La grande bellezza e il cinema di Paolo Sorrentino 9788866331711, 8866331716

Questo libro parte dall'analisi della Grande bellezza, che Paolo Sorrentino riconosce come la sua opera più importa

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Italian Pages 154 [153] Year 2017

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La grande bellezza e il cinema di Paolo Sorrentino
 9788866331711, 8866331716

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Simonetta Salvestroni

La grande bellezza e il cinema di Paolo Sorrentino

archetipolibri

Longitudini

Simonetta Salvestroni

La grande bellezza e il cinema di Paolo Sorrentino

archetipolibri

© 2017, Clueb Casa editrice, Bologna

ISBN 978-88-6633-171-1 -www.clueb.it Tutti i diritti sono riservati. ArchetipoLibri è un marchio Clueb.

Indice

Prefazione ..........................................................................................

7

Prima parte Capitolo I - La grande bellezza..........................................................

17

Capitolo II - Youth - La giovinezza ...................................................

53

Parte seconda

Introduzione.......................................................................................

83

Capitolo I - Le conseguenze dell’amore .............................................

87

Capitolo II - Il divo. La spettacolare vita di Giulio Andreotti............

109

Filmografìa............................................................................................

131

Bibliografia............................................................................................

141

Ringraziamenti Ringrazio Sandro Bernardi, Guglielmo Pescatore, David Bruni, Federico Diana, Davide Varasi. Il mio più sentito ringraziamento va a Antonella Ca­ siraghi, perché senza il suo incoraggiamento il libro probabilmente non ci sarebbe stato.

Prefazione

La Grande bellezza è un film molto discusso. Ha ottenuto un grande successo di pubblico e numerosi riconoscimenti soprattut­ to all’estero, ma in Italia è spesso aspramente criticato. Bernardo Bertolucci ha colto, secondo me, in una breve intervi­ sta l’essenza di un’opera ricca e complessa. Sono veramente molto contento per La grande bellezza. E un film potente, che rimane dentro. Anche una settimana dopo averlo visto continuavo a sentire dentro di me la presenza di questo film, perché c’è una visionarietà che non vedevo dai tempi di Fellini. Sorrentino ha inventato una realtà. Non si tratta di una realtà che chi vive a Roma ha modo di vedere. L’ha creata con la sua macchina da presa1.

Il prologo, il finale, i momenti in cui il protagonista è solo nella sua terrazza o in camera da letto sono intessuti della materia delle visioni, dei sogni, dei desideri a cui fa da controcanto la pesantezza della vita quotidiana. Sono create daH’immaginazione le iperboliche rappresentazioni delle feste, degli spettacoli estremi, della clinica di bellezza, della recita al funerale o figure come la suora di 103 anni, che si muove e dice le sue poche ma significative battute come se fosse già al di là della vita. Il regista inventa, crea, amplifica. Nel nostro mondo ossessivamente impegnato in giochi di affer­ mazione, di potere, di denaro, immerso in una greve materialità, la «grande bellezza» del film di Sorrentino è fatta della natura impal­ pabile dei ricordi, dei sogni, dei desideri del sensibile e sofferente protagonista, che ha sbagliato le scelte importanti della sua vita e che nella seconda parte del film se ne rende lucidamente conto, toccando momenti di disperazione.* 1

Bernardo Bertolucci, intervista a Sky, 3 marzo 2014.

8

Prefazione

Attraverso un cammino che in un breve spazio di tempo lo porta a vivere tre esperienze di morte e una dolorosa solitudine interiore, Jep trova alla fine lo slancio creativo e emotivo che gli fa desiderare di scrivere un nuovo romanzo e gli fa ritrovare la voglia di stare al mondo. Ha bisogno di guide che lo accompagnino per una parte di strada fino alla rinascita che compie da solo. Le trova nella sensibile Ramona, che gli dà il calore umano che gli manca e gli fa sentire ancora una volta «dopo tanto tempo quanto sia bello volersi bene». L’incontro più importante è quello con suor Maria. Ciò che il regista ci vuole trasmettere è accompagnato da una musica classica e spirituale che sostiene e accresce il significato delle immagini. La chiave per la comprensione del significato del prologo è data, come vedremo, dall’assolo di I lie di David Lang2. Hanno una forza e un’intensità non minori il brano di Arvo Part e il canto di Elsie Torp nell’episodio della terrazza e le musiche classiche nei momenti centrali del film. Una caratteristica del regista è prolungare questi brani quando si torna alla realtà quotidiana attraverso un raccordo sonoro che si spegne dopo alcuni secondi, come se il protagonista non volesse lasciare quella dimensione. Sorrentino è attratto da opere di compositori contemporanei che spesso si ispirano a poesie della letteratura classica. Le musiche scelte dal regista sono di per sé suggestive e evocative. Se ascol­ tate da sole non raggiungono tuttavia l’intensità e la potenza che colpisce nel film lo spettatore ricettivo, che le sente associate alle immagini e al loro significato. Sorrentino ha dedicato i suoi due ultimi film alla ricerca e all’e­ spressione della bellezza, che la vita ci offre: nei rapporti umani profondi, nelle opere artistiche, nella natura. In Youth l’attore Jimmy Tree chiarisce a Mick Boyle questa aspi­ razione quando, dopo essersi preparato con cura per interpretare il ruolo di Hitler, capisce il suo errore. Alla fine sono giunto a una conclusione. Io devo scegliere. Devo scegliere che cosa vale la pena di raccontare: l’orrore o il deside­ rio. E ho scelto il desiderio. Voi, ognuno di voi mi ha aperto gli occhi. Voi mi avete fatto capire che non posso perdere il mio tem2

Cfr. n. 3, pp. 19-20.

Prefazione

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po sull’assurdità dell’orrore. Io non posso interpretare Hitler: Io voglio raccontare il suo (di Mick) desiderio, il mio desiderio così puro, così impossibile. Ma non importa. Perché è quello che ci rende vivi. In entrambi i film un altro tema importante è la giovinezza, inte­ sa non come un dato anagrafico, ma come una condizione mentale. Si è giovani quando ci si dedica con tutto il proprio essere a fare quello che si ama e a offrirlo agli altri, come fanno Fred col concer­ to e Jep col libro che si prepara a scrivere.

E stato detto che la Grande Bellezza è un’opera frammentaria. In realtà ha un preciso filo conduttore e una solida coerenza inter­ na. Il film si snoda lungo due Knee parallele. La prima è quella prin­ cipale che segue le tappe del percorso interiore di Jep dalla morte di Elisa, l’unica donna da lui profondamente amata, fino alla ca­ tarsi finale. L’altra ha come oggetto il modo di vivere della gente danarosa e di successo che circonda il protagonista. Sviluppando questa seconda linea Sorrentino ha girato un film corale, che ha richiesto un grande sforzo organizzativo. Questo mondo costitui­ sce il quotidiano di Gambardella giornalista che, come il Marcello della Dolce vita, è presente agli spettacoli, ai riti, alle feste sguaiate in cui ci si stordisce ballando fino allo sfinimento o assumendo alcool e cocaina. Come i due film, anche i protagonisti sono molto diversi. Quel­ lo di Fellini è trascinato in situazione che lo coinvolgono in piaceri momentanei fino all’ultima orgia che lo rende sordo alle parole della ragazzina esile, dolce, pura, estranea al mondo da lui frequen­ tato, che incontra sulla spiaggia per l’ultima volta alla fine del film. Jep Gambardella è un uomo che ha vissuto l’esperienza di scri­ vere un romanzo importante e che ha una sensibilità profonda, che si rivela già nella prima parte quando è solo con se stesso. Il film racconta la sua faticosa ricerca esistenziale che lo coinvolge sempre più profondamente fino alla rinascita finale. La grande bellezza esalta nelle luci delle albe e dei tramonti e in quella artificiale nel buio della notte le bellezze della città: il Gianicolo, Piazza Navona, il lungotevere, il chiostro del Bramante, le

Prefazione

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Terme di Caracalla, le chiese, i panorami, le opere d’arte. Il film si apre e si chiude con Roma protagonista. È uno scenario che si offre da secoli allo sguardo degli osservatori. A renderlo vivo, palpitante oppure a degradarlo sono gli esseri umani. Quando la rinascita di Jep è compiuta, Roma torna ad effonde­ re la sua magica bellezza nel lento viaggio che il regista fa compiere allo spettatore sulle acque del Tevere al suono delle Beatitudes del compositore russo Vladimir Martynov.

Sorrentino spiega nelle interviste come ha creato la sua opera: Per la ricostruzione degli ambienti ho cercato di inventare il più possibile (...). Racconto lo smarrimento dell’essere umano, del pro­ vinciale in una grande città. Prima individuo un personaggio più che una storia e su questo co­ mincio a raccogliere appunti (...) Ho seguito molto la politica, la situazione di decadenza. Ad essa io e il mio protagonista opponiamo uno sguardo poetico. E l’unica possibilità che si ha di vedere sotto un’altra luce l’uomo miserabile, solo nella grande città. Non importa se è Roma o un’altra metropoli. Non c’è rassegnazione, ma malinconia sì. Nelle grandi città i rappor­ ti nascono e muoiono molto in fretta, sono effimeri. I miei temi pre­ diletti sono la nostalgia, la malinconia, la frequentazione dei ricordi. Quello che mi piace mostrare è la bellezza della fatica di vivere. Il film contiene in sé le domande che ci poniamo ogni giorno3.

Jep Gambardella, come tante persone dotate del nostro tempo, si è lasciato risucchiare per molti anni dai falsi valori dominanti. Per la maggior parte di coloro che oggi contano, il successo, il po­ tere, il denaro sono al centro della loro vita. Quello che ottengono è un accrescimento del proprio ego, che annulla le altre potenziali­ tà presenti nell’essere umano. La Grande bellezza parte da un modo di vivere e intendere l’esi­ stenza che è quello dell’élite economica nel nostro presente in tutto il primo mondo. 3 Intervista a Sorrentino di Conchita de Gregorio negli studi di «Repubbli­ ca», .

Prefazione

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Continua il regista parlando del film:

Anch’io, come Jep Gambardella, sono un napoletano approdato a Roma, un provinciale nella capitale (...) Nel film c’è un sentito omaggio all’uomo partenopeo. Jep è una tipologia di napoletano in estinzione, perché sa conciliare la passione per il superficiale e il profondo4. Nelle interviste Sorrentino sottolinea il suo legame con la città in cui è nato. Sceglie come filo conduttore la vicenda di un perso­ naggio napoletano sensibile e intelligente, che la vita da lui scelta ha reso cinico e disilluso. All’inizio del film è un giornalista affer­ mato, ha l’ammirazione e la disponibilità delle donne dell’ambien­ te che frequenta, una vita lussuosa in un attico con una grande terrazza che si affaccia sul Colosseo. Quello che di bello, di buono, di vero c’è stato nella sua esistenza è legato agli anni precedenti al successo e alla pubblicazione del romanzo. Nelle prime sequenze nell’anziano giornalista e scrittore di quell’allora e di quei valori sembra rimasta soltanto la nostalgia che si concede nei momenti di solitudine. E come se la sua vita affettiva, la sua umanità, il talento che ha ricevuto si fossero bloccati quando ha ottenuto attraverso il succes­ so I’inserimento nella vita mondana della capitale. Un evento - la morte di Elisa De Santis - ha il potere di turbarlo e di mettere in discussione il modo di vivere in cui si era adagiato. Dietro agli atteggiamenti mondani e all’ostentato cinismo5 del protagonista della Grande bellezza, scopriamo già dalle prime se­ quenze la sua capacità di godere del silenzio e dei suoni della na­ tura, il suo sguardo di tenerezza quando osserva dietro i cancelli o dalla terrazza i giochi dei bambini degli istituti religiosi intorno a casa sua. L’episodio a cui torna ogni sera prima di dormire può apparire a una visione superficiale soltanto un flirt adolescenziale. La sensi­ bilità di Jep lo trasfigura. Per il protagonista è legato all’unico ro­

4

Ibidem.

5

«Il forestiero che va alla conquista della capitale utilizza il cinismo come

autodifesa» dice Sorrentino in una intervista.

Prefazione

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manzo della sua vita, Lapparato umano, definito da un personaggio autorevole «un libro bello e feroce come il mondo degli uomini»67 . Ciò che più gli manca è legato ad un desiderio primario dell’es­ sere umano: il bisogno di una famiglia da amare e in particolare di figli, che avrebbe voluto e che le circostanze e le scelte della sua vita gli hanno impedito di avere. Il rapporto padri-figli, che è centrale in Youth, è il leitmotiv di tutti i film del regista a partire dall’Uowo in più1. Derivano dalle difficoltà o dall’assenza di questo rapporto le sofferenze, le scelte sbagliate, la fatica di vivere dei personaggi. È un tema importante perché la famiglia è oggi sempre più fragile. L’assenza o il disinteresse di uno o di entrambi i genitori influiscono profondamente sul futuro dei membri più giovani e sensibili. Nella Grande Bellezza il tema è rovesciato. L’assenza di questo legame, che si avverte già nelle prime sequenze, dopo la notizia della morte di Elisa opprime il protagonista. Come l’arte, la natura, i panorami, i monumenti di Roma, quella della famiglia e dei rap­ porti affettivi è una delle «grandi bellezze» dell’esistenza, che Jep desidera in modo sempre più disperato, ogni volta che un affetto gli sfugge di mano8. Questo libro parte dall’analisi della Grande bellezza, che Paolo Sorrentino riconosce come la sua opera migliore. Il secondo capitolo è dedicato a Youth, diverso ma felicemente complementare rispetto al film precedente.

6 La definizione è di Suor Maria, anche se a pronunciare questa frase è il suo assistente. Per Sorrentino si tratta, come vedremo, di un giudizio che conta. 7 C’è in questa scelta un motivo autobiografico. Quando aveva 17 anni Sor­ rentino ha perso entrambi i genitori in una disgrazia domestica. Ha dichiarato in un’intervista che senza questo evento avrebbe probabilmente lavorato in banca come suo padre. L’importanza di questo tema è sottolineata da una sua riflessione personale: «Non ho nessuna idea di come si rapporti un adulto con i genitori perché non ho mai fatto questa esperienza».

8

Muore Ramona. Romano, che gli è sinceramente amico, se ne va per sem­

pre da Roma.

Prefazione

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La seconda parte del volume prende in esame le opere del re­ gista girate fra il 2001 e il 2011. Mi soffermo in particolare sulle Conseguenze dell’amore e sul Divo dove è più evidente il talento e la forza immaginativa di Sorrentino. Il primo è un dramma esi­ stenziale sul disagio interiore di un personaggio che ha sbagliato per avidità e che si rende conto, dopo anni di solitudine in un an­ golo della Svizzera, di non potere fare a meno del calore umano e dell’affetto. Il Divo affronta un periodo oscuro, caratterizzato dai tanti e tra­ gici misteri irrisolti della storia italiana degli anni ottanta e novan­ ta. E un film sulla sete insaziabile di potere, uno dei temi ricorrenti nelle tragedie classiche, incarnato qui da un leader politico noto a tutti, Giulio Andreotti. Nei film girati fra il 2001 e il 2011 Sorrentino immerge lo spet­ tatore in un mondo spesso trasfigurato daH’immaginazione, dalle visioni, dai sogni. Il tema sempre presente - con l’eccezione del Divo - è quello della difficoltà dei rapporti familiari osservati da vari punti di vista e espressi con un linguaggio cinematografico ori­ ginale e immaginoso9.

9 In questo volume mi occupo esclusivamente dell’attività cinematografica di Paolo Sorrrentino.

Prima parte

Capitolo I

La grande bellezza

1. Il prologo

I film di Paolo Sorrentino hanno spesso un prologo denso di significato. Quello della Grande bellezza, come un’ouverture di un testo musicale, introduce i temi principali dell’opera: il viaggio dal­ la vita alla morte, la bellezza di Roma abbagliante ma anche indif­ ferente alle vicende umane, l’acqua, che in questa prima sequenza è ripresa dalle più diverse angolazioni e che arriva ad occupare per qualche istante tutto lo schermo1. C’è chi, guardando La grande bellezza, è stato colpito dalle feste e dagli spettacoli estremi ovvero da un mondo marcio, materialista, fatuo che, a partire dalla seconda sequenza torna ripetutamente nel film. In realtà è lo sfondo su cui si muove una dolorosa vicenda esistenziale - quella del protagonista - che va verso un finale di luce e di rinascita. Il film si apre con una citazione scritta con lettere bianche su fondo nero: Viaggiare è proprio utile, fa lavorare l’immaginazione. Tutto il re­ sto è delusione e fatica. Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario. Ecco la sua forza.1

1 L’oggetto della mia analisi è la versione integrale del film (172 minuti), che aggiunge 30 minuti alla versione uscita nelle sale nel maggio 2013. Le battute dei personaggi sono tratte dal DVD Paolo Sorrentino, La grande bellezza, Indigo Film e Medusa Film, 2015.

Prima parte

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Va dalla vita alla morte. Uomini, bestie, città e cose, è tutto inventa­ to. E un romanzo, nient’altro che una storia fittizia. Lo dice Littré, lui non sbaglia mai.

E poi in ogni caso tutti possono fare altrettanto. Basta chiudere gli occhi. E dall’altra parte della vita2. La macchina da presa si ferma sui singoli blocchi abbastanza a lungo da permettere allo spettatore di assimilare quello che sta leggendo. Attraverso l’incipit di Viaggio al termine della notte di Louis Ferdinand Celine viene introdotto il tema del viaggio esistenziale vissuto e immaginario, che è il leitmotiv del film. Dopo che sono scomparse le scritte, con uno zoom all’indietro, ci troviamo all’interno della bocca del cannone del Gianicolo. Il rim­ bombo segna il mezzogiorno, il momento in cui il sole estivo rag­ giunge l’apice della luce. E rotta per un tempo brevissimo la quiete dei suoni naturali del parco. Seguono scene di vita quotidiana: una donna legge il giornale, un barbone è sdraiato su una panchina, un uomo in canottiera si lava con l’acqua della fontana. Sono i romani del ceto medio-basso, sempre uguali a se stessi. Il canto degli uccelli e i rintocchi della campane accompagnano le prime inquadrature. Poi inizia a farsi sentire la musica di David Lang che apre e chiude Dz grande bellezza. Quando l’uomo in canottiera si allontana, la macchina da presa riprende a pelo d’acqua la fontana illuminata dal sole. Al di là un gruppo di turisti ammira il monumento. Con una virata verso l’alto è inquadrato, sistemato sulla maestosa finestra della Chiesa del Gia­ nicolo, il Torino Vocalensemble. Dalla bocca di questo gruppo di donne, che sono vestite di una sobria uniforme blu e che in modo lento e sicuro vanno a disporsi simmetricamente, esce un canto lim­ pido e intenso. Con una ripresa dall’alto verso il basso ci sentiamo precipitare verso il piatto su cui cade l’acqua. Poi l’inquadratura si allarga per riprendere dall’alto la fontana nella luce del mezzogiorno. La super2 2015.

Louis Ferdinad Celine, Viaggio al termine della notte, Corbaccio, Milano,

I. La grande bellezza

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ficie azzurra appare come una massa viva, che si muove, si increspa, emette bagliori provocati dal getto che scende dall’alto. È la prima delle immagini d’acqua che sono presenti nella Grande bellezza. Le troviamo di nuovo quando il protagonista proietta con Fimmaginazione il mare sul soffitto della sua camera o lo ricorda, o, come nella scena conclusiva, lo vede e insieme lo ricorda com’era quaranta anni prima. Accompagnato dall’armonia del canto, un turista giapponese si discosta dal gruppo. E ripreso al di là della distesa dell’acqua della fontana. L’uomo arriva al parapetto. Il tono alto di questa sequenza è interrotto da un brevissimo in­ termezzo, un inatteso controcanto basso: la banale frase volgare che il conducente dell’autobus, incurante della bellezza della luce e del panorama, dice parlando al cellulare. Il giapponese ha gli occhi illuminati dalla gioia. Sta guardando qualcosa che probabilmente ha a lungo sognato di vedere. Siamo nel momento più caldo della giornata. L’uomo si asciuga il sudore con una mano. Subito dopo stramazza a terra stroncato da un infarto. Esattamente a questo punto inizia l’assolo eseguito dalla voce limpida e coinvolgente di una cantante in controluce. La donna è appoggiata allo stipite di una finestra che incornicia Roma come un quadro. Il prologo è scandito da questa musica delicata e spirituale che si fonde con immagini di bellezza. Il canto in yiddish contiene una chiave di lettura del film. Lo spettatore può trovarla solo se è tanto interessato al film da decidere di cercarla3. I lie in bed and turn out the light. My beloved will come today. The trains come twice a day. One comes at night. I hear them clang­ ing: glin, glin, glin, glon. Yes, he is near. The night has many hours, each one sadder than the next. Only one is happy, when my beloved comes. Someone comes, someone knocks, someone calls. I ran out barefoot. Yes, he has come4. 3 La musica è di David Lang, il testo in yiddish di Joseph Rolnick. Nella sceneggiatura il regista cita il titolo e l’autore del brano, consentendoci di trovare la traduzione. Un’altra possibile fonte è il soundtrack delle musiche del film. 4 Traduzione: «Mi sdraio sul letto e spengo la luce. Il mio amato oggi arri­ verà. I treni arrivano due volte al giorno. Uno arriva di notte. Sento il loro rumore:

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Prima parte

Queste parole suggeriscono una situazione di attesa, che consa­ pevolmente richiama il Cantico dei Cantici, caro al compositore Da­ vid Lang5. Il desiderio del libro biblico è erotico e insieme spirituale. Questo testo è legato ai momenti centrali del film. Il treno che arriva porta la morte insieme all’attesa e al godimento della felicità al turi­ sta giapponese. Contemporaneamente richiama l’episodio più puro e felice della vita di Jep, che egli lascia affiorare nel ricordo prima di prendere sonno. Nel prologo della Grande bellezza c’è un’assenza importante: quella del protagonista, presente in quasi tutte le sequenze come figura centrale o come osservatore. Qui ci sono mostrati momenti magici, capaci di trasfigurare la realtà, simili a quelli che egli vive nei momenti di solitudine. La scintillante e viva superficie d’acqua ripre­ sa da tutte le angolazioni è, come abbiamo detto, un’anticipazione del leitmotiv dei suoi ricordi. Quella del giapponese è la prima delle quattro morti che scandi­ scono il film6. Le parole del canto anticipano i desideri e i rimpianti che Jep coltiva ogni sera prima di addormentarsi: l’attesa di qualcosa che nelle ore oscure e tristi può accendere la vita di luce.

2. La festa di compleanno

Un urlo sguaiato fuoricampo ci introduce in uno scenario com­ pletamente diverso.

glin, glin, glin, glon. Sì, lui è vicino. La notte ha molte ore, una più triste dell’altra. Solo una è felice, quando il mio amato arriva. Qualcuno arriva, qualcuno bussa, qualcuno chiama. Corro fuori a piedi nudi. Sì, lui è venuto» (T.d.A.).

5 Una delle canzoni di Lang inserita in Youth, Just, è una parafrasi del Can­ tico dei Cantici, che sentiamo nel corso del film e che torna ancora durante i titoli di coda.

6 L’evento che dà inizio alla trasformazione interiore di Jep è la morte di Elisa de Santis, protagonista del romanzo scritto tanti anni prima ma anche dei sogni del presente del protagonista. A metà del film si suicida il giovane Andrea, poco dopo muore Ramona, Tunica donna che è stata capace di generare in lui dopo tanto tempo sentimenti di affetto.

I. La grande bellezza

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C’è uno stridente contrasto fra il prologo e l’episodio della festa. Una parte del pubblico è stata colpita soprattutto dalla dimensione ‘profana’ che fa il suo ingresso nel film con la concitata e rumorosa festa per i 65 anni di Gambardella nella grande terrazza che fa da tetto a un albergo di lusso. Come afferma il regista, l’episodio non è realistico. Sorrentino ha creato con la sua immaginazione questa bolgia infernale, che espri­ me in immagini la decadenza e il vuoto della ricca borghesia romana, come di ogni altra capitale del mondo. Nel buio della notte le luci artificiali creano immagini contrasta­ te. Una camera a mano con movimenti veloci introduce lo squallido spettacolo di una moltitudine di persone che si dimena, suda, fatica a vuoto. Se si escludono poche accompagnatrici e escort, sono per­ sone di mezza età facoltose e di successo. L’artificiosità dell’ambiente è sottolineata da una parte della terrazza coperta di ghiaia dove spic­ cano le sagome di alcuni alberi finti di colore bianco accanto ai cubi sui quali si balla o ci si riposa. Si distinguono nella folla alcuni personaggi che ritornano nel cor­ so del film: il provinciale Romano, l’intellettuale saccente Stefania, la ricca vedova Viola Bartoli, l’industriale di giocattoli Lello Cava, la moglie Trumeau, il poeta Sebastiano Paf, Dadina la direttrice nana del giornale per il quale Jep lavora, il personaggio più sensibile e intelligente di questo serraglio umano. L’unico dialogo in questa sequenza viene pronunciato con tono affettato e mondano7. Emerge da una torta di compleanno Lorena, ex-soubrette sulla sessantina in un cortissimo vestito di scena. Al suo grido «Auguri Jep. Auguri, tesoro. Auguri Roma» appare finalmente il protagoni­ sta ripreso di spalle. Balla con una disinvolta padronanza dei movi­ menti. Quando si gira verso il pubblico, sorride a tutti, circondato e festeggiato dalle innumerevoli donne con le quali intesse giochi di 7

ATTORE: Dovrei fare due fictions, la prima su un papa e la seconda su

un tossicodipendente che si redime (...) potrei fare uno Shakespeare con Pietro, ma solo se è una cosa ambiziosa. E tu?». ESANGUE: «Non lo so. Forse dico basta con la recitazione, tanto in questo paese di merda non si scrivono mai bei personaggi femminili e mi dedico al mio primo romanzo. Una cosa proustiana». Assiste a questo dialogo Romano, l’unico sincero amico di Jep, innamorato non corrisposto dell’«esangue».

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Prima parte

seduzione. Durante l’esecuzione del pezzo sudamericano La Colita, la macchina da presa gli si avvicina, lo isola, rallentando fino a 150 fotogrammi al secondo. Sul viso che occupa lo schermo parte la sua voce fuoricampo: «Ero destinato alla sensibilità. Ero destinato a di­ ventare uno scrittore. Ero destinato a diventare Jep Gambardella». In questo contesto il protagonista appare ben integrato, è parte della fauna umana che lo circonda e lo onora. Ad un tratto i ballerini ci sono mostrati capovolti, come a sotto­ lineare che appartengono ad un antimondo senza sentimenti e uma­ nità. La sequenza si conclude con Dadina, che si risveglia su uno dei cubi ai quali si era appoggiata per riposare. Cerca inutilmente gli altri, che sono già andati via lasciandola sola. L’ultima surreale e suggestiva immagine della festa è quella di una nana, ripresa leggermente dal basso, che nella terrazza deserta si sta­ glia su un cielo azzurro scuro che sta cominciando a schiarirsi alle prime luci dell’alba.

3. L’alba e il tramonto del giorno dopo la festa Dopo le serate mondane Jep torna a casa a piedi. Piegato con le gambe a squadra si sciacqua la faccia a una fontanella. Quando si solleva, vediamo alle sue spalle uno sfondo di luce abbagliante. Il silenzio è rotto dalle risate di un gruppo di bambine vestite da suora dietro l’inferriata di un istituto religioso. Si divertono a os­ servare la scena di un cane trainato come un giocattolo dal guinza­ glio del padrone8. Dopo una notte di chiasso e di bagordi, Jep assapora questo momento. Ascolta i sommessi suoni naturali: il canto degli uccelli, il gorgoglio dell’acqua, il rumore dei passi. Respira a pieni polmoni, gode del cielo limpido e azzurro, della pace dei giardini silenziosi. Le inferriate degli istituti religiosi recintano lo spazio in cui vi­ vono i loro abitanti. Grazie alle angolazioni della macchina da pre­ 8 La prima parte del film fino all’incontro con Alfredo Marti, è popolata da bambini, che il protagonista contempla con tenerezza e con rimpianto. Dopo il colloquio col marito di Elisa de Santis e la notizia della morte di lei, essi sparisco­ no dal film con l’eccezione della piccola e sofferente pittrice.

I. La grande bellezza

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sa le bambine, così come la suora che raccoglie frutti su un albero di un altro giardino, ci appaiono in inquadrature libere da barriere. E invece Jep ad essere ripreso più volte attraverso le sbarre, come se quel mondo innocente e capace di godere delle piccole gioie della vita gli fosse precluso. Tornato a casa, il protagonista si sdraia e, prima di prendere sonno, proietta con l’immaginazione sul soffitto un mare calmo, limpido, blu. Ne sentiamo lo sciabordio. E la sua dimensione altra, al di là della quotidianità di una vita mondana fatta di amori effi­ meri e di notti tutte uguali.

Ritroviamo il personaggio steso su un’amaca nella sua terrazza al tramonto di quello stesso giorno. In basso una fila di macchine, di cui da quell’altezza non si sente il rumore, procede verso una macchia giallo-arancio avvolta da una nebbia sottile nella quale le automobili sembrano dissolversi. Jep si alza e va a guardare dalla balaustra uno dei giardini degli istituti religiosi che circondano il luogo in cui vive. A dare il tono a questa visione, che non nasce dal ricordo ma, come vedremo, dal desiderio, è il canto extradiegetico My Heart’s in the Higlands. Il testo poetico, composto nel 1790 dallo scozzese Robert Burns, esprime la nostalgia per un passato e un luogo nei quali chi scrive ha lasciato il cuore. La musica è di Arvo Part. La voce sensuale e insieme eterea e rarefatta di Else Torp amplifica la sensa­ zione di irrealtà, trasportando il personaggio e lo spettatore in una dimensione magica e sospesa.

My heart’s in the Highlands, my heart is not here My heart’s in the Highlands a-chasing the deer, Farewell, to the Highlands, farewell to the North9. 9 II regista ha tagliato il brano eseguito da Arvo Part e da Else Torp. Questo è il testo completo: «My heart’s in the Highlands, my heart is not here / My heart’s in the Highlands a-chasing the deer, / Chasing the wild deer, and following the roe / My heart’s in the Highlands, wherever I go!. / Farewell to the Highlands, fa­ rewell to the North / The birthplace of valour, the country of worth! / Wherever I wonder, wherever I roam, / The hill of the Highlands forever I love / Farewell to the mountains, high-covered with snow / Farewell to the straths and green

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Prima parte

Come il poeta e colei che canta con la sua voce distaccata e in­ sieme evocativa, Jep guarda da molto in alto. Il giardino sottostante si vede da lassù simile a una mappa di cui sono segnate le superfici. Gli esseri umani appaiono lontanissimi. Il cuore del protagonista non è sulla terrazza ma in un’altra dimensione, che Sorrentino crea grazie ai giochi di luce, alla forza evocativa del brano musicale, all’interpretazione dell’attore. L’immaginazione aiuta Jep a scendere in un piccolo mondo pie­ no di vegetazione, di alberi, di sentieri dove bambini di cinque-sei anni giocano, corrono, si inseguono, cercano e manifestano affetto. Le immagini comunicano sentimenti semplici e puri, lontanissimi dal mondo che lui frequenta. L’episodio esprime quello che è chiuso nel profondo del pro­ tagonista. Il canto è come se fosse la sua voce interiore, che egli si permette di lasciare uscire soltanto nella solitudine. Ci viene rivelata un’aspirazione semplice, normale, ma ormai quasi irraggiungibile. La visione è generata da un profondo deside­ rio di paternità, che il personaggio non è riuscito a realizzare e che sarà fra poco espresso in modo diretto nell’incontro con Alfredo Marti10.

4. L’evento che cambia l’esistenza di]ep

Per comprendere il significato della Grande bellezza è impor­ tante seguire il cammino di Jep nel breve periodo che il film ci pre­ senta: le sue cadute, i suoi autoinganni, lo sforzo, quando è colpito da una sofferenza che sfiora la disperazione11, per riportare alla luce quello che di buono c’è in lui.

valleys below. / Farewell to the forests and wild-hanging woods. / Farewell to the torrents and loud-pouring floods! (alla fine viene ripetuto il ritornello iniziale). 10 II rapporto genitori-figli è un tema accorrente in tutti i film di Sorrentino, escluso 11 divo.

11 A differenza dei precedenti protagonisti di Sorrentino, Jep piange più vol­ te nel film: quando Alfredo Marti gli comunica la morte di Elisa, quando trasporta la bara di Andrea, alla fine della visita alla mostra di fotografie e ancora più dolo­ rosamente dopo il ricordo o la visione dell’incontro in chiesa con Viola.

I. La grande bellezza

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Dopo un rapporto amoroso abbastanza deludente con Orietta, conosciuta a una serata sulla sua terrazza e poi accompagnata a casa, sentiamo la voce fuori campo del protagonista pronunciare due monologhi di carattere mondano. Il primo risuona quando è ancora in casa della donna, solo nella camera di lei:

La più sconcertante scoperta che ho fatto pochi giorni dopo aver compiuto 65 anni è che non posso perdere tempo a fare cose che non mi va di fare.

Ascoltiamo il secondo sul lungotevere alle prime luci dell’alba, mentre il personaggio ritorna a casa:

Quando sono arrivato a Roma a 26 anni sono precipitato abba­ stanza presto in quello che si potrebbe definire il vortice della mondanità. Ma io non volevo essere semplicemente un mondano, volevo diventare il re dei mondani. E ci sono riuscito. Io non vole­ vo solo partecipare alle feste, volevo avere il potere di farle fallire. I due monologhi sono incastonati all’interno di un canto spiri­ tuale, The Lamb (1982), una delle opere più note del compositore britannico John Tavener. E una corale senza accompagnamento eseguita dal coro della Temple Church. Il testo è di William Blake. Riporto il testo, perché il canto, importante in questa sequen­ za, è il leitmotiv dell’ultima parte del film: accompagna il viaggio di Jep all’isola del Giglio e in montaggio alternato la faticosissima salita di Suor Maria che affronta la Scala Santa.

Little Lamb who made thee? Dost you know who made thee? Gave thee life, and bid thee feed By the stream and o’er the mead; Gave thee clothing of delight, Softest clothing wooly bright ; Gave thee such a tender voice, Making all the vales rejoice! Little Lamb who made thee? Dost you know who made thee?

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Little lamb I’ll tell thee, Little lamb I’ll tell thee! He is called by thy name, For he calls himself a Lamb: He is meek and he is mild, He became a little child: I a child and thou a lamb, We are called by his name. Little Lamb, God bless thee! Little Lamb, God bless thee!12

Il poeta domanda al piccolo agnello se sa chi gli ha dato la vita, il nutrimento, un mantello delizioso, una voce tenera. La risposta è che chi ha fatto questo è chiamato lui stesso Agnello, docile, mite, portatore di benedizioni. Al di là della suggestione di questa musica nelle deserta Roma notturna e poi sul lungotevere alle prime luci dell’alba, il testo di Blake e la benedizione sono appropriati al momento: preparano la prova che aspetta il personaggio e che scuoterà la sua esistenza. In un senso profondo il doloroso colpo che egli riceve sarà per lui un dono, che lo risveglia dal suo torpore mondano e dà inizio alla sua ricerca esistenziale. Quando il protagonista arriva a casa, la macchina da presa ri­ prende obliquamente la tromba delle scale, che appaiono come una serie di ellissi arabescate dalle antiche ringhiere. Grazie ad un reframe leggero nell’ellissi più alta è visibile un puntino nero. Qual­ cuno sta aspettando. L’inquadratura ricercata e elegante prepara un incontro importante.

12 Traduzione: «Piccolo agnello chi ti fece? / Lo sai chi ti fece? / Ti dette la vita e ti invitò a nutrirti / accanto al ruscello e sopra al prato; / ti dette abiti de­ liziosi, / i più morbidi abiti di lana brillante; / ti dette una voce così tenera / che fa gioire tutte le valli! / Piccolo agnello, chi ti fece? / Tu sai chi ti fece? / Piccolo agnello, te lo dirò. / Piccolo agnello te lo dirò. / Egli viene chiamato col tuo nome. Perché chiama se stesso Agnello: / è docile e mite, / divenne un piccolo bambino. / Io un bambino e tu un agnello / Siamo chiamati col suo nome. / Piccolo agnello, Dio ti benedica ! / Piccolo agnello, Dio ti benedica!» (T.d.A.).

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In cima alla splendida scala c’è un uomo vestito in modo mo­ desto. Si presenta come Alfredo Marti, il marito di Elisa De Santis. Elisa è la donna amata da Jep quaranta anni prima, ispiratrice del suo unico romanzo. Le prime parole che il padrone di casa rivol­ ge allo sconosciuto suonano fortemente inopportune e allo stesso tempo patetiche:

Jep: Avete avuto figli? Alfredo: No, io non potevo. Jep: Io sì, potevo. Mi scusi, mi scusi. Alfredo: Anche lei poteva. Elisa è morta. Ieri.

La domanda che sale alle labbra di Jep rivela quasi suo malgra­ do un desiderio che si è portato dentro per quarant’anni: la norma­ lità di una famiglia, dei figli che avrebbe voluto e potuto avere dalla donna che ha molto amato e da cui si è sentito rifiutato13. Alfredo, che è troppo stordito per rendersi conto della assurdità di questa conversazione con un estraneo, comincia a singhiozzare, Jep china la testa. La sofferenza che lo scuote è resa dalla capacità attoriale di Toni Servillo. La macchina da presa si allontana per mostrare i due uomini. Si trovano esattamente nel punto di incontro dei due bracci della rin­ ghiera arabescata. Sul lato sinistro nell’ombra c’è l’oscurità di una rampa di scale, sopra di loro un rettangolo nero, che è il punto di fuga dell’immagine, a destra il pianerottolo in penombra. Jep e Al­ fredo sono vicini ma separati. Il cono di una luce che viene dall’alto li racchiude entrambi, ma nel punto della biforcazione la ringhiera è più larga e evidenzia la distanza fra i due. La parte sinistra, dove si trova Jep e dove lo scalone scende nell’ombra appare molto scu­ ra, quella in cui si trova Alfredo è più luminosa. Anche il modo di piangere è diverso. Il protagonista rimane dritto e composto. Solo la sua testa è abbassata. Alfredo singhiozza piegato in avanti.

13 II finale del romanzo recitato da Orietta nella notturna Piazza Navona, scandisce la delusione dell’autore: «A luce intermittente, l’amore si è seduto nell’angolo. Schivo e distratto esso è stato. Per questa ragione non abbiamo più tollerato la vita».

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La bellezza e la lunghezza dell’inquadratura contribuiscono a rendere l’intensità di questo momento, che avvicina due esseri umani sofferenti per un dolore che li accomuna. Ritroviamo i due anziani al cimitero del Verano sotto una piog­ gia scrosciante. Alfredo implora Jep di accompagnarlo a casa per­ ché non si sente di stare solo. L’appartamento è modesto, anonimo, ordinario, in forte contrasto con l’eleganza di quello del protagoni­ sta, espressione del suo status sociale. Nel diario di Elisa, di cui ha rotto il lucchetto, il marito ha trovato scritto che la moglie ha ama­ to un unico uomo, Gep Gambardella, e che lui è stato solamente un buon compagno. Questa scoperta cambia l’esistenza dei due personaggi. Il pri­ mo dice che «continuerà a fare quello che ha sempre fatto: vive­ re nell’adorazione di lei». La certezza di non essere stato amato e il desiderio di vincere la solitudine lo portano invece dopo breve tempo a cercare un’altra compagna con la quale condividere la sua vita. Jep, insieme alla perdita, apprende una verità che non conosce­ va. Come lui, anche Elisa ha continuato ad amarlo e a idealizzare il loro breve incontro. Nell’episodio immediatamente successivo tornano le visioni e il viaggio immaginario del film, già presente nel prologo e nella sequenza sulla terrazza. Rientrato a casa, disteso sul letto Jep fuma. Ha gli occhi aperti. Sul soffitto appare un mare azzurrissimo solcato da un catamarano. La musica di David Lang World to come ci trasporta nell’atmosfe­ ra sognante del ricordo. Si distende a ondate, accompagnata dal canto a bocca chiusa di Maia Beiser. Jep è in acqua. Ha la sua età attuale. Su uno scoglio alcune ragazze urlano e fanno segni con le braccia per avvertirlo del pericolo. Lui si immerge. Sott’acqua il mare ha sfumature di luce dall’azzurro intenso al bianco argenteo. Quello che riemerge è un sorridente ragazzo di vent’anni acclama­ to per il suo coraggio. Solo Elisa resta immobile. Dopo un momen­ to sospeso gli sorride con dolcezza. Su questa immagine si chiude il ricordo. Il raccordo con la scena successiva è musicale. Continua World to come. La musica conferma che siamo ancora nel mondo visio-

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nario dell’immaginazione del protagonista. Ci troviamo davanti al Chiostro del Bramante di prima mattina. Una donna cerca con ap­ prensione la figlia smarrita. Jep entra all’interno e vede da una gra­ ta la bambina nel piano sottostante. La ragazzina gli chiede «Chi sei?» e, senza dargli il tempo di rispondere, continua: «No. Tu non sei nessuno». Attraverso una dissolvenza sonora sono introdotte alcune battute del Dies Irae. La bambina dà voce a quello che il protagonista stenta a confessarsi. Nella sua vita non ha realizzato ciò che veramente desiderava: ha pubblicato un romanzo impor­ tante, ma non riesce più a scrivere, è diventato incapace di provare sentimenti profondi, intrattiene relazioni superficiali, inadatte a formare una famiglia e a mettere al mondo figli, che ormai è tardi per avere. Dopo la morte di Elisa e ciò che ha scoperto dell’amore di lei, sente, provando una senso di colpevolezza, di non essere nessuno, perché ha perso quello che tanto voleva e che avrebbe potuto ave­ re. Fondamentalmente, nonostante i tanti conoscenti che lo circon­ dano, Jep è solo, come tutti i protagonisti dei film di Sorrentino.

Da questo momento la vita di Gambardella comincia lentamen­ te a cambiare. Lo troviamo in cucina davanti a uno spremiagrumi arancione che richiama la forma del Chiostro del Bramante. Parla con la colf filippina Ahé. «Non ci crederai ma sono andato a dor­ mire alle ventidue ieri sera. Ora non so cosa fare. La mattina è minacciosa» - «Dottore triste?» - «Dottore strano». Per comprendere la riservatezza del personaggio è significativo il fatto che, pur andando a trovare per la prima volta nella sua vita la persona a lui più vicina, Romano, egli non confidi nemmeno a lui l’evento che lo ha colpito tanto profondamente. Dice solo che sta pensando di riprendere a scrivere.

5. La vita dell’élite della capitale

Come abbiamo detto, il film si snoda lungo due linee parallele: una che segue il percorso interiore del protagonista, l’altra che si concentra sugli eventi mondani e sulle serate dell’élite romana del terzo millennio.

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Al centro ci sono i conoscenti più stretti di Gambardella, esem­ plari di un mondo che per lo più ama il sesso facile, gli spettacoli estremi, il pettegolezzo, tutto ciò che luccica e impressiona a un livello superficiale o che stordisce come l’alcool e la cocaina. Come avveniva con il Marcello della Dolce vita, il lavoro di gior­ nalista consente a Gambardella di essere presente come testimone ai riti e ai divertimenti di questa società, attratta dalla performance dell’attrice che sbatte la testa su una colonna osservata dal prato accanto all’antico acquedotto romano o dalle serate-evento di Lillo De Gregorio. Con Jep assistiamo in casa del «più grande collezionista d’arte di questo paese di debosciati»14, alla pittura di un quadro creato sul momento dalPartista’ Geronimo, che inizia a lanciare coltel­ li imbevuti di tinta intorno al corpo della moglie di Lello Cava, immobile e visibilmente atterrita. Di fronte ad un pubblico con il fiato sospeso si compie uno spettacolo estremo e crudele, un’opera di quell’arte contemporanea che il padrone di casa ammira15. Nella festa di De Gregorio l’episodio centrale è l’esibizione for­ zata di una piccola pittrice. Il suo compito è dipingere scaraven­ tando su una grande tela bianca il contenuto di barattoli di vernice di colore diverso16. La macchina da presa inquadra la ragazzina frontalmente, poi di spalle. Si sposta dietro il telo che è scosso dai colpi violenti della tinta scagliata con tutta la rabbia che la piccola pittrice ha dentro. Infine riprende la bambina dall’alto nella sua piccolezza indifesa e furente. Gli ospiti sono disposti a semicer­ chio. In silenzio contemplano lo spettacolo dell’artista capace di dare forma a un dipinto «che è meraviglioso ed ha il dono dell’ec­ cezionale»17. Il prezzo è la sofferenza della ragazzina che piange. E 14 Sono le parole che Jep sussurra alla donna che lo accompagna, Ramona. 15 Alla fine della performance si forma intorno al corpo della donna un alone blu, che costituisce il dipinto per il quale la modella ha rischiato la vita. 16 Figlia di genitori di ceto medio-basso, la bambina è la speranza di ele­ vazione economica e sociale della famiglia. Costretta dal padre, è angosciata fin dall’inizio quando si vede in un flashforward imbrattata di pittura dai capelli fino ai piedi.

17 Paolo Sorrentino, Umberto Contarello, La grande bellezza (Sceneggiatu­

ra), Skira editore, Milano, 2013, p. 123.

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un altro spettacolo estremo che sfrutta la fragilità di una bambina che vorrebbe vivere una vita normale, adatta alla sue età18. Due soli eventi legati alla sua professione sono importanti per il percorso esistenziale di Jep: Fintervista al regista centenario e la visita alla mostra di fotografie, sui quali tornerò più avanti. Nelle serate di Jep con gli amici nella terrazza della sua casa vengono fornite informazioni sui presenti, che lo spettatore impara lentamente a conoscere. Lello parla di Viola «vedova di quel Bartoli che è stato assassi­ nato». «Pensa che al mare Viola tiene uno yacht di cinquanta metri che è appartenuto a Himmler, ’o nazistone». E Jep a proposito di Lello: «Quando dice vendo giocattoli, fa il modesto. Detto così pare che tiene il negozio. Invece vende all’ingrosso giocattoli in tutto il mondo, pure ai cinesi». Il padrone di casa tenta più di una volta di liquidare Viola che gli parla angosciata dei gravi disturbi psichici del figlio. Si sforza di essere gentile, ma vuole svignarsela. La cosa non gli interessa e lo distoglie da quella che nella prima parte del film ritiene essere «la sua sana distrazione serale». Alcuni piccoli episodi rivelano lo squallore o la sofferenza di chi lo circonda. Nel ritorno a casa in macchina in una via periferica Lello è abbordato da un travestito, che gli urla «A Lello, che fai? Non ti fermi stasera?», mentre la moglie, sdraiata sul sedile, ascolta senza fiatare. Quando rientra a casa, una smarrita Viola osserva il figlio nudo che si è dipinto il corpo e il volto con una vernice rossa, sintomo di un malessere psichico grave, generato probabilmente dalla difficile situazione familiare legata all’assassinio del padre e alle scarse pre­ senze della madre, impegnata in feste e eventi mondani.

18 Ancora Jep assiste da giornalista spettatore a un fenomeno relativamente recente: i ritocchi nelle cliniche di bellezza. Anche in questo caso il funereo sa­ lone falsamente antico, i prezzi alle stelle, il numero estratto da coloro che sono in attesa come nei supermarket o alla posta, il tono da guru furbo e insinuante di colui che esegue i trattamenti sono una visione immaginifìco-iperbolica di uno dei nuovi riti dei ricchi o degli aspiranti a fare uso del proprio aspetto per diventarlo.

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Ancora, colpito dalle provocazioni19 di Stefania che tiene banco con un discorso sopra le righe sulla sua vocazione civile, sui ro­ manzi impegnati da lei scritti, sulla famiglia20, Jep Gambardella tira fuori una immagine impietosa e cattiva della donna21 in una per lei memorabile serata, che ci lascia intuire la frustrazione e il dolore che sotto l’apparenza spavalda il personaggio si porta dentro. Il protagonista conclude il suo discorso con parole che riguar­ dano tutti i presenti: Stefania, madre e donna, hai 53 anni e una vita devastata come tutti noi. Invece di farci la morale, dovresti guardarci con affetto e tenera solidarietà. Siamo tutti sull’orlo della disperazione e ab­ biamo un unico rimedio: farci compagnia e prenderci un po’ in giro. O no?

Quando Jep parla dell’affetto e della solidarietà che dovreb­ bero avere gli uni per gli altri, Dadina appare colpita. Anche la moglie di Lello Cava ha l’espressione di chi sta riflettendo sulla sua vita. E l’unica volta che lo fa nel corso del film. Improvvisamente, non sopportando l’umiliazione, Stefania si alza e se ne va, ponendo fine alla serata.

19 «No, tu adesso mi dici quali sarebbero le le mie menzogne e le mie fragili­ tà. Bello mio, io sono una donna con le palle».

20 «Io e Eusebio abbiamo quattro figli. Facciamo insieme un percorso. Pro­ gettiamo. Io faccio i salti mortali per essere madre e donna, ma alla fine della giornata sento che sono stata utile, che ho fatto qualcosa di importante». 21 «In ordine sparso: La tua vocazione civile ai tempi dell’università non se la ricorda nessuno. Molti ricordano personalmente un’altra tua vocazione che si esprimeva a quei tempi e che si consumava nei bagni dell’università. La storia del partito l’hai scritta perché sei stata per anni l’amante del capo del partito. I tuoi undici romanzi, pubblicati da una piccola casa editrice foraggiata dal partito, (...) sono libri irrilevanti e lo dicono tutti (...) La tua storia con Eusebio. Ma quale? Eusebio da anni è innamorato di Giordano, col quale pranza ogni giorno da Ar­ naldo al Pantheon, al tavolo sotto l’attaccapanni, come due innamoratini sotto la quercia. L’educazione dei figli (...) Lavori tutto il giorno in televisione. Esci tutte le sere della settimana. Eusebio non c’è mai. I ragazzi stanno sempre senza di te. Hai due cameriere, tre babysitter a rotazione».

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Nella Grande bellezza anche queste persone, che sia pure con varianti esistono in tutte le grandi e piccole città del mondo, hanno spesso sofferenze e frustrazioni che li rendono umani. Il più vicino al protagonista è il provinciale Romano, che ha nei confronti dell’a­ mico una devozione canina. Soffre perché vive la consapevolezza di non essere nessuno, che lo convince alla fine a tornare alle sue radici, al paese da cui era partito con tante illusioni. Ha un’anima un altro personaggio che sostiene Jep con la sua intelligenza e col suo affetto, Dadina, che è la direttrice del gior­ nale di Gambardella ma che si autodefinisce nell’intimità dei loro incontri «la regina delle disadattate», costretta a guardare il mondo dall’altezza dei bambini22. Soffre Viola, anche se si stordisce con una vita vuota e pettego­ lezzi sciocchi e a volte cattivi. La malattia psichica del figlio, sulla quale la madre tenta di illudersi, e poi il suicidio di lui la portano a cambiare radicalmente la sua esistenza23.

6. La Roma notturna Un momento importante del percorso interiore del protagoni­ sta è la sua passeggiata notturna dopo la discussione in cui ha ferito Stefania.

22 L’attrice, che recita la parte di Dadina, è Giovanna Vignola. Nell’intervista a Paolo Paoletti del 18 dicembre 2013 Giovanna Vignola parla di se stessa e del senso che il film ha avuto per lei: «Sorrentino ha scelto per Dadina una persona ‘diversa’, affetta da acondroplasia, volgarmente detta nanismo, segnando il riscat­ to di tutti noi (...) significa che si può essere inseriti dignitosamente nella società, valutati per quello che si vale (...) Io sono sempre la stessa. Continuo a vivere a Perugia. Lavoro in Provincia allo sportello Salute-in forma e sono la referente per l’Umbria dell’associazione «Insieme per crescere», .

23 La moglie di Lello Cava dice a Jep, che dopo la morte di Andrea, Vio­ la «sta donando tutti i suoi beni alla Chiesa. Praticamente vive nella Chiesa di Sant’Ignazio, aiuta in parrocchia e si sta preparando per andare a fare la volonta­ ria in Africa».

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Ci è mostrata «la decadente maestosità di Via Veneto. I grandi alberghi illuminati come cattedrali, la scritta pubblicitaria demodee “Martini” che resiste al progresso»24. La macchina da presa percorre la strada deserta. All’inizio il colore dominante è il blu, poi un rosso mattone che illumina il selciato. In ombra si intrave­ dono le sedie vuote dei bar. Jep, abbastanza sensibile per rendersi conto del male che ha fatto e oppresso dall’infelicità della sua condizione esistenziale, cammina avvilito senza scopo e senza serenità. Sembrano passati anni luce dalla Via Veneto della Dolce vita piena di gente, di attori, di produttori, di paparazzi, luogo di fre­ netiche scorribande. Le pochissime persone che si muovono in questo deserto sono alcune escort, i loro protettori, quattro asiatici rumorosi che si infilano in una macchina, uno sceicco seduto al ristorante accompagnato da una donna velata dagli occhi tristi che può assistere ma non partecipare. Questa visione della capitale semideserta in sintonia con l’an­ goscia del personaggio nasce dall’immaginazione di un regista che vede il centro di Roma come un cuore vuoto. Se nella Dolce vita veniva rappresentato il mondo ricco e gau­ dente della capitale all’inizio del boom economico nella sua pur discutibile esuberanza vitale, Da grande bellezza ci mostra un altro scenario. E una citta semideserta e spettrale. L’unico incontro che fa sorridere Jep è quello con una altret­ tanto solitaria Fanny Ardant che gli passa accanto e che lui saluta, ricambiato da un sorriso gentile e da alcune battute sulla Signora della porta accanto. E un omaggio ad un’attrice ancora bella, so­ bria, elegante, e, attraverso di lei, al cinema d’autore, in particolare alle opere di Francois Truffaut. Lo scrittore-giornalista vive il momento di una dolente presa di coscienza. Scegliendo la Roma mondana, ricca, fatua, superficiale ha tradito la sua ispirazione artistica, i valori che aveva nella prima giovinezza, il suo profondo desiderio di un affetto duraturo, di una famiglia, di figli.

24 Sceneggiatura, cit., p. 81.

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Con uno stacco è inquadrata Stefania che nuota nuda nell’az­ zurro della piscina della sua ricchissima casa, cercando probabil­ mente sollievo alle sue ferite interiori nel movimento fisico. Vive il dolore di una donna che si è improvvisamente resa conto di avere sbagliato tutto nella vita. E probabile che dopo breve tem­ po questa consapevolezza sarà ricacciata nel profondo della sua coscienza, ma ora la fa profondamente soffrire. Attraverso il montaggio alternato, si torna a Jep che cammina in una Roma semideserta. Nel suo girovagare notturno il protagoni­ sta si ritrova davanti ad un piccolo locale di strip-tease. E invitato a entrare da un suo conoscente che è il direttore di sala. L’uomo gli presenta la figlia quarantenne Ramona, dopo che i due hanno visto la silhouette nera di lei impegnata in un numero di strip-te­ ase al di là di uno schermo bianco. Mentre il padre si allontana per favorire l’incontro, i due personaggi siedono a disagio senza guardarsi in faccia. La donna è sudata, stanca fino alla spossatezza, con lo sguardo perso nel vuoto. Intorno nella penombra danzano corpi nudi di giovanissime ragazze dell’est in cerca di clienti. In questa atmosfera ambigua Jep osserva di sottecchi Ramona. La sua sensibilità e il suo intuito sono colpiti. Percepisce che c’è in quella donna «una dolcezza recondita, segreta, occultata da una soffe­ renza» difficile da decifrare25. Il malessere che si è portato dentro in tutta la serata si manifesta in una frase spontanea e sincera: «Mi sento vecchio». La risposta è altrettanto diretta: «Giovane non sei».

7. 11intervista al regista centenario A questo punto della sua vicenda esistenziale Gambardella ha finalmente un incontro di lavoro che è in sintonia con la sua sensi­ bilità e con la parte migliore di se stesso. Si rivolge con ammirazione e rispetto al «Maestro che ha con­ dizionato l’immaginario di milioni di persone» e che ha ancora la vitalità per progettare un nuovo film.

25 Sceneggiatura, cit., p. 89.

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La scena è molto scura. Lo sfondo su cui si staglia la testa dell’uomo centenario è nero. Si intravedono flebo e medicine. Tut­ tavia il vecchio regista è una delle personalità più vitali che incon­ triamo nel film. Nell’intervista esprime il suo credo: Vorrei dire ai miei spettatori: abbiate rispetto della vostra curiosi­ tà, molti la frenano, perché sono pigri, moralisti, indolenti, scettici, ignoranti (...) Il cinema è una possibilità di sopravvivenza di fronte alla delusione che offre tutti i giorni la realtà. In verità è il tempo, che determi­ nando la realtà la rende deludente. Ma la realtà, se scomposta, frantumata, ripensata, rielaborata può diventare un grande spet­ tacolo.

Alla domanda di Jep se la vita vera offre mai questo grande spettacolo, risponde: «Solo in una circostanza la realtà rivaleggia con il cinema. Quando irrompe l’amore». L’idea per il suo ultimo film, che ha come soggetto una ragazza che cambia il colore degli occhi ogni volta che li chiude e li riapre, gli è suggerita dal «primo incanto» che ha vissuto:

Fu per il primo semaforo che istallarono a Milano all’incrocio fra Piazza Duomo e Via Torino il 12 aprile 1925. Mio padre mi prese sulla spalle perché c’era una gran folla, capisce, una folla radunata per vedere un semaforo. Che bellezza, che grande bellezza.

Viene data qui un’altra sfumatura al titolo del film. Quello di cui il vecchio regista parla, facendolo rivivere davanti ai suoi e ai nostri occhi, è un evento che, quando si è verificato per la prima volta, ha creato stupore e emozione e che ha colpito l’immaginario di una grande folla. E un’indicazione che il vecchio regista lascia alle nuove gene­ razioni: vivere l’incanto dello stupore, tanto raro nella piattezza dell’esistenza, saperlo cogliere, conservarne il ricordo dentro di sé. Questo incanto è celebrato più di una volta nel film. E quello che Jep ventenne prova di fronte a Elisa al faro dell’isola del Gi­ glio, è la sensazione che lo avvolge quando è nella terrazza con Suor Maria.

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Il regista centenario mostra di amare la vita anche nell’età adul­ ta quando ricorda l’amore per Dadina, «una donna straordinaria e misteriosa che toglieva il sonno ai suoi amanti». Queste parole suggeriscono a Jep una visione. Lo vediamo tra­ sportare di corsa su un alto scaleo con le ruote la direttrice del suo giornale lungo i corridoi di un appartamento. La testa di lei è vicina al soffitto. Non abbiamo mai visto la donna così felice e ridente come in questo momento. E merito del regista di un’altra generazione lasciare affiorare immagini di gioia.

8. L’amicizia con Kamona

Le note di una canzone di Antonello Venditti preparano la nuo­ va sequenza: la visita di Jep a casa di Ramona. Ancora una volta, dopo la distesa della fontana del Gianicolo e il mare proiettato sul soffitto e legato a Elisa, la prima immagine che riempie lo schermo è un’acqua azzurra cangiante in leggero movimento. La macchina da presa sosta per un momento a inqua­ drare un angolo della minuscola piscina della villetta di periferia dove la donna vive. Spinto dal desiderio di aprirsi a una persona che l’ha colpito e che appartiene a un’altra cerchia, probabilmente per la prima volta nei suoi quarantanni a Roma, Jep si impegna in un rapporto vero e sincero che cresce nelle varie uscite della coppia. Al ristorante, dove Venditti lo saluta, il protagonista fa una con­ fessione: Ramona: E una bella soddisfazione conoscere tanta gente Jep: E una garanzia di infelicità. Ramona: Ti ha deluso la gente? Jep: (allegro, con ironia): No. Io sono stato deludente. Il protagonista è ironico, ma nello stesso tempo dice una verità che gli fa male e che non vuole condividere con gli amici superfi­ ciali delle sue serate. Quando ci si dedica a conoscere soprattut­ to quelli che contano, manca una cosa essenziale nell’esistenza: il calore umano dell’amicizia vera. E questo che il personaggio sta cercando con la donna che gli siede accanto.

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La serata finisce sulla terrazza dell’attico di Gambardella. Alla donna, che gli chiede perché non ha più scritto un libro, Jep dà una risposta facile e poco sincera: Perché sono uscito troppo spesso la sera (...) Roma ti fa perdere un sacco di tempo. Ti deconcentra (...) Ero uno scrittore dallo scatto breve, un centometrista col fiato corto. Quando Ramona, dopo aver raccontato a richiesta la sua prima volta, chiede a Jep di fare lo stesso, il personaggio si alza in piedi. Tenta di condividere la sua preziosa visione-ricordo con un’altra persona, come probabilmente non aveva mai fatto prima. Per la seconda volta sentiamo la voce diafana e eterea di Elsie Thorp che canta «My heart’s in the Highlands, my heart is not here». Effettivamente il cuore e la mente di Jep non sono sul­ la terrazza ma sulla scogliera dell’isola del Giglio. Lo sfondo è scuro. Il viso di colui che racconta è in parte in ombra, in parte illuminato da una lampada. Mentre il personaggio parla, guarda nel vuoto come se il ricordo si materializzasse davanti a lui. E emozionato e suscita emozione. Stavolta la visione è meno nitida come se perdesse la luce e la chiarezza nel tentativo di essere rac­ contata a qualcuno. E un momento di condivisione che non si conclude. Ramona, sensibile ai sentimenti degli altri come nessun altro lo è stato finora nel film, lo guarda trattenendo il fiato. E come rapita dalla since­ rità e dall’intensità del suo racconto. Quando arriva alle parole di Elisa, Jep si blocca, ci riprova, ma non riesce ad andare avanti26. Imbarazzata, la donna risolve l’impasse: «Adesso vado a casa. Si è fatto tardi».

Con Ramona il protagonista contempla la bellezza classica delle opere conservate nei palazzi nobiliari che l’amico di Jep Stefano acconsente a mostrare alla coppia. Quasi a rendere omaggio a questo splendido mondo Ramona ha coperto il suo discutibile vestito dorato con un mantello di seta blu, che si addice a questa esperienza. Quando osservano dallo 26 Lo spettatore conoscerà la seconda parte dell’episodio, che torna nella sua completezza nel finale del film.

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spioncino del palazzo dei Cavalieri di Malta la cupola di San Pie­ tro, la raffinata musica Water from the same source crea un’atmo­ sfera onirica e sospesa. Nell’oscurità dei palazzi nobiliari, in cui entrano subito dopo, l’unico rumore che sentiamo è il suono del bastone di Stefano. Il custode di questa splendida bellezza è una persona fisicamente svantaggiata. Ramona gli dice che ha una fac­ cia da bambino vecchio. Illuminate dal basso da un faro extradiegetico si stagliano nel buio antiche opere greche, sculture di squisita fattura, quadri pre­ ziosi appesi alle pareti. Il momento più intenso della sequenza è quello in cui, men­ tre risuona la Sinfonia in do maggiore di George Bizet, di fronte allo sguardo rapito di Jep emerge dal buio un classico pittorico: la Fornarina di Raffaello che «offre senza pudore e al contempo con impressionante candore i suoi seni nudi a chi si trova a passare»27. Il dipinto, indissolubilmente legato al ricordo di Elisa28, è osserva­ to a lungo dal protagonista commosso. Lo stato d’animo di Jep è sottolineato dallo sciabordio del mare, avvertibile in sottofondo.

Mentre Jep e Ramona contemplano la bellezza, il, giovane An­ drea guida silenzioso e concentrato. Poi chiude gli occhi dirigen­ dosi verso la morte.

9. Il funerale di Andrea

L’episodio si apre con l’ultimo discorso cinico che il protagoni­ sta, scosso dalla morte del figlio di Viola, pronuncia nel film. La sua voce fuori campo fa da raccordo sonoro con la scena del negozio dove Ramona prova l’abito da indossare per il funerale. E un luo­ go lussuoso, freddo, funereo. Non ha niente di realistico, ma è in sintonia con la società che lo frequenta e con la cerimonia che si sta per celebrare. E un’altra cattedrale vuota. Il protagonista della scena è l’atteggiamento verso la morte. In una società che aspira ai beni materiali, a soddisfare il pro­ prio ego, a un tipo di vita che preferisce stordirsi più che riflettere 27 Sceneggiatura, cit. p. 127.

28 Cfr. n. 43, p. 51.

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questo evento è un tabù da esorcizzare, perché introduce ineludi­ bili tappe in un’esistenza che preferisce l’ostentazione della pro­ pria immagine all’espressione di sentimenti e timori reali. Il protagonista con una giacca color giallo canarino «immettibile per chiunque ma non per la sua straordinaria capacità di nobili­ tare qualsiasi abito»29, siede su una panca lucida di metallo. Parla dell’evento come se fosse una messa in scena, che sfiora il dolore facendo il possibile per evitarlo, grazie a regole precise, elencate con cura. La macchina da presa lo inquadra da lontano, poi si avvi­ cina e gli gira intorno. E come se si muovesse al posto di lui. Ramona è contenta del fatto che Jep scelga un vestito per lei, ma è confusa e sgomenta di fronte al monologo pronunciato con tono pedagogico, come se il personaggio volesse convincere se stesso. Nella chiesa, dove solo Viola esprime un dolore sincero, Jep fa la recita preannunciata, che lascia Ramona amareggiata e delusa. A ribaltare la situazione è la la frase rituale del prete: «Ora pre­ gherei gli amici di Andrea di venire qui affinché la bara possa es­ sere condotta all’esterno». Il silenzio che la segue rende evidente il fatto che Andrea non aveva amici. E introdotto qui il tema delle difficoltà dei figli quando i padri sono assenti. Il tema è sviluppato nella sceneggiatura. Parte la voce fuori campo di Jep:

I figli si distinguono in quattro categorie. Quelli che chiamano il padre papà. Quelli che lo chiamano babbo. Quelli che lo chiama­ no col nome di battesimo. Quelli che non hanno l’opportunità di chiamarlo. Le ultime due categorie finiscono sempre per incontra­ re problemi piuttosto seri nel corso della loro esistenza»30.

Del ricchissimo padre di Andrea sappiamo solo che è stato as­ sassinato. Il ragazzo paga una situazione di cui è vittima con la solitudine, la sofferenza, il suicidio. Emerge a questo punto la sensibilità di Jep. Si improvvisa ami­ co del giovane e fa cenno a Romano, Lello, Sebastiano perché lo seguano. I quattro uomini di mezza età con fatica portano la bara mentre nella chiesa risuona il Dies Irae di Zbigniew Preisner. 29 Sceneggiatura, cit. p. 130. 30 Ibidem, p. 134. Nel film questo brano non è presente.

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Jep, finalmente senza maschera, piange a singhiozzi. Ramona, non più delusa, lo guarda sollevata. Dopo il funerale la coppia passeggia nella notte. Si ferma una macchina nera. Qualcuno, che viene dal passato non limpido della donna, la sta seguendo31. Jep le rimane accanto. Il suo atteggia­ mento è paterno e protettivo. L’episodio si conclude a casa del protagonista.

10. La morte di Ramona

E mattina. Ramona dorme ancora. Jep, seduto al centro dell’in­ quadratura, taglia in due l’immagine32. E un momento di innocente e appagante intimità: Jep: E stato bello non fare l’amore. Ramona: E stato bello volersi bene. Jep: Sì, in effetti, avevo dimenticato cosa significa «voler bene». Ramona con un sorriso e gli occhi chiusi dice tranquilla: «Spen­ do tutti i miei soldi per curarmi». Per Jep è un colpo pesante, che cerca di dissimulare. Prova a condividere con lei la visione del suo ricordo:

Jep: Lo vedi il mare? Ramona: Dove? Jep: Sul soffitto. Ramona apre gli occhi e si sposta per mettersi vicino a Jep e guardare il soffitto insieme a lui. Vede semplicemente l’intonaco bianco, ma, per farlo contento, dice le ultime parole della sua vita: «Sì, lo vedo il mare». 31 Durante la visita ai palazzi ricchi di opere d’arte Ramona riceve un’oscura telefonata che la inquieta. Sentiamo solo la voce di lei che continua a ripetere «Io non ce l’ho». 32 II personaggio è al centro di due diagonali: una formata da pile di libri degradanti e l’altra da bottiglie dal collo lungo di diverse dimensioni. L’asse oriz­ zontale è costituito dal corpo sdraiato della donna.

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La sequenza si chiude col piede nudo della donna che taglia orizzontalmente parte dell’immagine, mentre le ante di una fine­ stra che si affaccia sul Colosseo si muovono per il vento. E un’immagine indiretta e discreta della terza morte che colpi­ sce il protagonista. Da questo momento assistiamo alla sofferta passione di Jep e alla sua disperazione, che si manifesta in piccoli segni esterni e so­ prattutto nelle sue immagini mentali. Iniziano le visioni di un personaggio scosso e addolorato. Sono fra le più originali e importanti del film. La prima è quella di Jep trafelato che corre in terrazza. E la prima volta che sentiamo il frastuono del traffico nella strada sotto­ stante33. Probabilmente è un riflesso della sua agitazione interiore. Alza lo sguardo verso il vicino intabarrato e incappucciato in un accappatoio nero. L’immaginazione del protagonista trasforma an­ che lui in un’immagine di morte. Con uno stacco è introdotta una scena onirica a ralenti. L’ag­ girarsi lentissimo di Jep in un bar di periferia esprime un senso di solitudine e di straniamento. La voce di Damien Jurado che con­ tinua a ripetere «and I would sail back to you» (vorrei invertire la rotta e tornare da te)34 acuisce una nostalgia che non trova sfogo. In questo luogo dell’immaginazione dove persone equivoche stan­ no accanto ad anziani in pigiama e a una vecchia distinta signora che vende quadretti fatti all’uncinetto, una donna vestita in modo improbabile prende la mano di Jep. Quando lui si volta per an­ darsene, pronuncia la frase che il personaggio si tiene dentro: «E adesso chi si prenderà cura di te?». Accompagnata dalla stessa nostalgica canzone di Jurado, vedia­ mo Viola seduta a tavola in un ricchissimo salone deserto. La sua unica compagnia è un elegante e fiero cane di razza. Lo sguardo di lei è rivolto verso il vuoto nella contemplazione di un’assenza irrimediabile. La canzone di Jurado accompagna ancora le con doglianze al padre di Ramona, che ciondola strafatto. }} Nelle scene precedenti l’altezza dell’attico attutiva i suoni della strada a un punto tale da annullarli del tutto.

34 La canzone si intitola Everything Trying.

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Vediamo Jep camminare in un sentiero di periferia. Per la prima volta il suo aspetto è trasandato e malconcio. Inizia una sua imma­ gine mentale. All’Isola del Giglio nella luce abbagliante dell’estate egli osserva dall’alto la carcassa semiaffondata della Concordia, che non ha mai visto35. L’immagine è simile al modo in cui in que­ sto momento percepisce la sua vita. Il mare dei suoi ricordi ospita un naufragio, un fallimento.

11. La vita di Jep dopo la morte di Ramona

Ritroviamo Jep mentre varca il portale delle terme di Caracalla. Dietro ha uno sfondo giallo oro, davanti una giraffa alta cinque metri illuminata dai proiettori. In una soggettiva della giraffa, un’inquadratura dall’alto all’al­ tezza del muso di lei, lo vediamo piccolissimo. I due si stanno os­ servando. A bocca aperta per lo stupore il protagonista fissa la gi­ raffa, che poco dopo dirige lo sguardo verso l’infinito al di là degli alberi e emette un lamento. Certamente in quel luogo tanto diverso dal suo habitat naturale è a disagio, come lo è Jep che di fronte a lei sente la sua piccolezza e l’infelicità che si porta dentro. Il perso­ naggio si toglie il cappello quasi in segno di saluto verso l’animale, che in qualche modo sente simile a lui. Al conoscente Arturo, che sta preparando un numero di magia, - la sparizione appunto di un animale alto cinque metri -, dice serio, quasi accorato: «Perché non fai sparire anche me?». Il mago risponde: Jep, secondo te, se davvero potessi far scomparire qualcuno, io starei ancora qui alla mia età a fare ’ste baracconate? E soltanto un trucco, Jep, soltanto un trucco.

Il protagonista è giunto al punto più basso della sua vita, acuito da un’ultima perdita, quella dell’amico Romano, che viene a salutar­ lo perché torna al paese, consapevole che Roma l’ha molto deluso.

35 Dadina gli ha detto più volte di andare all’isola del Giglio per fare un servizio giornalistico, ma lui ha sempre rifiutato.

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Nell’ultima festa a casa di Gambardella, in cui è maggiore l’uso di cocaina e il generale sfacelo, Jep appare per la prima volta ubriaco. Cita alla moglie di Lello una frase di un romanzo di Breton - «Chi sono io?» - e dice a proposito dei trenini che si snodano sulla sua terrazza: «Sono belli i trenini, sono belli perché non vanno da nessuna parte». Lo vediamo impegnato fino allo sfinimento - o in preda ad una disperata noia - in attività che non lo interessano. Fa la sua confessione più sincera alla colf Ahé: Sono anni che tutti mi chiedono perché non torno a scrivere un romanzo. Ma guarda là fuori, Ahé. Guarda in terrazza quella gente. Questa è la mia vita. Ed è niente. Flaubert voleva scrivere un romanzo sul niente e non c’è riuscito. Come potrei riuscirci io? L’ultima perdita, meno grave ma improvvisa e sentita, è l’ar­ resto del suo vicino di casa, che si rivela essere il latitante Giulio Moneta. La vicinanza fisica e la solitudine hanno portato Jep a coltivare con piccoli gesti questo strano rapporto che ora si spez­

za.

12. La mostra di fotografie Ritornato alla normalità del suo lavoro Gambardella visita una mostra di fotografie dello stesso soggetto scattate una ogni giorno a partire da quello della nascita prima dal padre e poi dal figlio per cinquantacinque anni fino a quel momento. E un’idea semplice, che tuttavia ha un impatto molto forte su Jep perché gli mette da­ vanti l’azione paziente e tenace del tempo che attraverso segni mi­ nimi trasforma il bambino in un giovane adulto e poi in un uomo col volto segnato dalle ferite della vita. Il protagonista inizia a guar­ dare la fotografia mangiandosi le unghie. Poi l’interesse aumenta fino a una partecipazione che lo porta vicino al pianto. Sta contem­ plando l’azione del tempo sull’essere umano, che appare tanto più dura e dolorosa quando la vita è stata vissuta in modo superficiale senza affetti profondi e senza scopo.

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Ad accompagnare questa esperienza è un brano delle beatitu­ des di Vladymir Martinov, che tendono a generare con la replica insistente di una forma musicale uno stato di contemplazione36.

Con uno stacco, come se fosse una visione legata a questo mo­ mento che ha profondamente colpito Jep, ci troviamo all’interno di una chiesa in una penombra fiocamente illuminata dalla luce che entra da una porta finestra incorniciata da cupe tende bordeaux. In primo piano è inquadrata una donna coi capelli cortissimi e un vestito simile a un saio. E china su un bastone37. Jep è inquadrato all’interno dell’arco del braccio di lei, come se i due formassero un’unica figura. E una scena di grande tristezza. La donna è Viola, incurvata da un dolore che Jep sente anche suo: quello di chi non ha più affetti né interesse in una vita che gli è sfuggita di mano. Uscendo all’aria aperta Jep si appoggia alla balaustra e piange a dirotto.

13. La visita a Roma di suor Maria Nell’ultimo colloquio nello studio di Dadina il protagonista confessa il suo stato d’animo:

Jep: Sta morendo tutto quello che mi sta intorno. Cose e persone più giovani di me mi muoiono davanti. E io... Dadina: E tu soffri e non capisci. Com’è il minestrone Ceppino? Jep: Il minestrone è buono. Ma tu com’è che mi hai chiamato Jeppino? Nessuno mi chiama più Ceppino da secoli.

36 II brano del compositore russo è stato scritto nel 1998, originariamente composto per coro sul testo delle Beatitudini del Vangelo di Matteo e successiva­ mente riproposto dal quartetto d’archi Kronos Quartet di San Francisco. Attra­ verso la replica insistente di una formula musicale l’autore tende a generare una sospensione mentale che porta verso una stato di contemplazione mantenuta il più a lungo possibile. 37 Come ha detto Trumeau a Jep, Viola si occupa della parrocchia e della sua pulizia prima di partire per l’Africa come missionaria.

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Dadina: Perché un amico, ogni tanto ha il dovere di far sentire l’altro amico come quando era bambino.

L’affetto e l’amicizia di Dadina confortano la sofferenza che il personaggio ha dentro. Alla fine del colloquio la proposta della di­ rettrice del suo giornale è di intervistare suor Maria, la missionaria che è a Roma per ricevere un’onorificenza e che, quando ha vissuto in Italia, ha letto e amato il romanzo di Jep. Siamo in un solenne salone di rappresentanza dal soffitto altis­ simo. In silenzio ognuno dei presenti si avvicina a suor Maria per renderle omaggio. Sono inquadrati i piedi di lei che non toccano terra, coperti da povere pantofole da poco prezzo, poi il volto di profilo e di fronte. Il viso è scheletrico, la pelle come carta perga­ mena. La bocca senza denti è semiaperta. L’impressione è che la donna sia immersa in una dimensione che è al di là di quel luogo e della stessa vita. E una creatura piccola, modesta, mal vestita, inadatta ad un rito fastoso. La caduta della ciabatta smonta l’alone di solennità dell’ambiente in cui si trova. Alcune righe della sceneggiatura spiegano la posizione del re­ gista: (Suor Maria) emana nel suo complesso luce, carisma e forza inau­ diti. Tutte facoltà che le vengono ampiamente riconosciute dal parterre nel grande salone38. Mentre prosegue il baciamano dei presenti, appartenenti a re­ ligioni diverse, inizia a farsi sentire il canto liturgico Beata viscera, che accompagna e rafforza questo momento. Per almeno due volte nei suoi film Paolo Sorrentino ci presenta personaggi che sono alter ego di figure reali. Il sudamericano di Youth richiama in modo evidente Diego Armando Maradona. Nella sceneggiatura della Grande Bellezza il personaggio di Suor Maria «ha fra gli ottanta e i novantanni»39. Come lei, Madre Teresa, che è morta a ottantasette anni, fino all’ultimo ha dedicato la sua vita ai poveri usando tutte le sue energie. 38 Sceneggiatura, cit., p. 190. 39 Ibidem.

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L’elevare l’età a centoquattro anni ne altera l’aspetto e l’essenza: è come se il regista l’avesse disincarnata, come se avesse bisogno di un personaggio che si trovi ad un livello già quasi al di là della vita terrena. Nella Grande bellezza l’unico esponente del clero è stato fino ad ora il cardinale Bellucci, assorbito esclusivamente dalle ricette di cucina grazie alle quali tenta di attirare su di sé l’attenzione di chi ha di fronte. A lui Jep ha espresso il suo turbamento: «Ecco, è da qualche tempo che da un punto di vista spirituale, non so come dire ... io ho delle domande...». Non ha ricevuto nessuna risposta. Beliucci ha lo stesso atteggiamento durante la cena in onore della Santa, che, tranne lui, attrae l’attenzione di tutti. Al fasto e all’egocentrismo dell’esponente dell’alto clero roma­ no Sorrentino contrappone un’immagine povera, anche esteticamente brutta, come è brutto il Cristo di Holbein, che Dostoevskij definisce nell’Idiota l’unica vera immagine di bellezza nel senso profondo del termine, una bellezza capace di salvare il mondo con il dono totale di sé. Suor Maria che appare «assente, stanca, a un passo dalla mor­ te», rivela nel rapporto con Jep una non comune saggezza e la ca­ pacità di leggere dentro di lui. E l’ultimo e decisivo aiuto che, dopo una faticosa e a volte di­ sperante ricerca, il protagonista riceve prima della rinascita finale. Durante la cena, la suora tace. È tenuta per mano da due mem­ bri del ceto nobiliare, che Dadina ha chiamato perché lei aveva chiesto di loro, che in passato l’avevano trattata come una sorella. Il volto della suora dietro una candela accesa appare un intrigo di rughe. Lascia che il suo assistente parli delle ventidue ore al giorno in cui cura, lava, nutre i suoi ammalati. E ancora lui a ricor­ dare il giudizio della Santa sull’Apparato umano che lei ha trovato «bello e feroce come il mondo degli uomini». Quando Dadina le chiede di rispondere personalmente riguar­ do all’intervista, dopo un lungo silenzio Suor Maria abbandona il suo sguardo nel vuoto «per penetrare profondamente con una forza strabiliante dello sguardo»40 gli occhi della sua interlocutrice.

40 Cfr. Sceneggiatura, cit., p. 200.

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Pronuncia a questo punto l’unica frase della serata: «Signora, io ho sposato la povertà e la povertà non si racconta, si vive»41. Con uno stacco è introdotta la sequenza del rientro a casa de­ gli anziani nobili noleggiati per la serata al prezzo di duecentocinquanta euro l’uno. Mentre il marito va subito a dormire nel loro modestissimo appartamento, Elisabetta Colonna di Reggio sale al piano superiore, adibito a Museo. Attraversando un corridoio pie­ no di sedie accatastate giunge ad una sala dove si trova la sua culla. Mette una monetina e ascolta la registrazione che racconta di come lei è venuta al mondo e di come ha avuto una bellissima infanzia prima che il padre avesse difficoltà economiche. Il personaggio si immerge in un passato felice, accompagnato dalla musica medita­ tiva delle beatitudini di Martynov. Il film, pur essendo incentrato sulla figura di Jep Gambardella, dà spazio alle diverse classi sociali alte, anche ai nobili decaduti, umiliati, ma umani nel nostalgico e dolente ricordo di un mondo da loro amato e perduto. Alla fine della serata il cardinale Bellucci sparisce definitiva­ mente nel buio della sua automobile. Suor Maria rimane. Jep la trova addormentata sul tappeto della sua camera da letto. Attra­ verso una dissolvenza incrociata, l’immagine del piccolo corpo disteso si fonde fino a sparire con quella del Colosseo adiacente alla casa di Jep. All’alba vediamo la Santa bere una tisana, mentre Jep, che esce con in mano una tazza di caffè, resta colpito da uno spettacolo straordinario. 41 II modo in cui ha pronunciato questa battuta ha assicurato la parte a Giu­ sy Merli, più giovane del suo personaggio, ma fortemente determinata ad avere questo ruolo. «Sorrentino mi chiese più volte di ripetere la battuta. Continuava a chiedermi di essere stanchissima, sempre più stanca e io lo facevo. Poi disse di gi­ rarmi e guardarlo lucida e consapevole mentre lui mi riprendeva con una piccola telecamera. A questo punto ha fatto un sonoro sospiro, come quando una cosa ti colpisce fortemente. Così mi fu chiaro che gli piacevo. Mi ha fatto fare un trucco che è durato quasi cinque ore e mi ha detto di lavorare sulla voce che era ancora troppo giovane» (intervista a Giusy Merli di Paolo Paoletti 18 dicembre 2013), .

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Sui davanzali della terrazza sono appollaiati circa duemila fe­ nicotteri. E come se Suor Maria, compiendo uno strano piccolo miracolo, avesse attratto sulla terrazza di Jep la bellezza del creato. In un momento magico e sospeso la Santa e Jep, che si è avvicinato a lei, guardano gli uccelli fermi e bellissimi. Con un filo di voce suor Maria dice: «Lo sa che io conosco i nomi di battesimo di tutti questi uccelli»?. La situazione appare strana e irreale. La frase richiama il Salmo 146 (4-5): (Il Signore) conta il numero delle stelle E chiama ciascuna per nome.

E l’immagine di un Dio che si prende cura come una madre di tutto il creato. In questa atmosfera sospesa, poetica, lontanissima dalla realtà quotidiana, anche da quella dell’udienza e della cena, Suor Maria guarda davanti a sé e fa una domanda che abbiamo sentito più volte: «Perché non ha mai più scritto un libro?». Jep riflette. Ha di fronte una guida pura, capace di offrirgli quello di cui ha bisogno. Risponde: «Cercavo la grande bellez­ za, ma non l’ho trovata». Solleva lo sguardo e la sua espressione è quella di chi in modo inatteso se la trova davanti. Di fronte a lui un fenicottero dalle lunghe gambe è appollaiato sul davanzale sullo sfondo dell’alba che si tinge di un colore rosato che ha le stesse sfumature delle ali dell’uccello. Dopo un tempo apparentemente lunghissimo, in cui è rimasta come perduta nella lentezza mentale della sua vecchiaia, la Santa gli si rivolge di nuovo: «Sa perché mangio solo radici?». Distoglie lo sguardo dal vuoto e inizia a guardare Jep. Lui «subisce questo sguardo, perché è uno sguardo non comune»42. Jep: No. Perché?. Santa: Perché le radici sono importanti.

Sono parole che si imprimono nella mente del protagonista e dello spettatore. Le radici non sono importanti solo per lui, ma per 42 Cfr. Sceneggiatura, cit., p. 212.

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il mondo che lo circonda e per tutti coloro che le hanno dimen­ ticate, perduti negli affanni della vita quotidiana o dietro attività superficiali, inutili, molto spesso dannose per gli altri e anche per se stessi. La bocca sdentata e sorridente di Suor Maria emette un soffio. Si sente un rumore di ali seguito dalla visione del volo dei fenicot­ teri nel cielo dell’alba. Roma si risveglia. Siamo di nuovo nella realtà quotidiana. Un uomo non più giovanissimo ma ancora aitante, si tuffa da un ponte nell’acqua del Tevere, un gruppo di suore innocenti e ridenti si affretta alla funzione mattutina.

14. Il finale

Ci troviamo circondati dall’acqua azzurra di un mare questa volta reale. Jep è sulla nave che lo porta all’isola del Giglio. Ha seguito il consiglio di Dadina ma soprattutto l’indicazione di Suor Maria. Per tutto l’episodio risuona la musica corale di The lamb. Inizia un montaggio alternato. E inquadrata la Scala Santa, poi un dettaglio delle mani e del volto della suora appoggiato su un gradino. Con disperata fatica e determinazione la donna sale so­ prattutto con la forza delle sue esili braccia. La scena ripresa dal basso rivela che in cima c’è un crocifisso. Come il tenero agnello della poesia di Blake, Jep, che ha ora la forza di ritornare nel luogo delle sue radici, sta per ricevere il dono di cui ha bisogno. Contemporaneamente la Santa sale verso il Crocifisso, che si trova al termine della scala: è Lui la meta, che dà senso e fecondità alla sua vita. Jep si trova sotto il faro del porto che lo illumina a intermitten­ za. Il suo volto passa più volte dall’ombra alla luce. Ricorda proba­ bilmente per l’ultima volta l’episodio che non è riuscito a finire di raccontare a Ramona. Inizia con le parole di Elisa: «Adesso voglio farti vedere una cosa». Lentamente con innocenza lei inizia a sbot­ tonarsi la camicetta. «Jep è in preda allo stupore indefinibile della prima volta. Una forma di stupore che non proverà mai più. Elisa è a spalle nude come la Fornarina di Raffaello, illuminata per attimi

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dalle rapide sciabolate di luce del faro. Anche il potere di questo sorriso non si ripeterà mai più»43. Alla fine del ricordo Elisa è come risucchiata dall’ombra, come se si rifugiasse in un angolo oscuro della memoria di lui. Il protagonista torna alle sue radici per riprendere in mano la sua vita e andare avanti. Chiude gli occhi, riflette. La macchina da presa lentamente si avvicina al suo volto. Parte pacata e serena la sua voce fuori campo: Finisce sempre così. Con la morte. Prima, però, c’è stata la vita. Nascosta sotto il bla bla bla. E tutto sedimentato sotto il chiacchie­ riccio e il rumore. Il silenzio e il sentimento. L’emozione e la paura. Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile. Tutto sepolto dalla coperta dell’imbarazzo dello stare al mondo. Bla bla bla.

Mentre Jep pronuncia queste parole, prosegue il montaggio al­ ternato. Suor Maria sta portando a termine la salita. Il respiro è affatica­ to, il volto sudato ed esausto. Procede con incalcolabile lentezza. E l’opposto di quello che il monologo dice. Non ha sprecato nep­ pure una goccia del suo tempo nei «bla bla bla» che il protagonista conosce bene. Attraverso di lei Jep ha compreso che esistono persone molto diverse da quelle della sua cerchia e cose importanti a cui dedicare la vita, ognuno secondo la sua vocazione. Mentre la macchina da presa si avvicina sempre di più ai suoi occhi commossi e sorridenti, Jep continua:

Altrove, c’è l’altrove. Io non mi occupo dell’altrove. Dunque che questo romanzo abbia inizio. In fondo è solo un trucco. Sì, è solo un trucco. Il personaggio tira le somme delle esperienze che ha vissuto. Non desidera più occuparsi dell’altrove (il ricordo di Elisa come era quaranta anni prima). Vuole tornare a vivere, sente il desiderio 43 Sceneggiatura, cit. p. 216.

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di scrivere un romanzo, una «storia fittizia» che può aprirsi alla bellezza di cui l’autore e il pubblico hanno bisogno. In un’ultima inquadratura vediamo Elisa nell’ombra. Poi, mentre si susseguono i titoli di coda parte un piano-se­ quenza dello scorrere dell’acqua dorata del Tevere al tramonto, ac­ compagnato dalla musica meditativa delle beatitudini di Martynov. Sui ponti si muovono automobili e passanti silenziosi. Lentamente il colore del fiume diventa argenteo. Quando si arriva all’altezza di Castel Sant’Angelo con una dissolvenza sonora dalla musica di Martynov si passa a I lie, che aveva aperto il film e che ora lo chiu­ de. La luce del crepuscolo appare sempre più debole su questa ul­ tima bellezza con la quale il film si conclude. E qualcosa che tutti possiamo cogliere dove viviamo. La sco­ priamo se abbiamo l’atteggiamento e lo sguardo poetico di Jep e gli occhi aperti per vederla.

Capitolo II

Youth - La giovinezza

Con La grande bellezza e con Youth Paolo Sorrentino ci ha dato due film diversi fra loro, che affrontano temi simili da differenti angolazioni. Il primo colpisce per le immagini, i sogni, le visioni, per il fatto che ci trasferisce anche attraverso le musiche in una dimensione di bellezza. Il film del 2015 è un’opera che scende nel profondo dei per­ sonaggi. Fa provare emozioni intense, che culminano in un finale trascinante e liberatorio. Youth è stato girato quando il regista aveva terminato l’opera precedente, ma non aveva ancora ricevuto i premi.

E un film molto personale, uno di quelli che sento più vicino. Ero stanco, non avevo voglia di mettere in moto un meccanismo come quello della Grande bellezza. Volevo un film più semplice, più im­ mediato, vero1. Youth affronta temi esistenziali inusuali nel cinema contempo­ raneo: la complessità del delicato rapporto fra genitori e figli, tra­ vagliato da entrambe le parti, la vulnerabilità che ognuno si porta dentro, il superamento dei blocchi piscologici che ci impediscono di cogliere la bellezza dell’esistenza, di crearla o di goderla, il valo­ re del desiderio, la scoperta di ciò che ci rende vivi. C’è chi ha criticato il film per il largo spazio dato alle parole. «Il testo artistico - scrive lo studioso russo Michail Bachtin - è un centro di voci pluridiscorsive. Ogni lingua al suo interno è un1 1 Intervista a Paolo Sorrentino, Cannes 20 maggio 2015, .

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punto di vista, un orizzonte»2. L’autore sceglie secondo le sue esi­ genze il ruolo dei diversi linguaggi. In Youth Sorrentino dà naturalmente importanza a quello visi­ vo. Le inquadrature sono eleganti e ben strutturate con la consueta cura per le simmetrie. Alla parola è dato tuttavia un ruolo fonda­ mentale, che non era così marcato nei film precedenti. Lunghi dialoghi sono presenti nelle opere di alcuni registi del passato, anche fra i più grandi. Youth è ambientato in un antico e lussuoso albergo alpino, in cui la vita è scandita dai ritmi del training del benessere. Nell’at­ mosfera ovattata di giornate apparentemente tutte uguali per i pro­ tagonisti — il compositore ottantenne Fred Ballinger, il regista Mick Boyle, suo amico e coetaneo, il sudamericano, l’attore Jimmy Tree, Lena, figlia di Fred - il tempo sembra dilatarsi, facendo emergere la fragilità e le ferite che ognuno di loro si porta dentro. Nel film hanno importanza anche i personaggi apparentemente minori: la massaggiatrice, l’escort, la cantante locale, i bambini che hanno ruoli piccoli ma significativi. La struttura di Youth, costruito attraverso una serie di montaggi alternati, somiglia a un mosaico. Ci sono tanti percorsi per ognu­ no dei personaggi le cui vite si intrecciano con quelle degli altri. Lo spettatore è indirettamente invitato a collaborare, seguendo le intuizioni, prestando ascolto alle emozioni, «alle atmosfere, ai ri­ mandi alle vite altrui»3.

1. Il prologo

Youth si apre con una canzone rock, You got the love, cantata da una delle Retrosettes Sister Band sulla pedana del palco gire­ vole dell’hotel. E un inizio apparentemente leggero. La cantante urla e ripete a squarciagola che «il Signore ha diffuso l’amore nel

2

M. Bachin, Estetica e romanzo, Einaudi, Torino, 1979, pp. 98-99.

3

Intervista a Paolo Sorrentino di Gianni Canova su Sky (21 maggio 2015).

II. Youth - La giovinezza

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mondo»4. Durante l’esecuzione del pezzo è inquadrato uno dei protagonisti, Mick, che seduto in disparte su una panchina osserva con malinconia una escort giovane, goffa, non bella accompagnata dalla madre. «Camminano mano nella mano come dimenticate dal mondo»5. L’amore gridato dal palco sembra non possa raggiungere queste persone povere e malvestite, che nonostante l’affetto che le unisce, non riescono a evitare una vita di degrado. Solo soffrendo, alcuni dei protagonisti si avvicineranno a quello che la giovane cantante urla dal palco, al senso di pienezza e di gratitudine per la bellezza della vita.

Nei film di Sorrentino sono importanti gli incipit. In Youth il lungo prologo che precede il titolo introduce i temi dell’opera. Nella sequenza che si svolge il mattino dopo l’esecuzione di You got the love, che fa da raccordo sonoro, l’emissario della regina chiede a Fred Ballinger di dirigere a Londra per Elisabetta e Fi­ lippo la sua Canzone semplice n. 3. Il personaggio gentilmente ma fermamente rifiuta anche se - dice - non ha dimenticato come si fa. E lui stesso a ricordare che dopo Londra e New York, ha diretto per ventiquattro anni l’orchestra di Venezia. Fred appare calmo, pacato, distante con gli occhi costantemen­ te attraversati da una vaga disillusione. C’è tuttavia una battuta che allude in modo indiretto alla sua situazione interiore: «La monar­ chia fa tenerezza, perché è vulnerabile. Basta eliminare una sola persona e il mondo di colpo cambia. Come nei matrimoni»6. È un primo velato richiamo alla propria vulnerabilità.

4 «Sometimes I feel like / throwing my hands up in the air / I know I can count on you / Sometimes I feel like saying / Lord I just don’t care / But you have got the love I need / To see me through (...) You’ve got the love / You’ve got the love / You’ve got the love / You’ve got the love / I need / To see me through (...) You’ve got the love / You’have got the love / You’ve got the love / You’ve got the love...». 5

P. Sorrentino, La giovinezza - Youth (sceneggiatura), Rizzoli, Milano,

2015, p.27. 6

I dialoghi sono tratti dal DVD Paolo Sorrentino, Youth, Indigo Film, 2015.

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Il personaggio appare come un fiore chiuso che nel corso del film apre sequenza dopo sequenza i petali che nascondono quello che ha dentro. Mentre parla, il compositore fa scricchiolare fra le dita la carta di una caramella Rossana. Il gesto esprime l’insopprimibile biso­ gno di esternare i ritmi musicali che sente dentro. Nello stesso tempo introduce un ricordo d’infanzia di Sorrentino: Maradona è la mia infanzia (...) (Lo sono) anche le caramelle Ros­ sana, la cui carta Caine fa suonare fra le mani. La carta rossa delle caramelle messa davanti agli occhi per vedere il mondo in un altro colore: la prima prova di regia di un ragazzino7.

Da un altro tavolo Jimmy Tree osserva la scena. Si forma un triangolo, i cui vertici sono il giovane ripreso da dietro, Fred e l’e­ missario della regina8. Per buona parte di Youth l’attore california­ no ha il ruolo di osservatore. Quando gli emissari della regina se ne vanno, notano un suda­ mericano che viene issato dall’acqua della piscina e disteso sul let­ tino mentre gli inservienti gli pongono sul viso la maschera dell’os­ sigeno. Iniziano le prime note di Onward di Mark Kozeles. Dopo questa immagine dell’alter ego di Maradona, si passa dall’ombra di un mito, un grande campione che si è distrutto da solo, a un altro personaggio all’apice del successo e della bellezza. Con uno stacco l’ombra di Miss Universo si staglia sul portale illu­ minato della Chiesa di San Marco. Nella seconda serata del prologo Fred si addormenta su una sedia del giardino. Sogna una Venezia notturna con l’acqua alta. E inquadrato mentre percorre la passerella quasi intimidito di fronte alla ragazza bellissima e statuaria che viene verso di lui. Come è noto, i sogni riprendono piccoli o importanti eventi della giornata e li rielaborano. Fred, che ammira la bellezza femmi­

Intervista a Sorrentino di Conchita de Gregorio su Youth («La Repubbli­ ca», 21 maggio 2015). 7

8 Nell’inquadratura la testa di Jimmy è esattamente fra quella dei due inter­ locutori ripresi di profilo.

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nile9, è stato attratto da un articolo con la fotografia di Miss Uni­ verso1011 , mentre parlava con l’emissario della regina. Nel sogno la donna e l’uomo anziano si muovono in direzioni opposte. Si sfiorano nel momento in cui si incontrano. Poi lei prosegue con le ampie falcate della modella dirigendosi verso i portici, mentre lui con incerti passetti da ottantenne va verso la chiesa. Ripreso da solo, il personaggio sembra diventare altissimo, tan­ to da sovrastare gli edifici circostanti. L’acqua, che riflette le luci che la circondano, forma riflessi e arabeschi dorati. Improvvisa­ mente si alza un’onda nera che occupa la parte bassa e centrale del­ lo schermo. Fred annaspa, si sente affogare. Urla un nome, Melany. In questo momento si sveglia. In tutti i miei film - dice il regista - ci sono sogni, perché pos­ sono avere una grande potenza nel creare una sintesi dello stato psicologico dei personaggi11. Leggermente stordito Fred si dirige verso l’angolo in cui siede Jimmy Tree. I suoi movimenti incerti sono accompagnati dalle note di Onward che Mark Kozeles, accompagnandosi con la chitarra, canta seduto sul palco vicino a loro12.

Displayed in all the things I see, Ther’s a love you show to me. Portrayed in all the things you say You are the day Leading the Way Onward, through the night...

9 Lo vediamo ad esempio guardare la donna araba velata in ascensore e poi sorridere quando lei si scopre il volto. 10 Come Mick ricorda a Fred, nell’articolo si parla del fatto che che Miss Universo verrà a soggiornare nell’albergo.

11 Intervista a Sorrentino «Minima Moralia», . 12 Nel film la musica è quasi sempre intradiegetica, spesso eseguita sul palco dell’hotel. Un’eccezione importante è Just di David Lang.

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Nel testo folk il soggetto è Dio che guida il cammino. Per l’uo­ mo, che si risveglia impaurito gridando il nome della moglie, il canto evoca probabilmente soprattutto una guida umana che illu­ minava la sua vita e che ora non può più farlo. Inizia un dialogo sulla leggerezza fra Fred e Jimmy frustrato per aver girato un film su un robot, Mister Q, che tutti ricordano dimenticando le molte opere belle che ha fatto. Fred vede le cose in un altro modo: «La leggerezza — dice — è un’irresistibile tenta­ zione». Per lui, e lo vedremo più avanti, ha dato origine alla musica delle Canzoni semplici, che sono state composte per la moglie e che gli sono particolarmente care. La sequenza successiva si apre con il risveglio dell’albergo, che è anche Spa benessere, centro medico, luogo di sport e di riabili­ tazione fisica. In una routine sempre uguale file di persone in accappatoi bian­ chi si avviano in fila indiana al suono della musica di Saverio Mercadante ai check-up, alle piscine, alle saune, alle sale dei massaggi. Sono ricchi e per lo più anziani. Quando i clienti hanno raggiunto i luoghi di cura sul bianco corridoio vuoto sul quale si staglia un muretto rosso appare il titolo del film. L’incipit di Youth, particolarmente lungo, presenta i temi cen­ trali, i protagonisti e le caratteristiche che li distinguono. La con­ tenuta tristezza di Fred Ballinger esplode nell’incubo che lascia emergere la ragione del suo disagio esistenziale, generato dalla perdita di una persona che per lui era essenziale. Del coprotagonista Mick Boyle conosciamo nel prologo il sentimento di compassione che rivela per la giovane e goffa prostituta e per la madre che la accompagna. Di Jimmy Tree è messo in evidenza il ruolo di osservatore, che, come vedremo, va al di là della prepara­ zione del personaggio che l’attore ha accettato di intrepretare. La sua vera ricerca è legata a quello che manca nella sua vita e che lo rende insicuro e frustrato. Del sudamericano è messo in evidenza il disfacimento fisico, ma anche l’appoggio di una compagna che gli vuole bene. Le canzoni delle Retrosettes Sister Band e di Mark Kozeles, che risuonano nel prologo, esprimono una fiducia e un amore per la vita che alcuni dei personaggi raggiungono soltanto nel finale del film.

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2. Il rapporto fra padri e figli I. Fred Ballinger

I protagonisti di Youth sono due ottantenni: Fred Ballinger e Mick Boyle. Sorrentino dice nelle interviste che lo interessa il fatto che le persone anziane, più che ricordare, tendono a proget­ tare, sono proiettate nel futuro. Nella prima parte del film questo modo di sentire è evidente nel vecchio regista, nel finale è vissuto dal compositore. Quest’ultimo ha un sano e amorevole distacco dalla vita che gli permette di godere con parsimonia dei suoi be­ nefici, ma anche di non soffrire più di tanto, mentre l’altro ha una smodata passione per la vita e il suo lavoro. Quando non passeggia o scherza con l’amico, Mick, che è iperattivo, è sempre impegnato con gli sceneggiatori o è immerso nel lavoro che sta facendo.

Solo questo film ha un senso per me. Dentro c’è ...sì, insomma, c’è il mio testamento sentimentale, intellettuale e morale. C’è solo questo film per me e nient’altro. Il percorso più importante nel film è quello di Fred Ballinger. Più di tutti gli altri egli vive la complessità e la sofferenza del rapporto fra genitori e figli. Allo stesso tempo ha la capacità di superare il suo blocco interiore e di sperimentare a ottant’anni, mentre dirige una delle sue composizioni più amate, la pienezza di una nuova anche se forse momentanea giovinezza. E lui a con­ cludere Youth attraverso un gioco di rimandi che introduce nella scena del concerto i personaggi che lo hanno seguito scoprendo o riscoprendo il gusto di vivere. Nella prima sequenza, che riunisce i due amici, essi passeg­ giano in una valle alpina. Fra le chiacchiere banali emerge un discorso che sarà uno dei leitmotiv del film. A parlare è Fred: Penso alle cose che uno col tempo non ricorda più. Io non ri­ cordo più i miei genitori. Come erano fatti, come parlavano. Ieri notte guardavo Lena che dormiva e ho ripensato a tutte quelle piccole migliaia di cose che, da padre, ho fatto per lei. E le ho

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fatte col preciso intento che poi lei, da grande, se ne ricordasse e invece col tempo non ne ricorderà nessuna (...) Sforzi immani Mick. Sforzi immani per risultati modesti. Sempre così.

E un discorso insolitamente serio. Quando parla dei suoi «sfor­ zi immani» Fred mette le mani sulle spalle dell’amico quasi a cerca­ re conforto. Confessa con dolore le sue difficoltà affettive. Il brano anticipa il conflitto con la figlia che sta per esplodere. Nello stesso tempo mette in evidenza una sensazione-emozione che gli spettatori ricettivi possono condividere. L’amore dispen­ sato ai figli e ricevuto da questi quando sono piccoli è spesso cancellato dalla loro memoria, man mano che i tanti ricordi si accumulano. E successo a Fred, succede a Lena. Succede ad ogni essere umano. E un patrimonio affettivo che permette di vivere nell’infanzia una vita serena e protetta. Fred esprime qui una vi­ sione pessimistica. In realtà, pur rimanendo seppellito dentro di noi, l’affetto ricevuto da bambini affiora alla coscienza ed è di aiuto quando si affrontano le situazioni difficili dell’esistenza. Per Sorrentino è anche qualcosa di più perché tocca una ferita profonda. Lo racconta lui stesso parlando dei suoi genitori morti in una disgrazia quando lui aveva 17 anni. I miei sono morti da 26 anni. Ho passato più tempo senza di loro che con loro e mi trovo adesso nel punto esatto della vita in cui si trovava mio padre quando se ne è andato. Mia figlia ha 18 anni. Se rimanesse sola oggi, cosa ricorderebbe da adulta dei nostri giorni insieme? E un pensiero che mi ha ossessionato come una malattia. Ho cominciato a scrivere per liberarmene. Due anni fa, nell’agosto dopo La grande bellezza, esattamente quando lei è arrivata alla so­ glia che ho dovuto attraversare io alla sua etàIl *13.

Il difficile rapporto fra padri e figli, che è presente in molti dei film del regista, è uno dei temi-cardine di Youth, significativo per­ ché tocca uno dei punti dolenti del nostro tempo14. 13 Intervista a Paolo Sorrentino di Conchita de Gregorio, cit. 14 Le famiglie con problemi, le separazioni frequenti delle coppie, l’assenza di uno dei genitori sono le cause dell’insicurezza e del disagio psicologico di tanti

giovani.

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Dopo la confessione a Mick, Fred, che ha la consolazione della musica, trova conforto nel concerto naturale che la campagna gli sug­ gerisce. Lontano dagli altri, lo dirige solo per se stesso. Attraverso i rami di un albero dalle grandi radici la macchina da presa inquadra un ruscello che scende dall’alto e un pendio dove pa­ scola un gregge di mucche. La colonna sonora è costituita dai suoni della natura. L’atmosfera è di pace e di benessere. La luce, come in tutti gli esterni diurni del film, è quella limpida e tersa delle giornate estive in montagna. Il protagonista siede su un sasso, si concentra, chiude gli occhi. La visionarietà di Sorrentino, che caratterizza la Grande bellezza e il Divo, in Youth appare negli incubi, nel volo del bonzo, nel sogno ad occhi aperti di Mick e del sudamericano. In questa sequenza è a livello puramente sonoro. Nella mente di Fred ogni rumore trova un posto ordinato in un in­ sieme armonico. Il direttore d’orchestra alza una mano. Alcuni campanacci tacciono, altri seguono un ordine melodico. Lo stesso fanno i muggiti degli animali. C’è un istante di silenzio. Poi sentiamo di nuo­ vo lo scampanio a cui si aggiunge il canto roco di un uccello. Il con­ certo termina con il suono di uno stormo che si alza in volo, mentre il direttore dell’orchestra apre le braccia. Fred, ancora ad occhi chiusi, sorride. E la prima e una delle poche volte in cui lo vediamo felice.

La fragile serenità del protagonista è incrinata nella stessa giorna­ ta da un evento inaspettato: Julian, il marito di Lena, che si è inna­ morato di una cantante rock, la lascia all’improvviso. Questo evento determina il serrato interrogatorio della figlia a Fred che poco prima ha parlato col giovane insieme al consuocero Mick. La donna, non più giovanissima, vede cadere all’improvviso le sue certezze affettive e sessuali. Nella sua angoscia scarica sul padre l’ansia per il futuro. Si inserisce a questo punto, come un intermezzo che alleggeri­ sce il dolore che si è creato, la scena delle saune. Le inquadrature esaltate dalla musica sono esteticamente belle, ma i corpi illuminati o avvolti dai fumi sono vecchi e sfatti. Il regista li definisce «im­ mobili nature morte: alcuni provano ad allungare il futuro o ad inseguire goffamente il passato della giovinezza»15. 15 Paolo Sorrentino, La giovinezza - Youth (sceneggiatura), Rizzoli, Milano, 2015, p. 70.

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La sequenza prepara l’episodio in cui Fred e Lena immobili e distesi sono immersi in un bagno di fango. In risposta al goffo tentativo del padre che dice «posso capirti, davvero, credimi», il monologo della figlia è durissimo, totalmente schierato dalla parte della madre, senza pietà. Mamma avrebbe potuto capirmi. Mamma che con te si è trovata nella condizione in cui io sono adesso diecine di volte. E ha fatto finta di niente (...) non solo per noi figli ma anche e soprattutto per te, perché ti amava e ti perdonava. Ma per stare con chi? (...) Uno che non ha mai dato niente. A lei, a me. Niente. Hai dato solo alla musica (...) Mai una carezza, un abbraccio, un bacio, niente. Non hai mai saputo niente dei figli. Se soffrivano se erano con­ tenti, niente. Tutto sulle spalle di mamma (...) Tu non hai mai saputo niente di mia madre. Non hai mai saputo prenderti cura di lei. Non te ne è fottuto nulla della sofferenza di quella donna (...) Dunque non venire a dirmi che tu puoi capire perché tu non puoi capire proprio un cazzo.

La figlia esprime una visione unilaterale, che mette in evidenza con livore le debolezze e le colpe del padre. Spesso sono i membri della famiglia a ferirci con maggiore violenza, perché conoscono bene i nostri punti deboli e ciò che ci fa stare male. Quello che dice Lena si concentra solo sul negativo, che pure esiste. Ci sono però altri aspetti che la donna azzera nel suo monologo e che lo spetta­ tore scoprirà più avanti. Il fango che ricopre i due personaggi non è solo materiale. E quello che la figlia getta sul padre e del quale lui, che sa di non essere del tutto innocente, si sente ricoperto. Il protagonista non dice una parola. Ha gli occhi rivolti al soffit­ to. E come annientato e incapace di reagire. Lo ritroviamo nel crepuscolo nel giardino deserto del retro dell’albergo. E un’immagine che trasmette un’immensa solitudine. Una lenta carrellata, che parte dalla testa china del protagoni­ sta, riprende le poltrone a dondolo bianche mosse dal vento, un calice su un tavolo, infine attraverso un allargamento del campo visivo torna al personaggio.

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Fred ha un’espressione smarrita e infelice. Subisce l’ingiustizia di quello che gli è stato detto. I suoi «sforzi immani» non solo sono andati a vuoto ma sembrano aver generato l’effetto opposto. Lena non ha colto quello che è essenziale nella sua vita, ma solo la super­ ficialità dei momenti di debolezza. La sequenza termina con un campo lungo dell’albergo e del giardino deserto avvolti nella semioscurità del crepuscolo.

Faticosamente la vita va avanti. La figlia tenta di riprendere col padre il discorso che gli sta a cuore: «Forse il problema è che io e Julian non abbiamo avuto figli». Sul palco una cantante locale esegue con una voce bella e po­ tente A sa manière, un vecchio successo di Dalida. Le parole sono in sintonia con l’atteggiamento di Fred che, ancora risentito, si sot­ trae al discorso «a modo suo», appoggiandosi alla passione della sua vita.

Non lo so quale è il problema. (...) Tu hai ragione, Io capisco solo la musica. E sai perché la capisco? Perché la musica non ha bisogno delle parole. Né dell’esperienza. La musica c’è. Tua madre avrebbe capito. Io no. Ma tua madre non c’è. Jimmy Tree ascolta queste parole, in particolare quelle sulla musica, con grande attenzione. Si sta avvicinando a Fred e al suo mondo. Ritroviamo la cantante locale in una sala deserta intenta a divo­ rare una coscia di pollo con le mani. E come se gustasse con avidità un cibo che raramente le è concesso di mangiare. L’inquadratura successiva è sull’escort seduta su un divano in uno spazio deserto. In quell’ambiente di persone ricche e famose le due donne sono diverse da tutti gli altri. Nel loro spaesamento fanno tenerezza. Appartengono ad una classe sociale molto più bassa che stona con l’ambiente maestoso e opulento, abitato da persone per lo più con­ centrate su se stesse e sul loro benessere fisico. Un piccolo avvicinamento di Fred alla figlia avviene alla fine dell’incubo, che la fa svegliare con un urlo. Anche questo sogno rivela lo stato d’animo del personaggio. Si svolge di fronte allo spettatore una sequenza girata secondo gli stilemi del videoclip, con effetti speciali, colori sgargianti, altis-

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sime velocità, azioni improbabili. È una consapevole e esagerata parodia di uno stile aggressivamente kitsch. Paloma Faith, la nuo­ va donna di Julian, canta Cant rely on you. Lei e Julian corrono in automobile. La donna si protende dalla macchina e salta sul tettuccio senza mai abdicare alla sua accentuata sensualità. Sputa fuoco dalla bocca. Poi con improbabili acrobazie rientra nell’abi­ tacolo. Secondo le caratteristiche dei sogni, che mescolano elementi di­ versi della realtà vissuta durante il giorno, il paesaggio è quello del­ la valle alpina in cui si trova l’albergo. La macchina, che sfreccia in una strada di montagna, è osservata da mucche al pascolo distur­ bate dall’eccessiva velocità del veicolo. L’auto si lancia all’interno di una chiesa come se attraversasse uno spazio senza fine. In alto su un rosone le figure di Paloma e di Lena si sovrappongono fino a diventare una sola. L’incubo si interrompe bruscamente. Grazie ad una battuta, a cui Fred aggiunge la sua, la figlia riesce a trovare un momento di complicità affettuosa col padre. A cambiare radicalmente la situazione di questo difficile rap­ porto è il secondo colloquio, stavolta in camera, con l’emissario della regina. Anche se a parlare sono solo due personaggi, è un incontro a tre. La sequenza si apre con un primo piano di Lena per ora atten­ ta, poi in preda all’emozione. A momenti è a fuoco, a momenti in effetto flou, mentre sono a fuoco i due interlocutori. Quando parla Fred spesso ha sullo sfondo Lena. Possiamo vedere così le reazioni di lei, il suo progressivo sollievo, che la porta fino alle lacrime. Di fronte alle reiterate suppliche deH’emissario della regina, «Io proprio non capisco. Ma qual è il problema?» - Fred alza la

voce: Il problema è che le Canzoni semplici sono state composte per mia moglie. Le ha cantate solo mia moglie. Le ha incise solo mia mo­ glie. Ma il problema, mio caro signore, è che mia moglie non può più cantare. Ha capito adesso? Ha capito?

E una confessione molto personale che il personaggio fa ad un uomo che quasi non conosce. L’emissario della regina con la sua disperata tenacia riesce a sbloccare Fred e a fargli tirare fuori il

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groppo che ha dentro, che ha determinato finora la sua apatia e il suo ritiro dal lavoro e dalla vita. Le parole che «gli escono di getto, senza calcoli» sono una indi­ retta risposta al monologo di Lena durante il bagno di fango. Lena lo capisce e piange per la gioia di scoprire un mondo di affetti che legava i suoi genitori e di cui sapeva ben poco. Dopo la confessione è inserita un’immagine che dà pace e re­ spiro. E inquadrato il portale di un padiglione bianco che si staglia sulla montagna azzurrina coperta di abeti e sull’erba di un verde brillante che la circonda. Il protagonista ha tolto un altro massiccio strato dello schermo che nasconde quello che ha dentro. La confessione aiuta Fred, ma anche la figlia che, finalmente riconciliata col padre, trova il corag­ gio di aprirsi ad un nuovo amore. Dopo l’incontro che lo lascia spossato, vediamo Fred disteso supino su un lettino nelle mani di una massagiatrice silenziosa e minuta. La ragazzina inizia il trattamento, ma poco dopo si ferma. Quando parla, ha il volto in ombra, come a nascondere la sua ti­ midezza.

«Le faccio un altro massaggio perché è stressato. Anzi, no, ad essere precisi non è stressato. E che si è emozionato». «Lei capisce tutto con le mani». «Si capiscono un sacco di cose toccando. Ma, chissà perché, le persone hanno paura di toccarsi». Con poche battute la giovanissima massaggiatrice mostra la sua sensibilità. Quello che le parole spesso nascondono è rivelato dalle contratture e dalle reazioni del corpo, che rispetto alla lingua ha maggiori difficoltà a mentire. Nella vita - dice Sorrentino - le mani contano più delle parole. Sono i gesti - una pacca sulla spalla, uno sfiorarsi - che si impi­ gliano nella memoria. Dettagli che sembrano insignificanti e che finiscono per essere tutto ciò che resta16.

16 Intervista a Conchita de Gregorio, cit.

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Nel film vediamo la massaggiatrice più volte. Subito prima del pesantissimo momento di solitudine del protagonista è inquadrata mentre nella sua camera balla di fronte al televisore con un gio­ co della Kinect. Vive in un mondo suo, che si esprime attraverso i movimenti del corpo. Gioca al tennis virtuale con un impegno incongruo, sudata, con i capelli attaccati alla fronte, alle tempie. Questo giovanissimo personaggio spicca per l’attenzione verso gli altri, per la capacità di comprenderli, per la cura che mette in tutto quello che fa.

II. Jimmy Tree

I problemi generati dall’assenza di una figura paterna sono es­ senziali nel cammino di ricerca di un altro personaggio, l’attore californiano Jimmy Tree, che nella prima parte è solo un attento osservatore. Nella sequenza che si svolge nel negozio di souvenir il giovane è il protagonista e Fred un ascoltatore interessato. La sequenza si apre con il canto all’unisono di molti orologi a cucù, suoni che diventano sempre più intensi e si sovrappongono. Tutto quello a cui Fred si avvicina sembra trasformarsi in musica. Gli orologi, che in questa scena si fanno sentire con grande rumore, ricordano il passare del tempo, gli inutili sprechi nelle vite dei personaggi. Jimmy Tree cerca un bastone simile a quello del sudamericano per definire meglio il personaggio che sta preparando. Una tredicenne, pallida e con le occhiaie rosate che la fanno sembrare vagamente sofferente, si avvicina all’attore. Lo scruta a lungo mettendolo quasi in imbarazzo. Poi esordisce sicura di sé:

«Io l’ho vista in un film». «Anche a te è piaciuto Mister Q?». «No. Io l’ho vista in quel film in cui lei fa un giovane padre che non ha mai conosciuto suo figlio e lo incontra per la prima volta in un bar dell’autostrada, quando il figlio ha ormai quattordici anni (...)»

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Jimmy è di pietra. Mormora: «Ma non l’ha visto nessuno quel film». «Mi è piaciuto molto uno scambio di battute, quando tuo figlio dice: “Perché non hai fatto il padre?” e tu rispondi: “Pensavo di non essere all’altezza”. In quel momento ho capito una cosa molto importante». «Che cosa?». «Che nessuno, nel mondo, si sente all’altezza. E dunque non c’è motivo di preoccuparsi».

Il racconto che la sensibile ragazzina fa di un film «che nessuno ha visto» offre una delle chiavi di Youth. Parte dal rapporto genitori-figli e insiste soprattutto sul senso di inadeguatezza che rende difficile la vita dei personaggi e più ampiamente minaccia il benes­ sere di ogni essere umano. Nella Grande bellezza e in Youth sono presenti i bambini. Guar­ dano i loro interlocutori con occhi limpidi, privi di malizia. Sono capaci di vedere e esternare quello che sfugge agli adulti. La ragazzina, che abbiamo visto litigare con la madre, soffre probabilmente per l’assenza del padre. Quello che lei dice colpisce Jimmy Tree. E un discorso importante anche per l’anziano prota­ gonista che con la figlia fa fatica a sentirsi all’altezza, nonostante l’affetto che prova per lei. Per Fred nel film c’è un altro bambino che nella sua limpida ingenuità dice cose importanti. Il protagonista lo incontra quando nel corridoio dell’albergo segue il suono incerto di una musica che conosce bene e che già prima aveva sentito da una panchina: La canzone semplice n. 3. Un ragazzino di dodici anni si sta esercitando su due note ripetute all’infinito. Fred gli dice che è stato lui a scrivere quel brano. Il bambino risponde: «Incredibile. Il mio maestro me lo fa suonare perché dice che per iniziare è un ottimo pezzo». Fred: «Sì, dice bene, perché è un pezzo semplice». Il bambino ribatte: «Ma non è solo semplice. E anche bellissimo». Fred si lascia istintivamen­ te sfuggire quello che ha dentro. «Sì è bellissimo. L’ho composto quando ancora amavo». Nel film il ragazzino è il primo a parlargli con disinteressata e sincera ammirazione della bellezza di una com­ posizione che lui ama. Ballinger ricambia la preziosa affermazione

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del bambino correggendogli la posizione del braccio per rendergli più agevole e naturale suonare il violino.

Le parole della bambina, che parla del film in cui si incontrano un padre e un figlio, rompono il ghiaccio della formalità e spin­ gono Fred e Jimmy a parlarsi con una sincerità che non c’era mai stata prima, mentre passeggiano lungo un sentiero in mezzo ai fiori e all’erba alta. L’attore chiede all’uomo anziano, che ammira, che cosa fa tutta la giornata. Fred risponde sinceramente:

«Dicono che sono apatico. Dunque non faccio nulla». «Non ti manca il lavoro, Fred?». «Per niente. Ho lavorato anche troppo». «E cosa ti manca, invece?». «Mia moglie Melany». A sua volta Fred gli chiede di essere generoso e di dirgli che cosa gli manca. Jimmy esita, ma poi risponde che lo ha scoperto quattro mesi prima leggendo la frase di Novalis: «Io sto sempre andando a casa, sempre alla casa di mio padre». La poesia dell’autore tedesco, che fa parte della raccolta Inni alla notte, esprime già nel titolo, Alla morte, il senso diretto di que­ sta espressione: «Non ci attraggono più terre straniere. / Vogliamo tornare alla casa del padre». Nel Nuovo testamento (Gv 14,2) con questa espressione Cristo parla della vita dopo la morte. C’è tuttavia nel testo evangelico (Luca 15) una parabola in cui sono presenti un figlio, una casa, un padre, che appaiono più vicini al modo di sentire di Jimmy Tree e a quello che gli manca. Il figlio minore «tornato in se stesso» si mette in cammino verso la casa del padre che, nella condizione in cui è caduto, gli manca. La citazione solenne, che rimanda al testo evangelico, lascia in­ tuire la causa della fragilità del personaggio, del suo non sentirsi all’altezza. E come se, scegliendo di esprimersi attraverso Novalis, il gio­ vane coprisse con un velo culturale il disagio esistenziale che si porta dentro. La ricerca dell’attore è legata al bisogno di un punto di riferimento^ di una guida paterna, di cui evidentemente sente la mancanza. È sul punto di compiere un passo per lui sbagliato

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accettando di dedicare i suoi sforzi a preparare il ruolo di Hitler. Nella seconda parte del film Fred assume per Jimmy il ruolo di padre non a parole ma col suo modo di essere e le sue scelte. I tempi non sono ancora maturi. A partire dal taglio di capelli assistiamo alla trasformazione dell’attore in un personaggio che su­ scita l’orrore di tutti coloro che lo osservano durante la colazione. Fa eccezione la bambina che, sotto le spoglie di un vecchio Hitler infagottato in un cappotto militare, lo vede per quello che è e lo saluta con un sorriso. In una scena successiva, dopo che ha deciso di rinunciare alla parte17, Jimmy ne spiega le ragioni a Mick Boyle. Sono settimane che studio tutti gli ospiti dell’hotel. Ho osservato minuziosamente lei, Fred, Lena, i russi. Alla fine sono giunto a una conclusione. Io devo scegliere. Devo scegliere che cosa vale la pena di raccontare: l’orrore o il desiderio. E ho scelto il desiderio. Voi, ognuno di voi mi ha aperto gli occhi. Voi mi avete fatto capire che non posso perdere il mio tempo sull’assurdità dell’orrore. Io non posso interpretare Hitler. Io voglio raccontare il suo (di Mick) desiderio, il mio desiderio così puro, così impossibile. Ma non im­ porta. Perché è quello che ci rende vivi.

Siamo a un punto di svolta nella vicenda del film e, almeno in questo momento, anche nelle scelte del regista, nella sua visione del mondo. Sorrentino non si è mai occupato di Hitler, ma alcuni suoi film, come lamico di famiglia e il Divo, hanno al centro il male generato dalla sete di denaro o di potere. Sono opere che affronta­ no un aspetto importante dell’esistenza. C’è però qualcosa di cui abbiamo forse più bisogno. Dopo l’uscita di Youth il regista risponde all’intervistatrice su questo aspetto.

Parliamo di leggerezza. Caine dice: «è una tentazione irrresistibile, fino alla perversione». 17 Jimmy Tree nell’interpretazione del personaggio eseguito durante il mo­ mento della colazione ripete il modo che Fred ha di soffiarsi il naso e il gesto di Mick di sollevarsi il ciuffo dalla fronte. Utilizza inoltre un bastone simile a quello

del sudamericano.

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È meraviglioso Michael! Anche nella vita. Un manifesto che sono pronto a firmare. La leggerezza è anche quella di Paul Dano che sceglie di non interpretare Hitler (...) Anch’io, come regista, pre­ ferisco occuparmi del desiderio. Il cinema non è l’arte giusta per l’orrore: la sua vocazione è il desiderio18. Il discorso di Jimmy Tree non è presente nella sceneggiatura. È un modo di sentire a cui il regista è arrivato forse durante la lavorazione di questo film. E una nuova visione delle cose, di cui solo in un futuro più o meno lontano potremo forse vedere gli sviluppi.

A questo punto inizia una sequenza inattesa. E una visione ap­ parentemente fiabesca. Il bonzo, che è stato seduto in posizione di meditazione fin dalle prime scene del film, inizia a levitare. Sale sempre più in alto in mezzo alle montagne stagliato contro il cielo col suo mantello rosso. Possiamo vedere la realtà da un nuovo pun­ to di vista, che si allarga all’intero paesaggio circostante. L’esperienza di volare è qualcosa che tutti abbiamo provato in sogno almeno una volta nella vita. E un desiderio primario dell’essere umano, di leggerezza, di libertà, di benessere. Lo spet­ tatore è condotto a questo livello insieme ai personaggi privile­ giati di Youth. Vola metaforicamente nel finale Fred Ballinger quando diri­ ge il concerto a Wimbledon, vola la figlia di lui, resa coraggiosa dal suo nuovo amore, vola Jimmy Tree spettatore del concerto a contatto con la bellezza della musica, vola la massaggiatrice che danza davanti ad un esiguo pubblico. In questi momenti i perso­ naggi volano, come tutti voliamo quando viviamo un’esperienza bella e significativa che dà senso alla nostra vita. Il film si avvia verso questa conclusione per i personaggi che sono capaci di cogliere la bellezza dell’esistenza, nonostante le sue difficoltà.

18 Intervista a Conchita de Gregorio, cit.

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3. I perdenti

Non tutti i personaggi riescono a volare. Per uno di loro, Falter ego di Maradona è ormai oggettivamente impossibile. Dopo la prima sequenza in piscina, vediamo il sudamericano firmare autografi ad un gruppo eterogeneo di persone che si trova al di là della siepe dell’albergo, mentre la sua compagna lo segue con apprensione. Ritorna da questo modesto rito che gli ricorda la passata celebrità con un passo lento e affaticato, accompagnato da una canzone di David Lang, Just, ispirata al Cantico dei cantici, che sarà ripetuta durante i titoli di coda19. L’elenco dei desiderabili attributi fisici dei due amanti non sembra adatto al momento. C’è forse un omaggio a una coppia fuori del comune. L’unico conforto che è rimasto al sudamericano è una donna ancora giovane, «col viso buono e paziente» che «si prende cura amorevolmente di que­ sta immensa balena»20. Lo sguardo dell’uomo, che costeggia il campo da tennis, è attrat­ to da una pallina dimenticata. Poco più tardi, nella sequenza che ini­ zia con una palla da tennis, che si staglia altissima nel cielo azzurro e che è notata da Fred, l’ex-campione mostra che, sia pure sofferente, sa ancora usare il mancino. Compiendo uno sforzo immane, lancia molto in alto la pallina e, quando ricade giù, senza farle toccare terra, la calcia di nuovo a una ventina di metri di altezza. Dopo sei o sette tiri lo vediamo chinarsi affaticatissimo, respirando a stento21. Nella sua ultima apparizione l’alter ego di Maradona è inqua­ drato disteso su un lettino sulla terrazza dell’albergo. Il suo sguardo è perso nel vuoto. Vive un ricordo-visione. Su un campo di calcio

19 II canto che inizia con la sequenza del sudamericano continua, anche se in versione abbreviata, durante il pranzo nella sala dell’albergo. Per il brano cfr. p.

79 e nota.

20 Paolo Sorrentino, Sceneggiatura, cit., p. 13. 21 In un’altra sequenza vediamo l’alter ego di Maradona avvicinarsi in pisci­ na a Jimmy, a Fred e al ragazzino che suona il violino. Stanno parlando dei proble­ mi dei mancini. Il sudamericano dice amichevolmente al bambino: «Anch’io, sai, sono mancino». Jimmy non può fare a meno di esclamare: «Tutto il mondo sa che lei è mancino». A queste parole lui risponde «Grazie», come se fosse confortato e rassicurato dal fatto che il mondo si ricorda ancora di lui.

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Prima parte

illuminato dai riflettori sono schierate due squadre. Sicuramente c’è in lui un’immensa nostalgia. Alla compagna che, massaggian­ dogli amorevolmente le gambe, gli chiede: «A que piensas?», lui risponde con sguardo serio e pensoso «En el futuro». In quello che dice c’è una parte di verità, perché la visione lo porta a riflettere sulla povertà di quello che lo aspetta. L’altro perdente è l’iperattivo Mick, entusiasta del suo film e sconvolto dal ripensamento di Brenda Morel, la prestigiosa attri­ ce che con la sua presenza gli garantiva i finanziamenti per la sua opera. Prima della caduta, Mick vive con Fred un ultimo momento di godimento esistenziale, quando immersi nella piscina i due an­ ziani osservano Miss Universo nuda. Con eleganza e femminilità la donna va a distendersi dolcemente su una panca di legno. La macchina da presa inquadra il suo splendido corpo metà fuori e metà dentro l’acqua. Il sentimento che provano Mick e Fred è un estatico stupore. All’inserviente che gli annuncia una visita Mick dice sbuffando: «Non vede che stiamo vivendo l’ultimo grande idillio della nostra vita?». Nella hall il viso raggrinzito di Brenda, incorniciato da una morbida parrucca bionda, è duro, gelido, aggressivo.

Mi hanno proposto una serie nel New Mexico. Tre anni di contrat­ to. Una nonna alcoolizzata reduce da un brutto ictus. Un perso­ naggio coi controcazzi. Ci pago la comunità di recupero di Jack, i debiti di quel deficiente di mio marito e mi avanzano pure i soldi per una villa a Miami che desideravo da quattordici anni. Questo sono venuta a dirti. Le ragioni del rifiuto sono chiaramente economiche. Si accom­ pagnano ad una serie di improperi nei confronti di Mick che lei definisce «vecchio, stanco, incapace di vedere il mondo» e finito come regista. Durante la discussione la macchina da presa si allon­ tana per inquadrare i due personaggi attraverso una rete da pingpong. Quello che si sta svolgendo è un match che Mick combatte per la sua ragione di vita e l’avversaria per il suo personale inte­ resse. Alla fine, quando i toni si addolciscono, i due sono ripresi

II. Youth - La giovinezza

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in primissimo piano di profilo su fondo nero. Brenda accarezza la guancia di Mick che è sul punto di piangere22. Dopo una conversazione con Jimmy Tree, che per sollevargli il morale gli ricorda che «non è solo un grande regista di donne, ma un grande regista e basta», Mick reagisce alla disperazione com­ piendo un’azione compassionevole e gentile nei confronti dell’escort goffa e bruttina accompagnata ogni sera dalla madre fino alla porta dell’hotel. La trova come sempre seduta sul divano della hall del suo piano e le dice di essersi deciso. Alla domanda di lei su cosa desidera fare, risponde «una passeggiata». Camminano in giardi­ no, «lenti e soli, senza guardarsi, tenendosi per mano». Mick ripete così il gesto affettuoso della madre della ragazza che avevamo visto all’inizio del film. Probabilmente entrambi riflettono sull’infelicità della propria vita. Per lei è un modo di essere costante, per lui è una sensazione nuova e devastante.

La mattina dopo Mick accompagna gli sceneggiatori alla sta­ zione. I discorsi di addio iniziano con consolanti false promesse e terminano con una dura presa di coscienza,

«Il mio film testamento? Non sopravvalutiamo certe cose. La maggior parte degli uomini muore non solo senza testamento, ma senza che nessuno se ne accorga». «La maggior parte degli uomini non sono grandi artisti come te». «Non fa nessuna differenza. Uomini, artisti, animali, piante, siamo stati chiamati tutti solo a fare le comparse». Dopo la partenza del treno, il vasto pendio verde che Mick ha davanti si anima grazie a un suo doloroso nostalgico sogno a occhi aperti. Appaiono in abito di scena tante delle attrici con cui ha lavorato: una donna vestita da hostess, una contessa in costume ottocentesco, una vamp in abito da sera e moltissime altre. Ognuna ripete più volte una sola battuta, formando un coro, nel quale le diverse voci si sovrappongono. Per ciascuna di loro cambia il colo­ 22 I primissimi piani di profilo su sfondo nero ricordano il modo in cui sono girate alcune sequenze di Dogville di Lars von Trier, in particolare i momenti dell’idillio fra Grace e Tom.

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Prima parte

re degli sfondi: un cielo azzurro luminoso, l’ombra del crepuscolo, un’atmosfera di tempesta, l’uso del bianco e nero invece del colore a seconda dei ricordi del regista. L’ultima apparizione, che attira tutta l’attenzione di Mick, è Brenda Morel in abito di scena: una donna vecchia con una trec­ cia sulle spalle, vestita poveramente, intenta a rimestare un paiolo. Mick con gli occhi lucidi si toglie il cappello e si inchina. La sua bocca trema come a trattenere il pianto. Mentre lei lo fissa senza dire una parola, il regista abbassa la testa sconfitto di fronte a colei che lo ha messo in ginocchio. Come avviene spesso nei film di Sorrentino i richiami a film di altri, in questo caso a Otto e V2 di Fellini, sono uno spunto per creare qualcosa di molto diverso. Nell’episodio dell’harem il protagonista Marcello si prende una soddisfazione onirica raccogliendo in un’atmosfera di pace e col­ laborazione domestica le tante e diversissime donne della sua vita. Quella a cui assistiamo in Youth è una scena sognata a occhi aperti da un uomo disperato che ha perso tutto.

L’ultima sequenza in cui è presente Mick Boyle è quella del sa­ luto a Fred alla fine delle vacanze. Il vecchio regista trattiene la tensione che ha dentro mostrando una calma apparente. E consapevole che «col rifiuto di Brenda il film non si farà mai». Ha l’atteggiamento di chi ha perso la fiducia in se stesso e nelle sue capacità. La foto di Melaine e la sua bellezza gli suggeriscono una triste riflessione: «Ho capito una cosa, Fred. Le persone o sono belle o sono brutte. In mezzo ci sono i carini». In questo momento lui sente di appartenere a quest’ultima categoria. La sua ultima battuta è «le emozioni sono tutto quello che ab­ biamo». Senza affrettarsi, si alza, esce sul balcone, con semplicità mette un piede su una poltroncina del terrazzo, poi sul cornicio­ ne come se salisse una scala. Realizza con naturalezza un «finale rocambolesco»23. Il suo ultimo gesto capace di fargli vivere e di suscitare una forte emozione, è un tuffo dal quarto piano.

23 L’espressione è di un anziano personaggio minore del film Le conseguenze dell’amore, che, frustrato dalla routine della sua vita, vorrebbe morire in modo rocambolesco. Al suo posto lo farà il protagonista, Titta Di Girolamo.

II. Youth - La giovinezza

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Un’inquadratura della finestra aperta davanti a Fred conferma che lui ha visto quello che è accaduto. E colpito tanto duramente da non essere in grado di reagire. Rimane immobile, come inebe­ tito. Non si alza neppure quando sente il trambusto in giardino. Nella sequenza successiva un paracadutista scende dal cielo su un pendio. E stupito dal luogo in cui si trova. Dice «Non dovevo atterrare qui». Fred, che lo osserva e ascolta queste parole, si è appartato a vivere il suo dolore nello stesso luogo in cui aveva immaginato di dirigere il concerto naturale. Nel film è la prima volta che lo vedia­ mo piangere dando libero sfogo a quello che sente. Scosso dall’i­ nattesa e improvvisa morte dell’amico, è atterrato anche lui in una situazione che non si aspettava. E un colpo doloroso, ma anche salutare, che lo scuote e lo porta a scegliere di vivere le emozioni anche per l’amico che non c’è più. Il dottore che va a salutare prima della partenza gli dice che «è sano come un pesce». Aggiunge una frase ambigua che si chiarisce nel finale: «Lo sa che cosa la attende fuori di qui? La giovinezza».

4. Il ritorno a Venezia

Il penultimo episodio inizia con una visione notturna di Vene­ zia. Il cambiamento di ambientazione è sottolineato da alcune note della Canzone semplice n. 3 suonate da un violino. Fred, che è tornato nella città dove vive, va al cimitero a portare i fiori a Stravinskij e alla moglie di lui Vera. Le tombe anonime e trascurate di personaggi in vita molto famosi trasmettono un senso di tristezza e fanno riflettere sulla fugacità della nostra importanza nel mondo. Uno dei momenti più importanti del film è la visita a Melany ricoverata in una clinica. La donna resta sempre di spalle, appog­ giata alla finestra. E elegante, vestita di bianco con una mantella di pizzo. Il volto, che vediamo solo alla fine dell’episodio, è devastato da una malattia che le impedisce di parlare, di comprendere, di prendere parte alla vita degli altri.

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Prima parte

Una carrellata all’indietro rivela l’impersonalità della stanza dell’ospedale. Fred entra nel campo visivo, si siede in una poltrona e si rivolge alla moglie che non può sentirlo. In realtà parla a se stesso, esprimendo quello che ha dentro dopo le emozioni vissute nel recente soggiorno in montagna.

Loro, i figli, non sanno Melanie. Non conoscono le cose dei geni­ tori. Sì, conoscono certi contorni, i fatti eclatanti, quelli li cono­ scono. Sanno ciò che è necessario per potersi schierare con l’uno o con l’altro. Hanno bisogno di semplificare. E hanno ragione. Ma loro non possono sapere. Non sanno come ho tremato la prima volta che ti ho visto su quel palco. E l’orchestra, che aveva capi­ to tutto, rideva di nascosto del mio innamoramento e della mia inattesa fragilità. Loro non sanno che hai venduto i gioielli di tua madre per consentirmi di terminare il mio secondo lavoro, quando tutti mi rifiutavano e dicevano che ero un musicista goffo e presun­ tuoso. Loro non sanno che anche tu, e avevi ragione, pensavi che all’epoca io fossi un musicista goffo e presuntuoso, mentre piange­ vi senza sosta, non perché tu avessi venduto dei gioielli, ma perché avevi venduto tua madre. Loro non sanno come mi hai amato e come ti ho amato io. Solo noi due sappiamo. Loro non sanno cosa siamo stati io e te nonostante tutto. Quel «nonostante tutto», che è stato così faticoso, doloroso e cattivo. Melanie, loro non potranno mai sapere che a noi due piaceva pensare di essere, nonostante tutto, una canzone semplice.

Quando parla di «quel nonostante tutto che è stato così fatico­ so, doloroso e cattivo», lo spettatore è portato a ricordare il discor­ so della figlia che ha elencato con astio le debolezze del padre e i suoi torti. Nel suo rapporto con la moglie c’è tuttavia qualcosa di più profondo e di più alto che con grande sincerità il personaggio fa rivivere, parlando alla presenza di lei. Il discorso esprime con parole semplici qualcosa a cui di solito da figli non si pensa e che pure ha un peso importante nella nostra vita. Le emozioni, anche le più forti e intense, i sacrifici fatti reci­ procamente l’uno per l’altro, il modo in cui si sono amati i nostri genitori ci resta nascosto, perché è avvenuto prima della nostra nascita o perché ci ha sfiorato da piccoli quando ancora non aveva­ mo gli strumenti per comprenderlo, o perché è avvenuto lontano

II. Youth - La giovinezza

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dai nostri occhi e dalle nostre orecchie. Pensando a tutto questo, schierarsi o giudicare appare ingiusto. È uno dei momenti più alti di Youth, capace di far riflettere lo spettatore su un’esperienza che nella maggior parte dei casi è anche la sua. Quando Fred esce dalla clinica, è inquadrato il volto devastato, a bocca aperta come se cantasse, di quella che era stata una donna molto bella. Fred, scosso dall’incontro, è fermo al centro di un ponte. E ri­ preso dal basso. Poi la macchina da presa sale verso il volto di lui incorniciato dal cielo. L’impressione è che il personaggio stia per spiccare il volo. Accompagnano queste inquadrature le note della Canzone semplice n. 3 suonate da un violino.

5. Il finale

La Grande Bellezza e Youth hanno in comune il punto di arrivo dei percorsi esistenziali dei due protagonisti che pure sono molto diversi fra loro. A differenza di Jep Gambardella, che ha scritto un solo romanzo ed è stato poi inghiottito dall’ambiente mondano, Fred Ballinger ha lavorato moltissimo, ha creato opere musicali di cui è riconosciuto il valore. I due personaggi hanno tuttavia qual­ cosa di importante in comune: un blocco esistenziale e creativo che entrambi riescono a superare nel finale. L’altro elemento che unisce i due film è la musica classica con­ temporanea di David Lang. Il coro e l’assolo di I lie aprivano e chiudevano il film del 2013. Youth tende verso il finale. Anche qui abbiamo una celebrazio­ ne della bellezza: quella artistica e musicale. La protagonista dell’ultima sequenza è La canzone semplice n. 3 scritta dal compositore americano per il film. E suonata dalla BBC Concert Orchestra, diretta da Terry Davis, che doppia il protago­ nista. Siamo a Londra nella cornice del teatro di Wimbledon. Il palco, dove i suonatori sono pronti in attesa del direttore, risplende di luce. Il pubblico numerosissimo e silenzioso resta nell’ombra.

Prima parte

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L’atmosfera è solenne. Quando entrano Elisabetta e Filippo, di cui si vedono le sagome in controluce, tutti gli spettatori e gli or­ chestrali si alzano in piedi. Sono ripresi i momenti che precedono l’esecuzione: l’arrivo sul palco del primo violino Victoria Mullova, poi della cantante Sumi Jo24, infine, di Fred Ballinger. Il brano è una composizione per soprano, violino e orchestra. Inizia il soprano. La semplicità del percorso melodico è contrap­ puntata dalla lirica presenza della violinista. E la grande serata di Fred. Concentrato, guida l’orchestra con assoluta padronanza di sé. Mette in quello che fa tutto se stesso. C’è un momento in cui recita a fior di labbra il testo della canzone, mentre Sumi Jo la sta cantando. La Canzone n. 3 ha una forza trascinante che coinvolge non solo il pubblico in sala, ma anche lo spettatore. E presente Jimmy Tree col volto illuminato dalla bellezza di quello che ascolta. Fred, di cui in un certo senso è diventato disce­ polo, gli ha insegnato a scoprire il valore di ciò che è bello e che fa godere la pienezza dell’esistenza. Durante l’esecuzione ci sono alcuni intermezzi, accompagnati dalla musica che si diffonde nel teatro. Alcuni riguardano i perso­ naggi che, come Fred, stanno volando. Lena attaccata con le corde a un gancio su un precipizio, si stringe protetta e felice al suo nuo­ vo amore, l’alpinista istruttore dell’albergo. La timida massaggia­ trice seguendo il proprio ritmo interiore esegue nella sua camera, al suono della canzone che non può sentire, una danza lenta, deli­ cata, armoniosa. Non è sola, come avviene di solito. Sono presenti alcuni spettatori. Mentre guarda Sumi Jo per darle l’attacco, per un istante Fred vede il volto della moglie, come l’ha lasciata a Venezia, a bocca aperta come se cantasse. Questi intermezzi sono visioni mentali di Fred. Sta vivendo un momento di pienezza vitale che lo porta a rendere presenti coloro che hanno importanza per lui o che lo hanno colpito. L’ultima ap­ parizione, quando il concerto è finito e il direttore si volta verso gli spettatori, è quella di Mick Boyle, un ricordo e un omaggio a colui senza il quale questa esperienza non ci sarebbe stata. 24 Victoria Mullova e Sumi Jo interpretano loro stesse.

II. Youth - La giovinezza

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Assume significato a questo punto il titolo del film. Youth coinvolge e fa riflettere il pubblico su qualcosa di impor­ tante. Le parole che il medico pronuncia, dopo aver informato il paziente sulla sua buona salute, non valgono solo per il protagoni­ sta ma anche per gli spettatori. La giovinezza non è una condizione fisica, ma mentale e esi­ stenziale. Godiamo pienamente la vita quando facciamo quello che amiamo con slancio e trasporto, mettendoci tutto il nostro essere, qualunque sia la nostra età anagrafica.

Come avveniva nella Grande bellezza, è importante la musica che accompagna i titoli di coda. E l’altro brano che David Lang ha scritto per Youth, liberamen­ te ispirato al Cantico dei cantici25. La composizione, che dura circa 13 minuti ed è eseguita dal Trio Medieval norvegese (composto da Anna Maria Friman, Linn Andrea Flugseth e Torunn Ostrem Ossum) e dal trio Saltarello del violinista Garth Knox, ha la cadenza di una nenia fissa, scandita da rintocchi percussivi, abbinati a note acute del pianoforte e a evoluzioni melodiche della viola. Lo spettatore ascolta versi erotici che sono in sintonia con la composizione precedente, ma rivelano grazie alla struttura musicale e alla esecuzione una diversa valenza dell’amore, in questo caso fortemente spirituale26.

25 Riporto i versi di inizio di ]ust\ «Just your mouth / just your love / just your name (...) and my mother songs / and my own / and my soul / just your flock / just your companions / just your cheeks / just your neck (...)». 26 Afferma il compositore a proposito di questo brano: «Una cosa che mi ha sempre colpito di questo testo biblico è che l’uomo e la donna nel Cantico dei cantici hanno attributi fisici, notano aspetti dell’uno e dell’altra, hanno carat­ teristiche che li rendono desiderabili. In una relazione d’amore fra due persone questo non sorprende. Ma nell’amore fra l’uomo e Dio questo può significare che in queste parole ci siano degli indizi della natura degli atttibuti di Dio stesso e una testimonianza di come essi possano rivelarsi attraenti per noi», .

Parte seconda

Introduzione

Fra il 2001 e il 2013, anno di uscita della Grande bellezza, Sor­ rentino gira cinque film: Duomo in più (2001), Le conseguenze dell’amore (2004), Lìamico di famiglia (2006), Il divo (2008), This must be the place (2011). Mi soffermo in particolare sulle Conseguenze dell’amore e sul Divo nei quali è maggiormente evidente il talento e la forza imma­ ginativa del regista. Nell’Uo/zzo in più (2001)1 sono già presenti i temi centrali, che tornano nell’attività cinematografica successiva. Scrive Sorrentino:

Mi piacciono i film che raccontano le discese anziché le ascese (...) Ho scelto la storia di due universi paralleli (...) Il film si basa sull’idea dell’omonimia, del caso che può decidere una vita (...) adesso dico una cosa che può sembrare una battuta ma non lo è: la mia paura era che potessi fare quel primo film e mai un secondo e allora, dato che avevo la possibilità di raccontare due storie, ne ho approfittato12. Dei due protagonisti uno, Antonio Pisapia, è all’apice della car­ riera calcistica, l’altro, Tony, è un cantante di successo. Entrambi appartengono al mondo dello spettacolo e sono amati dal pubbli­

co. Ci vengono presentate in modo parallelo le tappe della loro vita e del loro improvviso declino. Uno per sua colpa, la denuncia per 1 liuomo in più, presentato alla Mostra di Venezia vince il nastro d’argento per il miglior film esordiente. Ottiene inoltre tre candidature al David di Donatel­

lo. 2

Entretien uvee Paolo Sorrentino, intervista a cura di Lorenzo Codelli, «Po­

si tif», n. 328, febbraio 2005.

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Parte seconda

abuso su una minorenne, l’altro per un incidente sul campo che lo costringe a smettere di giocare, percorrono un’amara discesa che porta il giocatore al suicidio e il cantante in carcere3. Nella fase del declino i due personaggi sono profondamente soli, abbandonati dalla famiglia, dagli amici, dai manager e dai di­ rigenti che potrebbero reinserirli nel giro della loro professione. Antonio è timido, schivo, scoraggiato dalla corruzione del mon­ do calcistico4, impreparato a lottare. Tony, che ha vissuto una vita dissipata, si porta dentro la ferita causata dalla morte del fratello, rimasto ucciso nella lotta con un polpo durante una caccia subac­ quea. Le immagini di questa morte costituiscono il prologo del film5. Tornano nelle visioni del personaggio. In una luce rosata e irreale Tony è in piedi sulla spiaggia. Indossa il vistoso cappotto bianco dei suoi successi. La madre gli passa accanto senza guardarlo per andare a soccorrere l’uomo in tuta subacquea sulla riva. Per Tony questo ricordo è particolarmente doloroso perché è convinto che i genitori non gli vogliano bene e che avrebbero preferito che morisse lui. Glielo dice in faccia la madre furente quando lo trova con la sedicenne. Tony, nonostante lo abbiano av­ vertito, non va al funerale del padre perché non si sente amato dalla famiglia. Il rapporto genitori-figli è un tema che ha un ruolo centrale in tutte le opere di Sorrentino, con l’eccezione del Divo. Nelle Conseguenze dell’amore Titta Di Girolamo, dopo il suo errore generato dall’avidità, è abbandonato dalla moglie e dai figli.

3 Quando si rende conto di aver perso tutto, Tony Pisapia uccide il Presi­ dente della squadra che ha umiliato il suo omonimo, chiudendogli la strada alla carriera di allenatore, alla quale il personaggio teneva con tutte le sue forze. 4 All’inizio del film, quando è ancora un beniamino del pubblico, Antonio si rifiuta di truccare un incontro come un suo compagno gli propone. Sarà proprio questo compagno a ottenere la fiducia dei dirigenti e a fare carriera quando smet­ te di giocare. 5 II tema della morte è presente nel prologo della Grande bellezza, in una delle prime sequenze delle Conseguenze dell’amore, quando il protagonista vede passare un carro funebre, nella catena di morti per omicidio che aprono II divo.

Introduzione

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Il padre lo chiama delinquente. Questo determina la sua apatia, la malinconia, il suo malessere esistenziale. Nell’Amico di famiglia Geremia soffre per essere stato abban­ donato dal padre. Lo cerca senza ricevere risposta quando cade in disgrazia. In This must be the Place il protagonista rinuncia al suo funereo trucco punk e diventa finalmente adulto dopo aver vendicato il padre col quale non parlava da trent’anni, perché, come dice lui stesso, era convinto che non lo amasse. Come abbiamo visto, nella Grande bellezza ]ep sente il vuoto e il rimpianto di non essere stato padre e di non avere una famiglia vicino. Questo determina la crisi che lo porterà alla rinascita. In Youth uno dei temi centrali è il rapporto genitori-figli, fonda­ mentale per Fred Ballinger e per Jimmy Tree.

Un altro motivo che percorre tutti i film del regista è quello della caduta, che determina il declino dei personaggi:

A me interessano (...) gli individui che a un certo punto della loro esistenza subiscono una perdita (...) fotografare il momento in cui questa dispersione prende forma. A volte è il caso a dominare, altre la scelta del singolo. Non sono mai controllabili le ragioni per cui si manda tutto a monte6. Quella descritto in questo brano è, come abbiamo detto, il tema centrale dell’Uomo in più. Nelle Conseguenze dell’amore vive una situazione simile Titta Di Girolamo che, spinto dal desiderio di amore e di calore umano, abbassa la guardia di un’esistenza con­ trollata dalla mafia nell’esilio di un albergo del Ticino nel breve periodo che lo porta alla morte. Nell’Amico di famiglia vive un improvviso crack finanziario il protagonista usuraio, fisicamente brutto e incattivito, illuso dalle lusinghe di una bella ragazza, da lui ritenuta irraggiungibile, che lo inganna e lo porta a correre un rischio che lo rovina. In Th is must he the Place, la notizia di una perdita, la morte del padre, col quale da anni non ha rapporti, spinge il protagonista 6 30-31.

Anton Giulio Mancino, «Cinecritica» n. 56, ottobre-dicembre 2009, pp.

86

Parte seconda

a compiere un viaggio dall’Irlanda, dove vive, agli Stati Uniti e a iniziare una ricerca che lo aiuta a trovare se stesso. Nella Grande Bellezza questa è la condizione di Jep Gambar­ della che, dopo la notizia della morte di Elisa e le rivelazioni del marito, vive una crisi che lo porta a non apprezzare più il successo mondano a cui aveva dedicato la sua esistenza e a iniziare con fati­ ca, dolore e smarrimento un’altra ricerca. Il tratto dominante di tutti questi personaggi è la solitudine. Per alcuni è una condizione imposta. Per altri, come per Jep Gambar­ della o per Tony Pisapia, è il frutto di scelte sbagliate. Nel Divo nasce dall’impossibilità di Andreotti di aprirsi a qual­ cuno e di rivelare i segreti che si tiene dentro.

Capitolo I

Le conseguenze dell’amore

Il secondo film, Le conseguenze dell’amore (2004), conferma il talento di Paolo Sorrentino. Riceve molto premi1. E il titolo italia­ no più rappresentato ai Festival internazionali e più visto all’estero. Dice il regista in un’intervista a Cannes del 2015 subito dopo la presentazione di Youth'. S. Come regista preferisco occuparmi del desiderio. Il cinema non è l’arte giusta per l’orrore. La sua vocazione è il desiderio. C.d.G. Lo dice con malinconia. S. Perché sono malinconico. Ho solo un paio di cose da dire: il sotterraneo sentimento che stare al mondo sia faticoso anche all’a­ pice della bellezza e i rapporti che si stabiliscono nelle relazioni di potere12.

Con queste parole Sorrentino definisce il leitmotiv di tutti i suoi film, a partire dall’Uowo in più fino a Youth. Intorno a questo nucleo ognuna delle sue opere si sviluppa in modo originale con diverse e complesse sfaccettature. Il problema esistenziale del protagonista e le relazioni di pote­ re sono al centro delle Conseguenze dell’amore. Il film del 2004 si distingue per l’inventiva nell’uso del linguaggio cinematografico e per l’attenzione e la cura con cui sono ripresi i tanti dettagli porta­ tori di significato.

1 Le conseguenze dell’amore riceve cinque David di Donatello (per il miglior film, la migliore regia, la migliore sceneggiatura, il migliore attore protagonista, il migliore direttore della fotografia) vari Nastri d’Argento e altri premi.

2

Intervista a Conchita De Gregorio («la Repubblica», maggio 2015).

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Parte seconda

In questo film la fatica di vivere raggiunge un livello altissimo, profondamente sofferto3.

Come tutte le opere di Sorrentino, Le conseguenze dell’amore nasce dal lavoro di scrittura su un personaggio che colpisce l’immaginazione del regista. Grazie alla capacità attoriale di Toni Servillo di immedesimarsi nel personaggio, le espressioni del viso, i gesti, il modo di cammi­ nare, e soprattutto le rare battute importanti, che rivelano squarci del suo mondo interiore, suscitano l’empatia dello spettatore. Ci sono spunti tematici e elementi del linguaggio cinematogra­ fico che ritroveremo nella Grande bellezza e in Youth. Come avviene nella Grande bellezza, a parlare sono soprattutto la voce fuori campo e le visioni oniriche e mentali del protagonista. Con un’unica eccezione, l’incidente di Sofia, lo spettatore conosce solo il punto di vista del protagonista e, man mano che ce li rivela, i fatti di cui lui è a conoscenza. Come Fred Ballinger in Youth, Titta Di Girolamo appare apa­ tico. Anche lui si è ritirato dalla vita e segue una routine precisa. Saranno gli eventi a portare entrambi fuori dai binari. I motivi del loro malinconico distacco sono diversi. Il protagonista di Youth soffre per l’assenza della moglie e per i contrasti con la figlia e non riesce a reagire. Titta sa di avere sba­ gliato. Come racconterà lui stesso, quando era un commercialista aveva un ruolo importante nella Borsa e maneggiava miliardi. In questa fase della sua vita è entrato in contatto con la mafia, per la quale ha amministrato e perduto molti milioni di dollari. Per que­ sto sbaglio è relegato in Svizzera a riciclare denaro sporco4.

3 Vìvono una situazione di profondo malessere esistenziale non solo il pro­ tagonista, ma anche coloro che lo circondano. Carlo e Isabella, che sono stati proprietari dell’albergo, hanno dovuto venderlo a causa dei debiti di gioco del marito. Occupano una camera, dove hanno raccolto gli oggetti più preziosi della moglie e soffrono della loro condizione: lei con rassegnazione, lui con una sorda ribellione. Il male di vivere si vede anche nell’espressione e nel modo di muoversi della cameriera che riordina la stanza del protagonista. 4 Conosciamo questi fatti della sua vita attraverso la confessione che il per­ sonaggio fa a Sofia.

I. Le conseguenze dell’amore

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Nella Grande bellezza, il protagonista circondato solo da rela­ zioni superficiali, è, come abbiamo visto, profondamente solo. A differenza di Jep e Fred, Titta non è un artista. Non ha questa risorsa, che è essenziale per gli altri due personaggi, ma ha una non meno profonda capacità di soffrire. Nelle Conseguenze dell’amore, come nella citazione di Celine che apre il film del 2014, «il viaggio è immaginario» costruito in­ torno a un personaggio solo e infelice, che si è imposto la regola del silenzio, reprimendo il bisogno di contatti umani. Anche questo viaggio «va dalla vita alla morte». Quello che ve­ diamo è l’ultimo periodo della vita del protagonista.

Sorrentino racconta come è nata l’idea del film:

Mi hanno colpito gli uomini d’affari, un po’ gli stessi ovunque (...) Il film nasce dal desiderio di scavare nella vita di una di queste apparizioni temporanee e fugaci che io vedevo al bar degli hotel (...) Inoltre sono molto affascinato da quelli che il sociologo Marc Augé definisce non luoghi, come aeroporti, stazioni, alberghi e dalle persone che vi si muovono dentro5. Come ambientazione il regista ha scelto la Svizzera per «la sua identità fluida», «perché - afferma - tutto accade negli interni e dagli esterni non si vede nulla». In Svizzera trovi banche ad ogni angolo di strada, ma dentro non c’è la gente in coda come da noi: c’è il vuoto, il silenzio totale, una sola persona allo sportello. La difficoltà di mettere a fuoco certi ambienti ha stimolato la mia immaginazione e mi ha spinto a raccontarli6.

Anche se la vicenda si svolge in una cittadina vicino a Lugano, come indicano i cartelli stradali che vediamo nel corso del film, per la location è stato scelto un hotel di Treviso, che è piaciuto all’auto­ re, perché presentava una struttura architettonica particolare: 5

Intervista a Sorrentino in La vita fuori della porta, a cura di Barbara Corsi,

«Vivicinema» n. 3, maggio-giugno 2004. 6

Ibidem.

Parte seconda

90

Non c’è un corridoio centrale su cui si aprono le stanze, ma ci sono ben due corridoi, di cui uno tondo. Lo stesso bar è lontanissimo dalla tradizionale iconografia alberghiera. Il bancone sembra l’al­ tare di una chiesa7.

1. Il prologo

Tutti gli incipit dei film di Paolo Sorrentino sono importanti. Nelle Conseguenze dell’amore lo spettatore si trova di fronte un ambiente spiazzante, un luogo alieno e inospitale. Questo quadro, quasi del tutto immobile, resta sullo schermo per circa due minuti8. Una macchina fissa inquadra un lungo corridoio, illuminato da gelide luci al neon. Le linee del soffitto e delle pareti vanno a con­ vergere in un quadrato nero nel fondo. L’unico colore è un azzurro spento in diverse gradazioni. Le pareti sono carta da zucchero, il pavimento è chiaro, il soffitto ha un’altra tonalità dello stesso co­ lore. Il luogo genera un senso di freddo, di vuoto, di assenza di vita9. La scelta di insistere per un tempo lungo su un’inquadratura dà modo allo spettatore di calarsi nell’immagine e di introiettarla. C’è un nastro trasportatore in funzione. Dopo alcuni secondi si comincia a distinguere un puntino nero che avanza in modo quasi impercettibile. Man mano che si avvicina si rivela essere un fattorino in uniforme, immobile come un manichino. Ha accanto una valigia. Una piccola luce intermittente segnala la fine del tapis roulant. La macchina da presa segue l’uomo che trascina la valigia guardando fisso davanti a sé. Le ruote stridono sul pavimento. Siamo nel caveau di una banca, il luogo dell’unica attività di Titta Di Girolamo.

7 P. Sorrentino, L’hotel come non luogo, intervista a cura di Gianni Canova, «Duellanti», settembre 2004.

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Su questa inquadratura scorrono i titoli di testa.

9 «Il segmento iniziale - scrive Franco Vigni che ha dedicato un’ampia ana­ lisi al film - possiede quella potenza in grado di compendiare un intero mondo» (Franco Vigni, La maschera, il potere, la solitudine. Il cinema di Paolo Sorrentino, Aska edizioni, Firenze, 2014, p. 66).

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L’immagine suggerisce qualcosa di più. Anticipa il freddo e il vuoto dell’esistenza del personaggio, la costrizione di una vita che può andare in un’unica direzione. La piccola luce intermittente segnala che questo percorso ha una fine, come quello del prota­ gonista.

2. La vita in albergo

Con uno stacco è inquadrato il bancone di un bar e dietro di esso una ragazza che agita uno shaker. Sta osservando qualcuno. Dopo un falso raccordo di sguardi, l’oggetto della sua attenzione appare essere il protagonista, ripreso prima di spalle e poi di fron­ te. Se il personaggio è spesso immobile e apparentemente indiffe­ rente, a muoversi è la macchina da presa che lo avvolge coi suoi movimenti. La poltrona accanto alla vetrata è un angolo protetto, dove di solito egli siede con un block-notes su cui prende appun­ ti10. Mentre il volto di Titta resta apparentemente impassibile, parte la voce narrante pacata e impersonale:

La cosa peggiore che può capitare ad un uomo, che trascorre la maggior parte del tempo da solo, è quella di non avere immagina­ zione. La vita, già di per sé noiosa e ripetitiva, diventa, in mancan­ za di fantasia, uno spettacolo mortale.

Queste parole esprimono lo stato d’animo del personaggio e il suo atteggiamento verso l’esistenza. Non sorride mai, non rispon­ de ai saluti. Suscita così la curiosità di chi lo circonda. Racconta concise e palesi frottole a chi gli si avvicina e gli fa domande. E interessato a una sola persona, la barista giovane, socievole, sorridente. Titta non risponde ai saluti di lei, non alza mai gli occhi quando la donna si avvicina, ma la guarda con interesse quando lei si cambia davanti allo specchio di uno sgabuzzino dietro al ban10 Dietro la poltrona la testa del personaggio ha uno sfondo tripartito: l’az­ zurrino dell’esterno, che si vede dalla vetrata, la tenda bianca, una parete con un drappo verde e una lampada a forma di globo. Vedremo questa immagine più volte nel corso del film ripresa da diverse angolazioni.

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cone e la segue con lo sguardo quando esce per incontrarsi con uomini sempre diversi e salire in macchina11. Nelle prime sequenze in questa vita così ripetitiva spiccano tre momenti: il passaggio del carro funebre, la cena, la conversazione durante il gioco a carte. Sorrentino inizia più di una volta i suoi film con il tema della mor­ te. Lo fa in modo diretto neWUomo in più e nella Grande bellezza. Nel film del 2004 lo sguardo di Sofia11 12, china su uno dei tavolini, è attratto da quello che avviene all’esterno. Su una vetrata interna, che funge qui da superficie riflettente, Titta vede passare una gran­ de macchia scura accompagnata prima da un suono attutito e poi da uno scalpiccio. Anche lui si volta a guardare l’esterno. L’oggetto dell’attenzione generale è il passaggio di un carro funebre di foggia stranamente antiquata. E trainato da due cavalli neri e addobbato con fiori e paramenti. Nessuno segue il morto. E un presagio triste e sinistro. Il tema della morte torna nella conversazione durante la cena che Titta consuma allo stesso tavolo degli ex-proprietari dell’alber­ go. La macchina da presa riprende i tre dall’esterno della stanza incorniciati dalle ante scure della porta. Poi si avvicina per inqua­ drare Carlo, l’anziano giocatore spericolato che ha dilapidato il pa­ trimonio suo e della moglie. «Sa che cosa mi fa più paura, dottore? - dice l’uomo - Io non voglio morire di vecchiaia. Io voglio morire in modo rocambole­ sco». Titta abbandona l’espressione indifferente e lo guarda con attenzione. Improvvisamente si alza, gira le spalle e accende una sigaretta. E uno dei suoi gesti abituali. Attenua la sua inquietudi­ ne interiore. Si avvicina alla finestra. Come spesso avviene nelle Conseguenze dell’amore il personaggio è ripreso dall’esterno13 in­

11 Quando finalmente i due protagonisti si parlano, lei spiega che gli uomini sono istruttori di scuola guida che la preparano per la patente.

12 Conosciamo il nome della ragazza che lavora al bar perché il collega la saluta in una delle prime scene dicendo «Ciao Sofia».

13 E ripresa dall’esterno appoggiata al vetro anche la cameriera che mette in ordine la stanza di Titta. In questa inquadratura la donna ha l’espressione infelice di chi conosce il male di vivere e il vuoto dell’esistenza.

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corniciato dalle tende. Quello che vede è solo il buio della notte e il cambiare della luce del semaforo. Si è appartato a pensare. E stato colpito dalla frase di Carlo, che evidentemente lo fa riflettere su una via di uscita per la vita, che è costretto a subire, ridotta all’i­ nerzia e al ruolo di pedina del crimine. Poco più tardi, mentre giocano ad asso pigliatutto, Titta si la­ scia sfuggire qualcosa di se stesso che gli sta a cuore: Titta: (questo gioco) me lo hanno insegnato da ragazzo. Forse per questo mi piace. Isabella: Non si dovrebbe mai rompere il cordone con quando si era ragazzi. Titta: Mai... insomma volevo dire, non si dovrebbe.

La parola «mai» è detta con un inatteso tono acuto, più alto di quanto il protagonista avrebbe voluto, come un grido che gli esce dal cuore. E un piccolo squarcio sul suo mondo interiore, sulla nostalgia per il tempo in cui era ragazzo14, probabilmente l’unico felice della sua esistenza. A conclusione della serata, riprendendo la frase della cena che lo ha colpito, Titta, seguendo il filo dei suoi pensieri, afferma: «Ci vuole coraggio a morire in modo rocambolesco»15. Nella prima notte delle Conseguenze dell’amore la voce narrante parla di uno dei mali che affliggono Titta: l’insonnia. Ne soffre da dieci anni ovvero dal periodo dei suoi sbagli finanziari. Anche que­ sto modo di uscire momentaneamente da una vita pesante e vuota gli è negato. Lo vediamo prono sul letto o fumare seduto. La sua occupa­ zione notturna è ascoltare con lo stetoscopio le conversazioni nella camera degli ex-proprietari. Nelle sue notti insonni Titta scopre qualcosa che a pianterreno non era evidente. Nonostante gli eccessi del marito, che li ha ridot­ ti sul lastrico e ha venduto gli oggetti più belli che appartenevano 14 Questo modo di sentire toma più avanti durante la conversazione col fra­ tellastro, quando parlano di Dino Giuffré. 15 Questa frase anticipa le circostanze della sua fine. Anticipa anche il rocam­ bolesco suicidio di Mick Boyle in Youth.

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a Isabella, lei gli vuole bene. Arriva a dirgli che, se lui morirà, lei lo seguirà subito dopo. Sono parole che certamente colpiscono il protagonista, che ha dovuto abituarsi a una vita senza affetti e all’abbandono della mo­ glie, che dopo il suo errore è del tutto indifferente nei confronti di lui. Con uno stacco si passa alla mattina. Vediamo due momenti della routine di Titta. Il primo è il pagamento mensile del soggior­ no nell’hotel. Ancora una volta il personaggio si trova di fronte alla curiosità, in questo caso a quella del direttore dell’albergo. Pur ga­ rantendogli un’assoluta discrezione, l’uomo gli chiede di rivelargli il suo segreto. Propone un giochetto in cui ognuno dei due raccon­ ti un episodio di cui si vergogna. Titta lo ascolta con l’espressione indecifrabile del giocatore di poker e risponde con la tenera frotto­ la della minestrina sottratta al fratellino piangente. La falsa rivelazione dei propri vergognosi segreti ha un illustre precedente ndXIdiota di Dostoevskij. Nella serata del compleanno di Nastasja Filippovna i partecipanti - individui ricchi, avidi e li­ bertini, che hanno approfittato di lei quando era ancora bambina e la stanno ora svendendo - giocano a svelarsi i loro peggiori se­ greti. I fatti che raccontano sono storielle innocue che feriscono la protagonista per la falsità che questi personaggi rivelano nei suoi confronti. Il gioco di Titta e del direttore è meno drammatico. La sequen­ za mostra tuttavia la continua vigilanza del personaggio, che è co­ stretto a mantenersi sempre sulla difensiva. L’altro momento di routine, che da 24 anni si ripete ogni mer­ coledì alle dieci in punto è l’assunzione di eroina, il primo e non il più importante segreto che la voce narrante rivela allo spettatore. Il racconto ci svela in questo episodio due aspetti del modo di essere di Titta. Il fatto di seguire una scrupolosa routine anche nella trasgressione risale a molto prima del suo fatale errore finan­ ziario. La vita normale con la famiglia e il suo prestigioso lavoro lo hanno portato a desiderare un’evasione dal quotidiano, molto prima della latitanza. La scena dell’assunzione della droga è girata con un brillante linguaggio cinematografico. E inquadrato il braccio disteso di Titta

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col laccio emostatico. Seguendo la direzione del braccio l’obbiettivo si dirige verso la finestra con le sbarre che vediamo prima in effetto flou, come probabilmente la vede il personaggio. Correg­ gendo il fuoco, esso avanza fino a inquadrare la strada in basso. Poi si ritrae e il movimento si inverte ripercorrendo la stanza. Questa volta viene mostrata l’altra parete con la tenda, l’armadio e infine il secondo letto su cui sono sedute tre persone in abito bianco talare, un’allucinazione prodotta dalla mente alterata di Titta. Grazie alla sostanza, il protagonista almeno per un poco lascia fuori il mondo esterno. Ancora sotto l’effetto dell’eroina, il personaggio esce dall’alber­ go e va a camminare nel centro commerciale. La voce narrante racconta con tono pacato del lavaggio del sangue a cui si sottopo­ ne ogni anno. Mentre egli guarda le scale mobili viene introdotto senza cambiamento di tono un inserto apparentemente incongruo: «Da quanto tempo Nitto Lo Riccio è latitante? 25-26 anni». Nitto Lo Riccio è il capo del ramo di Cosa Nostra per il quale il protago­ nista è costretto a lavorare. E il carceriere della vita di Titta, ma è lui stesso fortemente limitato nella sua libertà. Nonostante l’effetto della sostanza, vengono a galla pensieri inquietanti, che ricordano al personaggio la sua condizione. La passeggiata prosegue. Il protagonista è attratto da una don­ na bionda che gli passa accanto su una scala mobile.

Ritornato in albergo, Titta è contrariato perché il suo angolo abituale è occupato da due ragazze. Alla fine di una piccola discus­ sione, egli accetta di sedersi con loro e si trova ad ascoltare il brano di un libro che una delle due donne legge all’amica:

Bell’affare. Il vantaggio di eccitarsi in fin dei conti su delle remi­ niscenze. Puoi possederle le reminiscenze (...) ma la vita è più complicata, quella delle forme umane specialmente. Un’avventura paurosa. Non c’è niente di più disperato (...). Ma torniamo alla nostra Sophie: facevamo come dei progressi in poesia, solo con l’ammirare il suo essere tanto bella, tanto più in­ cosciente di noi. Il ritmo della sua vita scaturiva da altre sorgenti, che non le nostre (...) Quella forza allegra, felice e dolce insieme, che l’animava dai capelli alle caviglie ci veniva a turbare. Ci inquie­ tava in un modo incantevole.

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Mentre ascolta con aria assorta e la testa leggermente reclinata da un lato, Titta non può fare a meno di guardare di sottecchi Sofia «allegra e dolce», il cui ritmo di vita «scaturisce da sorgenti» che non sono le sue. La reazione al desiderio di un contatto con lei è la telefonata che dalla camera egli fa alla famiglia. La moglie è fredda, distan­ te. Le sue parole sono scoraggianti al massimo grado: «Se non mi devi dire niente, perché stiamo al telefono? Ho tante cose da fare». Ritroviamo Titta all’esterno seduto su una panchina. In un’in­ quadratura perfettamente simmetrica la sua testa si trova esatta­ mente nella linea del pilastro d’angolo di un palazzo dove ci sono negozi con le vetrine illuminate. E un’immagine di tristezza e de­ solazione. Il fatto che il personaggio abbia sullo sfondo la linea dell’angolo, fa pensare al suo oscillare mentale fra due possibili­ tà: andare avanti come sempre, dopo un ennesimo accertamento dell’assoluta indifferenza della sua famiglia, o tentare un avvicina­ mento a Sofia da cui si sente attratto. Fin dalla prima sequenza nella sua solitudine nelle lunghe ore in albergo, Titta mostra un solo interesse, la ragazza del bar «allegra, dolce, incosciente» dei mali del mondo, come la donna della pa­ gina che è stata letta. Nel vuoto delle sue giornate c’è tanto spazio per coltivare e dilatare il desiderio di lei. Di Sofia sappiamo che è socievole e aperta. Il suo giro di co­ noscenze appare legato ai clienti dell’albergo e agli istruttori della scuola guida che frequenta. Come tutti è incuriosita dalla quasi patologica riservatezza di Di Girolamo e si intestardisce a cercare un po’ di attenzione da parte di lui. La forma di amore che ci viene presentata nel film è discreta, a lungo inespressa, concepita nella mente più che vissuta.

3. La valigia e la banca La presentazione di vari momenti della routine difensiva del protagonista, rivela i suoi piccoli trasalimenti del cuore, i desideri che affiorano, i ricordi. Dopo 25 minuti di film appare la causa del deserto in cui Titta si trova a vivere.

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Il protagonista apre la porta della sua stanza. L’obbiettivo della macchina da presa sale lentamente. Quando arriva sopra la sua spalla, all’altezza del suo sguardo, inquadra una valigia blu poggia­ ta sul pavimento. L’oggetto è ripreso da più angolazioni. Anche se fa parte della sua routine settimanale, Titta lo guarda con inquietu­ dine e turbamento. La valigia, che contiene milioni di dollari, è la presenza tangibile di ciò che lo lega alla sua prigione. Il personag­ gio la osserva come se gli provocasse ribrezzo. Superata la fase emotiva, velocemente egli estrae dall’armadio la sua divisa da uomo d’affari, rigorosamente in tinta azzurra, e prende con sé una pistola. Lo vediamo percorrere il corridoio, ti­ randosi dietro la valigia. Titta ha due andature: quella lenta e svagata di quando si aggira per i corridoi nei giorni vuoti e quella scattante e efficiente che mantiene per tutta la performance in banca. Scende in ascensore. Ha accanto la cameriera. Lui è riflesso nel­ lo specchio, come avviene di solito quando porta una maschera. Qui ha l’aspetto di un uomo di affari distaccato e sicuro di sé. Le strade che percorre in macchina, l’edificio della banca, i suoi interni, il luogo in cui attende l’ascensore hanno una tinta azzur­ rina. Nella stanza dove sono riuniti il personale e il direttore tutto avviene secondo regole già stabilite. Le banconote sono disposte su un tavolo. Vengono contate a mano. Sentiamo il fruscio dei dollari sfogliati velocemente. Titta siede in un angolo voltando le spalle agli impiegati. Ha di fronte due tende blu che lasciano passare una sottile striscia di luce. Il direttore gli chiede di rispondere a una sua curiosità: «Perché ci tiene tanto che i soldi siano contati a mano e non dalle macchi­ nette contasoldi?». L’interrogato non si volta e dice freddamente: «Non bisogna mai smettere di avere fiducia negli uomini. Il giorno che accadrà sarà un giorno sbagliato». La macchina da presa inquadra Titta nell’estremo angolo de­ stro. Si vedono un orecchio, il collo, una stanghetta degli occhiali, una piccolissima porzione di capelli. C’è una striscia bianca sull’e­ strema sinistra. E la luce che si insinua fra le due tende scurissime. Sullo schermo nero danzano anelli di fumo. Il protagonista non ha fiducia negli uomini, soprattutto in quelli conniventi con la mafia e desiderosi di aumentare così i loro gua-

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dagni. Nell’albergo non è nessuno. Qui è un cliente danaroso. Fa un’operazione che più che fastidio gli provoca disgusto. Si concede il lusso dell’ironia. La posizione scelta e l’inquadratura aumentano il suo distacco rispetto all’ambiente che lo circonda. Quando ha finito di parlare, con un leggero reframe, che fa uscire il personaggio fuoricampo, è inquadrato solo lo spazio nero con le volute di fumo.

Con una dissolvenza incrociata torniamo in albergo. Sono ripre­ si i piedi di Sofia avvolti nel fumo, che era presente nella sequenza precedente e che ora lentamente si dilegua. La donna scende la scala a ralenti con un vassoio in mano. Il ralenti è un procedimento usato poche volte nel film: è legato al turbamento di Titta. Dal suo angolo il protagonista osserva la ragazza che si cambia nello sgabuzzino. Ha la schiena nuda. Titta nella sala del bar ha sempre il block notes sulle ginocchia. Questa è la prima e l’unica volta in cui ci è mostrato quello che scrive con nitidi caratteri stam­ patelli: «Proposito per il futuro. Non sottovalutare le conseguenze dell’amore». Dalla vetrata osserva Sofia che bacia sulla guancia un altro uomo e poi sale in macchina.

4. Le visioni di Titta Di Girolamo

La sequenza si apre con l’immagine della moglie del protagoni­ sta in abito da sposa. E notte. La macchina da presa inquadra la finestra illuminata dalla luce gialla dell’esterno, poi si ritrae per riprendere la tenda e il mobile bar che ha una superficie convessa nella quale il perso­ naggio a letto si riflette leggermente deformato. Titta ha una serie di visioni: il giorno delle nozze, la moglie sorridente con in braccio il primo figlio appena nato. Si affaccia alla sua mente un’altra donna vestita da sposa: ha il volto di una ragazza incontrata sulla scala mobile nel centro commerciale. Se­ guono veloci visioni di impiegate della banca che l’hanno colpito. L’ultima immagine è quella di Sofia a torso nudo nello spogliatoio ripresa di spalle e di fronte.

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Titta si alza. Cammina in vestaglia. Vediamo un primissimo piano dei suoi occhi tristi, estremamente espressivi anche dietro le lenti degli occhiali. Seguono altre due visioni che producono turbamen­ to nello spettatore e nel personaggio. E inquadrata una gru con due braccia sullo sfondo di un crepuscolo rosso, poi una collinetta spoglia e un’altra gru in secondo piano. In primo piano a sinistra si protende il braccio della prima gru. Il luogo è uno sterrato scuro e deserto. Improvvisamente un uccello nero attraversa lo schermo, poi in modo molto veloce ne passa un altro. Alle immagini familiari e a quelle sensuali da cui il personaggio era partito se ne contrappongono altre antitetiche. Sono un ango­ sciante presagio del destino che lo aspetta. Fanno pensare all’ulti­ ma sequenza e più in generale ai luoghi delle esecuzioni maliose.

5. Rincontro con il fratellastro

Un evento insolito e importante per le sue conseguenze è la visita del fratellastro Valerio, che ha fatto un lungo viaggio per sa­ lutarlo prima di partire per le Maldive dove farà l’istruttore di surf. Ha i capelli lunghi e l’aria di un ragazzo che pensa soprattutto a godersi la vita, ma è anche aperto, sorridente, l’unico della famiglia a dimostrare attenzione per quello che è etichettato dai parenti come un latitante e un criminale. I due, seduti in poltrona, sono inquadrati prima dall’esterno dell’albergo, divisi da un infisso nero. Ancora non c’è comunica­ zione. Titta dice «Sto sempre da solo. Non sono più abituato a parlare». Non guarda il suo interlocutore, che pure è l’unico a cui, dopo tanto tempo e tanto silenzio, può dire qualcosa della sua si­ tuazione con sincerità. Il giovane, usando un termine consolatorio, la definisce «sfortuna». Il commento del protagonista è amaro: «La sfortuna non esiste. E un’invenzione dei falliti e - aggiunge dopo una pausa - dei poveri». Parlano del padre che hanno in comune. Il protagonista gli dice che non lo chiama per non sentirsi dire che è un delinquente. E una conferma dell’assenza di contatti appena soddisfacenti con tutti i membri della sua famiglia. Quando Valerio gli dà notizie di un suo vecchio amico, Dino Giuffré, Titta si volta. Ha un’espressione particolare che compa­

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re una sola volta nel film. Quel nome tocca qualcosa di profondo dentro di lui16. Alle domande del fratello risponde che non si vedono da vent’anni. E aggiunge: «Quando si è stati amici una volta, lo si è per tutta la vita». E una affermazione discutibile, che comunque aiuta Titta accendendo in lui una piccola luce. Il fratello gli rac­ conta che ora Giuffré lavora per l’Enel nel Trentino-Alto Adige. Ripara i cavi dei tralicci dell’alta tensione quando i forti temporali e le tormente di neve fanno saltare le linee elettriche. Grazie alle parole del suo giovane interlocutore Titta non solo ricorda l’amico di tanti anni prima ma scopre che, come lui, vive la solitudine e il rischio, anche se i motivi sono molto diversi. L’altro contributo che il fratello gli offre è l’avvicinamento a Sofia. Scherza con lei, quando la ragazza si avvicina al loro tavolo per portare una bibita. Questo dà alla ragazza, già vestita per usci­ re, il coraggio di sferrare un attacco all’oggetto dei suoi sguardi e delle sue attenzioni mai ricambiate. «Insomma, sono due anni che lavoro qui. Ogni giorno la saluto e lei non mi risponde. Per caso si è accorto che io esisto?». Titta è inquadrato riflesso nello specchio, come avviene di solito quando ostenta indifferenza. Si alza e senza dire una parola si allontana. Tuttavia nella notte, mentre aspetta Valerio che è uscito con Sofia, è inquieto e probabilmente geloso. Scende a pianterreno e si sofferma a guardare dalla porta chiusa il bar buio e deserto. L’in­ quadratura succesiva, ripresa dall’interno del bar, ce lo mostra di fronte. Per lui è diventato un luogo importante, che lo lega all’og­ getto della sua attrazione erotica, ma soprattutto al desiderio di ricevere affetto e calore umano. La mattina successiva, dopo aver salutato il fratello con un per lui insolito calore17, Titta rientra e con passo veloce e deciso si di­ rige verso il bar. L’importanza del momento è sottolineata dalle riprese esterne, che seguendo i muri dell’albergo, ci mostrano il personaggio sol­

16 Questo momento è sottolineato da un accordo di violino. 17 «Ti ha fatto piacere che io sia venuto?». «Molto».

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tanto quando passa davanti alla porta-finestra e poi alla vetrata18. Quando si siede al bancone, siamo di nuovo dentro la stanza. Dice alla ragazza: «Forse sedermi a questo bancone è la cosa più peri­ colosa che ho fatto in tutta la mia vita». Anche se non comprende il senso della frase, Sofia lo guarda e sorride. Le ridono gli occhi.

A questo punto il film prende un altro ritmo per il convergere insieme di fatti diversi. Titta, solo nel corridoio che lo porta alla sua camera, per la prima volta sorride. Il sorriso si spegne appena apre la porta, a causa della presenza di due mafiosi che hanno preso possesso della stanza. Inizialmente è molto preoccupato. Teme che siano lì per­ ché ha fatto qualcosa di sbagliato. Conosce i loro metodi spietati. Invece lo relegano in bagno mentre sono impegnati a svolgere un loro lavoro. Il più giovane va a uccidere a sangue freddo il pentito Maruscello e, con due colpi di pistola per essere sicuro del risulta­ to, il figlio paralitico di cui fa rovesciare la sedia a rotelle. Eseguito il loro compito, i due si preparano ad andarsene. Arriva a Titta la solita valigia. Il più vecchio commenta: «E qui che vanno a finire i soldi del nostro lavoro».

6. Il bluff e il rapporto con Sofia

Spinto dal desiderio di tornare a vivere, Titta predispone un bluff in banca. Consegna una valigia da cui mancano 100.000 dol­ lari. All’inizio tutto procede come al solito. Il protagonista è seduto di spalle davanti alla finestra con le tende. Il direttore gli espone titubante il problema dell’ammanco. Il cliente tace e non cambia posizione. La logica di quel luogo è quella del potere: prevale il più forte. Il direttore diventa servile e disposto a tutto per scongiurare l’estinzione del conto. Propone che sia la banca a coprire l’ammanco. La risposta è immediata: «Se avesse ucciso mia madre, non mi sentirei meno offeso».

18 Nel film nei momenti importanti la macchina da presa tende a non stac­ care, riprende le pareti, lascia che i personaggi spariscano dietro ostacoli e poi riappaiono di nuovo.

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La presenza di spirito di un’impiegata, che di soppiatto avvicina quattro mazzette alla valigia e le solleva fingendo che nessuno le abbia viste prima, risolve la situazione. Parte a questo punto la voce narrante:

Perdere ad assopigliatutto con un baro dilettante non significa non saper eseguire alla perfezione un bluff ad alto livello. Per as­ sicurarsi una buona riuscita il bluff deve essere condotto fino in fondo, fino all’esasperazione. Non c’è compromesso. Bisogna es­ sere pronti ad esporsi al peggiore dei rischi possibili: il rischio di apparire ridicolo. Titta conosce le regole e la psicologia dei potenti. Questa lezio­ ne allo spettatore è simile nel tono, nelle inflessioni della voce, nel modo di formularla al discorso che dieci anni più tardi nella Gran­ de bellezza Jep Gambardella fa sul sapersi comportare ai funerali del ceto medio-alto. La situazione naturalmente è diversissima. Titta esce vincito­ re dal confronto col sorridente, servile e corrotto direttore, per il quale è essenziale che il conto non venga estinto. Jep, nonostante la sua saccente lezione, è sconfitto dalla forza dirompente del dolore quando prende sulle spalle insieme agli altri la bara del giovane Andrea. Nella scena successiva è inquadrata la stanza del centro dove Titta va a farsi il lavaggio del sangue. In banca si è mostrato fer­ mo, deciso e consapevole dei giochi di potere. Coricato sul lettino appare fragile e vulnerabile. Non deve recitare nessun ruolo. Si sta preparando per la sua nuova vita. Dopo l’intermezzo del lavaggio del sangue inizia una sequenza che si apre col dettaglio del piede di Sofia che in un negozio prova una scarpa elegante. Titta rimane in silenzio, guardando intensa­ mente la donna che ha tanto desiderato. Dopo l’acquisto-regalo la coppia esce in una grande piazza az­ zurrina col selciato umido di pioggia. La ragazza precede il suo compagno e si volta per guardarlo in faccia e sorridergli. Lui è probabilmente contento dentro, ma è tanto disabituato al calore umano degli altri che resta serio, pensoso. Lascia che lei lo prenda

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a braccetto. Sono inquadrati i due vicini, ripresi di spalle, mentre camminano nella piazza deserta. E il momento più sereno che vi­ vono insieme. La riconquistata energia vitale spinge Titta a smascherare il baro, che imbroglia nel gioco assopigliatutto. Poco dopo porta So­ fia nel garage per mostrarle la fuoriserie che ha comprato per lei con i 100.000 dollari presi dalla valigia. Abituato a un mondo dove domina l’uso del denaro, le offre un oggetto costoso e per lei irrag­ giungibile. Non trova altri modi per dimostrare quello che sente. Come più tardi Jep, «ha dimenticato cosa significa voler bene» e soprattutto come dimostrarlo. Sofia dice che non può accettare il regalo perché significhereb­ be alterare i loro rapporti. Titta risponde: «Io voglio alterare com­ pletamente i nostri rapporti». Rivela così i suoi sentimenti. La scena è dolorosa per entrambi. Sofia è stupita, offesa, teme di volere essere comprata. L’espressione di Titta è smarrita. Mor­ mora: «Cosa devo dire? Cosa si dice in questi casi?. Io sono solo un commercialista». Lascia le chiavi sul cofano e si allontana. La sequenza termina con un primissimo piano di Sofia nell’an­ golo sinistro mentre il resto del quadro è completante nero. Gli occhi sono seri. La ragazza riflette, cerca di capire. Appare triste. Sente di essere stata troppo dura.

E inquadrato nuovamente il centro commerciale. Titta guarda da lontano la vita di Sofia senza farne parte. Vede la ragazza che prende a braccetto un uomo «frivolo, che porta il papillon» di cui la voce narrante aveva parlato all’inizio del film. Sembra di essere tornati al punto di partenza. E un piccolo evento che destabilizza e fa soffrire il protagonista, convinto che il suo sia un amore non ricambiato. Titta fa un secondo sgarro alla routine. Si droga per alleviare la delusione e il dolore. Quando chiude la porta della sua camera è inquadrata a lungo una delle applique a due braccia del corridoio, la più vicina alla sua stanza. Una lampadina, evidentemente bru­ ciata, è spenta. L’obbiettivo stringe sull’altra: trasmette un senso di fredda solitudine. La scena dell’assunzione dell’eroina è lunga e complessa. Titta prende dal suo armadio un completo elegante, che indossa come se

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si preparasse per un appuntamento. Poi si siede sul letto. Mentre assume la sostanza, si lascia andare all’indietro, con la testa pen­ zolante che sporge dal bordo del letto. Vediamo il suo volto capo­ volto, così come il suo mondo, la sua speranza di una vita diversa. I colpi allo porta lo costringono ad alzarsi. Entra Sofia che gli dice quasi subito di sentirsi colpevole. Lui ribatte: «Lei si è sentita necessaria. Ma io non ho bisogno di nessuno». La menzogna è pa­ lese. Con tono sommesso inizia una confessione che a partire dalla droga racconta la sua posizione di prestigio, gli errori, l’abbandono della sua famiglia, la totale solitudine alla vigilia del suo cinquan­ tesimo compleanno. L’uomo inizia a parlare in piedi, poi si siede sul letto voltando le spalle alla ragazza. Lei appare sfocata sullo sfondo. Rivolto verso il muro, è come se Titta parlasse a se stesso. E tuttavia anche consapevole che per la prima volta condivide con un’altra persona tutto quello che ha dentro. Lei si avvicina, si siede accanto al letto, lo accarezza maternamente e gli propone una gita in montagna per il giorno dopo19.

7. Il rapporto coi mafiosi La confessione accolta con un gesto affettuoso e l’invito di Sofia che può portare un po’ di gioia al compleanno di Titta, non hanno alcun seguito a causa dell’intrecciarsi di circostanze negative. Arriva un’altra valigia. Mentre Titta si prepara per andare in banca, gli viene puntata una pistola alla tempia da uno dei due mafiosi, che già una volta avevano visitato la sua stanza. Vogliono il denaro, la chiave e il codice della sua macchina. Il protagonista dà tutte le informazioni. Il suo volto riflesso nello specchio esprime sorpresa e paura. Prima di uscire il mafioso gli dice: «Quando ce ne andremo, chiama Pippo D’Antò e se ci riesci prova a convincerlo che non sei stato tu». Il personaggio esegue l’ordine e, per salvare le poche ore con Sofia, dice al telefono che partirà due giorni dopo per spiegare quello che è accaduto. Per attendere la ragazza, Titta non sceglie la solita poltrona ma un grande divano nel salone, da cui può controllare l’orologio. E 19 Qui l’atteggiamento di Sofia anticipa quello di Ramona nella Grande bel­

lezza.

I. Le conseguenze dell’amore

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infagottato nell cappotto e in una spessa sciarpa di lana. Aspetta circa un’ora, immobile, diritto, rigido, sicuramente dolorante a li­ vello interiore20. Per l’unica volta nel film vediamo quello che il protagonista non saprà mai. Sofia corre in macchina per andare da lui, ma ha un incidente molto grave. Prima di partire Titta va a pagare la camera al direttore dell’al­ bergo. Mormora fra i denti: «Non sono mai stato amato da nessu­ no io». Ritornato in camera, poggia sul comodino il suo taccuino, dove si legge «Progetti per il futuro». Sotto la pagina è bianca. Telefona nuovamente a Pippo d’Antò per avvisarlo che partirà quella sera. Si sente bussare alla porta. Guardingo Titta la apre. Si trova di fronte Isabella, che è venuta a restituirgli i soldi delle perdite a asso pigliatutto. Gli dice che per farlo ha dovuto vendere un quadro a cui era molto legata. Titta la ascolta con uno sguardo rassegnato e carico di dolore legato alla situazione che lui sta vivendo. Ha di fronte una donna che ama profondamente il marito nonostante tutti i suoi errori. Quello che fa Isabella, che vende un ricordo della madre per aiutare il marito, anticipa un momento importante di Youth, quello in cui Fred parlando a Melany, che non è più in grado di capirlo, ricorda quando «lei ha venduto i gioielli di sua madre per consen­ tirgli di terminare il suo secondo lavoro, quando tutti lo rifiutavano e dicevano che era un musicista goffo e presuntuoso». Titta sente disperatamente la mancanza di un affetto così profondo. Mentre si dirige in macchina verso l’aeroporto, incrocia, senza rendersene conto, l’autoambulanza che trasporta Sofia. L’incontro con Pippo D’Antò è ripreso a ralenti. Per Titta è un momento angoscioso: è preparato ma ha fisicamente paura di quello che può accadergli. Lo portano in macchina in un alber­ go per attendere il capo. Segue un lunghissimo piano-sequenza in cui sono inquadrati i mafiosi che precedono il protagonista. E una soggettiva di Titta. Passano attraverso un’ampia hall, camminano lungo un interminabile corridoio fino al salone delle conferenze. 20 Mentre aspetta vede passare Carlo e Isabella. Lui ha in mano arrotolato il ritratto della baronessa, il ricordo più caro della madre della moglie.

Parte seconda

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Campeggia la scritta di un Convegno di medicina «Ipertrofia della prostata. X corso di aggiornamento». Coloro che siedono al tavolo hanno scopi ben diversi. Il capo è seduto nell’estremo angolo sinistro dell’inquadratura. E di spalle e il suo volto non viene mai mostrato. Titta inizia a parlare. Mentre racconta tutto quello che è accaduto guarda verso terra. Lo spet­ tatore apprende un particolare che non conosceva. Ha recuperato la valigia. Nitto Lo Riccio si placa e definisce l’evento un semplice contrattempo. Titta sceglie qui coscientemente il suo destino. Guarda il capo negli occhi: «Voi vi siete rubati la mia vita e io mi rubo la valigia vostra». La risposta è: «Se non c’è valigia non c’é vita». Lo Riccio si alza e se ne va diretto a un buon ristorante che lo aspetta.

8. La morte di Titta Di Girolamo Inizia il viaggio notturno in macchina di Titta e dei mafiosi. Due di loro canticchiano la canzone di Ornella Vanoni Rossetto e ciocco­ lata trasmessa dall’autoradio.

Ci vuole passione, / molta pazienza / sciroppo di lampone / e un filo di incoscienza. / Ci vuole farina / del proprio sacco / sensualità latina / e un minimo distacco. Si fa così / Si cuoce a fuoco lento, / mescolando con sentimento.

La situazione appare grottesca. Accanto a Titta giace Pippo d’Antò freddato da un colpo di pistola21. Stanno portando l’altro passeggero ad un’esecuzione. Cantano un motivetto leggero e fan­ no battute. Questa è la loro vita quotidiana. L’uccidere fa parte della routine.

Dal buio del viaggio notturno si passa a una sequenza rischia­ rata da un cielo luminoso e azzurro. Siamo nello spazio aperto e desolato di una cava deserta. Il corpo di Titta, agganciato a una 21 L’autonomia, a cui si riferisce il mafioso, quando spiega a Titta le ragioni dell’omicidio, è l’accordo stipulato fra Pippo e i due malavitosi che hanno tentato di rubare la valigia. Paga lo sgarro con la vita.

I. Le conseguenze dell’amore

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gru, penzola su un rettangolo di calcestruzzo. Non rivelando dove è la valigia, fa un atto di coraggiosa ribellione. Si riprende la vita nel momento in cui accetta di morire in un modo rocambolesco ma anche atroce. Mentre la gru lentamente lo fa scendere, il protagonista vive nella sua mente alcuni flashback22. Il più importante è quello che ci informa del luogo in cui i soldi sono finiti. Carlo e Isabella li contemplano stupiti. Potranno essere spesi per recuperare gli oggetti e il tenore di vita che hanno per­ duto o anche giocati tutti al casinò. Titta vuole dare una seconda possibilità a quelle due persone il cui amore ha resistito a tutto. Avere accanto una donna come Isabella è qualcosa che Titta non ha mai provato nella sua esistenza. Le ultime due immagini sono quelle più care. La prima è il volto serio di Sofia che, come ha fatto tante volte in passato, si tira su lo zip del giaccone prima di uscire. L’ultima è la più importante. Appare quando la testa di Titta è già sotto il calcestruzzo. Attraverso una delicata dissolvenza incrociata la polvere della cava mossa dal vento si trasforma in un bianchissimo mucchio di neve. E inquadrato un paesaggio alpino azzurrino, con al centro un palo della luce. A metà di un pilone è seduto un uomo intento a riparare le linee. Parte per l’ultima volta la voce narrante:

Una cosa sola è certa. Io lo so. Ogni tanto in cima a un palo della luce, in mezzo a una tempesta di neve, contro un vento gelido e ta­ gliente, Dino Giuffré si ferma, la malinconia lo aggredisce e allora si mette a pensare. E pensa che io, Titta Di Girolamo, sono il suo migliore amico.

22 In un flashback interrotto e ripreso Titta ricorda le ultime ore in albergo, informando così lo spettatore di come la valigia è stata recuperata. Il protagonista ha tolto la corrente dell’ascensore per rallentare i due mafiosi. È corso in garage e

si è nascosto nell’auto. Al loro arrivo li ha uccisi con la pistola, usata per la prima volta nella sua vita. Li ha nascosti nella macchina, che ha ricoperto col telo, e se ne è andato con la valigia.

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Parte seconda

È l’ultima immagine mentale di Titta. Il ricordo dell’amico di giovinezza e le parole del fratellastro suggeriscono al personaggio una analogia fra due solitudini, che lo unisce ancora di più alla persona a cui morendo si aggrappa il suo pensiero. Le ultime immagini del film riprendono attraverso i tralicci la montagna all’inizio bianca, poi scura, infine nera nell’inquadratura a chiudere. Il film profondamente originale per la storia e l’abilità nell’uso del linguaggio cinematografico fa vivere allo spettatore una vicenda che lo coinvolge e lo fa riflettere. Come tutti, anche se a un livello molto più alto e doloroso, il protagonista è vittima non innocente degli stritolanti rapporti di potere esercitati non solo dai mafiosi, ma anche dal direttore della banca e del suoi staff e da tutti colo­ ro che in qualche modo esercitano un’autorità pesante sugli altri. Titta ci accompagna e ci interroga sulla nostra vita, che in misura maggiore o minore conosce le sofferenze che il personaggio vive.

Capitolo II

Il divo La spettacolare vita di Giulio Andreotti (2008)

1. Introduzione Nell’attività cinematografica di Sorrentino che precede La gran­ de bellezza, Il Divo è la sua opera più importante e creativa per la complessità dell’argomento affrontato e insieme per la forza imma­ ginativa e visionaria del regista. I fatti di cronaca si alternano a voci e a racconti che prendono vita attraverso i memoriali e le testimonianze, a immagini che sono suggerite da metafore o da associazioni mentali. Il film è dedicato al tema del potere colto attraverso la carriera politica di Giulio Andreotti, che ha consacrato ad esso tutto se stesso1. Il Divo è ambientato in un passato lontano più di vent’anni. Tuttavia il potere politico, finanziario, economico, indifferente al male che causa agli altri, è qualcosa con cui tutte le generazioni in forme diverse sono costrette a fare i conti. Lo vediamo nel presente non solo a livello macroscopico nelle vicende narrate dai giornali o mostrate dalla televisione, ma anche spesso nei rapporti quotidiani di lavoro dovunque c’è qualcuno che esercita pesantemente il suo potere sugli altri. Il modo in cui l’argomento è trattato nel film oscilla fra il ve­ rosimile - i fatti di cronaca - e il visionario, il grottesco, il tragico. In un altro ambito, quello del successo mondano, nella Grande bellezza Jep Gambardella per quaranta anni cerca, raggiunge e consolida il suo potere, sprecando le sue doti creative e soffocando la sua sensibilità e le esigenze più 1

profonde.

Parte seconda

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Questi toni espressivi - dice il regista - nascono dalla formidabile personalità di Andreotti che fornisce una miriade di spunti. E un personaggio molto sfaccettato, è reale ma allo stesso tempo grotte­ sco. E amabile e gentile, ma anche freddo e cinico2. Il divo inizia il giorno dell’insediamento del settimo e ultimo governo Andreotti (13 aprile 1991) e termina col maxiprocesso concluso con l’assoluzione del leader democristiano ma anche con il suo declino politico. Seguire le vicende di Andreotti ci riporta ad un periodo ancora inquietante e oscuro della nostra storia attraverso le tappe di una personale ascesa al potere che si blocca e si conclude in un grigio anonimato. Questo breve periodo è preparato dagli anni degli omicidi com­ piuti fra il 1978 e il 1993. Ci è mostrato l’Andreotti pubblico nei momenti istituzionali e quello privato: i rapporti con la moglie, le confessioni in chiesa, le voci che affollano la sua mente. Come racconta il regista, il progetto sul politico più misterioso, ambiguo, pieno di segreti dell’Italia repubblicana risale indietro nel tempo3. Si concretizza nel 2007.

Dopo L’amico di famiglia che non è andato come speravo, ero un po’ demotivato (...) Fa parte del mio carattere. Quando prendo una batosta, alzo il tiro. E mi sono reso conto che il tiro l’avevo al­ zato perché questo film nessuno lo voleva (...) Molti si affannano a dire che non bisogna gettare la croce addosso ad Andreotti, ma in privato c’è una fortissima paura che egli sia veramente responsabi­ le di alcuni misfatti e che possa veramente alzare il telefono e dire «Toglietemi quello di torno». Questo lo percepivo quando andavo a chiedere le partecipazioni finanziarie al film4. 2 11 cinema, il divertimento, l’ossesione, a cura di Piero Spila e Bruno Torri, http://www.cinecriticaweb.it/panoramiche/paolo-sorrentino-il-cinema-il-divertimento-1 ’ossessione-in tervis ta>.

3 «E un’idea che ho sempre avuto, è talmente antica che non so rintracciare l’origine della suggestione iniziale» Cfr. Vigni, Op. cit., p. 128. 4

Ibidem, p. 128

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La scelta degli ultimi anni della vita politica del «divo» è con­ geniale al regista:

A me interessano (...) gli individui che a un certo punto della loro esistenza subiscono una perdita (...) fotografare il momento in cui questa dispersione prende forma. A volte è il caso a dominare, altre la scelta del singolo. Non sono mai controllabili le ragioni per cui si manda tutto a monte5. Rispetto ai protagonisti dell'Uomo in più, delle Conseguenze dell’amore, dell’Amico di famiglia, che vivono una grave crisi nella loro vita, Andreotti è il solo che appare sempre uguale a se stesso in ogni circostanza, imbalsamato in un’unica espressione facciale che non rivela alcun sentimento. Il tratto dominante dei personaggi di Sorrentino è la solitudine. Per alcuni è una condizione imposta. Per altri, come per Jep Gam­ bardella o Tony Pisapia, è il frutto di scelte sbagliate. Per Andreotti nasce dall’impossibilità di aprirsi a qualcuno e di rivelare i segreti che si tiene dentro. «Per il mio ruolo, per la mia storia - dice a una visitatrice - avrò conosciuto nella mia vita approssimativamente trecentomila persone. Lei crede che questa folla oceanica mi abbia fatto sentire meno solo?»6.

2. L’incipit

Nei film del regista l’incipit è sempre significativo: è l’overture in cui sono presentati i temi centrali dell’opera. Il divo inizia con un glossario scritto in lettere bianche su fondo nero7. Ha certamente il compito di aiutare lo spettatore a ricordare

5

Anton Giulio Mancino, «Cinecritica», n. 56, ottobre-dicembre 2009, pp.

30-31.

6 Le battute del dialogo sono tratte dal DVD Paolo Sorrentino, Il divo, Lucky Red, Indigo Film, 2008.

Così inizia anche La grande bellezza con la citazione di Céline riportata a blocchi per dare allo spettatore il tempo per leggerla e assimilarla. 7

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fatti di cronaca del recente passato, ma è anche qualcosa di più. Alle brevi e secche definizioni si uniscono parole e frasi inquietanti. BR Organizzazione terroristica marxista-leninista fondata nel 1970. Nel 1978 i brigatisti sequestrarono il Presidente della Demo­ crazia cristiana Aldo Moro (...) Hanno sempre sostenuto di avere agito in autonomia, ma le indagini per individuare la prigione di Moro possono essere state pregiudicate dalla Loggia P2. De Partito di ispirazione cristiana fondato da Alcide De Gasperi nel 1942. Ha governato l’italia fino ai primi anni novanta quando fu sciolto in seguito alle inchieste sulla corruzione e il finanziamen­ to dei partiti (Tangentopoli). P2 Loggia massonica in chiave anticomunista (fra gli affiliati è no­ minato anche Silvio Berlusconi) Moro Aldo Statista, cinque volte capo del governo. Durante la pri­ gionia Moro scrisse centinaia di lettere per sollecitare la sua libera­ zione. Giulio Andreotti e Francesco Cossiga non vollero trattare. In quei 55 giorni scrisse anche un memoriale contenente giudizi durissimi su molti compagni di partito. Soprattutto su Giulio An­ dreotti.

Lo spettatore legge e ricorda i fatti, accompagnati da indica­ zioni che quasi sempre in qualche modo rimandano ad Andreotti.

La prima sequenza si apre su uno sfondo quasi completamen­ te nero. Appare al centro un barlume di luce verso il quale la macchina da presa si dirige. Emerge la sagoma del protagonista, intento a scrivere rannicchiato su se stesso e avvolto nel buio che

tanto ama. Parte la voce fuori campo pacata e nasale del personaggio, che ci accompagna nel corso del film. Mentre ascoltiamo il monologo, Andreotti solleva il capo trapunto di aghi per il mal di testa, l’unico macroscopico sintomo di un pesante malessere interiore. Appare simile a un uomo con una corona di spine, che in questo caso lui stesso si è procurato nella lotta per il potere, oggetto del suo im­ menso amore. Come avviene in molti dei film del regista è presente nell’incipit un riferimento alla morte, in questo caso non a quella del protago­ nista, ma alla fine di coloro che gli stanno intorno.

II. Il divo. La spettacolare vita di Giulio Andreotti (2008)

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Lei ha sei mesi di vita mi disse l’ufficiale medico alla visita di leva. Anni dopo lo cercai, volevo fargli sapere che ero sopravvissuto, ma era morto lui. E andata sempre così. Mi pronosticavano la fine. Io sopravvivevo. Sono morti loro. In compenso per tutta la vita ho combattuto con atroci mal di testa (...) A suo tempo l’Optalidon accese molte speranze. Ne spedii un flacone pure a un giornalista, Mino Pecorelli. Anche lui è morto8.

Con il grottesco e cinico riferimento ad un’altra morte, per la quale il protagonista è stato processato come mandante, il mono­ logo si conclude. Andreotti spegne la lampada riportando lo spet­ tatore nel buio più fitto. E il film del regista più livido e scuro. La fotografia di Luca Bigazzi privilegia le scene notturne, le tinte spente, le zone d’ombra amate dal personaggio. L’Andreotti di Sorrentino vive nel buio di cui tenacemente si circonda, spegnendo le luci del suo apparta­ mento.

Certe atmosfere espressioniste - dice il regista - le ho viste quando sono andato a trovarlo nel suo studio. Erano le dieci di mattina, c’era un sole che spaccava le pietre, ma noi eravamo immersi nel buio quasi completo, perché lui aveva chiuso tutte le tapparelle9.

3. Il giorno dell’insediamento del settimo governo Andreotti Dopo il titolo a caratteri rossi su sfondo nero si susseguono sul­ lo schermo le immagini di omicidi di personaggi di spicco com­ piuti fra il 1978 e il 1993. Il primo, a cui è dedicato più spazio a causa dei legami diretti con le vicende di Andreotti, è l’assassinio del giornalista Mino Pecorelli (marzo 1979). Segue una serie di fermi-immagine: la testa rovesciata di Roberto Calvi sullo sfondo 8 L’aneddoto su Pecorelli è raccontato da Alexander Stille in Nella Terra degli infedeli. Mafia e politica, Garzanti, Milano, 2007, p. 451. Il libro, pubblicato nel 1995, ha avuto numerose riedizioni in Italia. Ricostruisce le testimonianze dei pentiti, il contesto del periodo e il ruolo di Giulio Andreotti.

9

II cinema, il divertimento, l’ossessione, cit.

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Parte seconda

dell’acqua del Tamigi (giugno 1982), il cadavere di Sindona in car­ cere in una luce azzurrina (marzo 1986), il volto di Dalla Chiesa riverso in macchina crivellato di colpi (settembre ’82), il corpo di­ steso a terra di Ambrosoli di cui sono inquadrate le gambe e i piedi (luglio 1979). Infine, procedendo a ritroso, assistiamo all’uccisione di Moro nel bagagliaio di un’auto. Sentiamo gli spari. La macchina da presa si sofferma sui fori nella coperta azzurra. E il 9 maggio 1978. La musica che accompagna queste immagini è Toop Toop, un brano di musica clash dei Cassius1011 . La serie termina con una strage, quella di Capaci, che torna due volte nel film. Questo evento ha avuto, come vedremo, un ruolo importante nella vicenda politica del leader democristiano. E inquadrata l’apertura circolare di un cilindro di cemento ri­ preso da una prospettiva quadrangolare e deformante. Una mano introduce nella cavità cilindrica uno skateboard a cui è fissato l’e­ splosivo. Dall’alto viene ripresa una terra brulla e arida. La car­ cassa di un auto precipita in ralenti provocando un’esplosione. In questo attentato, compiuto il 23 maggio 1992, insieme a Falcone e alla moglie sono morte le persone della scorta11. I fermo-immagini dei cadaveri di faccendieri, banchieri corrot­ ti, ma anche di uomini che hanno lottato e dato la vita per il bene del paese, si imprimono nella mente dello spettatore. E rievocato un periodo di morti di cui non si sono trovati i mandanti, legate alle vicende politiche italiane. Nel corso del film - nella voce di Moro, nella ricostruzione di Eugenio Scalfari, nei racconti dei pentiti, in altre testimonianze esse trovano una possibile spiegazione, che lascia tuttavia margini di dubbio.

10 II rumoroso brano del duo francese, in paradossale contrasto con le imma­ gini, combina musica clash, note ripetute di chitarra, vocali distorte da un mega­ fono.

11 Quattro barili di tritolo erano stati posizionati con speciali skateboard in un cunicolo di drenaggio sotto l’autostrada. Il mafioso Brusca attivò il teleco­ mando che causò l’esplosione. La prima macchina, quella della scorta fu scagliata lontano. L’auto di Falcone si schiantò contro il muro di cemento e detriti creati dallo scoppio.

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Sorrentino apparentemente non si schiera. Lo fa attraverso il montaggio delle immagini e una brillante regia. La voce di Aldo Moro che, come abbiamo detto, percorre come leitmotiv il film, è un modo di esprimere un punto di vista al quale probabilmente il regista si sente vicino. Si concede inoltre uno spazio - quello del teatrino del Divo - in cui Andreotti dice quello che, secondo, il regista è il suo punto di vista segreto e il suo credo12. La vita del «divo» è grigia per il modo in cui apparentemente l’ha condotta, ma è spettacolare e rocambolesca per il ruolo che ha giocato nella storia di quegli anni.

Da queste immagini violente si passa con uno stacco aH’interno dell’appartamento vecchio stile del politico democristiano. E l’alba che precede l’insediamento del suo settimo governo. Sono inqua­ drati prima di fronte e poi dall’alto due bicchieri in cui si scioglie l’aspirina effervescente. Il protagonista beve le due dosi una dopo l’altra. Spegne le poche pallide luci e nel buio pedala sulla ciclette. L’unico piccolo spazio luminoso è il diploma di Laurea ad onorem rilasciato dall’Università di Camerino, che è appeso al muro13. Poco più tardi il neo Presidente del Consiglio cammina con le spalle rigide e contratte in una Roma notturna e deserta, accompa­ gnato dagli uomini armati della scorta. La Pavane di Gabriel Fauré dà il tono alla sequenza. Si adatta ai movimenti lenti di chi percorre la strada a piedi e delle automo­ bili che accompagnano il leader. E una melodia classica, elegante, aristocratica, adatta a questa giornata14. La musica segue Andreotti fin dentro la chiesa buia e barocca verso la quale egli si dirige per ricevere una benedizione politica più che religiosa.

12 Cfr. pp. 126-127.

13 Questo dettaglio sarà ripreso dal protagonista nell’ultima parte del film. Andreotti dice nel colloquio privato con Cossiga che lui, che viene dalla povertà e dalla provincia, tiene molto ai riconoscimenti culturali, che ora - siamo nella fase immediatamente precedente ai processi - teme di perdere. 14 La Pavane nasce come danza di corte con andamento lento e dignitoso.

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Parte seconda

In una visione finalmente luminosa e diurna vediamo arrivare i notabili della corrente. Spiccano fra gli altri il gaudente e superatti­ vo Paolo Cirino Pomicino, scortato da due belle donne sue addette stampa, e Vittorio Sbardella che avanza con una andatura spaval­ da e sfrontata in una ripresa dal basso a ralenti. Scendono inoltre dalle macchine scure il molto chiacchierato Ciarrapico, Evange­ listi, braccio destro di Andreotti, il cardinale Fiorenzo Angelini, rappresentante del potere ecclesiastico e l’inquieto e preoccupato Salvo Lima, esponente mafioso desideroso di un colloquio con il suo leader. Mentre al Quirinale Andreotti incontra Cossiga e gli parla all’orecchio, è inserita per pochi istanti un’immagine molto scura. AH’interno di una camionetta con le sbarre si intravede la sagoma di un mafioso in piedi. E la prima volta che questa inquadratura appare nel film. Sarà uno dei suoi leitmotiv. E un ostacolo in ag­ guato che diventa potente nell’ultima parte della vita politica del leader democristiano. Vengono fatte le fotografie di rito di tutti i rappresentanti del nuovo governo. La voce off del Presidente ricorda i soprannomi spesso offensivi che gli sono stai dati e aggiunge: Non ho mai sporto querela per un semplice motivo. Possiedo il senso deH’umorismo. Un’altra cosa possiedo, un grande archivio, visto che non ho molta fantasia. Ogni volta che parlo di questo archivio, chi deve tacere come d’incanto inizia a tacere.

In modo pacato e sommesso viene ricordata un’arma di potere che permette ad Andreotti di tenere sotto scacco, grazie ai loro pe­ ricolosi segreti, gli uomini molto chiacchierati da cui è circondato. L’insediamento del nuovo governo si festeggia nella villa di Ciri­ no Pomicino. La macchina da presa che percorre le diverse stanze inquadra gli ambienti ricchi, i corpi che si dimenano nelle danze. Nella Grande bellezza vedremo serate ben più fastose e movi­ mentate, ma lo spirito è già quello. Andreotti siede immobile su un divano. Ha accanto ai due lati la moglie Livia e il suo braccio destro Franco Evangelisti. Una fila di persone attende il suo turno per parlare con l’uomo più impor­ tante e potente della serata, che se ne va presto, perché lo attende il primo viaggio da Presidente del suo settimo Governo.

II. Il divo. La spettacolare vita di Giulio Andreotti (2008)

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A Mosca, dopo un flash brevissimo sull’incontro al Cremlino, Andreotti è inquadrato in un letto enorme sovrastato da un dipinto gigante di Marx. Inizia a risuonare per la prima volta la voce fuori campo di Aldo Moro, che tormenta le notti e le ore buie del suo compagno di partito.

Che cosa ricordare di lei, onorevole Andreotti? Non è mia in­ tenzione ricordare la sua grigia carriera. Non è questa una colpa. Che cosa ricordare di lei? Un regista freddo, impenetrabile, senza dubbi, senza palpiti, senza un momento di pietà umana. Che cosa ricordare di lei?

Le parole dello statista prigioniero sul carattere del suo antago­ nista si legano alle immagini del freddo inverno russo. Nella notte la neve cade e ricopre tutto di bianco. Andreotti appare avvolto nel cappotto col volto privo di espressione che emerge dal colbacco. Se il ricordo dello statista scomparso lo turba, la sua faccia non rivela niente.

4. La corsa all’ippodromo e l’omicidio di Lima

Una delle scene più riuscite della prima parte del film è la corsa notturna di cavalli alla quale il Presidente del Consiglio assiste con la moglie15. Sono inquadrate le zampe degli animali che corrono veloci, poi i fantini proiettati in avanti. Queste immagini ne richia­ mano altre nella mente del regista. Siamo trasportati in una giorna­ ta luminosa e assolata, in contrasto coi toni scuri dell’ippodromo. E inquadrato il volto di un sicario che, nella stessa posizione dei fantini, corre in motocicletta coi lunghi capelli al vento16. Mentre il Presidente del Consiglio incita i cavalli («vai, vai, dai»), vediamo in montaggio alternato un’altra corsa, quella in motocicletta per uccidere Salvo Lima. 15 Andreotti è stato un assiduo frequentatore degli ippodromi (cfr. Alexan­ der Stille, Andreotti, Mondadori, Milano, 1995). 16 Lo vediamo per la prima volta come immagine-tipo del sicario nella corsa in motocicletta per uccidere Mino Pecorelli.

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Andreotti riceve la notizia dell’omicidio avvenuto a Palermo dal Ministro Scotti, mentre telefona alla cagionevole cugina Tere­ sa, della quale si sofferma a parlare. Scotti è colpito dall’assoluta indifferenza del Presidente di fronte alla morte violenta di un personaggio di spicco della sua corrente. Andreotti va al funera­ le, ma non dice una parola di cordoglio per il suo compagno di cordata. E inquadrato dall’alto il vescovo di Palermo, che chiede chia­ rezza sui mandanti dell’assassinio e grida più volte: «Guarda, Signore, fissa lo sguardo, perché sto diventando spregevole agli occhi di Dio». La voce del prelato, che fa da raccordo sonoro, accompagna il ritorno in macchina del Presidente. Il suo volto non rivela niente. Tuttavia nella consueta passeggiata che precede l’alba, si ferma per un momento e alza la testa verso il cielo tenendo le mani sui fianchi. Questo gesto ambiguo è la sua unica reazione. In chiesa si confessa, reticente e guardingo anche in questo mo­ mento. Il prete gli dice che «da troppi anni si sospettava che Lima fosse legato alla mafia, che era chiacchierato come altri esponenti della sua corrente». Il Presidente afferma di «lottare coi soldati che ha» e aggiunge con una battuta cinica: «Gli alberi per crescere hanno bisogno di concime»17. Il sacerdote gli chiede se soffre per Lima. A questa domanda Andreotti non risponde in modo diretto, ma dice almeno una parte della verità su ciò che si tiene dentro: «Soffro per Moro. Tutto mi è sempre passato addosso, ma ora no. Non riesco a togliermelo dalla testa, come una seconda emicrania ancora più lancinante». Il volto del protagonista è in ombra. E in luce solo la mano con cui si regge la testa. La conversazione scivola su argomenti più graditi al penitente: «Se Dio vuole, la prossima volta andrò un po’ più su». E il prete compiacente: «La Presidenza della Repubblica sarebbe il corona­ mento di una grande carriera».

Il film ci mostra subito dopo un’attività ricordata nel segreto del confessionale che si materializza in immagini.

17 Queste battute sono riportate nel libro di Alexander Stille, Andreotti, cit., p. 23 e 29.

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I sabati del Presidente sono dedicati agli elettori meno abbien­ ti18. In una stanza sono riunite persone di ceto sociale modesto. Una madre allatta il suo bambino. Un contadino porta come dono un coniglio. Il Presidente distribuisce pacchetti di caffè, biscotti, giocattoli, piccole somme di denaro per arrivare alla fine del mese. In questa sequenza appare come un uomo buono e premuroso. E un’altra delle sue tante sfaccettature. Lascia comunque il sospetto che la sua partecipazione cortese alle difficoltà dei postulanti sia dovuta più alla necessità politica che alla generosità del suo animo.

5. La corsa per il Quirinale

Si susseguono le note vicende di questi anni. Andreotti è nomi­ nato senatore a vita. Pomicino si preoccupa per le 330.000 prefe­ renze. Sbardella si propone come coordinatore della corrente, ma, poiché gli altri non sono d’accordo, passa ai dorotei portandosi via un alto numero di preferenze. Diventa così un primo non indiffe­ rente elemento di disturbo. E inquadrata per la seconda volta la sagoma scura del mafioso ammanettato seduto sul sedile nella camionetta della polizia.

La cena per chiedere a Andreotti la sua candidatura alla Presi­ denza della Repubblica inizia con una ripresa in campo lungo. La tavola candida circondata dal buio della notte e la testa di Evan­ gelisti che si avvicina obliquamente a quella del suo capo, come se la stesse poggiando sulla spalla di lui, richiamano i dipinti che raffigurano un’altra cena ben diversa da questa. La macchina da presa carrella in avanti, gira intorno alla tavola, riprende le figure di spalle avvolti dall’ombra. Andreotti, circondato dai suoi fedeli, siede al centro. Davanti ha il bicchiere con l’aspirina effervescente. Le sue parole - «so di essere di media statura, ma non vedo giganti intorno a me» - danno inizio alla campagna elettorale sotterranea. 18 Anche di questa attività parla Alexander Stille, Andreotti, cit. p. 18. «An­ dreotti non si limitava a ricevere i ricchi e i potenti: la sua sala di attesa era sempre affollata di vedove, orfani (...) Il sabato pomeriggio riceveva i poveri e - in una tipica commistione di carità cristiana e astuzia politica - distribuiva formaggi, pasta e salami che conservava in un armadietto del suo ufficio».

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Mentre il gruppo brinda allegramente, il leader è al centro col vol­ to serio come mummificato. Aumenta di volume con un effetto grottesco e caricaturale la canzone di sottofondo cantata dai Ricchi e i Poveri: «La prima cosa bella che ho avuto dalla vita è il tuo sor­ riso giovane, sei tu...». E inserita di nuovo in questo momento di auguri l’immagine del mafioso nella camionetta della polizia. Il più attivo e infaticabile nella raccolta dei voti è Cirino Po­ micino. Prima di iniziarla si concede una corsa nel lucidissimo e vuoto corridoio di Montecitorio che si conclude con una profetica scivolata. Nell’inquadratura successiva, mentre passa nello stesso corridoio dando colpi sulla spalla e cercando di ingraziarsi gli elet­ tori, si ferma come tutti gli altri ad osservare con inquietudine e sgomento qualcosa che non si aspettava. Il regista materializza l’evento che inquieta gli elettori nell’im­ magine di uno skateboard che si muove sul pavimento lucido a grande velocità verso la porta finestra. La corsa si conclude con un’esplosione. E il 23 maggio 1992, il giorno della strage di Capa­ ci. Vediamo per la seconda volta la macchina che cade dall’alto in ralenti. Il 25 maggio viene eletto presidente Oscar Luigi Scalfaro. In una situazione di emergenza nazionale nella lotta alla mafia, le frequentazioni di Andreotti, che ha avuto Lima come compagno di cordata e altre possibili connivenze19, gli fanno perdere quella che era per lui l’elezione più importante e desiderata della sua vita. Dopo la sconfitta il protagonista si rifugia nel buio del suo ap­ partamento. La voce fuori campo commenta: «Se ci fosse stata l’e­ lezione diretta del Presidente della Repubblica ce l’avrei fatta». Dal televisore acceso Andreotti immobile ascolta il discorso di Rosaria Schifani al funerale del marito, l’agente morto nella strage di Capaci. La donna parla con profonda e toccante emozione:

Io vi perdono. Però voi dovete mettervi in ginocchio. Loro non vogliono cambiare. Loro non cambiano. Cambiate i vostri progetti mortali. Tornate ad essere cristiani. Vi perdono nel nome del Si-

19 È processato a Palermo per associazione mafiosa.

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gnore, che ha detto sulla croce: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno».

La scena si chiude con una dissolvenza in nero sul volto impe­ netrabile del «divo». Da questo momento una serie di testimonianze e ipotesi perico­ lose si riversano sul leader democristiano. Fanno seguito i suicidi di Tangentopoli, presentati in una serie di brevi flash. Comincia una nuova pesante stagione.

6. Le diverse ipotesi e testimonianze

Andreotti è intervistato da Scalfari nel suo appartamento. La sequenza inizia con la fotografia in primo piano del leader demo­ cristiano insieme a Madre Teresa in forte contrasto con quello che sarà l’argomento del discorso fra i due uomini. Con un leggero reframe la macchina da presa si sposta dal mo­ bile su cui è appoggiata la fotografia all’angolo dove siedono Scal­ fari e Andreotti. Seguendo un suo filo logico, il giornalista mette insieme fatti che abbiamo già visto di sfuggita o per esteso nel film.

Corruzione, concussione, stanno cadendo tutti i suoi colleghi. Craxi sospetta che lei sia il grande manovratore di Tangentopoli. Questo scandalo di immense proporzioni non la riguarda. Deside­ ro parlare di un articolo che vorrei scrivere su un tema, oserei dire, filosofico: il caso. Alla risposta di Andreotti - «Io non ci credo al caso. Io credo alla volontà di Dio» -, il giornalista ribatte:

Dovrebbe invece, dovrebbe credere al caso. Dunque, Presidente, è un caso che i familiari di alcune persone assassinate la odino? La odia il figlio di Dalla Chiesa. Dice che c’è la sua mano nell’as­ sassinio di suo padre. La odia la moglie di Moro che la ritiene responsabile della morte del marito. La odia la moglie di Calvi (...) E un caso che il banchiere Michele Sindona sia stata assassi-

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nato? Costretto in carcere avrebbe potuto dare fastidio con le sue rivelazioni. E un caso che tutti dicono che lei abbia ripetutamente protetto Sindona? E un caso quello che dice il magistrato Viola che, se lei non avesse protetto Sindona, non sarebbe mai maturato il delitto Ambrosoli? (...) Tralascio i sospetti che aleggiano sui suoi rapporti con la mafia. Insomma, come ha detto Montanelli, delle due l’una: o lei è il più grande e scaltro criminale di questo paese e l’ha sempre fatta franca oppure è il più grande perseguitato della storia italiana. Andreotti ricorda all’intervistatore un altro «caso» in cui lui da Presidente del Consiglio ha impedito a Berlusconi, sgradito a Scal­ fari, di impossessarsi della «Repubblica». Le ultime repliche dell’intervista segnano un punto a favore dell’intervistato. Scalfari: Guardi che le cose non stanno esattamente così: la situa­ zione era un po’ più complessa. Andreotti: Ma questo non vale solo per la sua storia. Vale anche per la mia.

La ri costruzione del giornalista offre un ritratto tutt’altro che rassicurante del «divo». Elenca quello che i familiari delle vitti­ me dicono di lui. Soprattutto mette insieme fatti che suggeriscono il disegno oscuro di un grande manovratore, che non si ferma di fronte a nessun ostacolo. Immediatamente dopo l’intervista assistiamo all’arresto di Totò Riina. Per Andreotti è un periodo nero, in cui i giochi di potere, che tante volte aveva condotto con successo, sembrano aver smesso di funzionare. La sua carriera subisce una battuta di arresto. Sorrentino materializza questa tappa della vita del «divo» in una sequenza, che ha le caratteristiche di un incubo. E inquadrato uno scorcio di strada della Roma notturna. Piove a dirotto. C’è una macchina ferma. Si sente il rumore dei tergicristalli. Gli uomini della scorta, che tengono la giacca sulla testa per ripararsi da un violentissimo acquazzone, si muovono a ralenti. Sembra che fac­ ciano un’immensa fatica ad arrivare all’automobile. Tentano più

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volte senza risultato di aprire la portiera bloccata. Sotto i loro colpi la macchina comincia a oscillare. Attraverso il finestrino blu rigato di pioggia si intravede il volto impassibile del senatore prigioniero. Su questa immagine si inserisce la voce off del pentito Mannoia («Tenetevi forti alle sedia perché tutto si tiene, tutto si tocca, tutto si collega»).

Nel Palazzo della Procura di Palermo coi suoi stucchi dorati e i suoi ricchi tendaggi, sullo sfondo di una carta da parati con disegni azzurro spento si succedono le testimonianze dei pentiti: France­ sco Mannoia, Tommaso Buscetta, Balduccio Di Maggio. Raccon­ tano la loro versione dei fatti che prende vita a tratti di fronte agli occhi degli spettatori. Riina e Pippo Calò si servivano di Gelli per i loro investimenti e poi parte di questo denaro veniva investito nella Banca del Vati­ cano. Gelli era il banchiere di questo gruppo. Sindona era stato il banchiere dei precedenti capomafia (...) Sulla liberazione di Moro Calò disse a Bontate: «Non hai capito? Gli uomini del suo partito non lo vogliono libero». Nel 1983 Badalamenti mi disse che c’erano segreti sul sequestro Moro, segreti che infastidivano l’onorevole Andreotti. Di questi segreti erano a conoscenza due persone: Dalla Chiesa e Pecorelli. Badalamenti mi disse che l’o­ micidio di Pecorelli l’avevamo fatto noi (...) per fare un favore a Andreotti (...) mi disse che Lima era in contatto con Andreotti per le cose che riguardavano Cosa Nostra (...) Badalamenti com­ mentò l’omicidio di Dalla Chiesa: «L’hanno mandato a Palermo per sbarazzarsi di lui. Non aveva fatto ancora niente in Sicilia che giustificasse tutto questo odio. Pecorelli e Dalla Chiesa sono cose che si intrecciano fra loro»20.

20 Gli interrogatori dei pentiti, sostanzialmente simili e a volte identici a quelli che ascoltiamo nel film, che è molto ben documentato, sono stati ricostruiti da Alexander Stille sulla base della Domanda di autorizzazione a procedere nei confronti del senatore Giulio Andreotti. XI Legislatura, doc. IV n. 102,27 marzo 1993, presentata dalla procura di Palermo. L’autore americano si appoggia anche su Quindici anni di mafia di Saverio Lodato (Feltrinelli, Milano, 1990).

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Questi racconti forniscono una spiegazione possibile di fatti ri­ masti sempre oscuri, anche se il tipo di testimonianza e la natura stessa di questi testimoni, lasciano dubbi sulla credibilità di queste ricostruzioni. Mentre i pentiti parlano, rivediamo l’omicidio Pecorelli, quello di Calvi e per la prima volta Badalamenti in prigione negli Stati Uniti con le labbra cucite nel silenzio. Sono narrati e a volte ma­ terializzati in immagini gli incontri del politico democristiano con Badalamenti e Stefano Bontate, che lo minaccia di togliergli i voti non solo della Sicilia ma di tutto il sud, se l’onorevole non farà quello che vogliono loro. Attraverso le parole di un ‘pentito’ e la sua visione soggettiva, si materializza sullo schermo la partita di caccia a cui Andreotti avrebbe partecipato in Sicilia insieme ai capi mafiosi. In una luce azzurrina, come se il sole fosse già tramontato, il leader democri­ stiano cammina guardingo in un bosco. E solo. Appare maldestro nel modo di maneggiare le armi. Gli si inceppa il fucile e ha un trasalimento quando sente uno sparo del tutto naturale in questa circostanza. La breve sequenza suggerisce che «il divo» non ha di­ mestichezza con le armi. I suoi metodi sono sicuramente altri. Il più immaginoso è Balduccio di Maggio, autista di Riina. L’uomo21 racconta un fatto che, come gli dicono gli inquirenti, ha dell’incredibile: un incontro in Sicilia fra Andreotti e Riina. La sequenza si apre con l’inquadratura di una stanza immersa in una luce di un bianco accecante in una casa candida dal pavi­ mento alle pareti al colore dei divani. Il boss esce dal buio di un ascensore e attraversa la stanza per raggiungere l’onorevole ospite seduto. L’unico rumore è quello di un ventilatore acceso. Il politico ha dietro di lui un quadro a fondo nero su cui spicca il disegno sti­ lizzato di una faccia inespressiva. Andreotti si alza. I due in piedi, uno di fronte all’altro, si scrutano. L’atmosfera è quella dei film western quando i due avversari si affrontano. Riina è ripreso dal basso. La macchina da presa percorre tutto il suo corpo. Le braccia e le mani sono nella posizione di chi sembra pronto a impugnare un arma. Il volto con gli occhi rotondi - la maschera del potere - è inespressivo come il disegno e la faccia del suo antagonista. I due si 21 Nel racconto fatto da lui stesso vediamo Di Maggio osservare la scena da fuori attraverso una vetrata.

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avvicinano e si baciano con il rituale che sancisce l’alleanza malio­ sa. Il sottofondo musicale di Beth Orton, sciogliendo la tensione, tramuta la scena in un balletto assurdo e irreale22.

Il «divo», definito anche «la volpe», è troppo furbo e attento ai passi falsi per correre il rischio di andare a caccia con Riina o incontrarlo in un luogo che di candido ha solo i mobili e le pareti23. Siamo in un racconto di fantasia, ma la connivenza del senatore con la mafia è oggetto di un grandissimo numero di dettagli rac­ contati dai testimoni. I giudici di Palermo mandano al leader de­ mocristiano un avviso di garanzia per associazione maliosa. Andreotti dice alla moglie che questa volta daranno l’autoriz­ zazione a procedere. Mentre dà questa notizia, il protagonista ap­ pare riflesso in uno specchio antico opaco. La donna è nell’angolo sinistro. Quando parla lei, l’immagine, non più riflessa, è di nuovo a fuoco. Risponde: «Non si passa la vita accanto a un uomo senza sapere chi è. Ci difenderemo». Assistiamo a questo punto all’unico momento di intimità e di affetto del film. La coppia siede davanti al televisore. Livia, che ha in mano il telecomando, cambia per due volte i programmi, perché quei canali contengono attacchi al marito24. Si ferma su uno spettacolo di Renato Zero. Il cantante è incappucciato e vestito di nero ma le parole della canzone sono adatte al momento25. Livia 22 Cfr. F. Vigni, Op. cit., p. 146. 23 Commenta Stille, Op. cit., p. 448: «Era difficile figurarsi un uomo della proverbiale, glaciale riservatezza di Andreotti che scambiava baci con Totò Riina,

la «belva». Le accuse contro Andreotti non possono tuttavia essere automaticamente respinte. Anche la più incredibile - che cioè Andreotti abbia commissio­ nato l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli - non è poi così poco plausibile come può apparire a prima vista. In ogni caso l’affare Pecorelli offre un quadro estremamente inquietante della dilagante illegalità che allignava all’interno della corrente andreottiana». 24 Nel primo si parla delle dichiarazioni dei pentiti, nel secondo Beppe Gril­ lo dice che, se Andreotti morisse, sarebbe possibile togliergli dalla gobba la scato­ la nera che contiene i segreti della storia italiana.

25 «... io come un gentiluomo / e tu come una sposa / mentre fuori dalla fine­ stra si alza in volo soltanto la polvere, / c’è aria di tempesta. / Sarà che noi due -

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si volta verso il marito, gli prende la mano e la stringe. Lui ricam­ bia la stretta e la guarda con affetto. Restano mano nella mano ad ascoltare una canzone legata veramente ai «migliori anni della loro vita».

7. La scena della confessione Nella sequenza successiva inizia la scena della confessione di un uomo che non ha mai parlato sinceramente a nessuno. Sorrentino ha girato la sequenza in chiave teatrale. E inquadrato un andito buio dell’appartamento. Si accendono i riflettori. Andreotti è in piedi di spalle, con ai lati due tende scure a delimitare le quinte. Davanti a lui la tenda bianca della finestra è come un sipario. Si gira verso la macchina da presa, si siede, guarda verso l’obbiettivo. Il corpo è immobile, come ingessato. Il perso­ naggio è solo sul palcoscenico. La luce, che cade dall’alto, illumina la testa e le spalle del prota­ gonista formando un cono. L’immagine è rigorosamente calibrata e bilanciata simmetricamente»26. Dopo la scena di affetto, il discorso prende avvio da un collo­ quio mentale con la moglie, ma il tono cambia presto e il personag­ gio per la prima volta si accalora, alza la voce. Livia, sono gli occhi tuoi pieni che mi hanno folgorato un pome­ riggio nel cimitero del Verano. Io scelsi quel luogo singolare per chiederti in sposa. Ti ricordi?. Sì, lo so, ti ricordi. I tuoi occhi puliti e incantati non sapevano, non sanno e non sapranno, non hanno idea delle malefatte che il potere deve commettere per assicurare il benessere e lo sviluppo del paese. Per troppi anni il potere sono stato io. La mostruosa, inconfessabile contraddizione - perpetuare siamo di un altro lontanissimo pianeta (...) Tutti vogliono tutto per poi accorgersi che è niente, / noi non faremo come l’altra gente / questi sono e resteranno per sempre / i migliori anni della nostra vita. / Stringimi forte che nessuna notte è infinita, / i migliori anni della nostra vita». 26 II personaggio è incorniciato da due termosifoni, due quadri, due stame identiche (Cfr. P. De Sancis, Il Divo. La complessità dell’enigma, in Divi e contro­ divi, pp. 87-88).

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il male per garantire il bene -, la contraddizione che fa di me un uomo cinico e indecifrabile anche per te. I tuoi occhi non sanno le responsabilità dirette e indirette per tutte le stragi avvenute dal 1976 al 1984 e che furono per la precisione di 236 morti e 817 feri­ ti. A tutti i familiari delle vittime, io dico sì, confesso è stato anche per mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa. Questo dico, an­ che se non serve. La strategia di destabilizzare il paese per isolare le frange estreme e rafforzare i partiti di centro e la DC, è stata una strategia della sopravvivenza. Roberto, Michele, Giorgio, Carlo Alberto, Mino, il caro Aldo, per vocazione o per necessità ma tutti irriducibili amanti della verità, tutte bombe pronte ad esplodere che sono state disinnescate col silenzio finale. Tutti a pensare che la verità sia una cosa giusta. Invece è la fine del mondo (...) Abbia­ mo un mandato, noi, un mandato divino. Bisogna amare così tanto Dio da capire quanto è necessario il male per avere il bene. Questo Dio lo sa e lo so anch’io.

Mentre Andreotti parla, è inquadrato per due volte un cimite­ ro. La prima volta è il luogo della sua dichiarazione alla moglie. La seconda è quando ricorda i morti. Vediamo solo file di lapidi in un luogo freddo e deserto. Le sue parole rivelano che le ragioni delle sue oscure manovre non nascono da un programma politico, che appare vaghissimo, ma da un immenso amore per il potere, colti­ vato per tutta la vita senza preoccuparsi dei mezzi e giustificato in un delirio di onnipotenza come mandato di Dio.

E inquadrato di nuovo dall’alto il tondo di un bicchiere dove si scioglie l’aspirina effervescente. Il protagonista beve, poi si aggira nel buio del suo appartamento27. Risuona la voce fuori campo di Aldo Moro:

Si può essere grigi ma onesti, buoni, pieni di fervore. Onorevole Andreotti è questo che le manca (....) il fervore umano ovvero l’insieme di bontà, di saggezza, di flessibilità, di limpidezza dei po­ chi democratici cristiani che ci sono al mondo. Lei passerà senza lasciare traccia. 27 Le immagini sono accompagnate dal brano classico di Sibelius (La figlia di

Pobjla, op. 49).

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Un’altra perdita di questo periodo è quella della segretaria Vin­ cenza Enea che viene licenziata - le dice Evangelisti - perché il senatore ha troppe spese per pagare gli avvocati per i processi. Nel Divo vediamo due sole persone capaci di un affetto disinteressato nei confronti di Andreotti: la moglie e la segretaria, che piange nell’autobus che la riporta a casa. La preoccupazione del protagonista aumenta. Andreotti, dopo aver bevuto un bicchiere d’acqua con una aspirina, si guarda la mano percorsa da formiche nere, corpi estranei che stanno cam­ minando su di lui e che non dovrebbero esserci. Nervosamente percorre la casa e i corridoi del suo archivio per tutta la notte fino a sentirsi male. Mentre in bagno si lava le mani, lo specchio riflette la sua immagine ma anche sullo sfondo quella di Moro nel covo delle Brigate Rosse di cui ancora una volta si sente la voce : «Il mio sangue ricadrà su di voi». La moglie lo raggiunge mentre sta pregando inginocchiato. Lui le tende la mano. Lei gli chiede se riesce a dormire. Gli parla anche del fatto che gli amici della corrente sono spariti. Il marito le dice di pregare per loro, perché «anche loro sono stati distrutti». Lei chiede: «Da chi?». Lui risponde: «Dalla vita e dalle accuse di tangenti». In alcuni brevi flash vediamo Cirino Pomicino e Sbardella fatti salire scortati nelle macchine della polizia e Evangelisti, colto da un ictus, che ansima in ospedale. Nell’udienza per decidere sull’autorizzazione a procedere An­ dreotti nega tutto. Afferma che Lima non gli ha mai parlato dei rapporti con la mafia e che affidarsi ai pentiti porta discredito al Paese. Sono interrogati altri testimoni. Alla domanda degli inquirenti, nel suo letto di moribondo il braccio destro del ‘Presidente’ fa una dichiarazione pericolosa per il suo capo:

Una notte verso le due venne da me il generale Dalla Chiesa. Aveva un manoscritto di Moro di circa cinquanta pagine. Mi disse che il giorno dopo lo avrebbe consegnato a Andreotti. In una conferenza stampa il senatore dice che quell’episodio Franco Evangelisti se lo è sognato e lancia l’idea che sia in atto un complotto nei suoi confronti.

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Un’altra immagine di forte impatto emotivo, che segna una nuova tappa come quella dell’automobile che imprigiona il pas­ seggero, è lo scaricamento di un furgone di carne macellata. Alle prime luci dell’alba, dopo che ha perso gli incarichi governativi e il prestigio politico e sono in corso gli arresti di Tangentopoli, il senatore, circondato dalla scorta, osserva un uomo con un camice bianco scaricare un quarto di bue sulle spalle del garzone e poi sedersi sul bordo del veicolo ormai quasi vuoto. I suoi occhi tristi incontrano quelli del politico. E impossibile non associare questa sequenza alla tanta came umana mandata al macello per oscure ragioni a partire dalle prime scene del Divo.

8. Il processo Inizia il processo di Palermo. E ripreso il viaggio in macchina di Andreotti fino all’aeroporto. La sequenza attraverso il montaggio alternato è intercalata dai giudizi su di lui di giornalisti, di politici, del capo dei servizi segreti, del suo avvocato. Giunto in Sicilia, solo nella sua camera Andreotti prega in gi­ nocchio. Poi chiama la moglie per rassicurarla di aver dormito. Il film si conclude col giorno di apertura del processo. Il se­ natore siede accanto ai suoi avvocati. E inquadrata a lungo la sua faccia impenetrabile, che chiude il film, mentre dal colore si passa al bianco e nero. Il protagonista appare come estraniato dall’ambiente che lo cir­ conda. Probabilmente è in ascolto della voce di Aldo Moro, che gli risuona dentro e che lo spettatore sente per l’ultima volta.

Andreotti è restato indifferente, livido, assente, chiuso nel suo cupo sogno di gloria. Doveva mandare avanti il suo disegno rea­ zionario (...) Che significava di fronte a questo il dolore insanabile di una vecchia sposa, lo sfascio di una famiglia? Che significava tutto questo per Andreotti, una volta conquistato il potere per fare il male come sempre ha fatto il male nella sua vita? Tutto questo non significava niente.

La scena si chiude con una dissolvenza in nero.

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Fanno seguito su sfondo rosso le sentenze. Il senatore è assolto in entrambi i processi, ma le dichiarazioni della corte non lo libera­ no completamente dai sospetti28. Come nelle tragedie classiche, il personaggio dominato dal­ la sete di potere ha qualche tratto umano: esprime affetto per la moglie, vive momenti di rimorso. Come Macbeth vede l’ombra di Banquo, il senatore ascolta la voce e vede l’immagine di Aldo Moro. Con un linguaggio visionario e immaginoso Sorrentino gira uno dei suoi film più importanti e riusciti. Il divo affronta un periodo oscuro e inquietante della storia re­ cente, in cui ha un ruolo di primo piano un personaggio «sperico­ lato» nel promuovere la sua immagine e il suo potere. Il mondo in cui oggi viviamo è l’erede di questi tempi.

28 II 23 ottobre Andreotti è assolto nel Processo di Palermo perché il fatto non sussiste. La Corte d’Appello il 2 maggio 2003 conferma la sentenza, ma ag­ giunge: «Non si deve procedere in ordine al reato di associazione a delinquere commesso fino al 1980, in quanto caduto in prescrizione». La Cassazione confer­ ma la sentenza. Nel Processo Pecorelli il 30 ottobre 1999 il Pubblico Ministero chiede l’ergastolo per gli accusati Andreotti e Badalamenti. Il 24 settembre 1999 gli imputati sono assolti. H 16 novembre 2002 la Corte d’Appello condanna a 24 anni Andreotti e Badalamenti. Il 30 ottobre la Corte di Cassazione annulla la sentenza e assolve tutti gli imputati.

Filmografia

Lungometraggi L’UOMO IN PIÙ (2001) (Italia) - regia: Paolo Sorrentino; soggetto e sceneggiatura: Paolo Sorrentino; fotografia: Pasquale Mari; montaggio: Giogiò Franchini; scenografia: Lino Fiorito; costumi: Silvia Nebiolo; mu­ sica: Pasquale Catalano; suono: Daghi Rondanini; interpreti: Toni Servillo (Tony), Andrea Renzi (Antonio Pisapia), Nello Mascia (il Molosso), Ninni Bruschetta (Genny), Angela Goodwin (la madre di Tony), Enrica Rosso (Elena), Clotilde Sabatino (Vanna), Roberto De Francesco (Gigi Moscati), Italo Celoro (l’allenatore), Beniamino Femiano (il presiden­ te), Marzio Honorato (Tagliaferri), Peppe Lanzetta (Salvatore), Stefania Barca (Monica), Rosaria De Cicco (Maria), Monica Nappo (Veronica), Maurizio Cocorullo (Filippo Reale), Andrea Marrocco (Piva), Antonio Marfella (Sossio Novelli), Maurizio Corvino (Palumbo), Ciro Petriccione (1° motociclista), Vincenzo Pirozzi (2° motociclista), Agostino Chiummariello (Titta), Lello Pascarella (Lassista), Marco Sorrentino (chitarri­ sta), Ludovica Zoina (ragazza discoteca), Ginestra Paladino (infermiera), Antonio Conte (commissario), Adriana Del Duca (ragazza di Genny), Rosina Misasi (segretaria), Tony Laudario (cameriere), Luigi Sabatini (oste), Gennaro Piccirillo (costruttore), Federico Torre (uomo scosso), Marcello D’Elia (ospite tv), Francesca Calabrese (ospite tv), Patrizia Imperato (Lucilla), Claudia Di Salvo (ragazza che balla), Peppe Barile (camorrista), Alfonso Postiglione (chirurgo), Silvia Franco (infermiera), Pierluigi Tortora (autista), Vincenzo Merolla (commissario), Augusto Lala (detenuto), Maurizio Ricci (detenuto), Lino Fiorito (detenuto); pro­ duzione: Nicola Giuliano, Francesca Cima, Kermit Smith, Angelo Curti per Indigo Film/Keyfilms; distribuzione: Keyfilms; prima proiezione: 31 agosto 2001 (Mostra del cinema di Venezia); durata: 100’.

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Filmografia

LE CONSEGUENZE DELL’AMORE (2004) (Italia) - regia-. Paolo Sor­ rentino; soggetto e sceneggiatura-. Paolo Sorrentino; fotografia-. Luca Bigazzi; montaggio-. Giogiò Franchini; scenografia-. Lino Fiorito; costumi-. Ortensia De Francesco; musica-. Pasquale Catalano; suono-. Daghi Ronda­ timi, Emanuele Cecere; interpreti-. Toni Servillo (Titta Di Girolamo), Olivia Magnani (Sofia), Adriano Giannini (Valerio), Raffaele Pisu (Carlo), Angela Goodwin (Isabella), Diego Ribon (il direttore), Giselda Volodi (una cameriera), Giovanni Vettorazzo (signor Letizia), Ana Valeria Dini (la lettrice), Gianna Paola Scaffidi (Giulia), Antonio Ballerio (il direttore di banca), Gilberto Idonea, Gaetano Bruno (i sicari), Enzo Vitagliano (Pippo D’Antò), Nino D’Agata (un mafioso), Vittorio Di Prima (Nitto Lo Riccio), Pietro Manigrasso (fattorino), Rolando Ravello (uomo con papillon), Mauro Pescio (barista), Carlo Beltrami (portiere), Marian Stan (portiere di notte), Arturo Fuselli, Dino Angelino (figli di Titta), Roberta Serretiello (Liliana), Sara Celeghin (ragazza che ascolta), Manuela Lamanna (donna della valigia), Antonio Spadaro (fattorino), Roberta Fos­ sile, Marco Sorrentino, Sergio Valery, Ilaria Andolfi (contabili), Angelo Montella (Martusciello), Michelangelo Dalisi (ragazzo in carrozzella), Giampiero Giudicepietro (basista), Jessica Zambeli (infermiera), Gior­ gio Scarpato (mafioso), Maurizio Ricci (mafioso), Gigi Cappabianca (no­ taio), Giovanni Morosso (Dino Giuffrè); produzione-, Nicola Giuliano, Francesca Cima, Domenico Procacci, Angelo Curti per Indigo Film/ Fandango/Medusa; distribuzione-. Medusa; prima proiezione-. 13 maggio 2004 (Festival di Cannes); durata-. 100’.

L’AMICO DI FAMIGLIA (2006) (Italia) - regia-. Paolo Sorrentino; sogget­ to e sceneggiatura-. Paolo Sorrentino; fotografia-. Luca Bigazzi; montaggio-. Giogiò Franchini; scenografia-. Lino Fiorito; costumi-. Ortensia De Fran­ cesco; musica-. Teho Teardo; suono-. Daghi Rondanini, Emanuele Cecere; interpreti-. Giacomo Rizzo (Geremia), Fabrizio Bentivoglio (Gino), Laura Chiatti (Rosalba), Gigi Angelillo (Saverio), Clara Bin di (madre di Ge­ remia), Nicola Grittani e Francesco Grittani (i gemelli Contessa), Mar­ co Giallini (Attanasio), Lorenzo Gioielli (Montanaro), Atina Nedelea (Belana), Roberta Fiorentini (madre di Rosalba), Geremia Longobardo (Giacomo), Fabio Grossi (il cognato di Saverio), Barbara Valmorin (la nonna del Bingo), Lorenzo Sorrentino (suo nipote), Giorgio Colangeli (Massa), Barbara Scoppa (Tiziana Senatore), Elias Schilton (Tesauro), Luisa De Santis (Silvia), Paola Sebastiani (Amanda), Lucia Ragni (la cas­ siera), Emilio De Marchi (chef), Valentina Lodovini (donna debitrice), Simone Gualtieri (marito donna), Liliana Bemacciano (suora), Antonel­

Filmografia

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la Salvucci (presentatrice), Daniela Terrieri (cantante country), Giorgia Cardosi (moglie di Gino), Giovanni Caruso (padre di Geremia), An­ nalisa Milanese (ragazza parco), Sofia Mann (ragazza vasca 1), Victoria Monti (ragazza vasca 2); produzione1. Domenico Procacci, Nicola Giu­ liano, Francesca Cima, per Fandango/Indigo Film e Babe Film/Studio Canal; distribuzione1.Medusa; prima proiezione1.25 maggio 2006 (Festival di Cannes); durata: 102’. IL DIVO (La spettacolare vita di Giulio Andreotti) (2008) (Italia) - regia: Paolo Sorrentino; soggetto e sceneggiatura: Paolo Sorrentino; fotografia: Luca Bigazzi; montaggio: Cristiano Travaglioli; scenografia: Lino Fiorito; costumi: Daniela Ciancio; musica: Teho Teardo; suono: Emanuele Cecere; interpreti: Toni Servili© (Giulio Andreotti), Anna Bonaiuto (Livia Dane­ se), Giulio Bosetti (Eugenio Scalari), Flavio Bucci (Franco Evangelisti), Carlo Buccirosso (Paolo Cirino Pomicino), Giorgio Colangeli (Salvo Lima), Alberto Cracco (don Mario), Piera Degli Esposti (la signora Enea, segretaria di Andreotti), Paolo Graziosi (Aldo Moro), Lorenzo Gioielli (Mino Pecorelli), Gianfelice Imparato (Vincenzo Scotti), Massimo Popolizio (Vittorio Sbardella), Aldo Ralli (Giuseppe Ciarrapico), Giovanni Vettorazzo (magistrato Scarpinato), Cristina Serafini (Caterina Stagno), Achille Brugini (cardinale Fiorenzo Angelini), Fanny Ardant (la moglie dell’ambasciatore francese), Orazio Alba (Gaspare Mutolo), Fernando Altieri (Oscar Luigi Scalfaro), Stewart Arnold (Larry Schoenbach), Nuot Arquint (killer Lima), Antonello Avallone (medico), Gaetano Balistreri (Tommaso Buscetta), Dezio Bettini (Licio Gelli), Pietro Biondi (Fran­ cesco Cossiga), Gianni Bissaca (senatore), Claudio Bonis (Pippo Calò), Achille Brugnini (cardinale Angelini), Simone Carella (Rino Formica), Domenico Centamore (Balduccio Di Maggio), Michele Chiadò (senato­ re Pellegrino), Umberto Contarello (deputato), Carlo Cozzani (cardinale IOR), Luciano Gravino (magistrato), Paolo De Giorgio (Stefano Bontate), Roberto De Rossi (giornalista ospedale), Renato Di Pietro (Stefano Rodotà), Salvatore D’Onofrio (capo scorta Andreotti), Lombardo Fornaia (Michele Sindona), Massimo Franceschini (giornalista), Domenico Gennaro (Francesco Marino Mannoia), Orlando Gerace (Nino Salvo), Carlo Girando (magistrato Natoli), Victor Goubanov (Michail Gorbacèv), Ernesto Izzo (deputato), Manuela La Manna (impiegata Qui­ rinale), Fiorenza Liberto (donna festa), Giusto Lopiparo (deputato), Umberto Mancini (deputato), Bob Marchese (senatore), Luigi Messina (presidente Ingargiola), Roberto Minutili© Turtur (deputato quotazioni), Gaetano Mosca (usciere Mario), Giuseppe Pappadà (Arnaldo Forlani),

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Filmografia

Giuseppe Perri (Tano Badalamenti), Giuseppe Pesare (senatore), Alva­ ro Piccardi (Raul Gardini), Alessandro Pisticcio (deputato), Gilda Po­ stiglione (giornalista), Alberto Pozzo (avvocato Coppi), Mario Prosperi (cardinale Pappalardo), Antonino Pugliesi (Vito Ciancimino), Giulio Raffi Casagrande (uomo festa), Lorenzo Ragazzini Regis (generale Gianadelio Maletti), Enzo Rai (Totò Riina), Luisella Rossboch (senatrice), Natale Russo (Leonardo Messina), Giorgio Sappa (deputato), Cesare Scova (deputato), Maurizio Troppa (deputato), Lorenzo Ventavoli (de­ putato), Wibke Walbrich (giornalista), Angelo Zito (Giancarlo Caselli); produzione'. Nicola Giuliano, Francesca Cima, Andrea Occhipinti, Mau­ rizio Coppolecchia, Fabio Conversi per Indigo Film/ Lucky Red/Parco Film, in coproduzione con Babe Film, StudioCanal, Arte France Cine­ ma, in collaborazione con Sky Cinema; distribuzione'. Lucky Red; prima proiezione: 23 maggio 2008 (Festival di Cannes); durata: 110’.

THIS MUST BE THE PLACE (2011) (Italia, Francia, Irlanda) - regia: Paolo Sorrentino; sceneggiatura: Paolo Sorrentino, Umberto Contarello; fotografia: Luca Bigazzi; montaggio: Cristiano Travaglioli; sce­ nografia: Stefania Cella; costumi: Karen Patch; musica: David Byrne, Will Oldham; suono: Srdjan Kurpjel; interpreti: Sean Penn (Cheyen­ ne), Frances McDornrand (Jane), Judd Hirsch (Mordecai Midler), Eve Hewson (Mary), Kerry Kondon (Rachel), Grant Goodman (Tommy), David Byrne (se stesso), Harry Dean Stanton (Robert Plath), Heinz Lie­ ven (Aloise Lange), Joyce Van Patten (Dorothy Shore), Olwen Fouéré (la madre di Mary), Shea Whigham (Ernie Ray), Liron Levo (Richard), Sam Keeley (Desmond), Simon Delaney (Jeffrey), Seth Adkins (Jimmy ragazzo ping pong), Stafford Douglas (amico ragazzo ping pong), Ron Coden (cliente armeria), Davis Gloff (armaiolo), Bern Cohen (rabbino), Sarah Carroll (donna sulla nave), Danielle O’Brien, (cliente supermer­ cato), Margaret O’Neilly (cliente supermercato), Hairin O’Donovan (anziana signora banca), Johnny Ward (Steven), Jer O’Leary (anziano signore cimitero), Master Deng (maestro di Tai Chi), Jane Myers (fi­ danzata di Jeffrey), Heather Fedyk (la donna ascensore), Iris Frank (2a donna ascensore), Andrea Mellos (3a donna ascensore), Sara Kamoo (4a donna ascensore), Bill Hoffinger (anziano signore funerale), Nana Ansah (parcheggiatore), Pricia Hicok (donna reception), Gordon Mi­ chaels (giovane tatuato), Madge Levinson (Jackie), David Krieger (Bat­ man), Frank Adakai (indiano), Suzanne Enslen (benzinaia), Amy Julia Cheyfitz (ragazza Goth); produzione: Nicola Giuliano, Andrea Occhi­ pinti, Francesca Cima, Mario Spedaletti per Indigo Film/Lucky Red/

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Medusa Film e Arp/France 2 Cinema/Element Pictures/Bord Scannàn Na Héireann/The Irish Film Board; distribuzione'. Medusa; prima pro­ iezione: 20 maggio 2011 (Festival di Cannes); durata: 119’.

LA GRANDE BELLEZZA (2013) (Italia/Francia) - regia: Paolo Sor­ rentino; sceneggiatura: Paolo Sorrentino, Umberto Contarello; fotogra­ fia: Luca Bigazzi; montaggio: Cristiano Travaglioli; scenografia: Stefania Cella; costumi: Daniela Ciancio; musica: Lele Marchiteli!; interpreti: Toni Servillo (Jep Gambardella), Carlo Verdone (Romano), Sabrina Ferilli (Ramona), Carlo Buccirosso (Lello Cava), laia Forte (Trumeau), Pamela Villoresi (Viola), Galatea Ranzi (Stefania), Franco Graziosi (il conte Colonna), Giorgio Pasotti (Stefano), Massimo Popolizio (Alfio Bracco), Sonia Gessner (la contessa Colonna), Anna Della Rosa (ragaz­ za esangue), Luca Marinelli (Andrea), Serena Grandi (Lorena), Ivan Franeck (Ron Sweet), Vernon Dobtcheff (l’illusionista Arturo), Dario Cantarelli (l’assistente della santa), Lillo Petrolo (Lillo De Gregorio), Luciano Virgilio, (Alfredo), Aldo Ralli (cardinale), Giusi Merli (suor Maria), Giovanna Vignola (Dadina), Anita Kravos (Talia Concept), Francesca Golia (suora botox), Silvia Munguia (Ahè), Massimo De Frankovic (Egidio), Roberto Herlitzka (il cardinale Beliucci), Isabel­ la Ferrari (Orietta), Fanny Ardant [non accreditata] (se stessa), Anto­ nello Venditti [non accreditato] (se stesso), Alberto Aguirre (mariachi festa), Maria Rosaria Alati (donna anziana botox), Francesca Amodio (Carmelina), Stefania Barca (donna botox), Gabriella Belisario (ragazza botox), Alessia Belletto (ammiratrice Jep), Concetta Buzzanca (signora matrimonio), Gino Camini (mariachi festa), Annaluisa Capasa (Elisa De Santis), Roberta Cartocci (guida turistica), Severino Cesari (Seba­ stiano Paf), Margherita Cornali (donna “adoro”), Jamaica Corridori (ballerina burlesque), Natalia De Maria (cubista festa Jep), Carmelo Di Marco (uomo jogging), Giulia Di Quilio (donna coppia esibizionista), Giorgia Ferrero (ammiratrice Jep), Melania Fiore (infermiera pos), Lo­ renzo Gioielli (uomo coppia esibizionista), Mayda Gonzales (mariachi festa), Maria Lovetti (contessa festa), Roberto Lumiento (trans), Agata Malyszko (compagna di Alfredo), Giuba Maulucci (ammiratrice Jep), Paolo Mazzarelli (attore fiction), Flavio Mieli (Jep giovane), Claudio Minutillo Turtur (figlio Lillo), Daniele Pilli (prete funerale), Monica Piseddu (madre chiostro), Pedro Ramirez (mariachi festa), Maura Rossi (donna nel bar), Massimo (autista pullman), Catarina Scalaprice (ammi­ ratrice Jep), Carlo Sorrentino (2° figlio Lillo), Elisabetta Ventura (balle­ rina ventilatore), Sara Wakayanagi (cantante giapponese); produzione:

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Filmografia

Nicola Giuliano, Francesca Cima, Fabio Conversi, Jéróme Seydoux per Indigo Film/Babe Films/Pathé/France 2 Cinema; distribuzione'. Medu­ sa; prima proiezione'. 20 maggio 2013 (Festival di Cannes); durata'. 142’. YOUTH-LA GIOVINEZZA (2015) (Italia, Francia, Svizzera, Regno Uni­ to) - regia: Paolo Sorrentino; soggetto e sceneggiatura'. Paolo Sorrentino; fotografia'. Luca Bigazzi; montaggio'. Cristiano Travaglioli; musiche David Lang, Mark Kozeles; scenografia'. Ludovica Ferrano; costumi'. Carlo Pog­ gioli; trucco'. Maurizio Silva; interpreti'. Michael Caine (Fred Ballinger), Harvey Keitel (Mick Boyle), Rachel Weisz (Lena Ballinger), Paul Dano (Jimmy Tree), Jane Fonda (Brenda Morel), Mark Kozeles (se stesso), Ro­ bert Seethaler (Luca Moroder), Alex Mac Queen (emissario della regi­ na), Luna Zimicv Mijlovic (massaggiatrice), Tom Lipinskij (sceneggiatore innamorato), Chloe Pirrie (sceneggiatrice), Alex Beckett (sceneggiatore intellettuale), Nate Dern (sceneggiatore divertente), Mark Gessner (sce­ neggiatore timido), Paloma Faith (se stessa), Ed Stoppard (Julian), Sonia Gessner (Melanie), Madalina Diana Ghenea (Miss Universo), Roly Ser­ rano (Diego Armando Maradona), Sumi Jo (se stessa), Gabriela Belisario (escort), Viktoria Mullova (se stessa), Aldo Ralli (cameriere), Loredana Cagnata (compagna di Maradona); produzione. Nicola Giuliano, France­ sca Cima e Carlotta Calori e co-prodotto da Indigo Film, Pathé, C-Film, Number 9 Films e Medusa Film; distribuzione: Medusa Film; durata: 118 minuti. Il film è stato distribuito nelle sale cinematografiche italiane il 21 maggio 2015 in concomitanza con la presentazione al Festival di Cannes.

Cortometraggi e mediometraggi

UN PARADISO (cm.) (1994) (Italia) - regia: Paolo Sorrentino, Stefano Russo; soggetto e sceneggiatura: Paolo Sorrentino, Stefano Russo; fotogra­ fia: Davide Pontoriere; montaggio: Stefano Russo; interpreti: Leonardo Ragozzino, Antonio Castaldo, Mauro Maglione; produzione: Polymedia (presentato al Festival di Capalbio 1994 e al Festival di Palermo Cinema 1995); durata: 2’. L’AMORE NON HA CONFINI (cm.) (1998) (Italia) - regia: Paolo Sor­ rentino; soggetto e sceneggiatura: Paolo Sorrentino; fotografia: Pasquale Mari; montaggio: Jacopo Quadri; scenografia: Antonio Farina; costumi: Alessandra Ciancili; musica: Pasquale Catalano, Ninette e le bimbo vi­ sioni; suono: Alessandro Rolla, Daghi Rondanini; interpreti: Gianni Fer-

Filmografia

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reti, Gaetano Amato, Giovanni Esposito, Caterina De Regibus, Luigi Petrucci, Antonio Castaldo, Nicola Laieta, Sergio Marra, Anna Troise, Gaetano Esposito, Edoardo Tartaglia; produzione-. Nicola Giuliano per Indigo Film; prima proiezione-, novembre 1998 (Torino Film Festival); durata-. 16’.

LA NOTTE LUNGA (cm.) (2001) (Italia) - regia: Paolo Sorrentino; sce­ neggiatura: Paolo Sorrentino, Anna Mittone; fotografia: Mario Amura; montaggio: Cristiano Travaglio!!; scenografia: Lino Fiorito; costumi: Lil­ la Angellotti; suono: Saverio Mascolo; interpreti: Roberto De Francesco (Manolo), Chiara Caselli (Ariel Bachini/la moglie), Tina Permiano, Fe­ derico Torre, Lello Pascarella, Marianna Gragnaniello, Giuseppina Ca­ puto, Ines Astarita, Gianni Fiorito, Giuseppe Ausilio, Luca Catoggio; produzione: Nicola Giuliano e Francesca Cima per Indigo Film; prima proiezione: 8 ottobre 2001 (Torino Film Festival); durata: 13’. LA PRIMAVERA DEL 2002. L’ITALIA PROTESTA, L’ITALIA SI FERMA (mm.) (2002) (Italia) - regia: Paolo Sorrentino, insieme a Age­ nore “Age” Incrocci, Alfredo Angeli, Franco Angeli, Giorgio Arlorio, Mario Balsamo, Marco Bellocchio, Gioia Benelli, Giuliana Berlinguer, Mario Cambi, Fiore De Rienzo, Maurizio Carrassi, Carlo Di Carlo, Massimo Felisatti, Nicolò Ferrari, Gianfranco Fiore, Andrea Frezza, Giuliana Gamba, Roberto Giannarelli, Franco Giraldi, Ugo Gregoretti, Sabina Guzzanti, Wilma Labate, Salvatore Maira, Giulio Manfredonia, Francesco Maselli, Gianni Mina, Mario Monicelli, Lucio Pellegrini, Pa­ olo Pietrangeli, Gillo Pontecorvo, Andrea Porporati, Marco Simon Puccioni, Francesco Ranieri Martinotti, Nino Russo, Massimo Sani, Stefano Scialotti, Pasquale Scimeca, Ettore Scola, Sergio Spina, Paolo Taviani, Vittorio Taviani, Marco Turco, Fulvio Wetzl, Cesare Noia, Gianni Serra, Riccardo Tortora (coordinatore Francesco Maselli); produzione: CGIL; durata: 53’. QUANDO LE COSE VANNO MALE (cm., episodio di Giovani talen­ ti italiani-, gli altri episodi sono diretti da: Maria Sole Tognazzi, Silvio Soldini, Gabriele Muccino, Lucio Pellegrini, Paolo Virzì, Sergio Rubini, Marco Risi) (2004) (Italia) - regia: Paolo Sorrentino; sceneggiatura: Ludo­ vica Rampolli; costumi: Jessica Zambelli; interpreti: Francesca Inaudi (la moglie), Fulvio Pepe (Arturo); produzione e distribuzione (dvd): Unione Italiana Casting; prima proiezione: agosto 2004 (Mostra del cinema di Ve­ nezia); durata: 4’.

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Filmografia

LA PARTITA LENTA (cm., progetto cinematografico “perFiducia” pro­ mosso da Intesa Sanpaolo) (2009) (Italia) - regia: Paolo Sorrentino; sog­ getto: Umberto Contarello; sceneggiatura: Umberto Contarello, Paolo Sorrentino; fotografia: Gergely Poliamole; montaggio: Cristiano Trava­ glioli; scenografia: Eugenia Di Napoli; costumi: Daniela Ciancio; suono: Emanuele Cecere; interpreti: Monica Dugo (moglie), Roberto Bernardini (marito), Renato Gnani (figlio), Francesco lacorossi (amico), Flavio Gregori (ragazzo emo); produzione: Maurizio Coppolecchia per Parco Film/ Indigo; prima proiezione: 27 marzo 2009; durata: 3’ versione breve; 10’ versione lunga.

L’ASSEGNAZIONE DELLE TENDE (cm., episodio di L’Aquila 2009 Cinque registi tra le macerie:, gli altri episodi sono diretti da: Mimmo Ca­ lopresti, Francesca Comencini, Ferzan Ozpetek, Michele Placido) (2009) (Italia) - regia: Paolo Sorrentino; fotografia: Stefano Cipullo; montaggio: Mariagrazia Mortone; produzione: «la Repubblica»; prima proiezione: 6 maggio 2009; durata: 3’ (durata complessiva: 23’). LA PRINCIPESSA DI NAPOLI (cm., episodio di Napoli 24) (2009) (Ita­ lia) - regia: Paolo Sorrentino (gli altri episodi sono diretti da: Giovanni Cioni, Bruno Oliviero, Gianluca lodice, Diego Liguori, Roberta Serre tiello, Luca Martusciello, Nicolangelo Gelormini, Guido Lombardi, Mariano Lamberti, Andrej Longo, Mario F. e Stefano Mattone, Fabio Mollo, Mario Spada, Pietro Marcello, Andrea Canova, Lorenzo Cioffi, Massimiliano Pacifico, Marcello Sannino, Federico Mazzi, Vincenzo Ca­ vallo, Gianluca Loffredo, Daria D’Antonio, Ugo Capolupo); fotografia: Luca Bigazzi, Daria D’Antonio; montaggio: Cristiano Travaglioli; musi­ ca: Coh; interpreti: principessa Uzza de Gregorio di Sant’Elia, Carlo de Gregorio di Sant’Elia; produzione: Angelo Curti, Nicola Giuliano, Gior­ gio Magliulo per Ananas/Indigo Film/Sky Dancers/Teatri Uniti; prima proiezione: 1° dicembre 2010 (Torino Film Festival); durata: 3’ (durata complessiva: 75’). LA FORTUNA (cm., episodio di Rio, Eu te amo) (2014) (Brasile/Usa) regia: Paolo Sorrentino; sceneggiatura: Paolo Sorrentino;fotografia: Daria D’Antonio; montaggio: Cristiano Travaglioli; scenografia: Luiz Gonzaga; interpreti: Basil Hoffman (James), Emily Mortimer (Dorothy); produzio­ ne: Conspira^ào Filmes, Bossa Nova Films, Empyrean Pictures, Riofilme; durata: 8’ (durata complessiva: 98’).

Filmografia

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Sceneggiature POLVERE DI NAPOLI (1998) (Italia) - regia-. Antonio Capuano; sogget­ to-. A. Capuano, Tonino Taiuti; sceneggiatura-. A. Capuano, Paolo Sorren­ tino; fotografia: Pasquale Rachini; montaggio: Giogiò Franchini; sceno­ grafia e costumi: Mario Di Pace; suono: Tiziano Crotti; interpreti: Silvio Orlando, Tonino Taiuti, Lola Pagnani, Teresa Saponangelo, Raffaele Musella, Antonino luorio, Gianni Ferreri, Gigio Morra, Alan De Luca, Francesco Pennasilico, Giovanni Esposito; produzione: Gianni Minervini per Ama Film; distribuzione: lif; durata: 104’. LA SQUADRA (2000, primi dieci episodi della prima serie TV) (Italia) - regia: Claudio Norza, Isabella Leoni, Stefano Alleva, Gianni Leacche, Lucio Caudino, Alfredo Peyretti, Giorgio Molteni, Daniele Cini, Stefa­ no Bambini; soggetto: Wayne Doyle, Mauro Casiraghi, Chris McCourt; sceneggiatura: Paolo Sorrentino, Lorenzo Favella, Massimo Martella, Mauro Casiraghi, Laura Sabatino, Vinicio Canton, Donatella Diaman­ ti, Anna Samueli, Luca Monesi, Francesco Cicce, Paola Fossataro, Luca Vendruscolo, Stefano Russo, Barbara Rossi Prudente, Damele Senatore; fotografia: Pietro Emozione, Enzo Napolitano; montaggio: Pietro Centomani; scenografia: Mario Di Pace; costumi: Itala Scandariato; musica: Vito Abbonato, Andrea Ridolfi; interpreti: Renato Carpentieri, Massimo Bonetti, Mario Porfito, Andrea Marrocco, Giovanni Rienzo, Vincenzo Failla, Massimo Wertmùller, Federico Tocci; produzione: GrundY Italia, Rai Fiction.

Interpretazioni e partecipazioni

IL CAIMANO (2006) (Italia) - regia: Nanni Moretti. QUESTIONE DI CUORE (2009) (Italia) - regia: Francesca Archibugi.

BORIS (2010, episodi 12, 13, 14 della terza serie TV) (Italia) - regia: Da­ vide Marengo.

Bibliografia

Monografie Pierpaolo De Sanctis, Domenico Monetti, Luca Pallanch (a cura di), Divi & antidivi. Il cinema di Paolo Sorrentino, Laboratorio Gutenberg, Roma, 2010. Franco Vigni, La maschera il potere la solitudine. Il cinema di Paolo Sorren­ tino, Aska, Firenze, 2014.

Sceneggiature, guide e diari fotografici Gianni Fiorito, Il divo’. un film di Paolo Sorrentino [diario fotografico], Dante & Descartes, Napoli, 2008.

Paolo Sorrentino, Umberto Contarello, La grande bellezza [sceneggiatura], Skira, Ginevra-Milano, 2013. Paolo Sorrentino, La grande bellezza. Diario del film (foto di Gianni Fiori­ to), Feltrinelli, Milano, 2013.

Costantino D’Orazio, La Roma segreta delfilm «La grande bellezza», Sper­ ling & Kupfer, Milano, 2013. Paolo Sorrentino, La giovinezza - Youth [sceneggiatura], Rizzoli, Milano, 2015.

Interviste Angela Prudenzi (a cura di), Paolo Sorrentino’. «Lo stupore delle vite ordina­ rie», «Cinecritica», n. 34-35, aprile-settembre 2004.

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Bibliografia

Roberto Rombi, Salvatores e Sorrentino. Volevamo diventare rockstar, «la Repubblica», 3 marzo 2006. Giovanni Perazzoli (a cura di), Il giovane cinema cresce. Incontro con Mat­ teo Garrone, Paolo Sorrentino e Saverio Costanzo, «MicroMega», n. 7, settembre 2006. Edoardo Zaccagnini e Giovanni Spagnoletti (a cura di), Intervista a Paolo Sorrentino, «Close up», n. 23, dicembre 2007-marzo 2008.

Piero Spila, Bruno Torri (a cura di), Paolo Sorrentino', il cinema, il diverti­ mento, l’ossessione, «Cinecritica», n. 56, ottobre-dicembre 2009.

Dario Zonta (a cura di), Paolo Sorrentino/La scena del potere, in Emiliano Morreale, Dario Zonta (a cura di), Cinema vivo. Quindici registi a con­ fronto, Edizioni dell’Asino, Roma, 2009. Malcom Pagani (a cura di), Alla ricerca del sogno, «Micromega», n. 6, giu­ gno 2011.

Articoli e saggi critici

Angela Prudenzi, Gli uomini e le loro scelte, «Cinecritica», n. 34-35, apri­ le-settembre 2004. Fiammetta Girola, Paolo Sorrentino, in «Annuario del cinema 2005», Edi­ zioni di Cinefonim, Bergamo, ottobre 2005.

Luisa Ceretto, Roberto Chiesi (a cura di), Lina distanza estranea. Il cinema di Emanuele Crialese, Matteo Garrone e Paolo Sorrentino, Edizioni di Ci­ nefonim, Bologna, 2006.

Anton Giulio Mancino, Anziani, media statura', italiani strana gente, «Cine­ critica», n. 56, ottobre-dicembre 2009. Giacomo Tagliarli, Le conseguenze del vissuto, in Riccardo Guerrini, Giaco­ mo Tagliani, Francesco Zucconi (a cura di), Lo spazio del reale nel cinema italiano contemporaneo, Le Mani, Recco, 2009. Pierpaolo Antinello, I due corpi del divo. Le maschere del potere'. Andreot­ ti, Tatcher, Elisabetta II, «Bianco e Nero», n. 576-577, maggio-dicembre 2013. Dario Zonta (a cura di), Paolo Sorrentino/La scena del potere, in Emiliano Morreale, Dario Zonta (a cura di), Cinema vivo. Quindici registi a con­ fronto, Edizioni dell’Asino, Roma, 2009.

Bibliografia

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Malcom Pagani (a cura di), Alla ricerca del sogno, «Micromega», n. 6, giu­ gno 2011.

Recensioni e interventi critici sui singolifilm

L’amore non ha confini

Luca Mosso, Spazio Italia, «Cineforum», n. 380, dicembre 1998. L’uomo in più Silvia Angrisani (a cura di), Quando il successo ti abbandona, «Vivilcinema», n. 2, marzo-aprile 2001.

Dominique Borde, Suspense existential, «le Figaro», 14 maggio 2004.

Alberto Zanetti, La doppia vita di Antonio, «Cineforum», n. 409, novembre 2001.

Le conseguenze dell’amore Mario Sesti, Le conseguenze dell’amore - un commento critico, contenuti extra del DVD Le conseguenze dell’amore.

Maurizio Porro (a cura di), Racconto la mafia che uccide l’amore [intervista], «Corriere della sera», 22 aprile 2004.

Marie Tranchant (a cura di), Paolo Sorrentino', ennui, seduction et Mafia [intervista], «le Figaro», 14 maggio 2004. Florence Colombani, Purgatore à vie dans un hotel suisse, «le Monde», 15 maggio 2004. David Rooney, Reason and rhytme to a life ofcrime, «Variety», vol. 395, n. 1,17 maggio 2004. Barbara Corsi (a cura di), La vita fuori della porta [intervista], «Vivilcine­ ma», n. 3, maggio-giugno 2004. Gianni Canova (a cura di), L’hotelcome non-luogo [intervista al regista], in «Duellanti», n. 9,2004.

Francesco Cattaneo, Lamore disegnato nel calcestruzzo, «Cineforum», n. 439, novembre 2004. Jean Luc Douin, On ne s’arrachepas au train-train de la Mafia, «le Monde», 15 febbraio 2005.

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Bibliografia

Marie Tranchant, Lnnui et raffinement, «le Figaro», 16 febbraio 2005.

Philippe Rouyer, Titta le héros, «Positif», n. 528, febbraio 2005. Philip Kemp, Hotel Terminus, «Sight & Sound», voi. 15, maggio 2005.

Scott Andrews, Anything but routine, «Film Review», n. 658, estate 2005. L’amico di famiglia Maurizio Porro (a cura di), Un usuraio protagonista del mio prossimo film [intervista], «Corriere della Sera», 27 maggio 2005.

Antonio Tricomi (a cura di), Sorrentino'. «Racconto al cinema l’incredibile metafora dell’usuraio», «La Repubblica» edizione di Napoli, 6 dicembre 2005. Stella Cervasio (a cura di), Geremia, un usuraio sulla Croisette [intervista], «la Repubblica», 21 aprile 2006. Maurizio Porro (a cura di), TI regista napoletano', basta dittatura del bello, voglio riabilitare i brutti, «Corriere della Sera», 21 aprile 2006. Roberto Nepoti, L’usuraio che sogna Runuel, «la Repubblica», 25 maggio 2006. Natalia Aspesi (a cura di), Cannes 2006. Sorrentino', farei un film su Lauro [intervista], «la Repubblica», 26 maggio 2006.

Lietta Tomabuoni, Quell’amico un po’ presuntuoso, «La Stampa», 26 mag­ gio 2006. Marie Tranchant, Abscons, «le Figaro», 26 maggio 2006. Tullio Kezich, Sognare Fellini, ma restare Ferreri, «Corriere della Sera», 26 maggio 2006. Jean Lue Douin, Un «ami» déplaisant, «le Monde», 27 maggio 2006.

Franco Montini, Usura, country e l’Agro Pontino, «Vivilcinema» [intervi­ sta], n. 3, maggio-giugno 2006. Fabio Ferzetti, Sorrentino e l’horror sociale, «Il Messaggero», 10 novembre 2006. Antonello Catacchio, L’usuraio alla conquista della sposa novella Rosalba, «il Manifesto», 10 novembre 2006. Roberto Nepoti, Se Geremia l’usuraio s’innamora di Laura Chiatti, «la Re­ pubblica», 10 novembre 2006.

Bibliografia

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Lietta Tornabuoni, L’usuraio è vinto dall’amore, «La Stampa», 10 novem­ bre 2006. Vito Attolini, Uno spietato amico di famiglia, «La Gazzetta del Mezzogior­ no», 12 novembre 2006. Gianni Canova (a cura di), Lo strozzino, il cowboy e la solitudine [intervi­ sta], «Duellanti» n. 30, novembre 2006. Anton Giulio Mancino, L’amore al tempo dell’orrore, «Cineforum», n. 459, novembre 2006.

Il Divo Nicola Lusardi, Gino Ventriglia (a cura di), A proposito del Divo: intervista a Paolo Sorrentino, «Script», n. 44/45,2007.

Fabio Ferzetti, Mistero italiano, «Il Messaggero», 23 maggio 2008. Stenio Solinas, Che bravo Servillo. Non imita Andreotti, ne tira fuori l’ani­ ma, «Il Giornale», 23 maggio 2008. Mariuccia Ciotta, Gangster story per Andreotti, «il Manifesto», 24 maggio 2008. Leonardo Jattarelli (a cura di), Sorrentino, il volto misterioso del potere [in­ tervista], «Il Messaggero», 28 maggio 2008. Boris Sollazzo, Spettacolare Andreotti nel film geniale e vincente del corag­ gioso Sorrentino, «DNews», 28 maggio 2008. Roberto Escobar, «Divo» da brivido, «Il Sole - 24 Ore», 1 giugno 2008. Lino Patruno, I migliori anni della nostra vita, «La Gazzetta del Mezzogior­ no», 5 giugno 2008. Gianni Canova, Benvenuti nel deserto del reale, «Duellanti» n. 43, giugno 2008. Marco Spagnoli (a cura di), L’enigma Giulio [intervista], in «Vivilcinema», n. 3, maggio-giugno 2008. Claudio G. Fava, Servillo tra il Bagaglino e la tragedia, in «Emme - Modena Mondo», 2 luglio 2008. Luca Malavasi, Studio cubista di Andreotti, «Cineforum», n. 476, luglio 2008. Federico Govoni, L’ambiguità della ragion di Stato, «Cinemasessanta», n. 296, aprile-giugno 2008.

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Bibliografia

Stefano Vaccata (a cura di), «Il Divo»: il potere e il male di chi ce l’ha. Interv­ ista con Paolo Sorrentino, «America Oggi», 19 aprile 2009. Stephen Holden, Out of Fellini and into «The Goodfather», a Politician’s Life, «The New York Times», 24 aprile 2009.

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This Must Be the Place Fulvia Caprara, Sorrentino on the road col vecchio bambino Penn, «La Stam­ pa», 21 maggio 2011. Alberto Crespi, IdAmerica di Sorrentino a ritmo di rock, «l’Unità», 21 mag­ gio 2011. Alessandra De Luca, Sorrentino e Penn stregano Cannes, «L’Avvenire», 21 maggio 2011. Curzio Maltese, Il viaggio di un ragazzo cinquantenne, «la Repubblica», 21 maggio 2011. Paolo Mereghetti, Straordinario Sean Penn in una storia imprevedibile, «Corriere della Sera», 21 maggio 2011. Roberto Silvestri, Il punk? E depresso, «il Manifesto», 21 maggio 2011.

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La grande bellezza

Natalia Aspesi, La Roma di Sorrentino è una Babilonia disperata, «la Repub­ blica», 21 maggio 2013. Andrea Chimento, Applausi per Sorrentino". «La grande bellezza» in lizza per la Palma d’Oro, «Il Sole - 24 Ore», 21 maggio 2013.

Alberto Crespi, Sorrentino? Riscatto dalla volgarità, «l’Unità», 21 maggio 2013. Alessandra De Luca, A Cannes arriva l’Italia infernale di Sorrentino, «Avve­ nire», 21 maggio 2013. Alessandra Levantesi Kezich, Caro Sorrentino, l’Italia di oggi non è all’altez­ za della «Dolce vita», «La Stampa», 21 maggio 2013. Paolo Mereghetti, Il ritratto di Roma volgare sbiadito da troppe ambizioni, «Corriere della Sera», 21 maggio 2013.

Malcom Pagani, Le conseguenze della Dolce vita, «Il Fatto Quotidiano», 21 maggio 2013. Cristina Piccino, Ossessione barocca, «il Manifesto», 21 maggio 2013. Gian Luigi Rondi, Fellini e Scola in aiuto alla capitale di Servillo, «Il Tem­ po», 21 maggio 2013. Fabio Ferzetto, Servillo a spasso in una Roma kitsch e servile, «Il Messagge­ ro», 23 maggio 2013. Roberto Escobar, Quella Roma cinica dove la bellezza sa di morte, «l’Espresso», 30 maggio 2013. Stefano Lusardi, La riconquista di Roma, «Ciak», n. 5, maggio 2013. Piera De Tassis (a cura di), La grande bellezza. Le scene mai viste, i segreti mai detti, «Ciak», n. 6, giugno 2013.

Pier Maria Bocchi, La corsa di Jep attraverso i campi, «Cinefonim», n. 529, luglio 2013. Simone Spoladori, Alla ricerca del tempo perduto, «Duellanti», n. 82, set­ tembre 2013.

Paolo Sorrentino, La mutazione italiana in pellicola [incontro-intervista, con Anna Bandettini e Curzio Maltese, svoltosi il 9 giugno 2013 a Firenze nell’ambito di «Repubblica delle Idee»], Repubblica, Roma, 2013.

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Bibliografia

Youth

Gianni Canova, intervista su Youth a Paolo Sorrentino su Sky, 21 maggio 2015. Conchita de Gregorio, intervista su Youth a Paolo Sorrentino, «La Repub­ blica», 21 maggio 2015.

Opere varie citate nel volume Louis Fedinad Céline, Viaggio al termine della notte, Corbaccio, Milano, 2015. Saverio Lodato, Quindici anni di mafia, Rizzoli, Milano, 1994. Alexander Stille, Nella terra degli infedeli. Mafia e politica, Garzanti, Mila­ no, 2007.

Finito di stampare da Studio Rabbi - Bologna Maggio 2017