La Fenomenologia dello Spirito di Hegel 9788885716162, 8885716164


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Table of contents :
Augusto Vera
Zeugma
Massimo Adinolfi e Massimo Donà
Zeugma | Lineamenti di Filosofia italiana 15 Classici
Lo spettro della Fenomenologia dello Spirito sull’hegelismo assoluto di Augusto Vera
La Fenomenologia dello Spirito di Hegel Appendici
Nota del curatore
L’esperienza e la Fenomenologia dello Spirito
Stesso argomento
Sunto della Fenomenologia dello Spirito di Hegel
La collocazione della Fenomenologia nel sistema (1872)
Alcune considerazioni sulle Logische Untersuchungen di A. Trendelenburg (1864)
La Filosofia dell’Hegel (1856)
Saggi critici
Note sul profilo intellettuale di Augusto Vera: il suo tratto speculativo e la sua attualità
Un idealismo senza idealità?
Preliminari alla logica hegeliana
L’assoluto e il fenomenale
Dove ha presa il pensiero
Due divergenti letture della Fenomenologia dello spirito: Augusto Vera e Bertrando Spaventa
Scienza e ragione
Indice
Zeugma
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La Fenomenologia dello Spirito di Hegel
 9788885716162, 8885716164

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Augusto Vera

La Fenomenologia dello Spirito di Hegel a cura di Giacomo Petrarca

Zeugma

Collana diretta da:

Massimo Adinolfi e Massimo Donà

Comitato scientifico: Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani-Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco Lozano, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

Zeugma | Lineamenti di Filosofia italiana 15 - Classici

Augusto Vera

La Fenomenologia dello Spirito di Hegel a cura e con un’introduzione di Giacomo Petrarca Saggi critici di Stefania Achella, Andrea Bellantone, Giulio Goria, Edoardo Mirri, Marco Moschini, Francesco Valagussa, Vincenzo Vitiello

Pubblicazioni del Centro di ricerca di Metafisica e Filosofia delle Arti dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano DIAPOREIN

© 2021, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa sociale, via G. Macchi, 94 - 00133 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Zeugma ISSN: 2421-1729 n. 15 - ottobre 2021 ISBN: 978-88-85716-16-2

Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Napoli, Castel Nuovo, Maschio Angioino © lapas77 – stock.adobe.com

Alla memoria del Prof. Telesforo Nanni

Sapiens ille plenus est gaudio, hilaris et placidus, inconcussus; cum dis ex pari vivit. Seneca, Ad Lucilium (IV, 59)

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Lo spettro della Fenomenologia dello Spirito sull’hegelismo assoluto di Augusto Vera Introduzione di Giacomo Petrarca

«[…] intendere e intender l’assoluto sono in somma una sola e medesima cosa in guisa che la conoscenza dell’assoluto dee essere per conseguenza involta nella natura stessa del nostro intelletto». (A. Vera, Ricerche sulla scienza speculativa e sperimentale)

I Quello tra Augusto Vera e la Fenomenologia dello Spirito è un incontro rimandato per lungo tempo, procrastinato, differito, a tratti intenzionalmente evitato. Un confronto che si consumerà assai tardi, quando nel 1883 – circa due anni prima della sua morte – Vera darà alle stampe il volume IV del Problema dell’Assoluto, opera la cui pubblicazione era iniziata nel 1872 e che raccoglieva le sue ultime lezioni tenute presso l’Accademia delle Scienze morali e politiche di Napoli1. Come tutti gli incontri così a lungo differiti, quel confronto tardivo e, in un

1.  Lezioni tenute, peraltro, da quanto ci viene riferito dal suo allievo Raffaele Mariano, di fronte a un uditorio non particolarmente folto. Per un ampio profilo della vita e dell’opera di Vera, si veda: R. Mariano, Augusto Vera, in Id., Uomini e Idee, Barbera, Firenze 1905, pp. 225-379.

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certo modo, incompiuto – il commento veriano non si spingerà, infatti, oltre il capitolo sull’autocoscienza – assumerà la forma di una vera e propria resa dei conti. Una resa dei conti anzitutto con la tendenza che l’idealismo napoletano, proprio in quegli stessi anni, aveva intrapreso su impulso di Bertrando Spaventa (1817-1883) riconferendo nella sua lettura del pensiero hegeliano un ruolo cruciale – sebbene oltremodo problematico – alla Fenomenologia dello Spirito. Ma prim’ancora, una vera e propria resa dei conti con Hegel. O meglio: con il “suo” Hegel e con quell’immagine più volte ribadita negli scritti veriani, di un hegelismo rigidamente pensato come «sistema dell’Assoluto», in cui il ruolo del concetto e della posizione dell’oggettività si sarebbero dovuti esplicare sistematicamente come Idea, in opposizione a qualsiasi valorizzazione del dato dell’esperienza e del “fatto”, elementi propri – a suo dire – del criticismo e del positivismo. In quegli orientamenti filosofici, Vera non vedeva altro che una riproposizione sotto mentite spoglie della minaccia filosofica par excellence, ovvero lo scetticismo, contro cui ogni hegeliano degno di tale nome non si sarebbe dovuto esimere dal combattere. A ragione Giovanni Gentile, nel suo saggio Augusto Vera e l’ortodossismo hegeliano, nota come «in tutta la storia della filosofia [Vera] non vede se non sforzi vani per superare lo scetticismo»2. Per Vera, solo Hegel fu in

2.  G. Gentile, Augusto Vera e l’ortodossismo hegeliano, in Id., Le origini della filosofia contemporanea in Italia (1925), a cura di E. Garin, Sansoni, Firenze 1969, vol. II, p. 586. Va senza dubbio tenuto conto che, in Vera, il ricorso allo scetticismo assume significati tra loro molto diversi, non sempre storicamente determinati e riferibili con la stessa accezione a diversi pensatori, al punto da indicare ciò che, in altri contesti filosofici e ad altre latitudini, di lì a poco si sarebbe definito nichilismo. Pertanto, lo scetticismo per Vera non rappresenta solo l’impossibilità di dare fondamento al sapere, ma l’indicazione della perdita stessa di qualsivoglia oggetto del sapere, sfociando nel ricorso positivistico ai dati dell’esperienza o in quello irrazionalistico delle filosofie della volontà. Sulla lettura gentiliana di Vera, si veda: L. Malusa, L’hegelismo

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grado di mettere al sicuro la conoscenza e il sapere filosofico da ogni minaccia scettica, e poté fare ciò proprio in forza di quella “scoperta” dell’assoluto, che diverrà un elemento centrale nella riflessione veriana, quasi l’unum argumentum della sua adesione all’hegelismo3. E proprio questa pretesa visione della filosofia di Hegel a tratti rigida e conchiusa, insieme alla rivendicazione d’“autenticità” tanto della propria glossa di interprete quanto della propria appartenenza hegeliana, gli valsero quell’appellativo di “hegeliano ortodosso” con cui – non senza una certa malizia – verrà definito dai suoi critici4. Appellativo che condizionerà inesorabilmente la rilevanza e l’eredità veriana all’interno della compagine filosofica post-unitaria, riducendo la propria posizione filosofica a un’interpretazione dell’hegelismo piuttosto unilaterale, fossilizzata su stilemi e motivi talvolta persino distanti dallo stesso Hegel, e relegandola in fondo a una posizione marginale all’interno della ri-

“ortodosso” nell’interpretazione di Giovanni Gentile, in P. Di Giovanni (a cura di), Giovanni Gentile. La filosofia italiana tra idealismo e anti-idealismo, FrancoAngeli, Milano 2003, pp. 183-210. 3.  Su tale professione di fede si veda: A. Vera, Introduction à la philosophie de Hégel, Librairie philosophique de Ladrange, Paris 1864 (I ed., FranckJeffs, Paris-Londres 1855), p. LXXX. 4.  Appellativo che il saggio di Gentile contribuirà a legare indissolubilmente a Vera, sebbene ricorra già in alcuni ritratti del filosofo a lui coevi. Ne è un esempio quanto scrive in una lettera del 1864 Theodor Sträter, professore all’Università di Bonn e corrispondente del periodico berlinese Der Gedanke, a proposito del confronto tra Spaventa e Vera. Se infatti, scrive Sträter, il primo ha compiuto una «revisione critica della dialettica hegeliana a partire dalla filosofia kantiana», l’altro è «la degna copia italo-francese di quel tipo di filosofi che noi attualmente usiamo chiamare ‘i vecchi hegeliani’ o anche ‘gli ortodossi di stretta osservanza’»; inoltre, Spaventa ha una «personalità socratica» ed è «più eminente come insegnante universitario», mentre Vera è però «forse uno scrittore più elegante» (K.L. Michelet - Th. Sträter, La Società filosofica di Berlino e gli hegeliani di Napoli. Scritti di storia della filosofia (1860-1865), a cura di D. D’Orsi, Giuffrè. Milano 1986, pp. 123-124).

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cezione dell’idealismo tedesco in Italia5. Se però la critica di Gentile nei confronti dei motivi e degli esiti della riflessione veriana è estremamente severa – e si tratterà di capire almeno alcune delle ragioni che la muovono –, non meno severa è l’attenzione che egli riserva all’«ortodossismo» di Vera, soffermandosi ampiamente sull’intera opera e commentandone puntualmente gli snodi più significativi. Un attardarsi del filosofo dell’attualismo sulla pagina veriana che si conclude con un riconoscimento da parte di Gentile, certo non privo di valore. Così infatti scrive Gentile al termine della sua disamina del pensiero veriano: Non era questa l’interpretazione della filosofia hegeliana, che potesse concorrere al progresso del pensiero speculativo. Ma è indubitabile che essa pure traeva alimento da uno di quei forti amori dell’eterno e del divino, senza i quali lo spirito umano non sarebbe a volta a volta distratto dagl’interessi mondani e spinto alla ricerca filosofica. E per questo verso il Vera fu uno degli scrittori più vigorosi, più sinceri, più alacri che ci siano stati in Italia negli ultimi tempi; e non possiamo passare innanzi a lui senza inchinarci.6

5.  Sul tema si veda: G. Oldrini, Gli hegeliani di Napoli. Augusto Vera e la corrente ortodossa, Feltrinelli, Milano 1964. Lo studio di Oldrini è, tuttavia, fortemente marcato da una precomprensione ideologica di partenza, più preoccupato a rinvenire in Vera i prodromi di un pensiero conservatore e reazionario proprio della “Destra” hegeliana, piuttosto che a individuarne i motivi teoretici più rappresentativi. Tale interpretazione viene infatti condotta ponendo la maggiore enfasi sull’aspetto politico del pensiero veriano, trascurando elementi come quelli del problema della filosofia della religione e della filosofia della natura. Sulla stessa scia si muove il recente contributo di A. Savorelli, Augusto Vera tra “ortodossia” e “Destra” hegeliana, in M. Diamanti (a cura di), La fortuna di Hegel in Italia nell’Ottocento, Bibliopolis, Napoli 2020, pp. 125-142. 6.  G. Gentile, Augusto Vera e l’ortodossismo hegeliano, cit., p. 630.

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II Per comprendere le ragioni filosofiche dell’opposizione di Gentile all’hegelismo veriano, bisogna tenere conto anzitutto del luogo in cui il filosofo dell’attualismo conduce il proprio confronto con il pensiero di Vera. Ci troviamo infatti ne Le origini della filosofia contemporanea in Italia dove egli ricostruisce le linee storiche e speculative di quel processo germinativo che, dalla fine della Scolastica passando per l’Umanesimo, il Rinascimento, Vico e la composita galassia filosofica dell’Ottocento italiano, conducono – in maniera per nulla peregrina – all’attualismo. In tale disegno, la forte ostilità filosofica di Gentile nei confronti dell’“hegelismo ortodosso” di Vera va inquadrata in quella prossimità che egli rivendica – certo a posteriori, si potrebbe dire, come ogni storia della filosofia – nei confronti di quell’«altro interprete della stessa filosofia, che insegnava allora nella Università di Napoli accanto al Vera, e che molti pel rigore e la profondità del pensiero come pel libero atteggiamento verso l’autore del sistema propendevano a mettere al di sopra di Vera»7. All’interno della ricostruzione storico-filosofica di Gentile, il riconoscimento del pensiero spaventiano come l’autentico prodromo dell’attualismo, fa sì che l’hegelismo assoluto8 di Vera passi inevitabilmente in secondo piano, come una posizione filosofica da contrastare e della quale ridimensionare la portata. Del resto, la stessa nozione di “ortodossia” porta con sé una valutazione evidentemente peggiorativa, relativa all’inadeguatezza e alla rigidità quasi dogmatica con cui – agli occhi del suo detrattore – Vera assume e interpreta il pensiero 7.  Ivi, p. 574. 8.  Nell’indicare la posizione filosofica di Vera, utilizzerò l’espressione hegelismo assoluto per distinguerlo tanto dall’hegelismo ortodosso con cui verrà definito dai propri critici quanto dall’idealismo assoluto con cui lo stesso Vera indicava la filosofia hegeliana. Per il significato di una simile scelta, rimando a quanto segue.

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dell’«autore del sistema»; rigidità dalla quale, al contrario, è immune l’altro grande interprete italiano di Hegel che di quel sistema seppe persino concepire e avviare la riforma9. Non va tuttavia taciuto che, alla costruzione di quell’immagine quasi caricaturale e un po’ polverosa di un Vera «hegeliano ortodosso» in grado di restituire la parola del “maestro” con la stessa fedeltà con cui quella parola era uscita dalla bocca di Hegel, contribuirono anche i toni inutilmente apologetici con cui tanto Stanislao Gatti (1820-1870) quanto – e in maniera ben più reboante – Raffaele Mariano (1840-1912)10 ne presentarono la figura e il pensiero al pubblico italiano, svilendo peraltro proprio la vividezza di alcune sue intuizioni11. Quando infatti nel 1864 Gatti traduce dall’inglese e pubblica le Ricerche sulla 9.  Dico avviare, poiché sarà Gentile che porterà a compimento il lavoro iniziato da Spaventa. Sul tema: G. Gentile, La riforma della dialettica hegeliana, Principato, Messina 19232, in part. la Parte I, che si chiude con un frammento inedito di Spaventa. Sui motivi più generali dell’attualismo all’interno del pensiero italiano, si veda: A. Del Noce, Giovanni Gentile. Per una interpretazione filosofica della storia contemporanea, il Mulino, Bologna 1990; D. Spanio, Idealismo e metafisica: coscienza, realtà e divenire nell’attualismo gentiliano, Il Poligrafo, Padova 2003; M. Mustè, La filosofia dell’idealismo italiano, Carocci, Roma 2008. 10.  Così infatti, circa un ventennio dopo la morte di Vera, Mariano riassumeva i meriti del suo maestro come interprete e divulgatore del pensiero hegeliano: «passando attraverso la mente di lui, l’Hegel esce rifatto, rinnovato, compiuto; non è più l’Hegel, che, nel primo intuire e manifestare i suoi nuovi e profondi concetti rimane incompreso e riesce in molta parte incomprensibile; ma è l’Hegel che, a dir così, s’è spigato sopra di sé, è ritornato sui concetti suoi, e, pel ripetuto lavorio riflessivo e cogitativo, vi ha acquistato consapevolezza perspicua e piena» (R. Mariano, Augusto Vera, cit., p. 290). Parole che suscitarono la pungente ironia di Gentile. 11.  Va qui ricordato come su tutt’altro livello critico si collochi il ritratto filosofico di Vera fatto dall’allievo e biografo di Hegel, Karl Rosenkranz (18051879), il quale nel 1868 pubblicava un lungo saggio dedicato alla lettura veriana della filosofia della natura di Hegel: K. Rosenkranz, Hegels Naturphilosophie und die Bearbeitung derselben durch den italienischen Philosophen Augusto Vera, Nicolai, Berlin 1868.

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scienza speculativa e sperimentale di Vera, fa precedere il testo da una presentazione della figura e dell’opera dell’autore, presentazione forse fin troppo aulica anche per lo stile già di per sé profondamente retorico dell’epoca: Il Vera con perseveranti sforzi e con una ricchezza non comune di sapere si è studiato di diffondere così fatta filosofia, e non solo di divulgarla e renderla accessibile al maggior numero in Francia, ma d’inocularla colle sue genuine fattezze in Italia, e d’iniziarvi eziandio l’Inghilterra, a cui, come fin dal principio abbiamo notato, fu specialmente diretto il libro di cui diamo la traduzione. Con una conoscenza profonda del sistema che ha accettato, con una persuasione intima che fuori di quello non sia salvezza per la filosofia, il Vera è lontano da quella pedanteria che fa consistere la profondità o la sostanza di un sistema in certe astruserie di formole le quali spesso perdono fino il significato passando di una lingua in un’altra. Né meno è lontano da quella affettazione d’indipendenza per la quale i discepoli più pedissequi si credono talora ambiziosamente obbligati a cercare un punto in cui si possano mostrare in disaccordo col maestro. Il Vera francamente e compiutamente hegeliano ha in vece tutta quell’aria di originalità che viene dall’intera padronanza di una dottrina divenuta propria, e per cui esporre e sostenere non si ha bisogno di cercare altrove che nel proprio fondo e l’espressione e la forma, senza pedanteria, senza servilità, senza affettazione, con quella libertà che viene dall’esser padrone di un sistema, dall’averlo fatto proprio e dal muoversici dentro come in cosa non tolta in prestanza da altri.12

Gatti conclude il suo ritratto ammettendo di non conoscere «né più interno interprete, né più ardente propagatore, né più libero e insieme più fedel seguace [della filosofia di Hegel] che il Vera». A parziale discolpa di un giudizio così enfatico, 12.  S. Gatti, Prefazione, in A. Vera, Ricerche sulla scienza speculativa e sperimentale a proposito delle dottrine del Calderwood e del prof. Ferrier e del sistema di Hegel, tr. it. di S. Gatti, De Angelis, Napoli 1864, pp. X-XI.

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non va dimenticato (come peraltro ricorda lo stesso Gatti) che, nel 1864, Vera fosse pressoché sconosciuto al pubblico italiano, nonostante insegnasse già da qualche anno all’Università di Napoli13. Se tuttavia si mette da parte una certa pedanteria pubblicistica del brano, è possibile scorgere un elemento che ben rende il senso dell’operazione filosofica di Vera e del suo presunto (o meno) ortodossismo: ossia, il fatto che Vera avesse “accettato” – per utilizzare proprio l’espressione di Gatti – un sistema di cui ebbe profonda conoscenza. Ora, la forma di questa “accettazione” non ha semplicemente a che fare con un dato della biografia veriana e della sua “conversione” alla filosofia di Hegel, ma rivela più in profondità il senso con cui egli concepì l’hegelismo. Nello specifico, rivela il senso con cui intese l’accesso al pensiero di Hegel, come qualcosa di cui si dovesse assumere – nel significato più stretto – il nucleo costitutivo. Per Vera l’hegelismo richiede, anzitutto, il “riconoscimento” di un’accettazione. E tale riconoscimento vale come la presa di consapevolezza dell’assolutezza del proprio oggetto: ovvero, il sistema. Qui il carattere sistematico della filosofia hegeliana viene assunto nella maniera più radicale, non solo come metodo sistematico, ma come spazio di comprensione – il solo possibile – di qualsivoglia contenuto o oggetto. Non è affatto un caso che la grande difficoltà dell’hegelismo assoluto di Vera sarà proprio questa: come si “accetta” il sistema, come si “entra” nell’assoluto; o più precisamente: come si “comincia” con l’assoluto, se l’assoluto è già prima di ogni cominciamento e fuori dall’assoluto non è possibile scienza alcuna. Del resto, non è affatto casuale che l’interesse primario di Vera per l’o13.  Del resto, poco potrà l’intervento di Gatti se, come scriverà Gentile «questo franco e compiuto hegeliano, questo geniale e originale espositore di Hegel in un paese così ben preparato a ricevere un insegnamento di filosofia hegeliana, come forse nessun altro in Europa, insegnò a Napoli per circa un quarto di secolo senza quasi lasciarvi traccia della sua opera» (G. Gentile, Augusto Vera e l’ortodossismo hegeliano, cit., p. 574).

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pera hegeliana sarà rivolto all’Enciclopedia (di cui tradusse in francese e commentò la Logica, la Filosofia della Natura e la Filosofia dello Spirito), ossia l’opera e il “luogo” in cui la filosofia hegeliana si presenta nella sua forma sistematicamente più compiuta. Se di ortodossia si vuol parlare, qui il gesto “ortodosso” di Vera sta forse proprio nel non ripiegare criticamente l’istanza hegeliana dell’assunzione dell’assoluto sullo stesso Hegel, considerandolo cioè come un problema peculiare dello stesso pensiero hegeliano (come faranno, in forme diverse, sia Spaventa che Gentile). Al contrario, Vera mantiene il problema all’altezza dell’interprete, all’altezza di colui che s’approssima verso un’esposizione del sistema già data, che s’approssima al luogo della sophia, quel luogo in cui la filosofia è divenuta Wissen scientifico e sistematico. Questo, per Vera, il volto autentico dell’hegelismo. Non si chiederà mai, per dirla con il celebre titolo che apre la Dottrina dell’essere – di fatto una dichiarazione programmatica del gesto filosofico hegeliano –: womit muss der Anfang der Wissenschaft gemacht werden; non si chiederà mai con che cosa si debba cominciare la scienza, poiché nella sua comprensione dell’hegelismo, questo è proprio l’assunto, il “postulato”: la scienza comincia con l’assoluto, pena la stessa possibilità di cominciare alcunché. A rigore, infatti, nella lettura hegeliana di Vera, la scienza, ossia il sapere speculativo comincia solo con l’assoluto inteso come sistema, ché «nella mente di Hegel pensiero filosofico e pensiero sistematico sono la stessa cosa»14. Qui certo quella che per Vera rappresenta la grande “scoperta” del pensiero hegeliano porta con sé anche l’enorme difficoltà del proprio hegelismo assoluto: ché una volta postulata tale convergenza, Vera dovrà “poi” (e quanto pesante suoni questo “poi” sarà evidente dalla lettura della pagina veriana) dimostrarne il proprio darsi; ovvero, il darsi dell’Assoluto stesso (ciò che Vera dirà – con un’espressione di dubbia provenienza 14.  A. Vera, Problema dell’Assoluto, Parte IV, infra, p. 100.

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hegeliana – «l’esistenza dell’Assoluto»). Ed è su questo punto che si gioca una mossa determinante dell’accesso veriano al sistema: ché Vera – a differenza di Hegel – non darà mai ragione dell’impossibilità di una siffatta dimostrazione, “semplicemente” la rifiuterà. Un tratto questo che, fin dai primi scritti su Hegel, connoterà il suo hegelismo assoluto. Ne è già prova lo scritto pubblicato a Londra nel 1856, An inquiry into speculative and experimental Science (poi tradotto in Italia nel 1864), il primo saggio in cui Vera si sofferma in maniera dettagliata su alcuni elementi della filosofia di Hegel15. Così infatti scrive: La filosofia, secondo l’Hegel, nel più alto senso della parola, è la scienza dell’assoluto. Che questa scienza esista è cosa provata dall’esperienza, da’ lavori de’ più grandi uomini, dalle più profonde aspirazioni della nostra mente, anzi dalla sua stessa essenza, imperocché intendere e intender l’assoluto sono in somma una sola e medesima cosa, in guisa che la conoscenza dell’assoluto dee essere per conseguenza involta nella natura stessa del nostro intelletto. Questo è il postulato universale di ogni ricerca filosofica, un postulato cui non si può dimostrare ma che non abbisogna di alcuna dimostrazione, imperocché il dimostrarlo non sarebbe men superfluo che il voler dimostrare l’esistenza stessa del nostro intendimento.16

Non può certo passare inosservato l’uso, nient’affatto innocente, del termine «postulato», poiché offre con chiarezza il senso di quell’accettazione che costituisce l’accesso al sistema, la quale,

15.  Sebbene venne pubblicato nel 1856, il saggio veriano è precedente all’Introduction (1959, I ed.), come tiene a precisare lo stesso autore: «Questo lavoro fu scritto prima della mia “Introduzione alla Filosofia dell’Hegel” dove son trattati con più pienezza e più sistematicamente molti punti su cui qui si discorre più leggermente e per via quasi frammentaria. Tali sono, per esempio, quelli che si riferiscono al metodo, alla teorica delle idee e del pensiero, alla scienza e al senso comune. Londra / Dicembre 1855» (A. Vera, Ricerche sulla scienza speculativa e sperimentale, cit., p. 7). 16.  Ivi, p. 53.

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nella fattispecie di questo passaggio, si presenta come la perfetta coincidenza (lo sottolineo: solo postulata da Vera, ossia accolta senza dimostrazione, se essa è il fondamento di ogni dimostrazione) tra conoscenza e conoscenza dell’assoluto, in quanto sono «una sola e medesima cosa». In tal senso, si comprende meglio anche il richiamo allo scetticismo: ché, per Vera, ogni conoscenza o è tale (e quindi è conoscenza dell’assoluto) oppure non è. Come scriverà proprio nel Problema dell’Assoluto: La tesi generale di cui si tratta è il problema dell’assoluto. Noi diciamo: o l’assoluto o nulla. Guardando, cioè, il problema dal lato della esistenza, noi diciamo: se l’assoluto non esiste, il fenomeno, l’esperienza, il mondo, in una parola, nulla può esistere. Guardandolo dal lato della cognizione noi parimenti diciamo: se non vi ha una cognizione assoluta, non vi potrà neppure avere una cognizione sperimentale o altra qualsiasi. Il che è come dire che l’assoluto è il principio e l’unità assoluta dell’essere e del conoscere.17

Una volta postulata l’indimostrabilità di quell’identità – il che significa, postulata l’esistenza dell’assoluto ché «la scienza dell’assoluto non si può conseguire se non per mezzo di un metodo adeguato al suo oggetto, cioè l’assoluto stesso»18 – Vera deve indicare in quale modo si articoli una simile conoscenza. A tal proposito, il saggio del 1856 offre una risposta precisa – che resterà di fatto immutata in tutta la riflessione successiva – indicando il plesso intorno al quale, a suo giudizio, si sarebbe articolata la conoscenza dell’assoluto, ovvero l’idea, in quanto – egli scrive sempre in quelle pagine – la «scienza dell’assoluto è scienza delle idee»19. E continua: «Nella scienza dell’assoluto il metodo e l’oggetto sono inseparabili, né il metodo è altra cosa che la forma sotto cui le cose son conosciute ed esistono. Questo metodo 17.  Infra, p. 58. 18.  A. Vera, Ricerche sulla scienza speculativa e sperimentale, cit., p. 54. 19.  Ivi, p. 53.

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è ciò che l’Hegel chiama ora speculazione (Das Speculative) e ora dialettica speculativa o semplicemente dialettica»20. Per Vera, dunque, la conoscenza dell’assoluto, ossia lo speculativo, è propriamente conoscenza dell’idea. Il problema dell’hegelismo veriano diventa pertanto quello di indicare concretamente lo “statuto” di questa idea, mantenendo per un verso il suo significato di oggetto (ovvero, facendo di quell’idea il contenuto stesso del conoscere) e, ad un tempo, mantenendola come la condizione di possibilità di quella stessa conoscenza (ovvero, il metodo proprio di quel conoscere).

III Che Vera avesse ben presente il problema, emerge chiaramente già da un saggio del 1848, Philosophie de la religion de Hegel, rimasto inedito e pubblicato solo nel 1862 all’interno dei Mélanges philosophiques. In quel testo Vera si sofferma ampiamente sul problema dell’idea, la cui conoscenza – ci dice – è l’oggetto stesso della filosofia hegeliana. Dove però, si affretta a precisare, questa idea non è l’idea quale la concepisce l’idealismo ordinario, ma è l’idea nella sua forma più autentica, ossia l’«idea concreta». La “concretezza” di questa idea – al di là della scelta lessicale veriana non esente da ambiguità –, è ciò che per il nostro indica la dialettica. L’idea “dialettica” è concreta in quanto non costituisce una mera determinazione astratta di pensiero, una rappresentazione della cosa, bensì indica la compiutezza del movimento stesso del pensiero. Vera continua infatti dicendo che «l’idea concreta è una triade», la quale è «dapprima se stessa, poi il suo contrario, e infine la loro unità»21. 20.  Ivi, p. 55. 21.  A. Vera, Philosophie de la religion de Hegel, in Mélanges philosophiques, Ladrange-Detken, De Angelis, Madia, Paris-Naples 1862, p. 216; tr. it. in G. Oldrini (a cura di), Il primo hegelismo italiano, Vallecchi, Firenze 1969, p. 266.

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E in questo continuo superamento delle determinazioni precedenti, in questo gioco di contraddizioni che l’idea riconduce e mantiene nella propria unità «stanno […] la vita e il movimento eterni del pensiero e pertanto la vita e il movimento eterni della realtà»22. E conclude: «Le idee costituiscono la materia, l’essenza delle cose, il metodo e la forma della loro esistenza e dei loro rapporti. Al di là e come al fondo di ogni idea c’è l’idea in e per sé, o l’idea assoluta»»23. L’idea più concreta è pertanto proprio l’idea assoluta, diremmo noi – l’idea dell’idea. Ora, se il tratto più concreto di ogni idea è costituito proprio dall’idea assoluta, è parimenti vero che non tutte le idee sono l’idea assoluta. Detto altrimenti: se tutto si pone originariamente come pensiero (assoluto) dell’assoluto, perché (e come) mantenere la distinzione tra le idee, ossia la distinzione tra la molteplicità conosciuta “per mezzo” dell’assoluto e l’assoluto stesso? E per converso: che ne è del molteplice, del “fenomenale” se tutto è assoluto o mero “scetticismo” senza conoscenza? Un passaggio delle Lezioni sulla filosofia della storia tenute da Vera tra il 1862 e il 1865 (quindi, circa un decennio prima dei corsi confluiti nel Problema dell’Assoluto), ci consente di porre la questione nella maniera più esplicita: La storia è nell’assoluto o l’assoluto è nella storia, perché nulla può essere al di fuori dell’assoluto. E la storia non è nell’assoluto, perché la storia nell’assoluto non è più in quanto storia, ma in quanto idea della storia, idea ordinata, sistematizzata con le altre idee, contenuta, in una parola, nell’idea una e assoluta; ovveramente l’assoluto non è nella storia, perché non è la storia la sfera dell’assoluto, come idea assoluta e nella unità 22.  Ibidem. 23.  Ibidem. Sul tema, si veda anche: A. Vera, L’idea in sé stessa e fuori di sé stessa, in «Rivista napoletana, di politica, letteratura, scienze, arti e commercio», dir. e pubbl. da A. Ciccone, G. Del Re, S. Gatti, I, 197-199, novembre 1862-ottobre 1863, pp. 216-219; poi ripubblicato in A. Vera, Saggi filosofici, Morano, Napoli 1883, pp. 183-206.

22 della sua natura; ma vi è, secondo l’espressione di Hegel, al di fuori di se stesso – aus sich selbst.24

Sta qui forse la chiave di volta dell’hegelismo assoluto di Vera (e a un tempo anche la propria – costitutiva – debolezza): in quella “circolarità” che egli scorge e istituisce tra l’assoluto e l’idea dell’assoluto. Se l’idea dell’assoluto dovrà precedere quella dell’assoluto, la stessa concepibilità dell’assoluto dovrà essere preceduta dall’assoluto stesso. Così la scoperta, a rigore, non semplicemente dell’assoluto ma dell’idea dell’assoluto, ossia: dell’assoluto concepito, pensato perché già pensabile) assume, invero, il peso di una premessa imprescindibile – certo, mai davvero al sicuro dal rischio della propria ipostatizzazione come idea che gli verrà recriminata dai suoi critici25 –, ma anche come accertamento di quella stessa difficoltà insita nel medesimo rapporto tra scoperta e premessa, tra risultato e presupposto26. Un passaggio dalla Préface alla seconda edizione del ’64 dell’Introduction à la philosophie de Hégel ci offre un quadro dettagliato circa l’accezione conferita da Vera all’idea all’interno dello sfondo sistematico della filosofia hegeliana:

24.  A. Vera, Lezioni sulla filosofia della storia, p. 331. Sulla filosofia della storia in Vera, si veda: C. Cesa, Augusto Vera e la filosofia della storia, Guida, Napoli 1991. 25.  Problema che attraverserà l’intero hegelismo assoluto di Vera e sul quale Gentile si scaglierà con durezza accusandolo di essere «un hegelismo abbastanza platonico», nel quale «la fede nelle idee era ristaurata con nuova e peggior forma di dommatismo» (G. Gentile, Augusto Vera e l’ortodossismo hegeliano, cit., p. 599). Successivamente Oldrini, in contesto per certi versi differente da quello gentiliano, parla di «un’indiscriminata instaurazione del feticismo nelle categorie» che – a suo dire – caratterizzerebbe l’intera riflessione veriana (G. Oldrini, L’idealismo italiano tra Napoli e l’Europa, ESI, Napoli 1998, p. 85). 26.  Difficoltà, peraltro, tanto di Vera quanto dello stesso Hegel, come mostreranno i saggi contenuti in questo volume.

23 Così tutto è vecchio e tutto è giovane in Hegel, in ciò che il passato vi si trova riprodotto, ma ringiovanito e animato da un soffio di nuova vita, dal soffio di questa idea una e assoluta che genera, penetra e lega tutte le parti dell’universo; ciò fa sì che la sua dottrina sia anche eminentemente storica e che in essa la storia e la scienza e, di conseguenza, la storia della filosofia e la filosofia siano intimamente unite, ossia, in altri termini, ch’essa sia l’unità di tutte le filosofie. Ora questo rinnovamento dell’idea nell’hegelismo, rinnovamento che esprime e contiene la forma e l’essere assoluto dell’idea, consiste principalmente in ciò: ossia che Hegel ha pensato l’idea concreta e speculativa. Descartes, Spinoza, Malebranche e, soprattutto Platone, Aristotele e gli alessandrini avevano anch’essi pensato l’idea, e insegnato che l’idea e l’idea dialettica è l’essenza delle cose, ma essi avevano posto il principio senza realizzarlo o, che è lo stesso, essi avevano pensato l’idea in quanto idea concreta, una e sistematica. Il sistema, ecco il tratto caratteristico e imperituro, il trionfo della filosofia hegeliana. Pensare l’idea come sistema, o, che è lo stesso, il sistema come idea o nella sua idea, ecco l’opera gigantesca di questo uomo meraviglioso, di questo Cristo del pensiero, come l’hanno chiamato con un termine assai corretto e profondo Förster e Mareinecke, che ha nome Hegel.27

Vera cercherà di mostrare come questo “rinnovamento” dell’idea apportato da Hegel rappresenti, in fondo, il tentativo più rigoroso di pensare la storia e il “fenomenale” proprio all’interno di quello spazio o di quella circolarità che s’istituisce tra assoluto e idea dell’assoluto. L’idea è concreta – per Vera – in quanto è capace di “tenere insieme” il molteplice e la sua accidentalità, ossia la sua potenza disgregante e dissolvente. L’oscillazione terminologica alla quale Vera fa ricorso è particolarmente significativa poiché, per il nostro, la circolarità del pensare non si esaurisce nell’indicazione del fatto che l’idea sia

27.  A. Vera, Introduction à la philosophie de Hégel, cit., p. X (tr. mia).

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pensata come sistema tanto quanto il sistema sia pensato come idea, bensì esso viene pensato «nella sua idea». Di contro a ogni surrettizia riproposizione di un “dommatismo” dell’ideale, Vera non si limita a considerare l’idea come forma del sistema, ma la assume come la sua materia concreta, poiché l’idea in cui il sistema si pensa è la sua idea (ossia: è tanto l’idea “sistematica” del sistema, quanto l’idea che il sistema stesso ha prodotto, ossia la propria configurazione concreta). In un simile tentativo speculativo che Vera intraprende, certo non sempre in maniera adeguatamente rigorosa e con la medesima coerenza, emerge la profonda consapevolezza da parte dell’interprete di quella grande esigenza filosofica di cui proprio il pensiero hegeliano si fece portatore. Se si osserva in controluce l’intera operazione veriana con i suoi cambi di rotta, le sue intuizioni e le sue inevitabili semplificazioni, si vede come in quel tentativo di radicalizzare la centralità del ruolo dell’idea sia forte – se non il sentore della problematicità – certo la consapevolezza di quanto essenziale sia quel plesso di pensiero all’interno del dispositivo dialettico hegeliano (plesso, peraltro, la cui problematicità sarà oggetto di buona parte delle critiche novecentesche rivolte a Hegel). Perciò, per Vera, porre l’accento in direzione dell’«idea concreta, una e sistematica» significa liberare l’hegelismo da quel residuo di scissione, da quel residuo oppositivo rappresentato – ancora – proprio dalla “differenza” tra assoluto e idea dell’assoluto. Esibire la concretezza dell’idea significa, per Vera, assicurarsi la realtà dell’assoluto nel senso della propria effettualità, il fatto cioè che l’assoluto viva costitutivamente come idea dell’assoluto, cioè come propria determinazione, concreta e reale. Un’esigenza questa – e al tempo stesso un convincimento – già perfettamente esplicitata nel saggio del 1856 e dalla quale Vera non si distanzierà mai. Infatti, per la medesima ragione con cui il «metodo [ossia: la dialettica speculativa] e l’oggetto sono intimamente connessi insieme, la speculazione e le idee sono inseparabili. Non ci ha vera speculazione senza idee, e non ci ha idea che possa venir pienamente

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e chiaramente compresa senza speculazione»28. Di fronte alla dura affermazione hegeliana che l’«idea paga il tributo della esistenza e della caducità non di sua tasca»29, l’hegelismo assoluto di Vera intende togliere qualsiasi debito dell’idea nei confronti di un’alterità che essa stessa – proprio alla luce della centralità veriana conferita al sistema – aveva prodotta30. Ed è proprio quest’urgenza “finale” che spingerà Vera a misurarsi con quel luogo della filosofia hegeliana in cui viene definito il significato di quell’alterità (che Vera chiama il “fenomenico”) e, a un tempo, ne viene intrapreso il suo superamento; quel «famoso libro» – scrive Vera – «che tra gli scritti di Hegel è ora il meno studiato e conosciuto, ma che quando venne fuori fu salutato come l’apparizione di un nuovo astro luminoso nel campo del pensiero filosofico»31; quel luogo – non a caso – fino ad allora completamente ignorato dalla lettura hegeliana di Vera che porta il nome di Fenomenologia dello Spirito.

IV Instancabile divulgatore dell’hegelismo in un’Europa ormai stregata dalle seduzioni del positivismo, Vera pubblica la prima edizione dell’Introduction à la philosophie de Hegel nel 1855 a Londra. A meno di trent’anni dalla morte di Hegel, i «semi di drago» del pensiero hegeliano erano stati largamente estirpati dal dibattito filosofico europeo e la filosofia del pensatore di Jena era confinata alla circolazione entro la cerchia

28.  A. Vera, Ricerche sulla scienza speculativa e sperimentale, cit., p. 55. 29. Cfr. G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, tr. it. di G. Calogero e C. Fatta, La Nuova Italia, Firenze 1947, vol. I, pp. 87, 88, 95-98. 30.  Se poi questa pretesa sia espressione di una lettura “ortodossa” di Hegel o piuttosto del suo più radicale fraintendimento, è questione sulla quale rimando ai Saggi critici contenuti in questo volume. 31.  Infra, pp. 94-95.

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di pochi reduci, principalmente nella sfera di influenza germanofona, fuori dalla quale circolava in maniera ridotta, per lo più affidato a sintesi approssimative e trasposizioni imprecise e piuttosto sommarie. Se ci si colloca in questo scenario, i toni entusiastici e trionfalistici con cui la filosofia hegeliana viene celebrata da Vera fin dai suoi primi scritti, danno l’impressione di trovarsi di fronte a una rara forma di colossale anacronismo. Lo stesso raggio d’influenza del dibattito filosofico in cui s’inscrive fin dall’inizio Vera, è un dibattito circoscritto a piccole cerchie di hegeliani, peraltro disseminati in maniera disomogenea in luoghi apparentemente improbabili. L’esempio più eloquente, forse, di questo dislocamento periferico e minoritario dell’hegelismo nel quadro filosofico europeo di metà Ottocento è rappresentato da quell’enclave di hegeliani pertinaci che si esprimevano attraverso la rivista «The Journal of Speculative Philosophy» – la prima rivista anglofona di filosofia – fondata nel 1867 da William Torrey Harris (1853-1909) a Saint-Louis in Missouri; rivista sulla quale Vera trovò più volte spazio per pubblicare alcuni suoi interventi. Non deve però stupire questa forma di inattualità – filosofica e biografica – del nostro. Tutta la vita e l’opera di Vera si muovono all’interno di una continua “estraneità” rispetto al contesto in cui via via si trovò ad operare: nonostante avesse i suoi natali in Italia, svolse la sua formazione filosofica e culturale in Francia. E proprio alla lingua di quel paese – il francese – restò essenzialmente legato, al punto da intraprendere proprio in quell’idioma la pionieristica traduzione dell’opera hegeliana. Vera era nato ad Amelia, in Umbria, il 4 maggio 1813. Il padre Sante, importante avvocato della regione e già procuratore imperiale sotto la dominazione francese, lo introduce fin da piccolo agli studi classici e allo studio delle lingue moderne. Viene iscritto dapprima al seminario di Amelia, per poi continuare la propria formazione presso il collegio di Spello e successivamente presso quello di Todi. Si trasferisce poi a Roma per in-

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traprendere gli studi giuridici che abbandona poco dopo, per dedicarsi allo studio dell’archeologia e della storia alla scuola di Antonio Nibby (1792–1839). Nel 1835 si trasferisce a Parigi, grazie all’aiuto di un suo lontano parente, l’archeologo e commerciante d’arte Melchiade Fossati (1798-1849), noto per i suoi scavi etruschi nella Tuscia e morto nel 1849 in combattimento per la difesa della Repubblica Romana contro l’assedio dell’esercito francese guidato da Napoleone III. A Parigi, Vera frequenta la Sorbonne e viene introdotto nei circoli culturali più in vista dell’epoca, in particolare grazie all’iniziale benevolenza di Pierre-Simon Ballanche (1776-1847), filosofo e scrittore che si era ampiamente interessato al pensiero di Giambattista Vico (1668-1744). Intorno alla fine del 1837, gli viene offerto un posto di professore di latino e letteratura francese nel celebre istituto di Hofwyl a Berna, diretto da Philipp Emanuel von Fellenberg (1771-1844). Si trasferisce pertanto nella capitale svizzera dove rimane per circa un anno, periodo in cui approfondisce lo studio della lingua e della filosofia tedesca. Dimessosi poi dall’incarico bernese a causa di un dissidio nato con Fellenberg, il quale mal tollerava le posizioni piuttosto eterodosse di Vera sul cristianesimo e la divinità di Cristo, si trasferisce a Champel, nei pressi di Ginevra, dove oltre al latino e al francese comincia a insegnare anche la filosofia. Risale probabilmente a questo periodo il primo incontro con l’opera di Hegel, avvenuto grazie all’aiuto di un collega, docente di tedesco, che insegnava nello stesso istituto di Vera. Nel 1839 torna a Parigi e conosce Victor Cousin (1792-1867) il quale cerca di arruolarlo sotto la bandiera dell’eclettismo32 e lo introduce nei più prestigiosi circoli della cultura francese stringendo rapporti con numerosi intellettuali dell’epoca. Tuttavia, si dimostra molto presto insofferente verso i circoli e i conoscenti parigini ché – come scrive il suo allievo Mariano – Vera «aveva attrattive 32.  Cfr. K. Rosenkranz, op. cit., p. 4.

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e facoltà per farsi degli amici benché sfortunatamente, causa l’indole importuna e priva di tatto, non pare possedesse l’altra ancora più difficile di saperseli conservare»33. Sono questi gli anni in cui consegue il titolo di baccalaureato, la laurea, l’esame d’agrégation e, nel 1845, il dottorato presso la Sorbonne discutendo, secondo l’uso dell’epoca, una tesi in francese, Problème de la certitude e una in latino, De Platonis, Aristotelis et Hegelii de medio termine doctrina. La progressiva adesione di Vera all’hegelismo porta a un punto di rottura l’amicizia con Victor Cousin, il quale, – ci riferisce sempre Mariano – presente nella commissione d’esame, «argomentò invece contro le tesi [di Vera] in modo poco degno non per un filosofo, ma per un uomo serio»34. E se si espresse anch’egli con un voto positivo «fu solo perché moralmente costretto alla unanimità degli altri»35. Nel 1848 Vera si trova a Parigi durante la Rivoluzione di febbraio, per spostarsi poi a Limoges, Rouen e a Strasburgo dove trascorre gli ultimi due anni della sua permanenza francese, quando, in seguito al colpo di stato di Napoleone III del 1851, parte alla volta dell’Inghilterra, dove resterà per otto anni. Il soggiorno inglese costituisce il periodo in cui Vera inizia in maniera assidua l’enorme lavoro di traduzione e commento dell’opera di Hegel che vedrà la luce solo diversi anni dopo, una volta rientrato in Italia. Di questo periodo sono da segnalare la pubblicazione nel 1855 dell’Introduction à la philosophie de Hegel e, l’anno successivo, l’uscita dell’articolo An inquiry into speculative and experimental science, with special reference to Mr. Colderwood and Professor Ferrier’s recent publications, an to Hegel’s doctrine in cui tentò una presentazione del pensiero hegeliano all’interno del contesto filosofico inglese. Ritenuto compiuto il suo periodo londinese, alla fine del 1859 decide di rientrare in 33.  R. Mariano, Augusto Vera, cit., p. 242. 34.  Ivi, p. 250. 35.  Ibidem.

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Italia, dove l’allora ministro dell’Istruzione Terenzio Mamiani (1799-1885) gli conferisce l’incarico di professore di Storia della Filosofia presso l’Accademia scientifico letteraria di Milano. Il 1861 è l’anno eroico dell’hegelismo italiano. Il nuovo ministro dell’Istruzione del neonato Regno d’Italia, l’hegeliano Francesco De Sanctis (1817-1883), chiama Vera sulla cattedra di Storia della Filosofia dell’Università di Napoli36 e, qualche mese dopo, arriva anche l’altro esule dell’hegelismo italiano, Bertrando Spaventa. Per quanto diverse e contrastanti fossero le posizioni dei due pensatori rispetto agli eventi risorgimentali e alla nascita del Regno d’Italia, è indubbio che il richiamo alla filosofia hegeliana rappresentasse per entrambi un’istanza anzitutto politica a partire dalla quale elaborare il senso della nuova identità nazionale. E proprio in questo contesto, Napoli diviene il laboratorio principale in cui prende vita quell’esperimento filosofico così ardito, affascinante, unico nel suo genere e non privo di ingenuità e illusorie speranze, quale fu l’hegelismo italiano. Una rinascita di Hegel che conferiva al pensatore anzitutto una nuova patria spirituale (e linguistica), in quell’Italia che vedeva proprio nell’idealismo la coerente e “naturale” prosecuzione tanto del pensiero bruniano quanto di quello vichiano37. Agli occhi dei nuovi idealisti d’Ita­lia, il pensiero dell’assoluto di Bruno e quello della storia di Vico si presentavano come i prodromi della riflessione del filosofo dell’Assoluto. Fu così intrapreso un profondo lavoro di trasposizione, traduzione e divulgazione del pensiero hegeliano, che avrebbe dovuto costituire l’impalcatura filosofica a partire della quale affrontare e dare soluzione a tutti quei problemi 36.  In realtà la nomina di Vera risaliva all’autunno del 1860, ma la presa di servizio si concretizzò solo l’anno successivo. 37.  Non è un caso che tanto Vera quanto Spaventa tornarono ripetutamente sulla figura di Bruno e su quella di Vico. Sul tema, si veda: G. Origo, Bertrando Spaventa interprete di Bruno, Vico ed Hegel, Bibliosofica, Roma 2011.

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politici e culturali che l’unità nazionale aveva marcatamente portato alla luce. Proposito che già nel 1850, Pasquale Villari (1827-1917) annunciava in una celebre lettera a Bertrando Spaventa in cui affermava, a mo’ di manifesto programmatico, che «fare intendere Hegel all’Italia» avrebbe voluto dire «rigenerare l’Italia»38. In questa compagine napoletana, Vera è allo stesso tempo grande protagonista e illustre escluso. Le divergenze filosofiche con Spaventa e con gli altri esponenti dell’hegelismo napoletano lo portano a un graduale isolamento che traspare chiaramente dalla sua produzione filosofica, nella quale raramente si confronterà in maniera esplicita – men che meno ne farà menzione – con altri hegeliani napoletani. Ed è forse proprio in questa scarsa attitudine veriana che si presenta quel tratto eccentrico e senza dubbio di profonda inattualità della sua opera che spingerà Gentile a definirlo – in maniera certo ingenerosa – come un «animale impolitico»39. È indubbio che Vera vive e condivide la vocazione patriottica propria degli altri hegeliani napoletani ma, allo stesso tempo, rimane estraneo ai motivi più profondi di quella corrente, sia politici – assumendo di fatto posizioni senz’altro più conservatrici rispetto a quelle dello stesso Spaventa40 – che filosofici, rifiutando qualsiasi esigenza “critica” o riformatrice nei confronti del pensiero hegeliano. Non cessa però di prodigarsi con dedizione all’insegnamento presso l’Università di Napoli e lavora per 38.  S. Spaventa, Dal 1848 al 1861. Lettere Scritti Documenti, a cura di B. Croce, Laterza, Bari 1923, p. 78. 39.  Peraltro, non va dimenticato che il 18 febbraio del 1880, Vera fu nominato senatore del Regno d’Italia. 40.  Emblematico, in tal senso, è il saggio in favore della pena di morte: A. Vera, La pena di morte, Pisa 1863, ripubblicato in A. Vera, Saggi filosofici, cit., pp. 37-78. Una delle risposte più significative al saggio veriano, sarà di quella di P. Ellero, Ragioni contro l’apologia della pena capitale di Augusto Vera (1863), introduzione e cura di M. Moschini, in «Il Pensare», IV, n. 4, 2015, pp. 99-146

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una più ampia conoscenza del pensiero hegeliano nel contesto italiano, ma, allo stesso tempo, continua a scrivere e a pensare – di fatto – in francese41. Quando nel 1864 esce la seconda edizione della Introduction à la philosophie de Hégel, Vera fa precedere l’opera da una lunga prefazione nella quale, invocando l’esigenza di una imminente «croisade hégélienne»42, mostra chiaramente quali fossero i suoi interlocutori e quale lo sfondo in cui collocare il proprio discorso filosofico: liquida aspramente il concetto schopenhaueriano di volontà43, analizza criticamente il problema delle prime categorie della logica hegeliana nelle Logische Untersuchungen di Trendelenburg44, per poi rivolgersi contro il materialismo di Moleschott. E poi fa seguire una serie di nomi di coloro che definisce come i fedeli discepoli del pensiero hegeliano («nous, ses fidèles disciples»), in cui annovera «Rosenkrantz, et Michelet, et Strauss, et Lassalle, et Schulze, et Zeller, et Baur, et Monrad et bien d’autres, en Allemagne, en Italie, et même au déjà des mers, comme en France aussi, j’espère». L’inciso finale è significativo: affida a un generico “e molti altri” la presenza hegeliana in Italia (senza menzionare nessuno nello specifico) e lancia la stoccata finale

41.  Molti dei testi usciti nell’ultimo periodo della sua produzione in italiano sono traduzioni o rifacimenti di saggi precedentemente pubblicati in francese. Insieme a pochi altri testi, fanno eccezione – ed è un elemento quantomeno significativo – i quattro volumi del Problema dell’Assoluto. 42.  A. Vera, Introduction à la philosophie de Hégel, cit., p. LXXIX. 43.  «Dico che Schopenhauer non è che un dilettante in filosofia e un dilettante della peggiore specie; sarei anche tentato di dire, con il permesso del lettore, ch’egli non sia altro che un brogliaccio filosofico […]. E qual è questa dottrina che Schopenhauer, con il suo solito spirito, chiama pomposamente la sua grande scoperta, una Tebe dalle cento porte, il tallone della filosofia di Kant? Eccola qui: l’assoluto è la volontà e la ragione, la comprensione, l’idea sono degli dèi inferiori di fronte a questo dio supremo» (A. Vera, Introduction à la philosophie de Hégel, cit., pp. XLVII-LIV; tr. mia). 44.  Sul tema: infra, Appendice III, pp. 159-169.

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contro la Francia, dove si augura ce ne siano ancora. La risposta è chiaramente negativa: l’ultimo hegeliano di Francia è lui. E proprio a quella lingua, si diceva, nonostante la dura avversione per l’eclettismo e gli orientamenti della filosofia francese del suo tempo, tributa il grande onore di renderla la nuova lingua parlata non semplicemente dall’hegelismo, ma dallo stesso Hegel. Tra il 1859 e il 1878, Vera dà alle stampe le traduzioni delle maggiori opere hegeliane. Nel 1859 escono i due tomi della Logique de Hégel, rispettivamente nel 1863, 1864, 1869, i tre tomi della Philosophie de la nature de Hegel. Nel 1867 il primo tomo della Philosophie de l’esprit de Hégel e 1876 il primo tomo della Philosophie de la religion de Hégel seguito dal secondo nel 1878. Un lavoro imponente, pionieristico, contraddistinto anche da grandi limiti45, sia nelle soluzioni lessicali impiegate che dal punto di vista dei criteri filologici con cui Vera stabilisce i testi hegeliani su cui condurre le traduzioni. 45.  Nella prefazione alla sua traduzione dell’Enciclopedia, Benedetto Croce si soffermerà ampiamente sulle traduzioni veriane, evidenziandone criticamente molteplici inesattezze. Cfr. B. Croce, Prefazione del traduttore (1906), in G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, tr. it. pref. e note di B. Croce, Laterza, Roma-Bari 2002, pp. LXVI-LXXII. Lo stesso Gentile, che segue le critiche di Croce al testo veriano, non manca di riconoscere l’importanza di una simile impresa di traduzione. «Ma non è per altro da credere che una più schietta traduzione e una interpretazione più rigorosa del pensiero hegeliano sarebbe bastato in quel ventennio tra il 1860 e l’80 in cui cadde l’opera del Vera, a dare una direzione diversa allo spirito filosofico, preso com’era dalla brama dei fatti e dal disgusto d’ogni speculazione. E d’altra parte, c’è in ogni grande filosofo e in ogni grande scrittore una folla di verità particolari, frammenti e schegge luminose di pensiero, di cui giova pure arricchire ed accade sempre provvidenzialmente che venga arricchito il patrimonio generale della cultura, e impinguato quello che si può dire il terreno spirituale, da cui germogliano, maturate che siano le stagioni opportune, i nuovi pensieri, e da cui pur continuamente traggono il loro succo vitale tutte le forme dell’attività umana. Chi potrebbe dire, da questo aspetto, quanto sia il benefizio arrecato alla cultura dalle fatiche del Vera?» (G. Gentile, Augusto Vera e l’ortodossismo hegeliano, cit. p. 613).

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Nonostante ciò, le traduzioni veriane restano un’operazione mai intrapresa prima di lui che rappresenterà un riferimento imprescindibile per un’intera generazione di hegeliani, i quali troveranno nelle trasposizioni veriane l’unico accesso possibile alla filosofia di Hegel46. Augusto Vera muore a Napoli il 13 luglio 1885. *** L’idea di realizzare un volume dedicato a Vera nacque in seguito alla giornata di studi Il pensiero di Augusto Vera a duecento anni dalla nascita (Amelia, 7 dicembre 2013). Durante la lunga gestazione del volume, insieme agli atti di quel convegno (ai quali si sono aggiunti, negli anni, altri preziosi contributi), ho voluto riproporre il testo integrale dell’opera di Vera da cui quella giornata di studi aveva preso spunto, insieme a una serie di testi veriani direttamente collegati alle tematiche presenti in quell’opera. Esprimo la mia gratitudine a Inschibboleth Edizioni che ha generosamente reso possibile questa pubblicazione, malgrado un così cospicuo aumento di pagine. Qualche nota sulla struttura del volume. Il testo qui pubblicato ripropone in maniera integrale l’opera di Vera: Problema dell’Assoluto, Parte IV, in «Atti dell’Accademia di scienze morali e politiche di Napoli», XVII, 1883, VIII-131. Segue un’appendice di scritti veriani che ho ritenuto particolarmente

46.  La formula, pressoché ricorrente, che accompagna le traduzioni veriane – Traduite pour la première fois et accompagnée d’une introduction et d’un commentaire perpétuel par A. Véra – esprime chiaramente il suo intento che è, a un tempo, quello di traduttore, interprete e “volgarizzatore” del pensiero hegeliano; Vera non si limita, infatti, a tradurre le opere, ma le correda di ampissime introduzioni e altrettanto nutriti apparati di note, che diventano una parafrasi – talvolta persino ridondante – del testo hegeliano.

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significativi per la comprensione delle lezioni sulla Fenomenologia dello Spirito e che offrono una panoramica generale sull’opera di Vera come interprete hegeliano. La collocazione della Fenomenologia nel sistema, la prima appendice, costituisce una lunga nota di Vera dedicata alla Fenomenologia (A. Vera, Problema dell’Assoluto, Parte I, Atti dell’Accademia di scienze morali e politiche di Napoli, VIII, 1872, pp. 65-70); la seconda appendice, Alcune considerazioni sulle Logische Untersuchungen di A. Trendelenburg, propone la traduzione italiana a mia cura di alcune pagine dell’Introduction à la philosophie de Hégel (1864) dedicate alle prime categorie della Logica hegeliana nella lettura di Trendelenbug (Introduction à la philosophie de Hégel, Librairie philosophique de Ladrange, Paris 1864, pp. LIX-LXXIV); la terza appendice, La Filosofia dell’Hegel, presenta, invece, uno dei primi scritti di Vera su Hegel pubblicato originariamente in inglese e qui riproposto nella traduzione di S. Gatti (A. Vera, Ricerche sulla scienza speculativa e sperimentale a proposito delle dottrine del Calderwood e del prof. Ferrier e del sistema di Hegel, tr. it. di S. Gatti, E. De Angelis, Napoli 1864, pp. 52-58). Segue poi la sezione Saggi critici che approfondisce e problematizza diversi aspetti dell’opera di Vera. La sezione è aperta da un saggio di Marco Moschini che inquadra l’opera di Vera all’interno del pensiero italiano del proprio tempo. Il saggio di Andrea Bellantone affronta, invece, il lato francese della riflessione veriana, nella fattispecie riguardo ai suoi rapporti con l’eclettismo di Cousin. Il contributo di Edoardo Mirri – che caldeggiò fortemente la pubblicazione di questo volume e al quale devo alcune indicazioni preziosissime per la sua messa a punto – affronta il problema dell’accesso alla logica hegeliana, così centrale nella riflessione veriana. I contributi di Francesco Valagussa, Giulio Goria e Vincenzo Vitiello si soffermano, sotto quadri prospettici differenti, sul complesso e articolato rapporto tra Vera e Spaventa lettori di Hegel. Valagussa e Vitiello ne

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approfondiscono maggiormente le implicazioni rispetto alla lettura della Fenomenologia dello Spirito, mentre Goria si sofferma sul lato della Logica. Chiude il volume un contributo di Stefania Achella che, riprendendo alcune intuizioni contenute nel testo di Karl Rosenkranz su Vera, sottolinea la centralità della filosofia della natura nel pensiero veriano come chiave di lettura privilegiata per intendere il pensiero di Hegel. G.P. Amelia-Milano, maggio 2021

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Opere di Augusto Vera*47 Traduzioni delle opere hegeliane: Logique de Hégel. Traduite pour la première fois et accompagnée d’une introduction et d’un commentaire perpétuel par A. Véra, Ladrange, Paris 1859, tome premier, VII-354; tome second, 396 [la traduzione italiana dell’introduzione presente nel primo tomo è stata pubblicata in: A. Vera, Introduzione alla logica di Hegel, a cura di M. Moschini, tr. it. di S. Di Marco, EFFE, Perugia 2004]. Philosophie de la nature de Hegel, traduite pour la première fois et accompagnée d’une introduction et d’un commentaire perpétuel par A. Véra, tome premier, Ladrange, Paris 1863, XII-628; ristampa anastatica, Culture et Civilisation, Bruxelles 1969. Philosophie de la nature de Hegel, traduite pour la première fois et accompagnée d’une introduction et d’un commentaire perpétuel par A. Véra, tome second, Ladrange, Paris 1864, 440; ristampa anastatica, Culture et Civilisation, Bruxelles 1969. Philosophie de la nature de Hegel, traduite pour la première fois et accompagnée d’une introduction et d’un commentaire perpétuel par A. Véra, tome troisième, Ladrange, Paris 1866, 574; ristampa anastatica, Culture et Civilisation, Bruxelles 1969.

*  Per le opere di Augusto Vera resta di riferimento la bibliografia redatta

da A. Savorelli in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia», s. III, vol. 16, n. 4, 1986, pp. 1279-1306. Nella bibliografia qui proposta ho riportato solo i lavori con una maggiore rilevanza filosofica, segnalando, ove ve ne fossero, nuove traduzioni o riedizioni.

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Philosophie de l’esprit de Hégel, traduite pour la premier fois et accompagnée de deux introductions et d’un commentaire perpétuel par A. Véra, tome premier, Baillière, Paris 1867, CXII-472; ristampa anastatica, Culture et civilisation, Bruxelles 1969. Philosophie de la religion de Hégel, traduite pour la première fois et accompagnée de plusieurs introductions et d’un commentaire perpétuel par A. Véra, tome premier, Baillière, Paris 1876, CLIX-434; ristampa anastatica, Culture et civilisation, Bruxelles 1969. Philosophie de la religion de Hégel, traduite pour la première fois et accompagnée de plusieurs introductions et d’un commentaire perpétuel par A. Véra, tome second, Baillière, Paris 1878, CXCIV-488; ristampa anastatica, Culture et civilisation, Bruxelles 1969. Saggi e articoli: Filosofia della storia di Ballanche, in «Museo scientifico letterario artistico», I, 1839, pp. 49-53. Letteratura alemanna, in «Museo scientifico letterario artistico», I, 1840, pp. 406-408; II, pp. 115-118 e 124-127. Logique d’Hegel. Premier article, in «Revue du Lyonnais», XVII, 1843, pp. 379-404. Platonis Aristotelis et Hegelii de medio termino doctrina. Quae­ stio philosophica ab A. Vera in Academia Parisiensi disputata, apud Joubert, Bibliopolam, Paris 1845, 45 [Sulla dottrina del termine medio di Platone, Aristotele e Hegel, tr. it. a cura di A. Bellantone, Le Lettere, Firenze 2011]. Problème de la certitude, Paris, Joubert, 1845, 220. Coup d’œil historique et critique sur l’idéalisme. Extrait du ‘Dictionnaire des sciences philosophiques’, et augmenté d’un rapide Aperçu sur la philosophie de l’histoire de He-

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gel, Panckoucke, Paris 1847, 24 [Sguardo storico e critico sull’Idealismo, tr. it. a cura di T. Cricelli, in Augusto Vera e la filosofia hegeliana, iltesto, Marina di Davoli 2016, pp. 344-366]. Idéalisme, [voce del] Dictionnaire des sciences philosophiques par une société de professeurs et de savants, t. III, Paris, Hachette, 1847, pp. 180-194. Philosophie de la religion de Hégel. Première partie, in «La liberté de penser. Revue philosophique et littéraire», I, 1848, pp. 142-164; ripr. in Mélanges, pp. 198-228 [Saggio sulla filosofia della religione di Hegel, in G. Oldrini (a cura di), Il primo hegelismo italiano, Vallecchi, Firenze 1969, pp. 251-276]. Un mot sur la philosophie et la révolution française, in «La liberté de penser. Revue philosophique et littéraire», I, 1848, pp. 391-397 [Una parola sulla filosofia e la rivoluzione francese, in T. Cricelli, Augusto Vera e la filosofia hegeliana, iltesto, Marina di Davoli 2016, pp. 369-377]. La religion et l’État, in «La liberté de penser. Revue philosophique et littéraire», II, 1848, pp. 57-74. Hegel and Comte, in «The Athenaeum. Journal of Literature, Science and the Fine Arts», 1854, pp. 18-19. Introduction à la philosophie de Hegel, Franck-Jeffs, Paris-­ Londres 1855, VIII-306. An inquiry into speculative and experimental Science, with special reference to Mr. Calderwood and Professor Ferrier’s recent publications, and to Hegel’s doctrine, Longman, Brown, Green and Longmans, London 1856, XIII-68. Discorso del Prof. A. Vera, letto nella riunione privata del 31 gennaio 1857 in Hanover Square Rooms, in «Emporio italiano», n. 1, 31 marzo 1857, pp. 6-7.

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Opere di F. Bacone – The Works of Francis Bacon – Œuvres de F. Bacon, in «Emporio italiano», n. 2, 15 aprile 1857, pp. 4-6; n. 4, 15 maggio 1857, pp. 1-4; n. 6, 15 giugno 1857, pp. 2-5; ristampato in Mélanges, pp. 267-280; e in Saggi filosofici, Morano, Napoli 1883, pp. 225-241. Sulla conservazione della forza, in «Emporio italiano», n. 3, 1° maggio 1857, pp. 2-5. Gli alchimisti moderni, in «Emporio italiano», n. 5, 1° giugno 1857, pp. 4-7; ristampato in Mélanges, pp. 288-296. Studi filosofici, in «Emporio italiano», n. 7, 1 lug. 1857, pp. 1-4. ‘Fragments et souvenirs’ di V. Cousin, in «Rivista contemporanea», XXI, 1860, pp. 344-357; ristampato in Mélanges, pp. 155-172. L’hégélianisme et la philosophie, Ladrange, Paris 1861, 226; ristampa anastatica, Culture et civilisation, Bruxelles 1969, III-227. Prolusioni alla storia della filosofia ed alla filosofia della storia, Editori del Politecnico, Milano 1861, 40. Idea della filosofia per servire d’introduzione ad un corso di storia della filosofia. Prolusione letta nella R. Accademia di scienze e lettere in Milano nel giorno 4 febbraio 1861, in «Il Politecnico», X, 1861, pp. 387-402. Lineamenti generali della filosofia della storia per servire d’introduzione ad un corso di questa scienza, in «Il Politecnico», X, 1861, pp. 599-615. Amore e filosofia. Orazione inaugurale detta dal Prof. Augusto Vera nel solenne riaprimento dell’Accademia scientifico-­ letteraria di Milano il dì 11 novembre 1861, in «Il Politecnico», XI, 1861, pp. 622-649; ristampato in Mélanges, pp. 1-37; e in Saggi filosofici, Morano, Napoli 1883, pp. 1-35; tradotto in Essais de philosophie hégélienne, pp. 69-121.

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Correspondenz [datata: Mailand den 15 Juni; nell’indice dell’annata, col titolo: Vera über den Zustand der Philosophie in Italien], in «Der Gedanke. Fliegende Blätter in zwanglosen Heften», hrsg. von Dr. C.L. Michelet, Bd. 2, H. 2, 1861, pp. 168-170. Mélanges philosophiques, Ladrange-Detken, De Angelis, Madia, Paris-Naples 1862, 308. Della storia della filosofia. Prolusione letta nell’Università di Napoli dal Professore A. Vera, in «Il Politecnico», XIII, 1862, pp. 199-222; ristampato con il titolo: Seconda prolusione alla storia della filosofia, in Mélanges philosophiques, pp. 87-117. Filosofia della natura. Sopra alcuni punti di filosofia della natura, discussione del professore Vera col signor Giovanni Cantoni, professore di fisica nella università di Pavia, in «Rivista italiana – Effemeride della Pubblica Istruzione», III, 1862, pp. 1207-1212. Le pena di morte, Ladrange-Detken e De Angelis, Parigi-Napoli 1863, 54; ristampato in Saggi filosofici, Morano, Napoli 1883, pp. 37-78, e tradotto in francese in Essais de philosophie hégélienne, pp. 1-67. Prolusioni alla storia della filosofia e alla filosofia della storia, dette dal Prof. A. Vera nella Regia Università di Napoli, 24 novembre e il 23 dicembre 1862, Ladrange-Detken e De Angelis, Parigi-Napoli 1863, 96. L’idea in sé stessa e fuori di sé stessa, in «Rivista napoletana, di politica, letteratura, scienze, arti e commercio», dir. e pubbl. da A. Ciccone, G. Del Re, S. Gatti, I, 197-199, novembre 1862-ottobre 1863, pp. 216-219. Essais de philosophie hégélienne. La peine de mort – Amour et philosophie – Introduction à la philosophie de l’histoire, Baillière, Paris 1864, X-203.

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Introduction à la philosophie de Hégel, deuxième édition revue et augmentée de notes et d’une nouvelle Préface, Librairie philosophique de Ladrange, Paris 1864, LXXXVIII-330; ristampa anastatica, Culture et civilisation, Bruxelles 1969; réédité par A. Bellantone, suivant l’édition de 1864, L’Harmattan, Paris 2010. Ricerche sulla scienza speculativa e sperimentale a proposito delle dottrine del Calderwood e del Prof. Ferrier e del sistema dell’Hegel, Ladrange-De Angelis, Paris-Napoli 1864, XII-5. Introduzione alla filosofia della storia. Lezioni di A. Vera, raccolte e pubblicate con l’approvazione dell’autore da R. Mariano, Successori Le Monnier, Firenze 1869, LVII-458. La libertà di coscienza, in «Rendiconto delle tornate e de’ lavori della R. Accademia di scienze morali e politiche di Napoli», VIII, 1869, pp. 102-117. Philosophie de l’esprit de Hégel, traduite pour la premier fois et accompagnée de deux introductions et d’un commentaire perpétuel par A. Véra, tome second, Baillière, Paris 1869, CXV-523; ristampa anastatica, Culture et civilisation, Bruxelles 1969. La question du duel, in «L’Italie», 24 maggio 1869, pp. 1-2. II Cavour e libera Chiesa in libero Stato, in «Atti dell’Accademia di scienze morali e politiche di Napoli», VII, 1872, pp. 1-172; un’edizione identica era uscita l’anno precedente per Detken e Rocholl, 1871. Problema dell’Assoluto, Parte I, in «Atti dell’Accademia di scienze morali e politiche di Napoli», VIII, 1872, VIII-153. Strauss. L’ancienne et la nouvelle foi, Detken e Rocholl, Napoli 1873, 362. Trendelenburg as opponent of Hegel, trans. from the French of A. Vera by A.C. Brackett, in «The Journal of Speculative Philosophy», VII, n. 1, 1873, pp. 26-32.

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An introduction to speculative philosophy and logic, in «The Journal of Speculative Philosophy», VII, n. 2, 1873, pp. 1-1 3, 60-78; VIII, n. 1, 1874, pp. 13-34; n. 2, pp. 107-122; n. 33, pp. 228-242; n. 4, pp. 289-304; ristampa in volume: Gray, Baker & Co., St. Louis 1875, 104. Problema dell’Assoluto, Parte II, in «Atti dell’Accademia di scienze morali e politiche di Napoli», XIII, 1875, VIII-144. Professor Vera on Strauss, in «The Journal of Speculative Philosophy», IX, n. 1, 1875, 100-103. An Herr Heinrich von Treitschke, Abgeordneten beim deutschen Reichstage, in «Preussische Jahrbücher», XXXVII, 1876, pp. 382-401. Intorno al problema religioso, «Il Diritto. Giornale della democrazia italiana», 21-23 aprile 1876; ristampato in Saggi filosofici, Morano, Napoli 1883, pp. 151-181. Problema dell’Assoluto, Parte III, in «Atti dell’Accademia di scienze morali e politiche di Napoli», XV, 1879, VI-134. Platone e l’immortalità dell’anima, in «Atti dell’Accademia di scienze morali e politiche di Napoli», XVI, 1881, pp. 1-62 Dio secondo Platone, Aristotele ed Hegel, in «Rendiconto delle tornate e de’ lavori della R. Accademia di scienze morali e politiche di Napoli», XXI, n. 1, 1882, pp. 9-11; n. 2, pp. 1-3; XXII, 1883, pp. 25-26. Saggi filosofici, Morano, Napoli 1883, XCII-256. Discorso, in Onoranze funebri a Bertrando Spaventa, Morano, Napoli 1883, pp. 9-10. Problema dell’Assoluto, Parte IV, in «Atti dell’Accademia di scienze morali e politiche di Napoli», XVII, 1883, VIII-131.

La Fenomenologia dello Spirito di Hegel Appendici

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Nota del curatore

Il testo tedesco viene citato da Vera secondo la Vollständige Ausgabe durch einen Verein von Freunden des Verewigten: G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, hrsg. von J. Schulze, Verlag von Duncker und Humblot, Berlin 1841. Ove presente, la traduzione italiana dei passi hegeliani citati è dello stesso Vera. Segue, tra parentesi quadra, l’indicazione della pagina dell’edizione critica Gesammelte Werke, Bd. 9, Meiner, Hamburg 1980, e dell’edizione italiana G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, 2 voll., tr. it. a cura di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze 1974.

Alles Übrige ist Irrthum, Trübheit, Meinung, Streben, Willkür und Vergänglichkeit; die absolute Idee allein ist Seyn, unvergängliches Leben, sich wissende Wahrheit, und ist alle Wahrheit. Hegel, Logik. Die absolute Idee* Was wär ein Gott, der nur von aussen stiesse, Im Kreis das All am Finger laufen liesse! Ihm ziemt‘s, die Welt im Innern zu bewegen, Natur in Sich, Sich in Natur zu hegen, So dass, was in Ihm lebt und webt und ist, Nie Seine Kraft, nie Seinen Geist vermisst. Goethe, Sprüche in Reimen. Gott, Gemüt und Welt**

* «Tutto il resto è errore, torbidezza, opinione, tendere, arbitrio e caducità;

soltanto l’idea assoluta è essere, vita che non passa, verità di sé conscia, ed è tutta la verità» (G.W.F. Hegel, Scienza della logica, 2 voll., tr. it. A. Moni, riv. da C. Cesa, Laterza, Roma-Bari 1974, vol. II, cap. III: L’idea assoluta, p. 935). ** «Cosa sarebbe un Dio che solo dall’esterno urgesse, / l’Universo facendo

ruotare attorno ad un dito! / A lui s’addice muovere il mondo dall’interno, / Natura in Sé e Sé nella natura custodire, / così che a tutto ciò che in Lui vive e freme ed è / mai venga meno la sua forza ed il Suo spirito.» (J.W. Goethe, Dio e il mondo, in Id., Tutte le poesie, 2 voll., a cura di R. Fertonani, Mondadori, Milano 1989, vol. II, p. 993).

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Capitolo I

L’esperienza e la Fenomenologia dello Spirito Questioni preliminari

Se, come è nostro assunto dimostrare, l’assoluto è un sistema, e l’unità assoluta è l’unità sistematica, e quindi la vera e assoluta cognizione è di necessità la cognizione sistematica, per modo che una filosofia è tanto più la filosofia in quanto più a siffatta unità si avvicina, e, per converso, lo è tanto meno in quanto più se ne allontana, in che consiste, si domanderà primieramente, questa unità? Perché gli è chiaro che non basta dimostrare che la verità è un sistema, ma fa d’uopo anzitutto dimostrare come e qual è siffatto sistema. Questa è la prima questione che ci si pone innanzi. Ma vi ha l’altra già indicata nel capitolo precedente e che con la prima strettamente si congiunge: in che relazione, cioè, sta coll’assoluto sistema, e qual funzione vi adempie l’esperienza, la storia, il mondo, in una parola, l’ente fenomenale? Perocché, se questo non è nell’assoluto, non è un momento, o una sfera dell’assoluto, non si comprende come l’assoluto sia l’assoluto; e, viceversa, non si comprende neanche come l’ente fenomenale sia e possa essere, se non è un momento dell’assoluto. Perocché, sorgere e passare, nascere e morire, tale è l’ente fenomenale, onde esso non è causa sui, causa, ragione di se stesso, non contiene in sé la ragione della sua esistenza. La natura, ad esempio, in quanto apparisce e diviene, suppone un qualché, un principio, una causa determi-

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nata e determinante del suo apparire e del suo divenire. Ora, noi diciamo che l’assoluto è un sistema e l’assoluto sistema, e che l’esperienza e il fenomeno sono elementi essenziali di cotesto sistema. Onde un assoluto concepito come Ens extramundanum, come ente che non apparisce, non si manifesta, che vive fuori del mondo fenomenale è una contradictio in terminis, non è l’assoluto. E qui sta la difficoltà, qui sorge il problema. Perocché, mentre mal si comprende come l’assoluto e l’ente fenomenale possano separarsi, mal anche si comprende come possano congiungersi e conciliarsi. Ed invero, se il divenire è l’elemento essenziale dell’ente fenomenale, questo sembra non poter essere quel che è che escludendo l’assoluto, e l’assoluto, a sua volta, sembra non poter esser l’assoluto che escludendo ogni divenire. Tale è la contraddizione profonda, radicale in cui è collocato e si muove l’universo. Dio e il mondo, l’infinito e il finito, l’assoluto e il relativo, la ragione divina e l’umana, il sovrannaturale e il naturale, il noumeno, o la cosa in sé e il fenomeno sono espressioni, forme diverse di cotesta contraddizione. Si ammette, gli è vero, in generale, che la contraddizione è conciliata. E ciò si ammette perché l’unità, Iddio, è il bisogno più intimo, e, a dir così, l’assoluta necessità dell’intelligenza e dell’universo. Onde, spezzando l’unità, si spezza quel legame, quel principio, quella ragione suprema senza la quale non si vede come e perché le cose siano e possano essere in se stesse e nelle loro relazioni. Si ammette, adunque, che la contraddizione è conciliata, ma solo nell’assoluta unità, in Dio, mentre rimarrebbe inconciliata e inconciliabile nella umana intelligenza. Anzi l’impotenza di elevarsi alla cognizione dell’assoluta unità formerebbe il carattere distintivo, la natura specifica della nostra intelligenza. E poiché siffatto concetto della intelligenza nella sua relazione colla verità trae seco qual conseguenza inevitabile il principio scettico, si crede potere a questo sottrarsi ricorrendo al sentimento e alla fede. Quindi l’assoluto

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non sarebbe un obbietto della cognizione, ma del sentimento e della fede, a tal segno che ogni qualvolta lo si vuol sottoporre alle condizioni, alle forme, ai processi della scienza, non solo non se ne raggiunge la vera cognizione, ma si falsa e corrompe quanto intorno ad esso ci viene dal sentimento e dalla fede rivelato. Questo è il concetto che la coscienza empirica si forma del­ l’assoluto e delle sue relazioni con il mondo, e con l’uomo in particolare. E per coscienza empirica dobbiamo intendere la coscienza popolare non solo, ma ben anche la coscienza del sapere empirico in generale. Perocché vi ha una coscienza che è propria del sapere empirico, e che intorno a questo punto non differisce essenzialmente dalla popolare. E, difatti, o rigetta anch’essa l’esistenza dell’assoluto, nel che è consentanea a se stessa, al suo principio, o, se l’ammette, non so per qual ragione, forse perché sente che senza l’assoluto la scienza è un edificio sospeso nel vuoto, se l’ammette, dico, l’ammette soltanto come obbietto del sentimento e della fede. A siffatta posizione che l’empirico prende nel problema dell’assoluto può a ragione applicarsi l’incidit in Scyllam qui vult vitare Charybdim. Ed, invero, mentre, per superare la contraddizione, e quindi il principio scettico, egli ricorre alla fede, nel fatto, s’impiglia in una contraddizione più profonda e più inconciliabile, nella contraddizione con se stesso, con ogni sua parola ed ogni suo pensiero. Perocché, collocandosi nella sfera della scienza, osserva, indaga e giudica le cose, e la fede stessa mediante le norme, i dettami, in una parola, la natura della scienza, e poi nega ad un tempo la scienza, e se ne pone fuori negandola. Aggiungasi che lascia insoluta o, a dir meglio, rende più spiccata e, per quanto è in lui, insolubile la contraddizione della scienza e della fede. Questo procedimento equivoco, inconseguente e in fondo scettico dell’empirismo ha trovato ai dì nostri la sua forma propria

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e la sua sanzione nella filosofia di Kant. Tutto è, si può dire in un certo senso, in codesta filosofia, appunto perché essa è un’analisi della intelligenza, delle sue forme e del suo contenuto. E ciò spiega in parte come da essa abbia preso le mosse il gran movimento filosofico e intellettuale germanico. Dico in parte, altre cause, altri impulsi, e sovrattutto una conoscenza più esatta e più profonda della storia della filosofia, e in special modo della filosofia greca avendo contribuito, a parer mio, più della filosofia di Kant, al pieno e razionale sviluppo di questo movimento. Checché ne sia di ciò, tutto, ripeto, è nella filosofia di Kant, ma solo in un certo senso. Hegel con quella sua concisione piena di senso, e dirò così, aristotelica la definisce una nidiata, un vespajo di contraddizioni. Ein »Nest« von Widersprüchen1. In tal senso appunto intendo che vi ha tutto nella filosofia di Kant. Vi ha tutto, ma in una forma contraddittoria, inconseguente, confusa e, starei per dir, caotica. Il che proviene anzitutto dall’esser essa un’analisi, uno spezzamento empirico e artificiale dell’unità ove il pensiero scettico si asconde sotto il velo ingannevole della fede, di quella ragione, cioè, che Kant chiama pratica2. Io qui toccherò soltanto di quei punti della filosofia di Kant che mi paiono più adatti a dimostrare la mia tesi. Già fin dalla prima mossa Kant piglia dinanzi alla intelligenza e la verità una posizione scettica. Egli designa la sua dottrina col nome di critica, ma, in realtà la sua critica è un pretto scetticismo, più pretto di quello della nuova Accademia che concedeva almeno all’intelligenza la facoltà di raggiungere un 1.  G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, Herausgegeben von DR. Karl Ludwig Michelet, dritter band, Verlag von Duncker und Humblot, Berlin 1836, band 15, p. 595 [tr. it., Lezioni sulla storia della filosofia, a cura di E. Codignola e G. Sanna, vol. III/2, p. 325]. 2.  È alla ragione pratica e ai suoi postulati che più specialmente si riferisce il motto di Hegel.

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qualché di simile al vero, il verisimile. Kant, al contrario, vuole che nulla si affermi e si ammetta se non dopo di aver sottoposto l’intelligenza a un rigoroso e minuto esame onde accertare quel ch’essa può e non può, o, com’egli dice, la sua legittimità e il valore delle sue facoltà e concezioni. Ora gli è chiaro che questo è precisamente il pensiero scettico, che Kant dissimula, o elude mediante una inconseguenza, servendosi, cioè, nel far la critica della intelligenza di quella stessa intelligenza di cui si accinge a far la critica. E si comprende. Senza il soccorso di siffatta inconseguenza dar non potea un passo innanzi, e forza quindi gli sarebbe stato dichiarare il suo scetticismo, e rinchiudersi, se volea esser conseguente, nell’epoché degli antichi scettici, nella sospensione di ogni giudizio, nel silenzio assoluto; il che torna a dire che la sua critica non avrebbe veduto la luce del sole. Ecco adunque una prima e radicale inconseguenza della critica kantiana. Ma accade nella scienza quel che accade nella vita. Il primo passo dato in fallo si trae dietro una serie interminabile di errori, malanni e sventure. Onde progredire nell’indagine filosofica non basta servirsi dell’intelligenza e presupporne la legittimità in generale, ma fa d’uopo altresì adoperarne il contenuto, le forme, cioè, i principi, i criteri, e adoperarli presupponendone parimenti il legittimo uso e valore. E così avviene, ad esempio, che Kant riconosce, anzi pone a principio l’autonomia di ragione. E sì che la scienza e l’autonomia della ragione sono cose inseparabili. Negare o porre in dubbio l’una vale quanto negare o porre in dubbio l’altra. Ma nella dottrina di Kant l’autonomia della ragione è l’inconseguenza assoluta, poiché, qualunque parte se ne consideri, sia nella Critica della ragione teoretica, sia nella Critica della ragione pratica, sia anche nella Critica del giudizio, se vi si incontra una ragione, non è certo la ragione autonoma, ma la servile. Questa nuova ragione servile non sarà l’ancilla theologiae, ma in ogni modo è un’ancella, e ancella forse di

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un signore meno ragionevole e più capriccioso che nol fosse la vecchia teologia. Può la ragione autonoma trovar posto in una dottrina che sottomette la ragione alla critica, e non vuol riconoscerla come ragione se non dopo averla fatta passare per la trafila di una critica artificiale e violenta? La ragione, se è la ragione, sta all’infuori e al di sopra della critica. È essa, al contrario, che fa, e sola può far la critica, giudicare, cioè, e determinare ciò che è conforme e ciò che non è conforme alla ragione, o, a meglio dire, la ragione, la ragione reale e concreta, la ragione veramente autonoma è quella che afferma e pone se stessa, le sue forme e il suo contenuto, e giudica questi ponendoli, e li pone giudicandoli. Togliete siffatta ragione, e la critica è l’assurdo, l’impossibile. Ora, contro codesta ragione è precisamente rivolta la critica kantiana. Onde il suo principio direttivo e supremo non è la ragione, ma la negazione della ragione. E le sue premesse essendo negative, si può esser certi a priori che le conclusioni lo saranno del pari. Perché se nego o pongo in dubbio la ragione al punto di partenza, non v’ha più modo di uscir dalla negazione o dal dubbio. E il più strano di questa critica si è che Kant riconosce nella ragione la facoltà sovrana il cui obbietto speciale è l’essenza delle cose, l’unità, l’assoluto, l’ideale della ragione, come lo chiama. Ora, qual è la sorte della mal capitata ragione? Allorché vuol esser se stessa, affermare e attuarsi come ragione, allora appunto diviene estranea a se stessa, sragiona. È questo il letto di Procuste sul quale Kant condanna la ragione a rannicchiarsi. Egli somiglia a colui che avendo definito l’uomo, un animale fornito di ragione, quando avviene poi che l’uomo usi rettamente, secondo, cioè, la sua natura, la ragione, pretendesse che appunto allora storto è il suo ragionare. L’uomo, adunque, se vuol esser ragionevole dovrà sragionare, o, ciò che val lo stesso, levarsi dattorno questa sua fallace consigliera, la ragione, e ridiventare animale. Dico ridiventare animale, poiché oggidì la nostra origine animalesca pare sia nella mente di taluni un fatto as-

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sodato, un dogma che non ammette più dubbio. Questo Kant non insegna espressamente, non insegna, voglio dire, che il meglio sarebbe sbarazzarci della ragione. Però la sua proposta suona in fondo lo stesso. Perché cosa insegna e propone? La ragione pensa l’unità, l’assoluto, ed in siffatto pensare risiede la sua funzione, la sua natura. Liberissima, adunque, di pensar l’assoluto. Pensandolo usa del suo diritto. Ne abusa però, anzi si attribuisce un diritto che non le compete quando piglia in sul serio i suoi pensieri, le sue idee, come quando, ad esempio, conchiude, afferma che l’ente perfetto, l’assoluto esiste, è un ente obbiettivo e reale, perciò stesso che ne ha l’idea. Qui è che travia e sragiona. E qual rimedio suggerisce Kant alla ragione perché non si lasci travolgere in quelle illusioni ove trasporta il subbiettivo nell’obbiettivo e scambia, a dir così, le ombre con la realtà? Astenersi da ogni giudizio obbiettivo sulla cosa in sé, sul noumeno, in una parola, su tutto ciò che trascende i confini dell’esperienza; il che è quanto dire annullarsi. Il rimedio proposto da Kant è il rimedio del medico che prescrive allo stomaco travagliato da una digestione faticosa di astenersi da ogni cibo. Nei due casi si ha lo stesso risultato, la negazione della vita, nell’uno della vita organica, nell’altro della vita della ragione. E qui sorge la questione: Kant, critica, ammonisce, consiglia, impone limiti alla ragione. A nome ed in virtù di qual ragione si arroga ed esercita sì alto ministero? Perocché se dico alla ragione: voi ragione errate allorché attribuite al noumeno una realtà obbiettiva, ma schiverete l’errore se vi asterrete dal portar siffatto giudizio: gli è chiaro che dovrà avervi in me un’altra ragione la quale, per ciò appunto che critica e consiglia, supera la ragione cui son rivolti i consigli e la critica, e possiede quindi la cognizione del reale e del non reale, del fenomeno e del noumeno, e delle loro relazioni. Perché, se non si conosce il noumeno, come se ne può parlare? E parimenti, se non si ha un concetto adeguato della realtà, come si può attribuire, o ne-

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gare una realtà, e tal realtà sia al fenomeno, sia al noumeno, sia ad altro? Ora, domando io, quale è, e può essere nella filosofia di Kant la ragione che adempie a tal supremo ufficio? Che non sia la ragione sottoposta alla critica, gli è evidente. Ma non è meno evidente che non può esser la ragione assoluta, poiché la critica kantiana mira precisamente a dimostrare che, se vi ha una ragione assoluta, questa non è al certo la ragione che noi conosciamo e che in noi conosce, e che la ragione assoluta è il Deus absconditus il quale si avvolge in un velo tanto più impenetrabile quanto più ci affatichiamo a sollevarlo. Qual è dunque la ragione, la norma, il criterio, in qualche modo, assoluto della critica kantiana? Il fatto, non il fatto in generale, perché tutto è, in un certo senso, fatto – il noumeno, l’idea è anch’essa un fatto – ma il fatto sensibile e sentito. Quale argomento, ad esempio, adduce Kant per rigettare la prova ontologica dell’esistenza di Dio? Vi è, così ragiona, nella nostra mente l’idea dell’infinito, dell’ente perfetto. È una idea insita nella mente, e che non può venirci suggerita dalla esperienza. Ma l’idea e l’esistenza dell’ente perfetto sono cose diverse, onde dalla prima non è lecito dedurre la seconda. E perché? Perché nulla vi ha nella esperienza che corrisponde alla idea dell’ente perfetto. Certo, se si muove dalla esperienza il cui elemento scientifico e determinante è il fatto sensibile, se si muove, dico, dalla esperienza qual criterio della verità, l’esistenza dell’ente perfetto è bella e spacciata a priori. Perocché, stando a codesto criterio, se l’ente perfetto esistesse, dovrebbe esistere come esisto io, o come esistono gli obbietti sensibili che sono attorno a me, e che vedo con gli occhi, e tocco con le mani. Ma qui è l’assurdo. Ciascheduna cosa esiste nel modo che è conforme alla sua natura. E non può esistere altrimenti. La pianta non può esistere come l’animale, e la pianta e l’animale non possono esistere come il sistema solare; e così avviene in ogni cosa. Onde il vero si è che l’ente perfetto non può esistere ed esser conosciuto che in quanto

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esiste ed è conosciuto in modo affatto diverso da quello secondo il quale esiste ed è conosciuto l’ente sensibile. Che se non esiste per Kant, la ragione si è ch’egli non lo pensa come dovrebbe pensarlo. Kant ragiona, in fondo, come quell’astronomo, anch’egli un empirico, che diceva aver invano cercato Iddio in tutta la distesa de’ cieli. Per rinvenirlo fa d’uopo saper come cercarlo, e cercarlo ove può essere. Se cerco l’animale nella pietra, o il pensiero nel cervello, certo non ve li troverò. In simil guisa, se formandomi un falso concetto dell’ente perfetto, falso appunto perché muovo dal sensibile qual criterio della verità, cerco l’ente perfetto nel mondo sensibile, avrò un bel cercare, vane saranno, perché debbono esserlo, le mie ricerche. E qui già si scorge come l’empirico non pensi le cose secondo la loro natura, ma in modo arbitrario e artificiale, e come, per ciò appunto che non pensa le cose secondo la loro natura, non possa neppure rettamente intendere quello ch’egli pone a norma della verità, il fatto, cioè, e l’esperienza. È questo un punto che abbiamo già notato, e che verrà più ampiamente esaminato in appresso. Ma qui mi pare udire una o più voci che tutte all’unisono mi gridano che la mia critica della dottrina kantiana è esclusiva ed esagerata, e quindi non dà nel segno. Voi, mi dicono, sembrate averne dimenticata una parte importante, la più importante forse, la teorica delle categorie. Voi rappresentate la filosofia critica come una mescolanza di empirismo e di scetticismo. Ma la teorica delle categorie è là dinanzi a noi per ricordarci che altro è il suo vero significato. Può chiamarsi empirica e scettica una filosofia che indaga e determina gli elementi puri e a priori dell’intelligenza, e dimostra come codesti elementi sieno la condizione della esperienza, a tal segno che senza il loro intervento l’esperienza non sarebbe possibile? Anziché tacciarla di empirismo e scetticismo, le si dovrebbe dare il vanto di aver confutate queste dottrine, e aver loro in qualche modo chiuso l’adito della scienza.

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E, difatti, la teorica delle categorie in cui Kant espone le condizioni della esperienza è il lato seducente e fallace della sua filosofia, quello ove la critica kantiana piglia le sembianze di un idealismo affermativo. L’esame di questa teorica ci porrà in grado di determinare più esattamente il significato della filosofia di Kant, ed insieme progredire nello svolgimento e nella dimostrazione della nostra tesi. E qual sia la nostra tesi sarà qui opportuno rammentare, ponendola ne’ suoi veri e precisi termini. La tesi generale di cui si tratta è il problema dell’assoluto. Noi diciamo: o l’assoluto o nulla. Guardando, cioè, il problema dal lato della esistenza, noi diciamo: se l’assoluto non esiste, il fenomeno, l’esperienza, il mondo, in una parola, nulla può esistere. Guardandolo dal lato della cognizione noi parimenti diciamo: se non vi ha una cognizione assoluta, non vi potrà neppure avere una cognizione sperimentale o altra qualsiasi. Il che è come dire che l’assoluto è il principio e l’unità assoluta dell’essere e del conoscere. Dobbiamo adunque dimostrare, primieramente, che l’esperienza e la cognizione sperimentale, e le categorie stesse presuppongono l’assoluto, e indagare inoltre in che relazione sta l’assoluto colla esperienza e il suo divenire. La soluzione di codeste due questioni ci servirà di preparazione, di avviamento alla questione finale, a quella che contiene la soluzione positiva e, a dir così, dommatica del problema, e che porremo nella seguente forma: l’assoluto può esser conosciuto? E, se può esser conosciuto, qual n’è il vero concetto? E, da ultimo, qual è la filosofia che può intendere e attuare, e, a parer mio, ha inteso ed attuato questo concetto?

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Capitolo II

Stesso argomento Teorica delle categorie e della esperienza secondo Kant

Cominciando dalla teorica delle categorie farò notare ch’essa si riferisce appunto alla prima questione, poiché Kant ha inteso determinarvi, le condizioni, o, a dir meglio, la natura della esperienza. Cosa è l’esperienza? A questa questione che verrà svolta nelle indagini che sieguono basterà per ora rispondere che l’esperienza è il fenomeno, non qual esiste nella natura, e come natura propriamente detta, ma nella sua unione con lo spirito. In tal senso l’esperienza costituisce la sfera fenomenica, la fenomenia dello spirito, e la scienza di siffatta fenomenia è, come l’ha concepita e chiamata Hegel, la fenomenologia dello spirito. Quindi tutto ciò che apparisce, e può apparire nello spirito appartiene all’esperienza, è compreso ne’ suoi limiti, è un elemento, un ente sperimentale. Dal che si scorge quanto vasto sia il campo della esperienza, giacché il mondo esterno e l’interno, la natura e lo spirito, e l’assoluto stesso, in quanto si mostra, si manifesta nella coscienza, sono enti empirici, enti che esistono nell’esperienza. Dio nel sentimento è Dio nell’espe­rienza. Ovvero, quando Dio è l’obbietto che mi rappresento, Dio è un obbietto che apparisce nella coscienza. Kant, adunque, nella teorica delle categorie ha inteso definire la natura della esperienza. Egli non ha abbracciato e svolto le

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varie sfere dell’esperienza, l’esperienza nella sua totalità concreta e sistematica, ciò che Hegel ha appunto attuato nella Fenomenologia dello Spirito, come mostreremo in appresso, ma ne ha considerato soltanto le norme, le condizioni astratte e universali. Il metodo mediante il quale ha determinato coteste condizioni è quello più sopra indicato, l’analisi empirica accoppiata col processo riflessivo. Kant, giova ripeterlo, non pone e deduce, ma presuppone, e poi riflette, ragiona intorno ai presupposti, appoggiandosi a concetti e criterii egualmente presupposti, val a dire, non dedotti e non dimostrati. Conformemente a questo metodo egli analizza, divide l’intelligenza o la facoltà cognitiva (Erkenntnissvermögen), come la chiama, in tre facoltà principali, la sensibilità, l’intendimento (Verstand) e la ragione (Vernunft). Di queste tre facoltà l’intendimento è quello che costituisce la sfera delle categorie, e quindi la sfera speciale dell’esperienza. Perocché, la ragione, che è la sfera delle idee e dell’unità, supera il punto di vista dell’esperienza, mentre la sensibilità, il puro sentire, il puro intuire l’obbietto nello spazio e nel tempo, è bensì il fondamento, il sostrato, la possibilità, ma non è l’atto del conoscere. Nel sentire, l’intelligenza è tuttavia fuori di sé nell’obbietto sentito; non vi ha ancora in essa quel moto concentrico, quel ritorno a sé, quella energia mediante la quale essa s’impadronisce dell’obbietto, lo colloca nella sua propria sfera, e s’afferma così come intelligenza, come attività consapevole ad un tempo di se stessa e dell’obbietto intuito. Nel che sta appunto l’intendere, il sapere. Il sapere nell’accezione generale della parola, è l’intelligenza che s’è impossessata dell’obbietto esterno o interno, l’ha fatto suo, se l’è immedesimato, e sa in tal guisa l’obbietto a se stessa. Né altro è l’esperienza (Erfahrung), il sapere sperimentale. Havvi esperienza, atto, realtà sperimentale ogni qualvolta l’intelligenza afferma come suo, come inteso l’obbietto intuito. L’intendimento, o l’esperienza forma quindi una sfera media tra la sensibilità e la ragione. È l’intelligenza

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che intende sì, ma che si muove ancora nel moltiplice e diverso fuori dell’unità e, in tal senso, fuori anche di se stessa. Vediamo ora come Kant concepisce e determina l’intendimento e l’esperienza. Decomponendo l’atto concreto dell’intendimento, egli vi discopre due elementi essenziali e costitutivi, de’ quali l’uno immutabile, universale e necessario, l’altro variabile, particolare e contingente. Avendoli in tal guisa distinti e divisi, chiama il primo forma, e il secondo contenuto. La forma è la categoria, il contenuto è la realtà, il mondo esterno e sensibile. La forma o categoria costituisce l’a priori, il contenuto o mondo sensibile l’a posteriori dell’intelligenza. La forma è in qualche modo l’intelligenza stessa, e quindi è forma del subbietto, forma subbiettiva; il contenuto è quel che l’intelligenza riceve dal di fuori per mezzo dei sensi, e n’è quindi l’obbietto. Questa è l’analisi. Perocché nell’atto concreto e reale, atto che costituisce l’esperienza, questi due elementi non sono in sifatta guisa separati, ma, al contrario, sono indivisibilmente uniti. Come, adunque, s’incontrano e si uniscono? Nulla di più semplice. Quando il mondo esterno, la natura, viene col concorso della sensibilità a bussare alla porta della intelligenza, questa sorge dal suo letargo, trae fuori dal suo arsenale le categorie, e risponde alla chiamata battezzando e imponendo un nome all’obbietto, e impartendo con ciò a se stessa una esistenza e realtà obbiettiva. Quindi l’esperienza è un battesimo in cui il neonato, l’obbietto esterno, riceve un nome, una forma razionale che lo trasforma in un qualché d’intelligibile. Senza l’obbietto esterno, non vi sarebbe chi battezzare, senza la categoria, il neonato sarebbe un non so che d’informe e d’innominato. In altra parola, togliete l’obbietto esterno, e non rimarrà che la categoria, una forma, cioè, inerte e vuota; togliete la categoria, e non vi avrà più che il mero obbietto esterno, vale a dire, un fatto indeterminato e inintelligibile. Quindi, se l’intelligenza non ponesse nella piena degli obbietti sensibili che le si paran dinanzi, a modo di esempio, la categoria

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di causalità, gli obbietti sensibili andrebbero sforniti di quel significato e di quel rapporto determinato che alla causalità si appartengono, come, dall’altro canto, se gli obbietti esterni non venissero a stimolare non solo, ma a riempere, a dir così, di se stessi, del loro essere, della loro sostanza, la causalità, questa se ne starebbe inoperosa e vuota nella intelligenza. Estendendo l’esempio alle altre categorie delle quali Kant ha delineato lo schema, di leggieri si vede in qual guisa egli ha considerato la sintesi della categoria e dell’obbietto sensibile, sintesi che è la condizione essenziale e necessaria della esperienza, per modo che ove essa fa difetto non vi può avere esperienza, fatto sperimentale e sperimentato, nel senso preciso della parola. Questa teorica kantiana sembra a primo aspetto adempiere alle condizioni del problema, spiegare, cioè, la ragione della esperienza. Perocché, come ogni cosa ha la sua natura, così ha la sua ragione. O, a dir meglio , la natura e la ragione di un ente sono lo stesso. E l’esperienza, se non è generata dal caso, ha anch’essa la sua ragione, quella ragione che la fa quel che è, costituisce la sua necessità e la sua funzione nella economia universale delle cose. Solo a tal condizione l’esperienza è un fatto, un ente razionale. Ora è appunto la ragione dell’esperienza che fa difetto nella teorica in discorso, in guisa che se la cosa stesse come la descrive Kant, non vi sarebbe né esperienza, né vera cognizione sperimentale1. Kant incomincia col decomporre l’esperienza, e trovandovi due elementi li divide, e li divide non come elementi costitutivi, come differenze di una sola e stessa unità, ma come 1.  Lascio qui stare la questione intorno al numero della categorie, se, cioè, Kant ne abbia tracciato un quadro completo. È una questione che ha la sua importanza, ma un’importanza secondaria rispetto a quella che qui esaminiamo. Dirò solo che, dato il principio e il metodo della filosofia di Kant, agevole sarebbe dimostrare che non ci può avere in essa una vera deduzione delle categorie, e che per ciò stesso l’enumerazione deve esserne incompleta.

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elementi sostanzialmente diversi ed estranei per natura l’uno all’altro. E, dopo averli arbitrariamente così divisi, attribuisce l’uno all’intelligenza, e l’altro al di fuori, si vedrà più innanzi a qual principio, rappresentandoli il primo come forma, ed il secondo come contenuto. Ora spezzando con siffatta analisi l’unità, egli si pone fuori della realtà, del fatto, e, ciò che più monta, della ragione del fatto, cioè, fuori dell’esperienza medesima. Perocché il fatto sperimentale sta in questo, che, quali che siano gli elementi che v’intervengono, essi non vi esistono come separati e sostanzialmente diversi, ma bensì come uniti nella loro unità. E codesta unità è appunto la ragione intrinseca del fatto, la ragione che genera il fatto e gli elementi che v’intervengono, e de’ quali il fatto si compone. La ragione della visione non è né l’occhio né l’obbietto dall’occhio percepito, ma quel principio, quella energia, per dirla con Aristotile, che unifica, e per cui sono fatti l’occhio e il suo obbietto. La ragione, e quindi anche l’esperienza della vita non è né l’anima né il corpo, ma la loro unità, onde, quando mi sento vivere, lo sento mediante ed in questa unità. E lo stesso dicasi di ogni cosa, perché ogni cosa ha la sua unità, quella unità che costituisce la sua natura ed energia specifica ed in cui i suoi vari elementi, le sue differenze, sono ad un tempo unite e specificate. Quindi, supponendo che i due elementi che intervengono nella esperienza siano la categoria e l’obbietto sensibile, ov’è, dimando io, l’unità che deve unirli, e che è tanto più necessaria nella teorica kantiana in quanto vi sono concepiti come sostanzialmente diversi? E se non havvi questa unità, come e perché si uniscono, e come può avvenire, e qual significato può avere l’atto sperimentale? Se, ad esempio, la causalità e l’obbietto pensato mediante questa categoria non sono la differenza di un solo e stesso principio, per modo che la causalità e i suoi rapporti siano elementi essenziali e costitutivi dell’obbietto stesso, cosa si pensa pensando l’obbietto secondo codesta categoria? E che verità, che ragione può contener l’obbietto, e non solo

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l’obbietto, ma la categoria stessa? Ora, debbo ripeterlo, è appunto questa verità, questa ragione che fa difetto nella teorica di Kant, onde l’economia intera della esperienza vi è falsata. E affin di meglio chiarire il nostro pensiero e completarlo, fa d’uopo ripigliare l’esposizione dei punti essenziali di codesta teorica. Kant dice: la categoria è una forma a priori dell’intelligenza. Per se stessa non ha che un valore e un significato subbiettivi, per modo che allorquando l’intelligenza pensa la categoria, pensa una forma che, considerata in sé, esiste soltanto nella intelligenza, ha tutta la sua realtà in codesta esistenza, e non è legata da verun rapporto intrinseco e consostanziale col mondo sensibile. Ne siegue che se vi fosse solo la categoria, questa non agirebbe, e se ne starebbe eternamente rinchiusa in se stessa, in uno stato di subbiettivismo immobile e vuoto. Ma vi ha il mondo della realtà esterna e sensibile, che è il mondo obbiettivo e del contenuto, e questo si è che non solo stimola la categoria ad operare, ma la costringe a riceverlo, e in tal guisa obbiettivarsi, e procacciarsi un contenuto. E che cognizione genera siffatto connubio della categoria e del contenuto, ossia dell’obbietto? Genera forse una cognizione obbiettiva, una cognizione, cioè, dell’obbietto qual esso è realmente in se stesso? A questa questione Kant risponde, no, non si conosce l’obbietto qual è in se stesso, ma solo quale apparisce mediante e a traverso la categoria. Quindi allorché pensiamo un obbietto secondo il rapporto di causa e di effetto, o come uno, o come molteplice, o secondo un’altra categoria qualsiasi, non lo pensiamo qual è realmente in se stesso, ma quale apparisce mediante le categorie al nostro pensiero. E in se stesso cosa è? Qui viene il famoso concetto kantiano della cosa in sé (Ding an sich) e del noumeno. In se stesso l’obbietto è la cosa in sé, cioè, un ente rinchiuso in se stesso, che non si estrinseca, non si rivela, non apparisce nella coscienza, e quindi è un noumeno, vale a dire, un qualche, chiamiamolo, se vuolsi, ente pensabile, être de raison, come dicono i francesi, un ente che

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essendo fuori dell’esperienza è per l’intelligenza = x, o zero, l’incognita, o il nulla assoluto. E così, ai primi due elementi, la categoria e l’obbietto esterno, se n’è aggiunto un terzo, il noumeno. Sono questi i tre concetti fondamentali, e, come a dire, i tre cardini intorno ai quali si aggira la critica kantiana. La questione che dobbiamo ora esaminare è quindi la seguente: il noumeno è effettivamente quale Kant l’ha concepito? E in tal caso, quali sono le conseguenze di siffatto concetto in ordine alle categorie o al loro obbietto, cioè, all’esperienza? L’esperienza conterrebbe una vera cognizione? E potrebbe attuarsi? Il noumeno è un pensiero che supera i limiti della esperienza. La ragione è la facoltà dei noumeni, cioè, delle idee propriamente dette, che Kant distingue dalle categorie, e riduce a tre principali, l’idea dell’anima come unità di tutto ciò che all’anima si riferisce, l’idea del mondo come unità del mondo, e l’ideale della ragione come unità assoluta. Se le categorie sono concetti, forme vuote, i noumeni sono ancor più vuoti delle categorie, poiché queste hanno almeno una certa applicazione obbiettiva nelle cose sensibili, mentre i noumeni sono un nulla fuori del subbietto che li pensa. E sono concetti non solo vuoti, ma ben anche dannosi, poiché, se son qualcosa, altro non sono che una fonte perenne di errore e d’inganno. Tale è la dottrina di Kant intorno alla ragione e ai suoi noumeni. E mai forse la ragione non fu così malmenata come in questa dottrina. Ogni cosa ha la sua ragion d’essere, la sua funzione, la sua finalità. L’occhio è fatto per vedere ed è in me e debbo servirmene a questo scopo, che è il suo scopo e la sua realtà, scopo e realtà che sono appunto raggiunti e attuati nell’uso che ne fo, nell’atto, cioè, della visione. Anche la ragione è in noi, ma stando a quel che ce ne dice Kant non si sa perché vi sia. O se c’è uno scopo, altro non se ne scorge se non quello di trarci in inganno. Donde il precetto kantiano di cui più sopra è parola, che non dobbiamo farne uso, perché appunto nel farne uso siamo tratti in errore. È come dire che

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l’uso legittimo degli occhi sta nel tenerli chiusi, perché tenendoli aperti la luce solare potrebbe accecarli. Ma vediamo che conseguenza trae seco questo concetto kantiano della ragione per rapporto alla esperienza e alla cognizione sperimentale, perché questo è il punto speciale che qui dobbiamo chiarire. L’esperienza, perciò appunto che costituisce la sfera della esistenza fenomenale, presuppone di necessità una sfera, un principio che la supera, e che supera quindi non solo l’obbietto esterno e sensibile, ma eziandio le categorie. Perocché le categorie sono principi, forme limitate e subordinate, e lo sono anzitutto nella dottrina kantiana ove per agire e obbiettivarsi abbisognano del concorso dell’obbietto esterno. Onde la loro è un’attività passiva, e passiva anche relativamente all’obbietto esterno, poiché da questo lor viene la spinta ad agire ed insieme il contenuto. Ma l’obbietto esterno entra anch’esso come elemento passivo nella costituzione della esperienza, poiché vi sottostà all’azione di un’attività formatrice. Ora se gli elementi, o principi che costituiscono l’esperienza sono limitati, subordinati e passivi, ne siegue ch’essi presuppongono un principio attivo che li domina, che è il loro comune principio, la loro unità, e di cui sono le differenze, i momenti. La cosa in sé, il noumeno, l’idea di Kant altro non può essere che siffatto principio. Il noumeno è il principio del fenomeno, vale a dire della categoria e dell’obbietto sensibile, come anche del loro rapporto, della loro unione, cioè, nell’atto sperimentale, nel fenomeno. Se la cosa sta così, gli è chiaro che a quella guisa che il fenomeno non può attuarsi senza l’azione del noumeno, alla stessa guisa non può neanche esser rettamente conosciuto senza la cognizione del medesimo noumeno. Perché uno è il principio per il quale le cose sono, e sono conosciute. Donde il detto profondo che l’uomo non conosce se stesso che nel suo principio, in Dio.

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Vediamo ora qual concetto si forma Kant del fenomeno e del noumeno e della loro relazione. E primieramente, se si considera la categoria, l’obbietto sensibile, e la loro relazione indipendentemente dal noumeno, e quali li concepisce Kant, non si sa come e perché questa relazione possa avvenire. Che avvenga è un fatto. Qui però, fa appena bisogno notarlo, non si tratta del fatto, ma della sua spiegazione. Che se per spiegare il fatto, io dico: la categoria è una forma a priori dell’intelligenza, ma una forma vuota e senza contenuto, e il contenuto lo riceve dal di fuori, da un altro ente, o principio del tutto diverso, anziché spiegare il fatto, lo distruggo, lo rendo impossibile, però che distruggo la ragione della loro unione. Che ragione, difatti, vi può essere perché due enti sostanzialmente diversi si uniscano? Anziché unirsi essi debbono star divisi. E debbono tanto più star divisi che la categoria è una forma puramente subiettiva. Perché che bisogno, che ragione vi può avere in una forma subbiettiva di uscir di sé e obbiettivarsi in un ente che le è del tutto estraneo? Se la causalità è una forma, ed una forma meramente subbiettiva, perché e come trasfonderà la sua natura, quale che sia, in un’altra natura opposta e del tutto diversa? E quando anche, non so per qual violenza, o capriccio del caso, siffatta unione potesse avvenire, cosa ne nascerebbe? Qual ne sarebbe il risultato, il prodotto? Kant stesso ce lo dice: una cognizione meramente subbiettiva. Kant così la chiama, ma il vero si è che non vi ha nessuna cognizione, e che, se vi ha qualcosa, è il contrario della cognizione, onde è qui, e non nella ragione che sorgono l’illusione e l’inganno. Ed invero, se pensando l’obbietto non lo penso nella sua realtà propria e veramente obbiettiva, cosa penso? Penso un nulla, o il contrario di quel che dovrei pensare. In altre parole, se pensando l’obbietto in quanto apparisce nella sua esistenza fenomenale, non lo penso secondo la sua forma propria, ma secondo una forma straniera, io lo falso e l’annullo. E falso non solo l’obbietto, ma insieme con esso la

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categoria. Perché, falsando quello, si falsa anche questa. Se la categoria, cioè, è una forma meramente subbiettiva, e non è la forma dell’obbietto, apparendo nell’obbietto, essa falsa se stessa. Il pensiero che pensa nell’obbietto il rapporto causale, il rapporto di causa e di effetto, se questo rapporto non è un rapporto intrinseco ed essenziale dell’obbietto stesso, falsa la categoria, la forma, per ciò appunto che l’attribuisce a un obbietto di cui non è la vera forma. E chiara n’è la ragione. La cognizione essendo una unità, se si falsa o annulla l’un de’ suoi elementi, si falsa o annulla l’unità intera. Dico che la cognizione è una unità. E, difatti, non vi ha, nel senso preciso e vero della parola, una cognizione puramente subbiettiva, o puramente obbiettiva, ma la cognizione è subbiettiva e obbiettiva ad un tempo, è l’unità del subbietto e dell’obbietto. La realtà, l’atto della cognizione, e di ogni cognizione, sia sperimentale, sia speculativa, sta in questa unità. Togliendo questa unità, voi togliete la ragione e la possibilità della cognizione, come togliendo l’unità nella esistenza delle cose, singole o collettive, si toglie la ragione e la possibilità della loro esistenza. La mente che conosce non è la mente che analizza, ma la mente unificatrice, che, se analizza, analizza per unificare e unificando. L’analisi e i materiali da essa raccolti non costituiscono la cognizione. Essi costituiscono la possibilità, non già l’atto della cognizione. Essi sono i materiali sparsi e informi dell’edificio, il quale non si eleva che per l’azione e l’unità della mente architettonica. Il subbiettivismo kantiano è la conseguenza, il risultato della critica e dell’analisi, o, a dir meglio, critica, analisi e subbiettivismo sono un solo e stesso pensiero, una sola cosa, sono, cioè, lo spezzamento dell’essere e della conoscenza. Ed invero, la mente critica è la mente che nel dubbio di se stessa, della sua legittimità, della legittimità della sua natura, della sua attività, e del fine del suo essere, prende un’attitudine negativa, ostile verso se stessa, viene a conflitto con se stessa, si spezza, e spezza quindi quella unità che forma la sua specifica

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ed intima natura. Onde si divide da sé, non è più la mente, perché la mente spezzata non è la mente, come un organismo spezzato non è più l’organismo. E in tal guisa spezzandosi crea, immagina sostanze, mondi, ragioni diverse, e un mondo subbiettivo, e un mondo obbiettivo, e il mondo de’ fenomeni, e il mondo di noumeni, e una ragione teoretica, e una ragione pratica, od anche, come avviene nella filosofia di Kant, una terza ragione, la ragione come giudizio. E queste sostanze, questi mondi e queste ragioni son lì gli uni accanto agli altri come in una miscela, non si sa perché né in qual guisa, con tendenze, con fini, e risultati diversi e inconciliabili. La mente caduta in tale stato non è la mente degli eroici furori di Bruno, la mente che appunto il furor dell’unità incita e infiamma, ma la mente folle. Ora questa mente folle, questa mente che, a dir così, va errando smarrita fuori di sé nell’indefinito, è una mente artificiale, è il prodotto di un certo artificio. E il subbiettivismo kantiano è un prodotto artificiale, anzi dirò artificioso della mente. In tesi generale, è artificiale ogni dottrina, ogni pensiero che non sia conforme al vero, alla natura delle cose. Ma nel subbiettivismo di Kant vi ha un certo artificio speciale, sui generis, un artificio più irrazionale di quello ch’è proprio dello scetticismo. Perocché anche lo scetticismo è un prodotto artificiale. Non lo è però nel senso di una dottrina che sarebbe del tutto contraria al vero, che anzi costituisce un elemento essenziale del vero, come l’ho dimostrato nel capitolo precedente, e come, prima di me, l’ha dimostrato l’Hegel, ma nel senso che esso pone come assoluto un principio che ha solo un valore relativo e subordinato. Kant tiene una via media tra la negazione scettica e l’affermazione, che questa si chiami dogmatica o con altro nome. Ma la verità c’è o non c’è, e può o non può esser conosciuta. Questa è la posizione schietta della mente rispetto alla verità e a se stessa. Kant, al contrario, spezza l’intelligenza, e poi dice, né negazione, né affermazione, né scetticismo, né dogmatismo,

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ma una cognizione subiettiva. E qui sta l’artificio del pensiero kantiano. Cosa è la cognizione subiettiva? Noi conosciamo, dice Kant, le cose non come sono in sé, ma come ci appaiono. Si noti che l’antico scetticismo non parlava altrimenti: «Quando ci si domanda, dice Sesto Empirico, se il subbietto è quale apparisce, noi accordiamo l’apparire (to phainesthai). Non ricerchiamo però la natura della cosa che apparisce, ma soltanto ciò che si enuncia (o legetai) della cosa in quanto questa apparisce»2. Senonché, mentre gli antichi scettici si esprimono negli stessi termini di Kant, il loro pensiero è più coerente, più profondo e, fa d’uopo dirlo, più schietto. Essi compresero che potean bene accordare la parvenza, e la cognizione della parvenza senza che il principio scettico ne venisse in verun modo leso o menomato. In altra parola, essi compresero che la parvenza, e la cognizione della parvenza non costituiscono la verità, e la cognizione della verità. Ne siegue che se non si ammette e un principio che superi la parvenza, e la cognizione di codesto principio, lo scetticismo non è vinto, anzi è avvalorato poiché nella parvenza esso attinge i suoi più validi argomenti. E gli antichi Scettici sono anche più coerenti di Kant allorché aggiungono che della natura delle cose (la cosa in sé, il noumeno di Kant) non se ne occupano. E, difatti, la ricerca della natura delle cose implica il riconoscimento per lo meno della sua esistenza e di una certa sua realtà. Quindi, indagandola, gli scettici avrebbero contraddetto al loro principio. Al contrario, Kant crede sottrarsi allo scetticismo e salvar la cognizione ammettendo soltanto la cognizione subbiettiva della parvenza, e, di più, la cosa in sé, il noumeno della parvenza, cioè a dire, un certo principio che la genera, ma negando poi la cognizione di codesto principio, e riducendo tutto, non solo le categorie, ma le idee, come sarebbe la idea del bene e del fine assoluto, a concetti puramente subbiettivi. E qui sta, lo ripeto, l’artifi2.  Pyrrh. Hypot. I.

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zio della critica kantiana, la quale è nel fatto uno scetticismo, ma uno scetticismo ripieno d’inconseguenze, di andirivieni, di aggiramenti di pensiero. Vi ha la cosa in sé, la quale è l’in sé, cioè, il principio del fenomeno, e, mentre si afferma questo, si dice poi che della cosa in sé non se ne sa nulla. E per semplificare e conchiudere la presente discussione, supponiamo che non se ne sappia nulla. Non rimarrà, adunque, che la cognizione subbiettiva della parvenza. E questo è lo scetticismo, il quale, come l’abbiamo poc’anzi notato, trae dalla parvenza i suoi principali argomenti. Perocché, la parvenza è il campo delle differenze e opposizioni inconciliate, del molteplice e del divenire indefiniti, il campo ove la ragione esiste, a dir così, come più ragioni, è quella Maia che genera senza posa l’illusione e l’inganno. E aggiungerò che la parvenza, quale la concepisce Kant, è tanto più fatta per generare lo scetticismo, inquantoché è assolutamente subbiettiva, vale a dire, è una parvenza che, da un canto, ha dinanzi a sé il noumeno, l’ente misterioso e inaccessibile, che, s’è qualcosa, è l’ente in cui si rinchiude la ragione vera e suprema delle cose, e, dall’altro, le categorie che sembran poste lì appunto per falsare, subbiettivandole, le manifestazioni di questo ente. La conclusione che risulta da quanto precede si è, primieramente, che la filosofia critica altro non è se non una forma dell’empirismo, e che, al pari di ogni filosofia empirica, si risolve nello scetticismo, ed in uno scetticismo senza consapevolezza e, direi quasi, senza schiettezza. Non intendo con ciò dire che il mondo fenomenale e della esperienza non contiene in veruna guisa la verità, che anzi mio intento è dimostrare che la contiene, ma che la contiene solo in un senso e modo subordinati, come momento, o sfera subordinata dell’assoluta unità, dell’assoluto. Onde, a quella guisa che negando l’assoluto si nega e si rende impossibile l’esperienza, così, negando la cognizione dell’assoluto, si rende impossibile la cognizione di quella verità ch’è nella esperienza. Perocché, siccome osserva

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Hegel, il pensiero intende il sentimento e se stesso, mentre il sentimento non intende né il pensiero né se stesso. Ma qui si obbietterà: quel che voi dite sta bene, solo però fino a un certo punto. Si comprende in modo generale e astratto che l’unità sia la condizione della conoscenza e della verità. Si comprende pure come il mondo fenomenale presupponga una più alta sfera, un più alto principio, e che esister non possa senza l’intervento di siffatto principio. Infine si comprende come la filosofia critica sia uno scetticismo travestito. Ma sorgono altre e ben gravi difficoltà. E, in primo luogo, cos’è codesta assoluta unità che ritorna ad ogni piè sospinto sulla vostra penna? E se è l’assoluta unità, che ragione vi può avere perché apparisca, si manifesti, e si muova nel mondo della parvenza e del divenire? E poi l’unità non può apparire che dividendosi da sé, spezzandosi, e divenendo appunto quella mente folle cui avete accennato. E dopo essersi così spezzata, come può, a dir così, ritrovar se stessa, cioè, la sua unità? Infine, secondo il vostro dire ogni cosa ha la sua unità, e l’esperienza stessa non può avvenire senza l’intervento della unità. Ma vi ha varie sfere nella esperienza. Vi sarebbero adunque altrettante unità quante sono codeste sfere. Per esempio, vi è l’unità dell’animale, l’unità della pianta, l’unità del cristallo, e via discorrendo. Come si conciliano tutte queste unità, sia tra loro, sia coll’assoluta unità?

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Capitolo III

Stesso argomento Concetto del sistema Fenomenologia dello Spirito di Hegel

Per chiarire e risolvere le precedenti questioni1 dobbiamo allargare il nostro punto di vista, e il campo delle nostre indagini, e guardar l’esperienza non nelle sue condizioni generali, indeterminate e astratte, ma nel suo essere reale e concreto, e, per dirla in una parola, nella sua totalità sistematica. Dico totalità, e totalità sistematica, perché nel sistema sta la possibilità e la realtà di ogni cosa, e quindi anche dell’esperienza. Il pensiero empirico spezza e scompone l’esperienza. Esso osserva e considera i fenomeni nel loro isolamento, li distacca dal tutto, e li pone fuori di quelle relazioni che formano parte essenziale del loro essere e della loro realtà, e anzitutto fuori di quella relazione ove risiede la ragione assoluta, il principio e il fine della loro esistenza. Il fenomeno così considerato si risolve nell’accidente, ed il mondo de’ fenomeni, o della esperienza in un aggregato di enti e fatti accidentali e fortuiti, che sono sì, ma che non si sa perché siano, e siano come sono, e quindi potrebbero essere in altra guisa qualsiasi. Ma se il mondo, 1.  Il lettore potrà vedere che queste questioni sono lo svolgimento della seconda questione posta alla fine del cap. I di A. Vera, Problema dell’Assoluto, Parte I, in «Atti dell’Accademia di scienze morali e politiche di Napoli», VIII, 1872.

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sia il mondo della esperienza, sia il mondo inteso nel senso di universalità delle cose, nel senso di universo, può essere diversamente da quel che è, ne siegue che non vi ha né ragione, né scienza, né verità. E, difatti, se non vi ha nel mondo una ragione, ed una ragione che lo genera e lo conserva, il mondo è un prodotto del caso, è un ente accidentale. Ma lo sarebbe del pari se la ragione che in esso si manifesta e si attua potesse essere altrimenti, vale a dire non è una ragione universale, necessaria, e assoluta, sia rispetto al mondo, sia rispetto a se stessa. Ora, ragione e sistema sono la stessa cosa. Una ragione che non è un sistema ha solo di ragione il nome, e, viceversa, un sistema che non è costituito secondo la ragione non è un sistema, o, a dir meglio, non può essere né concepirsi. Ne siegue che non può avervi che una ragione ed un sistema. Chi ammette più ragioni, in qualunque forma, ed a qualunque scopo le ammetta, le nega nell’atto stesso che le ammette. Perocché non le ammette che pensandole tutte e due, pensandole, cioè, tutte e due col medesimo pensiero, con la medesima ragione. E lo stesso dicasi del sistema. Si possono immaginare sistemi o, come dicasi, mondi diversi, infiniti. Ma s’immaginano sistemi diversi, come s’immagina il consesso degli Dei nell’Olimpo. Vogliam dire che ne’ due casi si ha una creazione, un prodotto non già della ragione, ma appunto della immaginazione. Anzi vi ha più verità, più ragione nel mito degli Dei radunati a consesso sull’Olimpo che nel concetto di più sistemi, di una pluralità indefinita di mondi. Perocché nel primo caso si ha il simbolo di una verità, e quindi quella verità, quella ragione che nel simbolo è contenuta, mentre nel secondo si ha un concetto assolutamente irrazionale, il contrario della ragione, poiché più sistemi implicano più ragioni, la negazione, cioè, della ragione. Ed, invero, la mente che pensa più sistemi, sia li pensi come coesistenti, o come una serie di creazioni nel tempo, o li pensa come generati da un solo principio, da una sola ragione, ed in tale ipotesi non vi sono più sistemi, ma solo parti, sfere diverse del medesimo sistema; o li pensa come so-

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stanzialmente e assolutamente diversi, ed in tal caso il suo è un pensiero vuoto, un pensiero che annulla se stesso. Perocché essa non pensa, e non può pensare i vari sistemi che col suo pensiero, e secondo la natura del suo pensiero e delle cose da questo pensate, onde o pensa nulla, o pensa, falsandolo e sfigurandolo in combinazioni arbitrarie e fantastiche, il sistema in cui viviamo e ci muoviamo, noi e le cose tutte. Una è quindi la ragione, una l’idea del mondo, ed uno il mondo in cui l’idea esiste, si attua, e si manifesta. Ma, se non vi ha che una ragione od un sistema della ragione, ne viene di conseguenza non solo che nulla può esistere fuori di codesto sistema, ma che nulla può esistere che non sia un certo sistema. Onde la natura di un ente è essenzialmente un sistema, una certa unità sistematica che contiene ad un tempo la possibilità e la realtà della sua esistenza. Perocché le parti di un sistema, precisamente per ciò che sono parti, differenze, momenti di una unità sistematica, sono di necessità altrettanti sistemi, altrettante unità sistematiche in e di questa unità. Il sistema solare è un sistema in quella unità ch’è la natura, come l’occhio è un sistema in quell’altra unità ch’è la vita. E il sistema solare e l’occhio sono entrambi momenti del sistema o dell’unità assoluta. E lo stesso si verifica in ogni cosa. Perocché, lo ripeto, nulla può esistere che non sia una certa unità sistematica nell’assoluto sistema. L’accidente stesso non può avvenire che nel sistema, e come momento del sistema. Se la cosa sta così, l’esperienza, e i varî modi e gradi della esperienza sono e si attuano, e non possono anch’essi essere ed attuarsi altrimenti che nel sistema, e sistematicamente, a tal segno che fuori del sistema non vi può avere esperienza, fatto sperimentale. Sentire, percepire, osservare sono fenomeni essenzialmente sistematici, fenomeni, cioè, che avvengono e raggiungono la loro reale esistenza solo in quella sfera, ed in quel punto del sistema ove s’incontrano e congiungono quegli elementi e quelle condizioni e relazioni necessarie e determi-

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nate fuori dei quali non potrebbero esistere. E per ciò che il sentire, il percepire ecc. non avvengono, e non sono possibili e concepibili, non hanno una ragione d’essere ed un fine che in quanto vi ha un subbietto che sente, percepisce ecc., e un obbietto fatto per esser sentito, percepito ecc., e che non è tale che pel suo nesso intrinseco e consostanziale col subbietto, ne consegue che nel sentire, nel percepire, nell’osservare, il subbietto e l’obbietto, la forma e il contenuto si uniscono come elementi sistematici di una unità sistematica, e che il loro essere e il loro fine risiedono nella loro unità, ch’essi, cioè, non sono, e non sono quel che sono che come differenze di una certa unità. Ora appunto siffatta unità non pensa, e spezza e disperde il processo empirico, il quale per ciò stesso spezza e falsa la natura e la realtà delle cose, e quindi anche l’esperienza e la cognizione sperimentale. Perocché, l’esperienza non ci dice, ad esempio, che il subbietto e l’obbietto, la forma e il contenuto, l’anima e il corpo, la ragione divina e l’umana sieno cose separate e essenzialmente diverse, e come se le une venissero, a dir così, dal polo artico, e le altre dall’antartico per incontrarsi poi fortuitamente, non si sa perché né come, ma, ben al contrario, essa ce li mostra strettamente uniti, vale a dire, ci dimostra, come può venir dimostrata dall’esperienza, la loro unità2. Onde allorché l’empirismo, osservando certi fenomeni interni e esterni, ragionandovi sopra ne conchiude, ad

2. Si avverta che altro è spezzare l’unità, altro differenziarla. La vera unità è l’unità concreta, l’unità che contiene le differenze. Quindi differenziarla vale svolgerne e dimostrarne le differenze, le quali non sono vere differenze che in quanto sono differenze di una stessa unità. L’unità senza differenze potrà così chiamarsi, ma non ha della unità che il nome, a quella stessa guisa che potranno chiamarsi differenze enti, proprietà, specie che non sono differenze della stessa unità, ma anche questi non hanno della differenza che il nome. Al contrario, si spezza l’unità allorché si considerano le differenze e la loro unità come cose estranee tra loro, e si uniscono e si dividono in modo estrinseco, arbitrario e fortuito.

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esempio, che l’esperienza ci dimostra l’esistenza di due ragioni, di cui l’una finita e l’altra infinita, l’esperienza che in siffatta guisa osserva e ragiona è la sua, non già la vera e reale esperienza, però che questa c’insegna appunto il contrario, c’insegna, cioè, che, dato anche vi fossero due ragioni, ve n’è pure una terza che le osserva e pensa tutte e due, e dimostra così come fatto di esperienza la loro unità. E questa è l’osservazione esatta e intera del fenomeno, vale a dire la vera esperienza che ciascheduno può verificare in se stesso. Ma l’esempio più spiccato del modo in cui l’empirismo mutila e falsa l’esperienza ce lo fornisce Kant con la sua analisi empirica applicata all’intelligenza. Kant osserva il fenomeno e lo decompone3. E nel decomporlo pone da un canto la forma e dall’altro il contenuto, derivando la prima dall’intelligenza, ed il secondo dal di fuori, dal mondo esterno. Ora gli è chiaro che siffatto procedimento, anziché rappresentare e contenere l’accurata osservazione e la descrizione fedele del fenomeno, non solo sfigura il fenomeno, ma ne annulla persino la possibilità. Ed, invero, poiché nel fenomeno si attua una certa unità della forma e del contenuto, il fenomeno non è possibile che per un principio che è codesta unità. Che la forma sia la categoria od altro, e che il contenuto sia la natura od altro, e dato pure che il fenomeno attinga la sua forma nella intelligenza, ed il suo contenuto nella natura, in ogni ipotesi l’unione della forma e del contenuto non può in esso avvenire che mediante un principio che è ad un tempo forma e contenuto, che li pone tutti e due, e li pone come differenze non di altro, ma di se stesso. Sia, a mo’ d’esempio, l’occhio la forma, ed il colore il contenuto, ovvero, sia la forma l’intelligenza, e il contenuto la natura. Perché questi enti appariscano, divengan fenomeni, essi devono unirsi e compenetrarsi, l’occhio ed il colore

3.  Vedi A. Vera, Problema dell’Assoluto, Parte I, cit., cap. II.

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nell’atto della visione, l’intelligenza e la natura in un atto della coscienza. E ciò non può attuarsi che per un principio che è l’uno e l’altro, è la loro unità. Quale e come sia codesta unità, o, se vuolsi, il principio dell’unità, si vedrà in appresso. Ma da quanto precede si può già intendere come l’obbietto, la materia dell’esperienza, il fenomeno, presupponga siffatto principio, per modo che, togliendolo, il fatto, seppure potesse avvenire, sarebbe un qualché di fortuito, un prodotto del caso, il che vale quanto dire che non potrebbe avvenire. Perocché il caso né può esistere come principio, né può nulla per sé generare. Il mondo generato dal caso è il mondo di Epicuro, l’agglomerazione fortuita degli atomi, un mondo, cioè, irrazionale e impossibile. Sopprimendo adunque l’unità, si sopprime e il fenomeno e la cognizione sì del fenomeno che del suo principio. Il che deve intendersi non solo nel senso ristretto degli esempi qui sopra addotti, ma in un senso generale e assoluto. Perocché l’occhio e il colore, l’intelligenza e la natura, l’anima e il corpo, in una parola, le cose in generale non possono essere ed apparire non solo nelle loro relazioni, ma eziandio in se stesse e nella loro esistenza individuale, fuori e senza l’intervento dell’unità. L’occhio, per esempio, considerato in se stesso e indipendentemente dal suo obbietto, il colore od altro, ha la sua forma e il suo contenuto speciali, e quindi anche in esso si attua la loro unità. E così dicasi di ogni cosa, perché ogni cosa è quel che è mediante una certa unità della forma e del contenuto. Onde l’esperienza non si attua che mediante siffatta unità, ed una dottrina, quale l’empirica, che disconosce e annulla l’unità, annulla l’esperienza e se stessa4. 4.  Tutto questo vostro dire, ci si obbietterà, intorno all’unità e all’empirismo non è nel fatto che la condanna del metodo sperimentale. Ora, come la mente, la sua educazione, il suo sviluppo, e il suo sviluppo nella più alta sfera della sua attività, nella sfera della cognizione, come tutto ciò può effettuarsi

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Ma unità e sistema, diciamo noi, sono lo stesso. L’unità che non è un sistema non è l’unità attiva e unificatrice, l’unità che

senza il concorso di questo metodo? Percepire i fatti, osservarli, paragonarli, e adoperando certi artifici, costringerli a riprodursi onde osservarli e paragonarli ripetute volte e in condizioni diverse, e trarne quindi, mediante l’induzione, la legge generale, non è forse questo il vero metodo, il metodo razionale cui la scienza moderna deve le sue conquiste e, tolto il quale, l’intelligenza non può che agitarsi e consumarsi in sterili e vuote astrazioni? – Ma qui appunto stanno l’illusione e la fallacia dell’empirismo, illusione e fallacia che pigliano varie forme, e penetrando nella mente per varie vie, vi falsano e corrompono il concetto della cognizione e della verità. Faremo dapprima osservare che noi non respingiamo affatto l’esperienza, e ciò che gli empirici chiamano metodo sperimentale. Noi non respingiamo nulla, ché anzi nostro assunto si è di fondare l’esperienza sul suo vero principio, vale a dire su un principio assoluto, principio che appunto perché assoluto, dominando l’esperienza può solo generarla ed intenderla. L’esperienza né genera né conosce se stessa, non ha in se stessa il principio dell’essere e del conoscere, perché conoscere sperimentalmente non è conoscere il principio, la ragione dell’esperienza. Conoscere, ad esempio, che l’uomo muore, non è conoscere la ragione intrinseca, l’essenza, come dicesi, della morte. L’esperienza presuppone adunque un principio che la genera e la conosce, principio che, mentre in essa si manifesta ed esiste in quanto vi si manifesta, la supera però e da essa si distingue, e non solo si distingue, ma la nega. Quindi noi ammettiamo l’esperienza ne’ limiti e nel senso in cui è ammissibile, ed ammettiamo altresì ch’entro tali limiti sia necessaria, ma la rigettiamo e la combattiamo come falsa ed ingannevole allorché si arroga un valore ed un’efficacia che non ad essa, ma ad una più alta sfera, a un più alto processo della mente appartengono, sconvolgendo in siffatta guisa la natura della cognizione e della verità. Anche il soldato è necessario, e senza il soldato non vi ha esercito. Ma se il soldato si atteggia a generale, e il soldato e l’esercito intero andranno in malora. Perché il soldato non è per sé, ma per quella unità che è il generale, che la mente organica, cioè, del generale rappresenta ed attua, e che imprime in una materia indeterminata e informe quella forma ed energia speciali che fanno il soldato. Onde è vero dire che il generale è la causa ad un tempo efficiente e finale del soldato. Ora il pensiero empirico cade in illusioni simili a quella del gregario che, sentendosi ed essendo difatti necessario, crede di poter sostituirsi al generale, sostituire, cioè, il pensiero subalterno al pensiero imperatorio (egemonikon), per dirla con gli Stoici. E la prima e radicale illusione dell’empirismo sta nel porre il

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genera ed unifica in sé e per sé le differenze. Perché questa è l’idea dell’unità attiva, che, cioè, essa genera le differenze,

fatto a principio e criterio della cognizione e della verità. Ma il fatto e la scienza son cose diverse, e in un certo senso inconciliabili, inconciliabili, cioè, nel senso in cui Saturno divorava i propri figliuoli. Porre il fatto a principio e criterio della scienza vale quanto annullar la scienza. Se il fatto è la verità, la scienza del fatto non ha più fondamento, non ha ragion di essere. Che io sia, è un fatto, e se in questo mio essere risiede la verità, vana e assurda è ogni indagine intorno alla ragione e alla natura del mio essere, intorno al principio che mi fa, e mi fa quel che sono. Cogito ergo sum, dice Cartesio. Attenendosi al criterio dell’empirismo, dovrebbesi invertire la proposizione e dire, sum ergo cogito; anzi si dovrebbe sopprimere l’ergo e il perché, ogni rapporto, cioè, del fatto col principio, poiché il fatto basterebbe a se stesso, avrebbe in se stesso, come mero fatto, la ragione della sua esistenza e della sua verità. E questa è la prima fallacia dell’empirismo che, mentre pretende di elevarsi e muoversi nella sfera della scienza, e riconosce in questa la motrice e il fine delle sue indagini, in realtà poi la nega, ponendo il fatto a principio e criterio della cognizione. Inoltre, l’empirico osserva, e vuole che il fatto sia attentamente osservato, altrimenti, dice egli, non se ne caverà quel che se ne vuol cavare, la ragione, cioè, il principio, o, come la chiama, la legge, in una parola, la scienza del fatto. Certo, fa d’uopo osservare. E chi non osserva? Tutti osserviamo, ed anche l’animale osserva, e attentamente. E quanti prima e dopo Galileo e Newton avranno osservato l’oscillar di una lampada, o la caduta di un pomo senza scorger però nel fenomeno altro che il fenomeno, e dedurne quelle conseguenze che la mente di Galileo e di Newton seppe discoprirvi. E perché? Perché osservare è per sé nulla. Si può eternamente osservare un fenomeno senza trarne fuori una scintilla di sapere. Il marmo rimane marmo se non vien mosso e foggiato da un principio attivo che lo trasforma in statua od altro. E non solo il marmo non è il principio della statua, ma, rispetto a codesto principio, è una materia indeterminata e passiva che, come mero marmo, è dal principio attivo annullata. E tale è pure l’osservazione. Perocché altro è l’osservazione, altro l’osservazione scientifica. La prima è l’osservazione che può chiamarsi animale in quanto è comune all’uomo e all’animale, poiché l’animale osserva come l’uomo, e talune cose più esattamente e più acutamente dell’uomo. La seconda è l’osservazione che è propria soltanto dell’uomo, l’osservazione veramente umana in quanto è mossa e trasformata dal principio scientifico, dall’idea della scienza. Cancellate nella mente l’idea della scienza, sia pur la mente di Galileo e di Newton, e nel fatto osservato avrete il mero fatto

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ma le genera sistematicamente, riconducendole quindi a sé, e mantenendole nell’unità, e, viceversa, il sistema non è il sistema che mediante ed in questa unità.

osservato, e nulla di più. E addentrandosi nell’idea della scienza, vale a dire della filosofia, si vede che non solo il fatto osservato, onde acquistare un significato scientifico, presuppone l’idea della scienza, ma che codesta idea si è che pone l’osservazione e i suoi organi come stromenti di se stessa, come stromenti ch’essa pone ed annulla ad un tempo. E qui sta la seconda fallacia dell’empirismo, però che mentre l’osservazione scientifica presuppone l’idea della scienza, e quindi una scienza che non può procedere dall’osservazione, esso insegna il contrario, che la scienza, cioè, nasce dall’osservazione de’ fatti. Ma la cognizione sperimentale non è tutta compresa nel fatto e nell’osservazione, ci dirà l’empirico, che anzi il fatto e l’osservazione ne formano soltanto il punto di partenza e, a dir così, il prodromo, mentre l’atto specifico della suddetta cognizione risiede nella induzione, mediante la quale l’intelligenza inalzandosi al disopra de’ fatti e dell’osservazione eleva questi al loro principio. E il principio raggiunto mediante l’induzione, per ciò che è il principio di fatti osservati, non è una mera ipotesi, o una vuota astrazione, bensì un principio vero e reale. E l’induzione è appunto un’altra fallacia dell’empirismo, e la più spiccata. Abbiamo il fatto, o, a dir meglio, i fatti osservati, l’induzione e il risultato del processo induttivo, il principio, cioè, de’ fatti. Si osserva che Pietro, Paolo, Antonio ecc. sono mortali, o che i corpi A, B, C ecc. posti in certe condizioni si dilatano. Se non vi fosse l’induzione non si avrebbe che i fatti osservati, ma interviene l’induzione, e l’intelligenza da questa spronata e sentendosi, a dir così, imprigionata nella sfera de’ fatti, perché i fatti non rispondono alle sue aspirazioni, alla sua natura, si eleva alla sua sfera propria, alla sfera de’ principi, in altra parola, della scienza. E così la scienza incomincia dall’induzione, e risiede nel risultato da questa raggiunto. Essa non risiede nel fatto osservato, quando anche fosse stato osservato fin dall’origine delle cose, come, ad esempio, nel fatto che è stato osservato fin dacché l’uomo esiste, che i singoli individui muoiono, ma nel principio che l’uomo è mortale, o, ciò che è lo stesso, che la morte è una proprietà essenziale della natura umana. Ora come conciliare siffatto intervento dell’induzione col dogma fondamentale dell’empirismo, quello che ne forma, a dir così, l’essenza e la vita, che, cioè, nel fatto risiede il criterio della verità? Se il fatto è il criterio della verità, che bisogno vi ha di un principio induttivo o altro? Pietro muore. Perché l’intelligenza andrà dalla morte di Pietro a quella di Paolo, da quella di Paolo a quella di Antonio e via discorrendo,

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Ora se il mondo de’ fenomeni e della esperienza non può esistere che nel sistema e in forma sistematica, ne siegue che an-

paragonando, generalizzando e inferendo mediante queste operazioni che l’uomo è mortale? Basterà osservare i singoli casi mano a mano che avvengono e attenersi a ciascun di essi, poiché ciascun di essi è la verità. E poi, se il fatto è la verità, che valore e che significato può avere il suo principio, il quale sarà necessariamente subordinato al fatto? Anzi non vi è ragione perché vi sia un principio. Perocché nel pensare il principio del fatto si muove dalla supposizione che la verità non è contenuta nel fatto, bensì nel suo principio. Ma ecco la soluzione dell’enigma. Mentre il fatto è il Dio dell’empirismo, questo affaccia in pari tempo la pretesa di essere una scienza, anzi la sola scienza. Ma qui sta l’impaccio, perché il fatto non è la scienza, bensì l’opposto della scienza. Come si salta il fosso? Fortunatamente c’è un ponte, l’induzione, la cui funzione consiste nel raccogliere i fatti e generalizzarli. L’induzione è il velo che, nascondendo il vero Dio dell’empirismo, nasconde anche l’inganno. Perocché ne’ consigli arcani dell’empirismo non è già l’induzione che domina il fatto, sibbene è il fatto che domina l’induzione, onde questa è subordinata a quello, a tal segno che, il fatto cambiando o dileguandosi, cambiano o si dileguano le conclusioni dell’induzione. L’inganno e l’equivoco stanno adunque in questo che, mentre l’empirismo è effettivamente la negazione della scienza, la negazione vi è dissimulata dall’induzione. Quanto poi all’induzione c’è in prima da notare ch’essa supera già il punto di vista dell’empirismo, poiché non solo non è più il fatto, ma in un certo senso n’è la negazione. Il fatto non ha in sé la sua ragion d’essere, e non può essere senza un principio che lo genera: tale è il significato dell’induzione. Onde l’induzione è già una confutazione del criterio fondamentale dell’empirismo, e l’uso che questo ne fa non è l’uso di un diritto, ma, a dir così, una violenza, una usurpazione. Ma quando anche legittimo ne fosse l’uso, quando anche, cioè, il processo induttivo fosse un processo essenziale e proprio dell’empirismo, questo rimarrebbe quel che è, e non migliorerebbe le sue condizioni. Perocché l’induzione è una forma limitata e subalterna che non contiene la ragione intrinseca né del fatto né di se stessa, e presuppone quindi un’altra ragione che genera e determina il fatto e l’induzione. Sapere per induzione che l’uomo è mortale, che i corpi si dilatano, che il fuoco brucia, e cose simili, non è conoscere il perché, la cagione intrinseca, la necessità universale e assoluta di cotesti fenomeni. Ed ecco perché tra il fatto e l’induzione è sempre il fatto che giudica in ultima analisi della verità. Onde quando anche l’induzione fosse un processo puramente empirico, e di cui l’empirismo può legittimamente servirsi come di cosa sua, non perciò il principio fondamen-

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che la cognizione de’ fenomeni, la cognizione sperimentale è essenzialmente sistematica. Perché nella verità e nella unità l’ente è com’è conosciuto e, viceversa, è conosciuto com’esso è. Onde se il mio pensiero, pensando il fenomeno, non lo pensa secondo il pensiero che lo genera e lo fa qual è, e il fenomeno, a sua volta, non è secondo questo medesimo pensiero, e il mio

tale e specifico dell’empirismo sarebbe cambiato o corretto, ma rimarrebbe quel che effettivamente è, e qual l’abbiamo più sopra definito, uno scetticismo larvato, uno scetticismo, cioè, che val meno del pretto scetticismo. E che tale sia il vero significato dell’empirismo l’ammettono a modo loro gli stessi empirici. Perocché, mentre levano a cielo i loro metodi ed il loro sapere, e guardano con occhio compassionevole la scienza speculativa, che, mi sia permesso dirlo tra parentesi, non intendono, e, ciò ch’è più strano, i cui principi e risultati adoperano manomettendoli, mentre, dico, levano a cielo i loro metodi ed il loro sapere, quando poi si viene al vero nodo della questione, alla soluzione finale del problema, al porro unum est necessarium, confessano che non ne sanno nulla. Lo confessano, a modo loro, ma lo confessano. Newton, ad esempio, ci dice che intende solo parlare degli effetti delle forze attrattive e ripulsive, perché quanto alla natura di queste forze egli l’ignora, e non intende fare ipotesi. Claude Bernard dice in altri termini lo stesso intorno alla vita. Stando a lui, della vita non ci è dato conoscere l’essenza, ma soltanto le proprietà. Che si raffrontino questi ed altri esempi che sarebbe facile raccogliere, con la dottrina di Kant, e si vedrà che questa altro non è che l’espressione generale delle varie forme dell’empirismo. Gli effetti e la natura di Newton, le proprietà e l’essenza di Claude Bernard sono compresi nel concetto del fenomeno e del noumeno che Kant ha esteso alla cognizione in generale. Che si tratti della forza meccanica, o della forza vitale, o della materia, o dell’anima, o del corpo, o di altro, quel che possiamo conoscerne, secondo Kant, è solo il lato fenomenale; il noumeno è un ente posto al di là dei confini della nostra intelligenza. E se il kantismo è, come l’abbiamo dimostrato, uno scetticismo, l’empirismo, quale ne sia la forma, lo è per la stessa ragione. Il che spiega il fatto di cui siamo testimoni, e che è un de’ segni caratteristici dei nostri tempi, intendo parlare della corrente scettica che va sempre più ingrossando e invadendo la coscienza delle nazioni. È un fatto che ha, se non del tutto, in massima parte, la sua cagione nello sviluppo, starei per dire nella irruzione delle scienze sperimentali e nel predominio violento e illegittimo ch’esse hanno acquistato sul pensiero religioso e speculativo.

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pensiero e il fenomeno, come pure le loro relazioni si risolveranno in meri accidenti. Quindi, per quella stessa ragione che il fenomeno è un ente sistematico, la cognizione del fenomeno lo è del pari. E che il fenomeno sia un ente sistematico è una necessità inerente alla sua natura, però che, dato il rapporto determinato de’ fenomeni, è dato anche il loro essere sistematico. E il rapporto determinato deve considerarsi nel fenomeno non come un elemento estrinseco ed avventizio, ma come un elemento essenziale della sua natura, della sua realtà ed esistenza. L’aria, la luce, la pianta, l’animale, l’uomo, sia si considerino in se stessi, nel rapporto determinato delle varie parti, facoltà, proprietà, funzioni, che costituiscono la loro realtà, sia si considerino fuori di sé nei loro vicendevoli rapporti, non possono essere e manifestarsi che mediante e in questi rapporti. Io sono quel che sono, e in me stesso e nelle mie relazioni con la natura e con lo spirito, nel complesso e, a così dire, nell’intreccio sistematico di rapporti determinati, e non potrei essere ed operare fuori di siffatti rapporti. E l’in sé e il fuori di sé, in altra parola, il rapporto interno e il rapporto esterno, appunto perché sono rapporti determinati, vale a dire sistematici, sono indivisibilmente uniti, sono una sola cosa. Gli organi della pianta, ad esempio, costituiscono l’essere in sé, la subbiettività della pianta, ma in pari tempo la loro forma, il loro sviluppo, la loro attività sono inseparabili dall’ambiente, dall’aria, cioè, dalla luce, dall’acqua, dal suolo e via discorrendo, e dai rapporti determinati che tra questi ed essi intervengono. Onde l’unità attiva e vivente dalla pianta è l’unità sistematica di codesti rapporti. Ora se tale è la natura delle cose, se, cioè, nulla può esistere fuori del sistema e delle sue relazioni sistematiche, tale dovrà pur essere la cognizione che a questa natura corrisponde. Perché conoscere è appunto pensare le cose secondo e nella loro natura, o, ciò che torna lo stesso, la cognizione è il pensiero della natura delle cose, e quindi un pensiero in cui il pensiero

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e il pensato sono lo stesso. Onde a quella guisa che un ente diviso dal suo sistema è un ente morto, così il pensiero non sistematico non è il pensiero vivente, una energia, secondo l’espressione aristotelica, ma un pensiero morto, una vuota astrazione. Perché, ad esempio, se l’uomo è un ente essenzialmente socievole, un ente la cui natura non può svolgersi e attuarsi che in quel organismo che chiamasi società, pensare l’uomo fuori di quest’organismo è come pensarlo fuori di se stesso, dell’esercizio delle sue facoltà, de’ suoi mezzi, de’ suoi fini, in una parola, della sua natura. Ma a che approdano, si potrà domandare, questi ragionamenti? In ogni modo non pare dimostrino quel che voi intendete dimostrare. Perocché, dato pure che il fenomeno e l’esperienza, per essere ed attuarsi, richiedano un certo ordinamento sistematico, non si vede perché faccia mestieri di ammettere anche una unità, un principio assoluto. Quel astronomo che andette in cerca di Dio in tutta la distesa de’ cieli, e non poté rinvenirvelo, non negava, anzi riconosceva un ordinamento sistematico nella costituzione e ne’ moti de’ corpi celesti, pensava però che siffatto ordinamento può spiegarsi senza l’intervento di un principio assoluto. Perocché si comprende che le cose possono unirsi ed ordinarsi in virtù e per la necessità della loro natura, e senza l’azione di un altro principio. Il sistema planetario, la pianta, l’animale, l’uomo, i loro rapporti sono quel che sono per quella ragione propria ed intrinseca che appunto li fa quel che sono, e non si vede perché a codesta ragione se ne debba aggiungere un’altra, e questa assoluta. Che anzi il concetto dell’assoluto lungi di chiarire e sciogliere, rende più oscuro, più intricato, o, a dir meglio, insolubile il problema dell’universo, che lo si guardi dal lato della cognizione, o dal lato della esistenza. E, difatti, se si ammette un principio assoluto, farà d’uopo eziandio ammettere che è il principio della cognizione, e quindi che non vi ha cognizione possibile fuori e senza l’intervento di siffatto principio. Onde allorché si pensa

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un obbietto, un ente qualsiasi non è già la natura propria di questo ente, ma l’ente assoluto che si dovrà anzitutto pensare, per modo che, togliendo il pensiero, o, se vuolsi, la cognizione dell’assoluto, si toglierebbe ogni altra cognizione. Vi avrà adunque una sola scienza, la scienza dell’assoluto, e quindi le varie scienze particolari verranno annullate. Il che è assurdo, e assurdo in questo senso, che è appunto l’opposto della cognizione. Perocché la cognizione risiede nella cognizione della natura propria e specifica della cosa di cui si tratta, e non nella cognizione di un’altra natura. Se nel pensare, a mo’ d’esempio, l’animale, invece di pensare la natura dell’animale, penso l’assoluto, od anche penso l’animale mediante l’assoluto, che cognizione potrò acquistare dell’animale, dato pure che fossi in possesso della cognizione dell’assoluto? Quindi il concetto dell’assoluto o è superfluo, o è fatto per annientare ciò che si vorrebbe poggiar su di esso, vale a dire la scienza, poiché questa risiede appunto nella cognizione della natura specifica delle cose.

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Capitolo IV

Stesso argomento

Si ammette adunque che tanto il fenomeno quanto la percezione del fenomeno, cioè, l’esperienza, non possono intendersi ed attuarsi fuori di un certo ordinamento sistematico, ma non si vuole in pari tempo ammettere che siffatto ordinamento presupponga un principio assoluto, perché, dicesi, le cose non possono ordinarsi che in conformità ed in virtù della loro natura. Onde in codesta natura sta il principio del loro essere e del loro ordinamento, e l’assoluto è un ente supervacaneo, che non ha ragion d’essere, e di cui l’universo non abbisogna, e quindi è un impaccio, un assurdo da cui la mente deve liberarsi. Certo, le cose non sono, e non sono quel che sono che per un principio, una natura determinata e specifica, togliendo la quale, solo rimarrebbe una possibilità assolutamente indeterminata, il tutto in tutto, una miscela assoluta, il caos. Ma questo non è che un lato del problema, perché vi è l’altro, e quello che ne contiene la vera ed ultima soluzione, se, cioè, la natura, o, come anche dicesi, l’essenza delle cose ha in sé la sua ragione, e non richiede pur essa un principio assoluto che è appunto la ragione suprema del suo essere e del suo operare. Anche i materiali di un edificio, considerati in sé, posseggono una natura propria, una forma ed un contenuto determinati, pur tuttavia non sono l’edificio, e sono per se stessi impotenti ad inalzar-

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lo. L’edificio adunque non sarebbe, e non solo l’edi­ficio, ma i materiali stessi non avrebbero ragion d’essere in quanto materiali fatti per l’edificio, se al di sopra di essi non vi fosse, ed in essi non penetrasse quella unità attiva, quella energia che è la mente architettonica, la quale impartisce loro quell’essere e quella forma che in sé non posseggono. Il che si verifica, e in un modo più intimo e più profondo, nel rapporto delle essenze e dell’assoluto. Nel fatto, il mondo delle essenze, considerato in sé, partitamente e fuori dell’assoluto, non supera la sfera del fenomeno. Le essenze sono enti intelligibili, ma enti intelligibili fenomenali. E qui cade acconcio discorrer di nuovo e più distesamente di un libro celebre e, come è stato chiamato, sibillino, e di cui ho già discorso nella prima parte di questo scritto, intendo parlare della Fenomenologia dello Spirito di Hegel1. Ho stimato però opportuno premettere alla esposizione e all’esame di questo libro talune considerazioni intorno ai concetti di fenomeno e di sistema affin di meglio chiarirne e difinirne il significato. In generale s’identifica l’ente fenomenale coll’ente sensibile, ed a questo si oppone l’ente sovrasensibile, l’idea, o, come anche chiamasi con vocabolo aristotelico, l’intelligibile – to noetòn. Ma codesta è una nozione inadeguata del fenomeno, per ciò appunto che si esclude dal mondo fenomenale l’intelligibile, l’idea. Il concetto di fenomeno è un concetto concreto e sistematico. Le cose non appaion tutte alla stessa guisa, ma ciascheduna cosa ha la sua parvenza, apparisce, cioè, diversamente secondo la sua natura. Vi ha una fenomenalità, a dir così, superficiale, ed una fenomenalità profonda. Vi ha una parvenza esterna, ed una parvenza interna. E nell’una e nell’altra vi ha forme e gradi diversi. La vita e la storia delle nazioni, ad esempio, appaiono in modo diverso da quelle dell’individuo. L’im1.  Vedi A. Vera, Problema dell’Assoluto, Parte I, cit., cap. VI, p. 65 e ss.

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maginazione, la volontà, l’intelligenza hanno una fenomenalità propria, ed il pensiero scientifico appare anch’esso in quella forma speciale che dal pensiero popolare lo distingue. Ma l’ele­mento fenomenale penetra altresì nelle idee, in quanto vi ha in esse il momento del molteplice, della differenza, dell’opposizione, in quanto, cioè, differiscono dall’unità, e non sono l’uni­tà. Perocché, differendo dall’unità, differiscono appunto da quel principio che le unifica, e per ciò stesso sono l’una fuori dell’altra, l’una è estrinseca all’altra, nel che sta la loro parvenza, il loro essere fenomenale, sia pure questo essere eterno, però che essere eternamente ed essere assolutamente non son lo stesso. La natura può essere eterna, ed eterne possono essere le sue manifestazioni, ma non perciò esiste in modo assoluto, è l’assoluto. Quando pensiamo Dio come creatore, lo pensiamo come un ente che si divide da sé, si differenzia, e si differenzia apparendo nella creazione; in altra parola, Dio, nel creare e in quanto crea, è un ente fenomenale. Ed è tale non solo perché apparisce nel creato e nella coscienza, ma eziandio e anzitutto perché il creare e l’apparire sono un momento, un attributo essenziale della sua natura. Un Dio che crea val di più del Dio che non crea, e il Dio che crea eternamente val più del Dio che crea nel tempo, il che è come dire che un Dio che non crea e che crea nel tempo non è il vero Dio, non è Dio. Ma se il crea­ re, l’atto creatore, come chiamasi, è un momento necessario della natura divina, è in pari tempo un momento subordinato, appunto perché in esso Dio si differenzia ed apparisce. E questo è il profondo significato del demiurgo che crea mediante le idee. Il demiurgo è la personificazione delle idee in quanto queste non sono l’unità assoluta. Onde non è l’assoluto, bensì sono le idee che creano e si manifestano nella creazione. E si manifestano generando il mondo visibile, e divenendo esse stesse visibili nel generarlo. Perocché la causa apparisce precisamente nel generar l’effetto, e non apparisce come causa che generandolo. Ora l’ente fenomenale, sia apparisca nella sfera della sensibilità, o in quella dell’intelletto, è un ente finito e,

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secondo il concetto aristotelico, passivo. Ed è finito e passivo nella forma e nel contenuto. Quindi le cose sono finite e passive non solo nella loro immediata e singola esistenza, ma eziandio nella loro natura specifica, nel loro principio. La causa come tale è finita e passiva quanto l’effetto come effetto. E lo stesso dicasi dell’uno e del molteplice, del moto e del riposo, della volontà, dell’intelligenza, in una parola, delle differenze come differenze. E ciò già compresero gli antichi filosofi, e più specialmente Platone e Aristotile. Il bene di Platone è superiore alle essenze, ed impartisce non solo alle singole cose, ma alle essenze stesse l’essere e la verità. E tale è pure il motore primo di Aristotile. Il motore primo è l’attività, l’energia assoluta rispetto a cui le essenze, o energie particolari sono enti passivanti, cioè, che non sono causa sui, che non contengono in sé il principio del loro essere e del loro agire. Quindi la natura specifica delle cose, anziché bastare a se stessa, è essa che presuppone ed esige l’assoluto. Essa è un momento necessario, ma appunto questa sua necessità ne trae seco una più alta, la necessità di un principio assoluto. Specificare vuol dir dividere, isolare. He energeia chorizei, l’energia specifica divide, dice Aristotile, il che significa che l’energia specifica di un ente richiede un principio specificatore che divide e insieme unisce, che pone il limite e in un i rapporti, due cose indivisibili, o, a dir meglio, una sola cosa, un atto solo, perché è l’atto dello stesso principio che pone il limite e i rapporti, il limite implicando i rapporti, e rapporti determinati, e questi a loro volta implicando il limite. Donde la necessità assoluta dell’assoluto. Ora se l’assoluto è l’ente assolutamente necessario, la scienza dell’assoluto è per ciò appunto la più necessaria. Che le altre scienze non la credano tale, ciò non toglie affatto che non lo sia. Il non intenderne e non volerne ammettere la suprema necessità viene precisamente dal perché esse sono scienze empiriche e finite, finite quanto al loro obbietto e al loro metodo. Alla questione se vi ha una sola, o più scienze, si deve rispondere

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che vi ha una scienza che tutte le altre in sé contiene. Come le contiene, e come contenendole ne costituisce la verità e l’uni­ tà, è questa una questione che la filosofia dell’assoluto non può sciogliere ch’entro se stessa, né per altri che per se stessa. Il che potrà parer singolare. Eppure è quanto avviene in ogni scienza, come altresì nel rapporto della scienza con l’ignoranza. Perocché il matematico non dimostra, né può dimostrare la verità matematica a chi è estraneo alla matematica, ma la dimostra solo a se stesso e per se stesso. Chi è nell’alto ha un bel gridare a chi si tien sulla china o nel basso ch’egli s’inganna, e come, non abbracciando col suo sguardo il tutto, non può neanche scorgere i rapporti, le proporzioni, l’ordinamento e la ragione delle singole parti; ché chi sta nel basso, appunto perché sta nel basso, sosterrà che chi grida dall’alto grida così perché ha il capogiro e le traveggole. E per l’ignoranza la scienza è una follia, o al più, se non un danno, uno sterile passatempo. Si intende quindi come la filosofia non possa dimostrare alle altre scienze che il loro obbietto, i loro metodi e la loro cognizione sono subordinati ad un più alto obbietto e ad una più alta cognizione, e non contengono la verità che come momenti di codesta cognizione, ed in quanto vengono da essa pensati, affermati ed elevati al loro principio. Il che non deve ascriversi a impotenza della filosofia, bensì, al contrario, delle scienze particolari che, rinchiuse ne’ confini del loro obbietto, non possono elevarsi alla cognizione del loro comune e assoluto principio. Ma se la filosofia contiene le varie scienze, in altra parola, le varie sfere dell’essere e della conoscenza, gli è chiaro che non può contenerle che come sistema. Quindi, dobbiamo ripeterlo, una filosofia che non è un sistema non è una filosofia2. Ma abbiamo anche dimostrato3 che sistema e ragione sono una sola 2. Vedi A. Vera, Problema dell’Assoluto, Parte III, in «Atti dell’Accademia di scienze morali e politiche di Napoli», XV, 1879, cap. XVIII, e infra, cap. III. 3.  Ibid.

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cosa, ed, inoltre, che non può avervi che un sistema ed una ragione, che è l’assoluta ragione. Ora un sistema è necessariamente un tutto, un’unità concreta, l’uni­tà delle differenze, le quali sono differenze non di altri, ma di se stessa, onde l’unità e le differenze sono una sola cosa, in siffatta guisa che l’unità non è quel che è senza le differenze, ne queste sono quel che sono senza l’unità. Ma se l’unità e le differenze sono ugualmente necessarie, non ne siegue affatto che siano uguali in dignità, in efficacia ed intrinseco valore. L’unità, appunto perché è l’unità, supera le differenze, e le supera perché è il loro principio, ed è il loro principio come causa e come fine, in quanto cioè sono da essa e per essa generate. «Il bene (dell’esercito), dice Aristotile4, è nel suo ordinamento. E codesto bene è anzitutto il generale. Perocché non è l’ordinamento che fa il generale, ma è il generale che fa l’ordinamento… Tutte le cose sono coordinate all’unità». Sarebbe più esatto dire che sono coordinate dall’unità, la quale le coordina, e può coordinarle solo in quanto sono differenze di se stessa. Ma in qual guisa le differenze sono nella unità? Perché, se vi sono come differenze, l’unità non è più l’unità. E se non vi sono come differenze, come vi sono? E che possono essere le differenze che non sono come tali nell’unità? Aggiungasi che vi sono varie specie di differenze. Vi sono differenze che chiameremo ideali, ed altre che chiameremo reali, le differenze, cioè, della natura e dello spirito, in quanto lo spirito è nella natura. Come siffatte differenze sono nell’unità? A codeste questioni noi qui ci limiteremo a rispondere che le differenze, quali che siano, sono nell’unità come possono e debbono esser nell’unità in quanto unità sistematica e sistematizzatrice, vale a dire esse vi sono come poste e negate ad un tempo dall’uni­tà. La vera unità è l’unità negativa, la quale afferma così se stessa, ed in tale affermazione di se stessa genera ed insieme annulla le 4.  Met., L. XII, cap. X.

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differenze. E in questo senso essa è negazione della negazione, atto, energia assoluta. Onde è vero dire che senza codesta assoluta negazione nulla sarebbe. Dio crea e nega il creato. E se in Dio non fosse siffatta energia negativa Dio non creerebbe, e non potrebbe creare. Quindi in questa negazione son contenuti l’essere e il bene delle cose. Ma l’unità assoluta negativa, diciamo noi, non è l’unità fortuita e indeterminata, bensì l’unità sistematica, e perciò determinata. Perché sistema e indeterminazione sono una contradictio in terminis. Vi può, anzi vi deve essere nel sistema l’elemento indeterminato e passivo (l’apeiron di Platone, la dynamis di Aristotile), ma come elemento subordinato, come elemento cui forma e determina, o, a dir meglio, pone, e pone per sé il principio determinato e attivo del sistema. Onde il sistema sta appunto in questo, che il principio assoluto, in quanto principio assolutamente determinato e determinante, genera e determina secondo l’idea, cioè, secondo se stesso, la sua ragione, la sua natura, l’indeterminato, però che tutto è indeterminato rispetto all’assoluto in quanto assoluto. Ora se, da un canto, tutto è indeterminato, passivo, mutabile, e, per dirla in una parola, finito rispetto all’assoluto, e se, dall’altro, il mondo de’ fenomeni costituisce una sfera dell’assoluto sistema, come l’assoluto è nel mondo fenomenale, e come, essendovi, può esser l’assoluto? La soluzione di questa questione, che è la soluzione del problema, l’abbiamo già accennata. Essa sta nel dimostrare che l’assoluto è, e non è ad un tempo nell’ente fenomenale, o, secondo l’usata espressione, nel mondo. Il suo esser nel mondo è l’atto mediante il quale egli crea e conserva il mondo. Il suo non esser nel mondo è l’atto negativo del mondo, l’atto mediante il quale egli nega il mondo, e il mondo da sé creato, e nel quale egli è, appunto perché da sé creato, e quindi, negando il mondo, nega se stesso, e negando in tal guisa se stesso s’afferma nella pienezza e verità della sua assoluta esistenza. Abbiamo qui un rapporto simile, in qualche

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modo, a quello dell’anima e del corpo, perché anche dell’anima è vero dire che è e non è nel corpo. E se supponiamo che l’ani­ma sia il principio del corpo, essa non sarà tal principio che generando e negando ad un tempo il corpo. Però i due atti di cui è discorso devono pensarsi nell’assoluto come inseparabili, come un solo e stesso atto, un solo e stesso movimento. Non sono, cioè, due atti che si succedono nello spazio, nel tempo, nella rappresentazione; ché lo spazio, il tempo e la rappresentazione sono in essi inclusi come momenti subordinati, poiché l’assoluto pone egli stesso il suo contenuto. E lo spazio, il tempo, la rappresentazione sono determinazioni, momenti di codesto contenuto, momenti che nell’assoluto costituiscono l’ubiquità, l’eternità, e la creazione. Ripeto, adunque, che la soluzione del problema sta nel dimostrare che l’assoluto è, e non è nel mondo. Ora, se l’assoluto è un sistema, la dimostrazione in discorso è di necessità una dimostrazione sistematica. Ogni altra dimostrazione non può essere che una dimostrazione estrinseca, apagogica, indiretta, una dimostrazione che non pone e deduce la cosa da dimostrarsi, ma la presuppone, e quindi non è la vera dimostrazione, appunto perché presuppone il principio e il metodo dai e secondo i quali le cose sono generate, dedotte, ed ordinate. Ma poiché il mondo de’ fenomeni è pur esso parte del sistema e non può esistere fuori di un certo ordinamento sistematico, ne consegue che la cognizione dell’ente fenomenale è del pari una cognizione sistematica, onde e l’obbietto e il processo di siffatta cognizione stanno precisamente nel dimostrare in forma sistematica come l’assoluto, da un lato, sia nell’ente fenomenale e, dall’altro, da questo si distingua superandolo, e superandolo mediante quella negazione che costituisce l’atto, l’energia assoluta. E qui si colloca appunto la Fenomenologia dello Spirito di Hegel. Qual è il significato di questo famoso libro che tra gli scritti di Hegel è ora il meno studiato e conosciuto, ma che quando venne fuori fu salutato come l’apparizione di un nuovo astro

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luminoso nel campo del pensiero filosofico, nella lettura del quale, per dirla con Haym5, una generazione di giovani avidi di sapere ha logorato la sua mente, e che, secondo le parole del grande apostata hegeliano, Strauss, è l’alfa e l’omega dell’opera di Hegel6, quale è, dico, il vero e preciso significato di questo 5.  R. Haym, Hegel und seine Zeit, Lezione 10a, p. 214. A parer mio, questo libro del­l’Haym può tornar utile a colui che è già abbastanza versato nella filosofia hegeliana per la copia delle notizie che vi sono raccolte, ma, dall’altro canto, sembra fatto a bella posta per fuorviare chi n’è digiuno, o non ne ha che una conoscenza superficiale. 6.  Queste parole dello Strauss sono tolte dalla biografia da lui scritta del suo amico e condiscepolo Cristiano Märklin, libro interessante per la semplicità ed eleganza del dettato, e anzitutto per la viva ed attraente pittura che Strauss vi fa della vita seria e laboriosa dello studente tedesco. Nel mio libro Strauss et l’ancienne et la nouvelle foi ho citato il passo ove si trovano le sovrastate parole, accompagnandolo con talune osservazioni. E siccome il passo e le osservazioni si connettono con la questione in discorso, ho creduto opportuno porle qui dinanzi al lettore. In un capitolo del suddetto libro intitolato Anni di gioventù (Università), la sua vita e i suoi studi universitari, Strauss dice: «Noi scegliemmo per farne la nostra lettura (nel che avemmo la mano felice) non già l’Enciclopedia (di Hegel) che col suo procedimento aforistico, porge al principiante, anziché vera luce, vocaboli e formole, ma un altro libro non meno decantato dallo Zimmerman (un condiscepolo), la Fenomenologia. Questo libro può dirsi l’alfa e l’omega dell’opera di Hegel (!!). È da esso che salito su un naviglio costrutto colle sue proprie mani egli mosse per fare il giro del mondo. In prosieguo più ferma divenne forse la sua direzione, ma navigò in mari meno vasti. Tutti gli scritti e corsi posteriori di Hegel, la Logica, la Filosofia del Diritto, la Filosofia della religione, l’Estetica, la Storia della Filosofia e la Filosofia della Storia non sono che estratti della Fenomenologia le cui meravigliose ricchezze non troviamo riprodotte che in modo assai imperfetto, e in una forma molto meno felice nella Enciclopedia (!!!). La Fenomenologia segna l’apogeo del genio di Hegel. Egli si tiene alla stessa altezza nella Logica. La prima edizione della Enciclopedia non segna ancora precisamente un passo indietro. Ma a Berlino, per cagioni che non è qui il luogo di esporre, Hegel declina, e più vanno diffondendosi il suo nome e la sua influenza, più va in lui scemando l’energia incorruttibile del pensiero filosofico». Questo dice Strauss. La Fenomenologia sarebbe adunque la grande idea fondamentale della filosofia hegeliana, e segnerebbe l’apogeo del genio di Hegel! E gli altri libri e lavori di Hegel non sarebbero che estratti o appendici

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libro? E qual posto tiene, e quale funzione adempie nel sistema hegeliano e nella storia del pensiero filosofico? Come l’ho già notato7, a questi quesiti non si è data una risposta soddisfacente. Ed, invero, intorno ad essi sorgono difficoltà che paiono a prima vista insuperabili. Hegel pubblica la Fenomenologia nel 18078. È questo, se non il primo scritto, il primo libro da lui pubblicato9, ed egli lo annuncia come formante della Fenomenologia! Ed è bene notare che queste linee sono state scritte nel 1851, quando Strauss avea di già pubblicata non solo la Vita di Gesù Cristo, ma eziandio la Dommatica (1840). Che strana maniera d’intendere Hegel, e di presentarlo ai suoi lettori! Sì, la Fenomenologia è un capolavoro di stile e di pensiero. Ma il vero si è che né la Fenomenologia, né la Logica (che l’autore, dopo aver detto che la Fenomenologia segna l’apogeo del genio di Hegel pone nondimeno alla stessa altezza, per modo che il genio di Hegel penzolerebbe tra due apogei) segnano il punto culminante del genio di Hegel. Questo punto è nel sistema, e il sistema è l’Enciclopedia. E perché Strauss assegna un sì alto posto alla Fenomenologia? Perché, si deve credere, essa è venuta fuori prima dell’Enciclopedia e della Logica. Ma, in primo luogo, si sa positivamente che quando Hegel pubblicò la Fenomenologia (1807) il suo sistema esisteva già fin dal 1800, ed esisteva non solo in forma di embrione nella sua mente, ma sulla carta. Hegel ha potuto più tardi ritoccarlo, modificarlo, rimaneggiarlo, ma il sistema esisteva. Né ciò potea avvenire altrimenti. Perocché la Fenomenologia non solo, ma altresì la Logica, che tiene un posto sì importante nella dottrina hegeliana presuppone il sistema, e non ha senso, anzi è impossibile fuori del sistema. Quindi ciò che è vero dire si è che, quando anche il sistema non fosse esistito sia nella mente di Hegel, sia sulla carta prima della pubblicazione della Fenomenologia, è in ogni modo l’Enciclopedia, vale a dire il pensiero profondo e sistematico dell’unità, che segna il punto culminante del genio di Hegel. E codesto pensiero si è che nel fatto ha generato la Fenomenologia e la Logica, in una parola, tutti i libri e lavori di Hegel. Questo è il vero e l’essenziale. E non scorger l’essenziale nelle cose, è presso a poco non scorgervi nulla. 7.  Vedi Parte I, cit., cap. VI, p. 65. 8.  Si sa che era terminata nel 1806; ma non venne in luce a Bamberga che nel novembre del 1807, sotto il titolo di Die Phänomenologie des Geistes, oder die Wissenschaft von der Erfahrung der Bewusstseyns (Fenomenologia dello Spirito, ossia la scienza della esperienza della coscienza). 9.  Prima della Fenomenologia dello Spirito Hegel pubblicò vari ed importanti scritti nel Kritische Journal der Philosophie, giornale o, meglio, rivista

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la prima parte del sistema, e nello stesso tempo come quella parte che non appartiene, strettamente parlando, al sistema, ma che solo manoduce la mente al punto ove comincia la cognizione veramente filosofica10, che è quanto dire sistematica

compilata da Hegel in collaborazione con Schelling. Di questi scritti i principali sono: Glauben und Wissen (Fede e Scienza) che contiene una critica delle dottrine di Jacobi, Kant e Fichte; Differenz des Fichteschen und Schellingschen Systems der Philosophie, in cui Hegel non solo si addentra nel principio della filosofia di Schelling più profondamente dello stesso Schelling, ma comincia a separarsi da Schelling: Das Verhältnis des Skeptizismus zur Philosophie (Rapporto dello scetticismo e della filosofia) in cui si dimostra come lo scetticismo sia un momento necessario e intrinseco della filosofia: Über die wissenschaftlichen Behandlungsarten des Naturrechts (Sui vari modi di trattare scientificamente il Diritto di Natura) che è come un primo sbozzo della filosofia dello Spirito. Ma oltre questi lavori pubblicati a Jena tra il 1801-1802, Hegel dettò, parimenti a Jena, tra il 1803 e 1806, un corso di lezioni sulla Storia della filosofia (sulla Storia della Filosofia di Hegel vedi l’introduzione dell’editore Michelet), e (come egli stesso lo dichiara in due lettere di cui l’una a Voss, il traduttore di Omero, e l’altra a Schelling che avea lasciato Jena, ed insegnava allora filosofia nella Università di Wurzburgo) sull’insieme del suo sistema, totam philosophiae scientiam, cioè Logica e Metafisica, filosofia della Natura e filosofia dello Spirito. Tutti questi lavori precedono adunque la Fenomenologia dello Spirito, che terminata nel 1806 a Jena venne pubblicata a Bamberga nel 1807. Né ciò è tutto. Perocché noi abbiamo una prova materiale nei manoscritti lasciati da Hegel che già prima del suo tramutarsi a Jena, cioè prima del 1801, e fin dal 1797 e durante la sua dimora a Francoforte, il suo sistema già esisteva, in quanto ne avea delineato le divisioni fondamentali, la Logica, cioè, la filosofia della Natura e la filosofia dello Spirito (Vedi K. Rosenkranz, Vita di Hegel [1844]. R. Haym, Hegel und seine Zeit, Lezioni 4, 5 e 8). Ed è questo un punto importante per intendere e determinare il significato della Fenomenologia dello Spirito, come verrà spiegato qui appresso. 10.  Nella 2a edizione della Fenomenologia di cui Hegel avea appena incominciata la correzione quando la morte lo colpì, e che venne poi pubblicata da un suo discepolo, D. F. Schulze, egli tolse la designazione di prima parte del sistema, il che mostra che questa designazione non fu che una svista, una espressione impropria che intese correggere cancellandola. E, difatti, la Fenomenologia è ben una parte del sistema, ma non nel senso di parte, o divisione fondamentale, come la Logica, o la Natura, o lo Spirito, ma nel senso

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e assoluta11. Onde egli solea chiamare la Fenomenologia il suo viaggio di esplorazione e scoperta, il viaggio mediante il quale la mente si eleva attraverso le trasformazioni della coscienza alla sfera dell’assoluta cognizione. E pur nondimeno nella Fenomenologia si espone e dimostra già sistematicamente il contenuto della coscienza, o, a dir meglio, la Fenomenologia altro non è se non l’esposizione sistematica del contenuto della coscienza. Aggiungasi che codesto contenuto è in qualche modo il contenuto stesso del sistema. Perocché vi si muove dal momento più elementare e immediato della coscienza sensibile, e vi si svolgono e descrivono le varie sfere della coscienza, sì della coscienza subiettiva, individuale e psicologica, che della obbiettiva e universale, quale si attua nello Stato, nell’arte e nella religione. Onde l’Haym ha potuto dire che la Fenomenologia è già il sistema intero12. Infine, nel sistema riapparisce la Fenomenologia, ma in altra guisa, sotto altro sembiante, non più, cioè, qual prima parte della scienza, coi suoi larghi sviluppi, col suo vasto orizzonte che abbraccia, a dir così, l’universo, e neppure come processo e propedeutica della mente che mena alla scienza, ma rimpicciolita e rincantucciata in un angolo del sistema, nella sfera della coscienza subbiettiva13. Come conciliare un tal cumulo di contraddizioni? Perocché, mentre si dice che la Fenomenologia è un viaggio di esplorazione che mette capo alla cognizione filosofica, che è quanto che nel sistema vi ha il momento o la sfera fenomenale, che è appunto quella sfera che Hegel ha assegnata alla Fenomenologia nella filosofia dello Spirito. 11.  Fa appena bisogno rammentare che nel senso hegeliano cognizione filosofica, cognizione sistematica, e cognizione assoluta esprimono la stessa cosa. E, difatti, uno è il pensiero filosofico, e uno il processo, l’atto di codesto pensiero. Onde pensare filosoficamente vale quanto pensare sistematicamente, e pensare le cose come momenti, determinazioni, differenze dell’assoluto sistema, o, ciò che torna lo stesso, della unità assoluta. 12.  R. Haym, op. cit., Lezione 11, p. 254. 13. Vedi Filosofia dello Spirito, § 413 e ss.

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dire sistematica, si adopera nello stesso tempo, per raggiungere lo scopo, un procedimento sistematico e per tal guisa si presuppone la cognizione filosofica e il sistema; mentre in essa si espone e sviluppa sistematicamente il contenuto della cognizione filosofica, si dice poi che essa non è il sistema; e, da ultimo, mentre fuori del sistema, e come propedeutica della cognizione filosofica essa contiene la materia, l’obbietto intero di codesta cognizione, nel sistema poi si vede di nuovo venir fuori, ma deformata, e si direbbe come un’ombra di se stessa. E, difatti, sono queste difficoltà insuperabili per chi non guarda e abbraccia il complesso di quelle condizioni e di quegli elementi subbiettivi e obbiettivi, storici e speculativi che formano l’ambiente ove sorse e si svolse la filosofia di Hegel, e nei quali questa infuse una nuova e più alta vita raccogliendoli ed ordinandoli in una profonda e vasta sintesi. Innanzi tutto devesi por mente al fatto qui sopra notato che, cioè, quando venne in luce la Fenomenologia il sistema già esisteva, ed esisteva compiuto, se non ne’ suoi particolari, nel suo disegno generale, e nelle sue principali divisioni14. È questo un punto essenziale per intendere lo sviluppo e la manifestazione

14.  Agli scritti sopra citati (nota 9, pp. 96-97) se ne deve aggiungere un altro che ha per titolo System der Sittlichkeit (Sistema dell’Etica). È un manoscritto di 22 fogli di una scrittura compatta, e che dové servir di testo al corso di lezioni dettate da Hegel a Jena nel 1802. Esso forma insieme coll’altro scritto sul Diritto di Natura il primo sbozzo, ma uno sbozzo particolareggiato della Filosofia dello Spirito. E per riepilogare e completare queste notizie e quelle contenute alle pp. 96-97, farò osservare che quando si segue passo passo la formazione del pensiero hegeliano, si vede che Hegel andò raccogliendo i materiali del suo sistema fin dal 1793 durante il suo soggiorno in Isvizzera, e che dal 1797, anno in cui fece ritorno in Germania e si recò a Francoforte, fino al 1800-1802, codesti materiali aveano già preso la forma di sistema, come l’attestano i manoscritti lasciati da Hegel che contengono la Logica e Metafisica, la Fisica o filosofia della Natura, e la filosofia dello Spirito, ove trovasi già il concetto dello Spirito come unità assoluta della Logica e della Natura.

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del pensiero hegeliano. Perocché esso mostra che il sistema ha preceduto non pure nell’ordine della verità, ma eziandio in quello della sua manifestazione, non pure nell’ordine logico, ma eziandio nel cronologico. Che la Fenomenologia sia stata pubblicata prima del sistema quale poi venne fuori sotto il titolo di Enciclopedia delle scienze filosofiche, ciò non è che il fatto subiettivo e accidentale, mentre il fatto obbiettivo ed essenziale si è che il sistema ha preceduto la Fenomenologia. L’ha preceduta, e dovea precederla, perché gli è chiaro ch’essa è il portato del pensiero sistematico, onde, togliendo questo, cioè, il sistema, si toglie l’attuazione non solo, ma la possibilità puranche della Fenomenologia. E qui dobbiamo a questa restringerci, ma agevole sarebbe dimostrare che tutti gli scritti di Hegel contemporanei o anteriori alla Fenomenologia portano l’impronta o, a dir meglio, sono generati dal pensiero sistematico. Onde nella mente di Hegel pensiero filosofico e pensiero sistematico sono la stessa cosa15.

15.  I più importanti tra gli scritti pubblicati prima della Fenomenologia sono quelli che versano l’uno su Fede e Scienza, e l’altro sul Rapporto dello Scetticismo con la Filosofia. Questi due scritti, quantunque volgano intorno a temi diversi, sono nulladimeno parti dello stesso pensiero, e si ricongiungono nello stesso scopo. Nel primo, Hegel si fa ad esaminare e definire il punto che avea raggiunto in Germania il movimento del pensiero filosofico fino a quel giorno, e dimostra che non si era inalzato al di là de’ confini della fede. La scienza sta appunto nella cognizione dell’assoluta unità, dell’assoluto. Togliete questa suprema cognizione, e l’edificio intero della scienza crolla, e si ricade nella fede, o nello scetticismo. Cosa è la fede? La fede nel senso proprio e eminente della parola è la fede in Dio, nell’assoluto, e la fede nell’assoluto è il sentimento dell’assoluto, sentimento mosso da un certo intuito dell’assoluto, e da una certa adesione della intelligenza a siffatto intuito. Ma nella fede l’unione del subbietto e dell’obietto è sempre una unione estrinseca, e quindi contingente e variabile. Il subbietto sente e intuisce in sé l’obbietto assoluto, ma come un ente immediato, presupposto, che viene dal di fuori, e che perciò rimane ad esso estrinseco, e per la stessa ragione il subbietto rimane estrinseco all’obbietto. Dio come puro obbietto, sia del mondo in generale, sia della coscienza, non solo è a questi estrinseco,

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Ma si domanderà: se il sistema esisteva prima della Fenomenologia, e se l’essenziale è il sistema, a tal segno che senza il sistema non si può concepire e intendere la Fenomenologia, perché Hegel ha capovolto l’ordine delle cose premettendo la Fenomenologia al sistema? E come la Fenomenologia può chiamarsi un viaggio di scoperta, se il sistema l’ha preceduta? ma questi pur anco sono a Dio estrinseci. In altra parola, nella fede non si ha l’unità interna, mediata e dimostrata del subbietto e dell’obbietto. Onde la fede non vince nel fatto la dualità e lo scetticismo, il che è quanto dire che non raggiunge la sfera della scienza. Kant, Fichte e Jacobi sono i rappresentanti della dottrina della fede. Ed, invero, mentre ciascuno di loro mira a sciogliere a suo modo il problema della scienza, partendo da concetti diversi della scienza e adoperando parimenti, per raggiungere lo scopo, procedimenti diversi, s’incontrano poi nella soluzione finale, in quanto riconoscono tutti e tre nella fede il culmine e in un il limite della intelligenza. Nella Critica della ragione pura, ed anche nella Critica del Giudizio, la dottrina kantiana non è che uno scetticismo velato, l’equivoco introdotto nel campo filosofico. E Kant stesso implicitamente ne conviene, allorché, per liberarsi dallo scetticismo, ricorre nella Critica della ragione pratica ai postulati della ragione pratica. Siffatti postulati altro non sono che forme diverse della fede, della fede nella legge morale, nella immortalità dell’anima, e anzitutto nella esistenza di Dio. In altra parola, i postulati sono precetti della ragione pratica in quanto fede, e non della ragione teoretica in quanto scienza; ché anzi, allorquando la scienza ne fa il suo obbietto e imprende a dimostrarli, s’impiglia in quelle illusioni e in quei paralogismi onde è discorso nella Critica della ragione teoretica. Né diverso è il risultato ultimo della filosofia di Fichte. L’io e il non-io ponendosi, opponendosi e conciliandosi raggiungono un punto ove si trovan dinanzi un intoppo, Anstoss, un ostacolo insormontabile, un ente, cioè, misterioso cui si sentono intimamente uniti, e ch’è l’obbietto supremo della loro aspirazione, ma di un’aspirazione che rimane eternamente insoddisfatta, però che l’obbietto che la muove e l’attira ad essa eternamente si sottrae. Onde anche qui non si ha la scienza, ma la fede, e la Wissenschaftslehre (Dottrina della scienza – è il titolo del libro di cui Fichte espone i principi fondamentali della sua filosofia) si risolve in una Glaubenslehre (Dottrina della fede). E dottrina della fede, o della conoscenza immediata ha denominato Jacobi la sua filosofia. Jacobi non nega in apparenza la cognizione, ammette però soltanto la cognizione immediata, e rigetta la mediata, riflessa e dimostrativa. In che sta la cognizione immediata? Nella percezione e affermazione dirette e senza mediazione dell’ob-

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A tali obbiezioni si può primieramente rispondere che Hegel ha pubblicato prima del sistema intero, cioè, dell’Enciclopedia, non solo la Fenomenologia, ma altresì la Logica che è una del-

bietto, della sua realtà e verità. Alle questioni, per esempio, se Dio esiste, ovvero se il mondo esterno è quale lo percepiamo, si può solo rispondere coll’intuito spontaneo, immediato, cioè con un atto di fede. Questo solo può ingenerare negli animi la convinzione e la certezza, mentre ogni procedimento mediato, cioè, sillogistico e dimostrativo o approda a nulla, o genera il dubbio o la negazione. – La dottrina di Jacobi non differisce nell’essenziale da quella di Kant. La cognizione immediata corrisponde ai postulati della ragione pratica, e l’esclusione della cognizione dimostrativa corrisponde alla critica della ragione teoretica. E ciò dimostra Hegel, e dimostra in pari tempo che le tre dottrine in discorso involvono la negazione della scienza e quindi, relativamente alla scienza, altro non sono che forme diverse di una sola e stessa dottrina, la scettica. E il loro scetticismo scaturisce da una fonte comune, dalla impotenza a pensare e dimostrare l’unità, la vera unità, cioè, l’unità sistematica. Perché nel pensiero e linguaggio hegeliano, lo ripetiamo, unità e unità sistematica hanno un solo e medesimo significato. E la scienza non può vincere lo scetticismo che inalzandosi a siffatta unità. E questo è appunto il concetto fondamentale dell’altro scritto sul Rapporto dello Scetticismo con la Filosofia. La radice prima e profonda dello scetticismo è la differenza, l’opposizione, la contraddizione. Come vincere lo scetticismo? Prima di Hegel si credeva poterlo vincere confutandolo, mostrandone, cioè, il falso e dichiarandolo una dottrina puramente negativa ed estranea alla verità filosofica. Il che nasceva appunto dal concetto astratto e non sistematico della verità e della unità. Onde la vecchia confutazione dello scetticismo era, come la vecchia logica, una confutazione astratta, formale, e perciò impotente e falsa. Perché la contraddizione c’è, e c’è qual elemento essenziale del pensiero e delle cose, a tal segno che, come dice altrove Hegel, nulla vi ha in terra e in cielo che possa sfuggire alla contraddizione. Quindi non si confuta lo scetticismo escludendolo, sì bene includendolo nella cerchia della verità filosofica, dimostrando, cioè, che ne costituisce un momento essenziale e necessario, ma ad un tempo subordinato. E tale è il vero rapporto dello scetticismo e della filosofia. Non è un rapporto di esclusione, ma di subordinazione; è il rapporto della differenza dell’unità. E la dimostrazione di codesto rapporto, che forma il tema dello scritto di Hegel in discorso, solo il pensiero sistematico potea escogitarla e attuarla. Vedi A. Vera, Problema dell’Assoluto, Parte II, in «Atti dell’Accademia di scienze morali e politiche di Napoli», XIII, 1875, cap. XVII.

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le parti più essenziali del sistema, sì essenziale che da taluni la filosofia di Hegel è stata chiamata un panlogismo16. Quindi si comprende come il sistema potesse già esistere nei suoi lineamenti generali ed essenziali, ma come, non essendo compiuto in tutti i suoi particolari, Hegel ne abbia comunicato al pubblico le varie parti mano a mano veniva compiendole. Il che è conforme al genio e alle abitudini della mente di Hegel che non si affrettava, e maturava lungamente il suo pensiero prima di esternarlo, distinguendosi in ciò da Schelling che, secondo il detto dello stesso Hegel, fece la sua educazione filosofica dinanzi al pubblico. E Hegel poté anche essere indotto a dar fuori la Fenomenologia prima delle altre parti del sistema considerando che, quantunque non ne costituisca una delle parti fondamentali, pur nondimeno forma un tutto sistematico, e quindi una introduzione e come una prima iniziazione al sistema. In tal senso Hegel ha potuto chiamarla viaggio di scoperta17, non perché lo scopo, la meta del viaggio non preesistesse già nella sua mente, che senza la cognizione preesistente della meta non potea intraprendere il viaggio e rintracciar la via che alla meta dovea condurlo, ma nel senso che nell’ordinamento sistematico del mondo de’ fenomeni egli scorse e trovò la conferma, e, a dir così, l’immagine del sistema18.

16.  Le parti fondamentali della Logica (l’Essere, l’Essenza e la Nozione) vennero pubblicate in tre libri tra il 1812 e il 1816. 17.  Sarà bene notare che Hegel adoperava questa espressione conversando e nella cattedra. E chi ha l’esperienza dell’insegnamento sa che per adattarsi all’intelligenza degli uditori, od anche per destare e tener vive la curiosità e l’attenzione, sovente, si usano, insegnando, locuzioni ed immagini che non sono l’espressione fedele e adeguata del pensiero. Hegel nell’esporre la Fenomenologia ha potuto dire, guardandola dal punto di vista dell’uditore e del discepolo, che è un viaggio di scoperta. Ed è tale, difatti, pel discepolo la cui mente essa mira a elevare alla scienza. 18.  Si ponga mente che qui non si tratta di un viaggio geografico che ha per oggetto finale la scoperta di terre e prodotti ignoti, la cui natura o esistenza

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Nondimeno si dovrà convenire che queste od altre simili ragioni, qual che ne sia il valore, sono ragioni subiettive ed estrinseche, ragioni che non colgono e chiariscono l’intrinseco rapporto della Fenomenologia col sistema. Che la Fenomenologia sia stata pubblicata prima o dopo il sistema, che il sistema abbia preceduto o seguito la Fenomenologia nella mente di Hegel e sulla carta, tutto ciò non tocca, e quindi lascia insoluta la questione essenziale del loro nesso obbiettivo e consustanziale. Vi ha un sistema, e un sistema assoluto, o, se vuolsi, Dio, l’Assoluto, è l’assoluto sistema dell’essere e della cognizione. Come e perché in siffatto sistema vi ha il momento, la sfera fenomenale? E qual è la necessità, e quale la funzione di codesta sfera? Tale è la vera questione, quella che guarda all’intrinseco rapporto della Fenomenologia col sistema. Ora gli è chiaro che la dimostrazione di siffatto rapporto non risiede nella Fenomenologia, per la ragione appunto che l’ente fenomenale non genera e dimostra se stesso, ma è generato e dimostrato. L’ente fenomenale è necessario, l’abbiamo già notato, ma la sua è una necessità subordinata. E vi son gradi nell’assoluto appunto perché è un ente concreto e sistematico. E in un sistema tutto è necessario, ma il più, l’assolutamente necessario è il principio dell’unità. Donde già si vede quanto sia lontano dal vero il detto dell’Haym che la Fenomenologia è il sistema intero. Come può essere il sistema intero se non contiene il principio del sistema, e perciò neanche di se stessa? La Fenomenologia è quel che è, e può e deve essere, cioè la sfera dell’apparenza dell’assoluto. Dio crea, si manifesta, appare, e quindi esiste mediante e in questo suo apparire come ente logico-­fenomenale. Ciò che appare, appunto perché è l’appariè meramente presunta o problematica, e che si compie attraverso regioni e vie parimenti incerte e sconosciute. Qui si tratta di un viaggio scientifico che ha uno scopo certo e assoluto, e si svolge e compie secondo certe forme e norme determinate.

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re divino, è la ragione, il logos, ma il logos fenomenico. In altra parola, Dio manifestandosi manifesta, e non può manifestare che se stesso, onde ciò che esiste nelle sue manifestazioni è egli stesso, solo però come simbolo, immagine, rappresentazione di se stesso. Egli è nel fenomeno, secondo l’usata espressione, come lettera e non come spirito. Alla questione se lo spirito è nella lettera, l’intendimento formale e astratto risponde sì o no19. Ma la vera risposta, la risposta del pensiero concreto, speculativo e sistematico è sì e no. Perché se lo spirito non è 19.  Di qui nascono le difficoltà e le erronee conclusioni della critica in generale. Di fronte alle differenze, la critica (intendo la critica dell’intendimento astratto) si appiglia al sì o al no, spezzando in tal guisa i rapporti, e quindi la natura e realtà delle cose in rapporto. Vi ha differenza tra la categoria e il suo contenuto, come lo chiama Kant. Sorge la questione: havvi un rapporto di natura, consustanziale tra la categoria e il contenuto? Kant risponde negativamente. La risposta è assurda, contraria non meno al fatto che alla ragione; al fatto, perché nel fenomeno la categoria e il contenuto sono strettamente uniti; alla ragione, perché non si comprende come due enti possano unirsi se non vi ha tra loro una certa comunanza di natura. Parimenti, nella critica della prova ontologica Kant spezza col suo metodo critico-analitico l’unità dell’idea e del fenomeno, e dopo averla così spezzata, conchiude che l’infinito, l’ente perfetto non esiste, perché il mondo de’ fenomeni non è adeguato, non corrisponde all’ente perfetto, in altra parola, perché non si ritrova l’ente perfetto nella cerchia dell’esperienza. Ma, primieramente, non è vero dire che l’ente perfetto non sia in verun modo nell’esperienza. Esso vi è come può e deve esservi, vale a dire vi apparisce, subbiettivamente nella coscienza, nel sentimento, e obbiettivamente nella religione. Il che costituisce il lato della esistenza estrinseca e fenomenica dell’assoluto. Ma l’assoluto appunto perché è l’assoluto nega questo lato della sua esistenza, il mondo, e si afferma così come assoluto. Onde la critica kantiana falsa ad un tempo l’esperienza e il pensiero speculativo; l’esperienza, perché non riconosce la presenza dell’assoluto nel mondo; il pensiero speculativo, perché l’assoluto come tale non può concepirsi ed esistere che come un ente che supera il mondo de’ fenomeni e della esperienza. Dire adunque che non esiste perché non vien dimostrato dall’esperienza è dire precisamente il contrario di ciò che si deve dire. Perché l’assoluto come assoluto allora appunto non esisterebbe quando fosse o potesse essere un obbietto della cognizione sperimentale.

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nella lettera, che significato e che valore ha la lettera? E donde viene e può venire? Lo spirito è adunque nella lettera, vale a dire, l’assoluto è nel mondo fenomenale, ma vi è ponendolo e negandolo ad un tempo. E lo pone e insieme lo nega appunto per essere e perché è l’assoluto; perché, cioè, il porlo e il negarlo costituiscono il suo essere e la sua energia assoluti. Ed in siffatta guisa è immanente nel mondo. Dio non è immanente nelle cose in esse, a dir così, disperdendosi e secoloro immedesimandosi, ma in esse manifestandosi e ad un tempo negandole. Ed in siffatta immanenza è contenuta la ragione della Fenomenologia e dell’intimo nesso che questa congiunge coll’assoluto o col sistema20. Perocché l’immanenza dell’assoluto nel mondo altro non è che la sua esistenza fenomenale, il suo apparire. Ora Hegel, meditando e componendo il suo sistema, vide che i concetti di sistema e di assoluto sono inseparabili, o, a dir meglio, una sola cosa. E vide parimenti, addentrandosi nel concetto di fenomeno, come l’elemento fenomenale, l’apparire, penetri nella intima ragione delle cose, cioè, nell’assoluto stesso, e quindi, e perciò appunto come il mondo de’ fenomeni formi anch’esso un sistema. Perocché, l’abbiamo già notato, tutto è sistematico nel sistema, onde la parvenza dell’assoluto non può effettuarsi che in forma sistematica. La Fenomenologia è adunque essenzialmente un sistema, però subordinato, un sistema, cioè, che non rinchiude in sé la ragione del suo essere, e che quindi non può dimostrar se stesso. Onde la

20.  Gioverà avvertire il lettore che questo e non altro è il punto di cui qui si tratta. Non si tratta, cioè, di far la critica della Fenomenologia quale l’ha ideata Hegel, né di esporre e giudicare i principi fondamentali del sistema hegeliano. Questi sono punti che verranno esaminati in appresso. Qui si tratta solo di determinare il concetto e la ragione generatrice della Fenomenologia, ed il nesso di questa, o, ciò ch’è lo stesso, il posto ch’essa tiene nel sistema.

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mente fenomenica, sia pur la mente scientifica, è una mente empirica, scissa, impotente a dimostrar se stessa e le cose in generale, e che perciò si muove fuori della sfera della scienza nel senso eminente e specifico della parola. Tale è la mente che ha generato le filosofie di Kant, di Fichte e di Jacobi, le quali, non superando il dualismo, non superano la sfera dell’ente fenomenale. Perocché ove il dualismo, che è quanto dire il molteplice e il diverso, non è vinto dall’unità, non vi ha che l’ente estrinseco e fenomenale21. Onde la Fenomenologia ha un doppio significato, e mira a un doppio scopo. Essa ha per iscopo di provare, da un lato, che il mondo de’ fenomeni non è un prodotto del caso, di una forza arbitraria e fortuita, e quindi un complesso di enti e fatti accidentali, ma, al contrario, un mondo in cui si manifesta e vive l’assoluta ragione, però in una forma subordinata, come parvenza, divenire, alternare della generazione e della distruzione, della vita e della morte, e, secondo le parole di Hegel, come una miscela di verità e

21.  Una dottrina che non raggiunge l’unità non si eleva al di sopra della sfera dell’ente fenomenale. Se, per impossibile, vi fossero due assoluti, due differenze assolute poste l’una di fronte all’altra, queste due differenze sarebbero l’una estrinseca all’altra, e la loro estrinsechezza trarrebbe seco la loro fenomenalità. Perocché l’una apparirebbe fuori di sé, dinanzi e fuori dell’altra, appunto perché non vi è l’unità che, unendole, sopprime la loro parvenza. Ne segue che la dottrina della fede non supera la sfera dell’ente fenomenale. In essa Dio e il mondo appariscono come due enti estrinseci, o, ciò che torna lo stesso, come uniti da un rapporto estrinseco, onde il loro incontro, la loro unione rimane una unione estrinseca, arbitraria e contingente. La filosofia dell’assoluto di Schelling è un primo tentativo per elevarsi al disopra del punto di vista della fede, cioè della filosofia di Kant, di Jacobi e di Fichte, e più specialmente di quella di Fichte. E la critica che Hegel dirige contro la filosofia di Schelling, indirettamente e implicitamente, nel suo scritto Differenza della filosofia di Fichte e della filosofia di Schelling, e in modo diretto ed esplicito nella Prefazione della Fenomenologia, e, nel fatto nella Fenomenologia stessa, ha per obbietto di dimostrare che Schelling non si è inalzato al vero concetto dell’assoluto, e che la sua dottrina in realtà non oltrepassa i confini dell’idealismo subbiettivo.

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d’illusioni22; e dall’altro, ch’esso non contiene e non raggiunge la pura e assoluta verità, e precisamente perciò la presuppone, e la presuppone come suo principio, come principio del suo essere e della sua cognizione. Onde la dimostrazione del fenomeno è una dimostrazione che supera il fenomeno e, in questo senso, avviene fuori di esso. Perocché, dobbiamo ripeterlo, il fenomeno, non solo in quanto natura, ma eziandio in quanto spirito, – mente fenomenale – non può dimostrar se stesso. Ma in qual guisa la mente che dimostra il fenomeno lo supera? Lo supera forse come un qualché che l’è estraneo, o che è generato da un altro principio? Se la cosa così stesse, non potrebbe superarlo, né dimostrarlo. Il principio che genera la guarigione genera anche la malattia. Se la malattia venisse generata da un altro principio, non vi sarebbe guarigione. Dio non trionfa del mondo, o, se vuolsi, lo governa che in quanto il mondo è cosa sua, cioè da sé generato, e generato come parte di se stesso. Se fosse generato da un altro, e per un altro che per se stesso, né Dio né il mondo sarebbero. La dimostrazione, adunque, del mondo fenomenale, della ragione della sua esistenza e del suo ordinamento non può effettuarsi che dal punto di vista, e mediante il principio assoluto del sistema. Perocché l’ente che dimostra supera l’ente dimostrato, come l’ente attivo supera il passivo. E l’ente fenomenale è l’ente passivo che soltanto l’ente assolutamente attivo può superare e dimostrare. Perché dimostrare, nel senso obbiettivo e intrinseco della parola, vuol dire non solo porre, generare, creare, ma porre e creare secondo, e nell’assoluta unità che è anche l’assoluta ragione. Il creato è il fenomeno che viene in siffatta guisa dimostrato da e in un principio che in esso non apparisce, e che per ciò appunto è la causa assoluta dell’apparire, del moto, del cambiamento, del nascere e del morire. 22.  Vedi il passo intero tratto dalla Logica, e messo come motto a capo di questo libro.

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Tale è il significato, e tale l’importanza speculativa e pratica ad un tempo della Fenomenologia. Perocché Hegel in essa ha dimostrato che il mondo de’ fenomeni, la natura e la storia, sono cose serie e devono esser prese sul serio, precisamente perché in esso si manifesta l’assoluta ragione, ma che nello stesso tempo si sconvolge l’ordine delle cose e si mutila e falsa, o, meglio, annulla la verità, e quindi quella verità stessa che è nel mondo fenomenale allorché questo viene eretto sotto nomi diversi – di materialismo, naturalismo, positivismo, od altro simile, – a principio dell’essere e della conoscenza. E su tal via si troverà anche la spiegazione delle due Fenomenologie, di quella che è nel sistema, e di quella che in apparenza è fuori del sistema. Ed, invero, che cosa ha inteso Hegel dimostrare nella Fenomenologia dello Spirito? La natura, la funzione e quindi i limiti dell’ente fenomenale; i limiti, vale a dire il punto più elementare, più astratto e più immediato donde questo muove, e il più alto e più concreto che, svolgendasi attraverso le varie sfere della coscienza, esso raggiunge nello spirito, punto al di là del quale si passa nella sfera speciale della cognizione filosofica. Ora i due punti estremi in discorso sono la coscienza sensibile e la coscienza religiosa, o, se vuolsi, la religione. E, difatti, l’obbietto della religione è Dio, l’assoluto, l’assoluta unità, e, da questo lato, la religione si eleva al di là dell’ente fenomenale, ma, dall’altro, codesto obbietto non può affrancarsi dall’elemento fenomenale, – il mito, il simbolo, l’immagine, in una parola, la rappresentazione – onde la religione può definirsi la sfera dell’assoluto in quanto assoluta rappresentazione. Il fides quaerens intellectum di Sant’Anselmo esprime appunto il doppio e opposto elemento, la contraddizione insita nella religione. La fede cerca, anela di divenir intelletto, cioè d’intender se stessa, intendendo l’obbietto assoluto. Ed in questa suprema aspirazione risiede l’intima essenza della religione. La coscienza religiosa aspira all’assoluto, perché l’assoluto è in essa presente, ma vi

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è presente come immagine, rappresentazione, e quindi come assoluto che è fuori di sé, che apparisce, cioè a dire come ente fenomenale-assoluto. Tale è la scissura, la contraddizione profonda in cui si muove la coscienza religiosa, contraddizione che non l’è concesso di superare, perché non potrebbe superarla che uscendo dai suoi confini, annullando, cioè, se stessa come religione e divenendo filosofia, il che è impossibile23. In altre parole, la religione segna il limite estremo della fenomenalità della coscienza al di là del quale non si ha più la religione, ma la filosofia. Si comprende, adunque, come Hegel volendo determinare nella Fenomenologia dello Spirito i limiti dello spirito fenomenale dovette estendere la sua indagine all’intero contenuto della coscienza, e dimostrare come l’elemento fenomenale penetri anche nelle più alte regioni dello spirito, quali lo Stato, l’arte e la religione. Altro però era il suo compito nella costruzione del sistema, perché altra è, difatti, nel sistema la posizione, ed altra la funzione della fenomenalità della coscienza. Qui la fenomenologia come tale deve esser circoscritta entro i suoi limiti propri e specifici. La ragione e il significato di siffatta limitazione non possono intendersi che pensando appunto sistematicamente il contenuto, le varie sfere dello spirito. Nel sistema dello spirito vi ha primieramente la coscienza fenomenale come tale, e vi ha inoltre le altre sfere della coscienza ove la fenomenalità persiste e si ripete, non però come mera fenomenalità, ma come fenomenalità che va 23.  La religione è la religione e la filosofia è la filosofia, con questa differenza che la filosofia – il principio filosofico – contiene la religione come un momento subordinato, mentre la religione non contiene la filosofia, o la contiene solo come mera virtualità, a quella guisa che il regno inorganico contiene l’organico, o il vegetale l’animale. Perché tale è la natura e l’esistenza sistematica delle cose. Vedi su questo punto gli ultimi cap. della Filosofia dello Spirito, e la Filosofia della Religione di Hegel, e le introduzioni e i commenti che abbiamo aggiunti a questi libri. È, d’altronde, un punto su cui dovremo tornare in seguito.

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trasformandosi secondo la natura propria di ciascheduna sfera. Perocché ciascheduna sfera appare conformemente alla sua natura, onde il sentimento, la percezione, l’intendimento, la ragione, lo Stato, l’arte, la religione ecc. hanno la loro distinta e speciale parvenza. Ora, nel sistema, mano a mano la fenomenalità si trasforma, vien sempre più ricacciata in un posto subordinato, e va, a dir così, degradandosi e dileguandosi finché si raggiunge il punto ov’è del tutto soggiogata. Perché in ciò sta il sistema, il quale per una sua intrinseca e assoluta necessità si svolge e muove passando dall’indeterminato al determinato, dall’astratto al concreto, dal molteplice all’unità. Ne siegue che fuori della sua sfera propria e specifica lo spirito fenomenale non esiste più come spirito fenomenale propriamente detto, ma come spirito in cui l’elemento fenomenale interviene soltanto come elemento subordinato, assorbito e fuso in una più alta esistenza, il che torna a dire che fuori della sua sfera propria lo spirito fenomenale non costituisce più l’elemento specifico e determinante della sfera di cui si espone e dimostra la natura. E così, ad esempio, nella religione interviene l’elemento fenomenale, poiché Dio, l’assoluto vi apparisce, e non esiste nella religione altrimenti che apparendo. E codesto è quel limite, quella finitezza che alla religione non è dato superare. Ma paragonando la parvenza religiosa con la parvenza delle altre sfere dello spirito nazionale, o dello Stato, ad esempio, si vedrà che nella religione la parvenza interviene in modo più subordinato che nello Stato, che vi è, a dir così come se non vi fosse. Ed infatti, mentre lo spirito nazionale è essenzialmente limitato, in quanto la sua unità è limitata, e per ciò stesso spezzata e sottoposta alle varie condizioni, necessità e contingenze sì interne che esterne della sua esistenza, e quindi della sua parvenza, nella religione l’ente che appare appare appunto come ente che non può divenire obbietto del pensiero e neppure del sentimento se non si pone ad un tempo da banda e non si astrae da ogni parvenza, poiché siffatto

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ente è Iddio, il creatore del cielo e della terra, l’ente uno e assoluto, l’ente perfetto che niuna immagine, niuna parola può adeguatamente esprimere e rappresentare. Dal che si scorge la ragione per cui nel sistema la parvenza come tale dovesse esser rinchiusa nella sua sfera propria, mentre nelle altre sfere ciò che facea d’uopo porre in risalto e dimostrare non è l’elemento fenomenale, ma l’elemento specifico e attivo che costituisce l’unità di ciascheduna sfera e dal quale la parvenza è trasformata e superata. E così nella Fenomenologia dello Spirito si congiungono ed attuano i due scopi, lo storico e lo speculativo. Perocché Hegel vi pone in chiaro che la filosofia di Kant, di Fichte, di Jacobi e di Schelling, come altresì ogni filosofia in generale che non si eleva al di sopra dell’ente fenomenale, non raggiunge la cognizione filosofica, e in pari tempo che non si supera l’ente fenomenale con escluderlo, ma ben al contrario con includerlo nella cerchia di codesta cognizione, riconoscendone e dimostrandone la necessità e la funzione. Alle considerazioni che precedono e che volgono intorno al concetto e significato generale della Fenomenologia dello Spirito aggiungerò solo un breve sunto del libro, il che basterà allo scopo che mi sono qui proposto, di esporne, cioè, il concetto fondamentale ed i punti più salienti che segnano i vari stadi che percorre nel suo sviluppo lo spirito fenomenale24. Devo però nello stesso tempo avvertire che la questione non è esaurita né dalle considerazioni che precedono né dal sunto che 24.  Una esposizione particolareggiata della Fenomenologia dello Spirito richiederebbe un’indagine speciale, e quindi sarebbe qui fuor di luogo, perché uscirebbe dai limiti e dallo scopo di questo lavoro. Ed anche una esposizione particolareggiata sarebbe insufficiente per chi volesse formarsene un chiaro e compiuto concetto, poiché questo non può ricavarsi che da un lungo e accurato studio fatto nel testo, la Fenomenologia essendo tra i libri di Hegel un de’ più difficili.

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segue. Vi ha il punto essenziale e culminante della questione, intendo dire il punto che volge intorno all’origine, alla cagione prima e assoluta dell’esistenza fenomenale, che incontreremo di nuovo sulla nostra via, e che farà d’uopo ripigliare e più compiutamente chiarire allorché verremo a trattare della natura dell’assoluto e de’ principi costitutivi del sistema.

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Capitolo V

Sunto della Fenomenologia dello Spirito di Hegel

Si noterà dapprima che qui non si tratta della Fenomenologia in generale, ma della Fenomenologia dello Spirito, o, ciò che torna lo stesso, dello spirito in quanto spirito fenomenale. La fenomenalità in generale costituisce il momento dell’apparire, dell’uscir fuori di sé, dell’estrinsecarsi. E non solo lo spirito, ma altresì la natura appare, anzi la natura è il sostrato, il fondamento universale della parvenza, e lo spirito non appare che in quanto è nella natura, è spirito naturale1. Vi ha però tra la parvenza della natura propriamente detta e la parvenza dello spirito questa differenza, che la natura non apparisce per sé, ma per altro, mentre l’ente spirituale non apparisce per altro, ma per sé, in altra parola, lo spirito è cosiffatto che il suo estrinsecarsi ha per obbietto e fine se stesso, e quindi, mentre esce fuori di sé, si ripiega, fa ritorno a sé, ed in questo suo ritorno riconduce a sé non solo se stesso, ma la natura, affermandosi in tal guisa 1.  E questo è un altro argomento contro il detto dell’Haym che la Fenomenologia dello Spirito è il sistema intero. L’Haym non ha compreso che la Fenomenologia dello Spirito è il sistema della parvenza dello spirito, e che presuppone il sistema, cioè la Logica, la Filosofia della Natura e la Filosofia dello Spirito, di cui la Fenomenologia dello Spirito non è che una sfera subordinata.

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come unità di se stesso e della natura2. Ora in codesto moto alternante di estrinsecazione e di ritorno a sé sta la coscienza, o, se vuolsi, la coscienza è il punto e come a dire lo spazio spirituale ove i due moti s’incontrano e si congiungono, senza però raggiungervi la loro intrinseca unità, rimanendo così nella loro unione l’uno all’altro estrinseci. Onde, mentre si uniscono, la loro è una unità spezzata, e quindi appaiono, e appaiono come aventi origini, nature, principi diversi, e come uniti non da un rapporto necessario, ma contingente. Perocché gli è chiaro che due enti non sono necessariamente uniti che in quanto una è la loro natura. Ora codesto spezzamento, ossia codesta fenomenalità della coscienza costituisce l’esperienza della coscienza, e la Fenomenologia dello Spirito «è la scienza dell’esperienza della coscienza»3. E, difatti, l’esperienza consiste nel sentire o percepire l’esistenza e i rapporti di enti che appaiono nella

2.  Si spiegherà in appresso perché e come la natura speciale dello spirito sia riposta in questo ritorno. Basterà per ora far notare che se lo spirito è l’unità, e l’unità concreta e sistematica, esso non può esser siffatta unità che riconducendo e riconcentrando in sé le varie parti del sistema di cui è l’unità. 3. «[…] ist dieser Weg zur Wissenschaft selbst schon Wissenschaft, und nach ihrem Inhalte hiemit Wissenschaft der Erfahrung des Bewusstseins» («Questo cammino che conduce alla scienza è già esso stesso scienza, e secondo il suo contenuto è la scienza dell’esperienza della coscienza»). Phänomenologie des Geistes. Einleitung, p. 69 [GW 9, 61; I, 77-78]. – Vale a dire che, mentre la Fenomenologia dello Spirito è un avviamento alla scienza, essa è già la scienza, non per virtù propria, ma per l’intervento del principio che la sistematizza e dimostra. E siccome il contenuto di questa scienza è un contenuto fenomenale e empirico, essa non è la scienza assoluta, ma la scienza dell’esperienza della coscienza, o, se vuolsi, è la scienza assoluta, ma solo in quanto dimostra una parte subordinata di se stessa. – Si noti anche che nel passo qui citato Hegel ha inteso dare soltanto una definizione generale, e quindi astratta e indeterminata della Fenomenologia dello Spirito. Perché nel fatto, cioè, nel suo esser sistematico la Fenomenologia dello Spirito è bensì la scienza dell’esperienza, ma dell’esperienza dello spirito fenomenale, dello spirito, cioè, che apparendo genera la coscienza, e in questa le sue varie trasformazioni, le sue sfere diverse.

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coscienza, di enti, cioè, che la coscienza non pone essa stessa, ma che trova in sé posti appunto da un principio e un metodo cui essa presuppone, ma non può raggiungere. Onde il sapere sperimentale è il sapere che appare o della parvenza4, non è il sapere che dimostra secondo la ragione e la necessità intrinseca delle cose, e precisamente per ciò è quel sapere che non può dimostrar se stesso, vale a dire, la natura, la necessità e i limiti dell’esperienza. Quindi, dobbiamo ripeterlo, la Fenomenologia dello Spirito è la scienza che dimostra questa natura, questa necessità e questi limiti, ma che li dimostra, non si dimentichi, sorpassandoli e contenendoli. Perocché nel sistema e nella verità una forza, un principio superiore non vince l’inferiore che contenendolo e appropriandoselo, appropriandolo, cioè, ad una natura più alta, ed a più alti scopi. Onde l’esposizione e la dimostrazione del contenuto fenomenico della coscienza involvono il rapporto della scienza, o cognizione filosofica col sapere empirico della coscienza. Esse costituiscono l’attuazione di questo rapporto5. Ma, poiché la scienza è un sistema, la Fenomenologia dello Spirito è la cognizione sistematica della parvenza, o esperienza dello spirito. Ora il sistema è una metamorfosi, vale a dire una serie, o un complesso di determinazioni e sfere diverse, ma generate tutte dallo stesso principio, onde tutte mirano allo stesso fine, e si congiungono e passano l’una nell’altra, ma vi passano trasformandosi. E siffatta trasformazione sistematica che si attua nello spirito fenomenale costituisce l’esser concreto, la realtà di questo. In altra parola, l’esperienza totale dello

4.  Das erscheinende Wissen. 5. «Diese Darstellung als ein Verhalten der Wissenschaft zu dem erscheinenden Wissen». Ibid., p. 64 [GW 9, 58; I, 73]. «Questa esposizione (l’esposizione sistematica del contenuto empirico della coscienza) è un rapporto della scienza colla scienza apparente». Verhalten esprime l’intervento del principio attivo della scienza ne’ vari momenti della scienza apparente.

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spirito fenomenale è il sistema di codeste trasformazioni, però che è lo stesso spirito che è coscienza sensibile, coscienza di sé, percezione, intendimento, ragione, ecc; ma è codeste determinazioni trasformandosi, cioè, divenendo successivamente coscienza sensibile, coscienza di sé, ecc. E siffatto suo divenire ed essere codeste determinazioni diverse forma la sua esperienza, l’esperienza ch’egli ha di se stesso e di quanto in sé contiene e avviene. Ma perché e come avvengono, e che significano queste trasformazioni? Alla questione del perché e come avvengano non si può, e non si deve qui rispondere. E chiara n’è la ragione. Rispondere a tal questione vuol dire dimostrare queste trasformazioni mediante e nel loro principio, il principio che fa sì che sono, e sono necessariamente come sono. Ma siffatta dimostrazione appartiene al sistema, o, a meglio dire, costituisce il sistema stesso. Perché il sistema deve dimostrar se stesso svolgendosi, e, viceversa, deve svolgersi dimostrando se stesso, in altra parola, il principio del sistema deve in questo svolgere e dimostrar se stesso6. Il principio del sistema, è

6.  L’obbiezione principale contro la dimostrazione dell’esistenza di Dio si fonda sull’argomento che il principio della dimostrazione e Dio sono cose diverse, donde si conchiude che la dimostrazione non raggiunge il suo obbietto, non dimostra quel che dovrebbe dimostrare. Ma chi così obbietta muove da un concetto subbiettivo e arbitrario di Dio, immaginando un Dio diverso dal principio della dimostrazione (causa, sostanza, fine). E come la dimostrazione non s’accorda con codesto suo Dio presupposto ne inferisce ch’essa non dimostra il suo obbietto. E si comprende. Se io mi rappresento Dio e la sua esistenza sotto non so qual forma sensibile, l’idea dell’infinito, per esempio, sarà, a dir così, un non ente, e non dimostrerà nulla di fronte a codesto Dio immaginato e presupposto. Potrebbe però accadere che il nulla non fosse nella dimostrazione, ma in me che così la intendo e giudico. – E difatti l’insufficienza o il difetto delle dimostrazioni in discorso non sta ne’ loro principi, ma nel modo in cui questi vengono interpetrati e adoperati. Perocché si adoperano in un modo frammentizio e, come a dire, alla spicciolata, accoppiandovi per di più le forme vuote e irrazionali della vecchia logica, ciò

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ad esempio, l’idea o altro? E come il principio, quale che sia, genera e costruisce il sistema? Sono questioni alle quali deve e può soltanto rispondere il sistema stesso, e quindi solo nella esposizione del sistema possono ricevere la loro soluzione. Qui dobbiamo restringerci a pigliare le trasformazioni dello spirito come un fatto, e spiegare ciò che il fatto rinchiude e significa. Lo spirito fenomenale si trasforma, e si trasforma ponendo varie determinazioni e passando nel porle dall’una all’altra. Questo è il fatto. Ora codesta trasformazione, o, se vuolsi, evoluzione7 1) significa che essa è il prodotto di un solo e medesimo principio, e ch’è ancor più singolare, s’intendono come principi che dovrebbero bensì dimostrare l’esistenza di Dio (esistenza che nel fatto è inseparabile dalla sua natura, perché, se Dio esiste, deve esistere conformemente alla sua natura) ma che nello stesso tempo non sono Dio stesso. L’idea di causa, ad esempio, dovrebbe dimostrare che Dio esiste, e non solo che esiste, ma che esiste come causa, senza però costituire in verun modo né l’esistenza né la natura divina. Gli è chiaro che intendendo e adoperando in tal guisa l’idea di causa la dimostrazione non approda a nulla, è un mero giuoco di parole, di forme e concetti vuoti. – Dio è l’assoluto sistema dell’essere e della cognizione, e solo pensandolo e dimostrandolo sistematicamente può dimostrarsi. Ed in siffatta dimostrazione la sua esistenza e la sua natura, e la dimostrazione di queste devono formare una sola cosa. Perché, se il principio della dimostrazione e l’ente da dimostrarsi formano due esistenze e nature diverse, la dimostrazione non ha senso, anzi è il colmo dell’assurdo. 7.  La vera evoluzione è una trasformazione, ma una trasformazione determinata e sistematica. L’evoluzione indeterminata e non sistematica è un’astra­ zione, non è un concetto della ragione, ma dell’immaginazione. L’ente che si evolve si evolve per porre un momento, qualità o sfera che sia, di se stesso, o che è in relazione con se stesso, il che suppone l’unità, e l’unità determinata e sistematica nelle parti e nel tutto. L’evoluzione darwiniana è una evoluzione indeterminata, e quindi senza ragione e unità. La scimmia diviene uomo. Avrebbe potuto divenir tutt’altro. Ed essa stessa, o, a dir meglio, la serie intera delle specie non si sa perché sia, e sia com’è. È il caso che l’ha generata. Vedi A. Vera, Problema dell’Assoluto, Parte II, cit., cap. XV e XVI.

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che i vari momenti, le varie determinazioni nelle quali si attua non sono che differenze di questo principio. Senza l’unità del principio trasformatore la trasformazione è impossibile. A si trasforma in B. Se A e B non sono due differenze dello stesso principio non vi ha ragione perché A divenga B. E non potrebbe neppure divenirlo, perché B non è che in quanto A è, e si cambia in B. Ma vi ha di più, cioè, che A non esiste che per cambiarsi in B, perché non esiste che come momento della trasformazione totale. Il germe si trasforma in stelo, foglie ecc., e il germe, lo stelo, le foglie non sono e si trasformano che come momenti dell’unità della pianta. E lo stesso avviene nello spirito. La coscienza sensibile si trasforma in percezione, questa in intendimento, ecc. perché uno è il principio della trasformazione, onde non vi sarebbe né coscienza sensibile né trasformazione qualsiasi se codesto principio non fosse. Ma 2) il principio della trasformazione è di necessità anche il principio dell’ente intero che si trasforma. Dico intero, perché se fosse il principio di una parte soltanto, la trasformazione non potrebbe avvenire. Trasformarsi vuol dire cambiare la forma e insieme il contenuto. La pianta si trasforma in animale. La pianta consta, diciamo a mo’ d’esempio, di 10 elementi (contenuto) ordinati e connessi in un certo cotal modo (forma). Perché questi elementi divengano animale farà d’uopo che cambi non solo il loro nesso e ordinamento, ma che ad essi si aggiunga per lo meno quell’elemento che costituisce la natura specifica dell’animale. Alla stessa guisa il cambiamento della coscienza sensibile in percezione trae seco il cambiamento della forma e in un del contenuto. Nel percepire io sono diverso da quel che sono nel mero sentire per la forma non solo, ma eziandio pel contenuto. Perocché l’obbietto percepito mostra nella percezione qualità e rapporti che non può mostrare nel sentire. Quel che mostra e può mostrare di sé nel sentire è il mero essere, la mera esistenza immediata e sensibile. Ora siffatto mutamento di forma e ad un tempo di

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contenuto non può avvenire che mediante un principio che è l’unità di entrambi8. Ma 3) la trasformazione, diciamo noi, è un passaggio da un momento all’altro, da una determinazione all’altra, e un passaggio che avviene mediante e nella unità sistematica. A passa in B, B in C, ecc. Ora un tal passaggio sistematico significa primieramente che A è un momento necessario del sistema, vale a dire della unità. E la sua necessità le viene appunto dall’essere un

8.  Gioverà rammentare che ciò conferma quanto abbiamo più sopra dimostrato intorno alla critica kantiana, e ad altre consimili dottrine, le quali spezzando l’unità del fenomeno ne assegnano una parte (la forma) all’intelligenza, e l’altra (il contenuto) non si dice a qual altro principio, rappresentando queste due parti come derivate da principi del tutto l’uno all’altro estranei, e battezzando l’una col nome di a priori, e l’altra di a posteriori. Ma, primieramente, come l’abbiamo già notato, nell’atto del sentire, o in un altro momento qualsiasi dello spirito fenomenale sparisce codesta differenza dell’a priori e dell’a posteriori. Se si suppone che prima di sentire vi ha la facoltà di sentire, niente impedisce, anzi si deve ammettere che prima di sentire l’obbietto, interno o esterno che sia, vi ha l’obbietto del sentire, vale a dire, vi ha un obbietto fatto per esser sentito, un obbietto la cui natura è costituita in modo da poter e dovere esser sentita. Perché il sole, ad esempio, non è fatto soltanto per illuminare, attrarre od altroché di simile, ma eziandio e anzitutto per esser sentito, vale a dire che nel sistema la finale suprema del sole sta nel suo essere un obbietto dello spirito, nel suo spiritualizzarsi. Ne vale il dire che la forma, che si chiami categoria, o con altro nome, è l’a priori nel senso ch’essa è un elemento invariabile e necessario, mentre l’obbietto o il contenuto è variabile o contingente. Perocché anche l’obbietto o il contenuto è fornito di una natura invariabile e necessaria, come invariabile e necessario è altresì il suo rapporto col subbietto o con la forma, rapporto che costituisce appunto la loro unità, cioè, l’unità quale esiste nel sentire, nel percepire, nell’intendere, in una parola, ne’ vari momenti dello spirito fenomenale. Ed è codesta unità sistematica, o, se vuolsi, codesto sistema dell’unità che fa d’uopo pensare e dimostrare, mentre invece l’analisi empirica, kantiana od altra, la spezza, e dopo averla spezzata attribuisce ad un degli elementi di cui è l’unità, l’unità a priori e la necessità, ed all’altro l’a posteriori e la contingenza, non riflettendo che se la cosa così stesse, il sentire, il percepire ecc. sarebbero impossibili.

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momento dell’unità. E questo è il lato positivo, affermativo di A. Ma nello stesso tempo A non è che un momento, e quindi la necessità del suo essere è una necessità subordinata. Essa deve adunque annullarsi, negarsi come A, e codesta sua negazione trae seco la sua trasformazione e il suo passaggio in B. Quindi si può dire che, relativamente a B, A è il falso, e che appunto per annullare questo lato falso dell’esistenza passa in B. Essa passa, adunque, e si riproduce e rivive di una più alta vita in B, non come mera A, che come mera A è annullato, ma assorbita e fusa nella natura specifica di B, e quindi come elemento subordinato, come mezzo, stromento di B. Onde se A è necessaria, a tal segno che, senza A, B non potrebbe essere, la sua è ciò nondimeno una necessità subordinata a quella di B9. È così che il germe marcisce e muore passando e rivivendo nelle altre parti della pianta, che l’infanzia passa e rivive nell’età virile, l’individuo nello Stato, la coscienza sensibile nell’intendimento, in una parola, è così che si connettono passando l’una nell’altra le varie parti del sistema, e quindi anche del sistema della parvenza dello spirito. Ne segue 4) che siffatto sistema si muove e svolge passando dall’indeterminato e astratto al determinato e concreto, il quale è determinato e concreto perché contiene e determina l’indeterminato e l’astratto mediante quella natura ed energia 9.  Qui è posta una delle fonti principali dell’errore. Come nel sistema tutto è necessario, si è tratti a conchiuderne che tutto è ugualmente necessario, e quindi a tutto porre sullo stesso livello, e a tutto attribuire lo stesso valore. Il che avviene appunto quando non si pensano le cose nel sistema e sistematicamente. Ed invero se tutto nel sistema è necessario, la necessità di ciascheduna cosa è nondimeno determinata dalla sua natura speciale, la quale determina anche la sua funzione e il suo valore. Il soldato è necessario come il generale; ma non quanto il generale. Le gambe sono necessarie come il cervello, ma non quanto il cervello, né questo è necessario quanto l’intelligenza pel conseguimento del fine speciale della umana natura. L’uguaglianza nella necessità è il radicalismo nell’ordine intellettuale e politico, è la disorganizzazione della verità e della libertà.

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specifica di cui è fornito. Onde è più determinato dell’astratto perché è in pari tempo determinante e attivo. E la sua attività consiste appunto nel determinar l’indeterminato e astratto ed elevarlo per tal guisa ad una più alta esistenza. Ma si dirà: se l’ente astratto passa nel concreto per esservi trasformato dalla natura specifica di questo, che ragione vi ha perché possegga una natura ed una esistenza proprie? E come inoltre può riprodursi ed esistere nell’ente concreto altrimenti che con la sua natura? Se il marmo, ad esempio, è fatto per essere trasformato in statua od altro, o la coscienza sensibile è fatta per esser trasformata in intendimento, perché esistono prima l’uno come marmo, e l’altra come coscienza sensibile? E come esistono poi nella statua o nel intendimento, poiché si dice che sono trasformati? Se sono trasformati non esistono più come marmo e coscienza sensibile. Onde non si vede la ragione, il perché e il come della loro esistenza né prima né dopo la loro trasformazione. Ma codesta è appunto una obbiezione del pensiero fenomenico e rappresentativo, del pensiero, cioè, che non pensa l’unità sistematica. Vi ha A e B. A è A, e B è B, ovvero si pensa anche un certo rapporto, ma un rapporto estrinseco e accidentale tra A e B. Questo è il limite che il pensiero rappresentativo e fenomenico non può superare. Ma altro è il rapporto dell’unità sistematica. A e B sono momenti, differenze di codesta unità. Quindi A deve prima essere, ed essere con le sue qualità, relazioni, funzioni proprie, in una parola, con la sua natura. Questo è il suo lato positivo, il suo diritto all’esistenza. Ma come non è che un momento dell’unità, e di un’unità sistematica, essa nega se stessa10 e passa in B. Passa in B, diciamo noi, e non

10. Dico nega se stessa, perché la negazione non è un elemento estrinseco, ma bensì intrinseco dell’ente finito. Il finito dicesi è negato dall’infinito. Sì, è negato dall’infinito, ma perché è in rapporto coll’infinito, e non è negato che in questo suo rapporto, il quale è inseparabile dalla sua natura. Quindi

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in un altro ente qualunque, il che potrebbe avvenire se il suo passaggio non fosse determinato dall’unità sistematica trasformatrice. E tale suo passaggio vuol dire ch’essa è fatta per B, e che, relativamente a B, è un ente indeterminato e passivo che è determinato e trasformato dalla energia specifica di B. Il marmo divenendo statua, l’ente inorganico divenendo ente organico, l’individuo divenendo ente sociale o Stato, la natura in generale divenendo spirito son messi in possesso di una energia e un pregio che in sé non posseggono. Ma come A è in B? Vi è come A, o altrimenti? Si deve a ciò rispondere che vi è come A e altrimenti ad un tempo. Si noti che il rapporto di A e B non è un rapporto inerte, un rapporto in cui A e B se ne starebbero immobili l’uno di fronte e fuori dell’altro, ma un rapporto attivo, un moto determinato in cui A passa in B, e vi passa per l’azione determinata di B, e quindi adattandosi alla natura e ai fini di B. In B è annullata come mera A, ma dura e sussiste come materia e mezzo che foggia l’attività di B e perciò in una forma più alta e più perfetta, però che B aggiungendo la sua natura a quella di A la modifica correggendone l’imperfezione11. L’acqua è così nel sangue, il germe nel

se è vero dire che il finito e negato dall’infinito, è altrettanto, anzi più vero dire che nega se stesso. Perocché la negazione di se stesso è l’annullamento di se stesso come finito, mentre la negazione che gli viene dall’infinito è la negazione della negazione, cioè della sua finitezza, e quindi la sua elevazione a una più alta esistenza. 11.  Per completare il pensiero si deve por mente che il rapporto determinato di A e B fa sì che già in A come mera A vi sono e devono esservi certe proprietà e virtualità, e quindi un certo modo di essere ed operare che non vi sarebbero senza questo rapporto, e quindi che l’azione di B penetra entro i limiti della natura ed esistenza di A. Il che si scorgerà più chiaramente generalizzando l’esempio, e considerando il rapporto delle parti di un sistema col loro principio. Perché l’azione del principio penetra in ogni parte e la predispone al fine da raggiungersi. Onde il principio cambiando, la predisposizione delle parti cambia del pari. Il buon generale fa il buon esercito, il cattivo generale fa il cattivo esercito.

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frutto, l’organo corporeo nella sensibilità, questa nell’intelletto, l’individuo nello Stato, la religione nella filosofia12, e, per dirla in una parola, il mondo in Dio13. 12.  Fa appena bisogno notare che questi esempi sono qui posti per chiarire il pensiero, ma che non si devono prendere alla lettera, come se l’acqua si trasformasse senz’altro e di sbalzo in sangue, il germe in frutto ecc. Le trasformazioni avvengono sistematicamente, vale a dire, attraverso quelle mediazioni e quegli svolgimenti che formano appunto il sistema, e quindi la realtà sia della natura, sia dello spirito. La questione che volge intorno al perché, alla ragione delle mediazioni – i vari momenti, gradi, sfere del sistema – si esaminerà in appresso. È una questione essenziale, ma di cui non si comprende l’importanza precisamente allorquando non si pensano le cose nella loro esistenza sistematica. 13.  Non altro è in fondo il significato del famoso detto di Malebranche che noi vediamo tutto in Dio. È un di quei detti che posson esser profondi, ma che possono anche dir nulla, anzi contenere il contrario di quel che ha inteso dire chi così li enuncia. Ed invero, se si ammette Dio, si deve anche ammettere che noi vediamo tutto in Dio, però che come Dio è il principio dell’essere così lo è della cognizione. Ne siegue che noi tutto vediamo in codesto principio, stando all’espressione di Malebranche. Ma al detto del filosofo francese un nuovo Pilato potrebbe opporre: Noi vediamo tutto in Dio! Ma ov’è codesto Dio in cui noi tutto vediamo? Per me non lo vedo, e neanche, vedendolo, vedo di vedere in lui. E difatti il detto di Malebranche così com’è enunciato non è che una proposizione indeterminata e vuota. Già, indeterminato è il vedere. Noi vediamo. Chi noi? Noi tutti? Se così, il vedere non è il vedere della mente scientifica, non è la conoscenza. Sarebbe quindi un vedere che non vede nulla. È adunque del vedere scientifico, e specialmente del filosofico che qui s’intende parlare. Nel che sta il difficile, perché qui sta il nodo della questione. Se la filosofia vede le cose in Dio, ciò vuol dire che le vede diversamente da quel che sono fuori di Dio. E le vede così, perché sono e devono essere in Dio diversamente da quel che sono fuori di Dio. E siffatto duplice essere ed esser vedute delle cose si deve ammettere in qualunque ipotesi, ove si ammetta un principio assoluto; o, a dir meglio, deve ammettersi ammettendo una scienza qualsiasi. Perché la scienza è la cognizione del principio delle cose, vale a dire dell’ente sensibile, fenomenale. Ora il veder tutto in Dio non può avere altro significato se non quello di ricondurre l’ente fenomenale al suo principio, onde scorgere qual esso è, non in se stesso, nella sua esistenza immediata e sensibile, ma nel suo principio. Quindi senza questo ritorno, senza questo atto della mente che

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Ho creduto opportuno premettere queste spiegazioni che andranno mano a mano in seguito completandosi, ma che, quali ricongiunge l’ente fenomenale al suo principio non vi ha né scienza né verità. E non vi ha né scienza né verità neppure dell’ente fenomenale. Perché io non conosco me stesso in me stesso, ma nel mio principio, e collocando, per quella virtù speciale della mente che è in me, e me, e le cose con le quali sono in relazione nel mio e loro principio, cioè a dire nell’unità, e nell’unità sistematica. Onde veder le cose in Dio vuol dire pensarle quali sono in Dio, cioè, in codesta unità. Perocché, se Dio non è l’assoluta unità come sistema, non si comprende né che sia, né come possa essere. Quindi pensare le cose in Dio vuol dire pensarle nella loro unità sistematica, e pensare in questa anche la parvenza. Perché altro è pensare la parvenza nell’unità e come manifestazione divina, altro pensarla come un ente isolato, fortuito e sfornito di finalità e di ragione. Ma le cose e la parvenza stessa sono nell’unità diversamente da quel che sono fuori dell’unità. Perocché tutto è uno nell’unità, e il prima e il dopo, la sanità e la malattia, la vita e la morte, la gioventù e la vecchiaia, il sorgere e il cadere delle nazioni, l’anima e il corpo, in una parola, tutte le differenze che fuori dell’unità formano il mondo della parvenza, nella unità sono come se non fossero, sono poste e cancellate ad un tempo. Con ciò non si vuol dire che non siano differenze reali, e che l’unità sia e possa esser senza di loro, ma come sono sue differenze, differenze ch’essa stessa pone, e pone per sé, in questo senso esse sono come non fossero. Che se io fossi, ad esempio, la causa e il fine della vita e della morte, e in queste si attuasse la mia attività, l’opposizione della vita e della morte sarebbe in me conciliata, unificata, e quindi rispetto a me e in me sarebbe come non fosse. Onde essa esiste solo per l’ente apparente, in cui, precisamente perché apparente, l’unità è spezzata, e quindi vi appare alternando e differenziandosi nella vita e nella morte. Ora nella Fenomenologia dello Spirito Hegel ha inteso appunto dimostrare come si vedono le cose in Dio, e come, Dio essendo l’assoluto sistema, vi si veggono sistematicamente. Perocché il moto e la vita eterna dell’universo stanno appunto in questo, che il mondo, cioè, la parvenza è eternamente generata e eternamente negata dal suo principio, il quale solo la nega e può negarla perché la genera ed è in essa presente, ma con essa non s’immedesima. Ed in codesta negazione si attua il vero ritorno della parvenza, o, se vuolsi, dell’ente apparente al suo principio. L’ente apparente non ritorna al suo principio in questo collocandosi come ente apparente, ma, al contrario, affrancandosi da ogni parvenza. Il finito non s’inalza all’infinito rimanendo finito, ma bensì vincendo e sopprimendo la sua finitezza. Io non mi elevo a Dio serbando e ponendo in Dio la parvenza del mio essere, il mio io apparente e empirico, ma allontanando, per quanto

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che siano, qui poste potranno agevolare l’intelligenza di quanto siegue. Come l’ho accennato14 lo spirito fenomenico è compreso e si sviluppa tra due punti estremi, la coscienza sensibile e la religione. L’ultimo capitolo della Fenomenologia dello Spirito15 contiene alcune considerazioni sulla conoscenza assoluta (absolute Wissen). Ma la conoscenza assoluta supera la sfera dello spirito fenomenico, ed è posta lì come conclusione del libro appunto per segnare il passaggio dalla Fenomenologia al sistema, e mostrare nello stesso tempo che la Fenomenologia ha fuori e al di sopra di sé il suo principio e la sua dimostrazione. La Fenomenologia piglia, adunque, le mosse dalla coscienza sensibile, o, più esattamente, dalla coscienza (Bewusstsein) il cui primo momento è la certezza sensibile16, cioè dall’apparire

è in me, dal mio essere ogni parvenza. E tale è appunto l’opera, tale il fine supremo dell’educazione filosofica, o, a dir meglio, della filosofia. 14.  P. 109. 15.  Hegel ha così intitolato il libro. Ma è bene avvertire il lettore che il titolo non risponde esattamente né al libro né al pensiero di Hegel. Come si vedrà qui appresso, lo spirito propriamente detto, quale Hegel lo ha definito, si distingue dalla coscienza sensibile, dalla percezione, ecc. e forma una sfera particolare, la sfera più concreta e più attiva della Fenomenologia. Ma se lo spirito forma solo una parte della Fenomenologia, perché Hegel ha intitolato il tutto Fenomenologia dello Spirito? Perché un nome bisognava darglielo, e come lo spirito costituisce la più alta sfera della Fenomenologia egli ha designato il tutto col nome di quella sfera rimpetto a cui le altre non sono che momenti subordinati. Il che si fonda appunto sul concetto di sistema. Perocché nell’ente sistematico ciò che forma la natura speciale non solo del tutto, ma eziandio delle parti è il suo principio, il principio che ne costituisce la finalità e l’unità. E questo principio dà, e, a dir così, ha il diritto di dare, meglio di ogni altro, il nome alla cosa. Per la medesima ragione Hegel ha intitolato una delle tre parti del sistema, quella che ne attua l’unità, Filosofia dello Spirito. 16.  Die sinnliche Gewissheit oder das Diese und das Meinen. – Das Meinen, l’opinare. Il fatto sensibile è la radice dell’opinione nel senso stretto della parola, nel senso, cioè, che l’opinione non può liberarsi dal fatto sensibile.

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del fatto immediato e sensibile nello spirito. Qui si ha la certezza, ma la certezza più immediata e più superficiale, la mera certezza del fatto sensibile. Hegel designa questo fatto coll’ivi e l’ora (hier und jetzt). Il fatto sensibile appare nello spirito come un ivi e un ora, cioè, come un qualché, o meglio, come codesto tale qualché (Dieses) che avviene o esiste in codesto tal luogo e codesto tal tempo. Qui, lo ripetiamo, si ha la certezza, ma la certezza più immediata, più superficiale, la certezza del fatto sentito17. 17.  Si noti che Hegel non dice spazio e tempo, ma ivi e ora. Difatti qui, in questa parvenza, non si ha lo spazio e il tempo come categoria, né un fatto generale, ma tal punto dello spazio e del tempo, e tal fatto. – Si è obbiettato che soli l’ivi e l’ora non costituiscono questa parvenza, cioè, il fatto, il quale oltre l’ivi e l’ora, ha un contenuto più concreto, una realtà propria e altra dall’ivi e ora. Allorché dico: «ora è notte» la notte ha un contenuto ove l’ora non è che un elemento astratto, formale e subordinato. Quindi il fatto non è spiegato. Esso vi è preso e introdotto empiricamente, ma non è dimostrato. E non solo il fatto concreto, intero, ma anche l’ivi e l’ora sono introdotti in un modo empirico, onde non si vede perché vi siano e donde vengano. – Ma anche questa obbiezione deriva dal falso concetto della Fenomenologia più sopra esaminato, e che consiste nel considerarla quale un tutto indipendente, che sta per sé, e non come una sfera subordinata del sistema. Gli è chiaro che se così si considera, tutto vi è presupposto e adoperato empiricamente, e nulla vi è dimostrato. La coscienza stessa vi è presupposta. Essa è data al pensiero come un fatto, ma non è dal pensiero stesso posta, generata. Alla stessa guisa, e per la stessa ragione le trasformazioni, ossia il contenuto della coscienza vi è del pari presupposto, o, ciò che torna lo stesso, presuppone il sistema, e il principio assoluto del sistema il quale afferma e dimostra se stesso, affermandosi e dimostrandosi appunto come tale nel sistema. Onde nella Fenomenologia dello Spirito vi ha una certa dimostrazione, ma non vi ha e non vi può avere la vera e assoluta dimostrazione. Vi si dimostra, per esempio, come la certezza sensibile passi nella percezione, e questa in altro, ma la dimostrazione intrinseca e assoluta di codesti passaggi è posta fuori e al di sopra della sfera dello spirito fenomenale. E codesta duplice dimostrazione non è già, come potrebbe per avventura considerarsi, un processo subbiettivo e artificiale della mente, ma è fondata nella natura della mente e delle cose. Perocché vi ha nelle cose il fuori e il dentro, una natura e rapporti esterni e molteplici, ed una natura e rapporti interni, o, a dir meglio, il rapporto

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Ma l’ivi e l’ora e il fatto con cui si connettono contengono in sé la loro negazione, e quindi il passaggio ad un’altra determinazione, la quale è già in essi virtualmente. E codesta virtualità appunto si è che trae seco la loro negazione18. Per esempio, nella proposizione «ora è notte» si ha un contenuto, un qualché, sia si considerino i due termini partitamente, o nel loro

dell’unità. La distinzione delle cause in prime e seconde non ha in fondo altro significato. Le cause seconde costituiscono il lato apparente dell’esistenza, le cause prime, o, strettamente parlando, la causa prima ne costituisce l’unità. Nella quantità vi ha il rapporto aritmetico o finito, e il rapporto infinito, il rapporto dell’unità. In ogni questione vi sono lati o argomenti secondari, e il lato o argomento principale, il porro unum necessarium. Ora la mente filosofica che è la mente dell’unità concreta e sistematica pensa bensì la parvenza, ma la pensa nell’unità, e come un momento subordinato di questa. È in qualche modo come la mente del generale che pensa ed organizza le parti dell’esercito, ma le pensa ed organizza nell’unità. Il pensiero delle parti è il pensiero della fenomenalità dell’esercito, la quale è posta e negata ad un tempo dal pensiero dell’unità. Quindi la coscienza, l’ivi e l’ora, la certezza sensibile, ecc. che nella Fenomenologia dello Spirito sono empiricamente introdotti e adoperati, e perciò non sono dimostrati che con argomenti estrinseci, con argomenti, cioè, che presuppongono una più alta dimostrazione, trovano appunto nel sistema codesta dimostrazione, la quale non solo non può, ma non deve essere esposta nella Fenomenologia dello Spirito. Perché l’ente fenomenale, dobbiamo ripeterlo, è bensì fornito di una natura, di una ragione propria, ma al pari di quella delle parti dell’esercito, o di un ente sistematico qualsiasi, la sua è una ragione subordinata. Donde appunto la necessità di una più alta e assoluta ragione. E così cade l’obbiezione in discorso. 18.  Si esaminerà più innanzi e trattando della Logica il concetto di virtualità. Qui basterà far notare che la virtualità non è una mera possibilità indeterminata, sfornita di realtà e di efficacia, ma, ben al contrario, un elemento, un principio, affermativo o negativo che sia, determinato, essenziale e attivo, e senza di cui un ente non potrebbe esistere nella sua intera realtà, o, meglio, non potrebbe esistere. Il frutto esiste come virtualità determinata nel germe, e l’essere e lo sviluppo del germe sono da siffatta virtualità determinati. L’edificio intero è virtualmente nelle fondamenta, le quali non, e non sono come sono che per codesta virtualità. La virtualità del fatto sensibile, del puro sentire è la percezione, e il passaggio dal sentire al percepire non è che l’attuazione di codesta virtualità.

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rapporto, non può essere ed esser pensato che come momento di una determinazione generale. Perché se si considerano nel loro rapporto, questo suppone una determinazione generale che li contiene tutti e due. Ma anche ora o notte presi partitamente suppongono siffatta determinazione. Perocché quando dico ora, intendo dire un momento di un qualché che è tutti gli ora, dell’ora che fu, e dell’ora che sarà, che anzi è già, cioè il tempo. E dicendo ora è notte intendo dire il momento di un qualché che è tutte le notti. Che se anche si suppone che il giorno o altro sia l’ora, il presente che ha preceduto o seguirà codesto tal ora della notte, non si potrà ciò pensare senza pensare in pari tempo un qualché che è il loro comune principio. La certezza sensibile si cangia così in percezione (Wahrnehmung)19. Nella percezione, o apprensione del vero, secondo il significato etimologico del vocabolo tedesco, non si ha più il fatto e la certezza sensibili, ma il generale, e primieramente il generale anch’esso sensibile, cioè come cosa (Ding), che è l’unità indeterminata ed estrinseca delle proprietà20. La cosa e le proprietà onde la cosa consta formano il punto di vista e, a dir così, l’ambiente della coscienza percipiente, il cui moto e sviluppo consistono nell’andar dalla cosa alle proprietà, e da queste a quella, e nel cambiarsi della cosa in proprietà e di queste in cosa. Onde qui non vi ha che combinazioni e rapporti estrinseci e superficiali, rapporti ove sorge la Täuschung, l’illusione, l’inganno. Perché non vi ha inganno nel sentire il fatto, bensì nel percepirlo, il che involve l’affermazione di un 19.  Die Wahrnehmung oder das Ding und die Täuschung (La percezione, o la cosa e l’inganno). La voce tedesca Wahrnehmung, apprensione del vero, esprime meglio che percezione il passaggio dal mero sentire alla percezione del fatto, o obbietto sensibile come dicesi. Il vero sta nel generale, sia astratto, sia concreto, e quindi la percezione è non la cognizione, ma il primo momento della cognizione del vero. 20. Sulla cosa e le qualità (Ding und Eigenschaften) vedi anche la Logica di Hegel.

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rapporto che può esser vera o falsa. Il risultato finale, o, se vuolsi, il punto culminante di questo moto, di questa attività della coscienza percipiente è l’universale incondizionato (das unbedingt Allgemeine) come unità della cosa e delle proprietà. Ora siffatto universale trae seco la forza, e una forza intelligibile e soprasensibile, e insieme le sue manifestazioni, il suo apparire21. E, difatti, l’universale incondizionato delle cose e loro proprietà è la forza che le penetra come materie indifferenti, e le cambia le une nelle altre. Ed è una forza intelligibile, l’intendimento, che apparisce in tal moto delle cose e delle proprietà. Onde siffatto apparire della forza intelligibile è pur esso un momento dell’intelligibile e intelligibile, e quindi non deve confondersi con la coscienza che sente o percepisce, né coll’obbietto in quanto sentito o percepito. Qui la coscienza si è elevata ad una più alta sfera. Perocché la fenomenalità, o esperienza della coscienza è qui costituita dall’intelligibile come legge (Gesetz), e come legge che si attua nel fatto. Ed invero, altro è sentire il fatto, o percepirlo come cosa fornita di qualità, ed altro pensarlo come esistente ed operante secondo legge. Pensare, ad esempio, che un corpo esiste e si muove secondo la legge di gravità, è ben diverso dal sentirne l’esistenza o percepirlo come un qualché fornito di qualità22. 21.  Kraft und Verstand, Erscheinung und übersinnliche Welt. 22.  In questo senso deve intendersi l’espressione übersinnliche Welt, mondo soprasensibile. L’ente sensibile e l’ente fenomenale sono cose diverse. Qui abbiamo superata la sfera dell’ente puramente sentito, ed anche dell’ente percepito, ma non già quella dell’ente fenomenale. La legge, la categoria, l’intelligibile non è un fatto meramente sentito, e pur nondimeno apparisce nella coscienza. E la coscienza ha l’esperienza del suo apparire come l’ha del fatto, il quale qui apparisce non come fatto sensibile o percepito, ma secondo la legge, e come attuazione della legge. «Das Übersinnliche ist das Sinnliche und Wahrgenommene, gesetzt, wie es in Wahrheit ist; die Wahrheit des Sinnlichen und Wahrgenommenen aber ist, Erscheinung zu sein. (È difatti l’ente sovrasensibile che ha la forza di apparire e di far apparire. L’ente sensibile non appare per virtù propria, ma per virtù d’un principio sovrasensibile.

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Fin qui l’esperienza della coscienza e la certezza di codesta esperienza, sia la certezza sensibile, sia la certezza della percezione sono, almeno in parte, generate nella coscienza da un qualché che non è la coscienza stessa. Io sento o percepisco l’obbietto, e questo si pone come obbietto che entra bensì in relazione con l’io, ma non come obbietto, come non-io dell’io stesso. Anche l’intendimento e le sue leggi, il mondo sovrasensibile si pongono primieramente nella coscienza come obbietti immediati e che si aggiungono dal di fuori al subbietto, all’io. Ma l’Erscheinung, cioè, l’apparire attivo dell’intendimento23 sviluppandosi, ponendo il suo contenuto, la sua realtà, raggiunge il punto ove il non-io non è soltanto in rapporto coll’io, ma è il non-io dell’io, onde l’io, – subbietto – nel suo rapporto col non-io – obbietto – è in rapporto non con un ente estrinseco, ma con se stesso. Per tal guisa la coscienza (Bewusstsein) diviene coscienza di sé (Selbstbewusstsein) vale a dire nella coscienza di sé il rapporto del subbietto e dell’obbietto è cosiffatto che l’obbietto è divenuto un momento, una differenza del subbietto stesso. E difatti la forza dell’intendimento, o, se vuolsi, la forza intelligibile, intelligibile perché esiste ed opera secondo la legge, la quale è inseparabile dalla forza, o, a meglio dire, è la forza stessa nella sua reale esistenza, la forza intelligibile, diciamo noi, apparendo, si differenzia, e il suo differenziarsi è il suo apparire, come, viceversa, il suo apparire

Dunque l’apparire è proprio dell’ente sovrasensibile). Die Erscheinung ist vielmehr nicht die Welt des sinnlichen Wissens und Wahrnehmens als seiende, sondern sie als aufgehobene oder in Wahrheit als innere gesetzt. (Cioè, qui l’ente sensibile e percepito non è più che come elemento subordinato, assorbito e avvolto nell’apparire dell’ente soprasensibile). Es pflegt gesagt zu werden, das Übersinnliche sei nicht die Erscheinung; dabei wird aber unter der Erscheinung nicht die Erscheinung verstanden, sondern vielmehr die sinnliche Welt als selbst reelle Wirklichkeit». Phän. Des Geistes, cap. III, pp. 108-109 [GW 9, 90; I, 120-121]. 23.  Vedi, qui sopra, nota 22.

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è il suo differenziarsi. Onde essa attua e conserva ad un tempo nella differenza la sua unità. Nella gravità, ad esempio, essa si differenzia nel tempo, nello spazio, nella distanza, connettendo e avviluppando in pari tempo codeste differenze nell’unità del moto. Nel magnetismo essa è l’unità de’ due poli, del polo positivo e del negativo, ecc. Ma la vera unità vien da essa raggiunta ed attuata in quella sfera ove ciò che appare non solo appare a sé, ma è se stesso. Ed è così che nella coscienza di sé incomincia il rapporto infinito del subbietto e dell’obbietto, però che il vero infinito è l’unità di se stesso e delle sue differenze. La coscienza di sé non esclude la coscienza e le sue differenze, che anzi le presuppone, e le presuppone contenendole e superandole. Nella coscienza di sé «io mi differenzio da me stesso, ma siffatto differenziarsi trae seco immediatamente rispetto a me che non vi ha differenza»24. Con la coscienza di sé, dice Hegel, noi entriamo nel regno proprio della verità25. Ed, invero, nella coscienza di sé si pone e comincia a svolgersi la vera unità, l’unità interna attiva che è già virtualmente lo spirito. Noi diciamo unità interna nel senso di quel ritorno a sé mediante il quale l’esterno è ad un tempo posto e superato. Alla certezza sensibile ed alla percettiva è quindi sottentrata la verità della certezza di sé 26 nella quale la certezza sensibile e la percettiva non son più che momenti su24. «Ich unterscheide mich von mir selbst, und es ist darin unmittelbar für mich, dass diss Unterschiedene nicht unterschieden ist». Phän. des Geistes, cap. III, p. 125 [GW 9, 101; I, 138]. 25.  Phän. des Geistes, cap. IV, p. 128 [GW 9, 116; I, 144]. 26.  Die Wahrheit der Gewissheit seiner selbst. La verità della certezza di sé è la condizione e il principio di ogni verità e di ogni certezza. Io non son certo di altro da me che in quanto son certo di me, e la verità della certezza di altro da me presuppone la verità della certezza di me. È in questo senso che raggiungendo la coscienza di sé (Selbstbewusstsein) si raggiunge il regno proprio della verità («wir also nun in das einheimische Reich der Wahrheit eingetreten»). Ibid.

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bordinati. Ora l’ente che si pone come coscienza di sé si pone per ciò stesso come padrone, signore. Quindi la coscienza di sé si svolge 1) come vita e desiderio27; 2) come rapporto d’indipendenza e dipendenza, o, se vuolsi, di padronanza e servitù28; 3) come libertà della coscienza di sé nelle tre forme, cioè, la stoica, la scettica e la coscienza infelice. Il principio della vita, meglio, la vita concentra e unifica nella sua unità il mondo obbiettivo, e s’afferma ed attua unificandolo. Il sentire e il percepire e il loro obbietto o contenuto, come altresì le forme astratte e molteplici dell’intendimento sono elementi astratti e assorbiti nella unità della vita. Ma la vita è un processo, e un processo che si svolge e si attua attraverso vari momenti, o gradi. Vi ha primieramente il momento della formazione (Gestaltens) in cui la coscienza di sé costruisce gli organi del suo essere e della sua attività. Ma nella coscienza di sé vivente sorge il desiderio. La coscienza di sé desidera, appetisce, e appunto perché è coscienza di sé il suo appetire è un appetire universale, un impeto che la muove a far suo, ad appropriarsi, a dir così, il tutto. Ora il punto culminante, lo scopo supremo del suo appetire sta nel raggiungere e darsi un obbietto simile a sé. Donde la generazione e la specie (Gattung). «La coscienza di sé, dice Hegel, non raggiunge la sua piena sodisfazione che in un’altra coscienza di sé»29. Per tal modo si ha «una coscienza di sé per un’altra coscienza di sé»30 vale a dire qui non si ha più un rapporto esterno, ma interno; non si ha più un rapporto in cui l’io è per un non-io estrinseco e diverso, ma per un non-io uguale a sé, per modo che in siffatto rapporto io 27.  Begierde: desiderio, brama, appetito insito nell’ente vivente. 28.  Selbständigkeit und Unselbständigkeit; Herrschaft und Knechtschaft. 29.  «Das Selbstbewusstsein erreicht seine Befriedigung nur in einem andern Selbstbewusstsein». Phän. des Geistes, cap. IV, p. 134 [GW 9, 108; I, 152]. 30. «Es ist ein Selbstbewusstsein für ein Selbstbewusstsein». Ibid., p. 135 [GW 9, 108; I, 152].

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non sono come allorché sento o percepisco l’obbietto o penso la legge, la categoria, ma nella mia coscienza di sé trovo un’altra coscienza di sé come momento, parte essenziale di me stesso31. Onde qui l’io e il noi sono inseparabili, sono una sola cosa32. Ma la coscienza di sé, perciò che l’obbietto esterno è da essa e in essa superato, è la coscienza indipendente (selbstständig, che sta per sé). Nondimeno la vera indipendenza essa non la raggiunge e afferma nel suo rapporto coll’obbietto esterno, bensì nel rapporto della coscienza di sé con un’altra coscienza di sé. Io non sono veramente indipendente che confrontandomi con

31.  La preposizione per (für) esprime benissimo questo rapporto. Due enti differenti, se sono in rapporto, sono l’uno per l’altro. E sono l’uno per l’altro non solo nel loro rapporto, ma altresì nella loro differenza e in quanto si differenziano. Perocché essi si differenziano, e si differenziano come si differenziano, cioè in una certa cotal guisa, per entrare in rapporto, il che torna a dire che, sono differenze della stessa unità, e per ciò appunto anche nel differenziarsi sono l’uno per l’altro. E così una coscienza di sé che comanda è per una coscienza di sé che obbedisce e viceversa. Il che costituisce lo stato e il rapporto fenomenali, e quindi l’esperienza delle due coscienze. 32.  Sarebbe più esatto dire: incominciano a divenire una sola cosa. Perché qui non si ha ancora la loro vera unità, la loro unità mediatizzata, concreta e attuata, ma soltanto la loro unità immediata, virtuale, o, secondo il linguaggio e concetto hegeliani, la nozione (Begriff), ma non si ha ancora l’idea della loro unità, ossia dello spirito che è questa unità. «Hiemit» dice Hegel «ist schon der Begriff des Geistes für uns vorhanden. Was für das Bewusstsein weiter wird, ist die Erfahrung, was der Geist ist, diese absolute Substanz, welche in der vollkommenen Freiheit und Selbstständigkeit ihres Gegensatzes, nämlich verschiedener für sich seiender Selbstbewusstsein, die Einheit derselben ist; Ich, das Wir, und Wir, das Ich ist, ecc.». Phän. des Geistes, cap. IV, p. 135 [I, p. 152] (vale a dire qui «è già contenuta esiste per noi [cioè non come nozione obbiettivata, realizzata, ma come nozione che è ancora nel suo stato virtuale, e quindi come nozione realizzata non esiste che per noi, o, se vuolsi, in noi, nella nostra mente subbiettiva] la nozione dello spirito. Quanto avviene ulteriormente nella coscienza forma l’esperienza di ciò che è lo spirito, questa assoluta sostanza, che nella intera libertà e indipendenza della sua opposizione, cioè delle diverse e opposte coscienze di sé, è [pur nondimeno] la loro unità. [Onde in esso, spirito] l’io è noi, e noi è l’io, ecc.»).

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un altro io, vale a dire nel rapporto del mio io con un altro io. Ora un tal rapporto involve, o, a dir meglio, è un rapporto d’indipendenza e di dipendenza di padronanza e di servitù. Una coscienza di sé non può attuare la sua indipendenza e il suo dominio che in un’altra coscienza di sé dipendente e soggetta. E così la coscienza di sé esce fuori di sé non nell’obbietto del sentire, del percepire, ecc., ma in un’altra coscienza di sé, riconoscendo per tal guisa se stessa in un’altra se stessa33. Io non riconosco me stesso che comandando o obbedendo, e quindi in un altro me stesso cui comando o obbedisco. Ora siffatto rapporto esprime e contiene una lotta auf Leben und Tod, per la vita e la morte. La coscienza di sé che comanda è la coscienza intrepida, e comanda perché intrepida, la coscienza di sé che obbedisce è la coscienza paurosa, ed obbedisce perché paurosa. La coscienza veramente intrepida è la coscienza che non teme la morte, che non teme né di darla né di soffrirla, mentre la paurosa la teme. E qui sta la radice prima, o, a dir meglio, il fondamento del comandare e dell’obbedire, della padronanza e della servitù34. Ma in questa lotta e nello scambio che nella lotta avviene tra le due coscienze di sé, tra la coscienza di sé del signore e quella del servo, questi adempiendo appunto al suo officio, cioè, servendo e lavorando, si disciplina, riceve in sé e s’appropria la coscienza del signore, e riconosce per tal guisa in se stesso il diritto del signore, il quale, a sua volta, 33.  Questo processo o moto della coscienza di sé Hegel lo chiama Bewegung des Anerkennens, moto del riconoscimento, perché in questo stadio del suo sviluppo la coscienza di sé riconosce in se stessa la necessità del comandare e dell’obbedire, rapporto che è il fondamento di altri e più alti rapporti. 34.  Noi diciamo fondamento (Grundlage) nel senso di momento, sfera immediata, astratta, subordinata o, se vuolsi, di condizione. Perché il rapporto del padrone e del servo non costituisce la sola e più alta forma del comandare e dell’obbedire, che anzi n’è la più infima. Ma essa è non pertanto necessaria per lo svolgimento e l’educazione dello spirito, vale a dire perché lo spirito possa inalzarsi a più alte sfere, alla sfera dello Stato, per esempio, ove il comando e l’obbedienza hanno un altro e più profondo significato.

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adoperando l’opera e il lavoro del servo onde raggiungere i suoi fini e godere della sua padronanza, riceve l’influsso della coscienza servile, e riconosce in se stesso il valore del lavoro e il diritto del servo. Mediante siffatto processo la coscienza di sé si svincola dall’opposizione delle due coscienze, e si colloca nella sfera della libertà35. La coscienza di sé è divenuta la libera coscienza di sé, ed è libera coscienza di sé non già scanzando o sopprimendo la lotta, ma mediante la lotta, quale avviene in questo stadio dello spirito. Ed è così ch’è veramente libera. Perché la libertà che non si fonda sulla lotta è una libertà astratta e vuota, non è la libertà. La coscienza di sé è adunque libera in quanto si è inalzata al di sopra dell’opposizione della padronanza e della servitù, onde qui è vinta e cancellata la differenza del servo e del padrone, e il servo collocandosi in questa sfera è libero al pari del padrone. Ma la libertà che si ha in questo stadio dello spirito non è che il primo momento della libertà, e quindi è una libertà immediata e astratta, e che potremo anche chiamare subiettiva e virtuale. Perché la libertà si svolge ed attua in varie sfere. La libertà politica, la libertà religiosa, ad esempio, formano anch’esse altrettante sfere della libertà dello spirito. Ma qui non abbiamo ancora raggiunte queste alte regioni della libertà. La libertà che qui abbiamo è soltanto quella che emerge nella coscienza di sé che ha superato l’opposizione del signore e del servo. E difatti, la coscienza di sé che si muove in codesta opposizione non è libera, e non è libera non solo nella coscienza del servo, ma neppure in quella del signore, però che se dall’un canto il signore comanda al servo, dall’altro, egli abbisogna del servo per sodisfare i suoi desideri, i quali sono qui i Begierde, i desideri, i bisogni, le necessità naturali. Onde l’opposizione del signore e del servo è una opposizione dello spirito naturale, dello spirito che

35.  Freiheit des Selbstbewusstseins; Stoizismus, Skeptizismus und das unglückliche Bewusstsein.

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sottostà tuttora alla natura, e quindi non è libero. Ed appunto uscendo da siffatta opposizione la coscienza di sé raggiunge la sfera della libertà. Ora in codesto ritorno che la coscienza di sé fa in se stessa, o, a dir meglio, in quella unità che l’eleva al di sopra della opposizione superata, e che è l’unità della libertà, questa non è in sulle prime che una libertà immediata e virtuale, una libertà che può essere e sarà, ma che non è ancora, che non ha ancora attuato la sua natura, il suo contenuto, è, in altre parole, la libertà del pensiero interno e astratto, che Hegel designa col nome di stoicismo. Tale è difatti il principio della dottrina stoica. Il savio stoico è libero, ma della libertà del pensiero subbiettivo, indeterminato e astratto, e perciò impotente a determinarsi e obbiettivarsi. Egli è libero così sul trono come nelle catene o nel toro di Falaride, e l’universo crollerebbe ch’ei siederebbe imperterrito sulle sue rovine. Ma in ciò stanno appunto l’astrazione e l’impotenza del pensiero stoico. Perché se si è liberi tanto nelle catene come sul trono ecc. non vi ha ragione per combattere onde svincolarsi dalle catene. E se seggo imperterrito sulle rovine dell’universo, ciò vuol dire che l’universo non mi riguarda, non riguarda affatto il mio pensiero, la mia ragione, e che sorge e cade e vive fuori di questa. Ma la vera libertà, la libertà del pensiero concreto e sistematico è la libertà che combatte, e combatte determinandosi, ponendo, cioè, essa stessa il limite, l’ostacolo, il contrario mediante il quale si attua superandolo. Lo stoico è bensì libero nel possesso del bene, della virtù, della ragione, ma di un bene, di una virtù e di una ragione indeterminati, inaccessibili e irrealizzabili appunto perché non sono che astrazioni, rappresentazioni della immaginazione, non sono, cioè, il vero bene e la vera ragione36. Quindi la libertà dello stoico è l’atarassia, l’imperturbabilità astratta, vale a dire non è la libertà

36.  È come il Dio che non crea. Il Dio che non crea è anch’esso un’astrazione. È un Dio posto fuori de’ confini dell’universo, e di cui non si può dire

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che si muove e attua nel lavoro, nella lotta e nel trionfo che in questa si compie, nel che risiedono la vera virtù e il vero bene, ma la libertà nel pensiero solitario, immobile e passivo della coscienza di sé37. che sia, e molto meno cosa sia. Quindi è un nulla, e in ogni modo non è il vero Dio. 37.  Nello stoicismo, «il pensiero, dice Hegel, separandosi come pensiero astratto (als Abstraction, come astrazione) dalla moltiplicità delle cose, non possiede in se stesso alcun contenuto, ma il contenuto gli vien dato (vale a dire, lo attinge in quella stessa moltiplicità delle cose dalla quale si è separato). Il contenuto, in quanto è pensato dalla coscienza, cessa bensì di essere un ente estraneo per essa. Ma la nozione è nozione determinata e quindi deve esser pensata come tale, il che non avviene nello stoicismo. Codesta determinabilità della nozione è l’elemento estraneo (das Fremde) che il pensiero (stoico) ha nel contenuto. Il pensiero stoico essendo indeterminato è un pensiero senza contenuto, e quindi per darsi un contenuto deve determinarsi, il che può solo effettuare mediante una inconseguenza, cioè traendo dalla moltiplicilà delle cose dalla quale si è separato e che forma un mondo che gli è estraneo quelle determinazioni di cui abbisogna appunto per uscire dalla sua indeterminazione e darsi un contenuto. La determinazione e il contenuto sono, adunque, elementi estranei allo stoicismo, elementi, cioè, che non derivano dal suo principio. Lo stoicismo era quindi imbarazzato allorché gli si poneva la questione del criterio della verità (wie der Ausdruck war), come lo chiamavano allora, questione che riguarda il contenuto del pensiero stesso; perché la questione intorno al criterio della verità è una questione posta in questi termini dallo stoicismo e dall’epicureismo. È, d’altronde, una questione mal posta rispetto al problema della verità. Alla domanda, cosa siano il bene e il vero, gli Stoici davano una risposta che, come la dimanda, è il pensiero senza contenuto (e difatti, nella dimanda non vi è contenuto, poiché la dimanda ha appunto per oggetto la cognizione del contenuto); cioè, che il vero e il bene devono fondarsi nella ragione ([si tratta di una] allusione alla dottrina stoica che si deve vivere conformemente alla natura, e alla natura ragionevole, ossia, alla ragione, e che la virtù consiste appunto nel conformare le azioni alla ragione, dottrina in cui nulla si determina, né la natura, né la ragione, né la virtù). Ma siffatta identità del pensiero con se stesso (Sichselbstgleichheit des Denkens) non è che la ripetizione della mera forma in cui nulla viene determinato. E difatti nei concetti di natura, di ragione, di virtù, il pensiero rimane identico, o, come dice il testo, uguale a se stesso, vale a dire, pensiero indeterminato in cui non si ha che la pura

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Virtualmente il principio dello stoicismo contiene la negazione del bene e della verità. Ed è codesta negazione virtuale che passa all’atto, è esplicitamente posta e propugnata dallo scettico. Di fronte alla verità lo scettico fa un ritorno negativo in se stesso. La coscienza scettica è una coscienza di sé negativa, una coscienza che contiene bensì la verità come suo obbietto, ma come obbietto negato. Ed in codesta negazione essa pone appunto la sua libertà e la sua atarassia. Onde, mentre lo stoico pone la libertà nel bene e nella verità indeterminati e astratti, lo scettico la pone nella negazione di ogni bene e di ogni verità. Per esso la verità dello stoico non è che un’astrazione, e la verità che è nelle cose in generale non è la verità, ma una mera apparenza, e quindi la libertà sta precisamente nell’affrancarsi da siffatta apparenza che è fonte d’illusione e d’inganno. Ma se, dall’un canto, la coscienza scettica prende tal posizione negativa rimpetto alla verità, dall’altro, afferma se stessa, e in se stessa la verità e la libertà di se stessa, e mentre si affatica a dimostrare che non vi ha verità, che tutto cambia e diviene, che non vi ha che parvenza, essa mantiene l’immutabilità di se stessa, e la verità e l’immutabilità delle sue dimostrazioni. Onde nello scettico la coscienza di sé è raddoppiata, cioè, divisa, spezzata in due, una coscienza che nega, ed un’altra che afferma, ma come se l’una delle due coscienze fosse estranea all’altra, e senza che il negare dell’una e l’affermare dell’altra s’incontrino e congiungano nella unità della coscienza. Donde le inconseguenze, la confusione e il disordine ne’ quali trovasi impigliata la coscienza scettica. «È una coscienza, dice Hegel, contingente e empirica, che si regola e conforma a ciò che per

forma, la forma vuota e senza contenuto, di natura, di ragione, e di virtù. Onde i concetti generali di vero e di bene, di saggezza e di virtù, ai quali lo stoicismo è costretto di attenersi, hanno bensì qualcosa che eleva l’animo, ma come poi in realtà non se ne può cavar nessun contenuto, non tardano a generar la noia». Phän. des Geistes, p. 149 [GW 9, 118; I, 169].

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essa non ha nessuna realtà, che obbedisce a ciò che per essa è sfornito di ogni essenza, che contiene ed attua ciò che per essa non racchiude nessuna verità. E mentre per tal guisa essa si crea una vita accidentale, isolata (einzeln) e nel fatto animale, ed una coscienza di sé traviata, (verlorenes Selbst­bewusstsein) si atteggia in pari tempo a coscienza universale e identica a se stessa, però che è la negazione (Negativität) di ogni singola esistenza e di ogni differenza… Dall’un canto essa si dichiara libera sollevandosi al di sopra delle condizioni confuse e oscure e delle contingenze dell’esistenza, e, dall’altro, ricade nella sfera della parvenza (Unwesentlichkeit), ed in questa si muove. Essa sopprime nel suo pensiero il contenuto della parvenza (den unwesentlichen Inhalt, il contenuto inessenziale), mentre in siffatta soppressione è detta appunto la coscienza dell’ente apparente. Ovvero essa pone a principio che tutto assolutamente passa, fugge (das absolute Verschwinden); ma l’enunciazione (di questo principio) è (das Aussprechen ist), ed è la medesima coscienza (che enuncia il principio) che costituisce la fugacità enunciata. Stando ad essa, il vedere, l’udire ecc. non contengono nessuna verità, e ciò malgrado essa vede, ascolta ecc. Neanche alle leggi etiche (sittlichen Wesenheiten) essa accorda alcun valore, mentre poi riconosce in queste stesse leggi le potenze che reggono le sue azioni. Il suo operare e il suo dire sono in perpetua contraddizione, ed è in se stessa che contiene la duplice ed opposta coscienza dell’invariabilità ed eguaglianza, e della contingenza e disuguaglianza di se stessa»38. E nondimeno in una sola e medesima coscienza appaiono e s’incontrano l’ente essenziale, immutabile e uguale a se stesso, e l’ente inessenziale, mutabile e disuguale a se stesso. Quindi all’affermare e al negare inconseguenti, inconsapevoli e disordinati della coscienza scettica, un affermare e un negare 38.  Phän. des Geistes, B. Selbstbewußtsein, pp. 152-153 [GW 9, 121; I, 172-173].

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della coscienza di sé traviata, deve succedere una coscienza di sé in cui l’affermazione e la negazione, o, se vuolsi, i contrari sovraccennati s’incontrano e si uniscono, ciascuno di essi però conservando il suo significato e la sua funzione speciali. E questa è la coscienza infelice. La coscienza stoica e la scettica non sono infelici, in quanto che la prima si adagia e appaga di un’affermazione astratta, dell’affermazione, cioè, del bene e della verità astratti, e la seconda di una negazione astratta e inconseguente, della negazione di ogni bene e di ogni verità. Donde la loro atarassia. Senonché l’atarassia dello stoico ha il suo fondamento nel riposo, nella immobilità e invariabilità del bene astratto e indeterminato. Lo stoico è imperturbabile nel possesso di codesto bene. Mentre l’atarassia dello scettico risiede nella negazione dell’ente immobile e invariabile, e quindi nella mutabilità delle cose, in altra parola, lo scettico è imperturbabile nella convinzione che tutto è parvenza, tutto diviene e muta. Ma la coscienza di sé in cui s’incontrano l’ente immutabile ed essenziale ed il mutabile e inessenziale, e s’incontrano come s’incontrano i contrari, cioè ur­tandosi e combattendo, è la coscienza perturbata, infelice. È la coscienza lacerata dall’affanno che in essa suscitano la presenza e il cozzo di codesti due mondi. Ed è la coscienza di sé di tutti e due, a tal segno ch’è come due coscienze in una, onde data in essa la coscienza dell’uno è data in questa me­desima coscienza la coscienza dell’altro. Quindi essa non va dall’uno all’altro, ma nell’uno trova l’altro. Perocché ha in sé come coscienza individuale e mutabile la coscienza dell’ente universale e immutabile, e, viceversa, nella coscienza dell’ente universale e immutabile essa trovasi come coscienza individuale e mutabile. «Questa coscienza infelice, dice Hegel, scissa in se stessa in due, per ciò che siffatta contraddizione della sua essenza costituisce in sé una coscienza, deve sempre avere in una delle due coscienze anche l’altra, per modo che, mentre si lusinga di avere raggiunto la vittoria e il riposo dell’unità, si

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trova sempre di nuovo da questa immediatamente sbalzata»39. E qui sta la fonte dell’infelicità e dolore della coscienza. La coscienza di sé è spezzata in due coscienze, ed è coscienza di sé in codesto spezzamento e ad un tempo nel bisogno di sanarlo, e nella lotta sostenuta per sanarlo. Ma per ciò stesso la coscienza infelice supera la stoica e la scettica, le quali sono due coscienze astratte e opposte, e la cui astrazione e opposizione la coscienza infelice si adopera appunto a superare e conciliare lottando e soffrendo40.

39. «Dieses unglückliche, in sich entzweite Bewusstsein muss also, weil dieser Widerspruch seines Wesens sich ein Bewusstsein ist, in dem einen Bewusstsein immer auch das andere haben, und so aus jedem unmittelbar, indem es zum Siege und zur Ruhe der Einheit gekommen zu sein meint, wieder daraus ausgetrieben werden». Phän. des Geistes, p. 154 [GW 9, 122; I, 174]. 40. «Obgleich aber das unglückliche Bewusstsein also diese Gegenwart (1) nicht besitzt, so ist es zugleich über das reine Denken (2), insofern dieses das abstracte von der Einzelnheit überhaupt wegsehende Denken des Stoicismus, und das nur unruhige Denken (3) des Skepticismus, – in der That nur die Einzelnheit als der bewusstlose Widerspuch und dessen rastlose Bewegung – ist; es ist über diese beide hinaus, es bringt und hält das reine Denken und die Einzelnheit zusammen, ist aber noch nicht zu demjenigen Denken erhoben, für welches die Einzelnheit des Bewusstseyns mit dem reinen Denken selbst ausgesöhnt ist ecc.» (4) Phän. des Geistes, p. 158 [GW 9, 125; I, 179]. (1) Diese Gegenwart. Nello sviluppo sistematico dello spirito ciaschedun momento, ciascheduna sfera costituisce il Gegenwart dello spirito, il suo presente, o, se vuolsi, il suo stato presente. Nelle considerazioni che precedono il passo qui riportato Hegel accenna al concetto dell’ente immutabile in sé e per sé, cioè, dell’ente immutabile assoluto, onde far poi meglio intendere come nel rapporto di cui qui si tratta, cioè nel rapporto che avviene e si attua nella coscienza infelice, non si abbia siffatto presente. (2) Reine Denken: puro pensiero, espressione che Hegel adopera spesso per designare il pensiero indeterminato e astratto. (3) Nur unruhige Denken: il pensiero scettico, il pensiero che non ha punto fisso, il pensiero del divenire perpetuo e indefinito. Vedi qui sopra pp. 52 e ss. (4) Vale a dire, qui non si ha ancora il pensiero come ragione e unità della ragione. Vedi qui appresso.

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La coscienza di sé è adunque infelice perché spezzata, e perché si sente spezzata, il che genera la lotta che deve risanarla. E la lotta, dobbiamo rammentarlo, non avviene perché i contrari sono estranei l’uno all’altro, ma bensì perché sono la differenza di una sola e stessa unità che appunto nella lotta pone e svolge il suo contenuto, la sua realtà, e riconciliando i contrari si riconcilia con se stessa, cioè, si pone come vera unità. Qui i contrari sono la coscienza dell’ente invariabile (das Unwandelbare), essenziale e universale, e la coscienza dell’ente variabile, inessenziale e individuale, due coscienze nelle quali è scissa la coscienza di sé. Ora nella scissura stessa della coscienza di sé scaturisce quello stimolo, quell’attività che deve dalla sua infelice condizione liberarla. Siffatta attività si pone qui come culto, adorazione (Andacht) e come lavoro (Arbeit)41. L’adorazione, quale qui avviene, è l’attività conciliatrice dell’intelligenza, e, a dir così, teoretica42, il lavoro è l’attività

41. L’Andacht, culto, adorazione, pietà, com’è qui intesa, non è il culto religioso, la religione nel senso proprio della parola, che appartiene ad una più alta sfera, come si vedrà in appresso, ma è il primo incontro e la prima riconciliazione, incontro e riconciliazione per ciò stesso indeterminati e astratti, dell’ente invariabile e dell’ente variabile, o, se vuolsi, dell’infinito e del finito. Altro è il principio ed altro il contenuto della religione. Parimenti, il lavoro non è qui il lavoro quale si determina, specifica e organizza nello Stato, e che ha per oggetto e contenuto la vita sociale, ma è il lavoro in generale, il lavoro indeterminato della coscienza di sé ancora subbiettiva, individuale, a dir così, inorganica che non si attiene ad unire internamente nel sentimento i due contrari, ma unendoli li foggia e trasforma. Perché questo è il lavoro nel senso generale della parola. 42.  Teoretica nel senso di sentimento – Gefühl, Gemüth – perocché qui non si ha il pensiero propriamente detto, né un rapporto in cui l’ente immutabile e il mutabile sono pensati, e pensati come momenti di un sol pensiero, di una sola nozione o idea, ma un rapporto in cui i due enti sono nel sentimento della coscienza di sé, o, ciò che torna lo stesso, nella coscienza di sé come sentimento. «Qui, dice Hegel, la coscienza non è in rapporto col suo obbietto come coscienza pensante. Essa è bensì in sé (an sich, e quindi solo virtualmente) una individualità puramente pensante, e tale è pure il suo

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conciliatrice della volontà, o pratica. Ed, invero, nel differenziarsi della coscienza di sé in coscienza dell’ente invariabile ed universale, ed in coscienza dell’ente mutabile e individuale, e nella lotta che accompagna siffatta differenziazione, avviene questo, che, mentre le due coscienze si differenziano e lottano, si pongono in relazione e si comunicano vicendevolmente la loro natura43. E qui interviene l’adorazione. Nell’adorazione non è soltanto l’ente mutabile che s’inalza, come dicesi, all’immutabile – questo non è che un lato del rapporto – ma bensì l’ente immutabile discende, dal canto suo, nella sfera dell’ente mutabile, in altra parola, nell’adorazione i due enti, o le due sfere si congiungono e compenetrano. Senonché nell’adorazione non avviene che una riconciliazione astratta e incompiuta, una riconciliazione puramente subbiettiva e interna, la riconciliazione nel sentimento. Onde la coscienza di sé si sente tuttora scissa e infelice, perché la natura intrinseca e la realtà obbiettiva delle due opposte sfere sono ancora separate. E qui interviene il lavoro come conseguenza e compimento dell’adorazione. Il lavoro, diciamo noi, è una conseguenza dell’adorazione. Ma sarebbe più esatto dire che è l’adorazione stessa in quanto passa dal sentimento alla volontà, in quanto, cioè, il rapporto astratto e subbiettivo dell’ente immutabile si attua obbiettivamente mediante la volontà. E, difatti, il lavoro è l’attività volitiva che fa passare e, come a dire, trasfonde l’immutabile nel mutabile, e questo in quello, e la loro unio-

obbietto, ma come non è il pensiero puro che forma il loro rapporto, essa è, a dir così, soltanto sulla via che conduce al pensiero, ed è adorazione». Phän. des Geistes, p. 159 [GW 9, 125; I, 180]. 43.  Perché tale è l’intima ragione della differenza e della lotta. Gli enti, vogliamo dire, non si differenziano per separarsi e rimanere estranei l’uno all’altro, ma bensì per unirsi nella loro comune unità, la quale è appunto vera e concreta unità in essi differenziandosi ed unendoli ad un tempo, svolgendo ed attuando così il suo contenuto, la sua realtà come sistema.

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ne è ciò che chiamasi prodotto del lavoro, onde la coscienza di sé trova nel lavoro la sua guarigione e il suo godimento44. Ma la coscienza di sé, avendo per siffatta guisa raggiunto nel lavoro e nell’uso del prodotto del lavoro l’unità dell’ente immutabile e dell’ente mutabile, o, se vuolsi, dell’elemento immutabile e dell’elemento mutabile della natura e dell’essere delle cose, non si sente più spezzata, però che si è elevata in una più alta sfera ove sorge in essa «la certezza di essere nella sua individualità assolutamente in se stessa, vale a dire, di essere l’intera realtà»45. E questa è la sfera della ragione. Peroc44.  Forse questo rapporto dell’immutabile e del mutabile parrà singolare perché sembra che l’immutabile sia appunto immutabile per la ragione che non può mutare, e che il mutabile, dal canto suo, sia mutabile per la ragione che non può divenire immutabile. E così ragiona l’intendimento astratto non solo intorno all’immutabile e al mutabile, ma intorno a tutte le opposizioni. Ma l’ente assolutamente immutabile è un’astrazione. L’immutabilità è bensì un momento, ma solo un momento delle cose. Quindi l’ente immutabile deve mutare, e mutare in se stesso, per una necessità intrinseca della sua natura, onde esistere nella sua realtà e verità. Quando si pensa Dio come creatore si pensa un ente mutabile nella sua immutabilità, e immutabile nella sua mutabilità. Il moto è la mutabilità nella immutabilità. Il passaggio da una determinazione, o da una sfera all’altra involve l’immutabilità nella mutabilità, e viceversa. Io non sono veramente me stesso che mutando nei vari modi e momenti del mio essere e della mia esistenza. Ogni cosa muta nella sua immutabilità secondo la sua natura, e il sistema è l’intreccio, la fusione e il divenire dell’invariabile nel variabile, e di questo in quello. 45.  Ist ihm (dem Bewusstsein) die Vorstellung der Vernunft geworden, der Gewissheit der Bewusstsein in seiner Einzelnheit absolut an sich, oder alle Realität zu sein. Vale a dire, qui, in seguito del moto, dello sviluppo che precede è sorta nella coscienza la rappresentazione della ragione (poiché la Fenomenologia non è la scienza o filosofia nel senso stretto della parola, la ragione solo vi apparisce come ragione, e quindi non si ha in essa l’idea, ma la rappresentazione della ragione), e quindi di una certezza e di una esperienza diverse dalla certezza e dall’esperienza che precedono. La certezza che si è qui raggiunta è la certezza della ragione, cioè, di un principio che apparendo nella coscienza fa sì che questa nella sua individualità (Einzelnheit), cioè nella sua natura ed esistenza speciali, è assolutamente, o in modo assoluto in se

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ché la ragione (Vernunft) è appunto l’unità dell’immutabile e del mutabile, del generale e dell’individuale, dell’essenziale e dell’ines­senziale, in una parola, delle differenze, de’ contrari, nel che si distingue dalla sensibilità non solo, ma eziandio dall’intendimento (Verstand), ove le differenze sono ancora scisse, non sono che come differenze, e non come differenze della e nella unità. In tal senso essa è l’intera realtà, e la coscienza della ragione o la coscienza della unità e in un della certezza che nella ragione è contenuta ogni verità, o, a dir meglio, che ogni verità è una verità razionale, e non è una verità che in quanto e perché è un momento della ragione. Quindi nella coscienza di sé come ragione i rapporti negativi delle sfere precedenti si cambiano in rapporti positivi, in quanto che le differenze non formano più un mondo negativo e opposto alla coscienza di sé, ma sono differenze della ragione, e quindi della coscienza di sé come ragione. Onde la coscienza di sé, anziché sentirsi spezzata e infelice nella lotta, riconosce in questa un momento, una necessità benefica della ragione e trova in essa il suo appagamento46.

stessa, e quindi e per ciò stesso, è tutta la realtà, però che l’ente o il principio che esiste in se stesso in modo assoluto contiene l’intera realtà. 46. «Damit, dass das Selbstbewusstsein Vernunft ist, schlägt sein bisher negatives Verhältnis zu dem Anderssein (1) in ein positives um. Bisher ist es ihm nur um seine Selbständigkeit und Freiheit zu thun gewesen, um sich für sich selbst auf Kosten der Welt (2), oder seiner eigenen Wirklichkeit (3), welche ihm beide als das Negative seines Wesens erschienen (4), zu retten und zu erhalten. Aber als Vernunft, seiner selbst versichert, hat es die Ruhe gegen sie (5) empfangen, und kann sie ertragen; denn es ist seiner selbst als der Realität gewiss, oder dass alle Wirklichkeit nichts anders ist, als es; sein Denken ist unmittelbar selbst die Wirklichkeit; es verhält sich also als Idealismus zu ihr (6)». Phän. des Geistes, cap. V, pp. 169-170 [GW 9, 192; I, 134]. (1) Anderssein: l’esser altro, cioè, le differenze, le opposizioni nella coscienza di sé. (2) Il che si riferisce allo stoicismo che nega il mondo, la molteplicità delle cose.

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Ma la ragione al suo punto di partenza non è che ragione immediata e virtuale, ragione che non ha ancora posto, svolto se stessa, il suo contenuto. Ed invero la ragione non esiste fuori di sé, in un mondo che non è il suo, e questo mondo appunto si è che essa deve generare, e che genera per essere nella sua realtà. Essa esiste, adunque, primieramente come ragione astratta e virtuale, la quale, per ciò che è la ragione, contiene la certezza di se stessa e della sua verità, la certezza di essere il principio universale e assoluto senza e fuori del quale nulla può esistere e concepirsi. E tale non solo è la nozione della ragione, ma tale eziandio la ragione apparisce nella coscienza, però che col suo apparire nella coscienza appaiono pur anco l’unità e l’assolutezza quali sue compagne, suoi attributi inseparabili. Ora dire che la ragione è l’assoluta certezza e l’assoluta unità, è quanto dire ch’è l’unità della nozione e della realtà, dell’essere e del pensiero, e quindi essenzialmente idealistica, e che l’idealismo è la dottrina della ragione47.

(3) Il che si riferisce allo scetticismo che nega la Wirklichkeit, la realtà della coscienza di sé e del suo contenuto, poiché tutto è per esso parvenza e divenire. (4) Poiché lo stoicismo e lo scetticismo sono due momenti astratti e opposti all’unità della coscienza di sé. (5) Gegen sie: contro e di fronte ad essi, cioè ai due momenti negativi, lo stoico e lo scettico, che ora sono riuniti e conciliati nella ragione. (6) Zu ihr: a ella, cioè, alla Wirklichkeit. Qui la coscienza di sé in quanto ragione non si pone rimpetto alla realtà come coscienza di sé spezzata, per modo che tra la realtà ed essa non vi sarebbe che un rapporto negativo, ma come principio della realtà medesima, nel che sta il suo idealismo. 47.  L’idealismo come unità della ragione, e non già l’idealismo spurio e inconseguente, kantiano o altro simile, che mentre riconosce nell’idea il principio, o, come anche la chiama con voce equivoca, la condizione della conoscenza, assegna poi all’obbietto o contenuto della conoscenza un principio diverso, e si deve dire assolutamente diverso dall’idea, e, ciò ch’è più strano, un principio che non si sa ove e che cosa sia, poiché non solo è ignoto, ma inconoscibile.

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Tale è il primo momento, la prima sfera della ragione ove essa esiste come ragione in sé, immediata e virtuale, nella certezza di se stessa e della sua assoluta natura. Ma siffatta certezza, benché virtuale, della ragione appunto per ciò che è la certezza della ragione deve attuarsi, deve divenire il mondo della realtà e della verità. Perocché nella ragione il possibile e il reale sono inseparabili. La ragione rinchiusa nel mero possibile non è la ragione, è una ragione inconseguente, come la chiama Hegel48. Ed è inconseguente con se stessa, sia non possa, sia non voglia realizzarsi. Onde la ragione è la ragione perché è l’unità del possibile e del reale. Ed in codesto senso deve intendersi quanto qui sopra è detto, esser, cioè, la ragione alle Realität, ogni e l’intera realtà, però che essa non sarebbe l’intera realtà se non fosse il principio del possibile e del reale, e se la sua attività non fosse l’attività realizzatrice della sua propria ed intrinseca possibilità49. Quindi, realizzan48.  Dopo aver posto in rilievo le inconseguenze dell’idealismo subbiettivo e astratto, Hegel soggiunge «So in consequent aber ist die wirkliche Vernunft nicht; (la ragione vera, concreta in contrapposizione alla ragione dell’idealismo astratto) sondern nur erst die Gewissheit, alle Realität zu sein, ist sie in diesem Begriffe sich bewusst als Gewissheit, als Ich noch nicht die Realität in Wahrheit zu sein, und ist getrieben, ihre Gewissheit zur Wahrheit zu erheben und das leere Mein zu erfüllen». Phän. des Geistes, p. 176 [GW 9, 137; I, 201]. Vale a dire che la ragione contiene nella sua nozione la certezza di essere l’intera realtà, e che in siffatta certezza vi è questo, che in quanto io, cioè subbietto, o ragione subbiettiva, essa non è l’intera realtà, non è la realtà nella verità, la realtà che si è inalzata alla verità, alla sfera, cioè, in cui essa esiste ed opera come ragione, come ragione che conosce se stessa, e che conosce e afferma se stessa come assoluto principio, realizzando così la certezza contenuta nella sua nozione di essere l’intera realtà. 49.  Gli è chiaro che nella espressione «alle Realität» è compreso non solo ciò che generalmente addimandasi reale, ma altresì il possibile. Questo è il significato dell’alle, e, ciò che è più essenziale, questa è la nozione della ragione. È l’uso indeterminato, o arbitrario, o esclusivo che si fa delle voci reale e realtà che qui può trarre in errore intorno al significato della espressione in discorso. Perché si contrappone generalmente il reale al possibile come

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do se stessa come ragione, essa genera e costruisce il mondo della parvenza e della esperienza della ragione, un mondo in cui il sentire, il percepire, la libertà e le sue lotte, il dolore, l’adorazione e il lavoro avvengono nella ragione, sono momenti surbordinati, stromenti della ragione, stromenti che la ragione adopera e foggia per i suoi fini, cioè per se stessa, per attuarsi come ragione. Dio crea il mondo per se stesso, per essere nella pienezza della sua natura, nella sua assolutezza. Ora il mondo fenomenico della ragione contiene tre sfere ove la ragione esiste, 1) come ragione che osserva, o osservatrice (beobachtende Vernunft), 2) come Spirito (Geist), 3) come Religione. La ragione che osserva non è una ragione subbiettiva e quindi accidentale, una ragione, cioè, che osserva un oggetto, un mondo che non è suo, che non è da sé e per sé generato, e col quale non si sa perché e come si ponga in rapporto, ma è la ragione che nell’obbietto osserva se stessa, e che genera non solo l’obbietto, ma le facoltà, gli organi interni e esterni fatti per osservare. E per ciò appunto osserva, perché se l’obbietto dell’osservazione non fosse il suo obbietto, essa non sarebbe mossa ad osservarlo. Osservare non è sentire, percepire, lavorare, ma sentire, percepire e lavorare secondo e nella ragione. «Questa coscienza (la coscienza di sé come ragione), dice Hegel, la vediamo qui nuovamente occupata a sentire e percepire, non però con la mera certezza di sentire e percepire un obbietto diverso, ma con la certezza che codesto obbietto è essa stessa. Innanzi le era soltanto occorso di percepire e sperimentare parecchio nelle cose, mentre qui istituisce essa stessa l’osservazione e l’esperienza. Il sentire e il percepire che per

se il possibile fosse sfornito di ogni realtà. Il vero si è che il possibile ha la sua realtà, quella realtà che compete al possibile, però che ciascheduna cosa possiede quella realtà che è conforme alla sua natura.

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lo innanzi vennero superati e soppressi solo per noi50, lo sono ora dalla coscienza per se stessa. La ragione mira ora a conoscere la verità, ad innalzarsi alla nozione di quanto nel sentire e percepire è mera cosa (Ding), vale a dire, ad altro non mira che a rintracciare nelle cose la coscienza di se stessa. Ciò fa sì che prende ora interesse nella universalità delle cose, colla certezza di esser presente nel mondo, o, il che è lo stesso, che il mondo è un ente razionale. Essa ricerca il suo contrario (sein Anderes), sapendo che di questo impossessandosi non entra in possesso di altro che di se stessa, della sua propria infinitezza. La ragione ha primieramente presentito nella realtà se stessa, riconoscendovi una cosa sua, e quindi e in questo senso ne ha preso possesso, ne ha assicurato la proprietà, e ha piantato ovunque, sulle più alte cime e ne’ più profondi recessi, i segni della sua sovranità. Non è però codesto possesso superficiale che forma il suo scopo supremo51. La soddisfazione che siffatta presa di possesso reca nella proprietà lascia sempre un obbietto estraneo ed opposto, un obbietto che la ragione astratta in sé non contiene»52. Ma la ragione sente, intuisce in sé una più profonda natura che non è quella che si attua nella presa di possesso e nel lavoro, e codesta natura intende attuare e sod-

50. «Meinen und Wahrnehmen, das für uns früher sich aufgehoben, ecc.». Phän. des Geistes, p. 176 [GW 9, 137; I, 201]. Vale a dire, le sfere della sensazione e della percezione sono state bensì superate, ma non hanno ancora ricevuto quella forma e quel significato che in esse infonde la ragione, onde sono state superate solo per noi e in noi, nel nostro pensiero subbiettivo e astratto, e non obbiettivamente e in loro stesse. 51. «Aber dieses oberflächliche Mein ist nicht ihr letztes Interesse». Il mio come mero mio, cioè il possesso come mero possesso, ed il lavoro altresì come mero lavoro sono cose superficiali rispetto alla ragione, e non ricevono un alto significato che mediante e nella ragione. Quindi l’interesse, lo scopo ultimo, supremo della ragione non sta nel possesso e neanche nel lavoro, questi, al contrario, non avendo valore che in quanto prendono una forma razionale. 52.  Phän. des Geistes, pp. 176-177 [GW 9, 137-138; I, 202-203].

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disfare generando un mondo in cui essa si pone come obbietto a se stessa. «La coscienza osserva, vale a dire la ragione vuol trovare e posseder se stessa come obbietto immediato, sotto forma reale e sensibilmente presente»53. Quindi, lo ripetiamo, l’osservazione non è un atto passivo, astratto e subiettivo della ragione, un atto in cui l’obbietto osservato non sarebbe l’obbietto del subbietto osservatore, ma è la ragione attiva che osserva il suo obbietto, e quindi nell’obbietto se stessa, e che, osservando l’obbietto, eleva, attraverso le varie sfere e i vari stromenti dell’osservazione, l’obbietto, e coll’obbietto se stessa alla verità. La sfera dell’osservazione è, adunque, la sfera della ragione che apparisce come coscienza di sé, ma come coscienza di sé osservatrice. La ragione apparisce, ma osservando. Ora ciò che la coscienza di sé come ragione osserva è, 1) la natura, 2) se stessa nella sua purezza e nel suo rapporto colla realtà esteriore54, 3) la realizzazione di sé per se stessa.

53. «Das Bewusstsein beobachtet; d. h. die Vernunft will sich als seienden Gegenstand, als wirkliche, sinnlich-gegenwärtige Weise finden, und haben». Phän. des Geistes, pp. 177-178 [GW 9, 138; I, 203]. 54. «Die Beobachtung des Selbstbewusstseins in seiner Reinheit (cioè, nel­ l’essere e attività interne, e nelle leggi o forme proprie-logiche e psicologiche-della coscienza di sé), und in seiner Beziehung auf äussere Wirklichkeit».

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Appendice I*

La collocazione della Fenomenologia nel sistema (1872)

nota1 Sarà qui acconcio far notare che questo è il punto di vista, e il significato della Fenomenologia dello Spirito di Hegel. In questo capolavoro di pensiero, di lingua e di stile, Hegel, guardando il problema dal punto di vista dell’idea speculativa o assoluta, ritrae la storia fenomenale dell’idea nella coscienza, e vi dimostra come l’idea, spinta dalla sua dialettica, si svolge nella coscienza, e come giunta al termine di questo svolgimento nega la coscienza, e mediante questa negazione s’inalza alla sua sfera assoluta. Si son rivolte varie obbiezioni contro questo libro che in un suo recente scritto (Revue des Deux Mondes 1° febbrajo 1872) V. Cherbuliez chiama sibillino, e che difatti lo è, non però nel senso in cui l’intende forse il valente scrittore, bensì in questo, che vi si vaticina una nuova vita dello spirito. Si è detto primieramente che se la Fenomenologia dello Spirito è, come l’ha chiamata Hegel, un viaggio di esplorazione, vale a dire, una indagine che deve condurre la mente al punto di vista speculativo o al sistema, questo verrà dopo la Fenomenologia dello Spirito. E nondimeno la Fenomenologia

*  Si riporta qui la lunga nota dedicata alla Fenomenologia dello Spirito pre-

sente in A. Vera, Problema dell’Assoluto, Parte I, cit., pp. 65-70.

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dello Spirito suppone già il sistema, poiché non solo il suo contenuto vi è sviluppato speculativamente, ma è, infine ad un certo punto, lo stesso contenuto del sistema. Onde, o la Fenomenologia dello Spirito è il tutto, ed in tal caso il sistema non ha più ragion d’essere, ovvero presuppone il sistema, ed in tal caso non se ne vede lo scopo e l’importanza, né si comprende come possa essere un avviamento, una introduzione al sistema. E che presupponga il sistema è confermato dal fatto che nel sistema essa non è più che un momento, poiché si ritrova nella Filosofia dello Spirito, e vi si ritrova ristretta entro gli angusti confini di una sfera dello spirito subbiettivo. – Si può accordare che queste obbiezioni siano fondate, solo però in questo senso che la Fenomenologia dello Spirito presuppone il sistema, e che il sistema starebbe senza la Fenomenologia dello Spirito. Ma ciò non toglie né il sistema, né l’importanza della Fenomenologia dello Spirito. Si noti primieramente che, quantunque la Fenomenologia dello Spirito sia venuta in luce prima della Logica e dell’Enciclopedia2, è certo che Hegel avea già sbozzato il sistema nella sua mente non solo, ma sulla carta fino dal 1800. Si dirà: se il sistema esisteva già, perché la Fenomenologia dello Spirito? Vi sono varii perché. Vi ha primieramente una ragione che chiamerò subbiettiva. Hegel meditando la Fenomenologia dello Spirito andava con ciò stesso maturando e compiendo il sistema. Perocché facendo una rivista sistematica della coscienza, andava sempre più accertandosi della limitazione del punto di vista della coscienza, e confermandosi in quello in cui si muove il mio sistema, nel punto di vista dell’idea speculativa o assoluta. Ed in questo senso egli ha potuto dire che la Fenomenologia dello Spirito è un viaggio di esplorazione. Ma vi ha un’altra ragione la quale potrà chiamarsi obbiettiva. L’idealismo di Kant e di Fichte non s’innalza 2.  La Fenomenologia dello Spirito fu pubblicata a Bamberg nel 1807, la Logica a Nuremberg nel 1812, e l’Enciclopedia a Heidelberg nel 1817.

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al di là della coscienza, come si mostrerà qui appresso. La Fenomenologia dello Spirito è una confutazione di questo idealismo, ma una confutazione nel senso in cui Hegel intende, ed in cui difatti si deve intendere il confutare. Perocché non si confuta una dottrina ponendosi fuori di essa e rigettandola come opposta ad un’altra dottrina, ma collocandosi, a dir così, nel suo centro, ed affermandola e negandola ad un tempo; affermandola come un momento del vero; negandola, mostrando, cioè, che non n’è appunto che un momento, il quale per ciò stesso trovasi assorto in una più alta unità. Perché questo è il sistema, e questa la cognizione sistematica. Ed in siffatta guisa la Fenomenologia dello Spirito confuta l’idealismo subbiettivo. Essa dimostra, cioè, come l’idea sia nella coscienza, ma solo vi sia in una forma limitata, e quindi come l’idealismo subbiettivo che in essa si muove non sia che un momento dell’idealismo assoluto. In tal guisa nella Fenomenologia dello Spirito Hegel si separava dalla Filosofia di Kant e di Fichte, ma se ne separava riconoscendone il significato storico ed anche assoluto, per ciò che vi dimostra che l’idea è nella coscienza, quantunque in una forma inferiore. Né solo vi si separava da Kant e da Fichte, ma vi segnava un passo innanzi sulla filosofia di Schelling. Imperocché, mentre in Schelling la natura e lo spirito si muovono su due linee parallele, come due poli che non si differenziano che quantitativamente, nella Fenomenologia dello Spirito vi è già il concetto di sistema come evoluzione dell’idea secondo la natura qualitativa e specifica dei suoi varii momenti, e quindi il concetto dell’assoluto in quanto spirito. – Tale è la posizione che occupa la Fenomenologia dello Spirito nella formazione e manifestazione del pensiero hegeliano. Essa sta col sistema, in qualche modo, nella stessa relazione in cui stanno tra loro taluni dialoghi di Platone; l’Alcibiade e il Fedro, per esempio, nei quali si trovano già sbozzati i primi tratti di un pensiero più sviluppato e più compiuto, quale è quello che è esposto nel Parmenide, nel Timeo,

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nella Repubblica, e che lo presuppongono. – Quanto all’altra obbiezione, come avviene, cioè, che nel sistema la Fenomenologia non sia più che una sfera dello spirito subbiettivo, e quindi una sfera formale e astratta rispetto alle sfere più concrete dello spirito, quali lo Stato, l’arte, la religione, che Hegel ha non pertanto introdotti nella Fenomenologia dello Spirito; questa obbiezione non si può sciogliere che guardando ad un tempo all’andatura dello spirito, ed allo scopo che si propone Hegel nella Fenomenologia dello Spirito. Quella unità, quel nesso profondo che s’incontra già ne’ varii elementi della vita animale diviene anche più intimo e più profondo nello spirito. Onde, se nell’animale, e anzitutto nell’animale perfetto il cervello e il cuore, i nervi e il sangue sono sì strettamente uniti che l’uno è in qualche modo nell’altro, ciò è anche più vero dello spirito ove le sfere superiori si trovano già nelle inferiori, ma vi si trovano empiricamente, come fatti, falsate e disformate3. Per esempio, l’intendimento è già nella follia, la religione, la scienza, e il loro obbietto, la verità, l’assoluto, sono già nella sensibilità, e nella coscienza. Nel sistema ciascheduna sfera deve esser determinata secondo la sua natura specifica, vale a dire, secondo la sua idea, la quale è forma e contenuto. Ora, quantunque l’obbietto della religione e della filosofia discenda nella coscienza, questa, per ciò appunto che non è adeguata all’assoluto obbietto, lo disforma; e ne disforma non solo la forma, ma eziandio il contenuto, in quanto non può contenerlo ed esprimerle nella verità e nella unità della sua natura, in altra parola, in quanto l’assoluto obbietto vi esiste come obbietto fenomenale, e non come obbietto assoluto. Quindi nel sistema la Fenomenologia costituisce, come l’abbiamo notato, una sfera astratta e formale, una potenzialità relativamente alle sfere più alte dello spirito; e costituisce una sfera dello spirito subbiettivo, subbiettivo non nel senso kantiano, ma nel senso in 3.  Vedi su questo punto Hegel: Filosofia dello Spirito.

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cui questo momento è determinato nel sistema, nel senso, cioè, che lo spirito è ancora rinchiuso nella sfera della sensibilità e della coscienza, e non si è svolto ed attuato nella sfere più concrete e più obbiettive dello Stato, della religione ecc. Questa è la vera posizione della Fenomenologia nel sistema. Ora perché Hegel ha introdotte nella Fenomenologia dello Spirito il contenuto delle sfere più concrete dello spirito? Appunto per le ragioni innanzi esposte. Come tutto è in qualche modo nella coscienza, e la forma della coscienza, la riflessione e la rappresentazione, penetrano e si riproducono nelle più alte sfere dello spirito, benché non vi siano che come momenti subordinati e relativamente superati, Hegel, volendo dimostrare la limitazione del punto di vista della coscienza, dovea dimostrare in qual guisa queste sfere sono nella coscienza. E per dimostrarlo dovea dimostrare non che l’idea non è nella coscienza, bensì che vi è, ma vi è in una forma imperfetta e limitata. Perché questa è la dimostrazione, e questa, lo ripeto, la scienza sistematica. Dimostrare sistematicamente, o nel sistema il sentimento vuol dire dimostrare come la ragione, l’idea è nel sentimento o, ciò che torna lo stesso, come il sentimento è nell’idea e nel sistema. E per ciò dimostrare fa d’uopo guardare il sentimento da un più alto punto di vista, dal punto di vista dell’unità e dell’idea assoluta. Il che si applica ad ogni cosa, e quindi anche alla coscienza. E in tal guisa Hegel guarda e determina la coscienza nella Fenomenologia dello Spirito.

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Appendice II*

Alcune considerazioni sulle Logische Untersuchungen di A. Trendelenburg (1864)

Mettendo da parte Schopenhauer**, credo che non possa fare meglio di concedermi il piacere e l’onore di intrattenermi qualche istante su Trendelenburg. Il lettore conosce senza dubbio Trendelenburg e probabilmente anche le sue opere1. Non ho *  Le pagine che seguono sono tratte dalla lunga Préface alla seconda edizione

del 1864 alla Introduction à la philosophie de Hégel, Librairie philosophique de Ladrange, Paris 1864, pp. LIX-LXXIV. **  Il giudizio che Vera riserva a Schopenhauer è, come facilmente intuibile,

tutt’altro che generoso. Basti il seguente passaggio: «Die Welt als Wille und Vorstellung. Il mondo come volontà e rappresentazione. Quando si legge questo libro e la strana dottrina che vi si propugna, si crede di sognare. Si crede di sognare e ci si domanda come una simile dottrina (la chiamo dottrina per darle un nome) sia potuta uscire da una mente tedesca, da una mente nata e cresciuta nel mezzo di questo grande movimento filosofico [l’idealismo, N.d.T.], così profondo e così originale, che non ha eguali se non nella filosofia greca. La sola spiegazione che si possa dare, va cercata in questa dialettica che fa magna vitia nonnisi in magnis ingeniis, che fa sì, voglio dire, che vi siano delle scorie solo laddove vi siano dei metalli preziosi» (A. Vera, Introduction à la philosophie de Hégel, cit., p. LIV). 1.  Le sue principali opere sono le Logische Untersuchungen (Ricerche logiche) e il suo Naturrecht auf dem Grunde der Ethik (Diritto di natura fondato sull’etica). Presenterò qui alcune considerazioni solo sulle Ricerche logiche; ciò è sufficiente all’obiettivo che mi propongo.

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pertanto bisogno di aggiungere che sono distante, assai distante, dall’equiparare nella mia considerazione Trendelenburg e Schopenhauer, e dal volerli collocare allo stesso livello. No, Trendelenburg è uno spirito austero e degno di considerazione, il quale prende la scienza e la filosofia sul serio. Tuttavia, si può essere austeri e degni di considerazione e, nonostante ciò, cadere in errore. È quanto accaduto a Trendelenburg. Perché un giorno, che oserei chiamare infausto, o, come si dice in francese, in un giorno cattivo, egli ebbe la spiacevole idea di immaginare una logica – per di più, una logica hegeliana – che, pur essendo hegeliana, finì per sbiadire la logica del maestro. Quello fu, lo ripeto, un cattivo giorno e ritengo che giorno ancora più cattivo e pensiero più infausto non sarebbero potuti sorgere per la ragione, come per la fama di Trendelenburg. Se, qualora fossi un musicista, mi dicessi: scriverò un Guglielmo Tell alla maniera di Rossini, per far tornare il grande maestro nel nulla; o se, qualora fossi un poeta, mi dicessi: scriverò un Re Lear o un Amleto per eclissare il grande vate inglese, mi sembrerebbe che tale eclissi avrebbe luogo solo nella mia ragione. Ebbene, io dico che una simile eclissi ha avuto luogo nella ragione di Trendelenburg; e mi permetto di aggiungere che si tratta di un’eclissi ancora più completa di quella che avrebbe oscurato la ragione del poeta o del musicista. La logica di Hegel è, infatti, uno di quei monumenti più resistenti e indistruttibili del bronzo, poiché è l’opera di quella stessa ragione che produce il bronzo, allo stesso modo di come essa abbia prodotto la stessa arte, e tutte le cose, in modo che, se i capolavori che ho appena nominato sono immortali, essa è più immortale di quelli; e se ogni tentativo che vorrebbe rifare e sorpassare i primi deve necessariamente fallire, ancora di più dovrà fallire quello che pretenderà di rifare e sorpassare la logica di Hegel. E, a mio avviso, non v’è ombra di dubbio che questa sia la sorte riservata al tentativo di Trendelenburg ed è ciò che si può riconoscere, per così dire, fin da una prima analisi. Del resto, che cos’ha fatto Trendelenburg? Egli ha

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adottato il punto di vista generale e fondamentale, così come la forma della logica hegeliana, ma cambiandone il contenuto. In altri termini, Trendelenburg rifiuta la logica formale e ammette, con la logica hegeliana, che l’idea logica non sia una semplice determinazione soggettiva del pensiero, ma una determinazione oggettiva e intrinseca, allo stesso tempo, del pensiero e delle cose. Inoltre, egli ammette la forma dialettica o speculativa come forma assoluta dell’idea logica, ma modifica, allo stesso tempo, la logica hegeliana, sia cambiandovi l’ordine e il rapporto dei termini, sia introducendovi dei termini nuovi. Dico che la modifica, ma dovrei dire che la rovescia e aggiungo che l’opera di Trendelenburg non è altro che un rovesciamento. […] Egli non ha solamente rovesciato la logica hegeliana, ma la logica in quanto tale o, come dovrebbe dire un hegeliano, rovesciando la logica hegeliana, ha rovesciato la logica e la ragione. Che il lettore giudichi; quel lettore, ovviamente, che è sufficientemente versato nei misteri della dialettica in generale e della dialettica hegeliana nello specifico. È noto che la prima triade, la triade che forma la base e il punto di partenza della logica hegeliana, si componga dell’essere, del non-essere e del divenire. Si è molto discusso su questa triade. Ci sono alcuni, non ho quasi bisogno di dirlo, che l’hanno rifiutata, come hanno rifiutato il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo; altri se ne sono presi gioco (di che cosa il volgo non si beffa?), mentre vi sono altri che, pur ammettendola, hanno creduto di darne una dimostrazione diversa da quella che Hegel ne aveva dato. Dal mio punto di vista, sono convinto che, più si rifletterà sull’idea di logica, sulla sua forma, così come sul suo contenuto e sul rapporto intimo tra la forma e il contenuto – soprattutto sulla sua forma sistematica –, e più si troverà inattaccabile e ammirevole di semplicità, di verità e di profondità questo inizio della logica hegeliana e della dimostrazione che Hegel ne dà. Di conseguenza, sono convinto anche che ogni tentativo di rimpiazzare questa triade, o anche di darne una dimostrazione migliore, non avrà altro risultato se non quello di mettere ancor

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più in evidenza la giustezza della concezione dell’esposizione hegeliana. Ed è questo, a mio avviso, il risultato e il solo risultato positivo che si può trovare nelle ricerche logiche di Trendelenburg. E, in effetti, Trendelenburg ammette certo un punto di partenza della logica, poiché c’è bisogno di un punto di partenza per tutte le cose, e vede altrettanto bene – lo abbiamo detto – che il punto di partenza sia la triade; ma all’essere, al non-essere e al divenire egli sostituisce un’altra triade, la triade dell’essere, del pensiero e del movimento. Ora, non c’è bisogno di essere profondamente iniziati ai segreti della dialettica per capire, direi di primo acchito, la discordanza di queste tre note, ossia che esse non rispondono ad alcun accordo naturale e interno dell’idea, ma che la loro unione non è che accidentale e condotta da una sorta di violenza esteriore. E infatti, quando prendo in esame questa triade trendelenburghiana (che il lettore mi conceda il termine: le cose nuove, si sa, richiedono nuovi termini) dal punto di vista storico, io mi sento come riportato al di là di Platone, a un’epoca imprecisata e che poco importa di precisare; diciamo, se si vuole, all’epoca del vecchio Pitagora in cui si cominciarono a redigere quelle tavole grossolane dei contrari che senza dubbio il lettore conosce. Tutto ciò è molto grave, poiché significa, né più né meno, riportare il mondo indietro invece di farlo progredire. E, in effetti, Platone che s’intendeva di dialettica (non tanto quanto Hegel, è vero, come si vedrà più avanti2), si guarda bene dall’opporre all’essere il bianco o il nero, o – che è pressoché lo stesso – il pensiero, ma nel Sofista, nel Parmenide e nel Timeo, di fronte all’essere egli pone il non-essere, come di fronte all’identico egli pone l’altro, e di fronte alla quiete, il movimento. Con questa profonda conoscenza che aveva della dialettica antica e con quel tatto ammirevole che gli faceva conoscere il punto 2.  Cfr. Introduction à la philosophie de Hégel, cit., cap. IV, § 5. Si veda anche: L’hégélianisme et la philosophie, Ladrange, Paris, 1861, cap. VI e VII.

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di congiunzione tra la verità storica e la verità razionale, Hegel vide ciò che vi era di assoluto ed eternamente vero nella dialettica platonica; e vedendo ciò, vide anche che non escludendo, ma solo rischiarando e vivificando da un principio più profondo, nonché sviluppando quegli elementi imperituri e assoluti della vecchia dialettica platonica in una più alta e vasta sintesi, la nuova dialettica avrebbe saputo essere una dialettica veramente razionale e originale. Trendelenburg, al contrario, sembra non essere affatto colpito da questi elementi tradizionali e storici, volendo piuttosto procedere rivoluzionariamente, al fine di consegnarci una dialettica del tutto nuova e originale, ma di cui l’originalità consiste, in fondo, nel riportare la dialettica al di là del punto in cui l’aveva lasciata Platone, o, per parlare con più precisione, nel consegnarci una dialettica che non è né la dialettica hegeliana, né la dialettica platonica, e neppure la dialettica pitagorica – poiché almeno i pitagorici opponevano la monade alla diade – né una qualunque dialettica, ma piuttosto l’esatto contrario della dialettica. E, in effetti, chiederei anzitutto a Trendelenburg che cosa ne abbia fatto del non-essere. Dove lo ha nascosto o in che luogo lo ha ricacciato? Mi risponderà che non vi sia un nonessere, un non-essere intendo che costituisca una categoria propria e distinta come l’essere? Ma un dialettico che rispondesse che non vi sia il non-essere, sarebbe come un matematico che dicesse che non vi sia la diade o come un pittore che dicesse che non vi sia il nero: ovvero, la sua risposta sarebbe semplicemente assurda o, che è lo stesso, egli non avrebbe del dialettico che il nome. E d’altronde, Trendelenburg ammette egli stesso che vi sia un contrario dell’essere, solamente, egli vuole che questo contrario dell’essere non sia il non-essere, ma il pensiero. Ora, ammettere come fa Trendelenburg, un contrario dell’essere e pretendere allo stesso tempo che questo contrario, ossia il contrario naturale e razionale dell’essere, sia il pensiero e non il non-essere, è ciò che io chiamo rovescia-

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mento, e un rovesciamento della dialettica, della scienza e della filosofia. Vediamo: come possiamo concepire che il pensiero sia il non-essere o il contrario dell’essere? Si dirà: l’essere e il pensiero sono due cose del tutto differenti o, per parlare con più precisione, il pensiero è ciò che vi è di più opposto al semplice essere, o all’essere in quanto essere. E si concluderà da ciò che l’opposizione, o la contraddizione, o come la vorrà chiamare, deve essere un composto di due estremi: l’estremo dell’essere, ossia, ciò che vi è di più opposto all’essere è il pensiero. Ma prima di tutto, si ammetterà che, se il pensiero è questo contrario dell’essere, o questo non-essere, o questa negazione diretta e immediata dell’essere, esso è anche altra cosa che questo non-essere, o questa negazione, e ciò per la ragione stessa che esso è il pensiero. Perché se, da un lato, il pensiero è una negazione, o una limitazione di ciò che non è il pensiero, dall’altro lato, è anche una affermazione di questo stesso essere che non è il pensiero. In altri termini, il pensiero non è né l’essere né il non-essere, ma è tutti e due e ciò avviene perché il pensiero pone e pensa entrambi3. Quando si dice che il pensiero è l’essere, o che è il non-essere , o che è affermazione o negazione, si mutila e si falsa la sua natura, e gli si applicano delle categorie che non gli convengono affatto, delle categorie che esso contiene, ma che esso supera precisamente perché le contiene. E per rendere più concreto questo argomento, prendiamo un’altra opposizione, il bianco e il nero, o la luce e l’ombra, o l’unità e la diade, o una qualsiasi altra opposizione. Qual è il contrario dell’unità? È, si dirà, la diade4. Ma, in un certo senso, ponendomi dal punto di vista di Trendelenburg,

3.  Si veda su questo punto più avanti: Introduction à la philosophie de Hégel, cit., cap. V, § 3. Si veda anche: L’hégélianisme et la philosophie, e i miei Introduzione alla logica di Hegel e La Philosophie de la natura de Hegel. 4.  Determinato o indeterminato, poco importa qui. Sarebbe più corretto dire l’uno e i molti, seguendo la logica hegeliana.

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potrei dire che qui anche il pensiero è il contrario dell’unità, poiché l’unità in quanto unità è l’unità in quanto pensiero e nel pensiero, non sono due cose differenti. Ma se, in questo senso, il pensiero è il contrario dell’unità, non ne segue affatto che esso sia la diade; di conseguenza, il vero contrario, il contrario naturale dell’unità non è il pensiero, ma la diade e, perciò, anche il contrario dell’essere non è il pensiero, ma il non-essere. Il rapporto del pensiero di fronte all’unità e alla diade è lo stesso che quello che intrattiene con l’essere e il non-essere, ossia esso li pensa entrambi e, pensandoli, esso è entrambi. Inoltre, di quale essere e di quale pensiero si vuole qui parlare? Senza dubbio, dell’essere e del pensiero nella loro forma più immediata, la più astratta e, come noi hegeliani diciamo, la più vuota. Si hanno, di conseguenza, due idee assolutamente astratte: l’idea dell’essere e l’idea del pensiero. Ora, si domanderà perché l’idea dell’essere è il contrario dell’essere? Perché non è sufficiente dire che essere è il contrario dell’idea dell’essere, poiché essa è altra cosa che questa idea. Una tale dialettica sarebbe la confusione di tutte le cose, poiché si può dire di ogni cosa che essa è altra da un’altra cosa. Quando si dice che il non-essere è il contrario dell’essere, si esprime un pensiero perfettamente intelligibile, poiché si vuol dire che si ha la negazione più astratta e più indeterminata di un’affermazione ugualmente astratta e indeterminata. Ma è certo differente quando di fronte all’essere si mette il pensiero, come negazione dell’essere. Poiché, anche supponendo che il pensiero sia la negazione, o l’altro dell’essere, si dovrà dire di quale pensiero si stia parlando. Se si dice che si stia parlando del pensiero nella sua forma più astratta e più indeterminata e come semplice possibilità di ogni pensiero, un siffatto pensiero sarebbe così distante da essere l’estremo opposto dell’essere, al punto che si farebbe fatica a distinguerlo dall’essere. E d’altro canto, anche questo pensiero non è altro che l’essere o non è che un non-essere che per la sua scissione con l’essere, ossia per la presenza in esso dell’altro o del non-essere – a meno che non si dica che non vi

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sia né l’altro, né il limite, né i molti, né la differenza, ecc., ma ciò significherebbe, né più né meno, sopprimere ogni dialettica e ogni logica. Non è tutto. Infatti ammettendo anche che vi sia un tale pensiero logico indeterminato, si dovrebbe anche ammettere che vi sia un altro pensiero che non è più questo pensiero astratto e indeterminato, ma il pensiero concreto e determinato, ossia il pensiero filosofico. Cosa ne faremo di questo pensiero? Diremo che questo è lo stesso pensiero che abbiamo messo di fronte all’essere e che esso sia il non-essere? Ma è proprio ciò che non si saprebbe ammettere, per il fatto stesso che qui abbiamo a che fare con il pensiero concreto, che non è né l’essere né il non-essere, ma entrambi; esso è, in altri termini, il pensiero assoluto e l’unità assoluta. Ora, se si poteva dire del pensiero che esso è l’estremo opposto dell’essere, è piuttosto di questo pensiero che bisognerebbe dirlo, poiché l’essere è il termine più astratto e questo pensiero è il termine più concreto. Da ciò vediamo che Trendelenburg, introducendo il pensiero nella logica, ha falsato la logica e stravolto l’ordine sistematico della scienza. E qui egli dimentica anche le tradizioni della scienza o non ne tiene conto. Infatti non solo non ha tenuto conto della Filosofia dello Spirito di Hegel, ma neanche delle tradizioni aristoteliche. Aristotele, infatti, si guarda bene dal trattare del pensiero nella logica o di fare del pensiero una semplice categoria logica, ma gli assegna una sfera propria e distinta. È ciò che ha mosso il suo trattato De anima. Senza dubbio, facendo un guazzabuglio di tutte le cose, si può dire che il pensiero sia il tutto, poiché penetra tutte le cose, per il fatto che anche ritrovi in tutte le cose un elemento intelligibile. Ma è precisamente perché esso è il tutto o l’unità concreta e assoluta, che esso non è il nonessere, e che si muove in una sfera speciale e distinta. E, del resto, se si deve ammettere che il pensiero sia il non-essere, perché il non-essere è un elemento intelligibile, non si vede perché al posto di cominciare dall’essere, non si sia comincia-

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to dal non-essere, poiché il non-essere è un elemento intelligibile tanto quanto l’essere. Nella sfera della scienza, tutto è pensiero, l’essere come il non-essere, il cielo come la terra, la stella che brilla nel firmamento, come l’insetto che striscia sulla superficie del suolo, ma ciò precisamente perché il pensiero è il pensiero, e non è che il pensiero. Il pensiero pensa tutte le cose e le pensa perché non è nessuna di quelle in particolare, e le contiene in quanto pensate; pertanto, le cose nel pensiero da puramente intelligibili quali erano diventano intelligenza o, per meglio dire, esse attendono all’unità dell’intelligibile e dell’intelligenza. Il pensiero che intellettualizza in questo modo l’universo è lo spirito, e la scienza che espone e dimostra questa intellettualizzazione dell’universo, ossia della Logica e della Natura, è la Filosofia dello Spirito. Trendelenburg, collocando il pensiero nella Logica e, più ancora, facendo del pensiero il non-essere – lo ripeto – ha falsato l’idea della scienza e della sua unità sistematica. Poiché in un sistema, che sia composto di elementi intellegibili o di qualsivoglia altri elementi, c’è bisogno di un termine, un principio che ne sia l’unità, ossia che sia tutti quegli elementi e che, allo stesso tempo, se ne distingua. E si comprenderà più chiaramente ancora l’esattezza di queste considerazioni se dall’essere e dal pensiero si passa al terzo membro della triade di Trendelenburg. Per Hegel, questo terzo termine è il divenire. Trendelenburg non vuole che ci sia il divenire e come ha rimpiazzato il non-essere con il pensiero, così rimpiazza il divenire con il movimento5. Si tratta sempre dello stesso procedere, e questo procedere è la soppressione della logica. Poiché Trendelenburg ha già mutilato la logica sopprimendovi il non-essere e introducendo al suo posto un termine che appartiene a un’altra sfera della scienza, continua a mutilarla sopprimendo il divenire e introducendo al suo po-

5.  Cfr. L’hégélianisme et la philosophie, cap. VII, pp. 164 ss.

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sto una determinazione che appartiene alla sfera della natura. Se si dicesse a un matematico che il numero si muove, gli si farebbero drizzare i capelli. È noto come uno dei rimproveri fatti a Newton sia di aver introdotto nella sua teoria dei fluidi un termine estraneo, che è precisamente il movimento6. I geometri, è vero, definiscono la linea come il punto che si muove. Tuttavia, in primo luogo, ci danno questa definizione poiché, da quanto sembra, non ve ne sia una migliore, e senza determinare se, dicendo che il punto si muove, essi intendono che vi sia realmente un movimento nello spazio; in secondo luogo, ci si trova nello spazio e per quanto insufficiente o inesatta sia questa definizione, si comprende che si possa introdurvi il movimento. È però assurdo introdurre il movimento in una quantità pura (che, del resto, è una determinazione logica), quanto più lo sarà fare del movimento uno dei movimenti logici più astratti. E, in verità, non si vede perché, dopo aver introdotto nella sua triade il pensiero e il movimento, Trendelenburg vi abbia lasciato l’essere. Poiché l’essere non ha niente a che vedere con questa triade, in cui la materia troverebbe la sua collocazione naturale e in cui potrebbe molto bene rimpiazzare l’essere. Una triade composta dal pensiero, dalla materia e dal movimento, varrebbe, logicamente parlando, quanto la triade di Trendelenburg. Così, mi lamenterei qui con Trendelenburg rispetto al divenire, così come mi sono lamentato con lui del non-essere; mi lamenterei, voglio dire, di averci derubati del divenire, come ci ha derubati del non-essere e gli domanderei di dirci dove lo abbia nascosto. Ci risponderebbe qui allo stesso modo, ossia che non vi sia affatto un divenire logico? Ma una simile risposta sarebbe ancora più illogica della prima. Poiché, se non vi è divenire logico, come si svilupperà il contenuto della logica? Come l’essere e il non-essere (o anche il pensiero) diventeranno l’identico o l’altro, il limite, la quantità o la qualità, 6.  Si veda su questo punto: L’hégélianisme et la philosophie, cap. IV, p. 63.

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ecc.? Ci dirà che nello sviluppo del contenuto logico vi sia un movimento nel tempo e nello spazio o, che è lo stesso, che il divenire logico non è altro che il movimento nel tempo e nello spazio? Ma non oserebbe dirci qualcosa di simile, suppongo. Ebbene, per concludere, ci dirà che il movimento (Bewegung) di cui parla non è il movimento nel tempo e nello spazio, ma il movimento in generale o, per meglio dire, il cambiamento, la trasformazione, trasformazione che avvolgerà lo sviluppo stesso del contenuto logico? In questo caso, gli risponderei che o questa trasformazione non è altro dal divenire (e avremmo così null’altro che un gioco di parole), o se, non so con quale argomento, Trendelenburg volesse provarmi che questa trasformazione non sarebbe il divenire, gli direi che, ad ogni modo, se per movimento dobbiamo intendere la trasformazione delle cose, il luogo del movimento non sarebbe dopo l’essere e il pensiero, ma immediatamente dopo l’essere, poiché l’essere non potrebbe divenire altra cosa che se stesso, non-essere o pensiero, o una qualsiasi altra cosa che ne fosse mossa o trasformata. Di conseguenza, bisognerebbe dire essere, movimento o trasformazione, ecc.; quanto al terzo termine, lascio a Trendelenburg il compito di trovarlo. E ora credo di poter prendere congedo anche da Trendelenburg. Poiché, se non m’inganno, ho sufficientemente dimostrato ciò che volevo dimostrare, ossia che il suo tentativo è un rovesciamento, e un rovesciamento che sovverte l’intera logica, per la semplice ragione che, nel sistema, rovesciare una parte è rovesciare il tutto. Dico che egli rovescia la logica: dovrei dire che la sopprime e la distrugge.

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Appendice III*

La Filosofia dell’Hegel (1856)

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E mi è avvenuto più volte nelle istituzioni del Ferrier d’incontrare il nome dell’Hegel. Or conosce egli veramente l’autore la costui filosofia? A questa domanda solo il Ferrier stesso potrebbe soddisfare, perciocché le poche parole che ho trovate nel suo libro intorno alle teoriche del gran filosofo tedesco, sebbene paiano dirette allo scopo di dare a intendere al lettore che egli ne abbia una compiuta notizia, pure son così generali e di così vago significato che possono ugualmente applicarsi a Platone, ad Aristotile, a Spinoza a qualsiasi gran filosofo. Di quelle teoriche egli dice che a modo di un gigantesco serpente boa constrictor costringono fra le loro spire tutti i correnti errori, e che sono impenetrabili come diamante; ma se noi dobbiam giudicarne dal contenuto del suo libro, dubitiam for-

*  Le pagine che seguono riproducono il terzo capitolo di A. Vera, Ricerche sulla scienza speculativa e sperimentale a proposito delle dottrine del Calderwood e del Prof. Ferrier e del sistema dell’Hegel, Ladrange-De Angelis, Parigi-Napoli 1864, pp. 52-58. La prima versione inglese del saggio comparve in: A. Vera, An inquiry into speculative and experimental Science, with special reference to Mr. Calderwood and Professor Ferrier’s recent publications, and to Hegel’s doctrine, Longman, Brown, Green and Longmans, London 1856, pp. 59-68.

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te che egli abbia dato alle dottrine hegeliane quel grado di attenzione che è necessario per fondere il diamante e mettere a nudo il misterioso tessuto de’ suoi puri e preziosi elementi. Se su questi avesse egli ben meditato, io son certo che e’ sarebbesi fatto una più larga e più giusta idea del soggetto, e che le sue ricerche avrebbero avuto un ben diverso carattere. Conciossiaché ci ha nella filosofia dell’Hegel una certa general direzione, certi tratti così determinati e certe principali conseguenze che non possono sfuggire a chiunque se le sia accostato, e che, secondo me, formeranno d’oggi innanzi il criterio e la norma conduttrice di ogni ricerca metafisica. E per questa ragione io non saprei altrimenti conchiudere le presenti considerazioni che richiamando su questi punti1 fondamentali l’attenzione de’ lettori a cui non fossero familiari le speculazioni hegeliane. La filosofia, secondo l’Hegel, nel più alto senso della parola, è la scienza dell’assoluto. Che questa scienza esista è cosa provata dall’esperienza, da’ lavori de’ più grandi uomini, dalle più profonde aspirazioni della nostra mente, anzi dalla sua stessa essenza, imperocché intendere e intender l’assoluto sono in somma una sola e medesima cosa, in guisa che la conoscenza dell’assoluto dee essere per conseguenza involta nella natura stessa del nostro intelletto. Questo è il postulato universale di ogni ricerca filosofica, un postulato cui non si può dimostrare ma che non abbisogna di alcuna dimostrazione, imperocché il dimostrarlo non sarebbe men superfluo che il voler dimostrare l’esistenza stessa del nostro intendimento. Il che dimostra quanto sieno contradittorie e poco razionali tutte quelle teoriche che cominciando dal negare o dal mettere in dubbio il potere o la legittimità del nostro intendimento, sono nello stesso tempo obbligate a farne uso se non altro per istabilire i loro stessi argomenti negativi. 1.  Tutti questi punti sono stati da me svolti e discussi nella mia Introduction à la philosophie de Hégel, Librairie philosophique de Ladrange, Paris 1864.

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La scienza dell’assoluto è la scienza delle idee. Egli è un errore nato da difetto di attenzione o di una giusta istituzione filosofica il credere che la scienza si possa acquistare per qualsiasi altro mezzo che per quello delle idee, e che parlisi di altro che di idee quando si parla di principii e di essenze. Solo l’idea che in esse si rinchiude dà a queste parole tutto il significato e tutto l’intrinseco valore che esse si hanno, in guisa che il grado di esattezza, di chiarezza, di pienezza con cui l’idea è abbracciata dalla mente è la misura del grado della nostra cognizione. L’io e il non io, l’infinito e il finito, l’anima e il corpo, la mente e la materia, la causa e la sostanza non sono conosciute, come ogni altra cosa, che per mezzo delle idee, anzi quando si guardi alla loro primitiva, universale ed eterna natura non sono altra cosa che idee. Di là de’ limiti del mondo delle idee non conosciamo nulla, non possiamo né pensare né parlare di nulla, ed eziandio quando immaginiamo di poter tirare le nostre conoscenze da un’altra fonte, e ci sforziamo di realizzar l’oggetto sotto un’altra nozione, come, per esempio, quando diciamo che l’anima non può essere un’idea perché è una forza, una causa, una sostanza o perché è semplice, immateriale e cose simili, anche allora noi usiamo delle idee, e descriviamo l’oggetto come un aggregato di quelli stessi elementi che abbiamo respinti sotto un’altra forma. Ma la scienza dell’assoluto non si può conseguire se non per mezzo di un metodo adeguato al suo oggetto, cioè l’assoluto stesso. Negli altri gradi inferiori della conoscenza il metodo e l’oggetto son cose distinte, né quello mostrasi altrimenti che come uno strumento subbiettivo di conoscenza il quale non ha niuna relazione consustanziale coll’oggetto della ricerca. Segue quindi che i metodi adoperati da queste scienze sono tolti in prestanza, sono arbitrarii, artificiali, estranei al loro oggetto, come avviene nelle matematiche, nella psicologia, e anche nella logica ordinaria, che è rappresentata come l’organo della cognizione, ma che essendo costituita in un modo astratto e

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senza alcun rispetto alla materia o al contenuto di essa cognizione, non ci può condurre ad alcuna conoscenza reale, sicché può dirsi che per certi riguardi essa vizia e tira fuori di strada la pura facoltà logica della mente. Nella scienza dell’assoluto il metodo e l’oggetto sono inseparabili, né il metodo è altra cosa che la forma sotto cui le cose son conosciute ed esistono. Questo metodo è ciò che l’Hegel chiama ora speculazione (Das Speculative) e ora dialettica speculativa o semplicemente dialettica. Per la medesima ragione questo metodo e l’oggetto sono intimamente connessi insieme, la speculazione e le idee sono inseparabili. Non ci ha vera speculazione senza idee, e non ci ha idea che possa venir pienamente e chiaramente compresa senza speculazione. Ma il conoscere non meno che l’essere è necessariamente un sistema, né ci ha essere o conoscenza che possano esser concepiti fuori di un procedimento e di un ordinamento sistematico. Appunto all’essenza di cotesto ordinamento razionale si vuole attribuire la più parte de’ nostri errori e de’ nostri falsi concetti, imperocché da essa siam condotti a trattar le idee a caso, congiungendo le discrepanti, disgiungendo le simili, invertendo il oro ordine naturale, ammettendo sotto una forma quella medesima idea che avevamo rigettata sotto un’altra, o rigettando quella che avevamo ammessa, contenti solo a una superficial conoscenza del soggetto, fondandoci sopra opinioni o sopra abitudini intellettive individuali e locali, o anche sopra pure parole senza penetrare con dirette e indipendenti ricerche nel loro naturale e intrinseco significato. Il metodo speculativo invece è essenzialmente sistematico, vale a dire che esso dimostra ogni idea secondo la sua propria natura, definendole tutte, descrivendone le qualità essenziali e le relazioni, assegnando a ciascuna la sua propria parte e il posto che dee occupare nella concatenazione e nell’ordinamento del tutto.

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Un sistema implica l’unità e la molteplicità, il che significa che esso è un aggregato di elementi simili e dissimili, identici e contradittorii. Il metodo assoluto abbraccia questi due aspetti dell’assoluta verità, dimostrando come e perché l’unità è dualità e la dualità è unità, e questo dimostra a ogni grado del suo progresso non meno che nella struttura del tutto, mostrando insieme la contradizione e conciliandola. E qui è dove principalmente si distingue la speculazione dal razionalismo o filosofia dell’intendimento, come Hegel la chiama. L’intendimento infatti abbraccia il generale, l’idea, come la causa, la sostanza, la quantità, ma non trattando le idee in un modo sistematico si dee contentare di metterle insieme in una guisa arbitraria e superficiale, ovvero, se è al tutto insufficiente a conciliarle, respinge l’una di esse e l’impone come per forza all’altra. Cotesto fallace e non scientifico procedimento s’incontra in tutte le branche della scienza, nella fisica e nella matematica non meno che nella metafisica. Imperocché il geometra e il filosofo naturale trattano i principii e i materiali che formano l’oggetto delle loro investigazioni appunto come il moralista che il metafisico razionalista adoperano i loro. Niuno di essi non giunge a render conto della contradizione, ovvero se eglino il tentano, il fanno appunto nel modo che ho detto più sopra, cioè che non ne rendono conto affatto. Così, per esempio, il geometra dice che la linea curva è la linea retta con un’impercettibile differenza, e così piccola che in somma si può non farne caso; il fisico sostiene che il freddo è la privazione del calore, l’ombra la privazione della luce, come se la privazione e un principio negativo potessero essere un non-ente. Da ultimo il metafisico separa l’effetto dalla causa, gli accidenti dalla sostanza, dicendo che la causa è perfetta senza gli effetti, e la sostanza senza gli accidenti; ovvero nell’investigazione della natura di Dio, il rappresenta come uno e identico, e sembra porre tutta la sua opera in escludere ingenuamente da lui ogni differenza e ogni opposizione, benché poi il descriva come for-

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nito di tutti gli attributi, e di quelli stessi che sono opposti fra sé, imperocché in fatti si sostiene che egli è il principio della vita e il principio della morte, che egli è e che non è misericordioso, che è il Dio della pace e il Dio della guerra, che egli è la ragione eterna e immutabile e che nello stesso tempo è assolutamente libero; il che in sostanza significa pervertire la natura delle cose, e gettar tutte le verità e tutti i principii nella più inestricabile confusione. Questi sono i tratti generali del metodo dell’Hegel e del suo modo di concepire la scienza; e cotesto concetto egli ha incarnato in uno de’ più comprensivi e profondi sistemi che mai vennero fuori della mente umana, il quale abbraccia tutte le parti del sapere, la logica, la filosofia dello spirito2, la filosofia della natura, la politica, la filosofia dell’istoria, l’estetica, la religione. Anzi strettamente parlando si può dire che nell’istoria della scienza il suo sia il primo e vero sistema, imperocché né Platone né Aristotile, né alcun moderno filosofo hanno avuto un così vasto concetto della scienza, e così abbracciato e legato insieme i diversi anelli dell’aurea catena a cui l’universo è sospeso. E uno de’ tratti principali di questo maraviglioso filosofo si è che le sue più alte speculazioni hanno un caratte2.  Queste parole nel sistema dell’Hegel hanno un loro special significato, il quale discende dal concetto stesso che egli ha di queste scienze. In fatti la logica hegeliana, per esempio, oltre all’estendersi per un più vasto campo che la logica ordinaria, ha un valore obbiettivo e di applicazione perché essa non comprende come la logica ordinaria le leggi formali e soggettive del pensiero, le quali non son legate per niuna relazione sostanziale con l’oggetto del pensiero, ma comprende i principii della cognizione non meno che quelli dell’essere, i quali principii non si applicano solo all’uomo e alla sua mente ma eziandio alla natura; e in questo senso essa può essere riguardata come parte della metafisica. Similmente la filosofia della mente o dello spirito (Philosophie des Geistes) dee essere intesa nel suo più ampio senso, nel senso cioè di una scienza che si applica all’uomo considerato come un essere morale, intelligente, sociale e religioso. E in questo senso la politica, l’estetica, la religione e la filosofia stessa ne fanno parte.

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re tutto istorico, e un risultamento positivo e una pratica applicazione. Così potente e così comprensiva era la sua mente, così profondo lo sguardo che egli getta nella natura delle cose.

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Saggi critici

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Note sul profilo intellettuale di Augusto Vera: il suo tratto speculativo e la sua attualità Marco Moschini

Tornare a riflettere sul pensiero di Augusto Vera vuol dire dare occasione di attraversare un periodo filosofico ricchissimo e un pensatore di non comune interesse. E questo benché molti suoi lettori, esclusi i suoi più diretti discepoli come il Mariano, sia in Francia sia in Italia, nel suo tempo come in periodi a noi più vicini, abbiano spesso espresso giudizi molto severi sulla sua opera. Fra questi non si può tacere di Giovanni Gentile che lo tacciò, con non poco senso sfavorevole, di essere un “hegeliano ortodosso”1. Espressione che voleva dire: rigido, fermo, non coraggioso, nel trarre conseguenze teoretiche. Un’ortodossia certo! Risultato di un’attenta e fedele lettura della logica hegeliana che, raccolta da Vera nei suoi punti cardini teoretici e metafisici, finiva per cozzare evidentemente con la lettura dell’attualismo2. Su di lui si registrano giudizi 1.  Termine coniato dal Gentile che ha trovato fortuna presso alcuni interpreti. Cfr. G. Oldrini, Gli hegeliani di Napoli. Augusto Vera e la corrente ortodossa, Feltrinelli, Milano 1964. 2.  La natura diversa dell’approccio speculativo del Gentile, pur sulla stessa linea di una filosofia speculativa radicalmente metafisica, non poteva collimare con quella del Vera che era tesa all’esplicazione della centralità della natura dell’idea e del suo darsi piuttosto che sulla natura intrinseca e preliminare

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acerbi dei suoi amici francesi e italiani, molti dei quali lessero come un tradimento la sua adesione all’hegelismo3. Interessante, ma non sostanziale, la riduzione al politico che si è fatta del suo pensiero4.

del pensare coglibile tutto nell’autonomia dell’atto. È indubbio però che le molte pagine dedicate dal Gentile al Vera non nascondono solo una cruda , severa critica a fini denigratori, come superficialmente si potrebbe pensare; queste pagine hanno toni accesi ma giustificati da una valutazione del valore della interpretazione del Vera: troppo seria e profonda la teoria dialettica di Vera da risultare radicalmente opposta a quella di Gentile benché in comune abbiano la stessa ispirazione. D’altro canto perché spendere molte parole se si vuole solo denigrare qualcuno? Cfr. G. Gentile, La filosofia in Italia dopo il 1850. VI: Gli hegeliani: Augusto Vera, in «La Critica», X, 1912; Id., Le origini della filosofia contemporanea in Italia, vol. III, Principato, Messina 1923 (oggi entrambi in Id., Opere, vol. XXXIV, Sansoni, Firenze 1957); a questi si aggiunga, sempre del Gentile, Documenti inediti sull’hegelismo napoletano dal carteggio di Bertrando Spaventa, in «La Critica», IV, 1906. 3.  Merita riportare un giudizio del Cousin, dettato più da sentimenti dovuti alla cosiddetta svolta hegeliana del Vera che lo aveva allontanato da lui, piuttosto che da serena valutazione critica. A testimonianza di ciò un breve passaggio di una lettera reperibile nel carteggio del filosofo francese con Marianna Florenzi Waddington ove Cousin riferendosi al Fiorentino così indirettamente diceva di Vera: «Monsieur Fiorentino est à la recherche d’une philosophie italienne. Il comprend à merveille que le dernier mot de la philosophie allemande transportée chez vous est Ausonio Franchi, ce que Monsieur Vera n’a pas l’air de comprendre depuis qu’il a quitté la France». Così in Corrispondenza inedita di Vittorio Cousin con la marchesa Florenzi Waddington, in «Rivista Europea», I, n. 3, 1901, pp. 493-498: p. 495, poi in E. Di Carlo, Relazioni tra V. Cousin e F. Fiorentino, in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», V, 1935, pp. 79-83: p. 80. Si deve registrare anche una certa letteratura polemica italiana contro Vera, come ad esempio L. Longoni, Contro l’hegelianismo del prof. Augusto Vera. Saggi, in «Il campo dei filosofi italiani», vol. III, 1867, pp. 333-336; 428-32; 450-451. 4.  Ciò derivato anche da un suo spostamento sui temi civili e politici alla fine del suo percorso intellettuale dove, francamente, la tensione speculativa in Vera aveva già dato il suo massimo. Tale periodo d’interesse “civile e politico” coinciderà proprio con gli anni d’insegnamento a Napoli. Ne fu fatta però una descrizione di filosofo e maestro della restaurazione e della conservazione, da

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Malgrado le interpretazioni critiche o offuscanti, malgrado le riduzioni, che torni a emergere l’opera del Vera, e insieme a essa un giudizio più sereno sul suo pensiero, costituisce un bene. Non solo dal punto di vista teorico, ma anche per dare più luce a un periodo, come quello del XIX secolo, che ha visto protagonisti d’eccezione del pensiero italiano troppo poco messi in evidenza, troppo poco valutati. Per questo recuperare il Vera vuol dire rimeditare su una tensione al filosofare molto particolare e ancora oggi interessante. La figura di Vera – nonostante tutto ciò che è stato scritto – si staglia in modo del tutto particolare tra le voci dei filosofi italiani del XIX secolo. La sua opera intellettuale ebbe il merito di favorire un dibattito speciale tra diverse correnti e linee speculative. Vera ancorandosi alla tradizione dell’idealismo tedesco in modo fermo, deciso, “ortodosso”, ha avuto un ruolo centrale nel favorire un incontro tra questa imponente forma del filosofare europeo e la più genuina ispirazione della grande filosofia italiana dell’Ottocento, che doveva evolversi, nella seconda metà del secolo, in una sintesi tra elementi diversi entro una linea tra le più vive e feconde d’Europa: cioè nelle diverse correnti neoidealistiche italiane e napoletane di fine secolo5. Senza dimenticare che questa vivacità intellettuale e speculativa del neoidealismo doveva poi inevitabilmente condurre a un approdo di estremo valore, come quello delle letture attualiste e storicistiche dell’idealismo italiano novecentesco, che veramente hanno finito per segnare un’acme speculativa unica in Europa.

cui non restarono esenti i lettori contemporanei. G. Oldrini nelle sue opere d’illustrazione del pensiero del Vera ne dà conto e mostra, in alcuni momenti, anche di approvare tali letture. 5.  Un giudizio di accomunamento tra Vera e i grandi dell’idealismo italiano che troviamo negli efficaci contributi di A. Guzzo - A. Plebe (a cura di), Gli hegeliani d’Italia. Vera, Spaventa, Jaja, Maturi, Gentile, SEI, Torino 1953.

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L’incipiente evoluzione positivistica del materialismo d’inizio XIX secolo, lo spiritualismo francese in combinato critico con la scoperta dell’elemento dialettico, cioè di una ragione chiamata a penetrare nell’idea la relazione inscindibile tra finito e infinito, tra uno e molti, tra essere e realtà, doveva insomma generare una così grande speculazione che ha arricchito il nostro paese di nomi rilevanti, da Spaventa a Gentile. Attore primario di questa speciale composizione speculativa è stato senza dubbio Augusto Vera. Egli ha avuto il merito non solo di attingere direttamente all’opera di Hegel, con capacità filologiche e interpretative indubbie, ma di cogliere in essa un carattere assolutamente metafisico6. Egli ha saputo riconoscere nella dialettica hegeliana la preminenza di una rielaborazione del concetto d’idea che, recuperando tutta la tradizione più antica greca pre-aristotelica, poteva ricondurre nel discorso ontologico la preminenza del tema del principio di cui si ha notizia appunto nell’“idea”, nella composizione dell’opposizione dialettica tra il fondamento ontologico con il mondo e con i molti7.

6.  Come ho avuto modo di sostenere nel mio saggio introduttivo ad A. Vera, Introduzione alla Logica di Hegel, EFFE, Todi-Perugia 2004. 7.  «Lungi dunque dall’essere le idee solo semplici possibilità, esse sono invece la stessa realtà e la realtà più alta. Esse sono sì delle possibilità, ma nel senso che nulla è possibile senza quelle, tanto nell’ordine della conoscenza quanto nell’ordine dell’esistenza, e che tutto ciò che “è” o è pensato in modo contrario a esse e al di fuori di quelle, non è altro che errore e illusione, o un gioco dell’immaginazione e un accidente. In esse, infatti, la possibilità e la realtà assolute si confondono: infatti, esse generano tutte le cose fin tanto che costituiscono in una volta la loro possibilità e la loro realtà attuale, e possono costituire la loro possibilità e la loro realtà attuale fintanto che possiedono la possibilità e la realtà assoluta. In tal modo, il triangolo ideale contiene la possibilità e la realtà dei triangoli sensibili, così come l’idea del bello contiene la possibilità che la realtà delle cose belle e l’idea della religione contiene la possibilità e la realtà di tutte le religioni […] accanto alla varietà vi è l’unità, accanto alla differenza l’identità, accanto all’essere che perisce l’essere imperituro. E la varietà, proprio contro l’unità, mostra la potenza inesauribile

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Nel loro reciproco negarsi, questi elementi dialettici forniscono reciprocamente contenuto nella figura, e quindi realtà, alla ragione; da quelli essa coglie l’essenza del vero appunto nella forma dell’idea. Un carattere metafisico dell’hegelismo, che fin da subito mostrava di opporsi alle interpretazioni ideologiche, mitiche, storicistiche o politiche, che si produssero nell’immediata appropriazione dell’opera del filosofo tedesco. Augusto Vera si salda certamente a una lettura metafisica del pensiero hegeliano la cui analisi può aiutare a scoprire in essa non pochi materiali utili alla riflessione intorno a problemi speculativi contemporanei, che chiedono più che mai di assumere come compito del filosofare un ritorno deciso alla riflessione ontologica, al ripensamento del tema del principio e del fondamento, e una coerente valutazione teoretica della pienezza del valore speculativo della dialettica, la quale consiste nell’affrontamento speculativo dell’opposizione ontologica essenziale e della sua conciliazione nel pensare. Nei tempi della riduzione logica, della linearità epistemica ed epistemologica, si fa urgente sentire il richiamo all’essenziale filosofico, ossia a quel recupero della dimensione forte del pensiero che ha a che vedere non con forme edulcorate di un realismo interioristico, soggettivistico, ove ogni penetrazione è ritenuta ragionevole se risponde alla sola ragionevolezza della struttura che la accredita. Ma abbiamo bisogno di riscoprire la natura più propria del pensare nell’affrontare la realtà con l’esercizio di una coscienza speculativa, che vuole misurarsi con il mondo; con quel campo sterminato di oggettività che dalla negazione e con la negazione chiede di essere colto a partire dalla comprensione dell’unità e della totalità.

dell’idea, questa possibilità è questa realtà infinite che generano tutte le cose, senza però confondersi con esse o perdere alcunché dell’infinità della loro natura». A. Vera, Introduzione alla Logica di Hegel, cit., p. 66.

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È forse chiusa la stagione dell’ontologia e della dialettica? Chi scrive è convinto assolutamente di no. Sono convinto che questa indagine e interrogazione non possa essere tacitata e però, proprio perché non può fermarsi, essa deve continuamente confrontarsi con gli elementi originari d’ispirazione. Queste condizioni non sono rintracciabili esclusivamente in un solo e determinato senso cronologico, con un auspicato “passo indietro” verso quell’originario parmenidismo cui aspirava ad esempio Heidegger, ma si fanno riconoscere in tutti i momenti e le voci autenticamente originari e ricorrenti nella storia delle idee. Tra questi c’è appunto ciò che è venuto a definirsi nel pensiero europeo del XIX secolo. Le grandi voci, come quelle meno rilevanti e note, dell’Ottocento metafisico, in un insieme sinfonico, danno occasione di approfondire temi e di motivare questo tentativo di ritorno a un filosofare originario8. Idealismo, spiritualismo, ripensamento della religione, dell’arte, del politico, del sociale, della scienza in confronto alle correnti positivistiche e ideologiche hanno dato avvio ai grandi e contrastanti temi del XIX secolo che hanno generato una pluralità di forme filosofiche diverse, opposte, a volte connesse, che hanno dato avvio alla grande esperienza della filosofia contemporanea. Augusto Vera ancora una volta si mostra come uno di questi testimoni cui attingere ed egli, in modo del tutto speciale, conferma, nel corso di tutta la sua vita d’intellettuale, il modo peculiare con cui si sono vissute le convergenze e le divergenze di tendenze filosofiche coeve. I rapidi passaggi da posizioni diverse, tutti maturati in Vera con un sincero impegno di studio, sono esemplari di questo andamento della filosofia ottocentesca. 8.  Sarebbe difficile pensare un periodo come quello del XIX secolo senza lo stagliarsi di autentiche figure speculative e metafisiche. In quel tempo si ritrovano in molti casi figure gigantesche di pensatori, pur tra un incipiente e dominante spirito positivista.

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La formazione, lo sviluppo dell’esperienza intellettuale e filosofica di Vera, è senz’altro comprensiva di questa maniera, tutta peculiare dell’Ottocento, di accogliere istanze, linee teoretiche o di respingerle dopo la maturazione delle loro interne ragioni, dei loro suggerimenti. Il filosofo amerino però mostra un modo tutto suo di vivere l’esperienza di riflessione filosofica. In particolare, la personalità di Vera si è potenziata con una solida formazione culturale oltre che con frequentazioni del tutto speciali. Ciò gli ha consentito di accedere a un ricco patrimonio intellettuale, fatto di letture classiche ma anche di studi storici e politici, mai lasciati nel campo incolto di una stanca erudizione9. Il suo solido sapere fu sempre messo a confronto con tutte le più moderne tendenze della filosofia contemporanea; da quella francese a quella tedesca. Un intessere, un corredo di letture e di conoscenze all’estero (dove ha abitato con continuità) costituiva per un intellettuale italiano un unicum. Gli meritò una notorietà estera che non ebbero altri grandi nomi che di poco lo precedettero o lo seguirono10. 9.  Mi riferisco alle frequentazioni del periodo giovanile romano legate al mondo della cultura classica (ad esempio con Antonio Nibby) e poi a quelle francesi che dovevano accrescere la sua personalità, nella presenza costante del Vera nei circoli culturali della Parigi della prima metà del secolo segnata dalla presenza di nomi rilevanti del panorama intellettuale transalpino. 10.  La biografia intellettuale del Vera ci racconta di un uomo che ha investito non poche energie per lo studio e la ricerca, per l’insegnamento e l’impegno nella vita culturale e civile. Lo troviamo in varie peregrinazioni di studio e lavorative percorre la Francia, la Svizzera e l’Inghilterra mentre non mancava mai di cogliere occasioni di confronto e di studio. Il periodo napoletano, coronatosi con l’insegnamento universitario, interruppe questo peregrinare in Europa ma non diminuì la sua fama. La nota biografica acclusa al presente saggio dà conto di questa vivace personalità di studioso. Per le tracce biografiche rimando comunque agli scritti del suo allievo Raffaele Mariano, che ha con fedeltà promosso la conoscenza del maestro: R. Mariano, A. Vera, in Uomini e idee, vol. III, Barbanera, Firenze 1905; Id., Augusto Vera. Necrologio, in «Annuario dell’Università di Napoli», 1855-56; Id., Augusto Vera. Saggio biografico, Morano, Napoli 1886; Id., Biografia di Augusto Vera, in

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Formatosi a Roma e poi consolidati i suoi studi, va prima a Parigi a studiare presso la Sorbona e poi a Berna, di nuovo a Parigi e infine a Londra, prima di tornare professore all’Università di Napoli. In queste sue presenze estere non ha mancato mai di dare il contributo del suo lavoro non solo in Europa ma anche oltreoceano11. Non va poi dimenticato che il nome di Vera fu conosciuto molto per la vasta opera di promozione del pensiero di Hegel che egli favorì con le opere d’introduzione e di traduzione in lingua francese degli scritti del grande tedesco. Per lungo tempo i nomi di Hegel e di Vera furono accomunati in un’Europa ancora poco pronta alla recezione di testi in lingua tedesca12. Non è un caso che questa cultura poliedrica del Vera abbia un valore speculativo particolare; il Nostro non indulgeva alla maniera di filosofare tipica di quel tempo. Infatti in tutti gli autori dell’Ottocento è dato trovare una vasta tensione nell’accogliere stimoli speculativi, confronti teorici e dialogo tra tendenze e linee di studio, e non era infrequente che questa modalità di scambio e di dibattito filosofico facesse approdare a una sorta di composti eterogenei; in una forma di articolazione delle riflessioni che spesso non componeva diverse ottiche di studio ma

Il risorgimento italiano. Biografie di illustri italiani contemporanei, a cura di L. Carpi, vol. II, Vallardi, Milano 1884-88, pp. 424-474. Cfr. F. Mogliotti, Il professore Augusto Vera e i suoi scritti, in «Rivista contemporanea», XX, 1860, pp. 282-290. 11.  In St. Louis William T. Harris fu promotore di una scuola hegeliana negli Stati Uniti attraverso la Saint Louis Philosophical Society. Nella rivista di questa società, «The Journal of Speculative Philosophy», Augusto Vera pubblicò il suo saggio An Introduction to Speculative Philosophy and Logic nel 1873, completato nel 1874, e alcune recensioni. 12.  Cfr. A. Doz, Vera, traducteur et interprète de Hegel, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia», XVI, n. 4, 1986, pp. 1265-1277; G. Oldrini, A. Vera et le sens de la vulgarisation hégélienne en Europe, in «Revue de Métaphysique et Morale», XCIX, n. 1, 1994, pp. 35-51.

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tendeva a mescolarle complicando una precisa delineazione e interpretazione del percorso filosofico di ogni singolo pensatore. Questo modo di procedere in Vera non è dato trovarlo, anzi! In lui c’è dato invece di trovare, in diversi e ben precisi momenti della sua vita intellettuale, un aderire convinto a correnti di pensiero che sono assunte, studiate, ripensate, per finire sotto un’acuta critica da cui emergevano nuovi quesiti e problemi, la cui risoluzione conduceva il pensatore ad altri approdi, ad altre visioni. Non però punto d’arrivo ad excludendum ma vere e proprie analisi che dovevano condurre a risposte, a considerazioni nuove e anche ad abbracciare nuove visioni. Questo fa di Augusto Vera una personalità di studioso di certo difforme da quelle che si trovavano operanti nell’ambiente culturale, specie francese, che nella metà dell’Ottocento invece erano impegnate a cercare vie di un’intersezione filosofica. Se il giovane Vera aderì convintamente a uno scetticismo teorico, di questo percorse le molte implicazioni trasformandole sugli stessi principi che apprese da Hegel, trovandosi concorde con i risultati speculativi che facevano dire al tedesco della necessità di uno scetticismo per essere condotti a un autentico grado filosofico13. Così, nel momento della sua tesi di dottorato in lingua latina e di quella in lingua francese, si trova a valutare le prospettive dello scetticismo che in via negativa lo conduceva inevitabilmente a trattare con attenzione del tema di certezza, di realtà, di verità, di unità tra esistenza e vero, tra essere e conoscenza. Catapultato nella questione metafisica, divenne così inevitabile l’abbandono delle posizioni scettiche per abbracciare quelle più apertamente spiritualiste, incarnate 13.  Non un caso che sarà la lettura proprio dei primi scritti dialettici hegeliani ciò che colpirà moltissimo Augusto Vera. Tra tutti il saggio hegeliano Verhältnis der Skeptizismus zur Philosophie che affrontò in maniera critica in sede di studi dottorali e che non mancò di segnare il suo interesse particolare per Hegel stesso.

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nel pensiero francese dallo spiritualismo ecclettico del Cousin che già si era largamente aperto alla ricezione del pensiero hegeliano14. Vera, infatti, sentì molto vivo quell’invito a tornare a Hegel del filosofo francese, suo amico e mentore, e lo sentì come un pressante bisogno di confronto speculativo. Giunto la seconda volta a Parigi 1839, dopo il breve periodo d’insegnamento in Svizzera, in un momento complesso della storia e della cultura francese, sentì subito il bisogno di trovare un diverso modo di approfondire il problema filosofico dell’idealismo nelle sue radici metafisiche, in modo meno ottimistico di quello dell’eclettismo francese e in modo più serrato e corroborato da un diretto accesso alla scrittura idealistica15.

14.  La diffusione del pensiero di Hegel avvenne anzitutto in Francia proprio grazie al Cousin, che ebbe modo di conoscere il filosofo tedesco a Heidelberg. Il Cousin fece un ritratto di Hegel nei suoi Souvenirs d’Allemagne del 1826 e non mancò di tenere più volte lezione sul pensiero di Hegel e sull’idealismo. Un interesse per la filosofia di Hegel che in Francia coincise anche con una letteratura diffusa; in particolare ricordo Auguste Barchou de Penhoën e il suo Histoire de la philosophie allemande depuis Leibnitz jusqu’à Hegel del 1836. Va menzionato anche Joseph Willm, che nella «Revue Germanique» produsse molti articoli su Hegel poi raccolti nel suo Histoire de la Philosophie allemande depuis Kant jusqu’à Hegel del 1846-1849. In questo vivo contesto che si collocheranno le traduzioni e le introduzioni del Vera. Un analogo fermento nel mondo anglo-sassone. Relativamente alla recezione di Hegel in Francia e la sua influenza tra i pensatori d’Oltralpe devo rimandare ai volumi di A. Bellantone, Hegel en France, vol. I: De Cousin à Vera, vol. II : De Vera à Hyppolite, Hermann, Parigi 2011 (edito prima in Italia presso Rubbettino nel 2006). Importante, sempre di A. Bellantone, Tra eclettismo e idealismo. Frammenti di filosofia francese dell’Ottocento, CLUEP, Padova 2010. 15.  Di certo l’avere frequentato la Francia prima nel 1835 e poi nel 1839, a cavallo della tempesta politica restaurativa e rivoluzionaria di quella prima metà del secolo, ha avuto un’influenza così come l’Oldrini prevalentemente attribuisce; ma di certo non credo così determinante sullo svolgimento del suo pensiero quanto la sincera attitudine del Vera a una ostinata pratica spe-

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La svolta metafisica suggerita dal Cousin lo trovava convinto, sebbene non fosse altrettanto convinto del modo ancora poco affinato con cui spesso il filosofo francese si perdeva in un’analisi poco decisa di questa posizione con quella scettica e dialettica. Non è un caso che si presenti il nome di Hegel già nelle sue due tesi di dottorato Platonis, Aristotelis et Hegelii de medio termine doctrina e in quella in lingua francese Problème de la certitude16. Il distacco dallo scetticismo si darà proprio intorno al nome di Hegel sentito non estraneo dall’ispirazione del Cousin; ma sempre più forte si farà la necessità di analizzare criticamente il tema della certezza, della verità, dell’unità. Colpisce in quelle pagine del 1845 l’insistenza a sondare il tema del rapporto tra esistenza e vero, tra essere e conoscenza. Non resta fuori dal suo interesse l’analisi della natura delle cose, dell’essenza e del pensiero. I nomi dei due filosofi classici insieme con quello di Hegel testimoniano questo sforzo compositivo della grande tradizione antica con il nuovo che avanzava. A Platone riconoscerà l’aver messo al centro la nozione d’idea, ad Aristotele lo sforzo di declinazione del concetto di essenza, e in quel momento a Hegel si riconosceva il merito di porsi come correttivo del criticismo kantiano e della sua uscita antimetafisica. Da quelle prime pagine di avvicinamento all’idealismo hegeliano rimprovererà al tedesco la dicotomia tra pensare ed esistere, mentre il mondo antico tale questione sembrava averla decisamente affrontata e risolta. In verità Vera non coglie in quel periodo ciò che invece accoglierà poi. Non comprendeva al tempo delle due tesi che in Hegel accade altro: il rapporto

culativa. Comunque importante il saggio di G. Oldrini, Il primo hegelismo italiano, Vallecchi, Firenze 1969. 16.  Entrambe le due tesi di dottorato furono pubblicate a Parigi nel 1845 presso l’editore Joubert. Una edizione italiana si deve ad A. Bellantone, che ha appunto restituito recentemente A. Vera, Sulla dottrina del termine medio di Platone, Aristotele e Hegel, Le Lettere, Firenze 2010.

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di pensare ed esistere non è escluso, bensì ricondotto al rapporto di verità e realtà come unità e quindi approfondito, non dicotomizzato, composto dialetticamente, non escluso. Se il Vera al tempo di quelle dissertazioni pensava di dover avere a che fare con un’idea hegeliana come ideatum, dovrà poi riconoscere invece che l’idea non è un mero pensato ma il frutto della determinazione del medio, della sua composizione in unità ontologica. La cosa che il pensiero coglie dell’unità di essere e realtà17. Data per scontata la scissione ontologica tra essere e pensare, Vera non riusciva allora a cogliere che per Hegel il rimando a finito e infinito era al contempo un rimando al fondamento oltre tutte le scissioni. Era un oltrepassamento della negazione assumendola, e in questo assumerla fissare il pensiero in questo sforzo dialettico, il pensiero come negazione di negazione. Come non approdare a Hegel? Certo interessava uno studio di Hegel a Cousin, a Rémusat e a Saisset, e di questo interesse, suggerito dal suo ambiente di lavoro e di studio, resta la voce Idéalisme del 1847, e già in essa si annunciano il distacco completo dalle posizioni ecclettiche e spiritualiste e l’abbraccio dell’hegelismo compiuto a Londra e culminato con la pubblicazione della sua opera fondamentale – a mio giudizio – Introduction à la philosophie de Hegel18. Il pensiero di Cousin non poteva aiutare a risolvere la conciliazione tra le istanze metafisiche classiche e le proposte rifondative di una nuova logica che emergevano dal mondo tedesco. 17.  E appunto sul “temine medio”, in altre parole sulla conciliazione, sulla dialettica, saranno i temi che dalla dissertazione latina in avanti ritorneranno costantemente nell’impegno teoretico del Vera. 18.  Cfr. A. Vera, voce Idéalisme, in A. Franck (a cura di), Dictionnaire des sciences philosophiques, vol. III, Hachette, Paris 1847 (pubblicato poi con il titolo Coup d’œil historique et critique sur l’Idéalisme); A. Vera, Introduction à la philosophie de Hegel, Franck-Jeff, Paris-London 1855.

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Il Cousin non aveva “protetto” con una base speculativa metafisica le sue intuizioni che dovevano venire di lì a poco ampiamente discusse dalla nuova temperie scientistista che prenderà piede nella Francia di metà Ottocento. Non resisterà all’impianto rigidamente universalizzante e gnoseologico del positivismo una filosofia che ancora manteneva un forte ruolo di soggettività investigante all’io, come accadeva appunto in Cousin (e in ciò Vera dimostrò di aver compreso bene grandezza e limite del francese). Il Cousin era troppo compromesso di quegli elementi “moderni”, troppo legato alla pura soggettività che invece la dottrina dell’idea hegeliana, con il concetto di figura e di sistema, doveva ridiscutere e sorpassare. Una nuova razionalità era offerta alla riflessione filosofica attraverso il pensiero di Hegel che non poteva e non doveva essere confusa (come purtroppo in molti casi lo fu) con una razionalità meramente logica e astratta. Se nell’ecclettismo predomina ancora l’analitica, nell’idealismo si vede emergere invece il predominio della verità, della cosa, del reale in sé e per sé. In Vera, nel giro di un decennio di studio appassionato e attento della scrittura hegeliana, s’imporrà il concetto d’idea come un concetto centralissimo. Questo sarà l’inevitabile risultato cui giungerà il filosofo umbro dopo quella faticosa impresa di studio collocata in una fase di sostanziale filosofia pre-­idealistica – come la chiamò Gentile – che non si dissocia dal successivo accoglimento dell’idealismo, ma anzi lo richiede e l’arricchisce19. 19.  Giovanni Gentile accuserà appunto Vera d’incapacità ad accogliere veramente l’idealismo per un’errata interpretazione del pensiero consolidatasi nella fase pre-idealistica dei suoi studi. Questi hanno dato al Vera un pregiudizio ermeneutico – sostiene il filosofo di Castelvetrano – che gli ha impedito cogliere l’essenza propositiva dell’hegelismo, fermandosi a un pedissequo ossequio di Hegel. In ciò egli vedeva il limite del pensiero del Vera e la fonte del suo errore di estensione nell’hegelismo di elementi “spuri” ed “eterogenei”. Non riusciva a valutare pienamente positivo invece lo sforzo di arrivare a un’interpretazione originaria dell’hegelismo, riacquistando il proprio della

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Tali approdi e abbandoni e successivi movimenti verso altri risultati non sono solo questione di adattamento politico tipico dei filosofi della restaurazione, come vuole l’Oldrini, e nemmeno debolezza speculativa, come invece dice Gentile, ma ben altro; sono fedeltà al suo pensiero. Dallo scetticismo, al tema dello spirito e della medietà fino al tema dell’idea, tutto orienta il Vera a una tematizzazione del problema della verità. È per questo che nello studio e nella restituzione del pensiero hegeliano Augusto Vera non fu mai interessato a una sola parte del sistema di Hegel, non amplificò singole dottrine hegeliane, non ne dimenticò volutamente altre, non cercò vie di nuove interpretazioni: invece egli volle confrontarsi con tutto il sistema. Voleva che tutta la realtà che si dà in sistema fosse colta nel suo fondamento. Non era sfuggito a Vera che il sistema altro non era in Hegel che il richiamo all’unità della dialettica che male si accordava con l’idealismo temperato che prendeva sempre più piede nelle molte letture del filosofo tedesco in quegli anni. Se si tratta della natura delle cose e del pensiero non si può non farsi interrogare dalla problematica dell’essenza del pensare stesso e questa interrogazione si è trasformata in Vera in una seria richiesta di ricapitolazione in unità di tutto; il ciò che emerge nell’interna contraddizione tra finito e infinito, tra temporale ed eterno, tra forma ed essenza. La necessità del medio, della dialettica, si fa così urgente che gli fu necessario il confronto tra le posizioni spiritualiste e quelle di una particolare forma di dialettica che egli sente carica di questo confronto decisivo e metafisico: l’hegelismo appunto.

metafisica in quel concetto di idea che forse mai cambiò in Vera. Vera vide sempre chiaro in questa nozione l’espressione di un preciso momento del reale colto nel suo fondamento. Fu così per Platone, secondo Vera, che poi vide la stessa espressione teoretica a proposito dell’idea in Hegel.

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Ecco la sua idea di filosofia che si propone su quelle basi come una scienza dell’assoluto, come una logica per cui pensare è avere esperienza dell’idea ed esperienza che nulla è dato senza l’idea. Il metodo stesso della filosofia si distanzia così da quello della mera conoscenza per entrare nel dinamismo della logica dell’assoluto. Un metodo che implica unità e molteplicità come elementi della verità stessa dell’idea. Insomma, la dottrina dell’idea di Hegel raccoglie in sé tutta la problematica sostanziale della questione filosofica e metafisica e se a esso Vera si avvicina è soprattutto per avvalorare una filosofia che non si discosti dal tema della verità. Un filosofo atipico ma al contempo esemplare e con alcune peculiarità che meritano di essere ancora oggi conosciute a fondo e sondate.

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Un idealismo senza idealità? Andrea Bellantone

Se è vero che Augusto Vera è stato un philosophischer Kopf, come ha scritto nel 1868 Karl Rosenkranz, non si può certo negare che le sue esigenze teoriche e i suoi problemi fondamentali siano comprensibili solo a partire da un contesto storico ben preciso1. Si tratta della cultura filosofica francese degli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento, nel quadro – e nei limiti – della quale si è configurato l’idealismo dell’amerino e ha avuto la sua genesi l’adesione integrale (o ortodossa, come usa dire) al progetto hegeliano2. Questa è la principale ragione per cui – giunto in Italia negli anni Sessanta – Vera resterà un isolato, per non dire sic et simpliciter un incompreso: troppo diverse, perfino incompatibili, erano le esigenze del suo idealismo rispetto a quelle dominanti nella nuova cultura filosofica

1.  Cfr. K. Rosenkranz, Hegels Naturphilosophie und die Bearbeitung derselben durch den italienischen Philosophen Augusto Vera, Nicolaische Verlagsbuchhandlung, Berlin 1868, p. 5. 2.  Su Vera cfr. lo studio classico di G. Oldrini, Gli hegeliani di Napoli. Augusto Vera e la corrente ortodossa, Feltrinelli, Milano 1964.

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nazionale italiana3. A tal proposito, si pensi al giudizio – assai severo – di Bertrando Spaventa sulla prima prolusione di Vera a Napoli: «Ieri, Vera ha proluso. Coloro che lo hanno ascoltato e compreso hanno detto: volgarità senza precedenti. Vera, io lo sapevo già, comprende solo Hegel e lo comprende assai superficialmente»4. Sarebbe ingenuo pensare che questo giudizio fosse dovuto al semplice tenore della prolusione (o alle invidie universitarie tra i due docenti della rinnovata università napoletana). Più opportuno, invece, è tentare di indicare le ragioni profonde (e filosofiche) del disaccordo di Spaventa; e queste vanno tutte ricercate nella dissonanza fondamentale tra le due interpretazioni dell’idealismo (o, meglio ancora: dell’idea). Qui sta la ragione teorica, e non solo politica, dell’inef­ficacia dell’idealismo di Vera nella cultura filosofica italiana, giusta il giudizio, aspro, ma tutto sommato corretto, che Giovanni Gentile ne ha dato nelle Origini, laddove leggiamo che «Vera […] insegnò a Napoli per circa un quarto di secolo senza quasi lasciarvi traccia della sua opera»5. Per comprendere questa vicenda, è opportuno rinviare a qualche testo di Spaventa. Si pensi in particolare a scritti del 18551856, il cui tema fondamentale era l’inadeguata concezione dell’idealità nel pensiero francese della prima metà dell’Ottocento; mi riferisco a La filosofia pratica di Kant e Jules Barni (1855), Il sensualismo del secolo XVIII e Victor Cousin (1856) e Il sensualismo in Francia e la filosofia di E. Caro (1856). Il

3.  Per una ricostruzione rapida della biografia di Vera, cfr. Nota biobibliografica, in A. Vera, Sulla dottrina del termine medio di Platone, Aristotele e Hegel, a cura di A. Bellantone, Le Lettere, Firenze 2010, pp. 47 s. 4.  Si tratta di una lettera di Spaventa, riportata in B. Spaventa, La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, a cura di G. Gentile, Laterza, Bari 1909, pp. 293 s. 5.  G. Gentile, Le origini della filosofia contemporanea in Italia, vol. III.1, Sansoni, Firenze 1957, p. 263.

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primo tra questi articoli era una recensione al volume La philosophie sensualiste au dix-huitième siècle di Victor Cousin, nel quale il professore francese attribuiva alla psicologia il potere di scoprire, per via d’osservazione introspettiva, i «principi immediati, indimostrabili, evidenti per se stessi» di ogni metafisica6. Si trattava della tesi portante del pensiero cousiniano, già esposta nei Fragments philosophiques del 1826, la cui seconda edizione, datata 1833, aveva avuto una larga diffusione in tutta Europa, e in Italia in particolare7. Non è questa la sede per ricostruire la storia di questo tentativo di fondazione psicologica dei principi metafisici, che ha attraversato, secondo declinazioni differenti, la cultura francese da Destutt de Tracy e Maine de Biran fino a Bergson; quel che ci interessa è invece la critica che Spaventa riservava alla concezione del Cousin, accusandolo di procedere come quel «puro empirista» che prende in considerazione «l’intelligenza già fatta, l’intelligenza adulta, senza curarsi di sapere come essa è divenuta quel che è attualmente»8. In breve, il limite di Cousin sarebbe stato quello di avere concepito la ragione come un ricettacolo di verità auto-evidenti, già da sempre date, e non come una potenza di genesi. Per questo – continuava Spaventa – Condillac, che aveva compreso «la necessità della generazione», aveva assunto una posizione teoricamente più avanzata rispetto a quella del professore parigino9. Certo, il sensualismo aveva inteso 6.  Cfr. B. Spaventa, Il sensualismo del secolo XVIII e V. Cousin, in Id., Da Socrate a Hegel, a cura di G. Gentile, Laterza, Bari 1905, p. 108. Il testo di Cousin che Spaventa recensiva, La philosophie sensualiste au dix-­huitième siècle, era la riedizione del 1856 (Ladrange, Paris) dell’omonimo corso del 1818. 7.  Sulla ricezione del pensiero di Cousin in Italia cfr. S. Mastellone, Victor Cousin e il Risorgimento italiano, Le Monnier, Firenze 1955. Cfr. anche A. Bellantone, L’Italia e Victor Cousin, in Id., Tra eclettismo e idealismo. Frammenti di filosofia francese dell’Ottocento, CLEUP, Padova 2011, pp. 155-185. 8.  B. Spaventa, Il sensualismo del secolo XVIII e V. Cousin, cit., pp. 115 s. 9.  Ivi, p. 117.

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la genesi della coscienza in chiave solo storica, non trascendentale, ma questo niente toglieva alla sua superiorità rispetto all’astratta psicologia meta-empirica del Cousin. In ogni caso, l’ambizione di poter scoprire, attraverso la semplice osservazione psicologica, delle «idee innate o inerenti naturalmente all’anima»10, dimostrava che Cousin non aveva colto la rivoluzione della filosofia trascendentale, per cui l’idealità non era un fatto, ma un atto, vale a dire in ultima istanza «risoluzione» o «deliberazione»11.  Sarebbe difficile non riconoscere le buone ragioni di Spaventa. Qualche citazione tratta dal celebre corso cousiniano del 1828 – che, vale la pena ricordarlo, come i Fragments fu assai praticato in Italia – sarà sufficiente a confermarne la fondatezza. In effetti, se Cousin era persuaso che «le idee» sarebbero «i soli oggetti propri alla filosofia», egli non esitava a identificare i limiti del «mondo del filosofo» con quelli dei dati offerti dall’osservazione psicologica12. All’osservazione del senso intimo il professore parigino attribuiva il compito di rintracciare un insieme di fatti trascendenti e puri, che non sarebbero dipendenti dall’atto del pensiero ma ne fonderebbero il valore ontologico; da qui conseguirebbe l’inevitabile fatticità o datità dei principi. Si legga, a conferma di ciò, quel che Cousin sosteneva in un’altra lezione, lì dove scriveva che le idee sarebbero «concezioni della ragione universale e assoluta che non costituiamo, ma che appare in noi»13. Il punto centrale, evidentemente, è la formula «appare in noi», che attribuisce alla soggettività la funzione di attestare o testimoniare delle verità 10.  Ivi, pp. 115 s. 11.  B. Spaventa, Le prime categorie della logica di Hegel (1864), in Scritti filosofici, a cura di G. Gentile, Morano, Napoli 1900, p. 201. 12.  Cfr. V. Cousin, Cours de philosophie. Introduction à l’historie de la philosophie, Pichon et Didier, Paris 1828, p. 26. 13.  Ivi, V, pp. 10 s.

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che le sono innate, negandole così ogni ruolo creativo. La sfera psicologica, quindi, non è una potenza genetica (capace di “costituire”), ma solo uno spazio – o un teatro, come scriveva spesso Cousin – per l’apparizione delle verità eterne, che in essa sono depositate, ma che in se stesse sono già da sempre precostituite in una dimensione trascendente. Il tema cousiniano dell’impersonalità della ragione mirava proprio a garantirne la stabilità e l’anonimato antropologico: «La verità in se stessa è tanto indipendente dalla ragione, nel suo stato attuale, quanto la ragione è in se stessa indipendente dall’uomo in cui appare»14. Per questo il compito attribuito al filosofo non era tanto quello dell’invenzione del senso, quanto quello di «enumerare nella loro totalità gli elementi o le idee essenziali della ragione»15. Compito, come si vede bene, descrittivo, passivo, degno di una ragione capace di Beobachtung (benché in un foro intimo), ma mai creativa. Questo tema cousiniano emerge in modo ancora più chiaro se, allargando l’orizzonte al di là del teatro psicologico, si osserva l’altro teatro – quello storico – a cui il professore parigino aveva applicato il proprio idealismo. Nella prospettiva eclettica ci sarebbe un perfetto isomorfismo tra le idee osservate nella sfera psicologica e quelle rintracciate nell’analisi della storia universale (o in quella della storia della filosofia): «La potenza della varietà, tra le mani del tempo e nel teatro della storia, produce in grande quello che accade in piccolo nel teatro limitato della coscienza individuale»16. La storia riproduce o manifesta le medesime «idee eterne» (l’espressione è del Cousin) che si attestano tramite l’osservazione psicologica: si tratta di strutture meta-storiche che reggono – e soprattutto limitano – le

14.  Ivi, V, p. 12. 15.  Ivi, IV, pp. 44 s. 16.  Ivi, V, pp. 41 s.

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possibilità del divenire politico e ideologico effettivo. Da qui l’ammonimento di Cousin ai suoi uditori del 1828, affinché ricordassero che «non si possono concepire […] altre epoche» della storia rispetto a quelle che possono trovarsi, iscritte a priori, nelle esigenze della ragione eterna17; posizione che si comprende meglio se si tiene a mente che la funzione dell’eclettismo non era quella di aprire una nuova possibilità di sviluppo, ma di concludere una fase rivoluzionaria (dal 1789 al 1831) e restituire così «intelligibilità alla storia»18. Questa era la ragione per cui, lungi dal voler promuovere nuova una storicità attraverso la potenza dell’ideale (che proprio in quanto non attinto nel presente mobilita le forze storiche), l’eclettismo di Cousin intendeva classificarne tassonomicamente le possibilità. Si trattava di un gesto che era di per sé un tentativo di limitare le virtualità innovative della storia, come attesta uno dei passaggi più forti dell’intero corso del 1828, là dove leggiamo: «Che l’individuo duri dieci secoli, che l’umanità duri milioni di anni, né l’umanità né l’individuo si daranno un elemento nuovo»19. Non si trattava certamente di un invito alla rivoluzione… E Vera? Non lo abbiamo certo dimenticato; ché, anzi, è impossibile comprendere le esigenze di fondo del suo pensiero senza segnalare la continuità tra la sua concezione dell’idealismo e lo “spiritualismo astratto” del Cousin. Per Vera, come per il professore parigino, alla cui scuola e nel cui contesto si era formato, l’essenza dell’idea non era la motilità, ma la stabilità; e la dialettica non era creativa, ma sistematica: la sua funzione sarebbe stata quella di totalizzare, non di attivare il senso. Questa concezione si era solidificata e strutturata nel corso degli

17.  Cfr. ivi, VII, p. 20. 18.  Cfr. R. Ragghianti, Filosofia, storiografia e vita civile. L’eclettismo francese da Cousin a Bergson, Edizioni della Normale, Pisa 2014, p. 17. 19.  V. Cousin, Cours, cit., VI, p. 39.

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anni Quaranta e Cinquanta, come dimostrano l’Introduction del 1855, e poi i brevi scritti inglesi degli anni successivi. Nelle pagine della prima, per esempio, leggiamo che l’idea e il pensiero sono inseparabili, e se conoscere le cose è averne un pensiero o un’idea chiara e ben definita, non si potrà arrivare alla conoscenza se non attraverso la conoscenza delle idee, e la misura delle conoscenza delle idee ci darà la misura della conoscenza delle cose.20

Si badi al punto importante: se il progetto moderno era stato quello di ricondurre progressivamente l’idea all’atto del pensiero, Vera si poneva in controtendenza rispetto alla modernità, perché la sua filosofia rivendicava la necessità di sottomettere il pensiero (come attività) all’idea (intesa come datità trascendente). Ecco perché «tutte le idee sono innate», come si legge nell’Inquiry del 1856 (solo un anno dopo la pubblicazione della monografia su Hegel); ed ecco perché il compito della «speculazione» sarebbe la semplice «apprensione diretta delle idee», indipendentemente da ogni «elemento sperimentale», «immergendosi nella loro natura eterna, immutabile e universale»21. L’innatismo in questione, evidentemente, non vuol dire altro se non che l’idea non ha genesi (sia essa intesa in senso storico o trascendentale), ma che essa è sempre tutta fatta, compiuta, secondo una strutturazione sistematica che precede ogni esperienza (ivi compresa quella della coscienza nella sua Entäusserung). Qualche anno dopo (1861), Paul Janet avrebbe segnalato che Vera aveva sottovalutato (o addirittura ignorato) la funzione della Fenomenologia nell’economia del pensiero hegeliano: aveva ragione, non solo per ragioni oggettive, visto che l’Introduction non citava mai la 20.  A. Vera, Introduction à la philosophie de Hegel (1855), L’Harmattan, Paris 2011, p. 32. 21.  A. Vera, An Inquiry into speculative and experimental science, Longman, Brown, Green and Logmans, London 1856, rispettivamente pp. 13 e 44.

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prima opera di Hegel; ma soprattutto per delle ragioni speculative: l’esclusione di ogni aspetto genetico implicava inevitabilmente la marginalizzazione della «scienza dell’esperienza della coscienza»22. Nel pensiero dell’amerino, certo, l’idea era descritta come «spinta [poussée] da un movimento interno»23; ma questa “spinta” (e il termine poussée è eloquente, perché è tratto dalla dimensione fisica o psico-fisiologica) si produceva in mancanza di un soggetto, più come un divenire naturale che come una dialettica pensante. L’auto-movimento dell’idea, quindi, vi si presentava come sempre stabilmente assicurato da una «sostanza logica» che non si esponeva mai al dramma (e al periplo) dell’atto soggettivo24. Come non riconoscere in questa tendenza a un idealismo senza virtualità, all’idealismo dell’idea compiuta, un effetto ultimo delle opzioni teoriche dell’idealismo astratto del Cousin, alla scuola del quale, negli anni Trenta e Quaranta, si era formato il pensiero di Vera? Tuttavia, non si deve pensare che la posizione di Vera si fosse sempre distinta per questa forma di idealismo senza idealità, vale a dire per una concezione dell’idea come fatto e non come atto, come pensiero pensato e non come pensiero pensante. L’accesso all’idealismo dominato dall’oggettività, per Vera, era avvenuto progressivamente e si era configurato attraverso il superamento di un primo momento scettico. Si prenda come esempio la voce Idéalisme scritta nel 1847 per il Dictionnaire des sciences philosophiques, lì dove Vera scriveva: «Il metodo dimostrativo, come lo intende Hegel […] eccede la potenza della mente umana; e la ragione è che il fondo stesso dell’esse22.  Come scrive Janet «quest’opera è tra le più importanti nella filosofia di Hegel […] e tuttavia Vera non ne fa menzione nella sua Introduction» (P. Janet, Études sur la dialectique dans Platon et Hegel, Ladrange, Paris 1861, p. 320, nota). 23.  A. Vera, Introduction, cit., p. 86. 24.  Cfr. ivi, p. 126.

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re, l’essenza assoluta delle cose, ci sfugge»25. Si trattava di una posizione di realismo agnostico (l’essere reale eccederebbe il potere della ragione), che investiva in pieno anche la dialettica hegeliana e le negava ogni possibilità di successo (la mediazione compiuta), in continuità con i risultati acquisiti con le due tesi di dottorato del 1845. In effetti, i due lavori dottorali avevano già condannato la ragione al fallimento proprio perché la concezione dell’idea che stava al loro fondamento distingueva l’attività pensante dall’essenza delle cose, sottolineandone in questo modo più il fattore di distorsione che la potenza di mediazione. Nel 1845 la tesi su Le problème de la certitude recitava così: Quel che si rivela all’intelligenza umana non è la ragione stessa, la ragione nella sua essenza, ma la ragione attraverso delle idee. Ora, al di sopra delle idee c’è l’essenza. L’idea è solo una forma, una legge, un tipo puramente intelligibile che ci fornisce la misura dell’essere delle cose […], ma che non ci lascia penetrare nell’intimità della loro natura.26

Nella tesi di dottorato in lingua francese era quindi il postulato dell’«apprensione diretta» della cosa stessa nell’idea che veniva rifiutato, alla luce del principio secondo cui ogni pensare impli­ cherebbe la differenza dell’idea rispetto alla realtà pensata. È interessante notare che questa concezione dell’ideale come processo di differenziazione, come funzione soggettiva, era tipicamente moderna, più avanzata rispetto a quella che sarebbe stata assunta negli anni successivi (a partire almeno dal 1855), quando Vera si adagerà sul «fondamento della filosofia antica, cioè la supposizione immediata dell’accordo dell’oggetto con l’idea»27. Nelle tesi del 1845, l’idea non era un mero dato 25.  A. Vera, Idéalisme, in Dictionnaire des sciences philosophiques, éd. par A. Franck, Hachette, Paris 1844-1852, III, pp. 180-194. 26.  A. Vera, Le problème de la certitude, Joubert, Paris 1845, p. 1. 27.  B. Spaventa, Studi sopra la filosofia di Hegel (1850), in Id., Unificazione nazionale ed egemonia culturale, a cura di G. Vacca, Laterza, Bari 1969, p. 25.

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da rilevare, ma era un’attività costituente: anche se l’amerino sembrava vederne soprattuto l’aspetto negativo (la diffrazione), l’attività d’idealizzazione era nondimeno concepita come un movimento soggettivo. Nell’introduzione alla traduzione dell’Enciclopedia (1859), al contrario, si manifesta una posizione diversa, per cui l’idea sarebbe al tempo stesso «la condizione e la forma essenziale del pensiero» e la struttura secondo la quale «sono fatte razionalmente e assolutamente le cose»28. Resterebbe da capire come questa “comunità” d’essere e pensiero potesse essere garantita e giustificata; ma Vera si immergeva (e immergeva il suo lettore) nella koinonia tutto d’un tratto, con un salto che manifestava un presupposto, non mediato, di un idealismo inteso come oggettivo, vale a dire insensibile al travaglio soggettivo necessario all’accesso nell’elemento dell’assoluto. L’idea era ormai ipostatizzata, resa trascendente rispetto all’atto del pensare, proiettata in un piano trascendente, e in ultima analisi reificata. La questione di questo successivo mutamento di giudizio riguardo al potere della ragione e alla funzione dell’ideale – che fu posta per la prima volta da Giovanni Gentile nelle Origini – non può essere spiegata solo come un fenomeno sovrastrutturale di movimenti economici e sociali (Oldrini), ma deve trovare la sua delucidazione in termini specificamente filosofici. Ciò che Vera – tra il 1848 e il 1855 – rintracciava nella posizione hegeliana era esattamente quel che le era stato negato nel periodo precedente: la potenza di una dialettica che non si limitava a rinviare gli opposti uno all’altro, ma che riusciva a riassorbire le condizioni stesse della possibilità della scissione. Non limitandosi ad essere ragione di se stessa, ma 28.  A. Vera, Introduction, in Id., Logique de Hegel, Ladrange, Paris 1859, p. 62. Si tratta della traduzione del primo volume dell’Enciclopedia hegeliana, accompagnata da un apparato di commenti, note e introduzioni curato dal Vera.

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essendo capace di porre la propria ragione, la dialettica sistematica hegeliana sembrava poter finalmente garantire il successo della mediazione. Tuttavia, v’è da chiedersi se si trattasse davvero di una mediazione: la potenza del soggettivo, infatti, almeno nel 1855, non era tanto assunta dialetticamente attraverso il movimento del pensare, ma appariva esorcizzata, quasi rimossa, dalla preponderanza della totalità sistematica, che l’anticipava e si immunizzava contro di esso a priori. Il porsi dell’idea era già da sempre posto: in breve, si trattava di un dinamismo senza sé, senza l’inquietante (e non solo inquieta) potenza del negativo, che si risolveva in una kraftlose Schönheit. Priva della drammatica fenomenologica, spogliata della capacità di esperire il negativo in quanto tale, la dialettica di Vera non era altro che la dialettica antica: relazione, rinvio, delle idee una all’altra, esposta alla costante domanda circa l’origine dell’auto-­movimento. Se quindi, secondo l’amerino, la storia della dialettica prendeva le sue mosse da Platone e terminava con Hegel, non era tanto perché il moderno avesse assunto in sé, trasfigurandolo, l’antico, quanto perché l’antico (la dialettica già fatta, del pensiero pensato) dominava sul moderno (il pensiero dialettico nel suo farsi, il pensiero pensante). Per Vera non si trattava mai di valorizzare l’«atto del pensiero», che sarebbe stato un «fenomeno contingente, variabile e fuggevole», ma di segnalare che l’idea, con la sua struttura sistematica, sarebbe stata «necessaria, immutabile, eterna»29. Tutto questo, come si può facilmente immaginare, aveva conseguenze precise sulla concezione della storia. La dialettica di Vera si presentava infatti come la più «antistorica» e la più «anti­hegeliana» che potesse esservi30. Il movimento, nel pensie-

29.  A. Vera, Mélanges philosophiques, Ladrange, Paris 1862, pp. 215 s. 30.  Cfr. G. Gentile, Le origini della filosofia contemporanea in Italia, cit., p. 361.

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ro dell’amerino, era già da sempre caduto in un morto risultato, là dove per Spaventa (e, ancora una volta, a maggior ragione per Gentile), la dialettica non dovrà mai ridursi ad un’oggettività riuscita, ma dovrà continuamente salvaguardare la propria potenza d’idealità, vale a dire il proprio eccesso rispetto a ogni attuazione. Non è quindi errato sostenere che Vera, come Cousin, sia rimasto impigliato a quel «movimento astratto, non già speculativo, dell’intelligenza» che gli ha impedito un intendimento sincero della storicità31. Se la storia era presentata da Vera come una struttura idealmente leggibile, questo era possibile solo perché il corso storico era ai suoi occhi solo un epifenomeno, una manifestazione dell’eterno, vale a dire quella che potremmo chiamare una storia senza storicità. Il «teatro della storia» di Cousin era una (mera) conferma di quel che si poteva scoprire in sede psicologica attraverso l’analisi dei fatti del senso intimo; in Vera la storia non era altro che applicazione delle relazioni (eterne) tra le idee. Come si legge negli Essais de philosophie hégélienne del 1864, «se è vero che l’idea è il principio delle cose, e se è vero che niente può essere, ed essere razionalmente, fuori dell’unità sistematica, ne segue che la storia è generata dall’idea, e che essa fa parte di un sistema di idee fuori dal quale non potrebbe essere»32. Si vede bene, in questo passaggio, che l’amerino non concepiva l’idea come potenza di divenire storico, ma come funzione di stabilizzazione; e si comprende quindi che il suo incardinarsi sistematico serviva solo a immunizzare i fenomeni dalla disseminazione del tempo e dalla sua (irrevocabile) contingenza. Se l’idealità, correttamente intesa, è risorsa di storicità possibile – e quindi di creatività, vale a dire di avvenimento contingente, che trova il suo spazio di legittimità proprio nello scarto tra l’effettivo e l’ideale – l’idea oggettivata di Vera era invece riduzione del 31.  Cfr. B. Spaventa, Studi sopra la filosofia di Hegel, cit., p. 23. 32.  A. Vera, Essais de philosophie hégélienne, Baillière, Paris 1864, p. 134.

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possibile al mero fattuale. Questo idealismo senza idealità non sapeva pensare lo spirito come «pensiero vivente» (e quindi storico), ma lo pensava solo e sempre come una «cosa»33. Con Vera siamo quindi assai distanti dalle vie dell’idealismo italiano, la cui vicenda sorge da altre fonti ed è mossa da altre esigenze: quest’ultimo sarà infatti una filosofia dello spirito inteso come atto, mentre l’amerino ricercava un idealismo dell’oggettività, capace solo di riconoscere la storia come accadimento, come fatto senza idealità. Alla fine del suo insegnamento napoletano, forse anche per l’influsso dell’ambiente culturale, Vera ritornerà tuttavia sulla questione dell’elemento logico e della sua origine fenomenologica. I volumi del Problema dell’Assoluto saranno la testimonianza di un nuovo travaglio, che giustamente avrà al suo centro la funzione dell’esperienza della coscienza nella costituzione di un idealismo assoluto. Tuttavia, il quadro generale non sarebbe mutato: seppure un dubbio sarebbe emerso nella riflessione di Vera, esso verrà rapidamente assorbito nell’impianto aprioristico del suo pensiero. La ragione di questa continua marginalizzazione del problema fenomenologico è forse da cercarsi nell’interpretazione che l’amerino dava del pensiero di Kant, per la quale la sintesi a priori era intesa come semplice operazione esterna alla realtà piuttosto che come l’auto-movimento di un sé che si costituisce attraverso la cosa. Si trattava di una posizione che non sarebbe cambiata, a dispetto degli altri mutamenti, lungo tutto il percorso di Vera: se la tesi del 1845 aveva sostenuto che la filosofia kantiana era una «negazione della conoscenza», e se nel 1855 l’Introduction dichiarava che essa «imprigiona il pensiero in una rete di forme», il primo volume del Problema non avrebbe presentato alcun significativo mutamento di posizione, dato che il critici-

33.  P. Janet, Études sur la dialectique dans Platon et Hegel, cit., p. 387.

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smo vi era descritto come un empirismo scettico che avrebbe inteso l’idea come «mera forma, vuota di ogni contenuto»34. Il che vuol dire, se guardiamo l’intero itinerario dell’amerino con uno sguardo d’insieme, che dalla fine all’inizio del suo percorso filosofico Vera ha condiviso la condanna cousiniana del criticismo come pensiero della «soggettività della ragione umana», incapace di cogliere la «maniera d’essere dell’idea eterna»35. E questo è il motivo per cui, come attesta il volume quarto del Problema, Vera continuerà sempre a pensare che l’idealismo debba trovare la sua ispirazione nella filosofia greca, che avrebbe «contribuito, […] più della filosofia di Kant, al pieno e razionale sviluppo» dell’idealismo36. Giovanni Gentile non si sbagliava quindi scrivendo che il filosofo di Amelia era rimasto «molto più indietro di Kant», visto che non era riuscito a «conferire […] valore oggettivo» alle idee se non «ipostatizzandole platonicamente come tipo e modello della natura e dello spirito»37. In questo senso, il limite di Vera è stato quello di non essere (davvero) passato attraverso la grande lezione del «Socrate prussiano», vale a dire di essere rimasto impigliato in quel difetto di concezione dell’idea intesa come mera datità che Spaventa aveva già rimproverato al Cousin38. Questa è la ragione fondamentale per cui l’idealismo di Vera non è mai stato una filosofia dello spirito vivente e attivo, ma è sempre restato – come l’eclettismo cousiniano – un pensiero dell’astratto; la sua esigenza non è stata quella di indagare il primato della soggettività nell’istituzione della verità (garan-

34.  A. Vera, Problema dell’Assoluto, Parte I, Stamperia della Regia Università, Napoli 1872, p. 55. 35.  Cfr. V. Cousin, Cours de philosophie, cit., V, p. 10. 36.  Cfr. A. Vera, Problema dell’Assoluto, Parte IV, Stamperia della Regia Università, Napoli 1882, p. 5. 37.  G. Gentile, Le origini della filosofia contemporanea in Italia, cit., p. 306. 38.  Cfr. B. Spaventa, Studi sopra la filosofia di Hegel, cit., p. 25.

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tendone, in questo modo, un’apertura virtuale), ma quella di garantire l’intelligibilità conclusiva del reale nonostante l’apparenza fenomenale del suo divenire. Nella sistematicità hegeliana Vera ha creduto di trovare la risposta alle sue esigenze: risposta che ha dissipato la dialetticità a mero momento del tutto – e ha trascinato il suo pensiero in un quietismo teorico e pratico tanto perfetto quanto infecondo, il cui destino è quello di spegnere, non certo di attivare, l’istanza ideale del filosofare. Questa è la ragione per cui il pensiero di Vera si è risolto, malgrado la sincerità della sua ispirazione, in una forma di mero idealismo oggettivo, privo di ogni idealità.

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Preliminari alla logica hegeliana Edoardo Mirri

Il titolo di questo mio intervento, “preliminari alla logica hegeliana”, deve essere subito giustificato, tanto si presenta azzardato; perché esso non può non imbattersi immediatamente in una forte dichiarazione iniziale di Hegel che esclude del tutto che la logica possa avere dei “preliminari”: Vorangehende Reflexionen li dice il filosofo, o meglio ancora Voraussetzungen, presupposti: A proposito di nessuna scienza – suona la prima frase della Scienza della logica – si sente così forte il bisogno di cominciare subito dalla cosa stessa, senza riflessioni preliminari, come a proposito della scienza logica.

«Senza riflessioni preliminari». Nelle altre scienze, continua ad argomentare Hegel, l’oggetto e il metodo sono esposti preliminarmente e dipendono «da altri concetti»; ma la logica (e l’affermazione è veramente da sottolineare) «non può presupporre [voraussetzen] nessuna di queste forme della riflessione […] perché esse fanno parte del suo contenuto e devono essere fondate solo all’interno di essa». Il concetto stesso della logica «appartiene al suo contenuto e costituisce propriamente l’ultimo risultato di essa»: esso si genera e si forma nel corso e nell’esercizio della logica stessa, e non può dunque essere definito in via preliminare: Kann nicht vorangeschikt werden.

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Così ogni discorso sui “preliminari” della logica hegeliana sembra essere hegelianamente tagliato fin dall’inizio. Senonché questo intervento, nell’usare la parola “preliminari”, vuol dare un’indicazione assai più modesta che non quella di individuare degli inesistenti e inconcepibili “presupposti” alla logica; esso vuol solo indicare a quali testi di Hegel questo intervento stesso fa ricorso per comprendere la natura della logica, il “nocciolo” della Scienza della logica. In ordine cronologico essi sono essenzialmente i seguenti: 1) La introduzione (Einleitung) alla Scienza della logica, che porta il sottotitolo Concetto generale della logica, scritta da Hegel prima del 1812 a Norimberga, in vista della pubblicazione dell’opera; 2) La prefazione (Vorrede) alla sua prima edizione, che porta la data «Norimberga, 22 marzo 1812»; 3) la prefazione (Vorrede) alla prima edizione dell’Enciclopedia e ai primi paragrafi di essa, pubblicata a Heidelberg nel 1817; 4) Il discorso inaugurale del suo insegnamento a Heidelberg tenuto il 28 ottobre 1816, e più ancora la bellissima allocuzione pronunciata da Hegel all’inizio delle sue lezioni di Berlino il 22 ottobre 1818; 5) La prefazione alla seconda edizione della Scienza della logica che porta la data 7 novembre 1831; 6) E infine i paragrafi 18-25 della Enciclopedia nell’edizione 1827 e alcune aggiunte ad essi ad opera di Leopold von Henning per l’edizione del 1840. Per necessità di un’opportuna sintesi, qui ci si riferisce di prevalenza alle argomentazioni contenute nei numeri 1) e 6), pur con la riserva di qualche scorribanda negli altri testi attinenti al tema.

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L’economia di questo intervento, oltre alla limitazione ai riferimenti di cui si è detto, impone anche che si sorvoli su ogni problematica di tipo filologico riguardante l’omogeneità dei testi di riferimento; i quali sono sorti in un arco di tempo assai lungo e possono pertanto dare spazio a legittimi dubbi sulla loro immediata comparabilità. Ma qui l’autore osa affermare che, da un punto di vista tematico e argomentativo, i testi sono omogenei, come omogeneo nel suo insieme è tutto il “sistema”, sorto dopoché Hegel si è liberato da un duplice condizionamento: dal suo originario radicale kantismo (e questa prima liberazione si colloca a Francoforte tra il 1797 e il 1800 e con gli scritti che il Nohl ha complessivamente intitolato Lo spirito del cristianesimo e il suo destino) e dalla sua totale adesione al pensiero di Schelling con la pubblicazione della Fenomenologia nel 1807. L’intento assai limitato di questo intervento – individuare i testi hegeliani “preliminari” ad una comprensione della Scienza della logica – non tocca in nessun modo il tema di fondo dell’incontro odierno dedicato alla messa a fuoco dell’effettivo hegelismo di Augusto Vera, lasciando ad altri questo arduo campo di indagine. Si venga dunque all’argomento prefisso, i “preliminari” della Scienza della logica, sebbene con quanto si è detto sull’inesistenza di presupposti al pensiero esso sia stato già anticipato nel suo punto centrale. Il testo più antico tra quelli sopra enumerati è l’introduzione alla Scienza della logica che risale ai primi anni dell’insegnamento di Hegel a Norimberga, intorno al 1810. Hegel la intitola Concetto generale della logica, cui segue una Partizione generale della logica, e che in verità appare quasi contraddittorio con la dichiarata impossibilità di presupposti: «A proposito di nessun’altra scienza – si ricordi – si sente così forte il bisogno

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di cominciare dalla cosa stessa senza riflessioni preliminari». Non vi sono dunque “preliminari” alla logica perché – è questo il cardine dell’argomento da sottolineare con forza – non vi è “presupposto” al pensare. Il pensare (se si vuole, si dica pure “la coscienza” per aderire ad un certo ontologismo di stampo pur sempre idealistico, alla maniera per esempio del Carabellese) è “assoluto”: ossia non deriva e non dipende da nulla se non da se stesso, con buona pace di tutti gli psicologismi e i sociologismi oggi di gran moda, che vorrebbero il pensare come un prodotto dell’animo umano o della società. Il pensare determina da sé il suo oggetto, il suo “metodo”, e perfino e in primo luogo la sua stessa essenza. È in virtù di questa concezione del pensare come un intrascendibile “assoluto” che Hegel definisce il suo idealismo appunto come “assoluto”, in contrapposizione con l’idealismo “soggettivo” di Kant e di Fichte e con quello “oggettivo” di Schelling; i quali lasciano sussistere al di là del pensare un qualcosa di irrisolto che pensare non è: lo si dica pure “cosa in sé”, o “nonio” o “natura”. Per l’idealismo assoluto, un al di là del pensiero è del tutto inconcepibile; e del resto, come lo si potrebbe concepire se è al di là del pensare? Ma a proposito dell’assenza di presupposti al pensare, un altro punto è da chiarire (e non è un punto da poco): che cioè non si dà nemmeno un presupposto al pensare chiamato “uomo”. Anzitutto perché il pensare non è una proprietà dell’uomo, come comunemente si pensa, ma semmai è vero il contrario, che cioè l’uomo è una proprietà del pensare: è il pensare che fa uomo l’uomo, non già l’uomo che crea il pensare. E se non è proprietà, nemmeno deriva dall’uomo, come pretende certa fisiologia materialistica che lo equipara alle secrezioni ghiandolari. Queste due concezioni del pensare, tanto diffuse quanto semplicistiche, si unificano poi in quella che si rappresenta il pensare come uno “strumento” (l’òrganon aristotelico) di cui

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l’uomo si serve per impadronirsi dell’essente. Qui il pensare è del tutto sottomesso alle esigenze – e anche ai bisogni e perfino ai capricci – dell’uomo, e perde con ciò ogni significato suo proprio: come il martello del falegname o la cazzuola del muratore che vengono messi da parte alla fine della giornata di lavoro. Di contro a tutto ciò, Hegel indica nel pensare l’uscita dell’uomo dai limiti del suo esser uomo, il “toglimento” del presupposto “uomo”, il mettere a tacere le ragioni finite dell’uomo e dei suoi bisogni, il predominare del “vero”. La verità è l’unico presupposto del pensare, ciò che libera il pensare dalla limitazione dell’opinione e lo rende con ciò “vero”: al di là di tutte le strumentalizzazioni umane che lo degradano a ideologia. Insomma, ciò che interessa – e che è l’autentico oggetto della logica – è il “vero” e non l’uomo, il finito; tanto meno dunque anche la storia, che di per sé è solo la successione delle finitezze dell’uomo finito (anche se qui si aprirebbe una problematica assai ampia e articolata che al momento si deve lasciar da parte). Il pensare dunque non ha presupposti in un “altro” da sé che lo generi, lo possieda o lo usi, insomma che lo giustifichi. È “in sé”: si potrebbe dire di esso ciò che Spinoza afferma della sostanza, cioè di Dio, che in se et per se concipitur: tutte proposizioni che si convengono solo all’assoluto. Tutto il resto è “in altro”, suggerisce ancora Spinoza con il primo assioma dell’Etica: «Tutto ciò che è, o è in sé o è in altro». E Hegel, nella conclusione della Scienza della logica: «Tutto il resto è errore, torbidezza, opinione, tendere, arbitrio e caducità»; solo il pensare è «essere, vita che non passa, verità di sé conscia, ed è tutta la verità». È chiaro che Hegel dice del pensare ciò che Spinoza dice della sostanza: che è l’“in sé”, che è Dio. Ed è chiaro così che la Scienza della logica è teologia, come teologia è l’Etica di Spi-

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noza. Nell’una e nell’altra (a parte le singole argomentazioni che non sempre sono adeguate alla loro stessa natura) ciò che si squaderna è l’apparire della verità. «E Dio e solo Dio è la verità», si dice con forza nel primo paragrafo dell’Enciclopedia. Così la filosofia tutta, e segnatamente la logica come articolazione del pensare, è il dirsi della verità che è Dio. La filosofia come teologia. Si sa che, storicamente, tutti i rappresentanti della cosiddetta “sinistra” hegeliana hanno accusato il ripudiato maestro di essere stato un “teologo”, e che via via si sono vicendevolmente rimproverati della stessa accusa, in un gioco per lo meno ridicolo: Feuerbach ne ha accusato Hegel, Bauer ne ha accusato Feuerbach, Stirner Bauer; e Marx vi ha compendiato tutti con la sciocca ironia di “san Luigi, san Bruno e san Max” (“miseria della filosofia”, veramente!). Nella loro assenza di pensiero tutti costoro non sospettarono che, nel tacciare la filosofia hegeliana di teologia, ne tessevano di fatto il più alto elogio, riconoscendola inconsciamente come discorso della verità. Ma è tempo ormai di tornare alla introduzione della Scienza della logica. Dopo aver dichiarato con forza l’assenza di presupposti al pensare, e pertanto di preliminari alla logica, Hegel vi controbatte la teoria della logica come scienza “formale” in evidente polemica con la Critica della ragion pura, che ritiene che «il pensare sia la semplice forma della conoscenza e che la logica astragga perciò da ogni contenuto», insomma che il pensare sia solo una forma il cui contenuto «debba essere dato da un’altra parte». Tutto ciò, secondo Hegel, è del tutto «fuori luogo» (ungeschickt) perché la logica, avendo come oggetto suo proprio il pensare, ha in questo sia la sua forma, sia il suo contenuto. «Se non che – conclude con aspra sferzata – quelle rappresentazioni su cui riposò fin qui il concetto della logica,

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in parte sono già tramontate, e in parte è tempo che spariscano completamente». Il concetto che con Kant si è avuto della logica, prosegue Hegel pur senza nominare mai Kant, è basato sulla separazione del pensare dalla verità, presupponendo che la “cosa” sussista già in sé e per sé come un mondo bell’e compiuto al di fuori del pensare, e che il pensare sia di per sé vuoto, ricevendo il suo contenuto da questo al di fuori: di qui la dottrina di un applicarsi delle forme del pensare di per sé vuote ad una materia di per sé cieca. Ma tali vedute, più che al pensare filosofico, appartengono «alla natura della nostra coscienza ordinaria», alla «coscienza apparente e fenomenica» da cui è compito della filosofia distaccarsi e recuperarsi. È la concezione che del pensare ha l’«intelletto riflettente». Hegel spiega poi che cosa significhi questa espressione: Per intelletto riflettente è da intendere in generale l’intelletto astraente e perciò separante […] la cui veduta è che la verità riposi sulla realtà sensibile, e che i pensieri siano soltanto pensieri, cui solo la percezione sensibile dia sostanza e realtà, e che la ragione in sé e per sé generi soltanto dei sogni.

Ove non c’è chi non veda l’accenno polemico alla Critica della ragion pura; soprattutto nella forte conclusione: In questa rinuncia della ragione a se stessa, il concetto della verità va perduto, la ragione viene ristretta a conoscere soltanto una verità soggettiva, soltanto l’apparenza […]. Il sapere è tornato ad essere l’opinione.

I brani della introduzione alla Scienza della logica cui fin qui si è fatto riferimento si prestano anche ad un’altra considerazione fortemente connessa con quelle esposte: una considerazione che riguarda in particolare la filosofia più recente, della quale Hegel sembra essere stato a un tempo profeta e aspro critico. Quel che vi si denuncia è il predominare dell’uomo sulla

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verità – che lo Heidegger ha definito e respinto come “umanismo” – la riduzione cioè della verità a opinione soggettiva e la negazione della presenza della verità – di Dio – al pensare. Per un tale umanismo la realtà di Dio è sottomessa alla più futile opinione: “Dio c’è per chi ci crede”, come spesso si ripete insipientemente. Tutto deriva dalla moderna rimozione di Dio dalla coscienza, e dalla sua sostituzione con la finitezza dell’uomo, insomma dal predominare del finito e dei suoi problemi, che degrada la filosofia ad antropologia o – peggio – a sociologia e a ideologia. Un tale predominare del finito esaurisce la realtà nello scorrere della storia ed esaurisce il pensare nella chiacchiera dell’oggi. L’eterno, per esso, è solo favola. Ebbene: di questa assolutizzazione del finito, di cui si pasce l’«intelletto riflettente», Hegel è asperrimo avversario perché l’unico «contenuto e oggetto della filosofia» è l’«idea assoluta», mentre «tutto il resto è errore, torbidezza, opinione, tendere, arbitrio e caducità». Solo l’idea assoluta, oggetto della filosofia, è «tutta la verità». L’ambito del finito, dunque «errore, torbidezza, opinione» ecc., non è propriamente oggetto della filosofia (e si dica pure “della logica”), poiché è caratterizzato dalla provvisorietà, da una fondamentale inessenza, anzi dalla necessità del finire, dal suo inevitabile “destino”: Le cose finite sono, ma la verità di questo essere è la loro fine. Il finito non solo si muta, come il qualcosa in generale, ma perisce […]. L’essere delle cose finite sta nell’aver dentro di sé il germe del perire; l’ora della loro nascita è l’ora della loro morte.

Il finito “deve” perire perché è in sé contraddittorio: il suo essere è costituito e determinato da ciò che esso non è; si pensi ad una superficie geometrica che è definita, ossia limitata, dallo

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spazio che essa non racchiude. E questo dover finire è appunto il “destino” del finito. Eppure, malgrado la fondamentale inessenza del finito, la filosofia si deve occupare anche di esso, e di fatto se ne è sempre occupata, dandogli luogo anche nel suo “sistema”: si pensi all’ampia trattazione che nella Enciclopedia ha la “filosofia della natura” e la più gran parte della “filosofia dello spirito”. Ma occorre chiarire che, nell’occuparsi del finito, la filosofia non lo tratta come essere, come realtà, bensì come “figura” (Gestalt) dell’eterna idea. Questo concetto di “figura”, come quello di “destino” cui si è appena accennato, è uno dei cardini essenziali del sistema cui è necessario attenersi per un’adeguata comprensione del pensare hegeliano, sebbene la storiografia corrente lo abbia per lo più trascurato o addirittura dimenticato; come è avvenuto, appunto, per il “destino”; eppure esso riguarda l’intero ambito della determinatezza, e perciò della scienza e della storia. Il determinato, per la sua fondamentale inessenza, non è realtà come invece lo è l’idea; ma non è nemmeno “nulla”, come potrebbe ritenere un misticismo esasperato; esso è appunto “figura” della realtà eterna, che presenta l’idea nelle forme dello spazio e del tempo. È l’“apparire” del reale, ma non il reale in sé; se si vuole, si adoperino pure, per indicare l’essenza della “figura”, le espressioni correnti di “esempio” o di “immagine”: filosoficamente la si dice “fenomeno”. Così il mondo tutto è figura o “fenomeno” di Dio (enarrant coeli gloriam Dei) e la storia è “figura” del suo dispiegarsi. A proposito di quest’ultima sottolineo che nel pensare hegeliano la storia non è realtà, come vorrebbero tutti gli storicismi che esauriscono la realtà nel divenire temporale dimostrando con ciò un’assoluta incomprensione del pensare hegeliano, ma non è nemmeno un nulla come è dichiarata nelle mirabili ar-

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gomentazioni di Schopenhauer, bensì è figura nello spazio e nel tempo dell’articolarsi dell’idea delineato nella Scienza della logica; quasi una “logica applicata”. Nella storia come figura, dunque, si riflette bensì il divenire della realtà, ossia del pensare, delineato nella Scienza della logica, ma non è essa stessa realtà: è apparire, è “fenomeno”. Su questa considerazione della storia come figura si potrebbero fare mille diverse considerazioni di grande interesse, che potrebbero gettare una luce del tutto nuova sul pensare di Hegel e che invece sono state del tutto disattese a causa del pregiudizio storicistico che ancora vi grava. Si continua infatti a ritenere, erroneamente, che la filosofia di Hegel sia una filosofia della storia, addirittura un supporto dell’imperialismo prussiano (!!), e se ne perde così il profondo significato metafisico e addirittura teologico. In questo intervento – per ovvie ragioni di spazio – ci si limita pertanto ad accennare, e solo ad accennare, a due considerazioni di non poco peso, anche storiografico. In primo luogo per quanto riguarda la Fenomenologia. Essa va letta come presentazione delle figure (dei “fenomeni” appunto, come si è detto) in cui si rivela l’articolarsi del pensiero di cui tratta, nel suo in sé, la Scienza della logica (e non è un caso che la pubblicazione di quest’ultima seguisse solo di pochi anni quella dela Fenomenologia). Sostanzialmente, la Fenomenologia non è la storia del processo o del progresso dello spirito umano, come invece è stata interpretata dalle fin troppe letture sociologico-politiche: si pensi all’interpretazione abnorme che della figura signoria-servitù è stata data dalla critica di stampo marxista, quasi si trattasse di un manifesto della rivoluzione sociale. Nella sua prima edizione del 1807 Hegel le aveva dato il titolo Sistema della scienza prima parte. La fenomenologia dello spirito; e quest’ultima espressione del titolo sostituiva quella ori-

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ginaria Scienza dell’esperienza della coscienza. Dove due sole cose qui si noteranno: che cioè la Fenomenologia era per Hegel la “prima parte” del “sistema”, e non l’introduzione come più tardi è stata intesa; giocava cioè il ruolo che, nell’esposizione del sistema data nell’Enciclopedia, sarà attribuito alla Scienza della logica. È poi da notare che nell’originaria definizione, «Scienza dell’esperienza della coscienza», il secondo genitivo è soggettivo: è cioè la “coscienza” – ossia il pensare – che percorre l’esperienza di cui l’opera tratta; la coscienza, il pensare, e non l’“uomo”; e tanto meno il singolo come vorrebbero certe letture individualistiche alla Stirner. Il cammino che l’opera narra è compiuto dal pensare, come sarà nella Scienza della logica; l’uomo, tutt’al più, ne è l’attore che lo rappresenta, non l’autore, svolgendo un copione non scritto da lui; è lo strumento e non il proprietario del sapere. La seconda considerazione a cui si è invitati dalla concezione della storia – e del finito in generale – come figura riguarda ancora l’essere della logica, ma questa volta nei suoi rapporti con la filosofia della natura e la filosofia dello spirito, insomma nel “sistema”. Il testo “preliminare” che la guida non è più l’introduzione alla Scienza della logica o la sua conclusione, ma piuttosto il gruppo di paragrafi 19-25 dell’Enciclopedia nell’edizione 1827 e alcune aggiunte ad essi ad opera di Leopold von Henning per l’edizione del 1840 (la famosa edizione degli “amici dello scomparso”). La storiografia corrente, in ciò confortata anche dalla struttura stessa dell’opera, presenta la scienza della logica come prima parte del sistema, di cui la filosofia della natura sarebbe la seconda e la filosofia dello spirito la terza che conduce il sistema a compimento. Ma non è del tutto così, come fa subito sospettare l’andamento rettilineo del ragionamento (inizio, svolgimento, fine), contrario a tutta la scrittura hegeliana che procede per antitesi e relativi toglimenti. Forse questa tripartizione schematica deriva da un presupposto da rimuovere: che cioè

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il sistema si svolga tutto per “triadi”, a cominciare dal suo impianto generale e via via per ogni argomento; per persuadersi che le cose stanno diversamente basti osservare, per esempio, che la Fenomenologia si svolge non in tre ma in quattro parti (coscienza, autocoscienza, ragione, sapere assoluto) e che la Filosofia del diritto è anch’essa articolata in quattro momenti: diritto astratto, moralità, eticità, storia universale. E si potrebbe continuare a lungo su queste esemplificazioni. Al di là di questa rappresentazione tradizionale della scienza della logica come prima parte del sistema – cui seguirebbero quelle riguardanti la natura e lo spirito – i paragrafi sopra citati dell’Enciclopedia e alcune aggiunte ad essi riferite prospettano una tutt’altra articolazione del “sistema della scienza”; del quale la scienza della logica, lungi dall’essere “prima parte” è “tutto” il sistema, è l’intero ambito del pensare, l’intero “regno di Dio”; e la filosofia della natura e la filosofia dello spirito ne sono le figure, nelle quali domina naturalmente la storia, la successione temporale. Si legga l’aggiunta n. 2 al paragrafo 24: Se […] consideriamo la logica come il sistema delle determinazioni pure del pensiero, le altre scienze filosofiche, e cioè la filosofia della natura e la filosofia dello spirito, appaiono al contrario quasi come una logica applicata, poiché la logica ne è l’anima che dà loro vita. Le altre scienze allora si interessano soltanto di conoscere le forme logiche nelle figure della natura e dello spirito, figure che sono soltanto un modo particolare di esprimere le forme del pensiero puro,

mentre di questo «pensiero puro» la logica presenta l’intero articolarsi «puro, nelle forme del pensiero». E poco più sotto Hegel prosegue, secondo gli appunti del von Henning, che è comunque fedelissimo al maestro: «La logica è quindi lo spirito onnivivificante di tutte le scienze; le determinazioni della logica sono ciò che vi è di più interno» di tutte le

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cose. Si ricordi, a proposito del «ciò che vi è di più interno» di tutte le cose, il Kern, il “nocciolo”, la verità delle cose di cui si parla nella celeberrima prefazione alla Filosofia del diritto: la logica è dunque la scienza della verità delle cose; è metafisica. E il passo sopra citato conclude: Si crede usualmente che l’assoluto debba trovarsi molto al di là, mentre è invece proprio ciò che è del tutto presente e che, come pensanti, anche senza averne espressamente coscienza, portiamo sempre con noi.

Dove è chiaro che per Hegel la Scienza della logica è “tutta” la filosofia, che le altre scienze filosofiche ne sono soltanto “figure”, che infine nell’una la verità si presenta «pura nell’elemento del pensare», nelle altre si riveste delle forme dello spazio e del tempo, delle forme cioè della storia. L’accenno finale alla presenza costante dell’assoluto (si dica pure “della verità” o “di Dio”) al pensare, aprirebbe un altro vastissimo campo di indagine che qui non si può affrontare, dischiuso peraltro da Heidegger nel suo bellissimo saggio su Il concetto hegeliano di esperienza; e confermerebbe la natura teologica, di forte sapore spinoziano, della concezione hegeliana della fondamentalità di Dio al pensare.

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L’assoluto e il fenomenale Augusto Vera e la Fenomenologia dello spirito Francesco Valagussa

«La tesi generale di cui si tratta è il problema dell’assoluto. Noi diciamo: o l’assoluto o nulla».

La «preistoria dello hegelismo italiano»1 – riprendendo la dicitura proposta da Guido Oldrini – si alimentò innanzitutto del “lavoro clandestino” sviluppato da Francesco De Sanctis, Bertrando Spaventa e Giambattista Passerini2 durante gli anni di prigionia e di esilio, trovò respiro grazie al contributo di Vera dalla Francia, ma già nel 1848 poteva considerarsi un capitolo concluso. A questa prima fase dell’hegelismo appartengono a pieno diritto anche Stefano Cusani e Stanislao Gatti, che tramite la sua rivista «Museo di Letteratura e Filosofia» contribuì a preparare il terreno per una rinnovata stagione di studi hegeliani quanto mai proficua: subito dopo l’unità nazionale Napoli vide convergere l’attività dei già citati De Sanctis e Spaventa3, 1.  G. Oldrini, Introduzione, in Id. (a cura di), Il primo hegelismo italiano, Vallecchi, Firenze 1969, pp. 17-90: p. 85. 2.  In particolare sulla figura di Passerini si veda L. Aguzzi, G.B. Passerini e la penetrazione dell’hegelismo in Italia, in Aa. Vv., Gli hegeliani di Napoli e la costruzione dello Stato unitario. Atti del convegno Napoli 6-7 febbraio 1987, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 1989, pp. 73-98. 3.  Forse non si esagera a rintracciare in De Sanctis e Spaventa i veri e propri Dioscuri dell’elaborazione del pensiero hegeliano avvenuta a Napoli in quegli

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cui si aggiunsero appunto Augusto Vera, Antonio Tari e Pasquale Villari; da quella generazione sarebbero poi nati i vari Maturi, Jaja, Felice Tocco e Antonio Labriola4. Molti in quegli anni «andavano rompendosi il capo per la via» meditando sul pensiero di Hegel, convinti che «fosse meglio morire così che di putredine» – come scrisse Bertrando Spaventa in una lettera indirizzata a Villari datata 14 ottobre 18505, mostrando tutta la serietà e la pazienza richiesta per la comprensione logica del pensiero hegeliano. Di rimando Villari scrisse a Spaventa attorno all’urgenza storica di quel compito: «Fare intendere Hegel all’Italia vorrebbe dire rigenerare l’Italia»6. Nel breve scambio epistolare logica e storia si fondono, in classico stile hegeliano, e tale compenetrazione di tempo e concetto generò il clima di entusiasmo e il rigore nello studio che si respiravano nella Napoli postunitaria. Vera s’inserisce in questo scenario, il suo interesse – se mai ci fosse bisogno di precisarlo – non è per nulla astratto, bensì

anni. Su questa coppia si concentra il lavoro di R. Racinaro, Rivoluzione e Stato in alcuni momenti della riflessione di Bertrando Spaventa e Francesco De Sanctis, in Aa. Vv., Gli hegeliani di Napoli e la costruzione dello Stato unitario, cit., pp. 179-200. 4.  Cfr. S. Miccolis, Il Risorgimento nel pensiero di Antonio Labriola, in Aa. Vv., Gli hegeliani di Napoli e la costruzione dello Stato unitario, cit., pp. 267-298. 5.  M. Rascaglia (a cura di), Epistolario di Bertrando Spaventa, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 1995, pp. 85-86. Sullo scambio epistolare tra Spaventa e Villari si veda appunto M. Rascaglia, Bertrando Spaventa e Pasquale Villari. La corrispondenza degli anni giovanili, in AA. VV., Gli hegeliani di Napoli e la costruzione dello Stato unitario, cit., pp. 317-325. 6.  Lettera pubblicata in S. Spaventa, Dal 1848 al 1861. Lettere Scritti Documenti, a cura di B. Croce, Laterza, Bari 19232, p. 78. Più in generale sulla relazione tra Stato e modernità in Bertrando Spaventa si veda il contributo di G. Calabrò, Bertrando Spaventa e l’idea dello Stato moderno, in Aa. Vv., Gli hegeliani di Napoli e la costruzione dello Stato unitario, cit., pp. 155-168.

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concreto, se si guarda all’estrema attualità storico-politica della sua indagine. Pubblicato nel 1872, il Problema dell’Assoluto rientra in quel complesso di “armature concettuali” che la fucina napoletana aveva cominciato a forgiare nel corso della seconda metà dell’Ottocento. L’interazione Hegel-Goethe che si trova in esergo alla parte quarta anticipa in realtà il cortocircuito cui si assiste nel suo scritto più noto. Da un lato Hegel: Tutto il resto è errore, torbidezza, opinione, tendere, arbitrio e caducità; soltanto l’idea assoluta è essere, vita che non passa, verità di sé conscia, ed è tutta la verità.7

Dall’altro Goethe: Che sarebbe un Dio se solo da fuori desse un tocco Se stesse a rigirarsi l’universo attorno a un dito! Gli converrebbe muovere il mondo dall’interno, custodire la natura in sé e sé nella natura, in tal modo ciò che in Lui vive e s’intreccia e sussiste non manca mai della sua forza, mai del suo spirito.8

Un Goethe che pare, tuttavia, molto più vicino a una sorta di spinozismo rivisitato, piuttosto che a una Fenomenologia dello spirito. La critica ha notato come questi versi di Goethe traducano di fatto alcuni passi dell’Atheismus triumphatus di Campanella e rendano alla perfezione l’immanentismo presente in

7.  G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik [= WdL], in Id., Werke [d’ora in poi, ove non diversamente specificato, si farà riferimento sempre a questa edizione], a cura di E. Moldenhauer e K.M. Michel, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1970, vol. VI, p. 549; tr. it. di A. Moni, riv. da C. Cesa, Scienza della logica, Laterza, Roma-Bari 20048, vol. II, p. 935. 8.  J.W. Goethe, Die weltanschaulichen Gedichte (Proemion), in Id., Werke (Hamburger Ausgabe), a cura di E. Trunz, Beck, München 2000, vol. I (Gedichte und Epen), p. 357.

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alcuni brani del De immenso di Bruno9 – inutile dire che qui si può percepire in maniera palpabile l’influsso esercitato dagli studi di Francesco Fiorentino10 sull’attività di Augusto Vera. È noto come nelle sue Lezioni di storia della filosofia Hegel abbia scritto che «essere spinoziani è l’inizio essenziale del filosofare»11. Merito immortale di Spinoza è aver saputo rinunciare a ogni determinato e di aver concepito l’Uno; suo limite ineludibile, d’altronde, è aver pensato questo Uno solo come sostanza e non come spirito. «In Spinoza [il pensiero] non è posto come l’assolutamente negativo», perciò nella sua filosofia, scrive Hegel, «manca il fuoco. Occorre riparare a questa mancanza, introdurre il momento dell’autocoscienza»12. La compresenza dell’assoluto e del pensiero come assolutamente negativo costituisce il sigillo dell’hegelismo: attorno a questa polarità si concentra Vera nella quarta parte del suo saggio.

1. Preambolo. Kant e lo scetticismo travestito Nelle “questioni preliminari” Vera si confronta con il kantismo: analizzare il criticismo, prima di affrontare Hegel, non è un passaggio posticcio, né soltanto una strategia plausibile e comprensibile, ma risulta addirittura indispensabile.

9.  Cfr. G.G. Orelli, Introduzione a T. Campanella, Poesie filosofiche, Ruggia, Lugano 1834, p. LXXXVI. 10.  Né la figura di Francesco Fiorentino può essere considerata estranea a questa temperie culturale, particolarmente sotto il profilo politico. Su questo tema cfr. G. Cotroneo, La concezione dello Stato nel pensiero di Francesco Fiorentino, in Aa. Vv., Gli hegeliani di Napoli e la costruzione dello Stato unitario, cit., pp. 327-348. 11.  G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie III, in Id., Werke, cit., vol. XX, p. 165; tr. it. di E. Codignola e G. Sanna, Lezioni sulla storia della filosofia, La Nuova Italia, Firenze 1954, vol. III/2, p. 110. 12.  Ivi, p. 196; tr. it. cit., p. 143.

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Nell’alternativa tra assoluto e pensiero, Spinoza aveva afferrato saldamente con una mano l’assoluto, a patto di allentare la presa sul pensiero, che non risulta l’assolutamente negativo, bensì soltanto coscienza astratta – per adoperare la terminologia hegeliana. La Critica della ragione pura, per dir così, compie un gesto speculare ma opposto: tiene stretto il pensiero accettando di rinunciare all’assoluto. Soltanto grazie all’ambidestro Hegel sarà possibile tenere saldamente in pugno entrambi – l’assoluto e il pensiero. Su questa capacità hegeliana s’incentra la seconda sezione del saggio. Per dirla con le parole di Vera: mentre mal si comprende come l’assoluto e l’ente fenomenale possano separarsi, mal anche si comprende come possano congiungersi e conciliarsi.13

La “filosofia come sistema” è l’esigenza proclamata sin dall’ini­ zio da parte di Vera, onde evitare che l’intero edificio della scienza – in assenza dell’assoluto – rimanga sospeso nel vuoto14. Né si può dire che Kant a sua volta non ne avesse avuto tragica consapevolezza: basti pensare al titolo del primo paragrafo della Introduzione non pubblicata alla Critica del giudizio, che recita «Della filosofia come un sistema»15. Memore, evidentemente, della tremenda critica hegeliana al criticismo kantiano, così come si trova espressa nell’Enciclopedia16, Vera non appare certo tenero nei confronti del filosofo di Königsberg: «Ma accade nella scienza quel che accade nella vita. 13.  A. Vera, Problema dell’Assoluto, Parte IV [ci riferiamo all’impaginazione della presente edizione: La Fenomenologia dello Spirito di Hegel, d’ora in poi contrassegnata con supra], p. 50. 14. Cfr. supra, p. 51. 15.  Cfr. I. Kant, Prima introduzione alla Critica del giudizio, a cura di F. Valagussa, Mimesis, Milano 2012, p. 33. 16.  Cfr. G.W.F. Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften I, § 44, in Id., Werke, cit., vol. VIII, p. 121; tr. it. di V. Cicero, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Rusconi, Milano 2000, p. 163.

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Il primo passo dato in fallo si trae dietro una serie interminabile di errori, malanni e sventure»17. Come dire, seguendo alla lettera il dettato hegeliano: una volta presupposta la materia greggia all’inizio, il risultato dell’esperimento kantiano non avrebbe potuto essere altro se non la cosa in sé come caput mortuum18. «La ragione assoluta è il Deus absconditus»19, scrive Vera restando sulla falsariga della critica hegeliana. La cosa in sé è das völlige Abstraktum, il vuoto Aldilà, appunto, il Negativo che si ottiene facendo astrazione da ogni determinazione di coscienza. Agli occhi di Hegel, e dunque di Vera, il “completamente astratto” coincide esattamente con il prodotto del pensiero. Se da un lato Kant ha svelato il pensiero come l’assolutamente negativo (proprio ciò che manca in Spinoza), dall’altro lato questa stessa scoperta assume una tale forza nel pensiero kantiano da rendere necessario un allentamento della presa sull’assoluto, riducendolo a qualcosa di inconoscibile. Si risveglia in tal modo l’ironia di Vera: Kant ragiona, in fondo, come quell’astronomo, anch’egli un empirico, che diceva aver invano cercato Iddio in tutta la distesa de’ cieli. Per rinvenirlo fa d’uopo saper come cercarlo, e cercarlo ove può essere.20

“O l’assoluto o nulla”: non avendo trovato e qualificato e compreso l’assoluto, anzi avendolo lasciato nell’indeterminatezza della cosa in sé, l’intero lavoro kantiano dev’essere oltrepassato. Perciò Vera riprende la propria ricerca su Kant a partire da un’analisi dell’esperienza: il suo linguaggio figurato risul17.  Supra, p. 53. 18.  Caput mortuum è una “metafora alchemica”: il termine designa tecnicamente il residuo d’ossido di ferro che si forma dopo la fusione del solfato di ferro. 19.  Supra, p. 56. 20.  Supra, p. 57.

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ta particolarmente efficace quando s’immagina la natura che «viene […] a bussare alla porta della intelligenza»21, la quale trae fuori dal suo arsenale le categorie e le adopera per affibbiare un nome all’oggetto. Quindi l’esperienza è un battesimo in cui il neonato, l’obbietto esterno, riceve un nome.22

Rispetto alla vuotezza delle categorie – vecchia accusa rivolta al criticismo – «i noumeni sono ancor più vuoti delle categorie, poiché queste hanno almeno una certa applicazione obbiettiva nelle cose sensibili, mentre i noumeni sono un nulla fuori del subbietto che li pensa»23. Ponendo la questione nei termini del rapporto tra fenomeni e noumeno, restando alla filosofia di Kant, si è costretti ad ammettere che «non si sa come e perché questa relazione possa avvenire»24. Il fatto che la relazione avvenga «è un fatto»25 –

21.  Supra, p. 61. Sulla distinzione tra materia e forma operata da Kant e su come il tema avesse avuto risonanza nell’ambiente napoletano cfr. S. Gatti, Schelling e l’idealismo trascendente [1844], in Id., Scritti varii di filosofia e letteratura, vol. I, Stamperia Nazionale, Napoli 1861, pp. 99-134; ora in G. Oldrini (a cura di), Il primo hegelismo italiano, cit., pp. 167-198, in part. pp. 173 s. 22.  Supra, p. 61. 23.  Supra, p. 65. 24.  Supra, p. 67. In realtà si deve precisare che proprio qui dovrebbe partire un autentico confronto con Kant. La relazione tra fenomeno e noumeno, infatti, è tanto difficile da concepire – e con questo Vera crede di aver confutato il criticismo – proprio perché non vi è una relazione tra i due, bensì un’autentica identità, se restiamo alle parole dell’Opus postumum. Cfr. I. Kant, Opus postumum [XXII, 26], tr. it. di V. Mathieu, Laterza, Roma-Bari 2004, p. 285: «La cosa in sé non è un altro oggetto, bensì un’altra relazione della rappresentazione allo stesso oggetto, per pensare quest’ultimo non analiticamente, ma sinteticamente come il complesso delle rappresentazioni intuitive in quanto fenomeni». 25.  Supra, p. 67.

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scrive polemicamente Vera, intendendo dire “è soltanto un fatto, senza alcuna ragione”. Si potrebbe provocatoriamente precisare come in effetti, dal punto di vista kantiano, si tratti proprio e soltanto di un fatto, noto col nome di Faktum der Vernunft26. Questa «mente spezzata» tra fenomeno e noumeno, incapace di assolvere la propria attività unificatrice, appare a Vera una «mente folle», tanto da meritarsi l’accostamento allo scetticismo27, anzi, uno «scetticismo travestito»28 ben peggiore di quello già presente negli antichi. È curioso notare, tuttavia, come Hegel considerasse l’atteggiamento scettico come «il primo gradino verso la filosofia»29 e precisasse come lo scetticismo «non rimane estraneo ad alcuna filosofia»30. Ad esempio, la posizione scettica risulta essenziale per revocare in dubbio l’innatismo delle idee leibniziane, paragonato da Hegel a «un soggetto che nasce con un bel pacco di cambiali in testa, le quali sono riscuotibili in un mondo esistente all’esterno di quella testa»31 – posizione molto simile a quella che Vera attribuisce a Kant, per cui l’esperienza corrisponderebbe a una sorta di “battesimo degli oggetti estranei” da parte dell’intelligenza.

26.  A tale livello il confronto con Kant dev’essere considerato tutt’altro che concluso. 27.  Sullo scetticismo come contrassegno del pensiero kantiano aveva già ragionato S. Cusani, Della scienza assoluta, in «Museo di Letteratura e Filosofia», IV, 1842, pp. 110-126; ora in G. Oldrini (a cura di), Il primo hegelismo italiano, cit., pp. 138-151. 28.  Supra, p. 72. 29.  G.W.F. Hegel, Verhältnis des Skeptizismus zur Philosophie, in Id., Sämtliche Werke (Jubiläumsausgabe), a cura di H. Glockner, Frommann, Stuttgart 1927-1940, vol. I, p. 243; tr. it. Rapporto dello scetticismo con la filosofia, a cura di N. Merker, Laterza, Bari 1970, p. 92. 30.  Ivi, p. 245; tr. it. cit., p. 94. 31.  Ivi, p. 266; tr. it. cit., p. 116.

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2. Il doppio significato della Fenomenologia L’accusa di fondo rivolta a Kant – in relazione allo scetticismo – riguarda la contraddittorietà implicita nello statuto ontologico della cosa in sé. Proprio una delle conquiste più luminose della dialettica hegeliana, la setzende Reflexion, consente di sferrare il colpo decisivo alla concezione kantiana della Ding an sich: «se non si conosce il noumeno, come se ne può parlare?»32. Nella lettura di Vera, discepolo di Hegel, Kant spezza il nesso che lega fenomeno e noumeno, non rende ragione del loro rapporto e tuttavia si trova costretto a trattare il noumeno “da fenomeno”, almeno per un po’, dovendo comunque nominarlo e caratterizzarlo in qualche modo, appunto determinandolo come non-determinabile. Ora, la medesima obiezione potrebbe essere rivolta anche contro Hegel se, in riferimento alla prima triade della Scienza della logica, si volesse porre all’incirca questa domanda: «Essere, puro essere», ma quanto puro, dato che in realtà lo si sta ponendo-come-puro? Il problema concerne il rapporto di fondazione tra Fenomenologia dello spirito e Scienza della logica. La soluzione del Vera, a ben guardare, non si discosta molto da quella che era stata individuata dallo Spaventa: La prima finisce dove comincia la seconda; il primo della seconda, cioè della scienza, il primo che noi andiamo cercando, è il risultato della prima, cioè provato, e quindi mediato dalla prima. Al contrario nella seconda, di cui è il primo, esso è immediato, non provato come primo, ma provato e mediato soltanto come secondo. Adesso, esso è insieme, come primo nella scienza, mediato e immediato. E tale deve essere il primo scientifico.33

32.  Supra, p. 55. 33.  B. Spaventa, Schizzo di una storia della logica, in Id., Opere, a cura di F. Valagussa, Bompiani, Milano 2011, p. 667.

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Insomma, anche per Vera il primo della Scienza della logica non è immediato proprio perché mediato dall’intera Fenomenologia: qui si consuma tutta la differenza rispetto all’immediatezza che si rileva contraddittoriamente sia nella sostanza di Spinoza, sia nel noumeno kantiano. A suo modo, circa cinquant’anni più tardi, Kojève giungerà a conclusioni di fatto analoghe: «Il sistema spinoziano è la Logik di Hegel, senza che ci sia, né possa esserci una Fenomenologia dello Spirito che vi conduca; oppure è il sistema di Descartes, al quale non si possa accedere tramite un Discorso sul metodo»34. Vera compie un passo ulteriore, in realtà, indicando già come il nesso tra Fenomenologia e il sistema hegeliano della scienza debba essere inteso come un rapporto di fondazione reciproca, ove la Fenomenologia fonda la Scienza e la Scienza riassorbe in sé la Fenomenologia come parte di sé. Ciò può accadere unicamente a motivo del fatto che la Fenomenologia non è soltanto un viaggio di esplorazione e di scoperta35, bensì costituisce già un’esposizione e una dimostrazione sistematica della coscienza, oppure, per citare lo Haym, «la Fenomenologia è già il sistema intero»36. Vera coglie perfettamente questa sorta di paradossale e aporetica mise en abîme, dove la Fenomenologia dello spirito compare due volte nel pensiero hegeliano: una volta come itinerario sistematico della coscienza e una seconda volta «sotto altro sembiante […] rimpicciolita e rincantucciata in un angolo del sistema, nella sfera della coscienza subbiettiva»37.

34.  A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, a cura di G. Frigo, Adelphi, Milano 1996, p. 441. 35. Cfr. supra, p. 98. 36.  Ibidem. Si veda R. Haym, Hegel und seine Zeit, Gaertner, Berlin 1857, p. 254. 37.  Supra, p. 98.

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Certo, «la pittura presuppone il pittore»38, si potrebbe dire con Gentile, ma il pittore a sua volta viene assorbito dalla pittura, come accade in quel racconto cinese in cui, terminato di dipingere il quadro, il pittore apre una porticina nella tela ed entra nella propria opera39. La Fenomenologia finisce così per essere a un tempo il sistema intero eppure si ripresenta anche come immagine del sistema40: un doppio significato che mira dunque a un doppio scopo. Per un verso dimostrare che il mondo dei fenomeni non è casuale né frutto di mero arbitrio, bensì «manifesta e vive l’assoluta ragione»41. Per l’altro verso, tuttavia, il mondo dei fenomeni non contiene e non raggiunge la verità pura e assoluta: la dimostrazione inequivocabilmente è altro dal fenomeno e lo supera. Questi due differenti piani dispiegano già l’aporetica implicata dalla necessità di un sapere sistematico che identifichi il fenomenale e l’assoluto: da un lato tale identità comporta un «Ergründung des Vernünftiges»42, per usare una formula cara all’Hegel dei Lineamenti di filosofia del diritto, ossia un’attività che riesca a sondare il razionale sotteso all’intera manifestazione del mondo; questa stessa attività, dall’altro lato, comporta

38.  G. Gentile, Sistema di logica come teoria del conoscere, Le Lettere, Firenze 2003, vol. I, p. 148. 39.  La leggenda è riportata in W. Benjamin, Das Kunstwerk im Zeitalter ihrer Reproduzierbarkeit – Dritte Fassung, in Id., Gesammelte Schriften, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, Frankfurt am Main 1990, vol. I.2, p. 504; tr. it., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, a cura di F. Valagussa, Einaudi, Torino 2011, p. 34. 40. Cfr. supra, p. 103. 41.  Supra, p. 107. 42.  G.W.F. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts, in Id., Werke, cit., vol. VII, p. 22; tr. it. di V. Cicero, Lineamenti di filosofia del diritto, Rusconi, Milano 1998, p. 57.

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esattamente un carotaggio che oltrepassi la pura e semplice manifestatività, ossia la fenomenalità del mondo. Vera esprime la necessità di un tale oltrepassamento in una nota: «E quanti prima e dopo Galileo e Newton avranno osservato l’oscillar di una lampada, o la caduta di un pomo senza scorger però nel fenomeno altro che il fenomeno, e dedurne quelle conseguenze che la mente di Galileo e di Newton seppe discoprirvi»43. Ancor più semplicemente si potrebbe notare che l’«Offen­ barung der Tiefe»44 non è mai pura e semplice Offenbarung, né pura e semplice Tiefe: capire come la rivelazione si rapporti al profondo senza intaccare il suo essere pura “fenomenalità” e per converso come il profondo possa mantenersi tale pur affiorando a manifestazione costituisce quell’impresa grandiosa che risponde al nome di «fenomenia dello spirito»45.

3. Sì e no. Il pensiero speculativo Se è vero che Dio è tenuto inequivocabilmente a manifestarsi nel mondo, e dunque a costituirne la ragione fondamentale, è altrettanto vero che l’assoluto potrà apparire nel mondo soltanto come “logos fenomenico”: la manifestazione dell’assoluto non potrà mai risultare, per così dire, “assoluta”; l’assoluto potrà manifestarsi soltanto «come simbolo, immagine, rappre-

43.  Supra, p. 80, nota. L’argomentazione di Vera qui presenta forti analogie con S. Cusani, Della scienza assoluta, cit., pp. 144 s., dove si discute del rapporto tra fenomeni e deduzione delle leggi empiriche invariabili. 44.  Cfr. G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, in Id., Werke, cit., vol. III, p. 591; tr. it. di E. De Negri, Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, Firenze 199311, vol. II, p. 305: «rivelazione del profondo». 45.  Supra, p. 59.

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sentazione di se stesso»46. Dal punto di vista dell’intendimento astratto, e dunque persino del senso comune, alla questione “se lo spirito risulti davvero nella lettera” si tratta di rispondere in maniera dirimente: sì o no. Se la risposta fosse soltanto affermativa, non si capirebbe come potrebbero mai distanziarsi tra loro il fenomeno e l’assoluto, dunque l’osservazione del profano dall’indagine di Galilei e di Newton; se, al contrario, la risposta fosse soltanto negativa, ci troveremmo nel territorio della filosofia kantiana47, ove ha luogo una netta scissione tra fenomeno e noumeno. Caratteristica del pensiero concreto, speculativo e sistematico è la formulazione di una risposta capace di sottrarsi all’istanza dirimente e di presentarsi nella forma: sì e no48. “Sì e no” è la formula italiana che traduce l’espressione hegeliana sondern ebensosehr quale paradossale momento di raccordo tra sostanza e soggetto: «concepire ed esprimere il vero non come sostanza, bensì altrettanto bene come soggetto»49, questo è il nucleo dell’impresa che prende il nome di Fenomenologia dello spirito. In quelle pagine si dovrà dimostrare come il fenomenale non sia perfettamente coincidente con l’assoluto – cosa che darebbe luogo a una morta sostanza – e insieme come l’assoluto non sia totalmente altro dal fenomenale – cosa che darebbe luogo a un soggetto astratto. “Sì e no” è la contraddizione che alimenta lo speculativo: l’assoluto non può essere altro dal fenomenale, né può collimare

46.  Supra, p. 105. 47.  La posizione di Vera al riguardo si può desumere a partire dalla nota 4, supra, pp. 78-83. 48.  Stiamo seguendo il ragionamento esposto da Vera. Cfr. supra, pp. 105 s. 49.  G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., p. 23; tr. it. cit., vol. I, p. 13.

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perfettamente con il fenomenale; in tal senso si deve affermare un paradossale “sì e no” rispetto a cui ogni rappresentazione determinata e insieme ogni concezione astratta sconteranno tutta la propria inadeguatezza. Quando nella prefazione ai Lineamenti leggiamo che «tutto ciò che è razionale è reale, tutto ciò che è reale è razionale»50, la frase in cui ha luogo l’identificazione dei diversi non finisce per confondere i diversi tra loro. Posizione e significato di “Razionale” non arrivano mai al punto da risultare indistinguibili dalla posizione e dal significato di “Reale”. La distinzione dei termini rimane momento essenziale del movimento d’identificazione che ha luogo nella proposizione speculativa: la scissione determina la fonte e il bisogno della conciliazione51. D’altronde Reale e Razionale devono poi essere condotti nel movimento effettuale a convergere l’uno nell’altro. Qualcosa del genere viene colto e affermato anche da Vera: «le cose non sono, e non sono quel che sono che per un principio, una natura determinata e specifica, togliendo la quale, solo rimarrebbe una possibilità assolutamente indeterminata, il tutto in tutto, una miscela assoluta, il caos»52. Trovare la ragione sottesa alle cose significa identificare il movimento che tutte le compenetra senza con questo arrivare a mischiarle in un amalgama indefinito: qui ogni immagine sconta la propria costitutiva debolezza di fronte allo speculativo. Nella Prefazione alla Fenomenologia il vero viene descritto come «trionfo bacchico dove non c’è membro che non sia ebbro;

50.  G.W.F. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts, cit., p. 24; tr. it. cit., p. 59. 51. Cfr. G.W.F. Hegel, Differenz des Fichte’schen und Schelling’schen Systems der Philosophie, in Id., Werke, cit., vol. II, p. 20; tr. it. Differenza fra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling, in Id., Primi scritti critici, a cura di R. Bodei, Mursia, Milano 1971, p. 13: «la scissione è la fonte del bisogno di filosofia». 52.  Supra, p. 87.

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e poiché ogni membro mentre si isola altrettanto immediatamente si risolve – il trionfo è altrettanto la quiete trasparente e semplice»53. In questo passaggio Hegel prova a esemplificare la proposizione speculativa riconducendola a un’immagine, che naturalmente non risolve la questione sul piano logico, ma contribuisce a mostrare quel trapassare dalla sostanza al soggetto che si tratta di indagare passo passo lungo l’intero itinerario della Fenomenologia. Vani risultano, in generale, tutti i tentativi di sciogliere la questione appellandosi a questa o quella metafora. In effetti, si può dire a priori che nessuna figura sensibile sarà mai in grado di mostrare la concretezza del movimento concettuale. Ciò risulta esplicitamente anche dalla Prefazione: «la bellezza senza forza odia l’intelletto, perché questo le attribuisce dei compiti che essa non è in grado di assolvere»54. Dobbiamo occuparci, a questo proposito, di un paragone che torna incessantemente nelle pagine di Vera, quello di origine aristotelica che coinvolge il generale e l’esercito. In particolare, il rapporto che lega il comandante all’ordinamento dell’esercito viene inteso come analogo al nesso che dovrebbe sussiste tra l’assoluto e il fenomenale. Vera riprende un esempio noto, mediante cui Aristotele si sforzava di chiarire l’essenza del motore immobile: «il bene dell’esercito sta nell’ordine, ma il bene sta anche nel generale: anzi più in questi che non in quello, perché il generale non esiste in virtù dell’ordine, ma l’ordine in virtù del generale»55. Quella aristotelica, tuttavia, rimane soltanto un’esemplificazione, che in realtà non spiega affatto – per sé presa – in che cosa consista il motore immobile. 53.  G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., p. 46; tr. it. cit., vol. I, p. 38. 54.  Ivi, p. 36; tr. it. cit., vol. I, p. 26. 55. Aristotele, Metaph., Λ, 1075a 14-15; tr. it., Metafisica, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 20023, p. 579.

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Per cogliere la ragione di un utilizzo tanto assillante del paragone tra generale ed esercito, un frammento illuminante si può trovare proprio nella Prefazione alla Fenomenologia, ove Hegel discute la concezione aristotelica del fine della natura: «a quel modo che anche Aristotele determina la natura come l’operare conforme a un fine, essendo questo l’immediato, il quieto, l’immoto che è esso stesso motore; così tale immoto è Soggetto»56. Vera adopera il paragone generale/esercito per riportare alla mente del lettore il motore immobile aristotelico che Hegel chiama esplicitamente in causa per spiegare la nozione di soggetto.

4. L’assoluto come problema Per comprendere il rapporto sostanza-soggetto nella concezione del vero hegeliano, e insieme legittimare ancor più precisamente la presenza di Kant nel “problema dell’assoluto”, si potrebbe far ricorso a una formula presente nel Proemio ai Principi di etica di Bertando Spaventa: «Spinoza rappresenta l’eterna soluzione senza problema; Kant l’eterno problema senza soluzione. L’unità di Spinoza e Kant è Hegel»57. Come tutte le formulazioni che pretendono di racchiudere secoli di pensiero in poche righe, la frase porge il fianco a una fila di confutazioni e rivela già a una prima indagine tutta una serie di unilateralità: ciononostante, consente di delineare con chiarezza il problema del superamento di una morta sostanza (soluzione eterna senza problema) e di un astratto soggetto (eterno problema senza soluzione).

56.  G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., p. 26; tr. it. cit., vol. I, p. 17. 57.  B. Spaventa, Principi di etica, in Id., Opere, cit., p. 591.

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Né Vera riteneva di aver risolto il rapporto tra l’assoluto e il fenomenale avendo semplicemente distinto tra la dimensione attiva dell’assoluto e la dimensione passiva dell’ente fenomenale, di modo che da un lato vi sarebbe l’ente che dimostra e dall’altro lato l’ente dimostrato58. Che cos’è il Soggetto hegeliano? Se ritorniamo sulla citazione relativa al “motore” aristotelico, possiamo trovare alcune indicazioni: «il quieto, l’immoto – scrive Hegel – che è esso stesso motore; così tale immoto è il Soggetto»59. E prosegue scrivendo che «la sua forza a muovere, presa in astratto, è l’esser-per-sé o la pura negatività»60: esattamente quella “pura negatività”, quella “negatività assoluta”, quel “fuoco” che mancava al pensiero spinoziano. Il problema dell’assoluto concerne proprio la conciliazione tra l’assoluto e il fenomenale – eterno problema che è eterna soluzione, come direbbe Spaventa – e può essere riformulato nei termini seguenti: come l’assoluto è nel mondo fenomenale, e come, essendovi, può esser l’assoluto? 61

L’assoluto, a un tempo, è e non è nell’ente fenomenale – tale la soluzione cui Vera è spinto dalla ferrea coerenza del ragionamento hegeliano. Tutti i raffronti tentati in precedenza qui s’infrangono: «Il bene di Platone è superiore alle essenze – aveva scritto Vera per paragonarlo all’assoluto hegeliano –, ed impartisce non solo alle singole cose, ma alle essenze stesse l’essere

58. Cfr. supra, pp. 108 s. Proprio tale distinzione, infatti, contribuisce a mantenere separati il fenomenale e l’assoluto. 59.  G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., p. 26; tr. it. cit., vol. I, p. 17. 60.  Ibidem. 61.  Supra, p. 93.

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e la verità»62. Per quanto immanente alle cose, tuttavia questo “Bene” platonico è proprio ciò attorno a cui non si può produrre il discorso: Socrate si sdebita pagando gli interessi, senza pagare il capitale; ci parla del Figlio, ma non ci parla del Padre63. Questo basta di per sé a chiarire la distanza rispetto a Hegel. Lo stesso dicasi per il motore primo di Aristotele64: l’assoluto hegeliano non è certo il generale rispetto all’ordinamento dell’esercito; assomiglia più all’ordine complessivo vigente nell’esercito, di cui anche il generale – assieme ad ogni singolo soldato semplice – è pur sempre parte. La “soluzione” hegeliana è colta pienamente da Vera nelle seguenti parole: «Quando pensiamo Dio come creatore, lo pensiamo come un ente che si divide da sé, si differenzia, e si differenzia apparendo nella creazione; in altra parola, Dio, nel creare e in quanto crea, è un ente fenomenale»65. Il Geist hegeliano è un assoluto che si risolve a creare, un Inizio che risulta direttamente iniziante66 – che esclude nel modo più assoluto di rimanere Indeterminato: a differenza di quanto accade con Socrate nella Repubblica platonica, Hegel paga il suo debito, tutto e subito; il Padre viene totalmente ri(con)dotto al Figlio. Nei termini di Augusto Vera: L’assoluto è, e non è ad un tempo nell’ente fenomenale, o, secondo l’usata espressione, nel mondo. Il suo esser nel mondo è l’atto mediante il quale egli crea e conserva il mondo.67

62.  Supra, p. 90. 63.  Cfr. Platone, Resp., VI, 506a-507a; tr. it. di F. Sartori, Repubblica, a cura di M. Vegetti, Bari 20013, pp. 437-439. 64. Cfr. supra, p. 90. 65.  Supra, p. 89; corsivo nostro. 66.  Sulla radicalità di questa decisione hegeliana si veda M. Cacciari, Dell’I­ nizio, Adelphi, Milano 20012, p. 102. 67.  Supra, p. 93.

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Volendo forzare un po’ i termini in direzione “novecentesca”, si potrebbe dire che l’esser-nel-mondo è “l’esserci dell’assoluto”, ossia il modo di manifestazione dell’assoluto, la peculiare modalità in cui l’assoluto “ci” è. Questo però è soltanto il primo corno dell’argomentazione di Vera: Il suo non esser nel mondo – ecco il secondo corno – è l’atto negativo del mondo, l’atto mediante il quale egli nega il mondo, e il mondo da sé creato, e nel quale egli è, appunto perché da sé creato, e quindi, negando il mondo, nega se stesso, e negando in tal guisa se stesso s’afferma nella pienezza e verità della sua assoluta esistenza.68

Qui troviamo il sunto di ciò che nella Scienza della logica prenderà il nome di parvenza, quel movimento da negativo a negativo, rispetto al quale – appunto – «non c’è un altro»69, ma solo la riflessione che non coincide con la parvenza immediata, e che nel toglimento della parvenza giunge a porre quella stessa parvenza come determinata. La riflessione ponente è esattamente il luogo in cui l’assoluto non è e al tempo stesso è fenomenale: non è fenomenale in quanto non coincide con la parvenza, ma è fenomenale in quanto toglie la parvenza e la pone come essente determinato e in quel movimento ponente accade l’intero, l’assoluto: non c’è un altro. Questo luogo, che è la parvenza o riflessione, viene perfettamente identificato da Vera come punto nevralgico del rapporto tra assoluto e fenomenale. Tale movimento viene espresso mediante la dicotomia sostanza-soggetto all’interno di quel «nuovo astro luminoso»70 sorto nei primi anni dell’Ottocento e che risponde al nome di Fenomenologia dello spirito.

68.  Supra, p. 93. 69.  G.W.F. Hegel, WdL, vol. II, p. 26; tr. it. cit., vol. II, p. 446. 70.  Supra, pp. 94-95.

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Il sistema viene definito da Vera una metamorfosi71, in quanto serie di momenti diversi tutti generati da uno stesso principio – che però in questa serie trova la propria perfetta manifestazione. Già nelle prime righe della prima parte del testo di Vera sull’assoluto, il problema dell’unità dell’essere e del conoscere compare in questi termini: onde l’assoluto stesso pone e scioglie eternamente questo problema. Dico pone e scioglie perocché l’assoluto non è l’assoluto solo sciogliendolo, ma ponendolo pur anche. E nel porre e sciogliere ad un tempo questo problema sta la sua assolutezza, la sua vita eterna, la sua eterna verità.72

Il problema viene eternamente sciolto ed eternamente posto dal momento che da un lato si deve presupporre l’unità del principio trasformatore e dall’altro il trapassare dei vari momenti nel successivo73: ponendo che A costituisca un momento del divenire, tale momento è destinato ad annullarsi, a negarsi in quanto tale, e a passare in B. Ora, «relativamente a B, A è il falso, e che appunto per annullare questo lato falso dell’esistenza passa in B»74. Sul piano della Fenomenologia dello spirito, Vera schematizza in queste frasi il soggiornare del pensiero presso il negativo e la conversione nell’essere75; al contempo sul piano della Scienza della logica queste mede-

71. Cfr. supra, p. 117. Cfr. S. Cusani, Della scienza assoluta, cit., p. 149: «Il lavoro della fenomenologia per contrario non istà che nel presentare la serie delle trasformazioni che l’anima percorre, perché dalla coscienza empirica essa arrivi alla scienza vera e assoluta». 72.  A. Vera, Problema dell’Assoluto, Parte I, Stamperia della Regia Università, Napoli 1872, p. 2. 73.  Seguiamo l’argomentazione che si trova supra, pp. 119 ss. 74.  Supra, p. 122. 75.  Cfr. G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., p. 36; tr. it. cit., vol. I, p. 26.

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sime proposizioni riprendono e riassumono il movimento della riflessione ponente. Si deve sottolineare, tuttavia, che considerare A come falso, sebbene alla luce di B, contrasta con l’esplicito dettato hegeliano: «C’è un falso, quanto poco c’è un cattivo. Falso e cattivo non son mica perfidi come il diavolo»76. In generale il falso sarebbe soltanto “il negativo della sostanza”: la sostanza, tuttavia, è già il negativo. Secondo quanto afferma Hegel “sapere falsamente” significa affermare la diseguaglianza tra il sapere e la sostanza. Tale diseguaglianza, nondimeno, è esattamente la distinzione, che è momento dinamico essenziale al processo. Augusto Vera riformula il problema paragonando il passaggio che conduce dalla coscienza sensibile all’intendimento a quello che accade quando si trasforma un pezzo di marmo in statua. «Perché esistono prima l’uno come marmo, e l’altra come coscienza sensibile?»77. Il marmo è ancora tale nella statua, o si è trasformato interamente in statua? E a maggior ragione, se la coscienza sensibile si è interamente trasformata in intendimento, in che cosa consiste effettivamente la sua trasformazione e come spiegarla78? La risposta di Vera trova così il modo di riconciliarsi con il pensiero hegeliano: Ma codesta è appunto una obbiezione del pensiero fenomenico e rappresentativo, del pensiero, cioè, che non pensa l’uni­tà sistematica.79

In che modo A risiede in B dopo essere trapassata in B? Vi risiede come A o altrimenti? Qui è di nuovo la forma del pensiero speculativo a intervenire rispondendo: «vi è come A e al-

76.  Ivi, p. 40; tr. it. cit., vol. I, p. 31. 77.  Supra, p. 123. 78. Cfr. ibidem. 79.  Ibidem.

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trimenti ad un tempo»80. “Sì e no”, risponde il pensiero nel suo atteggiamento speculativo, mantenendo esattamente quell’ambivalenza che consente di affermare «superare l’immediato è l’imbattersi in esso»81, nel senso che lo speculativo è in grado di scorgere l’unità che lega l’immediato e il mediato, i quali non sono – in se stessi – lo stesso, ma diventano il medesimo nel movimento effettuale. Lo speculativo è la visione del trapassare, mentre la concezione astratta tiene semplicemente fermi i due termini e li isola l’uno dall’altro. Tale identificazione non è dunque quiete, bensì lavoro continuo: «è così che nella coscienza di sé incomincia il rapporto infinito del subbietto e dell’obbietto, però che il vero infinito è l’unità di se stesso e delle sue differenze»82. Se l’unità fosse soltanto identità sostanziale ci troveremmo ancora in Spinoza, se l’identificazione fosse sì atto di pensiero, ma del tutto incapace di condurre a unità se stessa e il molteplice, ci troveremmo ancora nel criticismo kantiano.

5. Lotta e lavoro nella Fenomenologia La conciliazione della frattura sussistente tra essere e pensiero – tra fenomenale e assoluto – ha luogo come produzione, come lotta e più in generale come lavoro da parte della “forma coscienziale” che di volta in volta opera e si rende efficace. «L’adorazione, quale qui avviene, è l’attività conciliatrice dell’intelligenza, e, a dir così, teoretica, il lavoro è l’attività conciliatrice della volontà, o pratica»83. È chiaro come l’intera attenzione si concentri, anche da parte di Vera, sul lavoro, inteso come 80.  Supra, p. 124. 81.  G.W.F. Hegel, WdL, vol. VI, pp. 27 s.; tr. it. cit., vol. II, p. 447. 82.  Supra, p. 133. 83.  Supra, pp. 144-145.

249 attività volitiva che fa passare e, come a dire, trasfonde l’immutabile nel mutabile, e questo in quello, e la loro unione è ciò che chiamasi prodotto del lavoro, onde la coscienza di sé trova nel lavoro la sua guarigione e il suo godimento.84

Vera sta citando alla lettera l’argomento hegeliano: «Sebbene la ricchezza sia il passivo o il nullo, essa è nondimeno universale essenza spirituale; è il risultato, che incessantemente diviene, del lavoro e del fare di tutti, che poi si risolve a sua volta nel godimento di tutti»85. Questo lavoro e questa lotta devono essere collocati, tuttavia, su un piano ben più vasto, qualora si segua il saggio di Augusto Vera sulla filosofia della religione in Hegel, ove si parla dell’«incessante ed eterno bisogno che prova lo spirito di conciliare la ragione e l’esperienza, il pensiero e la storia, bisogno che si manifesta a tutti i gradi dell’esistenza, in tutti gli oggetti su cui si esercitano l’intelligenza e l’attività umana, nella religione altrettanto che nell’arte, nella scienza e nella politica»86. Dalla certezza sensibile sino alla religione noi restiamo nell’ambito di questa lotta e di questo lavoro: «la religione può definirsi la sfera dell’assoluto in quanto assoluta rappresentazione»87. La religione si fissa come orizzonte ultimo della manifestazione e dunque anche della fenomenalità che appartiene alla lotta e al lavoro. Oltre questo limite della religione, il pensiero trapassa in filosofia, in quel sapere assoluto che, sottraendosi alla

84.  Supra, pp. 145-146. 85.  G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., p. 368; tr. it. cit., vol. II, p. 52. 86.  A. Vera, Philosophie de la religion de Hegel [1848], in Mélanges philosophiques, Ladrange-Detken, De Angelis, Madia, Paris-Napoli 1862, p. 198. Ora tradotto con il titolo Saggio sulla filosofia della religione di Hegel, in Aa. Vv., Il primo hegelismo italiano, cit., p. 251. 87.  Supra, p. 109.

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“fenomenia”, si costituisce come spirito che presiede all’intero movimento. «Sapere il proprio limite vuol dire sapersi sacrificare»88, si legge nell’ultima pagina della Fenomenologia. Il fenomenale – che appunto è tale, cioè appare, sino alla religione – scorge il proprio limite e si sacrifica nell’assoluto che non appare. L’assoluto, per contro, scorge il proprio limite e si sacrifica manifestandosi, apparendo come “fenomenia dello spirito”. In una parola, il sapere si fa creazione, ma Hegel legge tale identificarsi dell’assoluto con il fenomenale nell’ottica di un sacrificio, cosa certamente assente nella visione di Goethe: ecco il cortocircuito che si consuma in esergo.

88.  G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., p. 570; tr. it. cit., vol. II, p. 304.

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Dove ha presa il pensiero Vera e Spaventa all’ombra di Hegel Giulio Goria

«[…] senza riconoscere nessun luogo come un luogo mio, e incontrando solo ombre, ombre di ombre, refaim». G. Mozzi, La felicità terrena

I È difficile negare che l’impegno più continuo di un interprete come Augusto Vera, così prossimo negli anni all’autore su cui più si è esercitato, sia stato apprendere e riproporre, quasi con testarda pervicacia, la veste che in quell’autore la filosofia ha assunto. La caratura essenzialmente mondana, e dunque politica della filosofia hegeliana si coglie nell’istruzione che Hegel stesso impartisce nella Prefazione ai Lineamenti di filosofia del diritto: dare posizione (Stellung) alla filosofia nella realtà. In realtà nel compito della filosofia di apprendere nel concetto ciò che è presente e reale risiede l’esigenza di uno sguardo doppio, strabico; si dà il caso che tale strabismo abbia un nome proprio nel vocabolario hegeliano, perché in esso si tratta di comprendere il midollo speculativo della proposizione anzidetta; si tratta in breve di leggerla due volte: vano infatti sarebbe collocare la filosofia nel mondo senza ri-posizionare il mondo in pensieri. Che sulla porta di ingresso della filosofia hegeliana vi siano accento e ritmo della proposizione speculativa lo lasciamo però dire a Vera stesso, al Vera che introduce la filosofia hegeliana della religione:

252 Bisognerà dunque introdurre un cambiamento nella forma del pensiero perché l’oggetto si offra all’intelletto quale è in sé e nella sua realtà intima. Ora questa forma non potrebbe restare indifferente ed estranea all’oggetto, ma bisogna che ci sia tra essa e l’oggetto una connessione tale che quest’ultimo non possa manifestarsi al pensiero se non in grazia di questa forma, e che questa forma sia a sua volta un elemento integrante dell’oggetto stesso.1

Sono parole, queste, che testimoniano quanto l’apprendimento di ciò che è presente e reale sia dialetticamente esposto nell’esercizio del pensiero; né prima né oltre ciò che afferra l’apprendimento, quale che esso sia, è dunque lontanamente immaginabile. A sentire questo commento poi va rilevato che Vera è ben lontano dall’incomprensione occorsa in più d’uno dei commentatori successivi; e cioè, non vedere che è la possibilità della riflessione esterna, proprio quella contro cui la dialettica hegeliana si scaglia, il tipo di apprendimento che sconta l’accusa di acconciarsi semplicemente alla realtà, e non invece, come è stato sostenuto, il cosiddetto prussianesimo del filosofo di Stoccarda. Accusa, quest’ultima, sorda in primo luogo all’intendimento della hegeliana Fenomenologia dello spirito, di poter ricercare il vero non prima né altrove rispetto a quelle figure di mondo che sono le essenzialità etiche, potenze che hanno propria effettività (eigentliche Wircklichkeit); vale a dire, con il linguaggio appesantito memore dello speculativo della proposizione, potenze che sono, nel proprio essere, il proprio concetto soltanto in quanto conservano nel movimento dall’essere al concetto la negazione e la verità, in uno, di ciò che l’essere era. E allora proprio in relazione all’unità che il mondo etico rappresenta – e al saper-si di questa unità – l’affermazione di Vera 1.  A. Vera, Saggio sulla filosofia della religione, in G. Oldrini (a cura di), Il primo hegelismo italiano, Vallecchi, Firenze 1969, p. 264.

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per cui la filosofia «deve porsi nel seno della realtà, penetrarla […] col suo pensiero»2 testimonia di un esercizio del pensiero che è doppio: filosofo non è colui che si limita a uscire dalla caverna, mirando l’origine della luce, ma colui che vi ridiscende, armato della forza per sopportare la vichiana “feccia di Romolo” senza ordine e senso sul registro solare del sapere. Mondana è la filosofia perché essenzialmente volta a riscattare l’ombra del significato – il nulla – serbandola come tale nella luce dell’essente, del supremo per-sé essente. Nel commentare, Vera non si esime dal presentare il riferimento a Platone, ma subito lo riduce rilevando che in realtà quanto detto assume in Hegel il connotato storico della religione cristiana.

II In Vera è presente l’affermazione che il pensiero hegeliano, e la sua filosofia della storia in particolare, non solo sia la più imponente conciliazione tra ethos greco e cristianesimo, ma che tale conciliazione vada situata sull’asse che trova in Agostino il suo precursore. Non che questo suoni granché nuovo, né si vuole fare le lodi di un giudizio che intuì “per primo” ciò che, dopo Vera, sarà detto in maniera più solida e ricca. Più rilevante sembra invece porre l’accento su come Vera faccia sorgere con Hegel il problema della religione. Scrive: Quando infatti si afferma che il cristianesimo è la religione assoluta, […] occorre muovere da una ricerca anteriore, dalla conoscenza dell’uomo e del mondo, della loro natura e delle loro leggi; e solo in seguito a tale conoscenza si potrà giudicare del valore delle istituzioni religiose del cristianesimo e del grado della loro verità.3

2.  Ivi, p. 269. 3.  Ivi, p. 258.

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La critica alla filosofia cristiana della storia – qui esplicitamente diretta a Bossuet – coinvolge un punto fondamentale, ben oltre il diretto riferimento critico: ad essere chiamato in causa è quel pensiero che fa cadere un «principio vero e filosofico» – cioè che la provvidenza regoli il corso eterno delle nazioni – sulla materia delle storie che corrono in tempo, senza che tale riflessione si assuma la fatica di mostrare il sorgere e l’operare latente della «ragione finale» nel mondo oggettivo, nel mondo dell’ethos e del paganesimo. Manca dunque quel lavoro scientifico della filosofia di porsi nel seno della realtà; compito arduo, quello del pensiero che vanta il suo abito assolutamente mondano. Esso richiede, in buona sostanza, lo sforzo di conferire alla verità di ciò che è non una semplice definizione più o meno bene congegnata, non un astratto universale, ma l’esperienza e l’apprendimento di ciò che il suo essere era, non più essendolo. Altrimenti, l’effetto che ne sortirà sarà quello di una conoscenza concettuale che ha semplicemente ripulito la realtà dai suoi accidenti per mettere in piena luce un principio che, dunque, sarebbe già stato presente prima della sua scoperta. Continua Vera: Perché la filosofia della religione sia possibile bisogna che si applichi a un oggetto reale, e un tale oggetto non può esistere che in quanto la religione abbia un’origine razionale e legittima.4

Quale sia questo oggetto reale è presto detto. La lotta, via via più ardua e intensa, che raggiunge il suo culmine nella lacerazione dell’uomo con sé, con la propria ombra, con i suoi diversi volti di naturalità, dolore, voracità, materia, insignificanza, sino a che essa, nella prospettiva di far fiorire nel per-sé ciò che sin dall’inizio era in-sé, si rivela infine sostanza della soggettività. Più che uomo: Dio; per arrivare a questo, però, dovrà negare

4.  Ivi, p. 261.

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la sua individualità umana. «Gli animali – scrive Vera – hanno in comune con l’uomo la sensazione e il sentimento, ma non pensano»5. Va posta attenzione sul senso dell’espressione per non equivocare il senso di questo “pensare”. Ora infatti non si tratta di astrazione, o di astrarre alcunché. La connotazione che bisogna cercare in questo verbo indica invece la scoperta che l’essere vivente fa di sé, un ritrovarsi che si incontra solo nell’occasione in cui egli si divide dal suo mondo naturale, vi si separa portandosi via qualcosa di cui ha bisogno. Questa perenne ferita allo spirito non viene da fuori (von außen), scriveva Hegel nell’Enciclopedia: non v’è nessun ingresso nel mondo da fuori, come alcunché di esterno, come una necessità cieca imposta da una colpa prima; la scissione è l’origine reale dello spirito, e lo spirito è la forza infinita capace di conservarsi in questa lacerazione6. Nella religione questa lacerazione, il dolore che essa è, giunge alla sua intensità massima, poiché per l’individuo si tratta di lottare contro la sua stessa individualità – cioè, il suo essere vivo – in ragione di un contenuto infinito. Giustamente Vera commenta: «Ora la legittimità della religione, come la legittimità di ogni conoscenza e di ogni verità, riposa sul pensiero, vale a dire, qui, sul pensiero di Dio»7. La lotta non è più tra l’uomo e le cose del mondo che egli elabora, né tra il lavoratore e la formalità della sfera giuridica; no, la lotta è interiore e al tempo stesso esteriore: la lotta tra l’oggetto infinito e la soggettività finita. L’io stesso altro non è che questa lotta; proprio nelle Lezioni sulla filosofia della religione Hegel scrive: «Io sono la relazione di questi due aspetti; questi due estremi, ciascuno “io” stesso, sono ciò che relaziona [das

5.  Ibidem. 6.  Cfr. G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, a cura di V. Verra, vol. III, Filosofia dello spirito, a cura di A. Bosi, UTET, Torino 2000, § 382. 7.  A. Vera, Saggio sulla filosofia della religione, cit., p. 261.

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Beziehende]; e il tenere insieme, il relazionare, è questo stesso rapporto che lotta nell’uno e che si unifica nella lotta»8. Ora, la conquista di tale contenuto “divino” sarà l’universale concreto, l’universale realmente concepito: il Dio in sé e per sé, a spese della morte dell’uomo in quanto vivente. E qui risiede il problema di Vera con Hegel: perché tutto dipende dal mostrare l’esito della Grundoperation hegeliana, per cui il senso dell’aufheben inizia a spostarsi. Prima indica il sollevare l’oggetto reale, il dolore, dalla sua condizione immediata e naturale per renderlo dimensione propriamente umana nel pianto, poi da qui giunge sino all’accento per cui l’oggettivazione del dolore significa la sua assimilazione e assunzione nel sapere. Nella natura da cui l’uomo si è scisso, come nella più dolorosa rinuncia, sta la possibilità di divenire autocoscienza del contenuto infinito – ebbene: solo dopo questa scissione è possibile ritrovare nel seno di questa “natura” il volto di Dio. Solo nell’unità del saper-si, cioè nel concetto – nel sapersi del concetto che è l’idea –, Dio si rivela anche più profondo, altro dal suo stesso sapere. Soltanto nell’unità di quest’ultimo essere per-sé è possibile considerare l’affermazione della ragione ultima e divina della storia come il coerente risultato della ragione più rigorosa. E dunque, non c’è nessuna retorica, né tanto meno consolazione, nell’affermazione di Vera per cui la legittimità della religione come di ogni verità riposa sul pensiero di Dio. Si può solo precisare: rivendicando Dio al sapere, l’accettazione del mondo, e con esso del negativo e del dolore nelle più dure espressioni, non sente bisogno di condanna alcuna né di approvazione.

8.  G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Religion, hrsg. von W. Jäschke, Meiner, Hamburg 19933, Teil I, p. 121; tr. it., Lezioni di filosofia della religione, a cura di R. Garaventa e S. Achella, vol. I, Guida, Napoli 2008, p. 172 (tr. mod.).

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III Merito di Vera è senza dubbio aver penetrato la considerazione filosofica della religione riconoscendo ampiezza e profondità della relazione in cui si mantiene l’unità dell’idea. Su questa unità ora va posta l’attenzione. Nelle parole di Vera dell’Introduzione alla Logica di Hegel, questa relazione prende le fattezze della circolarità hegeliana che caratterizza il rapporto reale-ideale. Da ciò si nota che questi termini non si combinano e non si trasformano fintanto che non si limitano od oppongono e che è proprio opponendosi e trasformandosi che si completano e passano dallo stato astratto allo stato concreto […]. E così ogni sistema è un circolo in cui l’inizio continua nel centro e il centro continua nella fine, in cui la fine è la fine dell’inizio e l’inizio è l’inizio della fine e in cui in ogni punto si ritrovano come concentrati e trasformati tutti i punti precedenti e come indicati e accennati tutti i punti che seguono.9

L’immagine del circolo nel cui centro i termini estremi, inizio e fine, si mediano potrebbe essere semplice concessione a una figura tipicamente hegeliana. Senonché, dopo poche pagine, dovendo spiegare il concetto di centro, Vera fa uso di quei termini – religione, individuo e Stato – presenti nello stesso testo hegeliano10. Si tratta ben più di un semplice esempio: se i due estremi del sillogismo – la religione e l’individuale, cioè la passione – sono “centri”, il medio – lo Stato – è “centro assoluto”, a indicarne appunto la natura di medio; quest’ultimo è il solo propriamente concreto, poiché in esso vengono conciliate volontà oggettiva e volontà soggettiva, universale e individuale. L’attenzione va posta, però, non meno sulla denominazione 9.  A. Vera, Introduzione alla logica di Hegel, a cura di M. Moschini, tr. it. di S. Di Marco, Effe, San Sisto 2004, p. 61. 10.  Cfr. G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, a cura di G. Calogero e C. Fatta, La Nuova Italia, Firenze 1967, vol. I, pp. 115 ss.

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degli estremi “astratti” del sillogismo: centri anch’essi, a voler indicare che ad essere astratta, in ultimo, è la rappresentazione del sillogismo che fa dello Stato l’unico medio, perché ogni momento o “termine” contiene in sé l’intera relazione. La religione stessa, l’estremo in sé sostanziale, è già di per sé autocoscienza, spirito e, in quanto spirito, comunità; non meno l’individuale, le passioni degli individui sono le determinazioni effettuali dell’essenza. Se l’esemplificazione portata da Vera è più che mai pertinente, ancora più opportuno è il riferimento alla circolarità del rapporto tra concetto – o per sé – e realtà – o in sé. Sono i termini, questi, che si trovano nella lotta che occupa l’idea pratica della Scienza della logica; contrasto – ricordiamolo – che segna in quel luogo l’accesso all’Idea assoluta e, con il suo “puro stare a vedere”, l’avvento dell’Aufhebung del “giudizio”11. Nell’idea pratica il contrasto sorge nell’essere il per sé, il concetto-scopo, rivolto negativamente nei confronti del negativo esser-altro; negare, necare la realtà esteriore presupposta, la realtà in cui ci troviamo a nascere e crescere, ha il senso ora di affermare al concetto anche la sua realtà esteriore. Dove sta però la finità in cui cade anche la forma di questa relazione? Nel fatto che la soggettività dell’idea pratica, la volontà, ora scorge nel termine opposto solo il lato nullo; ciò significa che, nel momento in cui la negazione del negativo è l’affermazione del positivo (l’attuazione del bene per sé nella realtà esteriore), quest’ultimo cade esso stesso nell’esteriorità del negativo; il bene attuato altro non è se non un ulteriore in sé da negare. Questa cattiva infinità non è dovuta all’insuperabile inadeguatezza del bene rispetto alla realtà, ma al punto di vista (Standpunkt) da cui tale realtà esteriore viene considerata; una posizione che risulta ancora incapace di adeguarsi al modo con cui l’attuazione del bene coincide con la realtà 11.  Cfr. G.W.F. Hegel, Scienza della logica, tr. it. di A. Moni, riv. da C. Cesa, Laterza, Roma-Bari 1981, vol. II, p. 932.

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che si rivela conforme agli scopi. Il passo ulteriore è cambiare la posizione dello sguardo sul mondo; piegare in circolo la linearità della cattiva infinità per poter vedere nell’esteriore non la presupposizione della scorza accidentale del reale, ma la reale posizione dello scopo, la realtà operante del concetto. Vera comprese questa natura propria della ragione hegeliana. Ragione che si mostra e dimostra solo operando, e che nel dirsi non cade a mero contenuto poiché la sua prassi altro non è che l’essere il dirsi del suo detto, la sua verità non è che essere l’altro del proprio altro in quanto altro. Dove non solo l’altro è altro, ma insieme è il proprio altro, ciò in cui soltanto può dispiegare, e senza alcuna costrizione, la propria attività. Solo a questo livello di comprensione è possibile affermare con Vera «quanto di più eccellente vi è nell’uomo, esso è anche quanto di più eccellente vi è in Dio»12; espressione che intende tradurre la nota affermazione hegeliana: «Dio, in quanto Dio vivente e ancor più spirito assoluto, lo si conosce soltanto nel suo operare»13. Ciò che però ora va rilevato sta nel fatto che per Vera la natura propria della ragione-prassi, lo speculativo di essa, è espresso nella forma del sillogismo. Cerchiamo di togliere subito la banalità di questa affermazione. In Vera c’è la comprensione che la forma della proposizione non è adatta ad esprimere lo speculativo del metodo assoluto; l’intento dell’interprete allora è – si capisce – quello di dar conto della forma sillogistica hegeliana in cui la copula del giudizio è portata a pensiero, e cioè dove la ragione pensante è portata a proprio contenuto, conservando però lo statuto di forma assoluta, come ciò che relaziona in sé e origina14. Così si spiegano i titoli 12.  A. Vera, Introduzione alla logica di Hegel, cit., p. 96. 13.  G.W.F. Hegel, Scienza della logica, cit., vol. II, p. 803. 14.  Con le parole di Hegel nella sezione Del concetto in generale: «il concetto è ragion d’essere e fonte d’ogni finita determinatezza e molteplicità» (ivi, p. 666).

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degli ultimi tre capitoli dell’Introduzione di Vera: La logica è la scienza della forma assoluta, La logica ha un contenuto assoluto e La logica, la natura e lo spirito. Su quest’ultimo capitolo poniamo ora l’attenzione. Una premessa: il saggio di Vera che stiamo discutendo introduceva la traduzione della Logica della “Piccola Enciclopedia”, come egli chiamava l’Enciclopedia del 1817; la scelta del testo per la traduzione però non impedisce l’interprete di prodursi in concreti riferimenti alla Scienza della logica. «La Grande Logica – scrive infatti nell’Avvertenza – è la vera Logica e solo in essa si può cogliere tutto il pensiero hegeliano»15. Questa ampiezza di sguardo di Vera consente di dire che l’ultimo capitolo del saggio che tematizza la relazione sillogistica tra Logica, Natura e Spirito si riferisce ai tre sillogismi finali dell’Enciclopedia. Vera inizia con l’affermare che il primo rapporto di passaggio della Logica, prima alla Natura e poi nell’estremo opposto allo Spirito, non toglie che tutti i termini siano “idea”, tali cioè che tutti condividono insieme l’essere estremi e medio16. Dove la ragione però di questa idealità di tutti i membri? – dov’è che si toglie la presupposizione che tutti e tre i termini siano pensiero, siano “entro l’idea”, come scrive Hegel? Nel secondo sillogismo, in cui il vero medio diviene lo Spirito, che ora è sapere soltanto come conoscere, rinchiuso nella propria sfera soggettiva. Il terzo sillogismo mostra invece l’oggettività della ragione, di una ragione che conosce se stessa tanto nel polo

15.  A. Vera, Introduzione alla logica di Hegel, cit., p. 5. 16.  Per quanto riguarda questo snodo particolarmente problematico della filosofia hegeliana possiamo qui solo rimandare a due, peraltro con interpretazioni talvolta in contrasto, tra i molti studi in merito: T. Geraets, Lo spirito assoluto come apertura del sistema hegeliano, a cura di A. Martorelli, Bibliopolis, Napoli 1984, pp. 72 ss.; e il classico M. Theunissen, Hegels Lehre vom absoluten Geist als theologisch-politischer Traktat, W. de Gruyter, Berlin 1970, pp. 308-310.

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soggettivo quanto in quello oggettivo. Non è un caso che alla forma di questo sillogismo – che deve recitare: Spirito-LogicaNatura – accada, e ciò tanto nella spiegazione di Hegel quanto nel commento di Vera, che la logicità non sia più nominata come “Logica”, ma “ragione che sa se stessa” in Hegel e semplicemente “pensiero” in Vera, il quale però aggiunge: «Il pensiero non è soltanto questo principio di profondità dal quale scaturisce ogni conoscenza, ma costituisce la più alta essenza e il punto culminante dell’esistenza»17. Cosa ne risulta? Avevamo visto che l’affermazione della ragione divina operante nella storia si fonda sulla rivendicazione di Dio al sapere. Ora, la costituzione della forma più alta dell’essere per sé è l’unità di un sapere sé che esiste assolutamente per sé e che dunque si invera come compiutamente libero rispetto a qualsiasi forma di esser-altro. Non perché non si dia alterità o esteriorità, bensì perché l’altro è interamente appropriato al divenire se stesso del Sé. Libertà è questo: esser presso di sé nell’altro da sé, l’Amore infinito è nel seno del dolore infinito. L’attestazione di Vera, che si traduce nella predilezione per la forma sillogistica, offre questa lettura, offre questa lettura, che è quella che Hegel esplicitamente ha perseguito.

IV Se è questa l’interpretazione condotta da Vera, con Spaventa c’è la possibilità di individuare una comprensione del sistema hegeliano tale da illuminare il punto in cui emerge la condizione preliminare, l’assunzione determinante e forzosa all’origine di quella così profonda relazione in cui l’idea che sa se stessa si mantiene. Con che legittimità parliamo, però, a proposito di questa relazione, di un atto di forza fissato in essa nella ve17.  A. Vera, Introduzione alla logica di Hegel, cit., p. 95.

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ste di presupposto, di condizione pre-posta? Soprattutto con che diritto ne parliamo in quanto lettori di Spaventa interprete hegeliano? Se apriamo il testo del 1865 dal titolo Fenomenologia – e in gran parte dedicato all’opera omonima hegeliana –, leggiamo il seguente titolo al paragrafo 21: «L’irrequieta Gewalt della Coscienza»; e di seguito, la netta affermazione: «Così la coscienza pollisce da se stessa questa forza [Gewalt] di turbarsi la soddisfazione limitata»18. È chiaro che l’affermazione abbia ad oggetto l’operazione a cui è sottoposta la coscienza nella suddetta opera hegeliana. Operazione che descrive il movimento del pensiero, mostrando che in ogni momento del suo processo ciò che esso sa di sé – il suo “per-sé” – si spiega solo in base a ciò che esso di sé non sa ancora – il suo “in-sé” –, ma che saprà nel momento successivo, a cui di necessità il suo insé lo spinge. La «forza» evocata da Spaventa allora esprime sì, da un lato, la violenza che la coscienza subisce, la scissione a cui è sottoposta in ogni sua figura, ma dall’altro indica la forza di necessità con cui il pensiero è condotto a riconoscere l’altro da sé – l’essere – come il suo, il proprio altro. E infatti la Fenomenologia dello spirito questo mostra, che l’altro dal pensiero – l’essere – si rivela all’interno del pensiero stesso; l’altro dal pensiero coincide con l’altro del pensiero, esprimendo un essere, un in-sé che nulla impedisce di portare a pensiero. Di questo movimento Spaventa comprende l’aspetto essenziale, che è la vera difficoltà non tanto dell’esito, ma innanzitutto della costruzione della Fenomenologia. Infatti, il soggetto può farsi oggettivo solo nella misura in cui, fin dall’inizio, ritrova una determinata figura soggettiva nell’oggetto; e dunque, facendosi oggettivo, cioè empirico, mondo e storia, si risolve compiutamente in questo movimento di riconoscimento. I 18.  B. Spaventa, Fenomenologia, in Id., Scritti inediti e rari (1840-1880), a cura di D. D’Orsi, CEDAM, Padova 1966, p. 136.

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due movimenti ora detti – dall’io al non-io e dal profondo alla superficie – sono in realtà un solo dispiegarsi, sono uno nello sguardo che sa cogliere l’oggettività inconsciamente soggettiva dell’inizio con l’oggettivantesi soggettività della meta19. Questa doppiezza è connaturata a quel puro stare a vedere (reines Zusehen) che nella Fenomenologia dello spirito è insieme, da un lato, motore dell’intero percorso fenomenologico e dall’altro figura che richiede, come tutte le altre, la propria dimostrazione20. Lo sguardo puro che attraversa tutte le figure della coscienza è anch’esso una figura del sapere, la suprema, quella che permette di conoscere tutte le figure del sapere perché conosce perfettamente se stessa. Hegel sta mettendo in pratica quella circolarità che porterà a principio nella Scienza della logica: «L’andare innanzi è un tornare al fondamento, al vero e all’originario»21. Circolarità che Vera riconosceva nell’Hegel maturo e che Spaventa vede chiaramente operare già nella Fenomenologia dello spirito. Leggiamo direttamente le sue parole: In questo divenire il sapere (Io) si avvicina sempre più all’oggetto, piglia contenuto; l’oggetto si avvicina sempre più all’Io, s’inia, s’idealizza (non so come dire), s’informa. Il risultato di questo doppio movimento (che è no solo) è la Verità. Perché

19.  In merito si veda V. Vitiello, Hegel in Italia. Itinerari. I - Dalla storia alla logica. II - Tra Logica e Fenomenologia, II ed. riveduta e ampliata, Inschibboleth Edizioni, Roma 2018, pp. 88 ss. 20.  G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, 2 voll., tr. it. a cura E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze 1973, vol. I, p. 75. In merito al modo in cui la coscienza viene a tema nell’Introduzione alla Fenomenologia si vedano: K. Cramer, Bemerkungen zu Hegels Begriff vom Bewußtsein in der Einleitung der Phänomenologie des Geistes, in U. Guzzoni - B. Rang - L. Siep (Hrsg.), Der Idealismus und seine Gegenwart, Meiner, Hamburg 1976, pp. 75-100; W. Jaeschke, La experiencia de la conciencia, in F. Duque (ed.), Hegel. La Odisea de lo Espíritu, Círculo de Bellas Artes, Madrid 2010, pp. 35-52. 21.  G.W.F. Hegel, Scienza della logica, cit., vol. I, p. 56.

264 l’unità dei due sia qualcosa di speculativo, è necessario che i due siano prima differenti; altrimenti l’unità sarà vuota.22

La verità è il risultato? Non solo; precisiamo Spaventa con Spaventa, questa volta quello degli Studii sopra la filosofia di Hegel: «Il vero filosofico non è il particolare, né l’universale, ma il movimento dello spirito da questo a quello». Le citazioni in merito potrebbero moltiplicarsi. Ciò significa che questa circolarità mette capo a quell’unità suprema che già avevamo indicato essere l’unità di un saper-si, un sapere che conosce perfettamente se stesso poiché il suo contenuto non è propriamente un contenuto, una “materia” del conoscere, ma la forma stessa del sapere: il concetto che sa se stesso come concetto. Detto questo per chiarire il livello di comprensione del problema da parte di Spaventa, torniamo alla nostra affermazione iniziale: perché sino ad ora, infatti, di quella Gewalt interna alla coscienza abbiamo solo dato ragione del suo significato conciliativo, risolutivo. V’è però un altro e precedente “momento” della forza della coscienza, ed è questa la violenza che sorpassa l’immediato, la violenza della riflessione che nega e separa, e negando distingue e divide. Hegel mai dimenticherà di tessere l’elogio di questo momento, e insieme con l’elogio la sua limitazione; ma esso nella Fenomenologia dello spirito assume un senso peculiare, che risiede nell’abbandono da parte della coscienza di tutta la sua sostanza, o se si vuole nello svuotamento del suo corpo e della sua carne per recuperare il sapere, la forza di tutto riconquistare. Le parole del giovane Spaventa in merito riprendono esplicitamente l’originale della Vorrede della Fenomenologia hegeliana: Ma ciò che è semplicemente accidentale, ciò che è legato ad un altro e non è reale che nella connessione con esso, separato dal suo cerchio guadagni un’esistenza propria del pensie-

22.  B. Spaventa, Fenomenologia, cit., p. 117.

265 ro, del puro io; è questa la potenza prodigiosa del negativo, cioè l’energia del pensiero, del puro io. Nulla via ha che sia più potente e terribile della morte, se vogliamo così chiamar quest’essere separato dalla esistenza del tutto e senza realtà […]. Ma la vita dello spirito non consiste, come quella della bellezza, nell’aborrire la morte e fare ogni sforzo per mantenersi pura dall’alito micidiale, che la distrugge, ma nel sopportarla e conservarsi più forte nella rovina e nel vuoto. Lo spirito non acquista la sua verità che ritrovando se stesso nella distruzione assoluta […]. Il fermarsi nel negativo è la forza d’incanto, la quale lo converte nell’essere.23

Dal commento si comprende che l’innalzamento della forza separante dell’intelletto, della forza che nega, è l’elogio indiretto della potenza che unifica, della vita che sacrifica l’io e la riflessione, per ritornare a possedersi nel mondo. Non è richiesto altro che lasciar essere “la vita dell’oggetto” e portarla a espressione. L’Assoluto sta, e deve stare, presso di noi. E allora l’epifania di questa presenza non è né qualcosa che venga dalle “cose”, né tanto meno una nostra soggettiva costruzione: è la nostra esperienza della verità della cosa. Con un esempio: seppellire il fratello defunto è un atto di pietà alla portata di ciascuno; però mettere con esso in gioco le Leggi della comunità e andare incontro alla morte con certezza, negandosi a qualsiasi compromesso, è un’azione tragica di portata assoluta.

V Resta da compiere ancora un passaggio, che d’altra parte risulta non meno obbligato dal momento che in queste pagine abbiamo messo a confronto due linee interpretative diverse. Il compito è questo: comprendere quali prese di posizioni, con-

23.  B. Spaventa, Studii sopra la filosofia di Hegel, a cura di E.A. Colombo, CUSL, Padova 2001, p. 48.

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dizioni e – perché no? – presupposizioni non possono non essere indagate e comprese nel sistema hegeliano. Perché non si tratta affatto di scoprire qualcosa che sia sfuggito all’autore per opporvisi e rifiutarlo; questo certo no, ma dispiegare il testo sì, rilevarne cioè la profonda stratificazione. E per questo compito le opere di Vera e Spaventa sono strade da seguire con attenzione. Abbiamo fatto un certo itinerario per delimitare di necessità le nostre pretese riguardo al coinvolgimento di questo sistema. A tema è stato portata tanto da Vera quanto da Spaventa la profondità della relazione ideale che permette a Hegel di fissare il movimento dialettico sul circolo reale-ideale, sostanza-soggetto, Primo-Ultimo. Dove starebbe però la condizione prima su cui la circolarità dialettica hegeliana si esprime come un avere potenza in un estendersi comprensivo su ciò che è24? Dove risiede il radicale atto di forza esercitato da Hegel? E non potrebbe riferirsi a questa radice il senso più profondo di quella Gewalt da cui, con Spaventa, abbiamo iniziato? Prendiamo in considerazione il saggio di Spaventa dal titolo Il concetto dell’opposizione e lo spinozismo; a tema ritorna prepotentemente la relazione essenziale, e con essa il riferimento esplicito alle determinazioni della riflessione tematizzate nella Dottrina dell’essenza nella Scienza della logica. Torna giacché già in Logica e Metafisica, nella sezione dedicata all’Essenza, l’oggetto è il medesimo, ma se la natura di quest’opera – almeno nella sezione seconda – è quella di un commento alla Logica hegeliana, il saggio breve che consideriamo risulta più libero. Le pagine hegeliane in questione mostrano che lì è pensata la forma di quell’unità che consente in ultimo l’unità del concetto come suprema forma della libertà. Cosa vi è contenuto? 24.  L’espressione riprende quella usata da M. Theunissen, Begriff und Realität. Hegels Aufhebung des metaphysischen Wahrheitsbegriffs, in A. Schwan (Hrsg.), Denken im Schatten des Nihilismus, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1975, pp. 190 s.

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Il pensiero di questa relazione consiste nel portare la forma, assunta dalla determinatezza del significato nel principio di identità-opposizione, sino alla forma contraddittoria, per poi risolverla nell’unità negativa che, poiché saputa e appresa, tiene in sé e regge le determinazioni finite, cioè contraddicentisi. La forma della differenza ora tematizzata, quindi, non è la semplice opposizione tra due positivi per sé sussistenti, non quella «dell’altro in generale»25, bensì quella de «l’altro necessario», necessità per cui «ciascuno dei due termini differisce in sé – si differenzia, egli, per sé – dall’altro» di modo che l’un termine (che non è l’altro) non è senza l’altro, e l’altro (che non è l’opposto) non è senza l’opposto. Questa la forma contraddittoria che la determinatezza assume in queste pagine; ma, chiediamo, da dove Hegel, e con lui Spaventa, parte per giungere a ciò? Proprio dalla determinatezza del positivo significare, determinatezza che, in quanto astrattamente concepita, viene anzitutto persa per poi essere recuperata nella sua forma assoluta, e cioè sciolta dalla esteriorità di un altro che soltanto le si oppone. Concentriamoci soltanto su ciò che avviene a partire da questa perdita. Questo momento è la diversità. Essa è l’indifferenza rispetto alla propria stessa determinatezza; «la loro differenza è il loro isolamento e quindi la indifferenza dell’una verso l’altra», ma non solo: i termini non soltanto risultano indifferenti l’uno rispetto all’altro, ma ancora più rispetto a sé, al proprio essere diversi, alla propria determinatezza di diversi. Giustamente Spaventa commenta: «solo in quanto si connettono tra loro, le cose formano un mondo». Egli intende così che quello di indifferenza ora analizzato è uno statuto ontologico piuttosto strano, tale che, non potendosi ridurre né all’identità né alla differenza, intende sottrarsi a ciò che, fin dal Sofista platoni25.  B. Spaventa, Il concetto dell’opposizione e lo spinozismo, in Id., Opere, a cura di F. Valagussa, Bompiani, Milano 2009, p. 429.

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co, consente di conferire senso e pensabilità a ciascuna cosa. Questo elemento, attraverso cui ogni comunicabilità è possibile, è proprio l’essere in relazione come differente rispetto a ciò che è differente e come identico a ciò che è identico. Solo che Spaventa non si limita a questo, giacché aggiunge, proprio riferendosi al necessario comportamento dei diversi: «l’unica loro connessione è la sconnessione». In altre parole, a risultare impossibile è che nell’indifferenza: ciò che è impossibile, ciò che in alcun modo si dà, è che nell’indifferenza il per-sé dell’identità venga semplicemente lasciato cadere dalla considerazione, che esso venga semplicemente abbandonato. Questo ciò che non può accadere in alcun modo. Dove rileviamo questa necessità? Proprio nel fatto che l’indifferenza sia convertita in un determinato modo della sconnessione, diventando dunque una sconnessione determinatamente connessa. Si coglie qui che ad avere precedenza e prerogativa è la presa in carico da parte della differenza sull’indifferente differire. Il punto di fondo sta proprio in questa mossa, giacché laddove si sia fatto questo passo dialettico, che la dialettica impone – passo che sta nell’aver attratto, preso in carico l’indifferenza a partire dal per sé del determinato, dal saper-si dell’identità che deve scovare la radice del suo “in quanto” –, facendo questo passo, che è passo richiesto dal pensiero, già si ha esercitato potenza. Quella forza in base a cui si fa valere l’identità proprio là dove si è mostrata possibile una sua “sospensione”. Naturalmente, ed è qui che si decidono i giochi per Hegel come per Spaventa, tutto sta nel non poter affatto parlare di una estrinseca, meccanica “applicazione” di un regime logico, che così scadrebbe in formalità; non c’è nessuna applicazione, né quindi possibilità di alcuna destituzione dell’identità concreta, di quella forma che sorge dal mutarsi in opposizione degli astrattamente diversi. Davanti a questa affermazione, Spaventa certamente non arretrò; più che l’esito, però, poté il suo argomentare. Mediante quello ci affacciamo infatti sullo spazio

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di gioco disegnato tra la differenza indifferente e indifferenza determinata, tra l’irrompere della riflessione esterna e il suo determinato operare: scorgiamo la radice di quella forza che la coscienza attua e che Spaventa – certo non più, ma neppure meno di Hegel – scorse.

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Due divergenti letture della Fenomenologia dello spirito: Augusto Vera e Bertrando Spaventa Vincenzo Vitiello

το γαρ αυτο νοειν εστιν τε και ειναι.1 τι αληϑες ειναι χωρις αποδειξεως.2 αποδειξεως γαρ αρχη ουκ αποδειξις εστιν.3

In limine Mettere a confronto le interpretazioni della Fenomenologia dello spirito dei due maggiori hegelisti italiani dell’Ottocento è utile come ad approfondire la conoscenza storico-­critica delle radici dell’idealismo italiano otto-novecentesco, così alla migliore comprensione dei problemi che il testo di Hegel solleva. Cosa che non si può certo fare con i più noti hegeliani del Novecento, Croce e Gentile, avendo il primo mostrato sempre totale indifferenza per la Fenomenologia hegeliana – le poche osservazioni che ha riservato a quest’opera, tra le più alte espressioni della filosofia e pur della letteratura occidentale, non vanno al di là di mots d’esprit sans esprit4 –, e il se1. Parmenide, Perì physeos, Fr. 3. 2. Aristotele, Met., IV, 4, 1006a 27-28. 3.  Ivi, 1011a 13. 4.  Cfr. B. Croce, Noterelle di critica hegeliana, in Id., Saggio sullo Hegel, Laterza, Bari 19484, pp. 174 s., e ancora: Ciò che è vivo e ciò che è morto della

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condo avendole dedicato poche pagine di un saggio, Il metodo dell’immanenza, nel quale rivela soltanto la sua radicale incomprensione del problema e quindi del procedimento della Fenomenologia5 – tema, peraltro, esposto sin nel sottotitolo dell’opera: Scienza dell’esperienza della coscienza. Strano per un filosofo che nell’intero suo Denkweg si travagliò sul problema del rapporto tra pensiero pensante e pensiero pensato. Ma, invero, la lettura delle pagine di Croce e di Gentile su Hegel, le occasionali e pur quelle specificamente dedicate al filosofo tedesco, desta stupore, e più ancora che per la lacunosa cono-

filosofia di Hegel, ivi, p. 74, ove si legge: «è nota la disputa sul posto che la Fenomenologia ha nel sistema: disputa priva di senso». Il capitolo, in cui si legge questo drastico giudizio, il V, dedicato a La metamorfosi degli errori in concetti particolari e gradi della verità, contiene anche questo aureo consiglio: «Chi prenda tra mano la Logica di Hegel col proposito d’intenderne il nesso, e, anzitutto, la ragione del cominciamento, dovrà, dopo un po’, deporre quel libro, disperato d’intendere, o persuaso che si trova innanzi a un ammasso di astrattezze senza significato. Ma chi, come il cane di Rabelais, “bestia filosofa”, invece di lasciare stare l’osso, lo addenti or di qua or di là, lo stritoli, lo sminuzzi e lo succhi, si ciberà alfine del sostanziale midollo» (ivi, p. 78). 5.  Ne testimonia questo passaggio: «Il processo dialettico della fenomenologia […] non è un processo dentro la verità, ma un processo alla verità: la quale non è concepita perciò come identica al pensiero: ma soprannuotante ad esso [seguono “scolastici” confronti con Platone e Aristotele che vogliamo qui risparmiare al lettore]» (G. Gentile, Il metodo dell’immanenza, in Id., La riforma della dialettica hegeliana, Sansoni, Firenze 19543, pp. 196-232: p. 227). Cfr. la ben più profonda e articolata lettura di M. Heidegger, Hegels Begriff der Erfahrung, in Id., Holzwege, Klostermann, Frankfurt a.M. 19725, pp. 105-192; tr. it. di P. Chiodi, Il concetto hegeliano di esperienza, in M. Heidegger, Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 103190. Ma già Karl Rosenkranz, nel suo Hegels Leben, (Duncker & Humblot, Berlin 1844, p. 203; tr. it. con testo tedesco a fronte, Vita di Hegel, a cura di R. Bodei, Bompiani, Milano 20132, pp. 488-489) aveva ben chiaro che il percorso fenomenologico è «una libera esposizione dell’Assoluto [id est: della Verità] nella sua unità con l’autocoscienza».

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scenza dei testi, per l’assenza di un autentico rapporto “speculativo” con l’Autore, al quale pure si richiamavano come al loro Altvater. Basti qui richiamare le pagine sul sillogismo della Logica crociana, persino irritanti per la superficialità con cui il problema viene liquidato6, e l’assenza in Gentile di qualsiasi riferimento alla Wesenslehre, e in particolare alla “riflessione” – e si tratta di temi fondamentali della filosofia, e non solo di quella hegeliana7. Talora vien fatto di chiedersi se Gentile sia mai andato al di là della lettura delle prime categorie della Scienza della logica! Più modesti, e insieme più interessati a entrare in un rapporto vero con questo grande pensiero che in qualche modo riassume in sé l’intera tradizione filosofica occidentale, Vera e Spaventa non esitarono a Hegel buchstabieren – per usare la bella espressione di Gadamer8. Dalle loro interpretazioni, certo tra loro distanti per sensibilità storico-critica e per orientamento teoretico, possiamo ancora apprendere qualcosa su Hegel e non solo su Hegel.

6.  Cfr. B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, Laterza, Bari 19477, sez. II, cap. II, spec. pp. 77-94. Riuscì a far di peggio Carlo Antoni (La dialettica di Hegel, in Id., Considerazioni su Hegel e su Marx, Ricciardi, Napoli 1946, pp. 1-20), portando ad esempio dell’astrattezza intellettualistica della logica hegeliana proprio la teoria del sillogismo, nella quale Hegel rovescia come un guanto il formalismo logico: non a caso alla quarta forma del sillogismo (il sillogismo teleologico) è riservata un’intera Sezione della Begriffslehre: La Oggettività (sul tema cfr. V. Vitiello, Hegel in Italia. Itinerari. I - Dalla storia alla logica. II - Tra Logica e Fenomenologia, II ed. riveduta e ampliata, Inschibboleth Edizioni, Roma 2018, pp. 77-113, in particolare pp. 104 ss.). 7.  Cfr. sul tema C. Sini, Teoria e pratica del foglio-mondo, in Id., Opere, vol. III, tomo II, Il foglio-mondo, Jaca Book, Milano 2013, pp. 67-142. 8.  Cfr. H.-G. Gadamer, Hegels Dialektik. Fünf hermeneutische Studien, J. C. B. Mohr (P. Siebek), Tübingen 1971, p. 6.

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I 1. Cominciamo con Augusto Vera9. Al centro della sua analisi, e non solo del pensiero hegeliano, è il concetto di Sistema, secondo il quale non si dà verità se non nell’ordine unitario del Tutto. Chiaro che questa verità è ontologica e non meramente gnoseologica, dacché in essa si manifesta l’essere stesso del Tutto nei suoi molteplici livelli o stadi. Di qui la critica a Kant, reo d’aver diviso quant’è originariamente unito: il pensiero dall’essere, e cioè la categoria dal fatto, l’intelletto dai sensi, infine la ragione dall’intelletto. La critica di Vera ripete, nell’essenziale, la critica che Hegel muove a Kant all’inizio dell’Introduzione della Fenomenologia dello spirito; ma la mira dell’interprete è mossa da altro e più ampio intento che non quello della sola interpretazione di Hegel: in Kant egli critica il teorico del pensiero scientifico moderno, ovvero del positivismo. L’esito scettico della filosofia kantiana della conoscenza, e pur della morale, si presenta come la prova provata che non si dà verità nelle scienze particolari, che muovono dal presupposto della scissione del pensare dall’essere (cfr. capp. XIX-XXI). Si dà conoscenza vera soltanto nell’ordine sistematico del Tutto ove essere e pensiero, pensiero ed essere sono unum et idem. Non a caso l’opera che per Vera rappresenta l’apogeo della filosofia hegeliana è l’Enciclopedia (cfr. cap. XXII, p. 62, nota 15). Ma che significa che pensiero ed essere sono uno e medesimo? Che cosa dice il parmenideo to gar auto noein estin te kai einai, che s’è citato in esergo? Che l’autó uni-fica, e cioè rende uno, pensiero ed essere, o non piuttosto che è il terzo nel quale e per il quale i due si relazionano? Detto più semplicemente: nell’unità dell’autó la differenza tra pensiero ed essere è negata o conservata? 9.  Il libro di riferimento è: A. Vera, Problema dell’Assoluto, Parte IV, A. Morano-Dekten e Rocholl, Napoli 1882. Nelle citazioni indicherò la pagina direttamente nel testo.

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Vera respinge l’alternativa: nel sistema di Hegel – osserva – la differenza è negata e insieme conservata. Non è la semplice ripetizione dell’Aufhebung hegeliana. V’è dell’altro che va messo in giusto rilievo. Scrive Vera: «l’assoluto è nel mondo fenomenale, ma vi è ponendolo e negandolo ad un tempo. […] Ed in siffatta guisa è immanente nel mondo». Quindi esemplifica: «Dio non è immanente nelle cose in esse, a dir così, disperdendosi e secoloro immedesimandosi, ma in esse manifestandosi e ad un tempo negandole» (p. 74; corsivo mio). Il lettore della Vorrede della Phänomenologie non può non ricordare l’opposta affermazione hegeliana sulla forza (Kraft) e la profondità (Tiefe) dello spirito che è tanto più grande e profonda quanto maggiormente osa dispiegarsi (aus-legen) e pur perdersi (sich verlieren) nel mondo10. Vera ha qui toccato il punto forse più problematico del concetto di Sistema – di quello di Hegel, ma non solo di quello. Negazione e conservazione si dispongono a diversi livelli. Pensiero è essere: l’essere si manifesta nel pensiero – e vale anche la reciproca: il pensiero si manifesta nell’essere, o meglio: essendo –; ma il principio dell’unità non si manifesta nella manifestazione, è altro e superiore. Facile dire che non c’è né in natura né in cielo né nello spirito, o in qualsiasi altro luogo si voglia immaginare, mediazione senza immediatezza e immediatezza senza mediazione11, resta il fatto che nella correlazione universale del sistema, e cioè nell’eteromediazione di ciascun termine con gli altri, l’atto del mediare è immediato, non avendo altro, a sé esterno, con cui mediarsi.

10. Cfr. G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes [= PhäG], Meiner, Hamburg 19526, p. 15; tr. it. di E. De Negri, Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, Firenze 19632, vol. II, p. 8. Nelle citazioni indicherò la pagina direttamente nel testo. 11. Cfr. G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik [= WL], in Id., Werke in zwanzig Bänden [= W], Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1969 ss., 5, I, p. 66; tr. it. di A. Moni, riv. da C. Cesa, Scienza della logica, 2 voll., Laterza, Bari 19682, vol. I, p. 52. Nelle citazioni indicherò la pagina direttamente nel testo.

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E ove si affermi – come Hegel afferma – che l’atto del mediare non abbisogna d’altro, dacché, nel mediare l’altro da sé, si media con sé medesimo, essendo l’automediazione coattuale ad ogni eteromediazione, sorge la domanda: come dar ragione di questa differenza di mediazioni – l’etero-mediazione, o mediazione per altro, e la auto-mediazione, o mediazione per sé? Che Hegel si sia scontrato con questo problema non esige dimostrazione; è sufficiente richiamare alla memoria i tre sillogismi finali dell’Enciclopedia12, ove Hegel compie il massimo sforzo per ricondurre la pratica del pensiero al pensiero, giungendo a rivoluzionare lo stesso ordine del Sistema. Ma il terzo sillogismo – il sillogismo dei sillogismi, nel quale ciascun termine funge volta a volta da estremo maggiore, medio ed estremo minore (cfr. § 577) – nonché fornire la soluzione del problema reduplica l’aporia. Infatti, se il Sistema – ora rappresentato dal circolo dei sillogismi – contiene in sé la sua dimostrazione come la ruotante totalità dei sillogismi, allora la dimostrazione, identificandosi col Sistema, è pura immediatezza, quiete perfecta, già da sempre compiuta, quale che sia la sua forma volta a volta cangiante: intuizione, quindi, e non dimostrazione; se, per contro, la dimostrazione è sempre solo uno dei sillogismi in cui prende figura il circolo dei sillogismi, allora essa è parte del Sistema e non la totalità di esso – e pertanto non la dimostrazione fonda il Sistema, ma questo quella, com’è proprio del tutto rispetto alla parte. In breve: αποδείξεως γαρ αρχή εκ απόδειξίς εστιν – il principio della dimostrazione non è dimostrazione. Si deve allora concludere che, come per Aristotele, così per Hegel, τι αληϑές είναι χωρίς αποδείξεως – che c’è verità anche separatamente dalla dimostrazione? Una tale posizione non avvicina sin troppo Hegel a Schelling, annullando il duro, continuo lavoro del concetto (Anstrengung 12.  Cfr. G.W.F. Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, W, 8-10, III, §§ 574-577, pp. 393 s.

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des Begriffs: PhäG, p. 48; it., I, p. 48) nell’immediatezza di una intuizione rivelatrice che sopraggiunge come «un colpo di pistola»? (PhäG, p. 26; it., I, p. 22). 2. Vera cerca di limitare i danni con l’attribuire alla sola Fenomenologia il limite di non avere in sé il principio di se medesima, della sua hodós. «La Fenomenologia – scrive – è […] essenzialmente un sistema, però subordinato, un sistema, cioè, che non rinchiude in sé la ragione del suo essere, e che quindi non può dimostrare se stesso» (p. 75). Ragione che è invece compresa nel Sistema compiuto dell’Enciclopedia. Già si è detto ch’egli considerava quest’opera la vetta della filosofia hegeliana; aggiungiamo adesso che questa vetta è raggiunta prima della pianura. Il Sistema compiuto era già presente prima dell’elaborazione della Fenomenologia, perciò questa non si spiega senza quello. Va detto che Vera aveva anche più ragione di quanto non potesse sapere. Conosceva, certo, i primi scritti di Hegel pubblicati a Jena nel «Giornale critico della filosofia», la Differenz e Glauben und Wissen; e altresì i corsi jenensi di Logica e Metafisica – almeno attraverso la mediazione di Rosenkranz. Non poteva però conoscere quel “frammento” scoperto tra le carte hegeliane nel 1913 e solo nel 1917 edito da Franz Rosenzweig col titolo Das älteste Systemprogramm des deutschen Idealismus, risalente al 1796 o 1797, di cui ancora si disputa sull’attribuzione – se a Hegel o a Schelling, o non piuttosto al lavoro collettivo di Hegel, Schelling e Hölderlin13 –; ma mi è difficile pensare a Hegel, ancorché giovanissimo, nel ruolo di amanuense, ché sulla scrittura del “frammento” non v’ha dubbio alcuno: è di pugno hegeliano. Qui mi fermo, per non addentrarmi in un tema che mi porterebbe troppo lontano;

13. Cfr. Die Mythologie der Vernunft, hrsg. v. C. Jamme u. H. Schneider, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1984.

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ma basta il titolo di quel giovanile scritto, per dar ragione alla tesi di Vera che l’“idea” di Sistema è alla base di tutta l’ope­ ra di Hegel, sin dall’inizio. A non voler poi citare gli studi novecenteschi sulla “struttura logica” della Fenomenologia, che mostrano l’operare già nel libro del 1807 delle categorie che verranno solo in seguito elaborate nella Scienza della logica14. Vera ha ragioni da vendere nel non abbassare il tempo della filosofia a quello cronologico; c’è però da spiegare – mettendo ora da parte il chalepón sopra rilevato nell’idea stessa di Sistema – come e perché la Fenomenologia “entro” il Sistema, che significa anche: perché e come la Fenomenologia “dopo” il Sistema: e qui ovviamente si fa riferimento non a quel “troncone” dello Spirito soggettivo che nell’Enciclopedia segue all’Antropologia e precede la Psicologia, bensì all’opera pubblicata nel 1807. Dunque: perché e come? La prima risposta di Vera è data dal concetto stesso di Sistema. Se in Hegel il Sistema è l’ordine relazionale del Tutto, è ben evidente che nulla può esser fuori di esso. Ne discende che nel Sistema – che in quanto Tutto è, e non può non essere, eterno – il dato empirico, il contingente, soggetto al sorgere e tramontare propri del tempo, e cioè: il fenomeno, non può non essere nell’eterno. Se così non fosse, il Sistema riprodurrebbe le aporie del fenomenismo kantiano. Ma come è nell’eter­no il “fenomeno”? Come sua manifestazione – s’è già detto. Eterno e tempo non sono divisi, son uno. L’eterno hegeliano non è quiete ma attività, movimento incessante sempre in possesso di sé; nel linguaggio di Aristotele: enérgheia, essere in opera (en érgo), entelécheia, ciò che si possiede nel fine (en télei échei); nel linguaggio di Hegel, che a quello di Aristotele si rifà: l’eterno è movimento che si raccoglie nel risultato, ovvero: Ultimo

14.  Cfr. l’analitico studio di J. Heinrichs, Die Logik der Phänomenologie des Geistes, Bouvier Grundmann, Bonn 1974.

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che è Primo, il vero Primo. Ma così dicendo non si rischia di ridurre l’eterno al tempo? Il Kreis von Kreisen, il circolo dei circoli raffigurante l’Idea assoluta (cfr. WL, II, pp. 571 ss.; it., II, pp. 955 ss.), la cui trattazione chiude la Scienza della logica, garantisce la saldezza del Sistema, o non finisce, piuttosto, col metterla in crisi? Hegel oscilla palesemente tra posizioni opposte. Nella Fenomenologia doppio è lo Standpunkt, quello interno al processo della coscienza che s’innalza al sapere assoluto, e l’altro esterno, prospettato sin nella Einleitung dell’opera: das reine Zusehen, il «puro stare a vedere», che osserva la hodós della coscienza, dell’autocoscienza, della ragione nelle sue diverse modalità e attività, dello spirito etico e religioso, e infine “assoluto” – senza ad essa parteciparvi, per non falsarla15. Puro sguardo senza occhio, senza prospettiva, perché dice, meglio: è quello che accade così come accade, senza apportarvi variazione alcuna. Sguardo puro che peraltro si conquista solo alla fine dell’itinerario, della hodós. Nella Fenomenologia, il fiume che conduce nell’oceano dello spirito assoluto si rivela alla fine essere solo una corrente dell’oceano. Vera coglie questo aspetto della Fenomenologia, là dove si chiede: «perché Hegel ha intitolato il tutto Fenomenologia dello Spirito», «se lo spirito forma solo una parte» dell’opera? E risponde: Perché un nome bisognava darglielo, e come lo spirito costituisce la più alta sfera della Fenomenologia egli ha designato il tutto col nome di quella sfera rimpetto a cui le altre non sono che momenti subordinati. Il che si fonda appunto sul concetto di sistema. Perocché nell’ente sistematico ciò che forma la natura speciale non solo del tutto, ma eziandio delle parti è il suo principio, il principio che ne costituisce la finalità e l’unità.

15. Cfr. PhäG, Einleitung, p. 72; it., I, p. 75; cfr. altresì Vorrede, p. 45; it., I, p. 44: «il conoscere filosofico esige che ci si abbandoni alla vita dell’oggetto».

280 E questo principio dà, e, a dir così, ha il diritto di dare, meglio di ogni altro, il nome alla cosa. (p. 98, nota 48)

Ovviamente non è questione di nome, come peraltro egli sa bene. È che per dare ragione della presenza della Fenomenologia all’interno del Sistema, Vera ha da spiegare perché, se il Sistema è il Tutto, vi debba essere una via di accesso al Sistema. Se nel Sistema – id est: nella Verità – si è già da sempre, quale il senso della via alla verità? E ancora: in che modo la via che conduce al Sistema può essere inclusa nel Sistema? È ben nota la soluzione che tradizionalmente viene data al problema, distinguendo tra il prôton kath’hemãs e il prôton katà physin, il primo per noi e il primo per natura. Ma questa soluzione, che poteva andar bene per Aristotele, per il quale essere e pensiero erano divisi, non può Vera farla propria, perché il concetto di Sistema, da cui egli parte, implica, come sappiamo, l’unità-identità di pensiero ed essere. Come è possibile un fenomeno – ossia una manifestazione del Sistema – in cui non sia manifesta la correlazione universale che è propria del Sistema? Vera tenta una risposta distinguendo tra varie manifestazioni del Sistema: la più alta, che è propria dello spirito che nell’estra­niarsi da sé torna a sé, e l’inferiore, della natura e pur della coscienza fenomenale, che ha la ragione di sé in altro. Risposta esiziale per il suo concetto di Sistema, perché introduce surrettiziamente la distinzione tra essere e pensiero, essere e sue manifestazioni: vi sono infatti fenomeni in cui l’essere eccede il pensiero ch’essi hanno dell’essere ch’essi stessi sono. L’osservazione di Vera – non si può pretendere che il soldato abbia la stessa visione strategica del generale (p. 40, nota 9) – è più che valida; ma, per attenerci all’esempio, proprio la differenza tra la veduta del generale e la veduta del soldato il Sistema non spiega. Se tutto ciò che vediamo, compreso il nostro stesso vedere, lo vediamo nella visione di Dio – come Vera si compiace di dire citando Malebranche (p. 95, nota 46) –, al-

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lora il soldato e il generale hanno esattamente la stessa visione: la visione di Dio16. Cosa concludere? 1) Che il Sistema non dà ragione di sé; e 2) che neppure riesce a dar ragione della Fenomenologia dello spirito. La critica a Vera coinvolge Hegel. Totalmente?

II 1. Non è mia intenzione inscenare un dramma “familiare”, contrapponendo due dramatis personae, progenie entrambe del pensiero di Hegel. Intendo mostrare il diverso approccio dello Spaventa alla Fenomenologia di Hegel, motivato anzitutto da un diverso rapporto con la storia del pensiero filosofico, e le conseguenze che ne derivano riguardo sia alla filosofia hegeliana nel suo complesso che alla nostra “posizione” nei confronti di questa filosofia. Nel trattare di Hegel Spaventa non ha come riferimento principale Kant, bensì Fichte e Schelling. È una differenza importante, questa, perché ci permette di evidenziare che “nel fare storia”, Spaventa, più vicino in questo al dettato hegeliano, procede non per contrapposizioni, ma per continuità. Se la verità è l’habitat naturale del pensiero, allora i filosofi si distinguono per il grado di verità che ciascuno d’essi ha raggiunto. L’ordine di successione delle filosofie è dunque “necessario”. Il Sistema si è esteso alla storia. In Spaventa non meno che in Vera il concetto di Sistema è “centrale”. Ma con qualche difficoltà 16.  È che la Fenomenologia – come vedremo – muove proprio dalla scissione del pensiero dall’essere. Nella Einleitung è detto a chiare lettere che la coscienza non sa come accade la successione delle varie figure della coscienza e del mondo: «per noi», cioè per chi ha conquistato la posizione del «puro stare a vedere», quell’accadere necessario accade dietro le spalle della coscienza (hinter seinem Rücken) (cfr. PhäG, p. 74; it., I, pp. 77 s.).

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in più, ché Spaventa ha da dimostrare perché il Sistema ha bisogno della storia, perché, cioè, non può manifestarsi totalmente uno actu. Ma è una difficoltà che agevola – almeno così sembra all’inizio – la soluzione, in quanto immette il Sistema nella storia. Cito, per esemplificare, lo schema che Spaventa ha delineato nel suo Schizzo di una storia della logica (e… absit injuria rebus): Socrate, che forma i concetti; Platone che li ordina in un mondo ideale; Aristotele che ne scopre la forma (il sillogismo, la prova: la sostanza, l’individuo); Kant che identifica la categoria con la funzione del pensare; Fichte che concepisce la mentalità, e scopre il ritmo logico; Schelling che concepisce l’identità come mentalità o ragione. La nostra logica – in quanto identità che prova se stessa, in quanto la ragione conscia di sé – abbraccia tutti questi momenti anteriori.17

Mi limito per ora a porre due domande che riguardano Fichte e Schelling, e una terza, che riguarda la «nostra logica» – senza però tralasciare di sottolineare l’importante cenno a Kant: la categoria come funzione logica, ben altra valutazione che quella di Vera. Mi chiedo dunque: 1) cosa intende Spaventa con «mentalità», riferita a Fichte? E 2) cosa con «identità come mentalità o ragione», riferita a Schelling? E infine: 3) nella «nostra logica» (quella di Hegel, suppongo, fatta propria da Spaventa) la comprensione (l’abbraccio) di tutti i momenti anteriori avviene nel tempo, o è già da sempre avvenuta? Mentalità – è termine polivalente, col quale talora si designa la filosofia qua talis (la «nostra logica», ovvero: la filosofia hegeliana che tutti i momenti anteriori abbraccia: cfr. O, II, p. 652), talaltra, e cioè quando viene espressamente attribuita a Fichte,

17.  B. Spaventa, Opere [= O], a cura di G. Gentile, 3 voll., Sansoni, Firenze 1972, vol. II, p. 650. D’ora innanzi citerò numero del volume e pagina direttamente nel testo.

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ha il significato di «pensiero autocosciente» (O, II, p. 653); l’iden­tità (attribuita a Schelling) definisce invece l’esser-uno di «natura e spirito» (ibidem). In qual senso la «nostra logica» compie la filosofia dell’identità? Nel senso che ciò che Schelling semplicemente presuppone – l’anzidetta identità di natura e spirito – Hegel invece pone, e cioè prova, dimostra. Qui Spaventa, pur richiamandosi a uno schema interpretativo già molto diffuso in ambiente hegeliano18, affronta con grande acume un punto cruciale del pensiero hegeliano: il momento di crisi del “sistema”. Quella crisi da cui Hegel uscì con la Fenomenologia. Mi soffermo sulle linee essenziali del problema e della sua storia. Già nella Differenz Hegel aveva criticato Fichte in quanto nella sua filosofia il rapporto necessario Soggetto-Oggetto è ancora tutto squilibrato sulla posizione del Soggetto. È l’Io che pone il Non-Io. Pur necessario all’Io, il Non-Io dipende totalmente dall’Io. E se l’Io è il pensiero e il Non-Io è l’essere, in che modo la libertà dell’Io può garantire l’essere dell’essere? Certo del suo essere, dell’essere del pensiero, l’Io non abbisogna d’altra prova che quella di pensare: pensando il pensiero prova se stesso, la sua realtà effettiva, la sua Wirklichkeit. Prova se stesso ma non il mondo, non l’essere che è oltre l’essere dell’Io, l’essere del Non-Io. L’autó di noein ed einai marca una differenza che non può essere superata dal solo noein. È possibile costruire il Sistema di pensiero più coerente, logicamente inattaccabile, ma questo non prova che il suo “oggetto” sia reale, wirklich. È necessario – questo il problema di Hegel che Spaventa vede con estrema chiarezza in tutta la sua complessità –, è necessa-

18.  Basti questa citazione dalla Vita di Hegel di Rosenkranz: «Con ispirata fiducia Schelling aveva aggiunto all’idealismo soggettivo l’idealismo oggettivo, ma l’unità del soggetto e dell’oggetto rimaneva per lui solo un presupposto» (K. Rosenkranz, Vita di Hegel, cit., pp. 486-487).

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rio che il pensiero provi la sua realtà, provi cioè la sua identità col reale (il mondo, la natura), non muovendo da sé, ma dal reale stesso. È necessario, cioè, mostrare che il reale è già in sé (an sich) pensiero e che nel pensiero manifesto, esplicito, trova il suo compimento, la sua realizzazione perfetta, il suo esserein-sé-e-per-sé (sein-an-und-für-sich-seiendes). Ma come può essere chiamato il pensiero a tal compito? Può forse il pensiero uscire da sé, per provare realmente la realtà del mondo, la realtà dell’altro da sé? Criticando il soggettivismo del “Soggetto-Oggetto” fichtiano, Hegel s’imbatteva in quello che Kant aveva definito lo scandalo della filosofia: il fatto che non ancora si è dimostrata la realtà delle cose fuori di noi. Che questo sia il problema da cui ha origine la Fenomenologia è molto significativo, perché Hegel scrive quest’opera anni dopo Glauben und Wissen, dove aveva criticato il giudizio kantiano, perché in esso la copula “è” resta un Bewußtloses, un inconscio, perché non provato19. È il residuo non logico del giudizio. Ma cos’è la copula, la “è”, del giudizio? Das verhältniswörtchen, la paroletta di relazione, come la definì Kant20, e cioè la paroletta che porta a parola la relazione originaria – e in questo senso “oggettiva”, ossia: essente in sé e per sé (cfr. WL, II, pp. 407 s.; it., II, pp. 806 s.) – dell’io con le cose del mondo, relazione che, secondo Hegel, solo nel sillogismo giunge a coscienza di sé. Il sillogismo, dunque, ha nella filosofia di Hegel – e sin da Glauben und Wissen, ancorché la più compiuta dimostrazione si trovi nella II Sezione, dedicata all’Oggettività, della Begriffslehere della Scienza della

19.  Cfr. G.W.F. Hegel, Jenaer Schriften, 1801-1807, W, 2, pp. 307 ss.; tr. it. di R. Bodei, in G.W.F. Hegel, Primi scritti critici, Mursia, Milano 1971, pp. 141 s. 20.  I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Id., Werke, Akademie Textausgabe, de Gruyter, Berlin 1968, Bd. III, B 141.

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logica – il medesimo ruolo che in Sein und Zeit ha la Cura, die Sorge: quello di mostrare l’apriorità dell’In-der-Welt-sein, della relazione io-mondo, rispetto ad ogni soggettivismo e ad ogni oggettivismo. Ora l’esigenza della Fenomenologia, e cioè di una «Scienza dell’esperienza della coscienza», è la testimonianza più significativa dell’insoddisfazione di Hegel per una deduzione puramente logica della realtà – persino della realtà del pensiero. Messa in questione la realtà dell’essere fuori del pensiero, diviene problematico anche il sum del cogito, l’essere del pensiero, la Wirklichkeit del pensiero. Il Deus cogitat in me di Malebranche, ma non solo di Malebranche, può essere letto alla rovescia: può togliere al pensiero ogni certezza di sé, dipendendo esso da altro. Riassumo quanto detto con le parole di Spaventa: Senza la fenomenologia la spiegazione – che è tutta la filosofia, il cui fondamento, la spiegazione fondamentale, è la logica – non ha un valore reale; è sempre un’ipotesi, non una realtà. Chi vi assicura, infatti, che questa spiegazione, che è pensare, dialettica del pensare, funzione del pensare, sia anche la realtà della cosa? (O, II, p. 656; spaziato nel testo)

2. Ma non nello Schizzo di una storia della logica, bensì in quel testo più ampio e organico, cui è stato dato (dal Gentile, che insieme col Maturi ne allestì l’edizione definitiva, prendendo ampiamente dalle Lezioni napoletane dello Spaventa: cfr. O, III, pp. 3-7) il titolo di Logica e metafisica, troviamo l’esplicazione del modo in cui la Fenomenologia dimostra la “realtà” del pensiero, o per dirla con le parole di Hegel, del modo in cui la coscienza dell’esperienza accoglie in sé compiutamente l’esperienza della coscienza, o all’inverso: del modo in cui l’esperienza della coscienza si realizza pienamente nella coscienza dell’esperienza. L’opera, composta di due parti, tratta nella prima della Fenomenologia, della Logica nella seconda.

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Non è necessario sottolineare la piena corrispondenza con la “successione”, non solo temporale, delle due maggiori opere in Hegel – ma di questo diremo in seguito. Ora dobbiamo esporre i tratti essenziali dell’“esplicazione” spaventiana del metodo fenomenologico. Prendiamo come riferimento privilegiato il rapporto tra coscienza sensibile e percezione: privilegiato, perché la coscienza sensibile è la prima e più semplice e più povera manifestazione della coscienza, in essa le categorie della mente sembra che non svolgano ruolo alcuno. Hegel, trattando della coscienza sensibile, mette in atto la stessa operazione d’astrazione attuata da Kant nella prima sezione della Critica della ragion pura, l’Estetica trascendentale. Alla pura coscienza sensibile, infatti – e pensiamo qui alla sensibilità puramente corporea, animale – non altro si dà che l’immediata immediatezza del “questo”, del “qui” e dell’“adesso”. “Questo” non è il cibo, né “qui” il luogo determinato della soddisfazione dell’impulso, né l’“adesso” il momento del tempo in cui insorge o è soddisfatto l’impulso. “Questo”, “qui” e “adesso” sono i nomi – nomi nostri, nomi dell’intelletto, ché i sensi non hanno linguaggio nominale – del puro accadere come della fame, così del sesso, della fuga per un rumore improvviso, o di quant’altro si voglia immaginare. Nella loro determinata determinatezza sono indeterminati. “Questo”, “qui” e “adesso” si determinano solo nella percezione – ed è significativo che il termine tedesco sia Wahrnehmung, apprensione del vero. Nella percezione che dice ciò che la coscienza sensibile veramente esperisce nel “questo”, “qui” e “adesso”, il cibo, il sesso, il pericolo, in determinato luogo e in un preciso momento… Nella percezione che dà nome alle cose – quei nomi che dicono l’essere delle cose stesse, così come sono state esperite sin nella coscienza animale, corporea, inintenzionale. Nella “figura”, o forma d’esperienza, che segue – e questo vale per tutta la hodós fenomenologica –, la precedente “figura” trova la sua verità: la sua essenza, il suo vero essere. Il presente è la verità del passato.

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La Fenomenologia nel suo andare innanzi (Vorwärtsgehen) è di fatto una retrocessione (Rückgang) al fondamento e al vero – secondo quel che dirà Hegel nella Scienza della logica, definendo la dialettica del sapere (cfr. WL, I, p. 70; it., I, p. 56; cfr. altresì WL, II, p. 246; it., II, p. 652). Spaventa coglie acutamente questo aspetto, là dove mostra che la “critica” che la percezione fa della coscienza sensibile – critica come riflessione che procede dalla superficie al fondo, dall’essere che primo appare alla sua essenza, o verità – non è “soggettiva”, e cioè non cade da fuori sulla coscienza criticata, ma appartiene a questa medesima. Il passo che ora citiamo, pur descrivendo – e con un linguaggio che risente dei limiti della spiegazione scolastica – la sola esperienza della coscienza sensibile, definisce il carattere proprio dell’intero itinerario fenomenologico: Tutta questa critica non è una attività puramente mia, soggettiva; una mia riflessione estrinseca alla coscienza stessa, che io osservo e critico. Invece, è l’esperienza che la coscienza fa di se stessa, la sua propria storia, la storia di questa sua esperienza: la critica è possibile, in quanto essa stessa la coscienza (sensibile, qui) non è altro che questa sua critica di se medesima. Infatti non sono io semplicemente, come osservazione e riflessione, ma è essa stessa, che dice in ciascuna delle sue posizioni già discusse: Questo, e non questo, e quindi questo universale. Questo movimento è il suo proprio movimento. Se non lo dicesse lei, non potrei dirlo io, mai; se non lo dicesse lei, la coscienza non arriverebbe mai a dire qualcosa di universale (non arriverebbe a dire, a parlare). (O, III, pp. 61 s.)

Passo fondamentale che dà ragione del passaggio dalla Fenomenologia al Sistema: dal prôton kath’hemâs al prôton tê physei. Se è per una carenza dell’intelletto – che divide se stesso dalla sensibilità e dalla ragione, e in generale il “soggetto” dall’“oggetto” – che va percorso l’itinerario di “purificazione” della Fenomenologia, questa carenza affètta lo stesso

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Sistema. E ciò che la Fenomenologia mostra è che la ragione, interna all’intelletto, interior intimo suo, purifica l’intelletto non dall’esterno, ma dall’interno. La ragione non vive accanto all’intelletto, ma in questo e come questo: pertanto l’intelletto si purifica per quella forza che ha dentro se stesso, per quel se stesso profondo che si chiama ragione. Perciò non è possibile partire dal Sistema, dal Tutto e dall’ordine del Tutto. Il Sistema va conquistato. Solo poi che s’è resa palese la realtà del conoscere – vale a dire: l’identità di noein ed einai – è dato muovere dal Sistema. Ma i conti non tornano – non tornano con Hegel. 3. Che il Sistema inizi con la Logica, e la Logica con il concetto di “essere”, appare affatto necessario: la Logica deve iniziare dove la Fenomenologia ha terminato, dall’essere, una volta che s’è dimostrato che pensare è essere. La medesimezza dei due – l’autó di noein ed einai – va ora provata a parte objecti, dall’essere; vale a dire va provato in che modo l’«essere, il puro essere senza determinazione alcuna» si elevi all’idea assoluta, ossia si riveli pensiero. Ma cos’è questo “puro essere”? Tutto di esso possiamo dire, tranne che sia il termine ultimo della Fenomenologia. Hegel lo dice esplicitamente. Il superamento della divisione SoggettoOggetto conseguita nello spirito assoluto che segna la rivelazione del profondo della chiusa della Fenomenologia, e cioè: l’identità raggiunta al termine della Fenomenologia, all’inizio della Logica è accolta (aufgenommen) come un mero vorhanden, un mero esser-qui-innanzi (cfr. WL, I, pp. 68 s.; it., I, pp. 54 s.). È accolta: all’inizio della Logica v’è un atto pratico. Hegel concede: questa risoluzione (Entschluß) potrebbe anche essere considerata un arbitrio, eine Willkür (cfr. ibidem), ma la cosa non sta così, come alla fine apparirà chiaramente. Tanto chiaramente, da fargli dire che non c’è poi da far tanto rumore

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(nicht viel Aufhebens zu machen) nello scoprire che l’inizio non è puro vuoto, immediatezza semplice, ma immediata potenza che ha «in sé», an sich, tutto lo svolgimento ulteriore (cfr. WL, II, pp. 554-556; it., II, pp. 940 s.). Lo svolgimento consisterà solo nell’esplicare – nel portar fuori – ciò che è implicito nell’inizio. Nessun atto di pensiero è solo tautologico o solo eterologico. Il pensiero è sempre tautoeterologico, analitico e sintetico insieme (cfr. WL, II, pp. 556-558; it., II, pp. 942 s.). Invero, come in Aristotele non meno in Hegel il tautón prevale sullo héteron, al quale è assegnata la funzione ancillare di es-plicarlo, manifestarlo. V’è infatti piena corrispondenza tra la archôn arché della filosofia aristotelica – tautà aeí, eíper enérgheia próteron dynámeos21 – e questo celeberrimo passaggio della Fenomenologia: L’apparenza è un sorgere e un passare che né sorge né passa, ma che è in sé e costituisce l’effettualità e il movimento della vita della verità. Per tal modo, il vero è il trionfo bacchico dove non c’è membro che non sia ebbro; e poiché ogni membro nel mentre si isola altrettanto immediatamente si risolve – il trionfo è altrettanto la quiete trasparente e semplice. (PhäG, p. 39; it. pp. 37 s.)

È la palese ammissione che il giuoco è sin dall’inizio condotto dal prôton tê physei. La conclusione cui pervengono Vera come Spaventa è la stessa, perché è la conclusione di Hegel: il primato del Sistema. Basti ricordare che nel 1817 l’Enciclopedia, nella sua prima redazione, iniziava con la Logica, e la Fenomenologia, molto ridotta, era solo un piccola sezione dello Spirito soggettivo. Nella seconda edizione del 1827, la Fenomenologia che era rimasta fuori della Enciclopedia è sostituita da un’Introduzione generale dal titolo: Le tre posizioni del pensiero rispetto all’Oggettività. Ove più la differenza dalla

21.  Cfr. Aristotele, Met., XII, 1072a 8-9.

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fichtiana Dottrina della scienza? Dopo aver a lungo oscillato tra Fichte e Schelling, il pendolo della filosofia hegeliana si fermò sulla postazione del primo. 4. Vera si attestò sulla posizione dello Hegel sistematico, logico – del quale pur vide le aporie che intese sciogliere; Spaventa tentò altra via, non fuori di Hegel, ma dentro Hegel medesimo, privilegiando la Fenomenologia sulle altre opere, anche se alla Logica dedicò il suo maggior impegno, come testimoniano i diversi corsi ad essa dedicati, e in particolare quell’espressione che ho avuto modo di sottolineare: la «nostra logica» – così tanto si era compenetrato in Hegel. Ma pur nella “fedeltà” a Hegel, la sua interpretazione in un punto se ne distacca, ed è un punto fondamentale: quello della medesimezza di pensiero ed essere, noein ed einai. Così, riflettendo sulle Prime categorie della logica di Hegel, scrive: Cos’è l’Essere? Ciò è facile, e non è facile a dire; appunto perché niente si può dire senza l’Essere, e ogni detto e pensiero lo presuppone. […] E d’altra parte, quando si dice cos’è davvero l’Essere, esso non è già più semplicemente l’Essere: non è più ciò che era prima che fosse detto. (O, I, p. 371)

Muovendo dal pensiero, Spaventa ne scorge il limite – dall’interno. E limite insuperabile. Nel discutere le obiezioni di Trendelenburg a Hegel – obiezioni a cui dà anche troppo spazio, ma è recriminazione, questa, che va estesa a molti commentatori e critici di Hegel –, Spaventa giunge ad affermare: «Ci è un vizio nella posizione hegeliana, e questo è il concetto dell’Indeterminato». Aveva toccato il punto critico. Quello stesso, in fondo, che anche Vera aveva sfiorato nell’affrontare il tema dell’apodeíxeos arché. Ma vado subito alla conclusione di Spaventa: «Quanto all’Essere […] non posso dire né cos’è, né perché è. È perché è: ecco tutto». Poi, come dopo una pausa di riflessione, aggiunge:

291 Adunque, perché il No? il Non essere, la negazione? e dopo, e non ostante il Sì, l’essere, l’affermazione? Perché non è solo il Sì? Perché tutto non è Essere? Questo è lo stesso problema del mondo, lo stesso enigma della vita, nella sua massima semplicità logica. Quel che sappiamo è che senza il Pensare non sarebbe il No, il Non essere; e chi nega, quegli che vince l’invincibile e fende l’indivisibile, cioè l’Essere; che distingue e contrappone nell’Essere medesimo in quanto medesimo ciò che è e ciò che non è: la generazione o geminazione dell’Essere; quegli che turba la tranquilla immobilità, l’oscuro impenetrabile sonno dell’assoluto e ingenito essere, questa infinita potenza, questo gran prevaricatore è il Pensare. (O, I, p. 399; continua in nota)22

Anche superfluo segnalare la derivazione diretta del gran prevaricatore dalla hegeliana «ungeheure Macht des Negativen» (PhäG, p. 29; it., I, p. 26). Necessario invece sottolineare che il gran prevaricatore non è primo, ma secondo: theòs deúteros, come il Noûs di Plotino, pur esso «scintilla che scoppia da se stessa», dacché trova non certo l’essere da lui stesso posto, e posto in quanto distinto, determinato, opposto al non essere, al No, ma l’essere indeterminato, indistinto, l’Essere che già nominare essere è troppo. E tale Indeterminato e Indistinto, oscuro sonno dell’assoluto e ingenito, è il necessario presupposto senza del quale il gran prevaricatore non avrebbe cosa su cui prevaricare. Al termine della riflessione spaventiana su Hegel si riaffaccia il noumenon, quel Grenzbegriff che tutto è, tutto può essere, 22.  Il passo continua così: «Se non fosse altro che l’Essere, non sarebbe il No. E, quando si va a vedere, l’Essere stesso, solo l’Essere, non dice Essere, non dice È, non dice punto. L’È – la stessa affermazione – è pensare, è distinguere, è concentrar l’Essere; è semplificarlo, ridurlo a un punto, e perciò geminarlo». Mi sembra chiaro – e persino strano doverlo sottolineare – che l’essere “pensato”, “distinto”, “concentrato”, non è l’Essere che «non dice È, non dice punto». Spaventa esperisce qui tutta la difficoltà del dire filosofico, quando il pensiero tocca il suo limite.

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tranne che il caput mortuum della filosofia, se è esso che stimola alla prevaricazione del pensiero. Ma questa conclusione, se è contro la lettera, non è certo contro lo spirito della filosofia di Hegel, che tutta la vita lottò per tenere a freno quella lichtscheue Macht da lui evocata in una pagina della Fenomenologia dello spirito – insuperata interpretazione dell’Edipo re di Sofocle –, nella quale il filosofo mostra che è nella coscienza che noein ed einai sono divisi (cfr. PhäG, pp. 335 s.; it., II, pp. 27 s.). Senza mai tralasciare l’esercizio di “sillabare Hegel”, Bertrando Spaventa seppe riconoscere – anche contra Hegel23 – la differenza intrinseca al medesimo, all’autó, frenando la pretesa del pensiero di ridurre nel suo cerchio di luce pur quell’umbratile lato della coscienza che segna l’interno limite del pensare.

23.  Che all’Edipo re anteponeva l’Antigone, perché «la coscienza etica è più completa, la sua colpa è più pura quando conosca in precedenza la legge e il potere cui si contrappone» (PhäG, p. 336; it., II, p. 29), quando, cioè, il conflitto si svolge nella luce della autocoscienza.

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Scienza e ragione Vera interprete della Naturphilosophie hegeliana Stefania Achella

Tra le ragioni che ci portano oggi a rileggere l’opera di Augusto Vera ci sono senz’altro i suoi studi pionieristici sulla filosofia della natura di Hegel. La Naturphilosophie, com’è noto, ha rappresentato fin da subito la parte più contestata del sistema hegeliano. Già Karl Rosenkranz, allievo e biografo del filosofo, considerava inspiegabile l’ostilità dell’accademia tedesca nei confronti del pensiero del suo maestro e segnatamente della seconda parte del suo sistema: «si può dire che la filosofia di Hegel, e in particolare la sua filosofia della natura, non sia stata trattata altrove con tanta risolutezza quanto in Germania»1. Per la stessa ragione egli aveva riservato una calorosa accoglienza alla traduzione di Vera della seconda parte dell’Enciclopedia: «ho accusato la scuola hegeliana di essere stata troppo poco attiva nella fi-

1.  K. Rosenkranz, Hegels Naturphilosophie und die Bearbeitung derselben durch den italienischen Philosophen Augusto Vera, Nicolai, Berlin 1968, p. 13. Oltre al testo di Rosenkranz, per i riferimenti bibliografici cfr. Biographisch-Bibliographisches Kirchenlexikon, begr. und hrsg. von F.W. Bautz, vol. XII, Bautz, Herzberg 1995, e P. Larousse, Grande Dictionnaire Universel du XIXe siècle, réimp., Slatkine, Genève-Paris 1982, vol. XV.

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losofia della natura, ed […] è stato proprio questo che mi ha portato ad attribuire così grande importanza all’opera di Vera e ad aver cura di renderla nota anche in Germania»2. Gli oltre centocinquant’anni che ci separano dall’opera di Vera hanno assistito a diversi rinascimenti hegeliani, e uno dei più recenti ha riguardato proprio il recupero della filosofia della natura3. Ciò non è bastato tuttavia a far uscire dall’ombra l’opera di Vera, come Rosenkranz aveva sperato, e come Ludwig Siep aveva pronosticato in un articolo del 1986, convinto che, all’indomani della ripresa della filosofia hegeliana della natura, la critica avrebbe rivalutato i lavori dello studioso italiano4. Nessuno dei due interpreti ha avuto finora ragione5, anche se, quasi per un gioco della sorte, le più recenti riletture della filosofia della natura hegeliana arrivano proprio dalla patria elettiva

2.  K. Rosenkranz, op. cit., p. VIII. 3.  La prima rivalutazione della filosofia della natura hegeliana si deve all’attenta ricostruzione di Michael Petry che, nella sua edizione inglese dell’opera, rivela una serie di fraintendimenti e soprattutto mostra le profonde competenze hegeliane rispetto alle analisi della scienza del suo tempo. Cfr. M.J. Petry (ed.), Hegel’s Philosophy of Nature, 3 voll., Allen and Unwin, New York 1970, ma anche A.V. Miller (ed.), Hegel’s Philosophy of Nature, intr. di J.N. Findlay, Clarendon Press, Oxford 1970. Per una ricognizione su questa iniziale rivalutazione cfr. R.P. Horstmann - M.J. Petry (Hrsg.), Hegels Philosophie der Natur. Beziehungen zwischen empirischer und spekulativer Naturerkenntnis, Klett, Stuttgart 1986. 4.  L. Siep. Sulla ricezione di Vera in Germania, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia», tr. it. di C. De Pascale, vol. 16, n. 4, 1986, pp. 1233-1248, qui p. 1234. 5.  Finalmente, negli ultimi anni, insieme alla ripresa degli studi sull’hegelismo napoletano, anche Vera sta conoscendo una maggiore attenzione: cfr. A. Bellantone, Hegel en France, vol. I, De Cousin à Vera, Hermann, Paris 2011; T. Cricelli, Augusto Vera e la filosofia hegeliana, iltesto, Marina di Zavoli 2016. Di recente è apparsa anche la traduzione italiana della sua tesi: Sulla dottrina del termine medio di Platone, Aristotele e Hegel, a cura di A. Bellantone, Le Lettere, Firenze 2011.

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di Vera, la Francia, e proprio come Vera tendono a mettere in evidenza il rapporto che Hegel istituisce tra ragione speculativa e ragione scientifica, mostrando come nel filosofo tedesco la ragione della scienza non venga estromessa dal processo della conoscenza6. Una delle spiegazioni della mancata riabilitazione di Vera è forse riconducibile all’ostilità che egli si guadagnò per la sua eccessiva fedeltà al testo hegeliano7, un’altra ragione si può rintracciare senz’altro nell’evoluzione in senso conservatore del suo pensiero, che ne fece un rappresentante della destra hegeliana, che a fine Ottocento non godette di gran simpatia negli ambienti universitari. Se invece rileggiamo le pagine che Rosenkranz consacra ai suoi studi sulla filosofia della natura di Hegel – riconoscimento che è spettato a ben pochi interpreti italiani da parte dei tedeschi – emerge un profilo intellettuale tutt’altro che trascurabile. Descritto come «ein philosophischer Kopf», «ein sehr didaktischer Kopf» e infine come «ein systematischer Geist»8 nient’affatto pedante, Vera appare come un interprete dotato di grande forza comunicativa, di uno stile elegante e di una spiccata capacità pedagogica. Tale descrizione non può non invitarci ad approfondire il nostro giudizio.

6.  Cfr. tra gli altri: E. Renault, La naturalisation de la dialectique, Vrin, Paris 2001; G. Marmasse, Penser le réel. Hegel, la nature et l’esprit, Kimé, Paris 2007. 7.  Molto duro è il giudizio di Delio Cantimori sull’originalità dell’interpretazione di Vera del pensiero hegeliano: «Il V. fu celebrato ai suoi tempi come il più franco e compiuto hegeliano, il più geniale e originale espositore e divulgatore della filosofia hegeliana in Francia, Inghilterra, Italia; l’originalità del suo pensiero è in realtà contestabile, ed è stata quasi sempre contestata, mentre incontestabile è la sua fedeltà di espositore e divulgatore della dottrina di Hegel» (D. Cantimori, Augusto Vera, Enciclopedia Italiana Treccani, 1937, online). 8.  K. Rosenkranz, op. cit., pp. 5-6.

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1. «Uno spettacolo interessante» La figura di Vera9 si colloca all’interno della difficile condizione politica nella quale l’Italia si era trovata nella lotta di affrancamento che avrebbe condotto infine all’unità nazionale. In Italia il pensiero di Hegel assume un significato differente dal resto d’Europa: il sistema hegeliano offre agli intellettuali in cerca di principi unitari «una totalità organica, che mancava a tutti gli altri filosofi»10. La filosofia hegeliana sembrava inoltre l’unica in grado di dialogare proficuamente con la tradizione del pensiero italiano: È stato uno spettacolo interessante – scrive a questo proposito Rosenkranz – osservare come il tedesco di Hegel sia rinato nella lingua italiana. Mamiani, de Sanctis, del Zio, Trani, Vincenzio Luca, Spaventa, Raffaele Mariano e tanti altri hanno espresso il pensiero hegeliano con una precisione e una facilità che dieci anni prima si sarebbe ritenuto impossibile in Germania. Ma una nazione, che annovera un G. Bruno e un Vico tra i suoi autori classici, con il suo linguaggio può osare trattare le astrazioni più audaci. Non c’è dubbio che questa educazione filosofica degli italiani abbia una grande parte nella rinascita politico-religiosa del loro così bello, quanto a lungo infelice, Paese e ne avrà ancora maggiore non appena l’indipendenza della scienza dal paternalismo ecclesiastico diventerà più rea­ le e più forte.11

9.  Mi preme qui ricordare gli studi di Thomas Posch, prematuramente scomparso nel 2019, che si è dedicato per anni alla ricezione francese della filosofia della natura hegeliana e ha dedicato molta attenzione ai lavori di Augusto Vera. Devo alla traduzione di un suo testo il mio primo incontro con il pensiero di Vera. Alcune delle considerazioni presenti in questo saggio sono nate proprio dal confronto con i suoi lavori. Cfr. Th. Posch, La filosofia hegeliana della natura nell’interpretazione di Augusto Vera, in G. Rinaldi - T. Rossi Leidi (a cura di), Il pensiero di Hegel nell’età della globalizzazione, Aracne, Roma 2012, pp. 429-452. 10.  K. Rosenkranz, op. cit., p. 3. 11.  Ibidem.

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Vera vive e attraversa questo periodo di grandi mutamenti. La sua propensione per le lingue (oltre all’inglese, appreso da giovanissimo a Siena, e al francese, che diventerà la sua lingua filosofica per diversi anni, dopo un soggiorno a Berna di pochi mesi riuscirà a dominare in modo straordinario anche il tedesco) insieme alla sua autentica vivacità intellettuale lo spingono a viaggiare in tutta Europa. In Francia viene accolto da Victor Cousin che prova ad arruolarlo sotto la bandiera dell’eclettismo («unter seine Fahne einreihen wollte»12), in Inghilterra riesce a trovare una chiave d’accesso per superare i radicati pregiudizi nei confronti della filosofia hegeliana13. Ma è al suo ritorno in Italia, e in particolare dopo il trasferimento a Napoli, nel 1861, sulla cattedra di Storia della filosofia, che egli si dedica completamente alla traduzione, verso il francese, dell’opera hegeliana14. Traduzione che diventa per Vera un pretesto per esprimere la propria posizione sul filosofo di Stoccarda, dedicando ad ogni parte del sistema una lunga introduzione. Napoli, ma complessivamente l’Italia di quegli anni, rappresenta il centro più vivace dell’hegelismo europeo. Già nel 1840 Giambattista Passerini aveva tradotto la Filosofia della storia, nel 1848 per mano di Vito Antonio Turchiarulo era uscita la Filosofia del diritto15. Alessandro Novelli all’inizio degli anni Sessanta aveva tentato l’impresa, a giudizio di molti mal riuscita,16 12.  K. Rosenkranz, op. cit., p. 4. 13.  Ivi, p. 5. 14.  Cfr. il suo articolo, uscito per Longman nel 1856, An inquiry into speculative and experimental science, with special reference to Mr. Colderwood and Professor Ferrier’s recent publications, an to Hegel’s doctrine. 15.  Sulle prime traduzioni di Hegel in Italia, cfr. F. Pitillo, Una rivoluzione silenziosa: storia e diritto nelle edizioni preunitarie di Hegel (1840-1848), in M. Diamanti (a cura di), La fortuna di Hegel in Italia nell’Ottocento, Bibliopolis, Napoli 2020, pp. 17-37. 16.  Come scrive Oldrini, descrivendo i primi traduttori italiani di Hegel: «sans parler des onze volumes écrits en tout hâte par Alessandro Novelli au

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di tradurre ben undici volumi delle opere di Hegel. Questi tentativi nel loro insieme non sono tuttavia paragonabili alla grande opera di Vera che introduce una svolta radicale nella relazione con i testi hegeliani, frutto di un ideale di totale fedeltà al dettato della lingua del filosofo tedesco17.

2. Ragione moderna e ragione scientifica A distinguere il lavoro di Vera traduttore non è però solo l’uso accorto della lingua e la fedeltà – a volte fin troppo pedante – al testo tedesco. Per capirlo dobbiamo ritornare ancora su quello spettacolo interessante che è l’hegelismo italiano di metà Ottocento. Seppure sfaccettato e certamente non uniforme nella frammentata condizione culturale italiana degli anni dell’unificazione, l’hegelismo italiano presenta infatti un carattere specifico, destinato ad avere fortuna nel corso dell’Ottocento e in modo ancora più accentuato nel Novecento: è fortemente storicizzato, politico e progressista. Lo Hegel metafisico, che nel resto dell’Europa viene utilizzato contro le scienze, in chiave conservatrice, in Italia è destinato a una minore considerazione. A dominare qui è invece uno Hegel politico, accanto al quale si fa spazio la parte speculativa del sistema: basti pensare che Francesco De Sanctis negli anni di carcere a Napoli tenta una traduzione della Logica hegeliana, per non tacere dell’importanza che tale parte ricopre nei lavori di Spaventa. In questo

début des années 1860» (G. Oldini, Augusto Vera et le sens de la vulgarisation hégélienne en Europe, in «Revue de Métaphysique et de Morale», n. 1, 1994 [La médiation Italienne], pp. 35-51: p. 40). Per una rilettura del lavoro di Novelli traduttore si rimanda a E. Nardelli, Le traduzioni italiane di Alessandro Novelli. Un’operazione “semplicemente scellerata”?, in M. Diamanti (a cura di), La fortuna di Hegel in Italia nell’Ottocento, cit., pp. 107-124. 17.  G. Oldrini, Gli hegeliani di Napoli. Augusto Vera e la corrente ortodossa, Feltrinelli, Milano 1964.

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contesto Augusto Vera rappresenta un’eccezione, egli decide infatti di cimentarsi con la parte più critica del sistema hegeliano, pubblicando dal 1863 al 1866 la traduzione, in tre volumi, della Filosofia della natura. Una scelta che è il segno di una particolare attenzione, soprattutto nei suoi lavori degli anni Sessanta, alla critica hegeliana alla ragione moderna e a quella scientifica ma non da una prospettiva metafisica. Come si evince anche dalla lettura del testo successivamente pubblicato, dedicato alla Fenomenologia, Vera usa la filosofia della natura come chiave d’accesso peculiare al sistema. Essa consente infatti di chiarire il rapporto che la ragione scientifica ha con il mondo dell’esperienza e la differenza tra questo rapporto e quello istituito invece dalla ragione speculativa. Non è perciò strano che co-protagonista assieme a Hegel sia sempre Immanuel Kant e la sua idea di conoscenza. Per capire meglio l’interpretazione di Vera della filosofia della natura, partiremo perciò dalle riflessioni sulla Fenomenologia che, seppure successive, riescono a rendere ancora più esplicito il suo rapporto con il metodo scientifico e la ragione moderna. In una lunga riflessione sui limiti della ragione kantiana che attraversa i primi capitoli del lavoro sulla Fenomenologia18, Vera presenta infatti la filosofia di Kant come essenzialmente segnata da un atteggiamento scettico ed empirista, due caratteristiche che la avvicinano alla ragione scientifica19. Egli si chiede 18. Cfr. supra, capp. I-III. 19.  Come nota giustamente Vitiello: «La critica di Vera ripete, nell’essenziale, la critica che Hegel muove a Kant all’inizio dell’Introduzione della Fenomenologia dello spirito; ma la mira dell’interprete è mossa da altro e più ampio intento che non quello della sola interpretazione di Hegel: in Kant egli critica il teorico del pensiero scientifico moderno, ovvero del positivismo. L’esito scettico della filosofia kantiana della conoscenza, e pur della morale, si presenta come la prova provata che non si dà verità nelle scienze particolari, che muovono dal presupposto della scissione del pensare dall’essere» (supra,

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provocatoriamente: «Qual è dunque la ragione, la norma, il criterio, in qualche modo, assoluto della critica kantiana? Il fatto, non il fatto in generale, perché tutto è, in un certo senso, fatto – il noumeno, l’idea è anch’essa un fatto – ma il fatto sensibile e sentito»20. Prendendo come punto di partenza l’oggetto empirico nella sua manifestazione esteriore, nella sua apparenza, la filosofia kantiana non riesce a offrire nessuna forma di conoscenza che prescinda dal piano dell’empiria e che non può non condurre allo scetticismo. Di qui l’esigenza di vedere «che conseguenza trae seco questo concetto kantiano della ragione per rapporto alla esperienza e alla cognizione sperimentale, perché questo è il punto speciale che qui dobbiamo chiarire»21. Nell’operazione intellettuale messa a punto da Kant, volta a distinguere e rompere l’unità tra forma e contenuto, soggetto e oggetto, quello che si determina è, come la definisce Vera, una patologia della conoscenza. La “mente critica” cade in preda a una specie di schizofrenia, essa «nel dubbio di se stessa, della sua legittimità, della legittimità della sua natura, della sua attività, e del fine del suo essere, prende un’attitudine ne­gativa, ostile verso se stessa, viene a conflitto con se stessa, si spezza, e spezza quindi quella unità che forma la sua specifica ed intima natura. Onde si divide da sé, non è più la mente, perché la mente spezzata non è la mente, come un organismo spezzato non è più l’organismo»22. Qualche riga più avanti, il linguaggio di Vera diventa ancora più esplicito: «La mente caduta in tale stato non è la mente degli eroici furori di Bruno, la mente che appunto il furor dell’unità incita e infiamma, ma la mente folle»23. p. 274. Cfr. A. Vera, Problema dell’Assoluto, Parte IV, A. Morano-Dekten e Rocholl, Napoli 1882, capp. XIX-XXI). 20.  Supra, p. 56. 21.  Supra, p. 66. 22.  Supra, pp. 68-69. 23.  Supra, p. 69.

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Follia è qui sinonimo di quella che di recente la filosofa Catherine Malabou ha definito schizologia24, l’incapacità cioè di cogliere l’unicità della ragione che attraversa il mondo dei fenomeni e quello della verità. Su questo punto Vera si mantiene ancora una volta fedele al dettato hegeliano25 che, nella sezione della Fenomenologia consacrata alla ragione, conduce una lunga riflessione sull’osservazione scientifica. La coscienza che osserva pensa di potersi limitare ai suoi strumenti di conoscenza, ma si accorge preso di dover comunque riferirsi a categorie universali. Di qui il tormento e l’inquietudine – che Vera riassume nella “follia” – che viene a generarsi in essa. L’osservare, scrive Hegel, non riesce a «tenersi saldo al quieto essere rimanente eguale a se stesso» e si vede «tormentato da mille istanze che lo derubano di ogni determinazione e che mettono a tacere l’universalità cui quello si era innalzato, riabbassandolo a un osservare e a un descrivere privi di pensiero»26. Nell’osservazione, non si riesce a superare

24.  C. Malabou, Avvenire e dolore trascendentale, tr. it. a cura di F. Jardilino Maciel, Mimesis, Milano-Udine 2019, pp. 85 ss. 25.  Di tutt’altro parere Alessandro Savorelli, che, partendo dal giudizio di Gentile, secondo il quale Vera avrebbe operato una deformazione della dialettica hegeliana, considera la sua analisi della filosofia della natura come l’esempio evidente di tale deformazione. Vera si opporrebbe ai risultati della ricerca scientifica del suo tempo: «“alla Don Ferrante”: ossia con un solo argomento, in quanto incompatibili con le categorie hegeliane». A questo si aggiungerebbe un’idea di mediazione solo “ideale” e l’incapacità di distinguere le differenziate forme dei nessi dialettici pensate da Hegel. Il giudizio negativo di Vera non sarebbe pertanto connesso alla sua eccessiva “ortodossia” ma, al contrario, al “tradimento” della dottrina hegeliana. A. Savorelli, Augusto vera tra “ortodossia” e “destra” hegeliana, in M. Diamanti (a cura di), La fortuna di Hegel in Italia nell’Ottocento, cit., pp. 125-142, in part. pp. 125-129. 26.  G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, 2 voll., tr. it. a cura di E. De Negri, intr. di G. Cantillo, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2008, vol. I, p. 209.

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la continua riapertura della distanza tra dimensione individuale, propria dell’osservazione empirica, e aspirazione all’universale, propria dell’esigenza di rintracciare leggi. Questo limite accomuna la scienza e la filosofia della modernità. Nell’applicare il metodo osservativo gli scienziati non si rendono conto che è impossibile mettere tra parentesi la natura già strutturata dell’oggetto (la coscienza, scrive Hegel, si è dimenticata che l’oggetto si è già determinato essenzialmente), che non c’è mai un atteggiamento passivo della coscienza osservatrice, ma sempre un suo operare in atto. Come chiarisce Hegel questa frattura si salderebbe solo attraverso una conoscenza che si riferisse alla ragione nella sua accezione più ampia: soltanto «qualora la coscienza avesse nell’intimo suo trovato la ragione, questa verrebbe di lì reindirizzata all’effettualità per intuirvi la propria espressione sensibile; e subito la coscienza la prenderebbe essenzialmente come concetto»27. Ma questo caso non si dà nella ragione osservativa immersa nella frattura tra soggetto e oggetto, così come non si può dare nella filosofia kantiana che resta prigioniera di questa separazione. Come Vera riassume: «La conclusione che risulta da quanto precede si è, primieramente, che la filosofia critica altro non è se non una forma dell’empirismo»28. Questo non vuol dire dichiarare falso lo statuto della ragione moderna, quanto piuttosto mostrare l’errore in cui essa cade quando pensa di poter, sulla base dell’esperienza, attingere alla verità totale. Vera ammette il valore, nel sistema hegeliano, della ragione sperimentale, il cui ruolo è indiscutibile, «ma la rigettiamo e la combattiamo come falsa ed ingannevole allorché si arroga un valore ed un’efficacia che non ad essa, ma ad una più alta sfera, a un più alto processo della mente appartengono, sconvolgendo in siffatta guisa la

27.  Ivi, p. 203. 28.  Supra, p. 71.

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natura della cognizione e della verità»29. La pretesa della ragione scientifica come di quella kantiana, la loro aspirazione a farsi bastare gli elementi provenienti dalla sensazione, approda sempre a un fallimento, a quello scetticismo che Vera, attraverso il ricorso alla filosofia hegeliana intende destituire dal ruolo egemone che ricopre nell’Italia di quegli anni. Il suo obiettivo è infatti quello di opporsi alla corrente scettica che, conclude: «è un de’ segni caratteristici dei nostri tempi […] che va sempre più ingrossando e invadendo la coscienza delle na­zioni»30.

3. Collage d’autore Questo aspetto contrassegna anche la lunga introduzione alla traduzione della Filosofia della natura. Il testo che Vera traduce non è la cosiddetta Piccola Enciclopedia, edita da Rosenkranz, ma quello della Grande Enciclopedia, pubblicata subito dopo la morte del filosofo dalla Società degli amici dell’Eterno (Verein von Freunden des Verewigten)31 e curata da Michelet32. In essa convergono materiali molto difformi: da un lato appunti dello stesso Hegel, alcuni dei quali risalenti addirittura ai suoi corsi di lezione di Jena (Collegien Hefte), dall’altro trascrizioni delle lezioni dei suoi uditori (Nachschriften) ai corsi berlinesi. 29.  Supra, p. 79, nota. 30.  Supra, p. 83, nota. 31.  Georg Wilhelm Friedrich Hegel’s Werke. Vollständige Ausgabe durch einen Verein von Freunden des Verewigten, Bd. 7, 1. Abtheilung. Vorlesungen über die Naturphilosophie als der Encyclopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse. 2. Theil, hrsg. von D. Carl Ludwig Michelet, Duncker und Humblot, Berlin 1842. 32.  Criticando la costruzione delle aggiunte di Michelet, Renault sottolinea che la scelta dell’allievo di non distinguere le diverse fasi storiche a cui appartengono le aggiunte hegeliane ha solo aggravato il pregiudizio di uno Hegel arretrato rispetto ai dibattiti del proprio tempo, cfr. E. Renault, La naturalisation de la dialectique, cit.

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Questo collage è all’origine di molti fraintendimenti della filosofia della natura hegeliana: le aggiunte che risalgono a un arco temporale di oltre venti anni (dal 1804-’05 al 1830) riportano stati della ricerca molto differenti e in alcuni casi hanno fatto pensare che la riflessione hegeliana si fosse fermata al dibattito di inizio Ottocento. Ma l’edizione Vera differisce in parte anche da quella di Michelet. Vera, come ci informa nell’Introduzione, aveva preso parte personalmente ai corsi hegeliani, utilizza perciò i suoi appunti del semestre invernale del 1821-’22, poi i tre quaderni del semestre invernale del 1823-’24 redatti da von Griesheim, Hotho e da lui stesso, infine il quaderno del Prorettore Geyer dell’estate del 1830. Quindi le aggiunte sono per lo più risalenti agli anni berlinesi, alcune vengono inserite direttamente nel testo principale, altre, considerate meno importanti, confluiscono nel commento. L’esito è quello che Vera definisce la Grande Philosophie de la nature. Ma a cosa si deve questo suo interesse per la Naturphilosophie? Nel 1860, quando Vera avviava la traduzione del primo tomo della Filosofia della natura, veniva pubblicato sulla «Revue des deux mondes» un articolo di Emile Edmond Saisset, Leibnitz et Hegel d’après des nouveaux documents33. In questo articolo, l’autore contestava a Hegel una posizione geocentrica e antinewtoniana sulla base della sua considerazione dell’uomo come termine ultimo della natura. Questa posizione che rivendicava anche l’appartenenza del Weltgeist alla Terra veniva rubricata dal commentatore come atea e materialista. Vera comprende dunque che se non si capisce tutto l’andamento del sistema non si potrà cogliere complessivamente la filosofia hegeliana, per questa ragione ritiene imprescindibile trattare con pari attenzione la sezione sulla filosofia della natura.

33.  E.E. Saisset, Leibnitz et Hegel d’après des nouveaux documents, in «Revue des Deux Mondes», vol. 30, 1860, pp. 961-996.

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E nella sua introduzione denuncia la compatibilità della scienza newtoniana con le visioni spiritualiste del mondo, rispetto alle quali una visione immanentista quale quella hegeliana appariva pericolosamente ateo-materialista. Dall’altro, Vera mostra quanto in quegli anni fosse ancora prevalente il paradigma meccanicista rispetto all’organicismo proposto invece da Hegel. Questo aspetto è molto interessante. Vera chiarisce che la concezione hegeliana dell’organizzazione dell’universo non metterebbe affatto in discussione la visione copernicana (e naturalmente nemmeno il movimento di rotazione della Terra intorno al Sole), ma piuttosto la declinazione newtoniana del meccanicismo. Pertanto, ribaltando l’accusa di geocentrismo che avrebbe posto Hegel tra gli anti-newtoniani e in un certo qual modo fuori da qualsiasi orizzonte scientifico accettabile, Vera sposta il discorso sulla limitatezza dei paradigmi newtoniani e meccanicistici come chiave d’interpretazione del mondo. Come nel suo lavoro sulla Fenomenologia, anche nel commento alla traduzione della filosofia della natura emerge chiaramente la critica allo statuto della ragione moderna, tanto nella declinazione kantiana quanto in quella newtoniana, intese come due facce della stessa medaglia. Il confronto con Newton e le tesi dei newtoniani rappresenta perciò il cuore della lunga introduzione (184 pagine, distribuite su 10 capitoli) le cui pagine centrali, oltre 70, sono interamente dedicate all’esposizione della teoria dell’universo, in un confronto serrato con le tesi copernicane e newtoniane e con l’accusa a Hegel di geocentrismo. Tale accusa, com’è noto, si basava sul fatto che Hegel non avrebbe riconosciuto la preminenza del Sole nell’universo, prevalenza che il copernicanesimo aveva costruito sulla sua assenza di movimento e sulla sua maggiore massa. Per la filosofia hegeliana invece il ruolo di questi due principi sarebbe stato discutibile. Non è infatti detto, chiarisce Vera, che la quiete sia superiore al movimento (si pensi, spiega l’interprete, ai popoli pigri e ai cavalli veloci), né

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tanto meno che sia la quantità e non la qualità a rappresentare il maggior segno di perfezione. Movimento e qualità sarebbero, agli occhi di Hegel, superiori in quanto espressione dei due caratteri della logica organica affermata proprio attraverso il dominio della biologia negli anni a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento e che rendevano inadeguati i principi astratti e immobili alla base della visione del mondo newtoniana. Con queste considerazioni Vera coglie un aspetto della critica hegeliana al newtonianesimo che è stato rimesso al centro delle più attuali riletture hegeliane34. Lasciando però da parte le discussioni più squisitamente scientifiche, mi sembra opportuno in conclusione di queste riflessioni, fermare l’attenzione sulle analisi di natura speculativa, nelle quali Vera mostra una profonda intellezione del sistema hegeliano. Uno dei punti che merita interesse è la critica che Vera rivolge all’opera di Alexander von Humboldt Kosmos. Entwurf einer physischen Weltbeschreibung35, un lavoro apparso in diversi volumi tra il 1845 e il 1862 (il quinto e ultimo volume uscirà infatti postumo). Il testo humboldtiano tratta vari aspetti dell’universo, dall’astronomia, alla fisica, alla geologia, alla geo­botanica fino alla dimensione della sensibilità degli uomini al mondo esterno. Le ragioni dell’interesse di Vera per il lavoro humboldtiano stanno con molta probabilità nel successo che esso ebbe in Francia a seguito della pubblicazione della traduzione fatta da H. Faye e C. Galuski, uscita con l’autorizzazione dello stesso Humboldt, e che cominciò a circolare già a partire dal 1846. È probabile che il successo della diffusione della visione 34.  Per brevità, per una ricostruzione di questo dibattito mi sia consentito di rimandare al mio lavoro: S. Achella, Pensare la vita. Saggio su Hegel, il Mulino, Bologna 2020. 35.  A. von Humboldt, Kosmos. Entwurf einer physischen Weltbeschreibung, Cotta, Stuttgart und Tübingen, 1845-62.

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humboldtiana rispetto a quella hegeliana sia riconducibile alla sua presa di distanza dal finalismo. Humboldt critica il finalismo come criterio euristico della natura. È opportuno chiarire che il filosofo si riferisce qui alla concezione kantiana della finalità intenzionale che, in quanto relativa agli scopi umani, non poteva essere considerata adeguata alla comprensione dei fenomeni del mondo. L’ambiente, per Humboldt, doveva essere concepito invece come indipendente dall’uomo, dai suoi scopi, dalla sua conoscenza. Ovviamente questo rendeva l’approccio scientifico humboldiano molto più credibile, agli occhi degli scienziati, di quanto non lo fosse l’impianto sistematico speculativo di Hegel. Siamo dinanzi alla critica centrale che verrà rivolta costantemente alla filosofia hegeliana, rea di aver voluto leggere la natura con gli strumenti dell’uomo. È perciò interessante vedere in che modo Vera reagisce a questa accusa. Innanzitutto, parte da una bocciatura del libro di Humboldt che giudica un manuale che non ha nessuna utilità se non quella di essere un “Book of reference”. Non solo, l’opera humboldtiana viene giudicata inefficace nella costruzione speculativa del sapere fisico e incapace di mettere in relazione la filosofia con la scienza. Starebbe invece tutto qui l’interesse del sistema hegeliano: Hegel aveva saputo costruire un sistema organico, vivente. La separazione della vita dal pensiero operata da scienziati come Humboldt non riuscirebbe invece a restituire il dinamismo della natura e del vivente. Per meglio chiarire questo aspetto, nei capitoli successivi Vera si sofferma perciò sul rapporto tra l’uomo e la natura, e tra pensiero e natura, per mostrare la loro relazione intrinseca. Come si legge nel capitolo sul Rapporto tra la natura e il pensiero, in gioco non è la subordinazione della fisica alla filosofia, ma l’appello a una scienza speculativa il cui obiettivo non sia quello di idealizzare la realtà fisica, ma piuttosto di cogliere le relazioni complesse che legano i fenomeni tra loro, complessità

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che non è dato comprendere al pensiero scientifico osservativo – come del resto aveva già mostrato nelle pagine dedicate alla Fenomenologia – che resta ancorato a una forma di relazione estrinseca tra i fenomeni. Hegel, secondo Vera, sarebbe pertanto ben più reattivo di Humboldt agli stimoli provenienti dal mondo delle scienze. Il merito di Hegel starebbe nella capacità di concentrarsi sui dati, mostrando l’utilità delle nuove scoperte scientifiche, ma analizzando accuratamente i metodi sperimentali e osservativi ne avrebbe messo in evidenza la par­zialità, l’apparente ingenuità e l’insufficienza. La natura può sì essere interpretata come un prodotto dei saperi positivi, ma questa conoscenza resta parziale, ad essa occorre aggiungere il punto di vista speculativo che consente di superare i limiti di una ragione puramente osservativa. Scrive Vera: Ainsi donc la pensée, la science et la nature sont liées par un rapport objectif, nécessaire et invariable. Mais la science est aussi la pensée, car connaître c’est penser. Il y a, par conséquent, deux pensées, la pensée scientifique et la pensée non scientifique. La pensée non scientifique est la pensée sensible et irréfléchie, la pensée qui pense l’objet, mais qui lui demeure extérieure, et qui ne s’est pas identifiée avec lui; ou bien encore, c’est l’esprit fini qui pense la nature, mais qui, ne s’élevant pas au-dessus d’elle, la pense à travers les signes et les images, accidentellement et par fragments.36

Hegel, sottolinea qui Vera, non rifiuta dunque la ragione riflettente delle scienze ma la considera semplicemente subordinata a una conoscenza più ampia dei fenomeni che chiama in gioco elementi anche culturali37. E chiarisce questo concetto con un 36.  A. Vera, Introduction, in G.W.F. Hegel, Philosophie de la nature, De Ladrange, Paris 1966, vol. I, p. 27. 37.  Emmanuel Renault ha di recente tentato di mostrare come nella sezione sulla filosofia della natura Hegel si affidi al sistema delle scienze, costruito

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esempio: tra la ruota e la mano che la muove non c’è un legame intrinseco. La ruota resta tale anche se la mano non la muove, ma la ruota è il prodotto di una mano, e dietro di essa di uno spirito che l’ha determinata e che dunque esprime, rispetto a quella ruota un legame molto più intrinseco che soltanto uno sguardo intessuto di elementi anche spirituali e culturali può restituire. In questo senso allora il pensiero speculativo rappresenta la forma di pensiero scientifico più alta. Che Vera avesse colto qualcosa che continuava a sfuggire agli altri discepoli di Hegel è provato non solo dall’interesse di Karl Rosenkranz ma anche dalle riflessioni che alla sua traduzione in più occasioni dedicò Carl Ludwig Michelet, ad esempio nella discussione del volume di Rosenkranz, che tenne nello stesso anno d’uscita del libro davanti alla Società filosofica, e il cui resoconto fu pubblicato nell’ottavo volume di Der Gedanke, la rivista da lui diretta. Vera viene citato qui come quel «nostro amico, [che] con la sua conoscenza del tedesco, del francese e dell’inglese, e con i suoi viaggi nei paesi ove si parlano questi due ultimi idiomi, nonché con scritti redatti in queste lingue, ha contribuito più di ogni altro straniero alla diffusione della filosofia hegeliana, del quale è un seguace ortodosso – più ortodosso di quanto Rosenkranz non voglia»38. Al tentativo di Rosenkranz di tirare dalla sua parte Vera, Michelet reagisce accusando il biografo hegeliano di teismo e di oscillare tra speculazione e empirismo, rispetto alla più fedele e coerente interpretazione di Vera. È evidente che anche nella filosofia della natura la posta in gioco era alta. Michelet voleva Vera tra le sue fila, verso uno Hegel creazionista, Rosenkranz cercava di attirarlo a sé, su moderate posizioni evoluzioniste. In discussione sulla ragione riflettente, e offra quindi una interpretazione dei fenomeni che non confligge con la filosofia ma che ha un suo spazio di autonomia epistemologica. Cfr. E. Renault, La naturalisation de la dialectique, cit. 38.  C.-L. Michelet, Der Gedanke, VIII, p. 98.

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c’era una visione complessiva della filosofia hegeliana. È un peccato che questa discussione sia andata in parte perduta, derubricata a pettegolezzo accademico e rancore personale. Essa avrebbe potuto offrire un ricco contributo all’interpretazione della filosofia della natura di Hegel evitando probabilmente qualche inutile fraintendimento. Così non fu, ma Vera aveva colto l’importanza e tutto il valore di queste pagine hegeliane. Probabilmente, essere stato troppo in anticipo sui tempi gli è costato un lungo esilio dal quale speriamo possa fare ritorno.

Indice

Lo spettro della Fenomenologia dello Spirito sull’hegelismo assoluto di Augusto Vera Introduzione di Giacomo Petrarca

p. 9

  La Fenomenologia dello Spirito di Hegel Nota del curatore

p. 45

Capitolo I L’esperienza e la Fenomenologia dello Spirito. Questioni preliminari

p. 49

Capitolo II Stesso argomento. Teorica delle categorie e della esperienza secondo Kant

p. 59

Capitolo III Stesso argomento. Concetto del sistema. Fenomenologia dello Spirito di Hegel

p. 73

Capitolo IV Stesso argomento

p. 87

Capitolo V Sunto della Fenomenologia dello Spirito di Hegel

p. 115

Appendice I La collocazione della Fenomenologia nel sistema (1872)

p. 153

Appendice II Alcune considerazioni sulle Logische Untersuchungen di A. Trendelenburg (1864)

p. 159

Appendice III La Filosofia dell’Hegel (1856)

p. 171



Saggi critici

Marco Moschini, Note sul profilo intellettuale di Augusto Vera: il suo tratto speculativo e la sua attualità

p. 181

Andrea Bellantone, Un idealismo senza idealità?

p. 197

Edoardo Mirri, Preliminari alla logica hegeliana

p. 213

Francesco Valagussa, L’assoluto e il fenomenale. Augusto Vera e la Fenomenologia dello spirito

p. 227

Giulio Goria, Dove ha presa il pensiero. Vera e Spaventa all’ombra di Hegel

p. 251

Vincenzo Vitiello, Due divergenti letture della Fenomenologia dello spirito: Augusto Vera e Bertrando Spaventa

p. 271

Stefania Achella, Scienza e ragione. Vera interprete della Naturphilosophie hegeliana

p. 293

Zeugma

Lineamenti di Filosofia italiana | Classici Diretta da: Massimo ADINOLFI e Massimo DONÀ

1. Pasquale Galluppi, Memoria sul sistema di Fichte. 2. Carlo Invernizzi, Lucentizie. L’enigma del tempo. 3. Massimo Adinolfi - Massimo Donà (a cura di), Trovarsi accanto. Per gli ottant’anni di Vincenzo Vitiello. 4. Luca Basile (a cura di), Croce e la revisione del marxismo. Antologia di testi critici. 5. Nicola Magliulo, Segni del presente. Prospettive di filosofia italiana contemporanea. 6. Vincenzo Vitiello, Hegel in Italia. Itinerari. I - Dalla storia alla logica. II - Tra Logica e Fenomenologia. 7. Massimo Donà, Un pensiero sublime. Saggi su Giovanni Gentile. 8. Mario Capanna - Massimo Donà - Luigi Vero Tarca (a cura di), Cháris. Omaggio degli allievi a Emanuele Severino. 9. Vincenzo Vitiello, L’Ora e l’attimo. Confronti vichiani. 10. Antonio Rosmini, Dell’amicizia. Alcuni inediti giovanili.

11. Massimo Donà, Apologia dell’immediato. Percorsi evoliani. 12. Gaetano Rametta, Il problema dell’esposizione speculativa nel pensiero di Hegel. 13. Leonardo Messinese, Nel castello di Emanuele Severino. 14. Vincenzo Vitiello, Immanuel Kant. L’Architetto della Neuzeit. Dall’abisso della ragione il fondamento della morale e della religione. 15. Augusto Vera, La Fenomenologia dello Spirito di Hegel.

Zeugma | Lineamenti di filosofia italiana 15 - Classici

Collana diretta da: Massimo Adinolfi e Massimo Donà Comitato scientifico:

Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

Augusto Vera (Amelia 1813 – Napoli 1885) è stato uno dei più importanti filosofi italiani della seconda metà dell’Ottocento. Celebre traduttore e divulgatore del pensiero hegeliano (a lui si deve la prima traduzione in francese dell’Enciclopedia di Hegel), fu attivo dapprima in Francia e in Inghilterra, dove ebbe contatti con i principali esponenti della scena filosofica dell’epoca. Rientrato in Italia nel 1859, fu chiamato da Francesco De Sanctis sulla cattedra di storia della filosofia dell’Università di Napoli. Il presente volume ripropone il testo integrale dell'ultimo corso che Vera tenne pochi anni prima della sua morte e che dedicò alla Fenomenologia dello Spirito. Si tratta di una testimonianza preziosa e senz’altro unica dell’interesse di Vera nei confronti dell’opera hegeliana del 1807 fino a quel momento completamente assente dalla sua interpretazione dell’hegelismo, in cui l’Enciclopedia (ossia il sistema nella sua forma più compiuta) aveva giocato un ruolo di indiscussa centralità. Il volume è corredato da una serie di contributi critici che inquadrano la riflessione di Vera all’interno del dibattito filosofico del suo tempo e dei motivi principali del pensiero hegeliano, di cui resta uno dei più significativi e rigorosi esegeti di tutti i tempi.

Saggi di: S. Achella, A. Bellantone, G. Goria, E. Mirri, M. Moschini, F. Valagussa, V. Vitiello.

ISBN ebook 9788855292054

€ 12,00