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Italian Pages 252 Year 2023
“[...] la via estetica apre alla creatività sociologica la possibilità di fare del metodo un’arte della ricerca orientata a cogliere la dimensione profonda della vita quotidiana.”
PIER LUCA MARZO LA CREATIVITÀ COME METODO SOCIOLOGICO
Pier Luca Marzo insegna Sociologia della creatività e dell’immaginario all’Università degli Studi di Messina. Attraverso l’approccio morfologico si è occupato della naturalizzazione del mutamento sociale, di teorie dell’immaginario, della costruzione tecno-scientifica della realtà, di accelerazione del tempo e postumano. È direttore della rivista “Im@go. A journal of the Social Imaginary” e della collana “Im@go Books” (Mimesis). Nel 2018 è stato tra i fondatori della sezione Immaginario dell’AIS (Associazione Italiana di Sociologia).
PIER LUCA MARZO LA CREATIVITÀ COME METODO SOCIOLOGICO
ISBN 978-88-5759-808-6
MIMESIS
Mimesis Edizioni Sociologie www.mimesisedizioni.it
22,00 euro
9 788857 598086
MIMESIS / SOCIOLOGIE
A differenza della speculazione astratta e del puro fantasticare, la creatività è un’attività immaginativa in grado di fuoriuscire dalla dimensione ideativa per oggettivarsi in prodotti originali: artefatti, invenzioni, scoperte scientifiche, opere estetiche, pratiche comportamentali, ecc. Non è soltanto una facoltà mentale. Nelle relazioni della vita associata, la creatività fuoriesce dall’interiorità individuale per incanalarsi nelle spirali del pensiero collettivo che costruiscono la realtà sociale. Opera anche nella comunità scientifica mutandone, ciclicamente, l’ordine paradigmatico entro il quale fondare le sue certezze teoriche e metodologiche. Ma come può agire il pensiero poietico all’interno della conoscenza sociologica? L’ipotesi esplorata dal saggio è quella di intendere la creatività come un metodo empiricoideale orientato a comprendere, tra arte e scienza, qualcosa di nuovo dalla realtà enigmatica, complessa e mutevole del sociale.
MIMESIS / SOCIOLOGIE N. 65 Collana diretta da Mariella Nocenzi (Sapienza Università di Roma) e Angelo Romeo (Università di Roma “ Guglielmo Marconi”) Comitato scientifico
Sandro Cattacin (Université de Genève) Marco Centorrino (Università di Messina) Vanni Codeluppi (Università IULM di Milano) Isabella Crespi (Università degli Studi di Macerata) Umberto Di Maggio (Università Lumsa, Campus di Palermo) Maria Caterina Federici (Università di Perugia) Giovanna Gianturco (Sapienza Università di Roma) Paolo Jedlowski (Università della Calabria) Michel Maffesoli (Universitè de Paris – Sorbonne) Maria Cristina Marchetti (Sapienza Università di Roma) Gemma Marotta (Sapienza Università di Roma) Maurizio Merico (Università di Salerno) Marildo Josè Nercolini (Universidade Federal Fluminense) Ercole Giap Parini (Università della Calabria) George Ritzer (University of Maryland) Domenico Secondulfo (Università di Verona) Jan Spurk (Université Paris Descartes – Sorbonne) Mariselda Tessarolo (Università di Padova) Junji Tsuchiya (Waseda University of Tokyo)
I testi della collana sono sottoposti a un processo di peer-review
Pier Luca Marzo
LA CREATIVITÀ COME METODO SOCIOLOGICO
MIMESIS
La presente pubblicazione beneficia del contributo dei fondi FFABR anno 2020 Università di Messina.
MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) www.mimesisedizioni.it [email protected] Collana: Sociologie, n. 65 Isbn: 9788857598086 © 2022 – MIM EDIZIONI SRL Via Monfalcone, 17/19 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone: +39 02 24861657 / 24416383
INDICE
Creatività, crisi, generatività. Una prefazione di Ercole Giap Parini7 LA CREATIVITÀ COME METODO SOCIOLOGICO Introduzione
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I. Le spirali della creatività 1. Creatività e/è metodo 2. Le metamorfosi del pensiero 3. La poietica della vita associata 4. Le visioni scientifiche del reale 5. La creazione sociologica dell’essere sociale a Il metodo dell’ontologia positiva b Il metodo dell’ontologia comprendente
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II. L’immaginario sociale tra arte, scienza e tecnica 97 1. La natura immaginaria dell’Homo98 2. L’ambiente socio-antropologico 105 3. L’immaginazione creativa dell’individuo 115 4. Il Rinascimento della tecnica 128 a La macchina della raffigurazione 130 b La macchina della verità 136 5. L’immaginario neutro 143 III. La creatività come Rinascimento sociologico 1. La crisi creativa della sociologia
155 161
2. Baudelaire e Simmel: per una letteratura scientifica dei fatti sociali 3. Il museo e il reticolo epistemico 4. Le strade del metodo estetico 5. I quadri della vita sociale Bibliografia
169 182 196 216 231
Ercole Giap Parini
CREATIVITÀ, CRISI, GENERATIVITÀ Una prefazione
Se i sapiens sono davvero sapiens è in virtù di una sorta di rivoluzione cognitiva che la paleoantropologia data a circa sessantamila anni fa: ne è traccia una statuina umana con la testa di leone, testimonianza della tensione e dello sforzo a dare forma a cose che non ci sono e che la mente ha comunque imparato a vedere, aprendo occhi interiori alla ricerca di configurazioni inedite. Come un uomo con la testa di leone, appunto. Facoltà immaginativa che non si ferma a concepire creature inesistenti ma diventa capacità anticipatoria: immaginare le cose prima che accadano permette di avere un certo controllo sul futuro. Per esempio, permette di immaginare i pericoli incombenti e quindi di dar corso, attraverso ragionamento logico, ad azioni volte alla protezione o, addirittura, a ricavarne qualche vantaggio: strategie efficaci, ma soprattutto spiazzanti, contro le fiere, i nemici o gli eventi naturali, che, per sorte evolutiva o materica, non posseggono quelle stesse facoltà. Le strategie di difesa possono diventare, con altrettanto sforzo immaginativo, di attacco, così come preludio di altre manie di grandezza. Ed ecco all’opera questa capacità tutta sapiens, che ha fatto coltivare desideri emulativi: la possibilità di volare più in alto degli uccelli, di correre più velocemente del ghepardo e di essere temuti addirittura più del leone o dell’orso delle caverne. Chi ha un poco di dimestichezza con la nostra civiltà coglierà – anche con un sentore di vetustà – le tante realizzazioni di questi sogni e pretese che forse, all’epoca, dovevano apparire un poco fuori portata (nel momento in cui scrivo sto viaggiando a quasi trecento chilometri orari, a bordo di un treno ad alta velocità). La creatività, come tante cose umane, è data dalla coesistenza di opposti, che si esprime in una tensione generativa: espressione
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La creatività come metodo sociologico
di libertà che consiste nell’immaginare cose che non ci sono e, al contempo, dare forma alle stesse imbrigliando quella fantasia nelle regole logico combinatorie di un metodo orientato all’oggettivazione. Creazione anche come scontro, attrito, frizione tra pietre da cui, per strofinamento, viene al mondo la scintilla. È così che sogni, ma anche deliri, si oggettivano, diventano cose che ci sono. Attitudine e capacità umana, la creatività, ma che dà l’illusione di fare sporgere sull’illusorio e pericoloso precipizio del divino. Ne fece le spese, tra i primi, il povero Icaro, avvicinandosi talmente tanto al sole che la cera che teneva insieme le penne si sciolse, provocando l’immancabile disastro. La creatività a partire da mondi immaginati ha segnato la nostra preistoria e la nostra storia: permettendo di affrontare e dare soluzione a differenti tipi di problemi. Essa ha alimentato la cosiddetta cultura materiale, rendendo quella Τέχνη, che indica il saper fare, sempre più complessa e prepotente nella definizione del rapporto con l’ambiente: immaginando come scoccare, con un cavo teso tra i due estremi di un ramo ricurvo, una freccia, ossia una punta di selce affilata, immaginata in un suo prolungamento con un ramo dritto; addomesticando l’acqua e la terra perché accogliessero sementi; immaginando forze di trazione sempre più potenti … e alla fine di questo elenco rischiamo di trovare un individuo che ticchetta questi stessi pensieri sulla tastiera facendoli quindi rapprendere su di un foglio elettronico. Con quella stessa capacità, è stato possibile concepire storie, miti e leggende ad uso di gruppi e di singoli: e da qui una fantasmagoria di spiritelli magici, cosmogonie, miti, leggende, religioni e tante altre schiere di narrazioni, più o meno fondative, nella disperata ricerca del senso da dare alla vita che appare priva di senso. E regole, principi, etica e morale. Anche di immaginare suoni in sequenza e quindi la armonia della musica e dei versi. E senza dimenticare che, in questa approssimativa sequenza, quella stessa capacità è stata messa a servizio della distruzione dell’altro, immaginando lo sterminio di nemici e di competitor, intesi come impicci (per la sopravvivenza, per la religione, per la razza e la linea evolutiva, per la politica e il dominio), sono stati sterminati davvero i Neanderthal e i cristiani delle catacombe,
E. Giap Parini - Creatività, crisi, generatività9
gli Aztechi e gli Inca, gli Armeni e gli Ebrei, solo per fare una incompletissima rassegna di quella mostruosità distruttiva che tracima delirante onnipotenza. Tutte queste cose, che ci ostiniamo a chiamare “conquiste” in forza di chissà quale altro atto creativo o immaginifico, hanno a che fare con la finzione, che è appunto capacità di vedere le cose per come non sono nella immediata realtà percepita. In fondo fingere significa dare forma, foggiare, e, per estensione, dare corpo alle proprie aspirazioni, ai propri desideri di emancipazione e ai propri sogni. Così come alle paure, agli incubi e ai deliri. Il mito di Prometeo ha a che fare con tutto questo, non tanto per l’aver portato agli uomini il fuoco della conoscenza, che hanno la responsabilità di quell’ardere, ma piuttosto per essere colui che sa prevedere, προμανϑάνω. Prevedere significa anticipare un mondo immaginario, che non c’è, vivendo in questo futuro che sempre di più rappresenta la dimora che dà senso all’oggi. Anche il sapere più evoluto, magari quello scientifico che tanto senso dà alla nostra vita, è miscela creativa, di sapere deduttivo e induttivo (che significa immaginare i fili che legano la teoria con l’empirico per poi rafforzarli con calcoli di varia natura), e memoria analogica che immagina modelli in ciò che è stato già visto ed esperito. Un poco come la sarta che immagina un fantoccio di paglia e pezza come modello alle proprie creazioni di tessuto. Venendo a forme di sapere a noi più vicine, ci vuole immaginazione e creatività per rappresentare, e studiare, la società come un orologio, una macchina, un organismo biologico, un sistema cibernetico, una costellazione di senso. Per affrontare l’ignoto bisogna poggiare i piedi cognitivi sul noto, immaginando creativamente i ponti tra questo e quello. Sforzo che dà un senso al contingente che non basta. Ma la storia della creatività e dell’immaginazione si può trasformare nella storia della stessa crisi della creatività e dell’immaginazione. Crisi che assume la forma di un mondo costruito creativamente che si ammassa pesante sulla immaginazione, e lo strumento animato dalla ragione diventa il fine della nostra vita. Un dato per scontato con il quale abbiamo messo sul trono i nuovi idoli della tecnica, del capitale e dellègiàstatofatto:
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La creatività come metodo sociologico
quella che un tempo i filosofi chiamavano vita si è ridotta alla sfera del privato, e poi del puro e semplice consumo, che non è più se non un’appendice del processo della produzione, senza autonomia e senza sostanza propria. Chi vuol apprendere la verità sulla vita immediata deve scrutare la sua forma alienata, le potenze oggettivate che determinano l’esistenza individuale fin negli anditi più riposti.1
Non che la creatività venga meno, piuttosto viene ad essere individualizzata, intimizzata nei percorsi personali, confinata nel domestico, perdendo uno dei suoi aspetti fondativi, quel suo carattere cooperativo, corale, che prende senso nell’essere di tutti e per tutti. C’è, infatti, un rapporto stretto tra la cooperazione e la creatività, ultimo passo di un percorso condotto da altri e insieme ad altri. Silvia Ferrara, in un avvincente libro dedicato agli inizi dell’immaginazione creativa (2021), scrive che per creare “serve l’idea di comunità, di comunicazione, di “sentire insieme” di condividere”2. Senza questo, rimane il solipsismo della mente che si specchia nella sua fantasia. Per il resto, quella mente alienata domina anche i luoghi tipici della creatività: la ricerca scientifica, prima animata dalla genialità di individui prodigiosamente creativi, è stata costretta pervicacemente lungo le linee di apparati tecno-scientifici, di macchine, di capitali e di esperienze consolidate che seguono una linea dettata da tecnostrutture, ovvero da apparati mastodontici: processo di segmentazione dei saperi che rischia di trasformare lo scienziato in appendice tecnica, animato da una responsabilità limitata, alla ricerca di risultati programmati e di conoscenze indotte dalle stesse procedure. Dove ha sempre meno spazio il pensiero creativo, laterale, che permette di uscire dal paradigma e da quello stesso sentiero sedimentato dell’apparato che ne sarebbe immancabilmente negato, insieme a tutto il suo peso inerziale di interessi materiali e simbolici. 1 2
Theodor W. Adorno, 1979, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, Torino, Einaudi, (ed or. 1951), p. 3. Silvia Ferrara, 2021, Il salto. Segni, figure, parole: viaggio all’origine dell’immaginazione, Milano, Feltrinelli, p. 13.
E. Giap Parini - Creatività, crisi, generatività11
Nelle scienze sociali, nonostante la maggiore leggerezza economico finanziaria, i processi creativi sono altrettanto sepolti o embedded in un sentiero che si fatica a mettere in discussione. E questo sembra riguardare tanto gli approcci quantitativi, che mettono in evidenza una capacità di far di calcolo che raramente mette in discussione le categorie, traducendosi in quella contabilità del sociale – che già Robert Nisbet stigmatizzava al principio degli anni Sessanta del secolo trascorso3 – tanto quelle qualitative, che rischiano di fossilizzarsi nella riproposizione di tecniche apprese al di là della delineazione creativa di nuove questioni, problemi e concetti. Sembra essere dimenticata e sepolta nei tempi dell’esame universitario quella frase di Max Weber in cui mette in evidenza l’essenzialità del sapere intuitivo e creativo insieme al lavoro metodico, rappresentando essi le due inscindibili, per quanto contraddittorie, facce della medesima medaglia della ricerca sociale: L’idea non sostituisce il lavoro. E il lavoro, da parte sua, non può sostituire o suscitare a forza l’idea, più di quanto non possa farlo la passione. L’una e l’altro – soprattutto entrambi insieme – la suscitano. Ma essa viene quando le aggrada, e non quando piace a noi. È infatti vero che le cose migliori vengono in mente a qualcuno – come dice Ihering – fumando il sigaro sul divano, oppure – come narra di sé Helmholtz con precisione di scienziato della natura – passeggiando per una strada lievemente in salita, o in modo analogo, ma in ogni caso quando non le si aspetta, non già lambiccandosi e cercando a tavolino.4
Costitutività della creatività per ciò che riconosciamo umano è la rivendicazione che regge il libro di Pier Luca Marzo, secondo il quale “il processo creativo è la quintessenza delle dinamiche mentali”: movimento spiroidale dal quale promanano immagini che sono il preludio all’oggettivazione di qualcosa che è nuovo.
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Cfr. Robert Nisbet, 2016, Sociologia e arte, Sesto San Giovanni, Mimesis (ed. or. 1962). Max Weber, 2018, Il lavoro intellettuale come professione, Milano, Mondadori (ed. or. 1917-1919), pp. 10-11.
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La creatività come metodo sociologico
Creatività come processo a cui è affidata inoltre la funzione di mediare, che significa anche definire, il rapporto dell’uomo con il suo ambiente: “la creatività non è soltanto una facoltà mentale. Nelle relazioni della vita associata, la creatività fuoriesce dall’interiorità individuale per incanalarsi nei processi della mente sociale che costruiscono la realtà”. Si può ben capire, da queste poche battute, come riflettere sui processi creativi costituisca non tanto e non soltanto un progetto orientato a disvelare un aspetto del sociale, ma sia una prospettiva privilegiata dalla quale dare senso al sociale. Di più, Marzo mette in guardia dalle tante minacce, invero alcune di queste giunte a uno stadio avanzato, a questa facoltà tutta umana e tutta sociale che consiste nel ridefinire costantemente il rapporto con l’ambiente: se i meccanismi del capitale ne sussumono le dinamiche, oggettivandole, si incista quel processo di alienazione che rischia di essere definitivamente spiazzante. Ma questa volta a livello di specie. Come in un vortice della logica, è proprio dalle crisi, ovvero dalla loro percezione, che gli slanci dinamici e creativi possono prendere corpo. È una questione di scelta, come lo stesso etimo della parola crisi rivela. Un etimo e una radice che, almeno per assonanza, accolgono quel sanscrito kar da cui promana la parola creatività e che indica una tensione a produrre e mettere al mondo quel che non c’era. Restringendo il campo di perlustrazione di questa possibilità alle scienze sociali, emerge una rinnovata possibilità di riflettere sulla natura del sociale. L’invito di Marzo è a pensare a strane e nient’affatto semplici alleanze, per esempio tra la sociologia e l’arte, dove quest’ultima, con un colpo di reni teso a svincolarsi dalle costrizioni della modernità, riprenda quel senso orientato a conoscere, negato per molto tempo dalle lusinghe di un mercato che in essa cerca ristoro e l’effimero. Alleanza che si definisce intorno a quel guizzo intuitivo, e quindi creativo, che permette di concepire rinnovate chiavi di lettura per decifrare un sociale la cui complessità rende vecchio ogni strumento. egp
Questo cosmo non lo fece nessuno degli dèi né degli uomini, ma sempre era, ed è, e sarà, Fuoco sempre vivente, che con misura divampa e con misura si spegne. Eraclito
Pier Luca Marzo
LA CREATIVITÀ COME METODO SOCIOLOGICO
INTRODUZIONE
Il rapporto tra creatività e metodo spesso viene concepito come antagonistico o conflittuale: da un lato, l’intuizione creativa, dall’altro il rigore di un percorso tracciato e definito. Nella costruzione del sapere sociologico, quando si affinano i metodi e le tecniche statistiche, questa conflittualità appare nella sua forma forse più evidente. L’introduzione di metodi standardizzati di raccolta e di analisi dei dati è stata percepita da alcuni (Znaniecki, Mills, Nisbet, Gouldner, ad esempio) come riduzione della complessità analitica della disciplina. Nella conferenza sulla Scienza come professione, Weber è stato tra i primi a criticare la trasformazione della ricerca storico-sociale in una fabbricazione di dati prodotti con le stesse modalità seguite “nei laboratori o nelle cartoteche statistiche soltanto con il freddo intelletto” in cui “ciò che alla fine ne viene fuori è spesso irrisorio” (1917: trad. it. 2001,14). Sorokin, a metà del ‘900, definisce quantofrenica la tendenza a restringere l’analisi sociale entro una modalità statistico-numerologica di sondaggio dell’opinione che non ha “nulla in comune con la vera matematica e, soprattutto, non ci aiuta a penetrare nel mondo psico-sociale” (1956: trad. it. 1965, 111). Si tratta di un approccio quantitativo che ha sedotto un numero crescente di ricercatori, affascinati dall’idea di essere i veri detentori del metodo sociologico, che li ha portati a giudicare gli studi non quantitativi come filosofie da tavolino oppure, come scrive sempre Sorokin, “un esercizio letterario inesatto, superficiale e inverificabile” (ivi, 112). Questo potrebbe indurre a individuare una maggiore prossimità tra creatività e metodo nel contesto delle tecniche di ricerca qualitative basate su modalità elastiche, flessibili, adeguate
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La creatività come metodo sociologico
all’oggetto, che consentono al sociologo di raddrizzare il tiro ogni qual volta le presupposizioni insite nella domanda di ricerca si mostrano inappropriate. Non è così. Anche i metodi non standard limitano la complessità dei fenomeni sociali a ciò che rientra nelle loro tecniche di raccolta dei dati: l’osservazione partecipante, l’intervista in profondità, il focus group, l’analisi dei prodotti culturali (testi letterari, fumetti, film, serie tv, merci di culto, ecc.). Una volta applicati meccanicamente, i percorsi di ricerca qualitativi sono anch’essi una sorta di prefigurazione dei risultati, nel senso che predefiniscono ciò che è possibile osservare e dunque analizzare. Malgrado ciò, il sociologo qualitativo si differenzia dall’approccio quantofrenico per riservare a sé il ruolo di fine osservatore e interprete dei fenomeni collettivi, senza rendersi conto di essere parte di un empirismo altrettanto astratto (cfr. Mills 1959). L’opposizione tra qualità e quantità, generativo di un dibattito lungo e spesso infruttuoso, non ha fatto altro che definire “i confini di specifiche tribù, di confraternite accademiche, ciascuna con il proprio gergo iniziatico” (Cardano 2021, 28). Tribù che hanno feticizzato il metodo (cfr. Simmel 1912) da punti di vista divergenti, invece di considerarlo come un costrutto del pensiero scientifico suscettibile, quindi, di essere trasformato dalla creatività sociologica. Una volta che si dispone di un’attitudine non dogmatica alla ricerca, la creatività si può esprimere, è bene specificarlo, sia nei metodi quantitativi che qualitativi. Come ci ricorda Marradi (1996, 72), la parola “metodo” ha origine dal prefisso greco met- con cui si indica “oltre, al di là” e dal sostantivo hodós col significato di “strada”. Il met-hodós, pertanto, è riferibile a ciascun percorso orientato ad ampliare la conoscenza attraverso una riflessione metodologica aperta, inoltre, alla possibilità di innovare le tecniche di raccolta dei dati. Ricompreso in questa accezione più ampia e complessa, Marradi considera il metodo come l’arte del saper fare ricerca. Se si pone attenzione agli studi delle dinamiche psicologiche della creatività (mi riferisco in particolare a Vygotskij, Neumann e Koestler) si scopre che anch’essa è un méthodos, un percorso mentale che va oltre il senso ordinario del mondo grazie a salti
Introduzione 19
logici generati da immagini intuitive capaci di oggettivarsi in artefatti, invenzioni, opere estetiche e scientifiche. Alla luce di queste considerazioni introduttive, la dicotomia creatività/metodo comincia a rivelarsi fuorviante, mal posta e tutto sommato non necessaria: l’ideazione creativa deve seguire sempre un determinato metodo (costruttivo, scientifico, artistico) per potersi sostanziare in un prodotto originale; il metodo, a sua volta, è in virtù di un’immagine creativa che può interrompere la sua processualità circolare, controllata, sequenziale e predefinita per tracciare un nuovo percorso conoscitivo. Questo mio libro è dedicato al rapporto tra creatività e metodo approfondendolo, in particolare, nel contesto della sociologia. La possibilità di declinare la creatività come una conoscenza metodologicamente orientata è stata esplorata, anche se indirettamente, dai percorsi meno ortodossi della disciplina. Mills, ad esempio, traspone la creatività nel campo dell’immaginazione sociologica, intesa come la facoltà utile a favorire una ricerca libera da codici procedurali rigidi. L’uso dell’immaginazione riabilita il ruolo del sociologo come artista intellettuale (cfr. Mills 1959: trad. it. 2014, 234) – figura marginalizzata dopo la fase istituente della disciplina – interessato alla creazione di teorie e metodi della ricerca sociale. In Sociology as an art form (1969), Nisbet mostra come i padri della sociologia si siano serviti di immagini intuitive per cogliere i mutamenti della società industriale del XIX secolo. I quadri teorici di Tocqueville, Weber, Simmel, Töennies e Durkheim non sarebbero altro, agli occhi di Nisbet, che dei paesaggi sociologici della modernità creati attingendo a processi analoghi a quelli utilizzati dagli artisti. Sia Mills che Nisbet individuano, dunque, il connubio tra creatività e metodo nelle analisi sociali prodotte dai classici della sociologia. Morin, da parte sua, considera il metodo non come uno schema di osservazione dato a priori, ma come uno strumento che deve essere creato durante le fasi della ricerca in relazione alla specificità dell’oggetto di studio. Solo così è possibile mettersi in cammino in un percorso di conoscenza “che non soltanto rispetti, ma riveli il mistero delle cose” (Morin 1977: trad. it. 2001, 19).
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La creatività come metodo sociologico
Più recentemente, anche nella sociologia italiana non mancano i tentativi di superare la dicotomia tra creatività e metodo. Giorgi, Pizzolati e Vacchelli hanno raccolto nel volume Metodi creativi per la ricerca sociale (2021) una serie di esperienze di ricerche condotte attraverso tecniche di analisi sperimentali. Il loro intento è di mappare, definire e far dialogare gli approcci creativi non canonizzati dagli ambiti accademici tradizionali sottolineandone, inoltre, il carattere etico e partecipato. Queste metodologie alternative, infatti, permettono al ricercatore di costruire il dato in relazione ai saperi diffusi negli individui e nei gruppi oggetto delle sue osservazioni. Pertanto, l’impiego della creatività nella ricerca sociale è stato e continua ad essere presente nel dibattito sociologico. Un dibattito che però continua a lasciare sullo sfondo delle domande cruciali: cos’è la creatività e quali sono i piani in cui si esprime? Cosa accomuna e differenzia la creatività scientifica da quella artistica? Ci sono delle indicazioni da cui partire per usare la creatività come metodo sociologico? Ho suddiviso il saggio in tre parti per affrontare ciascuna di queste questioni. Nella prima, mi sono servito della spirale come forma idealtipica per descrivere la dinamica del pensiero creativo. La spirale è l’esito dello sviluppo di una curva tracciata da un punto che ruota attorno a un’origine fissa, detta polo, senza compiere una circonferenza perfetta come nel cerchio, ma delle spire tracciate da un raggio vettore variabile. Nel pensiero creativo, l’immagine intuitiva è il punto da cui ha origine un movimento spiroidale che si distanzia, progressivamente, dall’universo mentale per esternalizzarsi in un oggetto di realtà caratterizzato dall’originalità. A differenza della speculazione astratta e del puro fantasticare, attività cognitive che restano confinate nel campo ideativo, la creatività è un processo immaginativo in cui la visione si sostanzia in qualcosa di concreto cambiando, e in alcuni casi sovvertendo, l’ordine consolidato del mondo. La creatività non è soltanto una facoltà mentale. Nelle relazioni della vita associata, la creatività fuoriesce dall’interiorità individuali per incanalarsi nelle spirali del pensiero collettivo
Introduzione 21
che costruiscono la realtà sociale. La creatività opera anche nella scienza mutandone, ciclicamente, l’ordine paradigmatico entro il quale fonda le certezze delle sue teorie e dei suoi metodi. È in virtù di ciò che mi occupo di analizzare e specificare la spirale della creatività nella vita mentale, nei processi psico-sociali e nell’ambito del sapere scientifico. La seconda parte del saggio si occupa dell’immaginario sociale, nozione essenziale per analizzare le affinità creative che intercorrono tra arte e scienza. L’immaginario è stato inteso non in opposizione al reale ma, al contrario, come l’ambiente socialmente e storicamente determinato (composto da simboli, sentimenti collettivi, credenze, conoscenze, memorie condivise, schemi dell’agire) che istituisce la realtà storico-sociale. La spirale creativa dell’artista e dello scienziato penetrano, con modalità differenti, nell’ambiente immaginativo della loro epoca cristallizzandolo nelle loro opere. Non solo. Arte e scienza riescono ad anticipare i mutamenti dell’immaginario sociale. Per mettere in luce questa capacità prefigurativa, analizzo la formazione dell’immaginario moderno attraverso la nascita della prospettiva pittorica e del metodo scientifico. Arte e scienza hanno contribuito a creare, in questo caso, quella visione tecno-neutrale del mondo che struttura e regola la complessità delle società contemporanee. La parte finale del saggio pone al centro la creatività sociologica. La mia ipotesi è che la creatività possa essere considerata come un metodo orientato a comprendere, tra arte e scienza, qualcosa di nuovo della realtà enigmatica, complessa e mutevole del sociale. È un’ipotesi che sviluppo comparando le analisi della modernità di Baudelaire e Simmel. Baudelaire, nel saggio Il pittore della vita moderna, si avvale di un vero e proprio metodo estetico per osservare e descrivere i mutamenti sociali nel contesto della Parigi del XIX secolo. Simmel trasforma l’estetica in un’arte della ricerca per estrarre l’essenza dell’immaginario moderno, prodotto dalla spiritualizzazione del denaro, dalle forme associative della vita metropolitana.
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La creatività come metodo sociologico
L’individuazione dei punti di convergenza tra l’approccio baudelairiano e simmeliano, tra letteratura e scienza sociale, è stata preziosa per ricavare quelle indicazioni utili, ancora oggi, a dare un fondamento metodologico alla creatività sociologica. Il lungo e intenso periodo di ricerca confluito nel saggio è stato costellato da incontri, discussioni, confronti con persone che desidero ringraziare. Lucilla Mininno e Dario Altobelli sono stati preziosi per avermi segnalato, grazie alla loro attenta e scrupolosa lettura, gli errori e i passaggi meno chiari disseminati nelle bozze del testo. Si trascura spesso l’importanza dei luoghi in cui si trova riparo per riflettere su ciò che si sta scrivendo. Nel mio caso, è stato lo scenario terracqueo dello Stretto ad avermi permesso di rimescolare i pensieri. Ringrazio per questo Valeria, Petit e Vittorio per avermi accolto nella “pier-zone” del Lido Horcynus Orca. Altrettanto importante è stato il tempo donatomi da Sophie e Félix. Il loro amorevole supporto mi ha permesso di superare i momenti più difficili della gestazione del libro. Devo poi ringraziare Giap Parini per la prefazione, amico con cui da anni discuto sulle affinità tra arte e sociologia. Infine, un ringraziamento speciale va a Marco. Senza le sue critiche affilate non sarai mai riuscito a dare forma al saggio che ora offro alla creatività del lettore.
I LE SPIRALI DELLA CREATIVITÀ
Le ricerche condotte da Antonio Damasio nel campo neurologico hanno dato un contributo decisivo nella definizione dell’attività mentale come un continuo processo formativo di immagini (cfr. 1994: trad. it. 1995). Informazioni percettive, stati emozionali e contenuti concettuali si confondono e trasfigurano nelle immagini mentali (ivi, 245). Una metamorfosi incessante che dà vita a Lo strano ordine delle cose (cfr. Damasio 2018: trad. it 2021) che si aggira nell’universo mentale dell’uomo: l’unico animale a poterlo generare ed espandere nella sua coscienza. Non si tratta unicamente di un universo speculativo. Al suo interno, come specifica Damasio (cfr. ivi, 76-77), l’uomo elabora le mappe cognitive che in-formano l’agire senso-motorio con cui si orienta nel mondo. Grazie al flusso delle immagini messe in forma lungo le complesse ramificazioni delle reti neurali, la mente umana ottiene una libertà di movimento preclusa alle altre specie, il che le consente di mobilitare il pensiero in direzioni molteplici: convergere per concentrarsi su qualcosa; elevarsi verso i piani dell’astrattezza matematica e filosofica; contemplare ciò che appare nel campo percettivo; perdersi in realtà fantastiche o inseguire orizzonti utopici; linearizzarsi in percorsi razionali per raggiungere un determinato scopo; rinchiudersi nel circolo vizioso delle ossessioni o espandersi in stati di gioia e piacere; cadere durante il sonno nel mondo onirico dei sogni governato da leggi che sfuggono alla vigilanza della coscienza. Il processo creativo è la quintessenza delle dinamiche mentali. In questo caso, il pensiero traccia un movimento spiroidale lungo il quale configura immagini originali che fuoriescono dalla mente per oggettivarsi in qualcosa di nuovo: artefatti, scoperte e invenzioni, prodotti intellettuali, opere estetiche, pratiche comportamentali, ecc.
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La forma della spirale è l’esito dello sviluppo di una curva tracciata da un punto che ruota attorno a un’origine fissa, detta polo, aumentando in modo continuo la distanza da essa. In questo movimento avvolgente, il punto non compie una circonferenza perfetta, come nel cerchio, ma delle spire che variano di ampiezza secondo un raggio vettore variabile. Nel pensiero creativo, è l’immagine il punto che dà origine a un movimento rotatorio che si distanzia, progressivamente, dall’intangibilità dell’universo mentale per esternalizzarsi in un oggetto di realtà caratterizzato dall’originalità. Forme spiroidali sono presenti nel mondo delle piante (viti, convolvoli) come nel mondo organico (lumache, conchiglie, nei molluschi cefalopodi appartenenti al genere Nautilus). Sono forme naturali che le culture umane hanno ripreso e rielaborato da sempre, dai labirinti unicursali dell’arte rupestre fino alla spirale logaritmica prodotta dalla rappresentazione geometrico-matematica (cfr. Durand 1963: trad. it. 1996, 315). Si legge nel dizionario dei simboli di Jean Chevalier e Alain Cheerbrant alla parola “spirale”: In tutte le culture si riscontra questa figura carica di significati simbolici: si tratta di una linea che si avvolge su se stessa, a imitazione forse delle numerose spirali che si incontrano in natura, ad esempio nelle conchiglie. È un motivo aperto e ottimista. Essa rende manifesto il movimento circolare che esce dal punto di origine; essa mantiene e prolunga all’infinito questo movimento; è il tipo di linea senza fine che collega incessantemente le due estremità del divenire… la spirale è ed esprime emancipazione, estensione, sviluppo, continuità ciclica in progresso, rotazione di creazione (1969: trad. it. 1994, 420).
La spirale è, dunque, un segno carico di simbologia che ha attraversato, e continua ad attraversare, le strutture profonde del pensiero collettivo con significati diversi, ma tutti connotati dall’equilibrio “contradditoriale” (Maffesoli 1990, 16)1 tra oppo1
Scrive Maffesoli nel saggio Au creux des apparences: pour un éthique de l’esthétique: “Per riprendere un neologismo coniato dal fisico S. Lupasco, questa miscela obbedisce ad una logica “contraddittoriale” che non intende superare
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sti: è una figura chiusa e aperta; conserva la sua identità pur evolvendosi; ha un’origine fissa e un punto mobile che la sviluppa; indica una dinamica progressiva che allo stesso tempo ritorna su sé stessa. L’itinerario di ricerca qui proposto seguirà il movimento della spirale per comprendere la relazione tra creatività e metodo. Termini apparentemente dicotomici e che qui, invece, saranno intesi come le parti di uno stesso movimento contradditoriale in grado di trasformare i processi cognitivi, la vita associata, il pensiero scientifico. La sociologia, oltre ad essere la prospettiva di analisi di queste trasformazioni, sarà il piano entro il quale osservare la dinamica spiroidale tra creatività e metodo. Questo piano di osservazione ci porterà a interrogare, in chiave riflessiva, le categorie gnoseologiche della sociologia, l’epistemologia con la quale si differenzia dalle altre scienze e il metodo con cui essa entra in contatto empirico con i fenomeni collettivi. Gnoseologia, epistemologia e metodo sono le parti che creano la conoscenza sociologica (cfr. Corbetta 1999; Bruschi 2005; Marradi 2007). 1. Creatività e/è metodo Ovunque si cerchi l’uomo fuori dal quadro tassonomico, lì dove è incasellato come Homo sapiens, non lo si trova mai uguale a sé stesso. Oltre a evolversi in base alle leggi della selezione naturale sistematizzate da Charles Darwin (cfr. 1856: trad. it. 2001), oltre a mutare come genotipo per effetto delle irregolarità di trasmissione del codice genetico veicolato dall’mRNA messaggero (cfr. Bonosio /Giaimo 2008, 17-54), l’uomo si trasforma secondo una propria dinamica d’ordine spirituale con la quale trascende l’organicità2. Pur essendo una delle tante diramazioni dell’ordine
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le contraddizioni in una sintesi perfetta, ma le mantiene al contrario in quanto tali l’equilibrio contradditoriale” (1990, 16). L’espressione è stata ripresa e sviluppata da Fabio D’Andrea nei saggi L’uomo mediano. Religiosità e Bildung nella cultura occidentale (2005, 25) e Un mondo a spirale. Riflessioni a partire da Michel Maffesoli (2014). La nozione di “spirito” la riferiamo a quanto scrive Max Scheler nel saggio La posizione dell’uomo nel cosmo: “ora che cosa è questo ‘spirito’, questo
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naturale, il processo di ominazione si è sviluppato secondo processi storico-culturali al punto da rendere impossibile definire in termini univoci la specie umana. È per tale ragione che l’uomo, ovunque lo si cerchi, appare sempre come un organismo avvolto da una pelle culturalmente mutevole. Lo spazio geografico è disseminato dalle mute lasciate nel corso del tempo dalle metamorfosi delle culture umane. L’archeologia le ritrova sotto forma di architetture sacre e profane, utensili, ornamenti, artefatti, armi, sistemi tecnici, oggetti estetici. Sono reperti di ciò che resta dei rami rinsecchiti della Storia, e lungo i quali l’uomo si è trasfigurato cambiando la pelle della sua cultura. Se dal passato volgiamo lo sguardo al presente, possiamo costatare come lo spirito che anima il processo di ominazione continui non solo ad essere rinnovato dalle società contemporanee, ma a far maturare e deperire con sempre più velocità le immagini nelle quali poter ridefinire l’identità umana. L’unico elemento fisso dell’uomo sembra essere, dunque, la variabilità stessa delle realtà storico-culturali nelle quali si è differenziato nel tempo e nello spazio. Secondo Max Scheler (cfr. 1997), è una costante antropologica da ricondurre alla particolare posizione occupata dall’uomo nel cosmo naturale poiché, a differenza degli altri animali, egli è l’unico essere aperto al reale. Incapace di distanziarsi dall’ambiente, la vita animale è richiusa in una realtà preordinata dalla corporeità che si porta dietro ovunque vada analogamente – per usare la metafora di Scheler (ivi, 146) – a come la lumaca si trascina dietro la sua conchiglia. L’uomo, invece, è un animale autoriflessivo che sa distaccarsi dall’immediatezza esterna e interna alla sua corporeità per mediarle all’interno di un proprio mondo3. Esso, si
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nuovo principio così radicale? Raramente si è fatta tanta confusione intorno a una parola a proposito della quale solo pochi hanno un’idea precisa. Se poi poniamo al sommo del concetto spirito la sua particolare funzione conoscitiva, quella sorta di sapere che solo lo spirito può fornire, allora la caratteristica fondamentale di essere spirituale, qualunque possa essere la sua costituzione psico-fisica, consiste nella sua emancipazione esistenziale da ciò che è organico” (1928; trad. it. 1997, 144). È in virtù di questo allontanamento che Scheler afferma: “L’uomo è perciò quell’X capace di comportarsi come un essere illimitatamente aperto al mon-
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potrebbe dire, è quella conchiglia oggettivata dalla sua coscienza che, ovunque vada, lo libera dai vincoli ambientali e organici. Il tema antropologico dell’apertura viene ripreso anche da Helmuth Plessner (1975; trad. it 2006 e 1982; trad. it. 2000) attraverso la nozione di eccentricità. Per lui, l’uomo vive in uno iato determinato dall’essere un corpo (Leib) – inteso come quel proprio corporeo fatto di sensazioni, emozioni e azioni attraverso cui fa esperienza diretta delle cose – e dall’avere un corpo (Körper) – inteso come unità psico-somatica che osserva e descrive dall’esterno come una delle tante cose corporee comprese nel mondo4. L’esistenza umana, per questo, non è racchiusa in un punto ma si disloca in una scala posizionale tra due punti. Nell’essere corpo, l’uomo è centrato in un qui e ora che – così come per gli altri animali – lo include nel mondo della vita; al contempo, proprio per il fatto di avere un corpo, egli è decentrato in un altrove metacognitivo dove solo l’umanità riesce a giungere. Grazie alla sua condizione eccentrica, l’uomo è sia attore collocato nella scena della vita sia regista del suo agire. Distanziandosi da sé, ponendosi sia fuori che dentro il corpo, la specie umana dispone di un vuoto riflessivo che la rende pienamente consapevole di ciò che la circonda e padrona della sua esistenza (cfr. Plessner 2006, 318). La condizione di apertura e di eccentricità getta l’uomo anche in una condizione di naturale insicurezza che deve costantemen-
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do. Diventar uomini significa elevarsi, in forza dello spirito, fino a potersi aprire al mondo; […] ma, ciò che è più degno di nota, egli è altresì in grado di oggettivare costituzione fisiologica e psichica, ogni singola esperienza psichica, ciascuna funzione vitale. Perciò questo essere può anche rifiutare liberamente la propria vita. L’animale ode e vede senza sapere di vedere e di udire” (Ivi, 146-147). “Qui – scrive Plessner – la mia corporeità, come contenuto del mio campo visivo o tattile, parte delle mie sensazioni motorie, eccitative e viscerali, si trova sullo stesso piano delle altre cose corporee che compaiono nell’orizzonte della mia percezione. In ogni caso, che io mi muova e faccia una cosa qualunque, oppure stia fermo e lasci agire le immagini del mondo esterno, inclusa la mia corporeità̀ che a esso appartiene, la situazione del mio esistere è duplice: è come corpo e nel corpo. (…) L’uomo non è solo corporeità e non ha solo corporeità (corpo). Ogni esigenza fisica richiede un accordo tra essere e avere, tra il fuori e il dentro” (2000, 68).
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te fronteggiare. Eppure, è questa medesima condizione problematica che gli consente di uscire dal cerchio comportamentale animale stimolo-risposta, e di curvare la dinamica mentale verso la creatività. È grazie a questo movimento che l’uomo può riavvolgersi tra le spire di un proprio mondo entro il quale richiudersi e ricentrarsi, se pur sempre in termini provvisori. Come si diceva, la dinamica spiroidale del pensiero creativo nasce da un’immagine mentale in grado di oggettivarsi in qualcosa di tangibile. Ideazione e costruzione sono contenute, d’altronde, nella stessa radice etimologica della parola “creatività”. Il termine, infatti, trova origine nella radice sanscrita kar- riconducibile al verbo “fare”. Sempre in sanscrito, kar-tr è il creatore cioè “colui che fa dal nulla”. Una simile consonanza di significato risuona anche nel termine greco kaino (produco), oltre che in krantor (il dominatore) e kreion (colui che fa), il cui significato è sempre quello di “produrre”, “generare”, “fabbricare” (cfr. Pianigiani 1937). Questo processo costruttivo era, inoltre, l’espressione dell’intelligenza attiva circoscritta nel termine metis distinto da quello di nous con cui, invece, si indicava l’intelligenza teorico-contemplativa (cfr. Curi 2013). La creatività, pertanto, è l’esito dell’integrazione tra poiesis e téchne, tra immagini mentali creative e la fabbricazione di qualcosa di nuovo. In chiave mitologica, sono le due qualità racchiuse nel fuoco creativo rubato da Prometeo agli dèi per donarlo all’umanità, al fine di risvegliarla dall’inconsapevolezza (cfr. Curi 2002, 123-124). La poiesis è la qualità irradiante del fuoco con la quale l’uomo illumina le cose del reale, ponendole nelle idee formate dal suo intelletto. La téchne, invece, attiene alla valenza trasformativa del fuoco con cui, egli, forgia quel che ha ideato in artefatti5. 5
L’ambivalenza del fuoco tra visione e trasformazione emerge nell’Episodio secondo del Prometeo incatenato di Eschilo. È qui che il titano esprime il suo sdegno contro Zeus, per averlo rinchiuso nelle valli infernali del Tartaro a causa del furto del fuoco divino, con queste parole: “Udite piuttosto le pene dei mortali, e quali bambini erano, prima che li rendessi saggi con l’uso della ragione. Parlerò non perché abbia a lamentarmi degli uomini, ma per dimostravi la generosità dei miei doni. Essi, prima, pur vedendo non vedevano, pur udendo non udivano: simili a larve di sogni passavano nel tempo una loro esistenza confusa, senza conoscere dimore di mattoni esposte al sole, senza lavorare il
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Se dalla mitologia ci spostiamo alla filosofia greca, poiesis e téchne sono due termini con-fusi nel significato di arte, come si legge nell’Etica Nicomachea di Aristotele: Poiché l’architettura è un’arte e appunto la sua essenza è di essere una disposizione poietica accompagnata da ragionamento e non esiste nessuna arte che non sia una disposizione poietica accompagnata da ragionamento, né una disposizione poietica che non sia un’arte, arte e disposizione poietica accompagnata da ragionamento vero saranno la stessa cosa. Ogni arte concerne il divenire e il servirsi di un’arte è considerare come giunga all’esistenza una delle cose che possono essere e non essere e delle quali il principio è in colui che produce e non in ciò che è prodotto. Infatti l’arte non concerne né le cose che sono o che divengono per necessità, né quelle che sono o diventano per natura, poiché esse possiedono il loro principio in se stesse. Ma poiché produzione e azione sono una cosa diversa, necessariamente l’arte concerne la produzione, ma non l’azione (Aristotele VI, 1140 a: trad. it. 1996, 347-348).
L’arte, dunque, si distingue dal divenire delle cose naturali che trovano in sé il loro principio formativo. La pianta, ad esempio, diviene dal seme che sbuca dalla terra per sviluppare il fusto e, a partire dai suoi nodi, i rami e le foglie che in base al ciclo delle stagioni si metamorfizzano in fiori e poi in frutti, dove sono contenuti i semi per far germogliare nuove piante. Anche le colonie delle formiche architettano delle ingegnose città-formicaio fatte di cunicoli reticolari e camere. Ma sono delle forme urbane costruite da regole dettate dalla loro organizzazione superorganica6, da una attività sociogenetica in cui
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legno; ma sotto la terra abitavano, come formiche che il vento disperde via, in antri profondi non rallegrati dal sole. […] In breve, insomma, sappi che tutte le arti agli uomini vengono da Prometeo” (trad. it. 1995, 22-23). Sono i biologi Ben Hölldobler e Edward Wilson ad aver dedicato importanti studi ai processi eugenetici delle formiche e raccolti nel saggio Il superorganismo (2009: trad. it. 2011). Come emerge dalle loro ricerche, il superorganismo si colloca nella gerarchia dell’organizzazione biologica un gradino al di sopra degli organismi cellulari, essendo composto da insetti che agiscono in stretta collaborazione come, ad esempio, le colonie di formiche. Il livello essenziale di ogni superorganismo è quello della sociogenesi, nel quale ogni suo componente è diviso in caste specializzate che operano insieme come se fossero
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ogni formica agisce sincronizzandosi con le altre come se fosse la cellula di un corpo diffuso nello spazio. Oltre che dalle cose che divengono per cause naturali, per Aristotele, l’arte si distingue anche dalle cose artefatte dall’uomo che divengono in base a un agire privo di una disposizione poietica come accade, ad esempio, nell’organizzazione del lavoro della fabbrica. Nella modernità, come aveva compreso Marx, la rivoluzione industriale s’impadronisce dell’arte del produrre esercitata dall’artigiano trasformandolo in un operario. Nella produzione artigianale, per riprendere l’esempio fatto da Marx ne Il capitale (1867: trad. it. 1980, 74), il tessitore muoveva il telaio per metterlo al servizio della sua abilità manuale con cui esercitava l’arte della tessitura. Nell’industria tessile è l’operaio ad essere mosso dall’attività ripetitiva del telaio meccanico. Asservito all’operatività automatizzata della macchina tessitrice, il suo lavoro si riduce anch’esso a un agire privo di arte dedito unicamente al prodotto da fabbricare. Anche le azioni routinarie (cfr. Berger, Luckmann 1966: trad. it. 2000, 45) che fabbricano la vita quotidiana rientrano in questa modalità del fare, dato che ciascuno le compie attingendo alla conoscenza non problematizzata del senso comune, fin quando non interviene il sapere dell’esperienza (cfr. Jedlowski 1994, 163-163). La tecnica, nel senso aristotelico, è un’arte che trova il suo principio in una ragione poietica esercitata, da colui che la detiene, secondo un saper fare non alienato in ciò che si produce. È in tal modo che, come sottolinea Martin Heidegger (cfr. 1957: trad. it. 1991, 10), la concezione aristotelica della tecnica è legata al disvelamento di qualcosa dall’invisibilità che ha il suo movimento iniziale nel saperne di qualcosa, nell’intendimento. L’architetto, l’artigiano e lo scienziato sono dei tecnici non perché fabbricano cose (edifici, vasi e conoscenze), ma perché possiedono “una disposizione poietica” a produrre immagini che nascono dal sapere cosa sia un edificio, un vaso e una conoscenza. Pertanto, un solo corpo. Quello che permette alla moltitudine dei componenti di una colonia di agire come se fosse un solo corpo è la presenza di comportamenti estremamente funzionalizzati indotti dalle stimolazioni ambientali, e dunque secondo uno spettro di possibilità limitate.
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le formiche non sono degli architetti proprio perché, nonostante edifichino città sotterranee, non hanno la capacità di rappresentare immagini sapienti7 di cosa sia un formicaio, ma lo costruiscono secondo un agire ripetitivo, ciclico, circolare istruito da un fare tecnico prestabilito dalla loro organizzazione superorganica. L’uomo, essendo un animale creativo, è in grado di sviluppare una dinamica spiroidale che ha origine in un’immagine sapiente svelata dalla mente e che termina in un oggetto formato dall’arte del fare. Ma è proprio in questo percorso che la creatività è anche un metodo se, ancor prima della sua connotazione strettamente scientifica, la riconduciamo alla sua radice etimologica. La parola “metodo” ha origine dal prefisso greco met con cui si indica “oltre, al di là” – da cui metafisica, metalinguaggio, metacognitivo, metamorfosi – e dal sostantivo hodós col significato di “strada” (Marradi 1996, 72). Il composto met-hodós, pertanto, è riferibile al percorso spiroidale tracciato dal processo creativo per far transitare l’immagine poietica oltre i confini della mente al fine di oggettivarla in un nuovo prodotto. In termini generali, dunque, il metodo è la strada percorsa dalla creatività per oggettivare una nuova idea in un prodotto costruito a regola d’arte, secondo una disposizione poietica accompagnata da ragionamento. Ogni arte ha un proprio méthodos: l’architetto segue un metodo costruttivo per trasformare l’idea progettuale in un edificio; l’artigiano si avvale di un metodo manuale e di strumenti per dare forma al vaso; lo scienziato persegue un metodo di ricerca per produrre oggetti di conoscenza. Pertanto, l’immagine creativa senza la strada del metodo resterebbe confinata nell’universo 7
Scrivono su questo Ben Hölldobler e Edward Wilson: “Nel cervello di una formica operaia non vi è alcuna rappresentazione di un progetto dell’ordine sociale. Non esiste un supervisore che esegua questo piano generale nella propria testa, né una casta che agisca da cervello. Piuttosto, la vita della colonia è il prodotto dell’auto-organizzazione. Il superorganismo esiste nelle singole risposte programmate degli organismi che lo compongono. Le istruzioni di assemblaggio dagli organismi sono da un lato gli algoritmi dello sviluppo che hanno dato luogo alle caste, dall’altro gli algoritmi comportamentali, responsabili del comportamento degli individui all’interno delle caste istante per istante” (ivi, 32 e 68).
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mentale governato dall’intelligenza teorico-contemplativa del nous; il metodo, a sua volta, senza un’immagine poietica si rinchiuderebbe nel percorso circolare del fare tecnico. Come sottolinea Albero Marradi (1997, 77), l’impiego del termine “metodo” soffre di un uso improprio come sinonimo di tecnica della ricerca, e non di arte del saper fare ricerca. Un analogo riduzionismo terminologico lo riscontra nel termine “metodologia”, usato nell’accezione di disciplina normativa che dà indicazioni prescrittive sul corretto modo di fare ricerca (ivi, 79). Per Marradi, invece, il senso pieno del termine è da ricondurre all’etimo greco composto da méthodos e lógos. La metodologia è, dunque, una riflessione, studio, discorso sul metodo. Per distinguere il metodo come tecnica dal metodo come arte, Marradi ricorre all’immagine della foresta (cfr. ivi, 80-81), intesa come la metafora dello spazio oscuro nel quale il ricercatore si addentra per migliorare, approfondire, scoprire qualcosa su un determinato fenomeno. Dove questo obiettivo cognitivo sia contenuto non gli è ben chiaro, nonostante nutra la fiducia che esso sia una radura presente nella foresta. Posto al bordo di essa, il ricercatore si trova a dover scegliere la strada da percorrere per raggiungere la sua meta. Secondo Marradi, il ricercatore può scegliere di seguire in modo pedissequo una tecnica di indagine, oppure costruirne un tragitto conoscitivo avvalendosi dell’arte del metodo: La foresta da attraversare è percorsa per tratti più o meno lunghi, e in varie direzioni, da sentieri già tracciati, più o meno battuti: sono le tecniche che gli altri ricercatori hanno già ideato, modificato, sviluppato. Naturalmente è molto più comodo percorrere sentieri già battuti; ma non si sa se porteranno alla radura desiderata o da qualche altra parte. Compito del ricercatore-metodologo è scegliere via via il percorso, tenendo conto della natura dei sentieri esistenti, del tempo a disposizione, delle risorse. […] L’essenziale del concetto di metodo sta in questo: nella scelta delle tecniche da applicare, nella capacità di modificare tecniche esistenti adattandole ai propri specifici problemi, e di immaginarne delle nuove. Una volta che una procedura nuova, o una modifica a una procedura esistente, è stata ideata e viene codificata e diffusa, essa è già reificata e diviene una tecnica a disposizione della comunità dei ricercatori: non più una capacità privata ma un oggetto pubblico (1997, 80-81).
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Il metodo è una questione molto più ampia non riducibile, dunque, all’applicazione passiva di tecniche di ricerca già reificate da precedenti percorsi conoscitivi. Il ricercatore, se le usa senza prima una interrogazione metodologica adeguata, rischia di diventare anch’egli un operaio della conoscenza al servizio di una meccanizzazione della pratica di ricerca. Intendere il Metodo come arte – questo è il titolo scelto non a caso da Marradi per raccogliere le sue riflessioni – implica un saper tracciare la strada della ricerca che richiede anch’essa, riprendendo quanto riportato da Aristotele, una disposizione poietica che sia accompagnata da ragionamento sociologico. Nell’intraprenderla, il ricercatore non solo può operare una scelta consapevole tra sentieri già battuti ma può, come si legge nella citazione, immaginare anche nuovi metodi. Solo così può evitare di chiudersi nel cerchio tecnico del fare ricerca, con il rischio di non raggiungere la meta del suo ricercare. Le importanti riflessioni sulla questione dell’arte del metodo Marradi le colloca, tuttavia, nella terra compresa tra la sponda epistemica e quella delle tecniche di ricerca (ivi, 83). La creatività come metodo, per come qui è intesa, include le questioni comprese nel territorio epistemico poiché esse fondano la conoscenza entro la quale il ricercatore formula le ipotesi sull’oggetto di analisi. Pertanto, per il ricercatore, è altrettanto importante formulare una riflessione epistemologica che gli permetta non solo di seguire consapevolmente la sua tradizione disciplinare, ma anche di immaginare altre teorie. Metodologia ed epistemologia sono due campi importanti per qualunque ricercatore interessato all’arte del ricercare, e questo al di là dell’ambito disciplinare nel quale la esercita. Ma se per il fisico la meta della ricerca è una radura situata nell’universo dove si muovono i corpi celesti, oppure nell’infinitamente piccolo dove si muovono le particelle elementari, non è così per il ricercatore sociale: la sua radura è collocata nella realtà sociale in cui vive. Se il ricercatore dei fenomeni naturali può ignorare di essere parte del mondo sociale, nonostante ne condizioni la vita e la sua pratica di ricerca (cfr. Latour, Woolgar 1979: trad. fr. 1996), il sociologo non può fare altrettanto, dato che è proprio in
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questo mondo che conduce le sue ricerche. E dunque, per quanto si sforzi di mantenere la giusta distanza, egli non è mai completamente collocato al bordo della foresta essendone un abitante. Il sociologo, infatti, è ancor prima influenzato come ogni individuo dai fenomeni della vita associata. In virtù di questo posizionamento, il sociologo, oltre che da questioni d’ordine epistemologico e metodologico, è alle prese con uno specifico campo problematico riconducibile all’ambito d’interesse della sociologia riflessiva nel quale, come già indicato da Alvin Gouldner, è l’ordine di senso che accumuna i sociologi ad essere oggetto di studio: La missione storica di una sociologia riflessiva è quella di trascendere la sociologia che esiste ora. Conoscendo più a fondo i nostri sé sociologici e la nostra posizione nel mondo, noi possiamo, io credo, contribuire anche a produrre una nuova specie di sociologi che possa capire meglio gli altri uomini e i loro mondi sociali. Una sociologia riflessiva significa che noi sociologi dobbiamo – e si tratta del requisito minimo – abituarci a considerare sempre le nostre stesse credenze allo stesso modo in cui consideriamo quelle degli altri. […] Lo sviluppo di una sociologia riflessiva, in breve, postula che i sociologi cessino di comportarsi come se considerassero soggetti ed oggetti, sociologi che studiano e laici che sono studiati, tali da appartenere a due diverse razze di uomini. Esiste una sola razza umana: ma sino a quando non avremo una sociologia riflessiva, continueremo a comportarci come se ve ne fossero due, nonostante che professiamo una fede metodologica basata sul monismo (Gouldner 1970: trad. it. 1972, 707-708).
Affidandosi unicamente alla “fede metodologica”, come evidenzia Gouldner, il sociologo tende a dimenticare uno dei principali problemi del suo ricercare, ovvero che è parte integrante del mondo sociale che pretende di spiegare. Anch’egli, infatti, è soggetto a dei sistemi di credenza che per quanto raffinati ne condizionano l’attività scientifica, la formulazione delle sue teorie, le ipotesi e le pratiche di ricerca. Queste credenze costituiscono gli assunti di sfondo, come scrive Gouldner8, da cui poi emergono i 8
“Gli assunti di sfondo sono immersi nei postulati della teoria; operando all’interno e a fianco di essa, sono, per così dire, soci occulti nell’impresa che con-
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postulati formulati esplicitamente in ciò che scrivono i sociologi. La sociologia riflessiva allena il sociologo a prendere coscienza di questo sfondo che, occultamente, lavora al suo fianco per trascenderlo, o quantomeno per diventarne consapevole. Metodologia, epistemologia e riflessività sociologica compongono, dunque, il quadro a partire dal quale la ricerca sociologica può diventare pienamente un’arte poietica, produrre nuove immagini dalla vita associata sotto forma di prodotti scientifici. Per cominciare ad approfondire la spirale del saper fare sociologico, ci occuperemo della creatività intesa come metodo formativo della vita mentale, della vita associata e della conoscenza scientifica. Il sociologo, essendo al contempo una mente singolare, parte di una comunità scientifica, e un membro della vita sociale, è ricompreso in questi gradi di espressione della dinamica creativa. Averne coscienza può contribuire a sviluppare le sue ricerche secondo una disposizione poietica accompagnata da ragionamento sociologico. 2. Le metamorfosi del pensiero La creatività è dunque l’arte del saper fare, un metodo poietico che curva l’ideazione verso la produzione di qualcosa di nuovo. Una dinamica che abbiamo ricondotto alla figura idealtipica della spirale. Quanto detto fin qui, se pur in termini indiretti, ci ha permesso di decostruire lo stereotipo del processo creativo declinato come un’attività anarchica lasciata al libero gioco della fantasia, e quindi priva di regole e vincoli esterni. Emilio Garroni ha molto insistito sulla relazione contradditoriale tra creatività e regole per evidenziare come sia questo nesso la chiave del processo conoscitivo: siste nel formulare una teoria. Gli assunti di sfondo forniscono alcune delle basi di scelta e l’invisibile cemento che collega tra di loro i postulati. Dall’inizio alla fine, essi esercitano influenza sulla formulazione di una teoria e sui ricercatori che si ispirano ad essa. Gli assunti di sfondo hanno molta influenza sulla carriera sociale di una teoria, attraverso le reazioni di coloro ai quali essa è comunicata. Infatti le teorie sono accettate o respinte in parte a causa degli assunti sfondo che le pervadono” (ivi, 48).
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Tale nesso infatti si pone non semplicemente come compatibilità tra legalità e creatività, né soltanto come presupposizione unilaterale, tale che l’una suppone l’altra o viceversa, ma piuttosto come una relazione di interdipendenza: se e solo se (si può parlare di) legalità, esiste (ha senso parlare di) creatività e, naturalmente, viceversa. Una “creatività” non connessa ad una “legalità” è quasi soltanto un flatus voci. […] In altre parole il problema della creatività e della sua interdipendenza con la legalità è un problema di fondazione metateorica della teoria scientifica, un problema cioè di riflessione e legittimazione del conoscere nel senso del criticismo kantiano: non un problema puramente formale e suntuario, un “lusso del conoscere”, ma anzi un problema strettamente connesso all’esercizio stesso della conoscenza (Garroni 2010, 133 e 136).
La creatività senza delle regole pregresse legittimate da una conoscenza non potrebbe ideare nulla di nuovo, così come senza le regole di un metodo precostituito non potrebbe oggettivare l’idea in un prodotto creativo. Data l’interdipendenza tra “creatività” e “legalità”, questo vale anche al contrario: senza immagini poietiche la conoscenza si ridurrebbe a un campo di regole conoscitive incapaci di allargare il cerchio del già noto; così come un metodo senza l’arte non potrebbe che fabbricare prodotti seriali della conoscenza. L’azione reciproca tra legalità e creatività è ciò che dà origine alla dinamica spiroidale della conoscenza, legame che qui approfondiremo attraverso l’interesse simmeliano al funzionamento mentale. Seguirne le articolazioni ci condurrà nel paesaggio mobile e formatore della conoscenza, lì dove la coscienza umana riflette sull’ignoto che promana dal reale per trasformarlo in un tutto significativo, in una forma di realtà appunto. Per Simmel (1900; trad. it. 1984, 168), ciò che il pensiero apprende dal reale è sempre una realtà provvisoria costruita lungo due vie cognitive opposte e complementari segnate dal procedere analitico del separare, e da quello sintetico dell’unificare. Con la prima, il pensiero entra in contatto sensorio con un ambito del reale circoscritto dall’attenzione su qualcosa (un oggetto, un accadimento, uno stato emozionale, ecc.) per scomporlo in elementi e individuarne le regolarità. Quel che nell’immediatezza percettiva
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è colto in termini unitari, osservato lungo la via analitica, viene ricollocato sul tavolo della riflessività per essere differenziato, in modo da predisporre l’operatività dell’atto conoscitivo del riunificare. Dopo la pars destruens, il pensiero volge verso la pars construens imboccando l’altra strada che, in direzione opposta alla prima, procede verso la sintesi: dal molteplice a un nuovo grado di unità mentale. Un processo induttivo guidato dalla ragione, intesa nel suo significato etimologico di ciò che ordina [lat. ratio -onis da ratus, part. pass. di reri “fissare, stabilire”], che sintetizza le parti in cui ha smontato l’immagine percettiva in un nuovo piano della rappresentazione messo in forma dall’immagine mentale (ivi, 165). Ma poiché il pensiero è un’attività vitale autoriflessiva esso, come aggiunge Simmel (ivi, 167), eccede le forme dell’intelletto nelle quali si è fissato. Pertanto, l’immagine mentale che incornicia l’oggetto di conoscenza perdura fin quando la coscienza non ne coglie il carattere illusorio e artificiale, lo scarto che esiste tra rappresentazione e reale. È da questa consapevolezza che quel che prima era avvertito come sintesi diventa un’immagine parziale da dissolvere riaprendo, in tal modo, la spirale della conoscenza per ricombinare l’eterogeneità percettiva dell’oggetto in una nuova immagine mentale (ivi, 168). Per Simmel, dunque, la conoscenza è scandita da un’attività che perpetuamente oscilla tra analisi e sintesi, molteplicità e unità, sensorialità e intelletto, tra vita e forma. La creatività è all’origine del movimento oscillatorio con cui l’uomo rinnova le immagini mentali con cui afferra il reale per costruire, come scrive Simmel, una propria realtà: La mente crea, in base alla sua ricettività e alla sua capacità di produrre forme, il mondo, l’unico di cui possiamo parlare e reale per noi. […] Storicamente, la mente, con tutte le sue forme e i suoi contenuti, è un prodotto del mondo, proprio di questo mondo che, in quanto prodotto della rappresentazione, è allo stesso tempo prodotto dalla mente (1900: trad. it. 1984, 170).
Che sia un’opera artistica, una scoperta scientifica, un’invenzione, un sistema filosofico o un intero mondo sociale, poco cambia: ciascuna di queste creazioni è l’esito di un metodo di con-
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versione dell’ideazione in un prodotto di realtà, l’oggettivazione di un’immagine deflagrata dall’energia vitale con cui la mente con-fonde, come ci ha detto Simmel, la molteplicità percettiva in sintesi sempre nuove per farsi mondo. Lev Vygotskij, in più punti del saggio Immaginazione e creatività nell’età infantile (1930: trad. it. 2010), insiste sul fatto che questa dinamica poietica connota l’attività psichica di ogni individuo, e non solo quella di personalità eccezionali. Demitizzandola da quell’aura di misticismo che avvolge la vita del genio, la creatività è per lo psicologo russo una facoltà tipica del nostro sistema cognitivo-comportamentale insieme a quella riproduttiva: Per attività creativa intendiamo qualunque attività umana che produca qualcosa di nuovo, sia poi questo prodotto un oggetto del mondo esterno o una certa costruzione dell’intelligenza o del sentimento, che solo nell’intimo dell’uomo sussista e si manifesti. Se osserviamo il comportamento dell’uomo, il complesso della sua attività, ci accorgiamo facilmente come, di tale attività, sia possibile distinguere due aspetti principali. C’è un’attività che si può definire riproduttrice: essa è legata in modo strettissimo alla nostra memoria, e consiste essenzialmente nel riprodurre o ripetere fogge di comportamento già da prima create ed elaborate, o nel far rivivere tracce d’impressioni precedenti. […] Accanto alla funzione di conservazione, il cervello è dotato in realtà anche di un’altra funzione, non meno importante. Non è difficile, infatti, rilevare nel comportamento dell’uomo, oltre un’attività riproduttiva, anche un secondo tipo di attività: quella combinatrice o creativa. […] Ogni attività di questo genere, il cui risultato non sia il riprodurre impressioni o azioni già inserite nella esperienza di chi la esplica, bensì il creare immagini o azioni nuove, apparterrà per l’appunto a questo secondo tipo di comportamento creativo o combinatorio (ivi, 17-19).
Riproduzione e creatività, come si evince dalla ripartizione fatta da Vygotskij, sono le due polarità che in modo alternato attraggono il pensiero. Andando in direzione della riproduzione la cognizione richiama dagli strati della memoria schemi di apprendimento acquisiti da precedenti esperienze. In prossimità del polo creativo, invece, il funzionamento mentale diventa me-
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tacognitivo per trascendere le conoscenze preformate in nuove unità formali: un oggetto, un costrutto intellettuale o uno stato emozionale. Ma è proprio questa caratteristica della creatività di andare oltre la dinamica circolare della cognizione che diventa un méthodos, una dinamica che apre la spirale del pensiero per produrre nuove immagini. Ciò che spinge il pensiero a inoltrarsi lungo il cammino curvilineo della creatività è uno stato di tensione psichica dovuto a fattori diversi che possono anche combinarsi tra loro: la ricerca di un pieno sviluppo della personalità (cfr. Anderson 1959: trad. it. 1972; Vanni 1976); la necessità di elaborare nuove strategie adattive all’ambiente naturale o sociale (cfr. Garroni 2021; Vygotskij 2010); l’esigenza di inventare risposte comportamentali o intellettuali per superare un’aporia sorta nel corso dell’esperienza (cfr. Simondon 2014). Posta davanti a una problematica (evolutiva, adattiva, esperienziale), la mente ne cerca la possibile soluzione seguendo i solchi di metodi già tracciati con cui ha superato le difficoltà poste da situazioni analoghe a quella presente: moduli comportamentali, sistemi teorici, strutture discorsive, forme visuali e quant’altro. Risposte un tempo flessibili e vincenti che vengono ripetute ma che, nel caso di un problema inedito, divengono stereotipate e rigide. Si tratta dunque dell’esplorazione di vie risolutive che, malgrado gli sforzi, entra in un blocco concettuale ossessivo e frustrante. Lo psicologo Arthur Koestler dà una efficace restituzione di questa fase di impasse del pensiero: Una situazione bloccata accresce la tensione di un desiderio frustrato. […] Una volta esauriti tutti i tentativi di risolvere il problema con metodi tradizionali, il pensiero gira a vuoto nella matrice bloccata come un topo in gabbia. Dopodiché, la matrice del comportamento organizzato e intenzionale sembra andare in pezzi, e fanno la loro comparsa prove fatte a casaccio, accompagnate da nervosismo e da attacchi di disperazione; […] finché il caso o l’intuizione forniscono un collegamento con una matrice del tutto diversa, la quale poggia verticalmente, per così dire, sul problema bloccato nel suo vecchio contesto orizzontale, e le due matrici precedentemente separate si fondano in una sola (Koestler 1964: trad. it 1975, 109).
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La tensione cognitivo-emozionale del pensiero, come scrive Koestler, è il momento di incubazione che predispone alla scarica psichica dell’insight, alla formazione di una nuova matrice concettuale che, collegandosi con quella vecchia, sposta il pensiero dalla polarità riproduttiva a quella creativa. Gli studi in ambito psicologico (Wallas 1926; Neumann 1955: trad. it. 1993, 27; Cavallin 2015, 92; Dohotaru 2020, 8) convergono nel considerare l’inizio dell’atto creativo da un’immagine intuitiva che ha il potere di far sobbalzare il pensiero verso la soluzione di un problema avvertito precedentemente come insormontabile. Dal versante filosofico, è Henri Bergson a descrivere l’intuizione come quella luce fioca e vacillante che squarcia la notte in cui ci lascia l’intelligenza9. La sua manifestazione genera un punto di intensa lucidità che illumina la coscienza, nonostante venga irradiata dal sottosuolo oscuro dell’inconscio. Nello scandagliare le biografie di scienziati e inventori, Koestler (cfr. 1975, 95-134) riporta diversi aneddoti su come le chiavi che hanno permesso di accedere alla risoluzione di rompicapi che li impegnavano da tempo, e attorno ai quali ruotavano inutilmente attraverso percorsi logici noti, siano state offerte da immagini emerse da momenti di allentamento del pensiero vigile, da periodi di distrazione e, persino, dall’attività onirica. Il lampo che insorge dall’intuizione è solo la fase poietica della creatività che, pur nel rivelare qualcosa di nuovo è, tuttavia, un’immagine interna della conoscenza tutta ancora da sostanziare. In esso sono contenuti significati ancora allo stato potenziale da concettualizzare, testare, verificare e sperimentare attraverso un processo rigoroso più lento (cfr. Maslow 1959: trad. it. 2020) che richiedono alla creatività di tracciare un metodo per esternalizzarli. L’immagine poietica è l’inizio di una nuova matrice con9
Scrive Bergon nel saggio L’evoluzione creatrice: “nell’umanità di cui noi facciamo parte, l’intuizione è quasi sempre sacrificata all’intelligenza. […] L’intuizione tuttavia è presente, ma vaga e soprattutto discontinua. È una lampada quasi spenta, che non si riaccende che di quando in quando, per qualche istante appena. Ma essa si riaccende, in sostanza, laddove un interesse vitale è in gioco. Sulla nostra personalità, sulla nostra libertà, sul posto che noi occupiamo nell’insieme della natura, sulla nostra origine e forse anche sul nostro destino, essa proietta una luce vacillante e fioca, ma che tuttavia squarcia l’oscurità della notte in cui ci lascia l’intelligenza” (1907: trad. it 2016, 256).
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cettuale, ma è solo attraverso le tappe dell’arte costruttiva del metodo che la mente può svilupparla per trasformarla in qualcosa. È in ragione di ciò che, ad esempio, l’immagine che balena nell’artista non è sufficiente poiché, pur ispirandone il gesto creativo, è un’opera tutta da compiere che esiste solo nella sua mente. Per darle un’esistenza, infatti, deve metterla in forma attraverso delle tappe realizzative che, per quanto scelte liberamente dall’artista, necessitano di essere organizzate secondo una sequenza realizzativa dettata da un determinato metodo espressivo (pittorico, musicale, letterario, scultoreo, teatrale, cinematografico). Analogamente, un filosofo che intuisce un nuovo sentiero per approcciare la questione dell’essere deve seguire, per svilupparlo con gradi di maggiore chiarezza, un metodo argomentativo logico-razionale strutturato in base ai codici del discorso filosofico, oltre che dalle conoscenze acquisite in campo ontologico. Nel caso dello scienziato questo processo è ancora più evidente. Ciò che intuisce come ipotesi o come una nuova teoria utile a rischiarare un determinato fenomeno naturale non è ancora una scoperta. Per verificare che non si tratti di fuochi fatui, lo scienziato deve sottoporre le sue immagini conoscitive alle regole del metodo sperimentale: formulazione dell’ipotesi nel contesto del fenomeno considerato; descrizione delle variabili osservate durante l’esperimento; la raccolta e l’analisi dei dati rilevati; conferma o smentita dell’ipotesi iniziale (cfr. Amaturo 2012, 25-26). Il metodo è, dunque, la temporalizzazione della creatività, l’arte di far perdurare l’istante di verità condensato nell’immagine intuitiva lungo un processo operativo teleologicamente orientato a trasformarla in una forma (un’opera estetica, un sistema filosofico, una scoperta scientifica, ecc.). Ma una volta che l’atto creativo sviluppa in tutte le parti l’immagine germinale da cui ha avuto inizio, ciò che resta è solo lo schema di un processo creativo, un metodo che è andato oltre le difficoltà poste da una problematica nuova ma che poi, una volta risolta, discende nei meccanismi automatici del pensiero (Koestler 1975, 200). Con l’esaurirsi del contenuto poietico dell’insight sprigionato dal subcosciente e rivelato dall’arte del metodo, la dinamica spiroidale della creatività si richiude nel cerchio della funzione riproduttiva della mente.
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3. La poietica della vita associata La creatività non è soltanto una facoltà mentale. Nelle relazioni della vita associata, la creatività fuoriesce dall’interiorità individuali per incanalarsi nei processi della mente sociale10 che costruiscono la realtà. Se la creatività individuale sorge da problematiche interne alla sua vita mentale, la creatività psico-sociale nasce da uno stato di insicurezza che accomuna tutti gli individui essendo, come sappiamo da Scheler e Plessner (cfr. supra cap. I.1), degli esseri naturalmente aperti ed eccentrici. Per risolvere questa condizione umana di esposizione al mondo, la mente sociale crea una realtà di senso comune per richiudere e centrare gli individui. Arnold Gehlen, proprio a partire dalle tesi scheleriane (cfr. 1940: trad. it 2010; 1956: trad. it. 2016, 58-60), riconduce questo problema antropologico alla deficienza organica dell’uomo. Se le altre specie sono dotate di schemi percettivi e motori strettamente legati alla specializzazione delle loro forme corporee, 10 Il concetto di “mente sociale” la riferiamo alle elaborazioni che ne hanno dato Émile Durkheim e Georg Simmel. Il sociologo francese la declina come quella forma mentis che è più della somma delle menti individuali, e dunque dotata di una coscienza collettiva sui generis così come afferma ne La divisione del lavoro sociale: “L’insieme delle credenze e dei sentimenti comuni alla media dei membri della stessa società forma un sistema determinato che ha una vita propria; possiamo chiamarlo coscienza collettiva o comune. Senza dubbio, essa non ha un substrato organico unico; essa è, per definizione, diffusa in tutta l’estensione della società, ma non per questo manca dei caratteri specifici che ne fanno una realtà distinta. Infatti essa è indipendente dalle condizioni particolari nelle quali gli individui si trovano; questi passano, e quella resta” (1893: trad. it. 1996, 101). Da parte sua, Simmel la definisce ne La differenziazione sociale come “psiche collettiva”: “Così come non si saprebbe dire dove sia il luogo delle leggi naturali, […] non si può dare un nome al luogo di questa intangibile sostanza intersoggettiva che potrebbe essere designata come psiche collettiva […]. Essa avvolge tutti in ogni momento, ci fornisce il contenuto vitale nelle mutevoli combinazioni del quale consiste di solito l’individualità: ma non sappiamo indicare qualcuno da quale essa sarebbe scaturita, un solo uomo che essa non abbia trasceso, e anche quando crediamo di poter stabilire il contributo di singoli uomini, rimane sempre il problema se essi non abbiano ricevuto il loro elemento essenziale da quel patrimonio pubblico che in loro si è solo concentrato o ha assunto una forma originale” (1890: trad. it. 1982, 22-23).
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l’uomo è una specie informe e immatura dal punto di vista istintuale, quindi soggetto al caos delle stimolazioni ambientali e al disorientamento comportamentale. L’unico istinto sviluppato di cui dispone, per raggiungere un ordine salvifico utile a garantirgli la sopravvivenza, è quello di creare culturalmente una seconda natura11. Così come per gli altri prodotti creativi, la natura sociale scaturisce dall’integrazione tra poiesis e téchne, tra immagine ideativa e metodo di oggettivazione. Attraverso l’ideazione, la mente sociale sintetizza la molteplicità sensoria del reale per trasporla all’interno di una visione del mondo (Weltanschauung) culturalmente e storicamente determinata (cfr. Dilthey 1998, 180). I contenuti di senso delle Weltanschauungen sono, quindi, differenziati dai gruppi umani in base a diversi fattori: alla specificità del contesto ambientale in cui vivono; a come elaborano in una determinata fase della dinamica sociale il proprio spazio relazionale; e verso quale parte dello spettro del pensiero collettivo, esteso dalle credenze magico-religiose fino agli universi reificati della scienza (cfr. Moscovici 1976-2005: trad. it. 2020, 31), orientano la loro visione del mondo. Nell’immagine del mondo, al di là del suo grado di differenziazione, la vita interna degli individui si esteriorizza diventando parte di una mentalità culturale (cfr. Sorokin 1937: trad. it. 1975, 123), di un sistema di significazione che si autonomizza dagli stessi individui al punto da renderli inconsapevoli di esserne gli artefici. Un paradosso se si considera che è un costrutto storico-sociale che non potrebbe essere creato se gli uomini non avessero una mente dotata di coscienza. Eppure, malgrado questo capovolgimento della consapevolezza umana nell’inconscio collettivo (cfr. Mori 2019), o forse proprio in virtù di ciò, le 11 Scrive Gehlen nel saggio L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo: “La cultura è pertanto la “seconda natura” – vale a dire: la natura umana, dall’uomo elaborata autonomamente, entro il quale egli solo può vivere; e la cultura “innaturale” è il prodotto di un essere unico al mondo, lui stesso “innaturale”, costruito cioè in contrapposizione all’animale. […] Nell’uomo, alla non specializzazione della sua costituzione corrisponde la sua apertura al mondo e alla deficienza strumentale della physis, la “seconda natura” da lui stesso creata” (2010, 75-76).
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visioni del mondo traggono gli uomini fuori dalla loro condizione di indeterminatezza biologica. Una funzione salvifica che per Wilhelm Dilthey è alla base della loro struttura fondante: Tutte le visioni del mondo contengono, quando cercano di dare una soluzione completa all’enigma della vita, di regola la stessa struttura. Questa struttura è, in ogni caso, una connessione nella quale, sulla base di un’immagine del mondo, vengono decise le questioni intorno al significato e al senso del mondo, e da qui dedotti l’ideale, il sommo bene ed i principi superiori per la condotta di vita. Essa è determinata dalla legalità psichica, secondo la quale la comprensione della realtà nel corso della vita è il fondamento per la valutazione delle condizioni e degli oggetti secondo gioia e avversione, piacere e dispiacere, assenso e dissenso, e questo apprezzamento della vita, allora, costituisce il substrato per le determinazioni della volontà. […] La visione del mondo diviene ora formatrice, organizzatrice, riformatrice! (Dilthey 1998, 178-179)
Ciascuna visione del mondo è, dunque, una forma formante dei nessi psichici da cui scaturisce quel substrato di senso del pensiero collettivo che prefigura, agli individui che ne fanno parte, la comprensione della realtà “secondo gioia e avversione, piacere e dispiacere, assenso e dissenso”. Ma l’immagine poietica della mente sociale, per oggettivare il suo substrato di senso, deve aprire la spirale del metodo attraverso due percorsi tra loro complementari: quello della simbolizzazione e dell’abitualizzazione. Lungo la via spiroidale del simbolico, la creatività psico-sociale trova il metodo per sviluppare, decodificare e sistematizzare nella sfera del linguaggio i significati ideati nell’immagine mondo. Anche gli animali hanno un linguaggio, compresi gli insetti, come dimostrano gli studi di Karl von Frisch (cfr. 1950-1971: trad. it. 2012). Intorno alla metà del XX secolo, von Frisch, premio Nobel per la medicina e la fisiologia, riuscì a decriptare il raffinato linguaggio danzato dalle api esploratrici usato per comunicare la presenza e l’esatta posizione di nettare da bottinare. L’etologo comprese come i coreogrammi delle api si ripartissero in funzione di due codici comunicativi: il primo basato su una danza circolare, usato dalle api esploratrici per indicare al resto
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dell’alveare una distanza dall’alveare tra i 5 e gli 80 metri; il secondo comunicato con una danza a otto rovesciato per indicare una distanza tra i 40 e 100 metri. Non solo. L’etologo si accorse di come il tratto rettilineo delle danze a otto delle api operaie, orientato in base all’azimut solare proiettato sull’alveare, oscillasse come una bussola per indicare la posizione del campo da bottinare (ivi, cap. 3). Per quanto sorprendenti, i linguaggi animali non sono però simbolici. Nei loro processi comunicativi il significante – la danza con cui le api comunicano tra loro – e il significato – le informazioni sulle coordinate da seguire per bottinare il campo – sono un tutt’uno. Gli animali, pertanto, non producono segni ma segnali collegati a referenti concreti presenti nell’ambiente o a scopi legati alle funzioni primarie legate alla sopravvivenza (cfr. Elias 1991: trad. it. 1998, 99). Grazie alla distanza dall’immediatezza naturale, l’uomo abita un proprio spazio linguistico prodotto dalla separazione tra significante e significato (de Saussure 1917: trad. it. 2009). La mente sociale è tra queste sponde linguistiche che dà luogo al processo di simbolizzazione con cui converte l’immagine mondo in codici verbali, non verbali e segnici (scrittura, ideogrammi, pittogrammi). È in tal modo che l’umanità si ripartisce in comunità linguistiche “simbolicamente emancipate” – per richiamare una felice espressione di Norbert Elias (ivi, 98) – dai segnali animali. Secondo le scansioni dello sviluppo mentale individuate da Jean Piaget (1966: trad. it. 2001, 92), il pensiero simbolico si manifesta nel bambino intorno ai 2 anni, con la trasposizione della fase senso-motoria in forme astrattive lasciate al libero gioco della fantasia. Ma già a partire dalla socializzazione primaria (cfr. Berger, Luckmann 2000, 179), il bambino apprende a modulare la simbolizzazione armonizzandosi con quella della lingua madre fino a in-formare, lungo le successive tappe della socializzazione, il sé adulto in un me. Modellato in base alle aspettative e ai principi di realtà del gruppo di appartenenza (cfr. Mead 1934: trad. it 2018, 264), il me è l’immagine dell’altro generalizzato in cui si rispecchia l’immagine del mondo. Non tutta la sfera psichica è contenuta nel me. L’individuo, nel corso dell’esperienza, for-
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ma anche la parte non convenzionale del sé, quella dell’io (ivi, 262). Situandosi nell’io, l’individuo può valutare liberamente la relazione con il gruppo e persino tracciare i percorsi di pensiero divergente che lo conducono nell’area della creatività (ivi, 285; Guilford 1950). Anche in questo caso, tuttavia, l’immagine simbolica del mondo è lo sfondo di senso dell’io senza il quale non potrebbe differenziarsi dal me, e neanche produrre nuovi significati da comunicare agli altri. La rappresentazione sociale12 è il punto di arrivo della simbolizzazione psico-collettiva, il quadro della mente sociale in cui si raccolgono le metanarrazioni: cosmogonie, racconti mitologici, favole, utopie politico-sociali o tecno-scientifiche, come quelle contenute nel mito del progresso (cfr. Taguieff 2001: trad. it. 2003). Nel simbolo la rappresentazione sociale converge in un punto carico di significato. La croce, ad esempio, è un segno simbolico che fa affiorare l’intera visione del mondo cristiana. Che si manifesti nella gestualità della preghiera, in un significante grafico-pittorico o si materializzi in oggetto, la croce rivela nel credente tutta la storia della Passione di Cristo e della tradizione della Chiesa. Nel racconto, invece, la rappresentazione sociale si disloca diacronicamente nello spazio del tempo “c’era una volta”, producendo negli individui un’immedesimazione con i fatti e i personaggi narrati (cfr. Ricœur 1983: trad. it. 2016, cap. terzo). Per riprendere 12
A partire dalla nozione di Durkheim di “rappresentazione collettiva”, lo psicologo sociale Serge Moscovici sviluppa la nozione di “rappresentazione sociale” includendo in essa tutti i sistemi di credenza della società contemporanea. Scrive Moscovici rimarcando le differenze con la teoria durkhemiana della rappresentazione: “Accentuo queste differenze per uno scopo. Le rappresentazioni sociali di cui mi occupo non sono quelle delle società primitive, né le loro vestigia che giacciono nel sottosuolo della nostra cultura dai tempi della preistoria. Esse sono quelle della nostra società attuale, del nostro terreno politico, scientifico, umano, che non sempre hanno avuto sufficiente tempo per consentire che la necessaria sedimentazione le trasformasse in tradizioni immutabili. […] La caratteristica specifica di queste rappresentazioni è che esse trasmutano le idee in esperienze collettive e le interazioni in comportamento e possono essere, più vantaggiosamente, paragonate ad opere d’arte che a reazioni meccaniche” (2005, 29).
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l’esempio, è quello che accade quando la comunità dei fedeli si raccoglie attorno al prete per ascoltare le parabole evangeliche ottenendone orientamenti morali della loro condotta di vita. Il linguaggio simbolico, sia esso raccolto in un segno carico di significato o dislocato in una narrazione, integra gli individui nei quadri delle rappresentazioni sociali. È un’integrazione non di natura concettuale, o non solo, ma che implica un coinvolgimento emozionale (Wunenburger 1995: trad. it. 2007, 60). La forza del linguaggio simbolico, infatti, dipende dalla sua capacità di far risuonare nel sentire collettivo i significati oggettivati nella rappresentazione sociale. Pur essendo un’architettura del pensiero collettivo, le sue fondamenta affondano negli strati più profondi e meno consapevoli della vita mentale compresa tra l’io e il me. Pertanto, la visione del mondo illumina il reale fin quando la coscienza e l’inconscio degli individui sorregge la rappresentazione sociale che la contiene. L’ideazione poietica della mente sociale si oggettiva non solo nelle architetture simboliche comprese nel piano della rappresentazione sociale. La creatività psico-sociale fa transitare, lungo la via spiroidale del metodo dell’abitualizzazione, l’immagine del mondo anche nel piano dell’azione reciproca. Un’oggettivazione che si compie nello spazio di indeterminazione comportamentale che comprende gli individui in quanto animali privi di schemi senso-motori sufficientemente specializzati (cfr. Gehlen 2010, 69-74). Davanti a quest’altro problema della condizione umana, la creatività della mente sociale architetta l’immagine del mondo in forme dell’agire funzionali a modellare la corporeità degli individui. Iscrivendosi in modelli comportamentali socialmente costruiti, gli individui riescono a economizzare il dispendio delle energie pulsionali (ivi, 105) necessarie per orientarsi nello spazio e per realizzare gli scopi pratici dettati dal loro volere. Si determina così un legame vitale tra corpo e società mediato, come afferma Gehlen, da abitudini culturalmente istituite: Tutte le culture poggiano, per quanto riguarda il lavoro legato alle necessità vitali su cui si reggono, su sistemi di abitudini stereotipate e stabilizzate. Talvolta esse vengono unilateralizzate, nel
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senso che procedimenti univoci affrontano situazioni di fatto circoscritte. Ogni durata e resistenza al tempo di creazioni culturali è messa in rapporto con l’unilateralizzazione dei procedimenti adoperati – con la loro specializzazione – e, dunque, con la unilateralità di certi aspetti della realtà. Viceversa: rendere stabile una società significa condurla a istituzioni durevoli, e ciò comporta una selezione dei modi di comportamento e delle situazioni che si accompagna inseparabilmente alla loro unilateralizzazione. […] D’altra parte il concetto di abitudine, applicato all’azione, rivela che il “che cosa” è contemporaneamente il “come”. E le abitudini, a loro volta, si connettono al corpo delle istituzioni. (Gehlen 1956; trad. it. 2016, 34).
Gehlen, dunque, allarga il concetto di istituzione dall’ambito strettamente politologico a tutto lo spazio socio-antropologico, lì dove gli individui unilateralizzano le azioni per affrontare un variegato ventaglio di situazioni. La cultura, nella prospettiva gehleniana, è un sistema di abitudini disposte in una scala comportamentale lungo la quale gli uomini, con il procedere della socializzazione, si esonerano dal disordine istintuale verso condotte sempre più sofisticate (cfr. Gehlen 2010, 104). Il neonato la percorre dai gradini più bassi per apprendere il coordinamento necessario a padroneggiare la mimica e la gestualità, il maneggio delle cose che lo attorniano, e per educare l’apparato fonatorio del linguaggio. Un addestramento corporeo che continuerà a raffinare nel teatro della vita quotidiana con l’acquisizione delle competenze attoriali analizzate da Erving Goffman: la deferenza, per esprimere apprezzamento nei confronti delle persone (1967: trad. it. 1988, 61); la scelta della linea, entro la quale ordinare gli atti verbali e non verbali con cui entrare in contatto con gli altri (ivi, 7); il contegno, con cui contenere e controllare le emozioni attraverso l’uso di atteggiamenti e modi di vestire appropriati (ivi, 83); la gestione dell’imbarazzo, attraverso giochi di faccia per camuffare gli stati emotivi di disagio prodotti dalla relazione sociale (ivi, 105); l’arte dell’interazione strategica, i giochi di faccia e le mosse tattiche usate per mascherare le proprie intenzioni e smascherare le intenzioni dell’altro (1969: trad. it. 1988, 104). Ma è durante la scalata comportamentale compiuta dal neonato per diventare un attore sociale che, progressivamente, l’im-
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magine del mondo s’incorpora in lui sotto forma di abitudini, di schemi percettivo-motori dotati di significati intersoggettivi. Attraverso il metodo dell’abitualizzazione, dunque, la creatività sociale trasforma l’immagine del mondo in una struttura comportamentale stabile che dà luogo all’azione reciproca. Al suo interno, il piano della rappresentazione sociale – creato dal pensiero collettivo mediante il metodo della simbolizzazione – e quello dell’agire sociale abitudinario diventano parte di un solo piano: quello dell’interazionismo simbolico. È George Herbert Blumer a coniare il concetto di “interazionismo simbolico”, intendendolo come un processo di interpretazione tramite il quale l’individuo, agendo, attribuisce significato alle cose e agli altri all’interno di un quadro di senso culturalmente definito (1969: trad. it. 2008, 39). In esso, il sistema del linguaggio simbolico e il sistema comportamentale abitudinario si compenetrano, quotidianamente, nei ruoli interpretati dagli attori sociali (Berger, Luckmann 2000, 105), nei testi drammaturgici non scritti dei loro dialoghi (ivi, 109), nei costumi di scena che indossano, e nelle facciate scenografiche che usano come sfondo per dare forza alla loro rappresentazione (Goffman 1959: trad. it. 1969, 33). L’interazionismo simbolico configura, in tal modo, la società come un palcoscenico mobilitato da rituali che sedimentano l’immagine del mondo nella realtà della vita quotidiana13. Oltre che nella dinamica routinaria della vita associata, simbolo e abitudine s’intrecciano con maggiore pregnanza significativa in altre tipologie rituali. Nei riti di passaggio analizzati da Arnold Van Gennep (1909: trad. it 2012), il sistema simbolico-abitudinario marca le tappe biolo13 Analizzando i rituali del consumo nel contesto della società digitale, scrive Giampiero Vincenzo: “La società è un vasto palcoscenico di azioni rituali collegate in modi molteplici a un ordine simbolico. Simboli e rituali sono facce della stessa medaglia, la realtà sociale. L’uomo individua un simbolo – un’immagine, un concetto – e attorno ad esso fa ruotare un’azione rituale. Una teoria dell’azione sociale non può prescindere dalle regole rituali e da quella che Lotman chiama “semiosfera”, e che deve essere compresa piuttosto come una sfera simbolica. Evidenze di azioni simboliche – dai monoliti artistici alle inumazioni rituali – si possono riscontrare dalle origini dell’umanità fino ai giorni nostri” (2021, 37).
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giche – mediante i rituali della nascita, di iniziazione sessuale e quelli funerari – e istituisce i legami sociali – con le cerimonie di fidanzamento, di matrimonio e con i rituali che sanciscono i patti d’alleanza dei gruppi sociali. Nei riti commemorativi, invece, l’immagine del mondo si raccoglie nella solennità di atti performativi messi in scena in momenti dell’anno, prefissati da ciascuna cultura in base al suo calendario. Liturgie, feste popolari e nazionali, rievocazioni di eventi storici fanno parte dei cerimoniali con i quali gli individui assimilano nella memoria il patrimonio simbolico-valoriale della loro cultura (Connerton 1989: trad. it. 1999, 87). Come un tornio, la macchina rituale commemorativa dà forma ai vasi della memoria sociale14 che conservano e trasportano l’immagine del mondo al di là dei ponti generazionali. Tuttavia, sono tutte le tipologie rituali addette a sviluppare e riprodurre la visione del mondo nell’interazione simbolica che ne riducono gradatamente l’energia creativa. Se all’inizio, infatti, è un’immagine poietica carica di contenuti di senso che dà impulso – lungo la via metodica della simbolizzazione e dell’abitudinarietà – alla costruzione della realtà sociale, essa poi diventa una forma simbolico-comportamentale incapace di accogliere le forze vitali dell’azione reciproca. Come scrive Simmel, tra vita associata e forma sociale si crea un conflitto generativo del mutamento di una fase di civiltà e della nascita di un’altra: Non appena la vita è progredita dallo stadio puramente animale a quello dello spirito, e lo spirito dal suo canto allo stadio dell’incivilimento, si fa palese in essa un interno contrasto, lo sviluppo, la risoluzione, la rinascita del quale costituisce tutto il cammino della civiltà. […] Ma questi prodotti del processo vitale hanno la particolarità che già nel momento del loro nascere posseggono una loro 14 La memoria sociale, come sappiamo da Maurice Halbwachs (1968: trad. it 2001), è un costrutto ottenuto dalla selezione di alcuni accadimenti – tra quelli che incessantemente scompaiono ed emergono dal fluire del tempo – e dalla loro alterazione interpretativa prodotta dai valori dominati nel gruppo; alterazione, accentuata, tra l’altro, nel momento in cui vengono richiamati dal ricordo collettivo.
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permanente fissità, la quale non ha nulla a che fare con l’incessante ritmo della vita stessa, col suo salire e discendere, col suo continuo rinnovarsi, col suo inesausto ramificarsi e riunificarsi. Essi sono costruzioni della vita creatrice, ma che questa poi abbandona (Simmel 1918: trad. it. 1999, 11)
Adattando la citazione simmeliana al nostro discorso, potremmo dire che la vita sociale esonera l’animalità deficitaria dell’uomo con la creazione delle visioni spirituali delle civiltà. Ma una volta che questi costrutti spirituali fissano la realtà storico-sociale, diventano delle forme che confliggono con la vita associata. Sono costruzioni dello spirito umano destinate, pertanto, ad essere abbandonate dalla vita sociale poiché, essa, è un’attività creativa che incessantemente si rinnova e ramifica verso altre formazioni spirituali di incivilimento. Si determina così quel medesimo processo che abbiamo visto nella vita mentale. La creatività si manifesta nella psiche come una visione che illumina un campo di significazione allo stato potenziale. La mente, poi, incamminandosi lungo le tappe di un determinato méthodos, sviluppa i contenuti vitali dell’immagine poietica per sostanziarla in un costrutto (oggettuale o intellettuale). Tuttavia, alla fine di questa prassi costruttiva, quel che resta è una forma mentale svuotata di contenuto vitale. Il pensiero psico-sociale segue un percorso analogo con la creazione delle visioni del mondo. Una volta che i contenuti vitali della Weltanschauung sono oggettivati dal metodo della simbolizzazione e dell’abitualizzazione, quel che perdura è una formazione sociale conservata e riprodotta dagli automatismi15 delle ritualità dell’interazionismo simbolico. Eppure, come spiega sempre Blumer (2008, 37), l’interazione simbolica non è solo una dinamica di applicazione automatica dei 15 Scrive Gehlen a tal proposito: “In quanto esseri sociali, noi agiamo molto spesso “schematicamente”, cioè in figure di comportamento divenute tipiche e abituali, che si svolgono “da sé”. Intendiamo riferirci non soltanto all’agire pratico nel senso stretto della parola, all’agire esteriore, ma anche e soprattutto alle sue componenti esteriori: ragionamenti e giudizi, valori e decisioni; anch’essi sono, perlopiù, ampiamente automatizzati” (1957: trad. it. 2003, 133)
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significati collettivi ma è, al contempo, un processo formativo nel quale gli individui modificano il senso dell’agire. Sono trasformazioni che culminano nel mutamento, la fase della dinamica sociale nella quale il dominio di una visione del mondo si dissolve e un’altra appare, dando così inizio a un nuovo ciclo della costruzione poietica della realtà. 4. Le visioni scientifiche del reale La conoscenza può essere raffigurata come una sfera cognitiva composta da nozioni più o meno complesse grazie alla quale entriamo in relazione significativa con il mondo. Se non fossimo attorniati da essa non potremmo decifrare gli stimoli percettivi, comprendere quel che emerge dai nostri stati interiori, dare una direzione all’agire e decodificare l’agire degli altri, progettare la nostra esistenza, tessere legami causali tra le cose e gli eventi. In ogni istante, la sfera della conoscenza accompagna il nostro pensiero lungo un continuo processo interpretativo – prodotto dal tramescolamento di informazioni, senso comune e sapere – con il quale trasformiamo l’ignoto in noto. L’informazione è un atto di apprendimento puntuale sciolto da un prima e un dopo che tende, come scrive Paolo Jedlowski (1994, 110), a sfavorire una elaborazione da parte del ricevente. Le notizie che circolano nel sistema della comunicazione di massa sono l’esempio più chiaro di questo grado immediato della conoscenza: esse ci informano in tempo reale su qualcosa senza la necessità di dover problematizzare l’autoevidenza del loro contenuto, di doverle contestualizzare in una trama di senso come avviene, ad esempio, negli accadimenti che articolano la narrazione. Persino i colpi di scena che irrompono nell’intrigo del racconto sono plausibili solo se, come specifica Aristotele nella Poetica (1987, 151), non turbano i nessi causali tra i fatti precedentemente esposti. Walter Benjamin, nel rimarcare la differenza tra racconto e informazione, considerava le notizie diffuse dai giornali come un insieme di choc destrutturanti del senso dell’esperienza del lettore, un effetto causato dal loro
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carattere di perenne novità, brevità, intellegibilità “e, soprattutto, dalla mancanza di ogni connessione fra le singole notizie” (1995, 92). L’informazione è una conoscenza prêt-à-porter spogliata da dubbi, consumata nel tempo effimero dell’istantaneità e, proprio per questo, soggetta al ricambio continuo di altre informazioni capaci di sopravanzare la riflessività per colpire l’emozionalità. Anche il senso comune è una conoscenza che sospende il dubbio (cfr. Berger, Luckmann 2000, 68). I suoi significati sono dei prefabbricati concettuali tipicizzati da una determinata tradizione culturale riprodotti da stereotipi, morali, detti popolari, convinzioni, idee comuni. Se Max Weber intende l’idealtipo come strumento del metodo comprendente costruito dal sociologo per ridurre la complessità sociale, per Alfred Schutz la vita associata è anch’essa generativa di costrutti tipici16, di strutture di senso preformate apprese durante il processo di socializzazione. Sono schemi ideativi generalizzati e ripetuti che tessono i legami tra gli individui in base a quello che ognuno pensa che tutti pensino (Jedlowski 1994, 19). Il senso comune è per questo un punto di vista unificato e irriflesso (Schutz 1974, 52) che innerva l’agire pragmatico della vita quotidiana, esonerando gli individui da interrogativi sul suo statuto di verità. Se l’informazione è un apprendimento recepito nel tempo puntuale dell’immediatezza del fatto, il senso comune è una conoscenza contraddistinta da una temporalità circolare conservativa dell’ordine culturale. Nonostante questa distinzione, il sempre nuovo comunicato dal sistema dell’informazione, e il sempre
16 “Solo una piccola parte della mia conoscenza del mondo – scrive Schutz – ha origine nell’ambito della mia esperienza personale. La parte maggiore è derivata socialmente, trasmessa a me dai miei amici, dai miei genitori, dai miei insegnanti e dagli insegnanti dei miei insegnanti. Mi è insegnato non solo come definire l’ambiente (cioè i tratti tipici dell’aspetto naturale relativo del mondo che prevale all’interno del gruppo come indiscussa ma la sempre discutibile somma totale di realtà date per scontate fino a prova contraria), ma anche come costrutti tipici devono essere formati in accordo con il sistema di attribuzione accettato dall’anonimo punto di vista unificato del gruppo cui si appartiene” (Schutz 1971: trad. it. 1979, 14).
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uguale reiterato dal senso comune, sono accomunati dall’essere dei processi di conoscenza acquisiti passivamente. Nella dinamica di apprendimento del sapere, invece, ciò che si conosce è assaporato17 direttamente attraverso l’esperienza. Chi fa esperienza, dal latino ex-per-iri, è attivamente implicato in un processo cognitivo ed emozionale di “attraversamento” che lo porta a scoprire qualcosa di nuovo di sé e del mondo (cfr. Jedlowski 1994, 162). Analogamente al méthodos, l’esperire conduce il soggetto in un percorso che va oltre ciò che gli è noto dal suo vissuto, ma anche al di là della conoscenza immagazzinata dalle informazioni e dai costrutti di senso comune della sua cultura. Parafrasando quanto asserito da Aristotele nell’Etica Nicomachea18, potremmo dire che il sapere è l’arte poietica del comprendere accompagnata da ragionamento riflessivo, un’arte praticata mediante il metodo dell’esperienza con cui si crea nuova conoscenza. Oltre che individualmente, la conoscenza può essere anche prodotta collettivamente. Le comunità scientifiche portano al vertice l’esperienza collettiva del saper conoscere sviluppandola in ambiti disciplinari differenziati. La scienza, infatti, è l’ambito specializzato della conoscenza dedito alla creazione di un sapere qualificato, dalla comunità di sapere che la detiene, da una riflessività teoretica e da metodi di osservazione oggettivi. Inoltre, la conoscenza scientifica del mondo è anche un sapere condiviso in grado di influenzare l’intero mondo sociale e di contribuire, come ci dice Robert Merton (1957: trad. it. 2000, 1023), al suo mutamento. Basti pensare, ad esempio, a come la rivoluzione industriale abbia preso avvio dall’impiego tecnico delle scoperte scientifiche, e come esse continuino a innovarne i cicli produttivi; oppure a come l’epoca atomica, iniziata con lo sgancio delle bombe su Hiroshima e Nagasaki, abbia avuto origine dalla trasposizione nel campo militare della teoria della relatività di Albert Einstein. Ci riferiamo all’etimologia latina del termine “sapere” da sapĕre “aver sapore; esser saggio, capire”. 18 “non esiste nessuna arte che non sia una disposizione poietica accompagnata da ragionamento, né una disposizione poietica che non sia un’arte” (Aristotele VI, 1140 a: trad. it. 1996, 347; cfr. supra cap. I.2). 17
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L’informazione, il senso comune e l’esperienza sono, a loro volta, comprese in una conoscenza più generale prodotta da ciascuna cultura in base a una propria Weltanschauung. A originarla, come si è detto precedentemente (cfr. supra cap. I.3), è la spirale creativa percorsa dalla mente sociale per disvelare dal mundus sensibilis un mundus intelligibilis, un piano di leggibilità del caos sensoriale entro il quale un determinato gruppo sociale definisce e costruisce la realtà (Thomas/Znaniecki 1918, 48; Schutz 1979, 10-11; Berger/Luckmann 2000, 15). La Weltanschauung è l’universo simbolico che abbraccia la totalità delle sfere di significato che istituiscono l’ordine sociale, la matrice dei costrutti di senso socialmente oggettivati e soggettivamente assunti come reali (cfr. Berger/ Luckmann 2000, 136-137). L’informazione, il senso comune e l’esperienza non potrebbero orientarsi e divergere nei loro rispettivi ambiti della conoscenza se non avessero un piano comune della rappresentazione poietica della realtà. Pertanto, anche la scienza è parte dell’ordine topografico del mondo creato dalla mentalità culturale occupandone, come afferma Schutz (cfr. 1979, 181-232), una delle tante provincie di significato assieme ad altre: quella del mondo dei sogni, dei deliri mentali, del fantastico, dell’arte, dei giochi. Ciascuna di queste province moltiplica, con un proprio stile cognitivo, la realtà della vita quotidiana governata dal senso comune. Lo stile cognitivo della scienza si distingue per essere dominato dalla contemplazione teorica finalizzata a osservare e comprendere il mondo (ivi, 219). In virtù di ciò, lo scienziato può mettere tra parentesi la sua soggettività, il sistema di orientamento valoriale della vita quotidiana, e l’ansia che lo spinge a dover rispondere pragmaticamente a ciò che lo circonda (ivi, 222). Grazie a questa fuoriuscita dalla vita ordinaria, egli può dedicarsi al suo lavoro intellettuale fatto di misurazioni, analisi accurate, pratiche di ricerca, scrittura di saggi e conferenze. Durante questa laboriosa attività cognitiva dedita alla risoluzione di problematiche di ricerca, lo scienziato è comunque incluso in un mondo sociale in miniatura, a lui precostituito, regolato da
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norme interne alla sua comunità disciplinare19. Nel fare scienza, egli diventa l’abitante di una provincia di significato eidetica che pur moltiplicando la realtà sociale ne è parte integrante. Non solo. Assieme alla mitologia e alla teologia, la scienza è una sofisticata forma di conoscenza addetta all’elaborazione, alla legittimazione e alla trasformazione dell’universo simbolico che istituisce i principi di realtà del mondo sociale (cfr. Berger/Luckmann 2000, 154-157). Questo legame è leggibile anche in senso inverso: l’universo simbolico è lo sfondo pre-teoretico a partire dal quale la scienza può tracciare i confini della sua provincia di senso, e formulare un sapere teoretico in contrasto con il senso comune e l’informazione. La relazione tra società e scienza è stata messa in luce dal programma forte della sociologia della conoscenza proposta da David Bloor nel saggio Knowledge and Social Imaginary (1976-1991: trad. it. 1994). Partendo dall’analisi durkhemiana del fenomeno religioso, Bloor si interessa alla conoscenza scientifica come un insieme organizzato di nozioni prodotto socialmente e, proprio per questo, campo di studi della sociologia. Se la religione è una forma elementare di spiegazione del mondo, la scienza ne è la sua declinazione complessa dotata, tuttavia, di una analoga forza collettiva in grado di offrire agli individui un sistema di credenze a sostegno del loro agire (cfr. ivi, 73-74). Mutando l’idea di intoccabilità delle certezze prodotte dalla scienza, e che assunta acriticamente rischierebbe di renderle altrettanto sacre come lo sono le certezze religiose, il programma forte della sociologia della conoscenza è interessato ai nessi che intercorrono tra pensiero collettivo e pensiero scientifico. Quello sociologico, pertanto, è un punto di vista 19 La ricerca scientifica, per quanto metta tra parentesi la vita quotidiana, non è mai esterna al sociale; come scrive Schutz, nel fare ricerca “lo scienziato entra in un mondo precostituito di contemplazione scientifica da lui ereditato dalla tradizione storica della sua scienza. Da questo momento in poi egli parteciperà a un universo di discorso che comprende i risultati raggiunti da altri, problemi esposti da altri, metodi elaborati da altri. Questo universo teorico della scienza particolare costituisce di per sé una provincia finita di significato che ha il suo particolare stile cognitivo con specifiche conseguenze in termini di problemi e orizzonti da raggiungere” (ivi, 223).
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terzo che non vuol stabilire se le nozioni della scienza siano vere o false, ma analizzarla come una provincia di significato compresa nella totalità prescientifica di una determinata Weltanschauung20. In ragione di questa interdipendenza, più che di “scienza” si dovrebbe parlare di “scienze”, un plurale utile a indicare quel pluriverso di conoscenze specializzate create dalle società umane fin dalle prime civiltà della storia. Già nelle città assire e babilonesi, come mostrano le analisi sulle origini del fenomeno urbano condotte da Lewis Mumford (1961: trad. it. 2000), il santuario rivela la presenza di un luogo dedicato, oltre che al culto, a una forma di conoscenza sapienziale pervasa da una immagine sacra del mondo (cfr. Eliade vol. IV 1986: trad. it. 1997, 550-551). Nelle cinte murarie di Ur, Nippur, Uruk, Tebe Eliopoli, Assur, Babilonia, il santuario è tra i primi organi urbani ad essere costruito assieme al palazzo reale, sede del potere politico del monarca, e al granaio, il luogo di accumulo e razionamento dei raccolti regolato dalla forma economica della redistribuzione (cfr. Polanyi 1977: trad. it. 1985, 66). Lungo un arco temporale di 3000 anni, le civiltà della Mezzaluna fertile hanno pietrificato le loro Weltanschauungen attraverso questi tre organi urbani, testimoniandoci la separazione e l’interdipendenza tra sapere, politica ed economia. Il santuario, in particolare, era il centro di amministrazione del senso delle civiltà mesopotamiche gestito da comunità di sapienti sacerdoti “incaricati di comprendere le cose e dirigerle” (ivi, Mumford, 56). Sganciati dalle incombenze materiali, questi primi scienziati cominciarono a dedicarsi esclusivamente a un’attività teorico-contemplativa guidata dai simboli religiosi che, purtuttavia, diede origine all’invenzione di forme sofisticate di calcolo matematico (cfr. Pichot 1991: trad. it. 1993, 63), e alla nascita di una prima forma di osservazione esatta dei moti degli astri. Fu questo che permise agli astronomi di Babilonia di prevedere la periodicità delle eclissi, di calcolare il movimento dei pianeti, riuscendo persino a misurare la lun20 Secondo Karl Mannheim, è questa visione generale della concezione del mondo che sfugge allo sguardo specializzato delle scienze esatte, e che invece caratterizza l’oggetto di studio delle scienze umane e sociali (cfr. 1952: trad. it. 2000, 6-7).
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ghezza dell’anno con un errore solo dello 0,001% (cfr. Koestler 1975, 232). Con ciò, non bisogna pensare la matematizzazione dell’astronomia mesopotamica come l’origine di una conoscenza scientifica di tipo quantitativo, legata unicamente al calcolo astratto. La matematica era strumentale a una osservazione dei fenomeni celesti intesi come segni divini da interpretare per prevedere il futuro21. A partire dalle civiltà mesopotamiche, la scienza sacra si è diffusa e differenziata negli universi simbolici delle principali tradizioni culturali che man mano comparvero tra oriente e occidente connotate. Come evidenzia René Guénon (1962: trad. it. 1990) attraverso una comparazione tra le civiltà premoderne, le metamorfosi della scienza sacra continuarono ad essere accomunate da un nucleo originario di dottrine misteriche a carattere astrologico-alchemico apprese attraverso riti iniziatici. Una volta uscito dal mondo profano, l’iniziato accedeva a una sapienza esoterica con la quale poter cogliere il lato simbolico della realtà sensibile (ivi, 77-78), e ricondurla a principi sovrasensibili d’ordine spirituale. È stato durante la civiltà ellenica, in particolare nell’Atene del V-IV secolo a. C., che il legame tra scienza e sacro cominciò ad essere reciso. Il ginnasio fu quel nuovo organo urbano, distinto dal luogo sacro dell’acropoli, in cui la scienza cominciò a laicizzarsi mediante la creazione di una nuova visione scientifica: quella filosofica. Nato originariamente come luogo di riunione degli atleti, il ginnasio divenne successivamente il punto di convergenza dell’effervescenza della vita intellettuale delle polis che animò l’Accademia di Platone, e poi il Liceo di Aristotele (cfr. Mumford 2000, 224). In queste prime università della storia, cominciò a nascere e ad essere trasmessa una conoscenza critica e razionale, basata sulla demarcazione tra realtà filosofica e immagine simbolico-mitologica del mondo (cfr. Kearney 1998, 87-99). 21 Scrive Giovanni Pettinato nel saggio Angeli e demoni a Babilonia dedicato all’astrologia mesopotamica: “l’esperto delle cose celesti, colui che conosce perfettamente il movimento delle stelle e ne interpreta i segni che gli dèi mandano agli uomini perché possano regolare la loro vita e così non soccombere ai mali eventuali” (2001, 138).
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Il celebre racconto del Mito della caverna di Platone è sicuramente un reperto prezioso per l’archeologia del sapere occidentale perché è possibile comprendere quel primum movens che nutre, ancora nel presente, il sospetto della scienza verso le immagini (Marzo 2015). La caverna, come si ricorderà dalla celebre narrazione contenuta ne La Repubblica (Platone 1994, 229-258), viene descritta come quel luogo oscuro in cui abitano dei prigionieri. Segregati sin dalla fanciullezza con catene poste loro ai piedi e al collo, ciò che essi possono vedere è solo la parete che hanno di fronte. Fuori dalla caverna, Platone colloca dei burattinai con in testa delle statuette. Il loro intento è quello di proiettare le sagome delle statuette all’interno della caverna servendosi di un fuoco posto in alto e nascosto dietro le spalle dei reclusi. La parete diventa così lo schermo di una preistorica sala cinematografica su cui scorrono le gigantografie delle sagome dei burattini che agli occhi degli ignari spettatori appaiono come mostruosi esseri mitologici. Il potere spettacolare prodotto dalle immagini-ombre è talmente intenso, come ci fa intendere Platone, da indurre i prigionieri in un’allucinazione collettiva che fa dimenticare le catene che ne immobilizzano i corpi. La svolta narrativa avviene quando uno dei prigionieri, sospettoso delle immagini-ombra, si risveglia ricordando il principio di ragione presente nella sua anima fin dalla nascita, ma poi dimenticato nella realtà simulata del sottosuolo. Grazie alla reminiscenza, il prigioniero intraprende un cammino di liberazione che lo conduce fuori dal ventre pietrificato della caverna, a nascere una seconda volta alla luce del mondo esterno illuminato dal sole del lógos. Sotto i raggi dell’astro, sede dei principi certi e immutabili del vero sapere retto da ragione, le immagini che prima incatenavano il prigioniero si dileguano rivelandogli l’oggettività del mondo. In questa metafora platonica, dunque, ha inizio il destino radioso della scienza occidentale verso la visibilità della realtà22 mediante un méthodos. Il racconto della caverna, infatti, altro non è che 22 A partire da questo punto di svolta della nostra tradizione culturale post-platonica, solo l’artista è legittimato a scendere nelle segrete oscure di questo mondo inferiore per creare le sue opere. L’opera d’arte, tuttavia, essendo l’esito di questa escursione di senso contrario alla logica scientifica, viene privata di
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la descrizione metaforica del percorso conoscitivo della filosofia lungo il quale il prigioniero va al di là di ciò che appare. Figura simbolica dell’uomo impegnato nella ricerca filosofica della verità, il prigioniero nel risalire verso la realtà trasforma la sua ottica di sguardo in un’osservazione consapevole, illuminata da modelli mentali sovrasensibili, da forme ideali prefissate in un piano metafisico e non più sacrale. Le idee platoniche sono le forme paradigmatiche di una ragione cosmica incontrovertibile, ingenerata, eterna e immutabile che dà fondamento alle cose che divengono nel mondo fisico23. Il Demiurgo platonico, attingendo alle Idee metafisiche, crea e ordina la realtà fisica del mondo per conferire ad esso armonia e bellezza. Ma è bene precisare che il Demiurgo concepito da Platone non è una divinità olimpica essendo, invece, una suprema intelligenza razionale (cfr. Reale 2017, 27) che opera secondo una logica matematica e geometrica per trasferire la dimensione metasensibile nel mondo sensibile24. Poiché ciò che appare è la copia di una realtà metafisica prodotta da una ragione demiurgica, il filosofo è colui che la rende intellegibile attraverso il saper riconoscere nella morfologia delle cose la presenza delle forme pure del mondo delle Idee. Esse, pertanto, sono i paradigmi che guidano il metodo della scienza filosofica per scoprire la verità ontologica del mondo avvolta nell’inganno dell’immediatezza percettiva delle immagini e delle false visioni indotte dalle creogni fondamento di verità per essere confinata nella sfera estetica esponendosi, in tal modo, unicamente al giudizio del bello o del brutto. 23 È il paradigma ideale del cerchio perfettamente geometrico che, ad esempio, è presente nelle forme circolari della natura, così come è il modello del cavallo perfetto ad essere incorato in ogni singolo esemplare di cavallo. 24 Scrive Platone in un passo chiave del Timeo nel quale descrive la costruzione dell’ordine razionale della realtà plasmata dal Demiurgo: “E prima di questo tutte le cose si trovavano senza ragione e senza misura. Ma quando Dio intraprese a ordinare l’universo, il fuoco in primo luogo e la terra e l’aria e l’acqua avevano bensì qualche traccia di sé, ma si trovavano in quella condizione in cui è naturale si trovi ogni cosa, quando Dio è assente. Queste cose, dunque, che allora si trovavano in questo stato, Egli in primo luogo le modellò con forme e con numeri. Che Dio abbia costituito cose nel mondo più bello e migliore che fosse possibile, movendo da una loro condizione che era affatto così, anche questo per ogni cosa resti saldo come detto una volta per tutte” (53 A-B: ed. it. 2001, 153-155).
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denze mitologiche. L’unità tra ideazione paradigmatica e metodo logico-razionale di analisi creano, pur se ancora in termini metafisici, l’archetipo della visione scientifica del mondo occidentale. Il pensiero filosofico greco ha attraversato il tempo grazie alle traduzioni pervenute dalla civiltà araba medievale, un periodo di splendore e ricchezza intellettuale tale da essere identificato da Alexandre Koyré (1966, 27) come il Rinascimento della cultura islamica. Parallelamente al Rinascimento arabo, nella sponda nordeuropea del mediterraneo, la Scolastica – la provincia di significato dedita alla contemplazione teologica del mondo – riprese anch’essa la civiltà ellenistica per conciliare la razionalità filosofica con i dogmi della teologia cristiana. Un processo di traduzione e reinterpretazione del pensiero di Socrate, Platone, Aristotele e Plotino, nel quale la laicizzazione filosofica del pensiero ritornò all’interno di una conoscenza scientifica di tipo sacrale. Se il Demiurgo concepito da Platone era un essere razionale nutrito dalle Idee di un Iperuranio a lui precostituito, la Scolastica lo cristianizzò sovrapponendolo all’immagine di Dio (ivi, 30). Il Demiurgo medievale divenne il creatore della sua stessa ragione con la quale plasmare dal nulla il cielo, la terra e ogni forma di vita compreso l’uomo, l’essere fatto a sua immagine e somiglianza. Con il ritorno della ragione nella mente creativa di Dio, anche il cosmo aristotelico fu smontato e riadattato secondo le istruzioni teologiche ottenute dall’esegesi della volontà divina. Nell’ordine cosmologico concepito da Aristotele nella Metafisica, la scienza dei principi primi della ragione filosofica, compare la figura di un Dio inteso come Motore immobile causa e fine dei movimenti perfettamente circolari dei pianeti e dei moti naturali (cfr. Metaph. Libro XII 7: trad. it. 2009, 1579-1585). Tuttavia, così come per il Demiurgo platonico, il Dio aristotelico non è il creatore del cosmo (cfr. Reale 1997, 69). Egli è solo il motore primo che governava secondo una ragione eterna il movimento delle sfere celesti, rinchiuse l’una nell’altra, che formano il cosmo. La sfera centrale detta “sublunare” era occupata dalla Terra, composta dai quattro elementi base della filosofia presocratica (aria, terra, fuoco, acqua), attorno alla quale si distribuivano man mano le
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altre sfere planetarie (nell’ordine: Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove e Saturno) fino all’ultima occupata dalle stelle fisse. È quest’ordine celeste descritto da Aristotele nel Del cielo (cfr. II B, 10-13: trad. it. 2008, 353-364) che fu accettato dal grande astronomo Tolomeo (II sec. d.C.) e trasformato dagli astronomi medievali. Il Dio biblico, oltre che motore immobile, viene inteso come l’artefice di tutte le sfere concentriche ordinate dal sistema geocentrico. Nonostante la rimodulazione compiuta dall’astrologia teologica della Scolastica, il cosmo restava uno spazio vasto ma comunque limitato, così come lo aveva concepito Aristotele. Una sfera celeste, fatta di sfere più piccole, colma di un senso trascendentale infuso dal Creatore (cfr. Koyré 1966, 45) in grado di rassicurare le anime dei fedeli collocate al centro del suo artefatto cosmico. È nella finitudine del cosmo aristotelico-tolemaico che nel 1564 nacque Galileo Galilei: l’uomo di genio destinato a portare nella storia la scienza sperimentale. La sua mente dubitativa e creativa lo condusse in un itinerario conoscitivo di liberazione analogo a quello del prigioniero della caverna platonica. Una caverna estesa quanto la sfera celeste voluta da Dio e istituita dalla Chiesa che per secoli aveva richiuso l’occidente premoderno. Uscendo dalla finitudine del cosmo geocentrico e teocentrico, Galileo (cfr. 1632; ed. 1964 vol. II, 127-128) ebbe il merito di mostrare l’esistenza di un universo infinito, mosso da leggi meccaniche che traevano in sé la loro validità, entro il quale era la Terra – come avevano compreso prima di lui Copernico e Keplero – a roteare attorno al Sole. In realtà, già la scuola pitagorica aveva concepito la Terra come una sfera perfetta parte di un sistema eliocentrico, ma era ancora una visione nella quale la matematica era confusa con elementi astrologici (cfr. Pichot 1993, 443). Il modello astronomico concepito da Galileo, e che rese lo scienziato pisano una delle prime figure chiave dell’epoca moderna, nasceva invece dal definitivo distacco dall’astrologia teocentrica medievale e dal cosmo metafisico della filosofia greca. Il Demiurgo e la sua spiritualizzazione cristiana si allontanarono in un’epoca oscura non ancora rischiarata da un sapere scientifico pienamente razionale. Galileo fu uno dei creatori, assieme a Francis Bacon e René De-
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scartes, della visione disincantata del mondo occidentale destinata a illuminare l’intera umanità (cfr. Prigogine /Stengers 1979: trad. it. 1999, 30-31). La fisica galileiana non è solo un mundus intelligibilis, bensì un mundus rationalis geometrico-matematico nel quale trasporre le cose e trasformarle in enti astratti da interrogare secondo le metodiche regole della scienza moderna basate sull’osservazione oggettiva, ipotesi razionali, strumenti di misurazioni, verifica sperimentale, formulazione di teorie astratte. Finisce così il “mondo del pressappoco”, come lo chiama Koyré (1961: trad. it. 2000), dominato dall’imprecisione interpretativa teologico-filosofica e nasce il “mondo scientifico della precisione”. Al suo interno i dati di realtà vengono compresi secondo l’ordine geometrico-matematico in cui è scritta la natura, come asserisce Galileo in un celebre passo del Saggiatore (1623): La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intendere la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica attraverso caratteri geometrici fatti di triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intendere umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto (ed. 1964 vol. II, 631-632).
La visione quantificata della natura diventa, involontariamente, il mondo neoplatonico delle Idee di Galileo abitato da triangoli, cerchi e da altre figure perfettamente geometriche (cfr. Husserl 1936: trad. it. 2002, 53; Koyré 1966, 191). L’iperuranio galileiano, depurato da qualsiasi qualità metasensibile, è ora una realtà fisico-meccanica perfettamente conoscibile dalla razionalità umana. Ma questo richiede l’applicazione di un metodo altrettanto meccanico regolato da un processo di ricerca logico-razionale controllato, sequenziale e predefinito (cfr. Giorello 1982, 397). Una schematizzazione tecnica del pensiero che pone fine al méthodos, inteso come percorso conoscitivo-esperienziale come ancora era in Platone, per far nascere il metodo dell’osservazione sperimentale.
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Il metodo diventa la macchina della verità scientifica costruita per osservare induttivamente i moti degli astri e qualsiasi altro fenomeno naturale, al fine di dedurne leggi astratte dal valore universale. Il suo funzionamento si articola in una processualità polifasica. La prima fase è quella dell’osservazione del fenomeno attraverso la misurazione. È nel misurare che l’esperienza percettiva dello scienziato si compenetra con la visione matematizzata e con l’uso di strumenti. Il telescopio, perfezionato da Galileo, è il simbolo per eccellenza dell’alleanza mai più tradita25 tra lo scienziato e gli apparati tecnici, necessari per estendere la vista umana nell’infinitamente grande e nell’infinitamente piccolo. Grazie a questo terzo occhio artificiale, Galileo riuscì ad avvicinare di quaranta volte il cielo visto da Aristotele – come fa dire a Salviati nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (vol. II 1964, 79-80) – al punto da scoprire le macchie solari altrimenti invisibili a occhio nudo. Dopo l’osservazione delle “sensate esperienze” condotta tramite misure quantificabili e strumenti di precisione, la seconda fase del metodo galileiano è quella della formulazione di un’ipotesi con la quale spiegare il fenomeno osservato induttivamente. Per essere plausibile, l’ipotesi deve essere semplice ed espressa attraverso il linguaggio matematico. Queste due prime fasi concludono il processo osservativo-induttivo delle “sensate esperienze” a cui deve seguire quella delle “necessarie dimostrazioni” (Galileo 1613-1615: ed. vol. I, 559560), la terza fase del metodo galileiano che conduce alla verifica sperimentale dell’ipotesi: solo l’esito positivo dell’esperimento può accertare la validità o meno dell’ipotesi di partenza. L’esperimento è il luogo in cui lo spirito scientifico moderno riproduce una situazione ideale, artefatta dallo scienziato in basi ad una esemplificazione delle variabili presenti in natura, entro la quale poter “fare una sceneggiatura della realtà fisica” (Prigogine/Stengers ivi, 41) in funzione dell’ipotesi che si vuol dimostrare. La macchina del metodo sperimentale trasforma, dunque, l’arte del saper ricercare in un processo conoscitivo istruito dal fare 25 Sono oggi i telescopi spaziali che continuano a perfezionare l’ottica galileiana, portando lo sguardo umano nello spazio profondo fino ai primi istanti di vita dell’universo.
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tecnico con il quale sollevare il velo di Maya26 – tessuto dalle immagini ingannevoli prodotte dai limiti della percezione umana priva di strumenti, e da tutte le visioni religiose e metafisiche prive di oggettività – per scoprire i fatti in termini di certezza. Lo scienziato, servendosi del metodo, diventa padrone di una tecnica restaurativa impegnata a rimuove, da quel pezzo di mondo ritagliato dal suo campo analitico, la patina delle immagini (percettive e di senso) al fine di portare in luce i dati immediati della conoscenza. Tuttavia, è proprio padroneggiando la macchina del metodo che lo scienziato, per conferire certezza alle ipotesi, si dovrà affidare al suo funzionamento. Ma è in questo affidamento che lo scienziato diventa, a sua volta, un po’ più servo proporzionalmente al crescere della fiducia riposta nella potenza conoscitiva del metodo. Con questo scambio delle parti, la macchina del metodo assume il ruolo di guida demiurgica dell’attività di ricerca dello scienziato. Anche il principio della falsificabilità, che Karl Popper indica come criterio di demarcazione delle conoscenze scientifiche, individua nella riproducibilità del metodo sperimentale il suo strumento di verificazione27. Dato che la verifica dell’ipotesi emerge da una prassi di ricerca condotta attraverso variabili predefinite e procedure standardizzate, ciascun scienziato potrà falsificarla se ricrea le medesime condizioni sperimentali, oppure sostituirla 26 Scrive Schopenhauer citando alcuni passi dei Veda e dei Purana: “È Maya, il velo del mondo di cui non si può dire né che esista né che non esista, poiché è simile al sogno, allo scintillio della luce solare sulla sabbia, che il viaggiatore scambia da lontano per acqua, oppure ad una corda buttata per terra ch’egli prende per un serpente” (1818-1819: trad. it. 1993, 44). 27 Afferma Popper: “Le regole metodologiche sono dunque strettamente connesse sia con altre regole metodologiche sia con il nostro criterio di demarcazione. Ma la connessione non è una connessione strettamente deduttiva o logica. Essa risulta, piuttosto, dal fatto che le regole sono costruite allo scopo di assicurare l’applicabilità del nostro criterio di demarcazione; pertanto la loro formulazione e la loro accettazione procedono in conformità con una regola pratica di tipo superiore […]: le teorie che decidiamo di non sottoporre a nessun controllo ulteriore non saranno falsificabili. […] Soltanto dalle conseguenze della mia definizione di scienza empirica, e dalle decisioni metodologiche che dipendono da questa definizione, lo scienziato sarà in grado di vedere fino a qual punto essa si conformi alla sua idea intuitiva della meta verso la quale tendono i suoi sforzi.” (1934: trad. it. 1970, 38-39)
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con una nuova ipotesi più esaustiva. Se la falsificabilità espone le ipotesi a un continuo ricambio, l’unico elemento invariabile e non falsificabile è il metodo usato per testarne la validità. È stata la fisica del ‘900 a mettere in dubbio la riproducibilità tecnica della verità scientifica. Con L’interpretazione di Copenaghen della teoria dei quanta, Werner Heisenberg (cfr. 1958: trad. it. 2015, 52-65) pone in evidenza i limiti del metodo della fisica galileiana: l’osservazione è alterata da fattori soggettivi dovuti alla conoscenza incompleta delle teorie di cui dispone lo scienziato; ma altresì, dalla stessa strumentazione usata durante l’esperimento. Occupandosi dell’universo delle particelle elementari, Heisenberg mostrò come per individuare la posizione dell’elettrone fosse necessario ricorrere a un microscopio a raggi γ, dotato di una lunghezza d’onda più piccola di quella della luce. Ed è proprio la lunghezza d’onda dei raggi γ proiettata dal microscopio sull’elettrone che ne muta la velocità, e quindi la posizione (ivi, 55). Heisenberg assieme al fisico danese Niels Bohr cominciarono, dunque, a uscire dalla fisica meccanica galileiana per rivelare una realtà più complessa basata sulla probabilità, e non più sulla certezza, conoscibile solo in un quadro interpretativo condizionato dai limiti teorici dello scienziato, e dall’ingerenza degli strumenti di osservazione durante la fase sperimentale. La messa in discussione delle regole del metodo scientifico la si ritrova anche nelle analisi di Paul Feyerabend raccolte nel saggio, dal titolo emblematico, Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza. Muovendosi nel contesto storico delle rivoluzioni scientifiche, Feyerabend mostra come il progresso intellettuale nasca da una deviazione dalle regole standardizzate del metodo: L’idea di un metodo che contenga principi fermi, immutabili e assolutamente vincolanti come guida nell’attività scientifica si imbatte in difficoltà considerevoli quando viene messa a confronto con i risultati della ricerca storica. Troviamo infatti che non c’è una singola norma, per quanto plausibile e per quanto saldamente radicata nell’epistemologia, che non sia stata violata in qualche circostanza. Diviene evidente anche che tali violazioni non sono eventi accidentali, che non sono il risultato di un sapere insufficiente o di disatten-
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zioni che avrebbero potuto essere evitate. Al contrario, vediamo che tali violazioni sono necessarie per il progresso scientifico. In effetti, uno fra i caratteri che più colpiscono delle recenti discussioni sulla storia e la filosofia della scienza è la presa di coscienza del fatto che eventi e sviluppi come l’invenzione dell’atomismo nell’Antichità, la rivoluzione copernicana, l’avvento della teoria atomica moderna (teoria cinetica; teoria della dispersione; stereochimica; teoria quantistica), il graduale emergere della teoria ondulatoria della luce si verificarono solo perché alcuni pensatori o decisero di non lasciarsi vincolare da certe norme metodologiche “ovvie” o perché involontariamente le violarono. Questa libertà di azione, lo ripeto, non è solo un fatto della storia della scienza. Esso è sia ragionevole sia assolutamente necessario per la crescita del sapere. (Feyerabend 1975: trad. it. 2005, 17 e 21)
L’anarchia rivendicata dalle parole di Feyerabend non è un rifiuto del metodo ma delle sue regole, una volta che esse si impongono come rigide e inviolabili. L’insubordinazione di cui parla Feyerabend nasce dalla costatazione storica che la scienza, dall’atomismo alla teoria quantistica, è un sapere che si accresce grazie alla fuoriuscita da percorsi metodologici predefiniti28. Anche Edgar Morin pone l’accento sull’importanza di pensare il metodo come una processualità conoscitiva in divenire che inizia lì dove vengono meno le sicurezze del già noto: Dobbiamo partire dal venir meno delle false chiarezze. Non il chiaro e il distinto, ma l’oscuro e l’incerto. Non più la conoscenza assicurata, ma la critica della sicurezza. Non possiamo partire che nell’ignoranza, nell’incertezza, nella confusione. […] L’incertezza diventa viatico: il dubbio sul dubbio dà al dubbio una nuova dimensione, quella della riflessività. […] Il metodo non può che costruirsi nella ricerca: non può che venire alla luce e formarsi che in seguito, nel momento in cui l’arrivo torna a essere un nuovo punto di partenza, questa volta dotato di un metodo (1977: trad. it. 2015, 11 e 19).
28 La posizione di Feyerabend è analoga, come abbiamo visto precedentemente (cfr. supra cap. I.1), a quella sostenuta in campo sociologico da Marradi (1996) nel suo discorso sul metodo inteso come arte del ricercare.
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Nel momento in cui il ricercatore procede aprendosi al dubbio esso entra nell’essenza del metodo scientifico. A differenza dei sistemi di credenza ideologici (religiosi, etico-morali, politici) basati su verità cristallizzate, la scienza è una conoscenza fondata essenzialmente sull’incertezza. Il dubbio, come scrive Morin, è quella non verità che interrompe il circuito chiuso del pensiero scientifico per aprire alla creazione di nuove dimensioni riflessive. Espellere il dubbio dall’attività del ricercare porta i paradigmi scientifici a trasformarsi in un sistema di credenza ritualizzato delle procedure metodologiche canonizzate dalla comunità scientifica. Per Morin, diversamente, il metodo non è un a priori, quanto piuttosto una tecnica di analisi creata induttivamente dallo stesso percorso di ricerca non riproducibile, poiché ogni sua meta è un nuovo punto di partenza. I fisici David Bohm e David Peat (2000) concordano nel definire lo sviluppo della scienza come un andirivieni creato dal gioco continuo tra la percezione dei fenomeni empirici e le conoscenze costruite per spiegarli. A differenza di quanto vorrebbe la logica positivista legata alla fede nell’oggettività dei fatti (ivi, 45), i dati di realtà vengono sempre raccolti e decodificati in un corpus teorico-metodologico che ne condiziona l’interpretazione. Ciò significa che ogni ricerca ritenuta fissa e assoluta è illusoria, poiché la scienza si connota per essere un’attività cognitiva che ciclicamente crea, distrugge e ricrea i legami tra conoscenza e percezione (ivi, 47). Ma dato che la scienza è una provincia di sapere specializzato, come si diceva con Schutz, la sua attività cognitiva è influenzata sempre dall’universo simbolico in cui è collocata. Pertanto, il fisico quantistico quando cerca di stabilire in termini probabilistici la posizione dell’elettrone è condizionato, oltre che dalle teorie e dalle alterazioni indotte dallo strumento sperimentale, dalla Weltanschauung della sua epoca. Nel decostruire le certezze della fisica meccanica galileiana e newtoniana, la fisica quantica è l’espressione in campo scientifico di una crisi generalizzata delle strutture del pensiero occidentali dei primi del ‘900 portata in luce, più o meno negli stessi decenni, dal nichilismo filosofico e dalle avanguardie artistiche.
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Malgrado la diffidenza verso le immagini, nutrita fin dal mito platonico della caverna, il sapere scientifico è un costrutto storico-sociale creato da una visione paradigmatica e da un metodo di osservazione in grado di oggettivarla in prodotti scientifici. Ciò che hanno in comune la sapienza sacra, la metafisica filosofica e la fisica moderna è di aver dato vita, se pur in modi diversi, a un analogo processo contraddittoriale: quello di svelare qualcosa dall’oscurità del reale ri-velandolo, allo stesso tempo, entro una visione scientifica socialmente e storicamente determinata. Lo scienziato di qualunque epoca è sempre collocato dentro una caverna, per riprendere la metafora platonica, nella quale scambia le cose illuminate dai paradigmi posti alle sue spalle per la realtà stessa delle cose. E anche quando si libera dalle certezze simulate che imprigionano la sua comunità di sapere, lo scienziato non fa che ricreare un’altra immagine scientifica del mondo da esplorare con nuovi metodi conoscitivi. 5. La creazione sociologica dell’essere sociale Fin qui abbiamo seguito lo sviluppo spiroidale della creatività nella vita mentale, nei processi psico-sociali e nell’ambito del sapere paradigmatico. La prospettiva sociologica della conoscenza, con la quale abbiamo osservato le metamorfosi del pensiero scientifico, sarà ora ruotata per analizzare la creazione della visione sociologica del mondo moderno. La sociologia, avendo messo in luce l’interdipendenza tra società e conoscenza, va analizzata con gli stessi strumenti concettuali con i quali esamina le altre scienze. Colta in questo quadro, la sociologia può essere rappresentata come una provincia di sapere eidetico che moltiplica la realtà sociale nel tentativo di renderla intellegibile. Pertanto, anche le teorie e i metodi che specializzano la conoscenza dei fenomeni sociali sono dei costrutti concettuali creati dal sociologo in relazione alla comunità scientifica di cui è parte e al mondo sociale nel quale conduce le sue ricerche. Come le altre comunità scientifiche, anche quella sociologica è istituita da un sistema di credenze organizzato da immagini paradigmatiche (Bloor 1994, 220). Questo,
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come specifica sempre Bloor (ivi, 65), non significa indebolire la conoscenza sociologica, bensì estenderne e rafforzare in termini autoriflessivi la sua logica scientifica. Per l’analisi sociologica della sociologia occorre, innanzitutto, individuare l’origine della sua visione scientifica nel contesto storico-culturale della modernità. L’avvento dell’epoca moderna può essere colto da punti di vista differenziati. Ci limiteremo a focalizzare l’attenzione sul mutamento dello spazio geografico e simbolico con il quale l’Occidente si è decentrato dal mondo medievale. L’ordinamento spaziale della società, come ci dice Simmel (1908: trad. it. 1998, 524), è soltanto un prodotto della mente collettiva nato dall’esigenza di riunire l’eterogeneità percettiva della natura in una visione unitaria dotata di significato storico. La reductio ad unum che ha portato alla formazione dello spazio terracqueo moderno è stata sollecitata dall’eterogeneità dei nuovi territori scoperti dopo il valico, compiuto da Cristoforo Colombo il 3 agosto del 1492, dello stretto di Gibilterra: il confine psico-geografico entro il quale era ancora il Mediterraneo il centro di rotazione politico-economico dell’occidente. Il 12 ottobre dello stesso anno il navigatore genovese approdò nell’isola di Guanahani; così era chiamata dai nativi, ribattezzandola con il nome di Isola di San Salvador in onore di Isabella di Castiglia, la regina che aveva finanziato la sua impresa. Pur avendo dato inizio alla rivoluzione dell’ordinamento spaziale del Vecchio Continente, Colombo era ancora un uomo medievale che si aggirava nel Nuovo Mondo come Adamo nel Paradiso Terrestre per rinominarlo in nome di Dio, della Madonna e dei regnanti cattolici spagnoli (Todorov 1982: trad. it. 1992, 32). In questa riappropriazione linguistica del Nuovo Eden non sfuggirono le creature umane che lo abitavano. Invece di aprirsi all’interpretazione dell’altro, Colombo assimilò l’alterità culturale dei nativi nello schema interpretativo del vecchio mondo teologico da cui era partito giudicandoli, quindi, come esseri da convertire agli usi e ai costumi cristiani (ivi, 52). Iniziò così a generarsi quella matrice tipicamente occidentale di violenza simbolica, per dirla con Pierre Bourdieu (1972: trad. it. 2006, 47), che trasformò la conquista dell’America nel più grande genocidio della storia (Todorov 1992, 7).
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Caboto, Verrazzano, Cabral, Vespucci e Magellano furono gli esploratori che, dopo Colombo, continuarono a estendere oltreoceano la volontà di dominio economico e politico. Il Mediterraneo cominciò a restringersi con il deflusso dei commerci in un reticolo sempre più fitto ed esteso nel quale si formò la prima forma dell’economia-mondo (Wallerstein 2011, vol. II, 47-49). Un’economia monopolizzata da mercanti e corsari assoldati dagli stati europei (Schmitt 1954: trad. it. 2002, 45) per accumulare dalle colonie risorse materiali (oro, pietre preziose e beni alimentari) e umane, con il commercio degli schiavi prelevati dall’Africa occidentale per essere impiegati come forza lavoro in America (Braudel 1977: trad. it. 1988, 84). L’altro punto dal quale poter osservare l’alba dell’evo moderno è individuabile nello spazio concettuale, elaborato dalle élites culturali a partire dal XVII secolo, nel quale cominciarono a nascere modelli macchinici di spiegazione del mondo (Rossi 1962: ed. 2002, 23). Sino ad allora, le macchine erano oggetto di interesse delle arti meccaniche esercitate da ingegneri e fabbri per costruire telai, armi, scenografie teatrali, mulini per catturare l’energia eolica e idrica, argani per potenziare il corpo umano. Le prime macchine nacquero in concomitanza del fenomeno urbano (Munford 1997, 53), ma fu solo dalla metà del Cinquecento che cominciarono ad essere fonte di un rinnovato interesse teoretico testimoniato da una ricca trattatistica (Rossi 2002, 60). Un interesse anticipato da Leonardo da Vinci nei saggi e nei disegni raccolti nel Codice Atlantico [1478-1518] in cui si alternano rappresentazioni dell’anatomia umana con le avveniristiche rappresentazioni di corpi meccanici. Successivamente, furono le cerchie intellettuali del Seicento – popolate da filosofi, storici e scienziati – che elessero il movimento automatizzato della macchina, di cui l’orologio meccanico ne era l’espressione più compiuta, a modello paradigmatico della conoscenza moderna (Munford 1962: trad. it. 2005, 331-335). Come si è detto a proposito della rivoluzione copernicana, la Terra venne decentrata in un universo meccanico armonizzato dalla legge di gravitazione universale formulata, nel 1687, da Isaac Newton nell’opera Philosophiae Naturalis Principia. Uscito dal cosmo aristotelico-tolemaico creato da Dio, l’uomo moder-
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no scoprì così di essere l’abitante di un granello di polvere angosciosamente disperso nell’horror vacui dello spazio profondo (Shapin 1996, 28). Come evidenzia anche lo storico della scienza Paolo Rossi (2002, 23), il modello macchina dell’universo fisico penetrò in altri ambiti specializzati del sapere. Thomas Hobbes, figura chiave del giusnaturalismo, cominciò a spostare i principi della legittimazione del potere dall’ordine teologico-pastorale all’ordine tecno-politico istituito dal Leviatano. Lo Stato moderno teorizzato da Hobbes nasce da un patto orizzontale tra gli uomini per uscire dallo stato di natura, da quella dimensione di violenza in cui riecheggiavano le guerre di religione, demandando le libertà individuali alla creatura del grande Automa29. Da parte sua, René Descartes spostò la questione dell’artificiale nella corporeità, in quella cosa estesa (res extensa) del tutto simile ai meccanismi degli orologi meccanici, e che accomunava tanto gli uomini che gli animali30. A differenza di quest’ultimi però, l’uomo era anche una macchina pensante, una res cogitans in grado di afferrare l’oggettività delle cose-estese grazie al corretto funzionamento delle regole del metodo: accettare solo l’evidenza delle cose valutabili dalla mente in termini chiari e distinti, in modo tale da evitare ogni dubbio; scomporre quanto più possibile le difficoltà dell’indagine, in vista di una migliore soluzione; ordinare il pensiero a partire dalla conoscenza di oggetti semplici per poi risalire, gradatamente, verso la conoscenza dei più com29
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Scrive Hobbes per rappresentare l’origine e l’immagine del Leviatano: “Viene infatti creato dall’arte quel grande LEVIATANO chiamato REPUBBLICA o STATO (in latino CIVITAS) che altro non è che un uomo artificiale, sebbene di statura e forza maggiore di quello naturale, alla cui protezione e difesa fu designato. In esso la sovranità è un’anima artificiale poiché dà vita e movimento all’intero corpo” (Hobbes 1651: trad. it. 1997, 5). Scrive Descartes sulla natura meccanica: “Cosa che non sembrerà affatto strana a chi, sapendo quanti differenti automi o macchine semoventi l’industriosità umana può produrre col solo impiego di pochissimi pezzi in confronto alla grande moltitudine di ossa, muscoli, nervi, arterie, vene e tutte le altre parti presenti nel corpo di ogni animale, considererà questo corpo come una macchina che, in quanto prodotta dalle mani di Dio, è incomparabilmente meglio ordinata e ha in sé movimenti più mirabili di qualunque altra cosa gli uomini possano inventare” (Descartes 1637: trad. it. 1998, 75).
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plessi; infine, fare delle ricognizioni esaustive attorno all’oggetto di osservazione per evitare di non dimenticare (Descartes 2000, 25-27). Come Galileo e Bacone, Descartes concepì il metodo come una macchina in grado di potenziare l’intelletto umano per osservare e spiegare l’ordine geometrico-matematico della realtà. Pertanto, parallelamente all’unificazione dello spazio geografico nelle reti dell’economia-mondo, le province del sapere moderno raccolsero l’eterogeneità simbolica prodotta dalla decostruzione dello spazio teologico nello spazio tecno-logico presieduto dalla figura paradigmatica dell’automa. I due ordini spaziali si ricongiunsero, tra ‘700 e ‘800, quando la macchina divenne il modello di spiegazione della logica autoregolata del capitalismo. Il suo funzionamento segna la fine dell’economia arcaica basata sul dono e la reciprocità, e anche il venir meno dell’economia centralizzata dallo Stato da cui dipendeva un sistema di redistribuzione di beni e servizi nei suoi territori (Polanyi 1983, 61-69). Se in questi sistemi di scambio materiale l’economia era parte integrante della sfera culturale, con il capitalismo l’economia si autonomizza in un mercato in grado di autoregolarsi. Le sue meccaniche sono mosse da una “mano invisibile”, per usare la metafora di Adam Smith contenuta nell’Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1766: trad. it. 1975, 584), in grado di equilibrare la ricerca degli individui e delle nazioni del massimo profitto mediante la logica razionale della domanda e dell’offerta. Karl Polanyi (1944: trad. it. 1974, 92-93) individua in questa autonomizzazione e automazione del mercato capitalistico la grande trasformazione della terra e del lavoro in merci finalizzate ad alimentare l’economia monetaria dell’alta finanza. Ma lavoro e terra, come specifica Polanyi (ibidem), altro non sono che gli individui che costituiscono la società e l’ambiente naturale nel quale vivono. Il sapere scientifico e il potere capitalistico trovarono la loro sintesi definitiva nello spazio-tempo macchinico della fabbrica: il tempio dei tempi moderni nato dall’impiego delle scoperte scientifiche nella sfera della produzione materiale (Landes 1969: trad. it. 2000, 57). La creazione della Weltanschauung scientifica del mondo moderno trovò nella divisione del lavoro sociale della
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fabbrica il metodo di oggettivazione tecnica di una nuova realtà sociale. Grazie alla spirale rivoluzionaria del capitalismo industriale, il mundus rationalis ideato nel XVII secolo uscì dalle ristrette cerchie dei saperi specializzati per manifestarsi attraverso una serie di fenomeni di massa: i rivolgimenti politici, orientati dagli immaginari di emancipazione collettiva (Taylor 2003: trad. it. 2005, 165); l’innesto nella vita quotidiana di prodigiosi sistemi di trasporto e oggetti tecnomagici (Righetto 2000, 81) – reti ferroviarie, linee telegrafiche, macchine fotografiche e riproduttori sonori; l’ascesi della classe borghese, nuovo motore economico e intellettuale dei processi storici (Marx 1848: trad. it. 1990, 31); la nascita delle prime metropoli, generative di ambienti urbani regolati dagli orologi meccanici e dalla logica astratta del denaro (Simmel 1903: trad. it. 1995, 40); la comparsa dei paradisi artificiali del consumo, in cui le folle metropolitane si addensavano attorno al culto delle merci (Benjamin 1995, 152). Tutti questi processi di modernizzazione aprono uno stato di krisis, di radicale separazione dall’Ancien Régime, rendendo definitivamente antiquato quel che restava della società medievale. Se per tutto il ‘600 gli individui erano ancora assorti in un mondo rurale, che si protraeva da secoli senza grandi sconvolgimenti, con l’800 l’epoca moderna si dispiega in tutto l’ordine sociale. In pochi decenni si disvela un paesaggio tecno-industriale perennemente informe in cui, per dirla con Marx (1990, 27), “tutto ciò che era solido si svapora nell’aria”. La Storia, oramai, trovava nel movimento stesso il suo asse di rotazione, un movimento in costante accelerazione carico di aspettative libertarie e, allo stesso tempo, ancora tutto da conoscere, incerto appunto (cfr. Berman 1982; Frisby 1985). L’esigenza di cogliere “senso” e “direzione” della nuova orbita del mondo occidentale è stata sicuramente determinante per la nascita della sociologia: la scienza creata per trovare un metodo d’analisi dei mutamenti indotti dai processi di industrializzazione. Ma questo ha implicato la creazione di una visione scientifica della società, intesa come oggetto di studio diverso da quello già analizzato dal giusnaturalismo e, ancor prima, dalla filosofia politica. Seguendo la ricostruzione storica del pen-
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siero sociologico fatta da Friedrich Jonas (1968: trad. it. 1970), l’emancipazione del “sociale” dalle teorie dello Stato deriva dal disincanto di valori e idee religioso-metafisiche e dalla coscienza della piena responsabilità storica dell’agire umano. Dal riconoscimento del “dominio dell’uomo su se stesso in nome di se stesso, da lui stesso legittimato” (ivi, 9), la sociologia si costruisce come una conoscenza specializzata incentrata sulla credenza in un “essere sociale”: un’entità sovraindividuale proveniente da forze immanenti ai processi storici ma dotato di vita autonoma. Nasce così una nuova interrogazione ontologica31: cosa è la società? Da cosa è composta? Cosa la ordina? Quale influsso esercita nella vita degli individui? Cosa ne determina il mutamento? L’unica questione a non essere posta è quella relativa all’esistenza o meno dell’essere sociale, dato che la certezza della sua esistenza fonda l’immagine gnoseologica della sociologia. E dunque, se per la fisica galileiana la natura è scritta in termini geometrico-matematici, per la sociologia la realtà storica è scritta in termini sociali. Non è un caso che Auguste Comte, l’inventore del termine “sociologia”, nel Corso di filosofia positiva (cfr. 1830-1842: trad. it. 31 È György Lukács che per la prima volta usa l’espressione ontologia dell’essere sociale, anche se in una accezione differente; qui infatti l’espressione è riferita alla dimensione riflessiva che ha sedimentato il sapere sociologico. Nonostante questa differenza, anche nel discorso che qui si vuol fare individuo delle affinità con quanto scrive Lukács: “Sappiamo già che la base ontologica del salto è stata la trasformazione dell’adattamento passivo dell’organismo all’ambiente in adattamento attivo, cosa per cui sorge in linea generale la socialità come nuovo modo di genericità, che gradualmente, processualmente, supera il suo immediato carattere puramente biologico. Anche in questo caso è assolutamente necessario rimarcare la coesistenza ontologica delle due sfere. […] Sotto questo duplice profilo l’uomo non smette mai di essere anche un ente naturale. In maniera tuttavia che (rispetto al) momento naturale in lui e nel suo ambiente (socialmente) rimodellato le determinazioni d’essere sociali diventano sempre più espressamente predominanti, mentre quelle biologiche vengono trasformate qualitativamente, ma non possono mai venir soppresse del tutto” (1971: trad. it. 1990, 43-44). La sociologia nasce proprio occupandosi specificatamente dell’ontologia dell’essere sociale intesa, attraverso quanto scrive Lukács, come l’ambiente sociale in cui l’essere biologico dell’uomo viene rimodellato, senza per questo sopprimerlo.
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1967) usi diffusamente l’espressione “fisica sociale” per osservare l’essere sociale allo stesso modo dei fenomeni astronomici, fisici, chimici e fisiologici indagati dalle scienze naturali32. Ma poiché l’essere sociale è, per Comte, presente in ogni ambito della vita umana (Adorno/Horkheimer 1956: trad. it. 2001, 21), la sociologia non può che occupare il vertice della scala gerarchica in cui è divisa la scienza. Persino la biologia e la fisica, pur fornendo l’apparato paradigmatico per analizzare i fenomeni collettivi, sono subalterne rispetto alla complessità della neonata scienza sociale. La sociologia le ricomprende al suo interno al fine di osservare induttivamente l’evidenza oggettiva dei fenomeni sociali per ricondurli, successivamente, in una fisica teorica ripartita in statica e dinamica (ivi, 215). La fisica statica è incentrata sull’osservazione degli elementi istituzionali che compongono e strutturano l’ordine dell’universo sociale dall’unità minima della famiglia fino a quella massima racchiusa nello Stato. In termini complementari, la fisica dinamica è interessata ai processi che fanno progredire l’universo storico secondo la legge dei tre stadi33. Lo stadio teologico e metafisico sono le tappe intermedie percorse dall’essere sociale per portare 32 Scrive Comte nel Corso di filosofia positiva: “Bisogna ora procedere, in maniera diretta, ad una prima sommaria esposizione dello spirito generale della fisica sociale, le cui condizioni essenziali sono oramai abbastanza caratterizzate. […] Poiché ogni principio filosofico d’un tale spirito si riduce necessariamente a concepire sempre i fenomeni sociali come inevitabilmente soggetti a vere leggi naturali, comportando regolarmente una previsione razionale, si tratta dunque di stabilire qui, in generale, quali debbano essere l’oggetto preciso ed il carattere proprio di queste leggi, il seguito di questo volume conterrà l’esposizione effettiva, per quanto lo permetta lo stato nascente della scienza che mi sforzo di creare” (ivi, 214). 33 Comte elabora la prima teoria sociologica del mutamento inteso come uno sviluppo naturale e irreversibile della storia: “Secondo questa fondamentale dottrina, tutte le nostre speculazioni, quali che siano, sono inevitabilmente soggette, sia nell’individuo che nella specie, a passare successivamente tre stati teorici differenti, che le denominazioni abituali di teologico, metafisico e positivo, potranno, qui, sufficientemente qualificare, per quelli, almeno, che ne avranno ben compreso il vero senso generale. Sebbene dapprima indispensabile, sotto tutti gli aspetti, il primo stato deve oramai essere concepito come puramente provvisorio e preparatorio; il secondo, che non ne costituisce in realtà che una modifica dissolvente, comporta solo un ruolo transitorio, per condurre gradualmente al terzo; ed è questo, il solo piena-
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l’umanità verso la luce dello stadio positivo, la fase ultima della Storia raggiunta dalla civiltà industriale grazie all’alleanza tra tecnica e scienza. Se in uno sguardo retrospettivo il legame del positivismo con la società del XIX secolo appare in tutta la sua ingenuità34, sarebbe ancora più ingenuo pensare che la sociologia contemporanea possa emanciparsi dal contesto storico-culturale nel quale conduce le sue analisi. È in ragione di ciò che si potrebbe leggere in controluce il mutamento sociale attraverso le stratificazioni teoriche che, dal positivismo in poi, lo hanno analizzato. Per Comte, invece, il sociologo è uno scienziato libero dalle false credenze del passato e, dunque, in grado di aderire razionalmente ai fatti collettivi. Ogni mente illuminata dalla ragione dello spirito positivo può avvalersi, per Comte (ivi, 273-274), del metodo sperimentale usato nelle altre scienze per convertire istantaneamente gli avvenimenti che la vita sociale gli offre in dati oggettivi. Ma data l’ampiezza e la quantità dei dati dalla realtà sociale, solo la razionalità del positivismo sociologico può creare le inferenze necessarie per spiegarli in termini certi. 5.a Il metodo dell’ontologia positiva Nonostante gli sforzi di Comte, la sociologia positivista era ancora una scienza priva di un vero e proprio metodo (Jonas 1970, 302). Sarà Émile Durkheim a uscire dalla vaghezza empirica della sociofisica con la pubblicazione, nel 1895, di quello che può essere considerato il primo saggio dedicato al metodo sociologico: Les règles de la méthode sociologique. Già nel titolo, appare evidente il richiamo alle regole razionali della conoscenza formulate da Descartes nel Discours de la méthode [1637]. Durkheim le prolunga e le sviluppa nell’ambito sociologico per rendere chiaro mente normale, a costituire, in tutti i modi, il regime definitivo della ragione umana” (ivi, 305-306). 34 L’escatologia positivistica di Comte è un reperto di archeologia del sapere che fa comprendere quanto l’utopia moderna del progresso si sia rispecchiata nel sapere specializzato della sociologia (Aron 1967: trad. it. 1991, 91; Taguieff 2003, 123).
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il legame tra la neonata scienza sociale con le scienze naturali. Ma per tessere questo legame era necessario stabilire l’oggetto di studio della sociologia per legittimarla come scienza a sé. Pertanto, Durkheim, con il primo gruppo di regole, delimita il campo fenomenico ai fatti sociali: i sistemi religiosi, il linguaggio, le forme di scambio economico, le norme codificate dal diritto, i sentimenti collettivi, i cerimoniali di fidanzamento e i contratti matrimoniali, ecc. I fatti sociali, a differenza degli altri, coinvolgono una generalità di individui e, inoltre, si caratterizzano per esercitare nella sfera psichica di ciascun individuo un potere coercitivo che lo coglie all’esterno – attraverso le norme sociali – e all’interno – sotto forma di credenze (religiose, morali, etiche) sentite come proprie35. Da questo potere fattuale intersoggettivo emerge una realtà sui generis prodotta dall’associazione umana – distinta quindi da quella fisica e biologica analizzata dalle scienze della natura (Durkheim 1912: trad. it. 2013, 68) – nella quale prende vita l’essere sociale: l’entità dotata di una propria coscienza che ha il potere di trascendere le coscienze individuali, nonostante siano loro a produrla36. La nozione di “coscienza collettiva” era stata già formulata da Durkheim ne La divisione del lavoro sociale: L’insieme delle credenze e dei sentimenti comuni alla media dei membri della stessa società forma un sistema determinato che ha una vita propria; possiamo chiamarlo coscienza collettiva o comu35 Si legge nelle prime pagine de Le regole del metodo sociologico: “Quando assolvo il compito di fratello, di marito o di cittadino, quando soddisfo agli impegni che ho contratto, io adempio doveri che sono definiti – al di fuori di me e dei miei atti – nel diritto e nei costumi. Anche quando essi si accordano con i miei sentimenti, ed io ne sento interiormente la realtà, questa non è perciò meno oggettiva: non li ho fatti io, ma li ho ricevuti mediante l’educazione. […] Ecco dunque un ordine di fatti che presentano caratteri molto specifici: essi consistono in modi di agire, di pensare e di sentire esterni all’individuo, e dotati di un potere coercitivo in virtù del quale si impongono ad esso. Questi tipi di condotta o di pensiero non soltanto sono esterni all’individuo, ma sono anche dotati di un potere imperativo e coercitivo in virtù del quale si impongono a lui, con o senza il suo consenso” (Durkheim 1895: trad. it. 1963, 26-27). 36 Scrive Durkheim a proposito della nozione di “essere sociale”: “Aggregandosi, penetrandosi, fondendosi, le anime individuali dànno vita ad un essere (psichico, se vogliamo) che però costituisce un’individualità psichica di nuovo genere” (1963, 101).
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ne. Senza dubbio, essa non ha un substrato organico unico; essa è, per definizione, diffusa in tutta l’estensione della società, ma non per questo manca dei caratteri specifici che ne fanno una realtà distinta. Infatti essa è indipendente dalle condizioni particolari nelle quali gli individui si trovano; questi passano, e quella resta (Durkheim 1893: trad. it. 1996, 101).
Le regole del metodo sociologico diventano, in tal modo, un’analisi delle immagini psico-sociali (Poggi 2003, 122) in grado di tradursi in fatti normativi attorno ai quali gli individui si integrano come cellule di un medesimo organismo. La realtà sociale è, dunque, la res extensa costruita a immagine e somiglianza delle rappresentazioni proiettate dalla res cogitans contenuta nella mente dell’essere sociale37. Ma poiché i fatti sociali sono l’oggettivazione del mondo delle idee di un’entità demiurgica sovraindividuale, la sociologia le deve analizzare come cose. E infatti, Durkheim, procede ad articolare il metodo per stabilire le regole relative all’osservazione della natura cosale dei fatti sociali. Questo implica un’operazione preliminare: invertire la tendenza della filosofia, dell’etica e della stessa sociologia comtiana ad anteporre le “cose” alle “idee” in modo da privilegiare una conoscenza induttiva dei fenomeni sociali (Durkheim 1963, 35). Per allinearsi al modo di procedere del metodo scientifico, il sociologo deve esercitare la facoltà del dubbio per fare tabula rasa di tutte le prenozioni che hanno interpretato la famiglia, il diritto, lo Stato e ogni altra istituzione sociale. Osservare i fenomeni della vita associata come “cose” significa considerarli in sé stessi, solo così il ricercatore sociale può ricavare i dati sensibili della sua scienza (ivi, 44). Restituiti i fatti sociali all’osservazione oggettiva, Durkheim formula poi le regole relative a stabilire il criterio che distingue 37 Come specifica Durkheim in Il dualismo della natura umana e le sue condizioni sociali: “La società non può costituirsi se non a condizione di penetrare nelle coscienze individuali e formarle “a propria immagine e somiglianza” […]. Il prodotto per eccellenza dell’attività collettiva è quell’insieme di beni intellettuali e morali chiamato civiltà; […]. Ma, da un altro punto di vista, è la civiltà ad aver fatto l’uomo; è la civiltà a distinguerlo dall’animale” (1914: trad. it. 1996, 343).
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la salute del corpo sociale dai suoi stati patologici. Questa linea di demarcazione non può essere tracciata riferendosi ad a priori desunti da ideologie politiche, da utopie sociali o dal filosofeggiare su forme armoniche di governo. Il metodo sociologico, coerentemente a quanto espresso nelle regole precedenti, deve stabilire la salute sociale a partire dai fatti che ne rivelano lo stato clinico del suo corpo. In termini generali, un fatto è normale quando è la manifestazione di valori morali e di sentimenti collettivi presenti nella generalità dei membri compresi all’interno di una specifica comunità umana intesa, dunque, come una realtà sui generis diversificata nello spazio geo-culturale e dalla dinamica storica del suo processo evolutivo (ivi, 71-72). Il criterio di salute è relativo alla “specie sociale” oggetto di analisi (ivi, 66), poiché uno stato patologico può essere considerato normale se si analizza un’altra specie di aggregato umano. Il diritto, se distaccato da ogni concezione etico-politica sul bene e il male, diventa il principale fatto da cui il sociologo, in quanto medico sociale, può rilevare eventuali patologie della coscienza collettiva in relazione alla forza di integrazione esercitata sugli individui. Ogni sistema normativo, sia esso oggettivato in codici scritti o da consuetudini, è un costrutto simbolico che rende visibile la morale dell’essere sociale che, invisibilmente, attrae attorno a sé gli individui in una stessa forma di solidarietà. I fenomeni criminogeni, per l’osservazione sociologica, sono tali solo perché violano le norme coercitive dell’ordine sociale legittimate da una morale di senso comune. Ma come specifica Durkheim (ivi, 76), la devianza sociale può essere una fase di “effervescenza sociale” che indica lo stato nascente di nuove forme del pensiero collettivo non ancora solidificate in un sistema simbolico-normativo traducibile in fatti (cfr. Esposito 2018). Se l’effervescenza sociale si stabilizza in rappresentazioni durevoli, essa può creare legami solidali talmente forti da produrre il mutamento sociale. Se la mente e il corpo collettivo mutano a seconda dei contesti storico-culturali, è necessario che la sociologia disponga di una apposita morfologia per classificarli (Durkheim 1963, 84) come fanno gli scienziati della vita con gli altri organismi. Dur-
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kheim formula, a tal fine, le regole relative alla costituzione di una tipologia con la quale distingue le società semplici da quelle complesse. L’orda è il protoplasma della natura sociale (ivi, 86), l’aggregato umano elementare fondato su legami familiari nel quale non è compreso nessun altro aggregato più piccolo. Una volta stabilita l’orda come segmento sociale indivisibile, la classificazione durkhemiana dispone dell’unità di misura con la quale ripartire le società semplici in tipologie poli-segmentarie più ampie: il clan, formato dalla sommatoria di più orde; la tribù, in cui si associano più clan; fino alla società poli-segmentaria composta dalla confederazione di più tribù. Le società semplici saranno oggetto de Le forme elementari della vita religiosa (2013), l’ultimo grande saggio di Durkheim. I resoconti sulle tribù australiane, raccolti dagli etnologi francesi e inglesi, vengono sistematizzati dal sociologo francese per analizzare il fenomeno religioso, inteso come il telaio arcaico della coscienza collettiva nel quale gli individui allacciano relazioni solidali forti. Il suo metodo segue l’indicazione cartesiana (ivi, 55) – partire da un oggetto semplice per poi risalire verso oggetti sempre più complessi – e la pratica sperimentale del fisico – rimuove dal fenomeno osservato le variabili secondarie per scoprire le leggi naturali (ivi, 60). Gli aborigeni, essendo per Durkheim delle società primitive, sono un campo privilegiato per analizzare la forma esemplificata dell’essere sociale. Il grado elementare della loro coscienza collettiva permette di individuare l’essenza del fenomeno, ovvero di essere una spiegazione del mondo basata sulla demarcazione netta tra sacro e profano, tra ciò che è interdetto e ciò che appartiene alla vita quotidiana. L’universo spirituale delle società segmentarie ruota attorno al totem: l’oggetto sacro per eccellenza in cui è racchiuso il loro essere sociale sotto forma di animali o vegetali (ivi, 282). Il dio-oggetto è l’emblema identitario della tribù dotato di una forza spirituale in grado di rinnovarsi ciclicamente grazie alle cerimonie rituali. La loro funzione latente è di rilegare gli aborigeni in uno stesso sentimento collettivo talmente intenso da colonizzarne la coscienza e da trasportarli in un altrove carico di significati simbolici. Ma questo altrove non è altro che la rappre-
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sentazione sacralizzata della società stessa38. Il profano, invece, è un mondo diluito nelle pratiche ordinarie della vita quotidiana in cui, dato che la coscienza collettiva è più rarefatta, i legami solidali tra gli individui tendono a indebolirsi. La vita religiosa dell’australiano è mossa, quindi, dall’alternanza meccanica tra la temporalità atona del profano e quella di iper-eccitazione scandita dai rituali sacri (ivi, 279). Con La divisione sociale del lavoro (1893), Durkheim focalizza le sue analisi sulle società complesse. La loro caratteristica morfologica è di essere dei corpi collettivi talmente grandi da sviluppare al loro interno organi istituzionali specializzati. La nascita delle società complesse è strettamente legata al fenomeno urbano (Durkheim 1996, 258-259). Già con le prime città della storia si assiste alla formazione di un ecosistema sociale connotato dalla densità demografica e da una maggiore articolazione della morale. La città non è solo uno spazio in cui si concentra una moltitudine di individui, bensì quel nuovo ambiente umano che ha favorito l’evoluzione delle società semplici in un organismo sociale più complesso, nel quale ciascuno detiene solo una parte della totalità della coscienza. La divisione del lavoro è un fatto sociale che trova il suo presupposto in un surriscaldamento dell’ambiente relazionale che induce gli individui, per evitare di confliggere l’un l’altro, a ripartirsi in organi professionali dalle funzioni differenziate. L’interpretazione durkheimiana stravolge, dunque, il paradigma della scienza economica che individua nella razionalità utilitarista dell’individuo la causa della divisione del lavoro. Anche la coscienza collettiva, seguendo lo sviluppo armonico del suo corpo, muta le forme della solidarietà meccanica in legami solidali di tipo organico; come afferma in modo peren38 “Per questo motivo – scrive Durkheim – si può essere certi in anticipo che le pratiche del culto, quali esse siano, non costituiscono movimenti senza importanza e gesti senza efficacia. Per il solo fatto di avere la funzione apparente di rafforzare i vincoli che uniscono il fedele al suo dio, esse rendono al tempo stesso realmente più stretti i vincoli che uniscono l’individuo alla società di cui è membro, perché il dio non è che l’espressione figurata della società” (Durkheim 2013, 286).
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torio Durkheim: “Le forme più complesse non sono altro che vita psichica sviluppata” (1963, 98). Suddividendosi nei valori professionali, la forma mentis delle società complesse è astratta, lasciando più spazi di libertà all’individuo. La civiltà industriale, apice evolutivo delle società complesse, segna la massima distanza dell’individuo dall’essere sociale. Ed è questo che espone la sua coscienza ad essere affetta da stati anomici che lo espongono al suicidio39. L’esperienza dell’individuo moderno si aggira in un orizzonte di incertezza in cui la normazione dell’ordine sociale non riesce a generare legami solidali forti. Durkheim individua la soluzione al problema dell’anomia nel ricreare una religione laica mediante le morali etiche delle corporazioni professionali (Durkheim 1996, 387-399). Dato che la divisione del lavoro svolge la funzione integrativa, le corporazioni sono gli organi istituzionali che possono dar vita a legami solidali forti tra i suoi membri, analoghi a quelli delle società segmentarie, e svilupparne il sentimento di interdipendenza utile a dare organicità alla complessità della società industriale. L’ultima parte de Le regole del metodo sociologico è relativa alla spiegazione dei fatti sociali. È la fase conclusiva del metodo che traspone l’analisi induttiva dei fenomeni sociali in un piano teoretico, nel quale distinguere la causa che li produce dalla loro funzione (ivi, 95). Le cause non vanno cercate negli individui, ma nei fatti antecedenti analizzati in relazione alla morfologia del corpo sociale in cui accadono. Pertanto, la causa del fenomeno religioso va connessa alla forma segmentaria delle società semplici; così come la divisione del lavoro va connessa alla complessità della società nicchia ecologica della città. Occorre, poi, separare le cause dei fatti sociali dalle funzioni che assolvono. È in quest’ottica che la pena inflitta al deviante deriva dai sentimenti collettivi offesi dal reato; ma, allo stesso tempo, la sua funzione 39 “L’anomia è, dunque, nelle nostre società moderne, un fattore regolare e specifico di suicidio, è una delle fonti a cui si alimenta il contingente annuo. Ci troviamo, così, in presenza di un nuovo tipo di suicidio che va distinto dagli altri. […] Il terzo tipo di suicidio deriva dal fatto che l’attività degli uomini è sregolata ed essi ne soffrono. Per la sua origine, daremo a quest’ultima specie il nome di suicidio anomico” (Durkheim 1897: trad. it. 2010, 330).
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è quella di mantenere l’intensità di questo sentire che, altrimenti, in assenza della punizione, svanirebbe insieme alla sua codificazione penale (ivi, 96). Durkheim preferisce il termine “funzione” ai termini “scopo” o “fine” per evidenziare come la dinamica dei fenomeni sociali ecceda le intenzioni, le utilità e i bisogni che li determinano. Solo un’analisi superficiale può pensare il processo associativo come l’esito di un contratto razionale, così come lo immagina Hobbes nel patto sociale stipulato dagli uomini per fondare lo Stato. Anche quando gli individui si legano in nome della ragione diventano, inconsapevolmente, la sorgente di correnti più profonde che alimentano la vita psichica dell’essere sociale (ivi, 101). Il sociologo, dunque, osserva i fatti sociali moderni con lo stesso sguardo delle società arcaiche poiché, al di là della loro razionalità, svolgono anch’esse la medesima funzione di integrare gli individui in uno stesso stato di coscienza. Le regole del metodo sociologico diventano così una tecnica per analizzare i sogni dell’essere collettivo che istituiscono i principi di realtà che regolano, attraverso i fatti sociali, l’agire e il sentire individuale integrandoli, inconsciamente, in un medesimo stato di allucinazione collettiva (Mori 2019). La sociologia durkhemiana, oltre ad essere una psicoanalisi della mente collettiva, è anche una teologia. Il paradosso di Durkheim è di aver analizzato razionalmente il fenomeno religioso mediante la fede nell’essere sociale. Dalle società segmentarie fino a quelle complesse, esiste un filo tessuto dalla natura religiosa dell’uomo che inanella gli stati evolutivi della coscienza collettiva. Tutte le rappresentazioni create dagli uomini sono forme di credenza che sottendono l’esistenza polimorfa dell’essere sociale. Anche la scienza è un sistema evoluto di credenza religiosa basata sulla concatenazione logico-razionale dei fenomeni naturali40. Se l’aborigeno divide il 40 Si legge nelle note conclusive de Le forme elementari della vita religiosa: “Le nozioni essenziali della logica scientifica sono di origine religiosa. Senza dubbio la scienza, per poterle utilizzare, le sottopone a una nuova elaborazione; le libera da ogni specie di elemento occasionale; in generale introduce, in tutte le pratiche, uno spirito critico che la religione ignora. […] Ma questi perfezionamenti metodologici non bastano a differenziarla dalla religione. L’una e l’altra, da questo punto di vista, perseguono lo stesso scopo; il pen-
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mondo tra sacro e profano, lo scienziato lo ripartisce in base al criterio della verità e della falsità. Una demarcazione che, tra l’altro, la scienza non può ricavare dall’osservazione oggettiva dei fenomeni. Le sue scoperte e le sue leggi, per essere vere, devono essere armoniche alle altre credenze contenute nella coscienza collettiva (ivi, 504). Se si segue fino in fondo questa linea interpretativa, la sociologia è anch’essa una forma collettiva di credenza. Le regole del metodo sociologico è la scienza teologica creata da Durkheim per entrare in contatto con lo spirito sociale che anima gli individui e la natura cosale della realtà sui generis nella quale vivono. Ma poiché una credenza esiste solo se diventa un fatto sociale, Durkheim istituisce nel 1887 la prima cattedra universitaria di Sociologia e, nel 1898, fonda e dirige l’Année Sociologique, la rivista dedicata al dibattito delle scienze sociali. È l’inizio del consolidamento dell’effervescenza del pensiero sociologico in una nuova comunità scientifica dedita al culto positivo dell’essere sociale. 5.b Il metodo dell’ontologia comprendente Un analogo processo di istituzionalizzazione si svolge in Germania culminando, nel 1909, con la fondazione della Deutsche Gesellschaft für Soziologie. La nascita della Società tedesca di sociologia, favorita da Rudolf Goldscheid e presieduta da Ferdinand Tönnies, raccoglieva figure intellettuali di primo piano – Max Weber, Georg Simmel e Werner Sombart – destinate a dare un diverso orientamento epistemico alla disciplina. Lo sviluppo della spirale del pensiero sociologico tedesco trovava origine da immagini create da una forma mentis divergente da quella positivistica. La coscienza collettiva della comunità sociologica istituita da Durkheim era rischiarata dai lumi della ragione illuminista e dal metodo delle scienze naturali, un connubio grazie al quale i fatti sociali erano spiegabili in tutta la loro oggettività.
siero scientifico non è che una forma più perfetta del pensiero religioso” (Durkheim 2013, 494-495).
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La corrente filosofica dell’idealismo tedesco, sorto a seguito della svolta kantiana nella teoria della conoscenza (cfr. Jonas 1970, 523-523), fa retrocedere la questione dell’oggettività sulle sponde degli a priori che la rendono tale. Ancor prima di osservare occorre stabilire “a partire da cosa” osservo le “cose”, comprese quelle relative ai fatti sociali. Riflettere sugli a priori della conoscenza evita di cadere nella fede ingenua, nutrita dall’illuminismo francese e dall’empirismo inglese, di potersi connettere direttamente a ciò che è dato nell’esperienza. Se quest’approccio ha il vantaggio di illuminare l’oscurità che regna nella sfera religiosa, dall’altra, esso, rischia di abbagliare così tanto da nascondere il punto di vista da cui si parte per osservare la realtà empirica. L’oggetto di conoscenza, per Kant (1781-1787: trad. it. 2017, 120-130), è un prodotto fabbricato dalla mente a partire dalle materie prime dei dati sensoriali messi in forma da immagini preesistenti alla fase dell’osservazione. Prima di fare ricerca occorre, dunque, fare una ricerca auto-riflessiva nel piano ideativo dove sono contenute le categorie che presiedono la sintesi della molteplicità catturata dall’appercezione. L’interrogazione ontologica tedesca dell’essere sociale emerge dal quadro post-kantiano della teoria della conoscenza. Tra i membri della Deutsche Gesellschaft für Soziologie, è Max Weber a definire in termini più sistematici gli a priori necessari al metodo sociologico per osservare i fenomeni sociali. A differenza delle regole prescrittive del metodo durkheimiano, Weber non formula in modo organico un metodo sociologico (cfr. Rossi 2003). Il suo intento è, piuttosto, quello di fissare dei fari concettuali per evitare di far naufragare la ricerca dell’oggettività sociologica tra le coste del positivismo e le coste dell’idealismo filosofico. Questi fari d’orientamento metodologico, Weber li dissemina in articoli apparsi in un arco temporale compreso tra il 1903 e il 1917 raccolti, nel 1922, in una pubblicazione postuma dal titolo Il metodo delle scienze storico-sociali. Nelle prime pagine del saggio (trad. it. 2003, 8), Weber si domanda: quali sono le norme che possono dare una validità oggettiva alle scienze storico-sociali?
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Tale fondamento non è riconducibile alle leggi con le quali si spiegano i fenomeni naturali poiché, per Weber, la sociologia è una scienza comprendente: Mentre per l’astronomia i corpi cosmici hanno interesse soltanto nelle loro relazioni quantitative, suscettibili di una misurazione esatta, nella scienza sociale ciò che ci interessa è invece la configurazione qualitativa dei processi. A ciò si aggiunga che nelle scienze sociali intervengono processi spirituali, e che comprendere questi processi rivivendoli costituisce naturalmente un compito di tipo specificatamente diverso da quello che le formule della conoscenza esatta della natura possono o vogliono, in generale, risolvere (ivi, 39).
Le scienze della natura, riferendosi a fenomeni organici e inorganici misurabili quantitativamente, sono le sole che possono pervenire a spiegazioni oggettive universalmente valide. I fenomeni sociali, essendo configurati da processi spirituali qualitativi che scaturiscono dalle concezioni culturali del mondo, richiedono una epistemologia comprendente aperta all’interpretazione. Weber, in tal modo, si contrappone alle spiegazioni fornite dalla fisica sociale di Comte e all’organicismo di Durkheim, ma anche agli stessi a priori stabiliti da Kant nel piano metafisico della filosofia trascendentale. Esiste, invece, una “trascendenza normativa” istituita da categorie valoriali (religiose, ideologiche, etiche, estetiche) che mutano in relazione al contesto storico-culturale41. In un’ottica comprendente, dunque, il sociale è un essere parcellizzato in ciascuna cultura come “sezione finita dell’infinità priva di senso dell’accadere del mondo, alla quale viene attribuito senso e significato dal punto di vista dell’uomo” (Weber 2003, 47).
41 La sociologia è per Weber una scienza della cultura che, in assenza di leggi sociali oggettive predeterminate, interpreta i fenomeni collettivi in relazione alle specificità del mondo valoriale in cui accadono: “Noi abbiamo designato come scienze della cultura quelle discipline che aspirano a conoscere i fenomeni della vita nel loro significato culturale. Il significato della configurazione di un fenomeno culturale, nonché il suo fondamento, non può però essere derivato e reso comprensibile in base a nessun sistema di concetti di leggi, per quanto completo sia, poiché presuppone la relazione dei fenomeni culturali con idee di valore. Il concetto di cultura è un concetto di valore” (ivi, 41).
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Ma se la sociologia non dispone di un sistema di spiegazione universalmente valido, e se l’essere sociale è una sezione finita di senso dell’insensatezza del mondo, quali sono le basi scientifiche a cui fare affidamento per non cadere nell’aleatorietà interpretativa dei fatti sociali? La risposta di Weber è contenuta negli a priori da cui deve partire ogni ricerca sociologica. Il primo è quello dell’avalutabilità, inteso come processo di purificazione dai pregiudizi che albergano nell’animo del sociologo42, essendo anch’egli parte di una sezione di senso culturalmente definita. Solo raggiungendo uno stato di neutralità valoriale, il sociologo può uscire dal disordine concettuale tra “ciò che è” e “ciò che deve essere” (ivi, 9), tra il fatto scientifico e gli ideali del suo mondo. È l’errore in cui si è incagliato il marxismo che ha scambiato, con il materialismo, un’intuizione del mondo per una legge scientifica della Storia (ivi, 30-31). Se l’avalutabilità permette di entrare in una relazione pura con la mutevolezza culturale dell’essere sociale, il secondo a priori weberiano è relativo alla ricerca dei nessi causali che sottendono i fenomeni sociali. È l’unico punto in cui il metodo comprendente si sovrappone a quello delle scienze esatte. La causalità sociologica implica, però, l’utilizzo di un doppio livello di razionalità. Esiste, infatti, una razionalità soggettiva interna alla forma mentis culturale dell’essere sociale a cui il sociologo deve fare riferimento durante l’osservazione. Dal momento in cui un’eterogeneità d’individui converge in una credenza (religiosa, ideologica, etica, estetica), essa diventa un sistema di significato dotato di una propria razionalità che de42 Una medesima condizione avalutativa deve accompagnare l’ethos professionale del sociologo anche durante l’insegnamento accademico. Se è lecito per l’oratore di un comizio politico riferirsi a valori ideologici, l’uomo di scienza che ha il privilegio di salire in cattedra deve “insegnare ai propri allievi a riconoscere i fatti scomodi, e cioè i fatti, intendo dire, che sono scomodi per la sua opinione di parte; […] Credo che se l’insegnante universitario costringe i suoi ascoltatori ad abituarsi a questo atteggiamento, egli compirà una funzione non soltanto intellettuale, ma anche qualcosa di più – e vorrei essere immodesto parlando di una funzione etica, per quanto ciò possa suonare alquanto patetico in riferimento a un’ovvietà così semplice” (Weber 1919: trad. it. 2001, 32).
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finisce i fini sociali da raggiungere, stabilizza le concatenazioni logiche dell’agire intersoggettivo rendendone prevedibili le conseguenze (cfr. Boudon 1998-2000: trad. it. 2002, 220-221). Pertanto, parafrasando la famosa affermazione hegeliana, tutto ciò che è valore intersoggettivo è realtà sociale, e tutto ciò che è realtà sociale è razionale per gli individui. Dall’altro lato, esiste una razionalità sociologica oggettiva svincolata dalla razionalità soggettiva culturalmente istituita dalla mutevolezza valoriale dell’essere sociale. Si tratta, dunque, di un piano logico-razionale superiore nel quale poter ordinare concettualmente la realtà empirica in modo tale da individuare una causalità scientifica universalmente valida dei fenomeni collettivi: il che vuol dire, più precisamente, che essa deve in ogni caso aspirare a questo fine quand’anche fosse non pienamente raggiungibile per l’insufficienza del materiale, e inoltre che l’analisi logica di un ideale, considerato nel suo contenuto e nei suoi assiomi ultimi, nonché l’indicazione delle conseguenze che logicamente e praticamente ne derivano dalla sua realizzazione, dev’essere valida per chiunque, anche per un cinese, una volta posto che sia riuscita (Weber 2003, 17-18).
In quanto scienza della cultura, l’aspirazione della sociologia deve essere quella di comprendere la vita sociale secondo il postulato della non contraddittorietà intrinseca allo spirito ideativo-valoriale in base al quale gli individui si aggregano, credono, agiscono, combattono e confliggono (ivi, 13). La sociologia, proponendosi questo scopo, può condurre colui che agisce a un’auto-riflessione sugli assiomi valoriali che, inconsapevolmente, lo muovono in una direzione e non in un’altra. Ma poiché i fenomeni sociali sono configurati da cause spirituali (ivi, 39), la ricerca sociologica non può mutuare le tecniche del metodo sperimentale, ma deve dotarsi di una propria strumentazione. L’ultima indicazione metodologica weberiana è quella dell’idealtipo: lo strumento d’osservazione della ricerca comprendente. Si tratta di uno strumento concettuale inventato dalla fantasia del ricercatore per mediare la complessità sociale,
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ovvero di una immagine mentale che pur non essendo la realtà è ciò che ne permette la sua comprensione43. La creatività, pertanto, ha un ruolo centrale nella produzione dell’idealtipo. Come accade per ogni processo creativo (Garroni 2010, 133 e 136), l’atto poietico che forma l’immagine concettuale dell’idealtipo non nasce dal libero arbitrio del sociologo, bensì da un codice di regole scientifiche predeterminate dalla razionalità della sua scienza che prevedono: l’individuazione della regolarità dei fenomeni presenti in una certa realtà sociale; l’esplicitazione dei loro nessi causativi; e la definizione dell’universo valoriale che anima l’agire sociale. Per avere valenza scientifica, l’idealtipo deve essere creato applicando queste regole, solo così può diventare un’immagine utopica dotata di ragionamento sociologico a partire dal quale è possibile formulare delle ipotesi. La sua funzione è quella di ridurre la molteplicità dei dati percettivi provenienti dalla vita sociale, in modo da poter dare un orientamento finalizzato alla formulazione di ipotesi in grado di comprenderli. E dato che è uno strumento di ricerca creato dal sociologo, egli può perfezionarlo e persino costruirne un altro più adatto all’osservazione (ivi, 81). Weber si servì dell’idealtipo per sintetizzare l’agire sociale, la morfologia del potere, le istituzioni religiose, ma anche per comprendere il motore immobile della modernità: il capitalismo. Come si legge nella Nota preliminare che apre il saggio L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904-1905: trad. it. 2005, 33-51), l’idealtipo della forma economica capitalistica è l’esito di una stratificazione di caratteristiche peculiari: è un atto 43 “Il concetto tipico-ideale serve a orientare il giudizio di imputazione nel corso della ricerca: esso non costituisce un’ipotesi, ma intende orientare la costruzione di ipotesi. Esso non è una rappresentazione del reale, ma intende fornire alla rappresentazione strumenti precisi di espressione. […] Considerato nella sua purezza concettuale, questo quadro non può mai essere rintracciato empiricamente nella realtà; esso è un’utopia, e al lavoro storico si presenta il compito di determinare in ogni caso particolare la maggiore o minore distanza della realtà da quel quadro ideale. […] Si tratta della costruzione di connessioni che appaiono motivate in maniera plausibile alla nostra fantasia, e quindi oggettivamente possibili, cioè adeguate al nostro sapere nomologico” (Weber 2003, 60 e 62).
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economico finalizzato al raggiungimento di un guadagno ottenuto da uno scambio formalmente pacifico; è un agire razionale connotato dal calcolo del capitale; prevede un’organizzazione tecno-scientifica del lavoro formalmente libera; e si sviluppa in un contesto di potere statale razionale-legale caratterizzato da una organizzazione specializzata della burocrazia. Partendo dalla modellizzazione idealtipica del capitalismo, Weber ne individua il suo presupposto culturale nella concezione etico-religiosa del protestantesimo ricavandola, in particolare, dai testi di Benjamin Franklin e dal predicatore Richard Baxter, oltre che ovviamente dalle tesi riformiste di Lutero e dai saggi dottrinali di Calvino. Il metodo weberiano è uno dei primi esempi di come gli oggetti culturali, in questo caso dei testi, possono essere intesi come fonti empiricamente rilevanti per analizzare il mutamento sociale. Invece di trattare i fatti sociali come “cose”, Weber (ivi, 157) si interessa ai discorsi scritti come “oggetti” nei quali sono distillati i valori del protestantesimo ascetico che avevano corroso l’unità della religione cristiana istituita dalla Chiesa di Roma. A differenza del cattolico, il protestante era un’anima dispersa nell’angosciosa incertezza relativa alla salvezza o alla dannazione della sua anima dopo la morte (ivi, 173) e, soprattutto, non poteva ottenere in cambio di denaro la concessione delle indulgenze dal potere ecclesiastico per rimediare ai suoi peccati terreni. La predestinazione era segnata fin dalla sua nascita dal volere di Dio. Solo consacrandosi all’attività professionale [Beruf] in termini fruttuosi, il puritano, poteva dissipare le nubi sul destino che gli aveva riservato il Signore (ivi, 101 e 173). L’attività lavorativa, in tal modo, da mezzo diventa fine ultimo dell’ascesi intramondana del puritano. Anche il senso di godimento delle ricchezze accumulate si trasforma, essendo per l’etica protestante fonte di peccato. L’unico modo di uscire dal peccato della cupidigia era quello di investire la ricchezza per far fruttare da essa nuova ricchezza. Così come la professione, “l’attività lucrativa non è più in funzione quale mezzo per soddisfare i bisogni materiali, ma, al contrario è lo scopo dell’uomo, ed egli è in sua funzione” (ivi, 76). La Weltanschauung protestante, mutando la razionalità valoriale del senso
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sociale del lavoro e del lucro, è stato quel sostegno religioso che ha favorito il sorgere dell’economia capitalista (ivi, 95). E quindi, la cultura protestante, se analizzata in base alla razionalità sociologica, è uno dei possibili nessi causali da cui ha avuto origine la potenza materiale del capitalismo. Un approccio che distingue il metodo della sociologia comprendente dal determinismo delle leggi scientifiche del materialismo storico44. Marx non aveva fatto altro che ricadere nell’errore, secondo Weber, di individuare nella cultura un semplice rispecchiamento della struttura materiale45. L’analisi weberiana, invece, non vuole creare un’analisi specularmente contraria a quella formulata da Marx, ma proporne una comprensione parallela aperta, persino, ad altre interpretazioni (Jonas 1970, 571). E infatti, per Weber, l’analisi marxista, se depurata dai suoi aspetti scientisti46, è un prezioso idealtipo del capitalismo. Nella prospettiva idealtipica weberiana, dunque, la cultura protestante non è ridotta a un elemento sovrastrutturale prodotto dai rapporti di produzione, bensì come la sezione finita di significato che ha favorito la formazione dello spirito che pervade l’economia capitalistica. 44 Scrive Marx nel saggio Per la critica dell’economia politica: “A grandi linee, i modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese-moderno possono essere considerati come epoche che marcano il progresso della formazione economica. I rapporti di produzione borghese sono l’ultima forma antagonista del processo di produzione sociale; antagonista non nel senso di un antagonismo individuale, ma di un antagonismo che sorga dalle condizioni sociali di vita degli individui. […] Con questa formazione sociale si chiude, dunque, la preistoria della società umana” (1859: trad. it. 1971, 5-6). 45 “Voler parlare, in questo caso, di un rispecchiamento della situazione materiale nella sovrastruttura ideale, sarebbe semplicemente assurdo. Da quale mentalità dunque si originò la sussunzione di un’attività esteriormente diretta al puro guadagno sotto la categoria della vocazione, di fronte a cui il singolo si sentiva obbligato? Poiché proprio questo pensiero assicurò alla condotta della vita dell’imprenditore di nuovo stile una base e un sostegno etico” (Weber 2005, 99) 46 “Qui ci si può pertanto limitare a constatare che tutte le leggi e le costruzioni di sviluppo specificatamente marxiste hanno naturalmente – nella misura in cui sono prive di errore – un carattere tipico-ideale. Chiunque abbia lavorato con concetti marxisti conosce l’eminente, anzi singolare importanza euristica di questi tipi ideali, quando li impieghi per comparare con essi la realtà, e conosce al tempo stesso la loro pericolosità quando si voglia presentarli come validi empiricamente o addirittura come forze operanti reali (cioè, per verità, metafisiche), come tendenze” (Weber 2003, 76).
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Ma raggiunta con l’industrializzazione la sua fase di maturità, il capitalismo è una pura forza materiale che procede al di là della razionalità etico-valoriale del protestantesimo. Il suo spirito è mobilitato unicamente da una logica meccanica finalizzata a produrre sempre più profitto, fino all’ultimo quintale di carbon fossile (Weber 2005, 240). Le merci, così come le risorse naturali, sono solo dei beni strumentali prodotti al solo scopo di ottenere capitale da reinvestire. Il capitalismo, pertanto, è la forma economica in cui è contenuto lo spirito tecnico dell’essere sociale moderno connotato, a differenza degli altri, da una volontà di potenza che vuole solo accrescere sé stessa mediante la razionalizzazione del mondo. Un processo il cui esito finale è riassunto dalla metafora della “gabbia d’acciaio”, usata da Weber per descrivere la condizione di ostaggio dell’uomo negli ingranaggi di un sistema tecno-capitalistico (ivi, 239) nato per dominare le forze naturali47. La cultura occidentale si caratterizza, dunque, per essere una “sezione finita dell’infinità priva di senso dell’accadere del mondo”, alla quale però non viene attribuito più alcun senso e significato. A causa di questa condizione di insensatezza, la realtà sociale moderna è una terra desolata in cui l’individuo vive in un perenne stato di disincantamento. Anche la scienza, compresa quella sociologica, è parte in causa del disincanto che ha scacciato l’uomo occidentale dal paradiso terrestre in cui era in comunione con la razionalità valoriale di Dio. La spiegazione dei fenomeni naturali e la comprensione dei fenomeni sociali sono generative di un medesimo scetticismo verso ogni forma di credenza. È il destino, come scrive Weber (ivi, 16), di “un’epoca che ha mangiato dall’albero della conoscenza” acquisendo la consapevolezza di non potersi affidare a “intuizioni del mondo” prive di base empirica. 47 Il tema weberiano del prevalere della razionalità strumentale verrà ripreso da Adorno e Horkheimer in Dialettica dell’illuminismo. Anche per i francofortesi l’occidente è una civiltà segnata dal destino tragico che l’ha portata a ingabbiarsi negli stessi apparati tecnici costruiti per liberarsi dai vincoli delle forze naturali: “Ogni tentativo di spezzare la costrizione naturale spezzando la natura, cade tanto più profondamente nella coazione naturale. È questo il corso della civiltà europea” (1997, 21).
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Pertanto, se lo spirito del capitalismo è una volontà automatizzata destinata a funzionare fino all’ultimo quintale di carbon fossile, lo spirito della scienza moderna è una volontà di conoscenza destinata ad annichilire metodicamente ogni credenza magico-religiosa fino all’ultimo valore supremo. Alle soglie del ‘900, è la sensibilità filosofica nietzschiana che registra l’ingresso del nichilismo – il più inquietante fra tutti gli ospiti (Nietzsche 1901: trad. it. 1995, 7) – nelle strutture di senso dell’occidente. “Cosa significa nichilismo?” si chiede Nietzsche per poi rispondere “Significa che i valori supremi si svalutano. Manca lo scopo. Manca la risposta al: perché?” (ivi, 9). L’uomo occidentale si trova così a essere smarrito in un ritorno all’infanzia del pensiero, ma senza più una divinità che possa rispondere ai suoi quesiti esistenziali. Insieme a Kant, è Nietzsche l’altra figura filosofica che ha avuto un profondo influsso su Weber a partire dall’elaborazione del concetto di idealtipo. Come evidenzia Enzo Rutigliano (2017), l’idealtipo è la proiezione metodologica della volontà di potenza nietzschiana, ma declinata in una volontà di mettere in forma la realtà informe dell’osservazione sociologica, dato che non esistono i fatti sociali ma solo le loro interpretazioni comprendenti. Anche il processo di razionalizzazione, e il conseguente disincantamento del mondo, sono temi che Weber elabora nel contesto filosofico del nichilismo per leggere la crisi valoriale della Kultur occidentale e l’ascesi dello spirito capitalistico della Zivilisation veicolato dal processo di modernizzazione (Nacci 1982). Così come altri pensatori tedeschi influenzati dal pensiero nietzschiano (tra i quali Simmel, Spengler, Adorno e Horkheimer), l’orientamento weberiano è quello di mettere in correlazione: l’evoluzione della civilizzazione moderna con l’involuzione culturale della personalità; l’avvento della società di massa con lo sfilacciamento dei legami comunitari; il prevalere dell’agire strumentale con il venir meno dei grandi valori culturali. Weber, però, non voleva riempire il vuoto nichilistico dell’occidente con il vitalismo dell’oltreuomo nietzschiano, ma permanere in esso per analizzarne gli effetti sociali. La razionalità sociologica, nell’ottica weberiana, doveva farsi carico di questo compito anali-
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tico per comprendere il politeismo dei valori dell’essere sociale48, e la sua volontà di potenza espressa dal capitalismo. Le regole del metodo di Durkheim e le indicazioni metodologiche di Weber non si sono limitate a definire le tecniche della ricerca sociale; più in generale, hanno delimitato i confini gnoseologici di una nuova provincia di sapere nel territorio delle scienze dell’uomo inteso come animale sociale. Ma a differenza della filosofia politica, della storia, dell’economica e della politologia, la sociologia analizza la vita associata in relazione a un’entità storico-trascendentale chiamata “società”. La sociologia delle origini, se analizzata con le categorie durkheimiane relative alle società aborigene, è una società segmentata in due clan – governati da leggi epistemiche differenti – di una stessa tribù del sapere legata al culto dell’essere sociale. Sia il metodo dell’ontologia positiva che quello comprendente, come si è cercato di evidenziare, sono accomunati da una credenza in un essere sovraindividuale dotato di una forza animistica generativa dei fatti sociali, e in grado di penetrare il pensiero e l’agire individuale modificandolo in base alle sue norme morali. In un’ottica autoriflessiva, la sociologia può essere intesa come una forma razionalizzata e complessa di religione incentrata su una 48 Il politeismo dei valori è la conseguenza sociale del nichilismo europeo. Con la fine del monoteismo religioso, infatti, non è più possibile precostituire una gerarchizzazione dell’ordine etico. Si determina in tal modo uno stato di perenne conflitto tra i valori eterogenei per la conquista di un proprio dominio nel territorio della verità. La sociologia, pertanto, aveva il compito di comparare le diverse visioni del mondo moderno, e mostrare i presupposti delle diverse etiche e le loro possibili conseguenze sull’agire individuale e collettivo (cfr. Cacciari 2020, 38). Scrive Weber: “Il grandioso razionalismo della condotta di vita etica e metodica che promana da ogni profezia religiosa aveva detronizzato questa pluralità di dèi in favore della “sola cosa di cui c’è bisogno” […]. Ma oggi questo pluralismo è quotidianità religiosa. I moti e antichi dèi, disincantati e perciò sotto forma di potenze impersonali, scoperchiano i loro sepolcri, aspirano a dominare la nostra vita e ricominciano la loro eterna lotta. Ma quel che all’uomo moderno riesce tanto difficile, e ancor di più alla giovane generazione, è proprio di tenere testa a una tale quotidianità. […] Ma il destino della nostra civiltà è quello di essere noi divenuti nuovamente e chiaramente consapevoli di tutto ciò, dopo che, per un millennio, l’orientamento apparentemente o presumibilmente esclusivo verso il grandioso pathos dell’etica cristiana aveva accecato i nostri occhi al riguardo” (1988: trad. it. 2010, 118).
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divinità sui generis. Si tratta, infatti, di un sistema di credenza a-teologico fondato sul dubbio scientifico, sull’avalutabilità, sul politeismo dei valori e sulla ricerca empirica dei nessi causativi che soggiacciono ai fenomeni sociali. Pertanto, come scrive Friedrich Tenbruck: Le scienze sociali cadono in errore quando tentano di concepire e realizzare se stesse come pure scienze dei fatti. Pur differenziandosi dall’interpretazione della realtà tipica delle concezioni del mondo di carattere religioso o metafisico, per il fatto che rinunciano all’adozione di entità sovraempiriche, anche esse restano legate all’interpretazione della realtà tramite grandezze irreali che, una volta ideate, acquisiscono a loro volta potere sull’agire (2002, 94).
Tuttavia, l’essere sociale, pur essendo una ideazione irreale, ha aperto la strada spiroidale del méthodos sociologico lungo la quale sono nate le immagini poietiche che hanno contribuito all’intelligibilità dell’incertezza generalizzata della civiltà industriale europea del XIX secolo. Pertanto, la sociologia, analogamente alle altre scienze, è una conoscenza “contradditoriale” tra ideazione e metodo, società e scienza, credenza e razionalità, tra osservazione e interpretazione. La consapevolezza di queste antinomie può aprire il sociologo a comprendere la sua scienza come una costruzione poietica, come un metodo costruito ad arte per disvelare qualcosa di nuovo dalla realtà sociale.
II L’IMMAGINARIO SOCIALE TRA ARTE, SCIENZA E TECNICA
La dimensione immaginativa è stato lo sfondo delle argomentazioni esposte fin qui. Durante l’analisi della creatività individuale, sociale, scientifica e sociologica ci siamo riferiti spesso alle immagini mentali, alle visioni del mondo, alle rappresentazioni paradigmatiche. La stessa figura idealtipica della spirale è, a sua volta, l’immagine di cui ci siamo serviti per comprendere il processo creativo. In base al nostro modello interpretativo, l’atto creativo trova origine da un’ideazione in grado di rimodulare e mutare l’ecosistema emozionale, simbolico, e concettuale della vita mentale. L’immagine poietica interrompe la funzione riproduttiva del pensiero prefigurata da a priori, fissati nella memoria come costellazioni di orientamento nel mondo, grazie ai quali l’eterogeneità del reale si oggettiva in forme di credenze collettive e in sistemi di interpretazione paradigmatiche. Ma se nella coscienza (individuale, collettiva o scientifica) sorge una problematica non più iscrivibile in una visione preformata nasce, come si è detto, quella condizione di incertezza e di crisi che favorisce la formazione di nuove immagini. Sono esse che aprono la strada al movimento centrifugo della spirale creativa, a quel tragitto antropologico che conduce il pensiero a rischiarare l’incertezza in un nuovo campo di significazione. E quando questo piano ideativo trova una tecnica per sostanziarsi in qualcosa, la creatività diventa un metodo di oggettivazione che estende, in un movimento centrifugo, le immagini poietiche in artefatti materiali o immateriali originali che amplificano e rendono più significativa la realtà umana. Oggetto d’interesse di questa parte è analizzare il modello idealtipico della spirale creativa in un quadro ben più ampio, quello della natura immaginativa dell’uomo. Definire questa cornice
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concettuale ci permetterà, successivamente, di analizzare l’interazione simbolica tra arte e scienza. Mettere in luce questo intreccio è centrale, come vedremo, per una sociologia interessata alla creatività come metodo comprendente di quell’opera collettiva chiamata società. 1. La natura immaginaria dell’Homo La questione della natura umana nasce con l’epoca moderna, durante quella lunga agonia che a occidente ha portato alla morte di Dio. Sino ad allora, come si legge nel racconto della Genesi, l’uomo era un artefatto vivente modellato dal fango dalla volontà creativa del Signore a sua immagine e somiglianza. Ma come rappresentare l’umano secolarizzato? Le scienze naturali non hanno avuto dubbio a riguardo: Homo sapiens è una delle tante specie ripartite nell’ordine disincantato delle classificazioni tassonomiche, un essere che ha avuto origine dalle leggi evolutive, un organismo dotato di un’identità genetica con due cromosomi in meno del Dna dello scimpanzé. Quest’immagine biologica, tuttavia, non teneva conto di tutta quella complessa e mutevole realtà extraorganica studiata dalle scienze umane e sociali in termini filosofici, storici, psicologici, etnologici e sociologici. Occorreva, pertanto, pervenire a una visione più ampia e inclusiva di quel mondo storico-culturale che faceva dell’uomo una specie sui generis. La ricerca di un’immagine completa e non riduttiva dell’uomo ha aperto, nel cuore del XX secolo, un dibattito scientifico tra diversi ambiti disciplinari mai del tutto finito (cfr. Lutri 2013). Il celebre dialogo tra Noam Chomsky e Michel Foucault, andato in onda nel novembre del 1971 per la televisione olandese1, viene considerato ancora oggi un buon punto di partenza per sintetizzare le due principali posizioni sul tema controverso della natura umana. Come è stato sottolineato da Stefano Catucci (2005), 1
Il dibattito tra Chomsky e Foucault è stato pubblicato in diverse edizioni straniere; qui si fa riferimento alla trascrizione italiana pubblicata nel volume Della natura umana. Invariante biologico e potere politico (2005).
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l’incontro ebbe il merito di trasformare lo studio televisivo in un luogo di sintesi tra le due principali posizioni sul tema controverso della natura umana. Foucault, proveniente dal prestigioso Collège de France, fin dalle prime battute mostra subito la sua insofferenza al termine “natura”, e ancor di più a quello di “natura umana”. Come si evince dalle sue acute argomentazioni (Chomsky/Foucault 2005, 37), la natura umana è un sofisticato costrutto concettuale, un indicatore epistemologico rivelativo del dispiegamento di quel nuovo ordine del discorso scientifico apparso alla fine del XVIII secolo. È questo che colloca pienamente l’idea foucaultiana nell’ambito del metodo decostruttivo della filosofia post-metafisica: l’uomo è un costrutto di sapere storicamente determinato. Dall’altro lato del tavolo, Chomsky, proveniente dall’altrettanto prestigioso Massachusetts Institute of Technology, risponde colpo su colpo alle taglienti osservazioni del suo avversario. La questione per lui non è tutta riconducibile solo a un gioco linguistico prodotto dalle strutture scientifiche. Al di sotto di esse, esiste una certa organizzazione biologica che caratterizza le strutture cognitive dell’uomo rimaste immutate, per il linguista americano, dall’Homo di Cro-Magnon in poi (ivi, 42). È questo che lo spinge a rintracciare nell’uomo un nucleo originario sostanziale, nel quale sono contenuti un insieme di valori umani universali come la giustizia, l’amore, la libertà, la solidarietà e la non violenza (ivi, 67). La natura umana, dunque, è un artefatto culturale prodotto dai discorsi scientifici, così come argomenta Foucault, oppure è quel nucleo organico interno alle strutture cognitive dell’uomo indicato da Chomsky? A distanza di 50 anni, il dibattito scientifico contemporaneo non ha fatto altro che prolungare e radicalizzare le pozioni di Foucault e Chomsky e questo senza più neanche uno studio televisivo in cui confrontarsi. Qui, più che stabilire per chi dei due duellanti parteggiare, credo sia più interessante cominciare a evidenziare il loro comune terreno di scontro. Pur se da punti di vista speculari, infatti, ciascuno occupa una metà di quell’ordine del discorso ripartito dall’artificiosa dicotomia natura-cultura
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(cfr. Descola 2005: trad. it. 2021). Per Chomsky la natura umana è un qualcosa di stabile connotato da una invarianza biologica. Per Foucault, invece, la natura umana è un qualcosa sedimentato dall’archeologia del sapere scientifico. Chomsky e Foucault condividono, pur se da punti di vista avversi, una medesima visione dell’uomo come cosa ratificando, come scrive Paolo Virno (2005, 125), la definitiva rottura tra materialismo naturalistico e materialismo storico. Per uscire da questa dialettica materiale, seguiremo l’approccio empirico-ideale della scienza delle forme goethiana. Goethe, conosciuto come figura apicale del romanticismo tedesco, non è altrettanto noto per i suoi scritti scientifici, nonostante li giudicasse di pari importanza, se non addirittura superiori, a quelli della sua produzione letteraria (Friedenthal 1963: trad. it. 1974). Confrontandosi con gli scienziati del suo tempo, e impegnandosi in prima persona in esperimenti, Goethe si interessò ai fenomeni ottici e metereologici, alle strutture dei cristalli, alle metamorfosi delle piante e degli insetti, alle affinità scheletriche dell’uomo con gli altri vertebrati (cfr. Goethe 1784-1831: trad. it. vol. I 1996 e vol. II 1999). Questi campi di studi erano, per il poeta-scienziato, i luoghi empirici in cui osservare la natura intesa come “idea all’opera”. La morfologia era l’ossatura metodologica del suo corpus scientifico che ambiva a coniugare l’osservazione empirica con un piano ideale. Questo livello ideale non è da ricondurre a un piano mistico-religioso o al mondo delle idee costruito dalla metafisica filosofica. Per Goethe, la natura era un’idea immanente ai processi formativi presenti in tutto lo spettro di visibilità del mondo. Tuttavia, se consideriamo tutte le forme, e in particolare quelle organiche, troviamo che non esiste nulla di immutabile, di fisso, di chiuso, ma che tutto ondeggia in un continuo movimento. Per questo la nostra lingua suole adoperare, con sufficiente proprietà, il termine Bildung per indicare sia il prodotto sia la produzione. Nell’introduzione ad una morfologia non potremmo quindi parlare di Gestalt, ma se utilizziamo questo termine, pensiamo sempre solamente all’idea, al concetto oppure a un aspetto dell’esperimento fissato soltanto per il momento. Ciò che è formato viene subito trasformato nuovamente e se vogliamo giungere in una certa misura a una osservazione viva
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della natura, dobbiamo comportarci a nostra volta in maniera mobile e formatrice, secondo l’esempio che la natura stessa ci propone (Goethe 1996, 7-8).
In questo invito goethiano a una osservazione viva delle forme, si comprende come la natura non sia dunque quel grande contenitore pieno di enti filosofici, creature di Dio, di cose estese da classificare o di oggetti organici e linguistici – per riprendere il dibattito Chomsky-Foucault. Nella visione goethiana la natura è essenzialmente un principio creativo – in cui tutto ondeggia in un continuo movimento – che si diversifica nei processi metamorfici, intesi come espressioni armoniche in cui comprendere la relazione tra parte e tutto, tra la forma e le energie sprigionate dai quattro elementi. In questo, la visione goethiana della natura è affine a quella della filosofia presocratica. Per Eraclito, infatti, la natura (physis) era un cosmo metamorfosato dal flusso energetico scandito da un ritmo infuocato che trovava in sé la sua origine e le sue misure2. Nell’ottica goethiana, ogni forma era la misura per osservare, empiricamente, la creatività all’opera della natura nel contesto sia della realtà inorganica che in quella organica. La forma diventa così quell’elemento terzo capace di rilegare in termini di analogia i regni morfologici dei minerali, delle piante, degli insetti e dei vertebrati fino all’uomo. In questa continuità analogica, le discontinuità sono determinate da come ciascuna forma si trasforma in armonia con l’ambiente in cui è collocata3. 2 3
Si legge nel frammento 2: “Questo cosmo non lo fece nessuno degli dèi né degli uomini, ma sempre era, ed è, e sarà, Fuoco sempre vivente, che con misura divampa e con misura si spegne” (Eraclito 1993, 43). Scrive Goethe: “Così l’esistente di una creatura che chiamiamo pesce è possibile solo sotto la condizione di un elemento che chiamiamo acqua, e il mammifero che vive in acqua ha la stessa forma del pesce…Il tipo che si sviluppa nell’aria prenderà la forma di uccello…così l’aquila si forma in aria, di cima in cima…mentre il cigno, l’anatra e altri anfibi tradiscono la loro inclinazione per l’acqua già dalla forma. […] Sono questi i limiti della natura animale, nei quali l’energia configuratrice sembra muoversi nel modo più meraviglioso e, si direbbe, più arbitrario, senza essere minimamente in grado di spezzare o di oltrepassare il cerchio. […] Il vivente ha la facoltà di adattarsi alle condizioni degli influssi esterni, senza tuttavia rinunciare a quella ben precisa e decisiva autonomia che si è conquistata” (Goethe 1999, 299).
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Goethe, tuttavia, non si interessò alle metamorfosi della natura culturale dell’uomo. Le sue ricerche scientifiche si limitarono a leggere nel campo osteologico le analogie che legavano l’uomo alle forme degli altri vertebrati; le altre affinità elettive tra l’animo umano e il mondo della vita Goethe le indagò, come è noto, affidandosi al campo letterario. Sono state alcune figure del pensiero tedesco del ‘900 – tra cui spiccano i nomi di Nietzsche, Simmel, Spengler, Benjamin e Gehlen – a trovare nella scienza goethiana un riferimento per analizzare in termini creativi le forme storico-sociali dell’umano (Marzo 2007). Fu Nietzsche che cominciò a considerare l’uomo come una forma naturalmente imperfetta, definendolo come l’animale non ancora stabilizzato (Nietzsche 1886: trad. it. 1994, 68). Una definizione dirompente per quell’idea antropocentrica – ancora oggi dominante – che colloca l’uomo al vertice dell’ordine naturale. La socio-antropologia di Gehlen, sviluppando questa intuizione nietzschiana, definisce l’uomo come un essere morfologicamente mancante rispetto alle altre specie (2010, 100-125; cfr. supra cap. I.3). Privo di una sfera sensoriale particolarmente estesa, geneticamente sguarnito di armi offensive (artigli o denti) e orientandosi goffamente nel suo spazio, l’uomo è una forma senza qualità naturali. Nel suo stare al mondo, egli deve chiudere al suo esterno la forma aperta del suo corpo costruendo socialmente quel pezzo di forma naturalmente mancante4. La specie umana è dunque una forma animale in formazione che, proprio in ragione di ciò, entra più profondamente in relazione con la natura attraverso la creatività. Essa è quella facoltà ideativa attraverso la quale l’energia configuratrice, osservata da Goethe nei regni organici e inorganici, opera nel contesto del mondo umano. La creatività è, in tal modo, quel metodo di vita che stabilizza l’animale uomo in una seconda natura. Una natura messa in forma fin dai rudimentali utensili in cui ha cominciato a cristallizzarsi la creatività dei primi ominidi dando inizio all’antropogenesi, a quel processo evolutivo in cui la spe4
“L’uomo deve trovare a se stesso degli esoneri (Entlaustungen) con strumenti e atti suoi propri, cioè trasformare le condizioni deficitarie della sua esistenza in possibilità di conservarsi la vita” (Gehlen, 2010, 74).
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cie Homo si è differenziata dalle altre scimmie antropomorfe (Lutri 2013, 34). Manufatti sempre più complessi disseminati lungo un cammino cominciato nelle pianure africane quasi tre milioni di anni fa, da quando l’Australopithecus africanus ha messo in piedi l’umanità diventando una specie di bipede barcollante (Tobias 1982: trad. it. 1992). Come indicano le ricerche paleoantropologiche di Leroi-Gourhan (1964), l’incipit dell’uomo non è da ricondurre a un aumento spontaneo della massa celebrale, come comunemente si pensa, ma all’elevazione di 90° della colonna vertebrale. Una rivoluzione posturale che trasformò gradatamente l’intera morfologia anatomica umana. Diventando bipede, la testa dell’australopiteco cominciò a oscillare sulla sommità della colonna vertebrale dando inizio a un progressivo arretramento della mandibola e del viso e, per compensazione, la parte posteriore della testa si spostò in avanti aumentando progressivamente la capienza della scatola cranica. Questo permise di dare sempre più spazio alla creatività simbolica del linguaggio (ivi, 126-127). La conquista della posizione eretta portò con sé anche l’altra grande rivoluzione anatomica: la liberazione degli arti superiori. Se negli altri primati le mani sono prioritariamente asservite alla funzione di locomozione e solo secondariamente alla funzione di prensione, è nell’uomo che questa funzione secondaria è diventata totalmente dedita al campo creativo della manipolazione. Dalle prime pietre scheggiate cominciarono ad essere man mano selezionate le forme stereotipate più adatte ad essere dei prolungamenti del corpo (Leroi-Gourhan 1945: trad. it. 1994). D’altronde, cosa sono le punte di freccia in selce create dall’uomo del paleolitico se non i prolungamenti delle sue unghie capaci di librarsi in volo come degli artigli d’aquila per colpire la preda? Gli artefatti hanno cominciato, sin da subito, ad essere le parti di un corpo artificiale potenziato grazie al quale l’Homo ha trovato un metodo creativo di sopravvivenza. Nel corso del paleolitico, anche il linguaggio è stato quel corpo fonetico che ha esteso e articolato la capacità manipolativa del pensiero umano nella sfera comunicativa. Tuttavia, data la sua natura immateriale, per trovare tracce materiali del corpo linguistico occorre attendere la nascita della scrittura avvenuta molto
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più in là, con la nascita delle civiltà sumerica. Sono gli studi di neuro paleoantropologia a mostrarci come le aree corticali che maggiormente si attivano durante un’azione o durante l’attività comunicativa siano tra loro in stretta relazione, rivelando connessioni nate con i primi comportamenti umani5. Con l’Homo sapiens, la cui comparsa viene fatta risalire a 300 mila anni fa, il fenomeno associativo ha avuto una funzione centrale nell’integrare la sfera della manipolazione con quella linguistica all’interno di forme di rappresentazione collettive (cfr. Lutri 2013, 35). Le società sapiens sono le prime ad aver trasposto il caos sensoriale, prodotto dai processi ambientali e corporei, in uno spazio-tempo ordinato da strutture di senso fissate in mitogrammi (Leroi-Gourhan 1964, 262), elementi grafici composti da simboli geometrici, figurazioni antropomorfe e animali. Le 6000 figure che affrescano le pareti delle Grotte di Lascaux sono i primi mitogrammi a noi pervenuti che segnano, come scrive Bataille (1955: trad. it. 2014, 26), “il passaggio dalla bestia umana all’essere compiuto che noi siamo”, ciò che resta del mondo magico-religioso di una comunità umana vissuta 17.500 anni fa. Le Grotte di Lascaux non sono più solo un riparo naturale usato dall’uomo per difendersi dalle intemperie e dai predatori, ma un arcaico mondo virtuale costellato da immagini simboliche in cui la coscienza umana ha iniziato a decentrarsi in una dimensione immaginativa socialmente istituita. Nella contemporaneità, questa dimensione avvolge quasi cinque miliardi di internauti nell’iconosfera (Pinotti /Somaini, 2009) riprodotta dagli schermi dei dispositivi digitali. Lo schermo è il punto terminale di una coscienza connettiva mondiale in cui tutto si scambia, rimodula e assembla in base al valore 5
Scrive Ornella Castelli: “Grazie all’apporto delle tecniche di neuroimmagine funzionale, che consentono di visualizzare quali aree della corteccia celebrale si attivano durante un’azione, e quindi anche durante attività comunicative, è stato confermato che le aree celebrali legate al linguaggio e quelle relative al corpo, alla sua azione sull’ambiente, sono in stretto rapporto tra loro. […] Rimanendo nell’ambito dei primi comportamenti umani e analizzando anche gli schemi motori necessari per l’attuazione delle primitive strategie di attacco, difesa, inganno, ci rendiamo presto conto di una evoluzione nel dialogo tra mano e linguaggio” (2007, 128).
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spettacolare e simulacrale delle immagini (Debord 1967: trad. it. 1997, 53; Baudrillard 1976: trad. it. 1979). Spot pubblicitari, serie televisive, documentari, scoperte scientifiche, pornografia, programmi sugli stili di vita, pseudo eventi storico-politici, emergenze ecologiche e quant’altro sono i mitogrammi audio-visuali che strutturano, in tempo reale, la vita mentale di una massa di utenti riunita dalle reti digitali. Analogamente alla coscienza collettiva descritta da Durkheim, l’iconosfera è generativa di rappresentazioni sociali, valori normativi dell’agire e di ordini rituali incentrati sul valore simbolico delle merci (cfr. Vincenzo 2021). Pertanto, l’uomo, dalla Grotta di Lascaux alla tecno-caverna di Internet, non ha smesso di essere un Homo creator di universi immaginativi nei quali la sua natura si è socialmente metamorfosata. 2. L’ambiente socio-antropologico Dopo aver delineato la sfera immaginativa della creatività, cercheremo di metterla maggiormente a fuoco in una prospettiva ambientale. Come è intuibile, è una dimensione antropologica difficilmente racchiudibile in un ordine sistematico. Si tratterà, pertanto, di tracciare dei confini concettuali in un territorio ben più ampio e complesso che proveremo a suddividere in tre regioni: quella delle immagini, quella dell’immaginazione e quella dell’immaginario sociale. Un tale intento cartografico non può che trovare il suo riferimento nel saggio Ambienti animali e ambienti umani del naturalista Jakob von Uexküll. Pubblicato nel 1934 (trad. it. 2010), il testo ebbe il merito di fondare la nozione di ambiente rivoluzionando la visione scientifica della vita, una rivoluzione che influenzò ambiti disciplinari non strettamente legati alla biologia. Fino ad allora, infatti, le scienze davano per scontata l’esistenza di un universo comune a tutti gli organismi; un’idea che prolungava in ambito biologico il paradigma della fisica newtoniana basato sull’invarianza dello spazio-tempo. Questo, com’è noto, fino all’esposizione della Teoria della relatività ristretta elaborata
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da Einstein nel 1905. Qualche decennio dopo, gli studi del naturalista estone determinano un’analoga transizione paradigmatica relativizzando la visione scientifica dell’universo della vita: Troppo spesso ci culliamo nell’illusione che le relazioni intrattenute da un soggetto con le cose che costituiscono il suo ambiente si collochino nello stesso spazio e nello stesso tempo di quelle che intratteniamo noi con le cose che fanno parte del mondo umano. […] Per questo motivo, possiamo rappresentarci tutti gli animali che vivono intorno a noi (coleotteri, farfalle, mosche, zanzare, libellule) come chiusi dentro una bolla di sapone che circoscrive il loro spazio visivo e che contiene tutto quello che per loro è visibile. Ogni bolla ospita gli assi dimensionali dello spazio operativo (Uexküll 2010, 55 e 74).
Uexküll, nei capitoli del suo saggio, mostra al lettore come le specie siano collocate in un proprio spazio-tempo che definì con il termine tedesco di Umwelt, “ambiente” appunto. La natura è un ecosistema pluriversale costituito dall’intreccio di ambienti specifici, da sfere vitali ben delimitate entro le quali le specie percepiscono solo una parzialità del mondo: quella relativa alle caratteristiche delle loro forme organiche. È qui che incontriamo la nozione di “immagine”, intesa come forma entro la quale la vita animale ordina i dati percettivi filtrati dalla sua bolla ambientale. Facciamo l’esempio della zecca. Quest’essere minimo, come lo definisce Uexküll, si orienta nel mondo solo con l’olfatto. La sua immagine del mondo nasce da una messa in forma sollecitata dall’odore rilasciato dall’acido butirrico dei mammiferi che entrano nel raggio della sua sfera ambientale, oltre il quale lo spazio naturale cessa di esistere. Il corpo della zecca è in tal modo il centro di uno spettro sensorio unidimensionale, pronto a captare come un radar il passaggio dell’animale da parassitare. E quando ciò accade, gli effluvi rilasciati dalla sua vittima formano l’immagine percettiva dell’insetto che, a sua volta, in-forma lo schema motorio grazie al quale, come ci dice Uexküll (ivi, 42), si lascia cadere per succhiare il sangue e deporre le uova nella foresta pilifera del mammifero.
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Attraverso il circuito di funzione descritto da Uexküll, possiamo dunque definire l’immagine come quella forma che media, all’interno dell’ambiente animale, la relazione stimolo-risposta, come abbiamo visto nell’esempio della zecca. In questa declinazione morfologica, l’immagine non è riferibile al mondo ingannevole delle ombre platoniche separato dal reale (Marzo 2018). Serviamoci della finezza del pensiero di Simmel per risemantizzare il termine “immagine”: Siamo convinti che tutte le rappresentazioni dell’essere sono funzioni di una particolare organizzazione fisico-psichica, che non la riflettono in ogni caso meccanicamente. Piuttosto, le immagini del mondo dell’insetto con i suoi occhi, dell’aquila la cui vista ha una acutezza che non ci possiamo immaginare, dell’anguilla delle grotte con i suoi occhi retratti, la nostra stessa immagine, così come le innumerevoli altre, devono essere profondamente diverse, per cui se ne conclude direttamente che nessuna di essa riproduce il contenuto extra-psichico delle cose nella sua vera e propria oggettività. E tuttavia, tali rappresentazioni, per quanto caratterizzate negativamente, sono sempre il presupposto, il materiale e la guida del nostro agire pratico in quanto con esso ci mettiamo in contatto con il mondo, così come esso sussiste in modo relativamente indipendente dalla nostra rappresentazione soggettivamente determinata (Simmel 1984, 161-162).
Se il contenuto extra-psichico messo in forma dalle immagini dipende dalla particolare organizzazione psico-fisica degli organismi, come scrive Simmel in affinità con il pensiero di Uexküll, esse le possiamo considerare l’estensione incorporea della loro corporeità; un’estensione che ha il potere di avvolgere percettivamente qualcosa e di riportarla nel mondo interiore dell’organismo che la produce. Questa forma di entità incorporea non è più la sostanza del corpo che le proietta nell’ambiente, e nemmeno la sostanza del mondo che avvolgono. L’immagine, come ci dice la radice etimologia [dal lat. imago (-gĭnis) = ombra, apparenza, rappresentazione, fantasma], è definibile come quella forma fantasmatica del reale che, in virtù della sua inconsistenza, attraversa il muro che separa le specie dalle cose presenti nei loro ambienti facendole risuonare in loro come oggetti sostanziali e carnali. La
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stimolazione è l’effetto di questa risonanza fantasmatica che ha il potere di far vibrare l’intero corpo organico e di predisporlo alla reazione. È grazie a questa invisibile circolazione che, per riprendere l’esempio precedente, l’immagine messa in forma dalla zecca porta ad essa il fantasma-olfattivo della realtà del mantello pilifero su cui gettarsi. Anche l’animale Homo, ovviamente, è collocato in una propria bolla ambientale dischiusa dai suoi organi percettivi e motori. Al suo interno, tuttavia, la circolazione fantasmatica delle immagini viene conformata in un modo particolare che occorre indagare per comprendere le analogie e, soprattutto, le differenze tra ambienti animali e umani. Partiamo dalle analogie prendendo in considerazione l’immagine paesaggistica. Essa non è quell’evidenza che scorgiamo in un determinato ambiente naturale. Il paesaggio, invece, è l’esito di un complesso processo psichico che ha già inizio quando i nostri sensi ci immergono nelle continuità percettive articolate da alberi, vallate, montagne, laghi, fiumi, coste, golfi, ecc. Questo sconfinato sfondo sensoriale non è ancora un paesaggio. Lo diventa quando facciamo apparire da esso una sua immagine-forma. Nei contorni di questa forma d’immagine paesaggistica, i fili delle continuità naturali vengono recisi per essere riannodati al nostro interno. L’ambiente naturale viene così ad essere trasfigurato diventando un dipinto della mente animato dal vento che accarezza le chiome degli alberi della montagna e che spinge contro di esse le nuvole, dalle onde che agitano il mare della baia o dal passaggio di qualche gabbiano in cielo; come ci dice Simmel: “dove effettivamente vediamo un paesaggio e non più una somma di singoli oggetti naturali, abbiamo un’opera d’arte nel suo nascere” (1913: trad. it. 1985, 77). Il paesaggio, pertanto, non è più la sostanza della natura che ci sta innanzi e né solo un’opera creata dalla nostra mente ma, così come si diceva, è un’immagine fantasmatica della natura. Seguendo la bellezza della sua apparizione estendiamo il nostro interno portandolo fuori da noi fino a toccare la natura e, allo stesso tempo, siamo toccati dalla natura facendola vibrare in noi una determinata tonalità emotiva.
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Pertanto, a differenza dell’immagine olfattiva della foresta pilifera proiettata dalla zecca, l’uomo entra in contatto con il paesaggio attraverso immagini mentali dai contenuti tra loro variabili6 che ordinano i dati percettivi sotto forma, ad esempio, di una veduta estetica da cui trarre un dipinto; di un luogo in cui addentrarci attraverso un’escursione; di uno spazio in cui progettare la costruzione di un complesso abitativo; o ancora, come nel caso di Simmel, in un oggetto d’interesse scientifico su cui scrivere. L’uomo, dunque, a differenza dell’animale, è dotato della capacità immaginativa con cui creare nei limiti della sua sfera ambientale una metamorfosi infinita di immagini. Possiamo provare a individuare il potere creativo dell’immaginazione avvalendoci degli studi di Damasio sulla mente (1995). Per lo studioso quest’ultima non coincide né con il corpo, pur essendo esso la sua imprescindibile base di ricezione sensoriale, né con il cervello, pur trovando in esso la sua sede organica privilegiata. La mente, per il neurologo portoghese, è un meta-sé neurale capace di integrare corpo e cervello in uno spazio immaginativo decentrato dall’immediatezza delle immagini percettive (olfattive, tattili, visuali, uditive, gustative). Quest’ultime predispongono quella base di stimolazione nervosa all’attività neurale vera e propria da cui prendono forma le immagini del pensiero umano: A mio giudizio, allora, avere una mente significa questo: un organismo forma rappresentazioni neuronali che possono diventare immagini, essere manipolate in un processo chiamato pensiero e alla fine influenzare il comportamento aiutando a prevedere il futuro, a pianificare di conseguenza e a scegliere la prossima azione. […] Quindi il punto è che le immagini sono, probabilmente, il contenuto principale dei nostri pensieri, a prescindere dalla modalità sensoria6
Anche per Uexküll, l’ambiente umano si distingue dai restanti ambienti animali per la presenza al suo interno del variegato ecosistema delle immagini. La percezione di una quercia, seguendo l’esempio che lui stesso propone (ivi, 152), è per un vecchio guardaboschi quell’immagine razionale da cui ricavare una catasta di legna secondo una operatività agita dalla sua ascia; la stessa quercia avvolta nell’immagine fiabesca di una bambina è, invece, un volto mostruoso e malefico dal quale fuggire.
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le nella quale esse sono state generate e dal fatto che riguardino una cosa o un processo implicante cose, o che riguardino parole o altri simboli – di un dato linguaggio – che corrispondono a una cosa o a un processo (ivi, 141 e 164).
Il cervello, pertanto, non forma solo le immagini percettive e motorie, ma è anche l’organo metamorfico dell’immaginazione da cui sorgono e si trasfigurano le immagini mentali che deviano dal circuito funzionale stimolo-risposta, nel quale invece resta incatenata la vita animale. Ma poiché l’uomo è un animale che oltre ad essere creativo è anche sociale, la sua immaginazione si incanala nello spazio-tempo dell’interazione per alimentare la vita di una mente extraorganica (vedi supra cap. I.3). Pur nascendo dagli intrecci relazionali degli individui, è una forma mentis che eccede e traspone le loro menti in un proprio ordine di coscienza in grado di tradursi, come ci ha spiegato Durkheim (1996, 101), in rappresentazioni che hanno il potere di produrre fatti normativi. L’immaginario sociale è la semiosfera configurata da questa mente sui generis nella quale si formano le rappresentazioni collettive. Per Lotman (1985), la semiosfera è un continuum semiotico nel quale le stimolazioni nervose provenienti dal reale confluiscono in un sistema interpretativo composto da significati intrecciati tra loro. Così come le immagini olfattive definiscono i confini del mondo della zecca, la semiosfera definisce i confini sociali del senso fuori dai quali non è possibile l’esistenza della semiosi (ivi, 59). È in questa accezione che possiamo cominciare a definire la semiosfera come l’ambiente socio-antropologico dell’immaginario. Diventandone parte fin dalla loro nascita, e incorporandone nel processo di socializzazione gli schemi interpretativi, gli individui entrano in un cronico stato di semiestraneazione da cui emerge – come afferma Gehlen (2010, 383) – “lo sfondo inconscio della nostra convivenza con gli altri e del nostro autoavvertimento che vi si coglie”. Un inconscio collettivo – abitato da miti, simboli, leggende, esseri fantastici, narrazioni leggendarie, mondi utopici, rappresentazioni estetiche – strutturato da Gilbert Durand in base a
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due grandi Regimi dell’immaginario: quello Notturno e quello Diurno. Entrambi sono l’esito di una elaborazione archetipica nella quale si riflettono le matrici senso-motorie dell’uomo (Durand 1996, 48). Il Regime Notturno, legato alla nutrizione e al ritmo digestivo, si esprime nella simbologia del grembo, della caverna, la coppa e l’urna: sono luoghi in cui i significati si raccolgono in un’atmosfera immaginativa rarefatta e ambivalente in cui circola lo scambio simbolico tra morte e vita, tenebre e luce, micro e macrocosmo, verità e menzogna, maschile e femminile (ivi, 194). Le strutture notturne si caratterizzano in tal modo per essere un campo di significazione contraddittoriale nel quale gli uomini rispondono all’angoscia della decomposizione della morte, indotta dall’imprevedibilità dei volti cangianti del tempo, in una visione olistica e ciclica del mondo. Il Regime Diurno, riflesso archetipico della postura eretta dell’uomo, è invece schizomorfo, basato cioè su strutture di senso duali, polarizzate e inconciliabili. In questo ordine antitetico dell’immaginario, lo “scettro” e la “spada” sono gli strumenti simbolici in mano all’autorità del sovrano, legittimata da forze divine o da verità politico-ideologiche, che esprimono la verticalità del potere che distingue con freddezza e calcolo l’avversario dall’alleato, l’amico dal nemico (ivi, 120). Il Regime Diurno, pertanto, risponde all’imprevedibilità del tempo attraverso una volontà geometrizzante di controllo e separazione che lo porta a espellere da sé la parte del sentire e dell’istinto proiettandola, inconsapevolmente, nella mostruosità di chi si oppone ad essa. Da questi regimi del profondo emerge tutto quell’universo antropologico che orienta le comunità umane in un proprio ambiente: quello dell’immaginario sociale. Al suo interno gli individui si raccolgono in uno spazio-tempo comune, culturalmente definito, entro il quale acquisiscono coscienza e significato degli accadimenti che li circondano riconducendoli a delle regolarità. Questa semiosfera ambientale, avvolgendo la vita individuale come quella collettiva, ha inoltre la capacità di occultare il suo carattere di artificio mostrando, all’opposto, quel mondo in comune che quotidianamente chiamiamo realtà tipicizzato da province
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finite di significato (Berger/Luckmann 1966; Schutz 1996). L’azione reciproca, dislocandosi nell’ordine topografico della realtà, dà vita allo scambio sociale grazie al quale l’immaginario viene prodotto, istituito, sedimentato, differenziato e anche trasformato (Marzo 2019). L’immaginario è dunque la sfera ideativa del pensiero collettivo – in cui si raccolgono significati, sentimenti, credenze, memorie – che ha il potere di produrre effetti di realtà. All’interno delle scienze storico-sociali, è Dilthey che dà una delle prime definizioni delle immagini collettive parlando di Weltanschauungen, di “visioni del mondo”: Le visioni del mondo si sviluppano in condizioni diverse. […] Si manifesta, così, una relazione regolare in virtù della quale l’anima, spinta dal continuo mutamento delle impressioni e dei destini e della potenza del mondo esterno, deve tendere ad una saldezza interiore per poter opporsi a tutto ciò: così essa viene condotta dal mutamento, dall’instabilità, dallo scorrere e dal fluire della sua condizione, delle sue visioni della vita, al duraturo apprezzamento della vita ed a fini sicuri. Le visioni del mondo che favoriscono la comprensione della vita, che conducono ad obiettivi utili, si conservano e rimuovono quelle che meno si prestano in tal senso (Dilthey 1998, 180).
Seguendo la citazione di Dilthey, la Weltanschauung è l’immagine metacognitiva creata dalla mente sociale che ha il potere di regolarizzare lo scorrere, il fluire, la mutevolezza sensoriale proveniente dal mondo della vita. L’immaginario, dunque, è un ambiente sui generis nel quale la nebulosa percettiva del reale, circoscritta dagli organi di senso dell’Homo, tramescola nella nebulosa di segni e simboli delimitati da una semiosfera socialmente e storicamente determinata. La Umwelt umana è per questo composta al suo interno da un pluriverso di sotto-ambienti differenziati dalle visioni del mondo. La loro compresenza li porta a interagire in un ecosistema antropologico entro il quale comunicano, confliggono, si contaminano, dando vita persino ad altri immaginari sociali. Come tutte le immagini poietiche, le visioni del mondo fuoriescono dalla mente collettiva fissandosi nei quadri delle rappresentazioni sociali, in quei paesaggi simbolici nei quali intera-
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giscono gli individui associandosi tra loro in base a credenze di senso comune dislocate, come ci ha detto Moscovici (2020, 30), dalle forme della vita religiosa fino agli universi razionali reificati della scienza. Senza questo processo psico-sociale la Weltanschauung resterebbe un’opera incompiuta, una visione spettrale del mondo incapace di sostanziarsi in un sistema di significati durevoli. Una volta istituite, le rappresentazioni si proiettano nello spazio dell’interazione simbolica dando un orientamento stabile e prevedibile all’agire sociale. Tuttavia, lo spazio dell’interazione non è un semplice rispecchiamento del mondo delle idee sociali; in tal caso, l’immaginario sarebbe un ambiente animale più sofisticato chiuso tra sistema simbolico e azioni tipicizzate. In quanto animale creativo, l’individuo è anche colui che rimodula gli schemi simbolico-comportamentali dell’interazione (Blumer 2008, 37); e se questa rimodulazione incontra il sentire di più individui, si determina quella condizione di effervescenza collettiva (Durkheim 2013, 279) da cui sgorgano i rivoli che gradatamente confluiscono, se si segue la metafora idraulica di Durand7, in un nuovo bacino semantico attorno al quale l’ambiente immaginativo si rigenera. 7
La nozione di “bacino semantico” è uno dei cardini della mitodologia di Durand. Per l’antropologo francese, il bacino semantico è un luogo di addensamento simbolico che attraverso fasi distinte genera, sedimenta e decostruisce ciclicamente l’immaginario. Le enumeriamo con le stesse parole di Durand: “1) Ruscellamenti. Diverse correnti si formano in un ambiente culturale dato: sono a volte risorgenze lontane dello stesso bacino semantico passato, questi ruscelli nascono, d’altra pare, da circostanze storiche precise (guerre, invasioni, eventi sociali o scientifici, ecc.). 2) Divisione delle acque. I ruscellamenti si riuniscono in parti, in scuole, in correnti e creano così dei fenomeni di “frontiera” con altre correnti orientate in modo diverso. È la fase della querelle, degli scontri di regimi dell’immaginario. 3) Confluenze. Proprio come un fiume è formato da affluenti, una corrente costituita ha bisogno di essere confortata dal riconoscimento e dal sostegno di autorità e personalità influenti. 4) Nel nome del fiume. È qui che un mito o una storia rinforzata dalla leggenda promuove un personaggio reale o fittizio che denomina e tipicizza il bacino semantico. 5) Delimitazione delle rive. Un consolidamento stilistico, filosofico, razionale si costituisce. È il momento dei “secondi” fondatori, dei teorici. A volte delle inondazioni esagerano alcuni tratti tipici delle correnti. 6) Esaurimento nei delta. Si formano allora dei meandri, delle derivazioni. La corrente del fiume si indebolisce, si suddivide e si lascia captare da correnti vicine” (Durand 1996: trad. it. 2022, 76-77).
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Il piano astratto dell’ideazione collettiva e il piano empirico dell’interazione simbolica, influenzandosi reciprocamente, alimentano “un magma di significazione” che istituisce, come afferma Cornelius Castoriadis, la vita associata in una forma sociale-storica: L’istituzione sociale-storica è ciò entro e tramite la quale si manifesta, ed è, l’immaginario sociale. Questa istituzione è istituzione di un magma di significazioni, le significazioni immaginarie sociali. Il supporto rappresentativo partecipabile di tali significazioni – a cui, ovviamente, esse non si riducono, e che può essere diretto o indiretto – consiste in immagini o figure, nel senso più ampio del termine: fonemi, parole, banconote, djinn, statue, chiese, utensili, divise, tatuaggi, numeri, frontiere, centauri, tonache, fasci littori, spartiti musicali – ma consiste anche nella totalità del percepito naturale, nominato o nominabile da parte della società considerata. Le composizioni di immagini e di figure possono essere, e sono spesso, a loro volta, immagini o figure e, quindi, anche supporti di significazione. L’immaginario sociale è, in senso primordiale, creazione di significazioni e creazione di immagini o figure che ne fanno da supporto. La relazione fra la significazione e i suoi supporti (immagini o figure) è il solo senso preciso che si possa attribuire al termine “simbolico”; è proprio in tal senso che il termine è usato qui (Castoriadis 1975: trad. it. 2022, 371-372).
Inteso in questa accezione radicale, l’immaginario è la natura naturante e naturata del sociale: in quanto natura naturante, l’immaginario è il campo magmatico di significazione in cui opera la creatività del pensiero collettivo; in quanto natura naturata, l’immaginario è un insieme solidificato di significati – “fonemi, parole, banconote, djinn, statue, chiese, utensili, divise, tatuaggi, numeri, frontiere, centauri, tonache, fasci littori, spartiti musicali” – che supportano e specializzano, come afferma Gehlen8, la deficienza organica dell’uomo. 8
“L’uomo è organicamente l’essere manchevole (Herder); egli sarebbe inadatto alla vita in ogni ambiente naturale e così deve crearsi una seconda natura, un mondo di rimpiazzo, approntato artificialmente e a lui adatto, che possa cooperare con il suo deficiente equipaggiamento organico; e fa questo ovunque possiamo vederlo” (Gehlen 2010, 74).
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I versi di Rainer Maria Rilke contenuti nell’ottava lirica delle Elegie Duinesi ci sembrano i più adatti a riassumere poeticamente quanto detto fin qui: “Noi non abbiamo mai dinanzi a noi, neanche per un giorno, lo spazio puro dove sbocciano i fiori a non finire” (Rilke 1923: trad. it. 1978, 49). Ancor prima di essere nello spazio dell’immediatezza naturale – lì dove sbocciano i fiori a non finire –, la nostra specie è situata in un mundus imaginalis (Corbin 1958: trad. it. 2005, 6) in cui sbocciano segni, simboli, rappresentazioni, credenze, ideologie, saperi. È una fioritura che si rinnova nei cicli della storia metamorfosandosi in artefatti, opere estetiche, istituzioni, codici morali, architetture, conoscenze scientifiche, tecnologie e tutte quelle altre forme oggettivate dall’ideazione individuale e collettiva. La sfera immaginale, nell’in-formare simbolicamente la relazione stimolo-risposta, è dunque ciò che permette all’Homo di ricreare socialmente un proprio ambiente. 3. L’immaginazione creativa dell’individuo La natura creativa dell’uomo non prende vita e forma soltanto negli ambienti degli immaginari sociali, lì dove l’Homo stabilizza la sua precarietà organica, ma anche nell’ecosistema mentale dell’individuo. La sua sfera del pensiero si forma tardivamente. Come ci dice Simmel (1984, 99-100), la vita interiore nasce come un tutto privo di contorni, in cui l’io e il suo intorno percettivo sono un tutto indistinto. Solo dopo essersi differenziato dalle cose e dagli altri, l’individuo può nominarsi come un io, dialogare con sé stesso, oggettivarsi come autocoscienza in modo tale da realizzare “la forma fondamentale del suo rapporto con il mondo, la sua rappresentazione del mondo” (ivi, 101). Ma la conquista dell’io segna anche la perdita del tutto. Nel formare il sottosuolo della vita interna, l’individuo scava attorno a sé un fossato incolmabile che lo separa dalla totalità. Secondo la lettura simmeliana, la matrice profonda del desiderio nasce dalla ricerca nostalgica dell’unità perduta. Ciò che l’individuo vuole non è altro che la proiezione dell’ancestrale età dell’oro
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persa con l’infanzia nell’oggetto desiderato. Ed è per questo che la cosa, una volta posseduta, perde il carattere fantasmatico di essere un tutto per diventare una cosa come le altre (ivi, 103). Distanza, desiderio e volere, sono dunque i tre sentimenti umani generati dal processo di differenziazione che animano la vita e l’agire dell’individuo. Le prime tappe dello sviluppo psicofisico ripercorrono, in un certo senso, tutto il percorso evolutivo che ha fatto dell’animale uomo un bipede dotato di coscienza (Leroi-Gourhan 1964; Tobias 1992). Con i primi passi, il bambino non fa che ripetere l’ancestrale fase del percorso evolutivo nel quale l’Australopithecus ha cominciato, come si è detto (vedi supra cap. II.1), a staccare la testa e le mani dal suolo africano, librandosi come una specie di funambolo. Nel cercare un supporto per mettersi in piedi, nello spostare il peso del corpo su un piede per liberare l’altro, nell’allargare le braccia come dei bilancieri, nel superare la paura di cadere grazie al sostegno dei genitori, nell’abbandonare il mondo conosciuto gattonando, anche il bambino si mette in cammino in quel vuoto umano nel quale poter esercitare pienamente l’arte della manipolazione delle cose e l’arte della parola, con la quale manipolare simbolicamente i significati delle cose. Il piccolo uomo, infatti, con lo sviluppo dell’arte del linguaggio, si esonera dalla presenza delle cose, “rendendo però possibile – come afferma Gehlen (2010, 297) – una loro presenza virtuale, infinitamente libera, entro cui quella reale appare solo come un piccolo settore, di là dal quale è possibile progettare”. È in tal modo che il bambino dà forma al mondo metacognitivo della coscienza, nel quale riflettere su tutto ciò che tocca, assaggia, ascolta, vede, annusa e immagina. Si tratta di un processo formativo a tutto tondo, dato che conferisce alla neuroplasticità del suo sistema nervoso una specifica morfologia (Pascual-Leone et al. 2005). Ciò che chiamiamo “carattere” è infatti la parte visibile di un invisibile processo di alterazione dei circuiti cerebrali prodotti da marcatori somatici, intesi da Damasio (1995, 245) come esperienze significative ad alto contenuto emozionale. Una volta impressi nella memoria, i marcatori somatici agiscono come degli a pri-
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ori cognitivo-esperienziali addetti alla formazione delle immagini mentali con le quali l’individuo può prefigurare e variare il suo comportamento sociale9. Il pensiero è dunque un flusso di immagini che si muove in un territorio neuronale de-formato dall’azione reciproca tra parte e tutto, interno ed esterno, cervello e realtà, tra individuo e società. Dislocandosi in esso, l’individuo acquisisce la capacità di sapersi distanziare dall’immagine topografica della realtà predefinita dalla cultura riuscendo, in tal modo, a trasporre ciò che gli si pone innanzi – una cosa, un fatto, un comportamento, un costrutto concettuale, uno stato emozionale, ecc. – nell’ordine topografico della mente: lì dove ogni cosa può essere immaginata al di fuori dell’ordine delle cose appreso durante il suo processo di socializzazione10. Pertanto, l’individuo non è solo l’unità organica in cui si riproduce la specie, e neanche solo un semplice riproduttore dell’immaginario sociale in cui vive; egli è piuttosto una sfera vitale terza che contiene ed eccede l’ordine biologico e l’ordine sociale in un proprio ambiente mentale. Come ci ricorda Edgar Morin (2002, 32), specie-società-individuo compongono l’unitas multiplex della complessità umana, un sistema triadico 9
Criticando il paradigma cognitivo secondo il quale il cervello è un sistema computazionale analogo a quello di un computer, per Damasio i meccanismi neurobiologici che stanno dietro la cognizione e il comportamento sono strutturati da mappe mentali prodotte da addensamenti emozionali particolarmente marcanti: “In breve, i marcatori somatici sono esempi speciali di sentimenti generati a partire dalle emozioni secondarie. Quelle emozioni e sentimenti sono stati futuri di certi scenari. Quando un marcatore somatico negativo è giustapposto a un particolare esito futuro, la combinazione funziona come un campanello d’allarme; quando invece interviene un marcatore positivo, esso diviene un segnalatore di incentivi. […] La descrizione del marcatore somatico è, così, compatibile con la nozione che il comportamento personale e sociale efficace richiede che gli individui si formino teorie adeguate della propria e delle altrui menti” (ivi, 246). 10 Ovviamente, l’individuo, senza lo sfondo di significazione proiettato dalla forma mentis culturale, non potrebbe delimitare il senso e la funzione dell’oggetto della sua immaginazione, non avendo in tal modo occasione di trattarlo come materia prima da riplasmare; e inoltre, non potrebbe neanche delimitare la sfera della coscienza incentrata sul suo io, su quella parte di sé non coincidente con l’immagine generalizzata del me restituitagli dalle relazioni e dalle convenzioni sociali in cui è irretito (Mead 2018).
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in cui ciascun termine è mezzo e fine l’uno dell’altro11. E dunque, l’individuo, in quanto parte autonoma della trinità umana, è sempre collocato in un ambiente immaginativo socialmente istituito ma non è mai totalmente dell’ambiente immaginativo12. L’immaginazione individuale, pur sostanziandosi in un determinato ambiente simbolico, è infatti l’espressione particolare e irripetibile di una specie che ha fatto della creatività il suo metodo di adattamento al mondo. Non esiste donna o uomo che non pratichi l’arte di questo metodo per innovare il suo comportamento nei diversi ambiti che differenziano la vita quotidiana. È in essa che l’immaginazione dell’individuo diventa una tattica creativa di adattamento all’ambiente dell’immaginario sociale. Come hanno evidenziato le ricerche di Michel de Certeau (1980: ed. fr. 1990), il quotidiano è un luogo di coesistenza tra le strategie del potere e l’arte del 11
Scrive Morin: “Le istanze legate in trinità sono inseparabili: l’individuo umano, nella sua stessa autonomia, è nel contempo al cento per cento biologico e al cento per cento culturale. Subisce l’autorità del Super-io sociale, l’impronta e la norma di una cultura; vive incessantemente nella dialogica scoperta da Freud tra il Super-io, l’Es pulsionale e l’Io. L’individuo è nel nodo delle interferenze fra l’ordine biologico della pulsione e l’ordine sociale della cultura; è il punto dell’ologramma che contiene il tutto (della specie, della società) pur essendo irriducibilmente singolare. […] C’è in ogni comportamento umano, in ogni attività mentale, in ogni frammento di praxis, una componente soggettiva, una componente culturale, una componente sociale” (ivi, 33). 12 Se le menti degli individui coincidessero perfettamente con la semiosfera simbolica, e se i loro comportamenti seguissero meccanicamente gli schemi tipicizzati dell’agire, l’immaginario sarebbe un sistema autopoietico sempre uguale a sé stesso. Secondo il biologo e sociologo Humberto Maturana, a cui si deve la nozione di “autopoiesi”, un sistema vivente è autopoietico quando è in grado di auto-organizzarsi e auto-riprodursi in base a principi formativi predefiniti dallo stesso sistema vivente. Si tratta dunque di un sistema autoreferenziale nel quale i processi vitali si ordinano in uno spazio topologico ben delimitato e immutabile. L’ambiente animale è autopoietico proprio perché è uno spazio topologico chiuso dal circuito percettivo-motorio. L’ambiente umano è invece un sistema autopoietico pluriversale aperto sempre al cambiamento grazie alla capacità poietica degli individui di produrre oggetti innovativi, nuove forme relazionali, sistemi di pensiero alternativi, ecc. Ogni opera creativa implica un certo grado di rottura e ridefinizione dell’equilibrio omeostatico istituito dall’immaginario; come afferma lo stesso Maturana: “La creatività sociale è necessariamente antisociale nel dominio sociale nel quale ha luogo” (Maturana /Varela 1980: trad. it. 1985, 42).
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fare degli individui, spesso posta nell’ombra dalle grandi teorie sociali. Quest’ultime, secondo de Certeau (ivi, 71), focalizzano l’attenzione solo sui rapporti di forza che diventano possibili a partire dal momento in cui un soggetto dominante (un’azienda, un’organizzazione militare, una città o un’istituzione scientifica) isola, assoggetta e manipola gli individui al fine di realizzare i suoi scopi (ottenere più profitto, vincere la guerra, funzionalizzare lo spazio urbano, ampliare la sfera della conoscenza). Michel Foucault, come è noto, è stato colui che magistralmente si è occupato delle strategie del potere individuandole come unità discorsive. Tali discorsi non sono un pour parler poiché si articolano in ideologie, concetti, trattati, regolamenti, pratiche, sistemi classificatori, utensili, architetture in grado di tradurre il potere della parola nella carne dei corpi dei dominati (Foucault 1975: trad. it. 1993, 45). E se il cerimoniale simbolico-giudiziario condanna l’individuo, il potere gli sottrae il corpo per rigettarlo negli ingranaggi contenuti nello spazio della prigione mossi da operai specializzati: medici, psicologi, preti, assistenti sociali, avvocati, secondini. Diventando oggetto della divisione scientifica del lavoro disciplinare, il deviante viene controllato, scrutato, addestrato, disarticolato e riplasmato dagli ingranaggi della “microfisica del potere” (ivi, 151). La prigione diventa così un dispositivo panottico dedito alla fabbricazione dei corpi e delle anime. Secondo la ricostruzione archeologica condotta da Foucault, la prima macchina panoptica è stata progettata nel 1991 da Jeremy Bentham come una struttura circolare, nella quale colloca le celle, con al centro una torre di controllo sede di Argo Panoptes — il gigante dai mille occhi della mitologia greca — che fa del potere un campo di visibilità a 360°. Non importa se a interpretare il ruolo di questo mostro sia una guardia, un pazzo, un ammalato, un condannato, un operaio o uno scolaro (ivi, 218); ciò che importa è che i residenti ingabbiati nella circonferenza siano in una continua condizione di autocontrollo, dato che non possono verificare “quando”, “come” e “se” sono catturati dall’attenzione del controllore. La metamorfosi è compiuta: i condannati incorporano la mostruosità del potere autodisciplinandosi a sua immagine e somiglianza. Secondo la
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ricostruzione archeologica condotta da Foucault (ivi, 150), la prigione è stato solo il primo luogo di sperimentazione della macchina panoptica. A partire dalla metà del XIX secolo la sua meccanica animerà il funzionamento di altre istituzioni totali: caserme, laboratori, fabbriche, scuole, ospedali. Se le cose stanno così, ne consegue che la vita associata si svolge all’interno di una labirintica prigione da cui nessuno può fuggire. Ma per de Certeau (1990, 75), la lettura foucaultiana si limita alle sole strategie del potere, non tenendo conto della parte notturna del quotidiano composta da un fitto reticolo di tattiche capaci di sovvertire segretamente l’ordine disciplinare. Le tattiche sono dei processi individuali e collettivi che fluiscono tra gli interstizi delle istituzioni totali, nelle zone d’ombra dove non filtra la luce del controllo sociale, nelle disfunzioni improvvise che interrompono il funzionamento della macchina del potere (ivi, 63). È in questi spazi tattici che la natura creativa umana è quotidianamente riconfigurata dagli individui, in modo tale da permettere alle loro anime e ai loro corpi di sovvertire segretamente la visione del mondo istituita dal potere. Persino nelle società a capitalismo avanzato, la creatività individuale trova dei punti di fuga dal quadrilatero compreso tra la logica produttiva della fabbrica, i desideri mercificati prodotti dalla società dello spettacolo, lo spazio razionalizzato della città, e il consumo di massa (ivi, 53). Ai margini di questo luogo strategico, proliferano pratiche d’uso innovative dei prodotti seriali non previste dai loro progettisti, dai creativi assoldati alla logica di mercato. Oltre a desiderare, comprare e consumare, l’individuo apre il ciclo della produzione per immaginare e fabbricare nuove pratiche di interazione e riutilizzo delle merci di cui dispone. Per de Certeau, l’arte del saper fare individuale si esprime anche nel modo in cui abita il proprio quartiere, nelle movenze del suo corpo, nella riappropriazione della lingua parlata, nelle metamorfosi dei significati incontrati nel silenzioso mondo della lettura, e persino nelle pratiche gastronomiche con le quali trasforma la natura in cibo. Le tattiche creative della vita quotidiana messe in luce da de Certeau continuano ad essere centro di interesse di diversi ambiti
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di studio. Elizabeth Hallam e Tim Ingold (2007) hanno curato e raccolto una serie di ricerche antropologiche attente ai processi di innovazione culturale veicolati da soggetti capaci di riappropriarsi, risignificare e ricreare i significati e le pratiche sedimentate dall’ordine sociale. L’inventiva e l’improvvisazione degli individui è l’espressione di una sotterranea intelligenza collettiva capace di rendere porosi e dinamici i sistemi culturali. Per la psico-pedagogista Lene Tanggaard (2012), la vita quotidiana è un sistema ambientale composito nel quale si sostanzia la creatività, indicata come una incessante forza sociomateriale – espressa da pratiche, conoscenze, artefatti – che ricostruisce la realtà. Disincantando l’idea che la creatività sia una facoltà di pochi, Tanggaard evidenzia come essa sia quel comportamento grazie al quale individui ordinari si liberano dalle regole culturali contribuendo, allo stesso tempo, ad ampliare il mondo sociale in direzioni sempre nuove. Secondo Jerome Bruner (1990: trad. it. 1992, 29), l’adattamento dell’uomo all’ambiente culturale è principalmente legato all’introiezione di strutture condivise di senso veicolate principalmente dalle storie ascoltate fin dall’infanzia. Fiabe, miti, leggende, racconti popolari imprimono in lui i canoni simbolico-comportamentali tipicizzati dalla psicologia della cultura in cui vive. Ma l’uomo, per lo psicologo statunitense, si adatta anche attraverso la condivisione di pratiche discorsive che servono a negoziare le differenze di significato e di interpretazione. In questo caso, la narrazione diventa l’arte con la quale crea un mondo finzionale nel quale struttura il senso dell’esperienza, modifica le storie ascoltate e viola i canoni culturali (ivi, 58-59). In campo sociologico, Erwin Goffman (1969) è stato un attento osservatore di come la vita quotidiana sia una macchina teatrale fatta di palcoscenici, copioni da seguire, ruoli da interpretare, maschere da indossare e oggetti di scena da ostentare. In questo caso l’individuo diventa sia un personaggio che un attore (ivi, 290). Come personaggio, l’individuo interpreta retoricamente la sua parte, in modo da lasciare intatta l’immagine degli altri e l’immagine che gli altri hanno di lui. Ma essendo anche un attore sociale, l’individuo può usare l’arte drammaturgica in termini
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tattico-strategici per cercare di aumentare il prestigio sociale del suo personaggio (Goffman 1988). La creatività, in questo caso, si esprime nei giochi di faccia, nelle variazioni della linea comportamentale, nei gradi di intensità interpretativa del ruolo, nel saper controllare le emozioni, così come in tutte le mosse e contromosse con le quali l’individuo dissimula le sue reali intenzioni al fine di scoprire quelle degli altri attori. Se poi richiamiamo la nostra esperienza, possiamo renderci conto di come la creatività operi anche in altre situazioni: quando un atleta esegue determinate prodezze attraverso una nuova tecnica corporea; oppure, quando un diversamente abile compensa le défaillance inventando tattiche psico-motorie alternative; nel modo in cui ciascuno dà la sua impronta al paesaggio domestico, o riorganizza lo spazio del lavoro; il mondo dell’infanzia, inoltre, ci mette sotto gli occhi come un qualsiasi oggetto possa diventare per un bambino il centro di un mondo fantastico entro cui giocare per ore. Tutti questi esempi, tratti dalla vita quotidiana in modo del tutto casuale, sono solo una parte irrisoria dei modi in cui la creatività umana si manifesta nel microcosmo della vita individuale. In alcuni casi, però, la creatività occupa il centro di questo cosmo singolare, diventando il carattere dominante dell’individuo. Erich Neumann (1954: trad. it. 1993) analizza questa dominante caratteriale attraverso la psicologia del profondo dell’uomo creativo. La sua analisi scalza la teoria freudiana della sublimazione, secondo la quale la creatività è una meccanica psichica di mascheramento dei conflitti che irrompono dalla dimensione pulsionale dell’Es (Freud 1920: trad. it. 2018, 51-63). Le opere d’arte, per Freud, sono le maschere in cui si oggettiva questa dinamica inconscia. L’artista le crea mascherando i contenuti delle sue nevrosi, solitamente a carattere sessuale, in forme estetiche socialmente accettabili. Per Neumann (1993, 31), il processo di sublimazione non è ciò che definisce l’uomo creativo, semmai è l’uomo normale quel tipo psicologico che si difende dalle nevrosi sublimando i principi di realtà, canonizzati dalla cultura di appartenenza, nella maschera di un Io ipertrofico. La sua identità è l’esito di un pro-
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cesso di individuazione che si compie nel cerchio chiuso13 tra Io e Super-io, riproducendo nel mondo interiore i codici di comportamento (divieti, norme, schemi di valore, ecc.) istituiti dall’immaginario sociale. All’opposto, l’universo psichico dell’uomo creativo è orientato a un percorso di cura del complesso nevrotico infantile che interrompe il circuito chiuso polarizzato tra Io e Super-io (ivi, 46-47). Se riportiamo la teoria di Neumann nell’alveo del nostro discorso, possiamo intendere la ferita originaria dell’uomo creativo come il nucleo profondo che dà impulso a un percorso spiroidale lungo il quale deve, di volta in volta, immaginare degli aggiustamenti per adattarsi all’ambiente storico-sociale che lo attornia. Pertanto, l’immaginazione creativa diventa per questo tipo psicologico il metodo comportamentale che supporta tutto il suo essere, collocandolo nella sfera del Sé14. È in questo luogo del profondo che si genera un campo di tensione in cui, secondo Neumann (ivi, 32), entrano in azione reciproca psiche individuale e coscienza collettiva, immaginazione e immaginario sociale. L’opera è la forma che prende vita da questo campo di tensioni creative, come scrive lo stesso Neumann: In tutti i casi in cui il complesso dell’inconscio personale porta a un’attività anziché a una nevrosi, vuol dire che, spontaneamente o per reazione, la personalità è riuscita a superare il carattere esclusivamente personale-familiare del complesso per approdare a un risultato significativo per il collettivo; cioè essa è riuscita a diventare creativa. 13 Neumann indica questa circolarità dell’Io come un processo di rafforzamento costruito sotto la spinta della coscienza morale: “Elemento integrante di questo processo di rafforzamento dell’Io in una coscienza isolata e irrigidita è la formazione di un ideale dell’Io. L’ideale dell’Io è, contrariamente al Sé, (vale a dire il centro della totalità viva e reale, cioè della totalità che si trasforma e apporta trasformazioni), una finzione e il prodotto artificiale di una reazione. Esso sorge, tra l’atro, sotto la spinta della coscienza morale collettiva, del Super-io sempre imbrigliato dalla tradizione, che imprime nell’individuo i valori voluti dal collettivo, contribuendo a reprimere i tratti individuali che si scostano dai canoni culturali” (ivi, 33). 14 Neumann considera il Sé come la sfera psichica dell’uomo creativo in cui oltrepassa le strutture normative del Super-io, espressione dell’archetipo paterno, entrando in contatto con la sua Ombra, con quella parte più profonda e vitale dell’Io caratterizzata dall’archetipo materno (ivi, 50-51).
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[…] Ma ancor più indicativo di questo processo è il fenomeno dell’opera, che è una sintesi di interno ed esterno, di psichico soggettivo e psichico oggettivo. A qualsiasi campo della cultura umana essa appartenga, l’opera in quanto figlia del suo creatore, è sempre tanto il prodotto della sua trasformazione e totalità psichica individuale quanto una nuova realtà oggettiva, che rivela qualcosa all’umanità, cioè rappresenta una forma di rivelazione creativa (ivi, 30 e 37).
Riprendendo quanto scrive Neumann, possiamo dire che l’opera non è solo il punto di arrivo di una tensione psichica dell’individuo; essa, al contempo, è anche una nuova realtà in cui si cristallizzano i significati di quel campo di potenzialità semantiche definite dall’immaginario sociale. Pertanto, questo cristallo non è mai solo un qualcosa del creativo poiché la sua oggettivazione è l’esito di un atto trasformativo dei principi di realtà che regolano l’ecosistema dell’ambiente simbolico a cui deve adattarsi. Senza questo sfondo di senso comune, che lo lega agli altri, la sua immaginazione non potrebbe produrre niente15. Allo stesso tempo, questo cristallo non è mai solo un qualcosa di sociale. Senza l’intervento dell’uomo creativo, infatti, l’immaginario sociale non avrebbe modo di rivelare qualcosa di nuovo dal suo campo di potenzialità semantiche. L’opera la possiamo considerare come un oggetto psico-sociale, transindividuale direbbe Simondon16, in cui converge e si sta15 Arnold Hauser elabora questo legame nel contesto della sociologia dell’arte; per lui, infatti, sussiste un connubio inscindibile tra l’originalità dell’artista e il quadro dei modelli culturali in cui opera: “Un artista diventa ciò che è nel corso della chiarificazione perseguita rispetto al compito condizionato storicamente e socialmente, che egli cerca di interpretare e risolvere alla sua maniera. […] Senza la società del Rinascimento, senza il Quattrocento fiorentino con le sue conquiste e la curia romana con le sue aspirazioni ed i suoi mezzi di potere, senza il Perugino come maestro e Michelangelo come rivale non ci sarebbe Raffaello. Ma senza Raffaello anche il Rinascimento non sarebbe il Rinascimento e Roma non sarebbe Roma” (1977, 47). 16 Simondon conia questo termine per evidenziare il processo di individuazione come l’esito di una unità sistemica tra individuo e collettività; riportiamo qui una delle citazioni più chiare di ciò che intende per transindividuale: “Le due individuazioni, la psichica e la collettiva, stanno in un rapporto di reciprocità e consentono di definire la categoria del transindividuale: quest’ultima intende dar conto dell’unità sistematica dell’individuazione interna (psichica) e dell’individuazione esterna (collettiva)” (2001, 34).
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bilizza un doppio processo di individuazione: quello attraverso cui la spirale psichica del Sé creativo si individua nell’opera, penetrando più profondamente nell’immaginario sociale; ma l’opera, proprio perché emerge da questo movimento di penetrazione, è anche ciò che individua nuovi significati dal nucleo profondo dell’immaginario sociale. Nel Conflitto della civiltà moderna, Georg Simmel identifica questo nucleo come un re nascosto: In ogni grande epoca di civiltà, provvista di caratteri nettamente scolpiti, si può avvertire un concetto centrale da cui scaturiscono i moti spirituali e in cui insieme essi sembrano confluire. […] Ognuno di questi concetti centrali va incontro naturalmente a deviazioni, travisamenti, opposizioni, ma con tutto ciò esso rimane il re nascosto di quell’era di spirito (Simmel 1999, 18).
Se al posto di “spirito” inseriamo “immaginario”, ecco allora che possiamo definire il concetto centrale, di cui parla Simmel, come il nucleo simbolico da cui scaturiscono e confluiscono i moti (spirituali) dell’ecosistema immaginativo che – “pur andando incontro a deviazioni, travisamenti, opposizioni” – regolano lo stile della vita associata di una determinata civiltà. Questo centro di rotazione dell’ambiente immaginativo lo potremmo definire, pertanto, come l’archetipo delle strutture profonde del sociale che dà contenuto alle forme: sia quelle sociali create dall’azione reciproca, e sia quelle delle opere conformate dalla creatività individuale. La nozione di “archetipo”, declinata in questi termini, diverge da quella codificata da Neumann attraverso la categoria junghiana di “inconscio collettivo”17. Se per Neumann l’archetipo ha un carattere sovrastorico, noi qui lo intendiamo in termini simmeliani: come il monarca nascosto esposto al mutamento scandito dal ritmo tragico18 tra la fissità delle forme sociali e il moto creatore dell’azione reciproca. 17 Chi ha rielaborato e classificato gli archetipi junghiani in chiave socio-antropologica, con esiti estremamente interessanti, è Gilbert Durand nelle Strutture antropologiche dell’Immaginario (1996). Un saggio monumentale che l’ha reso un punto di riferimento negli studi sull’immaginario. 18 Così Simmel focalizza la tragedia della civiltà: “Tosto che questa formazione è arrivata alla sua piena espansione, già comincia interiormente a formarsi
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Basandoci su questa accezione sociologica di archetipo, possiamo ridefinire il Sé dell’uomo creativo come la sfera del profondo in cui entrano in conflitto vita psichica e vita associata, infanzia e storia. Le opere dell’uomo creativo sono i punti in cui questo conflitto trova un provvisorio ordine formale entrando nel reale. Non solo. Esse sono anche ciò che saturano i significati degli archetipi delle civiltà, contribuendo al loro sviluppo e, allo stesso tempo, al sorgere di nuovi archetipi storico-sociali. Colte in quest’ottica, le opere creative poste in essere dall’individuo sono dunque dei fatti sociali, degli artefatti psico-sociali che permettono al sociologo di guadagnare una veduta di profondità sui mutamenti degli immaginari sociali. In quel che segue, ci serviremo di questa visuale analitica per comprendere le affinità creative che intercorrono tra opere estetiche e scientifiche. Non parleremo più in termini generici dell’uomo creativo, ma come esso si manifesta nell’ambito della scienza e dell’arte. Il sociologo Arnold Hauser dedica diverse pagine ai legami che intercorrono tra arte e scienza, considerandole come le formazioni spirituali accomunate dall’attività creativa della mimesis: Arte e scienza sono strettissimamente collegate in quanto entrambe, e di tutte le formazioni spirituali soltanto esse due, sono mimesis, riproduzione della realtà, mentre le altre, più o meno consapevolmente e di proposito, modificano le manifestazioni, le sottopongono a forme, principi ordinativi e misure di valori esterni. […] In questo senso l’arte è tanto rigorosamente realistica quanto la scienza. […] Le diverse forme di oggettività costituiscono rispecchiamenti particolari della realtà, reciprocamente irriducibili, l’un all’altro imparagonabili. Sarebbe errato scorgere nell’una o nell’altra, per esempio nel rispecchiamento delle scienze naturali, una riproduzione dei fatti più fedele che nelle altre forme, e definire queste deviazioni più o meno arbitrarie della realtà obiettiva. L’immagine del mondo data dalle scienze naturali non è più fedele alla realtà di quella data dall’arte e l’arte non si allontana per principio di più dalla realtà di quanto non faccia la scienza (Hauser 1977, 8-9). l’altra immediatamente successiva, che è destinata, dopo una lotta più o meno lunga, a sostituirla” (1999, 13).
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Per Hauser, dunque, arte e scienza sono rispecchiamenti e riproduttori della realtà, pur se attraverso metodi di oggettivazione differenziati. Nell’arte la mimesis è un metodo con il quale l’artista raggiunge nell’opera un certo ideale di bellezza, intesa come forma di armonizzazione dei dati immediati dell’esperienza in base a un determinato stile espressivo soggettivo. La mimesis nell’ambito scientifico è differente: qui, lo scienziato si muove lungo un metodo logico-razionale orientato a raggiungere nell’opera un certo ideale di verità, intesa come l’armonizzazione dei dati dell’esperienza mediati in base a determinate leggi generali dal carattere oggettivo19. Questo non implica che l’immagine del mondo prodotta dalla scienza sia più fedele al reale di quanto non lo sia quella dell’arte. Arte e scienza, infatti, non trovano il loro legame nella similitudine, essendo due metodi tra loro irriducibili, ma nell’analogia. A differenza della similitudine, con la quale si mettono in relazione due elementi tra loro distinti (come lo sono l’arte e la scienza) cercandone le reciproche somiglianze, l’analogia, tenendo ben distinti gli elementi della sua comparazione nelle loro reciproche identità, trova tali somiglianze in un elemento terzo presente in certe misure nell’uno e nell’altro20. Nel 19 Anche per Cassirer arte e scienza sono forme di conoscenza del reale che procedono attraverso metodi diversi: “Per penetrare nelle profondità del reale è sempre necessario lo sforzo di energie attive e costruttive. Occorre però che tali energie vadano in una stessa direzione e tendano verso uno stesso fine. Come esiste una profondità puramente visiva, così esiste una profondità concettuale. La seconda viene scoperta dalla scienza, la prima viene rivelata dall’arte. La prima aiuta a capire la ragione delle cose, la seconda a vederne le forme. La scienza cerca di riportare i fenomeni alle loro cause prime, a leggi e principi generali. Nell’arte si assumono invece le cose nel loro modo immediato di manifestarsi e si gode di questa manifestazione in tutta la sua ricchezza e varietà” (1944: trad. it. 2011, 226-227). 20 L’esempio classico d’analogia presentato da Aristotele è: “La ‘vecchiezza’ è con la ‘vita’ nello stesso rapporto che la ‘sera’ col ‘giorno’; si chiamerà dunque la sera ‘vecchiezza del giorno’ o, come Empedocle, anche la vecchiezza ‘sera della vita’ o ‘tramonto della vita’” (Poet. 21, 1457 b, 16; trad. it. 1987, 193). Fra la vecchiezza e la sera non c’è nessuna similitudine, ma un analogo rapporto di declino che nell’una e nell’altra si mostra in termini differenti. Nell’uomo si esprime con il declino delle energie vitali lungo l’arco biografico che lo porta dalla gioventù alla vecchiaia; nella natura, invece, si esprime con il declinare del sole lungo l’arco che dall’aurora lo porta al tramonto. Goethe, successivamente, svilupperà l’analogia nei suoi scritti scientifici
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nostro caso, è l’immaginario sociale l’elemento terzo che lega arte e scienza. La spirale creativa dell’artista e dello scienziato, pur se con sviluppi ed esiti differenti, si addentrano nell’ambiente simbolico della loro epoca da cui attingono, in accordo o contrasto con esso, per produrre le loro opere. 4. Il Rinascimento della tecnica Stabilito il legame analogico tra arte e scienza, cercheremo ora di contestualizzarlo nella fase nascente dell’immaginario moderno: il Rinascimento. Sino ad allora, il mundus imaginalis era stato troneggiato per quasi un millennio da Dio. Nel riconoscerlo come Padre dei cieli e della terra, come Padre del Cristo redentore, e come Spirito Santo fatto d’amore e verità, la civiltà medievale aveva trovato in Dio il nucleo simbolico della sua sfera immaginativa, la fonte e la meta d’ogni realtà (Simmel 1999, 18). E così, all’interno di questo ambiente spirituale, il tempo sociale era scandito dal ritmo dalle campane, un paesaggio sonoro nel quale la temporalità profana della vita quotidiana si compenetrava con l’eternità del mondo celeste (Le Goff 1964: trad. it. 2010, 219; Schafer 1977: ed. 1994, 52); i processi di legittimazione del potere politico identificavano nel monarca “l’attore, l’impersonatore, che, sul palcoscenico terreno” (Kantorowicz 1957: trad. it. 2012, 48), interpretava il ruolo di Cristo per esercitare l’arte di governo; la produzione estetica era dedita a tradurre e fissare il racconto dell’Antico e del Nuovo Testamento in un universo iconografico pedagogico-liturgico, colonizzando l’immaginazione dei fedeli (Debray 1992: trad. it. 1999, 58-59; Durand 1994: trad. it. 1996, 15); la pianta urbana, circoscritta dalle mura e attraversata dal dedalo delle sue viuzze, era tutta rivolta alla cattedrale – l’edificio chiave della città medievale – e al suo sviluppo architettonico orientato, con i suoi campanili e guglie, come chiave di comprensione in termini unitari dei fenomeni vitali; scrive il poeta-scienziato: “Ogni essere vivente è un analogo di tutto ciò che esiste. Perciò l’esistenza ci appare sempre nello stesso tempo separata e collegata” (1998, 116).
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verso l’alto (Mumford 1997, 340); la sessualità, la sofferenza, l’alimentazione, l’igiene, l’alimentazione, la nascita e la morte erano regolati dalla medesima visione del corpo, inteso come “quell’abominevole rivestimento dell’anima” da mortificare in quanto memoria organica del peccato originale (Le Goff 2005, 11); il sapere era esercitato dalla Scolastica, conciliando la filosofia aristotelica con i dogmi cristiani, per spiegare l’esistenza e l’onniscienza di Dio, così come l’universo creato e mosso dalla sua volontà onnipotente (Kearney 1988, 116). Tutte queste concezioni del mondo medievale si differenziano come i punti di una circonferenza incentrata su Dio, centro di irradiazione dei moti spirituali capaci di produrre effetti di realtà sull’intero ordine del sociale. Ma con il Rinascimento comincia a svilupparsi una forma mentis culturale divergente, e dalla quale avrà inizio un nuovo ciclo della costruzione poietica della realtà. Tra XIV e XVI secolo, artisti e scienziati confluirono in un nuovo bacino semantico (Durand 1996) per fare emergere la ragione umana, intesa come misura razionale del mondo. La loro immaginazione ha cominciato così a sostanziarsi in opere creative provenienti da una semiosfera alimentata dalla fede nella razionalità (Rossi 2002, 40-44). Come ha acutamente messo in evidenza Castoriadis (2022, 257), è fuorviante l’idea secondo la quale la civiltà moderna nasca dalla recisione dei legami con la dimensione immaginativa: la razionalizzazione, il pensiero sillogistico, la volontà classificatoria del reale, sono semplicemente la manifestazione di un altro immaginario. Artisti e scienziati sono state le prime avanguardie a penetrare nell’ambiente dell’immaginario moderno destinato, da lì in poi, a diventare la matrice istituente della realtà sociale. Un percorso convergente tra arte e scienza che dopo il Rinascimento si separerà irrimediabilmente: Dobbiamo andare indietro, non oltre il Rinascimento, per scoprire un tempo in cui arte e scienza erano considerate da tutti come differenti manifestazioni della stessa forma creativa. Sappiamo che Leonardo da Vinci riteneva, alla stessa stregua, le sue pitture e i suoi geniali lavori nei campi della fisiologia e della
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meccanica espressioni tanto artistiche quanto scientifiche. […] E, tre secoli dopo, pare che Goethe abbia provato la stessa cosa. Egli certamente non credeva che operasse un tipo di pensiero durante la scrittura del Faust e un altro mentre concepiva le sue eccezionali indagini nei campi della geologia e della botanica. (Nisbet 1962: trad. it. 2016, 37).
A partire dal Rinascimento, dice sempre Robert Nisbet (ivi, 39), inizia quel reciproco sospetto tra l’artista e lo scienziato che porterà alla separazione tra estetica e verità in due sfere specializzate e autonome. Come emerge dagli studi di Arnold Hauser (1977, 176-177), il Rinascimento è l’epoca in cui le competenze artistiche e scientifiche escono dai monasteri che per tutto il Medioevo ne avevano avuto il monopolio esclusivo. Il monopolio comincia ad essere interrotto dall’indipendenza dal potere papale delle città-stato rinascimentali, come nella Firenze amministrata dalla famiglia de’ Medici. Favorito dal fiorire di questi luoghi urbani, l’artista rinascimentale comincia a organizzare le sue attività nello spazio laicizzato dell’atelier. Uno spazio laboratoriale in cui l’uomo creativo dell’epoca sperimentava conoscenze scientifiche e tecniche artistiche con-fondendole nelle sue opere. In quel che segue, analizzeremo il mutamento generato dal dialogo tra arte e scienza nel contesto della raffigurazione pittorica e, successivamente, in quello della rappresentazione scientifica. Due province di significato (Schutz 1979, 204) accomunate, come vedremo, da un medesimo immaginario tecnico del mondo. 4.a La macchina della raffigurazione La formazione dell’immaginario estetico rinascimentale non è da ricercare nei contenuti dei prodotti artistici, che sostanzialmente continuano ad essere quelli dell’immaginario teologico-medievale, ma nelle tecniche e nei metodi delle forme di rappresentazione. Tutto ciò si palesa in modo più chiaro nell’ambito dell’universo della raffigurazione che, ancora in epoca rinascimentale, è costellata da una iconologia allegorico-religiosa: la natività di Gesù, la storia dei Santi e dei Profeti, il Peccato
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originale, l’Annunciazione, le fasi della Genesi del mondo, ecc. Questi contenuti sacri vengono, tuttavia, trasposti in uno spazio profano della rappresentazione: quello geometrico-matematico generato dalla prospettiva. L’uso della prospettiva era presente anche in epoche precedenti, però è solo con l’inizio dell’evo moderno che viene elevata a metodo tecnico-scientifico (Panofsky 1927: trad. it. 2007, 12-14) grazie alle ricerche congiunte degli artisti rinascimentali (Giedion 1941: trad. it. 1981, 31-32). Leon Battista Alberti sistematizzò le ricerche dei colleghi in un quadro teorico unitario, esposto nel De Pictura attraverso l’impiego della geometria delle ortogonali ricavata dalle leggi ottiche della piramide visiva: Principio, dove io debbo dipingere scrivo uno quadrangolo di retti angoli quanto grande io voglio, el quale reputo essere una finestra aperta per donde io miri quello che quivi sarà dipinto; e quivi ditermino quanto mi piaccino nella mia pittura uomini grandi; e divido la lunghezza di questo uomo in tre parti, quali a me ciascuna sia proporzionale a quella misura si chiama braccio, però che commisurando uno comune uomo si vede essere quasi braccia tre; e con queste braccia segno la linea di sotto qual giace nel quadrangolo in tante parti quanto ne riceva; ed è questa linea medesima proporzionale a quella ultima quantità quale prima mi si traversò inanzi. Poi dentro a questo quadrangolo, dove a me paia, fermo uno punto il quale occupi quello luogo dove il razzo centrico ferisce, e per questo il chiamo punto centrico. […] Furono adunque cose necessarie queste intersegazioni e superficie. Seguita ad istituire il pittore in che modo possa seguire colla mano quanto arà coll’ingegno compreso (Alberti 1435: ed. 1980, 24 e 29).
La prospettiva, così come è descritta nel trattato di Alberti, è un metodo tecnico-matematico della figurazione che apre una finestra nel quadro attraverso cui osservare il reale. Ma la prospettiva è anche un metodo che istruisce la mano del pittore in modo da oggettivare ciò che egli “arà coll’ingegno compreso”. E così, l’artista, nel seguire questo metodo ottico-motorio, comincia a entrare in una rappresentazione tecnica della realtà. Dalle Grotte di Lascaux, l’uomo si è sempre servito di strumenti e tecniche espressive per dare vita al mondo della raffigurazione.
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Ma la prospettica è essa stessa un ambiente tecnico nel quale si immerge l’immaginazione dell’uomo creativo per fabbricare l’iconosfera rinascimentale. Non si tratta, dunque, di un semplice strumento nelle mani del pittore, ma è un metodo meccanizzato della rappresentazione che rimodula la percezione e l’agire durante il processo creativo. Per individuare gli elementi costitutivi di questo ambiente macchinico, ci serviremo di un’acquaforte di Albrecht Dürer stampata nel 1525. L’opera calcografica è intitolata, non a caso, Macchina prospettica. Essa non è annoverabile tra i capolavori che produsse il pittore, incisore, matematico e trattatista tedesco. Nella nostra analisi, invece, la stampa è un prezioso reperto che ci rivela, in un colpo d’occhio, le parti e le funzioni della macchina prospettica attivate dall’attività creativa di Dürer.
Albrecht Dürer, Macchina prospettica (1525)
Come si può notare nella parte destra dell’immagine, la macchina è formata da un piccolo obelisco sulla cui sommità converge il punto di vista del pittore, permettendogli di scrutare con esattezza la modella da ritrarre. Un punto di vista mediato da una finestra all’interno della quale sono tirati dei fili in modo tale da formare un reticolo. È in questa finestra reticolare che il re nascosto dell’immaginario moderno fa la sua comparsa nel teatro della Storia nascon-
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dendosi nel ruolo di servo di scena, di strumento tecnico della raffigurazione al servizio dell’estro artistico del pittore. Come ci ha detto Simmel, ogni civiltà è governata da un nucleo centrale che va “incontro a deviazioni, travisamenti, opposizioni, ma con tutto ciò esso rimane il re nascosto di quell’era di spirito” (1999, 18). Per portare in luce il monarca dell’era moderna occorre smascheralo dal suo ruolo, apparentemente secondario, attraverso l’individuazione delle caratteristiche racchiuse nella finestra prospettica. La trasparenza è una di esse. Come si può osservare al centro della stampa, il reticolo è un corpo artificiale (né maschio e né femmina) che pur frapponendosi tra il pittore e la modella non impedisce – grazie ai vuoti serializzati che compongono la sua anatomia – che possano reciprocamente vedersi. Ed è in questo incrocio di sguardi che la finestra prospettica si sospende in una posizione mediana tra il visibile e l’invisibile, diventando appunto trasparente. Una trasparenza che svolge la funzione di interconnettere in uno stesso frame la parte attiva della rappresentazione (Dürer) con la parte passiva dell’oggetto della rappresentazione (la modella). La stampa ci mostra una seconda funzione della macchina prospettica: quella di modulatore della percezione. I pittori rinascimentali, come Dürer, non hanno solo scrutato attraverso la finestra prospettica i corpi di modelle e modelli, ma qualsiasi altra cosa: eventi storici e scene di vita quotidiana, soggetti sacri e profani, paesaggi naturali e urbani, frutti succulenti e oggetti, interni di suntuosi palazzi e di ambienti domestici, ecc. L’unico comun denominatore di questi contenuti eterogenei è stata l’interfaccia reticolare usata dai pittori moderni per catturarli nelle loro opere in termini realistici. Una ricerca della realtà che li ha intrappolati, a loro volta, in una immagine reticolare del mondo scomposta in quadrati serializzati, in pixel di una arcaica griglia grafica oggi evoluta nell’immagine digitale. L’ambivalenza della relazione che intercorre tra pittore e macchina della visione emerge nella situazione descritta dall’acquaforte. A un primo sguardo, è innegabile che sia Dürer il padrone della scena che muove la macchina prospet-
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tica per penetrare nel pezzo di realtà che vuole raffigurare. Al contempo, è altrettanto innegabile che il pittore debba affidarsi servilmente al dispositivo per raggiungere con precisione il suo fine artistico. La finestra reticolare è, infatti, l’indispensabile modulatore tecnico dei dati visuali percepiti dal pittore poiché, senza di esso, non potrebbe in-formare con esattezza l’immagine della modella. La macchina prospettica non è solo formata dal reticolo ottico attraverso cui Dürer cattura la realtà anatomica della modella. Se si pone attenzione in basso a destra della stampa, è possibile scorgere la presenza di un altro reticolo posto sul piano di lavoro del pittore. È in esso che si palesa lo spazio motorio in cui si muove la mano del pittore permettendogli di riprodurre, con precisione chirurgica, l’immagine ottico-reticolare della modella su un determinato supporto (un foglio di carta, una lastra metallica, una tela, ecc.). Questa tecnica riproduttiva implica una de-formazione del soggetto femminile, verso cui è attento Dürer, in funzione di linee proiettive convergenti in un punto, detto punto di fuga (Panofsky 2007, 22). Esso sfugge a un primo sguardo, eppure è grazie all’invisibilità di questo punto che l’osservatore vede con naturalezza quello che non c’è nella superfice del dipinto: la profondità. Un effetto ottico ottenuto solo grazie al contatto tra il corpo dell’artista e la sofisticata macchina prospettica. Un creativo contatto cibernetico inimmaginabile nell’ordine simbolico della raffigurazione medievale. Nei mosaici bizantini e nelle pale d’altare delle chiese medievali non troviamo, infatti, immagini-corpo anatomicamente proporzionate, così come non lo sono i luoghi in cui essi vengono ritratti. In queste forme estetiche i corpi – di Gesù, della Madonna, degli Angeli, dei Santi, dei Demoni e dei mortali – vengono deformate dagli artisti medievali in un’ottica teologica attenta a ricercare il punto di vista di Dio, di colui che dall’alto osserva e scruta i corpi in vista della resurrezione o della dannazione delle loro anime. Gli studi condotti da Ernst Kantorowicz (1957: trad. it. 2012) sulla simbolica medievale del potere ci rivelano, inoltre, come anche il corpo del sovrano cristiano sia stato raffigurato
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come la metafora vivente di Dio. La sua immagine era l’esito formale nel quale si confondevano le sembianze del suo corpo mortale con quello immortale di Cristo (ivi, 65). La spirale creativa di Dürer, invece, devia dal cerchio chiuso dell’immaginario teologico addentrandosi, attraverso la macchina prospettica, nello spazio a-simbolico della rappresentazione razionalizzato in termini matematici: Così il Rinascimento era giunto a razionalizzare pienamente anche sul piano matematico quell’immagine dello spazio che esteticamente era già da tempo unificata mediante una progressiva astrazione.[…] Non significò soltanto un’elevazione dell’arte a “scienza” (per il Rinascimento si trattava veramente di un’elevazione): l’impressione visiva soggettiva era stata razionalizzata a tal punto che poteva costituire il fondamento per la costruzione di un mondo empirico saldamente fondato eppure, in senso pienamente moderno, “infinito” (Panofsky 2007, 45 e 47)
E dunque, con la matematizzazione del piano della rappresentazione, e la razionalizzazione delle impressioni visive, Dürer opera all’interno di un campo della rappresentazione privo di un fondamento simbolico-sacrale, facendo rinascere la modella unicamente nelle sue forme anatomiche. Un corpo pittorico che ha sostanziato, al contempo, la nascente visione tecnica del mondo moderno. Occupandoci dell’uomo creativo, abbiamo visto come l’opera sia un oggetto transindividuale nel quale si cristallizzano tensioni psichiche e la dimensione simbolica del sociale. È in virtù di ciò che le raffigurazioni degli artisti rinascimentali come Dürer, pur scaturendo dalla loro dimensione profonda, sono artefatti eterogenei di uno stesso immaginario tecnico-matematico che possiamo cominciare a definire come neutro. Come ha detto Roland Barthes durante i corsi tenuti tra il 1977 e il 1978 al Collège de France (2002, 32), la categoria del neutro si configura in diversi ambiti: in quello linguistico, in cui è quel terzo genere grammaticale indefinito che si qualifica solo per non essere né maschile né femminile; in chimica, il neutro è la soluzione con un valore di Ph 7 che sta esattamente a metà tra
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il valore massimo di acidità 14 e 0 che è il valore massimo delle soluzioni basiche; nella fisica, il neutro è quel campo energetico nullo che viene fuori dalla somma algebrica delle cariche elettriche positive e negative; nel contesto delle scienze naturali, il neutro è riferito a piante e animali ibridi e quindi sterili; all’interno di un conflitto tra Stati belligeranti, invece, il neutro identifica quello Stato che sceglie di non schierarsi con nessuna delle fazioni belligeranti; infine, nel campo delle scienze giuridiche, anche la posizione di terzietà del giudice nel dibattimento processuale è quella figura neutra equidistante tra accusa e difesa che, proprio in virtù di tale posizione, garantisce nel suo giudicare le parti avverse. Il neutro, in tutte le sue declinazioni semantiche, è l’elemento a-valoriale che non trova in sé la sua specificità, ma solo in relazione a determinate qualità. Anche l’immaginario moderno è neutro, essendo un campo di significazione a-simbolico in grado, proprio in virtù di ciò, di contenere e rifunzionalizzare l’eterogeneità qualitative del reale. È al suo interno che le qualità percettive e simboliche vengono neutralizzate dalla macchina prospettica attraverso la trasparenza, la precisione, la quantificazione e la riproducibilità tecnica. Sono elementi a-qualitativi che connotano e demarcano l’ambiente neutro dell’immaginario moderno nel quale si sono adattati, per la prima volta, gli artisti rinascimentali per creare quadri e affreschi. E l’immaginario neutro ha tracciato a sua volta, grazie alla creatività artistica, una prima via di accesso nel teatro della Storia oggettivandosi nelle sembianze di una macchina della rappresentazione. 4.b La macchina della verità Tra ‘500 e ‘600, anche la creatività scientifica ha osservato, cercato e spiegato i fenomeni naturali trasponendoli in uno spazio immaginativo altrettanto neutro. Prima di addentrarci in esso, occorre soffermarci ancora sulla relazione tra scienza e immaginario poiché, quest’intreccio, contrasta con il senso comune e con quella parte di scienziati poco avvezza all’epistemologia. Per loro, infatti, la scienza si distingue
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dagli altri saperi e ancor più dall’arte, proprio perché si occupa dei fatti e non delle loro interpretazioni. Il metodo, secondo questa concezione positivista, è il processo logico-razionale che mette in contatto diretto il soggetto conoscente e l’oggetto del conoscere, in modo tale da estrapolare dal reale la verità dei fatti. Tuttavia, è una visione scientifica che non tiene conto dei gradi di mediazione impliciti in ogni processo conoscitivo. Il contatto con i fatti non accade in un iperuranio, in una dimensione oggettiva a cui solo lo scienziato ha accesso, ma avviene sempre in un determinato ambiente animale e in un determinato ambiente socio-antropologico. Come ci hanno mostrato le ricerche di Uexküll (vedi supra cap. II.2), l’uomo è anch’esso chiuso in una sfera percettiva che non gli permette di accedere al reale in termini immediati. Noi, ad esempio, siamo collocati in un nostro paesaggio sonoro che si estende dai 20 Hz ai 20 kHz. Non udiamo, pertanto, gli ultrasuoni emessi dai cetacei che, di fatto, permettono loro di orientarsi attraverso gli oceani. Anche gli occhi si aggirano in un paesaggio visuale che occupa solo la parte centrale del campo elettromagnetico, quella della luce compresa tra gli ultravioletti e gli ultrarossi. Vi sono invece animali, come le farfalle e le api, provvisti di occhi sensibili alla luce ultravioletta; altri, come i serpenti, vedono le prede attraverso occhi sensibili agli infrarossi. Inoltre, quella parte di realtà che la nostra specie riesce a percepire non è ancora un mondo umano. Lo diventa solo quando la sfera sensoriale tramescola in quella dell’immaginario: la sfera ambientale socialmente e storicamente determinata entro la quale i dati percettivi acquisiscono un determinato significato e non un altro. A questo bisogna poi aggiungere la sfera psichica entro la quale l’individuo disloca i significati dei dati percettivi in un proprio ambiente metacognitivo. Qualsiasi fatto è dunque l’esito di una triplice stratificazione interpretativa: quella di specie, quella sociale e quella dell’individuo. Basterebbe questo a chiudere definitivamente la partita sull’oggettività della conoscenza delle verità scientifiche o di qualsiasi altra forma di conoscenza. Nel caso della scienza, la triangolazione specie-società-individuo è solo più raffinata in virtù di un processo conoscitivo specializzato da paradigmi.
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Kuhn, nel saggio La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962: trad. it. 2009), definisce il paradigma come un modello conoscitivo che ha il potere di plasmare, per una certa durata, il corpo teorico di una determinata comunità scientifica, i metodi di ricerca e il campo dei fatti da indagare21. Questo fin quando dal campo empirico emergono simultaneamente delle anomalie, dei fatti che non possono più essere ricompresi alla luce del paradigma dominante. Ed è questa crisi interpretativa che favorisce la creazione di nuovi paradigmi che aprono la fase straordinaria della scienza, rinnovando l’immaginario scientifico (ivi, 25). Pertanto, lo scienziato, ancor prima di essere l’animal rationale, è l’animal symbolicum che conosce entro una determinata visione paradigmatica del mondo entro la quale formula l’accordo tra teoria e fatti. Il paradigma è uno dei costrutti più raffinati dell’immaginario sociale (D’Andrea / Grassi, 2019) e, proprio per questo, partecipe dei processi che ne strutturano e decostruiscono i principi di realtà. Già Ernst Cassirer aveva compreso la dimensione simbolica della scienza; scrive nel Saggio sull’uomo: Gli empiristi e i positivisti hanno sempre sostenuto che il fine più alto dell’intelletto umano è quello di far conoscere dei fatti, null’altro che dei fatti. Ogni teoria non basata su fatti sarebbe campata in aria. Ma ciò, più che risolvere il problema del vero metodo scientifico, si va semplicemente ad indicarlo. Che cosa vuol dire fatto scientifico? Evidentemente nessun fatto del genere ci è fornito da osservazioni casuali o dal semplice accumulo di dati sensoriali. I fatti della scienza presuppongono sempre un elemento teorico, ovvero simbolico. […] Galileo dovette cominciare con l’immaginare 21 Così Kuhn definisce il paradigma e le sue forme di istituzionalizzazione: “Con la scelta di questo termine ho voluto far presente il fatto che alcuni esempi di effettiva prassi scientifica riconosciuti come tali – esempi che comprendono globalmente leggi, teorie, applicazioni e strumenti – forniscono modelli che danno origine a particolari tradizioni di pensiero […] quali ‘astronomia tolemaica’ (o ‘copernicana’), ‘dinamica aristotelica’ (o ‘newtoniana’), ‘ottica corpuscolare’ (o ‘ottica ondulatoria’), e così via. […] Nelle scienze, la nascita di giornali specializzati, la fondazione di società di specialisti e le pretese di uno speciale riconoscimento nel curriculum hanno solitamente seguito l’accettazione di un singolo paradigma da parte del gruppo” (1962: trad. it. 2009, 30 e 39).
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un corpo completamente isolato, un corpo che si muovesse senza subire l’influenza di alcuna forza esterna. Un simile corpo non era stato mai osservato né potrà venire mai osservato. Non è un oggetto reale ma un oggetto possibile – in un certo senso non è nemmeno un oggetto possibile perché il presupposto di Galileo, l’assenza di qualsiasi forza esterna, in natura non si trova mai realizzato (2011, 88).
I fatti scientifici sussistono, come chiarisce Cassirer, sempre in un ordine simbolico di tipo teoretico. Il suo richiamo a Galileo Galilei ci permette, inoltre, di cominciare ad analizzare lo stato nascente dell’immaginario neutro nel contesto scientifico. Lo scienziato pisano è tra i principali protagonisti della transizione paradigmatica verso la scienza straordinaria moderna. La spirale creativa del suo metodo scientifico, deviando dal cerchio chiuso della scienza normale medievale, comincia a basarsi sulla sensata esperienza, ossia una prassi di ricerca induttiva in cui si osservano sperimentalmente i singoli fenomeni al fine di ipotizzare una legge che li accomuni tutti. E lì dove la sperimentazione non è possibile, Galileo ricorre alle necessarie dimostrazioni: un processo conoscitivo basato sul ragionamento deduttivo che parte da premesse generiche per poi giungere a formulare una tesi precisa. È in virtù del ragionamento deduttivo che Galileo (vol. I. 1964, 254) può formulare il principio di inerzia immaginando il corpo astratto, a cui fa riferimento Cassirer, come una sfera di bronzo appoggiata su un piano inclinato. Può intuire che essa inizierà a rotolare. Supporre poi che essa si trovi in condizione di assenza di attrito. Può dedurre che la palla rotolerà all’infinito, non avendo niente che la freni. In questo specifico caso, Galileo non può verificare la sua ipotesi con un esperimento in senso stretto, non avendo i mezzi per creare un piano inclinato infinito, né tantomeno per togliervi l’attrito, eppure è grazie a ciò che può dedurre il principio di inerzia come un moto infinito. La sensata esperienza dell’induzione e le necessarie dimostrazioni deduttive sono dunque i due pilastri del metodo galileiano fondati, come si è detto a proposito delle metamorfosi delle visioni scientifiche (vedi supra cap. I.4), non più nel campo semantico astrologico-tolemaico istituito dalla Chiesa. La visione paradigmatica di Galileo, come afferma nel Saggiatore, si proietta
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in un universo “scritto in lingua matematica attraverso caratteri geometrici fatti di triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intendere umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto” (1964, 631-632). Comincia qui a farsi evidente la convergenza di arte e scienza nel medesimo immaginario neutro scritto in termini matematici. Simmel lo descrive con queste parole: A partire da Galileo e Copernico la scienza moderna, con rigore sempre crescente, interpreta il cosmo come un meccanismo governato da una causalità rigida e matematicamente enunciabile. […] un meccanismo di orologio che fa ruotare i suoi ingranaggi e che però, al contrario di quello costruito dall’uomo, non rivela alcuna idea né è asservito ad alcuna finalità. Il principio meccanicistico delle scienze della natura sembra porre la realtà in netto contrasto con tutto ciò che prima sembrava conferirle il suo senso (Simmel 1906: trad. it. 1995, 11-12).
L’universo meccanizzato di Galileo, così come quello copernicano, è dunque l’espressione di quell’analogo spazio a-teologico della rappresentazione pittorica costruito dalle leggi compositive della geometria delle ortogonali. Le affinità tra lo spazio neutro della raffigurazione rinascimentale e quello della rappresentazione paradigmatica trovano nella scienza baconiana il loro esempio più evidente. Negli stessi anni di Galileo, Bacone coglie l’animus della scienza successiva gettando le basi della razionalizzazione, quella logica di dominio tecnico della natura (cfr. Adorno /Horkheimer 1997, 12-13). Il suo problema scientifico nasce innanzitutto dalla necessità di ripristinare un contatto diretto tra la mente e le cose inficiato, precedentemente, dalle scienze tradizionali. La loro responsabilità risiede nell’essersi affidati ad una logica meramente formale condizionata da un modello deduttivo ereditato dal sillogismo filosofico del mondo classico (Bacone 1620: trad. it. 2018, 37). Affinché la mente possa toccare la realtà delle cose occorre procedere attraverso un metodo puramente induttivo (ivi, 39), escludendo quindi il metodo deduttivo galileiano delle necessarie dimostrazioni. L’osservazione induttiva, per conformarsi alla struttura del reale, non può nean-
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che affidarsi unicamente ai sensi, poiché anch’essi possono essere fonte d’inganno22. Al fine di eliminare gli errori della scienza tradizionale e correggere le distorsioni percettive, Bacone inventa un organo meccanico a supporto del metodo induttivo: il Novum Organum. È questo il titolo del trattato in cui nel 1620 Bacone descrive i benefici del Nuovo Strumento metodologico: Resta una sola possibilità di salvezza e di guarigione: che si riprenda daccapo tutta l’opera della mente; e che la mente, fin dal principio, non sia in alcun modo abbandonata a se stessa, ma sia continuamente guidata, cosicché tutto funzioni come in una macchina. Certo, se gli uomini avessero intrapreso i lavori meccanici a mani nude, senza la forza e l’aiuto degli strumenti, allo stesso modo in cui non esitarono ad affrontare le questioni intellettuali quasi con le sole forze della mente, ben poche sarebbero state le cose che essi avrebbero potuto muovere e vincere, anche se avessero lavorato con tenacia e in collaborazione (ivi, 67).
Il Novum Organum è il corrispettivo in ambito scientifico della macchina prospettica. Anch’esso è un reticolo concettuale frapposto tra lo scienziato e il reale che, come quello teorizzato da Alberti nel De pictura e raffigurato nell’acquaforte di Dürer, apre una finestra attraverso la quale è possibile osservare oggettivamente il mundus sensibilis. Tutto l’universo matematizzato di Galileo si raccoglie nell’interfaccia di questa macchina metodologica. Ed è grazie al suo utilizzo che lo scienziato può correggere le distorsioni delle immagini percettive, in modo tale da poter cogliere i fenomeni in una luce di assoluta neutralità. Oltre a svolgere la funzione di modulatore percettivo, il nuovo organo meccanico presiede anche alla correzione delle dissonanze cognitive prodotte dalla dottrina degli idola: le false credenze ereditate dalle teorie filosofiche e scientifiche degli antichi che 22 Scrive in proposito Bacone: “Duplice è allora la colpa del senso, perché o ci abbandona o ci inganna. In primo luogo, infatti, moltissime sono le cose che sfuggono al senso anche se ben disposto e per niente ostacolato. […] E ancora, quand’anche il senso riesca a cogliere l’oggetto, la sua comprensione non è affatto sicura. Infatti, la testimonianza e l’informazione provenienti dal senso sono sempre in relazione all’uomo, non in relazione all’universo” (ivi, 41).
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hanno imprigionato la mente umana. Bacone (ivi, 97-131) divide gli Idola in quattro generi: gli Idola tribus, creati dall’intelletto umano attraverso ragionamenti non sottoposti al rigore della macchina metodologica; gli Idola specus, che nascono dalla caverna platonica in cui sono rinchiusi gli individui subendo l’influsso delle false immagini del mondo sociale; gli Idola fori, sono i fraintendimenti imposti all’intelletto attraverso le parole, riferendosi a cose inesistenti o a cose mal definite; gli Idola theatri, infine, sono le speculazioni astratte delle teorie e delle dimostrazioni filosofiche e scientifiche intese come favole degne solo di essere portare in scena. Tutte le qualità (umane, sociali, linguistiche e speculative) del mondo idolatrico vengono decostruite dal funzionamento del Novum Organum al fine di rendere l’intelletto liscio e levigato come una tabula rasa (ivi, 43) a-qualitativa. È in tal modo che il Novum Organum diventa la forma mentis neutra dello scienziato aprendolo al cum-prehèndere, a ‘raccogliere con sé’ i fatti naturali nella loro incontaminata purezza. Una purezza pagata a caro prezzo, visto che la mente dello scienziato per proiettarsi induttivamente verso la verità delle cose deve prima neutralizzarsi, retrocedere nell’ambiente cognitivo privo di qualità riprodotto dal Nuovo Strumento. L’opera scientifica di Bacone ha giocato un ruolo determinante nella formazione dell’immaginario del progresso giacché, come evidenzia Rossi (2002, 80), essa è basata sulla convinzione di un processo cumulativo del sapere scientifico e, inoltre, sulla convinzione che questo processo sarebbe stato sempre incompleto e bisognoso di continue migliorie. Un ordine prospettico della scienza analogo a quello della rappresentazione artistica, ma che ha nel progresso il suo punto di fuga. Il Novum Organum è la macchina costruita da Bacone per riprodurre quest’ottica paradigmatica infinitamente proiettata nel perfezionamento. Tuttavia, anche in questo caso, l’unica costante del movimento progressivo della scienza è proprio la macchina metodologica. È la sua logica a-simbolica di funzionamento che ha fatto avanzare l’immaginario neutro nel campo della conoscenza, analogamente a come la macchina prospettica lo ha fatto avanzare nel campo della raffigurazione artistica.
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Due dispositivi che hanno supportato la creatività scientifica e artistica e, allo stesso tempo, supportato la nascita dell’immaginario moderno basato sulla trasparenza, la precisione, la quantificazione e la riproducibilità tecnica del reale. 5. L’immaginario neutro Dopo Galileo e Bacone, la rivoluzione paradigmatica moderna si è estesa dalle scienze naturali all’intero arco della conoscenza fino ai fatti sociali, come abbiamo visto con il positivismo (vedi supra cap. I.5), diventando l’episteme dominate della scienza. A differenza del paradigma, che con Kuhn abbiamo definito come il modello teorico attraverso cui una specifica comunità scientifica entra in relazione col campo empirico, l’episteme ha un carattere più generale dato che presiede l’immaginario scientifico di un’intera epoca. Come porta in luce l’archeologia del sapere di Foucault, l’episteme è la regione mediana che fa da a priori riflessivo all’intero ordine paradigmatico, un reticolo segreto che ha il potere di strutturare gli ordini empirici attraverso cui una cultura percepisce, classifica e interpreta le cose23. 23 Nel definire l’intento archeologico che articola il saggio Le parole e le cose, scrive Foucault: “In ogni cultura esiste quindi, fra l’impiego di quelli che potremmo chiamare i codici ordinatori e le riflessioni sull’ordine, l’esperienza nuda dell’ordine e dei suoi modi di essere. In questo studio intendiamo analizzare tale esperienza. […] È chiaro che un’analisi del genere non rientra nella storia delle idee o delle scienze: è piuttosto uno studio che tende a ritrovare ciò che a partire da cui conoscenze e teorie sono state possibili; in base a quale a priori storico e nell’elemento di quale positività idee poterono apparire, scienze costituirsi, esperienze riflettersi in filosofie, razionalità formarsi per, subito forse, disfarsi e svanire. Non verranno quindi descritte conoscenze nel loro progresso verso l’obbiettività in cui la nostra scienza da ultimo potrebbe riconoscersi; ciò che vorremmo mettere in luce, è il campo epistemico, l’episteme in cui le conoscenze, considerate all’infuori di ogni criterio di riferimento al valore razionale o alle loro forme oggettive, affondano la loro positività manifestando in tal modo una storia che non coincide con quella della loro perfezione; ciò che, in tale narrazione deve apparire, sono, entro lo spazio di sapere, le configurazioni che hanno dato luogo alle varie forme di conoscenza
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L’immagine epistemico-reticolare della macchina metodologica è ciò che struttura l’ordine empirico contemporaneo, ma con un grado di precisione impareggiabile rispetto a quella del Novum Organum costruito da Bacone. Il processo di specializzazione della scienza24 ha dislocato ciascuna disciplina, con i suoi paradigmi e i suoi strumenti di indagine, in una quadrettatura ben definita del reticolo epistemico. Uno spazio topografico-disciplinare (Lash 2014) da cui non emerge una cartografia unitaria del reale, e da cui sono state rimosse le grandi questioni che interpellano l’esistenza umana. I problemi relativi al rapporto tra realtà e uomo, da cui nacque il piano gnoseologico del metodo scientifico al fine di darvi risposta, sono stati spostati nell’ambito delle speculazioni metafisiche25. Separata dalle domande fondamentali, la scienza contemporanea trova unità proprio in ciò che rende caleidoscopica la sua visione del mondo, ovvero in quell’ordine interstiziale in cui le discipline si giustappongono come parti del reticolo epistemico. È in questa ambivalenza tra divisione e unità che le comunità scientifiche si ripartiscono in un territorio a-qualitativo del sapere in cui ciò che conta, al di là di ogni valore di verità, è la calcolabilità del reale (Heidegger 1950: trad. it. 1997, 81-82). Una conoscenza improntata all’operatività in cui il mondo (inorganico, organico e sociale) diventa quel fondo da cui estrarre e computare dati sempre più precisi (Koyré 2000, 111), sollecitando lo scienziato a entrare in contatto con strumentazioni di analisi empirica. Più che una storia nel senso tradizionale della parola, si tratta d’una archeologia” (1966: trad. it. 1996, 11-12). 24 Un processo iniziato già a fine ‘700 e sancito definitivamente, alle soglie del ‘900, da Dilthey (1962: trad. it. 1998, 5-14) con la separazione tra scienze dello spirito (comprendenti le scienze dell’uomo, della storia, della società) e scienze della natura (fisica, chimica, biologia, fisiologia). 25 Scrive a tal proposito Morin: “Le domande fondamentali sono congedate quali domande generali, cioè vaghe, astratte, non operazionali. […] La domanda che giustificava la sua ambizione di scienza: “Che cos’è l’uomo, che cos’è il mondo, che cos’è l’uomo nel mondo?”, la scienza oggi la rimanda alla filosofia, ai suoi occhi sempre incompetente per etilismo speculativo, e le rimanda alla religione, ai suoi occhi sempre illusoria per mitomania inveterata” (2015, 8).
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sempre più sofisticate. Non a caso la branca informatica della Data science, specializzata proprio nella datizzazione del reale, occupa un ruolo sempre più predominante in diversi contesti di ricerca, compresi quelli delle scienze sociali (Youtie / Porter / Huang, 2016). Ciò che orienta la volontà di potenza e calcolo del reale della scienza trova il suo fine ultimo in un altro elemento a-qualitativo: quello dell’utilità. Le scoperte scientifiche sono validate non tanto dal principio popperiano della falsificabilità, quanto piuttosto dal grado di applicabilità nel mondo della praxis. Un principio empirico di veridicizzazione che deforma l’episteme reticolare in base ad una prospettiva tecno-scientifica orientata all’utilità economica. La mega-macchina della produzione capitalistica, come la definisce Latouche (1995), ha sussunto la macchina metodologica, rifunzionalizzandola secondo le leggi del mercato autoregolato dalla domanda e dall’offerta. Come aveva compreso già Marx (1980, 136-146), nel mercato capitalistico avviene la metamorfosi dei valori d’uso delle merci in valori di scambio secondo la formula Denaro-Merce-altro Denaro. Una formula che ha interrotto il cerchio chiuso delle precedenti forme di scambio economico che iniziava e finiva alla merce passando dal denaro (M-D-M). Nel ciclo produttivo capitalistico, la merce è un bene strumentale finalizzato ad allargare la spirale infinita della produzione di danaro in vista di un surplus di denaro: la merce a-qualitativa per eccellenza. L’uso strumentale della scienza nel sistema fabbrica ha giocato un ruolo determinante nello sviluppo spiroidale del capitalismo. A partire dalla seconda metà del ‘700, la rivoluzione industriale è nata dalla conversione delle scoperte scientifiche in macchine impiegate nella produzione di merci (Landes 2000, 58-59). Nei primi anni del ‘900, Taylor formula invece le leggi necessarie a organizzare scientificamente il lavoro per ottimizzare, attraverso la logica della catena di montaggio, il rapporto tra macchine e operai. La fabbrica è stata anche il luogo in cui si è sancita la definitiva separazione tra arte e scienza:
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Troviamo una crescente tendenza nel diciannovesimo secolo ad assumere che l’artista e lo scienziato lavorino in modi estranei o addirittura antitetici l’uno rispetto all’altro. Prima della fine del diciannovesimo secolo, nell’arte è stata sviluppata la prospettiva che la creazione funziona attraverso l’operare di un imperscrutabile processo chiamato genio o ispirazione e mai attraverso la tecnica o il lavoro sperimentale. Abbiamo visto ciò in maniera vivida nel Romanticismo e specialmente nella fin de siècle. […] Gradatamente, si diffuse l’idea che la scienza, a differenza dell’arte, scorre lungo quegli stessi canali, metodici e sistemici, nei quali scorrono gli affari, la legge o la medicina. Si pensava che fosse cruciale non la libera riflessione, l’intuito o l’immaginazione. La macchina nella fabbrica rappresenta la prova che l’abilità potesse essere trasferita dall’uomo alla tecnologia, facendo dell’ingegno umano un articolo inutile (Nisbet 2016, 38 e 40).
E così come lo scienziato del XIX secolo si separa dall’arte, l’artista romantico si separa a sua volta dalla scienza cercando una fuga in un mondo estetico lontano dalla realtà riprodotta dalla società industriale (ivi, 39). Nelle opere paesaggistiche di William Turner (1775-1851), figura chiave del Romanticismo pittorico, le pennellate di colore cominciano a esondare dalle linee geometriche rinascimentali, aprendo le porte all’Impressionismo francese. Nel 1910, Wassily Kandinsky dipinge un acquarello senza titolo recidendo, in un turbinio astratto di macchie colorate, il legame tra la figurazione pittorica e l’ordine visibile del reale. L’Espressionismo astratto fa parte di quelle avanguardie novecentesche protese verso una società di massa mobilitata dall’innovazione tecnica e dai cicli industriali. Le forme estetiche diventano i sismografi della dinamica accelerata della società industriale (Harvey 1990: trad. it. 1997, 23-56), rivelando lo sgretolamento dell’identità monolitica dell’individuo, perno dell’universo simbolico moderno. L’individuus, che troneggiava in uno stato di quiete nelle statue delle piazze rinascimentali e barocche nel ruolo di principe, legislatore, filosofo, poeta, condottiero e moralista diviene un tipo umano antiquato (Jünger 1980: trad. it. 1998, 18). Consapevoli della crisi della modernità, i nuovi orientamenti artistici cercano di sperimentare nuove tecniche
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espressive adatte a rappresentare il paesaggio interno dell’homo absurdus modellato da ambivalenze emozionali, pulsioni sessuali, dimensioni surreali, identità multiple, paure e desideri indicibili. Un paesaggio psichico invisibile per la piramide ottica e, dunque, irrappresentabile per la macchina prospettica orientata a raffigurare fedelmente il mondo esterno. È stata invece la fabbrica il dispositivo di sapere (scientifico) e potere (economico) che ha aperto una nuova prospettiva all’immaginario sociale, proiettando le masse urbane lungo un punto di fuga perpetuamente orientato verso il futuro radioso dell’umanità. Una prospettiva temporale progressiva che ha deformato l’ordine topografico dell’intera realtà in un ambiente tecno-sistemico. Come spiega Jacques Ellul, il sistema tecnico è un fenomeno sociologico qualitativamente differente dalla somma delle tecniche e degli oggetti che lo compongono, esso è piuttosto un ambiente artificiale della vita associata. Divenuta un Universo di mezzi, la Tecnica è l’ambiente dell’uomo. Le mediazioni si sono talmente generalizzate, estese, moltiplicate da costruire un nuovo universo, ed ecco apparire l’ambiente tecnico. Ciò significa che l’uomo non è più essenzialmente nell’ambiente naturale (costruito da ciò che viene comunemente chiamato natura, campagna, boschi, montagne, mare, ecc.), ma si situa oramai in un nuovo ambiente artificiale. […] L’uomo si relaziona con gli elementi naturali solo attraverso un insieme così completo di tecniche che in realtà la relazione è solo con queste tecniche (Ellul 2004: trad. it. 2009, 60-61).
Con la nascita delle prime metropoli, l’ambiente macchinico della fabbrica si è esteso a sistema tecnico della vita associata ben oltre la sfera economica. Le metropoli non sono solo città più grandi, bensì dei veri e propri ecosistemi urbani generati dal contatto tra macchine (treni, metropolitane, orologi meccanici, linee telegrafiche, apparecchi fotografici, riproduttori di immagini e di suoni) e le masse dei loro abitanti mediato dalla logica astratta del denaro. Non a caso Simmel (1995, 41) individuava nelle metropoli la quintessenza dello spirito oggettivo
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della modernità basato sulla puntualità, la calcolabilità, l’esattezza e l’utilità. Tutte queste a-qualità dell’immaginario neutro, creato dal dialogo rinascimentale tra arte e scienza, le ritroviamo oggi nella realtà smaterializzata della società in rete fondata, come spiega Castells (1996-2000: trad. it. 2008, 21-22), dall’azione reciproca tra scienze informatiche e sistema di mercato mondiale. Un connubio sapere-potere che ha riprodotto un sistema tecno-nervoso26 reticolare fatto di linee – fibre ottiche, cavi coassiali, doppini telefonici, cavi elettrici, collegamenti sottomarini, collegamenti satellitari, trasmissioni in radiofrequenza (Wi-Fi) – e nodi – composti da qualsiasi dispositivo hardware on line, da quelli portatili ai mega computer dei server web che coordinano il flusso dei dati che circolano nella rete. Linee e nodi sono l’invisibile infrastruttura metropolitana di Internet, la capitale del XXI secolo in cui vivono 4,54 miliardi di persone, il 60% della popolazione mondiale. Una metropoli reticolare, presente ovunque e in nessun luogo, fondata nel tempo istantaneo della connessione e mobilitata dagli algoritmi. Sono questi che presiedono la calcolabilità dei Big Data immagazzinati nel Web svolgendo, come scrive Cardon (2015), un serie di funzioni chiave: contano i click degli internauti stabilendo la popolarità dei siti web; fanno funzionare i motori di ricerca a cui si affidano gli internati per soddisfare le loro curiosità; computano la reputazione dei personaggi pubblici in base al numero di followers; strutturano l’agenda-setting delle notizie su cui discute l’opinione pubblica, condizionando la vita politica; vetrinizzano le merci nel mercato mondiale e le relazioni sociali (Codeluppi 2007). Gli algoritmi svolgono inoltre la funzione di datizzazione dell’esperienza (Accoto 2017, 81-84) degli utenti, attraverso la raccolta di informazioni ricavate dai loro spostamenti (tramite la geolocalizzazione degli smartphone), dai loro stili di vita (ottenute dalle transazioni nell’e-commerce), dalle loro relazioni sociali (definite dalle cerchie di amici frequentate nei social network), 26 Scrive Marshall McLuhan definendo la peculiarità dei media elettronici: “Con l’avvento della tecnologia elettrica l’uomo estende, crea cioè fuori di se stesso, un modello vivente di sistema nervoso centrale” (1964: trad. it. 1999, 53).
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dai dati biometrici (rilasciati da wearable sensors), dalle tipologie di news a cui sono più sensibili. Un accumulo quotidiano di dati biografici da cui attingono i sistemi di profilazione algoritmica, monopolizzata dai colossi dell’informatica (Google, Amazon, Facebook, Apple), costruendo attorno all’utente una bolla cognitivo-emozionale personalizzata entro la quale formulare le strutture di senso che ne prefigurano il comportamento (Zuboff 2019; trad. it. 2019, 284-297; Mori 2017). Cathy O’Neil (2016: trad. it 2017) evidenzia poi come gli algoritmi producano dei modelli statistico-matematici predittivi che orientano la selezione dei datori di lavoro in base al credit scorring, al credito sociale accumulato dal candidato attraverso i dati raccolti dal rendimento delle precedenti esperienze lavorative, sull’affidabilità creditizia, sullo stile di vita e sul suo stato di salute. Gli algoritmi sono dunque i centri di calcolabilità che muovono l’ecosistema tecnico della rete creando una vera e propria coscienza connettiva che, analogamente alla coscienza collettiva descritta da Durkheim, ha una esistenza autonoma, regolativa e normativa delle coscienze degli utenti della rete. Il sistema elettro-nervoso della coscienza connettiva è, in tal modo, “un supporto simbolico e al tempo stesso un’infrastruttura tecnica” (Musso 2003: trad. it. 2007, 156) in cui tutto si scambia, rimodula e assembla in base al valore spettacolare delle immagini. Baudrillard è stato tra i primi a comprendere l’istituzione dell’immaginario neutro nel contesto della società dei consumi degli anni ’70, l’inizio di quell’era della simulazione in cui i significati rimandano a sé stessi in un ordine simulacrale della realtà: L’era della simulazione è così ovunque aperta dalla commutabilità dei termini un tempo contraddittori o dialetticamente opposti. Ovunque la medesima genesi dei simulacri: commutabilità del bello e del brutto nella moda, della sinistra e della destra in politica; del vero e del falso in tutti i messaggi dei media, dell’utile e dell’inutile al livello degli oggetti, della natura e della cultura a tutti i livelli della significazione. Tutti i grandi criteri umanistici del valore, quelli di tutta una civiltà del giudizio morale, estetico, pratico, si cancellano nel nostro sistema d’immagini e di segni. Tutto diventa indecidibile: è l’effetto caratteristico della domina-
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zione del codice, che ovunque riposa sul principio della neutralizzazione e dell’indifferenza (Baudrillard 1979, 20).
La struttura elettro-reticolare del digitale ha elevato a potenza mondiale la dominazione del codice, neutralizzando lo scambio simbolico degli immaginari geo-culturali in una noosfera (cfr. Teilhard de Chardin 1955: trad. it. 1968, 240-244) comune irradiata dagli schermi dei dispositivi. Lo schermo è l’interfaccia cognitivo-sensoriale in cui le reti neuronali della specie umana s’intrecciano con quelle della rete digitale. Un contatto psico-tecnico mediato dalle immagini che è anche tattile (touchscreen), e nel quale si crea un particolare luogo liminare che interferisce tra esterno e interno, tra mondo e mente, tra coscienza individuale e coscienza connettiva. Per Derrick de Kerckhove (1991: trad. it. 1993) lo schermo è un brainframe, una cornice cognitivo-sensoriale che muta le strutture profonde del pensiero attraverso cui decodifichiamo la realtà che ci circonda. Quando siamo immersi negli ambienti digitali, infatti, il flusso continuo delle immagini satura lo spazio della riflessività limitando, di conseguenza, la funzione metacognitiva dell’immaginazione grazie alla quale la nostra specie si è elevata dal comportamento stimolo-risposta27. In fondo, lo schermo è la riproduzione hi-tech della cornice attraverso cui i pittori rinascimentali avevano aperto una finestra sulla realtà, e da cui oggi compare un paesaggio mediale iperreale riprodotto in tempo reale dai codici binari. È James Graham Ballard a definire il paesaggio mediale:
27 Scrive de Kerckhove su questo: “Di fronte al rapido mutare delle immagini presentateci e alla loro accelerazione, lo spettatore è letteralmente trascinato da un’immagine all’altra. Ciò esige costantemente nuovi e inattesi adattamenti alle stimolazioni percettive. Di conseguenza lo spettatore non è più in grado di tenere il passo e rinuncia a una decodifica interiore. Abbiamo scoperto che, quando ciò accade, l’individuo agisce e reagisce con un innalzamento di eccitazione fisiologica che a sua volta si traduce in una riduzione di comprensione. Lo spettatore diventa, per così dire, vittima di una forza esterna, di una rapida sequenzializzazione audio-visiva” (1993, 55).
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Ciò è dovuto alla possente rete di giornali e riviste nazionali che tutti leggono. La produzione di quotidiani a grande circolazione non ha eguali al mondo. La TV domina ed è vista da tutti per tutto il maledetto tempo che gli resta libero. Qui la pubblicità è molto potente. Date le dimensioni del paese, il volume e il ricambio di immagini, il bombardamento costante, sono enormi. La pressione della distribuzione commerciale è tremenda: sono rari i prodotti in circolazione che non ti siano imposti. […] Io penso che noi siamo le grandi vittime di questo grande sovraccarico informativo che ha appiattito la vita della gente. È l’unica realtà che viviamo da queste parti, il paesaggio mediale (Ballard 1982: trad. it. 1994, 165).
Ballard scrive in un’epoca dominata dal sistema dei network televisivi in cui c’era una fruizione ancora passiva del paesaggio mediale. Con la nascita dell’ecosistema digitale, il paesaggio mediale è diventato l’ambiente interattivo dell’immaginario neutro in cui gli utenti costruiscono e decostruiscono le strutture di senso che in-formano la loro visione del mondo. Pertanto, il reticolo digitale non è semplicemente uno strumento della comunicazione più performativo ed esteso nel quale circolano e si scambiano messaggi, bensì l’infrastruttura informatica che ha unificato e mutato il mundus imaginalis dell’Homo. Ed è al suo interno che si palesa, mai come oggi, l’importanza di aggiungere la tecnica alla trinità specie-società-individuo descritta da Morin. Al pari degli altri elementi dell’unitas multiplex della complessità umana, la tecnica è stata da sempre quel quarto elemento che ha contribuito a ridefinire la natura dell’uomo e il suo habitat sociale. Ma per ricomprendere la tecnica come parte integrante del processo di ominazione occorre uscire dalla visione antropocentrica che la intende come forza servile generata e impiegata dalla creatività umana. La relazione servo (tecnica) – padrone (uomo) è solo la parte visibile di un rapporto ben più profondo e ambivalente. Già a partire dalla leva, probabilmente uno dei primi e rudimentali prolungamenti artificiali del corpo, l’uomo ha sperimentato l’ebbrezza della libertà dai vincoli naturali. Con l’avvento della leva, infatti, egli ha fatto esperienza della possibilità di poter spostare un volume di peso superiore alle capacità naturali proprie dei suoi muscoli, riuscendo a costruire
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cose (artefatti) che prima non poteva fare. Eppure, da quel momento in poi, se l’uomo vorrà fare ciò che prima non poteva fare – costruire delle mura difensive particolarmente possenti, erigere templi alle sue divinità, edificare le strutture urbane in cui abita, ecc. – sarà costretto a farvi ricorso. Il “fare ricorso”, così inteso, si compone di due parti: una riflessiva, interna alla coscienza umana che riconosce in sé una mancanza; e una attiva, che porta la coscienza a colmare questa mancanza affidandosi all’agire tecnico. È proprio in questo affidamento a una potenza altra, capace di soccorrerlo come un dio, che l’uomo libera dalla servitù la tecnica incatenandosi a essa. Il padrone homo diviene, infatti, un po’ più servo proporzionalmente all’ammontare della potenza che egli stesso richiede alla téchne, la quale, a sua volta, in questa trasfusione di potenza, diventa al contrario un po’ più padrone. Nell’epoca dell’immaginario reticolare, l’ambivalenza archetipica che intercorre tra uomo e tecnica ci pone questioni molto più radicali: cosa accade se l’uomo si serve delle tecnologie digitali per sollevare istantaneamente la pesantezza dell’intero spazio geografico? Cosa accade se nell’infrastruttura informatica presiede la formazione di una semiosfera planetaria di tipo simulacrale? Se l’agire individuale e collettivo viene simulato dai dispositivi digitali? Se la creatività umana si affida universalmente alla tecnica? Accade che la tecnica diventa il deus ex machina dell’immaginario globale, un dio-servile che trova fedeli in ogni angolo del pianeta senza distinzione di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione. La particolarità di questa fede, capace di abbracciare l’intera umanità, è di essere priva di una dimensione simbolico-sacrale. Si tratta dunque di una credenza tecno-neutrale sdivinizzata che, con un neologismo, potremmo definire come una forma religiosa mono(a)teistica, in cui l’a privativa messa tra parentesi indica l’assenza di una visione trascendentale del mondo e la presenza di un vuoto di significazione. Un vuoto onnipotente capace, proprio in virtù del suo campo semantico nullo, di essere il contenitore di ogni contenuto di senso (individuale e sociale) che entra liberamente in esso per servirsene, per potenziare l’agire pratico
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in relazione a determinate finalità. D’altronde, il potenziamento è alla base del fenomeno religioso, come scrive Durkheim: Il fedele che ha comunicato con il suo dio non è soltanto un uomo che vede verità nuove, ignorate dal non credente; egli è un uomo che può di più. Egli sente in sé una forza maggiore sia per sopportare le difficoltà dell’esistenza sia per vincerle. Egli è sollevato al di sopra della sua convinzione di uomo; si crede salvo dal male, quale che sia, comunque, la forma in cui concepisce il male. Il primo articolo di ogni fede è la credenza nella salvezza attraverso la fede (Durkheim 2013, 594).
Anche il fedele della religione mono(a)teistica è un uomo che può di più. Grazie all’uso dei suoi dispositivi, egli entra in contatto con lo spirito elettro-reticolare della rete trovando quel supporto tecnico con il quale si libera dal peso della corporeità, diventa tele-presente anche lì dove non è, fa della sua vita una rappresentazione spettacolare, aziona magicamente oggetti, diventa parte della realtà ultraterrena del web. Sono queste pratiche tecno-rituali che svolgono la funzione di rilegatura tipica del fenomeno religioso – come si evince dalla sua stessa etimologia [dal lat. religio -onis, affine a religare “legare”] –, computando quotidianamente l’eterogeneità dei valori e dei fini della società complessa. Una computazione incorporata nel Mysterium degli smart objects in mano a una vasta comunità di fedeli consumatori28. Per Rudolf Otto, il momento del mistero è basilare nell’esperire il sacro, che appare come ciò che sconcerta la ragione, che lascia senza parole e che sconvolge suscitando stati emotivi quali la meraviglia, lo stupore, lo sbigottimento di fronte a ciò che è trascendenza assoluta, completamente altro (Otto 1917: trad. it. 2009, 42). Il Mysterium del mono(a)teismo tecnico, contenuto nella complessità di funzionamento dei dispositivi, è generativa nell’utente di analoghe oscillazioni emotive del sacro tra meraviglia, stupore e sbigottimento. Un mistero operativo complesso esemplificato da interfacce grafiche talmente intuitive e sedutti28
Secondo la stima fatta dall’Ericsson Mobility Report 2019 (https://www.ericsson.com/en/mobility-report/reports/november-2019) lo smartphone, lo smart object più diffuso, è posseduto da 4 miliardi di persone.
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ve da poter essere usate da tutti, persino dai bambini. A ciascun utente, infatti, è sufficiente azionare i suoi dispositivi per essere parte di uno stesso ambiente immaginativo dal carattere neutrale riprodotto, su scala mondiale, dall’azione reciproca tra la natura creativa dell’Homo e l’onnipotenza della téchne.
III LA CREATIVITÀ COME RINASCIMENTO SOCIOLOGICO
Addentrandoci nell’ambiente immaginativo contemporaneo, lo abbiamo descritto come un’infosfera neutrale priva di un nucleo simbolico prodotta da una coscienza connettiva entro la quale, per dirla con le parole di Luciano Floridi (2017, 45), “ciò che è reale è informazionale e ciò che è informazionale è reale”. La creazione della realtà digitale ha così sospinto la vita individuale e sociale in uno scenario connettivo, fluido, istantaneo, simulacrale, reticolare, in cui l’unica costante sembra essere il legame sempre più stringente tra uomo e tecnica. Un legame che ha unificato gli immaginari sociali in un solo mundus imaginalis reticolare entro il quale sembra riconfigurarsi, su scala globale, quella medesima condizione di incertezza generalizzata della società industriale del XIX secolo, indotta dai processi di modernizzazione e dalla crisi dell’immaginario religioso. La fabbrica, luogo in cui la scienza si converte alla visione capitalistica del mondo, è stato l’epicentro tecno-sistemico che ha materializzato l’ambiente dell’immaginario moderno incentrato sulla macchina, e non più su Dio (vedi supra cap. II.5). La necessità di analizzare il mutamento generato dall’automazione della vita associata è ciò che ha favorito la formazione del pensiero sociologico (vedi supra cap. I.5). Il suo scopo era quello di pervenire, così come avevano fatto le scienze naturali, a una conoscenza dei fenomeni della società industriale in un quadro scientifico unitario e certo. Come hanno evidenziato anche Enzo Rutigliano e Domenico Tosini (2002), la sociologia nasce per dare un orientamento alla civiltà europea di fine ‘800 e inizi ‘900 occupando, in tal modo, quel vuoto interpretativo lasciato dalla fine delle visioni religiose del mondo.
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Nell’epoca della quarta rivoluzione industriale dominata dalle ICT (le Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione), la sociologia si muove in un inedito contesto di incertezza sociale da cui emergono domande talmente radicali da interpellarne lo statuto disciplinare: qual è il ruolo della sociologia nel reticolo epistemico-disciplinare? Come comprendere i fatti sociali nell’epoca della coscienza connettiva? Si può tracciare una prospettiva analitica di profondità nel paesaggio mediale? Può la ricerca sociale individuare la matrice non tecnica dell’ambiente digitale in cui è immersa la vita associata? Posta davanti a tali questioni, a cui ovviamente altre se ne potrebbero aggiungere, la sociologia si trova tuttavia ad essere essa stessa in crisi, smarrita in un disorientamento paradigmatico (cfr. Rutigliano/ Tosini 2002, 13) che le ha fatto perdere lo scopo per cui era nata: disvelare le leggi che governano e mutano il mondo sociale. A differenza della fase nascente della sociologia, l’incertezza ha permeato la riflessività sociologica contemporanea disarticolandone l’epistemologia, i quadri teorici, le sue tecniche di ricerca empirica. La crisi della sociologia è diventata un tema del dibattito sociologico, proviamo a ricostruirlo almeno in parte. Secondo Carlo Mongardini (1983), tra il 1960 e il 1970 la sociologia ha perso un quadro teorico-epistemico generale. Sono gli anni che pongono fine all’utopia sociologica nata con Comte, e poi sviluppata da Durkheim e Weber, di poter analizzare razionalmente il mutamento della società industriale in termini unitari. Ma con la fine delle grandi narrazioni teorico-analitiche della teoria sociale, la sociologia è entrata progressivamente in una condizione che potremmo definire postmoderna. Non potendo più contenere i fatti sociali in una prospettiva universalista, la “disintegrazione della sociologia nel quotidiano è stato un modo per riparare all’insufficienza o all’inconsistenza teorica” (ivi, 148). La sociologia si troverebbe così dispersa dietro i mille interessi del quotidiano, venendo meno così alla sua ambizione utopico-visionaria di poter restituire la complessità dei fenomeni sociali in un piano unitario. Lo sguardo di Mongardini non è nostalgico poiché individua nel concetto di società, formulato dal pensiero sociologico tra il XIX e XX secolo, una chimera teore-
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tica astratta da superare (ivi, 150). Parlando di sociologia umanista, la sua proposta è quella di ritornare alla teoria sociale con la consapevolezza di poterla applicare a parti limitate della realtà sociale e senza la pretesa di pervenire a interpretazioni oggettive, dato che il sociologo è un soggetto conoscente implicato nel suo oggetto di ricerca. Riprendendo le analisi di Kuhn sulle rivoluzioni cicliche della scienza, Raymond Boudon (1988) si chiede se la sociologia possa mai essere una scienza normale, pervenire a una forma matura di conoscenza stabilizzata da paradigmi e metodologie riconosciute dalla sua comunità scientifica. La risposta del sociologo francese è negativa. A differenza delle scienze naturali, la sociologia non sarà mai normalizzata entro una grande teoria della società così come accade in fisica, attualmente definita della teoria della relatività e dalla fisica quantistica. Lo stato di indeterminazione paradigmatica della sociologia si palesa, per Boudon, attorno a tre questioni fondamentali: può la sociologia essere oggettiva? La sociologia dovrebbe essere individualistica o olistica? L’attore sociale è razionale o irrazionale? Se sulla prima questione sia Durkheim che Weber avrebbero risposto di “si”, la sociologia contemporanea è orientata a rispondere con un “no” (ivi, 749). Per Boudon, sono stati in particolare gli sviluppi della sociologia della conoscenza scientifica a far cadere ogni pretesa di pervenire a verità oggettivamente valide. Sulla seconda questione, invece, la sociologia si è divisa fin da subito. Durkheim pensava a un modello olistico di spiegazione dei fatti sociali, dato che essi erano le manifestazioni della coscienza collettiva sovraordinata a quella dei singoli individui. L’individualismo metodologico di Weber aveva invece incentrato l’epistemologia delle scienze storico-sociali sulla comprensione del senso sociale attribuito dal soggetto agente. Ogni fenomeno sociale è così l’esito della combinazione di azioni individuali e credenze valoriali, e non un fatto predeterminato da una entità sovraindividuale. Il pensiero sociologico si è spaccato fin dalle sue origini anche sulla terza questione posta da Boudon: per Durkheim l’attore sociale agisce irrazionalmente, dato che è eterodiretto da credenze
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normativo-morali che prescindono dalla sua volontà; per Weber, al contrario, è l’intenzionalità dell’attore sociale a dirigere l’agire al punto da poter essere progettato razionalmente per raggiungere determinati scopi o valori. Tutto ciò porta Boudon a concludere che la sociologia non è mai stata dominata da un unico paradigma, impedendole di raggiungere la fase di scienza normale descritta da Kuhn. È il desiderio dei sociologi contemporanei di rafforzare il valore delle loro ricerche attraverso una reductio ad unum dei loro principi conoscitivi a generare, secondo Boudon (ivi, 769), la percezione della condizione di crisi della loro scienza. Per Mauro Magatti (2007), invece, la crisi della sociologia non è una semplice percezione. Con la fine del dominio del paradigma struttural-funzionalista di Parsons, la sociologia ha perso l’ambizione di costruire una teoria generale della società, privando la ricerca empirica di una visione comune utile ad accrescere la conoscenza generale della disciplina (ivi, 2). Tutto ciò si palesa nei bandi di finanziamento internazionali – Magatti si riferisce in particolare ai progetti di ricerca della UE – attorno ai quali le scienze sociali si aggregano in termini strumentali per accedere alle risorse, piuttosto che per una reale convergenza di approcci teorico-metodologici. La mancanza di una visione sociologica forte e autorevole produce effetti anche nei criteri di valutazione usati durante le fasi di reclutamento delle giovani generazioni di ricercatori, con la conseguenza di dare “manforte alle peggiori manovre accademiche che ben poco hanno a che fare con il merito e la qualità della ricerca” (ivi, 5). La debolezza del pensiero sociologico affiora inoltre nelle tante riviste internazionali, in cui nessuna riesce davvero ad essere riconosciuta come un punto di riferimento nel dibattito scientifico attorno ai fenomeni problematici che emergono dalla società interetnica, dalle diseguaglianze economiche, dai fenomeni criminogeni e delle politiche sulla sicurezza, dall’evoluzione dei sistemi di comunicazione. Sono questi ambiti a dover essere analizzati, per Magatti, dalla conoscenza sociologica in un piano teorico-metodologico unitario in modo da ottenere due risultati: “il miglioramento della legittimazione sociale della sociologia e un confronto più serrato con la
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realtà” (ivi, 7). Solo così facendo, aggiunge sempre Magatti, la sociologia potrebbe uscire dal suo stato confusionale che rischia, altrimenti, di dissolvere la sua tradizione disciplinare. Ripercorrendo le tappe che hanno portato all’istituzionalizzazione della sociologia americana, anche Jonathan Turner (2006) individua un’analoga problematica di scarsa integrazione disciplinare. Per il sociologo statunitense, una disciplina è integrata quando esiste un’organizzazione scientifica del lavoro basata su risorse simboliche condivise dai suoi membri. Le Symbolic resources sono quegli elementi culturali in grado di associare gli individui di una comunità scientifica attorno a delle problematiche conoscitive specifiche, all’uso di metodi condivisi per risolvere queste problematiche, e sull’accettazione di criteri di valutazione standardizzati della produzione scientifica dei suoi membri (ivi, 16). Ed è proprio la mancanza di un nucleo simbolico forte a rendere la sociologia, secondo Turner, una comunità caotica, una disciplina a basso grado di integrazione. Pertanto, i sociologi, pur essendo ideologicamente parte di una stessa provincia scientifica, sembrano essere caratterizzati da un’attitudine individualista che li separa nei loro percorsi di ricerca. Tutto ciò ha contribuito a far diventare la sociologia una disciplina insulare che viene vista come una “torre di babele” da coloro che sono dentro e fuori dall’accademia (ivi, 27). E così, come sottolinea anche Randall Collins (1989), la sociologia dopo più di un secolo di storia si trova priva di leggi generali della società e di metodi consolidati di analisi dei fenomeni sociali. Secondo Stephen Cole (1994), l’assenza all’interno della sociologia di un nucleo teorico-metodologico è la conseguenza diretta del suo oggetto di studio. Se nelle scienze naturali come la fisica i fenomeni sono stabili, i fenomeni sociali sono mutevoli e soggetti a variabili culturali difficilmente identificabili in termini esaustivi. Inoltre, a differenza degli scienziati naturali, il sociologo non può mai essere pienamente avalutativo nel suo percorso di ricerca, avere un’osservazione totalmente distaccata dal mondo sociale (ivi, 146). Come aveva già messo in luce la sociologia riflessiva di Gouldner (1970), il sociologo è influenzato da quegli assunti di sfondo di tipo etico, religioso, ideologico che condi-
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zionano inevitabilmente la scelta e l’approccio della ricerca fin dall’individuazione del fenomeno sociale da indagare. In tutto questo autorevole coro polifonico sulla crisi sociologica emerge un motivo comune che oscilla tra la nostalgia di un ordine disciplinare infranto e la consapevolezza scientifica di non poterlo più ricostruire. Il sociologo si trova così ad essere incastrato tra passato e futuro come l’Angelo della Storia evocato da Benjamin (1995, 80), tra il voler ricomporre la tradizione del pensiero sociologico e la complessità del mondo contemporaneo su cui fissa lo sguardo, un mondo che, irrimediabilmente, lo rigetta progressivamente lontano dal suo intento salvifico. Tuttavia, nell’etimologia greca della parola crisi è contenuto un elemento rigenerativo che non è messo in luce dalle analisi sul disorientamento della sociologia contemporanea. Krisis, dal verbo krino (“separare”, “discernere”, “valutare”), indica un momento di stallo o di peggioramento di una situazione che può anche essere una condizione necessaria per un miglioramento, per una rinascita. D’altronde, la crisi è la fase preliminare dell’atto creativo, quel momento di impasse del pensiero davanti a una situazione non più risolvibile attraverso la reiterazione di modelli cognitivi sedimentati nella memoria (vedi supra cap. I.2). Se si segue lo schema di Kuhn, più volte richiamato dai sociologi per leggere la crisi della loro disciplina, la fase di maggiore creatività scientifica è quella in cui il sopraggiungere di fatti, fenomeni o nuove scoperte mettono in crisi la visione paradigmatica attorno alla quale si struttura la fase normale della scienza. E quando più ricercatori individuano nella reiterazione del paradigma non più uno strumento conoscitivo del reale, ma un modo di adeguare le anomalie dei fenomeni al suo modello di verità (cfr. Kuhn 2009, 44), ha inizio la fase straordinaria della scienza. La crisi paradigmatica segna così la fine di un mondo scientifico normalizzato e l’inizio di un altro rivoluzionato e ridefinito da un nuovo immaginario scientifico (ivi, 25). È in questo momento di transizione paradigmatica che la creatività diventa un méthodos grazie al quale il pensiero scientifico fuoriesce dalle sue certezze paradigmatiche per tracciare una nuova strada conoscitiva verso il reale.
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Pertanto, anche la crisi della sociologia può essere intesa come una condizione transitoria di preludio a una fase di creatività, a una ridefinizione generale del suo sapere provocata dall’incertezza del mondo contemporaneo. Ma come la creatività può tradursi in un metodo utile alla sociologia per oltrepassare il suo stato critico? Il percorso argomentativo di questa terza parte è incentrato su questo punto di domanda. 1. La crisi creativa della sociologia Definito il perimetro problematico di quest’ultima parte, possiamo cominciare a declinare la creatività nei processi conoscitivi della vita associata a partire dalla tradizione sociologica. Uno dei contributi più importanti della sociologia è stato quello di aver svelato come le dinamiche collettive creino la realtà e ciò fin dalle analisi di Thomas e Znaniecki (1918), dalla fenomenologia di Schutz (1960) e dal costruzionismo di Berger e Luckmann (1969). Scheler (1928) e Gehlen (1950) hanno individuato, da parte loro, la premessa antropologica della creazione del mondo sociale nella condizione di indeterminazione biologica dettata dalla natura aperta e non specializzata dell’uomo. La creatività si declina in questo caso come un metodo adattivo con cui la specie umana esce dal disorientamento percettivo-motorio mediante una seconda natura culturalmente e storicamente diversificata (vedi supra cap. I.3). La sociologia della conoscenza scientifica ha dato, a sua volta, un apporto decisivo nell’individuare la costruzione sociale del pensiero scientifico. Sono stati in particolare Gouldner (1970), Barnes (1974: trad. it. 1979) e Bloor (1994) ad analizzare la scienza, compresa quella sociologica, come un sistema razionale e specializzato di sapere fondato su presupposti storico-culturali (vedi supra cap. I.4 e cap. I.5). Insomma, la tradizione sociologica, occupandosi dei processi di costruzione della realtà sociale e scientifica, ha avuto un
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rapporto privilegiato con la creatività essendo la conditio sine qua non di tali processi. La riappropriazione di questo patrimonio riflessivo accumulato dal pensiero sociologico ci permette di declinare la creatività sociologica in una seconda accezione. Se la sociologia sa che la società è un costrutto collettivo, se è consapevole che la scienza affonda le sue radici nella cultura e nell’ideologia e se, coerentemente a ciò, è giunta così lontano da individuare le credenze che sorreggono la sua tradizione disciplinare, ne consegue che essa dispone di una conoscenza consolidata con la quale può continuare a trasformare le teorie e i metodi dell’analisi sociale. Compresa in quest’ottica, la creatività sociologica non è una pura anarchia, ma un méthodos che cerca un equilibrio “contraddittoriale” (Maffesoli 1990, 16) tra la rottura dei modelli teorico-empirici sedimentati dalla sua tradizione e la necessità di immaginarne di nuovi. Pensare le teorie e le tecniche di analisi della vita associata come strumenti concettuali plastici ci permette di declinare ulteriormente la creatività sociologica, intendendola come un metodo che stimola il pensiero immaginativo del ricercatore sociale. Tutto ciò è stato al centro delle riflessioni di Wright Mills, tra i primi ad avere una chiara consapevolezza della fase declinante delle scienze sociali, raccolte nel saggio dal titolo evocativo L’immaginazione sociologica: L’analista sociale classico ha evitato ogni schema rigido di procedura, cercando di sviluppare ed impiegare nel suo lavoro l’immaginazione sociologica. […] Non è stato inibito dal metodo e dalla tecnica; la maniera classica è stata la maniera del maestro intellettuale. […] Quando, nei nostri studi, ci soffermiamo a riflettere sulla teoria e sul metodo, il risultato più grande è una nuova formulazione dei problemi. Questo perché forse, in pratica, ogni studioso di scienze sociali deve, nel suo lavoro, essere il proprio metodologo e il proprio teorico, il che vuol dire semplicemente che deve essere un “maestro intellettuale”. Ogni maestro può, naturalmente, apprender qualcosa da tentativi generali di codificare i metodi, ma spesso questo qualcosa è poco più che una consapevolezza di carattere generale. […] È più probabile quindi che i progressi metodologici scaturiscano, come modeste generalizzazioni, dal lavoro in corso. Perciò dovremo
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mantenere, sia nella nostra pratica individuale sia nell’organizzazione della nostra disciplina, una osmosi molto intima fra il metodo e il lavoro in corso. (Mills 1959: trad. it. 2014, 130-131)
È interessante notare come Mills individui l’immaginazione sociologica nella figura dell’analista sociale classico. Pur aprendolo alla possibilità di creare una propria visione teorico-metodologica, lo studioso che attinge all’immaginazione non fa che sviluppare in forme nuove il legame tra sociologia e creatività. Essere un maestro intellettuale implica un’attitudine libera da inibizioni dettate da procedure di ricerca predefinite, utili tutt’al più a dargli “una consapevolezza di carattere generale”. Così come dirà Morin (2015, 19), per Mills il metodo è costruito durante il lavoro di ricerca in osmosi con la specificità dell’oggetto di indagine. Praticare l’immaginazione sociologica è dunque la continuazione di un’arte intellettuale che cerca, come afferma Mills nelle pagine finali del suo saggio (ivi, 234), di resistere al feticismo del metodo e della tecnica inteso come un programma ipostatizzato e predefinito da una serie di operazioni da seguire indipendentemente dall’argomento prescelto (cfr. Marradi 1996, 73). Già Weber aveva cominciato a cogliere i primi segni del feticismo metodologico nelle nuove generazioni di studiosi, attratti dalla tecnicizzazione della ricerca. È il 7 novembre del 1917 quando il Weber oratore affida queste parole agli studenti dell’università di Monaco durante la celebre conferenza sulla Scienza come professione: Oggi negli ambienti giovanili è assai diffusa l’opinione che la scienza sia diventata un esercizio di calcolo che viene compiuto nei laboratori o nelle cartoteche statistiche soltanto con il freddo intelletto e non con tutta “l’anima”, al pari di quanto avviene in fabbrica. […] Non si può tentare impunemente, se si vuol conseguire qualche risultato, di scaricarli del tutto su qualche strumento meccanico; e ciò che alla fine ne viene fuori è spesso irrisorio. Ma chi non “ha un’idea” determinata sulla direzione del calcolo che sta compiendo e, durante il calcolo stesso, sulla portata dei risultati particolari che si raggiungono, non ne trae neppure quel minimo (Weber 2001, 14).
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Ascoltate nel contesto di crisi della sociologia contemporanea, le osservazioni critiche espresse da Weber risuonano come profetiche. La fine dell’utopia sociologica di poter racchiudere la vita associata in una visione generale, il suo stato di indeterminazione paradigmatica, il non aver raggiunto lo statuto di scienza normale nell’accezione che ne dà Kuhn, hanno lasciato un vuoto teorico occupato dal “freddo intelletto” dell’empirismo astratto1, ultimo baluardo per conferire rigore e certezza all’analisi sociale. Ciò che resta dell’uso della teoria sociologica si è ridotto, in tal modo, a un cerimoniale di riferimenti teorici che appaiono all’inizio delle ricerche empiriche, ma senza influenzarne l’effettivo svolgimento (cfr. Cole 1994, 140). Con il predominio della sociologia empirica (Adorno 1969: trad. it. 1972, 86), l’approccio ai fenomeni sociali è dominato piuttosto da uno stile a-teorico, da una visione tecno-operativa di fabbricazione dei prodotti scientifici basata sulla divisione scientifica del lavoro di ricerca, la scomposizione tra approcci empirici standard e qualitativi, l’uso crescente degli strumenti di precisione della Social Media Analytics, la riduzione della complessità dei fatti sociali in variabili calcolabili, e la specializzazione delle domande e degli oggetti di analisi. Un processo di razionalizzazione della ricerca sociale analogo a “quanto avviene in fabbrica” che tende a neutralizzare le qualità ideative dell’immaginazione sociologica e, di conseguenza, a rendere antiquata la figura del maestro intellettuale delineata da Mills. Nell’epoca della fabbricazione della ricerca sociale, il tipo ideale di sociologo è quello di un operaio specializzato della conoscenza, addestrato all’uso della macchina metodologica per sondare l’opinione pubblica (cfr. Sorokin 1956: trad. it. 1965, 299; Adorno 1972, 87; Mills 2014, 78) – rilevata da questionari strutturati, interviste semistrutturate o in profondità, focus group 1
Scrive a tal proposito Mills: “Al pari della Grande Teorizzazione, l’Empirismo astratto si aggrappa ad una congiuntura del processo del lavoro e se ne lascia dominare. Ambedue sono una rinuncia ai compiti delle scienze sociali. […] In quanto stile di scienza sociale, l’empirismo astratto non è caratterizzato da alcuna posizione e teoria sostanziale. Non è basato su alcuna concezione nuova della natura della società o dell’uomo o su alcun fatto particolare che la riguardi” (2014, 60 e 65).
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–, e sempre più alieno dalle grandi questioni che hanno strutturato la sua disciplina: “Cosa è la società?”; “Da cosa è composta?”; “Cosa la ordina?”; “Quale influsso esercita nella vita degli individui?”; “Cosa ne determina il mutamento?”. Nel ripercorrere Le regole del metodo sociologico di Durkheim e Il metodo delle scienze storico-sociali di Weber (vedi supra cap. I.5), abbiamo visto come le loro riflessioni metodologiche siano state accomunate dall’esigenza di dare risposta a tali domande, intrecciando le tecniche di ricerca in una cornice epistemico-gnoseologica più generale. La concezione del metodo dell’empirismo astratto invece non è più in-formata all’interno di questa cornice, ma si fonda sull’idea che la ricerca possa fare a meno degli aspetti più speculativi del pensiero scientifico. E così le tecniche empiriche, da utili strumenti dell’analisi sociologica, sono diventate esse stesse la cornice epistemico-gnoseologica entro la quale poter intrecciare l’eterogeneità dalla ricerca sociale con il massimo grado di oggettività possibile. Forti di questa concezione egemone del metodo, gli esponenti dell’empirismo astratto “rappresentano caricaturalmente i loro avversari come sognatori metafisici” (Adorno 1972, 43), ignari che il loro stile sociologico a-teorico sia anch’esso una teoria, una metafisica mascherata nei protocolli tecnici della ricerca. Lasciando la visione d’insieme della realtà sociale alla Grande Teorizzazione, che Mills identificava nel modello struttural-funzionalista di Parsons, l’empirismo astratto si affida all’immagine tecno-operativa del metodo (vedi supra cap. I.4), inteso come protesi cognitivo-strumentale capace di neutralizzare gli Idola, quelle false credenze religiose, filosofiche e ideologiche che distorcono lo sguardo del sociologo dai fatti sociali. E malgrado i metodologi più attenti spieghino come la documentazione empirica sia un costrutto prodotto dallo sguardo del ricercatore sociale sull’oggetto di ricerca (cfr. Amaturo 2012, 17; Corbetta 1999, 28), e che l’uso consapevole del metodo implichi una riflessione gnoseologica ed epistemica (Marradi 2007, 25), i seguaci dell’empirismo astratto non sembrano essere “generalmente consci del fatto che è proprio una filosofia quella sulla quale si fondano” (Mills 2014, 66).
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Coerentemente con questa concezione feticistica del metodo, il ruolo della creatività sociologica si riduce – come scrive Znaniecki (1934, 234) – “alla funzione di formulare ipotesi che devono essere testate con strumenti tecnici”. Qualche decennio dopo, anche Pitirim Sorokin ha posto l’accento sulla perdita di centralità della creatività sociologica: Forse la conferma più convincente dei difetti da noi discussi della moderna sociologia e psicologia, è data proprio dalla loro mancanza di creatività. Malgrado le centinaia di migliaia di ricercatori che hanno lavorato nei campi psicosociali per più di un quarto di secolo; malgrado tutto il tempo, le forze, le somme di denaro, le migliaia di corsi e di seminari tenuti nell’università, lo sviluppo e l’incremento dell’industria delle ricerche psico-sociali, i risultati di valore creativo sono stati assolutamente deludenti. […] Hanno quindi preferito dedicarsi alla scoperta di fatti, alle interviste, ed ai questionari, a piacevoli passeggiate nel loro campo e quindi al computo dei dati e cose simili. Certamente questa posizione anti-teorica è a sua volta, una specie di teoria ma i nostri “teorici antiteorici” sembrano non essersi resi ben conto di questo fatto e quindi non hanno nemmeno tentato di costruire una “teoria anti-teorica” coerente. […] Per ovvie ragioni nessuno di questi può essere considerato un innovatore (Sorokin 1965, 305-307).
La funzionalizzazione della creatività sociologica non è dunque riconducibile agli approcci standard dell’analisi quantitativa o a quelli non standard dell’analisi qualitativa, bensì da come i “teorici antiteorici” subordinino la creatività all’uso reificato di questi approcci. Privi di una “teoria anti-teorica” coerente, e dediti “alla scoperta di fatti, alle interviste, ed ai questionari, a piacevoli passeggiate nel loro campo e quindi al computo dei dati e cose simili”, gli empiristi astratti hanno ridotto la creatività alla funzione di ipotesi. E invece, la creatività sociologica, se portata fuori dal processo macchinico della ricerca, può essere utile a stimolare la riflessione metodologica verso l’ideazione di nuove tecniche quantitative e qualitative di analisi, a trasformare l’uso tecnico del metodo in un’arte interessata all’osservazione e alla rappresentazione dei fenomeni sociali. Un’arte dotata di ragionamento sociologico in cui anche la teoria può essere intesa non come sinonimo
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di astrazione, di teoresi disinteressata alla prassi, ma nell’accezione greca di theoria, ripresa da Habermas (1965: trad. it. 1978, 4), con cui si indica l’attività dell’osservare orientata a penetrare la prassi della vita in un perimetro conoscitivo più ampio. L’analisi weberiana del capitalismo è un esempio di come il raccordo tra theoria e praxis possa ampliare la conoscenza sociologica. È da un’osservazione teorico-generale che Weber ricava induttivamente gli elementi idealtipici del capitalismo, per poi individuarne l’origine nella visione religiosa del mondo protestante. Come separare nell’idealtipo la teoria dall’empiria? L’analisi induttiva della realtà sociale dal quadro teorico che la comprende? L’immaginazione dall’analisi sociologica? L’intuizione della complessità sociale dal rigore scientifico? L’idealtipo è un’immagine mentale creata dal sociologo attraverso un pensiero indiviso, unitario, non dicotomico in dialogo con il mondo sociale, e dunque aperto alla possibilità di mutare in relazione alla natura mobile e formatrice del sociale. Occorre infine accennare a un ultimo punto, non per ordine di importanza, dato che tocca nel vivo la politica accademica e, più precisamente, l’immaginario della valutazione (cfr. Pinto 2012) che presiede la costruzione, la legittimazione e la trasmissione della conoscenza scientifica. Affinché la creatività sociologica non diventi essa stessa un’astrazione, un’utopia della ricerca, occorre che la comunità dei sociologi dia ad essa l’opportunità di esprimersi, di poter deviare dall’immaginario tecnico della valutazione che governa e plasma l’ambiente in cui vive l’Homo academicus. Come hanno mostrato le analisi di Pierre Bourdieu, l’Homo academicus è anch’esso immerso in un campo di potere normativo – definito dalle gerarchie accademiche, dalle rappresentazioni che definiscono la scientificità, dai criteri di rigore metodologico a cui deve attenersi per accreditare le sue ricerche – nel quale deve posizionarsi, assecondandone le regole del gioco per “raggiungere l’efficacia simbolica e i vantaggi sociali che gli assicura la conformità alle forme esteriori della scienza” (1984: trad. it. 2013, 73). Se questa specie di Homo nasce dal desiderio di conoscenza, la socializzazione dentro le istituzioni accademiche lo porta ben presto alla consapevolezza che, per soddisfare la sua
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libido sciendi, deve incorporarne le norme. Il campo di potere accademico diventa così il suo habitus accademico, la coscienza trascendentale che fa da a priori al suo agire pratico nel mondo socialmente istituito della conoscenza (cfr. Bourdieu 1994, 155). Dietro l’immagine idealizzata della comunità scientifica abitata da ricercatori dediti alla produzione di un sapere libero e plurale, si cela pertanto la violenza simbolica prodotta dall’accordo tacito e forzato tra le strutture cognitive dell’Homo academicus e le strutture di dominazione oggettivate dalla comunità scientifica in cui è collocato (2013, 210). Malgrado ciò, l’habitus mentale dell’Homo sociologicus “non è – come specifica Bourdieu in Le Sociologue et l’historien (2010: trad. it. 2011, 86) – un destino, non è un fatum, come si sostiene che io dica; è un sistema di attitudini aperto, costantemente sottoposto a delle esperienze e, al contempo, trasformato da tali esperienze”. L’individuo pur se collocato in un ambiente immaginativo socialmente istituito non è mai totalmente dell’ambiente immaginativo (vedi supra cap. II.3). Pertanto, sia chi è assoggettato alla valutazione, e sia chi assume il ruolo di valutatore, non è solo l’unità organica in cui si riproduce l’Homo sociologicus, e neanche solo un semplice riproduttore dell’immaginario neutro nella sua comunità scientifica. Egli è piuttosto una sfera vitale singolare e autonoma, e dunque in grado di inventare tattiche nella vita quotidiana (de Certeau 1990) all’interno delle regole strategiche del gioco accademico. E sono queste tattiche che, aprendo degli interstizi nella microfisica disciplinare della comunità scientifica, possono permettere alla creatività dell’Homo sociologicus di continuare ad essere in azione reciproca con la vita associata, cercare un equilibrio contraddittoriale tra tradizione e innovazione scientifica, riaccordare theoria e praxis, stimolare l’immaginazione sociologica per fare dell’analisi sociale un’arte. Rendere porosa la comunità sociologica al pensiero creativo è ciò che dunque può favorire l’evoluzione della crisi delle sue strutture del sapere verso un nuovo periodo di sintesi: Che piaccia o no, la sociologia odierna è giunta a un bivio: l’una delle due strade che le si parano innanzi conduce a una nuova vetta di grandi sintesi e di più adeguati sistemi di sociologia, l’altra a
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un ordine di dogmi rigidi e logori, sprovvisti di élan creativo e di sviluppo conoscitivo. Personalmente crediamo che, di queste due strade, la sociologia sceglierà quello dello sviluppo creativo e farà il suo ingresso poi in un nuovo periodo di grandi sintesi (Sorokin1966: trad. it. 1974, 630).
Non possiamo che fare nostre le parole di Sorokin e continuare a percorrere il méthodos della creatività sociologica per giungere, nelle pagine che seguono, a una maggiore definizione di come possa tradursi in un quadro comprendente dei fenomeni sociali. 2. Baudelaire e Simmel: per una letteratura scientifica dei fatti sociali Quello che da qui in poi si vuol proporre è pensare la sociologia come una forma di letteratura scientifica, intesa come uno dei possibili percorsi della creatività nell’ambito della conoscenza della vita associata. Un percorso conoscitivo che non vuole assimilare la sociologia al genere narrativo, e neanche presupporre una qualche superiorità rispetto ad altre possibili forme in cui può esprimersi la creatività sociologica. Intendere la sociologia come letteratura implica il tentativo di formulare un discorso scientifico orientato all’arte della rappresentazione dei fatti sociali attraverso la prospettiva analitica dell’immaginario sociale. La prospettiva, come abbiamo visto (cfr. supra cap. II.4), nasce nel contesto delle tecniche pittoriche rinascimentali al fine di creare un effetto di tridimensionalità nella superfice bidimensionale del quadro. L’artificio ottico è ottenuto deformando le proporzioni degli elementi della raffigurazione in funzione di linee proiettive convergenti in un punto, detto “punto di fuga”. Esso sfugge a un primo sguardo eppure, grazie all’invisibilità di questo punto, l’osservatore vede con naturalezza quello che non c’è, ovvero la profondità nella superfice del quadro. Anche la vita associata è l’esito di una visione prospettica, collettivamente realizzata dai meccanismi di condivisione del senso, così sofisticata e pervasiva da essere esperita dagli individui come qualcosa di naturale e per l’appunto di reale. Al sociologo dell’imma-
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ginario, ma non solo a lui, spetta l’esecuzione di quel particolare esercizio scientifico che consiste nell’individuare, sulla superfice del fenomeno studiato, quegli indizi in grado di condurre all’invisibile nucleo immaginativo che ne istituisce la realtà profonda (Marzo / Mori 2019, 23). Una tale prospettiva analitica pone la sociologia lungo quella terza via rispetto alle scienze naturali e alla letteratura tracciata, come ha evidenziato Wolf Lepenies (1985: trad. it. 1987), da quel progetto culturale che tra ‘800 e ‘900 ha dato vita alle scienze sociali. La prima strada la imbocca lo scienziato per spiegare i fenomeni naturali come cose prive di coefficiente umanistico, come lo chiama Florian Znaniecki (1934, 37), ovvero oggetti della conoscenza spogliati del sistema valoriale sedimentato dal linguaggio, delle forme di credenza, delle ritualità collettive, dei prodotti culturali, degli artefatti, ecc. Lo studioso di scienze sociali, invece, si occupa della realtà istituita dall’immaginario sociale entro la quale le persone fanno esperienza degli oggetti culturali, li costruiscono e ne mutano le forme e i contenuti. Così, un brano musicale e l’importanza delle parole di una poesia, la realtà non materiale di un mito religioso accettato dai credenti, la forza mistica delle formule e dei gesti, la sacralità di determinate figure religiose, il potere economico attribuito a piccoli pezzi d’oro e di carta stampata, sono caratteri essenziali di questi oggetti che, al di là delle proprietà fisiche e chimiche, hanno il potere di influenzare i pensieri, i desideri e i comportamenti degli individui coerentemente al sistema sociale in cui interagiscono (ivi, 40). La strada imboccata dal letterato, invece, mette in forma il contesto esperienziale dell’immaginario sociale attraverso il punto di vista dell’Io narrante, senza la necessità di esplicitare i processi sociali che lo costruiscono e i metodi attraverso i quali il protagonista della storia giunge a rappresentarlo. Questo porta a quel patto narrativo con il lettore totalmente arbitrario basato sulla coerenza interna del mondo finzionale (cfr. Eco 1994, ed. 2000), refrattario quindi a qualsiasi processo di verificabilità, di coerenza interna tra teoria e pratica di ricerca a cui invece deve attenersi il sociologo. Si potrebbe dire che così
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come le scienze naturali neutralizzano il coefficiente umanistico dalle cose che osservano, la letteratura lo sovraccarica in termini soggettivi, producendo una sovrapposizione immediata dell’esperienza dello scrittore con il mondo da lui descritto. Questo non ha impedito la nascita di una relazione privilegiata tra immaginazione letteraria e immaginazione sociologica, così come è stato messo in evidenza da Gabriella Turnaturi (2003) e da altri sociologi italiani. Paolo Jedlowski definisce il racconto come un mondo aperto all’immaginazione (2009, 24), un universo dilatato dall’atto narrativo che include chi racconta e chi ascolta in uno spazio-tempo sospeso tra realtà sociale e una sua rimodulazione fantastica. L’atto del raccontare crea in tal modo un luogo d’interazione finzionale che ha il potere di reintrodurre l’enigmaticità dell’esperienza entro le certezze del senso comune (ivi, 28) istituite dall’immaginario sociale. Muovendosi in quest’ottica narratologica, Ercole Giap Parini si occupa di quel che della letteratura importa ai sociologi (2017). Per lui, il ricercatore sociale è immerso in un brusio della mente che da un lato lo allontana dalla scontatezza del mondo e, dall’altro, ne alimenta la creatività scientifica verso la produzione di nuove chiavi di lettura attraverso le quali poterlo ricomprendere (ivi, 15). Una condizione estraniante del ricercatore sociale che ha tendenza ad essere occultata dall’iper-specializzazione prodotta dall’autoreferenzialità del metodo e dall’idolatria delle teorie e che, come scrive Parini (ivi, 24-25), già Mills aveva individuato nella scissione tra la Grande Teorizzazione e l’empirismo astratto. Una deriva sociologica che, tacitando il brusio interiore del sociologo, ha l’effetto di chiudere il cassetto scomodo della sua immaginazione, lì dove invece per Parini occorre rovistare per creare immagini e metafore utili a cartografare, in termini non tecnici e non standardizzati, quel mondo in comune a lui estraneo. Il rapporto tra narrazione e sociologia è stato esplorato anche da Mariano Longo (2012), evidenziandone la nascita in quella parte eterodossa della tradizione disciplinare rappresentata da Florian Znaniecki, Robert Redfield e Robert Nisbet. Figure di una costellazione sociologica critica dell’ortodossia metodologica volta a
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ridurre la complessità dei processi sociali attraverso tecniche di ricerca standardizzate mutuate dalle scienze naturali. Ponendosi la domanda su cosa rende unitari i metodi del sapere sociologico, Longo (2012, 87-88) cerca di evidenziare come ogni ricerca empirica presuppone la presenza dell’homo loquens, un soggetto disponibile alla narrazione del sé e di ciò che lo circonda. Tanto più le tecniche utilizzate diventano astratte in termini teorici o empirici, attraverso strumentazioni di tipo statistico-matematico, tanto meno diventa chiaro il riferimento al soggetto che, parlando, definisce i costrutti di senso attraverso i quali decodifica e interpreta il campo intersoggettivo entro il quale fa esperienza. Come scrive la Turnaturi (2003, 20), in assonanza con Longo e Parini, questo porta l’osservazione sociologica a fotografare frontalmente i fenomeni sociali in una cornice oggettiva in cui, tuttavia, scompaiono i visi e le persone riprodotte in essa. Inoltre, il sociologo è anch’egli un homo loquens che costruisce le sue argomentazioni linguistiche ricorrendo a forme retoriche e metafore nella stesura dei testi scientifici. Ecco, dunque, che parafrasando quanto scrisse Alfred Schutz nel saggio su Don Chisciotte e il problema della realtà (1971: trad. it. 1995), il sociologo contribuisce a moltiplicare la realtà creando, al suo interno, un sotto-universo discorsivo che ne esplicita i processi di costruzione. Il sociale è un’opera collettiva prodotta dall’azione reciproca entro un ambiente immaginativo tipicizzato da province finite di significato2, un ecosistema se2
Scrive Alfred Schutz: “Solo una piccola parte della mia conoscenza del mondo ha origine nell’ambito della mia esperienza personale. La maggior parte è derivata socialmente, trasmessa a me dai miei amici, dai miei genitori, dai miei insegnanti e dagli insegnanti dei miei insegnati. Mi è insegnato non solo come definire l’ambiente (cioè i tratti tipici dell’aspetto naturale relativo del mondo che prevale all’interno del gruppo come l’indiscussa ma la sempre discutibile somma totale di realtà date per scontate fino a prova contraria), ma anche come i costrutti tipici devono essere formati in accordo con il sistema di attribuzione di importanza accettato dall’anonimo punto di vista unificato del gruppo cui si appartiene. Ciò include modi di vita, metodi per venire a patti con l’ambiente, ricette efficaci per l’uso dei mezzi tipici per adattare fini tipici a situazioni tipiche. Il mezzo tipicizzato per eccellenza attraverso cui la conoscenza socialmente derivata viene trasmessa sono il vocabolario e la sintassi del linguaggio quotidiano” (1979, 14).
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miotico capace di stabilizzare il disorientamento organico della specie Homo (cfr. supra cap. II.2). Intendere la sociologia come letteratura scientifica apre una strada possibile all’immaginazione sociologica per andare oltre (méthodos) l’immaginario prodotto dal mondo sociale e, al contempo, andare al di là della fantasia romanzesca. Il suo obiettivo è quello di creare una finzione idealtipica, così come lo stesso Weber aveva già detto essere la specificità del metodo delle scienze storico-sociali, attraverso cui analizzare e rappresentare quella porzione di senso finito in cui abitano le comunità umane affrancandosi dall’insensatezza del mondo. È questo approccio più ampio del metodo sociologico che secondo Robert Redfield (1948, 185-185) lo rende analogo a quello usato dalla creatività artistica del romanziere. Ciò che per Redfield (ivi, 185), così come per Longo (2012, 90-91), differenzia lo studioso di scienze sociali dal romanziere è il fatto che quest’ultimo si fa guidare esclusivamente dall’immaginazione, stimolata da una lettura esclusivamente intuitiva dell’esperienza, mentre il primo tempera l’immaginazione in stretta relazione ai fatti sociali investigati, esplicitandone il metodo di osservazione in modo tale da poter essere percorso anche da un altro ricercatore. I legami tra realtà sociale e la sua narrazione scientifica fin qui esposti non sono gli unici. Esiste un ulteriore affinità in questa relazione: quella della mimesis, la facoltà umana dell’imitazione che per Aristotele (cfr. 1987, 125) è la fonte a cui attinge l’arte del narrare. Paul Ricœur costruisce una circolarità tra realtà e racconto entrando nel cuore del processo mimetico aristotelico. La sua tesi, sostenuta in Temps et récit (vol. I 1983: trad. it. 2016), è articolata sull’idea che la narrazione non è qualcosa che possa essere relegata ai giudizi estetici della critica letteraria essendo, invece, quel costrutto linguistico in cui si configura il senso profondo dell’esperienza umana. Ricœur distingue tre fasi della mimesis aristotelica tra loro connesse in un movimento spiroidale che apre la narrazione al reale e, viceversa, il reale alla narrazione. Il punto d’origine della spirale poietica Ricœur lo indica con la mimesis
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I, la fase imitativa in cui il narratore trova il materiale compositivo in una precomprensione del mondo dell’agire. A differenza di Platone, questa fase iniziale della mimesis aristotelica non attinge da modelli metafisici, ma direttamente dal fare umano essendo una mimesis praxeos (ivi, 73). Anche il sociologo, sensibile alla narrazione dei fatti sociali, centra la spirale del suo metodo comprendente nel campo empirico dell’agire sociale per analizzare, in termini di generalità, l’immaginario sociale che ne sottende l’orizzonte di senso. Un’analisi che impegna la sua creatività a mettere in azione reciproca il brusio della mente descritto da Parini, alimentato e strutturato dalla teoria sociologica, con i fenomeni collettivi osservati nel perimetro del campo di ricerca prescelto. Se l’opera narrativa inizia dall’imitazione della praxis, per Ricœur, la mimesis II è la fase della spirale mimetica che traspone in chiave metaforica il piano concreto dell’agire nell’ambito finzionale del come se (ivi, 111-118). Questo mondo altro dal reale è attraversato da una duplice temporalità: una cronologica e una non cronologica. La dimensione cronologica è quella che Ricœur connette al tempo lineare tessuto dalla trama in cui i fatti narrati si dispongono tra un prima e un dopo. La dimensione non cronologica, invece, è una temporalità verticale che raccoglie i fatti dispersi cronologicamente dalla trama in una sola storia che conferisce loro intensità significativa. La narrazione sociologica opera anch’essa all’intersezione di queste due temporalità. L’asse cronologico è quello che impegna il sociologo a esporre il fatto sociale in base a una sequenza argomentativa logico-razionale che, tra un prima e un dopo, rende coerente la trattazione scientifica in base a un determinato quadro teorico. La dimensione non cronologica è la prospettiva ipotetico-interpretativa che raccoglie la sua narrazione scientifica in un piano metaforico, in un come se idealtipico, entro il quale comprendere i significati collettivi che presiedono al fatto sociale considerato. Per James Clifford (2010: trad. it. 2017), la metafora in ambito scientifico non è una astrazione o una interpretazione che trascende il campo della ricerca, ma la condizione attraverso cui i dati raccolti in esso diventano significativi. A differenza
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dell’approccio positivista, legato all’idea di un legame immediato con i fatti sociali, la letteratura sociologica media i dati di realtà creando una narrazione metaforica – Clifford si riferisce in particolare a quella etnografica – orientata a dare ad essi una prospettiva di profondità analitica. La metafora della narrazione sociologica (mimesis II) rompe il cerchio chiuso del senso comune, che definisce la praxis dell’agire sociale (mimesis I), aprendo una spirale interpretativa dei fatti sociali, un piano ideativo-riflessivo in cui comprendere gli effetti di realtà dell’immaginario sociale. La mimesis III è, per Ricœur, la fase finale del processo mimetico che riporta la finzione nel reale (ivi, 124-132), rendendo vivido il piano metaforico della narrazione (mimesis II). È nello spettatore che si compie questo terzo movimento mimetico in cui il pathos suscitato in lui dalla narrazione produce quella catarsi del suo animo grazie alla quale può rifigurare la sua esperienza concreta. La spirale narrativa creata dall’immaginazione sociologica fornisce anch’essa al suo lettore un modello metaforico, empirico-ideale, da cui attingere per osservare sotto un’altra luce quel mondo esperienziale che condivide con gli altri. È la tesi sostenuta da Robert Nisbet nell’articolo Sociology as an Art Form (1962), sviluppata poi nel saggio del 1976. Per il sociologo americano, i padri fondatori della disciplina – Tocqueville, Marx, Tönnies, Weber, Durkheim e Simmel (Nisbet 1976, 6-7) – hanno messo in forma dei quadri metaforici entro i quali rappresentare, a sé stessi e ai loro contemporanei, il paesaggio incerto della modernità. Fin dalle origini, dunque, la spirale creativa del metodo sociologico ha prodotto una letteratura finalizzata all’arte della rappresentazione dei fatti sociali. Quest’arte sociologica diventa ancora più preziosa visto che, come scrive Ballard, viviamo in una realtà romanzesca fantascientifica: Viviamo in un mondo governato da fantasie di ogni specie: promozione di prodotti di massa, pubblicità, volgarizzazione immediata di scienza e tecnologia in immagini popolari, confusione e fusione di identità nel settore dei consumi, svuotamento di ogni libertà od originale risposta immaginativa all’esperienza da parte della televisione. Viviamo insomma all’interno di un enorme romanzo. Allo
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scrittore in particolare è quindi sempre meno necessario inventare il contenuto fantastico del proprio romanzo. […] Il metodo più prudente ed efficace per affrontare il mondo che ci circonda è quello di considerarlo un puro e semplice parto fantastico; per converso, l’unico modulo di realtà che ci rimanga è quello che abbiamo nel cervello. La classica distinzione tra contenuto latente e contenuto manifesto del sogno va ora applicata al mondo esterno della cosiddetta realtà (Ballard 1973: trad. it. 1999, 5-6).
Nell’epoca del paesaggio digitale, il mondo descritto da Ballard è diventato un romanzo interattivo in cui immaginazione individuale e immaginario tecno-scientifico si confondono in un orizzonte di neutralità governato da fantasie di ogni specie d’ordine simulacrale. La letteratura sociologica è una delle possibili strade in cui può incanalarsi l’immaginazione del ricercatore sociale per elaborare moduli concettuali, delle metafore scientifiche in grado di individuare e rappresentare i nuclei profondi che strutturano la realtà della società neutra. È stato Georg Simmel, “per molti aspetti il più dotato di immaginazione e intuitivo di tutti i grandi sociologi” (Nisbet 2016, 52), ad aver aperto la strada alla letteratura sociologica per analizzare nella superfice della modernità la sua profondità. Malgrado sia stato cristallizzato nell’immagine del pensatore asistematico e impressionistico (cfr. Lukács 1918: trad. it. 2001), vedremo invece come Simmel sia un riferimento prezioso per estrapolare dalle sue opere elementi ancora utili a dare un fondamento epistemico e metodologico alla creatività sociologica. Se Comte, Durkheim e lo stesso Weber hanno letto le trasformazioni della società industriale del XIX secolo mediante la creazione di quadri analitici generali (la società positiva, la divisione sociale del lavoro, il processo di razionalizzazione), Simmel coglie il carattere mobile e formatore della modernità a partire dai frammenti della vita quotidiana. Refrattario a una definizione aprioristica del sociale, Simmel elegge il quotidiano a campo empirico del metodo sociologico, intendendolo come il telaio entro il quale donne e uomini allacciano, sciolgono e riallacciano continuamente i fili di una fitta trama relazionale entro la quale si vincolano l’un l’altro (Simmel
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1908: trad. it. 1998, 20). Le forme d’associazione sono i nodi della rete tessuta dall’azione reciproca, i punti in cui il fluire della vita associata si sedimenta in base a scopi e contenuti di senso tra loro differenziati. Coerentemente a ciò, l’osservazione simmeliana si avvale di un’ottica microscopica attenta alle relazioni minime in cui le persone si guardano e si chiedono la strada, sviluppano sentimenti di simpatia e antipatia, provano gelosia, si scrivono lettere, pranzano assieme, scelgono vestiti e ornamenti per l’altro, producono legami altruistici (ivi, 21). Fenomeni apparentemente insignificanti e banali che per Simmel, invece, sono alla base dei processi attraverso cui gli individui ipostatizzano le formazioni superiori che costruiscono la realtà macro-sistemica del sociale. Pertanto, il suo metodo procede induttivamente dai dettagli del vissuto ordinario esplicitandone le particolarità e, a partire da ciò, comprenderne quei tratti comuni che connotano il volto di una determinata fase di civiltà. La moda, la metropoli, l’ornamento, la civetteria, l’avventura amorosa, l’economia monetaria, la circolazione dello straniero, l’assistenza al povero, la produzione estetica e di oggetti industriali, sono parte di quel materiale compositivo grezzo che Simmel ha estratto dalla vita associata rappresentandolo nelle sue raffinate opere sociologiche. Una letteratura sociologica eterogenea che, se osservata nel suo insieme, rivela il paesaggio informe della modernità entro il quale le trame tessute dall’azione reciproca hanno difficoltà ad annodarsi in forme associative durevoli3. L’accelerazione impressa dallo spirito oggettivo e oggettivante della tecnica alla vita moderna è la causa prima del carattere amorfo del volto dell’epoca. La tecnica è la fonte principale del flusso incessante della vita moderna, e le forme (sociali, oggettuali, estetiche, politiche, economiche, ecc.) diventano strumentali ad alimentare la sua volontà di potenza. 3
Scrive Simmel riferendosi alla particolarità del conflitto tra forma e vita nel contesto della civiltà moderna: “Presentemente noi siamo in mezzo a questa nuova fase dell’antica lotta, che non è più lotta della forma oggi riempita dalla vita contro la vecchia divenuta priva di vita, ma la lotta della vita contro la forma in generale, contro il principio della forma” (1999, 15).
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Simmel fissa con la morte di Goethe, avvenuta il 22 marzo del 1832, la data simbolica che ha dato avvio al connubio tra civiltà e tecnica, a quella fase regressiva della cultura occidentale verso una esteriorizzazione della vita: Se volessimo caratterizzare in poche parole il corso intrapreso della civilizzazione fin dai tempi della morte di Goethe, forse potremmo dire che esso ha portato ad un aumento, raffinamento e perfezionamento del contenuto materiale della vita, mentre la cultura, lo spirito soggettivo e la moralità delle persone non hanno raggiunto in alcun modo lo stesso grado di sviluppo. I mezzi di scambio, gli strumenti tecnici, le macchine, le istituzioni sociali, i metodi della conoscenza scientifica, le costituzioni degli Stati, l’aspetto tecnico delle opere artistiche, così come le forme del traffico commerciale e finanziario sono giunti ad un livello di complessità ed effettività senza precedenti e tuttavia nessuno affermerebbe che il genere umano si sia affinato, elevato ed arricchito spiritualmente in modo analogo. […] Nell’insieme, comunque, l’osservatore sarà d’accordo sul fatto che si è verificato un aumento dell’esteriorizzazione della vita, che il lato tecnico ha preso il sopravvento sull’aspetto interiore della vita, sui valori umani (Simmel 1902: trad. it. 2000, 57).
È uno dei rari punti degli scritti simmeliani in cui è formulato un giudizio nettamente critico, quasi moralista, sul corso storico intrapreso dalla società occidentale. Solitamente, infatti, Simmel restituisce nelle sue analisi le ambivalenze della vita moderna, un approccio che spesso evidenzia come essa sia anche il campo di massima espressione della libertà individuale. Nella citazione, tuttavia, è proprio l’involuzione dello spirito soggettivo degli individui a manifestare, in un rapporto inversamente proporzionale, l’evoluzione tecnica dello spirito oggettivo in cui a prevalere sono i “mezzi di scambio, gli strumenti tecnici, le macchine, le istituzioni sociali, i metodi della conoscenza scientifica, le costituzioni degli Stati, l’aspetto tecnico delle opere artistiche, così come le forme del traffico commerciale e finanziario”. Tutte queste materializzazioni dello spirito oggettivo sono sintomatiche, per Simmel, della perdita di un centro simbolico capace di dare forma ai significati di un’epoca (1999, 24), e
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rivelative di come il mundus imaginalis moderno sia governato dalla tecnica. L’analisi simmeliana della modernità, pertanto, è prefigurativa dell’immaginario neutro di cui ci siamo occupati. E poiché anche i metodi della scienza sono forme di conoscenza oggettivate dalla tecnica, Simmel crea un metodo empirico-ideale per sottrarre dall’ecosistema immaginativo moderno quei tasselli di vita quotidiana più utili per comporre la realtà frammentaria della sua epoca. Una sensibilità metodologica che, come ha messo in evidenza David Frisby (1992, 59), è profondamente affine alle analisi della modernità di Charles Baudelaire: In relazione alla sua teoria sociale complessiva è plausibile sostenere che Simmel è il primo sociologo della modernità nel senso in cui la intese Baudelaire. Più di qualsiasi altro sociologo a lui contemporaneo Simmel è riuscito ad esprimere e ad analizzare i modi di esperire il “nuovo” e “moderno” mondo-della-vita. E ciò almeno in parte può essere dovuto sia al suo profondo interesse estetico per la modernità – un fatto che lo avvicinerebbe maggiormente a Baudelaire – sia al suo modo di esporre l’esperienza moderna che testimonia che Simmel stesso è stato un modernista (Frisby 1992, 59-60).
Muovendosi sulla stessa linea interpretativa tracciata da Nisbet, anche Frisby individua in Simmel un esponente della sociologia intesa come forma d’arte nell’accezione data da Baudelaire. D’altronde, abbiamo visto come i processi creativi dell’artista e dello scienziato (vedi supra cap. II.4) – nel nostro caso un poeta e un sociologo – attingano entrambi all’immaginario della loro epoca rivelandone, se pur con metodi diversi, il campo di significazione entro il quale prende forma la realtà sociale. Baudelaire è l’uomo creativo ad aver concettualizzato per primo l’immaginario della modernité da flâneur, ovvero vagando, oziando, sostando, perdendosi nel labirinto dei boulevards e nei passages della Parigi haussmanniana del XIX secolo. Una pratica urbana disfunzionale attraverso la quale Baudelaire si immerge nell’ambiente metropolitano per estrarre, così come farà Simmel (cfr. 1903: trad. it. 1996) e poi Benjamin (cfr. 1982: trad. it. 2000), l’essenza della vita moderna. Le peintre de la vie moderne
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è la summa dell’estetica baudelairiana (Ferrari 2004, 71), lo scritto in cui le derive metropolitane compiute dal poeta diventano parte di una mappa psico-geografica della vita moderna. Opera breve, pubblicata da Le Figaro in tre parti – il 26 e il 29 novembre e il 3 dicembre del 1863 –, confezionata da Baudelaire nel genere dell’omaggio al pittore Costantin Guys. Ma come si comprende fin dalle prime pagine, Baudelaire usa l’opera e la personalità di Guys più che altro come espediente narrativo per formulare una propria riflessione sull’esperienza estetica della modernità destinata, come sottolinea Frisby (1992, 28), a influenzare la teoria sociale. È con queste parole che il pittore-poeta Baudelaire ritrae la modernità: La modernità è il transitorio, il fuggitivo, il contingente, la metà dell’arte, di cui l’altra metà è l’eterno e l’immutabile. Vi è stata una modernità per ogni pittore antico; e la maggior parte degli splendidi ritratti che ci restano dei tempi passati indossano i costumi del proprio tempo. Essi sono perfettamente armoniosi dal momento che il costume, l’acconciatura, e persino il gesto, lo sguardo e il sorriso (ogni epoca ha il proprio portamento, il proprio sguardo e sorriso) formano una compiuta vitalità. E questo elemento transitorio, fuggitivo, dalle metamorfosi così frequenti, nessuno ha il diritto di disprezzare e di trascurare. Quando lo si sopprime, si cade per forza nel vuoto di una bellezza astratta e indefinibile. […] Insomma, perché ogni modernità acquisti il diritto di diventare antichità, occorre che ne sia tratta fuori la bellezza misteriosa che vi si immette, inconsapevole, la vita umana (Baudelaire 1863: trad. it. 2004, 28).
Già da subito risuona la dissonanza baudelairiana rispetto all’idea progressiva del tempo. La modernità non è quel tratto ultimo della Storia – dato che vi è stata una modernità per ogni pittore antico – ma una fase che ciclicamente circoscrive i contorni delle epoche. La linea temporale è in tal modo il filo che inanella i cicli della modernità. Il pittore, e in generale l’artista, è colui che estrae l’eterno dal carattere transitorio, fuggevole, effimero della modernità in cui vive. E questo elemento di eternità è quell’ideale di bellezza attorno al quale si dispongono le forme estetiche di una determinata epoca. Pertanto, il valore artistico di un’opera dipende dal carattere di presente che il suo creatore immette in
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esso, e senza il quale l’opera cadrebbe nel vuoto di una bellezza astratta e indefinibile. Solo quando questa corrispondenza estetica tra eterno ed effimero si consuma fino in fondo, il presente diventa passato, lasciando spazio a un nuovo e irrepetibile ciclo della modernità. Anche il mutamento sociale descritto da Simmel ha un andamento ritmato dall’eterno conflitto tra forma e vita. Noi parliamo di civiltà quando il moto creatore della vita ha espresso certe formazioni in cui esso trova la propria estrinsecazione e le fogge della sua realizzazione, e che dal canto loro sussumono in sé le fluttuazioni della vita che segue e danno ad esse contenuto, forma e sfera d’azione, ordine. Tali sono le costruzioni sociali e le opere d’arte, le religioni e le conoscenze scientifiche, i sistemi di tecnica, e le leggi civili e innumerevoli altre. […] Il mutamento continuo dei contenuti della civiltà, e da ultimo dell’intero stile di questa, è l’indice o piuttosto la conseguenza della infinita fecondità della vita, ma anche della profonda contraddizione in cui sta il suo eterno divenire e mutarsi con l’obbiettiva validità e l’affermazione delle sue manifestazioni e forme, con le quali o nelle quali essa vive. Essa si muove tra morire e divenire, divenire e morire (Simmel 1999, 11 e 13).
E dunque, così come in Baudelaire, per Simmel non esiste una Storia universale ma un pluriverso di storie relative a ciascun ciclo di civiltà aperto dal sorgere di un centro di significato che allargandosi, in contenuti sempre più perfezionati e differenziati, perde man mano la sua forza vitale portando al sorgere di una nuova epoca di civiltà (ivi, 12). Ciò che permane in questo succedersi tragico delle civiltà sono le forme pure della vita associata tra le quali, come si legge nella citazione, “le costruzioni sociali e le opere d’arte, le religioni e le conoscenze scientifiche, i sistemi di tecnica, e le leggi civili e innumerevoli altre”. Forme pure che sebbene permangano non esistono in sé, ma sempre in forme impure differenziate dai contenuti storico-culturali fatti emergere dall’azione reciproca. Per riprendere quanto afferma Baudelaire in relazione al permanere dell’ideale di bellezza, considerare le forme pure fuori dal carattere mutevole dell’epoca significherebbe cadere nel vuoto di una realtà sociale astratta e indefinibile.
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Pertanto, se l’artista nell’accezione baudelairiana è colui che estrae dalla superfice del presente l’ideale eterno della bellezza oggettivandolo in opere estetiche, il sociologo, nell’accezione simmeliana, è colui che estrae dalla superfice del quotidiano il conflitto eterno tra forma e vita oggettivandolo in opere scientifiche. Nel Il pittore della vita moderna, Baudelaire indica un vero e proprio metodo induttivo di estrazione dell’eterno dall’effimero. Il concetto di modernità viene distillato infatti solo alla fine in un percorso intrapreso dal poeta flâneur nella metropoli parigina. Un’odissea nell’ondeggiare tumultuoso della folla urbana che ha le sue tappe principali in tre luoghi: il museo, la strada, il quadro. Come si cercherà di evidenziare, questo percorso baudelairiano descrive in termini metaforici il metodo seguito da Simmel per conoscere, osservare e mettere in forma la vita moderna. La metafora [dal lat. metaphora, gr. metaphorá “trasferimento”] è una figura retorica creata dalla trasposizione dei significati canonici di un termine o di una locuzione in un piano di significazione nuovo che, come precisa Ricœur (1975: trad. it. 2020, XVIII), “ha il potere di riscrivere il reale, aprendo inedite dimensioni di esso”. Nel nostro caso, il museo, la strada e il quadro verranno intesi come i luoghi metaforici entro i quali trasferire l’epistemologia, l’analisi empirica e la prospettiva interpretativa simmeliana in un nuovo piano di significazione. Muovendoci al suo interno, l’obiettivo è quello di aprire una strada conoscitiva alla creatività sociologica verso una forma di letteratura scientifica dei fatti sociali. 3. Il museo e il reticolo epistemico Il Louvre è stato il primo museo in senso moderno. Le sue porte si sono aperte per la prima volta al grande pubblico nel 1793, sino ad allora era stato l’antica residenza dei re di Francia. È l’immaginario politico della Prima Repubblica, nata dai moti rivoluzionari del 1789, a cambiarne la destinazione d’uso in luogo espositivo delle collezioni confiscate alla corona e alla nobiltà francese. D’altronde, le loro collezioni erano esse stesse nate da una sottrazione coatta di manufatti, opere estetiche e reperti archeologici
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dalla naturale caducità delle cose. Tra le pagine de I “passages” di Parigi, Walter Benjamin cattura lo spirito del collezionismo: Ciò che nel collezionismo è decisivo, è che l’oggetto sia sciolto da tutte le sue funzioni originarie per entrare nel rapporto più stretto possibile con altri oggetti a lui simili. Questo rapporto è l’esatto opposto dell’utilità, e sta sotto la singolare categoria della completezza. Cosa è poi questa completezza? Un grandioso tentativo di superare l’assoluta irrazionalità della semplice presenza dell’oggetto mediante il suo inserimento in un nuovo ordine storico appositamente creato: la collezione. […] È l’incantesimo più profondo del collezionista quello di iscrivere il singolo oggetto in un cerchio magico in cui esso si irrigidisce, nell’atto stesso in cui un ultimo brivido (il brivido di essere stato acquistato) lo attraversa. Tutto quanto fu oggetto di memoria, pensiero, coscienza, diventa piedistallo, cornice, basamento, scrigno del suo possedimento (2000, 214).
Per Benjamin, dunque, il collezionista raggela ciò che tocca in una eternità sterilizzata da ogni funzione pratica. Gli oggetti compresi nel suo cerchio magico, perdendo il loro valore d’uso originario, si trasformano in feticci valorizzati da un ordine storico artificioso. Con il museo del Louvre, l’incantamento generato dallo spirito del collezionismo si nazionalizza in un ordine storico-architettonico fruibile da tutti. È in tal modo che il processo di musealizzazione, destinato da lì in poi a diffondersi nelle grandi capitali europee e poi mondiali, comincia a fabbricare una memoria di massa connotata dalla contemplazione astratta del passato, “ingabbiandolo e relegandolo in un limbo di cristallo, una scatola trasparente, senza nessuna possibilità di dialogo con il presente, e quindi con il futuro” (Peregalli 2022, 167). L’ordinamento spaziale del museo, contro-luogo della fabbrica, non fa che riprodurre e serializzare il senso storico della modernità conferendo a pezzi del patrimonio culturale un’artificiosa aura di unicità. Come scrive Simmel, ne I problemi della filosofia della storia (1907: trad. it. 2001, 12-13), la rappresentazione del tempo è possibile solo quando si tracciano dei confini attorno al continuo e variegato succedersi dei fatti. Ciascuna cultura traccia in modo
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arbitrario tali confini in base a una propria visione del mondo, in modo tale da poter ricondurre la mutevolezza degli accadimenti sociali e naturali in una forma di comprensione. Per Simmel, pertanto, le forme della Storia sono gli a priori attraverso cui le comunità umane entrano in relazione significativa con il tempo. Le metanarrazioni sono i grandi racconti collettivi che riempiono di contenuti immaginativi (magici, mitologici, religiosi, ideologici, utopici) le forme della storia. Se, per Ricœur (2016, 91), l’incessante flusso della temporalità diventa tempo umano quando è fissato da un modulo narrativo, quello metanarrativo umanizza il tempo di un’intera società fissando nessi simbolici durevoli tra passato-presente-futuro. Il museo, invece, è la crono-architettonica della Storia svuotata dalla funzione metanarrativa, e dunque incapace di ricucire simbolicamente il tempo sociale. Tra le sue mura, infatti, prende forma un quadro sociale della memoria di tipo volontario nel quale, come ci dice Benjamin (1995, 92), le informazioni che provengono dal passato non conservano nulla di esso. Nelle società tradizionali, era la macchina rituale che riattivava la narrazione religiosa tessendo, grazie alla performatività dei corpi (Connerton 1999, 93), legami cognitivi ed emozionali tra la memoria individuale e quella collettiva. D’altronde, in nessun’altra cultura o civiltà precedente alla nostra si era mai immaginato di costruire dei musei, dei luoghi cimiteriali4 della memoria in cui ammassare oggetti spogliati di valore simbolico-religioso. Passeggiare tra le sale dei grandi musei, rende tangibile l’immagine con cui Jean-François Lyotard (1979: trad. it. 1981, 6) descrive il nomadismo dell’uomo postmoderno tra le macerie prodotte dal crollo delle metanarrazioni, il suo aggirarsi tra ciò 4
Scrive a tal proposito Roberto Peregalli: “Un esempio emblematico è la piramide di vetro e acciaio innalzata davanti al Louvre, monumento sepolcrale per eccellenza, una scultura che maschera la sua vera funzione, quella di essere l’ingresso principale al museo. I visitatori sono costretti a scendere nel sottosuolo, come per la metropolitana o le cripte dei cimiteri, fare un lungo percorso per poi risalire in superficie a vedere le opere. È un sottosuolo accecante, rivestito di marmo funerario, dove l’elemento rigoroso e umano dell’edificio originario ha lasciato il posto a un insensato shopping-center” (2022, 161).
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che resta dei grandi eroi, dei grandi pericoli, dei grandi peripli e dei grandi fini della Storia andati in frantumi sotto forma di quadri, vasi, sculture, armature, rovine di templi, statue votive e quant’altro. Per quanto ciascuno di questi frammenti riesca a catturare l’attenzione dei visitatori, lungo le loro estenuanti maratone culturali, nessuno di questi sguardi riesce a riempire il vuoto simbolico-rituale che li attornia. L’immaginario neutro si riconfigura, in tal modo, nell’ambiente museale nella forma di una memoria simulacrale frazionata e quantitativa, di un ordine tassonomico della Storia entro il quale le specie oggettuali perdono le loro qualità pratico-simboliche. Baudelaire è stato tra i primi a fare esperienza della musealizzazione del passato elevandola a uno dei nuclei germinali della sua riflessione estetica sulla modernità. Pertanto, non c’è da stupirsi se Il pittore della vita moderna si apra al lettore con la descrizione del primo museo della storia moderna: In questo mondo, e così nel mondo degli artisti, ci sono di quelli che vanno al Museo del Louvre, passando in fretta, senza degnarli di un’occhiata, dinnanzi a una massa di quadri vivi e interessanti, ancorché di second’ordine, e si piazzano in estasi di fronte a un Tiziano o a un Raffaello, a uno di quelli divenuti più popolari in virtù dell’incisione e della stampa; poi escono tutti soddisfatti, e più d’uno mormora: “Oh, conosco il mio museo”. Allo stesso modo, c’è chi per aver letto una volta Boussuet e Racine, crede di possedere tutta la storia della letteratura (Baudelaire 2004, 11).
Baudelaire, dunque, inizia l’esplorazione urbana della Parigi capitale del XIX secolo (Benjamin 2000) da una esperienza immersiva nelle sale del Louvre, lì dove il fluire tumultuoso della modernità sembra ristagnare. Come si evince dalle sue parole, Baudelaire non è tanto interessato alle opere esposte. La sua postura di osservatore è più prossima a quella di un etnologo interessato al museo inteso come quel campo privilegiato in cui cogliere la relazione che intercorre tra le opere e il pubblico. Ritroveremo questo posizionamento di ricerca anche nelle pagine successive de Il pittore della vita moderna tanto da po-
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terlo considerare, senza troppe forzature, come il taccuino di un resoconto etnografico nel quale Baudelaire registra le oscillazioni della vita moderna, grazie alla sua abilità di osservatore e di letterato, recandosi nei luoghi in cui essa si rivela con maggiore intensità. Nel museo, Baudelaire registra il rapido consumo della fruizione estetica attraverso l’osservazione di “quelli che vanno al Museo del Louvre, passando in fretta, senza degnarli di un’occhiata, dinnanzi a una massa di quadri vivi e interessanti”. Ecco, dunque, che lo spirito accelerato della modernità viene incorporato dagli spettatori descritti da Baudelaire, facendolo circolare persino nella quiete dell’atmosfera museale. Affrettandosi tra le sale del monumentale edificio, le folle che scorrono tra le gallerie del Louvre creano uno scambio labile, distratto e istantaneo con il bello incapace, quindi, di entrare in una relazione profonda con ciò che contemplano. Pertanto, si tratta di una esperienza estetizzante già prefigurata dalle immagini più popolari “in virtù dell’incisione e della stampa”. Istruiti e mobilitati dalla moda culturale, la folla del museo diventa indifferente alla forza vitale contenuta in certe opere considerate minori, piazzandosi in estasi davanti ai quadri di Tiziano e Raffaello per poi mormorare: “Oh, conosco il mio museo”. All’uscita dal museo è con questa locuzione lapidare che il visitatore sazia la fame di erudizione, incosciente di aver attinto a frutti rinsecchiti della storia antiquaria, come la definisce Nietzsche (1874: trad. it. 2003, 27), a quel senso del passato non più irrorato dalle energie vitali del presente. Baudelaire è, invece, l’osservatore che si nutre di vivide impressioni dalla sua escursione nel Louvre. Perdendosi da flâneur tra le sue sale, egli rompe lo schema di fruizione della memoria volontaria architettata dal museo, e dalla moda veicolata dalla stampa, per comprendere il presente della sua epoca in forza del passato. Le grandi opere, quelle minori, così come le serie di stampe dedicate agli abiti dell’epoca rivoluzionaria, sono per lui le morali estetiche del tempo da cui estrarre il carattere di eternità del bello:
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Il bello è fatto di un elemento eterno, invariabile, la cui quantità è oltremodo difficile da determinare, e di un elemento relativo, occasionale, che sarà, se si preferisce, volta a volta o contemporaneamente, l’epoca, la moda, la morale, la passione. Senza questo secondo elemento, che è come l’involucro dilettoso, pruriginoso, stimolante del dolce divino, il primo elemento sarebbe indigeribile, non degustabile, inadatto e improprio alla natura umana. Sfido chiunque a scovarmi un esemplare qualsiasi di bellezza dove non siano contenuti i due elementi. […] La dualità dell’arte è una conseguenza fatale della dualità dell’uomo. Se si crede, si può benissimo considerare la sussistenza eterna come l’anima dell’arte, e l’elemento variabile come il suo corpo (Baudelaire 2004, 14-15).
Dopo aver descritto i tratti tipici della relazione tra massa e arte, Baudelaire li riconduce induttivamente in un piano riflessivo generale in cui creare una propria epistemologia estetica, una scienza della conoscenza del bello in cui si rispecchia la dualità della natura umana: il bello è quell’anima eterna che si incorpora di volta in volta in forme artistiche che variano in relazione all’immaginario sociale in cui sono state prodotte. Ed è in virtù di ciò che le opere estetiche, come si è detto (cfr. supra cap. II.3), sono degli oggetti psico-collettivi in cui il Sé creativo dell’artista penetra e rivela l’ambiente immaginativo della sua epoca. Il museo è l’ordinamento spaziale da cui la creatività letteraria di Baudelaire ricava la conoscenza relativa del carattere eterno del bello e dal quale, al medesimo tempo, porta in luce l’immaginario della modernità. Anche la visione scientifica moderna ha dato vita a un ordinamento topografico della conoscenza analogo a quello del museo nel quale, come si è detto (cfr. supra cap. II.5), il sapere si è frazionato nei riquadri di un reticolo epistemico-disciplinare da cui, tuttavia, non appare un’immagine unitaria del reale. Se il processo di musealizzazione ha neutralizzato la conoscenza profonda del passato, il processo di specializzazione della scienza ha neutralizzato le grandi questioni che interpellano l’esistenza umana (cfr. Morin 2002, 8), rigettandole ai margini del suo reticolo epistemico.
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Si produce così il paradosso della scienza moderna: pur animata dalla volontà di entrare in contattato empirico con il mondo, lo ha smarrito dietro un’immagine caleidoscopica sempre più precisa, dettagliata, calcolabile, riproducibile. Un meticoloso sistema scientifico logico-razionale sempre più raffinato e performativo nel quale si atrofizza l’unità vitale del sapere. Al pari degli oggetti esposti nelle gallerie dei musei, gli oggetti della conoscenza scientifica vengono fabbricati dalla cosalità del metodo “come fossero cose in sé, e non il prodotto di una reificazione” (Adorno 1972, 88). Pur muovendosi nella visione della conoscenza scientifica moderna, l’immaginazione sociologica simmeliana crea un percorso epistemico divergente. Simmel è il flâneur che transita metaforicamente nello spazio topografico-disciplinare infrangendo il principio di specializzazione della scienza. Se le derive baudelairiane nel museo erano orientate a comprendere le metamorfosi del bello tra eternità e storicità, quelle compiute da Simmel nel reticolo epistemico sono finalizzate a comprendere le metamorfosi sociali prodotte dall’eterno conflitto tra vita e forma. Nell’ottica simmeliana, la sociologia non è un ambito disciplinare a sé bensì una scienza in cammino tra le discipline, una via di congiunzione tra i confini dei saperi. Lungo questo nomadismo conoscitivo, Simmel ricompone le tessere del sapere specializzato per rappresentare la realtà molteplice e allo stesso tempo unitaria della modernità. La sociologia viene così intesa dal sociologo tedesco come una scienza eclettica in grado di selezionare, connettere e armonizzare le conoscenze scientifiche in una nuova sintesi. L’epistemologia della conoscenza sociologica nasce su queste premesse fin dal saggio del 1890 La differenziazione sociale: Essa [la sociologia] è una scienza eclettica, perché il suo materiale è costituito dai prodotti di altre scienze. Essa tratta i risultati della ricerca storica, dell’antropologia, della statistica, della psicologia come prodotti semilavorati; essa non si volge direttamente al materiale grezzo elaborato da altre scienze, ma in quanto scienza per così dire alla seconda potenza crea nuove sintesi partendo da ciò che per quelle scienze è già una sintesi. […] Essa fornisce solo un nuovo punto di vista per la considerazione di fatti già noti. Tuttavia proprio
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per questo è particolarmente necessario che essa fissi questo punto di vista, perché la scienza trae il suo carattere specifico solo da esso, non dal suo materiale, il quale nella sua dimensione fattuale è già noto per altre vie (Simmel 1982, 4).
La sociologia è dunque una “scienza per così dire alla seconda potenza”, in grado di elevarsi sullo spazio frazionato del sapere, ottenendone una visione cartografica d’insieme. Orientata da essa, la sociologia si muove tra le quadrettature del reticolo epistemico per raccogliere in esse i prodotti della ricerca già sintetizzati in ambito storico, antropologico, statistico, psicologico. Il fine è quello di rivitalizzare il già noto accumulato nelle opere scientifiche, così come fece Baudelaire aggirandosi da nomade tra le opere estetiche depositate nel Louvre, trattandolo come materiale grezzo da plasmare per dare vita a nuova scienza, quella sociologica appunto. L’immaginazione sociologica di Simmel si esprime pertanto fin dalla creazione delle categorie conoscitive della realtà sociale. Quest’atto poietico non implica che sia solo la sociologia a compierlo poiché, come precisa Simmel, “in ultima istanza non c’è alcuna scienza il cui contenuto consista di meri fatti oggettivi” (ivi, 5). La conoscenza è sempre una costruzione prodotta da teorie, categorie e metodologie che cristallizzano l’informità magmatica del reale. Anticipando quanto dirà Kuhn sui paradigmi, Simmel considera l’attività scientifica come un processo creativo regolato da a priori che mediano il rapporto tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto in forme di verità sempre parziali5. Nel contesto di questo relativismo gnoseologico-epistemico, la sociologia combi5
Per Simmel la relatività delle verità non è un disvalore ma la forza stessa di ogni teoria della conoscenza: “La relatività della verità, nel senso che tutto il nostro sapere è imperfetto e correggibile in ogni sua parte, viene spesso proclamata con un clamore del tutto sproporzionato alla ovvietà di questo fatto inconfutabile. Ciò che intendiamo con questo concetto è evidentemente qualcosa di molto diverso: la relatività non è una qualificazione aggiuntiva che indebolisce un concetto di verità per il resto autonomo, ma è l’essenza stessa della verità, è il modo in cui le rappresentazioni diventano verità, così come è il modo in cui gli oggetti diventano valori. Non significa, come in quella accezione banale, una diminuzione della verità, dalla quale ci si aspetterebbe di più in base al suo concetto di fondo, ma al contrario significa la
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na le verità delle scienze per poter rispondere “a domande quali ‘che cosa è una società?’, ‘che cos’è un individuo?’, ‘come sono possibili interazioni psichiche tra gli individui?’” (ibidem). Sono questi i nuclei problematici che aprono la spirale comprendente della conoscenza sociologica verso un dialogo con le altre scienze. Per Simmel, quindi, la specificità epistemologica della sociologia è quella di essere una scienza delle scienze, come ribadirà anche nel 1908 fin dalle prime pagine di Soziologie: La sociologia, nella sua relazione con le scienze esistenti, è quindi un nuovo metodo, uno strumento ausiliario della ricerca, per avvicinarsi a tutti quei campi in modo nuovo. Con ciò essa non si comporta in maniera essenzialmente diversa da quella in cui si comportava a suo tempo l’induzione, la quale penetrava come nuovo principio di ricerca in tutte le scienze possibili, si acclimatava per così dire in ognuna di esse e l’aiutava a trovare nuove soluzioni nell’ambito dei compiti stabiliti. Ma come l’induzione non costituisce per questo una scienza particolare o addirittura una scienza onnicomprensiva, così non lo diventa, per gli stessi motivi, la sociologia. Nella misura in cui si appoggia alla considerazione che l’uomo dev’essere compreso come essere sociale e che la società è la portatrice di ogni accadere storico, essa non contiene alcun oggetto che non venisse già trattato in una delle scienze esistenti, ma è soltanto una nuova via per tutte queste, un metodo scientifico che non costituisce – proprio per l’applicabilità alla totalità dei problemi – una scienza a sé. […] Se deve dunque esserci una sociologia come scienza particolare, occorre pertanto che il concetto di società in quanto tale sottoponga i dati storico-sociali – al di là della raccolta estrinseca di quei fenomeni – a un nuovo processo di astrazione e di coordinamento, in modo che certe determinazioni degli stessi, vengano riconosciute come reciprocamente connesse e quindi come oggetti di un’unica scienza (1998, 7 e 9).
Poiché tutto è società, l’uomo così come il divenire storico, la sociologia si trova nella condizione paradossale di non avere nessuna specificità. Il presupposto stesso da cui nasce è ciò che al contempo ne mina il suo fondamento disciplinare. Le altre scienrealizzazione positiva e la validità del concetto stesso. In quella accezione la verità vale, nonostante sia relativa, in questa proprio perché lo è” (1984, 175).
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ze sociali, infatti, hanno per oggetto porzioni del mondo su cui erigono i loro statuti disciplinari occupandosi di etica e di storia della cultura, di economia politica e di scienza della religione, di estetica e demografia, di etnologia e politica (ivi, 6). La specificità della sociologia non è quella di essere una nuova scienza, ma un nuovo metodo che induce nelle scienze esistenti un “nuovo processo di astrazione e di coordinamento”. Simmel poi riconduce il metodo sociologico alla complessità della natura umana. Come è stato messo in evidenza altrove (Marzo 2007), è la scienza morfologica di Goethe a condizionare la visione simmeliana della natura. Per il poeta-scienziato la natura è un’intelligenza sempre all’opera nei processi formativi (cfr. supra cap. II.1). Ogni forma, inorganica e organica, è un punto in cui le forze elementari della vita trovano un’armonizzazione provvisoria poiché “ciò che è formato viene subito trasformato nuovamente” (Goethe 1996, 8). Collocandosi nella concezione goethiana del mondo, Simmel considera l’uomo come la formazione suprema in cui culmina lo sviluppo naturale. Nel microcosmo dell’intelligenza umana operano le medesime forze elementari che modificandosi, equilibrandosi e selezionandosi a vicenda danno luce al macrocosmo naturale (Simmel 1982, 6). D’altronde, la radice latina del sostantivo intelligentĭa (composto dalla proposizione inter, “fra”, e dal verbo legĕre, “cogliere, legare”) indica la facoltà mentale attraverso cui l’uomo crea legami fra l’infinita varietà delle cose e degli accadimenti che lo circondano. Nella vita sociale l’intelligenza umana si esternalizza attraverso l’azione reciproca in una intelligenza sovraindividuale, ciò che Simmel chiama psiche collettiva (ivi, 22). L’energia creativa espressa dal fitto reticolo relazionale della psiche collettiva è ciò che genera una natura storico-culturale: Un’energia o una disposizione di natura costituiscono il presupposto del concetto di cultura. Infatti, dal punto di vista di questo concetto, i valori della vita sono appunto natura “culturalizzata”. […] Perciò, anche se i frutti ottenuti con innesti e una statua sono in egual misura prodotti della cultura, la lingua rivela tale differenza con molta finezza, col chiamare coltivato l’albero da frutta, mentre non dice che il grezzo blocco di marmo è stato in qualche modo “coltivato” fino a farne una statua. […] Lo stesso avviene nel caso
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della cultura che plasma il rapporto degli uomini con gli altri e con se stesso attraverso la lingua, il costume, la religione, il diritto (Simmel 1984, 630-631).
Anche la formazione della realtà storico-culturale ha dunque come presupposto l’energia creativa che opera nel macrocosmo della natura e nel microcosmo dell’intelligenza individuale. Per Simmel, la sociologia, in quanto metodo di ricucitura dell’eterogeneità disciplinare, è quel reticolo conoscitivo che può catturare la complessità della natura sociale coltivata tramite l’azione reciproca. Le analogie sono i nodi della rete concettuale simmeliana. Siegfried Kracauer (1963: trad. it. 1982) si sofferma sulla capacità del sociologo tedesco di mettere in relazione i fenomeni collettivi ricorrendo a un uso fecondo dell’analogia. Il sistema economico, l’ordinamento giuridico, l’arte e il gioco, l’avventura e l’amore, la moda, le organizzazioni sociali, gli ordinamenti spaziali e gli oggetti vengono presi in esame da Simmel prima come elementi isolati, dotati quindi di una loro irriducibile specificità, e poi ricompresi come parti di un arcipelago in cui affiora quell’analogo sostrato creato dal conflitto tra vita e forma. È a partire da questa analogia generale che, come si legge nella citazione, esistono corrispondenze tra i frutti ottenuti dagli innesti e la statua coltivata dal grezzo marmo, così come i prodotti della cultura che plasmano gli uomini attraverso la lingua, il costume, la religione, il diritto. L’oggettività delle analogie simmeliane, secondo Kracauer (ivi, 47), non è da ricercare in sé ma nel loro potere di annodare i fenomeni sociali cogliendone le continuità. Simmel crea dunque una propria epistemologia reticolare finalizzata a comprendere le corrispondenze analogiche tra le forme di associazione prodotte dalla natura accelerata della modernità. Il denaro, in particolare, è per lui quel frutto “culturalizzato” in cui converge e si irradia l’energia della vita moderna. Nella prefazione alla Filosofia del denaro così definisce il piano epistemologico del suo metodo: Se deve esserci una filosofia del denaro, questa si può soltanto collocare al di qua e al di là della scienza economica della moneta. […] Non una riga di questa ricerca è intesa come appartenente
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all’ambito dell’economia politica. Ciò significa che i fenomeni della valutazione e della vendita, dello scambio e dei mezzi di scambio, delle forme di produzione e dei valori patrimoniali, che l’economia considera da un determinato punto di vista, vengono affrontati da un punto di vista diverso. […] Ma, come la comparsa di un fondatore di religioni non è affatto soltanto un fenomeno religioso, ma un fenomeno che può essere indagato con le categorie della psicologia, della storia generale, della sociologia e forse anche della patologia […] così, il fatto che due uomini scambino reciprocamente i loro prodotti non è affatto soltanto un dato “economico-politico”. […] Dal punto di vista metodologico, questa intenzione di fondo si può esprimere nel modo seguente: vogliamo edificare un piano al di sotto del materialismo storico, in modo che la riconduzione della vita economica nell’ambito delle cause della cultura spirituale venga comunque assicurata nel suo valore esplicativo, ma nello stesso tempo quelle stesse forme economiche vengano riconosciute come risultato dell’operare di valutazioni e di correnti più profonde i cui presupposti sono psicologici e, anzi, metafisici (Simmel 1984, 86-88).
Sin da subito, Simmel, coerentemente con la sua visione epistemologica, irretisce il denaro in un sistema interpretativo complesso per portarlo fuori dal ristretto ambito della scienza della moneta. Così come la fondazione di una religione non è affatto soltanto un fenomeno religioso, il denaro è più della somma dei fenomeni della vendita, dello scambio, dei valori patrimoniali, di mero strumento di scambio tra le merci. Al di sotto di questa fenomenologia già nota all’economia politica, operano delle correnti d’ordine psicologico e metafisico che occorre comprendere in termini interdisciplinari attingendo alla filosofia, alla psicologia sociale, alla storia, all’estetica e alla politologia. Sono questi i materiali semilavorati della conoscenza che usa Simmel per costruire un piano analitico più profondo di quello del materialismo storico. Il denaro, collocato all’interno di questo piano, diventa non solo un oggetto della vita economica ma anche un prodotto della psiche collettiva. La coincidentia oppositorum tra materia e spirito è per Simmel connotativa della natura duplice del denaro: da un lato esso è quel corpo multiplo coniato in materiali di diversa qualità (rame, bronzo, argento, oro) dalle funzioni estremamente pratiche; dall’altra, è il simbolo più puro
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dello scambio di beni tra gli uomini (ivi, 260), poiché il suo valore è posto al di sopra dei singoli valori dei beni che misura assegnando ad essi un prezzo. La valenza simbolica del denaro nasce da un sofisticato processo astrattivo-immaginativo della psiche collettiva analogo a quello delle rappresentazioni religiose e artistiche (ivi, 297). Il denaro, nel momento in cui viene stabilmente garantito dall’autorità pubblica (ivi, 271), recide il legame con la parte materiale della sua natura a favore di quella spirituale. Per Simmel, la spiritualizzazione del denaro riproduce il fenomeno religioso nel contesto della modernità. E così, da intermediario neutro dello scambio economico, il denaro diventa il centro dello scambio simbolico della vita moderna connettendo e mutando, proprio come un dio, l’intera realtà a sua immagine e somiglianza. Attorno al suo culto profano le qualità delle cose, degli individui e dei contenuti delle forme sociali diventano quantità calcolabili e intercambiabili. Uscendo dal riduzionismo della scienza economica, la Filosofia del denaro possiamo considerarla una sorta di trattato a-teologico della modernità, il saggio in cui Simmel giunge a rappresentare per primo l’immaginario neutro della società moderna. Una prefigurazione ottenuta mediante un processo conoscitivo analogo a quello de Le peintre de la vie moderne, interessato a trarre fuori dalla modernità “la bellezza misteriosa che vi immette, inconsapevolmente, la vita umana” (Baudelaire 2004, 29). Simmel è le peintre di un paesaggio sociologico che estrae dalla forma moderna del denaro la dinamica immaginativa che vi immette, inconsapevolmente, la vita associata. Le analisi sul denaro testimoniano come Simmel sia stato uno dei pionieri nel campo degli studi sull’immaginario sociale (Legros et al. 2006; Marzo/Mori, 2019), interesse ribadito nel saggio dedicato al fenomeno religioso: Per gli ingenui il mondo dell’esperienza e della pratica è la realtà per eccellenza, in quanto i contenuti del mondo esterno esistono come percettibili e trattabili con i sensi […] La realtà non è assolutamente il mondo per eccellenza, bensì soltanto un mondo, accanto al quale si pongono il mondo dell’arte come anche quello della
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religione, composti dello stesso materiale secondo forme diverse e premesse diverse. Il mondo reale conoscibile significa probabilmente quell’ordine di elementi dati che dal punto di vista pratico è il più funzionale per il mantenimento e lo sviluppo della nostra specie. Come soggetti agenti otteniamo dal mondo circostante delle reazioni, la cui utilità o nocività dipende dalle immagini in base alle quali agiamo. Definiamo come realtà solo quel modo di immaginare che deve stare alla base affinché possiamo agire in modo utile, inteso alla conservazione della vita secondo la particolarità della nostra organizzazione psico-biologica propria della specie (Simmel 1912: trad. it. 1994, 59).
Ciò che chiamiamo “realtà” è dunque solo una possibilità di mondo tra infiniti altri, un ambiente antropologico generato da immagini attraverso le quali l’organizzazione psico-biologica della specie si conserva nelle forme di una seconda natura socialmente e storicamente determinata. Una natura che germoglia da nuclei simbolici invisibili, come scrive Simmel ne Il conflitto della civiltà moderna (1999, 18), per poi differenziarsi in forme d’associazione che plasmano una determinata epoca. Nell’epistemologia simmeliana sono dunque compresi elementi utili a dare una base alla creatività sociologica fondata sulla connessione del sapere. La sociologia può essere intesa come un méthodos, come un cammino che va oltre la divisione scientifica del lavoro di ricerca al fine di ricomporre un’immagine unitaria della vita associata. Un metodo non restaurativo, ma ricreativo di un quadro epistemico complesso nel quale il sociologo può osservare il fenomeno collettivo oggetto della sua ricerca per ricavarne un nuovo punto di vista. La Filosofia del denaro nasce da questo presupposto di ricomposizione creativa. Pur tenendo conto delle discipline che si sono occupate del denaro, Simmel non produce un’analisi enciclopedica ma una veduta inedita dell’economia monetaria. Interconnettere la conoscenza è anche ciò che, oltre a favorire una visione ampia e complessa di un fenomeno, può stimolare la creatività sociologica a tessere legami analogici tra fenomeni sociali apparentemente inconciliabili e distanti tra loro. Simmel
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si è servito della polarità vita-forma per mettere in relazione analogica natura e cultura, il fenomeno religioso con le forme dello scambio economico, lo spirito oggettivo della modernità con la materialità del denaro. Le ricerche sulla mente di Douglas Hofstadter ed Emanuel Sander (2013: trad. it. 2015) hanno dato rilievo all’analogia al punto da considerarla il cuore pulsante della creatività umana. Il pensiero analogico è generativo di salti cognitivi in grado di rompere l’ordine della classificazione, in cui le cose sono in scatole mentali rigide e prestabilite, per produrre connessioni originali tra stati umorali, dati di realtà, concetti generali, costrutti etici e morali, ricordi (ivi, 202203). Avvalendosi dell’analogia, la creatività sociologica può individuare in un fatto sociale il nodo di una rete più estesa e ramificata che dà forma a “quella intangibile sostanza intersoggettiva che potrebbe essere designata come psiche collettiva” (Simmel 1982, 22). Questo ci porta a trarre dalla visione interdisciplinare del mondo sociale un ultimo piano di analisi: quello dell’immaginario sociale. Attraverso questo piano di analisi, la creatività sociologica può dare una prospettiva di profondità alla superfice dei fenomeni sociali, individuare i contenuti immaginativi creati dalla rete della psiche collettiva che formano la realtà intersoggettiva. Questo consente all’immaginazione di Simmel di disvelare quel sottosuolo immaginativo della vita economica moderna in cui operano “correnti più profonde i cui presupposti sono psicologici e, anzi, metafisici” (1984, 88). L’interdisciplinarità, l’analogia e l’immaginario sono generativi di una epistemologia mobile e formatrice che stimola, ancora oggi, la creatività del ricercatore sociale a raggiungere una conoscenza puntuale, reticolare e profonda dalla vita associata. 4. Le strade del metodo estetico La costruzione di un camminamento ha origine, come ci dice Simmel (1909: trad. it. 2012), dalla prerogativa umana di prefigurare un percorso compreso tra un inizio e una fine. Gli altri
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animali, nonostante coprano lunghe distanze e oltrepassino con agilità gli ostacoli incontrati lungo gli spostamenti, non immaginano collegamenti stabili tra i punti dello spazio. Solo l’uomo dà visibilità al cammino erigendo, ad esempio, un ponte per collegare le sponde di un fiume (ivi, 2). Il ponte, a sua volta, è sempre parte di un itinerario lungo il quale la sua funzione si estende a perdita d’occhio per unificare luoghi naturali e urbani. Ma poiché ogni riunificazione implica al contempo una separazione, tutto ciò che l’uomo non ritiene strategico da raggiungere per dar luogo a scopi pratici e simbolici tende ad allontanarsi dalle sue mappe mentali, a ritrarsi nella wilderness: il territorio della selvatichezza in cui viene meno il dominio antropico dello spazio (cfr. Bonesio 1997, 64). A differenza del sentiero, la strada è ricoperta da uno strato artificiale che, oltre a mutare l’ordine naturale dello spazio, ha permesso all’uomo di collegare il prima e il poi, la partenza e la destinazione, attraverso ponti temporali più corti. Lo stratus era il termine usato dai Romani per indicare la massicciata ottenuta dalla squadratura e levigatura di pietre, per lo più selci, al fine di velocizzare gli spostamenti delle milizie e, al contempo, favorire la circolazione di merci e individui. Per Paul Virilio (1984: trad. it. 1986, 39), la strada non ha soltanto riscritto le distanze geografiche ma ha anche avuto un ruolo determinante nel mobilitare il potere politico di Roma: centro di un ingegnoso sistema viario costruito per raccogliere nel suo dominio le parti del suo vasto Impero. Fin dai primi selciati della storia, la strada è stata dunque il medium che ha supportato la volontà umana di estendersi nel mondo nel minor tempo possibile. La modernità ha ulteriormente raffinato lo stratus delle sue vie di comunicazione, mediante linee ferrate e percorsi asfaltati, innestati nello spazio per ridurre l’attrito dei mezzi meccanici che hanno esteso e accelerato il cammino della rivoluzione industriale. Tutte queste funzioni storiche e moderne veicolate dalla strada erano sicuramente ben chiare a Georges Eugène Haussmann, il prefetto che trasformò Parigi nell’Impero della modernità. Fu
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Napoleone III a dargli l’incarico di rimodellare la pianta della città tra il 1853 e il 1869, e a conferirgli il titolo nobiliare di barone per aver assolto al meglio il suo compito. Come scrive Harvey (1997, 30), il Barone Haussmann ha incorporato lo spirito distruttivo e creativo del moderno. La realizzazione del piano regolatore haussmanniano comportò, infatti, la demolizione di ampie parti dei quartieri medievali della città per far largo al culte de l’axe: un culto razionalizzato praticato attraverso l’allineamento di edifici istituzionali e residenziali, di monumenti e parchi, di stazioni ferroviarie e caserme militari. Linee che, intersecandosi tra loro, avevano permesso ad Haussmann di imprimere un ordine reticolare allo spazio urbano per fare “di Parigi la prima delle grandi città che si fosse adeguata all’epoca industriale” (Giedion 1954: trad. it. 1981, 637). L’ordine della rappresentazione prospettica rinascimentale, la visione geometrico-matematica della scienza moderna, l’ambiente tecno-sistemico della fabbrica, cominciarono così a ricomporsi nella cornice de le plan de Paris riproducendo, per la prima volta, l’immaginario neutro su scala metropolitana. Un immaginario che rispondeva, inoltre, all’esigenza della grande borghesia parigina di neutralizzare lo spirito rivoluzionario della classe operaia che aveva animato i moti rivoluzionari del 1848 (Gribaudi 2014). L’elemento cardine usato da Haussmann per separare, unire e geometrizzare la pianta reticolare di Parigi furono i Grands Boulevards: lunghi assi viari rettilinei costruiti per ridurre le distanze tra caserme e quartieri operai e per sfavorire, con i loro trenta metri di larghezza, il sorgere delle barricate in caso di guerra civile. Pur nascendo per velocizzare la macchina repressiva dello Stato monarchico, i moderni assi viari svolsero funzioni diverse da quella del controllo poliziesco della città. Grazie alla spaziosità e alla linearità del manto stradale, i boulevards fluidificarono la circolazione su ruota dei mezzi di trasporto civili e commerciali. Ma non solo. I loro ampi marciapiedi convogliarono il traffico pedonale da un punto all’altro della città, e permisero al viandante solitario di poter camminare nella folla protetto da un’atmosfera sicura e anonima.
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Illuminati di notte dai primi lampioni a gas, sormontati dalle scenografie austere dei palazzi haussmanniani6, i marciapiedi dei boulevards si trasformarono in lunghi palcoscenici calcati dalla classe borghese per rappresentare lo splendore della sua opulenza. Una teatralizzazione della vita urbana che raggiungeva il vertice spettacolare nei camminamenti dei passages couverts, le lussuose gallerie incuneate nella parte nord-est della città costellate da negozi e caffè. Abbandonando i marciapiedi affollati dei boulevards, l’avventore delle galeries couverts diventava parte di un pubblico più selezionato immerso in un fantasmagorico teatro coperto da avveniristici tetti in vetro metallo, attorniato da quinte su cui erano riprodotti paesaggi naturali intiepiditi dai sistemi di riscaldamento, sonorizzato da fontane che richiamavano lo scorrere delle cascate, illuminato da lampioni usati per simulare l’alternanza del giorno e della notte (Benjamin 1995, 148). Al centro della scena della macchina teatrale dei passages non stavano attori in carne ossa, ma i corpi inorganici delle merci dell’alta moda esposti nelle prime grandi vetrine della storia (Amendola 2004; Codeluppi 2007). Se la fabbrica era il luogo infernale in cui la classe proletaria era condannata alla produzione perpetua e alienata di merci, i passages erano i paradisi artificiali del consumo dei borghesi in cammino sullo stratus delle moderne strade di Parigi. I camminamenti dei Grands Boulevards hanno, dunque, aperto la strada a nuovi fenomeni sociali: la razionalizzazione e il controllo dello spazio, l’accelerazione dei mezzi di trasporto, la nascita della folla, la diffusione della pratica urbana del camminatore solitario, l’impiego di tecniche e materiali innovativi, la comparsa di moderni teatri urbani, la nascita delle prime architetture sognanti del consumo. Con l’ingresso di questi fenomeni
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Haussmann regolarizzò persino la morfologia degli edifici privati imponendo ad essi uno stile uniforme, detto appunto haussmanniano. Le nuove costruzioni residenziali dovevano essere costruite in pietra, dotate di una stessa volumetria, di un medesimo numero di piani e balconi, di tetti in ardesia (con rispettive mansarde) inclinati a 45 gradi, e di facciate prive di decorazioni (cfr. Giedion 1954, 661).
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Parigi si trasformò nella prima metropoli della storia, elevandosi al rango di capitale del XIX secolo della modernità. Baudelaire è stato il lirico a lasciar cadere la corona d’alloro del poeta aulico nel fango dei Grands Boulevards per addentrarsi nella vita moderna (Benjamin 1995, 89). Diversamente dalla fuga dell’artista romantico in un mondo estetizzante astratto dalle brutture della società industriale (Nisbet 2016, 39), Baudelaire usa l’estetica come metodo di osservazione e descrizione delle metamorfosi urbane di Parigi e dei suoi abitanti. Un metodo che ha reso Le peintre de la vie moderne, scritto nel cuore del processo di haussmannizzazione, un camminamento pavimentato da un finissimo stratus di parole costruito per collegare l’eterno con l’effimero, la ricerca del bello con l’esperienza vissuta, la profondità poetica con la superfice della vita quotidiana. Il selciato tracciato dalla penna di Baudelaire ha inizio, come abbiamo visto, nel punto in cui la modernità si arresta per formare la sua storia: il museo del Louvre. È qui che comincia a praticare la flânerie, l’arte del cammino libera da una meta prefissata, per raggiungere il centro immobile della sua epoca, lì dove cattura e rappresenta il processo di imbalsamazione dell’arte, lo svuotamento dei contenuti vitali delle forme estetiche. Lasciandosi alle spalle le Palais du Louvre, Baudelaire prolunga l’itinerario esplorativo de la vie moderne per raggiungere le arterie urbane nelle quali confluisce e scorre con maggiore intensità la vita associata di Parigi. Ma poiché per ottenere una visione d’insieme del movimento occorre sottrarsi ad esso, la flânerie di Baudelaire fa tappa in un caffè. È qui che siede per osservare l’andirivieni dei passanti immedesimandosi nel personaggio di un racconto di Edgar Allan Poe, The Man of the Crowd (1840): Chi non ricorda un quadro (perché è davvero un quadro!) scritto dalla penna più robusta del nostro tempo, che ha per titolo L’uomo della folla? Dietro il vetro di un caffè, un convalescente, mentre contempla gioioso la folla, si fonde con il pensiero a tutti i pensieri che gli agitano attorno. Reduce dalle ombre della morte, egli aspira con delizia tutti i germi e gli effluvi della vita; e siccome è stato sul punto di un oblio totale, ora ricorda e vuole intensamente ricordare
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ogni cosa. Alla fine, si precipita in mezzo alla folla in cerca di uno sconosciuto la cui fisionomia appena intravista lo ha, nel giro di uno sguardo, affascinato. La curiosità è divenuta una passione fatale, irresistibile! Si immagini un artista che sia sempre, con il suo spirito, nello stato del convalescente, e si avrà la chiave del carattere di G. Ora, la convalescenza è come un ritorno all’infanzia. Il convalescente possiede in sommo grado, come il fanciullo, la facoltà di interessarsi vivamente alle cose, anche quelle in apparenza più banali. […] Ma il genio non è che l’infanzia ritrovata per un atto di volontà, un’infanzia fornita a questo punto, per esprimersi, di organi virili e dello spirito analitico che gli consente di ordinare l’insieme dei materiali accumulato in un processo involontario (Baudelaire 2004, 20-21).
L’uomo della folla è la figura dell’artista baudelairiano, un redivivo scappato dall’anticamera buia della morte: la malattia. Scampato al precipizio senza fondo dell’oblio totale, il convalescente vuole ora aspirare gli effluvi malsani della vita per catturare nella memoria ogni cosa. Un desiderio di rinascita che trasforma il muro di vetro del caffè nella lente di un telescopio sociale con cui osservare l’universo dei “pensieri che gli agitano attorno” generato dal flusso ondivago dei passanti. E così, il convalescente si metamorfizza in un contemplatore del paesaggio umano della sua epoca colto attraverso la theoria, e dunque mediante un’osservazione orientata a penetrare la prassi urbana in una visione panoramica. Tuttavia, questa attività teorico-contemplativa è solo la metà dell’arte del conoscere a cui manca, per essere completa, la parte relativa all’osservazione partecipante. È questo che spinge “il reduce dalle ombre della morte” a uscire dal caffè per immergersi nella folla in cammino sui pavimenti levigati della modernità. La sua sete di sapere ha tracciato per lui un’invisibile strada conoscitiva che lo conduce oltre il confine di vetro che prima lo separava dall’oggetto mobile del suo studio. Se prima osservava lo scorrere della vita moderna, ora si perde in essa diventandone uno dei tanti volti anonimi. Per Franco La Cecla (2020), l’esperienza del perdersi rompe l’ordine spaziale già noto dando ad esso una nuova chiave di lettura, un nuovo inizio da cui partire per creare nuove mappe del
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mondo circostante. È quello che accade, ad esempio, al bambino quando si smarrisce nel caos di una fiera o di una strada. Malgrado ciò, è questo evento traumatico a iniziarlo al senso dell’orientamento senza più il bisogno della guida degli adulti (ivi, 41). Il ritorno all’infanzia del convalescente baudelairiano va letta in questa prospettiva. Non si tratta dunque di un’età dell’oro perduta nel percorso evolutivo che porta all’età adulta, una fase mitica da decantare e cristallizzare in una memoria biografica musealizzata. In tal caso si ricadrebbe in quella forma antiquaria della storia priva di contenuto vitale che Baudelaire ci ha descritto nelle sale del Louvre. Perdendosi tra le onde della folla, il convalescente riporta “per un atto di volontà” la sua memoria arcaica nel presente per ri-conoscere più vivamente lo spazio urbano. La curiosità infantile diventa, in tal modo, il grimaldello con cui ri-aprire lo spazio dell’esperienza adulta per far confluire in essa ogni cosa in un alone di stupore e novità, “anche quelle in apparenza più banali”. Ma se il bambino accumula il materiale conoscitivo raccolto dalla curiosità per poi disperderlo, lo spirito analitico e creativo dell’artista lo mette in forma nell’opera. I quadri de Il pittore della vita moderna sono la traccia della passione infantile che lo lega perdutamente alla folla al punto da sposarla: La folla è il suo regno, come l’aria è il regno dell’uccello, e l’acqua l’elemento del pesce. Sposarsi alla folla è la sua passione e la sua professione. Per il perfetto perdigiorno, per l’osservatore appassionato, è una gioia senza limiti prendere dimora nel numero, nell’ondeggiare, nel movimento, nel fuggitivo e nell’infinito. […] Così l’innamorato della vita universale entra nella folla come un’immensa centrale di elettricità. Lo si può paragonare a uno specchio immenso quanto la folla; a un caleidoscopio provvisto di coscienza, che, ad ogni suo movimento, raffigura la vita molteplice e la grazia mutevole di tutti gli elementi della vita. […] Ammira la bellezza eterna e la stupenda armonia della vita nelle capitali, l’armonia provvidenzialmente conservata nel tumulto della libertà umana. Contempla i paesaggi della grande città, paesaggi di pietra blanditi dalla nebbia o schiaffeggiati dal sole. […] Se una moda, un taglio d’abiti è stato appena modificato, se i fiocchi, le fibbie sono stati cacciati e sostituiti dalle coccarde, se la cuffia si è fatta più
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ampia e la crocchia si è alzata e la gonna allargata, è certo che da una distanza grandissima il suo occhio d’aquila ha già colto tutto (Baudelaire 2004, 22-23).
Le peintre è, pertanto, il perdigiorno che entra nell’atmosfera carica di elettricità irradiata dall’ondeggiare perpetuo della massa urbana. Attraverso un’osservazione partecipante, il suo corpo diventa un conduttore dell’energia della vita universale per attivare una visione caleidoscopica in grado, a ogni movimento della sua coscienza, di cogliere ogni dettaglio del paesaggio urbano. Persino le impercettibili trasformazioni della moda indossata dai passanti – la fattura degli abiti, le aderenze dei copricapi, l’apparizione o la scomparsa di fibbie e coccarde, le acconciature e le gonne delle donne – sono colti dal suo occhio rapace per artigliare “la bellezza eterna e la stupenda armonia della vita nelle capitali, l’armonia provvidenzialmente conservata nel tumulto della libertà umana”. Osservazione teorica e partecipante si compenetrano nel metodo estetico usato da Baudelaire. Le peintre, ovvero l’artista baudelairiano, lungo questo camminamento conoscitivo costruito ad arte entra nella vita quotidiana della modernità per estrarne gli elementi da eternizzare nei suoi quadri. Baudelaire, pertanto, estende il campo dell’estetica oltre i ristretti confini in cui si teorizzano i canoni del bello fino a includere l’intero significato etimologico di aisthesis: il termine con il quale la cultura greca indicava la sfera sensibile entro la quale l’uomo stabilisce un contatto conoscitivo con il mondo. Kant, nel Libro primo della Critica della ragion pura (2017, 120-130), evidenzia come l’atto conoscitivo sia l’esito di un tramescolamento tra due a priori: quello dell’intelletto (synthesis intellectualis), che intuisce la molteplicità del mondo unificandola in forme concettuali pure svuotate da contenuti empirici riferibili a oggetti collocati nella realtà circoscritta dai cinque sensi; e quello dell’appercezione, l’a priori che sintetizza e prefigura i dati sensoriali (synthesis speciosa) dell’oggetto “che è posto innanzi” (obiectum) per farli confluire nelle forme del puro intelletto riempendole di contenuti empirici.
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Pertanto, l’estetica, ancor prima di essere una filosofia dell’arte, è una scienza della percezione e della sensibilità interessata a dare un fondamento a cui ancorare il ponte conoscitivo che collega l’uomo al reale, e il reale all’uomo. Su di esso camminano le immagini percettive (olfattive, visuali, tattili, gustative, sonore) per raccogliere dal reale quel qualcosa su cui l’uomo poggia l’attenzione (un paesaggio, un essere vivente, una sostanza inorganica, un artefatto, un fenomeno naturale, una pietanza, un brano musicale, un profumo, ecc.), e riportarlo in lui sotto forma di stimolazioni che fanno vibrare il suo corpo (vedi supra cap. II.2). Grazie a questa risonanza con le cose del mondo, le immagini percettive prefigurano i dati di realtà armonizzati, come dice Kant, dalle forme pure dell’intelletto sotto forma di contenuti cognitivi (affettivi, morali, razionali, simbolici, religiosi, ecc.). È questa processualità conoscitiva tra appercezione e cognizione, tra immagini percettive e immagini mentali, ad alimentare il metodo estetico usato da Baudelaire: un selciato sensoriale nella superfice mobile e formatrice della affollata Parigi haussmanniana, che consente al poeta di ottenere una vivida esperienza concettuale della vita moderna. L’estetica è la via lungo la quale Baudelaire e Simmel s’incontrano per collegarsi alla vita moderna, ma andando in due direzioni diverse: il primo verso una conoscenza poetica, il secondo verso una comprensione sociologica. Da qui in poi seguiremo l’itinerario tracciato dall’estetica simmeliana per intrecciare la creatività con l’arte della ricerca sociale. Simmel, muovendosi nel solco della teoria della conoscenza kantiana (cfr. 1995, 103), considera anch’egli l’estesiologia come l’a priori addetto a sintetizzare i dati della realtà sociale che informano il reticolo epistemico della conoscenza sociologica. L’epistemologia simmeliana, come si è detto, ha come unico a priori quello di aprire una strada di collegamento tra i confini disciplinari per irretire la complessità dei fenomeni sociali. Attraverso l’approccio estetico, Simmel crea un ponte sensorio per prolungare il camminamento dell’epistemologia sociologica nel campo in cui gli individui entrano in azione reciproca: quello della vita quotidiana.
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Qui si tratta quasi di processi microscopici-molecolari all’interno del materiale umano, i quali però costituiscono l’accadere reale che si concatena o si ipostatizza in quelle unità e sistemi macroscopici e stabili. Il fatto che gli uomini si guardano l’un l’altro e che sono reciprocamente gelosi; il fatto che si scrivono lettere o pranzano insieme; il fatto che riescono simpatici o antipatici prescindendo completamente da tutti gli interessi tangibili; il fatto che la gratitudine per la prestazione altruistica produce nel tempo un vincolo indissolubile; il fatto che uno chiede la strada all’altro o si veste e si adorna per l’altro – tutte le mille relazioni che si riflettono da persona a persona, momentanee o durevoli, coscienti o inconsce, superficiali o ricche di effetti, da cui questi esempi sono scelti del tutto a caso, ci legano in modo indissolubile. In ogni attimo questi fili vengono filati, vengono lasciati cadere, ripresi di nuovo sostituiti da altri, intessuti con altri. Qui risiedono le azioni reciproche – accessibili soltanto alla microscopia psicologica − tra gli atomi della società, che sorreggono tutta la tenacia ed elasticità, tutta la varietà e unitarietà di questa vita così chiara e così enigmatica della società (Simmel 1998, 22-21).
Il quotidiano è dunque il luogo degli accadimenti reali in cui si manifesta il carattere enigmatico della società attraverso fenomeni microsociologici in cui gli individui, agendo l’uno per/ contro l’altro, generano il processo di sociazione. Parola che traduce al meglio, per Jedlowsky (1995, 13-14), il termine Vergesellschaftung, usato dal sociologo tedesco per indicare il concatenarsi dell’azione reciproca in forme associative durevoli. Simmel usa l’estetica come metodo di osservazione della sociazione a partire dai dettagli della vita quotidiana, da quei micro-accadimenti “che sorreggono – come si legge nella citazione – tutta la tenacia ed elasticità, tutta la varietà e unitarietà di questa vita così chiara e così enigmatica della società”. E così, con lo stesso occhio d’aquila del pittore della modernità, Simmel si interessa al gioiello come fatto sociale ricavandone una Psicologia dell’ornamento (1908: trad. it. 2020). Ornandosi di metalli brillanti l’individuo trova uno strumento per irradiare ulteriormente la sua personalità nello spazio dell’interazione. Un’espansione auratica dell’ego che, al contempo, svolge una funzione altruistica nel nutrire il godimento estetico degli altri.
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L’attore sociale, infatti, gode delle protesi sensoriali indossate solo per quel momento in cui si specchia nello spazio domestico, prima di entrare nella scena della vita quotidiana. L’ornamento è un supporto materico carico di implicazioni mentali da parte di chi lo espone che, nel mediare l’azione reciproca, contribuisce ad annodare le trame tessute dallo scambio sociale. Ma per l’osservazione estetica simmeliana, l’ornamento è anche un oggetto sociologico7 in cui poter osservare “il campo di battaglia nel quale l’essere-per-sé dell’uomo si contrappone in eterno al suo essere-per-gli-altri” (ivi, 100). La stessa contrapposizione si riconfigura nel fenomeno sociologico del profumo, in cui l’individuo si attornia di una atmosfera olfattiva artificiale per nascondere il proprio odore e, al medesimo tempo, espandersi verso il naso dell’altro (1998, 558-559). L’azione reciproca, dunque, è mediata dalla sensorialità, da quel contatto impressionistico in base al quale “una persona sprigiona in noi sentimenti di piacere e di dispiacere, di un incremento e abbassamento, di eccitazione e acquietamento, per effetto della sua vista o del tono della sua voce, della sua semplice presenza sensibile nel medesimo spazio” (ivi, 550). Già da questi accenni, si intuisce come l’estetica simmeliana non sia riducibile a una forma di sociologia dell’arte, intesa come un campo specialistico di analisi dei fenomeni collettivi (cfr. Vozza 2002, 55; Mele 2006, 11-12). Piuttosto, come scrive David Frisby, “Simmel considera la prospettiva estetica legittima al fine di acquisire conoscenze sulla realtà sociale” (1995, 75). L’estetica è il méthodos generale usato da Simmel per entrare nella sfera sensoriale del quotidiano, e ricondurla nella sfera comprendente della conoscenza sociologica. Un viadotto conoscitivo tracciato già nel 1896 in un saggio intitolato, per l’appunto, Estetica sociologica:
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Come ha evidenziato Antonio Tramontana, nel prezioso saggio I cristalli della società (2019, 63), Simmel è stato il primo a comprendere l’importanza degli oggetti, scorgendone il ruolo attivo nel processo di sociazione. Nella loro materialità si cristallizzano contenuti simbolici e funzioni pratiche in grado di agevolare e condizionare le forme dello scambio sociale.
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Ciascuna epoca tende a ridurre la proliferazione incontrollata delle proprie manifestazioni a un antagonismo binario tra opposte tendenze del pensiero e della vita, la cui dualità esprime nella forma più semplice le grandi direttrici di fondo dell’esistenza umana. Eppure quella contrapposizione vitale profonda, insita in tutto ciò che è umano, si può afferrare solo per simboli ed esempi, e in ogni grande epoca storica tende a cristallizzarsi in una configurazione specifica che poi funge da paradigma e forma prototipica (Simmel 1896: trad. it. 2020, 15).
Per Simmel, dunque, ciascuna epoca è la manifestazione e, al tempo stesso, la regolazione del dualismo tra pensiero e vita inscritto nella condizione umana di essere fuori dalla realtà animale (1911: trad. it. 2012, 19). Se la vita (Leben) degli altri esseri è compresa nelle loro rispettive forme organiche con cui si oppongono al destino tragico della morte, l’uomo è scisso dall’immediatezza naturale poiché la sua lotta per la sopravvivenza eccede la sua conformazione animale. Egli è un animale animato da uno spirito la cui attività specifica è quella di ridurre “la mera attiguità delle cose nel tempo e nello spazio all’unità sintetica di un’immagine, di un concetto, di una proposizione” (Simmel 2020, 131). Ma la messa in forma dell’eterogeneità percettiva è solo metà dell’attività estetica umana. L’altra metà è quella dell’estroflessione dell’immagine mentale – nella quale l’uomo raccoglie concettualmente ciò che i sensi hanno captato dal caos naturale – in una forma oggettiva. È questo che permette, ad esempio, a un pittore di trasferire l’immagine percettiva di un paesaggio nella cornice del quadro. Pertanto, l’uomo è un animale animato da uno spirito che non usa la sensorialità per reagire al mondo, ma per ricrearlo in un proprio ordine estetico adatto ai suoi scopi. Una volta oggettivate, le forme estetiche diventano “più-chevita” (Mehr-als-Leben), dei prodotti spiritualizzati dotati di una esistenza autonoma in contrasto con il vitalismo poietico del loro creatore8. E così, per continuare l’esempio, se lo spirito del pit8
Scrive Simmel in Concetto e tragedia della cultura: “La maggior parte dei prodotti della nostra creatività spirituale contengono all’interno del significato una quota che noi non abbiamo creato. […] L’opera compiuta contiene accen-
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tore si con-fonde con il paesaggio racchiuso nel quadro durante l’atto creativo, dopo l’ultima pennellata l’opera comincia a diventare priva di contenuti vitali spingendo il pittore a produrre altri quadri. Pertanto, la vita spirituale dell’uomo per esprimersi ha bisogno di trascendere sé stessa in forme qualsiasi – “in parole o azioni, creazioni o in generale in contenuti in cui si attualizza di volta in volta l’energia psichica” (Simmel 1918: trad. it. 2021, 46) – ma, una volta oggettivate, esse contrastano con il processo vitale che le ha prodotte. Le forme sono così attraversate da un destino tragico: nascono per sostanziare il flusso dalla creatività umana per poi essere abbandonate da esso, trasformandosi in forme prive di vita. L’attività estetica è, dunque, un costante processo metamorfico con cui l’uomo trasforma il mondo e, con esso, sé stesso. Ed è per questo che anche l’ordine estetico di un’intera cultura emerge dal dualismo tra la vita e le forme. In questo caso, l’interazione sensoriale degli individui dà origine e si annoda in una visione del mondo, in un ambiente percettivo impregnato di significati socialmente definiti – come ci ha detto precedentemente Simmel – da una “configurazione specifica che poi funge da paradigma e forma prototipica”. È quest’immagine concettualizzata dalla forma mentis culturale ad essere cristallizzata e trasformata dall’azione reciproca in una eterogeneità di forme sociali: linguaggi, artefatti, istituzioni, conoscenze, città, tecnologie, sistemi di credenze, norme etico-morali, ecc. Ma se il sociale si manifesta empiricamente in un ordine estetico storico-culturale, occorre un’estetica sociologica per osservarlo in termini analitici: E appunto a proposito di estetica, l’essenza della contemplazione e della rappresentazione risiede ai nostri occhi proprio nella capacità di far trasparire il tipico nell’individuale, la legalità nell’accidentale, la sostanza e il significato intrinseco negli aspetti ti, relazioni, valori che hanno un’esistenza puramente oggettiva, del tutto indifferente alla consapevolezza del risultato finale da parte di chi li ha prodotti” (Simmel 2012, 43-44).
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esteriori e transeunti delle cose. Nessuna manifestazione fenomenica sembra eludere questa riduzione a ciò che in essa è gravido di significato ed eterno. […] Di fronte a questo immergersi nelle profondità di ciò che esiste, quando si accetta di portarlo alle sue estreme conseguenze filosofiche, scompare qualunque differenza di grado nella bellezza delle cose. E allora la nostra visione del mondo diventa panteismo estetico: qualunque segmento della realtà cela la possibilità di un riscatto dato da una pregnanza estetica assoluta, e da qualunque segmento della realtà – a condizione di saper vedere – traspaiono tutta la bellezza e tutto il senso della totalità del mondo (Simmel 2020, 17).
Simmel individua nell’esperienza percettiva un metodo sociologico per cogliere, dagli “aspetti esteriori e transeunti delle cose”, l’eterno conflitto tragico tra vita e forme. Pertanto, lo sguardo simmeliano non è interessato solo alle cose in cui è infusa la morale estetizzante dell’epoca, ma a tutto ciò che entra nella sfera sensoriale poiché anche nei dettagli più vili e banali prodotti dal mondo umano “sembra di sorprendere una radiazione o un’eco di quell’unità ultima delle cose che riverbera su ogni fenomeno come bellezza e senso – quell’unità che ogni filosofia, ogni religione, ogni attimo di elevazione e trasporto del sentire si sforzano di esprimere in simboli” (ibidem). Ma per poter ricercare l’unità assoluta nascosta in ogni segmento della realtà, la sfera sensoriale del sociologo deve estendersi fino a raggiungere una visione panteistica del mondo. Solo in virtù dell’intensificazione dell’attività sensoria è possibile stabilire una comprensione più ampia e profonda delle forme sociali in cui si esteriorizza, in termini storico-culturali, la volontà umana di creare simmetrie nell’insensatezza delle forme naturali9.
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Come specifica Simmel in Estetica sociologica: “Alla radice di tutti i motivi di ordine estetico c’è la simmetria. Affinché l’idea, il senso, l’armonia possano compenetrare le cose occorre innanzitutto imprimere loro una conformazione simmetrica, armonizzare le parti che danno il tutto, ordinarle secondo proporzione intorno ad un punto centrale. Non c’è modo più sintetico, perspicuo e immediato per manifestare in forma sensibile la capacità formatrice dell’essere umano in quanto si distingue dal carattere accidentale e caotico delle mere conformazioni naturali. In termini estetici, insomma, il primo passo consiste
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È in tal modo che, per Simmel (ivi, 22), la piramide è una architettura simbolica in cui si manifesta, attraverso la progressiva riduzione simmetrica dei volumi verso il vertice, l’organizzazione istituzionale culminante nella figura del faraone. E dunque, anche gli scopi pratici di questo potere dispotico devono essere rivestiti dal corpo della piramide poiché, senza questa ciclopica forma, non potrebbero penetrare e dominare la sensorialità dei sudditi in funzione delle simmetrie verticistiche del suo potere. In questa stessa ottica panteistica, anche la macchina è una forma estetica dotata di una bellezza sui generis basata sulla “funzionalità e precisione dei movimenti, la riduzione al minimo delle controforze e degli attriti, l’armonia con la quale componenti grandi e piccole ingranano tra loro” (ivi, 23). Il fascino di questo corpo meccanico deriva dal riprodurre, in scala ridotta, tutto l’ordine simmetrico dell’attività produttiva della fabbrica. Per Simmel, in ultima istanza, la società è un’opera d’arte (cfr. Davis 1973, 320) prodotta e differenziata dal processo di sociazione in stili che variano in funzione delle epoche e delle culture. La metropoli è il capolavoro creato dallo stile della vita moderna. Essa non è semplicemente una città più grande, bensì un ordinamento spaziale radicalmente nuovo in cui si raccolgono e manifestano simultaneamente una serie di fenomeni: il dominio dell’economia finanziaria, la libertà di movimento dell’individuo tra le cerchie sociali, la formazione e lo scorrere della massa, l’innesto delle tecnologie nella vita quotidiana, la sincronizzazione delle attività individuali al tempo cronometrico degli orologi, la calcolabilità e la quantificazione dei valori culturali che orientano il processo di sociazione. Nel combinare questi elementi, la metropoli è il topos prescelto dall’indagine estetica simmeliana per analizzare la quintessenza della modernità. E così, come Il pittore della vita moderna della Parigi dell’800, Simmel si addentra da flâneur nella vita della Berlino dei primi ‘900 fino a raggiugere lo strato sensoriale che elettrifica la psiche dei suoi abitanti: nel rifiutarsi di accettare in modo passivo il non-senso delle cose per accedere allo stato superiore della simmetria” (2020, 19-20).
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La base psicologica su cui si erge il tipo delle individualità metropolitane è l’intensificazione della vita nervosa, che è prodotta dal rapido e ininterrotto avvicendarsi di impressioni esteriori e interiori. […] Nella misura in cui la metropoli crea proprio queste ultime condizioni – ad ogni attraversamento della strada, nel ritmo e nella varietà della vita economica, professionale, sociale – essa crea già nelle fondamenta sensorie della vita psichica, nelle qualità di coscienza che ci richiede a causa della nostra organizzazione. […] Ciò innanzitutto permette di comprendere il carattere intellettualistico della vita psichica metropolitana, nel suo contrasto con quella della provincia, che è basata per lo più sulla sentimentalità e sulle relazioni affettive. […] Così il tipo metropolitano – che naturalmente è circondato da mille modificazioni individuali – si crea un organo di difesa contro lo sradicamento di cui lo minacciano i flussi e le discrepanze del suo ambiente esteriore: anziché con l’insieme dei sentimenti, reagisce essenzialmente con l’intelletto, di cui il potenziamento della coscienza, prodotto dalle medesime cause, è il presupposto psichico (Simmel 1995, 36-37).
La metropoli è un ordine estetico simmetrizzato dallo spirito oggettivo del denaro, da quella forma prototipica che riduce l’eterogeneità del mondo sociale in un valore di scambio astratto e quantitativo (cfr. ivi, 38). Questa divinità, prodotta dallo scambio economico e legittimata dall’autorità pubblica, trova nella metropoli l’habitat ideale in cui manifestare ed espandere tutta la sua potenza fin dentro la vita spirituale degli individui. Ciascuno di loro, per schermarsi dagli choc incontrati lungo le strade trafficate e nel ritmo accelerato dell’economia finanziaria, crea nella sua vita mentale un organo – come si legge nella citazione – di “attutimento della sensibilità rispetto alle differenze fra le cose” (ivi, 43). Neutralizzando con l’intelletto le stimolazioni nervose dell’ambiente metropolitano, l’individuo si metamorfizza in un blasé: il tipo umano a cui tutto appare distribuito in una scala di grigi, in una tonalità affettiva indistinta nella quale si perdono le sfumature sentimentali della relazione sociale. Il tipo metropolitano diventa, in tal modo, l’incarnazione dello spirito dell’economia finanziaria, il riflesso dell’immagine capitalistica
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del mondo basata sul valore quantitativo delle cose e sull’agire razionalizzato dal calcolo e dall’utilità10. Simmel, diversamente dal blasé, amplifica l’attività sensoriale per portare in luce dal flusso nervoso della metropoli il processo di sociazione espresso dalla modernità, e come il suo stile di vita razionalizzato, tecnico e quantitativo simmetrizzi il mondo interno dell’individuo in funzione del denaro “ad ogni attraversamento della strada, nel ritmo e nella varietà della vita economica, professionale, sociale”. Nella sua brevità, Le metropoli e la vita dello spirito è un saggio in cui è racchiusa la quintessenza del metodo simmeliano basato, come sottolinea Kracauer (1982, 66), da “una diretta esperienza di percezione” della vita quotidiana e delle forme in cui essa si ipostatizza. Lo stile di ricerca delineato da Simmel dà indicazioni metodologiche importanti alla creatività sociologica che possono, ancora oggi, orientarla a un approccio più ampio ai fenomeni sociali rispetto a quello circoscritto dal feticismo del metodo: In molti settori della scienza cresce in questo modo quello che si può chiamare il sapere superfluo, una somma di conoscenze irreprensibili dal punto di vista del metodo, inattaccabili dal concetto astratto del sapere, che tuttavia sono estraniate dalla finalità autentica di ogni ricerca; con ciò naturalmente non penso ad alcuna finalità esteriore, ma soltanto a quella ideale e culturale. […] Su ciò si basa il feticismo del “metodo”, in voga da qualche tempo, che presuppone che l’opera abbia già un valore per la correttezza del suo metodo: è questo un modo molto astuto di legittimare e valorizzare molti lavori che sono esclusi dal senso e dalla connessione
10 In Filosofia del denaro, così descrive Simmel la corrispondenza tra intelletto e denaro: “Mi sembra che questo tratto psicologico della nostra epoca – che si pone in netto contrasto con l’essenza più impulsiva, più orientata verso la totalità e più ricca di sentimenti di epoche precedenti – abbia uno stretto collegamento causale con l’economia monetaria. Il denaro induce di per sé la necessità di continue operazioni matematiche nella vita quotidiana. La vita di molti uomini viene riempita da tale attività di definizione, di ponderazione, di calcolo, di riduzione dei valori qualitativi a valori quantitativi” (1984, 628).
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dello sviluppo della conoscenza, intesi anche nella loro accezione più ampia (Simmel 2012, 46-47).
Nel valorizzare le procedure della ricerca, nell’estraniarsi da fini conoscitivi più generali, la tecnicizzazione del metodo simmetrizza le opere scientifiche con la medesima logica razionalizzata e astratta del denaro. D’altronde, fin da Galileo e Bacone, la scienza moderna nasce da una concezione geometrico-matematica del reale mediata dal metodo, inteso come Novum Organum Scientiarum a cui affidarsi per filtrare dal Mundus sensibilis la verità cristallina dei fatti (vedi supra cap. II.4). Una prassi macchinica della ricerca prolungata nell’ambito sociologico dal positivismo di Comte, e perfezionata da Les Règles de la méthode sociologique di Durkheim. L’estetica di Simmel, invece, traccia una strada metodologica che parte dalla sfera sensibile della corporeità, attraversa il mondo evanescente delle immagini fino a giungere nella dimensione immaginativa del pensiero. Sono aree della conoscenza, non collegate dai percorsi lineari e tecnici del metodo scientifico, che sollecitano la creatività sociologica a un’osservazione di tipo esperienziale. Trasformando l’osservazione in un vissuto, il sociologo può evitare di incorrere nel “dualismo metodologico” (Gouldner 1972, 715) con cui si differenzia, con timore e paura, da coloro che osserva per conferire un carattere oggettivo alle sue ricerche. E invece, l’esperienza personale del sociologo, come specifica Znaniecki in The Method of Sociology (1934, 159), è la principale sorgente di informazioni a cui affidarsi per trasporre la realtà sociale nel suo mondo riflessivo, lì dove le informazioni sono ricostruite teoreticamente acquisendo un valore conoscitivo. E poiché fin dalla nascita sono i sensi a incorporare il mondo, l’estetica sociologica chiama in causa gli organi percettivi per integrarli attivamente nel processo conoscitivo11. Ancor prima di 11 Una riabilitazione del ruolo conoscitivo del sensorio fondata sulla considerazione che la realtà fenomenica sia – come si legge tra gli appunti del Diario postumo di Simmel – più ampia e ricca di quella espressa dalla visione scientifica: “Non ciò che sta dietro l’immagine scientifica delle cose,
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qualsiasi Novum Organum Scientiarum, sono i ricettori sensoriali a stimolare la creatività del sociologo a un’osservazione panteistica della realtà sociale da riflettere, filtrare e concettualizzare attraverso il reticolo epistemico, quell’a priori simmeliano della conoscenza ottenuto dall’intreccio delle scienze particolari. Nel ri-creare un legame tra percezione e intelletto, la corporeità del sociologo può essere il centro di una sfera comprendente interconnessa all’ambiente immaginativo della vita associata, a quella natura culturalizzata coltivata quotidianamente dall’azione reciproca “che plasma il rapporto dell’uomo con gli altri e con sé stesso attraverso la lingua, il costume, la religione, il diritto” (Simmel 1984, 631). Pertanto, per l’estetica sociologica, la sfera comprendente dell’Homo sociologicus è tanto più permeabile all’ambiente immaginativo quanto più riesce a evitare la postura di osservazione del tipo blasé, di indifferenza a tutte le sollecitazioni provenienti dal campo esperienziale che non possono essere formalizzate dalle tecniche di ricerca. E invece, se usate in termini strumentali, le tecniche di ricerca – sia quelle qualitative che quantitative – possono estendere lo spettro sensoriale del sociologo e offrire punti di vista nuovi alla sua creatività. Nel dare un ruolo alla sensorialità, l’estetica è un metodo di osservazione aperto al mondo delle immagini. Esse, come abbiamo visto, svolgono una funzione vitale in tutto il regno animale. Ciascuna specie, compresa quella umana, attraverso le immagini trasforma le stimolazioni captate dall’ambiente in un piano di leggibilità che in-forma i suoi schemi motori, a partire da quello di attacco o fuga. Le immagini dell’uomo veicolano informazioni percettive più complesse, intrise di contenuti di senso provenienti dall’ambiente socio-antropologico in cui interagisce simbolicamente con i suoi simili (cfr. Blumer 2008). Ed è per questo che l’oscuro, l’in-sé, l’inafferrabile, è al di là della conoscenza – ma, viceversa, proprio l’immediato, l’immagine pienamente sensibile, la superfice a noi rivolta delle cose. Non al di là, ma al di qua della scienza cessa il conoscere. Il fatto che proprio ciò che vediamo, tocchiamo, viviamo, noi non possiamo esprimerlo in concetti, non possiamo riprodurlo tale quale nelle forme della conoscenza, lo spieghiamo del tutto erroneamente, come se dietro i contenuti di queste forme ci fosse qualcosa di misterioso e inconoscibile” (Simmel 1919: trad. it. 2011, 16).
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le forme incorporee, evanescenti, effimere e fantasmatiche della percezione “sono sempre – come ci dice Simmel – il presupposto, il materiale e la guida del nostro agire pratico in quanto con esso ci mettiamo in contatto con il mondo, così esso sussiste in modo relativamente indipendente dalla nostra rappresentazione soggettivamente determinata” (ivi, 162). Anche nella pratica della ricerca sociale, dunque, le immagini svolgono una funzione primaria nel mettere in contatto il sociologo con il suo oggetto di analisi, e a riportarlo nella sua sfera riflessiva sotto forma di contenuti vividi capaci di intensificarne l’immaginazione. Una facoltà mentale, quella dell’immaginazione, che porta al vertice l’attività metacognitiva con cui la nostra specie, a differenza delle altre, interrompe il circuito delle immagini sensoriali. Per l’Homo, le informazioni veicolate dalle forme della percezione costituiscono la base di stimolazione nervosa da cui plasmare una infinità di immagini mentali (Damasio 1995, 164). L’immaginazione dell’Homo sociologicus nasce da questa dinamica mentale tipicamente umana, ma orientata alla creazione di immagini comprendenti della dimensione invisibile dei fenomeni associativi. L’estetica sociologica è una fenomenologia, dunque, che parte dall’osservazione delle forme dello scambio sociale per poi analizzarne i contenuti simbolici (Goodstein 2002, 210). Attraverso questo metodo empirico-ideale Simmel è giunto, come abbiamo visto, a sintonizzarsi con le immagini ad alto contenuto nervoso dell’ambiente metropolitano, e usarle come materiale percettivo dal quale creare un’immagine mentale, talmente profonda, da portare in luce l’immaginario monetario della modernità. Nel collegare la ricerca con l’esperienza, l’intelletto con la sensorialità, l’osservazione con la vita delle immagini, la comprensione con l’immaginazione, l’estetica sociologica non è certamente una strada metodologica lineare, simmetrica, levigata, sicura e standardizzabile. Eppure, malgrado le insidie presenti nel suo percorso, la via estetica apre alla creatività sociologica la possibilità di fare del metodo un’arte della ricerca orientata a cogliere la dimensione profonda della vita quotidiana.
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5. I quadri della vita sociale L’odissea di Costantin Guys si conclude anch’essa con un ritorno a casa lungo le strade tinteggiate di porpora dal tramonto, l’ora incerta in cui le scenografie del cielo si abbassano e i lampioni a gas cominciano a illuminare Parigi (cfr. Baudelaire 2004, 25). Come ogni mattina, l’assalto del sole alle finestre aveva rinnovato in quest’Ulisse dei tempi moderni il desiderio di partire. Dopo averlo ridestato dalla notte, i raggi dell’astro si erano impossessati dei suoi pensieri: “Già da parecchie ore, luce dappertutto! Luce perduta dal mio sonno! Quante cose illuminate avrei potuto vedere e non ho visto!” (ivi, 24). Erano state le considerazioni sul tempo perduto a far uscire il pittore dal domicilio, la sua Itaca, per viaggiare nella folla ondeggiante della Parigi del XIX secolo alla ricerca del bello disseminato in “quell’indefinito che ci deve essere permesso di chiamare la modernità” (Baudelaire 2004, 27). Se durante le luci del giorno il raggio delle derive urbane di Guys si era sempre più ampliato, il sopraggiungere della sera lo riporta verso la sua isola. Ma mentre donne e uomini vanno verso i luoghi a loro più cari, a bere la coppa dell’oblio per chiudere la giornata, l’artista usa la notte per entrare nel mondo della raffigurazione: Adesso, nell’ora in cui tutti gli altri dormono, il pittore è chino sul suo tavolo, scaglia sul foglio di carta lo stesso sguardo che appuntava poc’anzi sulle cose, si accanisce con la matita e il pennello, fa schizzare l’acqua del bicchiere sul soffitto. Asciuga la penna sulla camicia, impaziente, violento, aggressivo, quasi temendo che le immagini vogliano sfuggirgli, rissoso ancorché solo, e facendo come violenza a se stesso. E sulla carta le cose rinascono, naturali e più che naturali, belle e più che belle, singolari e con una vita fervida come l’anima dell’autore. La fantasmagoria è stata estratta dalla natura. Tutti i materiali di cui la memoria si è riempita si classificano, si ordinano, vengono armonizzati e sottoposti a quell’idealizzazione coatta che è l’effetto di una percezione infantile, ossia di una percezione acuta, magica a forza di ingenuità. (ivi, 26)
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Le parole di Baudelaire sono esse stesse un quadro narrativo in cui è rappresentato l’atto creativo di Guys, quel momento carico di intensità espressiva nel quale smette di essere semplice perdigiorno per diventare il pittore della vita moderna. La flânerie dell’artista – iniziata dai lussuosi camminamenti delle gallerie del Louvre, e proseguita lungo i marciapiedi delle strade parigine – non aveva una meta ma una finalità: osservare l’ambiente sensorio della metropoli con la curiosità magica del bambino per memorizzare i frammenti di vissuto quotidiano sotto forma di immagini vivide. Sono questi fantasmi diurni che ora, nella solitudine notturna dell’atelier, l’artista cerca nervosamente di sostanziare con gli strumenti dell’arte nel biancore della carta attraverso punti, linee flessuose e macchie di colore. E così che Guys, nel lottare con sé stesso, cattura nel corpus pittorico dei suoi acquarelli le immagini mnemoniche di soldati, dandy e donne raccolte dalla realtà metropolitana. Il soldato, una volta fatto rinascere dal pittore sulla superfice della carta, si carica di una propria bellezza suscitata dall’uniforme con cui il governo l’ha vestito, richiamando nel presente l’eterno spirito virtuoso e infantile del guerriero consacrato alla sua patria. Al contrario della moda marziale del soldato, quella eccentrica del dandy, raffigurata da Guys, racchiude la professione da sempre dedita alla coltivazione del bello nella propria persona. I suoi acquarelli dedicati alle metamorfosi dell’abbigliamento femminile ritraggono, invece, le espressioni mondane della divinità della donna: l’astro “che presiede a tutte le concezioni del cervello virile” (ivi 54). Le figure ordinarie e anonime di soldati, dandy e donne sono trasfigurate dall’arte del pittore in personaggi mitologici della sua odissea quotidiana. Pertanto, i soggetti pittorici di Guys sono tratti dal teatro effimero, transitorio, fuggitivo della metropoli e, attraverso l’idealizzazione, trasfigurati nel piano della rappresentazione al fine di estrarne “la bellezza misteriosa che vi immette, inconsapevole, la vita umana” (ivi, 29). È questa capacità del pittore di combinare nelle sue opere la dimensione visibile e invisibile della modernità a fare di lui, per Baudelaire, la figura ideale dell’artista.
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D’altronde, l’arte è da sempre attraversata dalla necessità di dover sintetizzare simbolicamente l’esperienza percettiva delle cose per poterla restituire in una visione più ampia. Persino le finestre aperte sul mondo dai quadri rinascimentali, grazie all’uso scientifico della macchina prospettica, sono opere che hanno preso vita e forma nel mundus imaginalis dell’arte; un mondo regolato, per Baudelaire, dai principi creativi dell’immaginazione: L’immaginazione è l’analisi, è la sintesi; e tuttavia anche uomini capaci nell’analisi e non negati al ragionamento riassuntivo, possono mancare di immaginazione. Essa è questo, e il contrario di questo. […] L’immaginazione invero ha appreso all’uomo il senso morale del colore, del contorno, del suono e del profumo. Essa ha creato, al principio del mondo, l’analogia e la metafora. Essa scompone tutta la creazione, e, con i materiali raccolti e disposti secondo regole di cui non si può trovare l’origine se non nel più profondo dell’anima, crea un mondo nuovo, produce la sensazione del nuovo (Baudelaire 1859: trad. it. 1981, 223).
Sono considerazioni formulate da Baudelaire in polemica con le morali estetiche delle élites dei critici d’arte, incaricate dallo Stato francese di selezionare le opere da esporre nei Salon: le biennali internazionali di pittura e scultura allestite nel palazzo del Louvre. Per questi moralizzatori del gusto nazionale, l’arte doveva riprodurre fedelmente la natura delle cose per essere all’altezza del suo compito. Un’idea alimentata dai primi esperimenti fotografici di Daguerre, i cui prodigiosi risultati avevano indotto anche nel pubblico la convinzione secondo la quale: “Giacché la fotografia ci dà tutte le garanzie desiderabili di esattezza (credono proprio questo, gli stolti!), l’arte è fotografia” (ivi, 220). Per Baudelaire, invece, l’arte doveva avvalersi dell’immaginazione per classificare, ordinare e organizzare i significati celati nel materiale percettivo raccolto dal creato in modo da poterlo ricomporre, per metafore e analogie, in un mondo fantasmagorico. E poiché questa facoltà è infusa fin da sempre nello spirito umano, l’artista doveva trovare in sé la via d’accesso alla realtà per poterla ricreare in una realtà sui generis.
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Gli acquarelli di Guys sono esempi, agli occhi di Baudelaire, di come l’immaginazione del pittore fosse riuscita a ritrarre dalle folle, dalle scene quotidiane e dai costumi del suo tempo i tratti profondi della modernità. L’essenza dell’arte è, dunque, quella di tradire l’immagine fotografica della realtà in nome di un realismo sovrasensibile che, come scrive Simmel, “è molto più e molto meno della visibilità del reale” (1918: trad. it. 1985, 51). Anche le rappresentazioni della sociologia sono molto più e molto di meno dei fatti sociali. Per quanto si attenga a pratiche di ricerca rigorose, l’analisi del sociologo è sempre condizionata da fattori che presiedono alla sua attività scientifica: le categorie della conoscenza che ne strutturano l’epistemologia; i modelli paradigmatici della sua comunità scientifica; le teorie sociali che più lo hanno convinto; i metodi scelti per approcciare i fenomeni collettivi; la definizione del campo e degli oggetti di ricerca; la selezione delle variabili da considerare; l’interpretazione dei risultati della ricerca. A questi fattori, vanno aggiunte le influenze esercitate dagli assunti non scientifici del sociologo (Gouldner 1972, 55) che, tuttavia, ne alterano inevitabilmente le ricerche: i sistemi di credenza laici o religiosi nei quali formula la propria visione del mondo; le ideologie politiche in cui si riconosce; la sfera cognitiva-emozionale dischiusa dal suo vissuto. Durante la fase di scrittura, queste perturbazioni d’ordine scientifico e personale si stratificano nei resoconti in cui il sociologo espone il percorso di ricerca. Persino nell’ipotesi, oramai non tanto remota, di poter sostituire la soggettività del ricercatore con l’operatività tecnica di un algoritmo le cose non cambierebbero di molto. Tutti i problemi inerenti alla ricerca sociale dovrebbero essere comunque affrontati e definiti per impostare gli a priori necessari a programmare l’algoritmo. Finanche in questo caso, dunque, non si giungerebbe ai fatti sociali ma solo alle loro interpretazioni. Malgrado ciò, sono tali interpretazioni la conditio sine qua non che permette al sociologo di rappresentare la realtà sociale in un quadro comprendente che, come accade nel campo della raffigurazione, non coincide mai con essa.
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Lo scarto esistente tra analisi e realtà sociale, se colto in termini riflessivi, riconfigura nel sociologo quell’analoga condizione creativa dell’artista descritta da Baudelaire. Come il pittore della modernità, anch’egli si trova a dover attingere in qualche misura alla sua immaginazione sociologica per poter scomporre analiticamente il materiale empirico, e per ricrearlo in ciò che scrive attraverso l’analogia e la metafora. Sono forme del pensiero immaginativo che, come sottolinea Clifford (2017, 144), intervengono nei procedimenti letterari in cui vengono registrati i fenomeni culturali “sia sul piano del contenuto (quel che si dice sulle culture e sulle loro storie) sia sullo della forma (il modo di costruire il testo)”. E dunque, i resoconti di ricerca non sono mai delle fotografie neutre della realtà sociale, ma delle rappresentazioni metaforiche così come lo sono quelle create dall’arte. Focalizzandosi sulle affinità che intercorrono fra arte e scienza, Nisbet formula l’idea che la sociologia possa essere pensata e praticata come una forma d’arte a sé: Ciò che voglio dimostrare è che la scienza sociologica fa i suoi più significativi progressi intellettuali sotto lo sprone di stimoli e processi che condivide ampiamente con l’arte e che, al di là delle loro differenze, scienza e arte hanno in comune soprattutto la capacità di scoprire e la capacità di creare. […] Il mio interesse per la sociologia come forma d’arte è stato recentemente stimolato da alcune riflessioni su idee che, per comune assenso, sono tra le più peculiari che la sociologia abbia fornito al pensiero moderno. Me le si lasci menzionare: società di massa, alienazione, anomia, razionalizzazione, comunità, disorganizzazione. […] Ho realizzato che nessuna di queste idee è storicamente il risultato dell’applicazione di ciò che ci piace chiamare metodo scientifico. […] Al contrario, ciascuna di queste idee, così profonde e feconde, sembrerebbe essere la conseguenza di processi intellettuali più simili a quelli dell’artista che non a quelli dello scienziato, per come la maggior parte di noi lo immagina (Nisbet 2016, 35-36).
Nisbet sviluppa questa tesi nel saggio Sociology as an art form (1976), attraverso la comparazione tra le opere dei padri fondatori della sociologia e le opere artistiche dello stesso periodo. Ciò che emerge dall’analisi è che la creatività di Com-
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te, Durkheim, Weber e Simmel aveva prodotto dei quadri della vita sociale (ivi, cap. 3) intrisi di contenuti analoghi a quelli rappresentati da Dostoevskij, Balzac, Dickens, Flaubert, Zola, Stendhal, Eliot. Come ribadisce più volte nel saggio, Nisbet non vuole dimostrare che la sociologia non sia una scienza, ma solo che essa amplia la conoscenza dei fenomeni sociali quando condivide con l’arte i processi di sintesi con i quali il pensiero immaginativo mette in forma la realtà: la metafora, l’analogia, l’intuizione, immagini evocative, allegorie. Tra i saggisti-artisti oggetto delle sue comparazioni, il sociologo americano riconosce in particolare in Simmel la capacità di creare dei paesaggi della modernità connotati da “quella meravigliosa tensione tra l’esteticamente concreto e il filosoficamente generale che si riscontra sempre nella grandezza” (Nisbet 2016, 52). Questo stile della rappresentazione era l’esito delle riflessioni di Simmel nel campo dell’arte esplicitate negli scritti dedicati a I paesaggi di Böcklin (1895), Michelangelo (1889), Il cenacolo di Leonardo (1904), Goethe (1913), Rodin (1911), Rembrandt (1916). Sono saggi, disseminati lungo il percorso intellettuale del sociologo berlinese, riuniti attorno a una stessa problematica: come sintetizzare e comprendere l’eterogeneità percettiva del reale nel piano della rappresentazione? Pur se colta nel campo dell’arte, è una questione che Simmel affronta per risolvere in ambito sociologico la relazione tra visibilità e invisibilità, tra l’osservazione della vita associata e la sua messa in forma (cfr. Lepenies 1987, 336). Se si segue la lettura simmeliana, l’arte risponde a questo problema gnoseologico in termini fisiognomici. Come specifica Giovanni Gurisatti (2006, 72), la fisiognomica non va confusa con la frenologia di Lombroso – la pseudoscienza con la quale il medico-antropologo italiano misurava i crani e le fronti dei criminali per dedurre le anomalie anatomiche responsabili del loro comportamento socialmente deviante. Per dirla con il linguaggio weberiano, tra frenologia e fisiognomica esiste la stessa differenza che separa la spiegazione dalla comprensione. La fisiognomica è un’arte dell’interpretazione su base intuitiva
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dei tratti del volto, inteso come espressione simbolica in cui si manifestano i moti spirituali momentanei, duraturi e singolari del carattere dell’individuo. Per Simmel (1901; trad. it. 1985, 43), il volto è la parte insulare del corpo “esteticamente chiusa in sé” in cui l’anima della persona si concentra e decentra attraverso “un tremitio delle labbra, il naso arricciato, il modo di guardare, il corrugare della fronte”. L’arte estende, affina e applica la fisiognomica a tutto l’ordine sensibile del mondo per disvelare dai volti umani e animali, dalle cose, dai paesaggi naturali e urbani la parte invisibile della realtà in opere pittoriche, scultoree, architettoniche, musicali, letterarie. Questa capacità dell’artista di tramescolare il sensorio con il simbolico porta Simmel a concludere, nel saggio Il significato estetico del volto, che “la completa soluzione dei problemi artistici della pura visibilità, della pura immagine sensibile delle cose, significa contemporaneamente la soluzione degli altri, compresi nell’arco che si tende tra l’anima e il fenomeno, come problemi del loro velo e del loro disvelamento” (ivi, 49). E poiché l’arte risolve i problemi conoscitivi compresi tra l’anima e il fenomeno, Simmel trae da essa gli insegnamenti necessari per elaborare i dati fenomenici acquisiti tramite l’osservazione estetica in rappresentazioni fisiognomiche del volto storico-culturale della modernità12. 12 La capacità di Simmel di estendere l’arte dell’interpretazione del volto umano, quella parte rivelativa dell’interezza del suo spirito, alle forme oggettivate dalla vita moderna lo collocano, per Gurisatti, nel paradigma fisiognomico: “Rammentare all’arte fisiognomica l’enorme, divina difficoltà della sua pratica – peraltro riconosciuta da tutti i grandi fisionomi – non significa stigmatizzarla come impossibile o meramente fittizia. Se ne resero conto in ambito antropologico spiriti eccelsi come Goethe, Carus e Schopenhauer, Klages e Kassner, ma anche, in ambito più strettamente gnoseologico, personaggi autorevoli e non sospetti di superstizione come Dilthey, Simmel, Spengler, Benjamin, la cui opera psicologica, sociologica, storiografica e filologica lascia trasparire – in termini nemmeno troppo velati – la presenza di quello che, in sintesi, può definirsi paradigma fisiognomico, le cui tracce, magari dissimulate, compaiono in molti altri protagonisti significativi dell’ermeneutica contemporanea, in campo estetico, morfologico, iconologico, storico e linguistico” (Gurisatti 2006, 25).
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Come abbiamo visto precedentemente, l’estetica sociologica è un metodo empirico-ideale interessato, quindi, a cogliere nella superfice del quotidiano i contenuti immaginativi della cultura ipostatizzati dal processo di sociazione. In prima istanza, dunque, lo stile di ricerca simmeliano è una estesiologia sociale (Carnevali /Pinotti 2020, 9) che apre la spirale percettiva del sociologo a tutti i fenomeni associativi, da quelli microscopici a quelli macroscopici. Sono fenomeni che oggettivano e trasformano l’ordine morfologico del sociale in cui si manifesta, in contenuti particolari, l’anima della civiltà: quel “concetto centrale da cui scaturiscono i moti spirituali e in cui insieme essi sembrano confluire” (Simmel 1999, 18). Per individuare il nucleo simbolico celato nelle forme sociali è necessario, per Simmel, allenare i sensi a una visione panteistica in grado di “far trasparire il tipico nell’individuale, la legalità nell’accidentale, la sostanza e il significato intrinseco negli aspetti esteriori e transeunti delle cose” (Simmel 2020, 17). In seconda istanza, però, Simmel fa convogliare l’eterogeneità del materiale prefigurato dai sensi in cornici analitiche, in modo da sottoporlo a quell’analogo processo con il quale Guys classifica, ordina, armonizza le impressioni memorizzate lungo le rotte nella vita moderna parigina (cfr. Baudelaire 2004, 26). La funzione della cornice è di separare l’opera d’arte dalle “mille relazioni spaziali, storiche, concettuali, sentimentali con l’ambiente” (Simmel 1902: trad. it. 1985, 104) per farne un’isola, una superfice della raffigurazione protetta da confini sicuri sulla quale può scivolare lo sguardo del fruitore distaccandosi dalla totalità delle cose che lo circondano. Simmel fa un uso sociologico della cornice per recidere le infinite continuità delle trame relazionali della vita associata e riannodarle, attraverso metafore e analogie, nei suoi quadri sociali. È in essi che l’osservazione panteistica dà forma a immagini intuitive fissate dalla scrittura in paesaggi sociologici della vita associata. Le opere prodotte dalla letteratura simmeliana sono dunque un “più-che-vita” (Mehr-als-Leben), delle forme estetiche che si distaccano dal flusso del quotidiano per ricrearlo nel piano della comprensione sociologica. È un processo compositivo analogo
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alla trasfigurazione compiuta dall’artista baudelairiano al fine di estrarre dalla vita quotidiana la fantasmagoria dalla sua epoca. Come puntualizza Simmel nelle pagine introduttive alla Filosofia del denaro, il grande affresco nel quale coglie fisiognomicamente il carattere spirituale della modernità, le sue analisi procedono come nell’arte dal particolare al generale: L’unità di queste ricerche, pertanto, non consiste nell’asserzione di un contenuto conoscitivo particolare e nelle prove gradualmente accumulate per verificarlo, ma nella possibilità di scoprire in ogni singolo aspetto della vita la totalità del suo significato. Lo straordinario vantaggio dell’arte nei confronti della filosofia consiste nel fatto di porsi ogni volta un unico problema rigorosamente circoscritto, sia questo un uomo, un paesaggio, o uno stato d’animo, in modo tale che ogni estensione dello stesso verso il generale, ogni richiamo ai tratti più ampi dell’intuizione del mondo venga percepito come un arricchimento, un dono, un beneficio. Al contrario, la filosofia, che affronta nientemeno che il problema della totalità dell’esistenza, è solita restringersi di fronte alla grandezza di questo compito e offrire di meno di quanto sembra obbligata a offrire. Qui, cercheremo di procedere in senso opposto, affrontando il problema in termini limitati e circoscritti per poi allargarlo al più alto livello di generalità nella direzione della totalità. (Simmel 1984, 88)
Le isole dell’arcipelago simmeliano affiorano da quel comune modo di procedere con cui l’arte, a differenza della filosofia, intuisce la totalità del mondo circoscrivendola, con rigore, nelle forme singolari di “un uomo, un paesaggio, o uno stato d’animo”. Mediante questo processo creativo, Simmel rappresenta la natura morta del denaro come la forma formante della modernità connotata dalla particolarità di dare un volto uniforme alle cose, allo spazio, al tempo, alle relazioni, alle persone rendendole espressioni del suo spirito quantitativo. Attorno alle analisi circoscritte e isolate nella Filosofia del denaro si dispongono le altre opere del sociologo tedesco (cfr. Cacciari 2011). Nel paesaggio espressionistico della metropoli, su cui ci siamo soffermati, Simmel ritrae la quintessenza dello spirito oggettivo del denaro e la sua capacità di penetrare nell’anima dei suoi abitanti; un’anima collettiva rivelata dal volto cini-
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co e anaffettivo del blasé: il tipo metropolitano connotato da uno stile di vita intellettualizzato basato sulla calcolabilità dell’agire. Lo spirito del denaro si palesa anche nello stile di vita del maniaco della moda e del povero. Così come il dandy raffigurato negli acquarelli di Guys, il maniaco della moda rappresentato da Simmel è quel tipo umano che esprime la totalità dell’anima in virtù degli abiti e degli accessori che indossa. Questa figura eccentrica e appariscente ha la particolarità di volersi distinguere dagli altri imitando all’estremo il gusto dell’epoca, per cui “se sono di moda le scarpe a punta, le sue hanno punte da lancia, se vanno i colletti alti, lui li porta fino alle orecchie, se è di moda ascoltare conferenze scientifiche, non lo si può trovare in nessun altro posto” (Simmel 1910: trad. it. 2001, 34-35). Nel radicalizzare gli aspetti più esteriori della vita, il maniaco della moda esprime il rapido cambiamento della vita moderna indotto dalla circolazione del denaro (ivi, 25). Il povero, invece, è il tipo ideale la cui particolarità è quella di essere “colui i cui mezzi non sono sufficienti per i suoi scopi” (Simmel 1908: trad. it. 2001, 86). Pertanto, la povertà può albergare anche nell’anima del facoltoso se ciò che vuol possedere è posto al di là del suo tenore di vita; mentre anche l’individuo più povero, se è appagato da quel poco che possiede, può non sentire la distanza che lo separa dai suoi scopi (ivi, 87). Le cose cambiano quando il carattere relativo della povertà viene oggettivato dallo stato moderno in una cerchia sociale definita dai parametri quantitativi del denaro. In questo passaggio, il povero è colui che rientra nei parametri economici stabiliti dai burocrati del governo per assisterlo, ed evitare che esso possa trasformarsi “in un nemico attivo, dannoso per la società” (ivi, 44). Il povero è dunque anch’esso un prodotto indiretto dell’economia monetaria che, definendone la condizione, lo segrega nella cerchia dei bisognosi per ricollegarlo al sociale tramite gli aiuti economici elargiti dall’assistenza statale. Il denaro festeggia il suo trionfo anche nelle esposizioni industriali e in quelle d’arte. Le esposizioni industriali sono esse stesse un quadro in cui si raccoglie lo spirito del denaro sotto forma di merci cariche di un “superadditum estetico in cui, coe-
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rentemente con la sua accentuazione del divertimento, viene ricercata soprattutto una nuova sintesi di principio tra la bellezza esteriore e l’utilità oggettiva” (Simmel 1896: trad. it. 2006, 84). L’esposizione industriale è la festa che interrompe il ritmo monotono della divisione per accogliere, nelle cornici di architetture avveniristiche, le masse moderne nel mondo fantasmagorico degli oggetti. Anche le esposizioni d’arte sono delle metropoli en miniature che rispondono allo stile simmetrico e uniforme del denaro attraverso gli stili variegati, mutevoli, astratti e raffinati in cui si sono specializzate le espressioni estetiche. L’uomo colto cerca in queste metropoli affollate di opere d’arte un luogo in cui raffinare ancor di più l’intelletto e, allo stesso tempo, “estendere l’ambito della sua sfera sentimentale, in maniera tale che egli alla fine ha bisogno dello stimolo più immenso e sconvolgente per potersi almeno commuovere” (Simmel 1890: trad. it. 2006, 65). La vita spirituale del denaro e della metropoli, i tipi ideali del blasé, del maniaco della moda e del povero, i luoghi ideali delle esposizioni industriali e d’arte sono i ritratti nei quali Simmel coglie fisiognomicamente la vita moderna. Il corpus della rappresentazione simmeliana è animato da quel paradosso fondamentale individuato da Gouldner: “e cioè che coloro che forniscono le più importanti risorse per lo sviluppo istituzionale della sociologia sono proprio coloro che distorcono di più la sua attività di ricerca della conoscenza” (1972, 719). È un paradosso che la creatività sociologica ricompone praticando, così ha fatto Simmel, l’arte della metafora nell’accezione che ne dà Nisbet: La metafora è un metodo di conoscenza, uno dei più antichi e radicati, persino indispensabili modi di apprendere nella storia umana. […] È un metodo cognitivo in cui le qualità caratterizzanti di una cosa sono trasferite in un istantaneo, quasi inconscio, lampo di intuizione, ad un’altra cosa che ci è sconosciuta, a causa della sua lontananza o complessità. […] La metafora è il nostro modo di effettuare una fusione istantanea di due ambiti differenti di esperienza in un’unica immagine illuminante, iconica e complessa […] È facile liquidare la metafora come “non scientifica” o “irrazionale”, un mero surrogato della dura analisi richiesta dal pensiero più rigo-
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roso. La metafora, diciamo, appartiene alla sfera della poesia, alla religione e alle altre aree del pensiero più o meno “incantante”. […] Le menti creative, come sappiamo, sono ricche di immagini e metafore, e questo è vero sia nella scienza che nell’arte. La differenza fra lo scienziato e l’artista ha poco a che fare con l’immaginazione creativa; è tutto nel modo di dimostrare e verificare cosa è stato visto o immaginato (Nisbet 1969: trad. it. 2017, 26-28).
La metafora non è, dunque, un semplice stratagemma retorico per esprimere in una forma più efficace i contenuti del discorso parlato o scritto. Essa è, piuttosto, il metodo seguito dal pensiero umano per fondere l’eterogeneità del reale in un’immagine fatta balenare dall’intuizione: quel lampo in cui appare un paesaggio della conoscenza “supersensoriale e sovra-razionale” (Sorokin 1965, 285) situato al di là della percezione e del ragionamento sillogistico. Sono illuminazioni irradiate dalla creatività sia dell’artista che dello scienziato, come dice Nisbet e con lui altri (cfr. Sinnott 1972; Koestler 1975; Neumann 1993; Vygotskij 2010; Bergson 2016), in grado di generare matrici concettuali nelle quali sono contenute soluzioni a problemi conoscitivi avvertiti, precedentemente, come incerti e insormontabili. D’altronde, la letteratura delle scienze sociali è costellata da metafore che hanno arricchito e ampliato la conoscenza della vita associata. Ne richiamiamo qualcuna tra le più celebri a titolo di esempio: “la coscienza collettiva”, con cui Durkheim estende la vita mentale al sociale per spiegare l’integrazione degli individui in uno stesso ordine normativo e morale; “la gabbia d’acciaio”, l’immagine con la quale Weber racchiude la condizione di prigionia dell’uomo nel mondo razionalizzato dal sistema del capitalismo; “l’incontro di Ulisse con le Sirene”, allegoria per Adorno e Horkheimer del processo di demagificazione del mondo generato dal mito dell’illuminismo; “la società liquida”, la rappresentazione idraulica con cui Bauman incornicia la fase di liberazione dell’economia dai corpi comunitari, politici, etici e culturali solidificati dalla modernità. Così come quelle simmeliane, sono metafore messe in forma dall’arte sociologica nelle quali si sedimentano teorie, analisi, ricerche, in modelli finzionali che hanno la forza “di aprire e di dispiegare nuove dimensioni della realtà,
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grazie alla sospensione del nostro dare credito ad una descrizione anteriore” (Ricœur 2016, 213). La creatività svolge dunque una funzione determinante nel costruire, attraverso il metodo della metafora, dei percorsi cognitivi per collegare e trascrivere i dati storico-sociali in base a “schemi di associazioni che rimandano a significati addizionali coerenti dal punto di vista teorico, estetico e morale” (Clifford 2017, 147). Inoltre, sono ponti metaforici che riuniscono le sponde tra arte e scienza separate, dal Rinascimento in poi, dalla tecnicizzazione del metodo e dalla funzionalizzazione della conoscenza ai processi produttivi introdotti dalla rivoluzione industriale (cfr. Nisbet 2016, 37). E invece, come sottolinea Giddens, arte e scienze sociali hanno dei punti di tangenza: Viene così in evidenza la stretta connessione esistente fra le arti e le scienza sociali, che ha due aspetti fondamentali: innanzitutto, ambedue utilizzano la risorsa della conoscenza condivisa da coloro che interagiscono, per sviluppare un dialogo attraverso il quale l’autocomprensione da parte del lettore può essere agevolata fornendogli nuovi elementi di comprensione degli altri; in secondo luogo, sia le arti che le scienze sociali sono necessariamente impegnate in profondità in un’opera di mediazione creativa tra forme di vita. Le arti peraltro non sono costrette a soddisfare l’esigenza di fornire una descrizione “veritiera” di qualche parte della realtà, e siccome da ciò derivano loro un potere creativo che alle scienze sociali è negato dalla loro funzione, ciò dà luogo a una specifica tensione fra i due tipi di esperienza (Giddens 1976: trad. it. 1979, 211).
Le scienze sociali, anche se condividono con l’arte una conoscenza comune e l’area della creatività, sono quindi vincolate da una conoscenza “veritiera” della realtà. Ma anche questo vincolo è, a sua volta, una finzione intrinseca alla visione scientifica del mondo (vedi supra cap. II.4a). Sono i suoi modelli paradigmatici, che come evidenzia Kuhn (2009) mutano nel corso delle rivoluzioni scientifiche, a predefinire le teorie e i metodi della ricerca della verità dei fatti, a demarcare la conoscenza oggettiva della realtà da quella opacizzata dalle credenze di senso comune. Esistono poi dei limiti conoscitivi interni alla nostra specie, dato
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che essa percepisce del reale solo la parte compresa nella sfera ambientale definita dai suoi sensi (cfr. Uexküll 2010). Oltre a ciò, i dati sensoriali sono sempre mediati e interpretati da segni e simboli prodotti dalla semiosfera dell’immaginario sociale (vedi supra cap. II.2). Infine, i paradigmi scientifici, l’ambiente percettivo e quello dell’immaginario sono oggetto di una ulteriore interpretazione: quella generata dalla sfera mentale del ricercatore. Avere consapevolezza e padroneggiare questi diaframmi finzionali, “compresi nell’arco che si tende tra l’anima e il fenomeno” (Simmel 1985, 49), può permettere alla creatività sociologica di esercitare l’arte della rappresentazione metaforica all’interno di quadri analitici che sono molto più e molto meno della vita associata. La loro prospettiva non è quella di cogliere delle verità dalla realtà sociale, ma di estrarre da essa contenuti originali ottenuti in base a una coerenza epistemologica e metodologica. Anche in questi ambiti della scienza sociale, come si è cercato di evidenziare, la creatività svolge un ruolo fecondo per l’attività comprendente. Operando nel piano epistemico (vedi supra cap. III.3), la creatività è un metodo di interconnessione tra le scienze, separate dal processo di specializzazione del sapere, al fine di irretire i fenomeni collettivi in una conoscenza più ampia e unitaria. È un processo che presiede la formazione della cornice teorica entro la quale sottoporre “i dati storico-sociali – al di là della raccolta estrinseca di quei fenomeni – a un nuovo processo di astrazione e di coordinamento, in modo che certe determinazioni degli stessi, vengano riconosciute come reciprocamente connesse e quindi come oggetti di un’unica scienza” (Simmel 1998, 9). Attraverso l’estetica sociologica, la creatività fa del metodo un’arte dell’osservazione della realtà quotidiana (vedi supra cap. III.4), intesa come campo empirico in cui il sociale si esteriorizza in forme associative, istituzionali, oggettuali, urbane, artistiche, scientifiche, tecnologiche, economiche. Sono forme oggettivate e differenziate dall’azione reciproca in base a un immaginario sociale, a uno spirito culturalmente e storicamente determinato che “tende a cristallizzarsi in una configurazione specifica che poi funge da paradigma e forma prototipica” (Simmel 2020, 15).
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E poiché la dimensione immaginativa esiste solo grazie alle forme in cui si esprime, il metodo estetico è una fenomenologia di profondità dell’ordine morfologico prodotto dal processo di sociazione. Durante il processo di ricerca, il reticolo epistemico e l’estetica sociologica si influenzano reciprocamente, creando attorno all’oggetto di ricerca un circolo ermeneutico fra intelletto e percezione, teoria ed empiria, in cui fluiscono immagini conoscitive eterogenee, incerte, non ancora stabilizzate in un ordine logico-razionale. L’intuizione è il lampo del pensiero che interrompe questa circolazione in un modello metaforico dell’oggetto di ricerca, in un condensato immaginativo dotato di un surplus di conoscenza sociologica che è più della somma dei significati veicolati dalle immagini teoriche e sensoriali. La scrittura è il processo creativo con il quale l’immagine germinale dell’intuizione viene sviluppata, rimodulata e razionalizzata in ordine del discorso scientifico tipicizzato dai canoni della letteratura sociologica. Nel mettere in dialogo le scienze, nel dare profondità all’osservazione empirica del quotidiano, nel ricomporre i dati della ricerca in rappresentazioni metaforiche, la creatività può offrire alla sociologia un méthodos conoscitivo orientato a comprendere, tra arte e scienza, qualcosa di nuovo dalla realtà enigmatica, poietica, complessa e mutevole del sociale.
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SOCIOLOGIE Collana diretta da Mariella Nocenzi e Angelo Romeo
1. Vanni Codeluppi, Metropoli e luoghi del consumo 2. Angelo Romeo, Rodolfo Valentino. Un mito dimenticato 3. Lilie Chouliaraki, Lo spettatore ironico. La solidarietà nell’epoca del postumanitarismo, a cura di Pierluigi Musarò, traduzione di Marco Solaroli 4. Erica Antonini, Giovani senza. L’universo Neet tra fine del lavoro e crisi della formazione 5 Andrea Spreafico, Tommaso Visone, Categorie, significati e contesti 6. Émile Durkheim, Sociologia e filosofia, a cura di Angelo Romeo 7. Georg Simmel, La moda, a cura di Anna Maria Curcio 8. Max Weber, L’avalutatività. Nelle scienze sociologiche ed economiche, a cura di Mariella Nocenzi 9. Alvin Ward Gouldner, Il futuro degli intellettuali. Per una sociologia del discorso critico, a cura di Francesco Antonelli 10. Werner Sombart, L’avvenire del capitalismo, a cura di Roberta Iannone 11. Georg Simmel, Il povero, a cura di Emanuele Rossi 12. Herbert Spencer, Costumi e mode, a cura di Maria Cristina Marchetti 13. Pierpaolo Donati, L’enigma della relazione 14. Antonella Golino, Maria Licia Paglione, Povertà e gratitudine in Georg Simmel. Declinazioni inedite della crisi postmoderna, prefazione di Luigino Bruni 15. Valentina Fedele, Islam e mascolinità. La definizione delle soggettività di genere nella diaspora musulmana nel Mediterraneo 16. Werner Sombart, Guerra e capitalismo, a cura di Roberta Iannone 17. Erving Goffman, Rappresentazioni di genere, a cura di Angelo Romeo, postfazione di Vanni Codeluppi 18. Erving Goffman, Le condizioni di felicità, a cura di Angelo Romeo 19. Gina Lombroso, La donna nella società attuale, a cura di Mariella Nocenzi 20. Angelo Romeo, Sociologia dei processi culturali e comunicativi.Concetti e temi 21. Emiliano Bevilacqua, La vita oltre l’utilità. Soggettività ed economia 22. Ken Booth, Relazioni internazionali. Fondamenti e prospettive sociopolitiche del sistema internazionale contemporaneo, a cura di Giuseppe Anzera 23. Michela Luzi, Le dinamiche dello sviluppo locale. Capitale territoriale e modelli partecipativi 24. Claude Javeau, Conversazione tra i signori Durkheim e Weber sulla libertà e il determinismo, a cura di Alessandro Porrovecchio 25. Paolo Jedlowski, Intenzioni di memoria. Sfera pubblica e memoria autocritica 26. Erving Goffman, Consolare lo sconfitto. Aspetti dell’adattamento al fallimento, a cura di Vincenzo Romania
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Finito di stampare nel mese di dicembre 2022 da Digital Team – Fano (PU)