motivazioni razziali. Mentre la classe dirigente si attardava a razionalizzare, l’ebreo seminava per raccogliere i suoi frutti. La generazione del 1914 è stata il canto del cigno di un popolo ormai vicino al tramonto. 3. Analisi Il capitolo 11-I chiude, come abbiamo detto, il cerchio dell’argomentazione hitleriana a giustificazione del nazionalsocialismo: d’ora in avanti si tratterà di realizzare ciò che “serve” per salvare l’umanità “superiore”. Hitler si concentrerà sulla concorrenza in seno al movimento nazionalpopolare. Il rapporto tra popolo e razza è descritto come qualcosa di primigenio, di originario, di mitico, che non può essere cambiato o messo in discussione dall’uomo. Ogni tentativo di sovvertire l’ordine naturale è destinato a concludersi in un fallimento. Gli aspetti interessanti di questo capitolo sono tre: la premessa social-darwinista, l’elaborazione di una “mitologia ariana” e la costruzione di una “mitologia negativa”.
251 Il capitolo è stato redatto attingendo da autori relativamente noti in quegli anni (quantomeno negli ambienti nazionalpopolari). Hitler mescolò le impressioni tratte da testi di biologia, di antropologia, di filosofia, di geografia e di storia, nonché da romanzi d’appendice. Oltre ad Hans Günther e a Houston Stewart Chamberlain abbiamo il teorico della razza Arthur de Gobineau, i pubblicisti Wilhelm Marr, Julius Langbehn, Theodor Fritsch e Paul Bang, gli economisti Eugen Dühring e Werner Sombart, il compositore Richard Wagner, l’orientalista Paul de Lagarde, gli antropologi Erwin Bauer, Eugen Fischer e Fritz Lenz, lo zoologo Oscar Hertwig, i geografi Franz Termer e Karl Haushofer, il notissimo (all’epoca) Oswald Spengler, il romanziere Artur Dinter, il mentore Dietrich Eckart, l’ideologo del nazismo Arthur Rosenberg, e così via. Hitler sintetizzò quegli scritti in un programma politico organico, dotato di una logica stringente e coerente. L’aspetto che salta subito agli occhi dell’argomentazione hitleriana è la “semplicità” della sua spiegazione “scientifica”. Ciò che gli avversari e gli interpreti hanno bollato come assurdità folli, illogiche e propagandistiche, come “ciarlataneria” populistica hanno il grosso pregio di essere “economiche”, cioè di saper spiegare in poche pagine tutta la storia dell’umanità. Il tempo scorre, gli eventi si susseguono, ma il mito c’è sempre. È fuori del tempo: c’è sempre stato. Mentre i partiti tradizionali dell’epoca weimariana si affannavano a negoziare condizioni vantaggiose di ripresa dopo la crisi del 1923, Hitler e il suo piccolo partito non avevano bisogno di fare un bel niente: dovevano semplicemente “aspettare” il momento giusto, la “crisi” giusta che avrebbe “inverato” il mito. Volk und Rasse è suddiviso in tre parti: analisi generale delle “leggi di natura”; individuazione dell’arianesimo; fenomenologia dell’ebraismo. Hitler tiene a evidenziare il percorso ipotetico-deduttivo attraverso cui è giunto alla “scoperta” del male. La natura, innanzitutto, non è qualcosa di “altro” rispetto all’uomo, ma è la forza che guida e preserva l’universo. Non si può parlare di “panteismo”, perché Hitler ammette in qualche modo l’esistenza di un Creatore trascendente. L’uomo è parte della natura, ma è al tempo stesso sottomesso alle sue leggi. La volontà della natura si esprime nella relazione “simmetrica” fra i membri della stessa specie”: ogni membro della “specie” è in relazione con il membro della stessa “specie”, e viceversa. Una volta appurata la proprietà simmetrica alla base della legge di natura (che scoraggia gli ibridi, cioè gli incroci, vere e proprie “contraddizioni”), Hitler passa ad analizzare la modalità con cui la natura ha permesso all’umanità di perpetuarsi nel corso dei millenni. La risposta è molto semplice: le specie non sono soltanto soggette alla proprietà simmetrica (cioè un membro maschio si accoppia con un membro femmina), ma sono soggette anche a un’ulteriore suddivisione “razziale”. L’homo sapiens è soggetto a differenze di natura biologica e culturale tali da rendere necessaria l’individuazione di una “sottospecie” (razza). La “razza” indicherebbe quindi una differenziazione di natura bio-psicologica di natura ancestrale, “scientificamente” dimostrata dalle leggi evolutive. Mentre le specie animali sono soggette alla proprietà simmetrica (e al principio di “non contraddizione”), cioè non ammetterebbero la perpetuazione degli ibridi, il genere umano apparirebbe l’eccezione alla regola. In realtà, secondo Hitler, l’eccezione ha finito per sovvertire la “legge di natura” in due modi: consentendo la sopravvivenza dei più “deboli” e favorendo gli “incroci”. Per comprendere come l’uomo sia giunto a “sconfiggere” le leggi di natura, bisogna individuare una gerarchia delle “razze”, che è “feconda” nella misura in cui una razza ha saputo meglio comprendere e rispettare quelle leggi di natura. In tal senso l’ontologia razziale compie un “salto”: da un lato, infatti, la “razza” più integra è quella ebraica, ma dall’altro quella più “creativa” è la “razza” ariana. Integrità e creatività non sono dunque incarnate dalla stessa sottospecie (razza).
252 Se è vero che la “razza” ariana è quella creativa e civilizzatrice, lo è altrettanto che quella più integra è la “razza” distruttrice per eccellenza nell’immaginario cristiano: quella ebraica. Gli uni creano, gli altri approfittano. Da una parte abbiamo lo spirito “buono”, dall’altro la materia “cattiva”. Il vero problema dell’umanità consiste nel comprendere appieno le “leggi di natura” e nel favorire la “razza creatrice” buona. Laddove ciò è avvenuto, le varie culture hanno dato lustro all’umanità (cioè l’arianesimo ha portato la sua tecnica alle diverse latitudini mondiali e ha favorito la nascita della varie civiltà “figlie”). Laddove, invece, le varie culture non sono state toccate dall’arianesimo, ecco il sottosviluppo, la sterilità, l’incapacità creativa e così via. In questo schema cosmico “gnostico-cristiano”, l’ebreo rappresenta la “materia cattiva”: la sua esistenza impedisce la rappacificazione del mondo con se stesso. Mescolando quindi la metafisica gnostica con l’antropologia razziale, Hitler ha individuato la causa “recondita” del tracollo tedesco nell’esistenza dell’ebraismo, vero e proprio “uovo di Colombo”. Storicamente (cristianamente), il “male” si diffonde proprio con l’Impero romano (cioè con l’inizio della diaspora), con l’arrivo dei commercianti ebrei nell’Europa centrale. La materia “cattiva” vive sempre a fianco dello spirito “buono” (il “popolo”), favorita dalle élites irresponsabili e avide. Ai principi, ai capitalisti e ai politici si deve infatti la “rovina” della Germania, cioè la sua incapacità di curarsi. Il disegno di “dominio mondiale” ebraico si basa su uno schema a tenaglia: dall’alto il capitalismo, dal basso il marxismo. È chiaro che il nazionalsocialismo, essendo un movimento politico di massa, deve necessariamente confrontarsi con il marxismo e, solo in un secondo tempo, potrà concentrarsi sul capitalismo e sulle élites. La conoscenza superiore e illuminata (la gnosi) consente di comprendere il piano divino, la volontà della natura e l’ominazione planetaria. Il percorso di verità può dirsi concluso: dopo la ribellione adolescenziale, la fuga nella grande città, l’alienazione viennese, la grande guerra, l’esperienza rivoluzionaria, ecco scoperta la regola. Non è un problema materiale, bellico o politico (come dicono i borghesi e i marxisti), ma è la radice stessa del mondo occidentale a essere in pericolo. Nessuno comprende che la lotta non è fra due entità dotate degli stessi diritti e dello stesso valore, ma fra il “bene” e il “male”. L’ariano, la creatura “fatta a immagine e a somiglianza” di Dio, rappresenta il “bene” proprio perché accetta, comprende e incarna le leggi di natura. La preservazione del “bene” passa attraverso la creazione di uno “Stato germanico della nazione tedesca”. 4. Parole-chiave Accoppiamento, Arianesimo, Ariano, Attività, Capitale internazionale, Carattere nazionalpopolare, Civiltà umana, Comunità nazionalpopolare, Comunità religiosa, Democrazia, Ebraismo, Ebreo, Economia nazionale, Egoismo, Genio, Germanesimo, Idealismo, Intellighenzia, Lavoro, Leggenda della pugnalata alla schiena, Marxismo, Massoneria, Miscuglio razziale, Natura, Nomadismo, Opinione pubblica, Pacifismo, Parlamentarismo, Peccato di sangue, Principi tedeschi, Progresso, Purezza di sangue, Questione sociale, Razza, Razza ariana, Razza ebraica, Rivoluzione del 1918, Sangue ariano, Sindacato, Sionismo, Spazio vitale, Stampa, Stato ebraico, Umanità, Uovo di Colombo, Visione del mondo. 5. Bibliografia essenziale - A. Barkai, Jüdische Minderheit und Industrialisierung. Demographie, Berufe und Einkommen der Jude in Westdeutschland, 1850-1914, Tubinga, Mohr, 1988;
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Ci sono verità così ovvie che proprio per questo non si vedono o non sono accettate dall’uomo comune. Come un cieco viandante, egli passa accanto a verità così lapalissiane e tutt’al più si stupisce se qualcuno scopre ciò che tutti dovrebbero sapere. Esistono le “uova di Colombo” da centinaia di migliaia di anni, ma i “Colombo” scarseggiano. Gli uomini vagano inconsapevoli nel giardino della natura, pensano di conoscere e di sapere quasi tutto, ma, salvo casi eccezionali, ignorano uno dei principî basilari della loro esistenza: l’intima compiutezza delle specie viventi2. 2
Le specie biologiche non sono immobili né esteriormente, né interiormente. Ernst Mayr, uno dei maggiori biologi evoluzionisti del secolo scorso, distingueva tra specie in cui le caratteristiche degli individui variano gradualmente in un determinato spazio geografico e specie in cui si riscontrano nette differenze biologiche fra gruppi separati da confini ambientali. Bibliografia: G. Barbujani, L’invenzione delle
255 Già superficialmente possiamo osservare la legge quasi ferrea di riproduzione e di moltiplicazione di tutte le innumerevoli specie naturali. Ogni animale si accoppia con uno della sua stessa specie. La cinciallegra va con la cinciallegra, il fringuello col fringuello, la cicogna con la cicogna, il topo campagnolo col topo campagnolo, il topo domestico col topo domestico, il lupo col lupo ecc. Solo casi eccezionali possono confutare questa legge naturale: la coercizione della prigionia e l’impossibilità di un ulteriore accoppiamento nella stessa specie. La natura si oppone con ogni mezzo a questa situazione, impedendo la capacità procreativa dei bastardi3 o riducendo la fertilità delle generazioni avvenire. Ma, nella maggior parte dei casi, la natura riduce la resistenza contro la malattia o gli attacchi ostili. Anche questo è naturale. Ogni incrocio di due esseri di livello differente produce un ibrido. In altri termini la creatura sarà superiore alla metà razzialmente inferiore, ma non sarà elevata come quella superiore. Sarà quindi sconfitta nella lotta contro la metà superiore. L’accoppiamento asimmetrico contraddice la volontà della natura, che tende a migliorare la genia4. Il presupposto non è il legame fra l’essere superiore e quello inferiore, ma l’incessante vittoria del primo. L’essere superiore deve dominare e non deve mischiarsi con quello inferiore, per non sacrificare la sua grandezza. Solo il codardo per natura la ritiene una legge crudele, ma per questo è un essere più debole e più limitato degli altri. Infatti, se questa legge non governasse il mondo, ogni miglioramento organico sarebbe umanamente impossibile5. L’esito dell’unità razziale universalmente valida in natura non è l’energica delimitazione delle singole razze verso l’esterno, ma la loro omogenea identità interna6. La volpe è sempre una volpe, l’oca è sempre un’oca, la tigre è sempre una tigre ecc., e la differenza può consistere il più delle volte nella forza, nel vigore, nell’intelligenza, nell’abilità, nella tenacia ecc. dei singoli esemplari. Ma non ci sarà mai una volpe che esprimerà sentimenti “umani” di fronte alle oche, così come non c’è un gatto che provi simpatia per i topi. Perciò la lotta non avviene per avversione interiore, ma per fame e per amore. In entrambi i casi, la natura appare tranquilla e appagata. La lotta per il nutrimento fa perdere tutti i deboli, i malati e i meno determinati, mentre la lotta dei maschi per la conquista delle femmine concede solo al più sano il diritto e la possibilità di procreare. Ma la lotta è sempre un mezzo per aumentare la salute e la resistenza della specie e, quindi, la causa del suo miglioramento.
razze. Capire la biodiversità umana, Milano, Bompiani, 2006; E. Mayr, Storia del pensiero biologico, Torino, Bollati Boringhieri, 2011. 3 In biologia, il “bastardo” indica un “ibrido sterile” (come il mulo). Hitler sembra riferirsi, in particolare, agli ibridi tra le diverse sottospecie all’interno della specie “sapiens”, cioè agli ibridi “intraspecifici”. Secondo le stime attuali, l’ibridazione interspecifica riguarda circa il 10% delle specie animali e il 6% dei mammiferi europei [KA, n. 6]. 4 Contrariamente a Darwin, Hitler “antropomorfizza” la selezione naturale: la natura è un soggetto dotato di volontà che si oppone all’uomo che non ne rispetta le sue leggi. 5 La formula della “sopravvivenza del più forte” era un’inferenza della teoria darwiniana, che parla del “più adatto”, ma non pondera la causalità delle variazioni e la necessità della sopravvivenza dei più adatti. 6 Sulla purezza razziale vedi capitolo 2-II.
256 Se le cose non stessero così, non ci sarebbe più alcun miglioramento della specie. Anzi, visto che gli esseri inferiori sovrastano per numero quelli superiori, a parità di condizioni procreative e conservative, l’essere inferiore si moltiplicherà così rapidamente che, alla fine, il migliore sarà necessariamente sovrastato, a meno che non avvenga un correttivo a suo vantaggio7. Ed ecco la natura che, sottomettendo i più deboli a condizioni di vita così difficili, ne limita l’accrescimento e non ne consente la moltiplicazione indiscriminata, introducendo una nuova implacabile selezione in base alla forza e alla salute8. Se è vero che la natura non favorisce un accoppiamento del debole con il più forte, lo è altrettanto per la fusione della razza superiore con quella inferiore, perché, in tal caso, tutto il suo lavoro plurimillenario di procreazione superiore si annullerebbe di colpo. L’esperienza storica ci offre innumerevoli esempi. Ci mostra con spaventosa chiarezza che ogni miscuglio di sangue ariano9 con quello di popoli inferiori ha condotto alla fine del creatore della civiltà. Il Nord America, la cui popolazione è costituita in larga parte da elementi germanici che si mescolano raramente con i popoli di colore inferiori, mostra una ben altra umanità e civiltà rispetto all’America centrale e meridionale, in cui gli immigrati latini si sono in larga parte mescolati con i nativi. Ecco un chiaro e preciso esempio dell’effetto del miscuglio razziale. Il germano del continente americano, rimasto puro e non mescolato, è divenuto il padrone di quel continente. E lo rimarrà finché non sarà vittima10 del peccato contro il sangue11. In sintesi l’esito di ogni incrocio razziale è sempre il seguente: a) Abbassamento del livello della razza superiore. b) Indebolimento fisico e spirituale e, quindi, inizio di un lento ma inesorabile deperimento12.
L’affermazione che gli esseri inferiori si moltiplichino più rapidamente, si trova anche nei Grundlagen des 19. Jahrhunderts (I fondamenti del XIX secolo, 1899) di Houston Stewart Chamberlain [KA, n. 17]. 8 Altra allusione al socialdarwinismo. Bibliografia: A. La Vergata, Guerra e darwinismo sociale, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino, 2005. 9 Il termine “ariano” (sanscrito per “nobile”) indicava in origine un abitante indogermanico della Persia e dell’India settentrionale, giunto probabilmente dal Caucaso e dalla Russia meridionale. A metà Ottocento si iniziò a sostenere l’emigrazione dell’ariano nell’Europa settentrionale. I concetti di ariano e di razza ariana si diffusero anche nell’antropologia e nell’archeologia, sulla scorta di alcune assonanze sostenute dagli scienziati francesi e dai linguisti. Bibliografia: E. Castagna, Ariani. Origine, storia e redenzione di un mito che ha insanguinato il Novecento, Milano, Medusa, 2012. 10 Molti studiosi hanno cercato di evidenziare l’influsso del giurista americano Madison Grant (18651937) sulle teorizzazioni di Hitler, specialmente del suo lavoro The passing of the great race (Il tramonto della razza superiore, 1916). Il fatto che l’edizione tedesca del libro di Madison Grant sia successiva alla redazione del capitolo, può indicare che Hitler sia venuto a conoscenza delle sue idee per via indiretta. Bibliografia: J.P. Spiro, Defending the master race. Conservation, eugenics, and the legacy of Madison Grant, Hanover (New England), University Press, 2008. 11 Sul concetto di “onta razziale” vedi capitolo 10-I. 12 Nella ricerca scientifica moderna non esiste una definizione di razza, né una sua “gerarchia”. Oggi il termine è utilizzato quasi esclusivamente nella zootecnica, per indicare popolazioni di animali domestici selezionati. Vi sono alcuni antropologi fisici e genetisti che rimarcano la base biologica delle categorie razziali (come il fenotipo), cioè la diversa frequenza nelle popolazioni umani di numerosi marcatori genetici. Bibliografia: W. Carson Byrd, M.W. Hughey, Biological determinism and racial essentialism. The 7
257 Contribuire a quel degrado significa peccare contro la volontà del Creatore eterno13. L’azione avrà la giusta ricompensa. Cercando di ribellarsi alla logica ferrea della natura, l’uomo finisce per lottare contro i principî ai quali deve la sua esistenza umana. Il suo attacco contro la natura lo porta inevitabilmente al declino.
Figura 1 Copertina del romanzo I peccati contro il sangue di Artur Dinter (1917) [fonte: collections.ushmm.org]
Ed eccoci all’obiezione del moderno pacifista, veramente ebraica e sfacciata, ma stolta: “L’uomo sconfigge la natura!” Milioni di persone ripetono pappagallescamente quell’assurdità ebraica in maniera sconsiderata e si vantano di rappresentare gli eversori della natura. Ma non hanno che l’arma di un’“idea” così limitata da non rappresentare alcun reale mondo avvenire. A parte il fatto che l’uomo non ha sconfitto la natura, ma ha tutt’al più sollevato il velo sopra alcuni dei suoi innumerevoli ed eterni misteri, e quindi non “inventa” nulla, ma scopre soltanto, questo significa che non domina la natura, ma, conoscendone singole leggi e segreti, è diventato signore degli altri organismi che li ignorano. Quindi, a prescindere da tutto ciò, un’idea non può sconfiggere i presupposti del divenire e dell’esistenza della natura, poiché l’idea è il prodotto dell’uomo. Senza l’uomo non esiste alcuna “idea” umana. Quindi l’idea stessa è sempre condizionata dall’uomo, così come tutte le leggi che crearono il presupposto della sua esistenza. ideological double helix of racial inequality, in “The Annals of American Accademy of Political and Social Science”, 661, settembre 2015, pp. 8-22. 13 Allusione alla trilogia romanzesca di Artur Dinter (1876-1948): Die Sünde wider das Blut (I peccati contro il sangue, 1917), Die Sünde wider den Geist (I peccati contro lo spirito, 1920) e Die Sünde wider die Liebe (I peccati contro l’amore, 1922). Bibliografia: G. Henschel, “Die Sünde wider das Blut”. Besichtigung eines sexualantisemitischen Bestsellers, in Id., Neidgeschrei. Antisemitismus und Sexualität, Amburgo, Hoffmann & Campe, 2008, pp. 25-46.
258 E non solo! Certe idee sono legate a uomini ben precisi. Questo vale soprattutto per quei pensieri che non derivano da una verità scientifica esatta, ma dal mondo dei sensi oppure, come oggi si è soliti esprimere in modo così delizioso e “chiaro”, da un’“esperienza interiore”. Tutte queste idee che non hanno nulla a che fare con la fredda logica, ma rappresentano pure manifestazioni emotive, idee etiche, ecc., sono strettamente legate all’esistenza dell’uomo; esistono grazie alla sua forza immaginativa e alla sua creazione intellettuale. Ma, proprio per questo motivo, la conservazione di una determinata razza o di un determinato uomo è il presupposto della “loro” esistenza. Chi, per esempio, auspicasse sinceramente la vittoria dell’idea pacifista in questo mondo dovrebbe impegnarsi con ogni mezzo per la conquista planetaria dei tedeschi. In caso contrario, molto probabilmente con l’ultimo pacifista scomparirebbe anche l’ultimo tedesco, poiché il resto del mondo non è mai cascato in quell’assurdità innaturale e irrazionale così profondamente come il nostro popolo14. Bene o male, bisognerebbe fare la guerra per raggiungere il pacifismo. Questo e nient’altro intendeva il salvatore planetario americano Wilson. Così almeno credevano i nostri pacifisti, che hanno raggiunto il loro scopo15. Infatti l’idea umanitaria-pacifista è pure buona, se l’uomo superiore conquista e sottomette il mondo, diventandone l’unico signore. L’idea sarebbe così privata di ogni effetto collaterale, nella misura in cui il suo utilizzo pratico sarebbe raro e, alla fine, impossibile. Quindi prima la guerra, poi forse il pacifismo. Altrimenti l’umanità avrebbe già oltrepassato l’apice del suo sviluppo e alla fine non resterebbe più il dominio di un’“idea” etica, ma la barbarie e il caos. Qualcuno potrebbe anche sorriderne, ma resta il fatto che la terra fluttuava nell’etere da milioni di anni senza l’uomo e potrebbe fluttuare ancora, se gli uomini ignorassero che devono la loro esistenza superiore non alle idee di qualche pazzo ideologo, ma al riconoscimento e all’utilizzo spietato di ferree leggi naturali. Tutte le meraviglie attuali (scienza e arte, tecnica e invenzioni) non sono altro che il prodotto creativo di pochi popoli e, forse, originariamente di una sola razza. Da essa dipende anche l’esistenza di tutta la civiltà. La sua rovina coinciderà con la scomparsa della bellezza a questo mondo. Per quanto la terra possa influenzare gli uomini, l’esito sarà sempre diverso in base alla razza in questione. La scarsa fertilità di uno spazio vitale può spronare una razza a prestazioni superiori, mentre per altre è causa di una dolorosissima povertà e, infine, della malnutrizione con tutte le tragiche conseguenze del caso. L’indole interiore dei popoli determina sempre i risultati esteriori. Ciò che conduce gli uni alla moria sprona gli altri al duro lavoro16.
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Il pacifismo organizzato nacque negli Stati Uniti nel 1815. Nel 1892 sorse a Berlino per merito di Bertha von Suttner e di Alfred Hermann Fried la Deutsche Friedensgesellschaft (Società pacifista tedesca). 15 Thomas Woodrow Wilson (1856-1924), presidente degli Stati Uniti d’America dal 1913 al 1921, sostenitore del riassetto postbellico su base nazionale (vedi il suo famoso discorso dei “Quattordici punti” del gennaio 1918), sostenitore della Società delle Nazioni (alla quale gli Stati Uniti non presero parte). 16 Questo passaggio rimanda all’ideologia Blut und Boden (sangue e terra) nazista, sostenuta negli anni Trenta dal politico e agronomo Richard Walther Darré (1895-1953). Bibliografia: A. D’Onofrio, Razza, sangue e suolo. Utopie della razza e progetti eugenetici nel ruralismo nazista, Napoli, Cliopress, 2007.
259 Tutte le principali civiltà passate andarono in rovina perché la razza originariamente creativa morì per avvelenamento del sangue. La causa finale del loro tramonto fu sempre il misconoscimento che la civiltà dipende sempre dagli uomini e non il contrario. Per salvare una civiltà bisogna conservare l’uomo che l’ha creata. Ma la conservazione è legata alla legge ferrea della necessità e alla vittoria del migliore e del più forte. Chi vuole vivere combatta, e chi non vuole farlo in un mondo di lotta non sopravvivrà. Anche se è spietata, la vita è così. Il destino più ingrato riguarderà chi crede di poter “sconfiggere” la natura, mentre in realtà sembra disprezzarla. Miseria, sciagura e malattie sono la sua risposta! L’uomo che ignora o non rispetta le leggi razziali, avrà ciò che si merita. Impedisce la marcia trionfale della razza migliore e così anche il presupposto di ogni progresso umano. E, malato di sentimentalismo, resta fermo nel regno degli animali inermi. È fatica sprecata discutere quale razza o quali razze fossero le portatrici originarie della civiltà umana e, quindi, le vere fondatrici dell’“umanità”17. Più semplice è chiederselo oggi e la risposta è semplice e chiara. I migliori prodotti della civiltà umana in ambito artistico, scientifico e tecnico, sono quasi esclusivamente ariani. Questo dato di fatto comporta che solo l’ariano fu l’iniziatore dell’umanità superiore, che quindi rappresenta l’archetipo “umano”. L’ariano è il Prometeo18 dell’umanità, dalla cui fronte luminosa sorse la scintilla divina del genio eterno che alimenta di continuo quella fiamma che illumina la notte dei misteri silenziosi e permette all’uomo di assurgere a dominatore delle altre creature terrestri. Se la spegnessimo – calerebbe forse per millenni una profonda oscurità sulla faccia della terra. La civiltà umana sparirebbe e il mondo si inaridirebbe. Se dividessimo il genere umano in tre specie (l’iniziatrice, la portatrice e la distruttrice della civiltà), l’ariano andrebbe considerato il rappresentante della prima. È lui il padre delle fondamenta e delle mura di ogni creazione umana, mentre solo la forma e il colore esterni sono tratti caratteristici dei singoli popoli. L’ariano fornisce le grandi pietre e i progetti di ogni progresso umano, mentre solo l’esecuzione è soggetta al carattere dei diversi uomini o razze. In pochi decenni, per esempio, l’Asia orientale avrà una civiltà degna di questo nome, basata sui principî dello spirito ellenistico, della tecnica germanica, com’è il caso nostro. Solo la forma esteriore (in parte, quantomeno) avrà i caratteri della natura asiatica. Non è, come alcuni credono, il Giappone che utilizza la tecnica europea per la sua civiltà, ma sono la scienza e la tecnica europea a rivestirsi di caratteristiche giapponesi. Il fondamento della vita reale non è più la civiltà giapponese, anche se quest’ultima (pur impressionando maggiormente un europeo per via della sua differenza interiore) decide il colore della vita. Lo è invece l’enorme lavoro tecnico-amministrativo dell’Europa e dell’America, cioè dei popoli ariani. Il concetto di “razza” rimase sempre vago e fu usato spesso in modo arbitrario dagli stessi teorici nazionalpopolari. Bibliografia: N. Bancel, T. David, D. Thomas (ed.), The invention of race. Scientific and popular representations, Londra, Routledge, 2014. 18 Figura della mitologia greca, creatore dell’uomo e portatore del fuoco, contro la volontà di Zeus.
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260 L’Oriente può accedere al progresso generale umano solo così. La civiltà ariana offre il fondamento della lotta per il sostentamento, crea le armi e gli utensili, mentre solo la veste esteriore si adatterà alla natura giapponese19. Se oggi cessasse ogni ulteriore influsso ariano sul Giappone, ammettendo la rovina dell’Europa e dell’America, il progresso giapponese in ambito economico e tecnico avrebbe vita breve. In pochi anni si esaurirebbe la fonte, prevarrebbe la vita giapponese, ma la civiltà si fossilizzerebbe e sprofonderebbe nuovamente nel letargo, da cui fu svegliata sette secoli fa dall’ondata civilizzatrice ariana20. Se l’attuale sviluppo giapponese si deve alla civiltà ariana, lo stesso avvenne anche in tempi più remoti21. La migliore dimostrazione è la successiva fossilizzazione della civiltà giapponese, tipica di un popolo quando viene a mancare l’impulso esterno capace di azionare il nucleo creativo primordiale. Ma se è certo che un popolo ottiene, riceve ed elabora essenzialmente la sua civiltà da una razza straniera, per poi fossilizzarsi se viene a mancare l’influsso esterno, allora una razza del genere è solo “portatrice di civiltà”, non certo sua “creatrice”22. Analizzando i singoli popoli da questo punto di vista, osserviamo che, in quasi tutti i casi, non si tratta di popoli iniziatori di civiltà, ma quasi sempre di suoi portatori. Quindi le etnie ariane sottomettono (spesso con forze ridicolmente irrisorie) i popoli stranieri e, stimolati dalle particolari condizioni ambientali (fertilità, clima ecc.), nonché favoriti dal sostegno degli uomini inferiori, sviluppano le loro capacità intellettuali e organizzative latenti. Gli ariani creano nel giro di pochi millenni, se non secoli, le civiltà, che inizialmente recano i tratti salenti della loro natura, adeguati alle caratteristiche ambientali e agli uomini sottomessi. Infine il conquistatore abbandona la purezza iniziale del suo sangue, inizia a mescolarsi con gli abitanti soggiogati e finisce per scomparire. Al peccato originale segue sempre la cacciata dal paradiso23. Spesso, dopo migliaia di anni, o forse più, riaffiora l’ultima traccia del popolo signore di un tempo24 nel colore chiaro della pelle, che il suo sangue lascia nella razza soggiogata e in una civiltà fossilizzata che un tempo aveva fondato. Non appena si smarrisce nel sangue dei sottoposti, il conquistatore materiale e spirituale perde anche il combustibile della fiaccola del progresso umano! Come il colore rappresenta un pallido ricordo del sangue dei vecchi signori, così l’oscurità della vita culturale è illuminata dalle creazioni preservate del portatore di luce di un tempo. Esse brillano attraverso la nuova barbarie. E il distratto osservatore crede spesso di vedere l’immagine del popolo di un tempo, mentre in realtà scruta solo lo specchio del passato. Hitler lesse probabilmente – con la mediazione di Hess – i lavori di Haushofer sul Giappone, che negavano l’esistenza di una civiltà autoctona. Bibliografia: H. Wolter, Karl Haushofer und Japan. Die Rezeption seiner geopolitischen Theorien in der deutschen und japanischen Politik, Monaco, Iudicium, 2013. 20 Allusione all’apertura economica forzata del Giappone imposta dagli USA nel 1853-54, che comportò poi la sua occidentalizzazione tecnica, economica e giuridica. 21 Allusione alle trasmissioni culturali da Cina e Corea verso il Giappone dopo il periodo Kofun (III-VII secoli d.C.) grazie al buddismo (538-552). 22 Il distinguo tra razza “creatrice” e razza “portatrice” era già presente nell’Essai sur l’inégalité des races humaines (Saggio sulla diseguaglianza delle razze umane, 1853-1854) del conte de Gobineau (1816-1882). 23 Altra metafora biblica. 24 Sul concetto di “popolo sovrano” vedi capitolo 2-II.
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Richard Wagner (1813-1883)
Joseph Arthur de Gobineau (1816-1882)
Paul de Lagarde (1827-1891)
K Eugen Dühring (1833-1921)
Guido von List (1848-1919)
Oscar Hertwig (1849-1922)
Julius Langbehn (1851-1907)
Theodor Fritsch (1852-1933)
Houston Stewart Chamberlain (1855-1927)
Werner Sombart (1863-1941)
Madison Grant (1865-1937)
Henrich Claß (18681953)
Dietrich Eckart (1868-1923)
Karl Haushofer (1869-1946)
Ernst zu Reventlow (18691943)
Jörg Lanz von Liebenfels (1874-1954)
Eugen Fischer (18741967)
Artur Dinter (18761948)
Oswald Spengler (1880-1936
Gottfried Feder (1883-1941)
Fritz Lenz (18871976)
Hans F K Günther (1891-1968)
Figura 2 Alcuni “ispiratori” di Adolf Hitler (in ordine di nascita)
Karl May (18421912)
Paul Bang (18791945)
Alfred Rosenberg (1894-1945)
262 Può accadere che un popolo entri in contatto una seconda volta con la razza portatrice di civiltà, o forse più di una volta nel corso sua storia, senza alcuna reminiscenza del passato remoto. Il resto di sangue signorile si rivolgerà inconsapevolmente al nuovo fenomeno: ciò che era possibile coattivamente riuscirà ora volontariamente. Ed ecco una nuova ondata civilizzatrice, che durerà finché il portatore non si perderà nuovamente nel sangue dei popoli stranieri25. Sarà compito di una futura storia della civiltà studiare questi processi26, non soffocandoci nel resoconto di fatti esteriori, come purtroppo accade spesso alla nostra scienza storica27. Già da questo abbozzo evolutivo delle nazioni “portatrici di civiltà” otteniamo un quadro completo dello sviluppo storico, dell’attività e del passaggio dell’autentico iniziatore: l’ariano. Come nella vita quotidiana il “genio”28 ha bisogno di un motivo particolare, spesso letteralmente di una spinta, per manifestarsi, così succede alla razza geniale nella vita dei popoli. Nella monotona quotidianità anche gli uomini importanti appaiono insignificanti e si distinguono a mala pena dagli altri. Non appena si presenta una situazione in cui gli altri si perdono d’animo, ecco che spunta fuori la natura geniale, non di rado fra lo stupore di tutti coloro che avevano finora avuto l’opportunità di osservare la grande persona nella mediocre vita borghese. Perciò quasi nessuno è profeta in patria29. Niente di meglio della guerra può esserci d’esempio. Da giovani apparentemente docili, nel momento del bisogno in cui gli altri si abbattono, spuntano eroi dotati di un coraggio sprezzante del pericolo e di glaciale freddezza di pensiero. Se non ci fossero state quelle occasioni, quasi nessuno avrebbe potuto immaginare che nel loro sbarbato fanciullo si celasse un giovane eroe. Quasi sempre c’è bisogno di un impulso che ridesti il genio. Il colpo di maglio del destino, che getta qualcuno a terra, picchia improvvisamente sull’acciaio e, spezzando l’involucro della vita quotidiana, offre al mondo meravigliato il ragazzo finora nascosto. Il mondo recalcitra e stenta a credere che una persona “normale” sia “diversa”. Un fenomeno che si ripete in ogni figlio importante dell’uomo. Sebbene un inventore debba la fama alla sua invenzione, è impensabile che la sua genialità sia apparsa di punto in bianco. La scintilla del genio sarà innata nella testa del creatore, anche se è stata a lungo latente e quindi invisibile al resto del mondo. Ma se poi, per un qualsiasi motivo o stimolo esterno, la scintilla s’infiamma, ecco che l’inventore attira lentamente l’attenzione del mondo. Lo sciocco crede che il genio sia diventato “intelligente”, mentre in realtà sta solo iniziando a riconoscerne la grandezza. L’autentica genialità è innata, non è educabile.
Possibile riferimento alle teorie dell’antropologo Hans F.K. Günther (1891-1968), che parlava di ondate cicliche di razze nordiche. Bibliografia: P. Schwandt, Hans F.K. Günther. Porträt, Entwicklung und Wirken des rassistisch-nordischen Denkens, Saarbrücken, VDM Verlag Dr. Müller, 2008. 26 Già Julius Langbehn (Rembrandt come educatore) aveva auspicato una visione antropologica e razziale della storia. Bibliografia: A.J. Langbehn, Rembrandt come educatore, a cura di V. Pinto, Torino, Free Ebrei, 2013. 27 Sulla rilevanza della storia vedi capitoli 1-I e 2-II. 28 Sul concetto hitleriano di “genio” vedi capitolo 4-II. 29 Riferimento ai Vangeli di Luca (4,24), di Matteo (13,57) e di Marco (6,4).
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263 Ma, come detto, questo non vale solo per i singoli, ma anche per le razze. I popoli creativi lo sono sempre stati, anche se un osservatore superficiale non se n’era mai accorto. La conferma esteriore avviene sempre e comunque coi fatti compiuti, poiché il resto del mondo non è in grado di riconoscere la genialità, ma la vede in forma di invenzioni, di scoperte, di costruzioni, di quadri, ecc. Ci vuole pazienza: come nella vita individuale, la scintilla geniale, se stimolata in occasioni particolari, ambisce al riconoscimento pratico, così, nella vita dei popoli, la valorizzazione delle doti creative avviene a determinate condizioni. Tutto ciò è chiaro nella razza portatrice della civiltà umana: la razza ariana 30. Non appena il destino presenta condizioni particolari, le sue capacità innate iniziano a svilupparsi in rapida successione e danno vita a forme tangibili. Le civiltà così create saranno sempre caratterizzate dal territorio, dal clima e dagli uomini sottomessi. Specialmente da quest’ultimi. Quanto più primitivi sono i presupposti tecnici di un’attività civilizzatrice, tanto più urge il sostegno umano che, in maniera organizzata, sostituisce la forza meccanica. Senza l’ausilio dei popoli inferiori, l’ariano non sarebbe mai riuscito a compiere i primi passi della sua civiltà. Esattamente come, senza l’ausilio degli animali che riuscì ad addomesticare, egli non avrebbe creato quella tecnica che gli avrebbe poi permesso di farne a meno. Purtroppo è vero il detto: “Il moro ha fatto il suo dovere, ora può andare”31. Per migliaia di anni il cavallo ha contribuito a porre le basi di un progresso che l’invenzione delle automobili avrebbe reso superfluo. Entro pochi anni il cavallo cesserà di essere utilizzato, ma senza il suo ausilio l’uomo non sarebbe giunto dove si trova oggi. Quindi i popoli inferiori sono uno dei presupposti essenziali per la formazione di civiltà superiori: consentono di ovviare alla carenza di ausili tecnici, senza i quali il progresso è impossibile. Indubbiamente la prima civiltà umana si basò meno sull’animale addomesticato che sull’ausilio dell’uomo inferiore. La schiavitù delle razze sottomesse è antecedente all’addomesticamento degli animali, non il contrario come alcuni vorrebbero farci credere. Fu l’uomo sconfitto a trainare l’aratro prima del cavallo32. Solo gli stupidi pacifisti lo ritengono un segno di depravazione umana. Ma quegli apostoli dimenticano che possono recitare pappagallescamente i loro sproloqui in giro per il mondo solo grazie al progresso tanto criticato. Il progresso dell’umanità equivale alla salita di una scala interminabile: per giungere in cima bisogna salire i gradini inferiori. L’ariano intraprese il percorso mostrato dalla realtà e non dalla fantasia dei nostri pacifisti. La strada reale è faticosa e ardua, non porta dove vorrebbe l’umanità, ma più lontano. Non a caso le prime civiltà sono sorte dopo che l’ariano sottomise i popoli inferiori alla sua volontà, primi strumenti tecnici al servizio della civiltà in costruzione. La via era delineata: l’ariano sottomise i popoli inferiori, regolò la loro attività pratica in base alla sua volontà e ai suoi obiettivi. Così, benché duramente, l’ariano non Come si evince dal testo, Hitler tende a confondere “razza iniziatrice” e “razza portatrice” di civiltà. Verso tratto dal dramma La congiura di Fiesco a Genova (1783) di Friedrich Schiller (Atto III, scena IV). 32 In realtà, l’addomesticamento degli animali è anteriore alla schiavizzazione degli uomini. Gli animali furono addomesticati circa 14.000 anni fa (il cane oltre 130.000 anni fa), mentre la schiavitù risale a 5.000 anni fa [KA, n. 65].
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264 solo ebbe cura della vita dei popoli sottoposti, ma diede anche loro uno scopo superiore alla vecchia “libertà”. Finché rispettò implacabilmente il suo punto di vista sovrano, l’ariano non solo restò solo il “signore”, ma fu anche il portatore e il promotore della civiltà. Essa si basava esclusivamente sulle sue capacità e, quindi, sulla conservazione dell’ariano. Non appena i popoli sottomessi iniziarono a sollevarsi e (probabilmente) impararono la lingua del conquistatore, finì la rigida separazione tra servo e padrone. L’ariano rinunciò alla purezza del suo sangue, perdendo anche la permanenza nel suo paradiso. Affondò nel miscuglio razziale, egli perse progressivamente la capacità creativa, finendo per assomigliare intellettualmente e fisicamente più ai sottoposti e agli indigeni che ai suoi antenati. L’ariano riuscì a vivere per un certo periodo dei suoi beni culturali, ma poi andò incontro alla fossilizzazione e all’oblio. Così crollano le civiltà e gli imperi, per dare spazio a nuove realtà. Il miscuglio del sangue e l’inevitabile livellamento razziale sono l’unica causa della moria delle antiche civiltà. Gli uomini non cadono in rovina per le guerre perse, ma per la perdita della resistenza insita nella purezza del sangue. Ciò che non è razza è “pula”33. La storia universale è, nel bene o nel male, il prodotto dell’istinto d’autoconservazione delle razze. L’importanza straordinaria dell’arianesimo non consiste tanto nel superiore istinto d’autoconservazione, quanto nella sua particolare espressione. La volontà di vita è soggettivamente presente ovunque; differente è solo l’effetto pratico. Negli organismi preistorici l’istinto d’autoconservazione non supera la preoccupazione per il proprio “io”. L’“egoismo” avvinghia il tempo: l’istante rivendica ogni cosa e non intende concedere nulla all’avvenire. L’animale vive solo per se stesso, cerca di soddisfare la fame e lotta solo per la propria sopravvivenza. Ma finché l’istinto d’autoconservazione non travalica l’attimo, mancano le basi per creare una comunità, la forma più primitiva di vita familiare. La stessa comunione tra maschi e femmine al di là del puro accoppiamento esige una dilatazione dell’istinto d’autoconservazione: la preoccupazione e la lotta per il proprio “io” si estendono anche al prossimo. Il maschio cerca il cibo per la femmina, non di rado anche per i piccoli. Il primo prende le difese dell’altra: è la prima forma, ancorché rudimentale, di spirito di sacrificio. Non appena l’istinto si estende oltre i limiti familiari, ecco il primo presupposto per creare associazioni più grandi e, alla fine, un vero e proprio Stato. Fra i popoli inferiori, l’istinto è molto limitato. Spesso non va oltre la formazione di una famiglia. Quanto maggiore è la disponibilità ad accantonare gli interessi personali, tanto maggiore sarà la capacità di creare una comunità più ampia. Lo spirito di sacrificio è particolarmente sviluppato nell’ariano: è in grado di dare sostegno e, se necessario, la vita per il proprio simile. L’ariano non è solo dotato di grandi qualità intellettuali, ma anche della disponibilità a metterle al servizio della propria comunità. L’istinto d’autoconservazione si esprime nella forma più nobile: l’ariano sottomette di buon grado il proprio “io” alla vita comunitaria e, se necessario, si sacrifica.
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Possibile allusione alla parabola della zizzania contenuta nel Vangelo di Matteo (13,24-30).
265 Il motivo per cui l’ariano crea ed erige civiltà non consiste tanto nelle sue doti intellettuali. Altrimenti egli avrebbe sempre agito in modo distruttivo, giammai “organizzativo”. L’essenza più profonda di ogni organizzazione è la volontaria sottomissione dell’interesse personale del singolo a quello della maggioranza. L’individuo riceve la sua parte dalla collettività: non lavora solo per se stesso, ma integra il suo lavoro nel quadro della collettività. La migliore spiegazione ce la offre il termine stesso di “lavoro”34, che non è affatto un modo di “vivere”, ma una creazione in armonia con l’interesse della collettività. Oppure si ricorre all’espressione “attività”35, se utile esclusivamente all’egoistico istinto d’autoconservazione (per esempio, il furto, l’usura, la rapina, lo scasso, ecc.).
Figura 3 Carta etno-razziale risalente alla fine del XIX secolo [fonte: wikipedia.de]
Il senso della comunità è il presupposto di ogni civiltà umana. Solo così possono sorgere tutte le grandi opere umane, che non arrecano particolare lustro al fondatore, ma portano di certo la gratitudine dei posteri. Solo così comprendiamo perché tante persone sopportino onestamente un’esistenza miserabile, che infligge loro solo povertà e privazioni, ma che garantisce alla comunità le basi della sua esistenza. Ogni L’etimologia del termine Arbeit (lavoro) è incerta. Probabilmente deriva dal latino “arvum” (arativo). Il termine è utilizzato per indicare la fatica, l’attività per garantirsi il sostentamento e il miglioramento delle condizioni di vita e l’esito degli sforzi (prestazione e opera). L’espressione Arbeit macht frei (Il lavoro rende liberi) fu utilizzata come motto all’ingresso di numerosi campi di concentramento nazisti, come Auschwitz. L’espressione fu già il titolo del romanzo dello scrittore tedesco Lorenz Diefenbach del 1872. 35 Il termine Wirken (agire), che deriva dal sostantivo Werk (opera), ha probabilmente la radice indoeuropea “wurm”. Il termine indica reale, vero, effettivo.
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266 lavoratore, contadino, inventore, funzionario ecc. che crea in maniera disinteressata, è portatore di quest’ideale superiore, anche se non comprende il senso più profondo del suo operato. Ciò che vale per il lavoro, vale a maggior ragione per la difesa dell’uomo e della sua civiltà. La dedizione individuale a favore della comunità rappresenta il coronamento dello spirito di sacrificio36. Solo così si impedisce che le mani umane rovinino ciò che esse o la natura stessa hanno creato. La lingua tedesca possiede una parola che indica assai bene quel comportamento: adempimento del dovere, cioè non bastare a se stessi, ma servire alla collettività. Ecco il dovere37. A differenza dell’egoismo e del tornaconto personale, il dovere si basa sull’idealismo. Con questo termine s’intende la capacità di sacrificarsi per il bene della collettività o per il proprio prossimo. Bisogna ammettere che l’idealismo non è un sentimento superfluo, ma che era, è e sarà sempre il presupposto della civiltà umana. Solo l’idealismo ha creato l’ideale dell’“uomo”. Il mondo deve all’ariano questo senso interiore. Gli deve l’uomo stesso. Perché solo l’idealismo ha saputo forgiare dallo spirito astratto la forza creativa che, unendo forza bruta e intelletto geniale, ha saputo erigere i monumenti della civiltà umana. Senza il senso per l’ideale, tutto, anche le più straordinarie doti intellettuali, resterebbe solo spirito, non diverrebbe mai forza creativa, se non sterile apparenza. Ma trattandosi della sottomissione del singolo alla collettività, presupposto di qualsiasi forma di vita organizzata, il vero idealismo corrisponde alle ultime volontà della natura. Solo la volontà della natura spinge l’uomo alla volontaria ammissione dell’uso della forza e polverizza quell’ordine che forma e costituisce tutto l’universo. L’idealismo più puro è anche una forma di consapevolezza più profonda. Quanto tutto ciò sia vero e quanto il vero idealismo abbia poco a che fare con la sterile fantasticheria, lo vediamo, per esempio, nelle parole del bambino integro e del fanciullo sano. Il ragazzo, nauseato dalla logorrea del pacifista “idealista”, è pronto a sacrificare la sua giovane vita per l’ideale del suo carattere nazionalpopolare. Obbedisce inconsapevolmente all’istinto che riconoscere la necessità di conservare la sua specie, se necessario a costo della vita. Inoltre egli protesta contro la fantasticheria del chiacchierone pacifista, il cui egoismo truccato e vile è contrario al progresso. Esso è determinato dallo spirito di sacrificio del singolo e non dalle idee malate di vili saputelli e di critici della natura. Proprio quando il senso per l’ideale minaccia di scomparire, assistiamo a un calo della forza basilare della comunità e della civiltà. Non appena l’egoismo regna sovrano, i legami dell’ordine sociale si allentano e, alla ricerca della propria fortuna, gli uomini cadono giustamente dal paradiso all’inferno. Non a caso i posteri dimenticano gli egoisti, ma celebrano gli eroi che rinunciarono alla propria fortuna.
Questo passaggio ricorda un’espressione del Vangelo di Giovanni (15,13). L’ariano sarebbe il santo e l’ebreo il diavolo. 37 Il concetto di Stato comunitario ha una lunga tradizione (si pensi alla Repubblica di Platone). In Das Wesengefüge des Nationalsozialismus (Struttura essenziale del nazionalsocialismo, 1932) Alfred Rosenberg parla di somiglianze fra i principî nazisti e quelli platonici [KA, n. 77]. 36
267 Il contrasto più stridente con l’ariano è rappresentato dall’ebreo. In quasi nessun altro popolo al mondo l’istinto d’autoconservazione è così forte come nel popolo “eletto”38. La migliore dimostrazione è l’esistenza stessa della razza ebraica 39. Quale altro popolo ha subito negli ultimi duemila anni minori trasformazioni interiori e caratteriali del popolo ebraico? Quale altro popolo ha subito maggiori trasformazioni di quello ebraico – ma è tuttavia emerso sempre uguale a se stesso dalle peggiori catastrofi dell’umanità? Che dimostrazione di tenacissima volontà di vita, di conservazione della propria specie! Anche le doti intellettuali si sono formate nel corso dei millenni. L’ebreo di oggi è ritenuto “intelligente” e, in un certo senso, lo è sempre stato40. Solo che la sua intelligenza non è il prodotto di una propria maturazione, ma è una lezione impartita dagli altri. Lo spirito umano si innalza per gradi verso le vette: ha sempre bisogno di fermarsi a osservare il fondamento del passato, il vasto senso offerto dalla civiltà umana. Ogni pensiero è solo in piccolissima parte il frutto della propria conoscenza; è soprattutto l’esito delle esperienze passate. Il livello generale di una civiltà fornisce al singolo, spesso inconsapevolmente, un’infinità di conoscenze che gli permettono di salire ulteriori gradini. Per esempio, oggi il giovane fanciullo gode di un’infinità di conquiste tecniche acquisite negli ultimi secoli. Ciò che anche solo un secolo fa era un enigma per i grandi spiriti, oggi è ovvio, anche se è importantissimo per proseguire e per comprendere i progressi di quel settore. Se un geniale ventenne del secolo passato ritornasse in vita, il suo ambientamento intellettuale sarebbe più difficile rispetto a quello di un normale quindicenne di oggi. Gli mancherebbe l’infinito bagaglio di conoscenze che il fanciullo assorbe inconsapevolmente dalla civiltà odierna. Poiché l’ebreo (per motivi che spiegheremo presto) non ha mai avuto una propria civiltà, i fondamenti del suo lavoro intellettuale provengono sempre da altri popoli. Il suo intelletto si è sempre sviluppato nel mondo culturale esterno. Non è mai avvenuto il contrario. Anche se il suo istinto d’autoconservazione non è inferiore, anzi è superiore a quello di altri popoli; anche se le sue doti intellettuali sembrano le stesse delle altre razze, il popolo ebraico manca completamente del presupposto essenziale di un popolo civilizzatore: l’idealismo. Lo spirito di sacrificio del popolo ebraico non oltrepassa il puro istinto d’autoconservazione del singolo. L’apparente spirito di corpo è dovuto a un istinto gregario primordiale, simile a quello di altri organismi animali. Inoltre l’istinto gregario favorisce il sostegno reciproco solo per convenienza o per necessità. Un branco di lupi, che compie una razzia comune, si scioglie non appena è passata la fame. Lo
L’elezione del popolo ebraico si fonda sull’Antico Testamento (Esodo, 19,5-6): “Voi sarete per me un popolo di sacerdoti e una nazione santa”. Il passaggio dell’elezione da un piano etico a uno socio-politico portò alle letture etnico-razziali, di cui non furono immuni alcuni settori del mondo ebraico. Bibliografia: D. Novak, L’elezione d’Israele. L’idea di popolo eletto, a cura di F. Bassani, Brescia, Paideia, 2001. 39 L’equivalenza fra popolo e razza non era accettata da tutti i teorici nazionalpopolari. Bibliografia: S. Sand, L’invenzione del popolo ebraico, traduzione di E. Carandina, Milano, Rizzoli, 2010. 40 L’idea dell’intelligenza ebraica era un cliché molto diffuso nella scienza positivista di fine Ottocento. Bibliografia: S.L. Gilman, Il mito dell’intelligenza ebraica, traduzione di C. Spinoglio, Torino, UTET, 2007.
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268 stesso vale per le pecore che cercano di difendersi compattamente contro l’aggressore: si disperdono a pericolo scongiurato. Lo stesso vale per gli ebrei. Il loro spirito di sacrificio è apparente. Esiste finché torna utile. Ma non appena il nemico è sconfitto, il pericolo è scongiurato e il bottino è salvo, l’apparente armonia degli ebrei cessa di esistere e tutto ritorna come prima. L’ebreo è solidale per necessità o per convenienza. In caso contrario il crasso egoismo rivendica i suoi diritti e il singolo popolo si trasforma istantaneamente in un branco di ratti che lottano all’ultimo sangue. Se fossero soli al mondo, gli ebrei soffocherebbero nell’immondizia e nel sudiciume, in una lotta odiosa. Cercherebbero di raggirarsi e di distruggersi a vicenda, finché la totale assenza di spirito di sacrificio, tipico della loro viltà, non li trasformerebbe in una pantomima. È profondamente sbagliato scorgere lo spirito di sacrificio ideale nell’esperienza del fronte comune ebraico, espresso al meglio nel saccheggio dei loro vicini. Anche qui il nudo egoismo individuale è l’unico movente dell’ebreo. Perciò lo “Stato” ebraico (l’organismo vitale volto alla conservazione e alla riproduzione di una razza) è privo di confini territoriali. Una versione territorialmente delimitata di uno Stato presuppone sempre un senso idealistico della razza, specialmente una giusta visione del “lavoro”41. In mancanza di questo spirito è impossibile costruire e preservare uno Stato territorialmente delimitato. Manca, infatti, l’unico fondamento su cui può basarsi una civiltà. Il popolo ebraico, fra tutte le doti intellettuali visibili, manca di una civiltà propria. La sua pseudo-civiltà non è altro che il bene corrotto degli altri popoli. Per valutare la posizione dell’ebraismo sul problema della civiltà umana bisogna ricordare che non c’è mai stata un’arte ebraica e, quindi, non esiste nemmeno oggi. Le due regine dell’arte (l’architettura e la musica) non devono nulla di originale all’ebraismo42. Il contributo ebraico all’arte è una deformazione o un plagio. L’ebreo manca delle doti creative e civilizzatrici delle razze dotate. Quanto l’ebreo assorba da un’altra civiltà anche solo ispirandosi, o meglio corrompendola, lo si evince dall’arte apparentemente meno idonea alla sua inventiva: la drammaturgia. Qui è solo un “saltimbanco”, un imitatore. Gli manca il tocco di genio. È solo un imitatore esteriore: tutti i suoi giochetti non nascondono l’aridità interiore della sua verve creativa. Solo che la stampa ebraica è così premurosa nell’osannare qualsiasi dilettante, anche il più mediocre (se ebreo), che il resto del mondo finisce per ritenerlo un vero artista, mentre non si tratta altro che di un miserabile commediante43. No, l’ebreo è incapace di creare una civiltà, perché non è mai stato idealista, condizione necessaria di ogni vero progresso umano. Il suo intelletto non è mai costruttivo, semmai distruttivo e, in casi rari, istigatore. Il suo archetipo è la “forza che Lo stereotipo antisemita della “parassitismo” fu già espresso da Wilhelm Marr in Judenspiegel (Specchio ebraico, 1862) e nell’anonimo Mauscheljude (Ebreo biascicante, 1879) [KA, n. 93]. 42 Riferimento alla tesi esposta nel libello Das Judentum in der Musik (L’ebraismo nella musica, 1850) di Richard Wagner. 43 Sullo stereotipo della stampa ebraica vedi capitolo 10-I.
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269 desidera eternamente il male e opera sempre il bene”44. Il progresso umano non si deve a lui, ma lotta contro di lui. Non avendo uno Stato dai confini territoriali ben definiti, né una propria civiltà45, molti pensarono che il popolo ebraico fosse nomade46. Uno sbaglio enorme e pernicioso. Il nomade ha uno spazio vitale ben definito; non è un contadino stanziale, ma vive dei proventi delle sue mandrie itineranti. La ragione apparente del nomadismo è la scarsa fertilità di un territorio che scoraggia l’insediamento stanziale. La ragione più profonda è l’asimmetria fra la tecnica dell’epoca e la povertà di uno spazio vitale. Esistono territori in cui anche l’ariano, solo grazie alla sua tecnica millenaria, riesce a creare insediamenti compatti dotati di un ampio retroterra e a trarne così il proprio sostentamento. In mancanza della tecnica l’ariano dovrebbe evitare quei territori oppure vivacchiare come nomade itinerante (ammesso che la sua educazione e l’abitudine millenarie alla sedentarietà glielo consentano). Per fare un esempio, quando fu conquistato il continente americano, numerosi ariani sopravvissero come cacciatori itineranti, ecc., spesso in gruppi contenenti donne e bambini. La loro esistenza era assai simile a quella dei nomadi. Non appena l’aumento di numero e la migliore tecnica consentirono di dissodare le terre selvagge e di fronteggiare i nativi, gli ariani crearono i primi insediamenti stanziali sul territorio47. Probabilmente anche l’ariano fu nomade in origine e divenne sedentario nel corso del tempo. Per questo non fu mai un ebreo! No, l’ebreo non è un nomade, perché il nomade ha una precisa visione del “lavoro”, che potrebbe servire da fondamento a un’evoluzione successiva, sempre che ne abbia le basi spirituali adeguate. L’ebreo è essenzialmente estraneo, se non odioso ai popoli ariani, proprio per l’assenza di idealismo, ancorché diluito. L’ebreo non fu mai nomade, ma fu sempre e solo parassita nel corpo degli altri popoli. L’ebreo non abbandona volontariamente il suo spazio vitale, ma è semplicemente scacciato via dai popoli ospitanti e abusati. La sua diffusione è tipica di ogni parassita: l’ebreo cerca sempre nuovo humus per la sua razza. Tutto ciò non ha a che fare col nomadismo, perché l’ebreo non pensa affatto di insediarsi in un territorio già occupato, ma resta dove si trova, è un popolo “sedentario” scacciabile solo a forza. La sua diffusione in nuovi paesi avviene nell’istante in cui si creano precise condizioni per la sua esistenza, senza che muti (come per i nomadi) la sua residenza attuale. L’ebreo è sempre il tipico parassita, lo scroccone che, come ogni bacillo pericoloso, tende a diffondersi non appena si
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Qui Hitler cita alla lettera le parole con cui Mefistofele si presenta a Faust nel Faust di Goethe (Parte I, scena 3). L’ebreo sarebbe dunque l’incarnazione dello spirito distruttivo e corrosivo, cioè il “male”. 45 Hitler ignora la tradizione statuale ebraica veterotestamentaria: il suo “ebreo” è “giudeo”, cioè nasce solo dopo il cristianesimo e la diaspora romana. 46 Molti autori antisemiti consideravano gli ebrei come un popolo nomade. Fra i più noti va segnalato Eugen Dühring [KA, n. 104]. 47 L’edizione americana del Mein Kampf del 1941 (Reynal & Hitchcock) sostiene che Hitler riprese queste espressioni dagli scritti di Karl May (peraltro un pacifista). Questo lo sostenne anche Klaus Mann poco prima: Karl May. Hitler’s literary mentor, “Kenyon Review”, 2, 1940, pp. 391-400 [KA, n. 105].
270 presenta un humus favorevole. Gli effetti della sua esistenza sono quelli tipici dei parassiti: dove si insedia, il popolo ospite48 tende prima o poi a morire. L’ebreo è sempre vissuto negli Stati altrui, dove crea un proprio “Stato” che, mascherato da “comunità religiosa”, veleggia finché le circostanze esteriori non ne rivelano la vera natura. Ma se crede di essere abbastanza forte da svelarla, l’ebreo appare per quello che è. La vita parassitaria dell’ebreo nel corpo delle altre nazioni e degli altri Stati ha spinto Schopenhauer a definirlo il “gran maestro della menzogna”49. L’ebreo è costretto a vivere nella menzogna, così come gli abitanti del Nord sono costretti a indossare abiti caldi. La sua vita in mezzo ai popoli può durare finché riesce a celare la realtà che si non tratta di un popolo, ma di una particolare “comunità religiosa”. Ecco la prima grande menzogna. Per condurre la sua esistenza parassitaria, l’ebreo deve negare la sua natura più profonda. Se il singolo ebreo è più intelligente, saprà mascherare ancor meglio la sua natura. Anzi il popolo ospitante può giungere a credere seriamente che l’ebreo sia un autentico francese o un inglese, un tedesco o un italiano, anche se di “confessione” particolare. Gli incarichi statali di primo piano, che sembrano animati dalla “frazione” storica della saggezza, sono gli obiettivi preferiti di questo infame imbroglio. Qui il pensiero indipendente è ritenuto un peccato di lesa maestà contro la sacra carriera. Nessuno può stupirsi del fatto che, per esempio, un ministero statale bavarese non sappia che l’ebreo è un popolo e non una “confessione”50. Un’occhiata al giornalismo ebraico basterebbe a mostrarlo anche al più sempliciotto. Ma “Das Jüdische Echo”51 è non ancora il suo bollettino ufficiale, quindi è “irrilevante” per l’acuta mente ministeriale. L’ebreo fu sempre un popolo dotato di caratteristiche razziali e giammai una religione. Il suo sostentamento lo costrinse a cercare un mezzo che distogliesse l’imbarazzante attenzione su di lui. Il mezzo più conveniente fu il “ricorso” alla comunità religiosa. Anche qui tutto è un plagio o, meglio, un furto. Per natura l’ebreo non può avere un’istituzione religiosa, perché manca di idealismo e, quindi, di fede nell’aldilà52. Non si può immaginare una religione ariana priva della fede nella vita
L’espressione Wirtsvolk (popolo ospite), non molto dissimile da Gastvolk (popolo ospitante), fu utilizzata anche da Theodor Herzl in Der Judenstaat (Lo Stato degli ebrei, 1896). Bibliografia: T. Herzl, Lo Stato ebraico, Genova Il Melangolo, 1992. 49 Anche Dietrich Eckart cita varie volte Schopenhauer nel suo opuscolo Der Bolschewismus von Moses bis Lenin (Il bolscevismo da Mosè a Lenin, 1924) [KA, n. 110]. 50 Allusione alla risoluzione avanzata dal Völkischer Block (Blocco nazionalpopolare) bavarese al Landtag del 3 giugno 1924 per richiedere la discriminazione completa degli ebrei bavaresi. La risoluzione fu bocciata dal ministro degli interni Karl Stützel a da quello del culto Franz Matt [KA, n. 114]. 51 Rivista sionista edita a Monaco dal 1914 al 1933. 52 Probabilmente la tesi di Hitler (storicamente discutibile vista la complessa escatologia ebraica) si ispirò ai saggi di Eckart Das Judentum in und ausser uns (L’ebraismo dentro e fuori di noi, 1919) e Das ist der Jude! (Questo è l’ebreo!, 1920) [KA, n. 118]. 48
271 dopo la morte. In effetti il Talmud non è un libro preparatorio all’aldilà, ma solo alla vita pratica e tollerabile nell’aldiquà53. La dottrina religiosa ebraica è un metodo per conservare la purezza del sangue dell’ebraismo54, così come un codice regolativo dei rapporti fra gli ebrei o, meglio, con il resto del mondo, cioè con i non ebrei. Anche qui non si tratta di un problema etico, ma di un mero problema economico. Sul valore morale dell’insegnamento ebraico ci sono e ci saranno sempre studi molto approfonditi (da parte non ebraica; i sulfurei55 ebrei sono naturalmente adatti allo scopo), che ci fanno trasparire una “religione” arianamente terribile. La migliore dimostrazione ce la offre il prodotto di questa educazione “religiosa”: l’ebreo. La sua vita è solo di questo mondo e il suo spirito è così lontano, per esempio, dal vero cristiano come lo fu duemila anni dal venerabile fondatore della nuova religione56. Certo, Egli non fece alcun mistero della sua idea di fronte al popolo ebraico, ricorse se necessario alla frusta, per scacciare dal tempio quei negatori del genere umano, che ritengono la religione solo un mezzo affaristico57. Per questo Cristo fu messo in croce, mentre il nostro partito cristiano si abbassa a mendicare i voti degli ebrei, per poi concordare imbrogli politici con i loro partiti ateisti, magari contro il carattere nazionalpopolare tedesco58. Alla prima e principale menzogna che l’ebreo sia solo una religione, se ne aggiungono per forza di cose altre59. Fra queste si segnala quella sull’attuale lingua dell’ebreo. La lingua non è mai un mezzo per esprimere il pensiero, ma per occultarlo. Parlando in francese, l’ebreo pensa in ebraico, e mentre tornisce versi tedeschi, non fa altro che dare libero corso alla natura del suo carattere nazionalpopolare. Finché l’ebreo non sarà diventato signore degli altri popoli, deve bene o male imparare le loro lingue. Ma, non appena saranno diventati suoi schiavi, toccherà loro imparare una lingua universale che ne faciliterà il suo dominio: l’esperanto!60 Quanto tutta l’esistenza del popolo ebraico poggi su una continua menzogna, lo dimostrano con incomparabile certezza i Protocolli dei savi di Sion, infinitamente odiati dagli ebrei stessi61. Essi si basano su una “falsificazione”, lamenta a gran voce Questo è l’unico passo in cui Hitler cita il Talmud, forse per evitare di sostenere la tesi dell’ebraismo come religione e non come “razza”. 54 Il proselitismo ebraico è storicamente accertato anche durante il Medioevo. Bibliografia: N. Golb, Jewish proselytism. A phenomenon in the religious history of early medieval Europe, Cincinnati (Ohio), The Tenth Annual Rabbi Louis Feinberg Memorial Lecture, University of Cincinnati, 1987. 55 Il termine “sulfurei” allude all’ebreo diabolico. Nell’Apocalisse di Giovanni (19,13) si parla dello zolfo traboccante dalla bocca dei quattro cavalieri. 56 Allusione a Gesù Cristo. 57 Allusione alla scacciata dei mercanti dal Tempio narrata nei Vangeli di Marco (11,15-19), di Matteo (21,1217) e di Luca (19, 45-48). 58 Allusione al Zentrum. 59 La tesi che gli ebrei fossero solo una comunità religiosa, era respinta da alcuni autori ebrei contemporanei, che ricorrevano al termine “razza” secondo varie accezioni. Fra questi avevamo Elias Auerbach, Martin Buber, Joseph Jacobs, Ignacy Maurycy Judt e Ignaz Zollschan. Bibliografia: V. Lipphardt, Biologie der Rude. Jüdische Wissenschaftler über “Rasse” und Vererbung, 1900-1935, Gottinga, Vandenhoeck & Ruprecht, 2008. 60 L’esperanto è una lingua pianificata sviluppata dal filologo ebreo-polacco Ludwik Lazar Zamenhof (1859-1917). 61 I Protocolli dei savi di Sion era uno degli scritti antisemiti più noti dell’epoca. Nel 1923 Alfred Rosenberg pubblicò un commento, mentre l’anno successivo Theodor Fritsch ripresentò una nuova edizione del 53
272 settimanalmente la “Frankfurter Zeitung” (quale prova migliore della loro autenticità?). Ciò che molti ebrei vorrebbero inconsciamente fare è qui chiaramente spiegato. È questo ciò che conta. È del tutto irrilevante da quale mente ebraica derivino tali rivelazioni. È essenziale che i protocolli mettano in luce con inquietante sicurezza la natura e l’attività del popolo ebraico e spieghino i suoi legami interni e gli scopi finali62. La miglior critica è la realtà stessa. Chi esamina lo sviluppo storico dell’ultimo secolo dal punto di vista di questo libro comprenderà subito il baccano della stampa ebraica. Se questo libro diverrà patrimonio comune di tutto il popolo, il pericolo ebraico potrà essere scongiurato per sempre. Per conoscere l’ebreo bisogna studiare il percorso intrapreso nella carne degli altri popoli nel corso dei secoli. Basta un solo esempio. Poiché il suo percorso è sempre stato lo stesso, come lo furono anche i popoli intaccati, è consigliabile scomporne la trattazione in precise sezioni, che io indicherò per comodità con le lettere dell’alfabeto. I primi ebrei sono giunti in mezzo ai germani nel corso dell’avanzata romana, e da mercanti come sempre. Nella temperie delle migrazioni dei popoli sembrarono essersi dispersi. Gli esordi della vita statuale germanica può essere considerata l’inizio di una nuova e permanente ebraizzazione dell’Europa centrale e settentrionale. Iniziò quindi un processo grossomodo simile ogniqualvolta l’ebreo giungeva a contatto con i popoli ariani. A) L’ebreo fa la sua comparsa con la formazione dei primi insediamenti stabili. Ci giunge da mercante e, inizialmente, non gli interessa nascondere il suo carattere nazionalpopolare. È ancora ebreo, perché la differenza razziale esteriore col popolo ospite è talmente grande, la sua conoscenza linguistica così scarsa, l’unità del popolo ospite così solida che l’ebreo non oserebbe arrischiarsi a non apparire un “mercante straniero”. La sua scioltezza e l’inesperienza del popolo ospitante non arrecano alcun vantaggio alla conservazione del suo carattere “ebraico”. Anzi ben si conciliano con lo straniero. B) Progressivamente l’ebreo inizia ad “attivarsi” in ambito economico, non come produttore, ma solo come intermediario. Con la sua millenaria esperienza commerciale, l’ebreo è di gran lunga più abile dell’ariano ancora impacciato e troppo onesto, e quindi, in breve tempo, minaccia di monopolizzare il commercio. In seguito l’ebreo inizia a prestar denaro e, come sempre, a un interesse usuraio. Anzi, è proprio l’ebreo a introdurre l’interesse sul capitale prestato. Il pericolo del prestito usuraio è inizialmente ignorato, anzi l’interesse è elogiato per i vantaggi momentanei.
testo. L’influenza pubblicistica dei Protocolli era tale che il giornale del Central-Verein deutscher Staatsbürger jüdischer Glaubens (Associazione dei cittadini tedeschi di religione ebraica) inviò nel dicembre 1924 un supplemento speciale al Reichstag contenente materiale chiarificatore [KA, n. 130]. 62 Nel 1921 lo scrittore ebreo sionista Ahad Ha’am (Asher Zvi Ginzberg) citò in giudizio il “Völkischer Beobachter” e lo scrittore antisemita Ernst zu Reventlow per diffamazione. Quest’ultimo, nell’aprile 1923, dovette ritrattare l’attribuzione dei Protocolli. Hitler non riteneva l’opera particolarmente importante dal punto di vista propagandistico, visto il problema dell’autenticità. [KA, n. 137].
273 C) L’ebreo è diventato stanziale, cioè affolla alcuni quartieri di città e di borghi e tende a formare uno Stato nello Stato. Intende il commercio sia come un’operazione finanziaria, sia come un privilegio, che interpreta senza scrupoli. D) L’attività finanziaria e il commercio sono monopolizzati dall’ebreo. Il suo interesse usuraio finisce per suscitare malumori, la sua abituale e crescente sfrontatezza63 provoca indignazione, la sua ricchezza invidia. Il vaso trabocca quando anche la terra diventa oggetto del suo interesse commerciale e la umilia a merce commerciabile. Poiché non coltiva mai la terra, ma la considera solo un bene da sfruttare, su cui il contadino può risiedere, ma a patto di sottostare ai ricatti miserabili del suo nuovo padrone, cresce progressivamente l’avversione popolare che si trasforma in odio dichiarato verso l’ebreo. Il suo strozzinaggio diventa così esagerato che si giunge ad atti di violenza contro di lui. La gente comincia a ritenerlo uno straniero, scopre ulteriori tratti ributtanti della sua persona, finché la frattura non diventa insanabile. Nei periodi di maggiore crisi la rabbia finisce per rivolgersi contro di lui, le masse derubate e rovinate si fanno giustizia da sé per difendersi da quel flagello divino64. Hanno imparato a conoscerlo nel corso dei secoli e provano la stessa disperazione che nutrono verso la peste. E) L’ebreo inizia a rivelare le sue doti reali. Con disgustosa piaggeria, si appropinqua ai governi, li corrompe col suo denaro e si assicura carta bianca per i nuovi saccheggi. La periodica esplosione di rabbia popolare non impedisce all’eterna sanguisuga di riemergere periodicamente negli stessi posti abbandonati, per riprendere la stessa solfa. Nessuna persecuzione riesce a distoglierlo dal suo proposito vessatorio, nessuna può scacciarlo, dopo un po’ eccolo di nuovo lì: l’ebreo è quello di sempre. Per salvare il salvabile i governi iniziano a sottrarre la terra dalla sua mano usuraia, rendendone giuridicamente impossibile l’acquisizione. F) All’aumentare del potere dei principi l’ebreo si avvicina sempre di più alla loro corte. Mendica “carta bianca” e “privilegi” che, dietro congruo indennizzo, ottiene facilmente dai Signori in perenne bancarotta. L’ebreo recupera il prestito nel giro di pochi anni con l’interesse e con l’interesse sull’interesse. Una vera sanguisuga, che si attacca al corpo del popolo malcapitato e che non lo molla più, finché i principi hanno bisogno di denaro e succhiano personalmente il sangue popolare. Questo gioco si ripete all’infinito, ma il ruolo dei “principi tedeschi” è pietoso come quello degli ebrei. Questi Signori furono il vero castigo divino per i popoli “amati”, e sono paragonabili solo ai nostri attuali ministri. Dobbiamo ai principi tedeschi se la nazione tedesca non riuscì a liberarsi definitivamente dal flagello ebraico65. Purtroppo questa situazione non è cambiata 63
Sul tema della sfrontatezza ebraica vedi capitolo 10-I. Allusione ai pogrom antiebraici nel Medioevo. Il primo pogrom attestato storicamente risale ad Alessandria d’Egitto nel 38 d.C. In epoca medievale sono attestati alcuni pogrom a Gerusalemme durante le Crociate. 65 Malgrado le critiche contro i privilegi nobiliari, Hitler fu tutt’altro che favorevole alla Fürstenteignung (l’esproprio principesco) discusso intorno alla metà degli anni Venti. La sinistra nazista era favorevole, ma Hitler, durante la conferenza di Bamberga del 14 febbraio 1926, affermò che avrebbe sostenuto l’esproprio dei soli principi non tedeschi [KA, n. 147]. 64
274 neanche in seguito. Ai principi toccò solo la ricompensa mille volte riservata dall’ebreo per i peccati commessi contro il loro popolo. Hanno fatto un patto col diavolo. G) I principi irretiti vanno in rovina. Lentamente, ma inevitabilmente, s’indebolisce il loro legame con il popolo nella misura in cui cessano di servire i loro interessi e diventano, invece, beneficiari dei loro “sudditi”. L’ebreo lo sa molto bene e cerca di velocizzare la loro fine: promuove la loro perenne bancarotta, li allontana progressivamente dai loro veri doveri, li corteggia con la più squallida adulazione, li avvia al vizio e si rende sempre indispensabile. La sua disinvoltura o, meglio, l’assenza di scrupoli in tutti i problemi finanziari gli permette di estorcere ai sudditi depredati sempre maggiori risorse che, in lassi temporali sempre più brevi, si dissolvono completamente. Ogni corte ha i suoi “ebrei di corte”66. (Così si chiamano i mostri che tormentano sino alla disperazione l’amato popolo e che fanno divertire i principi). Non c’è da meravigliarsi se quelle “delizie” del genere umano si abbelliscano esteriormente, assalgano la “nobiltà” ereditaria e contribuiscano non solo a renderla ridicola, ma anche ad avvelenarla. L’ebreo approfitta della sua posizione. Alla fine non deve far altro che battezzarsi per ottenere i diritti dei nativi. Spesso disbriga la “commissione” con la gioia della Chiesa per il “figliol” riguadagnato e di Israele per la truffa ben riuscita67. H) Gli ebrei iniziano a trasformarsi. In precedenza non era importante apparire diversi e, d’altro canto, le spiccate peculiarità razziali gli impedivano altrimenti. Ancora all’epoca di Federico il Grande, l’ebreo appariva nient’altro che un popolo “straniero”. Lo stesso Goethe era inorridito al pensiero che, in futuro, il matrimonio fra cristiani ed ebrei non sarebbe più stato proibito dalla legge68. Ma Goethe, quant’è vero Iddio, non era un reazionario o un ilota69: le sue parole non erano altro che la voce del sangue e della ragione. Quindi, malgrado la condotta disonorevole delle corti, il popolo scorge istintivamente nell’ebreo un corpo estraneo nella propria carne e si regola di conseguenza. Le cose dovevano cambiare. Nel corso dei millenni l’ebreo ha imparato la lingua del popolo ospite così bene70 che, in futuro, tenderà a sottolineare meno il suo ebraismo a favore del suo “germanesimo”. Per quanto appaia così ridicolo o folle, l’ebreo si atteggia sfrontatamente a “germano”, a “tedesco” in questo caso. Ricorre a una delle menzogne più infami che ci siano. L’ebreo non ha veramente nulla del germanesimo se non la capacità di biascicare la sua lingua (in modo veramente orribile). Non si mescola mai con i tedeschi: tutto il suo germanesimo è solo 66 Gli Hofjuden (ebrei di corte) furono un fenomeno dell’epoca moderna. Erano quegli ebrei “protetti” che svolgevano alcuni servigi per conto dei loro signori. La vita di Joseph Süss Oppenheimer fu alla base del film nazista Süss der Jude (L’ebreo Süss) di Veit Harlan (1940). Bibliografia: R. Ries, J.F. Battenberg (ed.), From Court Jews to Rothschilds. Art, patronage and power, 1600-1800, Monaco-New York, Prestel, 1996. 67 Dal 1871 gli ebrei ottennero la possibilità di abbandonare la loro religione, senza necessariamente convertirsi al cristianesimo. 68 Nel giugno 1823 il Granduca di Sassonia-Weimar-Eisenach legalizzò il matrimonio tra cristiani ed ebrei, a condizione che i figli fossero educati cristianamente. 69 Gli iloti erano gli abitanti della Sparta antica privi di diritti civili. 70 Allusione all’uso del tedesco come seconda lingua degli ebrei. Fino al XVIII secolo, gli ebrei tedeschi avevano parlato lo yiddish occidentale.
275 linguistico. Ma la razza non si cela nella lingua, bensì nel sangue. E nessuno meglio dell’ebreo dà meno importanza alla conservazione della sua lingua rispetto alla purezza del suo sangue. È facile cambiare lingua, cioè servirsene di un’altra all’occorrenza. Pur esprimendo i vecchi pensieri nella nuova lingua, la sua natura non è affatto cambiata. Ciò è chiaro massimamente nell’ebreo, capace di parlare migliaia di lingue, pur restando sempre ebreo. Le sue peculiarità sono le stesse, che parlasse duemila anni or sono da mercante di cereali a Ostia o biascichi71 oggi il tedesco come trafficante di grano. L’ebreo è sempre lo stesso. Il fatto che questa ovvietà sfugga a un sottosegretario dei nostri governi o a un funzionario superiore di polizia, è altrettanto ovvio. Non c’è nessuno di così poco intuitivo e insipido come il “servitore” della nostra esemplare “autorità statale”. È evidente il motivo per cui l’ebreo decide di diventare “tedesco” solo ora: avverte che il potere dei principi inizia a traballare e cerca una zattera di salvataggio. Inoltre il suo dominio finanziario dell’economia si è spinto così oltre che non riesce più a sostenere il suo enorme edificio senza il possesso dei diritti “civili”. Del resto la sua influenza non può aumentare ulteriormente. L’ebreo vuole la botte piena e la moglie ubriaca: quanto più si eleva, tanto più rivela il vecchio scopo profetico. Con febbrile avidità, egli vede avvicinarsi nella sua mente lucidissima il sogno di dominio mondiale. I suoi sforzi sono diretti al pieno possesso dei diritti “civili”72. Ecco il perché dell’emancipazione dal ghetto. L’ebreo di corte si trasforma lentamente nell’ebreo del popolo73. Ovviamente, l’ebreo bazzica sempre i potenti, cioè cerca sempre di insinuarsi nei circoli più esclusivi. Solo che, allo stesso tempo, una parte della sua razza arruffiana l’“amato popolo”. Se pensiamo come abbia maltrattato la massa nel corso dei secoli, come l’abbia schiacciata e dissanguata senza pietà; se pensiamo anche come il popolo abbia iniziato lentamente a odiarlo e, alla fine, ravvisi nella sua esistenza nient’altro che una punizione divina per gli altri popoli; ebbene, capiamo quanto sia difficile un cambiamento del genere per l’ebreo. Anzi, è davvero faticoso apparire come “filantropo” agli occhi delle vittime scuoiate. L’ebreo cerca per prima cosa di rimediare agli occhi del popolo le precedenti malefatte. Si trasforma in “benefattore” dell’umanità. Poiché la sua nuova bontà ha una base materiale, l’ebreo non può attenersi all’antico detto biblico che la mano sinistra non sappia ciò che fa la destra74, ma deve rassegnarsi a far conoscere all’opinione pubblica quanto avverta la sofferenza della massa e quanto voglia sacrificarsi per curarla. Con la sua innata “modestia” sfodera i suoi meriti in giro per il mondo, finché la gente non finisce per crederci. Nel giro di poco tempo l’ebreo rigira Mauscheln, da Mausche (forma abbreviata di Mosè), significa letteralmente “mosaizzare”. Dal XVII era l’espressione peggiorativa per gli ebrei commercianti (cioè “imbroglioni”). Col tempo l’espressione fu utilizzata come sinonimo di bugiardo e di ebreo sia da autori antisemiti (come Marr), sia da autori sionisti (come lo stesso Herzl). Bibliografia: J.H. Schoeps, J. Schlör (ed.), Antisemitismus. Vorurteilen und Mythen, Vienna, Picus, 1995. 72 L’emancipazione ebraica in area tedesca fu avviata con l’editto di tolleranza di Giuseppe II d’Austria (1782). Nell’Impero tedesco la piena equiparazione giuridica avvenne nel 1871. 73 Volksjude. 74 Allusione al Vangelo di Matteo (6,1-4).
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276 la frittata come se finora abbia subito solo ingiustizie, e non il contrario. Gli stupidi gli credono e si dispiacciono per i poveri “disgraziati”. Inoltre l’ebreo non si impoverisce mai personalmente con il suo spirito d’abnegazione. Riesce a ripartirlo: a volte la sua buona azione è paragonabile al concime sparso amorevolmente sul campo, in previsione di un raccolto futuro. In ogni caso, in breve tempo l’ebreo è diventato un “benefattore” e un “filantropo”. Che curiosa trasformazione! Ciò che per alcuni è più o meno ovvio, suscita stupore a ammirazione in molti altri. Succede anzi che alla loro azione si riconosca maggior valore che a quella della restante umanità, che la riterrebbe ovvia. Ma non solo: l’ebreo diventa “liberale” e inizia a sostenere con entusiasmo il “progresso” dell’umanità. Diventa progressivamente l’alfiere della nuova epoca. Ma l’ebreo distrugge per principio i fondamenti di un’autentica economia popolare. Per via delle “azioni”, egli si insinua nell’apparato circolatorio della produzione nazionale, la rende una merce acquistabile, o meglio commerciabile, e priva così le aziende dei fondamenti della proprietà personale. Sorge così l’intima estraneità fra il datore di lavoro e il lavoratore che porta alla divisione classista. Infine l’influsso ebraico si accresce in modo incredibilmente veloce grazie alla borsa. L’ebreo diventa il possessore o il controllore della forza lavoro nazionale. Per rafforzare la posizione politica, l’ebreo cerca di lacerare le barriere razziali e sociali che, passo dopo passo, tendono ad assottigliarsi. Combatte con grandissima tenacia per la tolleranza religiosa – e trova nella decrepita massoneria uno strumento eccellente per sostenere e per “perorare” i suoi obiettivi75. Gli ambienti governativi e l’alta borghesia finiscono in mano sua per via della massoneria, senza che se ne accorgano. Solo il popolo o meglio quello strato che, ridestandosi, conquista i suoi diritti e la libertà, non è afferrabile in profondità e in ampiezza. Ma è proprio lo strato necessario, perché l’ebreo avverte che la sua ascesa è possibile solo se individua un suo “precursore”. E pensa di riconoscerlo nella borghesia, nei suoi strati più popolari. Il guantaio e il tessitore di lino non si possono accalappiare nelle sottile rete massonica: urge uno strumento più grossolano, ma non meno incisivo. Ecco spuntare una seconda arma: la stampa. L’ebreo ne prende possesso con tenacia, ma anche con infinita maestria. Con la stampa inizia lentamente a circuire e a orientare tutta la vita pubblica, produce e dirige quel potere meglio noto come “opinione pubblica”. Inoltre l’ebreo si spaccia sempre come avido di conoscenza, elogia qualsiasi progresso, specie se porta alla rovina altrui. In ogni conoscenza e in ogni progresso ravvisa sempre la possibilità di promuovere il suo carattere nazionalpopolare. In caso contrario l’ebreo diventa l’acerrimo nemico di ogni lume, odia ogni vera civiltà. Utilizza quindi tutto il sapere altrui al solo servizio della sua razza. Ma il suo carattere nazionalpopolare è preservato come non mai. Mentre sembra traboccare di “illuminismo”, di “progresso”, di “libertà”, di “umanità” ecc., l’ebreo 75
La fondazione ufficiale della massoneria moderna avvenne in Inghilterra il 24 giugno 1717. Già a fine Ottocento molti autori nazionalpopolari sostennero la teoria del complotto universale ebraico-massonico. Bibliografia: A. Santini, S. Guidi, I burattinai del potere. La teoria del complotto giudaico-massonico dall’Abate Barruel ai giorni nostri. Documenti e immagini dal 1700 ad oggi, Roma, Laterza, 2011.
277 blinda completamente la sua razza. Certo, a volte le sue donne si aggrappano ai vestiti di cristiani influenti, ma il suo nucleo virile resta fondamentalmente puro. L’ebreo avvelena il sangue altrui, ma tutela il proprio. L’ebreo non sposa una cristiana, semmai un cristiano sposa un’ebrea76. Ma i bastardi pendono sempre dalla parte ebraica. Si corrompe una parte dell’alta nobiltà. L’ebreo lo sa molto bene e “disarma” metodicamente i ceti intellettuali dirigenti dei suoi antagonisti razziali. Per mascherare le sue manovre e la soppressione delle sue vittime, l’ebreo parla sempre più di uguaglianza di tutti gli uomini, senza riguardo di colore o di razza. Gli stupidi iniziano a credergli. Poiché la sua natura conserva un odore esotico77 per affascinare gli ampi strati popolari, l’ebreo fa in modo che la stampa gli dia un’immagine assai poco realistica che serva al suo scopo innaturale. Nei giornali umoristici si tenta di far passare gli ebrei per un innocuo popolino che ha le proprie caratteristiche (come gli altri), la cui eccentricità testimonierebbe la sua anima comica, ma pur sempre onestissima e benevola. Si tenta di farlo apparire più “irrilevante” che pericoloso. Il suo obiettivo momentaneo è la vittoria della “democrazia”, ovvero il dominio del parlamentarismo. La democrazia si adatta assai bene ai suoi bisogni: annulla la personalità e la sostituisce con la maggioranza stupida, inetta e vile. L’esito finale di questo sviluppo sarà l’inevitabile caduta della monarchia. L’enorme crescita economica trasforma la stratificazione sociale del popolo. Con la lenta scomparsa del piccolo commerciante e la difficoltà da parte del lavoratore di permettersi un’esistenza autonoma, il popolo tende a proletarizzarsi a vista d’occhio. Sorge il “lavoratore della fabbrica” industriale, il cui segno distintivo è l’impossibilità di crearsi una sicurezza economica per il futuro. Diventa “nullatenente” nel vero senso del termine: la sua vecchiaia è fonte di ansia, non di un’esistenza dignitosa. Una situazione del genere era presente giù in passato, ma, in ogni caso, fu risolta drasticamente. Lentamente, il funzionario e l’impiegato (specialmente se pubblico) divennero un ceto autonomo accanto ai contadini e agli artigiani. Erano “nullatenenti” nel vero senso del termine. Lo Stato li aiutò a superare questa condizione insana, quando decise di assistere il dipendente in vecchiaia per mezzo della pensione. Lentamente, anche le aziende private seguirono l’esempio pubblico. Oggi quasi ogni impiegato intellettuale avrà la sua pensione futura, sempre che l’azienda abbia raggiunto o superato una certa dimensione. L’assicurazione sulla vecchiaia del funzionario statale riuscì a inculcare quella disinteressata abnegazione che, prima della guerra, era la dote più distinta dei funzionari tedeschi. Un intero ceto nullatenente fu quindi sottratto intelligentemente alla miseria sociale e inserito nel popolo. Ma questo problema si presentò nuovamente, questa volta su scala più ampia. Milioni di persone si trasferirono dalle campagne nelle grandi città, per guadagnarsi il
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Fra il 1901 e il 1925 furono contratti trentamila unioni fra cristiani ed ebrei in Germania, di cui quasi diciottomila con marito ebreo e moglie cristiana [KA, n. 178]. 77 Hitler usa non a caso l’espressione dell’odore (come peraltro nel capitolo sulla guerra mondiale). L’antigiudaismo cristiano interpretava il “fetore ebraico” (foetor judaicus) come segno di incredulità e di provenienza infernale.
278 pane come “operai” delle nuove industrie78. Le loro condizioni lavorative ed esistenziali erano assai misere. La trasmissione più o meno meccanica dei vecchi metodi di lavoro artigianali o contadini non era più adatta alla fabbrica moderna. L’attività del contadino o dell’artigiano non erano più paragonabili agli sforzi dell’operaio della fabbrica. Nella vecchia officina artigianale, il tempo aveva un ruolo relativo, ma nei nuovi metodi lavorativi diventava molto importante. L’adozione formale di vecchi orari lavorativi nelle grandi imprese industriali fu fatale: la prestazione lavorativa di un tempo era piccola in mancanza dei nuovi metodi intensivi. Se in passato erano tollerabili giornate lavorative di 14 o 15 ore, oggi non lo era più: ogni minuto andava sfruttato e utilizzato sino all’ultimo. L’assurda trasmissione dei vecchi orari di lavoro nella nuova attività industriale fu infausta per due ragioni: rovinò la salute e demolì la convinzione in una legittimazione superiore. Per non parlare della miserabile retribuzione e della posizione decisamente superiore del datore di lavoro. In campagna non poteva esistere una questione sociale, poiché il signore e il servo facevano lo stesso lavoro e, soprattutto, mangiavano dallo stesso piatto79. Ma tutto cambiò di colpo. La separazione fra datore di lavoro e lavoratore fu totale in ogni ambito della vita. Quanto sia profonda l’ebraizzazione interiore del nostro popolo, si può evincere dalla scarsa considerazione, se non disprezzo, che si tributa al lavoro manuale. Ciò non è tedesco. La “romanizzazione”80 della nostra vita, cioè la sua “ebraizzazione”81, trasformò la grande considerazione del lavoro artigianale nel disprezzo per ogni lavoro manuale. Si formò così un nuovo strato sociale dotato di minore considerazione. Un giorno sorse il problema se la nazione avesse la forza di incorporarlo nella società generale o se la differenza sociale provocasse una frattura classista. Una cosa era sicura: il nuovo strato sociale non annoverava tra le sue file i peggiori elementi, semmai quelli più dinamici. Qui le sublimi raffinatezze della “civiltà” non avevano mai esercitato i loro effetti corruttivi e distruttivi. Il nuovo strato non era stato ancora intaccato dal veleno della debolezza pacifista, ma era ancora robusto e, se necessario, brutale. Mentre la borghesia ignorava un problema enormemente importante, ma lasciava le cose com’erano, l’ebreo colse l’immensa possibilità per il futuro: portando i metodi capitalistici dello sfruttamento umano sino alle estreme conseguenze, accalappiò le vittime del suo stesso spirito e del suo regno, divenendo, in breve tempo, la guida della lotta contro se stesso. Il “contro se stesso” va inteso in senso figurato, perché il grande maestro della menzogna appare sempre il “puro” e scarica sempre la colpa sugli altri. L’ebreo ha la sfacciataggine di guidare le masse, ignare di trovarsi di fronte all’imbroglio più infame di tutti i tempi. Allusione all’esodo rurale della seconda metà del XVIII secolo e alle sue conseguenze socioeconomiche. La direttiva fu prevalentemente dalle regioni orientali in direzione di città come Berlino, Amburgo, Monaco e la Ruhr. Vedi capitolo 10-I. 79 Sulla “questione sociale” vedi capitolo 2-I. 80 Il termine Welsch indica il forestiero di area linguistica romanza. 81 Hitler usa “ebraizzazione” come cifra dello spirito liberale (materialistico) introdotto dagli ebrei nella società e che ha portato alla distruzione del mondo ideale e idealistico degli ariani. 78
279 Ma così era. Non appena si forma il nuovo strato sociale, l’ebreo scorge davanti a sé in modo chiaro e preciso il precursore del suo avanzamento. Inizialmente egli utilizzò la borghesia come ariete contro il mondo feudale; ora ricorre al lavoratore contro quello borghese. Ma, come in passato seppe carpire i diritti civili all’ombra della borghesia, così oggi spera di trovare nella lotta operaia la via del potere. Ora il lavoratore ha il dovere di lottare per il futuro del popolo ebraico. È inconsapevolmente al soldo del potere che crede di combattere. Lasciandolo scagliare apparentemente contro il capitale, l’ebreo può strumentalizzarlo facilmente a suo favore. Facendolo strillare continuamente contro il capitale internazionale, pensa in realtà all’economia nazionale. Essa va demolita, affinché si possa festeggiare sul suo ossario il trionfo della borsa internazionale.
Figura 4 Manifesto della mostra L’ebreo errante (Vienna, 1938) [fonte: doew.at]
L’ebreo mette quindi le mani sui lavoratori, simula compassione per il loro destino o indignazione per la loro miseria e povertà, carpendone così la fiducia. Poi si sforza di studiare tutte le singole avversità reali (o immaginarie) della loro vita – e di suscitare la speranza in un cambiamento esistenziale. Accresce astutamente l’esigenza di giustizia sociale, latente in ogni uomo ariano, sino a trasformarla nell’odio contro i più fortunati. In seguito egli fornisce una precisa impronta ideologica alla lotta per l’eliminazione delle ingiustizie sociali: crea il marxismo.
280 Spacciando una serie di pretese socialmente giuste come legate indissolubilmente fra loro, l’ebreo promuove sia la loro diffusione, sia, viceversa, l’avversione dell’umanità perbene a esaudire richieste che, in tale forma, appaiono ingiuste e inaccettabili82. Perché, sotto la veste del pensiero sociale, si nascondono intenzioni ben più diaboliche oppure sono esposte con sfacciata nitidezza a tutta l’opinione pubblica. Il marxismo rappresenta un tale miscuglio insuperabile di ragione e di follia umane, in cui solo la follia ha modo di realizzarsi, giammai la ragione. Rifiutando categoricamente la personalità e, quindi, la nazione e il suo contenuto razziale, il marxismo distrugge le basi elementari di tutta la civiltà umana, che dipende da quei fattori. Di qui il nucleo essenziale della “visione del mondo” marxista, sempre che questo aborto di una mente criminale si possa definire tale83. Frantumando la personalità e la razza si elimina l’unico ostacolo al dominio dell’essere inferiore: l’ebreo. Il significato del marxismo consiste proprio nell’assurdità politica ed economica: impedisce a ogni persona veramente intelligente di mettersi al servizio della sua nazione, mentre gli intellettualmente inferiori ed economicamente più impreparati si precipitano a bandiere spiegate nelle sue file. All’ebreo si “sacrifica” l’intellighenzia, di cui il marxismo ha bisogno per esistere. Sorge un movimento di lavoratori manuali a guida esclusivamente ebraica, volto apparentemente a migliorare le condizioni del lavoratore, ma in verità intenzionato a schiavizzare e, quindi, a distruggere tutti gli altri popoli. Ciò che la massoneria produce nei circoli dell’intellighenzia con la paralisi pacifista dell’istinto d’autoconservazione nazionale, si trasmette alla grande massa popolare e, soprattutto, alla borghesia per mezzo della grande stampa sempre più in mano ebraica. La terza e più temibile arma di distruzione di massa è l’organizzazione della forza bruta. Il marxismo, quale colonna d’attacco e d’assalto, deve terminare il lavoro di logoramento delle due prime armi preparatorie. Inizia così una cooperazione magistrale: non bisogna stupirsi del fallimento di quelle istituzioni “portatrici” della più o meno leggendaria autorità statale. Tra i nostri funzionari di rango superiore, l’ebreo ha sempre trovato (salvo alcune eccezioni) il promotore più compiacente del suo lavoro distruttivo. Strisciante servilismo verso i “superiori” e arrogante altezzosità verso i “sottoposti” sono tipici della burocrazia tanto quanto un’ottusità spesso scandalosa, superata solo da un’incredibile presunzione. Queste sono le “doti” che l’ebreo utilizza e che ama della nostra burocrazia. Lo svolgimento pratico è, grosso modo, questo. In base agli scopi finali della lotta ebraica, che non si esauriscono solo nella conquista economica del mondo, ma esigono anche il suo soggiogamento politico, l’ebreo suddivide l’organizzazione marxista in due parti che, apparentemente separate, formano un tutt’uno indivisibile: movimento politico e movimento sindacale. Il movimento sindacale ha una funzione propagandistica. Fornisce l’aiuto e la difesa e, quindi, la possibilità di conseguire migliori condizioni di vita per il lavoratore, 82
Hitler allude alle richieste socialdemocratiche e sindacali di giornata lavorativa di otto ore, di diritto di sciopero, di libertà di coalizione o di democrazia economica, poi ridotte in ed eliminate dopo l’avvento del nazismo. Vedi capitolo 12-II. 83 Sul concetto di “visione del mondo” vedi capitolo 2-I.
281 grazie alla cupidigia o alla miopia di molti imprenditori. Se il lavoratore non intende abbandonare al cieco arbitrio di uomini irresponsabili e insensibili la salvaguardia dei suoi diritti fondamentali in un’epoca in cui la comunità nazionalpopolare organizzata (lo Stato) non si interessa affatto di lui, deve farlo da sé. L’ebreo si occupa dei diritti degli oppressi nella misura in cui la “borghesia nazionale”, accecata dagli interessi speculativi, ostacola duramente la lotta vitale del lavoratore e resiste a ogni tentativo di ridurre un orario lavorativo intollerabile, di porre fine al lavoro infantile, di assicurare e di difendere la donna, di migliorare le condizioni sanitarie nelle officine e negli alloggiamenti, se non giunge addirittura a sabotarli di prima persona84. L’ebreo assume così la guida del movimento sindacale. Ciò è più facile quando non si tratta di eliminare realmente le sciagure sociali nel senso vero del termine, ma di formare una devotissima truppa di lotta per distruggere l’indipendenza economica nazionale. Mentre, infatti, la gestione di una sana politica sociale oscilla tra la conservazione della salute popolare e la salvaguardia di un’economia nazionale indipendente, l’ebreo non solo intende eliminarle con la lotta, ma le ritiene anche il suo obiettivo prioritario. Non desidera conservare un’economia nazionale indipendente, ma intende annientarla. Perciò non si fa scrupoli a proporre rivendicazioni sindacali praticamente irrealizzabili oppure capaci di rovinare un’economia nazionale. Inoltre l’ebreo non vuole fronteggiare un stirpe sana e massiccia, ma un gregge fragile e soggiogabile. Le rivendicazioni sindacali assurde provocano unicamente l’eccitazione popolare. A questo è interessato, non certo al reale e sincero miglioramento delle sue condizioni sociali. La leadership ebraica in ambito sindacale è così indiscussa che un enorme lavoro informativo non aiuta le grandi masse, non le fa mai ricredere sul loro miserabile squallore, altrimenti è lo Stato che interviene a sostegno dell’ebreo e del suo lavoro. Finché la visione imprenditoriale sarà così miope e lo Stato indifferente, la massa seguirà sempre il primo arrivato che gli farà le promesse economiche più spudorate. Ma l’ebreo è maestro in queste cose: la sua attività è priva di remore morali! Gli riesce di sconfiggere rapidamente ogni concorrente. Conformemente alla sua intima e rapace brutalità, l’ebreo ricorre all’uso della forza bruta per mezzo del movimento sindacale. Chi si oppone alla tentazione ebraica sarà spazzato via col terrore. I suoi successi sono immensi. L’ebreo distrugge le basi dell’economia nazionale per mezzo del sindacato, che potrebbe essere un toccasana della nazione85. Parallelamente avanza l’organizzazione politica. Il partito coopera con il movimento sindacale, finché non prepara le masse, non le sprona con la violenza e con la coercizione a entrare nell’organizzazione politica. Inoltre il movimento sindacale è una fonte di approvvigionamento finanziario continuo, con cui alimentare l’apparato politico. È l’organo di controllo dell’attività politica del singolo e, in tutte le grandi dimostrazioni politiche, fiancheggia il partito. Infine, il sindacato non sostiene più gli interessi economici, ma mette a disposizione
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Sul rimprovero mosso alla borghesia di ignorare le richieste dei lavoratori vedi capitoli 2-I e 12-II. Sulla questione sindacale vedi capitolo 12-II.
282 della politica il suo mezzo supremo di lotta: la sospensione del lavoro, lo sciopero generale e di massa. Creando una stampa dal contenuto adatto all’orizzonte intellettuale dell’uomo medio, l’organizzazione politica e sindacale crea un’istituzione con cui istigare gli strati inferiori alle azioni più temerarie. Il suo compito non è quello di elevare l’uomo dal pantano di una visione grossolana delle cose a un livello di consapevolezza superiore, ma di assecondare i suoi istinti più bassi. Un incarico speculativo e proficuo per la massa mentalmente pigra e, a volte, presuntuosa86. È soprattutto la stampa a lacerare in una lotta diffamatoria quasi fanatica ogni puntello dell’indipendenza nazionale, della vetta culturale e dell’autonomia economica. La stampa abbatte soprattutto tutti coloro che non si vogliono piegare all’arroganza dominatrice ebraica, o la cui geniale abilità è ritenuta pericolosa. Per essere odiati dall’ebreo non è necessario contrastarlo, basta solo il sospetto che un’intelligenza superiore87 sostenga la forza e la grandezza di un carattere nazionalpopolare antiebraico. Il suo istinto infallibile fiuta ovunque l’anima genuina e l’inimicizia è rivolta a chiunque sia spiritualmente diverso. Non essendo l’offeso, ma l’aggressore, l’ebreo considera suo nemico non solo chi offende, ma anche chi gli resiste. Il mezzo con cui cerca di piegare le anime supponenti, ma rette, non è un franco confronto, semmai la bugia e la calunnia. L’ebreo non indietreggia di fronte a niente, è così meschino che non bisogna meravigliarsi se la personificazione popolare del diavolo abbia la forma mortale dell’ebreo88. L’ignoranza della grande massa sulla vera natura dell’ebreo, l’insensibile ottusità dei ceti superiori rendono il nostro popolo facilmente vittima della campagna diffamatoria ebraica. Mentre i ceti superiori evitano per innata viltà89 chiunque sia calunniato dall’ebreo, la grande massa tende a bersi tutto per stupidità o ingenuità. L’autorità statale resta in silenzio oppure, come succede spesso, perseguita la vittima per porre fine alle scemenze della stampa ebraica. Per quell’asino burocratico si tratta di salvaguardare’autorità statale e di garantire l’ordine e la quiete90. Lentamente il timore per l’arma marxistica dell’ebraismo diventa un incubo nella mente e nell’anima dell’uomo perbene. Inizia a tremare di fronte a quel temibile nemico, diventandone così la sua vittima definitiva. Il dominio sullo Stato è così sicuro che adesso non è più solo un ebreo, ma confessa apertamente i suoi progetti politici e nazionalpopolari. Una parte della razza ebraica ammette pubblicamente di essere straniera, cessando di mentire. Mentre il sionismo tenta di far credere al resto del mondo che l’autodeterminazione nazionalpopolare ebraica sarebbe appagata dalla creazione di uno Stato palestinese, gli 86
Sulla visione hitleriana di massa vedi capitoli 2-I, 6-I e 4-II. Sul concetto di genio vedi capitolo 4-II. 88 Allusione al tradizionale antigiudaismo cristiano, presente specialmente nel Vangelo e nell’Apocalisse di Giovanni. 89 Sulla critica alla borghesia tedesca di essere vile e “attaccata” ai beni materiali vedi capitolo 9-II. 90 Sulla coppia concettuale vedi capitolo 2-II. 87
283 ebrei non fanno altro che raggirare scaltramente lo stupido goy9192. Essi non pensano affatto di costruire in Palestina uno Stato ebraico in cui risiedere, ma intendono farne una centrale operativa della loro truffa mondiale internazionalista, munita di diritti sovrani e sottratta all’intervento di altri Stati93. Un rifugio per farabutti emigrati e una scuola superiore dei furfanti94. È sintomatico non solo di crescente fiducia, ma anche di profonda sicurezza se, in un’epoca in cui una parte simula ancora in modo ipocrita di essere tedesca, francese o inglese, l’altra si mostra sfacciatamente e apertamente di razza ebraica. Quanto sia vicina la loro vittoria, si comprende dal modo terribile con cui si rapportano ai membri di altri popoli.
Figura 5 Manifesto del settimanale “Der Stürmer” (L’assalitore, 1935), dedicato all’onta razziale [fonte: pinterest.com]
Indicazione ebraica per “gentile”, non ebreo. Sulla percezione hitleriana del sionismo vedi capitolo 2-I. 93 Già nel suo discorso Warum sind wir Antisemiten? (Perché siamo antisemiti?, 13 agosto 1920) Hitler ha indicato lo “Stato sionista” di Palestina come l’“scuola superiore finale e completa di quei farabutti” (gli ebrei). In termini analoghi si sarebbe espresso Alfred Rosenberg nel pamphlet Der staatsfeindliche Zionismus (Il sionismo antistatale, 1922) [KA, n. 226]. 94 Gli ebrei del primo dopoguerra avevano diverse posizioni sulla creazione di uno Stato ebraico in Palestina. Il sionismo politico restava minoritario, anche se molti ebrei lo sostennero per motivi filantropici e politici. Bibliografia: M. Brenner, Breve storia del sionismo, traduzione di M. Tosti-Croce, Roma, Laterza, 2003. 91 92
284 Il giovane ebreo dai capelli neri95 spia per ore, col sorriso satanico stampato in viso, l’inconsapevole ragazza, che disonora col suo sangue e deruba quindi al suo popolo. Egli cerca con tutti i mezzi di rovinare le basi razziali del popolo da soggiogare. Dopo aver puntualmente rovinato le donne e le ragazze, l’ebreo non indietreggia di fronte alla possibilità di distruggere su scala più ampia le barriere razziali degli altri popoli. Erano e sono gli ebrei a portare i negri sul Reno, sempre con lo stesso retro-pensiero e scopo evidente di distruggere l’odiata razza bianca con l’inevitabile imbastardimento della specie, di abbatterne le vette culturali e politiche e diventarne i signori. Un popolo razzialmente puro, consapevole del suo sangue, non potrà mai essere soggiogato dall’ebreo, che sarà sempre e soltanto il signore dei bastardi. L’ebreo cerca metodicamente di abbassare il livello razziale con un continuo avvelenamento del singolo. Ora inizia a sostituire politicamente il pensiero democratico con la dittatura del proletariato96. Nella massa organizzata del marxismo l’ebreo ha trovato l’arma che elimina la democrazia e gli consente di soggiogare e “governare” i popoli con la dittatura della forza bruta. L’ebreo lavora metodicamente alla rivoluzione in ambito economico e politico. I popoli che oppongono una dura resistenza all’attacco interno, sono accerchiati da una rete di nemici grazie agli influssi internazionali, sono aizzati alla guerra e, alla fine, si impianta, se necessario, la bandiera della rivoluzione sui campi di battaglia. L’ebreo sconvolge economicamente gli Stati a tal punto da denazionalizzare le aziende sociali ormai poco remunerative, che sono poste sotto il suo controllo finanziario. L’ebreo nega politicamente allo Stato lo strumento della sua autoconservazione, distrugge le basi di ogni autoaffermazione e di ogni difesa nazionali, distrugge la fiducia nella classe dirigente, vitupera la storia e il passato e trascina nel fango ogni autentica grande personalità. L’ebreo insudicia l’arte, la letteratura, il teatro, si infatua della sensibilità naturale, rovescia tutti i concetti di bellezza e di sublimità, di nobiltà e di bene e trascina gli uomini nella sfera d’influenza della sua natura sconcia97. La religione è irrisa, il costume e la morale dipinti come superati, finché gli ultimi pilastri di un carattere nazionalpopolare in lotta non cadono come soldati. I) Ecco che inizia la grande rivoluzione finale. Una volta ottenuto il potere politico, l’ebreo getta via gli ultimi veli ipocriti. Da ebreo democratico popolare si trasforma in ebreo razziale e in tiranno. In pochi anni tenta di sterminare i campioni
L’immagine dell’ebreo dai capelli neri era uno stereotipo molto diffuso. L’antropologo Rudolf Virchow condusse nel 1886 una ricerca sul colore degli occhi, dei capelli e della pelle degli scolari ebrei tedeschi, giungendo alla conclusione che solo l’11,5% erano scuri e ben il 32% erano biondi [KA, n. 228]. 96 Sulla “dittatura del proletariato” vedi capitolo 6-II. 97 Il nesso tra bellezza esteriore e bellezza interiore, già espresso nel motto “mens sana in corpore sano”, si legava al mito dell’eterna giovinezza già esposto in Faust, popolarizzato poi a fine Ottocento da The picture of Dorian Gray (Il ritratto di Dorian Gray, 1890) di Oscar Wilde. 95
285 nazionali dell’intellighenzia, privando così i popoli della loro guida intellettuale naturale, preparandoli a un destino perenne di soggiogamento. L’esempio più temibile ce lo offre la Russia, dove l’ebreo uccise o fece morire di inedia trenta milioni di persone con violenza satanica sotto tormenti inauditi, pur di garantire a un mucchio di letterati e di speculatori ebrei il dominio su tutto il popolo98. La conclusione non è solo la fine della libertà dei popoli oppressi, ma anche quella dei parassiti ebrei. Una volta morta la vittima, muore anche prima o poi il vampiro dei popoli. Se osserviamo tutte le cause del tracollo tedesco, vedremo che la causa finale e decisiva è il misconoscimento del problema razziale e, specialmente, del pericolo ebraico. Le sconfitte sul campo di battaglia nell’agosto 1918 sarebbero state facilmente tollerabili. Esse non hanno alcun legame con i successi del nostro popolo. Non ci hanno abbattuto le sconfitte, ma quella potenza che preparò le sconfitte, privando sistematicamente da molti decenni il nostro popolo degli istinti e delle forze politiche e morali che gli consentono di lottare per la sua esistenza99. Ignorando colpevolmente il problema della conservazione delle basi razziali del nostro carattere nazionalpopolare, il vecchio Impero disattese l’unico diritto che ne permette l’esistenza su questa terra. I popoli che si imbastardiscono o si fanno imbastardire, peccano contro la volontà della divina Provvidenza, e il loro declino per mano di un popolo più forte non è un’ingiustizia, semmai il ripristino del diritto. Chi non intende più rispettare le doti innate della natura radicate nel suo sangue non ha alcun diritto di lamentarsi della fine della sua esistenza terrena. Tutto è perfezionabile su questa terra. Ogni sconfitta può preparare una vittoria futura. Ogni guerra persa può essere la base di una sollevazione futura, ogni miseria lo stimolo dell’energia umana e, da ogni oppressione, possono rinascere le forze della rinascita spirituale, finché il sangue si conserva puro. Solo la perdita della purezza del sangue distrugge per sempre la gioia interiore, abbatte per sempre gli uomini. Le sue conseguenze non sono mai definitive per il corpo e per lo spirito. Tutti gli altri problemi della vita, se esaminati e paragonati a quello razziale, sono veramente infimi. Sono solo temporanei, mentre il problema della conservazione del sangue riguarda l’eternità. Tutti i fenomeni di decadenza realmente importanti del periodo prebellico hanno motivazioni razziali. Che si tratti dei problemi di diritto pubblico o di aberrazioni economiche, di fenomeni di declino culturale o di processi di degenerazione politica100, di errata istruzione scolastica o di una pessima influenza della stampa sugli adulti ecc., ebbene sempre e soprattutto si trattò dell’inosservanza degli interessi razziali del popolo o della miopia di fronte a un pericolo razziale esterno.
98
Sul problema russo vedi capitolo 14-II. Sulla leggenda della pugnalata alla schiena vedi capitolo 10-I. 100 Sul concetto di “degenerazione” vedi capitoli 2-I e 10-I. 99
286 Perciò non conta qualsiasi tentativo riformatore, opera assistenziale e sforzo politico, ogni crescita economica e apparente aumento della conoscenza intellettuale. La nazione e l’organismo che la conserva su questa terra (lo Stato), non erano più sani, ma si ammalarono a vista d’occhio. Ogni apparente gloria del vecchio Impero non poté occultare le debolezze interne. E ogni tentativo di rafforzare effettivamente l’Impero fallì per la negligenza di fronte al problema più importante. Sarebbe sbagliato credere che i sostenitori delle diverse posizioni politiche che cercarono di alleviare la salute del corpo popolare tedesco101, la stessa classe dirigente, fossero in una certa misura cattivi o malintenzionati. La loro attività fu sterile perché, nei casi migliori, vide tutt’al più i sintomi esterni della malattia generale, cercarono di combatterla, ma ignorarono ciecamente l’agente patogeno. Chi intende seguire con attenzione l’evoluzione politica del vecchio Impero diverrà consapevole che, proprio all’epoca dell’unificazione e, quindi, dell’ascesa della nazione tedesca, la decadenza interna era già in atto e che, malgrado gli apparenti successi politici e la crescente ricchezza economica, la situazione generale andò sempre più peggiorando. Le elezioni al Reichstag, con l’aumento di consensi marxisti, mostrano l’imminente tracollo interno e, successivamente, esterno102. I successi dei “partiti borghesi” furono irrilevanti, non solo perché, malgrado le vittorie elettorali, non riuscirono a impedire la crescita della marea marxista, ma soprattutto perché recavano i fermenti della dissoluzione. Senza saperlo, il mondo borghese era già stato contagiato internamente dal veleno marxista e la sua resistenza nasceva spesso più dall’invidia concorrenziale di capi ambiziosi che da un vero rifiuto verso la lotta esterna del nemico più risoluto. Uno solo seppe lottare in quegli lunghi anni con incrollabile ostinazione: l’ebreo. La sua stella di Davide103 salì sempre più alto nella stessa misura in cui calava la volontà d’autoconservazione del nostro popolo. Nell’agosto 1914 un popolo risoluto non si precipitò a combattere sul campo di battaglia. Fu solo il canto del cigno dell’istinto d’autoconservazione nazionale di fronte alla paralisi marxista-pacifista ormai insinuatasi nel corpo popolare. Dato che neanche allora si riconobbe il nemico interno, ogni resistenza esterna fu vana. E la Provvidenza non premiò la spada vincitrice, ma obbedì alla legge dell’eterna vendetta104. Partendo da questa profonda consapevolezza si formarono i principî e la tendenza del nuovo movimento, l’unico, a nostro avviso, in grado di arrestare non solo il declino del popolo tedesco, ma anche di creare le fondamenta granitiche, su cui un giorno potrà esserci uno Stato che non rappresenti un meccanismo di interessi economici estraneo al popolo, ma un organismo nazionalpopolare: uno Stato germanico della nazione tedesca.
Sul concetto di “corpo popolare” vedi capitolo 2-I. Allusione alle elezioni del Reichstag del 12 gennaio 1912, diffamate da autori nazionalpopolari come “elezione ebraica”. Vedi capitolo 10-I. 103 La stella di Davide è uno dei più importanti simboli dell’ebraismo. 104 Nel capitolo 15-II Hitler consiglierà di “gasare” i nemici interni ebrei. 101 102
287
Approfondimenti didattici 1. Analisi retorica e stilistica
- Individua le principali figure retoriche; - Individua l’esistenza di fallacie retoriche; - Individua i principali “loci” e “topoi”; - Individua la presenza di stereotipi e pregiudizi.
2. Analisi storico-culturale - Darwinismo e società: ricostruisci il dibattito a fine Ottocento circa le conseguenze della teoria darwiniana in ambito sociale, politico, culturale e religioso; - Lingua e razza: analizza la formazione di una “scienza” su base razziale nel corso dell’Ottocento e, in particolare, l’eventuale ricorso al paradigma indiziario; - L’Ariano: analizza l’origine del termine e, in particolare, il suo uso politico a partire dall’inizio del Novecento; - L’Ebreo: analizza l’origine del termine e, in particolare, il nesso fra rappresentazione religiosa, rappresentazione sociale e “scientifica”; - Corpo e anima: tenta di costruire un percorso storico-culturale che, partendo dall’iconografia religiosa, giunga a formulare il nesso fra aspetto esteriore e aspetto interiore, in particolare con l’avvento della politica di massa; - La metafisica razziale: analizza i diversi stadi individuati da Hitler per spiegare il “dominio mondiale” ebraico a partire dalla diaspora; - Nobiltà, borghesia e proletariato: analizza la storia sociale delle diverse classi sociali e tenta di individuare la funzione “economica” dell’ebreo.
A. Gilardoni, Logica e argomentazione. Un prontuario, Milano, Mimesis, 2008.
Capitolo XII. Le fasi iniziali del Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori
Sinossi 1. Genesi Il titolo del capitolo 12-I è fuorviante: non si parla dei primi mesi del Partito nazionalsocialista, ma dei problemi organizzativi della Deutsche Arbeiterpartei (Partito tedesco dei lavoratori) dal settembre 1919 al febbraio 1920. Le critiche interne al campo nazionalpopolare fanno pensare che il capitolo sia stato redatto a cavallo della rifondazione del Partito nazista (febbraio 1925). Inoltre il bisogno di concludere il primo volume e le parole di elogio rivolte a Ernst Pöhner fanno ipotizzare la fine della stesura nell’aprile 1925 (quando Pöhner morì). La descrizione dell’adunanza costitutiva del 24 febbraio 1920 doveva fungere da trait d’union tra i due volumi del Mein Kampf1. 2. Contenuto Hitler dedica il capitolo finale del primo volume alla sua breve ascesa alla guida del piccolo Partito tedesco dei lavoratori di Monaco nell’autunno-inverno 1919-20. L’esordio è roboante: il libro non è dedicato a chi ha già la “fede”, ma a chi ne è privo. Il problema tedesco non è l’assenza di risorse militari, ma quella di forza di volontà. Il compito immane del movimento nazista è quello di “nazionalizzare le masse”, cioè di ricondurre il popolo nell’alveo della sua nazione e di sganciarlo dalle utopie-menzogne internazionaliste. Si tratta quindi di “decimare” i nemici interni e di conquistare le masse popolari. Dopo aver spiegato il compito del nuovo partito nazista, Hitler passa in rassegna i diversi nodi che vanno risolti per garantirsi la necessaria solidità interna ed esterna: 1) conquistare la base dei lavoratori in mano al marxismo, convincendoli che non stanno facendo il loro e nazionale interesse; 2) educare le masse in vista di un miglioramento della condizione sociale; 3) nazionalizzare le masse con la decisione e il fanatismo, eliminando le mezze misure e le ambiguità borghesi; 4) lottare per conquistare le masse e, contemporaneamente, spezzare le reni ai nemici marxisti; 5) enfatizzare la questione razziale. Il sesto punto (salvaguardia degli interessi classisti) è importante e “attuale”. L’integrazione delle masse nella nazione non avviene eliminando i vincoli sociali di appartenenza, ma rendendoli proficui e fecondi strumenti al servizio della nazione. Bisogna che il nazismo intraprenda una lotta contro le dirigenze sindacali e padronali, che aspiri a conquistare il sostegno dell’intellighenzia, evitando di non imbarcare elementi moderati e opportunistici capaci di frenare o di “annacquare” l’impeto necessario alla conquista dello Stato. La propaganda sarà lo strumento principale per conquistare il consenso popolare. Dopo questo lungo inciso antimarxista, Hitler prosegue l’elencazione dei punti tattici: 7) il nazismo non deve accontentarsi di vincere la battaglia elettorale, ma deve conquistare il potere politico dello Stato; 8) la partecipazione alla vita parlamentare può essere solo tattica e momentanea, perché il nazismo è antiparlamentarista per principio e auspica l’introduzione del Führerprinzip (principio 1
KA I, p. 861.
290 del capo), cardine della “democrazia germanica”; 9) il partito nazista è “agnostico” in termini religiosi, cioè non intende condurre alcuna riforma religiosa, ma semplicemente valorizzare le due confessioni cristiane e porle al servizio del benessere dello Stato germanico avvenire. A questo punto Hitler introduce un secondo lungo (e tecnico) inciso dedicato all’organizzazione interna del movimento nazista. Questa parte è chiaramente rivolta ai movimenti concorrenti nel Nord della Germania, che accusavano il nazismo di “cripto-cattolicesimo”. La creazione di “gruppi locali” è subordinata al riconoscimento del “centro spirituale” di Monaco e all’effettiva presenza di “materiale umano” adeguato. Altrimenti è meglio soprassedere: è meglio un’espansione lenta e convinta che un allargamento sconsiderato e sconclusionato capace solo di riprodurre meccanismi “filistei” di aggregazione sociale del tutto inutili e politicamente sterili. Ed ecco gli altri punti tattici: 11) il fanatismo non è un sentimento facoltativo, ma necessario per il futuro successo del movimento (la Chiesa cattolica delle origini ne è un esempio chiaro); 12) le fusioni o le aggregazioni sono sconsigliate, proprio perché la “selezione naturale” impone la vittoria del movimento più forte; 13) la lotta va ingaggiata quotidianamente contro i “nemici” del popolo, specie sulla stampa, secondo il motto “molte calunnie, molto onore”; 14) il “culto della persona” è fondamentale per il nuovo movimento, perché solo così è in grado di contrastare la deriva democratica e livellatrice imbastita dall’ebreo e dal suo braccio marxista. Dopo aver elencato i “quattordici punti” del nuovo partito nazista, Hitler dedica la parte finale del capitolo a narrare i mesi di “transizione” dal suo ingresso politico alla costituzione della Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei (Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori). Il problema fondamentale era organizzativo e propagandistico: bisognava “farsi notare” e fare breccia nei cuori della gente. Di qui l’esigenza di nuove adunanze e un’attività di volantinaggio più serrata. La riorganizzazione del movimento all’inizio del 1920 significò anche l’eliminazione della vecchia dirigenza “borghese” con una più combattiva e fanatica. Al termine del capitolo Hitler introduce un ulteriore inciso dedicato al termine völkisch (nazionalpopolare). Il termine, usato da molti schieramenti politici, era troppo generico da poter essere incluso nella sigla del nuovo partito nazista. Le dispute terminologiche non sono importanti (specie in quella fase storica “sfavorevole”). Contano la visione lungimirante e la capacità di aggregare forze fresche e combattive e di tenere alla larga i “vecchi arnesi”, i nostalgici sostenitori del passato. Questo spiega l’eliminazione della vecchia dirigenza (Harrer) e anche l’esigenza di una propaganda di massa, in grado di aver un impatto sull’opinione pubblica e di facilitare la “nazionalizzazione della massa”. 3. Analisi Mentre i precedenti due capitoli erano dedicati alla giustificazione storico-filosofico-religiosa del nazionalsocialismo, qui Hitler sposta il suo interesse su problemi di “bassa cucina politica”. Dopo aver “promesso” al presidente del Land bavarese Heinrich Held che avrebbe lottato “legalmente” per la sconfitta del marxismo, Hitler ottiene la revoca del Redeverbot (divieto di parola) il 16 febbraio 1925 e, dieci giorni dopo, con un lungo editoriale sul “Völkischer Beobachter” annuncia la nuova fondazione del Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori. Il 27 febbraio ci sarà l’adunanza “rifondativa” del partito al Bürgerbräukeller di Monaco. Proprio in quei giorni febbrili di “riaggregazione” delle vecchie forze, Hitler deve necessariamente far piazza pulita da piccoli e vecchi concorrenti interni. Innanzitutto il problema religioso non è di competenza del nazismo: la guerra di religione è tatticamente inutile, è
291 strategicamente deleteria e “logicamente” secondaria. In secondo luogo bisogna eliminare i vecchi leader oppure la “visione esoterica” della razza a favore di una visione essoterica e popolare. La Nationalsozialistische Freiheitsbewegung (Movimento nazionalsocialista per la libertà), guidato da Ludendorff, von Graefe e Strasser, è sciolta d’ufficio, mentre la Grossdeutsche Volksgemeinschaft (Comunità nazionalpopolare grande-tedesca) di Rosenberg e Jacob confluirà a metà marzo nel nuovo partito nazista. Resistono la Deutschvölkische Freiheitsbewegung (Movimento nazionalpopolare tedesco per la libertà) di von Graefe e Reventlow nel Nord della Germania, che avrà però vita breve, e il Nationalsozialer Volksbund (Lega nazionalsociale) di Drexler. L’importanza del capitolo finale della Resa dei conti è di natura tattica e politica. L’abilità di Hitler, dopo il fallito putsch del 1923, lo scioglimento del partito nazista e la disgregazione delle forze “nazionalpopolari”, fu proprio quella di saper scendere a patti con le autorità politiche del momento, da una parte, e di aver compreso l’esigenza di ampliare la base elettorale, dall’altra. Certo, il “problema” del nazismo consisteva nella ripresa della Repubblica di Weimar del quinquennio 1924-1928: la “verità” nazista non era spendibile in quel frangente storico, ma si stava preparando a essere l’unica forza autenticamente in grado di conquistare il potere grazie a una lenta penetrazione nei diversi ambiti sociali. Hitler fu “pronto” quando le circostanze esterne gli furono favorevoli. In queste pagine “burocratiche” Hitler dice alcune cose molto importanti sia sulla sua visione di partito carismatico, sia sui problemi politici contingenti. Il punto di riferimento carismatico non è la monarchia o i moderni partiti rivoluzionari (quelli sorti dopo la Rivoluzione francese), ma è la Chiesa cattolica. Fanatica fiducia nel messaggio salvifico di Gesù-Cristo, capacità di insinuarsi negli strati inferiori della società, comprensione della missione “metafisica” e metastorica, peso del rituale “oscuro”, esistenza di un “centro spirituale”: il capo del nazismo spiega bene perché il modello cattolico sia quello più adatto cui ispirarsi per fondare l’Impero millenario. Niente divisioni “protestanti”, niente personalismi, niente intellettualismi nostalgici: poche idee chiare, senso del mistero e mistico attaccamento fra il pontefice-capo e la massa. Una volta chiarita la funzione “ecclesiale” ed “escatologica” del Partito nazista non resta che il problema di come “conquistare” il potere in Germania. Una volta accantonato il “colpo di Stato” bisogna concentrarsi sulle vie legali-parlamentari. Hitler assume le vesti del “gradualista”: l’espansione dell’idea va fatta per gradi, senza fretta. Bisogna che la struttura della nuova “chiesa” sia abbastanza solida per avviare la “nazionalizzazione delle masse”. Ci vogliono “capi”, non gregari, persone in grado di assumersi le proprie responsabilità. La “democrazia germanica” è una democrazia personalistica, perché basata su valori profondi, sulla fede nel proprio ideale. Per capire quanto tutto ciò corrispondesse al vero, non restava che attendere la presa del potere e la Gleichschaltung (allineamento) del 1933-1937. 4. Parole-chiave Antiparlamentarismo, Arianesimo, Carattere nazionalpopolare, Comunità nazionalpopolare, Corpo popolare, Cristianesimo, Culto della personalità, Democrazia germanica, Ebreo, Genio, Germanesimo, Intellighenzia, Leggenda della pugnalata alla schiena, Marxismo, Monaco, Movimento nazionalsocialista, Nazionalizzazione delle masse, Questione ebraica, Questione sindacale, Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori, Partito popolare bavarese, Partito popolare nazional-tedesco, Partito tedesco dei lavoratori, Politica di alleanza, Principio del capo, Problema
292 razziale, Propaganda, Rinascita nazionale, Rivoluzione del 1918, Socialdemocrazia, Stampa ebraica, Stato germanico, Venticinque Tesi Programmatiche, Volontà generale, Zentrum. 5. Bibliografia essenziale - W. Benz (ed.), Wie wurde man Parteigenosse? Die NSDAP und ihre Mitglieder, Francoforte sul Meno, S. Fischer, 2009; - S. Breuer, Ordnungen der Ungleichkeit. Die politische Rechte im Widerstreit ihrer Ideen, 1871-1945, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 2001; - S. Breuer, Die Völkischen in Deutschland. Kaiserreich und Weimarer Republik, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 2008; - P. Bruppacher, Adolf Hitler und die Geschichte der NSDAP. Eine Chronik, parte 1: 1889-1937, Norderstedt, Books on Demand, 2014; - A. Bullock, Hitler. Studio sulla tirannide, Milano, Res Gestae, 2014; - K. Burke, Die Rhetorik in Hitlers “Mein Kampf” und andere Essays zur Strategie der Überredung, Francoforte sul Meno, Suhrkamp, 1967; - D. Capozza, C. Volpato, Le intuizioni psicosociali di Hitler. Un’analisi del “Mein Kampf”, Bologna, Patron, 2004; - W. Carr, Hitler. Studio sul rapporto tra personalità e politica, Napoli, Liguori, 1985; - G. Corni, Hitler, Bologna, Il Mulino, 2007; - Id., Breve storia del nazismo, 1920-1945, Bologna, Il Mulino, 2015; - J. Dornberg, Hitlers Marsch zur Feldherrnhalle, München 8. und 9. November 1923, Monaco, Langen Müller, 1998; - D.M. Douglas, The early Ortsgruppen. The development of Nationalsocialist local groups, 1919-1923, University of Kansas, dissertazione dottorale, 1969; - W. Durner, Antiparlamentarismus in Deutschland, Würzburg, Königshausen und Neumann, 1997; - J. Fest, Hitler. Una biografia, traduzione di F. Saba Sardi, Milano, Garzanti 2005; - G. Franz-Willing, Putsch und Verbotszeit der Hitlerbewegung, November 1923-Februar 1925, Preussisch Oldendorf, Verlag K.W. Schütz KG, 1977; - B. Fulda, Press and politics in the Weimar Republic, Oxford, Oxford University Press, 2009; - H. Gilbhard, Die Thule-Gesellschaft. Vom okkulten Mummenschanz zum Hakenkreuz, Monaco, Kiessling Verlag, 1994; - H.J. Gordon, Hitlerputsch 1923. Machtkampf in Bayern, 1923-1924, Francoforte sul Meno, Bernard & Graefe, 1971; - D. Hastings, Catholicism and the roots of Nazism. Religious identity and National Socialism, Oxford, Oxford University Press, 2010; - H.H. Hoffmann, Der Hitlerputsch. Krisenjahre deutscher Geschichte, 1920-1924, Monaco, Nymphenburger Verlagshandlung, 1961; - L. Herbst, Il carisma di Hitler. L’invenzione di un messia tedesco, traduzione di U. Gandini, Milano, Feltrinelli, 2011; - D. Jablonsky, The Nazi party in dissolution. Hitler and the Verbotszeit, 1923-1925, Londra, F. Cass, 1989; - S.F. Kellerhoff, Il libro proibito di Hitler. Storia del Mein Kampf, Milano, Rizzoli, 2016; - I. Kershaw, Hitler, vol. 1: 1889-1936, Milano, Bompiani, 2003; - B. Kruppa, Rechtsradikalismus in Berlin, 1918-1928, Berlino, Overall-Verlag, 1988; - W.C. Langer, Psicanalisi di Hitler. Rapporto segreto del tempo di guerra, Milano, Garzanti, 1975; - U. Lohalm, Völkischer Radikalismus. Die Geschichte des Deutschvölkischen Schutz- und Trutz-Bundes, 1919-1923, Amburgo, Leibniz Verlag, 1970; - P. Longerich, Hitler. Biographie, Monaco, Siedler Verlag, 2015; - W. Maser, Adolf Hitler, Roma, Ciarrapico, 1978; - Id., Der Sturm auf die Republik. Frühgeschichte der NSDAP, Francoforte sul Meno, Ullstein, 1981; - F. McDonough, Hitler and the rise of the Nazi party, Londra, Person-Logman, 2003; - D. McKale, The Nazi party courts. Hitler’s management of conflict in his movement, 1921-1945, Lawrence (Kansas), Kansas University Press, 1974; - H. Moeller, A. Wirsching, W. Ziegler (ed.), Nationalsozialismus in der Region. Beiträge zur regionalen Forschung und zum internationalen Vergleich, Monaco, Oldenbourg, 1996;
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Se concludo il volume descrivendo la fase costitutiva del nostro movimento e discutendo brevemente una serie di problemi annessi, non lo faccio certo per esporne gli obiettivi spirituali. Lo scopo e il compito del nostro movimento sono così immani che meriterebbero da soli un intero volume. Analizzerò a fondo le basi programmatiche del movimento in un’altra occasione. Ora spiegherò ciò che noi intendiamo col termine “Stato”2. Con “noi” voglio dire tutte le centinaia di migliaia di persone che hanno le stesse aspirazioni, ma che non trovano un’espressione particolare per descrivere esteriormente ciò che vedono e ciò che sentono. L’aspetto fondamentale di ogni riforma è che, inizialmente, ha un unico alfiere, ma molti sostenitori. Si tratta di un ardente e nostalgico desiderio secolare di centinaia di 2
Sul significato nazista dello Stato vedi capitoli 2-II e 3-II.
294 migliaia di persone, inappagato finché non compare una persona che difende la volontà generale e non trasforma la nuova idea nello stendardo dell’antica nostalgia. Il fatto che milioni di persone desiderino in cuor loro un cambiamento radicale della situazione attuale, è una prova della loro profonda insoddisfazione. Quel sentimento si manifesta in migliaia di modi: in alcuni come sconforto e disperazione, in altri come repulsione, rabbia e indignazione, in altri ancora come indifferenza e rabbiosa esuberanza. I segnali dell’insoddisfazione interiore sono la stanchezza per il sistema parlamentare, nonché il grande numero di coloro che scivolano verso l’estremismo fanatico di sinistra3. A costoro deve rivolgersi innanzitutto il nuovo movimento. Il nazionalsocialismo non deve essere un’organizzazione di persone soddisfatte o stanche, ma deve raccogliere gli insofferenti e gli inquieti, gli infelici e gli insoddisfatti. Il movimento non deve galleggiare alla superficie del corpo popolare, ma deve radicarsi profondamente al suo interno4. Il quadro politico del 1918 era il seguente. Il popolo era spaccato in due fazioni: una parte, di gran lunga minoritaria, comprendeva l’intellighenzia nazionale, eccetto i lavoratori manuali. Essa è apparentemente nazionale, ma per nazionale intende null’altro che una difesa molto insipida e ambigua degli “interessi statali”, che sembrano coincidere con quelli dinastici5. I “nazionali” cercano di sostenere la loro visione e i loro obiettivi con armi intellettuali poco convincenti e superficiali6, del tutto inadeguate di fronte alla brutalità degli avversari. In un colpo solo è stata messa al tappeto quella classe dirigente che ora tollera con tremante viltà ogni umiliazione dell’implacabile vincitore. La grande massa dei lavoratori manuali rappresenta la seconda parte in causa. Essa è raggruppata in movimenti marxisti più o meno radicali, decisi a spezzare ogni resistenza intellettuale per mezzo della violenza. Non vuole essere nazionale, ma rifiuta scientemente ogni promozione degli interessi nazionali, mentre, viceversa, favorisce l’oppressione nemica. Essa è numericamente più forte, comprende soprattutto quegli elementi senza cui è impensabile una rinascita nazionale. Era chiaro sin dal 1918 che la rinascita del popolo tedesco passava attraverso un recupero della potenza esterna La premessa non sono le armi (come blaterano continuamente i nostri “statisti” borghesi), bensì la forza di volontà. Il popolo tedesco aveva armi a sufficienza. Ma non sono bastate a garantirgli la libertà, perché mancava 3
Il successo elettorale limitato delle formazioni di estrema sinistra (il Partito comunista tedesco conquistò l’8,9% alle elezioni del dicembre 1924) lascia supporre che qui Hitler abbia tentato di ingraziarsi le autorità politiche bavaresi (nella figura del presidente Held). 4 Sul concetto di corpo popolare vedi capitolo 2-I. 5 Possibile allusione all’Alldeutscher Verband (Associazione pantedesca) e alla Deutsche Vaterlandspartei (Partito patriottico tedesco) [KA, n. 7]. 6 Hitler prende di mira la stampa di destra, in particolar modo Alfred Hugenberg (1865-1951), cofondatore della Deutschnationale Volkspartei (Partito popolare nazionaltedesco). In particolare, la sua sprezzante osservazione sembra rivolgersi contro Paul Nikolaus Cossmann, editore dal 1903 del “Süddeutsche Monatshefte” (Mensile del Mezzogiorno tedesco) e dal 1920 responsabile editoriale delle “Münchner neueste Nachrichten” (Nuovissime notizie monacensi). Gli attacchi crebbero dopo il 1925 sulla questione sudtirolese [KA, n. 8].
295 l’energia dell’istinto d’autoconservazione nazionale, della volontà d’autoconservazione. Anche l’arma migliore è inutile e inefficace, se manca lo spirito giusto, disposto e deciso a utilizzarla. La Germania si trovò indifesa non per mancanza di armi, ma per pusillanimità. Solo la volontà può garantire la conservazione del carattere nazionalpopolare. Quando oggi i nostri politici di sinistra si sforzano di indicare nella mancanza di armi la causa della loro politica estera passiva, arrendevole e disfattista, bisognerebbe risponder loro: è vero il contrario. Avete cedute le armi al nemico con la vostra politica antinazionale e criminosamente avversa all’interesse nazionale. Ora cercate di dipingere l’assenza di armi come la causa fondamentale della vostra miserabile meschinità. Come ogni cosa che fate, anche questa è una menzogna e una falsificazione della realtà7. Peccato che questo valga anche per i politici di destra. Nel 1918, grazie alla loro miserabile vigliaccheria, la marmaglia ebraica al potere riuscì a depredare le armi della nazione. Anche costoro non hanno alcun motivo e alcun diritto di dipingere l’attuale mancanza di armi come la causa della loro sensata prudenza (cioè “viltà”). Semmai l’incapacità di difendersi è il frutto della loro viltà. Il problema di una rinascita della potenza tedesca non riguarda come fabbricare nuove armi, ma come produrre lo spirito che permetta al popolo di utilizzarle. Se questo spirito domina il popolo, la volontà trova mille vie che conducono a una sola arma! Ma si diano a un vigliacco dieci pistole in mano e non sarà in grado sparare neppur un colpo al primo assalto. Le armi non hanno alcun valore per quel tizio, come lo ha invece un bastone nodoso per un uomo coraggioso. Il problema della rinascita della potenza politica del nostro popolo non riguarda il risanamento del nostro istinto d’autoconservazione nazionale, ma l’allestimento di una politica estera. La valutazione di uno Stato non dipende dalle armi in suo possesso, ma dalla resistenza morale vera o presunta di una nazione. La capacità di trovare alleati non dipende dalla quantità di armi a disposizione, ma dalla presenza di un’ardente volontà d’autoconservazione nazionale e di un eroico coraggio. Gli uomini e non le armi stipulano un’alleanza! Perciò il popolo inglese va considerato l’alleato migliore al mondo8, finché il suo spirito e la sua dirigenza manterranno la brutalità e la tenacia necessarie a condurre alla vittoria della battaglia senza badare al tempo o al sacrificio. La sua forza militare attuale non ha bisogno di essere paragonata a quella avversaria. Ma se riteniamo che la rinascita della nazione tedesca consista nel problema della riconquista della volontà d’autoconservazione nazionale, è chiaro che non basta
L’esercito tedesco cercò in diversi modi di eludere le norme per il disarmo dettate dal trattato di Versailles, non solo sostenendo le forze paramilitari (il cosiddetto schwarze Reichswehr, esercito in “nero”). Dopo il trattato di Rapallo con l’Unione Sovietica (aprile 1922), le forze armate tedesche (guidate da Hans von Seeckt) instaurarono una cooperazione con l’Armata rossa: in cambio dell’addestramento e del sostegno economico, le forze armate tedesche poterono acquistare armamenti convenzionali e non convenzionali. Le misure per controllare, distruggere o vendere il materiale bellico tedesco furono attuate dal Reichsverwertungasamt (Ufficio riciclaggio statale) e poi dalla Reichstreuhand Gesellschaft (Società fiduciaria statale), sotto la supervisione alleata [KA, nn. 16, 18]. 8 Sulla possibile alleanza con la Gran Bretagna vedi capitolo 13-II. 7
296 guadagnare gli elementi nazionali volenterosi, ma bisogna nazionalizzare la massa finora antinazionale9. Un giovane movimento che si ponga l’obiettivo di risollevare le sorti dello Stato sovrano tedesco, dovrà intraprendere una battaglia totale per la conquista delle grandi masse. Dato che la nostra borghesia “nazionale” è pavida e i suoi sentimenti nazionali sono del tutto inadeguati, non bisogna attendersi da parte sua una seria opposizione contro una vigorosa politica nazionale interna ed estera. Anche se, per ragioni di ottusità e di miopia, la borghesia tedesca, come al tempo di Bismarck, fosse passiva di fronte alla liberazione vicina10, una resistenza attiva sarebbe assai improbabile, data la sua proverbiale vigliaccheria. Le cose sono diverse per la massa dei nostri connazionali internazionalisti. Essi non sono inclini alla violenza per primitiva genuinità, semmai la loro dirigenza ebraica è più brutale e più spietata. Stroncheranno qualsiasi sollevazione tedesca esattamente come spezzarono la spina dorsale all’esercito tedesco11. Inoltre essi non solo impediranno a colpi di maggioranza qualsiasi politica estera nazionalista dello Stato parlamentare12, ma ostacoleranno anche ogni superiore considerazione della forza tedesca e, quindi, la possibilità di stringere alleanze. La debolezza dei nostri quindici milioni di marxisti, democratici, pacifisti e centristi, non è solo nota a noi, ma anche e soprattutto ai paesi stranieri, che commisurano il valore di una possibile alleanza in base a questo fardello. Nessuno si allea con uno Stato, in cui la parte più attiva del popolo fronteggia passivamente una politica estera energica. Inoltre la classe dirigente di quei partiti colpevoli di tradimento nazionale ostacola e ostacolerà ogni sollevazione dettata dal semplice istinto d’autoconservazione nazionale. È storicamente impensabile che il popolo tedesco possa riacquisire la posizione passata senza fare i conti con i responsabili del tracollo postbellico13. Di fronte al giudizio dei posteri, il novembre 1918 non sarà considerato un semplice tradimento, bensì un alto tradimento della nazione14. Quindi la riconquista dell’autonomia esterna tedesca è legata alla riconquista dell’unità e della volontà del nostro popolo. Anche in termini puramente tecnici, l’idea di una liberazione esterna tedesca è assurda finché le grandi masse non saranno messe al suo servizio. In termini puramente militari, ogni ufficiale sa bene che non si può condurre una guerra contro Qui Hitler espone nuovamente il tema della “nazionalizzazione delle masse”, cioè della trasformazione delle masse popolari in una forza unica e compatta al servizio della nazione per mezzo di simboli e di rituali aggregativi. Bibliografia: G.L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (1815-1933), Bologna, Il Mulino, 2007. 10 Hitler ignora che lo scetticismo contro il progetto bismarckiano esisteva anche in ambito legittimista e conservatore, come dimostra il caso Ernst Ludwig von Gerlach (1795-1877). Bibliografia: H. Diwald (ed.), Von der Revolution zum Norddeutschen Bund. Politik und Ideengut der preussischen Hochkonservativen, 18481866, Gottinga, Vandenhoeck & Ruprecht, 1970, 2 voll. 11 Sulla leggenda della pugnalata alla schiena vedi capitolo 10-I. 12 Alle due tornate elettorali del 1924 (maggio e dicembre), i socialdemocratici e i comunisti assommati presero circa il 34% e il 36% dei voti. 13 Hitler sosteneva la pena capitale per tutti i “criminali novembrini”. Vedi capitolo 9-II. 14 Nell’arringa difensiva del 26 febbraio 1924 Hitler negò l’accusa di alto tradimento, perché non riteneva possibile essere accusato di alto tradimento dai “traditori della nazione”. Bibliografia: O. Gritschneder, L. Gruchmann, R. Weber, Der Hitler-Prozess 1924, Monaco, K.G. Saur Verlag, 2000, 4 voll. 9
297 altri Stati con battaglioni di studenti, ma che c’è bisogno, oltre che delle menti del popolo, anche dei suoi pugni. Non dimentichiamoci che una difesa nazionale basata solo sull’intellighenzia porterebbe allo sfruttamento di un bene insostituibile. La giovane intellighenzia tedesca che, nell’autunno 1914, trovò la morte nella pianure fiamminghe nel reggimento dei volontari, non fu poi sostituita15. Era il bene più grande della nostra nazione. La sua perdita fu incolmabile. Non solo la guerra è impraticabile se i battaglioni d’assalto non comprendono la massa dei lavoratori, ma lo anche è la preparazione tecnica in mancanza dell’unità del nostro corpo popolare. Il nostro popolo, che deve sopravvivere disarmato sotto il trattato di pace di Versailles16, potrà preparare tecnicamente la libertà e l’indipendenza solo quando sarà decimato l’esercito di spie interne di coloro che, per pusillanimità, tradiscono chiunque per i famosi trenta denari17. Bisogna essere pronti a tutto. I milioni di uomini contrari politicamente alla sollevazione nazionale saranno invincibili solo quando la causa principale della loro condotta (la visione del mondo marxista internazionalista) sarà strappata dal loro cuore e dalla loro mente. Da qualsiasi punto di vista si esamini la possibilità di riconquista della nostra indipendenza statale e nazionalpopolare (preparazione di una politica estera, armamento tecnico o guerra), il presupposto resta sempre la conquista della grande massa popolare. Senza il conseguimento della libertà esterna, ogni progetto di riforma interna comporta, nel migliore dei casi, un aumento della nostra capacità di sopportazione “coloniale”18. La crescita “economica” genera profitti per i nostri controllori internazionali19 e il miglioramento sociale accresce, nel migliore dei casi, la prestazione lavorativa a loro vantaggio. I progressi culturali non saranno ammessi: sono troppo legati all’indipendenza politica e alla dignità di un carattere nazionalpopolare. Se il futuro tedesco è legato, nel migliore dei casi, alla conquista nazionale della grande massa popolare, questo sarà il compito supremo di un movimento, la cui attività non deve esaurirsi nella liberazione momentanea, ma deve valutare ogni momento e ogni azione in base agli effetti futuri. Nel 1919 era chiaro che lo scopo supremo del nuovo movimento era la nazionalizzazione delle masse20. Ecco una serie di presupposti tattici. Sull’impiego di volontari durante la guerra vedi capitoli 5-I e 9-II. Sulle disposizioni alleate di disarmo dopo la guerra vedi capitolo 15-II. 17 Allusione a Giuda Iscariota, che ricevette trenta denari per tradire Gesù, secondo il Vangelo di Matteo (26,14-16). 18 Il terzo punto del “Programma dei Venticinque punti” è chiaro: “Noi rivendichiamo terra (e colonie) per il sostentamento del nostro popolo e per l’insediamento della nostra popolazione in eccedenza”. 19 Allusione agli obblighi di riparazione. Vedi capitolo 15-II. 20 L’idea di creare partiti dei lavoratori nazionali e antisemiti circolava già nel primo dopoguerra, come dimostrano Anton Drexler ed Ernst zu Reventlow. Drexler entrò nel 1917 nella Deutsche Vaterlandspartei di orientamento antisemita e nazionalpopolare; nel 1918 fondò a Monaco il Freier Arbeiterauschuss für einen guten Frieden (Libero comitato dei lavoratori per la pace); infine, il 5 gennaio 1919 creò il Partito tedesco dei lavoratori con Harrer, Feder ed Eckart. Reventlow diresse dal 1920 il settimanale “Reichswart” (Il guardiano del paese), di orientamento socialista e nazionalista. Nel 1922 fondò la Deutschvölkische Freiheitspartei (Partito nazionalpopolare tedesco per la libertà) [KA, n. 39].
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298 1. Per conquistare la massa alla sollevazione nazionale, nessun sacrificio sociale è troppo pesante. Le attuali concessioni economiche ai lavoratori non hanno alcun nesso con il profitto dell’intera nazione, se non contribuiscono a convertirli al nostro carattere nazionalpopolare. Solo la miope ottusità, spesso abbondante nel mondo imprenditoriale, ignora il fatto che, a lungo andare, nemmeno loro beneficeranno di una ripresa economica e, quindi, non avranno alcun vantaggio materiale senza una solidarietà popolare interna alla nazione21. Se i sindacati tedeschi non avessero salvaguardato così ottusamente gli interessi del proletariato in tempo di guerra, se non avessero estorto con mille scioperi agli imprenditori, avidi di dividendi, le rivendicazioni dei loro lavoratori, ma se, guidati dall’interesse nazionale, si fossero riconosciuti fanaticamente nel loro germanesimo e avessero sostenuto con eguale ferocia la patria, ebbene la guerra non sarebbe stata persa. Le grandi concessioni economiche sarebbero state irrisorie di fronte all’immane importanza della guerra vinta. Quindi un movimento che intenda restituire il lavoratore al popolo tedesco deve comprendere che il sacrificio economico non ha alcuna importanza, finché la conservazione e l’indipendenza dell’economia nazionale saranno in pericolo22. 2. L’educazione nazionale delle grandi masse può aver avvenire solo per via di un miglioramento sociale, poiché così si creeranno i presupposti economici per consentire al singolo di godere dei beni culturali della nazione. 3. La nazionalizzazione delle grandi masse non si può mai ottenere con palliativi, con l’enfasi sulla “oggettività”, ma con l’assunzione inesorabile e spietata dello scopo desiderato. In altre parole non si può “nazionalizzare” un popolo “borghesemente”, cioè con mille limitazioni, ma solo “nazionalisticamente”, cioè con estremistica veemenza. Il veleno si può eliminare solo con l’antidoto e solo l’aridità dell’animo borghese può ritenere la moderazione un viatico per il regno dei cieli. La grande massa di un popolo non è formata da professori o da diplomatici. Il suo limitato sapere astratto indirizza le sensazioni verso il mondo sensibile. La sua visione positiva o negativa si fonda sui sensi. Essa è soggetta a un’espressione di forza in una delle due direzioni, non è mai ambivalente. La sua visione emotiva interviene sulla sua straordinaria stabilità. La fede è più solida del sapere. L’amore è meno volubile della stima. L’odio è più duraturo dell’avversione. La forza motrice dei cambiamenti più violenti non è mai stata la consapevolezza scientifica della massa, ma un fanatismo in grado di dominarla e un’isteria propositiva. Chi vuole conquistare la grande massa deve conoscere la chiave di accesso al suo cuore. Non si chiama oggettività, cioè debolezza, ma forza e volontà. 4. La conquista dell’anima popolare può avvenire se, accanto alla lotta positiva, si elimina il portatore dell’idea opposta. Agli occhi del popolo, un’aggressione spietata contro un antagonista è sempre una dimostrazione della propria ragione. La pietà è ritenuta una debolezza, se non un’ingiustizia. 21 22
Sulla questione sindacale vedi capitoli 2-I e 12-II. Sul primato della politica sull’economia vedi capitolo 15-II.
299 La grande massa è solo parte della natura. La sua sensibilità non capisce le strette di mano di uomini che affermano di volere cose diverse. Essa desidera la vittoria del più forte e la distruzione del più debole o la sua incondizionata sottomissione23. La nazionalizzazione della massa avrà successo solo quando sarà estirpato l’avvelenatore internazionale con una lotta propositiva per l’anima popolare. 5. Tutti i grandi problemi del nostro tempo sono passeggeri e rappresentano mere manifestazioni di cause particolari. Solo uno è veramente importante: la conservazione razziale del carattere nazionalpopolare. L’uomo deve la sua forza o la sua debolezza unicamente al sangue. Finché i popoli non ammetteranno l’importanza della loro base razziale, assomiglieranno a quegli uomini che vorrebbero conferire ai carlini le doti dei levrieri, senza comprendere che la velocità del levriero e la velocità d’apprendimento del barboncino non possono essere insegnate, ma sono doti innate. I popoli che rinunciano alla conservazione della loro purezza razziale, rinunciano così anche all’unità della loro anima in ogni manifestazione esteriore. La lacerazione del loro essere è la conseguenza naturalmente necessaria di quella del sangue e la mutazione della loro forza spirituale e creativa è solo l’effetto di quella della base razziale. Chi intenda liberare il popolo tedesco dalle manifestazioni e dalle cattive abitudini straniere di oggi, dovrà farlo anzitutto dall’agente patogeno. Senza la lucida ammissione del problema razziale e, quindi, della questione ebraica, una rinascita della nazione tedesca non potrà mai avvenire. Il problema razziale non ci dà solo la chiave di lettura della storia universale, ma anche della civiltà umana24. 6. L’integrazione della massa oggi internazionalista nella comunità nazionalpopolare25 non significa rinunciare alla difesa dei legittimi interessi di classe. Gli interessi sociali e professionali non sono sinonimi di divisione classista, ma sono manifestazioni legittime della nostra vita economica. Il raggruppamento professionale non si contrappone alla comunità nazionalpopolare, poiché si manifesta nell’unità del carattere nazionalpopolare di fronte a ogni problema che lo riguarda26. L’integrazione di un gruppo “classista” nella comunità nazionalpopolare o anche solo nello Stato non si ottiene solo abbassando gli strati superiori, ma anche elevando quelli inferiori. I campioni di questo processo non potranno mai essere le classi superiori, bensì quelle inferiori in lotta per l’equiparazione dei loro diritti. La borghesia attuale non fu integrata nello Stato con misure nobilitanti, ma con il dinamismo della loro intraprendenza. Il lavoratore tedesco non sarà reintrodotto nella comunità nazionalpopolare tedesca per via della deboli scenate di fraternizzazione, ma con il miglioramento consapevole della sua condizione, finché non saranno colmate le grandi sperequazioni sociali. Un movimento che si ponga un fine del genere, dovrà scovare i suoi sostenitori fra queste persone. Può attingere sostenitori dall’intellighenzia nella misura Sul “diritto del più forte” in senso social-darwinistico vedi capitolo 11-I. Sull’interpretazione hitleriana di storia universale come storia razziale vedi capitolo 11-I. 25 Sul concetto di “comunità nazionalpopolare” vedi capitolo 2-I. 26 L’ultimo punto “Programma dei Venticinque punti” del 24 febbraio 1920 prevedeva la creazione di Camere dei ceti e delle professioni per la realizzazione nei singoli Stati federati delle leggi-quadro emesse dello Stato centrale (la cosiddetta Gleichschaltung, cioè allineamento). 23
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300 in cui i suoi rappresentanti avranno compreso veramente lo scopo agognato. Il processo di trasformazione e di avvicinamento non si concluderà in dieci o vent’anni, ma durerà probabilmente molte generazioni. Il freno principale all’avvicinamento del lavoratore alla comunità nazionalpopolare non consiste nella rappresentanza sociale degli interessi, ma nella dirigenza internazionalista e nella visione antipopolare e antipatriottica. Gli stessi sindacati, fanaticamente guidati verso gli interessi popolari e politici, trasformerebbero milioni di lavoratori in preziosissimi sostenitori del nostro carattere nazionalpopolare, escludendo le singole lotte riguardanti gli interessi economici. Un movimento che intenda restituire seriamente il lavoratore al suo popolo e strapparlo alla follia internazionalista, deve fare fronte comune contro una visione dominante negli ambienti imprenditoriali, che confonde la comunità nazionalpopolare con la resa economica al lavoratore, e che ritiene ogni tentativo di salvaguardare i legittimi interessi economici del lavoratore come un attacco personale. È un punto di vista falso e tendenzioso, perché la comunità nazionalpopolare impone eguali obblighi a entrambe le parti27. Se un lavoratore pecca contro lo spirito della propria comunità nazionalpopolare quando, indifferente al bene comune e all’esistenza di un’economia nazionale, forte della sua posizione, avanza richieste esorbitanti, è altrettanto vero che un imprenditore viola la comunità quando, con una gestione imprenditoriale inumana e vessatoria, approfitta della forza lavoro nazionale per accumulare milioni di marchi grazie al sudore della fronte dei lavoratori. L’imprenditore non ha alcun diritto di definirsi nazionale; non ha alcun diritto di frignare per una comunità nazionalpopolare. È un farabutto egoista che, fomentando la discordia sociale, provoca lotte intestine che danneggeranno non poco la nazione. Perciò il bacino da cui attingere i sostenitori è innanzitutto la massa dei lavoratori tedeschi28. Bisogna sottrarli alla follia internazionalista, liberarli dall’indigenza sociale, dispensarli dalla miseria culturale e trasformarli in un fattore unitario, prezioso, nazionalistico e nazionalizzabile nel quadro della comunità nazionalpopolare. Se, fra i circoli dell’intellighenzia nazionale, esistono uomini che hanno a cuore il popolo e il suo futuro, che sono profondamente consci dell’importanza della lotta per l’anima della massa popolare, ebbene queste persone saranno massimamente benvenute nelle file del nuovo movimento come preziosa spina dorsale intellettuale. Ma la conquista dei voti borghesi non può mai essere l’obiettivo o anche solo l’intenzione del nostro movimento. Esso accoglierebbe così una massa di individui che finirebbero per indebolire l’appeal propagandistico fra gli strati popolari. Perché, malgrado l’attrattiva dell’idea, un ricongiungimento delle grandi masse col nostro movimento cozza immediatamente contro il fatto che le manifestazioni generali possono certo suscitare atmosfere suggestive, possono pure creare comprensione, ma non sono in grado di eliminare le caratteristiche personali o, per meglio dire, le cattive
27 Il tema sarà sviluppato nel capitolo 2-II. Bibliografia: J. Bähr, R. Banken (ed.), Wirtschaftssteuerung durch den Nationalsozialismus. Studien zur Entwicklung des Wirtschaftsrechts im Interventionsstaat des “Dritten Reichs”, Francoforte sul Meno, Klostermann, 2006. 28 Sulla struttura sociale del Partito nazionalsocialista vedi capitolo 5-II.
301 abitudini sorte e sviluppatesi nel corso dei secoli29. Il livello culturale e la posizione delle due parti in causa sui problemi economici sono al momento troppo distanti perché, una volta passata l’ebbrezza delle manifestazioni generali, non appaiano divisivi. Da ultimo lo scopo non è quello di trasformare i settori nazionali, ma di conquistare quelli antinazionali30. E questo aspetto è decisivo per l’impostazione tattica del movimento. 7. Questa posizione chiara, ma unilaterale va espressa anche nella propaganda del movimento e, d’altra parte, è necessaria per ragioni propagandistiche31. Per essere efficace, la propaganda deve rivolgersi a quella parte che, dato il differente bagaglio di esperienze intellettuali dei due campi, non sarebbe comunque capita dall’una oppure sarebbe rifiutata dall’altra in quanto ovvia o oziosa. Nello specifico la forma espressiva e il tono non possono essere gli stessi per due strati sociali così estremi. Se la propaganda rinuncia alla genuinità espressiva, non conquista emotivamente la grande massa. Ma se utilizza termini e gesti villani tipici della massa e delle sue espressioni, sarà rifiutata dalla “intellighenzia” in quanto rozza e dozzinale. Fra centinaia di oratori ve ne sono forse una decina in grado di parlare con altrettanta efficacia davanti a un pubblico di netturbini, di fabbri e di spalatori, e poi di tenere il giorno successivo una conferenza dallo stesso tenore intellettuale davanti a un uditorio di professori di scuola superiore e di studenti. Ma, fra migliaia di oratori, ci sono forse solo alcuni in grado di parlare egualmente davanti a fabbri e a professori di scuola superiore in una forma non solo consona al bagaglio intellettuale di entrambi, ma in grado anche di accontentarli e di trascinarli a una valanga di applausi scroscianti. Ricordiamoci che, per diffondersi, una teoria sublime deve servirsi spesso di spiriti piccoli e meschini. Non importa ciò che pensa il geniale inventore dell’idea, ma ciò che trasmette il suo messaggero alla grande massa, in quale forma e con quale esito. La forza della socialdemocrazia, di tutto il movimento marxista come forza propagandistica, si basava in larga parte sull’unità e, quindi, sull’unilateralità del pubblico di riferimento. Quanto più apparentemente limitati e ottusi erano i suoi ragionamenti, tanto più facilmente erano accettati e diffusi in una massa, il cui livello intellettuale era consono al materiale offerto.
Allusione alle presunte qualità borghesi di “passività”, “viltà” e “oggettività”. L’obiettivo primario di Hitler era quello di eliminare i concorrenti dell’area politica nazionalpopolare. Per questo motivo, pochi giorni dopo la rifondazione del Partito nazionalsocialista costrinse allo scioglimento il Movimento nazionalsocialista per la libertà, guidato da Ludendorff, von Graefe e Strasser, mentre la Comunità nazionalpopolare grande-tedesca di Rosenberg e Jacob sarebbe confluita a metà marzo. Il Movimento nazionalpopolare tedesco per la libertà, più forte nella Germania settentrionale, perse i suoi più importanti esponenti Reventlow e von Graefe fra il 1927 e il 1928. Bibliografia: D. Schmidt, M. Sturm, M. Livi (ed.), Wegbereiter des Nationalsozialismus. Personen, Organisationen und Netzwerke der extremen Rechten zwischen 1918 und 1933, Essen, Klartext, 2015. 31 Hitler, assunta la direzione della propaganda nell’estate 1921, elaborò alcuni piani per coordinare la propaganda, poco rispettati salvo la trasformazione in quotidiano del “Völkischer Beobachter”. Dopo la rifondazione del 1925, Hitler sostenne un nuovo piano di accentramento [KA, n. 64].
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302 Ecco una linea semplice e chiara per il nuovo movimento: la propaganda è finalizzata per forma e per contenuto alla grande massa e la sua bontà va esclusivamente valutata in base alla sua efficacia. In un’adunanza popolare di ampi strati sociali non ha maggior successo l’oratore che si avvicina spiritualmente all’intellighenzia presente, ma quello che conquista il cuore della massa. Chi, fra gli intellettuali presenti, critica l’oratore malgrado il chiaro successo sugli strati sociali inferiori, si dimostra intellettualmente limitato e irrilevante per il giovane movimento32. Esso prenderà in considerazione solo quegli intellettuali che comprendono appieno il nostro compito e il nostro scopo, che hanno imparato a giudicare la propaganda esclusivamente dalla sua efficacia sulla massa e non dalle sue impressioni personali. La propaganda non servirà a trasformare gli uomini nazionalisti, ma a conquistare i nemici del nostro carattere nazionalpopolare, sempre che abbiano il nostro sangue33. In generale il nostro movimento dovrebbe tenere a mente i ragionamenti che ho esposto nel capitolo sulla propaganda di guerra34. Il suo successo ha dimostrato la bontà delle mie considerazioni. 8. Il fine di un movimento politico riformatore non sarà mai raggiunto col lavoro informativo o con l’influenza delle forze dominanti, ma con la conquista del potere politico. Un’idea di portata mondiale ha non solo il diritto, ma anche il dovere di garantirsi quei mezzi che rendano possibile la realizzazione dei suoi presupposti. Il successo è l’unico giudice terreno, per quanto non si debba intendere con quel termine la conquista del potere statale del 1918, ma il suo effetto benefico sul carattere nazionalpopolare. Un colpo di Stato non è riuscito quando, come oggi pensano gli sconsiderati procuratori generali tedeschi, i rivoluzionari riescono a occupare l’autorità statale, ma solo quando, realizzando le intenzioni e gli obiettivi alla base dell’azione rivoluzionaria, si consegue un miglioramento delle condizioni nazionali rispetto al regime precedente35. Questo non è il caso della Rivoluzione tedesca, come si usa definire l’attacco criminale dell’autunno 1918. Ma quando la conquista del potere politico rappresenta il presupposto per realizzare propositi riformatori, il movimento deve sentirsi subito un movimento di massa e non certo un club letterario del tè o una società filistea per il gioco dei birilli. 9. Il giovane movimento è essenzialmente e profondamente antiparlamentarista, cioè rifiuta generalmente il principio maggioritario, dove il capo è degradato al rango di esecutore della volontà e dell’opinione altrui. Il movimento rappresenta in formato ridotto il principio di una democrazia germanica: elezione del capo, ma sua incondizionata autorità. Sull’anti-intellettualismo hitleriano vedi capitoli 6-I, 4-II e 7-II. Il quarto punto del “Programma dei Venticinque punti” era chiaro: “Cittadini dello Stato possono essere solo i membri della comunità nazionalpopolare che hanno sangue tedesco, senza distinzione di confessione religiosa. Perciò un ebreo non può essere un membro della comunità nazionalpopolare”. 34 Vedi capitolo 6-I. 35 Reazione hitleriana all’esperienza processuale, in particolare all’arringa del primo avvocato di Stato Ludwig Stenglein [KA, n. 72]. 32 33
303 Le conseguenze pratiche del “principio del capo”36 sono le seguenti. Il primo presidente di un gruppo locale è sì eletto, ma è anche il gestore responsabile dello stesso. Tutte le commissioni dipendono da lui, e non viceversa. Non esistono commissioni deliberative, ma solo commissioni di lavoro. L’incarico è assegnato dal dirigente responsabile (il primo presidente). Lo stesso principio vale per l’organizzazione immediatamente superiore: il circondario, il distretto o la regione. Il primo presidente è sempre eletto, ma ottiene un’illimitata procura e autorità. Lo stesso vale, infine, per la gestione di tutto il partito. Il presidente è eletto, ma è anche il capo esclusivo del movimento. Egli assume la responsabilità di tutto il movimento. I membri del movimento sono liberi di chiedere conto del suo operato davanti a un nuovo consesso elettorale, di privarlo del suo ufficio, nella misura in cui il capo non ha rispettato i principî del movimento o ha infranto i suoi interessi. Al suo posto subentra l’uomo più capace, dotato di eguale autorità e responsabilità. Uno dei compiti supremi del movimento è quello di trasportare il “principio del capo” non solo nelle proprie file, ma anche in tutto lo Stato37. Chi vuole diventare il capo deve assumere contemporaneamente l’autorità suprema e illimitata e la responsabilità ultima e più gravosa. Chi non ne è capace oppure è troppo vigliacco per sopportare le conseguenze del suo operato, non è adatto a fare il capo. Solo l’eroe ne ha la vocazione38. Il progresso e la civiltà umana non sono il prodotto della maggioranza, ma della genialità e dell’energia della singola personalità. Coltivarle e delinearne i diritti è uno dei presupposti per la riconquista della grandezza e della potenza del nostro carattere nazionalpopolare. Quindi il nostro movimento è antiparlamentaristico e la sua partecipazione all’istituzione parlamentare può avere solo una finalità distruttiva: intende eliminare quell’istituzione che rappresenta uno dei peggiori fenomeni di decadenza dell’umanità. 10. Il movimento rifiuta decisamente ogni presa di posizione su problemi esterni al quadro del suo lavoro politico oppure privi di importanza effettiva. Il suo compito non è una riforma religiosa, ma una riorganizzazione politica del nostro popolo. Il movimento ritiene entrambe le confessioni religiose quali sostegni egualmente preziosi per l’esistenza del nostro popolo e, quindi, osteggia tutti quei partiti che vogliano sminuire le fondamenta di una stabilità etica e religiosa del nostro corpo popolare a favore dei loro interessi di bottega39. 36
Il Führerprinzip (principio del capo) fu un principio fondamentale delle destre fasciste del periodo interbellico, diretto in special modo contro la democrazia parlamentare rappresentativa, accusata di ingovernabilità e di corruzione. L’espressione si rifaceva alla teoria del capo carismatico esposta da sociologi come Max Weber, anche se il potere carismatico ricorreva al “potere legale” per “routinizzare” (cioè razionalizzare) la sua posizione dopo la conquista del potere. 37 Sul “principio del capo” vedi capitolo 4-I. 38 L’idea della responsabilità assoluta si trova già nel passaggio finale del “Programma dei Venticinque punti”: “I capi del partito giurano solennemente di sostenere, se necessario a costo della propria vita, la realizzazione dei punti programmatici”. 39 Probabile allusione al Zentrum e alla Bayerische Volkspartei (Partito popolare bavarese), nonché ai dissidi interni al campo nazionalpopolare di fronte alla religione e alle Chiese cristiane. Il penultimo punto del “Programma dei Venticinque punti” era chiaro: “Il partito sostiene il punto di vista di un cristianesimo positivo, senza vincolarsi a una particolare confessione religiosa”.
304 Infine il movimento non intende restaurare una particolare forma statale e lottare contro una in particolare. Vuole creare quei fondamenti essenziali, senza cui, a lungo andare, non potrebbero esistere né la repubblica, né la monarchia. La sua missione non consiste nella fondazione di una monarchia o nella stabilizzazione della repubblica, ma nella creazione di uno Stato germanico. Il problema dell’organizzazione esterna dello Stato germanico, cioè del suo coronamento, non è fondamentale, ma è subordinato alla convenienza pratica. In un popolo che ha già compreso i grandi problemi e i compiti della sua esistenza, le formalità esteriori non produrranno più lotte intestine. 11. Il problema dell’organizzazione interna del movimento è un problema di convenienza, non di principio. La migliore organizzazione non è quella che introduce l’apparato intermedio più grande fra la testa del movimento e i singoli membri, bensì quello più piccolo. Il compito dell’organizzazione è quello di trasmettere a una molteplicità di soggetti una determinata visione intellettuale che scaturisca dalla testa del singolo, nonché vigilare sulla sua realizzazione. L’organizzazione è, quindi, un male necessario. Nel migliore dei casi, è un mezzo per un fine, nel peggiore diventa un fine in sé. Poiché il mondo favorisce la creazione di nature meccaniche a scapito di nature ideali, le forme organizzative si formano più facilmente rispetto alle idee. Il percorso pratico di ogni idea riformatrice che ambisca a essere realizzata in questo mondo, è grossomodo il seguente. Un qualche pensiero geniale sorge nella mente di un uomo, che si sente chiamato a comunicarlo al resto dell’umanità. Egli predica la sua visione e si crea progressivamente una cerchia di sostenitori. La trasmissione diretta delle idee di un uomo a un altro ambiente è la cosa ideale e più naturale che ci sia. Con la crescita costante di sostenitori, il portatore dell’idea non è più in grado di influire direttamente sui tantissimi seguaci, di guidarli oppure di gestirli. Una struttura di trasmissione si rende necessaria nella misura in cui, con l’ampliamento della comunità, si indeboliscono i rapporti diretti e più rapidi. La situazione ideale non esiste più; al suo posto subentra il male necessario dell’organizzazione. Si formano così piccoli sottogruppi che, nel movimento politico, rappresentano localmente i nuclei dell’organizzazione successiva. La suddivisione, se non intende perdere l’unità ideologica, può realizzarsi solo quando l’autorità spirituale del fondatore e della sua scuola è assolutamente indiscussa. L’importanza geopolitica di una centrale del movimento non va affatto sottovalutata. Solo la presenza di un luogo magico come Roma o come La Mecca può, a lungo andare, donare al movimento la forza del vertice quale rappresentante dell’unità interna e del suo riconoscimento40. Quindi, nella formazione della prima cellula organizzativa bisogna sempre preoccuparsi non solo di conservare la rilevanza del luogo originario dell’idea, ma anche di accrescerlo. L’eccessivo allargamento ideale, morale e concreto del punto originario e direttivo del movimento può avvenire nella misura in cui le cellule Proprio durante la crisi dell’estate 1921, Hitler osteggiò ogni tentativo di spostare la sede centrale da Monaco. Lo stesso accadde dopo la nuova fondazione del 1925. Vedi capitolo 11-II. 40
305 sottoposte, ormai numerosissime, richiedono nuovi accorpamenti in forme organizzative. Come il numero crescente dei membri e l’impossibilità di un rapporto diretto portano alla formazione di concentrazioni inferiori, così l’infinita moltiplicazione di queste forme organizzative inferiori obbliga alla creazione di raggruppamenti superiori, che possiamo politicamente definire leghe circondariali o distrettuali. Pur esemplificando in tal modo l’autorità della centrale originaria di fronte ai gruppi locali, sarà però più difficile conservare la stessa posizione di fronte alle organizzazioni in corso di formazione. Ma questo è il presupposto dell’esistenza unitaria di un movimento e, quindi, della realizzazione di un’idea. Se si inizia finalmente a suddividere organicamente le grandi strutture intermedie, diventa più difficile garantire il carattere assolutamente trainante del luogo originario, della sua scuola, ecc. Perciò le forme meccaniche dell’organizzazione vanno ampliate nella misura in cui l’autorità spirituale del centro appare assolutamente salvaguardata. Nella struttura politica, questa garanzia è data solo dal potere reale. Dopo questa breve presentazione, ecco le linee guida per l’organizzazione interna del movimento. a) Concentrazione iniziale di tutto l’operato in un singolo luogo: Monaco. Formazione di una comunità di membri ciecamente fedeli e istituzione di una scuola per la diffusione dell’idea. Conquista dell’autorità necessaria per un successo locale chiaramente visibile. Per far conoscere il movimento e il suo capo fu necessario non solo minare visibilmente la fiducia nell’invincibilità della dottrina marxista in un luogo particolare, ma anche dimostrare la possibilità di un’ideologia contraria. b) Formazione di gruppi locali solo quando l’autorità centrale di Monaco sarà riconosciuta incondizionatamente41. c) Formazione di associazioni circondariali, distrettuali e regionali non solo a richiesta, ma anche a garanzia del riconoscimento incondizionato della centrale. Successivamente, la creazione di forme organizzative dipenderà dalle teste presenti e ritenute adatte al comando42. Due vie sono percorribili: a) Il movimento dispone dei mezzi finanziari necessari per formare e istruire le teste idonee. Impiega puntualmente il materiale ottenuto secondo la convenienza tattica o di altro genere. Si tratta della via più semplice e più rapida. Comporta tuttavia grandi mezzi economici, poiché il materiale-guida può lavorare per il movimento solo se retribuito. b) Il movimento, per carenza di mezzi economici43, non è in grado di impiegare capi permanenti, ma ha bisogno di volontari44. 41
In realtà la condizione essenziale per la creazione di gruppi locali non era il riconoscimento assoluto della sede centrale di Monaco, ma la presenza di un uomo di fiducia responsabile e l’esistenza di un’ampia cerchia di sostenitori e di membri [KA, n. 98]. 42 In realtà Hitler incoraggiò assai poco le iniziative individuali che non provenissero dalla sede centrale del partito. Persone come Arno Chwatal, Wilhelm Tempel, Kurt Gruber, Elsbeth Zander furono ignorate, se non osteggiate [KA, n. 100]. 43 Sulla situazione finanziaria del primo Partito nazionalsocialista vedi capitoli 11-II e 12-II.
306 Si tratta della via più lenta e più difficile. La dirigenza può lasciare inoperosi grandi settori del movimento, sempre che non emerga tra i sostenitori una testa capace e disposta a mettersi a disposizione della dirigenza, a organizzare e a guidare il movimento in tali ambiti. Può accadere che, in grandi territori, non si trovi nessuna testa adatta, mentre in altri ve ne siano due o persino tre assai vicine. Questa situazione è fonte di gravi difficoltà e può essere superata solo nel giro di alcuni anni. Il presupposto di una forma organizzativa è e resta sempre la testa capace di guidarla. Se l’esercito non ha valore organizzativo senza gli ufficiali, altrettanto lo è un’organizzazione politica priva di capi adeguati. Il movimento, in mancanza di una personalità adeguata alla sua testa, è meglio che eviti la formazione di un gruppo locale piuttosto che organizzarne uno destinato a fallire per l’assenza di un capo. La guida non ha bisogno solo di volontà, ma anche di capacità, per quanto vada attribuito maggiore valore alla forza di volontà e all’energia rispetto alla genialità in sé e un valore ancora superiore al legame fra capacità, determinazione e perseveranza. 12. Il futuro di un movimento è condizionato dal fanatismo, dall’insofferenza con cui i suoi sostenitori difendono la sua assoluta bontà e lo impongono sugli altri simili. È sbagliatissimo credere che la forza di un movimento si accresca unificandolo con altri movimenti simili45. Ogni ampliamento del genere provoca un’apparente crescita di dimensione e di potenza agli occhi di un osservatore superficiale. In verità, però, il movimento imbarca solo i germi del successivo indebolimento interno46. Perché, per quanto sembri strano, i movimenti non sono affatto simili. Altrimenti non esisterebbero due movimenti, ma uno solo. Le differenze ci sono eccome, indipendentemente da quali siano le capacità della classe dirigente. La legge dell’evoluzione naturale non prevede l’accorpamento di due corpi simili, ma la vittoria di quello più forte e la procreazione superiore della forza e del vigore del vincitore. Per quanto dall’unificazione di due formazioni politiche affini derivino vantaggi momentanei, il successo sarà causa di debolezze interne. La grandezza di un movimento è dovuta esclusivamente allo sviluppo autonomo della sua forza interiore e dal suo accrescimento costante, sino alla vittoria finale su tutti i concorrenti. Possiamo dire che la sua forza e, quindi, la sua legittimità esistenziale aumentano nella misura in cui presuppone la lotta come mezzo del suo divenire, mentre inizia a indebolirsi nell’istante stesso in cui la vittoria completa pende dalla sua parte. È utile che un movimento lotti per conseguire non solo un successo temporaneo, ma anche una crescita duratura per via dell’incondizionata intolleranza.
44 Il rapporto fra lavoro retribuito e volontariato causò conflitti interni, da quando Rudolf Schüssler, uomo di fiducia ed ex commilitone di Hitler, iniziò ad amministrare il Partito tedesco dei lavoratori nel novembre 1919. Vedi capitolo 11-II. 45 Il tema della “coalizione” sarà affrontato nel capitolo 8-II. 46 Allusione alla “fusione” del Partito nazionalsocialista con altri gruppi nazionalpopolari, specialmente con il Partito socialista tedesco di Julius Streicher, sostenuta nei primi mesi del 1921, che portò Hitler alla momentanea uscita dal Partito tedesco dei lavoratori. La collaborazione pragmatica non era esclusa, ma l’identità partitica non era sacrificabile. Vedi capitolo 11-II.
307 I movimenti che devono la loro crescita solo ai raggruppamenti di costruzioni similari, cioè ai compromessi programmatici, assomigliano alle piante di una serra: crescono prive della forza di sfidare l’ambiente e di resistere alle dure tempeste esterne. La grandezza di ogni importante organizzazione personificante un’idea consiste nel fanatismo religioso con cui ha imposto il suo fanatico diritto di dominio. Se un’idea è giusta in senso assoluto ed è pronta alla lotta, l’organizzazione è invincibile e ogni persecuzione serve solo a rafforzarla interiormente. La grandezza del cristianesimo non consisteva nei numerosi accomodamenti con le visioni filosofiche similari dell’antichità, ma nell’annuncio e nella difesa implacabili e fanatici della sua dottrina. Il vantaggio apparente che i movimenti ottengono raggruppandosi, è ampiamente ricompensato dalla crescita continua di una dottrina e di un’organizzazione rimaste indipendenti e difese strenuamente. 13. Il movimento deve educare i suoi membri affinché considerino la lotta non come qualcosa di facilmente realizzabile, ma come la loro aspirazione più profonda. Non devono temere l’inimicizia degli avversari, ma farne il presupposto della loro legittima esistenza. Non devono temere l’odio dei nemici del nostro carattere nazionalpopolare, della nostra visione del mondo e della sue manifestazioni, semmai attirarlo. Fra le manifestazioni di odio vi sono anche le bugie e le calunnie. Chi non è criticato, calunniato e diffamato nei giornali ebraici non è un tedesco perbene e un vero nazionalsocialista. Il miglior modo per valutare il suo sentimento, la sincerità della sua convinzione e la forza della sua volontà è l’inimicizia espressa dal nemico mortale del nostro popolo. I sostenitori del movimento e, in senso più ampio, tutto il popolo devono sempre sapere che l’ebreo mente sempre e comunque sui suoi giornali e che le sue verità servono solo a coprire una maggiore falsificazione e, quindi, sono di per sé falsità. L’ebreo è il grande maestro della menzogna47. La bugia e l’inganno sono le sue armi di lotta. Ogni diffamazione o bugia ebraica è una cicatrice onorevole sul corpo del nostro combattente. I più calunniati hanno tutta la nostra solidarietà. I più odiati sono i nostri miglior amici. Chi domani afferrerà un giornale ebraico senza trovarvi alcuna calunnia, vuol dire che non ha speso bene il giorno precedente. Altrimenti, sarebbe perseguitato, diffamato, insultato e insudiciato dall’ebreo. E solo chi affronta efficacemente il nemico mortale del nostro carattere nazionalpopolare e dell’arianesimo48 ha il diritto di fregiarsi delle calunnie di questa razza e, quindi, della sua inimicizia. Se questi principî si trasformano in carne e in sangue dei nostri sostenitori, i movimento diverrà solidissimo e invincibile. 14. Il movimento deve promuovere il rispetto per la persona con ogni mezzo. Non deve mai dimenticare che il valore dell’umanità consiste nel valore della persona, 47 48
Altra allusione all’invettiva di Schopenhauer nei Parerga e paralipomeni (§ 174). Sull’immagine dell’“ariano” vedi capitoli 11-I e 2-II.
308 che ogni idea e ogni prestazione è il risultato della forza creatrice umana, e che l’apprezzamento della grandezza non è solo un pollice verso, ma anche un vincolo unificante intorno all’uomo meritevole. La persona non va sostituita. Non rappresenta l’elemento meccanico, ma quello culturale e creativo. Se un celebre maestro pittorico è difficilmente sostituibile e il suo quadro è difficilmente completabile da chiunque, lo stesso vale per i grandi pensatori e per i grandi poeti49, per i grandi statisti e i grandi condottieri. La loro attività è sempre artistica: non è inculcata meccanicamente, ma è innata per grazia divina. Le più grandi trasformazioni e le più grandi conquiste dell’umanità, le più grandi opere della civiltà, le azioni immortali nell’arte statuale sono eternamente e indissolubilmente legate a un nome e sono rappresentate dal loro autore. Rinunciare a omaggiare un grande spirito significa perdere una forza immensa che sgorga dai nomi di ogni grande uomo o donna di questa terra. E l’ebreo lo sa molto bene. Proprio lui, grande solo nella capacità di distruggere l’umanità e la civiltà, teme l’ammirazione idolatrica. L’ebreo tenta di dipingere spregevolmente la venerazione dei popoli per i loro grandi spiriti come mero “culto della personalità”. Non appena un popolo è così vile da soccombere all’arroganza e alla sfrontatezza degli ebrei50, rinuncia alla forza più importante in suo possesso. Non si tratta della considerazione della massa, ma del venerare, dell’elevare e del godere del genio. Quando i cuori si spezzano e le anime si disperano, ecco che, dal crepuscolo del passato, i grandi vincitori della miseria e della preoccupazione, dell’onta e della povertà, della schiavitù spirituale e della coercizione fisica gettano uno sguardo sugli uomini e porgono l’eterna mano al mortale abbattuto! Guai al popolo che si vergogni di afferrarla! Nei primi tempi il nostro movimento soffriva soprattutto d’irrilevanza, di mancanza di notorietà e di scetticismo circa il suo successo. La cosa più difficile era quella di suscitare e di conservare la convinzione nel grandioso avvenire del nostro movimento in un circolo assai ristretto (spesso si riunivano solo sei, sette oppure otto persone). Si pensi che sei o sette uomini, tutti onesti e sconosciuti poveri diavoli, si riuniscono per formare un movimento che deve realizzare ciò che finora non è riuscito ai grandi partiti di massa: la rinascita di uno Stato tedesco più potente e più fortunato di prima. Se ci avessero attaccato allora, se ci avessero anche solo deriso, ne saremmo stati comunque lieti. La cosa avvilente era il completo disinteresse nei nostri riguardi. Questo valeva soprattutto per me51. Quando entrai in quel gruppetto, non si poteva ancora parlare né di partito, né di movimento. Ho già descritto il mio primo incontro con il Partito tedesco dei lavoratori. Nelle settimane successive ebbi l’opportunità studiare quel “partito”. Il Sulla coppia concettuale poeta-pensatore” vedi capitolo 15-II. Sul rimprovero antisemita di “sfrontatezza ebraica” vedi capitolo 10-I. 51 Hitler fu citato per la prima volta sul “Völkischer Beobachter” solo all’inizio del 1920, mentre su “Auf Gut Deutsch” (In parole povere) di Eckart relativamente più tardi [KA, n. 126]. 49 50
309 quadro, quant’è vero Iddio, era veramente avvilente. Il partito, rappresentato in pratica dal suo comitato, assomigliava a ciò che combatteva: era un parlamento in miniatura! Anche qui dominava il principio del voto e, se almeno i grossi parlamenti si sgolavano per mesi su problemi importanti, nel nostro partitino s’intavolava una discussione infinita per rispondere a una lettera! L’opinione pubblica, naturalmente, non ne sapeva nulla. Nessuno a Monaco conosceva il partito anche solo per sentito dire, salvo alcuni sostenitori e conoscenti. Ogni mercoledì si svolgeva la seduta della commissione in un caffè della città52; una volta alla settimana una discussione serale. Poiché tutti i membri del “movimento” era presenti nella commissione, eravamo sempre gli stessi. Si trattava di uscire dal gruppetto, di conquistare nuovi sostenitori, ma soprattutto di diffondere il nome del movimento a ogni costo. La tattica fu la seguente. Ogni mese cercavamo di tenere, entro le prime due settimane, un’“adunanza”. Gli inviti erano battuti a macchina o scritti a mano su un pezzo di carta e le prime volte erano distribuiti da noi o consegnati a domicilio53. Ognuno si rivolgeva alla propria cerchia di conoscenti, per spingere l’uno o l’altro a partecipare alla manifestazione. L’esito fu sconfortante. Mi ricordo ancora come io stesso consegnai una volta ottanta inviti; quella sera ci attendevamo una massa di gente che non venne. Con un’ora di ritardo, il “presidente”54 dovette inaugurare l’“assemblea”. Eravamo sempre e solo noi, i soliti sette. Poi decidemmo di scrivere l’invito a macchina in una cartoleria di Monaco e di farlo fotocopiare. L’esito della successiva assemblea fu un uditore. Il numero crebbe lentamente da undici a tredici, a diciassette, a ventitre e a ventiquattro uditori. Con piccole collette fra noi poveri diavoli potemmo racimolare i mezzi per annunciare un’adunanza sul quotidiano indipendente “Münchner Beobachter”55. L’esito fu questa volta stupefacente. Avevamo indetto l’assemblea in una sala dello Hofbräuhaus di Monaco56 (da non confondere col salone), capace di contenere centotrenta persone. Lo spazio mi sembrava enorme e ognuno di noi temeva di non riuscire a riempire l’“enorme” edificio la sera prevista. Alle 7 erano presenti centoundici persone, e l’assemblea fu inaugurata. Un professore di Monaco tenne la relazione principale e, dopo di lui, parlai per la prima volta in pubblico57. 52
Café am Gasteig. Vedi capitolo 11-II. Con l’ingresso di Schüssler nell’autunno 1919, Hitler e il Partito tedesco dei lavoratori poterono attingere dall’infrastruttura del II Reggimento fanteria bavarese. Vedi capitolo 11-II. 54 Karl Harrer. 55 L’inserzione per l’adunanza del 16 ottobre 1919 fu prodotta dal Deutschvölkischer Schutz- und Trutzbund (Lega nazionalpopolare tedesca per la protezione e per la difesa). Il Partito tedesco nei lavoratori non era neanche nominato [KA, n. 137]. 56 Hofbräukeller in Monaco-Haidhausen. 57 I relatori furono Erich Kühn, scrittore della rivista nazionalpopolare “Deutschlands Erneuerung” (Rinnovamento della Germania), che parlò della questione ebraica. Dopo Hitler fu la volta di Kreller, rappresentante del Deutschvölkische Schutz- und Trutzbund, di Max Sesselmann, funzionario della Deutschsozialistische Partei di Monaco [KA, n. 140]. 53
310 Agli occhi del primo presidente del partito (il signor Harrer), il mio comizio era rischioso. Quel signore perbene era convinto che io potessi fare tante cose, ma non certo parlare in pubblico. Anche in seguito rimase della stessa opinione. Le cose andarono diversamente. Ebbi la parola per venti minuti alla nostra prima adunanza pubblica. Parlai una mezzoretta. E quello che prima, inconsciamente, sentivo dentro di me, si era realizzato: sapevo parlare in pubblico. Dopo trenta minuti, il piccolo spazio ricolmo era elettrizzato e l’entusiasmo si manifestò inizialmente nel fatto che il mio appello all’abnegazione dei presenti si concretizzò nell’offerta di trecento marchi. Così ci togliemmo un gran peso. L’assenza di fondi era tale all’epoca che non eravamo in grado di stampare i principî del movimento oppure di pubblicare dei volantini. Ora avevamo un piccolo fondo di cassa per i bisogni e per le necessità più impellenti. Ma il successo della prima grande adunanza fu significativo anche in un altro senso. All’epoca avevo iniziato a inserire nella commissione un numero di forze fresche. La mia lunga ferma militare mi aveva fatto conoscere numerosi fedeli commilitoni, che iniziarono lentamente a entrare nel movimento su mio consiglio. Erano tutti giovanotti dinamici, abituati alla disciplina. Il motto del servizio di leva era: nulla è impossibile, volere è potere58.
Figura 1 I fondatori del Partito tedesco dei lavoratori: Karl Harrer (a sinistra) e Anton Drexler (a destra) [fonte: wikipedia.de]
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In realtà, ben pochi commilitoni del Reggimento List entrarono nel partito.
311 Quanto fosse necessaria la trasfusione di sangue fresco, lo potei constatare dopo alcune settimane di collaborazione. Il presidente del partito (Harrer) era un giornalista e, come tale, piuttosto colto. Aveva un difetto particolarmente grave per un capo di partito: non sapeva parlare in pubblico. Sebbene fosse un uomo preciso e scrupoloso, era privo di grande slancio, forse proprio per l’assenza di un grande talento comunicativo. Il signor Drexler, all’epoca presidente del gruppo locale di Monaco, era un semplice operaio, insignificante come oratore e come soldato. Non aveva servito l’esercito, non era stato un soldato in tempo di guerra. Quindi la sua indole debole e insicura mancava dell’unica scuola che avrebbe potuto trasformarlo in un vero uomo59. Entrambi non erano intarsiati in quel legno che avrebbe conferito loro non solo la fede fanatica nella vittoria del movimento, ma anche la capacità di rimuovere con incrollabile forza di volontà e, se necessario, con la massima brutalità quegli ostacoli che avremmo potuto incontrare strada facendo. Erano necessarie solo quelle nature in cui lo spirito e il corpo avessero accettato le virtù militari così definibili: agile come un levriero, resistente come il cuoio e duro come l’acciaio di Krupp60. All’epoca ero ancora un soldato61. Il mio fisico e il mio animo erano stati temprati da sei anni di vita militare, quindi mi sentivo un estraneo in quel circolo. Anch’io avevo disimparato a parlare. Mi dicevo: questo non va e questo non andrà, questo è rischioso, questo lo è di più ecc. La nostra causa era naturalmente pericolosa. Perché, pur infischiandosene di un club borghese di chiacchieroni (ne conoscevano la totale inoffensività e incapacità), i rossi erano comunque decisi a sbarazzarsi con ogni mezzo di un movimento pericoloso ai loro occhi. Il mezzo più efficace era sempre il terrore, la forza. Nel 1920 era semplicemente impossibile in molte zone del paese tenere un’adunanza nazione che osasse rivolgersi alle grandi masse e le invitasse pubblicamente ad assistervi. I partecipanti sarebbero stati malmenati e se ne sarebbero andati a casa con le ossa rotte. Non ci voleva un colpo di genio: bastava sparpagliare nelle principali assemblee di massa borghesi una decina di comunisti e i partecipanti sarebbero scappati via a gambe levate. Ma la cosa più irritante agli occhi degli imbroglioni marxisti era naturalmente un movimento, il cui scopo dichiarato era la conquista di masse ritenute finora al servizio esclusivo dei partiti di borsa e degli ebrei marxisti internazionalisti. Già il nome di Partito tedesco dei lavoratori era provocatorio. Potevamo facilmente immaginare che, alla prima occasione buona, sarebbe iniziato il confronto con gli schiavisti marxisti ancora ebbri di successo. Nel nostro piccolo circolo temevamo naturalmente il confronto con i marxisti. Volevamo dare poco nell’occhio, per timore di essere menati. Già ci immaginavamo la rovina della prima grande assemblea rovinata e la fine del movimento. Io sostenevo una posizione ardita: non bisognava temere il confronto, ma bisognava reagire con la 59
La critica va contestualizzata alla luce del conflitto interno del 1921. Dopo la rifondazione del Partito nazista, Drexler tentò la strada del Nationalsozialer Volksbund (Lega popolare nazionalsociale). 60 Dinastia industriale originaria di Essen, nota per la produzione di acciaio e per le fabbriche di munizioni e armi. 61 Hitler fu congedato il 31 marzo 1920.
312 forza. Il terrore non si spezza con lo spirito, ma col terrore. Il successo della prima assemblea rafforzò la mia posizione. Il partito ebbe il coraggio di organizzarne una seconda, ancora più grande. Nell’ottobre 1919 ebbe luogo nell’Eberlbräukeller una seconda grande adunanza dedicata a Brest-Litovsk e a Versailles62. Parlarono quattro oratori. Io stesso parlai circa un’ora e il successo fu superiore alla volta precedente. Il numero dei presenti salì a oltre centotrenta. Un tentativo di disturbarci fu stroncato sul nascere dai miei commilitoni. I provocatori furono gettati già dalle scale con le teste ammaccate. Due settimane dopo ci fu una terza assemblea nella stessa sala63. Il numero di visitatori salì a oltre centosettanta. Lo spazio era piuttosto ricolmo. Io parlai ancora e il successo fu nuovamente superiore alla volta scorsa. Io insistetti per avere una sala più grande. Alla fine ne trovammo una all’altro capo della città nella locanda Deutsches Reich di Dachauer Strasse. Qui parteciparono meno persone rispetto alla volta precedente: poco meno di centoquaranta64. Il comitato si scoraggiò e i soliti menagramo credevano che il motivo fosse l’eccessiva frequenza delle “manifestazioni”. Ci furono scontri accessi, dove io sostenni che una città di settecentomila abitanti avrebbe potuto tollerare non un’assemblea ogni due settimane, semmai dieci alla settimana, che non bisognava lasciarsi trarre in inganno dalla batosta, che la via intrapresa era quella giusta e che, prima o poi, il successo ci avrebbe arriso. In generale, durante quella fase dell’inverno 1919-20 ci fu un solo scontro capace di rafforzare la fiducia nella forza trionfante del nuovo movimento e di accrescere quel fanatismo che riesce a smuovere le montagne. L’adunanza successiva nella stessa sala mi diede nuovamente ragione65. Il numero dei partecipanti fu superiore ai duecento, il successo d’immagine e finanziario ottimo. Io spinsi per indirne subito un’altra. L’adunanza ebbe luogo due settimane dopo, e gli uditori crebbero a oltre duecentosettanta66. Due settimane dopo convocammo per la quarta volta sostenitori e amici del giovane movimento. Lo stesso locale poteva contenere a malapena gli oltre quattrocento presenti67. All’epoca avvenne la prima riorganizzazione interna del giovane movimento. Contemporaneamente scoppiarono discussioni più o meno accese. Diverse persone (come oggi) criticavano l’indicazione di “partito”. Ecco una dimostrazione dell’incapacità pratica e della meschinità intellettuale di quella gente. Erano e sono sempre quelli che non sanno distinguere l’involucro dal nucleo, che valutano il valore di un movimento dalle indicazioni altisonanti che, sfortunatamente, riprendono dai nostri progenitori. 62
Il confronto fra i due trattati di pace fu un tema ricorrente dei comizi hitleriani dei primi anni Venti. Allusione all’assemblea nell’Eberbräukeller di Monaco del 13 novembre 1919. 64 Allusione all’assemblea del 10 dicembre 1919, dove Hitler parlò della Germania di fronte alla più “profonda umiliazione”. 65 Allusione all’adunanza del 16 gennaio 1920, organizzata senza rispettare il Versammlungsverbot (divieto di riunione) regionale dal 12 gennaio al 9 febbraio 1920. 66 Allusione all’assemblea del 23 gennaio 1920, quando Hitler parlò contro i “distruttori del paese e i filofrancesi”. 67 Allusione all’assemblea del 5 febbraio 1920 nella locanda Deutsches Reich. 63
313 All’epoca era difficile far capire a quelle persone che ogni movimento, finché non consegue la vittoria delle sue idee e, quindi, del suo obiettivo, è un partito, anche se cambia mille volte il proprio nome. Se un uomo intende realizzare un pensiero azzardato che gli appare necessario nell’interesse dei suoi contemporanei, deve cercar persone disposte a sostenere i suoi propositi. E se questi propositi prevedono la distruzione dei partiti esistenti, la disintegrazione parlamentare, gli assertori della nuova visione delle cose sono un partito, finché non hanno realizzato il loro scopo. È stupida pedanteria se un teorico nazionalpopolare codino, il cui successo pratico è inversamente proporzionale alla saggezza, crede di modificare il carattere di un giovane movimento cambiandone il nome68. Al contrario, se c’è qualcosa di assai poco nazionalpopolare è proprio l’abuso di espressioni vetero-germaniche inadatte ai nostri tempi, ma che possono indurre a valutare l’importanza di un movimento dal suo patrimonio lessicale. Una stupidaggine piuttosto comune ai nostri giorni69. D’altronde io ho sempre messo in guardia di fronte a questi studiosi erranti della tradizione nazionalpopolare tedesca, dal contributo positivo pressoché nullo, ma dalla presunzione quasi impareggiabile. Il giovane movimento doveva e deve guardarsi dall’afflusso di persone, il cui unico contributo consiste nell’affermazione di aver già combattuto da trenta o quarant’anni per la stessa idea. Chi ha alle spalle una lunga militanza fallimentare, ma anzi non ha impedito la vittoria dell’avversario, ha offerto la migliore dimostrazione della sua totale incapacità. La cosa più pericolosa è che questi individui non vogliono diventare membri del movimento, ma intendono sollevare nuvole di zolfo70 dai pulpiti di comando, che ritengono l’unica posizione consona alla loro lunga militanza. Ma guai a consegnare un giovane movimento a queste persone! Se un uomo d’affari che, in quarant’anni d’attività, ha rovinato una grossa azienda, non è adatto a crearne un’altra, questi Matusalemme nazionalpopolari che hanno bloccato e sclerotizzato una grande idea sono inadatti a guidare un nuovo giovane movimento! Del resto tutti questi uomini non entrano quasi mai nel nuovo movimento per servirlo, ma assai spesso per ripetere la stessa solfa all’ombra della sua protezione e delle sue possibilità. Essi non vogliono contribuire alle idee della nuova dottrina, ma vogliono tediare l’umanità con le loro vecchie posizioni. Anche se spesso è molto difficile capire quali siano. È tipico di molti di loro trasudare eroismo vetero-germanico, entusiasmarsi per la grigia preistoria, per le asce di pietra, per i ger 71 e per gli scudi. Eppure sono i più grandi vigliacchi che ci siano sulla faccia della terra. Le stesse persone che agitano per aria spade vetero-germaniche di latta a titolo preventivo, che si mettono in testa una Allusione alle diverse formazioni “nazionalsocialiste” fondate nel 1924-25: la Nationalsozialistische Freiheitsbewegung di Ludendorff, von Graefe e Strasser e il Nationalsozialer Volksbund di Drexler. 69 Hitler temeva che l’uso di espressioni vetero-germaniche fosse più nocivo che utile alla causa nazista. Bibliografia: H. Beck (ed.), Zur Geschichte der Gleichung “germanisch-deutsch”. Sprache und Namen, Geschichte und Institutionen, Berlino, de Gruyter, 2004. 70 Sul concetto di “sulfureo” vedi capitolo 2-I. 71 Giavellotto germanico.
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314 pelle di orso con le corna di toro, predicano sempre e soltanto una lotta con armi intellettuali e fuggono come lepri di fronte a un manganello di gomma comunista72. I posteri avranno pochi motivi per celebrarne l’eroismo in un nuovo epos. Ho conosciuto assai bene queste persone per non provare profondo disgusto di fronte alla loro miserabile commedia. Il loro effetto sulla massa è ridicolo e l’ebreo fa bene a risparmiare simili commedianti nazionalpopolari, preferendoli ai veri sostenitori di uno Stato tedesco avvenire. Inoltre questi uomini sono così presuntuosi, così saccenti, pur avendo sempre dato dimostrazione della loro totale inettitudine, e diventano una vera piaga per ogni combattente retto e onesto per cui l’eroismo non è solo preistoria, ma che si sforza di tramandare ai posteri il suo operato. Talora è veramente difficile distinguere chi fra queste persone agisca così per cronica stupidità o per incapacità da chi lo faccia consapevolmente. Specialmente di fronte ai riformatori religiosi del carattere vetero-germanico ho sempre la sensazione che siano manovrati da quelle potenze che non desiderano la rinascita del nostro popolo. La loro attività distrae il popolo dalla lotta contro il nemico comune (l’ebreo), per logorarne le forze in dispute religiose insensate e funeste73. Ma proprio per questo è necessario erigere un forte potere centrale, cioè un’autorità incondizionata della dirigenza. Solo così si possono evitare i maneggi di quegli elementi perniciosi. Ed è per questo che i più grandi nemici di un movimento unitario e risoluto pullulano nei circoli degli “Ahasveri nazionalpopolari”. Essi odiano nel movimento la forza che tappa loro la bocca. Non per niente, il nuovo movimento redasse subito un programma senza utilizzare il termine di “nazionalpopolare”. Questo concetto, per via della sua indeterminatezza, non è il chiaro fondamento di un movimento, né offre un criterio di appartenenza. Quanto più è indefinibile e interpretabile, tanto più quel termine aumenta la possibilità di appellarsi al suo nome74. L’introduzione di un termine indefinibile e così ambiguo nella lotta politica determina la fine di ogni forte comunità di lotta, che non tollera di affidare ai singoli la definizione della sua fede e della sua volontà. È vergognoso ciò che oggi si sente in giro sul termine “nazionalpopolare”. Ognuno dice la sua. Un professore bavarese di nome Bauer75, celebre combattente con le armi intellettuali e prodigo di contributi scientifici diretti a Berlino, ritiene quel concetto idoneo solo a una visione monarchica. Quella mente sottile non ha ancora 72
Sul problema della violenza comunista vedi capitolo 9-II. Hitler si oppose sia agli sforzi di germanizzare il cristianesimo (il “cristianesimo positivo” indicato nel ventiquattresimo punto del “Programma dei Venticinque punti”), sia ai raggruppamenti neopagani e anticristiani, che mettevano a rischio l’unità della comunità nazionalpopolare. Il suo pragmatismo determinò la rottura con Ludendorff (1925) e quella con Dinter (1928). I nazionalsocialisti del Nord accusavano Hitler di ultramontanismo e di essere influenzato dalla simbologia cattolica. [KA, n. 174]. 74 Il “Programma dei Venticinque punti” non cita mai il termine völkisch (nazionalpopolare), usato nei comizi e sui giornali. L’espressione, che rimase nell’organo ufficiale di partito (il “Völkischer Beobachter”) e fu utilizzata in varie interventi, non era ritenuta peculiare del nazionalsocialismo. 75 Allusione al docente ginnasiale Hermann Bauer (1884-1960), funzionario della Bayerische Mittelpartei (Partito di centro bavarese) e presidente dei Vereinigte Vaterländische Verbände Bayerns (Leghe patriottiche unite di Baviera). Hitler si riferiva generalmente ai “professori” in termini critici contro i suoi concorrenti nazionalpopolari. 73
315 spiegato i nessi fra la nostra vecchia monarchia tedesca e la visione nazionalpopolare attuale. Temo che gli riuscirebbe difficile. Non è facile immaginarsi qualcosa di meno nazionalpopolare che la maggior parte delle vecchie monarchiche tedesche, altrimenti, non sarebbero scomparse oppure la loro scomparsa dimostrerebbe l’inconsistenza della visione nazionalpopolare. Quindi chiunque dice la sua. Ma una molteplicità di opinioni non può essere presa in considerazione quale base di un movimento politico di lotta. Non m’interessa l’alienazione e l’ignoranza dell’anima popolare espressa da ogni “Giovanni Battista” nazionalpopolare del ventesimo secolo76. Tutto ciò è sufficientemente illustrato dal ridicolo di cui li ricopre la sinistra: li fa cianciare e poi li prende in giro. Ma chi non riesce a farsi odiare dai nemici, non può essere un amico di valore. E quindi l’amicizia di quegli uomini non è solo inutile, ma è pure dannosa. Questo è il motivo principale per cui scegliemmo il nome di “partito”. Così speravamo di scoraggiare quello sciame di sonnambuli nazionalpopolari. Poi scegliemmo di chiamarci Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori. La prima parte del nome ci tolse di torno i sognatori del passato, i parolai e i chiacchieroni superficiali dell’idea “nazionalpopolare”; la seconda ci liberò dai cavalieri “spirituali”, dagli smidollati che ritengono la “penna” lo scudo protettivo di fronte alla loro profonda vigliaccheria. Naturalmente fummo poi attaccati duramente da questi ultimi, non fisicamente, ma con la carta, com’è peraltro prevedibile da quegli schermitori con penne d’oca nazionalpopolari77. Ai loro occhi, il nostro motto “a chi ci attacca con la forza, rispondiamo con la forza” era assai inquietante. Essi ci rimproveravano continuamente la rozza adorazione del manganello di gomma, ma anche l’assenza di valori spirituali. A quei ciarlatani non interessa che, in un’assemblea popolare, un Demostene78 sia zittito da una cinquantina di idioti, dotati di una risposta pronta e dei loro pugni, che non intendono farlo parlare. L’innata viltà non fa mai correre loro quel rischio: non lavorano “rumorosamente” o “inopportunamente”, ma in “silenzio”. Ancora oggi io non saprei come mettere abbastanza in guardia il nostro movimento da quella rete di “lavoratori silenziosi”. Essi non sono solo vigliacchi, ma anche incompetenti e inetti. Un uomo che sa qualcosa, che avverte un determinato pericolo e vede la possibilità di evitarlo, ha il maledetto dovere di non lavorare in “silenzio”, ma di schierarsi apertamente contro quel male e di curarlo. Se non lo fa, è un miserabile vigliacco dimentico dei suoi doveri, che fallisce per vigliaccheria, per pigrizia o per incapacità. Certo, questo non succede a quegli ignoranti che credono di saperla lunga. Non sanno far nulla, ma cercano di ingannare il mondo coi loro giochi di prestigio. Sono pigri, ma, col loro lavoro silenzioso, suscitano l’impressione di condurre un lavoro enorme e continuo. In sintesi sono imbroglioni, trafficanti, politici invidiosi dell’onesto lavoro altrui. Non appena una falena nazionalpopolare si appella
Giovanni Battista, “precursore” di Gesù. I giornali nazionalpopolari al di fuori Monaco ignorarono l’evento [KA, n. 186]. 78 Statista e retore greco (384-322 a.C.). 76 77
316 all’oscurità, possiamo scommettere mille a uno che non sta facendo nulla, ma che ruba e ruba il frutto del lavoro altrui. Per non parlare dell’arroganza e della presuntuosa sfacciataggine con cui quella gentaglia sfaticata e losca si getta sul lavoro altrui, lo critica con supponenza, diventando così il nemico mortale del nostro carattere nazionalpopolare. L’ultimo agitatore che ha il fegato di difendere virilmente e apertamente la sua visione su un tavolo di osteria in mezzo i suoi avversari, vale mille di questi ipocriti e perfidi scansafatiche. Egli convertirà sicuramente qualche presente alla nostra causa. Ecco come misurare il successo della sua attività. Solo i vili bugiardi, che lodano il loro lavoro “silenzioso” e si ammantano di un anonimato disdegnoso, sono inutili e possono essere ritenuti, nel senso più vero del termine, i “parassiti” della rinascita popolare. All’inizio del 1920 io sostenni l’organizzazione della prima grande adunata di massa. I pareri erano discordanti. Alcuni importanti membri del partito la ritenevano prematura e, quindi, pericolosa. La stampa rossa aveva iniziato a occuparsi di noi ed eravamo ben lieti di suscitare il loro odio79. Avevamo iniziato a esibirci come oratori in altre assemblee locali. Naturalmente, eravamo subissati di fischi. Ma si trattava di un successo: iniziavano a conoscerci e, approfondendo la nostra conoscenza, cresceva l’avversione e la rabbia contro di noi. Potevamo quindi attenderci che, annunciando la prima assemblea di massa, avremmo ricevuto una visita dei nostri cari amici rossi. Sapevo bene che era probabile lo scontro violento. Prima o poi era inevitabile. Conoscevo sin troppo bene la mentalità dei rossi per non sapere che una resistenza estrema non solo li avrebbe impressionati enormemente, ma avrebbe anche conquistato simpatizzanti alla nostra causa. Bisognava essere pronti a organizzare la nostra resistenza. L’allora primo presidente del partito (Harrer) non concordava sulle mie idee relative alla data dell’assemblea e quindi si dimise dalla guida del movimento, essendo un uomo onesto e leale80. Al suo posto subentrò il signor Anton Drexler. Io stesso mi riservai l’organizzazione della propaganda e la realizzai in modo implacabile. Così la data per l’organizzazione della prima grande adunanza popolare del movimento ancora sconosciuto fu fissata per il 24 febbraio 1920. Io stesso diressi tutti i preparativi, che furono molto brevi. In generale tutto l’apparato si preparò a prendere decisioni rapidissime. Bisogna indire un’assemblea di massa entro ventiquattrore sui problemi contingenti. L’annuncio andava fatto attraverso manifesti e volantini, la cui forma si atteneva scrupolosamente alle mie linee guida della propaganda. Effetto sulla grande massa, concentrazione su pochi punti, insistente ripetizione, stesura chiara e consapevole del testo in forma apodittica, grande perseveranza nella diffusione e pazienza nell’attesa del risultato. 79
Le prime notizie sul Partito nazionalsocialista da parte della stampa di sinistra apparvero sul “Münchener Post” nell’aprile 1920 [KA, n. 193]. 80 Il conflitto fra Hitler e Harrer aveva molte ragioni. Harrer intendeva portare avanti una politica di coalizione. Il conflitto si accentuò a inizio 1920, quando Harrer insinuò il sospetto di falsificazioni contabili. Hitler, insieme a Drexler, costrinsero Harrer alle dimissioni il 5 gennaio 1920. Ma Hitler non assunse direttamente la guida del partito [KA, n. 195].
317 Come colore fu scelto il rosso, quello più stimolante, che doveva indignare e provocare i nostri avversari, facendoci così conoscere e ricordare81. Nei mesi successi, anche in Baviera la stretta alleanza fra marxismo e Zentrum si rivelò soprattutto nella cura con cui il Partito popolare bavarese, all’epoca al governo, tentò di smorzare l’effetto dei nostri manifesti sulle masse operaie rosse e di impedirne la diffusione. Se la polizia non trovava miglior mezzo per contrastarci, si appellava ai “regolamenti del traffico stradale”, finché, per favorire l’intimo e tranquillo alleato rosso e grazie alla complicità del Partito popolare nazionaltedesco82, non furono del tutto proibiti i nostri manifesti, che avevano restituito al carattere nazionalpopolare tedesco centinaia di migliaia di lavoratori internazionalisti aizzati e sedotti. Qui allego in appendice una serie di questi manifesti a modello del nostro giovane movimento83. Essi hanno circa tre anni di vita e documentano assai bene la lotta violenta che il giovane movimento ingaggiò in quei giorni. Ma essi devono anche testimoniare ai posteri la volontà e la sincerità del nostro sentimento e l’arbitrio delle “autorità nazionali”, che ostacolavano una nazionalizzazione “imbarazzante” e, quindi, la riconquista delle grandi masse del nostro carattere nazionalpopolare. Quei manifesti devono anche contribuire a fugare l’opinione che in Baviera esistesse un governo nazionale e a documentare ai posteri che la Baviera nazionale degli anni 1919-23 non era certo il prodotto di un governo nazionale, ma che anzi il governo avrebbe dovuto considerare un popolo di sentimenti nazionalisti. I governi fecero di tutto per neutralizzare l’opera di risanamento. Con un’unica eccezione. L’allora presidente della polizia Ernst Pöhner84, col suo fido consigliere (il primo funzionario Frick), fu l’unico alto funzionario statale che ebbe allora il coraggio di essere anzitutto un tedesco85. Fu l’unico a non mendicare il favore delle masse, ma a sentirsi responsabile del suo carattere nazionalpopolare. Fu pronto a mettere in gioco perfino la vita per la rinascita dell’amatissimo popolo tedesco. Fu anche una spina sempre nel fianco di quei corruttibili funzionari che non agiscono nell’interesse del loro popolo e della necessaria sollevazione libertaria, ma sono docili agli ordini del padrone, ignari della salute del bene nazionale in loro mano. Pöhner era una di quelle creature che non temono l’inimicizia dei traditori popolari e statali, a differenza dei principali tutori della “autorità statale”, ma che anzi la ritengono la massima ricompensa dell’uomo perbene. L’odio degli ebrei e dei marxisti, la loro lotta piena di bugie e di calunnie, erano per Pöhner l’unica nota lieta in mezzo alla miseria del nostro popolo.
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Sul rosso come simbolo rivoluzionario vedi capitolo 7-I. Dal giugno 1920 al settembre 1921, la Bayerische Mittelpartei (costola bavarese della Deutschnationale Volkspartei) partecipò alla formazione del governo di Gustav von Kahr (1862-1934), creando malumori fra la base. 83 Le prime edizioni del primo volume erano accompagnate da una raccolta di manifesti delle adunanze naziste. 84 Ernst Pöhner (1870-1925), capo di polizia di Monaco sino al 1921, morì l’11 aprile 1925 a causa di un incidente automobilistico. Hitler dedicò un simile tributo solo a Eckart al termine del secondo volume. 85 Wilhelm Frick (1877-1946) fu collaboratore di Pöhner dal 1919. Il putsch del novembre 1923 prevedeva la presidenza bavarese a Pöhner e il comando della polizia a Frick.
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318 Un uomo di granitica onestà, di antica sobrietà e di rettitudine tedesca, in cui l’espressione “meglio morto che schiavo”86 non era un semplice motto, ma il simbolo di tutta la sua persona. Pöhner e il suo collaboratore Frick sono ai miei occhi gli unici funzionari statali che abbiano il diritto di considerarsi i collaboratori di una Baviera nazionale.
Figura 2 Ernst Pöhner [fonte: historisches-lexikon-bayerns.de]
Prima di indire la grande adunanza di massa non bisognava solo preparare il necessario materiale propagandistico, ma stampare anche i principî del programma. Nel secondo volume analizzerò dettagliatamente i singoli punti del programma. Qui dico soltanto che furono creati non solo per dare forma e contenuto al giovane movimento, ma anche per renderne comprensibili gli scopi alle grandi masse. I circoli dell’intellighenzia hanno deriso e ironizzato i nostri punti e hanno tentato di criticarli. La bontà della nostra visione delle cose ha reso però efficace il nostro programma. In quegli anni ho visto sorgere dozzine di nuovi movimenti, che sono tutti scomparsi o si sono dispersi senza lasciare traccia. Solo uno è sopravvissuto: il Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori. E oggi nutro ancor di più la convinzione che si potrà combatterlo, che si potrà pure cercare di paralizzarlo, che piccoli ministri di 86
Noto proverbio frisone.
319 partito potranno anche proibirci di parlare o di scrivere87, ma che le nostre idee finiranno per trionfare. Quando non ci sarà più memoria dell’attuale visione statale e dei suoi rappresentanti, i fondamenti del programma nazionalsocialista saranno le basi di uno Stato avvenire. L’attività assembleare negli ultimi quattro mesi del 1919 ci aveva permesso di raggranellare i mezzi necessari per la stampa dei primi volantini, dei primi manifesti e del nostro programma.
Figura 3 Il “Programma dei Venticinque Punti” esposto il 24 febbraio 1920 [Fonte: München und der Nationalsozialismus, 2015] 87
Allusione al Redeverbot (divieto di parola) a titolo preventivo comminato a inizio marzo 1925 in Baviera su iniziativa del ministro dell’interno bavarese Karl Stützel. Particolarmente grave fu il Redeverbot triennale comminato in Prussia dal 26 settembre 1925 per mano di Carl Severing. Vedi capitolo 1-I.
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Se, a conclusione del volume, cito quella prima grande assemblea di massa, lo faccio perché così il partito ruppe la cerchia ristretta della piccola associazione e influenzò per la prima volta il fattore più potente della nostra epoca: l’opinione pubblica. Io stesso avevo un’unica preoccupazione: la sala si sarebbe riempita oppure avremmo parlato davanti a uno spazio vuoto? Avevo la fermissima convinzione che, se gli uomini fossero venuti in massa, quel giorno sarebbe stato un enorme successo per il nostro giovane movimento. Perciò mi avvicinai alla sera con grande apprensione. L’inizio era fissato per le 7:30. Alle 7:15 misi piede nel salone dello Hofbräuhaus am Platzl di Monaco. Il cuore sembrava scoppiarmi dalla gioia. L’enorme spazio, che non avevo mai visto così, era ricolmo di persone, tutte assiepate, una massa di quasi duemila persone88. E, soprattutto, erano venuti coloro ai quali volevamo rivolgerci. Più della metà della sala sembrava occupata da comunisti e da indipendenti. Erano decisi a farla subito finita. Solo che le cose andarono diversamente. Dopo che terminò di parlare il primo oratore, io presi la parola. Pochi minuti dopo, piovvero commenti ad alta voce, nella sala scoppiarono scontri violenti, una manciata di commilitoni e di altri sostenitori si batterono contro i contestatori e riuscirono progressivamente a ristabilire l’ordine. Io potei continuare a parlare. Dopo mezz’ora, gli applausi iniziarono progressivamente a coprire le urla e gli insulti. Io presi il programma e iniziai a illustrarlo per la prima volta. Di quindici minuti in quindici minuti, i commenti ad alta voci erano sempre più deboli, soffocati dalle acclamazioni crescenti89. E quando, alla fine, presentai punto per punto le venticinque tesi all’uditorio e lo pregai di esprimere il suo giudizio, la massa li approvò uno dopo l’altro con giubilo crescente, all’unisono e sempre e solo all’unisono. E quando l’ultima tesi giunse al cuore della massa, ecco che apparve di fronte a me una sala pieno di persone, unite da una nuova convinzione, da una nuova fede, da una nuova volontà. Quando, dopo circa quattro ore, la sala iniziò a svuotarsi e la massa si riversò lentamente verso l’uscita, io sentii che i principî indimenticabili di un movimento avevano iniziato a spargersi nel popolo tedesco. Una fiamma si era accesa, dalla cui cenere si sarebbe forgiata la spada che avrebbe restituito al Sigfrido germanico la libertà e alla nazione tedesca la vita90. E, accanto alla rinascita avvenire, io sentii la dèa della tremenda vendetta procedere per lo spergiuro del 9 novembre 191891. La sala si svuotò lentamente. 88
I resoconti di polizia parlavano di nemmeno duemila presenti. Hitler parlò poi di circa millesettecento [KA, n. 214]. 89 Stando ai resoconti della polizia, i disturbi raggiunsero il picco quando fu la volta di acclamare i principî [KA, n. 218]. 90 Con la figura di Sigfrido, tradito e ucciso per volere di Gunther nella saga dei Nibelunghi, Hitler allude alla leggenda della “pugnalata alla schiena”. 91 Allusione alla Rivoluzione e alla proclamazione della Repubblica del 9 novembre 1918.
321 Il movimento fece il suo corso.
Approfondimenti didattici 1. Analisi retorica e stilistica
- Individua le principali figure retoriche; - Individua l’esistenza di fallacie retoriche; - Individua i principali “loci” e “topoi”; - Individua la presenza di stereotipi e pregiudizi.
2. Analisi storico-culturale - Partito e organizzazione: analizza la sociologia del partito politica di inizio Novecento e tenta di individuare le peculiarità del “partito carismatico”; - Nazionalizzazione delle masse: analizza la genesi dell’espressione alla luce dell’ampliamento del suffragio universale, dei nuovi mass media e della crisi economica postbellica; - Il primato della volontà: analizza la tesi hitleriana del volontarismo politico e tenta di contestualizzarlo all’interno della nascita dei partiti “rivoluzionari” o “riformatori” di inizio Novecento; - Socialismo e nazione: analizza la tesi hitleriana della nazionalizzazione del lavoratore alla luce della coeva visione marxista e internazionalista.
A. Gilardoni, Logica e argomentazione. Un prontuario, Milano, Mimesis, 2008.
II. Il movimento nazionalsocialista
Capitolo I. Visione del mondo e partito
Sinossi 1. Genesi Il capitolo 1-II ha la funzione di legare i due volumi del Mein Kampf e di proseguire l’analisi del termine völkisch (nazionalpopolare) in chiave politica. Lo scenario è il confronto con le altre formazioni nazionalpopolari della Germania settentrionale e la “dogmaticità” del programma dei “Venticinque Punti” nel Partito nazionalsocialista (messo in discussione a inizio 1926). Insieme al capitolo 4-I è uno dei più tardi a essere stato redatto (ottobre-novembre 1926). Il tema centrale è il futuro Stato nazionalsocialista, poi sviluppato nei primi quattro capitoli del secondo volume1. 2. Contenuto Hitler ricorre all’argomento “ad hominen” per denigrare la democrazia parlamentare e i suoi rappresentanti: le idee dei parlamentari sono il frutto della “natura corrotta” dei suoi portatori; chi la sostiene è consapevolmente al soldo dell’ebraismo oppure è un ingenuo. Il movimento nazista deve ben guardarsi dal compiere l’involuzione partitocratica borghese (da cui fu colpito già il pangermanesimo austriaco prebellico), altrimenti rischia di essere fagocitato dal sistema democratico e di essere asservito fisicamente e moralmente al “baculum” marxista. La democrazia occidentale è una visione politica che condurrà inevitabilmente alla vittoria dell’ebraismo e al tramonto dell’arianesimo. Dopo la premessa antiborghese, Hitler ritorna a parlare del termine “nazionalpopolare”, tanto abusato fra le destre sociali proprio perché – a suo giudizio – troppo generico, incapace di fissarsi in una visione del mondo e in un partito. Il termine “nazionalpopolare” è analogo a quello di “religioso”. Il religioso è un’espressione generica che sta per un impulso insopprimibile dell’uomo (l’anelito verso la trascendenza). La visione del mondo è analoga alla fede, salvo che intende sostenerla qui e ora, ricorrendo, se necessario, alla forza bruta. Il movimento nazionalsocialista ha il merito da aver saputo incanalare la visione del mondo nazionalpopolare in un partito politico, di esserne in qualche modo l’annunciatore e l’alfiere. Il nazionalsocialismo è nazionalpopolare come la Chiesa cattolica è cristiana. Ha fissato i dogmi su cui erigere la nuova “chiesa” (cioè lo Stato), che avrà il fine di salvaguardare e di promuovere la razza ariana sino alla fine dei tempi. La visione del mondo nazista non ingaggia una semplice lotta per la “ragione”, ma per la “verità”. Il suo avversario non è certo il mondo borghese (anche se è complice dell’involuzione materialistica), ma il marxismo, braccio armato dell’ebraismo cosmopolita internazionalista. La vittoria del nazismo non è una semplice vittoria elettorale e politica, ma è la vittoria della verità e la salvezza del mondo intero. La forma partitica è l’involucro necessario alla conduzione della sua lotta di civiltà.
1
KA II, p. 957.
326 3. Analisi Nel capitolo inaugurale del secondo volume, dedicato al movimento nazionalsocialista, Hitler deve fugare ogni dubbio circa la “superiorità” e l’“infallibilità” del Führer (capo). Lo scenario è la lotta intrapartitica del 1926. Dopo aver eliminato gli avversari bavaresi e aver emarginato, di fatto, le altre formazioni nazionalpopolari nordiche, come la Deutschvölkische Freiheitsbewegung (Movimento nazionalpopolare tedesco per la libertà) di von Graefe, il pericolo principale è costituito dalla “sinistra nazista” degli Strasser e di Joseph Goebbels. Gregor Strasser, che ha creato una Arbeitsgemeinschaft (Gruppo di lavoro) dei Gauleiter nord-occidentali con spinte “nazionalbolsceviche”, è costretto a desistere dalla sua posizione, ma sarà poi cooptato nel progetto hitleriano di diffusione capillare del nazismo nei gangli della società. Il modo più semplice per delegittimare l’opposizione interna è il cosiddetto “argomento fantoccio”. Hitler confuta il sistema democratico tout court per attaccare l’opposizione di sinistra: la democrazia interna è sbagliata e sterile, crea solo una banda di “chiacchieroni” irresponsabili. Basta vedere cosa fanno i parlamentari borghesi dai tempi viennesi sino alla Repubblica di Weimar. Se la democrazia e il parlamentarismo sono il “male ebraico”, lo sono anche in seno al partito, perché creano divisioni, lacerazioni nel partito-ecclesia che deve rinsaldare e difendere la comunità nazionalpopolare. Quindi bisogna dimostrare che il nazionalsocialismo non è un’idea politica come tante altre, ma è una visione del mondo, cioè una fede “immanentizzata” incarnata in un determinato movimento politico. I suoi dogmi sono intoccabili e necessari, non sono soggetti alla contingenza. Poiché il nazionalsocialismo è una fede “immanentizzata”, cioè ha dato un volto e un nome al “religioso” nazionalpopolare, diventa necessaria la costruzione di un partito-ecclesia. La visione del mondo è una fede politica e, quindi, ha bisogno di un partito che rappresenti le sue istanze in modo concreto, che sia universale e particolare in pari misura, cioè che sintetizzi un anelito eterno in una forma temporale. Hitler, sempre contrario a espressioni come “partito” o “nazionalpopolare”, è ben consapevole che la sfida politica principale consiste nel salvaguardare l’ideologia nazista dalla frantumazione partitica e delineare una “confessione di fede” politica. Ma il radicamento popolare può avvenire solo attingendo al mito più profondo della società umana: la lotta fra il bene e il male. 4. Parole-chiave Ariano, Democrazia, Ebraismo, Ebreo, Fede politica, Fede religiosa, Internazionale comunista, Internazionalismo, Karl Marx, Marxismo, Materiale umano, Nazionalpopolare, Parlamentarismo, Religiosità, Religioso, Rivoluzione del 1918, Venticinque Tesi Programmatiche, Visione del mondo, Zentrum. 5. Bibliografia essenziale - S. Breuer, Ordnungen der Ungleichkeit. Die politische Rechte im Widerstreit ihrer Ideen, 1871-1945, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 2001; - Id., Die Völkischen in Deutschland. Kaiserreich und Weimarer Republik, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 2008; - P. Bruppacher, Adolf Hitler und die Geschichte der NSDAP. Eine Chronik, parte 1: 1889-1937, Norderstedt, Books on Demand, 2014; - A. Bullock, Hitler. Studio sulla tirannide, Milano, Res Gestae, 2014; - K. Burke, Die Rhetorik in Hitlers “Mein Kampf” und andere Essays zur Strategie der Überredung, Francoforte sul Meno, Suhrkamp, 1967;
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Il 24 febbraio 1920 si svolse la prima grande manifestazione di massa del nostro giovane movimento2. Nel salone dello Hofbräuhaus di Monaco le Venticinque Tesi Programmatiche3 del nuovo partito furono sottoposte a una folla di quasi duemila persone e ogni singolo punto fu accolto con giubilo4. Così furono messi in circolazione i principî e le linee guida iniziali di una battaglia che avrebbe dovuto fare piazza pulita di un vero guazzabuglio di idee, di visioni tradizionali e di obiettivi oscuri, se non deleteri. Nella pigra e vigliacca galassia borghese, nella marcia trionfale della marea conquistatrice marxista5 si stava facendo largo un nuovo fenomeno di potere in grado di fermare sul bordo del precipizio il carro del destino. Era ovvio che il nuovo movimento avrebbe potuto conservare l’importanza e la forza necessarie alla sfida erculea solo se fosse riuscito sin dal principio a destare nei L’adunanza del Partito tedeschi dei lavoratori del 24 febbraio 1920, alla quale parteciparono circa duemila uditori, fu poi ritenuta “fondativa” del Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori. 3 Il Programma dei “Venticinque Punti” fu l’esito della collaborazione tra Anton Drexler, Gottfried Feder e Hitler [KA, n. 2]. 4 Poiché tra il pubblico erano presenti circa un centinaio di socialdemocratici di sinistra e di comunisti, che disturbarono l’adunanza con commenti ad alta voce, non si può parlare di un’approvazione consensuale del programma. La serata si concluse con alcuni tafferugli e con l’intervento della polizia [KA, n. 3]. 5 I numeri dicono che, alle elezioni del dicembre 1924, il Partito comunista ottenne circa il 9% e il Partito socialdemocratico indipendente lo 0,3%. 2
329 cuori dei suoi sostenitori la sacra convinzione che si dovesse imporre alla vita politica non un nuovo slogan elettorale, ma soprattutto una nuova visione del mondo di significato essenziale. Si pensi soltanto con quali miserabili punti di vista siano rabberciati e, a volte, abbelliti o modificati i “programmi di partito”. Analizzando al microscopio i moventi delle “commissioni programmatiche” borghesi cogliamo veramente la rilevanza di questi aborti programmatici.
Figura 1 Il Salone dello Hofbräuhaus, sede dell’adunanza costitutiva del Partito nazionalsocialista [fonte: carolynyeager.net]
L’unica preoccupazione dietro alla formulazione di nuovi programmi o alla modifica di quelli esistenti è la successiva tornata elettorale. Non appena nelle menti di quegli “artisti” parlamentari sorge il sospetto che l’amato popolo intenda ribellarsi e sfuggire alle briglie del carro partitico, essi si curano di raddrizzare la barra. Ecco spuntare gli astronomi o gli astrologi di partito, i parlamentari “esperti” e “competenti”, per lo più attempati, che, grazie a un “lungo apprendistato politico”, si rammentano di quando la massa perse la pazienza e ora avvertono nuovamente la minaccia incombente. Perciò quei signori riciclano vecchie ricette, costituiscono una “commissione”, ascoltano l’amato popolo, fiutano attentamente attraverso i prodotti della stampa ciò che esso vorrebbe, ciò che disprezza e ciò che desidera. Ogni gruppo professionale, ogni ceto impiegatizio è analizzato minuziosamente e indagato sin nelle sue aspirazioni più recondite. Anche gli “slogan più disgustosi” della peggiore opposizione sono improvvisamente setacciati e, non di rado, con somma sorpresa del suo inventore e diffusore originario, eccoli riapparire in maniera innocua e ovvia nel patrimonio culturale dei vecchi partiti. Perciò le commissioni “riformatrici” del vecchio programma si riuniscono per redigerne uno nuovo (quei signori cambiano idea come il soldato l’elmo sul campo, cioè ogni volta che smarriscono quello vecchio!). Nel nuovo programma ciascuno ha il “suo”: il contadino difende la fattoria, l’industriale la sua merce, il consumatore il suo prodotto, gli insegnanti lo stipendio, i dipendenti statali la pensione, le vedove e gli
330 orfani l’assistenza dello Stato, i traffici commerciali un incentivo, i dazi calano e persino le tasse, se non del tutto, sono parzialmente ridotte. Se capita di dimenticare un ceto o una rivendicazione popolare, si cerca di infilare l’impossibile sul carro programmatico, augurandosi di aver tranquillizzato e soddisfatto i filistei e le loro consorti. Fiducioso nel Dio amorevole e nella perenne stupidità dell’elettore, il partito inizia la battaglia per la “riorganizzazione” dello Stato.
Figura 2 Manifesto elettorale del Partito nazionalpopolare tedesco per la libertà (maggio 1924) [fonte: digitalpostercollection.com]
Figura 3 Rappresentanti Partito nazionalsocialista della libertà alla seduta inaugurale del Reichstag (27 maggio 1924) [fonte: wikipedia.de]
Passate le elezioni, i parlamentari tengono il loro ultimo comizio del quinquennio e tralasciano l’ammaestramento della plebe per adempire i loro doveri supremi e più
331 graditi. La commissione programmatica si scioglie nuovamente e la battaglia per le riforme torna a essere la lotta per l’amato pane quotidiano: la “diaria”6. Ogni giorno il rappresentante popolare si reca in Parlamento, e, prima di mettervi piede, si assiepa all’ingresso di fronte all’elenco dei nuovi eletti. Impaziente di servire il popolo, egli registra il suo nome e riceve meritatamente un piccolo risarcimento per gli sforzi estenuanti e continui7. Dopo quattro anni o nelle settimane critiche precedenti allo scioglimento della Camera, quei signori sono angosciati da un dubbio irrefrenabile. Come la larva non può fare altro che trasformarsi in crisalide, i bruchi parlamentari abbandonano la serra comune per svolazzare in direzione dell’amato popolo. Si rivolgono ai loro possibili elettori, spiegano l’enorme lavoro profuso in quegli anni e la perfida ostinazione dei loro oppositori. La massa ingrata, invece di applaudire con riconoscenza, osa rivolgere loro espressioni ingiuriose, se non urla di odio. Quando l’ingratitudine del popolo raggiunge un livello critico, solo un mezzo può aiutarli: rimettere a lucido il partito, migliorarne il programma e ricreare la commissione. E l’imbroglio ricomincia. Data la granitica stupidità del genere umano, non bisogna stupirsi dell’esito. Guidata dalla sua stampa e abbagliata dal nuovo programma seducente, la mandria di voti “borghesi” e “proletari” ritorna nella stalla comune ed elegge i suoi vecchi imbroglioni. L’uomo del popolo e il candidato dei ceti produttivi si trasformano nuovamente nel bruco parlamentare, divorano le foglie dell’albero statale, per trasformarsi, dopo quattro anni, nella farfalla variopinta. Non c’è nulla di più deprimente che osservare quello spettacolo dal vivo, che assistere all’imbroglio continuo. Da questo humus spirituale la borghesia non attinge certo la forza necessaria per affrontare la lotta contro la forza organizzata del marxismo. Le autorità non ci pensano mai seriamente. Con tutti i loro limiti e malgrado la loro inferiorità intellettuale, gli stregoni parlamentari di razza bianca non possono certo pensare di fronteggiare democraticamente una dottrina per cui la democrazia, con tutti i suoi annessi e connessi, è nel migliore dei casi un mezzo in vista di un fine, è utilizzata per paralizzare l’avversario e per avere carta bianca nei propri affari8. Se oggi, infatti, una parte del marxismo cerca di dissimulare in modo accorto il legame indivisibile con i fondamenti democratici, bisognerebbe non dimenticarsi che, nei momenti critici, quella gente se ne infischia della decisione della maggioranza
I deputati del Reichstag ricevevano una diaria per l’intera durata della legislatura. Dal 1930 la centrale di Monaco del Partito nazionalsocialista iniziò a esigere un contributo obbligatorio dai suoi rappresentanti. 7 La polemica di Hitler era probabilmente una stoccata contro la dirigenza del Movimento nazionalsocialista della libertà di Ludendorff, Strasser e von Graefe, che alle elezioni al Reichstag del dicembre 1924 raccolse appena il 3% dei voti (perdendo il 3,6% rispetto alle politiche di maggio). 8 In base alla filosofia della storia marxiana, la democrazia parlamentare rappresentava solo un gradino intermedio sulla via della società senza classi. Il Partito comunista tedesco rimase fedele a quei principî e, durante la Repubblica di Weimar, mantenne una posizione fortemente antiparlamentare, come dimostrò il tentato colpo di Stato dell’ottobre 1923. Bibliografia: K.-M. Mallmann, Kommunisten in der Weimarer Republik. Sozialgeschichte einer revolutionären Bewegung, Darmstadt Wissenschaftliche Bichgesellschaft, 1996. 6
332 democratica!9 Alludo a quando i parlamentari borghesi si assicuravano l’integrità del paese grazia alla mastodontica ottusità del numero, mentre il marxismo, con un mucchio di sfaccendati, di disertori, di soloni di partito e di letterati ebrei, s’impadroniva del potere senza troppi scrupoli, assestando un sonoro ceffone alla democrazia. Da allora c’è voluto l’animo devoto di un fachiro parlamentare della democrazia borghese per supporre che, d’ora in avanti, la brutale risolutezza degli interessati o dei portatori della peste planetaria10 potesse essere irretita dalla magica ricetta del parlamentarismo occidentale. Il marxismo starà con la democrazia finché riuscirà a conservare per vie traverse il sostegno dell’intellighenzia nazionale masochista per i suoi scopi criminosi. Ma se il calderone parlamentare potesse creare una maggioranza in grado – per via del pluralismo costituzionale – di mettere seriamente in pericolo il marxismo, l’inganno parlamentare finirebbe all’istante. Gli alfieri dell’Internazionale rossa, invece di rivolgere un appello alla coscienza democratica, emetterebbero un richiamo incendiario alle masse proletarie e la loro battaglia si sposterebbe in un solo colpo dalla mefitica atmosfera delle sale parlamenti alle fabbriche e alle strade. La democrazia sarebbe così spacciata. E ciò che non era riuscito all’elasticità mentale di quegli apostoli parlamentari, riuscirebbe istantaneamente alla falce e al martello delle masse proletarie sobillate alla Rivoluzione, come avvenne nell’autunno del 191811. Esse insegnerebbero alla borghesia quanto sia stolto opporsi alla conquista ebraica del mondo per mezzo della democrazia occidentale. Come detto, ci vuole un animo devoto per vincolarsi alle regole di fronte a un giocatore di quella risma, sempre pronto a bluffare o a usarle a proprio vantaggio, ma che saranno abbandonate non appena gli farà comodo. In effetti, per tutti i partiti borghesi la lotta politica consiste unicamente nell’accapigliarsi per qualche poltrona parlamentare, mentre i principî e gli ideali sono abbandonati alla bisogna come le zavorre di sabbia. Naturalmente anche i loro programmi sono stati adattati a tal fine e sono commisurati alle loro forze. Mancano di quell’appeal che avrebbero nella massa se accompagnati da punti di vista superiori e dalla forza persuasiva nella fede assoluta, unita allo spirito pugnace dei suoi alfieri. Ma in un’epoca in cui una parte, fornita di tutte le armi di una visione del mondo sia pure mille volte criminale, si lancia all’assalto dell’ordine esistente, l’altra parte può solo opporre resistenza, se si presenta sotto le vesti di una nuova fede politica, come nel nostro caso, oppure, invece di limitarsi a una difesa debole e vile, adotta il grido di battaglia di un assalto valoroso e brutale. Ma se un ministro borghese nazionalista, per esempio del Zentrum bavarese12, rimprovera stupidamente al nostro movimento di mirare alla “rivoluzione”13, non si può Probabile allusione ai socialdemocratici che, nel “programma di Görlitz” (1921), aveva tentato di limitare l’immagine di partito di classe a una comunità di lotta per la democrazia e per il socialismo. Nel 1925 la socialdemocrazia fece parzialmente ritorno alle radici ideologiche. Bibliografia: H.A. Winkler, Klassenbewegung oder Volkspartei? Zur sozialdemokratischen Programmdebatte 1920–1925, in “Geschichte und Gesellschaft”, VIII, 1, 1982 pp. 9–54. 10 Sulla diffamazione del marxismo come “peste planetaria” vedi capitolo 2-I. 11 Allusione alla repressione del tentativo insurrezionalistico della Lega di Spartaco e del Partito comunista tedesco tra la fine del 1918 e l’inizio del 1919. Bibliografia: B. Pelz, The Spartakusbund and the German working class movement, 1914-1919, Lewiston (New York), E. Mellen Press, 1988. 12 Bayerische Volkspartei (Partito popolare bavarese), che si era separata dal Zentrum nel novembre 1918. 9
333 che dare una sola risposta a quel politicante: certo, noi tentiamo di recuperare il tempo che voi, con la vostra criminosa stupidità, avete perduto. I vostri principî della compravendita parlamentare hanno collaborato a trascinare nel baratro la nazione. Ma noi, in forma offensiva, formulando una nuova visione del mondo e difendendone fanaticamente i suoi principî, costruiremo i gradini su cui in futuro il popolo potrà ascendere ancora al tempio della libertà. Quindi, agli inizi del nostro movimento dovemmo sempre preoccuparci di impedire che la legione dei combattenti per una nuova e sublime convinzione si trasformasse in un’associazione per la promozione degli interessi parlamentari. La prima misura preventiva fu la creazione di un programma che mirasse a uno sviluppo capace, per sua grandezza connaturata, di tenere alla larga gli spiriti deboli e meschini dei politicanti di oggi. Ma quanto fosse giusta la nostra intenzione di imporre scopi programmatici più dettagliati, risultò in modo più chiaro da quelle malattie fatali che portarono al tracollo della Germania. Consapevoli di tutto ciò, dovemmo formulare una nuova concezione dello Stato, elemento essenziale di una nuova concezione del mondo. Nel primo volume mi sono occupato del termine “nazionalpopolare”, constatando che quell’indicazione sembrava troppo generica per consentire la formazione di una comunità di lotta compatta. Dietro al termine “nazionalpopolare” si cela oggi una quantità di cose assai eterogenee. Prima di passare ai compiti e agli obiettivi del Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori, vorrei quindi chiarire il significato del termine “nazionalpopolare” e il suo legame con il movimento partitico14. Il termine “nazionalpopolare” è così vago, poliedrico e generico nell’uso pratico come il termine “religioso”. È molto difficile immaginare qualcosa di preciso con quel termine, sia in senso spirituale, sia in senso pratico. Il termine “religioso” è comprensibile nell’istante in cui si lega a un preciso evento. È bello, ancorché facile, indicare la natura di un uomo come “profondamente religiosa”. Ben pochi sarebbero contenti di un’etichetta così generica, capace di trasmettere un quadro alquanto impreciso di quello stato d’animo. Ma poiché la grande massa non è formata da filosofi o da santi, un’idea religiosa così generica indicherà il suo pensiero o la sua azione, privandola dell’efficacia che il pensiero religioso ottiene nell’istante in cui lo sconfinato universo metafisico si trasforma in una fede religiosa chiaramente delineata. La fede non è un fine, ma un mezzo; il mezzo necessario per raggiungere quel fine. Non si tratta di un fine ideale, ma pratico. Bisogna che sia assolutamente chiaro che gli
Probabile allusione al ministro dell’interno bavarese Karl Stützel, che nel marzo 1925 aveva inflitto un Redeverbot (divieto di parola) a Hitler di durata biennale. Poco dopo emisero analogo provvedimento la Prussia, Amburgo, la Sassonia, il Baden, l’Assia, Lubecca, l’Anhalt e l’Oldenburgo. I provvedimenti furono revocati tra il marzo 1927 (Baviera) e settembre 1928 (Prussia). 14 I tentativi hitleriani di distinguere fra “nazionalsocialismo” e “nazionalpopolare” vanno considerati una reazione tattica ai critici interni che consideravano il Partito nazionalsocialista un semplice “traino” dei nazionalpopolari tedeschi. 13
334 ideali più elevati riflettono sempre una profonda necessità vitale, così come la nobiltà della bellezza più subliminare non è altro che qualcosa di logicamente adeguato. Aiutando l’uomo a elevarsi oltre il livello dell’esistenza animale, la fede contribuisce a rafforzarne e a salvaguardarne l’esistenza. Se abolissimo tutti i principî religiosi e morali mediati dall’educazione, eliminando la religione, non rimpiazzandola con qualcosa di equivalente, provocheremmo un pesante sconvolgimento delle fondamenta umane. Possiamo quindi affermare che l’uomo non vive solo per servire ideali superiori, ma che, viceversa, quegli ideali sono anche il presupposto della sua esistenza umana. Così si chiude il cerchio.
Figura 4 Copertine dei periodici nazionalpopolari “Deutschlands Erneuerung” (Rinnovamento della Germania) e “Auf Gut Deutsch” (In parole povere) [fonte: historisches-lexikon-bayerns.de; muzeumantikvarium.hu]
Naturalmente col generico termine “religioso” s’intendono singoli pensieri o convinzioni basilari, come quella sull’immortalità dell’anima, sull’eternità dell’esistenza, sull’esistenza di un Essere supremo ecc. Ma quei pensieri, per quanto convincenti, sono soggetti all’esame critico umano e, quindi, oscillano continuamente tra accettazione o rifiuto, finché il presagio o il riconoscimento emozionale non assume la forza di pensiero apodittico. Ecco il primo fattore decisivo che porta al riconoscimento dei principî religiosi fondamentali. Senza una fede chiaramente delineata, la religiosità oscura e multiforme sarebbe non solo irrilevante per la vita umana, ma potrebbe condurre anche al suo logoramento. Lo stesso vale grossomodo per il termine “nazionalpopolare”. Anche qui esistono singole cognizioni fondamentali. Per quanto importanti, esse non sono abbastanza precise da elevarsi al di sopra del valore di un’opinione più o meno legittima, sempre che non siano ritenute elementi fondamentali di un partito politico. La realizzazione di ideali conformi alla visione del mondo e alle sue rivendicazioni non avviene per
335 via del puro sentimento o dell’intima volontà umana, così come la conquista della libertà non avviene per via del suo generale desiderio. No, solo quando l’aspirazione ideale all’indipendenza consegue un’organizzazione idonea al combattimento in forma militare, l’istinto popolare può trasformarsi in una splendida realtà. Una visione del mondo, per quanto mille volte giusta o di suprema utilità per il genere umano, non avrà importanza pratica per la vita nazionalpopolare finché i suoi principî non saranno diventati il vessillo di un movimento di lotta nazionalpopolare, che resterà un partito finché la sua azione non si sarà conclusa col trionfo delle sue idee, finché i suoi dogmi partitici non rappresenteranno i nuovi principî statali della comunità di un popolo15. Ma se una concezione spirituale generale deve essere il fondamento dell’avvenire, va fatta assoluta chiarezza sulla sua natura, sul suo genere e sulla sua portata, perché solo così può sorgere un movimento profondamente omogeneo in grado di produrre la forza necessaria per la lotta. Dalle idee generali bisogna delineare un programma politico, da una visione generale del mondo, invece, una precisa fede politica16. Poiché il suo obiettivo deve apparire realizzabile, la fede non dovrà servire solo all’idea in sé, ma dovrà occuparsi anche dei mezzi di lotta, che sono già presenti o vanno trovati per conseguire la vittoria. A una buona idea morale astratta, che l’autore deve diffondere, bisogna associare la conoscenza pratica del politico17. Un ideale eterno, stella polare dell’umanità, non deve rassegnarsi al fatto di considerare i punti deboli, per evitare di naufragare già in partenza di fronte alle umane debolezze. L’esploratore della verità deve quindi unirsi al conoscitore della psiche nazionalpopolare per estrarre ciò che è umanamente possibile dal regno della verità eterna e dall’ideale e dargli forma. È essenziale la conversione di una concezione generale, di una visione del mondo ben precisa, in una comunità politica di lotta e di fede ben precisa, ben organizzata, dotata di un unico spirito e di un’unica volontà, poiché dalla sua riuscita dipende la possibilità di vittoria. È necessario che, dall’esercito di milioni di uomini dotati, più o meno chiaramente, del presagio e della comprensione di quelle verità, ne emerga uno capace di forgiare con forza apodittica i granitici principî dall’immaginario fluttuante della grande massa e di imbastire la lotta, finché, dai flutti di un mare di idee, non emergerà la solida rupe di un’unitaria comunanza di fede e di volontà. Il diritto universale ad agire così si deve alla sua necessità, mentre il diritto individuale al successo. Se tentiamo di estrarre dal termine “nazionalpopolare” il suo significato più profondo, constatiamo quanto segue. La visione attuale della politica si basa sull’idea che allo Stato non si debba assegnare alcun ruolo creatore ed educatore, che lo Stato non abbia nulla in comune 15
I tentativi prebellici di creare un unico movimento nazionalpopolare fallirono per le grandi differenze ideologiche e organizzative. La maggioranza delle forze intendeva restare una forza extraparlamentare. Durante la Repubblica di Weimar, fatta eccezione per i nazionalsocialisti, i partiti nazionalpopolari ottennero solo risultati isolati a livello locale. Bibliografia: U. Puschner, C. Vollnhals (ed.), Die völkischreligiöse Bewegung im Nationalsozialismus. Eine Beziehungs- und Konfliktgeschichte, Gottinga, Vandenhoeck & Ruprecht, 2012. 16 Sul rapporto fra politica e religione nel nazionalsocialismo vedi capitolo 10-I. 17 Sul rapporto tra programmatore (teorico) e politico vedi capitolo 8-I.
336 coi presupposti razziali, ma che sia solo l’esito di bisogni economici, tutt’al più l’esito naturale di forze e di impulsi politici. Questa visione delle cose conduce logicamente non solo al misconoscimento delle forze razziali primordiali, ma anche alla sottovalutazione della singola persona18. Negando le differenze delle singole razze basate sulle loro forze civilizzatrici universali si dovrà inevitabilmente desumere lo stesso anche nella valutazione delle singole persone. L’equivalenza razziale comporta un’eguale valutazione dei popoli e, quindi, dei singoli. Il marxismo stesso non è altro che la traduzione, compiuta dall’ebreo Karl Marx, di un’impostazione e di una concezione ideologiche già esistenti in una fede politica determinata: il marxismo internazionalista. Se quell’intossicazione non fosse già molto diffusa, non sarebbe immaginabile il sorprendente successo politico della sua dottrina. Infatti Karl Marx fu solo uno dei milioni di persone che, dal pantano di un mondo in lenta putrefazione, riconobbe i veleni più efficaci con lo sguardo chiaroveggente del profeta; scelse, come un negromante, di concentrarli in una soluzione destinata ad annientare rapidamente l’esistenza indipendente delle libere nazioni. E tutto questo al servizio della sua razza19. La dottrina marxistica è l’estratto spirituale più conciso della visione del mondo oggi dominante. Per questo motivo è impossibile, se non ridicola, la lotta borghese contro il marxismo: anche la borghesia è essenzialmente impregnata di tali veleni e la sua visione del mondo si differenzia da quella marxista solo per gradi e sfumature. Il mondo borghese è marxista20, ma crede nel dominio di certi gruppi sociali (la borghesia). Il marxismo, invece, aspira a mettere il mondo sistematicamente nelle mani dell’ebraismo21. Di contro la visione del mondo “nazionalpopolare” riconosce il valore degli elementi razziali primordiali dell’umanità. Considera lo Stato un mezzo in vista di un fine: la conservazione dell’esistenza razziale degli uomini. Essa non crede affatto nell’uguaglianza delle razze, ma ne riconosce la diversità e, quindi, un valore differente. Per questo si sente obbligata, in base all’eterna volontà dominatrice dell’universo, a pretendere la vittoria della razza migliore e più forte, a reclamare l’assoggettamento di quella peggiore e inferiore. Ma, così facendo, si consacra anche all’ideale aristocratico della natura e crede che esso valga anche per il più umile individuo22. La visione del mondo nazionalpopolare non riconosce solo il diverso valore delle razze, ma anche quello dei singoli individui. Estrae dalla massa l’individuo di valore, ma così opera in modo organizzato contro il marxismo distruttore. Crede nella necessità di idealizzare il genere umano, ravvisandovi l’unico presupposto dell’esistenza dell’umanità stessa. Ma non può tollerare un’idea etica che metta a repentaglio la vita razziale dei portatori di un’etica superiore. Perché, in un mondo imbastardito e negrizzato, si perderebbero
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Sul valore delle grandi personalità vedi capitolo 4-II. Per gli antisemiti razziali (biologici e non religiosi) il battesimo non rappresentava una possibile “soluzione della questione ebraica”, poiché la sostanza biologica (“razziale”) degli esseri umani era intoccabile e immodificabile. Quindi Karl Marx, pur essendo stato battezzato e avendo criticato ferocemente lo “spirito ebraico”, restava sempre un “ebreo”. 20 Sul concetto hitleriano di marxismo vedi capitolo 15-II. 21 Sul mito del complotto universale ebraico vedi il capitolo 2-I. 22 Sull’interpretazione socialdarwinistica della selezione naturale vedi capitolo 11-I. 19
337 per sempre i concetti di bello e di sublime, nonché qualsiasi concezione futura idealizzata del genere umano. La civiltà e la civilizzazione umane sono inestricabilmente legate alla presenza degli ariani su questa parte del globo. La loro estinzione o il loro declino farebbe nuovamente calare sulla terra il velo oscuro della barbarie. Minare il patrimonio della civiltà umana annientandone i suoi portatori appare il crimine più esecrabile agli occhi della visione nazionalpopolare del mondo. Chi osa manipolare la più elevata delle creature fatta a immagine e a somiglianza del Signore, commette un sacrilegio contro il generoso Creatore di tale meraviglia e collabora alla cacciata dal paradiso23. Quindi la visione nazionalpopolare del mondo corrisponde alla più intima volontà della natura, poiché restaura quel libero gioco delle forze che devono condurre a una costante moltiplicazione superiore delle razze, finché, una volta acquisita la terra, non sarà spianata la strada a un’umanità superiore in grado di agire oltre se stessa e fuori se stessa. Noi tutti avvertiamo che, in un futuro lontano, potrebbero apparire all’orizzonte problemi che solo una razza superiore di un popolo sovrano, grazie ai mezzi e alle possibilità offerte dal globo terrestre, sarà in grado di risolvere. È ovvio che una concezione talmente generica della visione del mondo nazionalpopolare permette migliaia di interpretazioni differenti. In effetti tutte le nuove formazioni politiche si richiamano in qualche modo a quella visione24. Proprio perché dotata di una propria autonomia, quella visione del mondo testimonia la sua diversità. Perciò, alla concezione del mondo marxista diretta da un organismo supremo unitario si oppone un miscuglio di visioni che fanno minor impressione ideologica rispetto al fronte nemico compatto25. Le vittorie non si ottengono con quelle deboli armi! Solo quando la visione del mondo internazionalista (politicamente rappresentata dal marxismo) affronterà una visione del mondo nazionalpopolare altrettanto organizzata, dotata di eguale spirito combattivo, il successo arriderà alla parte della verità eterna. Una visione del mondo può essere organizzata solo attraverso una precisa formulazione. I dogmi della fede sono i principî fondamentali del partito politico26. In Germania la divinazzazione dell’ariano fu sostenuta sin da fine Ottocento da personaggi come Paul de Lagarde, Ernst Haeckel, Houston S. Chamberlain e Adolf Bartels. Anche Dietrich Eckart definì l’origine “ebraica” di Cristo come una “bugia pazzesca”. Nel movimento nazionalsocialista fu soprattutto Alfred Rosenberg ad “arianizzare” Cristo. Bibliografia: C.-E. Bärsch, Die politische Religion des Nationalsozialismus. Die religiösen Dimensionen der NS-Ideologie in den Schriften von Dietrich Eckart, Joseph Goebbels, Alfred Rosenberg und Adolf Hitler, seconda edizione, Monaco, Fink, 2002. 24 Tra i partiti nazionalpopolari sorti in epoca weimariana, accanto al Partito nazionalsocialista andavano segnalati il Partito socialista tedesco di Sebottendorf e Streicher (1920-22), il Partito sociale tedesco di Kunze (1921-1929) e il Partito nazionalpopolare per la libertà (poi Movimento) di von Graefe e Wulle (1922-1933). 25 Nel 1919 numerosi gruppi nazionalpopolari confluirono nel Deutschvölkischer Schutz- und Trutzbund (Lega nazionalpopolare tedesca a protezione e a difesa). Vedi capitolo 7-II, 8-II, 9-II e 10-II. 26 La richiesta hitleriana di principî immutabili fu l’esito di un confronto acceso sul nuovo programma partitico avanzato da Gregor Strasser nel dicembre 1925 e volto a spostare a sinistra il partito. Al congresso di Bamberga (febbraio 1926) Hitler affermò la sua posizione categoricamente contraria a ogni 23
338 Perciò la visione del mondo nazionalpopolare va dotata di uno strumento che le consenta una rappresentanza pugnace, proprio come l’organizzazione partitica marxista dà libero corso all’internazionalismo. Questo è il fine del Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori. Il fatto che una delimitazione partitica del termine nazionalpopolare sia il presupposto del successo della visione del mondo razziale, è dimostrato in maniera lampante – quantomeno indirettamente – dagli stessi avversari. Proprio coloro che non si stancano mai di sottolineare che la visione del mondo nazionalpopolare non è “enfiteusi”27 di un singolo individuo, ma sonnecchia e si nasconde nel cuore di chissà quanti milioni di individui, indicano che la sua esistenza non riesce affatto a impedire la vittoria della visione del mondo avversa dei partiti classisti. Se così non fosse, il popolo tedesco avrebbe conseguito un grande successo e non si troverebbe oggi sul bordo del precipizio. La concezione internazionalista ha vinto finora perché è rappresentata da un partito politico organizzato in reparti d’assalto. Viceversa, la visione del mondo avversaria ha perso perché è priva di una rappresentanza unitaria. Una visione del mondo può lottare e vincere non nell’illimitata libertà d’interpretazione di una dottrina generica, ma nella forma circoscritta e comprensiva di un’organizzazione politica. Perciò io ritenni mio dovere estrarre dalla materia vasta e informe di una visione del mondo generica le sue idee centrali e le trasformai in dogmi. Idee che, chiaramente circoscritte, si adattano assai bene a una sintesi unitaria per coloro che le accettano. In altri termini, il Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori adotta i tratti essenziali da una generica concezione del mondo nazionalpopolare e, in vista della realtà pratica, dell’epoca e del materiale umano a sua disposizione, così come delle sue debolezze, forgia una confessione di fede politica che, da parte sua, nella rigorosa organizzazione di grandi masse umane ora possibile, crea il presupposto per il trionfo della concezione nazionalpopolare.
Approfondimenti didattici 1. Analisi retorica e stilistica
- Individua le principali figure retoriche; - Individua l’esistenza di fallacie retoriche; - Individua i principali “loci” e “topoi”; - Individua la presenza di stereotipi e pregiudizi.
discussione programmatica. Nel maggio 1926 il “Programma dei Venticinque Punti” fu dichiarato “immutabile” per decisione statutaria [KA, n. 46]. 27 L’enfiteusi indicava il diritto ereditario e alienabile di amministrare un appezzamento di terra agricolo altrui dietro pagamento di un canone. A. Gilardoni, Logica e argomentazione. Un prontuario, Milano, Mimesis, 2008.
339 2. Analisi storico-culturale - Democrazia parlamentare: analizza la descrizione hitleriana della democrazia parlamentare e tenta di individuare l’esistenza di una matrice comune all’interno dei movimenti populistici; - Fede e partito: analizza la visione hitleriana di fede politica e le sue analogie con la “chiesa” cattolica; - Nazionalpopolare: tenta di spiegare la genesi del termine e le sue diverse accezioni nel panorama politico e culturale tedesco e italiano, partendo per esempio dalle considerazioni di Antonio Gramsci.
Capitolo II. Lo Stato
Sinossi 1. Genesi Il capitolo 2-II è uno dei più lunghi di tutto il Mein Kampf. I temi centrali sono il problema della “razza” e l’educazione della gioventù alla luce del futuro Stato nazionalsocialista. La datazione incerta si può desumere da alcuni indizi: il proibizionismo americano (discusso in Germania nel marzo-aprile 1926) e l’assenza di una visione d’insieme del secondo volume, redatta a metà 1926. Il tema dello Stato nazionalsocialista è già stato affrontato nel capitolo 11-I che, insieme a stralci di questo, sarebbero apparsi in un opuscolo a se stante nel 1936, a dimostrazione della sua rilevanza nell’elaborazione politica hitleriana1. 2. Contenuto Hitler dedica la parte iniziale del capitolo 2-II all’analisi delle diverse concezioni di Stato esistenti, col chiaro fine di criticare la posizione “borghese”. La prima visione è quella di coloro che ritengono lo Stato un valore in sé, che sostengono l’ordine e la quiete (i conservatori bavaresi), cioè che non gli conferiscono alcuna importanza educativa o culturale. La seconda è quella di coloro che ritengono lo Stato uno strumento per la promozione del benessere materiale dei suoi cittadini (i liberaldemocratici). La terza, infine, è quella di coloro che ritengono lo Stato un mezzo per realizzare una vaga politica di potenza (i nazionalisti). Tutte e tre le posizioni non comprendono il punto della questione, cioè il fine della loro esistenza. Hitler passa quindi in rassegna il problema della “germanizzazione” perseguita nel corso degli ultimi secoli prima da Giuseppe II d’Austria, poi dalla Prussia (la cosiddetta Ostsiedlung). Il fallimento della germanizzazione linguistica è inevitabile: non è possibile nazionalizzare e germanizzare razze diverse semplicemente impartendo una lingua (vedi il caso degli ebrei orientali, “biascicatori” del tedesco). Lo Stato è sì un mezzo (come sostiene anche il marxismo), ma non certo per il fine della rivoluzione proletaria. È un organismo “vivo” se e solo se contiene e preserva la razza di riferimento. Lo Stato è una forma che ha valore nella misura in cui conserva un carattere nazionalpopolare e gli garantisce la crescita e il sostentamento. Non conta la forma monarchica o repubblicana, ma conta ciò che lo Stato riesce a fare per il proprio popolo. I problemi statali partono, secondo Hitler, da molto lontano. Dopo la guerra dei Trent’anni la Germania andò incontro alla frammentazione politica che, malgrado l’iperindividualismo tedesco, non ha comunque distrutto l’unità della razza tedesca, quantomeno se ne è conservato un nucleo integro. Quel nucleo integro sarà in grado di restituire onore e dignità alla nazione tedesca. Hitler inserisce un lungo inciso sulla “purezza” razziale che tenta di dimostrare il nesso tra integrità e autoconservazione (riprendendo le tesi social-darwiniste abbozzate nel capitolo 11-I): chi si mantiene puro e non si incrocia (generando “bastardi”) ha la possibilità di preservare la razza tedesca 1
KA II, p. 989.
342 e, quindi, la civiltà umana. Ecco quindi individuato un compito del futuro Stato nazionalsocialista: favorire le unione tra “puri”, sfavorire – se non impedire – gli “incroci” o la perpetuazione degli “insani” e avviare una politica di colonizzazione marginale dei “puri” a difesa del nucleo razziale. In una parola eugenetica “positiva” e “negativa”. Solo in questo modo il nucleo integro avrà la possibilità di espandersi e di curare le “malattie” interne. Hitler ritorna sul tema del “matrimonio”, già affrontato nel capitolo 10-I in relazione alla “prostituzione dell’amore”, inserendolo all’interno dei doveri dello Stato. Il nesso fra corpo sano e spirito sano va affrontato a livello educativo sin dai primi anni di età. La scienza senza il carattere (cioè lo spirito senza il corpo) è pura astrazione intellettuale: è una “fantasia malata”. Lo Stato deve favorire la creazione del carattere già negli anni scolastici (anticipando in qualche modo l’azione dell’esercito) e deve aiutare il lavoro educativo della giovane madre. Meno “mente” e più “pugni”: quindi ben venga la boxe e altre attività fisiche in grado di temprare il popolo. Il tracollo del 1918 si spiegherebbe anche e soprattutto dal punto di vista educativo: se la classe dirigente fosse stata forte e tenace, la “marmaglia” degli “imboscati” orchestrati dal “complotto ebraico” non avrebbe preso il potere. Il giovane va educato alla salute del corpo, all’abbigliamento e poi avviato all’esperienza militare, conscio dell’importanza dell’obbedienza verso il superiore e delle responsabilità del comando. Solo favorendo l’idealismo e ostacolando – nei limiti del possibile – l’egoismo, è possibile insegnare lo spirito di corpo e valori come la responsabilità, la volontà e la rettitudine. L’istruzione scientifica delle scuole medie e superiori va tarata in base alle future esigenze lavorative dei ragazzi. Il nozionismo è deleterio, così come l’eccessivo monte-ore dedicato alle lingue straniere (al francese, in particolare). Meglio il latino e la sua logica, che consentono di comprendere i grandi classici del passato. La didattica della storia va riformulata in vista delle linee essenziali della storia universale e popolare, sostenendo una visione razziale delle civiltà. La base della formazione nazionale non deve essere tecnica e “materialistica”, ma ideale. Deve insegnare l’abnegazione e lo spirito di sacrificio dei giovani a favore del proprio popolo. Solo dopo un lungo cammino formativo (fisico e spirituale) è possibile selezionare adeguatamente gli uomini “più forti”, i più adatti a comandare e a guidare il popolo (solo i maschi possono e devono fare politica). I “migliori” non sono i più ricchi, i più fortunati o i più “buoni”, ma solo coloro in grado di fornire le migliori prestazioni creative, di sintetizzare capacità e conoscenza. La nuova classe dirigente deve ricreare un legame organico con la base popolare, come ha saputo fare sapientemente la Chiesa cattolica nel corso dei secoli grazie al celibato religioso. Solo immergendosi nel popolo è possibile uscirne più sani e più consapevoli. È chiaro che Hitler sta descrivendo uno scenario futuro più “equilibrato” dal punto di vista sociale, dove il merito discende dalle capacità e dalle conoscenze e non dal tipo di lavoro o dall’appartenenza sociale. Un chiaro monito contro l’elitismo politico e a favore del populismo. Questo spiega la chiusa del lungo capitolo dedicata alla valorizzazione del lavoro manuale e all’esigenza statale di sostenere una politica dei redditi più equa e meno discriminatoria. Anche il denaro è un mezzo in vista di un fine, che non è la “Mammona” oppure il riconoscimento sociale, bensì la sopravvivenza del carattere nazionalpopolare. Compito del nazismo è inculcare l’esistenza di valori ideali superiori.
343 3. Analisi L’argomentazione hitleriana è una chiara “petizione di principio”, cioè assume la verità di ciò che intende dimostrare. Ecco brevemente la costruzione logica: 1) tutti i tedeschi devono sapere che lo Stato è un mezzo; 2) qualche tedesco non lo capisce; 3) quindi non è un vero tedesco oppure è stato “traviato”. Il passaggio successivo è quello di percorrere in sequenza tutte le varie posizioni sullo Stato esistenti: quella “legale”, che vede nello Stato la semplice forma in grado di garantire la sopravvivenza di tutti i suoi cittadini; quella “liberaldemocratica”, che vede nello Stato la semplice forma in grado garantire la prosperità dei suoi cittadini; quella “nazionale”, che vede nello Stato la forma in grado di garantire onore e prestigio. L’errore delle tre posizioni starebbe a monte: non hanno capito la ragion d’essere dello Stato. Esso non è un fine in sé (non è etico, non ha l’obiettivo di aggregare un ammasso di egoismi), non è un mezzo individualistico (cioè non serve a garantire regole minime di convivenza per favorire l’arricchimento) e non è nemmeno un mero strumento di potenza esteriore (cioè la bandiera ipocrita dell’orgoglio nazionale). Nemmeno il marxismo è la carta “vincente”, visto che intende sì lo Stato come un mezzo, ma solo per distruggere il suo nucleo razziale originario. È quindi necessario dimostrare che il marxismo è una variante ben peggiore delle altre posizioni, perché non ha a cuore l’interesse del carattere nazionalpopolare tedesco. Hitler introduce quindi la “falsa dicotomia”: chi non è con i nazisti, è con i marxisti. Non esiste alternativa, perché il tema fondamentale è il “nucleo razziale”. Hitler tenta di mettere con le spalle al muro la borghesia tedesca, ricorrendo a una serie di artifizi retorici: l’argomento “ad hominem” (i borghesi sbagliano per colpa della loro posizione sociale e delle loro cattive “compagnie”), il “tu quoque” (mancano di coerenza e quindi “non possono scagliare la prima pietra” contro i nazisti), l’argomento “ab auctoritate” (la loro “scienza” non è una garanzia di “oggettività”, visti gli esiti passati), quello “ad judicium” (il numero dei “legalitari” non rende vera la loro posizione) e la “brutta china” (se lo Stato resta così, il declino è inevitabile). Il “baculum” marxista ha quindi vita facile nell’utilizzare lo Stato “borghese” come mezzo per i fini di dominio “parassitario” ebraico. Solo un “residuo” sano del corpo popolare è riuscito a resistere alla “malattia mortale”. Solo quel “residuo” è in grado di difendere il carattere nazionalpopolare, di “purificarlo” dalle scorie dei “bastardi”, dei “malriusciti”. Ed ecco che Hitler abduce nuovamente in termini divinatori il problema: siccome lo Stato weimariano ha fallito (è “evidente” dagli indizi postbellici) e la causa-ipotesi è una sola (la mancanza di senso razziale), non resta che lo Stato nazionalsocialista. Il problema è dove e come intervenire. La centralità è la formazione dei giovani: solo con l’educazione lo Stato nazionalsocialista saprà difendere e accrescere realmente la forza del popolo tedesco, creando uomini “veri” capaci di produrre figli “sani”. Tutto il sistema educativo hitleriano è basato sull’antromorfizzazione della natura: siccome la natura sa quello che vuole, e cioè una persona con un corpo sano in grado di sopravvivere (cioè di imporsi sugli altri), allora la natura vuole che il tedesco impari a conoscere e ad apprezzarne le sue leggi. Il “come” è importante: ricreando quell’unità fra corpo e mente che è andata perduta. E qui Hitler ricorre alla “tradizione”, alla massima del corpo sano nella mente sana. La “malattia” non è spuntata fuori dal nulla, ma è la conseguenza di un sistema educativo sbagliato che ha valorizzato il nozionismo, l’analiticità, la manipolazione a scapito della visione d’insieme, dell’essenzialità e dell’onestà. Anche qui Hitler manca di fare esempi concreti, ma si limita a fare “poli-manzia”: spiega la storia attraverso la politica.
344 Dopo aver escluso le visioni statuali avversarie in quanto logicamente fallaci, dopo aver dimostrato che il marxismo è il sintomo evidente della “malattia ebraica”, non resta che la “regola” nazionalsocialista per salvaguardare il carattere nazionalpopolare. Non a caso, quando il “corpo popolare” è sano, non ha mai perso una guerra. Oppure, se pure l’ha persa, ha saputo poi rialzarsi in piedi. Non a caso, quando la Germania ha curato adeguatamente i suoi confini, ha saputo mantenersi integra e “pulita”. Non a caso, quando il giovane si forgia il carattere con l’educazione fisica, riesce a governare meglio. Tutti una serie di “casi” che hanno l’obiettivo di rafforzare la tesi che la crisi imprevedibile e inarrivabile ha lasciato tracce molto evidenti. Chi non sa “vederle”, o finge in malafede oppure è stupido: non esistono altre alternative logicamente plausibili. 4. Parole-chiave Ariano, Asburgo, Astinenza, Ateismo, Attestato di educazione fisica, Carattere nazionalpopolare, Celibato ecclesiastico, Chiesa cattolica, Civiltà ariana, Colonizzazione, Comunità nazionalpopolare, Corpo popolare, De-germanizzazione, Didattica della storia, Diploma di cittadino, Fecondità, Fertilità, Ebreo, Educazione femminile, Educazione fisica, Educazione militare, Esercito, Germanesimo, Genialità, Genio, Germanizzazione, Gioventù, Giuseppe II, Guerra dei Trent’anni, Humus culturale, Ideale, Incrocio razziale, Internazionale comunista, Iperindividualismo, Istruzione scientifica, Karl Marx, Lavoratore manuale, Matrimonio, Nazionalizzazione delle masse, Pacifismo, Patriottismo dinastico, Perequazione giuridica, Piano Dawes, Politica estera, Principio delle nazionalità, Programma scolastico, Razza, Rivoluzione del 1918, Scolarizzazione, Slavismo, Stato germanico, Stato nazionalpopolare, Suffragio universale, Umanitarismo, Trattato di Versailles, Visione del mondo. 5. Bibliografia essenziale - S. Breuer, Ordnungen der Ungleichkeit. Die politische Rechte im Widerstreit ihrer Ideen, 1871-1945, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 2001; - Id., Die Völkischen in Deutschland. Kaiserreich und Weimarer Republik, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 2008; - P. Bruppacher, Adolf Hitler und die Geschichte der NSDAP. Eine Chronik, parte 1: 1889-1937, Norderstedt, Books on Demand, 2014; - A. Bullock, Hitler. Studio sulla tirannide, Milano, Res Gestae, 2014; - K. Burke, Die Rhetorik in Hitlers “Mein Kampf” und andere Essays zur Strategie der Überredung, Francoforte sul Meno, Suhrkamp, 1967; - D. Capozza, C. Volpato, Le intuizioni psicosociali di Hitler. Un’analisi del “Mein Kampf”, Bologna, Patron, 2004; - W. Carr, Hitler. Studio sul rapporto tra personalità e politica, Napoli, Liguori, 1985; - F. Cassata, Eugenetica senza tabù. Usi e abusi di un concetto, Torino, Einaudi, 2015; - G. Corni, Hitler, Bologna, Il Mulino, 2007; - Id., Breve storia del nazismo, 1920-1945, Bologna, Il Mulino, 2015; - M. Döring, “Parlamentarischer Arm der Bewegung”. Die Nationalsozialisten im Reichstag der Weimarer Republik, Düsseldorf, Droste, 2001; - R. Dithmar, H.-D. Schutz (ed.), Schule und Unterricht im Kaiserreich, Ludwigsfelde, Ludwigsfelder Verlagshaus, 2006, 3 voll.; - M. Ferrari Zumbini, Le radici del male. L’antisemitismo in Germania da Bismarck a Hitler, Bologna, Il Mulino, 2001; - J. Fest, Hitler. Una biografia, traduzione di F. Saba Sardi, Milano, Garzanti 2005; - G. Franz-Willing, Putsch und Verbotszeit der Hitlerbewegung, November 1923-Februar 1925, Preussisch Oldendorf, Verlag K.W. Schütz KG, 1977;
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Già nel 1920-21 gli ambienti borghesi ormai superati dagli eventi rinfacciavano al nostro giovane movimento di sostenere una visione negativa dello Stato. Per questo motivo ogni partito politico si sentiva in diritto di perseguitare il giovane e scomodo messaggero di una nuova visione del mondo2. Questo dimostra che la borghesia di oggi non ha più una visione univoca dello Stato. Gli interpreti badano soprattutto a poltrire nelle nostre università come docenti di diritto pubblico, il cui dovere supremo è quello di escogitare spiegazioni e interpretazioni della più o meno felice esistenza della fonte del loro sostentamento. Quanto più improbabile è la forma di Stato, tanto più oscure, artificiose e incomprensibili sono le definizioni offerte sull’obiettivo della sua esistenza. Cosa mai poteva inventarsi, per esempio, un professore imperialregio3 sul senso e sull’obiettivo di uno Stato in un paese, la cui organizzazione statale incarnava il più grande aborto del XX secolo? Un compito arduo, se pensiamo che i nostri docenti di diritto pubblico non si pongono il conseguimento della verità, ma l’attaccamento a un obiettivo ben preciso: la conservazione a ogni costo del mostruoso meccanismo umano chiamato Stato4. Non meravigliamoci, dunque, se, 2
Dopo la repressione della Repubblica consiliare, il Partito nazionalsocialista godette di condizioni generali politiche particolarmente favorevoli, grazie al sostegno di settori delle elite politiche e sociali di Monaco. Di particolare significato fu la protezione concessa da Ernst Pöhner, che dal maggio 1919 al settembre 1921 fu capo di polizia di Monaco e poi si sarebbe unito al putsch di novembre [KA, n. 1]. 3 Probabile allusione al filosofo, sociologico ed economista austriaco Othmar Spann (1878-1950) e al suo studio Die wahre Staat (Il vero Stato, 1921) [KA, n. 2]. 4 Hans Kelsen e Carl Schmitt rappresentarono in epoca weimariana i maggiori rappresentanti di due modi di considerare il ruolo dello Stato e della politica: la “trascendenza” del diritto contro la sua “storicità”. Bibliografia: M. Caserta, Democrazia e costituzione in Hans Kelsen e Carl Schmitt, Roma, Aracne, 2016.
347 nella discussione del problema, si cerchino di evitare i punti di vista concreti per immergersi in un miscuglio di valori, di doveri e di obiettivi “etici”, “morali” e ideali.
Figura 1 I giuspubblicisti Hans Kelsen (a sinistra) e Carl Schmitt (a destra) [fonte: britannica.com, ilreazionario.com]
In generale possiamo distinguere tre gruppi: a) Il gruppo di coloro che ravvisano nello Stato un insieme arbitrario di individui sottomessi a una forza di governo. È il gruppo più numeroso. Tra le sue file abbiamo specialmente gli adoratori del principio di legalità, ai cui occhi la volontà dell’uomo non ha alcuna importanza. La sacrosanta inviolabilità di uno Stato si deve alla sua mera esistenza. Per sostenere quel vaneggiamento bisogna nutrire un’adorazione servile dell’autorità statale. Nelle menti di queste individui, il mezzo si trasforma istantaneamente nel fine. Lo Stato non deve più servire gli uomini, ma sono gli uomini a dover servire un’autorità statale che comprende anche l’ultimo dei suoi funzionari. Affinché una tacita ed estatica adorazione non assuma forme inquietanti, l’autorità statale deve limitarsi a conservare l’ordine e la quiete. Adesso non è più un mezzo, ma è un fine in sé. L’autorità statale deve vegliare sull’ordine e sulla quiete e, di contro, l’ordine e la quiete devono garantire l’esistenza dell’autorità statale. La vita intera deve gravitare entro questi due poli. In Baviera questa mentalità è rappresentata anzitutto dagli “artisti” statali del Zentrum, qui chiamato “Partito popolare bavarese”5. In Austria avevamo i legittimisti giallo-neri; ora, purtroppo, i conservatori, le cui idee stataliste si muovono lungo quei binari6. 5
Nel novembre 1918 la Bayerische Volkspartei (Partito popolare bavarese) si era separata dal Zentrum in segno di protesta per la sua politica filo-repubblicana. 6 I conservatori dell’epoca weimariana concordavano sul fatto che la democrazia parlamentare andasse sostituita con uno Stato autoritario forte, ma dissentivano sulla fonte dell’autorità statale: alcuni erano
348 b) Il secondo gruppo di sostenitori è decisamente meno numeroso, perché comprende tutti coloro che subordinano l’esistenza di uno Stato a determinate condizioni. Essi non desiderano solo la stessa amministrazione, ma anche, possibilmente, la stessa lingua, sia pure partendo da una generica visione tecnica e amministrativa delle cose. L’autorità statale non è più l’unico obiettivo dello Stato: vi è anche la promozione del benessere dei sudditi. Pensieri “liberali”, a dire il vero spesso fraintesi, s’insinuano nella concezione dello Stato del secondo gruppo. La forma di governo non appare più sacra di per sé, ma è soggetta alla convenienza. La sacralità del tradizione non basta a evitare la criticità attuale. Oltretutto la visione liberale esige un’organizzazione adeguata della vita economica e si basa quindi su punti di vista pratici e su principî economici legati alla produttività. I principali rappresentanti della seconda posizione li troviamo nella borghesia tedesca, specialmente negli ambienti liberaldemocratici. c) Il terzo gruppo è quello numericamente più esiguo. Ravvisa nello Stato un mezzo per realizzare le vaghe tendenze di politica di potenza di un popolo unito e dotato di una propria lingua. La volontà di una lingua statale unitaria non si manifesta solo nella speranza di creare un fondamento solido dello Stato che ne accresca la potenza esteriore, ma anche nell’opinione (profondamente sbagliata) di riuscire così a nazionalizzarlo in una certa direzione. Nel secolo passato fu un vero peccato dovere constatare come quei circoli, talora con le migliori intenzioni, si dilettassero col termine “germanizzare”. Io stesso mi ricordo bene come, in gioventù, quel termine produsse visioni assolutamente sbagliate. Perfino negli ambienti pantedeschi alcuni sostenevano che, grazie all’ausilio governativo, il germanesimo sarebbe riuscito a germanizzare lo slavismo austriaco7. Quei signori non capivano che il suolo era germanizzabile, ma non certo gli uomini8. Perché ciò che intendevamo con germanizzazione era solo la forzata accettazione esteriore della lingua tedesca. Ma è un grave errore logico credere che, diciamo, un negro o un cinese si trasformino in un germano semplicemente imparando il tedesco e che, in futuro, sapranno servirsi del tedesco per votare un partito politico tedesco. La nostra borghesia non ha mai capito che quella germanizzazione non è altro che una de-germanizzazione. Se, imponendo una lingua comune, certe differenze finora visibili tra i popoli sono superate e cancellate, questo non è altro che l’inizio di un imbastardimento e quindi, nel nostro caso, di un annientamento dell’elemento germanico. Nella storia accade spesso che un popolo conquistatore riesca sì, grazie alla sua forza, a imporre la propria lingua ai sottomessi, ma anche che, dopo migliaia di anni, la sua lingua sia parlata da un altro popolo. I vincitori diventano così i veri vinti. Il carattere nazionalpopolare, o meglio la razza, non consiste nella lingua, ma nel sangue. Potremmo parlare di germanizzazione solo se e quando il sangue dei vinti si legittimisti, altri antimonarchici, altri ancora corporativisti ecc. Bibliografia: U. Backes (ed.), Rechtsextreme Ideologie. Geschichte und Gegenwart, Colonia, Böhlau, 2003. 7 Lueger, ritenuto da Hitler il “borgomastro tedesco migliore di sempre”, sostenne la “germanizzazione” linguistica per ingraziarsi il voto della piccola borghesia slava di Vienna. Vedi capitolo 3-I. 8 Con “germanizzazione” della terra Hitler indicava l’occupazione, il popolamento e la “bonifica” di un territorio straniero da parte della “razza germanica”. Vedi capitolo 14-II.
349 fosse trasformato. Ma questo è impossibile. Può darsi che un miscuglio di sangue porti a un cambiamento, ma non è altro che un abbassamento della razza superiore. L’esito conclusivo sarebbe dunque l’annientamento di quelle peculiarità che resero possibile la vittoria del popolo conquistatore. In particolare, nell’accoppiamento con le razze inferiori sparirebbero le forze civilizzatrici, anche se il prodotto misto parlasse la lingua della razza superiore. Per un certo periodo si assisterebbe a una lotta fra i diversi geni e può anche darsi che il popolo soccombente, in un sussulto estremo, mostri sorprendenti prodotti culturali. Si tratta unicamente di singoli elementi della razza superiore oppure di bastardi, in cui, al primo incrocio, il sangue migliore cerca ancora di prendere il sopravvento. Non saranno mai gli esiti finali del miscuglio, che conterranno sempre un impulso culturale retrogrado.
Figura 2 Germanizzazione ed espulsione di Juliusz Kossak (1909) [fonte: preussenchronik.de]
Oggi dobbiamo essere lieti che non si sia verificata la germanizzazione dell’Austria concepita da Giuseppe II9. Il suo esito sarebbe stato probabilmente la conservazione dello Stato austriaco, ma la comunanza linguistica avrebbe prodotto un abbassamento razziale della nazione tedesca. Nel corso dei secoli si sarebbe formato un certo istinto gregario, ma il gregge sarebbe stato di valore inferiore. Sarebbe forse sorto un popolo-Stato, ma sarebbe andato perso un popolo di cultura superiore. Per la nazione tedesca è un bene che sia fallito quel processo di mescolanza, se non per nobili ragioni, quantomeno per la miope meschinità degli Asburgo. In caso contrario il popolo tedesco non potrebbe più essere annoverato tra i creatori della civiltà. Non solo in Austria, ma anche nella Germania stessa gli ambienti nazionalisti furono mossi dagli stessi ragionamenti sbagliati. La politica di germanizzazione dei polacchi orientali, da tanti sostenuta, si basava purtroppo sulla stessa deduzione L’editto linguistico di Giuseppe II del 1784 aveva ordinato non la germanizzazione, semmai l’unificazione e la semplificazione amministrativa, sostituendo il latino col tedesco quale lingua burocratica anche in Ungheria. Vedi capitolo 3-I.
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350 sbagliata. Anche qui si credeva di poter germanizzare i polacchi per via di una tedeschizzazione linguistica10. Anche qui l’esito sarebbe stato infausto: un popolo razzialmente estraneo che si esprimeva in lingua tedesca, depauperando le vette e la dignità del nostro carattere nazionalpopolare. Tutt’oggi è terribile il danno indirettamente arrecato al germanesimo dagli ebrei biascicanti il tedesco11, che, quando entrano in America, sono scambiati per tedeschi da molti americani ignoranti. A nessuno verrà mai in mente di provare con la loro parlata “tedesca”12 l’origine e la nazionalità tedesca di quei pidocchiosi immigrati orientali13. A essere storicamente germanizzata in modo proficuo fu la terra che i nostri antenati conquistarono con la spada e colonizzarono con i contadini tedeschi. Quando iniettarono sangue straniero nel nostro corpo popolare, essi contribuirono a quel disgraziato frazionamento del nostro essere che si manifesta nell’iperindividualismo tedesco – purtroppo ancora oggi così esaltato. Anche per questo terzo gruppo lo Stato è, in un certo senso, un fine in sé. La sua conservazione è il dovere supremo dell’esistenza umana. In sintesi tutte e tre le posizioni non si radicano nella consapevolezza che le forze e i valori culturali si basino essenzialmente sugli elementi razziali e che, quindi, la missione suprema dello Stato sia la conservazione e il miglioramento della razza, condizione preliminare di qualsiasi sviluppo culturale umano. L’esito più parossistico di quelle false concezioni statali lo abbiamo nell’ebreo Marx. Esonerando lo Stato dagli obblighi razziali, in mancanza di una formulazione universalmente valida, la borghesia spianò la strada a una dottrina che nega lo Stato in sé. Già per questo motivo la lotta borghese contro l’Internazionale marxista è destinata a fallire miseramente. La borghesia ha già da tempo sacrificato le fondamenta indispensabili a sostegno del suo mondo ideale. Il suo scaltro avversario ha già individuato la debolezza della sua costruzione e la attacca con le armi che gli ha involontariamente fornito. È dunque obbligo supremo di un nuovo movimento basato su una visione razziale del mondo provvedere affinché l’essenza e lo scopo dello Stato assumano una forma chiara e unitaria. Innanzitutto bisogna riconoscere che lo Stato non rappresenta un fine in sé, ma è un mezzo. Lo Stato è il presupposto per formare una civiltà umana superiore, non solo la sua condizione. Essa è unicamente l’esistenza di una razza idonea alla civiltà. Sulla terra potrebbero esistere centinaia di Stati modello, ma se si estinguesse il portatore della civiltà ariana, 10
La presenza di popolazione polacca nelle province orientali (Posnania, Prussia Occidentale e Orientale e Alta Slesia) fu causa già in epoca bismarckiana di una rigida politica linguistica. Dopo il fallimento di una legge per sostenere l’insediamento tedesco, nel 1908 il Reichstag introdusse un emendamento che autorizzava il governo prussiano all’esproprio dei latifondi polacchi [KA, n. 16]. 11 Il termine di “mauscheln” era usato come indicazione irridente dello yiddish. Vedi capitolo 11-I. 12 Riferimento allo yiddish. 13 A causa dei pogrom, dell’antisemitismo e delle condizioni economiche, molti ebrei orientali decisero di emigrare in America a fine Ottocento. Gli agitatori nazionalpopolari utilizzavano il cliché degli ebrei orientali sporchi, immorali e avidi. Bibliografia: G. Sorin, A time for building. The thir migration, 1880-1920, Baltimora, The Johns Hopkins University Press, 1995.
351 non sopravvivrebbe più una sola civiltà al livello degli attuali popoli superiori. Possiamo aggiungere che la formazione dello Stato non escluderebbe un possibile annientamento del genere umano se andassero perdute le facoltà intellettuali superiori e la genialità della razza promotrice14. Se, per fare un esempio, la superficie terreste fosse scossa da un terremoto e dai flutti dell’oceano si sollevasse un nuovo Himalaya, la civiltà umana sarebbe annientata da un’unica crudele catastrofe. Non esisterebbe più alcuno Stato, non ci sarebbe più alcun ordine, sarebbe distrutta ogni testimonianza di un’evoluzione millenaria. La terra non sarebbe che un grande cimitero di acqua e di fango. Ma se da quella terribile catastrofe si salvassero anche solo alcuni individui della razza portatrice di civiltà, la terra, una volta stabilizzata, conserverebbe, sia pure dopo migliaia di anni, le testimonianze di una forza creatrice umana. Solo la distruzione dell’ultima razza portatrice di civiltà e dei suoi rappresentanti segnerebbe la definitiva sterilità della terra. Di contro, oggi osserviamo che gli Stati in via di formazione riuscirono a consolidarsi pur mancando di genialità nei loro rappresentanti razziali15. Come le grandi specie animali della preistoria dovettero estinguersi e sparirono dalla faccia della terra senza lasciare alcuna traccia, anche l’uomo si estinguerà se mancherà quell’unica forza spirituale in grado di procurargli le armi necessarie alla sua autoconservazione. Non è lo Stato in sé a creare un determinato livello di civiltà. Lo Stato può solo conservare la razza, unica precondizione della civiltà. Altrimenti lo Stato può continuare a sopravvivere per secoli; inoltre, consentendo il miscuglio razziale, la capacità di produrre cultura e la vita di un popolo andranno incontro a profondi cambiamenti. Per fare un esempio, lo Stato odierno può sopravvivere per secoli come meccanismo formale, ma l’avvelenamento razziale del corpo popolare provocherà un declino culturale già oggi dai risvolti spaventosi16. Quindi il presupposto per l’esistenza di un genere umano superiore non è lo Stato, ma il carattere nazionalpopolare in grado di crearlo. La dote è innata, ma va azionata da condizioni esterne. Le nazioni o, meglio, le razze creatrici posseggono quelle doti innate, anche se, in un momento sfavorevole, le circostanze esterne possono impedirne l’azionamento. È una sciocchezza colossale dipingere i germani dell’epoca precristiana come “incivili” o come barbari. Non lo sono mai stati. L’asprezza del clima nordico li costrinse a condizioni di vita che impedirono lo sviluppo delle loro forze creatrici. Se, in mancanza di una civiltà romana, essi fossero giunti nelle contrade più favorevoli del meridione e avessero ottenuto le risorse tecniche necessarie dai popoli inferiori, la loro capacità creativa latente sarebbe sbocciata in una splendida fioritura, come accadde agli elleni. Ma la forza primordiale creatrice non dipende solo dal clima nordico. Un lappone spintosi a Sull’idea di “ariano” quale razza creatrice vedi capitolo 2-I. Possibile allusione alla Repubblica popolare di Ucraina sorta nel novembre 1917 e poi occupata dalle truppe bolsceviche nel dicembre 1919. 16 Il timore di “colonizzazione” culturale raggiunse il suo apice durante la Repubblica di Weimar, quando molti conservatori e nazionalpopolari parlarono di “bolscevizzazione” e di “americanizzazione”. Bibliografia: A. Lüdkte, I. Marssolek, A. von Saldern (ed.), Amerikanisierung. Traum und Alptraum im Deutschland des 20. Jahrhunderts, Stoccarda, Franz Steiner Verlag, 1996; B. Laser, Kulturbolschewismus! Zur Diskurssemantik der “totalen Krise”, 1929-1933, Francoforte sul Meno, Peter Lang, 2010. 14 15
352 Sud creerebbe così poca civiltà come un eschimese. No, quella dote meravigliosa è conferita all’ariano, innata o azionata che sia, a seconda che le circostanze favorevoli glielo consentano o una natura matrigna glielo impedisca. Quindi lo Stato è un mezzo per raggiungere un fine. Il suo fine è la conservazione e la promozione di una comunità di esseri fisicamente e spiritualmente omogenei. La conservazione include innanzitutto l’esistenza di una razza e favorisce così il libero sviluppo delle sue forze latenti. Una parte di quelle forze servirà alla conservazione dell’esistenza fisica, mentre l’altra alla prosecuzione dello sviluppo spirituale. In concreto, l’una rappresenta sempre il presupposto dell’altra. Gli Stati privi di questo obiettivo sono fenomeni malriusciti, sono veri e propri aborti17. La loro esistenza non dimostra nulla: l’esistenza di un’associazione di filibustieri non può giustificare la pirateria o la rapina. Noi nazionalsocialisti, sostenitori di una nuova visione del mondo, non possiamo mai porci sul noto e falso terreno dei fatti. Altrimenti non saremmo più i promotori di una nuova grande idea, ma i coolies dell’odierna menzogna. Dobbiamo distinguere chiaramente tra lo Stato (il contenente) e la razza (il contenuto). Il recipiente ha senso solo se può contenere e salvaguardare il contenuto; altrimenti è del tutto inutile. L’obiettivo supremo dello Stato nazionalpopolare è quindi la conservazione di quegli elementi primordiali razziali che, portatori di civiltà, creano la bellezza e la dignità di un genere umano superiore. Noi ariani riusciamo a immaginarci uno Stato solo come organismo vivente di un carattere nazionalpopolare, che non solo ne assicuri la sopravvivenza, ma che lo conduca anche alla suprema libertà sviluppandone incessantemente le capacità spirituali e ideali18. Ciò che oggi si spaccia per Stato è per lo più il prodotto del profondo smarrimento umano, fonte di indicibili sofferenze. Noi nazionalsocialisti siamo ben consci che la nostra concezione è rivoluzionaria nel mondo odierno e così siamo visti dal mondo19. Ma il nostro solo pensiero e le nostre azioni non devono essere in alcun modo condizionati dal consenso o dalla disapprovazione dei nostri contemporanei, ma dagli obblighi verso una verità riconosciuta. Dobbiamo essere convinti che i posteri, giudicandoci meglio, non solo comprenderanno la nostra condotta, ma la riterranno anche giusta e la esalteranno. Ecco quindi il nostro criterio di valutazione dello Stato. Il valore dello Stato è relativo al singolo carattere nazionalpopolare; ma assoluto è dal punto di vista umano. In altre parole la bontà di uno Stato non può essere valutata dal livello della sua civiltà o potenza rispetto al resto del mondo, ma unicamente dal grado di bontà delle sue istituzioni rispetto al carattere nazionalpopolare. Uno Stato può essere considerato esemplare non solo se è adeguato alle condizioni esistenziali del carattere nazionalpopolare in questione, ma anche se la sua 17
Allusione alla monarchia asburgica. Vedi capitoli 2-I e 3-I. L’idea organicistica dello Stato derivava dal Romanticismo politico, con cui il conservatorismo reagì alla sfida universalistica lanciata dall’Illuminismo e dalla Rivoluzione francese. In epoca guglielmina il Romanticismo politico assunse la variante del “Neoromanticismo”. Bibliografia: G.L. Mosse, Le origini culturali del Terzo Reich, traduzione di F. Saba-Sardi, Milano, Il Saggiatore, 1994. 19 Alle elezioni politiche del maggio 1924 il Partito nazionalsocialista della libertà (in cui confluirono gli appartenenti al Partito nazionalsocialista e al Partito nazionalpopolare) ottenne il 6,6%, ma in dicembre il Movimento nazionalsocialista della libertà (forza che univa i due partiti) scese al solo 3% dei suffragi. Alle elezioni del maggio 1928 il rifondato Partito nazionalsocialista ottenne il 2,6% dei consensi.
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353 esistenza mantiene in vita quel carattere nazionalpopolare – qualunque sia l’importanza culturale dello Stato rispetto al resto del mondo. Il compito dello Stato non è produrre talenti, ma favorire quelli già esistenti. Viceversa uno Stato è cattivo, sebbene altamente civilizzato, se favorisce razzialmente il declino dei portatori della civiltà. Così si distrugge praticamente il presupposto della civiltà, che lo Stato non ha certo creato, ma che è l’esito di un carattere nazionalpopolare creativo, garantito dall’organismo statale. Lo Stato di per sé non è un contenuto, ma una forma. Quindi il momentaneo livello culturale di un popolo non è il criterio per valutare la bontà dello Stato in cui si vive. È comprensibilissimo che un popolo molto dotato fornisca un’immagine superiore rispetto a un’etnia negra. Ma quell’organismo statale, valutando in base alla realizzazione dei suoi obiettivi, può essere peggiore di quello della tribù negra. Il migliore Stato non è in grado di produrre talenti che mancano o non sono presenti in un popolo. Uno Stato cattivo può sicuramente intorbidire le facoltà originariamente presenti, permettendo o favorendo la soppressione dei portatori razziali della civiltà. Quindi il giudizio sulla bontà di uno Stato può essere espresso solo in base alla relativa utilità per un determinato carattere nazionalpopolare e non già in base al valore assegnatogli dal mondo. Se è vero che il giudizio relativo può essere formulato rapidamente e bene, lo è altrettanto che quello assoluto è assai più difficile da esprimere, perché dipende non solo dallo Stato, ma anche dalla bontà e dal livello morale di un determinato carattere nazionalpopolare. Quando parliamo di missione superiore di uno Stato, non possiamo mai dimenticarci che essa riguarda essenzialmente il carattere nazionalpopolare, che lo Stato, con la forza organica della propria esistenza, deve permettere di svilupparsi liberamente. Se ci chiediamo come dovrà essere lo Stato necessario ai tedeschi, dobbiamo chiarirci innanzitutto quali uomini voglia includere e quale sia il suo fine. Purtroppo il carattere nazionalpopolare tedesco non è più fondato su un nucleo razziale unitario. È anche vero che il processo di fusione dei diversi elementi originari non si è spinto così lontano da indurre a parlare di una nuova razza. Di contro l’intossicazione del sangue patita dal corpo popolare, specialmente dopo la Guerra dei Trent’anni, non portò alla decomposizione razziale, ma a quella della nostra anima20. I confini aperti della nostra patria, il fatto di accostarsi a popoli non germanici lungo i territori di confine, ma soprattutto il forte afflusso di sangue straniero negli Stati tedeschi, non consentirono una nuova fusione. Quindi non nacque una razza nuova, ma convisse un coacervo di singoli elementi razziali, col risultato che, specialmente nei momenti critici, quando si bada a raggruppare una mandria, il popolo tedesco si disperse ai quattro venti. Non solo gli elementi razziali si stratificarono in luoghi differenti, ma anche in un unico territorio. Accanto ai nordici abbiamo gli orientali; accanto agli orientali i dinarici, accanto a loro gli occidentali e tutta una serie di miscugli razziali. Un grave danno: il popolo tedesco è privo dell’autentico istinto Un’identica interpretazione si trova negli scritti del teorico razziale americano Madison Grant (18651937), apprezzato da Hitler, che associò alla Guerra dei Trent’Anni una riduzione della razza “puramente nordica” in Germania [KA, n. 37].
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354 gregario basato sull’unità del sangue che, specialmente nei momenti di pericolo, salva le nazioni dal declino, mettendo a tacere le piccole differenze interne e opponendo al nemico il fronte compatto di un unico gregge. Alla coesistenza dei nostri elementi razziali incontaminati si deve ciò che noi indichiamo col termine iperindividualismo. In tempo di pace esso può rendere buoni servigi – e, in fondo, ci portò al dominio planetario. Se il popolo tedesco, durante la sua evoluzione storica, avesse avuto l’istinto gregario degli altri popoli, oggi la Germania sarebbe padrona della terra. La storia universale avrebbe imboccato un altro corso e chissà se così non avremmo ottenuto ciò che molti ciechi pacifisti21 sperano oggi di ottenere piagnucolando e frignando: una pace sostenuta non dal ramoscello d’ulivo di lacrimose prediche pacifiste, ma fondata sulla spada vittoriosa di un popolo dominatore che s’impadronisce del mondo per il bene di una civiltà superiore22. L’assenza di un carattere nazionalpopolare razzialmente unitario fu causa di indicibili sofferenze. Ha donato le capitali a tanti piccoli potentati tedeschi, ma ha privato il popolo tedesco del diritto di dominare il mondo. Ancora oggi il nostro popolo soffre di quella lacerazione interiore. Ma la fonte di sventura passata e presente può essere una benedizione futura. Perché, se da una parte è stata deleterio il completo miscuglio dei nostri elementi razziali originali, che ha impedito la formazione di un corpo popolare unitario, dall’altra parte fu una fortuna che almeno una parte del nostro sangue migliore si sia mantenuta pura, sfuggendo alla degradazione razziale. Certo, la totale mescolanza degli elementi razziali primordiali avrebbe prodotto un corpo popolare unitario, solo che, come dimostrano gli incroci razziali, avrebbe avuto una capacità culturale inferiore a quella posseduta originariamente degli elementi primordiali superiori. Vediamo il bicchiere mezzo pieno: oggi il nostro corpo popolare possiede ancora importanti elementi incontaminati dell’uomo nordico germanico, nei quali ravvisiamo il più prezioso tesoro del nostro avvenire. Nelle fasi storiche oscure, ignare delle leggi razziali, quando il valore di un uomo era uguale a quello di un altro, mancava la chiara consapevolezza della diversità dei singoli elementi primordiali. Oggi sappiamo che il totale rimescolamento delle parti del nostro corpo popolare, in virtù dell’unità così raggiunta, ci avrebbe forse donato potenza esteriore, ma avrebbero reso irraggiungibile lo scopo supremo dell’umanità, perché il predestinato sarebbe scomparso nella generale poltiglia razziale del popolo unitario. Ma ciò che il destino benevolo ha impedito senza l’intervento umano, va oggi esaminato e sfruttato in base alle cognizioni ormai acquisite. Chi parla di una missione planetaria del popolo tedesco, deve sapere che può consistere solo nella formazione di uno Stato avente come compito supremo la conservazione e la promozione degli elementi più nobili e incontaminati del nostro carattere nazionalpopolare, anzi di tutta l’umanità. Così lo Stato ha finalmente una suprema ragion d’essere. Di fronte al ridicolo imperativo di assicurarsi l’ordine e la quiete per la pacifica realizzazione di imbrogli
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Sul disprezzo hitleriano per il pacifismo vedi capitolo 4-I. Nell’età dell’imperialismo (1871-1914) le potenze coloniali europee si autorappresentavano come popoli “superiori” che avrebbero dovuto civilizzare quelle “inferiori”. In Germania la politica coloniale fu avviata su larga scala dopo il ritiro di Bismarck nel 1890. Vedi capitolo 4-I. 22
355 reciproci, la conservazione e la promozione di un genere umano superiore porto dalla bontà dell’Onnipotente appaiono una missione veramente elevata. Bisogna forgiare un organismo da un meccanismo morto, che rivendichi l’esistenza solo per amore di sé, con il fine esclusivo di servire a un’idea superiore. La Germania deve comprendere tutti i tedeschi non solo per raccogliere e conservare le scorte più preziose degli elementi razziali primordiali, ma anche per condurli lentamente e sicuramente a una posizione di comando. Un periodo di lotta succede a una situazione statica e irrigidita. Ma, come sempre succede a questo mondo, anche qui vale il proverbio “chi si ferma è perduto”. La miglior difesa è l’attacco. Quanto è più elevato l’obiettivo della lotta, che risplende dinnanzi a noi, e quanto è inferiore la consapevolezza momentanea della grande massa, tanto maggiore sarà, come insegna la storia universale, il successo. Esso avrà tanto maggiore valore se lo scopo sarà compreso appieno e se la lotta sarà condotta con incrollabile tenacia. Per molti dei nostri alti funzionari statali sarebbe più rassicurante battersi per la conservazione dell’esistente piuttosto che lottare per uno Stato avvenire. È molto più comodo vedere nello Stato un meccanismo, che esiste solo per auto-conservarsi, dato che la loro vita “appartiene allo Stato” – come usano dire. È come se ciò il germoglio del carattere nazionalpopolare servisse logicamente solo al carattere nazionalpopolare, come se l’uomo agisse solo per se stesso. Come detto, è naturale che sia più facile ravvisare nell’autorità statale solo il meccanismo formale invece della sovrana personificazione dell’istinto di autoconservazione di un carattere nazionalpopolare. Nel primo caso lo Stato e l’autorità statale sono un fine in sé agli occhi degli spiriti deboli, nel secondo sono la formidabile arma al servizio dell’eterna lotta per l’esistenza; un’arma alla quale bisogna arrendersi, perché non è meccanica e formale, bensì l’espressione di una comune volontà di autoconservazione. Perciò, lottando per la nostra nuova concezione basata sul senso originario delle cose, mietiamo pochi consensi in una società fisicamente e, purtroppo, moralmente decrepita. Sole alcune eccezioni, vecchi dal cuore giovane e dalla mente ancora fresca, si avvicineranno a noi, non certo coloro che ravvisano nella conservazione dell’esistente il compito della loro vita. Di fronte a noi abbiamo l’esercito permanente, non tanto dei cattivi e dei malvagi, quanto degli apatici e dei pigri, interessati alla conservazione delle cose. Proprio l’apparente mancanza di prospettive della nostra lotta conferisce grandezza al nostro compito e anche la possibilità del successo. Il grido di battaglia, che scaccia o avvilisce gli spiriti meschini, è il segnale di raccolta delle autentiche nature battagliere. E dobbiamo essere chiari: quando alcune persone evidenziano un’enorme quantità di energia diretta a uno scopo e sono quindi sfuggite definitivamente all’ignavia delle grandi masse, ebbene quelle poche diverranno padrone della maggioranza. La storia universale è fatta dalle minoranze, se personificano la maggioranza della volontà e della determinazione23.
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Per non compromettere il carattere rivoluzionario del nazionalsocialismo, Hitler sostenne una netta separazione tra membri del partito (attivisti) e sostenitori del partito (simpatizzanti). Vedi capitolo 11-II.
356 Quindi ciò che oggi molti ritengono complicato è in realtà il presupposto del nostro successo. Proprio la grandezza e la difficoltà del nostro compito fanno in modo che solo i migliori lotteranno in suo favore. La selezione è la garanzia del nostro successo.
Figura 3 Manifesto propagandistico nazista sulla “scelta corretta del partner” [fonte: gedenkstaettesteinhof.at]
In generale la natura prende decisioni correttive al problema della purezza razziale delle creature terrene. Ama poco i bastardi. Soprattutto i primi prodotti degli incroci, per esempio della terza, quarta o quinta generazione, soffriranno amaramente. Quei prodotti non solo sono privi del valore dell’elemento originario più nobile dell’incrocio, ma mancano anche dell’unità del sangue, di quella forza volitiva e decisionale indispensabile alla vita. In tutti i momenti critici in cui l’individuo di razza pura fa le cose giuste e organiche, l’esponente di razza mista appare esitante e ricorre a palliativi. Ciò testimonia non solo la sua inferiorità di fronte all’individuo di razza unitaria, ma anche la possibilità di un declino più rapido. In innumerevoli casi in cui la razza resiste, il bastardo soccombe. Ecco il correttivo della natura. Ma non solo: la natura limita la sua possibilità procreativa, riducendo la fertilità di ulteriori incroci e spingendo i bastardi all’estinzione. Se, per esempio, un individuo di una razza superiore si unisse a uno di razza inferiore, l’esito sarebbe per prima cosa un abbassamento del livello razziale; in seguito si assisterebbe a un indebolimento della discendenza rispetto agli altri individui rimasti puri. Se la razza superiore non apportasse più sangue al bastardo, quello o si estinguerebbe per sopravvenuta debolezza naturale, oppure si formerebbe nel corso dei secoli un nuovo miscuglio in cui i singoli elementi originari sarebbero soggetti a innumerevoli incroci e, quindi, non sarebbero più riconoscibili. In tal modo avremmo un nuovo carattere nazionalpopolare resistente come un gregge, ma privo di rilevanza culturale e spirituale di fronte alla razza superiore operante nel primo incrocio. Ma,
357 anche in questo caso, il prodotto del miscuglio uscirebbe sconfitto dalla lotta per l’esistenza non appena si trovasse di fronte a un avversario razzialmente superiore, immune alla mescolanza. La forte unità gregaria del nuovo corpo popolare, consolidatasi nel corso di migliaia di anni, ma soggetta all’abbassamento generalizzato del livello razziale e alla diminuita elasticità spirituale e creativa, non basterebbe ad affrontare vittoriosamente la lotta contro una razza altrettanto unitaria, ma spiritualmente e culturalmente superiore. Possiamo quindi formulare il seguente principio: ogni incrocio razziale conduce inevitabilmente al declino del prodotto del miscuglio, nella misura in cui la parte più nobile dell’incrocio conserva l’unità razziale. Il rischio indotto dall’ibrido viene meno nell’istante in cui s’imbastardisce l’ultimo esponente della razza pura superiore. Su questo principio si fonda il lento processo rigenerativo che elimina gradualmente l’intossicazione razziale. Ma è necessario che sia ancora presente un nucleo fondamentale dell’elemento di razza pura e che non si incorra in ulteriori imbastardimenti24. Il processo rigenerativo può avviarsi da sé in organismi dotati di un forte istinto razziale, che, solo per particolari motivi o per forza maggiore, sono stati espulsi dal binario della normale riproduzione degli elementi razzialmente puri. Non appena viene meno la situazione emergenziale, la parte razzialmente pura tenderà subito a un nuovo accoppiamento, mettendo fine a un’ulteriore mescolanza. I prodotti dell’imbastardimento passano nuovamente in secondo piano, a meno che il loro numero non si sia accresciuto a tal punto da impedire una seria resistenza da parte degli elementi razzialmente puri. L’uomo, privato dell’istinto e ignaro dei suoi doveri naturali, non può contare sulla correzione naturale finché non avrà sostituito il suo istinto perduto con una chiara consapevolezza delle cose. Solo così si può realizzare il necessario correttivo. Esiste tuttavia il grosso il rischio che l’uomo cieco continui ad abbattere le barriere razziali e che anche l’ultimo residuo della sua parte migliore sia perduto. A quel punto non resterebbe che una poltiglia unitaria, come sognano gli idioti riformatori del mondo di oggi. Ma l’ideale avrebbe così vita breve su questo mondo. Certo, potrebbe formarsi un grande gregge, si possono creare animali da branco, ma quel miscuglio non darà mai vita a un uomo portatore, creatore e fondatore di civiltà. La missione dell’umanità potrebbe così ritenersi conclusa. Chi non vuole che la terra vada incontro a quella sorte deve convincersi che il compito generale dello Stato germanico è quello di preoccuparsi di porre fine a ogni ulteriore imbastardimento. La generazione dei nostri famosi codardi starnazzerà immediatamente di fronte a queste affermazioni e lamenterà la lesione dei più sacri diritti umani25. No, c’è solo un sacrosanto diritto dell’uomo e questo diritto è pure un sacrosanto dovere, cioè di preoccuparsi che il sangue resti puro e che la conservazione del miglior genere umano gli permetta uno sviluppo più nobile. L’ansia di “rigenerazione” aveva una lunga tradizione nel pensiero razziale, che si alimentò anche della critica della Lebensreformbewegung (movimento di riforma della vita) all’industrializzazione, al materialismo e all’urbanizzazione. L’ebreo era considerato l’incarnazione di un mondo “distruttivo”. Bibliografia: C. Repussard, M. Cluet (ed.), Lebensreform. Die soziale Dynamik der politischen Ohnmacht, Tubinga, Francke, 2013. 25 Il rifiuto hitleriano dei diritti umani si lega al relativismo etico del socialdarwinismo. Vedi capitolo 10-I. 24
358 Uno Stato nazionalpopolare dovrà quindi elevare il matrimonio dal livello di costante onta razziale26 per consacrarlo a istituzione chiamata a generare creature fatte a immagine e a somiglianza del Signore, non certo ad aborti tra uomo e scimmia27. La protesta su basi umanitarie ben poco si addice a un’epoca in cui, da una parte, ogni degenerato ha la possibilità di moltiplicarsi, procurando un dolore indicibile ai suoi “prodotti” e ai suoi contemporanei; e, dall’altra, ogni drogheria e ogni venditore ambulante possono svendere intrugli per impedire le nascite anche ai genitori più sani28. Nell’attuale Stato di ordine e di quiete, agli occhi dei rappresentanti del nostro stoico mondo nazional-borghese è un crimine impedire la procreazione a sifilitici, turbercolotici, geneticamente tarati, storpi e cretini, mentre l’interruzione pratica della capacità procreativa per milioni di persone sane non è considerata esecrabile. Anzi, non urta la buona creanza di questa ipocrita società; giova semmai alla miope pigrizia intellettuale. In caso contrario dovremmo scervellarci su come si creino i presupposti per alimentare e per conservare quegli esseri che, quali sani portatori del nostro carattere nazionalpopolare, dovranno un giorno assolvere allo stesso compito di fronte alle generazioni future. Che sistema infinitamente prosaico e plebeo! Non ci sforziamo più di allevare i migliori per la posterità, ma lasciamo che le cose facciamo il loro corso. Il fatto che anche le nostre chiese pecchino contro l’immagine divina, pur accentuandone il valore, è tipico della loro attuale condotta: parlano sempre di spirito, ma fanno degenerare nell’abbruttimento proletario il suo portatore: l’uomo29. Non stupiamoci della scarsa influenza della fede cristiana nel nostro paese, dello spaventoso “ateismo” di quella marmaglia abbruttita fisicamente e spiritualmente. Cerchiamo piuttosto di convertire gli ottentotti, gli zulù e i cafri30 con la benedizione della Chiesa! Mentre i popoli europei, grazie a Dio, cadono in uno stato di lebbra fisica e morale, il devoto missionario emigra in Africa centrale e fonda missioni negre, affinché la nostra “civiltà superiore” produca anche lì una putrida nidiata di bastardi da giovani sani, ancorché primitivi e incolti. 26
Vedi capitolo 10-I. L’interpretazione degli uomini “non ariani”, in particolar modo degli ebrei, come “anelli” intermedi tra l’uomo e la scimmia aveva una lunga tradizione nel movimento nazionalpopolare. Accanto al tradizionale e irriverente accostamento della Judensau (“la scrofa degli ebrei”), la “scimmia” (animale accostato alla scrofa in alcune sure del Corano) era un ironico riferimento all’evoluzione darwiniana: pur sostenendo la “lotta per l’esistenza”, Hitler rigettava l’evoluzionismo [KA, n. 57]. 28 Nel febbraio 1927 la contraccezione divenne legale in Germania, dove il problema non era tanto la natalità, quanto la trasmissione di malattie sessuali (come la sifilide). La politica familiare weimariana sosteneva la natalità: ridusse le tasse scolastiche, aumentò gli assegni familiari, il congedo di maternità e tutelò le donne contro i licenziamenti ingiustificati. Bibliografia: C. Usborne, Frauenkörper – Volkskörper. Geburtenkontrolle und Bevölkerungspolitik in der Weimarer Republik, Münster, Westfälisches Dampfboot, 1994. 29 Il rapporto delle chiese cristiane tedesche con l’eugenetica fu molto complesso. In generale, si tendeva a distinguere fra eugenetica “negativa” (l’impedimento o la limitazione della procreazione per le persone “tarate”) ed eugenetica “positiva” (cioè il sostegno della procreazione per le persone “sane”). Bibliografia: J.-C. Kaiser, M. Greschat (ed.), Sozialer Protestantismus und Sozialstaat. Diakonie und Wohlfahrtspflege in Deutschland, 1890 bis 1938, Stoccarda, Kohlhammer, 1996; I. Richter, Katholizismus und Eugenik in der Weimarer Republik und im Dritten Reich. Zwischen Sittlichkeitsreform und Rassenhygiene, Paderborn, Schöningh, 2001. 30 Kaffer (dall’arabo kafir, cioè “infedele”) era un insulto razzista utilizzato dai coloni bianchi per designare la presunta “stupidità” della popolazione indigena. Kaffer significa in yiddish sciocco, villano, incolto. 27
359 Sarebbe più conforme al più nobile sentimento terreno se le nostre due chiese cristiane, invece di molestare i negri con missioni che non desiderano, né comprendono, insegnassero benevolmente e seriamente alla nostra umanità europea che, quando i genitori non sono sani, Dio gradisce che si mostri misericordia per un piccolo orfano sano, donandogli un padre e madre, piuttosto che si metta al mondo un bambino malato che arreca infelicità e dolore a sé e agli altri. Lo Stato nazionalpopolare deve recuperare il tempo perduto nell’infanzia. Deve porre la razza al centro della vita generale. Deve occuparsi di conservarne la purezza. Deve dichiarare che il bambino è il bene più prezioso di un popolo. Deve fare in modo che i bambini siano concepiti solo da genitori sani. Deve affermare che è colpevole mettere comunque al mondo figli quando si è malati o difettosi, che è un supremo onore rinunciarvi. Ma deve essere ritenuto riprovevole, al contrario, sottrarre figli sani alla nazione. Lo Stato deve quindi apparire il custode di un millenario avvenire, di fronte al quale il desiderio e l’egoismo del singolo non contano nulla e, anzi, devono piegarsi. Lo Stato deve avvalersi a tal fine degli strumenti medici più moderni. Deve dichiarare incapace di procreare chi è affetto da una chiara patologia o è geneticamente tarato ed è quindi portato a tramandare le sue tare. Lo Stato deve mettere la conoscenza medica più moderna al servizio di quella consapevolezza31. Deve viceversa occuparsi che la fertilità della donna sana non sia limitata dalla sciatteria economica e finanziaria di uno Stato che fa della nascita di un bambino una maledizione per i genitori. Deve eliminare quella pigra e criminale indifferenza con cui oggi si trattano i presupposti sociali di una prole numerosa, e deve sentirsi il massimo patrocinatore di quella preziosa benedizione di un popolo. La sua preoccupazione deve riguardare più il bambino che l’adulto32. Chi non è sano e degno fisicamente e intellettualmente non può perpetuare le sue sofferenze nel corpo del suo bambino. Lo Stato nazionalpopolare deve realizzare un enorme lavoro educativo che in futuro apparirà come un’opera più grandiosa di quanto non lo siano le vittorie più significative della nostra epoca borghese. Lo Stato deve educare il singolo in modo che capisca che non è una vergogna, bensì una disgrazia deplorevole essere malati e deboli, ma che è un crimine e, quindi, anche una vergogna disonorarla per il proprio egoismo, imponendo nuovamente la malattia e la debolezza a creature innocenti. Deve far comprendere che è prova di grande nobiltà, di mentalità elevata e di ammirevole umanitarismo se il malato innocente, rinunciando ad avere propri figli, dona affetto, amore e tenerezza a un piccolo povero e sconosciuto rampollo del suo carattere nazionalpopolare, sano e promettente di diventare in futuro il membro vigoroso di una comunità vigorosa. E lo Stato deve ravvisare in quest’azione educativa l’integrazione spirituale della sua attività pratica. Deve agire in tale direzione, senza riguardo per la comprensione o l’incomprensione, per l’approvazione o la disapprovazione. Impedendo per sei secoli la capacità e la facoltà procreative di degenerati fisici e di malati spirituali, l’umanità si libererebbe non solo da un’immensa sventura, ma 31
Tra il 1934 e il 1945, con la legge sulla prevenzione delle malattie ereditarie, furono sterilizzate coattivamente circa quattrocentomila persone. Bibliografia: U. Benzenhöfer, Zur Genese des Gesetzes zur Verhütung erbkranken Nachwuchses, Münster, Klemm & Oelschläger, 2006; S. Westermann, R. Kühl, D. Gross (ed.), Medizin im Dienst der “Erbgesundheit”. Beiträge zur Geschichte der Eugenik und Rassenhygiene, Münster, Lit, 2009. 32 La Legge contro gli abusi matrimoniali e le adozioni (novembre 1933) stabiliva che un’adozione potesse essere vietata dallo Stato se il bambino adottato discendeva da una famiglia fisicamente, spiritualmente o moralmente “inferiore” o se esisteva una grande differenza “razziale” fra gli interessati. Con la Legge per la difesa del sangue e dell’onore tedeschi (settembre 1935) fu proibito il matrimonio fra ebrei e cittadini tedeschi, nonché ogni forma di relazione sessuale extraconiugale [KA, n. 65].
360 conseguirebbe anche una sanità oggi quasi inconcepibile. Quando sarà realizzata la promozione cosciente e pianificata della fertilità dei membri più sani del carattere nazionalpopolare, avremo una razza che, come minimo, avrà eliminato i germi dell’odierna decadenza fisica e spirituale. Intraprendendo questa strada, lo Stato cercherà di accrescere il nucleo razziale più prezioso del suo popolo, in particolare la sua fertilità. In tal modo tutto il carattere nazionalpopolare godrà la fortuna di un tesoro razziale forgiato nobilmente. La via maestra è che lo Stato non lasci al caso la colonizzazione dei nuovi territori, ma che la assoggetti a norme specifiche. Commissioni speciali devono rilasciare ai singoli un attestato medico di colonizzazione, che è subordinato alla purezza razziale. Così si potrebbero fondare gradualmente colonie marginali, i cui abitanti siano esclusivamente di razza purissima e, quindi, portatori delle migliori qualità razziali33. Sarebbero un bene prezioso nazionale per tutto il popolo. Il loro sviluppo riempirebbe di gioia, di fiducia e di orgoglio ogni singolo membro della comunità nazionalpopolare34, perché quei membri racchiudono il germe di un grande sviluppo del proprio popolo, se non dell’umanità intera. Infine nello Stato nazionalpopolare la visione del mondo nazionalpopolare deve accelerare l’avvento di quell’epoca nobile in cui l’uomo non si preoccuperà più di perfezionare l’allevamento di cani, cavalli o gatti, ma di elevare l’uomo stesso, di un’epoca in cui alcuni rinunceranno in gioioso silenzio, altri si sacrificheranno gioiosamente per il bene comune. Perché questo sia possibile, non bisogna contestare un mondo che imponga volontariamente il celibato a centinaia di migliaia di individui, senza alcun obbligo o vincolo clericale. Non è possibile la stessa rinuncia se, al suo posto, si introduce l’invito a porre fine al peccato originale tuttora operante dell’avvelenamento razziale e a donare al Creatore onnipotente gli esseri da Lui stesso creati? Certo, il miserabile esercito dei nostri filistei non lo capirà mai. Ne riderebbero o scrollerebbero le spalle storte, lamentando continuamente: “Sarebbe una cosa bellissima, ma non si può fare!” Con voi non si può certo fare, il vostro mondo è incapace di farlo. Avete solo una preoccupazione: la vostra esistenziale personale; e un Dio: il vostro denaro. Solo che noi non ci rivolgiamo a voi, ma soprattutto a quel grande esercito di persone così povere da non ritenere loro vita personale la più grande fortuna del mondo, a coloro che non adorano il Dio denaro, ma altri dèi. Ci rivolgiamo soprattutto al formidabile esercito della nostra gioventù tedesca. Essa cresce in una grande svolta epocale e dovrà fronteggiare ciò che causò l’indolenza e l’indifferenza dei suoi padri. La gioventù tedesca sarà un giorno la costruttrice di un nuovo Stato nazionalpopolare oppure sarà l’ultimo testimone del tracollo finale, della fine del mondo borghese. È un segno di declino irreversibile quando una generazione soffre degli errori che riconosce e perfino ammette, ma che, come avviene oggi nel nostro mondo borghese, si accontenta di dire che non c’è niente da fare. È tipico del nostro mondo borghese l’incapacità di negare i suoi malanni. Deve riconoscere che molte cose sono marce e 33 34
Sui progetti di colonizzazione orientale vedi capitolo 14-II. Volksgenosse.
361 cattive, ma non può rivoltarsi contro il male, non può riunire con aspra energia la forza di sessanta o settanta milioni di persone35 per fronteggiare il pericolo. Al contrario, se l’opposizione avviene altrove, si limita a fare stupidi commenti, cerca di dimostrare a distanza l’impossibilità teorica di quel tentativo e ne dichiara improbabile la buona riuscita. Ogni stupido motivo serve d’appiglio alla loro meschinità e al loro atteggiamento intellettuale. Se, per esempio, un intero continente muove guerra all’intossicazione alcolica per strappare un popolo dagli artigli di quel vizio devastante36, il mondo borghese europeo non sa fare altro che sgranare gli occhi in silenzio e fare spallucce; un ridicolo senso di superiorità che ben si addice alla nostra ridicola società. Ma se tutto è inutile e, tuttavia, si agisce con successo contro il sublime e sacro andazzo in una qualsiasi parte del mondo, allora, come detto, se ne mette in dubbio il successo o lo si svilisce, contrapponendo i punti di vista della morale borghese a una lotta mirante a sopprimere una profonda immoralità. No, non dobbiamo farci illusioni: la nostra borghesia è ormai irrilevante per ogni elevato compito umano, semplicemente perché è senza qualità, è troppo cattiva. E, a mio giudizio, lo è non tanto scientemente, quanto per indolenza e per tutto ciò che ne deriva. Perciò anche quei club politici che vanno sotto il nome generico di “partiti borghesi”, non sono altro che comunità di interesse di ceti sociali e di gruppi professionali. Il loro compito più solenne è quello di rappresentare al meglio i loro egoistici interessi. È evidente che quella gilda politicante “borghese” non è affatto idonea alla lotta. Specie se la controparte è formata non da prudenti mercanti di pepe37, ma da masse proletarie aizzate e disposte a tutto. Se la missione primaria dello Stato al servizio e per il bene del suo carattere nazionalpopolare è la conservazione, l’assistenza e lo sviluppo dei migliori elementi razziali, è naturale che l’assistenza non solo debba estendersi fino alla nascita dei rispettivi membri, ma che trasformi anche il giovane rampollo in un elemento prezioso per l’ulteriore propagazione della razza. Come, in generale, il presupposto della capacità produttiva si trova nella qualità razziale di un determinato materiale umano, così anche nel singolo bisogna considerare e promuovere l’educazione e la salute fisica; perché uno spirito sano e forte si trova solo in un corpo sano e forte. Il fatto che a volte i geni siano gracili, se non malati, non vuol dir nulla. Si tratta di eccezioni che, come sempre, confermano la regola. Ma se la massa di un popolo è formata da degenerati fisici, è difficile che da quel pantano sorgerà uno spirito veramente grande. E il suo operato non conseguirà mai successi particolari. La marmaglia prodotta non li comprenderà oppure non avrà una volontà abbastanza ferma da riuscire a seguire il suo volo di un’aquila. 35
Secondo il censimento del giugno 1925, vivevano in Germania circa sessantatremilioni di persone, ai quali andavano aggiunti i settecentomila residenti nella Saarland (che rimase sotto controllo internazionale sino al plebiscito del 1935). Negli anni Venti vivevano in Austria circa seimilioni e mezzo di persone [KA, n. 72]. 36 Allusione al proibizionismo alcolico negli Stati Uniti d’America, votato come XVIII emendamento dal Congresso (gennaio 1919) e poi regolato nel Volstead Act (ottobre 1919). Le disposizioni, entrate in vigore nel gennaio 1920, furono abrogate nel dicembre 1933. Bibliografia: L. McGirr, The war on alcohol. Prohibition and the rise of the American State, Londra, W.W. Norton, 2016. 37 Insulto utilizzato in età moderna per i commerciati arricchitisi con le spezie.
362 Lo Stato nazionalpopolare non deve mirare quindi a infondere la semplice conoscenza, ma deve allevare corpi sani. Solo in un secondo tempo bisognerà formare le capacità spirituali. Bisogna favorire inizialmente lo sviluppo del carattere, in particolare la forza di volontà e la determinazione, insieme all’educazione all’assunzione di responsabilità; solo per ultima viene l’istruzione scientifica38.
Figura 4 Manifesto “educativo” nazista sulle diverse fisionomie “razziali” [fonte: museenkoeln.de]
Lo Stato nazionalpopolare deve partire dal presupposto che un uomo meno colto ma fisicamente più sano, dotato di buono e solido carattere, pieno di forza decisionale e volitiva, è più prezioso per la comunità nazionalpopolare39 rispetto a un intellettuale codardo. Un popolo di eruditi, per di più se pacifisti degenerati, deboli e codardi, non solo non conquisterà il cielo, non riuscirà neanche ad assicurarsi l’esistenza terrena. Nelle gravi avversità soccombe raramente colui meno sa, assai più spesso chi trae le peggiori lezioni dalla sua conoscenza e le attua miseramente. Anche qui deve instaurarsi una precisa armonia. Un corpo imputridito non sarà mai più bello di uno spirito radioso. Anzi, non si può giustificare una formazione intellettuale superiore se i suoi portatori sono fisicamente trascurati e storpi, caratterialmente deboli, incostanti e vili. La bellezza ideale greca è resa immortale dalla meravigliosa sintesi tra la più splendida bellezza fisica e un animo raggiante e nobilissimo. Il motto di Moltke (“A lungo andare, la fortuna arride agli abili”)40 vale a maggior ragione per il legame fra corpo e spirito. Anche lo spirito, se sano, risiederà a lungo andare solo nei corpi sani. Con la sua accentuazione sull’educazione fisica, Hitler si trovava in contrapposizione con tutte le principali tradizioni pedagogiche contemporanee. Bibliografia: H. Schreckenberg, Erziehung, Lebenswelt und Kriegseinsatz der deutschen Jugend unter Hitler. Anmerkungen zur Literatur, Münster, Lit, 2001. 39 Sul concetto di comunità nazionalpopolare vedi capitolo 2-I. 40 Espressione tratta dallo scritto Über die Strategie (Sulla strategia, 1871) del feldmaresciallo prussiano Helmuth von Moltke. 38
363 Quindi l’attività fisica nello Stato nazionalpopolare non è affare del singolo, né un problema che riguarda i genitori e la collettività. È un’esigenza dell’autoconservazione del carattere nazionalpopolare, che è rappresentato e protetto dallo Stato. Già oggi, in tema di perfezionamento scientifico, lo Stato interviene nel diritto all’autodeterminazione del singolo e predilige il diritto della collettività, perché, piaccia o non piaccia ai genitori, obbliga il ragazzo alla scolarizzazione. Così, a maggior ragione, lo Stato nazionalpopolare dovrà far valere la sua volontà di fronte all’ignoranza o all’incomprensione dei singoli sui problemi inerenti alla conservazione del carattere nazionalpopolare. Dovrà ripartire il suo lavoro educativo in modo che i giovani corpi siano trattati con cura sin dalla prima infanzia e siano rafforzati e temprati per la vita futura. Deve preoccuparsi soprattutto di non educare una generazione di pantofolai41. Il lavoro assistenziale ed educativo va già intrapreso dalla giovane madre. Come fu possibile, grazie a un lavoro decennale, eliminare le infezioni dei parti e ridurre drasticamente la febbre puerperale, così sarà possibile introdurre, grazie a una coscienziosa formazione di sorelle e di madri, un trattamento già nei primi anni del bambino, che serva da ottima base allo sviluppo successivo. La scuola di uno Stato nazionalpopolare deve concedere maggio spazio all’attività fisica42. Non bisogna sovraccaricare le giovani menti di una zavorra che sarà ricordata solo in minima parte (e non l’essenziale), poiché il fanciullo non sa compiere una ragionevole selezione della materia trasmessa. Se oggi, nel programma delle scuole medie, la ginnastica ha solo due ore alla settimana e la frequenza è pure facoltativa, si tratta di una chiara sproporzione rispetto alla formazione puramente intellettuale. Non dovrebbe passar un solo giorno senza che il giovinetto non sia addestrato fisicamente almeno un’ora al mattino o alla sera, in ogni genere di sport e di ginnastica. Inoltre non bisogna mai dimenticarsi di uno sport che agli occhi di molti “nazionalpopolari” appare rozzo e spregevole: la boxe. È incredibile quante falsi pregiudizi aleggino sulla boxe nei circoli “colti”. È considerato naturale e onorevole che un giovane impari a tirare di scherma e se ne vanti. Ma la boxe è ritenuta volgare!43 Perché mai? Non esiste nessun altro sport in grado di promuovere in egual misura lo spirito aggressivo d’assalto, di esigere la fulminea risolutezza e di rendere quindi il corpo tanto forte e flessibile. Non è più rozzo che due giovani risolvano una divergenza di vedute con i pugni piuttosto che con un affilato pezzo di metallo. È più nobile se l’aggredito si difende con i pugni dall’aggressore invece di scappare a chiamare una guardia. Ma il La Hitlerjugend (Gioventù Hitleriana), l’organizzazione giovanile nazista fondata nel luglio 1926, ebbe sempre il fine di garantire, accanto all’indottrinamento ideologico, l’attività fisica dei ragazzi fra i 14 e 18 anni. Bibliografia: A. Ponzio, Shaping the new man. Youth training regimes in Fascist Italy and Nazi Germany, Madison (Wisconsin), University of Wisconsin Press, 2015. 42 La lezione di educazione fisica fu rivalutata dopo la presa del potere, anche se la riforma scolastica vera e propria fu attuata solo negli anni successivi. Bibliografia: B. Taylor-Schneider, Die Höhere Schule im Nationalsozialismus. Zur Ideolosierung von Bildung und Erziehung, Colonia, Böhlau, 2000. 43 La boxe moderna, originaria dell’Inghilterra e inizialmente snobbata dalle classi superiori continentali, godette dopo il 1918 di grande popolarità in Germania. I boxeur e altri sportivi godevano di grande considerazione sociale durante la Repubblica di Weimar, come nel caso di Max Schmeling, campione europeo dei pesi medi dal 1927 e mondiale dal 1930. Bibliografia: D. Pfeifer, Max Schmeling. Berufsboxer, Propagandafigur. Untenehmer. Die Geschichte eines deutschem Idols, Francoforte sul Meno, Campus Verlag, 2005.
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364 fanciullo giovane e sano deve imparare anche a incassare i colpi. Ciò sembrerà primitivo agli occhi dei nostri combattenti dello spirito. Lo Stato nazionalpopolare non ha certo il compito di allevare una colonia di esteti pacifici e degenerati. Il suo ideale umano non è certo l’onesto filisteo o la vecchia zitella virtuosa, ma l’audace personificazione della forza virile e le donne capaci di partorire. Lo sport non serve solo a rendere forte, agile o ardito il singolo, ma deve anche temprarlo e insegnargli a sopportare le iniquità. Se la nostra classe dirigente intellettuale non fosse stata educata solo alle buone maniere e avesse imparato a boxare, i lenoni, i disertori e marmaglia simile non avrebbero mai fatto la Rivoluzione in Germania. La vittoria della Rivoluzione non fu certo dovuta all’audace e coraggioso dinamismo di qualche rivoluzionario, ma all’irresolutezza vile e meschina di coloro che guidavano lo Stato e che ne erano responsabili. La nostra classe dirigente intellettuale fu educata solo “intellettualmente” e si trovò dunque alla mercé dei suoi avversari, non appena essi ricorsero ai randelli, piuttosto che alle armi dello spirito44. Tutto questo fu possibile solo perché la nostra istruzione scolastica superiore non coltivava uomini, ma funzionari, ingegneri, tecnici, chimici, giuristi, letterati e, affinché il ceto intellettuale non si estinguesse, anche professori45. La nostra classe dirigente intellettuale ha sempre mostrato grande brillantezza, mentre gettiamo un velo pietoso sulla sua forza di volontà. Certo, l’educazione non può trasformare un vigliacco in un uomo coraggioso, ma è certo che un uomo, non privo di coraggio, bloccherebbe la maturazione delle sue doti se, per via di una difettosa educazione, fosse inferiore già in partenza a un altro per forza e per agilità fisiche. Nell’esercito si può valutare al meglio quanto la consapevolezza delle proprie doti fisiche promuova il coraggio e lo spirito pugnace. Non abbiamo solo eroi, ma una buona media. Sennonché la superiore educazione del soldato tedesco in tempo di pace infuse in tutto l’organismo quella suggestiva credenza nella propria superiorità che nemmeno i nemici avrebbero creduto possibile. Ciò che fornì uno spirito indomabile e un coraggio ineguagliabile all’avanzata tedesca dell’estate-autunno 1914 fu l’esito di quell’educazione costante che, nei lunghi anni di pace, forgiò corpi spesso deboli e inculcò quella fiducia in se stessi che non andò perduta nell’orrore delle grandi battaglie. Proprio il nostro popolo tedesco che, dopo esser crollato, è preso a calci dal resto del mondo, ha bisogno di quella forza suggestiva che risiede nella fiducia in se stessi. Ma quella fiducia va inculcata dall’infanzia nel giovane membro della comunità nazionalpopolare. Tutta la sua istruzione e la sua educazione devono convincerlo di essere assolutamente superiore agli altri. Grazie alla sua forza e all’agilità fisica, il giovane deve riacquistare la fede nell’invincibilità del suo carattere nazionalpopolare. Ciò che un tempo condusse al successo l’esercito tedesco, fu la somma della fiducia che ogni singolo soldato possedeva in se stesso e tutti insieme nella loro classe dirigente. Ciò che porterà nuovamente in alto il popolo tedesco è la convinzione della possibilità di riacquistare la libertà. Essa è solo il prodotto finale del comune sentire di milioni di individui. Anche qui non bisogna farsi illusioni. 44 45
Sul ruolo della violenza fisica nella Rivoluzione del 1918-19 vedi capitolo 9-II. Sul risentimento di Hitler contro i funzionari statali e gli “intellettuali” vedi capitoli 9-I e 10-I.
365 Immane fu il tracollo del nostro popolo, altrettanto immane dovrà essere il nostro sforzo per porre fine a cotanta miseria. Chi crede che il nostro popolo, sulla base dalla nostra educazione borghese all’ordine e alla quiete, avrà la forza di distruggere l’ordine mondiale esistente, causa del nostro declino, e di gettare in faccia ai nostri nemici gli anelli della catena della nostra schiavitù, s’inganna di grosso. Solo con un’immensa forza di volontà nazionale, con una sete di libertà e una passione suprema recupereremo il tempo perduto.
Figura 5 Manifesti propagandistici della gioventù hitleriana [fonte: abiweb.de]
Anche l’abbigliamento della nostra gioventù deve essere consono al nostro obiettivo. È un vero peccato dover osservare come anche la nostra gioventù sia soggetta alla folle moda che capovolge in modo così deleterio il senso dell’antico detto “l’abito fa il monaco”46. Fra i giovani l’abbigliamento deve avere un ruolo pedagogico. Il giovane che d’estate girovaga con i calzoni lunghi, avviluppato sino al collo, è poco spinto all’attività fisica. Bisogna coltivare anche l’ambizione e, diciamolo pure a bassa voce, la vanità. Non la vanità di indossare abiti costosi, che non tutti possono permettersi, ma di avere un bel corpo aggraziato, che ognuno può cercare di forgiarsi. Questo torna utile anche in un secondo momento. La fanciulla deve conoscere il suo cavaliere. Se la bellezza fisica non fosse così trascurata dalla nostra moda sciatta, non sarebbe possibile che centinaia di migliaia di fanciulle siano sedotte da ripugnanti bastardi ebrei dalle gambe storte47. È anche nell’interesse della nazione che i corpi più belli si incontrino e collaborino a donare nuova bellezza al carattere nazionalpopolare. Kleider machen Leute (L’abito fa il monaco) era il titolo della novella dello scrittore svizzero Gottfried Keller pubblicata nella raccolta Die Leute von Seldwyla (La gente di Seldwyla, 1874). 47 La figura del seduttore ebreo, che disonora sessualmente la donna e la ragazza “ariana”, deruba la sua “purezza” razziale e la spinge nel baratro morale, fu uno stereotipo antisemita ricorrente sin dalla fine 46
366 Questo è più necessario che mai, perché oggi manca l’educazione militare e, quindi, è stata soppressa l’unica istituzione che, in tempo di pace, colmava almeno in parte le lacune del nostro sistema educativo. Anche in tal caso il successo non consiste nella formazione del singolo, ma nell’influenza sui rapporti fra i sessi. La giovane fanciulla preferiva i soldati ai non soldati. Lo Stato nazionalpopolare non deve solo introdurre e vigilare sull’attività fisica nel periodo scolastico, ma deve anche preoccuparsi che un giovane, durante lo sviluppo fisico, non la rifiuti. È assurdo credere che, finita la scuola, cessi improvvisamente il diritto dello Stato a vigilare sui suoi giovani cittadini e che ricominci solo col servizio militare. Quel diritto è un dovere, e come tale è onnipresente. Lo Stato odierno, che non nutre alcun interesse negli uomini sani, ha criminosamente trascurato quel dovere: lascia che la gioventù si corrompa per le strade e nei bordelli, invece di prenderla per le briglie e di perfezionarla fisicamente, affinché un giorno dia vita a uomini e a donne sani48. Non conta come lo Stato svolgerà il suo compito. L’essenziale è che lo svolga al meglio. Lo Stato nazionalpopolare dovrà considerare come proprio compito non solo la formazione intellettuale, ma anche quella fisica dopo la conclusione della scuola. Essa va impartita per mezzo di istituti statali. Solo così l’educazione fisica sarà la premessa del successivo servizio militare. L’esercito non dovrà più fornire al giovane, come accade oggi, le nozioni fondamentali di un semplice repertorio di esercitazioni49, non manterrà reclute nel senso attuale del termine, dovrà piuttosto trasformare in soldati i giovani già impeccabilmente preparati ed educati a scuola. Nello Stato nazionalpopolare l’esercito non dovrà più insegnare al singolo il passo di marcia e il riposo, ma dovrà fungere da scuola superiore di formazione patriottica50. La giovane recluta dovrà imparare a maneggiare le armi, ma dovrà essere formata anche per la vita civile. E, in cima all’educazione militare, dovrà porsi il merito supremo del vecchio esercito: il fanciullo divenuto uomo. Il giovane non deve solo imparare a obbedire, ma deve acquisire anche le premesse per il comando successivo. Deve imparare a tacere, non solo quando è rimproverato a ragione, ma anche a sopportare silenziosamente l’ingiustizia. Inoltre, rafforzato dalla fiducia nella sua forza, pervaso dal vigore dello spirito di corpo comune, il fanciullo deve acquisire la convinzione nell’invincibilità del suo carattere nazionalpopolare. Al termine del servizio militare andranno rilasciati due documenti: il diploma di cittadinanza51, che gli permetterà di ambire a un impiego pubblico, e l’attestato di salute fisica, che gli consentirà di provare la sua sanità fisica e la sua attitudine al dell’Ottocento. All’interno del nazismo fu soprattutto Julius Streicher col settimanale “Der Stürmer” (L’attaccante) ad aizzare gli animi contro gli ebrei. Bibliografia: R. Keysers, Der Stürmer. Instrument de l’idéologie nazie. Une analyse des caricatures d’intoxication, Parigi, L’Harmattan, 2012. 48 Sulla prostituzione e sulla sifilide vedi capitolo 10-I. 49 I regolamenti per le esercitazioni sorsero dall’inizio del XVII secolo, insieme alla formazione dell’esercito permanente. Essi contenevano disposizioni per l’uso tecnico delle armi. Dopo la Prima guerra mondiale il concetto fu sostituito dal regolamento di servizio [KA, n. 105]. 50 Sull’idea di esercito come “scuola della nazione” vedi capitolo 10-I. 51 Sul tema della cittadinanza vedi capitolo 3-II.
367 matrimonio52. Lo Stato nazionalpopolare deve educare anche le fanciulle partendo dagli stessi presupposti. Bisogna anche dare la massima importanza alla formazione del corpo; solo in seguito andranno promossi i valori psichici e intellettuali. Il fine dell’educazione femminile deve essere unicamente la madre futura53. Solo in secondo momento lo Stato nazionalpopolare dovrà promuovere la formazione del carattere in ogni forma. Certo, le principali doti caratteriali del singolo individuo sono innate: chi è incline all’egoismo è e resterà per sempre egoista, così come l’idealista lo sarà per sempre. Fra i due caratteri estremi ci sono però milioni di sfumature. Il delinquente nato resterà sempre delinquente; ma numerosi uomini in cui sussiste una certa predisposizione alla delinquenza, possono essere trasformati in membri utili della comunità nazionalpopolare con la giusta educazione. Viceversa una cattiva educazione può produrre pessimi elementi dai caratteri insicuri54. Quante volte ci siamo lamentati durante la guerra che il nostro popolo non sapeva tenere la bocca chiusa! Come fu difficile sottrarre segreti anche importanti alla conoscenza del nemico! Ma chiediamoci: cos’ha fatto il sistema educativo tedesco prebellico per insegnare al singolo la discrezione? A scuola lo sbruffoncello non era spesso preferito ai compagni taciturni? La spacconeria non era e non è considerata lodevole “franchezza” e la riservatezza biasimevole cocciutaggine? Ci siamo forse sforzati di dipingere la franchezza come una preziosa virtù virile? No, perché agli occhi del nostro sistema scolastica sono tutte quisquilie55. Peccato che quelle stesse quisquilie costino allo Stato milioni e milioni di marchi in spese giudiziarie, perché il novanta per certo di ogni causa per diffamazione o simili deriva proprio dalla mancanza di discrezione. Parole esternate in maniera irresponsabile sono ripetute in giro con altrettanta sconsideratezza. La nostra economia nazionale è continuamente danneggiata dalla diffusione di importanti sistemi di produzione ecc. Persino i segreti preparativi di difesa nazionale sono illusori, poiché il popolo non ha imparato a tacere e chiacchiera di qualsiasi cosa. In guerra questa loquacità può condurre alla sconfitta di una battaglia e, quindi, contribuire all’esito infausto dell’intera contesa. Certo, non si può fare in vecchiaia ciò che non si è imparato a fare da giovani. L’insegnante non deve cercare di L’esigenza di introdurre schede di valutazione della salute quale presupposto per i contratti matrimoniali era diffusa già a fine Ottocento. Dopo il 1918 il concetto di scheda di valutazione della salute entrò nel dibattito pubblico sulla politica familiare e trovò ampio spazio nei principî-guida della salute pubblicati nel febbraio 1920. Il Terzo Impero mise nero su bianco tali principî con la Legge per la difesa della salute ereditaria del popolo tedesco (ottobre 1935) [KA, n. 108]. 53 Hitler riteneva che le donne dovessero avere una funzione meramente riproduttiva e accudente o, tutt’al più, potessero essere d’ausilio alla vita lavorativa. Non le riteneva idonee alla vita politica. Bibliografia: C. Koonz, Donne del Terzo Reich, Firenze, Giunti, 1996. 54 L’idea del delinquente nato fu applicata istituzionalmente dopo il 1933 tramite la sterilizzazione di massa e l’internamento dei criminali e degli asociali. Bibliografia: J. Jalava, S. Griffiths, M. Maraun (ed.), The myth of the born criminal. Psychopathy, neurobiology, and the creation of the modern degenerate, Toronto, University of Toronto Press, 2015. 55 Forse Hitler trasse ispirazione dall’idea di “riservatezza” come fine educativo dal geografo Haushofer, divenuto già nei primi anni Venti amico e mentore di Hess. Haushofer riteneva la riservatezza una delle più importanti virtù militari e presupposto essenziale per conseguire la capacità di difesa [KA, n. 113]. 52
368 scoprire gli stupidi giochetti dei fanciulli e favorire la delazione. La gioventù è uno Stato a sé, retto da una solidarietà ermetica di fronte a quello degli adulti. E questo è ovvio56. L’amicizia del ragazzo di dieci anni con un suo coetaneo è più naturale e più intima che quella con gli adulti. Un giovane che denuncia il suo compagno, compie un tradimento; rivela così una mentalità che, in parole povere e su larga scala, equivale all’alto tradimento. Un fanciullo del genere non può mai essere considerato un ragazzo “obbediente ed educato”, ma un fanciullo mediocre. Per l’insegnante è comodo servirsi di quelle cattive abitudini per aumentare la sua autorità, ma così inculca nei giovani cuori il germe di una mentalità dagli esiti funesti. Spesso un piccolo delatore diventa una grande canaglia! Ed è solo un esempio fra tanti. Oggi, nella scuola, non si coltiva lo sviluppo consapevole di buone e nobili doti caratteriali. In futuro bisognerà darvi un peso ben diverso. Fedeltà, abnegazione, discrezione sono le virtù di cui necessità un grande popolo. Il loro insegnamento a scuola è più importante di molte cose che oggi riempiono i nostri programmi didattici. Lo stesso vale anche per l’insegnamento a evitare piagnucolose lamentele, grida di dolore e così via. Se un sistema educativo si dimentica di insegnare al bambino a sopportare silenziosamente il dolore e l’iniquità, non si potrà meravigliare se poi, nei momenti critici, cioè quando il bambino fatto uomo si troverà al fronte, il servizio postale servirà solo a trasportare lettere lamentose e piagnucolose57. Se la nostra gioventù avesse imparato a scuola meno conoscenza e maggiore controllo di sé, si sarebbero raccolti buoni frutti tra il 1915 e il 1918. Quindi il lavoro educativo dello Stato nazionalpopolare deve attribuire grandissimo valore, accanto all’educazione fisica, anche alla formazione del carattere. I numerosi difetti morali del nostro corpo popolare possono essere eliminati o mitigati da un sistema educativo basato su quei valori. Di estrema importanza è la formazione della forza volitiva e della determinazione, così come la gioiosa assunzione di responsabilità. Se, in passato, nell’esercito vigeva il principio che un ordine fosse sempre meglio che niente, nella gioventù ciò dovrebbe significare: meglio una risposta che niente. La reticenza a rispondere, per paura di dire il falso, deve essere più umiliante che una risposta sbagliata. Partendo da questo principio elementare bisogna educare la gioventù al coraggio dell’azione. Ci lamentiamo spesso che, fra il novembre e il dicembre 1918, tutte le cariche governative non abbiano fatto il loro dovere, che dal monarca all’ultimo comandante di divisione nessuno abbia avuto la forza di decidere autonomamente. Si tratta di un cattivo presagio del nostro sistema educativo, perché quell’immane catastrofe ha espresso solo su vasta scala ciò che in piccolo era presente dappertutto. È la mancanza di volontà, e non di armi, a renderci oggi incapaci di ogni seria resistenza. Quella L’idea della gioventù come “regno a parte” fu propagandata dal movimento giovanile prebellico e fu sostenuta dal pedagogista riformatore Gustav Weyneken (1875-1934). Il nazionalsocialismo concesse relativa autonomia ai movimenti giovanili per tentare di liberare i giovani dagli influssi familiari e scolastici e per legarli più strettamente al partito. Bibliografia: M. von Hellfeld, Bündische Jugend und Hitlerjugend. Zur Geschichte von Anpassung und Widerstand, 1930-1939, Colonia, Verlag Wissenschaft und Politik, 1987. 57 Sul topos della “corrispondenza familiare di guerra” vedi capitolo 7-I. 56
369 carenza alligna in tutto il nostro popolo, impedisce ogni decisione rischiosa, come se la grandezza di un’azione non consista nell’azzardo. Senza saperlo, un generale tedesco è riuscito a esprimere quella penosa indecisione: “Io agisco solo se posso contare sul 51% di possibilità di successo”58. Quel “51%” spiega la tragedia del tracollo tedesco: chi esige dal destino la garanzia del successo, rinuncia all’importanza di un atto eroico. L’eroismo consiste nel fatto che, consapevoli della pericolosità mortale di un’impresa, si intraprende un passo capace di condurre al successo. Un malato di cancro, sicuro di morire, non ha bisogno di contare sul 51% di probabilità per osare affrontare un’operazione. E se la guarigione ha anche solo una probabilità del 50%, un uomo coraggioso ci proverà, altrimenti non potrà lamentarsi della morte. In generale l’epidemia di vile incostanza e incertezza è l’esito di un’educazione giovanile inadeguata, i cui effetti funesti si propagano nell’età adulta, e trovano la loro conclusione e il loro coronamento nella mancanza di coraggio civile degli statisti. Lo stesso accade per la dilagante paura di assumersi responsabilità. Anche qui lo sbaglio risale all’educazione giovanile, riguarda tutta la vita pubblica e trova il suo compimento imperituro nell’istituzione parlamentare59. Già a scuola, purtroppo, si dà maggior peso alla “confessione pentita” e alla “rinuncia contrita” del piccolo peccatore rispetto a una franca ammissione. Essa appare ad alcuni maestri come il segno manifesto di un’abiezione incorreggibile. A qualche giovane è addirittura pronosticata la forca per qualità che sarebbero d’inestimabile valore se fossero patrimonio comune di un popolo. Come lo Stato nazionalpopolare dovrà dedicare grande attenzione all’educazione della volontà e della determinazione, così dovrà anche infondere nei cuori dei giovani la gioiosa assunzione di responsabilità e l’ammissione di colpa. Solo quando avrà pienamente riconosciuto il valore di questa necessità, lo Stato otterrà, dopo un secolare lavoro educativo, un corpo popolare non più incline a quelle debolezze che oggi contribuiscono fatalmente al nostro declino. L’istruzione scientifica, l’alfa e l’omega del lavoro educativo statale, potrà essere adottata con poche modifiche dallo Stato nazionalpopolare. Esse riguardano tre campi. Innanzitutto il cervello dei giovani non va appesantito da conoscenze di cui non hanno bisogno nel 95% dei casi e che, quindi, si possono facilmente dimenticare. In particolare il programma delle scuole medie e popolari è un ibrido. In molti casi la materia d’insegnamento è così ampia che solo una frazione resta nelle teste degli alunni e potrà essere utilizzata in seguito. Peraltro quella frazione non basta al fabbisogno di chi esercita un lavoro specializzato per guadagnarsi il pane quotidiano. Si prenda come esempio il medio funzionario statale provvisto di diploma ginnasiale o tecnico nel suo trentacinquesimo o quarantesimo anno di età e si esaminino le nozioni scolastiche impartitegli a suo tempo. Che cosa gli resta oggi? Certo, egli obietterebbe: “Tutte le nozioni scolastiche non avevano solo il fine di conservarsi nella nostra memoria, ma anche di educare le Possibile allusione all’espressione attribuita al generale Otto von Lossow (1868-1938) prima del putsch hitleriano del 1923. Lossow avrebbe confessato a Gustav von Kahr che avrebbe partecipato al putsch se avesse avuto il 51% di possibilità di successo [KA, n. 123]. 59 Sull’antiparlamentarismo di Hitler vedi capitoli 2-I e 3-I.
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370 nostre facoltà intellettuali, la memoria e, soprattutto, l’intelligenza”. Questo è in parte vero. C’è il rischio che il giovane cervello sia inondato da un flusso di nozioni difficilmente assimilabili e che, nei singoli elementi, siano difficilmente comprensibili e apprezzabili. Capita spesso che si dimentichi l’essenziale, anziché il contorno. Si perde l’obiettivo fondamentale dello studio: non certo ammassare nel cervello un cumulo di nozioni, ma donare alla vita quel tesoro di saperi, di cui il singolo ha bisogno e che tornano a vantaggio della comunità. Ciò è illusorio se l’individuo, a causa del nozionismo giovanile, non ricorderà più nulla oppure avrà dimenticato l’essenziale. Per esempio, non si capisce perché milioni di uomini nel corso di due o tre anni debbano imparare lingue straniere che poi utilizzeranno solo in parte e che quindi, nella maggioranza dei casi, finiranno per dimenticare del tutto. Perché fra centinaia di migliaia di studenti che imparano, per esempio, il francese, solo duemila ne faranno un uso proficuo, mentre gli altri novantottomila non avranno più occasione pratica di servirsene in tutta la loro vita. Quei giovani hanno dedicato migliaia di ore della loro gioventù a studiare una cosa che poi non avrà più alcun valore. L’obiezione che quell’insegnamento faccia parte del curricolo formativo generale, è infondata, perché sarebbe sostenibile solo se gli uomini utilizzassero in futuro tutto ciò che hanno imparato. In realtà, per via di duemila uomini gli altri novantottomila devono essere torturati inutilmente e perdono tempo prezioso in una lingua inutile. Peraltro si tratta di una lingua che non si può certo dire che educhi al pensiero logico, come il latino. Quindi sarebbe conveniente impartire solo le linee generali del francese o, per meglio dire, la sua struttura profonda, il carattere saliente della lingua; fornire gli aspetti essenziali della sua grammatica e discuterne con esempi la pronuncia, la sintassi ecc. Ciò basterebbe all’uso generale. Inoltre, essendo più semplice da osservare e da ricordare, questo sarebbe preferibile all’insegnamento dell’intera lingua, che non sarà mai realmente padroneggiata e che, in seguito, sarà nuovamente dimenticata. In tal modo si eviterebbe anche il pericolo che, per via dell’eccessiva mole d’insegnamento, non restino memorizzati che solo singoli frammenti sconnessi. Il giovanotto dovrebbe imparare solo l’essenziale; sarebbe quindi anticipata la scelta fra l’essenziale e il superfluo. I fondamenti generali potrebbero bastare ai più per il resto della loro vita, mentre a coloro che avranno reale bisogno della lingua, daremmo la possibilità di perfezionarsi in seguito e di dedicarsi liberamente all’apprendimento scrupoloso. Così nel programma scolastico si farebbe lo spazio necessario all’addestramento fisico e alle esigenze di altri ambiti educativi. In particolare bisogna cambiare la didattica della storia60. Nessun popolo dovrebbe imparare la storia come il tedesco; ma nessuno ne fa un uso così pessimo. Se la politica è la storia in divenire, la nostra educazione storica va rivolta alla nostra attività politica. Anche qui è inutile lamentarsi degli esiti penosi dell’attività politica, se non intendiamo migliorare l’educazione alla politica. Gli esiti della nostra didattica della storia è deplorevole nel 99% dei casi. Pochi eventi, date e nomi restano impressi nella memoria, mentre non esiste un filo conduttore chiaro e importante. L’essenziale, 60
Sul significato della storia nella visione del mondo hitleriana vedi capitolo 1-I.
371 ciò che conterebbe veramente, non è impartito: sta alla predisposizione più o meno geniale del singolo estrarre le ragioni profonde degli avvenimenti dal flusso di date. Possiamo rifiutare quanto vogliamo questa amara constatazione; ma si leggano con attenzione i discorsi di una sola seduta parlamentare sui problemi politici (per esempio, la politica estera). Si pensi che i parlamentari – così si dice – rappresentano il fior fiore della nazione tedesca e che, in ogni caso, gran parte di loro sedette sui banchi delle nostre scuole medie, alcuni persino alle università. Si potrà così dedurre chiaramente quanto sia meschina la loro formazione storica. Se non avessero studiato la storia, ma possedessero un istinto sano, sarebbe stato meglio e di maggiore utilità per la nazione tedesca. Bisogna ridurre il programma di storia. L’essenziale è riconoscere i principali fili conduttori dello sviluppo storico. Quanto più l’insegnamento si riduce all’essenziale, tanto più si può sperare che il singolo trarrà beneficio, in futuro, dalla sua erudizione e che torni utile anche alla sua comunità. Non s’impara la storia solo per sapere ciò che è successo, ma anche per acquisire una maestra di vita per il futuro e per la sopravvivenza del carattere nazionalpopolare. Questo è il fine e l’insegnamento della storia è solo un mezzo per raggiungerlo. Ma anche qui il mezzo è diventato il fine, che è stato perso di vista. Non si dica che lo studio approfondito della storia richieda la conoscenza di tutte le singole date, perché solo così sarebbe possibile fissarne i principali fili conduttori. Questo è compito della scienza specialistica. L’uomo medio, normale, non è un professore di storia; la storia deve dargli quelle cognizioni storiche necessarie a prendere posizione sulle faccende politiche del suo carattere nazionalpopolare. Chi vuole diventare professore di storia, potrà farlo più tardi. Potrà occuparsi di tutti i più piccoli dettagli. Non si accontenterà della nostra didattica della storia, troppo vasta per l’uomo medio normale, ma troppo limitata per gli specialisti. Del resto, è compito di uno Stato nazionalpopolare preoccuparsi affinché sia finalmente scritta una storia universale in cui il problema razziale occupi una posizione dominante. In sintesi lo Stato nazionalpopolare dovrà circoscrivere l’istruzione in ambito scientifico all’essenziale. Inoltre dovrà offrire la possibilità di un perfezionamento specifico. Basta che il singolo riceva una conoscenza sommaria e che gli sia offerta una formazione specialistica e individuale nell’ambito che rappresenterà la sua professione futura. L’istruzione generale dovrebbe quindi essere obbligatoria solo in tutte le materie, mentre quella specialistica andrebbe lasciata alla scelta del singolo. Una riduzione del programma scolastico e del monte ore sarebbe utile al perfezionamento del corpo, del carattere, della forza volitiva e della determinazione61. Quanto sia inutile oggi l’istruzione scolastica, specialmente nelle scuole medie, quanto lo sia per la professione futura, è dimostrato assai bene dal fatto che oggi possono occupare una medesima posizione uomini provenienti da tre scuole differenti. Solo la formazione generale è determinante, non il sapere specialistico. Ma se – come detto – è realmente necessario, un sapere specialistico non può essere certo acquisito grazie ai programmi didattici delle nostre scuole medie.
Il ridimensionamento del programma scolastico di storia (1938) limitò di fatto all’insegnamento della sola storia tedesca. Bibliografia: H. Gies, Geschichtsunterricht unter der Diktatur Hitlers, Colonia, Böhlau, 1992.
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372 Lo Stato nazionalpopolare deve perciò far piazza pulita una volta per sempre di tutti questi palliativi. La seconda modifica nel programma scolastico di uno Stato nazionalpopolare sarà la seguente. È tipico della nostra epoca materialistica che l’istruzione scientifica si rivolga maggiormente alle discipline puramente tecniche, cioè alla matematica, alla fisica, alla chimica ecc. Esse sono certamente necessarie a un’epoca governata dalla tecnica e dalla chimica e sono tangibili nella vita di tutti i giorni, ma è pericoloso fondarvi l’educazione generale di una nazione. Al contrario la formazione generale dovrebbe essere sempre ideale. Deve fondarsi maggiormente sulle discipline umanistiche e offrire solo le basi di un’istruzione scientifica specialistica. In caso contrario rinunciamo alle forze più importanti per la conservazione della nazione. In particolare, nella didattica della storia bisogna studiare gli antichi. La storia romana, se ben compresa a grandi linee, è e resta la migliore maestra di vita non solo per la nostra epoca, ma per tutte. Anche l’ideale della civiltà ellenica va preservato nella sua esemplare bellezza. Le differenze dei singoli popoli non possono farci dimenticare la grande comunità razziale. La lotta di oggi ha scopi elevatissimi: lotta per la propria esistenza una civiltà millenaria che sintetizza la grecità e il germanesimo. Ma occorre distinguere chiaramente tra la formazione generale e le discipline specialistiche. Dato le seconde minacciano di essere al servizio della pura mammona62, la formazione generale, almeno nella sua impostazione ideale, deve fungere da contrappeso. Anche qui bisogna tenere a mente la massima che industria e tecnica, commercio e artigianato possono prosperare solo se una comunità idealistica nazionalpopolare fornisce i presupposti necessari. Essi non si trovano nell’egoismo materiale, ma nell’abnegazione e nella predisposizione al sacrificio. La formazione di oggi ha l’obiettivo primario di inculcare nel giovane quelle cognizioni di cui avrà bisogno per la vita avvenire. In altri termini “il giovane dovrà diventare un utile membro della società umana”. Ma ciò implica la capacità di guadagnarsi onestamente il pane quotidiano. L’educazione civica superficiale fornita dallo Stato borghese si regge su basi debolissime. Non essendo altro che una forma, è molto difficile che lo Stato educhi gli uomini o assegni loro doveri. Una forma può spezzarsi da un momento all’altro. Oggi – come detto – il concetto di “Stato” non è affatto chiaro. Non resta che la vecchia educazione “patriottica”. Nella Germania di un tempo, quell’educazione dava grande lustro (spesso poco saggiamente, se non stupidamente) ai piccoli e piccolissimi potentati, la cui abbondanza non consentiva una reale valutazione della grandezza del nostro popolo. Il risultato fu quindi una conoscenza spesso inadeguata della storia tedesca fra la massa. Anche qui mancava un filo conduttore. È evidente che così non si poteva creare un autentico entusiasmo nazionale. La nostra educazione non riusciva a evidenziare alcuni nomi del nostro divenire storico e a farne patrimonio comune di tutto il popolo tedesco. Così si sarebbe stretto un patto 62
Sul concetto di mammona e mammonismo vedi capitolo 10-I.
373 vincolante intorno alla nazione di eguale conoscenza ed entusiasmo. Non si è saputo illustrare agli occhi dell’attuale generazione gli uomini realmente importanti del nostro popolo, né concentrare quell’attenzione generale che creasse uno stato d’animo comune. I diversi insegnamenti non hanno saputo elevare le glorie della nazione oltre il livello di una descrizione oggettiva, evitando così di infiammare l’orgoglio nazionale con esempi così splendenti63. In epoca guglielmina tutto questo sarebbe apparso volgare sciovinismo, una forma poco gradita ai benpensanti. Il meschino patriottismo dinastico apparve più piacevole e tollerabile rispetto alla passione rumorosa di un supremo orgoglio nazionale. Il primo era sempre servizievole, il secondo poteva dominare la scena. Il patriottismo monarchico creò associazioni di veterani, mentre la passione nazionale sarebbe stata difficile da incanalare: è come un purosangue che non tutti possono montare. Non stupiamoci poi se molti preferivano evitare di essere disarcionati. Nessuno credeva che si sarebbe arrivati a una guerra che, nel fuoco tambureggiante e nelle nubi di gas64, avrebbe messo alla prova la profondità del sentimento patriottico. Ma, una volta scoppiata, la guerra si vendicò in modo orribile della mancanza di passione nazionale. Gli uomini non avevano molta voglia di morire per i loro imperatori, mentre la “nazione” era sconosciuta. Dopo lo scoppio della Rivoluzione e la fine del patriottismo monarchico, l’obiettivo della didattica della storia non è più solo quello di inculcare nozioni. Se uno Stato non ha bisogno di entusiasmo nazionale, non otterrà mai ciò di cui avrebbe bisogno. Come non ci fu un patriottismo dinastico molto resistente nell’epoca del principio delle nazionalità, ancor meno ci sarà un entusiasmo repubblicano. Perché è indubbio che al motto “Per la Repubblica” il popolo tedesco non sarebbe rimasto quattro anni e mezzo sul campo di battaglia; men che meno i creatori della Repubblica di Weimar. In realtà la Repubblica deve la sua esistenza indisturbata alla sicura buona volontà di assumersi qualsiasi tributo e di sottoscrivere qualsiasi rinuncia territoriale65. È simpatica al resto del mondo; così come un codardo è più gradito rispetto a un uomo scontroso. La simpatia dei nemici per la forma repubblicana è anche la critica più distruttiva a quella forma di governo. Tutti amano la Repubblica tedesca e la lasciano sopravvivere, perché non ci sarebbe alleato migliore per asservire il nostro popolo. Solo a questo si deve la conservazione della Repubblica. Perciò si può evitare ogni educazione autenticamente nazionale e accontentarsi delle “grida fragorose” degli eroi del Reichsbanner66. Essi, del resto, se dovessero difendere col sangue la bandiera repubblicana, scapperebbero a gambe levate.
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Già Julius Langbehn, in Rembrandt als Erzieher (Rembrandt come educatore, 1890), aveva sostenuto che lo storiografo dovesse essere l’apostolo dell’eroismo popolare. Bibliografia: J. Langbehn, Rembrandt come educatore, a cura di V. Pinto, Torino, Free Ebrei, 2013. 64 Sull’uso di armi chimiche durante la guerra vedi capitolo 7-I. 65 Sugli oneri delle riparazioni e sulle perdite territoriali del trattato di Versailles vedi capitoli 13-II e 14-II. 66 Il Reichsbanner Schwarz-Rot-Gold (Vessillo statale Nero-Rosso-Giallo) fu l’unione difensiva più grande della Repubblica di Weimar. Creata nel 1924 da socialdemocratici, centristi e liberaldemocratici, il suo compito era quello di difendere la democrazia parlamentare contro i tentativi insurrezionali interni. Bibliografia: H. Gotschlich, Zwischen Kampf und Kapitulation. Zur Geschichte des Reichsbanners Schwarz-Rot-Gold, Berlino, Dietz, 1987.
374 Lo Stato nazionalpopolare dovrà lottare per la propria esistenza. Non vivrà, né difenderà la propria esistenza sottoscrivendo i piani Dawes67. Ma avrà bisogno di ciò che oggi ritiene superfluo. Quanto più saranno incomparabili e preziosi la forma e il contenuto, tanto maggiori saranno l’invidia e la resistenza dei nemici. La migliore garanzia di sopravvivenza non consiste nelle armi, ma nei suoi cittadini. Non lo difenderanno i bastioni delle fortezze, ma i muri viventi di uomini e donne, spinti dal supremo amore patriottico e dal fanatico entusiasmo nazionale. In terzo luogo bisogna considerare l’educazione scientifica. Anche la scienza va considerata dallo Stato nazionalpopolare un mezzo per promuovere l’orgoglio nazionale. Non solo la storia universale, ma tutta la storia della civiltà va impartita in base a questo punto di vista. Un inventore non deve apparire grande solo in quanto tale, ma in quanto membro della comunità nazionalpopolare. L’ammirazione di ogni grande gesto deve essere travasarsi nell’orgoglio di compierlo quale membro del proprio popolo. Ma fra tantissimi grandi nomi della storia tedesca vanno individuate le sommità per imprimerle così profondamente nello spirito della gioventù da trasformarla in colonne di un sentimento nazionale incrollabile. Il materiale didattico va allestito puntualmente secondo questi punti di vista. Il sistema educativo va strutturato in modo tale che il giovane lasci la scuola non da pseudo-pacifista, pseudo-democratico o alcunché di simile, ma da vero tedesco. Affinché il sentimento nazionale sia sincero e non mera apparenza, già in gioventù va impresso nelle menti in via di formazione il ferreo principio che chi ama il proprio popolo, può provarlo unicamente col sacrificio che è disposto a fare in suo favore. Il sentimento nazionale non ha prezzo. Il nazionalismo classista non esiste. Le urla di giubilo non hanno importanza e non danno alcun diritto di chiamarsi nazionali se dietro non si nasconde l’amorosa preoccupazione per la conservazione di un carattere nazionalpopolare sano. C’è motivo di essere orgogliosi per il proprio popolo solo quando non si ha più vergogna di alcuno strato sociale. Ma un popolo, di cui una metà è povera, tormentata o deperita, dà un’immagine di sé così negativa che nessuno dovrebbe sentirsene fiero. Anche se un carattere nazionalpopolare è sano in tutti i suoi membri, nel corpo e nello spirito, la gioia di appartenervi può spingere a buon diritto a quell’elevato sentimento che noi indichiamo con orgoglio nazionale. Ma quell’orgoglio lo prova solo chi conosce la grandezza del suo carattere nazionalpopolare. L’intima unione fra nazionalismo e giustizia sociale va impiantato nel cuore dei nostri giovani. Così un giorno avremo un popolo di cittadini uniti e rinsaldati da un unico amore e da un unico orgoglio, incrollabile e invincibile per sempre. L’attuale timore verso lo sciovinismo è la cifra della sua impotenza. Poiché il nostro tempo non solo ne è privo, ma teme anche ogni forza traboccante, esso non sarò teatro di grandi opere. I cambiamenti più importanti non sarebbero immaginabili se la forza motrice, invece della passione fanatica, se non isterica, fosse stata la virtù borghese di ordine e di quiete. Di sicuro il mondo va incontro a un grande rivolgimento. Non sappiamo se l’esito sarà la salvezza dell’umanità ariana oppure il profitto dell’ebreo errante68.
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Sul piano Dawes vedi capitolo 15-II. La figura dell’ewiger Jude (ebreo errante) appare in alcune leggende cristiane medievali e indicherebbe la “maledizione” comminata al popolo ebraico per non aver riconosciuto il Cristo redentore. L’espressione deriverebbe da alcune riflessioni escatologiche presenti nei Vangeli di Luca (23,27-31), di Matteo (16,28) e 68
375 Lo Stato nazionalpopolare dovrà preoccuparsi di preparare, mediante un’adeguata eduzione della gioventù, una generazione disposta a prendere le decisioni più estreme e supreme su questa terra. Vincerà il popolo che per primo imboccherà questa via. Il complesso lavoro formativo ed educativo dello Stato nazionalpopolare dovrà trovare il suo coronamento nell’imprimere col fuoco, nel cuore e nelle menti della sua gioventù, un senso e un sentimento razziali istintivi e ragionevoli. Nessun fanciullo o fanciulla dovrà lasciare la scuola senza essere giunti a conoscere perfettamente la necessità e l’essenza della purezza del sangue69. Essa sarà il presupposto per la conservazione di una base razziale del nostro carattere nazionalpopolare e darà le basi di un ulteriore sviluppo civilizzatore. Perché, in conclusione, ogni educazione fisica e intellettuale sarebbe insignificante se non tornasse utile a un essere pronto e deciso a conservare se stesso e le sue peculiarità. In caso contrario assisteremmo a quello noi tedeschi lamentiamo da tempo, senza averne del tutto compreso la portata: anche in futuro resteremo solo humus culturale, non solo nel senso della meschina concezione borghese, che vede nel singolo membro perduto della comunità nazionalpopolare solo il cittadino perduto, ma anche nel senso che dovremmo riconoscere con dispiacere che, malgrado il sapere o la capacità, il nostro sangue è destinato al degrado. Congiungendoci con altre razze, le eleviamo su un gradino culturale superiore, ma noi decadiamo per sempre dalla nostra vetta. Del resto, anche questo sistema educativo deve trovare, dal punto di vista razziale, il suo supremo compimento nel servizio militare. In generale la leva militare deve fungere da chiusura del normale sistema educativo del tedesco medio. Come il genere di educazione fisica e intellettuale avrà una grande importanza nello Stato nazionalpopolare, altrettanto ne avrà la selezione delle persone. Oggi essa è presa alla leggera. In generale, i figli di genitori altolocati sono ritenuti meritevoli di una formazione superiore. Il talento ha un ruolo secondario. Di per sé il talento può essere valutato solo relativamente. Un giovane contadino può avere maggior talento del figlio di genitori altolocati da molte generazioni, pur essendo culturalmente inferiore al ragazzo borghese. La maggior cultura non ha nulla a che vedere col talento, ma dipende dai maggiori stimoli che il ragazzo riceve grazie all’educazione e all’ambiente più fecondo. Se il talentuoso figlio di un contadino fosse cresciuto in un ambiente ricco di stimoli, il suo rendimento intellettuale sarebbe stato ben diverso. Forse oggi c’è un solo settore in cui l’origine conti meno delle doti innate: l’arte. Qui, dove non basta semplicemente “imparare”, ma bisogna avere doti innate che, solo più tardi, subiranno un più o meno felice sviluppo (nel senso di favorire l’espressione delle doti innate), mentre il denaro e il patrimonio dei genitori non hanno alcun valore. Qui è evidente che la genialità non dipende dal ceto superiore o dalla ricchezza. I maggiori artisti provengono spesso da famiglie umili. E spesso un ragazzo di paese diverrà un celebre maestro d’arte.
di Giovanni (21,23), dove si accenna a un discepolo immortale. La leggenda fu poi rielaborata con tinte antisemite. Bibliografia: R. Calimani, Storia dell’ebreo errante, Milano, Rusconi, 1987. 69 L’introduzione della Rassenkunde (Antropologia razziale) fu una delle più importanti innovazioni della politica scolastica nazista. Dal settembre 1933 i temi razziali furono introdotti in altre materie (biologia, tedesco, storia e geografia). Bibliografia: H.-C. Harten, U. Neirich, M. Schwerendt, Rassenhygiene als Erziehungsideologie des Dritten Reichs. Bio-bibliographisches Handbuch, Berlino, Akademie Verlag, 2006.
376 Non è segno di particolare profondità la scarsa considerazione di oggi per il genio. Si obietta che ciò che vale all’arte non vale per le cosiddette scienze esatte. Indubbiamente, si possono inculcare a tutti certe abilità meccaniche, così come un abile ammaestramento può spingere un docile barboncino a compiere i più incredibili giochi di prestigio. Ma, come nell’ammaestramento di prima non è l’intelligenza della bestia a condurla verso simili esercizi di bravura, lo stesso avviene per l’uomo. Possiamo insegnare a tutti certi giochi scientifici di prestigio senza riguardo per il talento, ma il processo è sempre inanimato e passivo, come nell’animale. Possiamo inculcare persino una pennellata di conoscenza superiore a un uomo medio grazie a un particolare addestramento intellettuale; ma resterà una conoscenza morta e sterile. Ci sono uomini dotati di un sapere enciclopedico morto, che, nelle situazioni particolari e decisive della vita, falliscono miseramente. Essi andranno guidati in ogni situazione, anche nella più piccola emergenza, mentre da soli non saranno capaci di dare il più piccolo contributo al perfezionamento dell’umanità. Oggi quella conoscenza meccanica basta tutt’al più ad assumere incarichi statali70. Naturalmente, fra la totalità degli abitanti di una nazione ci saranno talenti per tutti i campi della vita quotidiana. Inoltre il valore della conoscenza sarà tanto maggiore quanto più il morto sapere sarà rianimato dal singolo talento. Prestazioni creative ci saranno solo quando capacità e conoscenza saranno un tutt’uno. Un esempio ci mostra quanto l’umanità odierna pecchi in tal senso. Talvolta i giornali illustrati portano all’attenzione dei filistei nostrani il fatto che, talora, un negro diventi avvocato, professore, pastore, tenore drammatico oppure qualcosa del genere. Mentre la stupida borghesia prende atto stupefatta di un evento così prodigioso, rispettosissima per il favoloso risultato della pedagogia moderna, l’ebreo sa farne molto furbescamente un’ulteriore dimostrazione circa la bontà delle sue teorie egualitarie, che instilla nei popoli. La nostra decadente borghesia non sospetta affatto che si tratta di un peccato contro la ragione; che è una colpevole follia ammaestrare una mezza scimmia71 per farne un avvocato, mentre milioni di membri della razza civile superiore occupano posizioni indegne. Non sospetta che è un peccato contro la volontà dell’Eterno Creatore lasciar languire nel pantano proletario centinaia di migliaia delle sue creature più dotate, mentre si ammaestrano per le professioni intellettuali gli ottentotti, i cafri e gli zulù. Perché di questo si tratta, come per il barboncino, non certo di una “perfezionamento” scientifico. La stessa fatica e lo stesso zelo dedicati alle razze intelligenti renderebbe ogni singolo membro mille volte meglio più capace di simili prestazioni. Questa situazione sarebbe intollerabile se non si trattasse di eccezioni. Oggi è così insopportabile perché il talento e l’indole non decidono un’educazione superiore. Sissignore, è insopportabile l’idea che ogni anno centomila individui del tutto privi di talento siano ritenuti degni di un’educazione superiore, mentre altre centinaia di migliaia di individui ben dotati ne restino privi72. È un’incalcolabile perdita per la nazione. Se, negli ultimi decenni, il numero delle scoperte importanti è cresciuto Sull’antiparlamentarismo di Hitler vedi capitolo 2-I. Espressioni razziste diffuse durante la guerra con cui erano diffamate e insultate le truppe coloniali alleate (specie quelle francesi usate in Renania dopo il 1918) [KA, n. 162]. 72 Probabile allusione alle fallite ammissioni all’Accademia di Belle Arti viennese del 1907-1908.
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377 enormemente, soprattutto in Nord America, questo si deve al fatto che laggiù i talenti degli strati inferiori trovano maggiore possibilità di ricevere un’istruzione rispetto all’Europa. Per inventare non basta inculcare nozioni, ma bisogna animare il talento. Tutto ciò non ha più alcuna importanza da noi: conta solo avere buoni voti. Anche qui lo Stato nazionalpopolare dovrà intervenire pedagogicamente. Non dovrà tutelare l’influenza preponderante di una particolare classe sociale, ma dovrà individuare fra la totalità dei membri della comunità nazionalpopolare le menti più capaci, dovrà impiegarle e promuoverle. Non dovrà solo offrire una specifica educazione al fanciullo medio della scuola popolare, ma dovrà anche mettere sulla retta via il talento. E, soprattutto, dovrà ritenere quale suo compito supremo quello di aprire le porte degli istituti statali superiori ai migliori, qualunque sia lo strato sociale di provenienza. Solo così una geniale classe dirigente della nuova nazione potrà sostituire i rappresentanti di una conoscenza morta73. Lo Stato dovrà agire così anche per un altro motivo: i nostri strati intellettuali sono così chiusi in se stessi e così sclerotizzati che mancano ormai di un legame vitale con gli strati inferiori. La chiusura produce due effetti nefasti. Innanzitutto, manca loro la comprensione e la percezione della grande massa. Gli strati intellettuali hanno perso da tempo ogni legame col popolo, non sono in grado di comprenderlo. In secondo luogo essi mancano della necessaria forza di volontà. Essa è sempre più debole nell’accozzaglia intellettuale rispetto alla massa del popolo primitivo. Non è mai la formazione scientifica a mancare ai tedeschi, ma la forza di volontà e la determinazione. Quanto più “arguti” erano, per esempio, i nostri statisti, tanto più scadenti erano, in generale, le loro prestazioni. La preparazione politica e l’armamento tecnico non erano sufficienti, non perché menti troppo poco colte governassero il nostro popolo, ma perché i governanti erano iper-colti, stracolmi di conoscenza e di spirito, privi tuttavia di un istinto sano, di energia e di audacia. Fu un segno del destino che il nostro popolo abbia dovuto combattere per l’esistenza sotto il cancellierato di un codardo filosofeggiante. Se al posto di un Bethmann-Hollweg ci fosse stato un robusto uomo del popolo, il sangue eroico dei granatieri non sarebbe stato versato invano74. La stessa iper-coltivazione intellettuale dei nostri dirigenti fu la migliore alleata della canaglia rivoluzionaria novembrina. L’intellighenzia risparmiava vergognosamente il bene nazionale a sua disposizione, invece di metterlo tutto in gioco, creando così il presupposto per il successo altrui. Qui può offrirci un esempio istruttivo la Chiesa cattolica. Per via del celibato ecclesiastico bisogna scegliere i sacerdoti futuri non tra il clero, ma tra la vasta massa popolare. Il significato del celibato è sottovalutato dalla maggior parte delle persone. È il motivo della forza incredibilmente fresca insita in quell’antichissima istituzione. Mentre, integrando quest’esercito enorme di dignitari ecclesiastici negli strati popolari inferiori, la Chiesa non solo conserva il legame istintivo con il mondo emozionale del popolo, ma si assicura anche una somma di energie e un dinamismo presenti Sul problema del “merito” vedi capitolo 11-II. L’antipatia politica delle destre verso il cancelliere Bethmann-Hollweg derivava in parte dal suo discorso al Reichstag del 4 agosto 1914, quando sostenne l’illegittimità della violazione della neutralità belga da parte delle truppe tedesche, pur “giustificato” dallo “stato di necessità”. Vedi capitolo 10-I.
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378 eternamente solo nella grande massa popolare. Da qui deriva la sorprendente giovinezza di quell’enorme organismo, la flessibilità spirituale e la ferrea forza di volontà. Sarà compito di uno Stato nazionalpopolare preoccuparsi che negli istituti scolastici ci sia un costante rinnovamento degli strati intellettuali mediante l’afflusso di sangue fresco da quelli inferiori. Lo Stato ha l’obbligo di setacciare con scrupolosità e con precisione il materiale umano qualificato per natura dalla comunità nazionale e impiegarlo al servizio della collettività. Perché Stato e funzionari pubblici non esistono per nutrire alcune classi sociali, ma per assolvere i compiti loro assegnati. E ciò sarà possibile solo se saranno formati per principio solo persone capaci e volitive. Questo non vale solo per i funzionari, ma anche per la classe dirigente intellettuale di ogni settore. La grandezza di un popolo si misura con la capacità di formare i migliori elementi nei rispettivi campi e di metterli al servizio della comunità nazionalpopolare. Se due popoli con eguali capacità e disposizioni competono fra di loro, vincerà quello dotato di migliori talenti nella classe dirigente intellettuale, mentre sarà sconfitto quello il cui governo rappresenta solo una mangiatoia comune di alcuni strati o classi sociali, senza riguardo per le doti innate dei singoli rappresentanti. Certo, tutto ciò sembra impossibile al giorno d’oggi. Si obietterà che, per esempio, il figlio di un alto funzionario statale non può diventare un “artigiano”, perché un ragazzo coi genitori artigiani sembrerebbe più qualificato in partenza. Questo può anche essere vero, data la considerazione attuale del lavoro manuale. Ma lo Stato nazionalpopolare dovrà assumere una posizione diversa anche rispetto al concetto di lavoro. Se necessario mediante un’educazione secolare, lo Stato perderà l’assurda abitudine di disprezzare l’attività manuale. Dovrà valutare accuratamente il singolo non in base al lavoro, ma in base alla forma e alla bontà della sua prestazione. Una cosa straordinaria se pensiamo che oggi il “colonnista” più arido, solo perché lavora con la penna, vale più del meccanico più intelligente. Come detto, questa falsa valutazione non è naturale, ma è inculcata artificiosamente e non esisteva in passato. L’attuale stato innaturale delle cose si basa sui fenomeni morbosi dell’epoca materialistica. In linea di principio il valore di ogni lavoro è duplice: materiale e ideale. Il valore materiale si basa sul significato – materiale – di un lavoro per la vita della collettività. Quanto maggiore è il numero di membri della comunità nazionalpopolare che traggono vantaggio da una specifica prestazione, in maniera più o meno diretta, tanto maggiore è il suo valore materiale. Questa valutazione trova espressione plastica nel salario che il singolo riceve per il suo lavoro. Al valore puramente materiale si contrappone quello ideale. Esso non si basa sul significato concreto del lavoro, ma sull’intrinseca necessità. L’utilità concreta di un’invenzione può essere maggiore rispetto al servizio reso da un manovale, ma di certo la collettività ha bisogno tanto della prima, quanto del secondo. La differente valutazione dell’utilità del singolo lavoro per la collettività si esprime nella diversa retribuzione. Essa deve idealmente stabilire l’equivalenza di ogni lavoro nell’istante in cui ognuno si sforza di fare del suo meglio nel proprio campo – qualunque esso sia. La considerazione di un uomo si basa sul valore ideale, non solo sulla retribuzione materiale. Poiché uno Stato ragionevole deve fare in modo di assegnare al singolo l’attività adeguata alla sua capacità o, in altre parole, deve formare la testa capace al lavoro adeguato, essendo la capacità innata, cioè è un dono della natura e non è un merito
379 dell’uomo, allora la generale valutazione borghese non può riguardare il lavoro richiesto al singolo. La professione dipende dalla nascita e dalla formazione ricevuta. La valutazione dell’uomo deve basarsi sul modo in cui esegue il compito affidatogli dalla collettività. L’attività svolta dal singolo non è il fine della sua esistenza, ma ne è il mezzo. Anzi, come essere umano, egli deve continuare a istruirsi e a nobilitarsi; ma può farlo solo all’interno della sua comunità culturale, che deve sempre basarsi sulle fondamenta di uno Stato. L’uomo deve sempre contribuire al mantenimento di quelle fondamenta. La forma del contributo è deciso dalla natura; l’uomo può solo favorire e restituire alla comunità nazionalpopolare, con diligenza e con rettitudine, ciò che gli è stato donato. Chi lo fa, merita stima e grande considerazione. La ricompensa materiale può essere assegnata a chi, con le sue prestazioni, torna utile alla collettività; la ricompensa ideale, tuttavia, deve consistere nella considerazione che ognuno può pretendere, se dedica al servizio del suo carattere nazionalpopolare le forze che la natura gli ha dato e che la comunità nazionalpopolare ha sviluppato. Non è più un disonore essere un bravo artigiano, ma lo è essere un funzionario inetto che ruba un giorno di vita al buon Dio e il pane quotidiano al buon popolo75. Sarà naturale non assegnare a un uomo i compiti per cui non è mai stato all’altezza. Inoltre l’attività lavorativa è anche l’unico criterio del diritto a una perequazione giuridica. L’epoca attuale si autodistrugge: introduce il suffragio universale76 ciancia di eguali diritti, ma non trova alcun fondamento condiviso77. Considera la retribuzione materiale quale espressione del valore di un uomo e distrugge così il fondamento della più nobile uguaglianza fra le persone. L’uguaglianza non si basa e non può basarsi sulle prestazioni individuali, ma è possibile solo se ciascuno adempie i suoi particolari doveri. Solo così, giudicando il valore di un uomo si elimina la causalità della natura e il singolo individuo è artefice del suo significato. Oggi, dove interi gruppi sociali valutano se stessi solo in base alla classe stipendiale, è incomprensibile tutto ciò che ho detto. Non per questo rinunciamo a sostenere le nostre idee. Al contrario chi vuole salvare la nostra epoca profondamente marcia e malata, deve avere almeno il coraggio di individuare le cause della sua malattia. Questa deve essere la preoccupazione del movimento nazionalsocialista: oltrepassando il filisteismo, deve estrarre e raccogliere quelle forze del nostro carattere nazionalpopolare adatte a essere precorritrici di una nuova visione del mondo. Qualcuno obietterà che è difficile separare la valutazione ideale da quella materiale, che le stime calanti del lavoro fisico sono causate proprio dalla minore retribuzione economica. Essa sarebbe all’origine di una minore partecipazione degli individui ai beni culturali della nazione. Ma così si pregiudica la cultura ideale 75
Sul risentimento hitleriano verso la burocrazia vedi capitolo 10-I. Col decreto per l’elezione per l’assemblea costituente (30 novembre 1918), la base elettorale tedesca fu modificata: le donne ebbero diritto di voto, l’età fu abbassata da 25 a 20 anni, il sistema proporzionale fu sostituito da quello maggioritario. 77 Il principio dell’uguaglianza giuridica si basava sulla teoria dei “diritti naturali” formalizzata nel Settecento dall’Illuminismo. La destra politica sosteneva invece l’ineguaglianza “naturale” delle persone e dei popoli. Bibliografia: M. Revelli, Destra e sinistra. L’identità smarrita, Roma-Bari, Laterza, 2009.
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380 dell’uomo, che non ha nulla a che fare con la sua attività lavorativa. L’avversione per il lavoro fisico sarebbe motivata dal fatto che, per via di una peggiore retribuzione, il livello culturale del lavoratore manuale si sarebbe inevitabilmente abbassato, giustificando così una minor considerazione generale. In tutto questo c’è molto di vero. Ma appunto per questo dovremo guardarci in futuro dall’esagerare la differenza tra le retribuzioni. Non si dica che così si ridurranno le buone prestazioni. Sarebbe il tristissimo indizio della decadenza di un’epoca se lo stimolo a una migliore prestazione derivasse unicamente da una migliore retribuzione. Se così fosse stato, l’umanità non avrebbe mai conseguito i suoi preziosi beni scientifici e culturali. Perché le maggiori scoperte, le maggiori invenzioni, i lavori scientifici più innovativi, i monumenti più splendidi della civiltà umana non furono certo donati al mondo dalla brama di denaro. Al contrario, non di rado la loro nascita comportò la rinuncia alla felicità terrena della ricchezza. Può darsi che l’oro sia oggi l’unico signore della vita, che l’uomo si chinerà in futuro di fronte a divinità superiori. Oggi molte cose si devono all’avidità di denaro e di ricchezza; ma ben poche sono quelle che, se non esistessero, renderebbero l’umanità più povera. Ecco un altro compito del nostro movimento: annunciare un’epoca che darà a ognuno secondo i suoi bisogni78, ma che onorerà il principio che l’uomo non vive solo per i godimenti materiali. Ciò troverà un’espressione in una limitata differenziazione dei meriti, che garantirà un’esistenza normale anche all’ultimo lavoratore perbene, come uomo e come membro della comunità nazionalpopolare. Non si dica che è una condizione ideale praticamente irrealizzabile a questo mondo. Nemmeno noi siamo così ingenui da credere che potremo riuscire a creare un’età priva di imperfezioni. Solo che questo non ci esime dall’obbligo di combattere gli errori riconosciuti, di superare le debolezze e di tendere con ogni sforzo verso l’ideale. La dura realtà comporterà sin troppe limitazioni. Ma proprio per questo l’uomo deve cercare di servire il compito supremo, e gli insuccessi non devono distoglierlo dai sui propositi. Non può rinunciare alla giustizia, solo perché fallibile, e non può ripudiare la medicina perché ci sarà sempre la malattia. Non bisogna ignorare la forza di un ideale. A qualche pusillanime, se è stato un soldato, bisogna ricordargli l’epoca in cui l’eroismo rappresentava la migliore dimostrazione della forza di un ideale. Ciò che un tempo spingeva gli uomini a morire non era certo la preoccupazione per il pane quotidiano, ma l’amore per la patria, la fede nella sua grandezza, il diffuso sentimento dell’onore della nazione. E quando il popolo tedesco si allontanò da questi ideali per seguire le promesse materiali della Rivoluzione, scambiando le armi col sacco79, non giunse al paradiso terrestre, ma nel purgatorio del disprezzo generale e della miseria generale. Quindi è necessario opporre ai contabili della Repubblica materialistica la fede in una Germania ideale.
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Espressione che richiama un noto slogan della Critica del programma di Gotha di Karl Marx (1875). Nell’immaginario antisemita il sacco era il segno di riconoscimento dell’ebreo errante (orientale) o del commerciante. Bibliografia: M. Haibl, Zerrbild als Stereotyp. Visuelle Darstellungen von Juden zwischen 1850 und 1900, Berlino, Metropol Verlag, 2000. 79
381 Approfondimenti didattici 1. Analisi retorica e stilistica - Individua le principali figure retoriche; - Individua l’esistenza di fallacie retoriche; - Individua i principali “loci” e “topoi”; - Individua la presenza di stereotipi e pregiudizi. 2. Analisi storico-culturale - Le visioni dello Stato: analizza le tre posizioni giuridiche individuate da Hitler sul compito dello Stato e tenta di derivarne i diversi sistemi istituzionali; - Razza e lingua: analizza il nesso fra biologia (sangue) e formazione (cultura) nell’elaborazione dei diversi modelli di cittadinanza; - Eugenetica: analizza il contesto storico-medico in cui è sorta l’eugenetica e tenta di individuare possibili “usi” e “abusi” attuali circa la prevenzione dalle malattie ereditarie; - Educazione mentale o fisica: ricostruisce la storia della pedagogia nel corso del Novecento, tentando di confrontare i diversi modelli educativi; - Il problema dell’insegnamento della storia: analizza il tema dello studio della storia partendo, per esempio, dalla seconda considerazione inattuale di Friedrich Nietzsche Sull’utilità e il danno della storia per la vita (1874); - Ideale e reale: analizza la contrapposizione hitleriana e tenta di ricostruire il ruolo che l’educazione spirituale e quella scientifica rivestono nell’attuale sistema educativo.
A. Gilardoni, Logica e argomentazione. Un prontuario, Milano, Mimesis, 2008.
Capitolo III. Membri dello Stato e cittadini
Sinossi 1. Genesi Il capitolo 3-II è il più breve di tutto il libro ed è anche quello contenutisticamente più omogeneo. Probabilmente fu redatto nella primavera del 1925, quando Hitler aveva rinunciato alla cittadinanza austriaca (30 aprile) e divenne apolide. Gli indizi fanno presumere che il capitolo sia stato preparato fra il 1924 e il 1925, in concomitanza con l’edizione tedesca del saggio di Madison Grant The passing of the great race (Il declino della grande razza)1. 2. Contenuto Hitler prosegue il discorso già avviato nel capitolo 2-II circa il futuro Stato nazionalsocialista, affrontando il problema della cittadinanza. Ius soli o ius sanguinis? Ovviamente il primo è inaccettabile per ragioni “razziali”, ma il secondo non è automatico: va meritato. Bisogna distinguere tra cittadini veri e propri, membri dello Stato e stranieri. La cittadinanza diventa quindi un dovere verso la propria “razza”. Comporta non solo il rispetto di determinate prerogative giuridiche o economiche, ma anche l’acquisizione e il mantenimento della “salute” fisica e spirituale. Il dovere di ogni aspirante cittadino è di natura “militare”: un tedesco può ottenere la piena cittadinanza solo dopo un percorso educativo che ne abbiano forgiato il carattere. Al termine del percorso otterrà l’“attestato di cittadinanza”, un documento che gli consentirà di essere un cittadino vero e proprio della Germania, con determinati diritti e doveri. Chi non ne sarà degno rimarrà un semplice “membro dello Stato”, che avrà determinate restrizioni in ambito politico e civile. Il discorso per le donne è simile: avranno l’“attestato di cittadinanza” quando avranno ottemperato ai loro doveri verso la nazione attraverso la maternità oppure il lavoro. 3. Analisi Questo breve capitolo è rilevante in termini biografici e politici, perché fu redatto poco prima che Hitler decidesse di rinunciare alla cittadinanza austriaca e provasse a ottenere quella tedesca (gli riuscirà solo nel febbraio 1932, dopo vari infruttuosi tentativi). Anche qui il tema razziale è al centro della scena e può darsi che la lettura di Madison Grant e le restrizioni imposte dall’Immigration Act americano del maggio 1924 abbiano spinto Hitler ad approfondire il problema della cittadinanza. Il Reichsbürgergesetz (legge sulla cittadinanza tedesca) del settembre 1935 metterà in pratica la discriminazione su base etnica e razziale. 4. Parole-chiave Apolide, Attestato di cittadinanza, Cittadino, Diritto di cittadinanza, Membri della comunità nazionalpopolare, Membri dello Stato, Naturalizzazione, Stati Uniti d’America, Straniero. 1
KA II, p. 1111.
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5. Bibliografia essenziale - M. Burleigh, W. Wippermann, Lo Stato razziale. Germania, 1933-1945, traduzione di O. Fenghi, Milano, Rizzoli, 1992; - P. Bruppacher, Adolf Hitler und die Geschichte der NSDAP. Eine Chronik, parte 1: 1889-1937, Norderstedt, Books on Demand, 2014; - A. Bullock, Hitler. Studio sulla tirannide, Milano, Res Gestae, 2014; - K. Burke, Die Rhetorik in Hitlers “Mein Kampf” und andere Essays zur Strategie der Überredung, Francoforte sul Meno, Suhrkamp, 1967; - D. Capozza, C. Volpato, Le intuizioni psicosociali di Hitler. Un’analisi del “Mein Kampf”, Bologna, Patron, 2004; - W. Carr, Hitler. Studio sul rapporto tra personalità e politica, Napoli, Liguori, 1985; - M. Cattaruzza et al. (ed.), Storia della Shoah. La crisi dell’Europa, lo sterminio degli ebrei e la memoria del 20. Secolo, Torino, UTET, 2005-2006, 2 voll.; - G. Corni, Hitler, Bologna, Il Mulino, 2007; - Id., Breve storia del nazismo, 1920-1945, Bologna, Il Mulino, 2015; - J. Fest, Hitler. Una biografia, traduzione di F. Saba Sardi, Milano, Garzanti 2005; - D. Gosewinkel, Einbürgern und Ausschliessen. Die Nationalisierung der Staatsangehörigkeit von Deurschen Bund bis zur Bundesrepublik Deutschland, Gottinga, Vandenhoeck & Ruprecht, 2001; - L. Herbst, Il carisma di Hitler. L’invenzione di un messia tedesco, traduzione di U. Gandini, Milano, Feltrinelli, 2011; - S.F. Kellerhoff, Il libro proibito di Hitler. Storia del Mein Kampf, Milano, Rizzoli, 2016; - I. Kershaw, Hitler, vol. 1: 1889-1936, Milano, Bompiani, 2003; - S. Koven, F. Götzke, American immigration policy. Confronting the nation’s challenges, New York, Springer, 2010; - W.C. Langer, Psicanalisi di Hitler. Rapporto segreto del tempo di guerra, Milano, Garzanti, 1975; - P. Longerich, Hitler. Biographie, Monaco, Siedler Verlag, 2015; - W. Maser, Adolf Hitler, Roma, Ciarrapico, 1978; - A. Musolff, Metaphor, nation and the Holocaust. The concept of the body politic, New York, Routledge, 2011; - B. Novak, Hitler and the abductive logic. The strategy of a tyrant, Lanham (Maryland), Lexington Books, 2014; - K. Pätzold, M. Weissbecker (ed.), Geschichte der NSDAP, 1920-1945, Colonia, PayRossa, 2002; - O. Plöckinger, Geschichte eines Buches. Adolf Hitlers “Mein Kampf”, 1922-1945. Eine Veröffentlichung des Instituts für Zeitgeschichte, Monaco, Oldenbourg, 2011; - Id., Quellen und Dokumente zur Geschichte von “Mein Kampf”, 1924-1945, Stoccarda, Franz Steiner Verlag, 2016; - P.R. Range, La genesi del Mein Kampf. 1924: l’anno che cambiò la storia, Roma, Newton Compton, 2017; - F.J. Rash, The language of violence. Adolf Hitler’s “Mein Kampf”, New York, Peter Lang, 2006; - R.G. Reuth, Hitler. Eine politische Biographie, Monaco, Piper, 2003; - W. Pyta, Hitler. Der Künstler als Politiker und Feldherr. Eine Herrschaftsanalyse, Monaco, Siedler Verlag, 2015; - H. Steinhaus, Hitlers pädagogische Maximen. “Mein Kampf” und die Destruktion der Erziehung im Nationalsozialismus, Francoforte sul Meno, Peter Lang, 1981; - J. Toland, Adolf Hitler. The definitive biography, New York, Doubleday, 1976; - O. Trevisiol (ed.), Die Einbürgerungspraxis im Deutschen Reich, 1871-1945, Gottinga, Vandenhoeck & Ruprecht, 2006; - V. Ullrich, Adolf Hitler. Biographie, vol. 1: Die Jahre des Aufstiegs 1889-1939, Francoforte sul Meno, S. Fischer, 2013; - A. Viktine, “Mein Kampf”. Storia di un libro, traduzione di G. Zucca, Milano, Cairo, 2010; - T. Vordermeyer, Bildungsbürgertum und völkische Ideologie. Konstitution und gesellschaftliche Tiefenwirkung eines Netzwerks völkischer Autoren (1919-1959), Berlino, de Gruyter, 2016; - H.-U. Wehler, Deutsche Gesellschaftsgeschichte, Monaco, C.H. Beck, 1987-2008, 5 voll. - B. Zehnpfennig, Hitlers “Mein Kampf”. Eine Interpretation, Monaco, Fink, 2000; - R. Zitelmann, Hitler, Roma-Bari, Laterza, 1991.
385 In generale la forma oggi denominata erroneamente come Stato riconosce solo due generi di individui: i cittadini e gli stranieri. I cittadini sono tutti coloro che possiedono i diritti civili per nascita o per naturalizzazione. Gli stranieri sono tutti coloro che posseggono gli stessi diritti in un altro Stato. Fra gli uni e gli altri vi sono alcuni fenomeni transitori: i cosiddetti apolidi. Sono uomini che hanno l’onore di non appartenere ad alcuno Stato, e quindi non posseggono i diritti civili in nessun luogo. Il diritto di cittadinanza, come detto, si acquisisce per nascita entro i confini di uno Stato. La razza o l’appartenenza popolare non contano nulla2. Un negro vissuto nei vecchi protettorati tedeschi, ora residente in Germania, mette al mondo un figlio che è “cittadino tedesco”. Lo stesso diritto può reclamarlo ogni figlio di ebreo, di polacco, di africano o di asiatico3. Oltre alla naturalizzazione esiste un’altra possibilità per ottenere la cittadinanza. Essa è legata ad altre precondizioni, per esempio che il candidato non sia un ladro o un lenone, che non sia politicamente pericoloso, che non sia di peso alla nuova patria politica. Questo significa limitarsi a pensare all’onere finanziario. Anzi, per accelerare l’acquisizione della cittadinanza è utile apparire come un futuro buon contribuente4. Le considerazioni razziali non hanno alcuna importanza. Il processo di acquisizione della cittadinanza non è molto diverso dall’ammissione a un club automobilistico. Il candidato avanza la sua richiesta, che è vagliata ed esaminata; un bel giorno riceve la comunicazione che è diventato cittadino dello Stato. La notizia gli è data in forma spiritosa. Si comunica infatti a uno zulù o a un cafro: “Sei diventato tedesco!” Sissignore, questo mirabile documento è opera di un funzionario statale. In un batter d’occhio quel Teofrasto Paracelso5 fa ciò che il cielo non era riuscito a fare. Con un tratto di penna, un mongolo diventa improvvisamente un autentico “tedesco”. Non solo non importa la razza del nuovo cittadino, ma nemmeno la sua salute fisica. Può essere roso dalla sifilide, ma per lo Stato è un cittadino benvenuto, purché, come detto, non rappresenti un onere finanziario o un pericolo politico6. Così ogni anno quella creazione chiamata Stato assorbe sostanze tossiche, che non riesce più a debellare.
Il “Programma dei Venticinque Punti” del 1920 (paragrafi 4-10) legava indissolubilmente il problema della cittadinanza a quello razziale. Può essere cittadino solo chi è membro della comunità nazionalpopolare, cioè chi ha sangue tedesco (l’ebreo, ovviamente no). Chi non possiede la cittadinanza, può vivere in Germania solo come ospite e deve sottostare alla legislazione degli stranieri. Gli uffici pubblici devono essere ricoperti solo da cittadini tedeschi. I cittadini stranieri vanno espulsi nel caso in cui lo Stato tedesco non riesca a sostenere i propri cittadini. Tutti i cittadini stranieri giunti in Germania dopo il 2 agosto 1914 (data della dichiarazione di guerra) devono lasciare immediatamente il paese. I cittadini tedeschi hanno gli stessi diritti e doveri. il primo dovere è quello di crescere fisicamente e spiritualmente. L’attività di ogni cittadino non può andare contro gli interessi generali, ma anzi essere di sua utilità. 3 Allusione alle colonie tedesche prima del 1918. 4 La politica di naturalizzazione nella Repubblica di Weimar era più restrittiva di quanto non sostenuto da Hitler. Per la naturalizzazione di uno straniero erano necessari almeno dieci anni, che furono elevati a venti nel 1931 [KA, n. 4]. 5 Allusione all’alchimista medievale svizzero che tentò di trasformare in oro un metallo meno prezioso. 6 Le considerazioni finanziarie non erano determinanti nella politica di naturalizzazione della Repubblica di Weimar, che mantenne in vigore la legge del luglio 1913 [KA, n. 8]. 2
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Figura 1 Esempio di certificato di naturalizzazione nazista [fonte: wikipedia.de]
Il cittadino si differenzia dallo straniero non perché può accedere agli uffici pubblici7, ma perché deve prestare il servizio militare obbligatorio8 o può partecipare attivamente o passivamente alle elezioni9. La sostanza è tutta qui. Spesso lo straniero gode della stessa salvaguardia dei diritti personali e della libertà personale; per lo meno così è nella nostra Repubblica. Non amiamo sentire certe cose. Ma non esiste nulla di più assurdo e di più demenziale che il nostro diritto di cittadinanza. Oggi esiste uno Stato in cui si ravvisano gli indizi di una concezione superiore. Naturalmente, non si tratta della nostra esemplare Repubblica, ma dell’Unione americana, dove si tenta almeno in parte di fare appello alla ragione. Rifiutando giustamente l’immigrazione agli elementi nocivi ed escludendo dalla naturalizzazione certe razze, l’Unione americana professa sommessamente una propria concezione nazionalpopolare della Stato10. La costituzione weimariana dell’agosto 1919 stabiliva che tutti i cittadini potessero ricoprire incarichi pubblici (articolo 128). 8 Il trattato di Versailles, che limitò l’esercito tedesco a centomila uomini, vietava il servizio militare obbligatorio (articolo 173). La leva obbligatoria fu ripristina con apposita legge nel marzo 1935. 9 La riforma elettorale dell’aprile 1920 estendeva il diritto di voto attivo a ogni cittadino di oltre vent’anni, mentre il diritto di voto passivo per chi avesse almeno 25 anni e fosse cittadino tedesco da almeno un anno. 10 Riferimento all’Immigration Act del maggio 1924 che limitava l’immigrazione negli Stati Uniti in base a motivazioni igienico-razziali. Bibliografia: A.R. Zolberg, A nation by design. Immigration policy in the fashioning of America, Cambridge (Massachusetts), Harvard University Press, 2008.
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387 Lo Stato nazionalpopolare divide i suoi abitanti in tre classi: cittadini, membri dello Stato e stranieri11. La nascita conferisce per principio solo l’appartenenza allo Stato. Di per sé, essa non concede il diritto di ricoprire cariche pubbliche, né di partecipare attivamente o passivamente alle elezioni politiche. Per principio, l’appartenenza allo Stato deve stabilire la razza e la nazionalità. Ogni membro dello Stato è libero in ogni momento di rinunciare alla propria appartenenza e di diventare cittadino del paese di sua nazionalità. Lo straniero si differenzia dal membro dello Stato perché appartiene a uno Stato straniero. Il giovane di nazionalità tedesca è obbligato a ricevere l’istruzione scolastica obbligatoria spettante a ogni tedesco. Si sottopone così al processo educativo per diventare un membro della comunità nazionalpopolare12 conscio della sua razza e della sua nazione13. In seguito, egli dovrà assolvere le esercitazioni fisiche imposte dallo Stato e poi entrare nell’esercito. La formazione nell’esercito è universale; deve riguardare ogni singolo tedesco e renderlo capace di impiegare le sue facoltà fisiche e intellettuali agli usi militari. Dopo l’adempimento del servizio militare, il giovane sano e integerrimo riceverà in modo solenne il diritto di cittadinanza. È il documento più prezioso di tutta la sua esistenza terrena. Il giovane acquisisce così tutti i diritti di cittadino e gode di tutti i suoi privilegi14. Lo Stato deve distinguere chiaramente fra coloro che, in qualità di membri della comunità nazionalpopolare, sono artefici e rappresentanti della sua esistenza e coloro che soggiornano entro i confini dello Stato per trarne profitto. L’attestato di cittadinanza va conferito con un solenne giuramento di fronte alla comunità nazionalpopolare15 e allo Stato. Esso deve essere un legame che vincola tutti gli strati sociali e travalica ogni differenza sociale. Essere spazzino ma cittadino dello Stato, deve essere un onore maggiore che essere il re di un paese straniero. Il cittadino è privilegiato di fronte allo straniero. È il padrone dello Stato. Ma la dignità superiore comporta anche dei doveri. Il disonesto e il pusillanime, il delinquente comune o il traditore della patria può sempre essere privato di tale onore. Così ridiventa semplice membro dello Stato. La fanciulla tedesca è membro dello Stato e diventa cittadina solo col matrimonio. Il diritto di cittadinanza può essere conferito anche alle tedesche appartenenti allo Stato che si guadagnino da vivere. La distinzione sarà attuata dalle leggi sulla cittadinanza emanate nell’ambito delle “leggi di Norimberga” del settembre 1935, che divideva la popolazione fra “membri allo Stato” e “cittadini tedeschi”. Dopo il primo decreto sulla cittadinanza del 14 novembre 1935, gli ebrei non poterono più diventare cittadini tedeschi. Bibliografia: C. Essner, Die “Nürnberger Gesetze” oder die Verwaltung des Rassenwahns, 1933-1945, Paderborn, Schöningh, 2002. 12 Volksgenosse. 13 Sulle visioni educative di Hitler vedi capitolo 2-II. 14 L’idea di assegnare il diritto di cittadinanza a un “tedesco adulto” con l’approvazione e col rispetto di un preciso codice di comportamento e di un sistema valoriale nazionalpopolare potrebbe ispirarsi all’opuscolo di Der Deutsche Staat auf nationaler und sozialer Grundlage (Lo Stato tedesco su base nazionale e sociale, 1923) di Gottfried Feder oppure Der völkische Staatsgedanke (Il pensiero statuale nazionalpopolare, 1924) di Alfred Rosenberg [KA, n. 15]. 15 Sul concetto di comunità nazionalpopolare vedi capitolo 2-I.
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Approfondimenti didattici 1. Analisi retorica e stilistica
- Individua le principali figure retoriche; - Individua l’esistenza di fallacie retoriche; - Individua i principali “loci” e “topoi”; - Individua la presenza di stereotipi e pregiudizi.
2. Analisi storico-culturale
- Sangue e suolo: analizza l’evoluzione del concessione del diritto di cittadinanza nel corso del Novecento; - Il modello americano: ricostruisci il nesso fra immigrazione, cittadinanza e situazione economica, partendo dal caso americano sino ai nostri giorni; - Diritto o dovere di cittadinanza: analizza la tesi hitleriana circa il carattere “deontico” della cittadinanza e tenta di illustrare alcuni possibili esempi.
A. Gilardoni, Logica e argomentazione. Un prontuario, Milano, Mimesis, 2008.
Capitolo IV. Personalità e concezione nazionalpopolare dello Stato
Sinossi 1. Genesi Il capitolo 4-II è uno degli ultimi a essere stato redatto e risale probabilmente all’ottobrenovembre 1926 (poco prima dell’uscita del secondo volume del Mein Kampf). Chiude in qualche modo la prima sezione del secondo volume dedicata al tema della cittadinanza. Le riflessioni sul futuro Stato nazionalsocialista vanno considerate alla luce degli scarsi risultati elettorali alle regionali del 1926 e al Redeverbot (divieto di parola) comminato a Hitler in larga parte della Germania dal 1925 al 19281. 2. Contenuto Il capitolo 4-II prosegue gli spunti organizzativi già abbozzati nel capitolo finale del primo volume. Il tema principale è quello della “personalità”: lo Stato nazionalsocialista non intende “militarizzare” le masse, ma “nazionalizzarle” e renderle finalmente consapevoli del loro carattere nazionalpopolare. È contrario all’individualismo se inteso come mero soddisfacimento dei bisogni egoistici. È invece un sostenitore della personalità se intesa come affermazione della propria individualità in vista di un fine superiore: la propria comunità. La personalità, come tutto del resto, è un mezzo in vista di un fine. Hitler utilizza una metafora “medica”: trasfondere nuovo sangue fresco al corpo popolare, quindi eliminare i “grassi” in eccedenza. In parole povere bisogna promuovere gli elementi migliori alla guida della società, farli accoppiare e moltiplicare in vista di un rafforzamento della comunità nazionalpopolare. Le riforme puramente esteriori e “parlamentari” non arrecano alcun cambiamento sostanziale. Ci vogliono riforme interiori e profonde, le uniche in grado di restituire alla civiltà ariana il posto che le compete su scala storica e planetaria. Le invenzioni sono sempre state frutto dell’inventiva del singolo e solo in subordine sono diventate “ovvie” acquisizioni della massa. Proprio perché il singolo ha un ruolo chiave nella storia, sempre che sia al servizio del compito supremo, l’organizzazione non deve privilegiare il “metodo”, ma il “merito”, cioè la persona capace e pensante. Ecco la vera prospettiva “ariana”, che è “antisemita” proprio perché rifiuta il primato del numero, dell’egoismo e della malattia distruttiva. Il nazionalsocialismo punta a ridare centralità alla persona rispetto alla massa. La massa, manovrata in ambito economico dai sindacati marxisti, non è creativa, ma solo distruttiva e, nei casi migliori, può essere guidata verso determinate mète. Queste mète vanno inculcate dalle persone “libere” dotate di una visione del mondo, cioè quella razziale. Non conta quale sia la forma statale migliore, ma conta quella che sia più utile e adatta a perseguire il benessere della comunità nazionalpopolare, che dimostri autorità verso i sottoposti e responsabilità verso i superiori. I parlamenti possono pure esistere, ma devono avere unicamente una funzione consultiva.
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KA II, p. 1121.
390 3. Analisi Mentre il Partito nazionalsocialista otteneva risultati deludenti alle elezioni regionali del 1926 (circa l’1,7% in Mecklenburgo-Schwerin e l’1,6% in Sassonia), Hitler era costretto a soggiacere al Redeverbot (diritto di parola) in quasi tutto il paese. Ma la visione del mondo andava fortificata, a scapito di avversari interni ed esterni. Il capitolo ha un impianto “genealogico”. Se la massa fallisce (come pare “evidente”), vuol dire che la massa non funziona. Se non funziona, bisogna capirne il motivo. Forse che la civiltà umana è fatta dalla personalità? Forse che la persona idealistica e altruistica ha “fatto” il mondo? Se la risposta è affermativa, com’è stato possibile tutto ciò? La risposta è “l’inconscio collettivo”, che però non è qualcosa di “innato” (come sostiene Jung), bensì di “derivato” dalle doti di una personalità. L’azione geniale di un individuo inventa un modo per affrontare la lotta (implacabile) per l’esistenza, che poi il gruppo acquisisce e trasmette nel corso del tempo. Poiché l’istinto è il valore principale dell’uomo (e in particolare dell’ariano), è giusto che l’uomo istintivo e creatore abbia il ruolo che si merita. Questo ruolo di comando prevede responsabilità e autorità, è antitetico alla visione “ebraico-marxista” della massa, dalla democrazia parlamentare. Il comando è una dote che va alimentata e che va apprezzata, invece di essere soffocata e dileggiata. Dopo aver osservato il “fallimento della massa” e aver ipotizzato la presenza-assenza della personalità, ecco che Hitler deduce una serie di “conseguenze reali”. In realtà, come abbiamo visto, i casi reali sono sempre generici e vaghi: manca cioè la presentazione di fatti concreti. La “poli-manzia” deve rimanere sul vago, deve parlare di fenomeni astratti proprio per conservare la sua validità ideologica, deve ricorrere all’argomento “ad hominem” (o “ad ideologiam”). Quindi il marxismo in generale, cioè il “braccio armato” dell’ebraismo mondiale, è accusato di reprimere gli istinti, di “uccidere” l’umanità favorendo la massa. Risalendo all’istinto, sono confutabili “per principio” la democrazia di massa e, quindi, i suoi portatori. 4. Parole-chiave Ariano, Classe dirigente, Corpo popolare, Comunità nazionalpopolare, Ebraismo, Ebreo, Inconscio, Invenzione, Lotta per l’esistenza, Marxismo, Razza, Principio aristocratico, Principio della maggioranza, Principio della personalità, Stato nazionalpopolare, Stato nazionalsocialista, Visione del mondo. 5. Bibliografia essenziale - S. Breuer, Ordnungen der Ungleichkeit. Die politische Rechte im Widerstreit ihrer Ideen, 1871-1945, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 2001; - Id., Die Völkischen in Deutschland. Kaiserreich und Weimarer Republik, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 2008; - P. Bruppacher, Adolf Hitler und die Geschichte der NSDAP. Eine Chronik, parte 1: 1889-1937, Norderstedt, Books on Demand, 2014; - A. Bullock, Hitler. Studio sulla tirannide, Milano, Res Gestae, 2014; - K. Burke, Die Rhetorik in Hitlers “Mein Kampf” und andere Essays zur Strategie der Überredung, Francoforte sul Meno, Suhrkamp, 1967; - D. Capozza, C. Volpato, Le intuizioni psicosociali di Hitler. Un’analisi del “Mein Kampf”, Bologna, Patron, 2004; - W. Carr, Hitler. Studio sul rapporto tra personalità e politica, Napoli, Liguori, 1985; - G. Corni, Hitler, Bologna, Il Mulino, 2007; - Id., Breve storia del nazismo, 1920-1945, Bologna, Il Mulino, 2015; - W. Durner, Antiparlamentarismus in Deutschland, Würzburg, Königshausen und Neumann, 1997;
391 - J. Fest, Hitler. Una biografia, traduzione di F. Saba Sardi, Milano, Garzanti 2005; - L. Herbst, Il carisma di Hitler. L’invenzione di un messia tedesco, traduzione di U. Gandini, Milano, Feltrinelli, 2011; - S.F. Kellerhoff, Il libro proibito di Hitler. Storia del Mein Kampf, Milano, Rizzoli, 2016; - I. Kershaw, Hitler, vol. 1: 1889-1936, Milano, Bompiani, 2003; - S. Krämer, Hitlers Weltanschauung in “Mein Kampf”. Von den Genese zur Manifestation, Wiesbaden, Drewipunkt, 2010; - B. Kruppa, Rechtsradikalismus in Berlin, 1918-1928, Berlino, Overall-Verlag, 1988; - W.C. Langer, Psicanalisi di Hitler. Rapporto segreto del tempo di guerra, Milano, Garzanti, 1975; - P. Longerich, Hitler. Biographie, Monaco, Siedler Verlag, 2015; - M. März, Nationale Sozialisten in der NSDAP. Stukturen, Ideologie, Publizist und Biographien des nationalsozialistischen Strasser-Kreisen von der AG Nordwest bis zum Kampf-Verlag, 1925-1930, Graz, Ares, 2010; - W. Maser, Adolf Hitler, Roma, Ciarrapico, 1978; - Id., Der Sturm auf die Republik. Frühgeschichte der NSDAP, Francoforte sul Meno, Ullstein, 1981; - F. McDonough, Hitler and the rise of the Nazi party, Londra, Person-Logman, 2003; - A. Musolff, Metaphor, nation and the Holocaust. The concept of the body politic, New York, Routledge, 2011; - B. Novak, Hitler and the abductive logic. The strategy of a tyrant, Lanham (Maryland), Lexington Books, 2014; - K. Pätzold, M. Weissbecker (ed.), Geschichte der NSDAP, 1920-1945, Colonia, PayRossa, 2002; - O. Plöckinger, Geschichte eines Buches. Adolf Hitlers “Mein Kampf”, 1922-1945. Eine Veröffentlichung des Instituts für Zeitgeschichte, Monaco, Oldenbourg, 2011; - Id., Quellen und Dokumente zur Geschichte von “Mein Kampf”, 1924-1945, Stoccarda, Franz Steiner Verlag, 2016; - W. Pyta, Hitler. Der Künstler als Politiker und Feldherr. Eine Herrschaftsanalyse, Monaco, Siedler Verlag, 2015; - P.R. Range, La genesi del Mein Kampf. 1924: l’anno che cambiò la storia, Roma, Newton Compton, 2017; - F.J. Rash, The language of violence. Adolf Hitler’s “Mein Kampf”, New York, Peter Lang, 2006; - D. von Reeken, M. Thiessen (ed.), “Volksgemeinschaft” als soziale Praxis. Neue Forschungen zur NS-Gesellschaft vor Ort, Paderborn, Schöningh, 2013; - R.G. Reuth, Hitler. Eine politische Biographie, Monaco, Piper, 2003; - M. Rösch, Die Münchner NSDAP 1925-1933. Eine Untersuchung zu inneren Struktur der NSDAP in der Weimarer Republik, Monaco, Oldenbourg, 2002; - D. Schmidt, M. Sturm, M. Livi (ed.), Wegbereiter des Nationalsozialismus. Personen, Organisationen und Netzwerke der extremen Rechten zwischen 1918 und 1933, Essen, Klartext, 2015; - J. Toland, Adolf Hitler. The definitive biography, New York, Doubleday, 1976; - V. Ullrich, Adolf Hitler. Biographie, vol. 1: Die Jahre des Aufstiegs 1889-1939, Francoforte sul Meno, S. Fischer, 2013; - A. Viktine, “Mein Kampf”. Storia di un libro, traduzione di G. Zucca, Milano, Cairo, 2010; - K. Weissmann, Der nationale Sozialismus. Ideologie und Bewegung, 1890 bis 1933, Monaco, Herbing, 1998; - B. Zehnpfennig, Hitlers “Mein Kampf”. Eine Interpretation, Monaco, Fink, 2000; - R. Zitelmann, Hitler, Roma-Bari, Laterza, 1991.
Se lo Stato nazionalpopolare e nazionalsocialista ritiene quale sua missione suprema la formazione e la conservazione del fautore dello Stato, questo non significa limitarsi a sostenere l’elemento razziale in quanto tale o a educarlo alla vita pratica. È anche necessario che adegui la sua organizzazione alla missione assunta. Sarebbe folle giudicare il valore dell’uomo in base alla razza di appartenenza e, quindi, dichiarare guerra alla visione egualitaria marxista, se non fossimo decisi a trarne le estreme conseguenze: la trasmissione alla singola persona. Se è vero che bisogna distinguere i popoli in base alla razza di appartenenza, lo è altrettanto per il singolo individuo nell’ambito di una comunità nazionalpopolare2. La constatazione che un 2
Sul concetto di “comunità nazionalpopolare” vedi capitolo 2-I.
392 popolo non sia uguale all’altro si riverbera sui singoli uomini di una comunità nazionalpopolare: una testa non può essere uguale all’altra, perché, benché il sangue sia grosso modo lo stesso, nel singolo va incontro a mille sfumature più sottili. La prima conseguenza di questa constatazione è grossolana: promuovere nella comunità nazionalpopolare gli elementi razzialmente di maggior pregio e curarsi della loro moltiplicazione3. Il compito è grossolano perché può essere assolto quasi meccanicamente. Più difficile è riconoscere nella collettività le teste intellettualmente e idealmente più preziose e conceder loro quell’influenza che non solo spetta agli spiriti superiori, ma che è anche utile alla nazione. La selezione dei migliori non può essere compiuta meccanicamente, ma è un lavoro compiuto incessantemente nella lotta quotidiana. Una visione del mondo che aspiri a donare la terra al popolo migliore, agli uomini superiori, ripudiando l’idea democratica di massa, deve logicamente obbedire allo stesso principio aristocratico4 anche all’interno di questo popolo e assicurare alle migliori teste la direzione e la suprema influenza. Perciò la visione del mondo non si basa sul concetto di maggioranza, ma su quello di personalità. Chi oggi ritiene che uno Stato nazionalpopolare e nazionalsocialista debba differenziarsi solo meccanicamente per via di una migliore proposta economica, cioè appianando le differenze tra ricchezza e povertà, ampliando il diritto di partecipazione al processo economico oppure rendendo più equa la retribuzione, eliminando le grandi sperequazioni salariali, ebbene questa persona è rimasta alla superficie e non ha la più pallida idea della nostra visione del mondo5. Tutto ciò che abbiamo appena detto, non offre la benché minima garanzia di un’esistenza duratura e, ancor meno, della pretesa di grandezza. Un popolo che si limiti solo alle riforme esteriori, non avrebbe mai la garanzia di successo nella lotta generale dei popoli. Un movimento che si fermi a un equo livellamento non diverrà mai forte e autentico, perché una riforma profonda della condizione attuale non si realizza solo se si limita agli aspetti esteriori, senza garantire al popolo quell’intelaiatura interiore che – mi verrebbe da dire – supera con ineluttabile certezza le debolezze di cui soffriamo oggi. Per capirlo con più facilità è forse opportuno dare un’occhiata alle vere cause dello sviluppo della civiltà umana. Il primo gradino che separò chiaramente l’uomo dalla bestia fu l’invenzione. L’invenzione si basa originariamente sull’individuare stratagemmi che facilitino la lotta per la sopravvivenza contro altre creature e che, a volte, la fanno volgere a proprio favore. Le invenzioni primitive lasciano trasparire ben poco il ruolo della persona proprio perché sono molto note all’osservatore postumo o, meglio ancora, sono fenomeni di massa agli occhi dei contemporanei. Certi trucchi o certe furbizie che l’uomo può osservare negli animali gli appaiono semplici fatti: non è più in grado di stabilirne o studiarne l’origine, ma si accontenta semplicemente di definirli “istintivi”. Gli “istinti” non hanno più alcuna importanza nel nostro mondo. Chi crede all’evoluzione degli organismi, deve ammettere che ogni espressione del suo istinto o della sua lotta vitale ha avuto un inizio. Deve ammettere che ci fu un soggetto, che il Sull’eugenetica “positiva” e “negativa” vedi capitolo 2-II. Allusione ai principi di “lotta per l’esistenza”, “selezione naturale” e “diritto del più forte” di ascendenza socialdarwinista. 5 Allusione all’ala nazionalbolscevica del partito. Vedi capitolo 1-II. 3 4
393 processo si ripete sempre più spesso e che si amplia fino a trasformarsi nell’inconscio di tutti i membri di una specie, finendo per apparire istintivo6. Lo capiremo meglio parlando dell’uomo. I suoi primi provvedimenti intelligenti nella lotta contro gli altri animali sono stati originariamente gli atti di singoli individui particolarmente dotati. Anche allora fu la personalità a decidere e a mettere in pratica le azioni poi divenute naturali per tutta l’umanità. Un banale stratagemma militare, divenuto oggi il fondamento di ogni strategia, nacque per merito di una testa particolare e solo nel corso di molte migliaia di anni divenne assolutamente ovvio. Alla prima invenzione l’uomo ne aggiunse una seconda: imparare a utilizzare altri oggetti e organismi nella lotta per l’autoconservazione. Ha quindi inizio l’attività inventiva dell’uomo che oggi abbiamo davanti a noi. Le invenzioni materiali sorte dall’uso della pietra come arma, che portarono all’addomesticamento degli animali7, alla fabbricazione artificiale del fuoco e così via sino a oggi, si devono chiaramente a un singolo inventore, quanto più le singole invenzioni si avvicinano a noi e sono determinanti per la nostra esistenza. In ogni caso sappiamo che le invenzioni materiali sono l’esito della capacità creativa di una singola persona. E tutte le invenzioni aiutano a innalzare l’uomo oltre il livello del mondo animale, allontanandolo definitivamente dallo stato bestiale. Le invenzioni servono soprattutto all’incessante processo evolutivo umano. Ma proprio quello stratagemma che un tempo facilitò la lotta per l’esistenza al cacciatore nella foresta primordiale, aiuta oggi in forma di conoscenza scientifica la lotta per l’esistenza dell’umanità intera, forgiando le armi per le lotte future. Ogni pensiero e ogni invenzione serve alla lotta per l’esistenza, anche se non è immediatamente visibile l’utilità pratica di un’invenzione o di una scoperta scientifica sulla natura delle cose. Contribuendo a innalzare l’uomo oltre la sfera degli organismi vitali, le invenzioni fortificano e consolidano la sua posizione, facendone il signore di questa terra. Tutte le invenzioni sono l’esito della creatività di una persona. Tutte le persone, volenti o nolenti, sono grandi benefattrici dell’umanità. Il loro operato mette a disposizione di milioni, se non di miliardi di organismi umani i mezzi per facilitare e per realizzare la loro lotta esistenziale. Se noi riteniamo che, all’origine della nostra civiltà materiale, ci siano singole persone in grado di completarsi a vicenda e di proseguire il lavoro dei predecessori, lo stesso vale per l’esercizio e per l’esecuzione delle loro scoperte. Tutti i processi produttivi sono paragonabili a nuove invenzioni e dipendono, quindi, da una persona. Anche il lavoro teorico, che non è misurabile nel singolo, ma è il presupposto di ogni invenzione materiale, è sempre il prodotto di una singola persona. Non è la massa a inventare, a organizzare e a pensare, ma è sempre il singolo, la persona. Una società umana è ben organizzata se si facilita il lavoro delle menti creative e lo si applica in modo utile alla collettività. Ciò che conta veramente nell’invenzione, materiale o intellettuale, è la persona dell’inventore. Il primo e supremo compito dell’organizzazione di una comunità nazionalpopolare è utilizzarlo al meglio per il Nel capitolo 11-I Hitler divideva le “razze” in base alla tipologia istintuale: altruistico-idealistica nelle “razze superiori”, egoistico-materialistica in quelle “inferiori”. 7 Sul tema dell’addomesticamento vedi capitolo 11-I.
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394 bene della collettività. Sicché, eseguendo questo principio8 l’organizzazione si libera dalla maledizione del meccanismo e si trasforma in qualcosa di vitale. Essa deve personificare lo sforzo di anteporre le teste alla massa e di sottometterla, quindi, alle teste9.
Figura 1 Parata durante il congresso del partito nazista a Norimberga (1935) [fonte: wikipedia.de]
L’organizzazione deve non solo evitare di ostacolare l’emersione delle teste dalla massa, ma deve consentirlo e facilitarlo per sua intima natura. Deve basarsi sul principio che la fortuna dell’umanità non consiste nella massa, ma nelle sue teste creative, che sono quindi le vere benefattrici del genere umano. Garantir loro l’influenza decisiva e alleviarne l’operato è nell’interesse di tutta collettività. L’interesse non sarà garantito dal dominio della massa acefala e inetta, ma solo dalla guida dei più dotati. La scelta delle teste migliori, come detto, avviene per merito della dura lotta per l’esistenza. Molte tendono a rompersi e a deteriorarsi, rivelandosi quindi non decisive, e solo poche sono quelle prescelte. Nei campi del pensiero, della creazione artistica e dell’economia il processo selettivo si compie tuttora, anche se è più rilevante nell’economia. L’amministrazione statale e, quindi, la potenza personificata dalla forza difensiva della nazione si basano su questo principio. In generale regna ancora l’idea della personalità, l’autorità verso i sottoposti e la responsabilità dei superiori. Solo la Malgrado l’anti-intellettualismo ideologico, lo Stato nazionalsocialista non aveva una posizione antiscientifica. Contrariamente alla tesi del primato della personalità sull’organizzazione, le carriere scientifiche dopo il 1933 si basarono sul “gradimento” politico [KA, n. 17]. 9 L’elemento costante nel concetto hitleriano di massa è la presenza di una guida emotiva, essendo la massa connotata come “femminea”, cioè “irrazionale”. 8
395 vita politica ha dimenticato questo naturalissimo principio. Mentre la civiltà umana è il risultato dell’attività creatrice della persona, la classe dirigente, specialmente quella della comunità nazionalpopolare, esprime invece il principio del valore della maggioranza, che poi avvelena gradualmente l’esistenza, cioè tende a distruggerla. Anche l’azione distruttiva dell’ebraismo negli altri corpi popolari è attribuibile unicamente al suo eterno tentativo di minare il significato della persona nei popoli ospitanti e di sostituirla con la massa. Ma, così facendo, il principio distruttivo dell’ebreo sostituisce il principio organizzativo dell’umanità ariana. Egli diventa “il fermento di decomposizione”10 dei popoli e delle razze e, in senso più ampio, il distruttore della civiltà umana.
Figura 2 “Morte della menzogna”: manifesto propagandistico nazista del 1930 [fonte: pinterest.com]
Il marxismo rappresenta il tentativo squisitamente ebraico di eliminare in tutti i campi della vita umana l’importanza straordinaria della personalità e di sostituirla col numero della massa. Tale principio corrisponde, in politica, alla forma parlamentare che, partendo dalla piccola cellula comunitaria sino alla classe dirigente del paese, agisce in modo così nefasto. In ambito economico il principio maggioritario si riflette sul sistema sindacale, che non corrisponde ai reali interessi dei lavoratori, ma solo alle intenzioni distruttrici dell’ebraismo cosmopolita internazionalista. L’economia, se sottratta all’azione del principio della personalità e se, al suo posto, subentrano l’influenza e l’azione della massa, perde la capacità produttiva al servizio della collettività ed è destinata al progressivo decadimento. Tutte le organizzazioni aziendali che, invece di tutelare gli interessi dei loro iscritti, cercano influenzare la produzione, 10
Una citazione spesso ripresa dagli autori antisemiti dalla principale opera di Theodor Mommsen Römische Geschichte (Storia romana, 1856). Mommsen, peraltro, fu coinvolto tra il 1879 e il 1881 nel cosiddetto Berliner Antisemitismusstreit (disputa berlinese sull’antisemitismo) con lo storico Heinrich von Treitschke, quando il primo criticò il risentimento antisemitismo e sottolineò il contributo costruttivo dell’ebraismo all’umanità. Bibliografia: K. Krieger (ed.), Der “Berliner Antisemitismusstreit”, 1879-1881. Eine Kontroverse um die Zugehörigkeit der deutschen Juden zur Nation, Monaco, Saur, 2003, 2 voll.
396 hanno lo stesso obiettivo distruttivo: danneggiano la prestazione globale, ma così facendo anche quella individuale. L’appagamento del singolo membro del corpo popolare non si ottiene, a lungo andare, con le semplici parole, ma soprattutto con i beni materiali necessari alla vita quotidiana, nell’assoluta convinzione che una comunità nazionalpopolare difende sempre gli interessi dei suoi singoli11. Non importa se il marxismo, per via della sua teoria delle masse, sia capace di assumere e di condurre l’economia di oggi. La critica alla sua bontà o pericolosità non sarà suffragata dalla sua capacità di gestire l’esistente in vista del futuro, ma dalla capacità di creare una nuova civiltà. Se il marxismo assumesse migliaia di volte le redini dell’economia di oggi e la guidasse in base ai suoi principî, il suo successo non dimostrerebbe comunque che sia in grado di creare ciò che oggi ritiene maturo12. E il marxismo ha già dato prova di tutto questo. Non solo perché non è mai stato in grado di fondare una nuova civiltà o economia, ma anche perché non è riuscito a guidarle secondo i suoi principi: ha dovuto spesso compiere concessioni al principio della personalità, come si evince nell’organizzazione di questi principi13. La visione del mondo nazionalpopolare deve differenziarsi radicalmente da quella marxista per il fatto che non solo riconosce il valore della razza, ma così facendo anche quello della persona e, quindi, le fondamenta dell’intero edificio. Questi sono i fattori fondamentali di tutta la sua concezione del mondo. In particolare, se il movimento nazionalsocialista non comprendesse appieno il significato del suo principio, ma si limitasse a rattoppare esteriormente lo Stato o facesse proprio il punto di vista della massa, non sarebbe altro che un partito concorrenziale del marxismo; non avrebbe il diritto di chiamarsi visione del mondo. Se il programma sociale del movimento consistesse solo nella rimozione della personalità per far posto alla massa, il nazionalsocialismo sarebbe già intaccato dal veleno del marxismo14, così come è accaduto ai partiti borghesi. Lo Stato nazionalpopolare deve occuparsi del benessere dei suoi cittadini, anteponendo sempre e comunque il valore della persona e introducendo in tutti i campi la massima autonomia produttiva del singolo. Lo Stato nazionalpopolare deve quindi svincolare la classe dirigente, specialmente quella politica, dal principio parlamentare della maggioranza, cioè della massa, per sostituirlo col diritto della persona. Quindi la migliore costituzione e forma statale è quella che, con naturalezza, conferisce maggiore importanza e influenza alle teste migliori della comunità nazionalpopolare. Tuttavia, come accade nella vita economica, le persone capaci non vanno decise per decreto, ma devono farsi da sé; e come, dal più piccolo negozietto alla più grande 11
Sulla questione sindacale vedi capitolo 12-II. Possibile allusione alla discussione sulla nuova politica economica sovietica (NEP) in ambito conservatore e nazionalpopolare [KA, n. 28]. 13 Il tema della “barbarie” russa era ampiamente diffuso nella pubblicistica tedesca di epoca imperiale e proseguì a maggior ragione dopo la Rivoluzione bolscevica. L’argomento principale era il basso tasso di alfabetizzazione. Karl Kautsky, uno dei principali teorici socialdemocratici, parlò di “inciviltà” bolscevica nel saggio Die proletarische Revolution und ihr Programm (La rivoluzione proletaria e il suo programma, 1922). Secondo le stime più attendibili, fra il 1918 e il 1923 morirono in Russia fra i cinque e i settemilioni di persone a causa delle guerre (mondiale e civile) e dei provvedimenti economici bolscevichi [KA, n. 29]. 14 Altra possibile allusione all’ala nazionalbolscevica del Partito nazionalsocialista. 12
397 impresa, c’è bisogno di quella formazione incessante che solo la vita può offrire, così anche le teste politiche non possono essere “scoperte” improvvisamente. I geni straordinari non hanno alcuna considerazione per l’umanità normale15. Lo Stato deve fissare il principio della personalità in tutta la sua organizzazione, dalla più piccola cellula sino alla guida suprema del paese. Non esistono decisioni della maggioranza, ma solo persone responsabili. Così il termine “consiglio” riacquista il suo significato originale. Il consigliere siede accanto all’uomo, ma la decisione spetta all’uomo. La massima che un tempo l’esercito prussiano faceva del popolo tedesco il suo strumento più portentoso deve essere metaforicamente quella della nostra costituzione futura: l’autorità di ogni capo verso i sottoposti e la responsabilità verso i superiori16. Allora non sentiremo più la mancanza di quelle corporazioni che oggi chiamiamo parlamenti. Solo i suoi consigli saranno realmente discussi, ma la responsabilità può e deve averla sempre un portatore e, quindi, solo lui può e deve avere l’autorità e il diritto di comando. I parlamenti di per sé sono necessari, perché qui possono lentamente emergere quelle teste, cui conferire in seguito i ruoli di responsabilità17. In sintesi lo Stato nazionalpopolare, dalle comunità locali sino alla classe dirigente del paese, non ha corpi rappresentativi che decidono a maggioranza, ma solo corpi consultivi che affiancano il capo eletto del momento e ai quali è assegnato un incarico. All’occorrenza, il capo riassume la responsabilità assoluta in alcuni campi, come succede, in genere, ai dirigenti o ai presidenti della corporazione. Lo Stato nazionalpopolare non tollera, per esempio, che siano consultati uomini privi di esperienza o di conoscenza per la salvaguardia degli interessi economici. Quindi esso suddivide i corpi rappresentativi in Camere corporative politiche e professionali18. Per assicurare una collaborazione proficua, al di sopra delle Camere va nominato un Senato particolare19. Non ci sarà mai una votazione in alcuna camera o senato. Sono istituzioni di lavoro, non macchine di voto. Il singolo membro esprime un parere consultivo, non vincolante. Esso spetta esclusivamente al presidente responsabile del momento. Il principio del vincolo incondizionato fra responsabilità assoluta e autorità assoluta selezionerà gradualmente una serie di capi, come è improponibile nell’epoca del parlamentarismo irresponsabile.
Durante l’Ottocento il concetto di “genio” mutò forma. Mentre prima si riferiva al pensatore e all’artista, in seguito l’espressione fu ristretta all’idea di “superuomo” eroico. Bibliografia: J. Schmidt, Geschichte der Genie-Gedanken in der deutschen Literatur, Philosophie und Politik, 1750-1945, Heidelberg, Winter, 2004; B. Schwarz, Geniewahn. Hitler und die Kunst, Vienna, Böhlau, 2009. 16 Sull’organizzazione della “democrazia germanica” vedi capitolo 12-I. 17 L’ammissione dell’importanza del parlamento contraddice le numerose espressioni negative contro l’istituzione, anche se qui il parlamento è dipinto come un mezzo in vista della formazione della personalità [KA, n. 36]. 18 Sul “corporativismo” nazionalsocialista vedi capitolo 12-II. 19 All’inizio del 1931 fu creato nella Casa Bruna di Monaco una sala del Senato, che nella prassi politica rimase priva di significato. Per Hitler era impensabile ammettere un comitato dotato di responsabilità decisionale, perché contraddiceva il “principio del capo” [KA, n. 39]. 15
398 In tal modo la costituzione della nazione si concilierà con la legge, alla quale deve la sua grandezza in campo culturale ed economico. Per ciò che riguarda la fattibilità della nostra proposta, vi prego di non dimenticare che il principio maggioritario parlamentare non ha sempre governato. Al contrario è riscontrabile solo in periodi molto limitati del passato, in intervalli caratterizzati dalla decadenza dei popoli e degli Stati. Tuttavia non dobbiamo credere di poter cambiare le cose con misure puramente teoriche imposte dall’alto. Il cambiamento non può logicamente limitarsi alla sola costituzione, ma deve pervadere tutta la legislazione, anzi tutta la vita civile. Esso può e avrà luogo solo grazie a un movimento già pervaso da quello spirito, che reca già dentro di sé lo Stato futuro. Perciò il movimento nazionalsocialista, già impregnato dal principio di personalità, deve realizzarlo praticamente nella sua organizzazione. Così un giorno non solo indicherà allo Stato i suoi criteri di massima, ma potrà anche metterne a disposizione le proprie strutture adeguate al compito supremo.
Approfondimenti didattici 1. Analisi retorica e stilistica
- Individua le principali figure retoriche; - Individua l’esistenza di fallacie retoriche; - Individua i principali “loci” e “topoi”; - Individua la presenza di stereotipi e pregiudizi.
2. Analisi storico-culturale
- Visione del mondo: analizza l’espressione di visione del mondo e tenta di delinearne le sue peculiarità alla luce del dibattito politico e filosofico a cavallo fra Otto- e Novecento;
- Massa e potere: ricostruisci il dibattito circa la natura della “massa” a partire dalla fine dell’Ottocento (Le Bon), per giungere poi all’estetica della politica nel periodo interbellico (Canetti); - Personalità e numero: analizza la tesi “aristocratica” hitleriana circa il primato della persona nella visione del mondo razziale, confrontandola con le teorie marxiste della società; - Responsabilità e autorità: analizza il problema del “vincolo di mandato” nelle democrazie parlamentari alla luce delle teorie populiste e autoritarie.
A. Gilardoni, Logica e argomentazione. Un prontuario, Milano, Mimesis, 2008.
Capitolo V. Visione del mondo e organizzazione
Sinossi 1. Genesi Il capitolo 5-II si riallaccia al primo capitolo del secondo volume e tira le somme delle discussioni programmatiche intrecciate con gli Strasser e con Goebbels tra la fine del 1925 e l’inizio del 1926. Proprio all’inizio del 1926 risalgono parti sostanziali del capitolo, poi ripubblicato quasi completamente l’anno successivo sul “Nationalsozialistisches Jahrbuch” (Annuario nazionalsocialista) col titolo di Weltanschauung und Partei (Visione del mondo e partito)1. 2. Contenuto Hitler dedica un altro capitolo al problema del rapporto fra l’organizzazione e la visione del mondo. Di fronte a un sistema partitocratico incapace di salvaguardare la comunità nazionalpopolare, perché intaccato dal “germe” ebraico-marxista, il nazionalsocialismo deve combattere per sconfiggere ogni forma di pregiudizio e gli interessi contrastanti insorti nel campo nazionalpopolare. Mentre i nazionalpopolari affermano di voler compiere un’azione puramente costruttiva in seno al mondo politico, i loro avversari compiono da settant’anni una critica corrosiva del “corpo popolare” tedesco. Che fare, dunque? Innanzitutto – continua Hitler – c’è bisogno di una visione del mondo che sia rappresentata da un unico partito. Il nazionalsocialismo deve essere come il cristianesimo: deve difendere fanaticamente la propria fede apodittica senza ammettere eccezioni. Solo uno spirito intollerante è in grado di affermare una visione del mondo. Certo il partito non è la visione del mondo, ma la rappresenta al meglio. Hitler allude ovviamente alle formazioni concorrenti e alle critiche interne volte a riposizionare il movimento su posizioni ora più esoteriche, ora più anticapitalistiche. La visione del mondo si afferma non perché è problematica, ma perché esprime chiaramente le esigenze popolari. Il combattente non deve conoscere o padroneggiare un apparato teorico complesso, ma deve sapere ciò che gli serve per combattere (come accade ai militanti socialdemocratici). Il combattente può giungere da qualunque classe sociale (dalla borghesia, dall’intellighenzia, ecc.), ma è indubbiamente preferibile il lavoratore manuale, perché è quello fisicamente più sano e meno condizionabile dagli “ufficiali ebrei” che controllano i mezzi di comunicazione. Proprio perché conta lo spirito dei principî e non le loro “parole”, Hitler ribadisce la necessità di non modificare il Programma dei Venticinque Punti. Sono comunque preferibili alcuni principî saldi, ancorché perfettibili, piuttosto che sterili discussioni programmatiche. Un esempio è rappresentato dalla Chiesa cattolica e dalla sua capacità di permeare da secoli la società. Il Partito nazionalsocialista potrà ambire al successo quando la dirigenza intellettuale saprà fondersi con la massa di lavoratori manuali e saprà eliminare tutti i falsi profeti e gli ipocriti copioni che tentano di delegittimarlo.
1
KA II, p. 1145.
400 3. Analisi Come il capitolo precedente, incentrato sul rapporto tra personalità e massa, anche qui la polemica è principalmente rivolta all’interno del partito, in particolare contro tutti coloro che osavano mettere in discussione l’autorità del capo e, di fronte agli insuccessi elettorali, tentavo di apportare alcune modifiche programmatiche. Questo è impossibile, perché – secondo Hitler – i dogmi non si cambiano, pena la fine del partito e il “tradimento” della visione del mondo che quella formazione politica sta rappresentando. La visione del mondo non è una semplice visione politica “momentanea”, ma è una professione di fede e come tale va trattata. Hitler parte dalla constatazione che la visione del mondo è come una religione che va “fanaticamente” sostenuta. L’esempio “ebraico” è sintomatico: partendo dal cristianesimo sino alla socialdemocrazia, gli ebrei hanno avuto successo proprio grazie all’infallibilità dogmatica del loro edificio. Le sue “forme” storiche ne sono una conferma: la stessa Chiesa cattolica, che pur in mezzo a mille travagli resiste dopo due millenni, è la prova di come una comunità di fede si possa “partitizzare” solo a patto di non mutare i propri principî. Bisogna essere esclusivisti e originali, evitando di cadere nella trappola della “popolarità” e della contingenza. L’ideale è eterno e non negoziabile. Ma che cos’è dunque negoziabile? In realtà ben poco, perché, se il programma contiene dogmi intoccabili, altrettanto dicasi per l’organizzazione sorretta e basata sul Führerprinzip. La sinistra “nazionalbolscevica” non ha la minima possibilità di imporsi per un semplice motivo: solo Hitler è riuscito a creare un nesso profondo e fideistico tra storia, religione e politica. Solo così è riuscito a rendere “logicamente” inattaccabile la deduzione nazionalsocialista. Solo così è riuscito a salvaguardare la “mantica” nazionalsocialista, fornendole quell’alone di “mistero” sovrannaturale eppure terreno, storico eppure metafisico. Ponendosi sul terreno dei “fatti contingenti”, tutto ciò non sarebbe stato più possibile. 4. Parole-chiave Chiesa cattolica, Cristianesimo, Dogmi, Ebraismo, Ebreo, Marxismo, Materiale umano, Movimento nazionalsocialista, Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori, Sindacato, Socialdemocrazia, Stato nazionalsocialista, Venticinque Tesi programmatiche, Visione del mondo. 5. Bibliografia essenziale - S. Breuer, Ordnungen der Ungleichkeit. Die politische Rechte im Widerstreit ihrer Ideen, 1871-1945, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 2001; - Id., Die Völkischen in Deutschland. Kaiserreich und Weimarer Republik, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 2008; - P. Bruppacher, Adolf Hitler und die Geschichte der NSDAP. Eine Chronik, parte 1: 1889-1937, Norderstedt, Books on Demand, 2014; - A. Bullock, Hitler. Studio sulla tirannide, Milano, Res Gestae, 2014; - K. Burke, Die Rhetorik in Hitlers “Mein Kampf” und andere Essays zur Strategie der Überredung, Francoforte sul Meno, Suhrkamp, 1967; - D. Capozza, C. Volpato, Le intuizioni psicosociali di Hitler. Un’analisi del “Mein Kampf”, Bologna, Patron, 2004; - W. Carr, Hitler. Studio sul rapporto tra personalità e politica, Napoli, Liguori, 1985; - G. Corni, Hitler, Bologna, Il Mulino, 2007; - Id., Breve storia del nazismo, 1920-1945, Bologna, Il Mulino, 2015; - W. Durner, Antiparlamentarismus in Deutschland, Würzburg, Königshausen und Neumann, 1997;
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Lo Stato nazionalpopolare, di cui ho tentato di abbozzare le linee guida, non si realizzerà sulla base della semplice consapevolezza di ciò che è necessario. Non basta sapere quale aspetto dovrà assumere uno Stato nazionalpopolare. Assai più importante è il problema di come realizzarlo. Non possiamo aspettarci che i partiti di oggi, beneficiari dello Stato attuale, capovolgeranno il regime o muteranno spontaneamente la loro posizione. È assai poco probabile, dato che i suoi veri capi sono sempre e
402 soltanto ebrei2. Se le cose proseguissero così, si realizzerebbe un giorno la profezia panebraica e gli ebrei divorerebbero i popoli della terra3 e ne diverrebbero i padroni4. Ben consapevole dell’obiettivo finale, l’ebreo prosegue imperterrito per la sua strada di fronte a milioni di “borghesi” e di “proletari” tedeschi che si trascinano stancamente verso la rovina con indolenza, stupidità e vigliaccheria. Un partito così guidato non può fare altro che difendere strenuamente l’interesse degli ebrei. Ma questo non ha nulla a che vedere con gli interessi dei popoli ariani. Quindi, se vogliamo cercare di realizzare l’ideale di uno Stato nazionalpopolare, bisogna, indipendentemente dalle attuali forze politiche, cercare una nuova forza che sia disposta e capace di ingaggiare la battaglia. Perché di battaglia si tratta: la prima cosa è formare una concezione nazionalpopolare dello Stato, cioè eliminare quella ebraica di oggi5. Come spesso accade nella storia, la principale difficoltà non consiste nel formare una nuova condizione, ma nel farvi spazio. Pregiudizi e interessi si uniscono in una falange compatta per impedire con tutti i mezzi la vittoria di un’idea sgradita e minacciosa. Purtroppo il sostenitore del nuovo ideale è costretto, pur accentuandone il lato positivo, a fronteggiare sino allo stremo il lato negativo della battaglia, che deve condurre all’abolizione della condizione esistente. Una dottrina recente di grande importanza, per quanto sgradevole ai singoli, deve impiegare come prima arma la trivella della critica. Dimostra di possedere una conoscenza alquanto superficiale della storia chi oggi fra i cosiddetti “nazionalpopolari” dichiara di non voler muovere una critica negativa, ma di voler compiere solo un lavoro costruttivo. Sono chiacchiere puerili, sciocche e degne dei “nazionalpopolari”, a dimostrazione di come la storia sia passata su di loro senza lasciare alcun segno. Anche il marxismo ha un obiettivo, anch’esso prevede un’attività costruttiva (se con quel termine intendiamo la costruzione distopica dell’ebraismo finanziario cosmopolita internazionalista!)6. Solo che il marxismo esercita da settant’anni una critica distruttiva, corrosiva7, sino a sfinire e a condurre alla rovina il vecchio Stato. Poi ha intrapreso la “ricostruzione”. Questo era ovvio, giusto e logico. Per eliminare una situazione esistente non basta la semplice invocazione o la descrizione di un’alternativa futura. Non bisogna sperare che i rappresentanti o i partigiani della situazione attuale constatino la necessità e diventino fautori del cambiamento. Al contrario è probabile che assisteremo alla coesistenza di due situazioni diverse, una accanto all’altra, e che la visione del mondo sia costretta a trasformarsi in un partito. 2
Non erano ebrei il presidente del Zentrum (Wilhelm Marx), né quello del Partito popolare nazionaltedesco (Kuno von Westarp). Non lo erano i tre presidenti del Partito socialdemocratico tedesco dal 1919 al 1928 (Otto Wels, Hermann Müller e Arthur Crispien). Non lo erano i presidenti del Partito comunista tedesco (Philipp Dengel ed Ernst Thälmann). Non lo era Gustav Stresemann, presidente del Partito popolare tedesco [KA, n. 1]. 3 Possibile allusione a un passo del Deuteronomio (7,16). 4 Sul mito della congiura mondiale ebraica vedi capitolo 2-I. 5 Nel capitolo 2-II Hitler aveva individuato tre visioni dello Stato: una conservatrice, una liberaldemocratica e una nazionalista. L’allusione alla visione “ebraica” fa riferimento al marxismo. 6 Sul topos di ebraismo finanziario vedi capitolo 13-I. 7 Possibile allusione alla Rivoluzione novembrina del 1918, quando ricorse il settantenario della pubblicazione del Manifesto del Partito Comunista di Karl Marx.
403 Perché la visione del mondo è intollerante e non può accontentarsi di restare un “partito fra gli altri”, ma rivendica imperiosamente di essere riconosciuta come unica ed esclusiva e vuole che l’intera vita pubblica si conformi alle sue posizioni. Non può quindi tollerare la contemporanea sopravvivenza della difesa dei vecchi interessi.
Figura 1 Vignette satiriche apparse sul settimanale “Der Stürmer” di Julius Streicher fra il 1934 e il 1938 [fonte: glaubeund-kirche.de]
Lo stesso vale per le religioni. Anche il Cristianesimo non poteva accontentarsi di costruire un proprio altare, ma dovette inevitabilmente procedere alla distruzione di quelli pagani. Solo partendo da questa fanatica intolleranza poteva forgiarsi una fede apodittica, di cui l’intolleranza è il presupposto indispensabile. Si può facilmente obiettare che quei fenomeni della storia mondiale riguardano una mentalità specificamente ebraica; che quel genere d’intolleranza e di fanatismo è essenzialmente ebraico. Questo può essere mille volte vero e possiamo dolercene. Con grande disagio possiamo constatare che la comparsa dell’intolleranza e del fanatismo nella storia umana fu qualcosa di assolutamente nuovo. Ma questo non muta il fatto che oggi esista. Gli uomini che vogliono redimere il nostro popolo non devono lambiccarsi il cervello su quanto sarebbe bello se non ci fosse una o l’altra cosa, ma devono cercare di capire come eliminare la situazione esistente. Una visione del
404 mondo pervasa da infernale intolleranza sarà infranta solo da una nuova idea armata e animata da uno spirito simile, sostenuta da eguale forza di volontà, quindi da una nuova idea pura e perfettamente vera8. Chiunque di noi può osservare a malincuore che nel mondo antico, assai più libero del nostro, il primo terrore spirituale apparve con l’avvento del Cristianesimo. Ma non potrà contestare il fatto che da allora il mondo sia stato oppresso e dominato dalla religione cristiana e che solo la coercizione spezzi la coercizione, solo il terrore ponga fine al terrore. Solo così si può creare una situazione nuova. I partiti politici sono disposti al compromesso, le visioni del mondo no. I partiti politici contano perfino sugli avversari, le visioni del mondo proclamano la loro infallibilità9. Anche i partiti politici hanno originariamente l’intenzione di conquistare un dominio dispotico; posseggono quasi sempre un lieve impulso verso una visione del mondo. Tuttavia la ristrettezza del loro programma li priva dell’eroismo che esige una visione del mondo. Il loro spirito conciliante attrae gente meschina e vile, con cui non è in grado di condurre alcuna crociata10. Così s’impantano sin da subito nella loro meschinità. Rinunciando a combattere per una visione del mondo, i partiti cercano frettolosamente di conquistarsi, con la “collaborazione costruttiva”, un posticino nella mangiatoia delle istituzioni esistenti e, possibilmente, di restarvici il più a lungo possibile11. A questo si riduce il loro impegno. E se un giorno un brutale concorrente li scacciasse dalla mangiatoia generale, ogni loro azione o pensiero tenderebbe, con la violenza o con l’astuzia, a spingerli nuovamente nel branco degli affamati, per saziarsi di nuovo, a costo delle più sacre convinzioni. Sciacalli della politica! Dato che una visione del mondo non è mai disposta a fare accordi con nessuno, non lo è nemmeno a collaborare a una situazione esistente deplorevole. Si sente obbligata a combattere quella situazione e tutto il mondo ideale avversario con ogni mezzo, per prepararne la fine. La visione del mondo esige combattenti decisi tanto alla lotta puramente corrosiva, di cui gli avversari riconoscono subito la pericolosità e perciò si uniscono in un fronte comune, quanto alla lotta costruttiva, che tenta di imporre il proprio nuovo modo di pensare. Perciò una visione del mondo porterà alla vittoria le sue idee se unificherà nelle sue file gli elementi più valorosi ed energici del suo tempo e del suo popolo e se darà loro forma di un’organizzazione salda e bellicosa. A tal fine è necessario che la visione del mondo selezioni alcuni pensieri ben precisi e li rivesta di una forma adatta a fungere da professione di fede, nella loro precisa e scultorea sintesi, per una nuova comunità umana. Mentre il programma di un partito solamente politico Allusione alla tesi nazionalpopolare che il cristianesimo sarebbe stato “ebraizzato” da Paolo. Gesù sarebbe stato fortemente contrario all’orientamento spirituale dell’ebraismo e, quindi, sostenitore di un cristianesimo antilegalitaristico. Il ventiquattresimo punto del “Programma dei Venticinque Punti” (forse redatto da Eckart) si riferiva proprio a un positives Christentum (cristianesimo positivo). Bibliografia: S. Heschel, The Aryan Jesus. Christian theologians and the Bible in Nazi Germany, Princeton (New Jersey), Princeton University Press, 2008. 9 Allusione al I Concilio Vaticano del 1870, che sancì il dogma dell’infallibilità del Papa in tutte le decisioni riguardanti la dottrina della fede e della morale. 10 Sulla predilezione hitleriana per l’attivismo politico vedi capitolo 7-II. 11 Possibile riferimento alla Deutschnationale Volkspartei (Partito popolare nazionaltedesco) che, dopo le elezioni del dicembre 1924, formò un governo di coalizione con i partiti centristi (I gabinetto Luther). 8
405 è la ricetta di un possibile successo elettorale, il programma di una visione del mondo è una dichiarazione di guerra contro l’ordine esistente, contro una situazione esistente, contro una concezione del mondo. Quindi non è necessario che ogni singolo combattente possegga una conoscenza precisa della visione del mondo, delle idee finali e dei ragionamenti del capo del movimento. È necessario piuttosto che gli siano spiegati alcuni punti importanti e che le linee essenziali gli siano impresse in modo indelebile, in modo da essere pervaso incessantemente dalla necessità della vittoria del suo movimento e della sua dottrina. Anche il singolo soldato non è al corrente dei ragionamenti dell’alta strategia. Gli basta essere educato alla rigida disciplina militare e alla fanatica convinzione del diritto e della forza della sua causa e della totale dedizione a essa. Così deve avvenire anche per il singolo rappresentante di un movimento di ampie dimensioni, di grande avvenire e di grande volontà. Come servirebbe a poco un esercito, i cui singoli soldati fossero e si immaginassero generali anche solo per formazione e per conoscenza, lo stesso sarebbe per un movimento politico rappresentante di una visione del mondo, se fosse solo un ricettacolo di uomini “intelligenti”. No, il movimento ha bisogno anche di soldati semplici, senza di cui non si ottiene una profonda disciplina. Un’organizzazione può esistere veramente solo se un’ampia massa sentimentale è al servizio di una classe dirigente intellettuale. Una compagnia di duecento persone di eguale intelligenza sarebbe più difficile da disciplinare rispetto a una compagnia di centonovanta persone meno intelligenti e di dieci dotate di una cultura superiore. Questa constatazione fu di grande giovamento per la socialdemocrazia, che attrasse i membri degli strati popolari già congedati dal servizio militare, dove erano già stati educati alla disciplina, e li inserì nella sua disciplina di partito altrettanto rigida12. Anche la sua organizzazione rappresentava un esercito di ufficiali e di soldati. Il lavoratore manuale tedesco congedato dal servizio militare diventò il soldato, mentre l’intellettuale ebreo il suo ufficiale. I funzionari sindacali tedeschi possono essere considerati il corpo dei sottufficiali. Ciò che la nostra borghesia ritenne sempre riprovevole (il fatto che le cosiddette masse incolte facessero parte del marxismo), fu in realtà il presupposto del successo marxista. Mentre gli ottusi partiti borghesi sono una banda inaffidabile e indisciplinata, il marxismo ha formato, col suo materiale umano meno intelligente, un esercito di soldati proletari che obbediscono ciecamente ai dirigenti ebrei così come un tempo facevano agli ufficiali tedeschi. La borghesia tedesca, che non si è mai interessata di “volgari” problemi psicologici, non ritenne necessario riflettere sul significato più profondo e sul pericolo insito in questa trasformazione13. Essa credeva, al contrario, che un movimento politico formato solo da “intellettuali” fosse di maggior valore e possedesse maggior diritto, se non maggiore probabilità, di riuscire a governare rispetto a una massa incolta. Non capì mai che la forza di un partito politico non consiste nella mentalità indipendente del singolo membro, 12
Possibile allusione al Reichsbanner Schwarz-Rot-Gold, associazione difensiva democratico-repubblicana a maggioranza socialdemocratica. Vedi capitolo 2-II. 13 L’affermazione storicamente infondata (la psicologia nasce nel corso dell’Ottocento come scienza borghese) potrebbe essere una critica al “materialismo” politico borghese, cioè all’incapacità di scandagliare l’animo e le passioni più “genuine” delle masse.
406 quanto nell’obbedienza disciplinata prestata dai suoi membri alla classe dirigente intellettuale. Ciò che conta è la classe dirigente14. Se due corpi di truppa si fronteggiano sul campo di battaglia, non vincerà certo quello dove i singoli hanno ricevuto la formazione strategica superiore, ma quello che possiede un comando migliore e, allo stesso tempo, la truppa più disciplinata, più obbediente e meglio addestrata. Questo è un aspetto fondamentale che dobbiamo tenere a mente esaminando la possibilità di tradurre in concreto una visione del mondo. Se, quindi, una visione del mondo va convertita in un movimento di lotta vincente, il programma del movimento deve considerare necessariamente il materiale umano a disposizione. Anche se gli obiettivi finali e le idee guida restano immutabili, il programma propagandistico deve adeguarsi in modo psicologicamente geniale e preciso all’anima di coloro, senza i quali le idee più belle resterebbero eternamente tali. Se vogliamo condurre l’idea nazionalpopolare dall’oscura volontà di oggi a un chiaro successo, bisogna scegliere dal suo ampio bagaglio ideale certi principî guida che siano per essenza e per contenuto adatti ad arruolare le grandi masse umane, le uniche in grado di garantire la battaglia ideologica di questa idea: la classe lavoratrice tedesca15. Per questo il programma del nuovo movimento fu condensato in pochi principî guida, in totale venticinque. Essi sono destinati a dare all’uomo del popolo un quadro approssimativo della volontà del movimento. Sono in un certo senso una professione di fede politica, che fa propaganda per il movimento e si adatta a unire e a rinsaldare gli adepti mediante l’ammissione di comuni doveri. Inoltre non dobbiamo mai dimenticarci che, poiché il programma del movimento è assolutamente giusto nei suoi obiettivi finali, ma nella formulazione dovette tener conto degli aspetti psicologici, col tempo potrebbe farsi largo la convinzione che certe affermazioni, forse certi principî, si possano formulare diversamente. Ogni forma di revisionismo ha ripercussioni negative, perché così si rimette in discussione qualcosa di fisso e di incrollabile; se anche un solo punto è sottratto alla certezza dogmatica, la discussione non condurrà a una definizione nuova, migliore e soprattutto unitaria, ma piuttosto a interminabili dibattiti e a una confusione generale. Bisogna decidersi: è meglio una formula nuova e migliore, che generi un nuovo confronto nel movimento? Oppure una formulazione perfettibile, che però rappresenti un organismo chiuso, incrollabile e unitario? Ogni esperimento dimostrerà che è preferibile la seconda. Se si trattasse di modifiche puramente esteriori, le correzioni sarebbero possibili oppure auspicabili. Alla fine però, data la superficialità degli uomini, esiste sempre il fondato pericolo che l’aspetto puramente esteriore di un programma sia considerato il compito essenziale di un movimento. Così passeranno in secondo piano la volontà e la forza di sostenere un’idea. L’attività esterna si concentrerà solo sulle lotte programmatiche interne.
Sull’enfasi hitleriana del partito-quadro elitario vedi capitolo 11-II. La propaganda nazionalsocialista di quegli anni era diretta soprattutto alla classe operaia urbana, non alla piccola borghesia urbana e alla popolazione rurale. A causa dello scarso successo di questa strategia, l’anno successivo il Partito, su impulso di Gregor Strasser, iniziò ad ampliare la propaganda ad altri ceti sociali. Ma la trasversalità sociale, religiosa e regionale si realizzò solo dopo il 1930. Bibliografia: U. Kissenkoetter, Gregor Strasser und NSDAP, Stoccarda, Deutsche Verlagsanstalt, 1978; J.W. Falter, Hitlers Wähler, Monaco, C.H. Beck, 1991. 14 15
407 Per una dottrina giusta a grandi linee è meno nocivo conservare una concezione non del tutto corrispondente alla realtà, piuttosto che consegnare, per un semplice miglioramento, una legge fondamentale del movimento finora granitica alla discussione generale, con le peggiori conseguenze del caso. Ciò è impossibile soprattutto nella fase di lotta. Come si può infondere una fede cieca nella bontà di una dottrina, se le costanti modifiche nell’edificio esterno diffondono il dubbio e l’incertezza? L’essenziale non è la formula esteriore, ma il senso interiore. E questo è immodificabile. Nel suo interesse, bisogna solo augurarsi che il movimento conservi la forza necessaria per conseguire la vittoria, tenendo lontano ciò che potrebbe arrecare disintegrazione e insicurezza.
Figura 2 Trasformazione del simbolo dei Deutsche Christen (Cristiani tedeschi), 1932, 1935, 1937 [fonte: wikipedia.de]
Ma anche qui bisogna imparare la lezione dalla Chiesa cattolica. Sebbene il suo edificio dottrinario, in alcuni punti e in parte in modo gratuito, sia entrato in collisione con la scienza e con l’indagine scientifica, la Chiesa non è pronta a sacrificare neanche una sola sillaba dei suoi dogmi. Sa molto bene che la sua resilienza non consiste nell’adattamento più o meno grande ai risultati scientifici del momento (che sono in realtà sempre incerti), quanto piuttosto in una rigida fedeltà a dogmi fissi e indiscussi, che conferiscono un carattere fideistico all’intero edificio. Oggi la Chiesa è più salda che mai. Possiamo profetizzare che, mentre le persone passano, la Chiesa – unico polo fisso – otterrà un attaccamento sempre più cieco ai suoi dogmi. Chi dunque si augura veramente e seriamente la vittoria di una visione del mondo nazionalpopolare deve non solo riconoscere che, in primo luogo, occorra un movimento idoneo alla lotta, ma che, in secondo luogo, quel movimento dovrà basarsi su un’incrollabile sicurezza e sulla solidità del suo programma. Il movimento non può azzardarsi a fare concessioni allo spirito dell’epoca nella formulazione del programma, ma deve mantenere una volta per tutte la forma ritenuta idonea, in ogni caso finché non sarà coronata dal successo. Ogni tentativo prematuro di addurre spiegazioni sull’opportunità di un punto programmatico o di un altro erode la compattezza e la forza combattiva del movimento nella misura in cui i suoi membri partecipano alla discussione interna. Non è detto che un “miglioramento” di oggi non sarà sottoposto domani al vaglio critico, per trovare dopodomani una versione ancora migliore. Chi lascia la strada vecchia per quella nuova sa quello che lascia e non sa quello che trova.
408 Questa importante consapevolezza è valorizzata nel giovane movimento nazionalsocialista. Il Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori ottenne, con il suo programma delle Venticinque Tesi, un fondamento incrollabile16. Il compito dei membri attuali e futuri del nostro movimento non consisterà nella rielaborazione critica dei principî guida, ma nel loro rispetto. In caso contrario la prossima generazione potrebbe con lo stesso diritto sprecare ulteriori energie in un lavoro puramente formale, invece di procurare nuovi seguaci e nuove forze al movimento. Per la grande maggioranza dei nostri membri, l’essenza del movimento nazionalsocialista non si troverà tanto nella lettera dei principî guida, quanto nel senso che saremo in grado di darvi. Il giovane movimento deve il suo nome anzitutto alla consapevolezza con cui fu redatto il programma e su cui è fondata la sua diffusione. Per portare al successo le idee nazionalpopolari, fu creato un partito popolare, formato non solo da dirigenti intellettuali ma anche da lavoratori manuali! Ogni tentativo di realizzare l’idea nazionalpopolare senza un’organizzazione così potente, ieri, oggi e domani sarà destinata all’insuccesso. Quindi il movimento non ha solo il diritto, ma anche il dovere di sentirsi il precursore e il rappresentante di quell’idea. Se è vero che i fondamenti del movimento nazionalsocialista sono nazionalpopolari, lo è altrettanto che i pensieri nazionalpopolari sono nazionalsocialisti. Ma se il nazionalsocialismo vuole vincere, deve constatare incondizionatamente ed esclusivamente questa sua identità. Anche qui non ha solo il diritto, ma anche il dovere di sottolineare più energicamente il fatto che ogni tentativo di rappresentare l’idea nazionalpopolare al di fuori del Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori è impossibile, se non truffaldino. Se taluni oggi ci rimproverano di esserci appropriati dell’idea nazionalpopolare, bisogna rispondere così: non solo ce ne siamo appropriati, ma l’abbiamo pure messa in pratica. Ciò che finora s’intendeva con il concetto di nazionalpopolare non aveva esercitato la benché minima influenza sul destino del nostro popolo: tutte quelle idee mancavano di una chiara formulazione unitaria. Si trattava per lo più di nozioni isolate e sconnesse, più o meno buone, spesso contraddittorie, prive di un legame profondo. Un legame così debole che, se anche ci fosse stato, non sarebbe mai bastato a preparare o a creare un movimento. Solo il movimento nazionalsocialista l’ha fatto. Se oggi tutte le possibili associazioni e associazioncine, gruppi e gruppetti e, magari, “partitoni” si avvalgono del termine “nazionalpopolare”, non è altro che l’effetto dell’operato nazionalsocialista. Senza il nostro lavoro queste organizzazioni non avrebbero mai neanche solo pronunciato il termine “nazionalpopolare”, non si sarebbero mai immaginate così e, specialmente i loro dirigenti, non avrebbero mai ammesso alcun legame con quel termine. Solo noi abbiamo reso quel termine un concetto denso di contenuti, ora sulla bocca di tutti. Inoltre il nostro movimento, grazie alla sua efficace attività propagandistica, ha indicato e mostrato la forza del pensiero nazionalpopolare. Quindi la sua brama di proseliti costringe gli altri a volere le stesse cose, quantomeno a parole. Le altre organizzazioni, finora al servizio della loro meschina speculazione elettorale, si avvalgono del concetto di “nazionalpopolare” come di uno slogan vuoto, 16
Sul “Programma dei Venticinque Punti” vedi capitolo 12-I.
409 con cui cercano di neutralizzare la forza propagandistica del movimento nazionalsocialista. Solo la preoccupazione di esistere e il timore di fronte all’ascesa del nostro movimento, sorretto da una nuova visione del mondo pericolosamente esclusivista, mette loro in bocca parole che non conoscevano otto anni fa, che irridevano sette anni fa, che indicavano come “idiozia” sei anni fa, contro cui lottavano cinque anni fa, che odiavano quattro anni fa, che perseguitavano tre anni fa, sino ad accoglierle nel loro programma da due anni a questa parte e, unitamente al loro vecchio patrimonio lessicale, a utilizzarle come grido di battaglia. E proprio oggi bisogna constatare nuovamente che tutti quei partiti non hanno la benché minima idea di ciò che occorra al popolo tedesco. L’esempio più emblematico è la superficialità con cui pronunciano la parola “nazionalpopolare”! Non meno pericolosi sono coloro che, pretendendo di essere “nazionalpopolari”, bighellonano sfoggiando piani fantasiosi, per lo più sostenuti solo da qualche fissazione che potrebbe anche essere giusta di per sé, ma che, presa singolarmente, non ha alcun significato per la formazione di una grande e unitaria comunità di lotta, men che meno per la sua edificazione. Questa gente, che abborraccia un programma in parte con idee proprie, in parte scopiazzando da testi altrui, è spesso più pericolosa che i nemici dichiarati dell’idea nazionalpopolare. Nei migliori dei casi si tratta di teorici sterili, di logorroici millantatori che credono di poter dissimulare, con una folta barba e con vezzi da antichi germani, la vacuità spirituale e intellettuale del loro agire e della loro capacità17. Per contrastare tutti quei tentativi inadeguati è bene richiamare alla memoria il tempo in cui il giovane movimento nazionalsocialista iniziò la sua lotta.
Approfondimenti didattici 1. Analisi retorica e stilistica
- Individua le principali figure retoriche; - Individua l’esistenza di fallacie retoriche; - Individua i principali “loci” e “topoi”; - Individua la presenza di stereotipi e pregiudizi.
2. Analisi storico-culturale - Socialismo nazionale e socialismo internazionale: analizza la dicotomia sorta a cavallo del Novecento e tenta di spiegare le ragioni storiche della “revisione” del marxismo; Hitler riprende la polemica contro gli “Ahasveri nazionalpopolari” già abbozzata nel capitolo 12-I, non solo per dipingere i nazionalsocialisti quali unici veri combattenti della causa nazionalpopolare, ma anche per ridicolizzare l’ala esoterica del movimento nazionalpopolare. Bibliografia: G. Galli, P.A. Dossena, Intervista sul nazismo magico, Torino, Lindau, 2016. A. Gilardoni, Logica e argomentazione. Un prontuario, Milano, Mimesis, 2008.
17
410 - Politica e religione: analizza la tesi hitleriana di “partito di visione del mondo” e cerca di contestualizzarlo all’interno della nascita della democrazia di massa; - Cattolicesimo e protestantesimo: analizza la visione hitleriana del cattolicesimo e tenta di spiegare se e quali aspetti il nazionalsocialismo ha recuperato del messaggio salvifico ecclesiale; - Nazionalsocialista e nazionalpopolare: analizza il nesso fra i due concetti alla luce del dibattito politico e culturale nella Germania dei primi anni Venti.
Capitolo VI. La battaglia degli esordi: l’importanza del discorso
Sinossi 1. Genesi Il capitolo 6-II appartiene, insieme al successivo, al primo volume per il contenuto affrontato (cioè la storia di partito dal 1919 al 1921). Ed erano in effetti previsti al suo interno, come faceva intendere un volantino pubblicitario del giugno 1924. Alcune parti del capitolo sono state redatte nell’estate del 1924 e nella primavera del 1925, quando Hitler decise di dividere il libro in due tomi. La decisione di posporre la storia del partito a questo punto del secondo volume va contestualizzata all’interno dell’esigenza di presentarsi come indiscusso portatore della visione del mondo e, quindi, di non sottostare alle beghe interne “nazionalbosceviche”1. 2. Contenuto Hitler ritorna a parlare degli “anni eroici” del Partito nazionalsocialista, soffermandosi sulle prime adunanze di massa e sui temi dibattuti: le conferenze di pace di Brest-Litovsk e di Versailles e l’umiliazione impartita dall’Intesa alla Germania repubblicana. Si sofferma, in particolar modo, sull’importanza del comizio e sulla necessità di acquisire un quadro più ampio della situazione internazionale, evitando di attaccare l’unico “grande uomo” a livello continentale che abbia deciso di opporsi alla crisi postbellica. Se il problema è la “nazionalizzazione della massa” e la sua “purificazione” dal “veleno” ebraico-marxista, è indubbio che i partiti borghesi, con la loro visione “razionale” delle cose, hanno fallito miseramente. La parola “scritta” non è in grado di toccare i cuori delle persone tanto quanto quella “parlata”, perché lo scrittore non ha la consapevolezza del suo pubblico e non può modificare il tono o contenuto del suo “libro”. L’oratore veramente brillante sa guidare le masse e, approfittando della situazione (pigrizia, conformismo, emotività, ecc.), può trasformarla in qualcosa di unitario. Hitler si lascia andare alcune considerazioni di natura pedagogica sul comizio. Se è vero che anche il marxismo, malgrado le “millantate vette intellettuali”, è soprattutto una visione del mondo “parlata”, lo è altrettanto che il nazionalsocialismo ha imparato a incidere sulla massa non certo con i suoi scritti teorici “esoterici”, ma con una serie di espedienti “essoterici”, come lo spazio, l’orario, il tono, l’ambiente. Come la penombra delle Chiese rappresenta uno scenario perfetto per aumentare la vicinanza tra l’uditorio e il “mistero della fede”, così un politico deve saper conoscere le abitudini delle masse per saperle “guidare” al meglio. Hitler si limita a un esempio piuttosto emblematico: il vituperato Bethmann-Hollweg. Il cancelliere tedesco del 1914 non fu in grado di comprendere l’importanza della massa in movimento, limitandosi a “balbettare” frasi di circostanza all’ora suprema e non riuscendo a infondere quella sacra fiducia nella vittoria che riuscì a statisti di ben altro calibro, come l’inglese Lloyd George. Il motivo di tanta inefficacia alberga nel mezzo espressivo e nella distanza emotiva: l’arroganza della
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KA II, p. 1173.
412 borghesia colta e “pacifista”, incapace di comprendere i sentimenti profondi delle persone, si dimostra anche nella presunzione di conferire alla parola scritta un primato che, storicamente parlando, è nullo. 3. Analisi Il capitolo 6-II rappresenta una summa del ruolo della propaganda all’interno del nazionalsocialismo. Si ricollega ad alcuni capitoli del primo volume (come il 5-I sulla propaganda e l’8-I sul ruolo del programmatore). Hitler intende porsi come “apostolo” della visione del mondo nazionalsocialista, come unigenito “figlio generato” della “natura”, elevandosi dalla schiera di narcisismi della sua area politica e dalle sorti contingenti del nazionalsocialismo (siamo a cavallo della rifondazione). L’unico modo in cui può riuscirci è quello di dimostrare maggior “carisma” rispetto agli altri. In altre parole, deve mostrare di saper raggiungere e conquistare il cuore del popolo. Il problema del nazionalsocialismo è il “medium”, cioè il mezzo per conquistare il popolo. Le idee sono irrilevanti. Si potrebbe anche sostenere che il razzismo sia strumentale e non “geneticamente” nazista, se è vero che, negli anni successivi (nella fase antecedente all’exploit elettorale del 1930), Hitler stesso avrebbe evitato di ricorrere alla ridondante enfasi antisemita al di fuori della sua stretta cerchia di fedeli. Anche qui l’argomentazione è impostata “a ritroso”: perché la stampa borghese non riesce a fare breccia? Perché quella marxista è più dirompente? Come mai la gente legge i giornali borghesi e non “assorbe” le idee stampate? La risposta è “elementare”: la stampa marxista è fatta da agitatori, non da intellettuali. Siccome la stampa efficace è quella fatta da agitatori, la deduzione “ovvia” è che la conquista della massa può avvenire solo agendo sui sentimenti e non sulla “ragione”, cioè dando la parola a bravi demagoghi. Le “prove” a sostegno dell’argomentazione hitleriana sono varie: dal numero di giornali stampati e letti sino al potere dell’immagine cinematografica. L’estetica della politica ha maggiore possibilità di far breccia nel cuore della massa perché è qualcosa di concreto, di coinvolgente, di “presente”. Non è uno scritto “intelligente”, ma è un’immagine “radicata” nei sentimenti più profondi. Non vuole la “verità”, ma la “certezza”. La massa può ottenere “certezza” non certo leggendo le parole di un “alienato” (ancorché intelligente e dotato), ma solo sentendosi protetta e affidandosi a “chi la sa più lunga”, a chi promette di superare l’empasse dell’opinione pubblica bisognosa di certezze. Chi ha “ragione”? Si tratta del paradosso dell’“ignoranza”: siccome non posso dire che ciò che leggo sia vero (cioè l’onere della prova spetta a chi “nega”), e siccome ciò che leggo deve essere vero o falso (non esiste una terza possibilità), è “ragionevole” ammettere che ciò che leggo sia falso. Siccome l’autore della stampa è al soldo del “male”, allora tutto ciò che scrive è contro la “salute popolare”, perché risponde al disegno del “complotto mondiale ebraico”. 4. Parole-chiave Adunanza di massa, Arte oratoria, Arte propagandistica, Ebreo, Hofbräuhaus, Karl Marx, Libero arbitrio umano Marxismo, Materiale umano, Opinione pubblica, Parola parlata, Politico, Questione sudtirolese, Responsabilità di guerra, Rivoluzione francese, Rivoluzione russa, Stampa, Suggestione di massa, Trattato di Brest-Litovsk, Trattato di Versailles.
413 5. Bibliografia essenziale - W. Baumgart, Deutsche Ostpolitik 1918. Von Brest-Litowsk bis zum Ende des Ersten Weltkrieges, MonacoVienna, C.H. Beck, 1966; - S. Breuer, Ordnungen der Ungleichkeit. Die politische Rechte im Widerstreit ihrer Ideen, 1871-1945, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 2001; - Id., Die Völkischen in Deutschland. Kaiserreich und Weimarer Republik, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 2008; - P. Bruppacher, Adolf Hitler und die Geschichte der NSDAP. Eine Chronik, parte 1: 1889-1937, Norderstedt, BoD, 2014; - A. Bullock, Hitler. Studio sulla tirannide, Milano, Res Gestae, 2014; - K. Burke, Die Rhetorik in Hitlers “Mein Kampf” und andere Essays zur Strategie der Überredung, Francoforte sul Meno, Suhrkamp, 1967; - D. Capozza, C. Volpato, Le intuizioni psicosociali di Hitler. Un’analisi del “Mein Kampf”, Bologna, Patron, 2004; - W. Carr, Hitler. Studio sul rapporto tra personalità e politica, Napoli, Liguori, 1985; - G. Corni, Hitler, Bologna, Il Mulino, 2007; - Id., Breve storia del nazismo, 1920-1945, Bologna, Il Mulino, 2015; - W. Durner, Antiparlamentarismus in Deutschland, Würzburg, Königshausen und Neumann, 1997; - J. Fest, Hitler. Una biografia, traduzione di F. Saba Sardi, Milano, Garzanti 2005; - A. Grabner-Haider, P. Strasser, Hitlers mythische Religion. Theologische Denklinien und NS-Ideologie, Vienna, Böhlau, 2007; - M. Grunewald, H.M. Bock, Le milieu intellectuel de gauche en Allemagne, sa presse et ses réseaux (1890-1960), Francoforte sul Meno, Lang, 2002; - D. Hastings, Catholicism and the roots of Nazism. Religious identity and National Socialism, Oxford, Oxford University Press, 2010; - L. Herbst, Il carisma di Hitler. L’invenzione di un messia tedesco, traduzione di U. Gandini, Milano, Feltrinelli, 2011; - S.F. Kellerhoff, Il libro proibito di Hitler. Storia del Mein Kampf, Milano, Rizzoli, 2016; - I. Kershaw, Hitler, vol. 1: 1889-1936, Milano, Bompiani, 2003; - W.C. Langer, Psicanalisi di Hitler. Rapporto segreto del tempo di guerra, Milano, Garzanti, 1975; - P. Longerich, Hitler. Biographie, Monaco, Siedler Verlag, 2015; - M. März, Nationale Sozialisten in der NSDAP. Stukturen, Ideologie, Publizist und Biographien des nationalsozialistischen Strasser-Kreisen von der AG Nordwest bis zum Kampf-Verlag, 1925-1930, Graz, Ares, 2010; - W. Maser, Adolf Hitler, Roma, Ciarrapico, 1978; - Id., Der Sturm auf die Republik. Frühgeschichte der NSDAP, Francoforte sul Meno, Ullstein, 1981; - F. McDonough, Hitler and the rise of the Nazi party, Londra, Person-Logman, 2003; - D. McKale, The Nazi party courts. Hitler’s management of conflict in his movement, 1921-1945, Lawrence (Kansas), Kansas University Press, 1974; - A. Musolff, Metaphor, nation and the Holocaust. The concept of the body politic, New York, Routledge, 2011; - W. Nerdinger (ed.), München und der Nationalsozialismus. Katalog des NS-Dokumentations-zentrum München, Monaco, C.H. Beck, 2015; - B. Novak, Hitler and the abductive logic. The strategy of a tyrant, Lanham (Maryland), Lexington Books, 2014; - K. Pätzold, M. Weissbecker (ed.), Geschichte der NSDAP, 1920-1945, Colonia, PayRossa, 2002; - O. Plöckinger, Geschichte eines Buches. Adolf Hitlers “Mein Kampf”, 1922-1945. Eine Veröffentlichung des Instituts für Zeitgeschichte, Monaco, Oldenbourg, 2011; - Id., Quellen und Dokumente zur Geschichte von “Mein Kampf”, 1924-1945, Stoccarda, Franz Steiner Verlag, 2016; - W. Pyta, Hitler. Der Künstler als Politiker und Feldherr. Eine Herrschaftsanalyse, Monaco, Siedler Verlag, 2015; - P.R. Range, La genesi del Mein Kampf. 1924: l’anno che cambiò la storia, Roma, Newton Compton, 2017; - R.G. Reuth, Hitler. Eine politische Biographie, Monaco, Piper, 2003; - M. Rösch, Die Münchner NSDAP 1925-1933. Eine Untersuchung zu inneren Struktur der NSDAP in der Weimarer Republik, Monaco, Oldenbourg, 2002; - K. Schilling, Das zerstörte Erbe. Berliner Zeitungen der Weimarer Republik im Portrait, Norderstedt, BoD, 2011; - D. Schmidt, M. Sturm, M. Livi (ed.), Wegbereiter des Nationalsozialismus. Personen, Organisationen und Netzwerke der extremen Rechten zwischen 1918 und 1933, Essen, Klartext, 2015;
414 - P. Stein, Die NS-Gaupresse, 1925-1933. Forschungsbericht, Quellenkritik, neue Bestandesaufnahme, Monaco, Saur, 1987; - H. Steinhaus, Hitlers pädagogische Maximen. “Mein Kampf” und die Destruktion der Erziehung im Nationalsozialismus, Francoforte sul Meno, Peter Lang, 1981; - J. Toland, Adolf Hitler. The definitive biography, New York, Doubleday, 1976; - V. Ullrich, Adolf Hitler. Biographie, vol. 1: Die Jahre des Aufstiegs 1889-1939, Francoforte sul Meno, S. Fischer, 2013; - A. Viktine, “Mein Kampf”. Storia di un libro, traduzione di G. Zucca, Milano, Cairo, 2010; - T. Vordermeyer, Bildungsbürgertum und völkische Ideologie. Konstitution und gesellschaftliche Tiefenwirkung eines Netzwerks völkischer Autoren (1919-1959), Berlino, de Gruyter, 2016; - K. Weissmann, Der nationale Sozialismus. Ideologie und Bewegung, 1890 bis 1933, Monaco, Herbing, 1998; - B. Zehnpfennig, Hitlers “Mein Kampf”. Eine Interpretation, Monaco, Fink, 2000; - R. Zitelmann, Hitler, Roma-Bari, Laterza, 1991.
La prima grande adunata del 24 febbraio 1920 nel salone dello Hofbräuhaus non aveva ancora spento la sua eco che dovemmo subito preparare quella successiva2. Mentre prima ci sembrava rischioso organizzare una piccola adunata in una città come Monaco una o due volte al mese, ora volevamo fare una grande assemblea ogni settimana. Non ho bisogno di dirvi che ci tormentava un solo timore: la gente sarebbe venuta ad ascoltarci? Anche se, già allora, io avevo l’incrollabile convinzione personale che, una volta venuta, la gente si sarebbe fermata e ci avrebbe ascoltato. All’epoca il salone dello Hofbräuhaus di Monaco acquisì un’importanza quasi solenne per noi nazionalsocialisti. Ogni settimana tenevamo un’adunata, quasi sempre in quel locale, e ogni volta il salone era più colmo e il pubblico più attento!3 Partendo dalla “responsabilità di guerra”, di cui allora non si occupava nessuno4, e passando attraverso i trattati di pace, affrontavamo quasi tutto ciò che serviva ad agitare gli spiriti e a diffondere le nostre idee. In particolare, ci concentravamo sui trattati di pace. Quante cose aveva predetto il nostro giovane movimento e come si sarebbe avverato quasi tutto! Oggi è facile parlare e scrivere di quelle cose. Ma all’epoca discutere del Trattato di pace di Versailles in un’adunata pubblica di massa, che non raccoglieva filistei, ma proletari aizzati ed eccitati, significava attaccare la Repubblica, appariva il segno di una mentalità reazionaria, se non monarchica. Già alla prima frase contenente una critica alla pace, si sollevavano obiezioni del tipo: “E Brest-Litovsk?” “Brest-Litovsk!” La massa rumoreggiava fino a diventare rauca e l’oratore desisteva dal tentativo di convincerla. Avrei sbattuto la testa contro un muro, per la disperazione! La gente non voleva sentire, capire, che Versailles era una vergogna e uno smacco, che quel diktat era un saccheggio inaudito del nostro popolo. Il lavoro Riferimento all’adunanza del 4 marzo 1920 nel salone dello Hofbräuhaus, dove Hitler parlò dei trattati di Pace di Brest-Litovsk e di Versailles. 3 L’adunanza di massa successiva non ebbe gran successo. Dal maggio 1920 Hitler divenne il principale oratore del suo partito, che decise di tenere i comizi allo Hofbrähaus [KA, n. 5] 4 Il tema delle responsabilità di guerra (il Vertragsrevisionismus, cioè la revisione del trattato di pace), addossata alla Germania in base all’articolo 231 del trattato di Versailles, fu al centro dell’opinione pubblica tedesca di quegli anni. Anche nel campo nazionalpopolare la posizione non era unitaria: se è vero che tutti rigettavano l’esclusiva responsabilità di guerra, lo è altrettanto che gli obiettivi erano differenti. Alcuni sostenevano il ritorno ai confini del 1914, altri – come Hitler e il suo partito – un ridisegnamento della carta europea [KA, n. 6]. 2
415 distruttivo compiuto dal marxismo e la velenosa propaganda nemica avevano portato la gente a sragionare5. E c’era poco di cui lamentarsi! La nostra colpa era enorme! Cosa aveva fatto la borghesia per porre freno, per opporsi alla spaventosa decomposizione e, chiarendo le cose, per spianare la strada alla verità storica? Niente e ancora niente! All’epoca non c’erano tutti i grandi “apostoli” nazionalpopolari di oggi. Forse parlavano fra di loro, ai tavoli da tè o nei circoli dei loro compagni, ma non osavano farsi vedere in mezzo ai lupi; a meno che non avessero occasione di ululare con loro.
Figura 1 Volantino per l'adunanza del 24 febbraio 1920 [fonte: sueddeutsche.de]
All’epoca io vidi con chiarezza che, per il piccolo nucleo fondante del movimento, il problema delle responsabilità di guerra andava chiarito, e chiarito nel senso della verità storica. Il fatto che il nostro movimento spiegasse alle grandi masse i tratti salienti del trattato di pace, fu un presupposto del nostro successo. All’epoca noi cercammo di opporci all’idea che la pace fosse un successo della democrazia, 5
Anche il Partito comunista tedesco criticava pesantemente il trattato di Versailles. Nel 1923 Karl Radek, responsabile del fallito colpo di Stato di Amburgo per mano del Komintern, lo riteneva uno strumento del “capitalismo dell’Intesa”, cioè uno strumento del capitale finanziario francese e anglo-americano per sfruttare i lavoratori tedeschi [KA, n. 11].
416 assumendo le vesti di nemici del trattato di Versailles, nella speranza di conquistare la fiducia popolare quando sarebbe stata svelata la nuda verità6. Già all’epoca presi posizione sui principali problemi che l’opinione pubblica non comprendeva, indifferente alla popolarità, all’odio o all’avversione della gente. Il Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori non doveva essere lo scagnozzo dell’opinione pubblica, ma il suo dominatore. Non servo delle masse, ma il loro padrone! Naturalmente, e soprattutto per un movimento ancora alle prime armi, forte era la tentazione di emulare l’avversario più forte, che è riuscito a trascinare le masse con le sue arti persuasive verso una decisione folle o una posizione sbagliata. La tentazione era grande, soprattutto per alcuni apparenti motivi nell’interesse del giovane movimento. La viltà umana cercherà con tanto zelo di appigliarsi a simili pretesti; ne troverà sempre qualcuno per sostenere il crimine dal “proprio punto di vista”. A volte ci volle grande energia persuasiva per impedire che la nave del nostro movimento imboccasse o, meglio, si facesse trascinare dalla corrente generale provocata ad arte7. Recentemente, la nostra stampa infernale (“Ecuba” del popolo tedesco)8 è riuscita a dare alla questione sudtirolese9 un’importanza funesta per il popolo tedesco. Ignorando la situazione, molti uomini, partiti e associazioni “nazionali”, timorosi di fronte all’opinione pubblica aizzata dagli ebrei, si associarono al chiasso generale e collaborarono stupidamente a sostenere la lotta contro un sistema che noi tedeschi, nella condizione attuale, dovremmo ritenere l’unico raggio di sole in un mondo al tramonto10. Mentre l’ebraismo cosmopolita internazionalista ci strozza lentamente, ma inesorabilmente, i nostri “patrioti” strepitano contro l’uomo11 e contro il sistema che hanno osato sottrarsi alla stretta ebraico-massonica per contrapporre una resistenza nazionale a quell’avvelenamento mondiale internazionalista. Per i deboli era troppo allettante issare la vela a favore di vento e capitolare di fronte alle urla dell’opinione pubblica12. E di capitolazione si trattò! Nolenti o volenti, vittime della loro profonda ipocrisia e cattiveria, quegli uomini ebbero paura del sentimento popolare aizzato dagli ebrei, che li spinse a unirsi alle grida. Tutte le altre spiegazioni non sono altro i miserabili pretesti del piccolo peccatore conscio della propria colpa. Allora fu necessario virare bruscamente la barra del movimento col pugno di ferro, per impedire che si incagliasse. Non è molto popolare cambiare idea quando l’opinione pubblica, aizzata dalle forze trainanti, divampa come una grossa fiamma in 6
Il trattato di Versailles non fu un successo dai partiti democratici e repubblicani, che furono molto critici verso le esose riparazioni imposte dalle potenze vincitrici. Bibliografia: H.-C. Kraus, Versailles und die Folgen. Aussenpolitik zwischen Revisionismus und Verständigung, 1919-1933, Berlino, Be.Bra Verlag, 2013. 7 Accanto alla questione sudtirolese, Hitler si riferiva ai virulenti conflitti insorti nel partito circa la fondazione di propri sindacati, l’elaborazione di un nuovo programma, il rigetto del referendum popolare, l’esproprio principesco e l’adesione all’Unione dei popoli oppressi. Vedi capitoli 10-II, 11-II e 12-II. 8 Indifferente, apatica. 9 Sulla questione sudtirolese vedi capitolo 13-II. 10 Riferimento al fascismo italiano. 11 Riferimento a Benito Mussolini. Vedi capitolo 15-II. 12 Al culmine dell’agitazione contro l’italianizzazione del Sud Tirolo (1926) ci fu un appello al boicottaggio delle merci italiane in molte città tedesche. Per difendere la posizione filo-italiana, il 25 febbraio 1926 il Partito nazionalsocialista organizzò un’assemblea sul tema, dove parlarono Streicher ed Esser [KA, n. 27].
417 una sola direzione. Spesso gli audaci corrono il rischio di bruciarsi. Nella storia non furono pochi gli uomini lapidati in quei frangenti per un’azione che i posteri avrebbero benedetto in ginocchio. Ma un movimento deve contare sui posteri e non certo sul plauso dei contemporanei. Può darsi che il singolo provi paura in quei frangenti. Non deve dimenticarsi che, prima o poi, la liberazione arriverà e che un movimento riformatore non deve servire l’istante, ma il futuro. A tal proposito possiamo constatare che i successi maggiori e più duraturi nella storia sono quelli che inizialmente trovarono scarsa comprensione, perché erano in stridente contrasto con l’opinione pubblica generale, con le sue vedute e con la sua volontà. Questo fu ciò provavamo nei primi tempi della nostra apparizione pubblica. Non abbiamo mai “mendicato il favore delle masse”, ma ci siamo sempre opposti alla follia del nostro popolo. Quasi sempre accadeva che io mi presentassi davanti a un’assemblea di individui che pensavano il contrario di ciò che volevo dire e che voleva il contrario di ciò che io pensavo. Dovevo impiegare quasi due ore per smuovere due o tremila persone dalla loro persuasione, per frantumare, colpo dopo colpo, le basi delle loro vedute e per condurle infine sul terreno della nostra visione del mondo. All’epoca imparai subito una cosa importante: a strappare dalle mani del nemico le armi della sua replica. Presto ci accorgemmo che i nostri avversari, specialmente per mezzo dei loro oratori, utilizzavano un “repertorio” ben preciso, dove obiezioni ricorrenti erano opposte alle nostre osservazioni. L’uniformità del procedimento dimostrava che quegli oratori avevano ricevuto un addestramento unitario e consapevole. Ed era così. Col tempo riuscimmo ad acquisire l’incredibile disciplina propagandistica del nostro avversario. E oggi è mio motivo d’orgoglio aver trovato il mezzo per rendere non solo inefficace la loro propaganda, ma per colpirne anche i suoi portatori. Due anni più tardi ero padrone dell’arte propagandistica. Era importante sollevare subito obiezioni attendibili sul contenuto e sulla forma, per affrontarle e per demolirle nel corso del mio discorso. Era opportuno addurre sempre le possibili obiezioni, per mostrarne l’insostenibilità. Così l’uditore in buona fede, benché rimpinzato di pregiudizi, era conquistato più facilmente con l’anticipata confutazione degli argomenti impressi nella sua mente. La robaccia marxista si autocontraddiceva e l’attenzione dell’uditorio si spostava progressivamente sul mio discorso. Per questo motivo, già dopo la prima conferenza sul Trattato di pace di Versailles, che avevo tenuto in qualità di “formatore”13 davanti alle truppe, io cambiai titolo e soggetto e la trasformai nei Trattati di Pace di Brest-Litovsk e di Versailles14. Ben presto, nel corso delle discussioni su Versailles potei osservare che la gente non sapeva veramente nulla del trattato di Brest-Litovsk15, ma che l’abile propaganda dei partiti Bildungsmensch. Nel capitolo 8-I Hitler si era definito “ufficiale formatore” (Bildungsoffizier). Hitler tenne le sue prime conferenze sul trattato di Versailles nell’agosto 1919. Dall’autunno iniziarono i confronti fra i due trattati di pace. 15 Con la capitolazione dell’11 novembre 1918, gli accordi di Brest-Litovsk divennero nulli.
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418 era riuscita a dipingerlo come una delle più scandalose violenze di questo mondo16. La costante ripetizione di quelle menzogne alla grande massa dipendeva dal fatto che milioni di tedeschi vedevano nel trattato di pace di Versailles la giusta ritorsione per il crimine perpetrato a Brest-Litovsk; quindi, pieni di onesta indignazione, ritenevano ingiusto opporsi ai diktat di Versailles. E questa fu anche la ragione per cui il termine così impudente e scandaloso di “riparazione” divenne d’uso comune in Germania. L’enorme ipocrisia appariva a milioni dei nostri sobillati membri della comunità nazionalpopolare come la punizione di una giustizia superiore. Incredibile, ma così era. La migliore dimostrazione ce la fornì il successo della propaganda che condussi contro il trattato di pace di Versailles, che era preceduta dalla chiarificazione del trattato di Brest-Litovsk. Confrontavo i due trattati di pace, li paragonavo punto per punto, mostravo lo sconfinato umanitarismo di un trattato rispetto alla crudeltà dell’altro. E l’effetto era prodigioso. Allora mi rivolgevo ad assemblee di duemila persone, spesso sotto lo sguardo ostile di milleottocento persone. Ma, tre ore più tardi, avevo dinnanzi a me una massa colma di sacra indignazione e di smisurata acredine. Una grande menzogna era stata sradicata dai cuori e dalle menti di migliaia di persone, impiantandovi una verità.
Figura 2 Cartolina propagandistica nazista del 1921 [Fonte: München und der Nationalsozialismus, 2015]
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I giudizi sulla pace di Brest-Litovsk non furono omogenei: mentre i conservatori sostennero la ratifica nel marzo 1918, i socialdemocratici rimasero contrari [KA, n. 38].
419 Le due conferenze su Le vere cause della guerra mondiale e su I trattati di pace di BrestLitovsk e di Versailles erano le più importanti. Perciò le ripetei e ripetei dozzine di volte mutandone la forma. Così almeno su questo punto si diffuse una concezione precisa, chiara e omogenea tra gli uomini da cui il movimento trasse i suoi primi iscritti. Le adunanze mi trasformarono lentamente in un oratore di comizio. Mi abituai al pathos assembleare, ai gesti necessari nei grandi locali stipati da migliaia di persone. A quell’epoca, eccetto, come detto, in piccoli circoli, io non vidi alcun partito che spiegasse al popolo i nostri punti di vista17. Nessuno di quei partiti che oggi si riempiono la bocca sostenendo di essere gli artefici di un cambiamento dell’opinione pubblica. Ma quando un politico “nazionale” teneva una conferenza su quel tema, lo faceva già a circoli di simpatizzanti che poi uscivano rafforzati nella loro convinzione. All’epoca bisognava guadagnarsi, con la propaganda e con le argomentazioni, da quegli uomini che, per educazione e mentalità, si trovavano nel campo avverso. Anche il volantino fu messo al servizio della propaganda. Già sotto le armi avevo redatto un volantino che contrapponeva i trattati di pace di Brest-Litovsk e Versailles, diffondendolo con un’ampia tiratura. In seguito lo usai per il partito, con buon successo. Le tavolate alle prime adunanze erano coperte da ogni genere di volantino, di giornale, di opuscolo, ecc. Tuttavia, la massima importanza era data al comizio: solo la parola parlata avrebbe potuto determinare grandi cambiamenti, e per ragioni psicologiche. Nel primo volume ho sostenuto che tutti i più grandi stravolgimenti della storia furono determinati non dagli scritti, ma dalla parola parlata. Una parte della stampa aveva lanciato una lunga discussione in cui, naturalmente, le nostre fini menti borghesi assumevano una posizione molto dura contro la mia tesi. Ma il motivo di quella discussione confuta gli scettici. L’intellighenzia borghese protesta contro la mia tesi perché gli manca evidentemente la forza e la capacità di influire sulle masse con la parola parlata. Per questo si dedica all’attività letteraria, rinunciando all’attività agitatoria dei comizi. Col passare del tempo, quell’abitudine crea necessariamente il tratto distintivo della nostra borghesia: la perdita dell’istinto psicologico per agire e per condizionare la massa. Mentre l’oratore riceve dalla folla del suo comizio una correzione ininterrotta alla propria conferenza, sempre che sia in grado di valutare dagli sguardi dei suoi uditori fino a che punto riescono a seguire o a condividere le sue argomentazioni, lo scrittore non conosce affatto il suo lettore. Perciò lo scrittore mirerà sin dal principio non a persuadere la precisa moltitudine umana davanti a lui, ma a sostenere le sue argomentazioni in maniera generica. Così facendo, però, egli perde un certo grado di finezza psicologica e di duttilità. Per questo un brillante oratore riuscirà a scrivere meglio di quanto non saprà parlare un brillante oratore, a meno che lo scrittore non si eserciti a lungo nell’arte oratoria. Inoltre la massa è di per sé pigra, è attaccata alle vecchie abitudini ed è restia a leggere qualcosa che non corrisponda a ciò che pensa di sé e che non soddisfi le sue speranze. Quindi uno scritto chiaramente orientato sarà letto quasi esclusivamente da persone del suo 17
Il mercato editoriale tedesco fu inondato nel 1919-20 di saggi sul trattato di pace di Versailles da parte di politici di diverso orientamento [KA, n. 44].
420 stesso orientamento. Con la sua brevità, un volantino o un manifesto può contare tutt’al più sul fatto di catturare un istante di interesse in chi la pensa diversamente. Maggiore prospettiva ce l’ha l’immagine in tutte le sue forme, compreso il film18. Qui l’uomo non ha bisogno di lavorare razionalmente: gli basta guardare, tutt’al più leggere testi molto brevi. Perciò molte persone saranno disposte ad accogliere un’esposizione figurata piuttosto che a leggere un lungo scritto. L’immagine chiarisce in tempi brevi, direi quasi di botto, ciò che lo scritto permette di ricavare solo dopo una lunga e difficile lettura. La differenza essenziale è che uno scritto non si sa mai in quali mani finirà, ma deve mantenere una precisa stesura. L’effetto sarà tanto maggiore quanto più la stesura corrisponderà al livello intellettuale e al carattere dei futuri lettori. Un libro destinato alle grandi masse deve cercare di agire, per stile e per elevatezza, in modo diverso rispetto a un’opera destinata agli strati intellettuali superiori. Lo scritto si avvicina alla parola parlata solo con una certa flessibilità. L’oratore può trattare lo stesso tema di un libro, ma, se è un grande e geniale oratore popolare, non ripeterà mai due volte lo stesso appunto e la stessa roba nella stessa forma. Si farà trascinare dalla massa in modo che gli sorgano e gli fluiscano naturalmente le parole da utilizzare per toccare il cuore dei suoi uditori. Ma se anche si sbaglia, ha sempre un correttore vivente davanti a sé. Come detto, l’oratore può leggere dalla mimica facciale dei suoi uditori se comprendono quanto dice, se riescono a seguire l’argomentazione complessiva e se si convincono della bontà di ciò che ha detto. Se si accorge che non lo capiscono, ripeterà le sue argomentazioni in modo così banale e chiaro che anche il meno intelligente degli uditori saprà comprenderlo. Se si accorge che non riescono a seguirlo, organizzerà il suo pensiero con tale prudenza e con tale lentezza che anche il più povero di spirito riuscirà a stargli dietro. E se teme che gli uditori non siano convinti dalla bontà delle sue parole, replicherà molte volte e con esempi sempre nuovi i suoi argomenti, esporrà le obiezioni inespresse, le confuterà e le scomporrà finché l’ultimo gruppo di oppositori non gli farà capire, col suo comportamento e con la sua mimica facciale, di aver capitolato di fronte alle sue argomentazioni19. Inoltre spesso non si tratta di sconfiggere preconcetti razionali, ma pregiudizi inconsapevoli e sentimentali. Superare la barriera istintiva dell’avversione, del dissenso preventivo, è mille volte più difficile che rettificare un’opinione scientifica difettosa o sbagliata. I falsi concetti e la cattiva erudizione possono essere eliminati con l’istruzione, non così le resistenze del sentimento. Soltanto un appello a quelle forze misteriose può farlo. E l’appello può farlo solo l’oratore, non certo lo scrittore. La dimostrazione più convincente è il fatto stesso che, a dispetto di una stampa borghese spesso ben fatta, che inonda il nostro popolo con pazzesche tirature milionarie20, la grande massa è diventata proprio antiborghese21. Il diluvio di quotidiani Nel 1922-23 il Partito sostenne la nascita dell’Unione degli artisti teatrali nazionalsocialisti. Nel 1927 produsse il primo film ufficiale sul congresso di partito. Nel 1930 fondò un proprio ufficio cinematografico. Bibliografia: T. Hanna-Daoud, Die NSDAP und der Film bis zur Machtergreifung, Colonia, Böhlau, 1996. 19 Sul valore attribuito da Hitler alla ripetizione propagandistica degli stessi temi efficace vedi capitolo 6-I. 20 La stampa liberale (“Frankfurter Zeitung”, “Vossische Zeitung” e “Berliner Tageblatt”) aveva una tiratura complessiva di duemilioni e cinquecentomila copie. In epoca weimariana la tiratura crollò
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421 e di libri prodotti anno dopo anno dagli intellettuali scivolano su milioni di uomini degli strati inferiori come acqua sul cuoio unto di olio. Ciò dimostra due cose: o la mendacità del contenuto della produzione libresca borghese, oppure l’impossibilità di toccare per iscritto il cuore della grande massa. Specialmente se gli scritti sono psicologicamente così inadeguati com’è accaduto finora. Non si obietti (come ha cercato di fare un grande giornale tedesco-nazionale di Berlino)22 che la nostra tesi sarebbe confutata dagli scritti del marxismo, specialmente dall’azione dell’opera fondamentale di Karl Marx23. Vuol dire proporre una visione errata della cose. La ragione della stupefacente influenza del marxismo sulle grandi masse non è certo il valore intellettuale del pensiero ebraico messo per iscritto, ma l’immensa propaganda verbale che, nel corso degli anni, s’impossessò delle grandi masse. Nemmeno lo 0,1% dei lavoratori tedeschi conosce l’opera di Marx, mille volte più studiata da intellettuali, e specialmente dagli ebrei, rispetto ai veri sostenitori del marxismo provenienti dagli strati inferiori. Del resto Il Capitale non è stato scritto per le grandi masse, ma solo per la classe dirigente intellettuale di quella macchina di conquista mondiale ebraica24; macchina poi alimentata con un altro carburante: la stampa25. Ecco la differenza tra la stampa marxista e quella borghese: la stampa marxista è scritta da agitatori, mentre la stampa borghese preferisce ricorrere agli scrivani. Il redattorucolo socialdemocratico, che proveniente quasi sempre dall’assemblea locale di partito26, conosce alla perfezione i suoi polli. Il pennivendolo borghese, che esce dal suo studio per presentarsi davanti alla grande massa, si ammala già per le semplici esalazioni della folla e la sua parola scritta non gli è di nessun aiuto. Milioni di lavoratori furono conquistati non tanto dallo stile di quei “padri della Chiesa”, quanto dall’indefesso e formidabile lavoro propagandistico di decine di migliaia di infaticabili agitatori, dal grande apostolo sino al piccolo funzionario sindacale, dall’uomo di fiducia sino all’oratore. Le centinaia di migliaia di assemblee, in cui, seduti in fumose osterie, gli oratori popolari martellarono con le loro idee i timpani delle masse, permisero al marxismo di acquisire una grande conoscenza del materiale umano, scegliendo così le migliori armi per assaltare la roccaforte dell’opinione pubblica. E poi le gigantesche dimostrazioni di massa, i cortei di centinaia di migliaia di persone, impressero nel miserabile microbo umano l’orgogliosa convinzione di essere un piccolo verme, ma anche membro di un dragone, sotto il cui sensibilmente per via della crisi economica e per la diffusione di numerosi altri giornali. Lo stesso avvenne per la stampa socialdemocratica. Rimase stabile la tiratura della stampa cristiana, mentre aumentò quella conservatrice e nazionalista intorno alla fine degli anni Venti [KA, n. 60]. 21 I risultati delle elezioni politiche del dicembre 1924 videro un aumento di consensi socialdemocratici (dal 20,5 al 26%), ma un indebolimento dei comunisti (dal 12,6% all’8,9%) e dei nazionalsocialisti (dal 6,6 al 3%). I cosiddetti partiti “borghesi” uscirono leggermente rafforzati: i nazionaltedeschi (da 19,5 a 20,5%), i cattolici (da 13,4 a 13,6%) e i popolari (da 9,2 a 10,1%). 22 Possibile allusione alla “Deutsche Allgemeine Zeitung” (Quotidiano generale tedesco) di Berlino che, nel settembre 1925, criticò la tesi contenuta nel primo volume Mein Kampf circa il primato della “demagogia” sulla “personalità” [KA, n. 63]. 23 Riferimento al primo volume di Das Kapital (Il Capitale) di Karl Marx, pubblicato nel 1967. 24 Sul mito della congiura mondiale ebraica vedi capitolo 2-I. 25 Sull’idea di “stampa ebraizzata” vedi capitolo 10-I. 26 Qui Hitler allude probabilmente al socialdemocratico “Münchener Post”. Il capo-redattore Erhard Auer (1874-1945), presidente della socialdemocrazia bavarese, era suo nemico personale [KA, n. 69].
422 fiato incandescente l’odiata borghesia avrebbe potuto andare a fuoco e fiamme e la dittatura proletaria avrebbero potuto celebrare la sua vittoria definitiva. Una simile propaganda forgiò uomini disposti e preparati a leggere una stampa socialdemocratica, una stampa non scritta da loro, ma pronunciata. Mentre, nel campo borghese, professori e dotti, teorici e scrittori di ogni genere cercano di parlare, nel marxismo l’oratore tenta spesso di scrivere. L’ebreo, grazie alla sua ipocrita abilità e alla sua flessibilità dialettica, appare un oratore rivoluzionario più che uno scrivano. Questo è il motivo per cui il giornalismo borghese (in larga parte ebraizzato e, quindi, poco interessato a informare veramente la grande massa) non riesce a esercitare alcuna influenza sullo stato d’animo dei più vasti strati popolari.
Figura 3 Cartolina raffigurante il Kindl-Keller di Monaco intorno al 1900 [fonte: akpool.co.uk]
Quanto sia difficile eliminare pregiudizi, stati d’animo, sentimenti, ecc. per sostituirli con altri; da quanti e quali influssi e condizioni imponderabili dipenda il successo, ebbene l’oratore sensibile può intuirlo dal fatto che l’orario della conferenza è decisivo sull’esito del suo discorso. La stessa conferenza, lo stesso oratore, lo stesso tema influiscono in modo diverso alle 10 di mattina, alle 3 di pomeriggio o di sera. Anch’io, inizialmente, fissavo le conferenze di mattina. Ricordo, in particolare, una dimostrazione di protesta nel Kindl-Keller di Monaco “contro l’oppressione nei territori tedeschi”27. All’epoca quella era la sala più vasta di Monaco e l’azzardo pareva esagerato. Per agevolare l’afflusso dei membri del movimento e di tutti coloro che volevano assistervi, fissai l’assemblea per le 10 del mattino di una domenica. Il risultato fu deprimente, ma anche molto istruttivo: la sala era piena, l’impressione sconvolgente, lo stato d’animo gelido. Nessuno si scaldò e io stesso come oratore fui triste per non aver “toccato” gli uditori. Credo di non aver parlato peggio del solito; Riferimento all’assemblea di protesa contro l’uccisione di cittadini tedeschi nelle zone occupate, tenuta dai nazisti nel Kindl-Keller il 5 settembre 1920.
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423 ma l’effetto fu quasi nullo. Molto deluso, anche se arricchito dall’esperienza, me ne andai via. Analoghi esperimenti fatti in seguito ebbero lo stesso risultato. Questo non può meravigliarmi. Si vada a teatro e si assista a un’opera alle 3 del pomeriggio e si ritorni nello stesso posto alle 8 di sera: si resterà sorpresi dalla diversità dell’effetto e dell’impressione. Un uomo sensibile, capace di comprendere i diversi stati d’animo, constaterà subito che l’impressione dello spettacolo pomeridiano non è affatto superiore a quello serale. Per la proiezione cinematografica vale la stessa cosa28. Questo è importante, perché a teatro si potrebbe sostenere che, forse, l’attore del pomeriggio non si impegni come di sera. Ma il film del pomeriggio non è affatto diverso da quello delle 9 di sera. No, è il tempo, è l’ora stessa che esercita un effetto decisivo, come su di me lo spazio, il locale del comizio. Ci sono spazi che ci lasciano indifferenti per motivi difficili da comprendere, che resistono alla creazione di un clima favorevole. Inoltre certi ricordi e certe idee tradizionali possono influire sull’impressione dell’evento. Una rappresentazione del Parsifal a Bayreuth29 avrà un effetto diverso che in un altro qualsiasi posto al mondo. Il misterioso incantesimo dell’edificio sul colle del festival dell’antica città del Margravio è ineguagliabile o insostituibile da altri scenari30. In tutti i casi si tratta di influire sul libero arbitrio umano. Questo vale soprattutto per le assemblee dove si trovano uomini di idee opposte, che dovranno essere convertiti a un’unica nuova volontà. Di mattina e durante le ore del giorno, le forze volitive degli uomini sembrano resistere con successo al tentativo di imporre il volere o le opinioni altrui. Di sera, invece, si assoggettano più facilmente al dominio della volontà più forte. Ogni assemblea rappresenta un duello tra due forze contrapposte. L’arte oratoria di una natura apostolica dominante riuscirà a convertire più facilmente alla nuova volontà uomini che abbiano già subito un indebolimento della resistenza, rispetto a uomini ancora in pieno possesso delle loro energie volitive e intellettuali. Lo stesso scopo è perseguito dall’artificiosa e misteriosa penombra delle chiese cattoliche, dai ceri ardenti, dall’incenso, dalle incensiere, ecc.31 Nella lotta proselitistica l’oratore acquisterà progressivamente quella mirabile sensibilità per le condizioni psicologiche della propaganda, che mancano quasi sempre agli scrittori. Lo scritto, per via del suo effetto limitato, servirà più alla conservazione, al rafforzamento e all’approfondimento di una convinzione o di un’opinione giù presente. Tutti i grandi cambiamenti storici non furono prodotti dalla parola scritta, ma ne furono tutt’al più accompagnati32. Non si creda che la Rivoluzione francese sarebbe scoppiata per merito delle teorie filosofiche se non avesse trovato un esercito di sobillatori guidati da grandi demagoghi, che eccitarono le passioni del popolo tormentato, finché non ne seguì 28
Sul rapporto di Hitler col cinema vedi capitoli 2-I e 10-I. Il Parsifal, l’ultima opera di Wagner e conclusa nel 1882, doveva per disposizioni dell’autore essere rappresentata solo a Bayreuth. 30 Hitler entrò per la prima volta a contatto col circolo wagneriano di Bayreuth il 30 settembre 1923, quando, grazie ai coniugi Bechstein, suoi protettori, visitò Houston S. Chamberlain e poi la famiglia del compositore. Bibliografia: J. Köhler, Wagner’s Hitler. The prophet and his disciple, traduzione e introduzione di R. Taylor, Cambridge, Polity Press, 2000. 31 Vedi capitolo 1-I. 32 Vedi capitolo 3-I.
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424 quella temibile esplosione vulcanica che lasciò impietrita dallo spavento l’Europa intera. Ugualmente, la più grande trasformazione rivoluzionaria dell’epoca recente (la Rivoluzione bolscevica in Russia) non è certo l’esito degli scritti di Lenin, ma dell’attività oratoria predicatrice d’odio di innumerevoli piccoli e grandi agenti provocatori. La massa di analfabeti russi non si è entusiasmata per la rivoluzione comunista leggendo le teorie di Karl Marx, ma per la promessa di felicità fatta da migliaia di agitatori al servizio di un’idea. Così fu e così sarà sempre. È tipico della cocciuta alienazione della nostra intellighenzia credere che lo scrittore sia più intelligente dell’oratore. Questo concezione è ottimamente illustrata dalla critica del citato quotidiano nazionale, dove si osserva che si resta spesso delusi dalla stampa del discorso di un grande e apprezzato oratore. Mi ricordo di un’altra critica che mi capitò per le mani durante la guerra. Essa compiva un minuziosissimo esame dei discorsi di Lloyd George, all’epoca ministro delle armi33, per giungere all’intelligente constatazione che quei discorsi erano prodotti intellettualmente e scientificamente di scarso valore, banali e ovvi. Mi capitarono per le mani, in forma di un volumetto, alcuni di quei discorsi e sorrisi del fatto che un semplice scribacchino non capisse un accidente di quei capolavori psicologici nell’arte di condizionare le masse34. Quell’uomo giudicava i discorsi di Lloyd George sulla base esclusiva dell’impressione suscitata sulla sua boria, mentre il grande demagogo inglese aveva mirato unicamente a produrre un grande effetto sulla massa dei suoi uditori e, in generale, su tutto il popolo inglese degli strati inferiori. Visti in tal luce, i discorsi del politico inglese erano prodotti mirabili, perché testimoniavano una conoscenza sorprendente dell’animo dei grandi strati popolari. Il loro influsso pratico è stato addirittura strepitoso. Confrontiamoli con l’imbranato balbettio di un Bethmann-Hollweg35. Apparentemente, i suoi discorsi sono più intelligenti, ma, in realtà, mostrano solo l’incapacità di parlare al suo popolo, che non conosceva affatto36. Tuttavia il cervello di gallina di uno scribacchino tedesco, dotato naturalmente di una superiore cultura scientifica, apprezza il valore spirituale del ministro inglese in base all’impressione che quel discorso mirante a influire sulle masse lascia sul suo animo sclerotizzato dalla scienza pura, e lo confronta con quello di uno statista tedesco, il cui vuoto e brillante chiacchiericcio trovano in lui un terreno propizio. Che Lloyd George fosse non solo all’altezza, ma mille volte più geniale di un Bethmann-Hollweg, lo dimostrava il fatto che i suoi discorsi gli schiusero il cuore del suo popolo, che finì per piegarsi alla sua volontà sino all’ultimo respiro. La semplicità del suo linguaggio, l’originalità delle sue espressioni e l’utilizzo di esempi accessibili e facilmente comprensibili, dimostrano la 33
David Lloyd George (1863-1945), politico britannico liberale, ministro delle munizioni dal maggio 1915 e poi primo ministro inglese dal giugno 1916 sino all’ottobre 1922. 34 Probabile riferimento alla raccolta di discorsi Das gewappnete Deutschland (La Germania armata), pubblicata a Monaco nel 1916. 35 Sulla tesi della superiorità della propaganda britannica vedi capitoli 6-I e 7-I. 36 Nel 1919 fu pubblicata la raccolta di discorsi dell’ex cancelliere col titolo Bethmann Hollwegs Kriegsreden (Discorsi di guerra di Bethmann-Hollweg).
425 superiore intelligenza politica dell’inglese. Il discorso di uno statista al suo popolo non si misura in base all’impressione che suscita su un professore universitario, ma in base all’influsso che esercita sul suo popolo. E solo questo è il metro per giudicare la genialità dell’oratore. Lo straordinario sviluppo del nostro movimento, fondato dal niente solo pochi anni or sono, e oggi ritenuto degno di essere perseguitato da tutti i nemici interni ed esterni del nostro popolo, va ascritto al costante riconoscimento e utilizzo delle nozioni oratorie. Per quanto siano importanti gli scritti, oggi conta soprattutto fornire un’educazione uguale e omogenea ai dirigenti superiori e inferiori, piuttosto che convertire le masse avversarie. Solo in rarissimi casi un convinto socialdemocratico o un comunista fanatico si degnerà di acquistare un opuscolo o un libro nazionalsocialista, di leggerlo e di formarsi un’opinione sulla nostra visione del mondo o di studiare la critica della propria. Anche i giornali sono letti assai di rado se non sono orientati in modo chiaro37. Del resto leggere gioverebbe a ben poco: il quadro generale di un solo numero di giornale è così confuso e frammentato da non influire affatto sul lettore occasionale. Dato che siamo uomini economicamente molto accorti, non possiamo e non dobbiamo pretendere che una persona, spinta dalla volontà di acquisire una conoscenza oggettiva, si abboni a un giornale avversario. Solo uno su diecimila lo farà. Solo chi è già conquistato da un movimento leggerà costantemente l’organo del partito e si terrà aggiornato sull’attività del suo movimento38. Tutt’altra cosa è il volantino “parlato”! Se distribuito gratis, sarà preso in mano prima dall’uno o poi dall’altro, specialmente se nel titolo è plasticamente trattato un tema di stretta attualità. Dopo un esame più o meno accurato, il lettore sarà forse spinto verso un nuovo punto di vista, nuove opinioni, un nuovo movimento. Così, nel migliore dei casi, sarà data solo una lieve spinta, ma non si creerà mai un fatto compiuto. Anche il volantino può solo attirare l’attenzione su un problema, e può essere efficace solo se seguito da informazioni e da chiarimenti al suo lettore. Quel compito spetta e spetterà sempre all’adunanza di massa. L’adunanza di massa è necessaria anche perché qui il singolo e possibile futuro sostenitore, isolato e in preda all’ansia della solitudine, ottiene il quadro di una grande comunità, è incoraggiato e rafforzato a farne parte. Lo stesso uomo, inquadrato in una compagnia o in un battaglione, circondato da tutti i suoi camerati, andrebbe all’assalto a cuore più leggero di quanto non lo farebbe da solo. Nel branco si sente più sicuro, quand’anche ci sarebbero migliaia di motivi per dubitarne. La sintonia creata dalla grande manifestazione non solo rafforza il singolo, ma lo avvince e contribuisce anche a creare lo spirito di corpo. L’uomo che, quale primo sostenitore di una nuova dottrina, è esposto a gravi imbarazzi nella sua azienda o nella sua officina, ha bisogno di essere rafforzato dalla convinzione di essere membro e combattente di una vasta comunità. E tale convinzione la ottiene solo nella 37
I principali quotidiani weimariani non erano organi di partito, anche se avevano un orientamento politico chiaro: i liberali “Frankfurter Zeitung”, “Vossische Zeitung” e “Berliner Tageblatt”, la liberalconservatrice “Deutsche Allgemeine Zeitung” e la cattolica “Kölnische Zeitung”. [KA, n. 95]. 38 Riferimento al “Völkischer Beobachter” (Osservatore nazionalpopolare), acquistato dal Partito nazionalsocialista il 17 dicembre 1920 per la somma di centoventimila marchi. Vedi capitolo 11-II.
426 manifestazione di massa. Se, uscendo dal suo piccolo luogo di lavoro o dalla grande azienda in cui si sente giustamente piccolo, egli mette piede per la prima volta in una manifestazione di massa e vede intorno a sé migliaia e migliaia di persone dotate della stessa convinzione, se si lascia trascinare dall’istinto violento della suggestione e dall’entusiasmo di altri tre o quattromila persone, mentre è ancora in cerca della sua via, se l’evidente successo e l’approvazione di migliaia di persone gli confermano la bontà della nuova dottrina e, per la prima, mette in dubbio la verità della sua convinzione precedente – ebbene quell’uomo soggiacerà al fascino misterioso della cosiddetta “suggestione di massa”39. La volontà, il desiderio oppure la forza di migliaia di persone si accumulano in ogni singolo individuo. L’uomo che mette piede dubbioso ed esitante nell’adunanza, la abbandona intimamente rafforzato: è diventato membro di una comunità. Il movimento nazionalsocialista non deve mai dimenticarlo e non può mai lasciarsi influenzare da quei saputelli merli borghesi, che però si sono giocati non solo un grande Stato, ma anche l’esistenza e la sovranità della loro classe sociale. Certo, quei signori sono straordinariamente svegli, tutto possono e tutto comprendono – ma non hanno capito una cosa sola: come impedire che il popolo tedesco cadesse fra le braccia del marxismo40. Qui hanno fallito miseramente. La loro presunzione è pari solo alla loro spocchia che, come l’orgoglio, prospera accanto alla stupidità. Costoro non danno valore alla parola parlata solo perché, grazie a Dio, sono profondamente convinti che le loro chiacchiere non servano a nulla.
Approfondimenti didattici 1. Analisi retorica e stilistica
- Individua le principali figure retoriche; - Individua l’esistenza di fallacie retoriche; - Individua i principali “loci” e “topoi”; - Individua la presenza di stereotipi e pregiudizi.
2. Analisi storico-culturale
- Il problema del “revisionismo”: analizza il contenuto dei trattati di pace successivi alla Prima guerra mondiale, delinea le posizioni in campo e il tema delle “responsabilità di guerra”; Con “suggestione di massa” Hitler utilizza un termine di moda all’epoca. L’espressione derivava dall’opera di Gustave Le Bon sulla psicologia delle folle. Nel primo dopoguerra il grande interesse pubblico per l’influenza della propaganda e della pubblicità spinse l’espressione “suggestione di massa” anche in ambito scientifico. Bibliografia: T. Bussemer, Propaganda. Konzepte und Theorien, prefazione di P. Glotz, Wiesbaden, Springer, 2005. 40 Sul topos del “fallimento” borghese di fronte alla sinistra vedi capitolo 9-II. A. Gilardoni, Logica e argomentazione. Un prontuario, Milano, Mimesis, 2008. 39
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- Efficacia e verità: analizza il pragmatismo hitleriano in tema propagandistico e tenta di delineare le principali differenze con le posizioni politiche degli altri partiti contemporanei; - Ragione e sentimento: analizza la tesi hitleriana della massa “acefala” e “sentimentale” e tenta di individuare la presenza di punti in comune con le visioni contemporanee di altre formazioni politiche; - Scrittura e discorso: analizza la tesi hitleriana del primato della parola “detta” e cerca di contestualizzarla all’interno della nuova società di massa e dell’estetica della politica.
Capitolo VII. La lotta contro il fronte rosso
Sinossi 1. Genesi Il capitolo 7-II prosegue la storia del partito fra il 1920 e il 1921 e deve essere stato concepito alla metà del 1924, prima che Hitler decidesse di dividere il libro in due tomi. Il problema della bandiera era stato affrontato nel discorso tenuto alla rifondazione del partito il 27 febbraio 1925, mentre le parti sulle adunanze sono quasi uguali a un discorso del febbraio 1926. Il contesto è caratterizzato dalle tensioni coi gruppi nazionalpopolari del Nord e con il Nationalsozialer Volksbund (Lega nazionalsociale del popolo) di Drexler1. 2. Contenuto Dopo essersi dilungato sull’organizzazione delle adunanze di massa, Hitler decide di spiegare la peculiarità nazionalsocialista con una lunga premessa dedicata all’assemblea borghese. Il nesso logico è questo: siccome le assemblee borghesi non sanno trasmettere emozioni (si legge, non si “parla”), è probabile che la causa sia l’ordine e la quiete che impediscono l’esplosione di entusiasmo popolare. L’ordine e la quiete determinano l’assopimento del pubblico borghese e, quindi, il successo del “baculum” marxista. Recuperando l’autentico socialismo e fondendolo col nazionalismo sotto il segno della svastica antisemita, è possibile contrastare e sconfiggere la viltà degli uni e la forza degli altri. La “medicina” dei nazionalsocialisti consiste nello “spaventare” i borghesi con i loro toni, con il loro entusiasmo e – non ultimo – con i loro simboli, ma tutto “a fin di bene”. In secondo luogo bisogna “confondere” le acque: il colore rosso dei manifesti nazisti è immediatamente associato al marxismo, perché i “filistei” non comprendono la differenza tra socialismo e marxismo. La depressione borghese può essere quindi affrontata con l’omeopatia nazista, che utilizza il “baculum” patriottico per distruggere quello marxista. Stuzzicati dall’operato nazista, i marxisti sono invogliati a recarsi alle assemblee per la resa dei conti finali, ma così facendo finiscono per cadere in trappola. Hitler riconduce l’autodifesa a un problema di “immagine”. Siccome la polizia non difende i nazionalsocialisti (anzi, li “boicotta”), siccome i marxisti li ignorano (almeno inizialmente) e siccome la borghesia è confusa da tutto quel caos, ecco che il nuovo partito deve cercare di mantenere da sé l’ordine e quiete, deve garantire una rivoluzione “conservatrice”. Le assemblee naziste del 1920-21 diventano quindi una metafora di un processo di crescita: nella misura in cui il partito saprà tenere “ordine” a casa tua e, allo stesso tempo, saprà creare uno “spirito di corpo” unitario, avrà raggiunto l’obiettivo di nazionalizzare le masse. Dopo aver affrontato il tema dell’assemblea, Hitler si dilunga sulla scelta della bandiera nazionalsocialista. La bandiera gioca un ruolo fondamentale in un partito che intende trasfondere nella società i migliori valori militari. La scelta parte dalla considerazione dei diversi colori tedeschi già esistenti e sui valori che hanno incarnato. Ovviamente i colori imperiali o repubblicani vanno esclusi, perché entrambi hanno una storia negativa e rappresentano un “mezzo”, non un “fine”. La 1
KA II, p. 1217.
430 scelta finale è un decrescendo hegeliano: la “tesi” del rosso esterno (simbolo dell’ideale sociale), la “antitesi” del bianco intermedio (simbolo della purezza nazionalista) e la “sintesi” della svastica nera (simbolo dell’uomo ariano antisemita). Hitler conclude il capitolo con un caso pratico. Dopo aver dimostrato che le assemblee vanno organizzate e gestite in un certo modo e che il simbolo riveste un ruolo fondamentale, il capo nazista adduce come esempio l’organizzazione dell’adunanza al Circo Krone di inizio 1921 e la “resa dei conti” coi marxisti di fine anno. Cambia l’oratore, cambia la struttura del discorso e, improvvisamente, una massa amorfa e addormentata diventa una vera e propria onda di entusiasmo patriottico. L’obiettivo è quello di confrontare l’adunanza nazista con quella borghese e di dimostrare come il “baculum” marxista non abbia avuto la meglio sui giovani “Reparti d’assalto”. 3. Analisi Il capitolo 7-II è apparentemente un nugolo di auto-glorificazione e di auto-esaltazione del “profeta” nazionalpopolare inascoltato dal mondo esterno. Ma è retoricamente un’enorme “petizione di principio”. Il ragionamento è la solita abduzione-divinatoria basata sull’intuizione e sullo “studio”. L’esperienza “sorprendente” del fallimento borghese porta a ipotizzare una regola che riesce a spiegare bene il caso: dato che l’assemblea borghese è inefficace e le assemblee devono “parlare”, allora l’assemblea borghese non “parla”; dato che l’assemblea marxista è efficace e le assemblee devono “parlare”, ecco che l’assemblea marxista è efficace. E i nazisti cosa fanno? Innanzitutto bisogna prendere atto del problema: le assemblee borghesi si parlano addosso utilizzando un linguaggio libresco e autoreferenziale. In secondo luogo bisogna prendere atto del “baculum” marxista. Oltre alla paura borghese c’è la connivenza statale. Ma lo Stato è connivente perché è nato con la Rivoluzione del 1918. E siccome i rivoluzionari sono dei “farabutti”, allora è “normale” che l’ordine e la quiete non siano altro che una “ipocrita” pruderei del mondo borghese. Ed è “normale” che gli onesti siano messi alla berlina della “stampa” o dei “pugni proletari”. Manca tutto ciò che l’esperienza e l’intuizione sono in grado di fornire. Manca, quindi, il “profeta”. Il nazismo è il “farmaco” della Germania nazionalpopolare, perché ha saputo analizzare il problema e ha posto un freno all’abuso marxista. Il mezzo è stato il servizio d’ordine, una sorta di esercito “suppletivo” dei “veri tedeschi”. Siccome “nessun vero tedesco” permetterebbe un’interruzione assembleare e i borghesi lo consentono perché indolenti, paurosi o “rammolliti”, ecco che il problema consiste nel creare un vero servizio d’ordine. Il “materiale umano” è composto dai giovani entusiasti e nostalgici della gloria nazionale. Ma il simbolo è fondamentale: deve incarnare i valori supremi della nuova Germania. I colori rosso e bianco racchiude assai bene il concetto di socialismo nazionale, mentre la svastica rimanda all’arianesimo difeso contro l’internazionalismo marxista. Partendo da alcuni casi concreti come l’assemblea borghese iniziale e quella nazista finale, Hitler è riuscito a dimostrare che la creazione del servizio d’ordine è di fondamentale importanza per l’avvenire del movimento. Le prove, ovviamente, sono costituite dalle adunanze del 1921, dal Circo Krone sino allo Hofbräuhaus, dove i nazisti hanno “dimostrato” la bontà del loro progetto rigenerativo: rispetto del passato e volontà del movimento “quadrano” il cerchio. Ed eccoci, quindi, alla “petizione di principio”: dato che l’assemblea è scritta, allora l’assemblea è inefficace; dato che l’assemblea è parlata, allora è efficace; dato che l’assemblea è priva di servizio d’ordine, allora l’assemblea è inefficace, e così via.
431 4. Parole-chiave Adunanza borghese, Adunanza nazionalsocialista, Austria tedesca, Circolo Krone, Comunità nazionalpopolare, Ebreo, Esperienza interiore, Gruppo di lavoro, Hofbräuhaus, Insegna partitica, Internazionale comunista, Leghe nazionalpopolari tedesche, Marxismo, Problema della bandiera, Quarantotto, Reparti d’Assalto (S.A.), Rivoluzione del 1918, Sabotaggio, Servizio d’ordine, Socialdemocrazia, Socialismo, Terrorismo, Visione del Mondo. 5. Bibliografia essenziale - B. Asmuss, Republik ohne Chance? Akzeptanz und Legitimation der Weimarer Republik in der deutschen Tagespresse zwischen 1918 und 1923, Berlino, de Gruyter, 1994; - P. Bruppacher, Adolf Hitler und die Geschichte der NSDAP. Eine Chronik, parte 1: 1889-1937, Norderstedt, Books on Demand, 2014; - A. Bullock, Hitler. Studio sulla tirannide, Milano, Res Gestae, 2014; - K. Burke, Die Rhetorik in Hitlers “Mein Kampf” und andere Essays zur Strategie der Überredung, Francoforte sul Meno, Suhrkamp, 1967; - D. Capozza, C. Volpato, Le intuizioni psicosociali di Hitler. Un’analisi del “Mein Kampf”, Bologna, Patron, 2004; - W. Carr, Hitler. Studio sul rapporto tra personalità e politica, Napoli, Liguori, 1985; - G. Corni, Hitler, Bologna, Il Mulino, 2007; - Id., Breve storia del nazismo, 1920-1945, Bologna, Il Mulino, 2015; - J. Fest, Hitler. Una biografia, traduzione di F. Saba Sardi, Milano, Garzanti 2005; - G. Franz-Willing, Putsch und Verbotszeit der Hitlerbewegung, November 1923-Februar 1925, Preussisch Oldendorf, Verlag K.W. Schütz KG, 1977; - B. von Guben, Schwarz, Rot und Gold. Biographie einer Fahne, Berlino-Francoforte sul Meno, Ullstein, 1991; - L. Herbst, Il carisma di Hitler. L’invenzione di un messia tedesco, traduzione di U. Gandini, Milano, Feltrinelli, 2011; - S.F. Kellerhoff, Il libro proibito di Hitler. Storia del Mein Kampf, Milano, Rizzoli, 2016; - I. Kershaw, Hitler, vol. 1: 1889-1936, Milano, Bompiani, 2003; - B. Kruppa, Rechtsradikalismus in Berlin, 1918-1928, Berlino, Overall-Verlag, 1988; - W.C. Langer, Psicanalisi di Hitler. Rapporto segreto del tempo di guerra, Milano, Garzanti, 1975; - P. Longerich, Die braunen Bataillone. Geschichte der SA, Monaco, C.H. Beck, 1989; - Id., Hitler. Biographie, Monaco, Siedler Verlag, 2015; - U. Lohalm, Völkischer Radikalismus. Die Geschichte des Deutschvölkischen Schutz- und Trutz-Bundes, 1919-1923, Amburgo, Leibniz Verlag, 1970; - W. Maser, Adolf Hitler, Roma, Ciarrapico, 1978; - Id., Der Sturm auf die Republik. Frühgeschichte der NSDAP, Francoforte sul Meno, Ullstein, 1981; - H. Moeller, A. Wirsching, W. Ziegler (ed.), Nationalsozialismus in der Region. Beiträge zur regionalen Forschung und zum internationalen Vergleich, Monaco, Oldenbourg, 1996; - A. Musolff, Metaphor, nation and the Holocaust. The concept of the body politic, New York, Routledge, 2011; - W. Nerdinger (ed.), München und der Nationalsozialismus. Katalog des NS-Dokumentations-zentrum München, Monaco, C.H. Beck, 2015; - B. Novak, Hitler and the abductive logic. The strategy of a tyrant, Lanham (Maryland), Lexington Books, 2014; - K. Pätzold, M. Weissbecker (ed.), Geschichte der NSDAP, 1920-1945, Colonia, PayRossa, 2002; - O. Plöckinger, Geschichte eines Buches. Adolf Hitlers “Mein Kampf”, 1922-1945. Eine Veröffentlichung des Instituts für Zeitgeschichte, Monaco, Oldenbourg, 2011; - Id., Quellen und Dokumente zur Geschichte von “Mein Kampf”, 1924-1945, Stoccarda, Franz Steiner Verlag, 2016; - W. Pyta, Hitler. Der Künstler als Politiker und Feldherr. Eine Herrschaftsanalyse, Monaco, Siedler Verlag, 2015; - P.R. Range, La genesi del Mein Kampf. 1924: l’anno che cambiò la storia, Roma, Newton Compton, 2017; - R.G. Reuth, Hitler. Eine politische Biographie, Monaco, Piper, 2003; - M. Rösch, Die Münchner NSDAP 1925-1933. Eine Untersuchung zu inneren Struktur der NSDAP in der Weimarer Republik, Monaco, Oldenbourg, 2002;
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Dal 1919 al 1921 ho assistito personalmente alle cosiddette adunanze borghesi2. Esse esercitavano su di me sempre la stessa impressione che mi faceva da ragazzo il cucchiaino di olio di fegato di merluzzo. Bisogna berlo, fa molto bene, ma che sapore schifoso! Se il popolo tedesco fosse legato mani e piedi e trascinato con forza a quelle “manifestazioni” borghesi e si chiudessero le porte sino al termine dello spettacolo, forse esse avrebbero successo dopo alcuni secoli. Tuttavia devo confessare apertamente che non avrei più voglia di vivere e che non vorrei più essere tedesco. Dato che, grazie a Dio, non è successo, non mi meraviglio affatto che il popolo sano e integro eviti le “adunanze borghesi di massa” come il diavolo l’acqua santa. Li ho conosciuti quei profeti della visione del mondo borghese e non mi meraviglio affatto, anzi capisco benissimo perché non attribuiscano alcun valore alla parola parlata. All’epoca frequentai comizi dei democratici3, dei nazionalisti4 e dei membri del Zentrum bavarese5. La cosa impressionante era la compattezza omogenea degli uditori. A quelle manifestazioni partecipavano quasi sempre i membri del partito. Non c’era disciplina e l’evento assomigliava più a un club di giocatori di carte annoiati che a un’assemblea popolare all’indomani dalla sua più grande Rivoluzione. I relatori facevano di tutto per mantenere l’atmosfera soave: parlavano o, meglio, leggevano il discorso ad alta voce, nello stile di un brillante articolo di giornale o di un trattato scientifico; evitavano le espressioni forti e inserivano qua e là qualche motto di spirito professorale, dopo il quale il tavolo della presidenza doveva iniziare a ridere; senza esagerare, ma con un tono smorzato e discreto. E, in genere, succedeva al solo tavolo della presidenza! Una volta assistetti a un’adunanza nella Sala Wagner 6 di Monaco, in occasione della ricorrenza dell’anniversario della battaglia delle nazioni di Lipsia7. Un emerito 2
Le visite di Hitler alle altre adunanze sono documentabili solo in alcuni casi [KA, n. 1]. Riferimento al Partito democratico tedesco, l’ala liberale della coalizione weimariana. 4 Riferimento al Partito di centro bavarese, di orientamento liberalconservatore e monarchico. 5 Riferimento al Partito popolare bavarese, di orientamento cattolico e federalista. 6 Riferimento alla grande sala dell’Hotel Wagner nella Sonnenstrasse di Monaco. 7 Battaglia combattuta a Lipsia nel 1813 e che segnò il crollo del sistema napoleonico. 3
433 anziano professore di qualche università tenne o lesse il discorso commemorativo. Sul palco sedeva la presidenza: a sinistra c’era un monocolo, a destra ce n’era un altro e fra i due uno senza8. Tutti e tre gli uomini erano in redingote, cosicché davano l’impressione di un tribunale in attesa di un’esecuzione capitale o di un battesimo solenne; in ogni caso di una cerimonia religiosa. Il “discorso”, che stampato sarebbe stato piuttosto interessante, fece un brutto effetto. Già dopo tre quarti d’ora, l’assemblea sonnecchiava in uno stato ipnotico, interrotto solo dall’uscita furtiva di omuncoli o donnette, dal chiacchiericcio dei camerieri o dagli sbadigli crescenti degli uditori. Tre lavoratori, presenti per curiosità o su incarico, dietro ai quali mi trovavo io, si guardavano di tanto in tanto con un malcelato sogghigno e si spinsero a gomitate per lasciare la sala in silenzio. Non volevano disturbare: non ce n’era bisogno.
Figura 1 Vecchia cartolina raffigurante l’Hotel Wagner di Monaco [fonte: ak-ansichtskarten.de]
L’assemblea poi volse al termine. Dopo che il professore ormai rauco ebbe terminato il suo discorso, il presidente in mezzo ai due monocoli si alzò e disse ai “fratelli” e alle “sorelle” presenti quanto fosse grato e quanto dovessero esserlo tutti per la straordinaria conferenza tenuta dal professor Tizio. L’assemblea era stata piacevole, profonda e meticolosa, un’“esperienza interiore”9 nel vero senso del termine, un’“orazione”. Quel momento sacrale sarebbe stato profanato se qualcuno avesse voluto discutere una conferenza così chiara. Il presidente era certo, quindi, di interpretare il pensiero di tutti i presenti rinunciando al dibattito e pregando i convenuti di alzarsi e di gridare compatti: “Noi siamo un sol popolo di fratelli ecc. ecc.”10 Alla fine sollecitò il canto dell’inno tedesco11. 8 Possibile allusione alla serata organizzata dal gruppo locale del Frontkriegerbund (Unione dei reduci) il 18 ottobre 1918 [KA, n. 9]. 9 Sul concetto di “esperienza interiore” vedi capitoli 1-I e 10-I. 10 Allusione ironica al giuramento di Rütli citato da Schiller nel suo Gugliemo Tell (1804).
434 Tutti cantammo con lui. Poi mi sembrò che, alla seconda strofa, le voci fossero meno numerose e che crescessero al solo ritornello, e alla terza si rafforzò la sensazione che non tutti conoscessero il testo dell’inno nazionale. Ma che cosa importa se l’inno s’innalza verso il cielo da fervide anime nazionali tedesche? Poi l’assemblea si sciolse, cioè ognuno si affrettò ad andare in birreria, al caffè e a prendere un po’ d’aria fresca. Sissignore, all’aria aperta, fuori da lì! Anch’io non vedevo l’ora. E questa era l’esaltazione dell’eroica battaglia condotta da centinaia di migliaia di prussiani e di tedeschi? Che vergogna! Pfui! Pfui! Certo, il governo vuole che siano assemblee “pacifiche”. Il ministro per l’ordine e la quiete non ha nulla da temere: è certo che le ondate d’entusiasmo non strariperanno dai limiti del decoro borghese12; e che gli uditori, nel fervore dell’ebbrezza, non si precipiteranno fuori della sala per marciare in fila per quattro lungo le vie della città cantando Onore alla Germania13, procurando noie alla polizia stanca, anziché andare al caffè o all’osteria. No, non si può che essere soddisfatti di quei concittadini. Invece le adunanze nazionalsocialiste non erano affatto “pacifiche”. Le ondate di due visioni del mondo contrapposte si scontravano una contro l’altra, e le assemblee non si concludevano con l’insipida litania dell’inno patriottico, ma con l’esplosione fanatica di passione popolare e nazionale. Fin da subito fu importante introdurre nelle nostre assemblee una ferrea disciplina e garantire l’autorità ai dirigenti assembleari. Ciò che noi dicevamo non era la flebile chiacchiera di un “conferenziere” borghese, ma, per forma e contenuto, erano parole adatte a incitare l’avversario alla replica. E di avversari ce n’erano eccome alle nostre adunanze! Spesso giungevano in folti gruppi, tra loro c’erano alcuni agitatori e sui loro volti era scolpita la convinzione: oggi la faremo finita con voi!14 Talora i nostri nemici dalla bandiera rossa li portavano letteralmente a camionate, col preciso compito di disperderci e di interrompere la nostra manifestazione. Spesso tutto si decideva sul filo di lana e solo la spregiudicata energia della nostra dirigenza e la brutale incoscienza dei nostri agenti di sala riuscivano a sventare i propositi dell’avversario. Gli avversari avevano ogni ragione di essere irritati. Già il color rosso dei nostri manifesti li attirava nelle sale delle nostre assemblee. La media borghesia era scioccata dal fatto anche noi fossimo ricorsi al rosso dei Il testo del Lied “Deutschland” fu redatto nel 1841 dallo scrittore August Heinrich Hoffmann von Fallersleben (1798-1874) sulla base di una melodia di Franz Joseph Haydn. Nell’agosto 1922 il presidente Ebert ne fece l’inno nazionale tedesco. 12 Probabile allusione al presidente dell’interno bavarese Karl Stützel, che nel marzo 1925 emise un Redeverbot contro di Hitler. 13 Popolare canzone militare tedesca. Il testo fu redatto dal poeta bavarese Ludwig Coelestin Bauer (18321910) nel 1859 su melodia di Henry Hugo Pierson (1815-1873). 14 La sinistra di Monaco si interessò poco del nazionalsocialismo sino all’estate del 1920. I principali conflitti erano interni al campo delle destre, come col Bayernbund (Lega bavarese) di Otto Ballerstedt. I rapporti di polizia mostrano un Hitler più intento a mediare che ad aizzare gli animi [KA, n. 19].
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435 bolscevichi e lo considerava un colore ambiguo. Gli spiriti nazionaltedeschi si sussurravano a vicenda il sospetto che noi fossimo una variante del marxismo, forse solo marxisti o, meglio, socialisti mascherati. Perché la differenza tra socialismo e marxismo non l’hanno ancora capita quelle menti sottili15. Quando scoprirono che alle nostre assemblee non salutavamo i convenuti con “signore e signori”, ma solo con “membri della comunità nazionalpopolare”16 o “compagni” e fra di noi parlavamo solo di compagni di partito, allora lo spettro marxista17 sembrò rivelarsi a molti dei nostri avversari. Quante volte ci torcemmo dalle risate per quei sempliciotti conigli borghesi, di fronte alle loro spiritose congetture sulla nostra origine, sulle nostre intenzioni e sui nostri obiettivi. Abbiamo scelto il colore rosso per i nostri manifesti dopo un’attenta riflessione, per stuzzicare la sinistra, per indignarla e per indurla a partecipare alle nostre assemblee, anche solo per sabotarle, affinché potessimo parlare a quella gente. Era interessante osservare l’impotenza e la confusione tattica dei nostri avversari. Inizialmente dissero ai loro seguaci di ignorarci e di evitare le nostre assemblee. In generale la base obbedì ai capi. Ma poiché, nel corso del tempo, alcuni venivano a sentirci, il loro numero andava lentamente crescendo e fu evidente l’impressione esercitata dalla nostra dottrina, allora i dirigenti avversari si innervosirono, si preoccuparono e si convinsero che non potevano stare con le mani in mano: bisognava farla finita col terrore. Così invitarono i “proletari dotati di coscienza di classe” a recarsi in massa alle nostre assemblee per colpire gli “agitatori monarchici e reazionari” coi loro pugni proletari. All’epoca le nostre adunanze erano colme di lavoratori già tre quarti d’ora prima dell’inizio. Sembravano un barile di polvere da sparo già munito di miccia accesa, pronto a esplodere da un momento all’altro. Ma le cose andarono diversamente. Gli uomini entravano in sala da nostri nemici e uscivano, se non già come nostri seguaci, quantomeno come critici e dubbiosi della bontà della loro dottrina. Col tempo succedeva che, dopo la mia conferenza di tre ore, seguaci e oppositori si fondevano in un’unica massa entusiasta. Allora non era più possibile sabotarla. I dirigenti marxisti, che cominciarono a temerci, si rivolsero a coloro che avevano criticato la loro tattica e che ora, con una certa parvenza di ragione, sostenevano che l’unica cosa giusta da fare era vietare al lavoratore di assistere alle nostre assemblee. I lavoratori non vennero più oppure in numero assai esiguo. Ma, dopo un po’ di tempo, il gioco ricominciò. Il divieto non fu osservato, i compagni giunsero sempre più numerosi e, alla fine, vinsero i sostenitori della tattica radicale: bisognava farci saltare in aria. Quando, dopo due, tre, spesso anche otto o dieci assemblee fu chiaro che il sabotaggio era più facile a dirsi che a farsi e che ogni nostra assemblea indeboliva le
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Probabile riferimento alla critica verso il termine socialismo mossa da alcuni nazionalpopolari del Nord, come von Graefe, cofondatore del Gruppo di lavoro nazionalpopolare tedesco di Monaco e poi del Partito nazionalpopolare tedesco della libertà, e il pubblicista zu Reventlow, cofondatore dello stesso partito. 16 Volksgenossen. 17 Possibile allusione all’apertura del Manifesto del Partito comunista di Marx ed Engels.
436 truppe rosse, tornò in auge un’altra espressione: “Proletari, compagni e compagne! Evitate le assemblee degli agitatori nazionalisti!” Del resto, la stessa tattica esitante fu adottata anche dalla stampa rossa. Inizialmente essa cercò di ignorarci, poi si convinse dell’inutilità di quella strategia e ricorse al mezzo opposto. Ci “menzionavano” ogni giorno, per lo più con l’intento di chiarire al lavoratore l’assoluta inutilità della nostra esistenza. Ma, dopo un po’ di tempo, quei signori dovettero accorgersi che non solo non ci danneggiavano, ma che al contrario ci favorivano nella misura in cui molti si chiedevano perché si dedicassero così tante parole a un fenomeno irrisorio. La gente divenne curiosa. I marxisti iniziarono ad agitarsi e a trattarci come delinquenti, come nemici dell’umanità. Articolo dopo articolo fu spiegato e nuovamente dimostrato il nostro tradimento. Si inventarono da cima a fondo storie scandalistiche ai nostri danni18. Solo che, dopo breve tempo, si resero conto dall’inefficacia di quegli attacchi; che, in fondo, servivano solo a concentrare l’attenzione generale su di noi. Ho già detto ciò che penso: che ci deridano o ci insultino pure, che ci dipingano come buffoni o come traditori, l’importante è che ci nominino, che si occupino di noi e che ci dipingano agli occhi dei lavoratori come gli unici avversari degni di nota. Un bel giorno dimostreremo alla masnada ebraica ciò che siamo e ciò che vogliamo. Se allora non subivamo direttamente sabotaggi delle nostre assemblee, ciò si doveva anche all’incredibile vigliaccheria dei dirigenti avversari. Nei momenti critici mandavano avanti gli sbarbatelli, mentre quei signori attendevano l’esito del sabotaggio fuori della sala. Noi eravamo quasi sempre ben informati sulle intenzioni dei nostri avversari. Non solo perché, per ragioni di opportunità, infiltravamo molti nostri compagni nelle formazioni rosse, ma anche perché i dirigenti rossi erano logorroici, come spesso succede fra i tedeschi19. Non appena escogitavano un piano, essi non riuscivano a star zitti e starnazzavano come galline prima di aver fatto l’uovo. Così facevamo sempre grandi preparativi, senza che i dirigenti rossi non avessero alcun presentimento circa la loro imminente espulsione. All’epoca dovevamo occuparci noi stessi della protezione delle nostre adunanze. Non potevamo contare sull’aiuto delle autorità. Anzi, solitamente, la polizia tendeva a parteggiare per i provocatori. L’unico risultato dell’intervento delle autorità (cioè della polizia) era la proibizione dell’assemblea e, quindi, il suo scioglimento. A questo mirava l’avversario disturbatore. In generale il comportamento della polizia era una mostruosa infrazione dello stato di diritto. Quando, infatti, per via di qualche minaccia, veniva a sapere che esisteva il pericolo che un’assemblea fosse disturbata, l’autorità non procedeva all’arresto degli autori delle minacce, ma proibiva semplicemente l’adunanza. Così facendo, la polizia credeva di dar prova di saggezza: le chiamava “misure preventive per impedire la trasgressione della legge”. Il “Münchener Post”, il primo quotidiano a dedicare spazio al Partito nazionalsocialista dal maggio 1920, si concentrava soprattutto sull’azione violenta del Partito nazista, sulla rozzezza della sua visione del mondo e sulle divisioni interne al fronte delle destre [KA, n. 35]. 19 Sull’interpretazione hitleriana di “discrezione” come virtù rara e “virile” vedi capitolo 2-II. 18
437 Quindi il bandito risoluto ha sempre la possibilità di impedire all’uomo perbene la sua attività o la sua azione politica. In nome dell’ordine e della quiete, l’autorità statale si inchina alla volontà del bandito e invita la persona perbene a non provocarlo. Quando i nazionalsocialisti intendevano tenere le loro assemblee e i sindacati dichiaravano che i loro membri si sarebbero opposti, la polizia non metteva affatto sotto chiave quei giovanotti ricattatori, ma proibiva semplicemente la nostra assemblea. Anzi i difensori della legge ebbero perfino l’impudenza di comunicarci per iscritto il divieto20. Se volevamo evitare il divieto di adunanza, dovevamo fare in modo che ogni tentativo di disturbo fosse soffocato sul nascere. Inoltre dovevamo tener conto di un altro aspetto: ogni assemblea protetta esclusivamente dalla polizia scredita l’organizzatore agli occhi della grande massa. Assemblee, il cui svolgimento è garantito solo da un grande dispiegamento di forze dell’ordine, non hanno alcun effetto propagandistico, perché il presupposto per la conquista degli strati inferiori del popolo è sempre una forza visibile e presente. Come un uomo coraggioso conquisterà più facilmente il cuore di una donna rispetto a uno vile, così un movimento eroico conquisterà il cuore di un popolo senza la protezione della polizia. Per questo motivo, il giovane partito dovette assumersi la responsabilità della propria esistenza, difendersi da sé, piegare e sconfiggere da sé il terrore nemico. La difesa dell’adunanza avrebbe potuto essere condotta in due modi: 1. Una direzione energica e psicologicamente adeguata. Quando, all’epoca, tenevamo un’assemblea, noi nazionalsocialisti e solo noi ne eravamo i signori. E abbiamo sempre insistito sul nostro diritto sovrano, in ogni occasione. I nostri avversari sapevano molto bene che i provocatori sarebbe stati espulsi senza pietà, anche se fossimo stati dodici contro cinquecento. Nelle adunate di allora, specialmente fuori Monaco, per quindici o sedici nazionalsocialisti c’erano dai cinquecento agli ottocento avversari21. Ma non avremmo tollerato alcuna provocazione e i convenuti sapevano bene che avremmo venduto cara la pelle piuttosto che capitolare. Accadeva spesso che un manipolo di nostri compagni la spuntasse eroicamente contro l’assalto di un gruppo di rossi chiassosi e brutali, nettamente superiore per numero. Certo, in quelle circostanze i nostri quindici o venti uomini sarebbero stati sopraffatti, ma i nemici sapevano anche che, prima che ciò accadesse, i nostri avrebbero rotto la testa a un numero doppio o triplo di loro, un rischio che non correvano molto volentieri. Abbiamo cercato di studiare e abbiamo studiato la tecnica assembleare marxista e borghese.
20
Hitler non menziona la protezione ottenuta dalla polizia monacense per mano di Ernst Pöhner sino alle sue dimissioni nel settembre 1921 [KA, n. 42]. 21 I gruppi locali fuori Monaco erano pochi e poco numerosi. Dopo la creazione del gruppo di Rosenheim nell’aprile 1920, in agosto fu la volta di Starnberg. Alla fine di luglio 1921 esistevano nove gruppi locali, tutti concentrati nella Baviera meridionale. La Svevia e la Franconia erano terreno privilegiato del Partito socialista tedesco di Streicher [KA, n. 43].
438 I marxisti avevano da sempre una ferrea disciplina, ragion per cui la borghesia non aveva il coraggio di sabotare un’assemblea marxista. I rossi, invece, si occupavano sempre di sabotare quelle borghesi. Non solo avevano acquisito una certa dimestichezza nell’arte del sabotaggio, ma erano giunti al punto di indicare, in certe zone del paese, un’assemblea non marxista come una provocazione antiproletaria; specialmente se i dirigenti fiutavano che all’assemblea sarebbero stati enumerati i loro peccati e che sarebbe stata svelata l’infamia della loro attività menzognera. Quindi, non appena si annunciava la convocazione di un’assemblea pericolosa, la stampa rossa sollevava grida fragorose. Non di rado i principali dileggiatori della legge si rivolgevano alle autorità con l’insistente e minacciosa preghiera di vietare immediatamente quella “provocazione del proletariato”, per evitare il peggio. Sceglievano il loro linguaggio a seconda della dabbenaggine dei funzionari di turno, e ne avevano tutte le ragioni. Ma se per caso si trovavano di fronte non a una marionetta, ma a un vero funzionario tedesco22 che respingeva la loro sfacciata pretesa, ecco il ben noto invito a non tollerare quella “provocazione del proletariato”, a partecipare in massa a quell’assemblea per “sistemare i vergognosi maneggi delle marionette borghesi con l’aiuto del calloso pugno proletario”. E bisogna aver assistito a un’assemblea borghese per vedere l’angoscia e la paura dipinte sui volti della sua presidenza! Spesso un’assemblea era sciolta subito dopo alcune minacce. Ma il timore era così grande che, invece che alle 8, spesso l’adunanza iniziava alle 8:15, se non alle 9. Il presidente si sforzava di far credere, con numerosi complimenti rivolti ai “signori dell’opposizione” presenti, quanto tutti si rallegrassero intimamente (gran bella ruffianeria!) della partecipazione all’assemblea di uomini che non militavano nelle loro file, perché solo il chiarimento reciproco (garantito solennemente per principio) avrebbe avvicinato le opposte tendenze, avrebbe destato la reciproca comprensione e avrebbe gettato i ponti fra gli avversari. Poi assicurava anche che gli organizzatori dell’evento non avessero alcuna attenzione di convertire nessuno. Non solo ognuno deve vivere a suo modo23, ma bisogna concedere la stessa possibilità anche agli altri. Quindi, il presidente di turno pregava di lasciar esporre al relatore le sue argomentazioni, che non sarebbero state lunghe, e di non dare al mondo lo spettacolo di lotte intestine fra i tedeschi… Brr. Certo, il popolo fraterno della sinistra non capiva quelle parole. Non appena aveva iniziato a parlare, il conferenziere era costretto a zittirsi in mezzo ai più spaventosi insulti. Non di rado si aveva l’impressione che fosse lieto di aver abbreviato la tortuosa procedura. Quei “toreri” assembleari borghesi lasciavano l’arena fra un baccano enorme, a meno che, come accadeva spesso, non ruzzolassero per le scale con le teste ammaccate24. Per i marxisti fu dunque una novità quando noi nazionalsocialisti tenemmo le prime assemblee. Giunsero con la convinzione di ripetere il giochetto riuscito in 22
Riferimento a Wilhelm Frick e a Ernst Pöhner. Vedi capitoli 12-I e 9-II. Jeder soll nach seiner Fasson selig werden: questa frase molto citata risale a un’annotazione scritta di Federico il Grande del 22 giugno 1740 ed esprime la sua idea di tolleranza religiosa. 24 Otto Ballerstedt (1887-1934) fu aggredito dagli attivisti nazisti all’assemblea del Bayernbund del 14 settembre 1921. Il 12 gennaio 1922 Hitler fu condannato alla pena detentiva di tre mesi e a una multa di 1000 marchi oro. Alla fine scontò circa un mese di prigione e fu rilasciato a fine luglio.
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439 passato. “Oggi la facciamo finita”. Più di uno, entrando nei locali della nostra assemblea, gridava quel motto ai suoi compagni, per poi trovarsi, prima della seconda interruzione, istantaneamente in mezzo alla strada. Innanzitutto la nostra conduzione assembleare era diversa. Non supplicavamo insistentemente i presenti di volerci ascoltare, non concedevamo piena libertà di contradditorio, ma chiarivamo immediatamente che eravamo noi i padroni dell’assemblea, che eravamo a casa nostra e che chiunque si fosse azzardato a interromperla, sarebbe stato ricacciato da dove era venuto. Inoltre non eravamo responsabili dei disturbatori. Alle giuste condizioni, avremmo concesso lo svolgimento di una discussione. Altrimenti nessuno avrebbe avuto la parola (il conferenziere, il membro del partito e a chiunque altro). Gli avversari si stupivano delle nostre regole. Inoltre noi disponevamo di una guardia di sala organizzata in modo irreprensibile. Nei partiti borghesi, la guardia di sala – o meglio servizio d’ordine – era solitamente in mano a signori che credevano che la venerabile età conferisse loro automaticamente l’autorità e il rispetto. Poiché le masse aizzate dai marxisti se ne infischiavano dell’età, dell’autorità o del rispetto, la guardia di sala borghese era per così dire soppressa. Sin dal principio della nostra attività assembleare, io organizzai la guardia di sala in forma di servizio d’ordine composto in larga parte da giovani25. In parte erano commilitoni che conoscevo dal tempo di guerra; in parte giovani membri del partito di recente acquisizione, che erano stati subito informati e addestrati al fatto che il terrore si spezza solo col terrore, che il successo arride agli audaci; che noi combattiamo per un’idea importante, così grande e così sublime da meritare di essere difesa e protetta sino all’ultima goccia di sangue. Fu insegnato loro che, quando la ragione fallisce e la prevale violenza, la migliore difesa è l’attacco; che la nostra truppa del servizio d’ordine deve essere proceduta dalla reputazione di non essere un club di discussione, ma una comunità battagliera pronta a tutto. La nostra gioventù provava nostalgia per quelle parole d’ordine!26 La nostra generazione di reduci era delusa e indignata, nauseata e disgustata per l’infingardaggine borghese. E molti capirono che la Rivoluzione si era realizzata solo grazie alla disastrosa classe dirigente borghese. Anche allora avevamo i pugni per difendere il popolo tedesco, mancavano solo le teste per utilizzarli. Gli occhi dei mie ragazzi si illuminavano non appena spiegavo loro l’urgenza della nostra missione, quando assicuravo loro che la saggezza è inutile se priva della forza che la difenda: la mite dèa della Pace può passeggiare solo a fianco del dio della Guerra. Ogni grande azione della Pace ha bisogno dell’aiuto e della protezione della forza. L’idea della leva obbligatoria sorgeva in loro in forma così vitale! Non nel senso sclerotizzato dei vecchi fossili burocratici, al servizio della morta autorità di uno Stato defunto, ma nella viva 25 Secondo i rapporti di polizia, nell’autunno 1920 il Partito nazionalsocialista creò un “settore ginnico e sportivo” a scopi ricreativi. I due settori, che si divisero nel 1921, furono i precursori delle Sturmabteilungen (Reparti d’assalto), create nell’agosto di quell’anno [KA, n. 59]. 26 La Kriegsjugendgeneration (generazione della “gioventù di guerra”) fu una delle principali sostenitrici della dittatura nazista. Bibliografia: M. Wildt, Generation des Unbedingten, Amburgo, Hamburger Edition, 2003.
440 consapevolezza del dovere di difendere l’esistenza del proprio popolo con la propria vita, ora, sempre e in ogni luogo. E i giovani si offrivano volontari! Come uno sciame di calabroni, i ragazzi si scagliavano sui molestatori delle nostre assemblee, indifferenti alla loro preponderanza numerica che poteva essere schiacciante, indifferenti alle ferite o al sacrificio cruento, pervasi dalla volontà di spianare la via alla sacra missione del nostro movimento. Già in piena estate del 1920 l’organizzazione del servizio d’ordine assunse gradualmente forme ben precise, per articolarsi all’inizio del 1921 in centurie ripartite in gruppi. E ciò era urgentemente necessario, perché, nel frattempo, l’attività assembleare era aumentata a dismisura. Ci incontravamo spesso nel salone dello Hofbräuhaus di Monaco, ancor più spesso nei saloni più grandi della città. Nell’autunno-inverno del 1920-21 il salone del Bürgerbräufest e del Kindl-Keller di Monaco ospitarono assemblee di massa sempre più imponenti, e lo spettacolo era sempre lo stesso: le manifestazioni del Partito nazionalsocialista richiamavano tanta folla che la polizia doveva impedire l’accesso a una parte delle persone accorse per via del sovraffollamento. L’organizzazione delle nostre truppe d’ordine richiese il chiarimento di un problema molto importante. Il movimento non possedeva all’epoca alcuna insegna partitica, né una bandiera. La mancanza di simboli non era dannosa solo per il presente, ma era anche intollerabile per il futuro. Gli svantaggi consistevano soprattutto nel fatto che ai membri del partito mancava un segno distintivo esteriore della loro comune appartenenza, ma in futuro sarebbe stato intollerabile dover fare a meno di un segno che avesse un carattere simbolico e che, come tale, potesse essere opposto all’Internazionale. Sin da ragazzo io ebbi spesso l’occasione di riconoscere e di comprendere istintivamente l’importanza psicologica del simbolo internazionalista. Dopo la guerra, assistetti a una manifestazione marxista di massa a Berlino davanti al Castello Reale27 e al Lustgarten28. Un oceano di bandiere rosse, di nastri rossi e di fiori rossi creavano un grande effetto scenografico per una manifestazione di circa centoventimila persone. Io stesso potei avvertire e comprendere con quanta facilità la gente soggiacesse all’incantesimo suggestivo di tale spettacolo grandioso29. I partiti borghesi, che non avevano o non rappresentavano alcuna visione del mondo, non avevano una bandiera. Erano formata da “patrioti” e adottavano quindi i colori della Germania. Se si fosse trattato del simbolo di una specifica visione del mondo, avremmo potuto pensare che i padroni dello Stato scorgessero in quella bandiera la difesa della loro visione del mondo, dato che, grazie a loro, era la bandiera dello Stato. Ma le cose non stavano proprio così.
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Sul Castello di Berlino vedi capitolo 10-I. Piazza nel centro di Berlino, sull’Isola della Sprea. 29 Possibile allusione al corteo funebre berlinese del 20 novembre 1918, organizzato per commemorare otto morti della Rivoluzione novembrina, al quale Hitler assistette prima di rientrare a Monaco. 28
441 L’Impero fu edificato senza il concorso della borghesia tedesca e le bandiere sorsero dal ventre della guerra. Quindi si trattava solo di una bandiera statale e non indicava una particolare missione ideologica. Solo in una landa tedesca esisteva qualcosa di simile a una bandiera di partito borghese: l’Austria tedesca. Una parte della locale borghesia nazionalista aveva scelto come propria bandiera i colori del Quarantotto (nero-rosso-oro)30, aveva creato un simbolo che, per quanto privo di significato ideologico, assunse tuttavia un carattere rivoluzionario nella politica statale. All’epoca i nemici più virulenti della bandiera nero-rossooro – oggi non bisogna mai dimenticarselo – erano i socialdemocratici e i cristiano-sociali, cioè i clericali31. Essi insultarono, infangarono e insudiciarono quei colori, così come più tardi, nel 1918, avrebbero trascinato nel fango la bandiera nero-bianco-rossa. Certo, il nerorosso-oro dei partiti tedeschi della vecchia Austria erano i colori del Quarantotto, quindi di un anno che, per quanto fantastico, fu rappresentato solo da alcune dalle migliori anime tedesche, anche se dietro le quinte vi era la regia occulta dell’ebreo. Quindi il tradimento della patria e la svendita spudorata del popolo e del patrimonio tedeschi resero così simpatica la bandiera al marxismo e al Zentrum che oggi la venerano come sacrosanta e ne difendono i colori un tempo vilipesi.
Figura 2 Bandiera del Reichsbanner Schwarz-Rot-Gold [fonte: wikipedia.de]
Così, fino al 1920 non si oppose, di fatto, al marxismo nessuna bandiera che potesse identificare il polo ideologicamente contrario. Dopo la guerra, anche se i migliori partiti della borghesia tedesca non intendevano più assumere come proprio simbolo la bandiera nero-rosso-oro ora ritrovata, nessun programma era in grado di contrastare il nuovo corso. Nel migliore dei casi, infatti, proposero la ricostruzione del vecchio Impero. A questo si deve la risurrezione della bandiera nero-bianco-rossa del vecchio Impero quale simbolo dei nostri partiti borghesi nazionali. È evidente che il simbolo di una situazione che poteva essere superata dal marxismo in circostanze poco gloriose, mal si adattava a essere quello sotto cui il marxismo avrebbe dovuto essere 30
Il tricolore nero-rosso-oro fu utilizzato per la prima volta durante il 1848. La sua origine deriva dall’uniforme dei Corpi franchi di von Lützow (1782-1834), che lottarono contro i francesi dal 1808. 31 Il tricolore nero-rosso-oro era in Austria-Ungheria soprattutto un simbolo nazionalista, come dimostra l’Alldeutsche Vereinigung di Schönener.
442 distrutto. Per quanto siano colori particolarmente graditi per la loro giovane e fresca combinazione a ogni buon tedesco che ha lottato e ha visto il sacrificio di così tanti connazionali, la bandiera nerobianco-rossa non può fungere da simbolo di una lotta futura. A differenza dai politici borghesi, io ho sempre sostenuto che per la nazione tedesca sia stata una vera fortuna aver perso la vecchia bandiera. Non possiamo ignorare ciò che la Repubblica ha fatto sotto quei colori. Ma dovremmo ringraziare dal più profondo del cuore il destino per aver risparmiato alla più gloriosa bandiera di tutti i tempi di fungere da lenzuolo della prostituzione più disonorevole. La Germania di oggi, che vende e svende i suoi cittadini, non avrebbe mai potuto adottare la prestigiosa ed eroica bandiera nero-bianco-rossa. Finché si protrarrà l’onta novembrina, che conservi pure il suo involucro esteriore e non si rubi quello di un passato più onesto! I nostri politicanti borghesi dovrebbero essere consci del fatto che chi oggi desidera la bandiera nero-bianco-rossa commette un furto a danno del passato. La bandiera di un tempo si adattava assai bene al vecchio Impero, così come, grazie a Dio, la Repubblica scelse la bandiera più consona a se stessa. Per questo motivo noi nazionalsocialisti non avremmo potuto considerare l’innalzamento della vecchia bandiera quale simbolo espressivo della nostra attività. Noi non vogliamo risuscitare il vecchio Impero crollato per i propri errori, ma vogliamo costruire un nuovo Stato. Il movimento che oggi combatte il marxismo deve recare nella sua bandiera il simbolo del nuovo Stato. Fummo quindi molto presi dal problema della nuova bandiera. Ci giunsero proposte da ogni parte, per lo più buone intenzioni di nessuna utilità. La nuova bandiera doveva essere non solo un simbolo della nostra lotta, ma suscitare anche un grande effetto nelle affissioni pubblicitarie32. Chi ha molto a che fare con la massa deve fare molta attenzione a ogni piccolo dettaglio. Un’insegna di grande effetto può in moltissimi casi spingere qualcuno a interessarsi di un movimento. Per questo motivo noi dovemmo declinare tutte le proposte che, per mezzo di una bandiera bianca, identificavano il nostro movimento con il vecchio Stato o, per essere più precisi, con quei flaccidi partiti, il cui unico scopo politico è il ripristino delle condizioni passate. Inoltre il bianco non è un colore entusiasmante. Si adatta alle caste associazioni di fanciulle, non certo ai movimenti travolgenti di un’epoca rivoluzionaria. Fu proposto anche il nero: era sì adatto alla nostra situazione di lutto, ma non conteneva alcuna chiara rappresentazione della volontà del nostro movimento. Anche il nero non appare sufficientemente coinvolgente. Non fu preso in considerazione, malgrado lo straordinario effetto estetico, il bianco-azzurro, perché erano i colori di uno Stato tedesco particolare e di una costruzione particolaristica poco apprezzata33. Del resto anche quei colori non
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Friedrich Krohn, membro della Società Thule di Sternberg, ammise più tardi di aver partecipato all’ideazione della bandiera del partito [KA, n. 85]. 33 Riferimento al Libero Stato di Baviera proclamato da Kurt Eisner l’8 novembre 1918.
443 contenevano alcun riferimento particolare al nostro movimento. Lo stesso valeva per il bianco-nero34. Il nero-rosso-oro non fu preso in considerazione. Né il nero-bianco-rosso, per i motivi sopra citati. Almeno, non nel modo in cui erano stati disposti finora. In effetti quella combinazione di colori è di gran lunga la migliore. È l’accordo più luminoso che esista. Io stesso fui sempre favorevole alla conservazione dei vecchi colori, non solo perché erano quelli più sacri nella mia esperienza bellica, ma anche perché il loro effetto visivo si confaceva al mio gusto. Tuttavia io dovetti respingere senza eccezioni35 gli innumerevoli progetti che mi giunsero dai circoli del giovane movimento, la maggior parte dei quali inserivano la svastica nella vecchia bandiera. Io stesso – come capo – non volli rendere subito noto il mio progetto, perché era possibile che qualcuno ne avesse uno altrettanto buono, se non migliore. Un dentista di Starnberg36 mandò una bozza nient’affatto male, molto simile alla mia, che aveva l’unico difetto di aver inserito la svastica cogli uncini ricurvi in un disco bianco.
Figura 3 Emblema della Società Thule di Monaco (1919) [fonte: peter-diem.at]
Dopo innumerevoli tentativi, io stesso misi a punto la forma definitiva: una bandiera di panno rosso con un disco bianco e al suo centro una svastica nera. Dopo grandi fatiche trovai pure un rapporto preciso tra la dimensione della bandiera e quella del disco bianco, così come tra la forma e il diametro della svastica. 34
Si tratta dei tradizionali colori prussiani, rimasti immutati dopo la fine della monarchia, anche nella costituzione del Libero Stato di Prussia (novembre 1920). 35 La svastica, accanto al martello, divenne da inizio Novecento uno dei simboli più importanti del movimento nazionalpopolare. Dopo la guerra divenne onnipresente nel linguaggio visivo della Società Thule e del Deutschvölkischer Schutz- und Trutzbund. Hitler venne a contatto con la svastica negli anni viennesi tramite la Armanenschaft (Gli Armani) di Guido von List (1848-1919). Bibliografia: E. Weeber, Das Hakenkreuz. Geschichte und Bedeutungswandel eines Symbols, Francoforte sul Meno, Peter Lang, 2007. 36 Riferimento a Krohn.
444 E così è stato. Mi furono subito proposti bracciali per i membri delle squadre del servizio d’ordine: una fascia rossa, sui cui si trovava un disco bianco con una svastica nera. Anche il distintivo del partito fu progetto secondo le stesse linee guida: un disco bianco in campo rosso e, nel bel mezzo, la svastica. Un orefice di Monaco, Füss, fornì il primo abbozzo utilizzabile, che poi fu adottato37. In piena estate 1920 la nuova bandiera fu presentata al pubblico per la prima volta. Si adattava ottimamente al nostro giovane movimento. Era nuova e fresca come lui. Nessuno l’aveva mai vista prima: sembrava una fiaccola ardente. Noi tutti provammo una gioia quasi infantile quando una compagna di partito confezionò e consegnò la nuova bandiera. Già pochi mesi dopo ne avevamo a Monaco una mezza dozzina e le nostre truppe del servizio d’ordine, che si espandevano a macchia d’olio, contribuirono a diffondere il nuovo simbolo del movimento. E che simbolo! Non solo perché i colori, da noi fervidamente amati e che un tempo conferirono così tanto lustro al popolo tedesco, testimoniano il nostro profondo rispetto per il passato, ma anche perché personificano al meglio la volontà del nostro movimento. In qualità di socialisti nazionali, noi riconosciamo nella nostra bandiera il nostro programma. Nel rosso ravvisiamo l’idea sociale del nostro movimento, nel bianco l’idea nazionalista, nella svastica la missione di combattere per la vittoria dell’uomo ariano e per il trionfo dell’idea di lavoro creativo, che fu e sarà eternamente antisemitico38. Due anni più tardi, quando le truppe del servizio d’ordine si erano trasformate in reparti d’assalto comprendenti molte migliaia di uomini, parve necessario dare all’organizzazione difensiva della giovane visione del mondo un particolare simbolo di battaglia: lo stendardo. Io stesso lo abbozzai e poi lo feci realizzare da un nostro vecchio e fedele membro di partito, l’orefice Gahr39. Da allora lo stendardo è l’emblema e l’insegna della lotta nazionalsocialista.
Figura 4 Le bandiere ufficiali della Germania: il nero-rosso-oro (fino al 1933), il nero-bianco-rosso (1933-1935), la svastica (1935-1945)
L’orafo Josef Füss fu prima membro del Deutschvölkischer Schutz- und Trutzbund e fu poi ingaggiato nel servizio d’ordine nazista. 38 Sul concetto di lavoro fisico “creativo” vedi capitolo 11-I. 39 Otto Michael Gahr (1876-1932), orafo di Monaco.
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445 L’attività assembleare, che andò intensificandosi nel corso del 1920, ci costrinse a tenere anche due adunanze alla settimana. La gente si assiepava stupita di fronte ai nostri manifesti. Le più grandi sale della città erano sempre gremite e decine di migliaia di marxisti traviati ritrovarono la via della loro comunità nazionalpopolare40, diventando combattenti per una futura Germania libera41. L’opinione pubblica di Monaco ci aveva conosciuto. Si parlava di noi; il termine “nazionalsocialista” divenne molto familiare, era tutto un programma. Anche lo stuolo di sostenitori, cioè di membri del partito, iniziò a crescere incessantemente. Nell’inverno 1920-21 eravamo un partito forte a Monaco. All’epoca, a eccezione dei marxisti, non c’era nessun altro partito, specialmente se nazionale, che avrebbe potuto organizzare le nostre adunanze di massa. Il Kindl-Keller di Monaco, capace di contenere cinquemila persone, fu spesso e volentieri gremito all’inverosimile. A un solo locale non avevamo ancora osato avvicinarci: il Circo Krone42.
Figura 5 Manifesto del comizio di Hitler al Circo Krone del 20 aprile 1923 [fonte: München und der Nationalsozialismus, 2015]
Sul concetto di “comunità nazionalpopolare” vedi capitolo 2-I. Al termine del 1920 il Partito nazionalsocialista giunse a circa tremila iscritti, ma il suo bacino di consensi non riguardava i lavoratori marxisti. 42 Il Circo Krone, fondato dalla famiglia Krone nel 1905, era ed è tuttora il più grande circo europeo. Dal 1919 la sua sede fu fissata a Monaco. Bibliografia: K.-D. Kürschner (ed.), Circus Krone. Von der Menagerie zum grössten Circus Europa, Berlino, Ullstein, 1998.
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Figura 6 Adunanza nazista al Circo Krone del 30 ottobre 1923 [fonte: pbs.twimg.com]
A fine gennaio 1921 ci furono altri brutti grattacapi per la Germania. Il trattato di pace parigino, con cui la Germania s’impegnava a pagare la folle somma di cento miliardi di marchi oro, dovette realizzarsi attraverso il diktat londinese43. Un Gruppo di lavoro da tempo attivo a Monaco col nome di Leghe nazionalpopolari44 colse l’occasione per invitarci a una grande protesta comune. Il tempo stringeva. Io stesso ero nervoso di fronte ai continui ripensamenti e alle titubanze del gruppo. Si parlò inizialmente di una manifestazione di massa in Königsplatz45, ma l’idea fu poi scartata per il timore di essere dispersi dai rossi. Si progettò una manifestazione di protesta davanti alla Feldherrnhalle, ma si rinunciò anche a questa. Alla fine si propose un’assemblea congiunta nel Kindl-Keller di Monaco. Frattanto passavano i giorni e i grandi partiti erano all’oscuro del terribile avvenimento. Il Gruppo di lavoro non si decideva a fissare una data precisa per la manifestazione. Martedì 1° febbraio 1921 io pretesi urgentemente una decisione finale. Mi dissero di pazientare ancora un giorno. Mercoledì reclamai che mi fosse comunicato con chiarezza se e quando avrebbe avuto luogo l’assemblea. La risposta fu nuovamente generica ed evasiva; mi dissero che il Gruppo di lavoro aveva “intenzione” di convocare una manifestazione per il mercoledì successivo. 43
La conferenza del Comando supremo alleato (Parigi, 24-29 gennaio 1921) aumentò la somma delle riparazioni da 100 a 226 miliardi in marchi oro, pagabili in 42 rate annuali. Due mesi dopo, a Londra, la somma fu ridotta a 132 miliardi. In maggio la crisi delle riparazioni portò a un nuovo governo di coalizione retto dal cattolico Joseph Wirth (1879-1956), che accettò l’ultimatum alleato. 44 Riferimento al Gruppo di lavoro nazionalpopolare di Monaco, raggruppamento di diverse leghe e gruppi sotto la direzione di Wilhelm Rohmeder (Deutschvölkischer Schutz- und Trutzbund) [KA, n. 108]. 45 Königsplatz è una piazza di Monaco iniziata sotto Massimiliano I e terminata sotto Ludovico I. Il progetto iniziale di Friedrich Ludwig von Sckell e Karl von Fischer fu poi modificato da Leo von Klenz. Sulla piazza sia affacciano i musei della Gliptoteca e delle Collezioni statali antiche, nonché una ricostruzione dei Propilei ateniesi.
447 Io persi la pazienza e decisi di organizzare da solo la manifestazione di protesta. Mercoledì a mezzogiorno dettai in dieci minuti al dattilografo il manifesto e affittai il Circo Krone per il giorno successivo (giovedì 3 febbraio)46. Si trattava all’epoca di un grande azzardo. Non solo perché era difficile riempire l’enorme spazio, ma anche perché c’era il fondato pericolo di essere sabotati. Le nostre truppe del servizio d’ordine non erano ancora sufficienti per una sala così gigantesca. Io stesso non avevo un’idea precisa di come comportarci in caso di aggressione nemica. All’epoca era molto più difficile respingere un assalto in un edificio come il Circo Krone che in una normale sala. Era vero anche il contrario: in uno spazio gigantesco era più facile domare una truppa di aggressori rispetto alle sale anguste. Una cosa era sicura: un fallimento sarebbe stato un duro colpo da incassare. Un successo dei nostri avversari avrebbe distrutto la nostra aura in un battibaleno e li avrebbe incoraggiati a proseguire i sabotaggi. Questa prospettiva sarebbe stata assorbibile solo dopo molti mesi e mesi di difficili lotte. Avevamo un solo giorno per affiggere manifesti: il giovedì stesso. Purtroppo quella mattina piovve e nevischiò. Tememmo che molte persone avrebbero preferito restarsene a casa, invece di precipitarsi a un’assemblea dove avrebbero potuto esserci morti e feriti. Giovedì mattina ebbi paura per la prima volta che il locale non si sarebbe riempito (e avrei fatto anche una figuraccia di fronte al Gruppo di lavoro). Perciò dettai in fretta e furia alcuni volantini e li mandai in stampa, per diffonderli nel pomeriggio. Naturalmente erano un invito a partecipare all’assemblea. Io presi a noleggio due autocarri, provvisti di un paio di nostre bandiere, bardati di rosso e occupati da quindici-venti membri del nostro partito, che ricevettero l’ordine di percorrere tutte le vie della città per lanciare i volantini; in breve di fare propaganda per la manifestazione di massa di quella sera47. Fu la prima volta che la città fu percorsa da autocarri imbandierati, sui cui non c’erano marxisti. La borghesia guardava a bocca aperta quei camion bardati di rosso e fregiati di svolazzanti bandiere con la svastica. Nei quartieri periferici si levavano innumerevoli pugni serrati, i cui possessori erano chiaramente furibondi per la nuova “provocazione antiproletaria”. Già, solo il marxismo aveva il diritto di tenere adunanze, così come di girare sui camion. Se qualcun altro osava fare la stessa cosa, il marxista aveva il sacrosanto diritto di ritenerla una provocazione antimonopolistica. Alle 7 di sera c’era ancora poca gente al Circo Krone. Ogni dieci minuti ero ragguagliato telefonicamente ed ero piuttosto preoccupato; perché, di solito, alle 7 o alle 7:15 le altre sale erano già piene a metà, se non quasi del tutto. Presto mi resi conto di non fatto i conti con le dimensioni gigantesche del locale: migliaia di persone facevano già un certo effetto nello Hofbräuhaus, mentre nel Circo Krone finivano per
Hitler voleva organizzare un’adunanza al Circo Krone per spiegare il suo mancato sostegno alle iniziative del Gruppo di lavoro [KA, n. 112]. 47 Il 2 febbraio 1921 la polizia di Monaco aveva approvato il testo di un volantino per la grande assemblea di protesta al Circo Krone. L’inchiesta successiva al lancio di volantini dal camion portò alla proibizione di una loro ulteriore diffusione, che tuttavia Pöhner non fece rispettare [KA, n. 115].
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448 apparire irrilevanti48. Si potevano appena vedere. Poco tempo dopo giunsero buone nuove, e alle 7:45 il locale era pieno per quasi due terzi e grosse masse facevano la coda davanti ai botteghini della cassa. Allora mi mossi. Alle 8:02 giunsi nel Circo. Davanti all’edificio sostava ancora una massa di persone, in parte semplici curiosi, in parte avversari che volevano attendere gli eventi dall’esterno. Quando misi piede nell’enorme sala, fui colto dalla stessa gioia che avevo provato l’anno precedente alla prima assemblea nella sala dello Hofbräuhaus di Monaco. Ma solo quando dovetti farmi strada fra le maree umane e raggiunsi l’alto palco, mi resi conto delle reali dimensioni del nostro successo. Il salone appariva un’enorme conchiglia, traboccante di migliaia e migliaia di persone. Perfino la pista era nera di gente. Erano stati staccati oltre cinquemila biglietti, e se includevamo il numero di disoccupati, di poveri studenti e delle nostre squadre del servizio d’ordine, erano presenti circa 6.500 persone49. Avvenire o declino era il tema dell’assemblea e il mio cuore traboccava di gioia all’idea che là sotto, davanti a me, c’era il futuro50. Iniziai a parlare e lo feci per due ore e mezza. Già dopo la prima mezzora sentivo che l’assemblea sarebbe stata un grande successo. Il legame con tutte quelle migliaia di singole persone si era già creato. Dopo la prima ora cominciai a essere interrotto da applausi enormi e spontanei, che scemarono dopo la seconda ora, trasformandosi in quel solenne silenzio che più tardi ritrovai sempre più spesso là dentro; quel silenzio che nessuno dei presenti potrà mai dimenticare. Si sentiva a mala pena ansimare la moltitudine, e quando pronunciai l’ultima parola, scoppiò un formidabile entusiasmo che si concluse nel canto dell’inno Deutschland. Osservai con quanta lentezza si svuotò l’enorme catino: una marea immensa di persone si accalcò quasi venti minuti per uscire dal grande portone centrale. Solo allora lasciai anch’io il mio posto, felicissimo, e me ne andai a casa. Furono scattate alcune foto di quella prima adunata al Circo Krone. Esse mostrano meglio che le parole l’imponenza della manifestazione. I fogli borghesi pubblicarono vignette e notizie, dissero soltanto che si era trattata di una manifestazione “nazionale”, omettendo come sempre di menzionare l’organizzatore. Quindi, per la prima volta, ci eravamo differenziati dagli altri partiti. Per non lasciare l’impressione che quel successo assembleare fosse una mosca bianca, ne indissi subito una seconda nel Circo Krone per la settimana successiva. L’esito fu lo stesso. L’enorme spazio fu nuovamente riempito all’inverosimile. Decisi quindi di organizzare per la settimana successiva una terza assemblea nello stesso stile. E per la terza volta l’enorme Circo fu pieno da cima a fondo. Poiché il 1921 era cominciato così bene, aumentai la frequenza delle assemblee a Monaco. Presi l’abitudine di organizzarne non una volta, ma ben due alla settimana; in piena estate e in tardo autunno perfino tre. Ci radunavamo sempre al Circo Krone e 48
La capienza regolare del Circo Krone era di circa quattromila posti. L’allegato con manifesto alla prima edizione del Mein Kampf parlò di 5.600 presenti. Il Partito nazionalsocialista presentò per la prima volta la bandiera con la svastica. 50 In questo comizio Hitler criticò la conferenza parigina del comando supremo alleato del gennaio 1921, che aveva aumentato le riparazioni a 226 miliardi di marchi oro.
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449 potemmo constatare con soddisfazione che tutte le nostre serate ottenevano un ugual successo. L’esito fu un afflusso sempre crescente di sostenitori del movimento e un forte aumento di iscritti51. Naturalmente i nostri successi tolsero il sonno ai nostri avversari. Inizialmente, la loro tattica ondeggiò tra l’uso del terrore e il silenzio. Poi dovettero riconoscere che non potevano impedire lo sviluppo del nostro movimento per quelle vie. Decisero con uno sforzo supremo di compiere un atto terroristico per arginare definitivamente la nostra attività assembleare. Il pretesto fu un attentato molto misterioso a un deputato del Landtag bavarese di nome Erhard Auer. Si diceva che una sera qualcuno gli avrebbe sparato. In realtà, qualcuno aveva tentato di ucciderlo52. La straordinaria arguzia e il proverbiale coraggio del dirigente socialdemocratico non solo avrebbero mandato a monte l’attentato sacrilego, ma avrebbero anche messo in fuga i folli attentatori, che fuggirono così rapidamente che la polizia non riuscì mai a scoprirne la benché minima traccia53. L’evento misterioso fu strumentalizzato dall’organo del partito socialdemocratico di Monaco54 per dire peste e corna del nostro movimento, facendo intendere, con la consueta loquacità, ciò che sarebbe successo: il nostro movimento non avrebbe dovuto radicarsi, ma sarebbe stato schiacciato in tempo dai pugni proletari. Ciò successe alcuni giorni dopo. Un’assemblea nella sala dello Hofbräuhaus di Monaco, in cui io stesso dovevo parlare, fu teatro dello scontro finale. Il 4 novembre 1921, tra le 6 e le 7 di pomeriggio, ricevetti le prime notizie precise che l’assemblea sarebbe stata sabotata con ogni mezzo e che, a tal fine, gli avversari intendevano spedirvi le masse di proletari appartenenti ad alcune fabbriche rosse. Sfortunatamente non ricevemmo prima quell’informazione. Lo stesso giorno avevamo lasciato la vecchia sede in Sterneckergasse, ma non eravamo ancora entrati in quella nuova in fase di allestimento. Poiché nella vecchia sede era stato staccato il telefono, ma nella nuova non era ancora stato allacciato, quel giorno ci furono probabilmente numerosi vani tentativi di comunicarci il piano di sabotaggio. L’esito del trasloco fu che l’assemblea fu difesa solo da un manipolo di truppe del servizio d’ordine. Era presente solo una centuria numericamente poco consistente, di circa 46 uomini. Il sistema d’allarme per chiamare i rinforzi entro un’ora, non era ancora stato installato. Inoltre le voci allarmanti ci erano già giunte in precedenza senza che succedesse niente di particolare. L’antico detto che le rivoluzioni annunciate non scoppiano, si era dimostrato finora esatto. 51 Il numero degli iscritti al Partito nazionalsocialista crebbe tra l’inizio del 1921 e la fine del 1923 da tremila a cinquantacinque mila. La crescita era dovuta soprattutto alla confluenza da altri partiti e associazioni nazionalpopolari. 52 Erhard Auer (1874-1945), presidente regionale della socialdemocrazia bavarese dal 1908, fu vittima di due attentati politici: il 21 febbraio 1919 e il 3 novembre 1921. 53 Il mandante dell’attentato del 25 ottobre 1921 non fu mai individuato dalla polizia [KA, n. 126]. 54 Riferimento al giornale socialdemocratico “Münchener Post”, diffamato da Hitler come “Münchener Pest” (Peste monacense).
450 Perciò quella sera non furono presi tutti i provvedimenti necessari per opporsi con brutale determinazione al sabotaggio rosso. Infine noi ritenevamo particolarmente inadatta la sala dello Hofbräuhaus di Monaco a un sabotaggio nemico. L’avevamo temuta soprattutto per sale più grosse, come il Circo Krone. Ma quella serata ci impartì una lezione molto preziosa. Più tardi studiammo il problema scientificamente e giungemmo a conclusioni molto interessanti, che assunsero poi un’importanza essenziale per la conduzione organizzativa e tattica dei nostri Reparti d’assalto. Quando, alle 7:45, giunsi nell’atrio dello Hofbräuhaus, non potei più avere alcun dubbio sul proposito dei rossi. La sala era stracolma e, quindi, la polizia aveva sbarrato l’accesso. Gli avversari, apparsi di buon’ora, erano in sala e i nostri sostenitori in larga parte all’esterno. Il piccolo Reparto d’assalto mi attendeva all’atrio. Feci chiudere le porte della sala principale e feci entrare la centuria di 44-46 uomini. Dissi a quei giovani che quella sera avrebbe dovuto dar prova di fedeltà al movimento e che nessuno di noi avrebbe lasciato in sala se non orizzontalmente55. Io stesso sarei rimasto nella sala, convinto che neanche uno di loro mi avrebbe abbandonato. Ma se uno di loro si fosse dimostrato codardo, gli avrei personalmente strappato di dosso i bracciali e il distintivo. Ordinai loro di farsi avanti al minimo tentativo di sabotaggio: la migliore difesa resta l’attacco. Mi fu risposto con un triplice “Evviva”, che risuonò più rauco e più violento del solito. Poi entrai in sala e potei farmi un’idea della situazione coi miei occhi. Gli avversari sedevano in grande quantità e cercavano di trapassarmi con lo sguardo. Alcuni mi lanciavano sguardi pieni di odio, mentre altri, facendo smorfie di scherno, lanciavano grida molto significative. Oggi volevano “farla finita”, volevano occuparsi delle nostre budella, volevano tapparci per sempre la bocca e via con altri improperi più coloriti. Erano consapevoli della loro superiorità e si comportavano di conseguenza. Tuttavia l’assemblea fu inaugurata e io iniziai a parlare. Nella sala dello Hofbräuhaus mi mettevo sempre in piedi nei pressi di una delle due pareti più lunghe e il mio palco era un tavolo da birra. Mi trovavo, quindi, nel bel mezzo degli avversari. Forse quella circostanza contribuì a far sorgere in sala uno stato d’animo, un consenso che non avrei mai più provato in vita mia. Davanti a me, soprattutto alla mia sinistra, si trovavano i miei nemici. Erano uomini e ragazzi robusti, in larga parte della fabbrica Maffei56, di Kustermann57, dalle officine Isaria ecc.58 Si erano accalcati intorno al mio tavolo lungo la parete sinistra della sala e ordinavano continuamente birra per radunare boccali sotto il tavolo. Così
Per i “caduti” del movimento nazista si sviluppò presto un culto vero e proprio, come nel caso dei morti per il putsch del 1923. 56 La fabbrica di locomotive Maffei fu creata da Anton von Maffei nel 1838. Nel dopoguerra gran parte del manodopera simpatizzò per Kurt Eisner. 57 La ditta Kistermann fu fondata nel 1798 e si interessava di materiale ferroviario. 58 L’Isaria risaliva all’ingegnere e inventore Georg Hummel che fondò nel 1894 la prima ditta monacense di contatori elettrici.
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451 formarono intere batterie di munizioni. E mi sarei meravigliato se quel giorno le cose fossero finite bene. Io riuscii a parlare per circa un’ora e mezza – nonostante le interruzioni ad alta voce. Mi sentivo quasi padrone della situazione59. I capi dei sabotatori sembravano essersene accorti; perché diventavano sempre più inquieti, spesso uscivano dalla sala, rientravano e parlavano nervosamente con i loro uomini. Un piccolo errore psicologico che io commisi ribattendo a un commento ad alta voce e che compresi subito non appena le parole mi uscirono di bocca, fu il segnale del sabotaggio. Dopo un paio di interruzioni rabbiose, un uomo balzò improvvisamente su una sedia e strillò in sala: “Libertà!” A quel segnale i combattenti della libertà iniziarono ad agire. In pochi secondi, il locale fu pieno di una moltitudine strepitante, sulla quale volavano, come obici, i boccali di birra. Si udivano lo scricchiolio di sedie rotte, il fragore di boccali infranti, le urla e gli schiamazzi della gente. Era uno spettacolo pazzesco. Restai al mio posto e osservai che i miei ragazzi fecero il loro dovere, senza risparmiarsi. Avrei proprio voluto vedere, in circostanze simili, un’assemblea borghese! Le danze non erano ancora iniziate che già i miei Reparti d’assalto (così si chiamarono da quel giorno in poi) attaccarono il nemico. Come lupi si avventarono in branco di 8 o 10 alla volta sui loro avversari, che furono progressivamente scacciati dalla sala60. Già dopo cinque minuti, ben pochi di loro non grondavano sangue. Quel giorno imparai a conoscere molti futuri amici: innanzitutto il mio fidato Maurice61, il mio attuale segretario privato Hess62 e molti altri che, anche se gravemente feriti, continuarono ad attaccare finché poterono reggersi in piedi. Il fracasso infernale durò circa venti minuti, poi gli avversari, in numero di sette-ottocento, furono in larga parte espulsi dalla sala e gettati giù dalle scale dalla mia piccola centuria. Solo nell’angolo sinistro della sala, un grosso gruppo opponeva ancora un’accanita resistenza. Allora, dall’ingresso della scala, partirono improvvisamente due colpi di pistola diretti al palco e scoppiò una furiosa sparatoria63. Il mio cuore era quasi giubilante di fronte a quello spettacolo che ricordava vecchi episodi di guerra.
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In base al rapporto della polizia, il sabotaggio avvenne intorno alle 22 (a conferma della versione di Hitler) [KA, n. 142]. 60 La rappresentazione hitleriana appare una risposta al resoconto del “Münchener Post” [KA, n. 148]. 61 Emil Maurice (1897-1972), membro del Partito nazista, autista di Hitler e poi fondatore delle Schutzstaffeln. (Squadre di protezione, SS), divenne il primo comandante supremo delle Sturmabteilungen. Bibliografia: A.M. Sigmund, Des Führers bester Freund, Monaco, Heyne, 2003. 62 Rudolf Hess (1894-1987), segretario di Hitler e revisore del Mein Kampf durante la prigionia, divenne dopo il 1933 il numero due del nazismo. Bibliografia: K. Pätzold, M. Weissbecker, Rudolf Hess. Der Mann an Hitlers Seite, Lipsia, Militzke, 1999. 63 Tanto Hitler, quanto Drexler affermarono nella deposizione davanti alla polizia di essere stati vittime di un attentato. In realtà gli spari furono probabilmente opera di Maurice, che lasciò partire due colpi all’ingresso verso il soffitto [KA, n. 153].
452 Da quel momento non si capì più chi stesse sparando. Si poté solo capire che la rabbia della mia focosa gioventù era aumentata e che, alla fine, gli ultimi disturbatori, sopraffatti, furono trascinati fuori della sala. Erano trascorsi circa venticinque minuti. Nella sala sembrava che fosse esplosa una granata. Molti dei miei sostenitori furono soccorsi, altri furono portati via. Ma noi eravamo padroni del campo. Hermann Esser, che quella sera aveva assunto la direzione dell’assemblea, dichiarò: “L’assemblea continua. La parola al relatore”. E io ripresi a parlare. Dopo che noi stessi chiudemmo l’adunanza, si precipitò, eccitato, un tenente di polizia e, agitando le braccia, strillò nella sala: “L’assemblea è sciolta”. Senza volerlo, io risi di quel ritardatario. Che autentica dimostrazione di boria poliziesca: quanto più sono piccini, tanto più grandi vogliono apparire. In verità quella sera avevamo imparato molte cose. E anche i nostri avversari non hanno mai più dimenticato la lezione. Da allora fino all’autunno del 1923, il “Münchener Post” non ha più annunciato il ricorso ai pugni del proletariato.
Approfondimenti didattici 1. Analisi retorica e stilistica
- Individua le principali figure retoriche; - Individua l’esistenza di fallacie retoriche; - Individua i principali “loci” e “topoi”; - Individua la presenza di stereotipi e pregiudizi.
2. Analisi storico-culturale - Politica di massa nel primo dopoguerra: analizza il fenomeno assembleare nel primo dopoguerra e tenta di individuare l’esistenza di analogie e/o differenze tra le varie formazioni politiche; - Nazionalsocialismo e forze dell’ordine: analizza la visione vittimistica hitleriana e cerca di ricostruire il rapporto fra élite politiche, militari ed economiche e nazionalsocialismo delle origini; - La svastica: analizza la descrizione hitleriana della bandiera nazionalsocialista e tenta di ricostruire i differenti usi dei colori e la simbologia nelle bandiere partitiche e ideologiche del periodo interbellico.
A. Gilardoni, Logica e argomentazione. Un prontuario, Milano, Mimesis, 2008.
Capitolo VIII. “E scompagnato è fortissimo il forte”
Sinossi 1. Genesi Il capitolo 8-II abbandona le questioni di principio per immergersi nell’attualità politica: il “protestantesimo” nordico di von Graefe e di Reventlow (la Deutschvölkische Freiheitsbewegung), il “tradimento” di Drexler (il Nationalsozialer Volksbund), il “ravvedimento” di Streicher (la Deutschsozialistiche Partei). È probabile che la stesura risalga all’estate 1926, poco prima dell’incontro dei capi nazionalpopolari in Turingia dell’ottobre successivo1. 2. Contenuto Hitler riprende la narrazione dalla vittoria contro il “pugno marxista” nelle adunanze del 1921, ponendosi la domanda: è giusto e opportuno allearsi con le altre formazioni nazionalpopolari? La Deutschvölkische Arbeitsgemeinschaft München (Gruppo di lavoro nazionalpopolare tedesco di Monaco) intendeva superare la divisione ideologica per creare un fronte di “salvezza nazionale” contro la viltà borghese e il pugno marxista. Questo consorzio si basava sul presupposto che l’unione fa la forza e che la sintesi di tante debolezze fa una potenza. Ma è davvero così? Alla domanda retorica Hitler risponde citando il Guglielmo Tell di Schiller: meglio soli che male accompagnati. Ma lo fa con un’altra domanda forse più importante: perché accade che molti perseguano lo stesso fine? Perché non esiste un solo mezzo per un fine? La risposta è “tragica” e “umana”. La tragedia consiste nel fatto che non è l’uomo a decidere le sorti dell’universo, ma è la natura “naturante”, cioè la mano imperscrutabile divina che costringe alla lotta per l’affermazione della migliore “offerta” umana. La tragedia umana consiste nel non comprendere l’astuzia della “ragione”. La soluzione “piccolo-tedesca” (prussiana) al problema tedesco ne è un esempio lampante. Accanto a un motivo “nobile” esiste una ragione più “meschina”: la debolezza umana, che si esprime attraverso sentimenti come l’invidia, la gelosia, l’ambizione e la malignità. Come in precedenza, anche qui Hitler descrive il “politicante” come un individuo scaltro, furbo, ricettacolo dei peggiori “vizi”, pronto a raccogliere i frutti seminati dagli altri, interessato più a dividere che a unire, per suo unico tornaconto personale. Solo Julius Streicher, cessando le sua attività della Deutschsozialistische Partei, ha dimostrato che non conta l’ego, ma il fine da perseguire: la salvezza della Germania. La chiusura del capitolo è una dimostrazione di forza e una sfida lanciata agli altri oppositori nazionalpopolari in giro per la Germania. Le coalizioni temporanee possono avere anche un’utilità tattica innegabile, ma giammai possono determinare la fusione di movimenti dotati di obiettivi affini. Sarebbe uno spregio alle leggi della “natura”, che si vendicherebbe impedendo la vittoria del “migliore”, impantanando il fine supremo e dando strada alle forze peggiori. Se è meglio essere soli che male accompagnati, lo è anche perché chi sta con lo zoppo non può che imparare a zoppicare. 1
KA II, p. 1279.
454 3. Analisi Il capitolo 8-II ha il merito di mettere nero su bianco la posizione retorica hitleriana all’interno della galassia nazionalpopolare intorno alla metà degli anni Venti. Sono anni difficili per i movimenti populisti e oltranzisti: la Germania sta attraverso una fase di ripresa economica; il Partito nazionalsocialista deve ricorrere alle pubblicazioni cartacee (come il Mein Kampf) oppure al sostegno di terzi per aggirare il Redeverbot inflitto a Hitler nella maggior parte del paese; i consensi nelle grandi città sono stabili, ma il partito non fa breccia nel “paese profondo”. Che fare, dunque? Innanzitutto bisogna appellarsi alle “sacre” leggi della natura per spiegare il fallimento delle coalizioni. La deduzione avviene ovviamente a posteriori: siccome l’unione “non ha fatto la forza” e, anzi, i movimenti nazionalpopolari stanno incontrando notevoli difficoltà a livello locale dopo la scarcerazione di Hitler, bisogna ipotizzare che la regola non funzioni né ora, né mai. Il fallimento del Gruppo di lavoro è la dimostrazione che le unioni rispondono solo a esigenze tattiche temporanee, ma non possono, né devono annullare la volontà della natura. Il cammino è stato sempre lo stesso: in principio ci fu un uomo “eletto” che creò un movimento per soddisfare i desideri popolari, e poi fu “messo in croce”. Hitler non enumera prove a suo favore (cioè a sostegno del fallimento delle coalizioni), ma si limita a citare un caso di “ravvedimento”: quello di Julius Streicher. Ecco l’eccezione che fa la regola: Streicher ha avuto la modestia e l’intelligenza di capire che l’obiettivo è più importante del successo personale. Si tratta chiaramente di una prova “carismatica” quella che utilizza il fondatore del Partito nazionalsocialista. Dato che la storia ha dimostrato che i profeti sono stati spesso esautorati dai loro successori (con mezzi più o meno leciti), è giusto che il capo del partito di rinascita nazionale prosegua la sua lotta solitaria. Solo lui conosce l’animo popolare e le leggi “naturali”. Solo lui sa vedere oltre le meschinerie individuali. Solo lui sa come “va” il mondo. 4. Parole-chiave Asburgo, Frantumazione nazionalpopolare, Gruppo di lavoro, Hohenzollern, Julius Streicher, Leghe nazionalpopolari tedesche, Libero gioco delle forze, Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori, Partito socialista tedesco, Stato nazionalpopolare. 5. Bibliografia essenziale - P. Bruppacher, Adolf Hitler und die Geschichte der NSDAP. Eine Chronik, parte 1: 1889-1937, Norderstedt, Books on Demand, 2014; - W. Brustein, The logic of evil. The social origins of the Nazi party, 1925-1933, New Haven (Connecticut), Yale University Press, 1988 - A. Bullock, Hitler. Studio sulla tirannide, Milano, Res Gestae, 2014; - K. Burke, Die Rhetorik in Hitlers “Mein Kampf” und andere Essays zur Strategie der Überredung, Francoforte sul Meno, Suhrkamp, 1967; - D. Capozza, C. Volpato, Le intuizioni psicosociali di Hitler. Un’analisi del “Mein Kampf”, Bologna, Patron, 2004; - R.L. Bytwerk, Julius Streicher, New York, Cooper Square Press, 2001; - W. Carr, Hitler. Studio sul rapporto tra personalità e politica, Napoli, Liguori, 1985; - G. Corni, Hitler, Bologna, Il Mulino, 2007; - Id., Breve storia del nazismo, 1920-1945, Bologna, Il Mulino, 2015; - M. Döring, “Parlamentarischer Arm der Bewegung”. Die Nationalsozialisten im Reichstag der Weimarer Republik, Düsseldorf, Droste Verlag, 2001; - J. Fest, Hitler. Una biografia, traduzione di F. Saba Sardi, Milano, Garzanti 2005;
455 - H. Fenske, Konservatismus und Rechtsradikalismus in Bayern nach 1918, Bad Homburg, Gelhen, 1969; - R. Hambrecht, Der Aufstieg der NSDAP in Mittel- und Oberfranken (1925-1933), Norimberga, Stadtarchiv, Korn und Berg, 1976; - L. Herbst, Il carisma di Hitler. L’invenzione di un messia tedesco, traduzione di U. Gandini, Milano, Feltrinelli, 2011; - S.F. Kellerhoff, Il libro proibito di Hitler. Storia del Mein Kampf, Milano, Rizzoli, 2016; - I. Kershaw, Hitler, vol. 1: 1889-1936, Milano, Bompiani, 2003; - B. Kruppa, Rechtsradikalismus in Berlin, 1918-1928, Berlino, Overall-Verlag, 1988; - W.C. Langer, Psicanalisi di Hitler. Rapporto segreto del tempo di guerra, Milano, Garzanti, 1975; - U. Lohalm, Völkischer Radikalismus. Die Geschichte des Deutschvölkischen Schutz- und Trutz-Bundes, 1919-1923, Amburgo, Leibniz Verlag, 1970; - P. Longerich, Hitler. Biographie, Monaco, Siedler Verlag, 2015; - W. Maser, Adolf Hitler, Roma, Ciarrapico, 1978; - Id., Der Sturm auf die Republik. Frühgeschichte der NSDAP, Francoforte sul Meno, Ullstein, 1981; - H. Moeller, A. Wirsching, W. Ziegler (ed.), Nationalsozialismus in der Region. Beiträge zur regionalen Forschung und zum internationalen Vergleich, Monaco, Oldenbourg, 1996; - A. Musolff, Metaphor, nation and the Holocaust. The concept of the body politic, New York, Routledge, 2011; - W. Nerdinger (ed.), München und der Nationalsozialismus. Katalog des NS-Dokumentations-zentrum München, Monaco, C.H. Beck, 2015; - B. Novak, Hitler and the abductive logic. The strategy of a tyrant, Lanham (Maryland), Lexington Books, 2014; - K. Pätzold, M. Weissbecker (ed.), Geschichte der NSDAP, 1920-1945, Colonia, PayRossa, 2002; - O. Plöckinger, Geschichte eines Buches. Adolf Hitlers “Mein Kampf”, 1922-1945. Eine Veröffentlichung des Instituts für Zeitgeschichte, Monaco, Oldenbourg, 2011; - Id., Quellen und Dokumente zur Geschichte von “Mein Kampf”, 1924-1945, Stoccarda, Franz Steiner Verlag, 2016; - F. Pöggeler, Der Lehrer Julius Streicher. Zur Personalgeschichte des Nationalsozialismus, Francoforte sul Meno, Peter Lang, 1991; - W. Pyta, Hitler. Der Künstler als Politiker und Feldherr. Eine Herrschaftsanalyse, Monaco, Siedler Verlag, 2015; - P.R. Range, La genesi del Mein Kampf. 1924: l’anno che cambiò la storia, Roma, Newton Compton, 2017; - R.G. Reuth, Hitler. Eine politische Biographie, Monaco, Piper, 2003; - M. Rösch, Die Münchner NSDAP 1925-1933. Eine Untersuchung zu inneren Struktur der NSDAP in der Weimarer Republik, Monaco, Oldenbourg, 2002; - C. Roth, Parteikreis und Kreisleiter der NSDAP unter besonderer Berücksichtigung Bayerns, Monaco, C.H. Beck, 1997; - D. Schmidt, M. Sturm, M. Livi (ed.), Wegbereiter des Nationalsozialismus. Personen, Organisationen und Netzwerke der extremen Rechten zwischen 1918 und 1933, Essen, Klartext, 2015; - J. Toland, Adolf Hitler. The definitive biography, New York, Doubleday, 1976; - A. Tyrrell, Vom “Trommler” zum Führer. Der Wandel von Hitlers Selbstverständnis zwischen 1919 und 1924 und die Entwicklung der NSDAP, Monaco, Fink, 1975; - V. Ullrich, Adolf Hitler. Biographie, vol. 1: Die Jahre des Aufstiegs 1889-1939, Francoforte sul Meno, S. Fischer, 2013; - A. Viktine, “Mein Kampf”. Storia di un libro, traduzione di G. Zucca, Milano, Cairo, 2010; - T. Vordermeyer, Bildungsbürgertum und völkische Ideologie. Konstitution und gesellschaftliche Tiefenwirkung eines Netzwerks völkischer Autoren (1919-1959), Berlino, de Gruyter, 2016; - R. Wulff, Die Deutschvölkische Freiheitspartei 1922–1928, Università di Marburgo, tesi di laurea, 1968; - B. Zehnpfennig, Hitlers “Mein Kampf”. Eine Interpretation, Monaco, Fink, 2000; - R. Zitelmann, Hitler, Roma-Bari, Laterza, 1991.
In precedenza ho già accennato all’esistenza di un Gruppo di lavoro delle Leghe nazionalpopolari tedesche. Qui vorrei discutere brevemente il problema del consorzio. In generale, per Gruppo di lavoro s’intende un raggruppamento di leghe che, per alleggerire le proprie incombenze, stabiliscono un rapporto consapevole e reciproco,
456 scelgono una guida comune dotata di più o meno grande competenza e svolgono azioni concertate. È evidente che si tratta di leghe, associazioni o partiti con obiettivi e metodi non troppo diversi. Così almeno dovrebbe essere. Il cittadino medio si rallegra e si tranquillizza nell’udire che le leghe, associandosi nei Gruppi di lavoro, abbiamo scoperto ciò che le unisce e che abbiano così eliminato ciò che le divide. È convinzione diffusa che l’unione accresca enormemente le forze e che i gruppetti di per sé deboli diventino una vera potenza. Ma tutto ciò è generalmente falso!2 È interessante, e credo importante per una migliore comprensione dell’intera cosa, spiegare subito come si sia giunti alla formazione di leghe, unioni o formazioni simili, che affermano tutte di voler perseguire il medesimo scopo. Sarebbe logico che un obiettivo sia perseguito da una sola lega e che, ragionevolmente, le altre ne abbiano un altro. Indubbiamente, in principio un’associazione individuò un obiettivo. Un uomo annuncia, da qualche parte, una verità, invita alla soluzione di un determinato problema, pone un obiettivo e crea un movimento destinato a realizzarlo. Così nasce un’associazione o un partito che, in base al programma, dovrà perseguire o l’eliminazione di uno stato di cose negative o l’instaurazione di una situazione particolare. Una volta fondato, quel movimento possiede un certo diritto di primogenitura. Sarebbe naturale che tutti gli uomini che intendono battersi per lo stesso obiettivo, si integrino in quel movimento e ne aumentino così la forza per poter meglio servire al proposito comune. In particolare ogni persona intelligente dovrebbe sapere che l’inserimento in un movimento già esistente è il presupposto del successo nella lotta comune. Quindi, supponendo una certa onestà intellettuale (che, come intendo dimostrare, è fondamentale), a ogni obiettivo dovrebbe corrispondere sempre uno e un solo movimento. Se così non è, due possono essere le ragioni. La prima è “tragica”, mentre la seconda dipende dalle umane debolezze. In fondo credo che entrambi i fatti possano accrescere la volontà, l’energia e l’intensità e, elevando l’energia umana, possano condurre alla soluzione del problema. La ragione tragica, per cui a ogni obiettivo non corrisponde mai uno e un solo movimento, è che ogni grande azione della storia è generalmente il compimento di un desiderio esistente già da tempo in milioni di persone, di un anelito nutrito silenziosamente da molti. Può darsi che molte persone desiderino ardentemente da molti secoli la soluzione di un certo problema, che soffrano per uno stato di cose intollerabile, senza che la loro nostalgia sia in qualche modo appagata. Impotenti sono quei popoli che non scorgono più alcuna soluzione alla loro dolorosa condizione. Di contro la forza vitale di un popolo e la determinazione conseguente si mostrano Hitler sostenne temporaneamente i gruppi di lavoro. Nel febbraio 1923, durante l’occupazione francobelga della Ruhr, il Partito nazionalsocialista entrò a far parte dell’Arbeitsgemeinschaft der Vaterländischen Kampfverbänden München (Gruppo di lavoro delle leghe patriottiche di Monaco). Nell’aprile 1925 sorse la Nationalsozialistische Arbeitsgemeinschaft (Gruppo di lavoro nazionalsocialista), ma un mese dopo Drexler si dissociò fondando il Nationalsozialer Volksbund. In settembre Gregor Strasser creò l’Arbeitgemeinschaft der Nord- und Westdeutschen Gaue (Gruppo di lavoro dei circondari della Germania centro-occidentale), sciolta nel luglio 1926 [KA, n. 2].
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457 soprattutto quando, un giorno, il destino gli dona un uomo capace di liberarlo da una grande coercizione, da una dura miseria o di soddisfare così la sua anima inquieta e insicura. L’uomo del destino appaga la nostalgia a lungo agognata. È essenziale che migliaia di persone cerchino di risolvere i grandi problemi quotidiani, che molti si sentano chiamate a farlo; anzi che il destino stesso suggerisca molti candidati, per poi accordare, nel libero gioco delle forze, la vittoria al più forte, al più abile e gli affidi la soluzione del problema3. Può darsi che, per secoli, le persone insoddisfatte della loro vita religiosa aspirino a un rinnovamento e che, spinte da quello stimolo psicologico, sorgano dozzine di uomini che, basandosi sulla comprensione e sulla loro conoscenza delle cose, ritengano di essere chiamati a risolvere il problema e si presentino come profeti di una nuova dottrina o, quantomeno, come avversari di quella esistente. Anche qui, in virtù dell’ordine naturale, il più forte è destinato a compiere la sua grande missione. Solitamente, solo in seguito gli altri si rendono conto di trovarsi di fronte all’unico eletto. Al contrario tutti si considerano ugualmente legittimati e chiamati a risolvere il problema. E il mondo non è in grado di distinguere il più meritevole. Quindi, nel corso dei secoli, se non di un medesimo lasso temporale, appaiono uomini differenti; si fondano movimenti per sostenere obiettivi che, a parole, sono gli stessi o così saranno visti dalle masse. Il popolo nutre vaghe aspettative e ha convinzioni generiche, è incapace di chiarire la reale sostanza dell’obiettivo, del desiderio o della possibilità di realizzarlo. La tragedia consiste nel fatto che gli uomini si dirigono verso la stessa mèta per vie diverse, ignorandosi. Quindi, pervasi da una fede purissima nella loro missione, si sentono obbligati a battere la propria strada ignorando gli altri. Questi movimenti, partiti, gruppi religiosi, sorgono totalmente indipendenti uno dall’altro: frutto della volontà generale dell’epoca, si dirigono tutti nella stessa direzione. A prima vista, tutto questo è tragico, perché si ritiene che la forza dispersa su diverse strade potrebbe condurre più rapidamente al successo se fosse riunita e incanalata in un’unica direzione. Ma così non è. La decisione spetta alla natura, nella sua logica inesorabile: fa competere i diversi gruppi per la palma del migliore e conduce al traguardo il movimento che ha scelto la strada migliore, più breve e più sicura. Ma come stabilire dall’esterno la bontà di una strada se non dando sfogo al libero gioco delle forze, togliendo la decisione conclusiva ai saccenti sapientoni umani e affidandola all’infallibile prova del successo visibile, l’unica vera conferma della bontà di un’azione! Se marciano su strade separate verso la stessa mèta, i diversi gruppi, non appena sanno di sforzi simili, esamineranno accuratamente il loro percorso, magari per abbreviarlo, oppure cercheranno con tutte le loro forze di raggiungere la mèta il più presto possibile. La competizione rafforza la discendenza del singolo combattente. Non di rado, l’umanità deve il suo successo alle lezioni tratte da precedenti fallimenti.
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Sulla concezione socialdarwinistica hitleriana vedi capitolo 1-I.
458 Dunque, il fatto apparentemente tragico della frantumazione iniziale, di cui non è responsabile nessuno, sarà il mezzo attraverso cui ottenere il procedimento giusto.
Figura 1 Gli oppositori nazionalpopolari (da in alto a sinistra in senso orario): i “protestanti” Albrecht von Graefe ed Ernst zu Reventlow, il “ravveduto” Julius Streicher e il “traditore” Anton Drexler [fonte: wikipedia.de]
Storicamente è opinione diffusa che le due possibili strade imboccate per risolvere il problema tedesco e i cui principali rappresentanti e sostenitori erano l’Austria e la Prussia (gli Asburgo e gli Hohenzollern), avrebbero dovuto coincidere sin dal principio. Noi avremmo dovuto affidarci all’uno o all’altro, unendo le due forze. Ma, così facendo, avremmo seguito la strada del rappresentante più forte in quel momento: la strada austriaca non avrebbe mai condotto a un Impero tedesco4. E quindi l’Impero della più forte unione tedesca sorse da quello che milioni di tedeschi dal cuore insanguinato avvertirono come l’ultima e più terribile indicazione del nostro dissidio fraterno: la corona imperiale tedesca fu raccolta sul campo di battaglia di Königgratz5, non certe nelle battaglie davanti a Parigi6, come credono i posteri7. Anche la fondazione dell’Impero tedesco non fu l’esito di una volontà comune per via comune, ma di una lotta egemonica più o meno consapevole, da cui emerse Allusione al dualismo austro-prussiano per la soluzione della “questione tedesca”. La vittoria prussiana a Königgratz (Sadowa) del 3 luglio 1866 decise la guerra a favore dei prussiani. 6 Allusione all’assedio di Parigi durante la guerra franco-prussiana del 1870-71, che durò quattro mesi e che si concluse con la capitolazione francese. 7 La tesi che la corona imperiale tedesca fosse conquistata sul campo di battaglia francese, era ampiamente maggioritaria nella storiografia tedesca del XIX secolo. Hitler, in un’ottica pantedesca, riteneva invece decisiva la vittoria prussiana sull’Austria [KA, n. 15].
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459 come vincitrice la Prussia. E chi si rifiuta di vedere la verità per partigianeria, dovrà ammettere che la saggezza umana non avrebbe preso una decisione più vitale, cioè derivante dal libero gioco delle forze. Chi mai, nei territori tedeschi di duecento anni fa, avrebbe onestamente creduto che la Prussia degli Hohenzollern, e non gli Asburgo, sarebbe stata il nucleo primario, il fondamento e la guida del nuovo Impero? Chi negherebbe ancora oggi che il destino non abbia deciso per il meglio? Chi potrebbe immaginarsi oggi una Germania retta dai principi di una dinastia così marcia e corrotta?8 No, lo sviluppo naturale, quand’anche dopo secoli di lotta, ha portato il meglio al posto che gli compete. Così è e così sarà sempre. Perciò non bisogna lamentarsi se molte persone imboccano una via per raggiungere la stessa mèta: il più forte e il più rapido sarà riconosciuto e poi proclamato vincitore. Ma c’è un secondo motivo per cui, nella vita dei popoli, i movimenti cercano di raggiungere per vie differenti una mèta apparentemente simile. Quel motivo non è tragico, ma meschino. Consiste nel triste miscuglio di invidia, di gelosia, d’ambizione e di malignità che, a volte, si riuniscono purtroppo in una sola persona. Non appena, infatti, sorge un uomo che, conscio della miseria del suo popolo, cerca di curare la malattia dopo averne scoperto la natura9, se fissa un obiettivo e imbocca una via per conseguirlo – ecco che gli spiriti meschini e piccini drizzeranno subito le antenne e seguiranno con grande attenzione l’operato di quell’uomo che ha attirato su di sé gli occhi dell’opinione pubblica. Quegli omuncoli sono proprio come i passerotti che, con apparentemente disinteresse, ma in realtà con grande curiosità, osservano un compagno più fortunato che ha trovato un pezzettino di pane, per rubarglielo al suo primo momento di disattenzione. Basta soltanto che un uomo imbocchi una nuova via perché molti sfaccendati diventino sospettosi e fiutino un boccone appetitoso, che potrebbe forse trovarsi al termine di quella strada. Non appena scoprono dove si trova il boccone, si mettono zelantemente in cammino per giungere alla mèta per una via possibilmente più rapida. Non appena sorge un nuovo movimento con un programma ben preciso, ecco affluirvi gli uomini che sostengono di perseguire lo stesso obiettivo. Non solo non si pongono seriamente nelle file del movimento, riconoscendone la primogenitura, ma gli rubano persino il programma e fondano così un nuovo partito10. Assicurano spudoratamente ai contemporanei distratti che avrebbero voluto farlo già da tempo, ben prima degli altri. Spesso quei signori riescono a mettersi in bella mostra, invece di essere preda – giustamente – del disprezzo generale. Non è segno di una gran bella faccia tosta appropriarsi della missione altrui, copiarne i punti programmatici e poi, come se fosse tutta farina del proprio sacco, andarsene per la propria strada? L’impudenza è più evidente quando questi signori, responsabili della disintegrazione e del frazionamento dell’unico movimento, parlano ripetutamente della necessità di 8
Sulla visione hitleriana profondamente negativa degli Asburgo vedi capitolo 3-I. Hitler credeva di aver trovato la “causa” della malattia negli ebrei. Vedi capitoli 2-I e 11-I. 10 Allusione ad Albrecht von Graefe, che sostenne il Nationalsozialer Volksbund di Drexler [KA, n. 19]. 9
460 concordia e di unità, non appena si accorgono che il vantaggio dell’avversario è incolmabile. A questo si deve la “disintegrazione nazionalpopolare”. Tuttavia la formazione di un’intera serie di gruppi e di partiti “nazionalpopolari” fra il 1918 e il 1919 era il prodotto inconsapevole del naturale sviluppo delle cose. Fra tutti quei partiti, già nel 1920 il Partito nazionalsocialista si era andato delineando come quello vincitore11. Ogni altro concorrente avrebbe dimostrato di essere intellettualmente onesto se avesse sacrificato il proprio movimento a favore di quello più forte, sciogliendosi e confluendovi senza condizioni. Questo vale soprattutto per il principale esponente del vecchio Partito socialista tedesco di Norimberga12: il signor Julius Streicher13. Il Partito nazionalsocialista e il Partito socialista tedesco erano sorti con gli stessi obiettivi finali, ma in modo del tutto autonomo14. Pioniere principale del Partito socialista tedesco fu, come detto, l’insegnante Julius Streicher. Egli aveva la sacra convinzione della missione e dell’avvenire del suo movimento. Non appena, però, riconobbe chiaramente la maggiore forza e crescita del Partito nazionalsocialista, egli cessò l’attività nel suo partito e nel Gruppo di lavoro15 e invitò i suoi seguaci ad aderire al nostro movimento e a combattere nelle sue file per l’obiettivo comune. Fu una decisione personalmente difficile e ammirevole16. Da allora non si è più verificata alcuna frantumazione delle nostre forze. Anzi la sincera volontà degli uomini di allora ha condotto a un risultato giusto, onorevole e opportuno. La “frantumazione nazionalpopolare” di oggi si deve, come detto, al secondo motivo: a uomini ambiziosi, privi in precedenza di idee proprie, di obiettivi propri, che si sentono “chiamati” dal destino proprio nel momento in cui vedono maturare il successo del Partito nazionalsocialista. Sorsero improvvisamente programmi scopiazzati dai nostri17, si sostennero idee prese in prestito dalle nostre, si formularono obiettivi per cui noi lottavamo da anni, si scelsero vie che il Partito nazionalsocialista batteva da tempo. Si cercò con tutti i mezzi di giustificare la necessità di creare nuovi partiti, malgrado l’esistenza del nostro. 11
Il Partito nazionalsocialista poteva considerarsi la forza politica più forte nel campo nazionalpopolare solo nella città di Monaco [KA, n. 22]. 12 Nell’aprile 1920 l’ingegnere di Düsseldorf Alfred Brunner (1871-1936) fondò ad Hannover il Partito socialista tedesco. Esso aveva una struttura federale, collaborava con gli altri gruppi nazionalpopolari e anteponeva il socialismo al nazionalismo [KA, n. 23]. 13 Julius Streicher (1885-1946), membro del Partito nazionalsocialista dall’ottobre 1922. Dopo la fallita conquista del potere in seno al Partito socialista tedesco (novembre 1921), Streicher confluì nella Deutsche Werkgemeinschaft (Comunità di lavoro tedesca). 14 Le divergenze tra i due partiti riguardavano la restituzione delle colonie e la questione della violenza statale centralizzata (il Partito socialista tedesco era legalitario). Inoltre il Partito socialista tedesco dava maggior spazio al rinnovamento religioso in senso cristiano. 15 La Comunità di lavoro tedesca, fondata da Otto Dickel (1880-1944) nel marzo 1921, aveva allacciato contatti con il Partito socialista tedesco di Norimberga. Streicher decise poi lasciare il gruppo, entrò nel Partito nazista e fondò il gruppo locale di Hersbruck e poi di Norimberga. 16 I motivi dell’ingresso di Streicher erano più profani: dissidio con la dirigenza della Comunità di lavoro tedesca; scarsa libertà di manovra; minore forza finanziaria rispetto a Dickel. Entrando nel Partito nazista, Hitler garantì i suoi debiti e gli prestò 70.000 marchi [KA, n. 27]. 17 Allusione al “Programma dei Venticinque Punti”.
461 Solo che le parole addotte erano tanto più false, quanto più si tentava di nobilitarne i motivi. In verità il motivo fu uno solo: l’ambizione personale del fondatore di voler giocare un ruolo al quale la sua meschina figura non apportava altro che la grande audacia nell’appropriarsi delle idee altrui; un’audacia maligna negli altri ambiti della vita civile. All’epoca non c’erano pensieri e idee altrui che quei cleptomani non avrebbero utilizzato per i loro loschi affari. Erano quelle stesse persone che si sarebbero poi lamentate piagnucolando della “frantumazione nazionalpopolare” e che avrebbero parlato incessantemente della “necessità dell’unità”, nella silenziosa speranza di poter fregare anche gli altri al punto che, stanchi delle continue grida accusatrici, avrebbero lasciato ai ladri, oltre che le idee già rubate, anche i movimenti sorti per realizzarle18. Questo però non avvenne e la redditività delle nuove imprese, grazie alla scarsa capacità dei promotori, non mantenne le promesse iniziali. Ecco che individuarono qualcosa di più conveniente e furono ben lieti di entrare a far parte dei Gruppi di lavoro. Tutto ciò che all’epoca non riusciva a reggersi sulle proprie gambe, si aggregò ai Gruppi di lavoro; la convinzione di partenza era che otto zoppi messi insieme avrebbero fatto un gladiatore. Ma se tra gli zoppi c’era una persona sana, questa doveva usare tutte le sue forze per sorreggere gli altri e finiva per imparare a zoppicare. L’aggregazione ai Gruppi di lavoro l’abbiamo sempre ritenuta una mossa tattica. Bisogna sempre tenere a mente il principio fondamentale: con la formazione di un Gruppo di lavoro le deboli leghe non si trasformano mai in leghe forti, ma una lega più forte può subire spesso un indebolimento. L’idea che la sintesi di gruppi deboli possa creare un fattore di forza, è inesatta, poiché, come l’esperienza insegna, la maggioranza, in ogni caso e in qualsiasi forma, rappresenterà la stupidità e la vigliaccheria. Quindi una molteplicità di leghe, dirette da una presidenza autoeletta di molte teste, è alla mercé della vigliaccheria e della debolezza. Inoltre quel raggruppamento impedisce il libero gioco delle forze, elimina la lotta per la selezione del migliore e impedisce per sempre la necessaria vittoria finale del più sano e del più forte. Quei raggruppamenti sono nemici dell’evoluzione naturale, perché tendono a impedire la soluzione del problema per cui lottano, piuttosto che favorirla. Può darsi che, per ragioni tattiche, il comando supremo di un movimento accetti per breve tempo un’intesa con leghe di quel genere, per affrontare certi problemi e, forse, intraprenda anche passi di comune accordo19. Ma la convergenza non può durare in eterno, se il movimento non vuole rinunciare alla sua missione liberatrice. Se è irretito da quell’intesa, il movimento perde la possibilità e il diritto di permettere il naturale sviluppo della propria forza, di sconfiggere i rivali e di giungere trionfante all’obiettivo prefissato. 18
Allusione al tentativo da parte di von Graefe e di Ludendorff di fondere il Partito nazionalpopolare tedesco della libertà e il Partito nazionalsocialista nell’ottobre 1924 in un unico partito sotto la loro guida (e contro la volontà di Hitler): il Movimento nazionalpopolare per la libertà. 19 Allusione alla temporanea collaborazione tra Partito nazionalsocialista e Partito nazionalpopolare tedesco per la libertà. Nel gennaio 1924 i due partiti formalmente proibiti si presentarono alle elezioni bavaresi col nome di Völkischer Block in Bayern (Blocco nazionalpopolare di Baviera), mentre in maggio formarono un gruppo al Reichstag. Nel giugno 1925 i due partiti formarono la Völkische Arbeitsgemeinschaft (Gruppo di lavoro nazionalpopolare).
462 Non si dimentichi mai che ogni vera grandezza terrena non fu mai conquistata dalle coalizioni, ma che è sempre stato il prodotto di un unico vincitore. I successi delle coalizioni portano già in seno il germe del loro futuro sgretolamento, della perdita di ciò che hanno raggiunto. Le grandi rivoluzioni spirituali che sconvolgono veramente il mondo sono immaginabili e realizzabili solo con lotte titaniche di singole figure, mai come imprese di coalizione. Perciò anche lo Stato nazionalpopolare non sarà mai creato dalla volontà compromissoria di un Gruppo di lavoro nazionalpopolare, ma dalla ferrea volontà di un singolo movimento che si è fatto strada contro tutti.
Approfondimenti didattici 1. Analisi retorica e stilistica
- Individua le principali figure retoriche; - Individua l’esistenza di fallacie retoriche; - Individua i principali “loci” e “topoi”; - Individua la presenza di stereotipi e pregiudizi.
2. Analisi storico-culturale - La galassia nazionalpopolare tedesca: analizza la storia dei movimenti nazionalpopolari nella Germania di inizio Novecento e cerca di delineare le ragioni dell’egemonia nazionalsocialista; - Il dilemma della coalizione: analizza la tesi hitleriana della “solitudine dei numeri primi” e tenta di inquadrare politicamente e storicamente il tema della coalizione nella realizzazione dei programmi ideologici.
A. Gilardoni, Logica e argomentazione. Un prontuario, Milano, Mimesis, 2008.
Capitolo IX. Idee fondamentali sul senso e sull’organizzazione del Reparto d’assalto (S.A.)
Sinossi 1. Genesi Il capitolo 9-II, come molti altri del secondo volume del Mein Kampf, è stato redatto in diversi lassi temporali. Una prima parte (quella dedicata alla Rivoluzione del 1918) risale all’inizio del 1926 (in base alle somiglianze con un discorso tenuto ad Amburgo). Una seconda (storia del partito), inserita al termine del capitolo, si riferisce alla querela contro Erich Dombrowski dell’aprile 1926, che costrinse Hitler a mettere per iscritto le sue argomentazioni. Una terza risale probabilmente alla fine del 1926, quando Hitler, a capo delle S.A. dopo l’esclusione di Ernst Röhm, creò un comando centrale dei Reparti d’assalto1. 2. Contenuto Hitler dedica un intero capitolo a spiegare la ragione storica e “filosofica” delle Sturmabteilungen (Reparti d’assalto, S.A.), partendo dall’assunto che ogni rivoluzione ideale ha bisogno di un “braccio armato”. La prima parte del capitolo intende dimostrare come la Rivoluzione del 1918 si sia evoluta per poter sopravvivere alla “ferma” resistenza dell’esercito. Dato che le basi dell’autorità statale sono tradizionalmente la popolarità, la violenza e la tradizione, e dato che la Rivoluzione ha spazzato via la tradizione (cioè la monarchia) e la violenza (cioè l’esercito), non restava altro che il ricorso alla popolarità. Ma da sola è sufficiente? A questo punto Hitler introduce una seconda tripartizione. Il popolo è diviso in tre parti: quella dei migliori, quella dei peggiori e quella degli “indifferenti”. Dato che la storia è “manicheisticamente” la lotta tra due forze contrapposte e dato che i periodi di crescita si devono ai migliori e quelli di crisi ai peggiori, la morte dei migliori sui campi di battaglia ha necessariamente aumentato la rilevanza dei peggiori. Poiché la Rivoluzione del 1918 è il frutto dei “peggiori”, ma senza violenza il potere statale non può consolidarsi, ecco l’idea dei Consigli dei soldati, cioè un organo capace di “immunizzare” i “migliori” residuali per renderli parte “indifferente” al servizio dei “peggiori”. L’idea dei Consigli dei soldati fallisce, perché i rivoluzionari in mano ai mandanti ebrei non riescono a persuadere la parte “migliore” (ancorché decimata) a giocare in loro favore. Il marxismo decide quindi di “stemperare” la Rivoluzione per evitare di perdere la popolarità e di incorrere nel putsch militare. Questo significa soffocare l’estremismo di sinistra, ricadendo però nella “massificazione” della Rivoluzione, cioè nella stasi. Il ritorno dell’esercito dal fronte di guerra e l’alleanza fra borghesi e marxisti in chiave antibolscevica determina due fenomeni concomitanti: fra i due litiganti (gli estremisti che si dissanguano fra loro), il terzo gode (la Repubblica si consolida). La Rivoluzione e la Repubblica sono l’esito di una visione ideologica e formale della responsabilità: eliminato l’uomo (il senso del dovere), subentra il meccanismo “morto” (la burocratica 1
KA II, p. 1307.
464 passività). Hitler ritorna su un suo vecchio cavallo di battaglia: la viltà borghese, specie dell’ala conservatrice, patriottica solo a parole. I partiti borghesi hanno fallito perché si sono limitati a perseguire la via “intellettuale” a scapito di quella “fisica”. In mancanza della collaborazione tra forza bruta e volontà politica, in assenza di una grande idea e dell’auto-contenimento per l’ordine e la quiete, l’esito non può che essere uno Stato incapace di rappresentare il suo popolo. I Reparti d’assalto sono l’ala del Partito nazionalsocialista preposta a difesa del popolo e dello Stato. Non sono una lega difensiva o un’associazione segreta: la prima è un’organizzazione priva del sostegno statale ovvero di una Repubblica pacifista e democratica; la seconda è una versione nobile quanto inutile di un progetto politico più ampio. La lega difensiva individua il mezzo (il popolo armato), ma non il fine (la difesa di questo Stato); l’associazione segreta erra nel mezzo (l’uccisione del “leader”), pur individuando il fine (una nuova visione del mondo). I Reparti d’assalto vanno quindi ritenuti uno strumento politico del partito al pubblico servizio del popolo tedesco. L’esperienza dei Reparti d’assalto da mera guardia di sala a braccio armato del Partito nazionalsocialista è stata scandita da tre eventi ben precisi: la dimostrazione nell’estate 1922 contro la legge per la difesa della Repubblica; il treno per Coburgo dell’ottobre 1922; l’azione militare durante l’occupazione franco-belga della Ruhr a inizio 1923. Le tre esperienze hanno dimostrato che i Reparti d’assalto devono avere il coraggio di scendere in piazza, che possono contrastare efficacemente le formazioni marxiste, ma che non possono fronteggiare le forze di polizia e militari dello Stato. Bisogna quindi mettere da parte i sentimenti “filistei” e “settari” per ritornare alle origini, cioè i Reparti d’assalto devono essere semplicemente il braccio educativo del partito. 3. Analisi Il capitolo 9-II è stratificato e piuttosto tardo, ma presenta una sua coerenza interna. Muove dall’esigenza di considerare le tre forze trainanti di uno Stato (tradizione, violenza e popolarità) e si conclude con il tentativo di trasformare i Reparti d’assalto in una milizia partitica all’indomani della rinascita del nazionalsocialismo. Il problema è quindi di inserire la milizia partitica nell’alveo dello Stato di “diritto”, cioè di farne una forza educativa del futuro Stato nazionalpopolare e nazionalsocialista. Per far questo è necessario evidenziare i limiti dell’approccio democratico-borghese, la forza del marxismo, il fallimento del 1923 e la rifondazione del 1925. Le S.A. nascono nell’ottobre 1921 come Reparto ginnico e sportivo del Partito nazionalsocialista. L’anno successivo si dividono in due sezioni (i membri attivi e gli altri), nonché in centurie (come le legioni romane). Dopo la marcia dell’agosto 1922 contro la legge per la difesa della Repubblica e la manifestazione durante la “Giornata tedesca” di Coburgo di ottobre, all’inizio del 1923 le S.A. subiscono una trasformazione per mano di Hermann Göring, che le separa dal partito e le trasforma in un’associazione difensiva. In febbraio le S.A. entrano a far parte del Gruppo di lavoro delle Leghe patriottiche, capeggiato da Ernst Röhm. Dopo la fallita manifestazione di forza del 1° maggio a Monaco, le S.A. si radicalizzano in occasione della “Giornata tedesca” del settembre 1923, creando l’Unione combattente tedesca, guidata dallo stesso Hitler. Dopo il fallito putsch le S.A. sono sciolte e Göring ripara a Innsbruck. Durante il periodo di divieto, le S.A. tentano di riorganizzarsi. Röhm sostituisce Göring alla guida dei Reparti d’assalto nel maggio 1924. Eccetto che in Baviera, le S.A. iniziano a formare i primi gruppi in Renania e in Germania centro-settentrionale. Röhm progetta la creazione di S.A. indipendenti dal Partito nazionalsocialista col nome di Frontbann (Fascino del fronte). Malgrado le riserve di Hitler, il progetto di Röhm si realizza nell’agosto 1924. Dopo la rifondazione del Partito
465 nazionalsocialista (febbraio 1925), Hitler decide di imboccare la “via legalitaria”, trasforma le S.A. in truppe ausiliarie e costringe Röhm alle dimissioni in aprile. A fine 1926 Hitler porrà a capo delle S.A. l’ex membro dei Corpi franchi Franz Pfeffer von Salomon. Il primo aspetto importante della descrizione hitleriana è il tentativo di separare la parte “buona” da quella “cattiva”, cioè l’esercito dai politici “rivoluzionari”. Lo Stato nato dalla Rivoluzione del 1918 è retto da un governo debole che non ha tradizione (la democrazia parlamentare acefala è senza precedenti nella storia tedesca), ha una popolarità vacillante (il popolo tedesco non ama il caos) e non ha il monopolio della violenza (l’esercito è stato “imbavagliato” grazie al trattato di Versailles). Le debolezze dei rivoluzionari hanno “moderato” il sovvertimento sociopolitico, che si è limitato a una democrazia di stampo liberale. Lo Stato è debole proprio perché è privo del “cuore popolare”, ma conserva ancora il monopolio della violenza. Che fare, quindi? Il fatto “sorprendente” è costituito dalla mancata radicalizzazione della Rivoluzione. Perché i socialdemocratici non sono arrivati sino in fondo, se la parte “migliore” era ormai decimata? Hitler congettura la presenza dell’esercito e la sua rilevanza nella storia tedesca (e non solo). Siccome l’esercito (la violenza) è uno dei pilastri statali, e siccome i rivoluzionari mancanti di una tradizione ne avevano bisogno, ecco che essi dovettero necessariamente moderarsi o “fingere” di essere la prosecuzione della tradizione liberale guglielmina. La deduzione è piuttosto semplice: solo se i Reparti d’assalto sapranno acquisire la forza e la rettitudine dell’esercito, potranno in futuro essere di aiuto alla causa nazionalsocialista. Le prove a sostegno della tesi sono le tre esperienze del 1922-23: la manifestazione contro la “legge bavaglio” a Monaco, il treno per Coburgo e l’occupazione della Ruhr. La manifestazione dell’estate 1922 è il primo tassello a favore della trasformazione “pubblica” dei Reparti d’assalto. Il popolo deve sapere che il Partito nazionalsocialista ha una sua struttura gerarchica e paramilitare. La “Giornata tedesca” di Coburgo è il secondo tassello: il popolo tedesco deve sapere che il Partito nazionalsocialista non teme di affrontare il marxismo per strada. L’occupazione della Ruhr è il terzo tassello: il Partito nazionalsocialista deve evitare di cadere negli errori borghesi o estremisti. Le leghe difensive non hanno la forza di sostenere l’onere dell’esercito perché mancano dei suoi mezzi e di una visione del mondo. Le associazioni segrete tedesche (allusione chiara agli omicidi politici di quegli anni perpetrati dall’Organizzazione Consul di Hermann Ehrhardt) sono inutili perché non eliminano veri “capi”, ma solo “gregari”. Qui Hitler conclude la sua dimostrazione con una tesi chiara: se è vero che il consenso si basa su tre pilastri, lo è altrettanto che il Partito nazionalsocialista deve rafforzarsi laddove la Repubblica di Weimar è debole. Deve, in altre parole, legarsi maggiormente all’esercito e alla tradizione. Per far ciò, esso deve dare all’esercito ciò che gli compete, limitandosi a educare la gioventù per farne la futura truppa e i quadri del nuovo esercito nazionalpopolare. Ma deve dare anche alla nazione tedesca la sensazione di voler realizzare quei sogni di “ordine e quiete” che i partiti borghesi non sanno più realizzare. Ecco come quadrare il cerchio: utilizzare la forza marxista nell’ambito degli ideali borghesi. Ma questo è possibile solo a un partito che sia socialista e nazionalista in egual misura. 4. Parole-chiave Battaglia delle Fiandre, Burocrazia, Codice di guerra, Comunità nazionalpopolare, Consigli dei Soldati, Corpi franchi, Corpo popolare, Democrazia borghese, Dimostrazione a Königsplatz, Educazione a-nazionale, Educazione militare, Ebreo, Esercito, Fascismo, Forma monarchica, Forze armate, Giornata tedesca, Intellighenzia, Lavoratore manuale, Lega di Spartaco, Legge per la difesa della Repubblica, Marxismo, Occupazione della Ruhr, Partito socialdemocratico indipendente, Pena
466 capitale, Reichstag, Reparti d’Assalto (S.A.), Rivoluzione del 1918, Rivoluzione francese, Rivoluzione russa, Socialdemocrazia, Stato nazionalpopolare, Trattato di Versailles, Treno per Coburgo, Visione del mondo. 5. Bibliografia essenziale - P. Bruppacher, Adolf Hitler und die Geschichte der NSDAP. Eine Chronik, parte 1: 1889-1937, Norderstedt, Books on Demand, 2014; - W. Brustein, The logic of evil. The social origins of the Nazi party, 1925-1933, New Haven (Connecticut), Yale University Press, 1988 - A. Bullock, Hitler. Studio sulla tirannide, Milano, Res Gestae, 2014; - K. Burke, Die Rhetorik in Hitlers “Mein Kampf” und andere Essays zur Strategie der Überredung, Francoforte sul Meno, Suhrkamp, 1967; - D. Capozza, C. Volpato, Le intuizioni psicosociali di Hitler. Un’analisi del “Mein Kampf”, Bologna, Patron, 2004; - W. Carr, Hitler. Studio sul rapporto tra personalità e politica, Napoli, Liguori, 1985; - G. Corni, Hitler, Bologna, Il Mulino, 2007; - Id., Breve storia del nazismo, 1920-1945, Bologna, Il Mulino, 2015; - H. Fenske, Konservatismus und Rechtsradikalismus in Bayern nach 1918, Bad Homburg, Gehlen, 1969; - J. Fest, Hitler. Una biografia, traduzione di F. Saba Sardi, Milano, Garzanti 2005; - L. Herbst, Il carisma di Hitler. L’invenzione di un messia tedesco, traduzione di U. Gandini, Milano, Feltrinelli, 2011; - L.-B. Keil, S.F. Kellerhoff, Deutsche Legenden. Vom “Dolchstoss” und anderen Mythen der Geschichte, Berlino, Linksverlag, 2002; - P. Keller, “Die Wehrmacht der Deutschen Republik ist die Reichswehr”. Die deutsche Armee, 1918-1921, Paderborn, Schöningh, 2014; - S.F. Kellerhoff, Il libro proibito di Hitler. Storia del Mein Kampf, Milano, Rizzoli, 2016; - I. Kershaw, Hitler, vol. 1: 1889-1936, Milano, Bompiani, 2003; - H.-J. W. Koch, Der deutsche Bürgerkrieg. Eine Geschichte der deutschen und österreichischen Freikorps, 1918-1923, Francoforte sul Meno, Ullstein, 1978; - W.C. Langer, Psicanalisi di Hitler. Rapporto segreto del tempo di guerra, Milano, Garzanti, 1975; - U. Lohalm, Völkischer Radikalismus. Die Geschichte des Deutschvölkischen Schutz- und Trutz-Bundes, 1919-1923, Amburgo, Leibniz Verlag, 1970; - P. Longerich, Die braunen Bataillone. Geschichte der SA, Monaco, C.H. Beck, 1989; - Id., Hitler. Biographie, Monaco, Siedler Verlag, 2015; - W. Maser, Adolf Hitler, Roma, Ciarrapico, 1978; - Id., Der Sturm auf die Republik. Frühgeschichte der NSDAP, Francoforte sul Meno, Ullstein, 1981; - A. Musolff, Metaphor, nation and the Holocaust. The concept of the body politic, New York, Routledge, 2011; - W. Nerdinger (ed.), München und der Nationalsozialismus. Katalog des NS-Dokumentations-zentrum München, Monaco, C.H. Beck, 2015; - H.G.W. Nusser, Konservative Wehrverbände in Bayern, Preussen, und Österreich, 1918-1933, con una biografia di Forstrat Georg Escherich, 1870-1941, Monaco, Nusser, 1973, 2 voll.; - K. Pätzold, M. Weissbecker (ed.), Geschichte der NSDAP, 1920-1945, Colonia, PayRossa, 2002; - O. Plöckinger, Geschichte eines Buches. Adolf Hitlers “Mein Kampf”, 1922-1945. Eine Veröffentlichung des Instituts für Zeitgeschichte, Monaco, Oldenbourg, 2011; - Id., Quellen und Dokumente zur Geschichte von “Mein Kampf”, 1924-1945, Stoccarda, Franz Steiner Verlag, 2016; - W. Pyta, Hitler. Der Künstler als Politiker und Feldherr. Eine Herrschaftsanalyse, Monaco, Siedler Verlag, 2015; - P.R. Range, La genesi del Mein Kampf. 1924: l’anno che cambiò la storia, Roma, Newton Compton, 2017; - R.G. Reuth, Hitler. Eine politische Biographie, Monaco, Piper, 2003; - M. Rösch, Die Münchner NSDAP 1925-1933. Eine Untersuchung zur inneren Struktur der NSDAP in der Weimarer Republik, Monaco, Oldenbourg, 2002; - D. Schmidt, M. Sturm, M. Livi (ed.), Wegbereiter des Nationalsozialismus. Personen, Organisationen und Netzwerke der extremen Rechten zwischen 1918 und 1933, Essen, Klartext, 2015;
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La forza del vecchio Stato si basava su tre pilastri: la forma monarchica, la burocrazia e l’esercito2. La Rivoluzione del 1918 ha rovesciato la monarchia, ha indebolito l’esercito e ha lasciato la burocrazia in balia della corruzione partitica. Così si disgregarono i principali sostegni dell’autorità statale, che si basa quasi sempre sui tre elementi. Il primo fondamento dell’autorità lo fornisce sempre la popolarità. Ma un’autorità che si basi solo sulla popolarità è esternamente debole, insicura e indecisa. Ogni detentore di un’autorità basata solo sulla popolarità deve aspirare a migliorare il fondamento dell’autorità e a garantirla con la formazione della potenza. Il secondo fondamento dell’autorità è quindi la potenza, cioè la forza. Essa è sempre più stabile, più sicura, ma non sempre più solida della popolarità. Se unite, popolarità e violenza riescono a sopravvivere insieme per un certo periodo di tempo. Ma l’autorità può sorgere su basi più solide: quelle della tradizione. Se, infine, popolarità, forza e tradizione si uniscono tutte insieme, ecco che l’autorità può essere ritenuta indistruttibile. La Rivoluzione eliminò la possibilità di una loro sintesi. Non c’era più l’autorità della tradizione. Col crollo del vecchio Impero, con la soppressione della vecchia forma statale, con l’annientamento dei segni e dei simboli della sovranità di un tempo, la tradizione fu abbattuta di colpo. L’esito fu un gravissimo indebolimento dell’autorità statale. Anche il secondo pilastro dell’autorità statale, la forza, non esisteva più. Per realizzare la Rivoluzione era stato necessario minare la personificazione della forza violenta e organizzata dello Stato: l’esercito. La Rivoluzione ricorse alle mele marce presenti nell’esercito. Anche se non furono colpite in egual misura dal sovvertimento rivoluzionario, le forze armate, man mano che lasciavano il fronte dopo gli oltre quattro anni di lunga e gloriosa battaglia, furono corrose e sfinite dalla disorganizzazione regnante in patria. E, una volta approdate nelle guarnigioni di
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Qui Hitler riprende il discorso abbozzato a conclusione del capitolo 10-I sulle parti “sane” dello Stato.
468 smobilitazione, finirono in ogni caso nel calderone dell’obbedienza volontaria dei Consigli dei soldati3. Tuttavia l’autorità non si poteva più fondare su un mucchio di soldati ammutinati che consideravano il servizio militare alla stregua di una giornata lavorativa di otto ore. Perciò era stato rimosso anche il secondo elemento, quello che garantiva la stabilità dell’autorità. Alla Rivoluzione non restava altro che fondare la sua autorità sul primo elemento, quello più originario: la popolarità. Ma proprio quel fondamento era straordinariamente insicuro. La Rivoluzione riuscì in un sol colpo a sfasciare il vecchio Stato proprio perché il normale equilibrio della struttura popolare era già stato distrutto dalla guerra. Ogni corpo popolare può dividersi in tre grandi classi: a un estremo i migliori, nel senso dei virtuosi, degli uomini contraddistinti dal coraggio e dalla predisposizione al sacrificio; all’altro i peggiori, nel senso degli uomini viziosi ed egoisti. Tra i due estremi abbiamo la terza classe del grande ceto medio, che non personifica né un radioso eroismo, né la volgare criminalità. Le epoche di crescita di un corpo popolare si hanno solo sotto la guida assoluta dell’estremo dei migliori. Le epoche di sviluppo normale e regolare o di stabilità esistono e durano grazie al dominio visibile dell’elemento di mezzo. In quel caso, i due estremi si bilanciano a vicenda, cioè si elidono. Le epoche di tracollo di un corpo popolare sono caratterizzate dall’azione prevalente dell’estremo dei peggiori. Va detto, però, che la grande massa, la classe di mezzo, appare sulla scena solo quando i due estremi lottano fra di loro e tende a sottomettersi sempre in modo compiacente al vincitore. Se governano i migliori, la grande massa seguirà quell’estremo. Nel caso di ascesa dei peggiori, la grande massa non contrapporrà alcuna resistenza, perché non lotta mai4. La guerra, con i sanguinosi eventi lunghi quattro anni e mezzo, ha distrutto l’equilibrio interno alle tre classi, se è vero che – pur riconoscendo il sacrificio del centro – la guerra portò al quasi completo dissanguamento dell’estremo dei migliori. Perché enorme fu la quantità di sangue eroico tedesco versato in quegli anni5. Centinaia di migliaia furono i perlustratori volontari, i pattugliatori volontari, i portaordini volontari, i telefonisti volontari, i volontari per l’attraversamento dei ponti, i volontari per i sottomarini, i volontari per gli aeroplani, i volontari per i battaglioni d’assalto ecc. Sempre e solo volontari, per quattro anni e mezzo e in tantissime occasioni. Ma il risultato fu sempre lo stesso: il giovane imberbe o l’uomo maturo, colmi di amore patriottico, coraggiosi e votati al dovere, si presentarono per servire il loro paese. E ciò avvenne decine, se non centinaia di migliaia di volte. Progressivamente gli uomini migliori divennero sempre meno. Chi non cadde divenne mutilato o storpio, o se la svignò per
La “obbedienza volontaria” si sviluppò nei mesi post-rivoluzionari come visione alternativa alla “obbedienza militare”. Così specificava la legge per la formazione di una difesa popolare volontaria del 12 dicembre 1918 [KA, n. 12]. 4 Sulla visione hitleriana della massa vedi capitolo 2-I. 5 Durante la Prima guerra mondiale caddero sul campo un milione e duecentomila soldati tedeschi, mentre i dispersi furono circa settecentosettantamila. 3
469 il numero esiguo rimasto in vita6. Sappiamo che nel 1914 si formò un intero esercito di volontari7 che, grazie alla criminale incoscienza dei nostri parlamentari inetti, non avevano ricevuto un valido addestramento in tempo di pace8 e furono esposti al nemico come carne da cannone. I quattrocentomila soldati caduti o divenuti storpi nella battaglia delle Fiandre9, non poterono più essere sostituiti. La loro perdita non coincise solo con la scomparsa di un grosso numero di combattenti. Con la loro morte si sbilanciò il piatto dei migliori e gli elementi volgari, infami e vigliacchi, in breve la massa dell’estremo dei peggiori, pesarono più di prima. Non solo l’estremo dei migliori era stato straordinariamente sfoltito da quattro anni e mezzo di lotta, ma l’estremo dei peggiori si era anche conservato incredibilmente intatto. Per ogni eroe che, dopo l’estremo sacrificio, saliva al Valalla, c’era un imboscato che voltava prudentemente le spalle alla morte per rendersi più o meno utile a casa. Al termine della guerra il quadro era più o meno questo: l’ampio strato intermedio della nazione pagò il dovuto tributo di sangue; la parte migliore, con estremo eroismo, si era quasi completamente immolata; l’estremo dei peggiori, favorito da leggi assurde e dalla disapplicazione di certi articoli del codice di guerra10, si era conservato quasi completamente. La feccia ben conservata del corpo popolare fece poi la Rivoluzione; e la fece indisturbata, perché non aveva più di fronte i migliori: erano semplicemente morti. Quindi la Rivoluzione tedesca fu sin dal principio una faccenda solo in parte popolare. Non è stato il popolo tedesco a comportarsi come Caino11, ma l’oscura marmaglia dei suoi disertori, dei suoi sfruttatori ecc. L’uomo del fronte salutò con gioia la fine della guerra; era felice di poter rimettere piede a casa, di poter rivedere moglie e figli. Non ebbe nulla a che fare con la Rivoluzione: non l’amò, né era ricambiato dai suoi agenti patogeni e dagli organizzatori. Nei quattro anni e mezzo di dura battaglia aveva dimenticato le iene dei partiti. Le loro dispute gli erano diventate estranee. La Rivoluzione ebbe consensi solo in una piccola parte del popolo: nei complici che scelsero il sacco quale segno distintivo dei cittadini onorari del nuovo Stato. I complici amavano la Rivoluzione non per se stessa, come alcuni credono oggigiorno, ma per le sue conseguenze.
I feriti furono circa cinquemilioni e seicentomila, mentre i malati circa cinquemilioni e trecentomila. Di questi furono congedati circa settecentomila soldati [KA, n. 22]. 7 Con la mobilitazione del 1914 non fu creato un esercito di volontari. I corpi riservisti erano 28, le divisioni 55 e le divisioni di fanteria e civili rispettivamente 34 e 6 [KA, n. 23]. 8 L’articolo 47 della Costituzione imperiale del 16 aprile 1871 coscriveva obbligatoriamente tutti i tedeschi. L’articolo 60 limitava le truppe in tempo di pace all’1% della popolazione totale. Nel 1914 il potenziale di arruolabili non fu sfruttato per varie ragioni (tra cui i costi). Nell’estate 1914 furono chiamati e addestrati poco più della metà degli oltre diecimilioni di coscrivibili [KA, n. 24]. 9 La “Prima battaglia delle Fiandre” (20 ottobre-18 novembre 1914) pose fine alla prima fase militare della guerra mondiale. 10 Riferimento al decreto sullo stato di guerra emesso da Guglielmo II il 31 luglio 1914, poi trasformato in legge sui crediti di guerra. 11 Riferimento alla Genesi (4) e alle vicende di Caino e Abele. 6
470 Era difficile fondare un’autorità duratura solo sulla popolarità di quei filibustieri marxisti. Eppure la giovane Repubblica aveva comunque bisogno dell’autorità, se non voleva essere nuovamente divorata, dopo un breve caos, dalla forza ritorsiva degli ultimi elementi migliori del popolo. I sovvertitori temevano di perdere il terreno sotto i piedi in un vortice caotico; temevano di essere colpiti improvvisamente da quel pugno di ferro che, in quei frangenti, sorge nella vita dei popoli, e di essere cacciati via. La Repubblica doveva “rafforzarsi” a ogni costo. Così fu costretta a creare quasi subito, accanto alla colonna vacillante della popolarità, un’organizzazione della forza su cui fondare un’autorità più salda. Quando i matadores della Rivoluzione sentirono vacillare il terreno sotto i piedi fra il dicembre 1918 e il febbraio 1919, si guardarono intorno alla ricerca di uomini pronti a rafforzare con le armi la loro posizione indebolita dallo scarso sostegno popolare. La Repubblica “antimilitarista” aveva bisogno di soldati. Dato che il primo e unico sostegno della loro autorità statale (la popolarità) si basava solo su una massa di profittatori, di ladri, di scassinatori, di disertori e di imboscati, ossia sulla parte peggiore del popolo, era fatica sprecata cercarvi gli uomini disposti a sacrificare la loro vita per il nuovo ideale. Lo strato trainante del pensiero e dell’azione rivoluzionari non fu né in grado, né disposto a mettere i soldati al suo servizio. Il motivo era che non voleva affatto organizzare uno Stato repubblicano, ma voleva smembrare lo Stato esistente per meglio soddisfare i suoi istinti. Il suo motto non fu ordine e consolidamento della Repubblica tedesca, ma il suo saccheggio. Perciò il grido d’aiuto lanciato allora dai timorosi delegati del popolo12 rimase inascoltato in quello strato sociale, anzi provocò amarezza e repulsione. Perché, con quel comportamento, essi avvertirono una violazione della loro buona fede. La formazione di un’autorità basata non più solo sulla popolarità, ma anche sulla potenza, sarebbe stata l’inizio della lotta contro l’aspetto più rilevante della Rivoluzione: il diritto al ladrocinio e il dominio indisciplinato di un’orda di predoni e di evasi liberati dalle loro catene, in breve della peggior feccia. I delegati del popolo poterono strillare quanto volevano, tanto nessuno se ne accorse. E solo al grido “traditore” si resero conto del modo di pensare di quei detentori della loro popolarità. All’epoca, per la prima volta, numerosi giovani tedeschi furono pronti a indossare nuovamente la divisa al servizio dell’ordine e della quiete (così credevano), a rimettersi il fucile sulle spalle, a cingere l’elmetto per fronteggiare i distruttori della patria. Si raggrupparono volontariamente in corpi volontari e, pur odiando ferocemente la Rivoluzione, iniziarono a difenderla e, in pratica, a rafforzarla. Lo fecero in perfetta buonafede13. Il vero organizzatore della Rivoluzione, il suo mandante occulto (l’ebreo internazionalista), aveva previsto assai bene tutti gli eventi. Il popolo tedesco non era Il progetto di milizia popolare sostenuto da Ebert nel dicembre 1918 di fronte ai delegati del popolo fu osteggiato sia dall’esercito tedesco, sia dalle potenze vincitrici che, nel marzo 1919, costrinsero all’abrogazione della legge sulla formazione di una difesa temporanea [KA, n. 44]. 13 Pur esistendo molti legami, Hitler non fu un sostenitore dei Corpi franchi, che riteneva privi di un’ideologia e strumentalizzabili dalle forze repubblicane. Bibliografia: M. Sprenger, Landesknechte auf dem Weg ins Dritte Reich? Zur Genese und Wandel des Freikorpsmythos, Paderborn, Schöningh, 2008. 12
471 ancora maturo per essere trascinato nel sanguinoso pantano bolscevico, com’era accaduto in Russia. Mancava ancora l’unità razziale fra l’intellighenzia e il lavoratore manuale. Inoltre, in Russia ampi strati popolari non erano compenetrati da elementi colti, come accade grossomodo in altri Stati occidentali. In Russia l’intellighenzia era in larga parte di nazionalità straniera o, quantomeno, razzialmente non slava. L’esiguo strato intellettuale superiore della Russia poteva essere cancellato da un momento all’altro per la totale mancanza di punti di raccordo con la grande massa popolare. Oltretutto il livello morale e intellettuale del popolo era terribilmente infimo14.
Figura 1 Assalitori di Riga, frontespizio di un testo dedicato ai Corpi franchi baltici del 1919-1920 [fonte: historischeslexikon-bayerns.de]
In Russia, non appena si riuscì ad aizzare la plebaglia analfabeta contro l’esiguo strato intellettuale superiore privo di legami o di raccordi popolari, il destino del paese era già segnato: la Rivoluzione era cosa fatta. L’analfabeta russo divenne schiavo indifeso dei suoi dittatori ebrei, che furono abbastanza accorti da affibbiare alla dittatura il titolo di “dittatura popolare”. In Germania accadde, invece, che la Rivoluzione ebbe successo solo grazie alla graduale decomposizione dell’esercito. Il vero portatore della Rivoluzione e il La visione razziale di Hitler, in larga parte permeata da Rosenberg, fu contraddetta dal corso successivo della storia sovietica, quando l’alfabetizzazione fu incrementata. 14
472 responsabile la decomposizione dell’esercito non furono certo i soldati del fronte, ma la marmaglia più o meno losca che bazzicava le guarnigioni dell’interno o che forniva servizi “indispensabili” all’economia. Quell’esercito fu rafforzato da decine di migliaia di disertori che, senza correre particolari rischi, voltarono le spalle al fronte. Il vero vigliacco teme solo di morire. Al fronte, però, la morte si presentava quotidianamente in mille forme diverse. Per richiamare al loro dovere gli uomini deboli, esitanti o vigliacchi, c’è solo un modo: il disertore deve sapere che la sua diserzione gli costerà ciò che teme. Al fronte si può morire, ma il disertore deve morire. Solo questa draconiana minaccia può esercitare un effetto intimidatorio non solo sul singolo disertore, ma anche sulla collettività15. E questi erano il senso e lo scopo del codice di guerra. Era sciocco credere di condurre la grande battaglia per l’esistenza di un popolo basandosi unicamente sulla devozione volontaria, derivante dal riconoscimento della necessità del momento. Solo i migliori agiscono spinti dal libero adempimento del dovere; non certo l’uomo medio. Perciò urgono leggi speciali e severe; come, per esempio, le norme contro il furto, che non sono rivolte a chi è fondamentalmente onesto, ma agli elementi incostanti e deboli. Quelle leggi mirano a dissuadere i peggiori e a impedire che l’onesto sia considerato stupido, e che quindi ritenga più conveniente partecipare a un furto piuttosto che starsene a guardare o a farsi persino derubare. Sarebbe sbagliato credere che, in una guerra destinata a durare anni contro ogni previsione16, si potesse fare a meno degli espedienti che l’esperienza secolare, se non millenaria, riteneva idonei, nei periodi difficili e in momenti di grave tensione nervosa, a costringere all’adempimento del dovere gli uomini deboli e incerti. Per l’eroe volontario non occorreva naturalmente alcun codice di guerra; non così per i vigliacchi egoisti che, nel momento del bisogno, anteposero la loro vita a quella della collettività. Solo ricorrendo alle pene più severe, quei pappamolli smidollati non cederanno alla vigliaccheria. Quando lotta continuamente con la morte e deve restare per settimane intere nelle fangose trincee, malnutriti, la recluta insicura non può essere più convinta a non mollare con la minaccia o con l’internamento in prigione, ma solo con l’utilizzo draconiano della pena capitale. È chiaro che la prigione è un luogo mille volte più gradito che il campo di battaglia, perché qui la sua vita preziosa non subisce alcuna minaccia. Fu un terribile sbaglio eliminare la pena capitale in tempo di guerra17, abrogando la pena marziale. Un esercito di disertori, specialmente nel 1918, si riversò nelle retrovie e in patria, contribuendo a formare quell’organizzazione criminale che, improvvisamente, dopo il 7 novembre 1918 fu artefice della Rivoluzione18. Il fronte non aveva nulla a che fare con quella gente. Il fatto che i soldati al fronte desiderassero la pace, costituiva un grave pericolo per il successo della Rivoluzione. Durante la Prima guerra mondiale furono comminate centocinquanta condanne a morte, di cui solo un terzo eseguite. Il maggior tasso di diserzione avvenne in patria piuttosto che al fronte. Durante la Seconda guerra mondiale, la giustizia militare comminò fra le ventimila e le trentamila condanne a morte per diserzione, di cui furono eseguite circa due terzi [KA, nn. 59-61]. 16 In realtà il progetto bellico tedesco del 1914 (il cosiddetto “piano Schlieffen”) prevedeva una guerra lampo sul fronte occidentale da concludere in pochi mesi. La resistenza belga, la presenza britannica e la rapida mobilitazione russa ne determinarono il fallimento. 17 Durante la Prima guerra mondiale i tribunali di guerra straordinari erano competenti sia per i procedimenti contro i soldati, sia per quelli contro i civili. 18 Sul topos del delinquente novembrino vedi capitolo 7-II.
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473 Quando, dopo l’armistizio, gli eserciti tedeschi cominciarono ad avvicinarsi alla patria, il timoroso dilemma dei rivoluzionari fu sempre lo stesso: cosa faranno le truppe del fronte? I grigio-verdi19 tollereranno questa situazione? In quelle settimane la Rivoluzione tedesca dovette apparire esternamente moderata, per evitare il pericolo di essere annientata rapidissimamente da alcune divisioni tedesche. Perché, se all’epoca anche solo un generale di divisione avesse deciso di ammainare gli stracci rossi con le truppe fedeli e di mettere al muro i “Consigli dei soldati”, di spezzare le eventuali resistenze col lanciamine o con le bombe a mano, la sua divisione si sarebbe ingrossata, in meno di quattro settimane, in un esercito di sessanta divisioni. Questo paventava il burattinaio ebreo più di qualsiasi altra cosa. A tal fine la Rivoluzione dovette darsi un certo contegno, non degenerò nel bolscevismo, ma dovette simulare l’“ordine e la quiete” di un tempo20. Di qui le numerose concessioni, l’appello alla vecchia burocrazia, ai vecchi generali dell’esercito. C’era bisogno ancora di tempo e, solo dopo che i Mori avessero fatto il proprio dovere21, si sarebbe assestato il colpo definitivo, togliendo la Repubblica dalle mani degli antichi servitori dello Stato per consegnarla nelle grinfie degli avvoltoi rivoluzionari. Solo così l’ebreo sperava di ingannare i vecchi generali e funzionari statali, di disarmare preventivamente l’eventuale opposizione, facendo leva sull’ingenuità e sulla mitezza del nuovo regime. La realtà ci ha mostrato quanto ciò gli sia riuscito. Solo che la Rivoluzione non fu fatta dai sostenitori dell’ordine e della quiete, bensì da quelli della ribellione, del furto e del saccheggio. La Rivoluzione non rispecchiava i loro desideri; né, per motivi tattici, si potevano spiegare le ragioni di quel decorso, né allestire un regime di loro gradimento. Con la progressiva ascesa della socialdemocrazia, la Rivoluzione perse progressivamente il carattere di brutale rivoluzione partitica. Non che la socialdemocrazia abbandonasse idealmente la sua mèta rivoluzionaria o che i suoi dirigenti avessero altre intenzioni: assolutamente no. Solo che, alla fine, non le restò altro che l’auspicio futuro. Una Rivoluzione non si può più fare con un partito di diecimilioni di aderenti22. Quella massa non rappresenta più un estremo attivo, ma il grande strato intermedio, cioè l’inerzia. Consci di tutto questo, gli ebrei diedero vita alla nota scissione socialdemocratica23. Mentre il Partito socialdemocratico, adeguandosi all’inerzia delle sue masse, si attaccava, come un peso di piombo, alla difesa della nazione, gli elementi più radicali e attivisti se ne andarono per formare nuove colonne d’assalto pronte al combattimento. Il Partito socialdemocratico indipendente e la Lega di Spartaco furono i battaglioni d’assalto del marxismo rivoluzionario. Dovevano creare il fatto compiuto, dovevano preparare il terreno alla massa socialdemocratica, pronta da decenni. La vile borghesia, intanto, era stata giudicata correttamente dal marxismo e trattata con Colore dominante delle uniformi dell’esercito tedesco durante la Prima guerra mondiale. Sulla connotazione ironica hitleriana di “ordine e quiete” vedi capitolo 2-II. 21 Probabile allusione alla tragedia schilleriana La congiura di Fiesco a Genova (1783). 22 Alle elezioni per l’assemblea nazionale del 1919, la socialdemocrazia ottenne il 37,9% dei suffragi totali. 23 La Prima guerra mondiale mise in crisi la socialdemocrazia tedesca, specialmente sul problema dei crediti di guerra. Nell’aprile 1917 l’ala sinistra creò a Gotha il Partito socialdemocratico indipendente.
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474 disprezzo. Nessuno se ne occupò, ben sapendo che l’ossequioso servilismo di una costruzione politica ormai logora non sarebbe mai stato capace di opporre una seria resistenza. Non appena la Rivoluzione fu compiuta e i sostegni principali del vecchio Stato furono distrutti, l’esercito reduce dal fronte cominciò ad apparire come una Sfinge inquietante. Fu quindi frenato il naturale corso delle cose. Il grosso dell’esercito socialdemocratico consolidò le posizioni occupate, mentre il battaglione d’assalto indipendente e gli spartachisti furono messi da parte. Ma il processo non fu indolore. Il loro incontenibile comportamento vandalico era gradito ai burattinai della Rivoluzione non solo perché le formazioni attivistiche insoddisfatte si sentirono tradite e vollero continuare a combattere per conto loro. Non appena avvenne il colpo di Stato rivoluzionario, si crearono ben presto due fazioni: il partito dell’ordine e della quiete e il gruppo del terrore sanguinario. Com’era naturale che fosse, la nostra borghesia entrò subito a bandiere spiegate nella fazione dell’ordine e della quiete. Improvvisamente, quelle penose organizzazioni politiche ritrovarono un terreno solido sotto i loro piedi e giunsero a solidarizzare con il potere che odiavano, ma che soprattutto temevano. La borghesia politica tedesca ottenne il grande onore di sedersi al tavolo con gli stramaledetti dirigenti marxisti nella lotta contro il bolscevismo24. Quindi, fra il dicembre 1918 e il gennaio 1919, la situazione era la seguente. Una Rivoluzione era stata fatta da una minoranza di pessimi elementi seguiti da tutti i partiti marxisti. La sua apparente impronta moderata attirò l’ostilità degli estremisti. Essi iniziarono a lanciare bombe a mano, a sparare con le mitragliatrici per occupare gli edifici statali; in breve minacciarono la Rivoluzione moderata. Nel timore di un’escalation fu stretta una tregua tra i detentori del nuovo regime e i membri di quello vecchio, per condurre insieme una lotta contro gli estremisti. L’esito fu che i nemici del paese cessarono di lottare contro la Repubblica e collaborarono a sconfiggere coloro che, da un punto di vista diverso, erano diventati i nemici della stessa Repubblica. Un’altra conseguenza fu che, in quel modo, apparve scongiurato il pericolo di una lotta tra i sostenitori del vecchio Stato e gli alfieri di quello nuovo. Bisogna tenerlo a mente. Solo chi lo ricorda, capisce come sia stato possibile che un decimo della popolazione impose la Rivoluzione a un popolo che per nove decimi non l’aveva fatta, per sette decimi l’aveva rifiutata e per sei decimi l’aveva odiata25. Progressivamente i combattenti barricadieri spartachisti, da una parte, e i fanatici idealisti nazionalisti, dall’altra, morirono dissanguati. E proprio mentre i due estremi si annientavano a vicenda26, trionfava, come sempre, la massa intermedia. Borghesia e marxismo s’incontrarono sul terreno del fatto compiuto e la Repubblica iniziò a “consolidarsi”. Ciò non impedì inizialmente ai partiti borghesi, specialmente prima
Allusione alla coalizione weimariana tra socialdemocratici, cattolici e liberaldemocratici. I socialdemocratici indipendenti ottenne pochi consensi nel 1919, cioè poco più del 7%. 26 Una stima approssimativa delle vittime della crisi tedesca fra il 1918 e il 1921 parla di circa milleduecento morti [KA, n. 92]. 24 25
475 delle elezioni, di ostentare idee monarchiche, per rievocare, con i fantasmi del vecchio mondo, gli spiriti meschini dei loro seguaci e accalappiarli di nuovo27. Questo non era leale. Dentro di loro quei signori avevano rinunciato da tempo alla monarchia. Ma il sudiciume del nuovo regime iniziò a esercitare la sua influenza corruttrice anche nel campo dei partiti borghesi. Il tipico politicante borghese si sentiva a suo agio nella melma corrotta della Repubblica piuttosto che nella linda durezza del defunto Stato, ancora impresso nella sua memoria. Come detto, dopo l’annientamento del vecchio esercito la Rivoluzione fu costretta a creare un nuovo fattore di potenza, per rafforzare la sua autorità statale. Al momento poté farlo solo utilizzando i seguaci di una visione del mondo opposta. Solo con loro sarebbe risorto lentamente un nuovo esercito che, numericamente limitato dagli accordi di pace, avrebbe cambiato la sua mentalità, divenendo, nel corso del tempo, uno strumento della nuova struttura statale. Se, mettendo da parte i difetti reali del vecchio Stato, ci chiediamo quale sia stata la causa della Rivoluzione, possiamo affermare che il suo successo fu dovuto a due ragioni: 1. La fossilizzazione dei nostri concetti di adempimento del dovere e di obbedienza; 2. La vile passività dei nostri partiti conservatori. Aggiungiamo che la fossilizzazione dei nostri concetti di adempimento del dovere e di obbedienza è l’effetto conclusivo della nostra educazione a-nazionale e puramente statale28. Anche qui si confonde il mezzo con il fine. Il senso e l’adempimento del dovere e l’obbedienza non sono fini a se stessi, così come non è lo Stato: devono essere i mezzi per garantire e per assicurare l’esistenza terrena a una comunità di organismi spiritualmente e fisicamente affini. Nel momento in cui crolla visibilmente un corpo popolare ed è apparentemente abbandonato alla peggiore sovversione per mano di alcuni farabutti, l’obbedienza e l’adempimento del dovere non sono altro che formalismo dottrinario e pura follia. Viceversa il rifiuto dell’obbedienza e dell’“adempimento del dovere” può salvare un popolo dal suo declino. Secondo la vigente concezione dello Stato, il generale di divisione, che a suo tempo ricevette l’ordine di non sparare, ha compiuto il suo dovere e quindi, se non spara, ha agito bene, perché la cieca obbedienza formale borghese è più importante che la vita del suo popolo29. Secondo la concezione nazionalsocialista, in quei frangenti non vige l’obbedienza ai deboli superiori, ma alla comunità nazionalpopolare30. In quei frangenti bisogna assumersi la responsabilità di fronte alla nazione intera.
27 Dopo la fine dell’Impero tedesco, i partiti borghesi assunsero posizioni diverse sul ritorno della monarchia. La coalizione weimariana era repubblicana, mentre fra i partiti popolari e conservatori vi erano alcune simpatie monarchiche. 28 Sull’educazione nazionalsocialista vedi capitolo 2-II. 29 Probabile riferimento al putsch di Kapp-Lüttwitz del marzo 1920, di fronte al quale le forze armate rimasero indifferenti. Bibliografia: J. Erger, Der Kapp-Lüttwitz-Putsch. Ein Beitrag zur deutschen Innenpolitik, 1919/1920, Düsseldorf, Droste, 1967; E. Könemann, G. Schulze (ed.), Der Kapp-Lüttwitz-Putsch. Dokumente, Monaco, Olzog, 2002. 30 Sul concetto di comunità nazionalpopolare vedi capitolo 2-I.
476 Il successo della Rivoluzione si deve al fatto che una visione personale della responsabilità è andata perduta nel nostro popolo, o meglio nei nostri governi, lasciando il posto a una visione puramente dottrinaria e formale. In secondo luogo il motivo più profondo della codardia dei partiti “conservatori” è la scomparsa della parte attivistica e volenterosa del nostro popolo, che si dissanguò sui campi di battaglia. Detto questo, i nostri partiti borghesi, che sono le uniche strutture politiche legate al vecchio Impero, erano convinti di difendere le loro posizioni esclusivamente per vie intellettuali, persuasi che l’utilizzo di mezzi fisici spettasse unicamente allo Stato. Una concezione assurda, sintomo di debolezza e di decadimento progressivo, a maggior ragione in un’epoca in cui l’avversario politico aveva abbandonato da tempo quella posizione e professava pubblicamente di voler raggiungere i suoi scopi politici ricorrendo alla forza. Nell’istante in cui, nella democrazia borghese, si fece largo il marxismo, l’appello a condurre la battaglia con le “armi intellettuali” era un’assurdità che sarebbe costata molto cara. Perché il marxismo sosteneva da sempre che un’arma va usata in base alla convenienza e che il fine giustifica i mezzi. I giorni tra il 7 e l’11 novembre 1918 dimostrarono quanto fosse giusta la sua visione delle cose. All’epoca il marxismo non s’interessò minimamente del parlamentarismo e della democrazia, ma assestò a entrambi un colpo mortale per mezzo una banda di delinquenti intenti a sbraitare e a sparare. Naturalmente le ciarliere organizzazioni borghesi erano incapaci di difendersi. Dopo la Rivoluzione, i partiti borghesi, mutando le etichette commerciali, riemersero improvvisamente e i loro prodi dirigenti strisciarono fuori dal nascondiglio delle loro tetre cantine e dei luminosi solai. Come tutti i rappresentanti di simili vecchie costruzioni, essi avevano dimenticato i loro errori e non avevano imparato nulla. Il loro programma politico apparteneva al passato, sempre che non si fossero veramente conciliati col nuovo regime. Il loro obiettivo era quello partecipare alla nuova lotta politica e le loro armi erano sempre le parole. Anche dopo la Rivoluzione i partiti borghesi capitolarono miseramente di fronte alla strada. Quando fu presentata la legge per la difesa della Repubblica, non esisteva una maggioranza parlamentare favorevole. Solo che, di fronte a duemila marxisti scesi in strada, gli “statisti” borghesi ebbero così tanta paura che, contro le loro convinzioni, approvarono il provvedimento per timore di essere bastonati di santa ragione dalla massa infuriata, non appena fossero usciti del Reichstag. Purtroppo, dopo l’approvazione della legge, questo non si verificò31. Così il nuovo Stato nacque privo di un’opposizione nazionalista.
L’assassinio del ministro degli esteri Walther Rathenau (24 giugno 1922) a opera di membri dell’Organizzazione Consul suscitò profonda indignazione nell’opinione pubblica tedesca. Come reazione fu approvata il Republikschutzgesetz (legge per la difesa della Repubblica, 18 luglio 1922), che limitava la libertà di stampa, di espressione e di associazione. Bibliografia: C. Schölzel, Walther Rathenau. Eine Biographie, Paderborn, Schöningh, 2006; L. Gall, Walther Rathenau. Porträt einer Epoche, Monaco, C.H. Beck, 2009; S. Volkov, Walther Rathenau. Ein jüdisches Leben in Deutschland, Monaco, C.H. Beck, 2012. 31
477 Le sole organizzazioni che, all’epoca, avrebbero avuto la forza di fronteggiare il marxismo e le sue masse infuriate, erano i Corpi franchi, le organizzazioni di difesa personale e, infine, le leghe tradizionali. Il motivo per cui anche la loro esistenza non inferse alcuna svolta percettibile al corso degli eventi era che, come i partiti nazionali non poterono esercitare alcuna influenza, in mancanza di una forza con cui minacciare la strada, anche le leghe difensive erano prive di un’idea politica e, soprattutto, di un obiettivo politico reale32. Il successo del marxismo si doveva alla totale sintonia fra volontà politica e brutalità attivistica. La Germania nazionale eliminò da ogni configurazione politica tedesca la collaborazione tra la forza bruta e la geniale volontà politica. Qualunque fosse la loro volontà, i partiti “nazionalisti” non avevano la benché minima forza di affermarla, quantomeno in strada. Le leghe difensive avevano sì la forza, padroneggiavano sì per le strade e nello Stato, ma non avevano alcuna idea o scopo politico per cui impiegarla al servizio della Germania nazionale. In entrambi i casi la scaltrezza degli ebrei riuscì a perpetuare o a rafforzare formalmente il nostro infausto destino. Con infinita abilita l’ebreo seppe lanciare sulla stampa l’idea del “carattere apolitico” delle leghe difensive e, con altrettanta scaltrezza, lodò e rivendicò la “pura spiritualità” nella lotta politica33. Milioni di stupidi tedeschi ripeterono pappagallescamente quelle assurdità, senza avere la più pallida idea di come si fossero disarmati e si consegnassero indifesi all’ebreo. Ma anche qui c’è una spiegazione. L’assenza di una grande idea comporta sempre una limitazione della forza combattiva. La convinzione del diritto di impiegare l’arma più brutale è sempre legata alla presenza di una fede fanatica nella necessità della vittoria di un nuovo ordine rivoluzionario. Un movimento che non combatta per scopi o ideali così elevati non metterà mai mano all’arma estrema. L’insorgenza di una nuova grande idea fu il segreto del successo della Rivoluzione francese; l’idea consegnò la vittoria alla Rivoluzione russa; e solo l’idea diede al fascismo la forza di sottomettere un popolo a un nuovo regime vittorioso34. I partiti borghesi non ne sono capaci. Non solo perché il loro scopo era la restaurazione del passato, ma anche perché era ciò che volevano le leghe difensive, sempre che dotate di obiettivi politici. Esse perpetuarono le vecchie tradizioni dell’associazione dei veterani e del Kyffhäuser35, che contribuirono ad atrofizzare l’arma più affilata a disposizione la Germania e la misero al servizio lanzichenecco della Repubblica. Il fatto che le leghe agissero con le migliori intenzioni e, soprattutto, in buona fede, non cambia di una virgola il loro folle modo di procedere.
In realtà, senza l’impiego di formazioni volontarie la Repubblica di Weimar non sarebbe sopravvissuta nei primi anni postbellici. La polemica di Hitler era rivolta alle associazioni difensive che avrebbero annacquato la forza d’urto del movimento nazista durante il putsch del novembre 1923 [KA, n. 116]. 33 Sul topos antisemita della stampa ebraizzata vedi il capitolo 10-I. 34 Sull’immagine hitleriana del fascismo vedi capitoli 13-II e 15-II. 35 Il Kyffhäuser-Auschuss der Vereinigten Deutschen Kriegerverbände (Comitato Kyffhäuser delle leghe unitarie tedesche dei combattenti) fu un’associazione di veterani fondata nel 1896 in occasione dell’inaugurazione del monumento del Kyffhäuser.
32
478 Il marxismo ottenne, grazie al consolidamento dell’esercito repubblicano, il sostegno necessario alla sua autorità e, con logica coerenza, iniziò a smantellare le leghe difensive nazionaliste apparentemente pericolose, sostenendone l’inutilità. Alcuni dirigenti particolarmente temerari, di cui il marxismo diffidava, furono denunciati e poi messi in prigione36. Tutti ebbero la sorte che si meritavano. Con la fondazione del Partito nazionalsocialista apparve per la prima volta sulla scena un movimento, il cui scopo, diversamente dai partiti borghesi, non consisteva nella meccanica restaurazione del passato, ma nello sforzo di erigere uno Stato nazionalpopolare organico al posto dell’attuale e assurdo meccanismo statale. Il giovane movimento sosteneva, sin dal principio, che la sua idea andava sì difesa intellettualmente, ma che la difesa, se necessario, andava garantita anche col ricorso a mezzi brutali. Convinto ciecamente nell’enorme significato della nuova dottrina, era ovvio che il giovane movimento perseguisse l’obiettivo a ogni costo. Ho già accennato al fatto che un movimento, se vuole conquistare il cuore del popolo, deve difendersi da sé contro gli atti terroristici avversari. La storia universale ci insegna spesso che il terrore rappresentato da una visione del mondo non può mai essere sconfitto dalla formale violenza statale, ma solo da un’altra nuova visione del mondo altrettanto audace ed energica. Una constatazione sgradita al fine palato della burocrazia protettrice dello Stato, ma è un fatto inoppugnabile. La violenza di Stato può garantire solo ordine e quiete, se quello Stato coincide profondamente con la visione del mondo egemone. In tal caso gli elementi violenti sembrano nature criminose e non sono considerati i sostenitori di un pensiero totalmente opposto alla visione statale. Lo Stato può anche ricorrere per secoli a imponenti misure coercitive contro un terrore minaccioso, ma è comunque destinato a soccombere. Il marxismo attaccò massicciamente lo Stato tedesco. In settant’anni di lotta37 lo Stato non è riuscito a impedire la vittoria di quella visione del mondo. Pur avendo comminato centinaia di anni di pene detentive e di misure più sanguinose, lo Stato fu costretto a una capitolazione quasi totale. (La classe dirigente borghese tenderà a negarlo, in modo poco convincente). Ma lo Stato che, il 9 novembre 1918, ingoiò incondizionatamente il rospo davanti al marxismo, non risorgerà improvvisamente da vincitore, al contrario: gli imbecilli borghesi sugli scranni ministeriali blaterano della necessità di non reagire contro i “lavoratori”, cioè il marxismo. Identificando lavoratori e marxismo, quei signori non commettono solo una vile e ipocrita falsificazione della verità38, ma tendono anche a dissimulare la loro capitolazione di fronte alle idee e all’organizzazione marxiste.
Le pene comminate non furono proporzionali alla dimensione e alla brutalità della violenza dei radicali di destra dopo la Prima guerra mondiale. Secondo lo statistico pacifista Emil Gumbel (1891-1966), fra il gennaio 1919 e il giugno 1922 i morti riconducibili alle organizzazioni radicali di destra furono 354, mentre quelli riconducibili alla sinistra radicale 22 [KA, n. 132]. 37 Possibile allusione al periodo intercorso tra la pubblicazione del Manifesto del partito comunista di MarxEngels e la Rivoluzione d’Ottobre. 38 Sulla visione hitleriana di marxismo vedi capitolo 15-II. 36
479 Dato il completo asservimento statale al marxismo, il movimento nazionalsocialista non deve solo impedire intellettualmente il suo successo, ma deve anche difendersi contro il terrore dell’Internazionale trionfante. Ho già detto come l’esperienza ci abbia lentamente convinto della necessità di una difesa assembleare che ha assunto progressivamente il carattere di una truppa d’ordine organizzata in una determinata forma39. La nostra truppa d’ordine poteva assomigliare esteriormente alle leghe difensive, ma, di fatto, era tutt’altra cosa. Come detto, le organizzazioni difensive tedesche non avevano una precisa connotazione politica. Erano solo leghe di autodifesa, più o meno ben formate e organizzate. Erano un complemento illegale alle forze legali dello Stato. Il loro carattere di Corpi franchi era giustificato dal modo in cui esse erano composte e dalla situazione di allora. Ma non si potevano chiamare affatto libere formazioni in lotta per una libera idea. Non lo erano, malgrado la posizione antirepubblicana di alcuni dirigenti e di intere leghe. Non basta essere convinti dell’indecenza di una situazione esistente per parlare di convinzione nel senso più elevato del termine. La convinzione si radica solo nella visione di un regime nuovo che bisogna instaurare, nell’idea che il compito supremo della vita sia quello di realizzarla. La differenza fra le truppe dell’ordine del movimento nazionalsocialista e quelle delle leghe difensive è che le nostre non furono o non vollero essere asservite al regime rivoluzionario, ma lottarono per una nuova Germania. Certo, le nostre truppe d’ordine avrebbero dovuto solo difendere le sale. Il loro compito iniziale era quello di consentire lo svolgimento delle assemblee, senza impedimenti da parte avversaria. Già all’epoca esse erano state educate all’attacco cieco, non perché, come si cianciava negli stupidi circoli nazionalpopolari, onorassero lo spirito supremo del manganello, ma perché capivano che lo spirito più nobile non conta nulla se il suo sostenitore è ucciso o preso a manganellate. La storia, in effetti, insegna che non di rado le teste più intelligenti perirono sotto i colpi di piccoli iloti40. La violenza non era il fine delle nostre truppe, che dovevano difendere gli alfieri della meta spirituale dalla violenza avversaria. Le truppe d’ordine capirono che non dovevano difendere uno Stato che non garantiva alcuna protezione alla nazione; ma che, al contrario, devono difendere la nazione contro coloro che minacciavano di distruggere il popolo e lo Stato. Dopo la tempestosa assemblea nello Hofbräuhaus di Monaco41, le truppe d’ordine ricevettero, a eterno ricordo dell’eroico assalto sferrato da pochi, il nome di Reparto d’assalto42. Come indica il nome, essi sono solo un reparto del movimento. Sono solo
Sul problema della difesa assembleare vedi capitolo 7-II. Gli iloti erano gli schiavi privi di cittadinanza nella Sparta antica. 41 Riferimento all’adunanza del 4 novembre 1921 descritta nel capitolo 7-II. 42 Con l’indicazione di Sturmabteilung (“Reparto d’assalto”) il Partito nazionalsocialista ricorse a un “mito” della Prima guerra mondiale. I membri dei battaglioni d’assalto formati nel 1916 erano l’elite dell’esercito tedesco. Dopo il 1918 molti di loro divennero il nucleo dei Corpi franchi [KA, n. 151]. 39 40
480 una parte, come lo è la propaganda, la stampa, l’istituto scientifico e altri organismi di partito43. Ci accorgemmo della loro necessità non solo in quella memorabile assemblea, ma anche quando tentammo di espanderci gradualmente verso il resto della Germania. Non appena apparivamo pericolosi, il marxismo non perdeva occasione per tentare di soffocare sul nascere ogni comizio nazionalsocialista, cioè di impedirne lo svolgimento. Inoltre era piuttosto ovvio che le organizzazioni partitiche del marxismo approvassero ciecamente quelle azioni in tutti i loro corpi rappresentativi. Ma cosa dire dei partiti borghesi, che, pestati a loro volta dal marxismo, impedivano spesso che i loro oratori si presentassero in pubblico? O che manifestavano un’incomprensibile e stupida soddisfazione quando le nostre battaglie contro il marxismo si concludevano con un esito sfavorevole? Quei partiti si rallegravano che l’invincibile marxismo non fosse sconfitto nemmeno da noi. Cosa dire dei funzionari statali, dei questori, dei ministri che, con indecente cinismo, amavano presentarsi pubblicamente come uomini “nazionali”, ma che, in ogni scontro pubblico, fornivano le più vergognose attenuanti al marxismo? Che dire di quegli esseri così abbietti che, pur di ottenere un miserevole elogio sui giornali ebraici44, giungevano a perseguitare quegli eroi che, a rischio della loro stessa vita, avevano impedito alla canaglia rossa di dilaniarli e di appenderne i cadaveri ai pali dei lampioni? Quei fenomeni così tristi provocarono un giorno il commento sincero dell’indimenticabile presidente Pöhner45 che, dotato di severa rettitudine, non sopportava gli adulatori: “In vita mia volli essere prima di tutto un tedesco e poi un funzionario, e non vorrei mai essere scambiato con quegli individui che si prostituiscono al padrone di turno”. Fu quindi assai penoso che quei lenoni non solo ridussero in proprio potere decine di migliaia di onesti e leali funzionari dello Stato, ma che li contagiarono anche con il loro cinismo, li perseguitarono con odio feroce e li scalzarono dai loro uffici e posizioni, pur continuando a presentarsi ipocritamente come uomini “nazionalisti” 46. Non potevamo attenderci alcun sostegno da persone del genere e lo ricevemmo solo in rarissimi casi. Soltanto imbastendo una forza difensiva, il nostro movimento avrebbe potuto proseguire l’attività e conquistare quell’attenzione e quella stima che si tributano a coloro che, se attaccati, sanno difendersi da sé. L’idea guida alla base dell’addestramento del Reparto d’assalto era l’intenzione, accanto all’attività fisica, di farne il rappresentante più convinto dell’idea nazionalsocialista e di rafforzarne massimamente la disciplina. Il Reparto non doveva aver nulla a che fare né con le leghe difensive borghesi, né con le associazioni segrete.
Secondo le linee guida del 1º luglio 1926, la dirigenza nazionale era divisa in cinque settori: sede centrale, propaganda e stampa, organizzazione, amministrazione di cassa e comando supremo dei Reparti d’Assalto. Il comando delle S.A. fu in mano a Pfeffer von Salomon dal 1º febbraio 1926 al 29 agosto 1930, quando fu assunto da Hitler in persona [KA, n. 152]. 44 Sulla stampa “ebraizzata” vedi capitolo 10-I. 45 Sulla figura di Pöhner vedi capitolo 12-I. 46 Dopo che il governo bavarese abrogò lo stato d’emergenza, il 28 settembre 1921 Pöhner si dimise da capo della polizia di Monaco. In ottobre fu nominato consigliere del tribunale supremo bavarese. 43
481 Il motivo per cui all’epoca non volli che il nostro Rapporto d’assalto diventasse una lega di difesa47, era il seguente. Una formazione difensiva non può essere creata oggettivamente da leghe private senza il concorso statale. Chi la pensa diversamente sopravvaluta le proprie capacità48. È escluso che, oltre un certo numero di aderenti, si possano costruire con la “disciplina volontaria” delle organizzazioni dotate di valore militare. Verrebbe a mancare il sostegno più importante dell’autorità di comando: il potere sanzionatorio. Nell’autunno 1918 o, meglio, nel febbraio 1919 fu possibile istituire i “Corpi franchi” non solo perché erano, in larga parte, combattenti del fronte addestrati alla scuola dell’esercito49, ma anche perché i doveri imposti ai singoli li costringevano, almeno per un certo periodo, all’assoluta disciplina militare. La disciplina manca completamente in una “organizzazione difensiva” su base volontaria. È inversamente proporzionale alla dimensione della lega, che assumerà il carattere apolitico delle vecchie associazioni di veterani. Non si può impartire alle grandi masse un’educazione volontaria al servizio militare senza l’incondizionata autorità di comando. Solo pochi si sottometteranno spontaneamente alla coercizione dell’obbedienza, ritenuta naturale e necessaria nell’esercito. Inoltre una vera preparazione militare non si può impartire per via della ridicola quantità di mezzi a disposizione della lega difensiva. Anche se il compito principale della lega dovesse essere una preparazione migliore e più affidabile. Otto anni dopo la guerra, nessuna leva della gioventù tedesca ha ancora ricevuto un metodico addestramento militare. Ma il compito di una lega difensiva non può essere quello di raccogliere leve già addestrate, altrimenti si potrebbe calcolare con matematica certezza il momento in cui l’ultimo membro abbandonerà quella corporazione. Il giovanissimo soldato del 1918 non sarà più in grado di combattere fra vent’anni e il tempo non sembra darci tregua. La lega difensiva assumerà necessariamente il carattere di una vecchia associazione di veterani. Ma questo non può essere il senso di un’istituzione che non si chiama lega combattente, ma lega difensiva, che vede la sua missione non solo nella conservazione della tradizione di vecchi soldati, ma anche nella preparazione e nella rappresentanza dell’idea difensiva, quindi nella creazione di un corpo in grado di difendersi. Quel compito esige necessariamente l’addestramento di elementi privi di formazione militare; compito praticamente impossibile nelle leghe difensive. Con un addestramento settimanale di una o due ore non si possono certo creare veri soldati. Date le enormi richieste che il servizio militare di oggi avanza a ciascun individuo, una ferma biennale non sarebbe sufficiente a trasformare giovani inesperti in soldati In realtà Hitler tentò di “militarizzare” i Reparti d’assalto integrandoli nell’Arbeitsgemeinschaft der Vaterländischen Kampfverbände (Gruppo di lavoro delle leghe patriottiche) nel febbraio 1923 dopo l’occupazione franco-belga della Ruhr. In settembre, durante la “Giornata tedesca” di Norimberga, l’Arbeitsgemeinschaft si trasformò nel Deutscher Kampfbund (Lega combattente tedesca), di cui faceva parte anche il Partito nazionalsocialista [KA, n. 165]. 48 Qui Hitler anticipa il contrasto con Ernst Röhm che avrebbe poi “risolto” definitivamente con il RöhmPutsch (la “notte dei lunghi coltelli” del 30 giugno 1934). Röhm intendeva fare delle S.A. una terza forza militare accanto all’esercito e alla polizia per proseguire la rivoluzione nazionalsocialista. 49 Sul topos dell’esercito come “scuola della nazione” vedi capitolo 10-I.
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482 addestrati50. Tutti noi ci ricordiamo l’esito nefasto sul campo di battaglia dei giovani soldati mal addestrati. Certe formazioni di volontari, addestrate per quindici o venti settimane con ferrea decisione e con sconfinata dedizione, divennero al fronte solo carne da cannone51. Solo distribuendole tra le file di vecchi soldati esperti, addestrandole almeno quattro/sei mesi, le reclute più giovani divennero membri utili di un reggimento. Furono guidate dagli anziani e, a poco a poco, si abituarono ai loro doveri. È inutile voler formare una truppa senza una chiara autorità di comando e senza ampi mezzi a disposizione, con un addestramento di una o due ore la settimana! Così si può tutt’al più rinfrescare la memoria di vecchi soldati, non certo trasformare in soldati dei giovani. Quel modo di agire non porta da nessuna parte oppure è del tutto inutile, come lo dimostra il fatto che, mentre una lega difensiva volontaria addestra o cerca di addestrare all’idea difensiva, in mezzo a grandi sforzi e fatiche, alcune migliaia di persone dotate di buona volontà (le altre non le consideriamo nemmeno), lo Stato, impartendo un’educazione pacifista e democratica, priva milioni e milioni di giovani del loro istinto naturale, avvelena il loro pensiero logico patriottico e, gradualmente, li trasforma in un gregge alla mercé della volontà altrui52. Sono quindi vani tutti gli sforzi profusi dalle leghe difensive di infondere le loro idee nella gioventù tedesca. Ancor più importante è un altro motivo, che mi spinse a oppormi contro ogni tentativo di creare formazioni difensive militari su base volontaristica. Ammettiamo pure che, malgrado le difficoltà elencate, una lega difensiva riesca, anno dopo anno, a impartire a un certo numero di tedeschi un’istruzione riguardante le convinzioni, la preparazione fisica e l’addestramento militare, l’esito sarebbe quasi nullo in uno Stato che, tendenzialmente, non desidera affatto, anzi odia formazioni di quel tipo, perché contraddicono completamente gli scopi più profondi della sua classe dirigente: la rovina dello Stato. In ogni caso il risultato sarebbe irrisorio sotto governi che non solo hanno dimostrato nei fatti di non avere alcun interesse nella forza militare della nazione, ma che soprattutto non sarebbero mai disposti a permettere il ricorso a quella forza, tranne che per proteggere la loro esistenza perniciosa. E oggi è proprio così. È ridicolo voler addestrare, al crepuscolo della sera, decine di migliaia di persone, quando lo Stato, solo pochi anni prima, sacrificò vergognosamente otto milioni e mezzo di soldati ben addestrati che non gli servivano più e che, quale ringraziamento per il loro sacrificio, li abbandonò agli insulti La richiesta hitleriana fu realizzata subito dopo la Machtergreifung (presa del potere). La durata del servizio militare fu portata a un anno nel 1935, mentre l’anno successivo fu estesa a due. 51 L’affermazione riflette l’esperienza hitleriana, la cui formazione militare era stata breve. Volontario in agosto, due mesi dopo fu spedito nelle Fiandre. Al termine dell’offensiva di novembre, un quarto dei membri del Reggimento List erano morti. A fine anno la quota era salita all’86% [KA, n. 180]. 52 La posizione dei partiti politici tedeschi verso le forze armate era eterogenea e ideologizzata. Mentre la sinistra era più critica, il centro manteneva una posizione più moderata. Il Partito popolare nazionaltedesco aveva comunanza di vedute con l’esercito. Il Partito nazionalsocialista, invece, se ne distanziava e manteneva un doppio binario tattico e ideologico: pur condividendo la violenza come strumento militare, non apprezzava la fedeltà repubblicana delle forze armate [KA, n. 182]. 50
483 generali53. Vogliamo formare soldati per uno Stato che, un tempo, insudiciò e sputò addosso agli elementi più gloriosi, lasciò strappare dal loro petto le onorificenze e le coccarde, calpestò le bandiere e ne sminuì i servizi? Lo Stato attuale ha intrapreso anche solo un passo nella direzione di ristabilire l’onore del vecchio esercito, chiamando a rispondere coloro che lo destabilizzarono e lo insultarono? Niente di tutto ciò. Al contrario quella gentaglia spadroneggia oggi nei principali uffici pubblici. – Come si diceva a Lipsia: “Il diritto si accompagna alla forza”. Dato che oggi il potere si trova nelle mani delle stesse persone artefici della Rivoluzione e che quella Rivoluzione rappresenta il più volgare tradimento perpetrato contro il nostro paese, la più miserevole mascalzonata della storia tedesca, non c’è alcun motivo di aumentare il potere di quella gentaglia creando un nuovo esercito. Non ce n’è ragione54. Ma il valore che lo Stato attribuì al suo rafforzamento militare dopo la Rivoluzione del 1918, fu chiaro dalla sua presa di posizione contro le grandi organizzazioni difensive di allora. Finché difesero personalmente i vili rivoluzionari, le leghe furono benvenute. Ma non appena il graduale sfacelo del nostro popolo eliminò il pericolo rivoluzionario e la loro esistenza implicò un rafforzamento politico nazionalista, le leghe divennero superflue e lo Stato fece il possibile per disarmarle, per disperderle con la forza. Raramente la storia ricorda esempi di riconoscenza principesca. Ma solo un patriota borghese può contare sulla riconoscenza di rivoluzionari assassini, di saccheggiatori del popolo o di traditori della nazione. Esaminando il problema della convenienza delle leghe difensive volontarie, non posso mai fare a meno di chiedermi: perché addestro i giovani? Come saranno impiegati? Quando saranno chiamati alle armi? Le risposte alle domande sono le migliori linee guida per il nostro comportamento. Se lo Stato di oggi dovesse ricorrere a elementi addestrati in questo modo, non lo farebbe mai per difendere l’interesse nazionale verso l’esterno, ma sempre e solo per difendere internamente gli snaturati dalla rabbia generale del popolo imbrogliato, tradito e venduto. Per questo motivo il Reparto d’assalto del Partito nazionalsocialista non doveva avere nulla in comune con un’organizzazione militare. Era un mezzo difensivo ed educativo del movimento nazionalsocialista. Le sue mansioni riguardavano un settore del tutto specifico rispetto a quello delle leghe difensive55.
La Repubblica di Weimar cercò di onorare al meglio i soldati morti, feriti o i reduci attraverso alcuni provvedimenti legislativi, come una legge sull’occupazione dei mutilati (aprile 1920) o una sull’assistenza (maggio 1920) [KA, n. 183]. 54 Hitler scrisse le parti essenziali del secondo volume del Mein Kampf fra l’agosto 1925 e il settembre 1926. In quei mesi si alternarono alla guida del paese i seguenti governi: Luther I (cattolici, popolari, popolari bavaresi e nazionaltedeschi) dal gennaio 1925 al gennaio 1926; Luther II (cattolici, liberaldemocratici, popolari e popolari bavaresi) fino a maggio 1926; e Marx III (cattolici, liberaldemocratici, popolari e popolari bavaresi) sino a febbraio 1927. 55 L’osservazione di Hitler può essere considerata un tentativo di giustificare la sua rottura con Röhm all’inizio del 1925. Durante la prigionia Hitler ammise che la Repubblica si era stabilizzata e che il colpo di Stato non era attuabile. Dopo il rigetto della sua posizione autonomista, nel maggio 1925 Röhm abbandonò tutte le sue cariche interne al partito e scappò in Bolivia [KA, n. 190]. 53
484 Ma il Reparto d’assalto non doveva neanche rappresentare un’organizzazione segreta. Il fine delle organizzazioni segrete è sempre illegale. Questo ne limita la portata. Data la loquacità del popolo tedesco56, non è possibile costruire un’organizzazione piuttosto ampia e, allo stesso tempo, tenerla segreta oppure occultarne gli scopi. Ogni tentativo sarebbe vano, non solo perché la nostra polizia ha uno stato maggiore di lenoni e di furfanti, che tradirebbero per i trenta denari di Giuda, ma anche perché i suoi sostenitori non saprebbero tacere al momento giusto. Solo gruppi di piccole dimensioni, dopo una selezione pluriennale, possono assumere il carattere di autentiche organizzazioni segrete. La loro piccola struttura le priverebbe di valore per il movimento nazionalsocialista. Ciò di cui noi avevamo e abbiamo bisogno, non erano e non sono cento o duecento audaci cospiratori, ma centomila o duecentomila combattenti fanatici della nostra visione del mondo. Essi non devono agire in segrete conventicole, ma in formidabili cortei di massa, e il movimento non può farsi strada con lo stiletto, col veleno o con le pistole, ma conquistando la strada. Dobbiamo insegnare al marxismo che il padrone della strada è il nazionalsocialismo e che un giorno lo sarà anche dello Stato. Inoltre il rischio delle organizzazioni segrete è che i suoi membri non capiscano la grandezza del loro missione e pensino, invece, che il destino di un popolo possa essere deciso da un semplice omicidio ben architettato. Posizione storicamente giustificabile se un popolo languisce sotto la tirannia di qualche geniale oppressore, la cui straordinaria personalità garantisce da sola la solidità interna e la spaventosità del suo dominio. In tal caso, può spuntare improvvisamente un uomo pronto al sacrificio, che pianta una lama mortale nel petto dell’odiato tiranno. E solo l’animo repubblicano di piccole canaglie consapevoli potrebbe considerare abominevole un’azione del genere, mentre il maggiore cantore della libertà del nostro popolo ha osato glorificarla nel suo Tell57. Tra il 1919 e 1920 ci fu il serio pericolo che l’aderente a organizzazioni segrete, trascinato dai grandi modelli del passato e irritato dalla sconfinata miseria attuale, cercasse di vendicarsi degli assassini della patria, convinto di porre fine alle sofferenze del suo popolo. Ma quel tentativo era assurdo, perché il marxismo aveva vinto non certo per la genialità o il valore di un uomo, quanto piuttosto per la sconfinata miseria e per il vile fallimento della borghesia. La critica più cruenta che si possa fare alla nostra borghesia è la constatazione di essersi sottomessa a una Rivoluzione incapace di produrre un solo uomo veramente grande. Si capisce che si capitoli di fronte a un Robespierre, a un Danton o a un Marat58, ma è pesante ingoiare il rospo di fronte al secco Scheidemann, al grasso signor Erzberger, a un Friedrich Ebert e a tutti gli altri omuncoli di oggi. Non ci fu veramente un rivoluzionario geniale (e, quindi, una vera sciagura per la patria), ma solo fragorose cimici rivoluzionarie, spartachisti all’ingrosso e al dettaglio. Era del tutto inutile eliminarne qualcuno: al loro posto sarebbero subentrate altre sanguisughe altrettanto grosse e assetate di sangue59.
Sul topos del popolo tedesco “ingenuo” e “loquace” vedi capitolo 2-II. Riferimento al Tell di Schiller (1804). 58 I principali esponenti della Rivoluzione francese. 59 Questo passaggio è rivolto all’Organizzazione Consul, formazione paramilitare segreta di destra guidata da Hermann Ehrhardt, che aveva contribuito all’addestramento militare delle S.A. Con la legge per la difesa
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Figura 2 Taglia contro Hermann Ehrhardt (luglio 1923) [fonte: München und der Nationalsozialismus, 2015]
In quegli anni ci fu bisogno di intervenire duramente contro una concezione radicata in grandi personaggi del passato, ma che era del tutto inadeguata rispetto alla nostra epoca di nani. La stessa considerazione si può fare per la liquidazione dei traditori60. È ridicolo e illogico uccidere un ragazzo che ha consegnato un cannone, mentre nei più alti gradi seggono canaglie che vendettero la Germania, che hanno sulla coscienza l’inutile sacrificio di duemilioni di persone, che sono responsabili di milioni di invalidi e che si della Repubblica, l’Organizzazione Consul fu messa fuori legge e poi sciolta. Bibliografia: H.N. Stern, The Organisation Consul, in “The Journal of Modern History”, XXXV, 1, 1963, pp. 20-32. 60 Riferimento agli assassini “vehmici” dopo la Prima guerra mondiale. Vehme era il nome di un sistema giudiziario attivo nel Medioevo in Vestfalia e basato sull’organizzazione fraterna di giudici chiamati “giudici liberi”. Tra il luglio 1920 e il gennaio 1924 furono addebitabili al sistema “vehmico” sedici assassinii e sei tentati omicidi. Bibliografia: I. Nagel, Fememorde und Fememordeprozesse in der Weimarer Republik, Colonia, Böhlau, 1989; B. Sauer, Schwarze Reichswehr und Fememorde. Eine Milieustudie zum Rechtsradikalismus in der Weimarer Republik, Berlino, Metropol Verlag, 2004.
486 occupano a cuor leggero dei loro affari repubblicani. È assurdo eliminare piccoli traditori di uno Stato, il cui governo li esenta da ogni pena. Così potrebbe darsi che l’idealista onesto, che sopprime, per amore del suo popolo, il miserabile traditore, sia ritenuto responsabile di alto tradimento. Ed ecco una domanda importante: un piccolo traditore va liquidato da una creatura meschina o da un idealista? Nel primo caso il successo è incerto e il tradimento successivo è quasi certo; nel secondo, una volta rimosso il piccolo farabutto, la vita di un idealista forse insostituibile è messa in pericolo. Del resto, io credo è che non si dovrebbe impiccare il piccolo farabutto per lasciar scappare il pesce grande. Un giorno, una Corte di giustizia nazionale tedesca dovrà condannare decine di migliaia dei delinquenti organizzatori e responsabili del tradimento novembrino e di tutte le sue conseguenze. Quell’esempio servirà da monito, una volta per tutte, anche al piccolo traditore. Tutte queste considerazioni mi indussero a proibire la partecipazione a organizzazioni segrete e a salvaguardare il Reparto d’assalto dall’assumerne quella forma. In quegli anni tenni lontano il movimento nazionalsocialista da esperimenti realizzati da giovani tedeschi animati da sublimi sentimenti idealistici, ma che rimasero vittime delle loro azioni perché non riuscirono a migliorare affatto il destino della patria.
Figura 3 Hermann Göring, capo delle S A dal 1922 al 1926 [fonte: historisches-lexikon-bayerns.de]
Ma se il Reparto d’assalto non poteva essere né un’organizzazione militare di difesa, né un’associazione segreta, ne deriva quanto segue.
487 1. Il suo addestramento non deve avvenire dal punto di vista militare, ma in base alla convenienza partitica. Per quanto sia necessario fornire ai suoi membri una buona preparazione fisica, il valore principale non va attribuito all’esercitazione militare, ma all’attività sportiva. Boxe, jiu-jitsu61 mi sono apparsi sempre preferibili a ogni cattivo addestramento – parziale – a sparar bene. Si diano alla nazione tedesca sei milioni di corpi perfettamente addestrati, tutti imbevuti di fanatico amore patriottico, e in un paio di anni uno Stato nazionale potrà, se necessario, farne un esercito, se ci saranno i quadri di ufficiali. Oggi come oggi, questo può farlo solo l’esercito repubblicano, non certo una mediocre lega difensiva. L’addestramento fisico deve inculcare nel singolo la convinzione della sua superiorità e infondergli quella fiducia che alberga sempre e soltanto nella consapevolezza della propria forza. Inoltre deve fornirgli quelle doti sportive che servono da arma nella difesa del movimento. 2. Per evitare da subito il carattere segreto dei Reparti d’assalto, indipendentemente dalla loro uniforme, la loro consistenza numerica deve indicare la via utile al movimento e nota all’opinione pubblica. I Reparti d’assalto non possono riunirsi di nascosto, ma devono marciare all’aperto e, quindi, svolgere un’attività idonea a sfatare per sempre le leggende di “segretezza”. Per sottrarli anche intellettualmente dalla tentazione di nutrire l’attivismo con piccole congiure, essi, soprattutto all’inizio, vanno avviati alla grande idea del movimento e formati senza sosta alla missione di sostenerla. Il loro orizzonte si amplierebbe e ciascun aderente vedrebbe la sua missione non nella liquidazione di un piccolo o grande malfattore, ma nel sacrificio per erigere un nuovo Stato nazionalpopolare e nazionalsocialista. A tal scopo la lotta contro lo Stato attuale andrebbe distolta dall’atmosfera delle piccole vendette o congiure e incanalata in una grande guerra ideologica d’annientamento contro il marxismo e le sue creature. 3. L’organizzazione dei Reparti d’assalto, così come l’uniforme e l’equipaggiamento, non devono rifarsi al modello del vecchio esercito, ma adattarsi alla convenienza del momento. Queste vedute, che mi guidarono fra il 1920 e 1921 e che cercai progressivamente di inculcare nella giovane organizzazione, fecero sì che, sino alla piena estate del 1922, disponessimo già di un numero elevato di centurie che, nel tardo autunno di quell’anno, indossarono progressivamente la loro divisa caratteristica. Tre avvenimenti ebbero grande importanza nella crescita dei Reparti d’assalto. 1. La grande dimostrazione comune di tutte le leghe patriottiche contro la legge per la difesa della Repubblica, che si svolse nella tarda estate del 1922 in Königsplatz a Monaco62. Le leghe patriottiche di Monaco avevano lanciato l’appello affinché, come protesta contro l’introduzione della legge per la difesa della Repubblica, si organizzasse un’imponente manifestazione in città. Anche il movimento Sull’educazione nazionalsocialista vedi capitolo 2-II. Alla manifestazione contro la Legge per la difesa della Repubblica (16 agosto 1922) parteciparono, secondo le “Münchner Neueste Nachrichten”, fra le trentamila e le ottantamila persone. La manifestazione fu importante per il nazismo perché si trattò della prima parata ufficiale delle S.A. e Hitler parlò per la prima volta da pari con gli altri leader nazionalpopolari [KA, n. 225]. 61 62
488 nazionalsocialista dovette parteciparvi. La marcia compatta del partito fu aperta da sei centurie di Monaco, alle quali seguirono le sezioni del nostro partito. Nel corteo marciarono due bande musicali e vi presero parte circa quindici bandiere. L’arrivo dei nazionalsocialisti sulla grande piazza già piena per metà, dove non si scorgevano altre bandiere, suscitò un immenso entusiasmo. Io stesso ebbi l’onore di parlare come oratore a una folla di sessantamila persone. Il successo della manifestazione fu enorme, soprattutto perché, a dispetto delle minacce dei rossi, avevamo dimostrato per la prima volta che anche la Monaco nazionalista poteva scendere in piazza. Nel giro di pochi minuti alcune piccole leghe repubblicane rosse63 che cercarono di terrorizzare le colonne marcianti furono disperse con le teste rotte dalle centurie dei Reparti d’assalto. Il movimento nazionalsocialista dimostrò per la prima volta la sua determinazione nell’avvalersi, anche in futuro, del diritto di scendere in piazza e, quindi, di strappare ai traditori internazionali del popolo e ai nemici della patria il monopolio della scena pubblica. Il risultato di quella giornata fu la dimostrazione inoppugnabile della bontà psicologica e organizzativa delle nostre idee circa la conformazione dei Reparti d’assalto. Su basi rivelatesi così buone furono ampliati i Reparti d’assalto e, già poche settimane dopo, si era costituito a Monaco il doppio delle centurie64. 2. Il treno per Coburgo dell’ottobre 1922. Le leghe “nazionalpopolari” avevano intenzione di tenere a Coburgo una “Giornata tedesca”65. Io stesso ricevetti un invito per l’evento, con l’annotazione che avrebbero gradito un accompagnamento. L’invito, che ricevetti brevi manu alle 11 di mattina, mi giunse a proposito. Un’ora più tardi avevo già impartito gli ordini per la partecipazione alla Giornata tedesca. Come “accompagnamento” scelsi ottocento uomini del Reparto d’assalto, che, divisi in quattordici centurie, sarebbero giunti a Coburgo a bordo di un treno speciale. Furono impartiti i relativi ordini ai gruppi dei Reparti d’assalto che si erano formati in altri luoghi. Per la prima volta la Germania era attraversata da un treno speciale di quel tipo. Dovunque salissero a bordo nuovi membri dei Reparti d’assalto, il passaggio suscitava grande scalpore. Molte persone non avevano mai visto le nostre bandiere; grande fu l’impressione prodotta. Quando entrammo nella stazione di Coburgo, fummo ricevuti da una delegazione della presidenza della “Giornata tedesca”, che ci comunicò i dettagli dell’“intesa” coi locali sindacati, coi socialdemocratici indipendenti e col Partito comunista: non dovevamo mettere piede in città con le bandiere spiegate, né con la Possibile allusione al Republikanischer Schutzbund (Lega di difesa repubblicana), fondato dai socialdemocratici durante i disordini del 1918-19. 64 Sulla reale consistenza dei Reparti d’assalto non esistono fonti. Alla fine del 1921 essi ammontavano a circa trecento unità, mentre due anni dopo a millecinquecento. 65 I Deutsche Tage (Giornate tedesche) furono tentativi di radunare simbolicamente l’eterogeneo campo nazionalpopolare. La prima “giornata tedesca” ebbe luogo ad Eisenach il 5 ottobre 1913. La terza “Giornata tedesca” di Coburgo era pensata non solo come dimostrazione del movimento nazionalpopolare, ma anche come protesta per la messa fuori legge del Deutschvölkischer Schutz- und Trutzbund dopo l’assassinio di Rathenau (24 giugno 1922) [KA, n. 228].
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489 musica (avevamo portato una banda di 42 suonatori!), né in un corteo inquadrato e compatto. Io respinsi immediatamente quelle vergognose condizioni, ma non mancai di esprimere a quei signori il mio sconcerto per la trattativa e per l’accordo raggiunto. Dichiarai che i Reparti d’assalto, schierati in centurie, sarebbero subito entrati in città a bandiere spiegate e al suono della musica. Così avvenne. Già sul piazzale della stazione ci accolsero le grida di una folla di alcune miglia di persone. “Assassini, banditi, ladri, delinquenti!”, erano gli improperi che ci affibbiarono amichevolmente gli esimi fondatori della Repubblica tedesca. I giovani Reparti d’assalto mantennero un ordine esemplare, le centurie si formarono sulla piazzale della stazione e finsero inizialmente di ignorare gli insulti. Gli organi di polizia timorosi guidarono il corteo in una città del tutto sconosciuta. Non ci condussero, come stabilito, al nostro quartier generale (un locale situato alla periferia), ma nello Hofbräukeller, in centro città. A destra e a sinistra del corteo aumentava lo schiamazzo dalla gente che ci accompagnava. Non appena l’ultima centuria entrò nella birreria, grosse orde tentarono, fra grida assodanti, di seguirci. La polizia chiuse il locale. Poiché si trattava di una decisione intollerabile, rivolsi alcune parole ai Reparti d’assalto e pretesi dalla polizia l’immediata riapertura delle porte. Dopo una lunga esitazione, la pulizia acconsentì. Rifacemmo la strada che avevamo percorso per raggiungere la nostra sistemazione, dove ci schierammo. Dopo che, con urla e con insulti ad alta voce, i rappresentanti del vero socialismo, dell’uguaglianza e della fratellanza capirono che le centurie non avrebbero perso la calma, ci presero a sassate66. Perdemmo la pazienza e, per circa dieci minuti, fioccarono pugni a destra e a manca. Dopo un quarto d’ora, per le strade non si vedeva più un solo rosso.
Figura 4 Hitler e le S A durante la “Giornata tedesca” di Coburgo [fonti: historisches-lexikon-bayerns.de; wikipedia.de]
Quella notte ci furono duri scontri. Pattuglie dei Reparti d’assalto avevano individuato alcuni nazisti malridotti che erano stati aggrediti singolarmente. Non
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Allusione al motto “libertà, eguaglianza e fratellanza” della Rivoluzione francese.
490 andammo troppo per il sottile con i nostri avversari. La mattina successiva avevamo distrutto il terrore rosso sotto cui Coburgo languiva da anni67. Con ipocrisia tipicamente ebraico-marxista si tentò nuovamente di aizzare, con un volantinaggio, “i compagni e le compagne del proletariato internazionale” a scendere in piazza, sostenendo, con una totale distorsione della realtà, che le nostre “bande di assassini” avevano iniziato “la guerra di annientamento dei pacifici lavoratori di Coburgo”68. All’una e mezza si sarebbe svolta la grande “manifestazione popolare”. Erano attese decine di migliaia di lavoratori da tutto il circondario. Fermamente risoluto a sistemare per sempre il terrore rosso, alle 12 schierai i Reparti d’assalto che, nel frattempo, si erano ingrossati a quasi millecinquecento uomini, e mi misi con loro in marcia verso la grande piazza, dove avrebbe avuto luogo la dimostrazione rossa. Volevo proprio vedere se avrebbero osato ancora provocarci. Quando giungemmo in piazza, vi trovammo soltanto poche centinaia di persone, invece delle decine di migliaia annunciate, che, quando ci avvicinammo, rimasero in silenzio, mentre una parte scappò via. Solo in certi luoghi le truppe rosse, giunte da fuori e ignare della nostra determinazione, tentarono di provocarci; ma in un batter d’occhio facemmo passare loro la voglia di infastidirci. La popolazione del posto, finora intimidita, iniziò a destarsi lentamente, prese coraggio e ci salutò con grida e con saluti. Quella sera, alla nostra partenza, proruppe in molti luoghi con spontanee grida di giubilo. Alla stazione il personale ferroviario ci spiegò che il treno non sarebbe partito. Feci comunicare ad alcuni caporioni che, in tal caso, avrei fatto arrestare tutti i bonzi rossi capitati a tiro e avremmo noi stessi guidato il treno, portandoci “due dozzine di compagni della solidarietà internazionale” sulla locomotiva, sul tender o su ogni carrozza. Non mancai di far osservare a quei signori che il viaggio con le nostre forze sarebbe stato un’impresa infinitamente rischiosa e che non era escluso che ci saremmo rotti l’osso del collo. E che, in caso di deragliamento, eravamo ben lieti di andarcene al creatore non da soli, ma in compagnia fraterna dei signori rossi. Il treno lasciò la stazione di Coburgo puntualissimo e il mattino successivo giungemmo a Monaco. Per la prima volta dopo il 1914, l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge era stata ristabilita a Coburgo. Se oggi qualche sciocco burocrate ha l’ardire di sostenere che lo Stato protegge la vita dei suoi cittadini, non è affatto al vero: all’epoca il cittadino doveva piuttosto difendersi dai rappresentanti dello Stato! L’importanza di quella giornata non poté essere subito valutata appieno69. Non solo perché i Reparti d’assalto vittoriosi avevano acquisito maggior fiducia in loro stessi e nella bontà degli ordini ricevuti. Anche il mondo iniziò a occuparsi di noi in Alle elezioni politiche del 6 giugno 1920, i partiti di sinistra a Coburgo furono la forza maggioritaria (in totale ottennero circa il 45% dei suffragi), ma non si può parlare di “terrore rosso” [KA, n. 245]. 68 Hitler non accenna alle trattative incorse la sera del 14 ottobre 1922 tra i leader degli opposti schieramenti e le forze di polizia [KA, n. 247]. 69 Negli anni successivi la “Giornata tedesca” di Coburgo sarebbe stata paragonata alla “marcia di Roma” fascista. In occasione del decennale furono assegnati i distintivi di partito in ricordo dell’evento: il “Koburger Ehrenzeichen” (decorazione coburghese). Bibliografia: J. Albrecht, Die Avantgarde des Dritten Reichs. Die Coburger NSDAP während der Weimarer Republik, 1922-1933, Francoforte sul Meno, Peter Lang, 2005.
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491 maniera approfondita. Molti riconobbero per la prima volta nel movimento nazionalsocialista l’istituzione destinata, con ogni probabilità, a porre fine alla follia marxista.
Figura 5 Onorificenza ad Alfred Rosenberg in occasione del decennale della marcia su Coburgo (1932) [fonte: coburgbadge.blogspot.de]
Non solo la democrazia si lamentava che qualcuno osasse non farsi spaccare la testa pacificamente, ma anche che noi avevamo osato, in una repubblica democratica, fronteggiare un assalto brutale con pugni e con bastoni invece che con canzoni pacifiste. La stampa borghese fu miserabile e vile come al solito. Solo alcuni giornali onesti si rallegrarono che almeno in un luogo si fosse posto un freno ai maneggi dei briganti marxisti70. Ma a Coburgo una parte del sindacato marxista, sedotto da quei mestatori, ha comunque imparato dai pugni dei nostri lavoratori che anche i nazionalsocialisti si battono per gli ideali, poiché solitamente l’uomo lotta solo per ciò che crede e ciò che ama. I Reparti d’assalto ottennero un gran successo. Crebbero velocemente di numero. Al congresso partitico del 27 gennaio 1924, già circa seimila uomini parteciparono alla consacrazione della bandiera e, quindi, le prime centurie apparvero con indosso la nuova uniforme. L’esperienze di Coburgo aveva mostrato anche quanto fosse necessario dotare i Reparti d’assalto di un’unica uniforme non solo per rafforzare lo spirito di corpo, ma anche per evitare confusione e prevenire l’ignoranza reciproca. Finora avevano indossato solo il bracciale. Adesso ricevettero anche una giacca e i famosi berretti. Assai benevola fu la descrizione della manifestazione da parte della “Coburger Zeitung”. Positiva fu anche quella del “Coburger Tageblatt”. Più critica quella del “Coburger Volksblatt” [KA, n. 256]. 70
492 Ma l’esperienza di Coburgo ebbe anche un ulteriore significato: avevamo marciato in tutti quei posti in cui il terrore rosso aveva impedito per anni lo svolgimento di qualsiasi assemblea agli avversari e avevamo ristabilito la libertà di parola71. Da allora i battaglioni nazionalsocialisti si adunarono in quei posti. Progressivamente, in Baviera una roccaforte rossa dopo l’altra cadde sotto i colpi della propaganda nazionalsocialista. I Reparti d’assalto si erano adeguati al loro compito. Non avevano più il carattere di movimento difensivo insensato e inutile, ma erano diventati un’organizzazione di lotta vitale per la creazione di un nuovo Stato tedesco. Questo sviluppo logico durò fino al marzo 1923. Poi avvenne qualcosa che mi costrinse a deviare il movimento dalla strada imboccata e a procedere a un cambiamento. 3. L’occupazione della Ruhr72 a opera francese, avvenuta nei primi mesi del 1923, ebbe una grande rilevanza nella crescita dei Reparti d’assalto. Anche oggi non è possibile, né particolarmente conveniente per ragioni di interesse nazionale, parlarne o scriverne pubblicamente73. Ne parlerò nella misura in cui quel tema fu affrontato nei negoziati pubblici ed è stato quindi reso noto al grande pubblico. L’occupazione della Ruhr, di cui non fummo sorpresi, fece sorgere la fondata speranza che avremmo posto fine alla vile politica del ripiegamento e che le leghe difensive avrebbero ricevuto un compito ben preciso. Anche i Reparti d’assalto, che all’epoca annoveravano molte migliaia di uomini giovani e forti, non potevano sottrarsi al dovere nazionale. All’inizio dell’anno e nella piena estate del 1923 i Reparti furono trasformati in un’organizzazione militare di combattimento. Questa trasformazione influenzò gran parte dello sviluppo del nostro movimento nel 192374. Poiché affronto anche altrove gli eventi del 1923, qui mi limito a osservare che la trasformazione dei Reparti d’assalto, in mancanza dei presupposti che l’avevano provocata (l’assunzione di una resistenza attiva contro la Francia), fu deleteria. L’esito del 1923, per quanto così terribile a prima vista, era quasi necessario, poiché la posizione assunta dal governo tedesco vanificò la trasformazione dei Reparti d’assalto, che fu deleteria per il movimento, ma che creò la possibilità di imboccare nuovamente la giusta via abbandonata. Il Partito nazionalsocialista, fondato nuovamente nel 1925, deve ricreare, riformare e riorganizzare i suoi Reparti d’assalto secondo questi principi75. Deve ritornare alle visioni originarie sane e deve considerare quale suo compito supremo Secondo una statistica del Ministro dell’Interno prussiano, nel 1928 il 19% dei disordini alle adunanze politiche era riconducibile al Partito nazista, che crebbero fino a toccare il 28% nel 1932 [KA, n. 264]. 72 Sull’occupazione della Ruhr vedi capitolo 15-II. 73 Allusione al processo per diffamazione iniziato nell’aprile 1925 contro Hitler ed Esser [KA, n. 269]. 74 Dopo la secessione dalle Vereinigte Vaterländische Verbände Bayerns (Leghe patriottiche unitarie di Baviera), nel febbraio 1923 le S.A. divennero parte dell’Arbeitsgemeinschaft der Vaterländischen Kampfverbände (Gruppo di lavoro delle leghe patriottiche). I Reparti d’assalto divennero, su iniziativa di Ernst Röhm, un’organizzazione paramilitare [KA, n. 275]. 75 Il conflitto tra Hitler e Röhm ritardò la costruzione del comando supremo delle S.A., che fu operativo solo dal novembre 1926. 71
493 quello di considerarli uno strumento che rappresenti e che rafforzi la lotta ideologica del movimento.
Figura 6 Unità delle S A ai Campi di Marte di Monaco durante il congresso di partito (27-29 gennaio 1923) [fonte: historisches-lexikon-bayerns.de]
Il movimento nazionalsocialista non deve tollerare che i Reparti d’assalto si degradino a lega difensiva. Deve piuttosto sforzarsi di forgiare una guardia di centomila persone convinte dell’idea nazionalsocialista, quindi più profondamente nazionalpopolari76.
Approfondimenti didattici 1. Analisi retorica e stilistica
- Individua le principali figure retoriche; - Individua l’esistenza di fallacie retoriche; - Individua i principali “loci” e “topoi”; - Individua la presenza di stereotipi e pregiudizi.
Anche se le S.A. ritenevano di essere uno strumento di propaganda, di ordine e di terrore di gran lunga più importante del Partito nazionalsocialista, i rapporti col partito furono tesi ben prima del 1933. Questo indusse Hitler a rimuovere Pfeffer von Salomon e ad assumere lui stesso la guida delle S.A. nell’agosto 1930. Röhm divenne primo comandante nel novembre 1930, ma Hitler ne conservò per sé la guida. A. Gilardoni, Logica e argomentazione. Un prontuario, Milano, Mimesis, 2008. 76
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2. Analisi storico-culturale - I tre pilastri dello Stato: analizza la descrizione hitleriana dello Stato e cerca di ravvisare analogie con la tipologia weberiana dei poteri (tradizionale, burocratico e carismatico); - Rivoluzione e Repubblica: ricostruisci il processo di consolidamento della Repubblica di Weimar e tenta di individuarne possibili motivi di forza e di debolezza; - Leghe difensive e associazioni paramilitari: analizza la “guerra civile” tedesca postbellica e cerca di individuare le diverse posizioni in campo; - Reparti d’assalto: analizza l’evoluzione “legalitaria” inferta da Hitler alle S.A. e cerca di individuare i motivi di possibile frizione con le altre forze armate.
Capitolo X. Il federalismo come maschera
Sinossi 1. Genesi Il capitolo 10-II risale agli inizi del 1924. Hitler parlò della “maschera del federalismo” già durante il processo di febbraio per Hochverrat (alto tradimento), così come in un volantino propagandistico di giugno. Il testo fu preparato in concomitanza col primo volume, ma fu poi ampliato e inserito nel secondo. Altri indizi sono i riferimenti alla storia del partito del 1919 e la polemica sul ruolo delle confessioni religiose nel movimento nazionalpopolare. La parte finale fu redatta tra la fine del 1925 e il 1926 in occasione del dibattito sulla Fürstenenteignung (esproprio dei principi)1 . 2. Contenuto Hitler riprende i temi già affrontati nel capitolo 6-I sulla propaganda di guerra e nel capitolo 7I sulla “Rivoluzione del 1918”. L’odio antiprussiano alimentato in Baviera durante e dopo la guerra non sarebbe altro che un’arma di “distrazione di massa” utilizzata per distruggere la struttura statale tedesca. I nemici esterni (la propaganda alleata) non possono che gioire di fronte all’azione di logoramento interno perseguita dall’ebreo in combutta con gli pseudo-federalisti. Invece di occuparsi delle “società di guerra”, l’opinione pubblica tedesca (specie quella bavarese) parla sempre e solo del “militarismo” prussiano. In base alla massima kantiana del “Divide et impera”, l’ebraismo internazionalista sta corrodendo dall’interno il corpo “sano” tedesco. Lo strumento per eccellenza (il marxismo) è ben rappresentato dalla figura di Kurt Eisner e del suo “patriottismo” antiprussiano: le forze di sinistra cavalcano l’antimilitarismo affossando, di fatto, la Germania con le loro azioni irresponsabili (vedi la pubblicazione degli atti del ministero degli esteri bavarese). Ben peggiore è l’azione delle cosiddette forze federaliste, che non comprendono che la Germania federale esiste grazie alla Prussia, non suo malgrado, e che la democrazia non fa altro che indebolire la struttura unitaria. Hitler fa un inciso molto interessante. Una delle ragioni del “naufragio” novembrino è stata la mancata consapevolezza di un antisemitismo “sistematico”. In altre parole, se le forze “sane” avessero compreso prima le cause della “malattia”, avrebbero escogitato un modo per debellarla in tempo. L’ebraismo, in assenza del socialismo nazionale antisemita, non ha fatto altro che seminare zizzania tra le etnie tedesche non solo attraverso l’antimilitarismo, ma anche ricorrendo ai dissidi religiosi fra le confessioni cristiane. Esse, invece di avere a cuore le sorti del carattere nazionalpopolare tedesco, sono cadute nella rete del conflitto tra ultramontanismo e cattolicesimo. Dopo una parte iniziale di “massima”, Hitler cerca di analizzare più nello specifico il federalismo tedesco. Il motivo è piuttosto semplice: ai suoi occhi il federalismo postbellico non era altro che lo strumento delle potenze vincitrici per “accentrare” i diritti sovrani nelle mani del governo federale e, di fatto, mettere tutto il paese alla mercé dei nemici interni ed esterni. La Germania non è paragonabile agli Stati Uniti d’America (che sono una federazione nata per “annessione” di territori 1
KA II, p. 1401.
496 “vergini”), ma è uno Stato federale sorto intorno al nucleo di un Regno centralista che ha progressivamente attratto i paesi tedeschi più vicini entro la sua orbita. La centralizzazione fiscale e finanziaria attuata nel primo dopoguerra non è altro che lo strumento repubblicano per consegnare la nazione tedesca alla mercé della speculazione internazionale. Ecco il senso della Erfüllungspolitik (politica dell’adempimento, cioè del rispetto pedestre degli accordi internazionali) perseguita dai governi tedeschi dall’ultimatum di Londra del 1921 sino all’occupazione della Ruhr del 1923. La centralizzazione voluta dai partiti “rivoluzionari” nel primo dopoguerra non è altro che un tentativo di “lottizzare” lo Stato centralizzato ai fini della lenta distruzione del corpo popolare tedesco. La centralizzazione è un “falso” federalismo perché finisce per distruggere le basi della politica di potenza (l’unica degna di questo nome, agli occhi di Hitler) e per dare spazio alla “mammonizzazione” della politica degli imprenditori-politici tedeschi postbellici (Rathenau, Cuno, Stinnes ecc.). La centralizzazione non è un male di per sé, ma può essere un utile strumento di “nazionalizzazione delle masse”, se utilizzata per forgiare “veri uomini”. Se è vero che è deleteria in quel particolare momento storico, lo è altrettanto che la politica di potenza va centralizzata per porre fine alle “ridicole” rappresentanze degli Stati tedeschi all’estero. La rilevanza degli Stati tedeschi deve essere unicamente culturale ed etnica. L’unico aspetto da centralizzare è la vita militare. 3. Analisi Il capitolo 10-II affronta il problema del federalismo tedesco alla luce della storia successiva all’unificazione del 1871. Gli avversari di turno sono, da una parte, i partiti “costituzionali” (i socialdemocratici, i cattolici, i popolari e i liberaldemocratici) e, dall’altra, le forze separatiste e federaliste (dai movimenti renani ai popolari bavaresi). La polemica investe nuovamente anche le forze “misticheggianti” all’interno del movimento nazionalpopolare. La tesi di fondo è che l’unitarismo (cioè il centralismo) non è antitetico al federalismo, ma è il nemico (mascherato) del movimento nazionalsocialista. Hitler compie una lunga digressione iniziale dedicata a illustrare la sua tesi: la propaganda di guerra nemica ha “favorito” una visione antiprussiana e federalista; l’uomo comune è stato così “distratto” dal tambureggiamento esterno finendo per scagliarsi contro la Prussia e Berlino; il nemico interno “cavalca” la tesi federalista sfasciando il paese all’indomani della sconfitta bellica (vedi Eisner in Baviera); le confessioni religiose si perdono in discussioni sterili, finendo per spaccare il popolo tedesco in una congerie di sette. Di fronte a questa serie di forze disgregatrici, ha ancora senso parlare di federalismo? Il federalismo rappresenta un vero “progresso”? Dopo aver illustrato il retroterra della “maschera” federalista, Hitler si sofferma su una comparazione col caso più congeniale: quello americano. Gli Stati Uniti d’America non sono uno Stato federale paragonabile al vecchio Impero, né alla Repubblica di Weimar, perché i territori annessi e divenuti Stati erano privi di una loro storia giuridica, culturale, economica e militare. Erano, di fatto, res nullius. Se Bismarck ha evitato prudentemente di accelerare sulla via del federalismo, per rispetto delle autonomie locali, i “rivoluzionari” postbellici si sono scagliati contro la Prussia col solo obiettivo di perseguire i loro interessi egoistici e di “svendere” il loro paese ai nemici esterni. Ecco i veri colpevoli di “alto tradimento”. La disamina di Hitler si conclude con alcune righe dedicate all’esercito: solo una vera politica di potenza sarà in grado di eliminare l’asservimento esterno e quello esterno. Ma la politica di potenza
497 ha bisogno di uno Stato centrale forte. È necessario che il popolo tedesco si “nazionalizzi”, che impari a conoscere il paese e che la smetta di perseguire ridicoli sentimenti campanilistici. Il problema centrale è quindi il riarmo della Germania, l’architrave con cui riconquistare l’autonomia interna, spazzare via le forze “ebraico-democratiche” e concentrarsi poi nella costruzione del proprio Lebensraum (spazio vitale). Questi temi di politica estera saranno affrontati negli ultimi capitoli del Mein Kampf, dopo una breve digressione sulla “presa del potere” in seno al Partito nazionalsocialista. 4. Parole-chiave Antisemitismo, Bolscevismo, Bundesrat, Carattere nazionalpopolare, Cattolicesimo, Centro culturale, Corpo popolare, Cristianesimo, Democrazia tedesca, Diritti sovrani, Ebraismo, Ebreo, Economia di guerra, Esercito, Esercito popolare, Federalismo, Kurt Eisner, Landtag, Lega nazionalpopolare tedesca a protezione e a difesa (D.V.S.T.B.), Legge per la difesa della Repubblica, Leggenda della pugnalata alla schiena, Marxismo, Militarismo prussiano, Partito comunista tedesco, Partito popolare bavarese, Partito socialdemocratico indipendente, Piano Dawes, Politica dell’adempimento, Propaganda di guerra, Protestantesimo, Questione ebraica, Reichsbanner, Reichstag, Rivoluzione del 1918, Sentimenti antiprussiani, Sovranità fiscale, Statalizzazione, Stati Uniti d’America, Stato federale, Stato nazionalsocialista, Trattato di Versailles, Ultramontanismo, Umanità ariana, Unitarismo, Zentrum. 5. Bibliografia essenziale - B. Asmuss, Republik ohne Chance? Akzeptanz und Legitimation der Weimarer Republik in der deutschen Tagespresse zwischen 1918 und 1923, Berlino, de Gruyter, 1994; - U. Bachnick, Die Verfassungsreformvorstellungen im nationalsozialistischen Deutschen Reich und ihre Verwirklichung, Berlino, Duncker und Humblot, 1995; - M. Botzenhart, Deutsche Verfassungsgeschichte 1806-1949, Stoccarda, Kohlhammer, 1993; - S. Breuer, Die Völkischen in Deutschland. Kaiserreich und Weimarer Republik, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 2008; - P. Bruppacher, Adolf Hitler und die Geschichte der NSDAP. Eine Chronik, parte 1: 1889-1937, Norderstedt, Books on Demand, 2014; - A. Bullock, Hitler. Studio sulla tirannide, Milano, Res Gestae, 2014; - K. Burke, Die Rhetorik in Hitlers “Mein Kampf” und andere Essays zur Strategie der Überredung, Francoforte sul Meno, Suhrkamp, 1967; - D. Capozza, C. Volpato, Le intuizioni psicosociali di Hitler. Un’analisi del “Mein Kampf”, Bologna, Patron, 2004; - W. Carr, Hitler. Studio sul rapporto tra personalità e politica, Napoli, Liguori, 1985; - G. Corni, Hitler, Bologna, Il Mulino, 2007; - Id., Breve storia del nazismo, 1920-1945, Bologna, Il Mulino, 2015; - A. Dietz, Das Primat der Politik in kaiserlicher Armee, Reichswehr, Wehrmacht und Bundeswehr. Rechtliche Sicherungen der Entscheidungsgewalt über Krieg und Frieden zwischen Politik und Militär, Tubinga, Mohr, 2011; - M. Döring, “Parlamentarischer Arm der Bewegung”. Die Nationalsozialisten im Reichstag der Weimarer Republik, Düsseldorf, Droste Verlag, 2001; - D.M. Douglas, The early Ortsgruppen. The development of Nationalsocialist local groups, 1919-1923, University of Kansas, dissertazione dottorale, 1969; - J. Fest, Hitler. Una biografia, traduzione di F. Saba Sardi, Milano, Garzanti 2005; - G. Franz-Willing, Putsch und Verbotszeit der Hitlerbewegung, November 1923-Februar 1925, Preussisch Oldendorf, Verlag K.W. Schütz KG, 1977; - B. Fulda, Press and politics in the Weimar Republic, Oxford, Oxford University Press, 2009; - H. Gilbhard, Die Thule-Gesellschaft. Vom okkulten Mummenschanz zum Hakenkreuz, Monaco, Kiessling Verlag, 1994;
498 - M. Grünthaler, Parteiverbote in der Weimarer Republik, Francoforte sul Meno, Peter Lang, 1995; - D. Hastings, Catholicism and the roots of Nazism. Religious identity and National Socialism, Oxford, Oxford University Press, 2010; - U. Heinemann, Die verdrängte Niederlage. Politische Öffentlichkeit und Kriegsschuldfragen in der Weimarer Republik, Gottinga, Vandenhoeck & Ruprecht, 1983; - L. Herbst, Il carisma di Hitler. L’invenzione di un messia tedesco, traduzione di U. Gandini, Milano, Feltrinelli, 2011; - H. Holste, Der deutsche Bundesstaat im Wandel (1867-1933), Berlino, Duncker & Humblot, 2002; - E.R. Huber, Deutsche Verfassungsgeschichte seit 1789, vol. 3: Bismarck und das Reich, Stoccarda, Kohlhammer, 1988; - Id., Deutsche Verfassungsgeschichte seit 1789, vol. 6: Die Weimarer Reichsverfassung, Stoccarda, Kohlhammer, 1993; - D. Jablonsky, The Nazi party in dissolution. Hitler and the Verbotszeit, 1923-1925, Londra, F. Cass, 1989; - S.F. Kellerhoff, Il libro proibito di Hitler. Storia del Mein Kampf, Milano, Rizzoli, 2016; - I. Kershaw, Hitler, vol. 1: 1889-1936, Milano, Bompiani, 2003; - P. Krüger, Die Aussenpolitik der Weimarer Republik, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1985; - W.C. Langer, Psicanalisi di Hitler. Rapporto segreto del tempo di guerra, Milano, Garzanti, 1975; - P. Longerich, Hitler. Biographie, Monaco, Siedler Verlag, 2015; - W. Maser, Adolf Hitler, Roma, Ciarrapico, 1978; - Id., Der Sturm auf die Republik. Frühgeschichte der NSDAP, Francoforte sul Meno, Ullstein, 1981; - F. McDonough, Hitler and the rise of the Nazi party, Londra, Person-Logman, 2003; - Militärgeschichtliches Forschungsamt (ed.), Handbuch zur deutschen Militärgeschichte, vol. 6: Reichswehr und Republik (1918-1933), Monaco, Bernard & Graefe Verlag, 1970; - A. Musolff, Metaphor, nation and the Holocaust. The concept of the body politic, New York, Routledge, 2011; - W. Nerdinger (ed.), München und der Nationalsozialismus. Katalog des NS-Dokumentations-zentrum München, Monaco, C.H. Beck, 2015; - B. Novak, Hitler and the abductive logic. The strategy of a tyrant, Lanham (Maryland), Lexington Books, 2014; - D. Orlow, The organizational history and structure of the NSDAP, 1919-1923, in “Journal of Modern History”, 37, 1965, pp. 208-226; - K. Pätzold, M. Weissbecker (ed.), Geschichte der NSDAP, 1920-1945, Colonia, PayRossa, 2002; - O. Plöckinger, Geschichte eines Buches. Adolf Hitlers “Mein Kampf”, 1922-1945. Eine Veröffentlichung des Instituts für Zeitgeschichte, Monaco, Oldenbourg, 2011; - Id., Quellen und Dokumente zur Geschichte von “Mein Kampf”, 1924-1945, Stoccarda, Franz Steiner Verlag, 2016; - W. Pyta, Hitler. Der Künstler als Politiker und Feldherr. Eine Herrschaftsanalyse, Monaco, Siedler Verlag, 2015; - P.R. Range, La genesi del Mein Kampf. 1924: l’anno che cambiò la storia, Roma, Newton Compton, 2017; - R.G. Reuth, Hitler. Eine politische Biographie, Monaco, Piper, 2003; - M. Rösch, Die Münchner NSDAP 1925-1933. Eine Untersuchung zur inneren Struktur der NSDAP in der Weimarer Republik, Monaco, Oldenbourg, 2002; - M. Rolack, Kriegsgesellschaft (1914-1918). Arten, Rechtsformen und Funktionen, Francoforte sul Meno, Peter Lang, 2001; - C. Roth, Parteikreis und Kreisleiter der NSDAP unter besonderer Berücksichtigung Bayerns, Monaco, C.H. Beck, 1997; - D. Schmidt, M. Sturm, M. Livi (ed.), Wegbereiter des Nationalsozialismus. Personen, Organisationen und Netzwerke der extremen Rechten zwischen 1918 und 1933, Essen, Klartext, 2015; - R. Steigmann-Gall, The Holy Reich. Nazi conceptions of Christianity, 1919-1945, Cambridge, Cambridge University Press, 2003; - H. Steinhaus, Hitlers pädagogische Maximen. “Mein Kampf” und die Destruktion der Erziehung im Nationalsozialismus, Francoforte sul Meno, Peter Lang, 1981; - J. Toland, Adolf Hitler. The definitive biography, New York, Doubleday, 1976; - F. Tomberg, Das Christentum in Hitlers Weltanschauung, Monaco, Fink, 2012; - A. Tyrrell, Vom “Trommler” zum Führer. Der Wandel von Hitlers Selbstverständnis zwischen 1919 und 1924 und die Entwicklung der NSDAP, Monaco, Fink, 1975; - V. Ullrich, Adolf Hitler. Biographie, vol. 1: Die Jahre des Aufstiegs 1889-1939, Francoforte sul Meno, S. Fischer, 2013;
499 - A. Viktine, “Mein Kampf”. Storia di un libro, traduzione di G. Zucca, Milano, Cairo, 2010; - A. Wirsching, J. Eder (ed.), Vernunftrepublikanismus in der Weimarer Republik, Stoccarda, Franz Steiner, 2008; - R. Wulff, Die Deutschvölkische Freiheitspartei 1922–1928, Università di Marburgo, tesi di laurea, 1968; - B. Zehnpfennig, Hitlers “Mein Kampf”. Eine Interpretation, Monaco, Fink, 2000; - R. Zitelmann, Hitler, Roma-Bari, Laterza, 1991.
Nell’inverno del 1919 e, soprattutto, nella primavera-estate del 1920 il nostro giovane partito fu costretto a prendere posizione di fronte a un problema che aveva assunto un’importanza enorme già in tempo di guerra. Nel primo volume, descrivendo il fenomeno dell’imminente tracollo tedesco, ho accennato alla propaganda inglese e francese mirante a spaccare il Nord e il Sud del paese2. All’inizio del 1915 comparvero i primi volantini scandalistici che ritraevano la Prussia quale unica responsabile della guerra3. Nel 1916 quel sistema si era consolidato in modo astuto e infame. Basandosi sui più bassi istinti popolari, la propaganda intenta ad aizzare i tedeschi meridionali contro quelli settentrionali portò subito i suoi frutti. Sia il governo centrale, sia lo Stato Maggiore dell’Esercito – specialmente in Baviera – vanno biasimati per non aver deciso di agire energicamente contro la propaganda inglese. Non si fece nulla! Al contrario, in certi ambienti sembrò addirittura che i volantini non fossero malvisti. Molti furono così meschini da pensare che la propaganda nemica, invece di ostacolare lo sviluppo unitario del popolo tedesco, avrebbe consolidato le forze federaliste. Omissione storicamente imperdonabile. L’indebolimento che alcuni volevano arrecare alla Prussia, riguardò tutta la Germania. L’esito fu quello di accelerare il tracollo, che non riguardò solo la Germania, ma anche i singoli Stati tedeschi. Nella città in cui impazzò con maggior virulenza l’odio antiprussiano scoppiò per prima la Rivoluzione contro la casata regnante4. Ma sarebbe sbagliato credere che la propaganda nemica si limitasse a inventare i sentimenti antiprussiani e che il popolo non avesse le sue ragioni. L’incredibile organizzazione della nostra economia di guerra che, con un folle accentramento, aveva messo sotto tutela l’intero territorio imperiale e aveva permesso imbrogli di ogni tipo, fu la ragione principale per cui insorsero i sentimenti antiprussiani. Per l’uomo comune, le società di guerra con sede a Berlino erano identificate con Berlino e Berlino era sinonimo di Prussia 5. L’uomo comune non sapeva che l’organizzatore dell’istituto criminoso col nome di “società di guerra” non era berlinese o prussiano, e nemmeno tedesco6. Vedeva solo
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Sulla propaganda di guerra vedi capitolo 6-I. Il problema della Kriegsschuldfrage (responsabilità di guerra) fu molto dibattuto durante i primi anni della Repubblica di Weimar. Bibliografia: W. Jäger, Historische Forschung und politische Kultur in Deutschland. Die Debatte 1914-1980 über den Ausbruch des Ersten Weltkrieges, Gottinga, Vandenhoeck & Ruprecht, 1984. 4 Allusione a Monaco di Baviera. 5 Nel 1914 Walther Rathenau, presidente dell’AEG, fu messo a capo di una sezione del Ministero della guerra preposta all’approvvigionamento delle materie prime: la K.R.A. (Kriegsrohrstoffabteilung), che guidò sino al marzo 1915. Bibliografia: V. Valbonesi (cur.), Dall’economia dell’anima all’anima dell’economia. Saggi su Walther Rathenau, Padova, Unipress, 1992. 6 Le società di guerra erano al centro della critica antisemita già durante la Prima guerra mondiale. Frequenti erano gli attacchi agli ebrei Albert Ballin, Max Warburg e Carl Melchior. Nel 1920 Alfred Roth,
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500 gli errori e i soprusi continui dell’odiata istituzione con sede nella capitale e li trasferiva ovviamente sulla città e sulla Prussia. Fra l’altro, la parte in causa non facevano nulla per impedirlo, anzi accoglieva persino con un sorriso quei pregiudizi. L’ebreo era sin troppo furbo per non capire che l’infame sfruttamento ai danni del popolo tedesco sotto il paravento delle società di guerra avrebbe provocato delle resistenze. Finché quelle resistenze non gli si rivolsero contro, non aveva nulla da temere. Per impedire che le masse disperate e arrabbiate si scagliassero contro di lui, non poteva esserci miglior arma se non aizzare e dirottare la rabbia verso altri. Che la Baviera litigasse pure con la Prussia e viceversa! Tra i due litiganti, l’ebreo godeva. L’attenzione generale era tutta dedicata al verminaio internazionale7. E quando sembrò riaffacciarsi il rischio che gli elementi ragionevoli (non pochi in Baviera)8 invitassero alla calma, al raccoglimento e alla discrezione e minacciassero di stemperare la lotta contro la Prussia, l’ebreo berlinese mise in scena una nuova provocazione e ne attese l’esito. Improvvisamente tutti i beneficiari della disputa federalista si gettarono sul nuovo avvenimento e alimentarono la fiamma dell’indignazione popolare, finché non divampò un fuoco vivo. L’abile giochetto dell’ebreo fu quello di impiegare il diversivo delle singole etnie tedesche, per poterle meglio sfruttare. Poi scoppiò la Rivoluzione. Mentre, fino al novembre 1918, l’uomo medio, specialmente se filisteo o lavoratore meno istruito, non era in grado di comprendere la vera dinamica e l’esito inevitabile della disputa interetnica, la parte “nazionalista” avrebbe dovuto rendersene conto il giorno stesso dello scoppio della Rivoluzione. Non appena scoppiò, il leader e organizzatore rivoluzionario in Baviera divenne il rappresentante degli interessi “bavaresi”. L’ebreo internazionalista Kurt Eisner iniziò a contrapporre la Baviera alla Prussia. Era ovvio che quell’orientale9, che si aggirava per il paese alla ricerca di scandali, diventasse l’ultimo baluardo degli interessi bavaresi e che non gli importasse un accidente della Baviera. Dirigendo consapevolmente la Rivoluzione bavarese contro il resto del paese, Kurt Eisner non operava affatto negli interessi bavaresi, ma su incarico dell’ebraismo. Utilizzò gli istinti e le avversioni del popolo bavarese per frantumare la Germania10. Il paese sfasciato sarebbe diventato facile preda del bolscevismo.
a capo del Deutschvölkischer Schutz- und Trutz-Bund, pubblicò un opuscolo intitolato Die Juden in den Kriegsgesellschaften und in der Kriegswirtschaft (Gli ebrei nelle società e nell’economia di guerra) [KA, n. 10]. 7 Sull’immagine dell’ebreo come “verme” vedi capitolo 2-I. 8 Prima del 1914 esistevano in Germania due partiti nazionalpopolari: la Deutschsoziale Partei (Partito sociale tedesco), fondata nel 1889, e l’Antisemitische Volkspartei (Partito popolare antisemita), fondata nel 1890. Alle elezioni del 1912 ottennero insieme circa 1,2% dei suffragi [KA, n. 15]. 9 Probabile allusione a Kurt Eisner che, pur nato a Berlino, era originario della Boemia e della Moravia. 10 Eisner lavorò prima della guerra al giornale norimberghese “Fränkische Tagespost” (Posta francona) e poi al giornale “Münchener Post” (Posta monacense). Dopo aver assunto una posizione radicalmente pacifista nel 1915, Eisner fu tra i fondatori del Partito socialdemocratico indipendente, di cui divenne il leader in Baviera. Eisner pretese una pace separata della Baviera già il 3 novembre 1918. Il 23 novembre pubblicò senza autorizzazione federale gli Atti del Ministero degli esteri bavarese, per dimostrare la responsabilità tedesca nello scoppio della Prima guerra mondiale.
501 Quella tattica fu proseguita anche dopo la morte di Eisner. Il marxismo, che aveva sempre irriso i singoli Stati e principati tedeschi, si appellò improvvisamente, da “Partito socialdemocratico indipendente”, a quei sentimenti e a quegli istinti radicati nelle casate principesche e nei singoli Stati11. La lotta della Repubblica consiliare contro i contingenti di liberazione in avvicinamento fu propagandata come “lotta dei lavoratori bavaresi” contro il “militarismo prussiano”12. Questo spiega perché a Monaco, contrariamente ad altre parti della Germania, la repressione della Repubblica consiliare non fece rinsavire le grandi masse, ma inasprì ulteriormente i sentimenti antiprussiani. La maestria con cui gli agitatori bolscevichi riuscirono a dipingere la liquidazione della Repubblica consiliare quale “vittoria del militarismo prussiano” contro il popolo bavarese “antimilitarista” e “antiprussiano”, portò i suoi frutti. Mentre Kurt Eisner, alle elezioni per il Landtag bavarese, non riuscì a racimolare nemmeno diecimila voti e il Partito Comunista si fermò addirittura sotto i tremila, i due partiti uniti ottennero, dopo il tracollo della Repubblica consiliare, quasi centomila suffragi13. Già all’epoca iniziai a fronteggiare personalmente il folle incitamento alla lotta fratricida. Io credo di non aver mai intrapreso, in vita mia, una sfida così impopolare come la resistenza contro la campagna diffamatoria prussiana. A Monaco, già durante la Repubblica consiliare c’erano raduni di massa in cui l’odio contro il resto della Germania, specialmente contro la Prussia, era fomentato con tale ardore che un tedesco settentrionale rischiava la vita al solo assistervi. Spesso quelle adunanze si concludevano col folle grido “Via dalla Prussia!”, “Abbasso la Prussia!”, “Guerra alla Prussia”. Un rappresentante piuttosto lucido degli interessi sovrani bavaresi al Reichstag riassunse quella mentalità col grido di battaglia: “Meglio morire bavaresi che rovinarsi da prussiani”14. Bisogna aver assistito alle adunanze dell’epoca per capire che cosa significò per me quando, circondato da un gruppo di amici, mi presentai per la prima volta a un’assemblea del Löwenbräukeller di Monaco in segno di protesta15. I miei compagni d’armi mi fornirono supporto. È facile immaginare come ci sentimmo quando la
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Hitler tace che la socialdemocrazia e la socialdemocrazia indipendente bavaresi (dopo la morte di Eisner) sostennero le forze centraliste [KA, n. 26]. 12 Il Repubblica consiliare bavarese sostenne inizialmente il carattere internazionale del movimento dei lavoratori e la solidarietà del proletariato. Quando le cose volsero al peggio nell’aprile-maggio 1919, i toni cambiarono e aumentò il sentimento antiprussiano [KA, n. 29]. 13 Hitler allude probabilmente agli esiti delle elezioni bavaresi del giugno 1920, quando i socialdemocratici indipendenti ottennero il 12,9% dei suffragi e i comunisti l’1,7%. 14 Il redattore-capo del foglio socialdemocratico “Münchener Post” Martin Gruber (1866-1936) fu al centro di un processo a Monaco (ottobre-novembre 1925), che lo vide chiamato a giudizio da Paul Cossmann, editore del “Süddeutsche Monatshefte” (Mensile della Germania meridionale) con l’accusa di aver diffuso proprio la leggenda della pugnalata alla schiena. Al termine del processo Gruber fu condannato a pagare la somma di 3.000 marchi di ammenda. In tal modo si andò consolidando la tesi che la Germania avesse perso la guerra a causa della Rivoluzione [KA, n. 34]. 15 Riferimento gli atti violenti perpetrati il 14 settembre 1921 nel Löwenbräukeller, dove le vittime furono i sostenitori del Bayernbund (Unione bavarese), tra cui il leader Otto Ballerstedt, che riportò ferite alla testa. Ballerstedt sarebbe stato ucciso nella “notte dei lunghi coltelli”.
502 massa impazzita16 incominciò a urlarci contro e minacciò di farci fuori. Tutta gente che, mentre noi difendevamo la patria, era in larga parte composta da disertori e da imboscati rimasti a casa o nelle retrovie. Naturalmente quelle serate avevano il vantaggio di rafforzare la solidarietà dei miei fedeli, che giurarono di sostenermi fino alla morte.
Figura 1 Cartolina raffigurante il Löwenbräukeller di Monaco [fonte: commons.wikipedia.org]
Quei conflitti erano piuttosto comuni nel 1919, ma sembrarono aggravarsi all’inizio del 1920. Ci furono adunate (ricordo soprattutto quella nella Sala Wagner di Sonnenstrasse a Monaco) in cui il mio gruppo, diventato nel frattempo più numeroso, dovette sostenere duri scontri che, non di rado, si concludevano con violenze, con repressioni e con la cacciata dalle sale mezzi morti17. La lotta che avevo assunto in prima persona, sostenuto solo da alcuni commilitoni, divenne poi una missione quasi sacra del giovane movimento. Oggi sono orgoglioso di poter dire che, all’epoca, contando quasi esclusivamente sui nostri sostenitori bavaresi, riuscimmo lentamente a porre fine a quel miscuglio di stupidità e di tradimento18. Dico stupidità e tradimento proprio perché, pur convinto della bonarietà e dell’ingenuità della massa, non posso ammettere la dabbenaggine degli organizzatori e degli istigatori. Li ritenevo e li ritengo tuttora dei traditori al soldo della Francia. In un caso (Dorten) la storia ha già espresso il suo giudizio19. Sull’idea hitleriana di “massa” vedi capitoli 2-I, 6-I e 4-II. Riferimento agli scontri dei Reparti d’assalto nell’Hotel Wagner durante il novembre 1921, in occasione di una mostra dedicata alla guerra [KA, n. 41]. 18 Allusione al Partito popolare bavarese, sostenitore di una visione federalista dello Stato tedesco. 19 Hans Adam Dorten (1880-1963) fu uno dei più noti rappresentanti del movimento separatista in Germania occidentale. Nel 1919 fu presidente della “Repubblica Renana di Wiesbaden”. Bibliografia: M. Schlemmer, “Los von Berlin”. Die Rheinstaatbestrebungen nach dem Ersten Weltkrieg, Colonia, Böhlau, 2007. 16 17
503 La sfida di allora era pericolosa soprattutto per l’abilità con cui si velavano i veri scopi: le intenzioni federaliste apparivano l’unico motivo del contendere. È ovvio che l’incitamento all’odio prussiano non avesse nulla a che fare col federalismo. Ed è curiosa l’“attività federalista” che cerca di dissolvere o di smembrare uno Stato federale. Un autentico federalista, che non citi solo ipocritamente il progetto imperiale bismarckiano, non dovrebbe auspicare contemporaneamente la spartizione dello Stato prussiano bismarckiano e gli sforzi separatisti. Sarebbe successo il finimondo se a Monaco un partito prussiano conservatore avesse sostenuto, richiesto o preteso pubblicamente la separazione della Franconia dalla Baviera! Un progetto doloroso per quelle nature dai sentimenti autenticamente federalisti che non avevano compreso lo scellerato imbroglio; anche perché erano i primi a esserne vittime. Caricando il federalismo di tali problemi, i suoi sostenitori ne stavano scavando la fossa. Non si può pubblicizzare una struttura federale dello Stato se si denigra, s’insulta o s’insozza l’elemento essenziale di quella costruzione statale (la Prussia)20. Così lo Stato federale diventa praticamente impossibile. La cosa più incredibile era che la lotta dei “federalisti” si rivolgeva contro la Prussia, che non aveva nulla a che vedere con la democrazia novembrina21. Le ingiurie e gli attacchi dei “federalisti” non si rivolgevano contro i padri della costituzione weimariana, che del resto erano in larga parte tedeschi meridionali o ebrei, ma contro i rappresentanti della vecchia Prussia conservatrice, che erano agli antipodi della costituzione weimariana. Il fatto che essi evitassero con cura di toccare gli ebrei, non può meravigliarci affatto, ma ci fornisce la chiave per spiegare l’enigma. Come, prima della Rivoluzione, l’ebreo aveva cercato di distrarre l’attenzione dalle sue società di guerra, o meglio da se stesso, aizzando la massa, specialmente bavarese, contro la Prussia, in seguito doveva nascondere la nuova razzia dieci volte superiore. E ci riuscì aizzando gli “elementi nazionali” tedeschi: la Baviera di idee conservatrici contro la Prussia conservatrice. Alimentò il conflitto in modo così scaltro: reggendo i fili del destino del paese, provocò soprusi così grandi e indecenti che il sangue ribollì alle vittime designate. I soprusi non riguardavano mai gli ebrei, ma sempre i fratelli tedeschi. Il bavarese non vedeva la Berlino dei quattro milioni dei lavoratori diligenti, solerti e creativi, ma la Berlino infingarda e corrotta dei peggiori quartieri occidentali! Il suo odio non rivolgeva contro quell’Occidente, ma contro la città “prussiana”. C’era veramente di che disperare. L’abilità dell’ebreo nel distrarre l’attenzione pubblica si può osservare tutt’ora22. Nel 1918 non esisteva ancora un antisemitismo sistematico23. Mi ricordo ancora delle difficoltà che incontravo non appena pronunciavano il nome “ebreo” fra la Nell’ottobre 1919 la Prussia rappresentava il 62% del territorio tedesco e aveva il 61% della sua popolazione [KA, n. 48]. 21 In epoca weimariana il Landtag prussiano fu egemonizzato dalle forze repubblicane (socialdemocratici, cattolici e liberaldemocratici), anche se il consenso andò calando nel corso degli anni: il 73% dei suffragi nel 1919, il 50% nel 1921, il 57% nel 1924, il 49% nel 1928, il 38% nel 1932 e il 31% nel 1933. 22 Probabile riferimento al tema dell’esproprio senza indennizzo dei latifondi principeschi, discusso nell’autunno 1925. Bibliografia: K.H. Kaufhold, Fürstenabfindung oder Fürstenenteignung? Der Kampf um das Hausvermögen der ehemals regierenden Fürstenhäuser im Jahre 1926 und die Innenpolitik der Weimarer Republik, in G. Schulz, M.A. Denzel (ed.), Deutscher Adel im 19. und 20. Jahrhundert. Büdinger Forschungen zur Sozialgeschichte, St. Katherinen, Scripta Mercaturae Verlag, 2004, pp. 261-285.
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504 gente: o mi guardavano con aria stupita oppure ricevevo occhiate di riprovazione. I nostri primi tentativi di denunciare pubblicamente il vero nemico, furono pressoché inutili, e solo molto lentamente le cose iniziarono a cambiare. La “Lega nazionalpopolare tedesca a protezione e a difesa”, per quanto carente dal punto di vista organizzativo, ebbe il merito indiscusso di aver impostato la questione ebraica24. In ogni caso, nell’inverno del 1918-19 iniziò a radicarsi una specie di antisemitismo. Più tardi il movimento nazionalsocialista diede tutt’altra spinta alla questione ebraica: riuscì a sollevare il problema dai ristretti circoli piccolo-borghesi per trasformarlo in motivo propulsivo di un grande movimento nazionalpopolare. Ma non appena il nazionalsocialismo riuscì a donare con l’antisemitismo una più grande e unificante idea di lotta al popolo tedesco, l’ebreo passò subito al contrattacco. Ricorse al solito vecchio mezzo. Con formidabile rapidità scagliò una fiaccola accesa nel movimento nazionalpopolare e seminò zizzania. Sollevando il problema ultramontano e scatenando le lotte fratricide tra cattolicesimo e protestantesimo, l’ebreo riuscì a distogliere l’attenzione pubblica da altri problemi, allontanando l’attacco concentrico contro l’ebraismo. Gli uomini che scaraventarono nel nostro popolo il problema ultramontano, non potranno mai espiare a sufficienza il peccato commesso25. L’ebreo, in ogni caso, aveva raggiunto il suo obiettivo: cattolici e protestanti combattevano allegramente tra di loro e l’acerrimo nemico dell’umanità ariana e di tutto il cristianesimo se la rideva sotto i baffi.
Figura 2 Inserzioni antisemitiche del Deutschvölkischer Schutz- und Trutzbund sul “Völkischer Beobachter” (1920) [fonte: München und der Nationalsozialismus, 2015] 23 La storia degli ebrei tedeschi nel XIX fu caratterizzata da due fenomeni contrari e concomitanti: la crescente emancipazione, con l’equiparazione giuridica completa fra il 1869 e il 1871, e l’antisemitismo politico-razziale. Durante la guerra, il sentimento si ampliò in maniera trasversale. Bibliografia: M. Ferrari Zumbini, Le radici del male. L’antisemitismo in Germania da Bismarck a Hitler, Bologna, Il Mulino, 2001. 24 Il Deutschvölkischer Schutz- und Trutzbund (Lega nazionalpopolare tedesca a protezione e a difesa) sosteneva apertamente il tema del complotto internazionale ebraico. Bibliografia: U. Lohalm, Völkischer Radikalismus. Die Geschichte des Deutschvölkischen Schutz- und Trutz-Bundes, 1919-1923, Amburgo, Leibniz Verlag, 1970; W. Jung, Ideologische Voraussetzungen, Inhalte und Ziele aussenpolitischer Programmatik und Propaganda in der deutschvölkischen Bewegung der Anfangsjahre der Weimarer Republik. Das Beispiel Deutschvölkischer Schutz- und Trutz-Bund, Universität Göttingen, dissertazione dottorale, 2001. 25 Sul movimento pantedesco e il problema ultramontano vedi capitolo 3-I.
505 Come un tempo l’ebreo era riuscito a occupare per anni l’opinione pubblica sulla lotta tra federalismo e unitarismo, finendo per logorarla, mentre trafficava con la libertà tedesca e svendeva la nostra patria alla finanza internazionale, così ora riesce a scagliare una contro l’altra le due confessioni tedesche, minandone e distruggendone le basi col veleno dell’ebraismo cosmopolita internazionalista. Abbiamo davanti agli occhi le devastazioni prodotte quotidianamente dall’imbastardimento ebraico. Si pensi al fatto che l’avvelenamento del sangue potrebbe essere rimosso dal nostro corpo popolare solo dopo secoli, o forse mai più. Si pensi a quanto la corruzione razziale degradi gli ultimi valori ariani del popolo tedesco e spesso li distrugga. La nostra forza di nazione portatrice di civiltà tende progressivamente a spegnersi26: rischiamo di cadere, almeno nelle nostre città, al livello del Sud Italia27. L’inquinamento del nostro sangue, di cui non si rendono conto centinaia di migliaia di persone del nostro popolo, è condotto sistematicamente. Quei parassiti mori dei popoli corrompono sistematicamente le nostre giovani bionde fanciulle inesperte e distruggono così il loro dono inestimabile28. Entrambe le confessioni cristiane osservano con indifferenza quella profanazione e quella distruzione di un organismo unico e nobile concesso per grazia divina. Il mondo avrà ancora senso non se vinceranno i protestanti o i cattolici, ma se l’uomo ariano si conserverà oppure si estinguerà. Oggi le due confessioni non lottano contro il distruttore dell’uomo ariano, ma cercano di distruggersi a vicenda. L’uomo di orientamento nazionalpopolare ha il sacro dovere di provvedere affinché entrambe le confessioni non si limitino a parlare esteriormente della volontà di Dio, ma la compiano effettivamente e non permettano la profanazione della sua opera. Perché la volontà di Dio donò agli uomini la Sua immagine, la Sua natura e le Sue capacità. Chi distrugge la Sua opera, dichiara guerra alla creazione del Signore e alla volontà divina. Il sacro dovere di ogni singola confessione è quello di prendere posizione contro chi, nei discorsi o nei comportamenti, esce dal seminato della propria comunità religiosa per attaccar briga con l’altra. Dato che la scissione religiosa è un fatto, contrastare gli aspetti essenziali di ogni confessione porterà inevitabilmente a una guerra di annientamento reciproco29. La nostra situazione non è paragonabile a quella francese, spagnola o italiana30. In quei paesi, per esempio, si può pubblicizzare una lotta contro il clericalismo o l’ultramontanismo senza correre il rischio di sgretolare i popoli locali31. Questo non si può fare in Germania, poiché qui anche i protestanti parteciperebbero alla lotta. Quindi la resistenza che altrove solo i cattolici farebbero contro i soprusi politici dei loro vescovi, qui assumerebbe subito il carattere di un attacco protestante contro il cattolicesimo. I membri di una confessione non tollerano una critica che Sull’interpretazione della razza “ariana” vedi capitolo 11-I. Qui Hitler si riferisce probabilmente allo stato generale delle città del Sud. 28 Sul topos antisemita del seduttore ebreo della donna e ragazza ariana vedi capitoli 11-I e 2-II. 29 Il rapporto tra la Chiesa cattolica e quelle protestanti fu piuttosto freddo sino al XX secolo. Di ecumenismo si può parlare solo nel secondo dopoguerra, in particolar modo con il Concilio Vaticano II. Bibliografia: J. Ernesti, Breve storia dell’ecumenismo. Dal cristianesimo diviso alle chiese in dialogo, Bologna, EDB, 2010. 30 Il numero di cattolici nella Germania del dopoguerra ammontava al 33% della popolazione. 31 In realtà i tre paesi citati erano profondamente divisi tra cattolici e anticlericali, laicisti e ateisti. Si pensi al caso italiano dalla nascita del Regno (1861) sino al Concordato del 1929 [KA, n. 75]. 26 27
506 provenga da un’altra comunità. Gli uomini disposti a porre fine al malcostume nella propria comunità sono spinti a rinunciarvi e a rivolgersi contro l’esterno, se la critica non proviene da un loro correligionario. È ritenuto ingiusto, inammissibile e indecente ogni tentativo di ficcare il naso in cose altrui. Quegli sforzi non sono giustificabili nemmeno se si basano sull’interesse supremo della comunità nazionale, poiché i sentimenti religiosi hanno radici ben più profonde rispetto alle convenienze politiche e nazionali. Le cose non cambiano trascinando le due confessioni in una lotta fratricida, ma donando con mutua tolleranza un avvenire alla nazione, che avrà un effetto riconciliante anche in ambito religioso32. Non esito ad affermare che sono i peggiori nemici del mio popolo rispetto ai comunisti internazionalisti quegli uomini che oggi coinvolgono il movimento nazionalpopolare nella diatriba religiosa33. Il movimento nazionalsocialista è chiamato a convertire i comunisti. Ma agisce in modo riprovevole chi lo distoglie dalla sua vera missione. Così finisce per favorire gli interessi ebraici. Oggi è interesse ebraico lasciar dissanguare il movimento nazionalpopolare in una lotta religiosa nell’istante preciso in cui rappresenta un’autentica minaccia. E sottolineo l’espressione “lasciar dissanguare”; perché solo un uomo ignaro del passato può credere di risolvere, con il suo movimento, un problema irrisolto dai grandi statisti dei secoli passati. Del resto i fatti parlano chiaro. Quei signori che, tre anni fa, scoprirono improvvisamente la missione suprema del movimento nazionalpopolare nella lotta contro l’“ultramontanismo”, non l’hanno distrutto, ma hanno semmai lacerato il loro movimento. Mi rifiuto di credere che, nelle file del movimento nazionalpopolare, qualche sciocco pensi di fare ciò che non riuscì nemmeno a Bismarck34. Sarà sempre compito supremo della dirigenza del movimento nazionalsocialista quello di opporsi contro ogni tentativo di porre il movimento al servizio delle lotte religiose e di allontanare istantaneamente i propagandisti animati da tali propositi. Questo ci riuscì bene sino all’autunno del 1923. Nelle file del nostro movimento il protestante più devoto poteva stare accanto al cattolico più devoto, senza che sorgesse mai un conflitto di coscienza religiosa. La lotta comune contro il distruttore dell’umanità ariana aveva insegnato loro a stimarsi e a sostenersi reciprocamente. In quegli anni il nostro movimento non ha mai avallato la lotta più aspra contro il Zentrum per motivi religiosi, ma solo per motivi di politica nazionale, razziale ed economica. Avemmo successo, come lo testimoniano i sapientoni di oggi. Negli ultimi anni eravamo giunti al punto che i circoli nazionalpopolari, in uno stato di desolante cecità, non ammettevano la follia delle loro dispute confessionali e che i giornali atei marxisti si facevano all’occorrenza i difensori delle comunità 32
Da un lato il nazionalsocialismo si poneva come surrogato religioso e si appellava ai sentimenti religiosi (il programma del 1920 parlava di “cristianesimo positivo”). Dall’altro molti ideologi nazionalpopolari cercavano di conciliare le idee politiche con la fede cristiana (di qui le varie forme di “cristianesimo ariano” o “tedesco”). Hitler stesso si autorappresentò come “messia ariano” 33 Qui Hitler si rivolgeva soprattutto al misticismo di Artur Dinter, fondatore nel 1927 della Geistchristliche Religionsgemeinschaft (Comunità religiosa spiritualista cristiana) e ad Ernst zu Reventlow, che accusava Hitler di “ultramontanismo” (cioè di cripto-cattolicesimo) [KA, n. 78]. 34 Riferimento al Kulturkampf (battaglia per la civiltà) lanciata da Bismarck negli anni ’70 dell’Ottocento contro le scuole cattoliche.
507 religiose, gettando benzina sul fuoco con affermazioni veramente stupide e aizzando così gli animi della gente. Ma quel grido di battaglia rischia di essere mortifero per un popolo, come quello tedesco che, in passato, ha spesso dimostrato di combattere sino allo sfinimento contro i mulini a vento35. Così perdemmo di vista i veri problemi: mentre ci logoravamo nelle dispute religiose, gli altri si spartivano il mondo36. E mentre il movimento nazionalpopolare s’interroga se sia più pericoloso l’ultramontanismo o l’ebraismo, l’ebreo distrugge le basi razziali della nostra esistenza e annienta così definitivamente il nostro popolo. Su quel genere di combattenti “nazionalpopolari” posso solo raccomandare sinceramente al movimento nazionalsocialista e al popolo tedesco: se starete ben attenti a quegli amici, presto avrete ragione dei vostri nemici37. La lotta tra federalismo e unitarismo, propagata furbescamente dagli ebrei fra il 1919 e il 1921, costrinse il movimento nazionalsocialista a prendere posizione sui suoi problemi essenziali38. La Germania deve essere uno Stato federale o centralizzato. Cosa significa in pratica? Mi pare che l’aspetto essenziale sia il secondo, perché non solo è fondamentale per comprendere tutto il problema, ma anche perché lo chiarisce in modo pacifico. Che cos’è uno Stato federale? Con Stato federale s’intende un’associazione di paesi sovrani che liberamente, in forza della loro sovranità, si uniscono e cedono singolarmente una parte dei loro diritti sovrani al complesso che rende possibile e garantisce l’esistenza dell’unione federale. In realtà questa definizione teorica non si addice a nessuno degli Stati federali esistenti sulla terra. Quantomeno non al caso dell’Unione americana, dove, per la stragrande parte dei singoli Stati, non si può parlare affatto di sovranità originaria, dato che molti furono progressivamente “impressi” nella bandiera federale. Quindi, nella maggior parte dei casi si tratta di Stati più o meno grandi create per motivi tecnicoamministrativi, in molti punti delimitate col righello, che prima non avevano mai avuto una propria sovranità statale e non avrebbero mai potuto averla39. Perché non furono quegli Stati a creare l’Unione, ma l’Unione a creare grande parte di loro. L’ampia autonomia concessa ai singoli Stati non si addice solo alla natura dell’unione federale, ma si deve anche all’ampiezza della sua superficie, che equivale quasi alle dimensioni di un continente. In sintesi, nel caso degli Stati dell’Unione americana non si può parlare
Allusione all’idealismo di Don Chisciotte della Mancia di Cervantes (1605). Allusione alle guerre di religione tra protestanti e cattolici nell’Europa del XVI e XVII secolo, che si conclusero con la pace di Vestfalia (1648) e la fine dell’egemonia cattolica nel Sacro Romano Impero germanico. 37 Questo modo di dire è rintracciabile per la prima volta nel Locorum Communium di Joahnnes Jacobus Manlius (1562) [KA, n. 88]. 38 L’ultimo punto del “Programma dei Venticinque punti” del 1920 prevedeva la creazione di un “forte potere federale centralizzato” (einer starken Zeltralgewalt des Reiches). 39 La genesi dei confini interstatali americani fu un processo lungo ed eterogeneo. Non dipesero solo dalle barriere naturali, ma anche da divisioni interne e da conflitti bellici. 35 36
508 di sovranità statale, ma di diritti stabiliti e garantiti costituzionalmente oppure di “poteri” 40.
Figura 3 L’Impero tedesco (1871-1918) [fonte: wikipedia.de]
La definizione teorica non si addice nemmeno al caso tedesco. Sebbene in Germania esistessero singoli Stati che poi avrebbero dato vita all’Impero. Solo che la sua formazione non fu l’esito della libera volontà o della mutua cooperazione dei singoli Stati, ma quello dell’egemonia di un unico Stato: la Prussia41. La grande differenza territoriale fra gli Stati tedeschi non permette alcun raffronto con la struttura dell’Unione americana. L’enorme differenza tra i piccoli Stati federati In base all’articolo IV della Costituzione americana, la decisione sull’accoglienza di uno Stato membro spetta al Congresso, anche se la prassi ottocentesca fu molto diversa. Bibliografia: A. La Croix, The ideological origins of American federalism, Cambridge (Massachussets), Harvard University Press, 2010. 41 La fondazione dell’Impero tedesco (così come dello Stato italiano) fu un caso tipico di formazione nazionale basata su un nucleo statale egemonico. Pur nascendo come Stato federale di venticinque Stati, era chiara l’egemonia prussiana. Ma la costituzione imperiale fu una struttura complessa e compromissoria tra le diverse forze in campo.
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509 tedeschi e quelli più grandi provocò anche un diverso contributo alla fondazione dell’Impero e dello Stato federale. In effetti la maggior parte di quegli Stati non aveva una sovranità effettiva, a meno che con quel termine non s’intendesse solo l’espressione ufficiale. In realtà il passato e il presente hanno fatto piazza pulita di molti “Stati sovrani”, dimostrando la debolezza di quella struttura “sovrana”42. Qui non intendiamo accertare le circostanze storiche che hanno portato alla formazione del singolo Stato, ma il fatto che i loro confini non furono mai di natura etnica. Quegli Stati sono puri fenomeni politici, che affondano le radici nella fase più dolorosa e impotente della storia tedesca, condizionarono la disintegrazione e ne furono a loro volte condizionati. La costituzione del vecchio Impero tenne conto, almeno in parte, di tutto ciò, non concedendo nel Bundesrat la medesima rappresentanza numerica ai singoli Stati, ma commisurandola alla dimensione e al significato effettivi, così come al contributo fornito alla creazione dell’Impero43. I diritti sovrani ceduti all’Impero furono solo in piccolissima parte devoluti di propria spontanea volontà. In larghissima parte erano praticamente inesistenti o furono semplicemente ceduti sotto il peso della superiorità prussiana. Bismarck non partì dal principio di dare all’Impero ciò che potevano i singoli Stati, ma pretese ciò di cui l’Impero aveva urgentemente bisogno. Un principio moderato e saggio che, da una parte, mostrava grande rispetto per il costume e per la tradizione e, dall’altro, garantiva al nuovo Impero la devozione e la collaborazione necessarie. Ma è sbagliatissimo vedere nella decisione bismarckiana il frutto della sua convinzione che l’Impero si sarebbe così garantito per sempre i diritti sovrani. Bismarck non lo credeva. Al contrario, egli lasciava al futuro ciò che i contemporanei non sarebbero stati in grado di attuare e di tollerare. Sperava nella lenta influenza smussatrice del tempo e nella pressione dell’evoluzione storica, che alla lunga avrebbero finito per indebolire le resistenze dei singoli Stati. Così ha dato dimostrazione di essere un grande statista: la sovranità dell’Impero è andata progressivamente aumentando a scapito di quella dei singoli Stati. Il tempo ha dato ragione alle speranze di Bismarck44. Con il tracollo tedesco e con l’annientamento della monarchia, lo sviluppo federale ha subito un’accelerazione. Dato che i singoli Stati tedeschi esistevano più per ragioni politiche che etniche, la loro importanza divenne nulla nel momento in cui si eliminava la personificazione del loro sviluppo politico: la monarchia e le sue dinastie. Molte di quelle “costruzioni statali” persero così tanto consenso interno da rinunciare volontariamente alla propria esistenza, da associarsi, per pura convenienza, con altri Stati o da essere volontariamente assorbite dai vicini più grossi. Si trattò della dimostrazione più convincente della straordinaria debolezza della “sovranità” di quelle piccole costruzioni e della scarsa considerazione che avevano fra i loro cittadini.
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Tra il 1918 e il 133 ebbe luogo la soppressione di alcuni Stati o di alcune enclave [KA, n. 99]. In base all’articolo 6 della costituzione imperiale del 16 aprile 1871, la composizione del Bundesrat (Camera federale) si basava su quella del 1848 (cinquantotto membri, in totale). In generale, i principali Stati erano sottorappresentati in base alla ratio della popolazione [KA, n. 101]. 44 In base alla costituzione del 1871, sia l’Impero, sia i singoli Stati erano possessori di un potere statale. Ma solo l’Impero aveva la possibilità di modificare le sue competenze per via costituzionale. 43
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Figura 4 Lo Stato tedesco (1919-1937) [fonte: wikipedia.de]
Benché la liquidazione della monarchia e dei suoi sostenitori avesse assestato un duro colpo al carattere federale dell’Impero, l’assoluzione degli obblighi derivanti dal trattato di “pace” fu ben maggiore. Era naturale e ovvio che la sovranità fiscale di quegli Stati i venisse meno nel momento in cui l’Impero, perdendo la guerra, era soggetto a oneri finanziari che non avrebbero più trovato copertura nei singoli contributi statali45. Anche i passi successivi, che portarono alla statalizzazione delle poste e delle ferrovie, furono gli esiti inevitabili dell’asservimento del nostro popolo per mezzo dei trattati di pace46. La Germania fu costretta a rivalutare le proprietà federali per soddisfare gli impegni internazionali. Per quanto assurde fossero quelle forme di “statalizzazioni”, il processo era logico e ovvio. La responsabilità fu dei partiti e degli uomini che all’epoca non fecero di tutto 45
La riforma Erzberger (1919-1920) determinò una centralizzazione della sovranità fiscale, creando un’amministrazione finanziaria unitaria. Bibliografia: J.P. Wildberger, Der soziale Gedanke in der Erzbergerschen Finanzreform, Francoforte sul Meno, Peter Lang, 2000. 46 Sull’idea di “asservimento” tedesco vedi capitolo 6-II.
511 per vincere la guerra. In Baviera la responsabilità fu soprattutto di quei partiti che, in vista dei propri interessi egoistici, avevano sottratto alla struttura imperiale ciò che, dopo la sconfitta, sarebbe costato dieci volte tanto47. Nemesi della storia! Raramente la punizione divina si era abbattuta così velocemente sul peccatore. Quegli stessi partiti che, pochi anni prima, avevano anteposto gli interessi dei loro singoli Stati a quelli imperiali (e questo specialmente in Baviera), si resero conto, sotto la pressione degli eventi, che l’interesse federale soffocava l’esistenza dei singoli Stati. Tutto con il loro concorso di colpa. È ipocrita lamentarsi di fronte alle masse elettorali (perché solo a loro si rivolgono i nostri partiti) per la perdita dei diritti sovrani dei singoli Stati, quando tutti quei partiti avevano concorso in egual misura alla politica dell’adempimento48 che avrebbe inevitabilmente prodotto enormi trasformazioni in tutta la Germania. L’Impero bismarckiano era libero e indipendente da pressioni esterne; non aveva obblighi finanziari così gravosi, e quindi totalmente sterili, come quelli imposti dal piano Dawes49. Anche in politica interna il vecchio Impero limitava le sue ingerenze a pochi azioni assolutamente necessarie. Poteva quindi rinunciare alla sovranità finanziaria e vivere dei contributi dei diversi paesi. Ed è ovvio che il governo centrale preferisse la difesa della propria sovranità fiscale e l’imposizione relativamente ridotta sui singoli Stati. Ma è ingiusto e disonesto sostenere che la scarsa simpatia per la Repubblica dipenda unicamente dall’asservimento finanziario dei suoi Stati. No, le cose non stanno così. La scarsa simpatia per la Repubblica non dipende dalla perdita dei diritti sovrani da parte degli Stati federati, ma è soprattutto l’esito della miserabile immagine che oggi il popolo tedesco ha del proprio paese. Malgrado le celebrazioni del Reichsbanner e della costituzione, la Repubblica di oggi non tocca più i cuori degli strati popolari50. E le leggi per la difesa della Repubblica possono indubbiamente scoraggiare le lesioni delle istituzioni repubblicane, ma non otterranno mai l’approvazione di un solo tedesco. La
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Possibile allusione a Georg Heim (1865-1938), cofondatore della Bayerische Volkspartei (Partito popolare bavarese) e portavoce del separatismo bavarese dopo il 1918. Heim fu poi un grande sostenitore del federalismo [KA, n. 113]. 48 L’espressione Erfüllungspolitik (politica dell’adempimento), utilizzata dalle forze democratiche in senso positivo (rispetto dei patti), mentre dalle destre nazionaliste (e da una parte della sinistra radicale) in senso dispregiativo (asservimento alle potenze straniere), indicava la strategia della politica estera tedesca assunta dall’ultimatum londinese (maggio 1921) all’occupazione della Ruhr (gennaio 1923), che cercava di adempiere le esose richieste di riparazioni alleate in modo da dimostrarne l’irrealizzabilità. 49 Il piano Dawes (agosto 1924) regolò il pagamento delle riparazioni tedesche alle potenze vincitrici della Prima guerra mondiale attraverso una ripresa rateale crescente dei pagamenti, la riorganizzazione della Banca federale tedesca e la creazione di un nuovo Marco federale (il Reichsmark). Il governo tedesco poté emettere un prestito obbligazionario di 800 milioni di marchi garantito dalle azioni delle ferrovie federali e da un’ipoteca sugli introiti fiscali. Bibliografia: B. Kent, The spoils of war. The politics, economics and diplomacy of reparations, 1918-1932, Oxford, Clarendon Press, 1989. 50 Anche se molti tedeschi si identificavano assai di più con partiti, confessioni, religioni o gruppi sociali piuttosto che con l’idea e con l’istituzione repubblicane, le elezioni politiche del dicembre 1924 (quelle immediatamente successive all’approvazione del piano Dawes) si conclusero con un chiaro voto a favore della coalizione repubblicana: i socialdemocratici ottennero il 26% dei suffragi, i popolari nazionaltedeschi il 20,5%, il Zentrum il 13,6%, i popolari tedeschi il 10,1% e i liberaldemocratici il 6,3%. Il primo gabinetto Luther, sorto nel gennaio 1925, era sostenuto dal Zentrum, dai popolari nazionaltedeschi e dai popolari bavaresi.
512 critica più corrosiva e il discredito di tutte le sue istituzioni l’abbiamo proprio nell’eccessiva preoccupazione di difendere la Repubblica dai propri cittadini ricorrendo alle leggi e ai penitenziari. Anche per un altro motivo è falso sostenere che lo scarso sostegno alla Repubblica dipenda dalla prevaricazione centralistica di certi diritti sovrani federati. Ammesso che la nuova costruzione statale non avesse già ampliato le proprie competenze, non si creda che l’amore dei singoli Stati federati sarebbe maggiore se l’imposizione fiscale fosse quella attuale. Al contrario, se i singoli Stati federati dovessero aumentare l’imposizione fiscale per adempiere il diktat parigino, l’ostilità nei riguardi della Repubblica sarebbe infinitamente maggiore. I contributi federati allo Stato centrale non sarebbero particolarmente onerosi, ma andrebbero riscossi in maniera coercitiva51. La Repubblica deve onorare i trattati di pace che non ha né il coraggio, né l’intenzione di infrangere. Ma, ancora, la colpa di tutto questo è dei partiti che raccontano ininterrottamente alle pazienti masse elettorali la storiella della necessaria autonomia degli Stati federati, promuovendo e sostenendo una politica statalista che condurrà inevitabilmente alla liquidazione degli ultimi “diritti sovrani”. Dico inevitabilmente, perché la Germania attuale deve soddisfare gli oneri di un’assurda politica interna ed estera. Anche così si semina zizzania interna: ogni debito assunto esternamente dalla Repubblica, nella sua criminosa rappresentanza degli interessi tedeschi, va onorato con una maggiore pressione che esige la graduale rimozione di tutti i diritti sovrani dei singoli Stati, per evitare che insorga o esista un solo nucleo di resistenza interna. In generale una tipica differenza fra l’attuale politica federale e quella passata consiste nel fatto che il vecchio Impero concedeva libertà all’interno e mostrava forza all’estero, mentre la Repubblica mostra debolezza all’estero e opprime i cittadini all’interno. In entrambi i casi una politica determina l’altra: lo Stato nazionale potente ha bisogno di poche leggi al suo interno grazie al sostegno e all’attaccamento dei suoi cittadini; lo Stato schiavizzato internazionalista può esigere solo con la forza le corvée dai suoi sudditi. Il regime di oggi ha pure l’insolenza di parlare di “liberi cittadini”. Solo la vecchia Germania li aveva. La Repubblica, quale colonia di schiavi in mano ai paesi esteri, non possiede cittadini, semmai sudditi. Per questo motivo non abbiamo una bandiera nazionale52, ma solo un marchio tutelare imposto e introdotto da provvedimenti amministrativi e giuridici53. Quel simbolo, ritenuto il “cappello di Gessler”54 della democrazia tedesca, resterà intimamente estraneo al nostro popolo. La Repubblica, che all’epoca gettò nel porcile i suoi simboli senza alcun rispetto per la tradizione e per la grandezza passate, si stupirà di quanto poco i sudditi tengano ai suoi simboli. Non è altro che una parentesi della storia tedesca. Perciò il nostro Stato federale è costretto, per poter sopravvivere, a limitare progressivamente i diritti sovrani dei singoli Stati federati, non solo per ragioni La Reichsexekution (esecuzione federale), prevista dall’articolo 48 della Costituzione weimariana consentiva al presidente della Repubblica di imporre l’adempimento dei doveri di uno Stato federato anche ricorrendo alla forza militare. Gli esempi sotto agli occhi di Hitler erano quelli della Sassonia e della Turingia nell’ottobre-novembre 1923. Bibliografia: H. Weiler, Die Reichsexekution gegen den Freistaat Sachsen unter Reichskanzler Dr. Stresemann im Oktober 1923. Historisch-politischer Hintergrund, Verlauf und staatsrechtliche Beurteilung, introduzione di K. Sontheimer, Francoforte sul Meno, Rita G. Fischer Verlag, 1987. 52 Sul tema della bandiera vedi capitolo 9-II. 53 Allusione alla legge per la difesa della Repubblica del 21 luglio 1922. 54 Allusione al balivo austriaco che impose a Guglielmo Tell la prova della mela.
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513 materiali, ma anche ideali. Prelevando sino all’ultima goccia di sangue dai suoi cittadini con una politica finanziaria ricattatoria, la Repubblica deve inevitabilmente privare gli Stati federati dei loro ultimi diritti, se non vuole che il malcontento generale si trasformi in aperta ribellione. Invertendo l’affermazione qui riportata, ecco la regola basilare di noi nazionalsocialisti: una nazione potente che tuteli e protegga su vasta scala gli interessi esteri dei suoi cittadini, riesce a offrire libertà interna senza temere per la stabilità dello Stato. È anche vero che un governo nazionale potente deve assumersi la completa responsabilità di grandi ingerenze nella libertà del singolo o di tutti gli Stati federati, senza ledere così la visione federale, se il singolo cittadino riconosce in tali misure un mezzo per la grandezza del suo carattere nazionalpopolare. Certo, tutti gli Stati del mondo sono soggetti a una certa uniformità interna. Anche la Germania non fa eccezione. Oggi è assurdo parlare di “sovranità statale” di singoli Stati, che, a dire il vero, non può esserci per la loro dimensione irrisoria. L’importanza dei singoli Stati è sempre più ridotta sia nel settore dei trasporti, sia in quello tecnico-amministrativo. I trasporti e la tecnica di oggi riducono notevolmente le distanze e gli spazi. Lo Stato del passato rappresenta oggi nient’altro che una provincia, e gli Stati di oggi assomigliavano ai vecchi continenti. La difficoltà tecniche nell’amministrare uno Stato come la Germania non è maggiore di quella necessaria alla guida della provincia del Brandeburgo di centoventi anni fa. La distanza fra Monaco e Berlino è oggi più facilmente percorribile rispetto a quella da Monaco a Starnberg55 di un secolo fa. E tutto il territorio del paese è, in relazione all’attuale rete dei trasporti, più piccolo rispetto a qualsiasi Stato federato della Germania centrale durante le guerre napoleoniche. Chi si rifiuta di guardare in faccia la realtà, resta ancorato al passato. I nostalgici ci sono sempre stati e ci saranno sempre. Ma non possono fermare il cammino della ruota della Storia. Noi nazionalsocialisti non possiamo ignorare le conseguenze di queste verità. Anche qui dobbiamo evitare gli slogan dei nostri partiti borghesi56. Uso il termine slogan perché quei partiti non credono seriamente nella possibilità di realizzare i loro programmi e perché, in secondo luogo, sono corresponsabili, se non responsabili in toto, della situazione attuale. Soprattutto in Baviera, le grida anticentralistiche non sono altro che una commedia partitica priva di senso. I partiti borghesi falliscono miserevolmente quando passano dalle parole ai fatti. La “ruberia dei diritti sovrani” perpetrata ai danni dello Stato bavarese, lasciando da parte il latrato disgustoso, fu subita senza colpo ferire. Già, se qualcuno avesse osato contrastare seriamente quell’assurdo sistema, sarebbe stato bandito e condannato da quegli stessi partiti come “estraneo allo Stato attuale” e perseguitato fin a ridurlo al silenzio con la prigione o con il divieto di parola57. I nostri sostenitori devono riconoscere l’ipocrisia dei circoli federalisti: come in parte la religione, anche il pensiero federale non è altro che un mezzo per i loro meschini interessi di partito. 55
Cittadina a 25 km a sud-ovest di Monaco. Sul risentimento hitleriano verso la borghesia tedesca vedi capitolo 9-II. 57 Qui Hitler si riferisce a se stesso. Il 26 settembre 1923 fu condannato a cinque anni di prigione per alto tradimento, poi ridotti a diciotto mesi, fino al rilasciato per buona condotta del 20 dicembre 1924. Fra il 1925 e il 1928 molti Stati tedeschi gli inflissero il Redeverbot (divieto di parola). In Baviera il divieto durò sino al marzo 1927, mentre in Prussia sino al settembre 1928.
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Se è vero che appare ovvia una certa unificazione nel campo dei trasporti, lo è altrettanto che noi nazionalsocialisti siamo obbligati a opporci duramente contro la piega assunta dello Stato attuale, vale a dire se i provvedimenti hanno l’unico fine di nascondere o di favorire una politica estera nemica. Proprio perché la Repubblica ha statalizzato ferrovie, poste, finanze, ecc. non spinta dai supremi interessi nazionali, ma solo per il rispetto dell’interminabile politica dell’adempimento, noi nazionalsocialisti dobbiamo fare tutto ciò che riteniamo giusto per intralciarla o impedirla. Fra ciò rientra anche la lotta contro la centralizzazione delle istituzioni vitali del nostro popolo, compiuta al solo fine di liquidare le somme miliardarie e i pegni dati ai paesi stranieri per via della nostra politica postbellica. Anche il movimento nazionalsocialista ha preso posizione contro la statalizzazione postbellica. Il secondo motivo di critica è che la centralizzazione rafforzerebbe il potere di un sistema di governo che ha arrecato seri danni alla nazione tedesca. L’attuale Germania ebraico-democratica, un vero insulto alla nazione tedesca, cerca di annullare la critica dei singoli Stati che non si siano ancora adattati allo spirito dell’epoca, rendendoli politicamente irrilevanti58. Noi nazionalsocialisti, invece, abbiamo buoni motivi non solo per fornire all’opposizione le basi di una forza statale vincente, ma anche per trasformare la loro lotta anticentralizzatrice nell’espressione di un superiore interesse nazionale tedesco. Mentre il Partito popolare bavarese si sforza di conservare i “privilegi” dello Stato bavarese per motivi particolaristici e pavidi, noi dobbiamo utilizzare quella posizione privilegiata al servizio di un interesse nazionale superiore contrario all’attuale democrazia novembrina. Il terzo motivo di critica è la convinzione che gran parte della statalizzazione non sia un’unificazione, men che meno una semplificazione, ma che nasconda spesso gli interessi dei partiti rivoluzionari. La storia tedesca non aveva mai conosciuto un sistema nepotistico così spudorato come quello repubblicano59. Gran parte della rabbia popolare contro la centralizzazione va attribuita a quei partiti che un tempo promisero di aprire le porte alle persone più meritevoli, ma che, in realtà, puntavano esclusivamente a lottizzare uffici e cariche con i loro uomini di fiducia. In particolare gli ebrei, dopo la nascita della Repubblica, si gettarono sulle aziende economiche e sugli apparati amministrativi dello Stato, che oggi sono diventati un loro monopolio60. Quest’ultima considerazione ci costringe a esaminare in modo più accurato qualsiasi processo di centralizzazione e, se necessario, a contrastarlo. I nostri punti di vista devono essere animati da superiori interessi politici nazionali, giammai da interessi meschini e particolaristici. Diciamo questo per evitare che i nostri seguaci pensino che noi nazionalsocialisti non riconosceremmo al potere statale una sovranità superiore a quella dei singoli Stati. Su questo punto non abbiamo alcun dubbio. Per noi lo Stato è solo una forma, la sostanza è il suo contenuto: la nazione, il popolo. È chiaro che tutti gli altri interessi vanno subordinati a quelli Hitler sottace l’esistenza del Reichsrat (Consiglio federale), che però aveva ridotto ulteriormente i suoi poteri durante l’epoca weimariana [KA, n. 147]. 59 Vedi capitolo 9-II. 60 Le fonti weimariane non consentono di dimostrare la fondatezza di tale asserzione. La presenza del personale di origine ebraica negli uffici pubblici era molto esiga (circa l’1%). Esiguo era anche il numero di licenziamenti per motivi antisemiti fino al 1933 [KA, n. 154]. 58
515 sovrani. In particolare non dobbiamo concedere a nessuno Stato interno una sovranità politica di potenza. In futuro metteremo fine alla stupida abitudine da parte di alcuni Stati federati di mantenere proprie rappresentanze all’estero61. Fin ad allora non possiamo meravigliarci se i paesi stranieri mettano ancora in dubbio la solidità del potere statale e si comportino di conseguenza. E si tratta di un’enorme sciocchezza, perché le rappresentanze non arrecano né danni, né benefici. Gli interessi di un cittadino tedesco all’estero, che non possano essere garantiti dai rappresentanti del suo paese, non lo possono certo essere da quelli di uno staterello irrisoriamente piccolo nell’attuale scenario mondiale. Questi comportamenti avvalorano la critica distruttiva interna ed estera rivolta alla Germania. Noi nazionalsocialisti non comprendiamo perché un decrepito casato nobiliare foraggi il suo rampollo con una carica diplomatica62. Le nostre rappresentanze diplomatiche erano, già durante l’Impero, così miserabili da rendere superflui ulteriori commenti63.
Figura 5. Suddivisione amministrativa dell’Impero grande-tedesco nazista (1944) [fonte: wikipedia.de]
In futuro i singoli Stati dovranno assumere una rilevanza in ambito culturale. Il monarca che contribuì a elevare la rinomanza della Baviera, non era un cocciuto Anche se la politica estera era stata centralizzata in base all’articolo 78 della costituzione del 1919, i singoli Stati potevano mantenere i rapporti diplomatici in forma di legazioni e di consolati. 62 Fra il 1919 e il 1934, solo sei dei quarantaquattro legati intra-tedeschi erano nobili [KA, n. 161]. 63 Dopo il 1918 fu avviata una riforma del servizio diplomatico grazie soprattutto a Gustav Stresemann (prima a capo della commissione parlamentare per gli affari esteri e poi ministro degli esteri ininterrottamente dal 1923 al 1929). 61
516 particolarista antitedesco, ma il grande-tedesco Ludovico I, dotato di senso artistico. Utilizzando le forze statali per ampliare la posizione culturale della Baviera e non per rafforzarne la politica di potenza, quel monarca fece la cosa giusta e il suo operato fu più duraturo di quanto non si pensasse. Elevando Monaco dal quadro di capitale provinciale di minore importanza al rango di grande metropoli artistica tedesca, Ludovico I creò un centro spirituale che ancora oggi affascina i cittadini franconi, così diversi dai bavaresi. Ammesso che Monaco resti ciò che era in passato, il processo si sarebbe ripetuto anche in Sassonia, con la differenza che la Lipsia bavarese (Norimberga) sarebbe una piccola città francona, non bavarese. Monaco non è stata resa grande al grido “Abbasso la Prussia”: fu il suo re a darle rinomanza, donando alla nazione tedesca una gemma artistica dall’imperitura ammirazione. Ecco una lezione da trarre: l’importanza dei singoli Stati non sarà più legata alla politica di potenza, ma all’ambito etnico o culturale. Il tempo smusserà le differenze. Il rafforzamento dei mezzi di comunicazione sconvolge talmente le persone da eliminare i confini statali e da smussare le piccole differenze culturali. L’esercito va tenuto al riparo dall’influenza dei singoli Stati federati. Lo Stato nazionalsocialista non dovrà cadere nell’errore di rifilare all’esercito un compito che non gli compete e che non può adempiere. L’esercito tedesco non deve essere una scuola per la preservazione delle caratteristiche etniche64, né una scuola per la comprensione e per l’integrazione di tutti i tedeschi. L’esercito deve unire ciò che divide la vita della nazione. Inoltre deve prelevare il giovanotto dal ristretto orizzonte paesano per introdurlo nella nazione tedesca. Il ragazzo deve imparare a guardare oltre gli angusti limiti del suo paese natio. Deve scrutare i confini della patria, perché saranno questi che sarà chiamato a difendere. Quindi è assurdo lasciare a casa quei giovanotti, ma, durante la leva militare, bisogna mostrar loro la Germania! Oggi è tanto più necessario, perché il giovane tedesco non viaggia più per ampliare i suoi orizzonti65. Ha senso lasciare il giovane bavarese a Monaco, il francone a Norimberga, il badese a Karlsruhe, il württemberghese a Stoccarda, ecc.? Non è più giusto mostrare al giovane bavarese il Reno e il Mar del Nord, all’amburghese le Alpi, al prussiano orientale i Rilievi Centrali e così via? Che il carattere paesano resti pure nella truppa, non nella guarnigione. Contestiamo qualsiasi processo di centralizzazione, a eccezione che nell’esercito! Non solo lo approveremmo, ma ne saremmo ben lieti. Essendo folle conservare i reparti dei singoli Stati66, data la dimensione dell’attuale esercito repubblicano67, l’unificazione dell’esercito statale è un passo da compiere, in futuro, insieme alla reintroduzione dell’esercito popolare. Del resto una giovane idea vincente rifiuterà ogni vincolo che potrebbe paralizzarne l’azione. Il nazionalsocialismo deve ricorrere al diritto di imporre i suoi principi a tutta la nazione tedesca, senza riguardo per i precedenti confini federali, e di inculcarle le sue idee. Come le chiese non si sentono
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Riferimento alla struttura federale delle forze armate tedesche fra il 1867 e il 1919. Nel capitolo 1-I Hitler fa riferimento al padre Alois recatosi a Vienna a 14 anni per imparare a fare l’artigiano. 66 La legge sulla forza provvisoria centralizzata del febbraio 1919 pose fine alla struttura federale dell’esercito. L’articolo 79 della costituzione weimariana unificò il sistema di difesa [KA, n. 174]. 67 Vedi capitolo 15-II. 65
517 vincolate e limitate dai confini politici, così anche le idee nazionalsocialiste non lo sono dai confini dei singoli Stati tedeschi. La dottrina nazionalsocialista non serve gli interessi politici dei singoli Stati, ma dovrà diventare sovrana della nazione tedesca. Deve determinare e riordinare la vita di un popolo e, quindi, deve valersi assolutamente del diritto di travalicare quei confini tracciati dalla situazione politica da noi criticata. Quanto più totale sarà la vittoria della nostra idea, tanto più grande sarà la libertà offerta internamente al singolo Stato tedesco.
Approfondimenti didattici 1. Analisi retorica e stilistica
- Individua le principali figure retoriche; - Individua l’esistenza di fallacie retoriche; - Individua i principali “loci” e “topoi”; - Individua la presenza di stereotipi e pregiudizi.
2. Analisi storico-culturale
- Federalismo e centralismo: analizza la tesi hitleriana circa il “federalismo mascherato” e tenta di elencare alcuni esempi storici che la dimostrino o la confutino; - Società di guerra: analizza il fenomeno delle “società di guerra”, la genesi, i risultati e la polemica postbellica; - Antisemitismo sistematico: analizza la tesi hitleriana e cerca di individuare le analogie e le differenze tra il nazionalsocialismo e le altre formazioni nazionalpopolari antisemite; - Le chiese cristiane e la politica: ricostruisci l’impegno politico dei cristiani dalla fine dell’Ottocento sino al primo dopoguerra e tenta di spiegare la “conversione” territoriale e razziale del cattolicesimo e del protestantesimo tedeschi; - La politica estera della Repubblica di Weimar: analizza la genesi della “politica d’adempimento” tedesca nel primo dopoguerra e tenta di individuare aspetti positivi e aspetti negativi.
A. Gilardoni, Logica e argomentazione. Un prontuario, Milano, Mimesis, 2008.
Capitolo XI. Propaganda e organizzazione
Sinossi 1. Genesi Il capitolo 11-II fu redatto nell’autunno del 1926, quando Hitler, risolti a suo favore i conflitti intrapartitici al congresso di Weimar (luglio), si ritirò a Berchtesgaden per completare il secondo volume del Mein Kampf. La prima parte affronta il problema del rapporto tra propaganda e organizzazione, la seconda è una storia del partito fra il 1921 e il 1922. Una datazione precisa non è possibile, in assenza di riferimenti a eventi contemporanei1. 2. Contenuto Dopo l’intermezzo dedicato al problema federale, Hitler dedica un altro capitolo alla storia politica, dove spiega la trasformazione del Partito dei lavoratori nel Partito nazionalsocialista avvenuta tra il 1921 e il 1922, stilizzando la sua ascesa e le ragioni della sua “diversità” rispetto al passato. La prima parte del capitolo illustra il dilemma alla base di ogni azione politica dotata di una “visione del mondo” (cioè di una metafisica): è la politica che deve adeguarsi alla realtà oppure la realtà che deve adeguarsi all’idea? Hitler ritorna a distinguere le tre figure fondamentali alla base dell’attività politica: il teorico (il “programmatore”), l’organizzatore (il “propagandatore”) e il dirigente (la “guida”). Se è vero che il politico deve essere sintetico, cioè deve saper essere contemporaneamente un teorico, un organizzatore e un dirigente (come lui), lo è altrettanto che solo i grandi uomini sanno fare la storia e infliggerle i veri cambiamenti. Si dà il caso che i grandi uomini siano una sintesi compiuta delle tre figure (l’idea in sé del programmatore, l’idea fuori da sé dell’organizzatore, e l’idea in sé e per sé del politico). Il compito del politico è quello di saper comprendere il suo tempo e la massa (il “materiale umano” a sua disposizione). Il partito deve cioè saper individuare coloro che possono essere i quadri (i membri) e distinguerli dai semplici simpatizzanti (i sostenitori). Deve inoltre saper discernere chi è guidato solo dall’idea da chi invece lo è da biechi interessi egoistici. Il partito non deve crescere a dismisura, ma deve avere una sua “giusta misura”: deve conservare il nucleo originario integro e saper contemporaneamente conquistare le masse degli indecisi e dei “vili” alla causa della rivoluzione nazionalsocialista. Il successo di un movimento non dipende solo dalle sue idee, ma anche e soprattutto dagli uomini a disposizione, dalla capacità di saper leggere i tempi. La seconda parte del capitolo è dedicata più specificamente alla storia del partito. La lunga premessa è servita a dimostrare che la visione politica assunta da Hitler è stata quella giusta e opportuna per salvare l’idea: solo con una strategia ferma e coerente è possibile superare le secche del movimento nazionalpopolare e puntare al potere statale. La propaganda è l’aspetto più importante in quel particolare contesto storico, perché è l’unico mezzo per conquistare nuovi sostenitori e, contemporaneamente, selezionare i membri adatti a far parte del nucleo fondante. Fra il 1921 e il
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KA II, p. 1469.
520 1922 avviene la svolta nel partito: le regole “democratico-assembleari” sono abbandonate a favore del principio della “responsabilità” del capo. La riforma “carismatica” non ha solo effetti di natura organizzativa, ma anche commerciale. Il Partito si affidò prima nelle mani di Rudolf Schüssler e poi in quelle Max Amann. Le doti manageriali (come nel caso dell’amministrazione del “Völkischer Beobachter”) sono la condizione sufficiente per perseguire il successo economico. La convinzione politica da sola non basta: serve anche la professionalità e la dedizione. Non a caso Hitler chiude la sua disamina con la data del putsch, per dimostrare che il partito era finanziariamente solido e, malgrado l’errore tattico (lo scontro contro le forze di polizia), avrebbe potuto puntare in futuro ad assumere la guida della Germania. 3. Analisi Il capitolo 11-II porta la storia del Partito nazionalsocialista alle soglie del 1922. Hitler non ha più bisogno di soffermarsi sulla “genesi” del principio del capo: ha spiegato come è giunto al nazionalsocialismo, perché è entrato nel Partito dei lavoratori e perché l’ha trasformato (o quantomeno sta cercando di farlo) in un movimento di massa. In effetti la crisi dell’estate del 1921 fu l’ultimo tentativo da parte della vecchia dirigenza di mettere in discussione il carisma hitleriano. Ma non solo: il progetto elaborato da Otto Dickel, Dietrich Eckart e Anton Drexler di riforma programmatica e di fusione politica con la Deutschsozialistische Partei (Partito socialista tedesco) costrinse Hitler a porre il suo partito di fronte a una scelta: o con lui o senza di lui. In realtà la scelta del 1921 era anche e soprattutto tra partito burocratico e partito carismatico. Hitler, come sempre, mostra il cammino “storico” che ha portato alla scelta in suo favore (la scelta migliore possibile, dal suo punto di vista). Lo fa partendo dalla constatazione che un teorico non è un buon politico, semplicemente perché è solo un teorico. Non lo è nemmeno un organizzatore, né tantomeno un dirigente. Tutti e tre sono parziali, cioè hanno una visione della realtà che non è completa e consistente: è incompleta perché non riescono a comprendere la natura umana, è inconsistente perché contraddittoria rispetto alla visione del mondo. Una volta appurato per via abduttiva che solo il grande propagandatore può diventare un grand’uomo, Hitler si sposta ad analizzare il caso del suo piccolo partito. Dalla miseria iniziale si è passati, progressivamente, a una gestione seria e responsabile. Questa gestione è ovviamente antitetica al dilettantismo volontaristico del movimento nazionalpopolare e all’opportunismo dei “club” democratici: la convinzione si mostra coi fatti, con l’assunzione di responsabilità. Ciò non è stato fatto dal Partito tedesco dei lavoratori, che ha rischiato di intraprendere una strada “elitista” con Harrer, quella “fusionista” con Drexler o “intellettualista” con Dickel. 4. Parole-chiave Agitatore, Materiale umano, Membro del Partito, Organizzatore, Organizzazione, Parlamentarismo, Partito popolare bavarese, Partito tedesco dei lavoratori, Principio della responsabilità individuale, Programmatore, Propaganda, Reichstag, Rivoluzione del 1918, Rivoluzione ideologica, Sostenitore del Partito, Visione del mondo, “Völkischer Beobachter”.
521 5. Bibliografia essenziale - W. Benz (ed.), Wie wurde man Parteigenosse? Die NSDAP und ihre Mitglieder, Francoforte sul Meno, Fischer, 2009; - S. Breuer, Ordnungen der Ungleichkeit. Die politische Rechte im Widerstreit ihrer Ideen, 1871-1945, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 2001; - Id., Die Völkischen in Deutschland. Kaiserreich und Weimarer Republik, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 2008; - P. Bruppacher, Adolf Hitler und die Geschichte der NSDAP. Eine Chronik, parte 1: 1889-1937, Norderstedt, Books on Demand, 2014; - A. Bullock, Hitler. Studio sulla tirannide, Milano, Res Gestae, 2014; - K. Burke, Die Rhetorik in Hitlers “Mein Kampf” und andere Essays zur Strategie der Überredung, Francoforte sul Meno, Suhrkamp, 1967; - D. Capozza, C. Volpato, Le intuizioni psicosociali di Hitler. Un’analisi del “Mein Kampf”, Bologna, Patron, 2004; - W. Carr, Hitler. Studio sul rapporto tra personalità e politica, Napoli, Liguori, 1985; - G. Corni, Hitler, Bologna, Il Mulino, 2007; - Id., Breve storia del nazismo, 1920-1945, Bologna, Il Mulino, 2015; - D.M. Douglas, The early Ortsgruppen. The development of Nationalsocialist local groups, 1919-1923, University of Kansas, dissertazione dottorale, 1969; - W. Durner, Antiparlamentarismus in Deutschland, Würzburg, Königshausen und Neumann, 1997; - J. Fest, Hitler. Una biografia, traduzione di F. Saba Sardi, Milano, Garzanti 2005; - G. Franz-Willing, Putsch und Verbotszeit der Hitlerbewegung, November 1923-Februar 1925, Preussisch Oldendorf, Verlag K.W. Schütz KG, 1977; - H. Gilbhard, Die Thule-Gesellschaft. Vom okkulten Mummenschanz zum Hakenkreuz, Monaco, Kiessling Verlag, 1994; - H.J. Gordon, Hitlerputsch 1923. Machtkampf in Bayern, 1923-1924, Francoforte sul Meno, Bernard & Graefe, 1971; - M. Grünthaler, Parteiverbote in der Weimarer Republik, Francoforte sul Meno, Peter Lang, 1995; - H.H. Hoffmann, Der Hitlerputsch. Krisenjahre deutscher Geschichte, 1920-1924, Monaco, Nymphenburger Verlagshandlung, 1961; - D. Jablonsky, The Nazi party in dissolution. Hitler and the Verbotszeit, 1923-1925, Londra, F. Cass, 1989; - L. Herbst, Il carisma di Hitler. L’invenzione di un messia tedesco, traduzione di U. Gandini, Milano, Feltrinelli, 2011; - S.F. Kellerhoff, Il libro proibito di Hitler. Storia del Mein Kampf, Milano, Rizzoli, 2016; - I. Kershaw, Hitler, vol. 1: 1889-1936, Milano, Bompiani, 2003; - W. Horn, Führerideologie und Parteiorganisation in der NSDAP (1919-1933), Düsseldorf, Droste, 1972; - W.C. Langer, Psicanalisi di Hitler. Rapporto segreto del tempo di guerra, Milano, Garzanti, 1975; - P. Longerich, Hitler. Biographie, Monaco, Siedler Verlag, 2015; - W. Maser, Adolf Hitler, Roma, Ciarrapico, 1978; - Id., Der Sturm auf die Republik. Frühgeschichte der NSDAP, Francoforte sul Meno, Ullstein, 1981; - F. McDonough, Hitler and the rise of the Nazi party, Londra, Person-Logman, 2003; - D. McKale, The Nazi party courts. Hitler’s management of conflict in his movement, 1921-1945, Lawrence (Kansas), Kansas University Press, 1974; - H. Moeller, A. Wirsching, W. Ziegler (ed.), Nationalsozialismus in der Region. Beiträge zur regionalen Forschung und zum internationalen Vergleich, Monaco, Oldenbourg, 1996; - A. Musolff, Metaphor, nation and the Holocaust. The concept of the body politic, New York, Routledge, 2011; - W. Nerdinger (ed.), München und der Nationalsozialismus. Katalog des NS-Dokumentations-zentrum München, Monaco, C.H. Beck, 2015; - B. Novak, Hitler and the abductive logic. The strategy of a tyrant, Lanham (Maryland), Lexington Books, 2014; - D. Orlow, The organizational history and structure of the NSDAP, 1919-1923, in “Journal of Modern History”, 37, 1965, pp. 208-226; - G. Paul, Aufstand der Bilder. Die NS-Propaganda vor 1933, Bonn, Dietz, 1990; - K. Pätzold, M. Weissbecker (ed.), Geschichte der NSDAP, 1920-1945, Colonia, PayRossa, 2002; - O. Plöckinger, Geschichte eines Buches. Adolf Hitlers “Mein Kampf”, 1922-1945. Eine Veröffentlichung des Instituts für Zeitgeschichte, Monaco, Oldenbourg, 2011;
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Il 1921 fu un anno per molti versi speciale sia per me, sia per il movimento. Dopo la mia adesione al Partito tedesco dei lavoratori, assunsi subito la direzione della propaganda2. All’epoca ritenevo quel settore di gran lunga il più importante della lotta politica. Allora non si trattava di arrovellarsi sui problemi organizzativi, ma di trasmettere le nostre idee a un numero sempre maggiore di persone. La propaganda era prioritaria rispetto all’organizzazione e doveva fornirle il materiale umano. Anch’io non amo un’organizzazione troppo estesa o pedante. Si finisce per ottenere solo un meccanismo morto, rarissimamente un’organizzazione viva. L’organizzazione esiste grazie alla vita organica, allo sviluppo organico. Le idee assimilate da un certo numero di persone tenderanno sempre a un certo ordine, e questa configurazione interna ha una grande importanza. Ma anche qui bisogna tener conto delle umane debolezze, che spesso portano il singolo a opporsi, quantomeno inizialmente, a una mente superiore. Non appena un’organizzazione è impostata gerarchicamente, esiste il fondato pericolo che una testa, magari poco dotata e non del tutto nota, cerchi di impedire, per gelosia,
Il fatto che, nell’autunno 1919, Hitler assunse nel “gruppo di lavoro” del Partito tedesco dei lavoratori la guida della propaganda e che se ne sia occupato molto nel Mein Kampf, non corrispondeva ai suoi interessi personali. Al termine della leva militare intraprese la formazione di propagandista politico grazie all’esercito. Dopo alcune lezioni nei “corsi d’informazione” all’Università di Monaco nel giugno 1919, Hitler si ritenne un “esperto” di propaganda. Questo capitolo può considerarsi sia un bilancio delle sue attività, sia un tentativo di elaborarle teoricamente [KA, n. 1]. 2
523 l’ascesa degli elementi più capaci in seno al movimento3. Il danno provocato può essere, in taluni casi, irreparabile, specialmente se il movimento è ancora giovane. Per questo motivo è preferibile inizialmente ampliare, con l’ausilio della propaganda, un’idea da una sede centrale e poi rovistare ed esaminare scrupolosamente il materiale umano raccolto per trarne gli elementi guida. Può anche succedere che saranno ritenuti condottieri innati degli uomini apparentemente insignificanti. Sarebbe assolutamente sbagliato ravvisare nella ricchezza di conoscenze teoriche la dimostrazione dell’idoneità e della capacità a dirigere un movimento4. Spesso avviene il contrario. I grandi teorici sono pure grandi organizzatori solo in rarissimi casi, perché la grandezza del teorico e del programmatore consiste innanzitutto nella conoscenza e nella definizione di leggi astrattamente giuste, mentre l’organizzatore deve essere innanzitutto uno psicologo5. Egli deve prendere l’uomo per quello è, deve conoscerlo, evitando di sopravvalutarlo o di sottovalutarlo. Deve cercare di tener conto anche delle debolezze e delle ferinità delle masse, per creare una struttura in grado di comprenderle, un organismo vitale forte e quindi appropriato a sostenere un’idea e a spianarle la via del successo. È ancor più raro che un grande teorico sia pure un grande dirigente. Egli sarà probabilmente un agitatore, incontrando la disapprovazione dei teorici; ed è naturale che sia così. Un agitatore capace di trasmettere un’idea alla grande massa deve essere sempre uno psicologo, anche se è solo un demagogo. Così sarà più idoneo alla guida rispetto al teorico asociale e riservato. Perché guidare significa saper muovere le masse. Il dono di forgiare nuove idee non ha nulla a che vedere con l’attività direttiva. È del tutto ozioso discutere se sia più importante forgiare idee e mète umane oppure realizzarle. Come succede spesso nella vita, una cosa sarebbe perfettamente inutile senza l’altra. La più bella formulazione teorica non ha alcun valore se il capo non mette in moto le masse nella sua direzione. E viceversa, a cosa servirebbe la genialità o l’impeto di un capo se il teorico arguto non ponesse gli obiettivi alla lotta umana? La sintesi fra teorico, organizzatore e capo in una persona sola è la cosa più rara che ci sia al mondo. Ma è questa sintesi a creare il grande uomo. Come detto, agli inizi della mia attività in seno movimento nazionalsocialista mi sono dedicato alla propaganda. Volevo impregnare un piccolo nucleo di uomini della nuova dottrina, per formare così il materiale che avrebbe costituito la base dell’organizzazione. Lo scopo della propaganda travalicava quello dell’organizzazione. Quando un movimento ha intenzione di distruggere un mondo per crearne uno nuovo, la sua guida deve aver chiari alcuni principî. Ogni movimento dovrà vagliare
3
Riferimento agli innumerevoli conflitti nel Partito tedesco dei lavoratori con Harrer e poi con Drexler. Probabile stoccata al concorrente nazionalpopolare Otto Dickel (1880-1944), che nell’estate del 1921 tentò di spostare il Partito nazionalsocialista su posizioni di sinistra mentre Hitler si trovava a Berlino. Dickel, autore all’inizio del 1921 di un testo polemico contro Oswald Spengler, intitolato Die Auferstehung des Abendlandes (Il risorgere dell’Occidente), aveva fondato in primavera la Deutsche Werkgemeinschaft (Comunità di lavoro tedesca), che simpatizzava con l’ala nazionalbolscevica [KA, n. 8]. 5 Sul ruolo del programmatore e del politico vedi capitolo 8-I. 4
524 inizialmente il materiale umano degli aderenti e dividerlo in due grandi gruppi: i sostenitori e i membri effettivi. Compito della propaganda è quello di procacciare i sostenitori, compito dell’organizzazione conquistare i membri. Il sostenitore di un movimento è colui che si dichiara d’accordo con i suoi obiettivi, il membro è colui che lotta per realizzarli. Il sostenitore può simpatizzare per il movimento grazie alla propaganda. Il membro provvederà, grazie all’organizzazione, a collaborare per l’acquisizione di nuovi sostenitori, tra cui i futuri membri. Poiché l’adesione presuppone solo un riconoscimento passivo dell’idea, mentre l’appartenenza richiede un sostegno e una difesa attivi, ogni dieci sostenitori avremo sempre al massimo uno o due membri effettivi. L’adesione si radica nella conoscenza, l’appartenenza nel coraggio di difendere la conoscenza e di diffonderla. La conoscenza, nella sua forma passiva, si adatta alla maggioranza degli uomini, indolenti e vili per natura. L’appartenenza richiede convinzioni attive e si adatta, quindi, solo a una minoranza. La propaganda dovrà preoccuparsi instancabilmente che un’idea acquisisca un membro, mentre l’organizzazione deve essere brava a trasformare in membri i sostenitori più meritevoli. Quindi la propaganda non ha bisogno di arrovellarsi sul valore di ogni singolo sostenitore, sulla sua capacità, sulla sua comprensione o sul suo carattere, mentre l’organizzazione deve raccogliere in modo scrupoloso quegli elementi che permetteranno la vittoria del movimento. La propaganda cerca di imporre una dottrina al popolo intero, l’organizzazione comprende nei suoi quadri solo coloro che, per ragioni psicologiche, non minacciano d’intralciare la diffusione dell’idea. La propaganda tratta la collettività nel senso di un’idea e la rende matura per il momento del suo vittoria, mentre l’organizzazione procura la vittoria con l’unione duratura, organica e combattiva di quei sostenitori che appaiono capaci e disposti a combattere in suo favore. La vittoria di un’idea sarà tanto più probabile quanto meglio la propaganda avrà trattato gli uomini nel loro complesso e quanto più sarà esclusiva, salda e solida l’organizzazione che sostiene effettivamente la lotta. Quindi il numero di sostenitori non può mai essere troppo ampio, mentre il numero dei membri deve essere sempre leggermente più ampio del necessario6. Quando la propaganda ha pervaso un popolo con un’idea, l’organizzazione può trarne le dovute conseguenze con un pugno di uomini. Propaganda e organizzazione, ossia sostenitori e membri, instaurano quindi una particolare relazione vicendevole7. Quanto meglio ha lavorato la propaganda, 6
Gli iscritti al Partito nazionalsocialista ammontavano a 6.000 unità alla fine del 1921, a 55.000 alla fine del 1923. Il Partito ebbe un’impennata di iscrizioni solo dalla fine del 1929 (in concomitanza con la crisi economica), quando passò dalle 176.000 unità alle 390.000 (1930), 806.000 (1931) e a un milione (aprile 1932). 7 Grazie a Gregor Strasser, che dal giugno 1926 fu messo a capo della propaganda su tutto il territorio tedesco e dal 1928 divenne capo dell’organizzazione, il Partito nazionalsocialista riuscì a radicarsi
525 tanto più piccola può essere l’organizzazione; quanto maggiore è il numero dei sostenitori, tanto più modesto può essere quello dei membri e viceversa. Quanto peggiore è la propaganda, tanto più grande deve essere e sarà l’organizzazione. Quanto più ristretta è la schiera di sostenitori di un movimento, tanto più ampio deve essere il numero dei suoi membri, se vuole puntare al successo. Il primo compito della propaganda è l’acquisizione di uomini per ampliare l’organizzazione. Il primo compito dell’organizzazione è l’acquisizione di uomini per lo sviluppo della propaganda. Il secondo compito della propaganda è il sovvertimento dello stato di cose esistenti e l’adeguamento della nuova dottrina, mentre il secondo compito dell’organizzazione deve essere la lotta per il potere, onde assicurare il trionfo definitivo della dottrina. Il successo definitivo di una rivoluzione ideologica si avrà solo quando la nuova visione del mondo sarà trasmessa a tutti e, se necessario, sarà poi imposta con la forza. L’organizzazione dell’idea, cioè il movimento politico, deve comprende solo quel numero di membri necessari all’occupazione dei centri nevralgici dello Stato. In altri termini il compito della propaganda di ogni grande movimento rivoluzionario è quello di diffondere l’idea del movimento stesso. Dovrà quindi sforzarsi di spiegare alla gente il nuovo pensiero, di attirarla sul proprio terreno o di mettere in discussione la sua precedente convinzione. Dato che la diffusione di una dottrina, cioè la propaganda, deve avere una spina dorsale, la dottrina dovrà dotarsi di una solida organizzazione. L’organizzazione trae i suoi membri dalla massa dei sostenitori ottenuti grazie alla propaganda. Essa crescerà tanto più rapidamente, quanto maggiore sarà l’intensità della propaganda. Essa riuscirà a lavorare al meglio se è più forte e più vigorosa l’organizzazione alle sue spalle. Il compito supremo dell’organizzazione è quello di preoccuparsi che qualsiasi dissenso interno al movimento non provochi una scissione e, quindi, un indebolimento della sua azione politica8. Inoltre deve far sì che lo spirito combattivo non si spenga, ma che si rinnovi e si rafforzi di continuo. Il numero dei membri non deve crescere indefinitamente, al contrario: dato che solo una frazione dell’umanità è energica e audace, un movimento dotato di un’organizzazione elefantiaca finirebbe per indebolirsi. Le organizzazioni, cioè un numero di membri oltre una certa soglia, perdono progressivamente la loro forza combattiva e non sono più in grado di sostenere con risolutezza e con spirito aggressivo la propaganda di un’idea, o meglio di utilizzarla. Quanto più grande e autenticamente rivoluzionaria sarà un’idea, tanto più attivo sarà il gruppo dei suoi membri, perché la forza declinante della dottrina potrebbe mantenere a distanza i temperamenti meschini e filistei. Questi ultimi sapranno in cuor loro di essere sostenitori, ma rifiuteranno di confessare pubblicamente la loro appartenenza. Ma proprio per questo profondamente nella società tedesca. Bibliografia: U. Kissenkoetter, Gregor Strasser. NS-Parteiorganisator oder Weimarer Politiker?, in R. Smelser, R. Zitelmann (ed.), Die braune Elite. 22 biographische Skizzen, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgeselleschaft, 1989, pp. 273-285. 8 Dopo la messa fuori legge nel novembre 1923, il Partito nazionalsocialista cadde vittima di una lotta per la successione fra coloro scampati alla galera. Nel gennaio 1924 Rosenberg e Jacob fondarono la Grossdeutsche Volksgemeinschaft; in maggio Feder, Gregor Strasser, Frick e Ludendorff si presentarono alle elezioni politiche con la Nationalsozialistische Freiheitspartei. La decisione hitleriana di rinunciare alla guida del nazionalsocialismo durante i mesi di prigionia gli consentì un nuovo inizio nel 1925 [KA, n. 23].
526 l’organizzazione di un’idea autenticamente rivoluzionaria conserva solo i sostenitori più attivi forgiati dalla propaganda. L’appartenenza attiva a un movimento, garantita dalla selezione naturale, è il presupposto dell’ampliamento di un movimento e della lotta vincente per la realizzazione dell’idea. Il maggiore pericolo per un movimento è un numero abnorme di membri dovuto a un successo troppo rapido. Anche se le nature vili ed egoiste si tengono alla larga dal movimento durante la fase di lotta, poi si affretteranno a diventarne membri non appena il trionfo del partito apparirà probabile o si sarà già verificato. Per questa ragione, molti movimenti in ascesa, poco prima del successo o, meglio, poco prima del loro coronamento finale, manifestano improvvisamente un’inspiegabile debolezza interna, cessano di lottare e, alla fine, si dissolvono. Dopo i primi successi, l’organizzazione ha attratto così tanti elementi cattivi, indegni e soprattutto vili che finiscono per acquisire un peso preponderante sugli elementi dotati di forza combattiva, per asservire il movimento ai loro interessi, per degradarlo al livello della loro meschinità e per attendere passivamente la vittoria dell’idea originale. Così si elimina lo scopo fanatico, si paralizza la forza combattiva oppure, come il mondo borghese è solito dire in alcuni casi: “il vino è stato annacquato”. Le piante non riescono più a radicarsi in profondità. Perciò è necessario che un movimento, per puro istinto d’autoconservazione, non appena consegue i primi successi, blocchi subito l’ammissione di nuovi membri e, per il futuro, intraprenda l’accrescimento dell’organizzazione solo con estrema prudenza e con circospezione. Solo così il nucleo del movimento rimarrà sano e incontaminato. Bisogna preoccuparsi che solo quel nucleo continui a dirigere il movimento, cioè determini la propaganda destinata a procurargli il riconoscimento generale. Quale detentore del potere, il nucleo originario compierà le trattative necessarie per la realizzazione pratica delle sue idee. I quadri originali del vecchio movimento non devono occupare solo tutte le posizioni più importanti, ma devono anche determinare la sua direzione complessiva. E questo finché i principî e la dottrina del partito non saranno diventati il fondamento e il contenuto del nuovo Stato. Solo allora si potranno dare le redini in mano alla costituzione dello Stato nato dallo spirito del movimento. Ma questo avverrà solo dopo lunghe lotte fratricide. Non è tanto un problema ideologico, quanto l’effetto di forze che, per quanto note, non possono essere controllate in eterno. Tutti i grandi movimenti religiosi o politici devono il loro enorme successo al riconoscimento e all’uso di questi principî, ma i successi duraturi non sono immaginabili ignorando quelle leggi9. Quale responsabile della propaganda del partito mi sono sforzato di preparare il terreno per l’ampliamento del movimento, facendo in modo, con una visione molto radicale, che l’organizzazione ricevesse solo il materiale migliore. Quanto più radicale e sferzante era la mia propaganda, tanto più intimidiva e teneva a distanza i rammolliti e gli incostanti dal nucleo originario della nostra organizzazione. Essi, forse, restano nostri sostenitori, ma senza particolare entusiasmo; avevano paura di ammetterlo. Quante migliaia di persone mi hanno giurato di pensarla come noi. Ciononostante, 9
La sinistra bolscevica si occupò già in precedenza del problema della formazione dei quadri interni al partito, come dimostra lo scritto programmatico di Lenin Che fare? (1902) [KA, n. 32].
527 non potevano diventare membri del nostro partito. A sentir loro, il movimento era così radicale che l’appartenenza esplicita li avrebbe esposti a dure critiche, se non a pericoli. Perciò non si può rimproverare all’onesto e pacifico cittadino di starsene inizialmente in disparte, anche se il cuore batte per la nostra causa. Ed era bene così. Se questi uomini, che in cuor loro non approvavano la Rivoluzione, fossero tutti giunti all’epoca nel nostro partito, in qualità di membri, oggi potremmo considerarci una confraternita religiosa, non più un giovane movimento disposto a lottare10. La forma vivace e oltranzista della nostra propaganda ha rafforzato e garantito la radicalità del nostro movimento, poiché d’ora in avanti – salvo alcune eccezioni – solo gli uomini radicali erano realmente disposti a farne parte. Inoltre la nostra propaganda fece in modo che, dopo breve tempo, centinaia di migliaia di persone non solo ci dessero intimamente ragione, ma che desiderassero anche la nostra vittoria, malgrado fossero troppo vili per sacrificarsi o sostenerci. Fino alla metà del 1921 l’attività di semplice arruolamento non bastava o era poco utile al movimento. Certi eventi dell’estate di quell’anno ci indussero ad adeguare l’organizzazione al lento e visibile successo della propaganda.
Figura 1 Otto Dickel, uno dei “congiurati” del 1921 [fonte: grwad.tripod.com]
Il tentativo di conquistare la direzione del partito da parte un gruppo di sognatori nazionalpopolari, sostenuti dall’allora presidente Drexler11, si concluse col fallimento del piccolo intrigo. Un’assemblea generale dei membri mi assegnò all’unanimità l’intera guida del movimento12. Allo stesso tempo fu ratificato un nuovo statuto che trasferiva la totale responsabilità del partito al “primo presidente”, soppresse in linea di massima
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Probabile critica ai gruppi nazionalpopolari polemici contro la visione hitleriana della propaganda, come il Nationalsozialer Volksbund (Lega nazionalsociale del popolo) di Anton Drexler. 11 Cofondatore il 5 gennaio 1919 del Partito tedesco dei lavoratori insieme al giornalista sportivo Harrer. 12 Hitler parla dell’assemblea dei membri del 29 luglio 1921.
528 le risoluzioni delle commissioni e introdusse un sistema di divisione del lavoro che si sarebbe dimostrato efficiente e proficuo. Dall’agosto 1921 io ho assunto la riorganizzazione interna del movimento, grazie all’appoggio di un gruppo di persone eccellenti, che segnalerò in una postilla allegata13. Per valorizzare in termini organizzativi i risultati della propaganda, dovetti far piazza pulita di una serie di vecchie abitudini e introdurre principî ignoti agli altri partiti esistenti. Dal 1919 al 1920 il movimento fu guidato da un comitato eletto dalle assemblee dei membri, previsto dal regolamento. Il comitato era composto da un primo e da un secondo cassiere, da un primo e da un secondo segretario e aveva alla sua guida un primo e un secondo presidente. A questi si aggiungevano un rappresentante dei membri, il responsabile della propaganda e diversi assessori. Quel comitato personificava curiosamente proprio ciò che il movimento voleva combattere più duramente: il parlamentarismo. Era ovvio che si trattava di un principio che, dai gruppi locali più piccoli sino alle circoscrizioni più grandi, ai distretti e alle regioni, per finire alla stessa gestione politica del paese14, personificava il sistema che ci aveva fatto soffrire e ci faceva soffrire tuttora. Bisognava mutare urgentemente quello stato di cose, per evitare che il movimento fosse rovinato per sempre dalle cattive basi della sua organizzazione e diventasse così incapace di assolvere un giorno alla sua missione suprema. Le sedute del comitato, di cui era redatto un verbale rimesso al voto della maggioranza, rappresentavano un parlamento in miniatura. Anche qui non c’era alcuna responsabilità personale. Anche qui regnava la stessa assurdità e la stessa irragionevolezza tipiche dei grandi corpi rappresentativi statali. Il comitato comprendeva segretari, cassieri, rappresentanti dei membri dell’organizzazione, responsabili della propaganda e per chissà che altro, che votavano tutti insieme su ogni singola questione. L’incaricato della propaganda votava su un affare che riguardava l’incaricato delle finanze che, a sua volta, votava su un affare dell’incaricato dell’organizzazione che, a sua volta, votava su un affare del segretario ecc. Ma il fatto di destinare alla propaganda una persona particolare, mentre cassieri, segretari, rappresentanti dei membri si esprimevano sui problemi propagandistici, appariva a una mente sana incomprensibile, come se in una grande fabbrica i consigli d’amministrazione o i costruttori decidessero per altri reparti o settori che non hanno nulla a che fare con loro. Io non mi sono rassegnato a quell’assurda procedura. Poco tempo dopo ho deciso di non partecipare più alle sedute del comitato. Mi limitavo a fare propaganda e, tra l’altro, non permettevo che il primo venuto si intromettesse nei miei affari e, viceversa, anch’io non immischiavo nei suoi. Quando l’approvazione dei nuovi statuti e la mia nomina alla carica di primo presidente mi avevano dato l’autorità e il diritto adeguati, misi subito fine a
Riferimento a Esser, Amann ed Eckart. L’allegato non fu mai redatto da Hitler [KA, n. 44]. Dopo l’ingresso di Hitler (12 settembre 1919), il Partito tedesco dei lavoratori iniziò a crescere come numero di membri e di gruppi locali, che divennero quasi cento nel novembre 1923. 13 14
529 quell’assurdità. Al posto delle deliberazioni del comitato fu introdotto il principio della totale responsabilità individuale. Il primo presidente è responsabile della direzione complessiva del movimento: ripartisce il lavoro fra i membri subalterni delle commissioni e gli eventuali collaboratori necessari. Ognuno di loro è interamente responsabile del compito affidatogli. È alle dirette dipendenze del primo presidente, che deve provvedere alla collaborazione generale. Scegliendo le persone e impartendo i criteri di massima, il primo presidente garantisce la massima cooperazione nel movimento. Il principio della responsabilità individuale è diventato naturale all’interno del partito, quantomeno nella sua guida. Nei piccoli gruppi locali e, forse, nei distretti e nelle circoscrizioni ci sarebbero voluti anni prima di imporlo15, poiché i conigli e gli inetti l’avrebbero osteggiato con tutte le loro forze: era imbarazzante assumersi la responsabilità esclusiva di ogni azione! Si sentivano a loro agio solo quando, nelle decisioni più difficili, avessero avuto le spalle coperte dalla maggioranza del comitato. Ma fu indispensabile chiarire la mia opposizione al riguardo, per non fare alcuna concessione alla pusillanimità e, così, forse, creare una visione del dovere e del potere in grado di mettere alla guida solo le persone veramente capaci e migliori. In ogni caso un movimento che intenda combattere la follia parlamentare, deve esserne immune. Solo su tali basi può poggiare la forza della sua lotta. Un movimento che, all’epoca in cui la maggioranza domina ovunque, sostenga l’idea di un solo capo e della responsabilità personale, sconfiggerà con matematica certezza lo stato di cose esistenti e celebrerà il suo trionfo. Il principio condusse a una completa riorganizzazione del movimento e, praticamente, a una netta separazione tra la sezione economica e la direzione politica. Il principio della responsabilità fu esteso a tutta l’amministrazione partitica e favorì un suo risanamento, liberandola dalle pastoie politiche e restituendole il suo aspetto puramente economico. Quando, nell’autunno 1919, entrai in un partito di soli sei membri, non c’erano né una sede, né impiegati, formulari o timbri, né stampati. La sede del comitato era una trattoria in Herrengasse16, poi un caffè sul Gasteig17. Era veramente difficile. Mi diedi subito da fare e ispezionai una marea di ristoranti e di trattorie, per affittare un altro locale per il partito. Nel vecchio Sterneckerbräu im Tal c’era un piccolo locale a volta, che in precedenza era servito da bettola per i consiglieri di Stato bavaresi. Era tetro e oscuro, adattissimo alla sua vecchia destinazione, assai poco al nuovo utilizzo che volevamo farne. La sua unica finestra, che si affacciava su un vicoletto, era così piccola che, anche nelle più luminose giornate estive, la stanza restava scura e tetra. Quel locale divenne il nostro primo ufficio18. Poiché l’affitto mensile ammontava a soli 15
Dopo la crisi del luglio 1921 Hitler ottenne una ampia delega dei poteri da parte del comitato di lavoro. I gruppi locali erano alle dirette dipendenze della sede centrale ed erano vietati i rapporti orizzontali. I Gauleiter (i dirigenti delle sezioni locali) erano nominati dalla direzione centrale [KA, n. 54]. 16 Riferimento alla Trattoria Lilienbad (Herrnstrasse 48) che il Partito dei lavoratori usava indicare come luogo di adunanza alla polizia fino al novembre 1919. 17 Riferimento al Café Gasteig, che rappresentava uno tra i pochi costanti inserzionisti nel “Münchener Beobachter” (poi “Völkischer Beobachter”). 18 La prima sede sociale del Partito dei lavoratori (poi nazionalsocialista) fu un retrobottega dello Sterneckerbräu (im Tal 54), poi spostata dal 7 novembre 1921 in Corneliusstrasse 12.
530 cinquanta marchi (una somma gigantesca per noi all’epoca!), non potevamo avanzare grandi pretese e non potevamo lamentarci se, davanti al nostro ingresso, fosse strappato il rivestimento in legno delle pareti, destinato ai consiglieri di Stato, e il locale desse l’impressione di essere una grotta più che un ufficio.
Figura 2 I luoghi del nazionalsocialismo nella Monaco degli anni Venti [fonte: München und der Nationalsozialismus, 2015]
Eppure fu indubbiamente un enorme passo in avanti. Pian piano ci procurammo la luce elettrica, poi un telefono, un tavolo con alcune sedie a noleggio, una scaffalatura aperta, un armadio; due credenze appartenenti all’oste custodivano i volantini, i manifesti, ecc. A lungo andare non era più possibile tenere settimanalmente una riunione del comitato. Solo un funzionario stipendiato poteva garantire il disbrigo degli affari correnti. All’epoca tutto ciò era molto complicato. Il movimento aveva ancora così pochi membri che era difficile trovare fra di loro un uomo di poche pretese che soddisfacesse le sue molteplici esigenze. Dopo una lunga ricerca, individuammo il primo gestore del partito in un soldato: un mio vecchio commilitone di nome Schüssler19. I primi tempi veniva in ufficio ogni giorno tra le sei e le otto, poi tra le cinque e le otto, infine nel pomeriggio. Decidemmo 19
Rudolf Schüssler (1893-1974), vice-sergente nel Reggimento List durante la guerra, fu gerente del partito dal gennaio 1920 al luglio 1921.
531 poi di assumerlo a tempo pieno per svolgere le sue mansioni dalla mattina sino alla tarda serata. Era un uomo diligente e probo, onestissimo, che si occupa personalmente di tutto e che aderiva in maniera devota al movimento. Schüssler portava con sé una piccola macchina da scrivere Adler di sua proprietà. Era il primo strumento del genere a disposizione del nostro movimento. In seguito, il partito acquistò una macchina da scrivere a rate. Ci procurammo una piccola cassaforte per mettere al sicuro gli schedari e i libri dei membri, non certo per chiudervi quantitativi di denaro che non avevamo. Al contrario la nostra situazione era così micragnosa che dovetti io stesso mettere mano ai miei risparmi personali20.
Figura 3 Rudolf Schüssler [fonte: forosegundaguerra.com]
Un anno e mezzo dopo la sede era diventata troppo piccola e ci trasferimmo in un nuovo locale in Corneliusstrasse21. Era un’altra osteria, solo che stavolta possedevamo ben tre locali e una grande sala dotata di sportelli. All’epoca ci parve gran cosa. Restammo lì fino al novembre 192322. Nel dicembre 1920 acquistammo il “Völkischer Beobachter”23. Quel giornale, che già nel nome difendeva gli interessi nazionalpopolari, sarebbe diventato l’organo del 20
Dopo la fine della guerra, la situazione finanziaria di Hitler non era così pessima. Fino al 31 marzo 1920 ricevette paga, vitto e alloggio dall’esercito. A ciò bisognava aggiungere gli onorari per i discorsi e una serie di sostegni dentro e fuori del partito [KA, n. 69]. 21 Dal 7 novembre 1921 sino al 9 novembre 1923 la sede del partito restò in Corneliusstrasse 12. 22 Il 9 novembre 1923 il Partito nazionalsocialista fu proibito in Baviera dal commissario generale Gustav von Kahr, mentre dal 23 la proibizione fu estesa in tutto il paese dal generale Hans von Seeckt. I beni furono confiscati con appositi decreti del 9 e 29 novembre, mentre la sede fu chiusa il 10 novembre. 23 Il “Münchener Beobachter” (Osservatore monacense) era un foglio regionale antiprussiano e antisemita fondato nel 1887. Nel 1918 divenne l’organo ufficiale della Società Thule. Dal 9 agosto 1919
532 Partito nazionalsocialista. Inizialmente usciva due volte alla settimana, ma dall’inizio del 1923 divenne un quotidiano e, alla fine di agosto 1923, ricevette il suo noto grande formato. All’epoca pagai a caro prezzo l’inesperienza nel settore della stampa24.
Figura 4 Frontespizio del primo numero del “Völkischer Beobachter” nazista (25 dicembre 1920) [fonte: historischeslexikon-bayerns.de]
Il fatto che, di fronte all’imponente stampa ebraica25, ci fossero solo alcuni giornali nazionalpopolari realmente degni d’importanza, era sospetto. Come imparai a mie spese, questo si doveva principalmente allo scarso talento commerciale delle imprese nazionalpopolari. Esse erano mosse troppo spesso dall’idea che la modificò il suo titolo in “Völkischer Beobachter” (Osservatore nazionalpopolare). La somma di 120.000 marchi pagata per l’acquisizione nazista del 17 dicembre 1920 fu versata dal generale Franz von Epp, dal mentore Dietrich Eckart e dall’industriale Gottfried Grandel [KA, n. 72]. 24 I numerosi processi per calunnia e i divieti temporanei crearono costantemente problemi finanziari al “Völkischer Beobachter”. Durante l’estate 1921 fu proibita la pubblicazione per ben sette settimane. Un altro problema era la frequente rotazione del ruolo di capo-redattore. Tra il dicembre 1920 e il novembre 1923 si alternarono Maurer, Machhaus, Esser, Eckart e Rosenberg [KA, n. 75]. 25 Sul topos antisemita della stampa “ebraizzata” vedi capitolo 10-I.
533 convinzione fosse più importante della prestazione. Un’idea del tutto sbagliata, se è vero che la convinzione, per quanto poco appariscente, si esprime al meglio nella prestazione. Chi crea qualcosa di veramente prezioso per il suo popolo, mostra una convinzione altrettanto preziosa, mentre chi millanta una convinzione, senza in realtà prestare alcun servizio al suo popolo, è semplicemente un parassita a spese della sua comunità. Anche il “Völkischer Beobachter”, come dice il nome stesso, era un organo “nazionalpopolare” con tutti i pregi e i difetti del caso. Per quanto i suoi contenuti fossero onesti, l’azienda era amministrata male. Anche qui vi era l’opinione che i giornali nazionalpopolari andassero sostenuti dalle donazioni volontarie, invece di affermarsi nella lotta concorrenziale con gli altri giornali, e che fosse immorale rimediare alle negligenze o gli errori della direzione commerciale con le donazioni di benemeriti patrioti.
Figura 5 Max Amann [fonte: historisches-lexikon-bayerns.de]
Mi sono impegnato a rimediare a quel crinale assai pericoloso. Ed ebbi la fortuna di conoscere l’uomo che da allora ha reso innumerevoli servigi al movimento non solo quale direttore commerciale del giornale, ma anche come primo gestore del partito. Nel 1914 avevo conosciuto il mio superiore e attuale gestore del partito: il signor Amann. Nei quattro anni di guerra ebbi l’occasione di osservare costantemente le sue straordinarie capacità, la diligenza e la meticolosità del mio futuro collaboratore26. 26
Max Amann (1891-1957) fu sergente nel XVI Reggimento di fanteria riservista bavarese. Dopo aver fatto parte della Società Thule, Amann divenne gerente del partito nell’agosto 1921. Nell’aprile 1922
534 Nella piena estate del 1921, quando il movimento attraversò una crisi difficile ed ero insoddisfatto di parecchi impiegati, anzi con uno di loro avevo perfino avuto una brutta esperienza, mi rivolsi al mio vecchio compagno d’armi, incontrato un giorno per caso, e lo pregai di diventare il gestore del nostro movimento. Dopo una lunga esitazione (Amann aveva allora ottime prospettive di carriera), il mio ex commilitone finì per accettare, ma a condizione che non facesse da tirapiedi a qualche comitato di sfaticati e che fosse l’unico responsabile della situazione. Il primo gestore del movimento dotato di una formazione commerciale veramente notevole ha il merito indiscusso di aver introdotto ordine e pulizia nelle attività del partito. Esse, da allora, furono esemplari, ineguagliabili e insuperabili per le altre ramificazioni del movimento27. Ma, come sempre nella vita, la sua grande abilità provocò invidia e malevolenza. Bisognava aspettarselo e metterlo in conto28. Già nel 1922 erano state impartite precise direttive generali circa la struttura finanziaria e organizzativa del movimento. Avevamo già uno schedario centrale completo coi nomi di tutti i membri del movimento. Il finanziamento del partito era stato condotto su binari virtuosi. Le spese correnti dovevano essere coperte dalle entrate correnti; le entrate straordinarie erano utilizzate solo per spese straordinarie. Malgrado le difficoltà dell’epoca, il movimento era quasi privo di debiti; riusciva persino ad accrescere il suo valore economico29. Si lavorava come in un’azienda privata: gli impiegati dovevano distinguersi per l’eccellenza delle loro prestazioni e non per una generica “convinzione”. La convinzione di ogni nazionalsocialista si manifesta nella sua disponibilità, nella sua diligenza e nella sua capacità di assolvere al lavoro affidatogli. Chi non compie il suo dovere non ha il diritto di vantarsi della convinzione disonorata. Il nuovo gestore del partito, resistendo a tutte le possibili pressioni, difese con estrema energia l’ottica che le attività del partito non fossero una sinecura per sostenitori o membri sfaticati. Un movimento che combatte così energicamente contro la corruzione partitocratica del nostro apparato amministrativo, deve preservarne il proprio. Furono assunti nell’amministrazione del giornale alcuni impiegati che, in precedenza, erano appartenuti al Partito popolare bavarese, ma che erano molto qualificati. Il risultato fu eccezionale. Proprio riconoscendo in modo leale e onesto il merito di ogni individuo, il movimento si è conquistato il cuore dei suoi assunse la direzione commerciale del “Völkischer Beobachter” e dell’editore Franz Eher. Pur non avendo particolari interessi spirituali o letterari, Amann fu un ottimo direttore commerciale. Nell’ottobre 1944 l’editore Eher possedeva o controllava quasi l’82% della stampa tedesca. Bibliografia: H. Wermuth, Max Amann (1891–1957), in H.-D. Fischer (ed.), Deutsche Presseverleger des 18. bis 20. Jahrhunderts, Pullach bei München, Verlag Dokumentation, 1975, pp. 356–365. 27 L’editore Franz Eher ampliò la sua attività nel corso degli anni successivi. Dal 1925 pubblicò il Mein Kampf e, fino al 1932, oltre duecento libri e numerosi periodici. 28 La solidarietà di Hitler verso Amann è probabilmente anche un riflesso delle crescenti ostilità nutrita nei suoi riguardi in quel periodo. Il rapporto con Rosenberg, capo-redattore del “Völkischer Beobachter” dal febbraio 1923, non era affatto buono [KA, n. 88]. 29 Sul finanziamento del Partito dei lavoratori e del primo Partito nazionalsocialista ci sono poche fonti. Dopo lo scioglimento del 1923 tutti i documenti contabili furono distrutti. Sono attestabili laute sovvenzioni da parte dei membri e di alcuni aristocratici e industriali bavaresi. Bibliografia: T. Trumpp, Zur Finanzierung der NSDAP durch die deutsche Grossindustrie. Versuch einer Bilanz, in “Geschichte in Wissenschaft und Unterricht”, 32, 1981, pp. 223-241; H.A. Turner, German big business and the rise of Hitler, New York, Oxford University Press, 1985.
535 impiegati in modo più rapido e più profondo di quanto non sarebbe accaduto con altri mezzi. Quegli uomini sarebbero diventati buoni nazionalsocialisti non solo a parole, ma dimostrandolo con il lavoro coscienzioso, serio e onesto che compirono al nostro servizio. Naturalmente i membri ben qualificati erano privilegiati rispetto a chi non lo era. Solo che nessuno otteneva un impiego per mera appartenenza partitica. La risolutezza con cui il nuovo gestore difese quei principî e, vincendo tutte le resistenze, riuscì a imporli nel movimento, fu poi di grandissima utilità. Solo così, nel difficile periodo inflattivo30, quando decine di migliaia di imprese andarono in rovina e migliaia di giornali dovettero chiudere i battenti, la direzione commerciale del movimento non solo poté onorare tutte sue incombenze, ma il “Völkischer Beobachter” riuscì anche ad aumentare le sue tirature. All’epoca era diventato uno dei più grandi giornali del paese31. Il 1921 fu importante anche perché io, quale presidente del partito, riuscii lentamente a sottrarre le singole attività dalle critiche e dalle interferenze di certi membri del comitato. Ciò fu importante, perché non si poteva utilizzare un uomo veramente capace per un determinato compito se gli incapaci si intromettevano continuamente millantando maggior crediti, mentre, in verità, non facevano altro che una terribile confusione. Quei saputelli si fecero modestamente da parte e dirottarono altrove la loro attività di controllo e di “ispirazione”. Certi uomini erano ossessionati dalla mania di trovare da ridire su tutto e su tutti ed erano, per così dire, costantemente gravidi di piani, di idee, di progetti e di metodi eccellenti. Il loro scopo ideale e supremo era quello di formare un comitato di controllo che vigilasse sul lavoro altrui. È offensivo e contrario allo spirito nazionalsocialista che uomini ignoranti si intromettano continuamente in cose di cui non capiscono nulla. Ma nessun sostenitore dei comitati se ne rendeva conto. In ogni caso io ho ritenuto mio dovere salvaguardare coloro che lavoravano regolarmente e si assumevano le loro responsabilità, garantendo la necessaria protezione e libertà d’azione. Il miglior mezzo per rendere innocui simili comitati di nullafacenti o perditempo, era quello di assegnar loro un vero lavoro. Era comico vedere come quelle persone si volatilizzassero all’istante o si rendessero improvvisamente irreperibili. Pensavo alla nostra più grande istituzione: il Reichstag. I deputati si volatilizzerebbero improvvisamente se, invece della chiacchiera inutile, si assegnasse loro un vero lavoro; un lavoro che ciascuno di quei parolai avrebbe dovuto compiere sotto la propria personale responsabilità32. All’epoca avevo sempre sostenuto che, come nella vita privata, anche nel movimento ci dovessero essere impiegati, amministratori e dirigenti veramente capaci e onesti. Una volta trovati, però, bisognava conceder loro assoluta autorità e libertà 30
Per ovviare ai pagamenti delle riparazioni, la Germania aveva aumentato la circolazione della moneta, fino al piccolo del novembre 1923, quando fu introdotto il Rentenmark (marco-rendita). Questo, unito all’occupazione franco-belga della Ruhr, portò all’iperinflazione. Bibliografia: F. Taylor, The downfall of money. Germany’s hyperinflation and the destruction of the middle class. A cautionary history, Londra, Bloomsbury, 2013. 31 L’editore Franz Eher riuscì in relativo poco tempo ad accrescere il numero di vendite del “Völkischer Beobachter” da 8.000 (febbraio 1921) a 25-30.000 (novembre 1923). 32 Sulla critica hitleriana verso il parlamentarismo vedi capitoli 2-I, 3-I e 10-I.
536 d’azione verso i subordinati e totale responsabilità verso i superiori. Nessuno avrebbe avuto l’autorità di fronte ai subordinati se non fosse stato il migliore nella rispettiva mansione. Nel corso di due anni ho imposto progressivamente il mio punto di vista, che è diventato ovvio nel movimento, quantomeno nella direzione suprema33. Il successo evidente della mia visione delle cose lo avemmo il 9 novembre 1923. Quando io, quattro anni prima, ero entrato nel movimento, non esisteva alcun timbro. Il 9 novembre 1923 ci fu lo scioglimento del partito e la confisca del suo patrimonio. Esso ammontava, inclusi tutti gli oggetti di valore e il giornale, a oltre a centosettantamila marchi oro.
Approfondimenti didattici 1. Analisi retorica e stilistica
- Individua le principali figure retoriche; - Individua l’esistenza di fallacie retoriche; - Individua i principali “loci” e “topoi”; - Individua la presenza di stereotipi e pregiudizi.
2. Analisi storico-culturale - Le tre facce della politica: analizza la tripartizione hitleriana fra teorico, politico e propandista; - Partito di quadri o partito di massa: analizza la tesi hitleriana circa il partito di quadri e tenta di confrontare le diverse fattispecie di partito esistenti all’epoca; - Il principio della responsabilità individuale: analizza la tesi hitleriana sul primato della responsabilità individuale e tenta di contestualizzarla all’interno della critica al parlamentarismo democratico.
All’inizio del 1925 Hitler riprese il controllo del partito, accentrando la direzione, l’ideologia e l’organizzazione nelle sue mani. Poi cercò di isolare i concorrenti esterni, come von Graefe e Ludendorff. Nel corso del 1926 riuscì a riunificare nelle sue mani tutte le cariche di partito. Malgrado i divieti di parola, Hitler riuscì grazie a Gregor Strasser a estendere l’influenza del partito nella società tedesca. A. Gilardoni, Logica e argomentazione. Un prontuario, Milano, Mimesis, 2008. 33
Capitolo XII. La questione sindacale
Sinossi 1. Genesi Il capitolo 12-II è quasi un’eccezione nell’intero impianto del Mein Kampf, perché è l’unico (oltre al capitolo 3-II) dedicato a un tema particolarmente circoscritto. Al congresso di Weimar del luglio 1926 riaffiorò la polemica sulla creazione di un sindacato nazista. È quindi probabile che l’esigenza di affrontare il tema abbia indotto Hitler a scrivere un capitolo apposito nei mesi successivi. Come detto, il tema è stranamente circoscritto ed è di natura economica, aspetto assai strano all’interno dell’opera, a dimostrazione del ruolo centrale assunto in quei mesi dal sindacato1. 2. Contenuto Il capitolo 12-II inizia con alcune domande retoriche: è utile un sindacato? Nel caso specifico, è utile un sindacato nazista? La risposta di Hitler è affermativa, ma con alcuni distinguo. Innanzitutto è pacifico che i lavoratori si uniscano in un sindacato per difendere i loro interessi, se la controparte padronale è incapace di comprendere i “diritti umani” dei suoi dipendenti. Se il sindacato è una questione di giustizia, viste le condizioni conflittuali tra lavoratori e imprenditori, il sindacato nazista è invece una questione di opportunità. Il sindacato è un mezzo in vista del fine: non la vittoria dei lavoratori sugli imprenditori, ma la loro immersione nella comunità nazionalpopolare. Il sindacato nazista non deve essere un organo della lotta di classe, ma un organo della rappresentanza delle professioni. La coscienza di classe in senso marxista non fa altro che distruggere le basi dell’economia nazionale, collabora cioè ad “asservire” uno Stato libero e indipendente alle potenze straniere per mezzo di un organo (il sindacato) che è diretta emanazione dell’ebraismo cosmopolita internazionalista. Il sindacato nazista è quindi un concetto giusto, ma va declinato nei tempi e nei modi opportuni. Lo sciopero è un mezzo per migliorare la produzione nazionale salvaguardando i diritti “umani” dei lavoratori. Nulla di più. Se il sindacato è solo un mezzo per un fine (la vita economica nazionale), è chiaro che il nazionalsocialismo non può che osteggiare la visione marxista del sindacato, in quanto “orizzontale” (cioè tendente a equiparare i lavoratori di ogni nazione) e “antinazionale” (cioè tendente a rigettare i confini etnici e “razziali”). Il futuro Stato nazionalsocialista deve puntare a favorire la crescita e il benessere di tutta l’economia nazionale, creando apposite camere delle professioni (“corporazioni”). Il sindacato non avrà più lo scopo di contrapporre il lavoratore all’imprenditore, ma di educare il lavoratore alla cooperazione nazionale. Ma qual è il senso del sindacato prima della conquista del potere? Hitler, che si riferisce alle diatribe scoppiate nel 1922, non ha alcun dubbio: creare un sindacato nazista è assurdo per via della scarsa compenetrazione del movimento nelle file dei lavoratori (già “lottizzati” dal marxismo). Ha più senso intaccare la macchina sindacale marxista dall’interno con opportune infiltrazioni e sabotaggi. I motivi sono due: la crisi della Ruhr ha dimostrato come il sindacato sia legato al governo 1
KA II, p. 1511.
538 “parlamentare-democratico” (la resistenza passiva attuata da Cuno ha finito per rimpinguare le casse sindacali); mancano in seno al nazionalsocialismo gli uomini adatti a fondare un sindacato. Il sindacato nazionalsocialista non è una priorità, perché la politica è più importante dell’economia: solo lo Stato può risolvere i problemi sindacali, cioè garantire il benessere del lavoratore e la sua partecipazione responsabile alla vita economica nazionale. Il nazionalsocialismo non deve fare concorrenza al sindacato marxista, ma all’idea stessa di sindacato di lotta antinazionale. Il modo migliore non è quello di creare un surrogato, quanto di fronteggiare attivamente la propaganda distruttiva marxista in seno al mondo operaio. In mancanza di una persona capace di creare un’idea sindacale nazista, è meglio evitare di perdere tempo e di sprecare le risorse dei lavoratori. 3. Analisi Il rapporto fra il movimento nazionalpopolare e il sindacato fu inizialmente caratterizzato dalla pregiudiziale patriottica. In altre parole il lavoratore-operaio fu considerato il braccio armato della lotta autonomista nei territori “contesi”. Tra la fine del 1922 e l’inizio del 1923 sorsero a Berlino e nell’Alta Slesia le prime cellule sindacali nazionalpopolari: il Reichsbund Völkischer Kampfgewerkschaften (Lega federale dei sindacati nazionalpopolari combattenti) e il Reichsbund Vaterländischen Arbeitervereine (Lega federale delle associazioni patriottiche dei lavoratori). Il primo era emanazione di associazioni ginniche paramilitari guidate dal tenente dei Corpi franchi Gerhard Rossbach, vicino alla Deutschvölkische Freiheitspartei di von Graefe. Il secondo era l’emanazione del sindacato giallo Bund der Deuscher Werkvereine (Lega delle associazioni tedesche dei lavoratori). Dopo la crisi della Ruhr e il conseguimento indebolimento dei sindacati tradizionali (che persero quasi la metà degli iscritti nel giro di pochi anni) furono due vecchi membri dell’ala nazionalpopolare “sociale” a tentare di formalizzare l’idea di sindacato nazionalsocialista. Nell’agosto 1924 Arno Chwatal, uno dei fondatori della Grossdeutsche Arbeiterpartei (Partito grande-tedesco dei lavoratori), assunse la guida del Reichsbund Völkischer Kampfgewerkschaften e dell’organo “Der völkische Gewerkschafter” (Il sindacalista nazionalpopolare). Nel 1928 Anton Rothenanger creò il Grossdeutsche Gewerkschaft (Sindacato grande-tedesco), mentre Johannes Engel (ex membro del Partito sociale tedesco di Kunze) fondò la Nationalsozialistische Betriebszellenorganisation (Organizzazione nazionalsocialista delle cellule aziendali), che poi avrebbe dato vita alla Deutsche Arbeitsfront (Fronte tedesco del lavoro). Il capitolo 12-II è strutturato secondo una serie di quattro interrogativi “retorici”. Hitler parte da una domanda di natura più generale (il sindacato è necessario?), per poi calare progressivamente il tema in seno alla visione del mondo e al partito. Se il sindacato (come appare ovvio) è necessario, allora è possibile crearlo. La domanda è: quando? La risposta è chiara: non certo ora, ma quando il nazionalsocialismo avrà conquistato lo Stato. Solo allora nascerà un sindacato, ma – attenzione – un sindacato che avrà sì l’obiettivo di salvaguardare gli interessi dei lavoratori, solo che lo farà in vista del benessere della comunità nazionalpopolare. Sarà una “corporazione”, una rappresentanza di interessi utile e necessaria alla nazione. Finché il nazionalsocialismo non avrà conquistato lo Stato e l’avrà “plasmato” secondo la sua idea, il sindacato nazista è inutile. Ciò non significa che non sia necessario. Significa semplicemente che non c’è lo spazio politico per creare un gruppo di pressione in grado di fronteggiare le tradizionali forze sindacali e di porsi veramente al servizio dei lavoratori tedeschi. È giusto e sacrosanto che i lavoratori abbiano una rappresentanza dei loro interessi “materiali”, specie se la visione degli
539 imprenditori è miope e conflittuale. È anche giusto che il nazionalsocialismo prenda a cuore le sorti dei lavoratori, ma deve farlo a suo modo: definendo il “genere” di sindacato e agendo “ebraicamente” in maniera distruttiva in seno alle forze antinazionali. Il sindacato è un problema politico: non è una realtà che può essere eliminata, ma che può tutt’al più essere considerata come uno strumento temporaneo in vista della conquista del potere (non a caso, il Partito nazionalsocialista avrebbe di fatto posto fine alla storia del “suo” sindacato dopo il 1933, dando spazio alla sua visione corporativa della società). Ciò non escludeva, però, l’azione di “disturbo” attuata in seno ai sindacati tradizionali e il piano di riorganizzazione della propaganda a livello federale, lanciato da Hitler proprio nel 1926 e affidato a Gregor Strasser. L’obiettivo era quello di accrescere capillarmente la presenza del partito in seno alle diverse “maestranze” lavorative. La società era più importante del sindacato. 4. Parole-chiave Attività sindacale, Camera dell’economia, Camera delle corporazioni, Comunità nazionalpopolare, Corpo popolare, Coscienza di classe, Diritti umani, Educazione nazionalsocialista, Imprenditore, Imprenditore nazionalsocialista, Iperinflazione, Lavoratore nazionalsocialista, Lotta di classe, Marxismo, Operaio, Rivoluzione del 1918, Sciopero, Selezione naturale, Sindacato, Sindacato marxista, Sindacato nazionalsocialista, Stato nazionalpopolare, Stato nazionalsocialista. 5. Bibliografia essenziale - W. Benz (ed.), Wie wurde man Parteigenosse? Die NSDAP und ihre Mitglieder, Francoforte sul Meno, Fischer, 2009; - J. Bons, Nationalsozialismus und Arbeiterfrage. Zu den Motiven, Inhalten und Wirkungsgründen nationalsozialistischer Arbeiterpolitik vor 1933, Pfaffenweiler, Centaurus-Verlag-Gesellschaft, 1995 - S. Breuer, Ordnungen der Ungleichkeit. Die politische Rechte im Widerstreit ihrer Ideen, 1871-1945, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 2001; - Id., Die Völkischen in Deutschland. Kaiserreich und Weimarer Republik, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 2008; - P. Bruppacher, Adolf Hitler und die Geschichte der NSDAP. Eine Chronik, parte 1: 1889-1937, Norderstedt, Books on Demand, 2014; - A. Bullock, Hitler. Studio sulla tirannide, Milano, Res Gestae, 2014; - K. Burke, Die Rhetorik in Hitlers “Mein Kampf” und andere Essays zur Strategie der Überredung, Francoforte sul Meno, Suhrkamp, 1967; - D. Capozza, C. Volpato, Le intuizioni psicosociali di Hitler. Un’analisi del “Mein Kampf”, Bologna, Patron, 2004; - W. Carr, Hitler. Studio sul rapporto tra personalità e politica, Napoli, Liguori, 1985; - G. Corni, Hitler, Bologna, Il Mulino, 2007; - Id., Breve storia del nazismo, 1920-1945, Bologna, Il Mulino, 2015; - J. Fest, Hitler. Una biografia, traduzione di F. Saba Sardi, Milano, Garzanti 2005; - M. Grünthaler, Parteiverbote in der Weimarer Republik, Francoforte sul Meno, Peter Lang, 1995; - H.-H. Hartwich, Arbeitsmarkt Verbände und Staat, 1918-1933. Die öffentliche Bindung unternehmerischer Funktionen in der Weimarer Republik, prefazione di G. Kotowski, Berlino, de Gruyter, 1967; - H.H. Hoffmann, Der Hitlerputsch. Krisenjahre deutscher Geschichte, 1920-1924, Monaco, Nymphenburger Verlagshandlung, 1961; - L. Herbst, Il carisma di Hitler. L’invenzione di un messia tedesco, traduzione di U. Gandini, Milano, Feltrinelli, 2011; - W. Horn, Führerideologie und Parteiorganisation in der NSDAP (1919-1933), Düsseldorf, Droste, 1972;
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541 Nel 1922 la rapida ascesa del movimento ci costrinse a prendere posizione su un problema ancora oggi non del tutto risolto2. Tentando di studiare quei metodi che ci avrebbero rapidamente spianato la strada al cuore delle grandi masse sbattevamo sempre contro l’obiezione che il lavoratore non avrebbe mai potuto appartenere completamente al nostro movimento, finché la rappresentanza dei suoi interessi materiali fosse rimasta in mano ad altre persone e ad altre organizzazioni politiche3. L’obiezione non mancava di fondamento. Era convinzione diffusa che un lavoratore dovesse essere membro di un sindacato. I suoi interessi lavorativi potevano essere difesi solo aderendo a quell’istituzione. A lungo andare la sua posizione aziendale era immaginabile solo da sindacalizzato. Inoltre la maggioranza dei lavoratori faceva parte di associazioni sindacali4 che avevano difeso e concluso le vertenze che garantivano loro un determinato salario. Indubbiamente i risultati delle lotte tornavano utili a tutti i lavoratori. Nelle persone oneste non erano improbabili i conflitti di coscienza quando intascavano un salario ottenuto da sindacati, di cui non faceva parte. Il normale imprenditore borghese non affrontava il problema a cuor leggero. Non capiva (né voleva capire) il lato materiale o morale della cosa. I suoi “interessi economici” contrastano per principio (così la pensa) con ogni organizzazione di lavoratori alle sue dipendenze. È difficile formarsi un giudizio imparziale sul sindacato. Come succede spesso, bisogna rivolgersi a un estraneo capace di vedere la foresta e non solo i singoli alberi. Con un po’ di buona volontà, l’estraneo si farà un’idea migliore di uno dei problemi più importanti di oggi e di domani. Già nel primo volume mi sono espresso sulla natura, sullo scopo e sulla necessità dei sindacati5. A mio giudizio, finché non muterà la posizione del datore di lavoro per mezzo di provvedimenti statali (finora inutili) o di una nuova educazione generale, il lavoratore continuerà a difendere i suoi interessi appellandosi al diritto di contraente paritetico nella vita economica. Del resto è una posizione assolutamente legittima nell’interesse della comunità nazionalpopolare, nella misura in cui impedisce che le ingiustizie arrechino danni peggiori alla nostra vita sociale. Il lavoratore deve difendere i suoi diritti, qualora tra gli imprenditori ci siano uomini privi di senso civico, incapaci di riconoscere i più basilari diritti umani. In sintesi l’autodifesa operaia può solo aver forma di associazione sindacale6. La mia concezione generale del 1922 non è mutata. Dovetti tuttavia cercare una formulazione chiara e precisa per meglio focalizzare il problema. Non potevamo accontentarci di semplici cognizioni, ma bisognava trarne le conclusioni pratiche. Si trattava di rispondere alle seguenti domande: 2
Dopo il 1920 il Partito nazionalsocialista si interrogò sulla questione sindacale come reazione agli scioperi. Il corporativismo fascista facilitò l’introduzione della questione sindacale nelle sue file [KA, n. 1]. 3 Il più grande sindacato tedesco dell’epoca erano le Freie Gewerkschaften (Liberi sindacati), vicine alla socialdemocrazia. Bibliografia: H. Potthoff, Freie Gewerkschaften, 1918-1933, Düsseldorf, Droste, 1987. 4 Alla fine della guerra circa 9,5 milioni di lavoratori erano sindacalizzati, cioè il 70%, con un crollo al 34% durante l’iperinflazione. Il nesso fra crisi economica e crisi sindacale si ripresentò dopo il 1929 [KA, n. 3]. 5 Vedi capitolo 2-I. 6 La posizione del movimento nazionalpopolare sui sindacati era ambigua. Nel giugno 1923 il “Völkischer Beobachter” ribadì la netta distinzione tra sindacato e marxismo, con il chiaro intento di “nazionalizzare” i lavoratori [KA, n. 9].
542 1. I sindacati sono necessari? 2. Il Partito nazionalsocialista deve sindacalizzarsi? Oppure i suoi membri devono svolgere un’attività sindacale? 3. Di che genere sarà il sindacato nazionalsocialista? 4. Come possiamo crearli?
Figura 1 Gerhard Rossbach (a sinistra) e Arno Chwatal (a destra) [fonti: madchenfurwolf.tumblr.com, wikipedia.de]
Io credo di aver risposto a sufficienza alla prima domanda. Per come stanno le cose oggi, non credo si possa fare a meno di un sindacato. Al contrario si tratta di una fra le principali istituzioni della vita economica nazionale. Il suo significato non si limita all’ambito politico-sociale, ma riguarda soprattutto la politica nazionale. Un popolo, le cui larghe masse saranno soddisfatte nei loro bisogni essenziali e saranno educate da un opportuno movimento sindacale, uscirà rinforzato nella lotta per l’esistenza. I sindacati sono necessari soprattutto come elementi costitutivi del futuro parlamento economico, cioè delle Camere delle corporazioni7. Il secondo problema è più semplice. Se il movimento sindacale è importante, è ovvio che il nazionalsocialismo debba prendere una posizione anche di natura pratica. Il movimento nazionalsocialista, che intende creare lo Stato nazionalpopolare e nazionalsocialista, è certo che ogni istituzione futura dello Stato sarà il prodotto del movimento stesso. È un errore gravissimo ritenere che il potere comporti di per sé una determinata riorganizzazione sociale, senza prima disporre di un nucleo fondamentale di uomini plasmati secondo una precisa convinzione8. Anche qui vale il principio che lo spirito è più importante della forma esteriore, che si crea 7
Il tema dello Stato corporativo era ricorrente nella letteratura nazionalpopolare, come dimostrano gli scritti di Arthur Moeller van den Bruck e di Oswald Spengler, teorici della Rivoluzione conservatrice. Bibliografia: S. Breuer, La rivoluzione conservatrice. Il pensiero di destra nella Germania di Weimar, Roma, Donzelli, 1995. 8 Lo smantellamento dei sindacati nel maggio 1933 avvenne senza che il Partito nazista disponesse di un apparato proprio. L’Organizzazione nazionalsocialista delle cellule aziendali fu esautorata e confluì nel 1935 nel Fronte tedesco del lavoro. Bibliografia: R. Hachtmann, Das Wirtschaftsimperium der Deutschen Arbeitsfront, 1933-1945, Gottinga, Wallstein, 2012.
543 meccanicamente con facilità. Una dittatura può imporre a comando il principio dell’autorità del capo su un organismo statale. Quel principio sarà effettivo solo quando si sarà formato e diffuso per sua evoluzione e, grazie alla lunga selezione naturale, avrà prodotto la classe dirigente necessaria all’applicazione del principio. Non possiamo quindi immaginarci di estrarre all’improvviso da una cartella le bozze di una nuova costituzione statale e di “introdurla” per decreto. Se lo facessimo, il risultato non sarebbe certo un prodotto vitale, ma un bambino nato morto. Mi ricorda la nascita della costituzione weimariana e il tentativo di offrire al popolo tedesco, insieme alla nuova costituzione, una nuova bandiera priva di un legame profondo col passato degli ultimi cinquant’anni. Anche lo Stato nazionalsocialista deve evitare simili esperimenti. Potrà crescere solo da un’organizzazione già esistente, in possesso di una vita nazionalsocialista, che saprà poi creare uno Stato nazionalsocialista vitale. Come detto, le cellule delle Camere dell’economia proverranno dalle varie rappresentanze professionali, quindi soprattutto dai sindacati. Ma se, in futuro, le rappresentanze corporative e il parlamento centrale dell’economia saranno istituzioni nazionalsocialiste, le cellule germinali andranno impregnate della convinzione e della concezione nazionalsocialiste. Le istituzioni del movimento vanno trasferite nello Stato, che non può inventarsi dal nulla le istituzioni adeguate, se non intendono restare esangui. Già partendo da questo punto di vista, il movimento nazionalsocialista dovrà riconoscere la necessità di una propria attività sindacale. Dovrà farlo anche perché un’educazione autenticamente nazionalsocialista dei padroni e dei lavoratori, la loro mutua integrazione nel quadro generale della comunità nazionalpopolare non si ottiene con gli insegnamenti teorici, con gli appelli o con le esortazioni, ma con la lotta quotidiana. Perciò il movimento deve educare i suoi gruppi sociali e avvicinarli ai grandi problemi. Senza un lavoro preliminare, ogni speranza di veder risorgere una vera comunità nazionalpopolare sarà una pia illusione. Solo il grande ideale sorretto dal movimento può forgiare lentamente quello stile generale che farà apparire il domani radicato in profondità, e non superficiale. Quindi il movimento non deve solo esprimere una posizione favorevole all’idea sindacale, ma deve anche impartire alla massa dei suoi membri e dei suoi sostenitori l’educazione necessaria per il futuro Stato nazionalsocialista. La risposta alla terza domanda è l’esito di quanto detto poc’anzi. Il sindacato nazionalsocialista non è un organo della lotta di classe, ma un organo della rappresentanza delle professioni. Lo Stato nazionalsocialista non conosce politicamente “classi”, ma solo cittadini dotati di eguali diritti e doveri e, accanto a loro, i membri dello Stato del tutto privi di diritti politici9. Il sindacato, in senso nazionalsocialista, non ha il compito di infondere nel corpo popolare la coscienza di classe fra i lavoratori e di avviare la lotta contro altri gruppi simili nella comunità nazionalpopolare. Quel compito non è attribuibile al sindacato, ma gli è stato conferito nell’istante in cui diventa lo strumento di lotta del marxismo. Il sindacato non è uno strumento della “lotta di classe”, ma è il marxismo ad averlo reso tale. Il 9
Sul distinguo tra membri dello Stato e cittadini vedi capitolo 3-II.
544 marxismo forgiò l’arma economica che l’ebreo cosmopolita internazionalista usa per frantumare la base economica degli Stati nazionali liberi e indipendenti, per annientare le sue industrie nazionali e il suo commercio internazionale e, quindi, per asservire i popoli liberi all’ebraismo finanziario cosmopolita sovrastatale. Il sindacato nazionalsocialista, raccogliendo determinati gruppi partecipanti al processo economico nazionale, deve accrescere la sicurezza dell’economia nazionale e aumentarne la forza, correggendo quegli inconvenienti che esercitano un effetto distruttivo sul corpo popolare, danneggiano la forza vitale della comunità nazionalpopolare (e, così facendo, anche quella dello Stato) e rovinano l’economia stessa. Quindi, per il sindacato nazionalsocialista, lo sciopero non è solo un mezzo di frantumazione e di turbamento della produzione nazionale, ma è anche un mezzo per migliorare e mobilitare la lotta contro tutti quei malcostumi che ostacolano la capacità produttiva e, quindi, l’esistenza della collettività. Perché la capacità produttiva individuale ha sempre un nesso causale con la posizione giuridica e sociale che il soggetto occupa nel processo economico e col riconoscimento della necessità che quel processo agisca a vantaggio del singolo10. Il lavoratore nazionalsocialista deve sapere che la fioritura dell’economia nazionale significa la sua fortuna materiale. L’imprenditore nazionalsocialista deve sapere che la fortuna e la gioia dei suoi lavoratori sono il presupposto per l’esistenza e per lo sviluppo della sua grandezza economica. Il lavoratore e l’imprenditore nazionalsocialisti sono incaricati e fiduciari della complessiva economia nazionale. L’alto grado di libertà personale concessa nella loro sfera d’azione, si spiega col fatto che, per esperienza, la capacità produttiva del singolo aumenta all’aumentare della libertà e diminuisce all’aumentare della coercizione dall’alto. Inoltre la libertà deve impedire che si paralizzi il processo di selezione naturale che deve promuovere il più abile, il più capace e il più diligente. Per il sindacato nazionalsocialista lo sciopero è un mezzo che può e, anzi, deve essere utilizzato fino all’avvento dello Stato nazionalsocialista11. Al posto della lotta di classe, che finisce sempre per danneggiare la comunità nazionalpopolare, il nostro sindacato si accollerà la cura e la difesa di tutti i cittadini! Alle Camere dell’economia spetta l’obbligo di mantenere in funzione l’economia nazionale e di rimuovere i difetti o gli ostacoli nocivi. Le lotte attuali saranno affrontate nella Camera delle corporazioni e nel Parlamento centrale dell’economia. Imprenditori e lavoratori non si batteranno più per salari o tariffe, ma risolveranno insieme quei problemi in una sede superiore, che dovrà sempre avere a cuore il bene generale del popolo e dello Stato. Anche qui, di regola, deve valere il ferreo principio che la patria viene prima del partito. Il compito del sindacato nazionalsocialista è quello di educare e preparare gli strati sociali a quell’obiettivo: un lavoro comune in vista della conservazione e della salvaguardia A causa del crescente peso dell’Organizzazione delle cellule aziendali, dal 1931 il Partito nazionalsocialista dovette prendere posizioni su temi come lo sciopero e il sostegno finanziario degli scioperanti [KA, n. 22]. 11 Contrariamente all’Italia fascista, durante il Terzo Impero lo sciopero non fu espressamente vietato, anche se la Legge sull’ordinamento del lavoro nazionale (20 gennaio 1934) ne limitava pesantemente il ricorso. 10
545 del nostro popolo e del suo Stato, secondo le capacità e le forze innate nel singolo o perfezionate dalla comunità nazionalpopolare. La quarta domanda (come possiamo crearli?) sembrava allora di gran lunga la più difficile. In generale è più semplice costruire su un terreno sgombero piuttosto che su uno già occupato. È più conveniente farlo dove non esiste un’impresa simile. Lo è meno se ne esiste già una e, ancor meno, se le condizioni permettono solo a una di prosperare. In tal caso i fondatori non solo devono avviare una nuova impresa, ma devono anche distruggere quella autoctona. Un sindacato nazionalsocialista non ha senso accanto ad altri. Deve sentirsi pervaso dal suo compito ideologico e dal dovere di non tollerare formazioni analoghe e ostili accanto a sé. Deve affermare l’esclusiva necessità del proprio io. Anche qui non sono possibili intese e compromessi con propositi affini, ma solo la conservazione dell’assoluto diritto di primogenitura. Ci sono solo due vie per raggiungere un risultato simile: 1. Potevamo fondare un nostro sindacato e condurre gradualmente una lotta contro i sindacati marxisti internazionalisti. 2. Potevamo infiltrarci nel sindacato marxista e cercare di permearlo con lo spirito nuovo, cioè farne lo strumento della nuova filosofia.
Figura 2 Bracciale raffigurante la Nationalsozialistische Betriebszellenorganisation [fonte: murphsmilitaria.com]
Figura 3 Bandiera della Deutsche Arbeitsfront [fonte: wikipedia.de]
La prima via ha le seguenti controindicazioni: nel 1922 le nostre difficoltà finanziarie erano molto grandi, i mezzi a nostra disposizione insignificanti12. 12
Qui Hitler reagiva alle critiche che il Partito nazionalsocialista fosse sostenuto politicamente e finanziariamente dagli industriali. Oltre ai membri e al giornale, il Partito riceveva sovvenzioni da famiglie
546 L’iperinflazione complicò le cose a tal punto che non avremmo mai potuto sostenere l’utilità pratica di un sindacato nazionalsocialista. Il singolo lavoratore non aveva alcun motivo di iscriversi al nostro sindacato. Quelli marxisti esistenti erano sul punto di dissolversi. Si salvarono solo grazie ai milioni di marchi elargiti dalla geniale azione del signor Cuno nella Ruhr. Il cancelliere “nazionale” può essere ritenuto il salvatore dei sindacati marxisti13. Allora noi non avevamo le possibilità finanziarie. Non potevamo invogliare nessun lavoratore a entrare in un nuovo sindacato che non gli avrebbe offerto il benché minimo vantaggio per via della sua debolezza finanziaria. D’altro canto io volli assolutamente evitare di creare sinecure per intellettuali più o meno insigni. In generale, l’ostacolo più importante era umano: non possedevo una sola testa capace di risolvere un problema così intricato. Chi avesse veramente sfasciato i sindacati marxisti, sostituendoli con sindacati nazionalsocialisti, sarebbe stato uno degli uomini più insigni del nostro popolo e, un giorno, i posteri avrebbero dovuto erigergli un busto e consacrarlo nel Valalla di Ratisbona14. Ma non conoscevo nessun uomo degno di quel piedistallo. È sbagliatissimo lasciarsi traviare dall’opinione che i sindacati internazionalisti dispongano solo di teste mediocri. Questo non dimostra un bel niente, perché i loro sindacati furono i primi a essere creati. Oggi il movimento nazionalsocialista deve fronteggiare una gigantesca e longeva organizzazione, perfezionata sin nei più piccoli dettagli. Il conquistatore deve essere sempre più bravo del difensore, se intende sconfiggerlo. La roccaforte sindacale marxista può essere pure governata da bonzi volgari, ma potrà essere espugnata solo dalla feroce energia e dalla geniale capacità di un grand’uomo. Se non c’è, è inutile prendersela col destino e forzare i tempi creando un surrogato insensato e inadeguato. Spesso, nella vita, è meglio saper temporeggiare che intraprendere un’iniziativa in mancanza delle forze adeguate. Va aggiunta un’ulteriore considerazione, che non è affatto demagogica. All’epoca avevo – e ho tutt’ora – l’incrollabile convinzione che sia pericoloso legare prematuramente una grande lotta politico-ideologica alle faccende economiche. A maggior ragione per il popolo tedesco, perché la lotta economica distoglierebbe le energie dalla quella politica. Non appena le persone si saranno convinte di non potersi permettere neanche una loro casetta si dedicheranno anima e corpo a risparmiare e non avranno più tempo per contrastare politicamente coloro che, un giorno o l’altro, vorranno privarli dei loro risparmi. Invece di battersi per la vittoria politica della loro visione, si dedicheranno soltanto ad “accasarsi”15 ed eviteranno di schierarsi. benestanti come i Bechstein, i Bruckmann o gli Hanfstaengl. Dal 1922 ottenne un sostegno anche dall’associazione imprenditoriale bavaresi. La tesi che il sindacato non fosse creato per problemi finanziari, non è quindi sostenibile [KA, n. 30]. 13 Sia i sindacati cristiani, sia quelli socialdemocratici sostennero la resistenza passiva contro l’occupazione belga e francese della Ruhr. I sindacati cristiani decisero di sostenere il governo in un secondo momento. 14 Qui Hitler si riferisce al tempio eretto tra il 1830 e il 1842 da Ludovico I di Baviera sulle rive del Danubio, nei pressi di Ratisbona. 15 Allusione alle Siedlungsbewegungen (“movimenti insediativi”), sorte in Germania dopo il 1918 per condurre la colonizzazione interna. Nel 1919 Hitler ebbe contatti con la Neu-Deutschland (Nuova Germania) di Jörg Lanz von Liebenfels. Dal 1925 strinse rapporti anche con gli Artamani [KA, n. 38].
547 Il movimento nazionalsocialista si trova oggi all’alba della sua lotta. Deve anzitutto forgiare e completare la sua visione ideologica. Deve combattere con tutte le forze per il trionfo del suo grande ideale e potrà vincere solo quando tutte le forze saranno poste al servizio di questa lotta. Ma quanto sia paralizzante la riflessione incentrata unicamente su problemi economici, lo vediamo proprio oggi in un classico esempio. La Rivoluzione del novembre 1918 non fu fatta dai sindacati, ma si affermò ai loro danni. E la borghesia tedesca non combatte politicamente per il futuro della Germania, perché lo ritiene sufficientemente garantito dall’azione costruttiva dell’economia16. Dobbiamo imparare da queste esperienze; perché le cose non sarebbero diverse neanche per noi. Quanto più spendiamo le nostre energie nella lotta politica, tanto prima avremo successo su tutta la linea; quanto più, invece, ci occupiamo prematuramente di questioni sindacali, coloniali e simili, tanto minor vantaggio ne trarrà la nostra causa. Per quanto siano importanti, quei problemi saranno risolti su larga scala solo quando riusciremo a porre la potenza statale al loro servizio. Fino a quel momento, quei problemi finirebbero per paralizzare il movimento e pregiudicherebbero la sua volontà ideologica. In tal caso potrebbe facilmente accadere che le questioni sindacali guidino il movimento politico, mentre, invece, è la visione del mondo che deve controllare il sindacato. In generale un movimento sindacale nazionalsocialista può avere una certa utilità per il movimento e per il nostro popolo solo nel caso in cui sia così ideologicamente permeato dalle nostre idee da non correre più il rischio di seguire il tracciato marxista. Perché un sindacato nazionalsocialista che ravvisi la sua missione solo nel far concorrenza a quello marxista, sarebbe meglio che non esistesse. Il nostro sindacato deve contrastare il sindacato marxista non solo come organizzazione, ma soprattutto come idea. Deve colpire l’annunciatore della lotta e del pensiero di classe e, al suo posto, deve sostenere gli interessi professionali dei cittadini tedeschi17. Tutti queste ragioni scoraggiarono allora e scoraggiano tuttora la fondazione di un nostro sindacato; a meno che non appaia improvvisamente una testa incaricata dal destino per risolvere quel problema. C’erano quindi altre due strade possibili: raccomandare ai nostri camerati di tenersi alla larga dai sindacati o di restarvi, per agire possibilmente in maniera distruttiva. In genere io ho consigliato la seconda via. Fra il 1922 e il 1923 si poté praticare continuativamente l’azione distruttiva; perché il guadagno che, nell’epoca inflattiva, i sindacati intascarono dai contributi dei membri del nostro movimento (ancora pochi, data la giovane età del nostro partito), era pressoché nullo. Il danno arrecato, però, fu assai grande, perché i sostenitori nazionalsocialisti erano i suoi critici più aspri e, quindi, i suoi corruttori interni.
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Sulla valutazione hitleriana della borghesia vedi capitolo 9-II. Nella discussione interna sulla questione sindacale, alcuni nazisti citavano il caso dell’Italia fascista. Anche Mussolini sostenne la creazione di un sindacato fascista come contrappeso agli altri (la Confederazione nazionale delle Corporazioni sindacali). Nel 1926 i sindacati fascisti furono trasformati in organi di diritto pubblico, privandoli di fatto della loro autonomia. Bibliografia: F. Perfetti, Il sindacalismo fascista. Dalle origini alla vigilia dello Stato corporativo (1919-1930), Roma, Bonacci, 1988.
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548 All’epoca io respinsi ogni esperimento destinato a fallire sin dalla nascita. Avrei considerato criminoso privare un lavoratore del suo scarso e sudato salario per un’istituzione, della cui utilità non ero affatto convinto18. Se un nuovo partito politico scompare da un giorno all’altro, non è quasi mai un male; spesso è un bene, e nessuno può dolersene. Ciò che il singolo dona a un movimento politico lo fa à fond perdu. Ma chi si iscrive a un sindacato, ha diritto di avere la sua contropartita. Altrimenti il creatore di quel sindacato è un imbroglione, quantomeno un uomo superficiale che deve essere chiamato a risponderne. Nel 1922 decidemmo di non creare un nostro sindacato. Altri, apparentemente più accorti, li crearono19. La mancanza di sindacati era ritenuta un segno tangibile della nostra visione delle cose errata e meschina. Solo che non passò molto tempo prima che quei sindacati sparissero dalla circolazione. Il risultato finale fu lo stesso del nostro. Con la sola differenza che non avevamo illuso noi stessi, né tantomeno gli altri.
Approfondimenti didattici 1. Analisi retorica e stilistica
- Individua le principali figure retoriche; - Individua l’esistenza di fallacie retoriche; - Individua i principali “loci” e “topoi”; - Individua la presenza di stereotipi e pregiudizi.
2. Analisi storico-culturale
- Il ruolo storico del sindacato: analizza la posizione politica del sindacato all’indomani della Prima guerra mondiale; - Lavoratore e soldato: analizza il fenomeno delle prime cellule sindacali naziste e il nesso fra identità nazionale e lavoro; - Lavoro e nazione: analizza la tesi hitleriana del primato della nazione sulla classe e le diverse posizioni corporativistiche; - Il primato della politica: analizza la tesi hitleriana sul primato della politica come espressione del rifiuto del “materialismo” ebraico-borghese.
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La perplessità di Hitler va letta alla luce del suo tentativo di ingraziarsi le associazioni imprenditoriali. Bibliografia: H.-A. Apolant, Die wirtschaftsfriedliche Arbeitnehmerbewegung Deutschlands. Werden, Wesen und Wollen der gelben Organisationen, Berlino, Springer, 1928. 19 Qui Hitler si riferisce probabilmente alla Deutschvölkische Freiheitspartei, poi Nationalsozialistische Freiheitspartei, che sostenne il Reichsbund Völkischer Kampfgewerkschaften. A. Gilardoni, Logica e argomentazione. Un prontuario, Milano, Mimesis, 2008.
Capitolo XIII. La politica di alleanza tedesca del dopoguerra
Sinossi 1. Genesi Il capitolo 13-II inaugura una coppia di capitoli dedicati alla politica estera. Si riallaccia al capitolo 4-I, che analizzava la politica di alleanza prebellica. Fu probabilmente redatto tra la fine del 1924 e l’inizio del 1925. Le idee hitleriana erano state sottoposte a dura critica sia nel suo partito, sia al di fuori, specie sul tema della rinuncia al Sud Tirolo o del diniego dell’alleanza con l’Unione Sovietica. Il capitolo 13-II fu anticipato in opuscolo a se stante all’inizio del 1926, proprio per reagire alle critiche interne di personaggi come gli Strasser e Joseph Goebbels. La redazione definitiva compì solo alcune correzioni sintattiche e ortografiche1. 2. Contenuto Il capitolo 13-II analizza i possibili scenari bellici della Germania, partendo da un’analisi della politica estera. Hitler non ha dubbi: la politica estera ha un primato rispetto alla politica interna, perché dalla prima discende la garanzia di sopravvivenza della seconda. La Rivoluzione novembrina e il successivo “asservimento” nazionale alle potenze straniere per mano dei nemici interni sono dimostrazioni “evidenti” che la classe politica tedesca non ha alcuna intenzione di preservare il carattere nazionalpopolare, ma di annientarlo per lenta consunzione. Il Partito nazionalsocialista, inizialmente concentrato sulla politica interna, ha poi “compreso” che la politica estera (cioè la riacquisizione della libertà futura) è il compito prioritario della Germania. Per sfatare una serie di posizioni “miopi”, Hitler sostiene che l’integrità territoriale della Germania tedesca è sì importante, ma non è sufficiente alla riconquista della libertà nazionale. Ci vuole uno “zoccolo duro”, cioè uno Stato “residuale” veramente libero e forte. Solo partendo da un “residuo” libero è possibile gettare le basi per la riconquista del “tutto”. Se la politica interna deve avere quale unico scopo quello di “forgiare la armi” (la cultura non è una priorità), la politica estera deve viceversa assicurare la prosecuzione dell’armamento e, soprattutto, individuare i giusti alleati. Bisogna rafforzarsi internamente e offrire i propri servigi “esternamente” a un alleato veramente interessato. Hitler critica la politica estera perseguita dagli statisti della Repubblica di Weimar, in quanto priva di una strategia. Dopo il fallimento della “conquista pacifica” del mondo, i nuovi statisti liberaldemocratici (Gustav Stresemann) sembrano interessati unicamente a perpetuare una situazione di incertezza e di debolezza. Smorzando l’entusiasmo nazionalista e incanalandolo nella “stabilità economica”, quegli uomini stanno condannando la Germania all’irrilevanza storica e culturale. Le uniche potenze in grado di comprendere i disegni politici “autenticamente” tedeschi sono l’Inghilterra e l’Italia. La prima, da sempre interessata a conservare un “equilibrio di potenza” europeo, non può non vedere con nervosismo il revanchismo egemonico francese postbellico, che mina la situazione continentale e, potenzialmente, anche il dominio planetario. 1
KA II, p. 1541.
550 Ma perché l’Inghilterra dovrebbe preferire la Germania alla Francia? Innanzitutto la Germania attuale è un alleato appetibile per una grande potenza mondiale? In apparenza non ce n’è motivo: l’Inghilterra può continuare a spartirsi il mondo con la Francia, memore anche del recente trascorso bellico. D’altro canto i paesi occidentali sono finiti nella “morsa ebraica”: la Francia indubbiamente (stampa, borsa e “negrizzazione”), l’Inghilterra parzialmente. Solo l’Italia fascista sembra aver compreso la natura del pericolo e ha adottato misure “preventive”. Chi obietta che l’Italia non sia un buon alleato per via della “questione sudtirolese” dimentica sia il primato del “residuo” forte su un “tutto” debole, sia la necessità di compiere sacrifici, sia infine la forza mostrata contro il nemico “internazionalista”. Hitler ritorna a porsi i tre quesiti precedenti: quale paese vorrebbe allearsi con la Germania di oggi? Sulla carta nessuno (rebus sic stantibus). L’inimicizia storica è sempiterna? Eccetto che la Francia e la Russia (per ragioni geopolitiche e ideologiche), le altre grandi potenze non sono nemiche storiche. Ma è necessario che la Germania affronti i suoi problemi interni e acquisisca un’immagine di paese forte, sicuro e leale. L’influenza ebraica è più forte del realismo politico? In Italia sembra di no (quantomeno in ambito massonico e pubblicistico). L’Inghilterra affronta il dominio nel mondo della stampa. Il Giappone, al momento, sembra immune dal “virus” ebraico. Il compito del Partito nazionalsocialista è quello di aprire gli occhi dei popoli di fronte al pericolo ebraico, mostrando una fede incrollabile nell’ideale dell’umanità ariana. 3. Analisi Questo capitolo è molto interessante per comprendere l’elaborazione retorica hitleriana. La strategia è sempre abduttiva-divinatoria: presentazioni di alcune situazioni “anomale” (risultati), elaborazione di una regola e presentazione “necessaria” (non probabilistica) dei casi. Partendo da una serie di eventi “strani” (come la posizione antibellicistica dei rivoluzionari, la visione economicistica dei politici liberaldemocratici, la cronica inconcludenza della Repubblica), Hitler elabora la teoria dell’asservimento politico ed enumera alcuni casi “inoppugnabili” (generici e aleatori). Lo scenario di fondo è la critica interna al partito da parte della nazionalbolscevica e quella esterna alle frange nazionalpopolari più conservatrici. Entrambe le posizioni avrebbero una prospettiva deficitaria perché non terrebbero conto dello scenario europeo postbellico, cioè del “rafforzamento” ebraico orientale (grazie al bolscevico) e occidentale (grazie alla democrazia francese). Il punto centrale del capitolo è indubbiamente il primato della politica estera. È questo l’assioma di fondo sulla base del quale Hitler deduce le sue tesi sulle possibili alleanze postbelliche. Ma sarebbe ingenuo ravvisare in tale primato un semplice attestato di realismo politico, perché questo non c’è. E non può esserci, per via di due assiomi: 1) la riduzione della vita dei popoli a organismi “in espansione”; 2) la presenza del “nemico nascosto”. Il tema del Lebensraum, affrontato nel capitolo 14-II, è qui accennato “negativamente”, cioè partendo dalla soluzione del problema francese. Se la politica estera è più importante di quella interna perché i popoli hanno bisogno di spazio per mantenere la propria “integrità”, è chiaro che un governo incapace di comprenderlo per dolo o per incompetenza non è adatto a reggere le sorti di un carattere nazionalpopolare. Ma la conditio sine qua non per costruire un’alleanza è quella di essere un paese presentabile, cioè in grado di riscuotere l’interesse di altri grandi potenze. Una volta appurato che gli unici partner europei possibili sono l’Inghilterra e l’Italia (la prima perché meno interessata al dominio continentale, la seconda perché rivolta al Mediterraneo), e “ponderata” l’influenza ebraica (contenuta in Inghilterra e osteggiata in Italia), resta il problema della Germania. Qui Hitler torna a
551 ribadire il problema del “nemico interno” borghese e marxista: il primo è incapace di sollevare le sorti del paese per debolezza o per “stupidità”, il secondo è uno strumento in mano all’ebraismo cosmopolita internazionalista. La “ricetta” offerta è alquanto vaga: si tratta di condurre una propaganda serrata a favore di un nuovo spirito patriottico e di conquistare il potere per “nazionalizzare” le masse. Questo capitolo rappresenta il “corno occidentale” della politica estera nazista. Affronta il problema del nemico “ereditario” della Francia. La ragione della particolare alacrità hitleriana deriva in parte dall’esperienza bellica e in parte dal suo desiderio di imporre l’egemonia continentale tedesca. Se è possibile trattare con l’Inghilterra (almeno così la pensava Hitler) e con l’Italia (per ragioni “ideologiche” e geopolitiche), non è viceversa possibile alcun accordo con la Francia. Il risentimento antifrancese, dettato dal revanchismo postbellico e dagli eventi della Ruhr, è aggravato dall’opera “etnica”, “culturale” ed “economica” portata avanti da Parigi: l’introduzione di sangue “negro” sul Reno, la “decadenza” dei costumi e la speculazione borsistica. La Francia è un paese ormai “ebraizzato” (cioè modernizzato) che va contenuto e, se necessario, sconfitto definitivamente. 4. Parole-chiave Acquisizione di suolo europeo, Bolscevismo, Carattere nazionalpopolare, Corpo popolare, Ebraismo, Ebreo, Egemonia francese, Equilibrio di potenza, Fascismo, Guerre persiane, Guerre puniche, Impero mondiale britannico, Impero mondiale ebraico, Leggenda della pugnalata alla schiena, Marxismo, Militarismo giapponese, Nazionalizzazione delle masse, Occupazione della Ruhr, Pacifismo, Politica coloniale, Politica commerciale, Politica di alleanze, Politica estera, Politica territoriale, Propaganda di guerra, Questione giapponese, Questione sudtirolese, Rivoluzione del 1918, Società delle Nazioni, Stampa, Stati Uniti d’America, Stato bolscevizzato, Stato fascista, Stato residuale, Trattato di Versailles, Triplice Alleanza. 5. Bibliografia essenziale - S. Breuer, Ordnungen der Ungleichkeit. Die politische Rechte im Widerstreit ihrer Ideen, 1871-1945, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 2001; - Id., Die Völkischen in Deutschland. Kaiserreich und Weimarer Republik, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 2008; - P. Bruppacher, Adolf Hitler und die Geschichte der NSDAP. Eine Chronik, parte 1: 1889-1937, Norderstedt, Books on Demand, 2014; - A. Bullock, Hitler. Studio sulla tirannide, Milano, Res Gestae, 2014; - K. Burke, Die Rhetorik in Hitlers “Mein Kampf” und andere Essays zur Strategie der Überredung, Francoforte sul Meno, Suhrkamp, 1967; - D. Capozza, C. Volpato, Le intuizioni psicosociali di Hitler. Un’analisi del “Mein Kampf”, Bologna, Patron, 2004; - R. Caroli, Storia del Giappone, Roma, Laterza, 2014; - W. Carr, Hitler. Studio sul rapporto tra personalità e politica, Napoli, Liguori, 1985; - D. Clemens, Herr Hitler in Germany. Warhnehmung und Deutungen des Nationalsozialismus in Grossbritannien, 1920 bis 1946, Gottinga, Vandenhoeck & Ruprecht, 1996; - G. Corni, Hitler, Bologna, Il Mulino, 2007; - Id., Breve storia del nazismo, 1920-1945, Bologna, Il Mulino, 2015; - R. De Felice, Mussolini il fascista, vol. 2: L’organizzazione dello Stato fascista (1925-1929), Torino, Einaudi, 1968; - R. De Felice, Mussolini e Hitler. I rapporti segreti 1922-1933, Roma, Laterza, 2013; - J. Fest, Hitler. Una biografia, traduzione di F. Saba Sardi, Milano, Garzanti 2005;
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553 - R. Zitelmann, Hitler, Roma-Bari, Laterza, 1991.
L’incapacità da parte della classe dirigente tedesca di elaborare una politica estera in grado di portare alla stipula di convenienti alleanze strategiche, non solo proseguì dopo la Rivoluzione, ma finì addirittura per aggravarsi. Se prima della guerra tutto ciò era addebitabile alla confusione politica, in seguito subentrò la mancanza di buona volontà2. Era naturale che i vincitori della Rivoluzione, una volta raggiunti i loro obiettivi distruttivi, non avrebbero contribuito a una politica di alleanze, il cui esito avrebbe potuto essere la ricreazione di uno Stato libero e sovrano della nazione tedesca. Non solo perché uno sviluppo del genere avrebbe contraddetto il senso profondo del crimine novembrino, ponendo termine all’internazionalizzazione dell’economia e della forza lavoro tedesche: gli effetti sul paese di una lotta esterna per la libertà sarebbero stati funesti anche per gli stessi detentori del potere statale. È impensabile una sollevazione di una nazione senza una sua nazionalizzazione; e, viceversa, ogni grande successo di politica estera ha inevitabilmente ripercussioni interne. Ogni lotta per la libertà conduce a un incremento del sentimento nazionale, dell’amor proprio e, quindi, a una sensibilità più acuta contro gli elementi antinazionali. Situazioni e persone che, in periodi di pace, sono tollerate o rispettate, nei periodi di eccitato furore nazionale sono avversate e combattute, spesso fino alla loro distruzione. Ricordiamoci, per esempio, il timore generale delle spie, che, allo scoppio della guerra, suscitò ardenti passioni e condusse a brutali persecuzioni, spesso immotivate3. Pur riconoscendo che sia maggiore nei lunghi periodi di pace, il pericolo delle spie non ha ovviamente l’attenzione generale che merita. L’istinto raffinato dei parassiti statali, portati alla ribalta dagli eventi novembrini, fiuta la possibile distruzione della propria esistenza criminale in una sollevazione libertaria del nostro popolo, favorita da una saggia politica di alleanze e dallo scoppio delle passioni nazionali. Ecco perché le scelte di politica estera dopo il 1918 sono state fallimentari e la classe dirigente ha sistematicamente contrastato i reali interessi della nazione tedesca. Perché ciò che, a prima vista, appariva casuale, si rivela, a uno sguardo più attento, la coerente prosecuzione del cammino intrapreso pubblicamente dalla Rivoluzione novembrina. Certo, bisogna saper distinguere tra i responsabili dei nostri affari di Stato e “chi avrebbe dovuto esserlo”, tra la media dei nostri politicanti parlamentari e lo stupido gregge del nostro popolo, paziente come pecorume.
Probabile allusione a Gustav Stresemann, ministro degli Esteri dall’agosto 1923 sino all’ottobre 1929. Stresemann fu l’artefice del piano Dawes (agosto 1924), del trattato di Locarno (ottobre 1925), dell’ingresso della Germania nella Società delle Nazioni (settembre 1926) e dell’accordo commerciale franco-tedesco (agosto 1927). Nel 1926 fu insignito, insieme al collega francese Aristide Briand, del premio Nobel per la Pace. Bibliografia: J. Wright, Gustav Stresemann. Weimar’s great statesman, Oxford, Oxford University Press, 2002; E. Kolb, Gustav Stresemann, Monaco, C.H. Beck, 2003. 3 La preoccupazione e il timore dello spionaggio era diffuso durante la Prima guerra mondiale. Le convenzioni dell’Aia contemplavano questo crimine di guerra. Nel giugno 1914 fu approvata dal Reichstag una legge apposita. Il timore verso le spie riguardava anche i normali cittadini, specialmente se membri di minoranze nazionali [KA, n. 6]. 2
554 Gli uni sanno ciò che vogliono. Gli altri eseguono e sono troppo vigliacchi per opporsi a ciò che comprendono oppure che ritengono dannoso. Gli altri ancora si adattano alle circostanze per incomprensione o per stupidità. Finché il Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori era solo una piccola lega sconosciuta, i problemi di politica estera apparivano, agli occhi di alcuni suoi sostenitori, di scarsa importanza4. Soprattutto perché il nostro movimento sosteneva e sostiene tuttora che la libertà esterna non piove dal cielo, né è concessa dalle potenze terrene, ma sarà il frutto dello sviluppo delle forze interiori. Solo l’eliminazione delle cause del nostro tracollo5 e l’annientamento dei suoi sfruttatori possono creare le premesse della lotta di liberazione contro gli stranieri. È chiaro, quindi, che, partendo da questa prospettiva, il nostro giovane movimento trascurò inizialmente i problemi di politica estera di fronte alle nostre intenzioni riformatrici interne. Non appena la nostra piccola e insignificante lega assunse una maggiore importanza, diventò necessario prendere posizione sui problemi di politica estera. Si trattava di stabilire linee guida che non solo non contraddicessero le visioni fondamentali nella nostra concezione del mondo, ma che ne rappresentassero anche l’esito naturale. Proprio la scarsa preparazione del nostro popolo sui temi della politica estera obbligò il giovane movimento a trasmettere ai singoli dirigenti, così come alla grande massa, le linee guida generali di una politica estera che fosse il presupposto per il conseguimento della libertà del nostro popolo e di un’effettiva sovranità dello Stato. Il nostro principio guida è che anche la politica estera è solo un mezzo per un fine: la promozione del nostro carattere nazionalpopolare. Ogni considerazione di politica estera deve partire da questo punto di vista storico: è utile al nostro popolo oggi o in futuro, oppure sarà dannoso? È l’unica opinione preconcetta che possa esserci nel trattare questo problema. Vanno del tutto esclusi punti di vista politici, religiosi, umani, cioè tutti gli altri punti di vista. Se, prima della guerra, il compito della politica estera tedesca era quello di garantire il sostentamento del nostro popolo e dei suoi figli, imboccando le vie da percorrere, e di conquistare i supporti necessari in forma di alleati convenienti6, oggi è lo stesso, con una sola differenza: prima si trattava di promuovere la conservazione del carattere nazionalpopolare tedesco, tenendo conto della forza di uno Stato di potenza libero e indipendente, oggi si tratta di ridare al popolo la forza in forma di Stato libero e potente, presupposto necessario per la realizzazione di una politica estera concreta, volta a preservare, a nutrire e a rendere prospero il nostro popolo in futuro. In altri termini, l’obiettivo attuale della politica estera deve essere la preparazione per il recupero della libertà futura.
Nel “Programma dei Venticinque punti” solo i primi tre accennavano a temi di politica estera. Il primo rivendicava la creazione di una “Grande Germania”, il secondo il superamento dei trattati di pace, il terzo l’espansione territoriale per ragioni di approvvigionamento. 5 Sulle cause “manifeste” del tracollo postbellico vedi capitolo 10-I. 6 Sulla politica estera tedesca prebellica vedi capitolo 4-I. 4
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Figura 1 Gli artefici del trattato di Locarno (1925): Gustav Stresemann (a sinistra), Austen Chamberlain (al centro) e Aristide Briand (a destra) [fonte: wikipedia.it]
A tal fine bisogna tenere a mente un principio fondamentale: la possibilità di riottenere l’indipendenza non è affatto legata alla compattezza del territorio statale, ma piuttosto alla presenza di un residuo, per quanto non così piccolo, di quel popolo e di quello Stato. Quel residuo, in possesso della libertà necessaria, non rappresenta solo la comunità spirituale di tutto il carattere nazionalpopolare, ma prepara anche alla lotta militare per la libertà. Se un popolo di cento milioni di anime7, per difendere la compattezza statale, tollera il giogo della schiavitù, è molto peggio che se quello Stato e quel popolo fossero distrutti e se una parte sola fosse ancora indipendente. Il presupposto è che il residuo sia pervaso dalla sacra missione non solo di proclamare continuamente l’indivisibilità spirituale e culturale, ma anche di preparare le armi per la liberazione finale e per la riunificazione con la madrepatria della parte sfortunata e oppressa. Inoltre bisogna considerare che il recupero delle frazioni territoriali di un popolo e di uno Stato è sempre un problema di recupero della potenza e dell’indipendenza politica della madrepatria e che quindi, in tal caso, gli interessi dei territori perduti vanno inesorabilmente accantonati di fronte all’unico interesse del recupero della libertà del territorio principale. La liberazione di un frammento oppresso, perché separato, di un carattere nazionalpopolare o di una provincia non si realizza in forza di un desiderio degli oppressi o di una protesta di quelli rimasti, ma grazie agli strumenti di potere del residuo statuale sovrano di quella che era la patria comune. In sintesi il presupposto per il recupero dei territori perduti è la promozione e il rafforzamento dello Stato residuale, così come l’incrollabile decisione, latente nel 7
Per Hitler il popolo tedesco non corrispondeva alla popolazione fissata entro i confini del trattato di Versailles. La popolazione tedescofona nei territori ceduti nel 1919 era ritenuta parte della Volksgemeinschaft (comunità nazionalpopolare). Qui allude non solo alla popolazione della Germania, ma anche a quella dei paesi limitrofi, cioè ai Volksdeutsche (tedeschi etnici).
556 cuore di ognuno, di consacrare nuove forze creative al servizio della liberazione e dell’unificazione di tutto il carattere nazionalpopolare. Accantonamento degli interessi dei territori separati di fronte all’unico interesse di conseguire per lo Stato residuale un grado di forza e di potenza politica sufficienti a modificare la volontà dei nemici vittoriosi. Perché le regioni oppresse non saranno ricondotte nel grembo dello Stato comune da infiammate proteste, ma da una spada pronta a colpire. Forgiare quella spada è il compito di chi comanda la politica interna di un popolo, assicurare il lavoro della fucina e trovare i compagni d’armi è il compito di politica estera. Nel primo volume del Mein Kampf mi sono occupato della mediocre politica di alleanze prebellica8. Delle quattro vie a disposizione per conservare e per sostenere il nostro carattere nazionalpopolare si era scelta la quarta e più svantaggiosa. Al posto di una politica territoriale sana ed europea si fece ricorso a una politica coloniale e commerciale. Politica tanto più sbagliata, in quanto presupponeva di potersi sottrarre a un confronto armato. L’esito di una politica ambigua fu quello di non aver amici; e la guerra mondiale rappresentò solo l’ultima cambiale esibita alla Germania per la sua fatale conduzione estera. La via giusta sarebbe stata la terza: rafforzamento della potenza continentale conquistando nuovo suolo in Europa. Ciò avrebbe permesso di procrastinare la riunificazione nazionale per mano dell’acquisizione di colonie. Certo, questa politica sarebbe stata possibile solo alleandosi con l’Inghilterra oppure accrescendo in modo abnorme i mezzi di potenza militare che, per quaranta o cinquant’anni, avrebbero completamente oscurato i doveri culturali. Io mi sarei assunto questa responsabilità. L’importanza culturale di una nazione è quasi sempre legata alla sua libertà e alla sua indipendenza politiche: è sempre il presupposto dell’esistenza o, meglio, della sua formazione. Quindi nessun sacrificio per la tutela dell’indipendenza o della libertà politica è mai troppo grave. Ciò che l’intenso sviluppo delle forze militari di uno Stato nega all’importanza culturale generale sarà poi recuperato con gli interessi. Anzi si può dire che, dopo un simile sforzo per la conservazione dell’indipendenza statuale, segue solitamente una certa distensione o compensazione mediante una fioritura spesso sorprendente delle forze culturali di un carattere nazionalpopolare, finora trascurate. Dalle miserie delle guerre persiane uscì la fioritura dell’epoca periclea9 e dalle preoccupazioni delle guerre puniche lo Stato romano iniziò a mettersi al servizio di una civiltà superiore. Tuttavia non si può affidare alla scelta di una maggioranza di parlamentari sciocchi o inetti l’assoluta subordinazione dei diversi interessi di un carattere nazionalpopolare all’unico compito di preparare un futuro impegno armato per la sicurezza dello Stato. Questo poté farlo il padre di Federico il Grande, non certo i “padri” della nostra assurdità parlamentare di stampo ebraico. Proprio per questo motivo, la preparazione militare pre-bellica per l’acquisizione di suolo europeo fu così mediocre che era impossibile rinunciare al sostegno di buoni alleati.
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Vedi capitoli 4-I e 10-I. Il riferimento a Pericle è presente anche nel capitolo 10-I.
557 Decidendo di non preparare sistematicamente la guerra e rinunciando all’acquisizione di suolo europeo, i nostri politici si dedicarono alla politica coloniale e commerciale. Ma così facendo sacrificarono l’alleanza altrimenti possibile con l’Inghilterra, senza però appoggiarsi, come sarebbe stato logico, alla Russia. Si finì col precipitare nella guerra mondiale, abbandonati da tutti fuorché dal male ereditario asburgico10. È tipico della nostra attuale politica estera l’inesistenza di un criterio di massima visibile o intelligibile. Se, prima della guerra, imboccammo erroneamente la quarta via11, seguendola solo in parte, dopo la Rivoluzione non si capisce più quale strada sia stata battuta. Ancor più di prima manca qualsiasi piano strategico, salvo il tentativo di eliminare l’ultima possibilità di rinascita del nostro popolo. Un esame imparziale degli attuali rapporti di forza in Europa ci porta alle seguenti considerazioni. Da trecento anni la storia del nostro continente fu decisa soprattutto dal tentativo inglese di assicurare, mediante l’equilibrio di forze degli Stari europei, la protezione necessaria per i suoi grandi obiettivi di politica mondiale. Il tradizionale orientamento della diplomazia britannica, che in Germania era paragonabile solo alla tradizione dell’esercito prussiano, mira, a partire da Elisabetta I12, a impedire con ogni mezzo la preponderanza di una potenza europea sulle altre, ricorrendo, se necessario, a interventi militari. I mezzi di potenza utilizzati erano diversi, a seconda della situazione o del compito da assolvere. La risolutezza e la forza di volontà nel servirsene furono sempre le stesse. Quanto più difficile si faceva la situazione dell’Inghilterra, tanto più necessaria appariva agli occhi dei governi britannici la conservazione della paralisi generale delle singole forze statali europee attraverso una competizione reciproca. L’indipendenza politica delle colonie nordamericane13 condusse poi a grandi sforzi per proteggersi le spalle in Europa. Quindi, dopo l’annientamento della potenza navale spagnola e olandese14, la forza dello Stato inglese si concentrò contro la crescita della Francia, finché, con la caduta di Napoleone I, si poté dire concluso il pericolo egemonico di quella pericolosa potenza militare. La politica britannica verso la Germania mutò molto lentamente, non solo perché, in principio, non essendo unita, la nazione tedesca non costituiva un pericolo tangibile, ma anche perché l’opinione pubblica, orientata dalla propaganda verso un determinato obiettivo statale, aspirava solo lentamente a nuovi obiettivi. Le fredde nozioni dello statista sembrano trasformarsi, grazie alla propaganda, in valori sentimentali di vasta efficacia e di lunga durata. Mentre lo statista, una volta realizzato il suo proposito, può rivolgere il suo pensiero verso nuovi obiettivi, la massa potrà Riferimento alla Duplice Alleanza stretta nell’ottobre 1879 tra Austria-Ungheria e Germania. Allusione alla politica commerciale. 12 Regina d’Inghilterra dal 1558 al 1603. 13 Le colonie britanniche in Nord America dichiararono l’indipendenza il 4 luglio 1776. 14 Riferimento alla sconfitta dell’armata spagnola nell’agosto 1588. Nel corso del XVII secolo la Gran Bretagna divenne la maggiore potenza marinara e commerciale del mondo a danno della Spagna e dei Paesi Bassi. 10 11
558 essere trasformata solo con un graduale lavoro propagandistico in uno strumento dei nuovi propositi della sua dirigenza15. Già durante la guerra franco-tedesca del 1870-71 l’Inghilterra aveva definito la sua nuova posizione. Le oscillazioni dettate dallo sviluppo economico planetario americano o dall’aumento della potenza russa non furono utilizzate dalla Germania, e quindi si consolidò la tendenza originaria della politica britannica16. L’Inghilterra vedeva nella Germania una potenza, il cui significato commerciale e planetario, anche a causa della sua imponente industrializzazione, si era accresciuto in modo così minaccioso da giungere a eguagliare le sue forze in alcuni campi. La conquista “economicamente pacifica” del mondo17, che ai nostri statisti appariva la missione finale, divenne per i politici inglesi la giustificazione morale della loro resistenza. Che la “resistenza” apparisse in forma di aggressione organizzata su vasta scala, rispondeva a una politica che non si poneva l’obiettivo di conservare una pace universale dubbia, ma di consolidare il dominio universale britannico. Che l’Inghilterra si servisse contemporaneamente di tutti i suoi alleati militarmente più o meno adatti, rispondeva più alla sua tradizionale cautela nel valutare le forze dell’avversario che alla consapevolezza della sua momentanea debolezza. Non possiamo parlare di “spregiudicatezza”, perché l’organizzazione di un conflitto così vasto non si giudica in base a punti di vista eroici, ma in base alla convenienza. Una diplomazia deve preoccuparsi che un popolo non perisca eroicamente, ma che si mantenga in vita. Qualsiasi mezzo è conveniente e non utilizzarlo è criminale. Con il sovvertimento rivoluzionario interno la preoccupazione britannica di un’egemonia mondiale tedesca trovò una soddisfacente conclusione. Da allora l’Inghilterra non ebbe più interesse alla totale cancellazione della Germania dalla carta geografica europea. Al contrario il tracollo spaventoso del novembre 1918 pose la diplomazia britannica di fronte a una situazione nuova, ritenuta prima impossibile. Per quattro anni e mezzo l’Impero mondiale britannico si era battuto per spezzare il disegno egemonico di una potenza continentale. L’improvviso tracollo sembrò ricacciare indietro la potenza tedesca, che rivelò una tale mancanza d’istinto d’autoconservazione anche elementare che l’equilibrio europeo sembrò sconquassato nel giro di quarantotto ore. Annientata la Germania, la Francia diventa la prima potenza continentale. L’enorme propaganda bellica che convinse il popolo britannico a resistere, scatenò gli istinti primordiali e le passioni, ma dovette poi gravare come un peso di piombo sulle decisioni degli statisti britannici. Con l’annientamento coloniale, economico e commerciale tedesco era stato raggiunto l’obiettivo bellico britannico. Il resto danneggiava gli interessi inglesi. Solo i nemici degli inglesi poterono trarre profitto dalla soppressione di uno Stato di potenza tedesco nell’Europa continentale. Sull’idea hitleriana di massa vedi capitoli 2-I, 6-I e 4-II. L’antagonismo anglo-tedesco durante la Prima guerra mondiale era inevitabile. La Germania non tentò di migliorare le relazioni prima della guerra e la violazione della neutralità belga portò all’ingresso britannico in guerra. Bibliografia: J. Rügen, The great naval game. Britain and Germany in the age of empire, Cambridge, Cambridge University Press, 2007. 17 Sul topos del pacifismo tedesco vedi capitoli 4-I e 10-I.
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559 Tuttavia, dal novembre 1918 sino alla piena estate del 1919, non mutò la prospettiva della diplomazia inglese che, nella lunga guerra, aveva spremuto le forze emotive delle grandi masse popolari. Un cambiamento del popolo inglese non era più possibile; né lo era quello dei rapporti di forze militari. La Francia aveva abolito la legge della contrattazione e poteva imporre la propria volontà sugli altri paesi18. L’unica potenza che, in quei mesi di lunghe trattative e mercanteggiamenti, sarebbe riuscita a infliggere una svolta (la Germania stessa), era lacerata della guerra civile e annunciava per voce dei suoi “statisti” la più totale disponibilità ad accettare qualsiasi imposizione19. Se, nella vita dei popoli, una nazione priva del proprio istinto d’autoconservazione cessa di essere un possibile alleato “attivo”, cade solitamente in schiavitù e il suo territorio diventa una colonia. Proprio per impedire l’eccessiva potenza francese, l’Inghilterra dovette partecipare alle sue mire predatorie. Infatti l’Inghilterra non aveva raggiunto il suo obiettivo bellico. L’emersione di una potenza europea dotata di una forza superiore non fu evitata, ma fu addirittura giustificata e a maggiore ragione20. Nel 1914 la Germania come Stato militare era incastrata tra due paesi, uno dotato di egual potenza e l’altro di una maggiore21. C’era, inoltre, il dominio dei mari britannico. Francia e Russia si opponevano all’eccessiva crescita delle dimensioni tedesche. La situazione geo-militare straordinariamente sfavorevole tedesca era un’ulteriore garanzia contro un eccessivo aumento della sua potenza. In particolare la superficie costiera ristretta e limitata era ritenuta militarmente poco idonea a uno scontro con l’Inghilterra, a dispetto di un fronte interno troppo vasto e aperto. Diversa è la situazione attuale della Francia: è la prima potenza militare, senza rivali seri sul continente, protetta nei suoi confini meridionali con Spagna e Italia, garantita verso la Germania dall’impotenza della nostra patria, mentre le sue coste fronteggiano per lunghi tratti i punti nevralgici dell’Impero britannico. Non solo gli aeroplani e le batterie francesi a lunga gittata possono colpire i centri vitali inglesi, ma anche i sottomarini minacciano le vie commerciali britanniche. Una guerra sottomarina, basata sulle lunghe coste atlantiche, nonché sulle vaste coste sabbiose francesi del Mar Mediterraneo in Europa e in Nord Africa, avrebbe effetti devastanti per l’Inghilterra. Il frutto politico dello scontro contro lo sviluppo della potenza tedesca fu la creazione dell’egemonia francese sul continente. Il risultato militare fu il consolidamento della Francia quale 18
La Francia sopportò il maggiore peso bellico in termini di perdite umane e materiali, ma non si può parlare di vero e proprio diktat francese alle trattative di pace. Bibliografia: P. Krüger, Deutschland und die Reparationen, 1918/19. Die Genesis des Reparationsproblems in Deutschland zwischen Waffenstillstand und Versailler Friedenschluss, Stoccarda, Deutsche Verlags-Anstalt, 1973. 19 I margini di manovra tedeschi dopo l’armistizio era molto ridotti. La firma del trattato di pace fu inevitabile. Bibliografia: E. Kolb, Die Frieden von Versailles, Monaco, C.H. Beck, 2005. 20 Gli obiettivi militari britannici non furono prefissati, ma mutarono nel corso della guerra. Il progetto egemonico francese era improbabile sia per le ingenti perdite, sia per la politica di equilibrio britannica, sia per la dipendenza europea dalle economie europee. Bibliografia: D. French, British strategy and war aims, 1914-1916, Londra, Routledge, 2014. 21 Allo scoppio della guerra, la Russia mobilitò circa quattromilioni e mezzo di uomini, Francia e Germania poco meno di quattro, che crebbero poi a sedici per la seconda e a otto per la prima nel 1918.
560 prima potenza continentale e l’equiparazione della potenza navale americana. Dal punto di vista economico questo portò alla consegna di ampi settori di interesse britannico agli alleati del momento22. I tradizionali obiettivi politici inglesi desiderano e necessitano di una certa balcanizzazione dell’Europa, quelli francesi, invece, di una balcanizzazione della Germania. Il desiderio inglese è e resta quello di impedire che una potenza continentale europea acquisti un’importanza politica planetaria, quindi vuole conservare un determinato equilibrio di potenza tra gli Stati europei. L’equilibrio appare il presupposto di un’egemonia planetaria britannica. Il desiderio francese è quello di impedire la formazione di una compatta potenza tedesca, di favorire la creazione di un sistema di staterelli tedeschi di eguale potenza, privi di una guida unitaria, e di occupare la riva sinistra del Reno, presupposto per la creazione e per la garanzia della sua posizione egemonica europea23. L’obiettivo finale della diplomazia francese sarà sempre contrario alle mire britanniche. Chi, partendo dalle nostre considerazioni, analizza le possibili alleanze a disposizione della Germania, si persuade che non resta altro che appoggiarsi all’Inghilterra. Pur essendo così terribili le conseguenze della politica bellica inglese bisogna ammettere che l’interesse inglese di oggi non è quello annientare di Germania, al contrario: l’interesse è quello, anno dopo anno, di ostacolare l’eccessiva smania egemonica francese. Ma la politica di alleanza non si costruisce in base ai malumori passati, ma sulla consapevolezza del passato. L’esperienza dovrebbe insegnarci che le alleanze contratte per scopi negativi risentono di intrinseche debolezze. I destini dei popoli sono forgiati solidamente solo dalla prospettiva di un successo comune, di acquisizioni e di conquiste comuni, in sintesi di un reciproco accrescimento della propria potenza. La scarsa lucidità del nostro popolo in politica estera è testimoniata dalle attuali notizie della stampa sulla più o meno grande “simpatia per i tedeschi” da parte di uno o dell’altro statista straniero. Questa manifestazione sarebbe la garanzia di una politica favorevole al nostro carattere nazionalpopolare. Si tratta di un’assurdità, di una speculazione sull’inaudita ingenuità dei filistei tedeschi che fanno politica24. Non esiste politico inglese, americano o italiano che sia mai stato “germanofilo”. Ogni statista inglese è anzitutto – e giustamente – inglese, ogni americano è americano e nessun italiano sarà disposto a fare una politica che non sia filo-italiana. Chi crede di poter costruire alleanze con nazioni straniere sperando in una convinzione filo-tedesca degli statisti alla loro guida è un somaro oppure è un ipocrita. Il presupposto per intrecciare i destini dei popoli non è mai la stima o la simpatia reciproche, ma la previsione di un reciproco interesse. In altre parole, se è vero che uno statista inglese condurrà una politica filo-inglese e mai filo-tedesca, lo è altrettanto che determinati interessi della politica filo-inglese potrebbero coincidere per i motivi più disparati con gli interessi filotedeschi. Questo vale, naturalmente, fino a un certo punto e, prima o poi, potrebbe tramutarsi nel contrario. La capacità politica di uno statista si rivela nell’abilità di trovare 22
Il rapporto fra il tonnellaggio della flottiglia britannica e americana fu regolato alla Conferenza navale di Washington del 1921-22. Bibliografia: E. Goldstein, J. Maurer (ed.), The Washington conference, 1921-1922. Naval rivalry, East Asian stability and the road to Pearl Harbor, Londra, Routledge, 1994. 23 Qui Hitler cerca anche di sconfessare il positivo avvicinamento franco-tedesco per mano di Stresemann e Briand dell’estate 1925 e che porterà al patto di Locarno. 24 Sul risentimento hitleriano verso la borghesia vedi capitolo 9-II.
561 sempre, per la realizzazione delle proprie necessità in determinati momenti, quegli alleati che, per difendere i loro interessi, devono imboccare la stessa strada. L’utilizzo pratico di questi principî dipende dalla risposta ai seguenti interrogativi: quali Stati hanno un interesse vitale che, eliminando completamente la Mitteleuropa tedesca, la potenza economica e militare francese assurga al rango di potenza egemonica e dominante? Quali Stati, sulla base dell’istinto d’autoconservazione e della loro tradizionale evoluzione politica, ravvisano nell’egemonia francese una minaccia per il loro futuro? Su questo punto bisogna essere molto chiari: l’implacabile nemico mortale del popolo tedesco è e resta la Francia25. Indipendentemente da chi la governi o la governerà (i Borbone o i giacobini, la dinastia napoleonica o i democratici borghesi, i repubblicani clericali o i bolscevichi rossi), l’obiettivo finale della politica estera francese sarà sempre quello di controllare e di garantirsi i confini renani smembrando la Germania. L’Inghilterra non desidera che la Germania diventi una potenza mondiale, ma la Francia non vuole che esista una potenza di nome Germania: una differenza fondamentale! Oggi non lottiamo per una posizione di forza mondiale, ma per la sopravvivenza della nostra patria, per l’unità della nostra nazione e per il pane quotidiano dei nostri figli. Se, partendo da quest’ottica, ci mettiamo a cercare alleati in Europa, non ci restano praticamente che due sole possibilità: l’Inghilterra e l’Italia. L’Inghilterra non desidera che il pugno militare francese, incontrollato dal resto dell’Europa, sostenga una politica che, prima o poi, entrerà in contrasto con i suoi interessi. L’Inghilterra non può mai desiderare una Francia che, in possesso degli enormi bacini carboniferi e metalliferi occidentali26, possa diventare un pericoloso rivale economico globale. Inoltre l’Inghilterra non può desiderare che la posizione continentale francese appaia così garantita dallo sfascio del resto dell’Europa da rendere non solo possibile, ma anche inevitabile la ripresa di una politica francese su scala planetaria. Le bombe sganciate dagli Zeppelin potrebbero moltiplicarsi ogni notte per mille. La superiorità militare francese grava pesantemente sul cuore dell’Impero mondiale britannico. Ma anche l’Italia non può e non desidererà un ulteriore rafforzamento dell’egemonia francese in Europa. Il futuro italiano è condizionato dagli eventi che si svolgono nel bacino mediterraneo27. Ciò che spinse l’Italia a entrare in guerra non fu certo il tentativo di ingrandire la Francia, ma quello di infliggere un colpo mortale all’odiato rivale adriatico28. Ogni ulteriore rafforzamento continentale francese significherebbe una paralisi per l’Italia. Inoltre non bisogna mai dimenticarsi che i rapporti di parentela tra i popoli non riescono a sopirne le rivalità. L’idea del “nemico ereditario” francese era ampiamente diffuso in Germania dall’inizio del XIX secolo, dalle guerre napoleoniche sino al conflitto del 1870-71. I riferimenti hitleriani vanno contestualizzati all’interno dell’avvicinamento franco-tedesco del 1925-26. 26 Sul significato economico dell’occupazione franco-belga della Ruhr vedi capitolo 15-II. 27 Gli sforzi espansionistici italiani riguardarono le colonie nordafricane, le zone adriatiche, ioniche e il Corno d’Africa. Bibliografia: R. Pupo (ed.), La vittoria senza pace. Le occupazioni militari italiane alla fine della Grande Guerra, Roma, Laterza, 2014. 28 Allusione all’Austria-Ungheria, che tra il Congresso di Vienna e la Prima Guerra mondiale controllava la costa adriatica da Trieste sino al Montenegro.
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562 A una considerazione più fredda e spassionata, gli interessi naturali di Inghilterra e Italia non appaiono opposti ai presupposti esistenziali della nazione tedesca. Anzi, in una certa misura, s’identificano con essi. Tuttavia, valutando una loro possibilità di alleanza, non bisogna ignorare tre fattori. Il primo ci riguarda, gli altri due riguardano gli Stati in questione. In generale è possibile allearsi con la Germania di oggi? Una potenza che cerchi in un’alleanza il sostegno per realizzare i propri scopi offensivi, può allearsi con uno Stato, la cui classe dirigente offre da anni uno spettacolo di pietosa inettitudine, di viltà pacifista29, e dove una parte, accecata dalla democrazia e dal marxismo, tradisce in modo scandaloso gli interessi del suo popolo e del suo paese? Può oggi una potenza qualsiasi sperare di stringere accordi convenienti con uno Stato in vista di interessi comuni, se quello Stato non possiede né il coraggio, né la voglia di muovere anche un solo dito a difesa della propria misera esistenza? Una potenza, per cui un’alleanza è e deve essere qualcosa di più che un semplice trattato di garanzia per il mantenimento di uno Stato in lenta putrefazione, come la vecchia e disastrosa Triplice Alleanza, può associarsi per sempre a uno Stato, le cui manifestazioni vitali consistono in una strisciante ossequiosità estera e nella vergognosa repressioni interna delle virtù nazionali? Può associarsi a uno Stato che si comporta in modo indegno? Può associarsi a governi che non nutrono la stima dei membri della comunità nazionalpopolare? Può associarsi a governi che non nutrono più alcun di rispetto dall’estero? No, una potenza che tenga alla propria reputazione e che dalle alleanze si aspetti ben altro che proventi per parlamentari affamati non può allearsi e non si alleerà mai con la Germania di oggi. La nostra attuale incapacità di trovare alleati è anche il motivo principale e più profondo della solidarietà fra i predoni nemici. Poiché la Germania non si difende più, se non con un paio di “proteste” strombazzate dei nostri parlamentari, il resto del mondo non vede alcun motivo per prendere le nostre parti30. Il buon Dio non libera i popoli vili, nonostante i piagnistei delle nostre associazioni patriottiche. Quindi gli Stati che non hanno alcun interesse diretto al nostro totale annientamento, possono limitarsi a partecipare alle rapine francesi, per impedire così che la Francia sia l’unico paese a rafforzarsene. In secondo luogo non si può ignorare la difficoltà nel trasformare in paesi finora nemici gli ampi strati popolari orientati dalla propaganda in una certa direzione. Non si può dipingere per anni un carattere nazionalpopolare “unnico”, “brigantesco”, “vandalico” ecc.31, per poi scoprire improvvisamente il contrario e raccomandare l’ex nemico quale alleato di domani. Ma la maggiore attenzione va rivolta al terzo fatto che sarà di essenziale importanza per l’organizzazione delle alleanze future.
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Sul risentimento hitleriano verso il pacifismo vedi capitolo 4-I. Probabile allusione alla Deutschnationale Volkspartei (Partito popolare nazionaltedesco), i cui ministri (Martin Schiele, Otto von Schlieben e Albert Neuhaus) si dimisero dal primo gabinetto Luther nell’ottobre 1925 dopo la firma trattato di Locarno. 31 Su questa forma di propaganda di guerra vedi capitolo 6-I. 30
563 Se, dal punto di vista inglese, c’è scarso interesse a indebolire ulteriormente la Germania, non così è per l’ebraismo internazionalista. La scissione tra la “politica” britannica officiale o, per meglio dire, tradizionale e le forze borsistiche ebraiche si evidenzia al meglio nelle diverse prese di posizione assunte di fronte ai problemi della politica estera inglese. L’ebraismo della finanza32, opponendosi agli interessi statali britannici, desidera non solo l’annientamento economico totale della Germania, ma anche il suo totale asservimento politico33. L’internazionalizzazione dell’economia tedesca, cioè l’assunzione di forza di lavoro tedesca al servizio della finanza mondiale ebraica, si può realizzare solo in uno Stato bolscevizzato. Ma la truppa di combattimento marxista del capitale borsistico ebraico internazionalista può spezzare definitivamente la spina dorsale allo Stato nazionale tedesco solo con l’ausilio straniero. Gli eserciti francesi devono aggredire la Germania, finché lo Stato, ormai marcio, non cederà alle truppe di combattimento bolsceviche dell’ebraismo finanziario cosmopolita internazionalista. Oggi l’ebreo è quindi il grande istigatore alla completa distruzione della Germania. Dovunque si leggano attacchi contro la Germania, ne sono autori gli ebrei. In pace o in guerra la stampa borsistica e marxista ebraica fomentò l’odio sistematico contro la Germania34, finché uno Stato dopo l’altro rinunciò alla neutralità e, contro gli interessi veri dei popoli, entrò al servizio della coalizione bellica. I ragionamenti dell’ebraismo sono chiari. La bolscevizzazione della Germania, cioè l’annientamento dell’intellighenzia nazionalpopolare tedesca e lo sfruttamento della forza lavoro tedesca da parte della finanza mondiale ebraica, è ritenuta il semplice preludio alla diffusione della conquista ebraica planetaria35. Come spesso avviene nella storia, la Germania è il centro nevralgico delle lotte di potere. Se il nostro popolo e il nostro Stato saranno vittime di quei tiranni dei popoli avidi di sangue e di denaro, la terra intera cadrà fra i tentacoli di quei polipi36. Se la Germania si libera da quei tentacoli, un grandissimo pericolo dei popoli sarà distrutto nel mondo intero. È certo che l’ebraismo ricorrerà a tutto il suo furore sovversivo non solo per mantenere l’inimicizia delle nazioni contro la Germania, ma anche, se possibile, per intensificarla. Tuttavia la sua attività coincide solo in parte con gli autentici interessi dei corpi popolari avvelenati. In generale l’ebraismo combatterà sempre, nei singoli corpi popolari, con quelle armi che, in base alla mentalità di quelle nazioni, appaiono le più efficaci e garantiscono il maggior risultato. Nel nostro corpo popolare così lacerato37 l’ebraismo si serve, nella sua Il concetto dispregiativo di “ebreo della finanza” era ricorrente nella seconda metà del XIX secolo. Il libello antisemita di Édouard Drumont La France juive (La Francia ebraica, 1886) contribuì a rafforzare lo slittamento semantico dalla corte alla borsa e alla finanza. Bibliografia: G. Kauffmann, Édouard Drumont, Parigi, Perrin, 2008. 33 L’auspicio hitleriano contraddiceva le convinzioni di molti autori nazionalpopolari, che ritenevano la Gran Bretagna ormai “ebraizzata”. Dopo che Hitler rinunciò a una possibile alleanza con la Gran Bretagna, la propaganda nazista rafforzò il cliché dell’isola ebraizzata [KA, n. 91]. 34 Sullo stereotipo della stampa “ebraizzata” vedi capitolo 10-I. 35 Sul mito della congiura mondiale ebraica vedi capitolo 2-I. 36 L’equiparazione fra ebraismo e polipo ha una lunga tradizione nella letteratura nazionalpopolare. Fu soprattutto Theodor Fritsch il principale sostenitore di tale metafora, sia nell’Handbuch der Judenfrage (Manuale della questione ebraica, 1907), sia nell’opuscolo Der jüdische Zeitungs-Polyp (Il polipo ebraico del quotidiano, 1921) [KA, n. 96]. 37 Sul concetto di “corpo popolare” vedi capitoli 2-I e 2-II.
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564 lotta per il potere, delle ideologie “cosmopolite” più o meno pacifiste, in breve delle tendenze internazionaliste. In Francia si avvale del noto e apprezzato sciovinismo; in Inghilterra dei punti di vista economici e politici planetari. In breve l’ebraismo si serve sempre delle caratteristiche essenziali della mentalità di un corpo popolare. Solo dopo aver conseguito un determinato influsso invasivo sul potere economico e politico si sfila le catene imposte da quelle armi per rivelare le autentiche intenzioni della sua volontà e della sua lotta. Così inizia a distruggere rapidamente uno Stato dopo l’altro, finché non resterà che un mucchio di macerie su cui fondare la sovranità dell’eterno impero ebraico. In Inghilterra, come in Italia, il conflitto tra le migliori vedute degli statisti nazionali e la volontà dell’ebraismo borsistico internazionalista è evidente, a volte, in modo impressionante.
Figura 2 Truppe d’occupazione coloniali francesi in Renania (1920) [fonte: textarbeit.net]
Solo in Francia esiste già oggi una profonda concordanza di vedute tra le intenzioni della borsa ebraizzata e i desideri di una politica nazionale sciovinistica. Quell’identità rappresenta un immenso pericolo per la Germania. La Francia è e resta il nostro nemico di gran lunga più pericoloso: quel popolo, vittima dell’incipiente negrizzazione, simboleggia, nel suo legame con gli obiettivi del dominio ebraico mondiale, un pericolo costante per la razza bianca europea. Perché l’avvelenamento compiuto dal sangue negro sulle rive del Reno38, nel cuore dell’Europa, corrisponde tanto alla brama di vendetta sadica e perversa di questo nemico ereditario sciovinista, quanto alla fredda volontà dell’ebreo di avviare così l’imbastardimento del continente europeo nel suo punto nevralgico e di sottrarre alla razza bianca le solide basi esistenziali infettandola con uomini inferiori. Quello che la Francia, stimolata dalla sua brama di vendetta, diretta sistematicamente dagli ebrei, compie oggi in Europa è un sacrilegio contro l’esistenza dell’umanità bianca. Un giorno Allusione all’occupazione francese della Renania dal gennaio 1920 con l’uso di soldati coloniali. (circa il 30% degli 85.000 soldati francesi) [KA, n. 103].
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565 istigherà contro i suoi cittadini gli spiriti vendicatori, consapevoli che l’onta razziale39 rappresenta il peccato originale dell’umanità. Ma per la Germania il pericolo francese impone l’obbligo di posporre ogni sentimento momentaneo e di porgere la mano a chi, minacciato come noi, non sopporterà o tollererà la brama di dominio francese. In Europa ci saranno per lungo tempo solo due alleati possibili: l’Inghilterra e l’Italia. Chi oggi si prende la briga di ricostruire la politica estera tedesca dopo la Rivoluzione del 1918 non potrà fare a meno di scrollare la testa di fronte ai continui fallimenti dei nostri governi, perdendosi d’animo oppure annunciando, con accorata indignazione, una battaglia interiore contro quel regime. I loro modi di agire non hanno più nulla a che fare con l’incompetenza. Ciò che sarebbe apparso impensabile a ogni uomo dotato di cervello, i centauri spirituali dei nostri partiti novembrini sono riusciti a farlo: mendicare la benevolenza francese. In tutti questi anni i nostri politici hanno cercato, con la commovente ingenuità degli incorreggibili sognatori, di arruffianarsi la Francia, ronzando intorno alla “grande nazione” o credendo di poter scorgere il primo indizio di un visibile cambiamento di opinione in ogni scaltro trucco attuato dal carnefice. In altre parole i veri registi occulti della nostra politica non hanno mai abbandonato questa folle convinzione. Per loro la ruffianeria nei confronti della Francia era solo il mezzo naturale per sabotare ogni concreta politica di alleanza. Non capirono mai gli obiettivi della Francia e dei suoi mandanti. Ciò che li obbligava a pensare sinceramente in un possibile cambiamento del destino tedesco era la concreta convinzione che, in altri casi, il nostro popolo avrebbe potuto imboccare un’altra via. Naturalmente, anche nelle file del nostro movimento è difficile credere che l’Inghilterra sia un possibile alleato futuro40. La stampa ebraica41 seppe concentrare sempre il suo odio sull’Inghilterra. Qualche somaro tedesco, ingannato dall’ebreo, blaterava del “rinvigorimento” della nostra potenza marittima, protestava contro la rapina delle nostre colonie, consigliava la loro restituzione42 e, così facendo, forniva alla canaglia ebraica il materiale che i suoi correligionari inglesi potevano usare a fini propagandistici. Nelle teste dei nostri pennelloni politicanti borghesi doveva spuntare l’idea che noi dovessimo combattere per il “prestigio marittimo” ecc. Già prima della guerra era assurdo focalizzare la potenza nazionale tedesca su quegli obiettivi, senza aver prima scrupolosamente garantito la nostra posizione politica continentale. Oggi questa speranza rientra tra quelle stupidaggini che ben si descrivono col termine di crimine politico. Talvolta c’era di che essere disperati nell’osservare come i mandanti ebrei riuscissero a distrarre il nostro popolo con problemi secondari, istigandolo a compiere Sul concetto di “onta razziale” vedi capitolo 10-I. L’ala sinistra del Partito nazionalsocialista non gradiva i disegni hitleriani di alleanza con la Gran Bretagna. Spingeva per un’intesa con l’Unione sovietica, considerata l’unica forza antagonista al sistema politico occidentale. 41 Sul topos antisemita della stampa ebraizzata vedi capitolo 10-I. 42 La perdita delle colonie prevista dal trattato di Versailles (articoli 118-127) fu vissuta da molti tedeschi come un’umiliazione. La Società coloniale tedesca organizzò numerose manifestazioni a favore del riottenimento dei territori coloniali. Lo scrittore Hans Grimm, autore del bestseller Volk ohne Raum (Popolo senza spazio, 1926) si espresse anche a favore di una loro restituzione [KA, n. 115]. 39 40
566 manifestazioni e proteste, mentre contemporaneamente la Francia lacerava pezzo dopo pezzo la carne del nostro corpo popolare e ci privava metodicamente delle basi della nostra indipendenza nazionale. Ricordiamoci, in particolare, di un cavallo di Troia che, in questi anni, l’ebreo ha utilizzato con straordinaria destrezza: il Sud Tirolo43.
Figura 3 Copertina dell’opuscolo La questione sudtirolese di Adolf Hitler (1926) [fonte: the-saleroom.com]
Ebbene sì, il Sud Tirolo. Quale filisteo tedesco non mostra sdegno sul suo volto stupido! Se ora mi occupo di questa faccenda, lo faccio soprattutto per descrivere quella gentaglia bugiarda che, giocando sulla smemoratezza e sulla stupidità dei nostri strati popolari, finge un’indignazione nazionale che è più lontana da quei mentitori parlamentari di quanto non lo sia una gazza dall’idea di onesta proprietà. Vorrei subito sottolineare che io ero fra quelli che, discutendo sul destino del Sud Tirolo durante la guerra, difendevo l’utilità pratica di quel territorio. In quegli anni ho fatto il mio dovere, non perché si perdesse il Sud Tirolo, ma perché restasse alla patria come ogni altro territorio tedesco. Chi allora non lo fece erano i vagabondi parlamentari, i servi di partito. Mentre noi lottavamo nella convinzione che solo un esito vittorioso della guerra avrebbe conservato il Sud Tirolo nel carattere nazionalpopolare tedesco, le fauci di questi Efialte44 hanno aizzato e sobillato così tanto il popolo contro la vittoria che, alla fine, 43
Tra le perdite territoriali austriache previste dalla trattato di pace di Saint-Germain (settembre 1919) vi fu anche la cessione del Sud Tirolo all’Italia. 44 Sulla figura di Efialte di Tracia, prototipo del traditore, vedi capitolo 3-I.
567 il Sigfrido combattente45 è morto colpito da una subdola pugnalata alla schiena46. Il Sud Tirolo non sarebbe rimasto in possesso tedesco grazie agli ipocriti discorsi incendiari degli spavaldi parlamentari nella Rathausplatz viennese o nella Feldherrnhalle monacense, ma ai battaglioni sul fronte. Chi li distrusse, aveva tradito il Sud Tirolo, esattamente come ogni altro territorio tedesco. Ma chi oggi crede di poter risolvere la questione sudtirolese47 con le proteste, con le dichiarazioni, coi cortei del circolo ecc., o è un farabutto particolare oppure è un filisteo tedesco. Sulla faccenda bisogna essere chiari: i territori perduti non si riguadagnano con gli appelli solenni all’amato Signore o con le vane speranze di una Società delle nazioni, ma solo con la forza armata. Chi è pronto a riguadagnare le zone perdute con la forza armata? Nel mio caso, io vi assicuro in buona coscienza che avrei il coraggio di partecipare alla vittoriosa occupazione del Sud Tirolo alla testa di un battaglione d’assalto parlamentare, costituito da politici chiacchieroni, da capi di partito e da funzionari statali. Sa solo il diavolo se c’era di che essere allegri per aver dovuto disperdere con un paio shrapnel quella manifestazione di protesta incendiaria. Se una volpe irrompesse in un pollaio, lo schiamazzo non sarebbe maggiore o la messa in sicurezza di un singolo volatile non avverrebbe più velocemente rispetto alla fuga di quella magnifica “associazione di protesta”. Ma la cosa più squallida è che quei signori sanno di non potere ottenere il Sud Tirolo in quel modo. Sono ben consapevoli dell’impossibilità e dell’ingenuità delle loro smancerie. Ma lo fanno perché oggi è più facile chiacchierare sulla riconquista del Sud Tirolo piuttosto di quanto non lo fosse allora lottare per il suo mantenimento. Ciascuno fa il suo; all’epoca sacrificavamo il nostro sangue, oggi quella gente affila il suo becco. Inoltre è particolarmente divertente osservare come i circoli legittimisti viennesi alzino ufficialmente la cresta per il progetto di riconquista del Sud Tirolo. Sette anni fa, il loro nobile e solenne casato aveva contribuito, con un vergognoso spergiuro, a far sì che la coalizione vittoriosa riuscisse a ottenere anche il Sud Tirolo48. All’epoca quei circoli sostenevano l’operato della loro dinastia traditrice e non s’interessavano affatto di quella regione. Oggi è più facile combattere in suo favore, specialmente se la lotta è sostenuta con armi “intellettuali”. Oltretutto è più facile sbraitare in una “assemblea di protesta” – spinti da un solenne sdegno – o riempirsi le dita di vesciche per un articolo di giornale piuttosto che, per esempio durante l’occupazione della Ruhr, far saltare i ponti, spiare i governi o qualcosa del genere. Il motivo per cui, negli ultimi anni, il problema del “Sud Tirolo” è diventato il centro nevralgico dei rapporti italo-tedeschi è piuttosto ovvio. Gli ebrei e i legittimisti asburgici hanno grande interesse a impedire una politica di alleanze tedesca che, un giorno, possa 45
Allusione alla saga dei Nibelunghi, in cui Hagen di Tronje uccise Sigfrido con un giavellotto. Sulla Dolchstosslegende (leggenda della pugnalata alla schiena) vedi capitolo 10-I. 47 Dal 1919 l’Italia perseguì la de-tedeschizzazione del Sud Tirolo, riducendo l’autonomia comunitaria, l’utilizzo della lingua tedesca, la libertà di stampa e di insegnamento. Bibliografia: A. Di Michele, L’italianizzazione imperfetta. L’amministrazione pubblica dell’Alto Adige tra Italia liberale e fascismo, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2003. 48 Il 3 novembre 1918 l’Austria-Ungheria firmò l’armistizio separato con l’Intesa.
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568 condurre alla risurrezione di una patria libera. Fanno un sacco di storie non certo per amore del Sud Tirolo (perché non aiutano, anzi danneggiano la causa). Temono una possibile intesa italo-tedesca. Quindi è assolutamente in linea con l’ipocrisia generale e con la loro tendenza diffamatoria se questi circoli tentano sfacciatamente di rappresentarci come “traditori” del Sud Tirolo. A questi signori bisogna dire con chiarezza che il Sud Tirolo l’ha tradito per prima cosa ogni tedesco che, durante la guerra, stette con le mani in mano e non si mise a disposizione della propria patria. In secondo luogo l’ha tradito colui che, in quegli anni, non ha contribuito a rafforzare la resilienza del nostro corpo popolare nel condurre la guerra e a rinvigorire la costanza del nostro popolo nel reggere l’urto della lotta. In terzo luogo il Sud Tirolo l’ha tradito chi collaborò allo scoppio della Rivoluzione novembrina direttamente con l’azione o indirettamente con la vile tolleranza; e, in tal modo, ha smantellato le armi che avrebbero potuto salvare il Sud Tirolo. In quarto e ultimo luogo il Sud Tirolo l’hanno tradito tutti i partiti e i suoi membri che firmarono i vergognosi trattati di Versailles e di Saint-Germain. Così stanno le cose, miei verbosi contestatori! Oggi sono giunto alla conclusione oggettiva che i territori perduti non si riacquistano con l’eloquenza degli affilati becchi parlamentari, ma con una spada affilata, quindi con una lotta sanguinosa. Tuttavia è ingiusto sostenere che, poiché il dado è tratto, io ritenga impossibile la riconquista del Sud Tirolo per via bellica. Altrettanto ingiusto è ritenere che io non la sosterrei personalmente perché, su questo problema, bisognerebbe prima attivare il caloroso entusiasmo nazionale di tutto il popolo tedesco. Credo piuttosto che, se un giorno il sangue fosse versato, sarebbe criminoso utilizzare duecentomila soldati mentre, nei pressi della Germania, oltre settemilioni di tedeschi languono sotto il dominio straniero e l’arteria principale del popolo tedesco è il covo delle orde negre africane. Se la nazione tedesca vuole porre fine al suo incombente annientamento europeo, non deve cadere nell’errore prebellico di inimicarsi Dio e il mondo. Deve riconoscere il suo nemico più pericoloso, per colpirlo con tutte le sue forze. E se la vittoria sarà ottenuta col sacrificio di altri territori, i posteri non ci condanneranno. Sapranno apprezzare la difficile situazione, la grave preoccupazione e l’amara decisione presa in quel frangente, se il successo conseguito sarà più radioso. Oggi deve guidarci la consapevolezza generale che la riconquista dei territori perduti è, in primo luogo, il problema della riconquista dell’indipendenza politica e della potenza della madrepatria. Il compito più importante della classe dirigente politica è quello di realizzarla e di garantirla con una geniale politica di alleanze. Noi nazionalsocialisti dobbiamo evitare di accodarci ai nostri verbosi patrioti borghesi manovrati dagli ebrei. Guai se anche il nostro movimento, invece di prepararci all’assalto, si eserciterà a protestare! La Germania si è rovinata con l’idea fantasiosa di un’alleanza nibelungica con il cadavere asburgico. Il sentimentalismo fantasioso applicato alla politica estera è il miglior mezzo per impedire per sempre la nostra risalita. È necessario che qui mi occupi brevemente delle obiezioni relative alle tre domande poste in precedenza: 1) Conviene allearsi con la Germania di oggi, viste le sue debolezze? 2) Le nazioni ostili sono capaci di cambiare la loro mentalità?
569 3) L’influenza ebraica è più forte di ogni ammissione e di ogni buona volontà? Può, cioè, intralciare e distruggere tutti i nostri piani? La prima domanda credo di averla discussa almeno per una metà. Ovviamente nessuno si alleerebbe con la Germania di oggi. Nessuna potenza planetaria oserebbe legare la propria sorte a uno Stato retto da governi del tutto delegittimati. Mi oppongo decisamente al tentativo da parte di molti nostri connazionali di giustificare la condotta del governo con la penosa mentalità del nostro popolo. Certo, la pusillanimità del nostro popolo negli ultimi sei anni è assai penosa. L’indifferenza di fronte agli interessi del carattere nazionalpopolare è avvilente; la vigliaccheria è, a volte, scandalosa. Ma non bisogna mai dimenticarsi che si tratta di un popolo che, alcuni anni prima, aveva dato al mondo un mirabile esempio delle più alte virtù umane. A partire dall’agosto 1914 sino al termine del conflitto bellico, nessun altro popolo ha dato maggiore prova di coraggio virile, di tenace costanza e di paziente sopportazione se non il popolo tedesco, oggi così miserabile. Nessuno oserà sostenere che il languore odierno sia peculiare del nostro carattere nazionalpopolare. Quel languore è il frutto dell’influenza distruttiva e assurda dello spergiuro del 9 novembre 191849. Qui vale più che mai il detto che il male genera altro male 50. Ma i buoni elementi fondamentali del nostro popolo ci sono ancora: sonnecchiano in profondità e, a volte, balenano, come lampi nel firmamento nero, certe virtù di cui la Germania si ricorderà come il primo segnale di convalescenza. Molto spesso migliaia e migliaia di giovani tedeschi si sono adunati con la disponibilità a sacrificare liberamente e gioiosamente la loro giovane vita sull’altare dell’amata patria, come già nel 1914. Milioni di persone lavorano alacremente e diligentemente, come se le distruzioni rivoluzionarie non li avessero mai fermati. Il fabbro sta ancora sull’incudine, il contadino cammina dietro l’aratro, lo studioso siede nel suo gabinetto, tutti devoti al loro dovere. Le oppressioni dei nostri nemici non trovano le risate consenzienti di un tempo, ma visi amareggiati e arrabbiati. Indubbiamente si è compiuto un grande cambiamento nell’opinione pubblica. Se tutto ciò non si manifesta ancora nella rinascita dell’istinto d’autoconservazione e nell’idea di potenza politica, è colpa di coloro che governano il nostro popolo dal 1918 e che lo portano alla rovina. Ebbene sì, se oggi ci lamentiamo della nostra nazione, dobbiamo chiederci che cosa facciamo per migliorarla. Lo scarso sostegno popolare alle decisioni dei nostri governi (in realtà inesistenti) è solo il sintomo della debole forza vitale del nostro carattere nazionalpopolare? Oppure non è l’indizio del completo fallimento nel trattamento del nostro bene più prezioso? Cos’hanno fatto i nostri governi per infondere nuovamente nel nostro popolo lo spirito di fiera autoaffermazione, di virile ostinazione e di odio furibondo?
Data dell’abdicazione di Guglielmo II e della proclamazione della Repubblica tedesca. Probabile citazione da I Piccolomini di Schiller (Atto I, Scena 5), seconda parte della trilogia del Wallerstein (1799) [KA, n. 142].
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570 Quando, nel 1919, fu imposto al popolo tedesco il trattato di pace, era auspicabile che proprio quello strumento di smisurata oppressione avrebbe incentivato l’aspirazione libertaria dei tedeschi. I trattati di pace, i cui articoli sferzano i popoli come colpi di frusta, non di rado segnano il primo rullo dei tamburi della futura sollevazione. Cosa si poteva fare del trattato di pace di Versailles! Questo strumento vergognoso di ricatto e di umiliazione poteva diventare nelle mani di un governo volenteroso il mezzo per incitate e per arroventare i sentimenti nazionali? Utilizzando in modo geniale quella sadica ferocia, si poteva mutare l’indifferenza popolare nell’indignazione e l’indignazione in furore cristallino! Si poteva imprimere ogni punto del trattato nel cervello e nell’animo del popolo tedesco, sino a trasformare la vergogna e l’odio di sessantamilioni di persone di teste, di uomini e di donne, in un unico mare di fiamme, da cui prorompesse una volontà dura come l’acciaio e gridasse: ridateci le armi! Sì, a questo può servire il trattato di pace. La smisuratezza della sua oppressione, la spudoratezza delle sue rivendicazioni rappresentano la più grande arma propagandistica per ridestare gli spiriti vitali assopiti di una nazione. Poi, dal sillabario del bambino all’ultimo giornale, ogni teatro e ogni cinema, ogni colonna da affissione e ogni tavolato libero va posto al servizio di quella grande unica missione, finché l’invocazione angosciosa delle nostre associazioni patriottiche “Signori, rendici liberi!”51 non si trasformerà nelle menti dei più giovani nella fervida preghiera: “Dio onnipotente, benedici le nostre armi; sii giusto come sempre; giudica se meritiamo la libertà; Signore, benedici la nostra lotta!”52 Tutto ciò è stato trascurato e non si è fatto nulla. Chi mai potrebbe meravigliarsi se oggi il nostro popolo non fosse come dovrebbe e potrebbe essere? Chi si meraviglia se il resto del mondo ci considera solo uno scagnozzo, l’umile cane che lecca con riconoscenza le mani che lo hanno prima colpito? Certo, la nostra capacità di creare alleanze è compromessa dal nostro popolo, ma lo è ancor più dai nostri governi. Quei governi corrotti sono colpevoli del fatto che, dopo otto anni di inaudita oppressione, ci sia ancora poca voglia di libertà. Se è vero che una politica di alleanza attiva è legata alla necessaria valorizzazione del nostro popolo, lo è altrettanto che la valorizzazione è condizionata dall’esistenza di un governo che non sia il tirapiedi di Stati stranieri, né il “caposquadra” della propria forza, ma l’araldo della coscienza nazionale. Ma se il nostro popolo sarà guidato da un governo che ravvisa la sua missione nel risveglio della coscienza nazionale, non passeranno sei anni che l’audace gestione politica estera della Germania sarà a disposizione di una volontà altrettanto audace di un popolo assetato di libertà. Alla seconda obiezione relativa all’enorme difficoltà di trasformare i popoli nemici in cordiali alleati, si può rispondere in questo modo.
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Antica preghiera olandese tradotta in tedesco dal poeta viennese Joseph Weyl nel 1877 [KA, n. 151]. Sul miscuglio fra linguaggio politico e religioso vedi capitolo 10-I.
571 La psicosi generale antitedesca provocata negli altri paesi dalla propaganda bellica esisterà inevitabilmente finché la visibile rinascita di una volontà di autoaffermazione tedesca non avrà conferito al paese il carattere di Stato che gioca sullo scacchiere generale europeo e con cui si può giocare. Non appena il governo e il popolo avranno riacquisito l’assoluta certezza di poter stringere alleanze, l’una o l’altra potenza potranno pensare, per convenienza, di trasformare l’opinione pubblica per mezzo della propaganda. Anche questo richiede naturalmente anni di lavoro capace e duraturo. Il tempo necessario a cambiare la mentalità di un popolo esige prudenza, cioè non s’intraprenderà quel lavoro se non si avrà l’assoluta certezza del suo valore e della sua fecondità per l’avvenire. Non si cercherà di mutare la propensione spirituale di una nazione sulle millanterie di un ministro degli esteri più o meno brillante53, senza avere la garanzia del valore effettivo di un nuovo stato d’animo. Altrimenti questo determinerebbe la completa disintegrazione dell’opinione pubblica. La fiducia nella possibilità di un legame futuro con uno Stato non risiede nelle pompose chiacchiere di singoli membri del governo, ma nell’evidente stabilità di una certa tendenza di governo, apparentemente conveniente, e in un’opinione pubblica analogamente predisposta. La certezza sarà tanto maggiore, quanto più il governo si mostrerà attivo nella preparazione e nel sostegno propagandistico del suo lavoro e quanto più la volontà dell’opinione pubblica si rispecchierà fanaticamente nella tendenza del suo governo. Quindi un popolo si riterrà degno di stringere alleanze se (nel nostro caso) governo e opinione pubblica manifesteranno e rappresenteranno con eguale fanatismo la loro volontà di battersi per la libertà. Questo è il presupposto per trasformare l’opinione pubblica degli altri Stati, che, partendo da questa consapevolezza, sono disposti a intraprendere un percorso a fianco del partner apparentemente idoneo, quindi a stipulare un’alleanza per la difesa dei loro interessi primordiali. Ma ci vuole qualcosa in più: poiché la trasformazione di una determinata mentalità popolare richiede un duro lavoro che non è subito compreso da tutti, è un delitto e una sciocchezza fornire, coi propri errori, il fianco ai nemici del cambiamento. Bisogna capire che ci vorrà necessariamente del tempo prima che un popolo si renderà conto delle visioni profonde di un governo; non è possibile rilasciare dichiarazioni pubbliche sugli scopi finali di un determinato lavoro politico preparatorio. Bisogna basarsi solo sulla fede cieca delle masse o sull’intuito della classe dirigente. Poiché il preveggente tatto politico e la capacità predittiva non sono di tutti, né si possono fornire spiegazioni per motivi politici, una parte della classe dirigente si opporrà sempre alle nuove tendenze che, per la via della loro imperscrutabilità, saranno ritenute semplici esperimenti. Di qui la resistenza degli elementi conservatori preoccupati. Tuttavia, proprio per questo motivo bisogna preoccuparsi di strappare di mano tutte le armi a disposizione dei disturbatori di un’intesa reciproca; specialmente se, come nel nostro caso, si tratta delle chiacchiere fantasiose e irrealizzabili di tronfi patrioti di associazioni o di politicanti filistei da caffè. Se riflettiamo con calma, capiamo che invocare una nuova flotta di guerra, la riacquisizione delle nostre colonie ecc. non sono altro che inutili schiamazzi politicamente impraticabili. Ma alla 53
Allusione a Gustav Stresemann e alla sua politica di distensione.
572 Germania non conviene il modo in cui gli inglesi sfruttano politicamente quei fiumi di parole insensate in parte innocenti, in parte folli, sempre e comunque al servizio dei nostri acerrimi nemici. Così ci limitiamo a dannose manifestazioni contro Dio e contro tutto il mondo e dimentichiamo il primo principio di ogni successo: ciò che fai, fallo sino in fondo. Urlando contro cinque o sei Stati si trascura di concentrare tutte le forze volitive e fisiche per colpire al corpo il nostro infame nemico e si sacrifica la possibilità di rafforzarci con alleanze per il confronto decisivo. Ecco un’altra missione del movimento nazionalsocialista: insegnare al nostro popolo a trascurare le minuzie e a mirare alle cose grandi, a non dividersi su questioni secondarie e a non dimenticare mai che l’obiettivo della nostra battaglia attuale è la mera sopravvivenza del nostro popolo e che l’unico nemico da colpire è e resta la potenza che ci priva della nostra esistenza. Molte cose possono farci molto male. Ma questo non è un buon motivo per rinunciare alla ragione e per urlare contro tutto il mondo, invece di concentrare le nostre forze contro il nemico mortale. Del resto il popolo tedesco non ha più alcun diritto morale di incolpare gli altri per il suo comportamento finché non avrà costretto alla resa dei conti quei malfattori che hanno svenduto e tradito il loro paese54. Non è serio imprecare o protestare da lontano contro l’Inghilterra, l’Italia ecc., per poi lasciar bighellonare a piede libero quei farabutti che, al soldo della propaganda bellica nemica, ci strapparono le armi di mano, ci spezzarono la spina dorsale morale e svendettero per trenta denari la Germania paralizzata. Il nemico fa solo ciò che era prevedibile. Bisogna imparare la lezione dal suo comportamento e dal suo modo di agire. Ma chi non sa innalzarsi a quella concezione non potrà fare altro che rinunciare alla sfida, perché sarà impossibile ogni politica di alleanze in futuro. Se non riusciamo ad allearci con l’Inghilterra, perché ci rubò le colonie; né con l’Italia, perché occupa il Sud Tirolo, né con la Polonia o con la Cecoslovacchia55, ecco che in Europa non ci resterà che la Francia. Certamente tutto ciò non giova al popolo tedesco. Chi difende tale opinione è un povero ingenuo o un mascalzone matricolato. Nel caso della classe dirigente, credo sempre che si tratti di mascalzoni. In termini umani un cambiamento psicologico di popoli finora nemici, dotati di interessi futuri analoghi ai nostri, può avvenire solo se le forze profonde del nostro Stato e l’evidente volontà di salvaguardare la nostra esistenza ci renderanno degni di valore. Inoltre bisogna evitare che la nostra goffaggine o le azioni delittuose consolidino l’operato degli oppositori di una futura alleanza. Più difficile è rispondere alla terza obiezione. È ipotizzabile che i rappresentanti dei reali interessi delle possibili nazioni alleate riusciranno a imporre le loro vedute all’acerrimo nemico ebraico dei liberi Stati nazionali? Sulla richiesta hitleriana di chiedere conto ai “responsabili” e “sostenitori” della Rivoluzione vedi capitolo 9-II. 55 Le alleanze con la Polonia o con la Cecoslovacchia erano escluse a priori per la presenza di minoranze tedesche.
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573 Possono, per esempio, gli statisti britannici tradizionali sconfiggere oppure no la nefasta influenza ebraica? A questa domanda, come detto, è difficile rispondere. La risposta dipende da così tanti fattori che è difficile esprimere un giudizio sommario. Una cosa sola è certa: in uno Stato il potere politico può essere ritenuto solido e dedito agli interessi del paese se non teme un reale impedimento alle necessarie azioni politiche da parte delle forze ebraiche internazionaliste. La lotta che l’Italia fascista conduce contro le tre armi principali dell’ebraismo, forse inconsapevolmente (anche se io non lo credo), è il miglior indizio che, sia pur indirettamente, a quella potenza sovrastatale si possono spezzare i denti venefici. Il divieto delle associazioni segrete massoniche56, la persecuzione della stampa sovrannazionale e la demolizione del marxismo internazionale57 e, viceversa, il costante rafforzamento della concezione statale fascista, permetteranno, nel corso degli anni, al governo italiano di servire sempre più gli interessi del suo popolo, senza curarsi dei sibili dell’Idra mondiale ebraica58. Le cose si fanno più difficili in Inghilterra. Nel paese della “democrazia liberalissima” l’ebreo impone senza limiti la sua volontà per le vie traverse dell’opinione pubblica. E tuttavia anche qui è in corso una battaglia continua tra i rappresentanti degli interessi statuali britannici e i sostenitori di una dittatura mondiale ebraica. Quanto siano violenti tali conflitti, lo si poté vedere chiaramente per la prima volta dopo la guerra nei diversi atteggiamenti tenuti dalla classe dirigente e dalla stampa britanniche verso il problema giapponese59. Subito dopo la conclusione del conflitto, si ripresentò il vecchio attrito fra America e Giappone60. Naturalmente le grandi potenze europee non poterono restare indifferenti di fronte al nuovo pericolo bellico. I vincoli parentali non impediscono che l’Inghilterra nutra una certa invidiosa apprensione verso la crescita dell’Unione americana in tutti i campi economici e politici. L’antica colonia, figlia della grande madre, sembra diventare la nuova padrona del mondo. È comprensibile che oggi l’Inghilterra riconsideri con preoccupazione le sue vecchie alleanze e la politica britannica tema il momento in cui non si potrà più dire: “L’Inghilterra domina i mari”, ma: “I mari appartengono all’Unione”. È più difficile trattare col gigantesco colosso statale americano, dotato di enormi risorse naturali, che con la Germania di oggi. Se anche qui dovesse esserci il confronto finale, l’Inghilterra perirebbe in mancanza di alleati. Perciò guarda avidamente al pugno giallo e si aggrappa a un’alleanza che, pur biasimevole in termini razziali, rappresenta politicamente l’unica possibilità di rafforzare la posizione mondiale britannica di fronte ai progressi del continente americano. La legge “fascistissima” n. 2029 del 26 novembre 1925 vietava l’appartenenza alle società segrete ai membri dell’amministrazione statale. Bibliografia: F. Venzi, Massoneria e fascismo: dall’intesa cordiale alla distruzione delle Logge. Come nasce una “guerra di religione”, Roma, Castelvecchi, 2008. 57 Il decreto regio n. 1848 del 6 novembre 1926 portò allo scioglimento di tutti i partiti, le associazioni e le organizzazioni che esplicavano azione contraria al regime. 58 La sopracopertina della prima edizione del primo volume del Mein Kampf mostrava le teste dell’essere mitologico. 59 Riferimento all’alleanza anglo-giapponese tra il 1902 e il 1922. 60 Il trattato di Washington impose il rapporto 5-5-3 tra le flotte britannica, americana e giapponese. 56
574 Mentre la classe dirigente inglese, a dispetto del fronte comune europeo61, non voleva allentare i vincoli con l’alleato asiatico, tutta la stampa ebraica pugnalò alle spalle l’alleanza anglo-nipponica. Com’è possibile che gli organi di un Northcliffe62, fedeli compagni del governo britannico in lotta contro l’Impero tedesco, non abbiano più fiducia nel Giappone e imbocchino una via alternativa?
Figura 4 Lord Northcliffe, magnate inglese della stampa [fonte: wikipedia.it]
La distruzione della Germania non era un interesse prioritario inglese, ma ebraico. Esattamente come oggi l’annientamento del Giappone è più utile agli ambiziosi desideri dell’Impero mondiale ebraico. Mentre l’Inghilterra si sforza di conservare la sua posizione, l’ebreo organizza l’assalto per conquistare il suo impero. L’ebreo considera gli attuali Stati europei come strumenti passivi in suo possesso, sia per le vie traverse della “democrazia occidentale”, sia in forma di dominio diretto del bolscevismo russo. Non irretisce solo il vecchio mondo, ma minaccia anche il destino di quello avvenire. Gli ebrei reggono la borsa dell’Unione americana. Ogni anno che passa aumenta il controllo della forza lavoro di un popolo di centoventi Gli Stati Uniti dichiarorono guerra alla Germania il 6 aprile 1917 e all’Austria-Ungheria il 7 dicembre 1917. 62 Alfred Harmsworth, Lord Northcliffe (1865-1922), magnate della stampa inglese (“Daily Mail”, “Times” e altri), era ritenuto da alcuni pubblicisti nazionalpopolari la lunga mano dell’ebraismo internazionalista, anche se molti biografi hanno evidenziato la presenza di una visione stereotipata sugli ebrei (peraltro molto diffusa all’epoca). Bibliografia: H. Defries, Conservative party attitudes to Jews, 19001950, Londra, Routledge, 2001.
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575 milioni di persone. Poche lodevoli eccezioni, come Ford, restano ancora indipendenti63. Con abile destrezza gli ebrei plasmano l’opinione pubblica e ne fanno lo strumento di lotta per il loro avvenire. Le maggiori teste dell’ebraismo credono già di veder vicino il giorno in cui adempiranno la massima veterotestamentaria di divorare i popoli. All’interno di quella grande mandria di territori coloniali de-nazionalizzati, un solo Stato indipendente potrebbe impedire la realizzazione del loro piano. Perché un mondo bolscevizzato può esistere solo se abbraccia tutta la terra. Se anche un solo Stato conserva la sua forza e la sua potenza nazionali, l’impero mondiale dei satrapi ebrei, come ogni tirannia di questo mondo, deve cedere e cederà alla forza dell’idea nazionale. L’ebreo sa benissimo che, grazie al suo adattamento millenario, ha potuto minare e imbastardire i popoli europei, ma sa anche che sarebbe difficile fare lo stesso in uno Stato nazionale asiatico come quello giapponese. Oggi l’ebreo vuole fingersi tedesco e inglese, americano e francese, non certo giallo asiatico64. Perciò cerca di spezzare lo Stato nazionale giapponese con la forza di quelli europei, per sbarazzarsi del pericoloso avversario, prima che l’ultima potenza statale in suo possesso non si trasformi in un dispotismo gravante su nature inermi. Nel suo impero millenario65 l’ebreo teme uno Stato nazionale giapponese e desidera il suo annientamento prima che fondi la sua dittatura. Così oggi l’ebreo aizza i popoli contro il Giappone come fece in passato contro la Germania. E dunque può accadere che, mentre la politica britannica tenta ancora di costruire un’alleanza col Giappone, la stampa ebraica britannica si scagli contro l’alleato e prepari la guerra di annientamento proclamando la democrazia e gridando “abbasso il militarismo e l’imperialismo giapponese”66. L’ebreo si è quindi insubordinato all’Inghilterra. La lotta contro quel pericolo universale deve cominciare anche laggiù. Il movimento nazionalsocialista deve ancora adempiere il suo formidabile dovere di aprire gli occhi al popolo sulle nazioni straniere e deve rammentare continuamente il nome del vero nemico del mondo attuale. Al posto dello stupido odio contro gli ariani, dai quali può dividerci quasi
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Henry Ford (1863-1947), imprenditore americano e fondatore della Ford Motor Company, autore anche del testo antisemita The International Jew, the world’s foremost problem (L’ebreo internazionale, il problema più importante del mondo, 1920), tradotto in tedesco nel 1921, che Hitler lesse e apprezzò. Bibliografia: T.W. Ryback, La biblioteca di Hitler. Che cosa leggeva il Führer, Milano, Mondadori, 2008. 64 Una piccola comunità ebraica sorse a Yokohama a fine Ottocento. Ai primi anni Venti, in concomitanza con gli eventi russi, si diffuse anche in Giappone l’antisemitismo, come dimostrò l’edizione dei Protocolli dei savi anziani di Sion nel 1924. Bibliografia: J. Kovalio, The Russian “Protocols of Zion” in Japan. Yudayka/Jewish peril propaganda and debite in the 1920s, New York, Peter Lang, 2009. 65 Allusione all’Apocalisse di Giovanni, in cui si annuncia il regno millenario come il regno di Cristo preceduto dall’annientamento finale di Satana. 66 Il Giappone modellò il suo esercito su modello prussiano e la sua marina su modello britannico. In base alla Costituzione Meiji del 1889, l’Imperatore (Tenno) occupava una posizione centrale, come sacro e intoccabile. Bibliografia: F. Gatti, Storia del Giappone contemporaneo, Milano, Bruno Mondadori, 2011.
576 tutto, ma ai quali siamo vincolati per sangue e per civiltà67, il movimento nazionalsocialista deve indicare al furore generale il perfido nemico dell’umanità, il vero artefice di tutte le sofferenze. Ma il movimento nazionalsocialista deve fare in modo che, almeno nel nostro paese, il mortale nemico sia riconosciuto e che la lotta antiebraica, segno di tempi migliori, indichi anche agli altri popoli la via per salvare l’umanità ariana combattente. Inoltre la ragione deve essere la nostra guida, la volontà la nostra forza. Il sacro dovere di agire così ci darà la tenacia e la costanza necessarie; e la nostra fede sarà suprema patrocinatrice.
Approfondimenti didattici 1. Analisi retorica e stilistica
- Individua le principali figure retoriche; - Individua l’esistenza di fallacie retoriche; - Individua i principali “loci” e “topoi”; - Individua la presenza di stereotipi e pregiudizi.
2. Analisi storico-culturale - La politica estera tedesca: analizza la politica estera tedesca dal Secondo Impero alla Repubblica di Weimar, cercando di individuare le continuità e i punti di rottura; - Il problema francese: analizza la tesi hitleriana del “nemico ereditario” e cerca di contestualizzarlo in termini geopolitici dalla pace di Vestfalia in poi; - L’Unione sovietica: analizza la tesi hitleriana dell’ebreo bolscevico e tenta di delineare le basi dello stereotipo alla luce anche del conflitto intrapartitico con l’ala nazionalbolscevica; - Inghilterra e Italia: analizza la tesi hitleriana circa le possibili alleanza tedesche, ricostruendo le relazioni politiche, diplomatiche ed economiche fra questi paesi a partire dalla fine dell’Ottocento; - Il nazionalsocialismo e il fascismo: analizza le convergenze politiche e ideologiche dei due partiti nei primi anni Venti.
L’affinità “nordica” fra i britannici e i tedeschi era già stata sostenuta da Gobineau, Madison Grant e Hans Günther [KA, n. 195]. A. Gilardoni, Logica e argomentazione. Un prontuario, Milano, Mimesis, 2008.
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Capitolo XIV. Svolta orientale e politica orientale
Sinossi 1. Genesi Il capitolo 14-II fu probabilmente redatto dopo l’uscita dell’opuscolo sulla questione sudtirolese nel febbraio 1926, ma non fu mai pubblicato come testo a se stante, una volta liquidata l’opposizione interna nazionalbolscevica di Strasser e di Goebbels. Il tema dell’emigrazione orientale sarebbe poi stato utilizzato da molti esponenti del Komintern o del PCUS come prova delle intenzioni bellicistiche hitleriane1. 2. Contenuto Hitler prosegue la sua analisi della politica estera nazionalsocialista dedicandosi al “corno” orientale del problema. Il capitolo 14-II è suddiviso idealmente in quattro sezioni: una prima si concentra sui rapporti generali fra Germania e Russia (genesi, sviluppo e possibili implicazioni), una seconda sul problema della “terra” (significato ideologico, “razziale” e pratico della colonizzazione), una terza sulla “spinta orientale” (realizzazione del piano di colonizzazione europea a scapito del mondo slavo quale unica via per la sopravvivenza del carattere nazionalpopolare), una quarta sulle modalità politico-federative per ottenerla (alleanza con le uniche potenze disponibili, cioè Inghilterra e Italia). I rapporti fra Germania e Russia non sono di secondaria importanza nello scenario politico internazionale avvenire: sono quelli “decisivi”. Anzi Hitler afferma che sono il vero banco di prova del movimento nazionalsocialista, perché si tratta di chiarire le idee alla frangia intellettuale “saccente” che non comprende le ragioni nazionalpopolari della cosa. Gli intellettuali non hanno a mente la massima nazista della politica estera: il nesso fra numero della popolazione e ricchezza della nazione. È quindi necessario aumentare lo spazio a disposizione della popolazione, come avviene per ogni grande nazione planetaria. Lo Stato di potenza si vede dalla superficie e dalla popolazione a disposizione. La vera missione tedesca consiste nell’aver misericordia del proprio sangue. I tre eventi fondamentali della politica estera tedesca riguardano (non a caso) l’insediamento orientale: la colonizzazione della Marca orientale, la colonizzazione transalbingica (oltre la riva destra dell’Elba), l’erezione dello Stato prussiano nel corso dell’età moderna. In altre parole Hitler sostiene che la storia tedesca dell’ultimo millennio non è altro che una continua e inevitabile spinta in direzione orientale, a Sud-Est per mano degli austriaci (a danno degli slavi e dei magiari), a NordEst per mano dei prussiani (a danno degli slavi e dei baltici). Il motivo è piuttosto semplice: ogni politica estera ha l’unico obiettivo di armonizzare il rapporto tra suolo e popolazione. La terra è il fondamento ideologico di una comunità nazionalpopolare sana. Se il fondamento ideologico di una comunità nazionalpopolare sana è la terra, allora il problema fondamentale è il modo in cui ottenerla. Qui Hitler torna a criticare la politica “democratico-borghese” successiva al 1918, nonché tutte le aspirazioni coloniali. È inutile rivendicare 1
KA II, p. 1625.
578 il ripristino dei confini prebellici, non solo perché manca la forza militare per sostenerlo, ma anche perché non servirebbe a guadagnare la terra necessaria al popolo tedesco. Quei confini non sono né una difesa adeguata, né una base di partenza per l’avvenire. La guerra è un mezzo per un fine: ottenere i confini dello “spazio vitale”. Il movimento nazionalsocialista non è l’alfiere dei “popoli oppressi”, ma il soldato del popolo tedesco. Il futuro della Germania è esprimibile in un unico dilemma: essere una potenza planetaria o non esistere affatto. La spinta “naturale” verso Est si scontra soprattutto con l’Unione sovietica. La storia russa è segnata dall’élite culturale e politica tedesca-baltica, spazzata via dal bolscevismo. La Russia bolscevica non è destinata a durare a lungo, per via dell’incapacità “congenita” ebraica di governare un grande paese. Non è peraltro ipotizzabile un’alleanza con quel paese, sia perché i bolscevichi non sono affidabili, sia perché i veri “padroni” sono gli ebrei. Non è possibile stipulare accordi con i “parassiti”. La missione del nazionalsocialismo deve essere quella di orientare la politica tedesca verso le sterminate pianure orientali. Di qui testamento politico della nazione tedesca: non tollerare la nascita di due potenze continentali europee e “sacralizzare” il diritto alla terra. Se l’alleanza con la Russia sovietica è impossibile per ragioni ideologiche e geopolitiche, non resta che prendere in considerazione l’Inghilterra e l’Italia. Hitler dedica la parte conclusiva del capitolo a elencare le diverse tappe necessarie per ottenere lo “spazio vitale” del popolo tedesco: preparare la guerra in tempo di pace, isolare politicamente e diplomaticamente la Francia, aumentare la possibilità di manovra a livello internazionale, accrescere la capacità produttiva, allearsi con Stati “giovani” e “forti” (cioè evitare gli errori commessi in passato). Tutti questi passi, se compiuti in maniera diligente e metodica, possono condurre alla realizzazione della politica di colonizzazione europea, cioè all’insediamento orientale e alla sopravvivenza del popolo tedesco. 3. Analisi Il capitolo 14-II è il naturale prolungamento e completamento di quello precedente. Dal punto di vista ideologico è quello che meglio illustra la coerenza ideologica hitleriana nel perseguire la creazione di un Lebensraum (spazio vitale) orientale (come gli “antenati” tedeschi). Di coerenza politica non si può parlare, dato che nel capitolo 4-I Hitler scoraggiava la possibile aggressione dell’Unione sovietica (la vastità del territorio avrebbero reso difficoltosa l’occupazione dal punto di vista logistico e militare). Posizione che il leader nazista avrebbe mantenuto anche dopo la presa del potere, giungendo sino alla stipula del “patto di non aggressione” Molotov-Ribbentrop nell’estate del 1939. La redazione del capitolo risente delle suggestioni di Karl Haushofer (1869-1946), geografo ed esperto di Estremo Oriente che Rudolf Hess conobbe a Monaco nel 1919. Se l’importanza effettiva di Haushofer nell’elaborazione hitleriana è ancora oggi oggetto di discussione (come quella di Friedrich Ratzel, “coniatore” del termine Lebensraum), è tuttavia accertato che il capitolo 14-II risente dell’influsso incrociato dell’ambiente culturale nazionalsocialista. Da una parte abbiamo le figure di Alfred Rosenberg, tedesco baltico, capo-redattore del “Völkischer Beobachter” dal 1923, e di Dietrich Eckart, con il suo opuscolo Der Bolschewismus von Moses bis Lenin (Il bolscevismo da Mosè a Lenin, 1923), entrambi sostenitori della teoria cospirazionistica ebraico-bolscevica. Dall’altra abbiamo i dibattiti in seno all’ala “nazionalbolscevica” del Partito nazista (Otto Strasser e Joseph Goebbels), sostenitori di un avvicinamento “rivoluzionario” alla Russia sovietica. L’aspetto più interessante è l’elaborazione retorica del capitolo. Come abbiamo detto, Hitler procede la sua dimostrazione a tappe. La prima parte è più “superficiale”: si interroga sulle relazioni
579 politiche tra Germania e Russia. Non si tratta di un rapporto fra gli altri, ma del vero problema del nazionalsocialismo, perché riguarda la congiunzione geopolitica fra Sein und Raum (essere e spazio): non c’è l’uno senza l’altro. Gli intellettuali nazionalpopolari, “abbagliati” dalla rivoluzione comunista, non si rendono conto dell’effettiva consistenza del bolscevismo, né degli obiettivi politici nazionalsocialisti. Da una parte la costruzione di un Lebensraum è radicata nella millenaria storia tedesca, dall’altra l’Unione sovietica è il “satrapo” dell’ebraismo mondiale. Sulla base di queste due considerazioni è inutile immaginarsi un’alleanza con la Russia, né ispirarsi al suo modello sociale. Il “vero” socialismo è quello su base nazionale, cioè radicato nella storia più profonda del popolo ariano (nel Tibet, secondo Haushofer). Partendo dalla conseguenza di un’alleanza impossibile e risalendo alle sue cause più remote (la storia tedesca e la lotta antiebraica), ecco che Hitler deduce gli unici scenari possibili: l’alleanza con l’Inghilterra o con l’Italia. Il problema impellente della Germania non è quello di inseguire l’Unione sovietica, ma di “disarmare” il revanchismo francese. La politica orientale è possibile solo dopo aver risolto il problema occidentale. Durante i primi anni della Seconda guerra mondiale fu approntato il cosiddetto Generalplan Ost (Piano generale Est), che, in base alle fonti frammentarie a nostra disposizione, prevedeva una pulizia etnica e una deportazione delle popolazioni slave dei territori polacchi, baltici e russo-europei oltre gli Urali, per fare spazio a una colonizzazione germanica su vasta scala. Il piano, commissionato da Heinrich Himmler e da Alfred Rosenberg nella primavera del 1940 a una serie di istituti tedeschi, fu sospeso nel 1943. Lo stesso Himmler tentò di attuare su piccola scala il piano di insediamento nella contea di Zamość, all’interno del Governatorato generale polacco, anche se la germanizzazione avvenne solo nel 1944. 4. Parole-chiave Acquisizione di suolo europeo, Africa orientale tedesca, Carattere nazionalpopolare, Colonizzazione transalbingica, Comunità nazionalpopolare, Corpo popolare, Ebraismo, Ebreo, Guerra santa, Humus della civiltà, Impero mondiale britannico, Impero persiano, India, Intellighenzia, Lega delle nazioni oppresse, Marca orientale, Massima di politica estera, Movimento nazionalpopolare, Oggettività, Politica coloniale francese, Politica coloniale tedesca, Politica di alleanza tedesca, Politica estera, Politica territoriale, Svolta della politica estera, Ripristino dei confini prebellici, Russia, Società delle nazioni, Spazio vitale, Stati Uniti d’America, Stato prussiano, Stato mulatto francese, Stato nazionalpopolare, Storiografia, Testamento politico, Trattato di Versailles, Visione del mondo. 5. Bibliografia essenziale - M. Bagozzi, Nazionalbolscevismo. Uomini, storie, idee, Bergamo, Noctua, 2011; - W. Benz, I protocolli dei savi di Sion. La leggenda del complotto ebraico, Milano, Mimesis, 2009; - P. Bruppacher, Adolf Hitler und die Geschichte der NSDAP. Eine Chronik, parte 1: 1889-1937, Norderstedt, Books on Demand, 2014; - A. Bullock, Hitler. Studio sulla tirannide, Milano, Res Gestae, 2014; - K. Burke, Die Rhetorik in Hitlers “Mein Kampf” und andere Essays zur Strategie der Überredung, Francoforte sul Meno, Suhrkamp, 1967; - D. Capozza, C. Volpato, Le intuizioni psicosociali di Hitler. Un’analisi del “Mein Kampf”, Bologna, Patron, 2004; - W. Carr, Hitler. Studio sul rapporto tra personalità e politica, Napoli, Liguori, 1985; - G. Corni, H. Gies, Blut und Boden. Rassenideologie und Agrarpolitik im Staat Hitlers, Idstein, Schulz-Kirchner, 1994;
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Due motivi mi spingono a dare particolare importanza ai rapporti della Germania con la Russia2: 1. si tratta di un problema forse decisivo della politica estera tedesca; 2. è il banco di prova della capacità politica nazionalsocialista di pensare con chiarezza e di agire in modo giusto. Devo confessare che, talora, il secondo punto è fonte di gravi preoccupazioni. Dato che il nostro giovane movimento non pesca i suoi sostenitori fra gli indifferenti, ma per lo più fra persone dotate di visioni estremiste, è naturale che, anche in politica estera, i neofiti siano inizialmente prevenuti o poco informati dai loro circoli politici di provenienza. Questo non vale solo per l’uomo che giunge da sinistra3. Al contrario, per quanto sia stato indottrinato, la sua formazione è spesso neutralizzata dalla presenza di un residuo di istinti naturali sani. Basta sostituire l’influenza precedente con un indottrinamento migliore, perché l’istinto d’autoconservazione e i sentimenti sani ancora esistenti diventino i nostri migliori alleati. Molto più difficile, invece, è infondere idee politiche chiare in un uomo, la cui precedente educazione politica era priva di ragione e di logica, e che aveva sacrificato sull’altare dell’oggettività anche l’ultimo residuo di istinto naturale. Proprio gli esponenti della nostra intellighenzia sono i più difficili da smuovere verso una rappresentazione chiara e logica dei loro interessi e di quelli del popolo in politica estera. Essi non sono solo gravati da idee e da pregiudizi assurdi, ma hanno anche perso o rinunciato a ogni sano istinto d’autoconservazione nazionale. Il movimento nazionalsocialista deve sostenere aspre lotte anche contro questi signori; aspre perché gli intellettuali, pur essendo inetti, sono così presuntuosi che, senza alcun motivo reale, 2
Qui Hitler utilizza il termine Russia come sinonimo di Unione Sovietica. Fra questi il più noto era Otto Strasser (1897-1974). Dopo un trascorso socialdemocratico, Strasser entrò nel Partito nazionalsocialista nel novembre 1925. Nel marzo 1926 creò con il fratello editore “Kampf ” (Battaglia), portavoce della sinistra nazionalsocialista. Nel luglio 1930 uscì dal partito e fondò la Kampfgemeinschaft Revolutionärer Nationalsozialisten (Comunità di lotta dei nazionalsocialisti rivoluzionari).
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582 guardano dall’alto in basso persone più sane di loro. Non sono altro che sapientoni altezzosi e arroganti, privi di ponderatezza e di raziocinio, cioè delle basi di ogni volontà e di ogni azione in politica estera. Proprio perché quei circoli intellettuali iniziano oggi a virare la barra della nostra politica estera da una rappresentanza concreta degli interessi popolari verso il nefasto servizio della loro illusoria ideologia4, io mi sento in obbligo di trattare, di fronte ai miei sostenitori, l’aspetto più importante della politica estera (il rapporto con la Russia), in modo più scrupoloso di quanto non sia necessario, per renderlo comprensibile a tutti. In generale è bene premettere quanto segue. Se con politica estera intendiamo il regolamento dei rapporti di un popolo col resto del mondo, il modo di agire è determinato da fatti ben precisi. In qualità di nazionalsocialisti, noi possiamo avanzare la seguente massima sull’essenza della politica estera di uno Stato nazionalpopolare. La politica estera dello Stato nazionalpopolare deve garantire l’esistenza su questo pianeta della razza raccolta nello Stato, creando un legame sano, vitale e naturale tra il numero e lo sviluppo del popolo, da una parte, e la vastità e la ricchezza del suolo, dall’altra. Con legame sano bisogna intendere quello che garantisce l’approvvigionamento di un popolo sul proprio territorio. Ogni altra situazione insana, di durata secolare o millenaria, condurrà primo o poi al deterioramento, se non alla distruzione del popolo stesso. Solo uno spazio sufficientemente ampio su questa terra assicura a un popolo una libera esistenza. Inoltre non si può giudicare l’estensione necessaria del territorio insediativo solo in base alle esigenze attuali, né all’entità della rendita fondiaria, ma in proporzione al numero dei cittadini. Perché, come ho scritto nel primo volume parlando della politica di alleanza prebellica, la superficie di uno Stato ha importanza non solo come fonte diretta di approvvigionamento di un popolo, ma anche dal punto di vista militare. Quando un popolo si assicura l’approvvigionamento con l’ampiezza del suo territorio, deve anche considerare la sua sicurezza. Essa consiste nella forza politica e nel vigore di uno Stato, che sono determinate da fattori geografici e militari. Quindi il popolo tedesco potrà avere un futuro solo come potenza planetaria. Per quasi duemila anni, la difesa degli interessi del nostro popolo, la nostra più o meno felice politica estera, fu la storia mondiale. Noi stessi ne siamo stati testimoni, perché la gigantesca conflagrazione del 1914-18 non fu altro che la lotta del popolo tedesco per la sua esistenza su questo mondo. E quell’evento prese il nome di guerra mondiale. In quella lotta il popolo tedesco entrò in scena come presunta potenza mondiale. Dico presunta, perché in realtà non lo era. Se nel 1914 il popolo tedesco avesse avuto una proporzione diversa tra superficie territoriale e numero degli abitanti, la Germania sarebbe stata davvero una potenza universale e la guerra, a prescindere da altri fattori, avrebbe potuto concludersi favorevolmente.
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Nella Repubblica di Weimar esistevano tre correnti di russofili di destra: i pragmatici, i giovani conservatori (tra cui Moeller van den Bruck) e i nazionalbolscevichi [KA, n. 8].
583 Qui non è mio compito o intenzione indicare “ciò” che sarebbe accaduto “se” non si fossero verificate determinate circostanze. Ritengo tuttavia necessario esporre in maniera imparziale e onesta le nostre terribili debolezze, per far sì che almeno nelle file del movimento nazionalsocialista si capisca ciò che va fatto. Oggi la Germania non è una potenza mondiale. Anche se risolvessimo il problema dell’impotenza militare, non avremmo ancora diritto a fregiarci di tal nome. Che Stato è quello in cui il rapporto fra numero di abitanti e superficie del suolo è così infimo come il nostro? In un’epoca in cui il pianeta è spartito fra alcuni Stati vasti come continenti, non si può chiamare potenza mondiale uno Stato, la cui madrepatria politica è ridotta alla ridicola superficie di quattrocentottantamila chilometri quadrati5. Dal punto puramente territoriale la superficie della Germania scompare di fronte a quella delle potenze mondiali. Non si citi come esempio contrario l’Inghilterra, perché la madrepatria è solo la grande capitale dell’Impero mondiale britannico, che comprende quasi un quarto delle terre emerse6. Poi dobbiamo considerare i colossi statali dell’Unione americana, della Russia e della Cina. Enormi spazi dalla superficie dieci volte superiore a quella tedesca7. Fra questi immensi Stati va annoverata anche la Francia. Non solo perché integra, in misura sempre maggiore, gli uomini di colore nell’esercito del suo enorme impero8, ma anche perché si sta così rapidamente negrizzando che si può quasi parlare della nascita di uno Stato africano sul suolo europeo9. La politica coloniale francese non è paragonabile a quella tedesca del passato. Se l’evoluzione francese proseguisse ancora trecento anni nel solco tracciato oggi, gli ultimi residui di sangue franco scomparirebbero nello Stato mulatto euroafricano in corso di formazione. Avremo un’enorme e compatta zona insediativa dal Reno sino al Congo10, popolata da una razza inferiore sorta dall’imbastardimento continuo. Questo differenzia la politica coloniale francese da quella tedesca del passato. La politica coloniale tedesca di un tempo, come ogni altra cosa, fu mediocre. Non ha ampliato la zona insediativa della razza tedesca, né ha intrapreso il tentativo (sia pur criminoso) di rafforzare la potenza imperiale con l’impiego di sangue nero. Gli ascari nell’Africa orientale tedesca furono un piccolo, debole tentativo in tale direzione. Di fatto funsero solo da difesa coloniale11. L’idea di importare truppe nere sullo scenario bellico europeo, al di là della sua fattibilità, non fu mai un proposito ventilato nei 5
Nel 1925 vivevano in Germania circa sessantatre milioni di persone su una superficie di 470.000 kmq. Nel 1921 vivevano in Gran Bretagna circa quarantatre milioni di persone. Nel complesso l’Impero britannico contava 35 milioni di kmq e quattrocentocinquantadue milioni di persone. 7 Gli Stati Uniti (esclusa l’Alaska) avevano una superficie di circa 8 milioni di kmq e una popolazione di centomilioni di persone. 8 Contrariamente alla Germania, la Francia utilizzò truppe coloniali durante la Prima guerra mondiale (circa trecentomila unità). Bibliografia: M. Michel, Les Africains et la la Grande Guerre. L’appel à l’Afrique (1914-1918), Parigi, Karthala, 2003. 9 Contrariamente a quanto sostiene Hitler, la maggior parte degli immigrati in Francia proveniva da altri paesi europei [KA, n. 18]. 10 Nel 1921 l’Impero coloniale francese aveva una superficie di 12 milioni di kmq e una popolazione di circa cinquantasette milioni di persone. 11 Gli ascari erano i soldati indigeni usati come truppe di difesa nelle colonie africane tedesche. Bibliografia: T. Morlang, Askari und Fitafita. “Farbige” Söldner in den deutschen Kolonie, Berlino, Links Verlag, 2008. 6
584 momenti più favorevoli, mentre, al contrario, i francesi ne fecero sempre la base della loro attività coloniale. Così oggi assistiamo al consolidamento di una quantità di Stati di potenza che non solo per numero di popolazione superano di molto il nostro popolo tedesco, ma che, soprattutto, possiedono nella loro superficie il maggior sostegno alla loro posizione politica. Il rapporto numerico dell’Impero tedesco non fu mai così sfavorevole, per superficie e per numero di abitanti, rispetto agli altri Stati mondiali come duemila anni fa (all’inizio della nostra storia) e lo è tuttora. In passato un giovane popolo combattente discese su un impero senescente e contribuì ad abbattere l’ultimo colosso antico (Roma)12. Oggi viviamo in un mondo di grandi e potenti Stati in corso di formazione, di fronte ai quali la nostra Germania è ormai insignificante. È necessario che noi teniamo ben presente l’amara verità. È necessario confrontare la Germania con gli altri Stati nei rapporti di lungo periodo fra popolazione e superficie. Ecco l’inquietante risultato: la Germania non è più una potenza mondiale, indipendentemente dalla sua forza militare. Non abbiamo più alcun rapporto con gli altri grandi Stati della terra, e questo grazie alla fatale conduzione della nostra politica estera, alla sua totale assenza, alla mancanza di una fissazione “testamentaria” di un obiettivo di fondo, nonché alla perdita di ogni sano istinto d’autoconservazione. Se il movimento nazionalsocialista vuole realmente consacrare la grande missione del nostro popolo di fronte alla storia, deve, dopo aver riconosciuto con dolore la sua reale situazione, avviare freddamente e con determinazione la lotta contro la confusione e l’incapacità che finora hanno guidato il nostro popolo nelle vie della politica estera. Deve, senza considerare “tradizioni” o pregiudizi, trovare il coraggio di adunare il suo popolo e la sua forza per marciare su quella via che dall’odierna ristrettezza dello spazio vitale13 condurrà all’acquisizione di nuova terra. Così libererà per sempre il popolo tedesco dal pericolo di perire o di servire gli altri da schiavi. Il movimento nazionalsocialista deve cercare di eliminare la sproporzione tra la nostra popolazione e la superficie del nostro suolo – considerandolo come fonte di sostentamento e come punto d’appoggio della politica di potenza . Deve cercare di eliminare la sproporzione tra il nostro passato storico e la disperata impotenza di oggi. Deve essere consapevole che noi, sostenitori di un genere umano superiore, siamo vincolanti anche da un obbligo supremo e lo assolveremo al meglio se il popolo tedesco assumerà una coscienza razziale e avrà misericordia anche per il proprio sangue, oltre che per l’allevamento di cani, di cavalli e di gatti. L’idea che la storia tedesca iniziasse coi germani si deve agli umanisti italiani e tedeschi. La fonte principale era la Germania di Tacito. Bibliografia: C. Krebs, Ein gefährliches Buch. Die “Germania” des Tacitus und die Erfindung der Deutschen, Monaco, Deutsche Verlags-Anstalt, 2012. 13 Il termine Lebensraum (spazio vitale) fu coniato dal geografo tedesco Friedrich Ratzel (1844-1904) nel testo Politische Geographie (Geografia politica, 1897) per indicare l’area di sviluppo di una determinata specie. Nel primo dopoguerra il termine fu applicato all’ambito geopolitico da uomini come lo studioso e politico svedese Johan Rudolf Kjellén (1864-1922) e dal citato Karl Haushofer. In Volk ohne Raum (Popolo senza spazio, 1926) lo scrittore Hans Grimm sosteneva la via coloniale contro la sovrappopolazione continentale. La connotazione razziale del termine fu conferita dal nazionalsocialismo e, in special modo, da Alfred Rosenberg nel suo saggio Der Mythus des 20. Jahrhundert (Il mito del XX secolo, 1930). Bibliografia: K. Lange, Der Terminus “Lebensraum” in Hitlers Mein Kampf, “Vierteljahrhefte für Zeitgeschichte”, XIII, 4, 1965, pp. 426-457.
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585 La confusione e l’inettitudine dell’attuale politica tedesca sono testimoniate dal suo fallimento pratico. Se il nostro popolo fosse stato intellettualmente inferiore o vile, gli esiti della lotta sarebbero stati ben peggiori di quanto oggi non vediamo davanti a nostri occhi. Anche lo sviluppo degli ultimi decenni non può illuderci. Possiamo misurare la forza effettiva di un paese solo confrontandolo con gli altri. Ma proprio il paragone ci dimostra che l’aumento della forza di altri Stati non fu solo più regolare, ma anche maggiore rispetto al nostro. Il percorso intrapreso dalla Germania, malgrado l’apparente crescita, si è progressivamente distanziato dagli altri Stati, restando ben dietro. In breve si è allargata la forbice a nostro sfavore. Certo, la forbice si è allargata proprio nel numero di abitanti. Poiché il nostro popolo non è secondo a nessuno per eroismo e ha profuso più sangue di tutti per la conservazione della sua esistenza14, il fallimento dipende unicamente dal suo uso sbagliato. Se noi riassumiamo le vicende politiche del nostro popolo da migliaia di anni a questa parte, se passiamo in rassegna tutte le innumerevoli guerre e battaglie e traiamo il risultato finale, dobbiamo ammettere che, nel mare di sangue, solo tre fenomeni sono ritenuti frutti imperituri di determinati eventi politici esteri. 1. La colonizzazione della Marca orientale a opere dei Baiovari; 2. l’acquisizione di territori oltre la riva destra dell’Elba; 3. l’organizzazione dello Stato brandeburghese-prussiano per mano dagli Hohenzollern quale modello e nucleo cristallino di una nuova entità politica. Un monito istruttivo per il futuro! I primi due grandi successi della nostra politica estera sono più duraturi. Senza quei successi il nostro popolo sarebbe stato politicamente irrilevante. Furono i primi e, purtroppo, unici tentativi riusciti di armonizzare la crescente popolazione con la dimensione territoriale15. È veramente deleterio che la nostra storiografia non sia riuscita a valutare correttamente questi due successi, di gran lunga più importanti e significativi rispetto all’esaltazione di ogni gesto eroico fantastico, delle innumerevoli guerre e battaglie avventurose. Così facendo, essa non ha riconosciuto la grande irrilevanza di molti di quegli eventi per la grande linea evolutiva della nazione. Il terzo grande successo della nostra attività politica fu la formazione dello Stato prussiano e la coltivazione di una particolare idea di Stato, nonché l’adeguamento al mondo moderno e l’organizzazione dell’esercito tedesco. La trasformazione dell’idea di autodifesa nella leva nazionale obbligatoria è il frutto della costruzione statale prussiana e della sua nuova idea di Stato16. L’importanza di questo fatto non va sottovalutata. Il popolo tedesco, minato da una sanguinosa lacerazione particolaristica, riacquista, sulla via della disciplina imposta dall’organismo militare prussiano, una parte della sua capacità organizzativa perduta da tempo. Ciò che gli altri popoli 14
In termini assoluti, la Germania perse circa due milioni di soldati fra morti e dispersi, cioè il 12% degli uomini impiegabili. La Francia, l’Austria e la Romania persero il 13%, la Serbia il 21% e il Montenegro addirittura il 26% [KA, n. 31]. 15 La colonizzazione medievale (Ostsiedlung) fu un fenomeno su scala europea. Accanto all’eccedenza della popolazione, il movimento migratorio fu spinto dalle missioni cristiane e dall’espansione dei possedimenti signorili. Bibliografia: C. Higounet, Die deutsche Ostsiedlung im Mittelalter, Berlino, Siedler, 2001. 16 Sulla coscrizione obbligatoria vedi capitolo 10-I.
586 avevano originariamente in forma di istinto gregario, noi tedeschi lo vediamo all’opera, in parte, nel processo di artificiosa formazione militare della nostra comunità nazionalpopolare. Quindi anche l’eliminazione della leva militare universale, insignificante per dozzine di altri popoli, è invece assai importante per noi tedeschi17. Dopo dieci generazioni di tedeschi privati dell’istruzione militare correttiva ed educativa, in balia degli effetti negativi della loro lacerazione sanguinosa (e ideologica), il nostro popolo finirà per perdere le vestigia residuali di un’esistenza libera su questo pianeta. Lo spirito tedesco potrebbe dare un contributo alla civiltà solo per mano di singoli individui cresciuti nel grembo di nazioni straniere, indifferenti verso le loro origini. Con l’ultimo residuo di sangue ariano-germanico sarebbe così guastato o eliminato l’humus della civiltà. È rimarchevole che l’importanza dei nostri tre veri successi politici nelle sue lotte millenarie è maggiormente compresa e apprezzata dai nostri avversari. Oggi ci entusiasmiamo per gesta eroiche infruttuose che privarono il nostro popolo di milioni dei suoi più nobili rappresentanti.
Figura 1 Fasi dell’insediamento orientale tedesco in epoca medievale [fonte: wikipedia.de]
L’articolo 173 del trattato di Versailles aboliva la coscrizione obbligatoria, poi reintrodotta dal nazismo nel 1935. 17
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La capacità di discernere i veri successi politici del nostro popolo e il sangue nazionale sparso per scopi infruttuosi è massimamente importante per la nostra condotta politica di oggi e di domani. Noi nazionalsocialisti non possiamo più intonare i terribili urrà patriottici della nostra borghesia. In particolare è mortifero considerare gli ultimi eventi prebellici come poco istruttivi per il nostro futuro18. Un solo obbligo possiamo ricavare dal secolo passato. Contrariamente al comportamento dei rappresentanti del secolo passato, noi dobbiamo rivendicare la necessità dell’obiettivo supremo di ogni politica estera: armonizzare il suolo con la popolazione. Ebbene sì, il passato può solo insegnarci che la nostra condotta politica deve snodarsi lungo due direzioni: la terra quale scopo della nostra politica estera e un nuovo fondamento ideologico saldo e unitario quale scopo della condotta politica interna.
Figura 2 Diffusione dei germanofoni in Europa centrale nel periodo interbellico (in rosso in confini dello Stato tedesco dal 1919 al 1937) [fonte: wikipedia.en]
Ora voglio brevemente accennare al problema della legittimità etica e morale della rivendicazione territoriale. Questo è necessario, poiché purtroppo, nei “circoli” 18
Riferimento alla “colonizzazione interna”. Vedi capitolo 4-I.
588 nazionalpopolari, appaiono continuamente ampollosi chiacchieroni che si sforzano di indicare l’obiettivo della politica estera tedesca nella riparazione all’ingiustizia del 1918. Oppure ritengono necessario conquistarsi la fratellanza e la simpatia nazionalpopolare. Vorrei anticipare quanto segue: la richiesta di ripristino dei confini anteriori al 1914 è una follia politica di dimensione e di conseguenze criminose. Indipendentemente dal fatto che quei confini fossero tutt’altro che logici. In realtà non erano né completi, per quanto riguarda la riunione della nazione tedesca, né ragionevoli, per quanto riguarda la loro convenienza geografica e militare. Quei confini non furono l’esito di una condotta politica meditata, ma i limiti temporanei di una lotta politica tutt’altro che conclusa, il concorso di eventi casuali. Con lo stesso diritto e, in molti casi, a maggior ragione potremmo scegliere un altro qualsiasi anno della storia tedesca e indicare, quale scopo della politica estera, il ripristino delle condizioni precedenti. Una richiesta che ben si addice alla nostra borghesia, priva anche qui di una visione politica del futuro. Quella borghesia vive nel passato (prossimo): il suo sguardo non travalica la propria epoca. La legge dell’indolenza la vincola a una situazione ben precisa; resiste a ogni cambiamento, senza tuttavia mai superare l’inerzia. È ovvio che l’orizzonte politico di quella gente non oltrepassi i confini del 1914. Ma, proclamando il loro obiettivo politico nel ripristino dei confini prebellici, i borghesi finiscono nuovamente per vincolarsi all’Intesa declinante dei nostri avversari19. Solo così si spiega il fatto che, otto anni dopo la fine di una guerra mondiale, alla quale presero parte Stati con desideri e con obiettivi molto eterogenei, la coalizione dei paesi vincitori non si sia ancora sciolta. Tutti quegli Stati ottennero benefici del tracollo tedesco. All’epoca il timore verso la nostra forza mise a tacere l’avarizia e l’invidia delle singole potenze. Quegli Stati videro la miglior difesa contro una futura sollevazione tedesca in una spartizione possibilmente generalizzata del vecchio Impero. La cattiva coscienza e la paura della forza del nostro popolo sono il cemento che unisce ancora oggi i paesi membri dell’Intesa. Non facciamoci illusioni. Sostenendo quale programma politico il ripristino dei confini tedeschi anteriori al 1914, la borghesia respinge ogni partner che vorrebbe abbandonare l’alleanza dei nostri nemici. Ogni singolo paese, che temerebbe di essere attaccato singolarmente e di perdere il sostegno alleato, si sente colpito e minacciato dal programma borghese. Inoltre quel programma è assurdo per due motivi: 1. mancano i mezzi di potenza necessari a tradurlo in realtà dalle nebbie delle serate associative; 2. se tradotto in realtà, l’esito sarebbe così nefasto che non varrebbe la pena – perdio – di spargere ulteriore sangue del nostro popolo. Perché è innegabile che il ripristino dei confini anteriori al 1914 sarebbe conseguibile solo con lo spargimento di sangue del nostro corpo popolare. Solo i bambini e i sempliciotti si cullano nell’idea di poter raggiungere per vie spicce una revisione del trattato di Versailles. Senza contare che presupporrebbe un Talleyrand20 che oggi non abbiamo. Una metà dei nostri politici consiste in personaggi scaltri, ma 19 20
Allusione alle tensioni politiche sorte dopo la guerra tra le potenze vincitrici. Charles Maurice de Talleyrand-Périgord (1754-1838), diplomatico francese dell’età della Restaurazione.
589 smidollati, generalmente ostili al nostro popolo; mentre l’altra metà è formata da imbecilli bonari, innocui o compiacenti. Inoltre sono passati i tempi del Congresso di Vienna: non sono più i principi o le favorite a mercanteggiare e a contrattare i confini statali, ma lo spietato ebreo cosmopolita in lotta per il suo dominio su tutti i popoli21. Nessun popolo può liberarsi dalla stretta alla gola se non con la spada. Solo la forza unitaria e concentrata di un rinato entusiasmo nazionale può sfidare la schiavizzazione internazionale dei popoli. L’esito è e resta sanguinoso. Ma se ci convinciamo che, in un modo o nell’altro, il futuro tedesco richiede un impegno supremo, indipendentemente da ogni considerazione di natura politica, bisogna formulare e sostenere uno obiettivo adeguato. I confini del 1914 non hanno alcuna rilevanza per il futuro della nazione tedesca. Non ci forniscono né la difesa del passato, né la forza per l’avvenire. Entro quei confini, il popolo tedesco non conserverà la sua compattezza interna, né si garantirà il suo approvvigionamento. In altri termini non appaiono convenienti o soddisfacenti dal punto di vista militare, né possono migliorare la nostra situazione attuale di fronte alle altre potenze mondiali o, per meglio dire, alle vere potenze mondiali. La distanza con l’Inghilterra non si è ridotta. La dimensione dell’Unione americana non è stata eguagliata. La Francia non affronterebbe una sostanziale svalutazione del suo significato politico su scala mondiale. L’unica cosa sicura sarebbe che, in caso di esito favorevole, il ripristino dei confini anteriori al 1914 provocherebbe un ulteriore dissanguamento del nostro popolo, in misura tale che non esisterebbe più quel residuo prezioso necessario alle decisioni e alle azioni che assicurerebbero la vita e il futuro della nostra nazione. Al contrario, ebbri del fatuo successo, noi rinunceremmo volentieri a ogni ulteriore obiettivo che non sia la riparazione dell’“onore della nazione” e la ripresa dello sviluppo commerciale. Di fronte a tali prospettive, noi nazionalsocialisti dobbiamo restare assolutamente fedeli al nostro obiettivo di politica estera: garantire al popolo tedesco la terra che gli spetta a questo mondo. E questo scopo è l’unico che giustifichi di fronte a Dio e ai posteri lo spargimento di sangue: di fronte a Dio, se siamo al mondo decisi a lottare eternamente per il pane quotidiano, quali esseri cui nulla è concesso e che devono il loro primato terrestre solo alla genialità e al coraggio con cui lo sanno ottenere e difendere combattendo. Di fronte ai posteri, se non spargeremo altro sangue dei nostri cittadini in grado di regalare altre migliaia generazioni future. La terra, su cui le famiglie contadine possono concepire figli vigorosi, acconsentirà all’impiego dei figli di oggi, ma un giorno assolverà gli statisti perseguitati e accusati di assassinio e di sacrificio popolare. Inoltre io devo rivolgermi vivamente contro quegli scrittori nazionalpopolari che, nell’acquisizione territoriale, pretendono di scorgere una “lesione dei diritti umani” e, quindi, scarabocchiano contro il nostro programma. Non si sa mai chi si nasconda dietro di loro. L’unica cosa sicura è che suscitano uno scompiglio molto utile ai nemici del nostro popolo. Sostenendo la lesione dei diritti umani, quegli scrittori collaborano in modo scellerato a scavare la fossa del nostro popolo e a togliergli internamente la 21
Sul topos dell’aspirazione ebraica al dominio mondiale vedi capitolo 2-I.
590 base di una corretta difesa della sua necessità vitale. Perché nessun popolo al mondo occupa un solo metro quadrato di terra su invito o per diritto superiore. Se è vero che i confini tedeschi sono casuali e temporanei, lo sono pure i confini degli spazi vitali degli altri popoli. Se è vero che l’organizzazione della superficie terrestre appare graniticamente immutabile solo all’imbecille patentato, mentre non è altro che un’apparente cesura epocale nell’evoluzione continua, determinata dalle forze violente della natura, e, forse, domani sarà distrutta e trasformata per mano di forze superiori, lo è altrettanto che i confini degli spazi vitali dei popoli non sono graniticamente immutabili. I confini statali sono umani e possono essere mutati dagli uomini stessi. La capacità da parte di un popolo di acquisire territori smisurati non è un obbligo supremo verso il suo eterno riconoscimento. Dimostra, tutt’al più, la forza del conquistatore e la debolezza di chi patisce l’occupazione. E solo la forza è diritto. Se oggi il popolo tedesco, stipato su una superficie improbabile, va incontro a un futuro meschino, non è un segno del destino, né è un affronto contestarlo. Una potenza superiore non ha concesso a un altro popolo più terra rispetto a quello tedesco o non si offende per l’ingiusta spartizione del territorio. Come i nostri antenati, privati del territorio su cui oggi viviamo, dovettero lottare a costo della loro vita per ottenerlo, così, in futuro, una grazia nazionalpopolare non ci assegnerà il territorio e la vita del nostro popolo, ma sarà sempre e solo la potenza di una spada vincente a farlo. Se oggi riconosciamo la necessità di un confronto con la Francia, non si tratta però dell’unico obiettivo della nostra politica estera. Essa avrà senso solo se permetterà di ampliare lo spazio vitale del nostro popolo in Europa. La soluzione del problema non consiste nell’acquisizione di nuove colonie22, ma nell’ottenimento di una zona insediativa che accresca la superficie della madrepatria. In questo modo i nuovi coloni manterranno una comunione più profonda con la terra originaria e la dimensione spaziale assicurerà loro tutti i vantaggi della continuità territoriale. Il movimento nazionalpopolare non deve essere solo il difensore di altri popoli23, ma anche il pioniere del proprio. Altrimenti è inutile e non ha alcun diritto di mugugnare sul passato. Perché si comporterebbe esattamente come gli altri partiti. Se la vecchia politica tedesca era guidata erroneamente dagli interessi dinastici, quella futura non dovrà esserlo dal dozzinale sentimentalismo nazionalpopolare. Noi non siamo i gendarmi dei “piccoli e poveri popoli”, ma i soldati del nostro. Noi nazionalsocialisti dobbiamo guardare oltre: il diritto alla terra è un dovere se, in mancanza di un ampliamento territoriale, un grande popolo è votato al declino. Specialmente se non si tratta di una tribù negra qualsiasi, ma della madrepatria germanica che ha dato la sua immagine culturale al mondo di oggi. La Germania sarà una potenza mondiale o non esisterà affatto. Ma ci vuole quella dimensione territoriale che oggi conferisce l’importanza necessaria e che nutre i suoi cittadini.
Il terzo punto “Programma dei Venticinque Punti” avanzava la richiesta di “terra” e di “colonie” per approvvigionare il popolo e per insidiare la sovrappopolazione. 23 Sul “Völkischer Beobachter” del 12-13 luglio 1925 Gregor Strasser aveva sostenuto la formazione di una Lega dei popoli oppressi [KA, n. 56].
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Figura 3 Mappa propagandistica dei piani di ricolonizzazione tedesca del Reichsgau Wartheland [fonte: wikipedia.de]
Perciò noi nazionalsocialisti tiriamo consapevolmente una riga sopra la politica estera del periodo prebellico. Riprendiamo il discorso interrotto sei secoli fa. Blocchiamo l’eterna migrazione germanica verso Sud e verso Ovest e puntiamo a Est. Poniamo fine alla politica coloniale e commerciale prebellica e passiamo alla politica territoriale del futuro. Ma se oggi parliamo di nuova terra in Europa, dobbiamo pensare innanzitutto alla Russia e agli Stati satelliti sotto la sua egemonia. Sembra un segno del destino. Consegnando la Russia al bolscevismo, il popolo russo fu privato di quell’intellighenzia che finora aveva condotto e garantito la sua esistenza statale24. Perché l’organizzazione statale russa non fu il prodotto delle doti politiche slave, ma solo l’esempio straordinario della capacità di forgiare uno Stato in una razza inferiore da parte dell’elemento germanico. Così furono creati numerosi e potenti imperi terrestri. Spesso i popoli inferiori, guidati dagli organizzatori e dai signori germanici, diedero vita a costruzioni statali formidabili che sussistettero finché durò il nucleo razziale della razza creatrice. Da secoli la classe dirigente russa si nutre del nucleo germanico25. Ma oggi quel nucleo è quasi completamente sparito o si è Malgrado l’immigrazione occidentale, una parte dell’elite russa rimase nel paese anche dopo la Rivoluzione bolscevica. Alla fine del 1920, un terzo dei posti di comando militari era occupato da membri del vecchio esercito [KA, n. 62]. 25 Un ruolo rilevante nella modernizzazione russa e baltica fu giocato dai cosiddetti Deutschbalten (tedeschi del Baltico), discendenti delle popolazioni germaniche insediatesi in quei territori a partire dal Basso Medioevo. Lo stesso Alfred Rosenberg era nato a Tallinn (Reval in tedesco), in Estonia (all’epoca sotto 24
592 estinto. Al suo posto è subentrato l’ebreo26. È impossibile che un russo si sbarazzi da solo del giogo ebraico. Ma gli ebrei non possono, a lungo andare, conservare una forte entità politica. Perché l’ebreo non è un elemento di organizzazione, ma un fermento di decomposizione27. L’Impero persiano, un tempo così potente, è oggi vicino al tracollo. E la conclusione del dominio ebraico in Russia decreterà anche la fine dello Stato russo. Noi siamo chiamati dal destino a essere testimoni di una catastrofe che sarà la più poderosa conferma della teoria razziale nazionalpopolare. Il nostro compito, la missione del movimento nazionalsocialista, è quello di portare il nostro popolo a quella visione politica che gli farò capire che lo scopo futuro non consiste nel rinnovare la missione alessandrina28, quanto piuttosto nel lavoro assiduo dell’aratro tedesco, al quale la spada deve fornire il terreno da lavorare29. È normale che l’ebraismo, di fronte a una simile politica, annunci la più aspra resistenza. Avverte meglio di chiunque altro l’importanza di quell’azione per il suo avvenire. Ciò dovrebbe insegnare a tutti i veri nazionalisti la bontà della nuova svolta. Purtroppo è vero il contrario. Non solo nei circoli nazionaltedeschi, ma perfino in quelli nazionalpopolari si assiste a una faida violenta sull’idea di politica orientale, col pretesto – come accade quasi sempre in circostanze del genere – di appellarsi a un’idea superiore30. Si cita lo spirito bismarckiano per coprire una politica tanto insensata quanto impossibile e dannosissima per il popolo tedesco. “Bismarck ha sempre attributo gran valore alle buone relazioni con la Russia”31. Questo è parzialmente vero. Si dimentica, però, di accennare che il cancelliere stesso attribuiva grande valore a buone relazioni, per esempio, con l’Italia. Certo, lo stesso Bismarck si alleò con l’Italia, per potersi meglio sbarazzare dell’Austria32. Perché non si prosegue quella politica? “Perché l’Italia di oggi non è più quella di un tempo”, si dice. Bene, ma allora, egregi signori, permettetemi di obiettare che la Russia di oggi non è più quella di un tempo. A Bismarck non è mai venuto in mente di voler fissare per sempre una strategia o una tattica politica. Era sin troppo consapevole del momento per legarsi mani e piedi33. La l’Impero zarista). Bibliografia: W. Schlau (ed.), Sozialgeschichte der baltischen Deutschen, Colonia, Verlag Wissenschaft und Politik, 2000. 26 L’immagine hitleriana della Russia e della Rivoluzione bolscevica non era influenzata solo dalla marea di scritti antibolscevichi, ma – come detto – da Alfred Rosenberg. I tre ideologemi centrali erano: 1) la convinzione che gli ebrei avessero complottato contro la Russia e la Germania; 2) l’equiparazione tra ebrei e bolscevichi; 3) l’idea che gli ebrei avesse annientato l’intelligenza nazionale russa (di origine tedesca) [KA. N. 64]. 27 Su questa espressione mommseniana vedi capitolo 4-II. 28 Riferimento alla campagna di conquista di Alessandro Magno dal 334 al 324 a.C. 29 Sul concetto di “germanizzazione” territoriale vedi capitolo 2-II. 30 Hitler allude alla cerchia degli Strasser e di Reventlow, sostenitore di un’alleanza con la Russia [KA, n. 70]. 31 Bismarck fu un sostenitore dell’alleanza con la Russia (vedi la Lega dei Tre Imperatori del 1881). Bibliografia: S. Wegner-Korfes, Otto von Bismarck und Russland. Des Reichskanzlers Russlandpolitik und sein realpolitische Erbe in der Interpretation bürgerlicher Politiker (1918-1945), Berlino, Dietz, 1990. 32 L’8 aprile 1866 Prussia e Italia strinsero un’alleanza militare in chiave anti-austriaca. 33 Hitler lodò pubblicamente la politica estera di Bismarck, anche se in privato fu assai critico del suo “realismo politico”. Bibliografia: C. Nübel, Der Bismarck-Mythos in den Reden und Schriften Hitlers. Vergangenheitsbilder und Zukunftsversprechen in der Auseinandersetzung von NSDAP und DNVP bis 1933, in “Historische Zeitschrift”, CCXCVIII, 2, aprile 2014, pp. 349-380
593 domanda non deve essere: cosa ha fatto Bismarck? Quanto piuttosto: cosa farebbe oggi? E la risposta è semplice. La sua intelligenza politica gli vieterebbe di allearsi con uno Stato destinato al tramonto. Del resto Bismarck nutrì a suo tempo sentimenti contrastanti verso la politica coloniale e commerciale tedesca, poiché gli interessava soprattutto consolidare e garantire internamente la sua creazione statale. Questo fu anche l’unico motivo per cui si coprì le spalle a Oriente con la Russia, per aver libertà d’azione a Occidente. Solo che ciò che allora giovò per la Germania, oggi le è dannoso. Già nel 1920-21, quando il giovane movimento nazionalsocialista spuntò lentamente all’orizzonte politico e cominciò a essere salutato come movimento di liberazione della nazione tedesca, molti si rivolsero al nostro partito per tentare di stabilire legami con i movimenti di liberazione di altri paesi. Questo si addiceva alla nota “Lega delle nazioni oppresse”. Essa raccoglieva i rappresentanti di singoli Stati balcanici, poi dell’Egitto e dell’India, che mi facevano sempre singolarmente l’impressione di palloni gonfiati ciarlieri, privi di qualsiasi radicamento popolare. Ma non pochi tedeschi, soprattutto nel campo nazionale, si lasciarono così abbindolare da quei tronfi orientali da credere di scovare in un qualsiasi studente indiano o egiziano il “rappresentante” dell’India o dell’Egitto34. La gente non capiva che si trattava di persone prive di qualsiasi radicamento popolare, che non erano autorizzate da nessuno a concludere accordi con chicchessia. Quindi il risultato pratico di ogni relazione allacciata con quegli elementi fu nullo, e il tempo impiegato a negoziare inutile. Mi sono sempre opposto a simili tentativi. Non solo perché avevo di meglio da fare che sprecare settimane in sterili “colloqui”, ma anche perché ritenevo inopportuno, se non dannoso, trattare con rappresentanti non autorizzati di quelle nazioni. Già in tempo di pace era sconfortante come la politica di alleanza tedesca, per mancanza di scopi effettivi, desse vita a un’associazione difensiva di vecchi Stati pensionati dalla storia mondiale. L’alleanza con l’Austria e con la Turchia era assai poco allettante. Mentre i grandi Stati militari e industriali della terra stipulavano un’alleanza offensiva, un paio di vecchie creazioni statali ormai impotenti si univano per cercare di tener testa a una coalizione mondiale aggressiva con quel ciarpame destinato al declino. La Germania dovette pagare a caro prezzo quello sbaglio politico. Solo che lo sbaglio non sembrava così caro da impedire ai nostri eterni sognatori di ricadere dalla padella nella brace. Perché il tentativo di disarmare gli Stati vincitori con una “Lega delle nazioni oppresse” è non solo ridicolo, ma pure funesto. È funesto perché così si distoglie il nostro popolo dalle reali necessità, abbandonandolo a speranze e a illusioni prive di fondamento. Il tedesco di oggi assomiglia a una persona che, sul punto di affogare, si aggrappa a ogni fuscello di paglia a vista. Del resto si tratta di persone molto istruite. Non appena intravvedono il fuoco fatuo di una speranza irrealizzabile, quella persone danno la caccia al nuovo fantasma. Che si tratti di una Lega delle nazioni oppresse, di una Società delle nazioni oppure di una nuova fantasiosa invenzione, quella gente troverà sempre migliaia di anime credulone disposte a seguirla. 34
Possibile allusione a Karl Haushofer, amico del sociologo e nazionalista indiano Benoy Kumar Sarkar [KA, n. 78].
594 Mi ricordo ancora delle speranze puerili e incomprensibili che, nel 1920-21, si sparsero improvvisamente nei circoli nazionalpopolari. Qualche saltimbanco asiatico, forse un autentico “combattente per la libertà” indiana che all’epoca si aggirava per l’Europa, era riuscito a convincere uomini ritenuti ragionevoli che l’Impero mondiale britannico, imperniato sull’India, era prossimo al tracollo35. Non si rendevano conto che era solo un pio desiderio, un’assurda speranza, perché, ammettendo che il crollo del dominio inglese in India comportasse la fine dell’Impero mondiale britannico e della potenza inglese, finiva per assegnare all’India una grandissima importanza per il destino britannico36. Ma è probabile che tutto ciò sia ben noto non solo a un profeta nazionalpopolare tedesco, ma anche alla classe dirigente inglese. È puerile credere che l’Inghilterra non sappia valutare adeguatamente la rilevanza imperiale dell’India. Ed è solo la dimostrazione di come molti non abbiano imparato nulla della guerra mondiale e abbiano completamente frainteso la risolutezza anglosassone se credono che l’Inghilterra potrà rinunciare all’India senza ricorrere sino all’ultima goccia del suo sangue. È un’ulteriore dimostrazione dell’ignoranza tedesca sul modo in cui la Gran Bretagna amministra il suo impero. L’Inghilterra perderà l’India solo se il suo meccanismo amministrativo sarà vittima della corruzione razziale (cosa che al momento è da escludere) o se sarà sconfitta dalla spada di un nemico potente. Le rivolte indiane non riusciranno a farlo37. Quanto sia difficile sconfiggere l’Inghilterra, l’abbiamo appreso a sufficienza. Senza contare che, da germano, preferisco che l’India sia assoggettata agli inglesi che ad altri popoli38. Altrettanto pietose sono le speranze nell’insurrezione vincente in Egitto39. La “guerra santa” può fornire ai nostri ingenui tedeschi il brivido piacevole che altri sono pronti a dissanguarsi per noi (in verità questa vile speculazione è stata sempre la madre di tutte le speranze). In realtà le illusioni finirebbero presto sotto il fuoco tambureggiante delle mitragliatrici e sotto la grandinata di bombe inglesi40. 35
Prima della guerra giunsero in Europa alcuni rivoluzionari indiani. A Berlino fu fondato nel 1914 un comitato di studenti indiani, poi divenuto l’anno dopo Indisches Unabhängigkeitskomitee (Comitato per l’indipendenza indiana). Bibliografia: T.G. Fraser, Germany and Indian Revolution, 1914-1918, in “Journal of Contemporary History”, XII, 12, 1977, pp. 255-272. 36 Il 22 febbraio 1920 Reventlow pubblicò sulla sua rivista “Der Reichswart” una lettera del panislamista indiano Mushir Hosain Kidwai [KA, n. 82]. 37 Gandhi sarebbe riuscito a ottenere pacificamente l’indipendenza dall’Impero britannico dopo la Seconda guerra mondiale, anche se in un contesto geopolitico ed economico differente. 38 Anche dopo il peggioramento delle relazioni anglo-tedesche, la posizione hitleriana verso il movimento indipendentista indiano rimase sempre negativa. Subhas Chandra Bose (1897-1945), pur riuscendo a creare un’unità di volontari nelle SS (la Legione “India Libera”), dovette unirsi al Giappone per creare un esercito nazionale indiano. Bibliografia: J. Kuhlmann, Subhas Chandra Bose und die Indienpolitik der Achsenmächte, Berlino, Hans Schiller, 2003; M. Alfiero, Indische freiwilligen Legion der Waffen SS. La Legione SS indiana di Subhas Chandra Bose, prefazione di C. Caballero Jurado, Voghera, Marvia, 2007. 39Allusione alla propaganda dei nazionalisti egiziani in Germania a sostegno dell’indipendenza del loro paese dall’Impero britannico. Bibliografia: M. Hanisch (ed.), Erster Weltkrieg und Dschihad. Die Deutschen und die Revolutionierung des Orients, Monaco, Oldenbourg, 2014 40 La Germania nazista sostenne il leader nazionalista palestinese Mohamed Amin al-Husseini (18971974) durante la guerra. Ancora oggi si discute sul ruolo effettivo esercitato dall’antisionismo del Muftì nel favorire o accelerare la “soluzione finale della questione ebraica”. Bibliografia: D.G. Dalin, J.F. Rothmann, Icon of evil. Hitler’s Mufti and the rise of radical Islam, New Brunswick (New Jersey), Transaction
595 È impossibile assaltare con una coalizione di storpi uno Stato potente, deciso a versare, se necessario, sino all’ultima goccia del suo sangue. Da uomo nazionalpopolare che stima il valore degli uomini in base alla razza non posso legare il destino del mio popolo a quello delle “nazioni oppresse”, conoscendone il valore razziale inferiore. Ma oggi bisogna assumere la stessa posizione verso la Russia. Quel paese, privato della sua classe dirigente germanica, indipendentemente dalle intenzioni profonde dei suoi nuovi signori, non è un possibile alleato nella lotta per la libertà della nazione tedesca. Dal punto di vista puramente militare, in caso di guerra russo-tedesca contro l’Europa occidentale, ossia probabilmente il mondo intero, la nostra situazione sarebbe addirittura catastrofica. La battaglia non avverrebbe sul territorio russo, ma su quello tedesco, senza che la Germania possa ricevere anche il benché minimo supporto effettivo dalla Russia. I mezzi militari della Germania di oggi sono così miseri e inadeguati a una guerra esterna che sarebbe impossibile difendere i confini contro i paesi occidentali, inclusa l’Inghilterra, e la nostra regione industriale si consegnerebbe inerme all’assalto concentrato dei nostri avversari. A ciò si aggiunga che tra la Germania e la Russia si trova lo Stato polacco, completamente egemonizzato dalla Francia. Nel caso di conflitto russo-tedesco contro l’Europa occidentale, la Russia dovrebbe stroncare anzitutto la Polonia, per portare i soldati sul fronte tedesco41. Inoltre non si tratta solo di soldati, ma di tecnica bellica. Ecco che si ripeterebbe, in maniera ancor più spaventosa, la situazione della guerra mondiale. All’epoca l’industria tedesca fu sfruttata dai nostri gloriosi alleati e la Germania dovette sostenere quasi da sola la guerra tecnica42. Nella futura guerra la Russia non avrebbe quasi alcuna rilevanza tecnica. Non potremmo opporre quasi niente alla motorizzazione planetaria che avrà un peso preponderante nella prossima guerra. Non solo perché la Germania è rimasta vergognosamente indietro in questo importantissimo settore, ma anche perché dovrebbe fornire quel poco che possiede alla Russia, che oggi non ha una sola fabbrica capace di produrre un vero automezzo. La guerra non sarebbe altro che un macello. La gioventù tedesca si dissanguerebbe più di prima, perché, come sempre, il peso della battaglia ricadrebbe solo su di noi e l’esito sarebbe ineluttabilmente la sconfitta. Ma anche ammettendo che avvenisse un miracolo e che la guerra non terminasse col totale annientamento della Germania, l’esito finale sarebbe solo che il popolo tedesco dissanguato continuerebbe a confinare con grandi Stati militari e che la sua situazione reale non sarebbe affatto mutata. Non si obietti che, in caso di alleanza con la Russia, non si entrerebbe subito in guerra o che ci sarebbe il tempo di prepararla in modo adeguato. No. Un’alleanza che non si proponga il fine bellico è insensata e inutile. Le alleanze si stringono solo per combattere. E se, al momento della stipula di un trattato di alleanza, il confronto appare ancora lontano, la prospettiva di un coinvolgimento bellico ne è la ragione più profonda. E non si creda che le altre potenze la pensino diversamente. O la coalizione russo-tedesca resterebbe solo sulla carta, e quindi non avrebbe alcun valore per noi, Publishers, 2009; K. Gensicke, Der Mufti von Jerusalem und die Nationalsozialisten-. Eine politische Biographie Amin-el Husseinis, Darmastadt, Wissenschaftliche Buchgesellschacft, 2012. 41 Allusione all’accordo di mutua assistenza e di cooperazione militare franco-polacco del febbraio 1921. 42 Sulla tecnicizzazione della guerra vedi capitoli 7-I e 9-II.
596 oppure si passerebbe dalla lettera del trattato all’azione concreta – e il resto del mondo ne sarebbe avvertito. È ingenuo credere che Inghilterra e Francia starebbero ad attendere un decennio finché l’alleanza russo-tedesca non terminasse i suoi preparativi tecnici. No, la tempesta si riverserebbe istantaneamente sulla Germania.
Figura 4 Manifesto dell’Associazione per la lotta contro il bolscevismo (Monaco, 1919) [fonte: München und der Nationalsozialismus, 2015]
Già la stipula di un’alleanza con la Russia indica una prossima guerra. Il suo esito sarebbe la fine della Germania. A questo si aggiunga quanto segue: 1. I detentori attuali del potere in Russia non pensano di contrarre un’onesta alleanza o di rispettarla sinceramente. Non dimentichiamoci che la classe dirigente della Russia attuale è costituita da vili criminali sanguinari, dalla feccia dell’umanità che, favoriti dalle circostanze in un momento tragico, assaltò un grande Stato, soffocò e annientò milioni di intellettuali con selvaggia bramosia di sangue e, da quasi dieci anni, esercita il dominio più dispotico di tutti i tempi43. Non si dimentichi, inoltre, che quei detentori del potere 43
Espressioni del genere sulla Russia rivoluzionaria erano parte del canone della pubblicistica di destra e degli ideologi nazionalpopolari. Bibliografia: K.-U. Merz, Das Schreckbild. Deutschland und der Bolschewismus, 1917-1921, Francoforte sul Meno, Propyläen Verlag, 1995.
597 appartengono a un popolo che unisce, in un singolare miscuglio, la bestiale crudeltà e l’arte del mentire e che si crede oggi chiamato a imporre al mondo intero il suo sanguinoso dominio. Non si dimentichi che l’ebreo internazionalista, oggi padrone assoluto della Russia, non vede nella Germania un alleato, ma uno Stato condannato alla sua stessa sorte. Non si stipula un trattato con un partner, il cui unico interesse è l’annientamento dell’altro. Non si stipula soprattutto con soggetti che non rispetterebbero alcun trattato, perché non vivono da sinceri uomini d’onore e di veridicità, ma da rappresentanti della menzogna, del tradimento, del furto, della razzia, della rapina. Se l’uomo crede di poter stringere legami contrattuali coi parassiti, sembra l’albero che tenta di stringere un accordo a proprio vantaggio col vischio. 2. È sempre presente in Germania il pericolo che ha sconfitto la Russia44. Solo il tontolone borghese è capace di credere che il bolscevismo sia stato scongiurato. Nella sua superficialità quel signore non immagina che si tratta di un processo istintivo, cioè dell’aspirazione ebraica al dominio mondiale, di un processo che è così naturale come l’impulso anglosassone a dominare il mondo. E come l’anglosassone persegue quel fine a suo modo e combatte la battaglia con le proprie armi, così lo fa anche l’ebreo. Egli va per la sua strada, cerca di insinuarsi nei popoli e di minarli dall’interno, e lotta con le sue armi: la menzogna e la calunnia, l’avvelenamento e la corruzione, finché non ha sanguinosamente estirpato l’odiato avversario. Nel bolscevismo russo dobbiamo scorgere il tentativo ebraico di impossessarsi del dominio universale nel ventesimo secolo, proprio come in altre epoche ricorse ad altri strumenti, anche se l’obiettivo era il medesimo. Quell’aspirazione è profondamente radicata nel suo carattere. Se è vero che popolo non rinuncia da sé all’istinto di espandere la sua stirpe e la sua potenza, ma è costretto dalle condizioni esterne o dall’impotenza senile, lo è altrettanto che l’ebreo non abbandonerà mai spontaneamente la sua marcia verso la dittatura universale, né soffocherà il suo impulso eterno. Anch’egli sarà ricacciato indietro da forze esterne, a meno che la sua aspirazione al dominio mondiale non sia stroncata con la morte. L’impotenza dei popoli, la loro morte per vecchia, si deve all’impurità del loro sangue. E l’ebreo conserva la purezza meglio di qualsiasi altro popolo sulla terra. Quindi proseguirà per il suo fatale cammino finché non si scontrerà con un’altra forza che, in una lotta violenta, rimanderà a Lucifero colui che ha assaltato il cielo. La Germania di oggi è il prossimo obiettivo bellico del bolscevismo45. Ci vuole tutta la forza di una giovane idea missionaria per sollevare nuovamente il nostro popolo, per liberarlo dalla stretta di quella serpe internazionale e per porre fine all’inquinamento del nostro sangue. Solo così le forze liberate della nazione potranno essere impiegate per salvaguardare il nostro carattere nazionalpopolare, che riesce a impedisce da tempo immemorabile una ripetizione delle recenti catastrofi. In tal caso è
Possibile riferimento al tentato colpo di Stato dell’ottobre 1923 organizzato del Komintern in Germania tramite Karl Radek. Bibliografia: C. Basile, L’“Ottobre tedesco” del 1923 e il suo fallimento. La mancata estensione della rivoluzione in Occidente, Paderno Dugnano, Edizioni Colibrì, 2016. 45 Dopo il fallito colpo di Stato tedesco del 1923 e quello estone del 1924, il Komintern decise di concentrare gli sforzi rivoluzionari in Cina. Bibliografia: A. Di Biagio, Coesistenza e isolazionismo. Mosca, il Komintern e l’Europa di Versailles, 1918-1928, Roma, Carocci, 2004. 44
598 una follia allearsi con una potenza governata dall’acerrimo nemico del nostro futuro46. Come potremo liberare il nostro popolo da quell’abbraccio velenoso, se lo subiremo noi stessi? Come potremo chiarire al lavoratore tedesco che il bolscevismo è un maledetto crimine contro l’umanità, se ci alleeremo con quell’aborto infernale, se lo legittimeremo? Con quale diritto condanneremo chi nutre ancora simpatie per la visione del mondo bolscevica, se il capo di Stato sceglie di allearsi coi rappresentanti di quella visione?47 La lotta contro la bolscevizzazione mondiale ebraica esige una posizione chiara verso la Russia sovietica. Non si può esorcizzare il diavolo con Belzebù. Se oggi perfino i circoli nazionalpopolari parlano con entusiasmo di un’alleanza con la Russia48, io consiglio loro di guardarsi intorno in Germania e di comprendere chi siano i suoi veri sostenitori. Oppure adesso i nazionalpopolari accettano i consigli e le rivendicazioni dalla stampa marxista internazionale? Da quando in qua i nazionalpopolari combattono utilizzando l’ebreo come scudiero? Al vecchio Impero tedesco si poteva rimproverare la sua politica di alleanze. Aveva sì buoni rapporti con la Russia, ma aveva rovinato quelli con tutti gli altri paesi oscillando da una parte all’altra, per la morbosa debolezza di mantenere a tutti i costi la pace mondiale49. Confesso apertamente che già prima della guerra avrei ritenuto giusto che la Germania, rinunciando alla sua insensata politica coloniale e alla sua flotta commerciale e bellica, si fosse alleata con l’Inghilterra contro la Russia e così sarebbe passata dalla debole politica mondiale a una politica europea finalizzata all’acquisizione di territorio sul continente europeo. Non mi dimentico la costante, sfacciata minaccia che la Russia panslavista dell’epoca osava rivolgere alla Germania50. Non mi dimentico le continue mobilitazioni di prova al solo scopo di irritare la Germania. Non posso dimenticarmi lo stato d’animo dell’opinione pubblica russa che già prima della guerra era ineguagliabile nei suoi acrimoniosi affondi contro il nostro popolo e il nostro paese, né che la grande stampa russa parlava con maggiore entusiasmo della Francia rispetto a noi. Solo che, malgrado tutto questo, prima della guerra avremmo potuto imboccare la seconda via, appoggiandoci alla Russia in chiave anti-inglese. Oggi le cose stanno diversamente: non è più possibile allearci con la Russia turandoci il naso. La lancetta dell’orologio mondiale è andata avanti e, con forti Ritenendo l’Unione Sovietica un “paravento ebraico”, Hitler aveva criticato il trattato di Rapallo del 16 aprile 1922 concluso tra Germania e Russia [KA, n. 103]. 47 Il 23 agosto 1939 la Germania strinse con l’Unione Sovietica il patto di non aggressione (c.d. MolotovRibbentrop), che prevedeva la spartizione fra due sfere di influenza in Europa orientale. 48 Nei primi anni Venti l’idea di un’alleanza tra una Germania autoritaria e una Russia antibolscevica era molto diffusa nel movimento nazionalpopolare (incluso il Partito nazionalsocialista). Lo stesso Hitler era possibilista, quantomeno sino al 1922 [KA, n. 105]. 49 La fine dell’epoca bismarckiana (1890) segnò il passaggio dalla Realpolitik (politica realista) alla Weltpolitik (politica planetaria), che intendeva creare un impero coloniale e una potenza marittima. Bibliografia: G. Schöllgen, Jenseits von Hitler. Die Deutschen in der Weltpolitik von Bismarck bis heute, Berlino, Propyläen, 2005. 50 Allo scoppio della Prima guerra mondiale, molti panslavisti consideravano la Germania quale il loro nemico principale. Bibliografia: V. Giusti, Il panslavismo, prefazione di D. Caccamo, Roma, Bonacci, 1993. 46
599 rintocchi, annuncia che il destino del nostro popolo deve essere deciso in un modo o nell’altro. L’attuale consolidamento dei grandi Stati planetari è l’ultimo segnale d’allarme per fermarci, per riportare il nostro popolo dal mondo dei sogni alla dura realtà e per indicare la via nel futuro che da sola può condurre a nuova fioritura il vecchio Impero. Se il movimento nazionalsocialista, considerando la sua nuova e importante missione, si libererà di ogni illusione e si farà guidare dalla ragione, la catastrofe del 1918 potrà trasformarsi, un giorno, in una benedizione futura del nostro popolo. Da quel tracollo, il nostro popolo può ottenere una nuova svolta della sua politica estera: una volta rafforzato intimamente dalla sua visione del mondo, potrà ottenere una stabilizzazione esterna definitiva. Potrà ottenere ciò che l’Inghilterra possiede e possedeva la Russia e ciò che consente alla Francia di prendere le stesse favorevoli decisioni per i propri interessi: un testamento politico.
Figura 5 Piano generale “Est” comprensivo di centri nevralgici e di confini in base al “Documento 5” [fonte: wikipedia.de]
600 Il testamento politico della nazione tedesca in politica estera deve essere questo51: non tollerare mai la creazione di due potenze continentali in Europa. Vedere un attacco contro la Germania in ogni tentativo di organizzare una seconda potenza militare al confine tedesco, sia pure in forma di costruzione di uno Stato capace di diventare una potenza militare. Quel tentativo politico non darà solo il diritto, ma anche il dovere di impedire con ogni mezzo la creazione di uno Stato pericoloso, ricorrendo, se necessario, alla forza militare oppure alla distruzione dell’entità politica. – All’occorrenza bisogna che la forza del nostro popolo mantenga le sue basi non nelle colonie, ma sul territorio metropolitano. Lo Stato non si riterrà mai al sicuro se, nel corso dei secoli, non riuscirà a fornire a ogni figlio del suo popolo il suo appezzamento di terra. Non dimenticare mai che il diritto più sacro al mondo è il diritto alla terra che un uomo vuole coltivare da sé e che il sacrificio più sacro è il sangue che si versa per la conquista e per la difesa della terra. Non vorrei terminare queste considerazioni senza accennare nuovamente all’unica possibile alleanza possibile in Europa. Nel capitolo precedente ho già indicato nell’Inghilterra e nell’Italia gli unici Stati europei con cui bisognerebbe cercare di stringere un legame promettente e desiderabile. Qui vorrei brevemente accennare all’importanza militare di una simile alleanza. Le conseguenze militari della conclusione dell’alleanza sarebbero opposte a quelle di un’alleanza con la Russia. L’aspetto più importante è il fatto che un avvicinamento all’Inghilterra e all’Italia non evocherebbe affatto un pericolo bellico. L’unica potenza che avrebbe da ridire (la Francia) non potrebbe farlo. Ma così l’alleanza darebbe alla Germania la possibilità di fare con tutta calma i preparativi che, all’interno di quella coalizione, andrebbero fatti per una resa dei conti finale con la Francia52. L’aspetto più importante dell’alleanza non consiste nel fatto che la Germania non sarebbe esposta a un’invasione nemica, ma che l’alleanza rivale (l’Intesa), fonte di tante sventure, si spezzerebbe e, quindi, il nemico mortale del nostro popolo (la Francia) sarebbe isolato. Anche se questo successo avesse solo un effetto morale, basterebbe da solo a dare alla Germania una libertà di movimento oggi inimmaginabile. Perché la possibilità di manovra sarebbe nelle mani della nuova coalizione europea anglo-italo-tedesca e non più in quelle francesi. L’ulteriore risultato sarebbe che la Germania si libererebbe in un colpo solo della sua posizione strategica sfavorevole. La formidabile protezione ai fianchi, da un lato, e la completa garanzia del rifornimento di generi alimentari e di materie prime, dall’altro, sarebbero l’effetto benefico del nuovo ordinamento statale. Ancora più importante, però, sarebbe il fatto che la nuova alleanza di Stati permetterebbe una capacità produttiva tecnica quasi complementare. Per la prima volta la Germania avrebbe alleati che non solo succhiano come sanguisughe la sua economia, ma che potrebbero persino dare il loro contributo e lo darebbero al completamento del nostro armamento tecnico.
Il “testamento politico” ebbe un’eco particolare all’estero. Protestando il 17 marzo 1936 contro la rimilitarizzazione della Renania (in palese violazione agli articoli 42-44 del trattato di Versailles), il ministro degli esteri sovietico Litvinov citò proprio il testamento quale prova della politica estera aggressiva hitleriana. In Francia il testamento hitleriano circolò soprattutto negli anni Trenta [KA, n. 110]. 52 La presenza di questi passaggi antifrancesi spinse Hitler a rinunciare alla traduzione integrale del Mein Kampf in francese. Nel 1934 uscì un’edizione non autorizzata, poi ritirata dal commercio. Nel 1938 l’editore Eher consentì una traduzione parziale del libro [KA, n. 113].
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601 Non bisogna sottovalutare un ultimo aspetto: in entrambi i casi si tratterebbe di alleati che non sono paragonabili alla Turchia o alla Russia di oggi. La più grande potenza universale della terra e un giovane Stato nazionale offrirebbero per una lotta europea ben altri presupposti rispetto alle putride salme statali con cui la Germania si alleò durante l’ultima guerra. Come ho già sottolineato nel capitolo precedente, non sono poche le difficoltà che si frappongono a questa alleanza. Ma la formazione dell’Intesa fu forse meno difficile? Ciò che riuscì alla genialità di Edoardo VII, in parte contro gli interessi naturali britannici deve riuscire anche a noi, se il riconoscimento della necessità di quello sviluppo ci sprona ad attuare una condotta sagace. E questo sarà possibile nell’istante in cui, a causa della situazione emergenziale, la confusa politica estera degli ultimi decenni sarà sostituita da una politica consapevole e guidata lungo un’unica via ben determinata. L’obiettivo futuro della nostra politica estera non può essere la svolta occidentale oppure orientale, semmai la politica orientale nel senso dell’acquisizione della zolla necessaria al nostro popolo tedesco. Poiché questa svolta necessita della forza, il nemico mortale del nostro popolo (la Francia) ci strozzerà senza pietà e ci priverà della nostra ripresa. Dobbiamo quindi accollarci ogni sacrificio in grado di contribuire all’annientamento dello sforzo egemonico francese sul continente. Nessuna via per ottenere quella potenza ci deve sembrare troppo ardua e nessuna rinuncia troppo grave53, se l’esito finale ci darà la possibilità di abbattere il peggiore tra i nostri nemici. Il tempo ci dirà se potremo cauterizzare e cicatrizzare le nostre ferite più gravi. Naturalmente oggi ci esponiamo al furioso latrato dei nemici interni del nostro popolo. Ma noi nazionalsocialisti non ci lasciamo mai distogliere dall’annunciare ciò che di cui siamo assolutamente convinti. Dobbiamo opporci alla corrente dell’opinione pubblica sedotta dalla perfidia ebraica nello sfruttare la disattenzione tedesca. Spesso le grandi e terribili mareggiate si infrangono e strepitano intorno a noi. Ma chi nuota a favore della corrente, vedrà più chiaramente che si oppone. Oggi siamo solo uno scoglio, fra qualche anno il destino può elevarci a diga su cui si infrangerà la corrente generale, per scorrere in un nuovo letto. Quindi è necessario che il movimento nazionalista sia riconosciuto e individuato agli occhi del resto del mondo quale rappresentante di un determinato proposito politico. Qualunque sorte il cielo ci riservi, dobbiamo essere subito riconoscibili. Dall’ammissione della grande necessità che deve guidare la nostra politica estera sgorgherà la forza necessaria per sostenere il fuoco tambureggiante della nostra stampa avversaria. Un fuoco che, a volte, insinua la piccola tentazione, per non avere tutti contro, di fare qualche concessione qua e là e di ululare coi lupi alla luna.
Approfondimenti didattici 1. Analisi retorica e stilistica
- Individua le principali figure retoriche; - Individua l’esistenza di fallacie retoriche; Allusione alla rinuncia al Sud Tirolo come contropartita per una futura alleanza con l’Italia fascista. A. Gilardoni, Logica e argomentazione. Un prontuario, Milano, Mimesis, 2008.
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602 - Individua i principali “loci” e “topoi”; - Individua la presenza di stereotipi e pregiudizi.
2. Analisi storico-culturale
- Spazio vitale: analizza la genesi e l’utilizzo dell’espressione in ambito geopolitico; - Il testamento politico: analizza le basi storiche, filosofiche ed economiche del nesso “sangue e terra” statuito da Hitler e dal nazionalsocialismo; - La Rivoluzione russa: analizza gli echi della Rivoluzione russa nell’Europa occidentale, in particolare l’accelerazione dell’antisemitismo dopo la stabilizzazione delle Repubbliche sovietiche; - La politica di alleanza tedesca: analizza il quadro delle possibili alleanze tedesche alla vigilia della Seconda guerra mondiale e tenta di confrontarlo con quello relativo alla vigilia della Prima.
Capitolo XV. Legittima difesa come diritto
Sinossi 1. Genesi Il capitolo 15-II doveva fungere da capitolo conclusivo del primo volume, perché affrontava i tre grandi temi del 1923: la “resa dei conti” con gli avversari interni, l’occupazione franco-belga della Ruhr e il putsch di novembre. Nel giugno 1924 il capitolo fu annunciato come opuscolo a se stante, ma i problemi giudiziari di Hitler lo indussero alla prudenza. Anche se alcuni passaggi furono redatti a fine 1925 (come quello sul trattato di Locarno), il resto del testo è databile intorno all’estate del 1924. Lo spostamento della “resa dei conti” a livello internazionale intendeva evitare i problemi del Redeverbot (divieto di parola) bavarese. Il capitolo 15-II fu pubblicato in parte sul “Völkischer Beobachter” nel novembre 1926 e poi su altre riviste e quotidiani1. 2. Contenuto Il capitolo finale del Mein Kampf inizia con una semplice domanda: è sempre meglio deporre le armi o ricorrere alla forza? Hitler si riferisce chiaramente ai “traditori novembrini”, cioè a coloro che avrebbero determinato la sconfitta bellica e avrebbero asservito la Germania alle potenze vincitrici e all’ebraismo. In particolare il riferimento è alla Francia e all’occupazione (insieme al Belgio) della Ruhr nel gennaio 1923 per esigere il pagamento delle riparazioni previste dal trattato di Versailles. Il capo nazista non ha dubbi: la Francia non vuole semplicemente denaro (inflazionato) oppure beni (carbone e legname), ma intende smembrare la Germania per riportarla alla situazione della pace di Vestfalia (1648). Il fatto che la guerra mondiale sia stata combattuta sul suolo francese, è stata una fortuna. In caso contrario, non esisterebbe più una Germania (neanche nella forma repubblicana). L’obiettivo politico inglese è quello, secondo Hitler, di riequilibrare la situazione continentale, indebolendo la Francia e favorendo una ripresa della Germania. Il governo Cuno, ignorando l’opinione pubblica estera favorevole (anche in Italia), ha finito per imboccare la strada della “resistenza passiva”, cioè della mancata collaborazione dei funzionari civili e dell’iper-inflazione. La strada “economica” perseguita dal governo borghese non ha fatto altro che distruggere la già debole economia tedesca, senza ottenere in cambio se non una generica simpatia dell’opinione pubblica. Il punto, secondo Hitler, è che la “resistenza passiva” è inutile se non è pronta a trasformarsi in resistenza “attiva” (cioè armata). L’intelligenza non basta a sconfiggere il nemico: ci vogliono le armi. Il mancato uso della forza è dovuto alla “serpe marxista” e ai collaborazionisti borghesi. Nei cinque anni trascorsi dal termine del conflitto, la Germania non è riuscita a espellere dal suo “corpo popolare” il veleno marxista. Di fronte alla resa incondizionata della politica borghese non resta che guardare a Sud delle Alpi, a Mussolini e alla sua lotta contro il marxismo. La lotta contro la Francia non è stata combattuta per colpa della “paralisi interna” causata dal “veleno”. Quel veleno è
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KA II, p. 1691.
604 stato dimostrato da Cuno con la sua visione “aziendalista” della crisi della Ruhr e con il sostegno dato ai sindacati per sostenere gli scioperi antifrancesi. Di fronte ai limiti strategici della “resistenza passiva”, Hitler non giustifica nemmeno l’operato dei nazionalisti “a parole”. Per fronteggiare una guerra ci vogliono le risorse umane giuste e le condizioni politiche adeguate, entrambe assenti nel 1923. La crisi della Ruhr si è risolta infatti con la morte di alcuni martiri, con il Piano Dawes e con la ripresa dell’“asservimento” economico internazionale. L’unica speranza della Germania è riposta nell’esercito e nei giovani, le uniche forze attive durante la guerra e in grado di superare l’empasse economica e politica dei governi “democraticoborghesi”. La chiusa è dedicata al processo per tradimento del 1924 e al ricordo dei “caduti” del putsch del 1923: chi combatte per l’affermazione dei valori della giustizia e della persona avrà la storia dalla sua parte. 3. Analisi Il capitolo finale del Mein Kampf non può non chiudersi con una “resa dei conti”. Contrariamente alle apparenze, però, la resa dei conti di Hitler è soprattutto con se stesso, cioè con gli eventi del 1923. In quell’anno non vanno in scena solo i tentati putsch nazista e comunista dell’autunno, ma anche la più grave crisi economica della Repubblica di Weimar. L’iperinflazione legata all’occupazione franco-belga della Ruhr ha finito per mettere in ginocchio la fragile ripresa economica tedesca, ma ha anche gettato le basi del Piano Dawes e della ripresa economica del quinquennio successivo. L’economia sembra in qualche modo sopravanzare la politica. Non è però di economia che Hitler parla (tema di scarso interesse nella sua visione “eroica” e darwinistica dei rapporti internazionali). Ma è l’operato dei governi borghesi alla guida della Germania durante la crisi del 1923. Il titolo del capitolo non ammette fraintendimenti: la legittima difesa è un diritto. Legittima difesa contro chi e contro che cosa? È chiaro che il capo nazista (che scrive larga parte del capitolo durante la prigionia, aggiungendo poi alcune considerazioni sullo “spirito di Locarno”) ha in mente la classe politica democratica: se un governo non fa gli interessi dei suoi cittadini, essi hanno il diritto di ricorrere a tutti i mezzi a loro disposizione e, se necessario, alla forza. Per impostare il “diritto alla ribellione” Hitler deve però dimostrare o, meglio, dare per scontato alcune cose: 1) l’azione politica francese nasconde il fine di smembrare la Germania; 2) il governo democratico tedesco non ha agito in buona volontà; 3) la libertà è la virtù più importante del popolo tedesco; 4) l’indipendenza economica e politica è sempre e comunque preferibile alla dipendenza; 5) il nazismo incarna i valori migliori della storia tedesca. Sulla base di questi assunti, ecco che il capo nazista passa in rassegna il tema centrale del capitolo: la “resistenza passiva”. La domanda è chiara: ha senso comunque questa forma di resistenza? Qual è il suo obiettivo? Di fronte all’occupazione franco-belga, che cosa avrebbe dovuto fare il governo tedesco? In effetti la risposta a questo interrogativo è alquanto evasiva. Hitler parla di “volontà attiva”, di primato della libertà. Analizza anche la tattica “contabile” di Cuno, criticandone la mancanza di un “sottostante” (cioè di una forza militare o di una “guerrigliera” in grado di sorreggere il peso degli scioperi). Ma non offre una soluzione politica. D’altro canto la risposta è a portata di mano: la debolezza politica tedesca postbellica si deve all’elitarismo “ebraico-democratico” che ha finito per sfibrare le migliori virtù tedesche. Il problema è sempre lo stesso: la “paralisi” del corpo popolare determinato dal “veleno marxista”. Ancora una volta si risale alle cause dagli effetti e poi si presenta il caso: la “resistenza passiva”.
605 È chiaro che Hitler non ha potuto dedicare lo spazio voluto agli eventi del novembre 1923. Beninteso, oltre alla prudenza (il governo bavarese monitorava il rinato Partito nazionalsocialista) il capo nazista ha anche voluto chiudere una stagione ribellistica conclusasi col fallimento. Il futuro del nazismo passava attraverso una “via legalitaria”, dalla conquista dell’esercito sino alla penetrazione nella società (specie fra i giovani). Ecco perché si può parlare di “resa dei conti” con una stagione politica ormai alle spalle. La Repubblica di Weimar è uscita rinforzata dalla crisi del 1923 e si sta avviando a una stagione di stabilità economica e politica (seppur breve). Il nazismo non può fare altro che imparare la lezione dagli eventi del 1923 e “tenersi pronto” alla sua occasione storica. 4. Parole-chiave Alsazia-Lorena, Corpo popolare, Economia nazionale, Lavoratore tedesco, Marxismo, Occupazione della Ruhr, Piano Dawes, Politica estera francese, Politica interna tedesca, Politica estera tedesca, Proletariato tedesco, Putsch dell’8 novembre 1923, Resistenza attiva, Resistenza passiva, Riparazioni, Scopo di guerra francese, Solidarietà internazionale, Trattato di Locarno, Trattato di Versailles. 5. Bibliografia essenziale - P. Bruppacher, Adolf Hitler und die Geschichte der NSDAP. Eine Chronik, parte 1: 1889-1937, Norderstedt, Books on Demand, 2014; - A. Bullock, Hitler. Studio sulla tirannide, Milano, Res Gestae, 2014; - K. Burke, Die Rhetorik in Hitlers “Mein Kampf” und andere Essays zur Strategie der Überredung, Francoforte sul Meno, Suhrkamp, 1967; - D. Capozza, C. Volpato, Le intuizioni psicosociali di Hitler. Un’analisi del “Mein Kampf”, Bologna, Patron, 2004; - W. Carr, Hitler. Studio sul rapporto tra personalità e politica, Napoli, Liguori, 1985; - G. Corni, Hitler, Bologna, Il Mulino, 2007; - Id., Breve storia del nazismo, 1920-1945, Bologna, Il Mulino, 2015; - W. Durner, Antiparlamentarismus in Deutschland, Würzburg, Königshausen und Neumann, 1997; - J. Fest, Hitler. Una biografia, traduzione di F. Saba Sardi, Milano, Garzanti 2005; - C. Fischer, The Ruhr crisis, 1923-1924, Oxford, Oxford University Press, 2003; - G. Franz-Willing, Putsch und Verbotszeit der Hitlerbewegung, November 1923-Februar 1925, Preussisch Oldendorf, Verlag K.W. Schütz KG, 1977; - H.J. Gordon, Hitlerputsch 1923. Machtkampf in Bayern, 1923-1924, Francoforte sul Meno, Bernard & Graefe, 1971; - M. Grünthaler, Parteiverbote in der Weimarer Republik, Francoforte sul Meno, Peter Lang, 1995; - H.H. Hoffmann, Der Hitlerputsch. Krisenjahre deutscher Geschichte, 1920-1924, Monaco, Nymphenburger Verlagshandlung, 1961; - D. Jablonsky, The Nazi party in dissolution. Hitler and the Verbotszeit, 1923-1925, Londra, F. Cass, 1989; - S. Jeannesson, Poincaré, la France et la Ruhr, 1922-1924. Histoire d’une occupation, Strasburgo, Presses Universitaires de Strasbourg, 1998; - L. Herbst, Il carisma di Hitler. L’invenzione di un messia tedesco, traduzione di U. Gandini, Milano, Feltrinelli, 2011; - S.F. Kellerhoff, Il libro proibito di Hitler. Storia del Mein Kampf, Milano, Rizzoli, 2016; - I. Kershaw, Hitler, vol. 1: 1889-1936, Milano, Bompiani, 2003; - H. Knortz, Wirtschaftsgeschichte der Weimarer Republik, Gottinga, Vandehoeck & Ruprecht, 2010; - P. Krüger, Der Aussenpolitik der Republik von Weimar, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1985; - G. Krumeich, J. Schröder (ed.), Der Schatten des Weltkriegs. Die Ruhrbesetzung 1923, Essen, Klartext, 2004; - W.C. Langer, Psicanalisi di Hitler. Rapporto segreto del tempo di guerra, Milano, Garzanti, 1975; - P. Longerich, Hitler. Biographie, Monaco, Siedler Verlag, 2015;
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Nel novembre 1918, con la deposizione delle armi, fu avviata una politica che, secondo le nostre previsioni, avrebbe condotto lentamente al nostro totale asservimento2. In passato ci sono stati popoli che, deposte le armi senza motivi impellenti, hanno preferito subire maggiori umiliazioni e ricatti più gravosi anziché tentare di cambiare il loro destino ricorrendo alla forza. 2
Allusione all’Erfüllungspolitik (politica dell’adempimento). Vedi capitolo 10-II.
607 Questo è umano, sia chiaro. Un accorto vincitore infliggerà sempre una parte delle sue richieste al vinto. Di fronte a un popolo smidollato (che si è assoggettato liberamente), il vincitore conta sul fatto che, in ogni singola oppressione, il vinto non troverà alcun motivo per ricorrere alle armi. Ma quanti più ricatti il vinto subisce, tanto meno appare giustificata la resistenza, specie se il popolo sconfitto ha sempre tollerato silenziosamente ben altri e peggiori mali. Il declino di Cartagine è l’immagine spaventosa della lenta esecuzione che un popolo deve imputare solo a se stesso. Anche Clausewitz, nelle sue Tre confessioni, enuncia chiaramente quel principio e lo immortala per l’eternità: “La macchia scandalosa di un vile asservimento non si laverà mai”. Le gocce di veleno inoculate nel sangue di un popolo si trasmettono ai posteri, paralizzano e minano la forza delle generazioni successive. Di contro, “il declino della libertà dopo una lotta sanguinosa e onorevole assicura la rinascita di un popolo ed è il seme da cui, un giorno, un nuovo albero saprà consolidare le sue radici”3. Ecco, una nazione disonorata e smidollata non imparerà mai quella lezione. Chi ne presta ascolto non può cadere così in basso. Crolla solo chi la dimentica o la ignora. Dai sostenitori di un codardo asservimento non possiamo aspettarci che cambino improvvisamente atteggiamento, basandosi sulla ragione o sull’esperienza. Al contrario, proprio costoro respingeranno la lezione della libertà. Alla fine, o il popolo si abituerà al giogo della schiavitù oppure emergeranno le forze migliori che strapperanno il potere dalle mani dei pazzi corruttori. Nel primo caso quei signori non staranno così male, poiché lo scaltro vincitore affiderà loro la sorveglianza degli schiavi, che le nature smidollate eserciteranno sul proprio popolo in modo più spietato rispetto a qualsiasi bestia straniera nominata dal nemico stesso. Gli eventi successivi al 1918 ci mostrano che, in Germania, la speranza di ottenere clemenza dai vincitori con l’asservimento volontario ha determinato fatalmente il giudizio politico e il comportamento delle grandi masse. Vorrei qui soffermarmi sulle grandi masse, perché non riesco a persuadermi del fatto che l’operato della nostra classe dirigente sia attribuibile alla stessa funesta illusione. Dato che, dopo la guerra, le sorti del nostro destino sono affidate palesemente agli ebrei, è inaccettabile sostenere che solo l’ignoranza sia la causa delle nostre sventure. Viceversa, bisogna ritenere che un proposito consapevole stia trascinando nell’abisso il nostro popolo. E non appena si esamina l’apparente follia della nostra politica estera da questo punto di vista, si scopre una logica fredda e raffinata al servizio dell’idea e della lotta per la conquista mondiale ebraica. Quindi ci sembra comprensibile che quel medesimo lasso temporale che, dal 1806 al 1813, era bastato a colmare di nuove energie e di combattività una Prussia ormai svuotata4, oggi è trascorso invano e, anzi, ha condotto a un maggiore indebolimento del nostro Stato.
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Riferimento alla Bekenntnisschrift (Confessione, 1812) di Carl von Clausewitz, edita postuma nel 1869. Bibliografia: N. Krüger, Adolf Hitlers Clausewitserkenntnis, in “Wehrwissenschaftliche Rundschau”, XVIII, 1968, pp. 467-471. 4 Allusione alla sconfitta della Francia contro la Prussia a Jena e Auerstädt il 14 ottobre 1806.
608 Sette anni dopo il novembre 1918 fu firmato il patto di Locarno!5 La dinamica è quella menzionata: non appena fu sottoscritto il vergognoso armistizio, non ci fu né l’energia, né il coraggio di opporre subito una resistenza alle continue misure oppressive inferte dai nemici. Essi erano così accorti da esigerle tutte in una volta. Limitarono i loro ricatti a quella misura che, a loro giudizio (e della classe dirigente tedesca), era così tollerabile da non lasciar paventare l’esplosione popolare. Ma quanto più si sottostava ai singoli dettati, tanto meno sembrava giustificato fare, per ogni singolo ricatto o umiliazione, ciò che non si era fatto per tanti altri: cioè resistere. Ecco la “goccia di veleno” di cui parla Clausewitz: l’iniziale e celebrata debolezza s’intensifica e finisce per gravare sulle future generazioni come la peggiore tara ereditaria. Può trasformarsi in uno spaventoso peso di piombo di cui il popolo non riesce più a liberarsi, ma che, alla fine, lo trascina in un’esistenza da schiavo. Così in Germania si alternarono editti di smilitarizzazione e di asservimento, editti di impotenza politica e di saccheggio economico6. Alla fine si generò moralmente uno spirito che considerò una fortuna e un successo il Piano Dawes e il trattato di Locarno. Vedendo le cose in prospettiva si può parlare di un’unica gioia in mezzo a tanto dolore, quella gioia che poteva abbacinare gli uomini, ma non certo incantare il cielo. Esso ci negò la sua benedizione: da allora miseria e preoccupazione sono diventate le compagne permanenti del nostro popolo e l’unica nostra fedele alleata è proprio la miseria. Anche qui il destino non sembra fare eccezione: abbiamo ciò che ci siamo meritati. Non sapendolo più apprezzare, l’onore ci insegna almeno a stimare la libertà di un pezzo di pane. Oggi gli uomini hanno imparato a invocare il pane, ma un giorno pregheranno per avere la libertà. Il tracollo del nostro popolo fu talmente doloroso e amaro dopo il 1918. Eppure, chi all’epoca aveva osato profetizzarlo fu perseguitato duramente. La classe dirigente tedesca fu così miserabile, squallida e presuntuosa da eliminare gli spiacevoli e sgraditi premonitori. Ecco che allora (e tutt’oggi!) grandi teste parlamentari piene di segatura, autentici sellai e guantai (non solo di professione, sui cui non avrei niente da ridire)7 si ergevano improvvisamente sul piedistallo di statisti per governare da lassù noi piccoli mortali. Poco importava (e importa) che un simile “statista”, già dopo il sesto mese di governo8, fosse smascherato e schernito da tutto il mondo e desse prova inconfutabile della sua totale incompetenza! Al contrario, quanto più gli statisti parlamentari repubblicani rendono i servigi al loro paese, tanto più perseguitano coloro che li esigono, che osano constatare il fallimento della loro azione e pronosticano il loro
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Il patto di Locarno, consistente di vari trattati e convenzioni, fu firmato nella cittadina svizzera tra il 5 e il 16 ottobre 1925. Il fulcro centrale era il cosiddetto “patto renano” tra Germania, Francia e Belgio, in base al quale i tre paesi riconoscevano l’inviolabilità dei confini fissati dal trattato di Versailles. 6 Qui Hitler allude alle limitazioni militari stabilite dal titolo V del trattato di Versailles e dalle riparazioni imposte alla Germania dalle potenze vincitrici. Dopo numerose revisioni le riparazioni furono definitivamente annullate con la conferenza di Losanna nel giugno-luglio 1932. Bibliografia: B. Kent, The spoils of war. The politics, economics, and diplomacy of reparations, 1918-1932, Oxford, Clarendon Press, 1989. 7 Qui Hitler si riferisce probabilmente a Friedrich Ebert, che da giovane fece il sellaio, e a Peter Weber, presidente del Magdeburgo, che fu invece guantaio. 8 Quando uscì il secondo volume del Mein Kampf (dicembre 1926) era in carica il terzo gabinetto Marx (sino a febbraio 1927).
609 insuccesso futuro9. Ma quando non può più negare il fiasco della sua attività e dei suoi risultati, l’onorevole parlamentare trova mille modi per oscurare i suoi insuccessi e non vuole ammettere di essere la ragione principale di tutto il male. Già nell’inverno del 1922-23 tutti avevano capito che, dopo la conclusione della pace, la Francia avrebbe ostinatamente tentato di perseguire l’obiettivo originario di guerra. Perché nessuno pensa veramente che, nella battaglia più decisiva della sua storia, la Francia sparse per quattro anni e mezzo il sangue già poco abbondante del suo popolo solo per ottenere il rimborso delle riparazioni. L’Alsazia-Lorena non spiegherebbe l’energia con cui la classe dirigente francese condusse la guerra, se si non si fosse trattato di realizzare anche solo una parte del grande programma della sua politica estera. L’obiettivo è la dissoluzione della Germania in una congerie di piccoli Stati10. Per questo ha lottato la Francia sciovinista, anche se vendette il suo popolo come un lanzichenecco all’ebreo cosmopolita internazionalista. L’obiettivo bellico francese sarebbe già stato raggiunto se, come inizialmente si sperava a Parigi, la lotta avesse avuto luogo sul suolo tedesco. Se le sanguinose battaglie della guerra mondiale non si fossero svolte sulla Somme, nelle Fiandre, nell’Artois, davanti a Varsavia, Nishnij Novgorod, Kovno, Riga11 e altrove, ma in Germania, nella Ruhr, sul Meno, sull’Elba, ad Hannover, a Lipsia, a Norimberga ecc., l’Impero sarebbe già stato frantumato. Era difficile che il nostro giovane Stato federale avrebbe retto per quattro anni e mezzo la dura prova che sostenne la Francia centralizzata da secoli e tutta incentrata su Parigi. Se questo formidabile conflitto si svolse al di fuori dei confini patri12, fu non solo per merito imperituro del nostro vecchio esercito13, ma anche la più grande fortuna per l’avvenire tedesco. È mia intima convinzione che, in caso contrario, oggi non esisterebbe più una Germania, ma solo degli “Stati tedeschi”. Questo è anche l’unico motivo per cui il sangue dei nostri amici e fratelli caduti non è stato versato invano. Le cose andarono diversamente! Nel novembre 1918 la Germania crollò all’istante. Solo che, quando la catastrofe si verificò in patria, gli eserciti si trovavano in pieno territorio nemico14. La prima preoccupazione francese non fu la disgregazione della Germania, ma il modo di far uscire al più presto gli eserciti tedeschi dalla Francia e dal Belgio. Quindi, alla fine della guerra, il primo obiettivo della classe dirigente 9
Allusione alla Legge per la difesa della Repubblica del luglio 1922. Pur essendoci concordanza sull’obiettivo minimo francese (la restituzione dell’Alsazia-Lorena), gli studiosi sono discordi sugli obiettivi “reali” e massimi. Alcuni ipotizzano il semplice indebolimento (o eliminazione) del “militarismo” prussiano, altri una “balcanizzazione” della Germania, con relativa neutralizzazione o annessione della riva sinistra del Reno e della Saar. Bibliografia: D. Stevenson, French war aims against Germany, 1914-1919, Oxford, Oxford University Press, 1982; G. Krumeich, Die 101 wichtigsten Fragen. Der Erste Weltkrieg, Monaco, C.H. Beck, 2013. 11 La lista dei siti bellici appare del tutto casuale e dimostra l’ignoranza hitleriana sulle vicende del fronte orientale [KA, n. 28]. 12 A eccezione di alcuni avanzamenti iniziali francesi in Alsazia-Lorena e di alcune battaglie in Prussia Orientale, tutta la Prima guerra mondiale si svolse al di fuori dell’Impero tedesco. 13 Sul culto hitleriano dell’esercito vedi capitolo 10-I. 14 Alla firma dell’armistizio di Compiègne (9 novembre 1918), le forze tedesche si trovavano lunga una linea che andava da Gand fino alla Sambre, da Cherleville-Mézières fino a Metz. Sul fronte orientale, dopo la pace di Brest-Litovsk (3 marzo 1918), la linea andava dalla Finlandia sino all’Ucraina. L’armistizio prevedeva il ritiro delle truppe tedesche dal territorio franco-belga entro diciassette giorni [KA, n. 32].
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610 francese fu quello di disarmare l’esercito tedesco e, se possibile, di respingerlo subito in Germania; e solo in secondo tempo si poté dedicare alla realizzazione dell’obiettivo bellico originario. Ma la Francia era già paralizzata. In Inghilterra la guerra si era conclusa in modo vittorioso con l’annientamento della Germania quale potenza coloniale e commerciale e il suo declassamento al rango di Stato di secondo livello. Londra non aveva interesse alla completa eliminazione dello Stato tedesco, anzi c’erano buone ragioni per conservare un rivale antifrancese in Europa. Perciò la politica francese dovette proseguire indefessamente, in tempo pace, ciò che la guerra aveva solo iniziato. Fu data grande importanza alla massima di Clemenceau: la pace è solo la prosecuzione della guerra15. Alla prima occasione la Francia avrebbe cercato di indebolire la struttura statale tedesca. Comminando nuove note di disarmo, da una parte, e spremendo il più possibile l’economia, dall’altra, Parigi sperava di poter lentamente indebolire la struttura statale tedesca. Quanto più s’intorbidiva in Germania l’onore nazionale, tanto prima la pressione economica e la perpetua indigenza avrebbero avuto effetti politici distruttivi. Quel sistema di oppressione e di saccheggio economico, condotto per dieci o vent’anni, mirava gradualmente a rovinare il miglior corpo statale e, possibilmente, a dissolverlo. Solo allora sarebbe stato raggiunto l’obiettivo di guerra francese. Nell’inverno 1922-23 le intenzioni francesi avrebbero dovuto essere chiare già da tempo. Non ci restavano che due possibilità: o sperare di smussare gradualmente la volontà francese opponendole la tenacia del corpo popolare tedesco, oppure prepararsi all’inevitabile, cioè virare bruscamente la barra della nave e dirigersi verso il nemico. Ma questo significava una lotta per la vita o per la morte. Le prospettive di sopravvivenza dipendevano dalla capacità di isolare la Francia, in modo che questa seconda battaglia non fosse più solo una guerra della Germania contro il resto mondo, ma una sua difesa contro la Francia, minaccia continua per il mondo e per la sua pace. Lo sottolineo, e sono fermamente convinto che, un giorno o l’altro, il secondo caso dovrà verificarsi. Non credo che potranno mai cambiare le intenzioni francesi verso di noi16. Perché si radicano negli istinti d’autoconservazione della nazione francese. Se io fossi francese e amassi la grandezza francese così tanto come mi è sacra quella tedesca, non potrei e non vorrei comportarmi diversamente da Clemenceau. La civiltà francese17, che sta diminuendo di numero e sta perdendo i migliori elementi razziali, può conservare a lungo andare la sua importanza mondiale solo distruggendo la Germania. La politica francese può fare mille giri tortuosi, ma il desiderio finale sarà sempre uno, è l’unico che appaghi la sua nostalgia più profonda. Ma è sbagliato credere che una volontà soltanto passiva, volta unicamente alla conservazione, possa resistere a lungo a una volontà attiva. Finché l’eterno conflitto tra Germania e Francia si svolgerà solo in forma di una difesa tedesca contro l’aggressione francese, non sarà mai deciso, ma, di 15
Allusione al discorso del primo ministro francese Georges Clemenceau (1841-1929) alla Conferenza di Pace di Versailles del 25 settembre 1919. 16 Sull’idea di Francia come “nemico ereditario” del popolo tedesco vedi capitolo 13-II. 17 I motivi della stagnazione demografica nella Francia della seconda metà del XIX secolo erano cinque: 1) la legge sulla separazione e l’indebolimento dell’influsso ecclesiastico; 2) il sostegno alla politica dell’unico figlio; 3) la perdita di componente maschile dopo l’epoca napoleonica; 4) la scarsa crescita economica rispetto ad altri paesi; 5) la diffusione di metodi contraccettivi [KA, n. 39].
611 secolo in secolo, la Germania perderà una posizione dopo l’altra. Si studino i cambiamenti dei confini linguistici tedeschi del XII secolo sino a oggi, e difficilmente si vorrà proseguire un atteggiamento e uno sviluppo che finora hanno arrecato così tanti danni al nostro popolo. Quando i tedeschi avranno compreso tutto ciò, la volontà di sopravvivenza della nazione tedesca non sarà atrofizzata nella resistenza passiva, ma si raccoglierà per prepararsi a un confronto finale con la Francia e si scaglierà nella battaglia finale per il conseguimento dei grandi obiettivi tedeschi. Solo allora si potrà concludere l’eterno e sterile contrasto fra noi e la Francia; a condizione, però, che la Germania veda nell’annientamento della Francia solo un mezzo per consentire finalmente al nostro popolo il necessario ampliamento in un’altra direzione. Oggi si contano ottantamilioni di tedeschi in Europa!18 Ma la politica estera sarà positiva solo se, entro un secolo, vivranno sul nostro continente duecentocinquantamilioni di tedeschi, non schiacciati come coolies nelle fabbriche del nuovo mondo, ma come contadini e lavoratori che si procurano a vicenda i mezzi di sostentamento.
Figura 1 Le truppe francesi sfilano per le strade di Essen (1923) [fonte: les-crises.fr]
Nel dicembre 1922 la situazione tra Germania e Francia parve aggravarsi di nuovo in modo minaccioso. La Francia si proponeva di esercitare enormi ricatti e aveva quindi bisogno di pegni19. Il saccheggio economico doveva precedere una pressione politica e solo un ricorso alla forza nel centro nevralgico della vita tedesca era ritenuto capace di mettere sotto il giogo più drastico il nostro popolo “recalcitrante”. Con l’occupazione della Ruhr20 la Francia sperava non solo di spezzare 18
Qui Hitler allude alla popolazione tedesca di Germania, Austria e delle enclavi in Europa orientale. Allusione all’espressione “pegno produttivo” utilizzata dal primo ministro francese Poincaré nel 1922 discutendo di una moratoria alle riparazioni tedesche [KA, n. 45]. 20 La fine dell’occupazione della Ruhr avvenne nel luglio-agosto 1925 in base agli accordi del Piano Dawes, firmato nell’agosto 1924. 19
612 definitivamente la spina dorsale morale della Germania, ma anche di metterla economicamente in una tale situazione emergenziale da costringerla, bene o male, ad assumere qualsiasi obbligo, anche il più gravoso. O si piegava o si spezzava. E la Germania si piegò inizialmente, mentre più tardi finì per crollare. Con l’occupazione della Ruhr, il destino diede nuovamente una mano al popolo tedesco. Ciò che, a prima vista, doveva apparire come una grave sciagura racchiudeva invece la più grande occasione di porre fine alle nostre sofferenze. In politica estera l’occupazione francese della Ruhr alienò per la prima volta seriamente l’Inghilterra, e, a dire il vero, non solo i circoli diplomatici, che avevano concluso e sostenuto per freddo calcolo l’alleanza con la Francia, ma anche ampi settori popolari. In particolare, l’economia inglese accolse con malcelato disagio quel nuovo e impensabile rafforzamento della potenza continentale francese21. Perché non solo la Francia assumeva militarmente in Europa una posizione che la Germania non aveva mai occupato in precedenza, ma otteneva anche economicamente le basi per una posizione monopolistica. Le grandi miniere di ferro e i più vasti giacimenti di carbone d’Europa22 si trovavano ormai nelle mani di una nazione che, a differenza della Germania, difendeva in modo attivo e risoluto i suoi interessi e, in guerra, aveva dato prova di grande affidabilità militare a tutto il mondo. L’occupazione francese dei giacimenti carboniferi della Ruhr aveva nuovamente strappato di mano all’Inghilterra i vantaggi bellici: vincitrice non erano più la solerte e attiva diplomazia britannica, ma il Maresciallo Foch e la Francia da lui rappresentata23.
Figura 2 Wilhelm Cuno, cancelliere tedesco dal novembre 1922 all’agosto 1923 [fonte: wikipedia.de]
Il governo inglese si oppose apertamente all’occupazione francese della Ruhr. Anche la stampa e l’opinione pubblica criticarono il gesto franco-belga quale politicamente deleterio ed economicamente inutile [KA, n. 49]. 22 Prima della guerra, oltre il 50% della produzione carbonifera europea proveniva dalla Germania. 23 Allusione al Maresciallo Ferdinand Foch, a capo delle truppe alleate dal 14 aprile 1918. 21
613 Anche in Italia lo stato d’animo verso la Francia, che già dopo la fine della guerra non era più tenero, si tramutò in un odio ufficiale. Fu quello il momento storico in cui gli alleati di una volta avrebbero potuto diventare i nemici di domani. Se questo non accadde e gli alleati non si accapigliarono gli uni con gli altri come durante la seconda guerra balcanica, questo si dovette al fatto che la Germania non aveva un Enver Pascià24, ma un cancelliere di nome Cuno25. Non solo in politica estera, ma anche in politica interna l’invasione francese della Ruhr schiuse alla Germania numerose opportunità future. Una parte considerevole del nostro popolo che, grazie all’influsso costante della sua stampa menzognera, considerava ancora la Francia la campionessa della libertà e del progresso guarì improvvisamente da quell’illusione. Nel 1923 avvenne ciò che era accaduto nove anni prima, quando lo scoppio della guerra scacciò dalla testa i sogni della solidarietà internazionale dei popoli dei nostri lavoratori tedeschi e li riportò nel mondo dell’eterna lotta, dove ogni essere si nutre dell’altro e la morte del più debole significa la vita del più forte26. Quando il governo francese mantenne le sue minacce e iniziò a insinuarsi, ancorché titubante, nel giacimento minerario della Bassa Germania, suonò per la Germania l’ora decisiva. Se in quel momento il nostro popolo avesse unito un mutamento della sua condotta a un cambiamento delle sue convinzioni, la Ruhr tedesca sarebbe diventata per la Francia la Mosca napoleonica27. C’erano solo due possibilità: o lasciar capitare la cosa senza far nulla, oppure, volgendo lo sguardo alle roventi fucine e ai forni fumanti crearvi la volontà ardente di porre fine a quell’eterna vergogna e accettare il terrore momentaneo piuttosto che sopportare un terrore senza fine. Scoprire una terza via fu il merito imperituro dell’allora cancelliere Cuno e fu merito ancora più glorioso dei partiti borghesi tedeschi quello di averlo ammirato e di avervi collaborato. Ora intendo analizzare brevemente la seconda via. Occupando la Ruhr la Francia aveva compiuto un’eclatante violazione del trattato di Versailles. In tal modo si era messa in contrasto con una serie di potenze garanti, soprattutto l’Inghilterra e l’Italia. Non poteva più attendersi il sostegno di quei paesi per la sua egoistica razzia. L’avventura, perché di questa si trattò, doveva quindi conseguire un buon risultato. Per un governo nazionale tedesco ci poteva essere solo un’unica via: quella imposta dall’onore. Certo, non si poteva fronteggiare la Francia con una resistenza armata attiva; ma era necessario chiarire che qualsiasi negoziato sarebbe stato inutile e infruttuoso senza una forza alle proprie spalle. Era assurdo, se non impossibile sostenere una resistenza attiva: “non andiamo a negoziare”. Ma era ancora più assurdo andare a negoziare senza avere una forza alle proprie spalle.
Enver Pascià (1881-1922), militare e politico turco, esponente dei “Giovani Turchi”, a capo delle forze armate che strapparono ai bulgari Adrianopoli durante la Seconda guerra balcanica (estate 1913). 25 Carl Josef Wilhelm Cuno (1876-1933), cancelliere dal 22 novembre 1922 al 12 agosto 1923, già direttore generale della compagnia di navigazione Hapag (di cui riassunse la guida nel 1927). 26 Sull’idea socialdarwinistica del “diritto del più forte” vedi capitolo 1-II. 27 Allusione all’occupazione napoleonica di Mosca del 7 settembre 1812. 24
614 Non avremmo potuto evitare l’occupazione della Ruhr con misure militari. Solo un folle avrebbe preso una decisione simile. Ma, sotto l’impressione prodotta dall’azione francese e durante la sua attuazione, si poteva e si doveva riflettere sull’esigenza di garantirsi (prescindendo dal trattato di Versailles stracciato dalla Francia stessa) quelle risorse militari che sarebbero poi tornate utili ai negoziatori. Perché fin da subito fu chiaro che la sorte della Ruhr sarebbe stata decisa a un tavolo negoziale. Così come lo era che i migliori negoziatori non avrebbero avuto alcun successo se non avessero contato sul braccio armato del popolo. Un ometto debole non può lottare contro dei veri atleti, e un negoziatore inerme deve sempre tollerare che un Brenno getti la sua spada sul piatto della bilancia nemica28, se non ha una spada sua da gettare sull’altro. Oppure gradivamo assistere alle commedie negoziali che, dal 1918 in poi, precedettero sempre i dettati impostici? Che spettacolo miserabile offrimmo al mondo intero quando, quasi con scherno, fummo invitati al tavolo della conferenza, dove ci furono sottoposti decisioni e programmi già presi, che potevamo discutere senza tuttavia poter mutare di una virgola29. Ecco, i nostri negoziatori erano assai mediocri e legittimavano sin troppo l’audace espressione di Lloyd George che, di fronte al cancelliere tedesco dell’epoca (Simons)30, notò con scherno: “I tedeschi non sanno scegliersi uomini intelligenti come capi e come rappresentanti”31. Ma neanche dei geni, data la ferma volontà di potenza del popolo nemico e la pietosa impotenza del loro popolo, avrebbero potuto ottenere qualcosa di meglio. Ma chi, nel febbraio 1923, avesse voluto cogliere l’occasione dell’occupazione francese della Ruhr per ripristinare mezzi di potenza militari, avrebbe dovuto innanzitutto dare alla nazione le armi intellettuali, rafforzare la forza di volontà e annientare i distruttori di quella preziosa energia nazionale. Come nel 1918 espiammo col sangue la nostra incapacità di non aver saputo schiacciare definitivamente la testa della serpe marxista fra il 1914 e il 1915, oggi paghiamo il fatto di non aver colto, all’inizio del 1923, l’occasione di sopprimere definitivamente i marxisti traditori della patria e assassini del popolo. L’idea di una resistenza efficace contro la Francia era assurda se non si dichiarava guerra a quelle forze che cinque anni prima avevano piegato internamente la resistenza tedesca sui campi di battaglia. Solo gli spiriti borghesi potevano sognarsi che il marxismo sarebbe cambiato e che le canaglie, che nel 1918 avevano calpestano freddamente duemilioni di morti per meglio arrampicarsi sugli scranni di governo, sarebbero state pronte cinque anni dopo a pagare il loro tributo alla coscienza nazionale. Era incredibile e assurdo sperare che i traditori del paese di un tempo si sarebbero trasformati improvvisamente nei campioni della libertà tedesca. Non ci pensavano affatto! Come una iena non molla mai una carogna, così un marxista non rinuncia a 28
Allusione al principe gallo Brenno, che nel 387 a.C. occupò e saccheggiò Roma. Nel 1920-21 il margine d’azione tedesca in politica estera era molto ristretta. Grazie all’abile azione diplomatica di Gustav Stresemann, dapprima cancelliere nell’autunno del 1923 e poi ministro degli Esteri fino al 1929, la Germania riuscì a uscire dall’isolamento postbellico. 30 Allusione a Walter Simons (1861-1927) che però fu ministro degli Esteri dal 21 giugno 1920 al 4 maggio 1921. Con la morte di Ebert (marzo 1925) Simons assunse ad interim l’incarico di presidente della Repubblica prima dell’elezione di Hindenburg. 31 L’espressione critica di Lloyd George su Simons si trova in un’intervista al quotidiano francese “Le Petit Parisien” (Il piccolo parigino) dell’11 marzo 1921 [KA, n. 65].
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615 tradire la sua patria. E non si obietti, per cortesia, che tanti lavoratori versarono il sangue per la Germania. Quei lavoratori tedeschi, sissignore, non erano più marxisti internazionalisti. Se nel 1914 il proletariato tedesco fosse stato costituito ancora da marxisti, la guerra sarebbe terminata nel giro di tre settimane. La Germania sarebbe crollata prima che il nostro primo soldato avesse messo piede oltre il confine. No, la lotta del popolo tedesco dimostrò che l’illusione marxista non era ancora riuscita a corroderlo in profondità. Ma il lavoratore e il soldato tedeschi furono perduti per la patria nella misura in cui, durante la guerra, ritornarono in mano ai dirigenti marxisti. Se all’inizio o durante il conflitto fossero stati gasati dodici o quindicimila di quei corruttori del popolo, come fu il caso di centinaia di migliaia dei migliori lavoratori tedeschi di ogni ceto e professione32, il sacrificio di milioni di vite sul fronte non sarebbe stato vano33. Al contrario, eliminando per tempo dodicimila farabutti avremmo forse salvato la vita a un milione di tedeschi, preziosi per l’avvenire. Ma la “maestria politica” borghese decise di abbandonare, senza batter ciglio, milioni di persone a una morte sanguinosa sul campo di battaglia e di considerare sacre le vite di dieci o dodicimila traditori del popolo, trafficanti, usurai e imbroglioni, proclamando apertamente la loro inviolabilità. Non si sa cosa fosse maggiore fra la borghesia, se la stolidità, la debolezza e la viltà oppure le convinzioni abiette. A dire il vero, una classe destinata al tramonto trascina con sé nell’abisso tutto il popolo34. Nel 1923 ci trovavamo di fronte a una situazione del tutto simile a quella del 1918. Qualunque fosse il tipo di resistenza scelto, occorreva innanzitutto espellere dal corpo popolare il veleno marxista. E, a mio avviso, il primo compito di un governo veramente nazionale era quello di cercare e di trovare le forze determinate a dichiarare una guerra di annientamento al marxismo e di darvi carta bianca. Era suo dovere non adorare l’idiozia “dell’ordine e della quiete”35 nell’istante in cui il nemico esterno infliggeva alla patria un gravissimo colpo e il tradimento si appostava a ogni angolo della strada. No, un governo veramente nazionale avrebbe dovuto desiderare disordine e agitazione, se in tal modo sarebbe stata possibile una resa dei conti con i nemici mortali marxisti. Se non lo fece, era pura follia pensare a una qualsiasi resistenza. Certo, una resa dei conti coi marxisti su scala mondiale non si svolge secondo lo schema preparato da qualche consigliere segreto o da un vecchio ministro inaridito, ma secondo le leggi eterne della vita, che sono e restano quelle della lotta per l’esistenza. Non bisognava dimenticarsi che, spesso, dalla guerra civile più sanguinosa Sull’uso di gas velenoso durante la guerra vedi capitoli 2-I e 7-I. Questa espressione fu spesso citata come l’inizio che il pensiero di un annientamento fisico sistematico degli ebrei fosse presente in Hitler già agli inizi della sua attività politica. Diversi passaggi nei suoi primi discorsi vanno in tale direzione. Tuttavia, a metà degli anni Venti non fu redatto alcun piano per l’assassinio di massa degli ebrei. La via alla futura “soluzione finale” non fu così lineare come suggerirebbe l’accenno al gas velenoso. Inizialmente il nazismo cercò di allontanare gli ebrei costringendoli a emigrare. Il passo decisivo fu l’occupazione della Polonia nell’autunno 1939. Con l’invasione sovietica del 22 giugno 1941 fu redatto il piano per la “soluzione finale”, concluso nell’estate del 1942. La conferenza del Wannsee servì solo a organizzare sistematicamente l’assassinio di massa degli ebrei nella zona d’influenza tedesca. Dei sei milioni totali di ebrei morti, quelli deceduti nei campi di sterminio con l’uso di gas di scarico e poi con lo Zyklon B furono circa 2,75 milioni [KA, n. 73]. 34 Sul rimprovero alla borghesia di aver “fallito” le sfide della sinistra politica vedi capitolo 9-II. 35 Sull’uso hitleriano di questa coppia concettuale vedi capitoli 2-II e 4-II.
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616 sorge un corpo popolare più sano e duro come l’acciaio, mentre da una pace artificiosa nasce la putrefazione36. Il destino dei popoli non si rivolta nei guanti di velluto. Nel 1923 bisognava schiacciare brutalmente i serpenti che si nutrivano del nostro corpo popolare. Se ciò fosse accaduto, avrebbe avuto senso la preparazione di una resistenza attiva. All’epoca mi sono spesso sgolato in pubblico nel tentativo di chiarire, quantomeno ai circoli “nazionali”, la posta in gioco: ripetendo gli errori del 1914 e degli anni successivi saremmo inevitabilmente giunti alla catastrofe del 1918. Li ho sempre pregati di passare la palla al destino e di dare al nostro movimento la possibilità di scontrarsi col marxismo; ma predicavo fra sordi. Quei signori sapevano molto bene cosa fare, incluso il capo dell’esercito37, ma finirono per sottoscrivere la più miserevole capitolazione di tutti i tempi. Allora mi resi veramente conto che la borghesia tedesca era prossima al capolinea e che non era più in grado di assolvere la sua missione storica. Mi resi conto che tutti i partiti borghesi litigavano col marxismo per pura invidia, ma non intendevano annientarlo seriamente. Tutti si erano rassegnati da tempo alla distruzione della patria ed erano mossi dalla grande preoccupazione di partecipare al banchetto funebre. “Combattevano” solo per quel motivo. All’epoca – lo confesso apertamente – io espressi grande ammirazione per il grand’uomo a Sud delle Alpi che, con fervido amore per il suo popolo, non patteggiò coi nemici interni dell’Italia, ma tentò in tutti i modi e con tutti i mezzi di annientarli. Ciò che farà di Mussolini uno dei grandi uomini di questa terra è la determinazione a non spartire l’Italia col marxismo, ma a cercare di salvare la patria distruggendolo38. Di fronte a quell’uomo, quanto sono miserevolmente meschini i nostri statisti! E che nausea proviamo nel vedere quelle nullità criticare boriosamente persone mille volte superiori! Quanto è doloroso pensare che ciò avviene in un paese che, fino a mezzo secolo, era guidato da Bismarck. Nel 1923 la tolleranza borghese verso il marxismo segnò il destino di ogni resistenza attiva nella Ruhr. Era pura follia voler combattere contro la Francia avendo nelle proprie file il nemico mortale. Tutt’al più si poteva bluffare, per dare un contentino ai nazionalisti, per tranquillizzare la “ribollente anima popolare” o, meglio, per ingannarla. Se avessero pensato seriamente alle conseguenze delle loro azioni, gli statisti dell’epoca avrebbero dovuto ammettere che la forza di un popolo non sta nelle sue armi, ma nella sua volontà. Prima di sconfiggere i nemici esterni bisogna annientare quelli interni; guai se la vittoria non arride al primo giorno! Ma se anche solo l’ombra di una sconfitta sfiorerà un popolo alla mercé dal nemico interno, essa finirà per spezzare la sua resistenza e per consegnare al nemico interno la vittoria definitiva.
Sull’idea di guerra quale “igiene dei popoli” vedi capitoli 2-I, 4-I, 10-I e 11-I. Riferimento al Capo di stato maggiore Hans von Seeckt (1866-1936), che Hitler incontrò a Monaco l’11 marzo 1923 su iniziativa di Otto von Lossow. 38 L’ammirazione di Hitler per Mussolini, già espressa nel capitolo 13-II, non era unanime in seno al nazismo, come dimostrano i lavori Mussolini und der Faschismus (Mussolini e il fascismo, 1923) di Ferdinand Güterbock e Mussolini (1923) di Adolf Dresler [KA, n.82].
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617 Questo era prevedibile già all’inizio del 1923. Non si dica che si dubitava del successo militare contro la Francia! Perché se l’effetto dell’occupazione francese della Ruhr fosse stato l’annientamento interno del marxismo, sarebbe stato comunque un nostro grande successo. Una Germania liberata dai nemici mortali della sua esistenza e del suo futuro avrebbe energie che nessun paese al mondo riuscirebbe più a soffocare. Il giorno in cui il marxismo sarà sconfitto in Germania si spezzeranno per sempre le nostre catene. Perché, nella nostra storia, noi non siamo mai stati sconfitti dalla forza dei nostri avversari, ma sempre e solo dai nostri vizi e dai nemici interni. Dato che la classe dirigente tedesca non decise di compiere un atto eroico, avrebbe potuto ricorrere alla prima opzione, cioè far nulla, e lasciare che le cose facessero il loro corso. Solo che, al momento fatidico, il cielo ha donato al popolo tedesco un grand’uomo: il signor Cuno. Non era uno statista o un politico di professione e men che meno di nascita, ma rappresentava una varietà di “collaboratori domestici” utili al semplice disbrigo di certe mansioni. Inoltre era più versato nel commercio39. Una maledizione per la Germania: quel commerciante politicizzato considerava la politica un’impresa economica e gestiva di conseguenza i suoi traffici. “La Francia occupa la Ruhr. Cosa c’è nella Ruhr? Carbone. Quindi la Francia occupa la Ruhr a causa del carbone”. E per il signor Cuno la cosa più naturale era quella di scioperare affinché i francesi non ottenessero il carbone. Dopodiché, secondo lui, prima o poi la Ruhr sarebbe stata sgombrata per la mancanza di redditività dell’impresa40. Così ragionava quel “distinto statista nazionale” che, a Stoccarda e altrove, parlava al “nostro popolo” e da questo era beatamente ammirato41. Per scioperare servivano i marxisti, perché c’era bisogno soprattutto di lavoratori. Era quindi necessario che il lavoratore (che nel cervello di quello statista borghese è sempre sinonimo di marxista) si unisse a tutti i tedeschi. Come brillarono gli occhi di quelle ammuffite culture borghesi di fronte a espressioni così geniali! Nazionale e geniale allo stesso tempo: ecco ciò che avevano sempre cercato! Trovati i ponti verso il marxismo, l’imbroglione nazionale poteva tendere la mano filistea al traditore internazionale del suo paese, con faccia “teutonica” e con frasi nazionali. Mano che egli afferrò prontamente. Come Cuno necessitava dei capi marxisti per il suo “fronte unitario”, così anche i capi marxisti avevano bisogno del denaro di Cuno42. Entrambe le parti ebbero il loro tornaconto. Cuno ottenne il suo fronte unitario, formato da chiacchieroni nazionali e da farabutti antinazionali, e gli imbroglioni internazionali poterono servire, a spese dello Stato, la loro suprema missione di lotta, cioè Cuno iniziò la sua carriera politica nel 1907 al ministero del Tesoro, prima di guidare l’ufficio dei cereali (1914) e di divenire referente generale per le questioni economiche belliche (1916). Nel novembre 1917 Cuno entrò a far parte dell’Hapag (Linea di navigazione Amburgo-America). Il 20 dicembre 1918 successe ad Albert Ballin quale direttore generale della “Hapag”. Dopo la parentesi del cancellierato tornò alla Hapag. Bibliografia: H.-J. Rupieper, Wilhelm Cuno, in V. von Sternburg (ed.), Die deutschen Kanzler. Von Bismarck bis Schmidt, Königstein im Taunus, Athenäum Verlag, 1985, pp. 231-242. 40 Il 19 gennaio 1923, otto giorno dopo l’occupazione della Ruhr, il governo tedesco ordinò ai funzionari di non obbedire alle direttive delle forze occupanti. 41 Cuno visitò Monaco e Stoccarda il 22-23 marzo 1923 e parlò della resistenza passiva davanti ai governi locali [KA, n. 90]. 42 Tranne il Partito comunista tedesco, che non sostenne il fronte unitario nazionale. 39
618 distruggere l’economia nazionale e, questa volta, a spese dello Stato. Un’idea immortale, salvare una nazione con uno sciopero statale retribuito. In ogni caso, però, un gesto cui possono aderire anche i buoni a nulla più indifferenti. È noto che non si può liberare un popolo con le preghiere. Ma bisognava provare storicamente che non fosse possibile lasciandolo in ozio. Se all’epoca il signor Cuno, invece di esortare allo sciopero generale retribuito e di costruire la base del “fronte unitario”, avesse preteso da ogni singolo tedesco solo due ore aggiuntive di lavoro, l’imbroglio del “fronte unitario” sarebbe finito il terzo giorno. I popoli non si liberano oziando, ma col sacrificio43. La “resistenza passiva” non poteva durare a lungo. Perché solo un uomo completamente ignaro di cose militari poteva vantarsi di scacciare gli eserciti occupanti con mezzi così ridicoli. Questo solo avrebbe potuto essere il senso di un’iniziativa che costava miliardi e che, di fatto, contribuì a distruggere la valuta nazionale. I francesi poterono stabilirsi con una certa calma nella Ruhr nell’istante in cui videro la resistenza servirsi di quei mezzi. Gli servimmo su un piatto d’argento i modi migliori per riportare alla ragione una caparbia popolazione civile, se il suo comportamento rappresentava un serio pericolo per le autorità occupanti. Nove anni prima avevamo scacciato rapidamente le bande dei franchi tiratori belgi44 e avevamo chiarito alla popolazione civile la gravità della situazione, quando le loro attività arrecarono gravi perdite alle armate tedesche. Non appena la resistenza passiva della Ruhr fosse diventata realmente pericolosa per la Francia, l’esercito d’occupazione avrebbe posto fine, con irrisoria facilità, a quel gioco puerile nel giro di una settimana. Perché, in fin dei conti, cosa avremmo potuto fare se la resistenza passiva avesse realmente infastidito il nemico e se avesse iniziato a combatterla con sanguinosa violenza? Avremmo continuato a resistere? Se sì, ci saremmo esposti a persecuzioni ben peggiori. Ma questo succede anche alla resistenza attiva – cioè in battaglia. Quindi la “resistenza passiva” può avere senso se dietro c’è la determinazione a proseguirla, se necessario, in campo aperto o con la guerriglia. Una lotta del genere s’intraprende solo quando c’è la possibilità di vincere. Non appena una fortezza assediata, duramente attaccata dal nemico, è costretta a rinunciare alla speranza finale dei rinforzi, si arrende, soprattutto se il difensore ha la garanzia di non essere passato per le armi. Se priviamo la guarnigione di una fortezza circondata della speranza nella possibile liberazione, le forze di difesa crolleranno rapidamente. Perciò anche una resistenza passiva della Ruhr, valutando le conseguenze finali per essere veramente vittoriosa, aveva senso solo se dietro si costruiva un fronte attivo. Allora avremmo tratto risorse infinite dal nostro popolo. Se ogni abitante della Vestfalia avesse saputo che la patria disponeva di un esercito di ottanta o cento divisioni, i francesi avrebbero camminato sulle spine. Ma gli uomini coraggiosi sono più disponibili a sacrificarsi per il successo che per un’azione velleitaria. Fu un caso classico, che costrinse noi nazionalsocialisti a prendere una dura posizione contro uno “slogan nazionale”. E lo facemmo. In quei mesi io fu attaccato 43
La descrizione hitleriana ignora le conseguenze effettive della resistenza passiva, come la morte di tredici operai della Krupp di Essen il 31 marzo 1923, nonché la rimozione di circa centomila impiegati, funzionari e lavoratori da parte francese [KA, n. 94]. 44 Durante l’occupazione tedesca del Belgio morirono circa 6.400 civili e furono distrutti 15-20.000 edifici [KA, n. 98].
619 da uomini, le cui convinzioni nazionali erano solo un miscuglio di stupidità e di presunzione, che urlavano soltanto perché cedevano alla tentazione di fare qualcosa di nazionale senza correre alcun rischio. Quei miserabili sostenitori del fronte unitario erano uno dei fenomeni più ridicoli che si potessero immaginare e la storia mi diede ragione.
Figura 3 Gli imputati al processo per alto tradimento (1° aprile 1924) Da sinistra a destra: Heinz Pernet, Friedrich Weber, Wilhelm Frick, Hermann Kriebel, Erich Ludendorff, Adolf Hitler, Wilhelm Brückner, Ernst Röhm, Robert Wagner [fonte: wikipedia.de]
Non appena i sindacati avevano riempito le loro casse col denaro di Cuno e la resistenza passiva doveva decidersi a passare dalla pavida difesa all’assalto attivo, le iene rosse uscirono subito dal gregge nazionale e divennero ciò che erano sempre state. Il signor Cuno si ritirò afono sulle sue navi, mentre la Germania si era arricchita di un’esperienza e si era impoverita di una grande speranza45. Sino alla tarda estate molti ufficiali dell’esercito, non certo i peggiori, avevano creduto che le cose non sarebbero finite in modo così vergognoso. Avevano tutti sperato che, se non apertamente, almeno di nascosto sarebbero stati fatti i preparativi necessari per trasformare lo sfacciato gesto francese in una svolta della storia tedesca. Anche nelle nostre file molti riponevano fiducia nell’esercito. E questa convinzione era tale che determinò la condotta e, soprattutto, l’addestramento di moltissimi giovani. Ma quando si verificò il vergognoso tracollo e, dopo il sacrificio di miliardi di marchi e di molte migliaia di giovani tedeschi (che erano stati così stupidi da prendere
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Allusione al dimissioni di Cuno del 12 agosto 1923 e al ritorno all’Hapag.
620 sul serio le promesse della classe dirigente)46, si capitolò in modo così disonorevole, ecco che scoppiò l’indignazione generale contro quel modo di tradire il nostro sfortunato popolo. Milioni di teste capirono improvvisamente che solo una radicale eliminazione di quel sistema di potere avrebbe potuto salvare la Germania.
Figura 4 Titolo della “München-Augsburger Abendzeitung” sul processo per alto tradimento (1° aprile 1924) [fonte: wikipedia.de]
I tempi non erano mai stati così maturi, non reclamavano in modo così imperioso una soluzione del genere, come quando, da una parte, si manifestò senza veli lo spudorato tradimento della patria, mentre, dall’altra, un popolo fu abbandonato alla lenta morte per inedia. Poiché, quando lo Stato stesso calpestava tutte le leggi della fedeltà e della probità, scherniva i diritti dei suoi cittadini, defraudava i sacrifici di milioni dei suoi figli più fedeli e derubava ad altri milioni fino all’ultimo quattrino, ebbene quello Stato non aveva più alcun diritto di attendersi dai suoi cittadini nient’altro che odio. E l’odio contro i corruttori del popolo e della patria doveva, in un modo o nell’altro, sfogarsi. Qui posso solo accennare alla fase conclusiva del mio ultimo discorso al grande processo di inizio 1924: “I giudici di questo Stato possono tranquillamente condannarci per il nostro operato di allora, ma la storia, custode di I morti riconducibili direttamente all’occupazione franco-belga della Ruhr furono circa centocinquanta, con oltre cento feriti gravi. 46
621 una verità e di un diritto superiori, straccerà un giorno il vostro giudizio col sorriso sulle labbra, ci assolverà da ogni colpa e da ogni peccato”47. Ma la storia citerà in giudizio coloro che oggi, investiti del potere, calpestano la legge e il diritto, che portarono alla miseria e alla rovina il nostro popolo e che, nella sciagura della patria, anteposero il proprio io alla vita della collettività. Qui non descriverò gli avvenimenti che portarono e determinarono l’8 novembre 192348. Non lo farò perché non mi aspetto dal futuro nulla di utile da quegli avvenimenti e, soprattutto, perché è vano riaprire ferite che non sono ancora cicatrizzate49. Oltretutto è inutile parlare di ragioni e di colpe a persone che forse, nel più profondo del loro cuore, erano legate al loro popolo e che fraintesero la retta via.
Figura 5 Decreto di scioglimento del Partito nazionalsocialista (9 novembre 1923) [fonte: historisches-lexikon-bayerns.de]
Di fronte della grande sciagura della nostra patria comune non vorrei più offendere e, forse, separare coloro che un giorno, in futuro, dovranno formare il Hitler usò espressioni del genere il 27 marzo 1924, durante l’ultima seduta del suo processo. Cioè al putsch di Monaco. 49 Hitler, dopo il rilascio dalla prigione, evitò di usare espressioni più accurate sugli eventi del putsch. Perciò spostò il capitolo al termine del secondo volume, anche se era previsto nel primo [KA, n. 111].
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622 grande fronte unitario dei tedeschi veramente fedeli in cuor loro contro i nemici del nostro popolo. Perché io sento che verrà il momento in cui coloro che ci trattarono da nemici, commemoreranno con riverenza coloro che sono morti per il loro popolo tedesco. Ai sostenitori e ai difensori della nostra dottrina io mostro i diciotto eroi caduti, ai quali ho dedicato il primo volume della mia opera50, che, con lucida consapevolezza, si sacrificarono per noi. Quegli eroi devono richiamare i deboli e gli incerti all’adempimento del loro dovere, a un dovere che quegli uomini assolsero in buona fede e sino alle estreme conseguenze. E tra di loro voglio anche annoverare uno dei migliori uomini che dedicarono la loro vita al risveglio del suo, del nostro popolo. Lo fece con la penna e col pensiero e, in fin dei conti, nei fatti: Dietrich Eckart51. Il 9 novembre 1923, nel quarto anno della sua costituzione, il Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori si è sciolto ed è stato messo fuori legge in tutto il paese52. Oggi, nel novembre 1926, è di nuovo vivo e libero in tutto il paese, più forte e più saldo di prima53. Tutte le persecuzioni del movimento e dei suoi singoli capi, tutte le aggressioni e le calunnie a suoi danni non riuscirono a sconfiggerlo54. La bontà delle sue idee, la purezza della sua volontà, l’abnegazione dei suoi sostenitori gli hanno fatto superare di slancio tutte le persecuzioni. Se, di fronte all’odierna corruzione parlamentare, riflettiamo sulla natura più intima della nostra battaglia, noi sentiamo di essere la pura personificazione del valore della razza e della persona e agiremo di conseguenza. Un giorno otterremo la vittoria in forza di una legittimità quasi matematica. Così come la Germania avrà necessariamente il posto che si merita su questa terra, se verrà guidata e organizzata in base agli stessi principi. Uno Stato che, nell’epoca dell’avvelenamento razziale, si dedica alla cura dei suoi migliori elementi razziali diverrà un giorno padrone della terra55.
La dedica stampata all’inizio del primo volume cita i sedici (non diciotto) morti del putsch. Dietrich Eckart (1868-1923), politico e drammaturgo nazionalpopolare, fu membro della Società Thule di Monaco. Nel 1919 fu tra i fondatori del Partito tedesco dei lavoratori. Eckart fu molto importante per la maturazione personale e politica di Hitler. Bibliografia: P.W. Becker, Der Dramatiker Dietrich Eckart. Ein Beitrag zur Dramatik des Dritten Reichs, Universität Koln, dissertazione dottorale, 1970; M. Runte-Plewnia, Auf dem Weg zu Hitler. Der “völkische” Publizist Dietrich Eckart, Brema, Schünemann, 1970; C.-E. Bärsch, Die politische Religion des Nationalsozialismus. Die religiösen Dimensionen der NS-Ideologie in den Schriften von Dietrich Eckart, Joseph Goebbels, Alfred Rosenberg und Adolf Hitler, seconda edizione, Monaco, Fink, 2002. 52 Il Partito nazionalsocialista fu messo fuori legge in Baviera dal 9 novembre 1923, mentre dal 23 novembre in tutto il paese. 53 Alla fine del 1926 gli iscritti erano circa cinquantamila, leggermente meno rispetto a prima dello scioglimento del novembre 1923. 54 Hitler, prima condannato a cinque anni di reclusione e a un’ammenda di 200 marchi oro (1° aprile 1924), non scontò nemmeno un anno di prigione, pur essendo responsabile della morte di quattro poliziotti, del rapimento di un consigliere socialdemocratico, del furto di una somma di denaro e della distruzione della sede del “Münchener Post”. Bibliografia: O. Gritschneder, L. Gruchmann, R. Weber, Der Hitler-Prozess 1924, Monaco, K.G. Saur Verlag, 2004, 4 voll. 55 La promessa fu mantenuta con la Legge per la difesa del sangue e dell’onore tedesco all’interno delle cosiddette leggi di Norimberga del 15 settembre 1935. 50 51
623 I sostenitori del nostro movimento non lo dimentichino mai, caso mai la portata del sacrificio li spingesse a disperare della possibile vittoria56.
Approfondimenti didattici 1. Analisi retorica e stilistica
- Individua le principali figure retoriche; - Individua l’esistenza di fallacie retoriche; - Individua i principali “loci” e “topoi”; - Individua la presenza di stereotipi e pregiudizi.
2. Analisi storico-culturale - Il problema della responsabilità di guerra: analizza il trattato di Versailles e il tema della responsabilità di guerra, nonché le sue ripercussioni sulle “riparazioni” imposte alla Germania; - La politica estera tedesca: analizza la politica estera dei governi tedeschi dal 1919 al 1925, quando fu stipulato il trattato di Locarno; - Resistenza attiva o passiva: analizza la tesi hitleriana circa la “resistenza passiva” e i risultati conseguiti dal governo Cuno; - Diritto alla ribellione: analizza la tesi hitleriana circa il diritto alla ribellione e tenta di inquadrare il fenomeno dal punto di vista storico, culturale e politico.
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La chiusa del Mein Kampf corrisponde in modo sorprendente con il Testamento politico, dettato da Hitler alcuni giorni prima della sua morte [KA, n. 119]. A. Gilardoni, Logica e argomentazione. Un prontuario, Milano, Mimesis, 2008.
Glossario
Il glossario contiene una descrizione dei principali termini e concetti utilizzati nel Mein Kampf. Non ha ambizioni enciclopediche, ma esplicative del loro uso all’interno del testo.
Antisemitismus (Antisemitismo):
odio verso il popolo ebraico su basi “razziali”, “scientifiche” e “religiose”. Hitler, che afferma di essere diventato antisemita a Vienna (capitolo 2-I), esprime per la prima volta il suo antisemitismo in una lettera del 16 settembre 1919: “L’antisemitismo come movimento politico non può essere determinato dai sentimenti momentanei, ma dalla conoscenza dei fatti”;
Arbeit (Lavoro):
adempimento del dovere verso la propria comunità nazionalpopolare. Il lavoro vero è quello “creativo” e “libero” compiuto dalla razza ariana (capitolo 11-I);
Arbeiter (Lavoratore):
termine centrale dell’ideologia nazionalsocialista e che lo differenzia dalla galassia nazionalpopolare. Il lavoratore non è il semplice “proletario” che lavora per l’emancipazione della sua classe o per il soddisfacimento di interessi “materialistici”, ma è parte integrante della comunità nazionalpopolare, è il suo braccio armato a livello industriale e militare. Hitler dedica particolare spazio alla definizione di lavoratore nei capitoli 5-I e 9-I;
Arier (Ariano):
membro della razza nordica. L’ariano è l’artefice della civiltà in senso spirituale e tecnico (capitolo 11-I);
Bauer (Contadino):
proprietario di un podere. Hitler conferisce al contadino il ruolo di diffusore e di protettore “sul campo” della razza ariana (capitoli 4-I e 14-II);
Bewegung (Movimento):
forza politica rivoluzionaria. Hitler usa il termine sia per riferirsi al nazionalsocialismo, sia agli avversari. L’intero secondo volume è dedicato proprio al “movimento nazionalsocialista”, con particolare attenzione al problema organizzativo (capitoli 1-II, 4II, 5-II, 11-II);
C Schmitz-Berning, Vokabular des Nationalsozialismus, Berlino, de Gruyter, 1998
626 Blut (Sangue):
patrimonio genetico “razziale” di un popolo, simbolo mitico di una “razza”. Hitler descrive il ruolo del sangue nei capitoli dedicati alla colonizzazione europea (capitoli 4-I e 14-II), alla razza (capitolo 11-I) e al futuro Stato nazionalsocialista (capitolo 2-II);
Blut und Boden (Sangue e terra):
motto centrale del nazionalsocialismo per indicare il legame mitico e originario della comunità di sangue nazionalpopolare con il territorio insediativo. Hitler accenna al tema nei capitoli sulla colonizzazione europea (capitoli 4-I e 14-II);
Bürgerlich (Borghese):
termine che identifica genericamente un liberale moderato e conservatore che professa i valori della patria e della tradizione. Hitler usa l’espressione in senso dispregiativo per accomunare il borghese al marxista, entrambi figli di una visione materialistica della realtà e priva dello “spirituale”. Il borghese è inoltre ritenuto indifferente, vile, privo di coraggio e adoratore del Dio “Mammona”. Il Partito nazionalsocialista è antitetico ai partiti borghesi perché non è ebraico-democratico (capitolo I-9), ha un’idea strumentale dello Stato (capitolo 2-II), non ha paura del conflitto (capitoli 7-II e 8-II);
Deutschtum (Germanesimo):
termine indicante gli esseri di razza germanica (oltre che di lingua tedesca). Hitler ricorre all’espressione soprattutto nel primo volume (capitoli 1-I, 2-I, 3-I, 4I, 10-I e 11-I) e quando traccia il profilo del futuro Stato nazionalsocialista (capitolo 2-II);
Ehre (Onore):
valore fondamentale della razza nordica e della comunità nazionalpopolare tedesca. Il termine ricorre spesso nel corso del libro, in particolare per definire l’etica superiore e militare del “vero tedesco” rispetto agli avversari e agli ebrei (capitoli 2-II, 3-II, 7-II, 8-II, 9-II, 15-II);
Entartene Kunst (Arte degenerata):
indicazione dispregiativa per l’arte avanguardistica influenzata dal “bolscevismo ebraizzato”. Hitler utilizza l’espressione nel capitolo dedicato alle cause del tracollo tedesco (capitolo 10-I);
Entartung (Degenerazione):
in termini biologici, decadimento di una razza per via del miscuglio asimmetrico; in termini culturali e morali, decadimento determinato dalla degenerazione biologica. Hitler utilizza il termine in due contesti: analizzando le cause del tracollo tedesco (capitolo 10-
627 II) e formulando i principî nazionalsocialista (capitolo 2-II);
del futuro Stato
Erbsünde (Peccato originale):
offesa contro il comandamento nazista della purezza razziale. Hitler, che si rifà all’uso di Jörg Lanz von Liebenfels, ricorre al termine nel capitolo sulla genealogia dell’arianesimo (capitolo 11-I);
Eugenik (Eugenetica):
misure per il miglioramento del patrimonio ereditario del popolo tedesco attraverso l’incremento delle capacità riproduttive degli “ariani sani”. Hitler accenna a un’eugenetica “negativa” nel capitolo sulle cause del tracollo (capitolo 10-I), mentre affaccia la possibilità di un’eugenetica “positiva” nel capitolo sul futuro Stato nazionalsocialista (capitolo 2-II);
Fanatismus (Fanatismo):
impiego incondizionato e spietato per la causa. Hitler utilizza il termine in senso positivo, per delineare il patriottismo (capitoli 1-I e 5-I), la ferrea volontà ideologica del nazismo (capitoli 6-II e 11-II) e il Reparto d’assalto (capitolo 9-II);
Faschismus (Fascismo):
ideologia politica nazionalista italiana al potere dal 1922. Hitler usa spesso parole d’elogio per la “rivoluzione fascista” e per la figura di Mussolini, creando dissidi nell’area nazionalpopolare (capitoli 9II e 13-II);
Führer (Capo):
capo carismatico, con particolare riferimento a Hitler stesso. Il termine ricorre in quasi tutti i capitoli del secondo volume, molti dei quali sono dedicati alla lotta interna al fronte nazionalpopolare e al Partito nazionalsocialista (partendo dal capitolo 12-I);
Führerprinzip (Principio del capo):
principio del capo. Hitler utilizza il termine nei capitoli dedicati alla lotta per il potere all’interno del fronte nazionalpopolare e per delineare la differenza col parlamentarismo (capitoli 10-I, 12-I e 12-II);
Gau (Distretto):
distretto, principale unità territoriale e organizzativa del nazismo. Hitler ne accenna al termine del capitolo 12-I;
Genie (Genio):
individuo dotato di doti creative straordinarie che si aziona solo in una particolare situazione storica. Hitler, che si riteneva come il “genio redentore” della razza germanica, ne parla diffusamente in tutto il libro (capitoli 2-I, 3-I, 5-I, 11-I, 12-I e 2-II);
628 Germanische Demokratie (Democrazia germanica):
indicazione per la dittatura nazionalsocialista del capo. Hitler utilizza il termine per descrivere il regime di “assoluta responsabilità” che caratterizza la politica autenticamente ariana da quella “irresponsabile” democratica occidentale (capitoli 3-I e 12-I);
Germanisierung (Germanizzazione):
processo di colonizzazione della razza tedesca contadina in territori precedentemente occupati da altre razze (slavi e baltici, in particolare). Hitler ne parla soprattutto nei due capitoli sulla colonizzazione europea (capitoli 4-I e 14-II);
Geschichtsunterricht (Lezione di storia):
parte fondamentale dell’educazione spirituale nazionalsocialista. Hitler utilizza l’espressione all’inizio del primo volume (capitoli 1-I) e nell’elaborazione del futuro Stato nazionalsocialista (capitoli 2-II) per indicare la necessità di impostare diversamente (e razzialmente) lo studio del passato;
Gewerkschaft (Sindacato):
associazione di categoria dei lavoratori. Nella visione nazionalsocialista il sindacato ha una mera funzione corporativa e consultiva al servizio del benessere più generale della comunità nazionalpopolare. Hitler ne discute a più riprese nel primo volume (capitoli 1-I e 11-I), per enfatizzarne la subalternità al partito marxista, oppure ne critica il progetto in seno al nazionalsocialismo (capitolo 12-II);
Hakenkreuz (Svastica):
simbolo nazista, croce nera dotata di quattro uncini inclinati a destra. Hitler spiega la genesi e l’uso della svastica nel capitolo dedicato alla lotta contro il fronte rosso (capitolo 7-II);
Humanitarismus (Umanitarismo):
ideologia politica mirante a considerare la vita umana come valore in sé. Hitler usa parole sprezzanti verso l’umanitarismo, ritenendolo una “deviazione” dalle leggi di natura e l’espressione quintessenziale del decadimento morale, culturale e politico del germanesimo prebellico (capitoli 2-I, 4-I, 6-I, 10-I, 2II e 6-II);
Inneres Erlebnis (Esperienza interiore):
termine indicante un particolare stato intimo emotivo che può trovare espressione in un’azione creativa esteriore. Hitler usa l’espressione in senso positivo, se la creazione è in funzione della comunità nazionalpopolare (capitolo 1-I), o in senso negativo, se la creazione serve a soddisfare egoistici e
629 “degenerati” interessi di parte (capitoli 2-I, 5-I, 10-I, 11-I, 7-II);
Intellekt (Intelletto):
intelligenza sradicata, sterile e distruttiva. Hitler usa il termine nel corso del primo volume, contrapponendolo spesso ad “animo” (capitoli 4-I e 11-I);
Intelligenz (Intellighenzia):
persone appartenente al ceto intellettuale (professori, studiosi, eruditi), dotati di un percorso formativo regolare, ma distanti dal “sentimento” popolare. L’intellettuale tedesco è l’arma inconsapevole del complotto mondiale ebraico. I riferimenti all’intellettuale, forte di spirito ma debole di fisico, sono ricorrenti in entrambi i volumi (vedi capitolo 9-I);
International (Internazionale):
carattere non tedesco, antipatriottico, sostenitore più o meno consapevole della “congiura mondiale ebraica”. Il termine ricorre in tutto il libro, in particolare nei capitoli dedicati alla Rivoluzione novembrina e alla politica estera (capitoli 7-I, 10-II, 13II);
Jude (Ebreo):
membro della razza “parassitaria” antitetica alla razza “creatrice” ariana. Hitler spiega le genesi del suo antisemitismo nei capitoli 2-I e 3-I. Espone la filosofia della storia razziale nel capitolo 11-I. Il termine ebreo ricorre in tutti i capitoli dedicati alla politica tedesca postbellica o in quelli dedicati al bolscevismo (come il capitolo 14-II);
Judenfrage (Questione ebraica):
indicazione dell’impossibile convivenza fra ebrei e non ebrei per ragioni razziali. Hitler si riferisce direttamente alla questione ebraica nel capitolo 2-I (dove spiega la sua “conversione” all’antisemitismo), nel capitolo 12-I (dove spiega i presupposti del successo nazista) e nel capitolo 10-II (dove conferisce la paternità politica della questione ebraica alla Lega nazionalpopolare tedesca a protezione e a difesa). Quanto alle soluzioni “drastiche”, accenna all’impiccagione dei “mandanti ebrei” (capitolo 5-I) o alla loro eliminazione fisica (capitolo 15-II);
Katholizismus (Cattolicesimo):
confessione religiosa cristiana maggioritaria nella Germania meridionale e in Austria. Hitler usa spesso parole positive verso il cattolicesimo come struttura politica, pur criticandone la visione “umanitaria” (capitoli 3-I, 12-I, 5-II, 12-II);
630 Körperliche Ertüchtigung (Salute fisica):
principio fondamentale dell’educazione nazionalsocialista dell’uomo nuovo tedesco. Hitler si concentra in due passaggi sul tema dell’educazione fisica: discutendo della “decadenza” guglielmina (capitolo 10-I) e prospettando i principî pedagogici del nuovo Stato nazionalsocialista (capitolo 2-II);
Kulturbolschewismus (Bolscevismo culturale): movimento avanguardistico ritenuto responsabile della decadenza dell’arte e della cultura più in generale degli anni Venti. Il termine è ritenuto nel capitolo 10-I tra i sintomi del tracollo postbellico;
Lebensraum (Spazio vitale):
motto per legittimare un’espansione violenta orientale dell’Impero tedesco su base razziale. Hitler ne parla nei capitoli dedicati alla politica estera (capitoli 4-I, 13II e 14-II);
Marxismus (Marxismo):
ideologia politica di sinistra mirante a “internazionalizzare” le basi “sane” dell’economia nazionale di un popolo attraverso la diffusione del pensiero democratico e internazionalista. Hitler ricorre spesso a questo termine, che usa come sinonimo di socialdemocrazia, di comunismo e di socialismo classista, ma lo preferisce per il richiamo diretto e “palese” all’ebreo Marx;
Menschenmaterial (Materiale umano):
uomini a disposizione del capo e del partito per la realizzazione dei suoi obiettivi. Il termine ricorre in vari capitoli dedicati all’organizzazione e alla formazione dei quadri (capitoli 12-I, 1-II, 2-II, 5-II e 6-II);
Nationalsozialismus (Socialismo nazionale): ideologia politica mirante a creare uno Stato socialista su basi nazionali e razziali. Hitler la ritiene un’evoluzione dalla generica galassia nazionalpopolare e ne spiegherà le peculiarità nell’ultimo capitolo del primo volume e nei primi del secondo (capitoli 1-II, 4-II e 5-II);
Novemberrevolution (Rivoluzione novembrina): la “pugnalata alla schiena” effettuata dai nemici interni al soldo degli ebrei nel novembre 1918. Hitler utilizza l’espressione in numerosi capitoli di entrambi volumi della sua opera, a partire dal capitolo omonimo della prima parte (capitolo 7-II);
Objektivität (Oggettività):
sinonimo di posizione debole, neutrale, identificata con l’intellettualismo e con il liberalismo, che si sforza di essere avalutativa, invece di orientarsi a favore dell’interesse (e dei sentimenti) della comunità nazionalpopolare. Il termine ricorre in vari capitoli di
631 entrambi i volumi, specie nel primo (capitoli 2-I, 3-I, 4I, 6-I, 12-I e 14-II);
Ordnung und Ruhe (Ordine e quiete):
ironica espressione con cui Hitler definisce la missione del vecchio Stato borghese. La missione nazionalsocialista sarà quella di creare ordine e quiete senza alcun compromesso con le forze “disgregatrici”;
Organisch (Organico):
contrario di artificioso, meccanico, razionale, astratto e individualistico. Tutto ciò che è naturale, spontaneo, istintivo e corrisponde alla visione del mondo nazionalsocialista. Il termine ricorre in entrambi i volumi (capitoli 11-I, 2-II, 9-II e 11-II);
Ostmark (Marca Orientale):
l’Austria secondo la sua accezione medievale e originaria. Il termine ricorre in entrambi i volumi (capitoli 1-I, 3-I e 14-II);
Ostsiedlung (Insedimento orientale):
processo di colonizzazione verso Est intrapreso dalle popolazioni germaniche a partire dall’Alto Medioevo. Hitler, che intende proporsi come il prosecutore della millenaria spinta germanica per l’ampliamento dello spazio vitale, ne parla nei capitoli dedicati alla colonizzazione europea (capitoli 4-I e 14-II) e in quello dedicato al futuro Stato nazionalsocialista (capitolo 2II);
Parasit (Parassita):
ingiuria rivolta agli ebrei quale antitesi morale e fisica agli ariani. Il termine “bio-medico” ricorre spesso in entrambi i volumi, quando Hitler intende riferirsi ai nemici “occulti” della comunità nazionalpopolare tedesca (capitoli 5-I, 11-I, 12-I, 1-II, 10-II, 13-II e 14II);
Parlamentarismus (Parlamentarismo):
ideologia “ebraico-marxista” sorta in Occidente, basata sulla “irresponsabilità individuale” e tendente unicamente alla disgregazione delle forze migliori della comunità nazionalpopolare e al soffocamento della personalità creativa. Hitler ne discute all’inizio del primo volume, quando si sofferma sull’esperienza viennese (capitolo 3-I), e poi a più riprese nel secondo volume;
Propaganda:
misure adottate dal nazionalsocialismo per l’orientamento unitario del popolo in tutte le questioni politiche. Il termine ricorre spesso nel corso di entrambi i volumi, anche vi sono dedicati due capitoli appositi (capitoli 6-I e 11-II);
632 Rasse (Razza):
pilastro della visione del mondo nazista, che si basa sullo scontro fra una razza superiore e creatrice (quella ariana) e una inferiore e distruttrice (quella ebraica). Il termine ricorre in molti capitoli di entrambi i volumi, anche se la sua spiegazione e giustificazione avviene per esteso nel capitolo 11-I;
Rassenschande (Onta razziale):
giuridicamente parlando, contravvenzione alla legge per la difesa del sangue, che proibisce i rapporti sessuali tra ebrei e cittadini tedeschi. Il termine ricorre nel capitolo 10-I dedicato alle cause del tracollo postbellico e nel capitolo 2-II sul futuro Stato nazionalsocialista;
Reichsdeutsche (tedesco statale):
cittadino di etnia e di cittadinanza tedesca che viveva in Germania. Il termine è indirettamente richiamato nei capitoli dedicati alla colonizzazione europea e alla cittadinanza (capitoli 4-I, 3-II e 14-II);
Staatsangehörige (Membro dello Stato):
persona giuridicamente appartenente allo Stato nazionalsocialista, ma non provvisto dei diritti civili e politici;
Staatsbürger (Cittadino):
persona giuridicamente appartenente allo Stato e dotato di diritti civili e politici;
Sturmabteilung (Reparto d’assalto):
truppa combattente del Partito nazionalsocialista. Hitler dedica due capitoli al Reparto d’assalto: i capitoli 7-II (lotta contro il fronte rosso) e 9-II (genesi e trasformazioni della “guardia di sala”);
Volk (Popolo):
una comunità naturalmente impressa dalla razza e dal territorio comune, dotata di medesima origine, storia, lingua e cultura. Il termine ricorre assai di frequente in tutti e due i volumi;
Völkisch (Nazionalpopolare):
nazionale, con enfasi sui valori derivanti dalla razza, dal sangue e dal carattere nazionalpopolare. Il termine ricorre spesso nel corso di entrambi i volumi, anche se Hitler tende a evitare l’associazione fra nazionalpopolare e nazionalsocialismo, essendo il secondo più specifico (capitoli 12-I, 1-II e 4-II);
Volksdeutsche (tedesco nazionalpopolare):
membro della comunità nazionalpopolare che viveva al di fuori dei confini dello Stato tedesco. Il termine è indirettamente richiamato nei capitoli dedicati alla colonizzazione europea e alla cittadinanza (capitoli 4-I, 3-II e 14-II);
633 Volksgemeinschaft (Comunità nazionalpopolare): comunità basata dalla comunanza di sangue, di destino e di fede nazionalsocialista, in cui classi, partiti, contrasti cetuali e interessi individuali sono subordinati al bene comune della nazione. Hitler ricorre spesso all’uso del termine in entrambe le parti del volume, a partire dal capitolo 2-I;
Volksgenosse (Membro della comunità nazionalpopolare): termine indicante il membro della comunità nazionalpopolare su base razziale. Hitler ricorre al termine nel capitolo 2-I (dove descrive il degrado del subproletariato viennese) e nel secondo volume (capitoli 2-II e 3-II), quando si concentra sul problema della cittadinanza nel futuro Stato nazionalsocialista;
Volkskörper (Corpo popolare):
popolo come unità biologico-razziale gerarchicamente strutturata e minacciata dai “parassiti” o dagli “agenti patogeni”. Il termine ricorre spesso in entrambi i volumi, specie nei primi capitoli del primo (capitoli 2-I e 4-I), dove Hitler spiega la sua visione biopolitica, sia negli ultimi, dove si parla di politica estera (capitoli 13-II e 14-II);
Volkstum (Carattere nazionalpopolare):
essenza tipica di un popolo o di una nazione. Il termine ricorre spesso nel corso di entrambi i volumi, quasi a indicare la peculiarità e la superiorità della razza germanica rispetto alle altre;
Weltanschauung (Visione del mondo):
sistema di valori determinato di una razza, di un carattere o di una comunità di destino, rappresentato politicamente dal nazionalsocialismo. Hitler utilizza spesso questo termine per indicare la filosofia “nazionalpopolare” alla base del nazismo. Vi dedica due capitoli della seconda parte, volti a chiarire il ruolo di sintetizzatore giocato dal Partito nazionalsocialista (capitoli 1-II e 5-II);
Weltjudentum (Ebraismo cosmopolita):
indicazione di una presunta internazionale ebraica che regge le fila della storia universale. Hitler ricorre spesso a questa espressione nel corso di entrambi i volumi, che completa con l’aggettivo “internazionale”, proprio per sottolineare l’assenza di una “sede nazionale” propria dell’ebraismo e la sua “missione” universale;
Zionismus (Sionismo):
forma di nazionalismo ebraico territorialista, che sostiene la creazione di uno Stato a maggioranza ebraica nella terra atavica. Hitler accenna al sionismo nei capitoli 2-I e 11-I. In entrambi i casi il movimento
634 nazionalista ebraico è definito come un “paravento” della congiura mondiale ebraica.
Indice dei nomi Sono indicizzati i nomi citati nel testo e nelle note a piè di pagina (eccetto Adolf Hiter).
Adler, Victor, 59 Ahad Ha’am (Asher Zvi Ginzberg), 272n Alessandro Magno, 592n Al-Husseini, Mohamed Amin, 594n Altenberg, Jakob, 35n Amann, Max, 528n, 533 e n, 534 e n Andrássy il Vecchio, Gyula, 70n Andrian-Werbung, Ferdinand von, 10n Anna d’Austria, regina di Francia, 72n Annibale Barca, 213n Arco auf Valley, Anton, conte di, 187n Auer, Erhard, 421n, 449 e n Auerbach, Elias, 271n Austerlitz, Friedrich, 42n, 59 Bacher, Eduard, 57n Badeni, Kasimir Felix, conte di, 75n, 88n Ballerstedt, Otto, 434n Ballin, Albert, 499n, 617n Barry, Charles, 74 e n Bartels, Adolf, 337n Barth, Emil, 176 e n Bauer, Hermann, 314 e n Bauer, Ludwig Coelestin, 434n Bechstein, Helene, 423n, 546n Benedikt, Moritz, 51n Bethmann-Hollweg, Theobald von, 123n, 243 e n, 377 e n, 424 Birnbaum, Nathan, 55n Bismarck-Schönhausen, Otto Eduard Leopold von, 13, 52n, 101n, 114, 126, 147, 190, 216 e n, 239 e n, 296, 354n, 506 e n, 509, 510, 592 e n, 593, 616 Bloch, Eduard, 20n Böcklin, Arnold, 234 e n Bose, Subhas Chandra, 594n Briand, Aristide, 553n, 560n Bright, John, 85n Bruck, Arthur Moeller van den, 542n, 582n Bruckmann, Elsa, 546n Brunner, Alfred, 460n Buber, Martin, 271n Bülow, Bernhard von, 52n, 114n, 119n Cadorna, Luigi, 174 e n Calmette, Albert, 214n
Caprivi de Caprera de Montecuccoli, Georg Leo von, 246n Carlo Magno, 16n Chamberlain, Houst Stewart, 239 e n, 256n, 337n, 423n Chwatal, Arno, 305n Claß, Heinrich, 67n, Clausewitz, Carl von, 607 e n, 608 e n Clemenceau, Georges, 610 e n Cobden, Richard, 85n Cossmann, Paul, 294n, 501n Crispien, Arthur, 402n Cuno, Carl Josef Wilhelm, 546, 613-619 Danton, Georges, 484 Darré, Richard Walther, 258n Darwin, Charles, 256n, 257n David, Jakob Julius, 57 Dawes, Charles Gates, 255n Demostene, 315 Dengel, Philipp, 402n Diaz, Armando, 174n Dickel, Otto, 460n, 523n Dinter, Artur, 225n, 257n, 314n, 506n Dippel, Heinrich, 86n Dolle, Heinrich, 191n Dorten, Hans Adam, 502 e n Dresler, Adolf, 616n Drexler, Anton, 49n, 198n, 199n, 200 e n, 201n, 202n, 297n, 311 e n, 313n, 316 e n, 328n, 451n, 456n, 459n, 523n, 527 e n Drumont, Édouard, 563n Dühring, Eugen Karl, 269n Ebert, Friedrich, 78n, 176 e n, 233 e n, 434n, 470n, 484, 608n, 614n, 616n Eckart, Dietrich, 60n, 191n, 270n, 297n, 308n, 317n, 337n, 404n, 528n, 531n, 532n, 622 e n Edoardo VII d’Inghilterra, 127 e n Ehrhardt, Hermann, 484n Ehrlich, Paul, 223n Eisner, Kurt, 179n, 187 e n, 193 e n, 442n, 450n, 500 e n, 501 e n Elisabetta I d’Inghilterra, 557 Ellenbogen, Wilhelm, 59 Engels, Friedrich, 435n, 478n Enver Pascià, 613 e n
636 Epp, Franz von, 531n Erzberger, Matthias, 79n, 153n, 161n, 484, 511n Esser, Hermann, 416n, 452, 492n, 528n, 532n Falkenhayn, Erich Georg Anton von, 174n Feder, Gottfried, 188-192, 197, 198, 199, 297n, 328n, 387n, 525n, Federico Guglielmo I, principe di Brandeburgo, 16n Federico II, re di Prussia, detto il grande, 86 e n, 97, 191, 218 e n, 233 e n, 274, 438n, 556 Fischer, Karl von, 446n Foch, Ferdinand, maresciallo di Francia, 612 e n Ford, Henry, 575 e n Francesco Ferdinando Carlo Luigi d’AsburgoEste, arciduca d’Austria, 19 e n, 85 e n, 137 e n Francesco Giuseppe I, imperatore d’AustriaUngheria, 27n, 52n, 137 Frick, Wilhelm, 317 e n, 318, 438n, 525n Fried, Alfred Hermann, 258n Friedjung, Heinrich, 57n Fritsch, Theodor, 60n, 87n, 114n, 191n, 271n, 563n Füss, Josef, 444 e n Gahr, Otto Michael, 444n Gandhi, Mohandas Karamchand, 594n Gärtner, Friedrich von, 235n Gemlich, Adolf, 54n Gerlach, Ernst Ludwig von, 296n Gesell, Silvio, 191n Giuseppe II, imperatore d’Austria, 71, 72 e n, 275n, 349 e n Gobineau, Joseph Arthur de, 260n, 576n Goebbels, Joseph, 229n, 622n Goethe, Johann Wolfgang von, 56 e n, 76n, 209n, 232, 233, 269n, 274 Graefe, Albrecht von, 91n, 301n, 313n, 331n, 337n, 435n, 459n, 461n, 536n Grandel, Gottfried, 531n Grant, Madison, 256n, 353n, 575n Grimm, fratelli, 128n Grimm, Hans, 225n, 565n, 584n Gruber, Kurt, 305n Gruber, Martin, 501n Guérin, Camille, 214n Guglielmo I, imperatore di Germania, 218 e n Guglielmo II, imperatore di Germania, 52 e n, 57 e n, 67n, 74n, 124n, 144n, 157n, 175n, 179n, 181 e n, 245, 469n, 569n, Gumbel, Emil, 478n Günther, Hans F.K., 262n, 576n Güterbock, Ferdinand, 618n
Haeckel, Ernst, 337n Hamann, Barbara, 39n Hanfstaengl, Helene, 546n Hanisch, Reinhold, 38n Hansen, Theophil von, 27 e n, 74 e n Harlan, Veit, 274n Harmsworth, Alfred, Lord Northcliffe, 574 e n Harrer, Karl, 199n, 200 e n, 297n, 309n, 310, 311, 316 e n, 523n, 527n Hata, Sahachiro, 223n Haushofer, Karl, 259n, 367n, 584n, 594n Haydn, Franz Joseph, 16n, 434n Heeringen, Josias von, 241n Heim, Georg, 511n Held, Heinrich, 91n, 294n Herzl, Theodor, 55n, 270n, 275n Hess, Rudolf, 259n, 367n, 451 e n, Hindenburg, Paul von, 174n, 212n, 213, 614n Hitler, Alois, 11 e n, 20n, 50n, 517n Hitler, Klara, 11n, 20n, 21n, 180n Hitler, Paula, 11n, 21n Hoffmann von Fallersleben, August Heinrich, 434n Hoffmann, Heinrich, 141n Hugenberg, Alfred, 294n Hummel, Georg, 450n Ihne, Ernst von, 236n Jacob, Hans, 301n Jacobs, Joseph, 271n, Judt, Ignacy Maurycy, 271n Jung, Rudolf, 191n Jünger, Ernst, 13n Kahr, Gustav von, 317n, 369n, 531n Kant, Immanuel, 29n Kapp, Wolfgang, 79n, 475n Kautsky, Karl, 127n, 396n Keller, Gottfried, 365n Kelsen, Hans, 346n Kessler, Harry Clemens Ulrich, conte di, 161n Kidwai, Mushir Hosain, 594n Kjellén, Johan Rudolf, 584n Klenz, Leo von, 113n, 235n Koch, Robert, 223n Krafft-Ebbing, Richard von, 44n Kraus, Karl, 57n Kreller, 309n Krohn, Friedrich, 442n, 443n, Kubizek, August, 22n, 31n, 35n, 39n, 40n Kühlmann, Richard von, 166n Kühn, Erich, 309n Kunze, Richard, 91n, 337n
637 L’Allemand, Siegmund, 27n La Fontaine, Jacque, 122n Lagarde, Paul Anton de, 337n Landauer, Gustav, 187n Langbehn, August Julius, 99n, 113n, 234n, 262n, 273n Lanz von Liebenfels, Jörg, 55n, 546n Le Bon, Gustave, 43n, 426n Lenin, Vladimir Ilic Ulianov, 424, 526n Liebknecht, Karl, 143n, 176 e n, 179n List, Guido von, 443n List, Julius, 142 e n, 168n, 172n, 177n, 193n, 241n, 310n, 482n, 530n Litvinov, Maksim Maksimovic, 600n Lloyd George, David, 424 e n, 614 e n Lossow, Otto Hermann von, 369n, 616n Ludendorff, Eric Friedrich Wilhelm, 91n, 123n, 126 e n, 212n, 213 e n, 241n, 243 e n, 301n, 313n, 314n, 331n, 461n, 525n, 536n Ludovico I, re di Baviera, 235 e n, 446n, 515, 546n Ludovico III, re di Baviera, 140 e n, 179n Lueger, Karl, 53 e n, 55n, 69 e n, 85n, 88-106, 153 Lutero, Martin, 60n, 191 Luther, Hans, 404n, 483n, 512n, 562n Machhaus, Hugo, 532n Maffei, Anton von, 450 e n Malthus, Thomas, 116n Mann, Heinrich, 211n Mann, Klaus, 269n Mann, Thomas, 36n Marat, Jean Paul, 495 Maria Teresa, imperatrice d’Austria, 138 e n Marr, Wilhelm, 268n Marx, Karl, 192 e n, 336 e n, 350, 380 e n, 402n, 421 e n, 424, 435, 478n Marx, Wilhelm, 402n, 483n, 608n Massimiliano d’Asburgo, imperatore del Messico, 86 e n Massimiliano Alessandro Federico Guglielmo, principe di Baden, 179n Matt, Franz, 270n Maurer, Hansjörg, 532n Maurice, Emil, 451 e n May, Karl, 42n, 269n Mayr, Ernst, 254n Mayr, Karl, 188n, 197n Melchior, Carl, 499n Miller, Alice, 36n Molotov, Vjaceslav Michailovic, 598n Moltke, Helmuth Johann Ludwig von, 241n Moltke, Helmuth Karl Bernhard von Moltke, 155, 363 e n
Mommsen, Theodor, 395n Montgelas, Maximilian von, 138n Morgenstern, Samuel, 35n Mosse, Rudolf, 57n, 222n Müller, Hermann, 238n, 402n Müller-Guttenbrunn, Adam, 72n Mussolini, Benito, 416n, 547n, 616 e n Napoleone I, imperatore di Francia, 122n Napoleone III, imperatore di Francia, 85n, 86n Neuss, Alwin, 40n Nordau, Max, 35n, 215n Nüll, Eduard van der, 27n Oberlechner, Antonia, 31n Oppenheimer, Joseph Süss, 274n Ottone I, re di Baviera, 140n Palm, Johannes, 10 e n Pericle, 78 e n, 234 e n, 556n Pfeffer von Salomon, Franz, 480n, 493n Pöhner, Ernst, 317 e n, 318, 346n, 437n, 438n, 447n, 480 e n Poincaré, Jules Henri, 611n Pölzl, Johanna, 21n, 28n Popp, Josef, 155n Pötsch, Leopold, 18 e n Quidde, Ludwig, 98n Radek, Karl, 415n, 597n Rathenau, Walter, 79n, 145n, 476n, 488n Ratzel, Friedrich, 584n Reventlow, Ernst Christian Ludwig Detlev zu, 272n, 297n, 301n, 435n, 506n, 592n, 594n Robespierre, Maximilien, 485 Röhm, Ernst, 481n, 483n, 492n, 494n Rohmeder, Wilhelm, 446n Rohn, Karl, 191n Roller, Alfred, 28n Rosenberg, Alfred, 240n, 268n, 273n, 285n, 303n, 339n, 389n, 481n, 535n, 543n, 544n, 598n, 605n Rossbach, Gerhard, 497n Roth, Alfred, 509n Scheidemann, Philipp, 145n, 176 e n, 179n, 484 Schiele, Martin, 562n Schiller, Johann Christoph Friedrich von, 119n, 129n, 136n, 176n, 181n, 232, 233, 263n, 433n, 484n, 569n Schirokauer, Alfred, 40n Schlageter, Albert Leo, 10 e n Schlieben, Otto von, 562n Schlieffen, Alfred von, 243n, 472n
638 Schmeling, Max, 363n Schmidt, Ernst, 186n Schmitt, Carl, 346n Schneckenburger, Max, 141n Schnitzler, Arthur, 57n Schönerer, Georg von, 55n, 87n, 88-106 Schopenhauer, Arthur, 39n, 49n, 60n, 68n, 214n, 270 e n, 307n Schüssler, Rudolf, 306n, 309n, 530 e n, 531 Schwind, Moritz Ludwig von, 234 e n Sckell, Friedrich Ludwig von, 446n Sebottendorf, Rudolf, 337n, Seeckt, Hans von, 295n, 531n, 616n Sesselmann, Max, 309n Severing, Carl, 10 e n, 319n Shakespeare, William, 233 Sicardsburg, August Sicard von, 27n Simons, Walter, 614 e n Singer, Wilhelm, 51n Sombart, Werner, 70n Sonnemann, Leopold, 57n, 222n Spann, Othmar, 346n Spengler, Oswald, 523n, 542n, Stenglein, Ludwig, 302n Stinnes, Hugo Dieter, 129n, 217 e n Strasser, Gregor, 301n, 313n, 331n, 337n, 406n, 456n, 524n, 525n, 536n, 590n, 592n Strasser, Otto, 581n, 592n Streicher, Julius, 306n, 337n, 366n, 416n, 437n, 460 e n Stresemann, Gustav, 238n, 402n, 515n, 553n, 560n, 571n, 614n Stützel, Karl, 239n, 270n, 319n, 333n, 434n Suttner, Bertha von, 258n Tacito, Marco Claudio, 584n
Talleyrand-Périgord, Charles Maurice de, 588 e n Tempel, Wilhelm, 305n Thälmann, Ernst, 402n Tietz, Oscar, 236n Tirpitz, Alfred von, 52n, 241n Toller, Ernst, 187n Treitschke, Heinrich von, 192n, 395n Tucholsky, Kurt, 143n Ullstein, Leopold, 57n Wagner, Otto, 105n Wagner, Richard, 20n, 191, 268n, 423n Waldeck, Friedrich Meyer von, 239n Wallot, Johann Paul, 74 e n, 236n Weber, Max, 67n, 303n Weininger, Otto, 211n Weiskirchner, Richard, 75n Wels, Otto, 402n Westarp, Kuno von, 402n Wetterlé, Émile, 240 e n Weyl, Joseph, 570n Weyneken, Gustav, 368n Wilde, Oscar, 284n Wilhelm, Carl, 141n Wilson, Thomas Woodrow, 167n, 258 e n Winckler, Johann Friedrich, 17n Wirth, Joseph, 145n, 446n Wittgenstein, Ludwig, 50n Wolf, Karl Hermann, 87n, 95n Wulle, Reinhold, 337n Wundt, Wilhelm, 115n Zollschan, Ignaz, 271n Zweig, Arnold, 143n
Annotazioni