La gioia della musica
 8830404357, 9788830404359

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GIOIA MUSICA DELLA

Longanesi&C

GIOIA

LA

DELLA

MUSICA

di LEONARD

BERNSTEIN

TRADUZIONE

DI

RAFFAELE

MAMMALELLA

DICIOTTO

FOTOGRAFIE

LONGANESI MILANO

&

C.

PROPRIETÀ

LETTERARIA

RISERVATA

Longanesi A C., © 1982 - 20122 Milano, via Salvini, 3

Traduzione dall’originale americano The Joy of Music di Raffaele Mammalella

Disegni e diagrammi di Arthur Marokvia Partiture di Maxwell Weaner

Copyright © 1954, 1955, 1956, 1957, 1958, 1959 by Leonard Bernstein Published by acknowledgment with Simon A Schuster, New York

LA GIOIA DELLA MUSICA

Questo libro è affettuosamente dedicato a Helen Coates, con profonda gratitudine per quindici anni di abnegazione

Un grato riconoscimento a Robert Saudek e a Mary Ahern per l’inestimabile aiuto critico datomi nella impostazione degli Omnibus-, a Henry Simon, il pa­ drino di questo libro, e a Jack Gottlieb, mio assistente, per l’eccellente collaborazione offertami nella preparazione di questo volume. [L.B.]

* INTRODUZIONE

* Una versione abbreviata di questa Introduzione è apparsa su The Atlantic Monthly, nel dicembre 1957, con il titolo Speaking of Music.

NEL GIUSTO MEZZO

Ricordo di aver sempre parlato di musica: con amici, colleghi, insegnanti, studenti, individui qualsiasi, ma soltanto in questi ultimi pochi anni mi è capitato di parlarne al pubblico. Vado così a ingrossare la schiera dei be­ ne intenzionati, ma votati all’insuccesso, che hanno tentato di spiegare il singolarissimo fenomeno della reazione dell’uomo al linguaggio dei suoni. È come tentare di scoprire il motivo di una delle irregolarità della natura, quale che essa sia. Alla fine, si deve semplicemente accettare il fatto, molto confortante, che gli uomini provano piacere all’ascolto del linguaggio dei suoni (di certi suoni scelti e organizzati); che questo loro piacere si mani­ festa nei modi più disparati: dall’eccitazione sensoriale all’esaltazione spi­ rituale; e che coloro che sono capaci di comporre successioni sonore su­ scitatrici delle esaltazioni più intense vengono comunemente chiamati geni. Assiomi questi che è impossibile negare o spiegare. Tuttavia, nella nobile e tradizionale aspirazione umana a penetrare le tenebre con la mente, e ur­ tando spesso con la testa contro le pareti dell’antro oscuro, si riesce alle volte a scorgere un barlume di luce. Possiamo quindi avventurarci, nulla ce lo vieta, nella ricerca di una spiegazione. Sull’Erozctf sono state scritte più parole delle note che la compongono, e se si potesse mai fame il calcolo accurato, la sproporzione fra parole e note sbalordirebbe. Eppure, è riuscito qualcuno a « spiegare » esaurientemente lrEroica? Chi potrebbe mai dare una spiegazione del miracolo di una nota che segue un’altra nota o coincide con un’altra ancora, così da darci la cer­ tezza che quella relazione tra le dùe note non possa in alcun modo essere di­ versa? ( Nessuno, ne sono certo. Per quanto razionali possiamo e vogliamo essere, ci dobbiamo di colpo arrestare sul limite di questa area mistica. Non è esa­ gerato usare l’espressione « mistico » o perfino « magico »: a conti fatti, nes­ sun amante dell’arte può rimanere agnostico. Chi ama la musica è un cre­ dente, anche se con sforzi dialettici cerca disperatamente di sfuggire all’im­ passe; nell’affrontare il soggetto della musica, le menti più razionali della storia hanno dovuto sempre cedere al misticismo e riconoscere la bellezza e l’innegabile godimento che emanano da quella combinazione di matema­ tica e magia che è la musica. Platone e Socrate ritenevano che lo studio della musica fosse una delle discipline più alte cui sottoporre la mente dei giovani, considerandolo un

sine qua non dell’educazione proprio perché unisce disposizioni scientifiche e « spirituali ». Eppure, quando parla della musica, - nonostante il metodo scientifico impiegato in quasi tutti gli altri campi, — Platone si perde in va­ ghe generalizzazioni sull’armonia, sull’amore, sul ritmo e su quelle divinità che, secondo lui, erano portatrici di suoni melodiosi. Ben sapeva però, co­ me tutti del resto, che niente più della musica dei fiati incitasse l’animo dei soldati alla battaglia. Sapeva quale scala o modo greco si addicesse alle cose d’amore, quale alla guerra, quale alle libagioni conviviali e quale alla inco­ ronazione di un atleta. Parimenti gli indù, con le loro scale, matematicamente molto complesse, i loro ritmi e i ràga, hanno sempre saputo quale musica era da destinarsi alle ore del mattino, quale si adattasse invece alle ore del tramonto o alle celebrazioni di Siva, die marce o alle giornate di vento. E non c’è calcolo matematico che potrà mai spiegare il perché di queste regole. Ai nostri giorni, ci troviamo ancora di fronte a questo monolite magico e cerchiamo di attaccarlo con sistemi scientifici, nella maniera fallace che ci è propria, impiegando princìpi di fisica, acustica, matematica e logica for­ male. Usiamo anche artifici filosofici quali l’empirismo e il metodo teleolo­ gico. Ma quali risultati otteniamo? L’elemento « magico » dei nostri que­ siti rimane inaccessibile e senza spiegazione. Per esempio, possiamo tentare di spiegare perché il tema di un quartetto di Beethoven assuma la sua determinata configurazione, con l’affermare die esso segue il principio formale della sintesi: una breve esposizione (tesi) seguita da una « risposta interrogante » (antitesi) a cui segue uno svi­ luppo che nasce dal conflitto dei due elementi precedenti (sintesi). Questo schema è chiamato dai tedeschi Stollen, altri lo chiamano sillogistico. Pa­ role, parole e soltanto parole. Perché il tema è bello? Questo è l’enigma. Fra centinaia di temi musicali uniformati a quello schema o alle sue va­ rianti, solo uno o due sono belli. Quando ero a Harvard, il professor Birkhoff aveva appena pubblicato un suo sistema di misure estetiche, proprio nel tentativo di sviluppare un si­ stema matematico, per cui a ogni prodotto artistico veniva attribuito un punteggio di bellezza secondo una scala di valori estetici. Un nobile tenta­ tivo senza dubbio ma, tutto sommato, applicata la regola, si giungeva a un punto morto. Gin i cinque sensi, e fino a un certo punto, l’uomo può « mi­ surare » gli oggetti (l’occhio si accorge che X è due volte più lungo di Y, l’orecchio percepisce che quel trombone sta suonando due volte più forte degli altri tromboni). Ma può mai misurarsi la reazione estetica propria dei sensi? Quanto diverso è l’odore della carne di maiale da quello dei fagioli? E quali fagioli? E in che modo cucinati? Crudi? In quali condizioni di cli­ ma? Se YEroica merita 3,2 di punteggio, quanti punti daremo al Tristano? O a una pagina di un preludio di Bach? E procediamo così, a casaccio, imitando goffamente il metodo scientifico per spiegare fenomeni « magici » con fatti, forze, massa, energia. Ma resta il fatto che non riusciamo a spiegarci la reazione dell’uomo di fronte a que­ sti fenomeni. La scienza fornisce la « spiegazione » dei tuoni ma riesce for­ se a « spiegare » il timore col quale la gente reagisce ai tuoni? E ammetten­

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do che ci riesca, pur con l’ausilio della terminologia dichiaratamente insod­ disfacente della scienza psicologica, come spiega quel senso di grandiosità che proviamo in mezzo a una tempesta? E come analizza questa nostra sensazione di grandiosità nei vari elementi che la compongono? Tre parti di stimoli elettrici, una parte di sollecitazioni auricolari e una di sollecitazioni visive, quattro parti di identificazione con ciò che esiste oltre i nostri sensi e due parti di adorazione delle forze onnipotenti: un cocktail improponibile. Tuttavia, non spesso e con risultato vario, alcuni sono riusciti a « spie­ gare » il senso di grandiosità delle tempeste, e vengono chiamati poeti. La verità è che solo gli artisti offrono una spiegazione della magia e solo l’arte può sostituirsi alla natura. Per la stessa virtù, solo l’arte può sostituirsi alla arte. Ne consegue che l’unica vera maniera per riuscire a dire qualcosa sulla musica è quella di scrivere musica. E tuttavia ci ostiniamo nel nostro tentativo di fare un po’ di luce sul mistero. È l’esigenza dell’uomo a chiarire, razionalizzare, giustificare, ana­ lizzare, limitare, descrivere. V’è anche una grande esigenza di « vendere » musica, esigenza questa nata negli ultimi duecento anni dalla trasformazione della musica in industria. Improvvisamente, nascono mercati di massa, una sviluppatissima industria di musica registrata, i carrieristi di professione, la concorrenza fra i centri musicali di varie città, le associazioni musicali. E da tutto questo è venuto fuori quel che viene chiamato « il piacere della musi­ ca » e che una volta Virgil Thomson felicemente chiamò « il racket del pia­ cere della musica ». Si tratta in sostanza di un racket, perché è in sostanza ingannevole e commerciale. Si usa ogni mezzo, ogni espediente per vendere musica: la lusinga, la finta timidezza, l’adulazione, l’eccessiva semplificazio­ ne, il divertimento banale e bugie vere e proprie; tutto questo, perché gli affari dell’industria musicale procedano il più profittevolmente possibile. Con questi sistemi « il piacere della musica » diventa esso stesso un’indu­ stria, e la fase successiva potrà soltanto dar luogo a un altro sviluppo paras­ sitario: il piacere del piacere della musica. Secondo il pubblico a cui si rivolge, questo racket usa due metodi diversi. Uno più insulso dell’altro. Il metodo A è tutto uccellini, ruscelletti e ronzio di api, e si avvale di tutto ciò che esiste al mondo purché sia extramusica­ le. Ogni nota, ogni frase musicale, ogni accordo, vengono trasformati in una nuvola, una rupe o un cosacco. Racconta storielle sui grandi compositori, tutte false o irrilevanti; si prodiga in aneddoti, cita interpreti di gran fama, si compiace di riferire storielle di cattivo gusto, fa giochi di parole assurdi, infastidisce l’ascoltatore e non dice assolutamente nulla della musica. Con­ fesso d’aver fatto anch’io ricorso a questi mezzi: chi parla di musica prima o poi non può farne a meno. Spero però di aver sempre riferito un aneddoto, fatto un’analogia, usato una metafora quando era necessario per spiegare la musica, per renderla più accessibile e non per divertire o - ciò che è peggio - addirittura per allontanare dalla musica la mente dell’ascoltatore, come fa questo racket. Il metodo B si serve dell’analisi: un tentativo serio e degno di lode, ma insulso quanto il metodo A è ingannevole. Per intenderci, è del tipo: « il tema ora viene citato al rovescio dal secondo oboe ». Un soporifero garanti-

12 to. Riesce soltanto a fornire una specie di mappa dei temi, un Baedeker della geografia della composizione; e dunque neppure esso ci dice nulla della musica, della quale ci offre soltanto l’aspetto superficiale. Ma per fortuna non tutto ciò che vien detto sulla musica è al livello « pia­ cere della musica ». C’è chi scrive su giornali importanti dicendo cose serie, destinate però solo ad altri musicisti o a musicologi; ma il profano, il sem­ plice amante della musica, incontra notevoli difficoltà se cerca discorsi intel­ ligenti sull’argomento. Solo ogni tanto appare un non-musicista capace di guidare lo sguardo del profano in profondità, sia pure limitatamente a una cadenza, una linea melodica, una singola progressione armonica. È gente ra­ ra e preziosa. Platone ci riesce, a volte, e anche Shakespeare. Alcuni critici musicali sanno essere sensibili e al tempo stesso comprensibili al profano: uomini come Sullivan, Newman, Thomson. Alcuni romanzieri, come Mann e Huxley, hanno scritto pagine indimenticabili, o perfino capitoli, sulla musica. Ma la maggioranza dei romanzieri, gli scrittori in genere, appena si avventurano a parlare di musica dicono soltanto sciocchezze. E le dicono spesso. Inesplicabilmente, i letterati subiscono il fascino della terminologia musi­ cale, forse perché sono intimoriti dalla sua astrattezza. Nulla è più remoto dalla mentalità letteraria — con la sua tendenza alla rappresentazione, la sua concettualità - della mentalità astratta del musicista che si concentra su modellazione, linee, intensità sonore. E questo affascina lo scrittore, suscita persino — ho scoperto - la sua invidia, tanto da aspirare a partecipare anche lui dell’arcano e sconosciuto mezzo di espressione. Risultato: quando è alla ricerca del mot juste che gli sfugge, s’impadronisce di glissando o di cre­ scendo per esprimere ciò che vuol dire (in genere a sproposito); e questo proprio perché la terminologia musicale è sfuggente. In più, è piacevole'. Quanta grazia ed eleganza in quelle parole italiane: scherzo, vivace, andan­ tino, crescendo. In letteratura ci imbattiamo continuamente nella parola crescendo-, quasi sempre usata quale sinonimo di culmine, acme. « La bufera raggiunse un grande crescendo. » « Nel baciarsi, i loro cuori raggiun­ sero un crescendo di travolgente passione. » Sono assurdità. E ovvio che « crescendo » può indicare soltanto « il crescere », « l’aumentare »; nel ca­ so specifico della musica indica l’intensificarsi progressivo della sonorità. È evidente, quindi, che un « crescendo » può soltanto essere inteso come il progredire verso un apice (di una tempesta, di una passione, di quello che volete) ma non può certo indicare l’apice stesso. Ho fatto questa digressione soltanto per sottolineare la rarità dei discorsi intelligenti sulla musica, anche tra i grandi scrittori. Gli Huxley, i Mann non sono numerosi e neppure vicini fra di loro. In Punto contro punto, la descrizione di Huxley del Quartetto op. 132 di Beethoven è indimentica­ bile, come del resto quel suo paragrafo sul Quintetto di Mozart in Passo di danza. Ne La montagna incantata e nel Doktor Faustus vi sono brani sulla musica che sono addirittura entusiasmanti. Ed è per merito di costoro — ca­ paci di evocare con parole il valore di un pezzo di musica, il significato es­ senziale della sua forza — è per merito loro, dicevo, che noi musicisti ci sentiamo incoraggiati a perseverare nel tentativo di vederci un po’ chiaro,

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a sperare che qualche sprazzo di luce penetri in quel terribile guazzabuglio che è il significato della musica. Per secoli il « significato » della musica ha preoccupato esteti, musicisti e filosofi. Esistono montagne di trattati che non fanno altro che aggiungere ancora altre parole su un soggetto già oscuro. Da tutto questo materiale saltano fuori quattro tipi di significati musicali: 1. significati narrativo-letterari (Till Eulenspiegel, L'apprendista stregone, ecc.); 2. significati atmosferici-pittorici (La Mer, I quadri di una esposizione, ecc.); 3. significati affettivi ed emotivi, quali trionfo, dolore, meditazione, ram­ marico, allegria, malinconia, apprensione: tipici del romanticismo otto­ centesco; 4. significati puramente musicali. Vale la pena di analizzare musicalmente solo l’ultimo. I primi tre possono indurre ad associazioni che, se volute dal composi­ tore, è bene a volte identificare, altrimenti si prestano a spiegazioni arbi­ trarie, o servono solo a caratterizzare gli scopi commerciali prima menzio­ nati. Se dobbiamo tentare una « spiegazione » della musica, dobbiamo ap­ punto spiegare la musica e non tutto l’arsenale di nozioni extramusicali sorte come funghi parassiti attorno alla musica. Ne consegue che l’analisi musicale diventa estremamente difficile per il profano. E chiaro che non possiamo usare una terminologia esclusivamente musicale che servirebbe soltanto a estraniarci il lettore musicalmente im­ preparato; dobbiamo invece, a intermittenza, fare riferimento a idee extra­ musicali, come la religione, i fattori sociali e gli impulsi storici che possono aver influenzato la musica. Non vogliamo certo abbassare il nostro discorso a un livello troppo elementare, ma quanto in alto possiamo portarlo, senza astrarci? V’è un giusto mezzo, e si trova fra le imposture del piacere della musica e il distorso puramente tecnico. E difficile trovarlo, ma non im­ possibile. La certezza di trovarlo mi dà appunto il coraggio di parlare di musica alla televisione, in registrazioni radiofoniche e direttamente al pubblico; e la mia impressione di averlo fatto con successo s’accompagna sempre a quel­ la di essere riuscito a trovare questo giusto mezzo. Trovarlo, d’altra parte, è impossibile, senza la convinzione che il pubblico non è un somaro, bensì una massa intelligente che più spesso di quanto si creda anela a conoscere e discernere. E così, quando se ne presenta l’occasione, io non esito a par­ lare di musica, ma sempre prendendo il mio spunto dalle note. Qualora, per ragioni di chiarezza, si renda necessario il riferimento a concetti extra­ musicali, io mi sforzo di sceglierli fra quelli che abbiano rilevanza musicale: come le caratteristiche nazionali e gli orientamenti spirituali che possono aver informato il pensiero del compositore. Per esempio: nel parlare del jazz, mi son guardato bene dalle solite disquisizioni pseudostoriche (quelle sul tema: Là sul fiume, da New Orleans), concentrando il mio discorso sulle particolarità melodiche, armoniche e ritmiche che fanno del jazz una musica diversa da tutte le altre. A proposito di Badi, non ho'potuto evitare

14 riferimenti alla sua indole religiosa e spirituale, ma sempre in maniera ine­ rente alla sua musica. Sul problema della scelta delle note che ogni com­ positore deve affrontare e risolvere nel momento della creazione, mi sono avvalso degli abbozzi beethoveniani, quelli scartati, per il primo movimento della Quinta sinfonia. Per concludere: il piacere della musica può non es­ sere un’impostura. I riferimenti extramusicali riescono realmente utili, ma solo se intesi a spiegare, a dare la ragione dei suoni. Ancbe le su accennate mappe tematiche possono aiutarci purché servano una idea centrale, capace di impegnare l’intelligenza di chi ascolta. È qui il giusto mezzo, e spero, umilmente, di averlo raggiunto nelle pagine che seguono.

1. CONVERSAZIONI IMMAGINARIE

UNA CHIACCHIERATA TRA LE MONTAGNE ROCCIOSE

Scena prima. Perché proprio Beethoven? (Nel Nuovo Messico. Siamo in tre, in macchina, diretti a velocità folle verso una località, ancora ignota, nelle Montagne della Follia; verso il Valico Pi­ casso o dove volete voi. fratello minore è al volante e sorpassa siste­ maticamente tutte le auto che incontriamo sul cammino. Ha sedici anni, è pilota patentato e un’autorità mondiale in fisica nucleare, poeta lirico, irrigidito dal terrore, siede alla mia sinistra. Ho la sensazione che preghi senza posa perché si giunga immediatamente in un posto qualsiasi. Vuol continuare a vivere quel tanto che gli basta per finire il libro che ha in pre­ parazione. p.l. è un poeta per poeti. Inglese, è una di quelle persone in­ credibili che, perennemente alle prese con politica, amore, musica e attivi­ smo ideologico, si trovano poi interdette, nonostante il loro acclamato suc­ cesso, di fronte alla nota della lavanderia. Quando parla, p.l. è un oracolo. Se sta zitto, riesce a esserlo ancora di più.) p.l. (con inespressività glaciale)-. Ho il sospetto, caro f.m. che tu abbia dimenticato che ieri il pneumatico scoppiò proprio per il modo di guidare del quale ora ti rendi di nuovo colpevole. f.m.: Non essere così petulante. (Ma la frase di p.l. ha un certo effetto: f.m. riduce notevolmente la velocità, anche se poco alla volta, per non dare l’impressione di aver ceduto. Pochi riescono a impressionare il coriaceo f.m. ma nemmeno lui è immune agli oracoli. Segue il sollievo di alcuni minuti di silenzio e, scomparsa la tensione, p.l. può ora tornare all’argomento classi­ co di ogni viaggio: il paesaggio.) p.l.: Sono tutto un Beethoven queste colline. (Trascorrono cinque mi­ nuti in silenzio durante i quali p.l. pensa beato alla sua felice metafora. f.m. freme per il limite di velocità impostogli. Io medito sulla mentalità letteraria che è spesso irresistibilmente portata ad accomunare la musica alle colline, al mare o alla nebbia dei pantani.) p.l.: Sì, proprio tutto un Beethoven. l.b. (interrompendo la sua meditazione): Avevo deciso di lasciar correre la tua osservazione considerandola del tutto innocente; ma visto che insisti, debbo farti una domanda spinosa. Con tante colline al mondo - se ne rime­ diano almeno un centinaio per ogni compositore - come mai a ogni altura gli scrittori pensano sempre a Beethoven? p.l.: Ma guarda un po’: e io che pensavo di farti un omaggio con la mia metafora musicale. Fra l’altro, penso che sia proprio così: queste mon­

18 tagne, con la loro maestà, la loro grandiosità rupestre, a me fanno pensare a Beethoven. L.B.: A quale sinfonia? p.l.: È proprio strano: vuoi dire che non scorgi nessuna affinità fra que­ sto paesaggio e la musica di Beethoven? l.b. : Nessuna. E neppure con quella di Bach o di Stravinskij, di Sibelius, di Wagner o di un musicante qualsiasi. Perché proprio Beethoven? p.l.: Il bruco disse ad Alice: « Perché no? » l.b.: Io parlo seriamente, p.l., e tu no. Da che ho memoria, quello che viene in mente a tutti, quando si tratta di musica seria, è Beethoven. Se debbo aprire una stagione di concerti, mi si chiede normalmente un pro­ gramma di tutte musiche di Beethoven. Se entri in una sala da concerti i nomi dei grandi sono lì, tutti intorno sul fregio; ed eccoti giusto al centro, più in vista degli altri, Beethoven. Scritto spesso a lettere d’oro. Quando si prepara il programma di un festival di musica orchestrale, con nove pro­ babilità su dieci ne vien fuori un festival di Beethoven. E qual è l’ultimo grido fra i giovani compositori di tendenza neoclassica? Il neo-Beethoven. Qual è il piatto forte di un qualsiasi recital di pianoforte? Una sonata di Beethoven. O del programma di un quartetto d’archi? L’opera cento ecce­ tera. Che cosa abbiamo eseguito per la commemorazione dei nostri caduti in guerra? L’Eroica. E per commemorare la Vittoria? La Quinta. Che cosa si suona a ogni concerto delle Nazioni Unite? La Nona. Qual è la domanda canonica che vien fatta agli esami di diploma dei licei musicali? Suonate tutti i temi che ricordate delle nove sinfonie di Beethoven. Beethoven, un Ludwig van Beethoven dappertutto. p.l.: Cosa c’è, non ti piace? l.b.: Non mi piace? Ne vado pazzo, sono un fissato ed è probabilmente la ragione per la quale ho reagito con tanta energia alla tua osservazione. Io adoro Beethoven, ma voglio capire perché tutti gli altri grandi vengono messi arbitrariamente in esilio. Non mi lamento, ma perché non Bach o Mozart o Mendelssohn o Schumann? f.m.: Chi vuole una gomma da masticare? p.l.: Oddio, immagino perché Beethoven... voglio dire deve essere una certa tradiz... Cioè, se si riflette bene, all’intera... L.B. : Siamo lì, una risposta non c’è. P.L.: Per Dio, amico, è perché è il più grande di tutti, ecco perché. Di­ chiariamolo una volta per tutte e senza reticenze: Beethoven è il più grande compositore che sia mai esistito. l.b. (che è d’accordo ma con una tradizione talmudica alle spalle)-. Diinkt dir das? * E posso chiederti di provarmi punto per punto questa coraggio­ sa affermazione? p.l.: Con molto piacere. Come? l.b.: Prendiamo uno per uno gli elementi essenziali della musica: melo­ dia, armonia, ritmo, contrappunto e orchestrazione, e vediamo come se la cava il Nostro con ognuno di essi. Ti sembra giusto il sistema? « La pensi così? » (N.4.T.)

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p.L.: Giustissimo. Vediamo: la melodia. La melodia! Dio mio, che me­ lodia! L’Allegretto della Settima'. Un canto dal cuore... l.b.: Da un cuore monotono, devi aggiungere. Il « motivo », lo ricorde­ rai, ha una figura musicale inesorabilmente vincolata alla nota mi. p.l,: Certo, ma è intenzionale. Vuole appunto produrre una certa stati­ cità, una mestizia, una cadenza di marcia... l.b.: Lo ammetto. Ma allora non è un motivo che si distingua per quali­ tà melodica. p.l.: Dovevo aspettarmelo: ho fatto un esempio poco adatto. E il primo movimento? l.b. : Prova a fischiettarlo. (p.l. ci si prova coraggiosamente. Poi si ferma. Pausa.) l.b. (con arguzia): Possiamo passare all’armonia? p.l.: No! Maledizione, voglio prima concludere questo

discorso sulla me­ lodia. II... il... Ho trovato! L’adagio del Quartetto in la minore * Quella santità, la gratitudine del convalescente, la purezza di quella successione di note lentissima e incredibilmente sostenuta, la... l.b.: La melodia? p.l.: E dàgli, la melodia, la melodia! Dopotutto, che cos’è la melodia? Deve essere per forza una canzone da osteria per meritare il suo nome? Una successione qualsiasi di note - f.m., stai andando di nuovo come un pazzo - è melodia. Non è così? l.b.: Tecnicamente è così. Ma noi stiamo cercando di stabilire il valore di una melodia rispetto a un’altra E nel caso di Beethoven... p.l. (quasi con disperazione): E c’è sempre quel motivo stupendo nel finale della Nona: taa ta ta... l.b.: Andiamo, anche tu devi riconoscere che proprio quello fa canzone da osteria par excellence. p.l. (con un sospiro): Cedunt Helvetii. Passiamo all’armonia. Natural­ mente, devi tener presente che non sono un musicista. Quindi non tirarmi fuori troppi termini tecnici. lb.: Non ti preoccupare, Lirico mio. Basterà che mi riferisca a quei tre, quattro accordi più famosi della musica occidentale. Sono certo che ne hai dimestichezza. p.l.: Vuoi dire (canta): Il giorno è finito, s’appressa la notte. L’ombre della seeera... l.b.: Esatto. Ora mi sai trovare qualche cosa di Beethoven che sia, armo­ nicamente, molto più audace di quello che hai cantato? p.l.: Parla seriamente, l.b. Non è possibile che tu sia convinto di quello che dici. Proprio Beethoven, così radicale, arcirivoluzionario, con Napoleo­ ne, tutta la...

* p.l. si riferisce al famoso adagio («Molto adagio» sulla partitura) in modo lidio del Quartetto op. 132. (N.d.T.)

20 L .B.: Eppure le pagine della Quinta sinfonia si susseguono con i soliti tre accordi che giocano a rimpiattino fra loro, finché ci si comincia a chie­ dere che cos’altro egli possa tirarne fuori: tonica, dominante, tonica, sotto­ dominante, dominante... p.l.: Sì, ma che terremoto ti scatenano! l. b.: Questo è un altro discorso. Noi stavamo valutando l’interesse ar­ monico, non è così? p.l.: D’accordo, e non direi che l’armonia è imo dei punti forti di Bee­ thoven. Ma non stavamo per arrivare al ritmo? Andiamo, non puoi ragio­ nevolmente negarne il vigore, l’intensità, la sua forza pulsante, il trasporto... l.b .: Piano, sull’armonia ti arrendi con troppa facilità. Il Nostro sapeva maneggiare gli accordi in modo a dir poco affascinante: quegli intervalli arcani, le modulazioni improvvise fino alla violenza, gli sviluppi armonici inattesi, l’audacia delle dissonanze... p.l.: Ma si può sapere da che parte stai? Non sostenevi che la sua armo­ nia è banale? L.B.: Banale mai, solo limitata, e perciò meno interessante dell’armonia sviluppatasi nei periodi a lui posteriori. Per quel che riguarda il ritmo, ne aveva senza dubbio il dono. Ma così anche Stravinsky, Bizet, Berlioz. Quin­ di ripeto: perché proprio Beethoven? Perché i suoi ritmi suscitano più cu­ riosità di quelli degli altri? Ha forse introdotto ritmi nuovi? Non s’impun­ ta invece come Schubert, pagina dopo pagina, su una figura ritmica martel­ landotela nel cervello? Insisto sulla mia domanda: perché mai il suo nome prima di tutti gli altri? p.l.: Dovresti chiederlo a te stesso. Nessuno dice che Beethoven sia il primo di tutti per ritmo, o melodia, o armonia. È la combinazione... l .b.: La combinazione di elementi in cui non si distingue? Questo non giustificherebbe l’effìgie dorata che ammiriamo nelle sale di Conservatorio. Per quanto riguarda il contrappunto... f.m.: Nessuno vuole una gomma da masticare? l.b.: ...è, generalmente, di livello scolastico. Tutta la sua vita si è affan­ nato per comporre una fuga che fosse veramente notevole. L’orchestrazione, infine, a volte è decisamente deteriore; soprattutto nel suo ultimo periodo, quando era diventato sordo. Parti per trombe, di poco rilievo, che balzano fuori dall’insieme dell’orchestra in modo lacerante; corni che prendono a borbottare su note ripetute all’infinito, la sonorità dei legni che viene som­ mersa e la voce umana crudelmente costretta a una notazione omicida. Che vuoi di più? p.l. (disperato)-. Vorrei non essere costretto a ricordarti in continuazione, f.m., di guidare con raziocinio! f.m.: Quando vuoi dire una cosa dilla in maniera più spicciola. (Intanto diminuisce la velocità.) p.l. (quasi con furore: lirico, naturalmente): Insomma, io mi devo sfo­ gare. Davanti ai miei occhi, il mio idolo è stato dissacrato da chi ha in mano gli arnesi del mestiere mentre io non ho che le sole parole. Parole! E così eccolo lì, il sifilitico, il sordo e vituperato dalle vane argomentazioni di uno pseudocriticismo cieco davanti al suo genio indiscutibile, alle sue

21 creazioni miracolose, alla purezza delle sue rivelazioni, alle sue visioni di gloria e fratellanza, e alla sua visione del divino. Il melodista mediocre, il modesto armonista dai ritmi monotoni, l’orchestratore ordinario e il contrap­ puntista banale! E a sostenerlo è un musicista che sostiene di svelarci l’ana­ tomia segreta di queste creazioni possenti, uno che dedica la propria vita ai misteri della musica! È assurdo, innegabilmente, totalmente assurdo!

(Segue una pausa. In parte è p.l. che assapora ciò che ha detto, in parte è il silenzio che segue il culmine raggiunto da una perorazione così sentita.) l.b.: p.l. tu hai ragione. È assurdo. Ma solo con una analisi di questo tipo prosiamo arrivare alla verità. Vedi, io ero d’accordo con te fin dal principiò, ma ho voluto dirti spontaneamente quel che pensavo. Non sono diverso da tutti quelli che adorano quel nome, quelle sonate, quei quartetti e quel busto dorato. Solo che, improvvisamente, mi sono reso conto della cecità di questa adorazione quando ti ha inspirato il paragone con queste montagne. Nel chiedertene conto, sfidavo contemporaneamente me stesso a produrre la prova conclusiva. E adesso che ti sei calmato, sono certo che potrai dirmi quale altra componente abbiamo omesso dalla nostra disamina. p.l. (acquietatosi, ma ancora un po’ infervorato): Melodia, arm... Ma certo, la forma. Che stupido a fartela omettere dalla tua elencazione. La forma, dunque: la vera e propria essenza beethoveniana. La vitalità di quei meravigliosi allegri iniziali, la perfezione degli scherzi, quell’intensificarsi... l.b.: Piano, ti stai riscaldando di nuovo. Comunque, non è questo che io intendo per forma. Mettiamola così; moltissimi compositori sono riusciti a scrivere motivi eccelsi e fughe degne di grandissimo rispetto. Alcuni sanno orchestrare magistralmente la scala di do maggiore e manipolare le note in modo da produrre vere e proprie innovazioni armoniche. Ma sono scioc­ chezze in confronto a quella componente magica che tutti cercano affannosa­ mente, e cioè l’inesplicabile abilità di intuire le note che devono seguire. Beethoven aveva questo dono in misura tale che tutti gli altri gli arrancano dietro con la lingua fuori. Quando ci riesce in pieno - come nella Marcia Funebre dell’Eroica - crea qualche cosa che a me è sempre sembrata scritta in cielo, da dove poi gli è stata dettata. E, si badi, non era poi una cosa fa­ cile da mettere in pratica. Sappiamo quale tormento pagasse per ascoltare i suggerimenti divini. Ma la ricompensa fu grande. Nel cosmo, preordinata­ mente, c’è uno spazio nel quale quel movimento dell’Eroica s’inserisce per­ fettamente. p.l.: Ora sei tu a riscaldarti. l.b. (che sente ormai solo la propria voce): La forma è una parola vuota, un semplice involucro senza questo dono della inevitabilità. È possibile, nel campo della forma sonata, comporre tutta una serie di allegri perfettamente costruiti, fedeli a tutte le regole, ma tuttavia manchevoli nella forma. Bee­ thoven, invece, sconvolse ogni regola e compose brani di una perfezione da mozzare il fiato. Perfezione: ecco la parola. Quando senti che l’ultima nota è quella giusta, l’unica possibile a quel punto e in quel contesto, stai sen­ tendo Beethoven, ci puoi scommettere. Melodie, fughe, ritmi: lasciamoli ai

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Cajkovskij, agli Hindemith, ai Ravel. È lui ad avere la vera ricchezza, l’oro del cielo, il potere di farti dire: c’è qualcosa di giusto in questo mondo, qualcosa che ha senso, che obbedisce con coerenza a sue proprie leggi, una cosa nella quale possiamo avere fiducia e che non ci verrà mai meno. p.l. (con calma)-. Ma questa è quasi una definizione di Dio. L.B.: Appunto.

Scena seconda. Significato? E che significa? (Lo stesso giorno, più tardi. La sera sta per scendere sui monti « beethoveniani » attenuandone le asperità con morbidezze quasi chopiniane. I rosa e i viola del tramonto ci infondono un certo torpore. Col ronzio del motore in sottofondo ci sembra di percepire il richiamo di una locanda cui fa eco quello del letto di un motel. I nostri sbadigli si fanno frequenti e si svi­ luppa una triplice sonnolenza.) p.l.

(sbadigliando, canta)-. Il giorno è finito, s’appressa la notte. L’ombre della seeera... f.m. (si asciuga una lacrima)-. Chi vuole una gomma da masticare? l.b.: Grazie, sì. Questa volta l’accetto. La conversazione mi ha arrochito. p.l. ne vuoi una anche tu? p.l.: No, grazie, non mastico gomme. Fra l’altro non ho avuto l’oppor­ tunità di arrochirmi.

(L’effetto della frecciata viene attutito da un cartello, un « Alloggio » che, triste e inospitale, compare nella luce del crepuscolo. ) p.l.: Vogliamo andare a dare un’occhiata a questo albergo scintillante di luci dove, intorno al tavolo, mentre l’idromele trabocca, ci riscaldiamo al fuoco dell’ospite geniale? l.b.: Devi essere proprio stanco, p.l. Ma forse hai ragione, f.m., l’onore spetta a te. Smonta e va’ a vedere se non è troppo lugubre. f.m. (indispettito)-. Mi fa piacere che vi fidiate del mio giudizio. (Spegne il motore e va.) l.b. (stiracchiandosi): Mi sento come se avessi lavorato tutta la giornata. p.l.: Hai faticato sì, e da prode. E hai avuto una bella faccia tosta. Un melodista mediocre! l.b.: Ammetto di non essere un buon dialettico. Inoltre, la forza delle convinzioni spinge la mente sul sentiero dei ragionamenti poco abituali. Fra l’altro, il nostro discorso non è esaurito. La tua innocente osservazione era una lama a doppio taglio. p.l.: Buon Dio, che cosa ho mai detto? l.b. (ripete scandendo, crudelmente): « So-no tut-to un Bee-tho-ven que­ ste col-li-ne. » Ricordi?

23 p.l.: E va bene. Ma pensavo, speravo che fosse dimenticata e sepolta. Che altro trovi da dire su questa mia frase immortale? l.b.: Solo questo: per un musicista è sempre molto strano che un lette­ rato associ la musica con ogni tipo di fenomeni extramusicali: con colline, folletti e raperonzoli. Strano, ma non pensavo più a queste cose dai tempi della scuola, quando durante le lezioni di estetica discutevamo della unicità del mezzo d’espressione artistica. Le tue parole hanno dunque destato i vecchi fantasmi. p.l.: I fantasmi della rappresentazione, dell’astrazione e così via? l.b.: Esatto. A Harvard avevo un compagno di stanza che era un gio­ vane di valore: si chiamava Eisner e si avviava a diventare un super-Hemingway. Amava la musica in maniera incommensurabile, sviscerante, così come io\mavo le parole. Si stabilì dunque tra noi un rapporto molto co­ struttivo, come puoi indovinare, che ci fece capire molte mezze verità. Poco dopo la laurea, maledizione, morì di cancro. p.l.: Mi dispiace molto, ma non vedo l’attinenza con le colline. l.b.: Sii paziente. Eisner e io discutevamo quasi ogni sera. Tempestose discussioni, che si protraevano fino all’alba, mi facevano mancare alle mie lezioni di contrappunto e, come tutte le discussioni, non giungevano a nessuna conclusione. Ora, la tua osservazione mi ha fatto capire fino a che punto io avevo assorbito... f.m. (di ritorno}'. Mamma mia! p.l.: E allora? f.m.: Terribilmente lugubre. (Mette in moto.} Avete ricominciato, voi due? (Sbanda. ) Capirete che non è molto facile vederci a quest’ora, (mette la seconda) entre chien et loup, come dicono al mio liceo. (Mette la terza.) E le vostre chiacchiere non mi aiutano a concentrarmi. (Va a velocità folle.)

(Segue un silenzio esplosivo durante il quale par quasi di sentirlo il penti­ mento di f.m. La tensione aumenta poi cede.) (imbronciato)-. Comunque, di che cosa stavate discutendo? E chi lo sa! Il tuo caro fratello stava per toccare vette eccellenti e tuttavia indistinguibili. Stava dicendo che aveva assorbito qualcosa... l.b. (rituffandosi nella conversazione)-. Le discussioni all’università! E grazie per avermi ridato il la. Naturalmente, Eisner e io discutevamo so­ prattutto di sesso e di letteratura. Ma sempre, prima o poi, giungevamo al­ l’altare della musica, e la sua maniera di arrivarci mi affascinava. Per essere un musicista, e non ho mai pensato di essere altro, avevo le mie convin­ zioni, inconsapevolmente astratte, sulla musica, e rimanevo sbalordito nel constatare che esistevano anche altre convinzioni. f.m.: Tipico di una matricola. l.b.: Tu aspetta a diventarlo. Fu Eisner a farmi capire quanto diversa, estranea possa essere l’opinione di uno scrittore sulla musica. Vedi, a me non può succedere di pensare alle colline e a Beethoven contemporanea­ mente. Di tutte le arti, la musica rimane in una regione a parte, senz’altra luce che quella della propria stella e affatto priva di significati. f.m. p.l.:

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Questo è un giudizio da matricola che persino io contesto. Bravo l’autista! Di tutte le idiozie... ...senza significati, tranne il suo proprio, beninteso: un significato in termini musicali, non descrivibile a parole. Queste, infatti, appartengono a una regione della mente completamente diversa. p.l.: Ci stiamo per caso imbarcando nello studio del significato del si­ gnificato? f.m. : Spero proprio di no. p.l.: E invece sì. Vediamo: qual è il significato di un gruppo di parole? Per esempio: « Piegò la testa da un lato e, arrendendosi, gli offrì le lab­ bra... » f.m.: Nobile frase. p.l.: Perfetta. Ma che significa? Indica un’azione, un’azione reale. E provoca una re-azione, anch’essa reale. Qualcosa nel nostro essere fisico risponde a questa dozzina di deliziose parole, ma in esso c’è anche un qual­ cosa che risponde a una frase musicale. Prendiamo la frase, l’onda musicale, del Liebestod-. bene, se ciò che risponde all’una, risponde anche all’altra, allora i significati di entrambe - i significati a cui porta la percezione - sono identici. Quod erat demonstrandum. l.b.: Bravo, Vescovo Berkeley! Mi piace rivivere i vecchi tempi univer­ sitari, mi sembra di ritornar giovane. Però ho delle obiezioni da fare al tuo sofisma scolastico. Prima di tutto, la tua logica fa acqua: confondi il signi­ ficato con la reazione fisica, il che porta a un falso sillogismo. p.l.: Andiamo, su! L.B.: No, è così. Se reagisco in modo uguale a due stimoli diversi, le mie due reazioni sono uguali; il che non significa però che i due stimoli avessero lo stesso significato. Se mi raffreddo perché piove o perché mi contagia il gatto, fra pioggia e gatti non vi sarà certamente alcuna simila­ rità di significato Ti pare? p.l.: No. Salvo la freddura che ci possiamo aspettare da f.m. sulla pioggia e sui gatti. Ma questa non è logica. Le emozioni non seguono regole matematiche. L.B.: Mi dispiace, ma sei stato tu il primo a esclamare Q.E.D. p.l.: È vero, perdonami. Ma cerchiamo di semplificare il discorso. Am­ metterai che c’è, senza dubbio, una relazione di significato fra un tramonto e un preludio di Chopin, fra la Monna Lisa e il Libro di Ruth, fra... l.b.: Una relazione esiste nel senso critico globale. Ma ciò non vuol dire che significhino la stessa cosa. p.l.: Ma come non significano la stessa cosa? Prendi il-tramonto e il preludio: possiamo scomporne il significato in termini astratti come calma, spazio, sostenuto, movimento leggero, colore, impercettibili cambiamenti di colore, e così via. Termini che possono riferirsi, tutti, ad ambedue. L.B.: Ma il preludio non significa calma, colore e tutto il resto. Può suggerirli, ma il suo significato è puramente musicale. p.l.: E questo che cosa significa? L.B.: Tanto per cominciare, se è possibile descrivere con parole, perché mai credi che Chopin sia ricorso alle note? Posso tentare, è vero, di esprif.m. : p.l.: l.b.:

25 mere con parole il significato musicale di un preludio; ma sai che noia ne viene fuori? Se hai tempo e pazienza, ti servo: una frase si prolunga in le­ vare nel registro medio (la corda del la di un violoncello) e anela di salire all’ottava superiore; la sua intenzione viene improvvisamente rivelata dalla entrata dell’accompagnamento, una serie insistente di ripetuti accordi di mi minore pulsanti sotto il sostenuto respiro cromatico della linea melodica (la quale oscilla tristemente fra il si e il do), mentre una yoce tenorile nell’accompagnamento acuisce con sospensioni e appoggiature il senso gene­ rale di languida sofferenza... * p.l.: Grazie, esclamano, è commovente! Prendete, prendete questo scellino, e fatela finita! l.b.: Hai visto? Che ti dicevo? Una noia. E bada che forse dà solo una piccola parte del significato di non più di tre battute. È il punto al quale volevo arrivare: la musica, tutta sola, se ne sta in una regione a parte e oscura. f.m.: Guardate: Il Piccolo Ostello!

(La scena cambia. Sulla veranda prospiciente l’accogliente camera n. 8. Fa un certo freddo che ci ha colti di sorpresa. Come tre finti indiani, sediamo avvolti in coperte fumando l’interminabile ultima sigaretta. È la quarta, e la discussione su cosa significa il significato imperversa.) p.l.: ...ma allora come mai tanti compositori danno titoli ai loro pezzi? Se avessi ragione tu, sarebbe impossibile per un brano di musica avere un significato di natura extramusicale. In tal caso, dovremmo eliminare dalla storia della musica Berlioz, Strauss, Schonberg, Hindémith... l.b.: E Mahler, Copland, Monteverdi... p.l. (trionfante)-. E Bernstein! l.b.: Ahimè! Dammi almeno il tempo di riesumare qualche idea appresa nei miei vecchi corsi di estetica. p.l.: Ardo dalla curiosità, ma attendo pazientemente. Fuma una Chester­ field. l.b. (che cerca di guadagnar tempo)-. Se ho ben capito, tu ti chiedi come posso sostenere una linea teorica così astratta e, ciononostante, scrivere musiche con titoli e implicazioni filosofiche eccetera. È così? p.l.: L’hai impostata bene, ma in maniera incompleta. La verità è che tu non sei affatto folgorato dall’astrazione, come invece ti lusinghi d’essere. Il fatto che tu t’irrigidisca tanto sulla purezza teorica e che poi la getti alle ortiche quando ti metti a comporre musica, è perlomeno sospetto. Io questo atteggiamento lo chiamerei snobismo intellettuale del tipo più deteriore. f.m.: Ole!

* Quasi certamente l’Autore si riferisce al Preludio n. 4, in mi minore;- op. 28 di Chopin. (N.J.T.)

26 p.l.: Adesso ti darò io una « chiave di lettura » della musica. Può darsi che io dica le stesse cose che tu avresti voluto dire, però in modo diverso, cioè con una prosa intelleggibile e senza accademismi. l.b.: Sissignore. p.l.: D’accordo. Tu vuoi convincerci che le note rimangono oscure, mentre le parole sono trasparenti. Vero? In altri termini, sostieni che quan­ do leggi un giornale sei ignaro delle parole come mezzo di espressione arti­ stico; che il titolo « Un maniaco scanna sei pecore » trasmette un concetto ma non ti colpisce per alcun altro valore particolare. Dico bene? l.b.: Benissimo. p.l.: Quando però quelle stesse parole vanno in mano a un artista, un poeta, esse acquistano un valore proprio, che va oltre la immagine mentale che suscitano. Parole come « stella », « vorrei » e « immoto » usate da Keats diventano memorabili per se stesse e per l’idea che rappresentano e nello assumere questo doppio valore diventano meno trasparenti, più oscure, avvicinandosi in tal modo alle note le quali vivono di vita propria, senza che esista una idea rappresentativa al di là di esse. Sei d’accordo? l.b.: D’accordissimo. p.l.: Con questo ragionamento portato agli estremi, parole in tal modo impiegate possono diventare quasi completamente astratte, come in Ger­ trude Stein. Se poi, giunte a quest’estremo, conservino un valore lettera­ rio oppure no è questione che esula dal nostro argomento. Importante ri­ mane il fatto che le parole hanno la funzione originaria di rappresentare qualcosa, e pertanto sono trasparenti; mentre invece la funzione originaria delle note rimane nell’astratto, e pertanto esse sono oscure. E inoltre: se le parole, allontanandosi dalla loro originaria funzione, possono raggiun­ gere una semiastrazione, come per esempio in Joyce, così le note, dal loro habitat nativo, possono avvicinarsi alla zona intermedia del significato concettuale, come nella musica a programma, nel dramma musicale, nella musica di ambiente e così via. Mi segui? l.b. : Ti seguo, ma... p.l.: Fammi portare a compimento questa mia sortita. Finalmente si identifica un punto d’incontro tra musicista e scrittore, e nessuno dei due ha più il diritto di irrigidirsi fanaticamente sulle sue posizioni assolutiste. Se poi a questo aggiungiamo le facoltà associative che Dio ha dato agli uomini, vien meno ogni ragione di cavillare di fronte al fatto, allo spetta­ colo di un povero e semplice Poeta Lirico che indulge, un po’ sentimen­ talmente, in una metafora sulle colline e Beethoven. Ti concedo che la perorazione della Quinta sinfonia di Sibelius, in senso strettamente scien­ tifico, non è che una particolare successione di accordi, strumentati secondo determinate sonorità che producono l’effetto... Sì, una perorazione. Ma io ho tutto il diritto, nell’ascoltare quelle trombe che sembrano illuminare il cielo col fluire della loro sonorità dorata, di immaginare una meravi­ gliosa aurora. E tu faresti altrettanto se, rilassandoti un poco, dimenti­ cassi le tue nozioni libresche. Dixi. l.b.: Accetto umilmente tutto quello che dici, e sarei lieto di chiudere la serata, una fredda serata per giunta, a questo punto. Ma voglio aggiun-

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gere un’ultima riflessione. La nostra divergenza è forse determinata dal fatto che il musicista sente nella musica molto di più, e che gli è quindi totalmente superfluo stabilire associazioni. Tu e io, nella nostra rispettiva veste artistica, proveniamo, come tu dici, dai lati opposti della strada, ma possiamo avvicinarci e incontrarci, per così dire, sulla strada stessa. Tuttavia, ci portiamo dietro il pesante retaggio delle nostre posizioni d’origine, e la strada rimane lì; fra noi due, e ci separa. Non potremo mai avere la stessa concezione delle parole o della musica. Le distinzioni, comunque, si stanno facendo così sottili che tutto potrebbe diventare infinitamente più chiaro con un sol verso felice, o col lampo di un’intuizione incomunicabile, piut­ tosto che con ore di discussione nell’aria fredda di questo deserto. Ti sarò sempre grato per la lezione. p.l.: Sei diventato un ragazzo piuttosto mite, ben lontano dal critico animoso d’un paio di ore fa. Mi congratulo. l.b.: E io mi congratulo con te. La tua disquisizione non fa una grinza, ma penso che se non fosse stata fatta con tanto garbo e se io non sentissi tanto freddo... f.m. (svegliandosi arrabbiato)' A letto, a dormire. La testa mi martella. p.l.: Io rimango fuori ancora un po’, con queste stelle meravigliose. Guardatele, non sono tutto un Buxtehude?

(Estate del 1948)

CHE NE È DELLA GRANDE SINFONIA AMERICANA?

Quanto segue non è una vera e propria conversazione ma uno scambio di messaggi fra l.b. e un impresario di Broadway che da ora in poi chiame­ remo b.p. Un uomo, stranamente, con interessi in campi artistici estranei alla sua professione. Un vero gentiluomo; impresario di medio calibro. Il suo mento affonda in un lussuoso collo di astrakan che adorna un cappotto da sera al cinquanta per cento di cashmere. Ha una spilla da cravatta con smeraldo e uno sguardo saggio nei suoi occhi liquidi. In breve: un uomo che porta il suo metro e cinquantacinque con decoro e decisione.

I. Telegramma B.P.

Hotel Gorbeduc - New York DOLENTISSIMO IMPOSSIBILITÀ ACCETTARE GENTILE OFFERTA COLLABO­ RAZIONE MUSICAL BASATO SU ANATOMIA MALINCONIA DI BURTON CHE EST MAGNIFICA IDEA AUGURANDOVI OGNI SUCCESSO RAMMARICOMI MA PRE­ STISSIMO COMPOSIZIONE NUOVA SINFONIA

L.B.

IL Lettera L.B.

Steinway Hall - New York

Caro l.b., ai miei colleglli e a me è molto dispiaciuto ricevere, col telegramma di ieri, il suo rifiuto alla nostra offerta di collaborare con noi, e con tanti altri artisti eminenti per merito e importanza, al nostro nuovo progetto per questa stagione. Ho sempre avuto la convinzione (ora corroborata da quella dei miei colleghi) che l’Anatomia della Malinconia di Burton sarebbe, prima ò poi, servita a mettere su un grande spettacolo del teatro musicale. Pensiamo che lei sia l’uomo ideale per scriverne la musica, dando così lu­ stro alla nostra ribalta, che questa stagione sente particolarmente viva la mancanza di un lavoro di tal genere. Lei, invece, ci comunica die sta

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scrivendo una nuova sinfonia; il che, senza dubbio, è impresa assai com­ mendevole. Ma vorrei, col suo permesso, approfittare di pochi minuti del suo tempo per segnalarle alcuni dati di fatto dei quali lei, nel prendere la sua decisione, non deve aver tenuto conto. Comincio con una domanda: perché? Perché continuare a scrivere sin­ fonie in America dove il pubblico, comunque, non dimostra alcun inte­ resse? Può lei, con tutta sincerità, farmi il nome di due o tre persone in America alle quali veramente possa stare a cuore se lei, o qualcun altro, componga o meno un’altra sinfonia? La prego di non affrettarsi nel ri­ spondere e di non mettersi tròppo sulla difensiva. Quanto più a lungo con­ sidererà la mia domanda, con tanta maggior chiarezza le riuscirà di rispon­ dermi. La risposta è che nessuno, a eccezione di altri compositori o dei critici che vivono per stroncare o innalzare alle stelle le nuove composizioni, si rattristerà se lei o i suoi colleghi compositori cessassero definitivamente di scriverne. Nei tempi in cui viviamo mi sembra che non ci sia alcuna necessità storica di sinfonie. Sarà perché la nostra epoca non ravvisa nella forma sinfonica il suo vero mezzo di espressione; non sarò certamente io ad affermarlo con sicurezza. Sono un uomo qualunque e tutto ciò che so, lo so per istinto. Ma ho in mano il polso del pubblico e, mi creda l.b., non mi sembra proprio di sentirne la pulsazione sinfonica. E così, lei se ne sta a scrivere una musica della quale, probabilmente, non v’è necessità storica; della quale, certamente, non v’è alcuna richiesta da parte del pubblico e dalla quale, la prego di perdonarmi, non si ricava alcun vantaggio economico. A questo punto lei potrà capire meglio perché le ho chiesto: perché? E mi consenta ora di chiederle: perché no? Perché non dedicare, invece, il suo talento a quel settore artistico americano che ha calore, vita, sangue giovane: il teatro? Scoprirebbe che il pubblico l’attende a braccia aperte, e lei soddisferebbe una esigenza attuale, storica. Qualsiasi forma d’arte, ritengo, ha sempre avuto la funzione di soddi­ sfare una richiesta pubblica o privata: la costruzione delle cattedrali goti­ che, il ritratto di un ricco committente, un lavoro teatrale per il pubblico elisabettiano, la composizione di una messa oppure, e la prego di nuovo di perdonarmi, di una sinfonia. Haydn, Mozart, Brahms, non scrissero le loro sinfonie senza esserne sollecitati: erano richieste. Diciamo la verità: oggi nessuno richiede una sinfonia a nessuno. I compositori americani hanno un dovere verso il teatro che è vivo e ha bisogno di loro. Non sa­ rebbe disposto a riconsiderare seriamente la questione? Distinti saluti B.P.

P.S.: con questa nuova sinfonia, come ha pensato di alloggiare, vestire e nutrire la sua graziosa signora e il bambino? Vivissimi saluti ad ambedue.

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III. Lettera B.P.

Hotel Gorbeduc - New York Caro b.p. ho letto e riletto la sua lettera di ieri che ho trovato interessantissima e ne sono colpito. Dico colpito e non convinto perché, onestamente, non posso comunicarle di aver cambiato avviso. Ma ho raramente incontrato un impresario di Broadway che abbia mai riflettuto con tanta sincerità e passione su circostanze che, in realtà, non hanno attinenza con l’attività che gli procura il suo pane quotidiano. Sono rimasto anche colpito dal suo stile avvocatesco; è persuasivo al punto che, se non fossi (come è na­ turale) più addentro di lei nei fatti considerati, avrei ceduto alle sue argo­ mentazioni. Ma i fatti sono quelli che sono e sento il dovere di portarli a Sua conoscenza. Mai nella storia, è statisticamente documentato, si è riscontrato un così grande interesse nella sinfonia e nella musica sinfonica come quello che si manifesta, proprio ai giorni nostri, negli Stati Uniti. Vi sono orchestre dappertutto, anche in piccole cittadine, in Università e Scuole Superiori anche delle nostre province più remote. Come può lei asserire che non c’è « richiesta del pubblico » mentre le ultime cifre fornite dalla Lega delle Orchestre Sinfoniche indicano X orchestre di grandi dimensioni che suo­ nano attualmente negli Stati Uniti, contro X orchestre della stessa mole che suonavano nel 19..? La Lega riporta altresì che X orchestre di minori proporzioni sono adesso professionalmente in attività. Ovunque sono stati organizzati Festival ai quali il pubblico accorre in quantità mai prima re­ gistrata. E vi sono Festival ove la musica contemporanea trova quasi tanto rilievo quanto ne vien dato a quella di repertorio abituale. I concerti estivi sono in voga quanto lo era, una volta, lo sport della canoa; con i loro programmi invernali, poi, le nostre orchestre determinano un vivacissimo incremento di pubblico e di interesse. Le organizzazioni musicali per le comunità spediscono in gran numero artisti da ima parte all’altra del paese, ove vengono ascoltati da gente che solo dieci anni fa non sognava neppure di andare a un concerto. Mi duole doverla tediare con statistiche, ma sono tutti fatti documen­ tati. Pensi anche a tutta la musica che viene commissionata da enti quali l’Orchestra di Louisville: X nuove composizioni solo quest’anno. Tenga presente tutti i premi, i concorsi, le associazioni che contribuiscono a incoraggiare la composizione di nuova musica da concerto. Consideri l’e­ norme aumento nella vendita di dischi; e badi che con queste arriviamo a cifre da capogiro. No, lei non può affermare che il pubblico sia indiffe­ rente alla musica sinfonica. Per quel che riguarda il suo riferimento a una necessità storica, non rie­ sco a comprenderla. Quando invece tocca l’argomento del vantaggio eco­ nomico, ha ragione; ma esso esula dal nostro campo. Si è artisti perché non se ne può fare a meno. Vi sono altre maniere per far quattrini.

31 Come le è noto, io amo lavorare per il teatro. L’ho già fatto e spero di averne spesso l’occasione per il futuro. In questo momento altre cose han­ no la priorità. Rinnovo i miei ringraziamenti per l’offerta fattami e per avermi voluto scrivere. Cordialmente L.B.

IV. Lettera L.B.

Yaddo - Saratoga Springs, New York

Caro l.b., mi perdoni se torno a disturbare la sua quiete privata. Dopo aver rice­ vuto la sua lettera, per un’intera settimana ho riflettuto molto su quello che si è detto. Ho anche letto un po’ per corroborare le mie idee. Fra l’altro: la sua lettera è di un tono così solenne e, se non fosse per la sua palese sincerità, anche così noiosa, mi scusi, che ne sono rimasto incuriosito. Non posso credere che un uomo giovane come lei, cresciuto in America e con il senso del divertimento che si manifesta in alcuni suoi lavori, sia a tal punto un pedante. Scrivo pertanto questa lettera in parte per capirci di più e in parte per metterla al corrente delle mie ultime idee sul genere sinfonico. Abbandono ogni tentativo di persuaderla a collaborare al nostro spettacolo; stiamo infatti già trattando con un altro compositore. Ma il suo rifiuto e le ragioni che lei adduce hanno suscitato in me vivo interesse per l’argomento. Sono ora riuscito a formulare quel che può quasi chiamarsi una teoria. L’ho esposta ieri a p., il nostro amico comune che si trovava in città per un sol giorno, e l’ha trovata sciocca. Ma che ci si può aspettare da un poeta? Come lei sa, è anche lui a Yaddo per un mese; sta lavorando al suo ultimo libro Steli d’ottone: È da lui che ho saputo dove potevo scriverle. Quando lo incontrerà, la prego, eviti di discutere con lui della mia teoria. Il suo senso della necessità storica, a giudicare dai due poemi di Steli d’ottone che mi ha fatto leggere, è pessimo. Ed ecco la mia teoria: storicamente parlando, l’origine di ogni musica la si rinviene nel teatro. La trova un’affermazione strabiliante? Ci pensi un po’ su. La musica, prevalentemente, ha la sua culla nel folclore: canti e danze liturgici e celebrativi, canti e danze di lavoro e d’amore. Il che si­ gnifica che la musica, prima di tutto, nasce vincolata a parole e idee. Che io sappia, una musica folcloristica astratta non esiste. È musica che serve ad accompagnare il lavoro, o a ballare o a cantare delle parole. È quindi sempre in relazione a qualche cosa. In seguito, sviluppandosi, diventa più sofisticata e complessa, ma continua ad aderire a concetti. Come nel teatro. Non è forse vero che la musica si è sviluppata soprattutto in chiesa? Il massimo dei teatri! (La vera e propria musica da teatro, ammesso che ne esista una, si riduceva a una semplice cantilena.) Poi si comincia con pic­ cole opere: in Italia, in Germania e Austria. Queste piccole opere (spetta­ coli di maschere, recite con canto eccetera) diventano, in seguito, opere

32 importanti. Mozart, per intenderci. Nel frattempo, in chiesa, dai mottetti si passa alle messe da requiem di vaste proporzioni e a cantate. Questo, non prima, è il momento del gran salto. Il linguaggio musicale è ormai inteso e compreso da tutti; fra le tecniche musicali dell’occidente v’è sufficiente analogia per poter operare a questo punto la separazione della musica da parole e concetti, vale a dire dallo spettacolo. E la musica vien fatta vivere, presso il pubblico, di vita propria. Si è arrivati all’opera di Mozart, e ora si può anche avere la sinfonia di Mozart (senza tuttavia di­ menticare, è scritto nei miei libri, che la sinfonia nasce dall’introduzione orchestrale dell’opera). E come esistono le passioni di Bach, possono ora anche darsi i preludi e le fughe di Bach (ma ricordiamoci che preludi e fughe nascono dalle improvvisazioni sull’organo durante la liturgia). In breve, il pubblico assuefatto alla musica del teatro è ora arrivato al punto da poter gustare la musica senza il teatro. L’orecchio, per così dire, è di­ ventato maturo per il suono astratto. Il fa diesis, il mi bemolle, suscitano interesse, commuovono per se stessi; per giustificarli non si fa più ricorso al­ le parole. C’è voluto molto tempo perché il pubblico giungesse a tanto. Le sembrano tutte sciocchezze? Spero di no: faccio affidamento su quel­ la serietà di carattere che le è propria. E veniamo al nocciolo, alla sostanza della mia teoria. Ciò che voglio sostenere con la massima fermezza è che l’America, ai giorni nostri, si trova, musicalmente, nella stessa condizione della Ger­ mania intorno al ’600, cioè in pieno singspiel. (Tralasciamo ogni conside­ razione sulla musica contemporanea da chiesa: è puramente tradizionale e tutta ereditata.) Ma la nostra musica secolare è qual era in Germania cinquantanni prima di Mozart; con la sola differenza che i nostri singspiel si chiamano Oklahoma! e Can-Can. È il periodo che dovremo superare prima di poter giungere a una forma musicale americana o, comunque, a imo stile nostro di musica da concerto. Potrà non trattarsi di sinfonie così come le conosciamo oggi: produrremo forse qualcosa di completamen­ te diverso, ma il suo linguaggio musicale sarà quello forgiatosi prima nei nostri teatri; e solo un domani potrà disgiungersi dal « significato » per restarsene avulso, astratto. Capisce quello che intendo dire? Con tutta la nostra bravura e raffinatezza tecniche, non siamo ancora maturi per pro­ durre la nostra musica da concerto. Ne consegue che in America tutto ciò che viene ogni giorno prodotto in grande abbondanza e poi eseguito nelle sale da concerto è in realtà di marca europea, e anche vecchia per giunta. A volte la si insaporisce qua e là con un pizzico di motivi cowboy, con qualche particolare armonico di blues o con qualche ritmo jazz, ma questa musica rimane europea nell’essenza perché la stessa nozione della forma sinfonica è tedesca; e questo nessuno lo può negare. Le sinfonie dei com­ positori russi sono in sostanza tedesche, anche se imbevute di vodka invece che di birra. Franck, a parte qualche cornetta che riesce appena a differenziarlo, è tedesco; i Liszt sono tedeschi in tutto e per tutto, nessuna reale diversità li distingue, come Elgar, Grieg, Dvorak. Il tocco nazionale che può esservi stato aggiunto non intacca l’intima sostanza della musica,

33 che rimane tedesca perché quella della tradizione sinfonica è un’unica linea retta che va da Mozart a Mahler. Noi, lo tenga presente, siaino un paese nuovo di trinca; un neonato, re­ lativamente, di appena 175 anni: pochissimi se si pensa ai vecchi imperi ove quella linea retta cui accennavo si è formata. In realtà, in questo paese si scrive musica da soli 50 anni e per la metà di questo tempo la nostra musica è stata presa in prestito direttamente da Brahms & Co. Soffriamo altresì lo svantaggio di essere nati già grandi; non ci è dato neanche di cominciare con balli rituali e preghiere propiziatrici di pioggia. Cominciamo con gli avanzi della evoluzione europea passatici su piatti da cucina. Eppure un vantaggio lo abbiamo: il jazz. L’inizio di un’altra linea retta che si svilupperà qui da noi, questa volta, così come la linea della tradizione sinfonica si sviluppò, indiscutibilmente, in Germania durante un periodo di circa cento anni. E anche quella era di lignaggio folcloristico. Sia quel che sia, il jazz è la nostra musica popolare: ingenua e sofisticata al tempo stesso e piena di vitalità. E dal jazz è nata quella che chiamiamo commedia musicale: musical. Ebbene, 175 anni non sono un periddo di gestazione eccessivo (in realtà, ha impiegato soltanto gli ultimi 50 anni a venire alla luce) in confronto ai secoli che ci vollero per la nascita del singspiel. Ed eccoci qua pronti a fare assurgere il nostro singspiel a un livello operistico vero e proprio; a far sì, per capirci meglio, che Pal Joey si svi­ luppi in musica americana, quale che sia. Siamo pronti e attendiamo che questo Mozart giunga tra noi e compia il miracolo. E per questo che faccio l’impresario; perché se rimango in vita voglio essere presente all’avveni­ mento. Faccio già le mie offerte in giro per questo nuovo Mozart. C’è nessuno in vista? Questo è tutto. Piuttosto rozzamente formulato, ma a me riesce chia­ rissimo. E ciò che desidero soprattutto è che sia altrettanto chiara a lei la differenza che deriva da tutta questa situazione; dico fra Europa e Ame­ rica per quanto riguarda la musica da concerto. Una nuova sinfonia di Brahms era, per un viennese dell’epoca, un avvenimento di interesse strug­ gente; non facevano altro che chiedersi come sarebbe stata, quanto e come diversa dalla precedente e così via. Proprio come capita oggi a noi, che ci chiediamo che cosa ci riserva il prossimo spettacolo di Rodgers-Hammer­ stein. La nuova sinfonia di Brahms era oggetto di conversazione a tavola il giorno dopo; era un avvenimento che riguardava tutti, entrava a far parte della vita quotidiana, era l’aria che respiravano, il loro cibo. E il viennese o il tedesco di oggi ha ereditato parte di quello spirito di possesso nei riguardi della musica di Brahms: è quasi come se l’avesse scritta lui stesso. Succede lo stesso con gli italiani e l’opera italiana. In America, invece, l’ascoltatore, anche se ama pazzamente la musica di Brahms o di Verdi, non potrà mai nutrire gli stessi sentimenti, nonostante l’idea che ha della musica come linguaggio universale. Quella musica per lui avrà sempre un certo sapore di museo, di un classico che deve essere oggetto di venerazione ma che rimane sempre un po’ remoto, distante; non riuscirà mai a essere sua proprietà, privata, per così dire. • E poiché non gli importa proprio niente se qualcuno scrive o no nuove sinfonie, la nostra musica da con­

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certo è per lui priva di vitalità, salvo quella vitalità che può animare la visita a un museo. Quod erat demonstrandum. È veramente lunga questa lettera e la prego di scusarmi se sono stato così prolisso. Ma le idee che mi sono venute mi hanno provocato una certa eccitazione nonché l’impazienza di comunicargliele senza esitare men­ tre lei si affatica, nel suo rifugio, a scrivere quel lungo e inutile pezzo di musica. I miei migliori auguri a p., e per nessuna ragione si faccia convin­ cere a mettere in musica i suoi Steli d’ottone. Ricordi, lei si è votato all’a­ strazione, s’è impegnato. Distinti saluti B.P.

V. Lettera B.P.

Hotel Gorbeduc - New York Caro b.p. , ho ricevuto la sua ultima e sorprendente lettera un mese fa e le chiedo scusa per il ritardo col quale rispondo. Da Yaddo sono tornato a New York e poi son venuto qui a Milano; tutto è successo piuttosto in fretta. Ho dovuto sospendere, temporaneamente, di lavorare alla mia sinfonia per po­ ter assolvere il mio impegno di dirigere alla Scala. Le prove sono ora fi­ nite, la prima rappresentazione ha già avuto luogo e mi è concesso final­ mente di poterle scrivere. Ammetto di condividere in gran parte quello che lei dice a proposito del senso di possesso nei riguardi della musica. Qui a Milano, durante pranzi e ricevimenti, si passa ancora il tempo, si consumano energie discutendo a gran voce se il Rigoletto è più grande del Trovatore. Proprio come se fos­ sero stati composti ieri e fossero freschi di stampa. Quella musica appartiene nel vero senso della parola a questi italiani (per lo meno a questi mila­ nesi); e, come dice lei, sembra che pensino di averla scritta loro, e ha ragio­ ne di affermare che anche i più fanatici amanti di musica degli Stati Uniti non potranno mai sentirsi a tal punto legati e in familiarità con quella mu­ sica. Mi viene in mente che a New York, a pranzi e ricevimenti simili, di­ scutiamo per ore sui meriti rispettivi di due musical di successo e ci accalo­ riamo, ci alteriamo nel difenderli o nel criticarli. Tutto ciò che lei dice in quella parte della sua lettera è verissimo. Devo però muovere le mie obiezioni alla sua rassegna storica. Nella sua esposizione tutto appare assai semplice e liscio, e io l’ammiro enormemente per la cura che si dà di andare a leggere nei libri per ricavarne tutti quei dati a sostegno delle sue idee. La sua idea principale ha forse qualche fon­ damento, ma il ragionamento fa acqua in più punti. Che ne è dei ricercari di Frescobaldi e di tutta la scuola organistica del ’600? E Froberger e Pachel­ bel che precedettero Bach? Lei dirà che faccio di nuovo il solenne e il pedante, e mi asterrò, quindi, dal tirar fuori molti noiosi argomenti di mu-

55 sitologia. Per esempio: lei tralascia di fare la più ovvia considerazione: se è vero che l’America si trova, ai giorni nostri, nella stessa situazione della Germania del singspiel, è anche vero che ha il vantaggio di poter co­ noscere in anticipo lo sviluppo avutosi nei 250 anni che seguirono. C’è una bella differenza, dopotutto! Non s’accorge che il grande sviluppo mu­ sicale in Germania è dipeso proprio dalla naturalezza, dalla spontaneità dei suoi inizi? I compositori americani di oggi non potranno mai avere la stessa naturalezza, la stessa innocenza perché compongono dopo che al mondo sono venuti Mozart, Strauss, Debussy, Schonberg. Essi sono, pro­ babilmente, condannati a essere epigoni e a seguire nella direzione loro indicata dalla ultrasviluppata Europa. Non è forse più tanto stimolante comporre musica oggi quanto poteva esserlo nel 1850. E una constatazione triste ma è vero. Comunque, che cosa vuole che facciano tutti i compositori americani? Debbono trasferirsi in massa nell’industria delle calzature? Se scrivono musica è per una loro necessità interiore, e questo significa che la loro produzione non può mancare di una certa validità sostanziale; si possa essa spiegare o no con la sua teoria. Oggi ho una matinée; debbo perciò finire e correre a teatro. Come pro­ gredisce il suo musical? Ha già trovato il suo compositore? Le auguro for­ tuna e spero che chiunque ne scriverà la musica si riveli essere il suo Mozart, e con i fiocchi. Cordialmente L.B.

VI. Telegramma L.B.

Teatro alla Scala - Milano INDUSTRIA CALZATURE OTTIMA IDEA SEGUE LETTERA SALUTI

B.P.

VII. Lettera L.B.

Teatro alla Scala - Milano, Italy

Caro l.b., evviva! Lei è un uomo morto! La mia teoria, evidentemente, l’ha con­ vinto; del che sono felicissimo. La sua lettera dimostra chiaramente die le è impossibile formulare una ragionevole confutazione. E naturale che i miei ragionamenti, facciano acqua in più punti. Che cosa s’aspetta da un musicologo novellino? Che ne so io di Pachelbel, di Frescobaldi e di quell’altro? Ma quello che so lo so in piena regola e ora mi sento più sicuro

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die mai di aver ragione. Si figuri: l’altra sera sono andato al concerto della Filarmonica proprio perché volevo farmi un’idea di quel che succede nel suo mondo elettrizzante dei concerti. Posti vuoti dappertutto; gente die dormiva da tutte le parti, alcuni rumorosamente e non escludo un paio di critid. Tutto era immerso nella noia generale e gli educati applausi davano l’impressione di servire a rianimare la circolazione sanguigna dopo il piso­ lino della gente piuttosto che a significare gradimento della musica. Noia, noia universale! Il pubblico, dopo il concerto, se ne usciva in uno stato di sopore, senza parlare né della musica né di altro. Io me la filai da Sardi per prendere un doppio qualcosa die mi rimettesse su. Ed era il teatro, il teatro l’argomento di tutti: chi discuteva animatamente, chi ricordava una particolare scena, chi commentava con una barzelletta e risate, risate scro­ scianti. Altri ancora ricantavano un motivo a sostegno della propria tesi e tutti erano vivi, vivi, glielo assicuro. Lo so, vi sono compositori americani che dovranno continuare fi scrivere sinfonie, e queste saranno poi ascoltate un paio di volte con indifferenza; potranno forse anche essere dei geni e auguro loro tutta la fortuna di que­ sto mondo sperando che la spuntino, ma ho la vaga sensazione che conti­ nueranno a scrivere sinfonie perché sono incapaci di scrivere musica per il teatro. Non creda che sia una cosa facile comporre per il teatro! In un certo senso, è più difficile: occorre obbedire alla disciplina del palcosce­ nico e non si è padroni di se stessi, perché è il risultato complessivo quello che conta. Il compositore di musica sinfonica ha tutte le note dell’arcobaleno a sua disposizione e ne sceglie a suo piacimento. Non così il compositore di musica per il teatro. Questo deve lavorare sul serio. Un grande compo­ sitore di musica per teatro è raro: deve avere il tempismo di una Duse, deve sapere quando alleggerire e quando invece calcare la mano, deve saper prevedere le reazioni del pubblico a ogni istante dello spettacolo. Deve avere il dono della leggerezza e della gravità, arguzia, sentimento, pathos, e deve saper essere brillante. Deve conoscere il suo mestiere e quello degli altri. Insomma, non è persona da sottovalutare. Giorni fa ho sentito la Tosca. Che sussulto ne ho avuto! Quell’uomo se ne intendeva veramente di teatro. E non mi sembra che giaccia in disonore. Ripeto: quello che è giovane, vivo e vibrante di contemporaneità in America è il teatro musicale. E le dico un’altra cosa, die lei sa meglio di me! Nel fondo del cuore lei riconosce che i pezzi veramente importanti oggi in America non sono la 14 * sinfonia di X o il soliloquio per flauto di Y, ma Tinian’s Rainbow e Carousel, forse Wonderful Town (ma ne dubito) e South Pacific. Tutte le lunghe liste di cadaverici dati statistici e tutti i Pa­ chelbel messi assieme non riescono a convincermi del contrario. Desidero ringraziarla per avermi dato lo spunto di approfondire tutte queste cose. Non sono mai stato più felice e più fiero di essere un impre­ sario di Broadway. Procederemo a tutta forza col nostro musical appena troveremo il compositore che faccia al caso nostro. Non vedo l’ora di poter cominciare a lavorare. Voglio dare il mio contributo alla formazione di questa nuova tradizione che si sta formando sulla destra della storia mu-

sicale americana, e voglio essere testimone del suo inserirsi nella storia musicale del mondo. Distinti saluti B.P.

Vili. Telegramma B.P.

Hotel Gorbeduc - New York CAMBIATO PROGRAMMA ACCETTO COLLABORARE VOSTRO MUSICAL STOP PERSISTE MIO PROFONDO DISACCORDO SUA TEORIA STOP RITORNO SETTI­ MANA PROSSIMA CORDIALISSIMI SALUTI L.B.

(Novembre 1954)

PERCHÉ NON SCRIVI UNA BELLA CANZONE ALLA GERSHWIN?

(Attraverso le vetrate dell’English Grill di Radio City si vedono i patti­ natori che girano sulla pista di ghiaccio evitando, miracolosamente, di scontrarsi fra loro. Impossibile seguirli per più di qualche secondo mentre piroettano e poi si dissolvono nella luce accecante del sole invernale. Le uova in camicia sono già scomparse dai nostri piatti e la seconda tazza di caffè ci consente, provvisoriamente, di sfuggire all’inevitabile conversazione. La colazione con p.m. è unp di quegli avvenimenti accidiosi che vengono imposti ddll’obbligo sociale newyorchese di far colazione « una volta alme­ no », e a qualsiasi costo, con qualcuno del mondo dei propri affari. Come se mangiare assieme per novanta minuti servisse a cementare qualsiasi relazione, ogni relazione, per tenue che sia. p.m. è quel che nell’ambiente viene chiamato un manager di professio­ ne: lo sciagurato deve far sì che la musica pubblicata dalla sua ditta venga effettivamente eseguita. Questo esige che egli debba conoscere, più o meno intimamente, uh esercito di esecutori e almeno qualche compositore. Ai suoi tempi doveva essere stato un uomo ben piantato, forte, pieno di energia e di ideali, di idee giovani e circonfuso di gloria per gli stretti legami che lo univano ai giganti dell’età dell’oro delle canzoni di grande successo. Ma i molti anni trascorsi l’avevano esaurito riducendo le sue idee a formule; gli ideali erano sepolti nel passato e la sua forza di persuasione s’era molto affievolita. Eppure conosce, è affezionato a due generazioni di musica popolare americana; il che gli conferisce un certo calore, un certo zelo e una funzione nella vita. Tutto sommato a me il tipo piace. Ma perché mi ha invitato a colazione? Abbiamo già passato in rassegna tutti gli argomenti disponibili e ho il sentore che voglia parlarmi di qual­ cosa in particolare, ma non sa da dove cominciare. Mei Grill tutti conver­ sano, alcuni animatamente, altri celiando. Il nostro interesse, invece, sem­ bra fissato a un pendolo che oscilla fra due punti: i pattinatori sulla pista da un lato, la tazza di caffè dall’altro. Non potendone più, rompo il si­ lenzio.) l.b.: Come vanno gli affari? (È una domanda nata morta ma p.m. ne è grato lo stesso: è servita a qualcosa.) p.m.: Gli affari? Be’, sai, la musica stampata non si vende più come ai bei tempi. Oggi ci sono i dischi. L’editore non è più un editore ma un agente. Stampare è l’ultima cosa. L.B. {incalzando, con eccessiva impazienza): Ma questo dovrebbe produrre

39 buoni affari, no? La cosa essenziale è di avere la musica, averne i diritti... P.M.: Certo, ma avere i diritti di una musica non ne garantisce la ven­ dita. Prendi per esempio la musica del tuo ultimo musical. (Ecco la ragione dell’invito a colazione. Ma io faccio lo gnorri.) l.b.: Il mio musical? p.m. (premuroso): Come sta andando? l.b. (come se fosse un altro argomento): Bene, ci sono stato due sere fa e sembra ancora fresco. p.m. (con cautela): £ strano, molto strano quel che succede col tuo musical. £ un grande successo, piace al pubblico, tiene il cartello da cinque mesi e non c’è una sola canzone che sia diventata popolare. Come lo spie­ ghi? (La bomba è scoppiata, il polso si accelera.) l.b.: E debbo essere io a spiegarlo? Non è piuttosto il tuo mestiere? Sei tu che vendi canzoni al pubblico. La popolarità di ima canzone di­ pende dal modo in cui vien messa in vendita. Non domandare a me; io sono solo il vecchio compositore. p.m.: Non riscaldarti. Se fossi stato in questo mestiere a lungo quanto me, sapresti che ogni cosa presenta due aspetti. Non c’è costrutto a dare la colpa a questo o a quello. Il successo di una canzone popolare è dato da una combinazione di fattori: la sua bontà, il lancio da parte di un buon cantante, il momento giusto e l’aggressività dei sistemi di vendita. Ora, non è sempre possibile averli tutti insieme questi fattori. Nel caso tuo, abbiamo fatto il nostro massimo sforzo. Non ricordo esattamente quando... L.B.: Va bene, ho capito. Vuoi dire che il materiale consegnatovi non era di buona qualità. Non pretendo giustificazioni. Io non scrivo canzoni commerciali, questo è tutto. Perché non lacerate il mio contratto? p.m.: Andiamo l.b., oggi sei d’umor nero. Non ti ho invitato a colazione per farti arrabbiare. Tutti vogliamo fare del nostro meglio per la tua mu­ sica, è vantaggio reciproco. Ho pensato die avremmo potuto parlarne un po’ con calma, costruttivamente e, chissà, venirne fuori con qualcosa che potrebbe... l.b.: Mi dispiace, ma sono piuttosto sensibile su questo argomento. Certo sarebbe piacevole sentire una volta tanto qualcuno fischiettare per caso qualcosa di mio, una sola volta almeno. p.m. : Ti capisco. l.b.: Io m’illudevo che nella partitura ci fossero almeno tre canzoni destinate all’immediato successo popolare. E non si sentono mai, né alla radio, né alla tv. Qualche registrazione dimenticata, una con la Muzak, mi sembra, e questo è tutto. Devi ammettere che è un po’ deprimente. p.m.: Via, su. Pensa a quei compositori che non hanno mai scritto can­ zoni di grande successo e nemmeno la musica per un musical di grande successo. Tu sei fortunato, lo sai? E non dovresti lamentarti. Non tutti possono scrivere Booby Hatch e vendere un milione di dischi in un mese. Pensa un po’, ricordo, che George diceva sempre... L.B.: George chi? p.m.: Gershwin, naturalmente. Quale altro George esiste? l.b.: Grazie. Ora, mi parli di un uomo che aveva il tocco magico. Non

40 so come facesse ad avere tutti quei successi. C’è gente che ci riesce sempre, per loro è come respirare. Non riesco a capire. p.m. (afondando nell’argomento)-. Be’, visto che l’hai toccato tu stesso questo tasto, non sarebbe una cattiva idea da parte tua pensarci un po’ su qualche volta. Cerca di imparare da George. Le tue canzoni sono troppo artificiose, questo è tutto. Un piccolo effetto dissonante nell’accompagna­ mento fa felice te e i tuoi amici intellettuali, ma pregiudica il grande suc­ cesso. Sei troppo imbrigliato in accordi insoliti, strani passaggi della linea melodica e forme eccentriche. Sono soltanto un gioco col quale ti diverti. George non ci pensava affatto: scriveva motivi, dozzine di motivi, semplici motivi che la gente poteva cantare e ricordare per cantarli di nuovo. Scri­ veva per la gente, non per i critici. Tu devi imparare a essere semplice, ra­ gazzo mio. L.B.: E tu credi che sia semplice essere semplice? Per niente. Mi ci sono provato con accanimento per anni. Dopotutto, non è la prima volta che mi sorbisco questa lezione. Qualche settimana fa un compositore serio, mio amico, e io parlavamo proprio di questo, e non riuscivamo a persuadercene. Perché non dovremmo, anche noi, essere capaci di scrivere una canzone di grande successo, ci chiedevamo, visto die il livello medio è così basso? Ne concludemmo che l’unico mezzo era quello di metterci nello stato mentale di un idiota e scrivere una canzone ridicola qualsiasi. Ci mettem­ mo al lavoro decisi, impegnandoci a scriverne migliaia, senz’altro fare che i semplici di mente. Lavorammo per un’ora poi dovemmo interrompere, in preda a disperazione isterica. Era impossibile. Dovemmo constatare che continuavamo a « esprimere noi stessi », nonostante tutti gli sforzi possibili per inventare una musica semplice, di quel basso livello mentale sul quale cercavamo di porci. Ricordo die a un certo punto comindammo a fare co­ me i bambini, cercando di trovare un motivo una nota per volta, un motivo che non avesse nemmeno bisogno di armonia. Arrivammo a tale degradazio­ ne. Niente. Fu un esperimento rivelatore, lo ammetto, anche se d lasdò con la vaga sensazione di essere condannati all’insuccesso. Come dicevo prima, perché non annullate il mio contratto? p.m. (con il tono di un allenatore di pallacanestro)-. Macché insuccesso. Scommetto un mese di stipendio che se veramente ti d metti puoi scrivere un motivo semplice; ma da solo, non insieme con un altro compositore. Dopotutto, George era come te, un intellettuale, con un piede nella Car­ negie Hall e l’altro nel Varietà. * Scrisse anche musica da concerto, e questa era tutta imbastita di armonie capricciose, di contrappunto e orchestrazione. Ma sapeva quando doveva essere semplice e quando no. l.b.: Credo che ti sbagli. Gershwin era un uomo del tutto diverso. Non c’è nessuna relazione fra lui e me. P.M.: Tu sd modesto, o vuoi fare il modesto. Dopo l’ultimo tuo musi­ cal, quel critico non dichiarò che forse eri il secondo Gershwin, un nascente Gershwin o qualcosa del genere? * Nel testo «Tin Pan Alley»: quartiere di ritti statunitense, in particolare New York, dare erano generalmente concentrati gli editori di musica leggera. (Nl.T.)

41 l.b. (segretamente lusingato)'. Questo era soltanto nella testa del critico, ma non trova nessuna corrispondenza nella realtà dei fatti. In effetti, Gersh­ win e io provenivamo da punti opposti, e se capita che c’incontriamo è puramente per l’amore che nutro per la sua musica. Tutto qui. Gershwin era un compositore di canzoni che diventò un compositore di musica seria. Io, invece, sono un compositore di musica seria die cerca di comporre can­ zoni. Lui seguì una strada che di gran lunga è la più giusta: iniziò dalle forme musicali minori e di lì si sviluppò. La mia traiettoria è confusa: io ho composto una sinfonia prima di scrivere una sola canzone di successo. Come puoi pretendere die io abbia il suo tocco di semplicità? p.m. (paternamente)-. Ma George... A proposito, l’hai conosduto? l.b.: Mi sarebbe piaduto, ma morì quando io ero ancora un ragazzo, a Boston. p.m. (con sguardo illuminato)'. Se l’avessi conosduto avresti capito die George era in tutto e per tutto un compositore di musica seria. Pensa alla Rapsodia in Blue, all’Americano a... l.b.: Un momento p.m. Sai meglio di me che la Rapsodia non è una composizione. È una successione di episodi diversi messi assieme con una colla leggera di acqua e farina. Comporre, dopotutto, è cosa assai diversa dallo scrivere motivi di canzoni. Trovo che i temi, o i motivi, chiamali come vuoi, della Rapsodia sono splendidi, pieni d’ispirazione, doni di Dio veri e propri; almeno quattro di essi, e non è dir poco per un pezzo che dura dodici minuti. Sono perfettamente armonizzati, di proporzioni impeccabili, orecchiabili, limpidi e pieni d’intenso sentimento, e i ritmi sono sempre giusti. Sono tutti di « qualità », come i suoi migliori motivi di musical. Ma non basta mettere insieme quattro motivi, anche se di divina ispirazione, e chiamare il pezzo una composizione. È vero che comporre significa mettere insieme; ma messi insieme, i vari dementi debbono formare un tutto che si integra organicamente. Compono, componete... p.m. : Risparmiaci il tuo latino. Vuoi dire che la Rapsodia in Blue non è un lavoro organicamente concepito? Non è possibile! Ma se in ogni battuta circola la stessa linfa, dal principio alla fine, attraverso tutti i cambiamenti di umore e di tempo. Vi si respira l’aria dell’America: la gente, la società cittadina che George conosceva così bene, il ritmo della sua vita, la nostal­ gia, il nervosismo, la maestosità e... L.B.: ...gli sviluppi alla Cajkovskij, le tortuosità debussiane, i fuochi di artificio pianistico alla Liszt. £ americana quanto vuoi, se consideri i temi a sé stanti, ma appena scatta quel piccolo congegno che si chiama sviluppo, ecco che l’America vola via dalla finestra e Cajkovskij entra dalla porta con tutti i suoi seguaci. Il guaio è che la vita di una composizione dipende dal suo sviluppo. p.m.: Vorrei un’altra tazza di caffè. Cameriere! l.b.: Anch’io. Non era mia intenzione mettermi a parlare di tutte queste cose, e non voglio certo calpestare i piedi d’argilla del tuo idolo. È anche il mio idolo, ricordalo. Credo che non ci sia stato un melodista con un’ispi­ razione come la sua dal tempo di Cajkovskij, se vuoi sapere come la penso. Lo considero al livello di uno Schubert e degli altri grandi. Ma se tu vuoi

42 parlarne come di un compositore, questa è un’altra faccenda. La « tua » Rapsodia in Blue non è una composizione nel senso die ciò che vi accade sia inevitabile, o quasi. Tu puoi toglierne una parte senza danneggiare lo insieme, l’abbrevi soltanto. Prova a togliere una qualsiasi delle parti che la compongono e il pezzo procede lo stesso, benissimo. Puoi anche cambiare la posizione delle parti senza arrecar danno all’insieme. Puoi perfino tagliare una delle parti, aggiungere nuove cadenze o suonarla con una combinazione qualsiasi di strumenti, anche solo col pianoforte; può diventare un pezzo di cinque, sei o dodici minuti. Ed è proprio quello che fanno ogni giorno. E rimane sempre la Rapsodia in Blue. p.m.: Bada che quello che dici potrebbe essere un grosso elogio. Se un pezzo è così solido, compatto, da sopportare qualsiasi intervento senza perdere valore intrinseco, deve avere una salute di ferro. Ci deve esspre qual­ cosa che resiste a ogni attacco, una autenticità, una vitalità, non ti pare? l.b.: Certamente: sono quei motivi bellissimi, che però messi insieme non riescono a formare una composizione. p.m.: Magari hai ragione sulla Rapsodia-, è un lavoro giovanile, dopo­ tutto, il suo primo tentativo di comporre musica in una forma più estesa; aveva soltanto 26 anni o giù di lì, non dimenticarlo; quando la scrisse, non era nemmeno in grado di orchestrarla. Ma che ne dici dei suoi lavori successivi? Dell'Americano a Parigi. Non c’è dubbio che sia ben tessuto, organicamente... l.b.: Hai ragione. A poco a poco i suoi lavori miglioravano perché era intelligente, era uno studioso serio e lavorava con impegno. Ma anche l’Americano a Parigi è uno studio su motivi: motivi belli che rimangono separati e disgiunti. Nel frattempo però aveva scoperto alcuni trucchi com­ positivi: il modo di legare i temi fra loro, di combinarli insieme svilup­ pandoli e di ottenere una struttura orchestrale. Ma questi sono trucchi presi in prestito da Strauss, Ravel e chi sa da chi altro. Tutto considerato, rimane un pezzo debole, perché nessuno di questi trucchi era farina del suo sacco. Non sono dettati dalla natura stessa della musica, ma son presi in prestito e applicati a essa: come appliques su un vestito. All’ascolto, il primo tema è un godimento; poi, durante il periodo di connessione, cioè durante « la imbottitura », rimani in attesa del secondo. E questo succede per due terzi della composizione. L’altro terzo è bellissimo, perché formato dai temi stessi. Ma dov’è la composizione? P.M. (con astuzia)-. Ma tu la dirigi sempre, no? l.b.: Certo. p.m.: E l’hai perfino incisa. l.b.: Certo. p.m. : Ma allora ti deve piacere. L.B.: L’adoro. Ah, ecco il caffè. p.m. (con un sospiro)-. Non ti capisco. Come puoi adorare qualcosa che critichi per ogni verso? Come puoi amare una cattiva composizione? l.b.: Ciascuno è portato a distruggere ciò che ama. Certo, penso che si possa amare una cattiva composizione per ragioni non compositive, per ra­ gioni di sentimento, di associazioni evocate, per lo spirito che l’anima. Ma

43 credo che Un americano a Parigi mi piaccia soprattutto per la sua sincerità: c’è uno sforzo tremendo per riuscire a essere una buona composizione. È pieno di buone intenzioni. p.m.: Insomma, ti piace per i suoi difetti. l.b.: No. Ma ciò che ha di buono è tanto buono da risultare irresistibile. Se per aver grano devi mietere anche la gramigna, vale la pena mieterla. Io l’amo perché ci indica quello che Gershwin avrebbe fatto se fosse vis­ suto. Guarda il progresso dalla Rapsodia al Concerto in fa per pianoforte, e dal Concerto a... p.m. (raggiante): Ah, il Concerto in fa è un capolavoro! l.b.: Lo credi tu. Il Concerto è il lavoro di un giovane di genio che fa rapidamente progressi. Ma solo con Porgy and Bess la vocazione di Gersh­ win comincia a delinearsi con chiarezza. p.m.: Veramente non riesco a seguirti. Non vi si ritrovano gli stessi difetti? Mi è stato sempre detto che, nonostante le splendide melodie, è forse la sua composizione più debole. Pensava di fare un melodramma e, tutto sommato, come tale è un fallimento. Ogni volta che vien messa in scena e riscuote un vero successo t’accorgi che è stata presentata come una specie di operetta. Tolgono tutte le parti cantate di « raccordo » che ven­ gono invecé parlate; vi lasciano solo i pezzi principali. E questo a me pare abbastanza indicativo. l.b.: No, è indicativo soltanto per gli impresari. Strano: quando ascolto Porgy nella versione ridotta finisco sempre col non accorgermi delle parti di raccordo. Forse riesce meglio così; presso il pubblico ha certamente più successo. Sarà perché tanta parte di quel recitativo sembra estraneo al carattere del canto e ricorda invece Tosca e Pelléas. Ma si corre il rischio di gettar via l’acqua del bagno insieme col bambino, perché in alcuni pun­ ti quel recitativo è senz’altro in carattere con il canto e s’inserisce perfetta­ mente nell’opera. Ricordi la scena di Bess con Crown sull’isola? Bess dice (cantando): È così, Crown, Io sono l’unica donna che Porgy abbia mai avuto... p.m. (con rapimento, cantando anche lui): E sto pensando che succederà questa sera quando tutti gli altri negri ritornano a Catfish Row l.b. e p.m. (insieme in un crescendo di entusiasmo): Rimarrà seduto a guardare il gran cancello d’uscita e le conterà una per una aspettando Bess. E quando l’ultima donna... (NeZ ristorante stanno tutti a guardare e a sentire.) p.m. (sussurra, ma in maniera udibile): Stiamo dando spettacolo. l.b. (sussurra, ma con trasporto): È quello che volevo dire io! È entu­ siasmante, non ti pare? Non ti sembra die sia un tipo di musica con la

44 quale Gershwin avrebbe raggiunto la perfezione? Per questo non mi ras­ segno al fatto atroce della sua morte. Improvvisamente, con Porgy t’accorgi che Gershwin era un grande, ma proprio un grande compositore di teatro. Lo era sempre stato. Ed è forse per questo che la sua musica da concerto è poco convincente: si trattava in effetti di musica per teatro portata in sala da concerto. Immagina cosa avrebbe prodotto per il teatro entro una altra decina o ventina d’anni. E sarebbe stato ancora giovane! Che perdi­ ta! Chissà se l’America si accorgerà mai della perdita sofferta? p.m. (commosso)-. Non hai neppure toccato il caffè. l.b. (esauritosi di colpo)-. S’è fatto freddo. In ogni modo devo andare a casa e mettermi a comporre. Grazie per la colazione, p.m. p.m.: Grazie a te per essere venuto. Ne sono assai contento. Facciamo ancora altre colazioni, d’accordo? Abbiamo tante cose di cui parlare. l.b. (dando uno sguardo alla pista con i pattinatori)-. Per esempio? p.m.: Tanto per dirne una: il tuo musical. È molto strano. E un grande successo, piace al pubblico, tiene cartello da cinque mesi e non c’è ima sola canzone di successo. Come te lo spieghi? (Aprile 1955)

INTERLUDIO

SALA MISSAGGIO, CALIFORNIA

In California, c’è una località che non è segnata sulle carte, ed è conosciuta col nome di Sala Missaggio. Non è sede di contea, è solo una grande stanza al terzo piano dell’edificio « Sezione Sonoro » degli studi della Co­ lumbia. È un luogo dove suono e immagine s’incontrano, si contemperano e vengono amalgamati. Più precisamente: è in questa stanza che le varie colonne sonore che formeranno ciò che poi milioni di persone udranno al cinema, vengono modificate e unificate. È qui che la colonna del dialogo, quella della musica e quella degli altri effetti sonori subiscono appunto il missaggio. Tre signori, tranquilli, competentissimi, seggono dignitosamente ciascuno davanti al proprio settore di un grande congegno dall’aspetto di un tavolo (fa pensare a un tribunale) e manipolano un tale schieramento di interruttori, cursori e pulsanti, da ridicolizzare le apparecchiature scientifi­ che in un film comico. Il capo di questi tre stregoni è Dick Olson, un genio nel vero senso della parola, che merita alte lodi per la straordinaria impassi­ bilità che conserva in circostanze oltraggiosamente avverse e per l’alta qualità del suo lavoro. Lui e i suoi aiutanti hanno di fronte un enorme schermo che copre tutta la parete di fondo, dietro al quale sono piazzati grandi amplificatori stereofonici, monofonici, bifonici e di tanti altri tipi. Per Dick Olson e le sue pratiche magiche io nutro un’ammirazione e un timore reverenziale simile a quello che i letterati provano osservando un compositore mentre lavora. « Come fai a sapere quali punti e linee devi mettere sui pentagrammi? Come puoi prevedere il suono che producono; quale gruppetto di note mi farà trasalire e quale invece mi indurrà a se­ rena beatitudine? » Gli Olson di questo mondo praticano una magia nera; per me, almeno, operano in modo perfino più misterioso, obbedendo a esigenze ben precise e contrastanti. Per esempio, si dice a Olson che lo spettatore deve inconsciamente percepire i rumori del traffico di una grande città, ma nello stesso tempo deve udire i muggiti del vento e del mare che entrano in ima chiesa semideserta. Contemporaneamente, il pedalare della bicicletta di un bambino che gira nella chiesa deve auditivamente articolare, quasi puntualizzandolo, il dialogo di due vagabondi entrati lì per caso. Inutile dire che non una sola parola del dialogo deve andare perduta, nonostante le voci debbano avere quella risonanza sorda data dalla cavernosità dell’ambiente. E a questo punto, si badi, nessuno (tranne il compositore) ha ancora cominciato a pensare some adattarvi l’accompagna­ mento musicale.

48 Le istruzioni per tutti gli effetti sonori sopra accennati, istruzioni che sembrano eliminarsi reciprocamente, provengono da una fila di poltrone si­ tuate alle spalle di Olson e occupate dal produttore, dal regista, dal com­ positore della musica del film, dal direttore del montaggio e dal montatore della musica. Tutti pretendono di sapere tutto sulla sincronizzazione del film, ciascuno ha opinioni contrastanti sul come ottenere il risultato mi­ gliore e ognuno vuole assicurarsi che la propria opinione sia ben chiara agli altri. Sarebbe normale se Dick Olson venisse ricoverato d’urgenza nel manicomio più vicino. E invece no, sta a sentire, placido, e con la massima calma si china verso quella selva aberrante di interruttori, cursori e pul­ santi, ne preme circa due dozzine e in non più di tre minuti ecco che tutti i contrastanti elementi sonori si odono amalgamati in una magica pozio­ ne che risponde esattamente a tutte le esigenze espresse dalle varie poltrone! Il film cui alludevo è Fronte del porto, un film di Elia Kazan, pro­ dotto da S.P. Eagle e realizzato dalla Columbia Pictures. (La fac­ cenda è troppo complicata e mi limito a citare i titoli. Io sono sol­ tanto il compositore dell’accompagnamento musicale.) Quando vidi la copia di lavorazione del film, lo trovai un capolavoro di regia e la recita­ zione di Marion Brando mi parve la sua migliore in assoluto, che è quanto dire. Trascinato dal mio entusiasmo, accettai di comporre l’accompagna­ mento musicale. Precedentemente avevo sempre opposto resistenza a of­ ferte del genere perché ritenevo fosse un’esperienza musicale insoddisfa­ cente comporre musica il cui merito principale sia quello dello scarso rilievo. È opinione abbastanza comune che il miglior commento musicale di un film è quello che non si sente, ossia quello che lo spettatore sente senza accorgersene. Se invece lo sente davvero, vuol dire che qualcosa non va: è un intralcio, cessa di essere un sottofondo musicale di accompagnamento. Si deve ammettere che tutto questo è poco stimolante per un compositore. E tuttavia queste considerazioni furono sopraffatte dall’entusiasmo che provai la prima volta che vidi il film. Mentre guardavo, mi pareva di sen­ tirne già la musica, e questo bastò a farmi decidere. L’alta qualità, poi, lo stile di questo film creano proprio le condizioni ideali che mi inducono a lavorare e a collaborate. Da allora, ho visto il film almeno cinquanta volte integralmente o a stralci, e non ho cambiato il mio giudizio. Giorno dopo giorno sedevo alla moviola facendo scorrere la pellicola avanti e in­ dietro, misurando la lunghezza delle sequenze che avevo scelto per il mio commento musicale; convertivo poi, con una formula matematica, la lun­ ghezza in secondi e gettavo giù appunti in un brogliaccio. Nel far questo mi commuovevo sempre agli stessi punti del dialogo, e gli stessi momenti della recitazione mi mandavano in visibilio. E questo mi capitò anche durante la composizione, l’orchestrazione e la registrazione della mia musica. Ma nella Sala Missaggio rimasi impassibile: niente commozioni; niente smanie perché al missaggio l’affare è serio. Fui fortunato a essere ammesso a queste sedute di missaggio; mi si dice che normalmente il lavoro del compositore cessa con la fase di registrazione. (Circola anche una barzelletta a Hollywood: si consiglia al compositore di ascoltare la sua musica con la massima attenzione dopo la registrazione,

49 perché poi potrebbe non sentirla mai più.) Una volta ammesso nella Sala Missaggio, mi fu impossibile non opporre una certa resistenza anche se soltanto apparente. M’ero a tal punto compenetrato di tutti i dettagli della mia partitura che quasi credevo fosse l’elemento più importante del film. Dovevo invece continuamente ripetermi che in effetti ne è l’elemento meno importante, che ogni battuta di dialogo sopraffatta dalla musica è una battuta perduta e quindi una menomazione dell’intero film; di contro, che una battuta di musica coperta dal dialogo è soltanto una battuta di musica che va perduta, ma che questo non costituisce necessariamente una menomazione del film. Mi ripetevo continuamente queste piccole massime come un allievo di Coué mentre mi capitava di difendere un sol bemolle cui tenevo particolarmente. A volte si decideva all’unanimità di soppri­ mere un intero passaggio musicale perché « generalizzava » la forza emo­ tiva di una scena, mentre il regista, invece, voleva « particolareggiarla ». Altre volte, per dare assoluto risalto a una battuta del dialogo, la musica veniva di colpo interrotta e poi riattaccata. In altre circostanze, la musica (che era stata composta con un inizio, una parte centrale e una finale) veniva spezzata sette battute prima della fine. Per il compositore tutto questo è, inutile dirlo, deludente e terribilmente sconcertante. Ma può succedere di peggio. Per esempio in Fronte del porto c’è una scena d’amore su un tetto, tenera e tutta esitazioni, fra l’impacciato eroe e la protagonista inibita, con i piccioni che tubano loro attorno. Il dialogo della scena è deliberatamente scarno e fra le battute vi sono lunghe pause alla Kazan: un momento ideale, sembrerebbe, per l’intervento del compositore di musi­ ca. Dissi che avrei potuto scrivere una musica d’amore con un timido inizio che poi, con una crescente, tristanesca intensità, avrebbe raggiunto un culmine e investito scena e schermo coprendo le ultime, prosaiche pa­ role del dialogo, che erano più o meno queste: « Vuoi bere una birra con me? » (una pausa molto lunga). « Uhuu! » La musica, a questo punto, avreb­ be dovuto dire il resto; Kazan e gli altri assentirono entusiasticamente. Si adottò questa soluzione prima che avessi scritto una sola nota. E così scrissi la musica, l’orchestrai e la registrai. Ma poi, in Sala Missaggio, Kazan decise che gli era impossibile rinun­ ciare a quella specie di sacro grugnito che Brando emette alla fine: sosteneva fossero le due sillabe più eloquenti che l’attore pronunciava in tutta la sce­ neggiatura. E che cosa successe? Appena la musica cominciò ad assurgere con massima sonorità verso il suo culmine, mentre il tema ascendeva e gli ottoni e gli strumenti a percussione si univano agli archi e ai legni, gli onni­ potenti interruttori per il controllo della sonorità vennero manovrati e il suono si affievolì lentamente con un diminuendo. Musicalmente è ridicolo. E per amore di quel grugnito la tensione sullo schermo venne diminuita esattamente nella stessa proporzione con la quale aumentava nella mia bi­ strattata sensibilità. Uhuu! Ecco ciò che avviene in Sala Missaggio, in California. È in realtà impos­ sibile prevedere il risultato finale quando per la prima volta musica, dia­ logo (grugniti compresi), effetti sonori e immagini si scontrano fragorosa­ mente in Sala Missaggio.

50 E così il compositore se ne sta seduto, protestando come meglio gli riesce, ma infine accettando con il cuore gonfio la perdita inevitabile di buona parte della sua partitura. Tutti cercano di confortarlo: « Di questa musica puoi sempre fame una suite ». È una misera consolazione. Mortifica­ to, non gli rimane che ripetersi: è per la riuscita del film, per la riuscita del film. Quando tutto è stato detto e tutto è stato fatto, sono sempre gli altri ad aver ragione. Quello che conta è il film nel suo insieme. Il compositore non deve considerarlo da compositore ma piuttosto da uomo di teatro. Le soddisfazioni che gliene derivano in seguito sono molte: s’accorge che la sua partitura ha contribuito a creare un’atmosfera, a stabilire una con­ tinuità, ad aggiungere una dimensione, raccontando una vicenda interiore che non si articola manifestamente nell’azione e nel dialogo. Una musica che accompagni giudiziosamente un film conferisce a esso un afflato di ca­ lore, mentre una sola battuta di troppo può danneggiarlo notevolmente. Ma che pena per il compositore la perdita di quella battuta, e cbe lotta è pronto a sostenere per salvarla! Durante tutte queste vicissitudini Dick Olson e i suoi assistenti siedono tranquilli davanti alla loro foresta di manopole e attendono pazientemente che i generali sulle loro poltrone prendano la loro decisione. Una volta si era giunti, con particolare ostinazione, a un punto morto. Trovammo una palla di gomma e per calmarci ce la passammo per circa un quarto d’ora, facendo sempre attenzione a non colpire lo schermo da 5000 dollari di Harry Cohn. Poco dopo, la decisione fu presa.

(Maggio 1954)

SEZIONE FOTOGRAFICA

SETTE OMNIBUS SCRITTI TELEVISIVI

LA QUINTA SINFONIA DI BEETHOVEN

LEONARD BERNSTEIN:

Oggi vi presentiamo un esperimento singolare, e difficile: prendiamo il primo movimento della Quinta sinfonia di Beethoven e lo ricomponiamo. Ma non spaventatevi: useremo solo le note scritte da Beethoven stesso, utilizzando alcuni abbozzi che egli scrisse per questa sinfonia e poi scartò. Cercheremo di capire perché questi pezzi furono scartati e, reintroducendoli nella partitura, sentiremo che effetto fa la sinfonia con queste sostituzioni; proveremo a spiegarci allora la ragione per la quale questi abbozzi furono abbandonati e, ciò che è più importante, potremo forse anche intravedere il modo di procedere del compositore al lavoro, durante il misterioso pro­ cesso creativo che chiamiamo composizione musicale. (l.b. dà uno sguardo alla partitura.)

Qui, riprodotta sul pavimento, abbiamo la prima pagina della partitura della Quinta sinfonia, quella destinata al direttore d’orchestra. Ogni volta che guardo queste parti d’orchestra provo nuova meraviglia per la loro semplicità, forza e precisione. E con quale economia di mezzi questa musica è composta! Figuratevi: quasi ogni battuta del primo movimento è uno sviluppo diretto delle quattro note d’apertura.

Ma che note sono queste per essere così intense e pregne di significato da dar vita a un intero movimento sinfonico? Tre sol e un mi bemolle, questo è tutto. Chiunque avrebbe potuto pensarci. Eppure... Per anni ci si è chiesto che cosa investe questa figura musicale di tanta potenza, e sono state avanzate le più varie e fantasiose interpretazioni: che si basi sul canto di un uccello udito da Beethoven in un bosco di Vienna;

66 oppure che sia il destino che bussa alla porta; che siano le trombe che an­ nunciano il Giorno del Giudizio Universale e così via.. Ma nessuna di queste interpretazioni ci illumina. La verità è che il si­ gnificato di queste quattro note può solo ricercarsi nelle note che seguono, in tutte quelle che succedono nelle cinquecento battute di questo primo mo­ vimento. Beethoven, ritengo, più di ogni altro compositore prima e dopo di lui, aveva il dono di saper trovare le note precise che debbono seguire a quelle dei suoi temi. Eppure anche lui, nonostante la sua straordinaria abi­ lità, doveva affrontare e vincere una lotta titanica prima di giungere a tanta perfezione. Non si tratta soltanto di trovare le note giuste ma anche i ritmi giusti, le armonie giuste, la giusta strumentazione e il momento giusto per innalzarsi ai punti culminanti. Ed è proprio su questo suo trava­ glio che vogliamo ora indagare. Ogni compositore deve affrontare due battaglie: una, quella di saper trovare le note giuste dei temi; l’altra, trovare le note giuste che debbono seguire l’esposizione dei temi e che debbono altresì fare assurgere questi stessi temi a valore sinfonico. Conosciamo bene come si svolge la prima di queste battaglie avendo avuto tutti la possibilità di seguire uno Schumann, un Brahms e qualche altro grande del firmamento musicale nello sforzo per trovare il motivo giusto sul pianoforte. Tutti abbiamo visto Jimmy Ca­ gney nella parte di George M. Cohan quando, drammaticamente, solo sul palcoscenico e al lume di un’unica lampadina, metteva assieme, una per una, le note immortali di Over there. Fittizio o no, questo travaglio è una realtà, e fu anche di Beethoven nel senso più reale della parola. I suoi quaderni di appunti ci rivelano che scrisse almeno quattordici versioni della melodia con la quale si apre il secondo movimento di questa sinfonia. La versione definitiva che conoscia­ mo noi è questa: L.B. SUONA AL PIANOFORTE:

Andante con moto

J* dolce

Ma in otto anni si ebbero ben quattordici versioni diverse! Eccone una, molto differente dalla definitiva:

9 dolco

67

Ed eccone un’altra:

ir-rrrfir vFrirrrr^^ * J

dolce

Dopo otto anni di sforzi, con queste due e altre dodici versioni, gli riuscì di fondere, finalmente, gli elementi più eleganti, più leggiadri di tutte le quattordici varianti nella melodia che ci è oggi familiare. Ma forgiato il tema, ecco che la sua lotta comincia. Ora inizia la fatica per dare al suo tema una statura sinfonica. Statura che si manifesta in tutta la sua pienezza solo quando giungiamo all’ultima nota dell’intero movi­ mento. E quindi, ritornando al primo movimento, le famose quattro note

non sono portatrici di un valore musicale a sé stante, ma sono soltanto il nucleo da cui nasce tutto lo sviluppo sinfonico che segue. Questa è la vera funzione di ciò che viene chiamato forma. Questa, infatti, non è una forma per budino: ci si versano dentro note, e produce automaticamente un rondò, un minuetto o una sonata. La vera funzione della forma è quella di farci seguire per mezz’ora il variato e complesso itinerario di una evo­ luzione sinfonica continua. Per ottenere questo risultato il compositore deve possedere un suo piano interiore, deve avere la capacità di conoscere la tappa successiva: in altri termini, deve conoscere quale deve essere la nota seguente per darci un senso di perfezione, la certezza che qualsiasi nota segua, l’ultima è l’unica nota possibile in quel preciso istante. Come abbiamo già detto, Beethoven aveva questo dono più di ogni altro, ma doveva ugualmente lottare con tutte le sue forze durante il processo crea­ tivo. Avventuriamoci a osservare questo travaglio. Tanto per cominciare, Beethoven decise di avvalersi per il suo primo movimento di dodici parti strumentali diverse.

(I corrispondenti dodici strumentisti raggiungono i punti indicati detta partitura riprodotta sul pavimento.) Naturalmente, l’intera orchestra si compone di questi dodici strumenti moltiplicati, ciascuno di essi, da due a otto volte.

(Lentamente, gli strumentisti attraversano la pagina della partitura.)

FLAUTI

OBOI

CLARINETTI IN SI b

FAGOTTI

CORNI IN MI b

TROMBE IN DO

TIMPANI IN DO-SOL

VIOLINI I

VIOLINI n

VIOLE

VIOLONCELLI

CONTRABBASSI

Nell’osservare la partitura, il direttore d’orchestra deve seguire con gli occhi, sulla pagina, simultaneamente tutti gli strumenti. Comunque, per le battute iniziali, Beethoven non sentì il bisogno di avvalersi di tutta l’orchestra. Eliminò cinque strumenti: l’oboe, il fagotto, il corno, la tromba e il timpano. Questo, a lato, è il manoscritto originale dove figurano le rimanenti sette parti strumentali. Notate però che nella stesura definitiva appare un’ulteriore elimina­ zione: la parte del flauto. Sappiamo quindi che Beethoven agli inizi stava per includere questo legno. Perché lo eliminò? Semplicemente perché il timbro e le note acute del flauto non si addicono al carattere rude e brusco

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delle battute iniziali. Beethoven voleva che le note iniziali della sua sin­ fonia irrompessero con forza maschia, e pertanto basò la sua orchestrazione su strumenti che di norma suonano nel registro maschile della voce.

(L’orchestra esegue le battute iniziali dapprima con il (lauto, poi senza flauto.) Il flauto, che è l’equivalente strumentale della voce di soprano, sarebbe qui un intruso, una signora delicata in un club di fumatori, e perciò fu eliminato. Vedete, oggi nell’ascoltare questa sinfonia, molti di noi possono pen­ sare che sia stata creata da Beethoven di un sol getto, uniforme e limpido fin dal principio. Niente affatto. Beethoven ci ha lasciato, di suo pugno, pagine e pagine di materiale in seguito scartato, come questa: tante da poterne mettere assieme un grosso volume. Eliminò, riscrisse, cancellò, strappò, modificando lo stesso passaggio, in alcuni casi, fino a venti volte. Un esempio di queste modifiche lo possiamo osservare nel facsimile del manoscritto originale della partitura, a pagina seguente.

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l.b.

guarda l'originale della partitura.

Guardate queste modifiche angosciose, questi scarabocchi quasi febbrici­ tanti. Eccovi un passaggio travagliato.

Vi sono tante correzioni che a Beethoven non rimase spazio per la versione finale. Fu costretto a scriverla in calce, come una annotazione a piè di pagina, e lasciò ai suoi copisti il compito di decifrare che cosa avesse voluto scrivere. Ammiro, e compiango anche, quei copisti.

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Per contrasto, guardate ora questa partitura di Stravinskij: chiara, se­ rena, bella quasi come il suono che se ne ricava. *

* Copyright 1946 della Associated Music Publishers, Inc. Riproduzione consentita.

72 Il manoscritto beethoveniano, invece, è il campo sanguinoso di una terribile battaglia interiore. E prima di mettersi a scrivere questa partitura dall’aspetto così tormentato, aveva, badate, già da tre anni riempito di abbozzi i suoi quaderni di appunti. Alcuni di questi abbozzi li abbiamo qui: proprio quelli che furono scartati. Ho sempre cercato di capire come sarebbe stato questo primo movimento se qualcuno di questi passaggi vi fosse rimasto. Ho fatto parecchi esperimenti per scoprire a qual punto della partitura ciascuno degli abbozzi si riferisse; poi li ho inseriti per sen­ tire che effetto fanno. Il risultato è strano e interessante. Proviamo. Conosciamo fin troppo bene le battute iniziali di questa sinfonia.

Ma che cosa succede dopo questa asserzione iniziale? Quale ne è lo svi­ luppo? Eccolo.

73 Ma esiste un abbozzo scartato, anch’esso uno sviluppo immediato e di­ retto delle stesse quattro note iniziali.

Considerato isolatamente, non è né bello né brutto, ma è uno sviluppo logico e soddisfacente della frase iniziale. Che effetto farebbe se Beethoven l’avesse adottato quale seguito del suo tema? Lo scopriamo se inseriamo l’abbozzo nella sinfonia. Eseguiamo, e il risultato è questo.

74

Una differenza c’è, non .vi pare? E non solo perché suona errato alle nostre orecchie, che sono abituate a sentire la versione che tutti cono­ sciamo, ma anche per il valore stesso della musica. C’è tale simmetria da sembrare statico. C’è troppa uniformità fra la parte della mano sinistra e quella della mano destra, che sembrano scimmiottarsi fra di loro. Il che è fatale a un inizio, specie all’inizio di un viaggio sinfonico. Non c’è quel senso di mistero della versione finale, né quella promessa sussurrata di cose a venire. Stagna, ripete se stesso e sembra non essere « costruttivo ». E Beethoven era prima di tutto e soprattutto un costruttore. Prendiamo in esame un altro abbozzo scartato. Ecco, questo (sempre ba­ sato, come tutti gli altri, sulla frase d’apertura).

Credo di indovinare che fosse destinato a questo passaggio. ORCHESTRA:

Sentiamo il passaggio includendovi l’abbozzo scartato.

15 ORCHESTRA:

Terribile, non vi pare? Sarebbe proprio un intruso nel vivo fluire della musica. Se ne sta lì, arenato, ripetitivo, e sembra aspettare che qualcosa lo sollevi e lo riporti sulle ali della musica. Nessuna meraviglia che Bee­ thoven lo abbia scartato. Lui più d’ogni altro sentiva l’urgenza del moto nella sua musica. Ma questo abbozzo non ce la fa. Come il primo, è statico. Un piombo. Questo invece è tutt’altra cosa. È stimolante e « costruttivo ». pianoforte:

con 8V* bassa

Sospetto che fosse destinato a un passaggio che viene dopo. Questo. . * ORCHESTRA

Questo è certamente uno dei culmini a cui giunge il movimento, uno dei momenti più emozionanti. È il principio della coda, l’ultimo grande balzo prima della conclusione. Vediamo che cosa ci è dato ascoltare, usando l’ab­ bozzo che vi ho appena eseguito.

ORCHESTRA:

77

Proprio niente da dire. Ha la sua logica ed è « costruttivo ». Ma la ver­ sione che Beethoven infine adottò era ancor più logica e s’impone con mag­ gior efficacia, con più impeto; non ce confronto.

78

L’altro, a paragone, sembra senza forza. E ora, eccovi un abbozzo che mi piace in modo particolare perché ha tutte le caratteristiche beethoveniane essenziali. Mi ricorda un po’ la Patetica. PIANOFORTE:

C’è in esso una sofferenza, un mistero, il presagio di un’eruzione immi­ nente. Si sarebbe adattato benissimo alla coda: armonicamente, ritmicamente e da qualsiasi altro punto di vista tranne quello emotivo. Questo il punto della coda a cui si riferisce. ORCHESTRA:

79

Ora mettiamoci l’abbozzo scartato. ORCHESTRA:

Sentite la differenza? Cos’è successo? Dall’alto siamo scesi in basso per poi risalire ancora più in alto. È un buon procedimento di strutturazione drammatica. È frequente nei lavori teatrali, nei romanzi e nella musica. Ma non era il momento adatto. Beethoven ha già raggiunto l’altezza massima, è all’ultimo livello e vuol continuare irresistibilmente ad andare avanti sino alla fine, mantenendosi alla stessa altezza. E ci riesce con bravura sor­ prendente. È proprio questo suo avanzare geniale, questo voler andare avanti continuamente a guidarlo nella sua lotta con la materia.‘Figuratevi che scrisse tre versioni diverse perfino delle battute finali di questa parti­ tura. Questo è il primo finale che scrisse: un finale improvviso, tipicamente beethoveniano. ORCHESTRA:

81 Perché lo eliminò? È molto espressivo. E invece deve aver pensato che fosse troppo subitaneo e così ne scrisse un secondo, più esteso, più nel carattere di finale, romantico e maestoso. Eccolo. ORCHESTRA:

Ma, come si può vedere sul manoscritto, anche questo finale fu sepolto sotto le cancellature. Deve aver pensato che si prolungasse troppo e che fosse troppo maestoso e pretenzioso. Deve essergli sembrato inadatto al carattere dell’intero movimento, la cui qualità preminente è una nuda, intrinseca, essenziale, univoca e diretta asserzione della massima forza. E così tentò con un terzo finale e questo andò bene. Ma riuscì ancora più improvviso del primo. Come potete capire, dovette lottare e penare prima

di accorgersi di una cosa semplicissima: il difetto del primo finale non consisteva nell’essere troppo brusco, bensì nel non esserlo a sufficienza. Giunge quindi al terzo finale, che è perfetto. Ascoltiamone la versione definitiva. ORCHESTRA:

E così Beethoven giunse al termine del suo viaggio sinfonico, quello almeno del primo movimento. Immaginate un’intera vita dedicata a que­ sta lotta: movimento dopo movimento, sinfonia dopo sinfonia, sonata dopo quartetto e dopo concerto. Sempre alla ricerca, sempre a selezionare per amore della perfezione e del principio dell’inevitabilità. In un certo qual modo, è questo principio a svelare il segreto del grande artista: per mo­ tivi ignoti a tutti e a lui stesso, il grande artista è pronto a sacrificare tutte le sue energie e la sua vita per raggiungere la certezza della inevitabilità della nota che deve seguire. Può sembrare un modo strambo di trascorrere la propria vita, ma non lo è più se consideriamo che in tal modo egli può lasciarci con la sensazione che c’è qualcosa di giusto in questo mondo, qualcosa che ha senso, che obbedisce con coerenza alle sue proprie leggi, una cosa nella quale possiamo aver fiducia e che non ci verrà mai meno. *

(La trasmissione televisiva si concluse con l’esecuzione del primo movimen­ to della Quinta sinfonia di Beethoven.) (Trasmissione televisiva del 14 novembre 1954)

Le ultime righe sono una citazione da « Perché proprio Beethoven? » a pag. 18-19.

IL MONDO DEL JAZZ

COMPLESSO JAZZ:

LEONARD BERNSTEIN:

Chiunque, da un polo all’altro del mondo civile, nell’udire questa musica direbbe immediatamente: è jazz. Vogliamo ora esaminare da vicino il jazz, ma attraverso un’ottica non storica, divenuta fin troppo comune, bensì proprio musicale. Studieremo le « interiora » del jazz, per scoprire una volta per tutte che cosa lo distingue da tutta l’altra musica. La parola jazz ha un significato molto esteso che comprende tanti tipi diversi di musica: dai primi blues al dixieland, al charleston, allo swing, al boogie-woogie, al bop caldo e freddo, al mambo eccetera. * È sempre * A chi volesse ascoltare esempi di questi tipi di jazz, raccomandiamo le seguenti registra­ zioni: Leadbelly, Good Morning Blues, in Take This Hammer{ vol. 1, Folkways FA2004. King Oliver, Jefiy-Roll Morton e altri, Back o’ Town, Riverside 12-130. Red Nichols, Dorsey Bros., Charleston, in Jazz of the Roaring Twenties, Riverside 12-801.

84

jazz, tuttavia, e io lo amo perché è una forma originale di espressione emo­ tiva: mai completamente triste e mai completamente allegra. Persino il blues ha una sua robustezza e ima sua certa qualità callosa che gli impedisce, per lamentose che siano le parole, di diventare sdolcinatamente sentimentale. CANTANTE DI BLUES:

« Empty Bed Blues » di J.C. Johnson *

Benny Goodman, 1938 Carnegie Hall Jazz Concert, 2, CBS 66202. Meade Lux Lewis, Albert Ammons e altri, Giants of Boogie-Woogie, Riverside 12-106. Charlie Parker, The Immortal Charlie Parker, Savoy 12001. Lee Konitz, Lee Konitz with Warne Marsch Atlantic 1217. Perez Prado, Mambo Mania, Victor LPM-1075. '

* Copyright © 1928, 1947, by J.C. Johnson. Tutti i diritti riservati. Riproduzione per Speciale concessione.

85

86 tromba:

« Ole Miss » di W.C. Handy *

Ciò che più mi attira nel jazz è il fatto che sia unico, che sia una forma di espressione musicale tutta particolare. Mi piace inoltre il suo humour. Esso gioca effettivamente con le note. In inglese per dire « suonare » adoperiamo un verbo, to play, che significa anche « giocare ». Giochiamo Brahms e giochiamo Bach: un modo di espri­ merci che, in verità, dovremmo riservare al massimo al tennis. E tuttavia il jazz è un vero e proprio gioco. « Scherza », per così dire, con le note, ci si diverte; quindi è divertimento nel senso più vero della parola. Devo tuttavia difenderlo da coloro che sostengono che sia un genere di musica da classe inferiore. È un fatto che ogni musica è di bassa origine, visto che nasce dal folclore, che per definizione è popolare. Dopotutto, i minuetti di Haydn altro non sono che la forma raffinata di una semplice danza campestre tedesca: altrettanto gli scherzi di Beethoven. Una romanza di un’opera di Verdi la si può spesso far risalire a un umilissimo pescatore napoletano. Su tutta la musica, e in particolare sugli esecutori, ha sempre gravato una certa ombra di disprezzo. Credo che essa sia dovuta al fatto che, storicamente, gli esecutori, i suonatori, sono sempre stati privi della dignità dei compositori. E questo è particolarmente vero nel jazz che, basato com’è sull’improvvisazione piut­ tosto che sulla composizione, è dunque un’espressione dell’arte dell’esecu­ tore. Questo però significa che il jazzista è anche un compositore, ha cioè una funzione creativa che gli conferisce maggiore dignità. Non manca poi chi sostiene che il jazz sia rumoroso. Lo sono anche le marce di John Philip Sousa, ** eppure nessuno si lamenta. Tra l’altro, il jazz non sempre è rumoroso, anzi spesso raggiunge un’estrema delicatezza. L’accusa nasce forse dal fatto, del resto irrimediabile, che in fondo viene suonato in ambienti ristretti. Ma questo non è certo colpa del jazz di per sé. In ogni caso, l’accusa principale contro il jazz è sempre stata quella di * Copyright © 1916, rinnovato nel 1944, by W.C. Handy and Robbins Music Corporation, New York. N.Y. Riprodotto per speciale concessione. ** J. Ph. Sousa (1854-1932). Direttore di banda e compositore di numerose marce popolari. (N.d.R.)

87 non essere arte. Secondo me, invece, lo è, e anche molto particolare. Ma prima di discutere se sia o no arte, occorre sapere che cosa sia in realtà il jazz. Mi propongo quindi di farvi partecipi di quello che so sul jazz e del mio amore per esso. Prendiamo quel blues che abbiamo udito poco fa e vediamo quali sono le sue componenti. COMPLESSO JAZZ:

Ebbene, di quali elementi si compone questo pezzo? Vi troviamo, primo fra tutti, un elemento melodico. In genere, melodi­ camente, la musica occidentale si basa su scale musicali come quelle di modo maggiore con la quale tutti vi siete esercitati da bambini. L.B. ESEGUE AL PIANOFORTE:

Il jazz tuttavia ne usa una particolare che è una variante di quella re­ golare. Quest’ultima, infatti, subisce una modifica in tre punti. La terza nota viene abbassata dal mi al mi bemolle:

La quinta nota, sol: viene modificata in questo sol bemolle:

e la settima nota, si:

diventa si bemolle:

Le tre note che hanno subito il mutamento vengono chiamate « note blue ».

Ecco la scala, di do con note blue. * (scala maggiore con note blue) *

$ -.e.-

k>

o -|

b3 blue

bp. " bo ~jil

Xi..

b5

b7

blue

blue

Pertanto, una frase che normalmente suonerebbe più o meno così:

- che non è jazz - impiegando le note blue si, sol e mi bemolle diventa:

che comincia a manifestare una certa qualità jazzistica. La cosiddetta « scala jazz », però, è usata solo nella melodia. Nelle sotto­ stanti armonie si continuano a usare le solite note non abbassate, il die produce dissonanze tra la melodia e gli accordi. L.B. ESEGUE AL PIANOFORTE:

* In effetti, queste note blue vengpno usate per lo più in senso discendente. Perciò la scala di do si presenta così:

89 Sono proprie queste dissonanze a creare il vero sound del jazz. Per esem­ pio, i pianisti jazz usano sempre, contemporaneamente, queste due note dis­ sonanti:

e c’è ima ragione: in realtà essi cercano un suono che non si trovi lì, bensì a metà strada fra le due note. Tra questa nota: e quest’altra:



vi è un altro suono intermedio chiamato quarto di tono.

Il quarto di tono trae origine direttamente dall’Africa, dove il jazz è nato e dove il quarto di tono è di uso comune. Lo si può produrre con uno strumento a fiato o ad arco o con la voce, ma con il piano se ne può ottenere solo un’approssimazione suonando insieme le due note che gli sono a lato:

La nota desiderata è lì in mezzo tra le due note. Vediamo ora se riesco a cantarvi — e chiedo scusa per la mia orribile voce - un canto swahili che sentii una volta. Le due ultime note sono pro­ prio un quarto di tono: L.B. CANTA:

quarti di tono

Sarò sembrato terribilmente stonato, ma non è così: ho emesso una nota ben precisa di un linguaggio musicale diverso. Nel jazz questa nota è di casa. L.B. ESEGUE AL PIANOFORTE:

90

Ora, per dimostrarvi quanto importanti siano nel jazz le cosiddette « note blue », ascoltiamo quello stesso blues suonato senza di esse, usando cioè le note della scala inalterata. clarinetto:

C’è qualcosa che non va, vero? Si sente che non è più jazz. Ma, nel jazz, ancora più importante della melodia è l’elemento ritmico. Dopotutto, la prima cosa che si associa alla parola jazz è proprio il ritmo. Vi sono due aspetti ritmici nel jazz. Uno è il battere, quello che sentiamo quando il piede del batterista percuote la grancassa:

o quando il contrabbassista pizzica il suo strumento:

91

o persino quando il pianista schiaccia il pedale,

Tutto questo è elementare. Il battere continua, senza cambiare velocità o metro, dal principio alla fine di un pezzo, formando gruppi da due a quattro battiti per ogni misura (detta anche battuta). È, diciamo, la pulsa­ zione del cuore del jazz. Più complesso e più interessante è invece quel ritmo che si sovrappone al pulsare uniforme dei battiti della misura, cioè quelle figurazioni ritmi­ che prodotte da ciò che si chiama « sincope » una parola che avrete certa­ mente udito, ma il cui significato vi è forse rimasto oscuro. Un buon siste­ ma per capire che cosa significhi la parola sincope è pensare al battito del cuore, al suo ritmo costante che a un bel momento, per difetto di una emozione improvvisa, perde un colpo. Questa, la reazione fisica. Tecnicamente, la sincope si ottiene con. l’eliminazione di un accento là dove è previsto, oppure con l’aggiunta di un accento là dove non è previ­

sto. In ambedue i casi si produce un’impressione di sorpresa e di shock. Il fisico risponde a questo shock o compensando per 1 accento omesso o reagendo all’accento inatteso. Ma dove dobbiamo aspettarceli questi accenti ritmici? Sempre sul primo battito di ogni misura. Se in una misura vi sono due elementi ritmici, il primo sarà forte e il secondo sarà debole, esattamente come nella marcia. Per esempio: destro, sinistro, destro, sinistro. Anche se la misura è divisa in quattro parti ritmiche. Le gambe sono sempre due, ma il sergente con­ tinua a contare in quattro: un, 2, 3, 4; un, 2, 3, 4. L’accento cade in maniera naturale sempre su uno. Toglietelo e si avrà una sincope: TRATTENENDO IL FIATO, L.B. SALTA IL PRIMO ELEMENTO RITMICO DELLA MISURA:

(/) 2, 3, 4

(/) 2, 3, 4 eccetera

Come vedete, omettendo l’accentuazione sul primo elemento si provoca una reazione fisica. L’altro modo per ottenere una sincope è esattamente l’opposto: si pone l’accento sull’elemento debole, il secondo o il quarto, dove per naturale tendenza non cade. Così:

Uno, DUE, tre, QUATTRO Uno, DUE, tre, QUATTRO È quel che succede nel jazz, ciò che ci fa battere le mani o schioccare le dita all’accento mancato. Queste sono le caratteristiche basilari del sincopato, di cui ora possiamo capire gli aspetti più delicati. In una misura tra un elemento ritmico e uno successivo ne esistono di più brevi e più deboli, e quando l’accentuazione cade su questi lo shock che ne riceviamo è corrispondentemente maggiore, poiché quanto più debole è l’elemento ritmico accentato da noi, tanto più forte è l’effetto di sorpresa che ne otteniamo. Prendiamo una misura di otto battiti veloci: 1234567 8. Di regola, gli accenti dovrebbero cadere su 1 e 5: 1/ 2 3 4 5/ 6 7 8. Facciamolo invece cadere su un ele­ mento veramente debole, il 4: 12 3 4/ 5 6 7 8

(La batteria attacca col ritmo accentuato come sopra, seguito dalle clave, dalla tromba e cosi via.) *

93

Come vedete, ne vien fuori un autentico ritmo di rumba. Naturalmente, l’effetto sincopato più incisivo lo si ottiene effettuando ambedue le operazioni nella stessa misura: mettendo cioè un accento su un elemento debole e togliendolo da uno forte. Eseguiamo dunque questa dop­ pia operazione: mettiamo un accento sul 4 debole e togliamo compietamente l’accentuazione dal 5 forte. Otteniamo: 1 2 3 41 - 6 7 8 (Riprendono questo ritmo vari strumenti a percussione.)

Sembra di essere nel Congo, vero? LA TROMBA ESEGUE UN MOTIVO CON QUESTO RITMO:

Ora che avete avuto un’idea del sincopato, vediamo che effetto fa senza il sincopato il blues ascoltato prima. Credo che sentirete la mancanza di questo elemento essenziale della vita stessa del jazz: IL SASSOFONO SUONA IN STILE TRADIZIONALE E SENZA VIBRATO:

È proprio square (tradizionale), non trovate? Bene, abbiamo esaminato due elementi molto importanti: la melodia e il ritmo. Ma il jazz non sarebbe jazz senza il suo speciale colore tonale, i va­ lori sonori veri e propri che udite, quelle particolari sonorità. Questi timbri sono molti, ma nascono quasi tutti dalla speciale qualità di voce dei negri. Per esempio, quando Louis Armstrong suona la tromba non fa altro che darci un’altra versione della propria voce. Ascoltate un disco di Armstrong come 1 Can't Give You Anything but Love e paragonate l’assolo vocale con quello della tromba: dovrete necessariamente concludere che appartengono

94 alla stessa persona. * La voce dei negri ha ispirato altre imitazioni strumen­ tali: il sassofono, per esempio, ansimante, un po’ roco, pieno di tremolo e di vibrato.

(A questo punto un sassofono esegue un passaggio prima con vibrato poi senza.) Poi ci sono tutti gli effetti particolari, lo stridio, il ringhio, il singulto, che si ottengono applicando vari tipi di sordine al padiglione dello strumento. Ecco, per esempio, una tromba con sordina a tazzina:

e con wow-wow:

Un trombone con sordina dritta:

* Louis Armstrong, I Can’t Give You Anything but Love, in Armstrong Favorites, Columbia.

95 Inoltre, ci sono ancora altri colori tonali che hanno origini afrocubane: i bongo:

le maracas:

i campanacci cubani:

e molti altri. Esistono poi colori tonali orientaleggianti, come il vibrafono:

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i vari piatti:

e così via. Questi timbri particolari contribuiscono alla singolarità del jazz. Avrete certamente sentito motivi jazz suonati straight (liscio) da complessi non­ jazz, e vi sarete chiesti che cosa mancasse. E qualcosa mancava, infatti: il colore del jazz. Esiste poi ancora un altro elemento jazzistico che sorprenderà quelli tra voi che non considerano il jazz un’arte. Mi riferisco alla forma. Sapevate, per esempio, che i blues hanno una struttura formale classica? In genere, si usa la parola blues per indicare qualunque canzone che sia blue, cioè

97

triste, che abbia a che vedere col fallimento di un amore, che sia piena di malinconia, come per esempio Stormy Weather. E invece Stormy Weather non è un blues, né lo è Moanin' Low o The Man I Love e neppure The Birth of the Blues. Questi sono solo motivi popolari. In realtà, il blues è una rigorosa forma poetica combinata con la musica. Si basa su due versi a rima baciata, con il primo ripetuto due volte. Un blues di Billie Holiday, per esempio, dice:

My man don’t love me, treats me awful mean; Oh, he’s the lowest man I’ve ever seen. (Il mio uomo non m’ama e mi tratta da cane. È l’uomo peggiore che abbia mai incontrato)

Quando lo. canta, però, Billie Holiday ripete il primo verso. Così: My man don’t love me, treats me awful mean; I said, my man don’t love me, treats me awful mean; Oh, he’s the lowest man I’ve ever seen. (Il mio uomo non m’ama e mi tratta da cane. Dico, il mio uomo non m’ama e mi tratta da cane. È l’uomo peggiore che abbia mai incontrato) Questa è la strofa di un blues. Un blues completo non è altro che una successione di strofe che si susseguono finché il cantante ne ha voglia. Avete notato che la coppia di versi di questo blues è, nientemeno, un. pentametro giambico?

My manidon’t love Ime, treatsfme awfful mean Più classico di così si muore. Potete prendere una coppia qualsiasi di pentametri giambici a rima baciata - da Shakespeare, per esempio — e farne, mettiamo/un perfetto Macbeth Blues-.

I will not be afraid of death and bane Till Birnam forest come to Dunsinane. (Non avrò paura di morte e sventura finché la foresta di Birnam non viene a Dunsinane.) Se ne ricava un blues bellissimo: l.b. canta:

Vivace

4 t

N-J I

will not

J)|>J be

a -

fraid

of

death or bane__

i~ T I

said I

Avrete notato che a ciascuno dei tre versi corrispondono quattro misure; tutta la strofa ha quindi dodici misure. Ma il canto occupa soltanto la me­ tà circa delle quattro misure che corrispondono a ciascun verso; il resto è destinato all’accompagnamento di uno o più strumenti. L’entrata dello strumento viene chiamata break. E dal break ha origine l’imitazione della voce da parte dello strumento, la vera forza dinamica del jazz. Forse, il jazz allo stato suo più puro lo si incontra nei break improvvisati da Armstrong in un blues cantato da Bessie Smith. Da questo tipo di imitazione della voce umana trae il suo sviluppo ogni altra improvvisazione strumentale. * Avete fatto caso allo strumento che ha accompagnato i nostri cantanti? È un armonium, quel sostituto ansimante dell’organo che siamo abituati ad associare agli inni religiosi; eppure è uno strumento tutt’altro che fuori posto nel blues, anzi è adattissimo, perché in un blues gli accordi devono essere sempre gli stessi tre di qualunque inno religioso. L.B. ESEGUE ALL’ARMONIUM:

Questi accordi devono seguire sempre uno schema rigorosamente classi­ co. Se lo variate, dovete dire addio al carattere del blues. Dunque, non manca niente: melodia, ritmo, colore del suono, forma e armonia. Ciascuno di questi fattori possiede qualità speciali, per cui si ha jazz e non musica qualunque. Mettiamoli tutti insieme e ascoltiamo per in­ tero un blues, un bel blhes allegro. Sapevate che il blues può essere anche allegro? State a sentire. * Bessie Smith e Louis Armstrong, Reckless Blues, in The Bessie Smith Story, vol. 1, Co­ lumbia LP ML 4807.

99

(Il complesso jazz esegue un arrangiamento blues del King Porter Stomp. Lo stile è Dixieland.) A questo punto sarò certamente riuscito a crearvi la convinzione che il jazz non sia altro che blues. Ebbene, non è così. Per analizzare gli elementi del jazz sono ricorso al blues unicamente perché in esso questi vi appaiono chiari e allo stato più puro. Ma in tutto l’altro jazz non si fa altro che applicare questi elementi alla canzone, alla cosiddetta popular song. Anche questa ha una sua propria forma e segue schemi rigorosi. Questa forma si divide in due o tre parti, ma quasi sempre è tripartita. Quest’ultima la co­ noscete benissimo, perché la sentite molto spesso. È semplicissima, chiunque potrebbe scriverne una. Si prenda Sweet Sue, per esempio. Bastano, in sostanza, le prime otto battute, cioè quelle che in gergo si chiamano refrain o ritornello. L.B. ESEGUE AL PIANOFORTE:

A questo punto, praticamente la canzone è già scritta, perché l’intero pezzo consisterà di solo trentadue battute, cioè quattro gruppi di otto bat­ tute ciascuno. Il secondo gruppo è una ripetizione del primo:

Sedici battute e siamo già alla metà. Le otto battute del terzo gruppo for­ mano quello che viene chiamato il « pónte » o 74T fr r ri,-Jr ir r rr Npyurp dolce

comincia con una forte dissonanza: ORCHESTRA:

Andante

*

e quale tensione crea:

173

e che dolce sollievo ne segue quando viene risolta:

Ora potete capire che anche la dissonanza è relativa e che la sua evolu­ zione, insieme con quella della modulazione e dell’armonia, ha conferito alla musica un potere espressivo sempre più nuovo e sempre crescente. Quando Wagner compose Tristano e Isotta questo potere espressivo della musica giunse ad altezze mai prima raggiunte. Già nelle primissime battute del Tristano Wagner aveva composto una musica così dissonante, così espressiva, così cromatica, così vagante nelle sue modulazioni da una tonalità all’altra che il povero ascoltatore era già quasi giunto al limite estre­ mo della sua capacità di individuazione tonale. Era completamente disorien­ tato e non riusciva più a trovare la casa base, la tonica. In quale situazione percettiva ci troviamo? Siamo sospesi ip una regione di estrema raffinatezza e vaghiamo in un’atmosfera di desiderio inappagato. Sentite questa melo­ dia: anela verso l’alto: L.B. SUONA IL PIANOFORTE:

raggiunge una tensione fortissima:

174

che si risolve:

ma si risolve in un accordo anch’esso carico di tensione armonica. Una pausa. L’anelito della melodia ritorna, un tono più alto:

y

r

v--------ì-------

ir

e di nuovo la trafitta di desidèrio:

un altro accordo armonicamente teso:

----Fn . n N J/ T*



175 Un’altra pausa, un’attesa; ritorna l’anelito, sempre più in alto:

ritorna il desiderio:

che torna a smarrirsi in un successivo accordo sospeso:

Dove siamo? Vaghiamo in un mare di tonalità indefinita. Vedete? Ognuno dei dodici suoni ha ora acquistato valore autonomo, quasi equivalente. I dodici suoni vivono in democratica anarchia. Non più in una società organizzata, governata da una tonica, come era sempre stato con Bach, Beethoven e Brahms. L’eredità che Wagner lasciava al mondo era il caos. Che cosa avreste fatto nei panni di un povero compositore, sperduto nel mondo musicale post-wagneriano? Vi sareste trovati con le spalle al muro perché v’era rimasto ben poco da scrivere. Il procedimento tonale era diven­ tato talmente libero da non consentire altre libertà. Nulla poteva più sor­ prendere dopo l’avvento di Tristano e Isotta.

176

Le reazioni a questo terribile e meraviglioso avvenimento musicale furo­ no molte. E sono queste reazioni, per il meglio o per il peggio, che costitui­ scono ciò che noi oggi conosciamo come musica moderna. La crisi che ne risultò dette luogo al grande scisma, lo scisma che fino ai nostri giorni tiene il mondo della musica diviso in due parti nella disputa sulla tonalità: ha ancora, la tonalità, una sua ragion d’essere? Tutti i com­ positori del ventesimo secolo pertanto, appartengono all’uno o all’altro campo: da una parte gli atonalisti che ritengono la tonalità morta e sepol­ ta; gli altri, che sidibattono per conservarla a ogni costo. Diamo prima uno sguardo allo strano ed esoterico mondo dell’atonalità. Tutto cominciò intorno al 1910 con un genio chiamato Arnold Schonberg. Il suo punto di partenza fu la tradizione lasciata da Wagner, con radici più che salde nel Tristano-, e la sua prima composizione a godere notorietà fu un sestetto per archi intitolato Verklàrte Nacht (Notte trasfigurata), nel quale Schonberg riesce a essere più wagneriano di Wagner stesso. Mentre ascoltate questa musica piena di wagneriano dolore e di desiderio fremente, cercate di distinguere la tonalità tesa, wagnerianamente, agli estrèmi. SESTETTO D ARCHI:

Bello, ma Schonberg si trovava in un vicolo cieco. Aveva forzato la tona­ lità fino a tali limiti tormentosi da non poter andare oltre senza frantumarla. E la frantumò, infatti, distruggendola completamente. Nacque così la mu­ sica atonale: una musica composta senza alcun orientamento tonale, senza una casa base, senza relazioni gerarchiche fra le note; semplicemente musica dei dodici suoni. Eccovi un esempio dal Quartetto per archi, op. 30, n. 3, II movimento:

177 QUARTETTO D’ARCHI:

Converrete che questo non poteva che essere la tappa successiva a Verklàrte Nacht. In sostanza i due pezzi si assomigliano molto, ma il primo è tonale e il secondo atonale; son fatti della stessa stoffa, con gli stessi sussulti tor­ mentosi, la stessa isterica tensione. Tutto questo, psicologicamente, era un parallelo alla Vienna dei tempi di Schonberg: la fabbrica dell’inconscio del­ la Mitteleuropa che produsse Freud, la pittura espressionistica e la poesia dell’incubo. E da questo mondo di incubo, nel 1912, nacque lo spettrale ciclo di liri­ che, il Pierrot lunaire di Schonberg. E una musica che non manca mai di colpirmi e commuovermi pur lasciandomi sempre, nello stesso tempo, un certo malessere. Verso la metà della composizione si prova un gran deside­ rio di correre ad aprire la finestra per respirare aria pura a pieni polmoni. Ma è proprio questa la ragione del suo successo. Eccovi una delle liriche, accompagnata solo dal flauto. Il cantante non canta nel senso abituale della parola, indulge piuttosto in una specie di declamato detto Sprechstimme- un misto di canto, di parlato e di lamento. Questa lirica s’intitola, appropriatamente, « La luna malata »: * voce e flauto:

* Luna, notturna e mortalmente malata / Lì, sull’oscuro cuscino del delo / il tuo sguardo enorme / e febbricitante.

178

Questo è il tipo di musica della libera atonalità. Ma Schonberg, uomo di tradizione culturale tedesca, non poteva accontentarsi di un procedimento così privo di ogni regola. Un tedesco ha bisogno di un sistema. E Schonberg sostituì il vecchio e abbandonato sistema tonale con un nuovo sistema per la composizione di musica atonale. Questo sistema è conosciuto come il si­ stema dei dodici suoni o dodecafonico; vi dà la garanzia assoluta di scrivere musica atonale senza correre alcun rischio che ci si intrufoli alcunché rasso­ migliante anche lontanamente a una tonalità. Essenzialmente è semplice. Si prendono le dodici note della scala cromatica:

e, a piacere, si distribuiscono in un ordine qualsiasi. Viene in tal modo formata quella successione di dodici suoni che prende il nome di serie dode­ cafonica. L’effetto sonoro che se ne produce può essere, ad esempio, questo: L.B. SUONA IL PIANOFORTE:

179 La serie viene quindi usata, invece di una scala, come base per una compo­ sizione. Ma bisogna sapere come maneggiare la serie contrappuntisticamente, per moto retto, per moto contrario, in senso retrogrado, eccetera. Può riu­ scire molto complesso. E non c’è nemmeno una casa base, ima tonica dove rifugiarsi. Prima domanda: questo genere di musica, nel negare ogni tonalità, nega anche una legge fondamentale di natura? Seconda domanda: arriva l’orecchio umano a captare tutto questo? Terza domanda: se lo capta, riesce mai questa musica a parlare al cuore? Molti ritengono che spettò al grande discepolo di Schonberg, Alban Berg, il compito di adottare il sistema dei dodici suoni umanizzandolo in opere nobili come il suo Concerto per violino, la sua grande opera, Wozzeck, e la Suite lirica per quartetto d’archi. Ascoltate questo brano così pieno di pas­ sione dal terzo movimento della Suite lirica. Noterete gli strappi, quei sus­ sulti che sono il marchio di fabbrica della musica atonale: QUARTETTO D’ARCHI:

180

E poi quel momento meraviglioso nell’ultimo tempo, dove si ode una cita­ zione diretta, letterale, dal Tristano e Isotta-. QUARTETTO D’ARCHI:

Si tratta, occorre appena dirlo, di un omaggio intenzionale a Wagner, ma ci svela anche la sorgente di tutto il grande fiume musicale della atonalità. Nel frattempo, i musicisti tonali non si erano arresi. Debussy, nono­ stante gli sforzi ambigui da lui compiuti per indebolirne il principio (scale di toni interi, spostamenti arbitrari del centro tonale, eccetera), finì col sal­ vare pù che distruggere la tonalità. I suoi esperimenti nell’atonalismo, im­ portanti e destinati a esercitare notevole influenza, ebbero l’effetto di creare nuove premesse per la sopravvivenza piuttosto che per l’abbondono definiti­ vo della tonalità^ Debussy pertanto si colloca al centro delle due tendenze, e la sua musica ha già il suo posto sicuro nella storia; non è più l’audace avventura di una volta. Per esempio, per un orecchio moderno medio che cosa c’è di più accettabile del Prélude à l’après-midi d’un faune? flauto:

181

Per salvare la tonalità, si cercò d’impostarla secondo nuove prospettive, e Debussy vi riuscì usando i mezzi espressivi dell’impressionismo francese. Come vedete, il centro musicale del mondo si spostava a Parigi, lontano da Wagner e da tutto il pletorico romanticismo tedesco che egli rappresen­ tava. E a Parigi s’era venuto formando un gruppo di artisti attorno alla figu­ ra di pioniere di Erik Satie che opponeva a ogni forma di wagnerismo il rifiuto della « grandezza ». Satie si mise allora a comporre brevi composi­ zioni rigorosamente semplici: motivi di lineare sobrietà con un accompa­ gnamento ridotto al minimo; come questa Gymnopédie (n. 3) tuttora ese­ guita e molto apprezzata: L.B. SUONA IL PIANOFORTE:

Come dovevano risultare fresche queste note nel 1888 di fronte alla pe­ santezza tedesca. Era la formula di Erik Satie per salvare la tonalità e alla fine del secolo egli esercitò una grande influenza su Debussy, Ravel, Milhaud e gli altri grandi compositori francesi che impararono alla sua scuola questa nuova semplicità e oggettività di linguaggio musicale. L’oggettività: questa la nuova parola d’ordine. Purificare l’aria, dare alla musica nuova vitalità, spogliandola dal lirismo romantico e rendendola più sobria e meno... wagneriana. Servì anche a introdurvi il sense of humour, un elemento da molto tempo trascurato. Era naturale che la reazione al ro­ manticismo tedesco dovesse accompagnarsi alla satira, alla presa in giro. Sorse così una scuola di musica « scherzosa » dove le stonature erano una caratteristica, come quella Polka del primo Sostakoviè (dal balletto L'età dell’oro) che contiene note volutamente sbagliate e altre sorprese divertenti: ORCHESTRA:

182 Forse un atteggiamento più serio di questo neo-oggettivismo lo si trova nella scarnificazione della struttura musicale i cui primi esempi datano, ap­ punto, da quell’epoca. Si sentiva il bisogno di respirare aria fresca, di purifi­ care le sonorità, di liberarsi da tutte le pomposità del vecchio muffito ro­ manticismo. Sentite questo Sostakoviè, molto più tardo, della Quinta sin­ fonia: orchestra:

La semplicità, la chiarezza, l’humour asciutto, la snellezza di struttura dettate dallo spirito di oggettività condussero, naturalmente, a un movi­ mento chiamato neoclassicismo. Per ispirazione ci si rifaceva a Bach, Haydn, Mozart, a un’epoca e a una musica non ancora inquinate dal romanticismo. La chiamata alle armi del neoclassicismo la fece Stravinskij nel 1923 a Parigi col suo Ottetto per strumenti a fiato, apparentemente innocuo, chiaro, pre­ ciso, asciutto, tutto Bach: ORCHESTRA:

183

Un ritorno a Bach, sì, ma con quanta differenza! Ed è proprio in questa differenza che si colloca la musica tonale moderna. La diversità si manifesta in tutte le maniere impiegate per conservare la vecchia tonalità pur dandole un suono nuovo, fresco e, mi si scusi l’espressione, moderno. E quali sono questi accorgimenti? Prima di tutti, un ritorno integrale ai valori musicali di base come le vecchie scale per mantenersi lontani dallo incubo dei dodici suoni. Dimentichiamo la scala cromatica, si disse, e vedia­ mo se c’è ancora qualche possibilità di vita nella vecchia scala diatonica di sette note. Nacquero così opere come Appalachian Spring di Copland che è diatonica come una canzoncina per bambini: ORCHESTRA:

184 Alcuni compositori andarono anche oltre rifacendosi perfino alle scale degli antichi grecL_Si_è. giunti al punto di riadottare la scala pentafonica dei primitivi (ricordate quei cinque tasti neri?).

fiat

Questa rivalutazione delle vecchie scale s’accompagnava, naturalmente, a un rinnovato interesse per la melodia, un interesse che era quasi scomparso nel­ la foresta postwagneriana. Una sinfonia moderna, come la Terza di Roy Harris può in tal modo iniziare con una melodia d’intensità e purezza espres­ siva da vecchio canto gregoriano. Ma sono proprio queste sue qualità arcai­ che a darle un’aura di modernità, così contrastante con le vecchie, sovracca­ riche sonorità wagneriane. ORCHESTRA:

Naturalmente, non tutte le melodie scritte oggi sono così austere. Prendete, a esempio, quella bella melodia del movimento lento della Quinta sinfonia di Prokofiev che si può dire abbia quasi sapore neoromantico. E tuttavia esprime sufficientemente quello spirito di oggettività che ne fa una tipica melodia del ventesimo secolo: ORCHESTRA:

Eccovi nuovamente la tonalità, fresca, giovane, espressione di nuova bel­ lezza. Ma forse il modo migliore per ringiovanire il tonalismo è un uso più libero della dissonanza, la nostra vecchia conoscenza. Immaginate, per esempio, due melodie procedenti simultaneamente in contrappunto. Per forza, in determinati punti si avranno urti dissonanti fra una nota e l’altra. Posso, per darvi un’idea, suonarvi con una mano America e con l’altra The Star-Spangled Banner. Inevitabilmente si avranno questi scontri fra i suoni; per esempio qui: L.B. SUONA IL PIANOFORTE:

Urto!

Urto!

Per evitare gli urti, ed essere convenzionali, occorre manipolare opportuna­ mente uno dei due motivi; e allora:

Ma se si vuol essere moderni basta lasciare le cose come stanno, con tutti gli urti dissonanti che si producono. Questo procedimento è, così come l’ho esposto, è appena il caso di dirlo,

186

ridicolmente semplificato. In realtà, il contrappunto dissonante moderno richiede tanta abilità tecnica e sensibilità selettiva quanta ne richiedeva il vecchio contrappunto « consonante ». L’unica differenza è che le dissonan­ ze consentono molta maggior libertà perché le vecchie regole della prepara­ zione e della risoluzione delle note dissonanti non hanno più ragion d’esse­ re. Diventano pertanto possibili strane sonorità, come quella all’inizio del Concerto per archi e ottoni di Hindemith. Gli ottoni eseguono una melodia perfettamente normale: ottoni: Veloce (ottoni)

e anche gli archi suonano una serie di frasi piuttosto normali: archi:

Ciascuna delle due sezioni strumentali, separatamente considerata, non pre­ senta anomalie. Ma, suonate insieme, invece: ORCHESTRA:

187

Sentite? È musica moderna. Questi urti dissonanti possono produrre effetti molto interessanti. Per esempio, quelli ottenuti con la bitonalità. Questa, l’avrete indovinato, indi­ ca l’uso simultaneo di due tonalità. Se suono il motivo del valzer Sul bel Danubio blu in una tonalità:

eseguendo l’accompagnamento in un’altra tonalità:

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¥

vi avrò dato un esempio semplice di tecnica bitonale:

188

E avete così un altro esempio di musica moderna. La bitonalità è sempre stata la tecnica preferita da Stravinsky. Molta della musica di Petruska trae il suo mordente e la sua freschezza da questo semplice metodo. Ricordate quei sorprendenti squilli di trombe nel finale? La loro efficacia deriva dall’uso della tecnica bitonale. Una tromba suona nella tonalità di do maggiore: TROMBA l:

l’altra in quella di fa diesis maggiore: TROMBA il:

così assieme producono un suono che è inconfondibilmente PetruSka.

189 E che diremo del ritmo? I compositori moderni hanno trovato che que­ sto era il terreno meno esplorato e meno sfruttato dai musicisti del passato. La tradizione musicale tedesca aveva elaborato ben poco sui ritmi: sempre squadrati, simmetrici e regolari: ORCHESTRA:

Un Haydn moderno, con la massima facilità, darebbe a questa musica un ritmo asimmetrico e irregolare; qualcosa del genere: L.B. SUONA IL PIANOFORTE:

oppure diversi altri tipi di distorsione ritmica. Vi sono innumerevoli nuove maniere di impiegare il ritmo: ritmo sinco­ pato, cambiamento di misure, spostamento degli accenti, ritmi incrociati e tanti altri. L’esempio più celebre è dato certamente da La sagra della prima­ vera di Stravinskij dove una volta per sempre il ritmo viene liberato da ogni convenzionale restrizione. Sentite che effetto barbarico produce lo sposta­ mento dell’accentuazione ritmica:

190 ORCHESTRA:

Gran parte di questo nuovo interesse per il ritmo trova la sua origine nel fascino esercitato dal jazz sui compositori del nostro secolo. Il jazz non solo ha arricchito la musica di nuovi ritmi, ha altresì insegnato ai composi­ tori l’uso del ritmo incrociato owerossia dei ritmi sovrapposti. * Permettete­ mi di offrirvene un esempio molto semplice. Son certo che tutti ricordate un vecchio motivo di Gershwin chiamato Fidgety Feet dove la mano sini­ stra suona il basso in abituali battute a 4/4: L.B. SUONA IL PIANOFORTE:

mentre con la mano destra il motivo si sviluppa in battute a 3/4!

Goè più di un modulo metrico per volta.

191

Insieme le due mani creano un incrocio di suoni molto gradevole:

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Il semplice principio della sovrapposizione dei ritmi viene sviluppato dai compositori moderni, fino a fargli raggiungere una complessità che spaven­ ta. Ascoltate questo brano da El Salón Mexico di Copland nel quale si sen­ tono tutte le anomalie ritmiche presentate in forma di semplice folclore messicano. ORCHESTRA:

Vedete che musica eccitante se ne produce?

192 Una buona parte d’interesse ci viene fornita dalla costante ricerca del compositore nei riguardi di nuovi colori sonori, nuovi strumenti e nuove stimolanti combinazioni strumentali. Egli tenta sempre di produrre nuove sonorità, caratteristiche del nostro secolo, e queste le ottiene principalmente allontanandosi da quelle di un’orchestra sinfonica convenzionale, del tipo monumentale tramandatoci dalla tradizione tedesca. Milhaud escogitò sonorità di un fascino irresistibile per il suo balletto La creazione del mondo: sembra che suoni un complesso Dixieland di hippies. orchestra:

Un sound davvero nuovo. E sentiamo anche questi suoni notturni e spettrali che sorgono dalla Musica per archi, percussioni e celesta di Bartók: ORCHESTRA:

193 Adagio (Jsca.66 )

Potrei citarvene ancora delle dozzine. Vedete dunque come con timbri inusuali, sonorità fuori del comune, nuo­ ve dissonanze e armonie, il tutto improntato a una concezione oggettivistica della musica, i grandi compositori moderni riescano a usare ancora le stesse vecchie note, sempre usate, ottenendo una rimarchevole freschezza di lin­ guaggio. E io credo che sia questo quello a cui si allude quando si afferma che quel compositore « ha qualche cosa da dire ». Se ha qualche cosa da dire è molto probabile che non debba far ricorso alla dodecafonia schònberghiana per dimostrare originalità. Forse nel vecchio corpo della tonalità c’è ancora vita. L’ultimo accordo della Sinfonia di Salmi di Stravinskij è la vecchia triade di tonica di do maggiore. Però Stravinskij gli dà questa struttura e questa orchestrazione: ORCHESTRA:

194

In che consiste l’originalità, la novità di questo impasto strumentale? Per cominciare, Stravinskij elimina la quinta della triade, il sol; poi fa ese­ guire il suono base do a tutti gli strumenti, mentre gli oboi e i flauti suonano anche il mi. La scarna essenzialità di questa disposizione strumen­ tale crea un effetto assai suggestivo, perché consente ai suoni armonici di risuonare liberamente al posto dei suoni reali (cioè quelli eseguiti), i quali avrebbero ispessito la sonorità dell’accordo dandone, inoltre, una versione romantica. Perfino quel mi acuto sembra risuonare più come un suono ar­ monico che come un suono reale. È come se l’accordo fosse composto da una serie di soli do che lasciano ai propri suoni armonici naturali il compito di colmare le distanze che li separano. La sonorità di questo accordo è pura, rarefatta, serena ed esaltata allo stesso tempo. È forse l’accordo orchestrale più puro che sia mai stato udito. Siamo arrivati dove volevamo: il genio dà nuova vita al materiale musicale di base. Abbiamo così dato uno sguardo panoramico al mondo musicale moderno diviso in due campi, il tonale e l’atonale con Stravinskij e Schonberg al co­ mando. Ma negli ultimi anni ci siamo dovuti anche accorgere di un sor­ prendente ravvicinamento fra le due parti. Stravinskij, seguito da altri com­ positori tonali, ha dimostrato un profondo interesse nella tecnica dodeca­ fonica e ce lo conferma la sua musica più recente. Viceversa, molti compo­ sitori atonali tendono ad avvicinarsi al tonalismo. In tutti e due i casi l’im­ pegno del musicista, le sue aspirazioni mirano allo stesso risultato: la crea­ zione di nuova bellezza. Questa sintesi sembra indicare la direzione della futura musica moderna verso un nuovo genere di bellezza. Ma pensate al miracolo al quale assistiamo ai nostri giorni, nella sesta decade del ventesimo secolo, di tanta bellezza nella nostra musica. Questo deve suscitare la nostra meraviglia, e non la mancanza di un Beethoven o di uno Chopin. Che ce ne faremmo se li avessimo? Essi ci hanno già dato le loro opere meravigliose, spetta ora ai nostri contemporanei darci le loro. Non vi preoccupate se vi riesce difficile assorbire e accettare la nuova mu­ sica. Senza accorgervene, di arte nuova ne assorbite molto di più di quanto

195 sospettiate. Le innovazioni di James Joyce possono rinvenirsi perfino nei romanzetti tascabili che comprate dal giornalaio. Quando guardate la pub­ blicità di una gomma da masticare nell’autobus, senza saperlo, state ammi­ rando una versione di Mondrian o di Mirò. Un lavoro alla televisione può avere un commento musicale con musica di Bartók. E se andate al cinema è assai probabile che la musica che sentite sia musica moderna. Quanti di voi si sono accorti che in un film piuttosto recente, La tela del ragno, men­ tre appariva la meravigliosa Lauren Bacall, la musica di accompagnamento era apertamente atonale; * circa un’ora di musica atonale? Dal film con la Bacali alla sala da concerto, dalla pubblicità della gomma da masticare al Museo d’Arte Moderna, dal romanzetto tascabile a Ulisse c’è solo un passo. Siate contenti dell’arte moderna: la musica di oggi è la vostra musica. (Trasmissione televisiva del 13 gennaio 1937)

REGISTRAZIONI DI MUSICHE DEL XX SECOLO CHE SI RACCOMANDANO (in ordine di apparizione nel testo) 1. Stravinskij: Le Rossignol, completo (Il canto * usignuolo) dell solisti e coro, Orchestra della Radiodiffusion Franose (Chiytens), Angel D-35204 o T-35204.

2. Schonberg: Verklàrte Nacht, op. 4 (Notte trasfigurata), Philadelphia Orchestra (Ormandy), Col. 3ML-4316. 3. Schonberg: Quartetti nn. 1-4 (completi), Quartetto Juillard, CBS 79304.

4. Schonberg: Pierrot lunaire, Stiedry-Wagner (Schonberg), CBS 61442. 5. Berg: Suite lirica, Quartetto Juillard, Col. ML2148.

6. Debussy: Prelude à RCA 26.41317 AW.

l’après-midi d’un

faune, Philadelphia

Orchestra

(Ormandy),

7. Satie: Gymnopédie n. 3, Masselos (pianoforte), MGM E-3154. 8. Sostarne: Suite dal balletto L’età dell’oro, National Symphony Orchestra (Mitchell), anche Sinfonia n. 1, West. XWN-18293.

9. SostakoviÓ: Sinfonia n. 5, op. 47, New York Philarmonic (Mitropoulos), Col. ML-4739.

10. Stravinskij: Ottetto per strumenti a fiato, N.W. German Radio Orchestra (Stravinskij), Col. 5ML-4964. 11. Copland: Appalachian Spring, Philadelphia Orchestra (Ormandy), Col. ML-5157. 12. Harris: Terza sinfonia, Boston Symphony Orchestra (Koussevitskij), Viet. LVT-1016.

13. Prokofiev: Quinta sinfonia, op. 100, Philadelphia Orchestra (Ormandy), Col. ML-5260. 14. Hindemith: Concerto per archi e ottoni, op. 50, Philadelphia Orchestra (Ormandy), Col. ML-4816.

* Musica di Leonard Rosenman.

196 15. 16.

ah.

Stravinsky: Petruika, Orchestra del Conservatorio di Parigi (Mantecar), Decca 642237

Stravinsky : La sagra della primavera, New York Philarmonic (Bernstein), HCBS 77245.

17.

Copland: El Salòn Mexico, Columbia Symphony Orchestra (Bernstein), Col. CL-920.

18.

Milhaud: La creazione del mondo, Columbia Symphony Orchestra (Bernstein), v. n. 17.

19.

Bartók: Musica per archi, percussione e celesta, Philarmonia Orchestra (von Karajan), Col. 3ML-4456.

20.

Stravinskij: Sinfonia di Salmi, London Philarmonic Choir and Orchestra (Ansermet), Lond. LL-889.

LA MUSICA DI JOHANN SEBASTIAN BACH

CORO E ORCHESTRA:

LEONARD BERNSTEIN:

BACH! Una sillaba smisurata: fa tremare i compositori, riduce gli esecutori in gi­ nocchio, beatifica gli amanti della sua musica e, apparentemente, fa venire la barba a tutti gli altri. Come mai? Come può annoiare una musica così vibrante, così piena di emozioni? Ma è vero: molti di voi trovano Bach noioso. È inutile che lo neghiate, non v’è ragione di vergognarsene; la noia nasce dal fatto che non è facile conoscere la sua musica, e per amarla biso­ gna conoscerla e il guaio è che non avete molte occasioni per conoscerla; non si sente molto Bach in giro. Per sentirlo, dovreste frequentare assidua­ mente determinate chiese o andare a concerti molto specializzati. Quanti di voi hanno avuto l’esperienza della forza di un corale di Bach? Quanti di voi conoscono la potenza e la maestà della sua musica per organo? Chi di voi ha provato il fascino delicato della sua musica per flauto, il ca­ lore delle sue melodie? Quante volte avete con lui partecipato alla gioiosa celebrazione di Dio, come nel Magnificat? coro:

* Dal Magnificat (n. 7, fine: « Fecit potenùam »).

198 Allegro

gni -

Ma-

Ma- gni-

fi - cat

Ma - gni -

fi - cat

Ma fi- cat

Che slancio, quanta vitalità! E probabilmente non l’avete mai sentito. Il problema è che se anche l’avete sentita, è una musica che non si arriva a capire con facilità. Capire Bach non vuol dire sapere che morì a Lipsia nel 1750, che ebbe due mogli e ventuno figli. Significa apprezzare la sua musica, ed è questa l’ardua impresa di stasera. Una volta capito Bach abbastanza per amarlo, finirete con l’amarlo più di ogni altro compositore. Posso dirvelo perché sono passato attraverso la stessa esperienza. Per me Bach significava ben poco fino a 17 anni, quando cominciai a studiarne la Passione secondo san Matteo. Prima, Bach per me voleva dire una musica piuttosto monotona che sentivo ai concerti e alla radio, più qualche pezzo per pianoforte che mi veniva dato per esercizio. Naturalmen­ te, facevo già allora alcune eccezioni. La Pantasia cromatica mi piaceva enormemente per le sue qualità d’improvvisazione e il suo impeto virtuo­ sistico:

L.B. AL PIANOFORTE:

199

Ricordo anche che il movimento lento del Concerto italiano mi commo­ veva profondamente con quella sua lunga e mesta melodia all’italiana: pianoforte:

etc. Ma perché questi pezzi mi toccavano in profondo mentre il resto di Bach mi era indifferente? Per la loro immediatezza. Mi riuscivano istantaneamente comprensibili come espressioni di gioia, mestizia, potenza, mentre la gran parte delle composizioni di Bach mi sembrava una sequenza inter­ minabile di semicrome che marciavano come un treno in corsa (come nella Fuga in la minore}-. PIANOFORTE:

non riuscivo a discernervi alcuna emozione; mi sembrava trattarsi più di moto che di commozione. Ricordo che cercavo, per renderla più eccitante, di suonarla a modo mio, con distorsioni ritmiche che, ritenevo, le davano più calore: pianoforte:

(rubato)

marcato

, accet.

sostenuto - _

sotto voce

o cercavo di farne un turbine di virtuosismo e di leggerezza:

oppure un’eruzione di dinamismo:

Tutti questi artifici, inutile dirlo, erano aberrazioni perché servivano solo a mascherare ciò che io ritenevo fosse una povertà di fondo. Ben presto dovetti accorgermi che vi sono grandi bellezze nascoste in questa musica; il fatto è che non sono così immediate da capire come ci attenderemmo, perché rimangono sotto la superficie; sono bellezze profonde e le emozioni che suscitano durano molto a lungo. Ma perché la musica di Bach è meno immediatamente comprensibile di quella di Brahms, poniamo, o di Cajkovskij? Innanzitutto perché la sua musica non è chiaramente drammatica. Siamo stati a tal punto guastati dal­ la musica scritta dopo Bach, essenzialmente drammatica, che ci aspettiamo che il dramma in un modo o nell’altro faccia la sua comparsa; se viene a mancare, ne restiamo delusi e ci annoiamo. Precisiamo che cosa rende drammatica la musica. È il contrasto come principio di composizione, il principio di dualità: due temi, due idee o emo­ zioni contrastanti nello stesso movimento di una composizone. Il principio dualistico fiorì nella musica da Bach in poi. Lo si rinviene in quasi tutte le sinfonie di Beethoven; nell’Eroica per esempio. Il primo è un tema maschio: L.B. SUONA IL PIANOFORTE:

il secondo femminile:

201

Prendiamo il Secondo concerto per pianoforte di Rachmaninov II primo tema è aggressivo e pieno di agitazione:

mentre il secondo è lirico e riposante:

202 A rafforzare il contrasto vi sono, inoltre, le diverse tonalità: il primo tema di Rachmaninov è in do minore, il secondo in mi bemolle maggiore. Il contrasto genera dramma: nero e bianco, buono e cattivo, giorno e notte, dolore e gioia. Bach rappresenta l’ultimo baluardo contro il concetto dualistico. Ciascun movimento si basa sempre su una sola idea. Bach aderi­ va a una concezione più antica per cui si dà una cosa sola alla volta: dolore o gioia, giorno o notte; una concezione valida tanto quanto l’altra. Ma ci siamo assuefatti al dualismo, e per gustare Bach dobbiamo pertanto saperci orientare e imparare ad attenderci una musica basata sempre su un solo sentimento alla volta. Esposto il tema, l’avvenimento principale ha già avuto luogo; ciò che segue nel movimento è una continua elaborazione, una reite­ razione e discussione di quell’avvenimento iniziale; come l’architettura di un ponte che si sviluppa inevitabilmente dall’arco iniziale. Ascoltate le prime battute del Quinto concerto brandeburghese e capi­ rete quello che voglio dire: ORCHESTRA DA CAMERA:

Questo è l’arco, il resto del ponte segue logicamente e inevitabilmente. E continua sempre così, percorrendo quelle lunghe e meravigliose linee melodiche. Ma se vi attendete un cambiamento di umore, un rallentare im­ provviso che sfoci in lirismo sentimentale - se vi attendete un contrasto, in altre parole - vi sbagliate. Contrasto ce n’è, ma limitato al forte e al piano, a cambiamenti di tonalità e di strumenti; il contrasto drammatico dei temi manca del tutto. È una musica basata su oxi’unica catena di temi che vengono modulati, sviluppati e sfruttati nei loro dettagli più minuti. È la tecnica dell’argomen­ to, quella di scegliere un soggetto e discuterlo in profondità; può sembrare piuttosto intellettualistico, e io ritengo che, infatti, lo sia. Ma chi ha mai sostenuto che la musica per essere bella debba essere facile? Riconosciamo­ ne la complessità, rimbocchiamoci le maniche, prendiamo fiato e accingia­ moci a incontrare Bach sul suo stesso terreno.

203 La prima trincea l’abbiamo già superata: la tecnica dell’argomento e della assenza di contrasto drammatico. La seconda è quel terribile spauracchio: il contrappunto. Perché tutti si spaventano a questa parola? Quando viene pronunciata e, peggio ancora, nella sua forma aggettivale di « contrappuntistico » la gen­ te dà segni di arrendersi; dice: « Basta con questa storia del contrappunto, tanto non la capisco. Fammi sentire una bella e semplice melodia ». Ma non c’è ragione di aver paura. Il contrappunto è melodia, che si accompa­ gna a un’altra melodia o ad altre melodie e tutte procedono simultaneamen ­ te in un unico discorso melodico. Ricorderete che in un altro programma dei miei « Omnibus »* vi suonai The Star-Spangled Banner con la mano sinistra mentre con la destra suo­ navo America producendo scontri dissonanti fra le note. Da questo nasce l’arte raffinata del contrappunto, l’arte le cui regole consentono di combina­ re due o più melodie insieme. Come avete visto, cambiando un paio di note in una delle due melodie, esse risultarono perfettamente in accordo, senza urti dissonanti anche se il motivo di America ne venne fuori legger­ mente alterato. Era un buon esempio di contrappunto. Comunque, perché si usa il contrappunto? Perché questa complicazione? Teoricamente, la combinazione contrappuntistica di due melodie risulta con un suono di raddoppiato interesse. Per la stessa ragione, sei melodie com­ binate insieme dovrebbero produrre un suono sei volte più interessante; ma è sei volte più difficile da comporre e, lo ammetto, sei volte più difficile da capire all’ascolto. Ripeto, noi siamo stati guastati, viziati da tutta la musica che, preva­ lentemente, ci è dato di ascoltare. Una musica dove l’armonia prevale sul contrappunto. In altre parole noi siamo abituati a sentire una melodia e gli accordi che l’accompagnano nel basso, sorreggendola come pilastri: me­ lodia e armonia, motivo e accompagnamento. Eccone un esempio nella Sinfonia in re minore di C. Franck (II movimento): ORCHESTRA:

Vedi: « Introduzione alla musica moderna », pag. 157.

Ecco il concetto di musica che noi abbiamo perché negli ultimi duecento anni la musica si è sviluppata in questa direzione. Prima, la gente ascoltava la musica in modo diverso: l’orecchio era as­ suefatto a udire linee melodiche, suonate simultaneamente, piuttosto che ac­ cordi. Sembra strano, ma era il modo musicale naturale di una volta. Il contrappunto ha infatti preceduto l’armonia, che è un fenomeno relativa­ mente recente. In realtà, tutta la musica primitiva, come la musica orientale di oggi, è lineare-, anche la struttura, il tessuto del jazz è eminentemente lineare. È questa la ragione per cui i jazzisti idolatrano Bach. Per essi è il modello supremo della linea melodica ininterrotta nel suo fluire; e si spiega, perché Bach e i jazzisti concepiscono la musica nella stessa maniera lineare, vale a dire orizzontalmente. La melodia esprime una concezione orizzontale della musica, il suo fluire lineare nel tempo, come per esempio nel Contrapunctus II daWArte della fuga-. L.B. AL PIANOFORTE:

e così anche il contrappunto che consiste in un insieme di melodie diverse che fluiscono orizzontalmente, come in questa fuga di Bach: QUARTETTO D’ARCHI:

205

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Qui si hanno quattro linee melodiche simultaneamente. Ma c’è un altro aspetto da considerare. Se a un momento qualsiasi noi arrestassimo la mu-

Che cosa avremmo? Quattro note differenti suonate contemporaneamente, cioè un accordo, un gruppo verticale di suoni. La sonorità verticale è armo­ nia: l.b. al pianoforte:

206

gli accordi, i pilastri che sostengono la melodia; come in questo corale di Bach Ach, wie nichtig! Ach, wie fliichtig! coro:

Questa è musica verticale, eppure contiene elementi orizzontali. La me­ lodia dei soprani, naturalmente, è orizzontale. Ma ognuna delle altre tre parti che l’accompagnano - contralti, tenori e bassi - canta la sua melodia lineare. Notate la linea orizzontale cantata dai bassi: BASSI:

Ciò che vorrei incominciaste a capire è che armonia e contrappunto sono interdipendenti, e che elementi dell’una sono attivi nell’altro. Mi è stato det­ ti che questo è un punto troppo sottile per essere afferrato dai non-musicisti; ma io non sono d’accordo. È, inoltre, un punto importantissimo perché dà la chiave dello stile bachiano. Bach fonde il verticale e l’orizzontale nella musica in modo così meraviglioso che è impossibile dire di una sua opera « questo è solo contrappunto » o « è solo armonia ». Bach architetta un tipo sublime di sistema di parole incrociate in cui le note delle « orizzonta­ li » e quelle delle « verticali » sono interdipendenti e tutte sono perfetta­ mente al proprio posto. Tentiamo ora di esaminare quanto conosciamo della tecnica bachiana in

207 qualcuna delle sue composizioni; vediamo come si risolve il cruciverba. Prendiamo la sua musica più semplice, il corale, l’inno luterano, e vi tro­ viamo una melodia semplice, limitata e tanto facile da poter essere ricordata da tutta la congregazione dei fedeli che la debbono poi cantare in chiesa con l’accompagnamento di accordi. Bach ha armonizzato centinaia di questi cora­ li per tutte le parti vocali: soprani, contralti, tenori e bassi; come quello appena ascoltato. Di solito, in ogni congregazione, erano disponibili i quat­ tro tipi di voci e il corale veniva allora cantato in chiesa in tutte le sue parti. In caso contrario i fedeli avrebbero cantato soltanto la parte del soprano. Le melodie, i motivi erano per lo più conosciuti da tutti, perché si tratta­ va, prevalentemente, di motivi popolari. La chiesa luterana favoriva una musica che potesse essere cantata dagli stessi fedeli, differenziandosi in tal modo dalla liturgia cattolica dove il canto era affidato al clero officiante e al coro. La chiesa protestante accoglieva quindi melodie di ogni tipo e da tutte le fonti: canti d’amore, marce, ballate più o meno profane e canti che arrivavano in Germania dall’Italia e dalla Francia. Tutti venivano subito assimilati e trasformati in inni. Per esempio, prendete uno dei più popolari motivi di corale O Lamm Gottes unschuldig (O Agnello immacolato)-. l.b. CANTA:

O LAMM

GOT TES

UN • SCHUL

■ DIG AM

STAMM DES KREU ZES

GE SCHLACH TET

Non somiglia stranamente a Twinkle, Twinkle, Little Stari

Twin - He, twin - Ide

lit - tie

star

How I

won - der

what you are

Per la verità, questo era un motivo popolare dell’epoca, conosciuto col ti­ tolo francese di Ah, vous dirai-je, maman. CORO DI FANCIULLI:

। Ah

1 i

rir ii

vous di - rai - je

ma - man

h ce

। qui

। 111 । । a cau - se

mon tour - meni?

208

Il motivo del corale è differente, ma ne ha la stessa struttura: CORO DI FANCIULLI:

O

LAMM

GOT - TES

UN-

SCHUL - DIG

Bach prendeva un motivo come questo e lo faceva cantare dal soprano aggiungendovi un’armonia a tre parti e ciascuna di queste parti era una me­ lodia ricca di significato e di bellezza. Ecco l’aspetto orizzontale di questa musica verticale. Se ascoltate il corale, armonizzato da Bach, capirete quello che voglio dire: coro: O

LAMM

GOT -

TES

SCHUL-

UN-

*

DIG

Avrete sentito il motivo cantato nel registro acuto dai soprani. Ma nei regi­ stri sottostanti che succedeva? I contralti cantavano questo: CONTRALTI:

O

LAMM____

GOT__

i tenori quest’altra frase melodica: tenori:

e i bassi quest’altra: bassi:

TES___

UN

__

SCHUL-

-

DIG

209

O____

LAMM

GOT - TES

UN-

SCHUL -

DIG

Ci accorgiamo allora che ognuna delle voci ha il suo proprio significato orizzontale, è melodicamente bella. È questa la ragione per la quale le quat­ tro voci assieme producono una musica così profondamente ricca e affasci­ nante malgrado la sua grande semplicità. Con tutta la sua ricchezza, Bach sviluppò il corale in qualcosa di ancor più ricco chiamato preludio-corale. Il preludio-corale è una composizione piuttosto breve a struttura continua ma nella quale, in certi punti, appaiono frasi melodiche di un corale. È come un fiume che scorre tranquillo nel corso del quale sorgono delle isole. Il fiume è il discorso musicale princi­ pale, le isole le frasi del corale separate Tuna dall’altra. Ed ecco che inter­ viene il contrappunto che riesce a convogliare in un corso unico le acque del fiume e la terra delle isole. Un esempio lo traiamo dal motivo del corale Gesù, gioia d’ogni uman desio: CORO:

Con questo Bach compone un preludio-corale per organo. Il motivo del co­ rale non appare subito. Prima il fiume cominciala scorrere tranquillo: una linea melodica completamente diversa dal motivo del corale con la quale ha, tuttavia, una certa vaga relazione: organo:

210 Poi ci si avvicina alla prima isola, la prima frase del corale e il fiume con­ tinua pacificamente a scorrere:

Ed ecco che la seconda isola ci viene incontro mentre il fiume continua a scorrere lungo le sue sponde:

Il contrappunto di Bach è squisito; così limpido, così consono al significato

211

del corale. Ma il contrappunto nasce dall’armonia, l’armonia dettata dal motivo del corale stesso. Troviamo quindi di nuovo armonia e contrappunto intrecciati inestricabilmente. Da questo, Bach portò il contrappunto a forme più complesse, nella re­ gione nobile delle fughe e dei canoni. Sapete che cosa è un canone: due linee melodiche che procedono imitandosi, proprio come in Fra Martino campanaro, che abbiamo cantato da bambini. Nel canone, come in questa canzoncina, è sempre una sola voce a cominciare. Io comincio con « Fra Martino campanaro... » e voi entrate cantando la stessa cosa mentre io continuo con « Dormi tu, dormi tu... » Così comincia un canone. Ma quando Bach compone un canone, per quanto complesso sia il con­ trappunto che se ne sviluppa, la struttura armonica si mantiene sempre per­ fettamente salda. Questa invenzione a due voci, per esempio, comincia in maniera canonica: la mano destra suona una frase di due battute, poi la sinistra ne suona l’imitazione precisa: L.B. SUONA IL PIANOFORTE:

Come per incanto, Bach sceglie tutte le note che non solo si combinano contrappuntisticamente alla perfezione, ma che producono anche l’effetto di armonia, pur nella mancanza assoluta di accordi. Queste due semplici linee melodiche riescono infatti a darci l’impressione della massima completezza armonica. Con non più di due note per volta Bach ci offre un’armonia di sonorità limpidissima, sicché l’ascoltatore non si smarrisce mai fra le due distinte linee melodiche, poiché ha un punto di riferimento nell’implicita armonia che unifica tutto. Dal canone si passa, naturalmente, alla forma più elaborata di contrap­ punto: la fuga, che per opera di Bach diventa una forma di tale potenza espressiva, mai più uguagliata da altri compositori. L’analisi strutturale della fuga prenderebbe un’intera trasmissione se non proprio un corso di Conser-

212 vatorio. Ma per amare Bach non occorre essere un esperto nell’arte della fuga. Ci basti sapere che la fuga nasce dal canone e che procede con vari episodi, variazioni, sviluppi, diventando una nuova forma musicale, com­ plessa e piena di interesse. Ma anche nel labirinto contrappuntistico Bach riesce a fondere il con­ trappunto con l’armonia, e non si è mai costretti a dover seguire quattro melodie diverse contemporaneamente come se si avesse a che fare con quat­ tro conversazioni telefoniche nello stesso momento. L’armonia unisce le va­ rie voci e le fa confluire in una unica entità musicale. Cominciamo così a farci un’idea di che cosa è Bach. Il corale, il preludio­ corale, il canone e la fuga compongono il quadrangolo del mondo musicale bachiano. Forti dunque della nostra conoscenza, della abilità che abbiamo acquisito di ascoltare orizzontalmente e verticalmente a un tempo, siamo pronti per Capire e apprezzare qualsiasi opera di Bach. Ed esaminiamo per­ tanto il coro iniziale della Passione secondo san Matteo, l’opera eccelsa che fece nascere in me la passione per Bach. Pur nella sua complessità, non c’è nulla in esso che ora non riusciamo a capire. È semplicemente un preludio­ corale, un fiume con le sue isole, non dissimile da quello che abbiamo sen­ tito poco fa. L’unica differenza è che questo preludio-corale è cantato, e il suo fiume sonoro non scorre tranquillo ma tumultuosamente. orchestra:

213

stc»

1,1 LJOJ L ** Questa introduzione orchestrale ci immerge subito nella sofferenza e nel dolore, preparandoci all’entrata del coro che canta il profondo cordoglio del fedele al momento della crocifissione. Tutto questo è ottenuto mediante imitazioni tematiche e canoni. I bassi cantano « Kommt, ihr Tochter, helft mir Klagen » (Fate coro al mio lamento) e a essi rispondono i tenori a una quinta superiore: coro maschile:

Nel frattempo il coro femminile canta un controcanone:

214 CORO FEMMINILE:

Ai cori si aggiunge il palpitante accompagnamento dell’orchestra e la gran­ diosità d’insieme che ne risulta è incomparabile. ORCHESTRA E CORO:

215

Improvvisamente il coro si sdoppia in due masse corali procedenti ad antifona: una esclama « Sehet » (Viene); « Wen? » (Chi?) chiede la secon­ da. Al che la prima risponde Den Br'àugtigan. Sebt ibn — Wie? — Als wie ein Lamm » (Lo sposo, o ciel, dolce - Sì! - Come un agnel). E su questo ansimare di domande e risposte sorge il coro di fanciulli « O Lamm Gottes unschuldig » (O Agnello immacolato) che sulle pene terrene fa librare, lim­ pidissima, la verità della redenzione.

coro di fanciulli:

t* f

t-1 irO

LAMM GOT

TES

uri UN -

SCHUL - DIG

La perfezione e la bellezza della stesura contrappuntistica mozzano il fia­ to: in tutta la musica non esiste nulla di simile.

216 cori: Andante CORO DI

FANCIULLI

CORO DI

FANCIULLI

CORO I

Chi ha detto che in Bach non c’è dramma? Con questo coro, ben prima che il narratore abbia cominciato a raccontarci la storia, il dramma ci appa­ re con la stessa forza dell’inizio di una tragedia greca. Per Bach non esiste pietà più profonda, né terrore o esaltazione più grande di quella che suscita la semplice storia del Cristo e del miracolo del Suo amore per l’uomo. È nel dramma della Cristianità che il genio di Bach brucia col suo fuoco più vivo.

2Y1 Per esempio, nella Passione secondo san Matteo i fatti della Passione vengono narrati dal tenore con un recitativo della massima sobrietà, accom­ pagnato soltanto dal clavicembalo, dal violoncello e dal contrabbasso. Ma quando si leva la voce di Gesù, anche nei suoi recitativi, entrano gli archi che circondano le sue parole di accordi luminosi paragonabili ad aureole. Eccovi un esempio di questo recitativo che descrive la scena dell’ultima Cena, quando Gesù dice ai discepoli che uno di essi lo tradirà; sentitele queste aureole sonore: evangelista:

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UND AM A-BEND

SETZTE

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TISCHE MIT DEN ZWÒLFEN ;

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218 Segue uno dei momenti più drammatici di tutta l’opera. I discepoli si accalcano l’uno sull’altro, chiedendo ciascuno, pieno d’ansia e timore: « Herr, bin ich’s, bin ich’s? » (Che? son io, Signor?) A questo punto il con­ trappunto raggiunge un effetto talmente drammatico che la scena sembra sia recitata. Un altro esempio di Bach, il non drammatico, che si rivela più drammatico di tutti: coro:

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241

Oppure Fopposto della speranza, la disperazione, nel capolavoro di Musorgskij, il Boris Godunov : BASSO ACCOMPAGNATO AL PIANOFORTE:

242

Sentite ora la Salome di Strauss che canta l’esaltazione del male dopo aver baciato la testa decapitata di Giovanni Battista; il senso di peccato che ne emana ci fa rabbrividire: SOPRANO ACCOMPAGNATO AL PIANOFORTE:

243

Notate che tutte queste emozioni elementari non ci vengono semplicemente presentate, ma ci vengono scagliate contro. La musica ha un potere • tutto suo, particolare; non passa, per raggiungere direttamente il nostro cuore, attraverso il processo selettivo del nostro cervello. Non ha bisogno di essere vagliata come le parole di un dramma o di una commedia teatrale. Un fa diesis non richiede considerazione alcuna, colpisce dritto il Bersagli»

244 Pensate a re Lear in un’opera: infurierebbe con una profonda voce di basso come nessun re Lear potrebbe mai riuscire a infuriare nella tragedia di Sha­ kespeare, toccando freneticamente un sol bemolle alto mentre il coro ulu­ la dietro le quinte e una novantina di orchestrali lo sostengono. Natural­ mente, nel teatro di prosa, ove non si odono che parole, si possono ottenere maggiori sfumature e, a volte, si raggiunge una maggiore profondità. Si ha più possibilità di giocare col significato delle parole, di esaminare e riesa­ minare, di ragionare e giustificare. Come fa Jago nell’O/eZZo. In Shakespea­ re, Jago è un personaggio più sottile, più ambiguo di quello dell’opera. Il personaggio di Shakespeare non è un malvagio in senso assoluto anche se indulge nella malvagità. È certamente il « cattivo » della vicenda, ma le sue ragioni trovano una certa spiegazione che egli stesso enuncia nei soliloqui. Questo, per esempio: UN ATTORE RECITA IL SOLILOQUIO DI JAGO: ... Che Cassio la ami, lo credo bene. Che ella ami lui, è probabile. Il Mofo, per quanto io non possa sopportarlo, è di natura fedele, amorosa e nobile; e oso credere che si dimostrerà, per Desdemona, un marito perfetto. E, poi, anche io la amo, e non solo per piacere ma anche per vendetta, poiché sospetto che il Moro libidinoso si sia insinuato nel mio letto. E questo pensiero mi rode dentro come un veleno [...].

L.B.:

Potete immaginare tutte queste parole messe in musica? È inconcepibile. C’è troppo ragionamento, troppa ambiguità, richiedono troppo cerebrali­ smo per essere capite. In un libretto d’opera non c’è tempo per tutto que­ sto. Nell’opera la musica espande il testo, emozionalmente, a tal punto da relegare le parole a un valore, a una funzione rudimentale. I personaggi sa­ ranno pertanto delineati in maniera essenziale, senza complicazioni, in modo da consentire la loro immediata identificazione. Debbono corrispondere a emozioni primarie. In altre parole, Jago nell’opera deve essere buono o cattivo, senza sfumature. Da questo Otello (l.b. mostra il volume della tra­ gedia di Shakespeare) a questo esile libretto (l.b. mostra il libretto dell’ Otello). Ne emerge uno Jago assai diverso, che si adatta perfettamente alle esigenze operistiche di Verdi. Questo Jago è un malvagio tradizionale, in tutto e per tutto. Non vi sono dubbi, non ha scuse né motivi complessi per essere quello che è. È il male, ne è perfettamente cosciente e ce lo fa sapere senz’altri ambagi. « Credo », egli dice, « credo in un Dio crudel che m’ha creato simile a sé... Credo che l’uomo sia malvagio e che io son solo un uomo. Credo che dopo tutta la sua follia l’uomo muoia e che dopo la morte non vi sia che il nulla. Il cielo è una fandonia! »

245 BARITONO E ORCHESTRA:

Abbiamo finora dato uno sguardo a qualche brano d’opera di vàrio gene­ re, e abbiamo sempre dovuto constatare che l’opera è grande, più grande del teatro di sole parole, più grande della realtà; e questa sua maggior di­ mensione le vien data dalla musica e dal canto. Come la musica pervenga a questo risultato ce lo rivelerà l’esame che fa­

246

remo dell’intero terzo atto della Bohème di Puccini; un atto breve, deli­ zioso. La scena è a Parigi, nel 1830. Si vede una taverna presso una delle bar­ riere daziarie che esistevano ai margini della città. È un grigio mattino d’in­ verno; non è ancora l’alba, nevica e fa assai freddo. Ce lo dice subito la mu­ sica di Puccini: una serie di quinte discendenti, fredde e tristi. L.B. SUONA AL PIANOFORTE LE PRIME BATTUTE MENTRE CONTINUA A PAR­ LARE:

Vi sono svariate maniere per rappresentare la neve sul palcoscenico: una pioggia di fiocchi di sapone cade in una luce livida mentre la gente gira im­ bacuccata fino alle orecchie battendosi le braccia sul torace per mantenersi calda. Ma niente di tutto questo può seppure lontanamente eguagliare l’ef­ fetto di quelle quinte fredde e desolate che Puccini fa scendere proprio come la neve. Nel frattempo, si odono voci di operai che chiamano le guar­ die daziarie perché aprano la porta consentendo il loro ingresso in città. Dall’intemo della taverna ci arrivano invece i canti e lo schiamazzo di bevi­ tori che si attardano fino alle ore piccole.

247 Fra di essi c’è Musetta che canta un frammento del famoso valzer col quale l’abbiamo conosciuta nel secondo atto:

Tutto questo serve a darci l’atmosfera dell’intero atto. E con quanta mae­ stria Puccini vi riesce! (A questo punto l’inizio del terzo atto viene eseguito con l’orchestra e il coro.) Abbiamo quindi visto come l’azione drammatica venga dalla musica am­ plificata fino a dimensione operistica; nel caso ora esaminato il paesaggio stesso acquista nuovo valore tramite la musica. Ma, come vi ho detto al principio, siamo oggi in un laboratorio e ci è pertanto consentito fare espe­ rimenti. Vi darò due versioni della stessa scena. Prima, assisterete alla sce­ na recitata da attori « normali », seguendo fedelmente il libretto; poi, per capire di che cosa veramente si tratta, la sentirete cantata. Ma, attenzione: ricordatevi che cosa v’ho detto a proposito dei libretti d’opera. Non sono lavori teatrali, ma semplici strutture poetiche. Nel nostro soggetto vi sono quattro personaggi, tutti bohémien del Quar­ tiere Latino: Mimi, una ricamatrice di delicata costituzione; Rodolfo, un poeta morto di fame, che è da poco diventato il suo amante; il miglior amico di Rodolfo, Marcello, pittore; e infine Musetta, una ragazza piutto­ sto piccante che vive con lui. Questi tipi da Greenwich Village li abbiamo lasciati, nel secondo atto, pieni di allegria e filanti il perfetto amore nel­ l’atmosfera festosa della vigilia di Natale. Ma nel frattempo è successo qualcosa, qualcosa che non va, e a dircelo è Mimi. attori

(recitando): (al Sergente) Sa dirmi, scusi, qual è Posteria... (non ricordando il nome) dove un pittor lavora? sergente (indicando il Cabaret) Eccola.

mimì

MIMÌ

Grazie (Esce una fantesca dal Cabaret; Mimì le si avvicina.) O buona donna, mi fate il favore di cercarmi il pittore Marcello? Ho da parlagli. Ho tanta fretta. Ditegli, piano, che Mimì lo aspetta. (La fantesca rientra nel Cabaret.)

248 (ad uno che passa) Ehi, quel panieri doganiere (dopo aver visitato il paniere) Vuoto! sergente

sergente

Passi! (Dalla barriera entra altra gente, e chi da una parte, chi dall’altra tutti si allontanano. Le campane dell’ospizio Maria Teresa suonano mattutino, È giorno fatto, giorno d’inverno, triste e caliginoso. Dal Cabaret escono alcune coppie che rincasano.) marcello (Esce dal Cabaret e con sorpresa vede Mimi.) Mimi?! MIMÌ

Son io. Speravo di trovarvi qui. MARCELLO

È ver. Siam qui da un mese di quell'oste alle spese. Musetta insegna il canto ai passeggeri; io pingo quei guerrieri sulla facciata. (Mimi tossisce.) È freddo. Entrate. MIMÌ

C'è Rodolfo? MARCELLO

Sì. MIMÌ

Non posso entrar. MARCELLO (sorpreso)

Perché? (Scoppia in pianto) O buon Marcello, aiuto!

mimì

MARCELLO

Cos'è avvenuto? MIMÌ

Rodolfo m'ama. Rodolfo m'ama mi fugge e si strugge per gelosia. Un passo, un detto, un vezzo, un fior lo mettono in sospetto... Onde corrucci ed ire. Talor la notte fingo di dormire e in me lo sento fiso spiarmi i sogni in viso. Mi grida ad ogni istante: Non fai per me, prenditi un altro amante. Ahimè! In lui parla il rovello; lo so, ma che rispondergli, Marcello? MARCELLO

Quando s'è come voi non si vive in compagnia. Son lieve a Musetta ed ella è lieve a me, perché ci amiamo in allegria... Canti e risa, ecco il fior d'invariabile amor! MIMÌ

Dite bene. Lasciarci conviene. Aiutateci voi; noi s’è provato più volte, ma invano. Fate voi per il meglio. MARCELLO

Sta ben! Ora lo sveglio.

249 L.B.:

Non è ceno un soggetto da fare andare in visibilio. Due innamorati che litigano, questo è tutto. Lui l’ha lasciata perché è geloso, e lei non sa che cosa fare. Immagino che v’interessi ben poco. Ma assistiamo ora alla stessa scena con la musica di Puccini: vedrete che v’interesserà enormemente. (La stessa scena viene eseguita dai cantanti e dall’orchestra.) L.B.:

Non trovate che la vicenda ora v’interessa? Certamente; e perché? Per l’intervento di una musica splendida. Ma c’è di più: non si tratta soltanto di musica bellissima. Questa, infatti, viene impiegata da un mago del teatro che con essa riesce a presentarci, magnificandoli, i personaggi. Mimi, per esempio. Fin dalle prime note che canta nel rivolgersi alle guardie daziarie, la musica ci fa capire che il suo stato di salute è grave. Notate che io non mi riferisco alle sue parole : queste son ben poca cosa: « Sa dirmi, scusi, qual è... » eccetera. Ma le note ci dicono molto di più: L.B. CANTA:

do- ve un pit-tor

la-

vo -

ra

Avete sentito quelle pause fra le note, il suo penoso ansimare fra una pa­ rola e l’altra? E avrete senza dubbio anche notato che l’intera frase musi­ cale è composta di note in discesa che suggeriscono chiaramente il suo stato di debolezza fisica. Poi, nel rivolgersi alla fantesca fa uno sforzo e le note risalgono un poco: l.b. canta:

250

per ricadere un’altra volta: le forze le vengono meno. Che descrizione musi­ cale perfetta! Il senso della debolezza fisica di Mimì è vieppiù accentuato da quelle note che scendono di un semitono alla volta, l’intervallo più breve, sì che par quasi di udire un unico, lungo sospiro.

L’orchestra intanto accompagna con una serie, anch’essa discendente, di accordi di nona molto struggenti. l.b. suona:

Vi accorgete come tutte queste minuzie, messe assieme, riescano a pro­ iettare un’immagine di Mimì che è puramente e indiscutibilmente musica­ le? E non si tratta, badate, di una melodia, ma soltanto di un recitativo: quel modo di cantare, cioè, che per sua sfortuna suggerisce assenza d’inte­ resse melodico. Ma nel melodramma tutto deve essere cantato, dal princi­ pio alla fine e il recitativo pertanto, in un modo o nell’altro, ci deve essere. Un’opera non può comporsi soltanto di arie e romanze che esprimano stati d’animo. Ne risulterebbe una staticità completa. Quindi, per narrare la vi­ cenda, l’intervento del recitativo, del terribile recitativo, è indispensabile. * Sono i momenti in un’opera che vi annoiano, vi danno fastidio perché sem­ bra che tutti sappiano quello che si dice tranne voi e vi sentite a disagio. Zavorra. Ma quando il recitativo è usato da Puccini con la funzione di de­ scrivere il personaggio e investendolo di tanto valore drammatico-musicale, allora non è mai tedioso; ha la sua particolare bellezza. E proseguiamo con la sola recitazione. Marcello ha promesso che parlerà a Rodolfo e fa allontanare Mimì per evitare una scenata fra i due. Ma que­ sta si nasconde dietro un albero e ode la conversazione fra gli amici.

* Per esempi di recitativo, confrontare il capitolo « La commedia musicale americana », pagina 134.

251 ATTORI (RECITANDO): Rodolfo (Esce dal Cabaret ed accorre verso Marcello.)

Marcello. Finalmente! Qui niun ci sente. Io voglio separarmi da Mimì. MARCELLO

Sei volubil cosi? RODOLFO

Già un’altra volta credetti morto il mio cor, ma di quegli occhi azzurri allo splendor esso è risorto. Ora il tedio l’assale. MARCELLO

E gli vuoi rinnovare il funerale? (Mimì non potendo udire le paróle, colto d momento opportuno, inosservata, riesce a ripararsi dietro a un pla­ tano, presso al quale parlano i due amici.) RODOLFO

Per sempre! MARCELLO

Cambia metro. Dei pazzi è l’amor tetro che lacrime distilla. Se non ride e sfavilla l’amore è fiacco e roco. Tu sei geloso. RODOLFO

Un poco. MARCELLO

Collerico, lunatico, imbevuto di pregiudizi, noioso, cocciuto! mimì (fra sé) (Or lo fa incollerir! Me poveretta!) Rodolfo (con amarezza ironica) Mimì è una civetta che frascheggia con tutti. Un moscardino di Viscontino le fa l’occhio di triglia. Ella sgonnella e scopre la caviglia con un far promettente e lusinghici. MARCELLO

Lo devo dir? Non mi sembri sincer. RODOLFO

Ebbene no, non lo son. Invan nascondo, la mia vera tortura. Amo Mimì sovra ogni cosa al mondo, io l’amo, ma ho paura, ma ho paura! Mimì è tanto malata! Ogni dì più declina. La povera piccina è condannata! marcello (sorpreso) Mimì? mimì (fra sè) Che vuol dire? RODOLFO

Una terribil tosse l’esil petto le scuote e già le smunte gote di sangue ha rosse...

252 MARCELLO

Povera Mimi! (Vorrebbe allontanare Rodolfo.) mimì (piangendo) Ahimè, morire! RODOLFO

La mia stanza è una tana squallida... il fuoco ho spento. V'entra e l'aggira il vento di tramontana. Essa canta e sorride e il rimorso m'assale. Me, cagion del fatale mal che l'uccide! MARCELLO

Che far dunque?. (angosciata) Ahimè! È finita

mimì

Adesso sappiamo tutto: Mimì è fatalmente ammalata e Rodolfo l’ha la­ sciata per il suo bene. La situazione è piuttosto commovente ma è poca cosa a paragone di quello che il nostro mago riesce a farne. Sentite come, con la sua musica, le fa raggiungere un livello di grandezza emotiva, di vera tra­ gedia. (La stessa scena è eseguita dai cantanti e dall’orchestra.) l.b.:

Come vedete, Puccini ha amplificato, nel vero senso della parola, i senti­ menti dei personaggi. Il segreto della forza emotiva di questa scena sta in un colpo da maestro tipicamente pucciniano. La musica della prima parte della conversazione è volutamente superficiale, poco impegnata. Rodolfo canta con vigore molto giovanile, come se non fosse particolarmente toccato dalla situazione. L.B. CANTA:

253

Sembra una marcia, quasi una danza, piena di esuberanza giovanile e per­ fino di sarcasmo. Gli amici si parlano come due vecchi compagni di scuola. Ma è proprio questo a generare la forza drammatica, perché Rodolfo na­ sconde i suoi veri sentimenti, e quando si lascia andare, l’effetto del contra­ sto conferisce raddoppiata drammaticità a tutto ciò che segue. Per esempio, il momento in cui lui mente sulle ragioni per le quali ha abbandonato Mimi e dice: « Mimì è una civetta che frascheggia con tutti » cantando così:

254

Un momento dopo Marcello mette in dubbio la sua sincerità e Rodolfo confessa la verità cantando lo stesso motivo con il cambiamento di una sola nota, la seconda, che è portata al la superiore.

Quanto sentimento in quella sola nota di differenza! C’è tutto il dolore della verità che egli non riesce più a trattenere. E quei versi « una terribil tosse l’esil petto le scuote »: sono un affermazione d’una aridità quasi clini­ ca, anche se in italiano hanno un suono poetico. Puccini l’avrebbe potuta musicare con semplicità altrettanto clinica:

255

Ma se ne guarda bene. Su quelle parole Rodolfo canta un motivo meravi­ glioso: non solo racconta che Mimì è malata, ma esprime anche tutta la sua disperazione. L.B. SUONA E CANTA:

Con la massima espressione jsr

Rodolfo:

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256

Così si fa l’opera. Ora passiamo a considerare un’altra funzione della musica' nell’opera, un’altra amplificazione della realtà: il, canto simultaneo da parte di più personaggi. È una delle grandi attrattive dell’opera: pensate al quartetto del Rigoletto, al sestetto della Lucia, al trio del Cavaliere della rosa. E perché questi sono sempre i momenti salienti in un’opera? Perché comunicano una emozione che nessun’altra forma d’arte riesce a comunicare: la possibilità di sentire contemporaneamente l’espressione di emozioni diverse. Nel tea­ tro di prosa questo è impossibile. Per essere comprese, più persone non pos­ sono parlare contemporaneamente: ne risulterebbe una confusione. Come in questo momento della Bohème. ATTORI PARLANDO CONTEMPORANEAMENTE: RODOLFO

Mimi di serra è fiore. Povertà Fha sfiorita; per richiamarla in vita non basta amore!

MARCELLO

Oh, qual pietà! Poveretta! Povera Mimì!

MIMI

Ahimè! È finita O mia vita! È finita Ahimè, morir!

L.B.:

Un pasticcio. La musica però fa miracoli perché le note son fatte per risuo­ nare insieme, al contrario delle parole. E così questo piccolo trio diventa un momento di struggente bellezza, non più un pasticcio. La musica ha am­ plificato la realtà nella ricchezza del lirismo nel quale cogliamo in sostanza tre emozioni contemporaneamente: La disperazione di Rodolfo:

257

lo sconforto impotente di Marcello:

e, soprattutto, l’angoscia di Mimì:

258

insieme tessono una trama di emozioni che, a sua volta, fa provare una emozione diversa: IL TRIO VIENE CANTATO:

Agitando un poco

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Capite che voglio dire con « una trama di emozioni »? Qualcosa che solo l’opera può darci. E continuiamo con la nostra storia. ATTORI (RECITANDO): (Mimi tossisce, tradendo la sua presenza) Rodolfo {vedendola e accorrendo a lei)

Che? Mimì! Tu qui? M’hai sentito? MARCELLO

Ella dunque ascoltava? RODOLFO

Facile alla paura per nulla io m’arrovello. Vien là nel tepori (Vuol farla entrare nel Cabaret.) MIMÌ

No, quel tanfo mi soffoca! RODOLFO

Ah, Mimì! (Stringe amorosamente Mimi fra le sue braccia e Vaccarezza.) (Dal Cabaret si ode ridere sfacciatamente Mu­ setta.) MARCELLO

È Musetta che ride. (Corre alla finestra del Cabaret.) Con chi ride? Ah, la civetta! Imparerai. (Entra impetuosamente nel Cabaret.)

260 l.b.:

Succede ben poco. Ma osservate come la musica riesca ad amplificare la azione usando, in questo caso, un altro procedimento. Ciascuno dei piccoli avvenimenti viene messo a fuoco e prende vita per il modo con cui la mu­ sica ripete temi che già conosciamo dagli atti precedenti. Per esempio, nel confortare Mimì e cercando di dare poca importanza a quello che ha detto, Rodolfo canta riecheggiando la melodia dell’aria di Mimì nel primo atto: L.B. SUONA IL PIANOFORTE:

E quando Mimì dichiara di non poter sopportare la pesante atmosfera dentro l’osteria, usa il tema della sua malattia:

Si ode Musetta che ride: e l’orchestra suona il suo tema:

261

La tecnica del cosiddetto leitmotiv raggiunge il vertice sommo con Wa­ gner e il suo livello più basso negli accompagnamenti musicali dei film di Hollywood. Ma quando è ben usato, opera meraviglie; proprio come in questa scena.

(La scena precedentemente recitata ora viene cantata.) l.b.:

Ora esamineremo come la musica riesca a espandere l’azione drammatica fisicamente, nel tempo. È quel che intendo dire quando affermo che l’opera ha un tempo suo proprio, la sua propria quarta dimensione. Paragoniamo il tempo richiesto dalla stessa scena; prima recitata, poi cantata. ATTORI (RECITANDO): {svincolandosi da Rodolfo) Addio. Rodolfo (sorpreso) Che! Vai? mimì (affettuosamente) D’onde lieta uscì al tuo grido d’amore, torna sola Mimì al solitario nido. Ritorna un’altra volta a intesser finti fior. Addio, senza rancor. — Ascolta, ascolta. Le poche robe aduna che lasciai sparse. Nel mio cassetto mimì

262 stan chiusi quel cerchietto d’or e il libro di preghiere. Involgi tutto quanto in un grembiale e manderò il portiere... — Bada, sotto il guanciale c’è la cuffietta rosa. Se... vuoi... serbarla a ricordo d’amori... Addio, senza rancor. L.B.:

Ci sono voluti esattamente 36 secondi. Emozionalmente dovrebbe durare molto di più, tanta è l’importanza che quel momento ha per ambedue. Re­ citata, la scena sembra aver scarsa rilevanza: « Addio, senza rancor » ed è tutto. Ma sotto queste parole, apparentemente trascurabili, scorre un fiume di sentimenti. Puccini a questo punto ferma il tempo e Mimì canta un’aria. Le parole sono identiche, non ce n’è una di più, ma vengono pronunciate in una nuova dimensione e un cerchietto e una cuffietta rosa acquistano improvvisamente nuovo e grande significato: è la rinuncia di Mimì a un grande amore, alla sua vita stessa.

(Mimi canta l’« Addio ».) Dura 210 secondi e sono stati secondi d’oro: il tempo s’è arrestato; non c’erano né minuti né secondi; siamo rimasti sospesi in un momento d’in­ tensa emozione, e il fatto che esso sia durato 210 secondi non ha alcuna importanza: per noi è stato un momento e un’eternità allo stesso tempo. Ci rimane il finale dell’atto: il bellissimo duetto fra i due innamorati, seguito dal meraviglioso quartetto delle due coppie: una che litiga come cani e gatti, l’altra perduta nell’estasi della riconciliazione. ATTORI (RECITANDO): RODOLFO

Dunque è proprio finita? Te ne vai, te ne vai, la mia piccina?! Addio, sogni d’amor!... MIMÌ

Addio, dolce svegliare alla mattina! RODOLFO

Addio, sognante vita... (sorridendo) Addio, rabbuffi e gelosie!

mimì

RODOLFO

...che un tuo sorriso acqueta! MIMÌ Addio, sospetti!... MARCELLO

Baci... MIMÌ

Pungenti amarezze! RODOLFO

Ch’io da vero poeta rimavo con carezze!

263 MIMÌ E RODOLFO

Soli d’inverno è cosa da morire! Soli! Mentre a primavera c’è compagno il sol! (nel Cabaret fracasso di piatti e bicchieri rotti) . marcello (di dentro) Che facevi, che dicevi presso al fuoco a quel signore? musetta (di dentro) Che vuoi dir? (Esce correndo.) MIMÌ

Niuno è solo l’april. (fermandosi sulla porta del Cabaret, rivolto a Musetta) Al mio venire hai mutato colore. musetta (con attitudine di provocazione) Quel signore mi diceva: Ama il ballo, signorina?

marcello

(Insieme) RODOLFO

Si parla coi gigli e le róse.

MARCELLO

Vana, frivola, civetta! MUSETTA

Arrossendo rispondeva: Ballerei sera e mattina. MARCELLO

Quel discorso asconde mire disoneste. MIMÌ

Esce dai nidi un cinguettio gentile...

MIMÌ E RODOLFO

Al fiorir di primavera c’è compagno il sol! Chiacchìeran le fontane la brezza della sera.

MUSETTA

Voglio piena libertà! (quasi avventandosi contro Musetta) Io t’acconcio per le feste se ti colgo a incivettire!

marcello

MUSETTA

Ché mi gridi? Ché mi canti? AlTaltar non siamo uniti. MARCELLO

Bada, sotto il mio cappello non ci stan certi ornamenti... MUSETTA

Io detesto quegli amanti che la fanno da mariti... MARCELLO

Io non faccio da zimbello ai novizi intraprendenti.

Balsami stende sulle doglie umane.

MUSETTA

Fo all’amor con chi mi piace! MARCELLO

Vana, frivola, civetta! MUSETTA

Non ti garba? Ebbene, pace, ma Musetta se rie va. MARCELLO

Ve riandate? Vi ringrazio:

(ironico) or son ricco divenuto. Vi saluto. Vuoi che aspettiam la primavera ancor?

MUSETTA

Musetta se ne va. (ironica) sì, se ne va! Vi saluto. Signor: addio! vi dico con piacer.

264 (avviandosi con Rodolfo) Sempre tua per la vita...

mimì

RODOLFO

G lasceremo... MIMÌ

Ci lasceremo alla stagion dei fior... RODOLFO

...alla stagion dei fior... MIMÌ

Vorrei che eterno durasse il verno! mimì E Rodolfo (dall’interno, allontanandosi) Ci lascerem alla stagion dei fior!

MARCELLO

Son servo e me ne vo! (S’allontana correndo furibonda, a un tratto si sofferma e gli grida-. ) Pittore da bottega! marcello (dal mezzo della scena, gridando-. ) Vipera! musetta

MUSETTA

Rospo! (Esce) MARCELLO

Strega! (Entra nel Cabaret.)

L.B.:

La vicenda è piuttosto povera. Gli innamorati hanno deciso di non sepa­ rarsi prima della primavera. Proprio niente di eccezionale. Ma la musica di Puccini la trasforma in uno dei momenti più commoventi di tutta la storia del teatro. Udrete come siano in essa impiegati tutti i mezzi espressivi di cui vi ho già parlato: la musica che amplifica il significato delle parole, delle situazioni, dell’atmosfera, dei paesaggi e delle emozioni. Il tempo stesso viene esteso. Viene usato il leitmotiv e, naturalmente, si ha il canto simultaneo di più personaggi. In aggiunta a tutto questo udrete anche la drammaticità creata dal contrasto dei due duetti contrapposti: uno lirico ed espansivo, l’altro agitato, tutto ripicchi. Questo è veramente il supremo godimento che offre l’opera: poter provare negli stessi istanti l’emozione di stati d’animo e passioni contrastanti, di avvenimenti diversi. Ma solo gli dèi erano capaci di provare più di un sentimento alla volta. Durante questi brevi momenti siamo dunque saliti al loro livello. Oggi abbiamo avuto il modo di osservare l’innocenza dell’opera, il can­ dore, direi quasi, col quale cristallizza e amplifica le emozioni. Abbiamo visto come semplici parole di una vicenda drammatica raggiungano con la musica altezze e profondità insospettate. Questo il significato di quel « grande » che usiamo per il melodramma. Ma la musica va ancora più lontano: può privare le parole di ogni rile­ vanza. È il culmine a cui giunge l’opera: la musica ha un tale potere di co­ municazione che la conoscenza anche sommaria dell’azione drammatica ci basta, non occorre altro per il nostro godimento. Quando la musica ope­ ristica è grande crea un mondo a parte, tutto suo, nel quale, tempo e spa­ zio vengono alterati; gli stessi valori drammatici vengono trascesi e rag­ giungono livelli superiori. La misura quindi della sua grandezza è propor­ zionale al potere col quale ci attrae sul suo pianeta lasciandocene respirare l’aria arcana. Con le opere più alte - Don Giovanni, Tristano, Otello, Il Ca­ valiere della rosa, Wozzeck — ci troviamo senz’altro in questo mondo nuovo. E quando ritorniamo, il nostro spirito è più ricco, più nobile.

(L’esecuzione della scena finale del Tristano e Isotta conclude la trasmis­ sione.) (Trasmissione televisiva del 23 marzo 1958)

aOIGNI

INTRODUZIONE

7

NEL GIUSTO MEZZO

9

1. CONVERSAZIONI IMMAGINARIE

15

UNA CHIACCHIERATA TRA LE MONTAGNE ROCCIOSE

17 17 22

Scena prima. Perché proprio Beethoven? Scena seconda. Significato? E che significa? I. Telegramma II. Lettera III. Lettera IV. Lettera V. Lettera VI. Telegramma VII. Lettera Vili. Telegramma

28 28 28 30 31 34 35 35 37

PERCHÉ NON SCRIVI UNA BELLA CANZONE ALLA GERSHWIN?

38

INTERLUDIO

45

SALA MISSAGGIO, CALIFORNIA

47

SEZIONE FOTOGRAFICA

51

SETTE OMNIBUS, SCRITTI TELEVISIVI

63

LA QUINTA SINFONIA DI BEETHOVEN

65

IL MONDO DEL JAZZ

83

L’ARTE DI DIRIGERE

107

CHE NE È DELLA GRANDE SINFONIA AMERICANA?

LA COMMEDIA MUSICALE AMERICANA

134

INTRODUZIONE ALLA MUSICA MODERNA

157

LA MUSICA DI JOHANN SEBASTIAN BACH

197

CHE COSA FA GRANDE L’OPERA

233

Esuberante e raffinato, Leonard Bernstein, compositore, diret­ tore d’orchestra e pianista noto in tutto il mondo, è anche l’au­ tore di questo classico libro, che nel suo genere ha ottenuto in America un successo senza precedenti: ben 170.000 copie ven­ dute in poco tempo. La gioia della musica costituisce una vera e propria avventura nel mondo della conoscenza musicale, della comprensione - po­ tremmo dire - della « affiliazione ». I temi principali riguardano: •

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il processo creativo che ha condotto alla Quinta Beethoven il rapporto del jazz con le altre forme musicali l'arte di dirigere l’orchestra il melodramma la commedia musicale americana la musica di Johann Sebastian Bach l’introduzione alla musica contemporanea

Sintonia

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Completamente corredato di esempi musicali e illustrato da un piccolo repertorio fotografico, il libro si raccomanda a chiunque ami la musica senza limiti di modi e di tempi, ma anche a chi voglia accostarsi a essa per la prima volta: Bernstein lo condurrà per mano, senza pedanteria e senza fanatismi, senza presun­ zione e senza intellettualismi, a conoscerla, ad apprezzarla, a non staccarsene più. Leonard Bernstein, nato a Lawrence (Massachusetts) nel 1918,

compositore, direttore d’orchestra e pianista, è stato direttore stabile della Filarmonica di New York dal 1958 al 1968. Ha diretto opere al Metropolitan, alla Scala (primo americano apparso nel nostro massimo teatro) e all’Opera di Stato di Vienna. Figura popolarissima di interprete e di animatore, ha scritto un’opera, commedie musicali (fra cui West Side Story), balletti, sinfonie, molta musica di scena e per film (tra cui quella per Fronte del

porto).