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Italian Pages 336 Year 1988
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LUIGI CATALDI MADONNA
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LA FILOSOFIA DELLA PRORABILITÀ NEL PENSIERO MODERNO Bullu Logique di Yolt-Rqyal a Kant
CADMO EDI’rOKE
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per i miei genitori
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zyx zyxw zyxwvut zyx Indice Sommario
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11
17
Prefazione
Introduzione I. La Logique di Port-Royal
O. Premessa 17 i. Per una logica del probabile 20 2 . L’analisi circostanziale 27 3. Certezza e probabilità 37
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47
11. John Locke O. Premessa 47 1. Conoscenza e intuizione 48 2 . Dimostrazione e sensazione 61 3. La teoria della probahiiitii 66
83
111. Christian Thomasius
105
IV. Christian Wolff
O. Premessa 83 1. Scienza e probabilità 85 2 . La logica induttiva 93 3. La natura delle idee 101
O. Premessa 105 1. L’interesse per il probabile 107 2 . Probabilità aleatoria e principio di ragione insufficiente 121 3. Probabilità induttiva ed esperienze indubitate 138
153
V. David Hume
181
VI. Moses Mendelssohn
O. Premessa 153 1. probabilità dei casi e probahiliti delle cause 155 2. Prohaliilismo e determinism0 158 3. La prova 164 4. Per una concezione piU liberale della scienza 174 O. I’reniessa 181 1. La filosofia della probabilitii 182 2 . Certezza, probabilità e ipotesi 187 3. Probabilismo contro scetticismo e indeterminism0 i93
199
VII. Immanuel Kant
207
Bibliogrdfia
O. Premessa 199 1 . La fine della filosofia moderna della probabilità 199
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Prefazione
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I1 tema di questo libro fa parte di una ricerca sulla metodologia empirica nel razionalismo classico, finanziata per due anni dalla Fondazione Alexander von Humboldt e poi continuata ancora per tre anni con una borsa di studio del Ministero italiano della Pubblica Istruzione. Tale ricerca è stata svolta in gran parte nel Seminario Filosofico dell'università di Mannheim e presso la cattedra di Teoria della scienza e Sociologia della stessa Università. AI corpo docente e non docente di questo Seminario e di questa cattedra va il mio ringraziamento per aver facilitato in tutti i modi sia ia ricerca che il soggiorno in Germania. In modo particolare ringrazio Hans Werner Arndt che ha ispirato il progetto iniziale di ricerca e ne ha stimolato poi lo sviluppo. Le discussioni con Hans Albert e Rainer Specht mi hanno aiutato a chiarire molte idee e mi hanno offerto punti di vista nuovi. Sono molto grato ad Axel Buhler che ha letto pazientemente gran parte del manoscritto: le sue obiezioni e le sue proposce tianno contribuito in modo rilevante alla redazione definitiva. Ringrazio anche Sonia Carboncini e Jean École per i loro suggerimenti critici. Alcune parti di questo libro, in seguito rielaborate, sono gia state pubtilicate. Si tratta dei seguenti articoli: Wahncheinlichkeit und u~ahncheinlichesWissen in dcr Philosophie von Christian W»# in "Studia Leibnitiana", XKWl (1987), pp.2-40; Prohahilimo e determinismo in Duuid Humc>,in "I1 Cannocchiale", 1-2 (1987)! pp.49-66; ProbahilitG e curtesiunismo: 1u Logiqut. di Port-Royal, in "Verifiche", xvI/3 -63; Probubilità e ipotesi nella Yogica" di Kunt, in "Filosofia e soci&", 1X (1988), pp.S-22. Invece il capitolo su Thomasius, 2 la rielaboraziont di una corifcrcnza tenuta a Wolfenbuttel per un convegno su 'rhoniasius 121-23.5.1987)con il titolo: Wissenschuftsund Wahm-cheinlichkeitsuz~~assiii~~ bri 'Ihomasius.
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Avvertenza bibliografica
Nella prima nota non numerata di ogni capitolo sono indicati il modo di citare i testi principali e, se sono state usate, le relative abbreviazioni . Quando è stato possibile si è cercato di citare i testi con la data, fra parentesi quadre, della loro prima edizione. La data dell’edizione utilizzata, se è diversa, è specificata nella bibliografia in fondo al volume. Perlopiù i riferimenti bibliografici sono stati fatti direttamente nel testo, quelli privi del nome dell’autore sottintendono quello citato precedentemente. Qui i numeri arabi se non sono preceduti dalla lettera p. indicano sempre i paragrafi. I passi tradotti, se nella bibliografia non viene indicato il nome del traduttore, sono stati tradotti da me. Per riferirsi a parti di questo libro ho usato spesso indicazioni di questo tipo: Iv.2, qui il numero romano indica il capitolo e quello arabo il paragrafo.
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zyx zyxwvut Introduzione
Si è sempre creduto che nel Seicento e nel Settecento abbia dominato soltanto l’idea della certezza e che la probabilità sia stata considerata un oggetto degno forse della ricerca matematica, ma non della riflessione filosofica e della scienza. Al contrario io credo che il Seicento e il Settecento siano stati anchei secoli della probabilità, soprattutto perchè essa venne considerata l’unica via possibile per raggiungere la certezza. Non a caso già nel titolo di un’opera di Chladenius, apparsa nel 1747, la probabilità viene chiamata idolum saeculi (De probabilitate, idolo saeculi). Ora lo scopo di questo libro è proprio quello di mostrare che in quell’epoca la probabilità fu un idolo, e tra i più importanti, della riflessione filosofica. In altre parole: l’effettivasituazione filosofica di quell’epoca è diversa da quella ricostruita, in genere, dalla storiografia filosofica e a cui ormai siamo abituati. Se si ammette questa tesi, allora si assume anche una prospettiva privilegiata per capire il significato e la funzionalità di certi concetti fondamentali dell’epoca strettamente connessi con il concetto di probabilità, come la certezza, la conoscenza, la scienza e la dimostrazione. Nel libro è stata dedicata particolare attenzione all’analisi di questi concetti. Sebbene essi siano modellati sul paradigma della matematica, non equivalgono ai concetti matematici corrispondenti. La filosofia dell’epoca ha elaborato gradualmente una forma p i ù debole di questi concetti per poterli applicare alla realtà e permettere così la costituzione e la legittimazione delle scienze empiriche. In questo processo di indebolimento della concettualità matematica la riflessione sulla probabilità ha svolto un ruolo determinante. Bandita inizialmente dalla scienza, con il passar del temp? le viene attribuita dignità scientifica. Ad essa si ricorre per elaborare una metodologia empirica capace di trasformare le proposizioni empiriche ipotetiche in proposizioni quasi infalsificabili e, perciò degne di entrare nel sistema delle scienze. Al tempo stesso si elabora una teoria matematica della probabilità con la speranza di riuscire a imporre un
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ordine razionale a tutti quei campi che precedentemente crano sfuggiti al controllo della ragione. Alcuni autori SperdnC anche che tale teoria possa risolvere tutti i problemi connessi con l'induzione. inclusii la sua giustificazione. Per usare una felice espressione woiffiana. alla probabilità venne assegnato il compito di realizzare il "connubiiim rationis et experientiae". Del resto una volta scoperta la possibilità della sua inatematizzazione, il concetto di probabilità sembrava particolarmente idoneo a soddisfare questo compito. Infatti da una parte esso era connesso per definizione al concetto di contingenti. - per entrambi il contrario è sempre possibile -; dall'aItra, essendo suscettibile di interpretazione matematica, mostrava un aspetto nece Così, dalla Logique di Port-Royal fino ai Gedanken di hlendelssohn, l'estensione della funzione attribuita aka conoscenza probabile fa passi da gigante. i1 suo raggio d'azione. inizialmente circoscritto alla Vita e alla filosofia pratica, viene esteso alla filosofia naturale e , in seguito, persino alla metafisica. Questa estensione mette la filosofia in condizione di elaborare una concezione della scienza e della certezza molto più vicina, di quanto abitualmente si creda. alle nostre idee attuali. Come annuncia già il titolo, il tema del libro e la ,filosofia e non il calcolo della prohat>ilitk. Cioè viene considerata soprattutto la conceiiualità della inoderria teoria della probabiliià e non il suo contenuto matematico. Senza duthio si potrebbe obiettare che questa separazione tra filosofia e calcolr) rnateinati ia un pò artificiosa poiche. owiarncnie, l'uno strettamente conn ) con I'ahra, L a risposta a questa obiezione 6 seniplice: sebbene la rnatr:mritica sia stata allora un parddiginu per gran parte della concettualità filosofica, tuttavia in genere gli storici non tianno credulo di dov-cr corisicierart: la inatrinatica per capire la filosofia tic1 ienipo. Si piiaggiungcrc che al riconoscimcnto della funzione paradigmaticzi ciella matematica non corrisponde in ogni filosofo iin'adeguata preparazione matematica. Uaruralrnente l o stesso vale anche per I;i protxhilità. Così in molti testi filosofici dcll'epoca all'ammissione di dover interprrtare niateniaticaimmte il concetto di probabilità non segue poi iin'effettiva trattazionc matematica del medesimo. 1.a probabilità era sentita come un prol,lenia essenzialmente filosofico su cui, per certi versi, la filosofia niodcrna misurava il silo distacco dalla filosofia antica c medievale.
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Questo libro non pretende di essere una storia esaustiva della filosofia della probabilità nel pensiero moderno. Esso vuole offrire solo alcuni esempi significativi di un modo di pensare, di un'atmosfera culturale perlopiù dimenticata. L'interesse per la probabilità impronta in modo carafteristico tutta un'epoca e non è solo il frutto dell'impegno di alcuni matematici per una materia nuova. Per provare questa tesi bisognava considerare i "minori" cioè proprio quegli autori che, senza essere brillanti matematici, avevano fatto della probabilità un tema importante della riflessione filosofica. Anche per questa ragione i protagonisti della teoria moderna della probabilità - come, p.es., Pascal Leibniz e Jakob Bernoulli - sono stati qui considerati solo in secondo ordine. Del resto per quanto riguarda la storia del calcolo delle probabilità e i suoi protagonisti esiste già una letteratura di tutto rispetto. Invece, per quanto io sappia, manca una letteratura sulla filosofia della probabilità nel pensiero modermo. Come vedremo, per alcuni degli autori qui trattati non esiste nemmeno una letteratura secondaria sul tema e per gli altri essa è perlomeno unsufficiente. Un'altra tesi che verrà discussa nel corso del libro è la stretta connessione tra la concettualità e le istanze del razionalismo e lo sviluppo della teoria della probabilità. Questa tesi non è nuova. Contro la credenza che tutte le teorie della probabilità, da Hume ai nostri giorni, siano state "costruite su principi empiristici", Reichenbach ha obiettato: "L'analisi della probabilità viene confusa da resti di un'interpretazione razionalista della conoscenza; i germi del razionalismo sono penetrati così profondamente nel pensiero filosofico da infettare perfino i pensatori orientati empiristicamente del nostro tempo. il razionalismo rivive nei tentativi logici di costruire una teoria della probabilità dalla ragione pura, una teoria della logica induttiva secondo cui i gradi di probabilità siano derivabili dalla struttura logica delle proposizioni come i teoremi della logica deduttiva ...Tratto comune di tutte queste teorie è che chi le propone ritiene di possedere una regola analitica che può determinare, sulla base del materiale di osservazione, con quale grado di probabilità si presenteranno osservazioni future di un certo tipo. La radice razionalista di queste teorie è evidente: se la logica non è in grado di prevedere il futuro, dovrebbe essere almeno in grado di stabilire la probabilità delle diverse forme possibili del futuro - il desiderio razionalista di un mondo fisico controllato dalla ragione si è insi-
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niiato in questa forma attenuata nella filosofia matematica del nostro tempo. In questa nuova forma è altrettanto attivo e pericoloso che in quella antica in cui prometteva la certezza: promcttere probabilità è forse una forma di fazionalismo ancor più pericolosa dal momento che ha un aspetto tanto modesto e moderno" ([19471, pp. 190-1).
Io condivido gran parte di queste osservazioni, ma non il tono, eccessivamente critico, con cui sono state scritte. Anche se da un punto di vista teoretico il nesso tra razionalismo e teoria della probabilità risultasse discutibile, da un punto di vista storico è comunque interessante constatarlo e cercare di capire fino a che punto esso possa essere stato propizio. La connessione tra teoria della probabilità e concettualità razionalista può essere riscontrata anche in aIcuni empiristi. Perciò ho trattato tre razionalisti (Arnauld, Wolff e Mendelssohn) e tre empiristi (Locke, Thomasius e Hume). Infine ho considerato Kant perché con lui continua l'epoca della certezza, ma si conclude quella della probabilità. La presenza-assenza del tema della probabilità diventa quasi una cartina di tornasole di questa transizione. Kant tratta la probabilità in una delle sue opere più legate alla tradizione, la Logica, ma la considcra poco e senza darle altrettanta importanza nelle opere "critiche". in seguito anche l'idealismo mostra lo stesso disinteresse per il prohahilc. La mia ricerca si conclude con la constatazione di questo fatto, senza discuterlo. Nel libro verrà discusso anche il nesso di determinismo e teoria della probabilità. Questo nesso è un Fatto storico facile da constatare, Perciò cercherò solo di mostrare come si è potuto verificare e in che senso la fede ncl deteriniiiisino ha avuto un erfetto positivo sullo sviluppo della teoria della probabilità. Per evitare successivi. equivoci, opportuna una breve considerazione riguardo ai termini razionalisrno ed enipirisirio. La storiografia filosofica più recente lili consigliato di riconsiderarne il senso e di utilizzarli in modo più prudente (cfr. p. es. Specht Ii9841). io non discuto questi termini, tuttrivia una certa consapevolezza critica riguardo alla loro valitiiti un presupposto implicito di questa ricerca. Così, p.es., incontreremo empiristi come Thomasius che difendono una forma di innatismo delle idee e razionalisti come Wolff che pongono alla base del sistema scientifico le "experientiae indul3itatae".
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Ogni c:ipitolo intrc)d«tto da una premessa in cui si indicano i temi specifici che vengono trattati, perciò qiii riassumo brevemente solo i iemi generali. Ncl cap. I accenno alla questione delle origini della teoria della probabilità e cerco di mostrare la sua connessione con il cartesianisrno. Nel cap. TI prinia discuto l'estensione della teoria della conoscenza alla percezione sensibile delle esistenze; poi considero il compito di razionalizzazione dell'opinione affidato alla teoria della probabilità. Nel cap. I11 tratto l'estensione del concetto di scienza al contingente e alla verità probabile. Nel cap. IV prendo in esame l'interpretazione razionalisia ciella probabilità e poi cerco di mosttare che i' "c:xperientia indiibiiata" tieve esscre intesa come u n CdSO iiriiite deiia probabiliià. Ncl cap. V discuto il nesso di detcrminismo e prolmbilicino e poi spiego perché anche il concetto di "prova" deve essere inteso come un caso lirnite della probabilità. Nel cap. vi tratto i problemi connessi alla proposta di una logica induttiva e riferisco un q o m e n t o a favore del deterrninisino metafisico basato sull'iitilizzazione della teoria della probabilità. Nel cap. V1ì tratto la tesi kantiana riguardo all'irrealizatiilità di una logica del probabile. i'er evitare equivoci c'C ancora un'ultima osservazione da fare. Poiché tutti gli autori considerati usano il termine proposizione, anch'io ho continuato ad usare lo stesso termine. 'i'uttaviu e opportuno precisare che con proposizioni si intendono cicllc entità astratte, rrientali, e oggi proprio per evitare di ammettere tali entità si preferisce parlare di enunciati, ci& di entità linguistichc.
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zyxwvu zyxwv zyxw zyxwv I . LA LOGIQUE DI PORT-ROYAL.
O. Prerne.sa
I1 disinteresse o, meglio ancora, la diffidenza di Descartes nei confronti della prot-iahilità è un fatto noto: "La probabilità non ha posto nello schematismo di Ikscartes .... [la sua filosofia1 non h a spazio per la probabilità" (Hacking 119751, pp. 45-61,
Descartes mira alla scienza t' seconcio lui qiicsta deve avere a che fare soio con ciò che assolutamente certo e indiikitabile. Poichè, ovviamente, gli enunciati probahili non sono tali, ma comportano senipre una qualche incertezza, vengono esclusi dagli interessi e dai fini della conosct'nza scientifica. "Ogni scienza è conoscenza certa e evidente ... è rneglio non studiare mai anzichè occuparsi di oggetti così difficili da esser costretti, non potendo distinguere il vero dal falso, ad anirnettere come certe le cose duhhie: in qiianki in questo caso c'è meno speranza di aumenrare il proprio sapere che pericolo di diminuirlo. Perciò, con questa proposizione, respingiamo tutte le cognizioni soltanto probabili e riteniamo che si debba dare il proprio assenso solo a quelle perfettamente note e delle quali non si può dubitare" (Regola il in ilescartes [19691, p. 49).
il metodo che deve guidare la ricerca scientifica deve saper distinguere rigorosainente il vero dal falso (Kegola IV, op. cit., p. 56). Perciò il rischio che un enunciato probabile possa essere faiso ci impedisce di ammetterlo tra gli enunciati veri che devono costituire il sapere scienti-
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* L'indicazione
nel testo dei solo numero di pagina, tra parentesi tonde, si riferisce alla Logi-
que di Port-Royal. La Logique fu scritta in collaborazione da Antoine Arnauld e Pierre Nicole. Tuiiavid in seguito, per comodità, mi riferirò solo ad Arnauld anche perché la I V parte, che qui più ci interessa, sembra essere stata scritta colianro da lui (cfr. Obertello [ 19641, p. 29).
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sapere scientifico. La contrapposizione di verità e probabilita non viene esplicitaniente asserita, ma è una conseguenza naturale delle argonientazioni di Descartes: la classe degli enunciati probabili tende di fatto a coincidere con quella degli enunciati falsi. Così, dal punto di vista cartesiano, la probabilità viene praticamente bandita dagli scopi della ricerca logica e metodologica cartesiana. Descartes, com'è noto, non scrisse mai una logica vera e propria. La redazione di una logica cartesiana, la famosa Logique ou ['andepenser, si deve ad Antoine Arnauld, che sembra sia stato stimolato a scriverla in seguito ad una conversazione (Clair e Girbal Ii9651. p. 1). Pubblic'ata anonima nel 1662, essa è nota anche con il nome di Logiquedi Port-Royal, perché al monastero di Port-Royal era spiritualmente legato il suo autore. La stretta dipendenza della Logique dalla filosofia cartesiana (1) 1 6 unanimamente ammessa . Ma, una volta concessa la tesi (11, potrebbe sorprendere il fatto (2) che nei capitoli finali della IV e ultima parte della Logique, dedicata al metodo, venga trattato e posto in risalto proprio il tema deiia probabilità. 11 fatto ( 2 ) dipende chiaramente non dall'influenza di Descartes, ma da quella di almeno altre tre fonti: a) Pascal, uno dei grandi protagonisti dello sviluppo del nuovo calcolo delle probabiliti; b) Aristotele e u n a certa tradizione scolastiCLI;c> la tradizione retorica dipendente da Cicerone e Quintiliano. E' facile constatare nella Logique la presenza di influenze diverse, che si combinano con quella dominante esercitata dalla filosofia
I. P.es. Liebrnann sostiene che la Logique condivide "completamente i punti di vista della filosofia cartesiana" ([1902], p. 45). Questo giudizio em condiviso anche dagli autori del Seicento (Borghero [1988], p. 42). Esso era stato sancito. per così dire, da NicholwJoseph Poisson nel suo Commentaire al metodo cartesiano, dove la Logiqur viene considerata come un "supplemento di quella di Descartes" (1 16701, "Avis au Lecteur"). Tuttavia, recentemente, Borghero ha giustamente mostrato che il rapporto tra il metodo cartesiano e la Logique è piuttosto complesso e non è così lineare come vorrebbe far credere Poisson. Secondo Borghero la Logique "realizza la sintesi più fortunata tra la logica aristotelica e il metodo cartesiano" (1 19881. p. 47). ma tradisce il metodo cartesiano in u n o dei suoi aspetti più nuovi e interessanti: nell'interpretazione "costruirivadell'analisi" (I1988). p. SO). Oltre all'influenza di Aristotele, va ricordata anche quella di Agostino e di Pascal, importanti soprattutto per il nostro tema. Per quanto riguarda I:influenza di Agostino cfr. il seguente passo:" A Pori Royal dominava una ceria sintesi di cariesianismo e agostinismo, e questa fu rafforzata soprattutto dallo scritto Agostinus seu domina Augusiini di Cornelius Jansen apparso nel 1640... Dallo studio del1'Augmtinu.Y risultò ...un'intima relazione di Arnauld con Descaries". (Brockdorff [ 19231, pp. 135-6).
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cartesiana; ciò accade spesso e non solo riguardo ai tema della probabilità. Tuttavia non è chiaro come e perché tale confluenza possa verificarsi proprio sulla questione della probabilità. Infarti in questo caso è naturale porsi la seguente domanda: il considerare la probabilità come un oggetto degno della ricerca logica e metodologica è compatibile con i fondamenti della filosofia cartesiana? Se si tien conto delle idee cartesiane sulla probabilità allora la tesi (1) e il fatto ( 2 ) risultano incompatibili; e non sembra che questa incompatibilità possa essere facilmente rimossa, nemmeno attribuendo una minore estensione alla tesi (i). Infatti ci troviamo di fronte ad una questione cruciale che riguarda la concezione della logica e del metodo. L’epistemologia cartesiana ammette solo due operazioni: l’intuizione intellettuale e la deduzione (Regola 111 in op, cit., p. 53). Il riconoscimento della sua utilità propedeuti- ca come esercizio e stimolo dell‘attività intellettuale è l’unico giudizio positivo che Descartes esprime riguardo all’inferenza probabile (Regola I1 in OP. cit., p.50). Al contrario la Logiqque le assegna, come vedremo, un’importantc funzione epistemologica . C’e ancora un fatto che merita di essere ricordato. Esiste un esemplare manoscritto della Logique che generalmente viene considerato precedente alla versione pubblicata (Clair e Girbal [19651, p. 1, e Hacking [19751, p. 74).La IV parte di questo esemplare è costituita soltanto cia dicci capitoli e non contiene nessuno di quelli dedicati aila protiabilità presenti nel testo pubblicato (cfr. la nota 5 in Clair e Girbal [196511. Quindi sarebbe ragioncvole supporre che nell’aggiungere questi capitoli Arndukt, infiuenzalo du idee diverse o addirittura contrarie al cartesianisino (come sembra suggerire Hacking [19751, pp. 74-51, si sia vistosamente allontanato dai suoi intenti originari pic1 fedeli allo spirito di Descartes. Dunque, siilla base di quanto si C detto finora, riconoscere un’effettiva incompatibilità tra la tesi (i) e il fatto ( 2 ) e ammettere, perciò, un contrasto profondo tra l’episiemologia cartesiana e la /,o,@que sembrerebbe una conclusione inevitabile. Tiitravia io credo che l’aver richiamato l’attenzione sull’importanza delle inferenze non deduttive e del ragionamento probabile rappresenti un’integrazione prefettaniente compatitiile con i fondamenti dell’epistemologia cartesiana. Anzi questa inregrazione, per realizzare la quale Arnauld & co-
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stretto a ricorrere a fonti diverse: deve essere intesa come uno sviluppo naturale del programma cartesiano (cfr. a riguardo 5 2 ) . Questo capitolo si divide in tre paragrafi. Ye1 5 1 prendo in esame le ragioni che spingono Arnauld a interessarsi del probabile. Qui indico brevemente e da un punto di vista più generele il retroterra storico e il significato della sua concezione rispetto agli sviluppi della riflessione moderna sulla probabiliti. Nel 5 2 discuto in modo più dettagliato un aspetto importante di questa concezione: l’analisi circostanziale. Nel $ 3 considero il rapporto tra certezza e probabilità e il progetto, abbozzato nella Logique, di una teoria razionale del comportamento. Qui tratto anche i due diversi concetti di probabilità che. a mio parere, bisogna distinguere nella L o g i p ~la probabilità aleatoria e quella induttiva ( o anche logica) - in seguito indicate rispettivamente anche con Pi e Pz.
i.Per una logica delprohabile
Nel cap. XI11 della IV parte della Logique viene discussa una distinzione tradizionale che più tardi, grazie a Leibniz, diventerà famosa. cioè la distinzione tra verità necessarie e verità contingenti.
“bisogna riconoscere un’rslrema differenza tra due specic di verità: le prime riguardano solamente la nalura della cose e la loro esscnza iinmutahilc intiipcndentc>mcntc dalla loro esistenza: le altre riguardano le cose esistenti, e soprattutto gli evenli umani e contingenti, che in rapporto al futuro possono essere e non essere, e in rapporto al passat o possono non essere stati”(p. 33‘)).
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Arnauld dà grande peso a questa distinzione. Le verit5 necessarie riguardano il i-egno delle essenze iminutahili: mentre quelle contingenti riguardano tutto ciò che esiste, cioè il mondo effettivo in cui viviamo. Per riconoscere e distinguere IC due specit. di verità egli ricorre al principio di contradclizione. Lna verità necessaria t; riconoscibile attraverso la, prova c-lell’i~ii~>ossil~ilita della sua negazione. ment re la negazione di una veriti contingente, pcr quanto inverosimile, sempre possibile. (:io6 nel caso di un tictcrininato evento “posso aver ragione di crcderc ad esso, sehbcne non po
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zyxwvut zyxwv zyxw zyxwvuts zyxw giudicare impossitde che sia accaduto il contrario, in Inoclo che di due eventi posso aver ragione di credere ad uno e d i non credere all'altro, sebbenc li creda entrambi possibili" (p. 310).
i1 principio di contraddizionc
ccrtu un criterio necessario e sufficiente per determinarc le verità ncxwsarie; ma, sebhene necessario, non è sufficiente per caratterizzare le verità contingenti. Cioè la possibilità logica e insufficiente pcr valutare la vcricà contingente e per comprenderc qiiincii la realtà in generc 11 passaggio dal regno delle essenze a quello dellc csistenzc non 6 scinplice c non può essere Fatt o niediantt. il ricorso al solo principio di contraddizione. Perciì, "in questo caso bist)gria...considerare coine una massima ccrta e induhitabile che la sola possibilità d i un evento non e la ragione sufficente per farmi credere ad esso" (p. 340).
Questa e una convinzione ccinciivki t h tutti i r;iziunalisri. Basta considerarla per rendersi conto di quanto sia infondata I'acwsa che rncilto spesso C stata rivolta al r:izionalisino: l'aver confuso il pi;ino della possibilità con il piano della realtà e l'aver voluto inferire qricstn &i quello. Invece per Arnauld, comc per tutti i razion:ilisti, qu:ilcosa di reale deve certo essere anche possibile, nia il contrario non wle. Già ìkscartes aveva insistito sull'inipossibilità di un3 clctluzione sillogictica dell'esistenza dal pensiero e sulla necessità di partire t1:i proposizioni particolari, che espririiono stati di cose effctiivi, per poter risalire alle loro proposizioni universali. Egli aveva cretiiitci di aver fornito proprio con il cogito il paradigma iridiscutihile di qucsto procedimento.
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"Quando si dice, iopcwso diinyiir. sono o eskto, non si deduce l'esistenza dal pensiero per mezzo di ~ i r isillogis~no, ina si conosce una cosa conic per sé riota dalla semplice intuizione dello spirito; come chiarito dal kJlto che se si cleducesse l'esistenza per messo del sillogisiiio si sarcbbc dovuto conoscere prima la premessa maggiore tutto ciò chepensu o esiste; mentre questa -2 stata piuttosto appresu dall'aver fatto csperienza di non poter pcnsare se non si esiste. Infatti, è nella natura del nostro spirito cIi forinare le proposizioni generali dalla conoscenza delle particolari" (Risposlu alle seconde obiezioni in [1969],p. 298).
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Qui non intendu discutere il prokleiiia dell'intuizione cartesiana; ma voglio solo sottolineare che il punto di partenza della progressione argomentativa delle Meditazioni un Fatto, una proposizione esistenziale particolare2. Più precisamente è l'esperienza dell'impossibilità della negazione di uno stato di cose effettivo - questa particolare esperienza, che è fondamentale per tutti i razionalisti, costituisce il senso dell'intuizione cartesiana (cfr. Arndt [19711, pp. 60-1 1, La Logique rappresenta in questo contesto un tramite importante tra Descartes e il razionalismo successivo proprio per aver meglio esplicitato e ribadito certe idee cartesiane, che potevano essere e sono state spesso fraintese. Partendo dal reale possiamo risalire alla sua struttura essenziale, cioè alle condizioni della sua possibilità: ma non possiamo decidere come sia la realtà solo in base alle possibilitii che si presentano al nostro intelletto. La netta demarcazione tra mondo del possibile e mondo del reale è centrale per la Logique, e per -Arnauld trascurarla significherebbe rendersi ridicoli e cadere inevitabilmente in una serie interminabile di errori.
"Se si pensa di servirsi delle stesse regole nella credenza degli eventi umani, non si giudicherà mai altrimenti che in incido falso, eccetto che per caso, e si faranno mille falsi ragionamenti. Poiché questi eventi sono per loro natura contingenti, sarebbe ricticolo cercarvi una verità necessaria: e anzi sarebbe del tutto irragionevole un uomo che non voglia credere a nulla, se non quando gli si mostri I'assoluta necessità che la cosa sia andata in questo modo" ( p .
333).
Limitarsi, dunque, a considerare soltanio la verità necessaria, perché solo di questa possiamo avere una certezza 2tssoluta - ciot. la cei-tezza della scia negazione -, sarelhe "tour-à-fait d k i isonnable". Piuttosto proprio la frequenza con cui noi athiamo a che Fare con le veritd contingenti ci obbliga a prenderle in seria considerazione. Per la loro valutazione bisogna semirsi di regole diverse. Ci0 significa innanzitutto che l'intuizione c la deduzione. die riguardano la veriti necessaria c producono una c e r t e z r ~assoluta, non sono suffi-
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2. Per quanto riguarda i l procedimenro caneciano. qui soltanto accennato. cfr. le interessanti osservazioni di Imrc Lakatos [ 197x1, p. 107 sgg..
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cienti. Possiamo trovarci, p.es., di fronte a due ipotesi concorrenti riguardo ad un evento; entrambe sono possibili ma non sappiamo quale sia quella vera. La nostra disposizione a credere vera una delle due non può dipendere dalla semplice dimostrazione della sua non contraddittorietà:
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"e non sarebbe meno irragionevole se mi [si] volesse obbligare a credere a qualcosa, come alla conversione del re della Cina alla religione cristiana, per la s o h ragione che tale cosa non è impossibiie"(pp. 339-40).
Per questa ragione, quando si ha a che fare con il contingente, bisogna ricorrere al ragionamento probabile e a inferenze diverse dalla deduzione. insomma la convinzione che Ia logica dehba trattare anche le verità contingenti e il riconoscimento dell'insufficienza della logica tradizionale a due valori per soddisfare tale scopo sono le principali motivazioni che giustificano l'interesse di Arnauld per la probabilità. La teoria della probabilità viene intesa di fatto come un'estensione della logica modale. Dalle sue argomentazioni affiora l'idea che l'elaborazione di una tale teoria possa fornire una logica più adatta a conoscere il regno del i-ontigente. Come vedremo meglio in seguito ($ 3), egli concepisce la logica dei probabile conie una vera e propria logica induttiva che deve integrare e completare quella deduttiva. La connessione di contingenza e probabilità e resa possibile anche da un contrassegno comune che caratterizza 'entrambi i concetti: sia la negazione di uno stato di cose contingente che quella di una proposizione protiabile, per quanto inverosimili, restano sempre possibili. L'idea ( 3 ) che la probabilità possa diventare il concetto fondamentale di una logica dei contingente è antica e risale ad Aristotele, secondo il quale
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"probabile e appunto ciò che notoriamente per lo più si verifica o non si verifica in un certo modo, è oppure non è" ([1973a], Ih,27, 70d)
3. Cfr.: Keynes [1921], p. 100; Wright [1941], p. 208; Kneale [19491. p. 150; Lenz [ 19601, p. 100. Secondo Sheynin "la discussione sulle chances dovrebbe essere iniziata da Aristotele" ((197O-ll,p. 241).
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Secondo alcuni proprio ad Aristotele deve essere attribuita la prima formulazione dell'interpretazione frequentistica della prohabiliià-3 Owiamente questa .idea aristotelica fu ripresa anche da una parte, piuttosto consistente, della filosofia scolastica Uacobi [19SOl, pp. 92-5, 135-7, 150-4); e la concezione frequentistica del probabile resta per così dire codificata nella terminologia scokastkd in certe esperessioni come le seguenti: "contingens ut in plurihus"; "contingens u t in paucioribus" e "contingens ad utrumlibet". 11 debito deka Logique verso Aristotele e la tradizione scolastica per quanto riguarda la questione della probabilità, mi sembra evidente e difficilmente discutibile. Invece l'idea nuova della Logigue e la metrizzazione del contingente e l'interpretazione quantativa dei gradi di probabiiità. Perciò essa viene considerata "la prima occasione" in cui il concetto di probabiliti viene usato nel "nostro senso moderno, suscettibile di misurazione numerica" (Hacking [19751, p.25). Per quanto riguarda l'interpretazione matematica della prohahilit2 Arnauld 6 debitore soprattutto a Pascal. Nell'uItimo capitolo della Logiquc egli riassume anche il famoso argomento della sconirnessa di Pascal, che generalmente viene considerato came il primo esempio dell'applicazione del calcolo delle probabilità alla teoria delle decisioni. Qui e opportuno fare alcune considerazioni. E' una tendenza piuttosto diffusa far risalire la nascita del calcolo delle probahilità proprio alle questioni poste dal cavaliere d e hEr6 a Pascal e alla corrispondenza in proposito che Pascal ebbe con Ferniat'. Recenteniente Hacking riferendosi al periodo intorno al 1660 ha persino parlato di "emergenza del nostro concetto di prcihabitità" (Hacking I19751, 13. 3), derivato da "una trasforniazione nella "struttura concettuale" (($1. cit., 1116).Cioè la sua tesi dell'"eniergenza" riguarda non solo il nostro concetto di prolxìbilitiì, ma iin'intrra famiglia di idee (opcit., p. 17). Secondo I Iacking il nuovo concetto di protxihilit2 ha una chplice natura: da una parte la pmixihiiità avrebbe 3 che fare con le proprietà stocastiche di certi evcnti casuali, ci& con la loro tendenza a
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I; Fries [1842], pp. 19 e I IS: Book 118541, p. 257; Todhunter[lR6S],p.21;Cantor(lR73],p. 759;Castelnuovo[l919],p. V .
4. Cfr. p.es.: Poisson 118371,p.
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produrre frequenze relative (= Pi); dall'altra, invece, riguarderebbe le proposizioni e sarebbe intesa come una relazione tra le ipotesi e la loro evidenza, cioè sarebbe connessa con i gradi di credenza condizionati dalla corrispondenza con gli eventi empirici (= P2). Hacking sostiene che nessuno di questi due aspetti sia stato concepito da un numero consistente di pensatori prima di Pascal (op.cit. p.1). Naturalmente per Hacking è ia considerazione di Pi e non quella di P2 il presupposto indispensabile per una trattazione quantitativa e matematica del prohdbik. Nel $ 3 vedremo che questa chiplicit5 semantica della nozione di probabilità deve essere ammessa anche per capire la concezione della Logique. Ora, a favore della tesi dell' "emergenza", è giusto riconoscere che quasi tutti coloro che contribuirono all'elal->orazione del calcolo delle probabilità sembrano essere convinti di partecipare alla costruzione di qualcosa di assolutamente nuovo. P. es. Pascal considera "novissima" (Pascal [19081, p.307) la trattazione di questa materia. Ma l'indizio più significativo a riguardo k forse la controversia. che segue di qualche decennio la pubblicazione della Logique, tra de Montmort e De Moivre riguardo all'attribiizione del merito per aver iniziato il cakolo delle probabilità: Pascal (Montmort [17131, pXXX1) o a Huygens (Moivre [1711], p.111, che nel i657 avcva puhhlicato De Katiociniis in Ludo Aleae5 . Ciononostante la tesi di Hacking troppo forte ed è discutibile che solo intorno al 1660 sia "emcrsa" per la prima volta la moderna nozione di protiabilitd L' la concettiialità ad essa connessa. I o credo, invece, che lo sviluppo del calcolo delle probabilità ski in gran parte determinato proprio dall'idea tradizionale ( 3 ) già accennata: la logica del probabile intesa come la logica appropriata pcr trattare il contingente. Cioè ai pensatori del Seicento il calcolo delle protiabilitii si rivela, 'gradualmente c con sempre maggiore evidenza, come lo strumento che rende possiibile elaborare e, per così dire, realizzare la concezione ( 3 ) in modo piU efficace di quanto era stato fatt o fino ad a h - a . A niio parere la ste stciria moderna della
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5. Coinunque qui va ricordato che nella "Praefaiio"lo stesso Huygens riconosce la priorità ai matemateci francesi (I16573. p. 2). Sui rapporti indiretti tra Huygens da una parte e Pascal e Ferma1 dall'alira cfr. Coumet 119821.
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probabilità mostra che quanto più consapevole è diventata la connessione tra il calcolo delle probabilità e l'idea tradizionale (31, tanto maggiori sono stati i progressi fatti neil'elaborazione del calcolo e nell'estensione delle sue possibili applicazioni. Insomma ritengo che il calcolo sia progredito proprio quando si è appropriato della concettualità già elaborata nel corso della tradizione (un caso evidente di questa appropriazione sarà discusso nel prossimo paragrafo). Perci6 mi sembra più corretta la tesi (Garber e Zabell lì9791! p . 4 8 ) secondo cui l'originalità della moderna teoria della probabilità non consiste nella determinazione di un nuovo apparato concettuale, come sostiene Hacking, ma piuttosto nel fatto che l'elaborazione del calcolo delle probabilità non viene considerato più un problema soprattutto pratico-tecnico come accade p.es. con Cardano e Galilei - ma un problema matematico astratto6 . Io credo che proprio (3) abbia contribuito in modo determinante a trasformare il nuovo calcolo in un problema teorico. Inoltre non bisogna dimenticare il molo giocato in questo contesto dallo sviluppo del metodo e delle scienze sperimentali. La speranza di poter interpretare quantitativamente il rapporto tra
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6. Un indizio indiretto a favore di questa tesi è il giudizio di de Monimort sul Liher de Ludo Alene di Curdano, che dice di avervi trovato solo "I 'erudizione e delle riflessioni morali" (Montmort [ 17131. p. XL). Spesso nemmeno lo scarso sviluppo dell'algebra combinatoria vic-
ne ritenuta una giustificazione sufficiente per l'assenza dei calcoio deiia probabilità prima dei XVII secolo (cfr. p. es. Kendall [ 19561,p. 30). 7. Garber e Z a k l l hanno detto non senza ragioni che "in realtà non è possibile rispondere" a tale questione ([,1979], p. 4Y). Per quanto riguarda contributi critici contro la tesi di Hacking, oltre all'articolo appena citato di Garber e Zabell, rimando a Rumyeat (119821, pp. 11-14) c a Garbolino e Morini [1987]. Naturalmente ci sono anche tesi diverse suII' origine della probabilità, di cui qui ricordo solo alcuni esempi per fornire un'idea della complessità della questione e della varietà dei punti di vista. La ricosmzionc storica di King e Kead [ 19631 inizia con il Liber di Cardano, scritto intorno al 1526. ma pubblicato per la prima volta solo nel 1663. Precedentemente già David aveva consigliato di non dare troppo peso a questa data e aveva suggerito la possihilità di una trasmissione orale delle idee di Cardano, che potrebbero costitutire in parte il retroterra storico del breve scritto galileiano Soprn lu Scoper-re de i D u d . di data incerta e pubblicato per la prima volta solo nel 1718. David aveva anche accennato all'anticipazione del famoso Triangolo pascaliano nel General Trarruro (1556) di Tartaglia (David [1955], pp. 12-15). Anche secondo Raiffa, Cardano "era il primo che formalizzò la probabilità in rapporto ai giochi d'a7,zardo" ([iY68], p. 328). Un anno dopo l'articolo di David, Kendall ha richiamato l'attenzione sulle opere di Pacioli e Peverone e ha scritto:" A mio parere la CUIla del calcolo della probabilità era indubbiamente in Italia". (Kendall ([ 19561, p. 29). Naturalmente sia David ([ 19551, p. 16) che Kendall ([I9561 p. 29) hanno suggerito l'ipotesi di uno
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le ipotesi e i dati che le confermano e di poter trovare così un modo per aumentare la probabilità delle ipotesi ha certamente concorso ad accrescere I'mteresse per l'elaborazione del calcolo delle probabilità. Qui, però, gli scopi della presente ricerca non permettono di andare oltre queste brevi indicazioni riguardo alla questione molto 7 controversa dell'origine del concetto di probabilità . Tuttavia è opportuno richiamare l'attenzione sui seguenti punti: ( 4 ) La moderna teoria della probabilità mi sembra il fnitto di una feconda congiunzione tra l'istanza tradizionale ( 3 ) e il nuovo calcolo delle probabilità che permette Ia metrizzazione del contingente. ( 5 ) I1 nuovo calcolo delle probabilità si sviluppa grazie alla riflessione su specifici fenomeni aleatori - i giochi d'azzarda - e almeno inizidmente viene applicato quasi esclusivamente a questi. se si prescinde dalla famosa scommessa di Pascal e da certi esempi della Logique. (6) La considerazione di P i è un presupposto indispensabile per la matematizzazione della probabilità. Se ha luogo la matematizzazione, allora diventa possibile intrepretare anche PII) nel senso di Pi. ( 7 ) La conoscenza e l'elaborazione di questa problernatica si diffonde in modo cospicuo8 nella seconda meta del Seicento e soprattutto nel Settecento. Proprio in questo secolo, come ho gi2 notato (cfr. "Introduzione"), la probabilità diventa un idolo della '
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scambio di idee su questi argomenti tra l'Italia e la Francia. Più tardi David [ 19621 ha persino tentato di ricostruire la storia della probabilità fin dai tempi antichi. Invece Ryrne ([1908]. p. 7), critico verso l'interpretazione di David del pensiero medievale, ha sottolineato l'importarza di S.Tommaso e, sebbene non senza riserve, ha offerto un'interpreiazione molto moderna delle sue idee che contrasta con i dubbi a riguardo gih espressi da Kendall ([ 19561, p. 31-32). Sia Hacking ((19751, p. 20 sgg.). ovviamente. che B k y e a t (119821, p. I l ) hanno criticato le tesi di Byrne. Naturalmente non 6 mancato nemmeno chi, come David, ha sottolineato I'importanza della riflessione antica sulla probabilità. Sulla presenza e il significato del concetto di probabiliii nel pensiero greco, oltre agli scritti già citati nella nota 3, cfr. anche gli studi di Sambursky [ I9561 e I19.591. Inoltre, nell'articolo citato. Garber e Zabell forniscono notizie interessanti sulla storia di alcuni concetti importanti connessi alla teoria della probabilità. 8. Proprio la diffusione di (d) è uno degli argomenti principali di Hacking a favore dell'"emergenza" del nostro concetto di probabilità, che a suo parere non può essere invalidata dall'esistenza di alcuni precursori o di isolate anticipazioni (I19751, pp. 9 e 17).
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riflessione filosofica
2. L 'analisi circostanziale
In questa sezione viene discussa innanzitutto la distinzione della Logique tra circostanze esterne e circostanze interne di un evento. Qui cerco di fornire anche alcune indicazioni storiche riguardo all'origine di tale distinzione. in secondo iuogo viene considerata la fiinzione dell'analisi circostanziale nella valutazione del grado di probabiiitÀ. Infine tento di mostrare lo stretto rapporto esistente tra il concetto di analisi circostanziale e alcuni concetti caratteristici del ruzionalismo. Per fare della probabilità un oggetto degno di considerazione da parte della logica e della matematica era necessario precisarne meglio e in modo più rigoroso l'area seniantica. Innanzitutto era importante distinguere nettamente tra il concetto di probabilità e quello aristotelico di opinione. 'perché "l'opinione la compagna della probabilità nell'episteniologia medievale" (Hacking I19751, p. 28). Byrne, riferendosi u Toninlaso d'Aquino, h u sostenuto che il considerare un'opinione probabile implicava allora tra l'altro, che diverse connotazioiii: (8) In primo luogo significava riferirsi all'autorità di quelli che accettano l'opinione ciata e in questo caso probabilità vuol dire "approvazione" dell'opinionc accettata rnedianie l'autorità e "probitlì" riguardo alle prcsonc che la sostengono. ( 9 ) Solo in secondo Iiiogo la probabilità si riferiva agli argomenti addotti a favorc dcll'opinione in questione (Byrne [19681, p.188). Evidentemente (9) m a versione più antica del moderno concetto di evidenza, cioè ( 9 ) indica il rapporto iru le ipotesi e le istanze di controllo che le confermano. Per i'eiaborazione di una teoria rigorosa della prolxhilità indispensabile distinguere nettamente tra ( 8 ) e (9). Mi sembra molto plausibile la tesi che questa distinzione derivi da quella tra segni naturali c segni convenzionali, aiiipkamente attestata soprattutto nella tradizione retorica dipendente da Cicerone e Qiiintiliano ( G a r l x r e Zabcll [197c)J,p. 40 sgg.). i,a distinzione tra segni naturali e segni convcnzionali viene fatta anche in una funte importante
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della Q i q u e , in De Doctrina christiuna di Agostino:
"Signonim igitur alia sunt naturalid, alia data. Naturaha sunt, quae sinc voluntate atque ullo appeiitii significandi, practer se aliquid aliud ex se cogncisci faciunt, sicuti est fumus significans ignem" (Agostino [1841], p.35); "Data vero signa siint, quae sibi qiiaequt. viventia inviccrri dant ad demonstrandos, quantum possunt, motus animi sui, vel sensa, aut intcllectd quae libet. Nec ~ i l hcausa est nobis significandi, id est signi dandi, nisi ad dcponendum et trajiciendurn . alterius anirrium id quod animo gerit is q u i si: gnum dat" Y(OP.at., p.57).
Ora nel cap. 1V della 1 partc Arnaiild proponc tre distinzioni diverse dei scgni e la t c n a riguarda proprio la distinzione tra segni naturali. "che non dipendono d a h fantasia de~l'uoiiio,un segno naturale d i ci6 che rappresenta P conic iin'irnrnagine in uno specchio",
e segni convenzionali,
"che sono istituiti e stabiliti, sia che abbiano qiialche rapporto lontano cori la cosa rappresentata, sia che nun ne abbiano alcuno" (p. 54).
Inoltre la prima distinzione - tra "segni certi", tekrnc?hiiu, e "segni probabili", sehmeiu (p. 35) - deriva da Aristotele c costituisce, quindi, un ulteriore indizio del1'influen;ia esercitata dalla concezione aristotelica della probabilita sulla Logigue. Per spiegare i scagni probatiili la Logique adduce lo stesso esempio usato da Aristotelc: il pallort. 6 solo un segno probabile della gravidanza di una donna (Aristotele [1973a], I1 (B), 27, 70a). Eviclenterncnte Arnauld ha ben prcsente l'intero concetto aristotelico sulla probabilità.
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9. Proprio su questo passo richiamano l'attenzione Garter e Zabell per suffragare la loro tesi (Garber e Zabell [1979], p. 42). Come prova che Arnauld conosce bene lo scritto di Agostino può essere ricordato, oltre alle numerose concordanze concettuali, il fatto che nella Logique viene riportato il seguente passo di Agostirio tratto proprio dal De Doc,tt-inuc.$-isrionu:"/mplenr quippe illa quia sunr eloquenres. non adhihent ut sint eloquenres" (p.234).E stato giustamente osservato che questa distinzione si trova anche nel De inventione di Cicerone e nellisrifurio Oraforiu di Quintiliano (Garber e Zabell 119791, p. 41 sgg.): entrambe queste opere sono citate nella Logique (p.236).
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I h n q u e Hacking, citando solo un passo di Hvbbes come chiaro precedente storico della Logique per quanto riguarda la suddetta distinzione tra segni naturali e segni convenzionali (Hacking [1975], pp. 47-81, ha certamente peccato di leggerezza storica - forse perché era troppo condizionato dalla sua tesi dell'cmergenza. Ma ha argomentato in modo convincente nei mostrare quanto sia iniportante tale distinzione per la formazione del concetto moderno di probabilità (op.cit., p.30 sgg.). Riferita alla probabilità, questa distinzione si trasforma in quella tra evidenza "interna" e evidenza "esterna" fatta - secondo Hacking per la prima volta (op.cit., p.33) - nella Logiquc. Arnauld distingue tra circostanze "interne" e circostane "esterne" di un evento; quelle interne appartengono all'evento; quelle esterne riguardano le persone grazie aila cui testimonianza noi siamo indotti a credere al I 'evento:
"chiarno circostanze interne quelle che appartengono al fatto stesso, e esterne quelle che riguardano le persone grazie alla cui testiinonianza siamo indotti a credere ad esso (p. 340).
Già Keynes ha richiamato I'altenzione sull'importanza di questa distinzione: C S S ~ perincttt. di cercare "il fondamento" della probabilità nell'cspericnza c "solamente" in essa ([19211, p.87). Del debito della Logiquc a questo proposito verso Id tradizione retorica si è già parla-
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IO. Amauld considera Clauberg " un filosofo... mollo giudizioso e molto solido" e aggiunge: la sua Logica "mi è caduta tra le mani, quando già si era iniziato a stampare questa qui" (p.237). Questa aggiunta serve chiaramente a negare una qualsiasi influenza da parte della Logica di Clauberg. Tuttavia l'autore anonimo di Méthode pour hien érudier la docrrine de M r . de Cartes - Locke conobbe questo scritio nel 1678 sostiene che l'autore della Logique si sia basato sullaLogica di Clauberg (cfr. a riguardo Borghero [ 19881, p. 41). Del resto Clauberg e Amauld concordano persino nelle intenzioni. Infatti anche Claukrg - come dice cspliciiamente il titolo stesso della sua Logica - voleva conciliax la logica aristotelica con il metodo cartesiano ([1670], "Avis au Lecteur"). Comunque non mi è chiaro perché Arnauld abbia vcluto negare il suo debito verso Clauberg. 11. Una prova di questa affinità è il seguente passo di Jakob Bernoulli, che praticamenie mette in esatta corrispondenza la distinzione della Logique con quella più tradizionale di Clauberg:"Argumenru ipsa, sunt vel inrrinseca, vulgo anificialia, desumta ex locis topicis causae, effectus, subjecti, adjuncti, signi aut alterius cujusvis circumstantiae, quae qualemcunyue nexum cum re probanda habere videtur, vel exfrinsecu et inartificialia. petita ab authoritate & testimonio hominum" (Bernoulli [1713], p. 214). ~
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tuttavia troviaino chiaramente espressa una distinzione simile in uno scritto molto piU recente, che Arnauld conosce molto bene e apprezza'': la Lqicu uetus et nom (16i8ì di Johannes Ciauberg. 'Tradendo un legaine più diretto con la terminologia tradizionale, Clauberg distingue gli argomenti in " imrtificicrlict, quae desumuntur ab authoritate seu testimonio" e che corrispondono alle "circostanze esterne" della Logzquc, e in to,
"urtzjkiuliu, quae petuntur e locis qiiikusdani Granimaticis, Logicis, Metaphysicis" (Clauberg L16581, p.840); "loci M~.tuph.ysisici.....suniuntur a Causis, Effectis, Fine, Mcdiis, Toto, Parte, Oppositic, et siniilibus" (op.cit., p.8411, 11
che corrispondono invece alle "circostanze interne" . inoltre Clauberg distingue anche tra la tvstimonianza altrui, "testimonium communc", e la testimonianza propria, " ksstimoriium proprium" (op.cit., p. 840), e sostiene che la loro valutazione funziona secondo regole diverse. Tutte queste distinzioni si trovano in quella parte della Logica dedicata alla topica e alia prohalAità, alla cui considerazione anch'egli, proprio come Arnaiild, attribuisce molta i n mportanza. Quindi anche Clauberg, molto vicino alla filosofia cartesiana, avverte la necessità di integrare con la considerazione della probabilitii la concezione logica e metodo1ogic.a di I>escartes. L'esempio di Clauberg mostra che I'interessc per la probabilità e piuttosto diffuso nel primo cartesianismo e non riguarda solo la Logique. Mi sembra molto plausibile supporre che l'influenza di Pascal e la lettura della Logica i1etu.s ct novu siano state le occasioni che hanno spinto Arnauld ad aggiungere la parte sulla probabiliti nella redazitr ne definitiva della LogiquP '. Per Arnauld la Logicu di Clauberg costituisce soprattutto il tramite di idee e concetti elaborati nella tradizione Iiristotelico-scolastica e
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12. Un indizio a favore di questa mia tesi sarebbe la mancanza nell'esernplare manoscritto dellaLogiyur del giudizio di Amauld su Clauberg. Questa tesi potrebbe anche aiutare a conciliare almeno in parte i giudizi di Amauld e dell'autore anonimo riportati nella nota IO. Infatti si potrebbe ipotizzare che in gran parte Arnauld sia giunto indipendentemente da Clauberg a risultati simili e abbia letto solo in un secondo tempo ma comunque pnma di completare la h g i q u e - la u>&z 13. Questo progetto è chiaramente formulato nel seguente passo:'' Quamvis autem Theologi in loco de Scriptura sacra de ejus interpretatione soleant agere. quarnvis etiam Jurisperiti de Legum interpretatione tractent, non tamen inde licei concludere, rectam interprerandi methodum ~
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in queiia retorica. Tuttavia, malgrado questa sua funzione, il significa^ to della Logica non va esagerato per quanto riguarda la storia della moderna teoria della probabilità. Qui non troviamo un'interpretazione matematica del probabile e, quindi. la concezione clauberghiana della probabilità è ancora piuttosto antiquata rispetto a quella più moderna sostenuta da Arnauld. Invece in u n altro contesto la Logica gioca un'importante funzione storica: nell'evoluzione errneneutica. Clauberg è stato uno dei primi pensatori moderni a concepire in mod o chiaro il progetto di un'ermeneutica generale, mettendo in rilievo l'esigenza che la considerazione delle regole ermeneutiche doveva essere un compito della riflessione logica e non delle discipline in cui tali regole venivano utilizzate 13. La probabilità incfuttiva P2, Svolge un ruolo fondamentale nell'attribuzione e nell'interpretazione degli ~ c r i t t i ' ~ed , e significativo che Arnauld, quando discute PI, ricorre per lo più a esempi trattati dali'ermeneutica (cfr. 3). Ora vorrei prendere in considerazione la motivazione principale che spinge Arnauld ad attribuire una funzione importante all'analisi circostanziale nel determinarc la nostra disposizione a credere o a non credere ad una certa verità contingente. Questa analisi riguarda solo le verità contingenti, non quelle necessarie. Per giudicare se "une proposition de Geometric" ?.i vera la valutazione delle circostanze è superflua (p. 340) e basta accertarsi "che l'idea dell'attributo è verariiete contenuta nell'idea del soggetto!' (p. 319). La necessità dell'inclusione del predicato nel soggctto 2 data dalla percezione d d k d loro inseparabilità, cioè dalla prova del1'irnpc)ssihitità della negazione della proposizione in qiicstione. L'analiticitiì C l'unico criterio di verità richiesto per IC proposizioni necessarie: le verità necessarie sono tuttt' le proposizioni analitiche. Se l'inclusione del predicato nel soggett o è esplicita, la verità è colta immediatamente attraverso l'intuizione; se, invece, implicita a1lor:i clcve essere dimostrata attraverso una catena piti o meno lunga di infcrenze deduttive che serve proprio ad
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ad singulas potius disciplinas, quam ad Logicam spectare. Nam vemm sensum investigandi regulae multae sunt, aedemque utilissirnae, Theologo, Jurisconsulto & aliis omnibus communes. Ergo generaliter sunt tradendae, eadem ratione, qua Rhetores accuratiores praecepta eloquentiae Oratoribiis & Poetis cornmunia ad Kheturicam communem referunt, non ad Oratoriarn vel poeticarn restringunt" (Clauberg [ 16581, pp. 781 -2).Per quanto riguarda tale progetto Claukrg è debitore soprattutto a Dannhauer (Hasso Jaeger [ 19741, p. 75). 14. Ho discusso questo tema in rappurro all'ermeneutica di Christian Thomasius in [ 19891.
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esplicitare l'inclusione del predicato nel soggetto e, quindi, la verità della proposizione. Questa concezione, qui solo accennata, caratterizza anche l'epistemologia cartesiana (Regola in [19691, pp. 91-2), ma per trovarne formulazioni piU chiare bisogna aspettare il razionalismo successivo. Invece la caratteristica determinante delle verità contingenti, già accennata, è proprio la possibilità della loro negazicne. In altre parole il legame tra predicato e soggetto non è indissolubile: "I1 contingente invece è l'unione di cose che non sono legate da alcuna relazione inseparabile" (op.cit., p. 92). Se si tiene conto di queste idee, allora diventa più facile capire perché l'analisi circostanziale vene considerata indispensabile per poter stabilire la verità di uno stato di cose contingente. Quanto più dettagliata sarà questa analisi e quanto più numerose saranno le circostanze vere - in assoluto o false solo molto raramente - che lo accompagnano, tanto più forte diventerà la nostra disposizione a credere che lo stato di cose in questione sia vero. "Se tutte queste circostanze sono tali che non succede mai o molto raramente che circostanze simili siano accompagnate da falsità, allora la nostra mente sarà indottg naturalmente a credere che .....[lo stato di cose in questione1 sia vero" (p. 340).
Se invece le circostanze sono perlopiù false, allora è ragionevole sospendere il giudizio oppure ritenere falso l'evento in questione, "sebbene non vediamo affatto una completa impossibilitiì" (p. 340). In altre parole la maggior probabilità di un evento dipende dal grado della sua connessione con tutta una serie di altri eventi, veri o anche solo probabili, e dal numero degli eventi presi in considerazione. Cioè quanto più estesa è la connessione di un determinato evento con altri eventi, tanto maggiore sarà la sua probabilità e quindi le ragioni che ci inducono a crederlo vero. in questo modo si può raggiungere "la plus grande probabilité" o addirittura la certezza "morale" (riguardo al concetto di certezza morale cfr. § 3). Invece bisogna accontentarsi di un grado minore di probabilità, oppure della semplice possibilitii, quando un evento, pur essendo in sè "suffisament attesté" (p. 341), presenta tuttavia incompatibilità e evidenti contraddizioni con altre circostanze. In questo caso - secondo' Arnauld - sarebbe irragionevole pretendere per la prova delle circostan-
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ze concomitanti quello stesso rigore richiesto per la prova dell’evento, ma è sufficiente mostrare che la soluzione delle suddette contraddizioni sia possibile e verosimile. Quindi, anche nel caso della probabilità, il ricorso alla possibilità logica, basata sul principio di contraddizione finisce per svolgere una funzione positiva e fondamentale. Soltanto che nel caso delle verità necessarie il principio di contraddizione può essere applicato anche ad una sola verità ed 6 sufficiente per determinarne la necessità; mentre nel caso delle verità contingenti esso può essere applicato solo ad un insieme di circostanze e serve a garantire o a corroborare la probabilità dell’evento a cui tali circostanze appartengono. Qui Arnauld ricorre ad un principio particolare che può essere inteso come un’estensione del principio di contraddizione e che propongo di chiamare princapio di consistenza del reale. Dalle sue argomentazioni risulta in modo evidente la tendenza a intendere questo principio di consistenza come il principio caratteristico della realtà fenomenica. Questo principio è il corrispondente ontologico di un altro concetto, che sta alla base dell’epistemologia razionalista: il concetto di sistema. Anzi per essere più precisi il principio di consistenza del reale è il fondamento della nozione di sistema, se di questa viene intesa solo la connotazione epistemologica. I1 sistema delle nostre conoscenze per il razionalismo non è altro che la traduzione a livello cognitivo della connessione sistematica delle essenze, da cui dipende, owiamente, la connessione sistematica dei fenomeni. La conoscenza viene intesa come un’esplicitazione di ciò che è implicito; ma proprio l’implicito è il suo fondamento, sebbene questa fondazione venga conosciuta solo dopo la sua esplicitazione realizzata dall’attività congnitiva. Perciò la maggior parte della concettualità razionalista ha una duplice connotazione: ontologica e epistemologica. Se si segue l’ordine della conoscenza la priorità tocca all’epistemologia rispetto all’ontologia, ma secondo l’ordine dell’essere il rapporto è invertito. Qui è opportuno un breve accenno alla storia del concetto
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15. Discours touchont la Méthode de la Certitude et l’ori d’inventer, in Leibniz [1840], p.
175. Non bisogna però dimenticare che Leibniz intende in più sensi il concetto di sistema (Amdt [197 I], p. 118 sgg.) e che il senso predominante è diverso da quello indicato e va piuttosto inteso nei significato di ipotesi, prospettiva (Ansperger [ 18971, p. 43).
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di sistema. Questa nozione si sviluppa dall'istanza cartesiana di un' "enumeratio ordinata" (Regola VI1 in [19691, pp. 69-70) e, attraverso il "système rég1é"15 di Leibniz, arriva alla formulazione di Wolff che concepisce il sistema proprio nel senso diventato poi predominante fino ad oggi, cioè come la rappresentazione della connessione deduttiva delle verità tra di loro e con i loro principi: "veritatum inter se et cum principiis suis connexarum congeries" ([1728b], 889). Queste idee - qui certo molto semplificate - ci aiutano a individuare il contesto teorico e concettuale da cui emerge l'esigenza dell'analisi circostanziale. Evidentemente Arnauld, nel sottolineare la sua importanza e la necessità di un accordo coerente tra le circostanze concomitanti, ha presente la fecondità epistemologica del concetto di sistema. I1 fatto piuttosto nuovo è l'applicazione di questo concetto alla conoscenza delle verità contingenti e della probabilità. Per l'insieme delle probabilità si richiede un ordine e un nesso che devono ricalcare il più possibile quelli del sistema delle verità necessarie. I1 razionalismo successivo svilupperà questa idea e insisterà sull'affinità formale tra la dimostrazione e l'argomentazione probabile, dicendo che esse possono essere distinte solo riguardo alla loro "materia" (cfr. IV.3). Insomma l'analisi circostanziale ha una duplice funzione, di scoperta e di giustificazione, proprio come il sistema, di cui rappresenta il corrispondente sul piano della probabilità . Essa aiuta a scoprire il grado di probabilità di un evento e al tempo stesso lo giustifica, mostrando la sua compatibilità con un insieme non contraddittorio di stati di cose. Sul piano ontologico questa concezione trova la sua giustificazione in quello che sopra h o chiamato il principio di consistenza del reale. La possibilità e la validità della nozione di sistema e dell'analisi circostanziale si basano sul riconoscimento della verità di questo principio. Esso non riguarda solo la realtà ultima costituita dalle essenze, ma anche e soprattutto la realtà effettiva costituita dalle esistenze, cioè la realtà fenomenica. Dico soprattutto solo perché questo principio - formulato ovviamente non in questo modo - costituisce per tutti i razionalisti il criterio fondamentale per riconoscere la realtà effettiva. A questo proposito sono opportune alcune osservazioni storiche. Già Descartes, alla fine della Vi Medituzione, argomenta a favo-
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re del principio di consistenza del reale come criterio di distinzione tra la veglia e il sogno:
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"Devo, infine, rigettare come -iperbolici e ridicoli rutti i dubbi nutriti nei giorni passati, in particolare quella incertezza così assoluta sul sonno che non potevo distinguere dalla veglia. Adesso, infatti, vi trovo una differenza notevolissima in quanto la nostra memoria non può mai legare e unire i nostri sogni con tutto il resto della nostra vita, come invece è solita fare con le cose che accadono quando siamo svegli.. ..Quando percepisco cose di cui conosco distintamente il luogo da cui provengono e quello in cui esse sono, oltre il tempo in cui mi appaiono, e la cui percezione possa legare senza interruzione con ii resto della mia vita, posso essere assolutamente sicuro che quelle cose le percepisco da sveglio e non nel sonno. Non devo, infatti, dubitare in nessuna maniera della verità di queste cose se, dopo aver richiamato tutti i miei sensi, la mia memoria ed il mio intelletto per esaminarle, noto che le cose annunciatemi da alcuni dei sensi non contraddicono in nulla le cose riportatemi dagli altri sensi" ([1969],pp. 257-
81.
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Dunque Descartes caratterizza la realtà come una connessione non contraddittoria di stati di cose. Le eventuali differenze tra i razionalisti riguardo alla funzione dei principio di cnnsisteriza non sono mai sostanziali, ma soltanto di grado. P.es. anche Leibniz gli attrihiiisce ki stessa funzione, ma non lo considera garante di quella assoluta sicurezza espressa da Descartes. Egli sostiene che un sogno così connesso e così lungo quanto lu vita di un uomo, sebbene irnplausibile, non & impossibile (Nuozii Sagyi, IV, I l ? 14 >. 11 realismo fenornenico di Ixibniz, rispetto a quelli di Descartes o p.es. di WVolff, è molto piU ipotetico e meno fondazionista. In effetti la certezza prodotta dai principio di consistenza del reale non è una certezza veramente assoluta, che può risultare soh dall'impossibilità della sua negazione, Ina 6 piuttosto una certezza più debole che risulta dall'assenza di ragioni contrarie in questa certezza piti ;lebole zyxwvutsrqponmlkjihgfedcbaZYXWVU u cui approda l'argomenta~
16. Del resto non sarà un caso che molti protagonisti della storia del calcolo della prubabilità siano stati influenzati proprio da Descartes o dal cartesianismo in genere. Tra questi oltre a
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zione della Vi Meditazione, va riconosciuto quel concetto di certezza morale, di cui, però, la Logique non spiega il significato. Come vedremo nel prossimo paragrafo, questa certezza morale può essere considerata come il caso limite della probabiltià, che si raggiunge quando si ha un grandissimo numero di istanze favorevoli ad un enunciato, ma nessuna istanza contraria. Quanto detto finora mi sembra sufficiente a mostrare che I'esigenza dell'analisi circostanziale deriva proprio dall'estenzione e dall'elaborazione di alcuni concetti fondamentah del cartesianismo e del razionalismo in generale. Se si attribuisce, come generalmente accade, una grossa importanza all'idea dell'analisi circostanziale per quanto riguarda lo sviluppo del concetto moderno di probabilita. allora bisogna riconoscere anche l'intimo legame esistente tra tale sviluppo e la concettualità cartesiana e razionalista 16. La concezione della probabilità espressa nella Logigue costituisce un esempio, molto significativo di questo legame.
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3 . Certezza eprobabilità In questa sezione cerco innanzitutto di chiarire in che senso la nozione di probabilità della Logzque è soggettiva. In secondo luogo prendo in esame lo stretto rapporto tra certezza c probabilità, che risulta dalle argomentazioni di Grnauld,e tento di mostrare perché esso è un presupposto indispensabile per l'interpretazione quantitativa dei
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Clauberg e Arnauld, vanno naturalmente ricordati anche Pascal, Huygens, Leibniz, e Jakob Bernoulli. Un altro esempio significativo del diffuso interesse per la probabilità in ambiente cartesiano è la riccrca dello statista Johann de Witt, considerato da Condorcet come "il discepolo di Descartes, e uno dei suoi migliori discepoli" (Condorcet [178S], p. CLXXXIV). De Witt pubblicò uno studio, Wurrdye vun LJfrenten m e r proportie \!un Los-renten (167 i), che, nella storia della teoria della probabilità, è ricordato soprattutto come uno dei primi casi in cui il calcolo delle probabilità viene esteso ai problemi della phifosnphiapractica e, precisamente, al problema dell'assicurazione sulla vita. Questo studio ebbe una notevole influenza su Jakob Bernoulli e Leibniz (cfr. a riguardo Riermann [ 19591). Riguardo all'influenza esercitata dalla lettura della Recherche de la V é d é su de Montmort, che era anche amico di Malebrarche, cfr. l'articolo su di lui nello Zedler I/niver.sul-lexicon. Qui vale la pena ricordare che anche Spinoza si interessò a e scrisse sul nuovo calcolo delle probabilità (Spinoza [ 16871; cfr. anche la sua lettera del 1.10.1666 a Jan van der Meer in 119141. Se, invece, si vuole negare l'appartenenza di questi autori al cartesianismo, allora si dovrà almeno ammettern la loro appartenenza al razionalisrno.
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gradi di probabilità. Poi tratto la probabilità aleatoria e quella induttiva e, infine, il progetto della Logzque di costituire una teoria razionale del comportamento sulla base del concetto di probabilità. Arnauld rifiuta la tripartizione delle opinioni in vere, false e probabili, perché anche le opinioni probabili sono o vere o false (p.163). Questo punto di vista presuppone chiaramente quella fede nel determinismo che caratterizza, com'è noto, non solo la concezione della Logzque , ma l'intera concezione classica della probabilità. La tesi del determinismo - allora unanimamente condivisa - esclude per principio l'esistenza di stati di cose probabili. Cioè a un enunciato probabile non corrisponde alcun stato di cose specifico e in sé indeterminato. Gli stati di cose sono tutti determinati e come tali vengono conosciuti da Dio. Quindi, se si tiene fede alla tesi del determinismo, la nozione di probabilità può essere giustificata solo se viene interpretata soggettivamente. Così, a quasi un secolo di distanza dalla Logique, Plocquet scrive ancora: "probabilitas igitur semper est aliquid subjectivi, et pendet a cognitione ejus, cui quid probabile videtur" (t17591, 374.
La probabilità dipende solo dall'intelletto umano, che, proprio a causa dei suoi limiti, è costretto a conoscere certi stati di cose solo in modo probabile. Proprio dall'ammissione del determinismo dipende il soggettivismo della concezione classica della probabilità, che rimarrà dominante fino e oltre Laplace (cfr., p.es. Kries [18861, p. 269 sgg). Qui, però, per evitare equivoci riguardo alla natura di questo soggettivismo è opportuno fare una precisazione. La soggettività del concetto di probabilità implicava allora almeno tre sensi diversi: (10) la probabilità è soggettiva perché dipende da fattori psicologici ed è, quindi, variabile a seconda degli individui. Ciò significa che uno stato di cose può essere conosciuto come più o meno
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17. Riguardo a (1 I ) è interessante leggere il seguente passo di Jakob Bernoulli: "quae propterea & ipsae [cioè le eclissi], ante Astronomiam eo perfectionis promotam, non minus ac caetera duo inter futura contingentia refem opus habebant. Sequitur hinc, uni & uno tempore videri posse contingens, quod alii (imo & eidem) alio tempore post cognitas ejus causas fit necessarium; ade0 ut contingentia praecipue etiam respiciat cognitionem nostram, in quantum nos nullam videmus repugnantia in object0 ad nos esse vel fore, etiamsi hic & nunc vi causae proximae sed nobis ignotae necessario sit vel fiat " ([1713], pp. 212-3).
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probabile, o anche come certo, a seconda dei diversi soggetti che sono interessati alla sua conoscenza - p.es. (10) è esplicitamente formulato da Thomasius (cfr.III.2) e da Wolff (cfr.IV.1). (11) la probabilità è soggettiva perché dipende dal grado attuale della nostra conoscenza 17 . In questo caso i limiti del nostro intelletto sono non solo intersoggettivi, ma anche contingenti perché questo grado può aumentare e in futuro aumenta effettivamente. (12) la probabilità è soggettiva perché dipende dai limiti costitutivi dell'intelletto umano. Tuttavia in questo caso, poiché tali limiti sono necessari, almeno dal punto di vista dell'intelletto umano la proba-bilità può essere intesa come oggettiva; essa è soggettiva solo se ci si riferisce all'intelletto divino. Cioè esistono stati di cose che Dio conosce con certezza, ma che l'uomo a causa dei suoi limiti può conoscere solo con una certa probabilità e che , quindi, per lui valgono come oggettivamente probabili. Ora proprio (12) è il presupposto implicito nella distinzione tra circostanze "interne" e circostanze "esterne" discussa nel $ 2. infatti nella considerazione delle circostanze "interne" - ciò e più evidente soprattutto riguardo alla probabilità aleatoria - Arnauld prescinde dalla soggettività intesa nel senso (10) e (11). Del resto, malgrado la sua critica al soggettivismo della concezione classica, anche Suppes non può fare a meno di riconoscere in essa tendenze oggettivistiche. Egli sostiene persino che tale concezione sarebbe stata conciliabile con un proba-bilismo metafisico:
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"lo sviluppo sistematico della teoria della probabilità nel diciottesimo secolo rese possibile pensare che chance o casualità esistono realmente nella natura e non sono dovute semplicemente alla nostra ignoranza delle vere cause" (i19841, p.40). Alla distinzione primaria in enunciati veri e falsi Arnauld ne aggiunge ancora un'altra, cioè la distinzione tra proposizioni certe e proposizioni probabili.
Ve proposizioni] si possono dividere innanziutto in vere e false; e poi si può dividere le une e le altre in certe e probabili" (p. 163). Dalla connessione di queste due distinzioni si può ricavare il seguen-
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te schema (13):
verità-certa
+
4
verità-probabiie
falsità-probabile
t
t-
falsità-certa
La probabilità, proprio come la certezza, pu0 essere una connotazione del vero corne del falx). L'eventualità che la probabilità possa essere vera la rende degna, per così dire, di essere conosciuta. In accordo con la tradizione, Arnauld assegna la probabiliti all'opinione e la verità alia scienza (p. 335 sgg.). Tuttavia, malgrado la distinzione tra Scienza e opinione, emerge qui la tendenza a riconoscere non una differenza sostanziale tra l'oggetto della scienza e quello dell'opinione, come perlopiù accadeva nel pensiero medievale (cfr. Hacking [7975], p. 20 sgg. e Jacobi [1980], p. 152>,md piuttosto una differenza graduale. Anche l'opinione ha a che fare con la verità, sebbene que18 sta sia una verità soltanto probabile . Cosi certezza e probabilità sono messe in stretta correlazione. Da un punto di vista epistemologico i due concetti presentano una caratteristica coriiune: entrambi esprimono una relazione epistemica tra un soggetto e la verità. La certezza esprime la totalità della verità; mentre la probabilità esprime soltanto una parte, piU o meno grande, della verità. Inoltre dallo schema (13) risulta che la verità-certa e la falsità-certa sono rispettivamete il limite superiore e inferiore tra iui oscillano i possibili Valori di probabilità. 11 p d S S o seguente conferma questa nostra interpretazione:
"Ma nondimeno si possono indicare certi limiti che biso-
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18. Una concezione simile, che naturalmente ha punti di aggancio anche con la tradizione scolastica, la ritriviarno anche in un altro manuale di logica, che precede solo di pochi decenni la Logiyuc: nella Logica Hamburgensis di Joachim Jungius. Qui leggiamo: "Veritas enuntiationis est duplex: aliud est verum proprie dicrurn, sive necessario verum, aliud pruhuhile, sive verosimite" (116381, p. 2); "Opinio vero gradus ad scientiarn. Earn ob causam Dialectica quoque Apcdicticae instrumenturn dicitur" (up. cir., p. 246). Anche Clauberg, scrivendo che I'opinio è "cognitio minus firma & accurata" (Logicocontractu in [ 16911, vol. 11. p. 930). ammette implicitamente solo una differenza graduale, e non sostanziale, rra questa e la scienza. Questa idea dell'opinione come grado della scienza la ritroviamo più tardi anche in Christian Thomasius (cfr. testo e note in 111. I), che non a caso ha letto attentamente le Logiche di Jungius, Clauberg e Arnauld. 19. Ciò accade già - solo tre anni dopo la pubblicazione della Lagique - con Leibniz e poi con Jakob Bernoulli. In De condirionibus (1665) Leibniz attribuisce valori numerici tra O e I , con-
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gna aver superato per aver questa certezza umana, e altri al di là dei quali la si possiede certamente, concedendo un mezzo tra queste due specie di limiti, che si approssima più all'uno o all'altro" (p. 336).
Insomma l'insieme dei possibili valori di probabilità viene concepito come una scala il cui punto finale superiore è costituito dalla certezza e dove il grado di probabilità viene determinato in base alla sua prossimità ad uno dei due limiti opposti. Questa determinazione condiziona la nostra disposizione a credere o a non credere ad un certo evento. Se invece il valore della probabilità rimane esattamente nel mezzo della scala, cioè ad un'uguale distanza da entrambi i limiti, allora bisogna sospendere il nostro giudizio (p.348). .Nell' argomentazione di Arnauld sono evidenti le tracce di quella riflessione sul concetto di limite che proprio allora andava sviluppandosi e che sfocerà, tra l'altro, nella scoperta di molti teoremi importanti della teoria della probabilità. Questa concezione, che in seguito assumerà contorni più precisi19, costituisce un presupposto indispensabilc per l'interpretazione matematica della probabilità, perché permette di interpretare in modo sensato i valori numerici attribuiti al probabile. Infatti secondo questa concezione la certezza vale come un massimo di probabilità e proprio perché si vede nella certezza, grazie al suo rapporto con la verità, qualcosa di reale e di oggettivo, si può ammetterla come punto di riferimento per la
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formemente alla probabilità della sua occorrenza, alla condizione contingente del diritto condizionato (Leibniz [1950], vol. Vì/i,~p.139). Nello Sperimina j u r i s (OP. cit., p. 420). che nprende quattro anni più tardi lo stesso tema, Leibniz propone lo schema seguente: conditio impossibilis conditio contingens conditio necessaria o Ii2 1 jus nullum jus condiliondtum J U S pumm Altrove Leibniz, dopo aver considerato la certezza come uri'unità, aggiunge:"unde sequitur probabilitatem ad certitudinem esse non ut finiturn ad infinitum. sed ut finiturn ad fmitum. nempe fractionem ad unitatem" (appunti sul lavoro di de Witt in Biermann [ 19591. p. 172). Leibniz paragona la relazione tra la probabilità e la certezza a quella tra la parte e il tutto (cfr. De incerti uesrimutionc, in Biemdnn e Faak [1957b]. pp. 47-48, e una lettera a Placcius del gennaio 1687, in Leibniz 17681, p. 36). Anche Bernoulli fa lo stesso: "prohahilitusenim est gradus certitudinis, & ab hac differt ut pars a toto"( [ I7 131, p. 2I I ). E interessante ricordare che anche Wolff trascrive questa definizione di Bernoulli nella sua recensione dell'Ars conjectandi(Wolff [ 17141. p. 22).
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determinazione scalare. Il tratto tipicamente razionalistico di questa concezione è evidente. In essa il concetto di certezza gioca tin duplice ruolo. L)a una parte tale concetto si rivela come il presupposto fondamentale grazie al qiiale diventa possibile l'elaborazione di una teoria matematica della probabilità. Dall'aItra il raggiungimento della certezza resta lo scopo ultimo e la ragione fondamentale dell'elaborazicine d i iina logica del protiabile. in pratica la probabilità v i m e intesa come un espediente per sopperire alle deficienze del nostro intelletto e poter così raggiungere la certezza. Mentre quando questa e irraggiiingibile la conoscenza della probabiiità viene concepita in modo da rapprescnlarc un'alternativa razionale - certo inferiore, ma comunque Valida alla conoscenza della certezza. Sul rapporto tra prol.>akilità e certezza ì- necessario fare ancora una considerazione. Ahhiamc)gka visto che la ce so lato, rappresenta un genere di cui possuno ec due spccie: una certezza più fofle, che può essere identificata con qiiella che allora si era soliti chiamare certezza matematica; e la certezza più debole che può essere identificata con quel concetto di certezza morale usato da Arnauld e a cui abbiamo già accennato (cfr. $ 2 j. La certezza più forte c quella più debole possono essere distinte nel seguente modo: una proposizione i? certa nel senso forte, se la sua negazione impossibile e a noi nota questa impossitJilit5. Se invece, ki negazione di una proposizione e solo ipoteticamente iinpossibile - perché, malgrado gli sforzi, non riusciamo a trovare alcuna ragione contraria, ma non riusciamo nemmeno a proporre e certa in senso debol'impossibiliti della stia negazione -, allora e le. Proprio questa certezza più debole, ci00 la certezza morale e non ~
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20. Demonstratio probabilitatis infinitae, seu certitudinis moralis" (Leibniz, Demos(/-uriunum catholicarum conspectus, in [ 19501, vol. V y l , p. 494); "Principium certitudinis moralis. Omne quod multis indiciis confirmatur, quae vix concurrere possunt nisi in vero, est moraiiter certum, seu incomparabiliter probabilius opposito" (Leibniz [ 19031. p.5 15): "Momlifer('errurn est, cujus probabilitas fere aequatur integrar: cenirudini, sic ut defectus sentiri non possit" (Bernoulli [1713], p. 21 i). Come esempio per il tardo razionalismo cfr. il seguente passo di Meier: "la probabilità pub essere così grande de essere quasi una certezu completa; e c'è un certo grado di probabilità che si chiama certezza morde" (Meier [ 1752a1, 207). 11 concetto di certezza morale viene usato in questo stesso senso anche da Mendelssohn (cfr. [ 19291, p. 515) e nella famose Encyclopédie francese, dove si paria di "una probabilità che si confonde con una certezza morale" (cfr. la voce "Probabilité').
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quella matematica, deve essere intesa come il caso limite della probabilità. "Nella teoria delle chance la certezza è considerata come un caso particolare della probabilità: questo è il caso in cui un evento non ha alcuna chance contraria" (Poisson [18371, p. 35).
P. es. se si ha una proposizione con la più grande probabilità possibile, e se si riescono a eliminare tutte le ragioni contrarie, allora si ottiene una proposizione moralmente certa, la cui negazione è impossibile, sebbene non si possa mostrare questa impossibilità. In seguito i razionalisti chiariranno proprio in questo senso il concetto di certezza morale 20 . Quindi per la classe degli enunciati certi in senso debole vale quanto segue: così come noi possiamo considerare la probabilità dal punto di vista di questa specie di certezza, si può anche considerare questa specie di certezza dal punto di vista della probabilità. in altre parole: così come si può vedere nel grado di probabilità un grado di certezza, si può, viceversa, considerare la specie di certezza più debole come un caso limite della probabilità. Nella Logique ritroviamo entrambi gli aspetti della probabilità già indicati nel $ 1 : l'aspetto aleatorio Pi e quello induttivo P2 , In realtà Pi e P2 non vengono distinti in modo esplicito, ma il modo diverso in cui viene effettivamente utilizzata la nozione di probabilità basta a giustificare la loro distinzione. Secondo Arnauld Pi deve essere interpretata matematicamente e, riferendosi alla probabilità degli eventi nelle lotterie, scrive che è necessario "stimare geometricamente la proporzione che tutte queste cose hanno insieme" (p.353). Tuttavia in questo caso non bisogna aspettarsi alcun contributo matematico nuovo. Per quanto riguarda l'interpretazione' matematica di Pi Arnauld dipende direttamente da Pascal (e, forse, anche da Huygens). Piuttosto la sua trattazione di Pi è interessante per due ragioni diverse: la Logique (a) è uno dei primi scritti pubblicati che tratta, seppur sommariamente, il nuovo calcolo e ha, quindi, contribuito a renderlo noto; mette l'accento sull'importanza di Pi per la costituzione di una teoria razionale del comportamento. Evidentemente (b) risulta da un'attenta considerazione della scommessa di Pascal, che
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non a caso viene riassunta proprio nello stesso contesto. Arnauld s e stiene di voler smascherare una "illusion" che condiziona negativamente e frequentemente il nostro comportamento: il fatto di lasciarsi guidare solo da considerazioni riguardo alla grandezza e agli effetti di un vantaggio che si vuole perseguire, senza tener conto del grado di probabilità che questo possa o non possa verificarsi (p.352). Dall'insufficienza di queste considerazioni dipende I'irragionevolezza e l'imprudenza di molti nostri comportamenti. Invece un'esatta valutazione della probabilità degli eventi garantisce decisioni più ragionevoli ed un Coriiportdmento più corretto: "qualchevolta c'e cosi poca apparenza nei successo di una cosa che, per quanto. sia vantaggiosa e per quanto poco sia ciò che si rischia per ottenerla, è utile non rischiare ncmmeno quel poco" (p.353).
Per spiegarsi meglio Arnauld ricorre a esempi tratti dal gioco d'azzardo. Qui riporto di seguito u n o di questi esempi. Ci sono giochi a cui partecipano dieci persone: ogni persona punta la stessa posta, ma solo una vince, mentre le altre nove perdono. Cioè ogni giocatore rischia una sola posta e può vincerne nove. Se si tiene conto solo della vincita e della perdita, allora potrebbe sembrare che la partecipazione al gioco sia vantaggiosa per tutti. Ma ci6 risulta errato se si considerano le diverse probabilità che caratterizzano questa situazione. E' vero che ogni giocatore può vincere n e ve poste, ma la probabilità per ognuno di vincere è solo 1/10! mentre quella di perdere F 9/10. Da ciò risulta l'equità del gioco, proprio perch6 la probabilità di vincere compensa perfettamente quella di perdere e da questa composizione risulta di nuovo l'unità da cui si era partit.i per attribuire le diverse probabilità: i/10+9/iO=lO/iO=i (Ilciò mette la cosa in una perfetta eguaglianza. Tutti i giochi che sono di questa specie sono equi"; p.353). Se le giuste proporzioni vengono alterate, allora non F possibile ricostituire la suddetta unità e, perciò, i giochi diventano scorretti. il presupposto implicito di questo ragionamento è quei principio di equipossibilità, che più tardi Leibniz considererà u n "axioma" (cfr. la fine di IV.2) del calcolo delle probabilità e che costituisce il principio fondamentale della concezione classica della probabilità. Ma il contributo forse più nuovo della Logique riguardo al tema
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della probabilità è la tesi che sia possibile applicare il calcolo matematico, elaborato nel condiderare P i , anche a 1'2. Perciò Hacking ha detto che la "branca della filosofia della scienza ora chiamata 'probabilità e induzione' inizia con la Logiquc di Port-Royal" ([19751, p.76:).
Naturalmente la novità non sta nell'aver interpretato induttivamentc il concetto di probabilità, ma nell'aver sostenuto la possibilità di un'interpretazione quantitativa della relazione tra le ipotesi e la loro evidenza. Allora, pur tenendo conto che la possibilità di un'interpretazione matematica di P2 è stata contestata più d'una volta (p.es. da Keynes in [1921]) bisogna riconoscere che aiia Logique va il merito di aver inaugurato una lunga tradizione che ha creduto, invece, a tale possibilità e ha offerto una lunga serie di contributi a riguardo. A questo proposito Arnauld fa un esempio che riguarda la probabilità della predatazione di u n contratto (pp. 348-9). L'analisi delle circostame mostra che tale probabilità 2 minima. Infatti la maggior parte degli atti vengono sempre firmati da due notai, cioè da due uomini pubblici che normalmente non hanno alcun interesse a soctenere il falso sia perché ripugnerebbe alla loro coscienza e al loro onore, sia perché danneggerebbe la loro economia e la loro vita. Se non siamo a conoscenza di altri dettagli, questa considerazione & sufficiente per indurci a credere che un contratto non è predatato. La nostra credenza non si basa sull'iinpossibilità dell'esistenza di contratti predatati, ma sul fatto "certain" che tra i000 contratti 977 non sono predatati. In seguito a questa constatazione "est incomparabiement plus problable" chc il contratto in questione sia uno di quei 999 e non proprio l'unico preddtdto. Se, inoltre, è nota l'onestà dei notai che hanno autenticato il contratto, allora si considererà "pour très-certain" che essi non hanno commesso nulla di falso. invece, se noi siamo a conoscenza di altre circostanze particolari, p.es. del fatto che i notai non erano particolarmente onesti e avevano interesse alla falsificazione del contratto, allora diminuirà la probabilità che tale contratto non sia predatato. Se poi si trovassero ancora aitre prove positive a fdvore della predatazione, allora si sarà disposti a credere che il contrdttu contiene qualcosa di falso.
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Questo esempio è un tipico caso di analisi storico-filologica, perché riguarda l’autenticità della datazione di un testo. La maggior parte degli episodi riportati da Arnauld per spiegare P2 sono di questo genere. Cio, come ho già detto, testimonia la sua dipendenza dalla tradizione retorica ed ermeneutica. L’importanza di P2 per le scienze empiriche e sperimentali è quasi del tutto ignorata. Troviamo solo un breve riferimento alla medicina (p.352). Per concludere i contributi più interessanti della Logique in questo contesto sono i seguenti: a) il progetto di una teoria razionale del comportamento; b) l’interpretazione matematica della probabilità induttiva. In effetti nella teoria della conoscenza della Logique la probabilità non gioca ancora quel ruolo determinante che più tardi molti razionalisti le attribuiranno. Arnauld vede nell’elaborazione della teoria della probabilità soprattutto il modo per razionalizzare la vita pratica e per rendere scientifica l’ermeneutica. Tuttavia egli ha anche sottolineato e argomentato piuttosto chiaramente che la logica del probabile è lo strumento migliore per conoscere il regno del contingente. Bastava seguire questa indicazione per arrivare, ad attribuire una funzione epistemologica maggiore alla probabilità e riconoscerne l’importanza nelle scienze empiriche e sperimentali, come faranno più tardi molti razionalisti. Il concetto moderno di probabilità presenta un’interessante ambivalenza: da una parte, grazie alla sua interpretazione matematica, è connesso alla necessità; dall’altra, per definizione - per entrambi il contrario è sempre possibile -, è connesso con il contingente. Questa ambivalenza non poteva non affascinare il razionalismo che vedrà in essa la possibilità di gettare un ponte tra la ragione e l’esperienza e realizzare, così, una parte importante dei suo programma: la costituzione e la legittimazione delle scienze empiriche. Ricorrendo alla probabilità nel progettare una scienza dell’interpretazione e del comportameto, Arnauid aveva imboccato una strada maestra che caratterizzerà in gran parte la filosofia del razionalismo successivo.
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II. JOHN LOCKE
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La teoria della conoscenza e la teoria della probabilità fanno entrambe un passo importante con Locke. La prima viene estesa anche alla percezione sensibile delle esistenze esterne. che diventa così una forma di conoscenza, quasi allo stesso diritto dell’intuizione e della dimostrazione. La seconda viene dcsrinata alla soluzione di problemi non solo della vita pratica, come nrlla Logiqitedi i’ort-Royal, ma anche della filosofia naturale. I.ocke non arriva ancora a riconoscere al probabile una funzione nella produzione della scienza. Infatti, in accordo con la tradizione, egli continua a sostenere che il probahile può produrre solo l’opinione. Tuttavia il fatto che egli consideri la probabilitrì come un concetlo indispensabile per l’t.lab«razirme di teorie razionali sul mondo empirico 6 senza dubbio uno sviluppo importante in questa direzione. In secondo luogo tento di mostrare che nella teoria dclla conoscenza e della probabilità di Locke c’è una cospicua presenza di elementi razionalistici. Il capitolo si divide un tre paragrafi. Nel § 1 tento innanzitutto di mcttere in luce il rapporto tra il cogito e la percezione della concordanza o discordanza tra le idee. Poi cerco di far vedere che in Locke la conoscenza e l’intuizione consistono nell’impossibilità di percepire qualcosa diversamente da come la si percepisce. Nel $ 2 tratto brevemente la dimostrazione e poi tento di mostrare che la conoscenza e la certezza sensibili vengono concepite in stretta analogia con la conoscenza e la CerfeZZd intuitive. Nel § 3 espongo innanzitutto le ragioni che spingono Locke a interessarsi del probabile. Poi discuto le seguen-
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* 1 riferimenti bibliografici riguardanti il Saggio su//’ intelligenza umano sono fatti dirertamente nel testo tra parentesi tonde: il primo numero romano si riferisce al libro, il secondo numero romano al capitolo e il numero arabo al paragrafo. P.es. (IV, VII, 3) sta per (libro l V , cap. VII, 8 3). - 47
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ti tesi: (a) Locke tratta la probabilità logica o induttiva, ma non quella aleatoria; (b) la razionalità della teoria della probabilità dipende dalla possibilità di dare un'interpretazione quanritativa dei valori di probabilità; (c) la teoria della probabilità viene considerata come un mezzo indispensabile per razionalizzare l'opinione, Infine tratto le due specie in cui Locke distingue le proposizioni probabili.
1. Conoscenza e intuizione
Com'è noto per Locke le idee sono l'oggetto proprio della conoscenza (IV, I, i) e questa
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"...altro non ...sembra essere che la percezione del legame e concordanza, o della discordanza e contrasto, tra idee nostre quali che siano. Essa consiste soltanto in questo" (IV. 1: 2).
Egli precisa che questa concordanza o discordanza può essere di quattro specie: "I. Identità, o diversità. IT. Relazione. 111. Coesistenza, o connessione necessaria. IV. Esistenza reale" (IV, I, 3 ) . Sebbene Locke riconosca che la i e la 111specie sono "in verità ... relazioni", tuttavia aggiunge che queste specie meritano di essere trattate distintamcnte per la loro peculiarità (XV, I, 7 ) . Qui vorrei brevemente considerare la I specie sia perché è quella che Locke tratta più diffusamente, sia perché è quella che ci aiuta a capire meglio ciò che egli intende con conoscenza, cioè con percezione della concordanza o discordanza tra IC idee. La i specie è "la prima" proprio perché gode di un certo primato rispetto alle altre specie. Infatti "il primo atto della mente ...è di percepire le proprie idee; e per quel tanto che le percepisce, sapere ciò che ciascuna di esse sia, e con ciò anche percepire le differenze fra loro. e avvedersi che l'una non è l'altra" (iv, I , 4).
Quindi la percezione che "ciascuna idea concorda con se stessa ed è quello che è" e che "tutte le idee disiinte discordano, ossia l'una non è l'altra" (ibid. e sgg.) è l'atto primo e fondamentale dell'intelletto, senza il quale "non potrebbe esservi conoscenza", ne qualsiasi altra attività cognitiva, ed & percid "assolutamente necessario" (ibid.; cfr. an-
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che IV, W1, 4). Quindi il primato di questa specie di percezione consiste nel Fatto che essa deve essere sempre e necessariamente presupposta alla base di ogni processo cognitivo. Nella sua determinazione come percezione dell' "identità" di un'idea con se stessa e della sua "diversità" con tutte ie aitre e facile riconoscere la sua stretta connessione con i principi di identità e di contraddizione. Locke stesso si riferisce esplicitamente a questi due principi (in IV. i , 4). 'I'uttdvia iì suo riferimento è critico. Più precisamente egli critica quei logici che hanno "ridotto" questa specie di percezione all'applicazione delle "regolc generali, ciò che è è, ed è impossibile che la stessa cosa siu e non sia" (ibid.). invece secondo Locke la facoltà di percepire questa specie di concordanza o discordanza non "si riferisce" a idee o regole generali, ma proprio "alle idee particolari". Con idee particolari- o comunque più particolari delle suddette regole generali - Locke intende idee come le seguenti: "un uomo 12 un uomu", "tutto c-iò che e bianco, e bianco", "un uomo non e un cavallo", "il rosso non 6 blu" UV, MI, 41, "uno più uno 2 cguale a due" (IV, VII, 61, ecc.. Egii critica la cQncezione secondo cui l'evidenza - e, quindi, la verità e la certezza - di queste idee particolari risulterebbe dall'evidenza delle suddette massime o di altre massime del genere. Al contrario - sottolinea Lucke - sono proprio le idee generali a dipendere da quelle particolari. "poiché nei particolari comincia la nostra conoscenza, la quale così si estende, per gradi, ai generalz" (IV, Vii, i 1).
Anzi egli aggiunge che la conoscenza delle idee particolari avviene "senza l'aiuto di alcuna simile regola generale" (IV, I, 4). Quindi, secondo lui, gli attributi di priorità, di fondamento e di principio della conoscenza, che si riconoscono alle idee generali, spettano invece alle idee particolari. Com'e noto questa sua concezione del rapporto panicolare-generale e strettamente legata alla sua critica dell'innatismo. Tuttavia, senza entrare nel merito di tale critica, qui ci interessa solo constatare rhe la sua concezione del rapporto particolare-generale sembra simile a quella cartesiana 1 . Come abbiamo già notato (cfr. i.i),
1. Per quanto, riguarda il rapporto tra Descanes e Locke cfr., p.es., Ware [1950] e Schouls [1975].
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Dcscartes aveva creduto di trovare proprio nel cogitu il paradigma di questa inferenza dal particolare al generale, cioè del modo “di formare IC proposizioni generali dalla conoscenza delle particolari” ([19691, p. 298). A questo punto ì. opportuna una breve considerazione. LJno degli argomenti principali di Locke contro l’utilità dellc massime e la presunzione che esse siano fondamentali (cfr. soprattutto il cap. VI1 del IV litiro), consiste proprio nel mostrare la possibilità di conoscere con usS O I L I L ~certezm molte proposizioni particolari, senza tuttavia dover c e noscere le massime da cui tali proposizioni particolari doi,rebbero dipendere - qui Locke si riferisce soprattutto al caso dei bambini e delle persone ignoranti. irisomma egli nun ammette la presenza nell’intelletto di idee inconsapevoli e , molto cartesianamente, c e d e che pensiero c conoscenz:i consistano solo di ciò di cui si W consapevoli (cfr. I, “Introduzione”,8). Invece, corn’¬o, una tesi fondamentale dell’innatisnio leibniziano è proprio l’esistenza e la funzionalitj delle idee inconsapevoii (cfr. p. es. ’hilly [18yi), p. 14 sgg. c Brands t19771. p.50 sgg.). Così Locke nega che il bambino o l’ignorante possano servirsi del principio di contraddizione - o di altre massime - senza conoscerlo; mentre 1,eihniz ammette l’uso inconsapevole di tale principio (Nu0712 Sug@,I, 1, 4). Questo atteggianiento critico nei confronti deIle massime 6 un esempio dell’antif[~rnialismodi Locke e ùeì suo disinteresse rispetto alla ricerca del fondamento logico delle verità necessarie, che invece in seguito occuperà 1,eihniz (cfr. a riguardo Wilson [1c)67]>.A Lorke interessa mettere in lucc il fondamento epistemico della certezza e della verità: appunto la percezione soggsttiua della concordanza o discordanza tra le idee. Su questa specie di esperienza interna si basa, secondo lui, l’intero processo e la validità della conoscenza: evidentemente essa è anche il fondamento epictemico del principio di contraddizione. Anchc per quanto riguarda la critica nci confronti del principio di contraddizione, Locke non sembra allontanarsi molto d a Descartes. Infatti Descartes, com’è noto, attacca ripetutamente l’utilità del principio di contraddizione c la pretesa di considerarlo come il primo e assoluto fondamento di tutte le cose (cfr. p. es. [ic)691.p. 698). Sebbene esista sicuramente un certo rapporto tra cogitu - proprio come tra percezione della concordanza o diccorcianza - e principio di contradclizionc, De~~
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scartes evita accuratamente di metterlo in luce. Solo in una delle sue formulazioni più tarde del cogito, quella dei Principi, questo rapporto risulta in modo più evidente: "ripugna... considerare che ciò che pensa non esista, nello stesso tempo in cui pensa" (119693, p. 605; il corsivo è mio). Con il cogito Descartes pensa di aver scoperto qualcosa di più utile, più certo e più fondamentale del principio di contraddizione (cfr. p. es. ii969J: p. 698). Io credo che Tschirnhaus abbia interpretato fedelmente Descartes quando ha inteso il cogito proprio come un'esperienza? anzi come la "prima... e,icperieiztia ecidentissimd su cui si basa la conoscenza. E proprio grazie a questa sua interpretazione del cogito, Tschirnhaus ha potuto dire che il vero cominciamento della filosofia 6 a posteriori ([1687],p. 290-1). Così come per Descartes il cogito dovrebbe costituire il paradigma del modo in cui dall'esperienza mentale di un soggetto ben determinato si può arrivare ad una verità assoluta - in altre parole: come si puo arrivare da una proposizione esistenziale particolare a una proposizione universale - anche per LOCke la percezione della concordanza o discordanza tra le idee è un'esperienza mentale, riferita a idee particolari e capace, tuttavia, di produrre la conoscenza generale di verità eterne "E da ci0 viene ad esser certo che quello che una volta e stato vero in quel caso, 6 sempre vero; le idee che una volta hanno concordato, concorderanno sempre; e, di conseguenza, ciò che egli una volta seppe essere vero, sempre saprà vero. ..Suquesto fondamento, le dimostrazioni particolari della matematica forniscono una conosccnza generale. Se dunque la percezione, che le stesse idee avranno eternamente gli stessi comportamenti e rapporti, non fosse u n fondamento sufficiente della conoscenza, i i r r potreblx esservi conoscenza delle proposizioni generali della matematica; poiché nessuna dimostrazione rnaternarica sarehbe mai altro che particolare: e quando uno avesse dimostrato qualunque proposizione riguardante un certo triangolo o circolo, la sua conoscenza non ci spingerebbe oltre quei particolare diagramma. Se egli volesse estenderla oltre, dovrebbe rifare la sua dimostrazione per un alrro caso, prima di esser certo che quella proposizione fosse vera per un triangolo simile, e così via; e, in tal modo, non si potrebbe mai raggiungere la conoscenza di alciina proposizione generale" (IV, i, 9).
Più tardi e in accordo con l o sviluppo di questa linea di pensiero,
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Wolff - in questo caso molto piìi cartesiano e lockiano che leibniziano - chiamerà "fundamentum principii contradictionis" (Wolff 117301, 27) l'esperienza interna in cui noi percepiamo che uno stato di cose è così proprio perché percepiamo che non può essere altrimenti che così. Qui bisogna ricordare almeno un aspetto di questo problema per il quale Locke si distacca nettamente da Descartes. Nella sua epistemologia il cogito non ha più quella posizione eccezionale che ha nell'epistemologia cartesiana. Ciò che egli dice riferendosi ai principi di identità e di contraddizione vale anche per il cogito: "La differenza tra le idee ...rende immediatamente visibile la verità della proposizione, e questo, con eguale certezza e facilità nelle proposizioni generali e in quelle reali; e sempre per la stessa ragione, ossia che la mente percepisce, in ogni idea che possegga, che la stessa idea è identica con se stessa, e che due idee diverse sono diverse, e non la stessa; e di questo è egualmente certa, sia che queste idee siano più generali o meno, più o meno astratte e comprensive. Per conseguenza, non è che questa specie di evidenza di per se stessa appartenga, per un diritto particolare, soltanto a queste due proposizioni generali: 'ciò che è', ed 'è impossibile che la stessa cosa sia e non sia'. La percezione dell'essere, o del non essere, non appartiene a queste vaghe idee, espresse dai termini tutto ciò che e cosa, più che non appartenga a qualunque altra idea" (IV, WI, 4; cfr. anche 19).
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Quindi secondo lui tra le idee chiare e distinte non esiste alcuna possibilità di un ordine gerarchico, e nessuila di queste idee gode speciali privilegi. Così per questo aspetto Locke diventa un intermediario importante tra Descartes c Leihniz, che in esplicita polemica con la concezione cartesiana, attaccherà l'eccezionalità del cogito sostenendo un punto di vista molto simile a quello di Locke (cfr. Nuovi Saggi,IV, 11, 1).
Consideriamo ora piU da vicino come si giunge alla conoscenza. Come Descartes, anche Locke sostiene che essa si ottiene mediante intuizione o dimostrazione. L'intuizione C la percezione della "concordanza o discordanza fra due idee, per .se stesse e immediatamente, senza l'intervento di alcun'altra" (IV, 11, 1).
Con I'espressione "per se stesse e immediatamente", Locke vuole intendere che la conoscenza intuitiva di un'iclea si realizza senza l'inter-
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vento di alcuna idea intermedia, cioè senza ricorrere ad un'inferenza. Quindi l'immediatezza esprime qui una caratteristica soprattutto logica, e non solo semplicemente temporale-crondogica. L'unica attività, che si richiede allo spirito nel processo intuitivo, è dirigere la propria attenzione sugli oggetti dell'intuizione: le idee. "Lo spirito non si dà alcuna pena di provare o esaminare, ma percepisce la verità come fa l'occhio con la luce, per il solo fatto di dirigersi verso di essa" (ibid~).
L'analogia con l'occhio (cfr. anche IV, 11, 5) non deve ingannare inducendo a credere che l'intuizione sia qualcosa di sensibile. L'intuizione non ha nulla a che fare con i sensi, proprio come la dimostrazione (IV, xi,6): è una conoscenza puramente intellettuale. Locke spiega così la percezione intuitiva:
"lo spirito percepisce che bianco non è nero, che un cerchio non è un triangolo, che tre sono più di due e sono uguali a unopiù due 'I (ibid.).
IIQuesta specie di conoscenza' provoca 1' "irresistibile" costrizione a dare il proprio assenso ad un'idea ed e fonte perciò di assoluta certezza. "Questa parte della conoscenza [cioè l'intuizione] è irresistibile, e , come la chiara luce del sole, ci costringe immediatamente a percepirla non appena la mente volga lo sguardo da quel lato; e non lascia luogo a esitazione, dubbio o ulteriore esame, bensì la mente 6 senz'altro riempita della chiara luce di essa. Da questa inttiizione &pende tutta la certezza ed evidenza di tutta la nostra conoscenza" (IV, 11, 1; cfr. anche IV, XVII, 14).
La certezza prodotta dall'intuizione "infallibile" ( IV, V i I , 4) e "uno non p06 concepirsi capace di una certezza maggiore". Dall'argomentazione di Locke risulta 1' impossibilità per ognuno di noi di percepire qualcosa diversamente da come la percepisce: "...[è1 impossibile che egli non percepisca ciò che percepisce" OV, mi, 4 ) . Proprio questa impossibilità, che potremo chiamare epistemica, produce quella costrizione psicliica su cui si basa la necessità (ibid.) e l'assoluta C e r t e Z T d della percezione intuitiva. In altre parole Locke concepisce l'intuizione come l'esperienza interna in cui noi percepiamo che uno stato di cose C: così proprio perch6 non possiumo percepirlo diversamente da come
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è. Ho già ricordato che più tardi Wolff considererà questa esperienza interna corne il fondamento det principio di contraddizione. Com'è no-
to Locke sostiene una concezione propcisizionale della veriti: questa non riguarda IC idee ma solo le proposizioni che, perciò, devono contenere almeno due idee e esprimere ia loro relazione - di concordanza o discordanza zyxwvutsrqponmlkjihgfedcbaZYXWVUTSRQPONMLKJIHGFED (11, XXXII, 1; IV, V, 2 ) . Così dalla suddetta impossibilità epistemica dipende anche la verità assolutamente necessaria della proposizione intuita: le idee non possono stare tra loro in una relazione dlVerYd da quella che intuiamo. In questo caso noi siamo "infallibilmente certi" (IV, VIT, 4 ) della proposizione intuita. Una proposizione intuita non put> essere n é 'falsificata, né corroborata; perciò Locke dice che, quaiido si hd a che fare con simili proposizioni, non si ha bisogno di sottoporle ad un "ulteriore esame" (IV, Il, 1; cfr. anche IV, WI, 19). L'impossibilità di percepirle diversamente da come le percepiamo è una prova inappellabile e si compie con l'intuizione stessa delle proposizioni. A questo punto, prima di continuare a trattare l'intuizione, è opportuno fare alcune considerazioni. Tutti gli esempi fatti da Locke per spiegare la percezione della concordanza o discordanza tra le idee possono essere ricondotti a due specie "a = a" e "a # 13". Locke non esprime alcuna preferenza espliciu tra percezione della concordanza e percezione della discordanza. Tuttavia dalle sue argomentazioni - come mostrano anche gli esempi già citati - risulta di fatto u n primato episternologico della percezione della discordanza rispetto a quella della concordanza. Corne indizio a riguardo si piiò adciurrt: anche la quantità di gran lunga superiore degli esempi del tipo "a # b" rispetto agli esempi del tipo "a = a". Sembra che la percezione della discordanza sia effettivamente più fondamentale di quella de1l;i conc:ordanza. Qucst:a impressione si rafforza ce si tien conto del modo in cui Locke intende i criteri di chiarezza e di distinzione delle idee. IJn'idea 2 chiara quando si pu6 riconoscere esattamente quale essa è (11, XXIX, 2) ed è distinta quando si percepisce "una differenza da tutte le altre" (11, XXIX, 4). Quindi nel caso di un'idea distinta ":isi"può dire non solo che "a # b'', ma anche che "a # b, c , d,..., n". I m k e differenzia questi due criteri allo scopo di precisare meglio la sua teoria della percezione delle idee. Inoltre tale differenziazione si giustifica così dice Locke (TI, XXIX, 6 sggg.) - soprattutto se si tiene conto dei nomi attribuiti alle ~
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idee. Infatti, dal punto di vista delle sole idee, chiarezza e distinzione formano un nesso effettivamente indistinguibile: la percezione chiara di un'idea, cioè il riconoscere un'idea quale essa è, comporta già di per sé la sua distinzione da tutte le altre idee. Perciò Locke dice di preferire il termine "deteminatd'al posto dei termini "chiard'e "distintd' ("Epistola al lettore", p. 21). Owiamente un'idea distinta e anche chiara, ma vale anche l'inverso: se un'idea è chiara è anche dinstinguibile da tutte le altre idee. Così ka percezione di "a = a" comporta di per se anche la percezione di "a # b, c, ci,..., n". in altre parole la percezione della concordanza di un'idea con se stessa comporta anche la percezione di tutte le sue possibili discordanze. Quindi la determinazione di un'idea equivale alla negazione di tutte le altre. Locke non si esprime così esplicitamente a riguardo, ma questa conclusione è una conseguenza naturale delle sue argomentazioni. L'impronta razionalista di questa concezione è evidente. Tuttavia qui ci interessa soprattutto sottolineare la funzione fondamentale della negazione nella teoria lockiana della conoscenza. In effetti sembra che la percezione di "a # b, c, d....,n"determini in qualche modo la percezione di "a = a". L'idea che la conoscenza proceda soprattutto per negazioni e grazie alle negazioni è un'idea antica che impronta di nuovo e in modo determinante tutta la filosofia moderna - e non solo il razionalismo. La ritroviamo efficacemente espressa nel famoso motto spinoziano "ornnis determinatio est negatio". E' possibile chc anche il rinnovato interesse storico e teoretico per la matematica e il metodo matematico abbia contribuito alla riaffermazioiie di questa idea in epoca incderna. P. es. nella matematica greca la dimostrazione indiretta gode un indiscutihile primato (cfr. SzabO [1969], p. 284 sgg.). A questo proposito - e soprattutto in rapporto a Locke - merita di essere ricordato anche Bacone, che in epoca moderna fu uno dei primi a insistere sulla feconditi episteniica deila negazione: "in omni axiomate vero constituendo, inajor est vis instantiae negativae" U16201, I, f~XLVI). Così ka funzione fondamentale artribuiva all'induzione per eliminazione viene giustificata d a Bacone in base ail'idea che solo la conoscenza divina t: capace di intuizioni positive; l'intelletto umano, per giungere a conoscenze positive, C costretto a procedere per negazioni:
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"At omnino Deo ... aut fortasse angelis et intclligentiis coni
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petit Formas per affirmationem immediate nosse, atque ab initio contcmplationis. Sed certe supra hominem est; cui tantum conceditur, procedere primo per Negdtivas, et postremo loco desinere in Affirmativas, post omnimodam exclusione," ([16201,II, 5).
Torniamo ora al problema dell'intuizione. Per cercare di spiegarla meglio mi servirò dei seguenti simboli: (a) operatori logici: O = è necessario; 0 = è possibile;. 1 = non è il caso che ... (b) espressione per un verbo intenzionale: px (...) = x percepisce che... (c) relazioni: ...c... = ...concorda con ...; ...d... = ...discorda con.., (d) nomi propri: 11, 12 = rispettivamente idea 1 e idea 2 dove si assume che le due idee siano distinte; x = una qualsiasi persona (e) segni metalinguistici: S = vdrkibik su enunciati o proposizioni ...w., . = ...è logicamente equivalente con.,. Se applichiamo questo simbolismo alla descrizione della i specie di percezione della concordanza o discordanza tra le idee, allora la concezione lockiana dell'intuizione può essere formulata così: (1) J px (Il c I l > e ( 2 ) px (Il d 12). Locke argomenta (cfr. iV, VII, 4 ) per (1) e ( 2 ) utilizzando rispettivamente (3) 1o 1 p x (Il c 12) (4)7o 1 p x (Il d I d Da un punto di vista puramente logico questo non costituisce un argomento perché vale l'equivalenza: O S u 1 0 4.Evidentemente, però, Locke considera l'impossibiliti della negazione come argomento per la necessità. Perci0 si può concludere che per Locke l'impossibilità del contrario gioca un molo fondamentale in rapporto all'intuizione. Lomunque ci si può spingere ancora oltre in questa interpretazione. in IV, Vii, 4 leggiamo:
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"egli non potrà mai avere alcun dubbio, quando un'idea
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nciia sua mente, che essa vi si trovi, e sia quell'idea che è; e che due idee distinte, quando sono nella sua mente, vi siano di fatto, e non siano una sola e medesima idea" (cfr. anche IV, vil, 19).
Soprattutto la seconda parte del passo che riguarda la relazione.di discordanza ci autorizza ad ammettere che Locke nelle sue argomentazioni presuppone la seguente equivalenza (5) 11 d Iz e 4 1 1 c 12) Così per la legge della doppia negazione vale anche (6) I1 c 1 1 M 4 1 1 d 11) Ora sulla base di ( 5 ) possiamo reintcrpretare ( 4 ) con (7)YO px (7 (11 d T2 )>a YO p x (li c 12) E tenendo conto di (61, anche (3) può essere riformcilato in (8) 4 px tL (I1 c 11 1) a 4 px (Ti d 11) I>d questa ricostruzione risulta che per Locke l'intuizione non 6 altro che l'esperienza interna in cui si percepisce necessariamente che uno stato di cose È. così proprio perch6 la percezione del suo contrario è impossibile. L'assoluta certezza dell'intuizione dipende proprio da questa impossibilità di percepire il contrario. Se si accetta questa interpretazione dell'intuizione lockiana, allora per quanto riguarda la concezione dell'intuizione si deve ammettere una stretta affinità tra Locke e Descartec. InPatti sembra che anche per Descartes l'intuizione consista proprio nell'impossibilità di "esperire" il contrari« di ciò che si percepisce (cfr. Arndt tl9711, pp. 60-61). I concetti di conoscenza e di certezza - sia in Ilescartes che in Locke - sono quasi equivalenti e hanno qiicsto preciso significato tecnico hasat0 sull'impossibilità di perce2 pire il contrario di ciò che si conosce e di cui si 2 certi. Ciok se ci k impossit>ile percepire S diversamente da come percepiamo S, allora noi conosciamo S e al tempo stesso saremo anche assolutamente certi di S. L'iinica differenza tra Descartes e Locke P la seguente. Mentre Descartes inferisce dalla necessità dell'intuizione alla necessità del suo contenuto; Locke evita consapevolmente - almeno così mi sembra (cfr.
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2. Laudan scrive giustamente che Locke utilizza il temine "...conoscenzain questo senso tecnico": "conoscere che un'asserzione x è vera significa percepire che noi nonpossinmo concepire che le cose stiano diversamente dallo stato di cose che x esprime" (Laudan [1967), p. 214: il corsivo è mio).
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anche più avanti nel testo) - di fare questa inferenza. Locke non osserval né sembra riflettere esplicitamente sullo stato particolare attribuito all'impossibilità del contrario e da questa mancanza di perspicuità deriva la difficoltà di interpretare il suo testo che solo apparentemente - e grazie alla fluidità del suo linguaggio - risulta facile. In molti casi si ha l'impressione che Locke non voglia consapevolmente affrontare la questione e prendere una posizione chiara a riguardo. Molto probabilmente questa consapevole mancanza di perspicuità deve essere attribuita proprio al suo antiformalismo e alla sua diffidenza verso la ricerca del fondamento logico della conoscenza. Questo suo antiformalismo lo awicina molto a Descartes; mentre una posizione perspicua del tipo di quella ricostruita sopra lo avrebbe awicinato molto di più a Leibniz. E' quindi probabile che Locke sia rimasto vago proprio per evitare uno sviluppo del genere e per timore di cadere di nuovo in un formalismo simile a quello prodotto dalla scolastica, oggetto invece della sua critica e della sua vena polemica. Se è corretta questa mia ricostruzione, allora ha proprio ragione Leibniz quando osserva che la proposizione con cui noi asserianio "la discordanza" di un'idea con un'altra idea contraria costituisce un' "applicazione" del principio di contraddizione. Riferendosi all'esempio di Locke, "unquadruto non è un circolo" (I, I, 181,Leibniz scrive che nel considerarlo "si fa una sussunzione o applicazione del principio di contracidizione ad (in contenuto dell'intelletto stesso" e si diventa perciò consapevoli della discorclanza tra le due idee (Miovi Saggi i, i, 18). Riguardo all'interpretazione dell'intuizione qui proposta bisogna fare una considerazione. Locke sostiene esplicitamente ( i ) . (21, ( 3 ) e (4).Corne aihiaimo visto, almeno t h u n passo risulta che Locke presuppone le cqiiivalenze (5) e (6). A mio parere, anche se (5) e (6) non fossero documentate dal passo citato sopra, dovretAiero comunque essere presiippostc per riiiscirc a spiegare in niodo ragionevole il testo e le sue argonientazioni. Abbiamo visto che siilla base di questi presiipposti si possono trasformare rispcttivaniente (3) in (8) e ( 4 ) in (7). Tuttavia da questa interpretazione risulta una mancanza di perspicuirà nella concezione dell'intiiizione in Locke che merita di essere notata. infatti se si amnicttono ( 7 ) e (8). allora bisogna anche constatare che Locke non distingue rispettivanicnte tra ( 3 ) e ( 8 ) c' tra ( 4 ) e ( 7 ) .Anche l'assenza di questa distinzione contribuisce a rendere difficile l'inrer-
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pretazione dell’intuizione in Locke. I o ,credo che questa mancanza di perspiciiitj dipenda soprattutto dal fatto che Locke non distingue gli oggetti della ragione, cioè le idee - come fanno invece, sebbene in modi e con termini diversi, Leibniz e Hume - , in relazioni di idee e materie di fatto. Piìi tardi Hume, proprio sulla base di questa differenziazione, distingue esplicitamente tra (7)e (8) cia una parte e ( 3 ) e ( 4 ) dall’altra. Anzi proprio grazie a questa distinzione ritienc opportuno introdurre una modifica fondamentale riguardo a (3) e ( 4 ) : in questi casi non si pub parlare di percezione, ma solo di credenza. Se si interpreta la credenza in questo modo e in questo contesto, allora si capisce perch6 sia possibile constatare irn’importmte affinità tra la credenza e l’intuizione (cfr. V.3). A questo piinto C: opportuno porsi ancora un’altra questione, già accennata prima: per Locke 12 necessario il contenuto dell’intiiizione? Cioe, p. es., il tcsto Iockiano ammetterebbe la riformiilazione di ( 2 ) in ( 9 ) o px ( 0 0 1 d I d ) ? Anche su questo punto Locke resta vago - e presirmihilmente .in modo consapevole. Asserire ( 9 ) significa ammettere almeno due presupposti: (a) la validità dell’inferenza dalla necessità dell’intuizione alla necessità del contenuto intuito; d a cui in genere segue (b) la necessità dell’atto intiiitivo dipende dalla necessità del contenuto intuito. Sia (a) che (h) sono presupposti problematici e tradiscono una ben precisa scelta ontologica, che Locke evita consapevolmente di fare. Tuttavia in Xi, 14 leggiamo:
“Molte di queste [cioì. IC proposizioni gcnerali certe] sono chiamate aeterrzae veritates, e tuttc lo sono infatti: non perché si trovino scritte tutte, o alcune di esse, nelki mente di tutti gli uomini; né perch6 alcuna di rali proposizioni si sia trovata nella mente di alcuno, finché egli. avendo raggiuntu le idee astratte, le abbia unite o separiire nietiiante l’afferriiazione o la negazione. Ma dovunque possiamo supporre esiSVd Una creatura quale I’UOrriO, dotata di qlielle tali facoltà, e perciò fornita di idee quali le nostre, dobbiamo concluderne che, quando egli applichi i suoi pensieri alla considerazione delle sue idee, egli conosca’ la verità di certe proposizioni che sorgeranno dalla concordanza o discordanza che egli percepirà nelle proprie idee. E’ per questo che tali proposizioni sono chiamate veritù eterne, non perché siano proposizioni effettivamente formare da tutta I’e-
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ternità, e anteriori all’intelletto che in qualunque momento le foggia; nt. perché siano impresse nella mente di qualche modello che si trovi in alcun luogo fuori della mente. e che esistesse prima; ma perché, dopo che queste proposizioni siano state formulate intorno aile idee astratte in modo tale da essere vere, ogni volta che si possa supporre che esse vengano nuovamente formare, in qualunque tempo, passato o avvenire, da una mente che abbia quelle idee, esse saranno sempre attualmente vere. Poiché, supponendosi che i nomi rappresentino perpetuamente le stesse idee, e le stesse idee avendo immutabilmente gli stessi rapporti l’una con l’altra, le proposizioni riguardanti idee astratte, che siano vere una volta, debbono necessariamente essere verità eterne“ (IV, Xi, 14).
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Qui sembra che le verità eterne dipendano dall’esistenza di un intelletto, capace di formarle e di conoscerle, solo per quanto riguarda la loro attualità, ma non per quanto riguarda la Ioro virtualità. Tuttavia, forse, un’interpretazione del gencre è troppo leibniziana per poter essere attribuita a Locke sulla base di questo solo passo. Locke evita, per quanto gli è possibile, di esporsi ontologicaniente. Per questa ragione sia il passo che la posizione di Locke riguardo a questo problema sono difficili da interpretare. Ho cercato di mostrare che il testo lockiano autorizza un’interprerazione logica dei concetti di necessità e impossibilità su cui si basa la conoscenza intuitiva e credo che solo tenendo conto di questa prospettiva sia possibile intendere il significato e la funzione di questa forma di conoscenza. L’ammissione di qtiesta interpretazione va fatta comunque con l’opportuna prudenza. Da una parte bisogna tener conto che essa serribra legittimata dalle argomenrazioni lockiane. Dall’altra, tuttavia, non bisogna trascurare due aspetti rilevanti: (a) le difficolt5 e la mancanza di perspicuità risultanti dall’analisi del testo; (13) l’intenzione di i.ockc di interpretare in scnso epistemico - cioè rifeerendosi alla costrizione psictiica del soggetto conoscente piuttosto che logico i concetti di necessità e impossibilità che sianno alla base dell’intuizione.
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2.Ilimosiruzione e sensazione
in questo paragrafo tratto innanzitutto e hrevemente il concetto
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lockiano di dimostrazione e cerco di mettere in evidenza la sua affinità con quello cartesiano. Poi considero la percezione sensibile delle esistenze esterne e tento di mostrare che la conoscenza e la certezza sensibili vengono intese da Locke in stretta analogia con la conoscenza e la certezza intuitive. L'altra via attraverso cui è possibile raggiungere la conoscenza è la dimostrazione. Questa interviene quando la concordanza o discordanza delle idee viene percepita non in modo immediato, ma mediante il ricorso a idee intermedie. Tuttavia per Locke, come per Descartes, l'intuizione rappresenta il fondamento della teoria della conoscenza e gode un indiscutibile primato sulla dimostrazione, perché "senza di essa non possiamo raggiungere né conoscenza né certezza" (IV, 11, i). Infatti, benché anche la dimostrazione sia capace di produrre una certezza infallibile, questa sua "certezza dipende ...interamente" dall'intuizione, che deve intervenire "in tutte le connessioni delle idee intermedie" (ibid.). Così Locke concepisce la dimostrazione, cartesianamente, come una catena di intuizioni (IV, 11, 7). Mentre l'intuizione serve all'acquisizione della verità, la dimostrazione serve alla trasmissione della verità da certe proposizioni ad altre proposizioni e assicura la loro connessione attraverso un numero più o meno lungo di passaggi. Quanto più lunga è la catena di intuizioni, cioè di passaggi necessari a trasmettere la verità dalle premesse alle conclusioni, tanto più grosso è il rischio che la catena subisca un'interruzione e che questa possa passare inosservata (cfr. IV, XVII, 15). Perché ciò non avvenga è necessaria una maggiore attenzione e un maggiore sforzo della memoria (IV, I, 9). Proprio la dipendenza della dimostrazione dal buono stato della memoria è una delle ragioni che determinano la sua inferiorità rispetto all'intuizione. infatti
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"la memoria non è sempre così chiara come la percezione attuale, e in tutti, più o meno si indebolisce col trascorrere di molto tempo" (ibid.).
Quindi la conoscenza dimostrativa non può avere "una evidenza così chiara e luminosa, né riceve un così pronto assenso, come la conoscenza intuitiva" (IV, 11, 4) e viene perciò considerata "molto più imperfetta di quella intuitiva" (IV, I, 9; cfr. anche IV, 11, 4). Così l'intuizione e la dimostrazione sono due gradi diversi della conoscenza, ma portano entrambe alla certezza assoluta, prodotta dal-
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l'esperienza dell'irnpossibilità di percepire qualcosa diversamente da come la si percepisce. Tutto qucllo che cade fuori dalla possibilità di questa esperienza, non è piU conoscenza, ma è "fede o opinione" (IV, TI, 14; cfr. anche Laudan 119671, p. 214). Tuttavia, insieme all'intuitivo e al dimostrativo, Locke ammette anche un terzo grado della conoscenza: il sencorio (ibid.). Questo grado riguarda la percezione di esistenze particolari "fuori di noi" e, pur "non raggiungendo in mod» perfetto né l'uno né l'altro dei predetti gradi della certezza", supera la "seriiplice probabilità" e merita, perciò, "il nome di conoscenza" [ibid.). Sebbene ammetta la sua possibilità logica (ibid.; cfr. anche IV: XI, 3 e 8 ) , Locke esclude il dubbio riguardo all'esistenza di ciò che è oggetto della percezione sensibile. Per giustificare questa esclusione, Locke ricorre a "un elemento di prova che ci libera da qualunque dubbio" (IV, Il, 14): la differenza tra i1 sogno e la realtà. Tra le idee percepite in sogno c IC idee percepite &a svegli ci sarebbe una differenza netta, conic "fra il sognare di essere tra le fiamme e l'esservi in realti" (ibicl.1. La Stessa differenza ci s-nrebbc. tra iin'idea ripresa dalla niemoria e un'iciea ricevlitd tramite i sensi. Secondo Locke la differenza tra s c t gno e realtà ì. inclispencabile pcrché "dove tutto non è che sogno, le ragioni e gli argomenti a nulla servono, nulla sono la verità e la conoscenza" (ibid.1. Poiché il contrario cli una proposizione che asserisce l'esistenza cii qualcosa ì. sernpre possibile. si potrebbe concludere che in questo modo Lockc estcnda la conoscenza anche a proposizioni il cui contrario 5 possibile e ciò contrasterebbe con quanto ho cietto nel $ 1. 'i'uttavia una conclusione siniilc carebtic scorretta. Coine cercherò ora di mostrare, la certezza sensibile viene concepita da Locke in stretta analogia con quella intiiitiva e poggia anch'essa sull'esperienza di un'impossibilità: I'irnpossibiliti di avere una sensazione diversa da quella che si ha. La conoscenza e la certezza sensibili vengono considerate in modo piU dettagliato nel cap. XI del IV libro. Qui Locke osserva che "oltre all'assicurazione che riceviamo dai nostri sensi" riguardo all'esistenza di cose fuori di noi, "veniamo confamati in questa sicurezza da altre concorrenti ragioni" (IV, XI, 3 ) . Queste ragioni sono le seguenti: (a) quando manca l'organo di un senso, mancano anche le idee corrispondenti a quel senso UV, XI, 4); (b) "non.../~po.~.~ibile/ eviture che
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quelle idee [cioè le sensazioni] vengano prodotte nella mia rnentè' (IV,
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xi,5); (c) le sensazioni vengono a volte "prodotte in noi con dolor&', mentre quando le richiamiamo alia memoria questo dolore non viene più sentito, ma è solo un ricordo (IV, Xi: 6); (d) accordo dei diversi sensi riguardo allo stesso stato di cose e possibilità della previsione. Dalle ragioni suddette risultano due importanti caratteristiche delle sensazioni: (a) il loro stretto legame con un organo corporeo; (b) la loro indipendenza dalla nostra volontà. Quando noi ricordiamo o produciamo spontaneamente le idee, possiamo "disporne, o.. . metterle da parte" a nostro piacere. Al contrario le sensazioni sono "idee che mi si impongono per forza, e che non posso fare a meno di avere". Noi possiamo sottrarci a questa imposizione solo a condizione di escludere l'organo di senso che ci trasmette la sensazione corrispondente, cioè proprio grazie ad (a): "coloro cui mancano gli organi di un qualunque senso non possono mai avere, tradotte nella loro mente, le idee appartenenti a quel senso. Questo è troppo evidente per essere messo in dubbio" (IV, XI, 4).
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Da ciò Locke conclude: "è evidente che non sono gli organi stessi a produrle" (ibid.). invece se l'organo è ricettivo (e naturalmente sano) noi non possiamo non subire questa imposizione. i'.es.. per non avcrc la sensazione che S, "il sole esiste", basta chiudert. gli occhi. Oru una peculiarità di S, che Locke non prende in considerazionc ma che può essere notata servendosi delle sue argomentazioni. C la seguentc: la negazione di S, "il sole non esiste", divcnta vem quando si chiudono gli occhi. in questo caso il chiudere gli occhi costituisce una prova indiretta per la verit5 di S. Riguardo alle sensazioni noi esperiamo la nostra impotenza; cioè nell'avere una sensazione noi esperiamo il contrasto della realtà o - come è stato anche detto - la sua durezza. Dall'espet-ienza della nostra impotenza e del carattere impositivo delle sensazioni, cioè da (b) Locke inferisce:
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wti oggetti fuori d i me, alla cui efficacia non posso resistere, la quale azionc produce quelle idee nella mia mente, che i o l o voglia o meno" (IV, Xi, 5; il corsiv o è mio).
Qui i. evidente che Locke, per asserire l'esistenza di oggetti esterni, ri-
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corre ad un argomento oggi noto come the inference to the best e q l a Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 28/02/2019
nation.
Ora le sensazioni che Locke considera conoscenze sono solo quelle che riguardano "l'esistenza di cose attualmente presenti ai nostri sensi" (IV, 111, 5). Qui conoscere vu01 dire percepire che 1' "esistenza reale ed attuale ... concordi con una qualunque idea" (IV, I, 7). Detto in altre parole vu01 dire percepire che il predicato "esiste" conviene ad una qualsiasi idea. Così, riferendosi ail'esempio già usato del sole. l'argomento di Locke riguardo al terzo grado di conoscenza può essere ricostruito nel seguente modo: (io) conosco che l'idea del sole concorda con l'idea dell'esistenza se e solo se è impossibile che io non veda che l'idea del sole concorda con quella dell'esistenza. Poiché l'essere certi di qualcosa coincide con la conoscenza di questo qualcosa, cioè con la percezione della sua concordanza o discordanza (cfr. iV, iv, 7), allora asserire (101 equivale ad asserire (11) sono certo che l'idea del sole concorda con l'idea dell'esistenza se e solo se è impossibile che io non veda che l'idea del sole concorda con quella dell'esistenza. Ora applichiamo a (10) e (11) i seguenti simboli oltre a quelli già usati: (a) espressione per un verbo intenzionale kx (...) = x conosce... o è certo che... (b) nomi propri: Is = una qualsiasi idea sensibile; E = l'idea dell'esistenza (c) espressione per un verbo della sensazione che funge da predicato: vx (...) = x vede che ... Così possiamo rifcjrmulare (10) e ( 1 1) in (12) Kx (Is c I C ) ¢j i O vx (1, c le) Se ora si confrontano gli argomenti ( 3 ) e ( 4 ) nel 5 i e (121, allora risulta evidente ia loro stretta affiniti Per tutti vale (13) Kx s e3 7 0 7 pxs Cioè ( 1 4 ) x e certo che S se e solo se e impossibile che x non percepisca che (nel caso della sensazione: non vede che) S. Quindi, se ci si riferisce aila sensazione, basta sostituire in (13) p con v. (10) ( 1 1) e (12) presuppongono tutti l'inferenza alla migliore spiega-
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zione con cui Locke, come abbiamo già notato, inferisce dall'inipossihilità di n o n avere ~ i n acerta sensazione all'esistenza di un oggetto esterno che provoca [ale sensazione. Cioè l'idea dell'esistenza non viene percepita, ma inferita. Questa è la prima grande differenza tra intuizione e percezione sensibile delle esistenze, che tuttavia Locke non sembra voler evidenziare. Forse qui è interessante notare che, se Locke avesse utilizzato inferenze di questa specie nel caso dell'intuizione, alloraavrebbcpotutoammettereargorrienticome(9). Evidentemente, riguardo alle esistenze, egli t- piU perrnissivo che riguardo alle essenze. Inoltre Locke pone una condizione impi-enscindibile da cui dipende la validità cicgli argorr1ent.i ,(11) e (12): l'attualità deila sensazione. Cioì. la conoscenza e la certezxa sensibili non vanno
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"oltre la testimonianza dei nostri sensi, applicata u oggetti particolari che li colpiscono in quel momento, e noti piti in 13" (TV, Xi; 9; cfr. anche IV 111, 5).
La sonoscenza e la certezza sensilili sono limitate ad un ben determinato scgrnento temporale corrispondente aila durata della sensazione. Persi6 gli argoirienti (101, (11) e (12j sono validi s d o sub conditione. Quando non si pcrccpicce piU qualcosa tramite i sensi, a1lc)ra non si ha più nemmeno il diritto di asserire la sua esistenza. perch&"nun c'tì ncssuna connessione necessaria tra la sua esistenza un moiiiento fa e la sua. esistenza ora" (IV, XI, 9). Questa è la seconda differenza tra i'intuizione e la sensazione. Qiiesla precisazione interessante perch6 con essa Locke sembra ainiiiettere d i nuovo (cfr. 13 fine del § 1): ina iniplicitamente, la necessita del contenuto intuito. Cioè mentre nel caso dell'intuizione la concordanza o discordanza tra le idee sarebbe necessaria, non sarebbe tale nel caso della sensazione. (:osi sembra che per ['intuizione debha valere (15) i O i px OS mentre per la percezione sensihile delle esistenze vale soltanto (14)
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Tuttavia, corne ho già cercato di mostrare nel § 1, è molto difficile sostenere che Locke amnietta o possa ammettere (15); e comunque egli evita di affrontare esplicitamente il problema. In conclusione Locke fa vaiere (13) sia per l'intuizione che per la percezione sensibile delle esistenze. E perciò proprio (13) caratterizza la concezione lockiana della conoscenza e della certezza in generale.
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S e si tien conto di questo Fatto, allora forse si può spiegare anche perchè Locke sia stato p c ~ o chiaro ed esplicito riguardo alla conoscenza intuitiva. Egli semhra aver voluto ridurre le differenze, fino ad eliminarle! accentuandone invece l'affinità. i1 suo interesse si concentra soprattutto su (13). Con (13) - con e senza la condizione determinata
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dalla durata della sensazione Locke riesce a dare una concezione unitaria e pii1 estesa della conoscenza, che ammette nel suo ambito e quasi con lo stesso diritto anche la percezione sensibile delle esistenze 3 , Questa è un'estensione importante del concetto di conoscenza per quanto riguarda il problenia della costituzionc e della legittimazione delle nuove scienze empiriche, che dovevano basarsi anche e soprattutto su osservazioni ed esperimenti. Proprio questa estensione contribuisce a dare un' impronta empirista alla teoria lockiana della cono scenza. ~
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3.La teoria della probabilità
In questo paragrafo cerco innanzitutto di spiegare perchi. Locke si interessa alla probabilità e cosa intende con il giudizio. Poi discuto le seguenti tesi: (a) il concetto lockiano di probahilità - più preciso di quello tramandato dalla tradizione - riguarda l'aspetto logico o induttivo, ma non quello aledtori0 del probabile; (1)) la razionaha della teoria della probabilità dipende dall'interpretazi(:)nc quantitativa dei valori di probabilità; (c) la teoria della probabilita viene considerata il mezzo indispensahile per razionalizzare l'opinione. Infint. tratto le due specie in cui Locke distingue le proposizioni probabili: quelle che riguardano cose osservabili e quelle che riguardano cose inaccessihili ai sensi. Malgrado l'estensione della conoscenza e della certezza alla percezione sensibile delle esistenze, la portata cli entrambe resta coniun-
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3. Qui non ho intenzione di cercare di individuare le eventuali fonti che possono aver influenzato h c k e ad includere tra le forme di conoscenza anche la percezione sensibile delle esistenze. Tuitavia vorrei ricordare che anche in questo caso non bisogna trascurare Descartes. Infatti nella VI Mediroziane, dopo aver caratterizzato le sensazioni in modo molto simile a Locke e dopo aver discusso la differenza tra il sogno e la veglia. anche Descartes arriva ad asserire con assoluta certezza l'esistenza delle cose materiali.
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que molto liniitata (cfr. soprattutto cap. TI1 del IV libro). La classe di ciò che non 6 intuibile, dimostrabiie o percettibile tramit.e i sensi qui ed ora, è molto più ampia e appartiene all'opinione. P. cs. tutte le proposizioni riguardanti le questioni di fatto, le cose inacccssibiii ai sensi, e gran parte delle cause appartengono all'opinione. Anche iina proposizione come "nel mondo esistono ora milioni di uomini" non piiò mai essere considerata certa, ma solo molto probabile (iV, Xi, 9). D:ì questa concezione ristretta della conoscenza deriva una concezione altrettanto ristretta della scienza dalla quale restano escluse persino le scienze naturali:
"sono tentatu d i dubitare che, per quanto avanti l'umana in-
diistria possa spingere la filosofia utile e sperimentale nelle cose fisiche, una filosofia scientijlca debba essere per sempre fuori dal raggio delle nostre possibilità: perché ci mancano idee perfette c adeguate persino di quei corpi che scino più vicini a noi, e più soggetti al nostro comando ...La certezzu, e la dirnoswazione, sono due cose cui, in queste materic, non dobbiamn pretendere" (IV, 111, 26); "Non nego che chi sia abituato ad esperimenti razionali e regolari sia in grado di vedere più profondamente nella natura dei corpi, e di indovinare in modo più giusto le loro proprietà tuttora sconosciute, che non una persona estranca a queste ricerche; tuttavia, come 110 detto, questo non che giudizio o opinione, non conoscenza e certezza. Questa maniera di procurarci ed accrescere la nostra conoscenza delle sostanze soEo mediante Ikperienza e la ston'a, che e tiittn ciò che la fralezza delle nostre facoltà, in questo st.ato di mediocrità in cui ci troviamo in questo mondo, possa mai raggiiingere, mi fa sospettare che la fi!osojia naturale nopz sia suscettibile di venirportuta ad essere una scienza"(lV,XTT. 10).
In genere, per quanto riguarda questo piinto di vista, è stata notata la dipendenza di Locke soprattutto dalla tradizione filosofica I' scientifica inglese (cfr. p. es. Laiidan [19671>.Tuttavia, come 2. stato giustamente ricordato (Obertello [ i9641, p. 96) anche la tradizione francese ha esercitato su h c k e iin'influenza rilevante. Non solo Gas4 sendi ma anche autori più o meno vicini aila filosofia cartcsiana avevano insistito sulla natura probabilistica dei nostri asserti nelle scienze naturali. Per esempio il cartesiano Kegis aveva esplicitamente asserito che crd possibile solo una fisica probabilistica e non dimostrativa5. Anche Pcrrduh aveva sostenuto lo stesso punto di vista 6. Mentre il grande ~
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fisico sperimentale Mariotte aveva dedicato una parte del suo Essui de logique ai principi della probabilità (Mariotte [16781, p p 620-24). La citazione di questi nomi nun è casuale; infatti questi autori erano ben noti a Lockc, che aveva conosciuto personalmente Kégis a Moritpellier (Bonno i19551, p. 91) e possedeva una copia del1'Exsni.s de Physique di Perrault e della Logique di Maricitte (Bonno [19551, pp.188 e 208; Lough [19531, pp. 2 4 - 7 1 , Ora voler trovare nell'asserzione di queste idee un contrassegno che possa distinguere la tradizione filosoPica einpirista da quella razionalista sarebbe assolutamente scorretto: almeno in quesro caso le due tradizioni concordano anclie perchi. restane entrambe fedeli al concetto tradizionale di conoscenza e di scienza. k i b niz, proprio commentando Locke, prenderà atto di questo divorzio tra 13 concettualità tradizionale e la legittimazione delle scicnze naturali e dirà che anche "l'opinione...fondata sulla probabilit$ merita. .. il nome di conoscenza" iNu.uvi Sajgi. IV, 11. 14). Lockc, ancora troppo fedele a1 concetto tradizionalc e cartesiano di scienza, non compie qucsto passo. Tuttavia egli contribuisce a prepararlo ne! considerare anche la percezione sensibile delle esistenze come un grado della conoscenza! rendendo così piti esplicita un'istanza allora diffusa e gii presente nella \'I Meditazione. Ma Locke fa ancora di più. Keagendo rille conclusioni scettiche che pussono clerivare d d qciesca cmcezione ristretta della conoscenza, egli insiste sul carattere razionale della probahiiità (IV, XmI, 2): "...possiamo ancora osservare quanto sia stolto e vano che u n uomo dotato di una conoscenza ristretta, ma cui è stata data la ragione per giudicare della diversa evidenza e prohabiliti delle cose, ed esserne influenzato in conformità, -
4. Per quanto riguarda il rupprirto Gassendi-Lucke cfr. soprattutto Bonno 119551. Duchesiieau 119731e Specht [ 19811. 5. "...la fisica speculativa non si può trattare che in modo problematico ...e tutto ciò che è dimostrato non le appartiene...da ciò risulta che bisogna essere tanto irragionevoli per pretendere dirnosirazioni in fisica. quanto lo xi è nell'accontentarsi delle probabilità in matemalica: come questa non deve ammcttcre altro che il ccrtu e il dimostrato, l'altra è costretta ad accettare tutto ciò che è probabile" (Régis [1690]. p . 275). Riguardo alle idee di Régis cfr. anche Mouy 119341e Watson [1964]. 6. "...La fisica ha due parti ...la filosofica e la storica,... nella prima...spiega gli elementi, le prime qualilà e le altre cause del corpo naturale per ipotesi la maggior parte delle quali non harno altro fondamento che la probabilità" (Perrauit [ 16801, "Préface").
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come sia cosa WGI, dico, attendersi dimostrazione e certezza in cose che non ne sono suscettibili. e rifiutare il proprio assenso a r:iziorialissiiiie proposizioni, e agirt. in modo contrario a verità molto evidenti e chiare, perché non possono venire rappresentate in rricdo così evidente da superare anche la minima pretesa ( e non dico nemmeno ragione di duhhio. Chi vnlessc nelle kiccendv ordinarie della vit.a, non :immettere d t r o che dimostrazioni evidenti e dirette, non sarebbe mai sicuro di nulla in questo mondo, se non di andarsene in brevissinio tempo. Li salubrità d e l s u o cibo o della sua twvanda non sarehbt. iiiai cos:i certa da consentirgli di arrischiarvisi, c vorrei davvero sapcre che cosa mai egli potrebhe fare su fondainenti tali ciella (coria ciella conoscenza perché ad essa spetta il cornpito di produrre teorie c soluzioni razionali in tutti i campi in cui non i1 possibile una conoscenza certa. In verità Locke non coglie alcuni aspetti nuovi della moderna riflessionc. sul probabile. Tuttavia. estendcndo la validità e la portata della teoria della probabilità non solo alla plzilo.s(~)l~iupYuCticu - conic
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I l . Per quanto riguarda queste idee Locke 6 stato influenzato da molti autori, sia attraverso la lettura dei loro scritti, sia attraverso contatti personali. Senz'altro tra questi, oltre ai francesi già citati (Gassendi, Mariotte, Perrault e Régis), meritano di essere ricordati Sydenham. che Locke conobbe nel 1677, e Boyle (cfr. a riguardo Specht [1981]). Qui vorrei richiamare I'attenzione ancora su un altro autore, appartenente alla iradiz.iune cartesiana: Jacques Rohault. Il famoso fisico cartesiano Tornisce una chiara esplicaiione dcl concetto di espericnn distin-
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aveva fatto, p.es., Arnauld - ma anche a quella naturalis, Locke contribuisce a portare avanti il programma di razionalizzazione dell'opinione. Cusì egli si orienta verso una concezione più liberale della scienza. capace di legittimare le pretese scientifiche delle discipline empiriche.
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guendo tre diverse specie di esperienza: I ) l'esperienza come "semplice uso dei sensi"; 2) l'eperienm deliberata, ma casuale; 3 ) l'esperienza ragionata, guidata cioé da una teoria, che "è particolarmante utile ai filosofi" (I16711, "Preface"). Anche le sue osservazioni sulla natura e l'uso delle ipotesi sono particolarmente istruttive ([ 16711, pp. 20-24). Locke possedeva una copia del Truirc; de Physique di Rohault (Ronno [1955]. p.188). Su Rohault cfr. Gautier I 19151, Mouy [I9341 e McClaughlin [ 19771.
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zyx zyxwvut zyxwv zyxwvuts zy III. CHRISTIAN THOMASTCIS
O. Premessa
L'importanza della concezione thoniasiana del probabile C? stata certo ripetutaniente notata 1, ma finora non è stata mai presa in esame. Essa, invece, iiierita d i essere considerata pcr alnicno tre hiione ragioni. (a La probabilità e la conoscenza prolxihile costituiscono una pane molto importante tiell'epistemologia di Thoniasiiis; perciò se si vuole comprendcrc meglio la sua episrernologia, si deve prendere in considerazione anche la sua concezione della prohahilità. (b) La probabilità e tin tenia cent.rale nella tradizione filosofica infliienza2 ta da Thomasius . (c) Thomasius si colloca cronologicamente proprio al centro del periodo in cui l'interesse pcr il prohabile si sviluppa in modo rilevante e viene elaborato il nuovo calcolo delle prohahilitit3 .
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* L'Inti-odurtio ad philosophimi aulicmn e I'Einleitirng x r i,'ei.nunftlehre sono qui abbreviaii rispettivamente in 1PA e EV. I numeri romani dopo queste abbreviazioni si riferiscono ai capitoli. i . A questo proposito possiamo risalire almeno alla voce "Wahrscheitilichkeit" di Walch; in Walch 117261, vol. il, pp. 1462-3. Cfr. inoltre: ari [ 18811, p. 37; Wundt [ 19451. p. 40; Seifert [1476], p. 151; Merker [ 19681, p. 120; Ciafardone 11478). p. 82. Tutti questi autori, però, nun vanno oltre la constatazione della presenza di questo tema nella filosofia di Thomasius. 2. Eppure, per quanto io sappia. nemmeno la concezione della probabilità degli altri esponenti di questa tradiLione (p. es. Rudiger, Hoffmann, Ctusius ecc.) e stata oggetto di studi particolari. 3 . L'fntrnduc,rioe i'Einleitung precedono i grandi trattati settecenteschi sulla probabilità di de Montmont (1708). De Moivre (171 i ) e Jakob Bernoulli (1713). Sono invece posteriori di qualche decennio al Truicté (fu rriangle orithrnéfiyuc(1654) di Pascal, al De Ratiouniis in Lad~ AIWP [ 16571 di Huygens e alla famosa corrispondenza di Pascal con Fermai, apparsa allora in parte nei Varia Opera Mathematica (1679) di quest'ultimo. Quasi Certamente Ihomasius non era nemmeno a conoscenza dell'esistenza di questi scritti, tuttavia conosceva bene la Logiyuc di Port-Royal. nella quale erano confluiti - e precumibilmente per diretta influenza di Pascal - molti dei presupposti teorici del nuovo calcolo delle probabilità; przsupposti che in parte ritroviamo, come vedremo, anche nelle due Logii.he di Thomasius. Per la Logique Thomasius aveva grande considerazione, come mostra p. es. I'elogio che ne fa in [ 16871, p. 21.
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I’erciO la considerazione delle sue idee può aiutarci :inche a chiarire meglio alcunc ragioni e alcuni aspetti d i questo sviluppo. Le tesi principali che vengono discusse in questo capitolo sono
queste: ( i ) Thomasius sostiene che la scienza si deve occupare clel contingente e in questo niodo la estende alla verità probabile. ( 2 ) Thomasius interpreta induttivumente il concetto di probal>iliti: la probabilirà viene intesa da lui corne una relazione tra le ipotesi e le lorn islanze di controllo. Su questo concetto 1xìs:i il progetto di una logica indcittivd che egli concepisce in strett:i an:ilogia con la logica dedutliva e comt. u n suo indispensabile completamento. Per lui la logica incluttiva 6 la logica più adeguara per comprendere la realtà. ( 3 ) Nel trattare la prohabiliti l‘fiomasius si trova costretto a fornire una piU precisa ciemarcaziont. tra le proposizioni probul~ilie le idee. Iiiguarcio alla natura delle idee Thomasius sostiene unii forma di innatisnio. Se le cose stanno veramente così, alloi-a bi-
sognerà perlomeno ridimensionare la tendenza, piuttosto diffuxi. a consicierar~oun ernpirism+. Li mia i-icostruzioiw si basa soImttutto sull’lntrodi-rctio od Philosophiani ciulicam (1688) e sull’ Eiwicitziiig m r I/c.niidi!fikhre (1691) rispettivamente la Log’ica lutina e la Logica tedesca di Thoi~~asius. Il ca- pitolo si divide in tre pzigrafi. Nel priiiio prendo In esame le ra.giorii che spingono Thomasius a interessarsi del probahile e la tesi (1). Nel secondo discuto la tesi (2) e nell’ultimo cerco di promre lri tesi ( 3 ) .
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Inoltre egli stcsso annovera la L.n,qigut tra le fonti principali della sua Lo,qrcrr (EV, “Vorrede”. p, 7 I). 4. A titolo d’esempio cfr.: Zart (18811. p. 35 sgpg.; Battaglia [1936], pp. 88-9, 138; Wundt [1945], pp. 31, 39-41. H. M. Wolff [ 19491. pp. 29-30: Merker [l968], p. 93; Schneiders [1973], p. 112: Ciafardone 11978). p. 46; Schmidt-Biggemann [19831. pp. 282-3. Invece un’eccezione u questa tendenza è p. es. il Risse, che ha richiamato l’attenzione sul carattere anche razionalistico dell’epistemologia di Thomasius; Risse [1964], vol. Il. p. 554 sgg.
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Secondo 'i'hoinasiiis la prolxtkilità e iin:i specie di writà: "zwosimiZe, qiiod est species zxm'5. Qiicsta s l x c i e di verii?, c-tic. io chiaiiierì) verità probabile, e iiiferiorc alla veriti asso1ut:i clic ì. "notiilior" (IPA4! V. io), ni:i 11011 i? sost:inzi;ll~ricntc t1ivers:i c1:r qiiest'ultiiiia. 1,'unic;i vera differenza tra qiiestc d u c spccie di verità i. la scgiiente: la n e p z i o ne clella verità assoliiia ì. inipossibile. "aliter 1i:itx.x non posse". mentre la negazione clclla verità pro-obahilc. pcr qiitinrt, p(-xssLi essere inverosimile, 2 coniiiiiqiic' possibile, "potest...:ilitcr 1i:iticrc" (TPA, I:. i 1). Data la possibilità della sii:^ negazione, la veri[; prol>:rtiilc resta, seppur in rriiniiiia misiira, sempre diil->itabile.Scconclo Ttioniasiiis la verità consiste nella nostra "inncrliclie Ueistininiung" (EV, \', 1 1 ri0 giiardn all'esistenza di iina "Ubcrt:iiistiiiimiing" tra l e cosc c IC: idee Perci0 si w r à tin:] writ2 soltanto prohibile, "sc' qucstc, c o n s e i ~ s ointeriore i? asscic~iatcia
clii;tlche tluhhio
c:lie la cosa possa stare divcrsamente" (EV. V. 2 2 ) .
Cioè l'accettazione della verità probabile comporta sempre u n pò di incertexza. Riconoscendo nell'impossibiliti e nella poxsihilità tiel corn trdrio il rispettivo contrassegno della veriti assoluta t' dc'lla vcrit;ì probabile, Thomasius ricorre evicienternente ;il principio di contraddizione come criterio di demarcazione tra queste ciue specie cii verità. Come vedremo nel 5 3, 'i'hoiiiasius distingue nello stesso i i i o t l o . cioe
5. IPA, V, 12. Per distinguere le due specie di verità Thomasius usa diverse coppie di espressioni "veritas absoluta & Iiypothetica" ([PA, V, IO): "verum stricte dictum vel verosimile" (IPA. V, I l ) ; "unstreitig wahr, oder wahrscheirilich" (EV, V. 20). Questa distinLione ricalca quasi lettcralmenie quella di Jungius: "Veritas enuntiationis est duplex: aliud est vetuni proprie dictum, sive necessario verum, aliud probabile, sive verisimile" (Jungius [ 15381, p. 2). Thomasius ha certamente presente anche la distinzione tra verità necessaria e verità contingenie fatta dal padre, Jakob Thomasius, da Clauberg e da Weice. Cfr.: J . Thomasius [ 17051, pp. 55-6; Clauberg [1658], pp. 802-3, e Logic-u conir-ucfcr in [ 16911, vol. I l , p. 925: W Ii6811, p. 12. Clauberg mette esplicitamente in connessione verità contingente e probab (Clauberg [ 16581, pp. 831-32). 'i'hornasius cita lui, il padre, Jungius e Weise tra le fonti della sua Lo,yii,i Saggi di Leibniz leggiamo: "i sensi possono suggerire, giustificare e confermare queste verità [cioè le verità iniiatel, ma non possono dimostrarne la cerierra eterna e imrnancabile" (i. I, 5 ) ; "e se le verith noil sono dei pensieri, ma dcllc abitudini e attitudini. naturali o acquisite, niente impedisce che in noi possano essercene tali a cui non si è pensato mai. né mai si penserà" (OP. cit. I,I, 26); "perch+ io credo che noi non siamo mai senm pensieri e mai senza sensazioni. Distinguo solamente tra le idee e i pensieri, perchè noi possediamo sempre tutte le idee pure o distintc indipendentemente dai sensi: ma i pensieri corrispondono sempre a qualche sensadione" (OP.cit. 11, I, 23); "Quindi si puì) pi-odurre queste scienze [la geometria e l'aritmetica] nella propria stanza e persino ad occhi chiusi, senza apprendere mediante la vista, né mediante i l tatto le veriti di cui qiti si ha bisogno. sebbene sia vero che non si arriverebbe mai alle idee di cui qui si tratta, se non si avesse niai visto né toccato niente. Pcrchè, per un'ammirabilc economia della natura, noi non possiamo avere dei pensieri astratti che non abhiano bisogno di qualcosa di sensibile ... E se le tracce sensibili non fossero richiesrc, l'armonia prestubilitli ... non avrebbe luogo" (OP. cit. 1, 1, 5). E infine i due passi seguenti tratti dal Nuoiw O r p ~ n o di Lambert: "Poichè la possibilità di un concetto fondamentale si impone insieme con la rappresentazione, esso diventa in tal modo del tutto indipendente dall'esperienza. così che, aiichc se ne siamo debitori all'esperienza, questa ci offre per così dire solo l'occasione per averne coscienm" (Lanibert [ 17641, I, 6%): "Inoltre, noi consideriamo qui i concetii chiari che otteniamo mediante i sensi non in rapporto agli organi di senso. .. ma l i consideriamo in quanto tali concetti sono nell'anima, quindi in quanto concetti ... E' perciò pos5ibiie in sé che un essere pensante si rappreseiiti tali concetti senza l'occasione sensibile. Ma perché non sia possibile pcr noi, si può senra dubbio spiegare col fatto che abbiamo sensazioni le
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le (EV, X, 66), mentre quella delle proposizioni probabili è possibile (EV, X, 67). Quanto h o appena detto, mi sembra sufficiente per provare la tesi ( 3 ) che Thomasius sostiene una forma di innatismo. I1 fatto che Thomasius sottolinei la necessità dell'esperienza per rendere attuali le idee non deve meravigliare. Infatti questa idea costituisce un posto, più o meno esplicito, di tutte le versioni dell'innatismo4TreSup.
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quali non permettono che noi siamo coscienti di rappresentazioni più deboli, se queste non sono state già una volta vivificate da sensazioni. Sebbene dunque noi abbiamo tali concetti del tutto a posteriori, è reale solo la coscienza di essi, mentre non si può da ciò inferire che i concetti stessi non possano essere in sé già nell'anima, prima che noi siamo stimolati dalla sensazione ad averne coscienza" (Lambert [ i764],II, I, 16).
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IV.CHRISTIAN WOLFF
O. Premessa
Il desiderio wolffian0 di scrivere una Logica probabilium era ben noto già ai suoi tempi 1 . Tuttavia, stranamente, la letteratura secondaria ha in genere trascurato - e persino dimenticato - l’interesse di Wolff per la probabilità. Ciò ha senz’altro contribuito a produrre un’immagine negativa della sua filosofia, considerata s esso come un esempio esasperato di dogmatism0 e di deduttivismo . AI contrario, malgrado la redazione della Logica probabilium sia restata solo un desideratum, Wolff è senza dubbio uno dei pensatori del Settecento che ha riflettuto con maggiore sistematicità e rigore sul tema della probabilità e della conoscenza probabile. Owiamente per molti versi - e soprattutto per le questioni che riguardano direttamente il calcolo delle probabilità - Jakob Bernoulli e Leibniz gli sono superiori. Tuttavia per quanto riguarda la filosofia deka probabilità la riflessione wolffiana è degna di particolare attenzione. Inoltre non bisogna di-
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* I titoli delle opere principali e delle raccolte di scritti di Wolff vengono qui abbreviati nel modo seguente: Anrnerkungen zur deutschen Metaphysik - ADM; Deutsche Ethik - D E Deutsche Experimentalphysik - D E P Deutsche Logik - DL; Deutsche Metaphysik - DM; Deutsche Physik - DPh Discursus praeliminuris - D P Ethica latina (vol. I) - EL; Gesammelte kleine philosophische Schrifen - GKS; Horae suhsecivae Marhurgenses - HSM; Kleine Schrifen KS; Kurtzer Unterricht - K U ; Logica latina - LL; Meletematu mathemtico-philosophica - M; Mathematisches Lexicon - ML, Ontologia - O,Psychologia empirica - PE, Ratio praelectionum - R P Theologia naturalis - T. I . Cfr. p. es.: Kahle [1735], p. XIV; Ludovici [1735-381, vol. 11, 298; Stiebntz [1741], pp. 1920; Baumeister [1747], 170. 2. Per la discussione e la critica di questa valutazione della filosofia wolffiana rimando a Cataldi Madonna [I9841 e [1987a]. A mio parere questa valutazione è soprattutto un prodotto della polemica filosofica settecentesca e maturò ovviamente in ambienti antiwolffiani, cioè sia in quelli influenzati da Thomasius e Rudiger che in quelli influenzati dagli illurninisti francesi e dall’Accademia di Berlino. Per quanto riguarda l’assenza o la scarsa considerazione del tema della probabilità nella letteratura secondaria su Wolff rimando soprattutto alle due prime note e alle pagine iniziali di [ 1987al.
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menticare che, riguardo alla probabilità, l’influenza leibniziana nel Settecento è di natura molto privata, poiché è limitata soprattutto al suo carteggio epistolare: molti scritti di Leibniz sul tema sono rimasti per lungo tempo - e alcuni sono tuttora - inediti. Così ancora nel 1837, nella sua Wissenschaftslehre,Bernhard Bolzano mostra di conoscere bene e di stimare la concezione wolffiana della probabilità3. In questo capitolo ho intenzione di mostrare: (a) non è affatto vero che Wolff si sia disinteressato - o lo abbia fatto solo incidentalmente - deìia probabiiità, ai contrario essa costituisce un tema molto importante della sua filosofia; (b) la sua formulazione del principio di ragion insufficiente, influenzata da Leibniz, è stata determinante per l’interpretazione dei caicoio delle probabiiità almeno fino aii’inizio del nostro secolo; (c) la riflessione su questo tema indusse Wolff a farsi interprete di una nuova concezione della scienza. Tale concezione permette di considerare le verità probabili e di servirsi del ragionamento probabile, senza rinunciare, però, ad alcuni elementi caratteristici della concezione tradizionale. Wolff fu attento a conservare soprattutto gli ideali della dimostrazione e della certezza. Nel tentativo di combinare questi aspetti e di realizzare il programma razionalista - cioè identificare il metodo filosofico con quello matematico o, ed è lo stesso, costituire e legittimare le scienze empiriche -, la concezione wolffiana si rivela come una tappa molto importante neli’evoiuzione verso la nostra concezione della scienza. Nel 1 cerco di delineare il retroterra storico e le ragioni dell’interesse di wolff per ia probabilità. Nel § 2 mi occupo più dettaghatamente della sua interpretazione della probabilità con particolare riferimento alla probabilità aleatoria. Nel § 3 prendo in esame prima la probabilità induttiva e poi la concezione wolffiana della scienza e della dimostrazione.
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3. Bolzano discute prima la definizione di Locke e poi aggiunge: ”molto più corretta è la definizione di Wolff ([ 18371, 161). Tra la concezione della probabilità di Wolff e quella di Bolzano esistono molte affinità che qui, però, non possono essere discusse. Tuttavia alla fine del
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1. L 'interesseper il probabile
Secondo Wolff la filosofia non può assolutamente prescindere dai "probdbilid":questi sono "ineiiminabiii" e quindi, indispensabili. Comunque non meno importante e distinguerli chiaramente dai "certa": "nam probabilia quoque ex philosophid non prorsus eliminanda, utut a certis probe, distinguenda" (DP 132; cfr. anche 125).
Così il retto uso dell'intelletto ha per compito non solo la determinazione della certezza, ma anche quella della probabilità4 . Solo se viene soddisfatto questo compito, teoria della conoscenza e metodologia possono dirsi veramente esaurienti: "poiché negli affari umani la maggior parte delle cose dipende dalla probabilità e si deve scegliere perciò la più probabile, allora sarebbe un lavoro utilissimo portare a compimento quest'arte" (DM 402; cfr. anche: DE 97; EL 124; PE, "hdefati0").
La teoria della probabilità, pur trovando un'applicazione piU estesa nei campi speciali della " philosophid practical' e nella vita pratica, sarebbe altrettanto utile anche nelle scienze naturali: soprattutto in quei casi in cui o si 2 ancora lontani dalla certezza o, addirittura, impossibile raggiungerla 5. L'uso di congetture e di ragionamenti probabili è per Wolff spesso l'unico mezzo per avvicinarsi alla verità nella ricerca
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$ 2 riferirò brevemente la critica di Bolzano alla concezione classica. Per quanto riguarda tale critica è possibile che Bolzano sia stato influenzato dalla lettura di Wolff. 4. "Ad rectum intellectus usum quoque pertinet, ut de eo, quod probabile est, recte statuamus"; EL, 124. 5. "Si qua cognitu utilia demonstrari nequeunt, eorum probabilitas conveniente ratione adstruenda, ipsa autem probabilia a certis probe distinguenda ... Quamobrem si qua utilia cognitu, v. gr. ut eorum cognitione in vita carere nequeamus, ad certam tamen pervenire nobis impossibile fuerit; probabilia propter solum usum tamdiu in philosophia admittenda, donec certa cognitio obtineatur, a certis utique distinguenda sunt ... Probabilia in philosophia potissimum admittuntur propter usum vitae: est tamen quoque ratio quaedam, cur in ipsum usum scientiae admittenda, nempe quatenus cognitio certa absque praevia probabili obtineri nequit"; DP, 125.
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scientifica6. Quindi conoscenza certa e conoscenza protiabile sono tutt'altro che incompatibiii nel processo di ricerca: anzi le certezze devono spesso essere CUnipktdte dalle probdbdità. 11 sapere probabile è spesso necessario o, almeno, di grande aiuto per raggiungere la certezza7 . In altri casi la certezza può essere per noi irrdngiugibile e allora la probabilità è pur sempre un valido sostitutivo di cui bisogna sapersi accontentare. La conoscenza probabile è comunque una forma di sapere, sebbene di grado inferiore, e come tale preferibile all'ignoranza: "sarebbe una grossa follia se si preferisse restare del tutto ignoranti in una cosa, piuttosto che accontentarsi di u d conoscenza in cui non si può avere la certezza completa" .
a.
Proprio perché pensava che non fosse stata ancora formulata una soddisfacente teoria della probabilità9, Wolff aveva intenzione di scriverne una egli stesso10. Sugli sviluppi del suo tempo egli si espri-
6. Ugl. p. es. DP, 139, e DPh, p. 533. Riguardo alla necessità di ricorrere spesso alla conoscenza probabile nelle scienze naturali cfr. soprattutto LL, 587,606,608. 7. Woiff scrive: "raro observationes primae ita erunt comparatae, ut liquida inde veritas colligatur: quin perinde ac in Astronomia saepissime continget. ut ex observatis illata duhia adhuc sint. et a certitude longo adhuc intervallo remota. Son tamen ideo reicienda sunt tamquam inutilia, sed iisdem utendum est cum incertonim ope ad cena perveniainus. quae alias numquam assecuturi fuissemus"; De Medico Asrronomm inrifunte, in HSM, vol. 1. pp. 169-70. 8. "Vorrede" a: Von der gijttlichen Ordnung in der Verindrr-uni: des mensi,hlii,hen Gesr.hiechts di SuJjrnlmikh (KS,pp. 92-3). Dopo aver lodato l'utilità della ricerca statistica di SUBmilchs, Wolff aggiunge: "nessuno pretenderà da lui verità dimostrate dove ci si deve accontentare della probabilità. Tutiavia quelli che condannano l'impresa [di SiiBmilchJ perché non si ha alcunacertezza. tradiscono la loro follia" (KS, p. 93). 9. "Attualmente nessuno ha ancora trattato in una teoria completa come si dchhano usare le facoltà dell'intellelto per riuscire a scoprire il probabile" (KS,p. 93); cfr. anche: ADM, 127; DE, 97; EL, 124. Woiff stesso ricorda che già Leibniz aveva richiamato l'attenzione su questo desideratum: "E già Leibniz ha notato più di una volta che manca ancora una logica del probabile" (DM, 245); cfr. anche: LL, 593; O, "Praefatio". Leibniz si era lamentato spesso delle insufficienze e del1'inadeguatezz.a della teoria della probabilità del suo tempo. Presumibilmcnte Wolff cnnosccva questo atteggiamento di Leibniz dalla lettura dei "Discours préiiminaire" dell'Essui.y de Théodiilità aleatoria nasce dai problemi di cui si occupa il nuovo calcolo delle protiabilità: dalla considerazione delle frequenze relative connesse con gli eventi casuali. La probabilità induttiva si sviluppa - in connessione con la teoria della conoscenza e la metodologia - soprattutto dalla convinzione nel carattere congetturale della conoscenza del reale. Wolff distingue esplicitamente tra Pi e PL, cioè tra "propositio probabilis" e "hypothesis" o "opinio probabilis" (LL 605; cfr. anche 606-10), e le tratta in modo abbastanza circostanziato in diic capitoli diversi della Logica latina (rispettivamente cap. 111, "De certo, incerto atqiie probabili", e cap. iV, "De scientia, opinione, fide atque errore", nella I sez. della I1 parte). Wolff sottolinea persino che le due specie di probabilità non devono essere tra loro confuse: " Q L ~ proposizioni ~c che attualmente sono probabili non devono essere confuse con le ipotesi o proposizioni arbitrarie. Infatti quelle sono dcdotte secondo le leggi della probabilità da altri principi; queste invece vengono semplicemente amrncssc per giudicare se da ciò che viene accertato come vero si può spiegare ...ciò che insrgna ~'esperienza~~.
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35. Von den Nurren der Erkennrnis drr Nuiur. Goiies und der Herrsi.hafi Ntwr die Ci-ecl/uren (GKS, vol. 1, pp. 330-1). Più tardi Kant distingue esplicitamente tra probabilità degli eventi e h probabilità delle proposizioni: "?ma cosa è probabile", si dice solo di eventi. Altrimenti: "il nostro giudizio è probabile" (Kant [1914], p. 441, cfr. anche p, 434). P.es. nell'Ars c'onjectandi - ma non in Wolff - troviamo una distindoiie tra la probabilità a priori e probabilità a posteriori (Bernoulli [1713], p. 224). Qui mi limito solo .a ricordare che Carnap ha irivertito quest'ultima distinzione considerando a priori la probabilità induttiva e a posteriori quella aleatoria ([ 19501, p. 18X).
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Quindi secondo Wolff la valutazione delle ipotesi avviene in modo conipktdmente diverso da quella delle proposizioni probabili. Solo queste ultime vengono valutate secondo le "leggi della probabilità". Senza dubbio questo passo può essere inteso come un indizio dello scetticismo wolffiano riguardo alla possibilità di interpretare quantitativamente P2. Comunque su questo problema torneremo alla fine del prossimo paragrafo. 2. Probabilità aleatoria eprincipio di ragione insufficiente
In questo paragrafo prendo innanzitutto in esame la caratterizzazione della probabilità aleatoria in base al concetto di "ragione insufficiente" e il tentativo wolffiano di interpretare logicamente tale probabilità. Poi mostro come questa concezione della probabilità si connette con il principio di equipossibilità. In terzo luogo discuto il tentativo di fondare la probabilità nell'ontologia e , infine, le ragioni dello scetticismo di Wolff riguardo alla nuova teoria della probabilità. Per wolff gli assiomi e i postulati - entrambi indimostrabili usati nella dimostrazione, devono essere certi (LL 572). una proposizione è certa se si sa che è vera, altrimenti è incerta (LL 574). Quindi la certezza significa da una parte che una proposizione è vera, dall'altra che un soggetto conosce questa verità. La verità delle proposizioni di specie diversa dai postulati e dagli assiomi può essere certa solo se si conoscono tutti i "requisita ad veritateni"? cioè le ragioni che determinano l'attribuzione del predicato al soggetto (LL 573).?'ale certezza pu0 essere raggiunta a posteriori, mediante osservazioni (I,I, 567), o a priori mediante dimostrazione (LL ,568). Un singolo requisito t solo una ragione parziale prr la verità di una proposizione data: solo l'insieme di tutti i requisiti per la vcrita di una proposizione rappresentano la ragione sufficiente (LL 575-76) per l'attribuzipnc del predicato al soggetto. Se noi conosciamo solo alcuni d i questi requisiti, allora essi rappresentmo solo una ragione insufficientc per tale attribuzione. In questa caso non abbianio alcuna certezza della veritii della proposizione, rna solo la conoscenza della sua probabiiitiì. Così una proposizione viene chiamata Ixobd>iIc"si praedicaturn subjccto tribuitiir ob rationem insufficientem" (LL 578; cfr. anche I I M
399).
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Anche Wolff, come gli autori trattati prima, mette in stretta connessione il concetto della probabilità con quello della certezza (cfr. nota i 9 nel cap. I) - c in questo modo ricorre anche ai concetti di verità e di requisito per la verit5. L'intenzione di Wolff t. chiara: egli cerca una misura oggettiva per la probahiiità, cioè una misura, che non possa essere condizionata dalle eventuali differenze del sapere individuaie, né cka altri fattori psicologico-individuali. Questa misura poteva essere solo la certezza. Infatti la certezza per Wolff obiettiva proprio perché 6 indipendente dali'intektto umano. La certezza viene raggiunta attraverso una conoscenza "sufficiente", la probabiliti invece attrdVerS0 una conoscenza "insufficiente". Qui sono opporture ancora alcune osservazioni circa la relazione tra "certezza" e "probabilità" in Wolff. ( 1) Da un punto di vista epistemologico i dcie concetti hanno una importante caratteristica in comune: entrambi designano una relazione tra il soggetto conoscente e la veritii. Perciò Wolff li caratterizza come "notiones relati\7ae"36. La probabilità esprime una r e i a h n e tra noi e la verità; la certezza esprime una relazione tra Dio e/o noi e la verità. (2) Per tutte le proposizioni probabili vale che il loro contrario - in termini moderni: la loro negazione - ci appare possibile. Invece per h classe delle proposizioni certe vale: solo la negazione di alcu/ze cii esse ci appare impossibile (vedremo in seguito pcrc l k ci0 vale solo per alciinc e non per tutte). Dunque tra la classe delle certezze e qiiella delie proposizioni prolxd~iiiesiste cin'intersezionc non-vuota.
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36; LI 565 e S ì 2 . Piu tardi Kahle dà la stessa defini/i«ne: "Certitudo est terminus relativus: corisklcrari potest ratione repraeseiitatiiinurn in intellectu nostro" ( [ I 7351. p. 34). Qui Kahle dipende diretiamente da Walff e non da Rernoulli (cfr. con quarito si dirh in seguito nel testo). Del resto. nella "Praelàiio" (pp. X I I ~ X I V ) lo . stesso Kahle confessa di essere stato niolto intluerirato da Wolff per qiianto riguarda la w a conce7.ioiie della probabiliti. Invece Risse trascura questa relaiiorie e cita solo Leibniz e Jakob Bernoulli come fonti principali di Kahle (Risse [1964j, v o l . I t . p. 709). Keynes, che evidentemente non conosce gli scritti di Wolff, crede che Kahle sia stato il primo a dare la suddetta definiiione e giudica molto positivainente "i: pieiiu di interesse e di pensiero originale" - l'opera di Kahle (Keynes [1921]. p. 98). Per docuinentare brevemente questo giudiiio Keynes riporta alcune affemiariorii di Kahle che iiiosiraiio chiaramente l'impronta wolffiana. I.
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( 3 )Per le certezze che si trovano appunto nella sucldctta intersezione e corretto dire quanto segue: come si piiò considerare la
prohitilità dal punto di vista di questa specie di certezza. così si punsidtwrequesta specie d i certezza dal punto di visti1 tiella prohabilità. Tn altre parole: come si piier-imanra/phisik. Altrove Wolff dice che "nullam esse disciplinam philosophicam, in qua non idem obtineat, SI docere nobis ex proprio ingenio conficta, sed naturae rerum consentanea" (LL, 663). E' interessante notare l'affinità di questo passo con quello di Descanes citato nella nota 32.
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zioni sulla realtà sonc) solo ipotetiche, interpretazioni piU u meno probabili di esperienze, non certezze: "ci0 che l'esperienza mostra e incontestabile: la spiegazione di come la medesima cosa accada è un'ipotesi" (ADM 168; cfr. anche DM 330).
Questo è un fatto scontato per Wolff; come altrettanto scontato è ( 2 ) il riconoscimento che la conoscenza non può assolutamente prescindere dall'esperienza. L'esperienza deve essere sia il punto di
partenza - "cognitio historica philosophicae fiindamentum praebet"'" - che il punto d'arrivo dei processo di razionalizzazione. I1 punto d'arrivo consiste soprattutto nella scoperta delle leggi dell'esperienza, della sua struttura razionale. ( 2 ) 6 così importante per Wolff che proprio per questa ragione chiama "sanctum" il "connubiurn rationis et experientiae" e lo estende a tutte le parti della filosofia? persino alla matematica pura 'O. Non tener conto dei fatto che la conoscenza è empiricamente condizionata voleva dire per Wolff iniziare a fantasticare (cfr. nota 32). Tutto ciò è stato spesso dimenticato nell'interpretare la filosofia wolf-fiana. Le idee appena menzionate sono premesse centrali nel pensiero di Wolff. Tuttavia nel tentativo di conciliarle con la sua concezione della scienza sorge un problema. infatti Wolff definisce la scienza nel seguente modo: "Per scientiam hic intelligo iiahitum asserta demonstrandi, hoc est, ex principiis certis et immotis per legitiiirrim consequentimn jnferendi" (DP 30).
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61. Cfr. a riguardo i l Q 4 del cap. V e i l mio [ 19x81. Qui discuto questo problema in rapporto a Leibniz e accenno alcune funti possibili della sua concezione che, però, possono valere anche per quella wolffiana. In [ 19881 tratto brevemente anche I'Essui de logique (1678) di Mariotte, che - come confessa lo stesso Wolff in una lettera a Leibniz del 4 aprile 1705 (in Gerhardi (18601, p.23) - è stato una fonte molto importante della logica wolffiana. Qui voglio solo ricordare il giudiLio che Wolff dà di questo saggio nella sua recensione alle (Euvres di Mariotte: "licei nomen commune habeat cum aliis Traciaiibus, qui Logicae inscribuntur; facies tamen ejus prorsus diversa. Autori nempe propositum est recensere principia scieniimm et ostendere, quomodo ex iis firmiter sit concludendum" (Woiff [ I7 171, p. 149).
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Da una parte Wolff tiene fede a (1) e (2). dall'altra non rinuncia all'icfea di una scienza come conoscenza certa. La scienza deve contenere certezze sistciiiaticaiiiente connesse tra loro: "veritat~iminter se et cum principiis suis connexaruin congeries" (LL 889). Da una parte Wolff si pone in modo positivo rispetto alla probabilità t' all'opinio, dull'altra inira alla certezza e alla scientiu. Queste due istanze andavano conciliate. Il problema di Wolff - e piU o meno di tutti i razionalisti - era qiiello di evitare una contraddizione tra la s ~ i aconcezione della scienza e il riconosciincnto del carattere ipotetico della conoscenza del reale. Noi abhiaino già discusso questo prohlema a proposito d i Thoiiiasius (cfr. m. i); Wolff si trova in una situazione simile c :inche la su;i soluzione non 2 inolto lontana - selhent. molto piU complessa - da qiiella scelta da Thomasiiis. Comunque, per quanto riguarda questo problema e la sue possibili soluzioni. W'olff poteva Fare riferimento non solo a Thomasius, ma anche a Leilmiz e ad altri autori a lui sicuramente noti{i 1. Per risolvere questa difficoltà o si poteva (a) mutare il concetto della diiiiostrazione scientifica oppure si poteva (I>) ridurre o addirittura cercare di eliminare il rischio di falsificazione per le proposizioni txiipiriche, cioè tentare di trasforiiiarle in "principia certa e inirriota".
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62. "Tenendum tanien, vulgo iii demonstratinnurn numero
non haheri nisi prohationes, quae tandem in definitiones & axioinatn resolvuntur. nec adinitti praemissa5. quae sola expcrientiae fidc constant ... Mulio minus auteni probarnus. si qui\ cum Ai-isto/c/c d