La commedia umana. Conversazioni con Sebastiano Mondadori 8842822450, 9788842822455

Ignorata o screditata per anni dalla critica ufficiale, oggi la commedia all'italiana è celebrata come uno dei filo

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Italian Pages 384 [313] Year 2016

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Table of contents :
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Colophon
Sommario
Dodici anni dopo
Una lunga infedeltà
La commedia all’italiana
Caffè, coppie e ammucchiate
Il mestiere di far ridere
Dalla parte dei vinti
Lo stile assente
I mostri
Italiani…
Giovinezze
Vite di uomini non illustri
La commedia umana
Filmografia
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La commedia umana. Conversazioni con Sebastiano Mondadori
 8842822450, 9788842822455

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La Cultura 1014

Mario Monicelli

La commedia umana Conversazioni con Sebastiano Mondadori

Crediti fotografici © Reporters Associati & Archivi – Roma: 24, 35, 52-53, 66-67, 94-95, 107, 117, 120, 129, 132, 136, 143, 153, 158, 165, 175, 180, 196, 205, 210, 214, 226, 231, 276 Esperite le pratiche per l’acquisizione dei diritti di pubblicazione delle immagini, la casa editrice rimane a disposizione di quanti avessero a vantare ragioni in proposito. © il Saggiatore S.r.l., Milano 2016 Prima edizione: il Saggiatore, Milano 2005

Sommario

Dodici anni dopo Una lunga infedeltà La commedia all’italiana Caffè, coppie e ammucchiate Il mestiere di far ridere Dalla parte dei vinti Lo stile assente I mostri Italiani… Giovinezze Vite di uomini non illustri La commedia umana Filmografia

La commedia umana a Camilla, Tommaso e Niccolò (S.M.)

Lei deve abituarsi alla vita, e deve imparare a ridere. WOLFGANG AMADEUS MOZART

Offrendoci la bella illusione della grandezza, il tragico ci consola. Il comico è più crudele: rivela brutalmente l’insignificanza di tutte le cose. MILAN KUNDERA

Dodici anni dopo

Era l’estate di dodici anni fa quando consegnai i testi di questo libro all’editore. Uscì in libreria nel maggio 2005, pochi giorni prima che Monicelli compisse novant’anni. Faccio finta per qualche riga che questi dodici anni non siano passati. Ha il sorriso di chi ha fregato la vita, Mario Monicelli. Rieccolo nel suo loft di legno bianco del piano ammezzato sulla vita rigurgitante di Monti – il cuore della Vecchia Roma, il quartiere in cui da oltre trent’anni cambia via e casa e per strada lo salutano tutti, e anche se non gli piace essere chiamato maestro una risposta e un sorriso non li nega a nessuno. Lo rivedo nella misura spezzata dei gesti, le stesse circonvoluzioni degli occhiali stretti in mano come una sigaretta spenta, quasi un’eco veemente dei ricordi che ogni tanto si aggrovigliano in un miscuglio di parole accidentate finché non ne cava fuori la stoccata del fustigatore indomito, avvolto nei fiori della poltrona da cui spadroneggia: «Mastroianni pensava sempre al cibo. Stava insieme alla Deneuve ma si preoccupava soltanto dei piatti ciociari che gli mandava la madre». È una di quelle svolte spicce, quasi liquidatorie, per sgombrare il campo da ovvietà sentimentalistiche. Lo stesso vale per i giudizi inappellabili che domani smentirà con altrettanta inappellabilità, soprattutto le digressioni che di colpo si capovolgono in ammonimenti scherzosi: «Attento a non far la fine di Maccari. Era un bravissimo sceneggiatore, ma per colpa delle donne che non lo facevano mai dormire è morto a poco più di quarant’anni».

Monicelli conversa a casa sua con Sebastiano Mondadori.

L’età, come al solito. È inutile, non si può scansarla nel ricostruire la vita di un uomo che il prossimo maggio compirà novant’anni. La giustizia cronologica a cui dobbiamo attenerci sembra svanire nei salti temporali di un montaggio che rende coetanei Totò e la Sandrelli, il bambino di Padri e figli e quello di Parenti serpenti; scolorisce nella vivacità del dettaglio, meglio se preciso nella brutalità dichiarata; si ritrae davanti alla baldanza con cui si smarca dall’ossessione di apparire serio. Il suo mestiere è sempre stato quello di far ridere, quante volte lo ripete. E con quale fierezza si attribuisce geni toscani, è una vita che dichiara di essere nato a Viareggio anche se è registrato all’anagrafe di Roma. Eppure l’ombra dell’età si allunga sulle nostre conversazioni che dalla mattina si inoltrano fino al tardo pomeriggio e poi all’ora dell’aperitivo, e ogni tanto ci trattiene in un indugio che per mancanza di alternative chiamerò pudore. Per questo mi sento fuori luogo quando lo richiamo alla serietà: «Invecchiando, mi convinco sempre di più che la maturità non sia altro che l’accettazione senza riserve dei propri limiti. Come se la saggezza coincidesse con la fine dell’immaginazione». Invece Mario è il contrario di saggio, ha sempre una nuova storia da inventare. Andrà in Africa a girare il suo ultimo film, si chiamerà Le rose

del deserto, tratto dal Deserto della Libia: e comincia a ricordare la sua amicizia con Tobino. Quando gli chiedo se non era meglio scegliere un altro soggetto, da girare magari a Roma, lui si indispettisce. Fino a un minuto fa si lamentava dei problemi con l’assicurazione per via dell’età avanzata e adesso mi dice spavaldo: «Che problema c’è? Io in Africa ci sono già stato come aiuto di Augusto Genina a girare Lo squadrone bianco». Non importa più che il film sia del 1936, al di là della giustizia cronologica conta lo scatto d’orgoglio, che diventa un moto di stizza: «Al massimo crepo. Cosa c’è di meglio che morire lavorando sul set?». Per un uomo che dissente da ogni forma di solennità, deve sembrare un paradosso degno dei suoi bistrattati personaggi, mai all’altezza della situazione, essere trasformato ancora in vita da regista di film di cassetta in autore classico. È uno degli ultimi sopravvissuti del gruppo della commedia all’italiana, svillaneggiata per anni dalla critica ufficiale. Me lo ricorda quasi chiedendomi: «Oggi che funerale c’è?». Di certo non gli sfugge l’ironia malevola delle celebrazioni ormai quotidiane: sono loro a inchiodarlo alla sua età. «Quante vedove prevedo nel mio futuro da morto»: non si lascia andare mai alla nostalgia né all’amarezza, stati d’animo della vecchiaia da osteggiare. Persino nelle battute più cupe è animato da un guizzo di avvenire. Monicelli lo sa, che alla fine del grottesco c’è solo il nulla della morte. Dovendo scegliere una parola per descriverlo, credo che nella rettitudine siano contemplati tanto la fedeltà a se stesso e al proprio lavoro, quanto il portamento lentamente marziale e il rigore moralista – à la Molière, s’intende –, che deve all’anno trascorso in cavalleria a Pinerolo, rievocato come una sospensione inattesa in pieno tempo di guerra. Se ricordo, e mi allontano al passato remoto, sono convinto che la storia di questo libro non vada aggiornata con il resoconto delle disavventure sul set delle Rose del deserto, due telefonate finite con troppa fretta. No, il suo ultimo film deve rimanere un rumore di sottofondo, un traguardo ancora da conquistare e un finale da rimandare di qualche mese, di qualche anno, di una vita dedicata con passione totalizzante al cinema. Lo sguardo volto sempre al progetto a venire, alimentato dal dubbio come provocazione, tra

laconiche certezze e il ripudio della retorica. Così poco italiano, a pensarci sul serio. La sera che mi ha raggiunto la notizia della sua morte è avvolta nella stessa aura di pudore con cui mi aveva raccontato del suicidio del padre Tomaso. La concisione dello sguardo in poche parole dirette, senza commenti. Mica semplice per un uomo che prediligeva le “scene figlie” e se n’è andato con una scena madre. Allora fermo la scena poco prima che tutto finisca, e ho davanti agli occhi Mario Monicelli con il sorriso di chi ha fregato la vita. S.M. Lucca, maggio 2016

Una lunga infedeltà

Da Mario Monicelli ho ricevuto il sì più rapido della mia vita. Lui dice sempre sì a tutti. Accetta gli inviti a festival, rassegne, dibattiti. Rilascia interviste a giornali, radio, televisioni, con grande disappunto di chi sta scrivendo un libro con lui. Perché di Monicelli si sa tutto. Certamente quello che lui vuole che si sappia, nonostante il vezzo di contraddire ogni tanto le sue dichiarazioni: per provocare, perché una verità sola è troppo poco. Lo scrivo, come ogni parola di questo libro, consapevole di poter essere smentito da un momento all’altro dalla sua vaga condiscendenza. Anzi, si limiterebbe a rileggere la frase incriminata, come quando rimette alla propria responsabilità il suo interlocutore ripetendo le sue stesse parole, trasformate però in un’impercettibile sottolineatura interrogativa: anche nei suoi minimi gesti, nelle frasi più semplici, una volta ripetuta, la vita perde la sua letteralità per diventare una rappresentazione delle nostre paure. Lui lo sa, e sobilla la verità con complice inganno. Non bastano le decine e decine di ore registrate, che sarebbero sei in più senza la mia negligenza, a testimoniare un anno di incontri, le brevi telefonate per un chiarimento, un appuntamento, un commento che diventa ammirazione: «Ma che casino hai combinato a Venezia!», gli Eurostar da Milano a Roma con la nuova abitudine di ascoltare – un piacere da coltivare con la pazienza –, la voglia di stupire dimenticata nel bisogno di capire, il gusto della critica anche per convincerlo che non amo tutto il suo cinema, che non parlerò solo bene di lui.

Mario Monicelli sul set di Viaggio con Anita.

Non è facile reinventare sulla pagina il ritmo della sua ironia appostata tra lo stupore e il godimento, come se non avesse previsto fino in fondo la reazione del suo ascoltatore, che ride ma è davvero soddisfatto solo quando anche lui si unisce alla risata e come in sordina – ecco dove il vezzo si concede alla vanità – ripete le parole fatali. Semplici, brutali, senz’altro equivoco che la loro chiarezza: quelle giuste, insomma. Se ripenso al primo incontro di un tiepido gennaio romano, mi viene in mente la spudoratezza con cui mentii di avere già un editore. Lo ricordo con la stessa apprensione che si cela nel suo passato remoto spazzato via da un presente pieno di morti. Il sorriso imperterrito di sguardi, che la vista sempre più debole riempie di guizzi della memoria. Le dita strette sugli occhiali che volteggiano in aria come una sigaretta spenta, in cerca delle parole giuste: lui ha smesso di fumare sessant’anni fa, quando hanno cominciato le donne. Indossa una polo di lana bordeaux, pantaloni grigi, Reebok nere. Sul bracciolo della poltrona un Adelphi economico di Simenon. Vuole sapere come si strutturerà il libro. Io gli sto parlando di soldi, lui invoca uno sguardo alla stanza: «Mi sono trasferito qui da dieci giorni, non c’è molta roba». È vago e puntuale, sembra distratto ma è un

vezzo, un altro, quanti: «Guarda che io ho bisogno di domande. Tu mi fai le domande e io rispondo». È fiero della sua nuova solitudine che si affaccia sul sottofondo rutilante del rione Monti, la solitudine per lui è una vocazione raggiunta in vecchiaia. Di fronte a me c’è mio fratello Giacomo: sul tavolino che ci separa sorridiamo al Leone d’Oro usato come fermacarte. «È quello della Grande guerra?» Manca la targhetta. «Sì, ma è una copia. Quando l’ho vinto De Laurentiis se l’è preso dicendo che si sarebbe fatto fare una riproduzione per sé. La riproduzione l’ha fatta, ma l’ha data a me e lui si è tenuto l’originale.» La contrarietà è già svanita nella noncuranza della mano: «Chi se ne frega!». «L’altro Leone, quello alla carriera, è originale invece.» Sta sulla scrivania addossata al muro. Qualche carta, pochi libri, una pila di posta, copioni, la fotografia in bianco e nero con la figlia Rosa, un’altra fotografia di Rosa da piccola. «Ma devono avere cambiato scultore. Vedete com’è brutto.» Parliamo di registi italiani, qualcuno molto vecchio ma comunque un po’ meno di lui, che con la testa non ci sta più. Non è perfidia, è l’esattezza della descrizione che apre la luce del grottesco: e Giacomo e io ci sforziamo di ricacciare in gola la risata mentre racconta l’ovvietà della demenza senile. Monicelli si accorge della risata incombente, è impossibile resistere al suo stupore sornione: ride anche lui, ma dopo di noi, e ridendo pronuncia una seconda e una terza volta una definizione che è inutile trascrivere: conta solo lo stupore questa volta risaputo con cui la dice. Nell’ironia abbassata all’inadeguatezza dei suoi cialtroni, nell’intelligenza volutamente tenuta in superficie, nelle storie “trovate” e mai “inventate” si compie un destino segreto che non trapela dalle parole di Monicelli, quasi incredulo se gli si obietta di avere fatto un passo indietro dopo due capolavori come I soliti ignoti e La grande guerra. Nell’incerto bilico tra un destino segreto e una chiarezza d’intenti fin troppo conclamata, si sviluppa la trama di questo libro ancora in cerca di una definizione. Perché non è una biografia – Mario per primo non l’avrebbe permesso. Non è un saggio critico – io non sono un critico. E non è un’intervista – nel qual caso basta consultare un’emeroteca. Si tratta, semplicemente, di dieci conversazioni sui grandi temi intorno a cui ruota il cinema di Monicelli. La scelta stessa di questi temi implica un’interpretazione e inevitabilmente un giudizio. La loro disposizione non

rispetta una progressione cronologica, anche perché ogni argomento trattato enuclea film girati a distanza di anni. L’ordine dei capitoli risponde a una logica più ambiziosa, nel tentativo di dare una visione d’insieme di una carriera disseminata di prove diseguali e talvolta sfuggenti, dubbiosa ma determinata a riportare tutte le incongruenze, persino le anomalie più lampanti, a quel tratto comune che è – nel bene e nel male – il tocco monicelliano. La storia cinematografica di Mario Monicelli sfila davanti ai nostri occhi come una serie ininterrotta di contraddizioni. Una lunga infedeltà a tutti per salvaguardare una coerenza silenziosa con se stesso, certificabile da noi spettatori nel suo stile assente: scabro, sardonico, compromesso con la vita da cui lo preserva l’ironia. Sarà curiosità, un gesto di insofferenza, la voglia di stupire con il suo anticonformismo libero dalle maglie delle ideologie, l’impulso irrefrenabile di sovvertire le certezze, a determinare le svolte di una carriera segnata da rotture con il passato che cerca di ridurlo a una definizione, per aprire continuamente nuove strade, stravolgendo l’immagine di attori, luoghi comuni e buon senso per dimostrare che tutto – fatti sentimenti istituzioni persone – può essere rivoltato in commedia: ecco perché nei suoi cambi di rotta, anche i meno felici, lo ritroviamo sempre uguale. E lo riconosciamo. Nel faticoso lavoro di montaggio delle nostre conversazioni, ricorreva più di quanto credessi una mia domanda sull’inconciliabilità tra passione e ironia: la passione riservata al lavoro, che al cinema viene sminuita, aggirata, derisa dall’ironia. Un punto fermo, quasi un principio alla base del suo modo di raccontare la vita, troppo frettolosamente presentato come una forma di pudore che respinge gli attacchi dei sentimenti rovesciandoli in cinismo, senza valicare il dubbio, puntualmente sollevato dallo spettro della morte che aleggia nei suoi film con una risata esorcizzante: il dubbio che la risata si nutra di paura. Allora torno a un torrido pomeriggio di un giugno boia, che la gente moriva dal caldo. Nemmeno le imposte accostate difendevano Mario da una bava di luce che a seconda dei lievi movimenti del volto gli inquadrava un punto diverso. Si era sfilato la canottiera che adesso gli penzolava al collo come un collare. Il petto nudo esibito con la disinvoltura di un ragazzino. Mi sta raccontando di un film mai fatto con Sordi. Io lo guardo. Gli guardo la pancia leggermente gonfia, striata di rughe. Guardo gli occhiali nella sua

mano sospesa in aria e intanto controllo il punto dove la bava di luce va a colpirlo. Con il vino che ho bevuto a pranzo dovrei aver sonno. Invece sono vigile e calmissimo. Penso a un racconto di Hemingway in cui Nick Adams, alla fine di una giornata perfetta, è invaso dalla certezza di non dover morire mai. La spavalderia della giovinezza verso la vita. Io invece sto guardando un vecchio: lo guardo come se non dovesse smettere mai di raccontare. E non è il vino – in fondo era solo mezzo litro – a convincermi di un pensiero che solo una vecchiaia così bella può dare. Perché non gli ho detto di andare avanti a parlare? Mario, non smettere, tu parli e io ti guardo, nemmeno il caldo ci stancherà. Sono sicuro: così è impossibile morire. S.M. Milano, settembre 2004

La commedia all’italiana

Cominciamo con una certezza, più forte delle diatribe critiche: la commedia all’italiana inizia nel 1958 con I soliti ignoti. Nei due anni precedenti avevi girato Donatella (1956), Padri e figli (1957) e Il medico e lo stregone (1957). Storie garbate, ben recitate e a loro modo fresche, riconducibili al cosiddetto neorealismo rosa. Ma che non lasciavano presagire una svolta così netta, se non si fossero colti i notevoli passi in direzione di un verismo sempre più marcato, presente in due film che a posteriori non possono non rientrare nella commedia all’italiana: Guardie e ladri (1951) e Un eroe dei nostri tempi (1955). S.M.

I soliti ignoti è il punto d’arrivo di un percorso intrapreso con Totò cerca casa (1949) e già definito in Guardie e ladri, che può essere considerato un film di confine. A volte viene indicato come capostipite, altre come precursore della commedia all’italiana. Un fatto però è certo: l’evoluzione dalla farsa alla commedia di costume ormai è compiuta. La storia si regge ancora sulle figure di Totò e Fabrizi, inserite però in un contesto sempre più realistico. Rispetto a Totò cerca casa, basato su uno spunto concreto poi svolto con i ritmi della farsa, vengono approfondite le psicologie dei personaggi. La meccanicità della farsa lascia il posto alla dimensione umana. E tra le pieghe della vicenda emerge una rappresentazione “democratica” dei personaggi: le disgrazie, la vita grama e i battibecchi familiari che accomunano la guardia e il ladro. M.M.

Una riunione improvvisata sulla famosa terrazza dei Soliti ignoti. Da sinistra, Gassman, Monicelli, Totò e Salvatori.

Nella stessa direzione realistica, Un eroe dei nostri tempi ha superato la rappresentazione farsesca e contiene tutti gli elementi della commedia di costume. Si sta profilando la maschera di Sordi. Il suo personaggio meschino ha soppiantato la bonarietà di Totò e Fabrizi. Non c’è dubbio che i tre film successivi costituiscono una battuta d’arresto per la maturazione della commedia all’italiana. Tenendo però conto che gli autori di Padri e figli e Il medico e lo stregone sono Age e Scarpelli. Nel primo c’era anche De Bernardi, mentre nel secondo De Concini. Eravamo sempre noi, e i film li facevamo perché ci pagavano. Con I soliti ignoti viene abbozzata un’analisi sociale. Nel senso di un’attenzione sempre più minuziosa per i risvolti ambientali, psicologici e materiali della realtà. Passavamo al setaccio il costume, la cronaca, l’attualità per smascherare debolezze e sotterfugi, piccolezze e difetti della gente della strada. Rovesciando luoghi comuni e abbattendo miti, senza pietà e con cattiveria. Perché la commedia è cattiva, anzi spietata. In questa ottica la verosimiglianza assume un ruolo decisivo. È un’esigenza, ma anche un’arma nel nostro gioco al massacro.

Per evitare problemi di periodizzazione e indebite esclusioni, propongo di definire la “commedia all’italiana” come un genere storicamente legato a un gruppo di persone che condividevano un modo di vedere la realtà. Per non incorrere nel dogmatismo cinefilo, aggiungo subito che il genere è stato frequentato a tutti i livelli da autori, registi e attori di altra provenienza – da Amidei a Zavattini, da Flaiano a Brancati, da Pinelli a Pirro, da Bolognini a Lizzani, da Fellini a Ferreri, da De Sica a Rosi, da Volonté a Salerno a Valli. Perché lo spirito della commedia all’italiana affonda nell’essenza stessa dell’italianità. Allo stesso modo, il discorso deve allargarsi anche alla cosiddetta serie B, che costituisce lo scheletro di quel cinema medio italiano che ha garantito la base di un’industria artigianale, ma pur sempre industria, oggi travasato e impoverito nella televisione con le fiction. S.M.

Noi della commedia eravamo un gruppo definito, composto da persone e soprattutto da amici con la stessa visione dissacratoria del mondo, della vita, e per forza di cose del cinema. Con Age e Scarpelli, Benvenuti e De Bernardi, Sonego, De Concini, Maccari, la Suso Cecchi D’Amico, che si divideva tra noi e Visconti, costituivamo un gruppo di autori piuttosto omogeneo. Eravamo consapevoli della portata del nostro cinema, anche se non immaginavamo di incidere così profondamente sul pubblico. Insieme a noi c’erano anche Vincenzoni, Tellini, Continenza, Margadonna, ma non molti di più. E poi i registi: Risi, Comencini, Germi e più avanti Scola. Senza dimenticare Lattuada, Salce, Loy, Zampa… Tutti uniti dal nostro modo di far ridere che risale a una lunga tradizione italiana. A quei tempi c’era la voglia di stare insieme, si condividevano molte più esperienze. Uno dei ritrovi più frequentati era Otello della Concordia, in via della Croce. Io, Age e Scarpelli – più Scarpelli che Age – Benvenuti, Sonego, Germi, Lattuada. Ma anche gli autori seri: Antonioni, Rosi, Pontecorvo, sempre affamato. Risi era meno “imbrancato”, perennemente dietro alle donne, mentre Comencini preferiva stare in famiglia, innamoratissimo della moglie e pieno di figlie. Attori invece no. Piuttosto aspiranti, che si volevano mettere in mostra. Soprattutto bellissime ragazze. Venivano dagli atelier intorno a Roma ed erano pronte a tutto. Oggi ci vado ogni tanto, il mercoledì fanno un prezzo speciale a noi reduci. Non solo gente di cinema, ma anche amici che facevano altri mestieri con cui ci si incontrava a quei tempi. Io ero molto legato a Otello: M.M.

non faceva sedere nessuno al nostro tavolone addossato alla parete verso la cucina. Solo che non bastava mai. Si aggiungeva sempre qualcuno. Era un locale molto chiassoso, affollato, si spendeva poco. Di sera a un certo punto Otello chiudeva la saracinesca e noi rimanevamo lì a chiacchierare o a giocare a scopone. Un altro ritrovo era l’osteria dei fratelli Menghi, Naride e Domenico, in via Flaminia, dove bazzicavano soprattutto i pittori – Mafai, Turcato, Consagra, Mazzacurati, Corpora, Scarpitta, Leoncillo – e Sonego, che aveva sempre avuto il pallino della pittura e disegnava abbastanza bene. Ci veniva anche Cardarelli, il poeta. E poi Solinas, Petri, Montaldo, Pirro, Amidei, De Santis e io. I giornalisti invece preferivano Cesaretto. Flaiano per esempio, ma anche tutti i vignettisti del Marc’Aurelio e del Bertoldo. Ma la commedia all’italiana non esisterebbe senza gli attori. Prima di tutto i “mostri”: Sordi, Gassman, Tognazzi, Manfredi, ai quali si aggiungono Mastroianni – che non viene considerato tale a pieno titolo per via delle sue frequentazioni nel cinema dei maestri – e l’anomalia femminile costituita da Monica Vitti. Dietro di loro, uno strepitoso plotone di caratteristi, alcuni dei quali avrebbero meritato ben altro spazio: penso soprattutto a Gastone Moschin, a Renzo Montagnani, a Vittorio Caprioli, a Franca Valeri. Un mostro mancato è stato Giannini, arrivato sulla scena molto più tardi. Agli italiani si affiancano alcuni attori francesi: Blier, Noiret, Trintignant, Reggiani, Leroy. Quindi, le grandi signore: Mangano, Loren, Lollobrigida, Cardinale, Sandrelli, oltre alle varie Milo, Ralli, Melato e Muti. E una nutrita schiera di straniere, alcune stabili, altre di passaggio: Catherine Spaak, Sylva Koscina, Senta Berger, Ann-Margret, Pamela Tiffin, Jacqueline Sassard… La loro grandezza, mi riferisco soprattutto ai “mostri”, è stata quella di partire da una rappresentazione realistica, mimetica, della vita e della gente comune – modulata nelle varianti caricaturali, parodistiche, esasperate o grottesche – per trasfigurare i personaggi in una realtà inventata che diventa esemplare nella sfilata delle maschere dei caratteri degli italiani. S.M.

Io guardo la commedia all’italiana dal punto di vista degli autori, senza i quali non sarebbe mai esistita. Ma aggiungo subito che le nostre storie non avrebbero mai visto la luce senza gli attori straordinari di cui disponevamo. M.M.

Erano tanti, di bravura eccezionale, dal caratterista a Sordi, noi fummo bravi a servirci di loro. In più occasioni hai citato come gesto iniziatore della commedia all’italiana la padellata di Fabrizi in testa al vecchio malato in Roma città aperta (1945) di Rossellini. Dietro l’aneddoto simbolico, si pone il problema di chiarire il rapporto e il debito con il neorealismo, di cui la commedia – dopo un lungo tragitto – diventa il naturale proseguimento e in un certo senso la forma compiuta. S.M.

In un momento drammatico di Roma città aperta assistiamo al gesto più farsesco del cinema italiano: la padellata in testa. Un gesto indelebile che simboleggia la discendenza diretta dal neorealismo alla commedia. Anche la commedia all’italiana è nata sulle strade, per necessità e per scelta. I soliti ignoti è tutto girato in esterni: l’unica scena in teatro è quella in cui i ladri devono sfondare il muro. Ma soprattutto è nata dalla voglia di storie, di raccontare quanto accadeva davanti ai nostri occhi. Questa curiosità non ci ha mai abbandonato. Sempre animata dalla libertà di deridere tutto e tutti. Anche questa è una forma di denuncia che il neorealismo – che durò pochi film, in fondo – perseguiva semplicemente con uno sguardo diverso: la commedia è prima di tutto un modo di guardare la realtà. A essere sinceri, dopo Rossellini e il primo De Sica, il neorealismo perse il rapporto diretto con la realtà. I disperati di De Santis erano molto meno credibili dei nostri cialtroni. Il pubblico si identificò subito con le storie terra terra che coglievano la realtà nella sua semplicità. Una semplicità, non è un mistero, ricostruita: il cinema è sempre rappresentazione, una regola alla quale non si sottraeva neanche il neorealismo. Con la commedia non abbiamo rinunciato alla situazione drammatica. Abbiamo scelto di raccontarla da un punto di vista divertente, beffardo, a volte addirittura farsesco, comunque intriso di risvolti amari. M.M.

Il vostro punto di vista, dichiaratamente basso, si inserisce però consapevolmente in una lunga tradizione letteraria italiana. Sembra un paradosso, ma molti, tra voi autori della commedia popolare, erano laureati, e quasi tutti avevate una passione smisurata per i libri. Scanzonati ma colti, S.M.

formavate una combinazione magistrale di cultura e improvvisazione, metodo e casualità, il tutto sorretto da un mestiere a prova di bomba. La vera scuola è stata la commedia dell’arte. La sua storia comincia nella seconda metà del Cinquecento e si tramanda per secoli di generazione in generazione. La sua vitalità è garantita dalla commistione di personaggi fissi e improvvisazione delle situazioni, grazie alla bravura degli interpreti. La vita messa in scena dalla parte del popolino infrangendo le regole sociali si insinua nella maniera italiana di vedere il mondo. I suoi protagonisti sono poveri, vecchi, dediti all’arte di arrangiarsi e condannati a essere oggetto di scherno, botte, sopraffazioni. Arlecchino, Pulcinella, Brighella, Pantalone, Colombina, il Dottore sono maschere che si perpetuano nella nostra storia nazionale. La malattia e lo spauracchio della morte sono sempre presenti. Una componente fondamentale della recitazione è affidata alla comicità gestuale dei cosiddetti lazzi da cui discendono le gag moderne. Quando cominciai a fare lo sceneggiatore, circolavano parecchi canovacci di questi spettacoli e noi li conoscevamo bene. Il ridere sulle miserie umane, l’infierire sul debole è una caratteristica decisiva della letteratura italiana. Nelle novelle comiche del Decamerone di Boccaccio assistiamo a una spietatezza da cui abbiamo imparato molto. La crudeltà delle beffe di cui è vittima Calandrino, il gusto per gli scherzi, i dileggi, gli intrighi. I personaggi perfidi, furbi o ingannatori: da Buffalmacco a ser Ciappelletto a frate Cipolla. È un campionario di situazioni cariche di una vena dissacratoria, senza mezzi termini. Con la Mandragola, Machiavelli mette in scena la cattiveria del raggiro amoroso. E andando avanti incontriamo le commedie dell’Ariosto, le pasquinate dell’Aretino, la maschera di contadino rozzo, riscattato dai sentimenti umani, del padovano Ruzante, fino al teatro di Goldoni. Io ho letto come pochi al mondo. Tutti i classici antichi e moderni. Ho sempre avuto una grande passione per Cervantes e i romanzi picareschi. Ma ho letto i francesi, gli inglesi, i russi, oltre a seguire la narrativa contemporanea. Soprattutto quando in Italia si cominciarono a scoprire gli americani: Faulkner, Steinbeck, Hemingway. Mi sarebbe piaciuto scrivere romanzi, ma non ne ero capace. Il lavoro individuale richiede una concentrazione e un approccio sistematico, contrari al lavoro di gruppo che mi ha accompagnato per tutta la vita. La nostra era una generazione senza M.M.

televisione, esistevano meno opportunità di divertimento. Non è un caso che molta gente colta e laureata sia arrivata al cinema. Il cinema è stato la forma espressiva egemone del Novecento. Tutti, più o meno, avevano un rapporto con il cinema, non come oggi. D’Annunzio, per dire, l’ho conosciuto perché collaborava con il cinema. Negli anni ho scritto copioni con diversi scrittori: da Brancati a Calvino, da Arpino a Malerba, da Flaiano a Manganelli. Senza contare tutti i film che ho scritto per Soldati. Esisteva uno scambio continuo tra letteratura e cinema. Adesso purtroppo non leggo più tanto, faccio fatica con gli occhi. Io mi comporto come se vedessi bene: la gente non si accorge che invece vedo pochissimo. Ma voi scrittori oggi siete un’élite di disperati. Élite di disperati non è male… Mi sono chiesto più di una volta come mai Soldati non sia diventato un regista della commedia all’italiana. Aveva lo spirito giusto. S.M.

Lo spirito era il nostro ma a lui del cinema non gliene fregava niente. Si sentiva, giustamente, prima di tutto uno scrittore, e a un certo punto si è messo a fare solo quello. M.M.

Tornando alla commedia dell’arte, i suoi eredi più prossimi al cinema sono stati gli attori dell’avanspettacolo e della rivista, una moltitudine di protagonisti e caratteristi in seguito trasmigrati nel cinema. L’impronta della povertà ha lasciato tracce indelebili nella comicità, come spesso ricordava Totò: «La miseria è il copione della vera comicità». S.M.

La miseria ha costituito una fonte inesauribile di comicità. La risata diventava una possibilità di riscatto, una forma liberatoria, la voce dei perdenti che si leva contro le regole sociali. Oltre che nei temi, la commedia dell’arte ha influito sul modo di recitare. La farsa, che rimane la forma comica più alta e difficile, viene da lì. Per eseguirla ci vogliono tempi perfetti. Una sola sbavatura, un secondo di più o di meno, compromette il risultato: e la risata se ne va. I caratteri, che erano fissi come maschere, dovevano essere pennellati con precisione assoluta. Il cinema muto americano ha fatto scuola in questo senso. Gli attori si muovevano e recitavano con tutto il corpo. Charlie Chaplin, Buster Keaton, Harry Langdon, Mack Sennett, W.C. Fields, Arbuckle, Ben Turpin, i fratelli M.M.

Marx… Mi ricordo che un tempo alla fine del film proiettavano sempre le comiche. E io mi sorbivo il film una seconda volta solo per rivederle, da tanto mi lasciavano senza fiato. Le farse, le slapstick comedies americane del muto erano violentissime. Inseguimenti, cadute rovinose, botte in testa, acrobazie, sberle, torte in faccia. Ai malcapitati comici toccavano in sorte esperienze davvero tremende da cui uscivano illesi e pronti a subirne di nuove. S.M.

Con Pulp Fiction (1994), Tarantino ha riesumato proprio quest’uso farsesco della violenza, una forzatura della realtà in senso caricaturale che diventa irreale e quindi comica. Anche i fratelli Coen hanno raggiunto qualcosa di simile, soprattutto nei primi film. Ma forse gli eredi più diretti sono stati i Monty Python. Tutti con il limite del sonoro: la grandezza della farsa sta invece nella perfezione comica dei movimenti che non hanno bisogno di parole. Come sarebbe bello, tornare al muto… M.M.

C’è una tua frase, da molti letta come un paradosso, ma che per te mantiene una verità profonda, vista la coerenza con cui l’hai onorata in più di sessanta film: «Lo stadio espressivo drammatico corrisponde alla fase infantile della produzione di un artista, mentre è molto più matura l’espressione comico-umoristica». Leggendola come provocazione, sembrerebbe che la commedia all’italiana rappresenti la maturità del neorealismo… S.M.

È un’affermazione coerente con il mio modo di fare cinema, che non ha mai tradito la comicità, anche se i toni si sono fatti inevitabilmente più cupi. La comicità è la misura giusta con cui raccontare il mondo. Senza eccessi sentimentalistici, fa luce sul senso dell’umanità filtrandola con un occhio disincantato. Ingrandendo magari un particolare, spostando l’attenzione su un dettaglio secondario che portato in primo piano cambia il senso della scena. Tutto questo senza disconoscere i grandissimi meriti del neorealismo. Con Roma città aperta Rossellini ha ridato vita al cinema italiano, ha dimostrato che si potevano raccontare storie legate alla nostra realtà e che il pubblico le andava a vedere. Rossellini è stato un genio, unico nella storia del cinema. Francesco giullare di Dio (1950) è il più bel film di sempre. Sembra che M.M.

non ci sia il regista: una cosa eccezionale. A lui non interessava raccontare una storia compiuta, l’ha fatto fino a quando Amidei e Fellini gli hanno costruito le sceneggiature. Il suo obiettivo era quello di confondersi con la realtà. Fu il primo a comprendere l’importanza della televisione come mezzo di divulgazione. E anche lì fu grande. Diverso è il discorso di Visconti, che al contrario nella sua fase neorealista cadeva in ricostruzioni rigide. Neofalsista era. Esclusa la scelta di far parlare i pescatori nel loro dialetto, La terra trema (1948) è un film irreale, l’unica vera rivoluzione è costituita dalla fotografia di Aldo Tonti. Come letterario, artefatto, era Ossessione (1943). La sua incredibile capacità visiva si scontrava con un mondo che non conosceva. Il solo film in cui forse ha raccontato una storia vera rimane Rocco e i suoi fratelli (1960). Allora come mai quasi tutti i protagonisti della commedia, invecchiando, sono “involuti” nel dramma? S.M.

Ho notato che molti sono passati al dramma nell’illusione di essere presi più sul serio. Ma in generale si è mantenuto lo spirito originario. Quasi tutti si sono confrontati con il dramma. Non so, Risi con Profumo di donna (1974) o con Tolgo il disturbo (1990). Ma sono state parentesi in un percorso che è rimasto fedele alla concezione umoristica della vita. Germi invece ha compiuto il percorso opposto, anche grazie a me che lo prendevo per il culo per certe sue pagliacciate lagnose. M.M.

L’ironia è distacco, intelligenza, capacità di cogliere lo scarto penoso tra i sogni e la realtà. Non hai mai vissuto la commedia come una visuale privilegiata, e quindi limitata, da cui guardare il mondo, dalla quale si è costretti a escludere le passioni? Si può ridere di tutto, ma a volte nella vita ci sono momenti in cui il dolore o la felicità prendono il sopravvento. Una visione piena del mondo è una contraddizione insanabile e continua tra passione e ironia, tra stare in mezzo alla vita e osservarla in disparte. S.M.

La regola che ricordo sempre ai miei sceneggiatori è quella di scrivere solo “scene figlie”. Non mi trovo a mio agio con gli eccessi delle scene madri. Il dolore come l’amore mostrati nelle loro manifestazioni violente diventano ricattatori. Preferisco svelarli attraverso un piccolo gesto o una M.M.

reazione secondaria, smorzando con l’umorismo, che non sminuisce il dramma, ma ne fornisce un’altra prospettiva. Un film in cui ho contravvenuto a questa regola è I compagni. La scena in cui Omero picchia il fratello che non vuole andare a scuola temendo che faccia la sua stessa fine di operaio ignorante ha un impatto fortissimo. Soprattutto quando Omero si ricompone e gli dà un buffetto. In quel gesto c’è tutto il senso del loro rapporto. Verso la fine del film, ho girato la scena più bella della storia del cinema. Quando Salvatori sta per scappare e dà appuntamento alla fidanzata sotto un ponte. Parlano ma non si sente quello che dicono, perché sta passando il treno sopra di loro. È il massimo che si possa ottenere. Mi viene il sospetto che prevalga la paura di smettere di ridere e guardare in faccia la sofferenza… S.M.

Può essere. Ma so bene che la risata non scaccia via il dolore. Può lenirlo con la sua carica liberatoria. A volte è una risposta istintiva che fa parte di alcuni caratteri. M.M.

Non è anche una forma di presunzione questo sentirsi al di sopra delle parti, con il potere di ridere di tutto e di tutti? Una presunzione della tua generazione… S.M.

Forse era una presunzione, noi lo facevamo perché ci divertivamo. Scrivevamo storie che irridevano tutto quello che ci capitava a tiro. E non ci prendevamo troppo sul serio neanche noi. Lavoravamo divertendoci, e guadagnavamo molto bene. Il cinema in fondo è sempre stato un gioco per noi, come mi ha insegnato Camerini. Il cinema è un’arte applicata, una forma di espressione minore, con una capacità incredibile di raggiungere masse di spettatori. E quindi con una rilevanza sociale di cui ci siamo resi conto a posteriori. Paradossalmente, poi, il genere comico è sempre stato il meno preso di mira dalla censura, anche se Annibale Scicluna Sorge, il famigerato capodivisione della Commissione censura, ci creava spesso problemi. Noi però lo aggiravamo con una forma di autocensura preventiva che non ci ha impedito di portare avanti la nostra critica alla società. M.M.

A forza di essere criticata, la gente ha raggiunto una maggiore consapevolezza di sé, che in certa misura ha alterato il suo rapporto con la risata. Oppure l’ingenuità permane come aspetto connaturato al riso? S.M.

Trovo che esista una continuità nel modo di far ridere. Soprattutto nella commedia all’italiana, incentrata sulla sproporzione tra l’atteggiamento sbruffone, presuntuoso, millantatore degli italiani e le loro reali capacità. Uno dei nostri bersagli preferiti è sempre stato l’individualismo generoso di parole e gretto nell’animo di molti personaggi pronti a criticare le istituzioni, le gerarchie sociali, i luoghi comuni, ma poi irrimediabilmente schiacciati da una realtà a cui erano costretti a inchinarsi. M.M.

La definizione suona come una condanna: quella con cui una critica ideologica, ai nostri occhi insensata, bollava il cinema comico in contrasto con la purezza del neorealismo prima e dei grandi autori dopo. Bozzettismo. Che equivale a un’accusa di pressappochismo, sconfinante nell’ipocrisia; a una mancanza di verità o di rapporto con la realtà, che viceversa ha sempre rappresentato per voi un riferimento ineludibile. Anzi, nel tuo caso la lontananza dalla realtà diventa persino un fattore di disorientamento. Quasi tutti i tuoi film sono improntati a un tono verista, che costituisce la cifra del tuo cinema. S.M.

I critici ci consideravano spazzatura. Molti di loro neanche si degnavano di venire a vederci e mandavano i vice. Non ti dico oggi quando incontro i critici che mi stroncavano senza ritegno: gli elogi che mi fanno! All’inizio seguivo le recensioni, e mi arrabbiavo come un matto. Mi ero iscritto all’Eco della stampa. Ma dovevo pagare un sacco di soldi per leggere insulti. Così non ci ho più fatto caso. E del resto non ho mai avuto rapporti personali con i critici, al contrario di Fellini, perché falsano i ruoli. La critica ideologica di sinistra, capeggiata da Aristarco, temeva la potenza della risata, che secondo Leopardi rendeva padroni del mondo. La commedia era circoscritta in una dimensione qualunquista. E invece, attraverso il cinismo che deprecavano tanto, abbiamo svelato gli aspetti più ignobili degli italiani. Secondo me il pubblico ha sempre ragione, anche quando dopo anni si ricrede: vuol dire che il film era sbagliato al momento dell’uscita. Il critico invece dovrebbe cogliere l’aspetto innovativo di un film. Per anni io, Age e M.M.

Scarpelli siamo stati odiati. Chiarini fu uno di quelli che ci osteggiò di più. Lo conobbi negli anni trenta, quando era presidente al Centro sperimentale. Insieme a Cancogni e Cassola – il primo di Viareggio, il secondo bazzicava la Versilia – avevo presentato un cortometraggio nonsense piuttosto mediocre. Chiarini fece bene a bocciarlo, come sarebbe accaduto più avanti con Il cuore rivelatore (1934). Ma quello che mi colpì fu vederlo sbucare sotto la tettoia vestito in orbace da fascistone, con il cranio rapato a zero alla Mussolini. Ci trattò con estrema durezza. Come osavamo dilettarci in robette stucchevoli anziché promuovere i valori del fascismo? E ci cacciò via. Dopo la guerra, ritrovai Chiarini nella commissione cultura del Psi. Ne facevano parte anche Age e Scarpelli. Durante una seduta della commissione Chiarini assunse quel tono sprezzante che ricordavo bene. Allora io rievocai quell’episodio. Ci fu una piccola bagarre. E lui me l’ha fatta pagare nel ’63, quando da direttore della Mostra di Venezia rifiutò I compagni. Parlavamo del tuo rapporto con la realtà. Aggiungerei che nella loro indubbia varietà, salvo Al diavolo la celebrità (1949), in parte Proibito (1954) e Toh, è morta la nonna! (1969), tutti i tuoi film sono riconoscibili dall’approccio almeno inizialmente veridico con la storia. S.M.

La verità intesa come autenticità, come riscontro nella realtà, è tutt’uno con lo spunto iniziale, che molto spesso è un’idea rubata a qualcuno o un racconto sentito da un amico. Ma soprattutto è un’esigenza che mi aiuta a entrare nella storia. Il tono che ho quasi sempre dato ai miei film è veristico. Si può spingere verso soluzioni grottesche o surreali, ma sempre innescate da un fatto preciso. Quando in Toh, è morta la nonna! ho calcato troppo sul grottesco, con una trama esilissima pseudogialla, è venuto fuori un film inguardabile. Per questa ragione ho sempre cercato di circondarmi di gente molto competente, meglio se pignola nella cura del dettaglio. Dedico molto tempo ai sopralluoghi, mi raccomando molto con lo scenografo e il costumista sull’attendibilità della ricostruzione. L’arredamento è un aspetto che non sono in grado di controllare. Ancora più zelo chiedo ai costumisti per evitare errori grossolani. Ho avuto la fortuna di lavorare con bravissimi M.M.

professionisti. Danilo Donati, Piero Tosi, Gitt Magrini, Lina Nerli Taviani, Gianna Gissi, che ha cominciato con me, oltre ai soliti Gherardi e Garbuglia che molto spesso facevano sia la scenografia sia i costumi: tutti hanno dato contributi straordinari ai miei film.

Monicelli e Totò discutono sul set dei Soliti ignoti.

Nel passaggio dal cinema comico alla commedia all’italiana, i tuoi personaggi cambiano di segno: Fabrizi in Vita da cani (1950), Totò in Totò e Carolina (1955) e Fabrizi insieme a Totò in Guardie e ladri (1951) si dichiarano – e alla prova dei fatti sono – “fessi”. Mentre Gassman, uscendo di prigione dopo aver estorto con l’inganno a Carotenuto il piano del colpo nei Soliti ignoti, si congeda brutalmente con il gesto dell’ombrello. S.M.

Camerini me lo rinfacciò, quel gesto. Lo trovava una caduta di gusto e una furbata per tirare la risata grassa. Ma la commedia è anche questo. Si nutre di una comicità bassa, se vuoi in certi casi meccanica, come la farsa, del resto. Il tratto innovativo nel comportamento di Gassman è la M.M.

prevaricazione. Il suo raggiro contiene una dose di spietatezza contraria alla natura di Totò, Fabrizi, Macario, Scotti. Loro appartenevano a un mondo in cui il comico era una vittima. La risata scattava ogni volta che gli toccava subire angherie, botte, insulti. I rovesci della fortuna si abbattevano sulla sua passività meccanicamente. La commedia invece è crudele. I nuovi comici ribaltano la loro condizione, che spesso diventa aggressiva. Adesso è la sopraffazione a suscitare la risata. L’inettitudine non è più accompagnata dalla sfortuna, ma si abbina alla viltà, alla turpitudine talvolta, o soltanto alla stupidità. Arrogante con i deboli e deferente con i potenti, la nuova figura del comico spiazza lo spettatore e non gli permette più di essere ingenuo. Noi ci muovemmo proprio in questa direzione. Puntando lo sguardo sulla gente che incontravamo per strada, al ristorante, in tram. Studiandola nei particolari più spregevoli. Bastava guardarsi attorno. In questo senso Sordi fu grandissimo nel cogliere l’anima dell’italiano. La furbizia, per esempio, non coincideva più con la secolare arte di arrangiarsi. Sordi svelò il suo retroscena di grettezza, ipocrisia, egoismo, fino a mettere in scena personaggi antipatici, se non proprio odiosi. E infatti fu durissima farsi accettare dal pubblico. Poi divenne normale che il protagonista del Sorpasso fosse un Gassman antipaticissimo. Totò invece non poteva essere antipatico. Lui era una maschera. Secondo Cicerone la comicità si basa sui difetti morali e la bruttezza fisica. «Le virtù passano, i difetti restano» ha detto una volta Benvenuti. Compiaciuto, avrebbe commentato Calvino, che pur avendo elogiato Guardie e ladri e I soliti ignoti ha avuto un rapporto tendenzialmente negativo con la commedia all’italiana, imputandole una sorta di collusione con questi vizi: un rapporto ambivalente di attrazione e repulsione che avrebbe impedito una riflessione distaccata. S.M.

Calvino insieme a Pannunzio, Flaiano e pochi altri fu un sostenitore della commedia. Può darsi che non gli piacesse lo spirito di fondo di alcuni film. Giocando sui vizi, era naturale il nostro divertimento nell’enfatizzarli in una rappresentazione caricaturale. Ma non per questo li condividevamo, tanto meno il pubblico si immedesimava nei personaggi abietti che mettevamo in scena. Li riconosceva, li trovava anche simpatici – perché M.M.

nello spogliare un uomo davanti ai propri vizi lo si mette di fronte alla sua umanità, per bassa che sia – però nessuno voleva riconoscersi. Ridendo dei vizi, guardando i tabù da un punto di vista ironico, la commedia all’italiana è la forma espressiva che più ha contribuito a cambiare l’antropologia dell’italiano nel dopoguerra. Da ingenua, la risata è diventata spietata. L’irriverenza ha caricato i toni della provocazione. La definizione di Aristotele si attaglia alla vostra spregiudicatezza puntata sulla realtà: «La commedia è imitazione di persone più volgari dell’ordinario». Da questo punto di vista I soliti ignoti segna una svolta che si farà più marcata con La grande guerra (1959), Il vedovo (1959) e Il sorpasso (1962) di Risi, Divorzio all’italiana (1961) di Germi. Ormai è chiaro che la commedia ha assunto nuovi connotati. E sì che il film è nato senza tante pretese… S.M.

Cristaldi ci aveva commissionato un soggetto per riutilizzare i fondali costosissimi costruiti nel Teatro 5 per Le notti bianche (1957) di Visconti. Dei canali intorno a Livorno: il quartiere Venezia. Solo che a un certo punto la storia trovò tutt’altra collocazione, anche se ci aveva suggerito la matrice sottoproletaria dei protagonisti. E quei fondali non ci servivano più. All’inizio il film doveva intitolarsi Le madame, come venivano chiamati allora i poliziotti, ma lo cambiammo temendo possibili guai con la censura. A un certo punto qualcuno aveva proposto O di riffe o di raffe… E prendemmo in considerazione anche Rufufù, storpiando il titolo di Rififi (1955) di Jules Dassin, di cui intendevamo fare la parodia. Poi, in corso di lavorazione del film, uno di noi – non ricordo chi, ma certamente non io, non ho mai avuto il bernoccolo per i titoli – tirò fuori I soliti ignoti, che era una definizione ricorrente nei fatti di cronaca sui giornali. La storia è semplice. M.M.

Il risultato è il paradosso curioso di un film nato come parodia di un genere classico – basti pensare a Giungla d’asfalto (1950) di Huston – destinato a diventare a sua volta il capostipite di un genere. Fin dal seguito di Loy, Audace colpo dei soliti ignoti (1959), ha dato il via a una serie numerosa di titoli – uno per tutti, Operazione san Gennaro (1966) di Risi – e a una serie imbarazzante di remake. I soliti ignoti made in Usa (1984) di Malle. Palookaville (1995) di Alan Taylor, che fonde tre racconti di Calvino S.M.

tra cui Furto in pasticceria. L’ultimo, Welcome to Collinwood (2002), dei fratelli italoamericani Russo, è quasi un calco trasportato a Cleveland, con George Clooney che rifà Totò…! Ma non dimentichiamo che Bob Fosse ne trasse addirittura un musical, Big Deal in Madonna Street… o forse soltanto Big Deal: l’altro era il titolo americano del film. Volevamo fare una parodia di Rififi. Un bel film di grandissimo successo. In quel periodo, a Hollywood e in Francia era in voga il genere delle rapine. Tutti film spettacolari, costruiti con grande attenzione per i particolari tecnici del colpo. Mica “scientifici” alla Gassman! La nostra trovata semplicissima fu di scombussolare la professionalità dei ladri e trasformarli in buoni a niente. Adesso sembra facile, ma ripensando alla lavorazione del film ogni tappa fu una conquista. Il gruppo degli sceneggiatori non fu così facile da mettere insieme. Age e Scarpelli erano bollati come due scrittori di farse. La Suso invece era la sceneggiatrice di Visconti. Due mondi diversi, insomma. Io della Suso ero molto amico, avevamo lavorato insieme in Proibito. Una volta che li misi insieme si “ribellarono” contro di me perché nemmeno loro volevano Gassman. Alla fine girò tutto giusto e si diede inizio a un filone. Io mi rifiutai subito di dirigere il seguito. Sarebbe stata una ripetizione senza la novità della prima volta: il limite di tutti i numeri due… Questa fissazione dei remake denuncia sempre una mancanza di idee. E lasciamo perdere Clooney nel ruolo di Totò! Le storie della commedia all’italiana sono legate all’ambiente in cui sono nate. Uno che sradicò completamente il film dalle sue origini e tentò di reinventarselo fu proprio Bob Fosse. Quando gli cedetti i diritti per il musical ero sicuro che sarei campato con i diritti d’autore. Invece lui trapiantò la storia a Harlem. Con dei neri come protagonisti. A me era anche piaciuto. Ma lo spettacolo fu smontato dopo pochi giorni. M.M.

In Italia c’era stata poco prima una commedia di Mastrocinque, La banda degli onesti (1956), con Totò e Peppino alla testa di un drappello scapestrato di ladri. Ma ai nostri occhi il salto di qualità è vistoso, benché la critica italiana del tempo – salvo rare eccezioni – faticò ad accorgersene. Cambia il tono, che ha un sottofondo drammatico. Cambia il modo di concepire i rapporti tra i personaggi e la realtà. Non a caso uno dei tratti più S.M.

sorprendenti è l’ambientazione. Una Roma senza punti di riferimento; evanescente. Quasi irriconoscibile nei caseggiati di periferia, negli appartamenti accatastati di cianfrusaglie, in certe terrazze scrostate, nelle strade anonime con pochi passanti. Una parte, poi, è ambientata in una prigione dai colori spenti. Cambiano infine i personaggi, la cui riuscita deve molto al gioco dei dialetti in una polifonia inedita – fatta eccezione per Paisà (1946) di Rossellini, a sottolineare la discendenza dal neorealismo… Il tono dell’ambientazione era addirittura drammatico. Fu una grande invenzione di Gianni Di Venanzo. Ne venne fuori una combinazione insolita, con un copione comico girato su uno sfondo quasi lugubre. Pensa allo squallore della festa di Carnevale. Roba da miserabili: dentro uno scantinato, con delle lampadacce che pendevano giù dal soffitto, e basta. A differenza delle commedie di allora, ambientate in estate, piene di luce e di sole, noi lo girammo in autunno, con un cielo spesso plumbeo e persino la pioggia durante il funerale. Nelle commedie italiane il dialetto è sempre stato presente, anzi dava una connotazione diminutiva. Di solito si utilizzava un dialetto soltanto. Il romanesco, perché perlopiù si svolgevano in qualche borgata di Roma, oppure il napoletano nel caso di Totò e Peppino, o ancora il siciliano. Ma i dialetti avevano una funzione, per così dire, coloristica, mentre la commedia trasformò il dialetto in un elemento narrativo. Il dialetto siciliano in Divorzio all’italiana ha una forza espressiva difficilmente rintracciabile in pellicole precedenti: non a caso la definizione di commedia all’italiana viene da quel film. Noi lavorammo su una commistione di dialetti che riproduceva la mescolanza linguistica della società di allora. Age e Scarpelli avevano in questo un orecchio straordinario. Ma tutti ci divertivamo a recitare le battute mentre le rileggevamo. Il dialetto in sé imprime una nota comica alle battute. L’abbassamento del linguaggio al livello della gente comune fu uno dei punti trainanti della commedia all’italiana, in contrasto con tutto un cinema borghese in cui si parlava l’italiano dei libri o con l’italiano dei doppiatori nei film stranieri. Tanto che nei primi film neorealisti gli spettatori erano sconvolti di sentire parlare come loro. Pensavano che non sapessero recitare. A tutto ciò si deve aggiungere il nostro lavoro di indagine in fase di sceneggiatura. Siamo andati a cercare queste bande di ladruncoli specializzati in “sgobbi”. Perlopiù gran ballisti M.M.

che favoleggiavano di colpi straordinari. Ma anche le balle diventano vere quando sono raccontate in maniera credibile. La fame di storie vere e la fedeltà alla realtà sono un’eredità del neorealismo. Non solo grazie al dialetto, il linguaggio qui compie passi avanti in senso realistico, favorito dalle grandi doti mimiche e gestuali degli attori che resero credibili personaggi dai caratteri spesso accentuati. S.M.

Cominciammo a far parlare i personaggi con maggiore aderenza alla realtà. Utilizzammo le prime parolacce. Ma eravamo ancora alla fine degli anni cinquanta. La lingua italiana era ancora divisa in dialetti. A volte si correva il rischio di non essere capiti da tutti. Quando Gassman propone a Carotenuto di unirsi a loro e lui si rifiuta, gli dice che si atterrà alla legge del menga: «Chi l’ha in culo se lo tenga». Questo non lo dice, gli unici a saperlo erano i romani, che ridevano come matti. M.M.

Allora non è un caso che il produttore fallito di Camera d’albergo (1981) interpretato da Gassman si chiami Mengaroni, Menga per gli amici… Un altro elemento vincente dei Soliti ignoti è l’assemblaggio di una squadra straordinaria di attori e caratteristi, con la rivoluzione di Gassman comico. S.M.

Scoprire i caratteristi è uno degli aspetti più divertenti del mio lavoro. Li ho sempre scelti io. Allora in Italia ce n’erano tantissimi, e tutti bravissimi. L’unico noto nel film è Memmo Carotenuto. Un attore molto intelligente. Pur facendo sempre lo stesso tipo di borgataro sanguigno e un po’ sguaiato, sapeva giocarci sopra. Gli altri invece li ho scoperti io. Mi è sempre piaciuto trovarli tra la gente, magari attirato da una faccia o da un modo di fare. Tiberio Murgia lo scovai al Re degli Amici, una trattoria in via della Croce vicino a Otello, dove faceva lo sguattero. Mentre Carlo Pisacane era uno sconosciuto che recitava nei teatri di strada. Uno era sardo ed è stato doppiato in siciliano, l’altro napoletano e l’ha doppiato in bolognese Nico Pepe. Allora il bolognese era un accento anomalo al cinema. Non mi ricordo invece il nome del doppiatore di Murgia che, dopo il successo del film, per doppiarlo l’anno dopo nella Grande guerra sparò una cifra folle che noi ovviamente non gli demmo. M.M.

La Cardinale era una debuttante. Aveva diciott’anni. Veniva da Tunisi senza sapere un parola di italiano. Timida, bellissima. Non sapevamo che era al secondo mese di gravidanza. L’ho voluta subito vedendo le sue fotografie alla Vides. E risultò una siciliana perfetta, con quei suoi occhi neri e l’aria timorata. Cristaldi le fece subito un contratto di sette anni e si innamorò di lei. La Gravina era proprio agli inizi, aveva fatto solo una parte di giovane innamorata in Amore e chiacchiere (1957) di Blasetti. Carina, frizzante, piena di lentiggini. Lei recitava in veneto: il dialetto delle domestiche, oltre che di Goldoni. Allora il Nordest era una zona poverissima… Mentre Gassman, borgataro senza speranza, per darsi un tono si inventava un accento settentrionale più distinto, ma non andava oltre il titolo di ragioniere. Impiegai un anno per convincere Cristaldi a prenderlo invece di Sordi. In cambio abbiamo chiamato Mastroianni, Salvatori e soprattutto Totò. Non pensavamo a lui scrivendo la parte di Dante Cruciani. Ne venne fuori un pezzo di bravura, senza però discostarsi dal tono realistico del film. Ma il vero scandalo è l’ingresso della morte nella commedia. Per Germi fu un’illuminazione, la dimostrazione che si poteva ridere di tutto. Scrivendola, eravate consapevoli della portata di quella scena, peraltro girata a doppia velocità con un effetto volutamente irrealistico? S.M.

Eh, quello fu un botto! Il morto cambiò le regole. Dimostrò che si poteva far ridere anche sulle tragedie. Quando scrivemmo la scena e anche quando la girai non mi resi conto degli effetti che avrebbe scatenato. Ma forse sì, visto che la girai a doppia velocità cercando di attenuarne l’impatto. Come ho già detto prima, le ascendenze della commedia all’italiana risalgono a una tradizione letteraria in cui la morte era una presenza concreta. La vera novità decisiva – o scandalosa – fu l’abolizione del lieto fine. La nostra capacità di ridere delle tragedie è sempre rimasta un mistero per gli stranieri. Che ci amano senza capirci. Gran parte del successo del film nel mondo lo devo al pubblico francese, che a Parigi affollò per mesi un cinemino di periferia. Le pigeon – come si intitolava laggiù per via della “pecora” da mandare in prigione al posto di Carotenuto – divenne un caso che suscitò l’attenzione dei Cahiers e di Positif. Venne decretata M.M.

l’originalità della nostra commedia. I soliti ignoti aprirono un nuovo ciclo del cinema italiano. La strada verso la tragedia nel riso era appena cominciata. Già l’anno dopo io ho fatto interpretare La grande guerra a due comici che alla fine muoiono. Altro che scandalo! La ricomposizione finale è una caratteristica comune alla commedia classica americana, dove spesso il trionfo dell’amore veniva associato all’avvento della ricchezza, e alla commedia francese. S.M.

Ho sempre amato la commedia americana degli anni trenta-quaranta. Rappresentava la vita del tempo e tutti noi abbiamo imparato a conoscere l’America attraverso il cinema. Avevano attori grandissimi: Clark Gable, Cary Grant, James Stewart, Katharine Hepburn. Oltre a sceneggiatori e registi eccezionali. Preston Sturges, Cukor, Hawks, lo stesso Capra, benché un po’ melenso per i miei gusti. Mentre, pur facendo la commedia borghese, ambientata in un mondo artificioso, mi piaceva molto Lubitsch. Più avanti è arrivato Billy Wilder, uno dei più grandi di sempre, quindi Blake Edwards. La commedia francese ha dato il meglio di sé tra le due guerre. Io adoro Clair, Feyder, Renoir comunque, anche in altri generi, lo stesso vale per Carné, Vigo, in parte per Duvivier. Giravano un film più bello dell’altro. M.M.

Con I soliti ignoti si delinea la struttura narrativa corale che diventerà una formula ricorrente nel corso della tua carriera. La storia di un gruppo di disperati che falliscono in un’impresa sproporzionata alle loro forze, come ti piace ripetere. Io li chiamo i tuoi fallimenti di successo. Comincia qui la tua galleria dei vinti, di un’Italia sempre minore… S.M.

La commedia ha sempre cercato di raccontare l’Italia com’è. Allora era un paese pieno di perdenti. Si usciva dalla guerra con uno spirito nuovo. Per tutti si prospettava la speranza di una vita migliore. Molti però dovevano ancora fare i conti con la realtà. Che era cambiata, ma non si sarebbe rivelata meno difficile. A me è sempre piaciuto parlare di questi poveracci e metterli in una situazione più grande di loro. È divertente e spietato, assistere alla loro incapacità. Noi italiani sappiamo far ridere in questo modo. Dove accadono eventi drammatici, prosperano le possibilità di far ridere. L’omo nero, un mio M.M.

progetto che non è andato in porto, era una storia sulle difficoltà di integrazione per un extracomunitario oggi. Il confronto con gli italiani è uno scontro tra poveracci. Anche se arricchiti, gli italiani che imperversano con la loro volgarità rimangono dei poveracci. Ecco un tema che andrebbe approfondito nelle commedie di oggi. Sarebbe divertente leggere la commedia all’italiana in chiave di storia della maleducazione dal dopoguerra a oggi… Nel cinema di oggi si avverte una “riscoperta” della realtà. Tra quelli che la ritraggono con uno spirito affine al vostro c’è senz’altro Virzì, che prima di tutto è un bravo sceneggiatore. S.M.

Caterina va in città (2003) è l’ennesima variante della Dolce vita (1960), la storia del provinciale che va nella grande città e si corrompe. In questo caso c’è anche una ragazzina. Non ha certo quello squallore autentico e disperato di La bella vita (1994), che era a tutti gli effetti una commedia all’italiana. Il rischio oggi è di limitarsi all’aspetto esteriore senza un progetto interno, l’intenzione di raccontare una condizione reale. M.M.

Allora non eravate così superficiali… La superficialità, intesa come immediatezza, costituiva il modo più diretto per attaccare la realtà. E questo di per sé è già un progetto. S.M.

Oggi mi sembra che manchi la responsabilità critica. Il buonismo e il politically correct strozzano all’origine ogni intento dissacratorio. La satira invece si regge sul contrario: il suo principio è abbattere le ipocrisie del senso comune. Benigni ha grandi qualità di attore con il limite di dirigersi da solo in storie molto macchinose. L’idea di ridere di una tragedia come la shoah è degna delle migliori commedie all’italiana, purtroppo La vita è bella (1997) non la sviluppa all’altezza. Luchetti aveva fatto un ottimo lavoro con La scuola (1995). Poi si è perso. Salvatores sembrava avere la stoffa per la commedia, invece gli manca sempre qualcosa. Soldini fa delle belle commedie francesi. Verdone è un Sordi in tono minore, legato alla sua macchietta. L’ultimo film di Milani, Il posto dell’anima (2003), è girato nel modo che più odio. Tutto stretto, dettagli e primi piani. Ma l’idea e lo spirito sono giusti. Guardando ai giovani di oggi, è evidente che si stanno battendo nuove strade, alcune molto personali e interessanti. La riuscita di M.M.

due film originali come L’uomo in più (2002) di Sorrentino e Tornando a casa (2001) di Marra è la dimostrazione che il modello della commedia all’italiana non è l’unico: esistono altri modi per raccontare il proprio tempo con un’energia capace di raggiungere l’intelligenza dello spettatore. In un articolo coevo ai Soliti ignoti, in un contesto completamente diverso come gli Stati Uniti maccartisti degli anni cinquanta, Gore Vidal auspicava l’avvento di scrittori satirici, il cui terreno fertile è una società piena di contraddizioni e assurdità, concludendo che «ci occorrono quanto ci occorre la verità – perché la satira, in fin dei conti, non è forse il ghigno ipocrita e solenne della verità?». S.M.

Infatti con la commedia all’italiana abbiamo inciso sull’indole degli italiani. Smascherando, sempre con lo stesso spirito ludico, i vizi, i difetti, i tabù, i pregiudizi. La rappresentazione di una società spogliata del suo velo perbenista e colta nella sua più vera pochezza ha messo il pubblico davanti a se stesso. M.M.

La verità è che voi eravate dei grandi moralisti. Del resto già nel 1669, nella premessa a una nuova edizione del Tartufo, Molière usciva allo scoperto affermando che «l’utilità della commedia sta nel fatto che corregge i vizi dell’uomo». Forse oggi, tolto Moretti che opera in tutt’altra sfera, non ci sono più autori moralisti. S.M.

Sì, noi eravamo dei moralisti, in fondo. La spietatezza del comico si innesta in quello spazio che piano piano si allarga, e la risata porta alle stelle, che divide la gente dai valori che professa, i comportamenti dalle parole e le parole dalla realtà. La commedia si nutriva di questo contrasto. Ma perché ciò avvenisse noi dovevamo avere una visione del mondo chiara. M.M.

Ci siamo persi… stavamo parlando della tua predilezione per le storie corali. S.M.

Lavorare con un gruppo di attori invece che con la classica coppia è di gran lunga più stimolante, a partire dal momento dell’ideazione della storia. Confrontarsi con una varietà di tipi umani, caratterizzarli con piccole manie o modi di fare, inventargli una lingua addosso, quindi metterli uno accanto all’altro e trovare gli equilibri, le alleanze, le divisioni. Nella fase del M.M.

casting mi appassiono molto a cercare le facce giuste, a ritrovare negli attori i personaggi che ho scritto. Se non li sbagli, è un grande aiuto avere tanti personaggi. Sul set regna un clima più allegro. In più ho avuto la fortuna di lavorare sempre con degli amici. La poetica del cialtrone è un filo rosso che percorre la tua commedia. Cito due frasi. Una di Anna Magnani in Risate di gioia del ’60, l’altra di Massimo Ceccherini in Cari fottutissimi amici (1994), trentaquattro anni dopo. Lei rimprovera il povero Totò: «Non sei nessuno. Né un ladro, né una persona perbene. Non abbiamo il coraggio di essere delinquenti». Lui affida alla conclusione finale del film una filosofia di vita che è anche un rimpianto di felicità: «Nella vita è meglio sopravvivere che vivere», quasi un augurio che gli scalcagnati personaggi dei Soliti ignoti raccoglierebbero entusiasti. S.M.

I cialtroni, i poveracci, i buoni a nulla, i fannulloni, gli scansafatiche, i lazzaroni, i picari. Sono questi i personaggi del mio cinema. Troppo sprovveduti per fare i malviventi, troppo pigri e opportunisti per diventare persone rispettabili – anche se la rispettabilità spesso cela realtà ben peggiori. Sono dominati dall’incertezza, ma è proprio questa condizione precaria a stimolarli, a tirar fuori il meglio che c’è in loro, sempre sapendo di vivere alla giornata. M.M.

In genere sei impietoso con i tuoi personaggi, li lasci lì in mezzo ai guai senza un briciolo di compassione. Non c’è indulgenza quando sveli i retroscena delle loro debolezze. Allo stesso tempo traspare il lato umano, e la loro simpatia li avvicina al pubblico. S.M.

La spietatezza, di cui l’impassibilità è una caratteristica necessaria, è un tratto in cui mi riconosco. Abbatte le ultime resistenze dei sentimenti, che vengono stilizzati, meccanicizzati e infine quasi scorporati dai personaggi, che rimangono in balia del nostro divertimento senza più commuoverci per la loro sorte: ridendone di gusto. È altrettanto vero che i personaggi dei Soliti ignoti sono simpatici. Così come Totò e la Magnani in Risate di gioia. Lì fanno addirittura pena. Ma hai ragione quando dici che di solito mi preoccupo poco per loro. La crudeltà esclude la compassione. M.M.

I tuoi personaggi sono di estrazione piccolo-borghese, se non proletaria. Dotati di modesta intelligenza, si prendono sempre troppo sul serio. Sono però quasi sempre simpatici e degli inguaribili bugiardi. Con queste caratteristiche è impossibile aspettarsi l’ironia. S.M.

Quasi tutti i miei personaggi credono di essere quello che dicono e non si accorgono della loro inettitudine. E questo li rende simpatici. L’ironia presuppone una consapevolezza che non hanno. Altrimenti Brancaleone non si lancerebbe in avventure senza capo né coda, non parlerebbe con la sicurezza dell’incoscienza. Carotenuto non ordinerebbe «Segui quella macchina» a un bambino mentre gli si siede vicino su un autoscontro. Loro si prendono sempre sul serio. Il contrario di quello che faccio io nella vita e nel lavoro. Le bugie che dicono non sono tali perché sono quasi sempre in buona fede. Le bugie sono una componente decisiva nella vita, no? In sé, non sono così disdicevoli. Lo diventano quando subentra la turpitudine, allora si entra nella sfera della menzogna. M.M.

Per la prima volta compare un’altra costante del tuo cinema, l’amicizia virile. Un’amicizia sempre basata su rapporti di forza, pronta a tramutarsi in tradimento appena cambiano gli equilibri. S.M.

L’accanimento sul più debole è un comportamento tipicamente italiano, che in Toscana raggiunge vette tremende. Nei due Amici miei, appena uno fa un passo falso, gli altri lo distruggono. Ma il divertimento era quello, infierire sempre e non risparmiare nessuno. La commedia non si deve mai fermare davanti a nessuno. È questa la sua forza. E la sua crudeltà. Perché senza crudeltà non si fa ridere. M.M.

L’esito fallimentare della rapina dei Soliti ignoti è stato influenzato dalla conclusione di «Furto in pasticceria» di Calvino, un breve racconto contenuto nella raccolta del 1949 Ultimo viene il corvo. Poche pagine svelte, scritte con la sua proverbiale precisione e leggerezza. Derubando una pasticceria, tre poveracci cominciano ad abbuffarsi di dolci. Uno di loro, Gesubambino, perde completamente la testa in un’ingordigia indifferente persino all’arrivo della polizia. Ma anche le guardie vengono S.M.

assalite dalla golosità, e lui riesce a fuggire pieno di pasticcini dalla fidanzata. Ce lo suggerì la Suso, che era sempre aggiornatissima. L’idea era divertente. Non mi convincevano però i dolci. Volevo una soluzione meno legata a un aspetto voluttuario. Cercavo più concretezza, qualcosa di carattere sociale. La pasta e ceci, quella sì. M.M.

Tu che non ami troppo la musica nei film, hai inserito per la prima volta il jazz in un film italiano. La colonna sonora di Piero Umiliani dà una velocità all’azione, un ritmo ai cambi di scena, incorniciati così bene da quei capitoletti ispirati alle comiche. S.M.

Ti confesso però che è stata una novità a cui diedi poco peso. Mi è stata fatta notare così spesso, che alla fine me ne sono reso conto anch’io. Parlandone con Umiliani avevo bene in mente un duo di trombettisti, J&J. Glieli suggerii come punto di partenza su cui lavorare. Dopo una seconda collaborazione in Renzo e Luciana (1962) non ho più lavorato con Umiliani, sbagliando. M.M.

Dopo I soliti ignoti arriva La grande guerra. Malgrado le polemiche sorte ben prima delle riprese, rappresenta una consacrazione per te e per la commedia, con la vittoria del Leone d’Oro a Venezia. Ne parleremo più avanti. Per adesso lo prendiamo a esempio del tuo ricorso ai proverbi e ai luoghi comuni. Qui ce ne sono parecchi sparsi tra i dialoghi, molto spesso messi in bocca a Gassman-Busacca: «Se non capisci niente, o fai l’avvocato o fai il sergente», «L’italiano in fanteria, il romano in fureria», «È sempre meglio un amico morto che un nemico vivo», «Obbedir tacendo e tacendo morir». Ma potrei citare a ruota libera tra i tuoi film. S.M.

La saggezza popolare, i detti, i proverbi, i luoghi comuni, i modi di dire costituiscono l’espressione più immediata e rivelatrice dei nostri personaggi, tutti piccolo-borghesi o proletari. Nella Grande guerra gran parte dei soldati è analfabeta. Spesso questi detti sono molto divertenti, sono già battute che pronunciate con l’inflessione dialettale rendono molto bene il punto di vista semplice, genuino, nazionalpopolare. La filosofia M.M.

spiccia ma sagace di chi si deve arrangiare è un altro elemento di verità con cui raccontare la gente. Il detto comune può essere anche rovesciato, come fa Totò parlando di morte fuori dall’ospedale dove si trova il cadavere di Carotenuto: «Oggi a te, domani a lui». In Toh, è morta la nonna! era quasi derisorio l’uso che faceva il prete dei luoghi comuni, che parlava solo per frasi fatte, il contrario del latino di don Abbondio usato con lo stesso effetto. L’accoppiata I soliti ignoti-La grande guerra ti aveva proiettato in un’altra dimensione. Avevi individuato un genere ben preciso, avevi inventato Gassman comico e contribuito a dare uno spessore drammatico a Sordi. Sarebbe stato naturale insistere in questa direzione. Tu invece ti rifiutasti di girare I due nemici (1961) con lo stesso Sordi e Niven. Malgrado, o proprio per via del grandissimo successo e di una serie di proposte “sicure”, la scelta successiva cade su un soggetto un po’ datato, ispirato a due racconti di Moravia, Risate di gioia e Ladri in chiesa, che segue due sfortunati reduci dell’avanspettacolo in una concitata notte di Capodanno. Ecco una delle tue svolte imprevedibili. S.M.

Sì, allora lo pensai anch’io di aver fatto un film superato. Poi il tempo mi ha smentito. Oggi Risate di gioia viene spesso proiettato nelle rassegne. E non solo perché è l’unico film in cui recitano insieme Totò e la Magnani. Vedo che piace ai giovani. Allora venne certamente considerato un passo falso. Eravamo in pieno boom economico. L’Italia stava scoprendo il progresso, l’agiatezza, l’incoscienza. E io tornavo su una storia del dopoguerra con due sfortunate comparse di Cinecittà come protagonisti. Il film me lo propose la Suso. Il punto di partenza era una sceneggiatura scartata da Comencini. M.M.

Qui ricompare uno dei personaggi tipici, nato nel dopoguerra con Vita da cani, che ritroviamo in Guardie e ladri: l’americano che ci guarda dall’alto in basso. S.M.

Dopo la guerra, nonostante la liberazione e il piano Marshall, gli americani erano considerati dei rompicoglioni. Quello derubato da Totò in Guardie e ladri incarna alla perfezione la contraddizione dell’americano: che è un salvatore e allo stesso tempo un padrone. Questo di Risate di gioia M.M.

sembra più indulgente solo perché è ubriaco. Gli americani erano presi di mira nelle commedie, buoni da abbindolare: sempre ricchi ma ingenui, mentre noi molto più intelligenti ma comunque miserabili. È un mistero, no? Del tutto insolita invece è la scena del furto in chiesa, un ambiente che i tuoi personaggi frequentano pochissimo e in circostanze tutt’altro che confortanti. Dall’ipocrisia generale nella sagrestia in Totò e Carolina (1955) alla sconvolgente orazione funebre in Un borghese piccolo piccolo (1977). Allo stesso modo, i tuoi preti sono personaggi farseschi. In Totò e Carolina il prete ha spiccati tratti omosessuali, nella Grande guerra indica la via per il bordello, in Vogliamo i colonnelli (1973) è un cospiratore fascista per di più libertino, in Speriamo che sia femmina (1986) è un rincitrullito. Nel Marchese del Grillo (1981) l’ambiente papalino è dipinto con toni graffianti. S.M.

La commedia all’italiana è animata da uno spirito laico. Per me i due unici grandi libri educativi scritti in Italia sono Cuore di De Amicis e Pinocchio di Collodi, dove i preti non compaiono. È un peccato, e anche un segnale, che oggi siano spariti dalla circolazione. I preti li abbiamo sempre usati come macchiette. Per anni sono stati i custodi della mentalità degli italiani, un popolo di parrocchiani: contadini, bottegai e piccolo-borghesi devoti. Attraverso il cinema abbiamo fotografato questa realtà e seguito la sua evoluzione. La scuola, il benessere, la televisione hanno contribuito a modificare la maniera di comportarsi. Il cinema, soprattutto grazie alla commedia, ha svolto una funzione emancipatrice. M.M.

Fellini non è mai riuscito a girare un gran film comico come sognava, perché era troppo cattolico. S.M.

Il problema di Fellini è che non era cattivo. Anche Sordi era cattolico, ma al contrario di Fellini lui aveva la gran forza di scindere le sue convinzioni personali dal lavoro, con il quale indagava la natura dell’italiano per sovvertire le sue certezze. In Sordi prevaleva l’istinto comico con tutta la sua pusillanimità. E persino nella vita ogni tanto si M.M.

faceva prendere da questo spirito irridente. Come quando, ricevuto da Pio XII insieme alla Pagnani, non gli staccava più le labbra dall’anello. Con La dolce vita Fellini aveva già imboccato la strada del fellinismo. I suoi primi film erano imparentati da una parte con la commedia, visti i suoi trascorsi nei giornali umoristici e nei gruppi di sceneggiatori, e con il neorealismo dall’altra, avendo scritto per Rossellini. Per me contano solo I vitelloni (1953), La strada (1954) e Amarcord (1974). Il resto del suo cinema non mi interessa. Impregnato di autobiografismo, ridondante, scenografico e immerso in una realtà astratta. Sono in parte d’accordo con te, ma 8 ½ (1963) è un capolavoro. A differenza di Fellini, voi della commedia, e tu in particolar modo, siete sempre stati reticenti su voi stessi. S.M.

Per me rimane un mistero come un’esperienza personale possa interessare tanta gente. Ho un’avversione viscerale per chi parla di sé. Inoltre i registi “autobiografici” hanno il fiato corto. Difficilmente vanno oltre un paio di film buoni, magari anche notevoli. Dopo è tutta una noiosa ripetizione. Non sono mai riuscito a parlare dei fatti miei. Io per primo sono poco interessato alle mie storie familiari o alle mie conoscenze. Uno dei pochi riferimenti personali è la visita al distretto militare di Lucca, che ha un po’ ispirato la scena dell’incontro tra Sordi e Gassman nella Grande guerra. Erano visite demenziali. Ci mettevano lì tutti nudi: se uno non era mezzo morto, lo mandavano subito a combattere. M.M.

Era reduce dai successi felliniani, Mastroianni, quando girò con te Casanova ’70 (1965). Un elegante divertissement a episodi accomunati dalle peripezie amatorie di un don Giovanni che per eccitarsi ha bisogno di situazioni rischiose. S.M.

Il ricordo più bello del film è la ricerca di quelle donne stupende. Una più strepitosa dell’altra. L’idea del film è di Tonino Guerra, che poi ha partecipato alla sceneggiatura. Lo incontrai fuori da Otello. C’era una calura tremenda quel giorno. Era appoggiato al muro all’angolo della strada. Ci prendevamo sempre un po’ in giro, perché lui era uno sceneggiatore degli autori mentre noi facevamo la commedia. Ma era un gioco. «Lo so che mi disprezzi, eh!» mi provocò. Ponti continuava a M.M.

chiedermi un film con Mastroianni. Allora lui disse di conoscere uno che riusciva a fare l’amore solo in condizioni di pericolo. Raccontava sempre di conoscere persone che facevano quello che lui in realtà si inventava: era una balla per avallare la verosimiglianza della storia. Da questo spunto, con Age e Scarpelli abbiamo inventato alcune situazioni pericolose. Il risultato finale è una serie di episodi staccati. Alcuni buoni altri no. Nel complesso però il film non è riuscito, anche se incassò tantissimo. Tra i punti di forza del film: le ambientazioni di Garbuglia, l’eleganza della confezione e la fotografia panoramica di Tonti. L’episodio più notevole è quello ambientato in una cadente villa palladiana, con Ferreri nella parte del conte cattivissimo che fingendosi sordo cerca di uccidere l’amante della moglie. S.M.

Come attore era sgraziato, ma ci divertimmo tanto a girare quell’episodio. Una risata continua. Era esterrefatto dal mio modo di lavorare. Non capiva come facessi a girare con un copione prestabilito rispettandolo alla lettera. Del resto io so fare solo così. Mi diceva: «Tu sai già cosa devi fare dopo. Io non so mai un cazzo!». Non sapeva un cazzo ma era un genio. Una delle tante trovate di Tonti e Garbuglia è stato il fidanzamento tra Mastroianni e la Lisi nel giardino della casa di Alberobello. Erano tutti vestiti di bianco, in un’atmosfera di grande suggestione in contrasto con lo sguardo spaventato del promesso sposo. M.M.

Menzionerei anche l’episodio in una Sicilia alla Germi, soprattutto per via di una violenza insolita. Ancora una volta contro una donna che infrange le regole dell’onore. S.M.

Era una scena molto dura rispetto al registro giocoso del film. Le regole dell’onore del Sud sono una fonte quasi banale di riso. La verginità è un valore intangibile, come le corna, e i meridionali reagivano allo scempio con violenza. L’uso sconsiderato, esasperato fino all’irrealtà della violenza è un elemento comico. M.M.

Sempre dalla Sicilia, e sempre da una citazione di Sedotta e abbandonata (1963) di Germi, prende le mosse La ragazza con la pistola S.M.

(1968). A dispetto del grande successo del tempo, la candidatura all’Oscar, l’esplosione della Vitti mattatrice comica, è un film dimenticato.

Monicelli si riposa sulla jeep del seduttore Mastroianni, qui con Marisa Mell, in Casanova ’70.

È un film datato: forse perché allora era un film moderno. Probabilmente una delle ragioni sta nella forza del personaggio femminile, che negli anni ha perso la carica anticonformista. Oggi risulta scontato il suo coraggio, la sua capacità di superare pregiudizi ancestrali e cambiare i valori di un Sud ancora arretrato. Mi piaceva molto questo contrasto tra una civiltà moderna, trasgressiva, alla moda, e una visione retrograda e maschilista. A Londra invece impazzavano le minigonne di Mary Quant e il femminismo, la musica rock era la colonna sonora della cosiddetta Swinging London. Per noi in Italia doveva cominciare tutto. M.M.

Una Londra filtrata da suggestioni antonioniane – con la fotografia patinata di Di Palma alla Blow-up (1966) – vista come una rassegna folcloristica di fenomeni moderni, opposta alla Sicilia caricaturale. S.M.

Contrariamente al mio modo di lavorare, la ricostruzione dell’Inghilterra di allora non era delle più attendibili. Io stesso ho imparato M.M.

a conoscerla mentre giravo. E il ricordo delle riprese è stupendo. Non solo a Londra, ma anche a Sheffield, Bath e in Scozia, a Edimburgo. Un’esperienza divertente, alla fine della quale avrei fatto un film diverso. Di Palma allora era il compagno della Vitti. Fece una fotografia molto colorata, molto pop, lucida come le riviste di moda, in stile con una Londra un po’ idealizzata, come la vedevamo noi italiani provinciali. Per la prima volta dai tempi di Totò e i re di Roma (1952), in un tuo film compaiono i sogni. S.M.

Più che sogni, proiezioni fantastiche. Facevano parte dell’ossessione vendicativa della Vitti. E avevano un’accentuazione caricaturale, frutto dell’atavico senso di colpa di una donna meridionale. In generale i sogni sono difficili da rappresentare, vengono quasi sempre artefatti, spesso annebbiati da quei fumi ridicolissimi. M.M.

Il femminismo della Ragazza con la pistola ha radici lontane. Tu covavi da tempo un soggetto in cui la donna mette in ridicolo gli uomini. Ho ritrovato fra le tue carte Il re del creato, un trattamento che hai scritto con Age e Scarpelli. In cerca dell’uomo da sposare, la protagonista passa da un uomo all’altro imbattendosi in tutte le tipologie maschili prima di arrendersi a uno qualsiasi. S.M.

Il soggetto era mio. Partiva dalla condizione di una ragazza normalissima che raggiungeva l’età in cui la società imponeva il matrimonio. Non esisteva un’alternativa dignitosa alla zitellaggine. Una vera e propria pressione sociale alla quale la protagonista reagiva con curiosità e sollecitudine. Li provava di tutti i generi, ma in un modo o nell’altro si rivelavano degli stronzi. Era una storia come piace a me, piena di personaggi e cambi di situazioni. Avrebbe dovuto interpretarla la Cardinale. M.M.

Dal femminismo alla femminilità da esportazione, La mortadella (1971) segna un passo falso nella commedia all’italiana. Questa volta cadi nell’errore di cercare una dimensione internazionale a un genere che trae energie dalla sua specificità nazionale. Lo spunto viene dal racconto La S.M.

pizza di Renato Spera. Potevi cavarne al massimo un episodio, come mai l’hai girato? Avevo un contratto con Ponti per un film con la Loren, e un contratto con Hecht per un film con Sordi su un soggetto strepitoso di Sonego, che poi sarebbe diventato Bello, onesto, emigrato Australia, sposerebbe compaesana illibata (1971) di Zampa. Io lo volevo fare a tutti i costi, ma Hecht e Ponti non si misero d’accordo, così mettemmo su la storiella della Mortadella. Mi sembrava una grande fesseria, ma c’era il contratto, Ponti si era esposto molto, non si poteva tornare indietro. Era pur sempre lavoro. Una volta lì, si è rivelato interessante affrontare una situazione nuova, tante cose da imparare, la troupe e il cast americani. Ci siamo capiti subito, nonostante il mio inglese balbettante. Nel cast c’era uno sconosciuto De Vito che parlava italiano. M.M.

S.M.

Emerge un’immagine piuttosto impietosa dell’America.

Ho voluto rappresentare un’America repellente. Di fascisti e ubriaconi. Molto rozza e violenta. Dopo il film sono rimasto a New York per qualche tempo. Avevo conosciuto una ragazza e andai a vivere con lei in una zona pericolosissima vicino a Needle Park. Siccome lei lavorava, io rimanevo da solo anche per una settimana di fila. Mi sono trovato benissimo. M.M.

La tua vena femminista ha trovato modo di esprimersi con più precisione in Romanzo popolare (1974), uno dei tuoi film più belli. S.M.

Ai tempi il femminismo fu poco notato, senza dare rilevanza alla scelta coraggiosa della Muti di lasciare sia il marito sia l’amante preferendo l’indipendenza, trovandosi un lavoro e crescendo il figlio da sola. M.M.

È un finale mesto. Velocissimo, con un cambio del punto di vista, fino a quel momento affidato alla moviola di Tognazzi, improvvisamente scisso nei tre brevi resoconti dei protagonisti della vicenda. S.M.

Bello. Secco e senza “aggettivi”. Con l’amarezza di Tognazzi come ultima immagine, lontano però dal sentimentalismo che odio tanto. M.M.

Di pari passo con l’assenza del lieto fine, un’altra caratteristica della commedia all’italiana sono le storie d’amore fallimentari. S.M.

Dimmi tu, cosa c’è di divertente nel matrimonio finale o nella ricongiunzione di una coppia che aveva litigato? In questo senso il finale di Renzo e Luciana è perfetto, con marito e moglie che non riescono mai a vedersi, condannati ad alternarsi al lavoro uno di notte e una di giorno. Nella mia carriera Romanzo popolare è l’unico film incentrato su una storia d’amore. Nella vita di ognuno di noi tutti i giorni succedono troppe cose perché si possa pensare solo all’amore. M.M.

Riprendendo il finale, si nota la cura nell’informarci dei lavori intrapresi dalla Muti: impiegata in un guantificio di Melegnano, poi in una fabbrica a Settimo Milanese, quindi caporeparto in una grande ditta di confezioni di cui non può fare il nome se no è pubblicità. S.M.

Lavorammo con la solita cura dei dettagli. Facemmo sopralluoghi nell’hinterland milanese. Visitammo parecchie case popolari, palazzoni in periferia. Entrammo in diversi appartamenti di operai per ricreare quelle ambientazioni squallide, asfittiche, con i muri in compensato che rendevano i vicini partecipi della vita domestica altrui. Era un periodo di manifestazioni sindacali, nel pieno della crisi petrolifera. Gli scontri in piazza erano all’ordine del giorno. Alcune immagini utilizzate del corteo che sfila sono di repertorio, a ribadire un rapporto saldissimo con la realtà circostante. La figura stessa del sindacalista era inedita nel panorama della commedia. Con quel dialetto che fondeva il gergo politichese, televisivo e sportivo grazie al lavoro eccezionale di Jannacci e Sandro Viola. M.M.

Viene sempre citato il linguaggio di Tognazzi, un capolavoro di contaminazioni. Il milanese di periferia che è moderno perché ormai vive negli anni settanta, con l’orecchio teso sul mondo: «Ohé Nixon. Giù le mani da Cuba!» tacita la moglie che si avventura sotto le coperte per eccitarlo. A rendere omaggio al titolo, c’è anche l’uso popolare dei rotocalchi rosa, dove arriva la loro singolare storia d’amore: «Battesimo e nozze con lo stesso uomo» si intitola l’articolo corredato di fotografie. S.M.

«Siamo moderni, siamo negli anni settanta» ripete di continuo Tognazzi, illudendosi di essersi lasciato alle spalle il retaggio del maschilismo. È esultante, è uno che ha tirato fuori il petto e sa il fatto suo. Ma quando la moglie gli rivela il tradimento, il problema delle corna riemerge di prepotenza e la storia si ripete. M.M.

C’è anche un’imitazione un po’ goffa del melodramma, con la Muti che tenta il suicidio. Ma il tono dominante del film è dato dalla deformazione della faccia sconvolta di Tognazzi. La deformazione, l’eccesso, l’esasperazione riempiono le storie, i volti, le parole di presagi mostruosi… la commedia sta subendo una metamorfosi fisica. S.M.

Il tentato suicidio è una trovata a effetto, frutto del sentimentalismo da rotocalco di cui erano piene le teste di quel tipo di donna. In quanto alla progressiva deformazione grottesca, forse è dovuta a questo continuo rincorrere la realtà, esasperarla in una rappresentazione sempre più caricata, con una vitalità che cresce con gli anni perché indotta dal terrore di morire. Il Basletti di Tognazzi concentra in sé tutta questa morbosità verso la vita, il bisogno di rimanerci dentro senza farsi scalzare dal tempo, da un uomo più giovane, da una modernità che conosce solo a parole. Metamorfosi non so: però la commedia sta cambiando, noi stiamo cambiando. Un borghese piccolo piccolo sarà un ulteriore passo verso l’assurdo, in cui il grottesco coincide con la disperazione e la solitudine. Anche Il male oscuro (1990) si può leggere in questa chiave. Per liberarsi dalle nevrosi e ritrovare la serenità, Giannini sarà condannato alla solitudine. M.M.

Non solo dai giornali scandalistici, l’immaginario di massa è nutrito anche dalle canzonette: «Sono una donna, non sono una santa» echeggia dalla radio la voce di Rosanna Fratello mentre la Muti consuma il tradimento. S.M.

Sono ricorso fin troppo alle canzonette. Sono una caratteristica portante della commedia all’italiana, il segno più riconoscibile e più effimero dei tempi. Io non le ho mai amate, pur rendendomi conto della loro forza evocativa, dell’immediatezza con cui identificano un’epoca. M.M.

Ogni tanto si colgono dei rimandi interni nei tuoi film, come la riproposizione del nome di Pautasso, il Folco Lulli dei Compagni (1963). S.M.

L’hai detto tu, è un divertimento. Odio al contrario quei cinefili fanatici che rintracciano citazioni nascoste e significati incomprensibili. I cinefili sono la rovina del cinema. Purtroppo noto che i nuovi registi hanno un po’ la tendenza a parlare sempre di cinema, anche quando non lavorano. La loro formazione è soltanto cinematografica: misurano la realtà attraverso il cinema. Io mi ricordo le discussioni di politica con Age, Scarpelli, Comencini, De Concini. Ci infervoravamo. E ci credevamo. M.M.

Compaiono qua e là riferimenti alla dissennatezza dei lavori pubblici e alle calamità naturali. L’inutile bretella che congiunge due paesi sperduti del Sud. La tragedia dell’ennesimo terremoto. In uno precedente zì Pasquale «morì di voragine nel novembre scorso». S.M.

A riguardare certi nostri film si potrebbe davvero ricostruire da tutti questi piccoli spunti la storia dell’Italia. L’insensatezza della politica, con cui sono stati buttati via miliardi per molti lavori pubblici, ha rovinato la maggior parte dei paesaggi italiani. Grazie a questo terremoto ho girato uno dei funerali più belli della mia carriera. Con le bare che sbucano dai vicoli per incolonnarsi in fila indiana. M.M.

Finalmente ci siamo arrivati: tu sei un maestro dei funerali. Da quello metafisico di Totò in Totò e i re di Roma a quello parodistico di Panni sporchi (1999), il tuo cinema è pieno di cadaveri, veglie, bare, cortei funebri, cimiteri. Sarebbe divertente montarli uno dietro l’altro per vedere l’effetto che fa. S.M.

La morte è fonte sublime di comicità. Innesca dinamiche familiari e personali che possono prendere qualsiasi direzione. Sfuggendo alle logiche della normalità. Rovesciando rapporti ed equilibri. Suscitando clamorose rivelazioni. Aprendo il campo a soluzioni di humor nero dalle sfumature grottesche o farsesche o persino blasfeme. La presenza stessa della morte, con l’obbligo sociale del cordoglio, genera le reazioni più impensate. Il riso assume talvolta forme isteriche, liberatorie, difensive. Accompagnato a rivalse, improvvise confessioni, liti furibonde. M.M.

Il “funeralicchio” di Totò, che per risparmiare guida il corteo funebre a piedi, è stato forse la mia unica vera concessione al suo surrealismo. È anche stato il mio primo funerale, anzi il secondo, perché in Totò e i re di Roma ce n’era un altro, rielaborato in chiave più grottesca nel funerale di Viaggio con Anita, a sua volta ripreso in Panni sporchi. Il rapporto con la morte rientra nella tradizione della commedia dell’arte, nel teatro dei pupi e dei burattini, nei quali era sempre previsto l’intervento della morte. Quando arriva, Pulcinella comincia a tremare, pieno di paura dà vita a una scena farsesca oppure si mette a bastonare il diavolo. La risata in questo caso diventa esorcizzante. Esorcizzante, certo, come la risata di commiato al Perozzi in Amici miei (1975). Dove l’immaturità impedisce ai protagonisti di prendere sul serio la morte di un loro compagno di scherzi: «Ma che. È morto sul serio?» si domanda il Mascetti. Un’immaturità che di volta in volta ha assunto le sembianze dello sberleffo, dell’incoscienza, del vitalismo spropositato. Tutte accomunate dal rifiuto del dolore. Le uniche morti strazianti che mi vengono in mente sono quelle di Pautasso e di Omero nei Compagni e in parte di Crocitti nel Borghese. Ma solo in Viaggio con Anita ci metti di fronte alla fisicità della morte. Succede quando Giannini arriva nella stanza del padre morto, mentre i fratelli stanno preparando il cadavere. C’è la freddezza dei dettagli, la praticità degli atti legati al corpo che spazza via ogni dolore. La vestizione della salma è freddissima: la semplicità con cui Montagnani dice ai fratelli di tappare i buchi del padre se no cola giù tutto. Però, ripeto, non c’è dolore. Nei tuoi film non si piange quasi, anzi, è come se ti rifiutassi di far commuovere… Si vede che hai paura di prendere la morte sul serio. S.M.

Forse, ma è inconscio: perché non sono ancora morto! Fino a qualche anno fa andavo ai funerali di amici con uno spirito allegro, perché dovrebbero essere feste in cui ricordare una persona scherzando, come si è fatto per tutta la vita. Oggi è diverso. Tanti amici sono morti. Preferisco proprio non andarci, ai funerali. La morte di Oreste è una scena drammatica, una morte vera che commuove lo spettatore. Quella di Pautasso è più scontata, ma è molto bella la scena della veglia: la gente venuta a piangere il morto mentre si continua M.M.

a discutere dell’andamento dello sciopero. Non so invece se la morte di Crocitti abbia lo stesso effetto: lì si tratta più di stupore, e più avanti forse di indignazione da parte del pubblico. La scena di Viaggio con Anita è scritta con estrema durezza. Si avverte la realtà della morte con tutta la sua sgradevolezza, che diventa addirittura repulsiva. Nella morte in sé non c’è comprensione, non c’è più un essere ma un pezzo di carne morto che non ha più alcun valore. Non c’è spirito, non è più niente. E ho insistito appositamente, forse in maniera eccessiva. Allo stesso modo il pianto: è un atteggiamento smodato di esprimersi. Mi infastidisce nella vita, non vedo perché dovrei metterlo nei miei film. Una delle poche persone che ho fatto piangere sullo schermo è stata la Lollobrigida nelle Infedeli (1953), con effetti melodrammatici. Preferisco portare a commuovere lo spettatore alla fine di una scena toccante, senza l’artificio del dolore messo in mostra. Anche l’atto della morte spesso si manifesta in maniera comica. La scena della morte di Carotenuto nei Soliti ignoti è ridicola nella sua penosa conclusione. In Speriamo che sia femmina (1986) Noiret muore cadendo con la macchina da un dirupo per aver ascoltato le indicazioni di un vecchio rincoglionito. Parenti serpenti (1992) culmina con l’esplosione della stufa architettata dai familiari che vogliono liberarsi della zavorra di due vecchi. S.M.

La morte è comica. Non ha quasi mai nulla di eroico. E quando lo sembra, spesso si rivela un equivoco, come in fondo era la fucilazione di Gassman e Sordi nella Grande guerra. Anzi, il più delle volte la morte ti coglie sempre nel momento meno opportuno. Dalla veglia funebre al funerale, con tutto quello che può accadere durante l’interramento, la morte fornisce materia comica straordinaria. M.M.

Al contrario, i matrimoni male si accordano con la tua comicità. A meno che non siano particolari, come quello clandestino di Renzo e Luciana, quello che si trasforma in una finta fucilazione di Cari fottutissimi amici, quello boicottato da Totò in Totò cerca casa, o quello che finisce in una tremenda gazzarra in Panni sporchi. S.M.

Di matrimoni ne ho girati pochi, anche perché mi vengono male. Dev’essere un disagio istintivo. René Clair era uno che li sapeva girare M.M.

benissimo. Sono sempre stato invidioso della grazia con cui metteva in scena cerimonie pompose: il suo stile impeccabile, capace di irridere con finezza. Con una delicatezza molto poco italiana. Io invece sono brutale. Non che il matrimonio manchi di spunti divertenti, ma si esauriscono con uno dei due che alla fine cambia idea. È scontato. Invece un funerale, ragazzi, è meraviglioso! La morte della commedia all’italiana si consuma nel corso degli anni settanta. Cominciano a invecchiare i suoi autori, diventa sempre più difficile raccontare l’Italia della contestazione studentesca e poi del terrorismo. In più non va trascurata l’avanzata della televisione e il cambiamento del pubblico che diventa sempre più giovane. La visione prevalente identifica la fine del genere nella consapevolezza matura di Scola, ormai in fase di bilanci. Con La terrazza (1980), che ha tutti i caratteri della fine di un’epoca, si chiude un ciclo di cui già si era celebrato il fallimento in C’eravamo tanto amati (1974). Ma credo di trovarti d’accordo se attribuisco a questi due film – scritti tra l’altro anche da Age e Scarpelli – un’ispirazione troppo pensata, e in fondo già oltre l’immediatezza della commedia all’italiana. Anzi, a pensarci bene tutto il cinema di Scola sembra procedere verso uno smascheramento della commedia all’italiana… S.M.

Ormai nel ’77 stavamo invecchiando tutti, è vero, però lavoravamo ancora a pieno ritmo. Il problema riguardò la commedia ma anche il cinema italiano in generale, che rappresentava il proprio tempo. Già il Sessantotto fu un primo impiccio. Era difficile sfuggire a schematizzazioni o a schieramenti ideologici. In particolar modo gli autori seri si staccarono difficilmente da questi cliché. Il terrorismo invece segnò proprio una cesura. Non sapevamo come raccontarlo. E cosa raccontare. Ci mancava del tutto il rapporto con questi ragazzi e la loro realtà. Quelli della mia generazione sono sempre stati attivi. Io vado ai cortei ancora oggi, figuriamoci. Ma di loro non sapevamo niente. Chi erano, cosa pensavano, come parlavano. La realtà è che ci siamo rifiutati. La commedia all’italiana ha dato il suo meglio quando la trattavano come spazzatura. Si raccontava una storia e basta. Poi i critici hanno cominciato a costruirci sopra delle teorie, a scoprire significati, e allora molti hanno M.M.

cercato di intellettualizzare la commedia, di elevare la comicità, che è una contraddizione in sé. Non amo particolarmente La terrazza e C’eravamo tanto amati. Preferisco lo Scola precedente, sia come sceneggiatore sia come regista. Anche se per me il suo film migliore rimane Il viaggio di Capitan Fracassa (1990). Però, io non parlerei di morte della commedia all’italiana. Morte in un senso molto preciso. Si è spezzato il legame con la realtà alla base della vostra spinta creativa. Non sei stato tu a dire che con Un borghese piccolo piccolo è stata messa «la pietra tombale della commedia all’italiana»? S.M.

No, è una frase che mi hanno attribuito perché non vedevano l’ora di farla finita con noi. È una sentenza troppo altisonante che non mi appartiene. Ma Un borghese piccolo piccolo è ancora a tutti gli effetti una commedia all’italiana. Ineluttabilmente, con il passare degli anni è mutato il tono delle storie. L’equilibrio tra l’aspetto ridicolo e quello drammatico si è spostato sul secondo, fino a divenire dominante. L’incombenza della morte rende più brutale il modo di far ridere. Emerge una nuova ferocia, che a tratti schiaccia il ridicolo: tutto sta diventando così serio e definitivo. Ma non ci è passata la voglia di ridere. M.M.

Che tu lo voglia o no, Un borghese piccolo piccolo segna un punto di non ritorno della tua commedia, che d’ora in avanti faticherà a sintonizzarsi con la realtà circostante, perderà i suoi protagonisti, non saprà più raccogliere gli umori del tempo. S.M.

Io ho continuato a cercare di raccontare la realtà come sempre. Gli sceneggiatori sono rimasti gli stessi. È capitato più spesso di non imbroccare film, di non cogliere nel segno il bersaglio, a volte di sbagliarlo proprio o di girare un film per strane congiunture sapendo in partenza che sarebbe venuto male. Al contrario, Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno (1984) mi sembrava un’idea geniale e ne è venuto fuori un risultato disastroso. Non sempre tutto funziona a dovere. Talvolta non ho trovato il tono giusto, ho ripetuto formule vincenti in un contesto meno azzeccato. M.M.

Pur imboccando una china crepuscolare, Amici miei inonda la commedia all’italiana di una sfrenatezza catacombale cieca all’avanzare della vecchiaia, impreparata davanti alla morte. È difficile non accostarlo a un film di un regista sempre un po’ a latere rispetto alla commedia classica eppure imprescindibile in una foto di gruppo dell’epoca: Marco Ferreri. Con La grande abbuffata (1973) anticipa questo sentore di morte. Ci mostra la dissoluzione della carne in un’ultima risata senza via di scampo. S.M.

Lo spirito dei due film è molto simile. A Cannes La grande abbuffata ebbe un’accoglienza tremenda da parte dei francesi. Si sentivano offesi. A un certo punto la loro stronzaggine viene fuori immancabilmente, non c’è niente da fare! La diversa chiave dei due film stava forse nella goliardia del mio, che non a caso è diventato il film di maggior successo del cinema italiano. La trovata di trasformare in eterni adolescenti dei professionisti affermati portava alle estreme conseguenze l’immaturità di tutti i protagonisti della commedia. M.M.

I tuoi personaggi esorcizzano la vecchiaia in tutti i modi e alla malattia riservi sempre un ruolo marginale. In Amici miei c’è una lunga sequenza in ospedale che è tutta una finzione. Alla fine di Amici miei – Atto ii (1982) Tognazzi rimane paralizzato in carrozzella, ma subito dopo lo mandi alle gare per handicappati. Nel Borghese la paralisi seria colpisce la Winters – che però è una donna. E non a caso di lei non si ride. Il rincoglionimento di Blier in Speriamo che sia femmina è ritratto con affetto, come il simpatico Panelli di Parenti serpenti. Ma il malato più divertente rimane quello immaginario nel Male oscuro. Una coincidenza? S.M.

No, tutt’altro. Anche se l’ipocondria può diventare più grave della malattia. E più divertente. La nevrosi ispira una serie di situazioni al limite della farsa. La malattia l’ho sempre affrontata indirettamente. Quando è capitato l’ho vista nel suo aspetto ridicolo. Perlomeno agli occhi dei sani. Dipenderà dal fatto che la malattia è una condizione che per fortuna non conosco. Ci ho pensato delle volte, a fare un film sui vecchi. Ma cosa potrei dire? Non conosco i problemi della vecchiaia. Non avere amici? Non scopare? Non lo so, francamente. Per scrivere la scena di Tognazzi in carrozzella mi sono rifatto a un nostro amico che era stato colto da emiparesi. Dalla cura con cui la Vukotic lo M.M.

accudisce traspare addirittura una dedizione affettuosa. Di meglio non mi è venuto. Tu e molti grandi della commedia, a esclusione di Comencini, appartenete a una generazione senza alcun rapporto con i propri figli. In Amici miei Noiret pronuncia quasi un proclama: «Quando sento parlare di carne della mia carne, divento subito vegetariano». Il rapporto tra padri e figli viene addirittura invertito. In fondo, cinematograficamente, siete una generazione senza padri. Pur avendo avuto maestri – tu, poi, ne hai avuti anche di cattivi – la guerra ha costituito un taglio netto col passato da cui siete usciti con la libertà di inventare il vostro cinema. Ed eredi diretti non ne avete lasciati. Allora mi sembra ancora più significativo che proprio nel Borghese questa condizione si rovesci. Sordi vive solo per la felicità del figlio adorato. Ma viene ucciso brutalmente. E con pratico cinismo qualcuno nota che ha sbagliato a non farne un secondo di riserva. Forse la commedia all’italiana si è fermata davanti ai propri figli che non ha voluto raccontare. S.M.

A un certo punto di Temporale Rosy (1980), non mi ricordo più chi incita una collega a picchiare più duro: «Ricorda che l’avversario potrebbe essere tuo figlio. Perciò picchialo senza pietà!». Più chiaro di così. Gran parte di noi ha avuto figli, ma non tutti li hanno seguiti, a cominciare da me che mi sono occupato pochissimo delle mie tre figlie. In molti abbiamo avuto un ruolo marginale come padri. Tenendo presente che al cinema si esaspera tutto, dalle frasi che abbiamo citato si respira addirittura un’avversione per i figli; nella realtà forse c’è una difficoltà di comunicazione. E di comprensione, che genera diffidenza. Come autori non abbiamo avuto eredi diretti, nel senso che hanno imparato da noi per seguire poi la propria strada. Manca la continuità con le generazioni che ci hanno seguito. Noi abbiamo raccontato la nostra generazione, un po’ più giovane per la verità perché Tognazzi era del ’21, Gassman e Sordi erano del ’22, Mastroianni del ’24. Ma a un certo punto, invecchiati tutti insieme, forse – forse – è vero che ci siamo fermati davanti a una generazione che non conoscevamo così bene. M.M.

Questo film ti è costato una fama di misogino che ti sei scrollato di dosso – e non del tutto – solo con Speriamo che sia femmina. S.M.

Ma il film è misogino! Come in fondo è misogina l’amicizia virile forte, che nasconde sempre una componente omosessuale. Nella scena degli schiaffi in stazione, Moschin lo dice espressamente: «Ma perché non siamo nati tutti finocchi!». Allo stesso tempo sono gli uomini a uscire bistrattati dal film. Insomma, sono un manipolo di cretini o no? M.M.

A questo punto è inevitabile parlare di Germi, che malatissimo ti affidò il film. Molto rispettosamente, nei titoli di testa compare la dicitura «Un film di Pietro Germi». S.M.

Germi è stato un mio grandissimo amico. Era una persona chiusa, intrattabile. Era arrivato da Genova povero, senza aver completato gli studi. Suo padre faceva il nodaio. Frequentava tre o quattro persone al massimo. Di grande talento, simpatico, ma pieno di complessi. Venne estromesso dalla cultura ufficiale di sinistra per le sue simpatie socialdemocratiche. Non ho mai capito perché fosse socialdemocratico, né per quale ragione venisse considerata una cosa tanto esecrabile. Una volta, insieme a lui, Fellini e un altro che non ricordo più ci incontrammo da Rosati. Ci aveva convocati Bini, con cui qualche anno dopo mi imbarcai nel mezzo fallimento di Film Cinque. L’idea era la stessa, mettere insieme le nostre forze per creare una società di produzione. Fellini fu subito d’accordo. E così io, che buttai lì a Germi, scherzando: «Però piantala di fare quei film terrificanti che ci mandano in fallimento». Con Raf Vallone inquadrato dal basso, le donne vestite di nero. Uno strazio. E lui a sua volta, un po’ piccato: «E tu smettila di fare quelle stronzate con Totò». Da scherzoso, il tono divenne sempre più concitato finché ci ritrovammo nel mezzo di una lite selvaggia. Insulti, urla: ci mandammo affanculo. Lui si allontanò verso la porta di piazza del Popolo continuando a insultare, facendo gestacci. Poi naturalmente facemmo pace. M.M.

Il celebre scherzo degli schiaffi alla stazione in Amici miei: da sinistra, Noiret, Tognazzi, Gastone Moschin e Celi.

Accettai di dirigere Amici miei quando capii che non ce la faceva proprio. Diversamente da come andò con Signore e signori (1965). Anche allora mi chiese di prendere in mano il film. Gli era appena morta la moglie, non se la sentiva. Figurati io. Mi rifiutai categoricamente di sostituirlo. Gli dissi un po’ brutalmente – molti dicono che sono cinico: «Ma cosa vuoi che sia una moglie morta? Un mese e il dolore passa. Questo film è tuo e lo devi girare tu!». Infatti lo girò e ne fece un grandissimo film. Questa volta invece era chiaro che non avrebbe più lavorato. Anche se seguì tutta la preparazione, che svolgemmo a Bologna, dove era ambientata la sua sceneggiatura. Quando De Bernardi, Benvenuti e io proponemmo di trasferire la storia a Firenze, non solo perché eravamo tutti e tre toscani, ma perché gran parte delle storie o leggende che erano finite nella sceneggiatura provenivano dalla Toscana, lui approvò senza riserve. Non fu in grado di seguirci nei sopralluoghi ma fu presente a tutti i provini. Partecipò alla scelta degli attori. Insisteva perché prendessi Saro Urzì. L’aveva utilizzato alla grande in Sedotta e abbandonata. Ma io non ne ero convinto affatto. Comunque, fu una presenza importante durante la fase di preparazione. Quando partimmo

per Firenze, dove iniziammo le riprese, e rimase solo, resistette un solo giorno. Poi morì. È il primo film comico recitato (o doppiato) in toscano. Un dialetto che aveva fatto una breve comparsa in Vita da cani. Mi pare che lo parlasse un attrezzista del teatro: una battuta soltanto. S.M.

Prima di tutto c’è Firenze, che gioca un ruolo decisivo nel film. Una Firenze poco turistica, fotografata quasi di grigio da Luigi Kuveiller, un direttore delle luci con cui mi ero trovato benissimo in Romanzo popolare per questa sua capacità di mettere in evidenza i toni cupi, al limite dello squallore, di ricreare una luce naturale, “rubata”, come piace a me. Fino ad allora il toscano era ritenuto un dialetto tutt’altro che comico. L’aveva utilizzato con scarso successo Castellani in uno dei suoi ultimi film. Di fatto dopo Amici miei vennero fuori i Giancattivi e Nuti, Benigni, Benvenuti e poi più avanti Pieraccioni – che molto astutamente mi fece fare la voce del vecchio nel Ciclone (1996) –, Ceccherini, Panariello e Storti. Adesso non se ne può più, sembra che bisogna essere toscani per far ridere! M.M.

Nelle “zingarate” dei cinque amici si rivelano gli umori più profondi del film. Dietro una parvenza romanticheggiante, si insinuano con forza crescente una nostalgia intinta di amarezza, una melanconia che ha diluito la rabbia in rimpianti e rivalse crudeli. Umori da attribuire più a Germi che a te. Tanto è vero che nel seguito sono stati stemperati in una giovialità più spinta. S.M.

Io ero contrario al termine “zingarate”. Mi suonava troppo romantico, ma anche un po’ scemo. Invece il tono di fondo del film è proprio disperato. Nel senso che l’infantilismo dei protagonisti è una via senza uscita verso la morte. E loro ne hanno la consapevolezza. Le corde della nostalgia fanno parte dei personaggi. Pur essendo lontana dalla mia natura, credo di averli assecondati bene in questa amarezza che affiora nonostante la continua fuga nello scherzo. Nel seguito ho dato maggior risalto all’aspetto vitalistico, senza però dimenticare la componente nostalgica. M.M.

Tu non sei accreditato come sceneggiatore del film. Ma mi pare di capire che prendesti parte a quasi tutte le scelte. S.M.

Sì, sì, fui a tutti gli effetti uno degli sceneggiatori. Benché quando arrivai io la struttura della sceneggiatura fosse già delineata. M.M.

Anche voi padri nobili della commedia, per non cadere nell’anacronismo, vi siete adeguati alla virata del linguaggio cinematografico verso il turpiloquio. La comicità assume una piega greve: certo, “coperta” dal toscano, ma di volgarità smaccata. S.M.

La beffa è sempre volgare. Pensa a Buffalmacco nel Decamerone, o alla volgarità della Mandragola. Il toscano è volgare. Più precisamente, becero: un aggettivo non a caso toscano. Era impensabile una commedia priva di parolacce, ormai entrate nel linguaggio comune. Far parlare la gente in maniera fasulla avrebbe significato spuntare la forza stessa della commedia, che nasce dal basso e respira la realtà che la circonda. La volgarità è voluta. Diventa l’elemento intorno al quale si consolida l’amicizia dei protagonisti, che stabiliscono tra di loro una ritualità cameratesca, basata su una goliardia senza freni. C’è proprio una rincorsa alla volgarità, una competizione che poi si rivela un modo inconfessato di fregare il tempo. M.M.

Le vicende del film si rifanno a storie reali, i personaggi si ispirano ad amici tuoi e degli sceneggiatori. S.M.

Molte vicende si rifacevano a una serie di leggende che circolavano per Firenze. Quel giochetto della “supercazzola” di parlare senza farsi capire, era un’abitudine toscana. L’architetto, il medico, il conte erano persone reali. Avevano qualche anno più di noi e ci hanno seguiti durante le riprese. Raffaello Pacini, il conte Raffaello Mascetti del film, era un narratore eccezionale. Suo padre era un grande produttore di vini. Nel ’21 aveva ereditato un miliardo e mezzo di lire, una cifra stratosferica per quegli anni, che si bruciò a causa di una megalomania senza freni. Alla fine la moglie e la figlia si ritrovarono davvero senza scarpe nel paese che un tempo era stato posseduto da Pacini. Era pieno di manie e passioni costosissime. Era convinto di essere un buon baritono, spendeva milioni per mettere su delle opere in teatri anche importanti, come La Pergola a Firenze. Ma non ci andava nessuno. Quando arrivava in teatro, c’erano cinque, sei persone, naturalmente invitate, allora M.M.

lui restituiva il denaro a chi aveva pagato e metteva in scena l’opera nella sala vuota. Era completamente matto. In più era generosissimo, pagava cene, portava gli amici ovunque a sue spese. Aveva fatto davvero un viaggio di nozze di due anni in giro per il mondo, mangiandosi anche il patrimonio della moglie. Ma non teneva un orso al guinzaglio, credo… Lo scherzo entrato nel mito, quello degli schiaffi alla stazione, è invece pura invenzione. Perché irrealizzabile, purtroppo. Hai dovuto addirittura far modificare i finestrini. S.M.

E quasi non bastava. I passeggeri dovevano sporgersi per ricevere bene le sberle in faccia. È uno scherzo inventato, molti altri erano veri. Ne avevamo così tanti che alla fine rinunciammo a parecchi in montaggio. Il gran successo del film ci indusse a rimontare una versione più lunga con venti minuti in più. Ma il risultato è più o meno lo stesso. M.M.

Amici miei – Atto ii (1982) è un seguito obbligato. Rispetto ai quattro anni tra un Brancaleone (1966) e l’altro, qui tieni duro per sette. E ti ritrovi in mano una storia che deve fare i conti con un personaggio chiave morto, un inconveniente a cui rimedi con una serie di flashback che però ti portano a più di un errore cronologico, facendo comparire il Sassaroli ben prima di quando ha conosciuto gli altri amici nel primo film. S.M.

Non potevamo rinunciare al personaggio di Noiret. Tutto sommato l’errore cronologico della presenza impropria di Celi non è avvertito. Il vero problema che mi sono posto riguardava il senso nuovo da dare a una storia che sarebbe stata molto simile. Allora scelsi di calcare la mano sui personaggi, esasperando la ferocia dei loro rapporti: alzando la posta in gioco. Aumenta la crudeltà, e la nostalgia volge in spietatezza. M.M.

Oltre alla sostituzione di Del Prete con Montagnani, ampliate il bar Necchi ricavando la sala da biliardo e il ristorante. In una scena Firenze viene addirittura trasferita a Pistoia, e in un’altra in Abruzzo. Il film si apre con le immagini dell’alluvione di Firenze del 1966. Come insegna la regola della commedia all’italiana, la risata erompe da situazioni drammatiche. S.M.

Sì, una regola infallibile. Che funzionò nonostante le perplessità del produttore, che riteneva inconcepibile che si ridesse di quella tragedia. M.M.

Mettemmo un’inserzione sul giornale per reperire immagini dell’alluvione. Ricevemmo diverse riprese amatoriali in 16 mm, spesso confuse. Allora non esistevano ancora le videocamere e la gente non aveva questa smania di filmare tutto. Riuscimmo a montare le poche immagini passabili, che mostrano il fiume che straripa, piazza Santa Croce, il Ponte Vecchio. C’è un’altra teoria sulla morte della commedia all’italiana. Di uno dei tuoi sceneggiatori più fedeli, Leo Benvenuti, secondo cui «ottemperato all’obbligo politico di svecchiare il paese e di portare le sinistre molto avanti, caduto Fanfani, è finita la commedia all’italiana». In realtà la politica non è stata un vostro obiettivo dichiarato. S.M.

Magari avessimo avuto questo peso politico… La maggior parte degli autori della commedia all’italiana veniva dai giornali umoristici, che uscivano regolarmente in pieno fascismo. Allora era vietato fare satira politica, così loro presero una via surreale che pur non riferendosi direttamente alla realtà riusciva comunque a far ridere su alcune storture di quel tempo. La politica è stata un argomento marginale della commedia. Non era un obiettivo. Anche perché gli italiani sono un popolo di ignoranti, almeno nella maggioranza. La politica invece ha delle regole e non se ne può ridere senza conoscerle. E poi ha il limite dei riferimenti alle persone, ai dati, ai fatti, che appesantiscono un film e condizionano gli sceneggiatori: basta un errore per falsificare tutto. Come persone invece la politica ci ha sempre appassionato. È stata fonte di grandi discussioni e risate. Ci divertivamo a prendere in giro le campagne dei forchettoni, la Dc e il Pci. M.M.

Mentre la censura può essere di stimolo alla fantasia, la mancanza di freni richiede un senso della misura non sempre facile da mantenere. Mi viene in mente Camera d’albergo, un tentativo maldestro di rivitalizzare la commedia all’italiana, rimestando nella lezione zavattiniana di entrare segretamente nella vita di persone vere. Un’idea su cui si fonda oggi la maggior parte delle trasmissioni televisive. S.M.

Zavattini era fissato con la verità colta senza mediazione nella sua naturalezza: il pedinamento, lo chiamava. Le riprese che dovevano sembrare rubate nella camera d’albergo prevedevano al contrario la manipolazione e il controllo da parte nostra, anche se avremmo voluto M.M.

utilizzare tutti volti sconosciuti. Siccome fummo costretti a inserire attori noti per vendere il film, la scommessa si rivelò perdente fin dall’inizio. Camera d’albergo nasce da una vecchia idea di Soldati da cui Age e Scarpelli avevano scritto una sceneggiatura che risale almeno agli anni cinquanta. Avrebbe avuto tutt’altro impatto allora. Ben prima della trasmissione televisiva di Loy con la candid camera, Lo specchio segreto, introduceva l’idea di spiare la gente. Qui, caso rarissimo, il nudo ha una certa dose di sguaiatezza. Nel tuo cinema i nudi integrali sono circoscrivibili tra la metà degli anni settanta – la Titti di Amici miei e Aurore Clément in Caro Michele – e la metà degli anni ottanta – ben due volte Caroline Berg, nel Marchese del Grillo e in Mattia Pascal. S.M.

In Camera d’albergo il nudo era in un certo senso una necessità. L’idea delle telecamere nascoste presupponeva l’assoluta mancanza di censura per ottenere il maggior realismo possibile. In generale, girando pochissime scene di sesso, ho mostrato pochissimi nudi, anche perché fino agli anni settanta erano comunque improponibili. La sola eccezione è costituita da Titti, che viene beccata a letto con un’altra donna dal povero Tognazzi. Gli altri nudi sono legati a momenti meno forti. In tutte e due le volte di Caroline Berg, i giochi sono già stati consumati. Aurore Clément viene quasi sorpresa nuda mentre fa la doccia. M.M.

La Vitti e Montesano sono una coppia di amanti poco credibili, l’unica vera curiosità del film è l’interpretazione del marito cornuto Nestor Garay. Greve al limite della sopportabilità è il Mengaroni di Gassman, un vecchio trombone che si lascia andare a stoccatine un po’ risapute sul cinema italiano. S.M.

Le sentenze sul cinema italiano, di cui si riempie la bocca il Mengaroni di Gassman, sono vere fesserie. L’accoppiata Vitti-Montesano era una forzatura palese, la storia tra l’altro prendeva una direzione implausibile, anche se Garay era perfetto come marito cornuto “volenteroso”. Lui è argentino, se non sbaglio, faceva parte della schiera di questuanti che spiavano il nostro tavolone dai tavolini di Otello. Qualche anno dopo fece M.M.

un Malagna spietato nelle Due vite di Mattia Pascal (1985) e più avanti il padre di Giannini nel Male oscuro. La tua posizione all’interno della commedia all’italiana è decisiva quando si tratta di aprire strade nuove, ma è sempre un po’ defilata rispetto alle tematiche più classiche del genere: la spiaggia, un topos fondamentale, è del tutto assente, come gli arrivisti, gli arrampicatori sociali e i gaudenti del benessere, perché il consumismo è sbirciato dalla parte dei poveracci. Diciamolo, sei un padre infedele della commedia all’italiana. S.M.

La verità è che io ho quasi sempre messo in scena le storie che mi piacevano. Ripercorrendole, si può tentare di individuare alcune caratteristiche ricorrenti, dalle quali emerge la mia voglia continua di tentare nuove strade rivolgendo lo sguardo sull’inadeguatezza dei miei personaggi rispetto alle loro aspettative. Loro, però, difficilmente sono cattivi: il cattivo sono io che li metto in condizione di fallire. Gli arrivisti dei film di Risi o l’Alberto Sordi del Boom (1963) sono cinici, prevaricatori mossi da un’arroganza che non si ritrova nei miei bonaccioni. Mi accorgo di aver sempre voluto contraddire il mio film precedente, di aver cercato una prospettiva leggermente diversa anche nelle storie già note, sfuggendo alla logica della serialità e stando lontano il più possibile dai luoghi comuni “vincenti” come la spiaggia, per inventare sempre qualcosa di nuovo: convinto che si possa trasformare tutto in commedia. M.M.

Caffè, coppie e ammucchiate

Al caffè, in coppia, in ammucchiata, in una fumosa stanza d’albergo. Discutendo, ridendo, cazzeggiando – come si direbbe oggi. Le sedute degli sceneggiatori nei primi anni del dopoguerra sono un’officina di storie, di una comunità di affabulatori, per certi versi simile alle botteghe dei pittori tra Due e Cinquecento. S.M.

Lo spirito, l’entusiasmo di condividere un lavoro ma anche relazioni, la solidarietà, lo scambio continuo di lavori somigliano molto al rapporto che avevano i musicisti dell’opera buffa alla fine del Settecento: Rossini, Paisiello, Galluppi, Cimarosa fanno parte di un’epoca che io adoro, spazzata via dalle sviolinate del Romanticismo. La nostra era una concezione del cinema poco “autoriale” e molto “di gruppo”. Nel dopoguerra non c’era riscaldamento nelle case, e noi ci ritrovavamo nei caffè: Rampoldi, Rosati, Greco, Aragno, Bebington, Ruschena. Entrando in un locale capitava di vedere un gruppo di persone che scriveva una commedia a un tavolo, e un altro gruppo che discuteva di un melodramma due tavoli più in là. Se uno dei nostri amici passava di lì, si sedeva al tavolo con noi, magari tirava fuori una o due battute, e poi figurava nei titoli come sceneggiatore. A me e Steno successe per Riso amaro (1948). Ci chiamarono per ravvivare la storia con qualcosa di divertente, ma di quel poco che suggerimmo non è rimasto niente nel film, invece i nostri nomi sì. Un altro ritrovo sempre affollatissimo era la stanza d’albergo di Marchesi al Moderno, tra la galleria e il Quirino. Lui viveva a Milano con una ragazza che soprannominava Aloa, spacciandola per una caraibica solo perché aveva la carnagione olivastra. Quando arrivava a Roma, chiamava le adunate insieme a Metz per scrivere in pochi giorni un film di Totò. Una volta eravamo in quindici per una sceneggiatura. Ognuno ci metteva del suo, si montavano insieme i pezzi e si faceva finire tutto con una gran fuga M.M.

di Totò. Metz e Marchesi erano rapidissimi. Insieme a loro lavorai per Accidenti alla guerra!… (1948) di Simonelli, Fifa e arena (1948) di Mattoli, Botta e risposta (1950) di Soldati, L’inafferrabile 12 (1950) di Mattoli, Le sei mogli di Barbablù (1950) di Bragaglia, Tizio, Caio e Sempronio (1952) diretto da loro due con Alberto Pozzetti. Intorno alle sceneggiature del tempo girano tante di quelle storie… A tutti noi è capitato di passare intere nottate in piedi per consegnare la sceneggiatura la mattina dopo. Molti si tenevano su con la simpamina e andavano avanti a oltranza. Per scrivere un film ci si mettevano cinque-sei settimane, ma nessuno scriveva mai un film alla volta. Si passava di continuo da un copione all’altro e non ci si faceva problemi a scambiarsi gag o battute. Ci sentivamo parte di una comunità. Qualche anno più tardi, quando lavoravo con Steno, ci ritrovavamo a casa sua; viveva ancora in famiglia. Finita la follia dell’era pionieristica, le riunioni di sceneggiatura si sono svolte regolarmente nelle case di ciascuno di noi. Si sono andate consolidando delle coppie di sceneggiatori, in generale è diminuito il numero degli autori e le riunioni si sono normalizzate. S.M.

Ma cosa succedeva veramente?

Di tutto. Grandi litigate e battute in libertà, fogli sparsi ovunque, e il ticchettio della macchina per scrivere come sottofondo. Allora c’era tantissimo lavoro e si guadagnava bene, il cinema garantiva soldi sicuri ai produttori e i film costavano pochissimo. All’inizio accettavo di tutto, finché a un certo punto con Steno ci ritrovammo a scrivere sei, sette film alla volta. Per forza di cose cominciammo ad appaltare delle sceneggiature ai cosiddetti “negri”, ghostwriter che piano piano si facevano le ossa. Fu così che coinvolgemmo gli scrittori delle riviste umoristiche che conoscevamo. Age, Scarpelli, De Bernardi, Benvenuti, De Concini, Continenza hanno cominciato con un rapido apprendistato alla nostra ombra prima di firmarsi con i loro nomi. M.M.

Steno e Monicelli al lavoro negli anni cinquanta nello studio di Steno.

La grande fucina degli sceneggiatori sono state le riviste umoristiche: Bertoldo, Marc’Aurelio, Candido, Don Basilio, Orlando, Cantachiaro che fu diretto anche da tuo padre Tomaso, Il 420, caratterizzate da un umorismo surreale, fiorito sotto il giogo della censura fascista. S.M.

La comicità di quelle riviste deve tutto al fascismo, che vietando i riferimenti diretti alla realtà creò suo malgrado una scuola di umorismo raffinatissimo che si prendeva gioco dei potenti senza che nessuno potesse dimostrarlo. La cosa straordinaria è che molto spesso i vignettisti erano reazionari. Nel primo dopoguerra una generazione di sceneggiatori è passata di lì. Scrivevano battute per le vignette. M.M.

Era quasi un passaggio logico quello dalle riviste al cinema, io stesso feci una breve comparsata. Accadde anche a Fellini – con cui mantenni negli anni un rapporto scherzoso, “alla romana”, di continuo sfottimento – e con lui a Maccari, Comencini, Risi, Scola, Zapponi, Tellini. Furono pochi quelli che rimasero nei giornali: Manzoni, Mosca, Cappellini, Rovi. Lo stesso Campanile ebbe poco a che fare con il cinema. Le riunioni delle battute al Marc’Aurelio con il direttore De Bellis sono state un banco di prova per molti futuri sceneggiatori. A quell’epoca condividevamo anche i ritrovi fuori dal lavoro. Non solo le trattorie, ma per esempio andavamo spesso al Teatro Arlecchino di Fabrizi. Lì si vedeva anche Flaiano che recitava le sue gag, oltre ai principali attori dell’avanspettacolo e a giovani promesse come Vittorio Caprioli. Il tuo ritorno al cinema nel dopoguerra si deve all’incontro con Giorgio Bianchi, che insieme a te era stato uno degli assistenti alla regia in Ballerine (1936) di Machatý e ti prese come aiuto in Fatalità (1946). Dopo una piccola partecipazione alla sceneggiatura dei Bambini ci guardano (1944) di De Sica, sei tra gli autori di Abbasso la miseria! (1945) e Abbasso la ricchezza! (1946) di Gennaro Righelli. S.M.

Appena finita la guerra la mia permanenza a Roma era tutt’altro che certa. Cinecittà era invasa dagli sfollati, sugli schermi spadroneggiavano i film americani, la situazione sembrava immobile. Io speravo che mi chiamassero i registi e i produttori con cui avevo lavorato in precedenza. Il tuo bisnonno Arnoldo mi offrì un lavoro a Milano nella rivista I gialli per la Mondadori, dove mio fratello Giorgio dirigeva Il cerchio verde, la prima rivista di fantascienza. Aveva la gestione di tutta la sezione inglese e più avanti sarebbe diventato uno dei fondatori della collana «Urania». Ebbi qualche tentennamento prima di rifiutare: seguire la carriera giornalistica come mio padre o buttarmi nel cinema, che era la mia passione? Per fortuna uscì Roma città aperta, che ha cambiato la storia del cinema e il mio futuro. Bianchi era un po’ più grande di me e di tuo nonno Alberto. Quando eravamo tutti e tre assistenti alla regia di Ballerine, lo guardavamo con una certa ammirazione. Era un tombeur de femmes molto raffinato. Gli feci da aiuto in Fatalità con Nazzari e Maria Michi, l’amante di Amidei che era anche l’autore del soggetto. Lei aveva recitato in Roma città aperta, e tra gli M.M.

altri era stata l’amante di Fausto Cialente. La sua fama di donna facile le procurò una battuta non troppo lusinghiera: «Gli amici della Michi sono miei amichi». Prima della guerra avevo già avuto esperienze come sceneggiatore, non firmando. Come aiuto regista venivo chiamato per la preparazione, e allora partecipavo anche all’ultima fase della sceneggiatura. Avendo questa pratica alle spalle, con Righelli scrissi due commedie neorealiste, entrambe con la Magnani. Insieme a Steno “assistetti” anche alla sceneggiatura del Corriere del re (1947), un film tratto dal Rosso e il nero di Stendhal, remake di una versione muta con Ivan Mosjoukine diretta dallo stesso Righelli. Ci convocava nella sua casa in via Flaminia, verso il Ponte Milvio, e ci faceva accomodare a un tavolone del salotto. Ripetendo le stesse scene del film muto, ci leggeva ad alta voce le battute. Noi lo stavamo ad ascoltare e annuivamo quando ci chiedeva se eravamo d’accordo. Di solito annuivo prima io, e mi voltavo dalla parte di Steno, che annuiva a sua volta. Finì di raccontarci la sceneggiatura in dieci giorni. L’incontro con Steno è dovuto a Riccardo Freda, tuo amico dai tempi della giovinezza milanese, che vi mise insieme per la sceneggiatura di Aquila nera (1946), tratta dal Dubrovskij di Puškin . S.M.

L’incontro con Steno fu un colpo di fulmine. Ci trovammo subito simpatici e nel lavoro si creò una simbiosi immediata. Sia nella suddivisione dei compiti, sia nello spirito di fondo. Freda, di ritorno da Hollywood, era entusiasta di fare un film avventuroso in costume, ambientato nel Caucaso, molto lontano dalle storie italiane. Il protagonista era Rossano Brazzi. In una scena di massa si intravedevano per la prima volta al cinema la Lollobrigida e la Sanson. Insieme a noi e a Freda, prese parte alla sceneggiatura anche Fellini. Il direttore di produzione della Lux Film di Gualino era Dino De Laurentiis, con cui ebbi subito un rapporto di stima reciproca. Fu un successo: il primo di tanti. Per Freda ci cimentammo anche con Victor Hugo, da cui vennero fuori I miserabili: caccia all’uomo (1947) e I miserabili: tempesta su Parigi (1947), dove comparivano dei giovanissimi Mastroianni e Ferzetti. Da solo ho partecipato ad altri tre film suoi: Il cavaliere misterioso (1948) con Gassman nella parte di Casanova e Gianna Maria Canale, che sarebbe M.M.

diventata la compagna di Freda; Il conte Ugolino (1949), una rilettura goticheggiante del XXXIII canto dell’Inferno di Dante e Il tradimento (Passato che uccide), un melodramma di nuovo con Gassman, Nazzari e la Canale. La collaborazione con Steno ha prodotto oltre venti sceneggiature, più le sei dei film diretti insieme, anche se ufficialmente sono otto. Una tappa decisiva è costituita dalla trilogia della strada di Carlo Borghesio con Macario. S.M.

Borghesio arrivava sul set vestito da regista: il blazer blu con i bottoni d’oro, il cache-col aperto sul collo, il cappello con la visiera. Era fuori di testa, pieno di passioni spericolate: una volta aveva partecipato alla Mille Miglia. Era stato inviato del Corriere della Sera. Ma la sua carriera venne stroncata dopo che criticò aspramente il colonialismo inglese in Kenya. Per lui sceneggiammo tre film con Macario, prodotti da Luigi Rovere: Come persi la guerra (1948), L’eroe della strada (1949) e Come scopersi l’America (1950). Gli altri interpreti “fissi” erano Folco Lulli, Delia Scala e Arnoldo Foà, che avrei diretto tutti, più avanti. Lulli è uno dei caratteristi che mi hanno soddisfatto di più: brutalmente surreale quando, nella parte di Pecoro, si fidanza con una lupa in Brancaleone. La nostra era una comicità surreale, sulla quale innestammo elementi neorealisti, attenti alla lezione di Chaplin. Scrivendo questi film, Steno e io trovammo la nostra vera cifra stilistica. Rappresentavamo un disagio reale, quello dell’uomo comune dopo la guerra, che ebbe molta presa sul pubblico. Era la direzione che avremmo preso con più decisione con Totò. Per Come persi la guerra Steno e io fummo ingaggiati come battutisti in un copione al quale avevano lavorato anche Pinelli, Amendola, il commediografo Aldo De Benedetti, Borghesio e Benvenuti, che era l’autore del soggetto. All’epoca Steno era già noto per il suo talento comico, avendo lavorato nelle riviste umoristiche e soprattutto avendo sceneggiato Totò. Aveva la battuta nel sangue. Io invece avevo una fama più seria, legata alla mia professionalità come aiuto regista. Come persi la guerra fu il re degli incassi della stagione, Steno e io diventammo una coppia vincente e la formula venne ripetuta l’anno dopo con L’eroe della strada. M.M.

A completare il trittico, su soggetto mio e di Steno, riproponemmo il personaggio di Macario in Come scopersi l’America. Ricordo una scena in cui a Macario viene rubata la bicicletta mentre attacca al muro una locandina di Ladri di biciclette (1948)… Con Borghesio ho lavorato un’altra volta, credo senza Steno, per un ridicolo Napoleone (1951) con Rascel, Ninchi, Tofano, Vianello e la Merlini. La prima volta che scrivi un film per Totò è nel 1948, un anno prima di dirigerlo: è Fifa e arena di Mattoli, il regista per cui hai scritto ben nove film. Successivamente, ancora di Mattoli, L’inafferrabile 12, quindi Le sei mogli di Barbablù, Totò e le donne (1952) e Totò a colori (1952) di Steno, e per finire Un turco napoletano (1953) e Il più comico spettacolo del mondo (1953), sempre di Mattoli. S.M.

Mattoli è stato il regista con cui ho collaborato di più. Un uomo vulcanico, non troppo simpatico, che lavorava molto velocemente. Sosteneva che in un film, di qualsiasi genere, a un certo punto bisognava inserire la scena di una mangiata. Per soddisfare l’appetito del pubblico, diceva. Dalla Donna è mobile (1942) fino a Il più comico spettacolo del mondo ho scritto per lui film comici ma anche un melodramma: Anema e core (1951). Sceneggiare Totò era un gran divertimento. All’epoca tutti parlavamo come lui. Le battute erano quasi sempre opera degli sceneggiatori, ma una volta pronunciate da Totò diventavano sue, anche perché lui aveva un modo di recitarle unico, sempre un po’ spiazzante. Erano copioni bislacchi, dove si inserivano pezzi di repertorio dell’avanspettacolo e sketch di commedie teatrali. In Totò cerca casa partimmo dalla Famiglia Sfollantini delle celebri vignette di Attalo, inserimmo il numero di avanspettacolo della stanza affittata a tre persone e rielaborammo una scena della commedia napoletana Il custode di Moscariello, che ci chiese e giustamente ottenne i diritti. In Un turco napoletano attingemmo dalla farsa di Scarpetta. Totò a colori è letteralmente una collezione dei suoi migliori pezzi teatrali. M.M.

Totò in Guardie e ladri.

Abbiamo citato i melodrammi di Freda, ai quali potremmo aggiungere L’ebreo errante (1948) di Alessandrini, Il lupo della Sila (1949) di Coletti, Core ’ngrato (1951) di Brignone, Amo un assassino (1952) di Bandini, Perdonami! (1952) di Costa, Cavalleria rusticana (1953) di Gallone, Violenza sul lago (1954) di Cortese. Ma tu hai lavorato anche con il “maestro” del melodramma: Raffaello Matarazzo. S.M.

Goffredo Alessandrini era un regista di valore da cui ho imparato e di cui sono stato aiuto in Furia (1947). Con Matarazzo ho fatto quattro film, ma molto spesso mi ha chiesto consigli per altri. Del resto lavorare con lui significava soprattutto fargli da spettatore privilegiato. A lui interessava avere un riscontro delle sceneggiature che scriveva quasi interamente da solo. Univa il senso dello spettacolo a un’autentica vena popolare e nonostante tutti quei film strappalacrime aveva un gran senso dell’umorismo. Di melodrammi puri ne feci due: Giuseppe Verdi (1950), che è una pomposa biografia romanzata con Pierre Cressoy nella parte di Verdi, e M.M.

Guai ai vinti! (1954), dal romanzo Vae victis! di Annie Vivanti, sempre con Cressoy, la Ferrero e la Padovani. Tra gli sceneggiatori, se non sbaglio, c’era Campanile. In Fumeria d’oppio (Ritorna Za-la-Mort) (1947) cercammo di riesumare la figura di Za-la-Mort, un eroe del muto, facendolo interpretare da Emilio Ghione jr., il figlio del primo Za-la-Mort. Lo sciopero dei milioni (1947) era invece una commediola di poco conto. Nella veste di sceneggiatore hai toccato diversi generi popolari, dal melodramma all’avventura al film storico, dal comico alla commedia musicale di Follie per l’opera (1947) di Costa. Hai adattato grandi romanzi di Stendhal, Puškin, Sue, Verga e Hugo, imbattendoti persino nella Commedia di Dante. S.M.

È stata una fortuna potermi misurare con generi molto diversi, che mi hanno permesso di padroneggiare i meccanismi di un racconto, imparare a catturare l’attenzione dello spettatore, sperimentare vari tipi di linguaggio. Un altro regista per cui ho lavorato è stato Camerini, di cui avevo fatto l’aiuto prima della guerra per Documento (1938). Ho scritto L’angelo e il diavolo (1946), La figlia del capitano (1947) da Puškin, con la solita coppia Nazzari-Gassman e Il brigante Musolino (1950), dove grazie a noi “esordì” De Concini, che è diventato uno dei grandi sceneggiatori della commedia. Sapeva fare di tutto. Tra le altre cose, divenne specialista dei film mitologici, ragione per cui lo prendevamo sempre in giro. Era un ballista di proporzioni astrali. Una volta ci raccontò di essersi fidanzato con la figlia del direttore d’orchestra Victor De Sabata, Eliana. Nessuno di noi gli credette, ovviamente. E invece ci invita nella villa di lei dove si era acquartierato e ci lascia tutti di stucco. Qualche tempo dopo, squilla il telefono. Lui risponde e sente all’altro capo del filo uno che dice di essere De Sabata – allora era un’autentica autorità. De Concini non ci pensa su un attimo: «A Monice’, non fa’ lo stronzo!». È inutile dire che non ero io, ma Victor De Sabata. M.M.

Un ottimo rapporto l’hai avuto anche con Mario Soldati, con cui hai fatto quattro film in due anni: nel 1950 Quel bandito sono io! e Botta e risposta, nel 1951 O.K. Nerone e È l’amor che mi rovina. S.M.

Con Soldati c’è stata una grande amicizia. Una persona piena di verve. Era insofferente nei confronti del cinema, dove non si sentiva pienamente libero. Era estremamente versatile, non aveva problemi a saltare da un genere all’altro. O.K. Nerone e È l’amor che mi rovina sono due piacevoli commedie con un Walter Chiari in gran forma. A proposito di O.K. Nerone, che era ambientato nell’antica Roma, mi torna in mente il consiglio che mi diede un produttore poco prima di morire. Si chiamava Baldassarre Negroni, e visto che non aveva i soldi per pagarmi mi offrì in cambio una massima secondo lui fondamentale: non fare film comici con gli antichi romani. M.M.

S.M.

Farsi pagare dai produttori era un problema non da poco…

A volte c’erano le code nelle sale d’attesa della produzione. Di solito i pagamenti erano settimanali: in certi casi Steno e io prendevamo i soldi e li dividevamo con i “negri” che ci aspettavano all’angolo. Tutti chiedevamo degli anticipi, che ci venivano quasi sempre accordati. Il problema era che molto spesso i pagamenti slittavano, i produttori accampavano scuse, tendevano a ritardare. Allora escogitavamo dei trucchi, dei piccoli ricatti. Prima della guerra, ricordo un segretario di edizione che nascondeva l’ultima bobina di pellicola, ricattando il produttore, Peppino Amato, per avere il compenso che gli spettava. Ma allora i produttori erano così, comparivano e scomparivano a seconda delle disponibilità economiche. Le cose cominciarono a cambiare negli anni cinquanta con l’avvento dei grandi produttori. M.M.

Nel ’46 Pietro Germi si diploma al Centro sperimentale. Grazie a Blasetti, che formalmente fa il supervisore, gira il suo primo film: Il testimone. In virtù dell’esperienza acquisita sui set prima della guerra, gli sei affiancato come aiuto regista. È l’inizio di un’amicizia e di una breve collaborazione che durerà due film: Gioventù perduta (1947) e In nome della legge (1949) di cui sei cosceneggiatore. S.M.

Germi si era diplomato al Centro sperimentale come attore, ma voleva dirigere questo film nato da un suo soggetto. In realtà aveva una padronanza assoluta del mezzo, c’era poco da supervisionarlo. Diventammo amici velocemente e tra liti e riconciliazioni il nostro legame durò fino alla sua M.M.

morte. Aveva una vocazione all’impegno che alla lunga rischiava di reprimere il suo umorismo straordinario. Nei primi film cercava di equilibrare un cinema di genere americaneggiante con tematiche sociali vicine al neorealismo. Tra gli autori di Gioventù perduta c’erano Antonio Pietrangeli e Leopoldo Trieste, un attore molto amato da Germi che mi ha un po’ deluso nelle due occasioni in cui ho lavorato con lui. In nome della legge nasceva dal libro Piccola pretura del magistrato Giuseppe Guido Lo Schiavo, che adattammo insieme a Fellini e Pinelli. Raccontava della mafia in una Sicilia ritratta con grande realismo, anche se era la prima volta che Germi ci metteva piede, molto lontana da quella espressionistica dei film successivi. Da quando cominci a dirigere stabilmente i tuoi film, gli impegni come sceneggiatore di film altrui si diradano progressivamente. Si passa dai cinque del ’53 a uno solo nel ’54 e nel ’55. Poi praticamente smetti, salvo qualche rara eccezione. Nel ’58 La ballerina e il buon Dio di Leonviola e nel ’61, con Age e Scarpelli e Comencini, scrivi A cavallo della tigre, il primo e unico film dell’impresa di Film Cinque. S.M.

Era un buon film, molto coraggioso, ambientato in carcere, che si rivelò un insuccesso tremendo al botteghino. Insieme ad Age e Scarpelli, Comencini e il produttore Bini avevamo fondato la Film Cinque. L’idea non era affatto stupida. Anziché arricchire le casse dei produttori, volevamo impegnarci in prima persona anche nella realizzazione del film. Le prime due sceneggiature in ballo erano A cavallo della tigre e L’armata Brancaleone: dalla scelta che facemmo, si vede che non era destino. Esperienze analoghe dimostrano la difficoltà di tenere insieme il lavoro produttivo e quello creativo. Ci vogliono altre capacità e parecchie risorse, altrimenti al primo errore sei costretto a chiudere baracca. Non andò meglio qualche anno dopo con la Cooperativa 15 maggio, con cui producemmo quell’orrendo film a episodi che è Signore e signori buonanotte (1976). M.M.

Nel 1964, invece, insieme ad Age e Scarpelli e Benvenuti e De Bernardi, scrivi il soggetto e la sceneggiatura di un film di Zampa, Frenesia dell’estate (1964). S.M.

Sai per chi avevamo scritto il film? Per il famoso conte Pacini, quello di Amici miei. Con Benvenuti e De Bernardi eravamo molto amici, ma nessuno di noi aveva capito che il suo sogno segreto era fare il regista. Appena ce lo confessò, ci mettemmo a scrivergli il film. Solo che quando si stava per cominciare a girare, lui si ritirò perché non si sentiva sicuro. Avrà avuto sessant’anni: aveva la possibilità di realizzare il sogno della sua vita ma aveva paura. Questo era Pacini. M.M.

«In Italia c’è la dittatura del regista. Gli sceneggiatori sono sempre ignorati» si lamenta Giannini in un’intervista radiofonica nel Male oscuro. La commedia all’italiana è stata prima di tutto un cinema di sceneggiatori. Da questo punto di vista la si può leggere in due sensi: seguendo le filmografie dei registi oppure seguendo quelle degli autori. Ma a ben vedere, tanto per fare un esempio, Age e Scarpelli cambiano a seconda che lavorino con Risi o con Scola. E lo stesso si può dire di Benvenuti e De Bernardi, di Sonego, di De Concini… S.M.

Nel cinema è sempre molto difficile individuare l’autore del film, anche perché quasi sempre è più di uno. Ognuno dà il suo apporto. Dagli attori ai musicisti agli scenografi, che nel mio caso sono stati più di una volta fondamentali. È chiaro che gli sceneggiatori danno il primo impulso creativo al film, inventano la storia. Se nella sceneggiatura sono guidati dal regista, il risultato diventa già un compromesso tra due punti di vista diversi. In generale il merito attribuito al regista oscura il lavoro degli sceneggiatori. È sempre stato così, ma allora non ci si faceva tanto caso. I lavori di Age e Scarpelli con me hanno una connotazione precisa. A partire dai Soliti ignoti abbiamo condiviso un modo di guardare la realtà sempre più attento al contesto sociale. Con Scola hanno fatto grandi affreschi epocali, con me hanno seguito la strada di una storia minore. M.M.

Il cinema italiano è formato da tante coppie di sceneggiatori: MetzMarchesi, Steno-Monicelli, Age-Scarpelli, Benvenuti-De Bernardi, Maccari-Amendola, Maccari-Scola, Festa Campanile-Franciosa, Castellano-Pipolo, Scarnicci-Tarabosa. Io e Annie (1977) e Manhattan (1979), due dei migliori film di Woody Allen, sono tra i pochi scritti in coppia con Marshall Brickman. S.M.

Alle coppie che hai nominato io aggiungerei Sonego-Sordi. Anche se Sordi non scriveva mai niente, era l’altra metà di una coppia che ha fatto grandissime cose. Nel lavoro a due c’è una verifica senza sosta, un incessante dialogo che ti tiene sempre all’erta: da soli si può correre il pericolo di perdere il contatto con la realtà. In più, con gli stretti tempi di consegna che c’erano una volta, essere in due significava potersi dividere il lavoro. Io non ho mai provato a scrivere un film da solo. Mi annoierei. A me piace parlare, discutere, confrontarmi, un ping-pong continuo in cui si scherza e ci si diverte. Di solito le coppie sono formate da uno più estroso e un altro più concreto, attento alla struttura della storia. Nella loro coppia, Scarpelli era il più fantasioso, pieno di inventiva, tirava fuori un’idea dietro l’altra, mentre Age era quello pratico, lo riportava alla realtà, rimetteva le idee alla prova dei fatti. Scarpelli è stato insuperabile per la finezza, per la cura dei personaggi, per la sua curiosità continua che veniva alimentata da un dialogare ininterrotto. M.M.

Credo che l’importanza del confronto sia fondamentale quando vi rivolgete la domanda più importante: «Ma questo fa ridere?». S.M.

Questo sì che è un problema serio. Che in realtà sollevava più spesso il produttore di quanto ce lo ponessimo tra di noi. Passando al vaglio dei vari sceneggiatori, la selezione delle battute avveniva naturalmente. M.M.

Questa intesa di fondo è sancita in qualche modo dal fatto che avevate la stessa età. Ho sempre pensato che la risata più autentica, quella irrefrenabile e spesso immotivata, sia quella tra coetanei. S.M.

È vero, la risata tra coetanei presuppone un’intesa, una complicità che la differenza di età trasforma in qualcosa di meno immediato. Il senso dell’umorismo non ha regole universali, si nutre di particolari – che sono tutto – figli del tempo, della moda e della società: per questa ragione si può parlare di una sensibilità generazionale in ogni tipo di umorismo. M.M.

Più di una volta hai rimpianto l’assoluta libertà espressiva tra il ’46 e il ’47, un momento irripetibile nella storia del nostro paese. Nel suo pamphlet del ’52, Ritorno alla censura, Brancati lo esalta come «l’unico periodo in S.M.

cui si ragionò civilmente», in cui la parola è stata data a «quanto di meglio avesse il nostro paese». Il suo sfogo contro «l’aria di sacrestia che invade l’Italia» era dettato dalla censura della sua opera teatrale La governante, fatto tutt’altro che insolito visto che in quel periodo aveva subito la stessa sorte una rappresentazione della Mandragola, una pietra miliare della commedia. Per essere precisi, questa libertà senza condizionamenti è cominciata nel ’45, ma era già un ricordo alla metà del ’47, quando Scelba è diventato ministro dell’Interno. Prima che venisse creato il ministero dello Spettacolo, la delega allo spettacolo era affidata al sottosegretario alla Presidenza del consiglio, che allora era Andreotti: si ricorda ancora la sua frase «I panni sporchi si lavano in casa» riferita a Ladri di biciclette. Fu istituita la Commissione censura, cui venivano date in lettura preventiva le sceneggiature. Per anni spadroneggiò Annibale Scicluna Sorge, che era arrivato in Italia nel 1943 per dare l’adesione di Malta al fascismo… Con l’arroganza del burocrate inamovibile, pose veti e tagliò scene che a suo parere risultavano inammissibili. I membri della commissione erano stati travasati tutti dai quadri fascisti. Come i funzionari del ministero dello Spettacolo sorto in seguito, che era a tutti gli effetti il Minculpop con un nuovo nome. Personalmente ebbi grandi rogne solo con Totò e Carolina, che subì oltre trenta tagli, fu maciullato e uscì nelle sale con due anni di ritardo. Per il resto ricordo una convocazione di Scicluna Sorge per Guardie e ladri e l’incontro con Andreotti per La grande guerra. La fortuna di fare film allora considerati di terz’ordine garantì a noi della commedia una certa libertà. M.M.

La sceneggiatura riveste un’importanza fondamentale nella struttura di un film, ma senza un soggetto valido la storia è perdente fin dall’inizio. Un tempo c’era una distinzione netta, riportata sui titoli di testa, tra soggetto e sceneggiatura. Spesso capitava che i soggettisti non partecipassero alla sceneggiatura. S.M.

Il soggetto è il punto di partenza di un film. L’idea che inizialmente si butta giù in una paginetta, anche due o tre. Poi la si struttura come un racconto di una ventina di pagine dove è delineato a grandi linee l’arco M.M.

narrativo, con un inizio, uno svolgimento e una fine, e dove vengono presentati i personaggi principali. Pinelli era straordinario nel gonfiare in pochi giorni, ma anche in una notte soltanto, le due cartelle di una storiella per portare venti-venticinque pagine al produttore. Un tempo circolavano più soggetti. Li si proponeva al produttore, e se li accettava dava subito la commessa per la sceneggiatura. Uno che scriveva bellissimi soggetti era Piero Tellini, autore tra l’altro del soggetto di Guardie e ladri. Solo che aveva una vita molto movimentata, sempre in mezzo a storie di donne. Era sempre con l’acqua alla gola e cercava di piazzare soggetti a più non posso. Pinelli e Zapponi avevano ottime idee mal poste, da sviluppare in un altro modo. Vincenzoni scriveva soggetti che andavano raddrizzati un po’ da tutte le parti. Con Age e Scarpelli rifacemmo praticamente la storia della Grande guerra in fase di sceneggiatura, e la stessa sorte toccava a Germi e Leone quando lavoravano con lui. Era una persona molto dozzinale, litigava con tutti. Nel corso degli anni mi avrà dato almeno venticinque soggetti, tutti grossolani. Una volta scritto il soggetto, comincia lo sviluppo del racconto in sceneggiatura. Un lungo processo di costruzione romanzesca che piano piano assume la forma del copione. S.M.

Il lavoro di stesura di una sceneggiatura dura all’incirca sei mesi. In realtà io ho sempre fatto un lungo lavoro preliminare, prima ma soprattutto dopo che un soggetto è stato scritto, che consiste in una serie di incontri in cui si parla della storia, si divaga, si cerca di inquadrare bene i personaggi, gli si inventa un passato, ci si chiarisce le idee immaginando soluzioni o ipotesi che magari si riveleranno inutili, ma intanto fanno fare dei passi avanti nel lavoro. Intanto si prendono appunti, qualcuno ascolta e basta, qualcun altro fa dei disegnini: ma al momento buono tutti si ricordano tutto. Sono sedute sotto il segno della convivialità, che rafforzano lo spirito cameratesco, in cui non c’è traccia del maschilismo che poteva trasparire dai nostri film: abbiamo sempre parlato poco di sesso tra di noi. Con la Suso, che era l’unica donna del gruppo, c’è sempre stato un rapporto paritario, come se non la M.M.

considerassimo una donna. Da non scambiare per una mancanza di rispetto: era piuttosto un rapporto di grande stima, professionale e personale. Questa fase preparatoria è accompagnata da un grande lavoro di approfondimento, sia sui libri sia sul campo. S.M.

Contemporaneamente alle sedute, svolgiamo un intensissimo lavoro di ricerca di materiali, libri, giornali, insieme a indagini sul campo. È uno degli aspetti più importanti nella preparazione di un film. La documentazione è essenziale per rendere le storie vere. Ogni episodio, ogni fatto, ogni dialogo, ogni dettaglio deve essere sottoposto alla prova della verosimiglianza. Per crederci, il pubblico deve trovare una scena plausibile. Agli occhi degli sceneggiatori di oggi, soprattutto con i tempi stretti imposti dalle esigenze produttive, può sembrare un eccesso di zelo. Invece spesso si rivela una fonte creativa. Ascoltando gente, parlando, domandando, capita di trovare già bella e pronta una situazione o una battuta. I sopralluoghi, la scelta delle location sono il passo successivo: anch’esso tanto lungo quanto fondamentale per dare una forma al film. Una volta chiarita la storia, si prepara una scaletta suddivisa in blocchi di scene e sequenze. I blocchi vengono distribuiti, dopodiché ognuno li sviluppa e li scrive per contro proprio. Nella riunione successiva ci scambiamo i blocchi: li leggiamo, discutiamo, cambiamo, rivediamo fino a quando siamo d’accordo. A questo punto la struttura del film è completa. Si può passare alla fase successiva del trattamento, una sorta di presceneggiatura scritta in forma letteraria in cui viene svolta la storia per intero. Finalmente può avere inizio la vera e propria sceneggiatura, che materialmente si può scrivere insieme o, come per i blocchi, ci si possono dividere le parti, che una volta scritte vengono sottoposte al giudizio di tutti. Un copione può passare attraverso diverse stesure che spesso comportano cambiamenti strutturali. Da quando ho cominciato a fare il regista, nel caso di controversie alla fine l’ultima parola è sempre stata la mia. I nostri incontri avvenivano di mattina o di pomeriggio, ma per I soliti ignoti facemmo il doppio turno perché non avevamo molto tempo. M.M.

Quando rileggete il copione recitate le battute per saggiare il loro effetto? S.M.

Nei primi tempi sì, divertendoci molto. Con gli anni abbiamo sviluppato un orecchio per i dialoghi che ha reso la recitazione inutile. E comunque a forza di leggere le scene ad alta voce abbiamo già un’idea precisa della resa del copione, anche se il vero giudizio spetta al pubblico. M.M.

I tuoi copioni sono molto dettagliati. Nella pagina divisa in due colonne, a destra ci sono i dialoghi, mentre a sinistra viene descritto con dovizia di particolari tutto ciò che accade. Mancano invece del tutto i movimenti di macchina. S.M.

Sulla pagina del copione c’è tutto quello che si vedrà e si sentirà nel film. Per gli attori è molto importante sapere già i movimenti che dovranno fare e avere un’idea precisa della scena, anche se solo sul set ne avranno una percezione reale. Raramente segnalo l’intonazione da dare a una battuta, solo se necessario, ma dai dialoghi emerge abbastanza chiaramente il tono del film, i personaggi sono ben caratterizzati e un attore bravo afferra subito il senso della storia. Quando una sceneggiatura è finita, la copio tutta a mano. In un certo senso me ne approprio. È in questa fase che prende forma l’immagine del film, che comincio ad avere una visione chiara di come lo girerò. Il problema è che ho una grafia terrificante, e dopo ci vuole qualcuno che la capisca per ribattere il copione a macchina. Sul set non cambio quasi mai nulla, salvo imprevisti naturalmente. Tutt’al più mi capita di fare dei tagli in moviola, se il film è troppo lungo. Ai tempi di Totò si riscrivevano delle scene di sana pianta in montaggio e venivano doppiate nella nuova versione. Dal momento in cui la sceneggiatura è pronta fino al pre-montato, gli sceneggiatori non li ho mai voluti: né sul set né in moviola. Faccio invece una proiezione del pre-montato con gli sceneggiatori e il produttore. In quell’occasione è successo più volte che mi abbiano dato dei suggerimenti e che abbia modificato qualcosa. Age e Scarpelli assistettero al montaggio di un solo film, I compagni. Modificammo i dialoghi di un’intera scena. Per rendere il film più breve avevo tagliato la scena in cui Omero scopre che la sorella Bianca, che poi è la Carrà, ha la testa rasata a zero perché ha venduto i capelli. Per ovviare al buco, avevamo a disposizione una scena in cui la Carrà raccontava al fratello: «Possiamo mica andare avanti con la minestra della caserma. Mi M.M.

sono presentata per un servizio a mezza giornata». E poi continuava: «Un signore che vive solo. Un pittore. Ma gentile, sai. Mi sorride sempre. Ha un dente d’oro proprio qui» e dicendolo la Carrà si portava il dito al dente. In doppiaggio le parole della Carrà sono state modificate come poi le senti nel film: «Possiamo mica andare avanti con la minestra della caserma. Sai, ho pensato di tagliarmi i capelli. Per fare un po’ di soldi». Nella versione precedente Omero si limitava a bofonchiare: «Eh!», mentre noi gli abbiamo fatto dire: «I capelli?», così la Carrà spiega: «Sì, ti pagano bene. Si fanno quei cosi finti, per le teste delle signore – come si chiamano?». E qui, per giustificare il dito che batte sul dente, la facciamo finire: «Ce l’ho qui, sulla punta della lingua». La chiave di una sceneggiatura sta nel tono che si decide di dare alla storia. Leggendo la dozzina di cartelle di critiche scritte per De Laurentiis da Age e Scarpelli al trattamento di Calvino sui viaggi di Marco Polo, salta all’occhio l’importanza preliminare di definire il registro stilistico, gli umori e lo spirito di fondo del film. S.M.

Il tono è il film. La ricerca del tono giusto è la premessa per la riuscita di una sceneggiatura. Le stesse vicende possono risultare drammatiche o comiche a seconda del tono con cui vengono raccontate. All’interno di un tono ben definito si possono inserire variazioni, contrasti, scarti, ma sempre in armonia con il tono sottostante. Insieme a Calvino avevamo pensato a un progetto sul viaggio di Marco Polo in Oriente, attraverso una ricostruzione quasi documentaristica delle diverse tappe. Invece Calvino scrisse un bellissimo racconto, sospeso tra l’incanto della favola e una storia avventurosa di formazione, che si discostava dall’idea di partenza. Era prevista una voce fuori campo come guida dello spettatore. De Laurentiis pensò immediatamente a Hemingway. Con la sua spavalderia disse che ci avrebbe pensato lui. Gli telefonò prodigo di promesse, ma non riuscì a convincerlo. E il progetto si fermò lì. M.M.

Il secondo aspetto da definire è il punto di vista dal quale raccontare la storia. S.M.

Il punto di vista preferibile, che ho usato nella maggior parte dei film, è quello neutro. La storia alla terza persona. Nei primi film con Steno, ma M.M.

anche in Donatella e Padri e figli, la storia viene introdotta dalla voce fuori campo di un narratore anonimo. Molti anni dopo, in Facciamo paradiso, il narratore interviene più volte lungo tutto il film. Nei Soliti ignoti le vicende narrate in terza persona sono scandite da didascalie, un po’ come in Brancaleone alle Crociate (1970), suddiviso in capitoletti con un titolo letto da una voce fuori campo e un disegnino animato. Nel primo Brancaleone avevamo pensato di inserire le didascalie col nome di ogni personaggio che appariva per la prima volta. Si tratta di accorgimenti che sveltiscono il ritmo, consentono di saltare qualche passaggio, ma non alterano la visione “oggettiva” di quello che succede. Tutto cambia quando il film è raccontato dall’io narrante, che per un verso è una semplificazione. Oltre a velocizzare la storia, facilita l’introduzione dei vari personaggi, che per i film corali ha sempre costituito il primo problema da risolvere. In Amici miei la presentazione del personaggio di Blier avrebbe richiesto altrimenti molto più tempo. Per un altro verso, si pone il problema di mostrare soltanto le scene in cui è presente l’io narrante, che un po’ falsa la verosimiglianza. Ma alla fine uno se ne frega… In Amici miei la prospettiva di Noiret risulta in un certo senso ingannevole, visto che muore e la storia continua. Nel seguito, il punto di vista cambia a seconda di chi ricorda davanti alla tomba di Noiret. In Temporale Rosy Tedeschi non è quasi mai presente ai fatti che racconta, e assume un po’ la figura di imbonitore che interviene negli snodi decisivi della storia. Il caso di Tognazzi in Romanzo popolare è uno dei pochi in cui il racconto in prima persona ha un senso, perché non sa effettivamente cosa fanno gli altri: sua moglie e il suo presunto amante. E quello che saprà in seguito, lo saprà attraverso il racconto della Muti.

Adolfo Celi, Monicelli e Philippe Noiret provano la morte del Perozzi in Amici miei.

Cesarino Bertolazzi, l’onorevole Giuseppe Tritoni – ma fino all’ultima stesura si chiamava Grifoni –, Giulio Basletti, il conte Raffaello Mascetti, Bertoldo sono i nomi di Tognazzi nei tuoi film. Il generale Bassi-Lega, i colonnelli Elpidio Aguzzo, Gavino Furas, Pino Barbacane, Quintiliano Terzilli, il tenente colonnello Vittorio Emanuele Ribaud, a cui si aggiunge l’industriale Irenio Steiner, sono i nomi dei congiurati di Vogliamo i colonnelli. Ogni nome è l’inizio di una storia diversa. S.M.

Come ben sai, i nomi contengono già un destino. Soprattutto nella commedia, danno immediatamente una connotazione al personaggio. Passavamo delle giornate a discutere sui nomi: finché non trovavamo quello giusto, non si poteva andare avanti. Se è azzeccato, nel corso del film ti rendi conto che un personaggio non poteva chiamarsi che in quel modo. Se il pubblico li ricorda, li associa a una faccia stranota come quella di Tognazzi o di Sordi, significa che il personaggio ha trovato la sua dimensione credibile. In Vogliamo i colonnelli la cura che abbiamo messo mirava anche a ridicolizzarli dal primo istante. I nomi di Amici miei sono conosciutissimi. I M.M.

soliti ignoti hanno cambiato il nome a una persona: chi si ricorda che Capannelle in realtà si chiama Carlo Pisacane? Busacca e Jacovacci della Grande guerra potrebbero essere tranquillamente i nomi di due mercenari nella guerra in Iraq. Allo stesso modo i titoli. L’unico davvero sbagliato è Cari fottutissimi amici, mentre Totò e i re di Roma è ingannevole: uno si aspetta un film ambientato nell’antica Roma. S.M.

Quasi tutti li devo ai miei sceneggiatori o ai produttori. Personalmente non ci ho mai preso con i titoli. Speriamo che sia femmina, che nel soggetto originale si intitolava Le contesse, volevo chiamarlo Rapporto sui rapporti. Non sarebbe andato a vederlo nessuno. Cari fottutissimi amici nasce per volontà di Vittorio Cecchi Gori, che sperava di sfondare al botteghino richiamandosi a un mio film di successo. Invece il pubblico, che non è scemo, se n’è accorto e non è andato a vederlo apposta. M.M.

S.M.

Uno dei più belli è Facciamo paradiso.

M.M.

Ma è talmente brutto il film...

«Dementecai le chiavi», la frase di Ferribotte imitata da Mario per indurre Carmela ad aprire la porta nei Soliti ignoti, è una vostra invenzione entrata nei modi di dire: e non è la sola. La lezione del neorealismo travasata nella commedia ha dato luogo a un linguaggio comune, frammisto alle parlate dialettali, generalmente ricondotto sotto l’ombrello del romanesco. Ne avete assecondato le continue trasformazioni e al contempo le avete accelerate, introducendo nuovi modi di dire o plasmando gerghi. Inoltre avete infranto le regole teatrali, giocando sulla sovrapposizione delle battute. In Age e Scarpelli è dichiarata la riconoscenza per la lezione di Amidei, che annotava tutto quello che orecchiava per la strada, in tram, al ristorante, nei negozi su un bloc-notes. S.M.

Amidei è stato un grandissimo sceneggiatore, che ha dato di più al neorealismo di quanto non abbia dato alla commedia, almeno direttamente. Ci siamo fatti delle litigate furibonde mandandoci sonoramente affanculo e giurando che non ci saremmo visti più. Aveva un caratteraccio ma era M.M.

autentico. Era triestino, un comunista convinto che aveva fatto la gavetta e sapeva fare qualsiasi cosa. È stato con un sacco di bellissime attrici: la Ralli giovanissima, ma anche la Magnani, con cui quasi veniva alle mani quando litigavano. Il modo di parlare, le parole, con tutti i difetti e le ripetizioni e le influenze continue che provenivano dalla radio o dai giornali, erano il nostro pane quotidiano. La frequentazione continua con la gente, dal fruttivendolo o dal macellaio, girando a piedi: tutto quello che ci circondava faceva parte del nostro lavoro. Rispetto al metodo di Amidei, io non sono mai stato così sistematico nel segnarmi gli appunti. Credo di dimenticare, ma in realtà ricordo tutto. Solo riguardando i miei film mi rendo conto di come invece episodi, personaggi, battute siano entrati nelle sceneggiature. Quando trasponevamo sulla carta una parlata particolare o facevamo litigare due poveracci, era naturale che si strappassero le battute tra di loro. Gli attori teatrali non si capacitavano di questa recitazione nuova in cui la naturalezza prendeva il posto dell’impostazione. Con Age e Scarpelli, oltre al linguaggio di Brancaleone e a quello di Romanzo popolare, che deve molto a Jannacci e Viola, abbiamo inventato quell’argot dei poveracci malavitosi dei Soliti ignoti. Intorno a due o tre parole chiave – lo sgobbo, le madame, la pecora – aiutati dal refrain del “tutto scientifico”, è venuta fuori una parlata.

Monicelli dà le ultime indicazioni per il tradimento di Ornella Muti con Michele Placido in Romanzo popolare.

Credo fosse Truffaut a sottolineare la libertà del regista all’inizio di un film, nei pochissimi minuti in cui si introduce una storia. Tu al contrario attacchi secco: la storia comincia dal primo secondo della prima scena. S.M.

Non ho mai amato Truffaut, con quel vespaio di sentimenti e sentimentalismi e quella cinefilia esasperata. E amo ancora di meno gli svolazzi descrittivi che fanno un po’ da preludio, magari musicale, al film. A me piace entrare subito nella storia, tanto più che molto spesso ho un sacco di personaggi da presentare e devo far veloce. M.M.

Molti film tuoi e parecchie commedie all’italiana hanno un andamento episodico, spesso si compongono di una successione di varianti su un tema centrale che tiene insieme diverse situazioni. S.M.

In Casanova ’70 la struttura episodica si combina ai continui cambi di ambientazione. I viaggi e gli spostamenti giovano molto alla tenuta del ritmo. M.M.

Io preferisco le storie lineari, nelle quali posso concentrarmi soprattutto sui personaggi. La semplicità innanzitutto. Una storia deve essere riassumibile in poche frasi, senza inutili divagazioni, che vada dritta al punto. Devo essere in grado di giustificare ogni passaggio di un film: la credibilità passa attraverso il giudizio degli altri sceneggiatori che mi dicono se una cosa è fattibile o meno. I salti cronologici, le ellissi temporali, i flashback vanno utilizzati solo se servono allo sviluppo della storia. La Muti che racconta a Tognazzi il tradimento con Placido in Romanzo popolare è un fatto basilare, non apre un nuovo fronte del racconto, ma spiega e arricchisce la trama. Le costruzioni troppo complicate spesso sono fondate su un trucco. La suspense surclassa la verosimiglianza. Il cinema di Hitchcock è basato sulla suggestione dello spettatore. Se però analizzi le sue storie, sono piene di incongruenze. Però Hitchcock aveva delle ricette di sceneggiatura molto semplici. Una era di far usare a ciascun personaggio i ferri del mestiere: chi non ricorda i flash che salvano il fotografo James Stewart dall’assalto di Raymond Burr nella Finestra sul cortile (1954)? S.M.

Quando Age e Scarpelli, credo grazie ai Soliti ignoti, furono chiamati da Hitchcock per sceneggiare un film, non si trovarono proprio per questa profonda differenza di vedute: da una parte due sceneggiatori abituati a valutare la fattibilità di una trama, dall’altra un regista che affida tutto alla suspense e allo spettacolo, disinteressandosi della plausibilità della trama. M.M.

Romanzo popolare è il tuo film più complesso come costruzione temporale. Il flashback diventa parte della storia e gioca su due piani: uno è puramente descrittivo, l’altro esprime il punto di vista di Tognazzi che “usa” in prima persona la moviola: ferma l’immagine, riavvolge il nastro, commenta. S.M.

La storia comincia davanti allo specchio dell’estetista dove Tognazzi si è tinto i capelli e ha cambiato pettinatura. Il resoconto della sua disfatta amorosa riprende dall’inizio, per poi arrivare al punto di partenza e procedere verso il finale, in cui all’improvviso il punto di vista di Tognazzi si pone sullo stesso piano di quello della Muti e di Placido che raccontano M.M.

come sono andate a finire le cose per ognuno di loro. Questa costruzione è la più azzardata e riuscita nel mio cinema, anche per l’ottima resa del contrappunto ironico di Tognazzi, che “controlla” la moviola ma non può controllare gli sviluppi dei fatti. Prima di Romanzo popolare non sei praticamente mai ricorso al flashback. Ci sono un paio di brevi ricordi in Casanova ’70. Nella sceneggiatura del ’72 intitolata semplicemente Colonnelli, e non ancora Vogliamo i colonnelli, il tentativo di golpe veniva raccontato in flashback dal giornalista Armando Caffè, che nel film comparirà a storia avviata. S.M.

Il flashback in sé mi sembra una falsificazione. Per utilizzarlo devo avere un motivo valido. A volte puramente pratico, come per la morte del personaggio di Noiret in Amici miei – Atto ii. O per dare una sottolineatura melanconica al racconto del protagonista nelle Due vite di Mattia Pascal, che si svolge tutto come un flashback cucito dalla voce fuori campo di Mastroianni. O per velocizzare il ritmo, come nei brani di diario letti da Mastroianni in Casanova ’70, che mi consentono di passare da un posto all’altro senza tanti impicci. Nel Male oscuro il flashback è utilizzato come un incipit forte con Giannini dallo psicanalista Caprioli, che però non ha un peso sull’equilibrio del film. In Rossini! Rossini! (1991) c’era invece il parallelismo tra la giovinezza e la vecchiaia di Rossini, che ho reso con montaggi temporali. Più complessa è invece la struttura di Facciamo paradiso, che riprende quella di Romanzo popolare. Il film comincia il 7 dicembre 1972 alla prima della Scala, si interrompe e il racconto ricomincia dalla nascita di Claudia Bertelli nel 1949. Procedendo per episodi ritmati da una voce fuori campo onnisciente, raggiunge di nuovo il ’72 e si spinge fino a un futuro immaginato nel 2011, precisamente il 3 agosto, quando muore Claudia. M.M.

Salvo il finale, la storia di Risate di gioia si svolge tutta nella notte di Capodanno, con un’unità temporale per te inedita. La sceneggiatura poi compie uno strano percorso circolare, innescata da un guidatore della metropolitana che rincontreremo solo a metà e alla fine del film. Una tecnica di depistaggio che avevi già adottato in Vita da cani. S.M.

Ma il principio era diverso. In Vita da cani si trattava della solita struttura delle storie intrecciate. C’era una disparità di toni tra la prima e la seconda parte, qui superata da un copione che usa la circolarità seguendo un’unica linea narrativa. Con quella dei Soliti ignoti la sceneggiatura di Risate di gioia è la mia migliore. Tutto sommato l’unità temporale non altera il modo di raccontare né di girare, che io tendo sempre a fare in sequenza. M.M.

Benché tu abbia un debole per i personaggi bugiardi, non ami i colpi di scena. L’unico scambio di persona, una situazione classica fin dai tempi della commedia antica, è nel Marchese del Grillo. S.M.

Perché preferisco la comicità diretta a quella basata sull’equivoco. Lo scambio di persona tra il marchese e il carbonaio scatenò la cultura di Kezich che chiamò in causa Shakespeare, senza sapere che negli anni trenta era un numero di avanspettacolo di Ciro Bernardi e Nando Bruno, che prevedeva sempre una parte con il personaggio del Marchese del Grillo. M.M.

In parecchi film impieghi materiali di repertorio, inserti di documentari, fotografie d’epoca. S.M.

Il continuo riferimento alla realtà storica, anche se sullo sfondo, ha richiesto diverse volte queste interpolazioni. Non oso immaginare quanto ci sarebbero costate se le avessimo girate noi le immagini dell’arrivo dell’esercito americano con cui si apre Cari fottutissimi amici, dell’alluvione di Firenze o delle manifestazioni in piazza, o se avessimo riprodotto le fotografie degli operai di Torino alla fine dell’Ottocento nei titoli di testa dei Compagni. M.M.

I tuoi finali sono quasi sempre secchi. Possono coincidere con il fallimento dell’impresa, con il ribaltamento beffardo della situazione o con una morte. Sono aperti in film come Totò cerca casa, in cui la mancata soluzione del problema rimanda ad altre possibili traversie, o i due Brancaleone, con Gassman da solo o insieme ai suoi seguaci che riparte per nuove avventure. S.M.

A me piacciono i finali netti, il più possibile rapidi e privi di equivoci. Possono essere drammatici come nella Grande guerra, mesti come nei M.M.

Soliti ignoti e in Romanzo popolare, mesti ma speranzosi come nei Compagni, beffardi come in Renzo e Luciana, aperti come in Brancaleone: l’importante è che abbiano una compiutezza che si rifletta a posteriori su tutto il tono del film. Il finale soprattutto deve essere uno, non come capita in molti film in cui per far quadrare i troppi fili scoperti l’ultimo quarto d’ora è una successione di spiegazioni. La sua riuscita sta nell’immagine che rimane negli occhi dello spettatore fuori dal cinema: senza dubbi. Parlando del copione di Amici miei, Benvenuti spiegava che nel passaggio da Germi a te è stato snellito di ottanta pagine. Dove Germi cercava di concentrare tutto in poco tempo, tu hai dato più respiro alle scene, strutturate per lunghi blocchi narrativi. S.M.

Questa differenza dipende in gran parte dal mio modo di girare: teatrale, con poche inquadrature in genere molto lunghe, all’interno delle quali si muovono parecchi attori. Se posso, uso il piano sequenza per ottenere i tempi della recitazione naturale. Vogliamo i colonnelli è esattamente l’opposto. Una farsa dai tempi volutamente forzati. Ma il divertimento non nasce necessariamente dalla velocità. I tempi dell’umorismo sono meno scontati di quanto sembri e sono sempre legati al contesto in cui si svolge la scena. La battuta stessa per andare a segno ha bisogno di essere sostenuta dalla situazione. M.M.

Nelle vostre sceneggiature si nota però una ricerca esasperata della battuta con cui chiudere la scena. S.M.

È vero, era una fissazione che oggi cercherei di evitare. Ma faceva parte proprio della commedia all’italiana il gusto della battuta finale, magari anche minima. M.M.

Escluse le sceneggiature per altri registi, con Age e Scarpelli hai lavorato a ventuno film, tre dei quali diretti insieme a Steno. S.M.

Lavorare con Age e Scarpelli significava spesso sedare le loro liti furibonde. Bisognava lasciarli sfogare finché si placavano e facevano pace. Come regista, se non venivano a capo di una discussione, ero sempre io a prendere la decisione finale. Degli autori della commedia, loro sono stati i più politicizzati, quelli che con insistenza sempre maggiore hanno cercato M.M.

di dare una connotazione sociale ai nostri film. Avevano acutezza nei dialoghi, nel cogliere le sfumature, nel caratterizzare un personaggio in due battute, qualità unite a un orecchio eccezionale per i dialetti e i modi di dire. Mi sono molto divertito a lavorare con loro, sceneggiatori di gran classe al pari di Benvenuti e De Bernardi e della Suso. S.M.

Tutti e tre toscanacci.

Salvo la primissima collaborazione con De Bernardi in Padri e figli, con Benvenuti e De Bernardi ci siamo incontrati tardi per Amici miei. La collaborazione con loro è legata alla seconda parte della mia carriera, in cui ci ha accompagnato quasi sempre la Suso. Quattro toscani convinti… Rispetto ad Age e Scarpelli, loro due erano decisamente più concilianti. De Bernardi un qualunquista smaccato, Benvenuti un socialista buono. La Suso è una delle mie più care amiche: abbiamo ancora la consuetudine di vederci la domenica sera da lei con la sua famiglia sterminata. Abbiamo passato insieme estati meravigliose nella sua casa a Castiglioncello, che fino ai primi anni settanta era un posto stupendo, dove passava tutto il cinema italiano. Io ci rimanevo per lunghi periodi. Non lavoravamo tanto. C’era un clima di grande complicità, anche se le donne come al solito erano pettegole. Abbiamo sempre avuto una grande intesa sul lavoro. Il suo maggior pregio sta nella costruzione della storia e nel reperire le fonti o trovare informazioni. Mi ha sempre fatto ridere il rapporto che aveva con Visconti. Si davano del “lei”, lui la chiamava Susanna. Era perfetta anche per quel tipo di cinema: in quel mondo intrigante, morboso, lei è maestra. M.M.

Insieme a Suso Cecchi D’Amico sei stato in America per un progetto con Mario Puzo, lo scrittore. S.M.

A noi quel cognome faceva tanto ridere. Ci aveva mandato Ponti per trasporre un film da qualche suo libro. Non era ancora uscito il film dal Padrino. Forse lo stava trattando con Coppola proprio in quel periodo. Me lo ricordo simpatico, ma si capiva che non ne sarebbe uscito niente. M.M.

Un altro sceneggiatore del vostro giro con cui hai lavorato poco è Ruggero Maccari. S.M.

Era un altro fissato con le mezze troiette notturne. Girava per locali fino all’alba. Ma alle nove del mattino si presentava puntuale agli appuntamenti: lucidissimo. Una vita troppo dispendiosa. Infatti è morto relativamente giovane. Lavorò per me in Vita da cani (1950), la sua seconda esperienza in assoluto, e Guardie e ladri. Poi sceneggiammo insieme quattro film di Mattoli, e fece di nuovo per me Donatella e cinque episodi: Gente moderna (1964), Il frigorifero (1970), La bomba (1976) e i due dei Nuovi mostri (1977). Si era formato alla scuola dell’avanspettacolo: aveva scritto gli sketch per Rascel, Totò, Macario. Teneva la misura della scenetta di sette minuti o l’intero sketch di venti minuti. Sapeva fare tutto, con una rapidità impressionante. M.M.

Hai lavorato troppo poco anche con Sonego, con cui hai scritto uno dei più bei film con Sordi degli anni cinquanta, Un eroe dei nostri tempi, rimpiangendo l’occasione di non aver girato il suo soggetto di Bello, onesto, emigrato Australia, sposerebbe compaesana illibata. S.M.

Sonego veniva dalla provincia di Belluno. Era poverissimo, e rimaneva sempre affascinato dal fasto, dalle belle case e dallo sfoggio della ricchezza. Era di una simpatia unica. Faceva delle imitazioni straordinarie. Era fenomenale quella di Lattuada che ti accoglieva in casa sua: lo chiamava «la piccola vendetta lombarda». La prima volta che lavorammo insieme fu per la sceneggiatura di Marechiaro (1949) di Ferroni, con la Pampanini. Con noi c’erano De Feo, Talarico, Franco Rossi e Majano. Un’altra grande occasione mancata fu il soggetto di quello che poi sarebbe diventato Un italiano in America (1967), diretto e interpretato da Sordi, che però mi permise di fare un viaggio stupendo negli Stati Uniti. Sarà stato sul finire degli anni cinquanta, De Laurentiis ci mise a disposizione una Cadillac con un autista. Si chiamava John Serpe, un personaggio da romanzo. Era il tipico italoamericano nato là, più americano degli americani, ex protetto di Lucky Luciano, affiliato a un’organizzazione mafiosa. Raccontava storie da non credere. Ci siamo divertiti a prenderlo per il culo per tutto il viaggio. A furia di distrarlo, una volta ci siamo ribaltati in un campo. Partimmo da New York e ci spingemmo fino al Midwest, quindi andammo a New Orleans. Seguivamo il viaggio alla scoperta dell’America che doveva fare il personaggio di Sordi. Visto che ci M.M.

pagavano, arrivammo fino al Mississippi, dove volevamo ambientare il finale in un campo di cotone in cui Sordi trova lavoro. Lui che aveva lasciato la pompa di benzina per raggiungere il padre che non conosceva in America… Purtroppo l’accordo tra De Laurentiis e la Paramount non si fece e il progetto saltò. Circa dieci anni dopo Sordi ne ha tirato fuori un film proprio brutto. Ha rovinato un bellissimo soggetto, indipendentemente dal fatto che non l’ho girato io. Con Sonego ho avuto più progetti in sospeso che realizzati. Quando scrisse per me da un suo soggetto La ragazza con la pistola, nessuno dei due era soddisfatto del risultato: prima io affidai il copione alla Suso per rimetterlo in sesto, poi lui rimase deluso da come era stato modificato. Non ricordo invece bene la trama di Un re a Roma, che sceneggiammo insieme nei primi anni cinquanta e rimase lì. Trovo affascinante immaginare la carriera di un regista attraverso i film che non ha girato. La tua sarebbe stata ancora più varia, forse più realistica, certamente più dura. S.M.

Le ragioni per cui un film salta sono molteplici, ma a volte è proprio quel pizzico di convinzione in meno dietro cui si nasconde un’incertezza. Capita di cominciare da un’idea e rimanere lì, senza sapere come continuarla. Come mi è accaduto con Solinas e Pirro per Uomini e dèi, un soggetto legato all’immagine di un derelitto che viveva in un bidone con la sua famiglia in mezzo al deserto. Già nella prima settimana non riuscimmo a tirarne fuori un racconto che ci convincesse, un segnale inequivocabile del fatto che la storia non quadrava. La storia continuava con una scena sull’aereo in volo sopra l’Atlantico, in cui il magnate della compagnia petrolifera, attraverso una serie di combinazioni che non trovammo, doveva entrare in contatto con questo derelitto. Detto così, si capisce che c’era poco succo nella storia, era più la suggestione di questa immagine iniziale. Sempre sul petrolio, con Zapponi provammo a mettere su una storia gialla che non teneva per niente. Il giallo del resto è un genere che non mi appartiene, richiede un ingranaggio della trama troppo studiato per i miei gusti. Ed è chiaro che i film sul petrolio non mi vengono proprio. Per scrivere un copione, gli sceneggiatori devono avere prima sviluppato l’arco del racconto avendo presente l’inizio e la fine della storia. È una regola tacita, ma soprattutto un’esigenza e uno stimolo a buttarsi in un lavoro. Solo M.M.

De Benedetti partiva senza avere un’idea di cosa sarebbe successo nel corso della storia. C’erano delle fissazioni o delle scorciatoie a cui gli sceneggiatori ricorrevano in caso di problemi? S.M.

In seguito a un bruttissimo cesareo alla moglie, Sonego era ossessionato dalle operazioni. In Totò e Carolina Totò diffida del medico Enzo Garinei che si occupa di Carolina: «Non ci sarebbe il babbo?» chiede. Una scena analoga si ripete in Un eroe dei nostri tempi quando Sordi, operato addirittura dal padre e dal figlio chirurghi, richiama il figlio a seguire le indicazioni corrette del padre. M.M.

Meno influente nella commedia, Zavattini è stato il punto di riferimento di diverse generazioni. S.M.

Nel 1931 era esploso con Parliamo tanto di me, un libro che con gli occhi di ragazzino mi stupì molto. È stato una sorta di guru. Lo frequentavo, ma avevo un’idea di cinema molto diversa. Aveva quest’ossessione di cogliere la verità: la verità contro la finzione, tutta lì la sua grande idea. In realtà da solo non ha combinato niente. L’avevo conosciuto a Milano. Alla Mondadori mio fratello Giorgio lavorava sotto di lui. Lo pigliava per il culo tutte le mattine. Arrivando puntualmente in ritardo, si levava le scarpe e passava apposta davanti alla sua scrivania per farlo arrabbiare. Erano i primi tempi in cui la Mondadori aveva una struttura industriale. Giorgio credeva ancora di poter fare i suoi comodi. M.M.

Il commissario Paolo Ferrara (a sinistra) e Renato Salvatori (ultimo a destra) tra la figlia e il suocero del defunto Memmo Carotenuto nella scena all’obitorio tagliata in sede di montaggio nei Soliti ignoti.

Ho letto il trattamento dei Soliti ignoti, che voi chiamavate ancora presceneggiatura. Si intitolava Le madame, titolo che compare sul ciak durante la lavorazione. Gli autori siete tu, Age e Scarpelli. La Suso si sarebbe aggiunta in fase di sceneggiatura. Per chi ama il film, è molto divertente scoprire l’origine dei personaggi e delle vicende, per poi confrontarli con il risultato finale. La prima differenza è lo spazio molto più ampio dedicato alle storie d’amore. S.M.

Concentrandole in meno scene, siamo riusciti a dare la stessa rilevanza eliminando le ripetizioni. La storia tra Gassman e Norma, l’amante di Carotenuto, era più esplicita. Quella tra Gassman e la Gravina prevedeva una lunga scena in un negozio di mobili dove progettavano una vita futura insieme, con Norma che li spia e fa una scenata di gelosia a Gassman: una situazione che si sarebbe ripetuta nella festa di Carnevale. Rispetto al film, la storia d’amore tra Peppe e Nicoletta prende una piega più seria nel finale, quando Gassman la accompagna dalle suore pallottine M.M.

dove ha trovato da dormire una volta licenziatasi dalle padrone. Il colpo di fulmine tra Salvatori e la Cardinale veniva approfondito in un incontro furtivo al cimitero, dove Carmela andava tutti i giorni a salutare la madre, in cui Mario le strappa «un bacetto furtivo». Alcune caratteristiche dei personaggi sono state adattate agli attori. Un’espressione come «Qui si lavicchia» fa di Cruciani, il vecchio scassinatore, il tipico personaggio di Totò. Peppe er Pantera era molto più certo del fatto suo prima di diventare balbuziente con Gassman. Cosimo aveva molte più scene. S.M.

Il linguaggio è stato calibrato sugli attori scelti. Se con Totò veniva facile, con Gassman abbiamo cercato di dargli una connotazione spiccatamente popolana, insistendo sulla balbuzie in contraddizione con quel suo fisicaccio da pugile. Tiberio-Mastroianni aveva un ruolo ancora più marginale, e durante il furto rimaneva in strada a fare da palo. Cosimo veniva seguito nelle sue patetiche peregrinazioni da quando esce dal carcere e trova sulla porta un cagnolino, che da allora in avanti lo segue dappertutto: nella scena del luna park lo si nota chiaramente. M.M.

Una variante significativa, che dimostra l’intenzione di soffermarvi sulla morte di Cosimo, è la parte girata e successivamente sacrificata in moviola della camera mortuaria, con l’arrivo della figlia insieme al commissario. S.M.

Nel film la scena si chiude proprio quando sta arrivando l’auto del commissario e la compagnia si scioglie in pochi secondi. Abbiamo considerato la scena della camera mortuaria un’eccessiva sottolineatura, che comportava l’ingresso di un nuovo personaggio che non sarebbe riapparso. M.M.

S.M.

Peppe er Pantera, invece, aveva un fratello.

Righetto, un ragazzino che lavorava da un barbiere. Gassman lo incontrava all’inizio e alla fine del film. Lo abbiamo eliminato perché abbiamo preferito fare di Peppe una persona sola. Ma soprattutto perché non ci piaceva il finale originale, con Gassman che lo incontra insieme al padre all’alba, dopo la mangiata di pasta e ceci. Il padre neanche gli parla, M.M.

Righetto gli chiede cosa fa ancora in giro a quell’ora. Gassman mente dicendo di essere appena uscito di casa per andare a lavorare. Intanto, in lontananza, Capannelle raccoglie una cicca e si allontana. Era un finale che non mi convinceva. Fermai la lavorazione e convocai gli sceneggiatori per trovare una soluzione più incisiva: Gassman che si ritrova suo malgrado a lavorare e Capannelle che si allontana chissà dove. Senza troppe ingerenze moraliste. Infatti è un finale che si ricordano tutti.

Il mestiere di far ridere

L’umorismo come chiave per raccontare il mondo è una scelta che giunge al termine di esperienze molto diverse. Il tono stesso del tuo umorismo subisce un’evoluzione nel corso degli anni. In un primo tempo si fissa sulla comicità “infantile” della farsa – il sottofondo di tutto il tuo cinema – per poi adeguarsi a situazioni sempre più realistiche con un approccio più consapevole, a un passo dall’ironia. S.M.

Da giovane ero più attirato dal dramma per la sua importanza. Solo più avanti ho compreso la superiorità dell’umorismo. Alla rappresentazione oggettiva del fatto di un’opera drammatica, il punto di vista ironico aggiunge una conoscenza, che diventa distacco, diciamo pure superiorità, in grado di gettare una luce più profonda sul fatto stesso. Profonda ma immediata nella ricezione del pubblico. La profondità è data dalla maggiore riflessione dell’ironia, dalla rielaborazione del fatto nudo in un contesto diverso, da un’angolazione meno diretta ma più arguta. L’immediatezza nasce dal rovesciamento del dramma in risata, con una forza ulteriore di coinvolgimento e quindi un numero maggiore di spettatori. Tutti i grandi autori sono stati grandi umoristi. Cervantes, Swift, Gogol’, Thackeray, Čechov, Manzoni stesso, per non parlare di Shakespeare. Il mio cinema racconta di uomini e donne semplici, talvolta ignoranti e magari stupidi, con una simpatia ben lontana dall’ironia. L’ironia è nel mio sguardo, che però deve adattarsi alla storia, ottenendo così un tipo di umorismo più concreto. M.M.

L’intesa con Steno dura otto regie in comune. Te lo chiedono da anni: come ripartivate il lavoro? S.M.

Con una naturalezza che emergeva man mano che elaboravamo un progetto. Avendo lavorato per anni come aiuto, io ero ritenuto il più tecnico, mentre Steno, grazie alla lunga militanza nelle riviste umoristiche, era considerato un battutista più adatto a lavorare con gli attori. In realtà eravamo intercambiabili. Entrambi sapevamo fare tutto. Già con Totò cerca casa cominciammo ad alternarci sul set. L’impostazione delle scene la discutevamo in fase di sceneggiatura, e vedendo insieme i giornalieri si poteva correggere qualcosa. M.M.

L’evoluzione dal film comico alla commedia di costume passa attraverso l’incontro con Totò. Insistendo nella direzione delle “commedie neorealiste” scritte per Righelli, ma soprattutto per Borghesio, tu e Steno portaste a compimento il suo passaggio da marionetta a personaggio. Ma dovevate fare i conti con la sua formazione surrealista alla scuola di Gustavo De Marco. S.M.

Negli anni trenta andavo a vedere Totò a teatro. Era sublime proprio per la sua capacità di disumanizzarsi, di astrarsi nella figura di burattino. La sua consistenza diventava irreale: di purezza lunare. Quando faceva la marionetta disarticolata, l’anima gli svaporava via. L’esatto contrario di quello che gli chiedevo io. Totò possedeva delle doti fisiche uniche: da come snodava il corpo alla mimica facciale, riusciva a stravolgere le sembianze umane in una maschera vivente. Dava il volto a personaggi inverosimili, come il celebre maestro di musica che ritornerà nel finale di Totò a colori, mimava la scimmia, cantava. Purtroppo non esistono filmati di quegli spettacoli. Noi tutti abbiamo cercato di “riesumarlo” inserendo nei vari film dei pezzi di quel repertorio. In Totò cerca casa ripescammo un suo celebre numero dello spettacolo L’Orlando curioso, quando preso da un raptus comincia a timbrare tutto quello che gli capita a tiro. Freneticamente, in un crescendo di trasgressione che culmina nel timbro sul sedere del sindaco che sta per inaugurare la scuola. A teatro scendeva in platea e cominciava a timbrare gli spettatori: immagina tu che delirio. M.M.

Il passaggio al cinema era inevitabile, anche se lui rimpianse sempre il rapporto diretto con il pubblico. Verso il cinema manifestava un certo disinteresse. Lo ha fatto per quasi vent’anni, soprattutto per ragioni

economiche. Inizialmente traspose nei film quello che faceva a teatro. Le sceneggiature erano al servizio dei suoi numeri, che erano cuciti l’uno all’altro sulla falsariga di un pretesto, a volte erano slegati in una successione rocambolesca. Era una comicità infantile, tutta basata sull’immediatezza, capace di picchi vertiginosi, ma lontana da qualsiasi psicologia. Qualche frammento del suo estro surreale si ritrova in certi brani dei film più scombinati, diretti da Mattoli, Bragaglia, Mastrocinque e Steno dopo che ci lasciammo: Fifa e arena (1948), I pompieri di Viggiù (1949) e Totò cerca casa (1949), Tototarzan (1950), Il monaco di Monza (1962) di Corbucci e Totò diabolicus (1962). Steno e io fummo i primi a lavorare sull’umanizzazione della figura di Totò. Partendo dalla farsa, cominciammo a dare uno spessore psicologico ai suoi personaggi, costruimmo via via delle storie che lo costringevano a svestire i panni della maschera e impersonare uomini credibili. In Guardie e ladri ci stupimmo della carica umana che trasmetteva, il suo controllo perfetto sulle variazioni di tono. Era la conferma che ci trovavamo sulla strada giusta. Avevamo trasformato Totò nell’uomo della strada. Più proletario che piccolo-borghese, rappresentava quel popolino di affamati, poveracci, se non disoccupati sfruttati, semplici e anche un po’ qualunquisti che si riconobbe nei suoi affanni quotidiani. Dall’esuberanza della fisicità, la sua comicità si era rincantucciata in un ometto senza troppe qualità, riscattato da una dignità umana dalle sfumature patetiche. La trasformazione di Totò non fu così facile. Doveste arginarne le intemperanze, il gusto per l’eccesso, la battuta fine a se stessa, la vena anarchica. Tanto più che tu e Steno eravate più giovani. S.M.

Il fatto di essere più giovani non costituì un problema. Quando un attore avverte la sicurezza di un regista si lavora con il rispetto reciproco. In Totò cerca casa, Totò suggeriva sempre soluzioni al limite del surreale, in contrasto con la volontà di Steno e soprattutto mia di dare al film un tono realistico. Essendo il primo film insieme, ricordo di essere stato spesso insofferente, di avere abbandonato ogni tanto il set dopo qualche incomprensione. Tutti problemi risolti con una stretta di mano. Con Totò M.M.

non si poteva litigare. Veniva sempre fuori l’anima aristocratica del principe. Un problema analogo si ripropose durante le riprese di Guardie e ladri. Totò e Fabrizi, che erano molto amici, cominciavano a ridere come pazzi e non si riusciva a fermarli. Non c’era niente da fare, appena uno dei due apriva bocca per pronunciare la battuta, l’altro scoppiava a ridere e dovevo fermare tutto. Più di una volta mi arrabbiai. Agli occhi di oggi, credo di essere stato frenato dall’impronta neorealista, a discapito della sua bizzarria istintiva. Quando Pasolini riprese il Totò surreale era tardi: era vecchio e malato, ma nonostante ciò riuscì a immortalare la sua grandezza tirandone fuori anche la poesia. Totò cerca casa nasce come film di recupero. In qualità di produttore esecutivo della Lux, Ponti aveva sotto contratto Totò per otto settimane – allora i film si giravano in media in quattro-cinque settimane. Comencini aveva appena finito L’imperatore di Capri (1950): c’era da riempire un buco di tre settimane. Non essendo disponibili altri registi, lo propose a voi producendolo per la sua Ata Produzioni cinematografiche. La storia, come tieni a sottolineare, parte da un problema sociale quantificabile in cifre disarmanti. Tra il 1948 e il 1952, a fronte di 29mila richieste di alloggio a Roma, lo Iacp (Istituto autonomo di case popolari) ne soddisfa 1511. Definito il primo film neorealista di Totò, Totò cerca casa incassa oltre mezzo miliardo. Solo Matarazzo con Catene (1949) guadagna di più nella stagione ’49-’50. È il primo dei vostri grandi successi. S.M.

Un successo che cambiò la nostra carriera. La regia non era nei nostri piani. Soprattutto Steno era restio ad accettare la proposta. Avendo fatto una lunga gavetta come aiuto, io mi sentivo sicuro e Steno mi venne dietro. Da un soggetto nostro, lavorammo con Metz e Marchesi e Age e Scarpelli per la prima volta insieme. Tutte le fonti da cui attingemmo – dalla Famiglia Sfollantini di Attalo al Custode di Moscariello – furono rifuse in una farsa calata nella realtà, con riferimenti molto precisi all’attualità. L’incertezza non solo politica in cui si viveva allora viene fuori dal credo politico di Bernardino Lomacchio «socialdemocratico, monarchico, repubblicano», tanto per non sbagliare. Il politico interpretato da Biliotti è già un figlio dei nuovi tempi. Retorico e opportunista, inaugura nuovi monumenti mentre la M.M.

gente non trova un buco dove stare. Allora noi ci vendichiamo facendo abbattere con la macchina da Totò il monumento alla Ricostruzione italiana. E lo facciamo gridare in un impeto un po’ qualunquista: «Sfollati di tutto il mondo, unitevi!». La cosa curiosa è che Steno – vai a capire il perché – era monarchico. La scena dell’inseguimento in macchina, con la bomba collegata ai freni che se sfiorati sarebbe esplosa, ricorda Harold Lloyd. S.M.

I modelli erano Chaplin, Keaton, i fratelli Marx ma anche le slapstick comedies. Avevamo proprio il gusto della farsa, in contrasto con le nostre stesse intenzioni realistiche. È una contraddizione che ci siamo portati dietro per diversi film e di cui eravamo consapevoli. In Guardie e ladri c’è una gag a riguardo. Proprio nel finale, mentre Totò e Fabrizi si avviano verso la prigione, da una trattoria arrivano le note di una canzone famosa. Totò cerca di ricordarsela, prova pure a fischiettarla, poi desiste. La canzone è La fioraia del Pincio, cantata dalla Magnani nello spettacolo Quando meno te l’aspetti del 1940 per la Compagnia Grandi Riviste Totò. Come a dire che ormai Totò l’avevamo “convertito” alla comicità realista. Un fatto che poi si rivelò falso. Nella scena del cimitero di Totò cerca casa Flavio Fiorin è travestito da donna. A un certo punto Totò si finge bambino in una classe elementare, occhieggiando con troppo interesse la patronessa Marisa Merlini. In questi casi, come in tutti gli inseguimenti tradizionalmente legati alle comiche, l’ambizione realistica è soverchiata dalla farsa. Però il problema delle case manteneva un valore sociale. Il fatto che sui cartelloni pubblicitari Totò implorasse «Sto cercando casa. Aiutatemi a trovarla!» contribuì a inquadrare la sua figura in un contesto di vita comune che prima non aveva. M.M.

Intanto voi vi apprestate a girare il più bel film realista con Totò: Guardie e ladri. Sulla cui gestazione esiste un fatto poco noto. Stando alle dichiarazioni di Maccari, pare che il soggetto di Tellini sia stato inizialmente offerto alla Magnani, che avrebbe dovuto interpretare la parte della ladra. S.M.

È un fatto che ignoro, ma è plausibilissimo: spesso i soggetti passavano di mano in mano e a ogni passaggio si costruivano diversi cast. M.M.

Quando arrivò nelle nostre mani il soggetto di Tellini – nato da un’idea di Fellini – esisteva anche un trattamento di Flaiano. La sceneggiatura vera e propria è opera nostra, di Maccari e di Fabrizi, che teneva molto al film, mentre Flaiano e Brancati sono intervenuti con grande sensibilità sul soggetto, dandogli una veste “letteraria” che gratificò molto Totò. L’idea di mettere insieme Totò e Fabrizi è invece di Ponti. Un’idea inizialmente osteggiata da chi temeva il confronto tra due mostri della comicità. L’unico ostacolo che incontrammo nella lavorazione riguardò i titoli di testa, intoppo a cui ovviammo incrociando due volte i loro nomi sopra il titolo. Casiraghi sull’Unità lo definì «un film comico serio», un giudizio che ripeté in maniera più approfondita Calvino su Cinema Nuovo. Lo stacco è netto rispetto ai film precedenti nel senso di una storia compiuta, improntata a una verosimiglianza che dai toni inizialmente lieti, a tratti buffoneschi, si spenge in una mestizia molto umana. S.M.

Guardie e ladri è il film che cambia l’immagine di Totò. Vinse addirittura il Nastro d’argento come protagonista e ottenne per la prima volta in vita sua un riconoscimento critico. È una commedia che ha perduto la spensieratezza. Si propone di far ridere attraverso delle disgrazie, rinuncia a distinguere tra buoni e cattivi: racconta di persone semplici, buone e un po’ sfortunate che la sorte ha portato a stare da una parte o dall’altra, ma comunque rimangono uguali nelle loro piccole vite. Il mancato lieto fine conferma l’impotenza davanti a decisioni più forti di loro. M.M.

Sono convinto che il finale di quel film sia il tuo più bello in assoluto… Un particolare di non poco conto è la mancanza di belle donne che stuzzichino gli appetiti sessuali puntualmente frustrati di Totò. S.M.

Le belle donne irraggiungibili sono una costante nei film di Totò, molto gradite al pubblico popolare affamato di sesso. Anch’io le ho utilizzate in chiave esornativa, come sogni irraggiungibili o trasgressioni negate, in contrasto con le mogli abbottate, cadenti e dittatrici. In Totò cerca casa ci sono la moglie dell’orientale e la Merlini. In Totò e i re di Roma le ballerine del varietà, la segretaria del direttore generale e le figlie scosciate di Totò. In Guardie e ladri l’attenzione di Totò non è mai distolta da queste M.M.

donne appariscenti, proprio per sottolineare la condizione di un poveraccio che le belle donne le ammira a teatro e al cinema o al massimo le incrocia per strada, mica le conosce…

Fabrizi è riuscito ad ammanettare Totò alla fine del famoso inseguimento in Guardie e ladri.

Ma il pezzo di bravura del film è l’inseguimento tra la guardia Fabrizi e il ladro Totò. S.M.

Un tête-à-tête tra due grandi. A partire da come correvano: la corsa altalenante di Totò, a brevi falcate, quella pesante di Fabrizi, che sembrava sempre sul punto di scoppiare. Quando si fermano a breve distanza l’uno dall’altro e si siedono, comincia un duetto eccezionale. Steno e io li avevamo imbeccati con la battuta chiave. Dopodiché andavano avanti da soli, tipo commedia dell’arte. Se erano in vena non finivano mai. Allora io li lasciavo andare, tanto poi sceglievo in moviola. Erano tutti così. Partendo da una battuta, qualsiasi attore d’avanspettacolo era in grado di tirare avanti giocando sui doppi sensi, rigirando la battuta, legandola a pezzi di repertorio. Erano abituati a parlare con il pubblico. M.M.

C’era chi li prendeva a male parole, oppure apriva il giornale nel mezzo dello spettacolo per provocarli. Era lì che veniva fuori il grande attore, improvvisando la battuta spiritosa. Lavorare con loro era soprattutto un gran divertimento. Con Totò c’è stato un legame speciale. Il seguito ideale di Guardie e ladri è Dov’è la libertà…? (1954) di Rossellini, ambientato proprio in prigione. Ho letto da qualche parte che tu girasti alcune scene del film, e lo completò Fellini. S.M.

L’ho letto anch’io, ma non è vero. Il film è tutto di Rossellini. Tra gli sceneggiatori figuravano Brancati e Flaiano, nel segno della continuità con il “nostro” Totò. Ma il risultato non è dei migliori. M.M.

Potrebbe sembrare un passo indietro, e per certi versi lo è – dalle concessioni farsesche al finale surreale – rispetto al realismo di Guardie e ladri, invece Totò e i re di Roma si fa apprezzare proprio perché fonde le due anime di Totò, quella metafisica e quella umana. S.M.

Il titolo originale era E poi dici che uno… con i puntini di sospensione al posto della battuta che Totò pronuncia più volte nel corso del film: «E poi dici che uno si butta a sinistra». Già in Totò cerca casa, scritto a ridosso delle elezioni del ’48, mettevamo in forte imbarazzo un signore sul marciapiede: se seguire la bella donna che andava a destra o la bella donna che andava a sinistra: «E chi nella tormentata umanità di oggi non è indeciso se andare a destra o a sinistra?». Totò e i re di Roma è un film sulla morte, seppure trattata in modo farsesco. Ercole Pappalardo è un personaggio drammatico, vessato da trent’anni di lavoro in un ministero come archivista capo, incalzato dalla sfortuna, umiliato dai superiori quando si viene a sapere che non ha la licenza elementare – è entrato al ministero nell’ottobre del ’22, sussurra al suo capo… A completare il quadro drammatico, si ritrova sul gobbone cinque figlie femmine da piazzare e soffre di cuore. Solo noi italiani riusciamo a ridere di tutte queste disgrazie messe insieme. M.M.

Con un’ironia solo in superficie più blanda, anche i russi. I due racconti di Čechov a cui è ispirato il film hanno inciso sull’atmosfera minacciosa che riveste tutti gli eventi, soprattutto quelli fortuiti. S.M.

Čechov è stato un grandissimo conoscitore della natura umana. Il suo maggior pregio è stato quello di rappresentarla nella sua quotidiana insensatezza. Con la superiorità dell’ironia. Il senso di fatalismo è acuito dall’atto unico di Peppino De Filippo, Quale onore!, che utilizzammo nella sceneggiatura. Per me Peppino è stato superiore a Eduardo, soltanto meno abile a vendersi. M.M.

Ci sono alcuni personaggi e situazioni da citare assolutamente. La figura del giovane “lottista” – vincitore di 45mila lire con una terna sulla ruota di Bari che Totò vuole immediatamente rifilare alla figlia. Il pappagallo che sostituisce il pappagallo “fascista” fucilato dai partigiani perché cantava Giovinezza. Il funerale del povero Filippini, con i colleghi che si spartiscono il vuoto materiale lasciato dal morto, fanno le parole crociate, disquisiscono sul costo di un “funeralicchio” del genere, e finiscono per litigare tutti quanti. S.M.

La scena del pappagallo è una delle tante allusioni a “prima”, ai tempi di Mussolini, che ricorrono in parecchi film dell’epoca. In Totò cerca casa Alda Mangini osava dire che era meglio prima, intendendo la casa precedente. Ma Totò non le lascia il tempo: «Non cominciamo con l’apologia». In Un eroe dei nostri tempi Tina Pica prova a dire «Quando c’era il…» ma Sordi la zittisce. Gli impeti nostalgici erano frequentissimi in molte famiglie italiane. M.M.

Un elemento che ricorre nel tuo cinema è la contrapposizione tra Nord e Sud, qui esemplificata dal “terrone superstizioso” Totò e dalla moglie “polentona” Anna Carena. S.M.

Ma Totò si vanta del suo servizio militare a Cuneo, «provincia di Verona»: «Tre anni che hanno influito sulla mia psiche». In Vita da cani salta all’occhio lo scarto tra la vita lavorativa milanese e quella dei teatranti, associata alla provincia ma più in generale a Roma e al Sud, da dove proveniva la maggior parte dei comici. M.M.

Tieri, Stival, Sordi, il pappagallo “fascista” e Totò in Totò e i re di Roma. È una delle poche scene in cui compaiono insieme Sordi e Totò.

Totò e i re di Roma rimarrà nella storia per l’unico incontro cinematografico tra Totò e Sordi, ancora legato alla macchietta petulante del compagnuccio della parrocchietta. S.M.

Fu un incontro disastroso. Erano due comicità incompatibili. Nelle poche scene in cui recitarono insieme, erano entrambi guardinghi. Si studiavano avidamente. Totò voleva cogliere il segreto di questo astro nascente che giocava sulla cattiveria. Sordi cercava di carpire il mestiere a un maestro. Fu un duello vero e proprio. Per metterlo alla prova, Totò cercava di sorprenderlo improvvisando. Da parte sua Sordi era prontissimo. Gli teneva testa improvvisando a sua volta. Sarebbe stato interessante rivederli assieme con un Sordi più maturo, di qualche film dopo. M.M.

È inevitabile tornare sul funerale di Pappalardo, che ha deciso di morire per rivelare alla moglie in sogno i numeri vincenti del lotto. Con Totò vestito da morto, il fazzoletto annodato tra il mento e la testa, che guida a piedi il corteo funebre. Dopo la sua morte inizia la parte ambientata nell’Olimpo. Nella cornice surreale, metti in scena le paure di uno stato quasi poliziesco. S.M.

Non solo è il mio funerale più bello, ma è anche il più originale. Dà il senso di ciò che Totò poteva fare. Praticamente tutto. La scena della celere “celeste” che fa la retata contro i borsisti neri del lotto aveva un impatto realistico sul pubblico, che riconosceva le analogie con l’attualità. Fu una delle ragioni per le quali la censura ci impose di chiudere il film con la voce fuori campo che rassicurava gli spettatori: «E questo fu il sogno di Ercole Pappalardo». Un altro punto ritenuto sgradevole fu l’immagine tapina dell’impiegato statale, una condizione che merita il paradiso, come dice alla fine il Padreterno Almirante. Tra gli artefici di questo cambiamento minimo ma significativo ci fu Andreotti, che allora ricopriva l’incarico di sottosegretario allo Spettacolo. M.M.

Ho letto che giraste la scena del risveglio di Pappalardo, decidendo in un secondo tempo di ometterla per chiudere il film con una soluzione ambigua. Allora la censura impose la “rassicurazione” che si trattava di un sogno. S.M.

Ricordo benissimo di avere girato il risveglio di Pappalardo, non ricordo se lo montammo mai. Fu a quel punto che la censura ci fece inserire la voce fuori campo, che però non altera il senso del film, perché non rivedendo Totò in famiglia rimane l’impressione di avere assistito a una morte vera. M.M.

La separazione da Steno avviene ufficialmente nel 1954, ma in realtà vi eravate già spartiti Le infedeli e Totò e le donne, dopo il quale Steno diresse subito Totò a colori, a cui partecipasti come sceneggiatore. S.M.

Io sono uno che cambia spesso: è nella mia natura cercare sempre nuove esperienze, contraddire le mie scelte precedenti. Il contrario di Steno, che era soddisfatto del proprio lavoro. La nostra è stata una separazione naturale, che non ha compromesso la nostra amicizia, sebbene sia diventato sempre più difficile vedersi, visto che lavoravamo senza sosta. M.M.

Dirigi Totò da solo per la prima volta in Totò e Carolina, un film realizzato nel 1953 ma che uscirà dopo quasi due anni di lotte con la censura, massacrato da oltre trenta tagli, con intere scene eliminate e altre stravolte in doppiaggio. S.M.

L’accanimento di Scicluna Sorge contro il film ti dà l’idea del clima di allora. Rappresentava davvero un affronto Totò poliziotto, aggravato dal fatto che si lasciava abbindolare dalla Ferrero, trasgredendo gli ordini e lasciandosi trasportare da un gesto umano. Allo stesso modo era inconcepibile rappresentare un prete gretto o far cantare Bandiera rossa a degli operai, artefici del salvataggio di Carolina. Ma tutto sommato il film non era questa gran cosa. I tagli stessi non l’hanno mutilato più di tanto, si trattava di una storiella senza tante pretese. M.M.

Lo dici oggi, però. Il pesante intervento censorio testimonia al meglio il perbenismo dei tempi, in contraddizione con le risate dei preti all’anteprima, come ricorda Sonego, autore con te, Age e Scarpelli della sceneggiatura di Addio Carolina da un soggetto di Flaiano, in cui Carolina era la jeep. S.M.

È talmente vero che sempre con Sonego ci vendicammo di quel clima poliziesco in Un eroe dei nostri tempi con una satira velata, condita di una serie di frecciate molto pungenti. Anche se hanno tagliato delle scene che mi piacevano, il risultato finale di Totò e Carolina non si discosta di molto da come l’avevo girato. Uno degli aspetti più riusciti è l’andamento della storia, che si svolge come un road movie in un’Italia minore. M.M.

Tra i tanti tagli, è rimasto il tentato suicidio di Carolina, un tema sconveniente che avevi già affrontato in Vita da cani e con particolari quasi raccapriccianti nelle Infedeli. S.M.

Nelle Infedeli il suicidio riuscito della Ferrero era rappresentato con partecipazione drammatica. In Vita da cani era una soluzione più ardita, trattandosi di una commedia. In Carolina sempre la Ferrero tenta il suicidio in una cornice meno dura, addolcita dalla presenza di Totò. Ricordo perfettamente la scena in cui lei vuole buttarsi sotto il treno, perché dovevamo calcolare gli orari dei treni. E dovevamo stare molto attenti, altrimenti il treno l’avrebbe travolta sul serio. È un problema che si è riproposto con la Muti in Romanzo popolare. M.M.

Il finale è allusivo: insomma, si capisce che la Ferrero va a vivere con Totò, si capisce meno in quale veste. S.M.

Non potevamo scandalizzare l’opinione pubblica: com’era possibile che un poliziotto come Totò si portasse a casa una donna del genere! Così fummo costretti a essere meno espliciti… M.M.

Tra le scene scomparse del tutto dopo il restauro filologico, ce n’era una in cui Totò si rivolgeva a Dio rimproverandolo: «Oh, mio Signore, guarda che un vero signore non si comporta in questo modo con le donne». S.M.

La ricordo, come ricordo le mie discussioni con Scicluna Sorge. Avevamo toccato due baluardi del nostro stato: la Chiesa e le forze dell’ordine. E nemmeno il tono indulgente di Totò, la sua profonda umanità, lo convinsero del contrario. M.M.

Adesso facciamo un passo indietro, al tuo secondo esordio dopo I ragazzi della via Pál (1934). Al diavolo la celebrità è una sorta di Faust a metà tra sophisticated comedy e farsa, con un cast variegato che pesca indistintamente dall’avanspettacolo, da Hollywood e dal ring. Lo sceneggiaste tu e Steno da un soggetto di Geo Taparelli, Ernesto Calindri e Dino Hobbes Cecchini. S.M.

Infatti il soggetto non ci piaceva, era falso dall’inizio alla fine. Era l’ennesima variante del Faust, grande passione del produttore Malenotti, invasato di spiritismo. La storia si concatena in una serie di episodi più o meno riusciti, ma del tutto implausibili. Ci sono concessioni farsesche come le torte in faccia e più in generale nel ritmo concitato di alcune scene. C’è il gioco degli equivoci di ascendenza hollywoodiana. Ci sono le battute che rimandano alle elezioni del 1948, il tormentone sui baffi ma anche l’incubo della bomba atomica. Steno e io eravamo interessati a tutt’altro tipo di comicità, incentrata sulla vita di tutti i giorni e non sulle trasmigrazioni da un corpo all’altro dell’anima di un professore spiantato. Ci interessavano i problemi della gente comune, non un fantasmatico mondo diplomatico che sembrava uscito dai fumetti. Il cast è un insieme di provenienze diverse, ma in fondo è riuscito. Dall’avanspettacolo reclutammo Campanini, Polacco, Lulli, la Marzi, Nyta Dover. Dall’America un vecchio caratterista come Mischa Auer, Abbe Lane, la miss America Marilyn Buferd e Bill Tubbs, già cappellano militare in Paisà. Direttamente dal ring prendemmo Marcel Cerdan, ex campione M.M.

del mondo dei pesi medi che aveva perso con Jack La Motta, noto anche per una storia d’amore con Édith Piaf, e Fernando Jannilli, campione italiano dei medi leggeri. Cerdan, che nel film si chiamava Cardan e moriva cadendo in un burrone con la macchina, morì per davvero poco dopo le riprese in un incidente aereo. Ho notato una certa reticenza a parlare di questo film, quasi non lo considerassi tuo. S.M.

È che il film portò sfortuna a molti… Fu Malenotti che volle produrlo a tutti i costi. Era stato mio compagno di liceo a Viareggio. Tra l’altro giocò come ala destra nel Pisa, dov’era nato. Aveva una passione divorante per il cinema. Investì tutti i soldi di famiglia e per diversi anni fu un produttore di successo. Io avevo lavorato per lui come sceneggiatore diverse volte, nel ’55 fui tra gli sceneggiatori della Donna più bella del mondo con la Lollobrigida, nato da un suo soggetto. Al diavolo la celebrità lo produsse per la Scalera, che poi fallì, ma lui comprò subito gli stabilimenti di Tirrenia insieme a Ponti. Dopo varie disavventure perse tutto e si ritirò in un casale abbandonato dalle parti di Volterra. E lì venne rapito da dei pastori sardi. Solo che non sapevano che Malenotti non aveva più una lira. Loro invece chiesero miliardi. Siccome i soldi del riscatto non c’erano, la famiglia chiese aiuto agli amici. Io contribuii con ottanta milioni, e con me altri quattro o cinque. Ma non furono sufficienti. Alla fine lo hanno dato da mangiare ai porci. Fece una fine orrenda. M.M.

In quegli anni l’avanspettacolo è un’inesauribile fucina di spunti, storie e personaggi. Uno di questi è Tino Scotti, protagonista milanesissimo della rivista Ghe pensi mi – Mi come la targa di Milano – di Metz, Marchesi e dello stesso Scotti. Nasce così È arrivato il cavaliere! (1950). S.M.

Un film inutile. Il personaggio galante, una macchietta vagamente surreale un po’ alla Belle Époque, che parlava tutto forbito pur essendo ignorante, era scollato dalla realtà, non aveva alcun retroterra se non una facile milanesità. Il film ebbe comunque successo, ma Scotti si adattò a fare un ruolo di secondo piano. Il suo personaggio aveva un’ingenuità un po’ spaccona. Era la macchietta del bauscia, alle prese con una realtà che non M.M.

capiva, sempre pronto a cadere nel tranello di un equivoco, ma che alla fine riesce vincitore. Se fosse venuto meglio, avrebbe potuto avere anche una vena poetica. Tra gli spunti disseminati nel film, con una partenza in una periferia abitata da poveracci dove si svolgerà Miracolo a Milano (1951) di De Sica, rimane impressa la cattiveria del bambino di cui Scotti diventa precettore. S.M.

I bambini fanno parte di un mondo per me incomprensibile. La cattiveria, intesa magari come inconsapevolezza del male che si commette, è un loro tratto distintivo. Non a caso una decina di anni fa avevo proposto un soggetto ambientato a Berlino, in cui vecchi e bambini combattevano spietatamente tra di loro. Ovviamente non trovai il produttore. M.M.

Fu Aldo Fabrizi a suggerirti un film sulle piccole compagnie dell’avanspettacolo di cui lui aveva fatto parte per molti anni. Nasce così Vita da cani, uscito lo stesso anno di Luci del varietà (1950) di Fellini e Lattuada. S.M.

Ma il pubblico premiò noi! L’idea del film nasce dai ricordi di Fabrizi, che amava raccontare gli aneddoti sulla vita degli attori del varietà. Coinvolgemmo anche Maccari, che per anni aveva scritto le gag a Fabrizi, e Amidei, un altro che conosceva tutto di quel mondo. M.M.

Il film si sviluppa su due registri differenti. Un tono quasi neorealista, che fa da cappello e da chiusura al tono da commedia scanzonata, percorsa da un’amarezza crescente. Anche i finali sono due. Uno tragico con il suicidio di Tamara Lees. L’altro definitivamente amaro – a dispetto della regola del lieto fine tipico di queste commedie – con Fabrizi che rinuncia all’amore della Lollobrigida per farle fare carriera. S.M.

Nel fondo del film si respira una durezza che non abbandona mai i protagonisti, anche se lo scarto tra le due parti è eccessivo. Sfatando l’immagine fatua delle ballerine di rivista, le abbiamo mostrate come un gruppo di ragazze molto diverse tra loro, quasi sempre costrette a fare quel lavoro dalla necessità, ma con le stesse speranze di una ragazza di buona famiglia. È il caso della ballerina interpretata da Delia Scala, un’attrice molto versatile. Il contrario di Tamara Lees, molto bella ma molto cagna, M.M.

che nel film interpreta un’arrivista che preferisce i soldi all’amore, scegliendo il tipo di uomo che si sposa: un bruttissimo industriale milanese reso alla perfezione da Enzo Furlai-Furlanetto. La Lollobrigida era già un’attrice affermata, solo che non aveva capito la sua parte. Quando si presentò sul set e vide che la mettevo tra le ballerine di seconda fila, lei diede fuori di matto. Voleva fare subito la soubrette. Non aveva letto il copione o non l’aveva capito bene, visto che si rifiutava nella maniera più assoluta di girare la prima parte in cui lei era una ragazza senza arte né parte. Si mise a fare i confronti con Nyta Dover, che all’inizio del film è la prima donna: era fuori di testa. A un certo punto Fabrizi, che se ne era stato buono buono in un angolo, scatta e si avventa su di lei ricoprendola di insulti. A forza di minacce e improperi la terrorizzò. Così accettò la parte. «Devo sempre aiutare tutti, mai che io faccia l’aiutato» sbotta il capocomico Martoni, un Fabrizi bonario che tiene la scena alla grande, vive di espedienti, fabbrica soubrette e quando le cose si mettono male risolve tutto con un accomodante: «Siamo tutti italiani». S.M.

Fabrizi aveva doti istrioniche eccezionali. Era un romanaccio, che dietro una scorza ruvida, a volte indisponente, nascondeva sempre una nota di dolcezza. Impersonando Martoni, rievoca molti episodi della propria giovinezza trascorsa in questa precarietà nel fondo eccitante. Il tormentone di «Siamo tutti italiani» con cui cerca di aggiustare tutto calza a pennello con quello spirito di “abbracciamoci tutti” che nel dopoguerra era un modo di condividere le disgrazie. Se una serata non gira, come quella in Toscana dove per un equivoco Fabrizi ha preparato delle scenette anticomuniste in un paese rosso, non resta che dare l’ordine in fretta e furia di calare la cartina geografica dell’Italia, mentre l’orchestra attacca Trieste e il povero Fabrizi può tirare un sospiro di sollievo: «Di Garibaldi ce n’è uno solo. Quello è l’unico artista che fa sempre successo e non fa discussione sulla réclame». M.M.

Nei tuoi primi film si va spesso a vedere la rivista. In Totò e i re di Roma Totò e Tieri ci vanno con due squillo. Quando vengono invitati a tacere da un signore dietro di loro, Totò fa notare che «non siamo mica a S.M.

teatro». In Un eroe dei nostri tempi Sordi, Trieste e Mario Carotenuto cercano di abbordare le ballerine alla fine dello spettacolo. A Roma i teatri erano affollatissimi. Le compagnie di avanspettacolo erano famose e apprezzate dal pubblico, al punto che spesso la gente se ne andava quando cominciavano a proiettare il film che i numeri comici e le ballerine precedevano. Sono diversi i tempi dei night con gli spogliarelli di qualche anno dopo, riservati a un pubblico più esclusivo. Io ne ho filmato uno all’inizio di Casanova ’70. Già a metà degli anni sessanta era cominciata la divisione tra gli spettacoli comici, che venivano ospitati nei cabaret, e quelli con le ballerine, che ormai non mostravano più soltanto le gambe. M.M.

Dopo due film di rottura con il comico – Le infedeli e Proibito – ritrovi Sordi spaventatissimo, ossessionato di essere incastrato in qualsiasi modo, incapace di prendere una posizione, che segna tutto quel che fa sul suo taccuino in caso finisca sotto processo. Sonego voleva sottotitolare Un eroe dei nostri tempi – preso in prestito dal romanzo di Lermontov – La paura, simboleggiata dal trench, l’impermeabile che Sordi porta sempre con sé per il timore che piova. S.M.

Sonego scrisse un bellissimo soggetto in pochi giorni, da cui abbiamo ricavato uno dei personaggi più riusciti di Sordi negli anni cinquanta. Nemmeno dopo la sua morte è stato rivalutato, e un po’ mi dispiace perché è un film in cui prendono piede la cattiveria, l’egoismo più vile e la piccineria morale di Sordi. La risata nasce sempre da un difetto, da qualcosa che non si dovrebbe fare. M.M.

Alberto Menichetti è l’archetipo del qualunquista italiano: «Io non ho idee politiche. Non sono né di destra né di sinistra. Ma non vorrei che si dicesse che sono di centro». Paese Sera definì qualunquista il film. S.M.

Riletta oggi, la frase di Menichetti sembra una dichiarazione d’intenti della carriera di Sordi, che ha dipinto questa figura oscillante di italiano medio, pronto a saltare sul carro del vincitore e a sputare sul perdente di fronte a cui si inchinava solo un minuto prima, l’esatto contrario di uno dei pochi personaggi positivi di Sordi in Una vita difficile (1961). Questo M.M.

destreggiarsi in un’indecisione sistematica porta gli altri a scambiarlo per «uno dei nostri», come gli dicono i magazzinieri comunisti. E lui si giova di questi equivoci che non smentisce. Per anni la critica sguazzò nell’ambiguità di associare il film al carattere del personaggio, che nella commedia all’italiana è quasi sempre moralmente disdicevole. A volte è un trucco deliberato per sparare a zero su tutto e non soffermarsi su come è stato messo in scena un personaggio abietto. «Oggi basta una parola che sei incastrato», «E lei mi parla ancora di libertà di stampa» sono solo alcune delle battute disseminate nel film che alludono allo stato repressivo in vigore con Scelba ministro dell’Interno. S.M.

Per un uomo terrorizzato come Sordi, in un mondo tanto insicuro, l’unica soluzione sarà quella di mettersi dalla parte dei più forti, vale a dire della polizia. Del resto Sordi è un prodotto del clima oppressivo del film. Le scene dei disordini in piazza durante le elezioni sono prese da materiali di repertorio che sottolineano ulteriormente quel clima. Anche il terrore di aderire a uno sciopero era un fatto tutt’altro che raro, che accomuna Menichetti a Pappalardo. M.M.

La vedova De Ritis di Franca Valeri – capufficio innamorata di Sordi che lui chiama “dottore” – è un compendio di alterigia insinuante e dignitoso patetismo, appena screziato di sprazzi da sognatrice. Ma nei momenti chiave ha bene in testa il quadro della situazione: «Quanta slealtà su quel faccione da bambino» chiude la bocca a un Sordi pretestuosamente romantico. S.M.

Solo lei può far ridere quando annuncia a Sordi che «oggi, dopo quattro anni di burocrazia, la salma di mio marito è arrivata al Brennero». Con un umorismo misurato, calcato dalla sua inconfondibile voce cadenzata. La chiave della battuta sta nella precisione del dettaglio – il Brennero – che rende la bara quasi “visibile”. La scena in commissariato in cui lei ascolta le basse delazioni di Sordi esalta bene questa sua rassegnazione di fondo. Aveva sempre saputo di che razza di uomo si era innamorata. M.M.

Franca Valeri e un mellifluo Sordi in Un eroe del nostro tempo.

Tra i personaggi di contorno, spicca un cattivissimo direttore generale interpretato con la giusta insofferenza da Lattuada, che gli ha dato anche un tocco di perfidia sporcacciona, con la fissazione di ascoltare le conversazioni dei dipendenti attraverso un sistema di magnetofoni. Il passo è lungo dalla fabbrica di cappelli al mondo ovattato di Donatella. Sul modello delle favole che Wyler aveva riportato in auge con Vacanze romane (1953), e che lo stesso anno Wilder rinnoverà con Sabrina (1954), ti cimenti con l’ennesima versione della fiaba di Cenerentola in chiave hollywoodiana. Con Elsa Martinelli al posto di Audrey Hepburn. S.M.

Negli Stati Uniti non è andato a vederlo nessuno, c’erano già i loro film. Anche se il successo di Vacanze romane si deve a Flaiano e alla Suso, che rimaneggiarono la sceneggiatura. Donatella è un film all’altezza delle pretese che aveva. Divertire il pubblico con una storia romantica. Ambienti sfarzosi, belle donne, l’amore impossibile tra un ricco annoiato e una povera ma bella. La Martinelli aveva una spontaneità che faceva innamorare e le valse il premio come migliore attrice al festival di Berlino. Anche gli altri attori figuravano bene in questa patina molto chic: sia il ricco Ferzetti, sia il fidanzato povero Walter Chiari e il padre Aldo Fabrizi. M.M.

In una cornice moralistica, dai una tua zampata quando metti in bocca l’insofferenza sessuale di Walter Chiari, che davanti all’attesa impostagli dalla Martinelli, si dichiara pronto a sfogare i suoi appetiti con altre senza intaccare il suo sentimento per lei. S.M.

Ho voluto rompere la marcia inevitabile verso l’idillio con una botta di realtà: l’insofferenza di Walter Chiari dava voce a tanti giovani costretti ad “arrangiarsi” per colpa di una morale sessuale repressiva. M.M.

La linea buonista prosegue con altri due film gemelli, nel senso che dopo il successo del primo Guido Giambartolomei te ne commissiona un altro con lo stesso cast. Sono due prodotti professionalmente impeccabili, appartenenti al filone del neorealismo rosa – borgataro Padri e figli, bucolico Il medico e lo stregone – in cui risalta soprattutto la grande simpatia dei personaggi. S.M.

L’impianto narrativo è diverso. Padri e figli è costituito da quattro episodi intrecciati, mentre Il medico e lo stregone è un racconto compiuto. Rientrano entrambi in un genere di film che andava molto di moda. Piacevano per la semplicità casareccia. Rispetto ai film americani, erano girati dal vero – all’aria aperta, per le strade, in appartamenti di terz’ordine – con personaggi comuni. Nel casting per il primo film mi colpì tantissimo il provino di Franco Di Trocchio per il ruolo di Alvaruccio. Era un bambino di quattro anni. Viveva in una baracca di lamiera dove poi hanno costruito il Villaggio olimpico. Io gli facevo delle domande e lui rispondeva naturalissimo, neanche sapevo M.M.

cosa dirgli e intanto mi raccontava tutta la sua vita. Bastava trattarlo bene che era tutto contento. Un’altra che evidentemente mi colpì fu Lorella De Luca, che aveva appena fatto Poveri ma belli (1956). La preferii alla Ferrero, a Jacqueline Sassard, a Virna Lisi, alla Gravina e ad Alessandra Panaro, oltre a Gabriella Pallotta e Ilaria Occhini che ottennero parti minori nel Medico e lo stregone. Sul set ebbi un bellissimo rapporto con De Sica. Dormiva sempre. Come tutti gli attori di gran classe, non si occupava del personaggio e non si impicciava del mio lavoro. Appena sentiva lo stop, si appartava in un angolino con una sedia, e in mezzo al rumore del set si addormentava. Era capace di dormire in qualsiasi condizione. Anche perché la notte la passava a giocare. Padri e figli è uno dei tuoi pochi ritratti generazionali in cui abbiano spazio le giovani generazioni. So che la Suso ti prende in giro perché secondo lei tu credi di conoscere i giovani, ma in realtà te ne sei occupato molto poco. S.M.

Mi sono interessato poco ai giovani nel mio cinema, ma continuo tuttora a interessarmi a loro. Seguo e quando posso frequento la vita dei centri sociali, mi appassiono alle rivendicazioni dei no global e alla loro diversa visione del mondo, vado in corteo con loro. Allo stesso tempo li capisco molto meno di quanto mi vanti. In molte abitudini e modi di pensare mi stupiscono. In Padri e figli affronto in modo bonario le schermaglie generazionali di famiglie piccolo-borghesi. È un ritratto senza pretese eppure abbastanza veritiero. Pur mettendo in scena conflitti anche seri, ho cercato di evitare contrapposizioni schematiche. Infatti il padre De Sica, peraltro vedovo, si comporta in maniera molto meno matura del figlio Garrone, che addirittura teme. M.M.

Monicelli sul set del Medico e lo stregone con Marisa Merlini e Sordi.

L’altro giorno ho parlato a lungo con un vecchio fotografo romano, grandissimo ammiratore del Medico e lo stregone. Allora me lo sono andato a rivedere, riscoprendo l’allegria del tono e la freschezza delle situazioni rette dal bel confronto De Sica-Mastroianni. S.M.

I pregi del film stanno tutti lì. Purtroppo le esigenze produttive ci costrinsero all’ultimo a spostare il set da Alberobello ai dintorni di Roma, banalizzando un po’ il sapore fiabesco del film. La storia si regge sul contrasto tra la sopravvivenza di un mondo ormai sorpassato, impersonato dallo stregone De Sica – il solito cialtrone – e l’avvento inarrestabile del progresso, che ha la faccia del medico Mastroianni in un’interpretazione semplice quanto convincente. Non c’è altro da aggiungere, salvo M.M.

l’apparizione strepitosa di Sordi che si finge reduce dalla guerra di Russia per strappare soldi all’ex fidanzata Merlini. Di’ la verità, ti aspettavi di essere sul punto di scrivere un film che avrebbe rivoluzionato il cinema comico italiano? S.M.

Ti posso soltanto dire che quando cominciammo a scrivere I soliti sospetti avevamo lo stesso spirito di sempre. Stavamo lavorando a una storia divertendoci. M.M.

Dalla parte dei vinti

Partendo dalla decisione quasi programmatica di raccontare la società dal punto di vista della gente comune, meglio se disperata, reietta e sprovveduta, prende forma il tuo cinema nazionalpopolare. Attraverso questo filtro – in parte semplificatore ma in parte rivelatore di un disagio inascoltato: dalla parte dei vinti – hai cominciato a cimentarti con gli avvenimenti storici. Il primo conflitto mondiale raccontato nella Grande guerra dà inizio a un lavoro, non sistematico eppure consapevole, di rilettura della storia in chiave populista e demistificatoria, con accenti più o meno eroicomici, inquadrati in una cornice non ideologica di sinistra. Jean Gili l’ha definita una «parafrasi della storia». Una definizione da declinare nel tono “verista” di cui parli in una dichiarazione dell’epoca. Nasce in tale contesto la demolizione del mito della Grande guerra. S.M.

Il mio cinema è nazionalpopolare nel senso più stretto del termine. Si rivolge alle masse. Ma non c’è alcun intento educativo esplicito. Diciamo piuttosto una necessità di raccontare il più semplicemente possibile, in una chiave veristica ma allo stesso tempo irridente, un fatto che può essere accaduto o meno, ma che risulti come se fosse accaduto davvero. I personaggi si muovono nella stessa dimensione realistica, colta però in un’ottica divertente. Divertente e drammatica. Questa visione nazionalpopolare è rinforzata dalla mia natura provinciale, che non aspira a verità massime né a piacere a tutti. Il punto di vista del mio cinema è di sinistra, ma si potrebbe anche definire democratico per il suo stare dalla parte dei deboli e mettere in luce le ingiustizie. Fino all’avvento di Craxi, io sono sempre stato socialista. Ma nel mio cinema non c’è alcuna rivendicazione ideologica. Prevale sempre lo spirito anticonformista. M.M.

Gassman, Sordi e Folco Lulli in trincea nella scena tagliata della gallina nella Grande guerra.

La grande guerra era prima di tutto una commedia. E quindi lo scopo era divertire. Il successo di un mio lavoro dipende sempre dalla risposta del pubblico. Se faccio ridere o meno gli spettatori: questo è il mio metro di giudizio. Raccontando la Prima guerra mondiale fummo costretti a fare i conti con la storia. Accanto ai due protagonisti sfilava un esercito: per forza ci ritrovammo a raccontare un’intera generazione. E prendemmo una posizione decisa contro la visione agiografica del comportamento eroico del nostro esercito nella guerra del ’15-18. Una visione alimentata per anni dal fascismo con l’esaltazione della patria e della guerra, dal nazionalismo monarchico anche in funzione antisocialista, ma condivisa a tutti i livelli della popolazione.

Pur trattando di un periodo storico ben definito, bisogna ricorrere ad alcuni indizi per collocare temporalmente gli avvenimenti. Il film inizia nel 1915 (facendo fede al bando affisso ai muri dell’Ordine di leva della classe 1896 nell’incontro tra Busacca e Jacovacci), e copre l’arco di un anno di guerra compreso tra l’autunno del 1916 e quello del 1917. S.M.

I riferimenti storici precisi complicano la scrittura del film. Costringono a una fedeltà rigorosa a particolari che, se sbagliati, ne altererebbero la credibilità stessa. È sempre preferibile evitare una collocazione riconoscibile degli avvenimenti, in modo da mantenere intatta la verosimiglianza all’interno di un contesto storico definito ma non troppo esplicito. L’unica scelta netta, in contraddizione con il soggetto di Vincenzoni, fu quella di spostare il combattimento finale dall’offensiva di Vittorio Veneto a una battaglia imprecisata successiva alla disfatta di Caporetto. Fu una decisione presa per giustificare il comportamento eroico e per certi versi inspiegabile di Gassman e Sordi, psicologicamente segnati da quanto era accaduto a Caporetto. M.M.

La scelta defilata di raccontare una storia parallela in tono minore si ripropone anche nei tuoi film di satira politica. Che in realtà si riducono al solo Vogliamo i colonnelli. Tu non hai mai fatto un film direttamente contro il potere o un’istituzione, un equivalente di In nome del popolo italiano (1971) di Risi o Detenuto in attesa di giudizio (1971) di Loy. S.M.

Non mi piacciono i film a tesi. Il mio cinema, affine al mio modo di vedere la vita, non mostra mai direttamente il dramma o un fatto storico preciso. A me piace ricostruirlo attraverso i riflessi del dramma o del fatto in questione. È la mia solita predilezione per le scene figlie. M.M.

Fin dalla lavorazione del film, foste osteggiati da una critica pregiudiziale accanitissima. «Marotta sconsiglia caldamente e recisamente la produzione del film sulla Grande guerra perché, se il lavativismo di Sordi e Gassman sopraffarà l’eroismo degli altri commilitoni, gli “spettatori non avranno che sogghigni per gli anonimi fanti del Piave e del Grappa”»: suonavano le parole di un bravo scrittore come Giuseppe Marotta. Dello stesso tenore, tra l’indignazione e l’afflato patriottico, furono gli interventi di Baldacci sul Giorno e di Paolo Monelli. A causa di questa levata di scudi S.M.

vi fu precluso il contributo dell’esercito italiano: si trattava di una questione molto seria, insomma… Le critiche fioccarono appena iniziammo le riprese. Si sentivano oltraggiati per il solo fatto che la gentaglia della commedia affrontasse un argomento così alto. Temevano una farsa immonda, per di più scritta da me e due scribacchini di film comici, quali erano ritenuti Age e Scarpelli. Fu Andreotti, che allora era ministro della Difesa e aveva in precedenza dato il benestare al copione, a ritirare l’aiuto dell’esercito. Avrebbe dovuto metterci a disposizione i carri armati, i cannoni, quasi tutti utilizzati anche nella Seconda guerra mondiale, altre armi, equipaggiamenti e diversi accessori. Quando lo incontrai fu conciliante come al solito. E molto ragionevole. Aveva tutti contro, non poteva fare altrimenti. M.M.

Pensa che in una recente intervista al Corriere, in occasione del primo anniversario della morte di Sordi, Andreotti ha dichiarato che il suo film preferito è La grande guerra… Il soggetto originale di Vincenzoni si intitolava Due eroi, e si basava sul racconto Due amici di Maupassant. Ma poco prima erano usciti dei film di guerra con cui era naturale confrontarsi: Orizzonti di gloria (1957) di Kubrick su tutti, poi Il ponte sul fiume Kwai (1957) di Lean, Prima linea (1956) di Aldrich, dove la guerra veniva presa di petto e con un’avversione quasi antiamericana, e All’ovest niente di nuovo di Milestone che era stato congelato dal fascismo nel 1930. S.M.

De Laurentiis non era molto propenso a prendere come sceneggiatori Age e Scarpelli. Rispetto al racconto di Maupassant, il soggetto di Vincenzoni trasformava i due amici, pescatori pacifisti per convenienza e all’oscuro dei piani militari, in due soldati che conoscevano le intenzioni dell’esercito. Più consapevoli ma non meno vili, almeno caratterialmente. Intorno alla storia dei due – più sodali nel rifuggire le responsabilità che amici – ci mettemmo al lavoro per dare un’immagine diversa della Grande guerra: un’immagine finalmente vera. Volevamo smitizzarla per rappresentarla dalla parte dei poveracci che si trovavano in una situazione in cui non capivano niente: per il 70 per cento analfabeti, l’unica loro preoccupazione era riportare in qualche modo a casa la pelle. Eravamo spettatori cinematografici assidui. Io ero rimasto molto impressionato da Orizzonti di gloria. E non ti nascondo che fu una delle M.M.

molle che mi spinsero a fare un film sulla nostra guerra. Rispetto a Kubrick, che l’aveva resa molto sanguinosa ed eroica, noi la guerra l’abbiamo vista all’italiana. Vale a dire secondo un’epica rovesciata: una tragicommedia, in cui il registro drammatico e quello comico vengono fusi in un chiaroscuro dai risvolti ambigui: la vita? Bachtin, in un libro su Rabelais, il riso popolare e il grottesco, spiega come il riso riduca la distanza rendendo impossibile l’epica. S.M.

L’epica è ciò che di più antitaliano ci possa essere. È nel nostro modo di essere sconfessare il sacro, relativizzare qualsiasi verità assoluta, svelare il re nudo. Il tono del film è immerso nelle vicende drammatiche della guerra, da cui emerge il riso che dalle atrocità della guerra trae una forza eccezionale. A volte si raggiunge il limite della commozione solo per aprire la strada a una risata liberatoria. I drammi attirano risate: basta saper cogliere tra le incongruenze della realtà. M.M.

In questo film spicca un elemento fondamentale del tuo cinema: il lavoro di ricerca e documentazione storica. S.M.

Purtroppo non disponevamo di tante fonti al di là della storia “ufficiale”. Negli archivi trovammo molto materiale fotografico. Rimasi colpito da una foto davvero tremenda. C’era un’immensa radura sotto il sole, con centinaia di soldati seminudi che spulciavano le divise. Sembrava un atto quotidiano, come farsi la doccia: ma la doccia mica la facevano tutti i giorni… Non ricordo perché alla fine non la filmai. Visionammo parecchi documentari. Alcuni girati malissimo in cui non si vedeva quasi niente. Guardammo anche dei documentari austriaci. Erano ancora peggio, chiaramente girati per propaganda. Lo si capiva dall’innaturalezza dei movimenti dei soldati. Erano tutti perfettini e si lanciavano all’assalto. In realtà erano conciati male pure loro. Non come noi, che eravamo davvero disperati. Si sa che la guerra è finita per fame, se no sarebbe andata diversamente… M.M.

La scansione in grandi capitoli aperti dalle canzoni dell’epoca infondeva ancora una volta al film un tono nazionalpopolare. S.M.

Le canzoni avevano una forza unificante e in un certo modo davano la prospettiva giusta alle cose. Contraddicevano l’epica chiassosa della propaganda patriottica a cui ci aveva abituato il fascismo, lasciando il posto a tante piccole verità in mezzo a un’immane tragedia umana. Allora tutte queste canzoni erano molto popolari. Poi si sono perse progressivamente nel corso degli anni sessanta. M.M.

La letteratura italiana non è molto generosa nel raccontare la guerra del ’15-18. Ci manca il nostro Remarque, l’equivalente di Niente di nuovo sul fronte occidentale. Però abbiamo Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu, da cui derivano alcuni personaggi del film: penso a Bordin, o alla scena della fucilazione dell’ufficiale tedesco. E anche Le rose del ventennio di Fusco, da cui hai preso l’ufficiale degli arditi che arruola volontari coraggiosi senza mai riuscire a decollare. S.M.

La vera fonte è stato Lussu. Certi personaggi e situazioni erano presi di sana pianta dal suo libro. Aveva un sapore dissacrante e amaro. Ed era pieno di figure tratteggiate con grande incisività. Il film voleva esserne una collezione. Andai da Lussu per chiedergli il permesso di utilizzare quegli spunti. Lui si dimostrò abbastanza divertito. Invece la moglie era inviperita. Evidentemente era a conoscenza di tutte le critiche che circolavano contro il film. Alla fine richiese espressamente che il nome del marito non venisse citato, anche se non fece obiezioni a lasciarci le sue trovate. Andò diversamente con Francesco Rosi. Il nome di Lussu compare nei titoli di testa di Uomini contro (1971), che al contrario della nostra era una trasposizione “classica”. M.M.

Un critico di tutto rispetto come Pietro Bianchi lamentava sul Giorno proprio una certa trascuratezza nelle fonti: «Ci sono nobili pagine, in un certo senso già classiche, da Soffici a Jahier, da Bacchelli (la parte centrale di La città degli amanti…) alle lettere ai caduti raccolte da Omodeo, di cui noi, al posto di Monicelli, avremmo tenuto gran conto». A parte il fatto che le avevate consultate, rispetto all’indulgenza di oggi mi sembrano notevoli le pretese della critica nei confronti del cinema. S.M.

Il punto è che ci riservavano comunque un’accoglienza piena di pregiudizi. La prima reazione era sfoggiare nomi e libri per sminuirci. M.M.

Invece noi quei libri li leggevamo, proprio per creare uno sfondo storicamente attendibile, all’interno del quale sviluppavamo le nostre vicende con un taglio ironico, satirico o ancor peggio cinico che a loro non piaceva. Se vuoi ti posso citare alcuni libri che prendemmo in considerazione. Con me e con gli alpini di Jahier, Giorni di guerra di Comisso, Vent’anni di Alvaro, La vita militare di De Amicis e Il fuoco di Barbusse, poi Il fango delle Fiandre di Deville, Trincea di Salsa, Pagine polemiche di Cadorna. E pochi altri, perché l’argomento difficilmente veniva trattato con un’ottica non falsata dal mito. A riprese appena iniziate, De Laurentiis ti raggiunse sul set dopo aver visionato i primi giornalieri: preoccupatissimo. S.M.

Giravamo nei dintorni di Udine. A Gemona, Venzone, Sella Sant’Agnese, Nespoleto e Palmanova. Trovammo alcune trincee ancora intatte. Io avevo un’idea molto chiara di come raccontare la guerra. I soldati erano una banda di straccioni, mal nutriti e mal vestiti. All’inizio Donati mi presentava sul set dei soldati inappuntabili. Allora io perdevo molto tempo insieme ai miei assistenti per sgualcire e sporcare le divise con secchiate di acqua e fango. Così decisi di far bagnare la terra tutte le mattine in modo che le comparse rotolassero per bene nel fango. E veniva fuori quella massa di cialtroni quali erano in realtà. Una volta girato, il negativo veniva mandato a Roma, lo sviluppavano, quindi lo stampavano. Ogni tanto il materiale arrivava anche a Udine. Ma intanto a Roma De Laurentiis gli dava un’occhiata, sebbene negasse. Il terzo giorno di riprese mi telefonò e mi diede del matto: «Se vai avanti così il film non uscirà mai!». Senza pensarci un attimo, mi raggiunse a Udine. Passammo una notte intera a camminare per la città, completamente vuota. Si era portato dietro anche Age perché lo aiutasse a convincermi: però lui stava zitto perché era d’accordo con me. Alla fine la spuntai io. Rimasto solo con me, Age finalmente aprì bocca: «Chi desiste dalla lotta è un gran fjo de ’na mignotta!». Disse proprio così. Bisogna comunque riconoscere a De Laurentiis una passione e un’intelligenza che i produttori di oggi non hanno più. Se credeva in un progetto, si impegnava fino in fondo. M.M.

Il confronto tra i due protagonisti e l’esercito lo rendi esplicito fin dal primo incontro fra Gassman e Sordi, in una lunga sequenza con loro a lato dell’inquadratura, mentre al centro sfilano colonne di soldati. È una soluzione visiva che riproponi altre due volte nel corso del film. S.M.

L’idea di partenza era di raccontare la massa di uomini da cui ogni tanto emergeva un personaggio con la sua vicenda personale. Sarebbe dovuta essere una storia corale. Ma la presenza di Gassman e Sordi ci condizionò già in fase di sceneggiatura, in cui la loro importanza cresceva naturalmente. Poi durante le riprese fu spazzato ogni dubbio: erano di una forza tale quei due! Però a livello di immagine questa soluzione di inquadratura sintetizzò bene il contrasto tra i due soldati e l’esercito. M.M.

Comunque trovano spazio qua e là delle belle figure di contorno. Il Bordin di Folco Lulli, il tenente buono Gallina tratteggiato con grande umanità da un Romolo Valli esordiente, la moglie di Bordin Elsa Vazzoler, che per un momento risveglia l’umanità di Jacovacci e Busacca, Tiberio Murgia con la foto della Bertini… S.M.

Sì, sono ritratti vividi che rimangono ben impressi e mi valsero le solite accuse di bozzettismo. Un’altra critica ricorrente mi imputava una certa superficialità nel mostrare le condizioni dell’esercito italiano. Dimenticando che le armi della comicità non prendono mai di petto un problema, che traspare tra le righe di una scena divertente come poteva essere quella del rancio. Con Sordi che si profonde in sperticati elogi di una sbobba mostruosa e viene smentito dal generale, che poi a bassa voce spiega a un altro ufficiale che è un trucco per tirare su il morale alla truppa. M.M.

Sordi viene trascinato da due soldati tedeschi verso la fucilazione davanti al cadavere di Gassman nel finale della Grande guerra.

A parte che esistono scene più esplicite, come quando il tenente Gallina denuncia le ristrettezze di mezzi in cui versava l’esercito, che costeranno la vita a tanti soldati. E poi nei momenti di riposo i commilitoni sfogliavano la Domenica del Corriere con i resoconti edulcorati della guerra. Dimmi tu, cosa potevo fare di più? Ogni volta che rivedo il film rimango colpito dalla mancanza di compassione davanti alla morte. Alla comprensibile rimozione dietro cui si difendono dall’orrore i soldati, si somma lo sguardo implacabile della macchina da presa, che non ha tempo di soffermarsi troppo a lungo, deve continuare a registrare lo spettacolo di morte in una quotidianità ripetitiva. S.M.

La guerra che hai davanti agli occhi scorre senza intralci morali. Tutto è tremendo e tutto è normale. È vero, non c’è tempo. La guerra è così. Non c’è tempo per la pietà. Sono morti 600 ragazzi. E si muore nei modi più diversi. In un’azione d’attacco come nel caso di Bordin. O per recapitare un telegramma di auguri di Natale. L’unica volta che Jacovacci e Busacca sono mossi a pietà è nell’incontro con la vedova di Bordin. Per il resto l’orrore diventa normalità. L’hai citato prima tu, un episodio mutuato da Lussu che rende bene l’idea. Verso l’inizio, quando un soldato austriaco si prepara il caffè, e intanto i soldati italiani si consultano tra loro per decidere se ammazzarlo subito o fargli finire prima il caffè. È un fatto atroce, però è divertente. Ci sono altri momenti con questo tono. Come il ritorno della truppa, con il paese che li aspetta per festeggiarli. L’onorevole pronto a leggere il discorso, la banda tutta schierata in pompa magna e la folla ai lati della strada. Ma quando passano i soldati derelitti in una fila sgangherata, non ci sono parole: tutti tacciono. Mi ricordo che René Clair ne rimase molto colpito. Come giurato si batté molto perché il film vincesse il Leone d’Oro. M.M.

Fu una vittoria inattesa, anche perché La grande guerra fu proiettato l’ultimo giorno in chiusura di concorso. Le polemiche della vigilia erano state roventi. Una volta visto, Marotta tornò sui suoi passi riconoscendo il grande talento di Sordi ma deprecando l’interpretazione di Gassman. Sul fronte opposto, un grande scrittore come Gadda, guardandolo al cinema, manifestò il suo sdegno. S.M.

Sì, vincemmo contro tutte le aspettative. Dimostrando che il lato comico del film non aveva alcuna intenzione di mancare di rispetto ai caduti, anzi: ci riconobbero il merito di aver messo in evidenza le condizioni disperate in cui combattevano. Non erano i soldati l’obiettivo dei nostri strali, piuttosto i superiori, gli ufficiali dell’esercito, lo Stato italiano. Tanti che presero parte a quella guerra gradirono il film, non Gadda che si schierò su una posizione intransigente, anche se riconobbe il valore degli attori e dell’ambientazione. M.M.

È molto delicato, commovente fino a rasentare il patetico, il personaggio della Mangano, la prostituta veneta Costantina. La sua storia quasi inspiegabile con Gassman si compie in tre brevi incontri, eppure si avverte una complicità che ha poco a che fare con l’amore e molto con la disperazione. S.M.

Erano tutti e due figli di ignoti, si sentivano un po’ parenti. Durante quella guerra era in funzione un servizio di prostituzione per i soldati. La donna che lo organizzava ricevette un’onorificenza. Erano cinque milioni di ragazzi, non è che li potevi lasciare lì da soli. Noi non abbiamo toccato il tema se non marginalmente, riducendo tutto alla prostituta Costantina. M.M.

La questione più dibattuta riguardò l’eroismo finale dei due protagonisti vili. Un eroismo casuale, figlio delle circostanze, a rimarcare la sottile linea di confine tra codardia e coraggio. In cui emerge l’insensatezza del gesto individuale rispetto ai meccanismi incontrollabili della storia. S.M.

Sordi è il solito romano che non ha voglia di far niente. Un lavativo, per di più approfittatore e senza alcuna generosità. Alla fine però ha uno strano conflitto dentro di sé. È un vigliacco, lo dice anche nell’estremo tentativo di salvarsi: «Ma io sono un vigliacco, lo sanno tutti. Se lo sapessi, parlerei». Però lo sa, dove hanno costruito il ponte di barche. Anche nel gesto eroico non tradisce la sua natura, in fondo. E la frase con cui si chiude il film riserva a tutti e due la fine ingloriosa che si erano meritati in vita. M.M.

Nell’edizione restaurata del film, è stata reintegrata la scena della gallina contesa tra le due trincee nemiche. Anche questa presa pari pari da Lussu, molto divertente. S.M.

Il film era diventato troppo lungo. Da qualche parte bisognava pur tagliare. Sai le volte che ho rinunciato a scene magari anche belle, però superflue rispetto allo sviluppo del racconto? Sono in totale disaccordo con questo recupero di scene tagliate da parte di De Laurentiis solo per giustificare la riedizione di un film in dvd. M.M.

Fu un problema girare a luglio delle scene che si svolgevano in pieno inverno con un tempo della malora? S.M.

Fu un gran disagio. Sordi lo ricordava sempre. Indossare quelle divise fingendo pure di essere infreddoliti sotto una canicola tremenda richiese grandi fatiche. Tutta la troupe era impegnata a infangare di continuo il set. Anche Rotunno, Garbuglia e io ci davamo da fare con i secchi per inondare quelle piane assolate di melma e fanghiglia. M.M.

Per una ragione o per l’altra, non hai toccato la Seconda guerra mondiale direttamente nei tuoi film. Fra i tuoi progetti c’era una Guerra di Cefalonia. Ho letto il soggetto. S.M.

L’aveva scritto Pirro, un autore con aspirazioni politiche molto più esplicite. Non si è combinato perché mancava un produttore convinto come De Laurentiis. Adesso sto lavorando all’adattamento del Deserto di Libia di Tobino, un grande scrittore viareggino che nessuno conosce più. L’ha già fatto Risi con Beppe Grillo in Scemo di guerra (1985): un film davvero sbagliato. È uno dei libri più belli che io abbia letto. Non c’è nemmeno una storia, in fondo. Il mio si intitolerà Le rose del deserto. Vorrei girarlo senza attori noti, fare un film anche poco commerciale. M.M.

Il fascismo invece l’hai sempre preso alla larga, magari con allusioni al passato come nel dialogo di mezze frasi e accomodamenti tra Fabrizi e il barista fascista Giuffré in Vita da cani, o in certe battute di Totò e persino in un richiamo nostalgico di Sordi nel Borghese piccolo piccolo. In generale è un periodo con cui la commedia ha preferito non immischiarsi. Tra le eccezioni, penso al Federale (1961) di Salce, ad Anni ruggenti (1962) di Zampa, alla Marcia su Roma (1962) di Risi. S.M.

In realtà il fascismo non fa ridere. Era una farsa pericolosa e feroce. Mussolini era farsesco in tutto: nei gesti e nella mimica, nei discorsi e nella retorica. Nessun attore ha saputo rifarlo. E poi i gerarchi, i rituali di massa, i motti deficienti, le invenzioni mistificatorie. I fascisti erano delle macchiette inimitabili e drammatiche. Difficilmente sono state ricreate quelle atmosfere. Il federale è abbastanza riuscito, La marcia su Roma è un po’ così, Anni ruggenti è basato più sull’equivoco di fondo e su alcune situazioni. Ma il punto è che non si riconosce il fascismo in quei film, soprattutto per chi l’ha vissuto. M.M.

Ho letto l’adattamento alle Notti della paura di Barolini che avevi scritto con Amidei e Cerami. Un appuntamento perso con il periodo della Repubblica di Salò, un buco nella tua personale storia dell’Italia. S.M.

Era un tema intoccabile. Ancora oggi appena se ne parla solleva un polverone di polemiche. Mi trovai molto bene a lavorare con Cerami. Credo che la vera ragione per cui il film saltò sia dovuta a una mia incertezza. Non insistetti abbastanza con il produttore, forse temendo i rischi che comportava l’argomento. Sempre ambientato in quel periodo, a un certo punto cominciai a lavorare sulla storia della famosa coppia di attori di regime, Luisa Ferida e Osvaldo Valenti, morti fucilati dai partigiani, pare su ordine di Pertini che allora era il presidente del Clnai. Un progetto prima caldeggiato e poi osteggiato dalla Rai, in cui avrei corso il rischio di trasformarli in martiri o in ingenui. M.M.

Mi viene il sospetto che nelle tue intenzioni avresti girato film non dico meno divertenti ma certamente molto più duri. Sarebbe stato inevitabile con La strage di Cefalonia e un po’ anche con Le notti della paura. S.M.

Forse è la ragione per cui alla fine non li ho fatti. In ogni caso, per quanto fosse stato possibile avrei cercato i toni della commedia, ricalcando la commistione di dramma e riso della Grande guerra. Nelle Notti della paura avrei dato spazio a certi personaggi bizzarri, ci sarebbe stato da ridere con quei cattolici assatanati. M.M.

L’unica sortita sulla Seconda guerra mondiale avviene dopo l’armistizio, in Cari fottutissimi amici. Un soggetto nelle tue corde per un film in cui forse non hai indovinato il tono né gli attori. O semplicemente è un film fuori tempo. S.M.

Prima dici che ti è piaciuto e poi dici che non andava bene niente! Ma sono d’accordo con te, perché il film aveva tutte le carte per riuscire molto bene, e invece rimane lì: a un passo dal tono giusto. L’idea di Rodolfo Angelica era bella. In parte anche vera. Io l’ho conosciuto da vecchio questo Sconcerti, un fiorentino molto simpatico che faceva il manager di pugilato. Trovavo stimolante mettere in scena il solito gruppo di M.M.

cialtroncelli in mezzo all’incertezza di quel periodo. Con i tedeschi che si ritiravano lentamente e gli americani che aspettavano. Ero convinto che Villaggio fosse perfetto per la parte di Dieci. Ma non c’è niente da fare. È una persona intelligente, ma al di fuori dei suoi personaggi – Fantozzi, Fracchia – si perde. Recitava in un genovese molto calcato con il vocione grosso: se fosse andato bene lui, anche gli altri gli sarebbero venuti dietro. C’era anche Massimo Ceccherini – la voce narrante del film – che poi ha fatto una carriera impensabile. La tua personale ricostruzione della storia d’Italia fa un passo indietro con I compagni (1963). Siamo sul finire dell’Ottocento, agli albori delle rivendicazioni operaie nelle fabbriche. Si tratta di un’incursione del tutto inedita in un periodo poco noto e all’apparenza estraneo agli umori della commedia. S.M.

Come al solito il mio interesse si incentrava sulla storia di un gruppo di persone che progettano un’impresa superiore alle loro forze. Ne parlai per la prima volta una sera a Parigi a Cristaldi, che si mostrò subito entusiasta. A quei tempi in Italia regnava un clima reazionario. Gli scioperi erano considerati al limite della legalità. A me però interessava dare uno sfondo più urgente e meno attuale al problema, quando i diritti in ballo riguardavano condizioni di lavoro al limite della sopportazione umana. La lotta per ridurre da quattordici a tredici le ore in fabbrica. Il divieto di far lavorare bambini sotto i nove anni. Questioni che esulavano dal presente, con un valore universale. M.M.

Ci troviamo in un’atmosfera più cupa che lieta, avvolta nelle nebbie piemontesi, segnata da un’indigenza spaventosa, ravvivata dall’umanità anche gioviale dei personaggi, ma tutt’altro che allegra. L’inizio del film non lascia adito a dubbi. Il risveglio all’alba di Omero in una povertà senza speranza. La monotonia di una giornata di fabbrica. S.M.

Volevamo mostrare le condizioni miserrime di un ragazzo costretto a lavorare in fabbrica. Ma il fatto che dovesse rompere il ghiaccio nella catinella per lavarsi rendeva a suo modo divertente il risveglio. Per far comprendere il peso di quattordici ore in fabbrica abbiamo scelto di annoiare un po’ lo spettatore. Soffermandoci sulla ripetitività del lavoro, in M.M.

mezzo al frastuono di quei macchinari, alla polvere, al controllo severissimo a cui erano sottoposti: dovevano persino chiedere il permesso per andare in bagno. In questo modo ci si cala subito nella realtà degli operai. Stanchi, esausti, sfruttati come bestie. Una premessa che giustifica la decisione “all’umanità” dello sciopero, innescato da un incidente un po’ scontato, che a dire il vero non volevo mettere. In un simile contesto era difficile alleggerire l’atmosfera. Credo che siano state fondamentali la simpatia dei personaggi e l’attenzione per i risvolti ironici. Il ferroviere che dice di non vedere mentre gli operai stanno rubando sotto i suoi occhi il carbone rende ridicolo il ruolo di Mastroianni, che vuole indottrinarlo e convincerlo della giustezza della loro causa. La collocazione temporale è volutamente sospesa in una fine Ottocento in cui si sentono gli echi delle rivolte operaie di Genova, assumendo una duplice valenza: da una parte si richiama al nascente Partito dei lavoratori italiani del 1892, dall’altra crea un parallelo con la sommossa di Genova del giugno-luglio 1960 contro il governo Tambroni e si ricollega in un certo senso agli scioperi alla Fiat del ’62. S.M.

Ripeto, può darsi che il film inconsciamente sia figlio di Certo le tensioni sociali contribuirono in parte a indirizzare la stesso tempo, risalendo al secolo precedente demmo tutt’altro vicenda. Anche una maggiore profondità, che ci consentì di piena libertà senza condizionamenti. M.M.

quel clima. storia. Allo respiro alla lavorare in

«Vince la battaglia chi dura un’ora di più» così Mastroianni aizza gli operai che si riversano festanti nelle strade di Torino verso la fabbrica da cui scioperano da oltre trenta giorni. Qualcuno ti ha rimproverato un contrasto inverosimile tra la figura isolata del professore socialista e l’ingenuità disarmante degli operai. S.M.

Si cercano sempre riferimenti precisi alla politica, quando al contrario a me interessava la storia di questo gruppo di operai, sprovveduti ma volenterosi di capire e di darsi da fare, che nel corso di questi trenta e passa giorni di sciopero maturano una consapevolezza più forte della sconfitta. In questo è emblematico il personaggio di Raul, che da burbero un po’ scettico diventa un sostenitore del professore. Ma l’opera dell’altro M.M.

professore, Di Meo, che di mattina insegna al liceo e la sera agli operai, perché per votare bisogna saper scrivere, ricopre lo stesso ruolo educativo di Mastroianni. Il punto decisivo era proprio l’ignoranza in cui gli operai erano lasciati. E questo aspetto il film lo mostra chiaramente. Rispetto alla Grande guerra la storia assume una coralità ben distribuita tra i personaggi, dai quali si distacca l’intellettuale Mastroianni non per la sua invadenza, quanto per il suo ruolo di guida. S.M.

Sono molto soddisfatto dell’equilibrio ottenuto. I personaggi sono tanti, alcuni hanno pochissimo spazio, eppure vengono fuori con il giusto risalto. Il bergamasco che non capisce nessuno. La Cesarina che propone al padrone di parlare «da uomo a uomo». Il Pautasso di Lulli, superbo. L’operaia della Carrà che si innamora del soldatino venuto dal Sud. La Niobe della Girardot, che preferisce far la puttana pur di non finire in fabbrica. E poi Mastroianni al suo meglio. Misurato anche nell’intemperanza, umano anche se non nasconde una forma di egoismo. M.M.

In molti hanno chiamato in causa lo spirito deamicisiano. E a ragione. Io sottolineerei la riuscita dei momenti patetici, svolti però senza indulgenza: con una grazia insolita. Non tanto l’intrusione nel tugurio del siciliano con la sua famiglia, un po’ ricattatorio. Ma nella scena che abbiamo già citato in cui Omero picchia il fratello perché non vuole continuare a studiare, oppure quando un operaio va a informarsi sui progressi alla scuola serale del vecchio padre. Un patetismo che spesso coincide con il sentimento di solidarietà, trovo. Ne vien fuori un ritratto di operai troppo buoni. S.M.

Il patetismo in sé non è negativo. Lo diventa se usato in forma ricattatoria. Allora sconfina nel sentimentalismo e finisce in pianto. E ci ritroviamo in pieno melodramma. Sebbene sia lontano dal mio modo di raccontare, in questo caso il patetismo rivela un senso profondo di fratellanza sotto la scorza della durezza. Dopo che Salvatori ha trattato a male parole Omero, gli infila in bocca un pezzo del suo panino. Un gesto che rivela una solidarietà più forte delle parole. Che gli operai siano così buoni tra di loro non è tanto vero. La stessa solidarietà nata in una condizione straordinaria si scontra con gli interessi personali. M.M.

Come sai, il paragone con De Amicis può solo rendermi felice. Qui però c’è anche la mano di Augusto Monti. Un vecchio professore di liceo amatissimo dagli studenti, a cui ci rivolgemmo per conoscere meglio la storia di Torino. Era un personaggio di grande levatura morale, aveva scritto dei libri molto interessanti sull’argomento e i suoi suggerimenti furono di grande utilità nel lavoro di ricostruzione. Un’altra ricostruzione robusta, basata su fonti e documenti. Tra i libri di riferimento vale la pena di citare Socialismo e classe operaia a Torino dal 1892 al 1913 di Spriano, la tetralogia di Monti La storia di papà, La casa del popolo di Guilloux. Tra gli autori, Carlo Poerio e De Amicis, di cui Suso Cecchi D’Amico segnalò La maestrina degli operai e Casa e scuola. Consultaste inoltre la collezione dell’Avanti!, Il Calendario del Popolo, gli atti di processi per sciopero nelle campagne. Raccoglieste anche parecchie testimonianze di militanti socialisti torinesi. Mentre l’aspetto iconografico si basa sulle tavole di Beltrami per la Domenica del Corriere. S.M.

Per un film storico, qual era in definitiva I compagni, è imprescindibile lavorare sullo sfondo sociale per ricostruire un’epoca. Soprattutto se si tratta di un’epoca mai rappresentata al cinema. Le tavole di Beltrami insieme a una serie di fotografie erano il nostro unico punto di riferimento visivo, da cui Rotunno ricreò quel sapore antico, reso un po’ polveroso e nebbioso dalle condizioni delle strade e del clima. Per gli interni della fabbrica girammo a Torino nella Christian Dior, una ditta di circa ottanta operai che fece al caso nostro. Ma per gli esterni finimmo in Jugoslavia. A Zagabria, Belgrado e Novi Sad. La piazza dove si svolge il comizio di Mastroianni e i portici li abbiamo trovati a Cuneo. In fin dei conti a Torino girammo ben poco. M.M.

È molto bello, nella sua distesa di terra e fango, il piazzale davanti alla Buratti Pavesio dove nel finale avviene lo scontro tra soldati e operai. Accomunati dall’ignoranza. Vittime in modo diverso. «Ma qui che ci stiamo a fa’?» chiede un soldato imbracciando il fucile. «Io nun ce capisco niente» risponde l’altro. «A me mi fa paura»: e intanto l’ufficiale comanda di avanzare. S.M.

La fame e la povertà univano quei soldati semplici agli operai. Due modi diversi di guadagnare. A ben guardare c’è un immigrato che fa l’operaio e un altro che fa il soldato. Sono sulla stessa barca, ma il soldato ha il fucile e l’operaio la voce per urlare e qualche sampietrino. La morte di Oreste è il finale inevitabile. M.M.

L’immigrazione dal Sud raggiunge il flusso maggiore tra il 1955 e il 1963. Il confronto tra Nord e Sud trova la sua umile rappresentazione nell’incontro tra Omero e Gesummia. S.M.

Il mio cinema è pieno di immigrati. Lo squilibrio tra Nord e Sud, tra abitudini, mentalità e comportamenti è da sempre oggetto di comicità. Il sardo Jannacci che vende castagnaccio a Torino o la Vitti che dalla società chiusa della Sicilia scopre la libertà a Londra sono due esempi dell’utilizzo magari un po’ calcato di questo contrasto. Oggi le differenze sono più sfumate, ma già i dialetti meridionali portano con sé un calore diverso. I compagni è pieno di immigrati, la loro integrazione in una città dura come Torino ha da sempre costituito un trauma. M.M.

Tra le ragioni dell’insuccesso commerciale del film, hai spesso chiamato in causa il titolo. Un rischio di cui eravate consapevoli, se gli slogan sui manifesti avvertivano: «Non abbiate paura, è un film divertente». Di certo ha dato al film una connotazione politica, implicitamente confermata dalla scelta di proiettarlo in anteprima al 35° Congresso del Partito socialista. S.M.

Era bellissima la sala all’Eur. Ero seduto vicino a Nenni quando scoppiarono i tafferugli. Dovettero interrompere la proiezione. Lui si scusò molto. Si respirava un clima di grandi conflitti. Era in corso la spaccatura all’interno del partito. Si stava delineando l’idea del centrosinistra, e una parte degli iscritti era pronta a staccarsi dall’alleanza con il Pci per entrare nel governo con la Dc. L’altra era accanitamente contraria. Sono venuti fuori i carristi. Insomma, non era il clima ideale per il mio film. Poi i compagni veri temevano l’ennesimo film di propaganda. Che accusava i padroni e metteva in scena dei compagni buoni ma soprattutto fessi. M.M.

Monicelli e l’intellettuale Mastroianni-Sinigaglia in una pausa dei Compagni.

Il padrone del tuo film è la classica figura paternalistica ormai decaduta. Ancora legata a un’industria a conduzione familiare. Intransigente, pragmatico, che decide tutto da sé, considera persone e cose come sua proprietà e tratta i subordinati, parenti in testa, come incapaci. S.M.

La storia di quel personaggio è molto divertente. Lo interpretò un attore inglese che dicevano molto bravo. Si chiamava Kenneth Kove e aveva la faccia perfetta per il ruolo. Ma ogni volta che si doveva girare, lui si metteva a vomitare. Lo doppiò egregiamente Soldati, che gli diede un lieve tocco di sadismo. Una persona non così spregevole, in fondo. Molto più seria dei suoi nipoti, che organizzavano feste stupide. M.M.

L’ultima immagine che vorrei conservare di questo film è poco dopo la morte di Omero. Quando la sorella sta ancora scappando dai soldati e comincia a voltarsi. Si gira due o tre volte fino a che non si accorge del corpo esanime del fratello nella piazza svuotata. Allora si volta per corrergli incontro. E girandosi le si sfila il foulard con cui copriva il cranio rasato perché aveva venduto i capelli, contravvenendo al rimprovero di Omero. Più che patetismo, disperazione umana. S.M.

Ne abbiamo già parlato. È una scena davvero drammatica. In cui si scopre un dramma minore, ma comunque una menomazione per una ragazza in cerca di marito. E poi arriva Mastroianni, sul quale lei – una bravissima Carrà – scarica tutta la sua rabbia. E c’è un altro particolare, drammatico e ridicolo insieme: il professore comincia a cercare a tentoni gli occhiali che gli sono caduti per terra. Vedi, è un piccolo dettaglio che non distoglie dal dramma ma ne dà una sottolineatura patetica: tutti hanno perduto qualcosa. E quando raccoglie gli occhiali e se li inforca, Mastroianni viene portato via dalla polizia. Sembra tutto finito. Tutto ricondotto all’ordine iniziale. Invece da questa esperienza gli operai hanno imparato a far valere i loro diritti. Hanno fallito, ma proveranno ancora. M.M.

Secondo un grande critico letterario olandese, André Jolles, la commedia picaresca appartiene «all’universo degli imbroglioni, dei borsaioli, dei ruffiani, dei commedianti e dei vagabondi […]. L’aspetto morale – immorale – della loro attività non traspare in alcun modo, né vengono mai rappresentati come creature ripugnanti. Al contrario, appaiono quasi attraenti nella loro leggerezza, amabili nei loro vizi». Sono considerazioni che sembrano tagliate per buona parte del tuo cinema e su parecchi dei tuoi personaggi – e in un certo senso depongono a favore della tesi calviniana della “collusione coi personaggi”. E la trovo un’ottima premessa all’Armata Brancaleone. Il film che ami di più. Il film più svincolato dalla realtà, reinventata in un immaginario anno Mille dove proietti gli immutabili caratteri nazionali. In un certo senso è l’archetipo della commedia all’italiana. S.M.

L’armata Brancaleone è un’invenzione forzata, se si può dire. In mancanza di fonti storiche attendibili, abbiamo provato a dare forma a un mondo barbaro, violento, sostanzialmente povero e privo di regole di civile M.M.

convivenza, di cui si aveva un’immagine un’altra volta falsata dai manuali di storia, che lo dipingevano in termini cavallereschi. L’idea del Medioevo straccione popolato di buzzurri ha un debito di riconoscenza verso un film rimasto incompiuto, prodotto nel 1955 da Ferreri e diretto da Antonio Marchi e Luigi Malerba: si intitolava Donne e soldati. Era ambientato in Emilia, in un Medioevo rozzo, pieno di poveracci e predoni che prendevano d’assedio un borgo di nome Rimagna. Qualche tempo dopo Scarpelli scrisse un breve dialogo ambientato nel Medioevo tra due contadini che parlavano di donne. La prima scintilla del film, che in fase di lavorazione chiamammo Le caccavelle, viene da lì. La mancanza di precedenti e di documentazioni storiche mi rendeva perplesso. Come vivevano, come parlavano, com’erano vestiti – portavano le toghe o no? Ero pieno di domande di questo tipo. Il Roman de la Rose risultava fasullo per trarne delle indicazioni attendibili. Mi basai invece sull’ambientazione di Francesco giullare di Dio, un film che non mi stancherò di elogiare. Mentre giravamo la perplessità rimase. Non sapevo se stavo lavorando nella direzione giusta. Nella sua follia Gherardi mi spingeva molto. Il suo talento visionario fu decisivo nella scelta dei luoghi e nella trovata del vestito di Gassman, ripreso dai samurai di Kurosawa. È quantomeno significativo che Scola, Maccari e Pietrangeli stessero lavorando a un progetto simile, La Picaresca. A sottolineare una continuità culturale con una lunga tradizione letteraria, ma soprattutto la persistenza di un’antropologia nazionale in tutte le sue derive: italica, italiota, semplicemente italiana… L’aspetto rivoluzionario del film è però il linguaggio. Ne viene fuori un centone della letteratura volgare. Si citano il Pulci del Morgante, il Sacchetti, i sonetti burleschi di Burchiello, Fiorenzuola, soprattutto Teofilo Folengo con il Baldus e l’Opus macaronicum, oltre alle fonti desunte da Rerum italicarum scriptores di Muratori. Ad ampliare la cornice culturale, ci sono richiami al linguaggio del ghetto ebraico di Roma. Espressionismo, parodia, contaminazioni di arcaisimi, latinismi, invenzioni, dialetti, ibridati in uno spirito goliardico compongono questo “pasticciaccio” linguistico da molti attribuito all’estro di Age e Scarpelli. S.M.

A dire il vero l’idea del linguaggio è mia. Una volta scoperto il meccanismo e preso il ritmo, diventa quasi un gioco usarlo. Manca solo Jacopone da Todi all’albero genealogico che hai appena fatto. A monte c’erano molte letture, una dimestichezza con la lingua italiana del Quattro e Cinquecento. Al momento di trasporre queste conoscenze in una sorta di lingua rozza, arcaica ma in certi aspetti aulica, è subentrato uno spirito goliardico. L’invenzione del linguaggio è un punto di forza del film. Quando lesse il copione, Mario Cecchi Gori era incredulo: non riusciva proprio a immaginare come si potesse ridere. A riprova della mia fiducia nel progetto, entrai in compartecipazione, vale a dire non presi una lira. Dopo il successo del film ha cominciato a ossessionarmi per girare il seguito. E a forza di chiederlo c’è riuscito. Il fatto che Scola e Maccari lavorassero a una storia simile testimonia le affinità e gli orizzonti comuni del nostro gruppo di autori della commedia. Ci tengo però a precisare che l’interesse per la storia e la letteratura italiana assume un senso moderno nel momento in cui vengono alla luce quei tratti tipicamente italiani che noi abbiamo sempre rappresentato con sarcasmo. In Brancaleone emerge prepotentemente quella sguaiatezza italiana che ritrovavamo in giro per la strada. Senza il filtro della cultura, i difetti vengono raddoppiati e il risultato comico è straordinario. M.M.

Rispetto alle commedie ambientate nel presente, qui i personaggi sono maschere fisse che non cambiano dall’inizio alla fine del film. Rigettati in una prospettiva eroicomica, non avvertono mai la distanza tra l’immagine di sé e la realtà. Per questa ragione il finale del film non riveste un’importanza decisiva. S.M.

Gassman e i suoi seguaci non si rendono conto delle loro sconfitte. Almeno nel primo film, che finisce con la partenza per una nuova impresa. In un certo senso quindi non finisce. Nel secondo c’è un finale drammatico fuori scena, che però non muta l’atteggiamento di Gassman. Come se nulla fosse, abbandonato il cadavere della Sandrelli, riparte in mezzo al deserto verso la prossima avventura. Questa volta da solo. La realtà dei fatti non scalfisce le certezze di Brancaleone. M.M.

Il viaggio dell’armata Brancaleone è permeato da un senso di aleatorietà se non addirittura da una mancanza di senso. Dopo che Salerno S.M.

cade dal ponte, i fedeli senza guida vorrebbero affidarsi a Brancaleone: «Ando ite?». Brancaleone è elusivo: «Così, sanza meta». «Venimo?» gli domandano smarriti. «No, no. Ite anco voi sanza meta, ma da un’altra parte» risponde per liberarsene, ma in fondo la meta ha tutti i caratteri di un pretesto. Nel secondo Brancaleone la condizione dei compagni di viaggio di Brancaleone rivela un’inadeguatezza a qualsivoglia impresa: «Uno cieco, uno storpio, uno nano», «Non insistere, ulcerato. Se ancora vieni anco te, questa armata doventa un ospedale». Picari che agiscono in una dimensione picaresca, in un vagabondaggio dalle tappe casuali e a se stanti, lontano da qualsiasi progressione conoscitiva o psicologica. Un tratto che lega indissolubilmente il film alla letteratura volgare medievale. È lo spirito che piace a me. L’impresa che non porteranno a termine non è così importante, come il furto nei Soliti ignoti o la riuscita dello sciopero nei Compagni. Tutto è improbabile. Le divagazioni da una terra all’altra, gli incontri sulla strada, le peripezie che li distolgono di volta in volta dall’obiettivo prefisso sono la storia che voglio raccontare. Del resto hai detto bene che la psicologia dei personaggi non cambia davanti a niente. Il Medioevo che avevo in testa io è un viavai di disgraziati, ignoranti e pazzi. Le Crociate erano fatte da invasati molto simili agli scapestrati dell’armata Brancaleone: la prima crociata si chiama la crociata degli straccioni. Alcuni di loro erano di un’efferatezza mostruosa. Uno addirittura ha portato centinaia di bambini a morire, convinto che solo i puri avrebbero liberato la Terra Santa. Le storie e i personaggi – la varietà umana, in definitiva – mi attirano sempre di più dell’intreccio. Che qui è ridotto all’osso. Nella dimensione picaresca convivono allegria e crudeltà: due modi contrapposti e speculari di guardare il mondo. La fame e la paura estremizzano i comportamenti umani. Il potere temporale da una parte e quello spirituale dall’altra tengono sotto controllo la massa di ignoranti che si arrabattano in una condizione di perenne incertezza. Ma anche il potere è una costruzione umana, una finzione. Dall’alto di una solennità piena di boria ma in buona fede, legata a una concezione ridicola dell’onore, Brancaleone porta alla luce questa finzione. M.M.

A partire dal saccheggio iniziale, la messa in scena della violenza è brutale, con una forzatura realistica che esorbita nel grandguignolesco. S.M.

Carneficine, urla lancinanti, carni divelte, morti cruente, epidemie, combattimenti all’ultimo sangue attraversano il film con impressionante naturalezza.

Gassman-Brancaleone da Norcia sul suo destriero giallo Aquilante nell’Armata Brancaleone.

La normalità della violenza non suscita riprovazione. Nel Medioevo che ho rappresentato è una condizione di vita a cui sono abituati tutti. La vita stessa ha un valore diverso. Così la morte può essere una soluzione liberatoria. Le morti di Abacuc nel primo e del nano Cippa nel secondo vengono dipinte da Brancaleone ai moribondi come l’accesso a un mondo in cui si rovesciano le disgrazie di questa vita grama, perché «la vita è una M.M.

selva di disgrazie, con qualche sventura». Non è una visione cristiana, ma molto materiale, come ci si aspetterebbe da gente così. Il combattimento tra Gassman e Volonté, e ancora di più tra Gassman e Villaggio è comico a partire dalle urla con cui si lanciano all’assalto. La carneficina di Brancaleone quando irrompe nel convento per salvare la Spaak richiama le farse del muto. Allo stesso modo il rapporto violento tra Brancaleone e il destriero giallo Aquilante: povero cavallo, tutte le mattine lo dipingevano… Oltre al discorso di Brancaleone al moribondo, ricorre nei due film la presenza di una donna che si innamora di Brancaleone, che però viene respinta per ragioni d’onore o di principio. S.M.

L’amore ideale, il canone dell’amor cortese che ci spacciavano a scuola si rivela per quello che è: una pagliacciata. Brancaleone ha un rapporto ambivalente con le donne. Che sono sante o puttane. Da venerare o da violentare. Sebbene gli capiti più spesso di essere assalito lui stesso. M.M.

Lo stato quasi ferino in cui versava la popolazione è in parte anche il riflesso delle terre ostili in cui si aggirano. S.M.

Il primo film lo girammo quasi tutto nelle campagne intorno a Viterbo. Lande desolate, boschi, paesini che sbucano dal nulla. Un paesaggio dove sembra non essere passata la civiltà. Per il finale ci trasferimmo in Calabria, dove trovammo quella rocca che sembrava fatta apposta per noi. Mi hanno detto che adesso ci hanno costruito un Méditerranée. Anche per il secondo film girammo una parte consistente nella provincia di Viterbo, mentre la parte del deserto si svolse in Algeria. M.M.

Rispetto al precedente, in Brancaleone alle Crociate si nota una maggiore cura nella confezione del prodotto, un’accentuazione teatrale della prosopopea di Brancaleone e una ricerca formale che giustifichi la ripetizione di uno schema che rimane inalterato. La scelta di cadenzare il racconto con dei titoletti animati di Luzzati conferisce al film il ritmo di una parabola. S.M.

«Grande la fede / stretto è lo mare» è il titolo del primo episodio. Perché anche in questo film la storia si sviluppa in una serie di episodi. Per M.M.

differenziarlo dal primo film e giustificare anzitutto a me stesso la scelta di girare il seguito, che per me era una resa, cercai di dargli una spettacolarità ancora più spinta in direzione della farsa. La follia di Brancaleone, la sua indefessa ricerca dell’eroismo in nome di un lignaggio che in verità non ha, si scontra con una follia ben più perniciosa di un mondo religioso capace di guerre fratricide, come accade all’inizio con la strage dei presunti eresiarchi. Uno dei momenti più alti del film è senz’altro l’incontro tra i due papi sotto la colonna dello stilita Colombano. Un omaggio a Buñuel? S.M.

A me piaceva la figura dello stilita che comandava il tempo e arbitrava la disputa tra i due papi. Una trovata surreale. Come surreali erano gli insulti tra i due papi, una delle scene di cui vado più fiero. Con Simon del deserto (1965) di Buñuel in realtà si tratta più di una coincidenza. Lo dico senza problemi, perché quando mi domandano quale regista mi sarebbe piaciuto essere, rispondo sempre Buñuel. M.M.

L’episodio in cui l’armata si imbatte nell’albero dai cui rami pendono tanti uomini impiccati si intitola mirabilmente «La ballata della tolleranza». Ce li hanno messi «preti, giudici, uomini d’onore». E parlano alla strega Sandrelli: lo scienziato, l’adultero, il goloso, l’ebreo. S.M.

È un atto d’accusa molto forte contro la morale cattolica e l’uso indiscriminato del potere per mantenere inalterati l’ordine sociale e i privilegi che ne derivano. I diversi, la possibilità di una nuova concezione del mondo e di conseguenza dei rapporti umani sono il male. La strega fa parte di questo mondo di emarginati, infatti è l’unica che può parlare agli impiccati. M.M.

La magniloquenza di Gassman trova libero sfogo nei suoi incontri con la Morte e rifulge di luce poetica nel suo dialogo con la Luna. S.M.

Negli incontri con la Morte viene fuori la presunzione ma anche il coraggio di Brancaleone, che non si tira indietro richiamandosi alla sua visione eroica del mondo. È quasi ammirevole nella sua cecità. Erano scene ideali per esaltare la pomposità di Gassman, e in un certo senso prendevano M.M.

un po’ per il culo le rappresentazioni della Morte vestita di nero con la faccia da teschio e la falce in mano alla Bergman. L’incontro con il re siciliano Celi che parla in rima dà nuova linfa all’inventiva linguistica colorandola di ulteriore verve goliardica. S.M.

Fu molto divertente scrivere quei dialoghi al limite del nonsense. Che introducono poi il torneo tra i mori e i cristiani in un’atmosfera ancora una volta lontana dalle raffigurazioni cavalleresche di queste lizze meravigliose… Io l’ho fatto in un campo di calcio di serie C2, giocando sul contrasto tra lo splendore degli abiti e la ferocia dei duelli. M.M.

Leggevo che le ansie millenaristiche sono perlopiù un mito romantico costruito a posteriori. L’anno Mille – che per te ha una collocazione simbolica, perché copre un lasso di tempo molto più lungo se consideriamo che la prima crociata è del 1096 – lo rivisiti quattordici anni dopo in terra longobarda con Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno. Un film in cui credevi molto. S.M.

Pensavo fosse un’idea geniale, invece mi è venuto proprio male. Non lo sceneggiammo con la dovuta profondità, sfruttando male tutti gli aneddoti di Croce. E sì che di materiale ce n’era. Commisi poi il grande errore di affidare a Lello Arena il ruolo di re Alboino. Oltre al fatto che era napoletano, gli mancava il carisma del protagonista. A peggiorare le cose affidai a una nera la parte della regina Magonia. M.M.

L’emiliano Giulio Cesare Croce è autore delle Sottilissime astuzie di Bertoldo (1606) e delle Piacevoli e ridicolose simplicità di Bertoldino, figliuolo del già astuto Bertoldo (1608). Un personaggio chiave nella storia della comicità, tanto che nel 1936 Bertoldo ha dato il nome a una rivista satirica. Al cinema c’erano stati già due precedenti, uno del 1936 diretto da Giorgio Simonelli con Cesco Baseggio, e uno del 1954 diretto da Mario Amendola e da Maccari che si firma Mac. Le tue ambizioni erano alte nella ricerca di un’immagine senza prospettiva alla Paolo Uccello, nella contrapposizione tra il mondo basso della campagna in stile Bruegel e la fastosità immaginifica della corte simile a una fiaba di Perrault. Due realtà attraversate dalla convivenza S.M.

quotidiana con il soprannaturale, un po’ come nelle Fiabe italiane di Calvino. Sono parole tue. Non nego che fosse un progetto ambizioso e che io cercassi di ricreare anche visivamente questa contrapposizione sociale infranta dal contadino Tognazzi, che alla fine non reggerà il fatto di potersi strafogare di cibo senza conquistarselo con sotterfugi o spiritosaggini e morirà davanti a una tavola imbandita di ogni ben di Dio. I buffoni devono restare tali – come gli attori, che prima della Rivoluzione francese venivano seppelliti giustamente fuori dalle mura della città. Soprattutto mi affascinava l’idea di un mondo senza distinzione tra realtà e trascendenza, pieno di fatti magici e irrazionali. La fonte di ispirazione sono state le favole raccolte da Calvino proprio per la semplicità con cui veniva raccontata questa sorta di miracoli. Baraldi ha fatto un lavoro eccellente, soprattutto nell’inventarsi il paesino di capanne cadenti. Come la Gissi con i costumi. Il problema stava nella sceneggiatura, che in fin dei conti si è rivelata dispersiva, incapace di tenere insieme i personaggi. M.M.

Non siamo più nell’anno Mille, ma i personaggi di Brancaleone hanno finalmente il loro vero nome: picari. Da un soggetto originale tuo, di Benvenuti, De Bernardi e Cecchi D’Amico, in debito con Lazarillo de Tormes e Guzmán de Alfarache di Alemán, l’inevitabile Don Chisciotte fino a Gil Blas e Lesage, il rapporto con il romanzo picaresco si fa esplicito nei Picari (1987). S.M.

Io adoro i picari. Sono un conoscitore profondo di tutti i romanzi picareschi, Cervantes in testa. Ma la scelta degli attori costituì un errore madornale. I picari dovevano farli due ragazzini di quattordici-quindici anni scappati di casa che andavano in giro privi di tutto: di morale, di soldi, di famiglia, pronti a qualsiasi avventura. Allegri e crudeli, ricorda. Al contrario Montesano e Giannini erano uomini fatti. Essendo costoso il film, per venderlo ai distributori della Warner che lo pagarono sulla carta, Di Clemente pretese degli attori di nome. E da quell’errore discendono tutti i difetti del film. Anche in questo caso l’ambientazione era curata. Abbiamo girato in posti stupendi, in una Spagna dura, in paesaggi quasi nordici. Nella valle del Guadalquivir, nella Galizia, nell’Estremadura, e ovviamente nella Mancha. M.M.

Nonostante i difetti, il film vive di qualche scenetta gustosa. E si susseguono tanti caratteristi in interventi brevissimi. Come Blier che fa il puttaniere per un minuto. E Caprioli nella parte ancora più breve di un capobanda. S.M.

Tra gli altri comprimari, c’è anche Claudio Bisio e mi dicono che faccia la sua prima apparizione Sabrina Ferilli, ma non me ne sono accorto. È un po’ più lunga invece la parte della puttana comprata dai picari, che la caricano nel carro ambulante della prostituzione, senza prevedere le sue bizze perché vuole scegliersi lei i clienti. La De Sio era davvero brava. M.M.

Per un regista così spasmodicamente attaccato alla realtà quale sei tu, è curioso il numero di film in costume che hai girato. S.M.

Nel mio passato di sceneggiatore ho avuto diverse esperienze di film in costume. Da regista è stato determinante l’esito positivo di Brancaleone nel convincermi che è possibile proiettare gli argomenti della commedia ambientata nel presente in un tempo storico, purché sostenuti da una ricostruzione scrupolosa. Se la cornice del racconto si attiene alle regole della verosimiglianza, diventa quasi più facile isolare i caratteri ricorrenti dell’italianità nel passato. L’attendibilità degli elementi storici di un film come Il marchese del Grillo mi ha permesso di affiancare a un personaggio storico come Pio vii uno di fantasia, se non altro per la licenza temporale che mi sono preso, come il marchese. Una volta “costruita” la credibilità della storia, i meccanismi della risata sono gli stessi. M.M.

La vita allo sbaraglio dei picari è una sorta di libertà barattata con la perdita di identità e di riconoscimento sociale. S.M.

I picari sono sradicati, fuori dalla società e senza legami solidi. Ma in questa precarietà c’è un gran fascino. Un senso avventuroso della vita, con i piaceri rubati, i pericoli da sventare e tutto quanto da inventare. Giorno dopo giorno, senza sapere cos’accadrà l’indomani. Il loro destino ha delle analogie con i diseredati ispano-arabo-ebrei, con la differenza però che gli ebrei hanno un’identità ben radicata. M.M.

Un’identità che viceversa noi italiani non abbiamo così chiara, se non forse nei nostri difetti. Una libertà che, finite le passioni resistenziali, è sempre più spesso coincisa con il tornaconto personale. In fondo la maggioranza degli italiani preferisce essere governata da un uomo forte pur di fare i propri comodi. È su questo che contano i congiurati di Vogliamo i colonnelli (Cronaca di un colpo di stato), una vicenda di vinti che per una volta ci tranquillizza. S.M.

La storia del film inizia e finisce con l’Istituto Luce che l’ha distribuito. Controllato dal governo, non ha neanche tentato di lanciarlo, affossandolo di proposito a causa dell’impostazione antidemocristiana. È indubbio che la maggioranza degli italiani, da sempre succube dei personaggi forti, preferisce lasciar decidere a una figura carismatica pur di prosperare nelle proprie attività. I commercianti sono la rovina dell’Italia. A loro interessa soltanto mettere su la pizzeria, l’albergo, il negozietto. La cultura della destra è questa qui. La libertà intesa come libero sfogo dei propri desideri, rincorsa egoistica senza scrupoli dei propri affari, l’abbiamo dipinta con la commedia per quasi cinquant’anni. Il suo contraltare è la paura, come ci insegna Sordi in Un eroe dei nostri tempi. Allora scatta il bisogno di sentirsi protetti, la voglia di ripristinare un ordine come accade nei Colonnelli, altrimenti la soluzione definitiva è quella di vendicarsi da soli, come fa Sordi in Un borghese piccolo piccolo. Entrambi i film con Sordi sono stati bollati di qualunquismo: semmai lo mettevano in ridicolo fino alle sue estreme conseguenze drammatiche, il qualunquismo. M.M.

Il sorriso sardonico di Sordi nel Marchese del Grillo.

Anche la costruzione della storia è meno banale di quanto appaia. Se le rocambolesche vicende del colpo di stato sono condotte sul piano della farsa, la struttura ricalca un reportage televisivo, cadenzato da una voce fuori campo dalla iattanza che riecheggia i vecchi cinegiornali, con inserti di materiali di repertorio, finti telegiornali letti con tutti i luoghi comuni del sensazionalismo più becero, concitate sedute alla Camera che riportano alla memoria il politichese della Prima repubblica. Invece di fantapolitica, sarebbe meglio parlare di una fosca anticipazione di verità ancor più farsesche. S.M.

In superficie il film è molto cialtrone, giocato su ritmi vertiginosi e personaggi divertentissimi. Una grande farsa: meravigliosa e tremenda nel M.M.

ricreare la sensazione di instabilità del tempo. La nostalgia per il fascismo, la voglia di restaurare legge e ordine contro possibili derive comuniste erano cose che si respiravano. A riprova di tutto ciò, quando scrivemmo il film si sapeva poco del golpe Borghese del 1970 a cui ci riferimmo a grandi linee. Il soggetto l’avevano scritto Age e Scarpelli qualche anno prima, nel ’67, sull’onda del colpo di stato dei colonnelli in Grecia. A un certo punto del film compare un personaggio arrivato proprio da lì: Andreas Automaticos. I nomi dei congiurati sono divertentissimi, come i loro curricula scanditi con prosopopea marziale. S.M.

Sì, ogni curriculum è il frutto di un’attenta ricostruzione della vita di ognuno che noi abbiamo sempre fatto per tutti i personaggi dei nostri film. La solennità con cui venivano recitati strideva con le immagini al limite del ridicolo. L’effetto farsesco avrebbe però dovuto irrobustirsi sempre di più in una progressione grottesca che non abbiamo indovinato. Nonostante ciò, il risultato rimane notevole grazie all’uso dei tempi serrati e alla tenuta della storia che culmina nel controgolpe della Democrazia cristiana che applica una serie di leggi contro la libertà e trasforma Tognazzi in un venditore di piani di golpe infallibili. M.M.

Anche se la polizia lo fa alzare dal tavolo cui era seduto con due neri… È un po’ una pecca il toscano forzato di Tognazzi, per il resto di sublime volgarità. S.M.

Rimanendo sulla falsariga del colpo di stato del generale con la caramella, il principe Junio Valerio Borghese, comandante della X Mas durante la Repubblica di Salò, ci rifacemmo al suo factotum: Sandro Saccucci, un toscano per l’appunto. Fu eletto deputato per l’Msi dopo il ridicolo tentativo di golpe tra il 7 e l’8 dicembre del 1970. Ma lì credo che l’errore di fondo fu prendere Tognazzi invece di un altro sconosciuto. Usare volti di non professionisti o di attori poco noti era stata un’idea azzeccatissima da mantenere fino in fondo. M.M.

Fra tanti volti sconosciuti, la grande rivelazione del film è Carla Tatò. Marcella, l’orfana del generale Bassi-Lega, che si prodiga per la causa con S.M.

famelica dedizione sessuale. Era strepitosa, oltre che una bella donna. La scoprii a teatro, non aveva mai fatto cinema. E non lo fece più. Si innamorò di uno che se la prese con sé nel teatro di strada. Chissà che fine ha fatto. M.M.

Uno dei vostri crucci in fase di sceneggiatura era quello di far ridere con personaggi antipatici quali erano i fascisti. Invece a distanza di anni si rivela un problema inesistente. S.M.

È verissimo. L’antipatia dei personaggi non ha niente a che fare con le loro potenzialità comiche. La volgarità, il pressappochismo, l’incompetenza, l’ingenuità stessa erano ridicoli. Pur non prendendo le loro parti, il pubblico si diverte a seguire le loro gesta improponibili. Potevano sembrare delle caricature, invece quando emersero i fatti avvenuti in quella notte del 1970 si scoprì che la realtà era quasi più farsesca del film. M.M.

Ma in Italia far ridere della politica non è riuscito a nessuno. Si dice perché i politici veri sono molto più ridicoli di quelli immaginati. Pochi anni prima dei Colonnelli, Salce aveva tentato la stessa strada con Colpo di stato (1969), con esiti altrettanto fallimentari. Tu avevi già dileggiato l’esercito italiano. Oltre alla Grande guerra, penso a Casanova ’70, dove mettevi in ridicolo la Nato con l’accoglienza funebre in aeroporto alla salma sbagliata. S.M.

La politica vive molto dell’attualità: è legata ai fatti del giorno o di un determinato periodo che necessitano di una conoscenza puntuale. La televisione avrebbe i tempi per fare la satira politica. Ma ti confesso che non mi entusiasma. Poi io detesto le imitazioni, che devono essere dosate. Possono essere inserite all’interno di un racconto come sapeva fare Sordi, che imitava benissimo, per dire, Nazzari e ce lo infilava per due o tre battute: non di più, altrimenti stancano. L’esercito lo conosco bene, avendo fatto la Scuola di cavalleria a Pinerolo durante la guerra. Credo che mi abbia lasciato una certa propensione all’autorità. Ma in Italia, si sa, tutte le istituzioni non hanno la sufficiente serietà, il senso del proprio ruolo per essere credibili fino in fondo. L’ignoranza prima o poi spunta da qualche parte. E se non è l’ignoranza è la M.M.

tracotanza, l’uso improprio di cariche e potere, il ricorso a mezzucci: tutto il contrario, insomma, di quello che dovrebbe essere. Ho volutamente tenuto in fondo a questo capitolo due personaggi che occupano posizioni in vista nella società: il marchese Onofrio del Grillo e il musicista Gioacchino Rossini, di cui però non ci sveli il segreto profondo all’origine del suo ritiro dalle scene nel pieno del successo, nel 1829, all’età di trentasette anni. S.M.

C’è prima di tutto una ragione storica, di cui Rossini è stato vittima. Vale a dire il passaggio dalla razionalità del Settecento all’impazzare delle passioni dell’Ottocento, che in musica si sconta con l’avvento del Romanticismo. In secondo luogo non va sottovalutata la morte della madre, figura centrale della sua vita, che condizionò i suoi rapporti amorosi con donne più vecchie come la Colbran e la Marcolini, o navigate come la Pélissier. M.M.

Il film, concepito inizialmente per la televisione, rientrava nei festeggiamenti per il secondo centenario della nascita che sarebbe caduto nel 1992. In un primo momento era stato commissionato ad Altman, che lo abbandonò dopo il rifiuto da parte della produzione di servirsi di cantanti d’opera come attori. S.M.

Quando mi chiamarono accettai proprio per la grande passione che ho sempre avuto per Rossini. Riscrivemmo da capo la sceneggiatura con la Suso, Badalucco e Cagli, grandissimo esperto rossiniano, senza però trovare quella profondità che serviva per scandagliare i dubbi di un personaggio molto contraddittorio: vitale e melanconico, esuberante e sfuggente, preso da momenti di sconforto e amare riflessioni. Dopo il ritiro dalle scene, Rossini ha continuato a comporre in privato, con risultati straordinari quanto distanti dalle sue opere come lo Stabat Mater e la Petite messe solennelle. Rossini era un artista che si occupava anche degli aspetti economici, spalleggiato dall’impresario Barbaja, che Gaber sa rendere accattivante nonostante la sua rozzezza. La parte giovanile, che è la meno convincente per via delle titubanze di Castellitto, è spettacolarizzata dalle rappresentazioni delle opere nei grandi teatri. Franco Velchi li fece ricostruire interamente in studio: il San Moisè di Venezia, l’Argentina di M.M.

Roma e il San Carlo di Napoli. Riproducemmo lo stile recitativo essenziale, al limite della staticità dei cantanti, che rimanevano sempre nella stessa posizione. Mi sarebbe piaciuto documentare lo spettacolo in tutte le sue componenti sociali e di intrattenimento: scendere in platea e salire nei palchi per restituire lo spirito della vita teatrale di allora. Alla fine dei conti, devo riconoscere di non aver reso un grande favore a Rossini. Adesso è arrivato il momento di dare la parola alla perfida tracotanza infantile del marchese del Grillo, una storia ideale per Luigi Magni. S.M.

A Roma è un personaggio notissimo, ammantato di leggenda perché non si è mai saputo se sia esistito veramente. Secondo alcuni storici sarebbe vissuto intorno al Seicento, mentre il film è ambientato nel 1809, un anno in cui è accaduto un fatto che pochi conoscono: la detronizzazione del papa da parte di Napoleone. L’arrivo dei francesi porta una ventata di novità che nella sua voglia di trasgressione il marchese sposa con entusiasmo. Si diverte a vedere attrici che recitano a teatro, uno scandalo per la morale del tempo. È un dettaglio che lascia trasparire il progresso dei costumi che accompagnava i nuovi occupanti. Con la sua mania quasi ossessiva per gli scherzi, è stato immediatamente associato agli “amici miei”. Rispetto a loro consuma questi scherzi in solitudine o con un codazzo di approfittatori di cui si sbarazza quando è stanco. Il marchese è un nobile nullafacente assalito dalla noia. Per l’eccesso di turpiloquio è stata imputata a Sordi una caduta di gusto che al contrario corrispondeva in pieno al carattere del personaggio. M.M.

Per dimostrare il proprio potere al povero falegname che non vuole pagare, Sordi lo sfida a un processo in cui corrompe tutti spendendo una cifra di gran lunga superiore al suo debito: ma Sordi vuole dimostrare che «i soprusi di un marchese ricco e potente» schiacciano senza pietà gli interessi di «un giudeo morto di fame». S.M.

E infatti vince la causa. Nel suo eccesso, Sordi coglie alcuni aspetti peculiari delle persone ricche che hanno ereditato la fortuna senza aver fatto nulla. L’insofferenza verso le cose e verso gli altri, la fretta di passare da uno svago all’altro per allontanare la noia, l’uso strumentale delle persone, M.M.

l’umoralità da cui dipendono i destini di molte persone, l’abitudine a non sentirsi mai dire di no. Nel Marchese del Grillo racconti la storia dalla parte dei potenti, una rara eccezione per te che non ti collochi mai dal punto di vista dei vincitori, dei potenti o di qualcuno che ce l’ha fatta, si è riscattato, è stato all’altezza delle sue aspettative. È il tuo modo di vivere un anticonformismo che non guarda in faccia a nessuno. S.M.

Questo punto di vista è talmente naturale per me che neanche me ne accorgo al momento dell’ideazione della storia. È il mio modo di scoprire il trucco che sta dietro a ogni cosa e mi dà la possibilità di ridere di tutto. Di contraddire sempre le apparenze per rivelare il lato scomodo della verità. M.M.

Lo stile assente

Leggendo le tue interviste, si nota una reticenza spesso sbrigativa quando vengono affrontate questioni stilistiche. In questo minimizzare l’aspetto tecnico – che è il modo di mettere in scena una storia – c’è un punto controverso. Se da una parte la centralità della vicenda, la verosimiglianza, rimanda alla priorità assoluta della sceneggiatura, dall’altra il lavoro di semplificazione stilistica, la progressiva riduzione all’essenziale – qualcuno ha colto nel segno chiamandola sciatteria voluta – va di pari passo con l’obiettivo del tuo sguardo. Impietoso e allo stesso tempo compromesso. Di qui la predilezione per una naturalezza sporca di vita – gli ambienti sciatti, la luce rubata, una trasandatezza d’insieme. Il risultato però è sconcertante. Più lo stile si confonde con la storia, più produce distacco. Il narratore – tu – non conta più. Ecco lo “stile assente” con cui intitoliamo il capitolo. Una definizione che contraddice il suo assunto: lo stile monicelliano esiste. S.M.

Me lo dicono in tanti, pare che un mio stile esista. Mi piacerebbe che un giorno, guardando qualche fotogramma di un mio film, si riconoscesse subito la mia mano. Non saprei spiegare in cosa consiste lo “stile monicelliano”. È qualcosa di connaturato al mio modo di guardare la realtà. Diretto, senza abbellimenti. L’aspetto puramente tecnico è stato una preoccupazione solo nei miei primi film. La sera prima mi studiavo le scene. Avendo scritto per molti anni film per altri registi e lavorato come aiuto, avevo già in mente il rapporto tra parola scritta e resa filmica. Nonostante ciò, mi rendevo conto di quanto poco combaciassero le mie decisioni serali con il risultato finale. Accadde semplicemente che a un certo punto imparai, e non mi posi più il problema della macchina da presa. Una volta acquisita esperienza, la tecnica è diventata un semplice mezzo. Film dopo film ho lavorato in M.M.

direzione di una semplificazione formale, cercando di mettere la macchina da presa al servizio della storia. L’obiettivo massimo è quello di farla scomparire dall’attenzione dello spettatore, come Rossellini e il miglior De Sica. Di pari passo, per vincere la noia dell’abitudine, mi sono dilettato in vari esperimenti. Viene sempre citata la camera ferma per tutto il film tranne che nello zoom finale in Toh, è morta la nonna!, forse l’unica vera ragione per citarlo. Oppure ho tentato l’esperimento opposto di muovere il più possibile la macchina, come nel Marchese del Grillo. L’aspetto formale, la costruzione dell’inquadratura fine a se stessa, è una questione che non mi interessa. Quando rileggo la sceneggiatura definitiva, penso al film in termini di montaggio, come mi ha insegnato Gentilomo. È un lavoro che poi mi sarà utile sul set nell’impostazione delle scene, che devono essere pensate in sequenza, già ordinate in un rapporto causale: viene sempre prima il “cosa” del “come” metto in scena. Il modo in cui giro una scena è la conseguenza di ciò che succede. Dividendo la regia con Steno, i tuoi primi film si uniformano allo stile semplice ma essenziale del comico. S.M.

Steno e io non eravamo quasi mai presenti sul set negli stessi giorni, ma concordavamo le inquadrature in sede di sceneggiatura. Ci attenevamo alle regole semplici di tutti i nostri colleghi, basate sul principio della chiarezza della storia. La macchina da presa deve essere al servizio del comico, che si esprime con tutto il corpo. Va inquadrato a figura intera, altrimenti in piano americano. Allo stesso modo, meno stacchi si fanno, più lo si mette in condizione di dare il meglio. M.M.

Il periodo con Steno è contrassegnato da una semplicità quasi teatrale, resa con grande efficacia. Penso al sottofinale di Guardie e ladri, quando Fabrizi inchioda Totò in fondo alle scale di casa sua e lo mette di fronte alla realtà. Il loro dialogo è giocato su un campo-contro-campo in cui usi sempre lo stesso taglio – un piano americano – senza stringere su un primo piano per sottolineare l’aspetto patetico della scena. S.M.

Il rifiuto del primo piano era un punto fermo tutt’altro che originale, visto che era applicato da tutti i grandi: Chaplin, Keaton, i fratelli Marx. Nel M.M.

periodo del muto era una soluzione che rispondeva anche all’esigenza di chiarezza. Quando è subentrata la parola, l’accento della comicità è stato posto progressivamente sulla battuta, concentrando la vis comica sulla mimica facciale. La televisione, i film televisivi e gli stessi film di oggi finanziati dalla televisione sono una collezione di facce, smorfie, battute. Il primo piano ha una sua forza connotativa, se è dosato con intelligenza. Aveva ragione Orson Welles: solo gli imbecilli sanno fare i primi piani. In Totò e i re di Roma fa la sua apparizione il carrello. In due occasioni precede i personaggi che camminano lungo il corridoio del ministero. Nel primo funerale accompagna la processione funebre. S.M.

È il primo film in cui abbiamo usato il carrello con cognizione di causa. Nella lunga scena dell’inseguimento di Guardie e ladri la macchina era sempre ferma. La sequenza si regge sul montaggio di inquadrature fisse. Negli inseguimenti è preferibile il montaggio alternato al carrello, che paradossalmente ha una resa meno dinamica. Il carrello ti consente una continuità narrativa e agevola la recitazione degli attori, che è meno spezzettata: due vantaggi ulteriormente esaltati dal piano sequenza. Come tutti i movimenti di macchina, ha un senso se serve a uno scopo. Negli spostamenti dei soldati in battaglia della Grande guerra restituisce bene l’idea di questo flusso incessante di uomini. I carrelli laterali descrivono gli assalti come se fossero nel mezzo di queste masse informi che vanno al massacro. Quelle scene le girai quasi tutte io, anche se in qualche libro si legge che sono state supervisionate da Blasetti. In realtà lo chiamai in soccorso negli ultimi tre giorni di lavorazione, mentre stavo montando di corsa per andare a Venezia. Diresse soltanto alcune scene di massa senza gli attori protagonisti. M.M.

Nella tua prima regia da solo cambi poco. L’unico guizzo di novità delle Infedeli è rappresentato dalla scena della festa in piscina immaginata dalla voce off di Cressoy, immortalata in una serie di fermo immagine. S.M.

Le ho filmate come le fotografie di un rotocalco mondano. Studiate e allo stesso tempo un po’ rubate. Brevi scatti della società gaudente. Il commento fuori campo le riduce a quel che sono: fotogrammi, briciole di M.M.

una felicità effimera, per di più falsa. Non ho ancora capito come mai riscossero tanto successo. Le sequenze con i fermo immagine le riproporrai in due occasioni: come cartoline raccontate dalla voce fuori campo del diario di Mastroianni in Casanova ’70 e per frammentare il senso delle parole in un suono biascicato attraverso gli scatti della macchina fotografica del giovane ribelle Lovelock in Toh, è morta la nonna! S.M.

In Casanova ’70 il primo incontro con Virna Lisi somiglia davvero a un resoconto illustrato di un rotocalco. Lo sfondo di Cortina dà anche una connotazione fastosa. In Toh, è morta la nonna! è un tentativo – sbagliato come tutto il film – di mostrare visivamente la distanza generazionale tra il padre conformista e il figlio apparentemente ribelle. M.M.

Il cambiamento del tuo stile è stato una diretta conseguenza dell’allargamento delle storie a più personaggi. Il bisogno di fare entrare nella stessa inquadratura tre, quattro, cinque attori della stessa rilevanza ti ha portato a adottare la profondità di campo e il piano sequenza, che è una prerogativa della Grande guerra e in parte dei Compagni. S.M.

Nei Soliti ignoti per la prima volta mi sono trovato a dirigere una storia corale, in cui c’erano più protagonisti spesso insieme. Nella scena in cui sono tutti radunati a guardare il filmino di Mastroianni la profondità di campo è l’unica soluzione possibile. Sarebbe quasi un’ovvietà, se non fosse per la difficoltà di dare un senso alla presenza di ognuno di loro. Se da una parte devono interagire, dall’altra ognuno ha bisogno di qualcosa da fare. Quando facevo il piano sequenza nella Grande guerra o nei Compagni non se ne accorgeva nessuno: ma non erano mai gratuiti, servivano a illustrare quello che accadeva. La compresenza del plotone che marcia in primo piano, con la fucilazione del prigioniero sullo sfondo, descrive visivamente la differenza di importanza attribuita ai due fatti. Mostra l’irrilevanza dell’esecuzione di un nemico rispetto alla quotidianità della vita dei soldati. M.M.

Un esempio di profondità di campo. Da sinistra, Gassman, Salvatori, Rosanna Rory, Mastroianni, Totò, Pisacane e Murgia mentre assitono al “filmino” sull’appartamento del furto nei Soliti ignoti.

La grande guerra e I compagni hanno un respiro narrativo epico, nonostante la natura tragicomica del racconto. La struttura per grandi blocchi narrativi trova la sua scansione ideale nei fondi di chiusura. S.M.

In entrambi i film l’atmosfera e il soggetto stesso, che condizionano lo stile, sono drammatici: il respiro epico era la cornice più adatta. La verosimiglianza della storia richiede uno sfondo ben preciso, che mostri la situazione per quella che è. Una volta immersi in una realtà tutt’altro che gradevole, diventa più facile costruire il contrappunto ironico. È il solito segreto dei contrasti tra due realtà solo apparentemente inconciliabili. M.M.

A metà degli anni sessanta comincia a impazzare lo zoom. Una nuova soluzione tecnica ma soprattutto una moda alla quale non ti sottrarrai, a discapito della pulizia dello stile. Tu lo impieghi spesso per evitare gli stacchi del montaggio, allargando da un dettaglio all’insieme, come nella scena dello struzzo, che poi si scopre essere nel mezzo della corte bizantina S.M.

in Brancaleone, oppure per sottolineare un dettaglio, come la sigaretta spenta nel portacenere all’inizio di Amici miei, o come soluzione narrativa nella scena dell’assassinio del figlio di Sordi nel Borghese piccolo piccolo: zoom e montaggio tecnico in stile poliziottesco. Lo zoom ha semplificato il modo di girare. La possibilità di non cambiare obiettivo ha influito sul modo stesso di usare la macchina da presa. Ed è stato un elemento che ha contribuito alla continuità narrativa risparmiando parecchi stacchi. Purtroppo ne abbiamo abusato un po’ tutti, e oggi rivedendo certi film si avverte un senso di fastidio. Le riprese televisive sono figlie dello zoom, il principale colpevole dell’imperversare dei primi piani. Quando girai Un borghese piccolo piccolo avevo in mente i film poliziotteschi che impazzavano negli anni settanta. Nella scena dell’assassinio ho scelto di utilizzare uno stile abbastanza simile, ma in maniera molto asciutta. M.M.

S.M.

Sei sempre stato attento alle novità offerte dal progresso tecnologico.

Quando uscì il teleobiettivo, lo provai subito in Fata Armenia (1966). In Parenti serpenti la scena iniziale della famiglia che cammina in mezzo alla folla del paese è girata con la steadicam: un’altra arma a doppio taglio, che semplificando i movimenti di macchina ha fomentato uno sproposito di piani-sequenza. M.M.

Per un certo periodo hai anche girato con tre macchine da presa contemporaneamente. S.M.

Le prime due erano puntate nella stessa direzione con l’inquadratura in due piani diversi – uno più lungo e l’altro più stretto –, la terza invece era posta in angoli strani: magari sorprendeva un attore in un’espressione particolare o coglieva un dettaglio curioso. M.M.

S.M.

Adesso che si gira in elettronica, guardi la scena sul monitor?

A parte che ci vedo molto poco, io guardo sempre la scena dal vivo: riesco a capire molto meglio quello che succede. M.M.

Ho sempre pensato che deve essere tremendo rendersi conto che stai girando un film brutto. S.M.

Infatti è così. Te ne accorgi subito se le cose non funzionano. Ma dirigere un film è un lavoro. C’è un contratto per cui ti hanno pagato che devi rispettare. Prima o poi capita a tutti di fare delle schifezze. In generale esiste uno scarto inevitabile tra l’idea che ti sei fatto di un film e il risultato finale. Il cinema dipende da una serie imprevedibile di fattori e coinvolge così tante persone da rendere il lavoro del regista un continuo aggiustamento di problemi che vengono sollevati per il minimo dubbio. Bisogna sapersi adattare ai cambiamenti inattesi e prendere una decisione in pochi secondi. Proprio per queste difficoltà continue, ho sempre interpretato il ruolo del regista in chiave molto autoritaria, anche dura, sbrigativa. Dirigere un film vuol dire comandare decine e decine di persone. Non c’è tempo da perdere. M.M.

Ho visto che quando capitano in casa domestiche, elettricisti, idraulici assumi un tono ammiccante, come se cercassi di parlare con il loro linguaggio, ma nel fondo colgo un leggero sberleffo. S.M.

È il mio tono con i membri della troupe: spartano ma anche divertito. Nel cinematografo c’è un modo di fare molto cameratesco. Nello stesso tempo i ruoli sono ben definiti: io sono sempre “dottò” o “maestro” per un elettricista o un attrezzista. Se godi della loro stima, li comandi sapendo il fatto tuo, ti vengono dietro, altrimenti sono degli ossi durissimi. M.M.

S.M.

Quando ti capita di rivedere un tuo film…

Mi annoio, anche perché nelle rassegne proiettano, e mi costringono a commentare, sempre gli stessi. M.M.

S.M.

In generale tendi a girare il film in sequenza cronologica.

Per quanto è possibile sì. Lo preferiscono gli attori per una continuità emotiva più simile alla recitazione teatrale, ma lo preferisco anch’io per una questione di comodità. Non sempre è facile adeguare questa esigenza al piano di lavorazione, dal momento che io preferisco girare dal vero in esterni e anche in interni. M.M.

Quindi siamo costretti a piegarci alla disponibilità di alcuni ambienti e alle condizioni del clima. Quando giravamo La grande guerra avevamo sempre pronti due set: uno esterno e l’altro interno in cui girare in caso di maltempo. Risate di gioia, invece, lo girammo tutto di notte, anche perché dovevamo tappare tutte le finestre per gli ambienti chiusi. Così, per non cambiare orari, lavoravamo dalle otto di sera all’alba. S.M.

Tu sei noto per girare pochi ciak, il contrario di Nanni Moretti.

Se hai le idee chiare e sai cosa vuoi dagli attori, meno ciak giri, meglio è. Dopo quattro, cinque ciak gli attori calano. Se una cosa non viene quasi subito, vuol dire che è sbagliata. Ai tempi dei suoi primi film, Moretti ci accusava di lavorare sempre e soltanto noi e di approfittare dei molti mezzi a disposizione, mentre lui girava con due lire e non aveva bisogno di tante palle. Adesso mi dicono che batte venti, trenta ciak a scena. «Vi meritate Alberto Sordi» diceva in uno dei suoi film. Odiava Sordi perché rappresentava un’Italia che detestava. E aveva ragione, senza capire che Sordi la rappresentava sapendolo. Non aveva capito niente di Sordi. Arbasino fomentò la polemica invitando Moretti e me a un faccia a faccia in televisione. Aveva un atteggiamento snobistico, si rendeva quasi volutamente antipatico, ma già allora aveva un pubblico di estimatori accaniti. Era fascinoso e anche bravo. Aveva una sua graffiante durezza. Oggi mi capita di incontrarlo ogni tanto. Ci salutiamo, nulla di più. Comunque la sua carriera l’ha fatta. In Francia è considerato un maestro. Ha una sua cifra, perlomeno fino alla Stanza del figlio (2001), che invece non mi ha convinto. Se ha tutto questo successo si vede che se lo merita. M.M.

Pensando a certe scene di Sogni d’oro (1981) in cui Moretti si aggira indisponente e umorale sul set del film sulla madre di Freud, mi viene da credere che per girare un film ci voglia anche il fisico. È un lavoro duro. S.M.

Per me è una liberazione. Tutte le altre fasi della lavorazione di un film sono molto più faticose. Prima scriverlo, poi prepararlo con i sopralluoghi, il casting e le varie prove. Una volta girato, il montaggio è un altro momento molto impegnativo, ma il peggiore è il doppiaggio: lavorare sulle intonazioni è stressante. M.M.

Durante le riprese faccio una vita regolare. Mangio poco, senza negarmi mai un bicchiere o due di buon vino. Tendo a girare continuativamente dalle 12 alle 19 senza pause. Nei primi tempi guai se non c’era la pausa per il pasto. Quasi tutti i componenti della troupe, i generici e le comparse mangiavano solo il cestino in tutta la giornata. Spesso lo rubavano e lo portavano a casa. Dalle fotografie sul set si nota come col tempo ti sia vestito in maniera sempre più pratica. S.M.

Un tempo mi presentavo in giacca e cravatta, come si usava. Poi con il passare degli anni mi sono vestito nel modo più semplice possibile. Soprattutto quando giri in esterni, il set può essere molto sporco. Se penso a tutto il fango in quelle specie di palafitte nella laguna veneta del Bertoldo. M.M.

S.M.

Come imposti il lavoro con il direttore della fotografia?

Prima del film, con la sceneggiatura in mano ci sediamo a un tavolino e discutiamo del tono del film, passiamo in rassegna scena per scena e ambiente per ambiente, che il fotografo conosce avendo fatto dei sopralluoghi con me e magari avendone suggeriti alcuni lui stesso. Una volta stabiliti i punti fondamentali, lascio piena libertà sul modo in cui ottenere il risultato – anche perché io conosco molto poco della tecnica di illuminazione, mentre conosco alla perfezione gli obiettivi: facevamo delle scommesse, e vincevo sempre – però tengo per me la scelta delle inquadrature. Nella Grande guerra, con Rotunno ci rifacemmo alla grana un po’ sbiadita dei documentari dell’epoca, che si nota nelle prime scene per entrare nell’atmosfera del film, poi le immagini sono più contrastate. In Proibito, con Tonti volevamo ricreare una Sardegna molto colorata e lui la ottenne usando praticamente solo luci naturali e specchi: una sua trovata geniale, poi copiata da tutti, che applicò anche all’interno di una chiesa in rovina. M.M.

Fino a Gente moderna hai sempre girato in bianco e nero, con la sola eccezione di Renzo e Luciana. Il tuo primo film a colori è Casanova ’70 nel 1965. S.M.

Monicelli si gode un bicchiere di vino e un panino tra una ripresa e l’altra dei Soliti ignoti.

Era soprattutto una questione di costi. Una scelta forzata che influì positivamente nella resa “povera” di alcuni film: I soliti ignoti ma anche La grande guerra, Risate di gioia e I compagni beneficiarono di queste atmosfere un po’ cupe. In un certo senso tutte le mie storie renderebbero di più in bianco e nero. M.M.

Se il bianco e nero era utilizzato al meglio delle sue possibilità, con il colore cominci lentamente a cercare una fotografia sempre meno curata, vicina ai colori naturali, apparentemente casuale. Uno dei risultati migliori lo raggiungi con Luigi Kuveiller. S.M.

Kuveiller era un allievo di Tonti. Mi seguì subito nella direzione di una luce che sembrasse rubata, senza però esagerare in una ricerca ossessiva di realismo. In Romanzo popolare viene fuori uno squallore pari a quello dell’ambientazione in periferia, in Amici miei Firenze è quasi ingrigita, mai smagliante come la si vede nelle cartoline. Come il suo maestro e i più grandi con cui ho lavorato – da Di Venanzo a Delli Colli, da Rotunno a Di Palma, da Barboni a Nardi, da Contini a Vulpiani, il fotografo di Ferreri che ha ottenuto una luce eccezionale per Un borghese piccolo piccolo – era uno molto veloce a preparare le luci, il contrario del perfezionismo di Storaro, con cui non vorrei mai lavorare in vita mia. Io ho lavorato con i migliori quando nessuno li conosceva. La cosa buffa è che erano quasi tutti letteralmente ignoranti – si erano fermati alla terza elementare – privi di qualsiasi formazione pittorica. I peggiori di tutti erano i ciociari. Brutali, rozzi, ma dotati di un talento eccezionale. M.M.

Più di una volta hai indicato gli scenografi come coautori di parecchi tuoi film. La tua collaborazione con Piero Gherardi comincia con Le infedeli e va avanti ininterrottamente fino a Renzo e Luciana, con la sola eccezione della Grande guerra, dei Compagni e di Casanova ’70, dove è sostituito dall’altro grande, Mario Garbuglia, che ritornerà nel secondo Brancaleone, mentre il primo Brancaleone e altri due episodi sono di nuovo di Gherardi. S.M.

A un certo punto li ho dovuti mollare tutti e due perché con la loro megalomania mi mettevano nei guai col produttore. Mentre Garbuglia mi presentava dei bozzetti delle varie scene, Gherardi si limitava a illustrarmi a parole le sue idee, per stupirmi ogni volta sul set. Su un piano meno vistoso, Lorenzo Baraldi è stato un altro scenografo capace di assecondarmi sia nelle ambientazioni proletarie come in Romanzo popolare, sia in quelle alto-borghesi come in Caro Michele: due contesti agli estremi. M.M.

Un aspetto che hai sempre considerato secondario ma con cui ti sei destreggiato meglio di quanto credi è la colonna sonora. S.M.

La musica in un film non mi piace. Supplisce alle manchevolezze della storia. Serve a sottolineare ciò che l’azione non è in grado di comunicare. Quindi, in un certo senso, è la misura del fallimento del regista. In Parenti M.M.

serpenti e Panni sporchi non c’è quasi commento musicale e nessuno ci ha fatto caso. Poi è vero che in alcune occasioni la musica diventa parte del film. Non l’ho detto soltanto io, che senza le musiche di Nino Rota i film di Fellini perderebbero il 50 per cento. Nel 1999 hai dedicato a Nino Rota un documentario. Ha composto la musica di gran parte dei tuoi primi film comici, a cui ha dato un sapore convenzionale e allo stesso tempo brioso con delle punte irriverenti, come nella marcetta trionfale del funerale di Totò in Totò e i re di Roma. S.M.

Lo conobbi giovanissimo in casa D’Amico: una persona di grandissima simpatia con cui strinsi una lunga amicizia. Era un genio musicale, non c’è che dire. Insieme abbiamo fatto otto film. Però mi viene il sospetto che nei film comici avrei dovuto osare di più. In fondo non è rimasto nulla di significativo della nostra collaborazione. Anche se lui aveva trovate magnifiche con cui risolveva situazioni complicate. Come la marcetta che tirò fuori per Totò che va al proprio funerale a piedi. In quel motivetto c’era tutto il senso surreale ma anche provocatorio della scena. La verità è che solo in due occasioni la musica ha dato un apporto decisivo al film. Uno è l’inno dell’Armata Brancaleone, l’altro è il coro dei Compagni. Tutti e due di Rustichelli. M.M.

Io aggiungerei la collaborazione con Jannacci per Romanzo popolare. La canzone Vincenzina è un leitmotiv che riesce a essere commovente e ironicamente patetico. S.M.

Ma sì, non nego che molte volte la musica sia riuscita. Quella con Jannacci, per esempio, fu una bella collaborazione, che però finì lì. Mi sarebbe piaciuto scrivere un film con lui. Cominciammo anche a parlarne. Ma lui scompariva per giorni. Non c’è niente da fare, il suo mestiere è un altro. Il cabarettista, il musicista, con quello spirito surreale, incrociato alla parlata dialettale. E in quello è un grande. M.M.

E come dimenticare «Bella figlia dell’amore», l’aria di Verdi dal Rigoletto, che dopo una prima apparizione in Gente moderna è diventato un inno alla goliardia con Amici miei. S.M.

Gente moderna lo girammo nel parmense, a Colorno, dalle parti di Verdi, tanto è vero che in un bar gli avventori seguono in televisione il Rigoletto. Dopo la notte passata a casa di Tognazzi, Blier si allontana fischiettando l’aria che diventerà popolarissima grazie ad Amici miei, un omaggio alla grande passione per l’opera di Pacini. M.M.

Ti sei anche rivolto ai cantautori. La canzone dei Picari scritta da Dalla per Giannini e Montesano è in tono con lo spirito del film… Che tipo di indicazioni dai al musicista? S.M.

Delle volte me le devo proprio inventare. Io ho una buona conoscenza musicale, mi piace soprattutto l’opera buffa e in generale l’opera. Mi limito a dare dei suggerimenti in base al tono e all’argomento del film, magari rifacendomi a qualche tema che conosco. Dalla e Ron avevano scritto le musiche della Mortadella, Arbore ha curato la parte musicale per Cari fottutissimi amici, Ovadia il progetto musicale di Facciamo paradiso. Anche in questo aspetto, che giudico secondario, mi rendo conto di avere sempre cercato di inventare qualcosa. M.M.

S.M.

Non manca all’appello nessuno dei grandi musicisti italiani.

La mia migliore collaborazione rimane quella con Rustichelli, bravissimo anche nel tema di Amici miei, ma la prima volta risale addirittura a Totò cerca casa. Cicognini scrisse un bel tema per l’inseguimento tra Totò e Fabrizi in Guardie e ladri. Mi sono trovato bene con Trovajoli in Casanova ’70, che aveva un tema orecchiabile, mentre aveva fatto un lavoro più convenzionale nelle Infedeli. Con Piccioni siamo rimasti coinvolti nel flop di Toh, è morta la nonna! Mentre ho lavorato una sola volta con Morricone in Anita: un grande. Negli ultimi anni ho utilizzato spesso Piovani, che ha trovato per me una cifra molto accattivante, su una gamma di variazioni molto ampia, che va dalla giocosità del Marchese del Grillo al grottesco del Male oscuro. M.M.

Toglimi una curiosità, ma come faceva Ruggero Mastroianni a montare tutti quei film? S.M.

Ne ha montati davvero tanti. Con me ha cominciato con I compagni e – tranne il successivo Gente moderna – è andato avanti fino a Facciamo M.M.

paradiso, poi è morto. Tra di noi c’era un rapporto di amicizia, non si faceva problemi a dire quello che pensava, come fosse il giudizio di uno spettatore. Nel corso della carriera ho lavorato con pochissimi montatori. Da Guardie e ladri fino a Renzo e Luciana li ha montati tutti Adriana Novelli. È importante la continuità con un montatore, con cui stabilire un rapporto di reciproca fiducia, che ti dia anche dei suggerimenti: se magari una scena va scorciata o se al contrario va tenuta. Comunque i miei film sono girati già montati. I modi di montarli sono pochi, a volte quasi obbligati. Il solo problema che si è ripresentato più volte è la lunghezza eccessiva dei film, che a quel punto vanno tagliati senza porsi tanti dubbi per evitare la noia: tutto deve essere ridotto all’essenziale. S.M.

Hai usato raramente la presa diretta, preferendo il doppiaggio.

Io ho usato relativamente poco la presa diretta. Inizialmente non c’erano neanche i mezzi tecnici all’altezza. Quando Totò cominciò ad avere problemi alla vista che compromettevano la sua capacità di doppiare, la presa diretta divenne una necessità. In generale non mi sono fatto problemi a doppiare attori o attrici con una voce più bella o dalle maggiori qualità. La Cardinale al suo primo film venne doppiata perché non parlava l’italiano, la Sandrelli perché i produttori, sbagliando, non apprezzavano il suo tono di voce. M.M.

Torniamo sul set, al rapporto con i tuoi aiuti. Scorrendo i loro nomi si trovano futuri grandi registi come aiuti destinati a rimanere tali, ma si nota soprattutto la “fedeltà” di molti di loro, che ti hanno seguito per parecchi anni: Mario Maffei dal ’55 al ’61, Renzo Marignano dal ’63 al ’70, Carlo Vanzina dal ’71 al ’76, dopo essere stato in precedenza assistente, Francesco Laudadio dal ’77 all’81, Amanzio Todini dall’81 all’85 e di nuovo dal ’91 al ’95, dopo l’esperienza rovinosa della regia dei Soliti ignoti vent’anni dopo (1985). S.M.

L’aiuto regista è una figura fondamentale all’interno della troupe. È il braccio destro del regista. Io ho sempre avuto un rapporto molto duro, più che con qualsiasi altro componente della troupe. Prima di tutto perché hanno tutti la fissazione di stare accanto alla macchina da presa. Invece il M.M.

loro è un mestiere di fatica, devono controllare che la scena si svolga come voglio io, dare indicazioni sui movimenti agli attori, fare da tramite tra me e i diversi componenti della troupe. Pontecorvo, che mi fece d’aiuto nelle Infedeli e in Carolina, stazionava vicino alla macchina da presa, pensando che si trattasse di un lavoro intellettuale. Vicino alla macchina da presa ci stiamo io, l’operatore, il direttore delle luci. E basta. Allora io vietavo espressamente ai miei aiuti di avvicinarsi. I soliti ignoti vent’anni dopo fu un’operazione suicida per Todini, non capiva che il confronto con l’originale sarebbe stato perdente e gli avrebbe frenato la carriera. Per avallare il progetto, i produttori volevano che io figurassi come supervisore, un ruolo solo sulla carta, visto che Todini fece tutto da solo. Purtroppo per la sua carriera, la mia previsione si avverò puntualmente. Tra gli altri aiuti, ho scoperto Marco Leto assistente in Un eroe dei nostri tempi e Ansano Giannarelli secondo assistente di Franco Rosi in Proibito. Più avanti toccherà a Claudio Risi e a due futuri registi di belle speranze come Giacomo Campiotti e Riccardo Milani. S.M.

Insieme a loro due nei Picari faceva da assistente Francesco Germi, il figlio di Pietro, che mi seguiva da Mattia Pascal. Un ragazzo sveglio, molto promettente, che però ha scelto l’altra sua passione: l’ornitologia. Ai miei tempi, quando non esistevano tante scuole, fare l’aiuto rientrava nella gavetta che passo dopo passo ti avrebbe portato alla regia. Assistente volontario, secondo assistente, assistente, aiuto erano le tappe di questo lungo apprendistato, una trafila che oggi non esiste più o perlomeno non ha uno sbocco automatico alla regia. M.M.

S.M.

Sul set vengono a trovarti altri registi?

No, quasi mai. È capitato che Paolo Taviani sia venuto a salutare la moglie Lina Nerli Taviani che ha fatto da costumista in diversi miei film. Ma apposta per venirmi a vedere girare proprio mai, e così io con gli altri. M.M.

S.M.

I produttori un po’ di più.

Sì, ma con discrezione. Una volta d’accordo sul preventivo erano molto rispettosi del mio lavoro, tanto più che io sono famoso per come M.M.

lavoro veloce e, non sforando sui tempi, non ho mai fatto lievitare il budget. La lotta era al momento della discussione del preventivo, delle richieste scena per scena: una lotta che non ho mai spinto troppo oltre, anche perché il successo mi permetteva un certo margine nel trattare con i produttori e il mio genere di film non ha richiesto quasi mai esborsi folli. Con i produttori ho sempre avuto buoni rapporti. Quelli di un tempo non erano così rozzi e legati al soldo come si potrebbe pensare. Erano spinti dal grande amore per il cinema, e guardavano i registi con grande rispetto. Io ho avuto ottimi rapporti, anche di amicizia, con Cristaldi e De Laurentiis, un animale da cinema, all’inizio anche con Ponti, più un uomo d’affari. Ma ho bei ricordi di Hecht, Mario Cecchi Gori, Giovanni Di Clemente, che a partire da Speriamo che sia femmina mi ha assecondato in progetti tutt’altro che facili. E poi io i produttori li ho quasi sempre ripagati con fior di incassi. Ti dirò che sono un po’ invidioso di Werner Herzog, mi sarebbe piaciuto affrontare i suoi disagi nella giungla amazzonica per portare a termine l’impresa tanto difficile e dispendiosa di Fitzcarraldo (1981). Roberto Ciccuto, che è il produttore delle Rose del deserto, si troverà alle prese con alcuni rischi analoghi. Mi accorgo adesso che mi hai depistato abilmente. Sembra proprio che tu voglia scantonare sul tuo stile, e già da questo si capisce che meno c’è, meglio è. S.M.

M.M.

Meno c’è, quello è.

I mostri

Sarebbe divertente scrivere un dizionario delle attrici e degli attori con cui hai lavorato. Ci troveresti Bud Spencer quando ancora si chiamava Carlo Pedersoli, Moni Ovadia burattinaio e Susan Sarandon alle prime armi, il futuro divo delle fiction Ray Lovelock, Enzo Jannacci sardo, una combattiva Raffaella Carrà operaia, il giornalista Giancarlo Fusco, il pugile Marcel Cerdan e il poeta Alfonso Gatto. E ancora, Giorgio Gaber impresario di Rossini, la scrittrice Edith Bruck, Carlo Delle Piane ragazzino, Carol André prima di diventare la Marianna di Sandokan, Shel Shapiro dei Rokes, il musicista jazz Pippo Starnazza, il cantante Nicola Arigliano, lo scalatore Achille Compagnoni. Con te hanno debuttato Claudia Cardinale, Danny De Vito, Lea Massari e Domiziana Giordano. Irene Papas, Romolo Valli e Lucrezia Lante della Rovere. Hanno fatto delle comparsate da sconosciuti Giulio Bosetti, Enrico Beruschi, Franco Ferrini, Rocco Papaleo, Sabrina Ferilli… Hai battezzato nella commedia Gassman, la Vitti, la Mangano, Ben Gazzara, Villaggio, Proietti, Salerno. S.M.

Mi piace l’idea di questo elenco. Nella mia carriera ho lanciato dal nulla tanti di quegli attori… Tu hai citato quelli che ho fatto debuttare, ma ce ne sono tanti altri che hanno lavorato con me al secondo o al terzo film e hanno fatto il salto di qualità. Rossana Podestà, Anna Maria Ferrero, May Britt – che Soldati aveva portato in Italia dalla Svezia, dove lavorava in uno studio fotografico come ritoccatrice, facendola debuttare in Jolanda la figlia del Corsaro Nero (1953) – Marina Vlady, Elsa Martinelli, la stessa Muti: ne verrebbe fuori un’altra lista. I miei colleghi dovrebbero ringraziarmi, pensa solo se non mi fossi inventato Gassman comico. A molti attori ho scombussolato la carriera, trasformandoli da attori drammatici in comici e viceversa. Anche se mi rimane il cruccio di non avere avuto il tempo di impiegare Totò in una parte M.M.

davvero drammatica, come sono riuscito a fare con Sordi. Un altro mio pallino è stato quello di provare nel cinema uomini di spettacolo. Così è stato con Moni Ovadia, da cui ero affascinato per via dell’umorismo yiddish in cui convivono dramma e ironia. Con Jannacci e Gaber, che aveva un senso innato dello spettacolo. Un regista riesce a girare uno, al massimo due film all’anno, e gli attori sono tantissimi. Li conoscevo tutti, molti di quelli della generazione più vecchia fin dai tempi in cui ero assistente alla regia. La maggior parte li avevo sceneggiati nel corso degli anni: da Girotti a Cervi, da Giachetti a Serato, da Macario a Nino Taranto, da Brazzi a Rina Morelli, da Doris Duranti a Yvonne Sanson. Con alcuni ci sono stati dei progetti, come sempre capita nel cinema: se si dovessero ricordare tutte le occasioni mancate… Ho stilato una classifica delle presenze degli attori nei tuoi film. In testa svetta Bernard Blier con ben nove partecipazioni, incalzato da Sordi con otto. Subito a ruota seguono Gassman e Mastroianni a quota sette, Totò e Tognazzi a sei, Noiret a cinque. Ma partiamo dall’unico grande della commedia all’italiana che hai incontrato tardi sulla tua strada, nella breve particina di un cieco spietato nei Picari (1987): Nino Manfredi. Fino ad allora l’avevi incrociato scrivendo per lui A cavallo della tigre. S.M.

Sì, ma allora non ebbi tanti rapporti con lui, che non collaborò alla sceneggiatura. La verità è che non ci siamo trovati, anche se ci siamo andati vicino due volte. La prima con Romanzo popolare. In origine il protagonista era ciociaro, e la storia ambientata nella periferia di Roma. Però Manfredi non era convinto né della storia né del personaggio. Così portammo tutto nell’hinterland milanese con Tognazzi e ne è venuto fuori uno dei miei migliori film. La seconda volta capitò con Nudo di donna (1981). Avevamo cominciato a scriverlo insieme. Durò poco, però. Non ci trovammo d’accordo da subito. Soprattutto a causa della produzione che voleva imporre Eleonora Giorgi come protagonista e la moglie di Manfredi come costumista. Così la patata passò a Lattuada. Ma anche con lui le cose non andarono bene e alla fine il film lo diresse Manfredi stesso, che aveva le idee così chiare… Io mi ero M.M.

subito buttato sul Marchese del Grillo, che ottenne un gran successo. Quindi tutto sommato non lavorare con Manfredi mi ha portato bene!

Gassman e Catherine Spaak con Monicelli sul set dell’Armata Brancaleone.

Sto sfogliando il mio elenco per aiutarmi con le date. Saltano subito all’occhio i nomi di chi hai scoperto o lanciato nella commedia dei grandissimi. Ma curiosamente li hai abbandonati nel loro fulgore per ritrovarli solo da vecchi. Cominciamo con Gassman. Dopo I soliti ignoti e La grande guerra lui diventa l’alter ego di Risi in alcune delle più belle commedie degli anni sessanta. È vero, tu lo riprendi due volte per i Brancaleone. Ma dal 1970 passano undici anni prima di Camera d’albergo. S.M.

Gassman lo conoscevo da quando era uscito dall’accademia. L’avevo sceneggiato tante volte nei film di Freda, Matarazzo e Camerini, quando faceva le parti del cattivo. Fin da ragazzino ero molto amico della sua prima moglie, Nora Ricci. Un’attrice mediocre, ma una donna spiritosissima. Come spiritoso era Gassman. Poi si era messo a recitare Shakespeare a teatro, e al cinema gli toccavano sempre ruoli di antipatico. Quando uscivamo insieme diventava un altro. E io gli ripetevo: «Una persona brillante come te perché non fa ridere anche al cinema?». Fu molto felice di passare al comico. La proposta non lo stupì affatto, anzi. Inizialmente il M.M.

problema fu farlo accettare dai produttori. Con quella sua fama seria, e una faccia troppo bella. Come sempre la mano di Gherardi fu decisiva. Per truccarlo da delinquentello impiegammo diversi giorni. Una vera e propria metamorfosi per Gassman, con quell’aria aristocratica e intellettuale, a detta dei produttori. Gli abbassammo l’attaccatura dei capelli per dargli delle fattezze un po’ “gorrillesche”. Gli mettemmo in bocca l’apparecchio di sughero – forse in quell’occasione ci venne in mente di farlo tartagliare un po’ – in modo da ingrossargli le labbra sottili. Gli infilammo pure dei tamponi nelle narici, e soprattutto gli togliemmo la gobba del naso, che lo rendeva antipatico. Peppe er Pantera aveva trovato il suo volto. E Gassman si trovò a suo agio immediatamente. Dopo La grande guerra non lavorammo insieme per sette anni. Semplicemente perché io facevo dei film in cui lui non era adatto. Ma ha fatto così tanti film con Risi più di me? Compresi gli episodi, sedici. Con te sarebbe arrivato a otto se non l’avessi tagliato in Rossini! Rossini! nella parte di Beethoven. S.M.

Lo tagliammo in montaggio perché l’incontro tra Beethoven e Rossini non è un fatto documentato. Inoltre non eravamo riusciti a dare credibilità al personaggio di Beethoven, che era un trombone come la sua musica. M.M.

Lo stesso interrogativo si ripropone con Sordi. Dopo La grande guerra aspetti diciotto anni per dirigerlo nel Borghese piccolo piccolo e nell’episodio del malconcio nei Mostri. E intanto lui – insieme a Sonego – dà il meglio di sé con altri. S.M.

La nascita di un film è legata a una serie di rapporti con il produttore, con gli attori, ma soprattutto è figlia delle circostanze. È un lavoro di incastri tra impegni, spesso fortuiti, altre volte fortemente voluti. All’inizio della carriera, prima da sceneggiatore e poi da regista, partivo spesso da un attore per costruirgli addosso un film. Era così con Totò. Ma spesso con Mastroianni o con Sordi, che a un certo punto i produttori volevano infilare in qualsiasi film. Con il passare del tempo mi sono potuto permettere di partire dalla storia, e da lì scegliere gli attori adatti alla parte. Sordi, per esempio, avrebbe dovuto interpretare l’intellettuale nei Compagni, ma io avevo in mente Mastroianni. Anche Brancaleone in un primo momento era M.M.

stato immaginato per Sordi, che dimostrò scarso interesse all’idea. Allora scrivendo venne naturale adattare il personaggio ai modi teatrali di Gassman. Le occasioni non sono mancate. Il cinema è fatto così. Oltretutto alcune volte non ci siamo trovati con i tempi: magari io stavo per girare e lui era già impegnato con uno, se non due o tre altri film. Oppure ci sono i produttori che mandano tutto all’aria. Però c’è un fondo di verità nella tua domanda, a proposito della mia infedeltà. Una volta Ruggero Maccari mi disse proprio che il tratto decisivo del mio carattere è l’infedeltà. E aveva ragione. Non posso escludere, quindi, di essere stato infedele verso gli stessi attori che ho contribuito a lanciare, se non addirittura scoperto. Avrei potuto farne uno dietro l’altro, di film con Sordi, Gassman, Tognazzi e la Vitti. Ma sarebbe stato troppo facile. Erano così bravi… mi sarei annoiato. Invece dietro l’infedeltà, spesso compagna dell’insofferenza, c’è la voglia continua di mettersi alla prova con qualcosa di nuovo, la curiosità stessa, che è alla base del mio modo di pormi nei confronti del mio mestiere. Sordi l’hai diretto otto volte, ma come protagonista solo quattro volte. In tre occasioni era una piccola partecipazione, in una si trattava comunque di un episodio. S.M.

Ma io ricordo con grande piacere quel suo piccolo intervento nel Medico e lo stregone, dove dipingeva un personaggio spregevole con grandissima bravura. Aveva dei tempi comici perfetti. O lo sketch dei Mostri, in cui rifaceva alla perfezione il principe Giovannelli. Una volta lo abbiamo registrato di nascosto. L’abbiamo fatto parlare a ruota libera. Ci siamo fatti raccontare dei suoi rapporti con il cardinale Lefebvre e dei raduni a cui partecipava, in una sorta di piccola chiesa contro Paolo vi, e la decisione di recitare la messa in italiano. Non l’ho neanche diretto, tanto gli era entrato in testa Giovannelli. Mi sono limitato a seguire con la macchina da presa mentre recitava il monologo che avevamo scritto. M.M.

Secondo Sonego, che lo conosceva bene, «in Sordi non c’è stata evoluzione, mai». S.M.

Dipende da cosa intendeva per evoluzione. Se si riferiva ai personaggi, la colpa era proprio di Sonego, che gli scriveva la maggior parte dei film. M.M.

Come profondità, qualità interpretativa, sensibilità, l’evoluzione c’è stata eccome. Nella Grande guerra diede prova di capacità drammatiche eccezionali. Rispetto a Gassman, che aveva un ruolo più lineare, si trovò ad affrontare un personaggio molto sfaccettato, con una gamma di variazioni psicologiche che richiedevano una finezza da grande attore. La sua evoluzione non è mai avvenuta del tutto perché Sordi stesso temeva di staccarsi dai personaggi amati dal pubblico, che non voleva tradire. Nel bel libro di Goffredo Fofi dedicato a Sordi viene citato un brano illuminante di Pasolini, che si conclude definendo la comicità di Sordi «una deviazione dell’infantilismo». S.M.

L’infantilismo di Sordi rovescia il candore e la bontà del bambino in una cattiveria senza freni. La grandezza di Sordi fu quella di far ridere con il suo personaggio tracotante, opportunista: cattivo. Sordi ha reso comica la cattiveria e ha portato il pubblico dalla sua parte. In questo è stato unico. M.M.

Tu sei stato uno dei pochi registi con cui ha continuato a lavorare dopo che aveva cominciato a dirigersi da solo, imboccando una parabola sempre più amara, irrigidito in un personaggio sempre più bolso, tra cadute patetiche e rimbrotti moralisti. Secondo Fofi, il miglior Sordi finisce coi primi anni sessanta. La sua prima regia, Fumo di Londra (1966), segna l’inizio di un declino interrotto da poche ma straordinarie interpretazioni. Una tesi che io sottoscrivo in pieno. S.M.

Anch’io, purtroppo. La sua scelta di dirigersi quasi sempre da solo è stata una disdetta. Cadde nell’errore tipico dei comici, che a un certo punto della carriera passano alla regia per non essere più limitati dai registi. È l’errore di scambiare i vincoli con la disciplina imposta da un regista. Negli ultimi anni lavorava ancora con me, fece un film con Scola e con pochissimi altri. La nostra è stata un’amicizia durata fino all’ultimo. Uscivamo a cena insieme spesso. A volte veniva anche Piero Piccioni, che era un suo grandissimo amico. Ci piaceva ricordare il passato. Quando è morto l’hanno riscoperto anche come uomo. Dicevano che era avaro, in realtà lo era con se stesso. Guarda quanti soldi ha lasciato in beneficenza. Era un grande credente, senza il minimo dubbio sull’esistenza del paradiso. M.M.

Mi ricordo che ci siamo visti il giorno in cui è morto. Tutta Roma era un subbuglio di passaparola commossi. Incredulità, battute e aneddoti hanno accompagnato il mio viaggio in autobus con una tristezza scalzata dalla gioia di poterlo rivedere per sempre nei suoi film. Io ascoltavo e per scacciare la tensione pensavo ai dieci suoi film più belli: un rompicapo. Il suo funerale si è trasformato in un delirio collettivo mediatico. Avresti potuto girarlo tu. S.M.

Non me ne parlare! Noi della commedia abbiamo passato una vita a profanare la pomposità delle celebrazioni e degli anniversari, e adesso da vivi e poi da morti ci tocca subire delle celebrazioni degne di un papa. Non ti dico quello che è successo per il primo anniversario della morte di Sordi. Come lo chiamavano, Albertone? Lui è entrato nel cuore della gente. È stato il nostro attore più grande. Dopo il Borghese avrebbe potuto approfondire la vena drammatica, era nelle sue corde, e in fondo era la continuazione naturale del suo personaggio. Quel film rappresentò per lui un’esperienza molto coinvolgente. Vedendo le foto di scena ti accorgi di come si era trasformato fisicamente. Ma sul set aveva lo stesso approccio naturale di sempre. Nemmeno si truccava. Quando giravamo la tortura dell’assassino del figlio, la differenza tra lui e Shelley Winters è la stessa che passa tra il cinema italiano e quello americano. Prima di girare, lei rimaneva seduta sulla sedia a rotelle e per ore intere ascoltava canti yiddish con un registratore nascosto nel seno. La musica dei suoi avi le risvegliava chissà quali sofferenze, e piano piano si intristiva e cominciava a piangere come era previsto dalla scena. Durante tutto quel tempo, Sordi scherzava con la troupe e si mangiava un panino al salame. Poi, appena lo avvertivo che la Winters era a posto ed eravamo pronti per girare, lui entrava in un attimo nella parte e al primo ciak si metteva a piangere. Va detto anche che la Winters, che era una grandissima – della stessa stoffa di una Bette Davis –, aveva capito l’andazzo e si era adeguata. Tra grandi attori si trovano sempre. Mi ricordo una volta in Costa Azzurra, intorno alla fine degli anni cinquanta. Eravamo ospiti di De Laurentiis nella sua villa a Cap Ferrat, non so per quale film, forse stavamo preparando La grande guerra. Passavamo tutto il giorno insieme. La sera si mangiava in fretta e furia perché De Laurentiis, la Mangano e gli altri ospiti andavano al casinò di Montecarlo. M.M.

Io e Sordi si rimaneva a chiacchierare. Una volta gli chiesi per curiosità quanti soldi avesse guadagnato. «Indovina» mi provocò. Io buttai lì un miliardo, ma tanto per dire. Alla fine degli anni cinquanta, per la miseria, un miliardo! Lui si mise a ridere. Io mi giustificai, l’avevo sparata grossa. Lui rise ancora: «Macché un miliardo, se avessi messo via così poco sarei un cretino». Pensavo che stesse scherzando. Invece lui mi citò tre o quattro investimenti e i conti tornavano. Non capivo: «Ma scusa, sei pieno di soldi, hai lavoro, hai successo, le donne ti saltano addosso: perché non ti sposi?». Fu allora che disse la frase che adesso riportano tutti come se l’avesse detta a loro: «Cosa vuoi, che mi metto un’estranea dentro casa?». Fin dall’inizio della sua carriera radiofonica, Sordi era spesso anche autore dei suoi testi, l’inventore dei suoi personaggi e in molti film figura come sceneggiatore. Anche quando non è accreditato – perché materialmente non scriveva quasi mai – è sempre stato ispiratore dei suoi personaggi. Con te gli attori collaborano raramente alla stesura della sceneggiatura: due volte Fabrizi, due Sordi e una Tino Scotti, e ancora più raramente intervengono nel corso delle riprese. S.M.

Ho sempre preferito tenere gli attori lontano dall’aspetto creativo del film, dedicando poco spazio alla cosiddetta “costruzione del personaggio” per evitare inutili intromissioni e non dare adito alle loro insicurezze o ambizioni. I bravi attori non fanno che imparare le battute che gli sceneggiatori hanno scritto apposta per loro, conoscendone le qualità, e recitarle. Durante le riprese ho sempre fatto pochissimi cambiamenti. Anche Sordi era molto ligio al copione. Lo studiava, si preparava, e con le sue immense capacità entrava nel personaggio, lo caratterizzava appropriandosi delle battute, tanto che sembrava le avesse inventate lui. Come nel Marchese del Grillo, di cui peraltro Sordi era cosceneggiatore, quando dice: «Io sò io e voi nun siete un cazzo!». Tutti credono che sia sua, invece è un verso di un sonetto del Belli. Sul set non ho mai avuto problemi con gli attori. Quello che conta è mostrare il controllo della situazione, avere sempre la risposta pronta e magari infischiarsene di obiezioni, anche se intelligenti. Il lavoro del regista è portare avanti la baracca. Gli attori sono come gli animali – che non M.M.

vanno trattati da animali, eh! Se sentono che il domatore tentenna, gli saltano addosso. Una volta Mastroianni e Gassman volevano picchiare Pietrangeli. Lavoravano a Fantasmi a Roma (1960) e lui stava facendo ripetere la stessa scena venti, trenta volte. Spesso il passo è breve tra meticolosità e incertezza. Gli attori ti annusano. Guai a mostrarsi incerti. Loro hanno bisogno di sicurezza. Uno che per esempio ama molto essere guidato, se non addirittura maltrattato, è Haber. In otto film insieme, una sola volta Sordi provò a contraddirmi, nel senso che si è stupito e mi ha chiesto la ragione di un primo piano che non gli ho fatto. È accaduto nella Grande guerra, girando la scena famosa in cui una sentinella gli spara e poi urla: «Chi va là?», e Sordi un po’ sconcertato: «Che fai, prima spari e poi dici chi va là?». Quando finalmente lo fa passare insieme agli altri soldati, Sordi si sfoga al buio: «Li mortacci tua!». Quella battuta suscita sempre grandi risate proprio perché Sordi non si vede. Quando la girammo era notte, faceva freddo e pioveva, ma Sordi non se ne capacitava. Dai tuoi copioni emerge abbastanza chiaramente il tono della storia e il modo in cui va recitata. Ma a volte immagino sia necessaria una discussione sul personaggio. Un lavoro sulle sfumature, almeno. Tu non fai certo come Bergman, che mette gli attori intorno a un tavolo e fa recitare loro il copione come in una prova teatrale. S.M.

Per carità, no. In genere gli attori bravi leggono il copione e colgono subito il ruolo. Se gli piace accettano la parte. Sulle sfumature qualche volta si discute. Se ne parla un po’, magari durante la prova dei costumi o del trucco. L’attore mi rivolge qualche domanda per chiarirsi un dubbio, tutto qui. La tragedia è con gli attori mediocri. Loro si mettono in testa un’idea e prima di togliergliela… M.M.

Il giovane medico Mastroianni controlla il polso a Monicelli in una prova del Medico e lo stregone.

L’attore di qualità, invece, arriva sul set pronto a recepire quello che gli sta intorno. La sua idea del personaggio si completa durante le riprese. Questa era una caratteristica di Mastroianni. Dopo aver letto la sceneggiatura, rimuginava sul suo personaggio e imparava le battute a grandi linee. Poi, appena si trovava sul posto e si guardava intorno, gli bastavano due o tre prove, non di più, e allora gli scattava un meccanismo di immedesimazione. Esprimeva la sua freschezza nei primi tre o quattro ciak. Poi rimaneva sullo stesso livello, o addirittura calava. Una dote che ti è sempre stata riconosciuta è la capacità di dirigere gli attori, pur non essendo in grado di recitare le parti come Fellini. S.M.

De Sica recitava le parti di tutti quanti, lui sì. Ed era affascinante assistere a quello spettacolo. Io, invece, sono un cane a recitare. Le rare volte che mi sono prestato a dei camei ho fatto una figuraccia: in L’allegro marciapiede dei delitti (1979) di Grand-Jouan, Sono fotogenico (1980) di Risi, La vera vita di Antonio H. (1994) di Monteleone e Under the Tuscan Sun (2003) di Audrey Wells. Per me il punto di riferimento imprescindibile resta la sceneggiatura, che come sai è molto dettagliata anche riguardo ai movimenti e talvolta indica il tono delle battute. I miei interventi sul set sono limitati a correggere un’impostazione di fondo che si rifà al copione, cercando di sfrondare il più possibile le riflessioni sul personaggio o le motivazioni ad agire, e insistendo invece sull’immediatezza. Un trucco che utilizzo spesso è quello di associare le battute ad altri movimenti, in modo da spostare la concentrazione sull’atto pratico e rendere il più possibile spontanei i dialoghi. M.M.

Anche con Mastroianni hai avuto una storia a sbalzi. Dopo la piccolissima parte in Vita da cani, tra il ’57 e il ’64 lo dirigi cinque volte. Quindi un ultimo ritorno nell’85 con uno stanco Mattia Pascal. Toglimi una curiosità. Perché prima o poi con tutti i registi finiva per essere “coinvolto” in storie di sesso? Con Fellini e Ferreri non ne parliamo, ma anche l’impotente nel Bell’Antonio (1960) di Bolognini, l’uomo incinto di Niente di grave: suo marito è incinto (1973) di Demy, e il rubacuori che per amare ha bisogno del senso del pericolo nel tuo Casanova ’70. S.M.

Perché lui raccontava solo storie di impotenza. A quei tempi era una moda nell’ambiente del cinema. Ci si divertiva a inventare occasioni meravigliose con donne inaccessibili e di avere fallito come un ragazzetto alla prima volta. Era un vezzo. M.M.

S.M.

Ma lui, suo malgrado, era condannato a essere un latin lover.

Era incredibile, tutte le donne sul set si innamoravano di lui: tutte, immediatamente. Il problema è che parlava solo di cibo. E aveva una venerazione assoluta per la madre, che gli mandava sul set certi piatti ciociari. Una volta doveva festeggiare un anniversario con la Deneuve. Lui stava girando in Italia. Prese mezza giornata di permesso e la raggiunse in M.M.

aereo a Parigi portandole come regalo un piatto ciociaro. Alla Deneuve… io lo avrei mandato a fare in culo, altroché! Mastroianni era un uomo con un umorismo innato. Piacevolissimo nonostante la fissazione per il cibo. Passava la giornata di lavoro a pensare a dove saremmo andati a mangiare a fine riprese. La sera, dopo cena, si scolava una bottiglia di grappa intera. Era di grande compagnia, pronto sempre a stemperare ogni situazione con una battuta. Un uomo che amava la vita e sapeva viverla, ecco. Lo volevo per Amici miei, ma lui veniva dall’esperienza della Grande abbuffata, dopo la quale decise di non partecipare più a film corali, visto che a suo giudizio gli toccava sempre il personaggio meno riuscito. Senza considerare la breve comparsa in Vita da cani, Mastroianni l’hai sempre impiegato nella parte dell’indolente, mosso da una pigrizia morale che giustifica le menzogne in una sorta di inevitabilità di cui lo spettatore si sente complice. Nei Soliti ignoti, al contrario, giochi ribaltando il cliché del latin lover, trasformandolo in un uomo di casa con un ragazzino a carico, mentre la moglie è in prigione. S.M.

Infatti è rimasto affezionato al Tiberio dei Soliti ignoti. Anche il maggiore Rossi Colombetti di Casanova ’70 era un latin lover particolare. E in definitiva uno dei tratti che ricorrono in un po’ tutti i suoi latin lover è la passività. La qualità di Mastroianni stava nell’assorbire un personaggio senza darlo a vedere. In lui l’indolenza diventava un pregio, ne accresceva il fascino. E il suo modo di mentire veniva accettato dallo spettatore senza alcuna forma di condanna. Per questa ragione avrei voluto lui per Viaggio con Anita. Se Giannini ha spinto il suo nervosismo verso la bassezza di un comportamento menzognero, Mastroianni avrebbe stemperato la stessa menzogna in una sorta di distrazione. M.M.

In generale, a te piace rivoluzionare l’immagine di un attore, ma i più grandi attori che hai diretto li hai utilizzati in ruoli molto simili. Forse è con Sordi che hai osato di più. S.M.

A Gassman ho quasi sempre fatto fare il “bauscia”. Un coglione, però coraggioso. Peppe er Pantera, Busacca e Brancaleone sono accomunati da questa spocchia che li porta a una generosità se vogliamo incosciente, che li M.M.

rende anche simpatici: ma alla fine rimangono dei coglioni. Tutt’altro carattere rispetto alla nobiltà d’animo dell’hidalgo dei Picari. È uno dei rari casi in cui è avvenuto un cambiamento significativo del personaggio durante le riprese. Giravamo a Salamanca. Dopo la prima battuta – la prima battuta – lo fermo e gli dico: «No, secondo me devi tirar fuori una nota melanconica». Lui, tranquillo: «Va bene». Ricominciamo. E lui si mette a recitare in un altro modo: con una nota melanconica. Aveva una grandissima tecnica di base: sapeva come introdurre una nota melanconica. E in più aveva una memoria prodigiosa. Si divertiva a sfidare gli altri attori. Leggeva una pagina intera di un libro e te la ripeteva alla perfezione. Altrettanto professionale era Sordi, meticolosissimo. Con lui ho proprio insistito perché facesse il personaggio drammatico del Borghese. Invece Mastroianni, ma ancora più Tognazzi, era istintivo. Trovo che la grandezza di Tognazzi stesse proprio nella capacità di insozzarsi anche fisicamente nell’abiezione di un personaggio. Non aveva freni, ed era straordinario. S.M.

Tognazzi era un attore di grandissima finezza, una qualità in apparente contraddizione con la sua rozzezza come persona. Aveva queste due anime, riunite però da una simpatia unica. Non ho mai capito come ciò potesse accadere. A differenza degli altri “mostri” o “colonnelli”, poi, lui era proprio un comico. Se voleva, ti faceva morir dal ridere. Anche se era un po’ reticente, perché viveva male quel passato, voleva essere considerato un attore a tutto tondo: e lo era. Era disposto a tutto, come dici tu, pur di entrare nelle viscere del suo personaggio. M.M.

Mi sono sempre piaciuti i particolari laidi di certi suoi personaggi. All’onorevole Tritoni di Vogliamo i colonnelli sudano di continuo le mani. Non riesce a reprimere l’eccitazione perenne dietro la sua volgarità ignorante e tronfia. Peccato per l’accento toscano del tutto improbabile, sarebbe stato sublime con uno di quei suoi accenti settentrionali in cui era maestro. Come la prima volta che giraste insieme in Gente moderna. Nove anni prima dei Colonnelli. Subito dopo lo dirigi in Romanzo popolare e Amici miei, di cui interpreterà anche il seguito. Era in stato di grazia. Forse oggi non lo si ricorda abbastanza per quello che ha fatto. S.M.

In Gente moderna, dopo aver perso anche la moglie al gioco, improvvisò quella testata contro il muro che ripetemmo anni dopo in Romanzo popolare. Quando si lavorava con lui i set erano travolti dalla sua simpatia. Girando Amici miei, per esempio, era tutta una pagliacciata. Gli attori risolvevano i problemi senza bisogno di tante palle. Era gente a cui piaceva scherzare. A una certa ora del pomeriggio si cominciava a pensare dove andare a mangiare. Grandi discussioni tra un’inquadratura e l’altra. Tognazzi insisteva perché si andasse a mangiare da lui, nel residence con cucina dove stava a Firenze. Le volte che accettavamo l’invito, lui subito allertava il segretario. Cominciava a dargli indicazioni sulla spesa, era proprio una mania. Allora il segretario andava avanti e indietro dal set al negozio – che so, il pizzicagnolo in cui c’era quella fontina particolare. Nel secondo Amici miei, quando il conte Mascetti viene colto da infarto, mentre cade a terra e si rotola, vede arrivare il segretario e nel rantolo si mette a bofonchiargli ordini per la cena. Ne è uscito un risultato eccellente! Questo modo di interagire fuori scena era un’abitudine di chi aveva lavorato a teatro e parlava con disinvoltura con quelli in quinta. Sordi invece faceva il contrario: irrompeva in scena per fare degli scherzi all’amante dell’epoca, la Pagnani. Allora lei era molto più nota di lui, che la seguiva in teatro come spettatore, e si annoiava. È capitato più di una volta, ma il pubblico non se ne accorgeva. Pensava che facesse tutto parte della commedia. Mentre la Pagnani si scomponeva, smetteva di parlare e magari trovava una scusa per uscire di scena, Gino Cervi non batteva ciglio e teneva testa alle improvvisazioni di Sordi, che magari si presentava come l’idraulico: eccezionali tutti e due. Se la cavò persino in una replica dello Zio d’America, quando Sordi sbucò da una cassa da morto. M.M.

Credo che la diversa formazione abbia avuto un peso notevole. Sordi e Tognazzi hanno fatto la gavetta nell’avanspettacolo, mentre Gassman e Mastroianni hanno studiato in accademia. Una differenza che gioca a favore dei primi due, anche se Mastroianni ha recuperato sul piano umano, se si può dire. S.M.

La duttilità, la prontezza nel reagire agli imprevisti, l’abitudine all’improvvisazione in base alle reazioni del pubblico, la capacità di giocare su più registri che possiedono gli attori provenienti dall’avanspettacolo è M.M.

una risorsa unica. L’impostazione teatrale dell’accademia fornisce un’eccellente tecnica di base che poi deve affinarsi sul campo, soprattutto in un genere realistico come la commedia, dove occorrono spigliatezza e naturalezza. Un mostro mancato, per ragioni anagrafiche ma forse anche per via del suo carattere, è stato senz’altro Giancarlo Giannini. Un interprete sommo, non sempre all’altezza nelle scelte. S.M.

È un attore bravissimo. Non si è mai messo in evidenza quanto avrebbe potuto. Recita in inglese con una scioltezza sorprendente. Ha un controllo della voce perfetto. Sa fare un sacco di dialetti. È anche una persona molto simpatica. Sul set, però, se ne sta sempre per conto suo. Chi non lo conosce lo giudica scontroso, cosa che non è. Durante una pausa del Male oscuro, mi mostrò un album di non so quante fotografie e ritagli di tutti gli animali possibili, anche dei più assurdi: il cercopiteco, il tapiro, alcuni nemmeno li conoscevo. E mi indicò l’animale a cui si sarebbe ispirato nella scena che stavamo per girare. Lui si allenava a studiare i movimenti dei vari animali, che poi rifaceva a seconda della scena. Un follia, insomma. Per il resto delle riprese alla fine di ogni scena lo prendevo in giro: «Cos’era questa, un’aragosta oppure un gorilla?». M.M.

S.M.

In generale quali erano i rapporti con gli attori durante le riprese?

Dipende molto se eravamo a Roma o se si girava fuori. In questo caso si stava insieme anche dopo il lavoro. Battevamo i ristoranti della zona. Facevamo delle grandi mangiate, senza più pensare al lavoro. E ridevamo: ridevamo tanto. A Roma invece ognuno se ne tornava a casa sua. Uno che aveva sempre gente in casa e tendeva a organizzare dei piccoli clan era Gassman. Ci teneva moltissimo. Si intestardiva a fissare dei giorni in cui radunarsi. Avevamo fondato il Club dei Primati: un gruppo di amici con lo spirito molto goliardico che volevano divertirsi. A casa sua aveva fatto costruire un teatrino dove si recitava, si facevano giochi, quiz, che vinceva sempre lui perché era terribilmente competitivo, oltre che molto dotato. M.M.

Quando dirigi hai la fama di essere piuttosto brusco, soprattutto se hai a che fare con gente insicura. Ma in generale non vengono ricordate troppe S.M.

liti sui tuoi set. Ho letto di un’incomprensione con Gassman nel secondo Brancaleone per la scelta di tenere il livello dei rumori di fondo alla stessa altezza delle voci. L’incomprensione sul suono di fondo con Gassman fu una semplice divergenza di vedute, che si risolse con la mia decisione di mantenerlo e una stima reciproca intatta. Discussioni incredibili ci furono piuttosto con Lea Massari durante le riprese di Proibito. Resta memorabile un’incazzatura di Francesco Rosi, che era il mio aiuto. Non ti dico come la insultò. Lei era al suo esordio. Si chiamava Anna Maria Massatani. Lavorava come aiuto parrucchiera, neanche se lo sognava di fare cinema. L’avevo trovata grazie a Gherardi: aveva un occhio… Era una di quelle che vogliono sapere tutto. Perché diceva una battuta, che significato aveva, quali erano le motivazioni del suo personaggio, come doveva muoversi, perché doveva infilarsi un giubbetto, tutto così. Dimmi tu che motivazioni deve avere una per mettersi un giubbino, che se lo infili e basta! M.M.

Però era brava e molto bella. Anche se in Italia, dopo qualche grande film come L’avventura (1959), Una vita difficile (1961), Le Quattro giornate di Napoli (1962), ha lavorato sempre meno. Poi è emigrata in Francia. S.M.

In Italia lavorava poco, perché rompeva i coglioni. In Francia molto, perché rompeva i coglioni! M.M.

S.M.

Fu durante i provini di Proibito che scartasti Brigitte Bardot.

Non solo la scartai, le dissi proprio che non aveva la stoffa per fare cinema! Cosa vuoi, si era ancora ai tempi delle maggiorate. Lei si presentò con quel suo musino da pechinese. La sua era una bellezza nuova. E io non la colsi affatto. M.M.

Finalmente stiamo parlando di attrici. Trovi delle differenze tra lo scrivere personaggi femminili e quelli maschili? S.M.

Se nel dirigerle non ce ne sono, almeno all’inizio ho avvertito una certa differenza nello scrivere i personaggi femminili. Tanto è vero che chiamai la Suso per occuparsi della psicologia femminile in Proibito. Fu così che M.M.

cominciammo a lavorare insieme. Poi non ci ho più fatto tanto caso. Però la differenza tra uomini e donne è profonda. A partire dalla costituzione fisica, le donne sono più forti. Hanno una capacità di soffrire sconosciuta all’uomo. La maternità le cambia in maniera molto significativa, mentre l’uomo in fondo rimane sempre immaturo. Indubbiamente le donne hanno una psicologia più complessa e delle qualità diverse rispetto all’uomo. La praticità, per esempio. Anche una certa sensibilità, una maggiore introspezione. Ma il loro problema – la forza e il punto debole, in special modo quando si deve far ridere – è la bellezza. Tutte le attrici, o quasi – mi viene in mente la Mangano che si rifiutò di farsi ritoccare il naso perché le piaceva com’era – sono ossessionate dal proprio aspetto fisico. La Magnani, che era una donna di grande fascino, è stata rovinata da questa ossessione. Con le donne, il numero di presenze cala vistosamente. In testa, con tre film all’attivo, ci sono ben cinque attrici: Monica Vitti, Stefania Sandrelli, Ornella Muti, Marisa Merlini e Marina Confalone. Anche se, contando la parte di un film televisivo tratto da Campanile, La moglie ingenua e il marito malato (1989), la Sandrelli e la Confalone salgono a quota quattro. S.M.

Monicelli sussurra un suggerimento ad Anna Magnani, mentre Totò aspetta di girare in Risate di gioia.

La moglie ingenua e il marito malato è un bel film di un’ora che girai per la televisione. L’avevano prodotto i Vanzina per la Fininvest. Lo mandò in onda Canale 5 solo una volta, poi è sparito dalla circolazione. Mi piacerebbe rivederlo. C’erano fior di attori. Fernando Rey, Abatantuono, Cinzia Leone, Giuffré, Benti, Bonacelli. M.M.

È risaputa la storia della Vitti, strappata agli strusci sui muri di Antonioni, come aveva già fatto Salce in un episodio di Alta infedeltà. S.M.

La storia della Vitti è simile a quella di Gassman. È nato tutto fuori dal set. Io già la conoscevo dai tempi in cui faceva la doppiatrice. Lavorò per me nei Soliti ignoti facendo la voce di Rosanna Rory, l’amante di Carotenuto. Ma ci frequentammo stabilmente più tardi, per via dell’amicizia con Antonioni, di cui all’epoca era compagna. Andavamo molto spesso a fare delle gite insieme. Stavamo ore a chiacchierare nelle trattorie fuori porta. Era piena di verve, improvvisava macchiette spassosissime. E oltretutto era molto bella. A teatro interpretava dei vaudeville francesi. È vero che con Salce aveva girato un episodio leggero, ma farle fare la protagonista assoluta di un film comico era una piccola rivoluzione. Girare La ragazza con la pistola fu una battaglia, aspettammo più di un anno prima di combinare i vari impegni. Ma fu un vero successo. Dopo abbiamo lavorato poco. L’episodio con Jannacci e quella fregnaccia di Camera d’albergo. Nel frattempo lei era diventata una delle grandi del nostro cinema, e una primadonna. Anche lei si è legata a un personaggio di fatalona comica che non ha più voluto abbandonare. Mentre nella Ragazza con la pistola era alla prima esperienza del genere e si faceva fare di tutto. Aveva persino rinunciato a quella sua criniera bionda per una parrucca scura, con i capelli tirati all’indietro. Anche in quell’occasione fu decisiva la mano geniale di Gherardi. La Vitti faceva resistenza solo quando la dovevo riprendere di profilo. Non sopportava il suo naso. Per punirla, allora, appena potevo la riprendevo di profilo. Ma ci pensi quanti film non si sarebbero fatti senza lei, Sordi, Gassman, Tognazzi, Manfredi, Mastroianni? Almeno un centinaio. M.M.

La Sandrelli, viareggina come te, non ha mai avuto un ruolo da protagonista, anche se come strega di Brancaleone alle Crociate lascia un segno inquietante e magico. Era meravigliosa con i capelli corti. S.M.

La Sandrelli è immensa – e non solo perché è di Viareggio. Ha una sensibilità innata. Coglie lo spirito di un personaggio da attrice di razza. Purtroppo sono capitate occasioni marginali. Lei però ha sempre accettato le parti da comprimaria con grande professionalità e intelligenza. Ha dato un tocco di ironia alla finta disperazione dell’amante-vedova di Noiret in Speriamo che sia femmina e una nota di tristezza all’ex amante di Giannini nel Male oscuro. M.M.

Se non è amante, tradisce: il suo ruolo più integro moralmente rimane quello di strega… Una sorte diversa è toccata a Marina Confalone. Condannata a figure di contorno, avrebbe meritato ben altre occasioni. S.M.

Sono d’accordo: un’attrice straordinaria, della stoffa delle migliori. Pochi giorni prima delle riprese di Speriamo che sia femmina, dette forfait dal ruolo della domestica, che poi è diventato di Athina Cenci. Mi telefonò dicendo che lo faceva per amore. È uno di quei casi in cui non vale la pena di opporsi. Un’altra molto brava era la Merlini. Grandissima caratterista. La sua bellezza era oscurata dalle parti di moglie tradita o popolana dal vocione grosso. Purtroppo era succube della Magnani, di cui era amicissima e che voleva imitare a tutti i costi. M.M.

La Magnani, che recitò una sola volta con Totò in Risate di gioia. Si ha l’impressione che, da grande signore qual era, Totò le faccia da spalla. Non dico intimidito, ma molto sorvegliato. Il loro numero di Geppina, revival dell’avanspettacolo, vale tutto il film. S.M.

Non fu facile convincere la Magnani a recitare con Totò. Lei ormai era una diva. Aveva vinto l’Oscar, recitato con Marlon Brando e Burt Lancaster. Le sembrava di essere declassata in serie B. Invece la coppia funzionò, e Totò le fece da spalla come del resto prevedeva il ruolo: in qualità di capocomparsa lei era il personaggio più noto dei due… Anche tra disperati esistono le gerarchie. La Magnani era una persona di grande intelligenza. Purtroppo aveva l’ossessione della bellezza, non pensava ad altro. Un desiderio impossibile che per forza ne falsava l’interpretazione, che al contrario doveva mettere in risalto il passare del tempo. E infatti questa sua convinzione di lavorare tutta di istinto, da romanaccia grintosa, M.M.

non le permise di scavare nelle pieghe di un personaggio roso dall’amarezza. In quanto a bellezza, tu hai diretto alcune donne meravigliose, molte delle quali all’apice del loro splendore. S.M.

Se pensi soltanto al cast di Casanova ’70… Lì fu un piacere sceglierle. Erano una più bella dell’altra. Virna Lisi, Marisa Mell, Michèle Mercier, Beba Loncar, Jolanda Modio, Margaret Lee, Seyna Seyn, Rosemarie Dexter, Liana e Moira Orfei: un tripudio di splendore! Marisa Mell era austriaca, l’avevo beccata in una fotografia di ballerine, tra l’altro era bravissima: la sua Thelma parlava come nei libretti d’opera. Beba Loncar arrivava dalla Jugoslavia. Seyna Seyn aveva girato una serie di parodie di 007. Jolanda Modio veniva dal Magnifico gladiatore (1964) di Alfonso Brescia. Michèle Mercier l’avevo già utilizzata in Gente moderna. Le altre ragazze bazzicavano i film italiani con particine di contorno, mentre la Lisi era già una diva affermata. Malgrado queste ragazze stupende intorno, non ho mai avuto storie con una mia attrice. È stata una scelta, in parte di autoconservazione, per evitare di penalizzare il lavoro: insomma, non si può andare a letto con una donna di notte e la mattina dopo darle degli ordini. E poi questa situazione avrebbe alterato i rapporti con gli altri attori e la troupe. L’attrice più bella che abbia visto è Nastassja Kinski. Abbiamo mangiato in un ristorante insieme a Polanski, che al tempo stava con lei. Non si è mai capito perché uno così piccolo e brutto abbia avuto tutte ’ste strafighe. La Kinski era qualcosa di unico. Selvaggia, animalesca, stupefacente. Ti sorprenderai se ti dico che una delle attrici che mi ha colpito di più è stata Susan Sarandon. Allora era una ragazzina sconosciuta, aveva fatto qualche particina in un paio di film. Doveva girare poche pose nella Mortadella. L’aveva scelta il casting director, quindi nemmeno l’avevo vista quando si presentò la prima volta sul set. La ricordo ancora come una delle apparizioni più incredibili a cui abbia assistito. Era così bella, e brava; e straordinariamente sexy. Poi non ne seppi più nulla. Dopo tanti anni, guardando un film vidi un’attrice che mi piacque tantissimo. E scoprii che era lei. Strepitosa. M.M.

Ancora una volta La mortadella. Sarà un film modesto – secondo Proietti porta pure iella – ma ne stiamo parlando tantissimo. La protagonista era Sophia Loren. S.M.

La Loren faceva la diva. Aveva il suo direttore delle luci, Alfio Contini, che insisteva che la riprendessi dal suo profilo migliore. Io lo stavo a sentire, poi me ne fregavo e facevo quello che mi pareva. Non l’ho mai amata. Per carità, è brava. Nel senso che è disinvolta, conosce il mestiere. In America è un mito. Laggiù quando cadono carponi davanti a un personaggio lo idolatrano per sempre. Mentre noi in Italia non siamo fedeli a nessuno. Anzi, a noi piace smontarli, i miti. M.M.

Completamente diverso è stato il rapporto con la Mangano, che frequentavi spesso. Dopo l’exploit della Grande guerra, l’hai diretta solo per quattro minuti in uno sketch, La bambinaia (1968) di Capriccio all’italiana. S.M.

Neanche lo considero, quell’episodio. Nella Grande guerra invece fu meravigliosa. Recitò in romanesco e si doppiò in veneto. Era una donna solare, piena di brio, ma anche complicata. In realtà era De Laurentiis a spingerla, perché lei non voleva fare l’attrice. Aveva molta presenza. E rispetto agli esordi migliorò molto in qualità. Purtroppo le affibbiavano personaggi fra il tragico e il monumentale. Anch’io avevo contribuito in passato, scrivendole le parti melodrammatiche. Da regista, come al solito volli tirarle fuori l’aspetto divertente. Infatti i film successivi che fece con Sordi furono le sue prove più convincenti, prima che diventasse la musa di Visconti. M.M.

Visconti consacrò al cinema alto un’altra tua grande scoperta: Claudia Cardinale. Dopo averla lanciata nei Soliti ignoti l’hai diretta solo in Fata Armenia, un episodio tutt’altro che memorabile delle Fate. S.M.

È vero, ma più di una volta siamo stati sul punto di lavorare insieme in altri progetti. Avevamo già cominciato a preparare un film ambientato nel mondo della danza. Non mi ricordo chi scrisse il soggetto, credo che come personaggio maschile avessimo contattato Nureyev. Gherardi era già al lavoro, quando scoppiò lo scandalo del figlio illegittimo della Cardinale. M.M.

Nel film, tra l’altro, avevamo scritto una scena d’amore in una baracca che aveva qualche analogia con quella storia: mi costò l’amicizia con Cristaldi. A quei tempi, infatti, ero il suo amico più caro. Ci frequentavamo tantissimo. Quando partiva per qualche viaggio con la Cardinale, mi invitava sempre insieme alla ragazza con cui stavo allora. E poi tutte le domeniche ci si radunava nella sua villa fuori Roma dalla mattina alla sera. Con la piscina e un campetto da calcio. Eravamo un gruppo di una dozzina tra sceneggiatori, registi e qualche attore. Per noi era diventato un ritrovo fisso. Cristaldi organizzava feste meravigliose, certe volte proiettava dei film: insomma, ci divertivamo parecchio. Quando venne fuori la tresca con Squitieri, io presi le parti della Cardinale. Non ci trovavo nulla di riprovevole se si era innamorata di un altro uomo. Tutti noi, in un modo o nell’altro, stavamo con donne o uomini di secondo, se non di terzo letto. Cristaldi – che in questo era un siciliano, tanto è vero che per anni mantenne clandestino il suo rapporto con la Cardinale – si incazzò e mi cacciò di casa escludendomi dalla sua cerchia. Poi lui sposò Zeudi Araya. Non siamo stati più amici. Non abbiamo più lavorato insieme. La Cardinale sta ancora con Squitieri, anche se da allora la sua carriera ne ha risentito un po’. Un’altra tua distrazione, per così dire, è Franca Valeri. Una commediante di razza. In Un eroe dei nostri tempi teneva testa a Sordi come solo lei sapeva fare. L’hai ritrovata quarantasette anni dopo sul set di Come quando fuori piove (2000): un misfatto imperdonabile. S.M.

Lo so, lo so. È uno di quei numerosissimi casi in cui mi domando come mai non ho pensato a un attore o un’attrice con cui in precedenza mi ero trovato benissimo, di cui magari ero stato persino entusiasta. È capitato con tanti, sono fatto così. Ma ti assicuro che non c’è una ragione precisa, mi va semplicemente via di testa. Una volta ho incontrato Giorgio Gobbi, il Ricciotto del Marchese del Grillo, che voleva sapere perché non l’ho più chiamato: e chi lo sa? M.M.

Un’attrice da cui hai tirato fuori il meglio è Ornella Muti. Non è più stata così bella come in Romanzo popolare. S.M.

Ai provini si presentò anche Monica Guerritore. Ma io scelsi la Muti senza esitazioni. Veniva da cinque o sei film mediocri. Aveva diciotto anni, ed era incinta. Bellissima. Mi colpì per la sua determinazione. Ascoltava con grande attenzione, aveva voglia di imparare. Ed era molto sicura di sé. Recitava con disinvoltura accanto a Tognazzi, senza farsi intimorire. Sempre tranquilla, padrona della situazione. Avrebbe potuto avere una carriera ancora più importante, ne sono convinto. E così Placido. Veniva da un paesino sconosciuto del Sud. Aveva fatto il questurino, tra l’altro. Anche lui era tagliato per la commedia. M.M.

Non ti ha fatto effetto rivedere Muti e Placido insieme sul set di Panni sporchi, venticinque anni dopo Romanzo popolare? S.M.

È più uno choc per il pubblico che per noi. Chissà quante volte ci siamo incontrati in tutti quegli anni… Però Placido mi ha confessato di avere provato nostalgia per quel film, quando tentò due volte di baciare la Muti con risultati disastrosi. M.M.

È vero che una volta, sul set dei Picari, la De Sio ha osato darti un suggerimento, e appena ha provato a dire «Io penso…» l’hai zittita senza mezzi termini: «Tu non sei in grado di pensare!»? S.M.

Monicelli dirige Ornella Muti in Romanzo popolare.

Con la De Sio ho girato due film e mi sono trovato molto bene. Una brava attrice, e una persona intelligente: in grado di pensare. Il fatto è che tutti mi misero in allarme quando dissi che avrei lavorato con lei. Aveva la fama di una rompicoglioni. Allora io la trattai malissimo sul set. E lei era molto contenta di questo trattamento. La sua sfortuna è stata di non essere più entrata in un film di successo dopo Speriamo che sia femmina. M.M.

S.M.

Tu tendi a parlar male dei francesi, e poi ci lavori insieme.

È sempre esistito un rapporto privilegiato tra Italia e Francia. A Blier piaceva lavorare con gli italiani, perché diceva che erano dieci anni dietro i francesi. Ma che anche noi in dieci anni saremmo diventati stronzi come M.M.

loro! All’inizio delle riprese di Gente moderna arrivò sul set e si mise seduto al tavolo dove poi giocano a carte. Era mattino presto, non volle neanche andare al trucco, si fece dare una mezza forma di parmigiano e del Lambrusco – che da quelle parti era buono – e non si mosse più fino a sera. Solo Tognazzi era in grado di tenergli testa a tavola. Blier era semplicemente straordinario. Quando avevo dei problemi e cercavo qualcuno per una parte magari piccola ma incisiva, mi veniva subito in mente lui. Sarebbe stato un Abacuc ideale, ma Cecchi Gori preferì risparmiare con Carlo Pisacane. Lo stesso vale per Noiret, un attore con cui non ho mai avuto problemi. Un altro che mi colpì tantissimo fu Depardieu. Io non me lo sarei mai aspettato da un italiano, ma neanche da un francese, che si mettesse a imparare il pugilato, a fare vita da atleta, a dimagrire. Sul set di Temporale Rosy amava raccontare della sua famiglia di contadini. Dei bruti impressionanti. Chissà come è venuto fuori un attore così fine… S.M.

Ma come parlano l’italiano i francesi?

Blier lo parlava malissimo: capiva benissimo, ma parlava malissimo. I francesi sono tutti così. Noiret, Depardieu, Perier, Sabine Azéma, Catherine Deneuve, Delphine Seyrig… Le altre lingue le capiscono, ma non riescono a parlarle. È ineluttabile. M.M.

S.M.

In che lingua dirigi gli stranieri?

Di base in italiano. Altrimenti nella loro lingua. Non è importante conoscerla bene, bastano quei termini chiave per farsi capire. Dirigere un attore è molto più semplice di quanto sembri. Sempre che sia bravo, ovviamente. M.M.

Tu hai una grande capacità di dirigere, o meglio, di mettere in sintonia gli attori. Uno dei cast più riusciti è senz’altro quello di Amici miei. Mi raccontavi prima del rifiuto di Mastroianni, che si sentiva scornato dall’esperienza della Grande abbuffata. Due dei protagonisti arrivano proprio da quel film… S.M.

Nelle mie intenzioni Mastroianni avrebbe dovuto fare il conte Mascetti. Dopo il suo rifiuto lo proposi a Raimondo Vianello, con quella sua aria secca e quella vocina un po’ stridula mi sembrava il nobile ideale. M.M.

Invece fu molto scostante, ce l’aveva col mondo del cinema, che secondo lui l’aveva escluso dal grande giro, e non ne volle sapere. Peccato, perché Vianello aveva tutte le carte in regola per diventare un grande della commedia all’italiana. La parte, così, andò a Tognazzi, che in origine avrebbe dovuto fare il Necchi. Noiret lo contattai proprio grazie al film di Ferreri, all’Orologiaio di Saint-Paul (1974) e Che la festa cominci… (1975) entrambi di Tavernier, un regista che riesce benissimo in qualsiasi genere. Interpretò il Perozzi al posto di Montagnani, che era fiorentino nonché un attore di immenso talento. Un altro che avrebbe potuto fare la commedia ad altissimi livelli. Purtroppo era costretto a girare quei filmetti erotici uno dietro l’altro, per via di un figlio molto malato di cui doveva pagare le cure. Però almeno riuscì a doppiare Noiret. Il Sassaroli per me è stato fin dall’inizio Celi, che invece non piaceva a Germi, lo trovava serio: proprio la ragione per cui sarebbe risultato divertente vederlo fare degli scherzi immondi. Del Prete fece il Necchi su suggerimento di Germi, con cui aveva lavorato più volte. Io l’avevo diretto da poco in una particina di Vogliamo i colonnelli e mi ero accorto che non era un granché. Oltretutto credeva di avere la cadenza toscana e invece mi toccò doppiarlo. Per il seguito, quando seppi che Montagnani era libero, non ci pensai due volte a sostituirlo. Nessuna incertezza invece per Moschin nella parte dell’architetto Melandri. Certo, anche il suo toscano – come quello di Tognazzi, del resto – era un po’ forzato, però funzionava. Per la parte del fesso da abbindolare, chiamai Blier a occhi chiusi. Lo rivolevo anche nel secondo, ma era già occupato. Allora ripiegammo su Stoppa, bravissimo nel calcare sulla cattiveria ottusa dello strozzino. Da un cast al maschile a uno al femminile. Quello internazionale di Speriamo che sia femmina. S.M.

Erano quasi tutti attori consumati. Athina Cenci veniva dai Giancattivi, e sostituì Marina Confalone dimostrandosi una commediante di grande presenza. La Lante della Rovere fu una piccola rivelazione. La scelsi in parte per la sua conoscenza dell’inglese. Man mano che giravamo, venne fuori sempre meglio: se la cavò con naturalezza in mezzo a tanti attori M.M.

affermati. Anche se alla fine la doppiai perché andavamo di corsa, rimasi molto soddisfatto della sua prova. Liv Ullmann accettò divertita, spiegandomi che l’unica volta che aveva recitato in una commedia il risultato era stato rovinoso. La Deneuve la conoscevo, ma non avevo mai lavorato con lei. Fu disponibile per una parte di secondo piano. La De Sio si inserì a meraviglia. La Sandrelli è la Sandrelli. Con Noiret e Blier si lavora a occhi chiusi. Paolo Hendel lasciò nel film un segno della commedia all’italiana classica con una macchietta molto divertente, come Enio Drovandi nella parte del prete. Giuliano Gemma si prestò bene a fare un po’ il coglione. E poi c’erano le bambine. All’inizio recitavano tutti in inglese. Ma con il passare dei giorni subentrò un po’ di stanchezza e ognuno cominciò a recitare nella sua lingua, il che è un grande aiuto perché non pensi, e allora viene fuori il mestiere. Faccio sempre il paragone coi balletti, quando si tratta di dirigere un gruppo di attori. Per far sì che il gioco riesca, è necessario appoggiare le battute degli attori a movimenti ben precisi. Hai in mente il finale di Speriamo che sia femmina? Ci sono in campo almeno cinque donne, poi arrivano anche le due ragazzine. La scena si svolge tutta mentre apparecchiano la tavola e preparano da mangiare. Una mette i piatti, l’altra apre il frigo mentre si lega il grembiule, l’altra ancora affetta il pane e così via. Mentre recitano devono fare qualcosa, perché se pensano alla battuta gli attori sono tutti cani.

Fingendo di stendere i panni, i ladruncoli dei Soliti ignoti eludono il controllo di una guardia. Da sinistra, Totò, Tiberio Murgia, Carlo Pisacane, Renato Salvatori, Marcello Mastroianni e Vittorio Gassman.

A ben vedere nel tuo cinema non ci sono tanti confronti tra grandi attori. Hai citato Totò con il giovane Sordi in Totò e i re di Roma, che è un incontro legato a poche scene, come del resto non si può parlare di gran confronto tra Gassman, Mastroianni e Totò nei Soliti ignoti. Mi vengono in mente solo due grandi faccia a faccia: Totò-Fabrizi in Guardie e ladri, chiuso con un pareggio, e Sordi-Gassman nella Grande guerra, in cui vince nettamente Sordi. Gassman e Tognazzi non si sono mai incrociati, Sordi e Tognazzi in tono minore in Bertoldo, la Vitti è rimasta fuori dai grandi giri… S.M.

È vero, a ripensarci oggi si vede che in fondo ho cercato di evitarli il più possibile. Tra l’altro questi confronti sono un vantaggio per il regista. Messi insieme, i grandi attori fanno a gara per essere più servizievoli degli altri. Si trovano immediatamente perché appartengono alla stessa razza. M.M.

Prima parlavo di animali… Quando ho potuto decidere in piena autonomia i miei film, ho sempre cercato la soluzione meno scontata ma più stimolante per me. Tutto qui. C’è però una cosa che proprio non sono mai riuscito a capire. Quando un attore lavora con un grande, come poteva essere il giovane Sordi con Totò, o un qualunque attore con Gassman, non c’è volta che non si illumini dichiarando che è stata una grande esperienza, che ha imparato tanto. Quando me lo confessò Sordi, io ero esterrefatto: «Ma che esperienza e esperienza! Lui diceva le sue battute, tu dicevi le tue». È uscito il dvd dei Soliti ignoti con i provini di Murgia e Capannelle. Si vede che li fai vestire come poi saranno in scena, intanto fai qualche domanda, li fai muovere un po’. S.M.

In linea di massima i miei provini sono impostati come una conversazione. Piuttosto che farli recitare, rendendo tutto falso, preferisco parlare con gli attori, fare delle domande sulla loro vita. Scherzo, cerco di metterli il più possibile a loro agio. Intanto l’operatore fa i vari tagli, il costumista prova qualche abito. Sono provini molto lunghi. A forza di guardarli, uno si fa un’idea sempre più chiara e sceglie. Poi può capitare come con la Cardinale, che scelsi solo in base alla bellezza, perché l’italiano non lo parlava proprio, o con i caratteristi non professionisti che prendo per una o due scene precise, magari per la faccia, e mi interessa poco che sappiano recitare. In questi casi è fondamentale individuare subito il modo in cui si vestono e si truccano. M.M.

Sono parecchi i caratteristi che ti sei inventato, alcuni li hai scovati nelle situazioni più impensate. S.M.

Nella commedia i caratteristi sono fondamentali. Un viso, un corpo che in due battute deve imprimersi nella mente dello spettatore. C’è stato un periodo in cui l’Italia ne era piena. Venivano dall’avanspettacolo e dalla rivista. Erano di una bravura eccezionale, istintiva, ma con alle spalle una lunga gavetta. A volte mi servivo di loro. Con Totò c’erano Polacco, Pavese, Castellani, Almirante, Riva, Biliotti, Campanini, Tieri, Benti, Garinei: una schiera. E poi i due Carotenuto, Giuffrè, Trieste, Pisu, Sanipoli, Garrone, Ferrara, Lulli. Tra le donne, la Merlini era di una bravura M.M.

straordinaria. Poi c’erano Tina Pica, Ave Ninchi, Elsa Vazzoler, Gina Rovere. Ma potrei farti tanti di quei nomi… Diverso è quando li prendi dalla strada, come Murgia che faceva lo sguattero. Gli devi far fare quello che sanno. O Pippo Starnazza, che aveva un’importante orchestra di jazz: fu una grande trovata dargli la parte del bergamasco che parla in dialetto stretto nei Compagni. Mi trovai talmente bene con lui che lo richiamai per Gente moderna, Brancaleone alle Crociate e Romanzo popolare. Vogliamo i colonnelli era interpretato quasi tutto da attori non professionisti, perfetti per caratterizzare una serie di macchiette. Giancarlo Fusco faceva il colonnello Furas, per esempio. Ne ho usati tanti. Addirittura in Caro Michele c’erano Alfonso Gatto, Fabio Carpi, Alfredo Pea e Eriprando Visconti. Partecipavano senza tante storie, e si divertivano. Mentre preparavo I soliti ignoti, mangiando al solito Otello si presentò una ragazzina che non aveva una lira. Le offrii il pranzo e poco dopo mi avvicinai a lei, incuriosito dalla sua storia. Mi raccontò di essere un’ebrea ungherese scappata in Israele. Non conosceva nessuno in Italia. Per aiutarla, le feci fare una particina nel film: è la ragazza che litiga con il fidanzato quando si accende improvvisamente la luce del lucernario, con i ladri acquattati in silenzio per non essere scoperti. Quella ragazza era la futura scrittrice Edith Bruck. Mi è tuttora riconoscente per non aver approfittato di lei: chissà cosa le era capitato in Ungheria o in Israele… Mi capitò un altro paio di volte di aiutare delle ragazze in questo modo. Mi ricordo di una bellissima ragazza peruviana che suonò il campanello di casa presentandosi come una Monicelli. Le feci presente che Monicelli ero io. Lei non desistette: aveva bisogno di soldi per andare a Milano, dove le avevano offerto un lavoro. Alla fine le diedi i soldi. Qualche anno dopo sposò Pasquale Festa Campanile, un gran conquistatore che appena poteva le sposava. Il lavoro dell’attore è faticosissimo. Gli attori comuni, non i pochissimi che hanno successo, passano la maggior parte del tempo tra i provini e l’attesa di una telefonata, sperando in qualche proposta. È quasi proverbiale il tuo fiuto nella scelta degli attori. Di errori ne hai fatti pochi, ma alcuni ti sono costati il film. E poi c’è un attore che hai provato a lanciare senza successo, Gigi Proietti. Oggi famosissimo soprattutto grazie alla televisione, al cinema non è riuscito a sfondare. S.M.

Ci ho provato tre volte, non so che dire. L’insuccesso al cinema di Proietti per me rimane un mistero. Ha tutte le qualità necessarie, evidentemente gli manca un elemento inspiegabile, appunto. Un caso per certi versi analogo a quello di Walter Chiari, che diressi in Donatella: un attore di grande talento, che a teatro teneva in pugno il pubblico, e invece al cinema scompariva. In generale non ho sbagliato spesso gli attori, ma mi rammarico per alcune scelte che hanno influito negativamente sul risultato del film. Un attore che non c’entrava con lo spirito del film ma non ne condizionò il risultato fu Volonté nell’Armata Brancaleone. Peccato, sarebbe stato un ruolo ideale per Raimondo Vianello, ma non riuscii a convincerlo. Lello Arena invece fu un disastro totale in Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno. Mentre in Facciamo paradiso sia Arena sia la Buy, che è brava davvero, patirono l’errore di fondo del film. Vale a dire la scelta di raccontare un arco di vita troppo lungo, che non poteva coprire un’attrice o un attore soltanto. M.M.

Non hai provato spesso ad affiancare un attore giovane a uno della vecchia guardia. Mi viene in mente l’incontro tra Nichetti e Sordi in Bertoldo. S.M.

Ed è un incontro tutto sommato positivo. Nichetti faceva un mezzo rimbecillito stralunato che parlava in veneto, Sordi un laido frate boccaccesco un po’ troppo tronfio. Ma io Nichetti l’avevo conosciuto diversi anni prima. Ricevetti una sceneggiatura molto carina, che poi sarebbe diventata Ratataplan (1979). A quei tempi lui lavorava per Bozzetto. Lo incontrai, mi disse che con i soldi racimolati aveva girato alcune scene. Io passai la sceneggiatura a Cristaldi, a cui piacque: una cosa che mi meravigliò. Quando vidi il film, sgangherato ma fantasioso, ero sicuro che sarebbe stato un tonfo. Uno che fa il mestiere del regista non capisce mai un cazzo! M.M.

S.M.

Dei giovani, oggi, chi ti piace?

Tra le donne la Mezzogiorno, con la quale non ho lavorato, però. Tra gli uomini Accorsi, che ho diretto con piacere in Come quando fuori piove. È attento, furbo e conosce il mestiere. M.M.

Un’altra brava emergente è Maya Sansa. L’hai vista in Buongiorno, notte e nella Meglio gioventù. S.M.

Sì, devo dire che è brava. Il film di Bellocchio mi ha creato un sacco di grane a Venezia, soprattutto da parte sua, che si è offeso perché non l’abbiamo premiato. Una reazione che mi ha stupito. A me piace Bellocchio. I pugni in tasca (1965) è un capolavoro, L’ora di religione (2001) un bel film di gran lunga superiore a Buongiorno, notte, che ho trovato un po’ confuso. Qualche minuto fa, pensa, mi ha chiamato al telefono un operaio per protestare contro La meglio gioventù. Era addirittura indignato. È stato sopravvalutato: inspiegabilmente. È girato bene, ma è terribilmente piatto. Il suo è un successo davvero inspiegabile. M.M.

S.M.

E se dovessi cambiare l’immagine di un attore affermato?

Se avessi girato L’omo nero, lo avrei proposto a Boldi. È un attore fossilizzato in quei film di successo natalizi, invece si capisce che potrebbe fare molto di più. M.M.

C’è una generazione di attori ormai intorno ai cinquanta con cui non hai praticamente lavorato e che avevano la stoffa per girare commedie all’italiana. A loro modo rappresentano una continuità con quella tradizione. Sono gli attori di Salvatores, Soldini, Luchetti, Moretti… Insieme a Castellitto ci sono Abatantuono, Bentivoglio, Ghini, Cederna, Orlando. S.M.

Silvio Orlando! Dicono tutti che è bravissimo, viene ritenuto un santone. È un buon attore, ma è brutto, è un napoletano traditore perché rinnega la sua napoletanità. Diciamo la verità, si può usare come rincalzo, ma via… Ghini ha qualità, sempre un po’ troppo sopra le righe però. Ha preso la via delle fiction e del teatro leggero. Bentivoglio è di calibro superiore, con lui come con gli altri non c’è stato modo di lavorare. Appartengono a un’altra generazione, hanno i loro registi. Abatantuono fu protagonista di un episodio piuttosto spiacevole nella Moglie ingenua e il marito malato. Si presentò sul set con in testa un modo di interpretare il suo ruolo tutto sbagliato. In più non sapeva che avrebbe dovuto girare la parte tutta di filato. Devo riconoscere che si è messo di impegno, è andato in M.M.

un’altra stanza a imparare a memoria l’intera parte e a interpretarla secondo le mie indicazioni. Ho diretto anche Cederna nelle Due vite di Mattia Pascal. Però, diciamoci la verità, stiamo parlando di attori che se fossero nati negli anni di Sordi, Tognazzi, Mastroianni e Gassman si sarebbero dovuti accontentare di ruoli secondari. Consultando il mio listone di attori, mi accorgo che potremmo davvero proseguire a oltranza. Dalle tue parole sui comici con cui hai avuto a che fare negli anni, si potrebbe sfatare il mito del comico che nella vita è triste. Tranne che nel caso di Totò… S.M.

Anche nella vita gareggiavano a colpi di battute, scherzi, barzellette. Era un divertimento continuo perché volevano tenere la scena in ogni momento: da Gassman a Tognazzi, da Fabrizi a Sordi, uno più buffone dell’altro. Totò no. Sembrava triste, diventava un’altra persona. Una volta tolti i panni di Totò, tornava a vestire quelli del principe De Curtis. Chi non era proprio suo amico, lo chiamava principe. Io ero tra i pochi a dargli del tu e a chiamarlo Totò. Ma se telefonavo a casa chiedevo del principe. A differenza degli altri attori, lui non frequentava l’ambiente del cinema fuori dal set, tanto meno aveva una vita mondana. Totò era una maschera che esisteva solo sullo schermo. Con lui c’è stato un legame speciale. Mi rimane il rimpianto di non avere avuto il tempo di provarlo in ruoli drammatici. Avrebbe potuto raggiungere vette di grandezza straordinaria. Perché Totò era superlativo. M.M.

Italiani…

Una volta hai detto che ti sarebbe piaciuto montare uno dietro l’altro gli episodi che hai girato nel corso degli anni. Ne verrebbe il ritratto dell’Italia come l’hai vista. Di come è cambiata e di come sono cambiati gli italiani. Ma sono cambiati così tanto? S.M.

Così tanto no, nel senso che la natura dell’italiano è rimasta la stessa: il modo cialtronesco di affrontare la vita, sempre un po’ maneggione e superficiale, con un atteggiamento fanfarone, spesso affascinante, ma nel fondo ambiguo, lo spirito con cui sminuire tutto, la capacità di trasformare l’argomento più serio in un motivo di scherno, di ridurre ogni cosa a pagliacciata, costituiscono elementi duraturi del carattere degli italiani su cui io – ma in generale tutti gli autori della commedia, fedeli a una tradizione centenaria – ho continuato a fare leva con successo. Sono cambiate le condizioni in cui l’italiano vive, profondamente. Quando ho cominciato a dirigere film nel primo dopoguerra, l’Italia era alla fame, una società culturalmente sottosviluppata, biecamente cattolica e con una mentalità contadina, tutt’al più piccolo-borghese. A partire dal boom economico, l’esplosione della ricchezza stimolò gli aspetti più bassi dell’italianità, che trovò terreno fertile per sfogare tutta la sua volgarità. Per noi della commedia fu una manna, per l’Italia un po’ meno. Raccontare questa evoluzione attraverso gli episodi che ho girato nel corso degli anni sarebbe una maniera divertente anche per ripercorrere la storia di un fallimento. M.M.

Il “carattere degli italiani” è una definizione di ascendenza leopardiana, un autore di cui apprezzi Le operette morali. Nel corso del Novecento ha trovato finissimi interpreti in una saggistica letteraria di livello eccelso: da Bollati a Garboli ad Arbasino, da Ottieri a Pasolini a Ceronetti a Cristina S.M.

Campo, e non sono tutti, si è delineato uno “sguardo” colto sull’italiano, in qualche modo speculare a quello plebeo offerto da voi, in una mescolanza tra moralisti e guitti tipicamente italiana. Il nostro lavoro si è sempre mosso in un contesto delimitato: la realtà davanti ai nostri occhi, con l’obiettivo costante di piacere al pubblico. Dietro all’immediatezza dei nostri film esiste un’attenzione continua, delle volte persino spasmodica, e quindi inevitabilmente uno studio del mondo in cui viviamo. La commedia si è sempre proposta di mostrare con accenti divertenti le storture di una realtà popolata di figure riconoscibili, anche se magari rappresentate enfaticamente. In tal senso portare alla luce il carattere degli italiani è la conseguenza del nostro lavoro: la misura del suo successo, volendo. La riflessione, che implica un lavoro di analisi, appartiene al mondo della cultura, che spesso è arrivata alle stesse conclusioni utilizzando altri mezzi, molto meno potenti dei nostri. Chi fa cinema, o perlomeno chi lo faceva ai tempi miei, ha una responsabilità morale direttamente proporzionale al numero degli spettatori che vanno a vedere un film. Con questo non intendo sminuire il valore dei saggi destinati a due, tremila lettori, tutt’altro. Dico che questa consapevolezza creò in me e in molti autori un senso civile che dalle farse surreali di Totò ci portò a inserire nei nostri film non dico un “messaggio”, ma un “pezzo” di realtà: lo stesso che, rivisto oggi, chiamate testimonianza. M.M.

Se non si fosse persa in una spettacolarizzazione strumentale della realtà, oggi toccherebbe alla televisione il compito di raccontare la società di oggi che, di fatto, fino alla metà degli anni settanta ha avuto la commedia all’italiana. A volte si tendono a sottovalutare i generi, trascurando le loro potenzialità narrative all’interno di una struttura codificata. S.M.

Seguo poco la televisione. Non tanto per snobismo o una forma di pregiudizio: semplicemente è un mezzo con cui non ho dimestichezza. Quando ero giovane c’era la radio, che continuo ad ascoltare. La televisione è arrivata molto più avanti. Non è come per i ragazzi di oggi, che entrano in casa e automaticamente accendono la televisione. M.M.

Monicelli sul set di Renzo e Luciana.

La commedia all’italiana è in realtà un gran calderone dove c’è di tutto. Con l’eccezione di alcune derive scollacciate, pur nelle sue notevoli differenze e negli sbalzi qualitativi, è stata per un certo periodo il termometro della società, fornendo di film in film delle fotografie della realtà italiana. L’attenzione a quanto accadeva sotto i nostri occhi è sempre stata una prerogativa del genere, come del resto del polar francese o dei racconti polizieschi americani. La riprova della tua sintonia con gli italiani è data dal successo di pubblico che, tra alti e bassi, hai mantenuto per oltre cinquant’anni. S.M.

Quando cominciai a lavorare la vita dei film finiva con le proiezioni nelle sale di terza visione. Questa caducità ci scioglieva da ogni pretesa artistica o di “immortalità”, rendendo molto più autentici i film. Nel corso degli ultimi cinquant’anni il mercato dell’immagine è stato rivoluzionato, il pubblico è diventato più selezionato e più selettivo, gli autori hanno trovato più opportunità per far fruttare le loro ambizioni. Nonostante questi cambiamenti, il mio atteggiamento nei confronti del cinematografo è rimasto invariato. Ho proseguito sulla mia strada nazionalpopolare, considerando lo spettatore come giudice inappellabile del mio lavoro. Il M.M.

pubblico giovane mi ha seguito finché sono riuscito a cogliere i suoi bisogni: il successo duraturo di Amici miei ne è una prova lampante. Per forza di cose, negli ultimi anni ho perduto quel rapporto immediato con un pubblico che mi è diventato estraneo. Rispetto all’ora e mezzo-due di un film, un episodio può variare tra i cinque, dieci minuti al massimo di uno sketch alla mezz’ora, quaranta minuti di un mediometraggio. Il primo è paragonabile a una barzelletta, incentrato su una situazione da portare a ebollizione per chiudere con un colpo a effetto. Il secondo ha un passo analogo a quello del racconto letterario: basato sempre su un’idea portante, consente un maggiore sviluppo della storia da concentrare in un arco narrativo compiuto. S.M.

Lo sketch deve essere fulminante: un’idea racchiusa in pochissimi minuti. Chiara, diretta, con un ritmo in crescendo che prepara la strada al gran finale. Ce ne sono alcuni bellissimi nei Mostri (1963) di Risi. Io li ho sempre presi sotto gamba, forse per l’eccessiva stringatezza richiesta. Al di fuori dell’episodio del malconcio, che durava quasi un quarto d’ora, gli altri mi sono venuti un po’ fiacchi. Il mediometraggio invece ha un respiro più lungo: è paragonabile a una novella. Il nocciolo del racconto ruota intorno a un’idea forte, da sviluppare in tutte le conseguenze. Con Renzo e Luciana e Gente moderna credo di aver ottenuto un risultato di buona tenuta narrativa. Due storie ben radicate in due realtà molto precise – la Milano del boom vista con gli occhi di due operai e la provincia emiliana ricca e sanguigna – calibrate su personaggi che restano impressi: la coppia di sposini clandestini, e soprattutto Tognazzi-Bertolazzi e BlierReguzzoni. M.M.

Trascurando alcuni tuoi film strutturati come una serie intrecciata o giustapposta di episodi – Al diavolo la celebrità, Totò cerca casa, Padri e figli, Casanova ’70 –, il tuo primo episodio “ufficiale” è Renzo e Luciana, nel film Boccaccio ’70. Gli altri episodi erano diretti da Fellini, Visconti e De Sica: un parterre de rois con fior di attori. Peppino De Filippo e Anita Ekberg sulle tracce del mito di Anita Ekberg; Romy Schneider, Tomas Milian e Romolo Valli; una Sophia Loren prorompente. In questo scintillio di nomi e pretenziosità, tu scegli di provocare con una storia ambientata in fabbrica, interpretata da due sconosciuti. Con il risultato che a Cannes le S.M.

dive non volevano fare la passerella insieme a Marisa Solinas e Germano Giglioli. In un montaggio dei miei migliori episodi inserirei comunque l’episodio di Padri e figli con Mastroianni, Di Trocchio e Fiorella Mari e quello di Casanova ’70 con la terna Mastroianni-Ferreri-Mell, che hanno una loro autonomia e si impongono come due storie ben riuscite: una per delicatezza e l’altra per cinismo. Il progetto di Boccaccio ’70 nacque da un’idea di Tonino Cervi. Eravamo nel pieno della moda dei film a episodi. Io venivo da Risate di gioia, ma soprattutto ero salito nella considerazione della critica per il successo della Grande guerra, grazie alla quale venni affiancato a dei “maestri”. Si aspettavano tutti una storia imponente, invece ho scelto un soggetto di poveracci. Apposta. Con dei dilettanti come protagonisti. Giglioli era il portiere di riserva del Milan. La Solinas aveva diciott’anni, una ragazzina graziosa che poi ha fatto la sua discreta carriera. Nel ’62 a Cannes scoppiò un putiferio. Il film doveva aprire il festival in una serata di gala. Non si capì bene se fosse per la lunghezza eccessiva dei quattro episodi o per il taglio “neorealista” del mio, o se le dive non gradissero di sfilare in passerella assieme alla Solinas, che era una nanerottola sconosciuta: sta di fatto che Ponti decise di tagliare il mio episodio. Appena lo seppi, chiesi l’intervento dell’Anac e il mio avvocato mi raggiunse subito a Cannes per ricorrere alla magistratura francese per la tutela dei diritti d’autore. La proiezione pomeridiana saltò. Il film venne sequestrato dalla magistratura. Nel frattempo Ponti mi fece convocare in una stanza d’albergo dal suo avvocato americano Steiner, che mi offrì ottanta milioni per rinunciare al mio episodio. Io non li accettati. Non potevo immaginare che avrebbero corrotto la magistratura e fatto sbloccare il film senza Renzo e Luciana. E fu vano il mio tentativo di incontrare Favre Le Bret, il direttore del festival. Così Boccaccio ’70 aprì come previsto il festival senza il mio episodio. Soldati si dimise dalla giuria per solidarietà. Il giorno dopo irruppi nell’ufficio di Le Bret ricoprendolo di insulti – che se ne andasse a fare in culo – senza che lui mi degnasse della parola. Andò a finire che il mio episodio fu reintegrato solo nelle proiezioni in Italia, mentre all’estero Boccaccio ’70 è stato venduto senza. M.M.

Uno dei rari matrimoni “celebrati” al cinema da Monicelli: Ornella Muti e Tognazzi in Romanzo popolare.

L’aspetto interessante – “neorealista” – di Renzo e Luciana è la rappresentazione di Milano come città di massa. Il traffico, i quartieri popolari con gli appartamenti stipati di persone, i cinema affollati di persone in piedi, l’alienazione della fabbrica – come si diceva allora – e quel formicaio umano che è la piscina pubblica la domenica di luglio. S.M.

Io volevo mostrare la Milano di quel tempo, molto diversa da Roma. Una grande città moderna. Grande ma senza spazi. Dappertutto gente, gente, gente. E in mezzo questi due ragazzi che passano la prima notte di nozze nella casa della famiglia di lei, con tutti i parenti che guardano la televisione in salotto: ovviamente tra di loro non succede niente, come si M.M.

fa? Da giovane mi aveva entusiasmato La folla (1928) di King Vidor, un film muto che mostrava realisticamente gli effetti della società di massa sulla gente comune negli Stati Uniti. Noi lo guardavamo con stupore e incredulità: affascinati, senza capire bene perché, da un fenomeno che non ci riguardava ancora. In Italia la società di massa era appena agli inizi. Non eravamo abituati al traffico, alle code, ai ristoranti pullulanti di gente. A differenza degli altri episodi del film, che erano un po’ campati per aria, io ho ricostruito una Milano molto realistica. Raccontando una condizione atroce, vale a dire i matrimoni proibiti tra dipendenti della stessa fabbrica. La vita della fabbrica è mostrata con una certa durezza. I rapporti dei capi con i subalterni sono allusivi, talvolta ricattatori, con una nota di sprezzo. Li racconti con spirito leggero ma non troppo. S.M.

La situazione in sé ha dei risvolti comici: tutto è ridicolo, eppure l’innocenza di fondo dei giovani sposini mette in luce un senso di ingiustizia che con un Tognazzi o un Sordi avrebbe assunto un carattere più parodistico. Invece la pochezza, la normalità di questi due ragazzi sprovveduti acuisce il senso di impotenza. Loro due così piccoli e tutto il resto del mondo grande: la fabbrica, i cinema, la piscina… Il motore di tutta la vicenda è un regolamento aziendale incivile, in un mondo del lavoro che penalizzava le donne e le licenziava appena rimanevano incinte. M.M.

Nel 1964 giri quello che secondo me rimane il tuo episodio migliore: Gente moderna, in coda al film Alta infedeltà. Una storia ambientata a Colorno, nella Bassa padana, nel bianco e nero di Gianni Di Venanzo, con la scenografia di Garbuglia e la prima volta con te di Ugo Tognazzi. S.M.

Gente moderna risultò di gran lunga superiore alle intenzioni. La classe della fotografia di Di Venanzo impresse un respiro narrativo di cui si giovò l’intero episodio, nato da un’idea di Zavattini. Una storia di gioco, imbrogli e gelosia, più immaginaria che reale, ma non per questo meno vera. La cittadina di Colorno era uno dei centri più rinomati della produzione del parmigiano. La scena iniziale in piazza, nella quale mercanteggiavano sul prezzo del formaggio, è la ripetizione di quanto accadeva tutti i giorni. Il ruolo del sensale, che qui fa Starnazza, era quasi un rituale in questi tira e molla in cui discutevano, alzavano la voce, si M.M.

indignavano e alla fine si mettevano d’accordo. In realtà, era il succo del loro mestiere: si divertivano moltissimo. Tognazzi ci sguazzava in quel mondo, orecchiò in un attimo l’accento di lì e si trovò a meraviglia con Blier, doppiato da Valli che era parmense. Uno dei ritornelli con cui Blier cerca di ammansirlo dopo avergli chiesto di andare a letto con sua moglie per abbonargli in cambio tutte le perdite al gioco è «Siamo gente moderna. Siamo nel 1964. Ci sono i satelliti», un antecedente di quel «Siamo gente moderna. Siamo negli anni settanta» di dieci anni più tardi in Romanzo popolare. Ma le corna sono corna, il progresso serve a poco. S.M.

Tognazzi era perfetto nelle parti del cornuto: un’onta, quella del tradimento da parte della moglie, inconcepibile per qualsiasi italiano, che ottunde il pensiero, il vivere civile, il decoro dell’uomo, pronto a reazioni inconsulte, quasi sempre fallimentari. L’unico cornuto felice della commedia all’italiana rimane il Mastroianni di Divorzio all’italiana, anche se non a lungo. M.M.

Trovo magistrale il dialogo in piena notte tra Tognazzi e Michèle Mercier, in cui lui rovescia i termini del discorso per chiederle il sacrificio supremo. È codardo ma spudorato, vittimista ma arrogante. Dopo – benché nulla sia successo tra Blier e la Mercier – monta l’ossessione paranoica di Tognazzi, che pedina Blier sempre più ringalluzzito, sicuro di aver beneficiato di quel magnifico corpo… S.M.

In quella scena c’è tutto Tognazzi, la sua suprema capacità di mostrare i due volti della viltà: quello mellifluo e quello arrogante. Che implora e poi si arrabbia. Gli tiene testa molto bene la Mercier, che di lì a qualche anno sarebbe diventata la famosa eroina Angelica. Gran bella donna, come sa bene Blier: soddisfatto come un bambino nella scena muta a cui assiste Tognazzi fuori della finestra, in cui alla fine di una trattativa – un po’ come quelle per il parmigiano – il “grossista di Cicognolo” le strappa un sì. L’ossessione di essere “spubblicati” è un crescendo di sospetti e paure. Vede dappertutto segni inequivocabili della sua vergogna in bocca ai compaesani, fino a che gli spara sul sedere. Ma il destino gli si rovescia contro, e per M.M.

uscire presto di galera deve confessare di essere cornuto: il colpo a effetto con cui si chiude l’episodio. Chi si prostituisce veramente è Monica Vitti, per pagare l’ultima rata di 12500 lire del frigorifero da 180 litri. Rispetto a Tognazzi, appare molto meno spregiudicato, diciamo pure remissivo, il marito sardo Jannacci. Stiamo parlando del Frigorifero, l’episodio che apre il film Le coppie (1970). S.M.

Il frigorifero è il mio episodio più lungo, quasi cinquanta minuti, e mi è venuto così così. Il soggetto in sé era divertente: raccontava fino a che punto la perversione del consumismo portava una coppia di poveracci. L’ho girato in una Torino respingente, poco ospitale, nello squallore dei quartieri popolari e negli stradoni notturni dove lavoravano le prostitute. L’errore di fondo sono gli attori. La Vitti che parla in sardo è caricaturale, Jannacci recita in modo quasi amatoriale: faceva ridere chi lo conosceva, agli altri risultava del tutto inverosimile. Però la storia raccontava bene il paradosso dei tempi moderni, quello che una coppia è disposta a fare per possedere un frigorifero praticamente inutilizzato. M.M.

«Sapesse com’è quieto. Io ci dormo vicina e nemmeno lo sento.» «Sono undici mesi che me lo mantengo e che me lo curo.» Nel ’58 il frigorifero, di cui la Vitti parla come fosse un bambino, lo possedeva il 13 per cento delle famiglie italiane, nel ’65 più della metà, nel ’75 il 95 per cento. S.M.

Se vuoi dire che nel 1970 l’argomento era ormai un po’ desueto, forse è vero. Ricordo invece l’assillo dei nuovi elettrodomestici da comprare a tutti i costi qualche anno prima. A un certo punto di Risate di gioia Gazzara dice «La vuoi o non la vuoi la cucina americana?», che allora era un miraggio per la maggior parte delle persone. La Vitti e Jannacci sono proprio poveri, l’inutilità del frigorifero è lampante, eppure rappresenta uno status sociale al quale non sanno rinunciare. La possibilità che conosce la Vitti di fare soldi facili in una notte soltanto potrebbe aprire nuove strade, per esempio l’acquisto di una nuova lavatrice che vedono in vetrina alla fine dell’episodio. Jannacci le domanda dove trovano dieci chili di vestiti da M.M.

lavare in una volta sola, gli occhi della Vitti hanno un guizzo: ecco un bel finale che lascia prevedere le conseguenze di tutto ciò… In onore alla farsa più classica, quando è roso dalla rabbia Jannacci si avventa sul muro più vicino o su una macchina per dare tremende testate. Quando la Vitti allude alle sue intenzioni, Jannacci le si scaglia addosso affibbiandole un sonoro sberlone. A parti rovesciate, in Gente moderna Michèle Mercier spacca un piatto in testa a Tognazzi. La padellata in testa di Roma città aperta ricorre in varie forme nei tuoi film, anche in quelli più “seri”. S.M.

La meccanicità della farsa è sempre vincente. Non l’ho mai abbandonata, neppure nei film più realistici, perché la realtà non sfugge a elementi farseschi, che si manifestano nelle situazioni più impreviste e livellano i comportamenti umani in un’esistenza che nel fondo è sempre ridicola. In Speriamo che sia femmina, per esempio, Athina Cenci rifila alle bambine degli sberloni a effetto. M.M.

In precedenza avevi girato altri due episodi. Il primo prodotto da Gianni Hecht, ribattezzato Gianni Sketch a causa della smodata passione per i film a episodi. Tanto che dopo Alta infedeltà ti coinvolse nelle Fate. Tu, Salce, Bolognini e Pietrangeli avete una fata per uno. La tua Fata Armenia è Claudia Cardinale. S.M.

Un episodio davvero mediocre, incentrato su una scapestrata che vive alla giornata sfruttando gli uomini che incontra sulla sua strada, che abbindola con la bellezza e un sacco di balle. Fu anche il mio primo incontro con Moschin; in un certo senso quindi a qualcosa è servito. M.M.

Monicelli controlla la posizione della pistola impugnata da Monica Vitti in uno dei sogni vendicativi della Ragazza con la pistola.

Il personaggio di Armenia è un po’ ovvio, però in un certo senso inaugura la tua galleria di donne libere. S.M.

Non so se sia giusto chiamarla galleria di donne libere. La commedia è sempre stata terreno di maschi, erano loro che facevano ridere. A un certo punto ho voluto sfatare questo tabù: provare a utilizzare una donna come avrei utilizzato un uomo. Il vero sconquasso lo feci con la Vitti nella Ragazza con la pistola, imponendo un nuovo modello di comicità, in cui la protagonista femminile è capace di trattare gli uomini con la stessa durezza con cui loro trattano le donne. È un atteggiamento reso possibile da una lunga emancipazione. La M.M.

Claudia di Facciamo paradiso è quasi una coetanea di Assunta Patané, settentrionale, ricca e borghese: ma partendo da altre condizioni ha dovuto anche lei sfidare la morale maschilista. La mortadella, in fondo, è un altro ritratto – mal riuscito – di questo tipo di donna. Speriamo che sia femmina coinvolge diverse generazioni di donne in un contesto postfemminista in cui ci sarebbe bisogno di ben altri uomini. Un altro episodio di poco conto è La bambinaia nel film Capriccio all’italiana: bastano quattro minuti all’imperturbabile istitutrice Mangano per terrorizzare a morte i bambini con le favole. S.M.

De Laurentiis ci teneva che lo girassi. Mi portò via una giornata di lavoro. Il risultato è poco più di una barzelletta, che dimostra come siano atroci le favole che si raccontano ai bambini. M.M.

Raccontando una giornata televisiva, Signore e signori buonanotte vorrebbe essere una satira della televisione. Gli autori siete voi della Cooperativa 15 maggio: Age, Benvenuti, Comencini, Loy, Maccari, Magni, tu, Pirro, Tognazzi, Scarpelli e Scola. Troppi, forse. S.M.

Soprattutto quando bisognava decidere, era necessario fare delle votazioni. La Cooperativa ha contrassegnato un momento importante per noi della commedia, è stata una sorta di richiamo alle armi, di autoaffermazione in anni in cui il nostro gruppo si andava un po’ sfilacciando e i film di alcuni di noi perdevano di mordente. Realizzammo anche due documentari di gruppo su piazza Fontana e su Pinelli, prendendo una posizione politica netta. Un’operazione analoga a quella di Lettere dalla Palestina (2003), in cui un gruppo di giovani registi con Maselli, Scola e me è andato a vedere di persona una realtà nota solo attraverso i telegiornali. Nel 2001 molti di noi erano a Genova per il G8, a registrare un avvenimento di grande importanza storica, in cui già trovarsi lì con la macchina da presa e una troupe leggera significava essere parte di quell’immenso corteo pieno di speranze, falciato da una polizia degna di quella dei tempi di Scelba. M.M.

Gli episodi di Signore e signori buonanotte non sono firmati, anche se è noto che il tuo è La bomba con Eros Pagni, Carlo Croccolo, Camillo Milli e S.M.

Gianfranco Barra. È un episodio classificabile come barzelletta. In cui l’esplosione finale voluta dall’alto per giustificare un allarme immotivato ha il sapore dell’insensatezza di tante decisioni del potere, disposto a manipolare la verità pur di dimostrare di avere ragione. M.M.

Nonostante l’insuccesso della Cooperativa 15 maggio, tu, Risi e Scola, supportati da Age e Scarpelli, Maccari e Zapponi, riproponete la formula del film a episodi richiamandovi esplicitamente ai Mostri di Risi. Questi Nuovi mostri (1977) hanno meno brio, si portano addosso quattordici anni di più con lo spettro degli anni di piombo, caricandoli di uno spirito cimiteriale che culmina nell’episodio dell’elogio funebre. S.M.

Eravamo fuori tempo massimo. Eppure, qua e là si distinguono degli episodi notevoli. Uno dei migliori è senz’altro il mio del malconcio, Pronto soccorso, una prova sublime di Sordi. Il contrario della prevedibilità di Autostop, giocato su un equivoco fomentato dalla autostoppista Muti, ignara della pistola che l’automobilista Pagni tiene nel cruscotto. M.M.

I nuovi mostri venne candidato all’Oscar, come era già capitato ai Soliti ignoti, alla Grande guerra, ai Compagni – come miglior soggetto e migliore sceneggiatura originale – e a La ragazza con la pistola. S.M.

Non ho mai vinto, però. I soliti ignoti fu penalizzato dalla mancata distribuzione del film, che nessuno dei giurati riuscì a vedere. Qualche mese dopo essere stato battuto da Orfeo negro (1959) di Camus, il film uscì nelle sale e alcuni dei giurati si scusarono con me dicendo che se l’avessero visto l’avrebbero votato sicuramente. Sono andato due o tre volte, anche perché pagavano. Non ho mai amato Los Angeles, né il fasto di Hollywood. Sono stato invitato alle loro feste grandiose in ville mastodontiche, dove immancabilmente a un certo punto della serata veniva fatto calare lo schermo e proiettavano un film. Accadde anche a casa di Billy Wilder, dove ero a cena con Kirk Douglas. Al contrario delle abitudini hollywoodiane, abitava in un appartamento. Un bell’appartamento con una collezione di quadri incredibile, sicuramente falsi. Le esperienze a Los Angeles mi M.M.

suggerirono l’idea di un film ambientato in una piscina, che già di per sé sarebbe stato un buon titolo, dove ricchi produttori un po’ grassocci non fanno che parlare, discutere, litigare mentre intorno sfila tutto il variopinto genere umano e il sottobosco di questuanti, stelline e falliti che circolano nel cinema. Una sorta di Terrazza sul cinema. Saresti disposto a farmi una carrellata sui tuoi colleghi della commedia all’italiana? S.M.

I migliori sono stati senza dubbio Germi, Risi e Comencini. Risi è stato indiscutibilmente il regista più addentro ai luoghi comuni della commedia all’italiana, con la lama della spietatezza dietro una superficialità solo apparente. Comencini era straordinario, con una sensibilità che gli permetteva di passare con disinvoltura dalle farse di Totò alle commedie dure, fino alle storie con i bambini. Nello stesso anno è riuscito a dirigere due storie così lontane come Lo scopone scientifico (1972) e Le avventure di Pinocchio (1972), un film con momenti splendidi che perde un po’ di smalto nel finale col pescecane. Abbiamo avuto diversi registi di talento, a volte distratti dai troppi impegni o soddisfatti di girare un film per portare a casa la pagnotta. Un mistero che non ho mai risolto è come mai Nanni Loy abbia girato addirittura due seguiti di miei film: chi glielo faceva fare? Pietrangeli era bravo, ma aveva un approccio troppo intellettualistico, e costruiva storie troppo complesse. Il contrario di quello che piace a me. Io amo le storie raccontate in modo semplice, diretto e ironico: una formula proponibile in tante combinazioni diverse, purché animata da una vena spietata. M.M.

S.M.

Guardando invece all’estero?

Negli anni sessanta il new cinema inglese si è imposto con uno stile graffiante, puntato con rabbia sulla società che voleva fare a pezzi. Se... (1969) e O Lucky Man! (1972) di Lindsay Anderson, Sabato sera, domenica mattina (1960) di Karel Reisz e Sapore di miele (1961) di Tony Richardson sono film pieni di questa carica eversiva. Mentre non sono mai riuscito a capire la Nouvelle Vague, una rivoluzione a parole di cui è rimasto molto poco. M.M.

Su un altro piano, adoro un genio del grottesco come Polanski e ovviamente il più grande di tutti, che è Buñuel. Altrimenti mi appassiona il cinema lontano dai miei orizzonti. Amo molto il western. John Ford, ma anche John Huston, che è stato uno dei grandi registi del cinema americano. Un americano “europeo” come Cassavetes. Sono attento alle cinematografie minori, e seguo con interesse i giovani autori. Fui uno degli scopritori di Nikita Michalkov, che presentò Schiava d’amore (1975) al festival di Cannes di cui ero giurato: un film di un livello che non ha più ripetuto. Siamo rimasti amici negli anni. Una volta all’aeroporto, in partenza dalla Russia, mi rifilò un’icona avvolta in un lenzuolo. Alla dogana non mi fermò nessuno. Chissà che fine ha fatto. Solitamente regalo i premi e i vari omaggi che ricevo al mio vecchio portinaio. Ma i film che ami di più sono quelli che riescono a mescolare la commedia e la tragedia di cui è fatta la vita. S.M.

A questo proposito cito per esempio La bandera (1935) di Duvivier, un film che parla della Legione straniera con toni enfatici. C’è una scena che ha colpito moltissimo la mia sensibilità di giovane spettatore e che in fondo mostra la facilità con cui un gesto può spiegare tante cose: un episodio ridicolo tra una pausa e l’altra della tragedia. C’è un soldato che si avvicina a Jean Gabin con l’intento di fargli una confidenza. E per tutta risposta, senza fiatare, Gabin si tira giù la cerniera e comincia a pisciare. La commedia e la tragedia di cui è fatta la vita. M.M.

Giovinezze

13 dicembre 1935 Caro Alberto, le mie cose con l’Università si stanno mettendo per il meglio, e ritorno a sperare. Spero ancora nell’affare di Machatý: è impossibile e inumano che debba andar male, tanto più che non lo meritiamo affatto. Anzi, abbiamo dimostrato, dico dimostrato, di saper fare se non di più (ed è così) neanche di meno degli altri; dunque… Ad ogni modo mai, mai e poi mai perdersi d’animo: se voliamo veramente, prima o poi dovranno ben accorgersene quelli che vogliono essere ciechi. Ogni scacco che riceviamo è una catarsi; è un più puro balzo in avanti nel cammino dell’arte e della sofferenza. Una cosa ti raccomando con tutte le forze dell’anima; e se veramente mi vuoi bene dammi ascolto. Qualora tu vedessi che per me non c’è nulla da fare, lasciami andare e pensa solo a te; soltanto in questo modo potrai essermi d’aiuto in un prossimo domani. È desolante e doloroso, lo so, ma è anche necessario, e sai per chi? Per il Cinematografo. Non dico grandi frasi: chi ha verace fede nel cinema mi intende. E tu, come sempre, come sempre, sei fra questi. Sarebbe bello fare il nostro cammino uniti, ma se ci è negato occorre inghiottire e avanti: ci ritroveremo più in là nella strada, e allora… Intesi? Da uomini. Ad ogni modo lotta ora, dobbiamo vincere. Nel combattimento e anche, e forse anche di più, nella sconfitta, l’anima e l’ideale, il nostro preciso e ferrato ideale. C’è una meta, e a quella, voglia o non voglia chiunque, noi attingeremo, per Dio! Sotto, dunque, alla battaglia. Io ti so solo laggiù, e non posso far di meglio che scriverti: vorrei essere con te nel folto; e mi pesa questa mia inazione. Ma io sono lì a Roma con te anche ora, come nella prima sconfitta vi fui veracemente. Se saremo una volta di più battuti, la vena inestinguibile del riso sorgerà in noi stratosfericamente sopra la grave o lenta mandria che ci osteggia. E non dimenticheremo, però. Ricordi quel motto di un Savoia? Infestus infestis. E sia. Ti bacio, Mario

P.S. Ricevo ora la tua telefonata. Non muto una sillaba.

Caro Alberto, finalmente stiamo sfondando l’opaca parete dell’incomprensione altrui. Doveva avvenire prima o dopo; i giornali hanno parlato del nostro film come se si trattasse di un pezzo normale. Con la prossima vittoria ai Littoriali, credo che potremo dettar noi le condizioni! Intanto non hai idea che la pubblicità e la notorietà che stiamo acquistando, o forse ne hai un’idea più chiara della mia. Viene da sé che tu a Milano ti bevi come acqua fresca il sig. Castellani buonanima e allora siamo padroni della città. Vecchio mio, questo è appena l’inizio, siamo ancora inesperti, dobbiamo ancora imparare (in Italia sarà un po’ difficile) figurarsi cosa faremo quando saremo esperti! In ultimo ti dico che noi due, Albertone, siamo straordinariamente affiatati, e abbiamo idee e principii che potuti sviluppare credo ci porterebbero lontano e dico che senza il buon senso di Cesare forse faremo dell’arte vera. Certo se tu potessi avere la macchina sarebbe la soluzione ideale. Scrivi, scrivi, scrivi. Ti abbraccio con affetto,Mario

Ho trovato queste due lettere nella scrivania di mio nonno Alberto a Camaiore. S.M.

Con tuo nonno, che poi era mio cugino primo – essendo figlio di Andreina, la sorella di mio padre Tomaso, e di Arnoldo, entrambi di Ostiglia, vicino a Mantova – siamo stati grandissimi amici. Abbiamo cominciato ad appassionarci e a fare del cinema insieme nell’età più sprezzante, sventata e idealistica della vita. È stata una grande perdita per il cinema che abbia deciso di seguire la strada paterna dell’editoria: sarebbe diventato un grande regista, ne sono profondamente convinto. Io arrivai a Milano l’ultimo anno di liceo, nel ’33. Vivevo con la mia famiglia in via Eustachi. Mi iscrissi al Berchet, dove studiavano Alberto, Risi ed Emmer. Ma non avevo una gran voglia di studiare, così mi cacciarono. Allora passai al Carducci, un altro classico appena costruito dove prendevano tutti. Si trovava quasi in campagna, in fondo a corso Buenos Aires, che era lunga la metà di adesso: piazzale Loreto non esisteva M.M.

ancora. Il periodo della giovinezza che ho trascorso a Milano è stato il più bello della mia vita. A Milano in quegli anni c’era un freddo cane. Nebbioni tremendi e grandissime nevicate. I locali pubblici non erano riscaldati, le case invece un pochino – non sempre. Rispetto a oggi la città aveva tre, quattro gradi in meno, però si stava benissimo. Si faceva tardi, a chiacchierare a perdifiato e ad accompagnarsi a casa l’un l’altro: avanti indietro, dal portone dell’uno a quello dell’altro. E intanto si parlava. Eravamo un gruppo di amici molto legati, stavamo sempre insieme. Accomunati dalla passione per il cinema. Entrati all’università c’erano i ritrovi dei Gruppi universitari fascisti, dove discutevamo animatamente di cinema. I corsi universitari invece li seguivo con meno passione, anche se ricordo il grande interesse intorno alle lezioni del filosofo Antonio Banfi. Ma soprattutto c’erano i film da vedere. A qualunque ora del giorno si entrasse, le sale erano piene zeppe di gente. Un’autentica bolgia umana. Aprivano presto, alcune già la mattina. Verso le due e mezzo, appena mangiato ci infilavamo nei cinema straboccanti di gente: chi in piedi, chi addossato sui muri. Con il fumo delle sigarette che faceva ondeggiare lo schermo e il pubblico che interveniva, commentava, rideva.

Alberto Mondadori, Cesare Civita e Monicelli posano vicino alla cinepresa con cui gireranno i loro primi cortometraggi.

Qualche anno prima avevi assistito alla proiezione del primo film sonoro, Il cantante di jazz (1927) con Al Jolson, uscito in Italia nel 1930 in concomitanza con il primo film sonoro italiano, La canzone dell’amore (1930) di Righelli. S.M.

Io rimango un sostenitore del cinema muto. E sono convinto che l’essenza del cinematografo sia raccontare una storia per sole immagini. Antonioni, che è uno dei miei registi preferiti in assoluto, ha continuato a fare dello straordinario cinema muto – pensa a Blow-up. Ma fin dalla sua invenzione, era chiaro che il progresso prima o poi avrebbe dato la parola agli attori. L’introduzione del sonoro non fu così semplice. All’inizio si M.M.

sentiva male, c’erano problemi di sincrono. Però fu sconvolgente la reazione degli spettatori che sentivano parlare italiano sullo schermo. Nei cinema italiani degli anni venti esisteva una forma rudimentale di “sonoro”. Soprattutto nelle sale di prima visione – un po’ meno in quelle alla mia portata di seconda e terza – venivano piazzati sotto lo schermo dei dispositivi per produrre rumori. Ricordo ancora il clamore della visione della Grande parata (1925) di Vidor con i rumori della mitragliatrice, i tamburi, la grancassa che sostituiva i rombi dei motori. Un altro sistema assai diffuso era l’accompagnamento dal vivo con il pianoforte. Fu scioccante assistere alla proiezione del Fantasma dell’Opera (1925) con Lon Chaney: l’impressione di quando si voltava verso il pubblico con quella maschera spaventosa, amplificata da un gran colpo di tamburo. Negli anni milanesi, il cinema italiano cominciava a beneficiare degli interventi del fascismo, ma rimaneva una produzione ancora modesta. Eppure si affacciavano sullo schermo i nomi di registi con cui avresti lavorato, emergevano alcuni attori che si sarebbero imposti come autentici divi. Alle agevolazioni ai film italiani, che a partire dal 1939 beneficiano di sussidi statali in base agli incassi, si oppone una chiusura ai film stranieri che culminerà nel rifiuto da parte delle major americane di cedere i loro film a un unico distributore italiano, sancendo di fatto una riduzione drastica del prodotto hollywoodiano. Due anni prima, Mussolini aveva inaugurato gli studi di Cinecittà. S.M.

A quei tempi eravamo severissimi nei confronti del cinema italiano. Impazzivamo per i film americani, francesi e per l’espressionismo tedesco. Dopo la morte di Pittaluga – che è stato una figura anticipatrice dei grandi produttori italiani, anche se poi fallì – nei primi anni trenta cominciarono a imporsi i film della Cines, che a un certo punto diresse il critico Emilio Cecchi, padre della Suso. Venivano fuori Alessandrini, Brignone, Righelli. Con Gli uomini, che mascalzoni! (1932) Camerini girò una commedia di un certo livello, a suo modo innovativa, benché poco “italiana”, nel senso che era impostata sulle commedie americane, con De Sica e Maria Denis. In generale si vedevano delle commediole. Le migliori erano scritte da De Benedetti. Essendo ebreo, a un certo punto smise di firmarsi. Ma le sue sceneggiature rimangono esempi da manuale. Diversi anni dopo ho M.M.

rivalutato la cura, la pulizia delle immagini di certi film che allora massacravamo. Che so, La segretaria privata (1932) di Alessandrini, con Elsa Merlini e Besozzi, o T’amerò per sempre (1933) di Camerini, con Elsa De Giorgi e Besozzi, erano prodotti di buon livello. Uno dei pochi registi che si salvavano era Amleto Palermi, che in qualche modo fu un precursore di Rossellini, e diresse anche una discreta commedia, L’eredità dello zio buonanima (1934) e qualche anno più tardi fece fare il primo salto di qualità a Totò con San Giovanni decollato (1940). Tra i pochi altri a cui risparmiavo parzialmente le mie critiche c’erano Ferdinando Poggioli, Giovacchino Forzano, proprietario degli stabilimenti Pisorno di Tirrenia, che avevo visitato più volte con il figlio Giacomo, mio compagno di liceo a Viareggio, e Corrado D’Errico, di cui sarei stato aiuto regista. In quegli anni debuttò anche Matarazzo con Treno popolare (1933), mentre più tardi si imposero Genina con Lo squadrone bianco (1936) e Gallone con Scipione l’africano (1937), prima dell’invasione dei telefoni bianchi. Il fascismo ha sostenuto molto il cinema italiano, che cercò di orientare in senso propagandistico con dirigenti come Freddi, ma non intervenne pesantemente, perché Mussolini riservava le sue attenzioni ai cinegiornali Luce. Una preferenza accordata dallo stesso Mussolini, in virtù di un certo scetticismo verso il cinema: «Per me i film si dividono in due sole categorie. Quelli di cui il pubblico si chiede come finiranno, e quelli di cui lo stesso pubblico si chiede quando finiranno». Già dalla fine degli anni venti, si accende il dibattito sulla natura, la funzione e il valore del cinema – ancora considerata una forma espressiva minore di consumo popolare. In quel periodo nascono i primi cineclub: nel 1927 a Torino ne fonda uno il critico letterario Giacomo Debenedetti. Dal 1927 al 1931 Blasetti dirige la rivista Lo schermo, quindi Cinematografo. Nel 1932 viene inaugurata la prima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Nel 1935 si apre il Centro sperimentale di cinematografia, diretto da Chiarini, che insieme a Barbaro fonderà e dirigerà la rivista Bianco e nero. Nel 1936 cominciano le pubblicazioni del quindicinale Cinema diretto inizialmente da Sandro De Feo – con le firme prestigiose di Debenedetti e Pasinetti – al quale subentrerà Vittorio Mussolini, annoverando tra i nuovi collaboratori anche un giovane S.M.

Antonioni. Ma la prima rivista di cinema in Italia fu diretta da tuo padre Tomaso. Sui quotidiani nazionali, continua a crescere lo spazio dedicato al cinema. Mario Gromo sulla Stampa e Filippo Sacchi sul Corriere tengono delle rubriche di cinema, così come sui settimanali si fanno notare gli interventi di Marotta sull’Europeo. È in questo clima che nacque Camminare. Il titolo l’avevamo preso da una frase di Mussolini: «Camminare senza sosta». Non era una rivista specializzata, ma il cinema era il nostro interesse principale. La redazione era nell’enorme scantinato di casa Mondadori in via Livorno. Lo stesso Arnoldo ci finanziava stampandola. Il nostro gruppo era costituito da otto-dieci persone. Oltre ad Alberto, e me, che a scuola ero abbastanza famoso per via della parentela, c’erano suo fratello Giorgio – che stava sempre zitto ma ogni tanto se ne veniva fuori con una battuta tagliente –, Lattuada, che era studente di architettura al Politecnico, il poeta Sereni, il filosofo Cantoni, Freda e Castellani che frequentavano i Guf, Civita, più grande di noi di quattro o cinque anni. Ma alle volte si univano anche altre persone, come la Pozzi, la poetessa, che poi si suicidò. Oppure c’erano quelli che partecipavano a due o tre riunioni e poi scomparivano. È stata un’esperienza molto divertente. Discutevamo, alzavamo la voce, ci accapigliavamo su tutti gli argomenti, un gran casino insomma. Ogni tanto la zia Andreina ci mandava giù qualche fantesca perché stavamo esagerando. Giocavamo anche a calcio. E spesso poi si andava su a mangiare dagli zii Arnoldo e Andreina. Capitavano a tavola gli autori di allora. Durante il pranzo noi stavamo zitti e ascoltavamo. Poi, appena tornati giù, cominciavamo a dirne peste e corna. Su Camminare scrivevo articoli di cinema. Recensioni, ma anche articoli di più ampio respiro. La rivista aveva una certa diffusione, promossa da Mondadori. Era nota nell’ambito dei Guf, ma anche al ministero, tanto è vero che la proibirono. Non erano gradite le nostre posizioni di “fascisti di sinistra”. Eravamo repubblicani e antimonarchici. M.M.

Alcune amicizie nate nello scantinato di via Livorno sono durate tutta una vita. S.M.

Con Lattuada soprattutto. Lo conobbi lì, in “redazione”. Facevamo delle passeggiate che non finivano mai. Uscendo dallo scantinato o da un M.M.

cinema, per accompagnarci a casa a vicenda. E non eravamo neanche tanto vicini. A piedi, con dei nebbioni che non si vedeva, e si parlava, si parlava, si parlava. S.M.

Cos’è per te l’amicizia, che nomini spesso e con un certo orgoglio?

Per me l’amicizia nasce dalla condivisione di uno spirito ironico nei confronti della vita: vuol dire stare bene insieme. Le mie amicizie sono tutte legate al lavoro, anche perché non avrei avuto tempo di conoscere e frequentare gente al di fuori della mia attività, che ho sempre messo davanti a tutto il resto, compresi gli affetti. Questo non esclude la possibilità di aiutare un amico in difficoltà. L’abbiamo fatto con Pacini: ma lui era permalosissimo, ti chiedeva mille lire e se gliene davi due si offendeva. Gli bastava il necessario per comprare un “rinforzino” alla moglie e alla figlia per integrare la minestra di verdura: mezzo etto di prosciutto, niente di più. M.M.

Il passo alla regia fu una conseguenza inevitabile. Tratto da un racconto di Poe, Il cuore rivelatore è scritto e diretto da te, Alberto e Civita, che è anche l’operatore, mentre Lattuada fa lo scenografo. S.M.

Lo girammo nel ’34 nel solito scantinato insieme a tutti i collaboratori di Camminare. Durava circa un quarto d’ora ma era comunque pesantissimo, influenzato dall’espressionismo tedesco. Usammo la cinepresa 16 mm di Civita. La scenografia era miserabile: una finestra dietro la quale si vedeva un albero spoglio. Il protagonista era un pazzo delirante. Presi dall’entusiasmo della nostra prima “opera”, lo mandammo ai Littoriali, certi dell’esito vittorioso. Invece fu respinto con la condanna, ignominiosa per il fascismo, di film paranoico. M.M.

L’anno dopo ci riprovate, adattando il romanzo di Ferenc Molnár I ragazzi della via Pál. I registi siete sempre tu e Alberto Mondadori, Civita è soltanto l’operatore. Il protagonista è Giulio Macchi. S.M.

In quel momento il romanzo I ragazzi della via Pál riscuoteva un successo internazionale. Tanto è vero che a Hollywood Frank Borzage – un regista che apprezzavo molto per il suo tono “borghese” – ne aveva fatto una trasposizione nel ’34, che noi però non avevamo visto. Ricordo che il libro veniva interpretato addirittura come una premonizione del nazismo. M.M.

Molnár era noto anche per alcune commedie fantastiche sull’aldilà. Ma soprattutto in Italia c’era il mito dell’Ungheria. Era un paese estremamente libero nei costumi. Spesso arrivavano in Italia delle bellissime attrici ungheresi del varietà. Da Budapest fece tappa anche un famoso balletto, Il cavallino bianco, pieno di queste ragazze meravigliose che gli italiani guardavano strabiliati, perché da noi le ragazze erano sorvegliatissime. Siccome quasi tutte le ballerine avevano trovato marito tra i figli degli industrialotti milanesi, la compagnia si sciolse. Con I ragazzi della via Pál ci misurammo con un film più impegnativo, lungo tre quarti d’ora, per di più girato in esterni, fatto tutt’altro che comune a quei tempi, in cui si girava quasi esclusivamente nei teatri di posa. Purtroppo allora le macchine da presa 16 mm erano senza sonoro. Dovendo fare un film muto, prendemmo la decisione “rivoluzionaria” di abolire le didascalie e raccontare la storia solo attraverso le immagini. Rispetto al Cuore rivelatore ci trovammo a dirigere un bel gruppo di attori, quasi tutti liceali del Berchet. Uno di loro era Giulio Macchi: lungo, magro, pallido, che sarebbe poi diventato un ottimo documentarista – fece un bel documentario sull’acqua intitolato Udor. A un certo punto sposò una donna ricca e non se n’è saputo più niente. Anche la regia richiese una maggiore preparazione. Come tutti i dilettanti, credevamo nell’importanza artistica dei movimenti di macchina, e non ci risparmiammo: piazzavamo la camera su carrelli rudimentali e la spostavamo di continuo. Disponevamo di un paio di luci, ma le immagini sono venute abbastanza bene. Il film fu finanziato in parte da Civita e in parte da Arnoldo. S.M.

La storia aveva un finale tragico, con la morte di un bambino.

Il mio primo approccio al cinema fu molto impegnato. Pur essendo sempre stato una persona ironica, almeno all’inizio ho avuto molte incertezze prima di trovare il mio modo di raccontare le storie. Più che di incertezza, si trattava di una curiosità, una predisposizione verso il mondo in cui rubare tutto ciò che ritenevo degno di essere imitato. M.M.

I ragazzi della via Pál venne mandato alla Mostra di Venezia, dove vinse il premio come miglior film a passo ridotto. Andaste tutti a Venezia? S.M.

Credo che solo Alberto fosse presente alla proiezione. La Mostra era nata da pochi anni, eravamo andati come spettatori all’edizione precedente. Partecipammo al concorso con il solito entusiasmo, benché sapessimo che erano più graditi i documentari che venivano proiettati prima del film. A me è sempre piaciuto raccontare storie. Quell’anno alla Mostra fu premiato come miglior film straniero L’uomo di Aran (1934) di Flaherty, non a caso un documentarista: noiosissimo, che allora naturalmente ci entusiasmò. Come miglior film italiano vinse invece Teresa Confalonieri (1934) di Brignone. Credo anche che fosse il primo anno in cui venivano assegnati premi. Tra i film in concorso passò Estasi (1934) di Gustav Machatý, con il primo nudo della storia del cinema: Hedy Lamarr che correva nel bosco. M.M.

Grazie a questa performance, Machatý si accingeva a partire per Hollywood con Hedy Lamarr. Il Minculpop riuscì a trattenerlo. Per risollevare le sorti del cinema italiano gli propose di dirigere Ballerine (1936), che venne girato negli stabilimenti Tirrenia. Il premio per I ragazzi della via Pál consisteva nell’assistere alle riprese del film. S.M.

Una bella idea, che consentiva a dei giovani di entrare direttamente nel mondo del cinema. Dal gradino più basso, s’intende. Lavoravamo gratis ma ci davano l’alloggio e il cestino. Alberto e io dormivamo insieme in una stanzetta a Tirrenia. Fin dal primo giorno capimmo che il nostro ruolo era quello dei servi degli assistenti degli assistenti alla regia. Per fortuna l’aiuto era Giorgio Bianchi, con cui legammo subito, che ci dava qualche incarico di poco conto. Trasportare mobili, spostare oggetti di scena, battere un paio di ciak. Si girava in un gran bel teatro, con due set enormi. Al posto degli studi oggi c’è il campo americano. Il soggetto – che poi non era neanche male – era la storiella di una ballerina del corpo di ballo della Scala. Il cast era formato da bellissime ragazze: tra le quali le famose ballerine ungheresi… Quattro o cinque erano davvero strepitose. Non Hedy Lamarr, che però era presente sul set. C’erano Gemma Bolognesi, Maria Denis e Silvana Jachino, debuttante come Antonio Centa. Durante le riprese Bianchi ebbe grande successo con le attrici. M.M.

Sul set del Cuore rivelatore.

Sono note le bizze autoriali di Machatý, che ti ha insegnato tutto quello che un regista non deve fare. S.M.

Si era portato tutta la troupe dalla Cecoslovacchia. Il montatore, il direttore della fotografia, uno molto bravo che poi è rimasto in Italia. Sul set si parlava in russo, in ceco, in francese e in italiano. Machatý era completamente fuori di testa. Aveva degli improvvisi attacchi di creatività. Allora, se si stava girando, fermava tutto, faceva spegnere le luci del teatro per restare al buio a pensare. Noi dovevamo stare zitti immobili in qualunque posto ci trovavamo, guai a disturbarlo. Si metteva seduto su una sedia e pensava per quattro, cinque minuti: che sembran pochi, ma sono lunghissimi, non finiscono mai! Poi si risvegliava e cominciava di nuovo. M.M.

Machatý era un invasato, incapace di rispettare i tempi di lavoro, e si accaniva come un isterico contro i suoi collaboratori. Se qualcosa non veniva come voleva lui, scaricava tutta la sua rabbia insultando, gettando bicchieri d’acqua gelida e tutto quello che gli capitava a tiro. Non ti dico come maltrattava gli attori. Però era affascinante ai miei occhi di ragazzino inesperto, che attribuiva al regista un potere quasi soprannaturale. Durante le riprese facevo la spola tra la mia camera ammobiliata di Roma e Tirrenia. La mia famiglia era tornata a Viareggio. Io cominciavo a passare molto tempo a Roma: il cinema si faceva lì. A quei tempi il cinema era richiestissimo, ma non c’era nessuno che lo facesse. Chiunque avesse partecipato alla realizzazione di un film era ritenuto un esperto e trovava subito lavoro. Infatti Genina mi chiamò per Lo squadrone bianco. Scusa, ma a che punto della vicenda tu e Alberto fondaste la Montedoro? S.M.

Dopo Ballerine, anche tuo nonno si era trasferito a Roma, dove fece l’assistente di Trenker nei Condottieri (1937). Con i soldi di Arnoldo fondammo la società Montedoro, un nome dovuto a D’Annunzio, in cui ovviamente fu coinvolto anche Lattuada. Grandi progetti, ma non si combinò nulla. Stavamo spesso insieme, andavamo a mangiare a casa di Bianchi. Aveva trovato una fidanzata molto carina che sapeva cucinare bene. Ma era già cominciato il conflitto con Arnoldo, che lo rivoleva a Milano al suo fianco. Alla fine cedette, tornò indietro per fare una grande carriera editoriale e mollò per sempre il cinema. Per alcuni anni continuammo a scriverci. Ci incontrammo un’altra volta nel dopoguerra. Poi ci siamo persi, ognuno ha seguito la sua strada. Ci siamo rivisti dopo molti anni un paio di volte a Venezia, dove era andato a vivere. Il primo di noi a lavorare fu Lattuada con Ponti, che l’aveva conosciuto a Milano: diresse nel 1936 La danza delle lancette. Io invece partii per l’Africa al seguito di Genina. M.M.

Ma prima, nell’agosto del ’36, eri a Viareggio per girare nella villa Zacconi di Camaiore Pioggia d’estate, che firmi con lo pseudonimo di Michele Badiek, a volte trascritto come Radiok. Grazie ai buoni di doppiaggio, fu Ermete Zacconi a “commissionarti” il film, purtroppo andato perduto. S.M.

Per fortuna, invece. Me lo propose per via del premio a Venezia e per l’esperienza con Machatý, che ai suoi occhi mi aveva reso uno del mestiere. Oltretutto ero amico dei figli Beppe, Luciano ed Ernes, tutti coinvolti nel progetto. A Zacconi interessava fare il film per ricevere in cambio i buoni di doppiaggio per due film americani: un’altra delle leggi fasciste fatte per incentivare la nostra modestissima produzione nazionale. Non ricordo la ragione dello pseudonimo, probabilmente dava più lustro al film, soprattutto perché il nome poteva evocare l’ungherese. Era la storiella di un amoretto balneare di un’estate che si rifaceva alla lontana ad Accadde una notte (1934) di Capra. La scrissi con Beppe, mentre Luciano, che aveva velleità d’artista – dipingeva, scolpiva… – si occupò della scenografia e dei costumi. Lo girammo nella loro villa a Camaiore, utilizzando tutti i membri della famiglia in più parti e delle persone di lì, ma facemmo degli esterni a Torre del Lago: una gita in barca sul lago di Massaciuccoli. I protagonisti erano Ernes Zacconi, che sarebbe diventata un’ottima attrice di teatro, e Raniero Barsanti, un bel giovanotto proprietario dello stabilimento dove andavamo al mare. M.M.

Ho ritrovato un articolo di Giancarlo Fusco sull’Europeo dell’agosto del 1950, intitolato «Da Viareggio le ragazze tornano fidanzate», in cui si parla delle conquiste di Barsanti. S.M.

Che in seguito è diventato un grossissimo imprenditore in Sudamerica. Vista la sua prestanza, nel film faceva l’operatore nelle scene in cui non recitava. Suo fratello Giorgio giocò in serie A – non ricordo se nel Milan o nell’Inter, e nella Pro Patria. Oltre a Ermete, c’era la moglie Ines Cristina, nota attrice che si occupava anche dei pasti, lo zio Aristide Frigerio con la moglie che facevano i comici in teatro, il fratello di Cristina, Olinto, che poi io ritrovai nello Squadrone bianco e una tal Franca Taylor. In questo viavai di persone, circolava anche Nora Ricci, figlia di una figlia di Zacconi. Una ragazzina molto intraprendente di dodici o tredici anni che più avanti sposerà Gassman. Il direttore della fotografia era un nostro carissimo amico, compagno di scuola, che si chiamava Manfredo Bertini. Uno un po’ balordo, bravissimo in matematica, fissato con la cultura atletica. Nel giardinetto di casa sua M.M.

aveva messo anelli e sbarre di ferro per esercitarsi. A volte ci andavo anch’io ad allenarmi. Quando venne la guerra, Manfredo partecipò alla Resistenza sulle Alpi Apuane, dove divenne comandante di una brigata partigiana. Nel corso di un attacco, venne circondato dai tedeschi. Allora si fece esplodere una bomba in testa e li ammazzò tutti. Aveva sempre avuto una concezione un po’ estrema della vita. Comunque gli fu assegnata la medaglia d’oro e a Viareggio è un personaggio tuttora ricordato. L’organizzazione del film fu affidata a Beppe Zacconi e a un altro nostro amico di vecchia data, Giannetto Guardone, in seguito diventato un avvocato molto noto. Erano tra l’altro due inventori. Lavorando a lungo con mezzi rudimentali avevano inventato un sistema per fare i film a colori. Quando andarono a brevettarlo si sentirono dire che un sistema analogo – e molto meno costoso – era stato brevettato quindici anni prima. Ho letto che il film uscì l’estate del ’37 e venne proiettato in qualche paesino del Sud, ma non ne rimane alcuna copia. Allora a Viareggio e in Versilia circolavano personaggi di un certo livello, e in Versilia, tra gli altri, sono nati Mario Tobino, Leonida Rèpaci, fondatore del premio Viareggio, Lorenzo Viani, autore dei Racconti della Versilia e dei Vàgeri – il corrispettivo versiliese dei vitelloni –, il nipote Rolando Viani, autore di A Viareggio aspettiamo l’estate, Enrico Pea, Cesare Garboli. Guglielmo Petroni e Arrigo Benedetti sono nati nella vicina Lucca. Manlio Cancogni è uno dei tanti viareggini acquisiti. S.M.

La mia famiglia abitava nel quartiere Marco Polo, verso la Fossa dell’Abate, che poi sarebbe diventato il Lido di Camaiore, vicino alla villa di Puccini dove viveva la famiglia di Garboli. Zacconi invece stava dalla parte opposta, verso il porto. Con Garboli e Ingrao sono tornato recentemente a Viareggio per dare una mano nella campagna elettorale. Allora, come in parte ancora oggi, Viareggio era un centro di grande vitalità intellettuale. Oltre alle spiagge d’estate, il Carnevale era un altro avvenimento di grande richiamo. M.M.

Poco dopo Pioggia d’estate, parti per l’Africa come assistente di Genina per Lo squadrone bianco, con Fosco Giachetti, Antonio Centa e S.M.

Guido Celano. Un film colonialista ambientato in Libia e finanziato dal regime, che rimase deluso del risultato. I due mesi in Africa sono stati un’avventura clamorosa. Allora nessuno ci andava. Dopo un viaggio di tre-quattro giorni arrivammo in nave a Tripoli, che mi fece un effetto tremendo. Da lì caricammo tutto su delle Chevrolet incolonnate una dietro l’altra. Seguendo piste sconnesse ci addentrammo nel deserto di Libia per giungere a Sinuaen, vicino a Gadames, a settecento chilometri dalla costa. Ci stabilimmo in un accampamento in mezzo al deserto. Gli attori e quasi tutti i componenti della troupe avevano paura di stare laggiù, circondati dagli arabi che non erano affatto contenti della nostra presenza. Io avevo vent’anni ed ero entusiasta di tutto. Rientrati a Roma, girammo per un altro mese a Cinecittà, che era ancora in costruzione. Genina era un uomo ormai anziano, mansueto, che non alzava mai la voce. Trattava gli attori con grande rispetto. Invece di ordinare, proponeva. Si rivolgeva al direttore delle luci con grande educazione: «Senta, direttore, se proviamo con l’inquadratura a metterci da questa parte, con questo taglio…». Rispetto a Machatý, mi sembrava incolore. Lo guardavo con una certa diffidenza, mi sembrava un mestierante qualsiasi. Quando poi uscirono quasi in contemporanea i due film, compresi che il lavoro del regista non è una pagliacciata ed è molto più serio di quanto si immagini. Ballerine era un filmetto di poco conto, mentre Lo squadrone bianco era un prodotto di qualità. Non piacque al fascismo che si aspettava una sviolinata sciovinista. Genina è stato un regista di tutto rispetto, che ha diretto un bel film come Cielo sulla palude (1949). M.M.

S.M.

Tu ormai vivevi a Roma.

Vivevo da solo, da giovanotto, con tanti amici nelle mie stesse condizioni. Quelli che erano a Roma da più tempo abitavano in camere ammobiliate, mentre noi stavamo in una camera dentro la casa di una famiglia, dove non si poteva rientrare oltre una certa ora. Controllavano tutto. Le donne non erano ammesse, e stavano attenti persino agli amici. I primi tempi a Roma eravamo tutti morti di fame. Ci ritrovavamo in una trattoria che si chiamava Peppino alla mezza porzione, perché si poteva ordinare mezza porzione di qualunque cosa. Cominciando a guadagnare un M.M.

po’ di più, mi sono potuto permettere una “camera ingresso scala”, come scrivevano sugli annunci. In sostanza, la camera aveva l’ingresso direttamente sulla scala del palazzo. Per cui potevi portare chi ti pareva, vale a dire le prostitute, perché allora le ragazze di buona famiglia aspettavano il matrimonio… S.M.

Come eravate visti voi del cinema?

Con una certa “stupefazione”, ma anche con un po’ di invidia, perché il cinema era popolarissimo. La gente ne era attratta e allo stesso tempo non capiva bene di cosa si trattasse, era un fenomeno a metà strada tra la magia e il circo equestre. Le donne che lavoravano al cinema, come quelle del teatro, erano considerate poco raccomandabili. Noi uomini eravamo visti come degli spiantati. Anche se allora c’era sempre lavoro, non si sapeva come sarebbe andata. A quei tempi io vivevo bene. Guadagnavo circa settecento lire all’anno, una buona entrata se si pensa che la canzone Mille lire al mese è suppergiù di quel periodo. M.M.

Come assistente alla regia, hai lavorato con Corrado D’Errico nei Fratelli Castiglioni (1938), dove hai conosciuto Giacomo Gentilomo che faceva ancora il montatore. Con Gino Valori in Equatore (1938), che ti porta in Africa. Quindi incontri Mario Camerini, di cui sei aiuto e per la prima volta ufficialmente cosceneggiatore nel Documento (1938), insieme allo stesso Camerini, a Soldati e Castellani. S.M.

Camerini è stato uno dei registi da cui ho imparato di più, dopo Machatý naturalmente. Girava “sapendo” come dividere e ordinare in sequenza le inquadrature una dietro l’altra: nel Documento faceva anche il montatore. Soprattutto era molto bravo nel rapporto con gli attori, e in genere con la troupe. Equatore lo ricordo proprio per il bellissimo viaggio che facemmo in Kenya. Avevo conosciuto Valori sul set dello Squadrone bianco, dove era il primo aiuto di Genina. Girammo a Gibuti e poi ci spingemmo fino a Chisimaio. I fratelli Castiglioni, invece, fu girato interamente a Tirrenia, dove strinsi subito amicizia con Gentilomo. Quando passò alla regia, mi chiamò per fare il suo aiuto, che per me costituiva una promozione da assistente. Lavorammo insieme in cinque film, in cui collaborai alla sceneggiatura M.M.

benché sia accreditato solo in tre. Tre commedie: La granduchessa si diverte (1940), adattamento di una pièce di Zorzi, Pazzo d’amore (1942) e Finalmente soli (1942). E due gialli: Brivido (1941), un giallo rosa, e Cortocircuito (1943), che aveva una struttura ben congegnata. Purtroppo, con l’avvento delle leggi razziali, Gentilomo si spaventò a morte, smise di firmare i film col suo nome e divenne un altro uomo. Dopo la guerra diresse l’ottimo O sole mio (1946), ma non lavorammo più insieme. Come Camerini, anche lui girava un film pensando mentalmente al montaggio. Negli anni quaranta era uno dei pochi che si erano liberati delle regole del montaggio del muto, molto più dettagliato per via dell’assenza della voce. Per amor di completezza, in questi anni sei anche assistente di Giacinto Solito in Fascino (1940), di Mario Bonnard in Marco Visconti (1941), oltre che soggettista e sceneggiatore per Mattoli nella Donna è mobile (1942). S.M.

Marco Visconti ebbe un buon riscontro di critica. Era un film in costume ambientato a Milano nel Trecento. Bonnard è un altro regista che si faceva rispettare e lavorava svelto, oltre a essere stato un grande attore di avanspettacolo. Fare l’assistente alla regia era un lavoro duro, a volte noioso, ma comunque avventuroso. La normalità era popolata di imprevisti. Anche quando si girava a Cinecittà, che allora era in aperta campagna. Si usciva di casa la mattina prestissimo, e si faceva in tram questa strada lunghissima che non ha niente a che vedere con le strade piene di traffico, i caseggiati e i centri commerciali di oggi. Man mano che si arrivava, il regista ci dava le consegne di quello che serviva per la scena e noi ci ingegnavamo per scovarla da qualche parte o costruirla alla bell’e meglio. Si impiegavano ore a preparare il set. Magari qualche attore non arrivava, e allora bisognava andare a cercarlo. Ora che tutto era a posto, si era fatto già pomeriggio. Lavoravamo di filato fino a tarda notte. E la mattina dopo si ricominciava da capo. I lavoratori non erano tutelati dai sindacati: obbedivamo tutti agli ordini della produzione. M.M.

S.M.

Allora la censura fascista lavorava a pieno ritmo.

C’erano due livelli di censura. Nel primo il copione veniva sottoposto alla commissione del ministero, che quasi sempre apportava modifiche M.M.

prima di approvarlo. Una volta girato, il film veniva sottoposto a una seconda commissione, che interveniva ulteriormente. Il vero punto su cui si accanivano riguardava la morale sessuale, che era rigidissima nel cassare frasi allusive, doppi sensi, acconciature inopportune, censurando del tutto scene esplicite di sesso e men che meno gli adulteri. Il che era un bel guaio, perché se non metti le corna, dimmi tu cosa scrivi! Allora si ricorreva a degli escamotage: gli adulteri venivano risolti come un grande equivoco e alla fine piangevano tutti, prima di disperazione e poi di felicità. Almeno, in questo modo, per un po’ di metri facevi vedere qualche porcheriola. In alternativa si ambientavano le storie nelle plutocrazie corrotte: la Francia ma soprattutto l’Ungheria. Il quartiere Coppedè, in uno stile neogotico tra il liberty e il medievale, diventò la nostra Budapest. Con Gentilomo ci girammo due film. Ci eravamo procurati l’elenco telefonico di Budapest per trovare nomi ungheresi. Ho scoperto che il termine “regista” è stato coniato dal linguista Bruno Migliorini in un articolo del 1932 su Scenario, sostituendo il vecchio “regisseur”. S.M.

Il regista era la figura di riferimento di un film fin dai primi anni trenta, oscurata soltanto dal produttore a cui spettava il nome in fondo ai titoli di testa. M.M.

Intanto l’Italia era entrata in guerra e tu sei stato chiamato al distretto militare di Lucca. Ma prima di partire ti sei presentato in divisa all’Università di Pisa, dove ti eri trasferito da Milano, per discutere la tesi di laurea in Lettere e filosofia. S.M.

Infatti non ho mai dato peso alla laurea, te la davano in fretta e furia per mandarti subito in guerra. In un certo senso invidio a Dino Risi una vera laurea, per di più in Medicina. Anche se poi mi sono rifatto con una laurea honoris causa. Ricordo alcuni momenti cruciali che cambiarono il mio destino di soldato e forse la mia vita stessa. Dopo la visita al distretto, spuntò un uomo che indicando il gruppo di ragazzi dov’ero io urlò: «Loro in fanteria a Messina». Eravamo in giugno o luglio, c’era un caldo bestiale. Pochi minuti dopo sbucò fuori un altro uomo da una porticina che stava in questo M.M.

stanzone, sopra una scaletta a chiocciola. Era un sergente, che ci urlò: «Chi di voi sa andare a cavallo?». Senza aver visto un cavallo in vita mia, alzai di scatto la mano. Così mi sarei risparmiato le marce, pensai. Fui arruolato in cavalleria e spedito alla scuola di Pinerolo. Una scuola straordinaria, che ha formato in maniera indelebile un lato del mio carattere. Ho imparato a montare a cavallo, un’attività che mi ha accompagnato per quarant’anni di vita, non ho fatto marce e di fatica ne ho fatta molto poca. E soprattutto non ho quasi combattuto. Mentre facevo il corso, i poveri cavalleggeri mandati allo scoperto in Russia erano stati falciati dalle mitragliatrici. Divenne chiaro che la cavalleria era un corpo senza più futuro in guerra. Così da un giorno all’altro cominciarono gli addestramenti sui carri armati. Intanto il tempo passava, però la guerra continuava. Nel mio cuore speravo che la perdessimo. Una speranza che non potevo confessare ai commilitoni, tutti fascisti convinti, mentre io ero guardato con sospetto avendo il padre antifascista. Finito l’addestramento, fui mandato in uno squadrone di cavalleria in Jugoslavia, che era diventata una terra di occupazione. Ci passai qualche mese in inverno. Il pericolo era relativo. Era in corso la guerra civile e, pur non essendo un popolo cattivo, si scannavano come bestie tra di loro. Gli italiani non davano fastidio. Pattugliavamo la città, di notte facevamo delle ronde. Ogni tanto trovavamo uno del posto sgozzato o con i ferri ai piedi. S.M.

Avevi capito come stava andando la guerra?

Devo dire di sì. A un certo punto ho temuto che i tedeschi avrebbero vinto la guerra. I due terrori della mia vita sono stati la battaglia d’Inghilterra – perché, se i tedeschi avessero passato la Manica e invaso l’Inghilterra, sarebbe finita – e l’avanzata in Russia. Era chiaro che se avessero preso Stalingrado non ci sarebbe stato più nulla da fare. Il mio squadrone si chiamava gli Arcieri di Aosta, il nostro motto era «Ca custa o non ca custa, vivere a Aosta». Dalla Jugoslavia ci trasferirono a Napoli, in attesa di essere imbarcati per la Libia con i carri armati. Il grande pericolo era la traversata in traghetto per Tripoli o Bengasi. Nel ’43 il Mediterraneo era completamente in mano agli inglesi. Noi non disponevamo né di un’aviazione né di una flotta. I traghetti carichi di M.M.

soldati venivano affondati due volte su tre e questi poveracci morivano affogati come topi. Il terrore erano quei tre-quattro giorni di navigazione. Una volta sbarcati là non moriva nessuno: tutti, appena vedevano un elmetto inglese, alzavano le mani, pronti a farsi fare prigionieri. Per non farmi imbarcare, mi diedi molto da fare fino a diventare indispensabile ai depositi. Sicché il comandante di deposito, un colonnello, per ben due volte mi fece depennare dall’elenco dei partenti: ecco la seconda svolta cruciale. Io scappai qualche settimana prima del 25 luglio. Mi trovavo ancora a Napoli, a villa Marisa. Con calma mi misi il vestito borghese che tenevo nella valigia, uscii dalla porta secondaria, e non mi hanno più visto. Sono risalito verso Roma a piedi, seguendo la strada ferrata. Ogni tanto passava un trenino, ci montavo su, faceva dieci, quindici chilometri, poi si fermava su un binario morto, scendevo e riprendevo a camminare. Eravamo una marea sterminata di uomini che si incrociavano: chi saliva al Nord, chi scendeva al Sud, con qualche vestito borghese rimediato alla bell’e meglio. Tornato a Roma, hai partecipato alla Resistenza e hai assistito alla liberazione del 4 giugno. S.M.

A Roma ero clandestino, dovevo stare nascosto per sfuggire ai rastrellamenti. Essendo noto come aiuto regista, se mi avessero trovato mi avrebbero spedito immediatamente a Salò, dove giravano i film con Valenti, la Ferida e Maria Denis. Attraverso una serie di persone, venni in contatto con un gruppetto di resistenti messo insieme da Comunardo Braccialarghe: Comunardo di nome, visto che era figlio di un anarchico. Entrai a far parte di questa pattugliotta, che dipendeva da Eugenio Colorni. Il nostro campo di azione era dalle parti di piazza Quadrata, corso Trieste. Erano compiti di poco conto. Si trattava di consegnare messaggi oppure manifestini o pacchetti. La sera andavamo a scuola di partito a casa di Usellini, un pittore: Colorni ci insegnava il socialismo. Portando uno di questi pacchetti un mio amico, che si chiamava Lo Presti, venne catturato dai tedeschi e portato a Regina Coeli. Dopo la faccenda di via Rasella, fu uno dei prigionieri che finì ammazzato alle Fosse Ardeatine. Quando i tedeschi andarono via, la città piombò nella notte. C’era ancora luce quando scomparvero anche le ultime pattuglie. Un gran silenzio. Di attesa. Io allora chiesi a Braccialarghe cosa fare: che so, occupare qualcosa. M.M.

Alla fine ci radunammo tutti in piazza Istria, che era ancora in costruzione. Non sapevamo cosa fare. Non so bene perché, venni mandato in via Barberini insieme a un mio amico giornalista. Perplessi, ci guardammo a lungo con un venditore ambulante pieno di sacchetti con i lupini. Aspettavamo. Passò un’ora, poi un’altra. Finché in lontananza sentimmo come un fruscio. Veniva dalla piazza della stazione Termini. Il fruscio, che cresceva di intensità, diventava sempre più vicino, era la camminata dei soldati della v armata, che avevano le Clarks. Finalmente apparvero i soldati armati: vigili ma non tanto, avevano capito che c’era poco da temere. Cominciarono a sfilare davanti a noi, seguiti da alcune camionette, dai semoventi, dai carri armati. Erano tanti, sempre di più. Erano senegalesi e indiani, soprattutto. Gli inglesi mandavano avanti le truppe coloniali. E poi c’erano gli americani. Era una processione gigantesca. Da mezzanotte fino alle due sfilarono ininterrottamente camion di roba da mangiare, e poi munizioni, e poi neri, marocchini, e gli autoblindo. Non finiva mai. Verso l’alba il venditore ambulante, un uomo sulla cinquantina, emaciato, che era rimasto zitto per tutto il tempo, ci guardò e disse: «Anvedi, chi semo andati a pijà de petto?». Proviamo a fare un po’ di ordine negli anni della tua infanzia e della prima giovinezza. Nasci a Viareggio il 15 maggio 1915. Vi trasferite a Roma, dove nel ’22 assisti dalla finestra alla marcia su Roma. Nel 1924 siete a Bologna, in una villetta fuori città, dove tuo padre dirige Il Resto del Carlino. Tornate a Viareggio, per andare a Milano nel 1933. A partire dalla fine del ’35, dopo la parentesi di Ballerine e con l’eccezione del periodo di guerra, ti stabilisci definitivamente a Roma. S.M.

In un certo senso sono toscano per caso, anche se in realtà in Toscana ho trascorso i primi anni di vita, quattro anni del liceo e ci sono passato spesso. Comunque mi sento dentro una certa toscanità, soprattutto nei suoi aspetti più aspri – burberi se vuoi –, nella carica distruttiva ma sempre ironica, tagliente verso tutto e tutti. Della marcia su Roma ho un ricordo preciso. Ci trovavamo in casa D’Amico. Fin da ragazzo mio padre era molto amico del critico teatrale Silvio D’Amico. Nel ’22 avevo sette anni. Li guardavamo sfilare dalla finestra che dava su via Nazionale. Erano tanti, nel corteo si era infilata anche gente che non c’entrava. Ne conservo M.M.

un’immagine festosa e variopinta. Delle bande suonavano Giovinezza, con i ragazzi che la cantavano a squarciagola. Ognuno era agghindato a modo suo. Molti portavano il fez. Rimasi colpito da alcune magliette col teschio o con scritto «Me ne frego» sul petto. A quei tempi era un atteggiamento molto trasgressivo. Certo non mi sarei mai aspettato quello che accadde dopo. Mio padre, che prima aveva diretto l’Avanti!, fu chiamato a Bologna per dirigere Il Resto del Carlino. La mia famiglia è sempre stata di tradizione socialista. Quando si insediò Mussolini, che aveva un passato socialista, mio padre si schierò coi nazionalisti che portavano le camicie azzurre. Dopo il delitto Matteotti cambiò tutto. Sul Carlino scrisse dei pezzi molto duri contro la barbarie del fascismo. Fu immediatamente licenziato e bandito da tutti i giornali, anche se continuò ad aiutare i giornali clandestini. Dopo la guerra venne completamente dimenticato. Fu una delle ragioni per cui si sparò nel 1946 nella casa di via Adige. Lo trovai morto in bagno insieme a mia madre. Il tuo rapporto diretto con il cinema ha inizio con le visite agli studi Pisorno di Tirrenia. S.M.

Giovacchino Forzano, che era il proprietario, ci portava me e suo figlio Giacomo. Forzano ebbe anche una carriera di regista, meno famosa di quella di commediografo. Era amico di Mussolini, che collaborò segretamente alla sceneggiatura di Campo di maggio (1934), tratta da una pièce dello stesso Forzano, un film su Napoleone che passò alla famosa, per me, Mostra di Venezia del ’34. La prima volta che ci portò agli stabilimenti, stavano girando un film francese. Il regista era un vecchio signore con i capelli grigi: solo dopo qualche anno mi sono reso conto che era Abel Gance. Ricordo perfettamente la lunghezza delle istruzioni che impartiva a un’attrice francese, mi pare fosse Arletty. Quando ebbe finito, lei si limitò ad annuire. Dopodiché si fece silenzio. Tutte le luci erano puntate su Arletty. Gance gridò «Motore», subito seguito da «Azione!». E Arletty pronunciò la battuta che lui le aveva spiegato accuratamente come pronunciare: «Je suis bien». M.M.

Vite di uomini non illustri

A un certo punto i maggiori registi della commedia all’italiana si distanziano dalla realtà per attingere le loro storie dai libri. Non può essere un caso: studiando le vostre filmografie, gli adattamenti letterari cominciano nella seconda metà degli anni settanta per diventare una costante. Risi mette in scena due Arpino, Chiara e Tobino. Comencini rilegge Collodi, Arpino e Fruttero&Lucentini. Scola porta sullo schermo Dürrenmatt e Tarchetti. È immediato cogliere una certa stanchezza nei confronti del presente e una mancanza di idee nuove. Nel tuo caso il ricorso ai romanzi o a soggetti altrui rimane ancorato alla realtà. S.M.

Agli adattamenti letterari manca l’energia che nasceva dalla vita con cui si sono realizzate le migliori commedie all’italiana. Questo è un fatto. L’originalità delle storie ha costituito un elemento di forza di tutto il nostro cinema, in contrasto, per esempio, con la cinematografia americana che ha attinto a piene mani da romanzi e testi teatrali. Come risulta dalle nostre filmografie, l’aumento di film tratti da libri rientra in una tendenza generale, dovuta senz’altro alla stanchezza, ma non necessariamente priva di stimoli. Pur cambiando il punto di partenza, nei miei film il risultato è rimasto pressoché invariato. Ho proseguito sulla strada della commedia. Sia nella scelta di soggetti altrui, sia negli adattamenti di libri ritenuti seri o drammatici, ho posto l’accento sui risvolti umoristici. Per me Il male oscuro è un libro divertentissimo, proprio per la sua capacità di mettere in rilievo gli aspetti ridicoli della malattia. Lo stesso non si può dire del Fu Mattia Pascal, un libro e un film che non ho mai sentito nelle mie corde: ma perché l’ho fatto? M.M.

Il cinema italiano degli anni d’oro si distingue proprio per la schiacciante maggioranza di storie originali, un dato che non esclude la S.M.

trasposizione di quasi tutti i migliori libri del Novecento – dal Pasticciaccio di Gadda all’Isola di Arturo della Morante a La pelle di Malaparte. Sono poche però le commedie all’italiana di origine letteraria. La vita agra (1964) di Lizzani da Bianciardi, Il maestro di Vigevano (1963) di Petri da Mastronardi e soprattutto Venga a prendere il caffè… da noi (1970) di Lattuada da Chiara, uno scrittore affine al vostro spirito. I romanzi che leggevamo non coglievano il mondo con lo spirito che ci interessava, li sentivamo privi di quella presa sulla realtà che era costante fonte di ispirazione per noi. Solo Moravia scriveva dei raccontini, praticamente soggetti per il cinema. C’era un gruppo di scrittori che collaboravano direttamente con il cinema come Flaiano, Brancati, Malerba, Patti. E c’era una schiera nutrita di scrittori legati a una visione “civile” della letteratura: Fenoglio, Carlo Levi, Pratolini, Bassani, Sciascia, Arpino, il Calvino dei racconti, Bianciardi, Cassola, Parise. I loro romanzi più noti sono stati trasposti in film, spesso con ottimi risultati. Le trasposizioni dai grandi autori erano frequenti in un certo cinema popolare, che volgarizzava i classici in chiave melodrammatica – dei feuilleton nazionalpopolari. Io stesso ho adattato un monumento come Dante, in molti non si sono fatti tanti problemi a volgarizzare Dostoevskij. Sul fronte dei maestri, Visconti è stato soprattutto un regista letterario. Lattuada stesso ha portato sullo schermo ben sedici romanzi: Bacchelli, Arpino, Brancati, un classico come La mandragola (1965) di Machiavelli… Piero Chiara è certamente uno di quegli autori provinciali vicini alla nostra visione del mondo, e Lattuada fece un ottimo lavoro adattando La spartizione. Ma è uno dei pochissimi casi riusciti. Tra i nostri registi “letterari” mi viene in mente anche Bolognini, un talento versatile capace di passare da Totò al romanzo ottocentesco. Quasi tutti i registi prima o poi si sono cimentati con un testo letterario. Dal De Sica del Giardino dei Finzi Contini (1970) di Bassani al Bertolucci del Conformista (1970) di Moravia. M.M.

Hai citato due registi agli antipodi, rappresentanti delle due grandi tradizioni del nostro cinema. De Sica, soprattutto nel periodo zavattiniano, esponente della tradizione neorealista, ma più in generale realista, da cui discende la commedia all’italiana stessa. Bertolucci prosecutore della S.M.

grande tradizione del melodramma che tu stesso hai conosciuto nella versione popolare di Matarazzo. Pur essendo un grande appassionato di opera lirica, ho sempre trovato magniloquente, costruito, falso il cinema “melodrammatico” di Visconti e di Bertolucci, i due maggiori interpreti senza dubbio. Bertolucci è uno dei maggiori registi del cinema italiano. Nella prima fase della sua carriera ha toccato momenti altissimi con Prima della rivoluzione (1964), La strategia del ragno (1972) e Il conformista. Personalmente amo meno i film successivi, troppo condizionati dalla cinefilia, pur riconoscendo a Bertolucci una capacità notevolissima di muovere la macchina da presa e di dirigere gli attori. Visconti invece ha sempre fatto un cinema teatrale, coerente con la sua formazione personale e il suo gusto, anche nelle prove neorealiste. La linea neorealista, con Rossellini e De Sica su tutti, ha influenzato profondamente la generazione che cominciava a fare film nel secondo dopoguerra, ed è stata la linea vincente, capace di convogliare talenti comici e drammatici in una sorta di cinema “unico”, come lo descrive con grande efficacia Goffredo Fofi nel libro su Sordi: tra il ’45 e il ’63, dal peggiore al migliore film il cinema italiano è “un solo film”. M.M.

Il titolo di questo capitolo è lo stesso di un libro di Pontiggia da cui hai tratto Facciamo paradiso. Una collezione di referti di esistenze anonime, scandite dalla secca sequenza cronologica di date e avvenimenti cruciali, e illuminate da fulminanti precisazioni ironiche. Questa gente comune è la stessa che popola i tuoi film. S.M.

Come esergo del libro, Pontiggia cita una massima di Santayana: «Tutto, in natura, ha una essenza lirica, un destino tragico, una esistenza comica». Un monito da tenere sempre presente. A seconda di dove calchi la mano, sai quale risultato aspettarti. L’esistenza comica è la materia del mio cinema, più attento ai poveri o alla gente qualunque per naturale predisposizione a osservare quello che accade senza clamore di fronte ai nostri occhi. M.M.

Togliamoci subito di torno la questione preliminare della diatriba tra fedeltà al testo e sua libera interpretazione. Una questione non così centrale S.M.

per te, da quanto mi sembra di capire. Quello che conta è il soggetto di una storia, che sia un libro o meno. Nel caso di un romanzo, di solito lo si sceglie perché piace nel suo complesso. Quindi, almeno inizialmente, l’idea è quella di trasporlo sullo schermo con una generica fedeltà. Tenendo sempre conto del fatto che i tempi e le possibilità di un film sono limitati. Tanto è vero che uno dei sinonimi più usati di adattamento è riduzione. Un film dura circa un paio d’ore, molto meglio se meno. In fase di adattamento è fondamentale scegliere e montare i pezzi di un libro, che per sua natura ti racconta molto di più. Può capitare di eliminare dei personaggi, di togliere interi capitoli, di rivoluzionare dei dialoghi, senza per questo intaccare lo spirito del libro. Nella realizzazione di un film va anche considerata la fattibilità di alcune scene, che magari vengono escluse dalla sceneggiatura per ragioni di costi. I cambiamenti possono essere strutturali, come è accaduto con Le due vite di Mattia Pascal, in cui la storia è spostata temporalmente dall’inizio alla seconda metà del Novecento. Oppure possono riguardare l’andamento dei fatti, come nel finale di Un borghese piccolo piccolo che è diverso dal libro, mentre tutto il resto del film gli è fedele. Oppure si può seguire una via di mezzo come nel caso di Facciamo paradiso, dove da una parte tagliammo dei personaggi e dall’altra rimpolpammo la storia inserendo nuove figure ed episodi. Oppure, un libro può essere semplicemente lo spunto per una storia che prende altre direzioni. M.M.

Quest’ultimo caso si attaglia bene ai tuoi primi “adattamenti”: Totò e i re di Roma rielabora i racconti La morte dell’impiegato ed Esami di promozione di Čechov; Risate di gioia fonde due racconti di Moravia; Renzo e Luciana prende le mosse dal racconto L’avventura di due sposi di Calvino; La mortadella dal racconto La pizza di Renato W. Spera. S.M.

Soprattutto i primi film erano frutto di numerosi stadi di lavorazione che comportavano interventi, prestiti, saccheggi, suggerimenti dei tanti sceneggiatori che alla fine lo spunto da cui eravamo partiti era completamente stravolto. È il caso dell’Avventura di due sposi. Frequentando casa D’Amico, conoscevo abbastanza bene Calvino. Avevamo già utilizzato un’idea di un suo racconto per I soliti ignoti e aveva scritto il trattamento sui viaggi di Marco Polo. In realtà il soggetto di Renzo M.M.

e Luciana deve quasi più a Solinas che al racconto di Calvino, soprattutto l’idea del divieto di matrimonio tra dipendenti della stessa azienda. Me ne parlò andando a caccia – o era a pesca? Lui aveva la mania, mi tirava giù dal letto all’alba. A me non interessava proprio. Ma eravamo amici fraterni, era un modo per stare insieme. Fu lui a suggerirmi l’idea. La raccontai alla Suso, e coinvolsi Arpino, che avevo conosciuto perché volevo adattare La suora giovane, un romanzo bellissimo. Purtroppo non se ne fece niente, il film lo girò qualche anno più tardi Bruno Paolinelli (1965). Fatto sta che quando incontrai Solinas e mi ricordò di quella volta a caccia in cui parlammo delle condizioni del lavoro in Italia, mi scusai subito: ecco come mi era venuta questa idea geniale, me l’aveva raccontata lui! Del resto le idee nascono così. Ma sarebbe meglio dire che si trasmettono. Sopravvivono. È sempre così, quando credi di avere inventato una battuta o una situazione, ti capita poi di scoprire di averla sentita in giro o letta da qualche parte, di averla rubata inconsapevolmente a un amico… Per il tuo primo adattamento bisogna risalire al 1954, quando insieme a Suso Cecchi D’Amico sceneggi La madre di Grazia Deledda. Un film a cavallo tra il melodramma e il western, ambientato in una Sardegna folcloristica. Adesso te lo chiedo io: ma perché l’hai fatto? S.M.

Una vera schifezza, non c’è che dire! Per emanciparmi dal genere comico e cambiare prospettiva, pensai che fare un film da un’autrice importante come la Deledda fosse una prova di maturità. Invece era una storia che non c’entrava niente con me. Un incrocio tra feuilleton popolare con le faide familiari, la relazione un po’ pruriginosa tra il prete e una ragazza, e duelli in stile western sullo sfondo di una Sardegna molto pittoresca: ma più realistica di quanto si creda. L’unico aspetto positivo di questa esperienza furono i tre mesi di sopralluoghi passati in Sardegna insieme a Solinas e Gherardi. Allora era un’isola selvaggia e sconosciuta. C’era il rischio di prendersi la malaria. Le coste erano inaccessibili: doveva ancora sbarcare l’Aga Khan. Infatti non esistevano pescatori. Tutta la vita si svolgeva nell’entroterra, c’erano solo pastori e contadini. Le strade asfaltate erano pochissime. A volte passavamo mezze giornate a camminare lungo viottoli di terra per raggiungere santuari meravigliosi, dove rubavamo crocifissi, suppellettili, tutto quanto ci serviva. M.M.

C’era Nazzari nella parte del bandito, Mel Ferrer in quella del prete dal passato amoroso con la Massari. Un cast improbabile… S.M.

Nazzari lo conoscevo bene dai tempi dei melodrammi di Matarazzo. Una persona molto simpatica, ma anche un trombone fin troppo scontato per la parte: era sardo. Ferrer, invece, era un divo americano sulla cresta dell’onda. Presuntuosissimo, antipaticissimo. Stava per sposarsi con Audrey Hepburn, che aveva girato da poco Vacanze romane (1953). Una storia sulla bocca di tutti. Dopo il film incontrai Ferrer a Roma e la conobbi: una donna bella e curiosa. Voleva sapere dove poteva comprare un Modigliani. Un Modigliani: non è che i Modigliani si trovano così! La avvertii di stare attenta a non farsene rifilare di falsi. C’erano certi falsari capaci di dipingere in una notte una copia perfetta di qualsiasi pittore. Anche alcuni scenografi per arrotondare si prestavano a questi raggiri. Ma non vale la pena di parlare ancora del film. È uno strazio, un errore in cui mi sono cacciato di cui per fortuna non sono rimaste tracce: fino a ora, almeno. M.M.

Allora facciamo un balzo in avanti fino al 1976. In Caro Michele di Natalia Ginzburg esplori una borghesia in disfacimento, con il terrorismo sullo sfondo, giocando sui mezzi toni. A un passo dal dramma, che scantoni all’ultimo con il tuo solito pudore: un po’ più guardingo del solito. S.M.

Io Caro Michele lo considero a tutti gli effetti una commedia. La Ginzburg stessa aveva scritto una commedia. La vera difficoltà consisteva nel dare continuità narrativa a un romanzo quasi interamente epistolare. E in questo senso la Suso e Tonino Guerra fecero un lavoro egregio, dal quale io preferii star fuori, anche perché non era nelle mie corde. Perlomeno quel ceto borghese, diciamo pure alto-borghese, ebreo, che apparteneva a una civiltà al tramonto era un mondo di cui sapevo poco. Leggendo il libro, ero rimasto affascinato da questo disfacimento visto attraverso le donne. Ne parlai anche con la Ginzburg, che si tenne in disparte. Quando lo vide, apprezzò il film. Almeno così ci disse. M.M.

Mariangela Melato che si allontana in bicicletta con il suo bambino nel finale di Caro Michele.

Sul tono del romanzo non sono tanto convinto. Anche se traspare un’ironia quasi pudica in tutta l’opera della Ginzburg, il tono di Caro Michele è quantomeno oppressivo. Sono invece d’accordo sulla tenuta narrativa. L’utilizzo delle lettere con la voce fuori campo è puntuale e mai invadente. In special modo nella prima parte, ricrea la polifonia di voci del romanzo saltando da un personaggio all’altro. S.M.

Dipende anche da come lo leggi, il libro. Basta niente per cambiare la prospettiva o concentrarsi su un dettaglio che si rivela divertente. Pensa solo al personaggio del Pellicano interpretato da Fabio Carpi. O a quando la Melato si ritrova in quella famiglia del Sud a Trapani. O alla madre e alla figlia che la ospitano in casa. Tutti personaggi e situazioni divertenti. E alla stessa figura della Melato, una sciattona che veniva dai bassifondi, una mezza scombinata pronta a tutto. Però rappresentava una novità. Faceva parte di una nuova classe che doveva formarsi. Poi invece non è successo un cavolo: è rimasto tutto uguale. M.M.

C’è qualcosa che non mi convince nel film. Mi è parso molto stridente lo sdoppiamento della storia, che racconta gli eventi familiari con una serie di squarci sfuggenti, formalmente eleganti ma senza coinvolgimento, mentre assume importanza Mara, protagonista di episodi strampalati. Il cambiamento di rotta del film coincide con il passaggio definitivo al punto di vista di Mara, troppo diversa da come l’ha scritta la Ginzburg. Il personaggio della Melato ribalta quello del romanzo, la cui caratteristica dominante era il senso di pena che suscitava. Tu invece la rendi spavalda, rumorosa, prevaricatrice e col passare del film diventa la protagonista unica. S.M.

Pensa che doveva interpretarla la Antonelli: sarebbe andata molto peggio… Comunque la Melato era fuori parte, lo so. È stata una congiura. I primi quattro giorni di riprese era vestita tutta trasandata. Gitt Magrini l’aveva resa scialba e anche un po’ anonima, come nel libro. Decisamente bruttina. Non ti dico la Melato come si offese quando vide i giornalieri… Intervenne subito la sua agente. Proteste, ripicche, un casino! Finì che rigirammo tutto da capo e si fece a modo suo, anzi loro. Purtroppo la vera pecca del film è lei. Che è la protagonista. Lo scompenso tra le due narrazioni deriva forse dalla mia incertezza nel muovermi in un mondo che non conoscevo, tenuto un po’ a distanza da uno stile controllato. M.M.

Caro Michele è indirettamente un film sul terrorismo, su una generazione di giovani allo sbando. La Ginzburg non riesce a immaginare come invecchieranno, senza essere stati davvero giovani. S.M.

Io nel ’68 avevo cinquantatré anni, quando rapirono Moro, nel ’78, dieci in più. Lo stesso Bellocchio, che era coetaneo di quei giovani, non è riuscito a raccontarli. Pur straordinario, I pugni in tasca non è un film generazionale. Bertolucci ne aveva dato una rappresentazione letteraria. Uno che forse avrebbe avuto il piglio giusto è Muccino: Come te nessuno mai (1999) è senza dubbio il suo film migliore. M.M.

S.M.

Nel ’68 fosti molto attivo a Venezia.

Allora ero presidente dell’Anac, e con i pochi soldi che avevamo mettemmo in piedi un controfestival. Trovammo un cinema abbastanza M.M.

miserabile dove ci installammo. Ma le proiezioni si svolgevano di notte all’aperto in Campo Santa Margherita. Erano gratuite, e prima e dopo il film c’erano conferenze stampa, discussioni, piccoli comizi. Ci siamo divertiti. Il Sessantotto vero e proprio si è rivelato una mezza delusione. È servito soltanto a dare la libertà sessuale alle donne: un bel passo, ma si poteva fare molto di più. Io pensavo che fosse l’inizio di un processo di cambiamento, che, una volta liberatesi dall’oppressione familiare, le donne avrebbero dovuto diffondere nel mondo le loro idee. Invece, alle prime elezioni non si è mosso niente. Tutto come prima. Nel ’69 scrivi un soggetto su un giovane operaio che si fa crescere i capelli. Le reazioni suscitate da questa scelta lo porteranno a diventare un malvivente fuggiasco e ad andare incontro alla morte insieme alla sua giovanissima ragazza. Si intitolava Capelli lunghi. S.M.

Cristaldi non lo volle fare per via della parentela con gli industriali Marzotto. I due protagonisti della storia erano giovanissimi. A quei tempi la pessima considerazione sociale per i “capelloni” dilagava sui giornali. Io volevo mostrare l’insensatezza di quei pregiudizi attraverso il paradosso delle conseguenze nefaste a cui può condurre l’anticonformismo innocente dei capelli lunghi. M.M.

Caro Michele può essere considerato un film femminile, che anticipa in chiave conflittuale il cameratismo femminile di Speriamo che sia femmina. Grazie alle donne, la presenza lontana di Michele assume un senso compiuto. S.M.

Le vere protagoniste del film sono le donne, che come al solito si sono trovate mariti o amanti inadeguati. Rispetto a Speriamo che sia femmina emergono dei contrasti insanabili. Dissapori, rivalità e incompatibilità di carattere dividono queste donne alla ricerca di una vita migliore, vale a dire diversa. M.M.

A Lou Castel fai fare l’omosessuale e in più gli metti gli occhiali. È soltanto un dettaglio, ma tu mi insegni la loro importanza: non so se ti sei accorto di mettere gli occhiali soltanto agli intellettuali. S.M.

A dire il vero no, ma forse è così scontato il luogo comune dell’intellettuale con gli occhiali che ci sono cascato senza accorgermene. Comunque fu una lotta convincere Castel a interpretare un omosessuale. Si sentiva mortificato. Ma la lotta più dura fu con Miloš Forman, ai tempi il compagno di Aurore Clément. Mi aveva colpito moltissimo in Cognome e nome: Lacombe Lucien (1974) di Malle, la sua prima e unica interpretazione fino ad allora. Quando la ritrovai negli Stati Uniti mi toccò litigare con Forman per farla tornare a recitare. Era perfetta per il ruolo di Angelica. M.M.

Tolte le allusioni tutte da dimostrare al prete di Carolina, gli altri due omosessuali riconosciuti nel tuo cinema sono Haber in Parenti serpenti, superbo quando elogia le movenze feline di Zenga, il portiere dell’Inter, e il dignitosissimo figlio illegittimo Proietti. S.M.

Il rischio di quando racconti un omosessuale è quello di cadere nella macchietta della checca. Che penso di avere evitato entrambe le volte. Quello di Castel, poi, gioca molto sull’ambiguità, prima di tutto quella del rapporto con Michele, che non è spiegato fino in fondo come nel libro. A complicare le cose, ha una moglie da cui è separato e una figlia. Un personaggio sfaccettato. Quello di Haber risente positivamente del tono farsesco del film. Ed è molto azzeccato. Il personaggio di Proietti spicca per classe in quel guazzabuglio che è Panni sporchi. M.M.

Non so cosa ne avrebbe pensato di tutto ciò il maschilista Vivaldi nel Borghese piccolo piccolo. La cifra stilistica del libro di Cerami viene definita con esattezza da Angelo Guglielmi: «Cieco e muto: un linguaggio che non dice nulla e semplicemente fa. Fa la realtà tragica e senza qualità della nostra vita». Come detto, l’adattamento tuo e di Amidei è fedelissimo al testo. Ci sono due varianti sostanziali: Sordi che porta il figlio dal capufficio, e la presenza della moglie nella baracca al momento della morte dell’assassino del figlio. Ma soprattutto c’è un finale diverso, che contrariamente alla rassegnazione del romanzo adombra una nuova vendetta, questa più gratuita, da parte di un uomo ormai abituato alla violenza. S.M.

Del romanzo, ma sarebbe meglio dire racconto lungo, mi incuriosì subito il titolo. Mi piacquero così tanto il taglio realistico, lo sviluppo secco e preciso della vicenda, i personaggi delineati in pochi tratti, che a me e Amidei parve naturale seguirlo alla lettera. Tanto più che, come ho scoperto in seguito, il libro era la rielaborazione di una sceneggiatura scartata. Cerami era un po’ piccato da questo fallimento e all’inizio traccheggiò un po’ prima di venderci i diritti. Ma il suo talento non era letterario, lui è uno sceneggiatore. Infatti ogni volta che ci rivolgemmo a Cerami per qualche dubbio, aveva sempre la risposta pronta: l’idea del finale è tutta sua. Gran parte del pubblico, quasi tutta la critica e Sordi stesso lessero il film in chiave reazionaria. C’è chi addirittura accostò il personaggio di Sordi a Charles Bronson nel Giustiziere della notte (1974), che si faceva vendetta da solo. Invece si trattava di uno scatto estremo di un vecchio ormai solo, senza un’ideologia di fondo. La sfiducia nella legge è solo uno dei moventi, gli altri sono la solitudine e una sorta di inerzia priva di emozioni. La sua metamorfosi grottesca è come se l’avesse escluso dai rapporti umani. M.M.

Sordi, Crocitti e Monicelli in una pausa di una scena ambientata al ministero in Un borghese piccolo piccolo.

Peccato che non abbiate mantenuto la scena in cui, alla fine della cerimonia di iniziazione, Vivaldi rifiuta con sprezzo la richiesta di mille lire da parte di un massone in difficoltà, che lo addita davanti a tutti per aver fallito la vera prova. Ma poi alla fine anche Vivaldi si unisce agli altri nella cena al ristorante. Sarebbe calzata a pennello per la pusillanimità di Sordi. S.M.

Non ricordo se ci fu una ragione vera e propria. In ogni caso credo che nella prima parte del film emerga con prepotenza l’assoluta mancanza di scrupoli da parte di Sordi, disposto a umiliarsi in tutti i modi pur di aiutare il figlio. E proprio la parte dei ministeri è la più spietata. Le trame, gli odi, le false amicizie portano alla luce una realtà in cui tutti sono mostri. È commedia all’italiana pura. Invece, i critici si sono soffermati di più sulla violenza della seconda parte: una violenza fisica molto diversa dalla violenza psicologica e dalla cattiveria senza un briciolo di compassione umana della prima parte. M.M.

È stato fatto notare giustamente lo stacco tra la prima e la seconda parte, più cruda. Nelle scene di violenza si intensifica la maniacalità del dettaglio, come quello delle matite uscite dalla tasca del cadavere del figlio, con cui avrebbe dovuto sostenere l’esame. Talvolta rasentano un esibizionismo quasi feticista. S.M.

L’aggettivo giusto è agghiacciante. La violenza si consuma nella solitudine di un uomo ormai vecchio o sotto gli occhi di una moglie di cui non è chiaro lo stato mentale: se capisce, quanto capisce. I dettagli, la praticità di questi atti mi hanno aiutato a scongiurare il lato patetico, che costituiva un rischio. Il patetismo di cui è intrisa la fierezza di Sordi nei confronti del figlio finisce con la sua morte. Mostrare la violenza è fin troppo facile. Si basa su una dinamica meccanica. Non avendola mai raccontata, ho cercato di dare alla violenza una crudezza che è atroce ma allo stesso tempo neutra. Lo spettatore non si identifica con Sordi né con la sua vittima. Un risultato difficile da raggiungere considerata la popolarità di Sordi. Credo che abbia giocato un ruolo decisivo questo stile elementare in cui manca del tutto un giudizio morale. M.M.

Il giudizio morale lo espressero con veemenza gli spettatori. Ruggero Guarini sul Messaggero non ebbe mezzi termini: «Questo film dovrebbe S.M.

essere proibito; è un film fascista che incita alla violenza!». È un errore tipico di una critica pregiudiziale quello di associare lo spirito di una storia o addirittura i pensieri di un personaggio all’autore del film. Se così fosse, rappresenteremmo solo personaggi positivi per fare bella figura. L’altro errore sta nel cercare a tutti i costi un “messaggio” nel film, quando invece si tratta di una esposizione di fatti: il racconto di un uomo solo che reagisce a un dolore più grande di lui. M.M.

L’omelia funebre del prete Renato Scarpa è uno dei pezzi più tremendi del tuo cinema: o più agghiaccianti… Senza speranze, tragica. Emette una «sentenza irrevocabile di morte generale». S.M.

Ho quasi litigato con un monsignore, che mi ha telefonato per spiegarmi che una predica di quel tipo, senza uno straccio di pietà, era più calvinista che cattolica. Anche in questo caso mi sono attenuto al testo. L’omelia del prete è declamata con un tono drastico, definitivo, che rifugge dalla tentazione di metterla in commedia e assume una coloritura sinistra. Di presagio, vorrei dire, ma in realtà è finito anche il tempo dei presagi. M.M.

L’altra scena in cui folleggia il tuo spirito mortuario, sempre a un passo dallo humor nero, se non fosse per uno zelo esorcizzante di troppo, è ambientata nel deposito di bare in attesa di una destinazione finale. Accatastate in uno stanzone olezzante, con la folla delirante di parenti… S.M.

… quasi un girone dantesco, sì. È una scena che mi ha soddisfatto per la nuance che sono riuscito a darle. Era già presente nel libro, ma era difficile restituirle una chiave realistica, spingerla a un eccesso che superasse l’impatto drammatico per farla culminare in una prefigurazione apocalittica: molto, molto ridicola. Allora non è più un paradosso quando Sordi dice che era più facile trovargli un posto in ministero che al cimitero. M.M.

Paradosso, hai detto. La discesa nei segreti della massoneria mantiene questa grana paradossale: tra la pomposità del rituale e un potere irradiato in tutti i gangli della società. S.M.

La massoneria è così. Mi sono anche iscritto a una piccola loggia massonica per toccare con mano un mondo che non conoscevo. Ci sono M.M.

andato un paio di volte e poi non mi sono fatto più vedere. È un mondo legato da vincoli profondi, pieno di cerimoniali scenici e allo stesso tempo molto, molto operativo… Quando venne fuori lo scandalo della P2, notai subito che tra gli affiliati non compariva un solo nome di una persona dell’ambiente del cinema. Vuol dire che siamo tutti onesti o che non contiamo proprio un cazzo! Cambiando paese, clima e stravolgendo gli umori catacombali in un’effervescenza quasi parodistica, tre anni più tardi porti sullo schermo Temporale Rosy (1980), dal racconto omonimo di Carlo Brizzolara. Un film insolito, sia nell’argomento trattato, il mondo del catch femminile, sia nell’approccio quasi fumettistico alla storia: un’altra volta al limite del grottesco, se non fosse animato da un’allegria scanzonata presa dal libro. Non so perché, ma sarebbe stato un soggetto ideale per Marco Ferreri. S.M.

Al pubblico il film non è piaciuto. Non l’ha trovato credibile. Forse il difetto principale sta nell’incertezza del tono tra un approccio realista e uno spirito di fondo bizzarro, tendente alla favola. Di certo Ferreri gli avrebbe dato una sferzata molto più grottesca. Io ho insistito sul contrasto tra la mostruosità fisica di questi donnoni giganteschi, con i loro corpaccioni pieni di muscoli, e i loro comportamenti quasi infantili, certamente adolescenziali, nei rapporti amorosi. Litigiose e sprovvedute. Il grosso lo girammo nelle Fiandre. Il clima era squallido, tutt’altro che luminoso. Nei tanti giorni di pioggia i riflessi grigi gli davano un’aria quasi tetra. Il clima che si vede nel film: non so se abbia condizionato l’umore del pubblico. Nei lunghi sopralluoghi che facemmo, dal Belgio risalimmo in Inghilterra, dalle parti di Liverpool. Battendo le zone dove girano queste compagnie di catch femminile. I combattimenti sono spettacoli veri e propri, con tanto di copione. Ne ho visti tanti, per conoscere l’ambiente. Il 70 per cento degli attori li ho presi in questi circhi, un mondo a parte come le compagnie teatrali o di avanspettacolo. M.M.

Dove l’hai pescata Faith Minton, la protagonista? È mostruosa fisicamente, gigantesca, e al contempo dolcissima e ridicola per via dell’accento veneto. S.M.

L’ho trovata a San Diego. Cercavo la protagonista fra le stuntwomen. Era una bella ragazza, alta un metro e ottantaquattro e di una forza belluina: avrà avuto ventisette, ventotto anni. Aveva fatto amicizia con mia moglie. Era molto carina, ma ingenua come il suo personaggio. In Italia era molto corteggiata. Andarono insieme sul lago di Garda. In treno un tale ci provò. E lei lo menò. Con mia moglie allibita, ma mica tanto, perché mia moglie non era una che si allibiva… M.M.

Un aspetto divertente è l’inversione dei ruoli maschio-femmina, un tema che avevi trattato con ottimi risultati in Gente moderna. S.M.

Qui diventa addirittura caricaturale. La Minton sovrasta Depardieu in altezza di una spanna abbondante, è molto più forte di lui e gliele dà di santa ragione. Però è sincera: poco maschile in questo. Lo spirito con cui l’ho vista è affettuoso. Una gigantessa che si comporta da ragazzina. Credo che la scena di sesso renda esplicita la contraddizione del suo carattere e la natura manesca del rapporto con Depardieu. All’inizio si picchiano, e si fanno pure male. A poco a poco i gesti violenti si trasformano in effusioni. E in pochi secondi dalla lotta passano all’amore. È un rapporto sessuale molto intimo. La scena finisce lì. Non sarei riuscito ad andare oltre. Mi faceva tenerezza il contrasto tra i corpi enormi, muscolosi e una gentilezza d’animo incapace di esprimersi. Il suo unico modo di comunicare, come quello delle sue compagne, è fisico. Non a caso, quando per ingelosirla Depardieu si mette con una pedicure piccola piccola, il commento che fa è sulla sua bassezza: «Si è messo con una bassotta che magari in tram neanche paga il biglietto». Questo linguaggio colorito fa parte di un gergo a metà tra il mondo dello spettacolo e quello sportivo: un altro aspetto che è stato poco notato. Il grosso merito è di Brizzolara stesso, che ha scritto un libro pieno di brio. M.M.

Dopo l’esperienza di Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno, giri per la televisione Le due vite di Mattia Pascal, che è passato a Cannes nella versione cinematografica di 118 minuti uscita poi nelle sale. S.M.

Cannes non mi ha mai portato troppo bene. Tolto il premio alla sceneggiatura per Guardie e ladri, sono andato con l’episodio di Boccaccio M.M.

’70 e sai com’è finita, mentre Brancaleone alle Crociate non fu quasi notato.

Un Monicelli meditabondo insieme a Mastroianni in una pausa delle Due vite di Mattia Pascal.

Il problema di fondo del film è che non sopporto Pirandello. Mi hanno sempre infastidito i suoi personaggi antipatici e ambigui. A peggiorare la sorte di un progetto nato male già in partenza, ci sono state ingerenze dei produttori televisivi durante la lavorazione. Per questo rimasi stupito da alcune critiche molto positive a Cannes. Il pubblico però non ci cascò, giustamente. «S’io fossi in voi, signor Pascal, vorrei prima leggermi qualche novella del Boccaccio o del Bandello. Per il tono, per il tono…» suggerisce nel romanzo don Eligio a Mattia prima di raccontare le sue vicende, che nel film ci racconta in flashback Mastroianni con una voce fuori campo un po’ invadente. S.M.

Infatti io avrei voluto raccontare la storia con un’ironia giocosa, che il paradosso volge in grottesco. Con gli sceneggiatori fallimmo proprio nella scelta del tono, troppo lieve per cogliere il nocciolo esistenziale del cambio M.M.

di identità del protagonista. Il racconto di Mastroianni diventa più insistito nella seconda parte, molto più veloce della prima, sulla quale mi sono dilungato di più e con maggiore attenzione rispetto al romanzo, per motivare la scelta di Mattia di mollare tutto. L’indolenza naturale di Mastroianni fatica a differenziare Mattia Pascal da Adriano Meis, la sua ambiguità è risolta in una serie di conquiste amorose simili a banali tradimenti. Siamo lontani dalle parole di Pirandello: «L’ombra di un morto: ecco la mia vita…». S.M.

Il Mattia Pascal ideale sarebbe stato Totò. È la sceneggiatura che limita a pochi tratti le differenze tra le due identità. Ho cercato di soffermarmi sul problema di riacquistare un’identità anagrafica, complicato ulteriormente dall’attualizzazione della vicenda rispetto al primo Novecento in cui è ambientato il romanzo. Ma mi rifiutai di fare il film in costume. Avrebbe richiesto uno sforzo immane, e non sarebbe valsa la pena di ricostruire la Belle Époque al cinema: un’epoca ridondante, piena di paccottiglia, con un’aura artificiosa. Purtroppo l’idea di ambientare la storia ai giorni nostri si è rivelata del tutto sbagliata. M.M.

Però accanto a Mastroianni c’era una magnifica batteria di caratteristi. Da un concitatissimo Haber-Pomino con la sua eterna aria da prete bocciato, a uno spietato Garay-Malagna, dall’immancabile Blier-Paleari allo sfruttatore Bucci-Terenzio, fino a una Morante-Adriana: bella, bellissima… S.M.

M.M.

Sì, bella. E brava. Ma un po’ rompicoglioni, anche.

Con la Morante hai lavorato a teatro nelle Relazioni pericolose di Christopher Hampton, tratto dal romanzo di Choderlos de Laclos, messo in scena nel ’94 alla Versiliana. Lei faceva madame de Tourvel, Dominique Sanda la marchesa de Merteuil e Yvonne Sciò Cécile de Volanges, con Geppy Gleijeses nei panni di Valmont. S.M.

Quel matto del capocomico, Geppy Gleijeses, mi disse di avere un’idea meravigliosa… è che lui valeva molto poco. Le mie rare esperienze teatrali sono state tutte disastrose. Non amo l’ambiente claustrofobico del teatro, molto meno collaborativo di quello del cinema. Le relazioni M.M.

pericolose nacque sotto il segno sbagliato. La Sanda è una bella donna, ma parlava malissimo l’italiano, come tutti i francesi: un fatto che mi fu tenuto nascosto fino a quando uscimmo a cena insieme. Lei mi promise che l’avrebbe imparato in fretta. Cosa che ovviamente non avvenne. In più lei era un’attrice di cinema, poco adatta al palcoscenico, che richiede un’esperienza. La Morante era l’unica brava, gli altri attori erano tutti sbagliati. Tu hai scritto anche un testo teatrale verso la fine degli anni cinquanta, che è stato messo in scena da Franco Castellani: La piccola stazione di campagna (1956). «Ti stai allontanando dalla vita come ci si allontana in treno da una piccola stazione di vacanza» spiega Kronos al protagonista Mario morto da pochi istanti. S.M.

Castellani rinvenne il mio testo all’Istituto del dramma italiano a cui l’avevo spedito e volle farlo a tutti i costi. Quando mi chiese di rappresentarlo, io quasi l’avevo dimenticato. L’unico aspetto divertente della faccenda è la sfortuna che accompagnò la messa in scena. La protagonista si ruppe la gamba pochi giorni prima di andare in scena e recitò con il gesso. Il teatro stava sotto un tendone riscaldato da caloriferi e a metà spettacolo venne giù. La serata però fu piacevole. La platea era piena di miei amici, tutta gente di cinema che lusingò molto il povero Castellani. L’ispirazione della storia fu fortemente condizionata dalla voce «Destino» del Dizionario filosofico di Voltaire. Con un piede nella commedia e uno nel dramma, era una meditazione sul senso del tempo, che Kronos affida nelle mani di un giovane curioso, regalandogli un rocchetto che può svolgere a suo piacimento. Per la mania di conoscere il futuro brucia quarantun anni in poco meno di tre ore. Le mie esperienze teatrali sono una collezione di insuccessi. Rosa (1981), una commedia in due atti di Andrew Davis con la Gravina e Castel, fu un disastro senza precedenti nella storia del teatro. Fu rappresentata due o tre sere all’Eliseo prima di essere smontata a furor di popolo. Arsenico e vecchi merletti (1992), la commedia di Joseph Kesserling da cui Capra aveva tratto il film, fu la prima esperienza con Gleijeses, quindi… E poi ho diretto una stupidaggine di Woody Allen: Non bevete l’acqua. Una bomba in M.M.

ambasciata (1997), con Debora Caprioglio, Isa Barzizza, Arnoldo Foà e Carlo Croccolo. Più fortunate sono state le regie di opere, anche perché lì il vero regista è il direttore d’orchestra e io mi sono limitato a lavorare con lo scenografo e a organizzare gli spostamenti, un’impresa non facile visto che i cantanti non sono quasi mai presenti tutti insieme alle prove. Quelli del coro non vogliono essere confusi con le comparse e si risentono appena gli fai fare qualcosa che esuli dal canto. Nel 1983, al Maggio musicale fiorentino, ho messo in scena Gianni Schicchi di Puccini su libretto del famoso Giovacchino Forzano. Nel 1990 La cavalleria rusticana di Mascagni. Nel 1996 la Bohème di Puccini. Nel 1997 Il castello del principe Barbablù di Bartók, con il libretto tratto da un dramma di Maeterlinck a cui, per quanto possibile, ho cercato di imprimere un tocco più leggiadro. Avrei dovuto fare le Nozze di Figaro per il Regio di Torino nel 2004. Ho svolto un lungo lavoro preparatorio insieme allo scenografo Carlo Diappi, ma nel corso dei mesi, ascoltando e riascoltando l’opera di Mozart, non riuscivo a fugare un’incertezza di fondo che alla fine si è dimostrata una vera e propria mancanza di sintonia. Allora ho preferito rinunciare piuttosto che dedicarmi a un lavoro che non sentivo. Oltre a La suora giovane, ci sono altri libri che avresti voluto rileggere sullo schermo? S.M.

Non tantissimi, visto che fin quando è stato possibile ho preferito i soggetti originali. Un libro sul quale avevo cominciato a lavorare con Zapponi è Gli spiriti del castello di Patti. Una storia di spiritismo insolita per me. Ma le scenografie con la rappresentazione dell’aldilà e gli effetti speciali resero il progetto troppo costoso e De Laurentiis preferì mollarlo. M.M.

Tuo fratello Furio ha pubblicato nel 1960 un bellissimo romanzo di formazione, Il gesuita perfetto, riapparso qualche anno fa con il titolo Lacrime impure, a cui seguì l’anno dopo I giardini segreti, anch’esso ristampato con un altro titolo, L’amore guasta il mondo. S.M.

Il primo libro, legato alla sua esperienza personale, era davvero notevole. Non ho mai pensato di adattarlo per lo schermo, ma aveva indubbie qualità letterarie. Poi, dopo il secondo romanzo, non ha più scritto M.M.

niente e si è messo a insegnare francese. Non chiedermi la ragione, però. Noi fratelli siamo usciti di casa prestissimo e ognuno ha fatto la propria vita. Ci siamo frequentati molto sporadicamente, con un rispetto di fondo ma quasi senza conoscerci. Una volta a teatro, dopo la prima di un mio spettacolo si presentò in camerino un uomo che mi abbracciò con grande affetto. Mi chiamava Mario e sembrava contento di vedermi. Stravolto, gli chiesi chi era. Lui un po’ stupito, ma in fondo neanche tanto, mi disse: «Ma come? Sono Furio, tuo fratello». Prima di liquidare Le due vite di Mattia Pascal, sono curioso di capire come mai hai bruciato la grande occasione di Mattia che assiste al proprio funerale – una scena peraltro inventata di sana pianta, perché nel romanzo il protagonista apprende la notizia dal giornale – con una sequenza di cui si ricorda soltanto il rumore del vento. S.M.

Quando non entro in sintonia con una storia e tanto meno con un personaggio ho la tendenza inconscia a tirare un po’ via. È una considerazione a posteriori, perché nel lavoro di preparazione fui come al solito puntiglioso nella ricerca delle fonti e, in questo caso specifico, dei precedenti. Al cinema esistevano due adattamenti molto interessanti. Purtroppo non sono riuscito a rintracciare una copia del film di L’Herbier del 1924 con il grande attore del muto Ivan Mosjoukine, di cui però ho trovato alcune fotografie. Mentre ho rivisto più volte il film di Chenal del 1937, anche in una versione italiana diretta da D’Errico. Una rilettura di Pirandello quasi spettrale. In italiano, esiste uno sceneggiato televisivo degli anni sessanta e una riduzione teatrale di Kezich, messa in scena a distanza di una decina d’anni da Squarzina e Scaparro. M.M.

Un autore che hai inseguito per almeno sei anni è Giuseppe Berto. Il gatto della nonna è uno dei titoli presi in considerazione per sventare in tutti i modi Il male oscuro, di cui lo stesso Berto aveva scritto una sceneggiatura, a riprova della fiducia nella sua “traducibilità” sullo schermo da parte dell’autore stesso. S.M.

Peccato che non abbia avuto successo. Senz’altro il titolo non è stato d’aiuto. La gente si è spaventata, collegandolo istintivamente al cancro. Era M.M.

un’idea che avevo cullato per anni, ritardata ulteriormente da un mio grave incidente stradale. Così, quando girammo, Emmanuelle Seigner era meno ragazzina, e questo la rese meno credibile, soprattutto nella prima parte del film. Il male oscuro riguarda la nevrosi che attanaglia Giannini, a suo agio nella parte di quest’uomo egoista e infantile, che ha bisogno delle donne solo per essere curato, sebbene non sia del tutto chiaro fino a che punto voglia guarire. In quegli anni bastava niente per rivolgersi allo psicanalista. Anche per questa ragione pensavo che fosse un tema in grado di attirare il pubblico. Caprioli e io ci rifacemmo a uno psicanalista molto noto a Roma, il cui studio era frequentato da gente di spettacolo. Molti anni prima Salerno aveva fatto la sua prima particina comica con me in Casanova ’70, una macchietta divertente in cui lui stesso aveva piccole manie. È la prima e unica volta che il protagonista è un intellettuale, scrittore con il blocco della pagina bianca e sceneggiatore frustrato. S.M.

Prima o poi mi doveva capitare. L’unico paragone possibile è con il Sinigaglia dei Compagni. Ma qui la connotazione è molto precisa. I riferimenti espliciti a Moravia, per cui monta di invidia, lo rendono a tutti gli effetti un personaggio perfettamente plausibile nella società letteraria romana. M.M.

Non era facile tradurre in ritmo la scansione ossessiva della pagina di Berto: un affanno di parole senza segni di interpunzione. La Cecchi D’Amico e Guerra – la stessa coppia di Caro Michele – trovano un passo narrativo incalzante, tratteggiano gli episodi in pochi tocchi, e il tema musicale di Piovani, soprattutto nei momenti delle crisi di Giannini, diventa un contrappunto ironico, pronto a smentire la foga delle sue convulsioni. S.M.

La vicenda del film si snoda lungo circa quindici anni, che procedono a scossoni non traumatici: semplicemente seguono l’evoluzione della crisi di Giannini. Anche in questo caso, ho preferito tirarmi fuori dalla fase della sceneggiatura, che comunque ho seguito perché conoscevo bene il libro. Ma a differenza di Caro Michele ho trovato il tono giusto insistendo sull’aspetto grottesco della malattia, in cui è presente sempre una “partecipazione” del malato: soprattutto in questo caso l’elemento teatralizzante andava seguito M.M.

fino in fondo. Il primo attacco è un fuoco di fiamme di Giannini. La musica di Piovani è magistrale nell’assecondare la sproporzione tra la realtà e il suo invasamento grottesco. Pochi secondi, le mani che frugano in un cassetto, e uno sguardo di straforo: la Seigner capisce tutto scoprendo le foto del padre morto di Giannini composto nella bara, e smette di chiedere. S.M.

È una storia impressionante. L’ho concentrata in quei pochi attimi per gettare una luce improvvisa che potrebbe spiegare tutto. Lo stesso psicanalista gli spiega che il protagonista del suo incubo ricorrente non è Moravia, bensì il padre. Soffermarsi oltre sull’argomento, cercando un avallo “psicanalitico”, è un modo di raccontare le persone che non mi appartiene. Mi sono sempre fidato di più dei fatti. Forse la solitudine è l’unica via d’uscita dalla sua nevrosi. Il finale del film è molto suggestivo. Una visione onirica di felicità che scolora sul tramonto davanti allo stretto di Messina. Una scena che ci è costata ore e ore di attesa per beccare la luce giusta. M.M.

Una goccia nell’oceano divino è il racconto di Pontiggia da cui hai scritto insieme a Benvenuti, De Bernardi e la Cecchi D’Amico la sceneggiatura di Facciamo paradiso: un bel titolo, un bel modo di dire facciamo l’amore. S.M.

Era bello anche il racconto. Stringato come un soggetto cinematografico, corredato di piccole notazioni ironiche che aprivano scenari su cui lavorare. Il materiale era poco e al contempo troppo. Se da un lato eliminammo dei personaggi come Jolanda, la sorella della protagonista Claudia Bertelli e la sua secondogenita Luciana, dall’altro inserimmo nella storia il personaggio di Calabrone, un amico spasimante che a partire dall’università l’accompagna nelle tappe decisive della sua vita. Rispetto a Pontiggia, di cui avevo apprezzato il romanzo precedente, La grande sera, abbiamo calato la protagonista nei momenti caldi della storia italiana, cercando di ricreare una sorta di biografia del nostro paese. M.M.

Si avverte una forzatura nel proiettare Claudia dentro gli snodi decisivi della storia d’Italia. Soprattutto la parte della contestazione studentesca alla S.M.

Statale, girata in gran parte all’Università di Pavia. È una parte molto approssimativa, giocata sui luoghi comuni dell’epoca. Ma fino a un certo punto abbiamo dato un quadro d’insieme abbastanza attendibile. L’errore di fondo del film, di cui ha fatto le spese la stessa Buy, è costituito dalla scelta di raccontare un arco di vita troppo lungo – dal 1949 a un immaginario 2011 – che non poteva coprire un’attrice o un attore soltanto. Il futuro inventato non ha proprio senso, con la figlia della Buy che sposa un nipote di Bossi… M.M.

Il rapporto dei genitori con la figlia rispecchia le contraddizioni preferibilmente taciute del perbenismo borghese, progressista a parole ma scandalizzato davanti alle trasgressioni. S.M.

Pur negandolo, Noiret e Aurore Clément raggiungono il punto estremo del razzismo quando decidono di dire agli amici che il nipote nero è stato adottato. A differenza della moglie, Noiret – che sul set raccontava di avere avuto problemi analoghi con la figlia – riserva degli sprazzi di progressismo, e negli anni mantiene un rapporto di confidenza con la Buy. M.M.

A proposito di visione del mondo, mi viene in mente una frase che mi ero segnato la prima volta che ho letto Caro Michele, la chiusura ideale di questo capitolo: «È uno dei rari piaceri che ci offre la vita, confrontare le descrizioni degli altri con le nostre fantasie e poi con la realtà». S.M.

La commedia umana

Aldo Cazzullo ti ha fatto una bella intervista sul Corriere, da cui risulta che in tutta la tua carriera hai girato solo un film sulla famiglia. Ormai ho imparato a non prendere alla lettera tutte le tue dichiarazioni… Nel corso degli anni la famiglia è diventata per te un luogo privilegiato dove mettere in scena le piccolezze umane. A partire da Toh, è morta la nonna!, dai inizio a un’opera di dissacrazione di quell’istituzione familiare che nel tuo cinema annoverava un passato piccolo-borghese, se non proletario: le famiglie bonaccione di Totò, i battibecchi generazionali di Padri e figli, il classismo all’acqua di rose di Donatella. Con la sola eccezione degli impietosi ritratti coniugali delle Infedeli. S.M.

Non l’ho neanche letta, l’intervista. Mi hanno detto che ho esagerato, ma me lo dicono sempre. Chissà cosa diranno di questo libro… Il mio interesse per la famiglia è cresciuto col tempo, diciamo verso la fine degli anni sessanta, e si è consolidato di pari passo con il mutare delle abitudini degli italiani: non soltanto con l’avvento del divorzio e le sue conseguenze, ma con l’evoluzione della morale sessuale, l’emancipazione femminile, la contestazione giovanile, l’aumento del benessere. La famiglia che ho preso di mira è un coacervo di incomprensioni, ripicche e odi. È segnata dall’impossibilità di sopravvivere in pace. Non è mai un rifugio: figuriamoci una fonte di affetti. La famiglia di Totò rientra in un’altra epoca. Si rifà a un umorismo più lieve. Dalle commedie alle barzellette si è sempre scherzato sui rapporti tra marito e moglie, tra padre geloso e figlia ribelle, per non dire dell’invadenza della suocera: tutti luoghi comuni che facevano da cornice alla storia principale. Le famiglie di Totò e Fabrizi in Guardie e ladri rispondono proprio alla concezione della struttura fintamente patriarcale, dove in realtà a contare nelle decisioni importanti sono le mogli. La M.M.

comicità di Totò gioca sempre sulla sproporzione tra l’autorevolezza della figura paterna e il ruolo che lui ricopre effettivamente in famiglia. Ma tutto sommato si tratta ancora di famiglie unite. Con Le infedeli lo sguardo si allarga sulla menzogna che domina le relazioni coniugali. Un marito assolda un detective per scoprire se la moglie ha un amante e quasi si indigna quando scopre che non ce l’ha ancora: è quasi un affronto. Rispetto ai film precedenti, racconto le scappatelle di coppie appartenenti a un ceto alto-borghese: più ricche e quindi più libere. Il tono è solo inizialmente leggero, man mano che le coppie si incrociano e gli intrecci si moltiplicano, verrà fuori la natura bacata di quei rapporti e a farne le spese sarà un’innocente domestica. Il classismo produce scompensi notevoli. Nelle Infedeli la cameriera Ferrero, accusata ingiustamente di furto, si toglierà la vita. In Donatella, invece, la differenza di classe è solo un contesto ostile in cui però alla fine trionfa la soluzione fiabesca. Sempre in termini ameni, le differenze sociali si rivelano un punto discriminante in tutte le commedie: ogni contrasto, se ben dosato, sviluppa potenzialità comiche. Le differenze sociali danno vita a una serie di comportamenti spropositati da parte dell’“inferiore”, che prima o poi verranno smascherati. Pensa alla preparazione accuratissima del pranzo per Sua Eccellenza Langherozzi Schianchi in Totò e i re di Roma, in cui la famiglia di Totò fallisce miseramente lo scopo per cui era stata organizzata. Le infedeli costituisce uno spartiacque nella tua carriera. È il primo film che giri da solo, anche se per ragioni contrattuali compare ancora il nome di Steno, così come il tuo compare in Totò e le donne, di cui sei solo cosceneggiatore. Prendi per una volta le distanze dal genere comico, misurandoti con una commedia di costume che degenera in melodramma. Metti in scena una borghesia romana ridente e felicemente immorale, almeno nelle apparenze, lontana dai tuoi sottoproletari e piccolo borghesi. S.M.

Le infedeli segna una cesura netta con la comicità della prima parte della mia carriera. Mi capitò tra le mani un trattamento di Perilli, allievo di Camerini e sceneggiatore di Matarazzo, ispirato a un fatto di cronaca. Insieme a lui e a Brusati scrivemmo questa sorta di commedia borghese, che ebbe un discreto successo. Uscì dopo Cronaca di un amore (1950) di M.M.

Antonioni, a cui è stato spesso accostato per affinità di temi ma che non avevo visto, e in contemporanea con Febbre di vivere (1953) di Gora: furono i primi film a mettere in scena la borghesia italiana. L’impostazione della storia potrebbe sembrare una commedia, con il vecchio investigatore privato che mangia un piatto di spaghetti nell’agenzia Lince e si ricompone in fretta e furia per l’arrivo inaspettato di un cliente. Lo è nella rappresentazione della fatuità dei passatempi della ricca borghesia – le feste, i ricevimenti, la caccia al tesoro, il circolo di tennis. In realtà nasconde potenzialità drammatiche che esploderanno con una morte accidentale, un suicidio e un omicidio. Il tono non è mai ironico; lo è piuttosto il mio sguardo disincantato su un mondo in cui, al contrario, si prendono molto sul serio. Con tutte queste morti, gli accenti si fanno melodrammatici, ma l’eccesso è in un certo modo raffrenato da Osvaldo che mina le ipocrisie di quel mondo con un cinismo distruttivo, perché consapevole e senza nulla da perdere. Anche se grazie all’omertà e al perbenismo sembra farla franca. È una trovata paradossale quanto incisiva che lo “sguardo disincantato” passi attraverso il moralismo vendicativo di Osvaldo. S.M.

«Ho cominciato con l’essere sconfitto in guerra. E sai com’è, di sconfitta in sconfitta uno ci fa l’abitudine. Ma per te è diverso. Le donne fanno presto a mettersi dalla parte del vincitore: lo sposano.» Nel dialogo con la ex fiamma May Britt emergono tutti i suoi livori, che dal suo punto di vista giustificano una condotta spregevole, di approfittatore e ricattatore. Ma il moralismo è di facciata, la sua è piuttosto un’amoralità ben conscia della caducità di tutto: «Divertiamoci finché dura!». M.M.

Il classismo nei confronti della servitù tocca punte di tremendo disprezzo, spingendosi fino all’umiliazione. S.M.

Non soltanto nei confronti della povera Ferrero, ma anche nell’umiliazione che Irene Papas infligge al suo autista-amante, facendogli sfilare di fronte a Osvaldo uno stivale per la caccia al tesoro. L’omertà si manifesta nell’indignazione della padrona di casa per l’accusa di furto all’amica Lollobrigida: «Come si può sospettare di una signora?». M.M.

Le donne del film sono moderne, con i capelli corti, la sigaretta in bocca, pettegole e spudorate. S.M.

La disinvoltura con cui potevano permettersi un amante senza compromettersi la reputazione era un privilegio delle classi agiate. Il ritratto che ne emerge non è così negativo, se raffrontato agli uomini che hanno sposato, magari per convenienza. Charles Fawcett, il marito di May Britt, è un inglese che detesta il sentimentalismo degli italiani, interessato soltanto a mettere in mostra la moglie. Carlo Romano, il marito di Irene Papas, fa di tutto per incastrarla e chiedere il divorzio solo per sposare l’amante Marina Vlady con madre al seguito. Il marito della Lollobrigida è una persona incolore. In definitiva queste donne non sono tanto brave a trovarsi marito. M.M.

Nell’ambiente dei ricchi si parla molto di soldi. Di chi li ha, di chi non li ha ma vive come se li avesse, di chi si indebita e di chi ricatta o ruba. S.M.

I soldi, più delle passioni, muovono i fili della vicenda. L’unica che a un certo punto passa dalla parte delle passioni è May Britt, prima per Osvaldo, poi per rendere giustizia alla povera cameriera suicidatasi a causa di accuse infondate. Ma nessuno sarà disposto a seguirla sulla strada della verità, le convenienze avranno la meglio. E a lei non resterà altro che l’atto estremo: l’assassinio. Ricordo che fu un problema girare quella scena per il ribrezzo fisico di May Britt per le pistole. Non voleva impugnarla, si mise a piangere come una disperata. M.M.

Toh, è morta la nonna!, un film che odi tanto, è il primo di una serie di affreschi familiari che riprenderai in tutt’altre atmosfere con Caro Michele, sette anni e sette film dopo. La vicenda ruota intorno alla famiglia Ghia, proprietaria dell’azienda omonima di disinfestanti. Lo slogan del loro marchio è garanzia di affidabilità: «Se non basta una bombola, ci vuole una bomba». S.M.

Il vantaggio dei film brutti è che non li vede nessuno. Io me n’ero accorto mentre lo giravamo. Una volta si presentò sul set il coproduttore tedesco. Lo avvertii senza mezzi termini: «Guardi, sarà un disastro». Non mi conosceva, pensava che scherzassi. Era un film sbagliato fin dall’inizio. La famiglia al centro della storia è ciò che di peggio si possa concepire. Un M.M.

gruppo di persone avide e prive di scrupoli tenute insieme dall’interesse: l’obiettivo di tutti è sopraffare gli altri per ottenere il potere. Anche il giovane ribelle che fa tanto il compagno alla fine ricade in questa sorte familiare, prendendo le redini dell’azienda dopo una sequela spaventosa di cadaveri. Tutto il clima del film risente dello spirito sessantottesco, cercando di cavalcare l’attualità. Il risultato è davvero penoso. E invece questa attenzione spasmodica al proprio tempo – i vestiti, i gerghi, i luoghi comuni – regala al film uno spirito profeticamente datato: alla lunga il suo limite costituisce la sua forza, l’ovvietà diventa originalità. Quello che al momento dell’uscita risultava già superato, con gli occhi di oggi ci appare come un mercatino di modernariato dove lo sguardo d’insieme si rivela più lungimirante del previsto: tanto per dirne una, la pubblicità dei pesticidi del prologo è una satira delle pubblicità odierne. Se ci pensi, il segreto del successo di Pulp Fiction si basa esattamente sullo stesso principio, solo che l’operazione di Tarantino è consapevole, mentre qui tutto – a partire dal décor di Tommasi – è immerso in una dimensione teatrale e teatralizzante, con un kitsch neoespressionista da fare invidia al primo Almodóvar. S.M.

Non so quanto il film oggi rievochi il tempo in cui è stato girato. Non l’ho più visto né ho intenzione di rivederlo. Rispetto all’approccio di Tarantino, il mio tendeva più alla pochade, intinta di uno humor nero incapace di mordere, che nemmeno il grottesco riusciva a risollevare. Era esageratamente forzato. Tommasi era bravo, ma completamente pazzo. Veniva dal teatro, era la sua prima esperienza al cinema. Avevamo trovato questa villa ideale per l’eccentricità della storia. Era appartenuta a un noto personaggio milanese di una famiglia di commercianti che poi è scappato in Libano. Tommasi impazzì di gioia lì dentro. Ricordo che fece riempire la casa di poltrone di Le Corbusier e vestì le donne con grandi piume di struzzo… uno fuori di testa. Anch’io provai a adeguarmi alla bizzarria dell’ambiente in cui si lavorava. In realtà era difficile dare sostanza a battute che richiedevano una recitazione impostata, sempre caricata e volutamente artefatta, come quella della Cortese, che a volte cercava proprio le pose plastiche. Non mi trovai M.M.

con quasi nessuno degli attori. Ho cercato di sopperire all’inconsistenza della trama con l’accelerazione del ritmo e l’esasperazione grottesca delle situazioni. Ma non basta andare sopra le righe per trovare i tempi della farsa, come per esempio è accaduto con Parenti serpenti, dove mi muovevo in un contesto reale, riconoscibile. Infatti la vena grottesca è spinta molto più del solito. Sembra che a un certo punto ti manchi il terreno sotto i piedi. S.M.

L’avrei dovuto capire subito dal soggetto della Montagnana che era una storia improponibile. Mi trovai bene a lavorare con lei e gli altri sceneggiatori, Malerba e Strucchi. Purtroppo la storia del film ci sfuggì di mano. Il pretesto giallesco si sfalda man mano che si succedono le morti e a un certo punto diventa impossibile dare una spiegazione ai fatti. Così il grottesco diventa più che altro nonsense. In fondo, era una vacanza dai miei soliti collaboratori e dai miei temi abituali, una sortita dalla commedia all’italiana. Malerba viveva a Roma in una bellissima casa con una terrazza stupenda. Aveva con la moglie un rapporto molto intenso che non sono mai riuscito a capire. La loro era una vita rigorosamente disciplinata, quasi monacale. Si svegliavano la mattina prestissimo. E in qualunque stagione, anche d’inverno, col buio, con la pioggia: cadesse il mondo, alle sei e mezzo uscivano di casa e facevano una passeggiata di un paio d’ore. Poi tornavano a casa e si mettevano a lavorare. E io volevo sapere cosa facesse in giro con la moglie. Mah, diceva che parlavano di un sacco di cose… parlavano. Un rapporto, il loro, che mi è tuttora oscuro. M.M.

Una funzione chiave del film spetta alla televisione, all’origine delle prime due morti. A un certo punto qualcuno suggerisce che è più sicuro andare al cinema, almeno lì non c’è da maneggiare la corrente. S.M.

A quei tempi la televisione stava prendendo il largo, ma il cinema era ancora in grado di tenerle testa. Diversamente da quanto sarebbe accaduto in seguito, quando il televisore diventa il centro vitale della casa. Durante le vacanze di Natale di Parenti serpenti è sempre accesa. Un sottofondo costante che scandisce i tempi della giornata. Decide anche i momenti di silenzio. Certe volte sembra che nessuno badi alla sua presenza. Invece M.M.

lavora a fondo e i suoi effetti saranno drammatici: una notizia del telegiornale suggerirà ai parenti esasperati il modo migliore per disfarsi dei vecchi. Io parlo della Nonna e tu svicoli in Parenti serpenti… C’è un elemento comune nei due film, da cui emerge chiaramente una verità senza scampo: nelle due famiglie nessuno è innocente. S.M.

In Toh, è morta la nonna! tutti i componenti della famiglia si rivelano diversi da come si presentano, agiscono in funzione di un secondo fine. La cugina apparentemente innocente spinge il cugino all’incesto per ricattarlo con garbo e sposare il fidanzato che l’ha messa incinta. In Parenti serpenti la connivenza è tra gli adulti, la voce narrante del ragazzino è ingenua ma vendicativa: qualità comuni a molte verità. M.M.

Sono quasi tutti colpevoli i figli che coprono per oltre trent’anni l’adulterio del padre alla madre, salvo scoprire al funerale di lui che lei aveva sempre saputo. Tacendo. Sto parlando della famiglia Massacesi di Viaggio con Anita. Uno dei film più “monicelliani” che tu abbia girato. Ci sei tutto tu, e anche una parte di te più segreta. Alla concitazione nevrotica, al limite del grottesco, di Giannini alterni momenti di sospensione, silenzi, sbalzi d’umore: la vita, la commedia umana che ci passa davanti nel tuo cinema. S.M.

La maggior parte dei critici sostiene che io non sia in grado di usare i mezzi toni. Invece, soprattutto negli ultimi anni, credo di aver trovato un registro meno netto. In realtà tutto il mio cinema è caratterizzato dagli sbalzi di tono. A partire dai Soliti ignoti, ho sempre spezzato il tono di fondo – di solito divertente – inserendo controcanti drammatici. La gente se ne è accorta solo con Speriamo che sia femmina. Ma è da sempre un mio modo di raccontare, tutt’altro che coerente, perché anche nei film più “seri” inserisco comunque un elemento farsesco. Il tuo parere su Viaggio con Anita un po’ mi stupisce. Sono d’accordo con te solo per la parte che chiamo familiare. È spietata come piace a me. Gira tutto giusto. La zona della Toscana tra Rosignano e Castiglioncello con le spiagge bianche di Solvay, i componenti della famiglia, Montagnani splendido nella parte di uno dei fratelli “sacrificati” dalla madre per far M.M.

studiare il più intelligente, Giannini. L’unica pecca è la presenza di Goldie Hawn. La storia del film risale al 1956, quando Fellini e Pinelli scrissero un soggetto pensando alla Loren e a Mastroianni, anche se prima consultarono Gregory Peck. Si svolgeva sulla costa adriatica. Al posto di Castiglioncello, la famiglia del protagonista viveva a Fano. Non so poi come andarono le cose e per quale ragione Fellini non lo girò. La storia comunque era un po’ diversa. Il protagonista andava dal padre moribondo portandosi dietro una prostituta. Lei era ignara di tutto, e quando se ne accorgeva si indignava a tal punto che finiva per dargli lezioni di moralità! Una vicenda tipicamente italiana. Dimmi tu cosa c’entrava Goldie Hawn? Era un’americana di passaggio che si accodava a Giannini senza un motivo preciso e poi si incaponiva a seguirlo con ancora meno motivi.

Monicelli dirige Hawn e Giannini sulle spiagge bianche di Rosignano Solvay in Viaggo con Anita.

«Sei venuto da Roma a vedere tuo padre morente e ti sei portato dietro una puttana»: lo accusa la sorella di Giannini. Non lo dice a Guido, ma a Giuseppe nel Male oscuro, dove riprendi lo stesso tema… S.M.

È verissimo, sono tante le analogie tra i due film, entrambe le storie sono innescate dall’annuncio dell’imminente morte del padre. In Anita, M.M.

purtroppo, venne imposto uno sceneggiatore americano, Paul Zimmermann, che contribuì a peggiorare le cose. Aveva da ridire su tutto. Ogni volta che noi suggerivamo qualcosa, per lui si trattava sempre di situazioni inconcepibili. Troncava ogni discussione così: «No, questo in America non è possibile». Ma noi in Italia ce ne freghiamo di quello che piace agli americani! Invece trovo riuscito il confronto tra due solitudini così diverse. L’incomprensione tra Giannini e la Hawn, bravissima, è la chiave della storia. Questa ostinazione di Giannini a mentire fino all’ultimo sulle vere ragioni del viaggio. La molla in un albergo, sparisce tutto il giorno e rimanda il momento in cui dirle che il padre è morto. Se lei non lo scoprisse da un necrologio sul muro… Guido Massacesi è un personaggio complesso: sordido, nevrotico, egoista. A un certo punto sbotta: «I fatti sono liberi e indipendenti. E me ne frego di tutto e di tutti». S.M.

Credo che il personaggio di Giannini sia piuttosto riuscito. Ha un cinismo senza limiti, un egoismo assoluto che lo porta a mentire senza ritegno, in fondo per debolezza. Però il rapporto con la ragazza avrebbe avuto ben altra forza se lei fosse stata una mignotta. Il legame che si instaura tra lui e la Hawn risulta sempre immotivato. M.M.

Per rinforzare il paragone, trovo che Guido Massacesi di Anita possa essere il Giuseppe Marchi del Male oscuro dieci anni prima, anche per il rapporto irrisolto con il padre. S.M.

Ti ripeto, il protagonista ideale del film era Mastroianni. Soprattutto per via di quell’indolenza anche morale con cui si sapeva destreggiare in situazioni sconvenienti che a lui non sembravano tali. Con Giannini c’è stata una spinta verso la nevrosi, che accomuna indubbiamente i due personaggi. Alla fine entrambi risultano scostanti, sgradevolissimi. Il rapporto irrisolto con il padre è un nodo che nessuno dei due vuole affrontare fino in fondo, destinato a fomentare le rispettive ossessioni. Gran parte della loro aggressività, dell’incapacità di avere relazioni stabili o normali viene da lì. M.M.

La tristezza del suo personaggio comincia subito. Quando lo sorprendi al lavoro che fa di tutto per ritardare il ritorno a casa. Alla fine è costretto a uscire. A casa si svolge una cena con la moglie, che è Claudine Auger, e il figlio, di una pesantezza e di una solitudine che fanno paura. S.M.

Bella la Auger, e anche la ragazza che fa l’amante di Giannini! La famiglia è già allo sfascio. Sono tutti e due incattiviti, marito e moglie. Non hanno più niente da dirsi. Stanno accanto grazie all’incomprensione che li tiene uniti nell’acredine. M.M.

Mio dio, che sfacelo… La tristezza diventa squallore nella serata passata insieme da Goldie Hawn e Laura Betti – be’, la Betti è di una bravura incredibile – che poi finiscono a vedere un film porno e al ritorno a casa la ragazza sta quasi per convincere la vecchia telefonista dell’albergo a seguirla in America. S.M.

Laura Betti era una donna insopportabile: molto brava però. È una scena davvero squallida che coglie lo schifo di invecchiare male in provincia di una donna brutta, grassa e sola. L’intesa che si stabilisce tra le due ha la complicità casuale ma fin troppo veritiera che si crea quando si sa di non rivedersi più nella vita. M.M.

Come negli incontri in treno. Tu che giri sempre scene d’amore tra il comico e il paradosso, qui hai fatto una scena d’amore vera: breve, d’accordo. Anche un po’ romantica, sull’isola del Giglio in inverno… S.M.

In origine doveva essere una scena di sesso. Fu il risultato di una battaglia con Goldie Hawn. Al tempo era una star della televisione, voleva mantenere una sua immagine di pudicizia e quindi stava attentissima che non si vedesse nulla del suo corpo. Era ossessionata dall’incubo che gli italiani spogliano le donne appena si girano dall’altra parte. Un incubo per me! M.M.

Ma tu lo hai rivisto, di recente? Se lo vedessi adesso lo rivaluteresti, perché ci sei tu allo stato puro. Trovi la vita come piace raccontarla a te, guidata dalla sceneggiatura in una casualità che trova i suoi momenti migliori nel viaggio verso Rosignano, un bel pezzo di road movie. Allo stesso tempo emerge un’angoscia che non ti appartiene, o almeno che non ti S.M.

eri mai fatta sfuggire prima. Anche la malattia si affaccia come un’inquietudine, quando Giannini in ospedale apre una porta e vede tutti i letti dei malati. Guarda che ne ha di scene forti, quel film… Riconosco un approccio diretto a una realtà – la malattia e la vecchiaia – che di solito evito per pudore o per mancanza di esperienza. Tolta la vista che continua a peggiorare, ho la fortuna di stare bene di salute. Nella casualità che ci riservano sempre le tappe di un viaggio, gli incontri di Giannini e della Hawn dovrebbero approfondire il loro rapporto, invece ne acuiscono le distanze. L’immagine più bella di questa breve parte di road movie è forse il pasto che consumano al lato della strada insieme a degli operai. Forse lì intuisco il senso del tuo discorso. M.M.

Cambiamo film, però mi resta la convinzione che in Anita ci sia qualcosa che ti inquieta. Speriamo che sia femmina è stato il tuo ultimo grandissimo successo. La storia di una famiglia anomala, retta da una donna – Liv Ullmann – insieme alla fedele domestica Athina Cenci. Gli uomini, meschini e insignificanti, vengono progressivamente respinti dall’universo femminile. Resterà soltanto il povero rimbambito zio Gugo che si dedica alla maglia. S.M.

La gestazione del film fu molto lunga. Il soggetto di Pinelli, che si chiamava Le contesse e aveva come protagoniste due donne anziane in un casale, subì una lunghissima serie di modifiche prima di diventare il copione definitivo, che rimase fermo per sei, sette anni, finché lo lesse Di Clemente innamorandosene all’istante. Fu difficile la ricerca del casale. In un primo tempo ne avevamo trovato uno davvero bello in Maremma. Ma la distanza da Roma avrebbe comportato ulteriori costi, così ripiegammo su un altro nell’alto Lazio, dalle parti di Anguillara vicino al lago di Bracciano: perfettamente “toscano” come tutti hanno creduto, e soprattutto a meno di trenta chilometri da Roma. M.M.

C’è una demarcazione sempre più netta tra le figure femminili e quelle maschili, progressivamente ridotte a cliché. Estremizzando questo doppio registro, a un certo punto accanto a donne vere ci sono uomini caricaturali. S.M.

Alle spalle di Liv Ullmann e Stefania Sandrelli, Monicelli controlla l’andamento del funerale in Speriamo che sia femmina.

Le differenze sono molto calcate, però non credo di eccedere dal realismo degli uomini se non nei personaggi del glottologo e, in misura minore, del prete. Il motore della vicenda resta Philippe Noiret. È la sua morte a innescare tutte le dinamiche psicologiche e le scelte degli altri personaggi. Se le donne risultano vincenti, l’esito della loro vittoria è rimanere da sole. M.M.

Dopo i brevi schizzi di Caro Michele, finalmente affronti in maniera esplicita il rapporto tra madre e figlie, così come quello tra sorelle. S.M.

Con una profondità psicologica sulla quale non mi ero mai soffermato. Sono rapporti che ho toccato sempre marginalmente. Mi interessano meno, non fanno parte dell’orizzonte delle mie storie e poi appartengono a un tipo di cinema più riflessivo. M.M.

Credo che abbia contribuito lo spazio chiuso del casale, che costringe i personaggi a un confronto più serrato. E nemmeno la sortita a Roma interrompe il bisogno di chiarimenti. S.M.

La riuscita del film dipende molto dai cambi di ritmo impressi al diverso tenore dei dialoghi. Le scene di litigi sono alleggerite da momenti spensierati, il funerale – che avrebbe potuto prendere una piega drammatica – è stato vivacizzato dall’arrivo di una Sandrelli meravigliosa. La parentesi romana correva il rischio di spezzare l’incanto di questo casale immerso nella campagna, avulso dalla realtà cittadina. Invece ha dato il giusto rilievo al personaggio della Deneuve, giustificando anche la sua scelta di trasferirsi in campagna. M.M.

Per fortuna siamo lontani dal classismo delle Infedeli. La domestica Athina Cenci è una di famiglia, anche se quando sgrida le bambine, la sua la prende a sberle, la figlia della padrona no. S.M.

M.M.

Da che mondo è mondo i “servi” sono più classisti dei “padroni”.

Speriamo che sia femmina è l’esempio di una possibile evoluzione della commedia all’italiana. Ormai la carica eversiva si è sfibrata nel respiro più ampio del racconto classico. La dimensione realistica ha preso il sopravvento sulle esasperazioni grottesche, tanto che Hendel, tipico caratterista da commedia, sembra un pesce fuor d’acqua: e se ne accorgono tutti, prendendolo in giro bonariamente. La stessa critica sociale ha lasciato il posto a una narrazione senza sorprese: la patina femminista è più un ammicco che una rivendicazione. S.M.

La continuità del mio cinema è testimoniata dalla presenza dei miei abituali sceneggiatori. Siamo invecchiati insieme, mentre la società è cambiata e continua a cambiare. Di conseguenza il nostro modo di far cinema ne ha risentito. La commedia all’italiana sopravvive nello spirito, forte di almeno sette secoli di vita. Forse noi non abbiamo più saputo cogliere i punti vitali della società. Speriamo che sia femmina è un ritratto di una famiglia borghese allargata, come ce ne sono tante al giorno d’oggi, in cui i toni della commedia convivono con quelli drammatici di ogni esistenza umana trovando l’equilibrio in un tono medio, favorito dal contesto un po’ irreale della vita in campagna. Rispetto alla commedia all’italiana gli angoli sono più smussati, uniformati da uno sguardo meno aggressivo, più attento ai chiaroscuri che alle sottolineature. M.M.

Parenti serpenti ha una discendenza molto più diretta dalla commedia all’italiana, si basa sugli stessi meccanismi di esasperazione della realtà. Ma paga l’assenza dei grandi attori. Hai mai notato che l’unica grande commedia all’italiana senza un grande attore è Signore e signori? Infatti Parenti serpenti è un bel film minore interpretato da ottimi caratteristi. S.M.

Però lo ricordo come uno dei film meno faticosi della mia vita, girato con attori di mestiere che lavoravano benissimo. Forse un grande attore avrebbe sbilanciato la coralità della storia. Con questo non nego che la forza espressiva di un Sordi o di un Tognazzi trasformava le nostre sceneggiature in pezzi di bravura. Tra le felici sorprese della lavorazione, ci fu Pia Velsi nella parte della nonna. Io la ricordavo quarant’anni prima come soubrette. Di cinema ne aveva fatto pochissimo. Non me la sarei aspettata così brava. M.M.

Non capisco la voce fuori campo del ragazzino in apertura e chiusura del film. Come dicevano i telecronisti di un tempo, è un po’ “telefonata”, visto che lui è un personaggio di contorno. S.M.

Il soggetto autobiografico di Amoroso era raccontato in prima persona da lui bambino. Faticando a trovare un finale secco, che esulava dalla storia originale, la voce del ragazzino ci è parsa lo soluzione migliore per chiudere con un colpo a effetto. Il suo tema delle vacanze si trasforma in un’accusa implicita di assassinio ai suoi parenti. M.M.

L’apertura con la famiglia in parata nel paese festante alla vigilia di Natale evoca alla lontana certe sfilate in piazza del miglior Germi. S.M.

Lo girammo a Sulmona, nonostante le proteste di Amoroso che voleva a tutti i costi che venisse ambientato a Lanciano, il suo paese natale dove si svolgono le vicende del soggetto. La sfilata in paese è un cerimoniale pubblico da cui dipende l’onorabilità di una famiglia. Rispetto a quelle di Germi, la nostra si svolge in Abruzzo nei primi anni novanta: ormai è diventata soprattutto una fonte inesauribile di pettegolezzi femminili. M.M.

Il film è diviso nettamente in due parti. La prima è raccontata con una cura minimalista. La seconda volge in farsa, esaspera i toni e tradisce un po’ le aspettative iniziali. S.M.

La prima parte la vedo come una preparazione della farsa che si sviluppa nella seconda. Il gioco al massacro non conosce più i limiti del decoro. Scoppia tutto quello che era sottaciuto. Vengono a galla magagne e segreti. La condanna di sobbarcarsi in casa i vecchi genitori è il movente di tutto ciò, e a me interessava sottolineare la profonda crudeltà che si scatena una volta che vengono intaccate le proprie certezze. M.M.

Lo stesso soggetto, un po’ rimaneggiato e molto pasticciato, lo ritroviamo in Panni sporchi, un altro titolo preso dai detti popolari. S.M.

In origine doveva essere una serie in sei puntate per la televisione. Con questa urgenza, ritrovandoci senza un’idea forte, riproponemmo una formula vincente in un contesto un po’ variato, elevando i personaggi a industriali, inserendo anche gli albanesi, con l’esplosione della fabbrica al posto dell’appartamento. M.M.

In Panni sporchi c’è un intreccio di dialetti anche tra i familiari che fa pensare a un’Italia unita. S.M.

Rispetto al dopoguerra, con gli anni i dialetti si sono mischiati, un po’ contaminati e sempre meno differenziati. Quello che potrebbe sembrare una casualità, in realtà era proprio la mia intenzione. Ovviamente in Come quando fuori piove ho ribaltato tutto, impiegando solo attori veneti. M.M.

Nelle tue poche esperienze televisive, pur girando come al cinema, hai sofferto un po’ la maggiore lunghezza. S.M.

Per la televisione ho sempre girato progetti minori. Come quando fuori piove aveva una precisa connotazione geografica, una certa vivacità che prendeva le mosse dal gioco del lotto raccontando le conseguenze di una vincita spropositata: un soggetto che abbiamo stiracchiato più del dovuto. Il mio lavoro migliore rimane La moglie ingenua e il marito malato, che dura poco meno di un’ora, mentre preferirei dimenticare Conoscete veramente Mangiafuoco? (1981), scritto da Manganelli, in cui lui nella parte di se stesso e io in quella del burattinaio intervistavamo Gassman che faceva Mangiafuoco… In linea di massima non ho alcuna preclusione nei confronti della televisione. Il cinema è destinato a trasformarsi, a adeguarsi a questo nuovo M.M.

mezzo che sta riducendo drasticamente il pubblico nelle sale. Il cinema come forma espressiva che racconta storie attraverso immagini in movimento non morirà, cambieranno solo i mezzi. Con questo messaggio ottimista possiamo avviarci alla conclusione dei nostri incontri. S.M.

Sarebbe anche l’ora. Basta che non mi chiedi come vorrei essere ricordato. M.M.

No, non lo farò. Vorrei solo ringraziarti per tutto quello che hai ricordato tu. S.M.

Te l’avevo detto la prima volta: se tu mi fai le domande, io rispondo. Ma un po’ sono sorpreso anch’io. Ho vissuto la mia vita senza soffermarmi sulle cose, senza dare peso al passato. Con la testa sempre avanti, già presa dal progetto successivo. Distratto, non dico sprezzante, ma indifferente alle tracce che lasciavo: liberandomi di carte, lettere, libri. Eliminando sulla mia strada inutili zavorre. A ogni trasloco ne ho approfittato: e di case ne ho cambiate parecchie. Ero sicuro di aver dimenticato. E invece parlando, raccontando, quasi per caso i ricordi sono riaffiorati alla mente con una precisione che non sospettavo. Ma adesso l’unica cosa che mi interessa con tutte le mie forze è la realizzazione delle Rose del deserto. M.M.

S.M.

Il 15 maggio 2005 compirai novant’anni.

E spero di compierli sul set, o in moviola. O morto sul campo. Perché nella vita io ho messo il lavoro davanti a tutto: all’amicizia, all’amore, a qualsiasi persona o responsabilità. Il cinema è stata la sola grande passione della mia vita. E dopo oltre sessanta film, ma soprattutto con uno ancora da girare, non rimpiango nulla: ho avuto la fortuna di poter fare sempre il mio lavoro. E l’ho fatto divertendomi. M.M.

Monicelli sul set di Amici miei.

Filmografia

1934 Il cuore rivelatore regia: Mario Monicelli, Cesare Civita, Alberto Mondadori; soggetto: dal racconto omonimo di Edgar Allan Poe; sceneggiatura: Mario Monicelli, Cesare Civita e Alberto Mondadori; fotografia (b/n): Cesare Civita; scenografia: Alberto Lattuada; interpreti: G. Pedoni, G. Caria, G. Buschi, V. Rani; produzione: Passoridottisti Cineamatori, Milano; durata: 15’ 1935 I ragazzi della via Pál regia: Mario Monicelli, Alberto Mondadori; soggetto: dal romanzo omonimo di Ferenc Molnár; sceneggiatura: Mario Monicelli e Alberto Mondadori; fotografia (b/n): Cesare Civita; interpreti: Giulio Macchi e altri attori non professionisti; produzione: Alberto Mondadori e Cesare Civita; durata: 45’ 1937 Pioggia d’estate regia: Michele Badiek [Mario Monicelli]; soggetto e sceneggiatura: Mario Monicelli, Luciano Zacconi; fotografia (b/n): Manfredo Bertini; scenografia: Luciano Zacconi; musica: repertorio; montaggio: Manfredo Bertini, Mario Monicelli; interpreti: Raniero Barsanti, Ernes Zacconi, Aristide Frigerio, Franca Taylor, Ermete Zacconi e abitanti di Camaiore;

produzione: Zacconi Film; durata: 67’ 1949 Al diavolo la celebrità regia: Mario Monicelli, Steno; soggetto: Geo Taparelli, Ernesto Calindri, Dino Hobbes Cecchini; sceneggiatura: Mario Monicelli e Steno; fotografia (b/n): Leonida Barboni, Tonino Delli Colli; scenografia: Piero Filippone, Luigi Gervasi; musica: Carlo Franchi, Mario Funaro; montaggio: Renzo Lucidi; interpreti: Ferruccio Tagliavini, Mischa Auer, Marilyn Buferd, Marcel Cerdan, Carlo Campanini, Leonardo Cortese, Folco Lulli, Gianni Rizzo, Franca Marzi, Bill Tubbs, Alba Arnova, Luigi Pavese, Cesare Polacco, Nyta Dover, Abbe Lane; produzione: Maleno Malenotti per Produttori Associati; distribuzione: Scalera Film; durata: 102’ 1949 Totò cerca casa regia: Mario Monicelli, Steno; soggetto: Vittorio Mertz, dal racconto Il custode di M. Muscariello; sceneggiatura: Age e Scarpelli, Mario Monicelli e Steno, Vittorio Metz e Marcello Marchesi; fotografia (b/n): Giuseppe Caracciolo; scenografia: Carlo Egidi; musica: Carlo Rustichelli; montaggio: Otello Colangeli; interpreti: Totò, Aroldo Tieri, Marisa Merlini, Folco Lulli, Mario Riva, Cesare Polacco, Alda Mangini, Luigi Pavese, Mario Castellani, Giacomo Furia, Enzo Bilotti, Flavio Fiorin; produzione: Carlo Ponti per Artisti e Tecnici Associati; distribuzione: Titanus; durata: 80’ 1950 Vita da cani regia: Mario Monicelli e Steno;

soggetto: Mario Monicelli e Steno; sceneggiatura: Sergio Amidei, Aldo Fabrizi, Ruggero Maccari, Mario Monicelli e Steno, Nino Novarese, Fulvio Palmieri; fotografia (b/n): Mario Bava; scenografia e costumi: Flavio Mogherini; musica: Nino Rota; canzoni: Aldo Fabrizi, Nino Ravasini, Nino Rota, Mario Ruccione; montaggio: Mario Bonotti; interpreti: Aldo Fabrizi, Gina Lollobrigida, Delia Scala, Tamara Lees, Nyta Dover, Marcello Mastroianni, Giovanni Barella, Bruno Corelli, Enzo Furlai-Furlanetto, Aldo Giuffré, Enzo Maggio, Tino Scotti; produzione: Carlo Ponti per Excelsa - Artisti e Tecnici Associati; distribuzione: indipendenti regionali; durata: 106’ 1950 È arrivato il cavaliere! regia: Mario Monicelli, Steno; soggetto: dalla rivista Ghe pensi mi di Marcello Marchesi, Vittorio Metz, Tino Scotti; sceneggiatura: Marcello Marchesi, Vittorio Metz, Tino Scotti, con la collaborazione di Age e Scarpelli, Mario Monicelli e Steno; fotografia (b/n): Mario Bava; scenografia: Flavio Mogherini; musica: Nino Rota; montaggio: Mario Borghi, Franco Fraticelli; interpreti: Tino Scotti, Silvana Pampanini, Enrico Viarisio, Alda Mangini, Nyta Dover, Enzo Biliotti, Galeazzo Benti, Carlo Mazzarella; produzione: Carlo Ponti per Excelsa - Artisti e Tecnici Associati; distribuzione: Minerva; durata: 79’ 1951 Guardie e ladri regia: Mario Monicelli, Steno; soggetto: Piero Tellini; sceneggiatura: Vitaliano Brancati, Aldo Fabrizi, Ennio Flaiano, Ruggero Maccari, Mario Monicelli e Steno;

fotografia (b/n): Lamberto Bava; scenografia: Flavio Mogherini; musica: Alessandro Cicognini; montaggio: Adriana Novelli; interpreti: Totò, Aldo Fabrizi, Ave Ninchi, William C. Tubbs, Ernesto Almirante, Pina Piovani, Rossana Podestà, Mario Castellani, Carlo Delle Piane, Aldo Giuffré, Pietro Carloni; produzione: Dino De Laurentiis e Carlo Ponti per Golden Film; distribuzione: Lux Film; durata: 105’ 1952 Totò e i re di Roma regia: Mario Monicelli, Steno; soggetto: liberamente tratto dai racconti La morte dell’impiegato ed Esami di promozione di Anton Čechov; sceneggiatura: Ennio De Concini, Peppino De Filippo, Mario Monicelli, Dino Risi, Steno; fotografia (b/n): Giuseppe La Torre; scenografia: Alberto Tavazzi; costumi: Giuliano Papi; musica: Nino Rota; montaggio: Adriana Novelli; interpreti: Totò, Anna Carena, Alberto Sordi, Aroldo Tieri, Giulio Stival, Giovanna Pala, Ernesto Almirante, Pietro Carloni, Anna Vita, Ada Mari, Eva Vanicek, Gianni Glori; produzione: Romolo Laurenti per Golden Film - Humanitas Film; distribuzione: Titanus; durata: 104’ 1953 Le infedeli regia: Mario Monicelli, Steno [accr.]; soggetto: Ivo Perilli; sceneggiatura: Franco Brusati, Mario Monicelli, Ivo Perilli, Steno; fotografia (b/n): Aldo Tonti, Luciano Trasatti; arredamento: Piero Gherardi; architetto: Flavio Mogherini;

musica: Armando Trovajoli; montaggio: Adriana Novelli; interpreti: Gina Lollobrigida, May Britt, Pierre Cressoy, Tina Lattanzi, Carlo Romano, Anna Maria Ferrero, Irene Papas, Charles Fawcett, Paolo Ferrara, Marina Vlady, Milko Skofic, Giulio Calì, Carlo Lamas, Tania Weber; produzione: Carlo Ponti e Dino De Laurentiis per Excelsa; distribuzione: Minerva; durata: 109’ 1954-55 Totò e Carolina regia: Mario Monicelli; soggetto: Ennio Flaiano; sceneggiatura: Age e Scarpelli, Mario Monicelli, Rodolfo Sonego; fotografia (b/n): Domenico Scala, Luciano Trasatti; scenografia: Piero Gherardi; musica: Angelo Francesco Lavagnino; montaggio: Adriana Novelli; interpreti: Totò, Anna Maria Ferrero, Gianni Cavalieri, Maurizio Arena, Arnoldo Foà, Enzo Garinei, Tina Pica, Fanny Landini; produzione: Alfredo De Laurentiis per Rosa Film; distribuzione: Variety Film; durata: 108’ (dopo i tagli 87’) 1954 Proibito regia: Mario Monicelli; soggetto: dal romanzo La madre di Grazia Deledda; sceneggiatura: Suso Cecchi D’Amico, Giuseppe Mangione, Mario Monicelli; fotografia: Aldo Tonti; scenografia: Piero Gherardi; costumi: Vito Ansalone; musica: IV Sinfonia di Johannes Brahms adattata da Nino Rota, musiche popolari sarde; montaggio: Adriana Novelli;

interpreti: Mel Ferrer, Amedeo Nazzari, Lea Massari, Henri Vilbert, Germaine Kerjean, Edoardo Ciannelli, Paolo Ferrara; produzione: Gianni Hecht Lucari per la Documento Film (Roma) - UGC Cormoran Film, Louvre Film (Parigi); distribuzione: Diana Cinematografica; durata: 104’ 1955 Un eroe dei nostri tempi regia: Mario Monicelli; soggetto: Rodolfo Sonego; sceneggiatura: Mario Monicelli, Rodolfo Sonego; fotografia (b/n): Tino Santoni; scenografia: Carlo Egidi; arredamento: Tonino Frattalocchi; costumi: Giulia Mafai; musica: Nino Rota; montaggio: Adriana Novelli; interpreti: Alberto Sordi, Franca Valeri, Giovanna Ralli, Tina Pica, Mario Carotenuto, Leopoldo Trieste, Alberto Lattuada, Carlo Pedersoli [Bud Spencer], Paolo Ferrara, Lina Bonivento, Paolo Calì; produzione: Franco Cristaldi per Titanus - Vides; distribuzione: Titanus; durata: 88’ 1956 Donatella regia: Mario Monicelli; soggetto: Mario Rappini, Alfredo Vittorio Reichlin; sceneggiatura: Roberto Amoroso, Sandro Continenza, Ruggero Maccari, Mario Monicelli, Piero Tellini; fotografia: Tonino Delli Colli; scenografia: Piero Gherardi; costumi: Roberto Cappucci; musica: Gino Filippini; montaggio: Antonietta Zita; interpreti: Elsa Martinelli, Gabriele Ferzetti, Walter Chiari, Aldo Fabrizi, Abbe Lane, Xavier Cugat, Giovanna Pala, Giuseppe Porelli, Catherine

Williams; produzione: Roberto Amoroso per Sud Film; distribuzione: indipendenti regionali; durata: 104’ 1957 Padri e figli regia: Mario Monicelli; soggetto: Age e Scarpelli, Mario Monicelli; sceneggiatura: Age e Scarpelli, Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Mario Monicelli, con la collaborazione di Luigi Emmanuele; fotografia (b/n): Leonida Barboni; scenografia: Piero Gherardi; musica: Alessandro Cicognini; montaggio: Otello Colangeli; interpreti: Vittorio De Sica, Marcello Mastroianni, Marisa Merlini, Memmo Carotenuto, Franco Interlenghi, Antonella Lualdi, Lorella De Luca, Riccardo Garrone, Ruggero Marchi, Fiorella Mari, Franco Di Trocchio, Raffaele Pisu; produzione: Guido Giambartolomei per Royal Film (Roma) - Filmel/Lyrica (Parigi); distribuzione: Cineriz; durata: 102’ 1957 Il medico e lo stregone regia: Mario Monicelli; soggetto e sceneggiatura: Age e Scarpelli, con la collaborazione di Ennio De Concini, Luigi Emmanuele, Mario Monicelli; fotografia (b/n): Luciano Trasatti; scenografia e costumi: Piero Gherardi; musica: Nino Rota; montaggio: Otello Colangeli; interpreti: Vittorio De Sica, Marcello Mastroianni, Marisa Merlini, Lorella De Luca, Gabriella Pallotta, Alberto Sordi, Ilaria Occhini, Franco Di Trocchio, Riccardo Garrone, Virgilio Riento; produzione: Guido Giambartolomei per Royal Film (Roma) - Francinex (Parigi);

distribuzione: Cineriz; durata: 103’ 1958 I soliti ignoti regia: Mario Monicelli; soggetto: Age e Scarpelli; sceneggiatura: Age e Scarpelli, Suso Cecchi D’Amico, Mario Monicelli; fotografia (b/n): Gianni Di Venanzo; scenografia e costumi: Piero Gherardi; musica: Piero Umiliani; montaggio: Adriana Novelli; interpreti: Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni, Renato Salvatori, Totò, Claudia Cardinale, Carla Gravina, Memmo Carotenuto, Rosanna Rory, Tiberio Murgia, Carlo Pisacane, Gina Rovere, Elvira Tonelli, Elisa Fabrizi, Gina Amendola, Edith Bruck; produzione: Franco Cristaldi per Lux - Vides; distribuzione: Lux Film; durata: 111’ 1959 La grande guerra regia: Mario Monicelli; soggetto e sceneggiatura: Age e Scarpelli, Mario Monicelli, Luciano Vincenzoni; fotografia (b/n): Peppino Rotunno; scenografia: Mario Garbuglia; costumi: Danilo Donati; musica: Nino Rota; montaggio: Adriana Novelli; interpreti: Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Silvana Mangano, Romolo Valli, Folco Lulli, Mario Valdemarin, Vittorio Sanipoli, Bernard Blier, Achille Compagnoni, Elsa Vazzoler, Tiberio Murgia, Tiberio Mitri, Ferruccio Amendola, Nicola Arigliano; produzione: Dino De Laurentiis per Dino De Laurentiis Cinematografica (Roma) - Gray Film (Parigi); distribuzione: De Laurentiis; durata: 142’

1960 Risate di gioia regia: Mario Monicelli; soggetto: dai racconti Risate di gioia e Ladri in chiesa di Alberto Moravia; sceneggiatura: Age e Scarpelli, Suso Cecchi D’Amico, Mario Monicelli; fotografia (b/n): Leonida Barboni; scenografia e costumi: Piero Gherardi, Giuseppe Ranieri; musica: Lelio Luttazzi; montaggio: Adriana Novelli; interpreti: Totò, Anna Magnani, Ben Gazzara, Fred Clark, Edy Vessel, Toni Ucci, Carlo Pisacane, Luigi Fanfulla, Kurt Polter, Rik van Nutten; produzione: Silvio Clementelli per Titanus; distribuzione: Titanus; durata: 105’ 1962 Renzo e Luciana, episodio di Boccaccio ’70 regia: Mario Monicelli; soggetto: dal racconto L’avventura di due sposi di Italo Calvino; sceneggiatura: Giovanni Arpino, Italo Calvino, Suso Cecchi D’Amico, Mario Monicelli; fotografia: Armando Nannuzzi; scenografia: Piero Gherardi; musica: Piero Umiliani; montaggio: Adriana Novelli; interpreti: Marisa Solinas, Germano Giglioli e attori non professionisti; produzione: Carlo Ponti e Antonio Cervi per Concordia Compagnia Cinematografica - Angelo Rizzoli (Roma) - Francinex - Gray Film (Parigi); distribuzione: Cineriz; durata: 41’; gli altri episodi sono diretti da Federico Fellini, Luchino Visconti, Vittorio De Sica 1963 I compagni regia: Mario Monicelli; soggetto e sceneggiatura: Age e Scarpelli, Mario Monicelli, con la collaborazione di Suso Cecchi D’Amico;

fotografia (b/n): Peppino Rotunno; scenografia: Mario Garbuglia; costumi: Piero Tosi; musica: Carlo Rustichelli; montaggio: Ruggero Mastroianni; interpreti: Marcello Mastroianni, Bernard Blier, Annie Girardot, Renato Salvatori, Folco Lulli, François Perier, Raffaella Carrà, Pippo Starnazza, Elvira Tonelli, Vittorio Sanipoli, Mario Pisu, Giampiero Albertini, Kenneth Kove; produzione: Franco Cristaldi per Lux - Vides (Roma) - Méditerranée (Parigi) - Avala Film (Belgrado); distribuzione: Lux - Paramount; durata: 131’ 1964 Gente moderna, episodio di Alta infedeltà regia: Mario Monicelli; soggetto e sceneggiatura: Age e Scarpelli, Ettore Scola, Ruggero Maccari; fotografia (b/n): Gianni Di Venanzo; scenografia: Mario Garbuglia; costumi: Lucia Mirisola; musica: Armando Trovajoli; montaggio: Adriana Novelli; interpreti: Ugo Tognazzi, Bernard Blier, Michèle Mercier; produzione: Gianni Hecht Lucari per Documento Film; distribuzione: De Laurentiis; durata: 41’; gli altri episodi sono diretti da Franco Rossi, Elio Petri e Luciano Salce 1965 Casanova ’70 regia: Mario Monicelli; soggetto e sceneggiatura: Age e Scarpelli, Suso Cecchi D’Amico, Tonino Guerra, Mario Monicelli, Giorgio Salvioni; fotografia: Aldo Tonti; scenografia: Mario Garbuglia; costumi: Giulio Coltellacci; musica: Armando Trovajoli;

montaggio: Adriana Novelli; interpreti: Marcello Mastroianni, Virna Lisi, Marisa Mell, Michèle Mercier, Bernard Blier, Enrico Maria Salerno, Beba Loncar, Marco Ferreri, Moira Orfei, Jolanda Modio, Luciana Paoli, Seyna Seyn, Rosemary Dexter, Margaret Lee; produzione: Carlo Ponti per C.C. Champion (Roma) - Les Films Concordia (Parigi); distribuzione: Euro International Films; durata: 106’ 1966 L’armata Brancaleone regia: Mario Monicelli; soggetto: Age e Scarpelli; sceneggiatura: Age e Scarpelli, Mario Monicelli; fotografia: Carlo Di Palma; scenografia e costumi: Piero Gherardi; musica: Carlo Rustichelli; montaggio: Ruggero Mastroianni; interpreti: Vittorio Gassman, Catherine Spaak, Folco Lulli, Enrico Maria Salerno, Carlo Pisacane, Gian Maria Volonté, Barbara Steele, Maria Grazia Buccella, Ugo Fangareggi, Joaquín Diaz, Gian Luigi Crescenzi; produzione: Mario Cecchi Gori per Fair Film (Roma) - Films Marceau (Parigi); distribuzione: Titanus; durata: 119’ 1966 Fata Armenia, episodio di Le fate regia: Mario Monicelli; soggetto e sceneggiatura: Tonino Guerra, Giorgio Salvioni, con la collaborazione di Suso Cecchi D’Amico [non accr.]; fotografia: Carlo Di Palma; scenografia e costumi: Piero Gherardi; musica: Armando Trovajoli; montaggio: Ruggero Mastroianni; interpreti: Claudia Cardinale, Gastone Moschin, Jole Fierro, Corrado Olmi;

produzione: Gianni Hecht Lucari per Documento Film (Roma) - Columbia (Parigi); distribuzione: CEIAD - Columbia; durata: 36’; gli altri episodi sono diretti da Luciano Salce, Mauro Bolognini, Antonio Pietrangeli 1968 La bambinaia, episodio di Capriccio all’italiana regia: Mario Monicelli; soggetto e sceneggiatura: Age e Scarpelli, Bernardino Zapponi; fotografia: Giuseppe Rotunno; scenografia: Mario Garbuglia; musica: Marcello Giombini; montaggio: Adriana Novelli; interprete: Silvana Mangano; produzione: Dino De Laurentiis per Dino De Laurentiis Cinematografica; distribuzione: Euro International Film; durata: 4’; gli altri episodi sono diretti da Steno, Mauro Bolognini, Pier Paolo Pasolini, Pino Zac 1968 La ragazza con la pistola regia: Mario Monicelli; soggetto: Rodolfo Sonego; sceneggiatura: Luigi Magni, Rodolfo Sonego, Suso Cecchi D’Amico [non accr.]; fotografia: Carlo Di Palma; scenografia e costumi: Maurizio Chiari; musica: Peppino De Luca; montaggio: Ruggero Mastroianni; interpreti: Monica Vitti, Carlo Giuffré, Stanley Baker, Corin Redgrave, Anthony Booth, Tiberio Murgia, Aldo Puglisi, Stefano Satta Flores; produzione: Gianni Hecht Lucari per Documento Film; distribuzione: Euro International Film; durata: 104’ 1969 Toh, è morta la nonna!

regia: Mario Monicelli; soggetto: Luisa Montagnana; sceneggiatura: Luigi Malerba, Mario Monicelli, Luisa Montagnana, Stefano Strucchi; fotografia: Luigi Kuveiller; scenografia e costumi: Paolo Tommasi; musica: Piero Piccioni; montaggio: Ruggero Mastroianni; interpreti: Sirena Adgemova, Carol André, Wanda Capodaglio, Peter Chanel, Valentina Cortese, Luigi De Vittorio, Riccardo Garrone, Vera Gherarducci, Raymond Lovelock, Gastone Pescucci, Giorgio Piazza, Helen Ronée, Giordano Scolari, Sergio Tofano; produzione: Franco Cristaldi per Vides; distribuzione: CEIAD - Columbia; durata: 102’ 1970 Il frigorifero, episodio di Le coppie regia: Mario Monicelli; soggetto e sceneggiatura: Ruggero Maccari, Mario Monicelli, Rodolfo Sonego, Stefano Strucchi; fotografia: Carlo Di Palma; scenografia: Guido Coltellacci; costumi: Lucia Mirisola; musica: Enzo Jannacci; montaggio: Ruggero Mastroianni; interpreti: Monica Vitti, Enzo Jannacci; produzione: Gianni Hecht Lucari per Documento Film; distribuzione: Cinema International Corporation; durata: 49’; gli altri episodi sono diretti da Alberto Sordi e Vittorio De Sica 1970 Brancaleone alle Crociate regia: Mario Monicelli; soggetto e sceneggiatura: Age e Scarpelli, Mario Monicelli; fotografia: Aldo Tonti; scenografia: Mario Garbuglia;

costumi: Mario Garbuglia, Ugo Pericoli; musica: Carlo Rustichelli; montaggio: Ruggero Mastroianni; interpreti: Vittorio Gassman, Stefania Sandrelli, Adolfo Celi, Paolo Villaggio, Gigi Proietti, Gianrico Tedeschi, Lino Toffolo, Beba Loncar, Shel Shapiro, Pietro De Vico, Alberto Plebani; produzione: Mario Cecchi Gori per Fair Film (Roma) - ONCIC (Algeri); distribuzione: Titanus; durata: 135’ 1971 La mortadella regia: Mario Monicelli; soggetto: dal racconto La pizza di Renato W. Spera; sceneggiatura: Suso Cecchi D’Amico, Don Carlos Dunaway, Leonard Melfi; fotografia: Alfio Contini; scenografia: Mario Garbuglia; costumi: Albert Wolsky, Enrico Sabbatini; musica: Lucio Dalla, Ron (testi di Don Carlos Dunaway); montaggio: Ruggero Mastroianni; interpreti: Sophia Loren, William Devane, Gigi Proietti, Beeson Carroll, Danny De Vito, Susan Sarandon; produzione: Carlo Ponti per C.C. Champion (Roma) - Productions Éditions Cin. Françaises (Parigi); distribuzione: Dear International - Warner Bros. durata: 109’ 1973 Vogliamo i colonnelli (Cronaca di un colpo di stato) regia: Mario Monicelli; soggetto e sceneggiatura: Age e Scarpelli, Mario Monicelli; fotografia: Alberto Spagnoli; scenografia: Lorenzo Baraldi; costumi: Piero Tosi; musica: Carlo Rustichelli; montaggio: Ruggero Mastroianni;

interpreti: Ugo Tognazzi, Claude Dauphin, Duilio Del Prete, François Périer, Carla Tatò, Camillo Milli, Giancarlo Fusco, Pino Zac, Lino Puglisi, Tino Bianchi, Antonino Faà di Bruno, Renzo Marignano, Gianni Solaro, Barbara Herrera, Vincenzo Falanga; produzione: Pio Angeletti e Adriano De Micheli per Dean Film; distribuzione: Italnoleggio; durata: 102’ 1974 Romanzo popolare regia: Mario Monicelli; soggetto e sceneggiatura: Age e Scarpelli, Mario Monicelli, con la collaborazione di Enzo Jannacci, Beppe Viola; fotografia: Luigi Kuveiller; scenografia: Lorenzo Baraldi; costumi: Luciana Marinucci; musica: Enzo Jannacci; montaggio: Ruggero Mastroianni; interpreti: Ugo Tognazzi, Ornella Muti, Michele Placido, Pippo Starnazza, Alvaro Vitali; produzione: Edmondo Amati per Capitolina Produzioni Cinematografiche; distribuzione: Fida Cinematografica; durata: 101’ 1975 Amici miei «Un film di Pietro Germi»; regia: Mario Monicelli; soggetto e sceneggiatura: Pietro Germi, Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Tullio Pinelli; fotografia: Luigi Kuveiller; scenografia: Lorenzo Baraldi; costumi: Casa mode «Princess di Firenze», Piattelli, Serio; musica: Carlo Rustichelli; montaggio: Ruggero Mastroianni; interpreti: Ugo Tognazzi, Gastone Moschin, Philippe Noiret, Duilio Del Prete, Milena Vukotic, Adolfo Celi, Bernard Blier, Olga Karlatos, Silvia

Dionisio, Franca Tamantini, Angela Goodwin, Marisa Traversi, Edda Ferronao, Mario Scarpetta, Mauro Vestri; produzione: Carlo Nebiolo per Rizzoli Film; distribuzione: Cineriz; durata: 110’ 1976 Caro Michele regia: Mario Monicelli; soggetto: dal romanzo omonimo di Natalia Ginzburg; sceneggiatura: Suso Cecchi D’Amico, Tonino Guerra; fotografia: Tonino Delli Colli; scenografia: Lorenzo Baraldi; costumi: Gitt Magrini; musica: Nino Rota; montaggio: Ruggero Mastroianni; interpreti: Mariangela Melato, Delphine Seyrig, Aurore Clément, Lou Castel, Fabio Carpi, Alfonso Gatto, Giuliana Calandra, Isa Danieli, Eriprando Visconti; produzione: Gianni Hecht Lucari per Flag Production; distribuzione: Cineriz; durata: 108’ 1976 La bomba, episodio di Signore e signori buonanotte regia: Mario Monicelli; soggetto e sceneggiatura: Age e Scarpelli, Leo Benvenuti, Luigi Comencini, Piero De Bernardi, Nanni Loy, Ruggero Maccari, Luigi Magni, Mario Monicelli, Ugo Pirro, Ettore Scola; fotografia: Claudio Ragona; scenografia: Lorenzo Baraldi; musica: Antonello Venditti, Lucio Dalla, Giuseppe Mazzucca, Nicola Samale; montaggio: Amedeo Salfa; interpreti: Eros Pagni, Carlo Croccolo, Gianfranco Barra, Camillo Milli; produzione: Franco Committeri per Cooperativa 15 maggio; distribuzione: Titanus; durata: 17’;

gli altri episodi (tutti non firmati) sono diretti da Luigi Comencini, Nanny Loy, Luigi Magni ed Ettore Scola 1977 Un borghese piccolo piccolo regia: Mario Monicelli; soggetto: dal romanzo omonimo di Vincenzo Cerami; sceneggiatura: Sergio Amidei, Mario Monicelli; fotografia: Mario Vulpiani; scenografia: Lorenzo Baraldi; costumi: Gitt Magrini; arredamento: Massimo Gavazzi; musica: Giancarlo Chiaramello; montaggio: Ruggero Mastroianni; interpreti: Alberto Sordi, Shelley Winters, Romolo Valli, Vincenzo Crocitti, Renzo Carboni, Renato Malavasi, Renato Scarpa, Pietro Tordi, Ettore Garofalo, Enrico Beruschi; produzione: Luigi e Aurelio De Laurentiis per Auro Cinematografica; distribuzione: Cineriz; durata: 122’ 1977 Autostop e First Aid o Pronto soccorso, episodi di I nuovi mostri regia: Mario Monicelli; soggetto e sceneggiatura: Age e Scarpelli, Ruggero Maccari, Bernardino Zapponi; fotografia: Tonino Delli Colli; scenografia: Luciano Ricceri; costumi: Vittoria Guaita; musica: Armando Trovajoli; montaggio: Alberto Galletti; interpreti di Autostop: Ornella Muti, Eros Pagni; interprete di First Aid o Pronto soccorso: Alberto Sordi; produzione: Pio Angeletti e Adriano De Micheli per Dean Film; distribuzione: Titanus; durata: 10’ (Autostop), 13’ (First Aid); gli altri episodi sono diretti da Dino Risi ed Ettore Scola 1979 Viaggio con Anita

regia: Mario Monicelli; soggetto: Tullio Pinelli, Federico Fellini [non accr.]; sceneggiatura: Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Mario Monicelli, Tullio Pinelli, Paul Zimmermann; fotografia: Tonino Delli Colli; scenografia: Lorenzo Baraldi; arredamento: Massimo Tavazzi; costumi: Vittorio Guaita; musica: Ennio Morricone; montaggio: Ruggero Mastroianni; interpreti: Giancarlo Giannini, Goldie Hawn, Claudine Auger, Laura Betti, Aurore Clément, Andrea Férreol, Nunzia Fumo, Renzo Montagnani, Franca Tamantini, Gino Santercole, Lorraine De Selle, Carlos De Carvalho; produzione: Aurelio Grimaldi per PEA (Roma) - Productions Artistes Associés (Parigi); distribuzione: Titanus; durata: 116’ 1979 Temporale Rosy regia: Mario Monicelli; soggetto: dal romanzo omonimo di Carlo Brizzolara; sceneggiatura: Age e Scarpelli, Carlo Brizzolara, Mario Monicelli; fotografia: Tonino Delli Colli; scenografia: Lorenza Baraldi; costumi: Gianna Gissi; musica: Gianfranco Plenizio; montaggio: Ruggero Mastroianni; interpreti: Gérard Depardieu, Faith Minton, Roland Bock, Gianrico Tedeschi, Helga Anders, Charles Bollett, Arnaldo Taglietti, Kathleen Thompson; produzione: Aurelio Grimaldi per PEA (Roma) - Productions Artistes Associés (Parigi) - Artemis Filmgesellschaft (Berlino); distribuzione: United Artists; durata: 118’

1981 Camera d’albergo regia: Mario Monicelli; soggetto e sceneggiatura: Age e Scarpelli, Mario Monicelli; fotografia: Tonino Delli Colli; scenografia: Lorenzo Baraldi; costumi: Gianna Gissi; musica: Detto Mariano; montaggio: Ruggero Mastroianni; interpreti: Vittorio Gassman, Monica Vitti, Enrico Montesano, Nestor Garay, Roger Pierre, Beatrice Bruno, Gianni Agus, Nando Paone, Tommaso Bianco; produzione: Luigi e Aurelio De Laurentiis per Filmauro (Roma) - S.N. Cinevog (Parigi); distribuzione: Titanus; durata: 100’ 1981 Il marchese del Grillo soggetto: Bernardino Zapponi; sceneggiatura: Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Mario Monicelli, Tullio Pinelli, Alberto Sordi; fotografia: Sergio D’Offizi; scenografia: Lorenzo Baraldi; costumi: Gianna Gissi; musica: Nicola Piovani; montaggio: Ruggero Mastroianni; interpreti: Alberto Sordi, Paolo Stoppa, Caroline Berg, Riccardo Billi, Flavio Bucci, Camillo Milli, Cochi Ponzoni, Marc Porel, Piero Tordi, Leopoldo Trieste, Giorgio Gobbi, Tommaso Bianco, Marina Confalone; produzione: Luciano De Feo per Opera Film Produzione (Roma) - Gaumont (Parigi); distribuzione: Gaumont; durata: 133’ 1982 Amici miei – Atto II regia: Mario Monicelli;

soggetto e sceneggiatura: Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Mario Monicelli, Tullio Pinelli; fotografia: Sergio D’Offizi; scenografia: Lorenzo Baraldi; costumi: Gianna Gissi; musica: Carlo Rustichelli; montaggio: Ruggero Mastroianni; interpreti: Ugo Tognazzi, Gastone Moschin, Adolfo Celi, Renzo Montagnani, Philippe Noiret, Paolo Stoppa, Milena Vukotic, Franca Tamantini, Angela Goodwin, Alessandro Haber, Domiziana Giordano, Tommaso Bianco; produzione: Luigi e Aurelio De Laurentiis per Filmauro; distribuzione: Gaumont; durata: 126’ 1984 Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno regia: Mario Monicelli; soggetto: liberamente tratto dal racconto omonimo di Giulio Cesare Croce; sceneggiatura: Leo Benvenuti, Suso Cecchi D’Amico, Piero De Bernardi, Mario Monicelli; fotografia: Camillo Bazzoni; scenografia: Lorenzo Baraldi; costumi: Gianna Gissi; musica: Nicola Piovani; montaggio: Ruggero Mastroianni; interpreti: Ugo Tognazzi, Lello Arena, Maurizio Nichetti, Alberto Sordi, Annabella Schiavone, Carlo Bagno, Pamela Denise Richards, Margherita Pace, Franca Bettoja; produzione: Luigi e Aurelio De Laurentiis per Filmauro; distribuzione: Gaumont; durata: 125’ 1985 Le due vite di Mattia Pascal regia: Mario Monicelli; soggetto: liberamente tratto dal romanzo Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello;

sceneggiatura: Suso Cecchi D’Amico, Ennio De Concini, Mario Monicelli, Amanzio Todini; fotografia: Camillo Bazzoni; scenografia: Lorenzo Baraldi; costumi: Gianna Gissi; musica: Nicola Piovani; montaggio: Ruggero Mastroianni; interpreti: Marcello Mastroianni, Laura Morante, Bernard Blier, Senta Berger, Flavio Bucci, Laura Del Sol, Alessandro Haber, Andrea Férreol, Caroline Berg, Carlo Bagno, Nestor Garay, Victor Cavallo, Clelia Rondinella, Rosalia Maggio, Giuseppe Cederna; produzione: Silvia D’Amico Bendicò e Carlo Cucchi per Rai Uno Cinecittà - Excelsior Cinematografica, in collaborazione con Film A2 (Francia) - Telemünchen (Germania Ovest) - Film Four International (Gran Bretagna) - RTVE (Spagna) - RTSI (Svizzera); distribuzione: Medusa; durata: 118’ (versione tv: 150’) 1986 Speriamo che sia femmina regia: Mario Monicelli; soggetto: Tullio Pinelli; sceneggiatura: Leo Benvenuti, Suso Cecchi D’Amico, Piero De Bernardi, Mario Monicelli, Tullio Pinelli; fotografia: Camillo Bazzoni; scenografia: Enrico Fiorentini; costumi: Ezio Altieri; musica: Nicola Piovani; montaggio: Ruggero Mastroianni; interpreti: Liv Ullmann, Catherine Deneuve, Philippe Noiret, Bernard Blier, Giuliana De Sio, Stefania Sandrelli, Giuliano Gemma, Athina Cenci, Lucrezia Lante della Rovere, Paolo Hendel, Adalberto Maria Merli, Enio Drovandi, Carlo Monni, Paul Müller, Ron; produzione: Gianni Di Clemente per Clemi Cinematografica (Roma) Producteurs Associés (Parigi); distribuzione: CDE; durata: 117’

1987 I Picari regia: Mario Monicelli; soggetto e sceneggiatura: Leo Benvenuti, Suso Cecchi D’Amico, Piero De Bernardi, Mario Monicelli, Tullio Pinelli; fotografia: Tonino Nardi; scenografia: Enrico Fiorentini; costumi: Lina Nerli Taviani; musica: Lucio Dalla, Mauro Malavasi; montaggio: Ruggero Mastroianni; interpreti: Giancarlo Giannini, Enrico Montesano, Vittorio Gassman, Nino Manfredi, Giuliana De Sio, Bernard Blier, Vittorio Caprioli, Paolo Hendel, Enzo Robutti, Cristina Marsillach; produzione: Gianni Di Clemente per Clemi Cinematografica (Roma) Producciones Cinematograficas Dia (Madrid); distribuzione: Warner Bros.; durata: 128’ 1989 La moglie ingenua e il marito malato (film per la tv) regia: Mario Monicelli; soggetto: dal romanzo omonimo di Achille Campanile; sceneggiatura: Suso Cecchi D’Amico; fotografia: Tonino Nardi; scenografia: Enrico Fiorentini; arredamento: Massimo Tavazzi; costumi: Lina Nerli Taviani; musica: Nicola Piovani, arie da La Bohème di Giacomo Puccini; montaggio: Ruggero Mastroianni; interpreti: Fernando Rey, Stefania Sandrelli, Carlo Giuffré, Cinzia Leone, Galeazzo Benti, Paolo Bonacelli, Fiorenza Marchegiani, Diego Abatantuono; produzione: Carlo ed Enrico Vanzina per Video 80 - Reteitalia; durata: 56’ (trasmessa da Canale 5) 1990 Il male oscuro regia: Mario Monicelli; soggetto: dal romanzo omonimo di Giuseppe Berto;

sceneggiatura: Suso Cecchi D’Amico, Tonino Guerra; fotografia: Carlo Tafani; scenografia: Franco Velchi; costumi: Lia Morandini; musica: Nicola Piovani; montaggio: Ruggero Mastroianni; interpreti: Giancarlo Giannini, Emmanuelle Seigner, Stefania Sandrelli, Vittorio Caprioli, Antonello Fassari, Mauro Nuccetelli, Elisa Mainardi, Nestor Garay, Giovanni Baghino, Beatrice Palme, Rocco Papaleo; produzione: Gianni Di Clemente per Clemi Cinematografica; distribuzione: Artisti Associati International; durata: 114’ 1990 Verona (serie Dodici registi per dodici città) regia: Mario Monicelli; fotografia: Armando Nannuzzi; musica: Arie dall’Aida di Giuseppe Verdi; montaggio: Giuseppe Scaglione; voce di commento: Elio Pandolfi; produzione: Gabriella Macchiarulo per Excelsior Film Tv - Istituto Luce; distribuzione: Istituto Luce; durata: 8’ (+ spot da 30”) 1991 Rossini! Rossini! regia: Mario Monicelli; soggetto e sceneggiatura: Nicola Badalucco, Bruno Cagli, Suso Cecchi D’Amico, Mario Monicelli; fotografia: Franco Di Giacomo; scenografia: Franco Velchi; costumi: Lina Nerli Taviani; musica: Gioacchino Rossini, Giovanni Paisiello, Ferdinando Paer, Anonimo; consulenza musicale: Bruno Cagli; montaggio: Ruggero Mastroianni;

interpreti: Sergio Castellitto, Philippe Noiret, Sabine Azéma, Assumpta Serna, Giorgio Gaber, Jacqueline Bisset, Pino Tosca, Giusi Cataldo, Serena Mariani, Feodor Chaliapin, Claudio Gora; produzione: Enrico Roseo per Istituto Luce Italnoleggio; distribuzione: Istituto Luce Italnoleggio; durata: 130’ 1992 Parenti serpenti regia: Mario Monicelli; soggetto: Carmine Amoroso; sceneggiatura: Carmine Amoroso, con la partecipazione di Suso Cecchi D’Amico, Piero De Bernardi, Mario Monicelli; fotografia: Franco Di Giacomo; scenografia: Franco Velchi; costumi: Lina Nerli Taviani; musica: Rudy De Cesaris; montaggio: Ruggero Mastroianni; interpreti: Tommaso Bianco, Renato Cecchetto, Marina Confalone, Alessandro Haber, Cinzia Leone, Eugenio Masciari, Paolo Panelli, Monica Scattini, Pia Velsi; produzione: Gianni Di Clemente per Clemi Cinematografica; distribuzione: CDI; durata: 105’ 1994 Cari fottutissimi amici regia: Mario Monicelli; soggetto: Rodolfo Angelico; sceneggiatura: Leo Benvenuti, Suso Cecchi D’Amico, Piero De Bernardi, Mario Monicelli; fotografia: Tonino Nardi; scenografia: Franco Velchi; musica: Renzo Arbore; montaggio: Ruggero Mastroianni; interpreti: Paolo Villaggio, Massimo Ceccherini, Vittorio Rap, Marcello Graziani, Giuseppe Oppedisano, Childs Elijah Raynard, Beatrice Macola, Eva Grimaldi, Antonella Ponziani, Novello Novelli;

produzione: Luciano Luna per Penta Film - Officina Cinematografica; distribuzione: Penta Film; durata: 115’ 1995 Facciamo paradiso regia: Mario Monicelli; soggetto: liberamente tratto dal romanzo Vite di uomini non illustri di Giuseppe Pontiggia; sceneggiatura: Leo Benvenuti, Suso Cecchi D’Amico, Piero De Bernardi, Mario Monicelli; fotografia: Tonino Delli Colli; scenografia: Franco Velchi; costumi: Beatrice Bordone; progetto musicale: Moni Ovadia; musiche originali: Alfredo Lacosegliaz; montaggio: Ruggero Mastroianni; interpreti: Margherita Buy, Lello Arena, Philippe Noiret, Aurore Clément, Moni Ovadia, Dario Cassini, Gianfelice Imparato, Mattia Sbragia, Sabrina Paravicini; produzione: Gianni Di Clemente per Clemi Cinematografica; distribuzione: Medusa Film durata: 108’ 1996 Un idillio edile, episodio di Esercizi di stile regia: Mario Monicelli; soggetto: Mario Monicelli; sceneggiatura: Mario Monicelli, con la collaborazione di Serafino Murri; fotografia (b/n): Roberto Forza; scenografia: Paola Comencini; costumi: Anna Maria Heinrich; musica: Gianni Dell’Orso, con brani di repertorio; montaggio: Ugo De Rossi; interpreti: Elena Sofia Ricci, Massimo Wertmüller; produzione: Jacopo Capanna e Giuseppe Perugia per Produttori Associati, in collaborazione con RAI Radiotelevisione italiana, Cinecittà, Kodak, Anna Mode 68;

distribuzione: Eagle Pictures; durata: 6’; gli altri episodi sono diretti da Francesco Laudadio, Luigi Magni, Lorenzo Mieli, Pino Quartullo, Alessandro Piva, Faliero Rosati, Dino Risi, Maurizio Dell’Orso, Alex Infascelli, Sergio Citti, Volfgango De Biase, Cinzia Th Torrini, Claudio Fragasso 1997 Sempre i soliti, episodio di Dieci piccoli italiani regia: Mario Monicelli; soggetto e sceneggiatura: Alessandro Sortino, Filippo Roma; fotografia: Stefano Coletta; scenografia: Alessandra Querzola; costumi: Susanna Soro; musica: Matteo D’Amico; montaggio: Daniel Hoffman; interpreti: Carlotta Natoli, Manrico Gammarota; produzione: Giorgio Leopardi per RAI Cinemafiction - Union P.N.; distribuzione: indipendenti regionali; durata: 10’; gli altri episodi sono diretti da Romeo Conte, Daniele Costantini, Camilla Costanzo e Alessio Cremonini, Raimondo Crociani, Simona Izzo, Gillo Pontecorvo, Federico S. Quadrani, Ettore Scola, Ricky Tognazzi 1999 Panni sporchi regia: Mario Monicelli; soggetto e sceneggiatura: Suso Cecchi D’Amico, Masolino D’Amico, Mario Monicelli, con la collaborazione di Margherita D’Amico; fotografia: Stefano Coletta; scenografia: Franco Velchi; costumi: Carlo Diappi; musica: Luis Bacalov; montaggio: Bruno Sarandrea; interpreti: Paolo Bonacelli, Marina Confalone, Alessandro Haber, Benedetta Mazzini, Mariangela Melato, Ornella Muti, Michele Placido, Gigi Proietti, Pia Velsi, Gianfelice Imparato, Gianni Morandi;

produzione: Gianni Di Clemente per Clemi Cinematografica, in collaborazione con RAI Radiotelevisione italiana; distribuzione: Buena Vista International per CDI; durata: 107’ 1999 Nino Rota (documentario) regia: Mario Monicelli; sceneggiatura: Suso Cecchi D’Amico, Mario Monicelli; musica: Nino Rota (repertorio); interventi: Suso Cecchi D’Amico, Federico Fellini (materiale di repertorio), Bruno Moretti, Nino Rota (materiale di repertorio), Lina Wertmüller, Franco Zeffirelli; produzione: Parus Film per Istituto Luce; durata: 55’ 2000 Come quando fuori piove (film per la tv) regia: Mario Monicelli; soggetto e sceneggiatura: Leo Benvenuti, Suso Cecchi D’Amico, Piero De Bernardi, Mario Monicelli; fotografia: Stefano Coletta; scenografia: Franco Velchi; costumi: Carlo Diappi; montaggio: Bruno Sarandrea; interpreti: Stefano Accorsi, Claudia Pandolfi, Omero Antonutti, Fabio Bussotti, Flavio Pistilli, Franca Valeri, Renato Zamengo; produzione: Silvia D’Amico Bendicò per Rai Fiction; durata: 168’ (trasmessa in due puntate su Rai Uno) 2006 Le rose del deserto regia: Mario Monicelli; soggetto: dal romanzo Il deserto di Libia di Mario Tobino e Guerra d’Albania di Giancarlo Fusco; sceneggiatura: Alessandro Bencivenni, Mario Monicelli, Domenico Saverni; fotografia: Saverio Guarna; scenografia: Lorenzo Baraldi; musica: Mino Freda, Paolo Dossena;

costumi: Francesca Sartori; montaggio: Bruno Sarandrea; interpreti: Michele Placido, Giorgio Pasotti, Alessandro Haber, Moran Atias, Stefano Scandaletti, Enzo Marcelli, Tatti Sanguineti, Claudio Bigagli, Tiziano Scarpa; produzione: Mauro Berardi e Vittorio Zeviani per Mikado Film e Rai Cinema. durata: 102’

Convertito in ebook nel mese di giugno 2016 presso Nascafina servizi editoriali www.nascafina.it