La menzogna del cinema 8845267547, 9788845267543

Un maestro del cinema contemporaneo, premio Oscar nel 1990 con "Nuovo cinema paradiso", racconta la passione e

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Italian Pages 82 [41] Year 2011

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Table of contents :
La Menzogna Del Cinema
Trama
Copyright
PREFAZIONE
INTRODUZIONE
IL FILM, UNA RISCRITTURA SENZA FINE
FILMOGRAFIA DI GIUSEPPE TORNATORE
IL CAMORRISTA
NUOVO CINEMA PARADISO
STANNO TUTTI BENE
LA DOMENICA SPECIALMENTE
UNA PURA FORMALITÀ
L’UOMO DELLE STELLE
LA LEGGENDA DEL PIANISTA SULL’OCEANO
MALÈNA
LA SCONOSCIUTA
BAARÌA
L’ULTIMO GATTOPARDO
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La menzogna del cinema
 8845267547, 9788845267543

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“Un film nasce da un’idea, da uno spunto, da un personaggio, da una frase, da uno stato d’animo, da un’intuizione, da un fatto di cronaca, da un libro, da un episodio storico, da un sogno, da una folgorazione.” Giuseppe Tornatore Un maestro del cinema contemporaneo, Premio Oscar nel 1990 con Nuovo cinema Paradiso, racconta la passione e la professionalità che si nascondono dietro la macchina da presa. Da Kurosawa a Fellini, da Truffaut a Pasolini, i maestri del grande schermo prendono vita in un affascinante racconto sull’arte dei sogni di celluloide, un percorso attraverso film e protagonisti che hanno acceso le emozioni di intere generazioni.

PASSAGGI

GIUSEPPE TORNATORE LA MENZOGNA DEL CINEMA Prefazione di Giovanni Puglisi Introduzione di Gianni Canova

BOMPIANI

ISBN 978-88-587-6087-1 © 2011 Bompiani / RCS Libri S.p.A. Via Angelo Rizzoli 8 – 20132 Milano Prima edizione digitale 2013 da edizione Tascabili Bompiani giugno 2011 Progetto grafico: Polystudio. Copertina: Paola Bertozzi. In copertina: © Chris Warde Jones / Blackarchives.

Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

PREFAZIONE di Giovanni Puglisi L’immagine incide più della parola: il cinema segna il tempo dell’uomo, ma anche quello delle sue culture. L’efficacia della scrittura filmica è uno dei motivi che hanno dato alla “settima arte” il ruolo e l’incisività che hanno caratterizzato la sua fortuna e anche la sua gloria. Gli autori cinematografici hanno finito con il rivestire, soprattutto negli anni recenti, una posizione e un prestigio che hanno superato quello degli stessi letterati, che, invece, per molti versi ne rappresentano la versione d’antan. Giuseppe Tornatore è l’icona più significativa di questo processo metamorfico, che ha attraversato tutto il secolo scorso e che ha influito in modo determinante sia sulla capacità narrativa del cinema d’autore, sia sull’approccio espressivo della cultura di massa. Il cinema di Tornatore è stato un cinema di sentimenti portati a valori di alfabetizzazione di massa, soprattutto riferiti a culture e società spesso ancorate a tradizioni impermeabili al cambiamento e all’integrazione. Il raffinato autore siciliano ha trasferito nella sua opera filmica il gusto estetizzante dell’immagine casualmente ricercata, ibridandolo con l’ambizione intellettuale del riformatore “politico”, che ha scelto però la via della narrazione, piuttosto che quella della contestazione globale. È stata una scelta vincente, soprattutto in una terra in cui la sfida per il cambiamento è pericolosa quanto la lotta alla mafia: entrambe, infatti, combattono più che l’insipienza dell’abitudine, la violenza dell’ignoranza. L’efficacia dirompente delle impareggiabili narrazioni di Giuseppe Tornatore da un lato ha estasiato intere generazioni di cinefili, ma d’altro lato ha svegliato, in modo sottilmente socratico, dal sonno della ragione intere generazioni di giovani e meno giovani, che altrimenti non avrebbero mai scoperto il gusto della diversità e il piacere dell’onestà come fondativi della libertà democratica e dell’eticità personale.

Scrivere per immagini è più difficile che scrivere per lettere dell’alfabeto: la complessità e l’icasticità di un’immagine rendono la narrazione più viva, ma anche più ricca e più incisiva, nella percezione del destinatario del messaggio, togliendo spesso margini all’interpretazione, ma arricchendo la percezione soggettiva di sensazioni e stimoli, che il testo scritto spesso induce con maggiori difficoltà. Come l’immediatezza percettiva del messaggio pacifista dell’impareggiabile Guernica di Picasso ha tracciato nella storia del nostro tempo un segno indelebile, che nessun messaggio letterario, a favore della pace e contro gli orrori della guerra, avrebbe potuto sintetizzare con pari efficacia descrivendo il bombardamento della città spagnola del 1937, così Nuovo cinema Paradiso o Baarìa o La leggenda del pianista sull’oceano o ancora La sconosciuta di Giuseppe Tornatore (per citare i più noti e i più incisivi) riescono a tratteggiare nella successione logica e icastica della rappresentazione per immagini, personaggi e storie, che interi romanzi avrebbero, forse, avuto serie difficoltà a rendere con la stessa incisività, lasciando – come Guernica di Picasso – un segno indelebile nella coscienza dei loro spettatori. È questa una dote artistica importante, ma è anche una tecnica artigianale che la grande professionalità documentaristica e la quasi innata attitudine di Giuseppe Tornatore alla ripresa filmica della realtà hanno reso magistrale. Il cinema, più di ogni altra arte, ha la capacità e la responsabilità di riassumere nella sua forma espressiva una pluralità di altre forme artistiche, come nessun’altra arte performativa può e sa fare: immagini, musica, narrazione, colore, suono e molto altro ancora, soprattutto un mix formidabile di intelligenza e sentimento, di realtà e fantasia; eppure nel suo insieme riesce a dare a ciascuna di esse una peculiarità che ne elimina le specificità di settore, senza annullarne gli effetti. Riuscire in quest’impresa è, in verità, riuscito a pochi – se riferita all’infinita quantità di registi cinematografici – e fra essi solo ad alcuni in modo davvero eccezionale: Peppuccio Tornatore è uno di questi. Italiano doc, siciliano di razza, è riuscito a dare alla sua arte un valore davvero universale, senza però mai perdere, né rinnegare la sua storia e le sue radici.

È anche questa la ragione profonda per la quale un’Università che della comunicazione e del cinema ha fatto il proprio valore esistenziale, come l’Università di Lingue e Comunicazione IULM di Milano, ha voluto conferirgli la laurea honoris causa, per offrirlo non solo ai suoi giovani, ma al mondo come simbolo di intelligenza culturale e di creatività artistica, oltre ogni ragione di stima e di affetto personali, che pur stanno lì, da decenni, con immutata ammirazione.

Introduzione IL CINEMA E LE INTERMITTENZE DELLA MEMORIA di Gianni Canova “Sempre più spesso, ricordare non significa richiamare alla mente una storia, bensì essere in grado di evocare un’immagine.” Mi piace iniziare la mia riflessione sul cinema di Giuseppe Tornatore con questa frase, tratta dal libro Davanti al dolore degli altri di Susan Sontag. Mi piace iniziare così perché credo che il cinema di Tornatore abbia come tema ossessivo e ricorrente proprio questo: il ruolo delle immagini – e delle immagini filmiche in particolare – nell’esercizio della memoria e nei processi di costruzione dell’immaginario individuale e collettivo. Ora: che le immagini svolgano una funzione imprescindibile nei processi di elaborazione e di estrinsecazione della memoria non è una scoperta dell’età moderna né, tanto meno, un’invenzione di Giuseppe Tornatore. Tra immagini e memoria c’è un legame profondo, antico, forse perfino ontologico. La mia convinzione è che il cinema di Tornatore lavori prima di tutto su questo legame. Parafrasando Aristotele, che considerava l’anima una collezione di ritratti dipinti, si potrebbe dire che per Tornatore l’anima del nostro tempo è una collezione di ritratti filmati, di immagini filmiche, da intendere però non come semplici supporti su cui si conservano tracce di esperienze sensibili, ma come strumenti di mediazione fra la realtà e l’immaginazione. Il cinema – ci dice con tutti i suoi film Giuseppe Tornatore – non è uno dei tanti elementi costitutivi della cultura del Novecento. Il cinema è la cultura del Novecento, tout court. E lo è a dispetto di quegli autorevoli esponenti del mondo politico e giornalistico che ancora poche settimane fa proclamavano con tronfia sicurezza l’estraneità del cinema alla cultura. Tornatore – e credo che dobbiamo essergli tutti grati per questo – ha speso la sua vita per sostenere il contrario, e per dimostrarci e ricordarci che il cinema è il dispositivo in cui

convergono le pratiche, i discorsi, i linguaggi, i segni, i codici e gli alfabeti attraverso cui il Novecento ha rappresentato se stesso ai soggetti e agli sguardi che l’hanno abitato. Non c’è film in cui Giuseppe Tornatore non racconti il cinema e non individui nel guardare il gesto politico più importante e centrale di tutta la modernità. Ho detto gesto politico: il che può voler dire che a volte è un gesto etico, altre volte estetico, altre ancora erotico o filosofico, ma è comunque politico perché sempre ha a che fare con il modo in cui gli uomini e le donne del Novecento vivono gli uni con gli altri, o gli uni accanto agli altri, o gli uni contro gli altri. Prendete Baarìa. Come fa il protagonista Peppino a vincere la diffidenza della famiglia e l’ostilità dell’ambiente e a sposare la donna che ama? Dove trova il modello culturale a cui ispirare il suo comportamento quotidiano? Nella scuola? Nella chiesa? Nel partito? Assolutamente no. La scuola, quelli come lui, quelli che rompono le gerarchie e i codici dominanti, quelli che stanno fuori dal coro, li mette in castigo dietro la lavagna e li lascia lì, in ibernazione sociale, anche per decenni. La chiesa? Men che meno. La chiesa a Bagheria è aniconica se non addirittura iconoclasta, e fa ricoprire con una mano pesante di calcina bianca un affresco sulla cupola della chiesa in cui i ritratti consentono processi di identificazione troppo forte nei fedeli. Il partito, allora? È il Partito comunista che offre a Peppino una cultura per emanciparsi? Nemmeno per sogno. Il partito caso mai aiuta Peppino a mettere a fuoco lo sguardo sul grande mondo attraverso il viaggio “terribile” – così lo definisce lui stesso – in Unione Sovietica, ma non lo aiuta a risolvere i suoi problemi affettivi ed esistenziali. Peppino Torrenuova i suoi problemi li risolve andando al cinema. È vedendo Girandola di Mark Sandrich, con Fred Astaire, che Peppino capisce come deve agire. E agisce. Nella modernità novecentesca, il cinema opera nei film di Tornatore come un grande dispositivo modellizzante: insegna a coloro che non dispongono di altri mezzi, di altri linguaggi, di altri poteri, come vivere nel mondo. Nel piccolo paese siciliano in cui si svolge Nuovo cinema Paradiso, ad esempio, il cinema insegna a baciare, e il suo insegnamento è tanto

contagioso e scandaloso che il parroco deve provvedere a censurare proprio le scene di bacio sforbiciando fisicamente la pellicola di celluloide. A Realzisa, l’immaginario borgo siciliano in cui inizia L’uomo delle stelle, succede l’opposto: basta fingere che ci sia una macchina da presa e che questa stia filmando, come fa credere l’imbroglione interpretato da Sergio Castellitto, che organizza falsi provini senza pellicola nel rullo della macchina da presa, basta far sentire l’occhio del cinema sul mondo, perché il mondo si riveli, e perché gli uomini inizino a parlare e a raccontarsi, e perché tutti sentano il bisogno di rappresentarsi, come per lasciare una traccia di sé dentro il grande sogno del cinema, cinema che è anche qui epifania e rivelazione della vita. Tutti i personaggi di Tornatore sono iconofagi. Sono avidi e golosi di immagini. Le divorano, le inglobano, le digeriscono, le metabolizzano. A volte, sono addirittura degli archivisti del visibile filmico. Lo è, ad esempio, il ragazzino di Baarìa, che colleziona frammenti di pellicola di celluloide (da Gli argonauti a Italiani brava gente, da Catene a Salvatore Giuliano) con la stessa giocosa avidità con cui altri ragazzini, cultori di un altro epos, collezionano figurine di calciatori, e riconosce i film da un solo fotogramma, come un file vivente, un archivio organico di memorie visive in cui l’esperienza vissuta prende senso e luce dalla sua capacità di connettersi con i fantasmi e con le ombre filmiche che l’hanno modellizzata. Fra tutti i film di Tornatore, quello in cui questa funzione formativa e performativa del cinema risulta drammaturgicamente più evidente è con ogni probabilità Malèna, film aspro e dolcigno come il nome sincopato della protagonista, come certi frutti troppo maturi, o certi dolci siciliani deliziosamente e peccaminosamente iperglicemici. Ambientato tra la fine degli anni trenta e la prima metà degli anni quaranta nell’immaginaria cittadina siciliana di Castelcutò, Malèna racconta l’iniziazione erotica ed esistenziale di un adolescente timido e acerbo che si invaghisce della donna più bella del paese e grazie a lei – grazie alle immagini rubate osservandola sfacciatamente quando cammina per la strada o spiandola di nascosto mentre

si aggira sensuale nella penombra della sua casa – elabora le fantasticherie e i sogni a occhi aperti che lo aiutano a crescere e a diventare uomo. Oltre a spiare Malèna, il ragazzino protagonista va continuamente al cinema, e si abbandona al sogno. Qualunque cosa veda sullo schermo, a lui appare sempre e solo Malèna, di volta in volta nei panni della pupa del gangster, della fidanzata di Tarzan o dell’avventuriera di Ombre rosse. Come un erede di Germi andato a lezione da Fellini, Tornatore continua a raccontarci (vuole continuare a raccontarci) com’eran belle l’infanzia e l’adolescenza quando c’era il cinema a farle sognare. Operazione nostalgica? Non proprio. Operazione ibrida, doppia, ambigua. Operazione che forse implica anche la nostalgia, ma poi non sa o non vuole provvedere alla sua manutenzione e fa in modo che il visivo metta in scacco la nostalgia che l’aveva generato. Nel recente saggio intitolato L’invenzione della nostalgia (Roma, Donzelli, 2009), dedicato a un rigoroso censimento delle apparizioni e delle funzioni del vintage nel cinema italiano, Emiliano Morreale riconosce con fermezza che “lo sguardo di Tornatore sul passato è estraneo all’idea di vintage” (p. 182), e che non c’è traccia nei suoi film di quel feticismo delle merci desuete che costituisce uno degli elementi fondamentali della nostalgia di massa. Vero. Ma è vero anche che ciò che in Tornatore può essere oggetto di nostalgia spesso potrebbe anche essere oggetto di un sentimento opposto. Forse perfino di odio, di rifiuto. Prendiamo ancora Malèna. Da un lato Malèna è nobilmente e inguaribilmente antico. Quasi un reperto archeologico: profumato di lontananze arcane e intessuto di immagini virate in seppia, se ne sta lì come sospeso fuori dal tempo. Un “finto” reperto dell’età aurea del cinema: quando i film erano una fabbrica di sogni, e l’immaginario fungeva da sacca di compensazione della realtà. Per raccontare questo piccolo mondo antico, Tornatore finisce per adottare suo malgrado le due forme più diffuse dell’entertainment mediatico contemporaneo: da un lato il voyeurismo alla Grande Fratello (gli occhi dietro il buco della

serratura, la continua e recidiva violazione scopica della privacy), dall’altro lato la passerella e la sfilata. Perché Malèna è una lunga, interminabile sfilata di Monica Bellucci. Che non recita, incede. Sfila senza dire quasi una parola. Cammina, attraversa la piazza, fende la folla e si fa osservare. Puro oggetto scopico privo di interiorità, privo di storia, privo di emozioni. Come una “modella”, appunto. Come un corpo che indossa abiti e intercetta sguardi. Punto e basta. Forse Malèna è il luogo testuale in cui il cinema si fa pura pulsione scopica e incontra il design e il prêt-a-porter e la TV. Anche se – va aggiunto – si fa TV ma per negarla, sussumerla, esorcizzarla, e per tornare a essere cinema: non qui e ora, mai qui e ora, sempre dopo, e altrove. È questo attrito che rende straordinario il cinema di Tornatore. Questo cortocircuito. Questa coabitazione fra il desiderio di nostalgia e la messa in forma della sua impossibilità. Questa sua costitutiva, ineludibile, forse neanche voluta doppiezza. Questo suo non poter che essere contemporaneamente in un altro mondo e nel nostro. Questo suo agire da dispositivo modellizzante sul piano diegetico (per i personaggi del film), ma non per lo spettatore extradiegetico (per noi). Perché noi non apparteniamo più a quel mondo, anche se da quel mondo veniamo. Come il protagonista di Baarìa: che nel finale del film sbuca da dietro la lavagna e torna nel mondo. Nel nostro, non nel suo. O forse nel suo che è diventato il nostro. Geniale coincidenza oppositorum: sembrava una rievocazione nostalgica del passato, quel film, e invece è un’irruzione del passato nel presente: il ritorno del protagonista di Baarìa è un back to the future, e in quanto tale produce un vero e proprio rovesciamento del paradigma nostalgico. Forse la sua possibile (e irreversibile) negazione. Il fatto è che a Tornatore – e torniamo al punto da cui eravamo partiti – più che la nostalgia interessa la memoria. Oltre al guardare, l’altro grande gesto che accomuna un po’ tutti i suoi personaggi è il ricordare. Ogni suo film è la messa in forma, o la messa in racconto, di una specifica modalità del ricordare. Ma solo in Nuovo cinema Paradiso la memoria è la facoltà che serve – nostalgicamente – a tener vivi i ricordi aspri e dolciastri di una perduta giovinezza cinéphile. Lì e solo

lì la nostalgia diventa il dispositivo indispensabile alla conservazione dell’identità, secondo il paradigma individuato da Fred Davis in quello che resta ancor oggi il più accurato e articolato studio sulla nostalgia che sia stato realizzato (Yearning for Yesterday. A Sociology of Nostalgia, New York, The Free Press, 1979). Negli altri film, nelle altre storie, le cose vanno diversamente. La leggenda del pianista sull’oceano ad esempio è la rievocazione a posteriori, epica e non nostalgica, di un mito novecentesco, effettuata da un testimone che racconta in flashback la storia del suo rapporto d’amicizia e di complicità con il personaggio che dà il titolo al film. Stanno tutti bene mostra invece un padre, interpretato da Marcello Mastroianni, alle prese con flussi di memoria intermittente: in viaggio alla ricerca di figli ormai diventati adulti, se li vede riapparire davanti così come erano bambini, in un andirivieni carsico e ondivago di presente e passato. Anche in Una pura formalità la memoria funziona a intermittenza. E il film è la storia metafisica e inquietante di un personaggio chiamato Onoff (acceso/spento, connesso/disconnesso) che non va d’accordo con la sua memoria, e che con le parole ricorda certe cose e con le immagini ne ricorda altre, in un percorso rammemorativo che continuamente e contemporaneamente illumina e nasconde, dissimula e camuffa, dissipa e conserva, mettendo in conflitto visivo e verbale secondo un procedimento critico di grande intensità narrativa e di grande suggestione anche teorica. E poi c’è la memoria che graffia, spacca, taglia, brucia. Ed è la memoria di Irena, la protagonista del film La sconosciuta. Immigrata in Italia dall’Europa dell’Est, gira per le strade con il volto dolente di un animale braccato e ferito, e con lo sguardo come sospeso nel vuoto. Ma questo vuoto, di tanto in tanto, all’improvviso, è come lacerato da guizzi di immagini che riemergono dal passato: sono flashback crudi e violenti, rapidi e decisi come un colpo di bisturi, ma sufficienti a far capire allo spettatore che Irena non è sempre stata quello che è, né quello che la vediamo essere, e che nella sua storia e nel suo passato si annida un mistero intriso di sofferenze, dolori e umiliazioni a non finire, e che il rapporto fra il nostro presente fruitivo e il passato del personaggio non è chiaro, ed è

piuttosto volutamente misterioso.

ambiguo,

oscuro,

indecidibile,

A dispetto delle apparenze, il cinema di Tornatore non è un cinema nostalgico. È un cinema che ci dice che il cinema può essere una fucina di modi di fruizione nostalgica del passato, ma anche uno strumento di decostruzione della nostalgia. Il cinema può mettere in scena il passato come altrove perduto ma può anche denunciare quell’altrove come fittizio, illusorio, inattendibile. Di film in film, Tornatore non si stanca di raccontare questa duplice possibilità: il passato come via di fuga, ma poi anche il cinema come possibile scacco a ogni nostalgica ed evasiva fantasia. Per far ciò, Tornatore non adotta mai il punto di vista dei potenti e dei vincenti. Il suo non è un cinema a prospettiva centrale. È piuttosto un cinema a geografia variabile. Un cinema fatto di prospettive sghembe, di occhiate laterali, di scorci e deviazioni. In ogni caso, è un cinema che appena può, e quasi sempre può, osserva il mondo e se stesso da un punto di vista anomalo: quello di coloro che sono stati messi in castigo dietro la lavagna perché si ostinavano a voler restare fuori dal coro. Laudatio pronunciata in occasione del conferimento a Giuseppe Tornatore della laurea magistrale honoris causa in Televisione, cinema e new media presso l’Università IULM di Milano, il 1° dicembre 2009.

IL FILM, UNA RISCRITTURA SENZA FINE

Signor Ministro, Magnifico Rettore, Signori Docenti, Studenti, Signore e Signori… … sono davvero onorato di ricevere un così importante riconoscimento. Voglio ritenerlo un invito, che naturalmente accolgo, a continuare nel mio lavoro impegnandomi sempre di più. Spero di non deludere il vincolo che in questo momento sento di stringere con la Vostra Università. Mi è stato chiesto di preparare una Lectio doctoralis. Non mi sono mai sentito all’altezza di dare lezioni o di insegnare niente a nessuno. Dunque ho ritenuto di offrirvi soltanto qualche elemento di riflessione e discussione o, se preferite, un pensare ad alta voce. Vent’anni fa, quando sono stato a Hollywood per la serata degli Oscar, ho avuto il privilegio di conoscere molti registi, molta gente del cinema, ma una persona in particolare mi colpì per la sua grandezza. Si tratta di Akira Kurosawa che quell’anno, in occasione del suo ottantesimo compleanno, riceveva l’Oscar alla carriera. Attraverso la sua interprete scambiammo poche parole. Da parte mia, ovviamente, molto imbarazzate e impacciate. Però la sera, durante la cerimonia degli Academy Awards, quando fu chiamato sul palco per ricevere la statuetta, Kurosawa disse una frase che non ho mai dimenticato e che ho sempre portato con me: “Mi chiamo Akira Kurosawa, ho ottant’anni, ho fatto decine di film, ma non ho ancora capito l’essenza del cinema.” Mi fulminò la forza della sua modestia e soprattutto mi colpì la verità che era nascosta nelle sue parole così semplici. Non ho mai smesso di pensare alla sua magnificenza legata alla straordinaria umiltà del suo pensiero. Mi sono sempre interrogato sul senso di quella pubblica ammissione di inadeguatezza, sul fare il cinema senza capire fino in fondo di cosa si trattasse. E dall’altro lato mi sono interrogato spesso su cosa del cinema si sappia in giro, tra coloro che il cinema non lo fanno, e sul perché negli oltre cento anni trascorsi dalla nascita di quell’ineffabile forma d’arte di cui non sappiamo più fare a

meno, nonostante l’oramai nutritissimo filone del cinema nel cinema, nonostante la quantità sconfinata di documentari basati sul cinema, nonostante l’apporto conoscitivo di generazioni di cineasti e quello analitico di studiosi della settima arte che hanno tramandato di epoca in epoca le loro esperienze e il risultato delle loro speculazioni, nonostante l’infinita pubblicistica e la ricchissima letteratura fiorita intorno al cinema e sul fare il cinema, nonostante tutto ciò non siamo ancora riusciti a far capire al pubblico come si realizzi, e in cosa consista fare un film. Una volta lo chiesi a Bernardo Bertolucci, il quale mi rispose con ironia: “Semplicemente perché non lo abbiamo ancora capito neanche noi.” E inconsapevolmente mi ricordò ancora una volta le parole di Kurosawa. Può sembrare assurdo, ma è così. La gente oggi crede di sapere tutto sul cinema, ma in realtà non è vero. A dispetto di quanto pensasse Eduardo De Filippo, quando asseriva che la crisi dell’arte cinematografica fosse iniziata nel preciso momento in cui il cinema aveva smesso di essere un mistero per il pubblico, lo stesso giorno in cui lo spettatore cominciò a rendersi conto di come fossero realizzate le scene di un film, un trucco, un trasparente, un fotomontaggio, un rallenty, l’uso di una controfigura e altri inganni. Ciò nondimeno, sebbene quasi tutti oggi sappiano distinguere un effetto digitale da un’immagine analogica, un piano sequenza da un susseguirsi d’inquadrature e primi piani, una buona recitazione da una performance mediocre, una buona sceneggiatura da un copione mal concepito o mal riuscito, un’ottima colonna sonora da una partitura musicale inopportuna, una fotografia o una scenografia armoniche con la storia del film da altre che discordano rispetto a essa e così via sino all’analisi dell’ultimo fotogramma, tuttavia ancora oggi nessuno possiede la piena consapevolezza della formula del cinema, e il mistero resta tale. Si continua perciò a confondere una sceneggiatura con la scenografia del film, si continua a credere che la realizzazione di un film inizi con il primo ciak e termini con la fine delle riprese, si continua a scambiare la sperimentazione per errore e

l’errore per sperimentazione, la sincerità per astuzia e l’astuzia per sincerità. Persino a dispetto della grande rivoluzione che la tecnologia sta compiendo in materia audiovisiva, lungo quel percorso ormai ineluttabile grazie al quale il linguaggio delle immagini finirà per acquisire gli stessi diritti del linguaggio della scrittura, riconoscendo a una massa sempre più sconfinata di persone la capacità di esprimersi con le immagini e di comunicare il proprio pensiero e le proprie emozioni con le immagini in un mondo in cui comunicare attraverso la parola o il cinema sarà sempre più un’unica cosa, poiché i due procedimenti comporteranno sforzi organizzativi pressoché identici, malgrado tutto ciò, cosa sia un film resta e forse resterà per sempre un enigma. Perché dare una definizione del film nella prospettiva del processo creativo che lo determina è difficilissimo. Tutti ne hanno data una, la propria, diversa dalle altre, perché è impossibile esprimerne una soltanto che valga come riferimento per tutti. Bergman sosteneva che dopo tutto l’arte cinematografica sia potuta esistere e continui a esistere soltanto grazie a un banale difetto dell’occhio umano. L’infinitesimale persistere della proiezione di un’immagine sulla retina ottica dopo che l’immagine reale è stata sottratta all’occhio stesso. Basterebbe per assurdo, correggere quell’anomalia del nostro organismo per cancellare il cinema in un’inesistenza di cui nessuno si lamenterebbe, in un mondo che saprebbe fare a meno dei film. Ma cos’è in fondo un film? È un susseguirsi di immagini e suoni slegati tra di loro, senza un nesso, senza una ragione, che solo la secolare imperfezione del bulbo oculare dello spettatore e soprattutto il suo apporto intuitivo possono trasformare in una narrazione che abbia un senso compiuto. Eppure, sebbene possa apparire come una confusa successione di elementi espressivi, che solo la percezione dell’uomo è in grado di trasformare in un ordine significativo, il film possiede una sua autonomia, un’indipendente quanto ineffabile autodeterminazione, quella che durante la realizzazione di un film ci fa spesso credere che esso faccia di testa propria, abbia una sua logica, una strada da percorrere in conflitto persino con i suoi autori.

Quella stessa forza misteriosa che fa dire a Kubrick: “Pianifico e cerco di anticipare tutto, nei limiti dell’umano, prima di girare una sequenza, ma quando arriva il momento dell’azione il risultato è sempre diverso da quello che avevo immaginato.” Quella stessa sfuggente personalità che fa dire a Fellini: “Certe mattine arrivo sul set e sento che il film mi viene incontro e mi saluta con simpatia. Altre, appena metto piede sulla scena, avverto immediatamente che mi volta le spalle, mi lascia solo e se ne va per conto suo.” La stessa enigmatica autorità che fa ammettere a Rossellini: “Quando intraprendo un nuovo film parto da un’idea senza sapere dove mi condurrà.” Da cosa nasca un film è però un dato acquisito da tutti. Un film nasce da un’idea, da uno spunto, da un personaggio, da una frase, da uno stato d’animo, da un’intuizione, da un fatto di cronaca, da un libro, da un episodio storico, da un sogno, da una folgorazione… La stessa folgorazione che ebbe Fellini quando un giorno, disperato perché non sapeva che film fare pur essendo nel pieno fermento della pre-produzione, invitato da alcuni macchinisti a festeggiare il compleanno di uno di loro, nel bel mezzo di quella festa, tra brindisi e risate, si sentì di essere uno che non stava andando da nessuna parte, ed ebbe l’illuminazione di fare un film su quello smarrimento, su un regista che perde il film che sta per fare… E realizza uno dei più grandi capolavori della storia del cinema, 8 ½. L’intuizione di un grande sceneggiatore, Ugo Pirro, che mentre passeggia sul Lungotevere in una Roma estiva, vede un’auto della polizia attraversare un incrocio con il semaforo rosso e ha la formidabile intuizione dalla quale nasce uno dei più straordinari film della storia del cinema italiano, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Quel film nasce solo da quell’episodio apparentemente banale. Oppure un film nasce dal racconto che lo stesso Bergman fa di una delle sue intuizioni. Sussurri e grida è nato da una visione. “Io ho sempre delle visioni e da queste traggo i miei film. Vidi una stanza rossa con tre donne che discorrevano. Non sapevo cosa dicessero, ma quella visione mi ha

ossessionato finché non ho potuto costruirle intorno una storia.” Ma cosa succede dal momento in cui il germe dell’idea insinua nel cineasta il sospetto che in esso si possa celare una buona storia per un film? A mio modesto avviso è qui che inizia la fase decisiva della vita di un film. L’incubazione dell’idea. La contemplazione della “visione”, per dirla con Bergman, la sua maturazione. In tutta l’evoluzione creativa che conduce all’esistenza dell’opera cinematografica, l’incubazione dell’idea originaria è forse la fase più felice del rapporto autore/film. È qui che l’idea ha la piena libertà di rivelare tutta la propria potenzialità espressiva. È qui che il cineasta si muove all’interno del progetto senza alcun condizionamento, né di mercato né di ordine stilistico. È qui che il futuro film acquista la sua autodeterminazione, quell’inspiegabile forza che lo difenderà da tutte le minacce di cui l’imminente realizzazione sarà costellata, a partire da quella del suo stesso scopritore. E ha ragione Gabriel García Márquez quando afferma che più è lunga l’incubazione di una storia, più facile e rapido sarà scriverla. La scrittura, ecco la parola chiave. Una scrittura non intesa solo come stesura della sceneggiatura, ma come compimento progressivo del film attraverso tutte le sue riscritture, che nel cinema ovviamente non sono solo di natura letteraria. Si può asserire che nel processo di creazione di un film non ci sia mai scrittura, ma solo e soltanto riscrittura. Il primo mettere l’idea nero su bianco è già una riscrittura. La premonizione della storia e il pensiero di essa si scontrano con le esigenze del soggetto, con le sue regole di strutturazione drammaturgica che inesorabilmente ne trasfigurano il disegno primordiale. “Nel cinema, quando hai una buona idea, fai il contrario!” ci mette in guardia Ennio Flaiano. E non è solo una delle sue memorabili battute di spirito. Sta di fatto che sin dalla prima formulazione del soggetto non si fa altro che procedere per trasfigurazione, per tradimento, per infedeltà, per costante messa in discussione

dell’idea originale, per un’eterna sfiducia in essa, da cui fatalmente ha inizio la spietata lotta che l’idea deve combattere per la sua sopravvivenza. Ciò nonostante è già nel soggetto che l’idea diviene altra cosa rispetto alla luce della prima intuizione, in una diversità che tuttavia conserva in se stessa lo spirito della visione primitiva. Ma le riscritture continuano, inesorabilmente. Dal soggetto si passa alla sceneggiatura. Altra riscrittura, altro tradimento. Una sceneggiatura talvolta impone ellissi, in altre circostanze pretende epifanie. Ci mette nelle condizioni di individuare personaggi imposti dal soggetto che adesso si rivelano inutili e altri, inesistenti, che si rivelano necessari. Sintesi di più scene in una sola sequenza, scissione di una di esse in più blocchi narrativi. Addirittura sconvolgimenti radicali dell’assunto di partenza. L’esempio di Pietro Germi è il più clamoroso. Quando stava scrivendo un film drammatico sul delitto d’onore, esattamente dopo aver completato la sceneggiatura, ebbe la folgorazione di ribaltare il tutto e trasformare in comico un film che doveva essere tragico. Così nacque Divorzio all’italiana. Più che una riscrittura una vera e propria riedificazione dell’idea di partenza. La sceneggiatura viene finalmente approvata. Si passa dunque alla fase della pre-produzione, ovvero la sagra delle riscritture di un film. La ricerca delle location, il rapporto tra l’assoluto della scena scritta sulla pagina e la sua proiezione in un luogo reale, ma, per altri versi, anche in un luogo ricostruito. Anche la creazione del cast è una riscrittura del film. I volti misteriosi e perfetti dei personaggi, fatti solo di parole, diventano volti veri, ed è una trasfigurazione importante, decisiva. Immaginate tutto il lavoro che comporta talvolta l’adattamento dell’attore al personaggio o, molto più spesso, l’adattamento del personaggio all’attore. Pensate ai casi frequenti di ruoli scritti per un attore e improvvisamente interpretati da insospettabili altri con risultati talvolta disastrosi, ma molte volte straordinari.

E infine le riprese. Altra riscrittura. I tradimenti della luce, i capricci della meteorologia, gli incidenti di percorso, i compromessi organizzativi, l’eterno doversi arrangiare, ma soprattutto la verifica delle azioni e dei dialoghi. È davanti alla macchina da presa che il copione rivela la sua qualità, le sue debolezze, e sino all’ultimo istante puoi ancora correggere, modificare, inventare, riscrivere appunto. Quindi il montaggio. L’ennesima e forse la più drastica delle riscritture. La fase in cui ogni inquadratura deve rinunciare a una parte di se stessa, per consentire alle altre di esprimere la loro funzione narrativa. Sembra quasi l’allegoria di un sistema di vita democratico, dove la libertà di ciascuno finisce lì dove comincia quella dell’altro. La riscrittura davvero prodigiosa è quella del montaggio. Un film può addirittura essere cambiato al montaggio, diventare davvero un altro film. Ma persino dopo il montaggio, la riscrittura del film non termina, non si placa. La postproduzione, la sonorizzazione, la musica, gli effetti sonori, i rumori, il doppiaggio, il missaggio… È tutto uno stadio di lavoro in cui si è alle prese con un elemento, il suono, che falsa radicalmente la percezione del tempo e, pertanto, riscolpisce le sequenze alterandone il ritmo, spesso rivelando, altre volte rendendo ancora più sfuggente il sottotesto narrativo dell’originario copione. Finalmente il film è finito. Ma quando tutto è terminato e sembra essere approdato a una realtà definitiva in cui non ci sono più spazio né tempo per mutamenti e variazioni, ecco che inaspettatamente si apre la stagione delle riscritture più insospettabili. Avevate mai pensato a quanto le condizioni di visione di un film possano cambiare il film stesso? Vediamo un film in una sala dove la proiezione è eccellente, e abbiamo un’impressione del film. Lo rivediamo in un luogo dove la proiezione non è accettabile, le immagini non hanno la brillantezza che dovrebbero avere, il suono è scadente, e il film ci sembra un altro.

Fellini conosceva bene quest’assurda fatalità e quando faceva vedere per la prima volta i suoi film, specialmente ai critici e alla stampa, amava mostrare loro la copia di lavorazione. È il sistema peggiore di far vedere un film, perché è la copia rovinata, rigata, sporca, pioggiata, piena di giunte, buchi neri, segni di matita che indicano gli attacchi e le chiusure degli elementi sonori e delle truke ancora non finalizzate. È una visione impossibile. Lui amava convocare giornalisti e critici introducendo l’attesa proiezione con poche ma dolci e costernate parole: “Cari amici, purtroppo la stampa del film non è pronta. Sono costretto a mostrarvelo nella sua copia di lavorazione. Mi spiace per il disagio ma non si può fare altrimenti.” Adorava quel rito, perché sosteneva che solo così i fortunati spettatori, in tal caso i critici cinematografici e gli addetti stampa, avrebbero avuto la magica illusione di ritrovarsi a vedere il film come nessun altro avrebbe mai potuto fare. Quasi come visionarlo dietro le quinte, nel misterioso contesto degli addetti ai lavori, assumendo un punto di vista d’assoluto privilegio. E una volta, credo in occasione di Amarcord, essendo giunta in cabina di proiezione, per un errore organizzativo, la prima copia appena stampata e non quella di lavorazione, Fellini s’indispettì a tal punto che, rinviando la proiezione di mezz’ora, sporcò con le sue stesse mani tutti i rulli del film, grattando la scintillante pellicola con la carta vetrata, insozzando tutte le scene con la matita, con le ditate, con la colla, rigando infine tutto il film con la punta delle forbici. Compiuta l’impresa, il Maestro apparve nella saletta di proiezione davanti agli invitati, esclamando rammaricato: “Scusatemi amici miei carissimi, ma la stampa della copia non è stata ultimata in tempo… Sono costretto, mio malgrado, a mostrarvi quella di lavorazione.” Sapeva che in quel modo il suo film avrebbe avuto sul pubblico un impatto emozionale diverso da quello che avrebbe provocato la proiezione della copia fiammante appena uscita dai bagni di sviluppo.

La sala cinematografica e i vari supporti di diffusione audiovisiva cambiano la percezione del film. Il giudizio dei critici tramuta la cognizione del film, legittimandone una a danno di un’altra. Le interruzioni pubblicitarie deformano il senso del film. Il parere dei distributori, le imposizioni del mercato globale trasformano il senso del film. Il dover ritoccare il montaggio, perché in un ben determinato paese un paio di sequenze non possono essere comprensibili poiché parlano di una realtà lontana da quella, varia il disegno narrativo del film. E allora per il Giappone è opportuno togliere una sequenza e per il Sud America un’altra e per la Germania un’altra ancora, e un’altra sequenzina per ottenere dalla censura il diritto di passaggio in prima serata TV, e la trascrizione del formato originario in quello imposto dai contratti di distribuzione internazionale e così via, di riscrittura in riscrittura. E da ultimo il pubblico. Il pubblico è, dopo l’ideazione, la realizzazione e la postproduzione, il fattore che produce il più alto numero di riscritture del film, talvolta davvero incredibili. Pensate, quando Billy Wilder mostrò per la prima volta al pubblico Viale del tramonto, la sequenza che apriva il film non era quella con il cadavere di William Holden che galleggia nella piscina. Il film iniziava all’obitorio. C’era il cadavere, si vedevano solo i piedi e, attaccato a una delle dita, pendeva il cartellino con il numero del corpo senza vita rinvenuto dalla polizia e su quel dettaglio di piedi nudi cominciava la voce off del protagonista che raccontava la sua storia. Ebbene, il pubblico scoppiava a ridere. Sull’immagine dei suoi piedi inanimati, la voce del protagonista provocava un effetto comicissimo. E poiché il suo non era un film comico, Billy Wilder tagliò quell’inquadratura. Leonardo Sciascia fu colpito dal fatto che alla prima proiezione pubblica del film di Francesco Rosi Salvatore Giuliano, a Montelepre, il pubblico ridesse. Non c’era niente da ridere in quel film drammaticissimo interamente girato nei luoghi in cui erano realmente accadute le vicende narrate, ma la gente riconoscendo se stessa rideva. L’identificazione di se stessi diveniva un meccanismo comico che sembrava trasformare in commedia il racconto drammatico. In un altro

luogo, dove gli spettatori non avevano modo di riconoscersi, ciò non accadeva. Altri esempi. Perché un film comico visto da poche persone è meno divertente che visto da una folla di spettatori? Mi è stato raccontato che alla prima proiezione per gli addetti alla produzione del film Amici miei di Monicelli non rise nessuno, mai, per tutta la durata del film e che solo nelle sale cinematografiche affollate di pubblico il film sprigionò tutta la sua forza comica. Perché puoi rivedere un film all’infinito e non avere mai la stessa emozione? All’inizio avevamo detto che è grazie alla capacità intuitiva dello spettatore che la successione dei fotogrammi di un film acquista il suo senso compiuto. Ebbene, tale apporto d’integrazione creativa varia ovviamente da spettatore a spettatore e con esso cambia il film, che diventa di volta in volta un’altra cosa. Questa manipolazione del film ad opera dell’audience è resa oggi ancora più complessa e aggressiva, grazie ai nuovi mezzi tecnologici che rendono più accessibile a tutti il consumo del film e la sua scomposizione interattiva in una filosofia della fruizione in cui il pubblico non è più percettore passivo. Uno scenario assolutamente impensabile per una tradizionale concezione della figura d’autore cinematografico. È come se il pubblico, da sempre tenuto all’oscuro del processo creativo operato dall’autore del film, si vendicasse dell’antica ingiustizia di cui è stato vittima per lunghi decenni e si divertisse ad alterare e deformare il prodotto cinematografico in un’eterna riscrittura, appunto, da cui l’autore è fatalmente escluso. Forse avvertendo in anticipo sui tempi una tale angoscia, nella scena finale del suo Decameron Pasolini si chiedeva sconsolato: “Perché realizzare un’opera, quando è così bello solo pensarla?” Ma in tutta questa Babele di adulterazioni e imposture interpretative che il mondo impone e sempre di più imporrà al film, resta fortunatamente nascosto, magari frantumato nelle mille tessere di un mosaico che nessuno vorrà mai comporre, il sentimento dell’antica idea che aveva innescato in origine la genesi del film.

Come si augurava e ci augurava Truffaut: “Il cinema compie una missione di menzogna, attraverso cui gli uomini di cinema riescono a non cadere nella menzogna.” Vi ringrazio. Vorrei rubarvi ancora un minuto, per porgere un particolare ringraziamento al professor Gianni Canova per le bellissime cose che ha detto nei confronti dei miei film e, soprattutto, per le nuove e originali considerazioni sul mio lavoro che mi riempiono di gioia, e mi sollecitano a capire, a sforzarmi ancora di più. E mi rincuorano perché, evidentemente, le riscritture compiute dagli altri quando il tuo lavoro è finito, possono essere migliorative, rendere persino il tuo lavoro superiore a quanto tu stesso potessi pensare. È il caso dell’intervento che il professor Canova ha voluto dedicare ai miei film. Gliene sono davvero molto grato. Lectio doctoralis pronunciata in occasione del conferimento della laurea magistrale honoris causa in Televisione, cinema e new media presso l’Università IULM di Milano, 1° dicembre 2009.

FILMOGRAFIA DI GIUSEPPE TORNATORE

IL CAMORRISTA Paese Anno Durata Soggetto

Italia 1986 168’ Giuseppe Tornatore, Massimo De Rita Sceneggiatura Giuseppe Tornatore, Massimo De Rita Fotografia Blasco Giurato Montaggio Mario Morra Musiche Nicola Piovani Interpreti Ben Gazzarra, Laura Del Sol, Leo Gullotta, Nicola Di Pinto, Marzio Onorato, Franco Interlenghi, Lino Troisi.

NUOVO CINEMA PARADISO Paese Anno Durata Soggetto Sceneggiatura Fotografia Montaggio Musiche Interpreti

Italia/Francia 1988 157’ Giuseppe Tornatore Giuseppe Tornatore Blasco Giurato Mario Morra Ennio e Andrea Morricone Philippe Noiret, Salvatore Cascio, Jacques Perrin, Leo Gullotta, Leopoldo Trieste, Enzo Cannavale, Brigitte Fossey, Nino Terzo, Pupella Maggio.

STANNO TUTTI BENE Paese Anno Durata Soggetto Sceneggiatura Fotografia Montaggio Musiche Interpreti

Italia/Francia 1990 120’ Giuseppe Tornatore Giuseppe Tornatore, Tonino Guerra, Massimo De Rita Blasco Giurato Mario Morra Ennio Morricone Marcello Mastroianni, Michèle Morgan, Valeria Cavalli, Marino Cenna, Roberto Nobile, Salvatore Cascio, Leo Gullotta.

LA DOMENICA SPECIALMENTE [film a episodi, Il cane blu] Paese Anno Durata Soggetto

Italia 1991 105’ Tonino Guerra (dal libro Il polverone) Sceneggiatura Tonino Guerra Fotografia Tonino Delli Colli Montaggio Mario Morra Musiche Ennio e Andrea Morricone Interpreti Philippe Noiret, Nicola Di Pinto.

UNA PURA FORMALITÀ Paese Anno Durata Soggetto Sceneggiatura Fotografia Montaggio Musiche Interpreti

Italia/Francia 1993 108’ Giuseppe Tornatore Giuseppe Tornatore, Pascal Quignard Blasco Giurato Giuseppe Tornatore Ennio e Andrea Morricone Gerard Dépardieu, Roman Polanski, Sergio Rubini, Nicola Di Pinto, Paolo Lombardi, Tano Cimarosa, Maria Rosa Spagnolo.

L’UOMO DELLE STELLE Paese Anno Durata Soggetto Sceneggiatura Fotografia Montaggio Musiche Interpreti

Italia 1995 110’ Giuseppe Tornatore Giuseppe Tornatore, Fabio Rinaudo Dante Spinotti Massimo Quaglia Ennio Morricone Sergio Castellitto, Tiziana Lodato, Franco Scaldati, Leopoldo Trieste, Clelia Rondinella, Tano Cimarosa, Nicola Di Pinto, Costantino Carrozza, Jane Alexander, Tony Sperandeo, Leo Gullotta.

LA LEGGENDA DEL PIANISTA SULL’OCEANO Paese Anno Durata Soggetto

Italia/Usa 1998 170’ Alessandro Baricco (dal testo teatrale Novecento) Sceneggiatura Giuseppe Tornatore Fotografia Lajos Koltai Montaggio Massimo Quaglia Musiche Ennio Morricone, Amedeo Tommasi Interpreti Tim Roth, Pruitt Taylor Vince, Mélanie Thierry, Bill Nunn, Clarence Williams III, Niall O’Brian, Harry Ditson, Vernon Nurse, Angelo Di Loreta, Alberto Vasquez, Cory Buck.

MALÈNA Paese Anno Durata Soggetto Sceneggiatura Fotografia Montaggio Musiche Interpreti

Italia/Usa 2000 109’ Luciano Vincenzoni Giuseppe Tornatore Lajos Koltai Massimo Quaglia Ennio Morricone Monica Bellucci, Giuseppe Sulfaro, Luciano Federico, Matilde Piana, Gaetano Aronica, Gabriella Di Luzio, Angelo Pellegrino, Paola Pace.

LA SCONOSCIUTA Paese Anno Durata Soggetto Sceneggiatura Fotografia Montaggio Musiche Interpreti

Italia 2006 117’ Giuseppe Tornatore Giuseppe Tornatore Fabio Zamarion Massimo Quaglia Ennio Morricone Ksenia Rappoport, Michele Placido, Claudia Gerini, Pierfrancesco Favino, Clara Dossena, Alessandro Haber, Piera Degli Esposti, Pino Calabrese, Paolo Elmo, Nicola Di Pinto.

BAARÌA Paese Anno Durata Soggetto Sceneggiatura Fotografia Montaggio Musiche Interpreti

Italia/Francia 2009 150’ Giuseppe Tornatore Giuseppe Tornatore Enrico Lucidi Massimo Quaglia Ennio Morricone Francesco Scianna, Margareth Madè, Lina Sastri, Angela Molina, Nicole Grimaudo, Salvatore Ficarra, Valentino Picone, Gaetano Aronica, Alfio Sorbello, Marco Iermanò, Lollo Franco, Giovanni Gambino, Giuseppe Garufi, Aldo Baglio, Raoul Bova, Paolo Briguglia, Laura Chiatti, Giorgio Faletti, Beppe Fiorello, Corrado Fortuna, Nino Frassica, Leo Gullotta, Gabriele Lavia.

L’ULTIMO GATTOPARDO Ritratto di Goffredo Lombardo [documentario] Paese Anno Durata Soggetto Sceneggiatura Fotografia Montaggio Musiche Interpreti

Italia 2010 90’ Giuseppe Tornatore Giuseppe Tornatore Fabio Zamarion Massimo Quaglia Ennio Morricone Carlo Verdone, Dario Argento, Francesco Rosi, Ettore Scola, Mario Monicelli, Lina Wertmüller, Enrico Lucherini, Alain Delon, Gianni Morandi, Sophia Loren, Massimo Ranieri, Ermanno Olmi, Folco Quilici, Renzo Arbore, Bud Spencer, Carlo ed Enrico Vanzina, Nino D’Angelo, Caterina D’Amico, Enrico Medioli, Riccardo Tozzi, Fabrizio Costa, Virna Lisi, Alberto Bevilacqua, Ennio Morricone, Claudio Mancini, Armando Trovaioli, Giuliano Gemma, Gian Luigi Rondi, Massimo De Rita, Giacomo Furia, Callisto Cosulich, Patrizia Carraro, Neri Parenti, Ciro Ippolito, Paolo Pietrangeli, Pippo Baudo, Mario Morra, Peppino Rotunno, Marco Vicario, Cesarina Marchetti, Gabriella Pession, Carlo Bixio, Cristina Capotondi, Elena Sofia

Ricci, Pasquale Squitieri, Franco Giraldi.

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