La guerra infinita 8807710013, 9788807710018

L'11 settembre 2001 è cominciata una guerra che non ha precedenti nella storia dell'uomo. E' lo stadio fi

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Italian Pages 177 [175] Year 2003

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La guerra infinita
 8807710013, 9788807710018

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Giiilietto Chiesa LAGUERRA INFINITA < Feltrinelli

Giulietta Chiesa LAGUERRA INFINITA L'11 settembre 2001 ha avuto inizio una guerra che non ha precedenti o paragoni nella storia dell'uomo. Terza guerra mondiale o prima del nuovo millennio? Questo conflitto segna l'ultima fase della globalizzazione am ericana. Una guerra planetaria che non è lotta per il controllo delle risorse e neppure un'operazione per l'estensione del controllo geopolitico: siam o entrati nell'era dell'Im pero e in palio c'è il dom inio mondiale. Dopo l'A fghanistan sarà la volta dell'Iraq, poi degli altri stati "c a n a g lia ", poi dei "n e m ici" che via via verranno individuati in ogni parte del mondo: stati, organizzazioni, dirigenti politici riottosi e singoli oppositori. Resta però un interrogativo aperto e angosciante: nulla autorizza a ritenere che i cinque sesti dell'um anità che vivono nella più assoluta indigenza accettino supinam ente la miseria in cui vivono. Questa guerra si può anche perdere. Giuliette Chiesa è uno dei più noti giornalisti italiani. Corrispondente per "La Stam pa" da Mosca per vari anni, ha sempre unito nelle sue inchieste una forte tensione civile a un rigoroso scrupolo documentario. Tra i suoi ultimi libri Afghanistan, anno zero (Guerini e Associati, 2001) e G8/Genova (Einaudi, 2001).

cover design: ufficio grafico Feltrinelli

ISBN 8 8 - 0 7 - 7 1 0 0 1 - 3

euro 9,00

788807 710018

© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Prima edizione in “Nuova Serie Feltrinelli", maggio 2002 IS B N 88-07-71001-3

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w ww .feltrinelli.it Libri in uscita, interviste, reading, com m enti e percorsi di lettura. A g g io rn a m e n ti qu o tid iani

1.

Ponte di comando

L’l 1 settembre siamo entrati nell'era dell'Impero. E l'Impero ha deciso di entrare in guerra. Tra le due cose c'è una quantità di nessi da scoprire, nessuno dei quali è immediata­ mente evidente. Ma individuarli, rispondere a tutta una serie d'interrogativi che si affollano nelle menti di molti, riuscire a smorzare lo stupore per eventi che accadono in rapida suc­ cessione, placare inquietudini e angosce: tutto questo richie­ de nuovi sforzi. A questi interrogativi si deve rispondere, non per soddisfare curiosità, che è esercizio estetico, ma per cer­ care di sopravvivere. Questa guerra inedita, infatti, non è vir­ tuale: è molto reale, molto feroce; e diventerà assai presto mol­ to vicina, anche se per ora sembra lontana. Perché siamo entrati nell'era dell'Impero? Cos'è quest'im­ pero? E simile a imperi precedenti o è diverso? In cosa è di­ verso, se lo è? Perché mai, essendosi appena formato, que­ st'impero è entrato in guerra? Contro chi è entrato in guerra? Quanto durerà questa guerra? Cosa significherà vincere? Co­ sa significherà perdere? Il lettore non si aspetti che io lo riconduca sulle strade che, dall'l 1 settembre in avanti, sono state indicate dal sistema me­ diático mondiale (che riproduce sostanzialmente, come ve­ dremo, gli input del potere imperiale). Sarebbe un'impresa inutile. Queste strade sono quasi tutte fallaci: sono vicoli cie­ chi, trucchi, prestigiditazioni. Quel poco di verità che mo­ strano è di regola inserito in contesti molto simili a trappole, predisposte da tempo, dove finiscono per cadere gli incauti che vi si avventurano. Le domande che ho appena elencato so­ no state poste solo da pochi. Altri le hanno solo sfiorate. Qua­ si nessuno ha cercato delle risposte. Si è ripetuto infinite volte che l'l 1 settembre ha cambiato tutto, che nulla sarebbe stato come prima. In sostanza, quasi 7

tutto è cambiato, ma siamo rimasti come imbozzolati nella vecchia forma come se nulla d'importante fosse accaduto, addirittura felici che i cambiamenti temuti non siano giun­ ti a turbare il tran tran abituale. Terrorismo, Osama bin Laden, bombardamenti, guerra, vittoria, taleban, Al Qaeda: parole, nomi nuovi e antichi so­ no sfilati davanti ai nostri occhi. Alcuni si sono sedimenta­ ti, altri non hanno lasciato traccia e non abbiamo potuto af­ ferrare la chiave dei loro significati. Milioni, miliardi di in­ dividui non hanno avuto modo di capire cosa stesse acca­ dendo al nostro mondo, alle nostre vite, come si sarebbero modificati i nostri destini e quelli dei nostri figli. Intuiamo soltanto che, davvero, qualcosa di molto grave è avvenuto, con conseguenze grandi e pericolose, ma non riusciamo ad afferrare il contesto. Molte sicurezze sono svanite e hanno lasciato spazio a una grande incertezza. Si percepisce sol­ tanto un crescente senso di angoscia. L'unica cosa certa è che le versioni offerte sono o del tut­ to false, oppure così inquinate da essere comunque inaccet­ tabili. Quindi è giocoforza andare altrove, non senza aver ag­ giunto ancora un'altra fondamentale domanda: cos'è mai que­ sto sistema mediático che - se le cose stanno così come s'è detto - è l'insidia principale, l'ostacolo che si frappone tra noi e la realtà, al punto che spesso all'uomo della strada non è più dato percepirla, vederla, capirla? Cominciamo allora dall'Impero, perché capire cos'è si­ gnifica anche avvicinarci alla risposta sul perché sia entrato in guerra. “Il mondo entra nel 2002 in una situazione senza precedenti nella storia umana." Questo è l'incipit con cui Wil­ liam Pfaff esordiva in un commento del “Los Angeles Times" alla fine di dicembre del 2001. E così continuava: “Una sin­ gola nazione, gli Stati Uniti d'America, dispone di un pote­ re economico e militare senza rivali e può imporsi virtual­ mente dovunque desideri farlo". È l'anatema di un antiamericano? Macché! È un ameri­ cano che scrive su un autorevolissimo giornale americano, esercitando uno dei più sacri e ammirabili diritti della so­ cietà americana: la libertà di stampa, il Primo Emendamen­ to. Per chi voglia guardare le cose così come stanno, l'affer­ mazione di Pfaff è una semplice constatazione. Non è forse tutta la verità, ma ne è una parte cospicua e offre un'ango­ lazione utile per vedere la novità. E altrettanto vero che og­ gi gli Stati Uniti possono, “ove scelgano di farlo, imporre un 8

completo collasso economico e sociale a tutti, o quasi, gli al­ tri paesi” del pianeta. Vale la pena fermarsi un attimo su questa notazione. Non è nelFordine della normalità immaginare che gli Stati Uniti possano voler “imporre un completo collasso, economico e so­ ciale" ad altri paesi. Perché mai dovrebbero farlo, visto che so­ no così smisuratamente potenti? Perché dovrebbero perse­ guire il male degli altri paesi avendo a disposizione - appa­ rentemente - tali e tanti mezzi per imporre il bene? Strano modo davvero, così minaccioso e pessimista, di guardare a quest'era che inizia. Eppure, come vedremo in seguito, Pfaff ha molte e convincenti ragioni. Ma ogni cosa a suo tempo. Per ora cerchiamo di seguire il filo del suo ragionamento niente affatto banale. Si parla di una minaccia che riguarda “tutti, o quasi", gli altri paesi del pia­ neta. Quasi tutti? Chi potrebbe, al momento attuale, opporsi a una simile eventualità? Davvero pochi. Forse, addirittura soltanto uno: la Cina. È un'eccezione che riveste un'impor­ tanza cruciale. La Cina è l'unico paese al mondo che può pren­ dere decisioni senza chiedere il permesso a nessuno, nemme­ no agli Stati Uniti d'America. I dirigenti cinesi sono l'unico gruppo d'individui che non dipende dalle opinioni che si for­ mano a Washington, non sono tenuti a rispettarne i criteri, non devono rispondere delle proprie azioni e non sono ricat­ tabili dall'esterno. Capisco che vi possano essere incrinature in questa si­ tuazione e che non tutto è così limpido e inequivocabile. Ap­ parentemente, per esempio, la Cina è impegnata in un pro­ cesso di avvicinamento al resto del mondo capitalistico, che si è espresso nel suo obiettivo - diventato recentemente rea­ le - di entrare nell'Organizzazione mondiale del commercio.1 Ma ciò non contraddice affatto la sua completa indipenden­ za, anche se almeno cinquecento grandi corporation statu­ nitensi hanno loro filiali in Cina e ne ricavano immenso pro­ fitto. L'essenziale è capire chi tiene saldo il manico. Né deve trarre in equivoco il fatto che l'attuale amministrazione ame­ ricana abbia sostanzialmente consentito l'ingresso della Ci­ na nel Wto. Si tratta delle inerzie di linee politiche seguite da amministrazioni precedenti nei confronti della Cina, oscil­ lanti tra l'impulso punitivo (per la sua irriducibile diversità) e l'intenzione di mettere in atto una manovra aggirante, con­ dita di ammiccamenti e di concessioni. Il dialogo avviato con la Cina di Mao dal duo Kissinger-Nixon aveva raggiunto la

sua versione finale nella definizione clintoniana di 'partner privilegiato” assegnata alla Cina di Jiang Zemin. Ma eravamo ancora ai tempi dell'infanzia dell'Impero. Non a caso, l'amministrazione Bush - a suo modo realistica - tra le prime cose fatte, ha incluso la nuova definizione del­ la Cina come “antagonista strategico" (10 settembre 2001). Ma già alla fine del 2000, Donald Rumsfeld, non ancora se­ gretario di stato alla Difesa, ha firmato un documento del Pentagono che indica la Cina come un avversario pericolo­ samente ingovernabile a partire dal 2013. Qui siamo. Sarà bene tenere presente questo aspetto nel corso di tutta l'e­ sposizione successiva. Cosa dire invece dei protagonisti della scena mondiale di­ slocati in altre aree? Certo, la Russia non è in condizione di fronteggiare gli Stati Uniti. Sotto nessun profilo, né quello mi­ litare (dal momento che la parità strategica è saltata rovino­ samente e fulmineamente negli anni tra il 1993-1995)2né quel­ lo economico. Ma nessun altro dei paesi europei è in grado di fronteggiare gli Stati Uniti. E non c'è bisogno di dimostrazio­ ni. Neppure il Giappone o l'India. Qui finisce l'elenco: altri protagonisti mondiali non esistono in natura. Infine, per quan­ to riguarda l'Unione Europea, anche lasciando da parte la sprezzante definizione di Zbignew Brzezinski (“niente di più che una semplice entità geografica"), come immaginare una sua capacità di risposta comune con tanti cavalli di Troia già piazzati al suo interno, con valletti servizievoli come Tony Blair seduti su troni di carta? Ora si aggiunge anche Silvio Berlu­ sconi, ansioso di togliere di mezzo ipoteche europee al suo di­ segno presidenziale e plebiscitario. L'inedito asse Londra-Roma, contrapposto a quello storico Berlino-Parigi, appare de­ stinato a favorire l'evidente disegno dell'Impero di ridurre a zero le potenzialità concorrenziali, essenzialmente economi­ che, dell'Unione Europea. L'esame sommario fin qui svolto ci consente di delineare un quadro in cui gli Stati Uniti sono immensamente potenti ma anche tendenzialmente molto aggressivi. Infatti, non han­ no rivali, eccetto la Cina che, malgrado sia oggi abbastanza forte per respingere un'eventuale minaccia, non lo è al punto da poter minacciare. Almeno fino al 2013. L'Impero non ha assunto la fisionomia di un sovrano illu­ minato, pronto a vigilare sulla nostra sicurezza. Al contrario, la prima cosa che viene in mente è proprio l'eventualità che 10

possa desiderare di imporre “un completo collasso” a un po­ tenziale avversario. È dunque da queste constatazioni che bi­ sogna partire per capire il seguito. A questo punto, voglio porre una premessa. Non sono an­ tiamericano. Non lo sono mai stato. È un modo singolare di proseguire un ragionamento, me ne rendo conto, ma è utile a sgombrare il campo, per quanto è possibile, dai fraintendi­ menti. E questo è sicuramente il più probabile di tutti, perché solo di questo praticamente si è parlato dopo r i i settembre. Per la verità, è altrettanto singolare il fatto che ci sia sempre qualcuno pronto a lanciare quest'accusa (sì, perché per que­ sti qualcuno l'aggettivo “antiamericano” equivale non solo a un'accusa, ma addirittura a una bestemmia) non appena ci si accinga a criticare l'amministrazione di turno degli Stati Uni­ ti d'America. Un vezzo che, se trasferito in Italia, equivarreb­ be ad accusare di antitalianismo chi, all'estero, osasse criti­ care il presidente del Consiglio di turno. In realtà, com'è evidente, questi difensori d ufficio dell'America non possono accettare critiche di nessun genere al­ l'indirizzo del potente, anzi del Potere. E, infatti, sono gli stes­ si che ossequiano il Potere dovunque esso si trovi. Figuria­ moci quando il Potere diventa Impero! Così, assai spesso, li si trova impegnati in queU'impresa senza gloria che consiste nel difendere proprio coloro che hanno già abbondanti mezzi di difesa, e anche di offesa. E sono tanti: la maggioranza dei com­ mentatori, per esempio, che non sarebbero diventati quello che sono se non avessero dato prova ferrea della loro fedeltà assoluta alle esigenze di lealtà verso il Potere. L'obiettivo dunque è di stroncare la discussione, chiudere la bocca agli avversari. Un obiettivo che è quanto di più ideologi­ co si possa immaginare e spiega anche perfettamente perché, per esempio, il coro della stampa italiana (e non soltanto ita­ liana) sia spesso così uniforme. Il fatto è che i detentori delle chiavi dei media, di regola, sono solo persone totalmente affi­ dabili: non occorre dire loro cosa devono comunicare, lo san­ no già a memoria. Hanno introiettato le regole del gioco, llaffidabilità è faccenda che richiede lungo allenamento, conside­ revole applicazione. A ogni scalino nella scala gerarchica del­ l'informazione si deve aver dato prova di un totale disprezzo per la verità, di una completa disponibilità all'inganno, di un ci­ nismo a prova di bomba. Solo così, di regola, si passa al gradi­ no superiore. Il

Gli esempi sono infiniti, ma è sufficiente indicarne alcuni a mo' di promemoria. “L'antiamericanismo ideologico non co­ nosce confini,” tuona per esempio Mario Pirani su “la Re­ pubblica” contro Tiziano Terzani. Preceduto da Gianni Riot­ ta3 che lamenta - prendendosela con Ignacio Ramonet e con Rossana Rossanda - come . .l'America non è dunque [per lo­ ro] un paese, ma un'ideologia, una razza, uno stigma...". Naturalmente non è così, di regola, ma tanto basta per ar­ chiviare automaticamente ogni dilemma e scegliere di stare dalla parte del più forte. Si dà invece il caso che l'America non coincida affatto con il suo presidente di turno, così come non vi coincide l'Italia, né alcun altro paese del mondo, io credo. E anche se la mag­ gioranza, perfino la stragrande maggioranza di una nazio­ ne, coincidesse con i leader del momento, non si potrebbe legittimamente equiparare la critica verso quei dirigenti a un giudizio su tutto il paese e su tutta la gente che lo abita. In ciò sta, appunto, il carattere ideologico dell'atteggiamen­ to di chi si proclama proamericano. E questo vale esatta­ mente per chi si definisce antiamericano. Ciò detto equani­ memente, non si può evitare di concludere sulla base della sensata esperienza che la stampa italiana (occidentale) è stracolma di proamericani e gli antiamericani fanno perfi­ no fatica a farsi sentire nel gran frastuono dei solerti difen­ sori dell'America. Così, ogni esame critico della politica de­ gli Stati Uniti d'America diventa estremamente difficile quan­ do non è impossibile: ogni critica alla politica degli Stati Uni­ ti d'America è ipso facto assegnata alla categoria ideologica dell'antiamericanismo ed è considerata come un anatema antiamericano. Questo procedimento - nel caso lo si trasferisca all'inter­ no degli Stati Uniti d'America - si potrebbe chiamare con un aggettivo che gli americani stessi ben ricordano: maccartismo. Infatti accade spesso che - per fortuna e a onore degli stessi intellettuali americani - siano proprio gli americani, assai più frequentemente dei loro esegeti europei, a sottoporre se stes­ si a scrutini feroci e spesso inappellabili. Mentre se prendia­ mo in esame, per esempio, i commentatori italiani, non si farà fatica a concludere che in grande maggioranza sono acritici esegeti delle politiche statunitensi, non importa quali, non im­ porta su quali temi. Quando poi non se ne può parlare bene, si preferisce tacere. 12

Invece, scrive pungentemente, per esempio, Paul Krugman,4 “noi americani siamo notoriamente inetti nell'osservarci mentre gli altri ci osservano. Un recente sondaggio Pew di opinion leader ha rivelato che il 52% degli americani ritie­ ne che il loro paese è amato perché 'fa un sacco di bene’, men­ tre soltanto il 21% degli stranieri e appena il 12% dei latinoa­ mericani concorda con questo giudizio”. Dal che si può im­ mediatamente dedurre che i proamericani nostrani sono d'ac­ cordo soltanto con il 52% degli americani, ma discordano con l'altro 48%. E sono comunque in disaccordo con il 79% degli stranieri. Li equipariamo, tutti questi stranieri, agli antiame­ ricani? Io credo che così si farebbe un pessimo servizio all'A­ merica. Probabilmente molti sono critici verso gli Stati Uniti non in base a preconcetti ideologici, ma a specifiche - e fino a prova contraria legittime - valutazioni politiche sul com­ portamento delle leadership americane. E, poiché questi giu­ dizi sono assai diffusi nel mondo, la cosa più saggia sarebbe quella di suggerire alle leadership americane di chiedersi co­ me mai la critica nei loro confronti sia così estesa. Anzi, ver­ rebbe da aggiungere che il proamericanismo esasperato è il peggiore dei servigi. Gli amici che non ti dicono la verità, che ti adulano e ti vezzeggiano, sono i peggiori amici. Nei loro oc­ chi non vedrai mai la verità ma il riflesso dei tuoi vizi. Co­ munque, in queste pagine, la grande maggioranza dei riferi­ menti sarà alla stampa e all'informazione statunitense. Non solo perché è di gran lunga più ricca di quella nostrana, ma perché ci consentirà di notare meglio come si ragiona nei pres­ si della capitale dell'Impero, come se ne discute, quali siano i livelli di consapevolezza che vi si manifestano. In realtà l'Impero aveva cominciato a esistere già prima dell' 11 settembre. La sua vera data di nascita - a voler spez­ zettare il corso della storia in momenti significativi, tanto per tenerli a memoria - è il giorno di Natale del 1991, quando l'U­ nione Sovietica cessò di esistere. Da quel momento hanno as­ sunto un corso sempre più impetuoso processi politici ed eco­ nomici già avviati da qualche decennio. Non sono stati pro­ cessi lineari. Gli sviluppi storici avvengono sempre in forme discontinue, in naturali alternanze di progetti ed errori di ese­ cuzione, di successi e disastri, di improvvise accelerazioni e brusche frenate. Il caso fa la sua grande parte, così come l'imprevedibilità degli uomini. Ma anche la progettazione - e la sua assenza - possono svolgere un ruolo grande, spesso decisivo, nella determinazione degli eventi. Una delle novità della so­ 13

cietà globale, connessa con gli impressionanti sviluppi delle tecnologie (soprattutto quelle deirinformazione-comunicazione), consiste nell'aumento delle capacità di previsione e con­ trollo, oggi immensamente superiori a quelle di ogni epoca pre­ cedente. Non è una circostanza secondaria. Serve a ricordare che tutta una serie di categorie che hanno guidato l'azione po­ litica nei secoli precedenti, inclusa quella che si è appena con­ clusa - definita giustamente breve da Eric Hobsbawm -, sono diventate obsolete. Llmpero nasceva nel momento stesso in cui l'unico, mor­ tale antagonista dell'Occidente periva in silenzio, si affloscia­ va, si suicidava. Ma la coscienza dell'Impero cominciò a for­ marsi successivamente, all'inizio della sua adolescenza. Ed è giunto a compimento dopo dieci anni, cioè adesso. È chiaro che l'antagonista mortale era l'Unione Sovietica e che l'em­ brione imperiale erano gli Stati Uniti. Ci è voluto del tempo perché l'America percepisse in pieno le opportunità che le si aprivano, i compiti nuovi che le circostanze storiche le offri­ vano. E ci è voluto anche del tempo perché l'America perce­ pisse la vertigine del potere vero, quello che non conosce con­ fini e limitazioni. La vittoria nella Guerra fredda era giunta, in un certo senso, inattesa. L'America l'aveva voluta, con tutte le sue forze. Per essa aveva speso risorse immense. Ma, fino al­ l'ultimo, non era stata sicura di ottenerla. Nessuna, o quasi, delle sue menti più illustri, nessuno o quasi dei suoi prestigio­ si centri di ricerca erano riusciti a cogliere l'estrema debolez­ za che minava alla radice l'avversario, definito da Ronald Reagan l'Impero del Male. Avevano intuito la vittoria, ma ne ave­ vano collocato gli effetti in un futuro indeterminato, lontano. Essa invece si è materializzata in tempi brevi. La vittoria è arrivata inattesa e, fatto non meno cruciale, incondizionata, praticamente senza colpo ferire. Il trionfo è stato, per questo, tanto grande, così totale da rendere diffici­ le una sua rapida metabolizzazione. Un'abbuffata di gloria, di successo, un'indigestione. È impossibile sottrarsi al senso di vertigine che si prova quando il nemico, tanto a lungo e mor­ talmente temuto, giace al suolo, debellato, piegato, distrutto. Per un po' di tempo, circa dieci anni, appunto, l'Impero ha avuto bisogno di assuefarsi all'idea e non è stato capace di at­ tuarla. Siamo entrati nell'Impero quando l'Impero si è reso conto di essere tale. Ma 1Impero di cui stiamo parlando non è soltanto costi­ 14

tuito dagli Stati Uniti d'America. Certo la quota americana di questo impero è maggioritaria, sicuramente decisiva. E noi stiamo vivendo l'Impero essenzialmente come l'Impero ame­ ricano. Ma sta cominciando a essere anche qualcosa di diver­ so e di più grande deH'America per il potere reale di cui di­ spone. Qualcosa di più piccolo dell'America quanto a popola­ zione. L'Impero non è più definibile territorialmente. Nella fa­ se transitoria di crescita che attraversa, esso sembra invece coincidere con gli Stati Uniti d'America. E, dato ancor più in­ gannatore, questa coincidenza domina già le menti delle lea­ dership statunitensi che interpretano se stesse come la lea­ dership definitiva dell'Impero, mentre non sono che le guar­ die avanzate e transitorie. Tutto ciò complica il problema di interpretare le tappe suc­ cessive di questi processi. L'Impero ha, per esempio, una ca­ pitale virtuale, rappresentata simbolicamente da New York, che per questo, tra l'altro, è diventata il bersaglio principale dell'odio terrorista. Ma il suo territorio non coincide con quel­ lo degli Stati Uniti d'America. Esso ha propaggini in quasi ogni parte del mondo, apparentemente incluse in giurisdizioni sta­ tuali diverse. In realtà, sono tutte sottoposte alla stessa logi­ ca, agli stessi interessi, alle stesse leggi - tutte più cogenti di quelle dei singoli stati - a un'identica cultura, quella della su­ per-società globale. Questa espressione non è mia ma di Aleksandr Zinoviev, coniata per la prima volta in un saggio intitolato, appunto, Sulla via verso la Super-società.5 Rende perfettamente l'idea di quello che incombe su di noi. Gli Stati Uniti, da soli, non avrebbero potuto godere dei privilegi e della forza di cui go­ dono se non fossero stati in grado di rappresentare, meglio di ogni altra entità, questa super-società globale, di antici­ parne alcuni tratti essenziali. E per questa ragione che essi hanno ricevuto il mandato e l'investitura di tutte le altre éli­ te della super-società globale. Si potrebbe dire che ne sono stati gli inventori, anche se non sono l'unico soggetto. Molti milioni di cittadini statunitensi non appartengono a questa super-società, mentre ne fanno parte milioni di cittadini for­ malmente europei, asiatici, di tutti gli altri continenti: sono le élite di questi paesi. Questo è l'Impero che sta nascendo, con le stigmate della guerra. Ne fanno parte i veri potenti della Terra, non importa 15

dove vivano, visto che hanno tutti gli stessi standard, s'incon­ trano tutti negli stessi posti che diventano sempre più esclu­ sivi, fanno studiare i loro figli nelle stesse università, si diver­ tono insieme negli stessi luoghi che si vanno sempre più tra­ sformando, non importa in quale continente si trovino, in qua­ le città o regione, in zone sempre più blindate, isolate, cir­ condate da alte mura, guardate da speciali vigilanze. I poten­ ti della super-società globale non sono, necessariamente, i go­ vernanti dei singoli stati del pianeta. Dipende. Nemmeno tut­ ti gli uomini di governo dei paesi oggi riconosciuti come de­ mocratici hanno il diritto automatico di entrare neirélite glo­ bale in cui non necessariamente si accede per elezione a suf­ fragio universale. Anzi, è piuttosto vero il contrario. Vi si ac­ cede, di regola, per criteri diametralmente opposti a quelli de­ mocratici. Ma l'accesso a questa élite non è automatico nep­ pure per i dittatori che non sono stati eletti da nessuno o so­ no arrivati al potere con plebisciti che non hanno nulla di de­ mocratico o che hanno preso il potere con colpi di stato. Si tratta di un mix inedito, in cui confluiscono tutti i rap­ presentanti di quelli che vengono di solito definiti i “poteri for­ ti", indipendentemente dal paese in cui occasionalmente ri­ siedono per motivi fiscali. Ci sono tutte le componenti essen­ ziali perché questo nuovo Potere si affermi e vinca definitiva­ mente, come i suoi membri ardentemente sperano: ci sono i vertici dei maggiori gruppi economici e finanziari, delle mag­ giori concentrazioni statuali, di alcune organizzazioni sovranazionali, del sistema mediático, ci sono vertici militari, i ver­ tici dei servizi segreti. Variamente mescolati con presidenti e Ceo (Chief Executive Officer) delle megacorporation, banchieri centrali e periferici, insieme al corteo di collaboratori a red­ diti astronomici e medio-astronomici, direttori di grandi te­ levisioni e media, sovrani e dittatori (quelli ragionevolmente stabili, quelli maggiormente presentabili) con le loro corti, di­ rigenti politici, in carica ed ex, assieme ai loro commessi. E via elencando. Insomma: veri potenti più coadiutori funzio­ nali alla potenza, senza i quali essa non può essere esercitata. Zinoviev ritiene, generosamente, che allo stato attuale que­ sta super-società possa vantare una popolazione oscillante tra ottanta e cento milioni di persone, famiglie incluse. Ma il pro­ cesso di formazione è tuttora in corso e noi siamo testimoni soltanto della fase immediatamente successiva alla sua ado­ lescenza. E presto, dunque, per chiudere la parabola, per con­ 16

siderare concluso il processo. Ma è già visibile la fisionomia del nuovo, inedito, organismo sociale che sta prendendo vita. È l'inizio di una nuova era che conclude quella degli stati na­ zionali. E si chiude anche la stagione delle democrazie occi­ dentali, delle costruzioni dello stato di diritto liberale, della dialettica dei poteri aU'intemo dei singoli stati. Se ne vedono già perfettamente i segni nel declino della democrazia rap­ presentativa, negli attacchi sempre più potenti che vengono sferrati dalle nuove élite contro la divisione dei poteri tipica dello stato di diritto e delle sue istituzioni. Le sovranità na­ zionali sono sempre più spesso soverchiate da centri esterni, incomparabilmente più potenti. E questi centri non hanno bi­ sogno di alcuna legittimazione democratica: non è prevista, è estranea al loro funzionamento, alla loro nascita, alla loro lo­ gica. Comincia la fine della democrazia liberale così come si è configurata in Occidente nel corso degli ultimi cinque seco­ li. Tutto ciò, a buon diritto, può essere definito come l'inizio della costruzione di una formazione sociale del tutto nuova. Ciò che sta sostituendo la vecchia epoca è una fase di tran­ sizione, in cui appunto gli Stati Uniti d'America svolgono un ruolo intermedio, la funzione di ponte. È il loro sistema che guida il processo, con un certo grado di ambiguità che infat­ ti, a prima vista, appare come l'affermazione della “nazione americana". In realtà, la super-società globale è anche il pre­ ludio della fine degli Stati Uniti d'America, la fine del famoso melting pot che ne ha rappresentato il cemento nel corso di due secoli. L'Impero nascente avrà sempre meno bisogno di integrare nei processi globali il resto del mondo (entro certi limiti, perché avrà pur sempre bisogno del resto del mondo ma solo in funzione subordinata), le minoranze, le compo­ nenti etniche e culturali dei vecchi stati nazionali. Anche il contenitore Stati Uniti d'America sarà inadeguato all'Impero e alle sue nuove funzioni di dominio. È un futuro ancora un po' lontano, ma non troppo: siamo nell'anticamera della nuo­ va formazione sociale, ai primordi della super-società globale. Ecco perché non possiamo definire Bush come l'Impera­ tore: è ancora l'espressione di una transitorietà. Probabilmente non è nemmeno l'uomo più potente di questo Impero, anche se le contingenze della storia hanno fatto sì che toccassero a lui le funzioni di rappresentanza malgrado sia un personag­ gio del tutto improbabile. Può darsi che ci sia già, al di sopra di lui, un gruppo di uomini che non abbiamo mai visto tutti 17

insieme, ma di cui abbiamo potuto scorgere qualcuno, qual­ che volta, da qualche parte. Uomini che nessuno di noi ha mai eletto e il cui potere è così grande che è difficile perfino im­ maginarlo. Sono su un fantastico ponte di comando da cui si gode il miglior panorama della Terra, un panorama inegua­ gliabile. Da qui si può vedere (o credere di vedere) non solo il presente, ma anche una parte del futuro. Ma torniamo ai momenti di gestazione di questo nuovo Im­ pero. Bisogna tornare indietro di trent anni circa, attorno alla fine del regime di Bretton Woods. Allora d'impero non si pote­ va ancora parlare. Gli Stati Uniti erano già sicuramente i più forti, ma non ancora abbastanza. E, al contempo, erano gran­ di e spesso anche magnanimi. Sentivano la responsabilità del­ la loro grandezza e, talvolta, anche se non sempre, pensavano al resto del mondo. Difficile dire quanto è durata e quando è fi­ nita questa magnanimità. Assai presto le condizioni oggettive del pianeta hanno cominciato a convincere gli uomini presen­ ti di volta in volta sul nuovo ponte di comando che gli Stati Uni­ ti avrebbero dovuto e potuto pretendere di più per se stessi, vi­ sto il ruolo di guida mondiale che stavano interpretando. Per così dire, si sono sentiti in diritto di aumentare la parcella per le loro prestazioni professionali. In fondo se l'altro Impero, quel­ lo del Male, non era riuscito a imporsi sul pianeta, lo si doveva essenzialmente a loro. Furono loro - con grande intuito strate­ gico - a investire la parte maggiore delle loro ricchezze nel pro­ getto di liquidazione del Grande Nemico. Fu così che comin­ ciarono a mettere in pratica, sempre più sistematicamente, un loro decalogo che avrebbe consentito, con il tempo, di far fun­ zionare le leggi del mercato al servizio della supremazia degli Stati Uniti, per permettere ai cittadini americani (nella loro grande massa) di consumare molto più di quello che produce­ vano e, a una porzione più ridotta, di “arricchirsi dormendo". Il decalogo avrebbe potuto servire - e servì, infatti - a mante­ nere sotto controllo eventuali competitori che avessero deciso di mostrarsi sulla scena, per costringerli a rinunciare non ap­ pena fossero diventati anche solo potenzialmente pericolosi. Non pensi il lettore che questa descrizione sia il frutto di in­ terpretazioni malevole. Il decalogo di cui stiamo parlando - a differenza di quello di Mosè - è stato pienamente realizzato. Ciascuno dei suoi articoli sarebbe agevolmente verificabile og­ gigiorno anche da chi non sia specialista di politica e di econo­ mia, sempre che, s'intende, il sistema informativo mondiale lo 18

rendesse visibile. Esso agisce e opera quotidianamente. È la re­ gola generale. Del resto, anche chi scrive non è uno specialista. Ma è un profano che, per mestiere, raccoglie e ordina le noti­ zie che riesce a procurare. Il fatto che il decalogo sia stato fin qui così poco visibile, e che negli ultimi anni sia diventato del tutto invisibile, si spiega bene con il contemporaneo, progres­ sivo formarsi della globa-mediatizzazione, qualcosa di simile a una Intemazionale dei media (Detentori dell'informazione e del­ l'intrattenimento di tutto il mondo, unitevi!). Si tratta di un grup­ po non molto numeroso di padroni degli strumenti del comu­ nicare, intesi nella loro più vasta accezione: informazione, en­ tertainment, pubblicità. Oggi sono in grado di determinare, at­ traverso luso sinergico di tutte le risorse della Information-Communication Technology, ciò che deve consumare, mangiare, be­ re, come deve divertirsi, dove deve passare il tempo libero, co­ me fare l'amore, come arredare le case (supposto che le abbia), cosa deve desiderare, sognare, pensare qualche miliardo di abi­ tanti del pianeta. Il tutto in tempo reale, guidando ondate di emozioni, di sensazioni e, s'intende, di opinioni, lungo tutti i meridiani e i paralleli della Terra. Non è certo un caso se que­ sti signori - anche loro, incidentalmente, non certo eletti da qualcuno - sono parte integrante e decisiva della super-società globale. Senza la loro sistematica, continua, molteplice opera di interpretazione della realtà, senza il loro onnipresente lavoro di occultamento, stravolgimento, rimescolamento, filtraggio, cen­ sura, il decalogo non si sarebbe realizzato. Ecco dunque il decalogo che ha creato l'Impero e che ci ha portato alla guerra, anzi alla Superguerra6: 1) Fai in modo che la tua moneta sia l'insostituibile mo­ neta di riserva per tutti, o quasi tutti, gli altri paesi. 2) Non tollerare alcun controllo esterno sulla tua creazio­ ne di moneta. Potrai finanziare i tuoi deficit commerciali con il resto del mondo, rendendoli praticamente illimitati. 3) Definisci la tua politica monetaria in base, esclusivamente, ai tuoi interessi nazionali e mantieni gli altri paesi in condizioni di dipendenza dalla tua politica monetaria. 4) Imponi un sistema internazionale di prestiti a tassi d'in­ teresse variabili espressi nella tua valuta. I paesi debitori in crisi dovranno ripagarti di più proprio quando la loro capa­ cità di pagare è minore. Li avrai in pugno. 5) Mantieni nelle tue mani le leve per determinare, alloccorrenza, situazioni di crisi o d'incertezza in altre aree del mondo. Stroncherai sul nascere ogni eventuale aspirante competitore. 19

6) Imponi con ogni mezzo la massima competizione tra espor­ tatori del resto del mondo. Avrai un afflusso d'importazioni a prezzi decrescenti rispetto a quelli delle tue esportazioni. 7) Intrattieni i migliori rapporti con le élite e le classi me­ die degli altri paesi, a prescindere dalle loro credenziali de­ mocratiche, perché esse sono decisive per sostenere la tua architettura. È essenziale che le élite e le masse di quei pae­ si non si uniscano attorno a idee di sviluppo “nazionale" o comunque ostili al tuo dominio e alla tua egemonia. 8) Promuovi con ogni mezzo una totale mobilità dei capita­ li, insieme alla libertà d'investimento intemazionale. In questo modo i capitali, nelle condizioni sopra delineate, verranno al tuo indirizzo perché è il luogo migliore, il più sicuro e redditizio. Quanto agli investimenti esteri, assicurati che le tue corporation possano liberamente soccorrere le élite nazionali nella gestione delle loro proprietà finanziarie, dell'educazione privata e pub­ blica, della tutela della salute, dei sistemi pensionistici ecc. 9) Promuovi con ogni mezzo il libero commercio. Esso varrà per tutti, cioè per gli altri, che non potranno sottrarvisi mentre tu lo applicherai se e quando ti converrà. 10) Per controllare che tutto ciò si realizzi ordinatamente, senza conflitti troppo evidenti, ti occorre una struttura di isti­ tuzioni sovranazionali che all'apparenza si presentino come riunioni di membri a pari diritto. Darai l'impressione di ri­ spettare un certo pluralismo, mantenendo il loro finanzia­ mento e il loro controllo nelle tue mani. Tutto ciò ha richiesto del tempo per realizzarsi. La gesta­ zione è stata lunga, complessa, contraddittoria. Non tutto è andato liscio, come avviene sempre quando agiscono forze reali, non astratti progetti di utopisti giunti per caso al pote­ re. I piani si formano camminando, nella pratica, ma ci vo­ gliono gli intellettuali per dar loro una forma, per magnificarli agli occhi del pubblico, per nobilitarli e spiegarli. Bisogna for­ marli questi propagandisti, convincerli e, se è necessario, com­ prarli, corromperli. E poi bisogna togliere di mezzo gli osta­ coli, i testardi, gli increduli, i cacasenno. Con le buone, se è possibile, altrimenti con le cattive. Per chi l'avesse dimenti­ cato, c'è un manuale belle pronto, basta applicarlo. È II Prin­ cipe di Niccolò Machiavelli. È perfino gratis, perché i diritti di copyright sono già scaduti. Si è arrivati così alla fine dell'Unione Sovietica. Il bebé nacque ed era già globale. I primi sette punti del decalogo erano già in funzione. Gli ultimi tre sono stati accelerati e im­ 20

plementati. È toccato a Bill Clinton il compito di gestire il poppante. Prima di eleggere alla presidenza degli Stati Uniti d'America l'ex governatore dell'Àrkansas, un gruppo di fi­ nanzieri e banchieri democratici lo convocò in un noto ri­ storante di Manhattan, non lontano dalle Twin Towers. Gli spiegarono che - se voleva essere eletto - avrebbe dovuto im­ pegnarsi e promuovere, subito, il pieno dispiegamento del free capitai flow. Dovunque, senza frontiere, senza limiti, sen­ za condizioni. Il potenziale statunitense di gestione delle ri­ sorse finanziarie era diventato così immenso, così globale da potere (anzi da dovere assolutamente) ingoiare tutto il mon­ do. Non c'era un attimo da perdere. Lo sventurato rispose. E fu eletto.7 Gli si suggeriva inoltre che, per non fare errori, avrebbe dovuto assumere velocemente Robert Rubin come ministro delle Finanze. Rubin dava piena sicurezza ai ban­ chieri. Proveniva da uno dei veri centri del potere mondiale, una delle maggiori banche d'investimento. Così fu fatto. An­ ni dopo, i suoi collaboratori, interrogati in merito, hanno ri­ conosciuto quasi tutti che, alla luce del senno di poi, l'opera­ zione è stata un'avventura non meditata. “Spingemmo trop­ po forte, troppo duramente." Tutti i paesi in via di sviluppo, quelli più promettenti, furono investiti da una pressione as­ solutamente irresistibile affinché aprissero le loro frontiere, affinché le banche centrali cedessero le loro leve alla gestio­ ne statunitense. Le ambasciate degli Stati Uniti diventarono veri e propri centri commerciali e di promozione della finanza statunitense. Le grandi banche d'investimento, a loro volta in fantastica espansione, dettarono le regole, impregnarono dei loro collaudati sistemi tutta la finanza mondiale. Le imprese di controllo finanziario e di audit, i loro sistemi di rating e di valutazione decisero chi avrebbero dovuto essere, senza pos­ sibilità di appello, i buoni e i cattivi. Sfortunatamente, il re­ sto del mondo, soprattutto il resto debole del mondo, non po­ teva reggere a lungo una simile pressione. Meno di dieci an­ ni dopo, era già evidente che le ambizioni e l'avidità di un'é­ lite, che credeva di essere ormai divenuta onnipotente, ave­ vano di gran lunga oltrepassato il senso di responsabilità. Ma, con l'avvicinarsi del disastro, ci si è accorti anche che non c'e­ ra nessuno capace di ridimensionare quelle ambizioni e di imporre un sistema di regole. Quando Clinton si è guardato alle spalle, nel momento di lasciare il potere dopo due mandati, il panorama gli è appar­ so come una successione di clamorose vittorie. Logica conse­ 21

guenza di quella, strabiliante, che aveva abbattuto l'Impero del Male. Un decennio di avanzate ininterrotte, di record bat­ tuti, di inesorabile, sistematica crescita di fiducia nelle pro­ prie forze. Mai c'era stato uno sviluppo così impressionante in tutta la storia degli Stati Uniti. Qualcuno, facendo allora i conti, aveva parlato di una “ge­ nerazione Dow Jones 10.000”. E pareva che le cifre gli desse­ ro ragione. Nel 1993 il Dow Jones Industriai Average stava già volando sopra i 3500 punti. Sei anni dopo - incidentalmente: appena terminata la guerra jugoslava - era balzato al di sopra dei 10.000 punti. Inclusi i dividendi, il mercato americano ave­ va prodotto una performance fantastica: più 242% in meno di sei anni! L'euforia della vittoria aveva prodotto un'euforia da sicurezza. E questa euforìa aveva una fonte e un indirizzo: Wall Street, nei cui forzieri volavano migliaia di miliardi di dollari, da tutto il mondo, anno dopo anno. I banchieri elet­ tori di Clinton avevano calcolato bene i propri interessi. Di­ namismo, flessibilità, sviluppo della Information-Communication Technology (Ict), new economy: tutto ciò ha trasforma­ to l'America in un colossale aspira-capitali e in un moltipli­ catore di crescita aggiuntiva. È stata l'esplosione della “globalizzazione americana". L'ag­ gettivo non è surrettizio e non è neppure espressione di un qualche antiamericanismo. Ciò di cui si sta parlando non è soltanto un fenomeno oggettivo, inevitabile (com'è infatti la globalizzazione): è, piuttosto, la sua interpretazione “ameri­ cana", in funzione degli interessi “nazionali" americani (o di quelli che vengono percepiti come tali anche da coloro che li promuovono). Anche quest'ultima virgolettatura non è ca­ suale. Perché serve a ricordare che il superamento dei confi­ ni nazionali non è stato uguale per tutti. C'è stato chi ha po­ tuto difenderli, anzi imporre i propri a quelli altrui, e chi ha dovuto cedere spazio. In ogni caso, il quadro dell'immagine americana nel mon­ do, per quasi tutto il decennio appena trascorso, non avrebbe potuto essere più favorevole per gli Stati Uniti d'America. Un'A­ merica locomotiva dell'economia mondiale, un'America senza inflazione che impartisce a tutto il mondo lezioni di flessibi­ lità ed esporta ovunque il proprio Way of Life, la propria cul­ tura, la propria tecnologia, i propri valori. “Il nostro successo è il successo del modello capitalistico americano, che è il più vicino alla visione del mercato di Adam Smith. Molto più vicino, certamente, del corrotto e pa­ 22

ternalistico capitalismo dell'Asia, che tanto sedusse i critici del sistema americano nel corso [del gonfiamento] della bol­ la asiatica, ora sgonfiata/' Così scriveva orgogliosamente Charles Krauthammer il 5 gennaio 1999, esempio preclaro deirideologia del trionfo. E proseguiva, con un'invettiva che - fosse stata concepita, alla rovescia, contro gli Stati Uniti sarebbe stata tacciata immediatamente (e con ragione) di razzismo: “Noi siamo i discendenti degli uomini di ventura e di coloro che sapevano rischiare. L'Europa e l'Asia sono po­ polate da gente che gli avventurieri si lasciarono alle spal­ le”.8 Cioè stanziali, ignavi, perdenti, privi di senso dell'av­ ventura, imprenditori imbelli, lavoratori incapaci di lavora­ re, capitalisti falliti ma anche sottosviluppati, corrotti, pri­ mitivi del Terzo mondo, irrecuperabili al progresso, o da co­ stringere al progresso con l'uso di un bastone globale da im­ pugnare con la massima energia. Krauthammer pronostica­ va il nostro destino, di noi non americani, senza nemmeno preoccuparsi troppo di distinguere tra europei e Terzo mon­ do. È il fiume dell'Impero, il suo senso comune, che comin­ cia a tracimare fuori dagli argini. Il resto del mondo cominciava a dare segni di disagio e di inadattabilità rispetto a un'accelerazione così violenta. Ma l'inesorabile potenza degli Stati Uniti d'America non am­ metteva recalcitranti. Bisognava imporla, quell'accelerazio­ ne, a tutti i costi. Dal ponte di comando zampillava un'ideo­ logia ottimista, sicura, che non ammetteva contraddittorio. Il pensiero unico neoliberista dominava anch'esso ogni spa­ zio di potenziale riflessione critica. Unica idea forte in mez­ zo a pozzanghere di idee deboli, a una ritirata disordinata delle posizioni di tutte le sinistre mondiali, orfane non del marxismo (che quasi tutte avevano già abbandonato preci­ pitosamente) ma, paradossalmente, dell'Unione Sovietica, la cui sola presenza minacciosa, fino a pochi attimi prima di scomparire, aveva costretto il capitalismo a moderare le sue pretese. Dall'altra parte dell'Oceano giungeva incessante la pre­ dica: l'accelerazione imposta dalla globalizzazione ameri­ cana, non produce forse globalizzante ricchezza per tutti? Non rappresenta un vantaggio sicuro anche per i poveri? Certo, si era disposti ad ammettere che i ricchi diventano ancora più ricchi, smisuratamente ricchi, ma anche i pove­ ri - questo era il leitmotiv di tutti i messaggi - diventeranno 23

un pochino meno poveri. Bisognava dunque costringerli, an­ che se non capivano. Così, si è velocemente costruita una specie di versione globale e capitalista del paradiso comu­ nista: portare alla felicità popoli interi, trascinandoli per i capelli. Era anche l'esplicitazione operativa, pratica, del pen­ siero unico sotto la forma della teoria della Tina (There Is no Alternative). Era l'espressione sincera, brutale, del pro­ gramma per il xxi secolo che Clinton aveva liricamente de­ finito “secolo americano”. Krauthammer non lo sapeva, ma mentre parlava il pic­ co era già stato raggiunto e superato. Si era già in discesa. Una discesa ripida e piena di insidie, cominciata il 2 luglio 1997 con la crisi finanziaria della Thailandia. Seguita dal crollo di quasi tutte le monete dell'Asia orientale e dal di­ sastro economico dell'Indonesia. Seguita, a sua volta, dal crollo del rublo il 17 agosto 1998. Infine, nel gennaio 1999, proprio mentre Krauthammer delirava, c'era stata la bru­ sca svalutazione del reai brasiliano. Nell'autunno prece­ dente, la Federai Reserve aveva chiamato le banche ameri­ cane a un'operazione di soccorso collettivo. Un'operazione senza precedenti. Si trattava di tirare fuori dal disastro la Long Term Credit Management, un buco da 6 miliardi di dollari che stava creando il panico a Wall Street. Metà del­ l'economia mondiale si trovava già nel pieno di una tor­ menta che alcuni rari economisti si sono avventurati a de­ finire “crisi sistemica”. Krauthammer non stava, ovvia­ mente, sul ponte di comando. I commentatori politici ed economici non stanno sui ponti di comando. Di solito, li si mette a lucidare gli ottoni dei ponti inferiori, anche se qual­ che volta li si invita a cena. Specie se sanno fare i buffoni e sanno allietare le conversazioni con salaci calembour. Ma lassù qualcuno era rimasto a vigilare e stava osservando, con ansia crescente e sguardo lucido, il corso delle cose. Una crisi seria si stava profilando all'orizzonte e non c'erano ricette sicure. La globalizzazione americana continuava a trionfare, ma assumeva sempre più l'aspetto di una grande giostra truccata, di un indice di borsa come il Dow Jones - ora affiancato dal Nasdaq della new economy - che continuava a salire, anzi a volare: unico indicatore dell'unica crescita che ancora teneva banco, quella americana. Il resto del mondo non tirava affatto. A Giakarta e a Bangkok, a Seul e a Tokio molti cominciavano a rendersi conto che se il consumatore 24

americano si fosse improwisamente svegliato di cattivo umo­ re, se qualcuno in America avesse semplicemente cominciato a risparmiare qualche centesimo del suo reddito, tutti i mer­ cati del Pacific Rim sarebbero stati colpiti da un uragano. L'Eu­ ropa procedeva tra mille ambasce, incapace anch'essa di ade­ guarsi, moderatamente rassicurata dalla constatazione di non essere troppo strettamente avvinghiata - quindi meno soggetta ai contraccolpi - ai mercati cosiddetti “emergenti” dell'Asia e dell'America Latina. Il tutto avveniva in un contesto in cui il Giappone era già fermo da alcuni anni, incapace di uscire dal­ la paralisi, con un senso generale d'incertezza, d'instabilità, di volatilità che da molti anni nessuno dei frequentatori delle Borse più provava e che, anzi, non avrebbe più dovuto prova­ re dal momento che, secondo l'opinione comune (conventional wisdom, dicevano gli analisti di Wall Street), le crisi cicli­ che del capitalismo erano ormai finite per sempre: si poteva soltanto crescere e, semmai ci fosse stato un interrogativo, po­ teva solo riguardare la velocità della crescita. C'erano state avvisaglie d'altro genere, provenienti da fon­ ti anche molto autorevoli. In una bella intervista, John Ken­ neth Galbraith, appena compiuto il suo novantesimo com­ pleanno, aveva addirittura dichiarato che, se avesse scritto nel 1998 il suo La società opulenta, l'avrebbe intitolato La società della diseguaglianza. Aveva appena concluso la prefazione al rapporto dell'Onu sullo sviluppo umano, in cui si rivelava, tra l'altro, che “il 20% della popolazione mondiale che sta al ver­ tice della classifica dei redditi è responsabile dell'86% di tut­ ti i consumi mondiali. Il 20% più povero, invece, consuma so­ lo l'1,3% di tutti i beni e servizi''. Faceva una solenne autocri­ tica, Galbraith, constatando l'aumento di due tipi di povertà nel mondo: “quella che si trova alFinterno dei paesi ricchi'' e quella rappresentata “dal divario tra paesi ricchi e paesi del Terzo mondo”. In Africa, nell'Asia meridionale - diceva, con­ to tutti gli esegeti della ricchezza copiosamente distribuita dal­ la globalizzazione in tutto il mondo - “la situazione è peggio­ rata”. E, riguardo ai paesi ricchi, notava “l'orrenda disegua­ glianza'' di redditi esistente negli Stati Uniti, “un divario che non ha paragoni negli altri paesi sviluppati”. Un divario che, chissà perché, i sacerdoti del modello americano, dimentica­ vano ogni volta che ne descrivevano le meraviglie. E, osser­ vava ancora Galbraith, gli economisti non vedevano i poveri, quarantanni fa, “perché vivevano in luoghi emarginati del pae­ se, come le piantagioni del Sud o le zone rurali di montagna'', 25

mentre “oggi sono tutti in città”.9 Una notazione acutissima che toccava il punto, anzi uno dei punti principali. La povertà era entrata in movimento anch’essa, come il libero flusso dei capitali. Aveva cominciato ad andare in città, a farsi vedere, talvolta minacciosamente. Eppure non si riusciva a vederla e non riusciamo ancora a vederla. Per l'evidente ragione che gli strumenti della comunicazione, che dovrebbero informarce­ ne, non la mostrano. O la mostrano di sfuggita, come un in­ cidente di percorso, come una divagazione non essenziale, co­ me una storia “di colore”, una disavventura che tocca soltan­ to i predestinati, spesso colpevoli per la loro ignavia (vedi an­ cora Krauthammer). Non ci spiegano quasi mai perché c'è, cosa l'ha provocata. Ma gli avvertimenti sono stati, per così dire, anche molto più “tecnici”, niente affatto moralistici, pietistici, solidaristi­ ci. La crisi dell'Asia orientale ha messo in chiaro che l'archi­ tettura finanziaria mondiale, disegnata a Bretton Woods nel 1944 per un mondo dove la mobilità dei capitali era piuttosto limitata, non è in grado di far fronte a un mercato globale di nuovo tipo, dove economie precedentemente chiuse sono sta­ te invase da capitali esteri e dove nuove tecnologie, unite al­ l'innovazione finanziaria esportata in primo luogo dagli Sta­ ti Uniti, hanno rivoluzionato velocità, forme di movimento e di utilizzazione dei capitali. Nel nuovo contesto, immense risorse finanziarie si muo­ vono verso i paesi in via di sviluppo, aprendo nuove, colossa­ li possibilità d'investimento in quelle economie emergenti e fantastici profitti ai prestatori. Ma nei fatti si verifica che quei capitali, così come velocemente arrivano, altrettanto veloce­ mente possono andarsene utilizzando la stessa, bidirezionale assenza di regole. Le cifre vanno però dispiegate per essere lette e interpretate. Dieci anni prima gli investimenti esteri nei paesi in via di sviluppo sono stati di circa 34 miliardi di dol­ lari. Nel 1997 sono balzati a 256 miliardi di dollari. Ma è ba­ stato un momento di crisi per produrre una fuga generaliz­ zata. Le cinque economie più duramente colpite dalla crisi asiatica del 1997 (Corea del Sud, Indonesia, Thailandia, Ma­ laysia, Filippine) avevano appena ricevuto, nel 1996, tutte in­ sieme, 93 miliardi di dollari di capitali dall'estero. Nel 1997 quell'input totale si è trasformato in output netto di 12 mi­ liardi di dollari. In sostanza, in meno di un anno i cinque pae­ si hanno dovuto sopportare una “escursione finanziaria” di 105 miliardi di dollari, pari all'11% dei loro prodotti interni 26

lordi combinati. Nemmeno paesi solidi come la maggior par­ te degli stati europei avrebbe potuto reggere a contraccolpi di questa portata. Qui è evidente anche un altro dato: non possono essere l'i­ nefficienza delle economie locali o la corruzione delle classi politiche le cause principali del disastro. Sono senz'altro com­ ponenti importanti del problema, ma secondarie rispetto alla responsabilità della finanza internazionale, delle grandi ban­ che d'investimenti che hanno giocato le proprie partite senza tenere minimamente in conto le reali condizioni di quei pae­ si, preoccupate soltanto di estrarre profitti e tagliare la corda non appena si fosse delineato qualche pericolo. È apparso sempre più chiaro che questi comportamenti avrebbero potuto ricadere, come un boomerang, anche sulla casa madre di questa mostruosa architettura finanziaria mon­ diale. Dopo la serie di crisi e di errori in Asia, Russia e Brasi­ le,10 il crollo delle economie e dei corsi azionari prodotti nei paesi emergenti avrebbe potuto ripercuotersi sui corsi azio­ nari americani e questi, a loro volta, avrebbero potuto inver­ tire il corso degli ultimi anni, durante il quale consumatori e imprese statunitensi avevano speso di gran lunga molto più di quello che guadagnavano. Si è temuto che anche solo modesti passi indietro della pro­ pensione al consumo negli Stati Uniti avrebbero potuto de­ terminare una contrazione grave della crescita americana, ad­ dirittura “fino a due punti percentuali all'anno per i prossimi cinque anni".11 Uno degli autori più ostinati di avvertimenti è stato il reg­ gitore della Federai Reserve, Alan Greenspan, di certo uno di quelli che stanno sul ponte di comando. Di certo uno che sa­ rebbe difficile definire un avventuriero (almeno non un av­ venturiero tattico). Usando il linguaggio circospetto dei pon­ tefici che parlano ex cathedra (non potrebbe essere altrimen­ ti per il numero uno assoluto della finanza mondiale, che se sbaglia una virgola può provocare catastrofi), Greenspan ha parlato, fin dal dicembre 1996, quando il Dow Jones naviga­ va appena a 6400, di “irrazionale esuberanza" del mercato.12 Poi, visto che il primo avvertimento era andato a vuoto, è tor­ nato sul tema cogliendo l'occasione del crollo del rublo e, nel settembre 1998, ha alzato la voce: “Non è credibile che gli Sta­ ti Uniti possano rimanere un'oasi intangibile di prosperità in un mondo che sta sperimentando uno stress palesemente cre­ scente". 13Infine, il terzo avvertimento nel maggio 1999: la “cre­ 27

scita spettacolare" dei prezzi azionari - aveva detto - li ha por­ tati a livelli tali che ‘per molti sono ormai di gran lunga al di sopra del giustificabile".14 Anche per lui, soprattutto per lui, Wall Street somigliava sempre più a una mongolfiera piena d'aria calda. Ma, quan­ do si vogliono ascoltare soltanto buone notizie, non si può far altro che tornare a Omero quando diceva che “gli dei acceca­ no chi vogliono perdere". Nel caso in questione, gli dei li han­ no resi anche sordi. Ogni invito alla ragione non sarebbe co­ munque servito a nulla, a riprova dell'esattezza della consta­ tazione del vecchio Galbraith, secondo cui oggi, nel mercato globale, “ci sono più investitori che intelligenza". La lunga serie dei segnali premonitori, davvero molto si­ mile ad avvertimenti mandati dal cielo, dice soltanto che l'Oc­ cidente ha raggiunto una condizione collettiva assai prossi­ ma alla demenza. Ogni evidenza è demolita da euforie in­ sensate; ogni richiamo alla ragione è stroncato o irriso, seb­ bene il suo contrario non possa reggere alla minima prova dei fatti. Il pensiero unico da “fine della storia" e “fine delle con­ traddizioni" giunge al parossismo con Michel Camdessus colui che aveva firmato la demolizione della Russia dal suo posto di gestore del “consenso di Washington" nel decennio precedente - che strilla il suo slogan da perfetto sepolcro im­ biancato: “diventare più ricchi per aiutare i poveri". Il mondo è ora nelle mani di gente portata al comando dal­ le involuzioni del caso, posta alla guida di meccanismi com­ plessi e inediti senza avere la competenza necessaria, senza alcuna legittimazione popolare, nominata da poteri altret­ tanto ciechi e incomparabilmente avidi. Nessuno ha un minimo di responsabilità morale. L'unico criterio di valutazione, con il necessario accompagnamento di un solido cinismo, resta quello del profitto corporate. Eppure sarebbe bastato prendere in mano i dati dello stes­ so Fondo monetario internazionale o quelli dell'Ocse per ve­ dere che tutti gli entusiasmi della globalizzazione americana erano mal fondati, per scoprire che le dinamiche reali smen­ tivano tutti i fondamenti teorici e pratici del pensiero unico neoliberista. Bastava prendere in esame, per capirlo, i lunghi trend invece delle euforie di breve momento. Si sarebbe visto che, nell'arco degli ultimi trentanni, la crescita media annua del Prodotto interno lordo (Pii) mondiale era andata con­ traendosi. Negli anni settanta essa era stata, mediamente, del 28

4,4% annuo. Negli anni ottanta mostrava una contrazione dav­ vero impressionante: 3.4%. Alla fine degli anni novanta era as­ solutamente probabile che si sarebbe scesi al di sotto del 3%. Sempre crescita, si dirà, ma una crescita che si contraeva pau­ rosamente. E il fatto che si contraesse riducendo l'intensità della contrazione non poteva tranquillizzare perché, riducen­ dosi le cifre percentuali, non poteva cadere a ritmo costante se non producendo una rapidissima convulsione generale. Inoltre, gran parte di questa crescita decrescente aveva co­ munque un solo indirizzo, ancora nel 1999: Wall Street, gli Stati Uniti d'America. A volerlo guardare con occhio freddo, il bilancio era dun­ que quello di un allarme rosso: contrazione dei ritmi mondiali di crescita da un lato e, dall'altro, crescita impetuosa e senza soste dell'economia americana, soprattutto della finanza ame­ ricana. Due fenomeni alla lunga palesemente incompatibili. Per giunta coniugati con uno scollamento del tutto inedito tra la crescita dell'economia reale (i cosiddetti “fondamentali") e la crescita finanziaria. Come tenere assieme queste contraddizioni? Come af­ frontare l'eventualità di un atterraggio duro? Se coloro che stavano sul ponte di comando hanno visto tutto questo (e non si può dubitare del fatto che lo abbiano visto), non avrebbero dovuto trascurare la questione di come avvertire la “genera­ zione Dow Jones 10.000" che qualcosa di spiacevole sarebbe potuto accadere. Per esempio, in primo luogo, che il livello di consumo sul quale volava la società americana avrebbe potu­ to essere improvvisamente, bruscamente, drammaticamente rimesso in discussione. Inoltre: come spiegare al resto del mondo - quando la cri­ si, la recessione, si fosse affacciata minacciosa - che non ci sa­ rebbero più state briciole per chi aspettava ai bordi del ban­ chetto perché il cibo sarebbe stato un po' più scarso di prima e gli appetiti, sulla tavola imbandita, si sarebbero fatti più vo­ raci? Già, proprio questo si sarebbe dovuto spiegare, perché chi stava al ponte di comando non era comunque in grado di affrontare la faccenda da un altro angolo visuale, quello di un nuovo ordine economico e politico internazionale basato sul­ la giustizia, sulla comune responsabilità di tutti i paesi e le culture. A questo sbocco non si era preparati. Gli anni della vittoria, dell'euforia, del pensiero unico non hanno concesso spazio a ipotesi di giustizia sociale. Ora che la crisi appare possibile, anzi probabile, si reagi­ 29

sce sulla base dell;istinto di sopravvivenza, di quel distillato di legge della giungla che ha guidato chi sta al ponte di coman­ do all'epoca delle vacche grasse. Si tratta dunque, ora, di applicare di nuovo la Tina e di co­ stringere il resto del mondo ad accettare la conclusione che non c'è altra via se non quella di mantenere, anzi accentuare, il sistema di distribuzione ineguale della ricchezza mondiale a vantaggio di un quinto dell'umanità contro i quattro quinti restanti, non in condizione di espansione ma di contrazione. Cioè in condizioni di crescente tensione politica e sociale su scala planetaria. Chi avrebbe avuto il coraggio di dire ai suoi concittadini queste verità? Quale presidente degli Stati Uniti - quand'an­ che avesse capito la situazione - avrebbe avuto la statura mo­ rale e intellettuale di fissare un appuntamento a reti unifica­ te di fronte al proprio paese, per dire che lo sviluppo, la ric­ chezza, i consumi di cui i suoi cittadini avevano goduto a pro­ fusione non potevano più essere mantenuti in quei termini e con quell'abbondanza? Chi avrebbe detto che bisognava pensare a un cambia­ mento, certo difficile, penoso ma forse realizzabile con un lar­ go consenso mondiale? Un presidente del genere sarebbe sta­ to travolto, respinto, certo non rieletto, probabilmente ucciso dal furore di un popolo che da tempo è ormai composto da consumatori piuttosto che da cittadini, un popolo mai infor­ mato sullo stato reale del pianeta e dell'America. Una spiega­ zione del genere sarebbe stata quasi impossibile già nel 1999, quando ancora l'America era sul podio di tutti i trionfi. Come sarebbe stata accolta mentre l'America si trovava essa stessa alle prese con una crisi, con una recessione o anche soltanto con un rallentamento del proprio ritmo? Lassù, sul ponte di comando, queste eventualità sono state esaminate per tempo. E si è deciso di impugnare il bastone globale di cui parlava Thomas Friedmann. Subito. Non cera da aspettare qualche anno. Lo si doveva fare prima che il tem­ po deireconomia volgesse verso il brutto. Si è scelta la piccola Jugoslavia, paese e popolo molto adat­ ti anche per compiere l'ultima, sottile vendetta contro l'ulti­ mo comunismo" sopravvissuto al centro del suolo europeo. Quella sovietici.vendetta che non è stata possibile compiere contro i Loro si erano arresi cambiando nome in russi, dicendo ad­ 30

dio agli ucraini e a tutti gli altri popoli asiatici ed europei che avevano fatto loro compagnia, magari non felici, per settantanni. Paese e popolo, la Jugoslavia, adatti dunque per compier­ vi un piccolo esperimento premonitore, in attesa di prove mag­ giori che, presumibilmente, si sarebbero dovute affrontare con gli stessi mezzi nel prossimo futuro.

2.

Fine della storia

"Il compito primario che sta di fronte all'umanità è un ra­ pido, radicale cambio di marcia dell'attuale situazione del mondo, che è sbilanciata e si sta velocemente deteriorando.” Queste parole descrivono perfettamente il quadro del piane­ ta nel giorno qualsiasi 10 settembre 2001. Borse in caduta libera in quasi tutto il mondo. La reces­ sione dell'economia americana sarebbe stata ufficialmente ri­ conosciuta soltanto a metà novembre di quell'anno (per inci­ so notiamo: dopo l'il settembre), ma venne rivelato, allora, che essa era già stata, per così dire, rilevata dall'aprile 2001, circa sette mesi prima (per inciso, notiamo: prima dell'l 1 set­ tembre). Sicuramente il ritardo è da addebitare alla preoccu­ pazione che il panico avrebbe potuto impadronirsi dei picco­ li risparmiatori, provocando una crisi ben peggiore. Ciò non­ dimeno, è impossibile astenersi dal fare tre considerazioni. La prima è che la notizia più importante del decennio è ri­ masta sconosciuta all'opinione pubblica mondiale per circa sette mesi. Ciò ha permesso ai pochi che la conoscevano di fa­ re una serie di operazioni difensive negate agli altri, come ven­ dere o comprare azioni, spostare capitali da un luogo all'altro del pianeta, cambiare valute ecc. E magari consentendo ad al­ tri, molto bene informati, di organizzare, o di lasciar organiz­ zare, attentati terroristici di dimensioni catastrofiche in cui affogare i problemi e nascondere le responsabilità. Con il sen­ no di poi verrebbe da pensare, per esempio, che i dirigenti del­ la Enron Corp., gigante mondiale dell'energia, ne sapessero qualcosa mentre si accingevano a lasciar andare in bancarot­ ta l'azienda, derubando azionisti e dipendenti in uno dei disa­ stri più colossali della storia dell'economia americana. La seconda considerazione concerne gli "8" grandi del mon­ do che si sono riuniti a Genova nel luglio 2001. Lo sapevano, loro, che la recessione americana era già cominciata? E se non 32

lo sapevano, come possiamo ancora chiamarli “grandi”? E se lo sapevano, perché hanno trascurato di comunicarlo al mondo? La terza considerazione nasce dallo stupore. Abbiamo sen­ tito magnificare, per ventanni consecutivi, la fulminea rapi­ dità con cui, nel villaggio globale, tutti sanno tutto di tutti, in tempo reale; rapidità di comunicazioni, di messaggi, di con­ sultazioni, di trasferimenti di denaro da un capo all'altro del pianeta. Ed ecco che scopriamo che sono pochi - e chi siano esattamente non sappiamo - coloro che sanno non tutto ma l'essenziale di tutti, mentre i “tutti”, cioè noi, possono non sa­ pere niente di ciò che è essenziale per la loro vita. Ma questa era solo una parentesi mecLiatica, simile alle molte altre che costellano questo scritto, perché più si guar­ da a fondo ciò che sta accadendo, più ci si rende conto che l’informazione e la comunicazione (e la loro assenza) sono decisive per capire tutto il resto. Dopo il Giappone, ormai fer­ mo al palo da quasi un decennio, anche l'America si ferma­ va. E l'Europa, a sua volta, invece di diventare la locomotiva di riserva, in attesa che l'America riprendesse a correre, ri­ maneva annaspante a bassa velocità. Alan Greenspan, il gran­ de macchinista, aveva abbassato i tassi di sconto undici vol­ te nel corso del 2001, ma la recessione non era stata scon­ giurata. La politica fiscale di George W. Bush, generosissima verso i ricchi americani, non stava producendo nessun be­ neficio in termini d'investimenti e di ripresa dei consumi. Né avrebbe potuto, visto che la disoccupazione cominciava a far sentire i suoi effetti negativi proprio sulla propensione al con­ sumo delle famiglie americane. Tutti i protagonisti erano a corto di strategie, incapaci di controllare lo sgonfiamento della bolla speculativa da loro stessi creata. Situazione incresciosa, che si sovrapponeva a un tremendo accumularsi delle due contraddizioni che il Ppu, Partito della prosperità universale, aveva occultato alla pro­ pria e altrui attenzione nei due decenni precedenti: quella sempre più lancinante tra poveri e ricchi del pianeta e quel­ la, senza soluzione all'interno della globalizzazione america­ na, tra sviluppo e natura, tra sviluppo e umanità. Il Ppu era (lo è ancora) il partito unico della futura super-società globa­ le, quello i cui membri “sono d'accordo sull'ordine del gior­ no essenziale dei liberi mercati, libero commercio, libero do­ minio della globalizzazione e della rivoluzione tecnologica”.1 Coloro cioè che sono uniti nella convinzione che, appunto, la globalizzazione è una sola, quella che già c'è, quella ameri­ cana. E che può funzionare solo come ha funzionato fino a 33

ora. E che sono convinti che adesso funzioni benissimo, per­ ché produce di più, più in fretta e per un numero sempre più vasto di persone. Peccato però, come s'è già visto, che la gran parte di quelle convinzioni fossero o false o non documenta­ bili. E quelle restanti fossero soltanto il distillato ideologico di interessi di parte. Il 10 settembre, chi avesse guardato l'orizzonte avrebbe vi­ sto, per esempio, che in tutto l'Est europeo e nell'ex Unione Sovietica il numero di persone che vivevano sotto la soglia di povertà - rappresentata da 4 dollari al giorno - era passato dai 14 milioni del 1989 ai 147 milioni della seconda metà degli anni novanta. Avrebbe visto che tra il 1990 e il 1997 c'era sta­ ta una certa crescita nell'Asia orientale e meridionale, ma avrebbe anche notato che nell'ultimo triennio solo la Cina era rimasta in crescita. Non sarebbe stato difficile registrare anche altre nuvole ne­ rissime. I ricchi si distanziavano dai poveri ad alta velocità, ma il divario tra primi e secondi cresceva molto di più nei pae­ si in via di sviluppo o emergenti, oltre che nell'Europa cen­ trale e orientale. E in questa semplice constatazione si na­ scondeva uno dei trucchi più indecorosi, consistente nel fare finta di non sapere che il Pii dei paesi in via di sviluppo, e di quelli poveri e poverissimi - a volte in crescita - non si distri­ buisce affatto tra le popolazioni. Per cui anche dove c'è cre­ scita, non è detto affatto che essa significhi diminuzione del­ la povertà. Anzi, molto spesso le cifre dicono - a chi voglia guardare - che anche la ricchezza dei paesi poveri significa soltanto ricchezza per le esigue minoranze che li dominano. E che sono, quasi sempre, molto amiche delle élite occiden­ tali con cui fanno affari e nelle cui banche depositano i mi­ liardi di dollari rubati ai propri sudditi. Le cifre globali erano da mozzare il fiato. Sei miliardi di esseri umani popolano la terra; 1,2 miliardi sono in varia mi­ sura affamati. Il presidente della Banca mondiale, James Wolfensohn, era stato costretto a riconoscere che tutti i progetti internazionali di sviluppo, come quello di dimezzare la po­ vertà entro il 2015,2 di ridurre la mortalità infantile a due ter­ zi, di dare a tutti i bambini un'istruzione primaria, erano ri­ masti in gran parte inadempiuti, carta straccia, chiacchiere. Un miliardo e mezzo di persone sulla Terra non ha acqua po­ tabile a sufficienza; circa un miliardo è completamente anal­ fabeta; 125 milioni di bambini non possono cominciare le scuole elementari; il gap informativo si estende, contraddice gli entusiasmi di Al Gore e degli adoratori di Internet; metà 34

dell'umanità vive con 2 dollari al giorno, mentre la metà di questa metà vive (si fa per dire) con meno di 1 dollaro al gior­ no. L'Afghanistan è in quest'ultimo gruppo di disperati.

Guardando un po' più in là, diciamo tra 25 anni, si po­ trebbe notare che un bambino nato oggi dovrà condividere la scarsità di aria, di acqua, di cibo, di spazio, di case, di la­ voro, di istruzione, di terra da coltivare con altri due miliar­ di di abitanti in più. Guardando ancora più avanti, di circa 50 anni, si potrebbe vedere un contadino pakistano - uno dei 345 milioni di persone che si affolleranno sul territorio di quel paese (oggi sono solo 146 milioni) - coltivare per sfamarsi 0,04 ettari di terra, meno d'un campo da tennis. Statistiche, dirà con un'alzata di spalle qualcuno degli editorialisti che pubblicano i loro distillati sulle prime pagine dei quotidiani italiani (e mondiali), prima di andare a fare una partita a ten­ nis nel club sotto casa. L'aiuto allo sviluppo erogato dai paesi ricchi ha toccato ri­ petutamente i suoi minimi assoluti negli ultimi cinquantan­ ni. Adesso i paesi industrializzati spendono meno dello 0,25% del loro Pii in questa direzione, cioè il 39% in meno di quan­ to erogassero all'inizio del 1990. Ed è come se, arricchendosi sempre di più, questi signori diventassero sempre più avari, egoisti. Cioè stupidi. Perché è solo stupidità imperdonabile non capire che comportarsi collettivamente in questo modo significa mettere a repentaglio gli interessi essenziali dell'Oc­ cidente, la sua sicurezza in primo luogo. Come dice l'antica sapienza di Israele: “L'uomo nel benessere non capisce". Ma è solo una questione dei paesi poveri? I paesi ricchi (il cosiddetto miliardo d'oro) sarebbero sollevati da questi pro­ blemi? “Nella tanto ammirata economia americana, con la sua lunga fase di boom, in cui 4 milioni di persone possono oggi definirsi milionarie (in dollari), e in cui ben 170 perso­ ne dispongono di patrimoni netti superiori al miliardo di dol­ lari, per 60 milioni di semplici lavoratori le cose non sono an­ date altrettanto bene [...]: in termini reali, detratta l'inflazio­ ne, costoro guadagnavano di più all'inizio degli anni settan­ ta [...]. E più di 17 milioni di persone, occupate a tempo pie­ no per 40 ore a settimana e 50 settimane all'anno, risultano ora al di sotto della soglia di povertà."3 Le statistiche confer­ merebbero che negli Stati Uniti c'era una situazione vicina alla piena occupazione, mentre altre cifre direbbero che non è possibile, seriamente, definire piena occupazione una si­ tuazione che comprende un numero così alto di salari sotto la soglia della povertà. Non è dunque soltanto questione di 35

Terzo mondo. Perché la povertà è qualcosa di molto più se­ rio che una faccenda di reddito. Milioni, miliardi di persone cercano non solo il proprio benessere minimo materiale: cer­ cano una prospettiva, per sé e per i propri figli. “Ciò che co­ munque non è stato ponderato per nulla, nemmeno nelle sue prime e più evidenti implicazioni, è che i rivolgimenti del turbocapitalismo, con il cambiamento strutturale accelerato che esso comporta, condannano molti lavoratori americani, di qualunque livello e qualifica, a una vita di cronica insicurez­ za economica."4 È più o meno la fotografia di tutte le società avanzate, con diversi livelli di sfasamento a seconda delle di­ verse realtà. Ciò che sta accadendo (ciò che è già accaduto, da tempo ormai, ed è diventato la norma nell'ultimo tren­ tennio, cioè da una generazione intera) è che le poche bri­ ciole in più sono sempre più spesso accompagnate da una perdita di sicurezza e di futuro. Abbiamo vissuto e viviamo dentro idee dominanti sottese da un pensiero unico brutale, da una specie di darwinismo economico in base al quale il più forte deve vincere comunque, ed è giusto che vinca an­ che quando potrebbe accontentarsi di pareggiare perché so­ lo in questo modo aumenta l'efficienza del sistema. Gli altri? Peggio per loro. Non possiamo attardarci a com­ patirli perché non garantiscono il livello minimo di effi­ cienza, essenziale per garantire il profitto. E in quest'orgia di presunto efficientismo, ci veniva comunicato, giorno do­ po giorno, che lo stato doveva essere abolito anch'esso, con le sue pastoie burocratiche, con le sue tasse, con le sue len­ tezze e inefficienze, con le sue limitazioni alla libertà d'im­ presa, con le sue pretese regolamentatrici. Anche gli stati non garantivano più i livelli di efficienza. Vanno dunque aboliti. E insieme a essi va abolita la politica e la democra­ zia: entrambe figlie degli stati nazionali, entrambe destina­ te a sparire con loro. Sembrava che non vedessero - ma non lo vedono nean­ che adesso, dopo l'il settembre, il che dovrebbe preoccu­ parci tutti - che “un'economia mondiale scissa dalla politi­ ca è un'illusione. Senza stato e senza servizi pubblici non c'è sicurezza. Senza imposte non c'è stato. Senza imposte non c'è istruzione, non c'è una politica sanitaria efficace e nep­ pure sicurezza nel campo sociale. Senza imposte non c'è de­ mocrazia. Senza opinione pubblica, senza democrazia, sen­ za società civile non c'è legittimità".5 Una deriva insensata nella cui corrente si sono lasciate trasportare anche le sini­ stre europee, senza vedere che questo avrebbe contrassegnato 36

la loro fine. I Blair, gli Schroeder, i D'Alema assumevano il ‘'pacchetto americano" senza rendersi conto che rappresen­ tava la fine di ogni dialettica democratica, ma senza neppu­ re rendersi conto che esso era già in crisi, che era un mec­ canismo illusorio, malato, folle. E tutto questo avrebbe do­ vuto dirci che non ci sarebbe stata pace per nessuno nel pros­ simo futuro. Nelle società povere così come in quelle che, in base al Pii, sono considerate ricche. Quel 10 settembre ci dice che i nostri ricchi sono diventa­ ti non solo più ricchi, ma anche più disumani, più avari, più prepotenti. Potevano pensare di essere amati, oltre che invi­ diati, ammirati? “Questa nazione - diceva Al Gore nella sua infelice e inutile campagna elettorale - è ora guardata dai po­ poli di ogni altro continente e di ogni altra parte della Terra come una specie di modello per ciò che dovrà essere il futu­ ro.”6 C'era del vero anche in queirorgogliosa notazione. C'e­ ra una società molto particolare, miracolosamente anomala, capace di assorbire tutto, di metabolizzare le contraddizioni, di moltiplicare le proprie energie attraverso una congiuntu­ ra secolare che l'ha resa serbatoio delle forze più dinamiche deH'intero pianeta. Ma Al Gore era incapace di capire che non tutto ciò che gli americani pensano vada bene per se stessi possa andare bene anche per gli altri. Proprio perché gli al­ tri, tutti gli altri, non hanno avuto in sorte - perché la loro storia concreta non lo ha permesso - di trovarsi al centro del­ la corrente. Ma non per questo si considerano inferiori, o ac­ cettano che si impongano leggi e criteri ai quali non sono pre­ disposti e che non gradiscono. Né vedeva, Al Gore, che l'am­ mirazione non coincide con l'amore. Né coglieva che domi­ nare da soli tutto il mondo significa inesorabilmente farsi dei nemici. E gli sfuggiva che un simile ruolo e una simile re­ sponsabilità - sicuramente desiderati e voluti dalla maggior parte delle élite americane - avrebbero dovuto indurre gli Sta­ ti Uniti ad assumere la guida della lotta globale contro la po­ vertà, la diseguaglianza e l'ingiustizia. Invece, Al Gore (come Clinton), Bush (come Al Gore) non erano riusciti nemmeno a individuare il problema, immenso come il debito dell'Ame­ rica nei confronti del resto del mondo. Avrebbero dovuto con­ siderare - se non fossero stati accecati dall'ideologia (intesa in senso marxiano, come falsa coscienza) - che la meravi­ gliosa performance degli Stati Uniti nell'ultimo ventennio era stata realizzata non solo grazie alle proprie qualità e alle fa­ vorevoli circostanze, ma a spese del resto del mondo che l'a­ veva pagata quasi interamente. 37

Come ricordava l'ex presidente del Costa Rica, Oscar Arias, sarebbero bastati altri 60 miliardi di dollari in più, nel de­ cennio 2001-2010, per fornire istruzione di base all'intera po­ polazione del mondo sottosviluppato.7 Ma né il G8 di Okinawa né quello di Genova sono riusciti a scalfire l'ottuso egoi­ smo dei ricchi. Certo, accanto alle cifre tremende del sottosviluppo e della povertà - sconosciute ai più, che sono stati indotti a pensare il contrario - aveva funzionato e funziona­ va a meraviglia la colossale, fantastica fabbrica dei sogni del­ la globalizzazione americana. Ma c'è sempre un momento in cui si è costretti a svegliarsi. Quelle parole, da cui abbiamo preso le mosse in questo capitolo, non sono state scritte in quel qualsiasi 10 settembre 2001. Risalgono invece al 1972 e fanno parte di quel famoso e quasi dimenticato documento del Club di Roma che aveva per titolo I limiti dello sviluppo. Hanno 30 anni, dunque, i 30 anni della follia collettiva del nostro mondo, i 30 anni della globalizzazione americana trionfante. E rappresentano il condensato della seconda con­ traddizione che sarà davanti a noi tutti, globalizzati e globalizzatori, il 10 settembre 2001. Bisogna premettere che quella previsione si è dimostrata sbagliata, nel corso di questi 30 anni. Da allora il prodotto lor­ do dell'economia mondiale è triplicato, senza che sia accadu­ to nulla di particolarmente grave. Non solo: l'Unione Sovieti­ ca era stata debellata, il comuniSmo era morto e sepolto sen­ za che sulle spiagge dell'Occidente nemmeno s'increspassero le onde. I mercati economici avevano continuato a rigurgita­ re merci, sempre di più, sempre più rutilanti, sempre più tec­ nologiche. I prezzi delle materie prime erano crollati in ter­ mini reali, facendo abbassare le pretese delle dittature del Ter­ zo mondo che, spesso, detenevano quelle materie prime. Gli scienziati del Club di Roma furono irrisi da legioni di econo­ misti molto ottimisti. Avevano dimenticato - scrissero e dis­ sero questi ottimisti - di mettere nei loro modelli di simula­ zione i parametri rappresentati dalle forze del mercato e dal­ le sue logiche. Non avevano tenuto conto del concetto basila­ re che la scarsità di un bene produce prima di tutto un au­ mento del suo prezzo, ma stimola nel contempo la ricerca di soluzioni alternative, più economiche, più efficienti. E che queste soluzioni alternative si trovano sempre, perché la ma­ no nascosta di una provvidenza laica, quella del mercato ap­ punto, interviene a fornire la risposta. Non c'era forse stata la crisi energetica nel 1973-1974? E il quadruplicarsi dei prezzi energetici che ne era seguito, non aveva forse costretto leco38

nomia mondiale a deviare verso combustibili più economici, tecnologie di risparmio energetico, automobili capaci di cor­ rere di più con consumi significativamente minori? Al crollo del Muro di Berlino il sarcasmo degli ottimisti di­ laga. La previsione del Club di Roma - collocata all'incirca ver­ so la fíne degli anni ottanta - è già smentita dai fatti. E i fatti demoliscono anche il nemico principale - l'Unione Sovietica dello sviluppo capitalistico globale sotto l'egida statunitense. I peana non si contano più, cantati sullo spartito del pensiero ormai diventato unico. Tanto unico da non lasciare più spazio alla critica, ai distinguo. È così e basta. Il comunismo non è forse stato debellato? E il comunismo non è stata forse l'unica alternativa al capitalismo nella sua intera storia? E, scompar­ sa quest'alternativa, che altro resta se non il capitalismo per omnia saecula saeculorum, amen? La storia è dunque finita, una volta per tutte, conclude Francis Fukuyama. Lo spirito he­ geliano si è finalmente consolidato nella forma globale della società capitalistica, la dialettica è terminata. L'invisibile ma­ no nascosta del mercato è scesa a benedire le nostre teste oc­ cidentali. Le altre teste, quelle che abitano nel resto del mon­ do, le avrebbe sicuramente benedette un po' dopo. Del resto, per essere franchi, quel che accade al di fuori dei confini del­ l'Occidente poco importa. E, per quel poco che ne sappiamo, altrove la situazione sembra tranquilla. Altrove ci sono selvag­ gi, ci si può andare a caccia o fare turismo sessuale. Quelli che ci sembrano meno selvaggi non desiderano altro che somigliare a noi. Non dicono tutti i sondaggi, e gli opinionisti, che i gio­ vani di Kuala Lumpur e di San Pietroburgo, di Dacca e di Li­ ma, di Buenos Aires e di Roma, di Timbuctù e di Belgrado so­ gnano soltanto di vivere a New York? Certo a qualcuno, alla lunga, verrà il dubbio che non a tut­ ti è possibile vivere a New York, e neppure come a New York. E quando se ne fossero accorti, avrebbero potuto desiderare di fargliela pagare a chi aveva raccontato la bella favola. Per­ ché è vero, assolutamente vero, che la musica americana, i iilm americani, i McDonald's e i Boeing, Hollywood e Disney, la c n n e tutto il made in u sa è stato il sale dei sogni di tutto il mondo. Ma può accadere anche a un giornalista intelligente almeno tanto quanto imperiale, come Thomas Friedman, di incontrare, in una madrasa di Peshawar, il mullah Moulana Samiul Haq e sentirsi spiegare come si possa bere la Coca Co­ la o mangiare gli hamburger di McDonald's e, nello stesso tempo, odiare l'America con tutte le proprie forze: “Perché la vostra Coca Cola è dolce, ma la vostra politica è avvelenata''.8 39

Proprio su questo punto si evidenzia un errore tragico di pro­ spettiva: TOccidente ha creduto, infatti, che i propri valori definiti appunto universali - costituissero la norma per tutti gli altri popoli e paesi, gli standard ai quali tutti gli altri avreb­ bero dovuto uniformarsi. Nel caso specifico degli Stati Uniti, questa convinzione si è estesa all'altra secondo cui l'idea stessa di felicità sulla ter­ ra che governa le menti americane dovrebbe essere condivi­ sa dal resto del mondo. E poiché, sempre per definizione, la società americana rappresenta ciò che c'è di meglio, di più moderno, di più avanzato in tutti i campi, incluso quello del Bene, si finisce per dedurre - purtroppo erroneamente - che gli altri popoli odiano l'America proprio perché la invidiano. Le cose invece sono molto più complicate, proprio come lo sono le storie e le culture dei popoli. La Russia, alla caduta del comuniSmo, era nella sua immensa maggioranza deside­ rosa di vivere come l'Occidente, di lasciarsi alle spalle il co­ muniSmo, per sempre. Ma, come si è visto in questi dieci an­ ni di post-comunismo, non desiderava essere invasa dagli spot pubblicitari americani e dal modello di vita americano. La sua idea di felicità, per fare un esempio, è rimasta molto lon­ tana da quella dell'Illinois. E quando Friedman chiede a Rahim Kunduz, dodicenne afghano rifugiato a Peshawar, cosa pen­ sa degli americani in generale, si sente rispondere: “Sono non credenti, non desiderano fare amicizia con i musulmani e vo­ gliono dominare il mondo con la loro potenza". Qui non c'è invidia, se non, forse, per la potenza militare. Il resto è rea­ zione di difesa. È difficile essere amati in mezzo a un mare di disperazione. Così Friedman saggiamente conclude: “Quan­ do torneremo [dopo l'operazione contro Osama, da termina­ re in 'fretta', prima di andarcene; N.d.A.], e dobbiamo torna­ re, dovremo essere armati con libri moderni e scuole, non con i tanks. Soltanto allora noi potremo dissodare un nuovo ter­ reno, una nuova generazione in grado di accogliere la nostra politica con l'eguale buona accoglienza che riserva ai nostri hamburger. Fino ad allora nulla di buono per l'America po­ trà crescere da queste parti".9 Il decennio che ci siamo lasciati alle spalle è stato un in­ cessante, ossessivo riprodursi dell'ideologia del pensiero uni­ co, di un neoliberismo talmente esasperato da diventare ca­ ricaturale. Le parole magiche, ripetute all'infinito come dei mantra, sono state: liberalizzazione totale dei traffici, elimi­ nazione di tutte le barriere, flusso dei capitali senza limiti, privatizzazione di tutte le proprietà statali, di tutte le attività 40

economiche pubbliche, incluse quelle che costituivano il ful­ cro del tradizionale Welfare state. Si è cercato, con ogni mez­ zo e ovunque fosse possibile, di produrre cambiamenti strut­ turali accelerati, “generando più creazione e più distruzione, più efficienza e più diseguaglianza [...]. Trasferimento del po­ tere dalle pubbliche autorità agli interessi economici privati e istituzionali. Ciò ha ridotto inevitabilmente lo spazio di ma­ novra del controllo democratico, in un processo molto accla­ mato da certi circoli libertari secondo i quali l'economia è, o dovrebbe essere, un fenomeno del tutto privato, mentre il pub­ blico non ha alcun diritto di porre sotto controllo la proprietà privata, per nessuna ragione”.10 Strumenti sovranazionali di questo progetto sono state le due istituzioni regine di Bretton Woods, il Fondo monetario internazionale e la Banca mon­ diale, cui negli ultimi anni si è aggiunto il Wto [World Trade Organization], loro parente stretto in quanto erede del Gatt [General Agreement on Tariffs and Trade]. Non a caso, que­ sti tre strumenti operativi sono esterni ed estranei alle Na­ zioni unite. Altrettanto non a caso, essi sono le uniche istitu­ zioni sovranazionali che hanno ricevuto concreti, reali pote­ ri di limitazione, di abrogazione delle sovranità nazionali dei paesi che vi aderiscono. Ma, come se già visto, non tutte le abrogazioni sono eguali tra loro. Il “consenso di Washington” ha rappresentato il grimaldello con cui la rappresentatività internazionale del sistema delle Nazioni unite è stata sman­ tellata per fare posto al decalogo della globalizzazione ame­ ricana, l'anticamera dell'Impero. L'agenda che il Club di Roma aveva scritto è arrivata al­ l'ordine del giorno con qualche decennio di ritardo, ma è sem­ pre la stessa: crescita della popolazione oltre i livelli di sop­ portabilità dell'ecosistema; crescita della temperatura del glo­ bo; crisi del rapporto tra individui e aree coltivabili; consumi d'acqua che superano le capacità riproduttive del ciclo idro­ logico; raggiungimento del limite di riproduzione delle pro­ teine oceaniche; riduzione delle foreste e progressiva deserti­ ficazione; morìa delle specie animali e vegetali. Un elenco lun­ go di trend che, se non saranno prima frenati e poi invertiti, produrranno un progressivo deteriorarsi dell'ambiente e, suc­ cessivamente, un declino economico del pianeta. “In un mondo in cui - scriveva Lester Brown - le esigenze delleconomia spingono a violare i limiti dei sistemi naturali, affidarsi unicamente agli indicatori economici per compiere scelte d'investimenti è una ricetta che produce il disastro.”11 E di nuovo gli ottimisti spiegavano che, così com'erano falli­ 41

te le previsioni precedenti, anche quest argomentazione sa­ rebbe stata negata dalla realtà. Nulla di più stupido e di me­ no scientificamente fondato: nel frattempo, infatti, proprio le nuove tecnologie, che gli ottimisti sbandierano, hanno dota­ to la scienza di sistemi di calcolo e di possibilità di modellizzazione incommensurabilmente più precisi, più attendibili di quanto non fossero quarantanni fa. Anzi, per molti aspetti, la quantità di dati, informazioni, serie statistiche che allora non erano disponibili permettono ora di vedere che alcune delle estrapolazioni di allora sono oggi di gran lunga più gravi di quanto si pensasse e si temesse. Per fare un solo ma significativo esempio, ora sappiamo che lo stato degli ecosistemi oceanici è di gran lunga più gra­ ve di quanto pensassimo appena due o tre anni fa. Secondo l'Associazione americana per l'avanzamento delle scienze, sia­ mo di fronte a un “catastrofico collasso delle riserve ittiche del pianeta". La produttività degli oceani è “già oggi sei volte mi­ nore di cinquantanni fa”, mentre “l'intensità delle attività di pesca è cresciuta di tre volte nello stesso periodo di tempo e il raccolto di pesce è crollato più della metà''. Con il risultato che il mondo dei ricchi sta “mascherando la propria crisi” di approvvigionamento, pagando i pescatori di altri oceani per garantire il proprio livello di consumi, anche a costo di dila­ pidare le risorse dei loro ecosistemi.12 Gli ottimisti a oltranza, gli inventori del miracolo econo­ mico mondiale non si sono resi conto che se non si comincia a ridisegnare il sistema economico non sarà possibile il pro­ gresso economico. E che la scelta è tra costruire un'economia mondiale sostenibile oppure andare avanti alla cieca, come si sta facendo, fino a quando la crescita comincerà a ridursi da sé. E che bisogna agire molto in fretta, perché i contraccolpi saranno tanto più catastrofici quanto più si perde tempo. E che saremo poi costretti a intervenire in condizioni così dete­ riorate che le modificazioni sugli equilibri del pianeta saran­ no irreversibili e ricadranno sulle generazioni future. Agli esegeti della globalizzazione americana non passava neanche per l'anticamera del cervello l'idea che uno sviluppo a crescita indefinita, con le curve che s'impennano esponen­ zialmente, fosse destinata a entrare in conflitto, prima o poi, con le cose reali, con gli uomini reali che non hanno le virtù dei grafici e dei bit e non prevedono impennate, asintoti, infi­ niti. Economie senza uomini non ne esistono. Qualcuno avreb­ be pur dovuto cavalcare quelle curve. E quando esse avessero puntato agli infiniti, ne sarebbero uscite scintille di fuoco per­ 42

ché si sarebbero violate, insieme, tutte le ecologie umane, le storie collettive, le tradizioni dei popoli. Gli asintoti non pro­ ducono pace quando sono trasferiti dalle lavagne universita­ rie alla vita concreta della gente. Ma l'opinione corrente dice­ va che l'Occidente era il meglio, anzi che l'America era il me­ glio del meglio e a noi, anche a noi europei, non restava altro da fare che seguirla, il più in fretta possibile, perché altrimenti saremmo stati battuti anche noi, ricacciati nel Terzo mondo, inesorabilmente. E dunque l'imperativo categorico era fare co­ me l'America: per non restare indietro in una competizione af­ fannosa tra stati, popoli, culture e civiltà. I segnali avrebbero dovuto mettere in guardia l'Occidente. Se non l'America, troppo impegnata a rimirarsi allo specchio, almeno l'Europa che non aveva molto di cui gloriarsi ma, in compenso, disponeva di un passato abbastanza lungo da con­ sentirle di soppesare le differenze fra la profondità e la len­ tezza delle correnti della storia e le bollicine di superficie. In­ vece l'Europa correva anch'essa, trascinata, sospinta, sballot­ tata. Sinistre comprese, tutte, senza eccezione, subalterne al­ le stesse categorie, proprio mentre quelle categorie di moder­ nizzazione mostravano la loro debolezza strategica. A sinistra soprattutto si sarebbe dovuto capire che la crescita economi­ ca, nelle condizioni della globalizzazione americana, comporta un aumento e non una diminuzione delle diseguaglianze. E nessuno a sinistra si è preoccupato di spiegare come mante­ nere elevata la crescita nel corso del tempo, sempre che essa vi sia realmente. Tanto meno nessuno a sinistra ha cercato di spiegare perché mai, da quale parte del meccanismo, avreb­ be potuto a un tratto apparire qualcosa capace di ridurre le diseguaglianze invece di farle aumentare ancora di più. Sarcasmo della storia! Meno di dieci anni prima il sistema sovietico era crollato sostanzialmente perché incapace di pre­ vedere l'innovazione. Dieci anni dopo, coloro che avevano ce­ lebrato quel crollo non riuscivano a vedere che dentro il mec­ canismo globalizzatore all'americana non cerano correttivi del­ l'innovazione. Che l'innovazione, lasciata a se stessa, poteva produrre mostri. E quindi non riuscivano a capire - nemme­ no loro, come i membri del Politburo del Pcus - che occorre­ va riformare il capitalismo, un'altra volta. Questa volta senza fare ricorso alla paura del nemico, ma motu proprio. Ma loro, i leader della socialdemocrazia, insieme agli ex comunisti e agli anticomunisti, così come avevano sostenuto che il comuniSmo non era riformabile, hanno continuato a ripetere che nemme­ no il capitalismo era riformabile. 43

Ci voleva un cantore del capitalismo globale - americano, lucido, spregiudicato - per spiegare alla sinistra europea do­ ve conduce la globalizzazione americana. “Ovunque la logica del turbocapitalismo è che nulla debba intralciare il passo al­ l'efficienza economica, né l'ostruzionismo delle regole di un governo, né le consuetudini, né gli interessi inveterati, né il sentimento di solidarietà verso i meno fortunati, né i privile­ gi arbitrari, né l'umano senso di stabilità. Nulla deve infatti ostacolare la concorrenza, che basta da sola a imporre l'effi­ cienza, impoverendo chi è meno efficiente: individui, azien­ de, industrie, regioni e paesi, talvolta simultaneamente.''13Del resto, concludeva sarcasticamente Luttwak, “per quel tipo di sinistra, che ormai rappresenta ovunque la sinistra dominan­ te, magistralmente esemplificata da Tony Blair, l'unica verità è lo slogan dei presidenti delle banche centrali: l'inflazione è la più crudele delle tasse".14 Così, tutti a inseguire l'idea di un mondo dove le nazioni corrono tutte insieme su una pista. Tutte nella stessa direzio­ ne, “per massimizzare le performance". Senza capire che que­ sta è una corsa truccata, perché non c'è nessuna misura di quella performance, che sarebbe poi la competitività delle na­ zioni. Lo spiegava perfettamente Giorgio Ruffolo, uomo mo­ derato ma evidentemente troppo di sinistra per essere ascol­ tato da questo tipo di sinistra. Vogliamo scegliere, per questa misura, il saldo della bilancia dei pagamenti correnti? Se fa­ cessimo questo, vedremmo subito che “l'economia america­ na, con il suo mostruoso deficit esterno, sarebbe la meno com­ petitiva del mondo". Se si pensa a una gara non truccata, al­ lora i risultati del mercato (alta produttività, elevato tasso d'in­ novazione tecnologica ecc.) devono essere armonizzati con al­ tre componenti “che assicurano la coesione sociale; la forma­ zione, la salute, il lavoro, la sicurezza, oggi l'ambiente". E “lo stabilire i termini di questa combinazione è responsabilità po­ litica della collettività [...] e non può essere affidato alle im­ perscrutabili leggi del mercato".15 Ma la musica di fondo che risuonava perennemente, orwellianamente, nelle nostre teste era un'altra: che la storia era davvero finita e che la guerra al­ la povertà - come aveva detto l'ineffabile Fukuyama - era “fi­ nalmente stata vinta, una volta per tutte: con la sconfitta dei poveri". Valeva la pena di perdere tempo ancora con questo vecchio problema, così poco moderno? Così lo spettacolo è andato avanti, nell'ultimo decennio, sempre più veloce, più fantastico, più vorticoso. Anche per­ ché, nel frattempo, gli impresari hanno perfezionato la pro­ 44

duttività delle macchine di sogni oltre ogni immaginazione. L7nformation-Communication Technology l'avevano adottata - in questo caso sì, con formidabile lungimiranza - fin dal­ l'infanzia. Di fronte alla loro produzione, a quei progetti così brillanti e luminosi, non poteva trovare posto nessun mena­ gramo. Gli avvertimenti degli dei finirono nella pattumiera, anche quelli fragorosi del migliaio di morti a Giakarta, delle dieci esplosioni nucleari non preventivate fra India e Pakistan, del crollo del rublo e del reai brasiliano. Il Fondo monetario internazionale (quella singolare congrega di alieni che rap­ presenta perfettamente il ceto medio della futura super-società globale) continuava a girare il mondo, senza mai uscire dagli Hotel Sheraton a cinque stelle, predicando dovunque la stes­ sa ricetta universale e producendo rapporti in cui si lodava, per esempio, la “continua, impressionante performace ma­ croeconomica della Corea del Sud e della Thailandia''. Senza neppure ricordarsi, in quel clima di leggerezza di controlli, di euforie insensate, di plateali incompetenze, di vere e proprie megatruffe che, in nome della deregulation globalizzante, cer­ te imprese coreane avevano ricevuto cento lire d'investimen­ ti esteri per ogni lira di capitale. Su quei mercati si erano ri­ versati trilioni di dollari di capitali speculativi di origine più o meno decorosa, più o meno pulita. E le tigri asiatiche, così piaceva chiamarle, si erano gonfiate come palloni. Del resto, se si era gonfiata Wall Street, perché non dovevano gonfiarsi anche Seul, Bangkok, Singapore, Kuala Lumpur? Così, in questo clima davvero vicino al delirio, si era giun­ ti al 10 settembre 2001. Tutto, apparentemente, sembrava an­ dare per il meglio, ma non era così. Quattro anni prima il de­ mocratico Clinton aveva aperto il G8 di Denver, nel Colorado, parlando con grande enfasi del “secolo americano". Alle spal­ le aveva sette anni di una spettacolare crescita dell'economia statunitense, con milioni di americani diventati azionisti di qualcosa che dava dividendi in crescita pazzesca. Quattro an­ ni dopo il repubblicano Bush andava a Genova dettando di nuovo l'agenda dei lavori, ma il quadro era drammaticamen­ te cambiato. Era finita la spinta propulsiva della crescita ame­ ricana. Gli Stati Uniti avevano bisogno di convincere il resto del mondo a sostenere di nuovo la crescita americana, men­ tre nel decennio precedente il resto del mondo non desidera­ va altro che essa continuasse, e non aveva quindi alcun biso­ gno di essere convinto, o forzato. I pilastri, logici e politici, su cui Clinton - e con lui l'America - aveva prosperato, non c'erano più. Cosa restava, il 10 settembre 2001? Restava l'im45

menso potere militare e tecnologico degli Stati Uniti. Resta­ vano le posizioni di controllo dei principali sistemi di comu­ nicazione. Restava l'impressionante controllo del sistema me­ diático. Restava un totale dominio sull'intera architettura fi­ nanziaria globale. Era sufficiente tutto questo per garantire l'egemonia americana? Per garantirla a lungo? Forse, ma era ormai evidente che sarebbe stata necessaria una certa dose di coercizione. E in seguito si sarebbe visto quanto grande sia stata questa dose. Ma Bush avanzava subito nuove dottrine strategiche secondo cui l'America non avrebbe più negoziato con alcuno la propria sicurezza nazionale. Ci si preparava cioè a un'unilateralità americana a 360 gradi. Niente più negozia­ ti sul disarmo, in questa logica, ma crudo e unilaterale adat­ tamento dei sistemi d'arma e delle forze armate alle esigenze difensive americane e successiva comunicazione dei risultati al resto del mondo, alleati compresi. Si vedeva anche una certa fretta. Bush, portato al potere da forze molto importanti dell'establishment statunitense - la lobby energetica - sembrava agire come se avesse previsto tem­ pi che si restringono. I primi scricchiolii cominciavano a far­ si sentire. L'America doveva prepararsi ad appuntamenti dif­ ficili e doveva garantirsi anzitempo una superiorità assoluta. Questo atteggiamento avrebbe messo in crisi il suo sistema di alleanze? Ebbene, peggio per il sistema di alleanze. Era l'i­ deologia della destra mondiale che saliva al potere. Aveva però le fattezze della continuità, perché tutte le sue premesse neoliberiste erano state create dal predecessore Clinton. Sfuggiva, certo, alle sinistre europee - ma forse non sfug­ giva ai grandi potentati finanziari e tecnocratici - che nulla di buono poteva venire dal dato che riporta il rapporto dei red­ diti del quintile (20%) più ricco del pianeta rispetto al quinti­ le più povero e che registra una crescita da 1:30 nel 1960all'l:78 del 1994 e all'1:84 del 1999. E avrebbero dovuto provare qual­ che inquietudine sapendo che il patrimonio dei primi dieci miliardari del mondo (secondo “Fortune"), pari a 133 miliar­ di di dollari nel 1996, si era avvicinato ai 200 miliardi nel 2000: 1,3 volte il reddito nazionale aggregato annuo dei 48 paesi più poveri del mondo. Una delle due corde, quella della crisi sociale del mondo, è già molto tesa. Lo è anche l'altra corda, quella della crisi de­ gli equilibri naturali: non è ancora altrettanto visibile. Presto la vedremo. Come la chiameranno ancora non si sa. La pri­ ma adesso la chiamano “scontro di civiltà". Qualcuno non è d'accordo; dice che non è vero, che non è uno scontro di ci­ 46

viltà, dice che è uno scontro sociale. Ma, dato che sui due la­ ti della barricata i combattenti sono ormai convinti di soste­ nere uno scontro di civiltà, penso che sia bene adottare que­ sta espressione perché rende magistralmente l'idea di ciò che sta accadendo. Cosa significasse, prima del suo apparire, non era affatto chiaro: infatti, il pensiero unico si è ingegnato, lun­ go tutti questi ultimi anni, a convincere il mondo intero che nulla sarebbe potuto accadere, che tutto andava bene e sa­ rebbe andato bene per sempre. Adesso sappiamo che signifi­ ca 11 settembre 2001.

3.

Ma che guerra è?

Era dunque necessaria, prima dell’11 settembre, una dra­ stica, drammatica correzione di rotta. Una modificazione net­ ta dei valori fondanti la civiltà occidentale, la più forte del pia­ neta, Tunica dotata della forza necessaria per guidare un cam­ bio depoca capace d'influenzare in modo decisivo il corso del mondo intero. Gli Stati Uniti erano il punto al tempo stesso più alto e incommensurabilmente più forte di questa civiltà. A essi spettava questo compito e a ciò si accinsero. Avrebbero potuto avviare un tentativo - davvero storico per il suo valore intellettuale e culturale - di ridisegnare tut­ ti i rapporti di un mondo diventato insopportabilmente dise­ guale, pericolosamente instabile sia sotto l'aspetto delle con­ traddizioni sociali sia sotto quello delle contraddizioni fra uo­ mo e natura. Qualcosa di simile a una Bretton Woods, ma in­ comparabilmente più difficile e dalle conseguenze davvero planetarie. Ridurre le differenze di ricchezza tra Nord e Sud del pianeta; costruire un grande compromesso tra le civiltà e le culture del pianeta; dare vita a nuove istituzioni sovranazionali per la govemance delle grandi sfide globali che fron­ teggiano l'umanità. In sintesi, cominciare a costruire un nuo­ vo ordine mondiale basato sull'eguaglianza dei diritti delle nazioni e sul riconoscimento comune della necessità di uno sviluppo sostenibile. In realtà, era questa la scelta che si erano trovati di fronte dieci anni prima, con la perestrojka di Gorbaciov. Si era aper­ to allora un processo straordinario di rinnovamento di tutti i rapporti internazionali. La crisi dell'Unione Sovietica aveva prodotto un grande travaglio, ma anche un nuovo pensiero. Risultati importanti erano già stati ottenuti, con le conferen­ ze di Vienna e di Parigi, con il processo di pace per il Medio Oriente, con i progetti per l'eliminazione delle armi nucleari, di quelle chimiche e batteriologiche, con la limitazione degli 48

esperimenti nucleari. Si sarebbe potuto continuare su quella strada, in quella direzione? Io credo di sì. Invece la leadership americana, con il presidente Clinton, si mosse in un altra di­ rezione. Si poteva portare ordine, un nuovo ordine mondiale, del quale l'America fosse la guida, capace di guardare ai pro­ blemi del mondo nell'ottica dell'interesse e del bene comune. Ma forse una simile prospettiva era troppo estranea al mo­ dello americano, fondato sul benessere, l'efficienza, la con­ correnza, schemi di comportamento in cui non c'è posto per il bene comune. C'è piuttosto spazio per una grande, spesso feroce, conflittualità. Invece di immaginare un possibile nuo­ vo ordine mondiale, basato sulla saggezza e sul compromes­ so tra popoli e culture, si guardò pragmáticamente a un mon­ do di spinte anarchiche, a un'anarchia globale che solo gli Sta­ ti Uniti avrebbero potuto dominare con la loro forza. Appena eletto alla presidenza degli Stati Uniti, Clinton nominò James Woolsey direttore della Central Intelligence Agency. E quan­ do questi fu chiamato in Senato a esporre le proprie idee in materia di sicurezza nazionale, la sua battuta campeggiò nei titoli di tutti i giornali. L'America, disse, ha sconfitto il drago­ ne, ma è ora entrata in una foresta piena di serpenti velenosi. Per effetto di questa posizione, le nuove linee della politi­ ca di difesa degli Stati Uniti - apparse nel 1992 - puntarono subito a impedire a chiunque altro l'accesso allo status di gran­ de potenza; a ostacolare l'ascesa di qualunque futuro compe­ titore globale; a dissuadere anche gli alleati più solidi, i paesi industriali avanzati, l'Europa, dall'intraprendere qualsiasi ten­ tativo di contestare o anche solo di limitare la leadership ame­ ricana. “Subentrò in molti circoli occidentali l'euforia della vittoria, tanto più gradita quanto meno prevista. Si perse tem­ po prezioso nelle infinite celebrazioni del trionfo sul comuni­ smo. E si perse di vista la complessità del mondo, i suoi pro­ blemi, le sue gravissime contraddizioni. Si dimenticò la po­ vertà, l'arretratezza, ci si preoccupò di ricavare il massimo vantaggio dagli squilibri esistenti invece di cercare di ridurli, di controllarli. Ci si dimenticò della necessità di costruire un nuovo ordine mondiale, più giusto di quello che ci si era la­ sciati alle spalle. Così, nel decennio appena finito, si è accesa una miccia, e l'l 1 settembre ha portato il fuoco all'esplosivo. Quel giorno è stato anche, in un certo senso, il prezzo terribi­ le di un decennio perduto."1 Più che perduto, consapevolmente dilapidato. Restava l'al­ tra alternativa, l'unica che era stata lungamente preparata, pianificata: condurre avanti, a qualunque costo, quali che fos­ 49

sero le circostanze, la globalizzazione americana. Cioè pro­ lungare lo stato di benessere per quei ceti dominanti negli Sta­ ti Uniti che avevano prima intravisto e poi colto i vantaggi del­ la fine del mondo bipolare. Da qui il decalogo, le prove di guer­ ra in Irak e in Jugoslavia. In realtà da lassù, dal ponte di co­ mando, si era previsto un appuntamento più lontano nel tem­ po: quello con la Cina, individuata come la futura, grande an­ tagonista. Lo sarebbe diventata - dicevano i calcoli del Pen­ tagono - attorno al 2017. La sua crescita economica, demo­ grafica, tecnologica, militare indicava circa ventanni di tem­ po per poterla condizionare, assorbire, contrastare, all'occorrenza combattere. Non si poteva certo giungere imprepa­ rati a quella scadenza. La Cina era già, alla metà degli anni novanta, lunico paese al mondo in grado di prendere deci­ sioni senza chiedere il permesso a nessuno, Stati Uniti inclu­ si. Si doveva dunque neutralizzarla al più presto o, in alter­ nativa, prepararsi a fronteggiarla. E la prima cosa da fare, per non perdere tempo, era allargare il divario tecnologico-militare a tal punto da renderlo insuperabile per un tempo mol­ to più lungo. Anche questo era il significato del progetto di scudo spaziale riesumato dai tempi reaganiani, prima da Clin­ ton e poi, con maggior decisione, da George Bush. Gli staticanaglia erano nient'altro che dantesche donne dello schermo. Ci si preparava, ci si prepara, a contrastare la Cina con stru­ menti di cui essa non avrà l'equivalente nemmeno nel 2020. Ma questi calcoli presupponevano che la locomotiva ameri­ cana e la sua globalizzazione continuassero indefinitamente. Cosa che, peraltro, era uno dei presupposti del pensiero uni­ co neoliberista. Invece ecco che l'economia americana entra in recessione proprio durante il 2001. E nessuno riesce a ca­ pire di che crisi si tratti, se sarà lunga, se sarà profonda, se sarà una crisi ciclica o, come qualcuno dei più saggi aveva av­ vertito, sistemica. Ed ecco che i tempi si fanno improvvisa­ mente stretti. La scelta radicale non può più essere procra­ stinata. Manca, per una decisione definitiva, l'autocoscienza dell'Impero. L'l 1 settembre la produce. Del resto, la sorpresa è stata relativa. Ci si era preparati a quel tipo di eventualità, e da molto tempo. Come si sarebbe presentata l'eventualità nessuno avrebbe saputo predire, per­ ché coloro che progettano azioni terroristiche di quelle di­ mensioni non sono gli stessi che cercano d'impedirle. Ma, per così dire, gli uni e gli altri ragionano, per forza di cose, sulla stessa lunghezza d'onda, usano criteri simili. A volte sono co­ sì vicini da essere contigui, ma di solito questo lo si scopre 50

molti anni dopo, addirittura decenni dopo, quando i giochi sono fatti e gli archivi si possono aprire, anche se si preferi­ rebbe che restassero chiusi per sempre. Ci si era preparati, dunque. Da quel lontano 1991 in cui si celebrò la prima guerra post-sovietica, quella contro l'Irak, battezzata con il nome di Tempesta nel Deserto e qualificata come operazione di polizia. L'operazione Desert Storm comin­ ciò la sera del 16 gennaio 1991. Le prime informazioni sugli eventi bellici parlarono di intensi bombardamenti su molti obiettivi iracheni. I programmi televisivi di tutto il mondo fu­ rono interrotti per fare spazio alle immagini della guerra, tut­ te fornite dal Pentagono, e mostravano le nuove meraviglie della tecnologia americana. Le fonti ufficiali dissero che mis­ sili e aerei erano partiti dalle basi nella regione, in Arabia Sau­ dita, Bahrein e altri stati del Golfo Persico. Altri raid avevano preso avvio da navi e portaerei dislocate nel Golfo e nel Mar Rosso. Ma le cose non erano andate esattamente così. Cioè, per essere precisi, non soltanto così. “Quindici ore prima del­ l'inizio dei raid su Baghdad, una squadriglia di sette b - 52g , bombardieri di lungo raggio, era decollata dalla base della u s a f di Barksdale, in Louisiana, per quello che sarebbe stato defi­ nito, in seguito, come il più lungo raid aereo della storia del­ l'aviazione mondiale.''2 Gli aerei volarono sulla costa est degli Stati Uniti, attraversarono l'Atlantico, passarono sulla Spa­ gna, sorvolarono da ovest a est l'intero Mediterraneo, viraro­ no sullo spazio aereo egiziano e, da qui, sullo spazio dell'Ara­ bia Saudita. Neppure per un minuto volarono sul territorio iracheno. Ma fecero partire, costeggiandolo, 35 missili Cruise aria-terra su otto obiettivi iracheni. Dopo aver completato la missione fecero una virata di 180 gradi e tornarono alla ba­ se di Barksdale. “L'intera operazione durò 35 ore, su una di­ stanza di 14 mila miglia, con un certo numero di rifornimen­ ti in volo da parte di aerei cisterna che operarono da basi in Spagna e nelle Isole Azzorre." Un'operazione - rileva l'autore della ricostruzione - che presenta “tre caratteristiche notevo­ li. La prima fu la sua lunghezza (la prima, vera dimostrazio­ ne di potenza aerea davvero globale in tempo di guerra); la se­ conda data dalle armi usate. Si trattò di missili Cruise che era­ no - a differenza dei Tomahawk usati dalla Marina nel corso della stessa guerra del Golfo - originariamente costruiti per portare a bersaglio bombe nucleari ed erano stati modificati per portare testate esplosive convenzionali ad altissimo po­ tenziale. La terza caratteristica: il raid fu interamente speri­ mentale. Gli stessi obiettivi avrebbero potuto essere colpiti con 51

missili Cruise lanciati da bordo delle navi che facevano rotta attorno alle coste irachene".3 Del raid - che ebbe il nome in codice di Operazione Scoiattolo - non fu data notizia che al­ cuni anni dopo. Un piccolo esperimento che dimostrava la possibilità degli Stati Uniti di colpire qualsiasi parte del mon­ do, partendo dal proprio territorio, senza avere praticamente bisogno di nessuno. Si preparavano ad agire da soli. L'Impe­ ro era ancora in fasce, ma aveva già le stigmate. La guerra contro l'Irak fu anche, sotto un altro profilo, la prima guerra a estensione temporale arbitraria. Infatti è prose­ guita, a singhiozzo ma senza interruzione, per un decennio, condotta da Stati Uniti e Gran Bretagna senza alcuna legitti­ mazione internazionale. Come esperimento non si può dire che abbia ottenuto molto, salvo un milione e mezzo di morti, gran parte dei quali bambini, vittime di un embargo che ha colpito soltanto la popolazione civile. Ma quella guerra, vista dall angolo visuale di un impero nascente, aveva un difetto es­ senziale. Per essere lanciata ha avuto bisogno del consenso di un Unione Sovietica ancora in vita, seppure per pochi mesi ancora. E questo fu ottenuto a un prezzo: che le Nazioni uni­ te la legittimassero. L'altro punto debole era rappresentato dal­ l'Europa: recalcitrante, incerta nell'appoggio, alleato infido che si trincerava dietro gli statuti della Nato per evitare di com­ piere fino in fondo il proprio dovere. Occorreva dunque un'al­ tra prova di forza, che consentisse di togliere di mezzo tutti gli ostacoli in vista delle prove future. Ed ecco la guerra uma­ nitaria contro la Jugoslavia. Costruita con una sapiente mae­ stria - vera svolta mass-mediatica, all'altezza dei film holly­ woodiani che, con straordinaria sintonia, venivano prodotti per raccontare di guerre costruite negli studi televisivi - 4 la guerra jugoslava trascinò per i capelli l'Europa, sul proprio territorio, la sottopose al comando imperioso di Washington, non lasciò spazio alcuno di manovra. La Nato fu costretta a cambiare il proprio statuto. Il 24 aprile 1999, con i bombar­ damenti sulla Jugoslavia in corso, il vertice atlantico di Wa­ shington decideva all'unanimità (e come avrebbe potuto es­ sere altrimenti?) di cambiare finalità e natura, si autoinvestiva della funzione di gendarme mondiale. Gli articoli 5 e 6 del suo Statuto, che delimitavano l'uso della forza ai casi di dife­ sa collettiva contro l'aggressione perpetrata ai danni di un membro dell'alleanza, venivano modificati. La Nato allarga­ va a proprio piacimento i limiti della propria competenza ter­ ritoriale, prevedendo esplicitamente interventi fuori dall'area, cioè lontano dai confini dei suoi stati membri, fino ai limiti 52

del pianeta intero. Atto sovrano unilaterale dei potenti del mondo: letteralmente decidevano di occupare uno spazio giu­ ridico che nessuno aveva loro assegnato. E, nello stesso tem­ po, colpo durissimo contro l'articolo 51 della carta dell'Onu sulla legittima difesa. Non più soltanto autodifesa contro un'aggressione militare, ma spazio senza limiti a un inter­ vento contro un'illimitata serie di minacce alla sicurezza dei 19 paesi membri: terrorismo, ovviamente, ma anche crimi­ nalità organizzata, sabotaggi, interruzione di approvvigiona­ menti, movimenti migratori, violazione di diritti umani, di­ sgregazioni di stati considerate pericolose per i paesi vicini e lontani, rivalità etniche, religiose, politiche, contrasti econo­ mici, riforme fallite. Per ognuno di questi problemi veniva in­ trodotto per la prima volta il criterio di una possibile rispo­ sta militare. La guerra veniva elevata a mezzo legittimo per la soluzione delle crisi di ogni genere: economiche, sociali, politiche e religiose. In un altro mio libro, scritto in quel 1999, mentre ancora i bombardamenti della Nato piovevano sulla Jugoslavia, avevo definito quella guerra come una “guerra preventiva", in pre­ visione di una grave crisi.5 Il ponte di comando stava pren­ dendo davvero il comando delle operazioni, guardando avan­ ti nel tempo. E siamo finalmente giunti alla guerra afghana, come epilogo della lunga fase preparatoria e, al tempo stesso, come nuovo paradigma delle guerre future. Difficile da defi­ nire, perché inedito. Si è cominciato con il definire il tutto co­ me guerra contro il terrorismo intemazionale. Ma non bastava. Si è passati in fretta a proclamare l'inizio della Terza guerra mondiale. Ma gli stessi frettolosi inventori di slogan hanno presto capito che non era un nome adeguato. Infatti sarebbe stata la Quarta guerra mondiale, perché dopo la prima e la se­ conda c'è stata la Guerra fredda che, come adesso ben sap­ piamo, è stata una guerra vera, combattuta su molti campi di battaglia, da milioni di uomini, molti dei quali armati con ar­ mi vere, molti di più armati di penne, matite, telecamere, com­ puter, telefoni e tutto quanto fa notizia e la diffonde. E corso tanto sangue, con milioni di morti. Ed è corso anche tanto in­ chiostro, pellicola cinematografica, nastri televisivi e radiofo­ nici. Le armi tradizionali hanno colpito forse addirittura me­ no delle fortezze volanti televisive, della portaerei gigante de­ nominata CN N . Dunque perché chiamare questa nuova guer­ ra mondiale la Terza? La fantasia dei giornalisti, dei creatori d'immagine, si rivelò in quel caso debole. L'imperatore e i suoi aiutanti provarono anche loro a defi­ 53

nire questa guerra e la battezzarono, con un fantastico lapsus linguae, “Giustizia infinita”. Poi si corressero, sotto la pres­ sione degli ultimi fuochi della ragione, in America e fuori. Ma la voce dal sen fuggita aveva già spiegato il senso di ciò che stava accadendo. L'Impero più materialistico mai inventato dall'uomo cercava di costruirsi un'autolegittimazione reli­ giosa. Solo chi si sente unto da Dio può parlare in termini in­ finiti. Vendetta infinita. Contro il nuovo “diavolo”, il terzo proposto all'esecrazione del mondo intero, dopo Saddam Hus­ sein, Slobodan Milosevic. Ora Osama bin Laden. Tre in dieci anni, un diavolo per ogni guerra. Il nuovo Impero nasce già santo, dopo avere compiuto tante opere di bene. Una per ogni vittoria, una per ogni bombardamento. Poi le oscillazioni ter­ minologiche dell'amministrazione si arrestano su un testo più modesto: “Giustizia duratura”. Lascia aperto il cuore alla spe­ ranza che, prima o poi, finirà, anche se sarà lunga. Ma biso­ gna credere all'imperatore, e al suo vice Dick Cheney, quan­ do ci avvisano che questa guerra “non finirà presto”, oppure quando proclamano, seriamente, che “non finirà in questa generazione”. Il che equivale a dire, a noi che ascoltiamo, che moriremo tutti in guerra. Cioè che moriremo mentre una guerra è in corso. Certo che è difficile definirla! Perché è una guerra che non è stata dichiarata da nessuno, anzi che non siamo nemmeno sicuri se possa essere definita guerra. Specie dopo che Donald Rumsfeld, il vero eroe dell'operazione afghana, ci ha spiega­ to che i prigionieri taleban e membri di Al Qaeda non sono da considerare prigionieri di guerra, ma “criminali combattenti anomali”. Dunque non possono essere applicate per loro le norme della Convenzione di Ginevra. Ma non sono neanche dei normali criminali, magari imputati di strage di fronte a una normale giustizia americana. E infatti non sono stati trat­ tati né come prigionieri di guerra né come criminali comuni, nel qual caso si sarebbero dovute applicare le norme previste dal codice penale statunitense. Questo, forse, spiega perché ai prigionieri di questa guerra indefinibile non è stata garantita nemmeno la vita. Salvo a coloro che si riteneva potessero es­ sere portatori di notizie, cioè utili. Tant'è che molti sono sta­ ti semplicemente massacrati. Quanti? Non lo sapremo mai, perché in questa guerra l'unica cosa che non se vista è la stastatistica dei morti, civili e militari. E la frase che più fre­ quentemente si è ascoltata è: “Prendeteli, vivi o morti”. Anche sotto questo aspetto lo stato di diritto è stato derogato, di­ menticato. Dignitosi intellettuali della sinistra liberal hanno 54

trovato normale mettersi a discettare, sulla sussiegosa “Atlan­ tic Review” (ma se n'è parlato su diverse catene televisive ame­ ricane, in decine di talk-show), sull'opportunità di ripristina­ re la tortura per costringere questi indefinibili nemici a rive­ lare i segreti di Al Qaeda. Sì, è difficile definirla, questa guerra senza regole. E senza un fronte. Si combatterà, in tante forme diverse, praticamen­ te dappertutto. Dove si presenterà il nemico, sebbene questa sia anche una guerra senza un nemico. Ma - qualcuno dirà il nemico è il terrorismo. Purtroppo, che cosa sia il terrorismo nessuno è in grado di dirlo con esattezza. E chi ci prova fini­ sce per cadere in contraddizioni insanabili e molto pericolose, in un mondo come questo, dove gli stati - e gli Stati Uniti in prima linea - sono stati essi stessi organizzatori di svariate for­ me di terrorismo. Noam Chomsky è andato a scovare una de­ finizione di terrorismo in un manuale militare americano. E ha trovato: “Terrore è l'uso calcolato della violenza, o della mi­ naccia della violenza, per ottenere scopi politici o religioso­ ideologici attraverso l'intimidazione, la coercizione o instil­ lando paura''.6 Discreta definizione, può andare bene in prima approssimazione. È, del resto, simile a quelle adottate in alcu­ ne risoluzioni delle Nazioni unite. Allora seguiamo Chomsky nella sua ricostruzione delle vicende che accompagnarono e seguirono la guerra scatenata da Reagan contro il Nicaragua. “Il Nicaragua non rispose. Essi non risposero mettendo bom­ be a Washington. Essi risposero chiamando Washington a di­ fendere il proprio operato davanti al Tribunale intemazionale [...]. Non ebbero difficoltà a trovare le prove. Il Tribunale le ac­ cettò, deliberò in loro favore, [...] condannò ciò che essi ave­ vano denunciato come uso illegale della forza', che è un altro modo per definire il terrorismo intemazionale, [...] intimò agli Stati Uniti di porre fine al crimine e di pagare massicci inden­ nizzi. Gli Stati Uniti, ovviamente, respinsero con sdegno la sen­ tenza della Suprema corte e annunciarono che da quel mo­ mento non ne avrebbero più riconosciuto la giurisdizione. Al­ lora il Nicaragua si rivolse al Consiglio di sicurezza delle Na­ zioni unite. Che emise una risoluzione invitante tutti gli stati a osservare le leggi internazionali. Nessuno fu nominato, ma tutti compresero. Gli Stati Uniti misero il veto alla risoluzio­ ne. Ed essi sono oggi l'unico stato che ha dovuto subire una condanna del Tribunale internazionale e che, al tempo stesso, ha posto il veto su una risoluzione del Consiglio di sicurezza che esortava gli stati a osservare le leggi intemazionali. Allora il Nicaragua andò oltre e si rivolse all'Assemblea Generale del55

FOnii, dove non esiste tecnicamente un meccanismo di veto, ma dove un voto negativo degli Stati Uniti equivale a un veto. E l'Assemblea approvò una risoluzione analoga [a quella del Consiglio di sicurezza] con il voto contrario soltanto degli Sta­ ti Uniti, di Israele e del Salvador. L'anno successivo di nuovo [si votò in Assemblea], e questa volta gli Stati Uniti raccolsero soltanto il voto di Israele [...]. A quel punto il Nicaragua non poteva fare nient'altro di legale. Aveva tentato tutte le strade. Ma esse non funzionano in un mondo governato dalla forza."7 Del resto, risulta difficile accettare una guerra contro il terrorismo internazionale, alla quale partecipino attivamen­ te, come alleati degli Stati Uniti, colpiti dal terrorismo inter­ nazionale, alcuni stati e governi che sono stati tra i principa­ li organizzatori di quel terrorismo che ha colpito gli Stati Uni­ ti, i quali, a loro volta, sono stati tra i principali organizzatori di quel terrorismo che li ha colpiti. Saranno dunque tanti, i nemici. Diversi l'uno dall'altro: terroristi, amici dei terrori­ sti, ma anche coloro che attentano agli interessi politici ed economici degli Stati Uniti. Quanti? Decine, centinaia, mi­ gliaia? Nel suo discorso sullo Stato dell'Unione, il 29 gennaio 2002, George W. Bush ha deciso di fermarsi alle “decine di migliaia". Per far fronte a queste moltitudini, occorre davve­ ro una guerra infinita. Bisogna quindi credere a Bush e a Cheney quando la minacciano. È proprio a ciò che stanno pen­ sando. Dal loro punto di vista, che è quello dell'Impero, è l'u­ nica cosa che possono fare. Resta da chiedersi se sia un pun­ to di vista saggio. Altrove ho già cercato di spiegare che non lo è, ma le spiegazioni non bastano. Guerra asimmetrica, è stato anche detto. Bella espressio­ ne, questa sì che è chiara! Sarà così, infatti. In molti sensi lo sarà, così come quasi tutto ciò che è stato detto di questa guer­ ra è carico di sensi molteplici. Asimmetrica perché in ognu­ no dei luoghi fisici in cui sarà scatenata avrà una forma di­ versa. In Afghanistan con i bombardieri, i missili, gli elicot­ teri, quasi come una guerra vera, perfino con le truppe ame­ ricane che scendono a terra, toccano il suolo nemico, spara­ no e uccidono premendo il dito su grilletti veri, anche se non muoiono quasi mai. Tutti Achille, invulnerabili e possenti, ca­ richi di aggeggi tecnologici. Se vengono colpiti è un caso, per­ ché anche i loro talloni sono ben protetti. Se muoiono è per­ ché hanno osato, come Diomede, combattere contro gli dei, contro la fortuna. Se cadono i loro aerei, i loro elicotteri, non è il nemico a colpirli. È perché si sono guastati. In Afghani­ stan sono morti, fino a un certo punto, più giornalisti stra­ 56

nieri che soldati americani. L'asimmetria afghana è consisti­ ta nella possibilità di utilizzare alcuni eserciti mercenari che combattevano per conto terzi, cosa che, del resto, hanno sem­ pre fatto. Ecco perché in Afghanistan i soldati statunitensi hanno potuto scendere a terra, a differenza che in Jugosla­ via, dove sono rimasti sempre a 15 mila piedi d'altezza. Si è potuto quindi debellare il nemico, coniugando bombe dal­ l'alto, tecnologia, alleati dal basso, mercenari dell'Occidente, anzi dell'America. I mujaheddin hanno svolto prima una par­ te del lavoro sporco. C'erano abituati avendola fatta contro gli occupanti sovietici, poi gli uni contro gli altri, infine con­ tro i taleban. I quali, a loro volta, avevano fatto una guerra sporchissima contro i mujaheddin per conto del Pakistan, del­ l'Arabia Saudita, degli Emirati Arabi Uniti, insieme alle com­ pagnie petrolifere Unocal e Delta Oil. Eppure, nonostante que­ sta storia fosse risaputa, non ci è stata risparmiata, nemme­ no questa volta, la retorica dei liberatori della mitica “Alleanza del Nord" che arrivano a Kabul portando la libertà, cioè to­ gliendo il burqa alle donne e la barba agli uomini. Clamoro­ se scemenze, oltre che bugie, l'una e l'altra notizia, che han­ no però campeggiato su tutti gli schermi televisivi e su tutte le prime pagine dei giornali di tutto il mondo civile. Questa guerra è dunque “asimmetrica". Altrove non ci sarà neppure bisogno di bombardare dall'alto. Tanto meno di man­ dare soldati sul terreno. Agiranno i governi locali (come nel­ lo Yemen), o i signori locali (come in Somalia), spaventati o comprati, o l'una e l'altra cosa insieme. Altrove, come nelle Fi­ lippine, si stanno già sperimentando operazioni congiunte, dove ai contingenti dei signori locali si affiancano piccoli grup­ pi di guastatori americani, operatori dell'intelligence, corpi speciali, gruppi di diversione, varie task force. Mentre scrivo queste righe i primi 250 soldati americani sono già sbarcati nella base filippina di Zamboanga, sull'iso­ la di Mindanao, per avviare l'operazione Balikatan (che vuol dire spalla a spalla), una “bonifica" (si noti la terminologia del Pentagono) delle isole prospicienti di Basilan e Jolo, dove è segnalata la presenza dei guerriglieri di Abu Sayyaf. Formal­ mente si tratta di un'esercitazione militare congiunta, poiché si vuole evitare la protesta delle opposizioni. In sostanza - co­ me sarcasticamente ha spiegato un portavoce militare filip­ pino - “saranno wargame con obiettivi viventi".8 C'è un'altra dimensione asimmetrica: le truppe americane sono arrivate nella Georgia di Eduard Shevardnadze. Putin ha ingoiato anche questo rospo, dopo aver assistito all'ingresso 57

degli americani in Uzbekistan, Tagikistan, Kirghizia e, forse, anche in Turkmenistan. Non è escluso, infatti, che vicino al deserto del Karakum, da qualche parte, segretamente, ci sia la bandiera a stelle e strisce. Saparmurad Nijazov, sopranno­ minato dai sudditi Turkmenbashi (“padre di tutti i turkmeni"), non vuole guai e preferisce restare defilato ma è assai diffici­ le che possa aver resistito alle pressioni di Washington e alle allettanti prospettive che potrebbero derivare dalla rete di oleo­ dotti in partenza dal suo paese, attraverso l'Afghanistan “ame­ ricanizzato”, verso il Golfo Persico. Anche qui si tratta, per ora, soltanto di 200 “consiglieri” statunitensi, insieme a eli­ cotteri da trasporto e a vario equipaggiamento. Quanto basta per far esplodere l'indignazione di tutta la stampa russa. “Il troppo è troppo,” ha scritto un commentatore di solito molto filo-americano. E, con lui, quasi tutto lo schieramento, dal­ l'estrema destra all'estrema sinistra, ha levato alti lai contro l'espansione americana ormai dentro il cortile di casa. Shevardnadze ha trattato con Washington. Putin lo ha sa­ puto dal Dipartimento di stato, a cose decise. Cosa sono ve­ nuti a fare gli americani ai confini russi? Quanto resteranno? L'argomento di Washington è franco e laconico: siamo venu­ ti perché ci hanno chiamati. L'argomento di Shevardnadze è l'altra faccia della medaglia: li abbiamo chiamati perché ci aiu­ tino a combattere i terroristi, gli stessi che utilizzano la gola del Pankisi come retrovia per colpire la Russia in Cecenia. È evidente a tutti che i georgiani non hanno nessuna in­ tenzione di aiutare i russi contro i ceceni. Non l'hanno fatto ieri, non si vede perché dovrebbero farlo adesso. In realtà, l'aiuto americano sarà usato assai presto contro i due seces­ sionismi che dilaniano la Georgia dalla fine dell'Unione So­ vietica: quello dell'Ossetia del Sud (che vuole associarsi alla Federazione Russa unificandosi con l'Ossetia del Nord) e quel­ lo ben più preoccupante dell'Abkhazia (che è rimasta indipendente dalla Georgia in questi ultimi nove anni con l'aiuto dei militari di Mosca). Il gioco degli Stati Uniti è quello di pro­ mettere a Shevardnadze la riunificazione del paese in cambio di mano libera contro i terroristi. Washington e Tbilisi avranno il proprio tornaconto. Mo­ sca, da tutto questo, non ne ricava niente. La sua reazione, espressa dal ministro degli Esteri Igor Ivanov, è stata gelida: “Mosca ha ben fondate preoccupazioni che un coinvolgimen­ to diretto di soldati statunitensi nella battaglia contro il ter­ rorismo in Georgia potrebbe complicare ulteriormente la si­ tuazione nella regione”. Ma i russi non possono opporsi alla 58

mossa di Tbilisi e Washington. Impotenza allo stato puro. Il Cremlino non può offrire niente a Tbilisi. Washington offre invece, a un paese al collasso economico, qualcosa come 64 milioni di dollari per equipaggiare e istruire quattro batta­ glioni di 300 uomini ciascuno, un piccolo esercito di 1200 uo­ mini, muniti di armi leggere, veicoli, sistemi di comunicazio­ ne. In più, Shevardnadze ha già in tasca la promessa di eli­ cotteri, carri armati, blindati, artiglieria pesante. Così la Geor­ gia diventa un appendice militare degli Stati Uniti: insieme agli armamenti, infatti, arrivano consiglieri e istruttori mili­ tari americani permanentemente stazionanti nel paese. Solo un cieco può non vedere che molte di queste cose ser­ viranno assai più contro l'esercito della soi-disant repubblica di Abkhasia che contro i ribelli islamici di Cecenia. Putin non è un ingenuo e neppure un cieco, ma pensa che sia meglio per lui fìngere di non essersene accorto. Che questo atteggiamen­ to gli convenga davvero è un'altra questione alla quale non è facile dare una risposta. Forse pensa che, per ora, è meglio la­ sciar fare agli americani e ottenere la sconfitta definitiva del­ la guerriglia cecena. Poi si vedrà, quando i tempi saranno mi­ gliori. Certo è che Mosca ha già subito una lunga serie di af­ fronti e non è chiaro se sia afflitta da masochismo o se pre­ pari una vendetta di lunga prospettiva. Per ora, non può fare altro che piegarsi al vento del più forte. La guerra asimmetrica dell'imperatore contro il terrorismo intemazionale procede con questa caratteristica: dopo ogni “vittoria", restano le basi militari americane e si stabilisce una dipendenza politica diretta da Washington. Così è stato in Ko­ sovo; così succede nello Yemen, dove arrivano i consiglieri americani; così nelle Filippine, dove l'esercito statunitense è già in azione; così più discretamente in Sudan, dove la lea­ dership locale, per non contrariare Washington, si prepara a fare quanto le sarà dettato. Adesso tocca alla Georgia, che non ha scelta. Semmai, i georgiani dovrebbero finalmente comin­ ciare a chiedersi se è questa l'indipendenza che volevano quan­ do hanno inneggiato a Gamsakhurdia eleggendolo trionfal­ mente presidente. Chissà se a Tbilisi c'è ancora qualcuno che ha voglia di ricordare questa storia. In ogni caso, è una storia che a Washington non interessa. Ai vinti non si chiede il per­ messo. La guerra globale richiede una presenza globale. L'im­ peratore non può fidarsi dei vassalli: deve mandare dovunque i suoi uomini, a controllare la situazione. Tutte queste guerre, grandi, medie, piccole, le operazioni segrete, gli assassinii individuali sono davvero come dei war59

game, con la caratteristica che saranno in pochi a giocarseli. Noi potremo vedere soltanto una piccola parte, come è avve­ nuto a partire dalla guerra del Golfo o quella jugoslava, fino alla guerra afghana. Gran parte del gioco avverrà nel silenzio totale, al riparo da sguardi indiscreti. Saranno covert actions, ciascuna con il suo bravo nome in codice, autorizzate dal­ l'Imperatore in persona. Con il piccolo dettaglio che non ci sarà più pazio per le libertà e i diritti individuali e collettivi in una strategia di questo tipo. Altrove entreranno ancora in fun­ zione altre task force, nel più completo segreto, alla caccia di organizzazioni che agiscono all'interno di ogni stato. Avran­ no la più completa collaborazione dei servizi segreti locali, ma non è affatto detto che la chiederanno. Ed è ancora meno cer­ to che chiederanno il permesso a qualcuno. Perché l'Impero ha giurisdizione su tutto il pianeta e potrà inseguire i suoi ne­ mici “fino al cesso", come ha sentenziato Rumsfeld. Già, pro­ prio così. Perché l'Impero ha bisogno di nuove regole. E poi­ ché non vi sono più altri luoghi o istituzioni per definirle, che non sia il centro stesso dell'Impero, allora è l'imperatore in persona (come di seguito esamineremo in dettaglio) a decre­ tarle, per completare, riassumere e sistematizzare il decalogo. Queste nuove regole comportano la fine delle sovranità di tut­ ti gli stati, eccetto quello dell'imperatore stesso (almeno fino a quando la nuova super-società globale non diventerà matu­ ra a sua volta), la fine di ogni legalità internazionale, perché non si potrà più parlare di legalità internazionale se il piane­ ta intero sarà sottoposto alla giurisdizione dell'Impero. E l'Im­ pero avrà di fronte a sé soltanto un problema, per quanto nuo­ vo e complesso, di ordine pubblico. Vivremo tutti in “stati-fortezze transnazionali in cui sia la libertà delle democrazie sia la libertà dei mercati [verranno] sacrificate sull'altare della sicurezza privata". Un'evoluzione ormai “fin troppo prevedibile".9 Ecco perché perfino la Nato che, fino a ieri, sembrava il baluardo delle libertà di tutto l'Oc­ cidente, di fronte al quale tutti gli europei facevano a gara per inchinarsi, è stata messa da parte nella guerra afghana sen­ za alcun complimento. Perché l'Impero non ha bisogno di comprimari, di eguali, con cui consultarsi e condividere re­ sponsabilità e decisioni. Il nuovo impero riconosce soltanto vassalli e valvassori. Le­ zione formidabile per quei paesi dell'Europa orientale che han­ no fatto di tutto per entrare sotto questo ombrello, ritenendo che fosse il modo migliore per diventare membri a pari diritto nella comunità intemazionale dei più forti. Adesso si accorge­ 60

ranno che anche questo ombrello è stato gettato alle ortiche. Tanto è evidente che l'Impero, non avendo più bisogno della Na­ to (ma fingerà di averne), è ora disposto a farvi entrare perfino la Russia, nuovo vassallo (almeno nei suoi calcoli). La guerra è dunque il mezzo (il bastone globale) per un fi­ ne preciso: continuare la globalizzazione americana, costi quel che costi. C'è un solo problema da risolvere: l'imperatore e i suoi uomini sembrano avere un orizzonte politico e cultura­ le molto ristretto. È più o meno quello delle élite che inten­ dono difendere. Sembrano non accorgersi delle immani con­ traddizioni che hanno di fronte, insuperabili anche nel caso di infinite vittorie in una guerra infinita. Sono le contraddi­ zioni che ho già ampiamente illustrato nei capitoli preceden­ ti: quella tra ricchi e poveri del pianeta (i primi in diminuzio­ ne assoluta e relativa, ma sempre più ricchi; i secondi in cre­ scita continua e impetuosa) e quella tra lo sviluppo indefini­ to di quest'economia impazzita e gli equilibri del pianeta. Il fatto è che l'Impero può anche vincere, ma a un prezzo enorme di morte e di sterminio per miliardi di individui. Nes­ suno è garantito da questo pericolo. Forse quei cento o duecento milioni di eletti (non eletti da nessuno) della super-società globale possono pensare alla so­ pravvivenza, a una via d'uscita per se stessi e per le loro fa­ miglie. Per gli altri, per chi pensa o spera che sia possibile e auspicabile un'altra vita diversa e contrapposta a quella in cui “riprendere a fare shopping” (espressione dell'imperatore in persona), c'è una sola via di salvezza: organizzarsi per impe­ dire la guerra dell'Impero. Senza sottovalutarlo. Le parole di Rumsfeld non sono - sebbene lo sembrino - smargiassate, van­ terie senza contenuto dell'ubriaco che s'incontra al bar. Que­ ste parole sono pronunciate da uomini che hanno deciso di usare il potere senza limiti di cui sono dotati. Bisogna credere a queste parole. E la condizione prelimi­ nare per potersi difendere. Tutti gli elementi a nostra disposizione confermano una brusca sterzata strategica e un'accelerazione bellica inequi­ vocabile. A sei mesi dai tragici eventi dell' 11 settembre, i prepara­ tivi dell'attacco contro l'Irak sono diventati plateali, sebbe­ ne ancora imbozzolati nei linguaggi lubrificati della diplo­ mazia. Il tempo trascorso non ha lenito il dolore dell'uomo della strada americano, non ha diminuito la sua paura, non ha aiutato i suoi leader nella ricerca di soluzioni diverse dal­ la Superguerra. 61

“L'inazione non è un'opzione/' dice Bush l'11 marzo 2002 ai rappresentanti esteri radunati sul prato della Casa Bian­ ca per sostenere le sue bandiere. È uno spettacolo colorato, organizzato per le televisioni di tutto il mondo, a mostrare di nuovo, come il 7 ottobre 2001, l'“eccezionale ampiezza" dello schieramento che sostiene l'Impero nella sua lotta con­ tro il terrorismo internazionale. “L'America sta consultando i suoi amici e alleati circa il modo di affrontare il più gran­ de dei pericoli." Si riferisce al viaggio di Cheney, comincia­ to l'il marzo a Londra, verso un allora segreto numero di stati del Medio Oriente e del mondo arabo e musulmano, per cercare consensi (improbabili) e per minacciare i recalci­ tranti nell'imminenza di un attacco in grande stile contro l'Irak. “Contro un simile nemico non esiste immunità - aveva esclamato Bush davanti alle bandiere dei vassalli - e non vi può essere neutralità." Le forme sono ancora rispettate (la decisione, si fa capire, non è stata ancora presa), ma è evidente che l'attacco all'Irak è già stato pianificato nelle sue modalità essenziali. Si tratta solo di definire i dettagli e predisporre le pedine sulla scac­ chiera. Nel frattempo, alla Boeing si lavora a ciclo continuo per produrre missili in tale quantità da riempire i depositi svuotati dalla guerra afghana. Saddam Hussein, si sa, non è il mullah Omar. Mentre questo libro va in stampa, è già pronto il primo armamentario delle argomentazioni a sostegno del­ l'offensiva. Il compito di illustrarlo al mondo, come al solito, è affidato al grillo parlante Tony. Per il momento non si fa cen­ no a una responsabilità dell'Irak negli attentati terroristici dell' 11 settembre. Del resto, proprio tra febbraio e marzo del 2002, un documento della Cia aveva ribadito la certezza qua­ si totale che l'Irak non fosse implicato nell'operazione. Ma, siamo franchi, chi si può fidare della Cia? Comunque, a scan­ so di equivoci, a Tony Blair è detto di concentrare tutta la sua vis polemica contro le armi di distruzione di massa che, se­ condo il giudizio di Washington, Hussein ha a disposizione. È la tesi di Kissinger: Saddam dev'essere punito, ucciso o de­ posto perché è un nemico pericoloso e irriducibile degli Sta­ ti Uniti. Stabilito questo, altre motivazioni non sono più ne­ cessarie. L'unica differenza tra Blair e Cheney - hanno riferi­ to i giornali - sta nel fatto che l'ospite americano non ha alle spalle un'opinione pubblica da gestire (essendo all'87% total­ mente favorevole a ogni azione bellica), mentre il suo anfi­ trione europeo vuole “gestire i sentimenti del pubblico" e spie­ 62

gare perché si va alla seconda grande tappa della guerra asim­ metrica: quando si deve cominciare una guerra non gradita alla gente normale, bisogna “trattarla", manipolarla, “con­ quistare la sua anima". E il sistema mediático mondiale è già pronto alla bisogna. Sarebbe utile dimostrare che Saddam Hussein non accetta in alcun modo le ispezioni sul proprio territorio. Questo di­ ce Blair, lasciando intendere che forse, se l'Irak accettasse le ispezioni, si potrebbe andare a vedere le sue carte. Ma da Wa­ shington era già arrivata la mossa preventiva per impedire anche questo piccolo diversivo: le verifiche - aveva fatto sa­ pere un “alto funzionario del Dipartimento di stato" - do­ vranno essere senza limiti di tempo e di luogo, tali praticamente da prevedere una presenza internazionale (leggi ame­ ricana e britannica) massiccia sull'intero territorio dell'Irak. Più o meno la stessa condizione che la Nato pose a Milosevic per far fallire il negoziato di Rambouillet. Come scrive Mi­ chael Gordon, a Washington “temono che Saddam userà que­ sti argomenti per trascinare a lungo le deliberazioni delle Na­ zioni unite e stemperare la spinta all'azione militare" degli Stati Uniti. È per questo che “si alza il livello del tipo di ispe­ zioni da ritenere accettabili".10 Insomma, la guerra si deve fare e in fretta finché - come ha scritto Kissinger - l'effetto della vittoria sui taleban è ancora attivo. È inutile perdere tempo in manfrine diplomatiche, in sceneggiate teatrali. Gli Stati Uniti hanno deciso. L'Asse del Male non è un'espres­ sione retorica. Si comincia con Baghdad, poi toccherà agli altri, in un ordine che al momento non è possibile compila­ re, non per ragioni politiche - che ormai contano sempre me­ no - ma per ragioni tattiche, pratiche, pragmatiche. Bisogna sapere se ci sono armi e vettori a sufficienza, dove collocar­ li, come organizzare la ricognizione elettronica, quali Qui­ sling da piazzare eventualmente al comando al posto dei lea­ der spodestati o uccisi, quali alleati sul terreno comprare o convincere. Sono i preparativi abituali di una guerra. Nel ca­ so specifico, i commentatori servizievoli usano descriverli co­ me “saggezza", “moderazione", “consultazione degli alleati" ecc. In realtà, tutta la fase preparatoria che i mass media oc­ cidentali hanno presentato come “momento di riflessione, di ponderazione" non serve tanto a decidere “se" eliminare Sad­ dam Hussein ma “come" eliminarlo. Resta il problema del “quando". La sua soluzione (forse sarà già avvenuta quando il lettore scorrerà queste righe) di­ 63

pende da una molteplicità di fattori che non è qui possibile scandagliare perché sono ovviamente segreti. Ma non sarà un “quando” lontano perché, come dice Kissinger, bisogna uti­ lizzare la massa d urto accumulata nella rincorsa, l'impeto del successo sui taleban, il fattore sorpresa sugli alleati. E non basta: nei preparativi occorre fin d'ora inserire - an­ che per stemperare il clima d’isteria generale che nuovamen­ te si va costruendo - altre modificazioni strategiche che do­ vranno accompagnarci nei passi successivi di questa guerra infinita. Tra queste modificazioni emerge, per la sua impo­ nenza concettuale, la nuova “impostazione nucleare'' degli Sta­ ti Uniti d'America, quella che è stata ellitticamente definita “Nuclear Posture Review” (Npr). È una svolta di proporzioni pari a quella della denuncia unilaterale del Trattato Abm del 1972. È motivata con gli stessi argomenti del lupo che accu­ sa l'agnello, a valle, di intorbidirgli l'acqua del torrente. Le vec­ chie idee - dice il documento segreto del Pentagono che qual­ che buontempone preoccupato ha deciso di far pervenire ai giornali americani nel marzo 2002 - sono “incompatibili con la flessibilità ora richiesta agli Stati Uniti nel pianificare le for­ ze loro necessarie''. Così, allo stesso modo, gli Stati Uniti han­ no bloccato ogni miglioramento della Convenzione sulle ar­ mi biologiche, così hanno fatto nei negoziati sulla riduzione degli armamenti in tutte le direzioni. La nuova dottrina nucleare - che qualche commentatore ha definito della “distruzione unilaterale assicurata'', per di­ stinguerla dalla “mutua distruzione assicurata'' che ci salvò dalla guerra atomica nel corso della Guerra fredda - prevede tra gli obiettivi elencati la Russia e la Cina. Fin qui nulla di nuovo. Si era avuta l'impressione - leggendo i giornali - che la Russia fosse ormai diventato un alleato strategico sicuro. Invece non è così. Anzi: la Russia è ora minacciata di un “pri­ mo colpo nucleare'', invece che di un “colpo nucleare di ri­ sposta'', com'era previsto dalla precedente dottrina. La Cina, come s'è visto, non è ancora considerata come una potenzia­ lità offensiva, ma la si potrebbe colpire con armi nucleari in caso di “un confronto militare sullo status di Taiwan''. En­ trambi sono paesi nucleari dotati di forze strategiche inter­ continentali, ma non è mai accaduto che una crisi politica, an­ che di significato regionale, potesse essere trattata con armi nucleari. Adesso, con la nuova Npr, questo è possibile. Gli altri obiettivi potenziali della Npr sono, se possibile, perfino più curiosi. La lista comprende la Libia, la Siria, l'Irak, l'Iran, la Corea del Nord. Gli ultimi tre paesi, come noto, 64

fanno parte dell'Asse del Male. Cos'hanno in comune questi cinque stati? Non sono dotati di arma nucleare. Per giunta, tutti e cinque sono firmatari del Trattato di non proliferazio­ ne delle armi nucleari. Si dà il caso, inoltre, che nel 1978, per incoraggiare altri stati del pianeta a non procurarsi armi nu­ cleari, Unione Sovietica, Stati Uniti e Gran Bretagna (Francia esclusa, Cina esclusa) hanno firmato un impegno solenne a non usare armi nucleari nei confronti di paesi non nucleari, a meno che uno di essi avesse scatenato un attacco in com­ pagnia o alleanza con un paese nucleare.11 C'è stato perfino un grande progresso nel 1995, quando le tre precedenti po­ tenze nucleari (l'Unione Sovietica non c'era più, ma fu la Rus­ sia a impegnarsi), cui si sono aggiunte la Francia e la Cina, hanno ribadito tutte insieme l'impegno di rafforzare il Trat­ tato di non proliferazione (che aveva una durata di venticin­ que anni). Nell'aprile di quello stesso anno, una solenne riso­ luzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite ha cer­ tificato l'intesa, alla quale hanno portato il loro contributo le dichiarazioni di 182 paesi non nucleari. La nuova Npr significa dunque, com'è evidente, la fine del Trattato di non proliferazione. E annuncia un piano quaran­ tennale per costruire e sviluppare nuove armi nucleari. Sono previsti nuovi vettori e piattaforme di lancio, basate a terra, nel mare e nel cielo (tra le altre varianti, c'è anche la milita­ rizzazione dello spazio cosmico), da costruire secondo sca­ denze fissate al 2020, 2030, 2040, con progetti di diversifica­ zione delle testate e delle potenze, degli usi tattici e strategi­ ci. Il che implicherà inevitabilmente la ripresa degli esperi­ menti nucleari. Inutile aggiungere che tutto ciò produrrà una corsa generalizzata al riarmo nucleare e costringerà anche al­ tri paesi oggi non nucleari a cercare l'arma fatale. Come ha detto il ministro della Difesa indiano, George Fernandez: “Pri­ ma che un qualsiasi paese possa sfidare gli Stati Uniti, dovrà dunque procurarsi preventivamente l'arma nucleare''.12 Stiamo andando dunque verso un'epoca in cui le armi nu­ cleari e quelle convenzionali, indifferentemente, saranno con­ siderate alla stessa stregua, come mezzi per rispondere a “inat­ tese minacce" e come “sistemi offensivi d'arma" che potran­ no essere utilizzati separatamente o in attacchi combinati. “Si­ stemi nucleari e non nucleari d'attacco - è scritto nel docu­ mento della Npr - possono colpire la macchina da guerra del nemico e così contribuire alla sconfitta dell'avversario e alla difesa degli Stati Uniti e dei loro alleati". Teoria? Chi ha scrit­ to il documento ha in mente obiettivi precisi. “Armi nucleari 65

potranno essere impiegate contro obiettivi in grado di resi­ stere ad attacchi non nucleari (per esempio bunker in profon­ dità e impianti di armi biologiche).”13 Così, piano piano, cominciamo a capire meglio cosa vole­ va dire Rumsfeld quando annunciava che “stiamo entrando in un nuovo periodo, molto pericoloso, della storia america­ na”. Quello dove gli Stati Uniti devono “fronteggiare due sfi­ de importanti. La prima è vincere la guerra distruggendo le reti dei terroristi. La seconda è quella di prepararci per la pros­ sima guerra, una guerra che potrebbe rivelarsi molto dissi­ mile [...] da tutte le guerre del secolo scorso”. “Nei prossimi decenni dovremo affrontare minacce che oggi ci sembrano [...] inconcepibili.”14 Tanto per cominciare, dunque, la pros­ sima guerra irachena potrebbe già essere nucleare. Tutto di­ penderà dalla profondità dei bunker di Saddam Hussein.

4.

Dove nascono i tifoni

“Ita finitima sunt falsa veris, ut in praecipitem locum non debeat se sapiens committere.” Il falso è così vicino al vero che il saggio non deve arrischiarsi su un passaggio pericolo­ so, dice Cicerone. Ma si potrebbe, per l'incipit di questo capi­ tolo, scegliere anche Montaigne: “Mi si fanno odiare le cose verosimili quando mi vengono date per infallibili". Pochi giorni dopo l'il settembre abbiamo saputo, in rapi­ dissima successione, un'enorme quantità di cose che erano del tutto sconosciute il 10 settembre. In particolare, sembra che tut­ te queste cose le abbia improvvisamente scoperte anche chi, per esigenze professionali, avrebbe dovuto saperle già da tempo. Parlo ovviamente dei servizi segreti occidentali e, in primo luo­ go, della Cia e dell'Fbi e dell'altra ventina di servizi segreti de­ gli Stati Uniti, seguiti, tutti insieme (meglio sarebbe dire ac­ compagnati) dal Mossad israeliano che, sia detto per inciso, è sempre stato la più preziosa fonte d'informazione su questa ma­ teria. Quasi sempre, con qualche eccezione, perché il Mossad ha fatto sempre il suo gioco e non quello degli altri, inclusi gli Stati Uniti. Si veda il caso di Jonathan Pollard, dipendente del­ la Marina americana, condannato all'ergastolo nel 1986 per spionaggio a favore d'Israele. Quello fu, probabilmente, un in­ cidente così grave da non poter essere occultato. Ma altri ve ne sono stati, in vario modo risolti per vie diplomatiche, senza che venissero alla luce. Storia lunga e complicata, come tutte le fac­ cende dei servizi segreti. Qui interessa invece seguire cosa è accaduto nelle vicinan­ ze temporali dell' 11 settembre, prima e dopo. Ciò che faticosa­ mente trapela solleva molti, inquietanti interrogativi. Secondo “Le Monde", che cita il caporedattore di “Intelli­ gence Online", Guillaume Dasquié, i servizi di controspionag­ gio statunitensi avrebbero “catturato ed espulso quasi 120 israe­ liani". Vi sarebbe un rapporto di sessantuno pagine, datato giu67

gno 2001, redatto da una task force congiunta della Dea (Drug Enforcement Agency), dell'Ins (Servizio Immigrati), dell'Fbi e del servizio inchieste della Us Air Force. Negli Stati Uniti ope­ ra un piccolo esercito di informatori. Di cosa si stanno occu­ pando? Non è reso noto. Subito dopo TU settembre filtra, molto confusamente, la notizia dell arresto di una sessantina di agenti israeliani negli Stati Uniti. La rete tv Fox manda in onda un inchiesta in quat­ tro puntate nel programma “Cari Cameron Investigatesi, inte­ ramente dedicata allo spionaggio israeliano negli Stati Uniti. L'inchiesta suscita una vampata di smentite durissime dall'ambasciata israeliana e da numerose organizzazioni ebraiche. La Fox ritira immediatamente dal suo sito Internet tutti i materiali legati al caso e rifiuta di fornirli all'inviato di “Le Monde" che chiede di esaminarli. Ma il quotidiano francese riesce a otte­ nere il testo scritto della trasmissione. Cameron racconta di “140 israeliani che si facevano passare per studenti dell'Uni­ versità di Gerusalemme o dell'Accademia delle belle Arti Betzalel. Costoro cercarono di entrare in contatto con funzionari della Dea, dell'Fbi e di altre agenzie e di penetrare nei loro edi­ fici". Tutto molto strano e niente affatto chiaro. È evidente - di­ ce Cameron in trasmissione - che il Mossad sappia molto più di quello che, eventualmente, ha comunicato ai colleghi ame­ ricani. Uno dei giornalisti intervistati dalla Fox dice testual­ mente: “Alcuni rapporti confermano che il Mossad ha manda­ to dei rappresentanti negli Stati Uniti per avvisarli, prima dell' 11 settembre, dell'imminenza di un grosso attentato terroristico". Occorrevano 120 rappresentanti del Mossad per informare gli Stati Uniti? E perché mai travestirli da studenti? La faccenda è assai più intrigante di questi modesti interrogativi preliminari. “Le Monde" riesce a procurare, oltre al transcript della tra­ smissione di Cameron, anche il rapporto del giugno 2001 con­ segnato al ministero della Giustizia. Se ne ricava che molti de­ gli “studenti" avevano un passato militare nei servizi segreti. Al­ cuni entravano e uscivano frequentemente dagli Stati Uniti, molti erano legati a società israeliane high tech, come Amdocs, Nice e Retalix. Più di un terzo di questi “studenti", che hanno toccato 42 città americane, ha dichiarato di risiedere in Flori­ da. Almeno cinque di loro sono stati intercettati a Hollywood, due a Fort Lauderdale. Il che direbbe poco, se non fosse che - considerando le ri­ sultanze delle indagini sui kamikaze dell' 11 settembre - alme­ no dieci dei terroristi avevano preso domicilio in Florida, altri a Hollywood, altri proprio a Fort Lauderdale. L'America è gran­ 68

de, le coincidenze sono fantastiche. Fanno pensare che il Mossad (o qualche spezzone “deviato" del Mossad) fosse assai be­ ne informato dei movimenti dei terroristi, con largo anticipo. E che li seguisse passo passo. Come mai non ha informato i servizi segreti americani?1 Il Diavolo Osama ha delle spie fin nell'infemo dei suoi pen­ sieri. Potremmo continuare con gli interrogativi. Lo farò nel prossimo capitolo. Intanto, procediamo con il nostro ragiona­ mento. Abbiamo saputo, per esempio, che i dirottatori-kamikaze erano venti. Diciannove sono defunti insieme alle circa tremi­ la vittime civili che hanno provocato. Del presunto ventesimo, vivo e arrestato, sotto processo in un tribunale statunitense, par­ leremo più avanti. Le loro identità sono state scoperte. Per me­ glio dire, sono stati scoperti i nomi sui loro passaporti.2 Sap­ piamo che quindici dei diciannove kamikaze erano cittadini del­ l'Arabia Saudita, due erano provenienti dagli Emirati Arabi Uni­ ti, uno era libanese, uno era egiziano. Sappiamo ora dove e co­ me vivevano, sappiamo come e quando sono entrati negli Sta­ ti Uniti, conosciamo i loro movimenti bancari, il loro status fa­ miliare. Insomma sappiamo un sacco di cose. Ma forse non so­ no loro quelli morti sugli aerei. Anche di Osama bin Laden sappiamo molte cose. Per la verità, molte le sapevamo anche prima dell'l 1 settembre. Ma adesso le abbiamo apprese meglio. Ne conosciamo un'infi­ nità. Per esempio sappiamo che è apolide, dopo essere stato cittadino dell'Arabia Saudita, membro di una delle più nobi­ li e ricche famiglie saudite. Su di lui e sulle sue gesta sono usciti libri pieni di dettagli ben prima dell'l 1 settembre. Ma, per il momento, è importante non dimenticare che ha tratto le sue origini in Arabia Saudita. Sappiamo che l'Arabia Sau­ dita è, fra tutti gli altri paesi arabi e musulmani, il centro re­ ligioso principale. Ospita La Mecca e Medina, i luoghi sacri per eccellenza dell'Islam. Sappiamo anche che dall'Arabia Saudita, specie da alcune delle sue province (come quelle sud­ occidentali di Asir, Jiran, Najrar), proviene l'interpretazione “wahabita” del puritanesimo islamico riformato che qui è an­ che religione di stato. Siamo anche a conoscenza che le opere pie islamiche e sau­ dite hanno abbondantemente finanziato per decenni il prose­ litismo wahabita in tutto il mondo islamico. Inutile dire che sappiamo, da parecchi decenni, che l'Arabia Saudita è un pae­ se ricchissimo per i giacimenti petroliferi che, per grazia di Allah, sono nelle viscere della sua terra. Abbiamo inoltre co­ 69

gnizione che il regime dei taleban, a Kabul nel settembre 1996, è stato riconosciuto soltanto da tre paesi: Arabia Saudita, Paki­ stan, Emirati Arabi Uniti. Sulla base di questa serie di dati, un normale investigatore criminale, alla ricerca degli attentatori dell'11 settembre, sa­ rebbe immediatamente andato a Riyadh, a Islamabad, nelle capitali degli Emirati del Golfo per raccogliere indizi. Invece, come sappiamo, si è scelto di andare a bombardare l'Afghani­ stan. Logica ineccepibile, come quella di molte altre procedu­ re che hanno fatto seguito alla data di nascita dell'Impero. È ben vero che l'Afghanistan, anche - ma non soltanto grazie a Osama bin Laden, si è trasformato in una base per l'addestramento di un vero e proprio esercito terrorista in­ ternazionale, con migliaia di militanti provenienti da una qua­ rantina di paesi di religione islamica. È vero anche che in Af­ ghanistan hanno trovato rifugio e basi di partenza tutti i mo­ vimenti di resistenza islamica fondamentalista che minac­ ciavano la stabilità di paesi vicini e lontani: dall'Uzbekistan al Tagikistan, alla Russia (la Cecenia), alle Filippine, all'Egit­ to e così via. È altrettanto vero che il regime dei taleban co­ stituiva il più comodo sistema per poter agire indisturbati lontano da occhi indiscreti e preparare azioni eversive. Ma l'Afghanistan è anche uno stato, un paese con un popolo già martoriato da vent'anni di guerra e sicuramente incolpevole. Farne il bersaglio principale della “guerra contro il terrori­ smo internazionale” non avrebbe dovuto essere - a rigor di logica, di politica, di etica, di diritto internazionale - l'unica né la principale opzione. Eppure, come si vedrà tra poco, l'am­ ministrazione degli Stati Uniti d'America, circondata dal con­ senso dell'Occidente intero, ha scelto di agire proprio in que­ sto senso, in omaggio al concetto che “la guerra si fa sulla ba­ se di contingenze, non certo su basi di logica o di moralità''.3 Così viene applicato esattamente lo stesso principio di Osa­ ma bin Laden che ha mosso le menti di chi ha organizzato l'attentato dell'11 settembre. Quali siano le “contingenze” di cui si parla è chiaro: si do­ veva fare qualcosa, il più in fretta possibile, per ragioni d'im­ magine esterna e interna degli Stati Uniti. Si doveva creare e mantenere un elevato rating di popolarità per il presidente, si doveva mostrare la forza, si doveva esercitare la vendetta. E si è fatta dunque la cosa più semplice e più mostruosa: è sta­ to bombardato un paese senza dichiarargli guerra e senza aver ricevuto una dichiarazione di guerra. Si è intrapresa una guer­ ra sicuri di vincere, per ottenerne il massimo tornaconto po­ 70

litico. Proprio come quelle cecene di Eltsin e di Putin o quel­ la jugoslava della Nato. L'epoca dell'Impero è l'era delle guer­ re vigliacche, in cui si può solo vincere. La ricerca dei responsabili dell'aggressione terroristica dell'l 1 settembre è dunque passata in secondo piano rispetto alle esigenze propagandistiche. Eppure - lo ripeto - l'indagi­ ne era possibile lungo diverse direttrici, assai più efficaci e rea­ listiche dei bombardamenti. Lo dimostra il fatto che, non cer­ to per caso, il governo statunitense ha istituito, pochi giorni dopo l'attentato, uno speciale organismo investigativo, il Ftatc [Foreign Terrorist Asset Tracking Center], per la ricerca e il coordinamento del lavoro di intellingence nazionale e inter­ nazionale, per l'individuazione e la caccia dei centri (banche, finanziarie, fiduciari, agenti) che fornivano aiuto e finanzia­ mento alla centrale terroristica. Cosa abbia realizzato il Ftatc non è molto chiaro, a diversi mesi di distanza. Non è chiaro, per esempio, se siano state prese di mira le colonne portanti dell'impero finanziario della famiglia bin Laden, il “Saudi bin Laden Group", ben inserito nei settori immobiliari del mon­ do arabo e degli Stati Uniti, non meno che in quelli petrolife­ ri di ogni latitudine. Né è chiaro dove si è andati a cercare, con quali aiuti, con quali metodi. Si è saputo soltanto, qualche me­ se dopo, esattamente il 7 novembre 2001,4 che gli sforzi con­ certati di Stati Uniti ed Europa, con la collaborazione degli Emirati, delle Bahamas, di Australia e Lichtenstein avevano consentito di individuare due network finanziari islamici, Al Taqwa (La Devozione) e Al Baqarat (La Fortuna), come pos­ sibili canali di finanziamento o di trasferimento di denaro a favore o in relazione alla rete di Al Qaeda. Si tratta delle ben note hawala, cioè reti tradizionali di spostamento di denaro su basi di fiducia, molto a buon mercato e, per questo, utiliz­ zate da milioni di emigrati arabi per le loro rimesse in valuta. Non è una grande scoperta. La Aba [American Bankers Association] aveva chiesto subito di non coinvolgere nelle indagi­ ni gli off-shore.5Ben poco viene fuori da questa direzione, seb­ bene fosse chiaro che proprio negli off-shore, secondo valuta­ zioni molto attendibili delle Nazioni unite e della Banca mon­ diale, si nascondono efficacemente oltre 5000 miliardi di dol­ lari di attivi, depositati illegalmente da società di schermo, da società specializzate in ripulitura del denaro sporco, da pre­ stanome più o meno noti che agiscono per conto di governi dittatoriali, ma anche di grandi banche d'investimento, perfi­ no di banche centrali di paesi molto sospettabili.6 È in queste banche fittizie che, come tutti sanno, si proiettano le ombre 71

lunghe dei centri finanziari di New York, Londra, Parigi, Mo­ sca, Islamabad, Zurigo. Ed è in questi lidi caldi che è più fa­ cile nascondersi, perché qui nessuno ha voglia di venire a cer­ carti. Ma è proprio qui che si potrebbe verificare se e come in­ sospettabili finanzieri occidentali, di varia origine, abbiano trovato conveniente assecondare i progetti di Osama bin Laden e di altri sicuramente impegnati in operazioni avventu­ rose non meno che molto, molto convenienti. Forse è per questo che nessun risultato è emerso da que­ sto tipo d'indagini che, se sono state iniziate, senza dubbio so­ no anche state fieramente ostacolate dagli stessi centri del po­ tere finanziario che hanno abbastanza denaro e forza per im­ pedire di essere smascherati. Del resto, questa era stata la sor­ te di scandali e momenti critici colossali, come quello che vi­ de coinvolta la Bcci [Bank of Commerce and Credit Interna­ tional], banca d'investimento di proprietà dell'emiro del Kuwait, implicata nei più grossi traffici di armi, di droga, in­ cluso il famigerato Iran-Contras con cui gli Stati Uniti finan­ ziarono e armarono la già qui ricordata guerriglia terroristi­ ca contro il legittimo governo sandinista del Nicaragua. Dun­ que non occorre neppure molta dietrologia per immaginare armadi pieni di cadaveri che nessuno, anche a Washington, ha alcun interesse ad aprire. Sarebbe stato oltremodo impru­ dente andare a ripescare nei file dell'Fbi e della Cia la storia dei rapporti tra la famiglia bin Laden, quella dell'emiro del Kuwait e quella del presidente Bush, negli anni che vanno dal 1974 al 1985. Sebbene questi dettagli siano rimasti fuori dai grandi circuiti dell'informazione, qualcuno con la memoria lunga è andato a ripescarli negli archivi per riscoprire la sto­ ria della “Arbusto Energy", una compagnia petrolifera di Geor­ ge W. Bush che, nel 1978, ebbe fra i suoi azionisti lo sceicco Salem bin Laden, fratellastro di Osama e proprietario della compagnia aerea “Bin Laden Aviation". Si noti che nel consi­ glio d'amministrazione della società c'erano anche il signor Khaled bin Mahfouz (incluso nella lista dei fedeli di Osama bin Laden dopo l'11 settembre) e James Bath. Entrambi era­ no coinvolti nello scandalo della Bcci, scoppiato nel 1988. In quell'anno Salem bin Laden è morto in un incidente aereo, proprio in Texas, ma si hanno tracce di rapporti tra le fami­ glie Bush e bin Laden anche negli anni successivi, del resto ben spiegabili da antichi vincoli di riconoscenza. Nel 1982 George W. Bush aveva infatti liquidato la “Arbusto Energy" che non dava grande profitto - in “Bush Exploration Oil", poi trasformatasi in “Harken Energy". In entrambi i casi, furono 72

capitali arabo-sauditi a trarlo d'impaccio oltre alla potente protezione di papà. Veniamo così a conoscenza della straordinaria, fantastica contiguità tra l'attuale presidente degli Stati Uniti e persone di malaffare, di altissimo malaffare, inclusi uomini che negli an­ ni successivi sarebbero poi finiti direttamente nel terrorismo islamico. Cosa si desidera di più per legittimare sospetti di al­ tre, analoghe contiguità? Povero Clinton, che ha dovuto scu­ sarsi per aver fumato uno spinello in gioventù! La stampa sta­ tunitense ha trattato questo tipo d'informazioni riguardanti George W. Bush con una delicatezza che rasenta la distrazio­ ne. Si dirà che non tutti i finanzieri e uomini d'affari sono te­ nuti a conoscere i risvolti più segreti della vita dei loro soci. E si potrà aggiungere che nessuno è responsabile del fatto che un suo socio diventi, in futuro, un criminale e un terrorista. Ma, nel caso di Bush, c'è una contemporaneità evidente (quel­ la della Bcci). E, in ogni caso, vale sempre il famoso proverbio “dimmi con chi vai...". E c'è poi un'altra coincidenza, del tut­ to italiana. E riguarda proprio Al Taqwa, una joint venture con partecipazioni del gruppo “Nasco", della famiglia bin Laden e della famiglia etiope di Ahmed Idris Nasreddin, a sua volta cliente della “Fimo", società che compare nelle strutture del­ l'impero berlusconiano, implicata nell'inchiesta per i fondi ne­ ri Eni-Montedison e in quella del passaggio al Milan del cal­ ciatore Gianluigi Lentini.7 Ma queste considerazioni, del tutto preliminari, riguarda­ no piuttosto il cotè occidentale, la sua corruzione, la sua avi­ dità o dabbenaggine, la sua spregiudicatezza, i suoi calcoli. L'intreccio è tuttavia assai più complicato e interessante. Si sa che migliaia di giovani sauditi, egiziani, algerini, giordani, ye­ meniti ecc. parteciparono alla guerra santa contro i sovietici negli anni che vanno dal 1979 al 1992, momento in cui Najibullah cadde e Kabul, di conseguenza, fu presa dai mujaheddin islamici, dalla coalizione dei sette partiti di Peshawar. Fu­ rono tempi d'oro, in tutti i sensi. Miliardi di dollari furono pa­ gati per addestrare, stipendiare, organizzare un vero e proprio esercito che, alla fine, riuscì a sconfiggere i sovietici costrin­ gendoli al ritiro. Il maggior finanziatore dell'impresa - che si avvalse dell'intelligence pakistana, coadiuvata da quella sta­ tunitense - fu il governo dell'Arabia Saudita. Ben lieto, del re­ sto, di poter distrarre l'attenzione dei giovani sauditi dai pro­ blemi del paese, per lanciarsi in un'avventura nobilitata dalla solidarietà islamica contro un paese fratello aggredito dagli infedeli. Riyadh guadagnava così meriti, che sperava indele­ 73

bili, rispetto agli umori assai ostili che circolavano in larga parte della popolazione per l'eccessiva vicinanza della mo­ narchia agli americani che appoggiavano Israele. La si potrebbe definire una brillante operazione diversiva. Secondo alcune valutazioni, attraverso i campi di addestra­ mento in territorio pakistano, finanziati dalla Cia e dall'Ara­ bia Saudita, transitarono circa 200 mila mujaheddin. Un da­ to certo, citato da una fonte assolutamente attendibile, dice che soltanto “tra il 1984 e il 1987, oltre 80 mila mujaheddin furono addestrati nei nostri campi, centinaia di migliaia di tonnellate di armi e munizioni vennero distribuite, mentre operazioni attive venivano pianificate e realizzate in tutte le 29 province dell'Afghanistan".8 Di questa grande quantità di combattenti, armati e allenati, si calcola che non meno di 25 mila provenissero dall'Arabia Saudita. Dove sono finiti i com­ battenti dopo la vittoria della guerra santa contro i sovietici e il loro epigono Najibullah? Se fossero tornati tutti nelle proprie rispettive patrie d'o­ rigine (in particolare i sauditi, che erano i più numerosi, ma anche gli egiziani e gli altri), i regimi moderati filo-america­ ni dell'area avrebbero certamente avuto problemi a tenerli a freno. Un conto è, infatti, reprimere o corrompere un clero disarmato e una popolazione tenuta in condizioni di servag­ gio medievale, come in Arabia Saudita. Altro conto è acco­ gliere nuovamente in patria migliaia di soldati fanatizzati, or­ gogliosi di una vittoria appena conseguita e desiderosi di por­ tare la rivincita sociale in casa propria. Molti di loro, la gran parte, non avevano compreso che la vittoria contro i sovieti­ ci era dovuta non tanto alle loro capacità combattenti, quan­ to agli Stinger ricevuti dai servizi segreti americani e alle infor­ mazioni raccolte dai satelliti spia americani e così via. Per questo, tornando dalla guerra, si ritennero depositari della gloria ma anche sicuri vincitori nella lotta per la rinascita isla­ mica delle loro società. Fu così che i regimi moderati e filo-occidentali del mondo arabo cominciarono a giocare una partita mortalmente peri­ colosa, ma pressoché inevitabile. Innanzitutto per salvare se stessi, consapevoli che tra gli ex mujaheddin stavano matu­ rando sentimenti sempre più spiccatamente antiamericani. La guerra del Golfo contro Saddam Hussein aveva costret­ to l'Arabia Saudita a concedere basi sul proprio territorio agli Stati Uniti. Finita la guerra, quelle basi erano rimaste sulla “ter­ ra sacra dell'Islam". Dopo avere sconfitto gli infedeli russi in terra afghana, i devoti musulmani wahabiti non soltanto non 74

erano stati premiati, aiutati, ulteriormente finanziati, ma era­ no stati completamente scaricati, dimenticati. E ora si ritro­ vavano in casa propria altri infedeli, un altro Satana, quello stesso di cui non si erano mai fidati e che li aveva utilizzati. Ci si poteva aspettare da loro soltanto vendetta. Ecco come, qualche anno dopo, lo sceicco Omar Abdul-Rashid descriveva il suo stato d animo in un'intervista rilasciata dopo la sua con­ danna, da parte di un tribunale degli Stati Uniti, per la sua par­ tecipazione all'attentato contro le Twin Towers del 1993 : “Ognu­ no canta per chi ama. In effetti ciò significa che ognuno canta per cose diverse. Ed è esattamente ciò che accadde in Afgha­ nistan. Lei pensa che noi fossimo così ingenui da pensare che gli Stati Uniti aiutavano gli afghani perché credevano nella lo­ ro causa, quella della jihad per l'Islam? Che stessero aiutando un popolo, un paese, a liberarsi? Assolutamente no. Gli ame­ ricani erano là per punire l'Unione Sovietica, e quando furono sicuri che essa aveva subito il colpo e stava per collassare, fer­ marono tutto, tutti gli aiuti, tutto il materiale, con la rapidità di uno schioccare di dita. A loro non importava che in Afgha­ nistan vi fosse ancora un governo comunista al potere. Sem­ plicemente voltarono le spalle e il portafogli da un'altra parte. E i sauditi, oh i sauditi, e gli egiziani fecero esattamente la stes­ sa cosa. Furono necessari altri tre anni ai mujaheddin per ro­ vesciare il regime di Najibullah. Migliaia di vite furono perdu­ te, raccolti e benessere furono distrutti. Ma quelle vite non im­ portavano ai sauditi, agli egiziani, agli americani".9 Resta da ricordare che l'ingenuo sceicco Omar Abdul-Rahman10 fu l'uomo cui la Cia aveva assegnato il compito di uni­ ficare i gruppi mujaheddin di Peshawar e svolse il compito fa­ vorendo i due gruppi più estremisti e antioccidentali, quello di Gulbuddin Hekhmatjar e quello di Abdurrah Rasul Sayyaf.11 Dopo l'uscita dei sovietici, Omar Abdul-Rahman, il cieco, ricevuto il benservito americano - a quanto pare poco soddi­ sfatto - comincia a girare il mondo gettando le basi per una rete internazionale islamica. E, cosa fra le più intriganti, ar­ riva negli Stati Uniti, nel luglio 1990, via Arabia Saudita, Pe­ shawar, Sudan con un visto turistico concesso dai suoi dato­ ri di lavoro precedenti, cioè da amici della Cia. Lo scopo di quel viaggio era di costruire un'infrastruttura americana che fungesse da base organizzativa per militanti islamici egiziani. Come effetto, tre anni dopo, ci fu l'attentato alle Twin Towers. Questo singolare percorso o modello operativo va tenuto pre­ sente nel seguito di quest'esposizione. Riassumendo: un noto estremista islamico viene introdotto dalla Cia negli Stati Uni­ 75

ti sapendo che organizzerà una rete estremista. Ma poi la Cia si distrae a tal punto da non accorgersi che il soggetto orga­ nizza un grande attentato nel cuore di Manhattan. Non può dunque stupire che il governo di Riyadh guar­ dasse con favore al fatto che i suoi estremisti girassero per il mondo, il più possibile lontani dalla terra sacra. Era chiaro come il sole che stavano velocemente diventando pericolosi per gli Stati Uniti, ma sarebbero stati assai più pericolosi per la monarchia saudita. Del resto, secondo Wyche Fowler Jr, ex ambasciatore statunitense a Riyadh fino all'inizio del 2001 (dunque persona molto informata dei fatti e insospettabile), gli Stati Uniti mai esercitarono pressioni sul governo saudita, ben sapendo che estremisti islamici continuavano a entrare e uscire dal paese andando a ingrossare le fila del terrorismo internazionale.12 Entrambi i protagonisti di un'alleanza spu­ ria evitarono per circa un decennio di toccare questioni sgra­ devoli, per non compromettere un equilibrio fragilissimo tra gli interessi di una monarchia corrotta e quelli energetici ame­ ricani. “Perché noi abbiamo guardato l'Arabia Saudita come un grosso distributore di benzina, cui attingere e da difende­ re, ma mai come qualcosa da prendere sul serio, per esempio come una società.''13 Il tutto mentre, negli ultimi sei anni al­ meno, per ben quattro volte cittadini sauditi partecipavano a operazioni terroristiche contro obiettivi statunitensi. E preci­ samente in Arabia Saudita (attentato contro il quartier gene­ rale statunitense a Riyadh, novembre 1995), in Kenia (1998), in Tanzania (1998), nello Yemen (2000). È dunque un dato ri­ conosciuto unanimemente, tra gli osservatori europei e ame­ ricani, che la rete di Al Qaeda è stata costruita “spesso con la tacita condiscendenza delle locali agenzie di intelligence".14 Per esempio è accertato, al di là di ogni ombra di equivo­ co, che i servizi segreti pakistani sono stati parte integrante di questo processo, fin dall'inizio. Altrettanto noto è il fatto che i servizi segreti del regno saudita sapevano (e sanno) molte cose della penetrazione estremista aU'interno delle organiz­ zazioni religiose, scolastiche, nella polizia e nell'esercito. Ma lasciavano fare, magari consegnando contemporaneamente ai servizi segreti occidentali nomi e informazioni. Ciascuno guar­ dandosi le spalle, nella consapevolezza che stare troppo vici­ ni agli americani nella lotta al terrorismo avrebbe potuto es­ sere molto costoso, così come sarebbe stato altrettanto peri­ coloso lasciar pensare agli americani che si era troppo vicini al terrorismo islamico. Agirono dunque simultaneamente due fattori: lasciar fare, 76

discretamente, magari con un doppio e triplo gioco e aiutare, altrettanto discretamente. In qualche caso molto attivamen­ te. Tant'è vero che il governo dell'Arabia Saudita comincia ad arrestare qualche sospetto terrorista soltanto nell'ottobre 2001, a guerra iniziata, dopo avere rotto i rapporti diplomatici con l'Afghanistan dei taleban solo il 24 settembre, a seguito di fu­ ribonde pressioni di Washington, a riprova di un atteggia­ mento apertamente recalcitrante. In questa storia tragica i misteri, a ben guardare, sono me­ no di quanto sembri. Tra il 1996, data della conquista di Ka­ bul da parte dei taleban, e il 2001, anno della loro fine, Riyadh ha regalato all'Emirato afghano non meno di 150 mila barili di petrolio all'anno. Se i taleban sono riusciti a reggere, è sta­ to anche per questo aiuto. Uno che sicuramente non aiutava molto i servizi segreti ame­ ricani fu il principe Turki al Faisal Saud, capo dei servizi segreti sauditi, cugino del morente re Fahd e di Abdullah ibn Abdulaziz, monarca facente funzione. Probabilmente per questa ra­ gione Turki fu silurato dalla testa dei servizi segreti di Riyadh nell'estate del 2001 e sostituito dal principe Nawaf ibn Abdulaziz. Ma non era un segreto che Turki e Nawaf sono entrambi cugini di Osama bin Laden. Dopo l'11 settembre, il nuovo ca­ po dell'intelligence saudita ha espresso l'importante parere che Osama bin Laden sia un pupazzo manovrato da altri e che la progettazione dell'attentato non sia opera sua. Forse un tenta­ tivo di stornare l'attenzione dalla capitale saudita, forse un mes­ saggio cifrato lanciato a orecchie sensibili. Nawaf è stato co­ munque del tutto esplicito: “L'uccisione di bin Laden o il suo arresto non costituiranno la fine di Al Qaeda. In ogni caso i sau­ diti coinvolti sono stati strumenti di non sauditi".15 Noi, con ogni probabilità, non sapremo mai la verità sull'11 settembre e non potremo accertare a chi, eventual­ mente, facesse riferimento il principe Nawaf. Ma proceden­ do per indizi, come stiamo facendo, possiamo trovare per strada molte verità preliminari che aiutano a capire il con­ testo e, eventualmente, a indirizzare la riflessione verso obiet­ tivi meglio intelligibili. Perché qui si vede una vittima, gli Stati Uniti d'America, che appare di volta in volta come in­ capace di capire ciò che sta accadendo, di prevederne gli svi­ luppi, a volte perfino complice (attraverso propri uomini: fi­ nanzieri, affaristi o legati ai servizi segreti) degli attentato­ ri, comunque colpevole di gravi omissioni, di collusioni, di comportamenti masochistici. Una vittima cieca e prepoten­ te, occhiuta ma indifesa. 77

Da dove nasce e come si spiega, dunque, l'ambiguità dei rapporti tra gli Stati Uniti e l'Arabia Saudita? L'apparenza, in primo luogo, inganna. Molti pensano che la monarchia sau­ dita sia tra le più ricche della Terra. Vero, ma solo in parte. Le sterminate ricchezze petrolifere di cui la dinastia ha po­ tuto fruire per decenni, sotto la costante protezione degli Sta­ ti Uniti d'America, sono rimaste solo in piccola parte nel pae­ se. E quasi nulla è ricaduto sulla popolazione. Il primo pun­ to da cui partire è dunque questo: i semplici cittadini saudi­ ti non hanno ricavato nulla da quelle ricchezze, dilapidate per sempre e non rinnovabili. La famiglia reale saudita conta più di 7000 membri: qualcosa di simile a una piccola cittadina di miliardari, sovrani medievali assoluti che, certo, hanno go­ duto di condizioni di vita sfarzose, spendendo e spandendo oltre ogni decente misura, nei casino di tutto il mondo, nei night-club di tutto il Medio Oriente, consumando beni di lus­ so, solo loro, in misura tale da tenere in piedi l'economia di più paesi esportatori. Una specie di casta arrogante e ottusa, legata da vincoli familiari, corrotta e litigiosa al suo interno ma compatta all'esterno, ansiosa di vivere nei lussi e nelle li­ bertà dell'Occidente e, al tempo stesso, gelosa delle proprie prerogative orientali. Moderna a Londra e a New York, in­ cluse le Borse, oscurantista a Riyadh. Una sorta di casta com­ pradora assolutamente incapace di comprendere e accettare la democrazia e le libertà civili, i diritti umani e tutto ciò che i suoi commensali occidentali, negli hotel di lusso delle ca­ pitali del potere mondiale, hanno sempre vantato di posse­ dere ma non hanno mai cercato di esigere nei suoi confron­ ti. Si spiega così, fra le altre cose, il fatto che in Arabia Sau­ dita la condizione delle donne sia sempre stata non lontana da quella, barbara, imposta alle donne afghane dai taleban, e che tanto indignò le anime belle degli editorialisti occiden­ tali non appena cominciarono ad arrivare i segnali di guer­ ra. Tutti silenziosi, naturalmente, nei lunghi anni in cui era più conveniente tacere sugli sgradevoli dettagli della vita in­ terna di questo o quel paese. Miliardari, dunque, quei signori della famiglia reale sau­ dita, ma sotto stretto controllo e nei limiti definiti da cogenti rapporti di forza. Infatti, la corrente principale dei flussi di denaro non si è mossa dai consumatori di energia verso i pro­ duttori-esportatori, ma in direzione diametralmente opposta. Cioè non dall'Occidente a Riyadh, ma quasi viceversa. Nel senS° Riyadh sborsava, a vantaggio degli Stati Uniti, gran par­ te degli introiti che riceveva dal consumo petrolifero di tutto 78

l'Occidente. Perché? Essenzialmente per continuare a esiste­ re nella forma statuale che conosciamo, cioè in cambio di pro­ tezione. Ma in che forma? Nemmeno questo è un mistero. In primo luogo si può tranquillamente affermare che i bilanci del Pentagono sono stati per decenni pagati in larga misura dal­ le finanze dell'Arabia Saudita: con acquisti spropositati di ar­ mamenti di ogni tipo, spesso addirittura superiori alle possi­ bilità di fruirne. In seconda istanza, la monarchia saudita ha conferito ingenti commesse alle imprese petrolifere statuni­ tensi. Per vie dirette, per sistemi di corruttela variegati, enor­ mi somme di denaro sono state letteralmente regalate a im­ prese americane come la “Halliburton" (si ricordi solo questo esempio, in onore del vicepresidente statunitense, Dick Cheney, che ne fu a lungo, praticamente fino al momento di diventare appunto il numero due dell'amministrazione di Washington, presidente e amministratore delegato). Infine, terza e ultima possente idrovora che ha continuato a pompare denaro diret­ tamente dai pozzi sauditi alle casse del Tesoro americano: il finanziamento del debito pubblico statunitense attraverso l'ac­ quisto (palesemente forzoso sebbene tecnicamente ineccepi­ bile) da parte saudita di buoni del tesoro degli Stati Uniti d'A­ merica. Secondo i dati ufficiali, il 38% del debito pubblico sta­ tunitense è in mano a creditori esteri. Il 22% di questo am­ montare è nelle mani della famiglia saudita. Qualcosa che all'incirca assomma a non meno di 200 miliardi di dollari. E questo discorso è applicabile agli Emirati Arabi Uniti e al Kuwait che, difatti, insieme sono creditori di gran parte del resto. Poveri miliardari arabi, taglieggiati dai loro protettori. In questo modo gli Stati Uniti si sono sostanzialmente appropriati di larghissime quote dell'intera spesa petrolifera mondiale. E questo spiega anche perché essi, contrariamente a ciò che si sarebbe potuto pensare in quanto maggiori consumatori di pe­ trolio (quindi interessati a un basso prezzo del barile), hanno aiutato l'Opec a tenere alto il costo del greggio. Le perdite so­ no state sempre molto inferiori ai ricavi. Naturalmente, come chiunque può capire, un tale meccanismo, per poter esistere e protrarsi nel tempo, implica che le classi dominanti di un de­ terminato paese siano d'accordo che il proprio paese sia spo­ gliato sistematicamente da un predatore esterno. Un predato­ re che assicura loro il potere: questo è il do ut des. Chi paga so­ no le popolazioni, cui viene impedito ogni sviluppo, ogni be­ nessere, ogni diritto. Ecco perché la dinastia (anzi tutte quel­ le dinastie che in Occidente usiamo definire - chissà perché? 79

- “moderate”) ha dovuto foraggiare nascostamente anche il fondamentalismo. Una beneficenza pelosa che ha alimentato il terrorismo e ha elargito le briciole ai poveri. Una specie di medioevo come sotto-prodotto della globalizzazione finanzia­ ria, che non ha impedito agli sceicchi wahabiti - non senza buone ragioni - di pensare alla monarchia saudita come alla “prostituta di Babilonia”. E forse ha ragione chi pensa che il gap tra mondo arabo e Occidente sia addirittura meno impor­ tante di quello tra ricchi e poveri all'interno del mondo ara­ bo.16 Cosicché, quando le tensioni crescono e si fanno inso­ stenibili, insieme alle paure di chi ha molto da perdere, sono proprio i regimi in pericolo che cercano di scaricare tutte le re­ sponsabilità sulFOccidente o sui sionisti. Ma proprio tutte le responsabilità, anche le proprie, sebbe­ ne ciò non possa in alcun modo diminuire quelle dell'Occidente e quelle degli Stati Uniti in particolare, che di quel meccani­ smo sono stati i creatori e i principali beneficiari. Certo, si trat­ ta di faccende troppo complicate per Oriana Fallaci che sce­ glie la scorciatoia del razzismo più plateale. Eppure dovrebbe risultare chiaro che, affinché diverse politiche sociali possano farsi strada nel mondo arabo, quali che siano i regimi che po­ trebbero realizzarle, occorre preliminarmente che l'avidità del­ la finanza statunitense sia contenuta in limiti se non accetta­ bili, almeno ragionevoli. Perché la prima, la più urgente que­ stione a me pare non tanto e non soltanto quella della demo­ cratizzazione di quei regimi (che richiederebbe comunque tem­ po), quanto una drastica redistribuzione della ricchezza. Que­ sta è la vera strada, la strada sicura, l'unica strada per com­ battere il terrorismo. Purtroppo, non vi sono segni che ci sia qualcuno intenzionato a percorrere questa strada. Invece si è bombardato l'Afghanistan, ultima miserabile conseguenza, ul­ timo sintomo di una malattia le cui origini, come abbiamo vi­ sto, stanno altrove, in altre capitali, in altre latitudini. Ora perfino in autorevoli circoli di Washington si è aperta una discussione. C'è chi, finalmente, comincia a chiedere ra­ gione di ciò che era evidente da tempo: che “il sistema auto­ cratico dell'Arabia Saudita è, da un lato, utile per negoziare armi e petrolio ma, dall'altro, è una delle radici fondamenta­ li dell'estremismo islamico”.17 E, di nuovo, vale la pena ricor­ dare che la riflessione autocritica viene dagli Stati Uniti più che dagli alleati servili d'Europa, pronti a osannare ma piut­ tosto vili quando si tratta di cercare le cause. Perché è evidente che alla tragedia dell'l 1 settembre si è arrivati anche perché gli Stati Uniti sono rimasti avvinghiati ai loro partner fino al­ 80

l'ultimo, inestricabilmente, come lo erano da decenni, fino al punto da “farsi male" con le proprie mani. “I principi sauditi sanno che un'aperta dipendenza da una potenza occidentale provoca la rabbia dei militanti islamici in casa loro, ma capi­ scono che devono mantenere l'alleanza militare con gli Stati Uniti per vivere in sicurezza. Gli Stati Uniti, a loro volta, san­ no che sostenere il regime saudita, corrotto e autoritario, dan­ neggia la propria immagine in lungo e in largo nel Medio Orien­ te e li rende bersagli del terrorismo, ma interpretano tutto ciò come un prezzo necessario per stabili rifornimenti di petro­ lio e sicure basi militari in Medio Oriente."18 Anche il già ci­ tato Jim Hoagland, uno dei commentatori più falchi della stam­ pa statunitense, cercando un nesso tra le “abitudini di spreco energetico" degli americani e i 15 arabo-sauditi che si sono schiantati sulle Twin Towers e sul Pentagono, conclude che “la necessità di importazione dell'energia ha trascinato gli Stati Uniti in profonde collusioni con regimi decadenti del Medio Oriente nella sua larga accezione".19 Perfino il principe Saud al Faisal, al vertice della famiglia del peggiore regime oscurantista islamico (dopo i taleban), di fronte a kamikaze islamici, relativamente educati, provenien­ ti da famiglie saudite ed egiziane non tra le più miserevoli, fi­ nisce adesso per rendersi conto che c'è un limite alla brutalità e al cinismo del potere e della rapina. “La storia ci insegna ha detto - che è possibile deludere non solo i poveri."20 Non so­ lo i poveri vengono risucchiati in una spirale di odio, di vio­ lenza vendicatrice, ma anche giovani colti, orgogliosi della pro­ pria cultura e della propria patria - che nel mondo arabo spes­ so coincide con i confini della fede - profondamente credenti e non per questo fanatici. Bisognerebbe comprendere che una grande delusione, oltre che una grande ira, domina ormai il mondo arabo. I kamikaze agiscono in un contesto in cui le an­ tiche leggi del loro mondo sono state abbandonate, stravolte e offese. La modernità, che nei progetti delle menti più illumi­ nate avrebbe dovuto sostituirle, non è quasi mai giunta. Quan­ do è giunta, ha portato con sé mode e costumi spesso inaccet­ tabili e offensivi, comunque incompatibili con il sentire co­ mune di larga parte delle popolazioni. Secondo un sondaggio deH'intelligence saudita, raccolto dai servizi segreti americani, condotto tra persone adulte di media e buona educazione di età tra i 25 e 41 anni, “il 95% dei sauditi sostiene la causa di bin Laden anche dopo l'11 settembre, sebbene essi condanni­ no gli attacchi contro New York e Washington".21 Si tratta di fenomeni che non riguardano esclusivamente 81

l'Arabia Saudita. Davanti agli occhi di milioni di persone si di­ pana ora un mondo in larga parte incomprensibile, dove giu­ stizia e rispetto sono stati fatti a pezzi. Vedo in questo disa­ stro, come riflessa in uno specchio, la tragedia della fallita co­ lonizzazione dell'ex Unione Sovietica. Se non fu possibile tra­ scinare alla modernità occidentale un popolo cristiano che, al­ la fine del comuniSmo sovietico, altro non desiderava, nella sua enorme maggioranza, che essere omologato all'Occiden­ te, è inevitabile che un analogo tentativo sia destinato a falli­ re clamorosamente se applicato al mondo islamico. La lezio­ ne iraniana non è stata compresa. Ed è inutile, velleitario, gri­ dare ai quattro venti, come amava fare Clinton, che il xxi se­ colo dev'essere il “secolo americano", perché così si va verso la guerra, come i fatti stanno dimostrando. Perché si possono stringere patti più o meno scellerati, interessi, affari più o me­ no sporchi, trasformare aree intere del mondo in domini im­ periali, ma se non si è capaci di conoscere in profondità i sog­ getti che si desidera dominare, se non ci si sforza di com­ prendere la loro storia e i loro sentimenti, non si potrà preve­ dere, tanto meno dominare, le loro furie potenziali, quei “vor­ tici di odio e d'ira" - secondo le parole di Ivo Andric -, conse­ guenze di “ingiustizie e soprusi antichi", “tifoni non ancora scatenati" che “attendono la loro ora".22

5.

È stato Osama bin Laden. Chi se no?

È stato detto, giustamente, che la verità, se mai verrà, non la si troverà prima dei prossimi cento anni. È caratteristica tipica del terrorismo in grande stile, del terrorismo dei servi­ zi segreti, del terrorismo dei potenti, quella di non lasciare tracce, di non produrre rivendicazioni, di indicare false pi­ ste. E ogni cosa lascia intravedere che si tratta proprio di que­ sto tipo di terrorismo, che procede per calcoli freddi, per gran­ di e impenetrabili progetti. Lo scopo non è ottenere questo o quel risultato immediato, ma terrorizzare popoli interi e na­ zioni, gettarli nel panico, far perdere la bussola, indurre i lo­ ro dirigenti ad atti inconsulti sotto la pressione di sentimen­ ti e reazioni collettive, irriflesse, spasmodiche, irrazionali. In questo tipo di terrorismo - che è giusto definire “di stato" per­ ché i suoi obiettivi sono “statuali" - la vendetta non è l'ingre­ diente principale. Semmai, la vendetta è di breve momento, tattica, perfino pericolosa perché permette a chi indaga di scoprire da dove viene, di individuare il movente. La vendet­ ta può essere, al massimo, l'ingrediente necessario per met­ tere in moto esecutori più o meno consapevoli di ciò che stan­ no facendo. Tutto è dunque molto difficile. Ma non impossibile. Non sarà facile risalire agli autori, ai programmatori, ai loro com­ plici ma non esistono delitti perfetti nemmeno per il terro­ rismo di stato. Nel caso specifico, possiamo dimostrare che la versione offerta al grande pubblico mondiale, subito con­ divisa da tutti i più importanti mass media, non è sostenibi­ le, non sta in piedi. Essa contiene elementi di verità, ma so­ no la minima parte di un disegno più vasto che rimane per ora inesplorato, anche se in trasparenza è possibile intrave­ dere qualche contorno. Ma anche i pochi tasselli di verità, una volta isolati dal contesto, restano privi di significato, am­ bigui, contraddittori. Osama bin Laden è implicato negli at­ 83

tentati terroristici dell'11 settembre? La risposta è: proba­ bilmente sì. Le prove? L'amministrazione degli Stati Uniti ha detto di averle, appena qualche giorno dopo gli attentati ter­ roristici dell'l 1 settembre. E di averne di “inconfutabili", “ol­ tre ogni dubbio". Come si è già visto altrove in queste pagi­ ne, io sono incline a dare credito alle cose che dicono gli esponenti di punta di queU'amministrazione. Se si deve da­ re qualche credito a una persona esperta come il già citato Robert Baer, ex direttore delle operazioni antiterrorismo del­ la Cia, a cinque mesi di distanza dagli attentati “l'indagine è ancora tutta da fare".1 Mi limito qui a rilevare una stranez­ za: fino all'11 settembre nessuno sapeva nulla ma, appena pochi giorni dopo, ecco apparire le prove della “inconfuta­ bile" responsabilità di Osama bin Laden. Ma andiamo oltre. Queste prove sono state fornite ai diri­ genti della Nato, agli alleati, ai leader russi, cinesi, a quelli dei paesi arabi “moderati" che, in genere, seppure senza entusia­ smi, le hanno considerate sufficienti per un primo verdetto di colpevolezza. Però sono rimaste segrete per l'opinione pub­ blica internazionale. Si è detto che dovevano rimanere segre­ te per non compromettere il corso delle indagini successive. E forse anche questo è vero, almeno in parte. Sorge un altro dubbio: il pubblico non ha avuto le prove, ma esse sono state messe a disposizione di parecchi governi che sicuramente non possono essere ritenuti affidabili, nel senso che quei segreti, così accuratamente nascosti al pub­ blico, possono tranquillamente finire alle orecchie dei capi terroristi proprio tramite i rappresentanti di quei governi. Facciamo un solo esempio. Sempre secondo Robert Baer, “il governo di Riyadh ha da tempo perso il controllo dei propri servizi segreti". Dunque cosa concludere? Forse quelle prove non erano così importanti come ci è stato detto. O, forse, ser­ vivano a dimostrare il coinvolgimento di Osama bin Laden in precedenti azioni terroristiche, ma non avevano a che fa­ re con quelle dell'l 1 settembre. Comunque sia, è la prima vol­ ta che governi di molti paesi entrano in guerra non solo sen­ za una preventiva dichiarazione, ma addirittura senza che i rispettivi popoli siano informati delle ragioni, vere o presun­ te, che ne stanno alla base. Per esempio, il parlamento ita­ liano ha votato l'invio di un contingente bellico in Afghani­ stan, a larghissima maggioranza - una maggioranza bulga­ ra, è stato detto - senza che neppure i deputati e i senatori (per non parlare degli elettori) fossero messi a conoscenza di quelle prove “inconfutabili". 84

Osama bin Laden è il responsabile unico di quegli atten­ tati? È l'ideatore e il promotore unico della strategia che li sot­ tende? Molto probabilmente no. E già questo apre una serie di corollari al tempo stesso importanti e inquietanti. Perché, come ben si capisce, le due icone criminali - Osama bin La­ den, appunto, e il mullah Omar - che ci sono state messe da­ vanti al naso, ossessivamente, per mesi, sono quella piccola sineddoche di verità che impedisce di conoscere il tutto della tragedia cui abbiamo assistito live l'11 settembre. Alle tante domande di merito cui si deve rispondere per ri­ salire ai responsabili, se ne aggiungono altre. Le più impor­ tanti sono queste: esistono verità connesse agli attentati che non devono essere conosciute? Quali sono? Chi ha interesse a nasconderle oltre agli attentatori? Che rapporto c'è tra gli organizzatori di questo terrorismo e coloro che vogliono na­ scondere queste eventuali verità? “Un esame accurato degli sforzi americani per [combatte­ re] il terrorismo mostra che, per anni, prima dell' 11 settembre 2001, gli esperti di terrorismo in molte branche del governo compresero i disegni apocalittici di Osama bin Laden. Ma es­ si non reagirono [...].”2 Come mai? Sembra che gli autori di questo giudizio non abbiano posto la questione o che l'abbia­ no solo sfiorata. Si è trattato di ingenuità? Ma possiamo dav­ vero immaginare che i servizi segreti della prima potenza mon­ diale fossero ingenui? Abbiamo certo avuto prove ripetute, nei decenni passati, che Cia e Fbi hanno commesso errori, anche molto gravi, in diverse aree del mondo. Ma è difficile attri­ buire questi errori a ingenuità. Certo, si può parlare di ineffi­ cienza, di ignavia, di incapacità ma un “esame accurato'' ri­ duce clamorosamente il valore di simili spiegazioni. Decine di interviste con esponenti a vari livelli dell'attuale amministrazione e di quella di Clinton presentano un mate­ riale davvero sconcertante. Otto interi anni della presidenza Clinton, così come otto interi mesi della presidenza Bush Ju­ nior non sono stati sufficienti a produrre alcuna seria misura di prevenzione del governo degli Stati Uniti. È come se non ne avessero compreso il pericolo oppure, comprendendolo, ri­ tenessero che l'America fosse per definizione invulnerabile. Eppure, stando alle dichiarazioni del capo della Cia, George Tenet, la Cia stessa e l'Fbi “allertarono il governo mesi prima del fatto che stavano raccogliendo allarmi circa attacchi che avrebbero causato un gran numero di vittime". In luglio e in agosto, di fronte a “rallentamenti operativi" che si stavano ve­ rificando, “parlammo, mettemmo in guardia".3 85

Di quali “rallentamenti operativi” si tratta? Chi ne fu all'o­ rigine? Tutto questo è strano. Secondo la Cia, dunque, gli Sta­ ti Uniti erano in grave pericolo e niente affatto invulnerabili. Il primo segnale del sorgere e del crescere di una formida­ bile minaccia della jihad islamica contro gli Stati Uniti viene rilevato nel 1993, in seguito all'attentato al World Trade Cen­ ter. Il 26 febbraio di quell'anno, un mese dopo l'insediamento formale di Clinton alla Casa Bianca, il Wtc fu colpito da estre­ misti islamici che avevano operato in basi a New York, New Jersey, Brooklyn. Ci furono sei morti e un centinaio di feriti. Gli analisti dell'Fbi giunsero a conclusioni “inquietantemen­ te chiare'': capirono che ormai esisteva una gran quantità di giovani musulmani, di varia origine e provenienza, che ave­ vano combattuto con i ribelli afghani nella jihad contro i so­ vietici negli anni ottanta e ora stavano portando una nuova jihad fino alle rive americane. Si è anche scoperto - questo è un dettaglio molto importante - che molti dei terroristi erano ripetutamente entrati e usciti dagli Stati Uniti fin dal 1985: vuol dire che i mujaheddin stavano già preparando la jihad contro l'America mentre stavano ancora combattendo quella contro l'Unione Sovietica. È in quest'inchiesta che appare per la prima volta, nel dossier antiterrorismo dell'Fbi, il nome di un certo esiliato saudita: Osama bin Laden. Così concludono gli autori dell'articolo citato. Ma noi sappiamo che Osama bin Laden doveva trovarsi per forza in qualche file della Cia già in precedenza perché si era impegnato a Peshawar, durante la seconda metà degli anni ot­ tanta, nel lavoro di organizzazione e di distribuzione dei fon­ di sauditi e americani ai mujaheddin nel corso della guerra contro i sovietici. Abbiamo già visto che un suo sodale molto importante - lo sceicco Omar Abdul-Rashid - entrò negli Sta­ ti Uniti, nel 1990, grazie a un intervento della Cia. Dobbiamo dunque dedurre che la Cia, o parti di essa, non fornivano infor­ mazioni adeguate all'Fbi? O si trattava di uffici della Cia (o settori di essa) che agivano per conto proprio? Ancora più significativo è il fatto che, qualche mese prima che Clinton cominciasse il suo secondo mandato, ci fu una grossa defezione nell'organizzazione di Al Qaeda. Fu il caso del “disertore” Jamal Ahmed al Fadl che si rifugiò in un'am­ basciata americana in Africa e rivelò in dettaglio i piani del­ l'organizzazione e la sua strategia di lungo termine. Dalle sue rivelazioni emerse che l'obiettivo di rovesciare i governi “in­ fedeli” del mondo arabo, in primo luogo quello dell'Arabia 86

Saudita, era ormai passato in secondo piano. Obiettivi primari diventavano ora gli Stati Uniti e altri paesi occidentali. Anche in questa occasione l'amministrazione sembrò non capire. In ogni caso non reagì. Nel 1996 un dossier speciale fu presentato al presidente Clinton. Conteneva, tra l'altro, i risultati dei debriefings di Jamal Ahmed al Fadl. Clinton incaricò addirittura i suoi esper­ ti di sondare gli umori del pubblico in caso di un'offensiva americana contro il terrorismo. La risposta fu incoraggiante: un largo consenso di opinione si sarebbe creato in caso di “guerra al terrorismo". Ma non ne seguì nulla. Nasce da qui la tragica e fatale storia di John O'Neill, capo del settore Fbi incaricato delle operazioni contro il terrorismo internazionale. O'Neill dichiarò pubblicamente - era il giugno del 1997 - che “praticamente ognuno di questi gruppi terro­ ristici, se lo decidesse, avrebbe la possibilità di colpirci all'in­ terno degli Stati Uniti". Le sue dichiarazioni fecero scandalo. O'Neill, soprannominato “il signor bin Laden" per la tenacia con cui andava alla caccia del capo di Al Qaeda, fu inviato nel­ lo Yemen per seguire le tracce dell'attentato contro la uss Co­ le nel porto di Aden. Ma venne espulso dallo Yemen il 5 luglio 2001 e si dice che il governo americano non abbia elevato gran­ di proteste. È difficile dimostrare questa diceria, ma non c'è dubbio che lo stesso O'Neill fosse furibondo per essere stato lasciato solo, tant'è vero che, alla fine dell'agosto 2001, si di­ mise dall'incarico dell'Fbi per assumere quello di capo della sicurezza del World Trade Center. Una quindicina di giorni prima di essere ucciso, assieme ad altre migliaia di persone, dai kamikaze dell'uomo che aveva cercato di catturare. Con puntualità, poco più d'un anno dopo lo scandalo del­ le rivelazioni pubbliche di O'Neill, nell'agosto 1998, due am­ basciate americane in Africa, quelle di Nairobi (Kenya) e di Dar es Salaam (Tanzania), sono saltate in aria, colpite da ca­ mion carichi di esplosivo. I morti furono 224, dodici dei qua­ li cittadini statunitensi. I feriti, di varie nazionalità, furono ol­ tre 5000. Tuttavia, per quanto gravissimi, i due attentati ave­ vano colpito sedi americane all'estero. L'unico attacco terrori­ stico sul territorio degli Stati Uniti, quello contro le due torri nel 1993, restava un fatto isolato. Ma un altro segnale, molto serio, indicava che la jihad si stava trasferendo all'intemo degli Stati Uniti. Risale al 14 di­ cembre 1999, quando viene arrestato a Port Angeles, stato di Washington, Ahmed Ressam. Sulla sua auto a noleggio gli agen­ ti trovano circa 60 chili di esplosivi e detonatori. Dalle indagi­ 87

ni successive gli inquirenti concludono che si stanno prepa­ rando almeno tre attacchi terroristici, di cui due contro obiet­ tivi americani all'estero e un terzo all'interno degli Stati Uni­ ti. Dei primi due attacchi si è poi stabilito con precisione il luo­ go: una nave americana in un porto dello Yemen e un albergo in Giordania frequentato da turisti americani. Del terzo si è saputo soltanto che era in preparazione. Nient altro. Le rive­ lazioni di Ahmed Ressam devono essere state molto circostanziate. Ciò non ha tuttavia impedito il sanguinoso attenta­ to contro la nave da guerra uss Cole nel porto di Aden, il 12 ot­ tobre 2000. Dell'attentato in Giordania non se ne è saputo più nulla: forse è rimasto nel cassetto dei terroristi, oppure è sta­ to segretamente sventato dalla Cia. Il terzo è rimasto scono­ sciuto: è forse quello dell'l 1 settembre? Nel 2000, dopo l'arresto di un cittadino algerino che stava arrivando negli Stati Uniti con esplosivi, un rapporto segreto della Casa Bianca raccomandava di procedere alla liquidazio­ ne di “potenziali cellule dormienti negli Stati Uniti". Il rapporto conteneva un piano preciso d'azione che non fu mai attuato. Ma non si tratta dell'ultimo episodio. Il 16 agosto del 2001, meno d'un mese prima dell'attenta­ to alle Twin Towers, l'Fbi arresta a Eagan, Minnesota, un cer­ to Zacarias Moussaoui, cittadino francese, trentatreenne, di origine marocchina. L'accusa è di violazione della legge per l'immigrazione. In realtà l'arresto è la fulminea reazione dell'Fbi a un'informazione ottenuta appena il giorno prima da uno dei dirigenti della Pan Am Flight Academy, dove Mous­ saoui frequentava dei corsi di addestramento. L'informatore, evidentemente molto vigile e buon patriota, si era insospet­ tito per le caratteristiche del personaggio e aveva deciso di far presenti i suoi sospetti. Ma non si era limitato a questo: aveva anche messo in guardia gli inquirenti sulla possibilità che Moussaoui stesse organizzando un dirottamento aereo con un Boeing 747-400. Gli agenti dell'Fbi, come se detto, prendono molto sul se­ rio l'informazione e fermano subito Zacarias Moussaoui. Non solo. Pochi giorni dopo mandano un messaggio cifrato ai ser­ vizi segreti francesi con una richiesta di informazioni su Mous­ saoui. Nel corso dello stesso mese di agosto ricevono già una risposta. Il soggetto è definito “persona con credenze islami­ che radicali"; ha un amico che aveva combattuto in Cecenia, insieme a un gruppo estremista algerino di cui faceva parte un ben noto membro deH'organizzazione di Osama bin Laden.4 Ce n'è quanto basta per alzare la guardia.

Un cittadino solerte, gli agenti locali dell'Fbi, tutti capisco­ no, paventano, agiscono. Tutti meno le autorità di Washing­ ton, l'Fbi centrale, la Cia, il Dipartimento di stato. Come se, da qualche parte, oltre un certo livello, qualcuno fosse impegna­ to a insabbiare, ritardare, ostacolare. A un italiano viene in mente, per associazione d'idee, la parola deviare. C era qual­ cuno incaricato di deviare le indagini? Sarebbe importante sa­ perlo, perché quel qualcuno non può essere un fanatico estre­ mista islamico, dev'essere un cittadino americano. Il vecchio James Woolsey, ex direttore della Cia, ha espres­ so a posteriori un giudizio liquidatorio: “[Tutto ciò] deriva dall'aver delegato alle compagnie aeree la sicurezza dei voli; è un fallimento dell'organizzazione della difesa aerea; è una colle­ zione di fallimenti del nostro spionaggio estero; è il fallimen­ to dei sistemi di rilevazione interni; è il fallimento della poli­ tica dei visti e dell'immigrazione". Ma documenti e interviste dimostrano che non ci sono stati soltanto fallimenti. C'era molto di più: cerano “interessi in competizione" che impedivano un'azione decisa. E, onestamente, non si può nep­ pure levare l'indice accusatore contro l'Fbi e la Cia. Come ab­ biamo visto, sono state fornite indicazioni ai vertici politici; importanti esponenti del terrorismo erano stati arrestati; in qualche caso, erano stati anche individuati degli obiettivi. I segnali erano arrivati ai destinatari di Washington. Ciono­ nostante, il vertice politico del paese era rimasto inerte, ap­ parentemente distratto da altre e più urgenti incombenze. Cerchiamo dunque di vedere meglio quali possono essere sta­ ti gli “interessi in competizione" che hanno lasciato agire in­ disturbati i terroristi dell'11 settembre, al punto che l'intera leadership americana è sembrata colta totalmente di sorpre­ sa dal tremendo colpo. A Washington non potevano non sapere molte altre cose, non tutte e non necessariamente di competenza dei servizi se­ greti. Che Osama bin Laden fosse ospite del mullah Omar, per esempio, lo sapevano da tempo. Lo sapevano con certezza fin dal 22 febbraio 1998, data in cui Osama s'insedia in Afghani­ stan proveniente dal Sudan, con la sua nuova formazione: il Fronte internazionale islamico. Tant'è vero che, già il 16 apri­ le 1998, l'ambasciatore statunitense alle Nazioni unite William Richardson è a Kabul per negoziare con il governo dei taleban la consegna di Osama bin Laden. Che il mullah Omar fos­ se una creatura dei servizi segreti pakistani non poteva esse­ re loro sfuggito. È difficile supporre che gli americani non avessero i propri informatori all'interno dell'Isi [Inter Service 89

Intelligence] pakistano. Anche perché nell’operazione taleban, senza alcun dubbio (come si dimostra in altra parte di questo scritto), i servizi segreti americani erano entrati direttamen­ te, almeno in alcune sue fasi. I dirigenti americani dovevano essere altrettanto informati del fatto che i servizi segreti sau­ diti erano da tempo in combutta, direttamente e mediatamente, con numerose organizzazioni fondamentaliste islami­ che. Poteva essere loro sfuggito, per esempio, negli anni tra il 1993 e il 2000, che i gruppi wahabiti sauditi finanziavano con abbondanza la guerriglia cecena? Potevano non sapere che i servizi segreti sauditi, insieme a quelli turchi, costituivano la retrovia indispensabile per i secessionisti ceceni? Del resto, non occorreva avere informazioni classified: bastava leggere le notizie sui giornali e fare due più due. Inoltre c era l'evi­ denza: il regime dei taleban era stato riconosciuto ufficial­ mente, fin dal suo nascere, da tre paesi amici degli Stati Uni­ ti: Pakistan, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti. Cosa è stato fatto, quali pressioni sono state esercitate per costringerli a trascurare i taleban e Osama bin Laden? Non è strano che gli Stati Uniti, disponendo di leve decisive per co­ stringere i propri alleati (arabi e non) a fare ciò che ordina Washington, non siano riusciti a imporre misure che salva­ guardassero la loro sicurezza interna? Più si va in profondità, più si avverte la sensazione che trop­ pe cose non si spiegano con lo schema semplificato all'estre­ mo del satana Osama bin Laden e del mostro collettivo deno­ minato Al Qaeda, prodotto dal fanatismo islamico. Per meglio dire, sorge il sospetto che in quell'atto terroristico vi sia senz'al­ tro una componente religiosa e fanatica, ma che esso sia an­ che il frutto di un calcolo più vasto, ancora da scoprire. Con un indizio clamoroso, rappresentato proprio dal clamoroso silenzio generale di tutti i servizi segreti occidentali che, co­ me minimo ci obbliga a una deduzione: le menti degli atten­ tati avevano informazioni, disponevano di competenze e di coperture così estese da poter essere equiparate a un potente servizio segreto. Ma procediamo con ordine. Dopo l'attentato del 26 feb­ braio alle Twin Towers, Ramai Yussef, un cittadino pakistano arrestato e condannato dalla giustizia americana, dichiarò al­ la fine del processo: “Le torri crolleranno una sull'altra, pro­ vocando la morte di almeno 250 mila persone''. Sappiamo che il piano è stato realizzato quasi perfettamente. Solo il nume­ ro delle vittime è risultato molto minore. Ma la dichiarazione di Ramai Yussef ci informa - insieme a molte altre notizie 90

emerse dopo r i i settembre - che il piano era in preparazio­ ne da molto tempo, da alcuni anni. Dovremmo dunque im­ maginare resistenza di un gruppo molto ristretto di pro­ grammatori, poiché solo un pugno di persone avrebbe potu­ to conservare il segreto per un così lungo periodo di tempo. Pochissimi e molto potenti. Ecco la prima conclusione logi­ ca. George Tenet la conferma: “Il segreto era nelle menti di tre o quattro persone”.5 Scorriamo l'elenco delle organizzazioni estremiste isla­ miche. È un lungo repertorio di sigle che ha popolato le pa­ gine di giornali, riviste e analisi degli esperti. Non poteva non essere incluso nei rapporti dei servizi segreti di tutto il mon­ do, sicuramente dei servizi segreti occidentali e di Israele in primo luogo. Hamas (Movimento di resistenza islamica), che ha avuto santuari e protezioni in Siria e Irak; Abu Nidal; Abu Sayyaf (Filippine); la sunnita jihad islamica, con basi in Egit­ to; Al Takfin al Hijrah, ancora egiziana, ma forse più mode­ rata della consorella; Al Qaeda; il Fronte islamico tunisino, collegato con molti fili al regime dei taleban e ai servizi se­ greti pakistani; Ennadha (Tunisia); Già [Gruppo islamico ar­ mato] algerino e sunnita; Al Harak al Shaija al Maghribia al Mokatila (Marocco); Hezbollah, vicini all'Iran; Fronte demo­ cratico per la liberazione della Palestina; Jammaa Islamija (Filippine, Malaysia, Indonesia e Singapore); Laskar jihad (Indonesia); Larkar Mujaheddin (Indonesia); Harakat ulMujaheddin; Partito dei lavoratori del Kurdistan; Mujaheddin-e-Khalq... Bisogna fermarsi qui perché l'elenco è davve­ ro sterminato. Quelle citate sono tutte organizzazioni isla­ miche. Di esse solo una parte è inclusa nell'elenco delle ventotto organizzazioni che il Dipartimento di stato americano ha reso noto il 5 ottobre 2001. Non tutte sono con certezza collegate alla rete di Al Qaeda, ma la vastità dell'elenco - al quale bisognerebbe aggiungere le organizzazioni che opera­ no nelle repubbliche ex sovietiche dell'Asia centrale, in Ta­ gikistan, in Uzbekistan, in Kazakistan, in Kirghizistan, nel Caucaso del Nord, in Tatarstan e ovviamente in Cecenia - si­ gnifica migliaia di militanti diffusi in ogni area del mondo, non solo nei paesi musulmani, ma in tutto l'Occidente, negli Stati Uniti d'America e in tutti i paesi europei, nessuno esclu­ so. Ma se proviamo a confrontare la reale consistenza di ognu­ no di questi gruppi, alla luce di quanto si conosce e di quan­ to si può dedurre dalle loro operazioni, dalle rivendicazioni, dalle azioni attribuibili ecc., non vi può essere dubbio che c'è una totale disomogeneità fra le attività di ciascuno di essi e 91

la potenza operativa e organizzativa delazione terroristica messa in atto l’l 1 settembre. Intendo dire, prima di tutto, che nessuna di queste orga­ nizzazioni sembra in grado di realizzare una performance di quel livello e complessità: non sono compatibili con la rete terroristica di cui si è così tanto parlato dopo r i i settembre. La rete - che certo esiste - assicura molte cose, tra cui la ca­ pillare presenza in molte aree, la moltiplicazione dei rifugi, un’ampia possibilità di reclutamento ecc. Ma tra la rete e l’or­ ganizzazione che ha progettato e fatto eseguire l’il settem­ bre c’è - dev’esserci - un vero abisso, una distanza incolma­ bile, una totale incomunicabilità per poter mantenere segre­ ta, così a lungo, l’azione cospirativa. Una rete non può rea­ lizzare un’operazione terroristica di così ampia portata, con implicazioni tecniche, politiche, economiche tali da essere paragonata (in questo senso giustamente) a un’azione di guer­ ra. Per giunta condotta contro il paese guida dell’Occidente, contro la superpotenza dotata di tutte le misure di difesa an­ titerroristica. Una rete, infatti, ha buchi oltre che fili. Da que­ sti buchi avrebbe potuto uscire con molta facilità quella mi­ nima informazione sufficiente a far scoprire e a far fallire il piano. Come s’è visto, i progettisti hanno saputo prevedere quest’eventualità. Non bisogna dimenticare che - per quanti errori siano stati compiuti dai servizi segreti occidentali, in particolare dalle numerose centrali segrete statunitensi, ma anche dal Mossad, non meno competente e attento - non vi può essere il minimo dubbio sul fatto che quasi tutta questa galassia di organizzazioni estremiste era comunque sotto un controllo strettissimo, monitorata e spiata sistematicamen­ te. Si potrebbe dire che, per definizione, quasi tutte queste organizzazioni, specie quelle ritenute più pericolose, erano e sono infiltrate perfino ai più alti livelli decisionali. Se non di­ rettamente, i servizi segreti occidentali (ma il discorso vale per tutti i servizi, incluso quello israeliano o dei paesi arabi e musulmani) disponevano di occhi e orecchie pronti a rife­ rire. Cia e Mossad hanno sempre avuto i loro canali di co­ municazione e d’intervento in tutti i paesi interessati. Infine, non si può trascurare il fatto - incontrovertibile - che molti degli stessi capi terroristi sono stati, in una fase della loro car­ riera, variamente finanziati, aiutati, consigliati dalle centra­ li dello spionaggio dell’Occidente. E hanno comunque svolto funzioni per conto e a stretto contatto con quelle centrali. Tut­ ti i capi della cosiddetta “resistenza” afghana contro i sovie­ tici, da Gulbuddin Hekhmatjar a Burhanuddin Rabbani, ad 92

Ahmad Shah Masood, insieme a tutti i capi dei sette partiti di Peshawar furono in vario modo e dimensione armati e istrui­ ti dall'Isi, il servizio segreto militare pakistano che agiva a sua volta come intermediario per le forniture militari e i finan­ ziamenti americani e arabo-sauditi. Da qui qualche inevita­ bile corollario: fra terrorismo e servizi segreti è sempre esi­ stita una fitta serie di contiguità. Affidare alla rete compiti più che marginali avrebbe significato farsi scoprire molto presto, in quanto essa avrebbe sicuramente lasciato passare qualche dettaglio fatale. Anche il fattore tempo dev essere tenuto presente. Tanto più lunga è la preparazione dell'attentato, tanto più alta è la probabilità di una fuga di notizie dovuta all'errore di uno de­ gli esecutori. Se è vero che si è trattato di un'operazione pro­ gettata con anni d'anticipo, è logico presupporre che gli or­ ganizzatori si siano tutelati accrescendo i livelli cospirativi fi­ no a livelli inimmaginabili. L'operazione non poteva non es­ sere la risultante di un'attività concertata alla quale prende­ vano parte alcune centinaia di persone. Il pericolo di errori cospirativi era ancora più elevato perché - come ora sappia­ mo - gran parte dei commando terroristici ha agito per alcu­ ni anni non in campi di addestramento tra montagne afgha­ ne o in deserti inaccessibili, ma nel bel mezzo delle città ame­ ricane ed europee, quindi esposti a ogni tipo di contagio, a ogni tentazione o errore. La cifra che più spesso è circolata è di qualche decina di partecipanti agli attentati. Ma se si pro­ va a elencare tutte le operazioni necessarie per i quattro di­ rottamenti, soprattutto per la loro preparazione più che per l'esecuzione finale (scelta dei quadri, preparazione tecnica, psicologica, operazioni bancarie, sistemi di comunicazione, falsificazione di documenti, controllo e trasmissione dati, lo­ gistica, trasporti, coordinamento, sistemi di segretezza e di codice), allora ci si rende conto che fu necessario ben più di un centinaio di persone. Se poi si dovessero ipotizzare altri colpi, pronti per essere esplosi dall'arma che stiamo descri­ vendo, allora dovremmo ipotizzare l'esistenza, da qualche par­ te, distribuito e dormiente, di un piccolo esercito, paragona­ bile a un corpo speciale di teste di cuoio simile a quelli di cui dispone uno qualunque dei paesi del G8. Con una specificità: questo piccolo esercito dovrebbe es­ sere composto da persone capaci di vivere una vita normale, mimetizzate totalmente, mentre sono impegnate ad allenar­ si ad azioni che hanno la certezza di un esito letale, con una disciplina assolutamente incomparabile, cioè superiore, ri­ 93

spetto a quella di qualsiasi forza speciale conosciuta. Innan­ zitutto perché a nessun esercito delle civiltà dell'Occidente si è mai chiesto di morire, senza scampo, per portare l'azione a compimento. Il che, tra l'altro, spiega in parte perché nessu­ no è stato capace di progettare una difesa. Perché nessuno ha messo nel conto - sebbene il concetto di kamikaze individuale fosse stato considerato negli scenari di difesa - un'azione ter­ roristica tanto radicale da implicare il suicidio simultaneo di tutti i commando impiegati. Con l'ulteriore complicazione, ancor più imprevedibile secondo i criteri di una mentalità normale (cristiano-occidentale, per Oriana Fallaci) di ka­ mikaze collettivi ad alto livello tecnologico. Cioè non giova­ nissimi, non disperati, non fanatizzati; persone adulte, ab­ bastanza colte, dotate di nervi d'acciaio, capaci di vivere nor­ malmente, per anni, accanto a vicini di casa anch'essi nor­ mali, mentre si preparano coscienziosamente a suicidarsi per uccidere. L'assoluto livello di segretezza necessario (ed effettivamente raggiunto) dice dunque, insieme a tutte le considerazioni fin qui svolte, che non la rete, ma un livello superiore dev'essere pensato per risalire ai veri organizzatori e strateghi. La rete è servita, in questo caso, a svolgere due funzioni del tutto ancillari, senza essere stata minimamente investita del progetto strategico. Le due operazioni ancillari sono la ricerca e l'indi­ viduazione dei quadri e lo svolgimento di operazioni sussi­ diarie, da assegnare a manovali assolutamente all'oscuro del significato delle azioni loro affidate dagli intermediari, a loro volta all'oscuro di tutto. Questo livello superiore, che potrem­ mo definire cupola - mutuando l'espressione dall'esperienza italiana (e, come si vedrà, non solo per lontana analogia) - è dunque il vero oggetto da identificare. Non credo che questa cupola sia stata costruita da un solo servizio segreto, di un so­ lo paese islamico. Una simile ipotesi non potrebbe spiegare l'efficienza straordinaria mostrata sul terreno degli Stati Uni­ ti, né avrebbe potuto garantire la segretezza dei mandanti. Non regge neppure l'idea di un'alleanza tra più servizi segre­ ti, anche senza il consenso formale dei rispettivi governi. A maggior ragione la possibilità di mantenere il segreto si sa­ rebbe ulteriormente ridotta, fino a rendere impossibile l'atto terroristico. Con maggiore probabilità, si può ipotizzare che la cupola contenga alcuni alti esponenti di servizi segreti di diversi paesi. E altri ispiratori molto importanti, non neces­ sariamente conosciuti (anzi, con molta probabilità scono­ sciuti) da tutti i membri della stessa cupola. 94

Conclusione, questa, che non dovrebbe stupire troppo un lettore italiano, cittadino di un paese che negli ultimi quarant anni ha toccato con mano situazioni in cui servizi deviati hanno cooperato alla realizzazione di gravissimi attentati ter­ roristici. La strage della Banca nazionale dell'agricoltura, in piazza Fontana a Milano nel dicembre 1969, quella di piazza della Loggia a Brescia, il rapimento e lassassimo di Aldo Mo­ ro, ritalicus, la bomba alla stazione di Bologna. Decine di mor­ ti, centinaia di feriti possono sembrare poca cosa rispetto al­ l'evento dell' 11 settembre, dove i morti si misurano a migliaia. Ma è solo questione di grandezza della posta in gioco. Nel ca­ so dell'Italia, la posta era la necessità di fermare a tutti i costi l'arrivo dei comunisti al potere in Italia. Nel caso dell'11 set­ tembre la posta in gioco è il dominio del mondo. E, per tali obiettivi, è il terrorismo di stato che entra in azione. E ciò si­ gnifica, di solito, che si muovono segretamente pezzi di servi­ zi segreti, che in Italia siamo abituati a chiamare “deviati". Spezzoni che agiscono due volte nell'ombra perché sono se­ greti anche ai capi ufficiali dei servizi segreti, che sfuggono ai controlli delle direzioni politiche dei singoli paesi, ma che agi­ scono sempre in base a piani, progetti che nascono all'intemo delle classi dirigenti e che vengono lasciati procedere, oppure vengono fermati, accelerati, rallentati a seconda dell'evoluzio­ ne delle situazioni politiche. In ogni caso, si tratta di stragi, cioè assassinii di massa di civili innocenti, ideati per produrre risultati politici. Sempre, in operazioni di questo genere, or­ ganizzazioni criminali di vario livello svolgono funzioni ausiliarie individuali, mentre alti funzionari dello stato, collocati nei gangli vitali della polizia, dell'esercito, della magistratura, svolgono funzioni di copertura, cioè intervengono discreta­ mente per depistare, cancellare le tracce, prosciogliere indi­ ziati, impedire che le indagini procedano e così via. Molto spesso, come anche l'esperienza italiana ha ripetu­ tamente dimostrato, perfino gli esecutori materiali sono spes­ so all'oscuro del disegno per il quale lavorano. Anzi, hanno la convinzione di agire in nome dei propri ideali, buoni o cat­ tivi che siano. E di agire in piena autonomia. Ma le stesse con­ vinzioni possono guidare anche i depistatori, gli insabbiato­ ri, almeno fino a certi livelli gerarchici: ciascuno convinto di agire nell'interesse superiore del proprio paese. E lo stesso Osama bin Laden a comunicarci un piccolo dettaglio di que­ sto meccanismo quando, nel famoso “video della confessio­ ne", racconta: “I fratelli che condussero l'operazione sapeva­ no solo che sarebbero diventati dei martiri. Chiedemmo loro 95

di andare in America, ma loro non sapevano nulla della mis­ sione, neanche una lettera. Vennero addestrati. La missione fu loro comunicata poco prima che salissero a bordo. Chi era addestrato per volare non conosceva gli altri. I due gruppi non si conoscevano tra loro”.6 Si tratta di meccanismi ben noti a tutti i servizi segreti, da che mondo è mondo. Essi so­ no perfettamente utilizzabili proprio perché la grande mas­ sa del pubblico è assolutamente estranea a questo tipo di lo­ giche del potere più cinico e brutale, quindi non può neppu­ re immaginare simili mostruosità e, quando eventualmente vengono spiegate e descritte (sempre molto tempo dopo l'ac­ caduto, in quanto queste verità richiedono immancabilmen­ te molti anni o decenni per emergere), le rifiuta perché sono troppo penose da accettare. Può servire da utile promemoria, in questo senso, la vi­ cenda lontana del tentativo statunitense di liberare gli ostag­ gi americani dei pasdaran nell'ambasciata a Teheran. Era il 1980, ultimo anno del presidente Jimmy Carter che aveva come segretario di stato per la Sicurezza nazionale Zbignew Brzezinski. Venne dato incarico di preparare il piano a un gruppo di anziani funzionari della Cia richiamati in ser­ vizio dalla pensione. Uno degli autori del piano, Miles Copeland, rivelò successivamente alcuni dettagli che sembrano scritti apposta per esaminare l'11 settembre 2001.7 “Il piano - scriveva Copeland - avverrà sotto 'copertura' dall'inizio al­ la fine. Vi saranno almeno due strati di copertura e innume­ revoli operazioni di disinformazione, con lo scopo di punta­ re il dito del biasimo - o del credito - in tutte le direzioni, ec­ cettuata quella giusta. All'inizio gli stessi protagonisti del raid saranno indotti a credere di agire per conto di qualche auto­ rità che abbia credito nella regione, come per esempio il go­ verno delllrak o della Libia o qualche organizzazione mu­ sulmana rispettata. Ma una volta che la copertura comin­ ciasse a mostrare delle crepe, si potrà rivelare che, in realtà, l'appoggio all'operazione viene dallo stesso governo iraniano. In ogni caso, ciò che è importante nel tipo di copertura è il modo in cui l'operazione apparirà al mondo esterno. A tutti coloro che saranno effettivi testimoni del raid (gli studenti, gli ostaggi, gli spettatori fuori del compound) esso apparirà come fosse di origine interamente indigena.''8 E così conti­ nua: “È assiomatico [...] che le persone che sono quietamen­ te e intelligentemente patriottiche sono difficilmente in­ fluenzabili. Diversa è la condizione dei fanatici. Quando il fa­ natismo non sia andato al di là della completa follia, esso ren­ 96

de coloro che ne sono affetti particolarmente suscettibili al genere di blandizie che gli agenti della Cia, sotto appropria­ ta maschera, sono in grado di offrire. In ogni caso, conside­ rando il numero dei possibili agenti reclutabili - e per i pro­ fessionisti della Cia ogni studente è un agente potenziale, sal­ vo diversa prova - la legge delle medie è dalla nostra parte. Usando tecniche di reclutamento collaudate ormai da anni, agenti della Cia che si facciano passare per agenti iracheni, libici e anche iraniani potrebbero valutare il gruppo degli stu­ denti, porre il problema a pochi di essi tra i più prometten­ ti', uccidere quelli le cui reazioni fossero 'insoddisfacenti', e inviare gli altri al 'bersaglio' equipaggiati di trappole psico­ logiche tali che qualsiasi tentativo di ingannarci verrebbe im­ mediatamente scoperto, e infine far conto che la percentua­ le residua porti a termine i compiti assegnati''.9 È applicabile quest'analogia agli eventi dell'11 settembre? Giudichi il lettore. A me pare straordinariamente funzionale. E, tornando ai servizi deviati dell'esperienza italiana, ci si fi­ guri la relativa facilità di analoghe deviazioni in paesi dove il carattere tribale o familiare dei regimi si coniuga con istitu­ zioni statuali molto fragili quando non inesistenti. E c'è un al­ tro elemento da tenere d'occhio. Gli strateghi di questa cupo­ la devono avere competenze assai raffinate e molto occidenta­ lizzate. Per esempio un'elevata sensibilità alla spettacolarità mass-mediologica. E le competenze non si fermano a McLuhan ed epigoni. La cupola ha scelto una tempistica molto vicina all'evolversi della crisi dell'economia americana e agli sviluppi dell'incombente recessione mondiale. La recessione america­ na fu riconosciuta ufficialmente solo a metà novembre 2001. Che, come afferma il calendario, viene dopo l'11 settembre. Ma si è anche saputo che i dati erano già noti nella primavera pre­ cedente. E la primavera, dice il calendario, viene prima del­ l'autunno. Otto mesi abbondanti per comunicare al mondo in­ tero la notizia più importante dell'ultimo ventennio: la loco­ motiva americana si era fermata. Un ritardo, una lentezza dav­ vero singolare nel mondo della fulminea comunicazione vir­ tuale, nel fantastico universo di Internet e dei collegamenti pla­ netari dell'intera finanza mondiale in tempo reale. E, a questo proposito, emergono altre fantastiche notizie, tanto più fantastiche perché rimaste inesplorate, dopo l'il settembre, malgrado promettessero una grande massa di informazioni sugli organizzatori delle stragi. Tra queste, l'ac­ certamento che, al Chicago Board Options Exchange, nei gior­ ni 6 e 7 settembre si registrarono 4744 put options della Unit97

ed Airlines, contro sole 396 cali options . 10 Nulla giustifica una simile quantità di vendite in quei due giorni. Quando il mer­ cato riaprì, dopo gli attentati, le azioni della United Airlines crollarono del 42%, da 30,82 dollari a 17,50 dollari. Chi giocò quell;operazione portò a casa 5 milioni di dollari. Uno dei due aerei che si schiantò contro le Twin Towers era della United Airlines. Casuale? Ma anche le azioni dell'altra compagnia aerea coinvolta negli attentati, l'American Airlines, subirono la stessa sorte. Questa volta all'immediata vigilia, il 10 settembre, i futures di vendite potenziali registrarono 4156 opzioni, contro 748 di acquisti. Ventiquattro ore dopo, le azioni di American Air­ lines crollarono del 39%. Casuale? Chi fece l'operazione in­ tascò circa 4 milioni di dollari. Sempre nel Chicago Board (si noti che tutte queste speculazioni furono fatte lontano da Wall Street, per ridurre la possibilità di rilevazione immediata), un'analoga operazione riguardò le azioni della grande banca d'investimento Morgan Stanley Dean Witter & Co. che occu­ pava ben 22 piani del World Trade Center. In quel caso, 1eput options furono 2157 nei tre giorni di contrattazioni che pre­ cedettero il fatale 11 settembre. Nei giorni precedenti, la me­ dia di quel tipo di stock options era di 27 al giorno. Dopo gli attentati, le azioni della Morgan caddero da 48,90 a 42,50 dol­ lari. Chi aveva indovinato portava a casa 1,2 milioni di dol­ lari. Casuale?11 Cosa sia successo nelle sedi europee, giappo­ nesi e in altre parti del mondo dove si contrattano le stock op­ tions non si sa. Qualcuno ha fatto indagini analoghe, maga­ ri anche sull'andamento delle azioni delle compagnie di as­ sicurazione? Non si sa. In ogni caso nessuna notizia sembra essere emersa dopo quelle che qui ho riferito. Ma si potreb­ be risalire agli autori di queste operazioni (assai probabil­ mente di insider trading) realizzate molto probabilmente da chi conosceva in anticipo (e, a quanto pare, con maggior pre­ cisione di Osama bin Laden, stando almeno al suo videota­ pe-confessione) la data dell'assalto terroristico? Gli esperti af­ fermano che è difficile, ma possibile. Difficile perché è ovvio che le transazioni furono fatte sotto falso nome, da imprese fittizie, attraverso diversi intermediari. E non c'è dubbio che chi ha fatto queste operazioni è un raffinato operatore di bor­ sa. Anzi, un team di maestri della speculazione. Tutti arabi, fanatici e fondamentalisti islamici? Tra le “innumerevoli coperture'' di cui parla Copeland, può esserci stata la trovata della celebrazione della strage di Sabra e Chatila (che comunque non avvenne l'11 settembre). Mo­ 98

tivo in più per supporre che si volessero nascondere altri obiet­ tivi di portata ben più vasta di quelli puramente simbolici. In ogni caso, l'individuazione di Osama bin Laden come unico responsabile, come il satana di turno, è troppo platealmente mutuata da James Bond, o dalla Spectre di Ian Fleming per essere credibile. Hollywood non è - purtroppo - Manhattan. Involontariamente lo rivelano le terrificanti dichiarazioni di Bush, Cheney, Rumsfeld quando parlano di una guerra glo­ bale, di lunga durata. Se fosse solo Osama non ci sarebbe bi­ sogno di tanto sforzo d'immaginazione. Invece, mettendo in­ sieme tutti questi indizi o dettagli, è forse possibile avanzare qualche considerazione induttiva finale, certo molto provvi­ soria, che potrebbe aiutarci a non restare sorpresi, tra qual­ che tempo, nel caso si scoprisse che la cupola esisteva davve­ ro ed era composta in modo molto più variegato di quanto si sia voluto mostrare. Un identikit collettivo potrebbe essere questo: ottimi conoscitori dell'Occidente, altrettanto ottimi analisti della disperazione sociale del Sud del mondo, mani­ polatori brillanti del fanatismo religioso islamico, molto ric­ chi, frequentatori dei più esclusivi circoli finanziari, abili ge­ stori deìYinsider trading, con accesso a informazioni riservate di carattere politico, diplomatico, militare. Se la mia descrizione dello stato del mondo fosse vicina al vero, si potrebbe dire che questa cupola sta in parte su quel ponte di comando di cui ho parlato nel primo capitolo. Forse lassù, abbastanza in alto, ma ben al di sotto delle nuvole, chi riuscisse ad accedere potrebbe trovare alti finanzieri non sol­ tanto petroliferi; qualche Ceo di banche d'investimento e non soltanto; politici e militari di alto rango, membri della supersocietà globale; membri di regimi insospettabilmente amici dell'Occidente che hanno fatto i loro calcoli e sono giunti al­ la conclusione che la sua protezione non sarà sufficiente a ga­ rantire loro ricchezze, potere e perfino la vita; feroci rampol­ li di dinastie minacciate; commercianti miliardari che vivono nel mercato capitalistico senza essersi mai convertiti alle idee dell'Occidente, anzi odiando l'Occidente con tutte le loro for­ ze. Tutti mescolati, anzi fusi, in una micidiale congrega se­ greta, insieme ai teorici della jihad. Insomma, una cellula im­ pazzita di una globalizzazione impazzita. Osama bin Laden può essere - forse lo è - uno di loro. Il suo ritratto e la sua biografia corrispondono a molti di que­ sti indizi. Ma non è l'unico e, probabilmente, nemmeno il più importante. Bombardare Kabul, o anche Baghdad, non ser­ virà a colpire la cupola. Con la stessa logica hollywoodiana 99

si dovrebbe bombardare Islamabad e Riyadh, il Cairo e Am­ man e anche qualche capitale europea dove banchieri e brokers cristianissimi hanno lavorato, con vari gradi di con­ sapevolezza, per quella causa, e dove la cupola ha probabil­ mente alcuni dei suoi uffici. Parlando con la gente, in decine d'incontri, in Italia e non soltanto, mi è capitato di incontrare molte persone che, con diversa sintonia, erano giunte se non alle stesse conclusioni, perlomeno a sospetti analoghi. Di fronte ai quali tuttavia - e lo stesso vale anche per chi scrive - si erge la mostruosità del­ l'evento terroristico, la sua smisurata grandezza assassina, la sua crudeltà mortale. Come è possibile? Esiste davvero gente disposta a ordire, freddamente, intrighi sanguinosi di queste dimensioni? Di fronte a un simile interrogativo perfino il fa­ natismo appare più accettabile. Mostruoso, certo, ma almeno folle. Sarebbe terribile pensare che a questo si può giungere per la via della ragione di stato. E allora leggiamo insieme, in versione integrale, l'intervista che Zbignew Brzezinski rilasciò a “Le Nouvel Observateur" nel 1998. Domanda : L'attuale presidente della Cia, Robert Gates, constata nelle sue memorie (“Dalle Ombre") che i servizi segreti degli Sta­

ti Uniti cominciarono ad aiutare i mujaheddin in Afghanistan sei mesi prima dell'intervento sovietico. In quel periodo lei era con­ sigliere per la Sicurezza nazionale del presidente Carter. Dev'esserci dunque stato un suo intervento nella questione. È corretto? Risposta: Sì. Secondo la storia ufficiale gli aiuti della Cia ai mujaheddin cominciarono nel corso del 1980, vale a dire dopo l'invasione sovietica dell'Afghanistan del 24 dicembre 1979. Ma la verità, tenuta segreta fino a questo momento, è completamen­ te diversa: infatti la prima direttiva per aiuti segreti agli opposi­ tori del regime filo-sovietico di Kabul fu firmata dal presidente Carter il 3 luglio 1979. Quello stesso giorno scrissi una nota al presidente nella quale spiegavo che secondo me quegli aiuti avreb­ bero indotto i sovietici all'intervento militare. Domanda : Consapevole del rischio, lei fu un sostenitore di quel­ la covert action. Speravate forse che l'Unione Sovietica interve­ nisse e avete lavorato per provocarne l'intervento? Risposta : Non è esattamente così. Noi non abbiamo spinto l'U­ nione Sovietica a intervenire, ma abbiamo consapevolmente fat­ to aumentare la probabilità di un suo intervento. Domanda: Quando i sovietici giustificarono il loro intervento as­ serendo che intendevano contrastare un coinvolgimento segreto degli Stati Uniti in Afghanistan, nessuno diede loro credito. Non era poi così lontano dal vero. Non avete nessun rimorso ora? Risposta : Rimorso per cosa? Quell'operazione segreta è stata un'ot­ tima idea. Ebbe l'effetto di trascinare i sovietici nella trappola af­ 100

ghana e lei vorrebbe che ne provassi rimorso? Il giorno in cui l'U­ nione Sovietica varcò ufficialmente il confine afghano io scrissi al presidente Carter: adesso abbiamo l'occasione di dare ai so­ vietici il loro Vietnam. Infatti per almeno dieci anni l'Unione So­ vietica si trovò invischiata in una guerra insopportabile per il suo governo, un conflitto che portò alla demoralizzazione e al defi­ nitivo crollo dell'impero sovietico. Domanda: Lei non ha rimorso neppure per aver sostenuto l'inte­ gralismo islamico, fornendo armi e istruzioni ai futuri terroristi? Risposta : Cosa è più importante nella storia del mondo? I taleban o il crollo dell'impero sovietico? Qualche fanatico musulmano o la liberazione dell'Europa centrale e la fine della Guerra fredda? Domanda: Qualche fanatico musulmano? Ma se è stato detto e ri­ petuto che oggi il fondamentalismo islamico rappresenta una mi­ naccia mondiale... Risposta : È un nonsenso! È stato detto che l'Occidente ha una po­ litica globale nei confronti dell'Islam. Questo è molto stupido. Non esiste un Islam globale. Bisogna guardare l'Islam in modo razionale e senza demagogie o emotività. È la religione di mag­ gioranza nel mondo, con oltre un miliardo e mezzo di fedeli. Ma cosa hanno in comune il fondamentalismo dell'Arabia Saudita, il moderatismo del Marocco, il militarismo pakistano, l'occidenta­ lismo egiziano o il secolarismo centro-asiatico? Niente di più di ciò che unisce i paesi cristiani.12

In quel 1979, secondo le statistiche dell'Onu, in Afghani­ stan vivevano circa 23 milioni di persone. Dopo 23 anni pos­ siamo calcolare gli effetti. Circa due milioni di morti, almeno cinque milioni di profughi, circa un milione di invalidi. Il pae­ se è un tappeto di dieci milioni di mine. Per distruggere l'Im­ pero del Male l'Afghanistan fu trasformato “coscientemente” in una trappola. Con dentro 23 milioni di topi. Certo erano af­ ghani, valevano poco. Ma se l'obiettivo è la conquista del mon­ do intero, cosa volete che siano tre o quattromila morti, an­ che se sono americani?

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6.

Impero penale

“Insediandosi alla presidenza, George W. Bush pronunciò il giuramento solenne di preservare, proteggere e difendere la Costituzione degli Stati Uniti'. Dal momento dei tragici at­ tacchi deiri 1 settembre, l'amministrazione Bush ha promos­ so una serie di atti legislativi e direttive amministrative senza precedenti che alterano fondamentalmente il sistema di bi­ lanciamento dei poteri stabilito dalla Costituzione. Secondo questi provvedimenti, ai non cittadini [statunitensi] non sarà più garantito il diritto costituzionale di libertà di parola e di associazione. Le agenzie governative potranno arrestare non cittadini per periodi di tempo indefiniti, per violazioni di leg­ gi concernenti le norme sull'immigrazione, senza dover giu­ stificare le loro decisioni di fronte alla legge. Agitare le ban­ diere non è sufficiente. Gli americani dovrebbero anche di­ fendere il loro Bill of Rights. Se il signor Bush dovesse conti­ nuare su queste linee, i patrioti americani avranno giusta­ mente il diritto di chiedere il suo impeachment per violazione del giuramento."1 L'autore di queste righe aveva di fronte un elenco davvero impressionante di novità legislative emerse nel corso di poco più di due mesi a partire dagli attentati dell'l 1 settembre. C'è stato chi ha parlato di un terribile shock, di una reazione ir­ riflessa, difensiva. C'è stato chi ha definito “fisiologico" un ten­ tativo di risposta a una minaccia inedita mediante una restri­ zione delle libertà fondamentali. Un giro di vite in attesa di qualcosa di più meditato, per ridurre i varchi a chi utilizza le maglie larghe di una società libera per colpirla proditoria­ mente. A emergenza suprema, suprema repressione. Solo questo? A guardare meglio si scorgono le linee di una strategia repressiva che non ha l'aria di essere stata del tutto improvvisata e che, anzi, pare del tutto congeniale ai gusti dei suoi promotori. Il nuovo “Ufficio per la difesa del territorio" 102

è in sostanza una nuova agenzia di spionaggio interno che avrà il compito di coordinare quelle già esistenti. Nuove di­ sposizioni consentono ora la detenzione preventiva, senza li­ miti di tempo, per cittadini stranieri sospettati di crimine, e senza bisogno di formalizzare l'arresto con un preciso capo d'accusa. La polizia potrà agire con meno vincoli contro or­ ganizzazioni sospettate di terrorismo, mentre l'Fbi ha ora po­ teri illimitati per perquisire segretamente uffici e abitazioni private e per effettuare ogni tipo di intercettazione delle co­ municazioni private. Sarebbe già una lista preoccupante, se non s'inquadrasse, ad aggravarla, nella logica - già presente da tempo negli Stati Uniti e accentuata nell'ultimo ventennio - di affrontare i problemi della criminalità quasi esclusivamente in termini repressivi, carcerari, penitenziari. Le statistiche dicono che negli ultimi quindici anni la po­ polazione carceraria degli Stati Uniti è triplicata, superando la cifra di due milioni di persone. Un record mondiale asso­ luto. “Se si aggiungono [a questa cifra] i 3,7 milioni di indi­ vidui in libertà condizionata in attesa di giudizio, il totale dei soggetti penalmente perseguiti supera i 5,5 milioni di perso­ ne, vale a dire il 2,8% della popolazione adulta, il doppio ri­ spetto al 1980.”2 Un cittadino americano in stato di detenzione ogni 189 abi­ tanti, ivi inclusi i bambini. “Un dato impressionante se para­ gonato al già elevato rapporto di un detenuto ogni 480 abi­ tanti nel 1980.''3 È azzardato mettere in relazione queste cifre con gli effetti, interni agli Stati Uniti, della globalizzazione o - per usare l'espressione di Edward Luttwak - del “turbocapitalismo"? A me pare di no. Ci siamo sentiti ricordare da molte parti, con grande insi­ stenza, mentre si esaltavano le straordinarie virtù del popolo degli Stati Uniti - in verità un disgustoso fiume di retorica, nel quale si sono fatti galleggiare, sullo shock e il dolore rea­ lissimi, relitti di propaganda in puro stile sovietico - che quel­ lo è un grande paese, che ha sempre saputo reagire, attraver­ so una straordinaria dialettica democratica, a momenti an­ che gravi di distorsione autoritaria del suo sistema politico. Gli esempi non sono mancati: il maccartismo fu uno scivolo­ ne grave; il razzismo è sempre stato - e resta - una piaga profonda nella democrazia americana; il Vietnam, con le sue mostruosità belliche, spinse il paese verso derive antidemo­ cratiche; l'assassinio di Kennedy segnalò l'esistenza di poteri criminali nelle immediate vicinanze del potere politico; ci fu e c'è tuttora il completo cinismo con cui i governi degli Stati 103

Uniti hanno imposto il proprio ordine nel mondo, per decen­ ni durante la Guerra fredda, fino a oggi. È vero che la brutalità esclusiva con cui gli Stati Uniti han­ no sempre difeso i propri interessi, lasciando da parte ogni principio quando essi erano in causa (mentre continuavano a impartire lezioni morali agli altri), non si è mai tradotta in deformazioni permanenti della vita politica interna in senso antidemocratico. Sappiamo inoltre che negli Stati Uniti, per lunga tradizione, le leggi e i principi morali sono tenuti in al­ to conto. La questione è ora se le une e gli altri possano reg­ gere nella tormenta che la nascita dell'Impero sta sollevando sul mondo e all'interno stesso degli Stati Uniti. Poiché è dif­ ficile non vedere che pulsioni apertamente imperiali stanno tracimando fuori dal sistema politico-istituzionale degli Sta­ ti Uniti, verso il mondo esterno, in una specie di “esportazio­ ne del modello di stato penale" statunitense.4 Traguardo (per ora) supremo di tale deriva è l'ordinanza del presidente Bush, emanata il 13 novembre 2001, con la qua­ le si istituiscono tribunali militari speciali. Antonio Cassese ha scritto che, con questa direttiva, “la società americana ha fatto un balzo indietro di cinquantanni"5verso la barbarie giu­ ridica. “Mal consigliato da un ministro della Giustizia in pre­ da al panico per i suoi fallimenti, il presidente ha assunto po­ teri dittatoriali e ha commesso il suo primo errore storico."6 Queste parole, se fossero state scritte su un giornale italiano, avrebbero provocato veementi ondate di accuse di antiameri­ canismo. Sono firmate, invece, da William Safire, repubbli­ cano conservatore, uomo della destra statunitense più in­ transigente. Non sono differenti, per altro, da quelle di un li­ beral come Richard Cohen: “Il ministro della Giustizia è l'uo­ mo più pericoloso del nostro governo, l'equivalente moderno del prefetto di polizia nel film Casablanca che si abbandona alle retate preventive contro tutti i sospetti, calpestando tutte le garanzie costituzionali. Questo stanno facendo Bush e il suo ministro: stanno riscrivendo la Costituzione americana a col­ pi di editti e di decreti".7 Ma cos'ha preoccupato tanto le schiere di intellettuali del­ la destra e della sinistra americane, che pure avevano sposa­ to senza esitazioni l'idea della guerra globale contro il terro­ rismo internazionale? È l'enormità giuridica di quel decreto presidenziale. Ma soprattutto sono le inevitabili riflessioni sul futuro che prefigura. Vi si dice che il presidente degli Stati Uniti d'America - qui davvero nelle vesti del nuovo imperato­ re - può, sulla base delle informazioni di cui dispone, ema­ 104

nare decreti autocratici istitutivi di tribunali speciali militari, i quali: a) potranno giudicare soltanto cittadini stranieri, che abbiano preso parte, o cooperato, o anche soltanto coperto, atti terroristici contro gli Stati Uniti o che abbiano gravemente leso gli interessi politici ed economici statunitensi; b) potran­ no derogare alle più elementari garanzie di un equo proces­ so; c) potranno ignorare la presunzione d'innocenza; d) po­ tranno fare a meno dell'habeas corpus; e) potranno non pre­ vedere la scelta del difensore da parte dell'accusato; f) potranno celebrare processi segreti (in altri termini, nessuno saprà nul­ la di ciò che accadrà. Il massimo potrà essere la constatazio­ ne della sparizione di una persona); g) potranno usare prove generalmente escluse come invalide dai tribunali civili; h) po­ tranno condannare anche se i giudici, ovviamente militari, non saranno “convinti al di là di ogni ragionevole dubbio"; i) negheranno il diritto di appello dell'imputato e le sentenze sa­ ranno comunque definitive; 1) potranno comminare la pena capitale anche a maggioranza dei due terzi dei giudici, cioè due su tre. Sembra un provvedimento ritagliato appositamente per regolare i conti con Osama bin Laden. Tribunali come que­ sto possono processare a porte chiuse, non necessitano di pro­ ve, producono sentenze inappellabili. La pubblicità, se oc­ corre - e non è detto che occorra - può venire addirittura do­ po l'esecuzione della sentenza. Così si evita l'imbarazzo di ascoltare i proclami o le rivelazioni dell'imputato. E dio solo sa quanto potrebbe dire Osama bin Laden dei suoi rapporti con la Cia. Ma si capisce anche che la norma, pensata per Osama, diventa subito generale, applicabile a chi si vuole. Se­ condo il “New York Times", che successivamente ha com­ mentato il decreto con accenti piuttosto critici, alcuni degli aspetti più abnormi sarebbero stati successivamente corret­ ti nei regolamenti di attuazione in cui, per esempio, si pre­ vede la possibilità di giustiziare il condannato senza unani­ mità del collegio giudicante o di usare come prove d'accusa semplici dicerie. Ma anche l'editorialista americano mostra poche speranze in una correzione sostanziale del decreto, fi­ nendo per invitare il governo a una “migliore risposta" con­ sistente nel “giudicare i sospetti di terrorismo mediante il nor­ male sistema della giustizia americana". “Nessun altro tipo di processo giudiziario [rispetto a quelli civili e militari in vi­ gore] potrebbe offrire agli americani e al resto del mondo un verdetto più soddisfacente e un'affermazione più valida del­ la giustizia e della libertà americane [...]. Giudicare i capi di 105

Al Qaeda mediante collegi di così dubbia legittimità com­ prometterebbe ogni verdetto risultante agli occhi di gran par­ te del mondo."8 Sono evidenti le più crude implicazioni giu­ ridiche: ai sudditi primari dell'Impero, cittadini americani, viene riservato il privilegio di essere giudicati da tribunali ci­ vili, mentre i sudditi secondari (no citizens) dovranno piegarsi ai tribunali militari segreti. Inoltre gli Stati Uniti, mentre si oppongono all'istituzione di una Corte penale internaziona­ le, poiché non vogliono che cittadini statunitensi siano pro­ cessati per crimini di guerra o contro l'umanità (e vi sareb­ bero tutte le garanzie per la loro difesa), si riservano il dirit­ to di processare chiunque altro, in America o all'estero, sen­ za nessuna garanzia di rispetto delle norme processuali e pro­ cedurali, né della legalità internazionale. L'operato dell'amministrazione ha sollevato critiche auto­ revoli all'interno degli stessi Stati Uniti (in Italia il fervore po­ lemico è stato molto più contenuto e la stessa informazione data a un fatto di così grande rilevanza è stata così carente che milioni di persone non ne hanno saputo quasi nulla o nulla del tutto).9 Ma Bush ha ottenuto anche applausi e perfino sol­ lecitazioni a procedere oltre nella demolizione della Costitu­ zione. Oltre, fino alla tortura, alla violenza sui prigionieri, al­ lo sterminio del nemico, volta a volta presentato come crimi­ nale (come se i criminali potessero essere uccisi senza pro­ cesso) oppure come soldato (come se i soldati, prigionieri di guerra, non avessero diritti, neppure quelli della Convenzio­ ne di Ginevra). Del resto, si è visto che nessun limite è stato rispettato nel trattamento degli sconfitti in Afghanistan. Dal massacro compiuto dagli uomini di Dostum dopo la presa di Mazar-i-Sharif, al bombardamento aereo del carcere in cui hanno trovato la morte almeno 600 prigionieri, ai massacri di Kabul, di Kandahar, di Jalalabad, cui le truppe americane han­ no preso parte attiva in nome della vendetta e in spregio a tut­ te le norme internazionali. Prigionieri taleban e miliziani di Al Qaeda feriti e lasciati senza cure e senza cibo in tuguri senz'acqua né latrine. Non sapremo mai ciò che è accaduto in Afghanistan do­ po la caduta dei taleban, ma certo nessuno può trarre sod­ disfazione per una vittoria altrettanto orfana di gloria di quel­ la che fu ottenuta trasformando la Jugoslavia in un buco ne­ ro, bombardata dall'alto senza pietà per la popolazione civi­ le. Un Occidente barbaro e vile, che non è capace di elevar­ si al di sopra dei barbari che dice di voler combattere. Tan­ to da far esclamare al Cardinal Martini parole duna durez­ 106

za inusitata: “Ciò che si è fatto e si sta facendo contro il ter­ rorismo, specialmente a livello bellico, rimane nei limiti del­ la legittima difesa, o presenta la figura, almeno in alcuni ca­ si, della ritorsione, deìreccesso di violenza, della vendetta?”.10 L'interrogativo è retorico, la risposta è implicita nella cita­ zione biblica: Caino ha ucciso Abele, ma “chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte”. Parole cristiane, non musulmane, e terribili. Poi venne Guantanamo Bay e abbiamo potuto sapere qual­ cosa perfino dai giornali che hanno sostenuto la guerra. Non molto, s'intende, ma abbastanza per farci un'idea di come que­ sto gruppo di uomini che guida la politica degli Stati Uniti considera gli imperativi giuridici della comunità internazio­ nale. Quelli che ancora reggono alla tormenta. Quelli che ci dicono, dalle pagine ingiallite di lontani patti, che i prigionieri devono essere trattati in base alle norme della in Convenzio­ ne di Ginevra (1949). Forse non tutti sono definibili come pri­ gionieri di guerra,11 ma prima di tutto hanno diritto a essere trattati con umanità, dice la Convenzione. E, in ogni caso, poi­ ché non è sempre facile definire lo status di un combattente, la stessa Convenzione stabilisce che, in caso di dubbio, si deb­ ba pronunciare un “tribunale competente”. E, in attesa del suo giudizio, il prigioniero deve beneficiare, seppure provvisoria­ mente, dello status di prigioniero di guerra. Ora, lo status di combattente legittimo è valido sicuramente per i taleban, lo è anche per i miliziani di Al Qaeda catturati in combattimento, lo è meno per i leader e per coloro che si allenavano nei cam­ pi di addestramento per il terrorismo. Ma chi è in grado di di­ stinguere? Non si sa neppure chi siano tutti i detenuti di Guan­ tanamo Bay, da dove siano stati prelevati, con quali accuse. Ed è fin troppo evidente che non ci sono regole umanitarie nella loro detenzione. E, se non bastassero le fotografie e il poco che è stato lasciato trapelare, basterebbero le dichiara­ zioni di Rumsfeld e Cheney per confermare i peggiori sospet­ ti. “Li trattiamo fin troppo bene per i crimini di cui si sono macchiati,” hanno detto entrambi, in sostanza. E ti accorgi che questi signori non sanno neppure che in un paese demo­ cratico, dove esiste lo stato di diritto, il trattamento di un re­ cluso prescinde dalla gravità delle colpe che gli sono attribui­ te. A maggior ragione, ciò è inammissibile prima che la sua responsabilità venga sancita dalla regolare sentenza di un tri­ bunale regolare o militare, dopo un giudizio equo e libero. Il quadro è però perfino più nero di quanto queste prime nota­ zioni inducano a pensare. “Dall'l 1 settembre il governo degli 107

Stati Uniti ha trasportato segretamente dozzine di persone so­ spettate di legami con il terrorismo verso paesi diversi dagli Stati Uniti, eludendo le procedure di estradizione e le forma­ lità legali." “I sospetti sono stati portati in paesi, tra cui Egit­ to e Giordania, i cui servizi segreti hanno stretti legami con la Cia e dove essi possono venire sottoposti a tattiche di inter­ rogatorio - tra cui la tortura e minacce alle famiglie - che so­ no illegali negli Stati Uniti." In alcuni casi, “gli agenti dei ser­ vizi segreti statunitensi rimangono strettamente coinvolti ne­ gli interrogatori". È la procedura nota come “rendition" nel gergo dei servizi. Non è nuova. I servizi segreti statunitensi Thanno usata decine di volte negli ultimi anni. In molti casi, i “sequestrati" - spesso mediante voli charter organizzati di­ rettamente dalla Cia, senza neppure informarne le autorità giudiziarie dei singoli paesi ospitanti - sono stati lasciati, do­ po quei particolari “interrogatori", nelle mani di polizie e tri­ bunali senza leggi e sono stati giustiziati. In altri casi, sono stati successivamente prelevati e portati negli Stati Uniti. “I dettagli di tutte queste operazioni, condotte spesso ignoran­ do le leggi di estradizione locali e intemazionali, sono tenuti rigorosamente segreti."12 Il che significa che molte decine di altre operazioni sono rimaste segrete e i numerosi casi noti sono semplicemente sfuggiti al controllo di segretezza. Dei cir­ ca trecento detenuti di Guantanamo Bay (di molti, per il mo­ mento, non si conosce neppure l'identità), la maggioranza non è stata catturata in Afghanistan, ma prelevata in almeno 25 paesi diversi. In molte occasioni, direttamente da agenti se­ greti statunitensi; in altri casi, i sequestri di persona (in altro modo non è possibile tradurre la parola “rendition") sono sta­ ti affidati ai servizi locali. Almeno fino al momento di caricarli su aerei americani senza insegne, parcheggiati in aeroporti militari, spesso atterrati senza neppure essere registrati dalle autorità aeroportuali. I vantaggi sono evidenti. Niente pub­ blicità, niente proteste, niente battaglie legali, niente ricorsi, niente rischi, niente effetti d'immagine negativi per gli Stati Uniti. E, viceversa, massimo risultato nell'eliminazione dei so­ spetti, raccolta ottimale di informazioni tramite tortura, ag­ giramento della stessa legislazione americana. Questa era una pratica corrente prima dell'l 1 settembre. Ne sono stati vittime decine di membri di Al Quaeda o pre­ sunti tali. I gendarmi dell'Impero potevano fare quello che vo­ levano e l'hanno fatto. Come mai non ha funzionato? Au­ mentano i sospetti che fanno pensare a qualcosa di molto peg­ gio dell'inefficienza di cui ha parlato Woolsey. In ogni caso, 108

adesso questi metodi sono diventati moneta corrente, giusti­ ficati, legalizzati dal decreto del presidente-imperatore. Allora ti chiedi perché non protestiamo, noi che siamo en­ trati in questa guerra a fianco degli Stati Uniti e a difesa dei valori deirOccidente. Siamo più americani degli americani, evidentemente. Perché in America c'è chi protesta. "Ogni de­ tenuto che chieda il riconoscimento di prigioniero di guerra non può essere portato davanti alla commissione militare pro­ posta dallamministrazione Bush, ma dev'essere giudicato se­ condo la procedura regolare di una corte marziale, o da un tribunale civile."13“Sono, i principi di giustizia, semplicemente una facciata, che può essere coperta quando lo si pensi con­ veniente, oppure sono (come agli americani piace pensare) profondamente radicati nella psicologia nazionale? [...] Il si­ gnor Rumsfeld è assolutamente in torto quando afferma che i prigionieri afghani sono 'combattenti illegali' e pertanto non hanno alcun diritto in base alla Convenzione di Ginevra."14 Sfortunatamente per loro sarà proprio Rumsfeld a decidere la composizione dei tribunali militari segreti, anche se sono decine gli intellettuali americani che, lentamente e con fatica, in mezzo a squilli di fanfare patriottiche, hanno cercato di par­ lare. Tutti antiamericani anche loro? Sembra di sì, almeno se­ condo i punti di vista di altri intellettuali americani, giornali­ sti, commentatori politici che hanno auspicato di colpire an­ cora più duramente. Per esempio sollevando la questione del­ la tortura. Perché non usare anche quella? Così si è espresso lo storico Jay Winik che, sul “Wall Street Journal", è andato a ripescare il caso del terrorista Abdul Hakim Murad, tortura­ to dalla polizia filippina, nel 1995, fino a quando ha rivelato un piano per abbattere una dozzina di aerei americani (per inciso, un altro segnale molto anticipato che non fu tenuto in gran conto a Washington). “Cosa sarebbe successo - esclama Winik - se Murad fosse stato catturato negli Stati Uniti?" Nien­ te, probabilmente, perché gli Stati Uniti avevano ratificato la convenzione Onu del 10 ottobre 1984 “contro la tortura e al­ tri trattamenti e punizioni crudeli, inumani e degradanti".15 Winik, evidentemente, se ne duole. Pensa che, se Murad fos­ se stato catturato negli Stati Uniti, gli attentati si sarebbero verificati. Dunque viva la tortura e indietro nei secoli. Storico che non vede la storia e non sa nemmeno immaginare il va­ lore del diritto e la sua immensamente superiore possibilità ove venisse applicato - di prevenzione degli attentati. Leggo e ricordo la definizione che del “Wall Street Journal" ha dato Gore Vidal: un “allegro quotidiano neofascista, [...] beata­ 109

mente ignaro di quanto sconosciuto sia alla maggioranza de­ gli americani".16 Ma i torturatori potenziali che scrivono sui giornali della libera America, che parlano dai suoi schermi te­ levisivi sono stati parecchi. Forse in cerca, cinicamente, del­ l'audience, forse perché convinti. E non saprei scegliere la co­ sa peggiore. E, del resto, sui media italiani le cose non sono andate molto meglio, sebbene di tortura nessuno abbia avu­ to il coraggio di parlare. Ecco l'autorevole “Newsweek”, con Jonathan Alter17; ecco Shepard Smith, Bill Shine18 e John Du Pre su Fox Tv; ecco Tucker Carlson19 e Dahlia Lithwick20 su “Magazine Online Siate”. Perfino il “New York Times” ha pre­ so parte alle celebrazioni con un commento di Jim Ruthenberg. E anche qui viene bene l'epitaffio di Vidal: “Giornale che stampa solo le notizie che rientrano nella sua non dissimile visione del mondo”.21 Leggi e rileggi e non puoi non porti altre domande, sem­ pre più inquietanti. Siamo di fronte a un decreto, a una se­ rie di misure giuridiche che annullano la distinzione tra po­ tere esecutivo e giudiziario, ponendo drasticamente il se­ condo a servizio del primo. Lo stato di diritto negli Stati Uni­ ti viene cancellato, insieme alla sovranità nazionale di tutti gli altri stati del pianeta. La civiltà giuridica finisce qui. Di fatto equivale a rendere permanente lo stato d'assedio pro­ clamato da Bush subito dopo gli attentati. Una specie di le­ gislazione di guerra in tempo di pace. Poiché, sebbene nelle bocche dei maggiori responsabili dell'amministrazione la pa­ rola guerra abbia continuato e continui incessantemente a risuonare, nessuno ha dichiarato guerra a nessuno. Ma c'è un grande consenso attorno a tutto ciò, se è vero che una so­ la persona, nel Congresso degli Stati Uniti, Barbara Lee, de­ putata della California, ha votato contro la concessione di poteri straordinari all'imperatore. E i sondaggi dicono che, all'inizio della marcia vittoriosa contro l'Afghanistan, una maggioranza schiacciante di cittadini americani era favore­ vole alla guerra, “anche se molte migliaia di civili innocenti dovessero rimanere uccisi”. Il risultato è stato ottenuto, co­ me sappiamo, in tutti i sensi. E l'infezione autoritaria, l'attacco contro i diritti umani, sta già dilagando al di là dei confini degli Stati Uniti. Com'era pre­ vedibile, del resto, perché la nuova legge dell'Impero non può essere valida soltanto all'interno degli Stati Uniti d'America. I governi europei hanno subito accettato di applicare norme che violano i diritti di difesa, i diritti umani, le leggi nazionali e i trattati internazionali. ilo

L'Unione Europea, facendo seguito a una lettera inviata da George Bush a Romano Prodi il 16 ottobre 2001, ha predispo­ sto un documento in cui si sancisce che “l'estradizione dev'es­ sere ritenuta legale quando sia possibile ottenere garanzie giu­ ridiche dallo stato che si accinge a giudicare la persona", ma considerando, alla luce dell'11 settembre, oltre ai diritti indi­ viduali di colui che potrebbe essere estradato, anche gli inte­ ressi di sicurezza dello stato che ne fa richiesta.22 Insomma: si sacrifichino i diritti a vantaggio della sicurezza. Così la Francia consegna all'Algeria alcuni radicali islami­ ci, ben consapevole del trattamento cui saranno sottoposti e dell'assenza di decenti protezioni legali nel paese. L'Austria ha autorizzato la prima estradizione in Egitto di un imputato, Bilasi-Ashri. La Svezia, fino a ieri nota per il rigoroso rispetto del diritto di asilo, ha consegnato alle autorità egiziane, nel di­ cembre 2001, con un volo speciale, due residenti egiziani, Ahmed Hussein Agaiza e Mohammed Zari. Gran Bretagna, Ger­ mania e Danimarca hanno messo in cantiere restrizioni alle leggi sul diritto di asilo e addirittura nuove norme che con­ sentono di negare il diritto di asilo anche a coloro che lo aves­ sero già ottenuto. Situazioni analoghe si stanno moltiplicando in paesi con basi giuridiche meno solide o inesistenti. L'Azer­ baigian ha estradato tre egiziani e tre sauditi fin dal mese di ottobre 2001. Il Pakistan ne ha consegnato decine direttamen­ te agli Stati Uniti. In Bosnia le truppe statunitensi hanno di­ rettamente arrestato ed estradato (negli Stati Uniti), senza nep­ pure passare attraverso la sanzione degli organi bosniaci, cin­ que algerini, uno yemenita, un egiziano e un giordano. Siamo dunque all'inizio di una vera e propria ondata di illegalità in­ ternazionale, sancita dai governi occidentali. Sperare che essa rimanga confinata ai sospetti terroristi islamici è davvero un'in­ genuità assoluta. Siamo di fronte a due fatti connessi tra loro. L'imperatore ci dice e ci fa dire che la guerra sarà lunga, che non finirà nel corso di questa generazione. Nello stesso tempo, i suoi atti confermano che effettivamente ci si sta preparando a una guer­ ra di lunga durata. Non scherzano, non parlano a vanvera. Se sono impazziti - il che non è del tutto escluso - sono pazzi lu­ cidi. Pensano che sia in gioco la civiltà e sono convinti di rap­ presentare la suprema civiltà del pianeta. Identificano questa civiltà, cioè se stessi, con il Bene, e i suoi nemici, cioè il resto del mondo, con il Male. In questo schema non ce mediazio­ ne possibile. “O con noi o contro di noi," ha detto Bush fin dal primo giorno. Resta solo la guerra, permanente, infinita, eter­ lll

na, poiché il Bene e il Male sono entrambi eterni. E non sol­ tanto questo. Il conflitto tra Bene e Male non prevede una so­ cietà fondata sui diritti degli uomini, né compromessi tra gli stati. Non prevede organismi sovrannazionali cui delegare par­ te della propria sovranità in funzione del bene comune. Non prevede neppure limitazioni al potere del Bene, in quanto es­ so ha tutti i diritti e il dovere assoluto, cioè etico, di imporre i propri diritti. Siamo di fronte a una visione teocratica del mondo futuro, a un Impero religioso. Esagerazione, penserà qualche ottimista. Ma si può esse­ re ottimisti solo ignorando ciò che è già accaduto nell'ultimo decennio, segnato da un sistematico, organizzato, program­ mato declassamento di tutte le istituzioni sovranazionali di­ verse da quelle di Bretton Woods. Di questa demolizione so­ stanziale di una comunità intemazionale di paesi sovrani ed eguali, gli Stati Uniti sono l'interprete principale, il più coe­ rente. L'Onu è stata la prima vittima, trascinata in una condi­ zione subalterna, incapacitata a esercitare le proprie funzio­ ni equilibratrici. Messe in un angolo durante la guerra jugo­ slava, le Nazioni unite sono state costrette a varare, dopo r i i settembre, due risoluzioni senza precedenti che hanno legit­ timato una risposta militare in base al “diritto naturale alla le­ gittima difesa individuale e collettiva". Torna alla mente il Ni­ caragua sandinista. Se valesse la retroattività, i sandinisti avrebbero ora diritto di ritornare al potere o di chiedere giu­ stizia contro gli Stati Uniti di Reagan. Avrebbero avuto allora il diritto (ovviamente teorico) di bombardare Washington e il Pentagono. Ma è anche peggio. In realtà, il Consiglio di sicu­ rezza si è dimenticato, nella fretta, di non aver mai affrontato il problema della sua gestione diretta degli interventi armati. Certo, se non lo ha fatto non è colpa dei segretari generali dell'Onu ma di chi ha potere e forza nel mondo e non vuole de­ legarla a nessuno, tanto meno all'Onu. Ma chiunque è ormai in grado di capire - salvo i dirigenti dell'Unione Europea - che, se non si affronta il problema della progettazione e costru­ zione di un sistema di istituzioni sovranazionali in grado di esercitare la govemance delle immense sfide globali che l'u­ manità sta fronteggiando, non rimane altra scelta che quella di consegnare il governo del pianeta alla logica dell'unica po­ tenza globale esistente. Ciò significa prepararsi a una guerra senza fine o a una serie innumerevole di guerre finite. Perché, al di là della evidente incapacità prospettica dei dirigenti eu­ ropei, il problema che questi teologi dell'Impero non vedono - uno dei tanti - è che essi rappresentano sì la parte più forte 112

deH'Occidente, ma non tutto l'Occidente. Essi rappresentano la classe dirigente della super-società globale in via di forma­ zione, ma esiste un altro Occidente che non potrà seguirli in questo delirio di onnipotenza. A quanto pare, hanno capito anche questo, scoprendo che ciò corrisponde esattamente ai loro disegni. Per cui la scelta di andare avanti senza queiral­ tro Occidente è stata facile proprio perché conveniente. Quell'altro Occidente, estraneo ai loro disegni (e c'è anche una parte grande dell'Europa che vi è inclusa), è ancora por­ tatore di democrazia e diritti, mentre essi non hanno più al­ cun bisogno della democrazia. La super-società globale, sem­ plicemente, non prevede la democrazia, per la gestione della necessità non occorrono assemblee di eletti dal popolo. È il re­ gno, anzi l'Impero della Tina, che prevede solo l'esecuzione di tecniche, uguali per tutti, sotto tutte le latitudini, che non ri­ chiedono neppure di essere interpretate. Lo stesso Potere as­ soluto che si delinea sta già modificando le regole in funzio­ ne della nuova realtà. Non c'è più altro potere che quello del denaro. È il denaro che decide non più soltanto come l'eco­ nomia deve procedere, ma anche - direttamente, immediata­ mente - come l'America dev'essere governata. Quando la Su­ prema corte decreta che “il denaro speso per eleggere un can­ didato, così come quello per promuovere i propri interessi pri­ vati e commerciali, è una forma della libertà di espressione costituzionalmente protetta", ciò significa che “è avvenuta una mutazione che ha trasformato una repubblica rappresentati­ va in una plutocrazia".23 Il popolo, come tutto il resto, non è più sovrano di nulla, essendo diventato, nel frattempo, con­ sumatore. Non ha forse invitato, l'imperatore Bush, pochi gior­ ni dopo il tremendo impatto terroristico, i suoi elettori a “tor­ nare a fare shopping"? Straordinaria esplicitazione di ciò che gli Stati Uniti sono già diventati. Una popolazione di forzati del consumo, dal cui livello forsennato dipende l'intera eco­ nomia mondiale. Un consumo che deve e può restare soltan­ to il loro, perché se gli altri miliardi di individui della Terra dovessero cominciare a consumare come loro, salterebbe il già precario equilibrio tra uomo e natura. Tornano alla mente le parole di quell'illustre economista li­ beral di nome Lester Thurow che invocava, a proposito dei serbi, il tema della “responsabilità collettiva", in un'orgia di vendetta in cui ogni controllo delle categorie semantiche era stato perduto. E dove Milosevic aveva raggiunto Hitler tra i diavoli dell'inferno ed era diventato normale gridare all'olo­ causto, al genocidio: “I serbi dovranno affrontare le conse­ 113

guenze [...]. È importante che la gente comune di questo pae­ se debba pagare, in maniera palese agli occhi del mondo, per questo comportamento. Un periodo di limitazione, sul piano dei servizi pubblici e delle infrastrutture, sarà una lezione im­ portante per altri che potrebbero essere tentati di adottare ana­ loghi comportamenti”.24 I bombardamenti su ponti, fabbri­ che, centrali elettriche, vengono qualificati pudicamente co­ me limitazioni di “servizi pubblici e infrastrutture”. Ma non è questo il punto. È che qui si prefigura una punizione colletti­ va dei civili, imposta dall'esterno, senza processo, per colpe né dimostrate né attribuibili indiscriminatamente. Che direbbe ora Thurow dopo l'11 settembre, se Osama bin Laden o qual­ cuno dei suoi seguaci lo prendesse alla lettera e, per giustifi­ care gli atti terroristici, riscrivesse quelle righe terribili adat­ tandole al popolo americano? Sono certo che non piacereb­ bero a Thurow e nemmeno a molti adoratori deH'America. Ep­ pure sono l'esatta riproposizione dello stesso concetto che ha dominato per mesi l'informazione occidentale e che è servita a giustificare i bombardamenti “umanitari” sulla Jugoslavia. Terrorismo in entrambi i casi, motivato con gli stessi mostruosi argomenti che servono per rendere giuridicamente sopporta­ bile il massacro di popolazioni civili. Applicato agli america­ ni, il discorso suonerebbe così: gli americani dovranno af­ frontare le conseguenze del fatto che, evidentemente, in que­ st'ultimo decennio la rapina della ricchezza mondiale da par­ te del sistema finanziario degli Stati Uniti d'America ha go­ duto, in America, di un diffuso sostegno. Centinaia di milio­ ni di uomini, donne e bambini continuano a morire di fame o a vivere in uno stato permanente di denutrizione, mentre il ceto medio americano, l'unica parte della popolazione che va a votare e che quindi porta la più grave responsabilità politi­ ca (per aver eletto dirigenti che praticano il terrore di massa contro le popolazioni inermi), continua ad aumentare i pro­ pri consumi superflui, a consumare più energia di tutto il re­ sto del mondo, a inquinare il pianeta molto più di tutti gli al­ tri. È importante che la gente comune di questo paese debba pagare, in maniera palese agli occhi del mondo per questo comportamento mostruosamente egoistico. Un periodo di li­ mitazione sul piano dei consumi, dei servizi pubblici e delle infrastrutture che colpisca la gente comune, i vecchi, i bam­ bini: sarà una lezione importante. Questo argomento è difficile da digerire se applicato alle nostre società, non è vero? E perché allora applicarlo ad al­ tri popoli? Non sarebbe stato, e non sarebbe, più saggio ab­ 114

bandonare questo tipo di mostruosità naziste - che implica­ no la guerra - e affrontare insieme i problemi comuni del pia­ neta? Purtroppo, il mondo dei leader politici di quest ultimo decennio è pieno di signori che ritengono di essere dei reali­ sti e che - ne sono certo - considererebbero questa proposta come idealistica, utopica, impraticabile. Non tutti, però. James Wolfensohn, aprendo il World Economie Forum a New York, ha trovato il coraggio di dire al governo degli Stati Uni­ ti che Tunica buona polizza di assicurazione contro il terro­ rismo sarebbe il raddoppio degli aiuti al Terzo mondo, pas­ sando dalla cifra “irrisoria” di 50 miliardi di dollari a 100 mi­ liardi. Lo ha fatto ricordando che Europa e Stati Uniti spen­ dono ogni anno cifre sei-sette volte superiori per sovvenzio­ nare con interventi statali le rispettive agricolture, in barba a ogni regola di libera concorrenza delle merci sul mercato mondiale. Anche Wolfensohn ha dovuto spiegare al suo udi­ torio di miliardari, tutti sicuri esponenti della nuova supersocietà globale, che non occorre essere idealisti per capire que­ sto. “Non sono un sognatore - ha ricordato - sono stato per trentanni nel mondo della finanza. Lo dico come un realista che ha visitato 114 paesi.” Ha capito di essere seduto su una polveriera, e ha messo in guardia.25 Luditorio alTHotel Waldorf Astoria non ha prestato molta attenzione. Si spera, in­ vece, in una rapida ripresa che consentirà di dimenticare tut­ ti i brutti incubi degli ultimi tempi. Si prevede dunque - lassù, su quel ponte di comando da cui si vede il miglior panorama e anche una parte del futuro - che gli altri non debbano consumare altrettanti beni e risorse. E ci si appresta a impedirglielo, con ogni mezzo! Gran parte de­ gli esclusi non potrà difendersi e sarà assoggettata o schiac­ ciata. I problemi derivano da chi, per ora, non si può addo­ mesticare o dirigere. La Cina è sicuramente il problema più importante. Ed è a essa che si pensa sul ponte di comando, mentre ci si prepara alla guerra del futuro. La Cina - hanno già calcolato - diventerà temibile, per i quattro parametri essenziali (demografico, economico, tec­ nologico e militare), da qui al 2017. Così, perlomeno, si affer­ ma in un documento del Pentagono che, non casualmente, porta la firma di Rumsfeld. Nel frattempo, la locomotiva ame­ ricana s'è fermata prima. Ed è apparso un nemico inedito, in­ termedio, forse previsto, forse inatteso, ma alla fin dei conti benvenuto: l'IsIam. Servirà a preparare meglio lo scontro più grande e più decisivo. Il terrorismo è funzionale al disegno. Quello intemazionale lo è ancora di più, perché non è tanto 115

un problema da risolvere, quanto una “categoria interpretati­ va della realtà”, la via per costruire una “società della sorve­ glianza, versione aggiornata dello stato di polizia”.26 Certo, lo scenario è cambiato: prima della Cina è arrivato l'incubo Islam. Ma non tutto il male viene per nuocere. L'11 settembre è la scintilla che provoca il grande incendio: ha rot­ to gli indugi, ha imposto di scoprire le carte. Non è affatto det­ to che chi sta sul ponte di comando possa vincere. Molte cose potrebbero accadere, deviando il corso dei progetti e della sto­ ria che procede sempre in forme non lineari. Ma ci stanno pro­ vando, con tutte le forze disponibili, con una macchina da guerra che vogliono usare e stanno già usando. Devono sol­ tanto stabilire l'agenda dei lavori. È possibile, anzi è molto probabile che il disegno sia irrealizzabile, ma questo è un pro­ blema secondario. Il fatto è che, se ci provano, sarà comun­ que una catastrofe per miliardi di individui. La colomba Co­ lin Powell, unico volatile senza artigli di quel gruppo - e per questa ragione certamente non ammesso al ponte di coman­ do - ha detto: “Ci fermeremo solo quando la civiltà sarà di nuo­ vo sicura”. Cioè mai, perché in questo scenario l'Impero non potrà fare altro che - parafrasando Marguerite Yourcenar pacificare incessantemente un mondo che non potrà essere sottomesso, poiché non gli si concede lo spazio per vivere. E quindi lo si spinge a morire per uccidere. Ecco perché all'im­ peratore è sfuggito di dire che sarà una “Guerra infinita”.

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7.

Una Grande alleanza?

“They have done a good job .” Un amico americano, sicura­ mente liberal, riassumeva così la situazione bellica in Afgha­ nistan dopo il definitivo massacro dei taleban e di Al Qaeda. “Loro” erano e sono il team di George W. Bush, primo impe­ ratore del xxi secolo. E unico. In effetti alcuni obiettivi degli Stati Uniti, sebbene non tut­ ti, sono stati raggiunti. Cercherò di spiegare quali sono. Ma non ce senz'altro la vittoria contro il terrorismo intemaziona­ le, anche perché la guerra, iniziata il 7 ottobre 2001, non po­ teva e non doveva concludersi così in fretta. Se non altro, per­ ché sarebbero state contraddette le previsioni del viceimpe­ ratore Cheney, secondo cui sarebbe durata ben oltre l'aspet­ tativa di vita della presente generazione. Il presidente Bush ha ribadito con tutta nettezza, nel suo discorso sullo Stato del­ l'Unione alla fine di gennaio 2002, che la guerra contro il ter­ rorismo è “appena cominciata”. Vedremo nell'ultimo capito­ lo dove, probabilmente, vogliono condurla e come. Intanto, vale subito la pena di misurare la saggezza e il tem­ pismo della risposta americana all'11 settembre. Si è detto e scritto qualche miliardo di volte che Bush ha mostrato pru­ denza, che non si è gettato a testa bassa, che ha misurato le mosse, che ha cercato le prove. In realtà, come emerge a distanza da ricostruzioni assai accurate, fin dall'inizio, dalle ore imme­ diatamente successive agli attentati di New York e di Wash­ ington, non è stata esaminata nessuna opzione diversa da quel­ la di un attacco militare contro l'Afghanistan.1 “Era ansioso, perfino impaziente, di colpire.” Erano le 7.30 del mattino. Com­ prensibile emotivamente. Ma tutto quello che dopo è avvenu­ to non ha mutato la prima impressione. È stata unica l'idea ap­ parsa nella sua testa e in quella dell'altro leader guerriero del­ l'Occidente, Tony Blair, al quale ha telefonato per primo. La pausa di riflessione che si sono concessi è stata funzionale sol117

tanto all'esigenza di organizzare una risposta abbastanza du­ ra da “fare male e da dimostrare ai terroristi e al resto del mon­ do che stava cominciando un mutamento fondamentale nella politica statunitense". Bush dice di non avere l'intenzione di sparare un “mazzo di missili" Cruise, come aveva fatto Clinton nel 1998, ma non ha dubbi sul fatto che bisogna “colpire, colpire". In altri ter­ mini, la cosiddetta “moderazione" non è altro che prendere il tempo necessario per preparare un'azione militare e costruire l'opportuno clima politico per sostenerla, cioè per ricevere l'a­ vallo formale della Nato, quello delle Nazioni unite e quello del maggior numero possibile di membri di una “Grande coali­ zione". Non c'è da menare scandalo per questo: è labe della politica e della propaganda. Basta non elevare la tecnica al li­ vello dell'arte e il cinismo più assoluto al livello della santità. Infatti, quando Paul Wolfowitz, sottosegretario alla Difesa statunitense, descrive l'azione in corso di fronte al vertice del­ la Nato, il 26 settembre successivo, colloca al primo posto l'intelligence, che avrebbe dovuto scovare la rete di Osama e di­ struggerla; al secondo posto, la diplomazia, che avrebbe do­ vuto forgiare un vastissimo consenso; al terzo posto, l'azione militare, ma chirurgica, per sradicare ciò che sarebbe rima­ sto dopo la prima e la seconda tappa. Come sappiamo, le co­ se non sono andate così. L'azione militare, niente affatto chi­ rurgica, è arrivata per prima, l'intelligence è arrivata per ulti­ ma. Il terrorismo non è stato debellato, anzi si dice che, dopo aver liquidato l'Afghanistan, “decine di migliaia" di terroristi, passati attraverso i campi di Al Qaeda, “si sono sparsi in tut­ to il mondo".2 Una metastasi che si sarebbe dovuta prevedere e che invece si scopre dopo, come troppe altre cose che si sa­ rebbero dovute sapere prima. Per quanto concerne la grande alleanza, cercherò di descriverla in questo capitolo. Il “buon lavoro" fatto con l'operazione militare consiste dunque nel trionfo sui taleban, nella nuova situazione geo­ politica asiatica oltre che nella formazione del nuovo gover­ no provvisorio a Kabul, retto ora da un uomo di Washington, Hamid Karzai. Ma il più importante obiettivo, in larga parte raggiunto, è la vendetta consumata calda. Il numero dei taleban e degli arabi annientati è, e rimarrà, sconosciuto ma, mettendo in­ sieme tutte le notizie ufficiose provenienti dal campo dei vin­ citori (non abbiamo altre notizie, essendo quelle del nemico “false" per definizione), possiamo calcolare che almeno 20 mila uomini siano stati uccisi nei bombardamenti, nei com­ 118

battimenti, nelle stragi che hanno accompagnato la vittoria, nei massacri di prigionieri (non si devono fare prigionieri in questa guerra. I pochi, come quelli di Guantanamo Bay, ser­ viranno per gli interrogatori e per lo spettacolo). Ma vanno anche aggiunti non meno di 4000 civili.3 Un rapporto di otto contro uno, se si assume che il numero dei morti nell'attac­ co dell'l 1 settembre possa essere attorno ai 3000. Un rapporto certo inferiore a quello delle rappresaglie naziste della Se­ conda guerra mondiale, ma comunque tale da soddisfare i re­ quisiti della proclamazione di guerra (“la nostra causa è giu­ sta, la nostra causa è necessaria", ha detto Bush) e l'ira del consumatore americano. Per quanto concerne le vittime civili, esse - com'è noto non erano un obiettivo e sono, per definizione, collaterali. Co­ me tali, esse non sono state quantificate né indagate, dunque non le conosceremo mai. Anche perché, quando qualcuno co­ mincerà a contare le vittime civili, l'Afghanistan sarà già spa­ rito dalle prime pagine dei giornali e dei notiziari televisivi e non varrà la pena occuparsene. Il secondo obiettivo raggiunto è la profonda modificazio­ ne delle linee di demarcazione dell'influenza degli Stati Uniti in tutta l'Asia, particolarmente nell'Asia centrale. Al termine della guerra afghana gli Stati Uniti possono ritenere di esser­ si assicurati il controllo diretto di almeno altre tre repubbli­ che ex sovietiche collocate tra il Medio Oriente, l'area del Mar Caspio e il confine cinese, oltre alle due che già avevano inse­ rito nella loro orbita d'interessi. La dipendenza di Georgia e Azerbaigian - entrambe guidate da ex membri del Politburo del Pcus, rispettivamente Eduard Shevardnadze e Gheidar Aljev - era già un dato di fatto prima dell'inizio della guerra afghana. Ma ora essa è sancita poco meno che ufficialmente e, comunque, è ben nota a tutte le cancellerie diplomatiche. In altre epoche, si sarebbe detto che la Georgia e l'Azerbaigian sono diventate due colonie degli Stati Uniti, ma ora si usano espressioni più soft. Si aggiungono adesso al bottino di guerra l'Uzbekistan di Islam Karimov, il Turkmenistan di Saparmurad Nijazov, il Kirghizistan di Askar Akaev. Nel primo di questi tre stati, gli ame­ ricani hanno installato una base militare permanente. A qua­ le prezzo non sappiamo, ma non è certo il denaro che manca. Islam Karimov non è, come si suol dire, un campione di de­ mocrazia. Ma non lo sono nemmeno i principi sauditi, non lo è Musharraf. Ma Washington non dedica molta attenzione a certi dettagli. Di Nijazov nulla si sa con precisione, anche per­ 119

ché Ashkhabad, la capitale del Turkmenistan, è impenetrabi­ le agli stranieri, in particolare ai giornalisti. Tuttavia buone fonti (russe) affermano che Turkmenbashì (il padre di tutti i turkmeni, come Nijazov ama farsi chiama­ re) avrebbe consegnato in mani americane 1'aeroporto ex stra­ tegico - fu strategico per i sovietici nel corso della loro guer­ ra afghana - di Mary, e forse anche quello di Charzhou. Na­ turalmente Nijazov si è anche dichiarato disponibile a ospi­ tare i terminali dei futuri oleodotti e gasdotti per il trasporto dell'energia dall'area del Caspio al Golfo Persico. Progetto che risale alla metà degli anni novanta ed è strettamente connes­ so alla nascita del regime dei taleban. Saparmurad Nijazov è un satrapo orientale, anche lui non molto diverso da altri al­ leati americani nella regione. Ha trattato con tutti, controlla personalmente una parte cospicua del traffico della droga che, dall'Afghanistan, entra neirarea ex sovietica del Caspio per poi essere distribuita, lungo i canali delle mafie russa, azera, geor­ giana, cecena, verso il Nord e verso l'Ovest europeo; ambisce a liberarsi della tutela russa e a giocare un ruolo nella grande partita del petrolio del Mar Caspio. Più sorprendente la conquista americana di una base in Kirghizistan, oltretutto perché Askar Akaev era considerato uno degli alleati più sicuri della Russia nell'area. Ma pressio­ ni e denaro possono aver giocato un ruolo decisivo anche in questo caso. E Akaev, come Karimov, aveva tutto l'interesse a una liquidazione dei taleban, dovendo fronteggiare in patria un'opposizione islamica che aveva trovato il proprio santua­ rio nell'Afghanistan dei taleban. Tutti alleati infidi, per ora, ma tutti ansiosi di partecipare al grande festino del dollaro. Pronti a farsi assorbire dal mercato mondiale, ma gelosi dei loro costumi tribali. Soprattutto - specie Karimov e Nijazov, oltre ad Aljev e Shevardnadze - in cerca di protezione ameri­ cana contro una Russia pronta a soffiare sul collo. In conclu­ sione, Bush porta a casa una base militare avanzata a due pas­ si dalla Cina. Sarà molto utile tra qualche anno. In poco meno di tre mesi, l'amministrazione Bush ha di­ segnato una Yalta asiatica, rimodellando a suo vantaggio tut­ ti i rapporti geopolitici continentali. La nuova Superguerra contro il terrorismo intemazionale sta pagando, sotto questo profilo, ottimi dividendi. E tutto lascia intravedere che anche le fasi future della Superguerra saranno accompagnate da ana­ loghe modificazioni geopolitiche in altre aree del pianeta. Ciò varrà, sicuramente, per l'area mediorientale dove Israele ha cominciato, con l'appoggio di Washington, la guerra per la li­ no

quidazione dello stato palestinese, avendo in vista il rilancio del progetto di un grande stato ebraico. La liquidazione di Arafat è la via per un disegno che chiuderà ogni negoziato. Si va a una resa dei conti finale con la coppia Sharon-Bush in to­ tale sintonia. In Irak, la fine di Saddam Hussein porterà al­ l'instaurazione di un protettorato statunitense e all'installa­ zione di basi americane, così come è stato per l'Arabia Sau­ dita dopo la guerra del Golfo del 1991. Rimodellamenti di influenze altrettanto vasti in Africa, a vantaggio degli Stati Uniti, accompagneranno le previste guer­ re in Somalia e Sudan. Tutto lascia presagire che la nuova guerra asimmetrica e planetaria non si limiterà allo sterminio sistematico delle tentacolari propaggini di Al Qaeda. A Wa­ shington sanno che ciò non basta a eliminare il pericolo, an­ che nell'ipotesi di un successo totale delle operazioni di poli­ zia. Infatti la tensione sociale nel pianeta - già dilatatasi spa­ smodicamente nell'ultimo ventennio - è destinata a crescere di pari passo con il rilancio (in chiave keynesiana e militare) della globalizzazione americana. Si pone dunque, fin d'ora, il problema della moltiplicazio­ ne di basi e presidi permanenti degli Stati Uniti in tutte le aree del pianeta dove potrebbero risorgere minacce agli interessi economici e politici americani.4 Occorre tuttavia dare un'occhiata al rovescio della meda­ glia del “goocL job" da cui siamo partiti. La Grande Yalta asia­ tica implica l'esistenza di un partner-avversario cui concede­ re una parte, seppure piccola, del bottino. Questo partner-av­ versario è la Russia. Essa, improvvisamente, è rientrata in gio­ co dopo il lungo limbo decennale in cui la sua debolezza og­ gettiva (e l'assoluta subalternità di Boris Eltsin agli interessi americani) l'avevano relegata. Paradossalmente, è stato pro­ prio l'imperatore a richiamare la Russia nel grande gioco. Per ragioni di necessità, costretto a pagare un prezzo che, alla lun­ ga, potrebbe rivelarsi perfino più salato di quanto appaia og­ gi. Occorre infatti la Russia, la sua solidarietà, per mostrare al mondo la Grande alleanza contro il terrorismo intemazio­ nale. L'esistenza stessa di una Grande alleanza fornisce la pro­ va apparentemente inconfutabile della legittimità morale del­ la guerra afghana. Per ottenere l'appoggio di Mosca l'ammi­ nistrazione non ha lesinato sforzi e impegni, come dimostra la frequenza febbrile dei contatti, dei viaggi in Russia, delle missioni diplomatiche, delle concessioni di vario genere di­ spiegate dal pocker d'assi Bush-Cheney-Rumsfeld-Powell. Vladimir Putin ha assecondato molto abilmente questo ab­ 121

braccio multiplo di Washington. Lo ha addirittura anticipato offrendo, per primo - più tempestivamente rispetto ad altri al­ leati occidentali - condoglianze e solidarietà dopo la tragedia deiri 1 settembre. Da quel momento si è avuta l'impressione di una totale sintonia tra Mosca e Washington, avvalorata da un impegno davvero totale, spasmodico, ossessivo, unanime (al punto da far sospettare un ordine di scuderia) di tutta l'infor­ mazione occidentale. In realtà, abbiamo assistito all'inizio di una serrata (e a trat­ ti molto rude) trattativa tra Stati Uniti e Russia per ridefinire i reciproci rapporti e per ridisegnare la carta asiatica alla lu­ ce cruda dell'l 1 settembre. Il presidente russo ha trattato con grande maestria, specie se si tiene conto che le carte che aveva in mano non erano né molte né decisive. Il primo ad avere la cognizione che la Rus­ sia è debole è proprio lui. Putin ha giocato a carte scoperte, mettendo sul tavolo del ranch di Bush, a Crawford, Texas, l'in­ tero quadro del contenzioso tra Russia e Stati Uniti, appli­ cando brillantemente la lezione di De Gaulle: usare la propria debolezza come un grimaldello per scardinare la forza altrui. Si è così negoziato su molte questioni contemporaneamente. Ci si è lasciati con una stretta di mano perché ciascuno dei due ha ritenuto (o ha finto di ritenere) di aver conquistato qualche vantaggio. Putin ha subito ottenuto la fine di qualunque ingerenza esterna sulla Cecenia: sia la fine dell'aiuto ai ribelli, fino a ie­ ri abbondantemente fornito, attraverso la Georgia e l'Azer­ baigian, dai servizi segreti turchi con la benedizione della Cia; sia la fine delle periodiche lamentele occidentali per la viola­ zione dei diritti umani. D'ora in poi, e per qualche tempo, il silenzio dell'Occidente è garantito. Ma Putin ha ottenuto qual­ cosa perfino in Europa. Gli Stati Uniti avevano - e hanno l'obiettivo di rovesciare il presidente bielorusso Aleksandr Lukashenko. Il risultato della trattativa è che, per il momen­ to, rinunceranno a trasferire in Bielorussia lo stesso scenario che erano riusciti a costruire con successo in Kosovo e in Ju­ goslavia. La Russia di Putin procede, lentamente e inesora­ bilmente, verso l'unificazione con la Bielorussia e con altre parti dell'ex Unione Sovietica (che non aspettano altro). Fino all'altro ieri - e anche oggi - questa eventualità era conside­ rata a Washington come la peggiore delle iatture, da ostaco­ lare con ogni espediente perché il “cattivo esempio'' di Luka­ shenko avrebbe potuto essere seguito da altri leader ex sovie­ tici. Fra i primi candidati è la Moldova, disgustata dalla vici­ 122

na Romania. Ma anche il Kazakistan, l'Armenia e un presi­ dente ucraino pericolante, salvato proprio da Putin e messo in condizione di dover dipendere dalla benevolenza del Crem­ lino non tanto per rimanere al potere, quanto per salvarsi dal­ la galera. N aturalm ente questi accordi inform ali, sanciti a Crawford, possono essere rimessi in discussione in qualun­ que momento. Ma avere ottenuto una tregua è già per Putin un buon risultato che, come ogni cosa al mondo, dev'essere in qualche misura ripagato. Ed è qui che il leader russo ha dovuto ingoiare la perdita di tre repubbliche senza poter fa­ re quasi nulla, dopo aver perso Georgia e Azerbaigian. Ma ha ottenuto in cambio l'assicurazione che non sarà violata l'area d'influenza russa su Armenia, Kazakistan, Tagikistan. Per la verità, nel Texas non si è fatto cenno a Bishkek, la ca­ pitale del Kirghizistan. Qui gli Stati Uniti hanno chiaramente colpito sotto la cintura, a giudicare dai commenti furibondi dei militari russi e dai commenti acrimoniosi della stampa. Ma come impedire la mossa di Washington? Mosca non ha capitali da elargire, non ha minacce da pronunciare perché, se si mettesse su quella strada, dovrebbe ben presto mostra­ re la propria debolezza. Così aweniene un'ulteriore, cospi­ cua ritirata strategica forzata da una parte dell'Asia Centra­ le, riconoscendo implicitamente la rivendicazione america­ na sull'area, già proclamata da Clinton come “area d'inte­ resse vitale per gli Stati Uniti d'America". È probabile che Mosca consideri temporanea questa ritirata, o tattica. Ma, per quanto possa essere dolorosa, essa rappresenta un rico­ noscimento dei rapporti di forza reali. Di conseguenza, la posizione di Putin è stata ferma riguardo al regolamento politico della situazione afghana dopo la defi­ nitiva liquidazione del regime dei taleban. Non era certo sfug­ gita a Mosca la lunga operazione congiunta pakistano-saudita-statunitense, nel quinquennio precedente, per creare una serie di oleodotti e gasdotti in grado di portare le immense ri­ sorse energetiche del Mar Caspio agli utilizzatori occidentali attraverso l'Afghanistan. L'operazione, iniziata nei primi anni novanta, aveva visto, come protagoniste, due importanti compagnie petrolifere: la Unocal Corp. (americana) e la Delta Oil (di proprietà del so­ vrano saudita). Entrambe avevano soppiantato la minuscola compagnia petrolifera argentina Bridas nei rapporti con il sa­ trapo turkmeno Saparmurad Nijazov (che avrebbe dovuto as­ sicurare il terminale nord di oleodotti e gasdotti) e con i 123

mujaheddin afghani (che si pensava di poter mettere d'accor­ do in cambio di molto denaro) che avrebbero dovuto smette­ re di combattersi, garantire un futuro relativamente tranquil­ lo all'Afghanistan e consentire il passaggio degli oleodotti ver­ so il Sud, verso il Golfo Persico. Operazione strategica a doppia valenza: economica e poli­ tica. Da un lato, infatti, essa avrebbe consentito una soluzio­ ne molto conveniente per il movimento di ingenti quantità di energia verso le grandi economie occidentali; dall'altro lato, avrebbe permesso di bypassare la Russia, sottraendole al tem­ po stesso principesche royalty e l'influenza sull'intera area cen­ troasiatica. Quest'ultimo aspetto è in stretta connessione con il progetto strategico (sostenuto da influenti circoli di Wa­ shington) di indebolire ulteriormente la Russia fino a un suo completo collasso, alla sua trasformazione in “confederazio­ ne debole" (loose confederation) e, infine, a una sua suddivi­ sione in tre stati (Russia europea, senza il Caucaso del Nord, Siberia occidentale ed Estremo Oriente). Fallito il progetto (per l'impossibilità di mettere d'accordo le fazioni afghane) si decise di pacificare l'Afghanistan con un regime nuovo di zecca, costruito artificialmente dall'esterno, a partire dal territorio pakistano, utilizzando l'immenso po­ tenziale di reclutamento rappresentato dai milioni di profughi afghani nella Nwfp [North-West Frontier Province]. Il movi­ mento dei taleban è nato così, tra il 1994 e il 1995, mediante il finanziamento saudita delle madrase (scuole coraniche) e il massiccio intervento dei servizi segreti pakistani che hanno fornito istruzione, comandi, intelligence per la guerra contro i mujaheddin. Decine di migliaia di studenti coranici sono sta­ ti formati a una nuova jihad, addestrati, armati e trasportati in Afghanistan dai campi profughi del Pashtunistan. In meno di due anni, con armi e fiumi di dollari, i taleban del mullah Omar conquistano o comprano quasi tutti i co­ mandanti militari ex mujaheddin, costringono gli altri alla fu­ ga e s'impadroniscono del 90% del territorio del paese. Nel 1996 arrivano a Kabul. Ma la Russia non resta con le mani in ma­ no. I militari e i servizi segreti russi avevano riempito per con­ to proprio il vuoto politico del presidente Eltsin. Resisi conto che l’operazione taleban era diretta a colpire a fondo gli inte­ ressi russi, avevano cominciato a sostenere e armare l'unico antagonista afghano rimasto a contrastare sul terreno la tra­ volgente avanzata dei taleban: il tagiko Ahmad Shah Masood, trincerato nella fortezza naturale della Valle del Panshir. Il fallimento dell'operazione taleban è stato determinato dal­ 124

la spregiudicatezza di Mosca, pronta a sostenere il suo acer­ rimo nemico durante gli anni dell'intervento sovietico in Af­ ghanistan. Ma ora Vladimir Putin ha le sue rimostranze da fa­ re a George W. Bush. E una proposta secca ed efficace: vi dia­ mo l'appoggio politico necessario per liquidare i taleban che nel frattempo sono diventati pericolosi anche per voi, come lo erano per noi quando lavoravano per voi. Ma a condizione che il futuro governo dell'Afghanistan sia concordato. C'è un'altra condizione: il futuro uso delle risorse strategiche del Caspio sarà gestito assieme alla Russia e non contro la Russia. Putin concede perfino qualcosa di più: volete qualche base in Asia centrale? Prendetevela. Ma solo finché sarà funzionale a li­ quidare il regime dei taleban. Poi vi ritirerete. Bush è un uo­ mo d'affari e, come ogni uomo d'affari che si rispetti, può fa­ re promesse che poi non manterrà. Alla luce degli eventi successivi, sembra di poter dire che l'accordo raggiunto nel ranch del Texas tra Bush e Putin non è stato né chiaro né completo. Gli Stati Uniti dovevano sod­ disfare simultaneamente numerose variabili e anche loro hanno usato una buona dose di spregiudicatezza, pur es­ sendo di gran lunga più forti. Si trattava infatti di soddisfa­ re non solo le proprie esigenze di controllo sul futuro Af­ ghanistan, ma anche quelle di Musharraf, pericolante e in­ fido, costretto a giocare una partita difficilissima sul proprio fronte interno, islamico fondamentalista e antiamericano, per rispondere affermativamente alle perentorie richieste di Washington di fornire basi, assistenza logistica e intelligen­ ce all'operazione per la conquista dell'Afghanistan. La Rus­ sia d'altronde aveva l'interesse, esattamente contrario, a so­ stenere fino in fondo le richieste dei tagiki eredi di Masood. E fra tagiki e Islamabad non c'è pacificazione possibile, poi­ ché l'assassinio di Masood, il 9 settembre, è opera di Osama bin Laden non meno che dell'Inter Service Intelligence paki­ stana. E i taleban erano nient'altro che burattini nelle mani dell'Isi, dei vertici dell'esercito pakistano e di determinanti settori dell'élite politica pakistana. Si spiega così perfettamente perché i tagiki sono entrati per primi a Kabul, contro l'avvertimento di Bush, impadronen­ dosi di fatto del potere nella capitale senza aspettare il via li­ bera americano e certamente in accordo con Mosca. E si spie­ ga così anche l'arrivo a Kabul, di nuovo per primi, il 26 no­ vembre, dei soldati russi. In veste apparentemente umanita­ ria e tecnica, ma sostanzialmente per tenere sotto controllo la situazione. Secondo il proverbio universale “fidarsi è bene, 125

non fidarsi è meglio” che, nella versione russa, suona così: “ab­ bi fiducia, ma prima verifica” [doveriaj, no proveriaj]. Ciò che succederà, a Kabul e dintorni, nei prossimi mesi, dovrà essere letto in questa chiave. Putin non è disposto a re­ galare l'Afghanistan airAmerica. Né è disposto a lasciare che Washington decida da sola sul futuro dell'Asia centrale e su quello delle risorse energetiche. È vero che Mosca è relativa­ mente debole, che non è più una potenza globale. Ma è anche vero che nell'area in questione - il suo cortile di casa - Mosca è ancora molto forte, temibile, in grado d'influenzare molte situazioni. Se, dunque, le fazioni afghane ricominceranno a spararsi addosso, si potrà essere certi che qualcuno dei quat­ tro essenziali protagonisti esterni - Russia, Stati Uniti, Paki­ stan e Iran - non avrà rispettato i patti. Inoltre, la cartina di tornasole dei rapporti tra Mosca e Washington sarà leggibile anche guardando alla tenuta dei regimi vicini, come quelli di Tashkent e di Ashkhabad. L'uno e l'altro possono essere mes­ si rapidamente a repentaglio, senza eccessivi sforzi, se il Crem­ lino si trovasse di fronte a fatti compiuti che non gradisce o, peggio ancora, se la Russia scoprisse di essere stata inganna­ ta o colpita nei propri interessi. Né basterebbe la presenza dei servizi segreti statunitensi a protezione dei dittatori centroa­ siatici, perché l'esperienza degli americani non sarà per lun­ go tempo paragonabile alla conoscenza - del terreno, degli uo­ mini e dei costumi - di cui i russi possono giovarsi. Lo si è vi­ sto in Georgia e in Azerbaigian e su questo, come si suol dire, non ci piove. A Mosca non c'è più Eltsin, manutengolo degli interessi occidentali. Putin, convinto assertore del capitalismo in Russia, è fautore altrettanto convinto degli interessi nazio­ nali russi e, se non fosse sufficientemente convinto, dovrebbe fare i conti con quei settori dell'establishment russo che pre­ mono perché siano difesi. Alla luce di questa prospettiva, occorre esaminare anche gli altri due temi che, certamente, sono stati al centro dell'in­ contro di novembre nel ranch del Texas. Su entrambi, come stato evidente da subito, non c'è stato accordo. Una modesta convergenza c'è stata solo sull'allargamento a Est della Nato. Powell - ma Rumsfeld è di altro avviso - è disposto a conce­ dere molto a una Russia che conceda molto. Per esempio, an­ che un avvicinamento della Russia alla Nato, che le permetta di entrare in un organismo congiunto, da inventare ad hoc, in cui alla Russia sia perfino concesso qualche diritto in mate­ ria di decisioni collettive. Putin ha mostrato di essere interes­ sato a questa possibilità, riservandosi di decidere cosa accet­ 126

tare e cosa respingere quando le cose appariranno più chiare e, soprattutto, quando a Washington si sarà deciso cosa rega­ lare alla Russia. Niente di più. Del resto Putin è perfettamente cosciente che l'allarga­ mento verso Est dei confini della Nato sarà deciso indipen­ dentemente dalla Russia e, quindi, sa che il proprio spazio di manovra è segnato anche su questo fronte dai rapporti di for­ za concreti, che sono a suo svantaggio. Per questo non stril­ la, non si agita, non dà in escandescenze (come amava fare Eltsin) se lo si chiude in angolo: aspetta il momento in cui potrà far valere - se ne avrà - la sua forza. D'altro canto, la vicenda afghana, cioè l'inizio della guer­ ra infinita, lascia trasparire che Washington non ha più mol­ to bisogno della Nato. Ha deciso di fare da sola, al più con l'aiuto dell'Inghilterra. Pensa di poter e dover farcela da so­ la, senza impacci, senza remore. Per la Washington di Bush e Rumsfeld la Nato avrà dunque, sempre di più, un valore po­ litico e diplomatico, quello militare è ormai prerogativa esclu­ siva dell'Impero. In questo tipo di Nato - ormai trasformata in strumento politico, destinata a sostituire, con l'andare del tempo, le ultime vestigia della cooperazione paritaria, rap­ presentate malinconicamente dall'Osce [Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione europea] - la Russia potrebbe anche essere ammessa. Entrarvi, per Putin, equivarrebbe a poco più che a una soddisfazione simbolica. Putin ha capito anche questo. Ma la Russia potrebbe vantare comunque un enorme successo di facciata: quello di avere disinnescato l'al­ leanza dell'Occidente e di avere pareggiato il conto con la fi­ ne del Patto di Varsavia. Come s'è detto, l'unica cosa, non da poco, che Putin ha ot­ tenuto in Europa è stata una tregua dell'offensiva americana contro la Bielorussia di Lukashenko. Washington aveva e ha l'obiettivo di rovesciare il presidente bielorusso. Ma dovrà ora rinviarlo per non creare altri problemi con Mosca. Minsk può aspettare. Il “modello Belgrado" della sovversione finanziata dall'esterno, delle minacce-promesse in cambio del rovescia­ mento del leader nazionale di turno, usato con successo con­ tro Slobodan Milosevic, per ora non si ripeterà. La completa divergenza c'è stata soltanto sullo scudo stel­ lare. Qui Bush non poteva concedere nulla. La filosofia “uni­ laterale" di Cheney, Rumsfeld, Rice non ammette deroghe, con o senza il terrorismo intemazionale. Non è un colpo di testa, un capriccio di leader estremisti. È la diretta conseguenza del­ la logica imperiale, il primo corollario, il frutto di un ragiona­ 127

mento molto semplice, molto pragmatico, molto americano. Gli Stati Uniti d'America sono davvero l'unica superpotenza e non si sente più tenuta a negoziare con chicchessia. Al massi­ mo, quando lo riterrà opportuno, potrà comunicare agli altri le sue decisioni sovrane. A questo si deve solo aggiungere che lo scudo stellare (cioè la militarizzazione dello spazio) diventa ora essenziale per il dominio globale del pianeta. Non è nego­ ziabile strategicamente, perché serve ad aumentare, fino a ren­ derlo incolmabile e irreversibile, il divario che separa l'Ameri­ ca dalla Cina e quello che separa l'Europa dall'America. Inol­ tre (e ciò ha una valenza altrettanto cruciale per il destino di Bush e della sua squadra), i 100 miliardi di dollari necessari per realizzarlo saranno anche un utile strumento keynesiano per rimettere in moto la disastrata new economy. Come ha scritto il “Financial Times” pochi giorni dopo la tragedia delle Twin Towers, “tutti ormai dobbiamo tornare a essere in un cer­ to senso keynesiani”. Anche a questo proposito, Putin non ha alzato la voce quando da Washington gli è stato comunicato, con i regolamentari sei mesi di anticipo, che gli Stati Uniti si apprestavano a uscire dal trattato Abm del 1972. Ha fatto ri­ spondere dal suo ministro della Difesa, laconicamente, che la Russia comincerà a installare sui suoi missili Topol non più una, ma dieci testate nucleari. La Duma ha annunciato che la messa in esecuzione degli impegni del trattato start -2 sarà so­ spesa e, nel frattempo, la Russia ha varato il sommergibile nu­ cleare Ghepard che fa parte di una nuova generazione di ar­ mamenti capace di gareggiare con il meglio della tecnologia americana. Detto in termini più brutali, all'ombra dell'Afgha­ nistan, tra compunte condoglianze e colpi sotto la cintura, è cominciata una nuova corsa al riarmo mondiale. Nello stesso tempo, però, s'intuisce che altre, grandi que­ stioni sono sul tappeto. Sono partite ancora tutte da giocare, in cui Putin e la Russia possono svolgere ruoli inattesi. Una di queste partite, piuttosto strana e di difficile lettura, deriva dalla sorprendente constatazione che, dopo l'il set­ tembre, la benzina è meno cara di prima. Rispetto all'anno precedente, il costo è sceso di oltre la metà. Si tratta di un ec­ cesso di offerta in un'economia mondiale in recessione che consuma meno energia? Può essere. E in questa logica i pae­ si dell'Opec, che controllano il 60% delle esportazioni mon­ diali, hanno deciso tagli di produzione per tre volte di segui­ to. Ma senza successo. Eppure in altre occasioni aveva fun­ zionato. Eppure una crisi politica delle dimensioni dell'l 1 set­ tembre aveva provocato panico petrolifero e una spinta verso 128

l'accaparramento energetico che dovrebbe produrre aumenti di prezzo. Invece, l'effetto è stato esattamente l'opposto. Il ba­ rile di petrolio è diventato più economico. Perché? La rispo­ sta sta a Mosca. Putin (il più importante esportatore dopo l'A­ rabia Saudita) ha continuato ad aumentare l'esportazione an­ che a prezzi calanti, riducendo i ricavi per barile. Ha rotto il fronte, insieme ad altri paesi non Opec. Perché l'ha fatto non è del tutto sicuro. Forse per immediate esigenze di cassa. È un'ipotesi da non escludere. Ma potrebbe averlo fatto su ri­ chiesta dell'amministrazione americana. In cambio di qual­ cosa, certo, ma facendo a Bush un regalo molto più impor­ tante di un corridoio aereo per bombardare i taleban. Fatti i conti,5l'operazione petrolio di Putin ha avuto un ef­ fetto nettamente superiore a tutti gli sgravi fiscali promessi e realizzati da Bush. Ha fatto tirare un sospiro di sollievo a Wall Street che a novembre, aU'improwiso, contro tutte le previsioni, risaliva la china. Ogni famiglia americana ha ri­ sparmiato 172 dollari per riscaldarsi. Nella discesa del pe­ trolio da 30 dollari al barile ai 16,70 dollari della metà di no­ vembre, il reddito degli americani è cresciuto di 50 miliardi di dollari, perché ogni dollaro in meno al barile equivale, per gli Stati Uniti, a un risparmio di 5 miliardi di dollari. Opera­ zione a doppio taglio, comunque, alla quale Washington ha poi posto un repentino freno. L'economia americana ha ri­ cavato un vantaggio immediato, ma a rischio di mettere in ginocchio i regimi dei paesi islamici amici del Medio Orien­ te, Arabia Saudita in primo luogo. Perché una riduzione dra­ stica delle loro entrate potrebbe renderli estremamente vul­ nerabili alle tensioni sociali interne. Infine, per via di questi meccanismi, a una riduzione delle entrate petrolifere dei pae­ si arabi corrisponde una riduzione dei profitti statunitensi, parallela alla riduzione delle entrate petrolifere. Questo spiega perché Bush ha fermato Putin. O, forse, spie­ ga perché Putin si è fermato da solo quando si è reso conto che il favore a Bush gli era già costato una riduzione delle en­ trate statali di ben 12 miliardi di dollari. Nel contempo, l'e­ sperimento è denso di possibilità. Una delle quali potrebbe es­ sere, per Washington, quella di rendersi meno dipendente dal petrolio del Medio Oriente e di aprire una via strategica sta­ bile per approvvigionamenti di petrolio nell'Asia centrale, me­ no turbolenti, più sicuri, più controllabili. Se, per esempio, nei calcoli di Washington vi fosse - come pare - la soluzione del problema palestinese semplicemente con la liquidazione del­ l'Autorità palestinese e se, simultaneamente, l'America deci­ 129

desse di chiudere i conti con Saddam Hussein, bombardando llrak, allora sarebbe logico attendersi una serie di gravi con­ traccolpi in tutta l'area. Non è nemmeno peregrino ipotizza­ re che questa variante sia già stata calcolata. “Il costo reale del petrolio arabo è troppo alto perché gli americani possano pa­ garlo/' titolava il “Washington Post'' alla fine del novembre 2001, lasciando intendere che potrebbe finire l'epoca in cui gli Stati Uniti, “necessitati dalle importazioni di petrolio, si la­ sciarono invischiare profondamente in rapporti con regimi decadenti del vasto Medio Oriente''.6 Se Riyadh mostra segni di nervosismo verso Washington, non c'è alcun dubbio che Washington, dopo l'l 1 settembre, ha inviato a Riyadh (e al Cairo) segnali molto minacciosi. Alcu­ ni di quei regimi potrebbero non reggere, crollare, cambiare schieramento, entrare in convulsioni tali da rendere precari gli approvvigionamenti e far salire il prezzo dell'energia ver­ tiginosamente. E così via, destabilizzando e mettendo in con­ to una duplice, vasta guerra mediorientale, con Israele che combatte la propria e gli Stati Uniti che demoliscono il loro principale nemico apparente. In questo caso, la Russia di­ venterebbe, insieme a tutti gli altri paesi del Caspio, salvo l'I­ ran - altro nemico da sgominare - il più prezioso alleato nel­ la complessa riorganizzazione dei mercati petroliferi mon­ diali. Un alleato cui si possono concedere favori speciali. Re­ sta da vedere che cosa può ottenere Putin da questa partita. È una partita che ci si appresta a giocare con un occhio puntato su Pechino. Perché è del tutto evidente che la Cina sa di essere stata già eletta a nemico principale nel futuro appe­ na più lontano, quando l'attuale clash of civilizations contro il mondo islamico sarà terminato. Questo, perlomeno, è il re­ condito pensiero della squadra di George W. Bush che, non a caso, ha già mutato la definizione della Cina formulata da Clin­ ton (partner strategico degli Stati Uniti) con l'espressione “competitore strategico". Quando scatterà la data del 2017 fissata dai computer dei futurologi del Pentagono - la Cina sarà l'unica potenza di livello mondiale in grado di fronteg­ giare l'attuale potenza statunitense. Come componente della Grande alleanza, non si può dire che la Cina abbia entusia­ smato. Anche la Cina, come tutti i vicini - eccezion fatta per il Pakistan - aveva tutto l'interesse a una liquidazione dei taleban. A cominciare dal fatto che i terroristi uiguri, musul­ mani della regione dello Xinijang, si addestravano anch'essi nei campi di Al Qaeda. Se di qualcosa si è parlato durante i contatti tra Washington e Pechino, è di uno scambio di favo­ 130

ri: la Cina avrebbe espresso la sua solidarietà pubblica alla ri­ sposta militare americana ma l'America, in cambio, avrebbe messo la sordina a tutte le polemiche sui diritti umani e, spe­ cialmente alla questione del Tibet. Definito questo accordo, in modo discreto e senza alcuna pubblicità, ci si è poi fermati. Durante l'incontro di Shanghai tutti hanno indossato le lun­ ghe palandrane colorate cinesi, con grandi sorrisi tra grandi alleati nominali. Ma nel comunicato finale non è emerso nem­ meno un cenno al terrorismo internazionale, neppure una pa­ rola di solidarietà per gli Stati Uniti. Nessun altro passo avan­ ti, nessuna intesa, nessuna cooperazione. La Cina non servi­ va a Washington. Pechino non voleva abbracci troppo stretti. E temeva - con tutte le ragioni, come si è visto - che l'opera­ zione militare americana si sarebbe conclusa con un'esten­ sione della presenza militare degli Stati Uniti nell'Asia cen­ trale. La base aerea nei pressi di Bishkek, nel caso restasse in modo permanente, sarebbe la base strategica più avanzata nel­ le immediate vicinanze del confine cinese che gli Stati Uniti abbiano mai avuto in Asia, in tutta la loro storia, se si eccet­ tuano le basi nella Corea del Sud. Jiang Zemin si è seduto, come insegnò Mao Zedong, sulla riva del fiume, aspettando di vedere passare qualcosa. Aspet­ ta il fatale 2017, guardandosi attorno con preoccupazione cre­ scente. Non è certo un caso che il premier Zhu Rongji sia cor­ so a New Delhi per una visita ufficiale che non si verificava da oltre dieci anni. Sono soprattutto le basi americane in Asia centrale a dare molto fastidio a Pechino, assieme ai sospetti che Putin possa diventare un vicino troppo impegnato a scam­ biare cortesie - tattiche fin che si vuole - con l'Impero. Anche Pechino, comunque, come Mosca, ha mantenuto un suo aplomb, senza troppo strillare. Ha aspettato l'occasione per mostrare il proprio malumore quando ha ricevuto il Boeing destinato al suo leader massimo e l'ha trovato pieno di mi­ crospie. Avrebbe potuto inoltrare una protesta diplomatica ri­ servata e giocare la piccola carta in una tornata successiva. Ha invece scelto il clamore e ha conquistato i titoli di prima pagina per qualche giorno. Comunque, questo è un segnale di tempesta. Tra “Grandi alleati" ci si sarebbe aspettato qualco­ sa di meglio. Degli alleati arabi se già parlato. Non sera mai vista una Grande alleanza contro il terrorismo che contenesse tanti al­ leati terroristi. Naturalmente la grande informazione ha sor­ volato su questi dettagli. Con tanta disinvoltura che il mag­ gior azionista di “La Repubblica" - dopo aver visto per giorni 131

e giorni che il suo giornale appoggiava la guerra con animo pugnante - ha sentito il bisogno di intervenire per dire la sua opposta opinione, stabilendo così un record da Guinness per­ ché, di solito, sono i padroni dei giornali a decidere la linea, mentre in questo caso è avvenuto il contrario. In nome di un pluralismo davvero curioso, “La Repubblica” si è uniformata al coro possente e uniforme delle voci belliche italiane e stra­ niere. “[...] Su quale strada finiremo noi - ha scritto Carlo De Benedetti - se continueremo ad accompagnarci con paesi che hanno un grado di affidabilità prossimo allo zero? Su quale strada finiremo se alla violenza sovrapporremo altra violen­ za? Se per combattere la crudeltà ci alleiamo con chi della cru­ deltà fa strumento quotidiano di azione politica?"7 Resterebbe da dire qualcosa sull'Europa. Ed espressione più adeguata non c'è: “Resterebbe da dire", perché quel poco che si può dire non merita altro che rimanere in fondo. Come l'Italia, l'Europa ha solidarizzato, ha applaudito all'azione bel­ lica, ha chiesto di essere coinvolta con tale imbarazzante pe­ tulanza che solo il cuore di pietra di Rumsfeld ha potuto igno­ rare. Nessuno l'ha voluta. Nemmeno sono serviti al valletto Tony Blair i suoi frenetici viaggi attorno al mondo. Anche lui è stato ignorato. L'Italia ha votato alla bulgara per la guerra in Afghanistan, ha mandato un contingente che doveva com­ battere e che è stato costretto a rimanere alla larga dagli even­ ti. Poi, senza nemmeno interpellare il Parlamento a pronun­ ciarsi nuovamente, ha cambiato la ragione della sua spedi­ zione e l'ha trasformata in un'operazione di interposizione. L'Europa nel suo insieme non ha fatto meglio. Probabilmen­ te perché sono stati in pochi a capire che l'Impero è una cosa seria. O, se l'hanno capito, hanno fatto finta di niente. L'Eu­ ropa mostra di non afferrare il nocciolo del problema che po­ trebbe spiegarle molte cose. E cioè che essa oggi è l'unico ri­ vale potenziale che possa minacciare gli Stati Uniti. Non mi­ litarmente, certo, ma con la sua moneta, con la sua forza eco­ nomica, con la sua tecnologia, con la sua struttura sociale, con la sua cultura. È proprio per questo che i tanti cavalli di Troia che si sono già installati al suo interno non le lasciano co­ struire le basi perché diventi una potenza politica e militare. Anche la guerra afghana, come quella del Kosovo, è servita a ridurla in soggezione. Una parte cospicua dei leader europei si comporta come se avesse accettato l'idea che l'importanza di un paese sia definita dal suo grado di soggezione o di vas­ sallaggio rispetto agli Stati Uniti. L'Impero, dal canto suo, non lascia dubbi sulle proprie in­ 132

tenzioni: dominare il mercato finanziario mondiale, esercita­ re una leadership politica totale, realizzare luna e l'altra cosa attraverso un possente apparato militare. Dov'è dunque la Grande alleanza contro il terrorismo internazionale sbandie­ rata all'inizio della guerra per giustificare la sua “inevitabilità" e la sua “legittimità"? Semplicemente non c'è mai stata. Pro­ pagandarla è servito a far credere a decine di milioni di per­ sone che “questa è una guerra per la civiltà contro la barba­ rie". Abbiamo assistito invece all'uso dei barbari e della bar­ barie per vincerla. Possiamo solo concludere, com'è già evi­ dente, che non era una guerra di civiltà.

8.

Propaganda War

La cosa più terribile, la più inquietante, non è ciò che è ac­ caduto TI 1 settembre. Tutte le definizioni di quel giorno, tut­ te le descrizioni, tutte le emozioni sono già state date, scritte, provate, digerite, metabolizzate. Si è verificato, in tutti i sen­ si, il più grande spettacolo del mondo. Infatti, è stato descrit­ to, commentato, vissuto, anche in modo estetico, oltre che eti­ co, filosofico, economico, politico. Si potrebbe anzi dire che il più grande spettacolo del mondo, nel nostro mondo, in que­ sto mondo, non avrebbe potuto che essere violento, tragico, sanguinario, mostruoso. Poco importa rifugiarci nella constatazione che quei mor­ ti non sono più morti di tante altre tragedie già avvenute an­ che in anni recenti, praticamente contemporanee alla nostra vita quotidiana. Tragedie che ne hanno provocati molti di più. Efferati assassinii di massa, compiuti perfino più ferocemen­ te, altrettanto premeditati. E un rifugio che non serve, non al­ levia. Perché le altre stragi del nostro tempo le abbiamo sen­ tite raccontare, oppure le abbiamo viste con qualche ritardo. Perché, quasi sempre, riguardavano altri popoli e nazioni più o meno lontani, più o meno estranei. Perché noi sappiamo, anche se non è stato detto da nessuno, anche se nessuno ose­ rebbe affermarlo apertamente, che le vite di quegli individui ammazzati valevano meno delle nostre perché il loro costo di produzione è, mediamente, di gran lunga inferiore a quello di chi abita nella zona Nord del pianeta. E poiché valevano di meno, ne conseguiva inevitabilmente che la quantità di senti­ menti e di emozioni che noi potevamo riservare loro era pro­ porzionalmente inferiore. Perché anche i sentimenti sono or­ mai misurabili in termini di valore, cioè di costo di produzio­ ne, e chi osasse rifiutare questo criterio avrebbe serie diffi­ coltà di adattamento all'ambiente circostante. Correrebbe il rischio di essere qualificato come poco competitivo, poco con­ 134

correnziale. Nel sistema mediático non c'è più spazio né per la verità né per l'arte della distinzione. Il fatto è che quella strage noi l'abbiamo vista, in diretta. Live, come dicono gli americani. È per questo che non potremo di­ menticarla. Per questo essa si è scavata uno spazio indelebile nella nostra memoria. E, ogni volta, la ricorderemo cercando di dominare emozione, paura, angoscia, orrore per quell'im­ menso cumulo di macerie fumanti, spalmate di materia orga­ nica, di persone come noi. Come non potremo dimenticare, e spiegare a noi stessi, quei manichini di disperazione che si lan­ ciavano nel vuoto verso una morte sicura. Questo fa la diffe­ renza: l'aver visto. E anche l'avere visto tutti insieme. Siamo la civiltà dell'homo videns, come ha scritto Giovanni Sartori, ma non abbiamo ancora tratto tutte le conseguenze psicologiche, sociologiche, logiche da questo cambio di marcia epocale. Uno dei tanti cambi di marcia che la information-communication society ci ha costretto a compiere senza darci il tempo di capi­ re se e come fosse possibile adattarsi. Come sarebbe stata vis­ suta la stessa scena (anch'io, scrivendo queste righe, non rie­ sco a sfuggire al linguaggio dello spettacolo) nell'epoca di Gutemberg? Per un caso, ho avuto la possibilità di sperimentare una situazione simile, con gli occhi di un abitante del xxi se­ colo quando, alla fine di settembre del 2001, sono arrivato in Afghanistan, nella Valle del Panshir. Avevo volato, su un elicottero di fabbricazione russa, da Dushanbè, capitale del Tagikistan, direttamente nella valle. Quando siamo scesi dall'elicottero, una piccola folla di giova­ ni afghani si è affollata attorno a noi, passeggeri di varie na­ zionalità, qualche giornalista, qualche dirigente deU'armata dei tagiki dell'Alleanza del Nord. I bombardamenti america­ ni sull'Afghanistan non erano ancora cominciati, l'operazio­ ne bellica sarebbe scattata qualche giorno dopo, il 7 ottobre. Uno dei passeggeri, non ricordo chi, ha estratto dalla tasca del giaccone un giornale. Era in lingua tagika, scritto in caratte­ ri cirillici. Nessuno dei presenti sarebbe stato in grado di leg­ gerlo. Pochi tra quei ragazzi, probabilmente, sarebbero stati in grado di leggere quel giornale, anche se fosse stato scritto in lingua farsi. Ma ciò che mi ha sbalordito è che nessuno di quei giovani aveva mai visto l'immagine delle torri gemelle di New York in fiamme, apparsa in una delle pagine interne del giornale. Erano trascorse tre settimane dalla tragedia e, per quei ragazzi afghani, era l'unica immagine dell evento: la pri­ ma e l'unica. Sapevano, confusamente, che qualcosa di mol­ to grave era accaduto. Qualcuno di loro aveva anche ascolta135

to le notizie da qualche radiolina portatile in lingua farsi. Al­ tri sapevano, ancor più sommariamente, dai racconti indiret­ ti di chi aveva ascoltato le radio. Ma nessuno aveva visto nul­ la. Si affollavano, premendo per dare un'occhiata, attorno a quell'unico giornale, a quell'unica fotografia, con commenti di stupore, risatine, domande. E mi sono reso conto di quan­ to la loro percezione dell'evento fosse distante dalla mia, da quella di tutti i passeggeri di quell'elicottero, da quella di tut­ to il mondo occidentale. Quando la sera ho ricevuto la prima telefonata sul satellitare che portavo nella mia sacca, ho ca­ pito che sarebbe stato molto difficile spiegare a chi stava in Italia quello che stava davvero succedendo in Afghanistan. La prima domanda che mi hanno rivolto è stata: raccontaci co­ sa pensa l'opinione pubblica afghana. Ma come avrei potuto raccontare ai miei lettori che l'opinione pubblica afghana sem­ plicemente non esiste? Che non esistono strumenti affinché essa si formi? L'idea stessa di un'opinione pubblica, così co­ me noi l'abbiamo in testa, non può avere un corrispettivo in un paese dove non sono mai stati piantati i pali della luce, sal­ vo che nelle grandi città, dove la stragrande maggioranza del­ la popolazione non ha né luce né telefono né giornali. Da se­ coli, da sempre. Così comincia il mio ottavo viaggio afghano, il secondo del 2001, attraverso la prima guerra del xxi secolo, la Superguerra, la guerra asimmetrica, globale, la guerra contro il terrori­ smo internazionale. E mi rendo conto che la cosa più terribi­ le è proprio il 12 settembre, quando tutti cominciano a capi­ re che il mondo è cambiato ma nessuno sembra capace di spie­ gare il come e il perché del cambiamento. E nessuno sembra capace di spiegare chi sia stato a cambiare così il mondo, per­ ché lo abbia fatto, come gli sia stato possibile. Abbiamo co­ minciato a renderci conto - o magari soltanto abbiamo intui­ to - che, da questo momento, un'inesorabile sequenza di av­ venimenti avrebbe preso corpo e forma, ma non abbiamo an­ cora ben afferrato che il suo significato e le sue conseguenze sarebbero poi rimasti ignoti. E già qui mi pare di vedere lo stupore negli occhi di qual­ cuno dei lettori di queste righe. Che c'è di strano, di miste­ rioso in tutto questo? La sequenza non è forse straordina­ riamente chiara? C'è stato un grave atto terroristico; il col­ pevole è stato individuato: è Osama bin Laden che si nasconde in Afghanistan, un paese governato da criminali della stessa risma di Osama che si chiamano taleban; a richiesta degli Stati Uniti, il paese colpito a freddo, i taleban rifiutano di 136

consegnare Osama bin Laden. È giusto che gli Stati Uniti va­ dano a prenderlo nella sua tana. I taleban e Osama bin La­ den hanno due eserciti, entrambi dislocati in Afghanistan; l'Afghanistan è diventato da tempo il luogo di concentrazio­ ne e addestramento di truppe terroristiche che minacciano numerosi paesi del mondo. E legittimo, quindi, che gli Stati Uniti entrino in guerra contro l'Afghanistan. Gli obiettivi di­ ventano due, correlati tra loro: rovesciare il governo afgha­ no dei taleban (del resto riconosciuto soltanto da tre paesi, il Pakistan, l'Arabia Saudita e gli Emirati Arabi) e catturare, o meglio uccidere, il mullah Omar, capo dei taleban, e Osa­ ma bin Laden. Tutto appare semplice, chiaro, straordinaria­ mente verosimile. Infatti su questa spiegazione dei fatti, su questa concate­ nazione si sono gettati subito, fin dal 12 settembre, quasi tut­ ti gli osservatori, i commentatori, i politologi, i giornalisti di tutto il mondo occidentale, solidali con quasi tutti i politici di quasi tutto il mondo occidentale. Viene in mente Montaigne, quando dice: “Mi si fanno odiare le cose verosimili quando vengono date per infallibili''. In queste pagine ho già messo in luce che alcune di queste conclusioni verosimili sono probabilmente false; che altre so­ no parzialmente false e, infine, che qualcuna ha un alto gra­ do di probabilità di essere mescolata al falso. Ma soprattutto queste versioni hanno tutte un unico difetto: sono senza sto­ ria, non spiegano perché le cose sono accadute. Come se chi le ha presentate fosse affetto da amnesia totale o parziale. Re­ sterebbe da spiegare perché il sistema mondiale dei media (e quel sottoinsieme rappresentato dai media italiani, che ne è parte integrante) sia stato generalmente incapace di offrire ai propri lettori e spettatori qualcosa di meglio delle versioni uf­ ficiali, qualcosa di più corposo della verosimiglianza. Forse è perché i media hanno visto ciò che è successo l'l 1 settembre e si sono fatti coinvolgere emotivamente fino a perdere com­ pletamente lucidità e autonomia di giudizio. Paradossale. Mi torna alla memoria la vecchia immagine di Eltsin che sale sul carro armato nel giorno famoso del Golpe nell'agosto 1991. È una stupenda sceneggiata, ammannita ai media mondiali, di solito così smaliziati. Attorno a quel carro armato, ad ascol­ tare il proclama di Eltsin, non c'è un sovietico neanche a pa­ garlo a peso d'oro. Eltsin sale coraggiosamente sul carro ar­ mato dopo una lunga trattativa con l'ufficiale che lo coman­ da, condotta da quel sant'uomo di Aleksandr Korzhakov, la sua guardia del corpo. È bene inteso, fin dall'inizio, che non 137

c'è alcun rischio per nessuno. Al termine della trattativa il car­ rista smonta svogliatamente l'otturatore della mitragliatrice, niente affatto convinto di trovarsi al centro di un fatto stori­ co, sigilla il carro armato e lascia fare. Decine di fotografi e teleoperatori, chiamati apposta, diffondono nel mondo le im­ magini deH'eroe che resta sempre nei nostri cuori per aver abbattuto i tiranni comunisti, con grande sprezzo del peri­ colo. Il trucco ha funzionato così bene che, negli anni suc­ cessivi, i presidenti, i capi di stato - soprattutto Clinton - a ogni incontro con Eltsin gli ricordavano con commozione e ammirazione la salita sul carro armato. Mi si ribatterà che gli eventi sono eventi, i fatti sono fatti, i simboli sono simboli. L'informazione non fa i fatti, si limita a riferirli. Spesso, leggendo i giornali, soprattutto guardando i telegiornali italiani, mi è capitato di pensarli come quei luoghi “dove le notizie vengono stese sugli avvenimenti come veli in­ teressanti su oggetti che non lo sono".1Non so come andasse­ ro le cose nei decenni precedenti. Viene in mente ciò che Karl Kraus raccontava a proposito della Prima guerra mondiale, de­ scrivendo “un appiattimento, un incialtronimento, una corru­ zione di tutti i valori più nobili di una stirpe, che non hanno precedenti nella storia del mondo, soprattutto per la menda­ cità con la quale, in virtù dellunico progresso di quest'epoca, ossia l'evoluzione della tecnica giornalistica, un'apparenza ha potuto essere piazzata davanti a una mostruosità''.2Certo è che, negli ultimi tempi, molte cose sono accadute nel mondo dei media, cambiando numerose categorie di riferimento. Questa non è la sede di una riflessione teorica e quindi mi concentrerò su alcuni aspetti prevalentemente empirici del problema, non senza aver rilevato che, da tempo, sono i direttori dei telegior­ nali e dei giornali a decidere che cosa i telespettatori e i letto­ ri devono sapere e, soprattutto, che cosa non devono sapere. Riguardo alla guerra, so bene che esistono anche aspetti tec­ nici e organizzativi. Molte delle polemiche sull'informazione e la guerra hanno finito per infilarsi in un cui de sac, cioè nella disputa vana se debba essere consentito (o impedito) ai gior­ nalisti di andare a vedere da vicino quello che succede. Il fat­ to è che la guerra è una cosa terribilmente seria e pericolosa. E chi la fa non può non avere segreti. Raccontare al colto e al­ l'inclita cosa farà, dove manda truppe, aerei e navi non si può, per ovvie ragioni di sicurezza, per non esporsi. Né si può con­ sentire che ficcanaso di vario genere se ne vadano sugli aerei o sugli elicotteri a filmare nel pieno delle azioni. Se le azioni sono serie, non c'è posto per i media. E se non sono serie è inu­ 138

tile andarci. E, in ogni caso, la guerra è sporca. Ed è quanto meno ingenuo pretendere che ti portino in gita a vedere le co­ se sporche. Se sei capace di andarci da solo, vacci, a tuo rischio e pericolo, ma non chiedere che i generali ti accompagnino per mano là dove si uccide. E non pretendere che ti diano una pac­ ca sulla spalla e ti dicano “bravo!” se riesci a mostrare quello che non vorrebbero tu vedessi e raccontassi. Quindi la que­ stione è inesistente perché è stata chiarita dai fatti. In questa guerra afghana sono morti ammazzati più gior­ nalisti (sette) che militari americani in azioni di guerra (due). Per lo meno, così è andata fino alla “vittoria”. Poi le cose han­ no cominciato a peggiorare e le basi americane a moltiplicarsi. I giornalisti hanno provato a guardare e ci hanno lasciato la pelle. Hanno fatto il proprio mestiere, onore al coraggio e al­ la professione. Anche i militari hanno fatto il proprio mestie­ re, ma la guerra tecnologica dei nostri giorni è anche vile, per­ ché consente di ammazzare senza rischiare di farsi ammaz­ zare. Ecco perché i giornalisti muoiono molto più facilmente dei militari di professione in queste guerre sporchissime. La questione tecnica, se si vuol fare chiarezza, è del tutto secondaria. La domanda vera è questa: il pubblico dei lettori e spettatori ha forse capito, grazie a noi giornalisti, ciò che ac­ cade? È informato o no sulle dinamiche, sulle ragioni della guerra? È in grado di orientarsi, così da poter dire ai suoi rap­ presentanti se una cosa è giusta o sbagliata? Può esercitare il suo diritto democratico di incidere sugli eventi? E così via. So­ no questi i metri di misura per decidere se si lavora bene op­ pure no. E allora, sulla base di quanto ho visto, sentito e let­ to, la mia risposta è nettamente negativa. Il sistema dei me­ dia non ha fornito né una buona informazione (corretta, scru­ polosa) né un'informazione esauriente. Al contrario, questa guerra, come quella precedente contro la Jugoslavia, ha evi­ denziato una totale vulnerabilità dei media ai progetti mani­ polatori dei poteri politici, nazionali e internazionali. Ricor­ rerò a un esempio inconfutabile perché fin troppo plateale. Tutti i più importanti giornali italiani, insieme a tutti i telegiornali pubblici e privati, hanno dato ripetutamente, per di­ versi giorni di seguito, con grande enfasi, sulle prime pagine e in testa ai notiziari più importanti, la notizia che le donne afghane si erano tolte il burqa e che gli uomini afghani si era­ no tagliati la barba non appena “liberati” dairesercito deir Al­ leanza del Nord. Sarebbe istruttivo pubblicare da qualche parte l'elenco de­ gli editorialisti, tutti molto illustri, che si sono cimentati nel 139

compito di commentare, esaltare, descrivere questi due straor­ dinari momenti di liberazione. Sarebbe altrettanto istruttivo mostrare l'ampiezza delle fotografie di donne a viso scoperto o di uomini dal barbiere, la lunghezza dei titoli, la loro collo­ cazione. Quel che è certo, inconfutabile, è che per giorni que­ ste sono state le due notizie più importanti. Per la verità, la questione non è stata solo italiana. Tutta la stampa occiden­ tale, con varie gradazioni di amenità, ha fatto la stessa cosa: americani, inglesi, francesi, spagnoli e così via. Siamo stati in buona compagnia. Sfortunatamente, la prima e la seconda no­ tizia erano clamorosamente, totalmente false, com'è del resto facile verificare anche oggi. Non importa la data in cui legge­ rai queste righe, caro lettore, perché non ho il minimo dub­ bio che il burqa vivrà più a lungo della memoria di questo li­ bro e del suo autore. Esattamente come la barba degli afgha­ ni. Perché il burqa non è un'invenzione dei taleban. Purtrop­ po, c'era già da molto tempo, molto prima di re Zahir Shah, di sovietici e mujaheddin. I taleban hanno inasprito orribil­ mente le leggi contro le donne afghane. Ma il burqa, ben pri­ ma di loro, era la regola nelle campagne e nelle montagne, cioè per il 95% del popolo afghano. E non sarà sufficiente neppu­ re la liberazione delle donne per estirparlo: ci vorrà anche quel­ la degli uomini dai loro pregiudizi, dalla fobia antifemminile, dalla loro storia e cultura. Ci piaccia o no. Altrettanto vale per la barba. Perché in Afghanistan la barba è un segno distinti­ vo troppo importante, è un segno culturale così essenziale che, privandosene, gli afghani perderebbero la capacità di orien­ tarsi nel loro stesso paese. Non sono stati i taleban a intro­ durre la barba. Loro, di nuovo, hanno introdotto norme as­ surde e coercitive, imponendo barbe incolte e lunghe a tutti gli uomini adulti. Ma la barba è una costante afghana che non dipende dai taleban. Un uzbeko riconosce un tagiko da un pashtun o da un hazarà proprio dalla barba che esibisce. E così vale per tutti gli altri. Perché la barba è segno di stato socia­ le, di regione, di tribù, dell'età e del prestigio. Perché dalla bar­ ba ci si riconosce e riconoscersi per tempo spesso significa avere salva la vita. E allora sorgono domande che coinvolgono tutti: quelli che stavano al fronte o nelle vicinanze e quelli che stavano in re­ dazione, dall'inviato al caporedattore, al direttore, al proprie­ tario del giornale. Non sapevano che le due notizie erano fal­ se? Chi può credere a questa storia? È possibile che tutte que­ ste penne d'oro, una così qualificata corte d'intellettuali, ab­ biano commesso simultaneamente lo stesso errore? 140

Se scartiamo quest'ipotesi così improbabile, non resta che concludere che sapevano. E hanno insistito sul falso per ra­ gioni - come chiamarle? - di opportunità politica. Serviva. Per esempio a far pensare al grande pubblico di lettori-spettatori che la liberazione di Kabul aveva portato libertà. E, se la li­ bertà era giunta, il merito andava alla guerra, ai bombardamenti. La guerra, dunque, era stata giusta perché ha portato libertà. Non è stato questo il modo con cui la si è giustificata fin dairinizio? Ecco cosa significa manipolare l'informazione. Che altro aggiungere? Che questa è la via verso la fine del­ l'informazione pulita, la prova provata che i media, reggendo bordone alle scelte della politica, non hanno fatto il proprio dovere di esercitare una funzione critica. E anche qui c'è di peggio. Perché quel messaggio contiene pillole velenose di vio­ lenza, di subcultura prevaricatrice. Dice che gli afghani pos­ sono essere liberi solo se si comportano come noi, che le no­ stre regole devono valere anche per loro, che noi andiamo in casa loro da conquistatori, da dominatori, non da liberatori. Che è poi la vera ragione per cui abbiamo fomentato - noi oc­ cidentali - tutte le guerre che loro hanno combattuto in que­ sti ventitré anni. Ma non abbiamo appena seppellito il bol­ scevismo e le sue pretese di far nascere il bambino in tre me­ si? Vogliamo ricominciare, questa volta vestiti dei panni al­ trettanto violenti del neoliberismo? Non abbiamo ancora ca­ pito che “il presente, quando sia stato violentemente scisso dal passato, promette disgrazie"? E che bisogna semmai aiutare l'Afghanistan, come ogni altra cultura e civiltà diversa dalla nostra, a “tenere conto della sua antica storia, risultato del suo carattere primitivo". E che questo dovrebbe essere, d'ora in avanti, “il compito ingrato, più utile che brillante, degli uo­ mini chiamati a governare questo paese".3 Le bugie si sovrappongono alle bugie, in un intrico senza fine e senza pudore. Quando torni indietro nel tempo, nem­ meno di troppi anni, e ricordi che prima dei taleban non c'erano i sovietici. I sovietici se ne andarono nel 1989, con Gorbaciov che decise il ritiro. Ma molti dei giornalisti che hanno scritto sulla guerra hanno fatto una gran confusione, non sa­ pevano le date, non si curavano nemmeno di controllare le carte geografiche. Bisognerebbe ricordare - furono in pochi a farlo - che tra il 1992 e il 1996 l'Afghanistan era nelle mani dei mujaheddin, che sono stati loro a massacrarsi e a massa­ crare le popolazioni, a spingere un'etnia contro l'altra, con de­ cine di migliaia di morti e due milioni di profughi. Gli stessi mujaheddin che la stampa occidentale ha esaltato per anni 141

- mentre combattevano contro l'invasore sovietico - come eroi­ ci resistenti, come intrepidi martiri della libertà. Arrivati al potere si sono invece comportati come tagliagole assetati di denaro e di potere: fanatici irriducibili, al punto da rivolgersi quasi subito contro l'Occidente che li ha armati, addestrati e tenuti a balia. Ma la stampa occidentale queste cose non le ha raccontate. Usciti i sovietici, è calato il silenzio sull'Afghani­ stan. Sgradevole parlarne. E adesso, in questo trionfo pun­ teggiato dalle voragini delle bombe statunitensi, diventa an­ cora più imbarazzante raccontare ai lettori e agli spettatori che i liberatori portati dall'aviazione americana, sono gli stes­ si tagliagole che, con la propria furia insensata, hanno aper­ to la strada ai taleban, permettendo loro di entrare a Kabul addirittura come pacificatori, osannati dalla folla esausta. Ma non sto parlando di una defaillance, di un'eccezione che confermerebbe la regola di una buona informazione so­ stanziale. Il fatto è che anche le fotografie che abbiamo visto per mesi nei telegiornali e sulle prime pagine erano spesso fal­ se ed erano spesso falsi i colpi di cannone, di bazooka, le sven­ tagliate di kalashnikov. Nel primo mese di una guerra cui as­ sistevamo da lontano, mi è capitato di andare sulla linea del fronte, attorno alla grande base aerea di Bagram, nella Piana di Shomali. E diverse volte mi è capitato di incontrare troupe televisive e fotografi che chiedevano ai mujaheddin tagiki di sparare qualche colpo, così, tanto per poter filmare, fotogra­ fare qualcosa in attesa che arrivassero i combattimenti veri, i veri bombardamenti. Dall'altra parte della linea del fronte, non un movimento, non un colpo. I taleban se ne stavano acquat­ tati come selvaggi nascosti in una foresta di pietra, in attesa della bufera di fuoco tecnologico che li avrebbe seppelliti. I mujaheddin sparavano, divertiti, zelanti. E i giornalisti occi­ dentali giravano, fotografavano, contenti di poter mandare qualche immagine di guerra alle rispettive redazioni, asseta­ te di polvere da sparo. Fotografie “spontanee” in cui veniva detto ai soggetti di mettersi in posa, di alzare il pugno, di fa­ re la faccia truce. Si può toccare con mano, di nuovo, che la faccenda non è il “fateci vedere da vicino la guerra”, ma il “lasciateci fare il nostro mestiere”: riprendere e documentare ciò che c'è e non ciò che pretendono i nostri gusti o i desideri dei capiredatto­ ri a New York o a Roma. In realtà, non importa a nessuno che le immagini siano false. Del resto, se non ci fossero quelle im­ magini, le voci dei commentatori (lo si fa, comunque ogni se­ ra, a spese del pubblico ignaro) sarebbero appiccicate sui fil­ 142

mati di altre guerre, in altri momenti, in altri posti. E quante volte sono apparse, corredate di commenti guerrieri, imma­ gini di repertorio di esercitazioni notturne o diurne così in­ triganti da sembrare scene di guerra vera? Ciascuno preoc­ cupato di confezionare esattamente ciò che vuole la casa ma­ dre, a prescindere dai fatti. Anche perché se i fatti non si in­ ventano sul posto, la casa madre, per non sfigurare con la con­ correnza, li inventerebbe da sé. A chi scrive si chiede più “co­ lore”, per “tenere su” la guerra perché, altrimenti, il pubblico si annoia. C'erano giornalisti che inventavano avanzate inesistenti, conquistando la prima pagina, almeno per un giorno, certi che il giorno dopo, anche se la notizia fosse stata smentita, non avrebbero ricevuto nessuna lavata di capo dal loro direttore. Interessa un bel titolo di prima, non la verità o la correttezza deirinformazione o, peggio ancora, qualche noioso ap­ profondimento. Così si forma una nuova generazione di inviati speciali e reporter. Vanno alla guerra senza idee e senza criteri deonto­ logici. E quei pochi criteri che si portano dietro, ben ficcati nel cervello, sono la caccia allo scoop a tutti i costi. Instarti joumalism - come dice Ryszard Kapuscinski - che “ha tra­ sformato il giornalismo in business e ha profondamente mo­ dificato la nozione di responsabilità”.4Queste righe sono dun­ que dedicate ai direttori dei giornali che, appena insediatisi, scrivono sempre un nobile editoriale per spiegare ai lettorispettatori di essere arrivati lì per mettersi al loro servizio. Ma poi lavorano al servizio innanzitutto di se stessi e, in seconda battuta, dei loro editori di riferimento, nei confronti dei qua­ li devono essere leali. È per questo - e qui mi riferisco ai me­ dia italiani in modo particolare, perché sono i più corrivi - che poi riempiono i giornali e i telegiornali di soft news, di infor­ mazione leggera, di infotainment, cioè informazione più en­ tertainment, di pagine e pagine di dettagli del Palazzo, talmente insignificanti che solo il Palazzo li legge, insieme ai direttori di giornale. Perché fanno parte dello stesso mondo, si scam­ biano favori, si fanno sgambetti per contrattare altri favori, ti­ rano le volate o bloccano le fughe. Al grande pubblico dei let­ tori queste cose non interessano. Infatti i lettori sorvolano. Vanno a cercare altro, che spesso non trovano. Non sappiamo cosa cercano. Sicuramente non è vero che il pubblico sia stu­ pido. È vero esattamente il contrario: “I media disprezzano a tal punto la gente da ritenerla più stupida di quanto siano i mass media”.5 143

Quando ci accorgeremo che dai nostri media è sparito il mondo? Che esiste un'impressionante sproporzione tra le sciocchezze con cui li si riempie (e che determinano, queste sì, il livello intellettuale e morale del grande pubblico) e le co­ se serie, quelle che contano, quelle che definiscono il tenore culturale di un popolo nel suo complesso? Quando verrà il mo­ mento in cui i direttori di telegiornali e giornali (pubblici e privati, poiché anche l'etere privato è un bene pubblico tant'è vero che è dato in concessione) torneranno a darci notizie de­ centi per capire cosa succede? L'attuale sistema mediático non ci restituisce un'immagi­ ne veritiera del mondo, né di quello di casa nostra né di quel­ lo esterno. C'è chi manda l'inviato in Messico per raccontare ai lettori “il messicano col sombrero" o chi chiede all'inviato che si trova a Belgrado di descrivere con tutti i particolari una colonna di profughi kosovari angariati dai miliziani serbi. E quando, nel caso in questione, l'inviato si rifiuta facendo ono­ re al proprio mestiere, lo richiamano a casa. Sono episodi real­ mente accaduti che non sono l'eccezione ma la regola. Come quando, a Lisbona, in occasione di una riunione europea di qualche anno fa, tutti i giornali italiani hanno mandato deci­ ne di inviati non perché si occupassero dei temi in discussio­ ne, ma per riferire delle beghe interne fra i due più autorevo­ li membri della delegazione italiana. La sera, a cena, sono sta­ to testimone - io che venivo da Mosca e mi occupavo, per mia buona fortuna, soltanto di politica estera - di una specie di sfogo collettivo di questi poveri colleghi, giovani, frustrati, umiliati, chiamati a inventare pettegolezzi, a provocarli se, per caso, non vi fosse materia sufficiente per il teatrino della po­ litica italiana, a spiare le mosse dei politici per soddisfare le richieste di qualche titolo a sensazione per qualche alterco tra comari, che pure non veniva. In una libera rielaborazione da Karl Kraus,6 potremmo ri­ produrre così un suo dialogo: - Ottimista: Si guardi da una sola cosa: dal generalizzare. - Criticone: Vuol dire che devo guardarmi dal prendere ogni farabutto per giornalista? Non voglio offendere nessu­ no, solo l'istituzione nel suo complesso, perché non imputo tanto a suo favore il fatto che non corrompe un gentiluomo, ma piuttosto a suo sfavore il fatto che trasforma i deboli in farabutti. I colleghi giornalisti che leggono queste righe potranno ag­ giungere innumerevoli episodi di questo malcostume, giusti­ ficato dalla necessità di vendere più copie o dalla tesi che, 144

quando si parla di politica estera, crolla sia l'audience televi­ siva sia l'interesse del lettore. Se questo fosse vero, assiste­ remmo alla crescita delle vendite man mano che il tenore infor­ mativo dei giornali scende. Non è così. Riguardo all'audience della politica estera, si tratta solo di un'alibi perché c'è un sac­ co di gente che vorrebbe avere notizie dal mondo (notizie di buona qualità, non solo di principi e principesse). E la fac­ cenda dell'Auditel è ancora più seria e meriterebbe uno scru­ tinio pubblico molto severo. L'Authority per le telecomunica­ zioni, il parlamento, le associazioni dei consumatori, le orga­ nizzazioni sindacali, quelle cattoliche e laiche che si occupa­ no di tutela dei minori e della famiglia contro l'aggressione pubblicitaria, di moralità pubblica: tutti non se ne interessa­ no, tutti ciechi e sordi di fronte al più grande problema del no­ stro tempo: il controllo democratico dell'informazione e del­ la comunicazione. L'informazione è anche una merce, è evidente. Ma non la si può ridurre solo a merce, se non si vuole diventare corre­ sponsabili della degenerazione dei costumi di un paese. Per­ ché non dovrebbe sfuggire a coloro che formano l'opinione pubblica (mai come ora quest'espressione è diventata vera) che una riduzione del tasso d'informazione equivale direttamente a una riduzione del tasso di democrazia di una società. Mentre il futuro della politica precipita nella voragine intel­ lettuale di “Porta a Porta'', non ci accorgiamo che ormai sia­ mo immersi, come ci ha spiegato benissimo Naomi Klein,7 in micidiali sinergie, create da pochi Gulliver mondiali della co­ municazione che “coordinano" (eufemismo) tutto ciò che pro­ ducono per vendercelo meglio. Tutti i diversi prodotti - tele­ visione, cinema, informazione, riviste, giornali, megastore, multisale, T-shirt, occhiali, accendini, soap opera, agenzie eco­ nomiche e non, videoclip, spot pubblicitari ecc. - devono so­ stenersi a vicenda. E, viceversa, tutto ciò che non è sinergico dev'essere espulso perché non serve, non produce “affezione al marchio". Anche le notizie vere. Ma se tu guardi al singolo prodotto culturale - ecco il truc­ co, ecco la magia illusionistica in cui siamo immersi - ne ri­ cavi un'impressione di libertà, d'intelligenza, di pluralismo. Anzi, spesso non è un'impressione: è proprio così. Ma è il con­ testo che decide l'effetto finale, non il singolo prodotto cultu­ rale o informativo. È questo il ragionamento che di solito vie­ ne civilmente contrapposto alle considerazioni critiche che sto esponendo e che si riassume così: la situazione non è così ne­ ra, non è così univoca.8 Il quadro informativo è difettoso, ma 145

esiste comunque un grande pluralismo, all'interno del quale si può scegliere e ottenere un'informazione equilibrata. Tutti i maggiori mezzi d'informazione sono stati concordi nel giudizio che la guerra contro l'Afghanistan era giusta, ine­ vitabile. Poi, all'intemo di questa linea comune, assolutamente, unanime, hanno consentito un certo pluralismo di opinioni. E ci mancherebbe altro! Per fortuna non siamo ancora arri­ vati a Orwell. Come si è espresso questo pluralismo? Con qual­ che articolo, qua e là, qualche commento eterogeneo più o me­ no marginale, qualche intervento, anche autorevole, difforme dall'interpretazione comunemente adottata come politically correct. Questo è avvenuto all'epoca della guerra in Kosovo e si è ripetuto, più o meno nelle stesse forme, con la guerra af­ ghana. Ma il rumore di fondo, la musica di fondo non sono stati minimamente intaccati. La musica di fondo è data dalle prime pagine televisive e giornalistiche, dal tono generale del­ le notizie e dei titoli, dagli editoriali, dalla massa dell'infor­ mazione sul campo. Non c'è stato un solo attimo in cui la mu­ sica di fondo sia cessata. E chiunque abbia un minimo di one­ stà intellettuale non può negare che sia essa a determinare l'o­ rientamento della gran parte del pubblico. E, se non fosse esat­ tamente così, non si spiegherebbe l'accanimento dei potenti per il controllo dei mezzi di informazione e comunicazione. Sono loro, con la propria implacabile azione di controllo, a dimostrare che l'assunto è esatto, oltre che la “sensata espe­ rienza" sul campo. La musica di fondo, assordante, pervasiva, nega il plurali­ smo, lo annulla alla radice. Questo è il trucco. Si apre così una questione centrale che riguarda la responsabilità pro­ fessionale dei giornalisti. Il loro esercizio critico è essenzia­ le affinché milioni di telespettatori e lettori possano formare il proprio giudizio. Certo, manca una buona informazione, ma manca soprattutto la volontà di sottoporre i poteri al va­ glio di una critica serrata, senza riguardi. Che è poi l'abc del giornalismo. Pare però che molti giornali e giornalisti lo ab­ biano dimenticato. E ora che gli spazi di democrazia si van­ no restringendo, in Italia e altrove, si vedono già legioni di servi pronti a genuflettersi. Ma i maggiordomi non li si for­ ma in un attimo, occorrono corsi di preparazione professio­ nale. Evidentemente questi corsi sono stati seguiti nell'ulti­ mo decennio da centinaia di nuove leve del giornalismo, edu­ cate al servilismo dalla generazione democratica che le ha precedute. Ciò mi riporta alla mente le abiezioni in Russia dopo la caduta del comuniSmo quando i “democratici" rus­ 146

si, avute in mano dal destino le sorti della democrazia e del­ la libertà d'informazione, le hanno immediatamente conse­ gnate nelle mani degli oligarchi. Procurarsi informazioni sulla guerra è difficile. L'informa­ zione è in mano a chi fa la guerra. Come evitare di essere ma­ nipolati? Al tempo della guerra del Kosovo, era il signor Jamie Shea a decidere che cosa doveva sapere il mondo intero. Erano i suoi briefing a fare il bello e il cattivo tempo. Ma sarebbe ba­ stato - bastava volerlo - un minimo di senso critico per sot­ toporgli domande imbarazzanti alle quali, probabilmente, non avrebbe saputo rispondere. Eppure quelle domande non gli furono rivolte che molto raramente. Perché? Perché le dire­ zioni dei media avevano deciso, preventivamente, che quella guerra andava bene, che era “umanitaria". Le domande sgra­ devoli sarebbero state politicamente non corrette, quindi era­ no evitate. E, se venivano fatte, non erano pubblicate né man­ date in onda. Ci sono state delle eccezioni, sempre lodevoli. Ma la musica di fondo restava sempre uguale. Saltiamo avanti di tre anni, alla guerra afghana. Chi ha as­ sistito ai briefing di Rumsfeld in cui si smentivano sistemati­ camente le informazioni sui morti, civili e soprattutto milita­ ri date dai taleban, avrà sentito il segretario di stato alla Dife­ sa rispondere invariabilmente: “Propaganda”. Mai che ci fos­ se tra i presenti qualcuno che chiedesse a Rumsfeld di forni­ re le valutazioni sui morti, civili e militari. Nessuno che chie­ desse: “Ma è possibile che non abbiate una valutazione vostra? Possibile che, con i vostri sistemi di controllo, di sorveglian­ za aerea, di osservatori segreti sul posto non abbiate cifre da comunicare?''. Una cifra ufficiale americana non esiste, non è mai stata data. Pochi l'hanno notato, pochissimi hanno cer­ cato di rimediare indagando: Politically incorrect. Dei bombardamenti iniziali si è detto che servivano per ac­ cecare i sistemi radar del nemico taleban, per zittire le sue contraeree. Ma chi scrive è atterrato con un aereo dell'Onu nell'aeroporto di Kabul nel febbraio del 2001, appena otto me­ si prima dell'inizio della guerra. Il maggiore aeroporto afgha­ no, l'unico con una pista internazionale, aveva un radar fun­ zionante a intermittenza e malamente. I collegamenti radio tra aereo e aeroporto erano talmente precari che l'atterraggio è stato possibile solo per le ottime condizioni atmosferiche. Figuriamoci dunque in che stato erano le difese degli altri ae­ roporti. Dopo, quando sono cominciati i bombardamenti, è diventato evidente che le contraeree taleban erano vecchie, 147

poche e potevano sparare solo a duemila o tremila metri. Ma ricordo le descrizioni della temibile potenza militare dei taleban, mutuate dai bollettini del Dipartimento di stato, senza alcun vaglio critico, assunte come oro colato. Poi, in seguito, è filtrata la notizia che il Pentagono aveva istituito l'Osi (Office for Strategie Influence), ovvero “l'Ufficio per l'informazione e la disinformazione". Ce stato chi si è stupito e si è indignato per questo. Pensavano che soltanto il Kgb si fosse occupato di disinformazione e scoprivano, per la prima volta, beata inno­ cenza, che la disinformazione era il pane quotidiano dell'Osi. Ci hanno raccontato un sacco di fandonie che noi giornalisti abbiamo semplicemente riversato sul pubblico. Sembra, da alcuni sondaggi, che gli americani diffidino dei propri mass media. Subito dopo r i i settembre, mentre al pre­ sidente Bush il grande pubblico tributava una credibilità astro­ nomica dell'87%, ai media era riservata una credibilità di ap­ pena il 43%. Cosa significhino esattamente queste due cifre non mi è del tutto chiaro. Ma mi piacerebbe leggere un son­ daggio del genere, aggiornato per l'Italia. Torniamo indietro alla guerra del Kosovo. Comincia con la rottura del negoziato a Rambouillet avvenuta in seguito al massacro di Racjak. Quarantacinque morti di nazionalità al­ banese. Responsabilità? Serba, senza alcun dubbio, dicono le fonti occidentali. Mutilati, con colpi di pallottola in fronte. È intimato un ultimatum a Milosevic, Satana o Hitler, a secon­ da delle interpretazioni. Non è accettato. Inizia l'attacco del­ la Nato contro la Jugoslavia. Questa sequenza è assunta come oro colato da tutto il sistema mediático mondiale. Poi abbia­ mo scoperto dalla testimonianza insospettabile del nostro mi­ nistro degli Esteri dell'epoca, che l'ultimatum è stato formu­ lato in un modo inaccettabile dai serbi, per poter rovesciare su di loro la responsabilità della guerra.9 Ma l'inganno si sa­ rebbe potuto sospettare anche prima, perché il massacro è sta­ to scoperto dopo che la zona era caduta in mano all'Uck. Qua­ li prove esistevano che fosse opera dei serbi? Che non sia sta­ ta una fossa comune improvvisata ad arte, con i cadaveri rac­ colti dai diversi campi di battaglia dove si era combattuto nei giorni precedenti? Magari con qualche colpo di pistola spa­ rato in fronte ai poveri morti? Poche ore dopo la scoperta, con un tempismo davvero spettacolare, l'allora procuratrice della Corte internazionale dell'Aja per i crimini di guerra, Ann Harbor, canadese di nazionalità, è già al confine jugoslavo per de­ nunciare il crimine serbo. È in compagnia di Christiane Amanpour, la più famosa giornalista del mondo, l'eroina di tutte le 148

guerre, la bocca della verità del sesto membro del Consiglio di sicurezza dell'Onu, la CNN. Chi avrebbe potuto aver dubbi? Invece, i dubbi sarebbero stati più che legittimi, ma nes­ suno dei media più influenti li ha avanzati. Politically unacceptable. Eppure sarebbe bastato ricordare il famoso inciden­ te nel Golfo del Tonchino, in cui - secondo la versione degli Stati Uniti, subito accettata da tutto l'Occidente - motovedet­ te nordvietnamite attaccarono navi americane. Così è comin­ ciata la guerra del Vietnam. Solo che, alcuni anni dopo, nel 1971, con la pubblicazione dei Pentagon Papers, è emerso che l'incidente non è mai avvenuto. Un altro esempio riguarda i cosiddetti bombardamenti chirurgici, con tutti gli esperti che hanno affollato per mesi i talk show di tutti i canali, a disqui­ sire sulla precisione variamente millimetrica, sui dettagli più sorprendenti delle meraviglie tecnologiche, affastellando ba­ nalità e sciocchezze, svarioni geografici (tipica la rivelazione, a un certo punto, dell'esistenza della Valle del Pamir [sic], in cui si sarebbe rifugiato Osama bin Laden), efferate giustifi­ cazioni espresse con il sorriso sulle labbra del giustiziere ine­ sorabile. In Kosovo almeno c'era il supporto delle intermina­ bili colonne di profughi, mostrate ogni giorno, per mesi inte­ ri da tutti i canali. Per l'Afghanistan la faccenda si è rivelata più difficile, anche perché l'aspetto umanitario non si doveva mettere in evidenza. Al momento dei bombardamenti si è vi­ sto - in qualche caso lo si è detto, anche con qualche ammi­ razione - che i b-52 non vanno per il sottile e, quando sgan­ ciano, arano dieci chilometri per volta, per una larghezza di mille metri. Gli esperti televisivi avevano trascurato di riferi­ re questo dettaglio ai telespettatori italiani. E i giornalisti, in genere, erano troppo giovani per ricordare i bombardamenti di Hanoi e di Haiphong. Sarebbe utile che i giornali prepari­ no i propri inviati prima della prossima guerra fornendo lo­ ro, gratuitamente, come manuale di studio, il testo in cui com­ pare questa citazione: “Si penserebbe che un'esperienza or­ mai abbastanza ricca in questo campo abbia finalmente fat­ to capire a chi ordina la strage aerea e a chi la deve eseguire che, quando si mira a colpire un arsenale, regolarmente vie­ ne centrata una camera da letto e, invece di una fabbrica di munizioni, una scuola per fanciulle. L'esperienza ripetuta avrebbe dovuto loro insegnare che è questo il risultato degli attacchi che poi commemorano con l'orgogliosa dichiarazio­ ne di aver centrato un obiettivo con le loro bombe".10 Citazione antica, ma sempre valida. Così, con queste tec­ niche, con questi approcci, com'era accaduto per il Kosovo, 149

abbiamo visto alimentare artificialmente l'emozione di im­ mense platee mondiali, sottoposte al bombardamento inces­ sante di notizie false, qualche volta vere, ma che non erano tutta la verità: di notizie fresche, ma che avevano dimentica­ to la storia; di immagini false, ma anche di immagini reali, che però mostravano solo una parte del quadro. Sapienti me­ scolanze in cui la manipolazione più sfacciata s'intrecciava con la legge del mercato dell'audience televisiva. Con troppi giornalisti (salvo lodevoli eccezioni) corrivi alle pressioni del­ le case madri, invariabilmente interessate alla ricerca degli ef­ fetti più clamorosi, del colore più squillante, delle immagini più crude, per titillare i sentimenti e i risentimenti degli spet­ tatori frastornati, per calcare la mano, per trasformare ogni lamento in un urlo. Alt. Vedo un'altra obiezione: il nostro è il più individuale dei mestieri. Non si può fare di ogni erba un fascio, ciascuno è diverso dagli altri. E così via. So bene che “i produttori del­ la comunicazione non sono un insieme compatto, sintoniz­ zato, che indirizza i suoi sforzi verso un medesimo obiettivo''. So bene che esistono dialettiche dentro ogni giornale, ogni ra­ dio o televisione, entro le quali agiscono esseri umani con di­ versi orientamenti culturali, politici, ideologici. So altrettan­ to bene che gli stessi messaggi possono produrre risultati di­ versi se collocati in contesti diversi. Ed è certamente vero che “non esistono messaggi che colpiscono come proiettili magi­ ci una massa di lobotomizzati che, atomizzata e isolata, as­ sorbe e mette in pratica, [...] esattamente, secondo i perfetti piani studiati a tavolino dai professionisti della comunicazio­ ne''. E non ho dubbi che “i messaggi viaggiano in un ambien­ te non neutro, spesso in concorrenza discorsiva con altri, e vengono recepiti in un contesto sociale, culturale e psicologi­ co particolare, che li elabora, li interpreta, li negozia".11 Tut­ to questo è ancora vero, ma è “sempre meno vero". Questo va­ leva agli albori del giornalismo, quando la cultura non era an­ cora diventata merce. La difficoltà di comprendere il funzio­ namento del sistema mediático del mondo occidentale deriva dal fatto che esso appare come una miriade di sistemi indipendenti che distribuiscono informazione. Per essere analiz­ zato in termini attuali, bisogna tener conto delle modificazioni strutturali cui è stato sottoposto nell'ultimo ventennio. I me­ dia sono diventati questione planetaria, sono parte costituti­ va della globalizzazione. C'è stato un aumento enorme del lo­ ro numero, accompagnato da sviluppi tecnologici eccezio­ nalmente rapidi che hanno prodotto forme di interazione tra 150

diversi tipi di media e un espansione delle loro sfere di atti­ vità. Tutti questi mutamenti hanno steso una rete estremamente complessa di influenze sulla popolazione mondiale. Tutto ciò non esisteva ventanni fa. Ci troviamo nel pieno di colossali processi di fusione che pongono i sistemi di co­ municazione - produzione dei software e degli hardware, di entertainment, di advertising, d'informazione in senso stret­ to, di produzione culturale ecc. - nelle mani di un pugno di operatori mondiali che determinano oltre 1'80% dei flussi informativi attualmente circolanti sul pianeta. Credo che l'intera questione vada esaminata - nessuno l'ha ancora fatto - sotto un'ottica nuova. Ma si avverte subito che quest'inedita situazione influenzerà radicalmente il nostro fu­ turo, quello della democrazia in primo luogo, quello della pa­ ce e della guerra, e della nostra stessa sopravvivenza. Alla luce di queste constatazioni anche ovvie, c'è da resta­ re attoniti, per esempio, di fronte a Gad Lemer che, senza te­ mere il ridicolo, dopo aver osservato acutamente che “l'uomo è fatto di spirito, carne e mille altre variabili”, conclude che “non è lecito considerare l'informazione giornalistica come un insieme di sequenze prevedibili”.12 Forse è così, ma sicura­ mente vi sono forze, persone, organizzazioni che cercano di renderle il più possibile prevedibili. E ci riescono. Certo, il mondo è davvero contraddittorio, ma qualcosa viene sempre in superficie, prima o dopo. Purtroppo, nel caso dei fatti e mi­ sfatti dell'informazione, avviene sempre molto dopo, quando il risultato è stato già ottenuto. Ecco, per esempio, il caso di una “memoria” distribuita dal presidente della c n n , Walter Isaacson, a tutti i corrispondenti esteri del network, prima di mandarli in azione. “Quanto più noi cominciamo a ricevere buoni reportage dall'Afghanistan controllato dai taleban, tan­ to più dobbiamo raddoppiare i nostri sforzi per essere certi di non dare notizie che appaiano a loro vantaggio, o viste dalla loro prospettiva. Noi dobbiamo parlare dei taleban che usano scudi civili o dei taleban che proteggono i terroristi respon­ sabili della morte di 5 mila persone innocenti''. “Voi dovete es­ sere certi che la gente capisca, mentre vede civili che soffro­ no laggiù, nel contesto di un attacco terroristico che ha cau­ sato enormi sofferenze negli Stati Uniti.” Si capisce che i “buoni reportage” sono quelli del network del Qatar, Al Jazeera, la cui sede di corrispondenza è stata poi bombardata “per errore” dagli aerei americani. Ma Walter Isaacson, per quanto chiaro, viene superato da un secondo memorandum riservato, a firma Rick Davis, manager opera­ 151

tivo che si occupa degli standard all'interno della c n n . Davis va oltre e prescrive il tipo di linguaggio che gli inviati devono usare negli stand-up e nei commenti in onda, ogni qualvolta dovesse capitare di rendere conto di vittime civili o di bom­ bardamenti che abbiano provocato “effetti collaterali”. Davis vuole essere preciso e propone tre varianti, tre modi per otte­ nere il risultato che è poi quello di oscurare il fatto e di sosti­ tuirlo con un commento. Prima variante: “Dobbiamo tenere bene a mente, dopo avere visto reportage dalle aree control­ late dai taleban, che quelle azioni militari americane [bom­ bardamenti che hanno prodotto danni collaterali] sono la ri­ sposta a un attacco terroristico che ha ucciso 5 mila persone innocenti negli Stati Uniti”. Seconda variante: “Dobbiamo te­ nere bene a mente, dopo aver visto quel tipo di servizi, che il regime dei taleban in Afghanistan continua a dare riparo a ter­ roristi che hanno esaltato gli attacchi deir 11 settembre, che hanno provocato 5 mila vittime innocenti negli Stati Uniti”. Terza variante: “Il Pentagono ha ripetutamente sottolineato che si sta cercando di minimizzare le vittime civili in Afgha­ nistan, anche se il regime dei taleban continua a offrire ripa­ ro a terroristi che sono connessi con gli attacchi dell'11 set­ tembre, che hanno provocato migliaia di vittime innocenti ne­ gli Stati Uniti”. Il memorandum è poi arrivato al “Washington Post” che lo ha pubblicato. Davis concludeva con pignoleria: “Anche se cominciasse a sembrare un ritornello, è importan­ te che questo aspetto sia sottolineato ogni volta”.13 Le norme di censura del Partito comunista dell'Unione Sovietica, al con­ fronto, erano manufatti grezzi. Lucia Annunziata ha fatto spallucce, in un dibattito al qua­ le partecipammo assieme, replicando che “la propaganda c'è sempre stata, è elemento tipico di ogni guerra”. È esatto. Ma chi ha stabilito che quella cui noi siamo sottoposti è migliore di quella degli altri? E se le cose stanno così, con quale faccia si è sostenuto che è stato giusto bombardare la stazione della televisione di stato a Belgrado, uccidendo sedici giornalisti? La giustificazione è stata la stessa, l'esecuzione commessa a freddo. Fra l'altro - come ha ricordato in quello stesso dibat­ tito Raniero La Valle - è stato un crimine specifico, accerta­ bile, una violazione del Primo protocollo addizionale alle Con­ venzioni di Ginevra dell'8 giugno 1977, articolo 79.14 A nes­ suno, qui in Occidente, viene in mente di bombardare la c n n . E quale credibilità possiamo attribuire a Christiane Amanpour della c n n , sapendo che suo marito è James Rubin, por­ tavoce del Dipartimento di stato, uomo di collegamento con 152

l'Esercito di liberazione del Kosovo? La Amanpour è stata una delle voci più bellicose durante la guerra del Kosovo. È vero che la propaganda di guerra funziona sempre. Ma un giornalista deve chiedersi se sia giusto farla - e diventare complice - oppure se la si debba respingere. Non siamo di fronte a un'oziosa e astratta disputa. Qui si tratta di decidere non da che parte stare, se con la “patria" o con il nemico, ma se trasformare o meno la propria professione in uno strumento di manipolazione della gente. È molto importante, per esem­ pio, sapere se si doveva nascondere o, al contrario, rivelare che il bombardamento americano del rifugio di Al-Amariya, nei dintorni di Baghdad, nel 1991, provocò la morte di centi­ naia di civili, in maggioranza donne e bambini. Non c'è stato soltanto il silenzio dei media occidentali. Tutti hanno accet­ tato immediatamente la tesi del Pentagono: quello non era un rifugio ma un centro di comando dell'esercito iracheno, op­ portunamente riempito di civili, usati come scudi umani per far ricadere la vergogna dell'eccidio su Washington. Succes­ sive indagini indipendenti hanno invece dimostrato che là non c'è mai stato e non poteva esserci nessun centro di comando. È stato un errore di mira. Ma quanti lettori e spettatori, nel mondo, in America, in Europa sanno di quell'eccidio? E co­ me qualificare quel giornalismo che, dimenticando ogni vol­ ta le leggi della propaganda di guerra, si scopre credulone e ingenuo al punto da prendere per oro colato ciò che la cen­ trale di guerra elargisce come una verità rivelata? È accaduto perfino a “La Repubblica", in un editoriale ad­ dirittura non firmato per accrescerne l'autorevolezza, per sot­ tolineare che quella era la linea editoriale. Si commentava il videotape della “confessione" di Osama bin Laden. “A diffe­ renza degli orrori del passato, abbiamo la possibilità di vede­ re il male mentre progetta se stesso e si compie. È giusto che i cittadini conoscano questo documento e ne prendano co­ scienza." Ma il video, in realtà, i “cittadini" non l'hanno visto, così come non hanno visto nemmeno i successivi. C'è stata la decisione politica di non diffondere quei testi, quelle imma­ gini: scelte censorie, motivate dal pericolo che contenessero messaggi in codice. Prendiamo per buona la motivazione. Ma come giungere a conclusioni così perentorie, senza il benefi­ cio d'inventario, senza tenere conto della propaganda? In realtà i poveri “cittadini" hanno visto solo dei brani, senza conosce­ re il contesto, senza sapere troppe cose. E invece di spiegare il meccanismo (almeno la possibilità della manipolazione), si dice pomposamente, in prima pagina, che si tratta della ve­ 153

rità finale. “Se ciò che abbiamo visto è vero, le democrazie oc­ cidentali non hanno dunque tradito se stesse individuando bin Laden come aggressore.” Ecco qui l'inciso cautelativo, l'uni­ co di tutto l'articolo, messo di sbieco in modo che nessuno lo noti. E, subito dopo, la excusado non petita: ecco, avete visto, non abbiamo sbagliato appoggiando i bombardamenti, non abbiamo tradito noi stessi. Era giusto così. Anzi, andiamo avanti, perché “la guerra comincia dunque prima e durerà do­ po le mosse delle truppe sulle montagne di Tora Bora''.15 Questa è esattamente propaganda di guerra. E, del resto, non se ne fa mistero. Tutti hanno usato più o meno le stesse espressioni spiegando che la guerra più difficile è la “conqui­ sta della pubblica opinione''. Guai dunque a tutti coloro che osano chiedere spiegazioni, che cercano di operare distinzio­ ni razionali, che denunciano la propaganda o anche soltanto gli eccessi inutili. Sono quinte colonne, amici dei nemici, ne­ mici della civiltà, nemici dell'Occidente. Le nuove guerre di cui sarà fatta la Superguerra dell'Impero saranno combattu­ te con questa logica, non meno violenta e distruttrice di quel­ la dei bombardieri. Il sistema mediático mondiale è diventa­ to uno stormo di b-52. È carta, sono immagini e bit ma fanno più danni dei bombardieri veri. Purtroppo - lo si deve rico­ noscere, come preliminare condizione per poter eventual­ mente organizzare un'opera di risanamento - quasi nessuno (o pochi) tra chi lavora in posizioni dirigenti nei giornali, nel­ le televisioni, nelle radio, nelle riviste, fa il suo mestiere pen­ sando di esercitare un'attività culturale. Se così fosse, rien­ trerebbero categorie etiche come il rispetto della verità, la re­ sponsabilità di fronte al pubblico e così via. Si lavora invece per produrre profitto (non importa se per sé o per chi paga) e controllo sociale (leggi manipolazione). In questo contesto le porcherie che producono, in guerra o in pace, sono in gran parte effetti deliberatamente programmati e, in parte minore, sono scarti di lavorazione. Ma non ci hanno pensato.

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9.

Superwar

“La nostra nazione è in guerra, la nostra economia è in recessione e il mondo civilizzato è minacciato da pericoli senza precedenti.”1 Parole di George W. Bush. Esse potreb­ bero essere la sintesi della situazione, elaborata sul ponte di comando alla fine di gennaio del 2002. Nelle pagine prece­ denti ho sempre adottato il principio che bisogna porre gran­ de attenzione a ciò che proviene o trapela dal ponte di co­ mando. Naturalmente ciò che dicono lassù dev'essere inter­ pretato, perché possono anche essere accecati dall'ideologia e non sempre le loro analisi sono acute. Ma le minacce van­ no prese sul serio. E in quelle poche righe c'è anche molta verità e angoscia. “Non aspetterò mentre il pericolo prende forma [...]. Non resterò con le mani in mano mentre esso si fa sempre più vi­ cino,'' ha detto Bush tra gli applausi scroscianti, bipartizan, del Congresso, mentre le sue quotazioni di rating volavano, il consenso saliva come un'immensa, inedita ondata da tutto il paese. Mai un presidente degli Stati Uniti ha raggiunto simi­ li livelli dopo un anno di potere. Adesso si sono accorti che le decine di migliaia di combattenti che gli Stati Uniti hanno for­ mato e armato nel decennio 1979-1989 “sono sparsi in tutto il mondo come delle bombe a tempo, innescate per esplodere senza preavviso”. Loro pensano e dicono che quest'esercito terrorista è stato formato a partire dal 1996, ma è evidente­ mente un errore e un trucco. La caccia è cominciata e andrà avanti, diventerà il fatto caratterizzante del secolo che si è ap­ pena aperto. Si comunica che l'azione sarà a tutto campo, in ogni parte del mondo per togliere di mezzo, in ogni modo, sen­ za limiti, regole e leggi, tutti coloro che non siano già stati uc­ cisi nelle guerre asimmetriche o che non siano già stati liqui­ dati in operazioni segrete condotte dalla Cia e dall'Fbi, dentro o fuori il territorio degli Stati Uniti d'America. 155

Il modo in cui la campagna afghana è stata condotta s'in­ quadra perfettamente negli obiettivi di lungo termine che il ponte di comando si proponeva, a partire dall'11 settembre. Esso “ha definito nuovi principi organizzativi e nuove prio­ rità nelle relazioni internazionali negli anni e decenni a veni­ re".2 Crisi di questa natura “rimodellano la politica mondiale, se le grandi opportunità che offrono vengono colte' ? Si capisce meglio, dunque, perché i prigionieri sono bombardati nelle prigioni afghane, perché si è deciso fin dall'inizio che bisogna sterminarne il più alto numero possibile. È l'applicazione estensiva della pena di morte, eseguita in base al principio che il criminale non può essere redento e che la pena dev'essere totale per costituire un deterrente. La logica della cultura giu­ ridica degli Stati Uniti è stata dispiegata sul terreno afghano. Ma c'è anche un criterio pragmatico, perseguito da Rumsfeld con ferma determinazione, non improvvisato, non casuale o dovuto alla furia del momento: più ne ammazzano, meno la­ voro si dovrà fare dopo per tenerli in prigione, per cercarli in tutto il mondo. Anche le “nuove priorità delle relazioni internazionali" so­ no da considerare. Nel discorso di Bush la parola “sicurezza" è stata usata diciannove volte, mentre la parola Europa non è stata mai pronunciata. Noi non c'entriamo, non saremo pro­ tagonisti ma neppure comprimari. Semplicemente ci verran­ no impartiti ordini, quando e se il ponte di comando lo riterrà opportuno. In compenso è stata coniata una nuova formula­ zione, che diventerà presto il mantra dei nostri giorni, il logo dell'epoca: l'Asse del Male. Nella lunga serie dei prossimi obiet­ tivi, tre sono stati indicati come prioritari: Iran, Irak, Corea del Nord. Gli Stati Uniti andranno a colpire in quella direzio­ ne. Nemmeno la Palestina è stata mai nominata: per la sem­ plice ragione che il compito di liquidare il problema è stato delegato a Israele. È l'applicazione, in una forma specifica, del modello speri­ mentato in Afghanistan: quello di far combattere “forze ausiliarie", armate autoctone, gli ascari che di volta in volta po­ tranno essere utilizzati, convinti, comprati, minacciati. È il mo­ dello utilizzato nello Yemen, mentre la guerra afghana era an­ cora in corso. Il presidente yemenita Alì Abdullah Saleh è sta­ to convocato a Washington a fine novembre. Gli si è detto che aveva due alternative: diventare lui stesso - insieme al suo pae­ se - il bersaglio di un futuro, prossimo attacco, oppure proce­ dere alla liquidazione dei nidi di terrorismo presenti nel suo territorio. Alì Abdullah Saleh ha eseguito, muovendo il proprio 156

esercito all'attacco della tribù Al Jalal. Una piccola guerra, con tre soli villaggi distrutti, qualche decina di morti e non è il ca­ so di discettare se siano stati civili, militari o terroristi. L'es­ senziale è che gli Stati Uniti non abbiano dovuto impegnare che una sparuta pattuglia di agenti della Cia. Probabilmente hanno assistito allo svolgersi degli eventi da lontano, mentre l'operazione veniva monitorata dai satelliti e seguita sugli scher­ mi del comando generale in Florida. Dell'intervento nelle Fi­ lippine, la seconda operazione della guerra asimmetrica, si è già parlato.4 In ciascuno di questi casi, e dei successivi, dovrà essere chiaro che gli americani non intendono essere ostacolati in al­ cun modo “in nome di un multilateralismo d'accatto, o per salvare la pelle di un altro dittatore pakistano, o perfino della famiglia reale saudita".5Si comprende, quindi, perché a Riyadh serpeggi l'inquietudine. E si capisce anche che Washington è pronta a fronteggiare grandi rischi, anch'essi inediti. Lo si è visto bene in Pakistan. La vittoriosa guerra afghana ha già fi­ gliato una grave crisi regionale, mettendo India e Pakistan ai ferri corti. Ancora nessuno può prevedere come andrà a fini­ re, ma la crisi è aperta e implica addirittura rischi di conflit­ to nucleare. Rischio calcolato? Anche questo è difficile da sta­ bilire, ma l'eventualità di quaranta milioni di morti per parte, purché siano asiatici, non è poi cosa così angosciante vista dall'altra parte dell'Oceano Pacifico. E anche da questa parte dell'Oceano Atlantico, la nostra, dove i commentatori hanno dormito il sonno dei giusti e i giornali e le televisioni ci han­ no mostrato solo qualche scarna e montagnosa immagine del­ le valli himalayane, popolate di magri soldati indiani e paki­ stani intenti a fronteggiarsi in moderne tute mimetiche made in Singapore. Anche qui il campo va sgomberato da ogni equi­ voco. Non vogliamo mica perdere tempo in sentimentalismi! “La campagna statunitense non è stata concepita come un in­ tervento umanitario, per ridurre le sofferenze dell'Afghani­ stan, come fu fatto in Kosovo o a Timor Est [...]. Gli interes­ si nazionali statunitensi in gioco devono rimanere chiari e do­ minanti." Gli zig zag della politica e della diplomazia “non po­ tranno circoscrivere la caccia americana ai terroristi di bin Laden, sia sul suolo afghano sia alla porta accanto, nelle ter­ re tribali del Pakistan o in qualsiasi altro luogo".6 È un coro. Pressoché unanime sulla stampa americana, nei commenti, nelle analisi. E se sui media italiani, quando an­ cora compare, l'Afghanistan è già nelle pagine interne, con ti­ toli bassi e noia dominante, se Hamid Karzai serve agli stili­ 157

sti come modello per la prossima stagione elegante, l'Impero, nostro grande protettore e padrone, programma le prossime tappe. Perché “l'Afghanistan è solo la prima battaglia di una lunga guerra".7 Questa, per intenderci, è una delle voci più vi­ cine al ponte di comando e va ascoltata con compunzione e at­ tenzione perché è brutale ma è anche franca, senza fronzoli. È l'interpretazione autentica del discorso di Bush. Ci dice, sen­ za tante ipocrisie, che in fondo l'Afghanistan è stato “una sfi­ da lanciata al più debole e più remoto dei centri del terrori­ smo". E ci annuncia che non dovremo attendere molto per ve­ dere un'altra tappa della guerra in grande stile, con i veri bom­ bardieri, con i veri missili, non soltanto con qualche scalca­ gnato esercito straccione che va a ripulire i nascondigli di Al Qaeda. Perché l'attacco “deve cominciare mentre il ricordo [del precedente] è ancora fresco e le forze americane sono an­ cora dispiegate". Dobbiamo subito riaverci dallo stupore. Ma come? Sco­ priamo adesso che l'Afghanistan è “il più debole" dei centri del terrorismo? E perché allora si è cominciato da lì? E, se era il più debole, dov'è finita la grandezza della vittoria così ma­ gnificata dal sistema mediático dell'Occidente? Ma il nocciolo del ragionamento di Henry Kissinger e del­ l'amministrazione di Washington è ancora più duro. Non ri­ guarda il terrorismo. L'Asse del Male ha un altro significato e dev'essere abbattuto per altre ragioni, assai diverse da quelle del cosiddetto terrorismo intemazionale. Perché “il punto non è se Baghdad sia o no coinvolta nell'attacco terroristico agli Sta­ ti Uniti. La sfida è squisitamente geopolitica. L'Irak è implaca­ bilmente ostile agli Stati Uniti e ad alcuni paesi vicini". Inutile stare a cercare le prove del coinvolgimento di Saddam Hussein negli attentati dell' 11 settembre. Se si trovano, tanto meglio. Del resto il sistema mediático è già stato allertato ed è molto sensi­ bile a raccogliere, amplificare, rendere “evidenti" e “incontro­ vertibili" le “prove" che venissero fatte filtrare dagli informato­ ri anonimi del Pentagono, della Cia, del Dipartimento di stato. Ma, in ogni caso, demolire l'Irak è l'obiettivo prioritario per l'Im­ pero in quanto esso è un ostacolo al suo dominio. “Se le sue for­ ze restano intatte - continua e chiarisce Kissinger - un giorno potrebbero essere usate per obiettivi terroristici o sollevamen­ ti regional-intemazionali." Lo stesso, identico ragionamento vale per l'Iran. Entram­ bi i paesi sono musulmani, entrambi possono rappresentare, in prospettiva, un punto di riferimento più vasto e rappre­ sentare, se non un antagonista mondiale, almeno un impedi­ 158

mento all'approvvigionamento delle risorse energetiche. Per la Corea del Nord il ragionamento è diverso, meno geopoliti­ co, più squisitamente derivante dall'esigenza di imporre il do­ minio, di stabilire una definitiva supremazia planetaria. Si capisce che l'Asse del Male è un colossale diversivo. Cer­ to, dev'essere distrutto per ragioni di sicurezza e di autodife­ sa dell'Impero nel suo stesso territorio: l'il settembre ha di­ mostrato che non c'è un'invulnerabilità assicurata, imbocca­ ta la strada della Superguerra. Il vero punto all'ordine del giorno è un nuovo ordine mon­ diale la cui agenda sia interamente, totalmente definita dal­ l'Impero. I veri obiettivi di questa guerra sono più vasti e lon­ tani. Sono tre: la Cina, l'Europa e la Russia. Ci si prepara a creare le condizioni perché tutti e tre questi potenziali anta­ gonisti reali siano sottomessi o ridimensionati o distanziati al punto da rendere impossibile una loro eventuale rincorsa. Della Cina se detto. Al momento attuale è l'unico paese, ol­ tre agli Stati Uniti, in condizioni di assumere decisioni auto­ nome di valore planetario. Per questo la Cina è straordinaria­ mente pericolosa dal punto di vista strategico e dev'essere te­ nuta a rigorosa distanza in termini di potenza militare. Tan­ to più pericolosa in quanto contigua alla Russia, dotata in pro­ spettiva di capitali che potrebbero rappresentare per la Rus­ sia stessa un'alternativa nel caso in cui i rapporti tra Mosca e Washington dovessero essere turbati da sviluppi imprevisti. S'è anche visto che l'attuale amministrazione statunitense sce­ glie l'opzione dura nei confronti di Pechino, cambiando il trend precedente di Clinton che muoveva da presupposti di part­ nership. Sarebbe l'abbandono dei suggerimenti di Brzezinski, che invitavano Washington a usare Pechino contro la Russia, come l'altra ganascia della tenaglia (la prima ganascia sareb­ be l'Europa) per demolire quello che resta dell'impero sovie­ tico sub specie russa. Ma, effettivamente, un disegno ameri­ cano di questo genere richiederebbe, da parte delle leadership washingtoniane, una lungimiranza e una capacità di tempo­ reggiamento superiori alle loro reali possibilità. Inoltre, non va dimenticato che i tempi di questa strategia sono resi dram­ maticamente più stretti dalla recessione che potrebbe colpire l'Occidente intero, rendendolo assai meno certo della sua su­ premazia di quanto non sia ora. La Cina, al contrario, nono­ stante tutte le previsioni di un suo prossimo scivolare in non dominabili contraddizioni interne, continua a crescere senza mostrare eccessive debolezze. Quindi la Cina si avvia sempre di più a diventare un antagonista strategico dell'Impero. Una 159

ragione in più per creare attorno a essa il massimo di diffi­ coltà e di ostacoli. L'ingresso di Pechino nel Wto è, in questo senso, solo la manifestazione ritardata di una linea degli Sta­ ti Uniti ormai superata. L'Europa è l'altro partner ancora potenzialmente pericolo­ so. Molto è già stato fatto per tenerla a bada e subordinarla agli interessi degli Stati Uniti. L'Europa è stata decisiva nel corso della Guerra fredda. Ora non lo è più. Nell'intera fase successiva alla Seconda guerra mondiale aveva senso - un sen­ so preciso e grande - parlare di Occidente. Durante l'ultimo decennio il termine stesso ha perduto gran parte del suo si­ gnificato. Il canto del cigno di quell'occidente è stata la guer­ ra jugoslava, celebrata sotto la sigla unita della Nato cui sono stati assegnati nuovi compiti da svolgere in una fase interme­ dia. L'11 settembre questa fase intermedia è stata bruciata e, al suo posto, è subentrata la nascita dell'Impero e la convin­ zione degli Stati Uniti di poter fare da soli. Anche in questo caso, tuttavia, si vedranno oscillazioni non lineari che po­ trebbero dare l'impressione di una lotta tra diverse linee nei circoli dirigenti statunitensi, e che comunque dovranno tene­ re conto delle vischiosità storiche e delle consuetudini: non sarà facile che tutta l'Europa si adatti al nuovo ruolo di com­ pleta subalternità che le viene assegnato. L'Europa rimane tuttavia pericolosa per vari motivi, tutti strategicamente rilevanti. In primo luogo, quello economico. Nonostante l'offensiva neoliberista dell'ultimo decennio con­ dotta dalla Federai Reserve, dai circoli finanziari statuniten­ si spalleggiati dalle amministrazioni di Washington, coordi­ nata dal “consenso di Washington'' attraverso lo strumento del Fondo monetario internazionale, l'Europa è rimasta in parte se stessa, non si è adattata totalmente alle ricette americane. Come ha scritto efficacemente William Pfaff, continua a esi­ stere “un'Europa economica, un'Europa commerciale, un'Eu­ ropa dell'euro, un'Europa con un proprio mercato comune, un'Europa che coopera industrialmente, tecnologicamente, un'Europa protezionista che sussidia, un'Europa che mantie­ ne protezioni sociali; un'Europa che mantiene la propria fi­ sionomia culturale, un'Europa che conserva un sistema sani­ tario nazionale, un'Europa antitrust, un'Europa antidumping e, in un certo senso, un'Europa antiglobalizzazione e antia­ mericana. E tutte queste Europe non se la cavano poi così ma­ le".8 Dall'altra parte dell'Oceano queste cose sono ben visibili e molto poco gradevoli. Con il passare del tempo possono pro­ vocare cattivi pensieri, gli appetiti e le suscettibilità degli uni 160

e degli altri sono grandi. Le culture e tradizioni restano mol­ to differenti, a complicare le cose. Non è soltanto l'americano Edward Luttwak a pensare che “permettere al turbocapitalismo di avanzare indisturbato si­ gnifica disintegrare le società in una minuscola élite di vin­ centi, in una gran massa di perdenti di diverso grado di be­ nessere o povertà, e in una categoria di ribelli che delinquo­ no".9 E a concludere che “l'esperienza dell'America si staglia all'orizzonte, come esempio e, al contempo, come sinistro mo­ nito".10 Questo sinistro monito è visibile pure da questa par­ te dell'Oceano. Dunque il problema da affrontare e risolvere, per l'Impero, è in primo luogo quello di mantenere l'Europa disarmata e impedire con ogni mezzo che essa possa nutrire ambizioni future di potenza militare. La si deve mantenere ri­ gorosamente subalterna anche per le sue ambizioni politiche. Anche a questo servono le guerre. Anche a questo servirà la Superguerra. Ogni battaglia della Superguerra sarà usata per sottomettere, per stroncare, per umiliare l'Europa. Con l'Af­ ghanistan non poteva essere più evidente. E non è stato l'ef­ fetto della fretta e della supponenza del cow-boy Rumsfeld. È e sarà la costante. Anche alla Russia abbiamo già fatto cenno. Questa partita è quella più difficile, perché non è ancora chiara la strategia da adottare. Per ora si rimane a metà strada, da una parte e dall'altra. Se la Cina non si adeguerà al ruolo che Brzezinski le voleva assegnare (quello di ganascia della tenaglia per stri­ tolare la Russia), si cercherà di indebolirla, sottometterla o neutralizzarla con altri mezzi. Alimentando i separatismi, la sovversione interna ed esterna, costringendola di nuovo a un'affannosa e disperata corsa al riarmo per la quale non ha né mezzi né voglia. Oppure cercando di corromperla, com­ prandola. Opzione, quest'ultima, già in parte tentata con suc­ cesso durante i dieci anni di Eltsin, ma difficilmente ripetibi­ le con Putin. Qui il tempo gioca a favore dell'Impero. La Rus­ sia sta perdendo lentamente tutto il suo Estremo Oriente e gran parte della Siberia. A vantaggio della Cina, che sta colo­ nizzando l'uno e l'altra senza colpo ferire, semplicemente oc­ cupando con la sua immensa potenza demografica le aree la­ sciate vuote dai russi in ritirata. Fra dieci anni, se non inter­ vengono trend diversi (di cui, per altro, non v'è traccia all'o­ rizzonte), tra Cina e Russia si potrebbe aprire un contenzio­ so che nessuna delle due ha voluto, ma che sarà dettato dalla natura degli uomini. Sarà essenziale, in ogni caso, ai fini del­ la strategia dell'Impero, che non si crei nessun asse priorita­ ri

rio tra Europa e Russia. Perché l'Europa ha ciò che la Russia non ha: i capitali. E perché la Russia ha ciò che l'Europa non ha: i missili strategici nucleari. E perché entrambe sono Eu­ ropa. Così come tra Russia e Cina: la prima ha quello che la seconda non ha ancora: i missili strategici e la tecnologia; men­ tre la seconda ha i capitali, che la prima non ha. Ed entram­ be sono Asia. Ecco dunque che la Superguerra si mostra per ciò che è: l'antidoto decisivo per impedire a tutti i potenziali antagonisti di unirsi, di emergere, di contrapporsi all'Impero. Ora e nel lungo periodo. Prima poteva non essere necessario, quando la globalizzazione americana era trionfante. Ora è essenziale, mentre la globalizzazione è calante. Per questo occorre cam­ biare le regole e imporne di nuove. Alle Nazioni unite, prima di scomparire, sarà assegnato il ruolo di ratifica delle decisio­ ni dell'Impero. All'Europa il ruolo di applaudire e, quando sarà ritenuto opportuno, di portare servigi. In Europa esiste già un alleato fedelissimo degli Stati Uni­ ti: la Gran Bretagna di Tony Blair che ha fatto il possibile e l'impossibile per dare l'impressione - senza riuscirci - di con­ tare nelle decisioni dell'Impero. Adesso Bush ha un altro al­ leato, nuovo di zecca. L'Italia di Silvio Berlusconi. Questi ha capito immediatamente che l'Europa di cui parlavamo prima gli va tremendamente stretta. Non è in quell'Europa che po­ trà realizzare senza colpo ferire ciò che ha in mente, cioè tra­ sformare l'Italia in una repubblica presidenziale, plebiscita­ ria, con il sistema giudiziario consegnato nelle mani del po­ tere esecutivo, con il presidente eletto per acclamazione po­ polare da una massa di elettori osannanti, già metabolizzati (e lobotomizzati) mediante un Grande Fratello in edizione “ventiquattrore su ventiquattro". Molto meglio gli Stati Uni­ ti come partner e amico. Anche là il presidente è imperatore, e può nominare proconsoli. Comunque è un imperatore lon­ tano e questo è meglio delle repubbliche impotenti e ficcana­ so che guardano con la diffidenza del vicino, con la pretesa davvero insopportabile di mettere bocca nelle sue faccende. Con due paesi “europei" come l'Italia e la Gran Bretagna, che remeranno contro, l'Europa, anatra già zoppa, non potrà vo­ lare di certo. Alla Russia il compito di dimostrare la sua buo­ na volontà nel Consiglio di sicurezza dell'Onu e la sua com­ pleta rinuncia a un ruolo mondiale. Incluse le pretese di pren­ dere parte al lucroso commercio delle armi, alla vendita di tec­ nologie raffinate ai suoi antichi partner. Alla Cina non si as­ segnano compiti perché si sa già che non li accetterà. Il fatto 162

che sia capitalista al 60% non l'ha resa succuba al disegno del­ l'Impero. Il Giappone, dal canto suo, è morto prima ancora di diventare adolescente in politica internazionale. Dunque questa Superguerra non è, in realtà, né uno scon­ tro di civiltà né la guerra tra Oriente e Occidente, né la lot­ ta senza tregua tra cristianesimo e Islam. Non è neanche Teterna collisione tra il Bene e il Male. Non è nulla di ciò che è stato propinato alle grandi masse per motivarla. L'impera­ tore, parlando nella “Cittadella" di Charleston, agli inizi di dicembre del primo anno della Superguerra, ha proclamato che il mondo è ormai “diviso da una linea di demarcazione morale e ideologica". Da una parte ci saremmo noi, ma so­ prattutto l'America, faro della civiltà mondiale. Dall'altra, “bande di assassini, sostenute da regimi fuorilegge".11 È la logica del “con noi o contro di noi" che non lascia scampo ai distinguo, perché chi mai potrebbe stare con gli assassini, contro la civiltà? Ma non è così che stanno le cose. Perfino un falco come Hoagland se n'è accorto, descrivendo, con la sua abituale brutalità, quella “linea che connette le abitudi­ ni allo spreco e quei crapuloni gasificatori che intasano le autostrade americane con i quindici giovani arabo-sauditi che contribuirono ad ammazzare circa 4000 americani". Una linea “al tempo stesso tenue e chiara", perché “potevano cer­ to esserci state altre motivazioni più cogenti, nelle menti dei terroristi, mentre si proponevano di infliggere il massimo di sofferenza a un paese che aveva aperto loro le porte; nella vi­ ta reale non ci sono mai cause ed effetti così lineari e legati le une agli altri in modo così lineare e diretto. Ma è abbon­ dantemente chiaro che la necessità d'importare energia ha costretto gli Stati Uniti a compromettersi profondamente con regimi decadenti".12 Qui si trova un'assoluta coincidenza - cosa che accade quando la ragione si sveglia dal suo letargo - tra un conser­ vatore repubblicano che in Italia definiremmo di estrema de­ stra e un libero pensatore che in Europa è considerato di si­ nistra: “Non c'è nessuna giustificazione possibile a crimini come quello dell'l 1 settembre, ma possiamo considerare gli Stati Uniti vittima innocente solo se prendiamo la strada più comoda e ignoriamo completamente le loro azioni pregresse e quelle dei loro alleati".13 Siamo invece agli inizi dello scontro, davvero inedito —il più frontale probabilmente che l'umanità abbia mai visto tra la nuova élite della super-società globale nascente e il re­ sto del mondo. È una lotta di tipo - in senso molto lato - so­ 163

ciale. Ma non è sociale in senso classico, di “classe”, tra ca­ pitalisti ricchi e proletari poveri, comunque si descrivano mo­ dernamente questi nuovi proletari. Questo schema è troppo invecchiato per poter essere ancora un utile strumento di in­ terpretazione. Non è uno scontro sociale neppure nel senso di “ricchi contro poveri” tout court. È qualcosa di più im­ portante e di diverso, perché la lotta di classe non prevedeva la fine di uno dei contendenti. In questo senso è molto simi­ le alla guerra atomica che - fu detto per avviare la coesisten­ za tra regimi sociali diversi - non poteva essere accettata per­ ché escludeva la vittoria di uno dei contendenti e implicava la distruzione reciproca. E piuttosto una lotta per la soprav­ vivenza. Gli elastici che sono stati tesi oltre ogni misura sop­ portabile sono due. Il primo concerne la distanza tra ricchi e poveri. I ricchi sono sempre più ricchi e in numero sempre minore; i poveri sono sempre più numerosi e tanto più in­ cattiviti perché ora possono vedere la ricchezza dei ricchi, possono fare confronti tra il proprio stato di miseria e di ma­ lattia e lo stato degli altri, dei pochi, dei superbi. Con questo, tra l'altro, si chiude anche la sterile discussione se la globa­ lizzazione distribuisca ricchezza anche ai più poveri. Ciò è falso, anche perché ricchezza e povertà non sono mai stati fattori assoluti. Si può essere relativamente poveri in termi­ ni di reddito ma percepire questa relativa povertà come in­ giusta e assoluta perché non corrisponde ai propri livelli di cultura, di sensibilità, di qualificazione, di diritti. Ma a questo primo elastico, che potremmo definire “so­ ciale” e che è parte della tradizione di lotte che hanno segna­ to il xx secolo, si è ora aggiunto l'elastico del rapporto fra uma­ nità e natura, ormai vicinissimo al punto di rottura. Si tratta del cosiddetto “sviluppo insostenibile”. I tetti di sopportabi­ lità dello sviluppo industriale capitalista, nella sua versione spasmodica della globalizzazione americana, sono ormai let­ teralmente un dito sopra la nostra testa. Sotto questo profilo vincere può non significare nulla. A meno di non immagina­ re una terrificante tabula rasa e ipotizzare di poter sgombra­ re il pianeta di un'ampia quota del formicaio che lo abita. La Superguerra - se ne rendano conto o meno sul ponte di co­ mando - è una guerra di sterminio di milioni, anzi di miliar­ di. Fantascienza? E allora cosa significa scrivere che “le na­ zioni del mondo si trovano di fronte a una 'dura scelta': unir­ si a noi nella nostra crociata, o 'affrontare la prospettiva cer­ ta di morte e di distruzione"'?14 Non vorrei che - parafrasando Bohumil Hrabal - “riman­ 164

dassimo quello su cui un giorno o l'altro dovremo interrogar­ ci, se avremo la fortuna di averne il tempo''.15 Vorrei esprimere un'ultima considerazione di carattere po­ litico contingente e anche personale. Non ho scritto questo libro per distribuire speranze. Sarebbe mercanzia per politi­ ci disonesti e imbonitori senza scrupoli. Sono convinto che in una fase come questa, indubbiamente epocale perché se­ gna il trapasso da una forma di civiltà, cioè di organizzazio­ ne sociale, a un'altra (che ho chiamato super-società globale, mutuando il termine da Aleksandr Zinoviev), la cosa più im­ portante sia capire ciò che accade. Credo sia stato sempre co­ sì, in tutti i grandi momenti di svolta. Ma ora è più difficile, perché il livello di complessità di questa transizione è straor­ dinariamente più alto; perché le forme del controllo sociale sono molto più efficaci e pervasive che nelle altre epoche; per­ ché l'ideologia è potente e impedisce di scrutare nelle sue neb­ bie artificiali. Non c'è una teoria che spieghi ciò che sta accadendo. Per evitare il disastro che incombe - e, se dal ponte di comando si andrà avanti sulla questa strada, il disastro è certo - oc­ corre costruire una teoria. Personalmente sono certo che evi­ tare la catastrofe è possibile, che “un altro mondo è possibi­ le". In queste righe ho cercato di dire quale sarebbe, grosso modo, la linea per costruire un mondo possibile o, almeno, per evitare il peggio e operare una virata decisiva. Così fa­ cendo sono tornato più volte sui concetti che avevo espres­ so in un libro scritto appena pochi giorni prima dell'l 1 set­ tembre. Parlavo di un mondo “giunto al suo capolinea" e del­ la speranza nella “saggezza e autolimitazione" della leader­ ship degli Stati Uniti.16 Avevo tenuto la penna leggera perché non volevo apparire troppo pessimista. Poi è arrivato l'11 settembre. I compiti so­ no quelli, ma è evidente a chiunque che sono necessari colos­ sali sforzi per piegare il corso degli eventi nella direzione po­ sitiva, oltre a un immenso sforzo intellettuale e morale. Dall'll settembre e da tutto ciò che ne consegue emerge inequivocabilmente che, invece di uno sforzo per la governance pacifica delle sfide che il mondo ha di fronte, le élite dei potenti scelgono la guerra. Come ho cercato di dimostrare, non è detto che possano vincerla ma hanno i mezzi e la vo­ lontà di combatterla e di distruggere non solo gli “altri", ma anche quella parte di Occidente, quell'“altro Occidente" in cui noi abbiamo creduto e crediamo: quello della civiltà, dei di­ ritti, della cultura, delle libertà. Se questo è il quadro, come 165

io credo, la nostra comune speranza, di donne e uomini nor­ mali, quali che siano la longitudine e la latitudine in cui vi­ viamo, sarà nella capacità di organizzarci per rendere diffici­ le, insopportabile, impossibile la guerra che è cominciata. Una speranza difficile, dunque. Perché non è scritto in nessun gran­ de libro dei Conti Finali che chi sta dalla parte della ragione debba vincere, prima o poi. Né sta scritto da qualche parte che questa civiltà costruita dall'uomo debba sopravvivere per for­ za di cose.

10.

Conclusioni

Il quadro che si delinea dai capitoli precedenti è sicura­ mente angosciante. Sebbene si possano sollevare numerose obiezioni su aspetti particolari, su dettagli, sullo stile o la for­ ma, credo sia difficile negare che la sostanza è ampiamente corrispondente allo stato delle cose e che le previsioni sono, come minimo, nell'ordine del possibile, anzi del probabile. Di­ ciamo che è un quadro realista. C'è una via duscita altrettanto realista da questa corni­ ce? Esiste la possibilità di evitare la Superguerra e le sue con­ seguenze? È possibile smuovere l'Impero dalla deriva che ha imboccato? Nelle decine d'incontri pubblici e privati, ampi e ristretti che ho avuto nei mesi scorsi, dopo la tragedia dell' 11 settembre e dopo l'inizio della guerra afghana, la domanda mi è stata posta ripetutamente. Ho risposto e rispondo che le possibilità sono state sempre più di quelle che noi siamo capaci d'immaginare ed è estremamente difficile fare previ­ sioni attendibili. La storia è piena di calcoli sbagliati, di pro­ fezie che non si sono verificate, di progetti falliti, perfino di esiti che parevano del tutto sicuri alla maggioranza degli os­ servatori e non sono giunti. A pochi mesi di distanza dalla svolta dell'11 settembre, vi sono già numerosi segnali che la Superguerra potrebbe in­ contrare seri ostacoli politici. A cominciare dalle reazioni al­ l'interno degli Stati Uniti. Crescono obiezioni, critiche e pro­ teste contro la strategia della guerra senza limiti di tempo e di spazio. Perfino Clinton, l'ex presidente degli Stati Uniti, ha sentito il bisogno di intervenire al Forum mondiale di New York, all'inizio di febbraio, sottoponendo la strategia dell'am­ ministrazione a una critica serrata e durissima. Vi sono pro­ teste crescenti delle organizzazioni per i diritti umani, di di­ versi settori dell'intellighenzia statunitense che influenzano e sono influenzate dalle organizzazioni umanitarie intemazio­ 167

nali. Vi sono speranze - per quanto flebili - di una relativa ri­ presa economica, a breve termine, che potrebbe ridurre le ten­ sioni interne e suggerire un corso meno drammatico al presi­ dente degli Stati Uniti. Vi sono, soprattutto, le reazioni degli altri protagonisti del­ la scena internazionale. L'Impero non è ancora consolidato, è ai suoi primi passi, non ha ancora cancellato gli stati, non ha ancora stabilito un dominio generale. La Cina, la Russia - co­ me s'è detto - non possono accettare senza reagire un corso guerriero come quello che si delinea. È ben vero che gli Stati Uniti dispongono di mezzi di pressione potentissimi e che han­ no acquisito con l'Afghanistan una maggiore consapevolezza della propria forza, dell'efficacia dei propri mezzi e dell'im­ possibilità del resto del mondo di contrastare le loro scelte. Perfino il successo di Washington nel bloccare la crisi fra Paki­ stan e India, che stava scivolando verso un confronto milita­ re con possibili sviluppi nucleari, incoraggia l'amministra­ zione americana a perseguire i propri scopi, di fronte alla con­ statazione che un'azione determinata può stroncare sviluppi indesiderati anche in aree difficili e lontane. Ma il silenzio della Cina non può essere interpretato come assenso o acquiescenza. La protesta furente di Pechino per l'incidente del Boeing di Jang Zemin sovraccarico di micro­ spie è solo un piccolo accenno di future bufere. Gli osserva­ tori intemazionali commetterebbero un errore serio intepretando la moderazione di Pechino come l'accettazione del nuo­ vo stato di cose. Pechino ha tempi diversi da quelli di Bush, non ha scadenze elettorali a breve termine, non ha problemi di rating. Quindi non ha fretta. Basta far capire che non è d'ac­ cordo. Il resto verrà con il tempo. D'altro canto, Putin sta facendo le sue scelte di fronte a un'accentuazione deH'unilateralismo americano sul disar­ mo. Mosca vede perfettamente che Bush sta avviando un pro­ gramma di riarmo che include la militarizzazione dello spa­ zio, il mantenimento in servizio delle testate nucleari da smantellare, la ripresa degli esperimenti nucleari. Questo ti­ po di scelte ha un alto contenuto strategico ed è difficile of­ frire in cambio merce di altrettanto valore. Cosa che, per al­ tro, Bush non sembra neppure interessato a offrire. Dunque, a meno che Washington non abbia infallibili strumenti di pressione su Putin, ci si deve attendere una crescente resi­ stenza del Cremlino. E la situazione in Asia centrale non è ancora considerata irreversibile a Mosca. Le due potenze asiatiche (quella nascente della Cina, quella ridotta ma non 168

domata della Russia) possono esercitare assieme una con­ tropressione che non è trascurabile neppure per l'Impero na­ scente. A queste variabili, tutte sul tavolo, si deve aggiunge­ re l'Europa. Dopo cinque mesi di silenzio europeo, il discorso di Bush del 29 gennaio sullo Stato dell'Unione ha segnato un improvviso festival di proteste europee. L'individuazione da parte di Bush dell'Asse del Male rappresentato da Irak, Iran, Corea del Nord è stata la classica goccia che fa traboccare il vaso. Alti responsabili dell'Unione Europea, come il ministro degli Esteri spagnolo, hanno replicato che l'Ue, al contrario, svilupperà la propria cooperazione con Teheran, mentre i ministri degli Esteri di Francia e Germania hanno aperta­ mente criticato sia il “semplicistico" approccio ai problemi del terrorismo internazionale sia “l'accettazione cieca della politica di repressione di Ariel Sharon". Perfino Blair ha ma­ nifestato sintomi di insoddisfazione. Il pericolo comincia a essere avvertito in Europa e si vanno innalzando, anche se in ritardo, le linee difensive nei confronti dell'impostazione americana che, dal punto di vista europeo, crea più proble­ mi di quelli che pretende di risolvere. Sono segnali rilevanti che esprimono anche una preoccu­ pazione sulla tenuta delle opinioni pubbliche europee di fron­ te a un dispiegamento della guerra asimmetrica e a una sua rapida estensione all'Irak, primo obiettivo visibile nel mirino di Washington. Dopo l'emozione dell'11 settembre, che di fatto ha aperto la via a qualsiasi ritorsione, comincia a essere avvertito un cambiamento di registro. Cresce il numero di coloro che in­ vocano una visione più equilibrata e realistica del modo con cui combattere il terrorismo e le sue cause profonde. Chiedo­ no una diversa strategia degli aiuti ai paesi poveri, una corre­ zione delle politiche dei paesi ricchi. In questo contesto, il mo­ vimento di Porto Aiegre comincia a esercitare un'influenza considerevole nel dibattito sulla globalizzazione e le sue con­ seguenze. Tutto ciò avrà sicuramente degli effetti sullo sviluppo de­ gli eventi, sulla politica di Washington. Nessuno ovviamente è in grado di misurarne la portata, di prevederne l'influenza. Le variabili in gioco sono moltissime. Inoltre, non va dimen­ ticato lo scandalo della Enron. Il suo clamoroso fallimento po­ trebbe trascinare anche l'amministrazione di Washington, composta da molti uomini (a cominciare dal presidente Geor­ ge W. Bush e dal vicepresidente Cheney) eletti grazie ai gene­ rosi contributi della società e sui quali gravano pesantissimi 169

sospetti di complicità (o di acquiescenza) nelle operazioni frau­ dolente della sua dirigenza. Tuttavia - a mio avviso - non possiamo indulgere in spe­ ranze di provvidenziali correzioni del corso già imboccato. L'invenzione dell'Asse del Male non è un colpo di testa o un'in­ temperanza verbale. Sarebbe assai inquietante pensare che, nelle attuali condizioni del pianeta, il presidente degli Stati Uniti scriva il discorso sullo Stato dell'Unione lasciandosi pren­ dere da emozioni incontrollate. Dunque - lo ripeto ancora una volta - dobbiamo prendere sul serio quello che dice e quello che fa. Il bilancio proposto dalla sua amministrazione per il 2003 parla un linguaggio di guerra a tutto campo. Siamo di fronte a un incremento delle spese per la difesa di 48 miliar­ di di dollari (+13,7%), che porta la spesa militare alla vertigi­ nosa cifra di 378,6 miliardi di dollari, il 17% del budget. È il più vasto incremento della spesa militare dal lontano 1982, quando gli Stati Uniti si trovavano impegnati allo spasimo a fronteggiare la parità strategica realizzata dall'Unione Sovie­ tica nel punto culminante della Guerra fredda. È possibile che qualcosa intervenga a frenare questa mac­ china, la cui velocità di marcia cresce di giorno in giorno? È possibile, ma diventa sempre più difficile. Insieme alle varianti positive, nelle quali si può legittimamente sperare, occorre va­ lutare anche le varianti negative. Sappiamo che vi sono forze potenti interessate al precipi­ tare della situazione. Altri colpi terroristici, di varia e altret­ tanto ambigua provenienza, possono essere tentati. Accanto all'inquietudine provocata dalla guerra, in paral­ lelo a essa e senza contraddirla, si muovono correnti profon­ de nelle opinioni pubbliche dell'Occidente. Malamente infor­ mate o manipolate dal sistema mediatico, angosciate dalla cri­ si economica, dall'incertezza per il futuro, dalla paura del ter­ rorismo, possono essere orientate verso la richiesta di sicu­ rezza, di ordine, di leggi repressive, di contenimento delle li­ bertà e dei diritti, di speranza nel polso fermo di dittatori o di prefetti immarcescibili dell'Impero, da eleggere all'unanimità in plebisciti incontenibili.

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Note

1. Ponte di comando 1In seguito Wto (World Trade Organization). 2 Con grande probabilità, in modo molto più definitivo di quanto ap­ paia in superficie e di quanto l'attuale leadership del Cremlino sia disposta ad ammettere. In realtà è forte il sospetto (e sono forti gli indizi) che le mi­ gliaia di testate nucleari ancora in mano russa non siano più utilizzabili nemmeno come deterrente di seconda mano. Questo sia per la loro obsole­ scenza, sia per il venir meno di un sistema di rilevazione autonomo russo delle forze potenzialmente avversarie, sia perché i servizi d'informazione statunitensi hanno avuto modo, in questi anni, di impadronirsi di non po­ chi segreti vitali dell'apparato bellico russo, incluso quello strategico mis­ silistico. 3G. Riotta, New York. Undici Settembre. Diario di una guerra, Einaudi, To­ rino 2001. 4 “International Herald Tribune", 31 dicembre 2001-primo febbraio 2002. 5A. Zinoviev, Sulla via verso la Super-società, Tsentrpoligraf, Moskva 2000. 6Sono qui largamente debitore di Robert Hunter Wade, professore di Eco­ nomia politica presso la London School of Economics, autore di un prege­ vole commento su "International Herald Tribune", 3 gennaio 2002. 7 Vedi la serie di quattro articoli pubblicata dal "New York Times" sotto il titolo comune Behind The Global Economy, in “International Herald Tri­ bune", 16,17,18,19 febbraio 1999. 8 C. Krauthammer, Why America is doing so well, in “International Herald Tribune", 5 gennaio 1999. 9 “Corriere della Sera", 9 novembre 1999. 10 “È lo stesso errore tre volte di seguito. L'Asia fu un errore, la Russia fu un errore e adesso lo stanno facendo di nuovo." Charles Wyplosz, professore di Economia al Graduate Institut for International Studies, a proposito del­ le politiche del Fondo monetario intemazionale e del “consenso di Washing­ ton", in “International Herald Tribune", 14 gennaio 1999. 11 Ibid. 12 C. Wyplosz, in “International Herald Tribune", 7 maggio 1999. 13 Ibid. ]U bid.

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2. Fine della storia 1D. Ignatius, in “International Herald Tribune”, 11 aprile 2000. 2 Conferenza della Fao, Roma 1996. 3 E. Luttwak, La dittatura del capitalismo, tr. it. Mondadori, Milano 1999, pp. 254-255. 4 Ivi, p. 88. 5 U. Beck, sociologo alFUniversità di Monaco, in "La Stampa”, 13 no­ vembre 2001. 6 "International Herald Tribune”, 16 ottobre 2000. 7 O. Arias, presidente del Costa Rica dal 1986 al 1990, premio Nobel per la pace nel 1987, in "International Herald Tribune”, 22 giugno 2000. 8 "International Herald Tribune”, 14 novembre 2001. 9 Ibid. 10 E. Luttwak, La dittatura del capitalismo, cit., p. 219. 11 L. Brown, The State o f thè World 2000, WW Norton & Company, New York-London 2000, p. 9. 12 “Financial Times”, 18 febbraio 2002. 13 E. Luttwak, La dittatura del capitalismo, cit., p. 259. 14 Ivi, p. 226. 15 “La Repubblica”, 14 agosto 2001.

3. Ma che guerra è? 1Mikhail Gorbaciov, in "La Stampa”, 3 novembre 2001. 2 L'intera ricostruzione del raid è ripresa dal libro di Paul Rogers, Losing Control Global Security in thè Twenty-first Century, Pluto Press, 2000, p. 5. Da qui sono tratte questa e le citazioni successive riguardanti l'episodio. 3 Ibid. 4 Basti ricordare Sesso e Potere o La seconda guerra civile americana. 5 G. Chiesa, Roulette russa, Guerini e Associati, Milano 1999, capp. 9 ("La guerra umanitaria”) e 14 ("Bastone globale”). 6 Vedi www.zmag.org/GlobalWatch/chomskymit.htm. Znet. An Evening with Noam Chomsky. The New War Against Terror, 8 ottobre 2001. 7 Ibid. Si tratta del transcript, non corretto dall'autore, di una sua lezio­ ne. La traduzione è di G. Chiesa. 8 "La Stampa”, 17 gennaio 2002. 9 U. Beck, in "La Stampa”, cit. 10 "New York Times”, 12 marzo 2002. 11 Nell'impegno trilaterale del 1978 non c'era riferimento a eventuali at­ tacchi con armi chimiche e biologiche. Cioè Unione Sovietica, Stati Uniti e Gran Bretagna non si sono impegnati a non rispondere con armi nucleari di fronte all'eventuale attacco di un paese non nucleare. 12 S. Me Namara e Th. Graham jr, in "International Herald Tribune”, 14 marzo 2002. 13 "New York Times”, 12 marzo 2002. 14“La Repubblica”, 2 novembre 2001. 172

4. Dove nascono i tifoni 1Le citazioni sono riprese da "La Stampa”, articolo di “Le Monde", a fir­ ma di Sylvain Cypel. 2 Robert Baer, direttore delle operazioni Cia contro il terrorismo fino al 1998, sostiene che non ce nemmeno la prova che Mohammed Atta sia mor­ to su uno degli aerei kamikaze. E afferma che: “L'indagine è ancora tutta da fare”. “Panorama”, 7 febbraio 2002. 3 J. Hoagland, in “International Herald Tribune”, 9 novembre 2001. 4 Conferenza stampa di George W. Bush, Colin Powell e del ministro del Tesoro O'Neill, in “International Herald Tribune”, 8 novembre 2001. 5 Subito ascoltata con benevolenza dalla Camera dei rappresentanti ma con benevolenza assai minore dal Senato che, invece, diede il via libera alle indagini, “New York Times”, 22 ottobre 2001. 6 Vedi G. Chiesa, Roulette Russa, cit., cap. 15, pp. 177 ss. 7 Vedi l'articolo di Paolo Fusi, in “Avvenimenti”, 30 novembre 2001, nu­ mero zero. 8 Mohammad Youssaf & Mark Adkin, The Bear Trap, Jang Publishers, Lahore 1992, p. 29. 9 M. A. Weaver, Blowback, in “The Atlantic Online”, maggio 1996. 10 Incarcerato in Egitto per la fatwa emessa contro Anwar Sadat, sodale di Muhammad Shawqi Islambouli, egiziano, fratello del colonnello Khalid Islambouli, l'assassino di Sadat. Per oltre due anni circa 3000 volontari ara­ bi di Omar Abdul-Rahman combatterono in Bosnia a fianco del governo mu­ sulmano. Condannato a vita negli Stati Uniti nel gennaio 1996 per l'attenta­ to contro le Twin Towers del 1993. 11 Laureato all'Università del Cairo, wahabita, professore all'Università di Kabul, fortemente legato a circoli fondamentalisti sauditi. 12 “International Herald Tribune”, 28 dicembre 2001. 13 T. Friedman, in “International Herald Tribune”, 13 dicembre 2001. 14 “International Herald Tribune”, 28 dicembre 2001. 15 “La Stampa”, 14 dicembre 2001. Riprende un articolo del “Washington Post”. 16 S. Avineri, professore di Scienze politiche all'Università Ebraica di Ge­ rusalemme, in “International Herald Tribune”, 14 novembre 2001. 17 “International Herald Tribune”, 13 novembre 2001. Il brano citato è parte di un editoriale pubblicato dal “Washington Post”. 18 Ibid. 19 “International Herald Tribune”, 26 novembre 2001. 20 Ibid. 21 “International Herald Tribune”, 28 gennaio 2002. 221. Andric, Racconti di Sarajevo, tr. it. Newton, Roma 1993.

5. È stato Osama bin Laden. Chi se no? 1“Panorama”, 7 febbraio 2002. 2 J. Miller, J. Gerth, D. Van Natta, in “International Herald Tribune”, 31 dicembre 2001-primo gennaio 2002. 173

3 “International Herald Tribune'', 7 febbraio 2002. 4 "International Herald Tribune”, 3 gennaio 2002. 5 "International Herald Tribune”, 7 febbraio 2002. 6 Trascrizione parziale del video di Osama bin Laden, in “La Stampa", 14 dicembre 2001. 7 Miles Copeland collaborò con il generale William Donovan nella Se­ conda guerra mondiale (servizi di sicurezza deirEsercito). Fu direttore della Cia sotto Allen Dulles. Svolse funzioni di assistente speciale di Kermit Kim Roosevelt nel colpo di stato che rovesciò Mossadeq nel 1953, proprio in Iran. Fu consigliere di alcuni capi di stato africani e mediorientali (Nasser, in Egit­ to, Nkrumah in Ghana, Chamoun in Libano). Cfr. G. Chiesa, Operazione Tehe­ ran, Laterza, Bari 1980, p. 129. 8 “La Repubblica", 23 aprile 1980. 9 Ibid. 10he put options e le call options sono contratti future, che consentono a chi le acquista di poter, rispettivamente, vendere e comprare determinate azioni, en­ tro un definito limite di tempo, a un prezzo definito in anticipo (strike price). 11 D. Radlauer, Black Tuesday: The Worlds Largest Insider Trading Scam ? Radlauer è un esperto in electroning banking and cash management e lavora al “New York Future Exchange". www.ict.org.il/articles/articledet.cfmParticleit=386. 12 L'intervista fu pubblicata da “Le Nouvel Observateur" nel numero del 15-21 gennaio 1998. La presente versione è ripresa da “Guerre & Pace ', no­ vembre 2001.

6. Impero penale 1 Lettera all'“Intemational Herald Tribune" (18 novembre 2001) di Paul Frank, da Thollon in Francia. 2 E. Luttwak, La dittatura del capitalismo, cit., pp. 12-13. 3 Ivi, p. 75. 4 D. Zolo, in “il Manifesto", 16 novembre 2001. 5 A. Cassese, in “La Repubblica", 21 novembre 2001. 6 W. Safire, in “New York Times", 16 novembre 2001. 7 R. Cohen, in “Washington Post", 16 novembre 2001. 8 “New York Times", 3 gennaio 2002. 9 Nelle molte decine di dibattiti e incontri pubblici da me tenuti in ogni parte d'Italia ho avuto occasione di verificare ripetutamente che la gente in­ contrata, in grande maggioranza, non era al corrente di questa questione: qualcuno sapeva qualcosa, altri solo per sentito dire. E va tenuto presente che si trattava di un tipo di pubblico di gran lunga più informato della me­ dia e curioso quanto basta per decidere di non stare davanti alla televisio­ ne e andare a un dibattito. Per quanto concerne i giornali italiani, nel gran­ de silenzio quasi generale si sono distinte le voci di Boris Biancheri, in un editoriale su “La Stampa" dai toni in verità molto moderati e circospetti e di Antonio Cassese con una critica molto dura su “La Repubblica" (che però non ha ritenuto opportuno dedicare all'argomento un suo editoriale, limi­ 174

tandosi alle ottime e sarcastiche corrispondenze di Vittorio Zucconi dagli Stati Uniti). Nient altro di importante. 10 “La Stampa", 7 dicembre 2001. 11 In base alla Convenzione di Ginevra sono considerati legittimi com­ battenti coloro che fanno parte di forze armate regolari o che combattono os­ servando una serie di requisiti come: portare apertamente le armi, essere riconoscibili a distanza, rispettare il diritto di guerra. 12“Washington Post”, 12 marzo 2002. 13 “New York Times", 23 gennaio 2002. 14 C. Levendosky, in "New York Times", 17 gennaio 2002. È direttore del­ la pagina editoriale del “Casper Star-Tribune". 15 Con dieci anni di ritardo, dunque, il 21 ottobre 1994. 16 G. Vidal, La fine delle libertà. Verso un nuovo totalitarismo?, tr. it. Fazi Editore, Roma 2001, p. 107. 17 “In questo autunno di rabbia anche un liberal può trovarsi a rivolgere il pensiero alla tortura." NB. Questa e le successive citazioni di torturatori po­ tenziali sono tratte da P. Mastrolilli, in “La Stampa", 7 novembre 2001. 18 “La gente comincia a chiedersi come sia possibile ottenere certe infor­ mazioni [dai prigionieri]..." 19 “Sotto certe circostanze la tortura potrebbe essere il male minore." 20 “Non c'è dubbio che torturare i terroristi e i loro complici per ottenere informazioni funziona." 21 G. Vidal, La fine delle libertà . Verso un nuovo totalitarismo?, cit., p. 107. 22 “International Herald Tribune", 30 gennaio 2002. 23 W. Pfaff, in “International Herald Tribune", 4 gennaio 2002. 24 “La Repubblica”, 26 giugno 1999. 25Vedi A. Friedmann, in “International Herald Tribune", 31 gennaio 2002. 26 S. Rodotà, “La Repubblica", 12 gennaio 2002.

7. Una Grande alleanza? 1Vedi B. Woodward, D. Balz, in “International Herald Tribune", 29 gen­ naio 2002. 2 Dal discorso di George W. Bush sullo Stato dell'Unione, in “Internatio­ nal Herald Tribune", primo febbraio 2002. 3 Secondo Marc W. Herold, dell'Università di New Hampshire Durham (“il manifesto", 23 dicembre 2001): “Il 23 novembre, al tramonto del sole, sot­ to i bombardamenti statunitensi erano morti almeno 3006 civili afghani . Chi scrive ha sommato tutte le notizie in merito pubblicate dalla stampa inter­ nazionale, o ricavate da Internet, giungendo alla conclusione che, approssi­ mativamente, i morti civili in Afghanistan alla fine dell'anno 2001 potrebbe­ ro aver superato quota 4000. 4 Per maggiori approfondimenti circa le possibili linee di sviluppo della Superguerra, vedi il cap. 12. 5 Vedi F. Rampini, in “La Repubblica", 20 novembre 2001. 6 J. Hoagland, in “International Herald Tribune", 26 novembre 2001. 7 C. De Benedetti, in “La Repubblica", 24 novembre 2001. 175

8. Propaganda War 1J. Roth, Il profeta muto, tr. it. Adelphi, Milano 1982, p. 197. 2 K. Kraus, Gli ultimi giorni dell’Umanità, tr. it. Adelphi, Milano 1966, p. 451. 3 Custine, Lettere dalla Russia, tr. it. Fògola Editore, Torino 1977, p. 277. Il marchese de Custine si riferiva alla Russia. 4 R. Kapuscirìski, in “La Repubblica”, primo settembre 2000. 5 G. Vidal, in "La Stampa', 19 agosto 1988. 6 K. Kraus, Gli ultimi giorni dell’Umanità, cit. 7 N. Klein, No Logo, tr. it. Baldini & Castoldi, Milano 2001. 8 Ci sono poi i sacerdoti della menzogna informativa, che di regola leva­ no alti lai e gridano al tentativo censorio non appena si sollevano queste que­ stioni. Per costoro, le cui fortune politiche e personali sono legate alla pro­ secuzione dell'attuale stato di cose, non è ovviamente ammissibile alcun ri­ lievo critico. Ma di questi truffatori non è qui il caso di parlare. 9 L. Dini, Fra Casa Bianca e Botteghe Oscure, intervista di M. Molinari, Guerini e Associati, Milano 2001, pp. 64-65. 10 K. Kraus, Gli ultimi giorni dell’Umanità, cit., p. 198. 11 Citazioni da un'e-mail ricevuta da un laureando in Scienze della Co­ municazione, a Bologna. 12 Dal resoconto di una conferenza tenuta ndl'ambito del seminario re­ sidenziale deirUniversità Nazareth di Roma su “Informazione: verità e li­ bertà" (8-11 novembre 2001). Il resoconto, apparso sul bollettino dell'Università, è a firma Emanuele Castelli. 13 Le citazioni sono tratte da una rassegna-documento a firma Patrick Martin, in data 6 novembre 2001, dal titolo CNN Tells Reporters: No Propa­ ganda, except American. Ringrazio Lanfranco Caminiti per avermelo segna­ lato e inviato via e-mail. 14 “I giornalisti che svolgono missioni professionali pericolose nelle zone di conflitto armato saranno considerati come persone civili ai sensi dell'art. 50, § 1." Annota Raniero La Valle: "Quindi ce specificamente la proibizione di ammazzare i giornalisti durante la guerra: è una prescrizione ovvia, ma è stata messa per iscritto forse perché si sapeva che è forte la tentazione di uc­ cidere i giornalisti”. 15 “La Repubblica”, 14 dicembre 2001.

9. Superwar 1Dal discorso di George W. Bush sullo Stato dell'Unione, in “Internatio­ nal Herald Tribune”, cit. 2 J. Hoagland, in “International Herald Tribune”, 9 novembre 2001. 3 Ibid. Il corsivo è mio. 4 Vedi cap. 5. 5 J. Hoagland, in “International Heraldi Tribune”, 19 novembre 2001. 6 Ibid. 7 H. Kissinger, in “La Stampa”, 13 gennaio 2002. 176

8 W. Pfaff, in “International Herald Tribune”, 5-6 gennaio 2002. 9 E. Luttwak, La dittatura del capitalismo, cit., p. 274. 10 Ivi, p. 113. 11 "New York Times", 12 dicembre 2001. 12 J. Hoagland, in “Washington Post", 26 novembre 2001. 13 N. Chomsky, 11 settembre. Le ragioni di chi?, tr. it. Tropea Editore, Mi­ lano 2001, p. 33. 14 R. W. Apple, in “New York Times", 14 settembre 2001. Citato in Noam Chomsky, 11 settembre. Le ragioni di chi?, cit., p. 61. 15 B. Hrabal, Ho servito il Re d ’Inghilterra, tr. it. Edizioni e/o, Roma 1997, p. 233. 16 G. Chiesa, G8-Genova, Einaudi, Torino 2001.

Indice

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1. Ponte di comando 2. Fine della storia 3. Ma che guerra è? 4. Dove nascono i tifoni 5. È stato Osama bin Laden. Chi se no? 6. Impero penale 7. Una Grande alleanza? 8. Propaganda War 9. Superwar 10. Conclusioni Note