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Italian Pages 156 [154] Year 2020
Filosofia, Innovazione, Democrazia Collana diretta da Alessandro Arienzo a cura di Giovan Giuseppe Monti e Flavia Palazzi
La governance tra legittimazione e vulnerabilità a cura di Alessandro Arienzo e Francesca Scamardella
Copyright © 2020 Guida Editori www. guidaeditori. it proposte@guida. it Proprietà letteraria riservata Guida Editori srl Via Bisignano, 11 80121 Napoli
In copertina: Joseph Mallord William Turner, The Wreck of a Transport Ship, c. 1810, oil on canvas, al Calouste Gulbenkian Museum di Lisbona.
Finito di stampare nel mese di aprile 2020 da per conto della Guida Editori srl 978-88-6866-000-0
Volume pubblicato con un finanziamento P.R.I.N. 2015, Trasformazioni della sovranità, forme di governamentalità e dispositivi di governance nell’era globale, Dipartimento di Studi Umanistici, Università Federico II di Napoli.
Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% del presente volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall'art. 68, commi 4 e 5 della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le fotocopie di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, corso di Porta Romana 108, 20122 Milano e-mail autorizzazioni@clearedi. org e sito web www. clearedi. org
Indice
ALESSANDRO ARIENZO E FRANCESCA SCAMARDELLA Governance e vulnerabilità. Per una introduzione
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ALBERTO ANDRONICO Ritorno al futuro. Il tratto rivoluzionario della governance
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ALESSANDRO ARIENZO Like a rolling stone. Vulnerabilità, globalità, democrazia
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DANIELE RUGGIU Ascesa della New governance in campo tecno-scientifico e modello neoliberista: vulnerabilità, diritti e successo del mito partecipativo
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FRANCESCA SCAMARDELLA Dalla configurazione ontologica del vulnus agli effetti escludenti dei dispositivi di governance: brevi note sulla vulnerabilità
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PIETRO SEBASTIANELLI Sovranità in frantumi. Alcune note su vulnerabilità, populismo e neoliberalismo 93
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Indice
STELLA VOLPE La gouvernance a double-face e la democrazia: un rapporto ambiguo
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JEAN PIERRE GAUDIN Governance e demagogia
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Governance e vulnerabilità. Per una introduzione
di Alessandro Arienzo e Francesca Scamardella
L’accostamento dei due lemmi vulnerabilità e governance si presenta apparentemente distonico se consideriamo che la governance è stata celebrata come uno strumento, un insieme di dispositivi in grado di includere attori e stakeholders nei processi deliberativi, allargando dal basso la base decisionale riservata in via esclusiva allo Stato nazionale ed alle sue istituzioni. Sembrerebbe infatti, nelle (auto-) celebrazioni di questa categoria, che uno dei suoi principali meriti sia quello di favorire la partecipazione democratica di tutti i soggetti potenzialmente interessati ad una decisione al processo deliberativo che conduce alla decisione finale stessa. Certo è che i dibattiti suscitati dall’uso ormai ricorrente di questo termine fanno risaltare le trasformazioni in atto nelle forme del governo democratico-liberale e nei soggetti politici che vi sono coinvolti. Trasformazioni che non esprimono solo l’adattamento delle istituzioni pubbliche alle pressioni della globalizzazione economica e finanziaria, ma che mettono anche in risalto i mutamenti profondi nelle logiche e nelle forme del governo democratico, nei percorsi di composizione dei soggetti politici, nelle relazioni tra spazio pubblico e sfera del privato/economico. In tal senso, la governance si presenta come un insieme di processi e di strutture regolative e organizzative “orizzontali” attraverso cui attori diversi prendono decisioni condivise e vincolanti. Peraltro, la governance costituisce la rappresentazione di una forma politica inedita, ca-
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pace di funzionare perché si colloca “oltre lo Stato”, esercitando un governo without government. Da questa prospettiva, accostare la governance alla vulnerabilità suona quasi come un ossimoro, posto che l’inclusività nei processi deliberativo-decisionali di un numero sempre maggiore di soggetti dovrebbe avere il pregio di potenziarne diritti ed interessi e ridurne, per converso, la vulnerabilità. Questo volume si propone di smascherare l’apparente distonia di questo accostamento e di riflettere, viceversa, sul nesso di causalità che c’è tra governance e vulnerabilità, nella misura in cui la prima, con i suoi meccanismi e procedure, può vulnerare i soggetti, nonostante l’impegno alla loro partecipazione. L’inganno di fondo è rappresentato da un doppio volto della governance che, se da un lato, dà l’illusione superficiale della partecipazione democratica, dall’altro, cela invece meccanismi di esclusione e vulnerabilità. In altri termini la governance assicurerebbe soltanto un effetto partecipativo cosmetico, per dirla con le parole di Gaudin, diluendo il consenso democratico, sino a derubricarlo a mera accettabilità sociale1. Del resto, la governance si è affermata, non a caso, nei dibattiti sulla crisi delle sovranità nazionali e della democrazia procedurale rappresentativa2. Emblematicamente, essa appare nel dibattito politico proprio all’avvio della fase del capitalismo democratico che secondo Wolfgang Streeck ha segnato il trentennio glorioso tra gli anni ’50 e ’80 del secolo scorso3. Così come non è un caso che essa appaia come la rappresentazione progressiva di ciò che Habermas ha descritto come costellazione post-nazionale, ossia quell’insieme di po1
J.-P. Gaudin, La gouvernance a double-face. Declinazioni e contraddizioni, trad. it. di S. Volpe, prefazione di M. Cotta, Aracne, Roma, 2017. 2 Per una rassegna bibliografica sull’argomento, cfr. G. Peters, “Governance” e democrazia: un dibattito, in «Rivista Italiana di Scienza Politica», XXXVIII, 3, 2008, pp. 443-461. 3 W. Streeck, Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, trad. it. di B. Anceschi, Feltrinelli, Milano, 2013.
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teri distribuiti sul piano mondiale che scavalca la rete delle relazioni tra gli stati e che ha trasformato in profondità le forme della politica democratica4. La governance sollecita così svariati interrogativi che ne rivelano un volto fortemente ambiguo: cosa si cela dietro l’affannosa ricerca di un ordine pluralistico nuovo, dietro la promessa di situare altrove (al di fuori dello spazio procedurale statale) risposte efficienti alle istanze sociali provenienti dal basso? È possibile far convivere sotto una stessa etichetta banche, imprese, gruppi d’influenza, corporazioni transnazionali, agenzie, da un lato, e associazioni non governative, di consumatori, organismi no profit, movimenti ambientalisti o sociali (come Podemos, Indignados, ecc.), dall’altro? Essa ha troppo spesso mostrato quanto la cittadinanza formale esercitata dall’individuo portatore di diritti/doveri possa essere scavalcata da prassi dinamiche centrate sull’appartenenza a corpi collettivi d’interesse. Prassi che subordinano la partecipazione alla disponibilità di specifici diritti, di interessi particolari, di risorse o capacità. Del resto, l’inclusione degli attori nella governance è spesso il frutto di scelte che hanno una natura “funzionale”. Peraltro, alla imparzialità rappresentata da un quadro di regole comuni e condivise, che sono definite in funzione degli interessi rappresentati, si affianca la realtà, naturalmente diseguale, della negoziazione tra attori dotati di risorse e capabilities differenti. La natura “super-erogatoria” della governance comporta, in altri termini, la progressiva metamorfosi della separazione tra pubblico e privato, a partire dall’affermarsi di sistemi istituzionali di governo e di amministrazione “misti” ed articolati intorno ai principi dell’efficienza e dell’efficacia esecutiva. Le relazioni tra gli attori devono innanzitutto garantire allora una legittimità “di esito”, una legittimità, cioè, determinata dalle capacità degli attori di prendere decisioni efficaci, da 4 J. Habermas, La costellazione post-nazionale, ed. it. a cura di L. Ceppa, Feltrinelli, Milano, 1999.
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implementare rapidamente ed efficacemente, e di garantire che le misure adottate corrispondano al problema che le ha stimolate. Per svelare le cause e le modalità con cui la governance può vulnerare, occorre però ricostruire i suoi legami con quel modello di democrazia costituzionale nato nel secondo dopoguerra del secolo scorso e rispetto al quale la governance entra in concorrenza. Più precisamente la cornice teorica della nostra riflessione è rappresentata dai problemi storici, politici, economici e culturali che hanno interessato la democrazia e che si sono tradotti in una forte crisi, i cui effetti sono ravvisabili sia nell’emersione di regimi democratico-illiberali (vedi la Turchia) e sia nella trasformazione delle decisioni politiche che sono sempre più ispirate da esigenze tecnocratiche e burocratiche, legittimando così una diffusa risposta populista. I primi semi di questa crisi venivano gettati già nel 1989: tra il 1945 ed il 1989 pochi studiosi, persino un filosofo intuitivo come Habermas, avrebbero infatti scommesso sulla possibilità (ed opportunità) di prendere decisioni collettive vincolanti ricorrendo a forme di governo alternative o concorrenziali a quella democratica. Nel 1989 cade il muro di Berlino e due anni dopo il blocco dell’Unione Sovietica. Gli anni Novanta iniziano così decretando una fine: quella di una geometria politica basata su due schieramenti (Est ed Ovest) e sulle rispettive relazioni di fedeltà e condizionamento. Si inneggia alla fine delle grandi ideologie e del sovranismo nazionale; le relazioni internazionali si fanno più fluide, aumenta il numero di soggetti sovranazionali (e, parallelamente, cresce il loro potere). L’idea cardine degli anni Novanta è che la liberalizzazione degli scambi e l’auto-organizzazione del mercato globale possano disegnare una economia globale in grado di garantire un guadagno collettivo e vantaggi per tutti. È l’euforia della globalizzazione, del villaggio globale, dello scambio che sostituisce la produzione (di beni), del superamento dei confini nazionali che
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illude che l’ordine democratico-costituzionale possa essere sostituito dalla fluidità delle fonti giuridiche, da politiche multilevel tecnocratiche, da partenariati tra pubblico e privati. Come spesso accade, le questioni economiche tendono infatti a trasformarsi in strategie ed azioni politiche, cosicché al sovrastante potere delle lobby economiche è corrisposto uno scardinamento del sistema decisionale democratico-nazionale: organismi sovranazionali ed internazionali, MNCs e ONG, gruppi di interesse, attori pubblici e privati hanno acquisito un sempre più maggior potere nei confronti delle biografie singole e collettive, arrivando a determinare esiti per la vita degli individui e dei gruppi un tempo di esclusiva pertinenza statale. La conseguenza principale di queste scelte e tendenze è stata la diffusione di un’economia globale che, lungi dall’assicurare vantaggi per tutti, ha contribuito a ridurre l’equità e ad indebolire i diritti individuali, soprattutto quelli sociali5. A ciò ha contribuito anche quel fenomeno che Giovanni Sartori ha definito videocrazia6 e che il sociologo Manuel Castells ha lungamente indagato, coniando l’espressione network society (società informatizzata), a voler esprimere le trasformazioni indotte dal web, dai social e, più in generale, dalla digitalizzazione della società7. La comunicazione è diventata orizzontale e meno verticale, perché le notizie arrivano ormai in tempo reale a tutti, senza la mediazione di soggetti terzi, con una pervasività che negli ultimi tempi ha determinato conseguenze drammatiche in termini di diffusione di fake 5
Si pensi, ad esempio, ai lavoratori del Sud-Est asiatico che lavorano spesso in condizioni di violazione dei loro diritti per le multinazionali occidentali (Nike, Microsoft, ecc.). 6 G. Sartori, Homo Videns. Televisione e post-pensiero, Laterza, Roma-Bari, 2000. 7 M. Castells, La nascita della società in rete, trad. it. di L. Turchet, Egea, Milano, 2014.
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news, odio e forme di razzismo, omofobia e xenofobia, sicché studiosi come Maffettone hanno addirittura intravisto un rischio di “nuovi totalitarismi della rete”8. È in questo clima di incertezza che già negli anni Novanta si fa spazio la governance, come un’azione pubblica (ma anche privata) a carattere flessibile, un insieme di cooperazioni in uno spazio reticolare ove il comando dall’alto si flette, arretra e si lascia affiancare da procedure orizzontali di negoziazione, coordinazioni di interessi, mezzi ed obiettivi. La nuova narrazione offre una visione regolamentata che valorizza la consultazione per esprimere preferenze, l’organizzazione reticolare, l’apertura al dibattito politico. Cresce, però, parallelamente la preoccupazione per l’efficacia che assottiglia l’orizzonte democratico: accanto alla partecipazione di cittadini e stakeholders la governance promuove la concorrenza sfrenata, la circolazione di capitale e prodotti finanziari in luogo di beni materiali, cosicché l’ambizione democratica diviene un semplice rivestimento di facciata che in realtà maschera una nuova ed aggressiva ideologia neoliberale. Sotto l’influenza dei suoi caratteri manageriali, ispirati a principi neoliberali, la governance agisce disperdendo il dissenso ed il conflitto in mille rivoli di procedimentalizzazione tecnocratica (contratti, coordinamento, codici etici e di buona condotta, tavole rotonde, comitati, agenzie), cosicché il consenso finale rispetto ad una decisione si tramuta in mera accettabilità sociale che occulta rapporti di forza e di potere dominanti. È la tecnocrazia che organizza gli apprendimenti collettivi e li orienta verso l’accettazione di scelte e decisioni governate dall’alto e che l’illusione del dialogo e della partecipazione lasciano invece supporre come formatesi dal basso, in un orizzonte reticolare. Nella rete delle normatività di fatto promosse dai vincoli esterni (le interdipendenze) della politica internazionale, e dai vincoli interni (le logiche economico-po8 S. Maffettone, Politica. Idee per un mondo che cambia, Le Monnier, Firenze, 2019, p. 45.
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litiche del cosiddetto neo-liberalismo), la governance si è allora affermata come una vera e propria costituzione nascente, realizzando una inedita civilizzazione negoziale e mercatoria, post-moderna e globalizzante, multilivello e multicentrica. Poiché essa opera anche come ambiente di promozione e gestione di soggettività, la governance è portatrice di una nuova ratio societatis; vera e propria civilizzazione economica globale in cui «l’economia è il metodo» e per cui «l’obiettivo è cambiare il cuore e l’animo»9. Proprio nelle porosità prodotte da queste trasformazioni prendono corpo, tuttavia, anche i punti di frattura, di vulnerabilità e di resistenza ad un modello di soggettivazione economica che, in ogni momento, può convertirsi in altro. A fronte delle promesse mancate della globalizzazione e della mondializzazione, delle incertezze e delle paure che esse suscitano, l’economia delle promesse su cui si reggono i processi plurimi di soggettivazione neoliberale, lascia oggi emergere un nuovo e drammatico disagio nella civiltà in cui si giocano sia le nuove forme di assoggettamento e dominio, quanto i tentativi di liberazione e trasformazione radicale del presente. Diviene quindi più evidente il paradosso cui la governance dà origine ossia che quanto più si ha la percezione di essere inclusi in un processo deliberativo, in base alla propria partecipazione alla discussione, tanto più c’è il rischio di restare esclusi dalla decisione finale dal momento che, come osserva Gaudin, l’effetto della governance è quello di disperdere «isolotti partecipativi in oceani di ragionamenti tecnocratici»10. Da questa prospettiva appare allora abbastanza chiaro ed esplicitato il ruolo di vulnerazione che la governance può avere nei confronti di individui e gruppi e rispetto ai loro diritti. Con il retrocedere dello Stato nazionale, entità che ha sempre garantito quei processi di omogeneizzazione (anche culturale) e di sicurezza all’interno dei propri confini geografici, e con 9 10
Intervista al Sunday Times, «Sunday Times», 3rd May 1981. J.P. Gaudin, La gouvernance a double-face, cit., p. 153.
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lo slittamento delle relazioni politiche ed economico-finanziarie, in un ambiguo spazio sovranazionale, il singolo diviene maggiormente vulnerabile. È possibile uscire da questa impasse? La complessità del tempo presente, la rapidità con cui lo sviluppo tecnico-scientifico avvolge le nostre vite, i rischi e le opportunità connesse all’intelligenza artificiale, al potere degli algoritmi, all’innovazione, impongono un ripensamento della governance, una sua mitigazione all’insegna della responsabilità e della possibilità di declinare la vulnerabilità dei soggetti come una risorsa, una condizione da rimuovere in maniera sostanziale. Non è più sufficiente ispirarsi a principi etici o a calcoli di anticipazione di rischi: una governance percorribile, di tipo bottom-up, piuttosto che top-down, deve salvaguardare la sostanza (diritti individuali ed interessi pubblici), ancorandosi a principi costituzionali ma anche a punti normativi fissi espressi ad un livello superiore (i trattati UE, ad esempio). Sino a quando vedremo crescere la platea di stakeholders a cui non corrisponderà alcun irrobustimento di regole e principi in grado ridefinire le responsabilità di questa pluralità di soggetti e delle loro azioni e pratiche, la governance non potrà mai divenire promotrice di una sorta di etica della cura in grado di proteggere le vulnerabilità di individui e diritti11. *** Il volume raccoglie alcune delle relazioni presentate al convegno La vulnerabilità e i dispositivi dell’esclusione, tenutosi all’Università degli Studi di Napoli Federico II, Dipartimento di Giurisprudenza, il 28 e 29 novembre 2018. L’incontro di studio rientra nell’ambito delle attività del Progetto P.R.I.N. 2015, Soggetto di diritto e vulnerabilità: mo11
Si v. sul punto anche D. Ruggiu, Soggetto vulnerabile, innovazione tecnologica ed etica della cura, in «Ars Interpretandi. Rivista di ermeneutica giuridica», 2, 2019, pp. 133-154.
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delli istituzionali e concetti in trasformazione, cui il Dipartimento di Giurisprudenza della Federico II ha partecipato con unità di ricerca locale. Al convegno hanno partecipato studiosi dell’unità di ricerca del P.R.I.N. 2015, Trasformazioni della sovranità, forme di governamentalità e dispositivi di governance nell’era globale, dei Dipartimenti di Studi Umanistici e di Scienze Politiche Federico II nonché del Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università Vanvitelli della Campania. Questo progetto ha finanziato la stampa di questo volume.
Ritorno al futuro Il tratto rivoluzionario della governance di Alberto Andronico
«Ciò a cui aspirate, come rivoluzionari, è un padrone. L’avrete». (J. LACAN, Il seminario. Libro XVII)
1. Una mutazione C’è da chiedersi che fine faccia il diritto. E prima ancora della risposta va chiarita la domanda. Ciò che la governance rivela e ciò cui intende in qualche modo rispondere è la perdita di presa sulla realtà sociale di un intero ordine del discorso: quello proprio del pensiero giuridico e politico della modernità, la cui chiave di volta era costituita dallo Stato-nazione, con un suo popolo, un suo territorio ed un centro di potere ben identificabile attraverso il riferimento alla figura del sovrano. E visto che i concetti non sono mai semplici, ma vivono sempre in relazione con altri concetti, la crisi della chiave di volta di questa architettura porta inevitabilmente con sé la trasformazione di tutta una serie di concetti costruiti al suo interno. Per dirla nel modo più semplice possibile: la perdita di centralità dello Stato, effetto del progressivo indebolimento della sua capacità di regolazione, implica una revisione non solo del concetto di “governo”, ma anche – conseguentemente – di altri concetti ad esso collegati. Se questo è vero, la sfida che la scienza giuridica è oggi chiamata a rac-
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cogliere sembra davvero essere quella della “invenzione” di un nuovo ordine del discorso o, quantomeno, della riarticolazione di quello ereditato dalla tradizione1. È un nuovo modo di pensare il diritto che si fa ora avanti con la governance. Un modo che per essere realmente compreso richiede nuove categorie. Non c’è niente da fare. Si tratta davvero di fare i conti con una “grammatica” radicalmente mutata rispetto a quella che ha fatto la storia del pensiero moderno. Lavoro tutt’altro che facile, ovviamente. Non fosse altro che per la tentazione, in buona parte inevitabile, di ricondurre il nuovo all’interno di quegli stessi concetti la cui tenuta è messa in discussione. Per capire perché, però, è il caso di riavvolgere velocemente il nastro della storia, ovviamente senza nessuna pretesa di esaustività.
2. Un mezzo che diventa fine È sufficiente richiamare alla mente come la rappresentazione moderna del diritto, fino ad arrivare a Kelsen, sia strettamente connessa a quel duplice e convergente processo 1
Alfonso Catania ha elegantemente raccolto questa sfida, definendone efficacemente il campo, in un lavoro a cui è necessario rinviare per ogni eventuale approfondimento e che si apre proprio con queste righe: «Quale posto occupa il diritto nel mondo contemporaneo? È ancora lo strumento d’elezione per organizzare la realtà sociale e le relazioni tra uomini e popoli? Se lo è, in che senso, con quali limiti, quanto sono mutati questi limiti dal suo tradizionale uso moderno? E per quali ragioni? La necessità di porsi queste domande emerge dalla trazione cui è sottoposta la visione tradizionale del diritto nel nostro tempo. Nessuna delle categorie giuridiche con cui esso si articola può essere considerata fuori gioco, né la sovranità, né l’ordinamento, né i soggetti, le corti, i tribunali, i procedimenti, i regolamenti, né ovviamente la norma e la decisione: nessuna è fuori gioco, ma nessuna ha il significato che le aveva dato la scienza giuridica stratificandosi nei secoli», cfr. A. Catania, Metamorfosi del diritto. Decisione e norma nell’età globale, Laterza, Roma-Bari, 2008, p. 3.
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che Norberto Bobbio ha definito come di “statualizzazione del diritto” e di “giuridificazione dello Stato”2, vero e proprio filo rosso delle diverse teorie moderne dello Stato e del diritto, almeno da Hobbes in poi. Basta riaprire la Dottrina pura del diritto di Kelsen per capirlo3. Dire, come fa Kelsen, che il diritto non è altro che un “ordinamento giuridico” significa infatti intenderlo come un insieme di norme riconducibili ad unità in quanto poste e imposte da un unico e definibile potere, sovrano se legittimo ed effettivo. Ordinamento giuridico e Stato sono, in questa cornice, due facce della stessa medaglia: è in gioco la centralizzazione del potere e la sua secolarizzazione. Confini territoriali e gerarchia delle fonti qui si incontrano: una volta venuta meno la tensione universalistica dell’Impero Sacro e Romano, il potere si definisce come capacità di mettere ordine all’interno di un territorio, e questo è possibile solo accentrando progressivamente la titolarità della produzione normativa nelle mani di un unico sovrano. Bene, è proprio questo il quadro che sembra, oggi, essere entrato definitivamente in crisi. E con esso l’idea che il diritto, pensato essenzialmente sotto la forma della legge, sia uno strumento di cui il sovrano si serve per mettere ordine all’interno di una società originariamente disordinata. Il diritto che entra in gioco quando si parla della governance è certo ancora uno strumento: un mezzo, insomma. Ma un mezzo da rileggere ormai all’interno di un ordine tecnocratico del discorso. È un mezzo il cui fine, infatti, non è più la costruzione dell’ordine sociale, ma il mantenimento di quel processo comunicativo che è la condizione stessa per l’esistenza di una qualsiasi organizzazione, pubblica o privata che sia. Non è un mezzo di cui il potere legittimo si serve, quindi, per realizzare fini già individuati a tavolino, ma una 2
Cfr. N. Bobbio, Contributi ad un dizionario giuridico, Giappichelli, Torino, 1994, p. 80. 3 Cfr. H. Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto, trad. it. di R. Treves, Einaudi, Torino, 1952.
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tecnica che dovrebbe garantire tanto la legittimità quanto l’effettività del potere attraverso una sempre più estesa partecipazione dei singoli interessati alla scelta delle politiche pubbliche e alla stessa selezione dei problemi cui si intenderebbe far fronte. La capacità di stimolare e di mantenere sempre aperti processi di apprendimento collettivo diventa dunque decisiva. Si tratta di decidere insieme. E innanzitutto di decidere insieme quando e cosa decidere. Non è più in gioco, dunque, un sistema di norme. Ma un processo capace di individuare al proprio interno gli obiettivi da perseguire, imparando – riflessivamente – anche dai propri fallimenti, e facendone (per così dire) tesoro. In ciò risiede il carattere autenticamente “rivoluzionario” della governance, peraltro raramente sottolineato.
3. Cambiare le cose da così a così Ricominciamo da qui: parlare di rivoluzione significa, letteralmente, parlare di un “rivolgimento”. Le cose devono cambiare. E devono cambiare in modo radicale: da così a così, come si dice facendo ruotare la mano. Lo ha spiegato magistralmente Vittorio Mathieu in un suo raffinato Saggio fenomenologico: Il principio della rivoluzione, si è detto, esige incondizionatamente qualcosa, e non specifica in modo determinato che cosa. Le sue indicazioni non sono però così vaghe che, chi sia disposto ad ascoltarle, non possa trarne qualche ispirazione. La parola stessa, “rivoluzione”, ci dice che si tratta di un rivolgimento: le cose devono “ruotare” intorno a un asse, in guisa da presentare, alla fine, una faccia diversa da quella che presentano ora. Ma non basta: perché si possa parlare di rivoluzione in senso pieno, occorre che il rivolgimento sia radicale; che
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non si limiti a trasformare qualche aspetto in superficie, ma rovesci fino in fondo tutto. Le cose devono cambiare “da così a così”, come si dice facendo ruotare una mano in modo che, se prima volgeva verso l’alto la palma, ora volga il dorso, o viceversa. Le cose devono mostrare una faccia totalmente nuova4. Deve cambiare tutto, insomma. La realtà deve essere rivoltata, proprio come il palmo della mano. Tutte le rivoluzioni hanno preteso, del resto, di instaurare un “ordine nuovo”. E se ci si chiede quale sia la differenza tra l’ordine auspicato dalla rivoluzione e qualsiasi altro ordine da essa contestato, ecco la risposta: «L’“ordine” nuovo, che la rivoluzione vuole instaurare, è un ordine non più esterno alla realtà ordinata. È un ordine che non si distingue dalla realtà stessa, a guisa di una “forma” che si applichi a un “contenuto”, o di una disposizione estrinseca che regola gli elementi disposti, bensì un ordine che si identifica con ciò che ordina»5. Ciò che è in gioco in qualsiasi pretesa rivoluzionaria degna di questo nome, dunque, è il passaggio da un ordine estrinseco ad un ordine intrinseco. È un diverso tipo di ordine, quello auspicato dai rivoluzionari di ogni tempo, e non semplicemente un ordine diverso. Un ordine capace finalmente di colmare lo scarto tra la realtà come dovrebbe essere e la realtà come è. E non più concepito nei termini di un modello, giusto per riprendere un termine a noi ormai familiare, da applicare ad una realtà sociale pensata alla stregua di un materiale da poter plasmare a piacimento, a partire da un’iniziativa politica assunta dall’alto di un chissà quale centro del potere. Forma e contenuto qui coincidono. Così come coincidono essere e dover essere. E chissà, sia detto en passant, 4 V. Mathieu, La speranza nella rivoluzione. Saggio fenomenologico, Rizzoli, Milano, 1972, p. 51. 5 Ivi, p. 81.
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magari non è un caso se l’allora Corte di giustizia delle Comunità europee, nel 1963, ha parlato proprio di un “nuovo genere” di ordinamento riferendosi all’ordinamento giuridico comunitario6. Ma questa pista ci porterebbe troppo lontano. Restiamo, invece, sul piano della rivoluzione.
4. Contro il diritto Il primo punto da sottolineare è questo: l’insofferenza rivoluzionaria ha ad oggetto qualsiasi ordine esterno rispetto alla realtà da ordinare e alle volontà che risultano ad esso sottoposte. Ma vi sono anche altri due punti che vanno tenuti a mente, sempre seguendo l’analisi di Mathieu. Una volta esposto il primo, ecco il secondo: la strutturale incompatibilità della rivoluzione con il diritto, e in particolare con la forma della legge. In questa cornice, infatti, il diritto risulta essere inevitabilmente oppressivo, proprio in quanto manifestazione di un ordine strutturalmente esterno rispetto a ciò che si vuole ordinare. Il caso della legge è, appunto, emblematico. La legge è per sua natura “esterna” proprio in quanto misura dei comportamenti che intende regolare. Ed è “esterna” anche rispetto alla volontà dello stesso soggetto che la pone in essere, sganciandosi da essa già nel momento in cui si costituisce come regola generale: «Che cosa, del resto, rende “esterna” una legge, anche quando è osservata spontaneamente? Il fatto che la legge, nell’atto che si pone, già si esterna
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Corte di giustizia delle Comunità europee, sentenza del 5 febbraio 1963, Van Gend & Loos, causa 26/62, in Raccolta della giurisprudenza della Corte di giustizia, 1963, p. 8. Sul punto, mi permetto di rinviare ad A. Andronico, Un “nuovo genere” di ordinamento. Riflessioni sul rapporto tra diritto comunitario e diritto interno, in «Jus», 1, 2001, pp. 69-105. Per un ampio e dettagliato approfondimento, si veda G. Itzcovitch, Teorie e ideologie del diritto comunitario, Giappichelli, Torino, 2006.
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a quella stessa volontà che la pone. Infatti, la legge è per sua natura generale: vale per tutta una classe di casi, anche se poi, di fatto, questa classe non contenesse che un solo individuo, o fosse la classe vuota. La legge, dunque, si esterna rispetto alla volontà che la pone, perché la volontà non può volere al di là dell’atto in cui vuole, mentre la legge si impone a una generalità di atti»7. Si comprende, così, il motivo per cui qualsiasi rivoluzione non può che essere (anche e forse innanzitutto) una rivoluzione contro il diritto, come chiarito sempre da Mathieu: Tra tutte le specie di ordine esterno alla realtà ordinata ve n’è una che, più di ogni altra, preme al rivoluzionario di sopprimere: il diritto: un ordine che regola le volontà secondo forme rigide, dall’esterno; e che, di conseguenza, è per sua natura oppressivo. Esso andrà sostituito con un diverso tipo di ordine, non più esterno perché identificantesi con le volontà ordinate (l’“amore”). L’incompatibilità tra rivoluzione e diritto è un punto capitale, che spiega da sola una quantità di manifestazioni8. Ma c’è anche un terzo punto su cui è il caso di fermare l’attenzione: al contrario della riforma, che intende migliorare singoli aspetti della realtà, la rivoluzione non può risolversi in una tecnica, quantomeno se continuiamo ad intendere la tecnica come un insieme di strumenti in vista della realizzazione di un fine determinato. Proprio questo la distingue da una pura e semplice riforma: «La riforma è una trasformazione per mezzo della tecnica, la rivoluzione no». E la ragione è la seguente:
7 V. Mathieu, La speranza nella rivoluzione. Saggio fenomenologico, cit., p. 111. 8 Ivi, p. 107.
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Il rivoluzionario […] non può che porsi dal punto di vista della totalità: se così non facesse non sarebbe un rivoluzionario, ma un riformista. È proprio delle riforme, l’essere parziali: il far leva su qualcosa che, bene o male, si regge, per agire su qualche altra che ha più urgenza di essere cambiata. Se, però, si tratta di agire sul Tutto, su quale altra cosa potremmo far leva? Non può esserci una leva né un punto di appoggio, per sollevare il mondo, perché fuori dal mondo non c’è nulla. Il Tutto non può, quindi, se non sollevarsi tutto insieme e da sé, con una operazione che non può essere tecnica, a meno di voler imitare il barone di Münchhausen, che si solleva tirandosi per i capelli9. E non solo. Se si intende rivoltare tutto, il fine dell’azione rivoluzionaria, il mondo che ne seguirà, si potrà conoscere solo a rivoluzione avvenuta, e non prima. Detto altrimenti: il fine non potrà in alcun modo essere anticipato: pre-visto, appunto. A meno di intendere la tecnica in una maniera semplicemente “propiziatoria”. Come accade per le opere d’arte, dove la tecnica non ha altro ruolo se non quello di promuovere e favorire il raggiungimento di uno scopo, senza in alcun modo poterlo garantire: Se l’opera bella non può essere progettata solo tecnicamente, è perché nessuno sa ancora come sarà. Chi lo sapesse, l’avrebbe già compiuta, e non gli resterebbe che “eseguirla”, materialmente. Se io sapessi, non solo di voler scrivere una bella tragedia, ma anche come debba esserne il testo, per essere bello, è chiaro che l’avrei già composta: non avrei che da metterla per iscritto. Prima, non sapevo ancora che cosa scrivere, per scrivere una bel9
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la tragedia: dovevo cercare il da farsi, determinare il mio scopo. In altre parole, la “possibilità” di un’opera d’arte nasce a una con la sua realtà: perciò non può essere “prevista”. Per sapere che l’Amleto è possibile, osserva il Bergson, occorre che l’Amleto sia già stato composto: la sua possibilità entra nel mondo, per la prima volta, nell’atto che l’Amleto viene in mente al suo autore. Prima, dire che quella possibilità “ci fosse” non avrebbe avuto senso: nessuno avrebbe saputo indicarla. Sicché quel “possibile” non si poteva progettare10.
5. Un obbligo non obbligatorio Ordine (esterno), legge e tecnica (non ancora “capovolta”). Lo spirito rivoluzionario, come abbiamo visto, contesta tutti e tre questi termini. E curiosamente sono proprio gli stessi termini messi in discussione dalla governance. Dovrebbe essere chiaro, ma è bene sottolinearlo. Procediamo ancora una volta per punti. Primo: l’ordine della governance, proprio come quello auspicato dalla rivoluzione, non è esterno ma (pretende di essere) interno alle volontà regolate. Secondo: ciò cui la governance intende rispondere è la crisi dell’idea per cui si potrebbe regolare la società dall’alto attraverso il ricorso ad un modello, quale che esso sia, e dunque attraverso quella legge dal pensiero moderno intesa quale strumento privilegiato di qualsiasi progetto di governo della società. Terzo: anche la governance, ancora una volta come la rivoluzione, non si presta ad essere inquadrata come una tecnica strumentale alla realizzazione di un fine già determinato, ma semmai come un processo continuo di apprendimento per prove ed errori, funzionale alla sua individuazione.
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Ora, se questo è vero, si capisce il motivo per cui della governance si sono finora occupati, prevalentemente (non esclusivamente, beninteso), sociologi, economisti, studiosi delle organizzazioni aziendali, filosofi della politica, e non filosofi del diritto. E il motivo lo si può riassumere in una battuta: quando si parla di governance non si parla di diritto. O quantomeno non si parla del diritto così come siamo abituati a parlarne. Insomma: non si parla della legge, intesa come misura esterna all’azione. Si spiega così, peraltro, la perdita di centralità, se non addirittura l’estinzione, del riferimento alla sanzione come elemento costitutivo del suo concetto, tratto distintivo di tutti quegli eterogenei fenomeni normativi riconducibili alla paradossale etichetta del diritto non vincolante, o soft law che dir si voglia11. Una volta tradotto il diritto, infatti, nei termini di un’attività coordinativa (o cooperativa, che dir si voglia), quale la governance pretende essere, viene meno, alla radice, la stessa possibilità che si verifichi un conflitto tra ciò che devo e ciò che è mio interesse fare, dunque, a ben vedere, la condizione necessaria affinché si possa parlare di un comportamento, in senso proprio, obbligatorio. A meno di pensare, con Rousseau, che abbia senso forzare qualcuno ad essere libero12. Lo ha spiegato bene Aldo Schiavello, riprendendo la lezione di Hart: 11
Secondo la puntuale definizione di Edmondo Mostacci, infatti: «Il carattere differenziale degli strumenti di soft law è […] l’assenza di reazione al mancato adempimento delle norme da esso poste. Dal punto di vista di queste ultime, esse si caratterizzano per non essere assistite, per lo meno in via diretta, né da sanzione né da coazione, intesa in senso specifico», in E. Mostacci, La soft law nel sistema delle fonti: Uno studio comparato, Cedam, Padova, 2008, p. 8. 12 Celebre questo passo: «Perché dunque il patto sociale non sia una vuota formula, esso deve racchiudere tacitamente in sé questo impegno, che solo può dare forza a tutti gli altri, e cioè che chi rifiuterà di obbedire alla volontà generale, vi sarà obbligato da tutto il corpo, il che non vuol significare altro che lo si forzerà a essere libero, perché si tratta di una condizione che, offrendo ogni cittadino alla patria, lo
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Per Hart […] una delle condizioni necessarie affinché un determinato comportamento possa essere ricostruito in termini di obbligo è che vi sia una “permanente possibilità di conflitto” tra l’obbligo da un lato e l’interesse personale dall’altro. Alla luce di questa condizione – di cui è arduo ipotizzare l’assenza in qualsivoglia concezione dell’obbligo – non è possibile parlare di obbligo in relazione ad un problema di coordinazione. In questo caso, infatti, il comportamento richiesto dall’esistenza di una convenzione o di una direttiva di una autorità coordinativa è nell’interesse di chi deve porlo in essere13.
garantisce da ogni vincolo di dipendenza personale; situazione che costituisce la tecnica e il gioco della macchina politica e che sola rende legittimi gli obblighi civili, i quali, al di fuori di essa, sarebbero assurdi, tirannici e sottoposti ai più enormi abusi», in J. J. Rousseau, Il contratto sociale o Principi di diritto politico, ed. it. a cura di R. Gatti, Rizzoli, Milano, 2000, p. 67, corsivo mio. 13 A. Schiavello, Perché obbedire al diritto? La risposta convenzionalista e i suoi limiti, ETS, Pisa, 2010, p. 128. Per un “convenzionalista” come Postema la funzione della sanzione sarebbe soltanto quella di incrementare l’efficienza di un equilibrio di coordinazione (cfr. G. J. Postema, Coordination and Convention at the Foundations of Law, in «The Journal of Legal Studies», 11, 1982, pp. 165 ss). Ma, chiosa Schiavello: «La domanda da porsi è se, effettivamente, in ambito giuridico la sanzione ricopra un ruolo così residuale. La risposta a questa domanda, che non può che essere negativa in modo tranchant, consente di ribadire che la funzione principale del diritto, almeno a questo primo livello, non è quella di risolvere genuini problemi di coordinazione. Come osserva anche Lewis, peraltro, “alcune regole non possono essere considerate convenzioni semplicemente perché prevedono, in caso di violazione, sanzioni così serie da rappresentare ragioni decisive per obbedire anche in assenza di ragioni ulteriori”», in A. Schiavello, Perché obbedire al diritto? La risposta convenzionalista e i suoi limiti, cit., p. 137. Il brano di Lewis è tratto da D. Lewis, Convention. A Philosophical Study, Blackwell, Oxford, 1969, p. 103.
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Indimenticabile, del resto, la lezione di Alexandre Kojève, in merito alla distinzione tra autorità e diritto: «Il Diritto ha autorità solamente per coloro che lo “riconoscono”, ma resta un Diritto anche per coloro che lo subiscono senza “riconoscerlo”»14. Ed ecco perché: Nel caso dell’Autorità, la “reazione” (l’opposizione) non esce mai dall’ambito della possibilità pura (non si attualizza mai): la sua realizzazione distrugge l’Autorità. Nel caso del Diritto, invece, la “reazione” può attualizzarsi senza per questo distruggere il Diritto: basta che tale “reazione” sia subita da una persona diversa da quella che detiene il Diritto […]. Da questa differenza consegue che se, in linea di principio, l’Autorità esclude la forza, il Diritto la implica e la presuppone, pur essendo tutt’altra cosa rispetto alla forza (non vi è Diritto senza Tribunale, né Tribunale senza Polizia, che può far eseguire con la forza le decisioni del Tribunale)15.
6. Un ordine spontaneamente artificiale Il diritto non si identifica con la forza, ma la implica e la presuppone, afferma dunque Kojève. Certo, resta un dubbio: il fatto che non si parli del diritto così come la modernità ci ha abituato a parlarne non significa, a ben vedere, che non se ne possa parlare in altro modo. Anzi. La sfida che la governance sembra proporre è proprio quella della costruzione di una nuova grammatica, diversa da quella moderna: che come tutti gli ordini del discorso ha una storia, una vita, uno sviluppo ed una fine, forse proprio quella cui stiamo assistendo og14 A. Kojève, La nozione di autorità, ed. it. a cura di M. Sellitto, trad. it. di S. Moreno, Adelphi, Milano, 2011, p. 23. 15 Ivi, p. 22.
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gi. E non è certo un caso se da più parti si è parlato di un paradossale “ritorno al futuro”: come se il nostro futuro, e per certi versi già il nostro presente, fosse destinato a somigliare al nostro passato remoto, piuttosto che al nostro passato prossimo16. Provocatoriamente, infatti, può sorgere il sospetto che, qualora si fosse dovuto confrontare con un fenomeno come quello della governance, un giurista medievale sarebbe stato più attrezzato di un nostro contemporaneo. Non certo per l’assenza delle sanzioni, quanto piuttosto perché la riconduzione di tutte le fonti del diritto alla legge non apparteneva al suo bagaglio concettuale, per non parlare di quella convergenza fra diritto e Stato su cui abbiamo in precedenza fermato l’attenzione riprendendo l’analisi di Bobbio. Così come, del resto, era estranea alla sua mentalità l’idea che il diritto fosse uno strumento funzionale alla costruzione di un ordine sociale. Allora non si parlava di un ordine “artificiale” da costruire, ma di un ordine “naturale” da conservare e garantire. E il diritto si pensava servisse proprio a questo: a custodire le condizioni di un ordine sociale considerato come già dato: metafisico, divino o cosmico che dir si voglia. Preziosa, come sempre, la lezione di Paolo Grossi: «Ordine. Con un termine e una nozione siffatti siamo al cuore dell’antropologia medievale. I fatti naturali e sociali, ormai protagonisti, non sono una alluvione di fenomeni malamente accatastati l’uno sull’altro, ma, trovando la propria fonte nella sapienza divina, sono inseriti in una armonia che tutti li compone. L’ordine è precisamente quel tessuto di relazioni grazie 16 D’obbligo il rinvio a H. Bull, The Anarchical Society. A Study of Order in World Politics, Columbia University Press, New York, 2002. Per un approfondimento del lavoro di questo influente politologo australiano, cfr. il recente F. Ruschi, Una ordinata anarchia. La filosofia del diritto internazionale di Hedley Bull, Bonanno, Catania, 2012. Si veda anche J. Friedrichs, The Meaning of New Medievalism, in «European Journal of International Relations», 4, 2001, pp. 475-501 e Id., European Approaches to International Relations Theory. A house with many mansions, Routledge, London-New York, 2004.
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al quale un coacervo di creature eterogenee si riconduce spontaneamente ad unità»17. Proprio quest’ultimo passaggio consente di capire, tuttavia, il limite dell’ipotesi di un “ritorno al futuro”18. L’ordine della governance è tutto tranne che trascendente. Non è progettato a tavolino, d’accordo, né si realizza attraverso la legge, ma è pur sempre radicalmente immanente e artificiale. Con questa precisazione, però: è un ordine che si costruisce, e non da costruire. Detto in una battuta: è artificiale, sì, ma spontaneo19. Non è un ordine antico 17
P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, Laterza, Roma-Bari, 1995, p. 81. 18 È sempre Paolo Grossi, infatti, a denunciare l’ingenuità del New Medievalism: «La maturità di tempi medievale fu realtà originale, storicamente tipica, perché provocata dalla incandescenza di quel momento storico. Una sua riproduzione manca di fondamento, sa di antistoricità. Quel medioevo è irrimediabilmente consumato nella sua vicenda storica. Ovviamente, cade anche l’ipotesi arrischiata di un modello; e non solo per le cautele metodologiche sopra segnate, ma in grazia della sua assoluta e irripetibile tipicità. Può servire da momento dialettico: storia compiuta, interamente vissuta da un pianeta storico di intensa originalità, ha dei messaggi forti, soprattutto in questo momento in cui abbiamo gettato alle ortiche quei vestimenti antimedievali di cui i moderni polemicamente si ammantarono e in cui i valori di quella civiltà sono ormai oggetto di spassionata considerazione. Oggi che tentiamo di liberarci dell’abbraccio soffocante dello Stato, oggi che tentiamo la costruzione di un diritto sempre più aperto a una proiezione trans-nazionale se non addirittura universale, il messaggio medievale può riuscire proficuo» (P. Grossi, Unità giuridica europea: un medioevo prossimo futuro?, in «Quaderni fiorentini», 31, 2002, pp. 51-52). 19 In quest’ottica, la prospettiva dell’Austro-liberalismo sembrerebbe avere ancora tanto da insegnare, pur se con questa lucida precisazione di Raimondo Cubeddu: «In breve, il problema può essere enunciato chiedendoci se in società sempre più caratterizzate da crescenti ed allarmanti asimmetrie nella produzione e nella distribuzione della conoscenza (e, di conseguenza, di opportunità e di beni), sia ancora possibile che si formi un ordine – per quanto soft – come esito del processo di catallassi o di un “evoluzione culturale spontanea”. Per una serie di circostanze che Hayek e gli “austriaci” avevano avvertito ma
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o medievale, quindi, e neanche moderno. Ma, semmai, per quanto paradossale possa sembrare, un ordine disordinato, o post-moderno che dir si voglia.
non indagato a sufficienza (ed ai loro tempi c’erano pochi motivi per farlo), tutto ciò, a mio avviso, può infatti dar vita ad insiemi non complementari di aspettative individuali e sociali, e a credenze individuali e collettive che, non ponendosi neanche il problema se possano mai essere realizzate (e ancor meno il problema del loro eventuale costo), potrebbero presentare problemi ad essere regolate non solo da sistemi di hard law, ma anche tramite modelli, o sistemi, di soft law» in R. Cubeddu, Soft law e hard law nella prospettiva dell’Austro-liberalismo, in A. Somma (a cura di), Soft law e hard law nelle società postmoderne, Giappichelli, Torino, 2009, p. 42.
Like a rolling stone. Globalizzazione, democrazia, vulnerabilità di Alessandro Arienzo
Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani. Mano a mano che cadendo passa da un piano all’altro, il tizio, per farsi coraggio, si ripete: “Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene”. Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio
La voce narrante di Hubert, in apertura del film La Haine, rappresentava bene le inquietudini dei primi anni ’90, poco dopo la caduta del Muro di Berlino. Il secondo Novecento si era chiuso lasciando il globo lastricato di guerre e di conflitti sociali irrisolti: Los Angeles e Vaux-en-Velin, la prima Guerra del Golfo e il crollo della Jugoslavia. Drammi interpretati come gli esiti ultimi di un vecchio mondo che cadeva. Restava tutto da comprendere quale sarebbe stato l’approdo. A leggerli a ritroso, quegli eventi potevano essere interpretati forse come il preludio di un nuovo caos che andava lentamente preparandosi, e che era in maturazione già da tempo1. In effetti, è fin dal Secondo Dopoguerra, e in maniera sempre più rapida dagli anni ’70, che era in atto una radicale e repentina trasformazione delle forme del vivere: gli sviluppi scientifici, tecnologici e comunicativi; il poderoso ampliarsi delle catene 1 G. Arrighi, B.J. Silver, Caos e governo del mondo. Come cambiano le egemonie e gli equilibri planetari, Mondadori, Milano, 2010.
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produttive e il loro distribuirsi sull’intero globo; l’aumento della produzione e dell’accumulazione delle ricchezze. Sul piano strettamente politico, col progressivo indebolirsi dell’alternativa socialista e comunista, si rendeva possibile una più complessiva riorganizzazione delle relazioni tra sfera economica e sfera politica, i cui esiti sono stati il sostanziale ridimensionamento dello stato sociale e la liberalizzazione progressiva di campi – la sanità, l’istruzione, il lavoro – su cui si era retto il compromesso tra istanze liberali e socialiste che Wolfgang Streeck ha descritto come capitalismo democratico2. Il 1989 ha quindi segnato solo il punto di svolta di un ordine politico democratico-liberale che, vincente, poteva presentarsi come fine (e come il fine) della storia3. Il nuovo millennio presenterà ben presto però il conto delle contraddizioni e dei limiti allo sviluppo che il Novecento aveva lasciato covare, e magari sollecitato: il susseguirsi degli attentati, il disseminarsi dei conflitti locali, il ritorno di politiche emergenziali, le ricorrenti crisi economiche e finanziarie. Dopo l’euroforia globalista degli ultimi decenni del Novecento, l’11 Settembre ci accoglieva “nel deserto del reale”4, mostrandoci quanto dall’inizio del nuovo millennio, se c’era stata una ragione – una sua misura – nella globalizzazione “politica” degli ultimi decenni del Novecento, questa ragione sembrava essersi dissolta5. Da lì in poi sarebbero 2 W. Streeck, Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, Feltrinelli, Milano, 2013. Cfr. F. Ewald, L’état providence, B. Grasset, Paris, 1986 e P. Rosanvallon, La crise de l’Etat-providence, Seuil, Paris, 1981. 3 F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano, 1992. 4 Parafrasando il titolo della raccolta dei saggi di Slavoj Zikek Benvenuti nel deserto del Reale, Meltemi, Milano,2017. 5 Sul tema della misura, e le sue implicazioni nelle contemporanee riflessioni su governance e globalizzazione, vedi P. Schiera, La misura come bene comune, EUM, Macerata, 2010, pp.40-43; cfr. anche A. Co-
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tornati di attualità temi e oggetti che sembravano essere stati messi in questione dall’orizzonte post-westfaliano: lo Stato, il popolo, l’identità nazionale, la sovranità. Un ritorno che ci interroga e che mostra il nostro disagio in un’epoca che appare senza fondamenti6. I cambiamenti politici ed economici così rapidi, e le ricorrenti crisi sociali e culturali che questi producono, ci consegnano un presente di incertezze e di paure, non ultima quella ambientale, che sembrano riportare sulla scena della politica i temi freudiani del “disagio nella civiltà” e della pulsione di morte7. Il correlato dell’incertezza e dell’insicurezza cui sembriamo oggi condannati è l’angoscia prodotta dal sentirsi esposti, vulnerabili, precari, stretti tra un passato che non ci appartiene, un presente incomprensibile, e un futuro opaco. Non è allora un caso che proprio il concetto di vulnerabilità segni una parte significativa del dibattito filosofico politico e giuridico contemporaneo, situandosi al cuore di una riflessione sugli esiti, sui limiti e sui fallimenti dei tentativi di regolare le relazioni tra politica, economia e forme di vita8. Attraverso di esso, si vuole interrogare il lombo, La disunità del mondo. Dopo il secolo globale, Feltrinelli, Milano, 2009. 6 Cfr. C. Galli, Spazi politici. L’età moderna e l’età globale, Il Mulino, Bologna, 2001; N. Brenner, New State Space, OUP, Oxford, 2004; J. Agnew Globalization and Sovereignty, Lanham, Rowman & Littlefield, 2009; R. Koselleck, Futuro Passato. Per una semantica dei tempi storici, Marietti, Genova, 1986. 7 Per una panoramica dei problemi, mi limito a rinviare a F. Borrelli, M. De Carolis, F. Napolitano, M. Recalcati, Nuovi disagi nella civiltà. Un dialogo a quattro voci, Einaudi, Torino, 2013. 8 Sul tema vedi innanzitutto i lavori di Martha Albertson Fineman e la sua Vulnerability and Human Condition Initiative. In particolare, rinvio alla raccolta curata con A. Grear, Vulnerability: Reflections on a New Ethical Foundation for Law and Politics, Ashgate, Farnham, 2013. Si veda quindi i saggi contenuti nel volume a cura di O. Giolo, B. Pastore, Vulerabilità. Analisi multidisciplinare di un concetto, Roma, Carocci, 2018. Si veda anche G. Zanetti, Filosofia della vulnerabilità. Per-
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vulnus, la lacerazione prodotta dalla modernizzazione e dalle sue spinte9. Nella bella espressione di Adriana Cavarero: «Vulnerabile è l’essere umano in quanto corpo singolare aperto alla ferita. Non c’è però alcuna necessità nel vulnus che il termine menziona, bensì solo la potenzialità di una ferita sempre incombente e legata alla contingenza»10. In termini strettamente politici, come ancora di recente ha discusso Judith Butler, la vulnerabilità è l’esito di quella “distribuzione differenziale della precarietà”, ossia di quella «condizione politicamente indotta per cui determinate persone soffrono più di altre per la perdita di reti economiche e sociali di sostegno, diventando differenzialmente esposte all’offesa, alla violenza e alla morte»11. Certamente quello di vulnerabilità è un concetto piuttosto vago – anche se non più di altri di uso ormai ricorrente come globalizzazione, governance, biopolitica – che vuole però rappresentare la condizione di dipendenza, anomia e dismisura del cittadino globale. Se vulnerabilità è allora una categoria con la quale ricordarci che la condizione umana è ontologicamente segnata dalla fallibilità e dalla dipendenza, fa bene la Butler a ricordare che questa condizione implica sempre e comunque una diversa esposizione alla sofferenza e alla possibilità della morte violenta tra classi sociali, popolazioni, singolarità di vita. In un quadro di progressivo sfaldamento di una politica fondata su principi e valori universali, precarietà e vulnerabilità mostrano quanto sia in difficoltà la stessa funzione di produzione di senso che la modernità ha cezione, discriminazione, diritto, Carocci, Milano, 2019. 9 Si veda il bel saggio di Giorgia Maragno, Alle origini (terminologiche) della vulnerabilità: vulnerabilis, vulnus, vulnerare, in Giolo, Pastore, Vulerabilità. Analisi multidisciplinare, pp. 13-35. 10 A. Cavarero, Orrorismo, ovvero della violenza sull’inerme, Feltrinelli, Milano, 2007, p. 42 11 J. Butler, L’alleanza dei corpi, Milano, nottetempo, 2017, p. 57.
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attribuito alla dimensione collettiva dell’uomo12. L’essere vulnerabili ci appare, allora, non solo come l’espressione dell’uomo in quanto ente generico, ma come la dimensione propria dell’individuo sociale. È in questo senso che possiamo forse sostenere che oggi è la democrazia stessa ad essere vulnerabile, perché in essa precipitano condizioni strutturali di indebolimento e precarizzazione di senso politico: ossia del nostro pensare e vivere lo Stato e lo spazio pubblico, il soggetto politico, il singolo13. Eppure, se cogliamo fino in fondo le sfide della vulnerabilità, possiamo forse comprendere le ragioni per cui non è possibile una restaurazione identitaria dell’uomo e delle sue società parziali, un “recupero” – una forma di sutura – della lacerazione prodotta dalla fine del Novecento. In tal senso, la vulnerabilità «rinvia inoltre all’alterità, all’interazione, al riconoscimento reciproco, all’interdipendenza, poiché, in quanto caratteristica degli esseri umani, suggerisce la decostruzione della rappresentazione del soggetto, con la sua autonomia e indipendenza, a favore di una nuova concezione fondata sulla relazionalità»14. Le risposte etiche, politiche e giuridiche che ne derivano gettano quindi le loro radici nella presa in carico di una condizione umana fondata sulla mancanza, sulla dipendenza e pertanto rinviano alla necessità del riconoscimento della natura singolare di ognuno ma anche alla ontologica fragilità e interdipendenza che è propria del nostro mondo. Quindi all’impossibilità di ricucire una volta e per tutte quella lacerazione che questa mancanza produce. 12
Su questo punto, cfr. il saggio di G. Preterossi, La dimensione sociale della vulnerabilità, in Giolo, Pastore, Vulerabilità. Analisi multidisciplinare, cit., pp. 205-218. 13 Si veda J. Butler, Vite precarie. Contro l’uso della violenza in risposta al lutto collettivo, Meltemi, Milano, 2004. 14 O. Giolo, B. Pastore, Premessa a Vulerabilità. Analisi multidisciplinare, cit., pp.11-12.
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La categoria di vulnerabilità permette allora non solo di interrogarci sulla condizione di dipendenza e di fragilità dell’umanità e del suo mondo, e quindi di ripensare il diritto come riconoscimento e la politica come cura, ma anche di interrogare tre ambiti in cui il nostro viaggio al termine del Novecento ci ha posti “fuor di sesto”: lo Stato e la sua sovranità, il popolo e la sua funzione legittimante, il singolo in quanto soggetto politico. Tutti e tre questi piani sono oggi parte di quel complesso di lacerazioni che, più del nostro più immediato passato, ci lasciano smarriti e vulnerabili a fronte di un presente caotico, incomprensibile e apparentemente ingovernabile. Paure, insicurezze, angosce e risentimenti sembrano essere tornati a costituire e dare forma alla politica. E la risposta a questo insieme di paure e insicurezze ha assunto oggi il volto, feroce, della territorializzazione identitaria: dai sovranismi ai populismi. Un desiderio di chiusura, un’istanza di invulnerabilità che mira a nascondere la nostra e l’altrui esposizione, le comuni interdipendenze e fragilità. Risposta, quindi, a quell’insieme di fenomeni di lungo periodo che chiamiamo globalizzazione e governance; due lemmi che hanno mutato la percezione del mondo dando un nome – e quindi forma – a quello shock del globale che ha segnato la seconda metà del secolo scorso15. Lo Stato si è innanzitutto scoperto “dipendente” e vulnerabile, catturato in una rete di interdipendenze che lo rendono oggetto agito più che soggetto agente. Peraltro, esso si è scoperto non solo condizionato da “vincoli esterni”, ma anche impegnato nel rifon15
N. Ferguson, C.S. Maier, E. Manela, D.J. Shock of the global. The 1970s in perspective, Belknap Press, 2010. Cfr. U. Beck, Che cos’è la globalizzazione, Carocci, Roma, 1999, p. 24. Cfr. anche J. Habermas, La costellazione post-nazionale, Feltrinelli, Milano, 1999; J.E. Stiglitz, La globalizzazione e i suoi oppositori, Torino, Einaudi, Torino, 2000. Mi permetto, infine, di rinviare a A. Arienzo, La governance, Ediesse, Roma, 2013.
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dare la propria legittimità in ragione di nuovi “vincoli interni”: mutamenti nelle soggettività, il ruolo pervasivo delle logiche dello scambio economico e finanziario, la centralità della comunicazione diffusa. Più di ogni cosa, è stata forse l’evanescenza dei “confini” a mostrare quanto l’identità territorializzata degli Stati si scontrasse con nuovi limiti. Da linea di demarcazione netta, che separa l’interno dall’esterno, il confine è divenuto poroso, scavalcato da borders: spazialità e funzioni che realizzano inedite e altrettanto solide demarcazioni operazionali più che geografiche16. I confini si sono moltiplicati, sovrapposti, confusi nel loro gestire e regolare flussi di merci, capitali, uomini e vissuti. Il ridursi della presa degli Stati sui piani interno e internazionale, dovuta al crescente aumento delle interdipendenze, ha posto allora la questione se la sovranità, e la territorialità, potessero ancora continuare a valere quali fondamenti dei processi di legittimazione politica17. E quindi se, in un contesto di sovranità deboli, si possa effettivamente darsi una politica democratica18. Del resto, lo spazio democratico-liberale, per rispondere alla sua configurazione “popolare”, deve poter incarnare l’unità, l’autonomia e l’autogoverno rappresentativo della propria comunità politica, laddove la globa16
Cfr. S. Mezzadra, B. Neilson, Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale, Il Mulino, Bologna, 2014 e Id., The Politics of Operations: Excavating Contemporary Capitalism, Duke Univ. Press, 2019. 17 H. Spruyt, The Sovereign State and Its Competitors: An Analysis of Systems Change, PUP, Princeton, 1986; Q. Skinner, The Sovereign State: a genealogy, in H. Kalmo, Q. Skinner (eds), Sovereignty in Fragment. The Past, Present and Future of a Contested Concept, CUP, Cambridge, 2010, pp. 26-46; T. Negri, Sovranità oggi. Vecchie e nuove frammentazioni, nuove eccedenze (), in Dentro/Contro il diritto sovrano, Ombre Corte, Verona, 2009, pp. 199-214. 18 N. MacCormick, Questioning Sovereignty. Law, State and Nation in European Context, Oxford Univerity Press, Oxford, 2nd edn, 2002, p. 125; C. Galli, Sovranità, Bologna, Il Mulino, 2019.
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lizzazione sembra invece indebolire i presupposti nazionaleidentitario e territoriale della volontà popolare. Nel nesso tra Stato, sovranità e rappresentanza messo in tensione dalla globalzzazione troviamo allora riassunte le tensioni aporetiche di una democrazia vulnerabile, che non riesce a svincolarsi dallo Stato e dalla sovranità nel momento in cui lo Stato e la sovranità (nonché, certamente, il “mercato”) (ri)scoprono di poter fare a meno della piena democrazia. Del resto, nella globalizzazione anche la persona dello Stato “si sente” vulnerabile, perché vede indebolirsi, nell’economia delle interdipendenze che lo cattura, non tanto la propria “autorità”, quanto le sue effettive capacità di controllo19. In questa condizione critica prendono corpo nuove ripartizioni del potere e nuove funzioni di governo capaci di fare dello Stato un attore effettivamente globale20. Alla ricerca di queste architetture, si affianca anche la ricerca di una solidità (immaginaria) perduta: la sovranità in declino ha forse negli “Stati murati” la sua risposta” fantasmatica”21. Un fantasma di identità e di democrazia popolare che tenta di tacere il malessere prodotto dalla vulnerabilità, dal dubbio, dall’instabilità, amplificando – tuttavia – il caos di un globo sempre più multipolare e diviso. Tutto ciò conduce a una secondo piano problematico, connesso al rapporto che intercorre tra la sovranità dello Stato e i suoi governati, tra lo Stato e il suo popolo. Infatti, nell’orizzonte politico democratico-liberale solo attraverso la finzione giuridico-politica del “popolo” l’autorità pubblica può operare “legittimamente” e produrre consenso. Ma questo popolo ri19
Cfr. S.D. Krasner, Sovereignty: Organized Hypocrisy, PUP, Princeton, 1999. 20 Cfr. M. Ricciardi, Dallo Stato moderno allo Stato globale. Storia e trasformazione di un concetto, «Scienza & Politica. Per una storia delle dottrine», XXV, n. 48, 2013, pp. 75-93. 21 Cfr. W. Brown, Stati murati, sovranità in declino, Roma-Bari, Laterza, 2013.
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specchia sempre un percorso di costruzione identitaria che precipita nella “nazione” e che, neutralizzando la sua radice particolare (il populus-plebs), finisce per scivolare nell’uno moderno della natio e dell’ethnos, che del popolo costituiscono il risvolto oscuro perché escludente22. Nella breve stagione della piena globalizzazione politica, quella che dalla fine degli anni Novanta arriva alle crisi dei primi anni del nuovo millennio, lo Stato è sembrato doversi dissociare dal popolo quale fonte della sua legittimità sia perché il popolo, in quanto principio giuridico-formale, fungeva sempre meno da unità normativa risultante dal «conglomerato di atti individuali, determinato dall’ordine giuridico dello stato»23, sia perché questa configurazione giuridico-formale – che pure esprime simbolicamente l’uno delle volontà singolari organizzate in una comunità – non riusciva più a garantire una effettiva sintesi politica al moltiplicarsi delle istanze particolari (culture, interessi, soggettivazioni) che compongono oggi la nazione. Utilizzando una bella espressione di Pierre Rosanvallon, si può forse sostenere che il popolo resti, nonostante tutto, introvabile e “insondabile”. Migrazioni, eccedenze di desiderio, ibridazioni culturali che sconfinano gli spazi simbolici e identitari: questo proliferare di forme di vita e di percorsi di soggettivazione ha forse indebolito il ruolo centrale del territorio-nazione nei processi di costruzione delle identità politiche. Eppure, è forse proprio la “morte” del popolo ad aver prodotto il ritorno populista e identitario. Sul versante politico, ad uno Stato e ad un popolo “vulnerabili” si affianca la percezione di una democrazia essa stessa fragile e insicura. Dopo decenni in cui si è pensato di 22
B. Anderson, Comunità immaginate. Origini e frontiere dei nazionalismi, Roma, Manifestolibri, 1996; E. Balibar, I. Wallerstein, Razza, nazione, classe. Le identità ambigue, Edizioni Associate, Roma, 1996. 23 H. Kelsen, Essenza e valori della democrazia, in Id., La Democrazia, Il Mulino, Bologna, 1995, p. 59.
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poter sostituire il governo con la governance, e di poter fare della politica il mero management dell’economia e della società, la politica appare incapace di dare risposte adeguate e tempestive alle spinte della mondializzazione; alimentando, piuttosto che contenendo, i conflitti e le divisioni interne ai singoli Stati. A questo si affianca il crescente deficit democratico e il vuoto di partecipazione prodotto dall’evaporarsi del sistema dei partiti di massa, dalla disintermediazione comunicativa nonché dal blocco della mobilità sociale e politica. Il governo rappresentativo, che è il cuore istituzionale di ciò che chiamiamo oggi democrazia, non sembra più essere in grado di dare alle ordinarie divisioni sociali una rappresentazione e una composizione efficace. I conflitti, nascosti e sottratti ai processi della mediazione politica, operano indebolendo il tessuto sociale e relazionale, e facendo riemergere in forme sempre più violente antagonismi tra parti, ceti, gruppi. Alla crescente insicurezza interna e alla rottura del legame sociale si risponde con il richiamo identitario al “popolo”, e ai suoi confini nazionali, ad un fantasma di coesione e radicamento. Ecco che all’apertura globalista dei primi anni ’90 del secolo scorso, ha fatto seguito l’irrigidimento conservativo e il permanente governo dell’emergenza giustificato dalla incertezza e dalla ingovernabilità crescenti di territori, popolazioni, economie. In questo quadro non sorprende il ritorno di una “ragion di stato” che si presenta però col volto cinico ma ragionevole del realismo politico e della ragione geopolitica, a difesa di interessi, radici storiche e identità presupposte24. Questa ragione dello Stato assume quindi le forme della concentrazione del potere politico esecutivo e della manipolazione e gestione/produzione di paura/incertezza attraverso la cura dell’opinione pubblica. Paure, quindi, mediatizzate e rese strumenti di cattura delle angosce reali dei singoli alle quali, 24 Cfr. A. Arienzo, G. Borrelli, Emergenze democratiche. Ragion di Stato, Governance, Gouvernamentalité, Giannini, Napoli, 2011.
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quindi, la politica risponde con l’esaltazione della leadership individuale e delle strutture dei nuovi partiti personali25. In un mondo che cambia repentinamente, non sono ancora emerse forme politiche adeguate attraverso le quali dare forma e misura alla rete complessa di interdipendenze che ci rende “vulnerabili”, perché necessariamente dipendenti gli uni dagli altri. La crisi ambientale, più di ogni altra, mostra quanto sia necessario e ineludibile un orizzonte politico che assume questa reciproca dipendenza come fondamento di uno spazio politico inevitabilmente globale. La vulnerabilità è, allora, la cifra del nostro essere sociale. A partire dal nostro essere onticamente radicati in uno Stato in cui rispecchiamo la nostra vulnerabilità e di cui ne rispecchiamo la vulnerabilità. Nel primo caso, il rispecchiare la nostra vulnerabilità nello Stato è il prodotto del nostro pensare lo Stato come stato “sociale”, paternale, protettivo cui chiediamo di rispondere a bisogni. Nel secondo caso, è l’incapacità dello Stato di contenere il caos nella globalizzazione a farcelo scoprire “vulnerabile” e incapace di esercitare fino in fondo la sua funzione protettiva e rassicurativa. Il ritorno dei sovranismi, di localismi e particolarismi è, allora, anche l’esito di una durissima ri-territorializzazione identitaria che vuole ribaltare le insicurezze prodotte dalla globalizzazione liberista che ha segnato il globo post-1989. In questo quadro, non basta forse evocare la necessità di una generica globalità per tentare di spostare il piano della vulnerabilità politica come dimensione parziale e particolare dell’essere sociale a quello, più ampio, del governo globale della comune interdipendenza. In primo luogo, è necessario 25
Su questo tema, si vedano i lavori di F. Furedi, in particolare il suo Culture of Fear, Continuum, London, 2006. Si veda anche di R. Castel, L’insicurezza sociale. Che significa essere protetti?, Einaudi, Torino, 2011. Per l’Italia, il recente M. Revelli, La politica senza politica. Perché la crisi ha fatto entrare il populismo nelle nostre vite, Einaudi, Torino, 2019.
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cogliere fino in fondo “la fine dell’illusione” che si possa stabilire una qualche definitiva stabilità, e assumere il dato – ontologico – che esprime la “radicale e necessaria alterabilità dell’essere” che la politica non può che rispecchiare26. In secondo luogo, non è eludibile la questione delle relazioni tra vulnerabilità e le dinamiche socioeconomiche, oltre che culturali, che le producono. La forma sociale nella quale viviamo è “capitalistica” ossia fondata su quel particolare rapporto sociale di produzione che chiamiamo “capitale”. Il capitale produce merci, produce conflitti, e rivoluziona costantemente il mondo che noi siamo. Esso promuove o contrasta “forme di vita” e soggettività perché «nella produzione sociale dell’esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali»27. Ciò nonostante, la storia (e la politica) resta il regno della libertà e sebbene le condizioni che gli uomini si trovino dinnanzi non siano mai arbitrarie, esse non sono con ciò mai necessitanti28. Tuttavia, è pur sempre nelle attuali condizioni “sociali” di produzione che le “vulnerabilità” debbono essere collocate e assumono un senso e un verso sociale. Una significativa parte del dibattito contemporaneo sulla categoria di vulnerabilità mette in risalto quanto questa categoria rischi di centrarsi su una generica condizione soggettiva (propria di singoli o di gruppi umani) e non sulla relazione, o sull’insieme delle relazioni sociali,
26
Sul tema vedi il contributo di F. Ciaramelli, La vulnerabilità: da caratteristica dei soggetti a carattere del diritto, in O. Giolo, B. Pastore, Premessa a Vulnerabilità. Analisi multidisciplinare, cit., pp. 171-1082 27 K. Marx, Prefazione a Per la Critica dell’Economia Politica, in Id., Il Capitale. Critica dell’economia politica, Libro I, vol.2, appendici, Einaudi, Torino, 1957, p. 957. 28 Su questo tema trovo molto utile la lettura di Sandro Mezzadra, Nei cantieri marxiani. Il soggetto e la sua produzione, Manifestolibri, Roma, 2014.
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che producono questa vulnerabilità29. In altri termini, il rischio è di sciogliere il problema della interdipendenza comune e delle relazioni di dominazione socioeconomica in una pluralità singolare (e pertanto equivalente) di diverse condizioni vulnerabilità. Dando magari una risposta esclusivamente risaricitoria, o più ampiamente giuridica, ma non propriamente politica o sociale alle condizioni che promuovono vulnerabilità e gerarchie differenti di “vulnerabilità”. In ultimo, in una fase storica in cui più forte rispetto all’immediato passato viviamo una quotidiana esperienza di smarrimento, è forse possibile tentare di sostenere, più che contrastare, la ricerca di nuove traiettorie di “desiderio”, valorizzandone la spinta a produrre e immaginare “forme di vita” altre30. In questa tensione – anch’essa produttiva – il desiderio richiama costantemente la politica alla necessità dell’innovazione, dell’apertura, dell’interdipendenza. Forse: «la sola politica che abbia un minimo di senso liberatorio – una politica necessaria anche se può apparire impossibile – è una politica radicale, nel senso marxiano del ‘prendere l’uomo alla radice’»31. In effetti, è proprio nelle porosità prodotte dalle drammatiche trasformazioni degli ultimi decenni che debbono prendere corpo i punti di resistenza a forme di soggettivazio29
Cfr. G. Le Blanc, Qu’est-ce que s’orienter dans la vulnérabilité?, «Raison politiques», n. 4, 2019, pp. 27-42; ma si veda anche il saggio di T. Casadei, La vulnerabilità in prospettiva critica, in O. Giolo, B. Pastore, Premessa a Vulnerabilità. Analisi multidisciplinare, cit., pp. 73100. Vedi anche T. Casadei, Il Rovescio dei diritti umani. Razza, discriminazione, schiavitù. Con un dialogo con Étienne Balibar, Roma DeriveApprodi, 2016. Molto utile, in una prospettiva critica, è anche: J. Butler, Ces corps qui comptent econcore, «Raison politiques», n.4, 76, 2019, pp.15-26 e Id., L’alleanza dei corpi, Nottetempo, Milano, 2017. 30 Cfr. G. Borrelli, Politiche del desiderio. Da Machiavelli a Foucault, «I Castelli di Yale», VI, n.1, 2018, pp. 79-110. 31 E. Fachinelli, Elvio Cacato, relazione al convegno “Esperienze non autoritarie nella scuola”, ora in Al cuore delle cose, cit., p. 46.
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ne che immaginano identità invulnerabili. La globalizzazione è forse la forma più attuale di quel processo costantemente rivoluzionario che segna la natura stessa della società capitalistica,. In tal senso essa decostruisce, disgrega e produce conflitti e malessere, ma forse produce anche le condizioni affinché questo disagio possa ribaltarsi nella ricerca di forme di vita più libere e più solidali. La nostra vulnerabilità ci ricorda che questo resta ancora oggi il compito essenziale e non eludibile della politica e della critica.
Ascesa della New governance in campo tecno-scientifico e modello neoliberista: vulnerabilità, diritti e successo del mito partecipativo di Daniele Ruggiu
1. Introduzione Un sottile filo rosso lega l’ascesa della “new governance” al paradigma neoliberista delle società postmoderne segnate dalla crisi della forma stato-centrica, indissolubilmente connessa alle tre dimensioni di unità di territorio, popolo e diritto (nazionale, di cui quello internazionale costituisce una mera emanazione), e alla progressiva privatizzazione del diritto da parte del mercato1. Con l’entrata in crisi dello Stato moderno, la crescente complessità delle sfide della modernità in campo ambientale, occupazionale, migratorio, tecnologico ha portato alla crisi delle forme tradizionali di regolazione improntate ad uno stile command-and-control e ad una progressiva separazione del concetto di “government” rispetto all’azione del “governing” che viene ora sublimata in quello quasi entificato di “governance”2. 1
Cfr. M.R. Ferrarese, Prima lezione di diritto globale, Laterza, Roma-Bari, 2012; e J.P. Gaudin, La Gouvernance a double-face. Declinazioni e contraddizioni, trad. it. di S. Volpe, prefazione di M. Cotta, Aracne, Roma, 2017. 2 Cfr. R. Rhodes, The New Governance: Governing without Government, in «Political Studies», 44, 1996, pp. 652-667; G. Stoker, Governance as Theory: Five Propositions, in «International Social Science Journal», 155, 1998, pp. 17-28.
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Alla forma di regolazione incentrata sull’idea verticistica di autorità, strettamente legata a quella di monopolio della forza e delle fonti del diritto propria dello Stato moderno (“legicentrismo”), si è così progressivamente sostituita quella di governance strettamente connessa ai fenomeni di decentramento di attori e fonti, flessibilità degli strumenti di governo, concorrenza di pubblico e privato3. Così anche in ambito tecnologico dove si registrano una crescente distribuzione dei rischi e conseguente polverizzazione della responsabilità4, l’esistenza di una pluralità di attori distribuiti su scala globale e una progressiva sovrapposizione funzionale e di ruoli tra pubblico e privato5, si sono venute a sviluppare nuove forme di governo ispirate al paradigma meglio noto come della “new governance”6. 3
Su questo ancora una volta si rimanda a R. Rhodes, The New Governance: Governing without Government, cit., pp. 652-53; G. Stoker, Governance as Theory, cit.; C. Lyall, J. Tait, Shifting Policy Debates and the Implications for Governance, in C. Lyall, J. Tait (a cura di), New modes of governance. Developing an integrated policy approach to science, technology, risk and the environment, Adelrshot, Ashgate, 2005, pp. 4; D. Ruggiu, Human Rights and Emerging Technologies: Analysis and Perspectives in Europe, prefazione di R. Brownsword, Pan Stanford Publishing, Singapore, 2018, pp. 49-59. 4 U. Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità, trad. it. di W. Privitera, C. Sandrelli, Carocci, Roma, 2000. 5 M. Kearnes, A. Rip, The Emerging Governance Landscape of Nanotechnology, in S. Gammel, A. Losch, A. Nordmann (a cura di), Jenseits von Regulierung. Zum Politischen Umgang mit der Nanotechnologie, Akademische Verlagsgesellschaft, Berlin, 2009, pp. 97-121; D. Ruggiu, Human rights and emerging technologies, cit., pp. 59-75. 6 Cfr. R. Rhodes, The New Governance: Governing without Government, cit.; C. Lyall, J. Tait, Shifting Policy Debates and the Implications for Governance, cit.; B. Eberlein, K. Dieter, New Governance in the European Union: A Theoretical Perspective, in «Journal of Common Market Studies», 42, 1, 2004, pp. 121-142; A. Peters, I. Pagotto, Soft Law as a New Mode of Governance: A Legal Perspective. Report of the Project NEWGOV New Modes of Governance. Integrated Project. Priority 7 - Citizens and Governance in the Knowl-
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La “new governance” si afferma a fine anni ’90 soprattutto a livello comunitario per far fronte alla complessità crescente in alcuni ambiti come quello occupazionale, ambientale dove l’Unione europea, preso atto di non poter calare dall’alto un’unica normativa uniforme, attraverso l’Open Method of Coordination si limitava a fissare degli obiettivi comuni tra gli Stati membri lasciando loro libertà di azione sul piano attuativo7. Alcuni elementi caratterizzano la “new governance”: i) l’informalità, intesa come atipicità degli strumenti su cui si costruisce la propria tela di governo; ii) deboli relazioni gerarchiche (eterarchia) dove il pubblico, più che eclissarsi, prende atto della crescente importanza del settore privato, oggi sempre più in grado di influenzare l’attività di governo, e si limita a favorire il coordinamento dei diversi attori per raggiungere i propri scopi; iii) presenza di attori privati che devono essere sistematicamente coinvolti nella governance; iv) l’anticipazione, nel senso che favorendo una volontaria assunzione di responsabilità tra i diversi attori si cerca di anticipare i rischi generati dal mercato8. Ora questo modello governamentale sta sicuramente a riflettere la crescente importanza degli spazi economico, finanziario e tecnologico del settore privato che tende appunto a modellare la regolazione in maniera sempre più funzionale ai propri scopi indirizzando il pubblico verso la costruzione edge-Based Society, 04, 2006, p. 11; L.G. Trubeck, New Governance Practices in US Health Care, in G. De Burca, J. Scott (a cura di), Law and New Governance in the EU and the US, Hart Publishing, Oxford, 2006, pp. 245-268. 7 In particolare, v. J. Scott, D.M. Trubek, Mind the Gap: Law and New Approaches to Governance in the European Union, in «European Law Journal», 8, 1, 2002, pp. 1-18; E. Pariotti, Normatività giuridica e governance delle tecnologie emergenti, in G. Guerra, A. Muratorio, E. Pariotti, M. Piccinni, D. Ruggiu (a cura di), Forme di responsabilità, regolazione e nanotecnologie, Il Mulino, Bologna, 2011, pp. 509-549; D. Ruggiu, Human rights and emerging technologies, cit. p. 60. 8 D. Ruggiu, Human rights and emerging technologies, cit., p. 59.
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di un ambiente regolatorio flessibile, improntato ad una logica caso per caso e a redistribuire le responsabilità verso l’intera società. Paradigma della “new governance” e paradigma neoliberista tendono dunque ad incontrarsi. È da vedere invece se la trasformazione delle forme di governo rispetto alla complessità contemporanea rappresenti una presa d’atto di un panorama in cui gli attori privati sono ormai in grado di decidere sul successo o meno della governance9 o un mero atto di trasformismo istituzionale volto a coprire le reali aspirazioni del mercato nella sua versione neoliberista10. Tali ambiguità si riscontrano senz’altro nelle applicazioni della “new governance” in ambito tecno-scientifico sia nelle sue concrete realizzazioni sia per quanto riguarda sue elaborazioni a livello teorico11. In questa sede sosterrò che non è la governance in sé ad essere un’estrinsecazione del paradigma neoliberista, ma che il campo della governance rappresenta il luogo di confronto e scontro di dinamiche opposte, a volte ispirate alla logica dei diritti, a volte tese a veicolare forme di neoliberismo più o meno palese.
2. Ascesa del paradigma della new governance in ambito tecno-scientifico e il modello della Responsible Research and Innovation Dopo il fallimento degli OGM specialmente in Europa, dovuto, in parte, alla scarsa trasparenza delle istituzioni pub9 Cfr. R. Rhodes, The New Governance: Governing without Government, cit.; C. Lyall, J. Tait, Shifting Policy Debates and the Implications for Governance, cit.; B. Eberlein, K. Dieter, New Governance in the European Union: A Theoretical Perspective, cit. 10 J.P. Gaudin, La Gouvernance a double-face, cit. 11 S. Arnaldi, G. Gorgoni, Turning the Tide or Surfing the Wave? Responsible Research and Innovation, Fundamental Rights and Neoliberal Virtues, in «Life Sciences, Society and Policy», 12, 6, 2016, pp. 1-19.
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bliche che ha ingenerato nella società del vecchio continente una crescente sfiducia12, in parte, ad un insufficiente coinvolgimento del pubblico13, nel mondo accademico si è levata, da una parte, una richiesta sempre più pressante di maggiore democratizzazione dell’etica, fino allora confinata alla mera expertise tecnica14, e dall’altra, di una maggiore democratizzazione della governance, da cui fino allora era esclusa la società civile15. Partecipazione diviene ora la parola d’ordine per governare le questioni tecno-scientifiche che vengono a conquistare una sempre maggior centralità sulla sfera pubblica. Questo ha portato nell’ambito dei Science and Technology Studies (STS) a sviluppare approcci interdisciplinari in grado di interrogarsi sugli Ethical, Legal and Sociological Aspects delle tecnologie emergenti (ELSA). Conseguentemente si è poi avviato a livello accademico un ampio dibattito sull’impatto delle nuove tecnologie (nanotecnologie, biotecnologie, biologia sintetica, robotica e oggi soprattutto Big Data, intelligenza artificiale, ecc.) che, a livello istituzionale, ha poi consentito di sviluppare diversi strumenti partecipativi atti ad ampliare la platea degli stakeholders coinvolti nell’impresa scientifica quali consultazioni sulla regolazione, linee guida partecipate, codici di condotta, forme di co-design dell’innovazione, ecc. A questo punto il tema della responsabilità dell’innovazione tecnologica diviene centrale. Che cosa significa, dunque, 12 M.D. Mehta, From biotechnology to nanotechnology: what can we learn from earlier technologies?, in «Bulletin of Science and Technology & Society», 24, 1, 2004, pp. 34-39. 13 R. von Schomberg, A Vision of Responsible Innovation, in R. Owen, M. Heintz, J. Bessant (a cura di), Responsible Innovation: Managing the Responsible Emergence of Science and Innovation in Society, Wiley, Chichester (U.K.), 2013, pp. 51-73. 14 M. Tallacchini, Governing by Values. EU Ethics: Soft Tool, Hard Effects, in «Minerva», 47, 2009, pp. 281-306. 15 S. Jasanoff, Technologies of Humility: Citizen Participation in Governance Science, in «Minerva», 41, 2003, pp. 223-244.
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investire responsabilmente nell’innovazione? Ed è poi possibile generare responsabilità facendo innovazione? L’esito di questa svolta nell’approccio all’innovazione è stata l’elaborazione prima, e l’adozione poi a livello di Unione europea, del modello di governance della Responsible Research and Innovation (RRI)16. In base alla definizione generalmente accolta, per RRI si intende un processo trasparente con cui gli attori sociali e i soggetti dell’innovazione divengono l’un l’altro mutualmente responsabili per raggiungere l’accettabilità etica, la sostenibilità, la desiderabilità sociale dell’innovazione e dei prodotti del mercato al fine di favorire una progressiva integrazione dello sviluppo tecno-scientifico nella società17. Sue caratteristiche principali sono: i) l’inclusione, diretta a implementare percorsi partecipativi rivolti alla società civile; ii) il carattere anticipatorio, diretto ad anticipare il più possibile i rischi della ricerca e dell’innovazione; iii) l’attenzione non solo sui rischi (principio di precauzione) ma anche sulla perdita di opportunità che il rifiuto dell’innovazione comporta; iv) l’accettabilità etica che non fa altro che misurare la desiderabilità sociale di una certa tecnologia18. Nonostante l’en16
R. von Schomberg, Prospects for Technology Assessment in a Framework of Responsible Research and Innovation, in M. Dusseldorp, R. Beecroft (a cura di), Technikfolgen abschätzen lehren. Bildungspotenziale transdisziplinärer Methoden, Springer Vs, Wiesbaden, 2011, pp. 39-61; R. Owen, P. Macnaghten, J. Stilgoe, Responsible Research and Innovation: From Science in Society to Science for Society, with Society, in «Science and Public Policy», 39, 2012, pp. 751-760; D. Ruggiu, Modelli di governance tecnologica e diritti fondamentali in Europa. Per un “rights-based model of governance”, in «Rivista di Filosofia del Diritto», 5, 2, 2016, pp. 341-362; Id., Human Rights and Emerging Technologies, cit., p. 208-235. 17 R. von Schomberg, Prospects for Technology Assessment in a Framework of Responsible Research and Innovation, cit., p. 50 [trad. mia]. 18 D. Ruggiu, Anchoring European Governance: Two Versions of Responsible Research and Innovation and EU Fundamental Rights as “Normative Anchor Points”, in «Nanoethics», 9, 3, 2015, pp. 217-235; Id., Human Rights and Emerging Technologies, cit., p. 209.
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dorsement ufficiale da parte dell’Unione europea con Horizon 2020, e già prima col Settimo Programma Quadro, in ambito accademico non vi è tutto questo accordo né per quanto riguarda la definizione del modello, né rispetto alle sue caratteristiche, né tantomeno alle sue finalità ultime. La RRI presenta infatti delle ambiguità, giacché sotto la sua etichetta sono possibili almeno due interpretazioni o approcci fondamentali19. Questi due approcci si differenziano sostanzialmente sul modo in cui dovrebbero essere identificati i valori da porre al centro di un certo sistema di governance. Esiste cioè una “differenza genetica” (relativa ai valori) tra queste due versioni. Il primo approccio, detto “socio-empirico”, ritiene che i valori a cui un sistema di governance debba essere ancorato debbano essere identificati dal basso (bottom-up) attraverso processi inclusivi e aperti alla società civile20. È il mito della democratizzazione dei processi di formazione della volontà politica a livello comunitario21. I processi di deliberazione devono infatti caratterizzarsi per essere recettivi (responsiveness), cioè in grado di recepire gli input provenienti dalla società, e riflessivi (reflexivity), cioè, in grado di avviare un’ampia riflessione sociale su quali siano i fini dell’innovazione in una certa comunità politica, sviluppando conseguentemente una visione comune del futuro (vision)22. 19
D. Ruggiu, Anchoring European governance, cit.; Id., Modelli di governance tecnologica e diritti fondamentali in Europa, cit.; Id., Human Rights and Emerging Technologies, cit., p. 211. 20 R. Owen, P. Macnaghten, J. Stilgoe, Responsible Research and Innovation, cit., pp. 751-760; J. Stilgoe, R. Owen, P. Macnaghten, Developing a Framework for Responsible Innovation, in «Research Policy», 42, 9, 2013, pp. 1568-1580. 21 S. Smismans, New modes of Governance and the Participatory Myth, in «West European Politics», 3, 5, 2008, pp. 874-895. 22 R. Owen, J. Stilgoe, P. Macnaghten, M. Gorman, E. Fisher, D. Guston, A framework for responsible innovation, in R. Owen, M. Heintz, J. Bessant (a cura di), Responsible Innovation: Managing the Responsible Emergence of Science and Innovation in Society, Wiley, Chichester (U.K.), 2013, pp. 27-50.
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I valori hanno dunque un’origine sociale e variano a seconda del contesto culturale e tecnologico, nel senso che i valori coinvolti nell’ambito delle nanotecnologie, ad esempio, possono non coincidere con quelli delle biotecnologie, e nel senso che ogni cultura sentirà come centrali i propri valori ma non altri e così via. I BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa), ad esempio, non è detto che condividano i valori del vecchio continente23. Si tratta quindi di sviluppare uno studio sul campo per vedere cosa significhi in concreto fare innovazione responsabile in un certo settore tecnologico, per cui la RRI si trasformerà in una collezione di case studies volti a svolgere sostanzialmente una funzione guida rispetto alle policies di innovazione. La realtà in questo contesto assume una valenza prettamente normativa. Un esempio di questo approccio è lo SPICE project24 sulla geoingegneria (Stratospheric Particle Injection for Climate Engineering, che consiste nella manipolazione del clima per far fronte ai cambiamenti climatici), finanziato nel 2010 dal Research Councils nel Regno Unito. Questo progetto ha tentato di mettere in piedi un quadro deliberativo articolato sulla base della cd. “stage-gate architecture” in forza della quale la riflessione sociale sulla desiderabilità o meno della geoingegneria può essere realizzata attraverso una struttura procedurale articolata in fasi, dove per passare alla fase successiva è necessario che siano soddisfatte tutte le condizioni di quella precedente: lo sviluppo di test sicuri sulla base di un quadro di rischi ben identificati è propedeutico all’inizio della fase in cui si verifica il rispetto della legislazione esistente, quindi segue la comunicazione dei fini del progetto, l’avvio di una discussione con gli stakeholders e l’analisi delle implicazioni emerse in seguito al dibattito pubblico25. 23
Ch. Groves, Logic of Choice and Logic of Care? Uncertainty, Technological Mediation and Responsible Innovation, in «Nanoethics», 9, 3, 2015, pp. 321-333. 24 http://www.spice.ac.uk
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Il secondo approccio, detto “normativo”, invece ritiene che i valori siano sostanzialmente già identificati in quanto non possano che essere quelli alla base dei nostri ordinamenti costituzionali, e in particolare dei trattati dell’Unione europea, e che questi debbano modellare dall’alto (top-down) i vari strumenti di governance anche quelli atti a favorire la partecipazione, come ad esempio le consultazioni26. Tali valori a livello comunitario sono sanciti dall’art. 3 del Trattato sull’Unione e sono: progresso tecno-scientifico, competitività, sostenibilità (principio di precauzione), giustizia sociale e diritti fondamentali, protezione della salute e dell’ambiente. Essi hanno dunque un’origine normativa (giuridica) e sono fissi e suscettibili, tutt’al più, di una declinazione diversa a seconda del contesto di applicazione. Un esempio qui è il Codice di condotta per una ricerca responsabile sulle nanoscienze e le nanotecnologie elaborato dalla Commissione europea nel 2008. A partire da una bozza di codice, detta consultation paper, in cui alla luce degli obiettivi dell’Unione europea erano stati previamente individuati una serie di valori da mettere al centro delle nanotecnologie (progresso, competitività, diritti fondamentali, ecc.), si è indetta nel 2007 una consultazione tra gli stakeholders che avrebbe dovuto portare alla versione definitiva del codice che gli operatori del settore nanotecnologico avrebbero poi dovuto adottare. Conseguentemente il codice diretto a responsabilizzare l’intero settore della ricerca (ma non quello dell’industria), una volta pubblicato, è stato aperto all’adesione volontaria dei soggetti interessati, cioè ricercatori, laboratori pubblici e privati, imprese, enti finanziatori.
25
P. Macgnathen, R. Owen, Good Governance for Geoengineering, in «Nature», 479, 2011, p. 293. 26 R. von Schomberg, Prospects for Technology Assessment in a Framework of Responsible Research and Innovation, cit.; Id., A Vision of Responsible Innovation, cit.
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La giustificazione etica alla base del primo approccio (“socio-empirico”) è che l’innovazione genera non solo rischi noti ma anche conseguenze imprevedibili che impediscono ai meccanismi di imputabilità giuridica di funzionare. Per cui, se non si vuole ritenere il soggetto responsabile anche di conseguenze da lui sostanzialmente non volute, in quanto non prevedibili al momento dell’azione, la definizione della responsabilità deve per forza uscire dai canali meramente giuridici per approdare pienamente ad una dimensione etica. Responsabilità significa qui comportarsi responsabilmente e deve necessariamente trascendere la dimensione individuale nel senso che costituisce una forma di responsabilità condivisa dall’intera comunità. Il “public engagement” è qui la via per acquisire gli input provenienti da una certa comunità generando, attraverso l’identificazione dei valori da mettere al centro di un certo settore tecnologico, una visione condivisa del futuro della società27. La giustificazione del secondo approccio (“normativo”) è invece opposta. In un contesto come quello attuale caratterizzato a) dalla fine dell’unanimismo della scienza per cui molteplici posizioni sono ugualmente plausibili dal punto di vista scientifico, e b) da crescente incertezza etica, giuridica e sociologica sulla portata dell’innovazione, per dirimere i conflitti anche in materia tecno-scientifica, se non si vuole legittimare una sorta di “irresponsabilità organizzata”28, bisogna creare un’etica della co-responsabilità mediante il riferimento ai principi fondamentali posti alla base di una certa comunità politica, tra cui appunto dobbiamo annoverare anche i diritti fondamentali, cosa che 27
R. Owen, J. Stilgoe, P. Macnaghten, M. Gorman, E. Fisher, D. Guston, A framework for Responsible Innovation, cit., pp. 27-50. 28 U. Beck, Risk Society Revisited: Theory, Politics and Research Programs, in B. Adam, U. Beck, J. Van Loon (a cura di), Risk Society and Beyond. Critical Issues for Social Theory, Sage, London, 2000, pp. 211-230.
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renderebbe la RRI, almeno nella sua versione normativa, un approccio esplicitamente rights-based29. Questo significa che comportarsi responsabilmente non può non implicare il rispetto dei diritti individuali, tant’è che possono elencarsi casi di irresponsabilità dove l’innovazione è fallita per una mancata considerazione tempestiva del suo impatto sui diritti30. In definitiva, per un approccio (socio-empirico) i valori hanno natura e origine meramente sociale, per l’altro (normativo) sono punti di ancoraggi normativi di origine costituzionale. Come è stato fatto notare, alla base del paradigma della “new governance” possono rinvenirsi in definitiva due logiche contrapposte31. Una “logica di processo”, propria dei nuovi modelli di governance, secondo cui il buon esito dei meccanismi di governance dipende esclusivamente dal modo con cui il processo è costruito. Una “logica di scopo”, propria della tradizione giuridica specie continentale, secondo cui il buon esito del processo dipende tutto dai fini che sono stati posti alla sua base. La prima tenderebbe però a destrutturare i diritti che si trovano alla base dei nostri ordinamenti per seguire una logica privatistica di negoziazione degli interessi in forza della quale basta mettere le persone giuste attorno ad un tavolo e in qualche modo una soluzione la si trova32. In sostanza, non esiste alcun valore di partenza che debba essere preservato in quanto qui l’unico bene che va messo al riparo; l’unico valore, è solo il processo. La seconda invece sostiene che le procedure servono solo alla realizzazione di determinati fini normativi il cui accantonamento, dunque, non può mai produrre un buon risultato. 29
D. Ruggiu, Modelli di governance tecnologica e diritti fondamentali in Europa, cit. 30 R. von Schomberg, A Vision of Responsible Innovation, cit. 31 W. Heydebrande, Process Rationality as Legal Governance: A Comparative Perspective, in «International Sociology», 18, 2, 2003, pp. 325-349. 32 Ivi.
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Come si vede queste due logiche non fanno che riprodurre la dicotomia tra approccio socio-empirico e approccio normativo alla governance evidenziato poco sopra nell’ambito della RRI. Si tratta ora di chiedersi se queste due anime contrapposte rispondano o meno ad un quadro etico di riferimento sostanzialmente omogeneo, quello neoliberistico, per cui indifferentemente dalla maschera di volta in volta indossata, si tratta sempre dello stesso modello che vi si cela dietro33, oppure possano rinvenirsi i fili di una pluralità di quadri etici di riferimento, di modo che ad una sostanziale vaghezza assiologica del modello della RRI corrisponda poi necessariamente una pluralità di esiti spesso tra loro contraddittori. Quale modello assiologico, o, con le parole di Charles Taylor34, quale ontologia valoriale si cela infine dietro il modello della RRI?
3. Quadri etici di riferimento della responsabilità e l’ascesa dell’etica della cura nel dibattito sull’innovazione È interessante notare come l’idea di responsabilità, sottesa ad esempio dietro la RRI, abbia man mano trovato diverse giustificazioni filosofiche. Ci si è riferiti a volte all’etica procedurale habermasiana, altre all’etica della cura, all’etica delle virtù di stampo aristotelico, oppure all’etica della dignità, o ancora all’etica ambientalista, ecc. Questa pluralità di quadri etici di riferimento non fa che testimoniare come dietro l’apparente concordanza sul modello della RRI emerga un panorama assiologico tutt’altro che condiviso35. Cosa che non può che indebolire le sue concrete realizzazioni. 33
J.P. Gaudin, La Gouvernance a double-face, cit. C. Taylor, Radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna, trad. it. di R. Rini, Feltrinelli, Milano, 1993. 35 J. Timmermans, V. Blok, A Critical Hermeneutic Reflection on the Paradigm-Level Assumptions Underlying Responsible Innovation, Synthese, 2018, https://doi.org/10.1007/s11229-018-1839-z. 34
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In particolare, nell’ambito dell’etica della cura si può rinvenire una giustificazione forte dell’idea di responsabilità che sta dietro il modello della RRI strettamente intrecciata a quella di “public engagement” e in netto antagonismo con le forme tradizionali di regolazione incentrate sui diritti. Questo ha fatto dell’etica della cura il principale quadro etico di riferimento della RRI in ambito accademico. In questo contesto, si sostiene che l’innovazione porta ad una “incertezza riflessiva” di fondo, nel senso che l’innovazione comporta non solo rischi noti, che ricadono nella sfera di controllo tecno-scientifica, ma anche un nucleo ineliminabile di rischi ignoti, a volte già esistenti ma non ancora conosciuti dalla scienza, a volte solo futuri e connessi a variabili come l’interazione imprevedibile con altri rischi, l’ambiente ecc., che impediscono di fatto la nostra capacità riflessiva sulle conseguenze dell’innovazione36. Il futuro in queste situazioni tende a sfuggire alla nostra capacità di controllo. Decidere sull’innovazione tecnologica in questo contesto non è più possibile alla luce degli strumenti messi a disposizione tanto dalla scienza quanto dal diritto. Nell’un caso, la scienza di fronte alle nuove tecnologie e al bagaglio di rischi ignoti che esse si portano dietro non è più in grado di svolgere il proprio ruolo predittivo. Nell’altro, il modello di imputabilità giuridica offerto dal diritto, e sostanzialmente modellato sulle condotte passate, non è più in grado di funzionare di fronte a scenari radicalmente nuovi e mai esperiti prima. In contesti come questi, nemmeno i diritti espressi da norme astratte e universalistiche esito dell’esperimento mentale del “velo di ignoranza” di Rawls sarebbero più in grado di funzionare, in quanto tendono a riferirsi anch’essi a comportamenti passati, né sono in grado, in quanto universali, di rispondere ai bisogni propri dei diversi contesti culturali e tecnologici37. Non sono “context sensitive”. Ci sono realtà, 36
37
Ch. Groves, Logic of choice and logic of care?, cit., p. 327. Ivi.
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cioè, che difficilmente convergerebbero su questi valori. I BRICS, ad esempio38. I diritti, inoltre, strutturati sull’idea personalistica di titolarità risultano del tutto inadeguati laddove manca il soggetto o questi è di là da venire come nel caso dell’ambiente e delle generazioni future39. In contesti come questi emerge una situazione di vulnerabilità e di dipendenza che il modello di responsabilità incentrato sui diritti non sarebbe in grado di leggere. Qui, invece, è il modello familiare incentrato sul rapporto madre-figlio a consentire una corretta interpretazione della responsabilità verso chi ancora non c’è, come le generazioni future. E questo non può che avvenire in termini di cura. Qui, cioè, una comunità presente deve prendersi cura di una “comunità futura”. Riappropriarsi del futuro rimettendolo al centro della propria decisione politica, della polis, è questo in definitiva il significato della responsabilità nell’innovazione. In una situazione di perdurante incertezza scientifica, etica, sociale e giuridica, le “questioni della scienza” non possono che divenire allora “questioni politiche”, nel senso che la società deve tornare a decidere su di esse, deve tornare a prendersene cura40. Partecipare alle decisioni sull’innovazione rimettendole al centro dell’agenda politica significa dunque tornare a prendersi cura del proprio futuro. Ampliare la partecipazione è dunque l’unico mezzo per consentire alla società di riappropriarsi del proprio futuro. L’irresponsabilità allora non è altro che smettere di cu38
Ivi. A. Grinbaum, Ch. Groves, What is “Responsible” about Responsible Innovation? Understanding the Ethical Issues, in R. Owen, J.R. Bessant, M. Heintz (eds.), Responsible Innovation: Managing the Responsible Emergence of Science and Innovation in Society, Wiley, London e Hoboken (USA), 2013, p. 131. 40 B. Latour, From Realpolitik to Dingpolitik or How to Make Things Public, in B. Latour, P. Weibel (eds.), Making Things Public: Atmospheres of Democracy, MIT Press, Cambridge (Mass.), 2005, pp. 14-43. 39
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rarsi di quanto si è contribuito a creare, come il Doctor Frankenstein nel romanzo di Mary Shelley in fondo ha fatto con la propria creatura41. Compito della società è allora prendersi cura della tecnologia da questa creata. La responsabilità qui è una virtù che si può solo praticare, non imporre dall’alto attraverso un’attività prescrittiva (i diritti), una qualità che si può imparare studiando la vita di coloro che si sono distinti responsabilmente nell’innovazione, come Steve Jobs42. A questo punto però va registrato un mutamento semantico: oggetto della cura diviene la tecnologia con il conseguente occultamento tanto della questione della vulnerabilità, quanto di quella di giustizia43. Un paradosso, soprattutto se si pensa che quando l’etica della cura si è imposta nell’ambito della riflessione filosofica, si è affermata proprio su questi due temi in netta contrapposizione con il modello liberale di giustizia incentrato su diritti universalistici e astratti di ascendenza liberale44. In ambito liberale, infatti, c’è una netta contraddizione tra le norme astratte e universalistiche con cui si stabiliscono i diritti e la loro accessibilità. Nei sistemi liberali, infatti, alla generalità della condizione di vulnerabilità che colpisce spesso trasversalmente tutti gli strati della società (disabilità, invecchiamento), l’organizzazione della cura costituisce un fenomeno che interessa solo alcune ben definite classi sociali, 41
A. Grinbaum, Ch. Groves, What is “Responsible” about Responsible Innovation? cit., p. 140. 42 M. Sand, Virtues and vices of innovators, in «Philosophy of Management», 17, 2018, pp. 79-95. 43 Ch. Groves, Logic of choice and logic of care?, cit., pp. 321-333. 44 J. White, J. Tronto, Political Practices of Care: Needs and Rights, in «Ratio Juris», 17, 4, 2004, pp. 425-453. Su questo punto si veda D. Ruggiu, Inescapable Frameworks: Ethics of Care, Ethics of Rights and the Responsible Research and Innovation Model, in «Philosophy of Management», 2019, https://doi.org/10.1007/s40926-019-00119-8 e Id., Soggetto vulnerabile, innovazione tecnologica ed etica della cura, in «Ars Interpretandi», 2, 2019, pp. 133-154.
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con la conseguenza che si crea una separazione tra un gruppo di pochi privilegiati i cui bisogni sono soddisfatti, e che sono poi dispensati dagli obblighi di cura, e un gruppo di molti svantaggiati che si trovano in condizione di bisogno da cui dipende sostanzialmente l’attività di cura45. Una situazione segnata dunque dalla “irresponsabilità privilegiata” (di pochi) e dalla “invisibilità della cura” (dei più). Lo stesso sistema giudiziale liberale non farebbe poi che confermare l’inaccessibilità dei diritti per i più, lasciando inespresse le ragioni sottostanti ai diritti: i bisogni. In queste situazioni il sistema liberale di giustizia non farebbe che nascondere la sua vera anima neoliberista dove è il mercato sostanzialmente l’unità di misura della nostra autonomia e della nostra capacità di soddisfare i bisogni46. La questione di giustizia così efficacemente posta dall’etica della cura nei suoi esordi, si occulta una volta che l’etica della cura approda nel campo dell’innovazione, acquisendo, forse non a caso, una inaspettata centralità tanto nel mondo accademico, quanto nel mondo istituzionale. Infatti, qui il tema della vulnerabilità viene ad incentrarsi o sui soggetti non umani (l’ambiente, parti della Natura, come animali, piante, fiumi, boschi) o sui soggetti non ancora esistenti (le generazioni future), tralasciando però tutte quelle condizioni di vulnerabilità (umana) attuali e già presenti che segnano lo sviluppo tecno-scientifico (lavoratori e popolazioni di paesi lontani che contribuiscono alla realizzazione dei prodotti dell’innovazione o che ne subiscono le conseguenze, persone in condizioni di vulnerabilità che non sono in grado di prendere parte a processi di “public engagement”)47.
45
J. White, J. Tronto, Political Practices of Care: Needs and Rights, cit., p. 440. 46 Ivi. 47 D. Ruggiu, Inescapable Frameworks, cit.; Id., Soggetto vulnerabile, innovazione tecnologica ed etica della cura, cit.
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Se oggetto della cura diviene la tecnologia allora la questione di giustizia si eclissa e l’etica della cura diviene il volto presentabile e filosoficamente allettante del mercato. Si pensi ai lavoratori delle grandi multinazionali digitali come Amazon i cui diritti sono spesso compressi dall’introduzione delle nuove tecnologie nell’ambiente di lavoro e che non fanno che comprimere, per seguire i bisogni sempre più esigenti della clientela, diritti già acquisiti e costituzionalizzati. Si pensi al caso della geo-ingegneria e al progetto SPICE dove la modifica del clima viene decisa in un paese, come la Gran Bretagna, che si trova a chilometri di distanza da dove le conseguenze dell’intervento sul clima verranno poi a realizzarsi, in termini di modifica del regime delle piogge, siccità, scarsità delle specie su cui si basa il sostentamento delle popolazioni locali, ecc. È chiaro che coloro che poi verranno concretamente a pagare le conseguenze del mutamento climatico a sua volta innescato dalla geo-ingegneria non sono posti in condizione di partecipare ai progetti di “public engagement” che si svolgono altrove nei paesi più sviluppati. Si pensi infine a quei prodotti digitali (assistenti vocali, applicazioni dell’intelligenza artificiale alla domotica, Internet of Things, ecc.) che vengono incontro sì a nuove esigenze del consumatore (i bisogni dell’etica della cura?), ma a volte al costo della nostra privacy. A questo punto bisognerà interrogarsi se davvero gli approcci destrutturanti della “new governance”, ma finalizzati ad ampliare la partecipazione, rappresentino nient’altro che il volto presentabile del mercato48.
4. Conclusioni: governance, meta-governance e diritti Esistono elementi che però oggettivamente mettono in crisi le forme tradizionali di regolazione. La pluralità degli 48
J.P. Gaudin, La Gouvernance a double-face, cit.
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attori, con la coesistenza forzata di soggetti pubblici, non più centrali, e soggetti privati, l’opacità al diritto degli attori privati (multinazionali) che operano in contesti dove la regolazione, o non tutela i diritti, o non li tutela efficacemente (il design dell’innovazione si fa in occidente, ma la reale produzione si consuma all’estero in paesi lontani), la crescente complessità dei problemi dell’innovazione che coinvolgono una pluralità di soggetti alcuni dei quali (le imprese trans-nazionali) possono incidere concretamente sul successo o meno della regolazione. Si tratta di problemi oggettivi che costringono a ripensare natura, ruolo e funzione della regolazione. La governance in sé è un concetto neutro, come la tecnologia, che può modellarsi però sulla base di una certa concezione delle relazioni sociali. Sono i diritti che non sono tecnologicamente neutrali. In tal senso, utile è la distinzione tra governance e metagovernance49. Mentre la governance è l’insieme dei network normativi giuridici, sociali, etici che produce il governo di una certa materia50, la meta-governance si riferisce ai processi e alle strutture che producono governance il cui esito è tutt’altro che scontato e che sostanzialmente dipende dai fini da questi perseguiti, dai mezzi che si vengono a selezionare, dalle loro interazioni e coordinamento e che possono essere o meno rights-based51. Se la governance può essere smontata nei suoi elementi semplici e riassemblata alla luce di certi fi-
49 B. Jessop, Governance and Metagovernance: On Reflexivity, Requisite Variety, and Requisite Irony, Department of Sociology, Lancaster University LA1 4YN, UK, 2005, http://www.comp.lancs.ac.uk/sociology/papers/Jessop- Governance-and-Metagovernance.pdf. 50 D. Ruggiu, Human Rights and Emerging Technologies, cit., p. 52. 51 Id., Temporal Perspectives of the Nanotechnological Challenge to Regulation. How Human Rights Can Contribute to the Present and Future of Nanotechnologies, in «Nanoethics», 7, 3, 2013, pp. 201-215; Id., Modelli di governance tecnologica e diritti fondamentali in Europa, cit.; Id., Human Rights and Emerging Technologies, cit., pp. 235-255.
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ni52, nulla esclude che possa indirizzarsi alla tutela dei diritti e non alla difesa delle mere prerogative del mercato. Un esempio di questo è il nuovo Regolamento Generale Protezione dei Dati Personali (2016/679) dell’Unione europea tutto incentrato sui due concetti di “privacy by desgn” e “privacy by default” che ha sostanzialmente ridefinito in termini rights-based il mercato europeo digitale distinguendolo nettamente dal resto del mondo e dimostrando come mercato e diritti non siano termini necessariamente autoescludentisi. È solo una questione di volontà.
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Ivi.
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Dalla configurazione ontologica del vulnus agli effetti escludenti dei dispositivi di governance: brevi note sulla vulnerabilità di Francesca Scamardella
«Non si nasce eguali; si diventa eguali come membri di un gruppo in virtù della decisione di garantirsi reciprocamente eguali diritti»1 H. Arendt, Le origini del totalitarismo
1. Storie di eroi vulnerabili: il mito di Filottete Tra i vari insegnamenti ereditati dalla tragedia greca, possiamo senza dubbio annoverare l’idea della vulnerabilità come condizione ontologica dell’uomo. Si tratta di una narrazione che apparentemente risulta secondaria rispetto alle più note rappresentazioni celebranti la forza fisica dei grandi eroi, come Achille, Agamennone, Menelao, Ettore, o il loro ingegno, come nei miti di Sisifo, Crono, Ulisse, Paride, Teseo. Non sfuggirà, però, all’occhio del critico più attento la sapiente attenzione che proprio la tragedia greca dedica alla condizione fragile e vulnerabile dell’uomo. Ne sono esempio, più di tutti, gli eroi di Sofocle: da Edipo, il significato del cui nome già rinvia ad una condi-
1
H. Arendt, Le origini del totalitarismo, trad. it. di A. Guadagnin, intr. di A. Martinelli, con un saggio di S. Forti, Einaudi, Torino, 2009, p. 417.
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zione di sofferenza e disabilità2, ad Antigone, la cui hybris traspare dalle prime pagine del testo nelle parole della sorella Ismene che ella tenta inutilmente di convincere a seguirla nel progetto di contravvenire all’editto del re Creonte (e a dare sepoltura al corpo del fratello Polinice). Non mi occuperò, tuttavia, in questa prima parte del mio contributo di questi eroi più noti bensì di un’opera minore di Sofocle e del suo protagonista: Filottete. La tragedia lega la vita di Filottete alla spedizione degli Achei a Troia, nell’omonima guerra, iniziata a seguito della fuga di Elena con Paride. Narra Sofocle che Filottete, partito insieme ai Greci alla volta di Troia, calpesta un luogo sacro e viene perciò morso al piede dal serpente custode del tempio di Crise. La ferita al piede non riesce a sanarsi: da essa fuoriescono incessantemente vermi ed un lezzo insopportabile accompagna la figura zoppicante di Filottete. Il dolore lo espone a costanti attacchi di ira che manifesta con continui lamenti ed urla selvagge che non riesce a reprimere nemmeno durante le pratiche religiose degli Achei che si predispongono alla battaglia, chiedendo il favor dei. Le sue grida sono perciò δυσφημίαι , “infauste”, ossia di cattivo auspicio, vere e proprie infrazioni del decoro necessario alle pratiche religiose, che richiedono, al contrario, euphemia, «il sacro silenzio dei partecipanti»3. Gli Achei decidono così di abbandonare Filottete sull’isola di Lemno, ove resterà per dieci anni, in una condizione di assoluta solitudine, ad esclusione della compagnia delle belve, di cui l’eroe, complice anche la sua zoppia, sembrerà prendere sempre più le sembianze, in un processo lento ma inesorabile di de-umanizzazione. Non seguirò, in questa sede, gli ulteriori sviluppi del Filottete, limitandomi a ricordare al lettore che la tragedia si 2
Edipo, come noto, significa “dai piedi gonfi”. V. Di Benedetto, Sofocle. Trachinie, Filottete, premesse e note al testo di M.S. Mirto, trad. it. di M.P. Pattini, Bur, Milano, 1990, p. 181, v. 13. 3
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risolverà positivamente4 ma svolgerò qualche riflessione sulla doppia vulnerabilità che l’eroe greco incarna. Da un lato, infatti, Filottete è vulnerabile per la ferita fisica che non guarisce; dall’altro perché è privato delle relazioni personali e sociali ed è perciò costretto ad un’autoreferenzialità indotta dall’esterno. Se la ferita al piede rappresenta la vulnerabilità ontologica, la condizione universale di ogni vivente (non solo umano, dunque) che lo rende esposto, anche solo potenzialmente, alla lesione fisica, l’abbandono sull’isola di Lemno costituisce un valido esempio di vulnerabilità come suscettibilità di esclusione dalla vita relazionale, affettiva, politico-sociale della comunità a cui l’eroe greco era appartenuto sino a quel momento5. Il primo tipo di vulnerabilità si configura come una «qualità dell’individuo o del gruppo che potrebbe essere oggetto di un attacco ai suoi interessi, vale a dire la qualità di coloro che sono minacciati da questi attacchi»6. Siamo in presenza di 4
Ulisse, qui reinterpretato come eroe negativo, proverà a convincere il giovane figlio di Achille, Neottolemo, a sottrarre l’arco a Filottete, giacché un oracolo aveva predetto che senza l’arco Troia non sarebbe mai stata espugnata dagli Achei. Neottolemo, colpito dal dolore di Filottete, dapprima si lascerà irretire dall’astuto Ulisse ma poi, sospinto da un sincero sentimento di philia, restituirà l’arco a Filottete. Interverrà, in chiusura della tragedia, Eracle deus ex machina che inviterà Filottete e Neottolemo a recarsi senza più alcun indugio a Troia ove i Greci vinceranno la guerra. La re-ammissione nella comunità greca coinciderà anche con la guarigione fisica di Filottete che sarà operato da Esculapio cosicché la ferita al piede verrà sanata (questo episodio rappresenta, peraltro, la prima traccia di un’operazione chirurgica nell’antichità). 5 La distinzione è di Alessandra Grompi in V come vulnerabilità, Cittadella Editrice, Assisi, 2017. 6 Trad. pers. dal francese: «D’une manière générale, on peut dire de la vulnérabilité qu’il s’agit de la qualité de l’individu ou du groupe susceptible de faire l’objet d’une atteinte à ses intérêts, c’est-à-dire la qualité de celles et ceux qui sont menacés de ces atteintes a leurs intérêts». S. Besson, La vulnérabilité et la structure des droits de l’homme.
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una categoria ambigua, come osserva Rut, perché si presenta come «un tratto comune all’umanità ma allo stesso tempo rende conto della particolarità di una situazione individuale»7. Il secondo tipo di vulnerabilità mette in scena una rappresentazione dell’umano che non è connessa alla semplice esistenza dell’essere umano e alla possibilità che subisca un vulnus ma è situazionale perché si presenta nella congerie di relazioni sociali, affettive, culturali, politiche che l’uomo stabilisce e si esprime in termini di misconoscimento, aggressione, violenza, esclusione8. Questa doppia nozione di vulnerabilità si caratterizza dunque per una dimensione ontologica ed una contestuale: con la prima si esprime un tratto essenziale non solo dell’essere umano ma del vivente in generale che è rappresentato dalla mera potenzialità di subire un vulnus, di essere cioè vulnerati; la seconda coglie invece un momento accidentale e variabile, come osserva Pastore, perché determinato dalla peculiarità di situazioni, relazioni, modalità di vita dell’individuo o di un gruppo e dai pregiudizi che dunque può subire L’exemple de la jurisprudence de la Cour Européenne des droits de l’homme, in L. Burgourgue Larsen (ed.), La vulnérabilité saisie par les juges en Europe, Editions Pedone, Paris, 2014, pp. 59-85. La citazione è da p. 64. 7 C. Rut, La vulnérabilité dans la jurisprudence de la Cour Européenne des droits de l’homme, in «Revue trimestrielle des droits de l’homme», 102, 2015, pp. 317-340, p. 321. Per una ricostruzione terminologica del lemma vulnerabilità, si veda il recente contributo di G. Maragni, Alle origini (terminologiche) della vulnerabilità: vulnerabilis, vulnus, vulnerare, in O. Giolo, B. Pastore, Vulnerabilità. Analisi multidisciplinare di un concetto, Carocci, Roma, 2018, pp. 13-36. 8 Filottete incarna entrambi tipi di vulnerabilità perché se da un lato la ferita al piede rappresenta la vulnerabilità ontologica, ossia la condizione universale di ogni essere vivente, la sua esclusione dalla società, avvenuta in conseguenza della ferita al piede, rappresenta la vulnerabilità come suscettibilità di esclusione da un contesto sociopolitico.
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all’interno di questi contesti relazionali, culturali e socio-politici9. Entrambi aspetti esprimono l’inestricabile ambiguità dell’umano, il suo atteggiarsi ad essere autonomo ma vulnerabile; il suo desiderio di potenza che la condizione umana stessa, vulnerabile per natura e per effetto delle interrelazioni che l’uomo intreccia, può impedire.
2. Il controllo dei corpi: il biopotere vulnerante La messa in scena della vulnerabilità nella sua duplice connotazione muta quell’idea astratta di autonomia e autodeterminazione che le conquiste sette-ottocentesche avevano promosso (e le concezioni neo-liberali riproposto), immaginando un individuo autosufficiente, in grado di auto-governarsi anche in assenza di relazioni private e trame sociali, politiche, culturali. Questa immagine si sfoca, lasciando spazio a nuovi immaginari che ripensano l’uomo come un soggetto certamente autonomo ma non più in maniera autoreferenziale ed assoluta. Gli eventi del secolo breve, su cui ritornerò più compiutamente nelle prossime pagine, determinano una nuova narrazione in contrapposizione alla costruzione della dogmatica sette-ottocentesca: è l’idea che l’autonomia dell’individuo possa essere minacciata e sempre limitata, sicché le capacità dell’uomo divengono incapacità. Incapacità innanzitutto «del “non poter dire”, del non poter parlare, spiegare, argomentare, dibattere, che produce diseguaglianza ed esclusione. Le incapacità riguardano, inoltre, l’agire: sono quelle inflitte dalla malattia, dall’invecchiamento, dall’infermità ma ad esse si aggiungono quelle inflitte agli esseri umani da altri esseri umani in occasione delle
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B. Pastore, Soggettività giuridica e vulnerabilità, in O. Giolo, B. Pastore, Vulnerabilità. Analisi multidisciplinare di un concetto, cit., p. 135.
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svariate circostanze dell’interazione»10. E poiché questo secondo tipo di incapacità che realizza la c.d. vulnerabilità situazionale come esclusione implica che un soggetto eserciti un dominium su un altro soggetto, sicché tra i due si stabilisce una relazione impari, asimmetrica, di aggressione, intimidazione, sfruttamento, misconoscimento, le istituzioni sono chiamate a mettere in campo azioni e risorse per assicurare l’effettivo sviluppo della personalità umana che tende all’autodeterminazione ma, al tempo stesso, per ridurre le cause e i fattori di vulnerabilità che possono limitare l’autonomia umana. Cosa accade, invece, se l’ordinamento, le istituzioni e, persino, il diritto, piuttosto che mettere in campo risorse e misure per limitare le cause della vulnerabilità e garantire un miglior sviluppo della resilienza umana, divengono essi stessi responsabili di forme di esclusione, diseguaglianze, misconoscimento e dunque entità vulneranti? Ritorniamo, ancora per una volta, alla tragedia di Filottete, per riflettere su una prima forma di vulnerabilità connessa all’esercizio del potere politico e, in particolare, all’idea del biopotere. La menomazione fisica dell’eroe induce gli Achei ad abbandonarlo sull’isola di Lemno, costringendolo ad una involontaria solitudine. È la vita stessa, quando diviene vulnerabile, ad essere allontanata dalla polis, dalle relazioni umane e sociali. Come sappiamo, per il mondo greco vi sono due forme di vita: zoé, la vita nuda che è esclusa dalla vita politica e resta confinata nell’ambito dell’oîkos, e bios, la forma del vivere proprio del singolo o di un gruppo e quindi la vita politicamente qualificata. Quando la vita entra nella politica, essa diviene (s)oggetto delle tecniche, azioni e rappresentazioni politiche. La vita che si qualifica ed accede alla polis non è più una mera questione biologica ma assume una valenza storico-politica specifica e diviene perciò una questione di potere, di controllo, sicché la realtà biologica si riflette in quella politica. Come osserva Foucault, parlando 10
Ivi, p. 137.
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di bio-potere: «L’uomo occidentale apprende a poco a poco cosa è una specie vivente in un mondo vivente, cosa vuol dire avere un corpo, delle condizioni di esistenza, delle probabilità di vita, una salute individuale e collettiva, delle forze modificabili ed uno spazio dove le si può distribuire in maniera ottimale»11. Vita e potere (politico) si intrecciano, nel senso che il secondo controlla la prima attraverso le tecniche governamentali dei corpi, arrivando perciò ad espellere – come accade con Filottete – quei corpi vulnerabili che non corrispondono al modello di società che il potere stesso ordina12. La vita viene assunta dal potere che, così facendo, accede fino al corpo. Non si tratta più di esercitare il potere attraverso il diritto di far morire ma di esprimerlo attraverso la gestione della vita, amministrando i corpi, riarticolando il vivere, spogliando l’uomo di quello statuto politico normale, annullando la politeia ossia l’esperienza propria della polis di cittadinanza diretta e riducendo i corpi nuovamente a nuda vita, ad una condizione meramente biologica.
11 M. Foucault, La volontà di sapere. Storia della sessualità, vol. 1, trad. it. di P. Pasquino e G. Procacci, Feltrinelli, XIII ed., Milano, 2008, p. 126. 12 Foucault sviluppa due modelli di controllo politico dei fenomeni di devianza: il modello della lebbra ed il modello della peste. Nel primo caso, i devianti venivano espulsi dalla società; il controllo sociale agiva perciò attraverso una pratica di esclusione (è ciò che accade con Filottete). Nel modello della peste, invece, il controllo prendeva il posto dell’esclusione. I quartieri di ogni città erano organizzati in maniera tale che ogni abitazione si affacciasse su uno spazio pubblico. Ogni giorno, gli abitanti di queste città utopiche erano obbligati ad affacciarsi e a farsi controllare da guardiani e sentinelle che verificavano se qualche abitante si era ammalato di peste o meno. Il primo modello rappresenta l’idea della comunità libera da ogni forma di devianza; il secondo modello è l’utopia della società perfettamente governata. V. M. Foucault, Sorvegliare e punire: nascita della prigione, trad. it. di A. Tarchetti, Einaudi, Torino, 1993.
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La questione di fondo che Filottete pone è come una vita (vulnerabile) possa essere uccisa senza che sia commesso alcun omicidio ma semplicemente attraverso l’abolizione di quei diritti, aspettative e attributi che l’uomo acquisisce all’interno di un corpus politico. A privare Filottete di questo patrimonio è proprio la politica sottoforma di biopotere che investe i corpi, li domina, li espelle dalla società, riducendo la vita alla sua forma più elementare e primaria, destituendola di ogni relazione e rappresentandola solo nel suo significato meramente biologico. Filottete è così privato della relazione umana, dello sguardo amico costitutivo del Sé13, di quel tessuto vitale dotato di senso che lo rende persona (dotata di senso) e l’unica compagnia di cui può beneficiare sono le fiere maculate e irsute. La sua zoppia, causata dall’infezione al piede, lo rende più simile alle bestie che agli uomini, facendogli quasi perdere quella normalità di bipede che lo autorizzerebbe a rimanere nella polis. Il biopotere vulnerante si manifesta allora non più in quel vecchio diritto di far vivere o morire che il sovrano esercitava ma nel potere di far vivere a certe condizioni e con determinate modalità: «È ora sulla vita e lungo tutto il suo svolgimento che il potere stabilisce la sua presa; la morte ne è il limite, il momento che gli sfugge; diventa il punto più segreto dell’esistenza, il più “privato”»14. 13
Rinvio a J. Habermas, La condizione intersoggettiva, trad. it. di M. Carpitella, Laterza, Roma-Bari, 2007. 14
M. Foucault, La volontà di sapere. Storia della sessualità, vol. 1, trad. it. di P. Pasquino e G. Procacci, Feltrinelli, XIII ed., Milano, 2008, p. 122. Proseguendo, nelle pagine successive, Foucault così scrive: «Per millenni, l’uomo è rimasto quel che era per Aristotele: un animale vivente e, inoltre, capace di esistenza politica; l’uomo moderno è un animale nella cui politica è in questione la sua vita di essere vivente» (ivi, p. 127). Sempre di Foucault, poi, si veda Bio-potere e totalitarismo, in S. Forti (a cura di), La filosofia di fronte all’estremo. Totalitarismo e riflessione filosofica, Einaudi, Torino, 2004, ove l’analisi foucaultiana incrocia le riflessioni arendtiane a proposito del totalitarismo.
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3. L’ordinamento che vulnera: l’esperienza del totalitarismo e la crisi delle democrazie costituzionali Le modalità con cui l’uomo, come specie ed individuo, può divenire (s)oggetto delle strategie politiche e da queste essere vulnerato sono state indagate anche da Hannah Arendt15 nei suoi studi sul totalitarismo. Si tratta di un’esperienza storico-politica che la filosofa definisce come un processo di oppressione che ha privato gli uomini della loro condizione di appartenenza ad una comunità politica facendo sì che l’individuo conservasse unicamente «quelle qualità che normalmente si estrinsecano soltanto nella sfera della vita privata e rimangono inarticolate, mera esistenza in tutte le questioni d’interesse pubblico»16. La differenza con il pensiero greco – che pure è oggetto di indagine per la Arendt17 – è che esso guardava con sospetto a zoé, alla sfera privata della vita dell’uomo, e ricercava le radici del vivere nel miracolo della sfera pubblica. La tragedia dell’esperienza totalitaria risiede invece nella volontà di espellere l’uomo dal dibattito politico, di annullarne la volontà e i diritti, confinandolo nella sua vita biologica. Ciò che viene meno con il biopotere e con i regimi totalitari novecenteschi è l’idea che attraverso l’organizzazione propria della vita politica si 15
La Arendt osserva come il dominio totale che raggiunge il suo apice nelle ambizioni totalitarie si esprime non nella morte dell’individuo ma nel liquidare ogni sua spontaneità, nel condannarlo ad essere il cane di Pavlov, «l’esemplare umano ridotto alle reazioni più elementari, eliminabile o sostituibile in qualsiasi momento con altri fasci di reazioni che si comportano in modo identico […]» (H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 624). 16
H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 416. Soprattutto in Vita activa. La condizione umana, introd. di A. Del Lago, trad. it. di S. Finzi, Bompiani, Milano, 2001, ove, analizzando il modello della polis greca, la filosofa afferma che esso ha rappresentato un procedimento ermeneutico che ha portato alla consumazione del politico in senso classico. 17
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possa instaurare l’eguaglianza, «perché l’uomo può trasformare il mondo e crearne uno di comune, insieme coi suoi pari e soltanto con essi»18. L’esperienza dei totalitarismi mostra alla storia che la politica con le sue strutture e meccanismi legittimamente ascesi al potere (è ciò che accade con la repubblica di Weimar) può decidere della vita delle persone controllandone i corpi, relegandoli su un’isola o nei campi di concentramento, annullando ogni forma di spontaneità, partecipazione, organizzazione attraverso l’oppressione, la violenza, l’ingiustizia ed il misconoscimento. È così che finisce il Novecento? No, perché al totalitarismo segue l’esperienza delle costituzioni rigide che si ergono a baluardo e tutela dei diritti fondamentali ma che non possono impedire lo scorrere incerto della storia. E così, il muro di Berlino prima, i conflitti in Iraq e Medio Oriente poi, le incertezze e paure dell’era globale contribuiscono a rafforzare la narrazione della vulnerabilità come di una caratteristica ontologica fondante l’essenza dell’uomo. C’è tuttavia un altro tipo di rappresentazione, già sperimentata con l’esperienza totalitaria, che si radicalizza: è l’idea che lo stesso ordinamento giuridico con le sue istituzioni, la democrazia costituzionale, il diritto con il sistema delle fonti giuridiche siano vulnerabili e che la loro vulnerabilità si rifletta di conseguenza sull’individuo, vulnerandolo. Vale la pena provare a rintracciare le cause di questa epocale trasformazione. La fine del “dopo ‘89”, come lo definisce Maria Laura Lanzillo19, aveva trasmesso l’illusione dell’affermazione definitiva delle democrazie liberali, del capitalismo e dell’economia di mercato che avrebbe garantito benessere e prosperità a tutti. Certo il prezzo da pagare era (ed è stato) una progressiva limitazione dei diritti civili e sociali nonché 18
H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 417. M.L. Lanzillo, Editoriale. Governare la paura in epoca globale, in «Filosofia politica», 1, 2010, pp. 3-6. 19
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delle libertà, soprattutto dopo l’11 settembre 2001, sicché la fine del XXI secolo e l’inizio del nuovo millennio si sono caratterizzati per il radicalizzarsi di nuove dicotomiche contrapposizioni: libertà vs. sicurezza; richiami identitari vs. multiculturalismo; sovranismo vs. globalismo; ecc. Il risultato? La crescente diffusione di sentimenti di paura, incertezza, destabilizzazione che hanno finito per radicalizzare l’idea di autonomia dell’uomo, costringendolo ad una convulsa lotta per costruire la sua presunta autodeterminazione su uno sfondo di incertezze e contraddizioni, con il risultato di vulnerarlo ancor di più. La fine del Novecento ci consegna visioni globali e illusioni di de-territorializzazione, con le quali matura l’idea che lo Stato non sia più l’attore unico ed assoluto della vita politica ma che le forme di vita possano esprimersi liberamente nel villaggio globale ove ogni differenza appare annullata dalla tendenza ad uniformarsi a standard imposti dalla globalizzazione. La regolamentazione dei rapporti tra politica ed economia si fa più soft, quasi incerta, le forme di government cedono il passo a meccanismi e dispositivi basati sull’efficienza tecnocratica, la mediazione della forma-partito quasi scompare per lasciare il posto alla figura dell’unus, capo carismatico, e l’avanzare deciso di processi di globalizzazione impone la logica funzionale dell’economia-finanza in grado di neutralizzare la forza mediatrice della politica. Così facendo, però, si rinuncia a quelle forme di organizzazione sociale che nella politica e nella democrazia dei diritti fondamentali trovano il loro presupposto e che nel loro dispiegamento garantiscono uguaglianza e giustizia. Il sorprendente risultato di questi processi è che la messa in discussione dello Stato post-Westfalia, il dominio di un’economia di tipo finanziario e manageriale, il rifuggire da forme hard di diritto, preferendo dispositivi soft, insomma, la transizione dal government alla governance, invece che realizzare quella promessa di maggiore libertà e tutela dei diritti hanno contribuito alla produzione di incertezza, diffidenza, insicurezza, vulnerabilità.
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Come ha recentemente osservato Ciaramelli, matura negli ultimi decenni una presa di coscienza che la «vulnerabilità non riguarda più soltanto le esperienze umane che il regime democratico-costituzionale si ripromette di tutelare, salvaguardare e implementare, ma colpisce o coinvolge lo stesso diritto che ne costituisce la principale garanzia»20. È proprio all’interno della democrazia costituzionale, delle sue strutture giuridiche e politiche che si aprono varchi e si creano dislivelli, lacune, indeterminatezze; vizi tutti che apparivano impossibili al formalismo dogmatico ottocentesco. Dopo aver accennato al biopotere e all’esperienza dei regimi totalitari come rappresentazioni del potere che vulnera l’individuo, vorrei ora proporre qualche riflessione sugli attuali dispositivi di governance, emersi negli ultimi decenni in conseguenza dei fenomeni socio-politici, economici e culturali di globalizzazione, per mostrare come dietro l’illusione della partecipazione democratica ed inclusione nei processi deliberativi essi mettano in realtà in campo pratiche di vulnerazione degli individui, esponendoli a forme di esclusione e disuguaglianze. E poiché la storia scorre in corsi e ricorsi, da una certa prospettiva – quella foucaultiana e arendtiana, per intenderci – non sbaglieremmo ad interpretare questi processi di prevalenza della tecnocrazia sull’esercizio diretto della parola o dell’accentramento della produttività che attira a sé le vite e determina una crescente necessità di controllo sociale come un nuovo esercizio di biopotere governamentale. Piuttosto che analizzare da una prospettiva descrittiva la governance, intendo analizzarne i meccanismi di legittimazione e le concezioni che ispirano i suoi dispositivi ed istituzioni, per poi valutarli criticamente e mostrare come la loro tenuta democratica e capacità di colmare quei deficit prodotti dalle politiche neoliberali siano in realtà meri effetti cosmetici 20
F. Ciaramelli, La vulnerabilità: da caratteristica dei soggetti a carattere del diritto, in O. Giolo, B. Pastore, Vulnerabilità. Analisi multidisciplinare di un concetto, cit., p. 175.
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che dietro l’illusione della partecipazione attiva tendono in realtà ad escludere i soggetti, esponendoli quindi alla vulnerabilità.
4. Efficienza, inclusività, responsabilità: tre tentativi di legittimare la governance La premessa di queste pagine che seguono è quasi scontata: la letteratura sulla governance è sterminata e l’uso che le scienze giuridiche e sociali fanno del termine assai inflazionato, sì da apparire, in certi casi, quasi come un abuso21. 21
Per una bibliografia minima sul lemma, si vedano i seguenti contributi: J.N. Rosenau, Governance in the Twenty-first Century, in «Global Governance», 1, 1, 1995, pp. 13-43; J.N. Rosenau, E.-O. Czempiel (eds.), Governance Without Government: Order and Change in World Politics, Cambridge University Press, Cambridge (U.K.), 1992; A. Pagden, The genesis of ‘governance’ and Elightenment conceptions of the cosmopolitan world order, in «International Social Science Journal», 50, 155, 1998, pp. 7-15; R. Mayntz, La teoria della governance: sfide e prospettive, in «Rivista italiana di scienza politica», XXIX, 1, aprile 1999, pp. 3-21; B. Jessop, The rise of governance and the risks of failure: the case of economic development, in «International Social Science Journal», 50, 155, 1998, pp. 29-45; L. Finkelstein, What Is Global Governance?, in «Global Governance», 1, 3, 1995, pp. 367-372; B. de Sousa Santos, C.A. Rodríguez-Garavito (eds.), Law and Globalization from Below. Toward a Cosmompolitan Legality, Cambridge University Press, Cambridge (U.K.), 2005; K. Callahan, Elements of Effective Governance: Measurement, Accountability and Participation, Auerbach Publications, Boca Raton, 2007. In Italia, A. Palumbo, S. Vaccaro (a cura di), Governance. Teorie, principi, modelli, pratiche nell’età globale, Mimesis, Milano, 2007; A. Arienzo, D. Lazzarich (a cura di), Vuoti e scarti di democrazia. Teorie e politiche democratiche nell’era della mondializzazione, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2012; A. Andronico, Viaggio al termine del diritto. Saggio sulla governance, Giappichelli, Torino, 2012; G. Borrelli (a cura di), Governance, Dante e Descartes, Napoli, 2004. Infine, mi sia consentito rinviare al mio: F. Scamardella, Teorie giuridiche della governance. Le ragioni e i limiti di una nuova narrazione, Editoriale Scientifica, Napoli, 2013.
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Per un verso la parola governance viene usata «in modo generico, per indicare il modo in cui “di fatto” funziona un certo fenomeno o una certa istituzione, e l’insieme di regole e soggetti che contribuiscono a governarli e/o a regolarli (…). Dall’altra parte, con tale espressione si indicano più specifiche dinamiche istituzionali, che contribuiscono a forgiare le regole giuridiche, e le modalità della loro assunzione, sia all’interno degli stati, specie nelle realtà territoriali e locali, sia nei rapporti internazionali o transnazionali»22. A partire da questa premessa ed in uno sforzo estremo di sintesi, possiamo individuare alcuni percorsi concettuali che hanno tentato di rafforzare la legittimità della governance e delle sue policies reticolari. La tesi più ricorrente si basa sull’efficienza delle sue politiche. Per alcuni autori la legittimazione della governance si può infatti ravvisare nella sua capacità di produrre i beni pubblici richiesti dai cittadini piuttosto che nella correttezza procedurale delle decisioni e dei meccanismi di loro attuazione23. Si passerebbe così da una input oriented legitimacy ad una output oriented legitimacy. L’interesse dei teorici della governance che difendono questa tesi non è per la correttezza procedurale assoluta dei meccanismi decisionali ma si rivolge all’effettività del processo stesso che garantirebbe una c.d. good governance24. Posto in altri termini, se i dispositivi isti22
M.R. Ferrarese, La governance tra politica e diritto, il Mulino, Bologna, 2010, p. 7. 23 Tentativi in tal senso sono riconducibili soprattutto a F.W. Scharpf, Introduction: the problem-solving capacity of multi-level governance, in «Journal of European Public Policy», 4, 4, 1997, pp. 520538, a C. Bellamy, J.A. Taylor, Governing in the information age, Open University Press, Philadelphia, 1998; N. Saidi, H. Yared, E-Government: Technology for Good Governance, Development and Democracy in the Mena Countries, Working Paper 0304 (on-line), 2003. 24 Di good governance parla Rhodes in The New Governance: Governing without Government, in «Political Studies«», XLIV, 1996, pp. 652-667. Dello stesso autore, poi, si veda anche Understanding
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tuzionali predisposti dal modello dello Stato costituzionale di diritto rappresentano un ostacolo all’accelerazione dei processi di modernizzazione, di produzione di beni, di governo della società, essi vanno messi da parte o quanto meno affiancati da nuove policies e meccanismi in grado di garantire questi servizi amministrativi. Per questi studiosi della governance, la debolezza della democrazia rappresentativa sarebbe dovuta alle dinamiche elitarie che si innescano e che determinano uno iato ormai insanabile tra chi governa e la società civile. Ecco perché si suggerisce l’apertura dei processi politici ed amministrativi alla partecipazione diretta di cittadini, soggetti privati, agenzie, comitati ed associazioni e di tutti coloro che compongono la società civile25. La partecipazione democratica assembleare (d’ispirazione rousseauiana) non è necessaria, né occorre ricercare a tutti i costi una correttezza procedurale assoluta: il bisogno di partecipazione viene soddisfatto da strumenti deliberativi (anche alternativi) di trasmissione della volontà popolare e di implementazione che svincolano il processo democratico dal controllo di istituzioni rappresentative e di apparati burocratici inflessibili. Per questo approccio saremmo allora in presenza di una legittimazione ex post: non la correttezza procedurale, non la delega elettorale ma la capacità di risolvere nell’immediato una questione sociale legittimerebbe la governance e le sue politiche26. Simile a questa prima tesi, ve ne è una seconda, altrettanto diffusa, per la quale la governance ha avuto la capacità di colmare i vuoti creati dalle riforme neoliberiste e dai proGovernance. Policy Networks, Governance, Reflexivity and Accountability, Open University Press, Buckingham, 1997. 25 In tal senso, P. Hirst, Democracy and Governance, in J. Pierre, Debating Governance. Authority, Steering and Democracy, Oxford University Press, Oxford, 2000. 26 Su questo tipo di legittimazione ex post, rinvio a F. Ciaramelli, Consenso sociale e legittimazione giuridica. Lezioni di filosofia del diritto, Giappichelli, Torino, 2013.
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cessi di globalizzazione. Secondo Maria Rosaria Ferrarese, la governance, attraverso la sua policy reticolare, situa le decisioni nel basso, sganciandole dai canali di government (dall’alto) e garantendo così un maggior coinvolgimento dei cittadini ed una prossimità alle loro esigenze27. Per questa seconda tesi, riconducibile soprattutto ai lavori di Rodhes, sarebbe dunque l’inclusività a legittimare la governance28. Kathe Callahan a tal proposito ha scritto che: «I cittadini possono assumere una posizione più significativa nella loro relazione con il governo quando sono significativamente coinvolti nel dialogo e nel processo deliberativo per l’individuazione di obiettivi e fini dei programmi del settore pubblico e dei servizi di fornitura pubblici, quando per esempio viene loro chiesto come dovrebbe essere il buon governo in modo che essi possano contribuire a stabilire adeguati modelli di prestazione. In questo modo vengono riconosciuti come parte integrante dei sistemi legittimi di responsabilità»29. La quinta relazione della Commissione europea sulla coesione economica, sociale e territoriale dell’Unione Europea, dall’allusivo titolo Promuovere una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva30, definisce la governance come «un ele27
Rinvio a: M.R. Ferrarese, Diritto sconfinato. Inventiva giuridica e spazi nel mondo globale, Laterza, Roma-Bari, 2006; Id., Il diritto al presente. Globalizzazione e tempo delle istituzioni, Il Mulino, Bologna, 2002; Id., La governance tra politica e diritto, cit. 28 Scrive Rhodes, «Government reform is a world-wide trend and “good governance” is the latest flavor of the month at the World Bank, shaping its lending policy towards Third World countries» (R.A.W. Rhodes, The New Governance: Governing without Government, cit., p. 656). La “good governance” sarebbe assicurata proprio dall’inclusivity ossia dalla possibilità di includere la società civile nel policymaking process. 29 K. Callahan, Elements of Effective Governance: Measurement, Accountability and Participation, Auerbach Publications, Boca Raton, 2007, p. 215. 30 La relazione è del 2011 e il testo può essere consultato alla seguente pagina web: http://ec.europa.eu/regional_policy/sources/docgener/panorama/pdf/mag36/mag36_it.pdf Il corsivo è mio.
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mento particolarmente importante nell’ambito della politica di coesione. Una governance forte, che assicuri la partecipazione di tutte le parti in causa, consente di adattare le misure di intervento ai contesti reali, favorendo così un maggiore senso di appartenenza e di impegno verso il successo. È su questo che si fonda la futura politica di coesione»31. Questa seconda forma di legittimazione della governance fa dunque leva sull’inclusione di tutti i soggetti interessati alla deliberazione; trattandosi di attori coinvolti in processi decisionali su questioni che li riguardano da vicino, l’impegno ed il maggior senso di responsabilizzazione dovrebbero essere assicurati e, con essi, il buon successo delle politiche. Alcuni autori, poi, precisano che una buona governance esercitata mediante l’allargamento della base decisionale, aperta anche ad attori provenienti dal basso, si accompagna sempre all’idea di competitività nel senso che la competenza dei partecipanti si converte sempre in uno stimolo ad incrementare l’efficienza dei servizi e delle prestazioni32. Un terzo percorso concettuale, infine, risolve il problema della legittimità della governance in una visione di stakeholder democracy basata sulla responsabilità degli attori: per questi autori, il problema della democrazia rappresentativa è causato da uno scollamento sempre più profondo tra classe di governo e società civile; se la prima diventa sempre più elitaria, la seconda risulta sempre più isolata33. La soluzione a questo dilemma sarebbe affidata all’apertura dei canali po31
Ivi, p. 20. Ne parla, ad esempio, A.M. Kjær, Governance, Polity Press, Cambridge, 2004, secondo cui la governane si manifesta attraverso la creazione di uno spazio di mercato all’interno del settore pubblico. In tal senso anche F.J. Laporta, Gobernanza y soft law: nuevos perfide jurídicos de la sociedad internacional, in A. Ruiz Miguel (ed.), Entre Estado y cosmópolis. Derecho y justicia en un mundo globale, Trotta, Madrid, 2014, pp. 41-82. 33 M. Bevir, Democratic Governance, Princeton University Press, Princeton and Oxford, 2010. 32
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litici ed amministrativi alla partecipazione diretta dei cittadini in quanto tali ma anche come utenti di servizi pubblici e membri di associazioni, organizzazioni che costituiscono la società civile. A differenza del secondo modello, basato sull’inclusività, qui la partecipazione è però intesa in senso razionale: stakeholder democracy significa che i dispositivi di governance devono garantire scelte di policy reticolare e processi di attuazione delle stesse accompagnate da forme di accountability. In sostanza questa terza soluzione, piuttosto che ricercare la legittimazione dei processi di governance nell’efficienza e nell’inclusività, farebbe appello a modelli di democrazia deliberativa che, sebbene svincolati dai meccanismi procedurali propri della modernità, tenterebbero comunque di ricercare il consenso preventivo dei soggetti sociali potenzialmente esposti agli effetti delle decisioni pubbliche34. La partecipazione non è qui intesa come democrazia assembleare, perché non è necessario ricorrere a meccanismi di delega elettorale, essendo sufficiente ricorrere a strumenti deliberativi in grado di assicurare la raccolta e trasmissione della volontà popolare sulle specifiche questioni.Tra i principali sostenitori di questa tesi vi è Mark Bevir, autore di due interessanti volumi, A Theory of Governance (2010) e Democratic governance (2013), nei quali sviluppa un modello ideale di governance costituito da tre assi portanti: la scelta razionale, la teoria dei network e le condotte responsabili degli agenti. L’idea di Bevir è che i dispositivi di governance funzionino come un network, una rete in cui i soggetti partecipanti fanno scelte razionali e non guidate semplicemente da un interesse utilitaristico: «I cittadini», scrive Bevir, «essendo attori razionali, provano a massimizzare i loro interessi 34
M. Bevir, A Theory of Governance, University of California Press, Berkeley, Los Angeles, London, 2013 ma anche L. Blomgran Bingham, Collaborative Governance: Emerging Practices and the Incomplete Legal Framework for Public and Stakeholder Voice, in «Journal of Dispute Resolution», 2, 2009, pp. 269-325.
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del breve periodo»35. La razionalità quindi non viene mai ridotta al mero calcolo economico perché la coordinazione stessa del mercato non è in grado di garantire da sola un’equilibrata ed efficiente regolamentazione36. La scelta razionale avviene per Bevir, all’interno del network, ossia di questo spazio reticolare ove gli stakeholders si muovono ed è coniugata con uno dei maggiori principi della governance: la responsabilità degli agenti. Bevir sostiene che: «Agire responsabilmente significa agire in maniera tale da promuovere il bene comune piuttosto che ricercare il proprio vantaggio personale»37. 35
M. Bevir, A Theory of Governance, cit., p. 137. Trad. pers. dall’inglese: «Citizens, being rational actors, try to maximize their shortterm interests». 36 Bevir sviluppa la sua teoria lasciandosi ispirare dai dispositivi di governance sorti in America negli anni Trenta e nei decenni successivi. In America, infatti, la governance si presentò come un dispositivo in grado di enfatizzare il carattere razionale delle decisioni, in risposta ai meccanismi politici predisposti dal New Deal. L’approccio keynesiano faceva infatti proprio l’ideale westfaliano dello stato-nazione quale soggetto politico sovrano ed autonomo. Lo Stato era l’unico soggetto in grado di esprimere una sovranità su un territorio e di affermare un diritto esclusivo a rappresentare le comunità che vivevano in quel territorio. Come reazione a questo modello, negli anni Trenta, ma soprattutto nei decenni successivi, fu assunto come modello il paradigma della razionalità ottimizzante degli agenti, così come sviluppata dalla teoria della scelta razionale. Dapprima la funzione rappresentativa dello Stato fu indebolita dall’azione dei gruppi d’interesse, poi, l’apertura dei confini nazionali facilitò l’emersione di organismi ed istituzioni esterne. Tuttavia, della teoria razionale, Bevir evidenzia soprattutto la capacità dei soggetti di organizzarsi in uno spazio dialogico ove allineare ed ottimizzare i propri interessi. Inoltre, i modelli americani congegnati dagli studi di legal theory degli anni ’70-’80 ebbero il pregio di mettere in discussione i meccanismi istituzionali tradizionali, basati su relazioni di command-and-control, a beneficio di nuovi assetti caratterizzati dalla ragione ottimizzante degli attori e da una maggiore attenzione alla loro partecipazione di tipo reticolare. 37 Ivi, p. 141. Trad. pers. dall’inglese: «To act responsibly was to act so as to promote the common good rather than to seek personal advantage».
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Non si può infatti pensare che i mercati e i network possano genuinamente garantire la democraticità dei processi decisionali che avvengono al loro interno e della deliberazione finale per il solo fatto che le decisioni su questioni politiche, educative, di sanità, ecc. sono devolute a strutture coordinate che includono settori privati, gruppi, individui ed istituzioni pubbliche38. Nondimeno, secondo Bevir, i networks possono validamente supportare i meccanismi di governance e legittimarli. Ciò accade se il network non viene inteso alla maniera neoliberale e cioè come la longa manus dei mercati che decentralizzano la decisione, sottraendola alle istituzioni pubbliche e avocandola a sé, come scelta del più forte, di chi detiene il potere. Il network dovrebbe essere inteso piuttosto come uno spazio (reale o virtuale) dove gli attori operano mediante relazioni responsabili strutturate39. Chi si muove nel network, allora, non è il consumatore né il produttore che sono soddisfatti acquistando o vendendo determinati servizi o beni. L’agente che opera nel network è un soggetto (individuo o gruppo) responsabile che dà vita a relazioni e connessioni sociali con altri agenti in cui avvengono scambi comunicativi o di azioni che sono controllati e monitorati da tutti gli altri agenti. Questa percezione del network, unita alla responsabilità dell’agente, riproporrebbe quella situazione discorsiva habermasiana in cui l’esperienza dell’altro non è ispirata ad un agire strumentale ma performativo di incontro, dialogo, riconoscimento.
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Si tratta di una debolezza intrinseca alle strutture reticolari che dipendono anche dai soggetti che partecipano alle procedure. Non vi è infatti garanzia che essi non partecipino unicamente ispirati da un interesse utilitaristico e strategico. Mi sono occupata di questo aspetto nel già citato volume Teorie giuridiche della governance, spec. pp. 157 e ss. 39 M. Bevir, Democratic governance, cit., pp. 171 e ss.
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5. La (necessaria) vulnerazione strutturale dei sistemi di governance Sono accettabili e sufficienti i tre modelli che ho analizzato nel paragrafo precedente per fornire un’adeguata forma di legittimazione della governance? La risposta alla questione ora posta è, a mio avviso e per ragioni diverse, negativa. Il primo modello si basa infatti su soluzioni antidemocratiche; il secondo ed il terzo ricercano soluzioni ultra-democratiche al problema della legittimità che si rivelano però insufficienti, perché un allargamento della base decisionale dal basso che consenta una maggiore partecipazione di cittadini, attori, stakeholders interessati si consuma in una sorta di ricerca di un consenso preventivo dei soggetti potenzialmente interessati ed in una loro esposizione antidemocratica agli effetti delle decisioni finali. Nel primo modello, si ritiene di poter superare i modelli di rappresentanza di ispirazione rousseauiana e quindi di legittimare le politiche di governance sulla base dell’efficienza, semplicemente su due presupposti: 1. L’incapacità dei rappresentanti di elaborare politiche adeguate; 2. La tendenza dei politici a scaricare le responsabilità per i fallimenti di governo su altri soggetti (generalmente i governi precedenti). Si tende poi a dimostrare la necessità di politiche rapide ed efficaci che riducano i costi decisionali, sottraendo competenze e risorse ai legislatori. Qui è evidente che gli invocati principi di “buon governo” o di “good governance” vanno oltre le tradizionali procedure di legittimità ex ante senza che sia assicurata la trasparenza e l’accountability dei soggetti, pubblici e privati, che agiscono. L’efficienza che si invoca è la supremazia della realtà cruda e nuda; il prevalere sul simbolico, la volontà di risolvere tutto nella pulsione che scarica, nell’azione efficiente che rinuncia alla mediazione della politica, del confronto, del dialogo con l’altro. Siamo, in altri termini, alla resa del diritto che diviene perciò esso stesso vulnerabile e perciò vulnerante dell’indi-
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viduo perché non riesce più a garantire la tutela dei suoi diritti ed interessi. Il secondo ed il terzo modello che, seppure in maniera differente, fanno leva sul perno dell’inclusività, propongono giustificazioni alternative, letture che potremmo dire neofunzionaliste a là Luhmann o a là Foucault. La governance viene prospettata come una soluzione socio-organizzativa eterarchica, alternativa cioè al modello verticistico dello Stato, ed organizzata in forma reticolare in cui i soggetti sono coinvolti mediante processi dialogici ed autoriflessivi. I tre elementi indicati da Bevir (scelta razionale, teoria del network, responsabilità dell’agente) riprodurrebbero, ad esempio, comunicazioni razionali nel contesto dialogico dei network dove gli agenti operano responsabilmente. Governando in queste strutture si governerebbe anche l’esterno, la società, in maniera quasi governamentale. Alla rappresentanza si contrappone la partecipazione, non al momento del voto ma attraverso l’inclusione in network di supporto (comitati settoriali, partnership, comitati, tavoli, ecc.). Ora, il nervo scoperto è a mio avviso costituito da questi canali di comunicazione diretta con le comunità che la governance ha dapprima creato e poi solidificato, preferendo agire con queste modalità reticolari piuttosto che interrogarsi (e intervenire) sull’erosione del consenso dei cittadini per le istituzioni pubbliche e per le procedure democratiche tradizionali. In altri termini, la questione che questi due modelli pongono è la seguente: il gioco democratico che si sviluppa come invito a prendere parte alla discussione pubblica e le dinamiche che tendono a trasformare individui privati in soggetti responsabili e politicamente impegnati funziona? Questo governo with the people in sostituzione di uno for the people funziona realmente? Penso che queste questioni facciano emergere molti nodi e che le soluzioni anti o ultra-democratiche prospettate siano insufficienti, perché la governance resta un modello essenzialmente aziendale che non ha alcun interesse a garantire trasparenza, partecipazione, accountability: la partecipazione
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dei soggetti ha una valenza strumentale e non è un valore in sé come ad esempio accade con le elezioni. Le strutture di raccolta del consenso o di anticipazione dello stesso in vista di un processo deliberativo sono teleologiche: il fine è l’effettività e l’efficienza. Le implicazioni sono pericolose: ci si preoccupa della coesione, di ottenere il consenso, annullando o rendendo innocuo il dissenso. È la conformità dei consensi che queste strutture tentano di raggiungere piuttosto che l’emancipazione degli agenti il vero obiettivo. Come ha recentemente osservato il politologo francese Gaudin, «La gouvernance contemporanea sarebbe dunque un’azione pubblica in reti flessibili, un insieme di cooperazioni non predefinite e sempre da reinventare, distante dalle strutture gerarchiche del passato e dalle procedure routinizzate. All’origine di questa nuova azione pubblica, vi è meno comando centrale e gerarchie che procedure orizzontali di negoziazione, ma l’aggiustamento fra attori resta comunque necessario. La negoziazione in rete gli appare come un modo di coordinazione, che implica obiettivi e mezzi, sistemi di valore e logiche di interessi»40. Così accade che l’orizzonte democratico si assottiglia perché cresce la preoccupazione per l’efficacia: Accanto all’eguaglianza cittadina nella partecipazione, di conseguenza, la gouvernance promuove senza posa la concorrenza in termini di bilancio finanziario costi/ricavi. Come orientarsi tra queste due impostazioni principali che rientrano nelle pratiche della gouvernance pubblica? Dapprima viene un sospetto. L’ambizione democratica della gouvernance non sarebbe che un rivestimento di facciata, che serve a mascherare una razionalità economica di tipo neo-liberale. Ciò fa pensare alla for40 J.P. Gaudin, La Gouvernance a double-face. Declinazioni e contraddizioni, trad. it. di S. Volpe, Aracne, Roma, 2017, pp. 51-52.
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mula di Rousseau: «Delle ghirlande di fiori poste sulle catene di ferro». Ma l’analisi non si può accontentare di smascherare una strategia di dissimulazione della realtà, anche se oggi la maggior parte delle ricerche sul campo rivelano l’effetto cosmetico della partecipazione. Le opposizioni ed anche le contraddizioni che sono state rivelate in questa doppia collocazione della gouvernance fanno in realtà parte della sua stessa natura. La attraversano e la costringono a impossibili contorsionismi di conciliazione41. L’altro aspetto problematico riguarda lo slittamento dal piano del consenso a quello dell’accettabilità sociale che è legato alle modalità di azione della governance. Se lo Stato diventa un attore come un altro (al pari di autorità locali, associazioni, imprese, ecc.), il livellamento (“orizzontalizzazione”) che apparentemente rompe la sdegnosa sovra-ordinazione dei poteri, introduce però anche l’expertise gestionale, l’affermazione dell’impresa, l’efficienza delle prassi e dei metodi, insomma i valori del liberismo economico. Questo tipo di governance crea uno slittamento dal consenso all’accettabilità sociale. Che significa accettabilità? Che una regola o una decisione pubblica sono accettate da una comunità se non provocano troppe opposizioni (tenendo conto delle attese collettive o dei comportamenti sociali). La governance fa esattamente questo: i suoi caratteri manageriali ed ispirati a principi neoliberali le consentono di effettuare un giudizio prognostico su ciò che saranno le reazioni rispetto ad una decisione (controversie ambientali – la TAV, ad esempio, o la realizzazione di un inceneritore –, sicurezza alimentare, sicurezza urbana, investimenti locali, rischi naturali, ecc.). La performance tecnica valuta la ricezione sociale degli impatti che la decisione avrà. 41
Ivi, p. 94.
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Il punto è che attraverso i rivoli della procedimentalizzazione tecnocratica (contratti, metodi di coordinamento, codici di buona condotta, tavole rotonde, agenzie di regolazione, comitati, ecc.) il dissenso è disperso, diluito sino a risultare completamente dissolto e perciò tutto ciò che si può ottenere è una piatta accettabilità sociale in luogo del consenso democratico. Ciò che la governance occulta, dietro la facciata di partecipazione democratica, sono i rapporti di forza che guidano e dominano con una forte retorica argomentativa i procedimenti decisori e deliberativi e, dunque, le scelte pubbliche. Mettendo la tecnica di fronte ad un largo pubblico, lavorando ed organizzando gli apprendimenti collettivi si cerca di fare accettare le scelte, anticipando le reazioni negative e le eventuali opposizioni e gestendoli attraverso l’illusione del dialogo e della partecipazione su base di linguaggi condivisi. Si ripiega su procedimenti e procedure per costruire e ricostruire la legittimazione di decisioni pubbliche42. Il risultato? Che mentre apparentemente la governance ci dà l’illusione dell’altrove, di un aldilà che evita sia Scilla (i fallimenti dello stato centralizzato) che Cariddi (i fallimenti del mercato neoliberista), favorendo e promuovendo forme di policy reticolare flessibili e a geometria variabile, basate su un’inclusione responsabilizzante, quasi pedagogica, dei cittadini, in realtà esclude, cosicché coloro che in apparenza sono ammessi a partecipare a procedure deliberative attraverso consultazioni sono in realtà cooptati per sostenere – involontariamente – politiche elitarie pre-scelte. Il cittadino è reso così più vulnerabile perché viene fagocitato da processi 42 Andrew Dunsire parla a tal proposito di collibration, indicando con questa espressione il fenomeno per il quale gli interventi di governance hanno come reale obiettivo quello di indirizzare l’interazione sociale indirettamente attraverso la contrapposizione degli agenti coinvolti in essa. Cfr. A. Dunsire, Manipulating social tensions: Collibration as an alternative mode of government intervention, in «MPIfG Discussion Paper», Max Planck Institute for the Study of Societies, 7, 1993, pp. 1-49.
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manageriali, smaccatamente non egualitari. Se da un lato filtra l’idea che la partecipazione possa garantire la tutela di interessi, dall’altro è ben chiaro che questi interessi possano essere fatti valere solo se affiliati o affini a quelli di partner vincenti. Interessi, non diritti, per l’appunto. Il risultato finale sarà perciò paradossale: quanto più si ha l’apparenza di essere inclusi in questi meccanismi, tanto più se ne risulterà esclusi e perciò vulnerati. La domanda Chi decide?, che un tempo aveva una sua logica, diviene ora priva di senso, perché siamo in presenza di un grande, forse il più grande, artificio della nostra epoca.
Sovranità in frantumi. Alcune note su vulnerabilità, populismo e neoliberalismo di Pietro Sebastianelli
«Chi è il sovrano? L’agire politico si è sempre posto questa domanda. Ma adesso?» M. Cacciari, Duemilauno «Bisogna determinare ciò che può significare “porre un problema alla politica”. R. Rorty fa notare che, in queste mie analisi, non faccio appello a nessun “noi” – a nessuno di questi “noi” di cui il consenso, i valori, la tradizione formano il quadro di un pensiero e definiscono le condizioni nelle quali esso possa essere validato. Ma il problema è proprio di sapere se davvero è all’interno di un “noi” che conviene situarsi per far valere i principi che si riconoscono e i valori che si accettano; o se invece non bisogna, attraverso l’elaborazione della domanda, rendere possibile la formazione futura di un “noi”. Il “noi” non mi sembra dover preesistere alla domanda: può essere solo il risultato – il risultato necessariamente provvisorio – della domanda così come viene posta, nei termini nuovi nei quali la si formula» M. Foucault, colloquio con P. Rabinow, maggio 1984
1. Introduzione Il concetto di vulnerabilità si colloca oggi al centro del dibattito filosofico-politico per indicare uno dei tratti caratterizzanti la condizione umana che coincide con l’esposizione
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ad una situazione storica di incertezza sociale, economica e politica. Intesa in termini generali, la categoria della vulnerabilità fa riferimento, da un lato, alla debolezza umana intesa come permanente e ineludibile esposizione al pericolo, al danno e alla morte; dall’altro, essa configura l’esperienza concreta del vivere associato nei termini di una dipendenza reciproca, che fonderebbe l’obbligo etico-politico di rimediare e di rispondere ai bisogni sociali attraverso adeguati dispositivi istituzionali1. In tale prospettiva, la questione della vulnerabilità interroga il modo in cui la società predispone e organizza la vita collettiva in modo da far fronte all’incertezza dei soggetti attraverso istituzioni che siano in grado di rispondere ai bisogni sociali. Da questo punto di vista, la vulnerabilità non è solo una categoria analitica, ma anche un possibile strumento di riforma sociale e di lotta politica. Si deve in particolare ad alcune pensatrici femministe, come Judith Butler e Adriana Cavarero, l’utilizzo di questo concetto in chiave analitica per descrivere la condizione umana odierna alla luce delle trasformazioni sociali e politiche degli ultimi decenni, indotte dall’affermazione del neoliberalismo e del suo corredo di pratiche e dispositivi di potere che hanno come oggetto e bersaglio la vita dei soggetti sociali in tutti i suoi aspetti2. Più in particolare, è nel pensiero di Ju1
Cfr. in particolare i lavori di M. Fineman, The Autonomy Myth: A theory of Dependency, The New Press, New York, 2004; Id., The Vulnerable Subject: Anchoring Equality in the Human Condition, in Yale Journal of Law & Feminism, 20(1), pp. 1-23, 2008; per un inquadramento generale della letteratura critica sull’argomento, cfr. A. Callegari, Il paradigma della vulnerabilità: brevi riflessioni per una riconfigurazione del dilemma equality-difference, in Questione Giustizia, 23 gennaio 2018, pp. 1-18. 2 Cfr. J. Butler, Precarious Life: The Powers of Mourning and Violence, Verso Books, London & New York, 2004; A. Cavarero, Orrorismo, ovvero la violenza sull’inerme, Feltrinelli, Milano, 2007. Per un confronto fra le due filosofe, cfr. L. Bernini, O. Guaraldo (a cura di), Differenza e relazione. L’ontologia dell’umano nel pensiero di Judith Butler e Adriana Cavarero, Ombre corte, Verona, 2009.
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dith Butler che il concetto di vulnerabilità ha assunto con tratti più marcati una prospettiva politica che incrocia le istanze di trasformazione sociale presenti in alcuni dei più significativi movimenti di contestazione dell’attuale assetto neoliberale del capitalismo globale3. In alcuni dei suoi recenti interventi, infatti, Butler ha focalizzato l’attenzione sulla vulnerabilità in relazione all’emergere di esperienze di contestazione sociale che l’autrice identifica con una certa declinazione della sovranità popolare intesa come «apparizione del popolo», attraverso l’invocazione di un “noi” performativo che pone al centro dell’azione politica il trattamento della vulnerabilità come rivendicazione di un «insieme di condizioni sociali, economiche e politiche più vivibili»; come richiesta, a partire dalla vulnerabilità, di un mondo in cui le strutture sociali e politiche si facciano carico di ridurre al minimo l’incidenza del danno e del rischio nella vita sociale. Visto in tale prospettiva, il concetto di vulnerabilità incrocia, inevitabilmente, l’odierno dibattito intorno alle alternative politiche alla crisi del neoliberalismo, che trova punti di condensazione intorno alle categorie di sovranità, popolo/populismo, democrazia. Da questo punto di vista, parlare di vulnerabilità implica una messa in discussione della soggettivazione neoliberale, che presuppone la formazione di un individuo responsabile, autonomo e padrone di se stesso. Al contrario, la vulnerabilità evidenzia – sempre seguendo la prospettiva di Butler – la necessità di riconoscere la mutua dipendenza che rende possibili le alleanze dei corpi come richiesta di «relazioni sociali e istituzioni durevoli per la propria sopravvivenza e prosperità»4. Obiettivo del presente saggio è quello di analizzare il tema della vulnerabilità a partire dalle alternative politiche che esso consente di interrogare. Da più parti, infatti, la questione 3 Cfr. J. Butler, L’alleanza dei corpi. Note per una teoria performativa dell’azione collettiva, Nottetempo, Milano, 2017. 4 Ivi, p. 22.
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dello sgretolamento dei legami sociali, che si accompagna all’affermazione della logica economica del neoliberalismo, viene affrontata sul piano della riaffermazione della “sovranità popolare” da intendere come alternativa alla vulnerabilità dell’homo oeconomicus. Per contrastare la vulnerabilità prodotta dal diffondersi delle condotte dell’homo oeconomicus sarebbe necessario, secondo tale prospettiva, ricollocare al centro della vita sociale l’homo politicus protagonista della sovranità popolare moderna. L’obiettivo del presente saggio è quello di verificare se e in che misura il riferimento alla sovranità popolare – che caratterizza buona parte della riflessione critica contemporanea – possa rappresentare effettivamente un terreno di sperimentazione per pratiche politiche alternative alla vulnerabilità prodotta socialmente dal neoliberalismo.
2. La vulnerabilità del capitale umano Uno dei punti strategici fondamentali dell’affermazione del neoliberalismo riguarda, com’è noto, la riformulazione del paradigma dell’homo oeconomicus inteso come «imprenditore di se stesso»5. La razionalità economica soggiacente al progetto di società neoliberale, infatti, implica la trasformazione dei soggetti in imprenditori del proprio capitale umano, dove per capitale umano si intende l’insieme delle facoltà che ciascuno di noi impiega per valorizzare in termini economici le proprie attitudini. L’estensione della logica del calcolo economico in tutti i settori della società risponde ad un imperativo fondamentale implicito nella razionalità neoliberale, ovvero rendere ciascuno responsabile della propria sopravvivenza, del proprio benessere materiale non soltanto in ambito lavorativo, ma in tutti gli aspetti della vita6. Lavoro, 5 Cfr. Michel Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Feltrinelli, Milano, 2005.
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salute, istruzione, famiglia, relazioni sociali, ciascuno è chiamato a fare impresa nel gestire, investire, amministrare e condurre le proprie attitudini e capacità all’interno di un ambiente sociale competitivo7. La svolta impressa dal neoliberalismo nella razionalità di governo può essere analizzata e inquadrata storicamente come un’alternativa polemica al compromesso keynesiano, nell’ambito del quale la sopravvivenza degli individui veniva ad essere assicurata da un sistema di garanzie e tutele, che accompagnavano gli individui dalla “culla alla tomba”8. Nell’ambito delle politiche del welfare state, infatti, alcune sfere dell’esistenza venivano sottratte alla logica dell’azione individuale e garantite sul piano dell’esistenza collettiva attraverso forme di assicurazione contro gli eventi imprevisti della vita (disoccupazione, malattia, servizi pubblici essenziali, ecc.). Posta in questi termini la questione, è evidente che, nel quadro della razionalità neoliberale, la vulnerabilità implicita nell’esistenza sociale giunge ad assumere tratti decisamente preoccupanti. Come rileva Judith Butler, «la razionalità neoliberista eleva l’autosufficienza a ideale morale nel momento stesso in cui le forme del potere neoliberista operano in direzione della distruzione di ogni sua concreta possibilità a livello economico, rendendo ogni membro della popolazione 6
Cfr. Cfr. Wendy Brown, Undoing the Demos. Neoliberalism’s Stealth Revolution, Zone Book, New York, 2015; P. Dardot, C. Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, DeriveApprodi, Roma, 2013; Id., Guerra alla democrazia. L’offensiva dell’oligarchia neoliberista, DeriveApprodi, Roma, 2016. 7 Cfr. G. Becker, Human Capital. A Theoretical and Empirical Analysis, with Special Reference to Education, University of Chicago Press, 1964; Id., The Economic Approach to Human Behavior, University of Chicago Press, 1976. 8 Per una ricostruzione efficace dell’istanza polemica nei confronti dell’interventismo keynesiano, all’interno del quale si sviluppa l’approccio neoliberale, cfr. S. Audier, Le colloque Lippmann. Aux origines du “néo-libéralisme”, Le Bord de l’eau, Lormont, 2013.
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potenzialmente precario»9. Secondo Butler, la vulnerabilità è quindi una condizione storica che dipende dal particolare assetto politico ed economico della società. La vita è resa precaria in conseguenza del venir meno degli adeguati «supporti infrastrutturali e di reti sociali e tecnologiche» dalle quali i corpi traggano il sostegno necessario a fare i conti con la propria vulnerabilità. Il corto circuito provocato dall’affermazione del programma di governo neoliberale si evidenzia proprio nell’idiosincrasia che esiste tra l’ingiunzione ad assumere su di sé i rischi connessi all’esistenza (capitale umano) e la contemporanea demolizione delle condizioni sociali all’interno delle quali tali rischi possono essere significativamente ridotti sul piano dell’esistenza collettiva (welfare state). Secondo alcuni studiosi, l’estensione della logica di impresa alla condotta del singolo non è l’unico aspetto della razionalità neoliberale che contribuisce ad accentuare la vulnerabilità sociale. Nella misura in cui il neoliberalismo si propone di creare e amplificare un ambiente sociale conforme ai principi della concorrenza, anche il modo di gestire e amministrare gli stati subisce una profonda trasformazione, che implicherebbe la messa in mora della loro sovranità, interna ed esterna. La sovranità dello stato-nazione – architrave del sistema giuridico-politico emerso a partire dalla pace di Vestfalia (1648) – entrerebbe in crisi nel momento in cui il controllo dei flussi di capitale appare sempre più in bilico e fortemente ridimensionato. Dal momento che la sovranità ha rappresentato per alcuni secoli un principio di territorializzazione dell’economia e di controllo dei flussi finanziari, la sua erosione esporrebbe inevitabilmente lo Stato ad una condizione di vulnerabilità. È quanto evidenzia, ad esempio, Wendy Brown: dal momento che la «sovranità si è costituita per subordinare l’economico e il religioso», la perdita di controllo dell’economia fa sì che sia lo Stato innanzitutto a di-
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J. Butler, L’alleanza dei corpi, cit., p. 27.
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ventare “il” soggetto vulnerabile10. La vulnerabilità dello Stato viene poi «avvertita dal soggetto come propria»11: fenomeno che – sempre secondo Brown – si manifesta attraverso una parossistica richiesta di protezione da parte delle popolazioni, che trova nella proliferazione di “muri” la sua rappresentazione simbolica più efficace. I soggetti, resi vulnerabili e non protetti da un’economia completamente fuori controllo per la sovranità, reclamano e desiderano stati-nazione forti. Il declino – che non coincide, secondo Brown, con una semplice scomparsa – della funzione protettiva della sovranità, esporrebbe quindi stati e popolazioni alla vulnerabilità conseguente alla liberazione dei flussi di capitale che si accompagna all’affermazione della governance neoliberale. Seguendo le analisi di Butler e Brown, dunque, il paradigma della vulnerabilità consente di mettere in evidenza i dispositivi di potere che rendono oggi l’esistenza individuale e collettiva priva dei necessari supporti di protezione necessari a garantire la tenuta dei legami sociali. A fronte di condizioni di vita sempre più precarie ed esposte al rischio, non mancano tuttavia forme di resistenza e azione collettiva in grado di mettere in discussione tali dispositivi di potere. Per Butler, ad esempio, la questione della vulnerabilità consente di ripensare la sfera pubblica come un apparire di corpi che, radunandosi, rivendicano un insieme di condizioni sociali, economiche e politiche più vivibili. È quanto la filosofa statunitense vede all’opera negli assembramenti e nei raduni (le manifestazioni collettive di Occupy Wall Street, degli Indignados, le primavere arabe e le proteste di Gezi Park, etc.) che rivendicano, attraverso un’«alleanza di corpi», adeguati assetti istituzionali in grado di proteggere le popolazioni dai rischi connessi ad un eccesso di vulnerabilità socio-economica. Polemizzando con Hannah Arendt, secondo la quale la sfera pubblica do10 W. Brown, Stati murati, sovranità in declino, Laterza, Roma, 2013, p. 77. 11 Ivi, p. 111.
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vrebbe relegare la corporeità nell’ambito della dimensione separata del privato, anticamente rappresentata dalla sfera domestica, Butler rivendica l’esposizione pubblica dei corpi (intesi come collettori collettivi di bisogni e istanze) come modo per ridefinire i parametri dell’azione politica in grado di contrastare efficacemente la vulnerabilità prodotta dalle politiche neoliberali. Da questo punto di vista, la strada e la piazza, ma anche le diverse occasioni di raduni virtuali, rappresenterebbero lo spazio di esposizione e di apparizione del “popolo”. Un popolo da intendersi, secondo Butler, non come l’istanza sovrana che legittima l’azione del governo tramite il processo rappresentativo, ma come il collettore di un insieme di istanze individuali e collettive, prodotto performativamente dal radunarsi stesso dei corpi e dalla loro alleanza. «Il riunirsi dei corpi – afferma infatti Butler – è un’attuazione performativa del popolo»12, che in questo modo non preesiste al processo del suo apparire sulla scena pubblica come manifestazione di un “noi” che separa, anziché congiungere, la sovranità popolare dalla sovranità statale. Il richiamo alla sovranità popolare – sebbene al di fuori dello schema tradizionale, che identifica nel popolo una realtà simbolica di legittimazione della sovranità dello Stato – è quanto consente dunque, secondo Butler, di ripensare i criteri dell’azione politica in modo da ricollocare al centro della scena pubblica un soggetto politico che possa esprimere una valida alternativa alle soggettivazioni neoliberali del capitale umano. Il tema della vulnerabilità consente quindi di evidenziare due aspetti fondamentali della società contemporanea: da un lato, lo sfilacciamento dei legami sociali in conseguenza del diffondersi della condotta economica competitiva in ogni ambito della vita sociale; dall’altro, l’erosione della sovranità dello Stato, intesa come dispositivo protettivo nei riguardi dell’impatto che la liberalizzazione dei flussi finanziari dell’economia ha provocato sulla vita delle popolazioni. 12
J. Butler, L’alleanza dei corpi, cit., p. 30.
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Il punto che vorrei cercare di argomentare riguarda essenzialmente la possibilità di pensare un’alternativa al neoliberalismo – alla sua declinazione imprenditoriale dei legami sociali, così come alla sua vocazione ad andare oltre, o al limite a riconfigurare, la sovranità dello Stato – sul terreno concettuale definito dai riferimenti al “popolo” e alla “sovranità popolare”. È infatti un sentimento diffuso nel pensiero critico contemporaneo quello di configurare l’alternativa al neoliberalismo nei termini di quello che si potrebbe definire come un “doppio ritorno”. Un ritorno della sovranità, intesa come dispositivo di protezione della vulnerabilità delle popolazioni; e un ritorno del popolo, invocato come l’attore decisivo di una possibile riconfigurazione democratica della sfera pubblica e dell’azione genuinamente politica dopo decenni di dominio incontrastato della logica dell’azione economica. Il punto fondamentale che vorrei cercare di evidenziare non riguarda tanto la pregnanza euristica di tali concetti – è innegabile infatti che “sovranità popolare”, “popolo”, “populismo” siano oggi da più parti sottoposti ad un pregevole sforzo teorico creativo, finalizzato a depurarli delle loro più evidenti incrostazioni e sedimentazioni storiche – ma l’effettiva possibilità che essi possano servire da bussole di orientamento per pensare un’alternativa al progetto di società neoliberale. La domanda alla quale vorrei tentare di dare una provvisoria risposta è in definitiva la seguente: data per assunta la destrutturazione della tradizionale cornice teorica della politica moderna, è ancora nel solco del “popolo” che è possibile pensare ad un progetto di emancipazione sociale e politica?
3. Le aporie della sovranità popolare Judith Butler non è certo l’unica pensatrice a decifrare il tema delle alternative politiche al neoliberalismo nei termini dell’affermazione di una sovranità popolare che, nel suo essere il prodotto dell’azione performativa di riunione e assem-
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bramento collettivi, dovrebbe segnare una distanza dall’apparato di dominio statale, oggi colonizzato da logiche di governo neoliberali. Butler è del resto consapevole dell’aporia implicita nel binomio sovranità popolare/sovranità statale e non la nasconde13. Secondo Butler, tuttavia, nonostante le aporie, il principio politico della sovranità popolare rappresenterebbe comunque il punto di condensazione per possibili istanze emancipatrici. È naturalmente un pregevole sforzo teorico quello della pensatrice statunitense, nella misura in cui tenta di sottrarre le nozioni di popolo e di sovranità popolare dal peso della tradizione politica moderna, reiscrivendole all’interno della sua teoria performativa dell’azione collettiva e ponendole a supporto di una politica di emancipazione anti-identitaria: «Questi corpi, insieme, esercitano il potere performativo di rivendicare la sfera pubblica in un modo che non è ancora stato codificato giuridicamente e che forse non potrà mai esserlo appieno»14. Nella prospettiva di Butler, la performatività dell’azione collettiva si manifesta nel processo creativo in base al quale la sfera pubblica che si rivendica non preesiste al gesto collettivo che consente la sua apparizione. Non solo, ma nella prospettiva di Butler – e qui sta forse l’elemento più originale della sua proposta – è proprio il raduno collettivo a costituire non solo il terreno per la rivendicazione di adeguate istituzioni sociali per la presa in carico della vita collettiva, ma anche il momento in cui quelle istituzioni vengono ad essere inventate e praticate come abitudini di vita da parte delle soggettività agenti. In questo senso, l’obiettivo di Butler è di accettare la sfida posta dal neoli13
«So bene che molti hanno una pessima opinione della parola “sovranità”, la quale in effetti associa la politica a un singolo soggetto e a una forma esecutiva di potere delimitata territorialmente. A volte viene usata come sinonimo di dominio e di subordinazione. Eppure, è probabile che rechi con sé anche altri significati, che sarebbe controproducente perdere del tutto», ivi, p. 255. 14 Ivi, p. 122.
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beralismo alla produzione di soggettività: non esiste politica che possa essere separata dal problema delle abitudini sociali e delle pratiche di sé. Resta tuttavia un dubbio, che riguarda la possibilità di far coincidere l’istanza di una politica emancipatrice post-identitaria con la vocazione unitaria, totalizzante e identitaria del “popolo”. Come si concilia, infatti, la dimensione singolare delle pratiche performative con il momento totalizzante che sempre si accompagna alla semantica del popolo? Il punto fondamentale, dunque, sarebbe quello di fare i conti fino in fondo con le aporie che accompagnano le semantiche del popolo, ricorrendo ad un’analisi genealogica di concetti che rischiano di pesare come zavorre sull’immaginazione politica. Ricorrere alla genealogia si rivela in questo caso l’unica strada percorribile per aprire squarci nel presente: proprio per il loro carattere costitutivamente ambiguo, nessun impiego di concetti quali “popolo” e “sovranità” può essere accettato senza beneficio di inventario. È ben vero tuttavia che proprio l’ambiguità dei concetti può essere il sintomo di una lotta egemonica che si sta svolgendo sui “nomi” e che quindi l’utilizzo in una certa chiave critica di un concetto può già essere parte della battaglia. Tuttavia, prima di immischiarsi nel campo di battaglia, occorre sempre, per ragioni di prudenza, verificare che le armi a nostra disposizione non siano spuntate. Il che significa, nel caso di attrezzi concettuali, che questi ultimi non siano già corrosi dal tempo o che non portino con sé in modo irreversibile i marchi e le effigie dei loro natali o il fragore delle battaglie trascorse in cui sono stati invischiati e, al limite, consunti. Il problema che si pone, in questa prospettiva, è quello di fare i conti con un ordine del discorso che sembra aver fatto presa nelle analisi critiche del presente: tale ordine del discorso identifica nell’evaporazione di alcuni dei principi regolativi della politica moderna le ragioni dell’attuale crisi di società. Secondo queste chiavi di lettura, l’affermazione del neoliberalismo coinciderebbe con l’erosione della sovranità
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statale intesa come quel principio politico che avrebbe consentito nella modernità di porre un argine all’azione corrosiva e disgregatrice del mercato economico. Sarebbe dunque proprio il tendenziale deperimento della sovranità a rappresentare la cornice storica generale nella quale inquadrare la crisi odierna, generatrice di vulnerabilità per individui e popolazioni. Alla luce di questa diagnosi, alcuni studiosi ritengono che solo la ricostituzione della sovranità statale possa oggi rappresentare una valida alternativa per ristabilire il funzionamento democratico delle istituzioni esistenti, svuotate di reali poteri dall’aggressività dei flussi economici e finanziari15. In quest’ottica, il ristabilimento della sovranità statale implicherebbe anche il recupero della dimensione nazionale quale unico spazio di tutela della vulnerabilità delle classi subalterne16. La terapia proposta poggia, naturalmente, su di una precisa diagnosi: questa chiave di lettura è infatti inseparabile dall’idea che proprio le grandi invenzioni moderne del “popolo” e della “sovranità” abbiano rappresentato nel secolo scorso una cornice efficace di emancipazione politica contro gli effetti disgreganti delle forze di mercato. Sarebbe dunque il “politico” il vero sconfitto dell’egemonia neoliberale, ovvero la capacità sovrana dello stato di regolare i flussi economici. La crisi della sovranità moderna deriverebbe dal debordamento dei due ambiti fondamentali che essa, originariamente, avrebbe tentato di subordinare a sé: da un lato, il fenomeno religioso, dall’altro l’espansione economica. La sovranità del mondo moderno si sarebbe istituita, a partire dal XVII
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Cfr. Galli, Sovranità, Il Mulino, Bologna, 2019; W. Streeck, Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, Feltrinelli, Milano, 2013; A. Somma, Sovranismi. Stato, popolo e conflitto sociale, DeriveApprodi, Roma, 2018. 16 Cfr. T. Fazi, W. Mitchell, Sovranità o barbarie. Il ritorno della questione nazionale, Meltemi, Milano, 2018; C. Formenti, La variante populista. Lotta di classe nel neoliberismo, DeriveApprodi, Roma, 2016.
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secolo, come un principio ordinativo in grado di porre un freno al dilagare dei conflitti religiosi e di imporre un limite regolativo ai nascenti flussi dell’economia capitalistica. È questa la tesi dell’autonomia del politico17, secondo la quale solo la decisione sovrana, che traccia il confine tra interno ed esterno, costituirebbe un’alternativa alla deriva del dominio totalitario dell’economia, al suo debordamento dai limiti che dovrebbero definire le possibilità di esistenza di una comunità politica18. Si tratta di una chiave di lettura che trova riscontro anche sul piano dell’analisi dei processi di soggettivazione contemporanei, come dimostrano le tesi di tutti quegli autori che, rifacendosi al pensiero di Jacques Lacan, interpretano il neoliberalismo contemporaneo come l’affermarsi dell’egemonia del «discorso del capitalista» che, favorendo l’evaporazione della Legge – o della funzione simbolica del «nome-del-Padre» – avrebbe instaurato al centro dell’esercizio del potere la logica perversa dell’illimitato, che istituisce un processo di soggettivazione che mina alle radici la possibilità stessa del legame sociale. Sul piano politico, l’evaporazione del padre troverebbe corrispondenza nell’evaporazione del sovrano, come colui che fissa i limiti dell’economia e protegge la società dal rischio del dilagare di una logica dell’illimitato. La 17
Il riferimento fondamentale di questo impianto analitico resta Carl Schmitt, Il concetto di «politico», oltre a L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni, in Id., Le categorie del ‘politico’, Il Mulino, Bologna, 1972, pp. 101-184. Cfr. anche M. Tronti, La politica al tramonto, Einaudi, Torino, 1998; M. Revelli, La politica perduta, Einaudi, Torino, 2003. Fondamentale, in particolare per quanto riguarda la lettura schmittiana dell’autonomia del politico, C. Galli, Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, Il Mulino, Bologna, 2010. 18 Aristotele nella Politica è il primo a impostare i termini del limite che la politica impone alla logica senza limite dell’agire crematistico; cfr. E. Berns, La porositè. Un essai sur le rapport entre économie et politique, Editions Ousia, Bruxelles, 2012.
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mediazione simbolica del sovrano/padre sarebbe dunque necessaria per ristabilire quel limite che consente al governo rappresentativo di funzionare. Il governo rappresentativo, com’è noto, si è innestato storicamente sul presupposto della legittimazione offerta dalla mediazione simbolica della sovranità del popolo. Un popolo d’altra parte «introvabile», per dirla con Rosanvallon, ovvero un popolo-unità che l’esperienza politica moderna ha sempre fatto fatica a decifrare empiricamente e a costruire simbolicamente attraverso la rappresentanza19. Il tema della sovranità popolare risulta dunque essere inseparabile dalla cornice teorica della rappresentazione moderna del potere, che presiede ai diversi passaggi storici attraverso i quali la formazione di una sovranità trascendente (il monarca) viene ad essere resa immanente (il popolo) passando attraverso la mediazione storica di ciò che Balibar definisce come «Stato nazional-sociale»20. Punto decisivo di tale tragitto riguarda la decapitazione del sovrano (reale) che apre nella modernità all’incoronazione di un altro sovrano (simbolico), che tuttavia del sovrano (reale) porta con sé le effigie e gli stigmi. Ogni riflessione sulla necessità di riattivare una sovranità popolare dovrebbe fare i conti con tale eredità.
19
Nella sua ricostruzione storica della rappresentanza politica in Francia, Rosanvallon assume come elemento imprescindibile il riconoscimento del fatto che la crisi accompagna la nascita della rappresentanza politica moderna fin dalle sue origini come «tensione fra un principio giuridico e un principio sociologico che è contemporaneamente distanza necessaria tra la realtà e la sua figurazione, differenza dell’uno e del molteplice. Su questa base, la crisi della rappresentanza non costituisce una disfunzione o un tradimento: è consustanziale al suo oggetto stesso», in Id., Il popolo introvabile. Storia della rappresentanza democratica in Francia, Il Mulino, Bologna, 2005, p. 77. 20 É. Balibar, Prolegomeni alla sovranità, in Id., Noi cittadini d’Europa. Le frontiere, il popolo, lo stato, Manifestolibri, Roma, 2004, pp. 165-192.
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3. Populismi La domanda che mi pongo è quindi la seguente: può il popolo rappresentare un’alternativa alla soggettivazione economica neoliberale del capitale umano? Questa domanda ci porta ad interrogare una delle prospettive politiche probabilmente più discusse del momento: il populismo. Secondo Ernesto Laclau – esponente tra i più autorevoli della «ragione populista» – il popolo indicherebbe il modo stesso di «costruire il politico»21. Certo, non tutti i tentativi contemporanei di ridare voce e potere di contestazione al popolo corrispondono all’impianto del populismo per come lo intende Laclau22. Utilizzerò tuttavia il confronto con le sue tesi per far venire alla luce alcune considerazioni che possono ben essere applicate ad alcune delle più rilevanti semantiche contemporanee del popolo. In esplicita connessione con le summenzionate tesi di Lacan, secondo Laclau il politico – la cui essenza coinciderebbe con la costruzione del popolo – svolgerebbe la stessa funzione del Nome-del-padre in campo psicoanalitico. Il politico segnala infatti l’impossibilità di accedere ad una totalità sociale perfettamente pacificata e armonica, allo stesso modo di come il Nome-del-Padre segnala l’impossibilità esistenziale della perfetta identificazione tra soggetto e godimento. Il popolo di Laclau rappresenta infatti l’irruzione di una frattura fondamentale che rimanda ad una «totalità fallita» e che può essere costruita solo simbolicamente (rappresentazione) attraverso un’operazione egemonica – ovvero una pratica discorsiva di costituzione di «una parte per il tutto» (sineddoche). Non è questa la sede per ripercorrere nel dettaglio l’ar21
Cfr. E. Laclau, La ragione populista, Laterza, Roma, 2008, p. XXXIII. 22 Fanno eccezione certamente, oltre a Judith Butler, anche J. Rancière, Il disaccordo, Meltemi, Milano, 2016; e P. Rosanvallon, Pensare il populismo, Castelvecchi, Roma, 2017; e Id., La controdemocrazia. La politica nell’era della sfiducia, Castelvecchi, Roma, 2017.
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ticolata proposta teorica di Laclau. Mi interessa tuttavia evidenziare un aspetto fondamentale, che riguarda l’idea che per mettere in crisi l’egemonia neoliberale occorra collocarsi sul piano della costruzione del popolo, ovvero di un «significante vuoto» nel quale raccogliere tutte le eterogenee istanze e domande sociali che si contrappongono agli attuali assetti politici del dominio neoliberale. Il “popolo” sarebbe dunque il nome di una “parte” capace di rappresentare – in modo sineddotico – il Tutto di una società che resta comunque impossibile. La costruzione del popolo implica, secondo Laclau, un’operazione egemonica (o contro-egemonica) che mette in campo una frontiera antagonistica capace di separare il popolo dal potere e indicare le condizioni per la costruzione di una nuova proposta egemonica per il governo della società. Come nel caso di Butler, anche in Laclau il popolo non coincide con una realtà empirica già data, ma con un processo di istituzione che tuttavia implica sempre un meccanismo di rappresentazione. Nonostante l’originalità della sua proposta, che certamente scorpora la nozione di popolo da alcuni delle sue più evidenti segnature moderne, la prospettiva di Laclau resta comunque – per sua stessa ammissione – all’interno del modo moderno di pensare il politico come identità, unità e rappresentazione – ovvero, detto in altri termini, come sovranità. La cornice della costruzione discorsiva del popolo si presenta infatti in Laclau come un’operazione di rappresentazione simbolica e in tal senso essa è inseparabile dalla sua inscrizione all’interno della cornice istituzionale della sovranità statale. Lo chiarisce in modo esplicito Chantal Mouffe: l’alternativa alla postdemocrazia neoliberale, ossia alla diffusione di condizioni sociali di vulnerabilità, sarebbe rappresentata dal populismo come riattivazione del principio della sovranità popolare all’interno della cornice della democrazia liberale erosa dai dispositivi egemonici del neoliberalismo23. 23
2018.
Cfr. C. Mouffe, Per un populismo di sinistra, Laterza, Roma,
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Questo processo di costruzione di un «populismo di sinistra» implica il fatto di accettare alcuni assunti fondamentali che riguardano la centralità dello Stato nazionale come cornice essenziale per il recupero di un’istanza democratica. La sovranità dello Stato nazionale – per Mouffe come per Laclau – rappresenta infatti lo «spazio decisivo per l’esercizio della democrazia e della sovranità popolare»24. Ancora una volta, la domanda genealogica può contribuire ad incrinare questa certezza: si può escludere la segnatura storica di un concetto per farne un nome (o significante) vuoto? Non è sempre la semantica del popolo segnata dal “pieno” delle istanze di potere che ne hanno definito storicamente l’emergenza? In fondo, non sarà che, chi agisce «in nome del popolo» finisce sempre, consapevolmente o meno, per porre al cuore della propria azione politica la domanda: «chi è il sovrano?», ritrovandosi così a fare i conti con le aporie più scivolose che la modernità ci consegna?
4. «Io, lo Stato, sono il popolo» Per rispondere alla precedente domanda, vorrei partire da un’altra questione, in apparenza più superficiale, ma ugualmente gravida di conseguenze: si può analizzare il neoliberalismo al di là di una chiave di lettura che identifichi quest’ultimo come la rivincita delle forze economiche sull’autonomia del politico? Si può, in sostanza, fare a meno della cornice rassicurante della sovranità per tentare di decifrare il progetto di società neoliberale e indicare una possibile alternativa? Si può, in definitiva, pensare ad una “politica del popolo” oltre la sua iscrizione all’interno della cornice definita dalla sovranità dello Stato? Alla base degli attuali tentativi di riattivare una politica di emancipazione all’insegna della sovranità popolare vi è, a mio avviso, un doppio misconosci24
Ivi, p. 70.
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mento: della sovranità e del popolo. Coloro che oggi si misurano con il problema politico essenziale degli assetti post-nazionali dell’Unione Europea sanno quanto la risposta alla precedente domanda non possa che darsi in termini negativi25. Senza quel processo di reductio ad unum operato dalla sovranità statale, che segna effettivamente l’atto di nascita del popolo come unità, può esistere, com’è certamente storicamente esistito, un popolo insorgente, come dimostra la vicenda delle rivoluzioni moderne, ma non ci si può scrollare di dosso il peso di tutte le mediazioni rappresentative necessarie a dagli una forma simbolica – ed evanescente – nel momento in cui si tratta di tradurre quell’insorgenza in assetti istituzionali duraturi26. La molteplicità sociale – quando le si riconosca un valore fondamentale per l’agire politico – non può che essere sacrificata sull’altare del popolo sovrano. Chi segue la strada della sovranità popolare dovrebbe dunque essere consapevole, fin dal principio, che essa è inseparabile da una politica dell’identità e della rappresentazione27. Del resto, ciò è segnalato anche e soprattutto dalle aporie che accompagnano la vicenda delle rivoluzioni moderne, il cui problema fondamentale è stato quello di costruire simbolicamente il popolo oltre il momento rivoluzionario, oltre la sua apparizione episodica nel momento dell’insorgenza28. Il rap25
É. Balibar, Noi cittadini d’Europa, cit. P. Rosanvallon, Il popolo introvabile, cit. 27 C. Schmitt afferma infatti che lo Stato, in quanto forma dell’unità politica, si basa sull’unione di due principi strutturali opposti, il principio di identità (cioè del popolo presente con se stesso in quanto unità politica, se in forza di una propria coscienza politica e volontà nazionale, ha la capacità di distinguere tra amico e nemico), e il principio della rappresentanza, in forza del quale l’unità politica è impersonata dal sovrano. Cfr. Id., Dottrina della costituzione, Giuffré, Torino, 1984. 28 Lo chiarisce con particolare efficacia Rosanvallon: «il popoloevento risolve almeno temporaneamente l’aporia costitutiva della rappresentanza. (…) Il popolo è in questo caso universale, promessa rea26
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porto complesso tra identità e rappresentazione è uno dei punti nevralgici della politica moderna e della sua articolazione concettuale, che trova nel modello hobbesiano il suo momento strutturante e decisivo. Qui, la sovranità si rappresenta come quel potere ordinativo che deve conferire unità alla molteplicità disseminata dei poteri sociali proprio attraverso un processo rappresentativo che permette di identificare e di far rispecchiare sovranità e popolo. Se è vero dunque che la sovranità moderna si è affermata come risposta alla crisi storica del XVII secolo, alle guerre di religione così come ai problemi sollevati dall’accumulazione originaria e dall’individualismo possessivo, essa appare come inestricabilmente connessa ad una procedura di astrazione, che deve necessariamente operare per mediazioni continue di riduzione ad unità della molteplicità sociale. La politica moderna è dunque identitaria, nella misura in cui il cuore pulsante della rappresentazione sovrana è proprio l’identità (simbolica) di popolo e sovrano. Così, se nell’ottica della sovranità moderna la vulnerabilità si collocherebbe prima della sua istituzione contrattualistica, come dimostra l’immagine hobbesiana del bellum omnium contra omnes – ovvero di individui esposti al rischio della morte a causa del disordine provocato dallo scorrimento sociale dei loro stessi poteri naturali (ius ad omnia) – bisogna anche considerare se quella stessa vulnerabilità non sia al contrario un suo prodotto. Quando, con le grandi rivoluzione moderne – e con quella francese in particolare – il re viene decapitato, il trono lasciato vuoto viene occupato da un’altra figura della sovranità, la cui mediazione questa volta lizzata della totalità sociale, forza immediata della sovranità. Ma come dargli una forma riconoscibile e far sentire la sua voce quando l’evento è finito? Questa è l’essenza stessa della politica democratica», in Id., Il popolo introvabile, cit., p. 35. Non è un caso se, in autori come Judith Butler e Jacques Rancière, la politica del popolo si presenta come un’apparizione fugace o come un’irruzione evenemenziale la cui durata, ovvero la sua iscrizione in forme istituzionali stabili, non viene problematizzata.
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appare come immanente ai soggetti da cui promana (popolo/nazione), ma il cui tratto simbolico/rappresentativo, anziché scomparire, si accentua29. Giova chiedersi, a tal riguardo, quanto questa chiave di lettura, certamente fondamentale, non sia essa stessa imprigionata all’interno del discorso politico moderno, al punto da accettare senza reticenze un edificio teorico appoggiato su fondamenta che procedono di astrazione in astrazione, di universale in universale. In che termini, insomma, il dispositivo di sovranità condizionerebbe l’analisi innestandovi un pregiudizio che identifica nell’unità di un soggetto sovrano l’unica concreta possibilità per l’esercizio di un’azione politica collettiva? Sarebbe in sostanza il caso di chiedersi se la domanda «chi è il sovrano?» costituisca davvero l’unica domanda politica fondamentale in grado di orientare l’agire nella sfera pubblica. Immagino che sia stato proprio per rispondere a tali questioni che Michel Foucault ha tentato, in alcune delle sue più penetranti genealogie, di «tagliare la testa al re nell’analisi politica delle relazioni di potere» al fine di far emergere altri modi di considerare storicamente l’esercizio del potere e le modalità dell’azione politica30. In fondo, tagliare la testa del “re” significa anche tagliare la testa di colui che, dopo averlo detronizzato, ne ha preso simbolicamente il posto, ovvero il “popolo”. Come Foucault ci ha insegnato, infatti, il dispositivo di sovranità cela, dietro la rassicurante immagine dell’unità del potere, legittimata da individui autonomi e dotati di razionalità contrattuale – immagine tanto cara ai filosofi e ai giuristi del XVII e del XVIII secolo – la realtà di una rete di coercizioni disciplinari diffuse e molecolari, che quel soggetto di diritto contribuiscono a formare attraverso adeguati meccanismi di potere31. La domanda «chi è il sovrano?» – sembra suggerirci 29
È questo il problema che si ritrova ne Il Contratto sociale (1762) di J. J. Rousseau e in Che cos’è il Terzo Stato? (1789) di E. J. Siéyes. 30 Cfr. M. Foucault, Bisogna difendere la società. Corso al Collège de France (1975-1976), Feltrinelli, Milano, 2002.
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Foucault – porta con sé implicitamente un’immagine del potere formulata sul modello dell’economia, un potere che così si presenterebbe come un oggetto di «appropriazione, di cessione o di scambio», un qualcosa che si detiene e che può essere ceduto da un soggetto già dato e pienamente padrone di sé. Con la conseguenza di assumere come presupposti già dati i termini della relazione di potere – i soggetti e il sovrano – mentre si tratterebbe di comprendere i meccanismi che presiedono alla loro formazione, al fine di sciogliere i loro nessi e aprire a processi di soggettivazione altri. Ai fini del mio discorso, giova quindi chiedersi cosa accade al quadro analitico quando si rinuncia ad analizzare i dispositivi di potere contemporanei alla luce del paradigma della sovranità, che sulla separazione essenzialistica tra politica ed economia ha fondato la propria pretesa di verità? Tale spostamento analitico comporta a mio avviso un doppio effetto: una diversa configurazione genealogica e del dispositivo di sovranità e del dispositivo di potere che oggi chiamiamo neoliberalismo. Dal punto di vista della genealogia della sovranità, i lavori di Michel Foucault ci consentono di evidenziare quanto essa, anziché proteggere e risolvere la vulnerabilità dei soggetti, ne costituisca il dispositivo di produzione per eccellenza. Non si tratta certo di ritrovare al cuore del potere sovrano la volontà mortifera che consiste nel rendere ciascun individuo un homo sacer32, ma di seguire l’instaurarsi di un potere di protezione della vita che si sarebbe configurato storicamente come tentativo di neutralizzazione di un discorso politico centrato sulla dominazione e sulla «guerra delle razze»33. La 31
Cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino, 2014; e Id., La società punitiva. Corso al Collège de France (1972-1973), Feltrinelli, Milano, 2016. 32 Cfr. G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino, 2005. 33 Cfr. M. Foucault, Bisogna difendere la società, cit.
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genealogia del potere sovrano che Foucault traccia nel suo corso intitolato Bisogna difendere la società contesta proprio la tesi che vede nel modello hobbesiano il tratto distintivo della genesi di un potere che si occuperebbe di risolvere il problema della vulnerabilità dell’esistenza individuale. Al contrario, l’analisi storico-genealogica di Foucault si muove nel tentativo di aggirare questa visione rassicurante per approdare alla ricostruzione di quei discorsi politici che hanno presieduto all’istituzione del potere sovrano nella forma di un «biopotere» che, incorporando le logiche della guerra e della dominazione che avevano caratterizzato le lotte politiche aristocratiche del Seicento e del Settecento, le ricodifica nei termini biologici di un «razzismo di Stato». In questa chiave di lettura genealogica, la sovranità non sarebbe identificabile con quel potere che sospende la guerra di tutti contro tutti e offre un riparo alla vulnerabilità dei soggetti, ma come ciò che permette di pensare la politica come una «guerra continuata con altri mezzi», una guerra che l’apparato di Stato cattura e trasforma nella forma di esclusioni, segmentazioni e dominazioni che inducono alla vulnerabilità alcune categorie particolari di soggetti sociali, individuati come “nemici” della società. La sovranità, che «difende la società», opererebbe dunque storicamente attraverso esclusioni e distribuzioni selettive di vulnerabilità, di cui il razzismo di Stato rappresenta, secondo Foucault, la chiave analitica fondamentale34. Che ciò sia avvenuto sul presupposto della legittimazione simbolica e democratica della sovranità popolare conferma,
34
Anche Balibar concorda su questo punto: la mediazione della «sovranità nazional-sociale» funziona sulla base di meccanismi di inclusione e di esclusione che rendono la cittadinanza un terreno di scontro e di conflitto. Così, mentre forma il popolo come principio e come motore della sua legittimazione, la sovranità opera allo stesso tempo come dispositivo biopolitico di controllo, normalizzazione ed esclusione di alcuni particolari categorie di individui. Cfr. É. Balibar, Cittadinanza, Bollati Boringhieri, Torino, 2012.
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anziché smentire, il peso e l’eredità che la modernità consegna al suo apparato concettuale fondamentale. Nel prosieguo della sua analisi, com’è noto, Foucault abbandonerà il modello della guerra come chiave di intellegibilità delle relazioni di potere per rivolgersi alla problematica del governo35. Ed è in questo spostamento che si apre lo spazio analitico che consente di individuare un’altra traiettoria genealogica per descrivere la nascita del liberalismo, diversa da quel riferimento alla sovranità che ingabbia il discorso critico all’interno di una immagine repressiva del potere, che fa leva sull’idea di un soggetto monolitico, unico detentore della capacità di agire politicamente nella storia. Non si comprende granché del neoliberalismo, secondo Foucault, se si resta sul piano della rappresentazione “statocentrica” del potere, che identifica nella sovranità il motore dell’azione politica. La rappresentazione sovrana del potere opera inoltre assumendo come griglie universali e astoriche tutta una serie di divisioni binarie (pubblico/privato, stato/società civile, politico/economico) che sono invece un prodotto storico del suo funzionamento. Per comprendere a fondo i tratti della ragione di governo che ha ispirato, a partire dagli anni ’30 del Novecento, l’offensiva neoliberale, è dunque opportuno compiere l’operazione preliminare di smarcarsi da ogni riduzionismo che identifichi la modernità come una lotta tra il politico e l’economico, quest’ultimo inteso come il tratto anomico fondamentale che la sovranità cercherebbe, attraverso continue mediazioni, di ordinare. È quanto suggerisce, in termini analitici, la cate35
Così Foucault descrive il suo lavoro genealogico volto a delineare «la tendenza, che in tutto l’Occidente, non ha smesso di condurre da molto tempo verso la preminenza di questo tipo di potere, che si può chiamare governo, su tutti gli altri: sovranità, disciplina, ecc.», in M. Foucault, La “governamentalità”, in Id., Poteri e strategie. L’assoggettamento dei corpi e l’elemento sfuggente, a cura di P. Dalla Vigna, Mimesis, Milano, 1994, p. 65.
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goria della «governamentalità». La razionalità neoliberale – la cui chiave genealogica è da rintracciare nell’introduzione progressiva, a partire dal XVI secolo, dell’economia all’interno dell’esercizio del potere politico – si contraddistingue per essere un progetto di società finalizzato non solo a instaurare una nuova egemonia del mercato sul controllo statale dell’economia di matrice keynesiana, ma a riconfigurare da cima a fondo le pratiche sociali che orientano la condotta dei soggetti e il loro rapporto con se stessi. Si tratta, naturalmente, di questioni che in questa sede possono essere solo accennate. Il neoliberalismo non coincide soltanto con una dottrina economica che imporrebbe una rivincita delle forze anomiche del mercato sull’impianto ordinativo della sovranità moderna, ma con modo di ripensare la stessa azione dello Stato in modo da sottoporlo ai vincoli di una costituzione integralmente economica degli individui e della società. Si tratta di una filosofia politica costruttiva dell’intero ordine sociale, che proprio sulla demolizione dei principali concetti della politica moderna ha fondato la propria pretesa di verità: lo Stato, il popolo e il governo rappresentativo vengono svuotati di senso non certo per far posto ad un’essenza naturalistica e anomica, come sarebbe quella del mercato, ma ad una pratica costruttiva di governo che fa perno – come nell’ottica dell’ordoliberalismo – su di una Vitalpolitik36: non di una «ritirata dello Stato» si tratta, ma di una sua diversa «governamentalizzazione», che coincide con l’investire lo Stato di un programma esplicito di demolizione dei presupposti politici del «governo rappresentativo» e della legittimazione democratica, ovvero di quella particolare governamentalizzazione che è coincisa storicamente con i dispositivi istituzionali del welfare state. Se si prende ad esempio la variante ordoliberale del neoliberali36
Cfr. A. Rüstow, Sozialpolitik oder Vitalpolitik, in Ihk Dortmund (ed), Mitteilungen der Industrie- und Handelskammer, Dortmund, 11, 1951, pp. 453-459; Id., Vitalpolitik gegen Vermassung, in A. Hunold, Masse und Demokratie, Zurich, E. Rentsch, 1957, pp. 215-238.
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smo, in cui questa tensione è resa esplicita e più evidente, alla base del suo progetto di società si colloca una Ordnungspolitik finalizzata a rendere lo Stato responsabile della produzione di un “ambiente sociale” favorevole a far emergere una nuova modalità di soggettivazione, che trova proprio nel capitale umano la propria cifra di riferimento. Per il neoliberalismo americano, così come per l’ordoliberalismo tedesco, «l’economia costituisce l’indice generale sotto cui collocare la regola che definisce tutte le azioni di governo»37: che vuol dire praticare una politica attiva dello Stato senza dirigismo economico al fine di condurre la società ad un ordine che corrisponda – nei termini dell’Ordo Manifesto del 1936 – «alla razionale combinazione del molteplice nella totalità. (…) Deve essere cercata un’unità – diversa rispetto all’ordine esistente – che sia in accordo con la ragione o la natura dell’uomo e delle cose»38. Qui, come si vede, la razionalità neoliberale esprime una vocazione ad andare oltre la dialettica rappresentativa del popolo e della sovranità per innestare sul terreno della molteplicità sociale un insieme ordinato di pratiche di sé e di condotte individuali che vanno a supportare, incardinandosi, all’interno di una specifica governamentalità che tenta di fare a meno delle mediazioni sovrane. La costituzione economica prospettata dalla governamentalità neoliberale viene dunque intesa come una decisione politica generale sull’ordine della vita, un ordine generale della società che deve coincidere con l’ordine dell’economia. La costituzione economica – che trova ancoraggio in una precisa corrispondenza tra le condotte individuali (bisogni, aspirazioni, desideri) che favoriscono la costruzione di un ambiente sociale competitivo e gli assetti istituzionali che definiscono la cornice generale nella quale tali condotte si inscrivono – im37
M. Foucault, Nascita della biopolitica, cit., p. 112. F. Böhm, W. Eucken, H. Grossmann-Doerth, The Ordo Manifesto of 1936, in H.W. Peacock (a cura di), Germany’s Social Market Economy: Origins and Evolution, Macmillan, London, 1989, p. 16. 38
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plica dunque la riconfigurazione dello Stato alla luce della razionalità economica dell’impresa. Gli stati sono infatti oggi chiamati anch’essi a ragionare come imprese. Non di una rivincita dell’economia contro lo Stato si tratta, ma di una filosofia globale che punta a istituire «una nuova scienza capace di catturare tutta la ricchezza della natura umana dalla dimensione biologica e corporale fino a quella spirituale, religiosa, morale»39. L’homo politicus della sovranità popolare ha ceduto dunque il posto ad una visione globale dell’homo oeconomicus, che si estende fino a coprire anche gli ambiti tradizionalmente riservati alle espressioni della cittadinanza democratica; la sovranità cede il posto alla governance, in cui lo Stato, senza scomparire o eclissarsi, assume ruoli e funzioni diverse nell’ambito di una complessa rete globale di soggetti di potere dotati della capacità di esercitare decisioni politiche, di predisporre configurazioni e assetti economici e di produrre quadri normativi non più vincolati all’ordinamento statuale gerarchicamente disposto40. Come si vede, siamo di fronte ad una ragione di governo che tenta di definire un “oltre” rispetto alla cornice teorica della razionalità politica moderna. La governamentalità neoliberale agisce nel senso di aderire alle soggettivazioni senza ricorrere alle mediazioni simboliche della modernità, che funzionano secondo logiche binarie (pubblico/privato; stato/società civile; politica/economia; individuo/collettività). È ciò a cui allude la Vitalpolitik di ispirazione ordoliberale: la Vitalpolitik è infatti un modo di concepire l’azione politica nel quadro di una governamentalità immanente all’economico, in cui l’economico rappresenta non il tratto anomico che 39
W. Röpke, Civitas Humana. I problemi fondamentali di una riforma sociale ed economica, Rizzoli, Milano, 1947, p. 221. 40 Cfr. A. Arienzo, F. Scamardella (a cura di), Governance, governabilità e legittimazione democratica, Editoriale Scientifica, Napoli, 2017; e A. Amendola, Costituzioni precarie, Manifestolibri, Roma, 2016.
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si contrapporrebbe al politico, ma la matrice di iscrizione di un ordine sociale aderente ai modi di vivere delle soggettività. Da questa prospettiva, la posizione “sovranista” – anche nelle sue varianti popolari e democratiche – non può che apparire come un moto reattivo che, nel tentativo di contrastare la vulnerabilità indotta dai dispositivi di governo neoliberale della società, punta a ricostruire quelle mediazioni su di un terreno (quello delle soggettivazioni) sul quale esse rischiano di non avere più alcuna presa.
5. Vulnerabilità, politica degli eguali e politica di noi stessi La cornice teorico-pratica del popolo e della sovranità, anche nelle riformulazioni più argute e avanzate, rischia di apparire quindi come un mero ripiegamento protettivo, orientato da un moto reattivo che tenta di arrestare la governamentalità neoliberale guardando all’ordine perduto che si situa alle nostre spalle. Come in tutte le visioni nostalgiche, tuttavia, lo sguardo retrospettivo rischia di trasfigurare la realtà fino al punto da rimpiangere una sovranità che, nei termini di un dispositivo protettivo nei riguardi della vulnerabilità dell’esistenza, non è storicamente mai esistito. Infatti, anche la governamentalità “sovrana”, in cui si iscriveva la logica del welfare state, procedeva attraverso una distribuzione selettiva della vulnerabilità, che escludeva alcune categorie di soggetti sociali non conformi all’immagine del “maschio, bianco, lavoratore ed eterosessuale”. Si pensi, ad esempio, a tutte quelle categorie di soggetti esclusi di fatto (o inclusi attraverso la loro esclusione) dalla cittadinanza democratica (le donne, le minoranze, i disoccupati, i malati mentali, ecc.), sui quali si è giustamente soffermata la critica femminista. Si tratterebbe dunque di immaginare e sperimentare altre logiche dell’azione politica, che non siano debitrici della scricchiolante cornice teorica della politica moderna, nella quale essa veniva pensata nel solco della “decisione” e del-
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l’Uno (sovranità), secondo le modalità della rappresentazione (governo rappresentativo) e nella prospettiva di un egualitarismo astratto che annulla le differenze (sovranità popolare) e che pratica una rischiosa omologia con le forme del potere. Si tratterebbe insomma di pensare le forme della contestazione sociale tenendo presenti le aporie che accompagnano il pensiero politico moderno della sovranità. Possono le declinazioni attuali del popolo – anche nelle versioni più attente e argute – innestarsi sul terreno di soggettivazioni che recalcitrano all’idea di evaporare in discorsi “egemonici” di riduzione all’Uno della complessità e delle differenze? Può una politica emancipatrice anti-identitaria, e che si vuole aderente alla singolarità delle diverse soggettivazioni, far leva su di una logica dell’azione politica pensata nel solco dell’Uno, della Sovranità e della Rappresentazione? In definitiva, il trattamento della vulnerabilità indotta dalle politiche neoliberali richiede uno sforzo ulteriore di immaginazione politica, che consenta di andare oltre i richiami alla sovranità, anche nelle sue declinazioni popolari, egualitarie e democratiche. Per farlo, occorre fare propria ed accettare fino in fondo la sfida che il neoliberalismo ha portato sul terreno delle soggettivazioni contemporanee e immaginare forme del vivere in comune che rinuncino a pensarsi nel solco della sovranità, anche quando questa appare nella forma rassicurante del popolo. È probabilmente questo il lascito fondamentale che proviene degli ultimi corsi tenuti da Michel Foucault al Collège de France tra il 1980 e il 198441: non ci si può opporre alla 41
Il riferimento qui è agli ultimi corsi di M. Foucault, L’herméneutique du sujet. Cours au Collège de France. 1981-1982, Seuil/Gallimard, Paris, 2001; Du gouvernement des vivants. (1979-1980), Seuil/Gallimard, Paris, 2012; Subjectivité et vérité. (1980-1981), Seuil/Gallimard, Paris, 2014; Le gouvernement de soi et des autres. (1982-1983), Seuil/Gallimard, Paris, 2008; Le courage de la vérité. Le gouvernement de soi et des autres II. (1984), Seuil/Gallimard, Paris, 2009.
Sovranità in frantumi. Alcune note su vulnerabilità, populismo…
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vulnerabilità sociale prodotta dal neoliberalismo semplicemente invocando il ritorno ad una politica egualitaria tracciata nel solco demos. Rivolgendosi alla parresia e ai cinici, nel momento in cui, durante la crisi della democrazia ateniese, la dimensione agonistica della parresia intesa come esercizio rischioso e libero del diritto di parola del cittadino non sembra più essere sufficiente a garantire il buon funzionamento della vita individuale e collettiva, Foucault sembra voler assumere fino in fondo le critiche neoliberali all’impianto egualitaristico del welfare state, rivolgendo la propria attenzione verso una «politica di noi stessi» che interroghi il problema dell’emancipazione a partire da quella «differenziazione etica» irriducibile, che trova ancoraggio nelle sperimentazioni di una «vita altra». La parresia cinica, infatti, sembra suggerire Foucault, non si accontenta di prospettare una «politica degli uguali», ma accetta di condurre la sfida al potere sul terreno della differenza etica, in cui i soggetti assumono su se stessi il rischio di sperimentare un’altra modalità del vivere insieme e di dare forma, con gli altri, alla propria esistenza. A questo livello dovrebbe essere posto il problema di un “noi democratico” rivolto contro la governance neoliberale delle vite.
La gouvernance a double-face e la democrazia: un rapporto ambiguo di Stella Volpe
La governance è contraddistinta da una grande ambiguità. È questa l’idea di fondo attorno a cui ruota tutta la ricca ed articolata analisi di Jean-Pierre Gaudin, nel suo ultimo libro sulla governance, uscito in edizione italiana per l’appunto con il titolo emblematico La gouvernance a double-face1. La governance appare come un Giano dalle facce contraddittorie: quella della gestione normativa prescrittiva e quella sociale partecipativa. Paradossalmente, questa ambiguità contribuisce al successo della gouvernance a double-face, che si propone di conciliare apertura pluralista e competenza tecnica specialistica corredata da efficienza manageriale. Ambigua è la governance, ambiguo è il suo rapporto con la democrazia, sul piano assiologico, teleologico, teorico, empirico, etc. Se la governance, soprattutto a partire dagli anni ’90 del secolo scorso, ha incontrato un successo sempre più grande, negli ambiti più disparati ed in contesti molto diversi, la democrazia in quanto forma di governo è criticata per il suo malfunzionamento, reale o supposto che sia. In realtà, l’insoddisfazione per il malfunzionamento della democrazia è di vecchia data. Il tema della “crisi” dei regimi democratici è ricorrente sin 1
Jean-Pierre Gaudin, La gouverannce a double-face. Declinazioni e contraddizioni, con prefazione di Maurizio Cotta, Aracne, Roma, 2017.
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dai primordi di questi ultimi. Ora, si tratta piuttosto di una crisi qualitativa2, a cui da più parti si tenta di porre rimedio con sperimentazioni volte a ridurre il “sentimento di esclusione democratica”3 che si diffonde nell’ “era della sfiducia”4. Già Norberto Bobbio, ne Il futuro della democrazia5, notava che l’insoddisfazione era dovuta al fatto che la democrazia come è stata realizzata si discosta troppo dal suo modello ideale. In particolare, rilevava che sei “promesse” non sono state mantenute. In primo luogo, la dottrina democratica aveva immaginato uno Stato senza corpi intermedi6. Invece, i soggetti politicamente rilevanti sono diventati sempre più i gruppi (grandi organizzazioni, associazioni, sindacati, partiti, etc.), al punto da dover coniare il termine poliarchia per poter definire questa realtà7. In secondo luogo, si assiste alla “rivincita degli interessi”. A riprova di ciò, si osserva che la rappresentanza degli interessi (settoriali) ha un peso sempre più importante nei processi decisionali, a discapito della rappresentanza politica. In terzo luogo, si rileva la persistenza delle oligarchie8, che, secondo gli ideali democratici, non dovrebbero essere 2
Sul come valutare la qualità della democrazia, rinviamo a L. Diamond & L. Morlino (eds), Assessing the Quality of Democracy. Theory and Empirical Analysis, Johns Hopkins University Press, Baltimore,2005. 3 F. Miquet-Marty, Les oubliés de la démocratie, Michalon Editions, 2011. 4 P. Rosanvallon, La contre-démocratie. La politique à l’âge de la défiance, Seuil, Paris, 2006. 5 N. Bobbio, Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino, 1984. 6 Si pensi alla legge Le Chapelier, promulgata in Francia il 14 giugno 1791, che vieta le organizzazioni professionali e fa tutt’uno con il decreto d’Allarde del 2 marzo 1791, il quale abolisce le corporazioni. Tale legge è stata abrogata in Francia soltanto nel 1884, quando sono stati legalizzati i sindacati. 7 R. Dahl, A Preface to Democratic Theory, University of Chicago Press, Chicago, 1956. 8 D. Fisichella, Il denaro e la democrazia. Dall’antica Grecia alle multinazionali, NIS, 1995.
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ammesse. In quarto luogo, si rimarca che la democrazia è rimasta confinata in uno spazio limitato e non è riuscita ad estendersi ovunque si eserciti un potere che prende decisioni vincolanti per un intero gruppo sociale. In quinto luogo, il “potere invisibile” non è stato eliminato. La promessa trasparenza del potere non è stata del tutto realizzata. In sesto luogo, i cittadini restano in parte “non educati”. L’educazione alla democrazia, volta a promuovere la virtù politica, che per Montesquieu costituiva il ressort della democrazia manifestandosi come amore della cosa pubblica, non ha impregnato le società democratiche. Norberto Bobbio segnalava anche quali fossero gli ostacoli che rendono più difficile il perseguimento degli ideali democratici9. Tra questi, si evidenzia il necessario ricorso ai “tecnici”, per far fronte al numero crescente di problemi politici che richiedono competenze tecniche. Così, la tecnocrazia viene ad affiancarsi alla democrazia, benché siano antitetiche, come egli sostiene. Un altro ostacolo è costituito dall’“ingovernabilità” della democrazia, dal suo scarso rendimento, già rilevato nel celebre Rapporto della Commissione Trilaterale del 197510. Per ovviare a tutto ciò, si può ricorrere alla governance? La governance, o meglio la gouvernance a double-face, può andare in soccorso alla democrazia? Maria Rosaria Ferrarese, nella sua acuta ed ampia analisi sulla governance usa l’immagine dei processi di governance come “succursali” allestite per soccorrere la “ditta” democrazia, che si vuole operino «per supplire alle esigenze, carenze e rigidità più significative che affliggono il quadro democratico tradizionale, di stampo essenzialmente rappresentativo»11. Tra queste, emerge, in primo luogo, la perdita di importanza delle assemblee parlamentari, che sarebbe all’origine 9
Cfr. N. Bobbio, Il futuro della democrazia, cit. Cfr. M. Crozier, S.P. Huntington, J. Watanuki, The Crisis of Democracy: On the Governability of Democracies, New York University Press, New York, 1975. 11 M. R. Ferrarese, La governance tra politica e diritto, Il Mulino, Bologna, 2010, p. 189. 10
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di alcuni mali di cui soffrono le democrazie contemporanee, tra cui quello di non riuscire più a ricomporre in un unico orizzonte condiviso le varie istanze provenienti dalla società. Una delle conseguenze è lo sfilacciamento del tessuto sociale. In realtà, il tema del “declino dei Parlamenti” e delle “malattie croniche” da cui sono affetti non è affatto nuovo12. La questione che si pone ai giorni nostri è se la gouvernance a double-face possa rinsaldare le istituzioni rappresentative, considerando il rapporto che intrattiene con esse. In secondo luogo, si constata una considerevole difficoltà delle istituzioni democratiche contemporanee a rappresentare tutti i membri del corpo sociale e ricomprendere tutte le loro voci in un quadro d’insieme. Ciò genera varie forme di malcontento e di contestazione, se non di protesta, da parte degli “esclusi”. La gouvernance a double-face può favorire l’inclusione delle frange della popolazione più “distanti” dai processi decisionali “classici” delle democrazie rappresentative? In terzo luogo, si constata un forte disincanto di gran parte dei cittadini nei confronti della politica ed una evidente disaffezione verso le forme tradizionali di partecipazione politica. Può la gouvernance a double-face favorire un loro riavvicinamento alla politica, in quanto componenti del demos?
2. Processi decisionali e istituzioni rappresentative Come ci ha insegnato Hans Kelsen, non bisogna confondere la democrazia come “idea” con la democrazia come sistema di governo. Perché essa possa esistere e funzionare co12
James Bryce vi dedica due interi capitoli nella sua opera Modern Democracies (Macmillan, 1921, 2 vols.), il capitolo LVIII del volume II, intitolato «The Decline of Legislatures», e il capitolo LIX dello stesso volume, intitolato «The Pathology of Legislatures». Nella prima edizione italiana (Democrazie moderne, Ulrico Hoepli, 1931, 2 voll.), si tratta rispettivamente del capitolo XIV e del capitolo XV, entrambi del volume II.
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me sistema di governo nell’era moderna, le assemblee elettive rappresentative sono una condizione necessaria, anche se non sufficiente. Differentemente dai cittadini dell’antica polis di Atene, gli individui moderni non passano la vita governandosi, per parafrasare N.D. Fustel de Coulanges13. Le funzioni sovrane che il popolo non può o non vuole esercitare direttamente, come rilevava Benjamin Constant14, sono affidate a dei rappresentanti che esso elegge periodicamente per questo scopo. Si è così concepito un modello di democrazia che prevede la distinzione tra titolarità ed esercizio del potere: il popolo conserva la sua sovranità, pur lasciandola esercitare ad un certo numero di rappresentanti periodicamente scelti e designati con il voto. La progressiva estensione del suffragio ha significato la progressiva inclusione degli individui nello spazio politico istituzionalizzato. Essi possono così concorrere alla formazione della volontà generale attraverso i rappresentanti eletti. Dal ‘700 si afferma il principio che l’espressione della volontà generale è la legge. Ed al contempo, si afferma il principio dell’isonomia, che già aveva caratterizzato nell’antica Grecia la democrazia della polis. L’art. 6 della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino (1789) recita: «la legge è l’espressione della volontà generale. Tutti i cittadini hanno diritto a concorrere personalmente, o attraverso i loro rappresentanti, alla sua formazione. Deve essere la stessa per tutti, sia che protegga sia che punisca». La legge è quindi frutto della deliberazione. Questa si svolge precipuamente nelle assemblee rappresentative elettive e, per essere tale, necessita del divieto del mandato imperativo, un altro lascito della Rivoluzione Francese in quanto norma costituzionale (Costituzione del 1791 - art. 7 della III Sezione del I Capitolo del Titolo III), in rottura con l’Ancien Régime. 13
Cfr. N.D. Fustel de Coulanges, La Cité antique, Librairie Hachette, Paris, 1900. 14 Cfr. B. Constant, De la liberté des Anciens comparée à celle des Modernes, in Id., Ecrits politiques, Gallimard, Paris, 1997, p. 615.
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Contrariamente alla democrazia moderna, per potersi affermare, la gouvernance a double-face non richiede necessariamente l’esistenza di assemblee rappresentative liberamente e periodicamente elette dai cittadini secondo i canoni democratici. Anzi, essa è addirittura compatibile con l’autoritarismo. Un esempio su tutti: la Cina, un paese in cui la gouvernance a double-face sta riscuotendo un successo sempre più grande. In Cina, se, da un lato, per governance si intende gestione, dall’altro, il termine governance è associato a quello di società civile e partecipazione. Se, da un lato, facendo riferimento alla governance moderna, il potere insiste sull’aspetto “efficienza gestionale”, dall’altro, ci si richiama alla governance per aprirsi all’ascolto della società civile, o meglio all’«ascolto diretto delle competenze della società civile , senza ricorrere necessariamente a delle elezioni concorrenziali ed al pluripartitismo»15. Delle procedure stringenti, che mirano al consenso, regolano le consultazioni della “società civile”, dei diretti interessati o delle parti in causa, su questioni molto specifiche, generalmente locali. Anche nei Paesi democratici, la governance punta molto sul protagonismo sociale. Rendere la società civile protagonista non equivale a garantire una eguale partecipazione a tutti. Benché si ritenga che la governance sia una modalità di governo aperta ed inclusiva, spesso solo parti della società civile vengono coinvolte nei processi decisionali. Il risultato è talvolta un’inclusione en trompe-l’œil, dato che tra i soggetti coinvolti spiccano quelli dotati di importanti risorse economiche, organizzative, conoscitive e/o motivazionali. Si tratta in linea di massima di soggetti che, pur nella loro grande diversità, possono rientrare in tre categorie: gli “interessati”, gli “entusiasti” ed i “competenti”16. È un insieme fluttuante 15
Cfr. J.P. Gaudin, La gouverannce a double-face. Declinazioni e contraddizioni, cit., p.167. 16 M. Shapiro, Administrative Law Unbounded: Reflections on Government and Governance, in “Indiana Journal of Global Legal Studies”, vol. 8, 2001.
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di attori ad essere coinvolto, che può variare a seconda dei contesti e delle questioni specifiche sulle quali si è chiamati ad intervenire. Con la governance, non solo un insieme fluttuante di soggetti privati si affiancano ai soggetti pubblici nei processi decisionali, ma la loro “partecipazione” assume un’importanza tale da spostarne l’epicentro, da dentro a fuori le istituzioni, oppure a cavallo tra dentro e fuori di esse. Se, nelle democrazie sorte o consolidatesi nel Secondo Dopoguerra, i Parlamenti costituivano il fulcro, o perlomeno uno dei punti nodali dei processi decisionali, le varie modalità di governance sono invece dei modi extraparlamentari di elaborazione delle decisioni17. Constatando da più parti l’erosione delle funzioni delle assemblee rappresentative elettive, alcuni sono indotti a ritenere che i sistemi politici occidentali siano entrati in una fase di transizione verso un “dopo-democrazia” moderna18 – la democrazia moderna essendo legata a filo doppio alle assemblee rappresentative elettive, secondo questo punto di vista –, in cui queste ultime, pur senza scomparire, possano tuttavia assomigliare a delle Chambres d’enregistrement di decisioni prese altrove. Quel che è certo, è che la governance «è stata quasi subito giudicata depoliticizzante, nel senso che il suo stile di conduzione delle politiche pubbliche resta distante dal lavoro democratico classico»19. Essa comporta una dispersione della sovranità, con un modo di elaborare le decisioni che diviene policentrico e scarsamente gerarchizzato, dipanandosi in mille rivoli di pratiche frammentate, spesso non istituzionalizzate, talvolta opache, che coinvolgono un insieme di soggetti pubblici e privati. Si 17
A. Mastropaolo, L. Verzichelli, Il Parlamento. Le assemblee rappresentative nelle democrazie contemporanee, Edizioni Laterza, Roma-Bari, 2006, p. 157. 18 Cfr. R. Dahrendorf, Dopo la democrazia, Editori Laterza, Roma-Bari, 2003. 19 J.P. Gaudin, La gouverannce a double-face. Declinazioni e contraddizioni, cit., p.153.
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tratta di “pratiche reticolari”20, in cui prevale la logica della negoziazione e sulla quale pesa la diseguale distribuzione delle risorse, di vario genere, fra gli attori coinvolti. Sebbene, con la governance, si assista ad una, per così dire, “orizzontalizzazione” dei rapporti fra i poteri di diverse dimensioni (non solo in senso spaziale ma anche nel senso di ambiti o campi d’azione), e quindi ad una attenuazione della sovraordinazione di alcuni poteri nei confronti di altri, ciò non esclude l’esistenza di rapporti di forza asimmetrici tra gli attori coinvolti nei processi decisionali. Il prevalere della logica della negoziazione, a discapito del principio maggioritario, rende il Diritto “liquido”21, nella misura in cui la legge (frutto della deliberazione parlamentare) è sempre più sostituita dal contratto (frutto della negoziazione tra le parti) e da tutta una serie di dispositivi giuridici “fluidi”. Si ha così una frammentazione dell’ordine giuridico, che sancisce la fine del primato della legge22. Benché, nella realtà, si abbia molto spesso una sovrapposizione fra il linguaggio che si richiama all’“argomentazione” ed il linguaggio della “negoziazione”, che si basa sugli interessi, negoziazione e deliberazione non vanno confuse. La negoziazione risponde a logiche differenti rispetto alla deliberazione23. Infatti, è fuor di dubbio che, su un piano ideale, la deliberazione si distingua nettamente dalla negoziazione24. 20 L. Bobbio, I governi locali nelle democrazie contemporanee, Edizioni Laterza, Roma-Bari, 2008, p. 208. 21 G. Messina, Diritto liquido? La governance come nuovo paradigma della politica e del diritto, Franco Angeli, Milano, 2012. 22 Alberto Andronico osserva, con occhio critico, che “quando si parla di governance non si parla di diritto. O quantomeno non si parla di diritto così come siamo abituati a parlarne. Insomma: non si parla della legge”. Cfr. A. Andronico, Viaggio al termine del diritto. Saggio sulla governance, Giappichelli, Torino, 2012, p. 141. 23 J. Elster, “The market and the forum: Three varieties of political theory”, in J. Elster & A. Hylland (Eds.), Foundations of social theory, pp. 103-132, Cambridge University Press, 1986.
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Qui basti ricordare che, contrariamente a quanto avviene nel corso di una negoziazione, teoricamente, lo scopo dei partecipanti non è quello di fare in modo che la conclusione del processo decisionale sia la più favorevole alle loro preferenze espresse inizialmente, ma, al contrario, di fare in modo che l’esito della deliberazione sia il seguente: «produrre qualcosa di nuovo che non esisteva prima» e che non potrebbe esistere che come risultato della deliberazione25. In effetti, secondo l’etimologia latina, deliberare significa “dare alla luce, partorire, dare vita, far nascere”. Come che sia, è chiaro dunque che lo stile della gouvernance a double-face si discosta non di poco dal modello della “democrazia elettiva”26, non foss’altro che in ragione della sua distanza, se non anche, in certi contesti, della sua estraneità, rispetto alle assemblee rappresentative, istituzioni cardine della democrazia moderna. Del resto, la gouvernance a double-face può ben svilupparsi parallelamente ad esse od anche in assenza di esse, come dimostra il suo successo in alcuni paesi autoritari.
3. Consenso, dissenso ed accettabilità L’età moderna è caratterizzata da una differenziazione sociale crescente. Questa si è accompagnata all’affermazione del principio del pluralismo sociale e politico in Occidente27. 24
S. Volpe, Quels droits politiques pour les non-citoyens ? Genèse de l’expérience de représentation à Rome (2000-2008), Tesi di dottorato in scienza politica, Institut d’Etudes Politiques d’Aix-en-Provence, 2015, p. 443 e ss. 25 L. Bobbio, La qualità della deliberazione, Carocci Editore, Roma, 2013. 26 J.P. Gaudin, La gouverannce a double-face. Declinazioni e contraddizioni, cit., p. 168. 27 N. Matteucci, Lo Stato moderno. Lessico e percorsi, Il Mulino, Bologna, 1997.
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Alle assemblee rappresentative elettive è domandato di trovare una sintesi alle diverse istanze provenienti dalla società. Il Parlamento è così concepito come un luogo di confronto dialettico volto a far emergere soluzioni politiche coerenti e generali atte a rispondere alle variegate domande sociali, a volte in conflitto tra loro o contraddittorie. La “sintesi” scaturisce dal confronto tra “tesi” ed “antitesi”. Quindi la dialettica tra maggioranza ed opposizione è considerata essenziale e la presenza di quest’ultima indispensabile perché un sistema politico possa essere definito democratico ai giorni nostri. Essendo lo Stato liberale il presupposto storico e giuridico della Stato democratico28, il dissenso non solo è ammesso nei moderni stati democratici, ma è addirittura considerato il sale della democrazia nella sua espressione occidentale attuale, che ha preso forma come liberal-democrazia29. La gouvernance a double-face punta invece al superamento della logica del conflitto, da essa tanto temuto, se non addirittura aborrito. A tal fine, ricorre a sofisticate tecniche volte a misurare l’accettabilità di questa o quella decisione, per far sì che l’una o l’altra possa essere presa senza provocare forti dissensi. L’accettabilità è una sorta di valutazione ex ante volta a prevedere, e possibilmente a prevenire, eventuali reazioni future. Essa fa rima con tollerabilità. Difatti, è nata nel campo delle Scienze della Vita e della Medicina – si pensi alla tollerabilità di un farmaco – e poi si è diffusa progressivamente in tanti altri settori, nel campo tecnologico, nelle scienze ingegneristiche, etc., sino ad approdare alle scienze politiche e sociali. Infatti, si parla ormai sempre più ripetutamente di “accettabilità sociale” di una decisione pubblica. Con ciò si intende la sua capacità a non provocare rilevanti opposizioni future. Nell’ottica della gouvernance a doubleface, essa va favorita mediante il dibattito pubblico. Evoca il 28 G. De Ruggero, Storia del liberalismo europeo, Gius. Laterza & Figli, Roma-Bari, 1941. 29 G. Sartori, Democrazia. Cosa è, Rizzoli, Milano, 1995.
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consenso, la conciliazione e l’accordo, tanto cari alla governance, che mira a promuovere compliance30. L’accettabilità è dunque una congettura sull’accettazione futura. Per valutare l’accettabilità di una decisione pubblica, si deve tenere conto delle aspettative e dei timori più o meno fondati dei destinatari di tale decisione, che possono essere misurati con metodi molto diversi (inchieste, barometri, indicatori, sondaggi, etc.). In quest’ottica, i problemi pubblici sono affrontati in termini di rischi. Allo studio dell’impatto tecnico–scientifico ed economico che potrebbe avere una decisione pubblica si accompagna lo studio del suo possibile impatto sociale, al fine di prevedere quale potrebbe essere dunque la ricezione sociale. Se si scorgono delle difficoltà, si tenta di ridurle costruendo fiducia. Per favorirla, “si promuovono il ‘dialogo’ e la partecipazione, da cui sono attesi degli apprendimenti collettivi e dei linguaggi ‘condivisi’”31. Si coinvolgono gli “esperti”, perché svolgano un lavoro di informazione nei riguardi dei “profani”, ed anche dei consulenti in materia di decisione, così da far emergere dei “mediatori” nella discussione o nella negoziazione, o dei “facilitatori”, vale a dire dei professionisti della partecipazione chiamati a facilitare il confronto fra i partecipanti per arrivare ad un risultato condiviso. Il tutto viene inquadrato in procedure ben definite che regolano lo svolgersi delle varie fasi della concertazione o del dibattito pubblico. Nel corso della discussione, si ricorre congiuntamente ad un doppio registro argomentativo che rispecchia la “doppia faccia” della gouvernance, essendo finalizzato, da un lato, a dare una risposta alla questione della valutazione tecnica ed economica nei termini classici dell’optimum, e, dall’altro, a far emergere le varie posizioni dei partecipanti in termini di impatto sociale. L’obiettivo di conciliare l’ottimizzazione della performance tecnica con le aspettative dei destinatari di una 30
A. Arienzo, La governance, Ediesse, Roma, 2013, pp. 86-87. J.P. Gaudin, La gouverannce a double-face. Declinazioni e contraddizioni, cit., p. 147. 31
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data decisione è perseguito quindi valutando i dati dell’optimum tecnico ed economico e quelli atti a misurare la “tolleranza sociale” propria ad un contesto specifico, gli uni e gli altri posti su uno stesso vettore. Questa ibridazione si ottiene grazie al dibattito, nel corso del quale le due dimensioni delle scelte collettive vengono integrate32. Un esempio da manuale di come si possa in tal modo tentare di superare la logica del conflitto è dato dal caso AlmaGare, un quartiere popolare di Roubaix, città francese della regione Hauts-de-France, che sino al 2017 era la più povera del Paese. Negli anni ’70 del secolo scorso, tale quartiere è stato teatro di un duro scontro tra gli abitanti, in massima parte di estrazione modesta, da una parte, ed i promotori di un grande progetto di riqualificazione, dall’altra, annunciato dal Consiglio Comunale, a maggioranza PS (Partito Socialista), alla fine degli anni ’60. Tale progetto comportava l’abbattimento di gran parte delle vecchie case operaie a ringhiera del XIX secolo, che mancavano di manutenzione, il che ha provocato una forte mobilitazione degli abitanti che si opponevano con grande determinazione alla demolizione di detti alloggi per farne delle “gabbie per conigli”33. La lunga lotta urbana, durata circa dieci anni, è diventata “mitica”, non solo perché è stata vinta dagli abitanti, ma anche perché li ha visti protagonisti di una strategia che, da un lato, rifiutava l’individualizzazione dei problemi pubblici, e, dall’altro, mirava a formulare proposte “autonome” dalla Municipalità ed alternative al progetto presentato da essa. In tal modo, dopo aver fondato nel 1973 l’Atelier Populaire d’Urbanisme, autonomo dalla Municipalità, che permetteva loro di riunirsi settimanalmente per portare avanti la loro lotta, si sono giovati dell’aiuto tecnico di 32
J.-P. Gaudin, L. Michel, “La «très haute tension» et les sciences du débat public”, in O. Ihl (dir.), Les «sciences» de l’action publique, PUG, 2006. 33 P. Cossart, J. Talpin, Lutte urbaine. Participation et démocratie d’interpellation à l’Alma-Gare, Ed. du Croquant, 2015.
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tre architetti-urbanisti e di un sociologo provenienti da Parigi – molto presenti sul posto ove erano a stretto e costante contatto con gli abitanti rimanendo al contempo sempre esterni alla Municipalità – per concepire un contro-progetto che prevedeva la ristrutturazione degli immobili invece della demolizione. L’esito del conflitto è stato a favore degli abitanti, che sono riusciti a far accogliere dal Comune il loro contro-progetto. La loro lunga lotta è così assurta ad “epopea”. Veniamo ai giorni nostri, che vedono la gouvernance a double-face affermarsi in diversi settori ed in diverse situazioni. Nel 2014 Guillaume Delbar, membro del partito liberal-conservatore Les Républicains ed imprenditore, è diventato sindaco di Roubaix. Il quartiere dell’Alma-Gare appare di nuovo non in buono stato. Nel 2017 il sindaco annuncia un piano di riqualificazione urbana del quartiere che comporta delle trasformazioni profonde per renderlo più attrattivo e “dinamizzarlo” attirando nuove attività commerciali. Esso prevede anche la demolizione dei tanti alloggi ritenuti insalubri o in cattivo stato per costruirne di nuovi. Se, da un lato, ciò costringerebbe molti degli attuali abitanti a traslocare, dall’altro, dovrebbe indurre dei nuovi ceti più agiati a stabilirsi in questo quartiere tradizionalmente abitato prevalentemente da classi sociali poco abbienti. Per realizzare questo piano di riqualificazione (ad oggi non ancora avviato), è stato preparato un programma molto dettagliato, che si ispira ai dettami della gouvernance a double-face e che dà ampio spazio alla messa in pratica del suo lato partecipativo. Si mira così a raggiungere gli obiettivi prefissati evitando ogni possibile conflitto con gli abitanti. Forti dell’esperienza del passato, si dà prova di rifuggire lo scontro con essi per ottenere il risultato sperato. Con l’aiuto di professionisti della partecipazione, sono state stilate delle linee guida a cui attenersi per “gestire” il processo decisionale con successo. È stato redatto un documento, firmato dai partecipanti, che funge da tabella di marcia da rispettare. In tale documento, vengono specificati i soggetti da coinvolgere nel processo decisionale, che risultano essere lo Stato, gli abitanti,
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le associazioni, le imprese, gli eletti, i rappresentanti della Metropoli europea di Lille (l’intercomunalità di cui Roubaix fa parte), i proprietari degli immobili, gli enti che gestiscono gli alloggi popolari, la SNCF (le Ferrovie francesi), i tecnici, i commercianti, etc. Vengono anche fissate le procedure da rispettare e le regole del “dialogo” da avviare, specificando il ruolo di ciascuno, gli spazi ed i tempi. Si prevede la costituzione di comités de suivi a cui sono demandati il controllo, il monitoraggio e la valutazione di ogni tappa. È anche previsto un “accompagnamento personalizzato” per tutti coloro che dovranno traslocare. Tutto ciò dovrebbe facilitare il confronto tra le diverse “parti in causa”, secondo l’idea che domina nei processi di governance. In tal modo si mira a garantire una maggiore efficacia dell’azione pubblica, secondo i dettami della gouvernance a double-face. In questo caso, essa ha tuttavia difficoltà a coniugare le sue due facce, dato che non riesce ad assicurare una larga partecipazione di tutti coloro che saranno i destinatari delle decisioni che verranno prese. Ad oggi, infatti, alle riunioni pubbliche che si sono svolte sin qui, ha partecipato in media meno di un centinaio di persone su all’incirca 4000 abitanti residenti nel quartiere, questi ultimi per la gran maggioranza locatari degli immobili in cui vivono. Questo caso illustra un fenomeno non raro che si realizza nei processi decisionali messi in atto nello spirito della gouvernance a double-face: benché essa punti molto sulla promozione di forme di partecipazione inclusive, alternative o complementari rispetto a quelle classiche previste nelle democrazie moderne, volte a coinvolgere anche coloro che restano distanti da queste – il che costituisce motivo di fascino nei suoi riguardi per molti34 –, nella realtà si constata spesso che i meno propensi a partecipare attivamente a tali “buone pratiche” dialogiche sono proprio coloro che già manifestano una più o meno ac34
F. Scamardella, Teorie giuridiche della governance. Le ragioni e i limiti di una nuova narrazione, Editoriale Scientifica, Napoli, 2013, p. 157.
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centuata disaffezione per le forme tradizionali di partecipazione politica, a cominciare da quella elettorale. Spesso si tratta di persone con un basso livello di istruzione, reddito modesto, e uno status sociale e professionale non elevato. Per concludere su questo punto, alla luce di un caso così emblematico come quello dell’Alma-Gare, si osserva che l’invito alla partecipazione delle “parti in causa” ed il considerarle come “partenaires”, come ama fare la gouvernance a doubleface, rispecchia un registro molto diverso da quello che si è affermato negli anni ’70 del secolo scorso, che ha visto gli abitanti auto-organizzarsi ed agire autonomamente seguendo la logica dello scontro con le autorità locali. Se, da una parte, ciò favorisce l’accettabilità sociale, dall’altra, le opportunità di partecipazione che vengono offerte ai diretti interessati vengono non di rado trascurate dagli stessi per vari motivi (mancanza di tempo, incomprensione per la tecnicizzazione del dibattito, frustrazione per la difficoltà ad incidere nei processi decisionali, etc.). Benché la gouvernance a double-face si proclami inclusiva, non risolve dunque sistematicamente il problema della scarsa partecipazione che si riscontra nelle moderne democrazie rappresentative, non riuscendo ad assicurare un ampio e pari coinvolgimento di tutti i soggetti interessati da una certa decisione pubblica. Tra questi, spesso coloro che rimangono esclusi, che si auto-escludono o che hanno una scarsa incidenza nei processi di governance, sono proprio coloro che già manifestano o un sentimento di disaffezione verso i canali “classici” di partecipazione politica, o un sentimento di esclusione, oppure di marginalità, riguardo i tradizionali processi democratici, sentendosi talvolta “dimenticati” dalla democrazia.
4. Demos e politica Con la gouvernance a double-face si ha un «riflusso della regola generale e dello Stato a vantaggio di mini-regolazioni
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che si vogliono partecipative»35. Il che comporta uno spezzettamento dell’azione pubblica, riducendo la politica a “pezzettini”36. In tal modo, in genere, si ragiona per obiettivi e sempre più in termini di performance e di efficienza, mirando a far emergere uno spirito cooperativo tra i partecipanti37. La discussione verte prevalentemente sul come raggiungerli, ed efficacemente. Prevale la logica del problem solving38, che si afferma in mille pratiche diverse e frammentate. Esse prendono corpo intorno a questioni specifiche ed hanno come denominatore comune «la speranza di una conciliazione»39, puntuale e caso per caso, degli interessi e dei punti di vista. Rivolgendosi a dei mini-pubblici, la governance lavora per la frammentazione del corpo politico in molteplici gruppi “interessati” che si compongono e scompongono volta per volta. Non solo ciò ha un effetto depoliticizzante, ma può far “scomparire” il demos40, di cui, lo dice la parola stessa, la democrazia non può fare a meno. Anche il vocabolario prevalente dell’una e dell’altra lascia trapelare due concezioni diverse su questo punto. Per la democrazia, sono di massima i cittadini ad essere chiamati a partecipare ai vari processi democratici, sia singolarmente sia in quanto membri di una formazione politica o di un raggruppamento dai tratti politici, sia direttamente sia 35
J.-P. Gaudin, L. Michel, cit., p. 181 Gaudin, La gouverannce a double-face. Declinazioni e contraddizioni, cit., p. 121 e ss. 37 Questi sono qualificati come “partenaires”, che «l’enfasi moderna della gouvernance e del management» vuole che siano necessariamente degli attori cooperativi che contribuiscono ad «una impresa collettiva» (Gaudin, La gouverannce a double-face. Declinazioni e contraddizioni, cit., p. 132), sebbene etimologicamente vadano definiti semplicemente come “parti in causa”. 38 L. Bazzicalupo, “Governamentalità: una ridefinizione operativa della razionalità politica, Parolechiave, governance, 56/2016, Carocci Editore, Roma, pp. 89-102. 39 J.P. Gaudin, La gouverannce a double-face. Declinazioni e contraddizioni, cit., p. 153. 40 M.R. Ferrarese, La governance tra politica e diritto, cit., p. 87. 36
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indirettamente attraverso i rappresentanti da loro eletti. In tal senso, il cittadino partecipa in quanto membro della polis, della comunità politica di cui fa parte. Per la governance, sono vari “pubblici interessati” o vari stakeholders o varie “parti in causa” o varie “comunità epistemiche”41 che vanno coinvolti nei processi decisionali, in merito a questioni che li riguardano da vicino. I partecipanti sono coinvolti in quanto membri della “società civile”, chiamata ad essere protagonista. Con la governance, anche il “rendiconto” dell’azione pubblica viene disperso in molteplici forum, gruppi di lavoro, tavole rotonde, piccoli comitati, gruppi di esperti, attori economici, etc. Si tratta di una accountability che aggira le arene parlamentari e le assemblee elette, e i controlli democratici ad esse connessi. Si sgravano così i tradizionali organi democratici elettivi dal peso di certe funzioni, per renderli più efficaci/efficienti, o le si riducono, come nel caso, per l’appunto, del potere di controllo sempre più affidato ad Authorities e Agenzie di regolazione di derivazione anglosassone, il cui numero è notevolmente aumentato dagli anni ’90 del secolo scorso. Questa evoluzione non è di poco conto per i moderni regimi democratici. Una concezione liberale della democrazia vuole che essa sia un sistema di controllo del potere42 che presuppone un regolare rendiconto dei governanti nei confronti dei governati, perché i primi siano responsabili verso i secondi. Questo tipo di accountability è strettamente legato alla tenuta di regolari elezioni competitive che si svolgano secondo tutti i crismi della tradizione democratica moderna. Infatti, se, da una parte, la “funzione delle elezioni” è quella di “fondare una legittimità”43, rendendo il potere ascendente, nella misura in cui, attraverso il voto, i rappresentati confida41
M. Haas, “Epistemic Communities and International Policy Coordination”, in International Organization, 46, I, 1992. 42 G. Sartori, Elementi di teoria politica, Il Mulino, 1990, p. 32. 43 Ph. Braud, La démocratie politique, Points, 2003.
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no ai rappresentanti il potere di prendere decisioni vincolanti per tutti, in nome e per conto di essi, dall’altra, al momento delle elezioni, il popolo è chiamato a “giudicare” ex post facto il lavoro fatto dai suoi rappresentanti nel corso del loro mandato44. Da questo punto di vista, il «potere autenticamente sovrano» del popolo, non è solo quello di designare con il voto i suoi rappresentanti così legittimati a prendere decisioni vincolanti, in nome e per conto di esso, ma anche quello di esprimere un “giudizio” retrospettivo sul lavoro da essi svolto, ad intervalli regolari, vale a dire ad ogni elezione. Secondo questa prospettiva, la responsabilità politica e l’accountability sono associate al momento elettorale, vale a dire al momento in cui i rappresentanti devono “rendere conto” ai cittadini del lavoro svolto durante il loro mandato, per essere “giudicati” da essi. In occasione delle elezioni, i cittadini possono esercitare il loro “potere di sanzione” nei confronti di quei rappresentanti sui quali esprimono un “giudizio” negativo, negando loro il voto affinché non vengano rieletti o non costituiscano la maggioranza. È utile ricordare che, di per sé, l’accountability non ha alcun legame privilegiato con le elezioni e la rappresentanza politica. Infatti, in primo luogo, la troviamo già nella polis di Atene con il nome di euthyna, dove è risaputo che non esisteva alcuna forma di rappresentanza come è intesa ai giorni nostri. In secondo luogo, l’accountability è una nozione spesso associata al concetto di valutazione, che richiede delle competenze specifiche. In tal senso, essa è sovente legata al criterio dell’efficienza, proprio del settore imprenditoriale e del settore del management. In tale ambito, infatti, essa è ritenuta importante per perseguire l’obiettivo di migliorare la competitività e la performance degli attori in questione. Così intesa, l’accountability può essere applicata in materia di azione pubblica? È ciò a cui mira la gouvernance a double-face? 44 B. Manin, Principes du gouvernement représentatif, Flammarion, Paris, 1996.
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Quel che è certo, è che la gouvernance a double-face non nasconde di puntare molto all’efficacia, che in realtà sottende ricerca di efficienza. Ciò conduce ad una nuova prospettiva per l’azione pubblica o addirittura ad un cambiamento di paradigma rispetto alla democrazia rappresentativa, dal momento in cui è il sapere esperto, ed anche economico, che definisce i confini degli interventi legittimi perché più efficaci. Una tendenza in atto nelle società contemporanee va in questa direzione: la “restrizione della sfera regolata dal principio elettivo e maggioritario” e la corrispettiva estensione della sfera regolata dal “principio della competenza”, come criterio di legittimazione45. Due principi che, nel corso della storia, sono stati considerati alternativi, altrimenti detti principio della major pars, l’uno, e principio della valentior pars, l’altro46. Il primo poggia su un elemento quantitativo, quello del “maggior numero” delle volontà espresse. È sia un “principio di giustificazione del potere decisionale” che una “tecnica decisionale”47. Il secondo, il principio della valentior pars, antagonista rispetto al primo, poggia su un elemento qualitativo. Contrariamente a quest’ultimo, il principio della major pars sottintende una “società di eguali”, giacché ha come fondamento il calcolo aritmetico del “maggior numero”48. Si è disposti a sacrificare, almeno in parte, questo principio, che è alla base delle democrazie moderne, per ottenere risultati migliori in termini di efficacia/efficienza? Charles S. Maier sostiene che il “Leviatano 3.0” potrebbe succedere alle istituzioni governative che si sono affermate in Occidente nell’Ottocento per poi iniziare a scricchiolare negli anni ’70 45
A. Pizzorno., P.L. Crosta., B. Secchi, Competenza e rappresentanza (a cura di C. Bianchetti e A. Balducci), Donzelli Editore, Roma, 2013, p. 29. 46 F. Galgano, La forza del numero e la legge della ragione. Storia del principio di maggioranza, Il Mulino, Bologna, 2007. 47 P. Rosanvallon, La légitimité démocratique. Impartialité, réflexivité, proximité, Seuil, Paris, 2008, pp. 10-11. 48 P. Rosanvallon, La société des égaux, Seuil, Paris, 2011.
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del Novecento49. Il “Leviatano 3.0” rappresenta il mondo della governance, un managerialismo pubblico che ha dato avvio a politiche basate sull’expertise. Egli rileva che sono i criteri dell’ottimizzazione tecnica che guidano la governance, la quale, egli sostiene, incarna l’aspirazione a governare senza politica50. Tale aspirazione non è nuova. Se, egli afferma, l’idea e la pratica della governance segna la “ri-appropriazione di un vecchio sogno”, quello del governo dei detentori di “una conoscenza scientifica superiore […] la cui competenza si afferma in virtù di una superiorità auto-evidente”, già i sansimoniani nel XIX secolo e poi i “seguaci di Auguste Comte [avevano] tracciato piani simili di governo per esperti tecnicamente preparati”. Sta di fatto che i cosiddetti “tecnici” stanno acquisendo un ruolo sempre più importante nelle scelte pubbliche. Tante decisioni vengono demandate a loro perché si tende a considerare di ordine tecnico, piuttosto che politico, i problemi da affrontare e risolvere. Questa tendenza risale a molti anni addietro, ben prima che la parola governance diventasse di gran moda ed incontrasse il successo che sta riscuotendo, in particolare, dagli anni ’90 del Novecento, come è stato rilevato da attenti analisti di differenti orizzonti. Già negli anni ’40 del secolo scorso, si parlava della “rivoluzione dei tecnici”. Nella sua opera intitolata Managerial Revolution (1941), tradotta in italiano con il titolo La rivoluzione dei tecnici51, James Burnham afferma che i “tecnici” stanno acquisendo sempre più potere nella società contemporanea. Sostiene che i “tecnici” stanno prendendo il posto occupato dal Parlamento dalla rivoluzione industriale, che sottolinea essere un posto di 49
C.S. Maier, “Governance e anti-governance. Note sulla impasse attuale della politica democratica”, Parolechiave, governance, 56/2016, Carocci Editore, Roma, pp. 29-40. 50 Ibidem. 51 J. Burnham, La rivoluzione dei tecnici, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1947.
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primo piano. Per “tecnici”, egli intende coloro che padroneggiano le tecniche della “gestione” e della “coordinazione”. Secondo lui, la società contemporanea è caratterizzata dall’aumento dell’importanza dei compiti di gestione e di coordinazione (di cui si fa espressione ai giorni nostri la governance), il che ha come conseguenza lo spostamento del “centro della sovranità” dal Parlamento, che non è ovviamente un organo di gestione, ai tecnici, che egli definisce come “coloro che esercitano la funzione che [egli] chiam[a] managing”, cioè gestione, nel senso più ampio del termine52. Se Burnham preconizzava una società dominata dai tecnici e managers, negli anni ’60 del secolo scorso Jean Meynaud si domandava se la Tecnocrazia fosse un mito o una realtà53. In quest’opera, l’autore analizza ciò che chiama “l’infatuazione” per la tecnocrazia riscontrata in un numero sempre più grande di persone nell’epoca contemporanea. Afferma che “l’ideologia tecnocratica” consiste innanzitutto nel “magnificare la competenza”. Ritiene che la “critica dell’uomo politico”, che caratterizza sempre più l’epoca contemporanea, si accompagna all’ “esaltazione del tecnico”. Tuttavia, secondo Meynaud, descrivere il “tecnico” come un uomo sempre molto competente – contrariamente a quanto avviene per i politici, qualificati spesso come incompetenti ed incapaci a trovare delle soluzioni adeguate ai problemi pubblici –, che non ha dei pregiudizi e non è influenzato da interessi personali, e che ha delle conoscenze non solo astratte ma anche di tipo pratico che gli permettono di trovare delle soluzioni d’interesse generale ad ogni problema, è in realtà un ritratto idealizzato del “tecnico”. Se, in un certo senso, sembrerebbe che allora avesse cominciato a farsi strada una governance moderna ante litteram, non si trattava ancora in tal caso della gouvernance a double52
Ibidem, p. 98. La technocratie. Mythe ou realité ?, Payot, 1964 - trad. it. La tecnocrazia. Mito o realtà?, Editori Laterza, Roma-Bari, 1966. 53
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face, dato che iniziava ad emergere solo una delle due sue facce, quella della “buona gestione” che si basa sui criteri dell’ottimizzazione tecnica e che tende ad espungere la politica, allora ancora disgiunta dall’altra faccia, quella partecipativa.
5. Conclusione L’ambiguità che caratterizza il rapporto che corre tra la democrazia e la gouvernance a double-face è accresciuta dal fatto che tanto la democrazia quanto la governance sono due concetti molto “stiracchiati”, il cui utilizzo è andato via via espandendosi, generando così non poca confusione. L’avere una parte del vocabolario in comune, facendo entrambe riferimento ripetutamente, ad esempio, alla trasparenza, alla partecipazione, all’inclusività, etc., non aiuta a diradare nemmeno parzialmente questa confusione. Anzi, talvolta contribuisce ad aumentarla. Infatti, ciò potrebbe far ritenere che siano almeno in parte sovrapponibili e che la governance possa essere un “succedaneo” della democrazia54 in grado di surrogarla, qualora essa non riesca a mantenere le “promesse” iniziali55. In realtà, se si analizzano alcuni aspetti dei processi decisionali che si richiamano all’una o all’altra, come quelli sui quali abbiamo rapidamente riflettuto in questo contributo, ci si accorge che difficilmente la gouvernance a doubleface riesce a trovare risposte a questioni rimaste inevase dalla democrazia contemporanea, riguardo ad esempio, la crisi della rappresentanza politica, la crisi di partecipazione politica, l’incompletezza dell’inclusione, le insidie al primato della legge (con i suoi caratteri di “generalità, astrattezza e pubblicità”), la difficoltà a fare a meno di una certa componente tecnocratica, etc. Anzi, non è affatto escluso che le soluzioni 54 55
M.R. Ferrarese, La governance tra politica e diritto, cit., p. 28. Cfr. N. Bobbio, Il futuro della democrazia, cit.
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proposte dalla governance possano addirittura aggravare alcuni dei “mali” di cui soffrono le democrazie ai nostri giorni. Per di più, alla prova dei fatti, emerge che gli strumenti che utilizzano, i presupposti teorici, i metodi operativi, le finalità pratiche ed ideali dell’una e dell’altra non sono affatto gli stessi. Tutt’altro. Ciò non toglie che, se esse possono certo svilupparsi separatamente, possono nondimeno anche coesistere, o pure intersecarsi tra loro, con esiti e configurazioni variabili a seconda delle dimensioni e dei contesti socio-politici, economici, giuridici, istituzionali, etc., in cui prendono forma. Questione alquanto complessa che merita senza dubbio un approfondimento a cui non ci si potrà sottrarre.
Governance e demagogia
di Jean Pierre Gaudin
Per questo mio contributo, si è scelto un taglio snello e sintetico, allo scopo di far emergere gli aspetti essenziali della Go(u)vernance nel suo manifestarsi sotto differenti profili, in diversi contesti e dimensioni. La parola Governance, se da un lato ha una lunga storia politica (forse nascosta, dal momento che il termine risale al medioevo), ha senza dubbio oggi una nuova attualità, con tanti significati e “salti” (global, local, corporate, democratic, urban, ecc.). È come una farfalla, che va da un fiore all’altro. Ma, allora, è solo una nuova moda, un marchio o un’etichetta superficiale?
1. La «double face» della Go(u)vernance Poco più di trenta anni fa la parola Governance era quasi sconosciuta (eccetto dagli economisti). E quando è riemersa nel corso degli anni ’90, nell’ambito della scienza politica, essa è apparsa quasi come una “parola magica”, in grado di indicare con certezza la via per un notevole progresso nell’agire collettivo ed una ripartizione nuova del potere. Per tanti, era soprattutto l’ideale d’una nuova gestione pubblica, un po’ come il “Buon Governo” dipinto nell’antico Palazzo Comunale a Siena. Ma per altri, di fatto una minoranza, essa era piuttosto un approccio analitico per teorizzare la ristrut-
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turazione del potere contemporaneo. In questo quadro si può situare il mio percorso di ricerca, con obiettivi di conoscenza pratica (quale), analitica (capire), e teorica (potere), che si è sviluppato in due tappe, scandite da riflessioni apparse in alcuni articoli e due libri1. La ricerca si è allora concentrata sulla (ri-)emersione, a partire dagli anni 90 della Governance (“Perché la Governance?”) e sull’immensa fortuna della “Good Governance” (norma internazionale di gestione pubblica). A seguito di questo studio, come emerge nel mio secondo libro sulla go(u)vernance2, si possono così caratterizzare i significati principali della Governance pubblica, internazionale, nazionale e locale: 1) le trasformazioni attuali dei rapporti tra Stato e Mercato; 2) le evoluzioni recenti della deliberazione collettiva e della partecipazione organizzata. Più precisamente, avanzo l’idea che esiste un doppio volto (double face) della Go(u)vernance pubblica e specialmente della Good Governance. Ciò che caratterizza la Go(u)vernance pubblica è, in pratica, il fatto che abbia due volti che non solo sono differenti ma quasi separati, a causa della maniera, per i soggetti, di vedere la realtà e anche per gli intellettuali di costruire le analisi (cfr. l’«effetto lampione» prodotto dalle informazioni e interessi). Nel libro sopra citato (La gouvernance a double-face, cit.) rifletto su questa ambivalenza e caratterizzo i due volti della Go(u)vernance: il primo, è la Good Governance come “buona gestione”, promossa dall’ONU, BM, FMI, OECE, WBI, ecc. (con parole chiave quali efficiency, responsiveness, competition, transparency); il secondo, che pure in questa si dipana, emerge in quella serie di in1
Cfr. J. Gaudin, Pourquoi la gouvernance? Presses de Sciences Po, 2002; Critique de la gouvernance, une nouvelle morale politique?, L’Aube, 2014, pubblicato in edizione italiana con il titolo La gouvernance a double-face. Declinazioni e contraddizioni, trad. di S. Volpe, Prefazione di Maurizio Cotta, Aracne, Roma, 2017. 2 Cfr. Id., La gouvernance a double-face, cit.
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dicazioni che producono una norma strumentale, di condizionalità, per l’accesso ai fondi internazionali. Qualche osservazione iniziale: analiticamente, si dovrebbe distinguere l’effectiveness-efficienza (economica) e l’efficiency-efficacia (più globale, riferita alla società). Ma la pratica della Good Governance non fa la distinzione dovuta tra la prima, che corrisponde alla sfera del mercato, e la seconda, che corrisponde alla sfera sociale, più ampia. Segno, o meglio “Indice”, della focalizzazione della dottrina della Good Governance sul mercato. Nella Good Governance vi sono due richiami fondamentali al principio di concorrenza introdotti nella azione pubblica. Il “ranking”, metodo strettamente associato allo spirito di efficiency: si confrontano le Politiche Pubbliche di diversi paesi, facendo una classificazione. Quindi le best practices, come modello da rispettare (BM, poi UE). A partire da qui si mettono gli attori in competizione per ottenere i finanziamenti (si veda nelle politiche sociali, trasporti). Peraltro, è il “New Public Management” che si presenta come un volto più generale della gestione concorrenziale nella Good Governce, con le sue tre modalità principali: – la flessibilità nella gestione, cioè legittima la delega o le esternalizzazioni al ribasso in termini di costi, “mini jobs” e “soft law” (con norme non obbligatorie e incentivi finanziari); – la formula delle “Autorità indipendenti” (Banca, Trasporti, Telecomunicazioni, Energia o Anvur), tutti organismi poco controllati di fatto e con management di tipo privato e quasi commerciale, che ha come corollario lo smantellamento delle amministrazioni; – la contrattualizzazione delle politiche pubbliche (prima sviluppata in Olanda e Francia, poi in Italia ed in tanti altri paesi: accordi di programma, patti territoriali). Sono operazioni flessibili di breve durata (da 1 a 5 anni) ma che provocano instabilità e spingono alla competizione nelle Politiche Pubbliche.
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Ecco le conseguenze della Good Governance come norme di buona gestione: più “flessibilità” ma con deregolamentazione, finanziamenti frammentati e senza stabilità e gestione concorrenziale. Però, c’è anche apparentemente un “bel volto” della Go(u)vernance: la Good Governance, percepita come favorevole a una dinamica di democratizzazione, attraverso transparency, accountability, partecipazione e pluralizzazione (idea diffusa nei Global Social Summits, con coinvolgimento allargato dei sindacati, ONG e soggetti privati). Analiticamente, la Go(u)vernance è allora così vista da alcuni studiosi come un vettore di «social networks» in interazioni (si veda, sul punto, M. Bevir, e molto prima J. Marsh e R. Rhodes o M. Castels). Occorre inoltre precisare che questa governance interattiva resta profondamente diversa dalla “gouvernementalité” di Foucault (che insisteva con molta anticipazione critica sul crescente pilotaggio pubblico della privacy e dei corpi e sul controllo dettagliato quotidiano). La partecipazione aperta resta il volto “simpatico” della Go(u)vernance interattiva (e spesso l’unico visto e commentato dal “pubblico”), cioè la partecipazione come ideale di una nuova deliberazione aperta. E infatti, la Good Governance è spesso associata in pratica al progetto di allargare la partecipazione a diversi “pubblici”, a favore degli utenti, attori economici, o di tutti gli abitanti. Esiste anche un’altra idea forte che è sottesa alla Good Governance partecipativa: è l’idea che la “vecchia politica” in crisi (assemblee elette, partiti, suffragio universale) potrebbe essere rinnovata, o “completata”, o “arricchita” (dipende del vocabolario) con più partecipazione. Più precisamente, esistono due versioni di questo genere di proposta: una, di tipo funzionalista, sostiene che partecipare permette di migliorare l’efficacia delle decisioni (perché gli utenti sono meglio ascoltati); la seconda, più ampia e idealista, spera che la governance pubblica con partecipazione possa scatenare una dinamica di democratizzazione. La Good Governance appare così legata per tanti soggetti
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alla questione democratica. Senza considerare tutti gli aspetti della ambizione partecipativa, facciamo menzione di alcuni esperimenti fatti in questa direzione che definiscono aperture organizzate del dibattito pubblico: 1) il bilancio partecipativo (prima Brasile, poi un po’ dappertutto) con le sue principali caratteristiche: generalmente limitato a investimenti locali, con riunioni pubbliche di tipo “porta aperta”, e definizioni di proposte elaborate via via, selezionate dal basso; 2) la Commission du débat public (Francia): solo per grandi investimenti, riunioni di tipo “porta aperta”, con una valutazione previsionale degli impatti e alla fine un rapporto d’agenzia sui risultati dei dibattiti (e se negativo, nuovo progetto atteso) 3) Citizens juries (USA): al livello delle “communities” (vicinato), una valutazione collettiva delle scelte pubbliche e voto per approvare suggerimenti per il futuro (settori della scuola e polizia locale). Le conseguenze politiche attese sono principalmente le seguenti: un coinvolgimento di nuovi attori e “stakeholders” (cfr. anche gli esperimenti italiani di TAV, tangenziali, autostrade) che prevedono dibattiti con utenti e ONG; un’ambizione, dunque, di “uguaglianza tra le voci” (tra Stato, poteri locali, cittadini, imprese, ONG) o almeno di un riequilibrio tra tutti i soggetti. Però, al di là di questi postulati e attese, si verifica una partecipazione della quale vanno certamente evidenziati anche i non pochi limiti (verificati da ricerche empiriche): il suffragio universale è sostituito da mini-pubblici, che sono frammentati e poco rappresentativi, composti da volontari, cooptati o designati dall’alto (e “stakeholders” organizzati, piuttosto che “affected people”, più generalmente); le deliberazioni partecipative sono molto canalizzate (tra “ordine del giorno” preliminare e ruolo dei professionisti nominati che pilotano la partecipazione e che guidano discussioni e rapporti finali); i dibattiti partecipativi sono spesso settoriali (scuola, parking, giardini pubblici).
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Tutto questo e le analisi dei limiti non possono impedire alla partecipazione di restare il “bel volto” della Go(u)vernance, di concentrare tutti i commenti ottimistici e favorevoli e di fare facilmente dimenticare l’altro volto “market oriented” e neo liberale! Dunque, come capire questi due aspetti contrastanti, quasi opposti della Go(u)vernance? E come qualificare in fin dei conti la governance? La tesi che emerge dal mio lavoro e nel libro La gouvernance a double-face può essere riassunta così: si devono pensare insieme i due volti (o principi) della Go(u)vernance con le sue opposizioni. Se si è d’accordo, ciò non toglie che vi sono ancora diverse opzioni possibili d’analisi. La strada del pensiero critico: questi due volti opposti traducono una ipocrisiafondamentale della Go(u)vernance: un volto può allora fungere come maschera per coprire l’altro; dietro una partecipazione puntuale e segmentata ma simpatica, c’è soprattutto il neo-liberalismo (e forse il neo autoritarismo). La strada del pensiero ottimista o equilibrato: la governance può sviluppare un equilibrio innovativo (dunque un nuovo «buon governo»), un equilibrio tra una concorrenza dinamica e un nuovo orizzonte democratico (con più “stakeholders” e dibattiti), per arricchire il suffragio e modernizzare la politica3. Nelle controversie (di ogni genere), si può allora dare priorità all’argomento razionale e alla buona fede, verso una nuova etica. Questo ha ispirato “activists” e tentativi pratici nel mondo nel corso degli anni 2000: in Brasile, in Francia, in Italia, ecc. Di fatto, questo orizzonte d’“equilibrio” si rivela impossibile! I due volti della Go(u)vernance restano opposti. Essi restano contraddittori a due livelli: a livello teorico vi è una 3
J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, trad. it. di P. Rinaudo, con intr. di G.E. Rusconi, 2 voll. (I. Razionalità nell’azione e razionalizzazione sociale; II. Critica della ragione funzionalistica), Il Mulino, Bologna, 1986.
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contraddizione di tipo logico tra i diversi volti, i diversi principi della Go(u)vernance; la promozione d’una razionalità di mercato: cost/benefit analysis, bilancio sempre di tipo monetario e flessibilità che fa emergere soprattutto il contrasto tra winners e loosers e che dunque favorisce il «primo di cordata» piuttosto che gli emarginati (e marginali). Dunque, la governance di mercato genera concorrenza e disuguaglianza. Infine, c’è una speranza di uguaglianza democratica nel discorso della governance, iscritta nella partecipazione allargata: tutti i soggetti si appropriano domani della stessa facoltà di parola, della stessa facoltà ad intervenire e di decidere insieme (come nel caso dell’utilizzo delle reti Internet). Dunque, uguaglianza e disuguaglianza allo stesso tempo, insieme nella Go(u)vernance? Questa doppia proposta è una contraddizione logica! E, a livello pratico, l’agire politico ed elettorale conferma tutti i giorni questa contraddizione, specialmente in un contesto di globalizzazione economica. Il neo-liberalismo economico in Europa ha conseguenze tanto democratiche quanto economiche: accentua dualismi sociali importanti tra ricchi e poveri, tra regioni integrate e non integrate, tra loosers e winners della modernità (cfr. Europa Est, Sud italiano, Nord francese). Di fronte ad un’Unione Europea che sembra ancora spesso lontana dal cittadino (regole elettorali opache, processi di partecipazione molto ridotti, potenza dei lobbies, ecc.) appare una paura sociale più o meno diffusa che è sfruttata dall’estrema destra in modo demagogico: la voce del popolo contro quella delle elite. Qualche riflessione conclusiva. Il “buon governo” della Good Governance comporta alcune conseguenze fondamentali, come l’attacco al modello dello Stato Sociale, al di là del “bene comune” o dell’Intérêt Général, specialmente nei paesi ricchi. In quest’ottica, esso sembra predisposto a garantire uno sviluppo di tipo neo-liberale in paesi emergenti che certamente non assicura democratizzazione ma, viceversa, si dimostra molto compatibile con l’autoritarismo. La Good Go-
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vernance pubblica fatica dunque oggi ad essere una nuova legittimazione del potere pubblico (con una domanda di “meno Stato” e una modernizzazione amministrativa riferita al mercato). Perché, come abbiamo visto, la go(u)vernance è piena di contraddizioni, sia in pratica che in teoria, che corrispondono alla sua ambivalenza, alla sua “doppia faccia”, ai suoi due volti, uguaglianza nella partecipazione e disuguaglianza nell’agire concorrenziale. Dunque, con la sua diffusione recente, si rivela una macchina che genera più «loosers», facilita l’estrema destra e, alla fin fine, nutre la demagogia e l’«antipolitica».