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Italian Pages 359 [184] Year 2009
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mondo, uno scontro senza precedenti sulla storia in relazione al tentativo di ricostruire un nuovo ordine mondiale dopo il crollo di quello bipolare. Assistiamo a un prepotente ritorno sulla scena politica del «Principe» che avoca a sé il po. tere di stabilire quel che la storia deve dire. Questo ritorno si giova di fenomeni quali l'eclissi del sociale, la corrosione della democrazia, l'avanzare dell'antipolitica populista, la fine dello stato sociale, il vento culturale del neoliberismo che hanno puntuali ricadute sul piano culturale e, più specificamente, storiografico. Su questo scontro, e sulle più ampie questioni correlate, indaga Aldo Giannuli analizzando il revisionismo storico nelle sue varie manifestazioni, a cominciare dal tema dell'Olocausto e dal connesso fenomeno di «tribunalizzazione della storia», e dedicando particolare attenzione all' «anomalo caso italiano». Partendo dall'affermazione che la storia è il suo uso pubblico, e coincide perfettamente con esso, il libro si sofferma in particolare sull' «abuso» della storia recente nei mass media, con un occhio attento alla spettacolarizzazione. Se non mancano infatti opere di buona qualità, prevalgono nettamente quelle che, in nome dell' «uso pubblico della storia», praticano un sostanziale abuso a fini di polemica contingente. Il problema storiografico che ci si presenta oggi è proprio quello di intuire la portata della svolta storica che abbiamo appena attraversato, da dove è sorta e dove ci sta portando. E si comprende come tutto questo vada molto oltre la retorica del «secolo del male».
stituito, e che, dunque, il principio democratico possa vincere e imporsi. Ne nega la legittimità e sostiene che una parabola fatale
DomenicoLosurdo, Il revisionismostorico.Problemie miti, Laterza, Roma-Bari,1998, p. 32. 52 Carl Schmitt, La dittatura, Settimo Sigillo,Roma, 2006. 53 Carl Schmitt, Il nomos della terra,Adelphi, Milano, 1991. 54 Carl Schmitt, Teoria del partigiano,il Saggiatore,Milano, 1981.
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delle SS, subì un netto ridimensionamento, che gli impedì assurgere alle alte cariche politiche cui sembrava destinato. D'altro canto, l'opera di Schmitt fu un grande edificio filos fico, giuridico, politologico, non riducibile solo alle sue opzio politiche e lo dimostrano le ampie relazioni scientifiche eh anche dopo il 1945, continuò ad avere non solo con pensato più affini (come Martin Heidegger, KarlJaspers o Ernst}iinger) ma anche con altri assai meno omogenei (come Hanna Arendt, Jacob Taubes o Alexandre Kojève). Ciò non di meno, per oltre trent'anni, il suo nome fu bandit dalla comunità scientifica europea: ancora sul finire degli an11 Sessanta, la decisione del direttore di una rivista filosofica tede~ · sca, di ospitare un suo saggio, provocava una massiccia protesta di redattori e collaboratori che preferivano dimettersi piuttosto che condividere le stesse pagine con l'ex Kronjuristdi Hitler. Il mondo del dititto gli volse le spalle per guardare al suo grande antagonista, Hans Kelsen, la cui dottrina pura del diritto fu posta a base tanto della Carta dell'Onu quanto delle Costituzioni approvate in quel peridodo. Le case editrici più affermate si guardavano bene dall'ospitarlo nei propri cataloghi55 e gli istituti universitari dall'invitarlo ai loro convegni. Con la sola eccezione della Spagna franchista che, al contrario, lo ebbe sempre in grande considerazione e lo insignì del titolo di membro dell'Accademia nazionale. Questo marcato ostracismo, paradossalmente, gli giovò, preparandone una nuova stagione di fortuna editoriale e scientifica, dagli ultimi anni Settanta in poi. Per quanto si possa dissentire dalla posizione politica e anche dal suo impianto metodologico, Schmitt è uno dei classici del pensiero europeo del XX secolo (come ·dimostrano i continui studi di ·autori anche di sinistra come Massimo Cacciari, Giacomo Marramao, Danilo Zola, Angelo Bolaffi, Carlo Galli, per restare solo in Italia). Un grande classico si può combattere, ma non rimuovere e quel lungo silenzio servì solo a rendere più dirompente la sua nuova fortuna.
··..·•. Senza la sua riscoperta, molte delle cose cui abbiamo accen. to O di cui parleremo (il ritorno dello « stato d'eccezione», la b~tralità del momento decisionale e il c~nnesso rafforzamento dell'esecutivo a scapito del parlamento, il tramonto dell~ pre. · diziale antibellicista, la rivalutazione dell'Impero) non si comglll . consi'derazione . •prendono pien~ente ~enza pren dere m questa nuova fortuna di Schmitt. · . . In particolare, è rilevante il nesso fra questo nto~no e la Riluzione Marziale di cui si è detto e della qmµe abbiamo sottovo . . Ad lineato l'aspetto della guerra totale e as1mmetn~a. aver prerato il terreno in questo senso furono le teorie sulla « guerra ~:oluzionaria » (dottrina ufficiale della Nato. negli an~i ~essan~ taf 6 cui Schmitt dette un contributo essenziale con il ciclo di conferenze presso l'università di Saragozza (Catedra de cultura militar General Palafox), poi raccolte sotto il titolo Teoria del partigiano.Da questo testo tra~pare ~pid~m~nt: la filiazione di questa teoria dalla critica alla rivoluzione ~i c1:11 dicevamo. E, con . maggiore o minore evidenza, vedremo riaffiorare questo tema nelle opere degli storici revisionisti.
3. Van Mises, van Hayek, Friedman Una tappa fondamentale di questo cammino di restaurazione culturale è stata segnata dalla scuola di Ludwig von Mises - un economista austriaco emigrato negli Usa-, fierissimo sostenitore del liberismo per il quale «l'economia è una branca della prasseologia», ovvero la scienza dello studio a priori dell~ azioni umane. E, pertanto, l'economia non si basa sullo studio della storia (e della storia economica in particolare), ma, al contrario, è la storia ad aver bisogno delle categorie economiche per interpretare gli eventi che studia.
In_Italia, per la verità, Giuffrè pubblicò numerosi suoi libri.
Giorgio Galli, La democraziae il pensieromilitare,Libreria editrice Goriziana, Gorizia, 2008. ·
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Cardine principale dell'ideologia liberista di von Mises (ed suo allievo von Hayek) è l'individualismo proprietario, che fon, da il principio stesso di civiltà (è evidente l'eredità di Burke): è l'arricchimento del singolo che consente l'accumulazione neces. saria allo sviluppo culturale. Un dogma eterno e indiscutibile,' per il quale la ricchezza individuale è stata e sarà sempre la premessa necessaria dello sviluppo, di scienze e arti. Ne_co~s:gu~ che il socialismo è di per se stesso negatore del pr1nc1p10di civiltà e, dunque, il principale (ma forse unico) nemico da combattere. E, infatti, nella sua campagna contro il socialismo, von Mises si dimostrò assai comprensivo verso lo squadrismo fascista e nazista che, se non altro, aveva fronteggiato una situazione di. eccezione, impedendo un· male maggiore e questo merito del fascismo « vivrà in eterno nella storia ».57 Questo non impedirà, tuttavia, che l'Anschlussrendesse la vita assai difficile anche all'aristocratico professore viennese che si affrettò a emigrare in Inghilterra e negli Stati Uniti, dove ebbe come allievo prediletto Friedrich August von Hayek, a sua volta docente a Chicago negli stessi anni in cui vi insegnò Milton Friedman. Alla ricetta keynesiana che proponeva l'aumento degli investimenti per combattere la disoccupazione, von Hayek contrappose una sua terapia basata sul rigore monetario e l' aus~e_ritàdei· consumi, così da sanare gli squilibri causati da una politica creditizia scorretta e troppo lassista. . Convinto che occorresse basare lo studio delle grandezze economiche sull'analisi dei comportamenti dei singoli attori (consu~ matori, imprese;risparmiatori, mediatori fmanziari ecc.) giunse a teorizzare la microfondazione della macroeconomia. · La sua intransigenza lo portò a polemizzare con Milton Fried-·. man, accusandolo in maniera immeritata di essere un campione dello statalismo. ·
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Cit. in Domenico Losurdo, Òp.cit., Laterza, Roma-Bari, 1998, p.
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/ Da un punto di vista politico non c'è dubbio che le teorie di Friedman ebbero maggiore successo, trovando sostenitori del alibro di Margaret Thatcher, Ronald Reagan, del generale Au.eusto Pinochet, di Menachem Begin o Yitzhak Shamir, ma gli ,; gffetti dell'azione di von Mises e von Hayek prevalsero sul piano · :ulturale di cui qui d occupiamo. Infatti, la scuola viennese appresentò la più coerente antitesi del keynesismo e, in quanto ,.·.;ale, la base culturale della « rivoluzione neolibtrista » degli anni Ottanta e Novanta. / Basta sfogliare i programmi di esame adottati nelle facoltà di Economia o di Scienze politiche - sia in Italia che nel resto d'Europa - per rendersi conto di quanto sia stata profonda la loro influenza culturale e basta citare Paul Samuelson per una 1: 58 comerma. Se Friedman fu essenzialmente un tecnico della moneta, Hayek si spinse molto oltre, costruendo un sistem~ filosofico di riferimento. Teorizzò l'esistenza di un terzo ordine·- oltre quellonaturale dato e quello artificialmente prodotto dall'azione deliberata dell'uomo - prodotto dal comportamento spontaneo dell'uomo, non predeterminabile, ma basato appunto sulla convenienza. Questo comportamento, riconducibile ali'azione individuale, crea un ordine involontario che è quello del mercato, così come accade per la morale o la convenzione linguistica. E il linguaggio del mercato è quello dei prezzi espressi in valori monetari. La somma dei comportamenti microeconomici crea le regolarità necessarie ali'ordine del sistema. · Queste regolarità non sono né determinabili né influenzabili da interventi « razionalizzatori » dall'alto. In altri termini, l' ordine sociale ha un fondamento economico e non sopporta interventi di ~gegneria sociale che possono solo produrre danpi (e qui si risente con chiarezza l'influenza di Burke). La stessa informazione dei consumatori non può essere fornita dall'esterno,
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Samuelson:i sette erroridei liberistisenza regole,in« Corriere della
Sera», 20 ottobre 2008, p. 9.
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perché la conoscenza dei consumatori è frammentaria e prodott dall'autoapprendimento indotto dallo stesso mercato. Ogni tentativo di modificare le leggi del mercato non può che fallire immettere sulla strada del totalitarismo. 59 Naturalmente tutto questo ha anche un corollario: l'ordine sociale, inteso come formazione delle gerarchie sociali, è a sua volta prodotto da quelle regolarità e, pertanto, produce gerar~ chie «naturali» che sarebbe controproducente voler sovvertire, Privata della sua funzione di agente di trasformazione sociale, 1 politica deve ridurre la sua azione a mera custode dell' ordin «spontaneo» creato dal mercato. La legge deve in primo luog fissare i limiti entro cui può svolgersi l'azione dello Stato, garantendo al massimo le libertà individuali. Già qui si coglie quella contrapposizione fra libertà individua li (essenzialmente economiche) e libertà politiche che, in quest visione, hanno scarso senso. E, infatti, sia in questi autori che · altri come Furet, si risente la polemica antintellettuale di Burke. E anche di queste idee si è nutrita l'ondata antipolitica di cui dicevamo in precedenza.
4. Il revisionismosullaRivoluzionefrancesee FrançoisFuret Come si diceva, nella seconda metà del XIX secolo si affermò come prevalente il punto di vista degli storici repubblicani C particolare Alphonse Aulard), che sostenevano il carattere pro: gressivo della rivoluzione, nonostante i suoi costi umani. Questo, peraltro non impedì che sopravvivesse, pur minoritaria, una corrente storiografica antirivoluzionaria che, al contrario, facev leva proprio sul tema dei massacri per indicare la rivoluzion come una catastrofe da condannare. In un secondo momento., sopraggiunsero nel filone repuh 59
F.A. van Hayek, The Road to Ser/dom (1944), University of Chi, cago Press, Chicago, 1994.
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blicano anche gli storici marxisti (Jean Jaurès e poi, via via, Albert Mathiez, Albert Soboul e gli annalisti come Georges Lefebvre o Ernest Labrousse). Venne così formandosi il cosiddetto canone giacobino-marxista che leggeva la rivoluzione come antifeudale e borghese, dunque come un momento di passaggio necessario del cammino storico verso forme sociali più evolute. Questa lettura risentiva certamente della teoria del >materialismo storico, sottolineandone fortemente il tratto finalistico delle filosofie storiciste e aggiungendoci{ strada facendo, qualche influenza positivista. Cosicché, questa qualificazione borghese e antifeudale della rivoluzione, pur essendo per diver. si aspetti fondata, presentava limiti di determinismo economico e forzature che, più tardi, ne produrranno una ossificazione dogmatica. Tuttavia, questa lettura della rivoluzione ebbe grandi meriti, come la scoperta della storia sociale: ancora Aulard aveva privilegiato una impostazione tutta «dall'alto», che guardava solo ai grandi personaggi e ai processi al livello della statualità. Dunque, essarappresentò un momento di notevole sviluppo della storiografia, anche se questo si accompagnò a una certa dose di strumentalità politica, tesa a sostenere la legittimità storica della Solidaritérépublicaine,il mito fondativo della sinistra francese alla base delle alleanze del Front Populaireo della Union de la Gauche.L'uso politico della storia, dove per esso si intenda una forzatura dell'analisi storica in funzione di obiettivi politici, non è nato con il revisionismo storico e non è una sua esclusiva. La storiografiainfluenzata dai partiti comunisti non di rado ha avuto cadute di questo genere. François Furet si formò in questo contesto. Fu allievo di Er-. nest Labrousse (coautore con Fernand Braudel di una importante storia sociale ed economica di Francia). E, del suo maestro, Furet condivise, per alcuni anni, anche l'impegno politico nel Partito comunista francese. Sino ai primi anni Sessanta le sue opere furono sostanzialmente int~rne al solco del canone storiografico giacobino-marxista. Il suo distacco da esso iniziò à manifestarsi con un'opera del
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1965, scritta con Denis Richet 60 nella quale rimetteva in discus sione il carattere borghese della rivoluzione. Per Furet il cors iniziale della rivoluzione era determinato dalla spinta di un nuova èlite politica di indirizzo riformista, trasversale ai tre stati A far deragliare la rivoluzione (Furet usa proprio l' espression dérapage)sarebbe stata l'irruzione sulla scena delle masse popo lari nel 1792. Questa tesi suscitò la reazione dei sostenitori d canone giacobino-marxista, cui Furet rispose ulteriormente co altre opere6 1 che radicalizzarono ancor più la polemica. In particolare si denunciava l'insuccesso della rivoluzione ri spetto agli stessi programmi dei rivoluzionari: Fra il bilancio della rivoluzione e le intenzioni dei rivoluzionari c'è un abisso incolmabile.62 Furet (e altrettanto farà Daniel Pipes) operava una forte rivalu tazione dello storico cattolico tradizionali,sta Augustin Coch' dal quale mutuava in particolare l'analisi « sociologica» del fe nomeno rivoluzionario, per la quale la radice sta nel « fanatism societario ».63 Influenzato anche dallo storico russo Moise Ostrogorski, Furet ne assumeva la critica dei moderni partiti sindacati giungendo alla conclusione che è l' « uomo sociologi zato », cioè organizzato in partiti, il fondamento sociologico dell patologia rivoluzionaria, perché esso si «chiude» all'interno una società artificiale - il partito - perdendo il contatto co quella reale e naturale (ma questa valutazione non vale per l'a partenenza a una Chiesa ... chissà perché). A supporto delle sue tesi, Furet recuperava il mito storiogra fico della Glorious Revolut.ion del 1688-89, creato da Trev
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64 che vantava come maggior gloria di essa il suo carattere· Jyan incruento (la « Rivoluzione del buon senso » come egli stesso la . definiva nell'introduzione). . Giustamente, peraltro, Furet metteva in guardia dall'interpretare le rivoluzioni solo attraverso le lenti dell'ideologia e delle autorappresentazioni dei loro protagonisti, cogliendo, in questo senso, uno dei punti deboli del canone giacobino-marxista. Ma a quèsta intuizione faceva seguire l'individuazione della causa dello svolgimento particolarmente violento dellst ,rivoluzione francese nelle caratteristiche ideologiche del giacobinismo e nel loro patologico estremismo. , E sulla stessa linea di sviluppo, Furet proseguiva esaminando le vicende del comunismo e gli esiti totalitari della Rivoluzione russa attribuiti, anche essi, all'ideologia bolscevica che altro non era che la prosecuzione logica del giacobinismo. 65 Tornava così il tema ben noto dell'insanìa dei rivoluzionari sostenuta, more solito, dal confronto con la GloriousRevolution (che, in realtà, fu una « rivoluzione dall'alto » e non andò m~lto . aldi là di una congiura palatina con debole appoggio esterno alle . mura) e con la Rivoluzione americana, che si pretendeva essere stata assai meno sanguinosa. Giustamente, Losurdo 66 fa rilevare la scorrettezza metodologica di Furet che compara l'intero ciclo rivoluzionario francese . (1770-1880) con il solo momento della rivoluzione di febbraio e con la prima parte della Rivoluzione americana, trascurando il ciclo rivoluzionario in cui ciascuno dei due termini di paragone è inserito. E infatti, il ciclo inglese ha un primo avvio nella rivoluzione del 1628-29 e nella guerra civile del 1640 che non fu affatto esente da spargimento di sangue. Occorre anche considerare la guerra di sterminio contro gli irlandesi (il termine genocidio non
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François Furet, Denis Richet, La Rivoluzione Francese,Later · Roma-Bari,1974. 61 SoprattuttoFrançoisFuret, Criticadella Rivoluzione Francese,L terza, Roma-Bari,1981. 62p ranço1s ·p uret, op. czt., . p. l 9. 63 DomenicoLosurdo, op. cit., p. 28. 76
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GeorgeTrevelyan,La rivoluzioneinglesedel 1688-89,il Saggiatore, . Milano,1976, con traduzione di CesarePavese. 65 FrançoisFuret, Il passato di un'illusione. L'idea comunista nel XX secolo,Arnoldo Mondadori, Milano 1995. ¼ ' DomenicoLosurdo, op. cit., pp. 45-55.
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era ancora comparso) e la repressione sanguinosissima delle rivolte giacobite in Scozia che proseguì sino al 1746. Quanto poi alla Rivoluzione americana, anche essa si estende per diversi decenni, dal 1776 alla fine della guerra di secessione, e passò per processi tutt'altro che indolori come la persecuzione dei sudditi unionisti leali a Londra, costretti a emigrare in Canada, la guerra di sterminio contro i pellirosse (fra i quali venne deliberatamente diffuso il vaiolo), la seconda guerra angloamericana (1812) e, infine, la guerra di secessione che concluse il ciclo rivoluzionario. Come si vede, anche nel caso americano abbiamo la dinamica di una rivoluzione che epura se stessa man mano che prosegue, con processi di guerra civile anche fra i rivoluzionari. Losurdo, inoltre, segnala l'uso sbilenco delle fonti fatto da Furet che, per documentare le atrocità giacobine, usa come fonti solo testi dei nemici della Rivoluzione, mentre per la Rivoluzione americana usa solo le testimonianze dei vincitori. 67 Altri, come Luciano Guerci, rimproverano a Furet di non dare alcun peso agli aspetti sociali, economici e demografici, E più ancora, di chiudersi in una dimensione pariginocentrica, trascurando completamente la popolazione rurale che, ali'epoca, rappresentava circa 1'85% del totale. 68 Potremmo proseguire indicando anche altre notevoli pecche metodologiche dell'opusfurettiano, ma ci sembra che basti per indicarne i non pochi punti deboli, che si sommano anche al carattere non originalissimo delle sue tesi. In effetti, molte di esse hon erano affatto originali: la critica al sostitutismo giacobino (per il quale i giacobini identificavano il popolo con se stessi) era stata avanzata da Jacob T almon già trent'anni prima, 69 la stessa critica dell'interpretazione giacobi-
no-marxista che individua la Rivoluzione francese come rivoluzione borghese e antifeudale non era nuova, essendo stata già anticipata ampiamente da Alfred Cobban nel 1955. 70 E allora come spiegare il suo successo, che, invece, era- mancato sia a Talmon che a Cobban? La ragione principale è probabilmente da rintracciarsi proprio in quel « vento culturale » di cui parliamo. Un vento che Furet ha contribuito ad alimentare, ma dal .quale è stato anche sostenuto.· Cobban e T almon avevano scritto opere scientificamente più fondate, ma nel momento sbagliato. Nell'Europa degli anni Cinquanta, quando il blocco antisovietico aveva bisogno di recuperare la socialdemocrazia e le sinistre liberali, la polemica sulla continuità fra i giacobini e i bolscevichi non era funzionale, anzi avrebbe regalato ali'avversario il vantaggio di riconoscerlo come erede legittimo di una rivoluzione, che era ancora il principale . mito fondativo dell'Europa moderna. Furet, invece, anticipa di pochissimo la svolta della metà anni Settanta. In secondo luogo, il suo successo è stato largamente determinato proprio dall' « uso pubblico» della storia, per il quale la polemica si è abbondantemente svolta sui mezzi di comunicazione di massa. E lo storico francese se ne è servito in modo eccel- · lente, grazie alla sua innegabile verve polemica: invitava a « raffreddare il tema», assumendo un distacco storico dai fatti ormai lontani («La Rivoluzione francese è finita» è stata una delle sue formule più efficaci), ma nello stesso tempo, attaccava con veemenza e assai scarso distacco i suoi critici. 71 A dare vigore alla sua polemica fu proprio il taglio esplicitamente politico della sua operazione. Nel decennale della sua morte, egli è stato presentato come uno storico che:
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Domenico Losurdo, op. cit., pp. 52-3. Luciano Guerci, Raffreddare ed inveire: a proposito del bicentenario del 1789, in «Passato e Presente», n. 19, 1989. 69 Jacob Talmon, Le origini della democrazia totalitaria, il Mulino, Bologna, 1967. 68
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Alfred Cobban, The Myth o/ the French Revolution (1955), tr. it.
La società francese e la Rivoluzione, Vallecchi, Firenze, 1967. 71
Luciano Guerci, art. cit.
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Anziché proiettare sul passato le passioni del presente, indagava il passato per chiarire il mistero del presente.72
È vero esattamente il contrario: Furet era mosso da un disegno politico che supportava con una critica storica metodologicamente molto disinvolta. In una nota intervista, 73 lo storico dichiarava apertamente di « auspicare di tutto cuore» un grande partito socialdemocratico e moderato (dove l'accento cade nettamente sul secondo aggettivo). Così come egli ha sempre dichiarato il suo orientamento filoamericano e filoisraeliano (due « civiltà europee costruite fuo:d d'Europa» amava ripetere). La sua ricerca storica era apertamente finalizzata a fornire a questi orientamenti politici un adeguato supporto culturale, allo stesso modo in cui il canone marx-giacobino era funzionale al disegno della Solidaritérépublicaine.L'ex comunista Furet aveva mutato linea, ma conduceva una operazione assolutamente speculare. Questo metodo può apparire discutibile su un piano scientifico, ma ha una efficacia ineguagliabile in una polemica stampa. . Peraltro, l'impatto dell'operazione furettiana fu esaltato dalla reazione anì:irevisionista. Scrive Guerci: È innegabile che il revisionismo storiografico [...] abbia avuto effetti salutari, e bisogna dire che certi micidiali fendenti la storiografia marxista-giacobina, viste le secche in cui si era incagliata, se li è andati proprio a cercare. Di fronte alla perentoria riapertura del dossier rivoluzionario promossa dai revisionisti, essa a lungo non ha trovato di meglio che arroccarsi nel dogmatismo e aggrapparsi a consunti clichés. In questo senso le responsabilità dell'ultimo Soboul [...] sono state gravi. R~spinto ogni dialogo con gli avversari, bollati come « Fils ingrats ou renegats de nostre mère a tous », Soboul e alcuni pedissequi
Gli storici antirevisionisti hanno pensato che bastasse irrogare la scomunica maggiore per fermare gli eretici. Ma, come si sa, le scomuniche hanno una efficacia quando l'eretico non è assistito da rapporti di forza favorevoli: quel che valse contro John Wyclif o Jan Hus non servi contro Lutero. Quando il clima politico cambia, la difesa dell'ortodossia è sempre una scelta perdente, perché non esiste un canone storiografico eterno. Ogni canone si forma sulle domande che il presente pone al passato e che, ovviamente, cambiano nel tempo. L' antirevisionismo dogmatico ha ripetuto l'errore di buona parte della sinistra radicale (con la quale spesso si intrecciava) che ha ritenuto di opporsi al « vento liberale e liberista» in termini di « guerra di posizione» lì dove si era in piena « guerra di movimento». Occorreva capire in cosa il vecchio canone non era più adeguato ai tempi e formulare una ipotesi alternativa a quella avanzata dai revisionisti. In mancanza di. questo, la difesa rigida dell'esistente si trasforma fatalmente nella subalternità all'offensiva revisionista che risulterà vincente. Il caso Furet è l'esempio da manuale di queste dinamiche.
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Marina Valensise,Il presente di una rivoluzione.Che cosarestadel metodo storicodi Furet a dieci anni dalla sua morte, in « Il Foglio», 13 luglio, 2007, p. II. ' 73 «La Stampa», 5 marzo 1986. ·
scolari hanno continuato a riproporre l'immagine della Rivoluzione francese come rivoluzione borghese-capitalista [...] e a esaltare il giacobinismo dell'anno II. Occorreva rinnovarsi e non fulminare scomuniche, bandire crociate, gemere sulla nequizia dei tempi, richiamare all'ortodossia. Ciò non è stato fatto o è stato fatto solo tardivamente. La conseguenza è stata che la polemica revisionista è via via aumentata d'intensità[ ...] Auspice il vento favorevole del liberalismo e del liberismo [...] i revisionistihanno conquistato una posizione egemonica e hanno costruito una nuova ortodossia dalla quale non ci si può azzardare a dissentire senza attirarsi l'accusa di nutrire patetiche nostalgie stataliste e populiste (nel migliore dei casi) o inconfessabili simpatie totalitarie e staliniste (nel peggiore).74
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Luciano . G·uerc1, . op. at., · p. 4 . 81
5. Nolte e la guerracivile europea Insieme a Furet e a Renzo De Felice (di cui parleremo nel contesto italiano) Ernst Nolte è il maggior referente del revisionismo · storiografico europeo. Allievo di Martin Heidegger, raggiunse la· fama internazionale nel 1963 con Der Faschismusin seiner Epoche,75uno dei primi studi comparati sul fascismo dedicato, oltre che al fascismo italiano, al nazismo e ali' Action Française di Charles Maurras. Il libro era costruito intorno a una intuizione: pur nella profonda diversità dei casi nazionali, il fascismo è stato un fenomeno epocale tendenzialmente unitario, caratterizzato da una contaminazione di elementi ideologici nazionalisti con elementi socialisti e destinato ad avere successo solo nei contesti in cui operi un forte mòvimento marxista. Nolte proseguì lungo questa linea di ricerca per circa un ventennio, pervenendo gradualmente a conclusioni assai divergenti dalla storiografia corrente in materia di nazismo. Abbiamo già ricordato l'Historikerstreitche, a metà degli anni Ottanta, lo vide impegnato sul tema della «colpa» del popolo tedesco per l'Olocausto e i crin1ini nazisti. La sua ricerca culminò nel saggio sulla guerra civile europea 76 nel quale spiegò il fascismo come reazione alla Rivoluzione russa, individuando nell'antibolscevismo il vero nucleo centrale del pensiero nazionalsocialista. Lungo questo indirizzo, Nolte perveniva alla conclusione che i crimini nazisti erano da relativizzare in quanto da porre in relazione a quelli del comunismo: il gulag sarebbe una sorta di prius del lager. Nolte si spinge molto più in là di Furet nel teorizzare la continuità fra giacobinismo e bolscevismo, risalendo man mano agli anabattisti di Thomas Miintzer, alle jacqueries, alle rivolte degli schiavi come Spartaco, persino ad alcune pagine della Bib-
bia. È quello che definisce «l'eterna sinistra» 77 che identifica con un atteggiamento sostanzialmente pauperista incapace di comprendere che la diseguaglianza sociale è la base del progresso civile(e qui è evidente la parentela ideologica con l'individualismo proprietario di Burke). E, dunque, i bolscevichi sono proposti come antagonisti della civiltà europea e assimilati all'islamismo (come peraltro Burke aveva assimilato i giacobini all'islamismo). È curioso notare che, invece, Pipes fa l'operazione contraria facendo discendere l'Islam radicale da ½enin. · Di rilievo, nel modello esplicativo noltiano è la caratterizzazione dell'Ottobre russo come rivoluzione non partecipata, essendosi trattato sostanzialmente di un colpo di Stato con una base assai esigua di consenso, che, in qualche modo, poneva le premesse per la successiva repressione. Stranamente, questo stesso carattere di rivoluzione non partecipata rion è individuato nella Rivoluzione inglese del 1689 che, invece, è indicata una volta di più come modello positivo. Nolte riprende da Schmitt la nozione di « nemico assoluto» riferendola ali'appello di Lenin sulla trasformazione della guerra imperialista in guerra rivoluzionaria che avrebbe dato il via alla guerra civile europea. Giustamente, Losurdo fa notare che anche le potenze occidentali rivolsero frequenti appelli al popolo tedesco a insorgere contro il proprio governo - accusato di essere assolutista e sanguinario - e il presidente Woodrow Wilson presentò l'entrata in guerra degli Usa come una crociata per la democrazia e la liberazione di tutti i popoli « compresi quelli germanici». E, infatti, la propaganda degli imperi centrali insistette molto sul tema della « congiura internazionale massonica» ai propri danni. Peraltro, il debito intellettuale di Nolte verso Schmitt si evidenzia anche nel concetto di « guerra civile fredda» che si sarebbe conclusa con il 1989.78 Come nel caso di Furet, anche Nolte manifesta una notevole disinvoltura metodologica sulla quale non è inutile soffermarsi.
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I tre volti del fascismo, Arnoldo Mondadori, Milano, 1971. Ernst Nolte, Nazionalismo e bolscevismo.La guerracivile europea 1917-1945,Sansoni, Firenze, 1988. 76
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Ernst Nolte, Controversie,Corbaccio, Milano, 1999, pp. 77 sgg. Domenico Losurdo, op. àt., p. 124; Ernst Nolte, 1994. 83
A proposito del tema della rivoluzione mondiale, osserviamo che si trattò del progetto di Lenin e T rockij che pensavano la situazione matura per la vittoria rivoluzionaria nell'Europa occidentale - soprattutto in Germania- nel giro di pochi anni. Non è questa la sede per entrare nel merito della fondatezza di quella ipotesi e delle ragioni del suo insuccesso, di fatto essa andò rapidamente incontro alla sconfitta e, già nell'ottobre 1923, con il fallimento dell' « ottobre tedesco», usciva definitivamente di scena. Dopo un brevissimo interludio durato meno di due anni, la prospettiva della rivoluzione mondiale venne abbandonata dai comunisti russi - salvo che per il maldestro tentativo cinese del 1927 - e gli interessi del nuovo stato sovietico si affermarono come prevalenti e, per riflesso, l'Internazionale comùnista e i suoi partiti divennero una appendice della politica estera sovietica. Come comprese subito Trockij, il« socialismo in un solo paese» non era la momentanea accettazione di uno stato di fatto sfavorevole, ma il definitivo abbandono della prospettiva internazionalista. Man mano, il gruppo dirigente stalinista concepì l'eventuale espansione del socialismo come la progressiva estensione della sfera di influenza sovietica. Quello che. accadde dopo il 1946, con l'emergere di due blocchi reciprocamente demarcati, era la prosecuzione logica di quell'impostazione. Dunque, la vittoria dei vari movimenti fascisti e l'affermarsi di regimi autoritari di destra (Italia 1922, Germania 1933, Portogallo 1926-32, Spagna 1936-39) sostanzialmente segue la fine del tentativo rivoluzionario leninista e va ben oltre il limite della reazione a essi. Anche in Italia, il fascismo vinceva'dopo la scon. fitta dell'occupazione delle fabbriche e spiccava il volo, non dopo un nuovo assalto rivoluzionario, ma dopo il fallimento dello « sciopero legalitario» dell'agosto 1922. Ma, se nel caso italiano si può anche ipotizzare una sorta di movimento inerziale, per cui il fascismo giungeva al potere sullo slancio di quanto I accaduto due anni prima, questo non può essere decentemente sostenuto nel caso tedesco, dove i nazisti dettero l'assalto a un regime democratico, in assenza di qualsiasi tentativo insurrezionale comunista. Semmai, in occasione del « plebiscito rosso»
godettero dell'appoggio dei comunisti tedeschi (una macchia indelebile del Kpd sulla quale si sorvola troppo facilmente). Tanto meno la teoria di Nolte risulta idonea a spiegare il caso portoghese, dove non c'è mai stata una congiuntura rivoluzionaria (ma Nolte il Portogallo non lo prende neppure in considerazione). E, notiamo incidentalmente, il caso portoghese contraddice anche l'idea che il fascismo sorga da una contaminazione fra cultura politica nazionalista con elementi di socialismo, ché, di socialismo, nel fascismo salazarista non c'è n~ppure l'ombra. Soprattutto l'ipotesi di Nolte non funziona nel caso spagnolo, dove il Fronte popolare (di cui facevano parte due partiti« borghesi», è bene ricordarlo) andò al potere grazie a una regolarissima vittoria elettorale e su un programma che non prevedeva alcuna « guerra di sterminio» della borghesia. La guerra civile fu scatenata da Francisco Franco su istigazione del fascismo italiano, che temeva un peggioramento della propria posizione nel Mediterraneo. Come documenta per la prima volta e molto convincentemente Morten Heiberg, 79 le origini del colpo di Stato falan. gista erano molto precedenti all'assassinio di Calvo Sotelo (invocato come motivo scatenante) e addirittura alla stessa vittoria elettorale del Fronte popolare. D'altra parte, i comunisti erano del tutto minoritari nello schieramento di sinistra e videro crescere il loro peso proprio grazie allo scatenamento della guerra civile da parte franchista. Peraltro, essi non spinsero mai verso un esito rivoluzionario e, anzi, si impegnarono sino all'ultimo a preservare l' « alleanza antifascista» con settori della borghesia. Dunque, non sembra che la tesi di Nolte resista a una verifica storica fattuale. Ma non resiste molto neppure dal punto di vista della filologia ideologica; come documenta lo storico israeliano Zeev Sternhell, 80 il fascismo trova le sue radici nella crisi ideologica a cavallo fra l'Ottocento e il Novecento, molto prima della
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Morten Heiberg, Emperad;resdel Mediterraneo.Franco,Mussolini
y la guerracivil espaftola,Editorial Critica, Barcelona, 2003. 80
Zeev: Sternhell, Nasdta dell'ideologiafascista, Baldini & Castaldi, Milano, 1993.
Rivoluzione russa. D'altro canto, anche Furet mosse critiche analoghe a Nolte (nonostante i cordialissimi rapporti intrattenuti per oltre venti anni) segnalando come i fascisti non avevano alcun bisogno della rivoluzione bolscevica per il loro dichiarato antiparlamentarismo. Infatti, il fascismo non fu solo reazione antirivoluzionaria ed ebbe caratteri primari originali che vanno ben oltre la semplice reazione anticomunista. Peraltro, come Furet, neanche Nolte è stato del tutto originale nelle sue tesi. La riduzione del fascismo a mero movimento di opposizione al comunismo è già presente nell'elaborazione di Maurice Bardèche (ideologo del fascismo francese, cognato di Robert Brasillach) che, già nel 1962, aveva iniziato a sottolineare l'assenza di un minimo comun denominatore teorico dei vari fascismi.81 Successivamente, in una sua opera dedicata ai fascismi sconosciuti (dalla Guardia di Ferro di Codreanu ai Lupi d'Acciaio lituani, dal movimento del norvegese Quisling alle Croci Frecciate ungheresi),82 valutatene le rimarchevoli differenze, l'autore concludeva: In realtà, i regimi che si chiamano fascisti sono regimi di salute pubblica che hanno preso forme differenti seguendo la forma e l'imminenza del pericolo, cioè seguendo le circostanze, e solo alcuni tra loro hanno un contenuto politico che tutti i popoli possono adattare al proprio carattere. Dovremmo dunque studiare, da una parte, le reazioni di salute pubblica attraverso le quali i popoli hanno cercato di difendere la loro libertà dal bolscevismo e, dall'altra, l'umanesimo politico sul quale si sono appoggiati in quell'occasione, ciò che costituisce propriamente il messaggio culturale che questi regimi hanno trasmesso a tutti gli uomini.
Il fascismo perdeva ogni suo tratto distintivo per diventare una forma militante di antibolscevismo: una operazione tesa a rimettere in gioco, a un quarto di secolo dalla sconfitta, la. destra fascista in un più ampio fronte anticomunista. 83 Dunque una operazione dichiaratamente· politica non preoccupata delle esigenze dell'analisi storica che, al contrario, segnala il carattere originario dei movimenti fascisti. E se proprio di reazione a una rivoluzione si può parlare, a proposito del fascismo, non è della Rivoluzione russa che si deve parlare, ma'di quella francese di 128 anni prima. In fondo, la definizione del fascismo come « anti '89 » è venuta dallo stesso fascismo. La stessa varietà ideologica dei diversi fascismi (debitamente 84 documentata sia da Nolte che da Bardèche o da altri autori) non depone affatto su un « minimo comun denominatore» quali « Comitati di salute pubblica», ma conferma le remote radici nazionali di ciascuno a prescindere dalla Rivoluzione di ottobre.
6. FernandBraudel Non intendiamo certo assimilare Fernand Braudel, il massimo esponente della seconda generazione degli Annales, al revisionismo storico o ad autori come Schmitt, von Mises o von Hayek, ma, in qualche modo, anche la sua opera è stata parte dello stesso clima culturale. È possibile che le intenzioni dell'autore non fossero queste e che, in parte, sia dipeso dall'uso fattone da parte di allievi locali troppo acquiescenti e imitatori stranieri troppo zelanti, ma ciò non cambia il risultato. Il superamento del tradizionale modello storiografico - esclu83
Maurice Bardèche, Che cos~ è il fascismo?, Volpe, Roma, 1963, nuova ed. 1980. 82 Maurice Bardèche, I fascismi sconosciuti, Ciarrapico, Roma, 1969.
Lo stesso prefatore all'edizione italiana, Giorgio Locchi, lo rimarca, parlando di minimalismo ideologico. 84 Stuart J. Wolff, Il fascismo in Europa, Laterza, Roma-Bari, 1984; Stein Ugelvik Larsen, Bernt Hagtvet eJan Peter Myklebust (a cura di), I fascisti, Ponte alle Grazie, Firenze, 1996; Luciano Casali, Fascismi, Clueb, Bologna, 1995.
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sivamente politico - e la proposizione di un nuovo paradigma, di· . storia globale ò totale, resta la maggiore acquisizione teorica della scuola degli Annales rispetto alla quale è poco utile sognare una restaurazione del « tutto politico». Anzi, è auspicabile che la storiografia si spinga sempre di più verso modelli di storia globale. Braudel ne ha dato una particolare torsione che merita di essere considerata. Come è stato rilevato, i due concetti cardine della teoria brau- · deliana sono quelli - connessi - di « struttura» e di « lunga durata». 85 Infatti, Braudel ha cercato di trasportare in sede storiografica la nozione di struttura che, sorta in ambito linguistico per l'opera di Ferdinand de Saussure, si era poi estesa a gran parte delle scienze umane grazie all'opera di antropologi come Claude Lévi-Strauss, o semiotici come Louis Trolle Hjelmslev o AlgirdasJulien Greimas. In questa operazione di trasferimento concettuale, Braudel ha spesso usato il termine struttura in modo ambivalente, come scrive De Fusco: [...] La sua idea di struttura sembra oscillarefra le due interpretazioni con le quali generalmente è stato accolto il concetto: quella di un'organizzazione riscontrabile nei fatti e quella di un modello interpretativo di essi. Infatti, per un verso egli identifica la struttura con la lunga durata, cioè con qualcosa che è realmente riscontrabile nella storia [...] Per un altro verso, intende per struttura un modello concettuale [...] Braudel precisa il significato del termine «struttura» per i sociologi e per gli storici. I primi intendono per struttura un'organizzazione, una coerenza dei rapporti stabiliti tra realtà e masse sociali;per i secondi« talune strutture, vivendo a lungo diventano elementi stabili per un'infinità di generazioni [...] Altre si sgretolano più facilmente, ma tutte sono al tempo stesso dei sostegni e degli ostacoli [...] Anche i quadri mentali sono delle prigioni di lunga durata. 86
Dunque, per un verso, struttura è quel che si determina e si modifica nel lungo periodo,· per un altro, essa è un modello interpretativo che trova nella « lunga durata» il suo naturale prolungamento concettuale. Braudel spiegò il suo « strutturalismo storiografico» con una immagine suggestiva: la storia evenemenziale corrisponde all'increspatura superficiale delle onde, mentre i grandi mutamenti corrispondono alle correnti del mare, ben al di sotto del pelo dell'acqua. Ed è questo alla base del suo concetto di « storia quasi immobile», subito seguito dal suo allievo Emmanuel Le Roy Ladurie che si spinge a parlare di « storia immobile» tout court. La brillante metafora delle onde è molto efficace, ma sostenere che le azioni politiche - per loro natura .coscienti e intenzionali - sono solo un brivido d' onde, apre la porta a un marcato determinismo sociale ed economico che annulla la capacità umana di disegnare la propria storia. E anche sul punto connesso della « lunga durata» conviene fare qualche riflessione. Non c'è dubbio che Braudel abbia avuto ragione ad alzarsi sulla punta dei piedi, per spingere lo sguardo il più lontano possibile e trarre il senso dei processi strutturali. Sin qui nessun problema; ma solo se si guarda all'indietro. Se lo sguardo si spinge iri avanti la prospettiva muta: in che senso si può parlate di lunga durata nel Novecento? Le Roy Ladurie, studiando il paese di Montaillou fra il 1294 e il 1324 o i contadini di Languedoc fra il XV e il XVIII secolo, ci ha dimostrato quale fosse il grado di persistenza delle strutture sociali elementari (le relazioni parentali o i rapporti di produzione), quanto fossero lenti i cambiamenti nella mentalità, nello sviluppo demografico, nei metodi di lavoro, nella cultura popolare e nei suoi usi. Ma, se esaminassimo quelle stesse aree geografiche, per un periodo compreso fra i primi del Novecento e oggi, registreremmo cambia-
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Fernand Braudel, Histoire et sciencessociales:la langue durée, in «Annales,Économies,Sociétés,Civilisations», XIII, n. 4, 1958. Tr. it. La storia e le altre scienze sociali,Laterza, Roma-Bari,1974. 86 Renato De Fusco, Storia dell'idea di Storia, Edizioni Scientifiche 88
Italiane, Napoli, 1998, pp. 364-365. Il brano di Braudel proviene dal citato saggiosulla lunga durata. 89
menti altrettanto lenti? Il paragone semplicemente non si porrebbe. Agli inizi del secolo scorso, il vettore più veloce non superava i 60 km/h, oggi un aereo di linea è in grado di percorrere i circa 6500 km che separano Milano da New York in meno di 9 ore, a una media di circa 700 km/h. La popolazione mondiale, in proporzione, è cresciuta molto più che nei 5 secoli precedenti e, solo nell'ultimo trentennio, si calcola che mezzo miliardo di persone si sia spostato da un'area geografica ali'altra; l'aspettativa di vita media è cresciuta molto più che nel millennio precedente. La popolazione urbana, che non superava il 5 % sul totale mondiale, è oggi più della metà. I metodi di lavoro sono incomparabilmente cambiati e più volte nel giro di un secolo. Tutto questo ha modificato abitudini di vita, strutture familiari, mentalità, costumi sessuali, modelli educativi in tempi a volte inferiori a una generazione. Il cambiamento è diventato percettibile, anzi, caratteristica della mentalità di un uomo del nostro tempo è l'idea della necessarietà e positività del mutamento continuo. In questo contesto, « lunga durata» che significa? In realtà la tripartizione di Braudel - tempo breve, congiuntura e lunga durata - ha una sua precisa funzione nella società di tipo tradizionale, caratterizzata da cambiamenti molto lenti, quasi impercettibili e da una conseguente mentalità orientata a « naturalizzare» le strutture societarie, pensate come eterne e non modificabili. Ma, man mano che si sviluppa la rottura della modernità, questa impostazione perde di efficacia esplicativa. Anche la struttura ha un suo inizio, un suo svolgimento e una sua fine. In una parola: una sua storia. E la storia è sempre scandita dagli avvenimenti. Essa può essere anche molto lenta, ma non è mai immobile e procede per soluzioni di continuità (tecnicamente: catastrofi). De Fusco segnala utilmente le contraddizioni in cui cade Krzysztof Pomian recensendo La Mediterranée di Braudel 87 a
proposito della battaglia di Lepanto che assume come « avvenimento unico» che, in quanto tale, non ha spiegazioni ed è solo constatabile: · [...] l_aconclusione del brano contraddice l'inizio: gli avvenimenti sono sempre suscettibili di spiegazione, come dimostra tutta la trattazione del libro di Braudel; O La Mediterranée è indagine complessiva di tutto quanto caratterizzò la vicenda storica al tempo di Filippo II e la battaglia d,iLepanto non rap~re~enta che un epifenomeno d.i quella ~icenda, oppure cost1tmsceun evento tanto importante da ricondurre tutto il resto, almeno que~a pa~te del libro che narra della battaglia, a una sua ~ont~stualizzaz1one;né è da escludere, nella maggioranza d~1casi, che_si possa in pari tempo descrivere un quadro stanco e valonzzare uno o più eventi particolari. Comunque una storiografia che escluda ogni sorta di avvenimento [...] è impossibile e rischia di essere un'indagine senza oggetto_ss Il P:?blema è capire sino a che punto le catastrofi sono provocabili dal soggetto e sino a che punto ciò possa avvenire in forme coscienti e dirette. . E, in~atti, questo è, a nostro avviso, il punto debole del paradigma di Braudel: l'impossibilità di risolvere soddisfacentemente il ra~porto f;a ~toria e~e?eme~ziale e lunga durata, perché, immagmando 1az~o?~_?olit1cadeliberata come l'onda di superficie, e~clude 1~pos~1bilit~che la struttura possa modificarsi a seguito di a:7"ernment1particolarmente rilevanti. E questo è il caso, in particolare, delle grandi rivoluzioni che, infatti, non sono molto presenti nell'analisi storiografica braudeliana, al contrario di q~anto avvenne con la prima generazione degli Annales che alla Riforma protestante e alla Rivoluzione francese dedicò molta att~nzione, pur rivisitandole con ottica nuova . . E questo il tacito ma significativo punto di convergenza fra la
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Fernand Braudel, Civiltà ed imperi del Mediterraneonell'età di FilippoII, Einaudi, Torino, 1953.
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enato De Fusco, op. cit., pp. 363-364. 91
storiografia di Braudel e la polemica di un von Mises o un von Hayek contro l'ingegneria sociale. • . Lo sbocco di queste prç:messe non può che essere una sostanziale depoliticizzazione della storia e una parallela esaltazione dei processi economici - ovviamente determinati dall'azione impersonale del mercato - come unico vettore di mutamento reale. È stato questo il contributo - forse involontario - di Braudel • al vento culturale di cui diciamo.
7. Alcune considerazionidi insieme sul revisionismostorico Tirando le fila del nostro ragionamento, possiamo trarre qualche indicazione generale, ripartendo da quella « controrivoluzione culturale» iniziata nella seconda metà degli anni Settanta. Il clima politico era cambiato per la decadenza del modello sovietico, per il manifestarsi della crisi fiscale dello Stato nei paesi del wel/are, per l'esaurirsi della « stagione dei movimenti», per il deludente esito della stagione postcoloniale e per altro ancora. Ed era cambiato anche per l'esaurirsi del canone storiografico progressista. , Non si trattava solo del crollo dell'ottimismo storicista, ma di una più generale eclissi dell'idea di progresso man mano che si faceva chiara la percezione dei limiti alla crescita. · Il revisionismo storico è stato il prodotto di tutto questo ed è stato uno dei cardini dell'ideologia neoliberista. Su questo punto, 89 non possiamo che dirci d'accordo con Losurdo. E questa operazione ideologica ha avuto due perni: svincolare l'idea di libertà da quella di eguaglianza e depurare chirurgicamente la modernità dal principio rivoluzionario. Il sugo ristretto dell'ideologia liberista è l'individualismo proprietario, tutto il resto è non necessario contorno, e l'individua89 Domenico Losurdo, op. cit.Mentre non concordiamo con lo stesso autore sull'identificazione di questi autori come liberali, per le ragioni di cui diremo fra breve.
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lismo proprietario è scarsamente compatibile con il principio di eguaglianza, senza il quale non e' è democrazia possibile. Non a caso gli strali del revisionismo si sono indirizzati contro la Rivoluzione francese, il cui peccato maggiore (sulla scorta di Burke) non è stato tanto l'eccesso sanguinario, quanto il suo carattere democratico. Non c'è dubbio eh~ la Rivoluzione francese prima e quella russa dopo hanno avuto tassi di violenza non necessari e furori ideologici devastanti, ma la critica a questi aspetti è spesso il paravento della critica al principio democratico, attraverso il nesso fra irruzione ,popolare sulla scena e affermazione del terrore (come leggiamo in Furet). Il riferimento alla tradizione del liberalismo inglese - più distante dalla tradizione democratica - ha questa valenza e, infatti, il momento più esaltato del suo ciclo è quello del 1689, non certo il periodo cromwelliano. E, dato che il principio democratico si è affermato per via rivoluzionaria, questo porta a quel tentativo di cui dicevamo - di sradicare la rivoluzione dalla modernità. Ma la modernità, piaccia o no, nasce da rivoluzioni: non solo quella francese, ma anche quella americana e inglese (che non furono affatto incruente) e, prima ancora, quella olandese del 1572 della quale, chissà perché, non si ricorda mai nessuno, ma che è la prima rivoluzione dell'Europa moderna. E, peraltro, la stessa Riforma protestante può essere letta come l'avvio dei processi rivoluzionari moderni: lo splendido libro di Hugh T revor Roper90 Protestantesimo e trasformazione sociale illustra nel modo più convincente la diretta discendenza dell'illuminismo dalla Riforma protestante. Persino da un punto di vista simbolico, il rapporto fra Riforma e movimenti rivoluzionari successivi è palese: la bandiera rossa, assunta come emblema dei moviménti 90
Hugh Trevor-Roper, Protestantesimoe trasformazionesociale,La- · terza, Roma-Bari, 1975. Trevor-Roper fu uno dei più brillanti storici europei a cavallo fra gli anni Cinquanta e Settanta, prima di essere tra~ volto dall'infausta vicenda dei falsi diari di Hitler, a seguito della quale non pubblicò più nulla.
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socialisti di tutto il mondo, fu fatta propria, per la prima volta, dagli anabattisti di Thomas Miintzer. Dunque, risaliamo alle origini della modernità che nacque come momento di rottura della società tradizionale e non carne graduale evoluzione di essa. Anzi, a volerla dire tutta, modernità e rottura rivoluzionaria coincidono in quanto soluzione di continuità (catastrofe, appunto) dell'ordine tradizionale. Come dicevamo a proposito di Braudel, « lunga durata» e « struttura» assumono significati diversi nelle società tradizionali rispetto a quelle moderne sorte da rivoluzioni, perché la rivoluzione è, appunto, il tentativo di modificare la struttura sociale come atto cosciente e volontario e non come esito cli· lungo periodo, indipendente dalla volontà dell'uomo. L'ingegneria sociale è iscritta nel codice genetico della società moderna e trova nei processi rivoluzionari il suo momento di maggiore intensità. Queste considerazioni ci portano a un ulteriore punto. Il successo del revisionismo storico di Furet e Nolte (come le teorie di van Mises e van Hayek) sono presentate normalmente come la riscossa di un canone storiografico liberale contro lo strapotere del canone storiografico marxista o giacobino. Ma questa collocazione «liberale» del fenomeno revisionista non è affatto convincente e ha più a che fare con l' autorappresentazione dei suoi autori che con la loro oggettiva collocazione · nello spazio politico-ideologico. A ben vedere, von Mises, von Hayek, Nolte e anche lo stesso Furet (mentre terremmo fuori da questo gruppo De Felice che fa parte per sé) si collocano a destra di Cesare Beccatia, 91 di Voltaire, di Hermann Schulze-Delitzsch, di Bertrando Spaventa, di Benedetto Croce, per non dire di Max Weber. 92 I richiami a Burke, Taine, Donoso Cortés, Cochin, le
parentele ideologiche con Schmitt H 'd della loro critica alla modernit, li o 11e1 egger, e i ~o~tenuti . ., a, co ocano semmai m Revolutza::o s~~~Iopm palrossimoa quello della Konzerva/ive p1u m gener e, a quello della « tradizione » , · In realtà quest d f · · d • · b ' . ~ e Iniz1one e1 revisionisti come liberali · asa su una mdeb1ta assimilazione fra liberismo e. liberalis s~ . mo. ~a, ~o:11elo stesso Croce ci ha avvertiti, non tutti i lib ~benstI. E non tutti i liberisti sono liberali com . h d ~rali sono il generale Augusto Pinochet. ' e CI a Imostrato I '
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Che definì la propri~tà privata « terribile e forse non necessario diritto»: quel che suonerebbe come una bestemmia alle orecchie cli Burke, di von Mises o di von Hayek. 92 Per convincersene basti rileggersi Guido De Ruggiero, Storiadel liberalismoeuropeo,Laterza, Roma-Bari, 2003.
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TERZO CAPITOLO LA TRIBUNALIZZAZIONE
1.Vombra lunga di Auschwitz
DELLA STORIA
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La premessa storica di Norimberga risale alla fine della Prima guerra mondiale, quando il presidente americano Wilson propose di processare il Kaiser per « suprema offesa contro la moralità internazionale e la santità dei trattati», cercando di giungere alla identificazione di un particolare reato, quale quello di « guerra di aggressione» di cui rispondere davanti alla comunità internazionale. Ovviamente un simile capo di accusa, come rileva Danilo Zolo, aveva carattere agiuridico. 93 Sulla scorta di questo primo tentativo, qualche anno più tardi, venne fatto un ulteriore tentativo, nella Società delle Nazioni, di istituire una Corte penale internazionale per casi del genere, ma per la prima realizzazione effettiva, occorrerà attendere la fine della Seconda guerra mondiale. Per la prima volta, a Norimberga, l'intero gruppo dirigente politico e militare di un paese veniva chiamato a rispondere in sede penale, davanti a una Corte internazionale, del suo operato. Emergeva, così, una fattispecie penale sino ad allora sconosciuta, il« genocidio». Ma questo ebbe anche altre ricadute di carattere sia giuridico che politico e culturale. Prima non era mai accaduto che un tribunale accettasse come prove dei filmati o. delle foto. La requisitoria finale del procuratore Robert Houghwout Jackson fu tutta costruita con rigoroso metodo storico, non solo 93
Danilo Zolo, La giustizia dei vincitori:Da Norimbergaa Baghdad, Laterza, Roma-Bari, 2006, p. 24.
97 Bayerlsche (, Staat~_bibliothek Mnnr.h;c,n
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Odo Marquard, Alberto Melloni, La storiachegiudica,la storiache assolve,Laterza, Roma-Bari, 2008, p. 13. 95 Hanna Arendt, La banalità del male, Feltrinelli, Milano; 1964.
eseguito ordini e, anche quando si erano resi responsabili di delitti che nessuno aveva ordinato, questo era da comprendere come il frutto del « plagio » ideologico del regime. Il processo si concluse con sei ergastoli e pesanti pene detentive per gli imputati minori (in Germania la pena capitale era stata abolita). Ancora una volta, quella sentenza ebbe conseguenze politiche e culturali di grande rilievo: il tribunale aveva rigettato la richiesta della difesa di considerare come scriminante, o anche solo attenuante, l'aver eseguito ordini. Ne scaturiva un 1dibattito sul dovere morale di resistere a ordini ingiusti: la premessa che porterà, nel giro di alcuni anni, all'approvazione delle leggi sull'obiezione di coscienza. I processi tedeschi videro, per la prima volta, alcuni importanti storici in veste di periti (Hans Buchheim, Helmut Krausnick, Martin Broszat, Hans-Adolf Jacobsen) e non per integrare la base documentale a supporto dell'accusa, ma per fornire ca" tegorie interpretative propriamente storiografiche nel tentativo di avvicinare verità storica e verità processuale, risolvendo l'una nell'altra. Veniva così formandosi un canone storico, intorno alla Shoa, supportato, da un lato, da un corpus giurisprudenziale, dall'altro da clamorosi gesti politici come quello compiuto dal cancelliere Willy Brandt che il 7 dicembre 1970 riconobbe solennemente le colpe della Germania per la Shoa, inginocchiandosi sul memoriale del ghetto di Varsavia. E la tendenza si approfondì con il sopraggiungere dei processi francesi una ventina di anni dopo. Nel 1981 «Le Canard enchainé» pubblicò le prove della corresponsabilità di Maurice Papon nella deportazione degli ebrei francesi durante il regime di'Vichy. La cosa era tanto più grave, in quanto Papon era un uomo politico di primo piano (era stato ministro del Bilancio sino a pochissimo tempo prima). Il lunghissimo processo che ne seguì ebbe termine nel 1998 con la condanna dell'imputato. La vicenda si intrecciò con il processo al « boia di Lione», Klaus Barbie, estradato nel 1983 dalla Bolivia e parimenti condannato a una pesante pena detentiva nel 1987.
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per l'ovvia successione cronologica degli avvenimenti esposti, ma. soprattutto per l'inquadramento generale e l'uso di categorie propriamente storiche inconsuete nella giurisdizione penale. Norimberga cambiò il modo di fare giustizia penale, ma forse, e ancor più, cambiò il modo di fare storia, determinandone una sorta di « tribunalizzazione »; il « paradigma di Norimberga» (che ebbe un pendant meno celebre a T okio) stabiliva « un legame pericolosamente solido fra giudizio storico e giudizio penale». 94 Sulla scia di quel processo, altri se ne svolsero nei paesi che avevano subito l'occupazione nazista - soprattutto in Polonia ma fu in Israele che questa tendenza si sviluppò, culminando nel processo ad Aldolf Eichmann, rapito in Argentina e tradotto a Tel Aviv per rispondere delle sue responsabilità nello sterminio degli ebrei. Quel processo raddoppiò il paradigma di Norimberga, amplificandolo grazie all'impatto della televisione - che nel frattempo era nata in Europa. Per comprendere l'impatto culturale di quel processo, basti leggere gli articoli che vi dedicò Hanna Arendt, poi raccolti in volume. 95 . Immediatamente dopo l'esecuzione di Eichmann (avvenuta il 31 maggio 1962) si apriva a Francoforte il processo a Rudolf Hoss, comandante di Auschwitz-Birkenau, il primo di altri che si estenderanno a suoi subalterni. Questo segnò un nuovo passaggio: infatti, questa volta i giudici erano connazionali degli imputati, quel che, al di là dell'aspetto giuridico, muoveva profonde emozioni nell'opinione pubblica. Infatti, non si trattava di una « vendetta dei vincitori» ma di un giudizio della Germania su se stessa. Molto più di un processo penale: una catarsi antropologica che doveva segnare la rottura netta della nuova Germania con il suo passato. I difensori cercarono di scriminare il comportamento dei loro assistiti, sostenendo che avevano solo 94
Più particolare fu l'affaireTouvier, esploso nel 1971, quando le associazioni della Resistenza protestarono molto duramente contro il presidente Georges Pompidou che intendeva concedere la grazia a Paul Touvier, miliziano di Vichy che, oltre che nelle retate di ebrei, si era distinto nella lotta antipartigiana. A lungo egli ri{isd a sottrarsi alla cattura grazie alle protezioni ecclesiastiche. Nel 1989 venne catturatopressoil priorato di Saint François a Nizza. Processato, cinque anni dopo verrà condannato ali'ergastolo. I tre affairesgiudiziari obbligarono la Francia a misurarsi sulla questione di Vichy, sino a quel punto sostanzialmente rimossa. La repubblica francese aveva sempre disconosciuto ogni continuità con il regime pétainista, ritenendo la questione chiusa con il processo che aveva portato alla condanna a morte di Pierre Laval e del generale Philippe Pétain (ma nel secondo caso la pena venne commutata nell'ergastolo). Sulla base di queste considerazioni, sia il presidente Pompidou che il suo successore François Mitterrand rifiutarono costantemente ogni riconoscimento di responsabilità della Francia, in quanto tale, nello sterminio degli ebrei. Ma le emergenze dei tre casi citati resero sempre meno sostenibile questa posizione. Anzi, si iniziò a polemizzare sul passato politico dello stesso presidente Mitterrand. Egli, infatti, aveva fatto parte dell'Osarn96 - cosa che l'interessato ammise - ma, per di più, aveva collaborato con il regime di Vichy. Il presidente - sostenuto da .diversi esponenti delle associazioni partigiane - sostenne di essere passato alla Resistenza sin dalla fine del 1941 e di aver .. mantenuto il suo incarico nell'amministrazione collaborazjonista solo su indicazione della Resistenza. I processi francesi iniziarono a far emergere un problema imprevisto: il rapporto fra verità storica e verità processuale e su due versanti: sino a che punto lo storico è vincolato dalla
decisione dei giudici e se sia deontologicamente accettabile il suo coinvolgimento in una istruttoria penale. Infatti, lo storico Henry Rousso (che se ne era a lungo occupato) pubblicò una serie di articoli sulle responsabilità francesi nella persecuzione degli ebrei e della loro successiva rimozione. I magistrati inquirenti, pertanto, sollecitarono una consulenza a Rousso che, successivamente, si dirà deluso dalla sentenza per la distanza fra i suoi contenuti e gli esiti della sua expertise, manifestando qualche pentimento per la sua partecipazione. 97Altri s1:dricifecero scelte diverse, come Pierre Vidal-Naquet che, pure in prima linea nella lotta contro i negazionisti, rifiutò la sua opera come perito giudiziario. Infatti il celebre storico francese ritenne che il quadro dell'inchiesta penale non si addice allo storico, che si troverebbe coinvolto nella decisione sulla libertà di un uomo, quel che creerebbe una costrizione morale incompatibile con la libertà della ricerca scientifica. Ci torneremo.
2. La grande colpa del Novecento
Questo lungo sviluppo giudiziario è stato il riflesso dei più generali processi culturali e politici cui facevamo cenno poco prima. Intorno alla vicenda della Shoa si sono avviluppati comprensibile sdegno morale e interessi politici non sempre nobilissimi, sino a creare un nodo di torti e di ragioni, resi ancor più inestricabili dall'inevitabile partecipazione emotiva che il tema impone: e tuttavia lo storico deve cercare di distinguere una cosa dall'altra. Che lo sterminio degli ebrei operato dal regime nazista sia stato un crimine esecrabile è cosa che non può essere discussa, ma giudizio morale e analisi storica non devono essere confusi, anche se fra le due cose può darsi una forzata convivenza. Chiariamo il punto. La ricerca storica deve ricostruire le vicende del
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Il gruppo di estrema destra, meglio noto come la Cagoule, che compì vari delitti fra cui l'assassinio dei fratelli Rosselli. 100
97 Odo Marquard, Alberto Melloni, op. cit:,p. 26. 101
Per decidere se davvero la Shoa sia stata o meno un evento unico ed eccezionalissimo occorre preliminarmente stabilire dei criteri di comparazione come, ad esempio, le dimensioni quantitative del massacro, i suoi scopi particolarmente ripugnanti O'estinzione di un genus),l'efferatezza delle sue pratiche, le sue modalità di pianificazione scientifica di uno sterminio di massa ecc. Iniziamo dal numero dei morti. Ancora oggi è difficile valutare quale sia stato il numero di morti provocato dal colonialismo europeo: c'è chi parla di 200 milioni, considerando Americhe (sia nord che sud), Africa e Asia dal XVI al XIX secolo, ma U? simile termine di paragone appare poco calzante sia perché compara una vicenda concentrata in pochi anni e prodotta dall' azione di un singolo stato con la sommatoria delle azioni di diversi stati e soggetti privati diluiti in quattro secoli. Ma se comparassimo anche solo l'azione del colonialismo inglese durante la con-
quista dell'India, o quella del Belgio in Congo avremmo numeri non troppo distanti. Anche qui le stime sono assai variabili ma alcuni fanno ammontare a 1O milioni in 23 anni le vittime della guerra colonizzatrice promossa da Leopoldo II del Belgio, per restare solo al Congo. Andando più indietro nel tempo, troveremmo massacri comparabili (tenendo conto della popolazione totale) per quanto riguarda gli irlandesi nel XVII e XVIII secolo i pellirosse d'America nel XIX secolo, e altri ancora. Mentre nel XX secolo non possiamo dimenticare il massaçro di 2 milioni di armeni perpetrato dai turchi durante la Prima guerra mondiale. Ovviamente, non avrebbe alcun senso, ai fini della «unicità» dell'evento, discettare se gli ebrei trucidati nei lager siano stati un milione in più o in meno dei congolesi, degli irlandesi o dei pellirosse. Dunque, dal punto di vista del numero non si può parlare di un unicum, né la cosa cambia se passiamo alla natura del fenomeno, cioè il tentativo di sopprimere un popolo. Peraltro i . . . ' naz1st1non riservarono le loro pratiche di sterminio ai soli ebrei ma vi associarono anche zingari e slavi. Peraltro, anche i pellirosse, gli irlandesi, gli armeni o, più recentemente, i bosniaci o gli hutu rwandesi sono stati massacrati in quanto tali e in molti di questi casi le intenzioni genocidiarie sono talmente trasparenti da non meritare alcuna particolare illustrazione. Nel caso della Spagna franchista la pratica della « limpieza» ebbe i caratteri di una « pulizia etnica» in chiave ideologica con le sue centinaia di migliaia di fucilati dopo la fine della guerra civile. · Peraltro, la pratica dello sterminio non è stata riservata solo a gruppi etnici: i nazisti concentrarono anche testimoni di Geova e o~osessuali, oltre, ovviamente, agli oppositori politici, per non dire del trattamento riservato agli individui con gravi malformazioni. A questo proposito è interessante fare una breve digressione sull'obiezione posta da Losurdo a Nolte che, come si è detto, assimila lo « sterminio di classe» praticato dai bolscevichi a quello su base etnica che ha caratterizzato i nazisti. Losurdo individua la principale causa efficiente dei massacri politici (fasi
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passato, indagarne le cause e individuare il loro lascito e la loro influenza sul presente e questo a prescindere dal giudizio morale che si possa avere su di esse. Lo storico, nelle sue analisi, deve prescindere dai giudizi di valore, ma, essendo pur sempre un essere umano che scrive di vicende di esseri umani, e in considerazione della inevitabile ricaduta politica delle sue affermazioni, non può tradurre questo in indifferenza morale e, dunque, è . chiamato a schierarsi. Due obblighi contrastanti fra loro, quello dell' avalutatività scientifica e quello della non neutralità morale, che convivono in un difficile equilibrio che richiede, in primo luogo, una netta separazione delle due cose. Quel che, inv~ce, ~ molto arduo nella vicenda della Shoa, dove spesso la pur gmst1ficatissima indignazione morale invade il campo dell'analisi e vi si sovrappone. Entriamo nel merito. , La lettura prevalente dello sterminio ebraico è quella basata sul caposaldo dell'unicum: una vicenda unica e irripetibile che esige giudizi e conseguenze (politiche, culturali, giuridiche) altrettanto uniche. Ma che fondamento ha la teoria dell'unicum e a che esigenze ~00~
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di terrore postrivoluzionario o controrivoluzionario, genocidi, · pulizia etnica ecc.) nel principio di despecificazione per cui il nemico è «espulso» dalla comunità umana e, pertanto, privato dello stesso diritto a vivere o al rispetto come simile. Ma egli distingue fra due diverse forme di despecificazione: quella morale (per la quale il nemico è il barbaro, il criminale) e quella naturale (per cui il nemico non è più nemmeno uomo, ma bestia, subumano, razza inferiore). 98 Non c'è dubbio che la seconda forma di despecificazione collochi il nemico a un rango inferiore e spinga a pratiche ancor più crudeli e disumanizzanti, ma ai fini pratici questo aggiunge poco, dato che, oltre a privare una persona della sua dignità e della vita, queste pratiche sono presenti sia nel primo caso che nel secondo. La despecificazione su base naturale è indice di una maggiore abiezione morale di chi la sostiene, ma dal punto di vista delle pratiche effettive aggiunge poco. E, dunque, dal punto di vista della critica storica, che non coincide con il giudizio sulla qualità morale degli individui e dei gruppi umani studiati, ma deve dare conto degli awenimenti, delle loro cause e dei loro effetti, cosa cambia se la vittima è tale solo perché ebreo, kulak, cristiano, omosessuale, testimone di Geova o persona· con gravi patologie? In tutti questi casi abbiamo persone private della libertà, della dignità e della vita non per quello che fanno, ·ma per quello che sono. Dunque, anche da questo punto di vista non appare motivata la definizione della Shoa come unicum. Più raffinatamente, alcuni tentano la strada delle differenti modalità. Non tanto in ordine all'efferatezza delle torture (la storia dell'umanità ha un repertorio pressoché infinito da vantare, per cui non proveremo neppure ad addentrarci in questa comparazione di macellerie) quanto per l'applicazione di modelli burocratico-razionali e per l'organizzazione scientifica della macchina omicidiaria (la questione delle camere a gas). Questo aspet98
Domenico Losurdo, op. cit., pp. 63 sgg.
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to effettivamente presenta caratteri di sistematicità abbastanza
originali rispetto ai casi considerati di irlandesi, pellirosse, armeni, bosniaci o hutu. L'unica cosa che, per vastità e sistematicità, può assomigliare all'universo concentrazionario dei lager è l' « arcipelago gulag» staliniano, ma esso, pur sempre con valori quantitativi diversi sia dal punto di vista della popolazione detenuta che da quello dei morti, non presenta caratteri specificamente genocidiari, non è pensato come sistema di sterminio di massa e - di conseguenza - non ha il livellp, di « perfezione . amministrativa» del primo. Ma, pur dimostrando che questo aspetto possa rappresentare una originalità del fenomeno concentrazionario nazista, cosa ne ricaviamo? In effetti, qualsiasi processo storico, per definizione, è unico e irripetibile, per cui, volendo, un qualche aspetto che lo distingua da qualsiasi altro lo si trova sempre, ma, detto questo, cosa ne deriva? · Forse che la « limpieza » del generale Francisco Bahamonde F:anco è stata meno ordbile per essere stata un po' più disorgamzzata della teutonica precisione dei lager? E se al posto delle camere a gas, i nazisti avessero abbattuto i loro prigionieri legandoli alle bocche dei cannoni, come facevano gli inglesi con gli insorti indiani, cosa ci cambierebbe? Dunque, il dogma dell'unicum non regge a una analisi storica comparata condotta con il rigore scientifico necessario. Owiamente, questo non significa affatto attenuare la condanna del nazismo. Anzi, la pratica di enfatizzare la pagina dell'Olocausto (o, più correttamente, degli Olocausti) finisce spesso per avere l'effetto paradossale di ridurre i crimini nazisti solo a essa coprendo tutti gli altri. Anche se l'atroce pagina della Shoa 'non fosse stata scritta, ci sarebbero ugualmente molte ottime ragioni per sostenere la condanna più dura e irrevocabile del fascismo e del nazismo. E, d'altra parte, a cosa servirebbe questa sorta di macabra hit paradedegli orrori della storia? Quando pure assegnassimo all'unanimità il titolo di « Mister Ignominia» fra Hitler, Stalin, 105
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Leopoldo II del Belgio, Pol Pot, Pinochet, Crasso o il conte Vlad III 100 ecc., cosa ce ne faremmo? Questo affinerebbe il nostro giudizio storico e le nostre capacità previsionali? È evidente che la tesi dell'unicum non risponde a nessuna esigenza storiografica, ma a esigenze politiche peraltro diverse fra loro e legate da una momentanea convergenza, in totale eterogenesi dei fini. Questa tesi era funzionale in primo luogo al costituendo stato di Israele come mito fondativo e come principale fonte di legittimazione internazionale. Beninteso: gli ebrei avevano tutte le ragioni di volersi costituire in stato-nazione ed è comprensibile che l'orribile vicenda di cui erano stati involontari protagonisti fu una molla formidabile per l'emigrazione verso la Palestina. Tuttavia la questione ebraica non l'ha inventata Hitler, ma il cristianesimo (e la Chiesa cattolica in particolare). Da sant'Ambrogio a Lutero, tutti, quasi, i maggiori pensatori cristiani hanno portato il loro contributo all' antigiudaismo e, sino a mezzo secolo fa, l'anatema contro i « perfidi giudei» era parte della liturgia della Settimana Santa. E, infatti, .il disegno del « focolare ebraico» risale a Theodor Herzl - dunque a ben prima della comparsa di Hitler - e l'immigrazione in Palestina dei coloni ebrei era . iniziata già nei primi anni del Novecento. Si capisce quindi che la teoria dell'unicum trovasse sostenitori convinti anche fra cattolici, protestanti ecc. che, così, avevano modo di nascondere un po' di passato imbarazzante: i lager andavano benissimo per rimpicciolire comparativamente ghetti e pogrom. Anche le componenti liberali avevano qualche peccato minore da far dimenticare (come i pasticci combinati da Arthur James
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Che represse la rivolta degli schiavi (73-71 a.C.) facendone crocifiggere 6000 sulla via Appia. 100 Meglio noto con il nome di « Dracula »: usava impalare i suoi nemici e, per evitare che la morte sopraggiungesse troppo presto, faceva usare pali con la punta arrotondata e unti di grasso, così che l'agonia potesse durare anche molte ore e talvolta un paio di giorni. 106
Balfour). Peraltro, i partiti liberali e conservatori o cattolici dovevano far digerire al loro elettorato anticomunista l'alleanza con l'Urss. E, pertanto, la vicenda olocaustica si prestava a giustificare quella scelta eccezionale, proprio per la sua straordinarietà, così come essa tornava utile ai democratici americani per far accettare, a una opinione pubblica con forti venature isolazioniste, il coinvolgimento sul fronte europeo e i costi che ne erano derivati. Inoltre, la teoria dell'unicum era funzionale anche all'Urss e ai Partiti comunisti a essa collegati, perché permetteva un doppio risultato. Da un lato questo forniva un argomento a sostegno della politica di unità antifascista, tanto sul piano internazionale quanto su quello interno dei vari paesi non socialisti. Dall'altro, il tema dello sterminio ebraico permetteva di inficiare tutti i discorsi sui due totalitarismi (quello nazista e quello staliniano), perché, in effetti, questo era il punto di più evidente differenza fra i due regimi. Ancora molto recentemente, un autorevole intellettuale comunista respingeva l'assimilazione del regime cambogiano degli Khmer rossi al nazismo, sostenendo che la differenza stava nella vicenda dell'Olocausto che è un unicum. 101 Peraltro, cosa non secondaria, l'Urss era favorevole alla nascita di Israele (fu il primo paese a riconoscere il nuovo stato) anche e soprattutto perché si riprometteva, attraverso esso, un indebolimento della tradizionale influenza inglese nell'area del Medio Oriente. Dunque, una serie di interessi politici, anche contrastanti, confluiva nel sostenere l'unicità della Shoa. Beninteso: questo non significa che si trattasse solo di interessi inconfessabili o di invenzioni (come la propaganda negazionista sosterrà più tardi). In fondo, anche se la teoria dell'unicum è una forzatura, lo sterminio ebraico è pur sempre una delle più grandi tragedie della storia. E se oggi, a sessant'anni dal fatto, possiamo contestualizzarla storicamente (che non significa affatto sminuirne la portata 101
Luciano Canfora, « Corriere della Sera», 31 ottobre 2007, p. 44. 107
e il significato, ma solo tentare una analisi il più possibile oggettiva), è poco realistico pensare che un tale atteggiamento potesse affermarsi nell'immediatezza del fatto. Qui ci interessa comprendere quali siano state le conseguenze della cristallizzazione di questa lettura della Shoa sull'evoluzione della ricerca storica, ai fini del ragionamento che andiamo svolgendo. La prima - e più evidente - consèguenza è stata quella di essersi affermata come il momento focale della storia del secolo: · se la Seconda guerra mondiale è il punto centrale della vicenda novecentesca, la Shoa si è affermata come il nucleo tematico più forte della guerra, la sua principale giustificazione, il suo lascito durevole più rilevante. La Shoa è la grande colpa del Novecento e la principale lente attraverso cui leggerlo. · La seconda conseguenza è il contributo indiretto che questa vulgata ha dato al fenomeno di cui ci occupiamo: l'abuso pubblico della storia.
Valentina Pisanty, I negazionismi,in Marina Cattaruzza, Marcello Flores, Simòn Levis Sullam, Enzo Traverso, Storia dellaShoa, Utet, Torino, 2006, vol. II, pp. 331 sgg.
manifestato da Maurice Bardèche (il cognato di Robert Brasillach, del quale si è già detto) cui si aggiungeva poco dopo Paul Rassinier, un ex militante socialista già deportato a Dora Mittelbau e Buchenwald. Ovviamente, la testimonianza di Rassinier (uno dei cui libri sarà ripubblicato negli anni Settanta dalla casa editrice di estrema sinistra La Vieille Taupedi Pierre Guillaume) dava particolare peso alla polemica, proprio perché proveniente da un uomo di sinistra reduce dai lager. Inizialmente, la polemica di Rassinier aveva un taglio prevalentemente1anticomunista e puntava essenzialmente ad attribuire a Stalin Ìa responsabilità dello scoppio della· guerra, mentre il ridimensionamento dello sterminio nazista era sullo sfondo. Man mano che la polemica si sviluppava, il tema antiolocaustico diveniva centrale, con affermazioni sempre più nette, sino all'aperto negazionismo. Verso la metà degli anni Settanta comparve sulla scena Paul Faurisson, docente di Letteratura francese a Lione, che iniziava la sua campagna sostenendo che i diari di Anna Frank erano un falso di molto posteriore. L'affermazione, abbastanza forte, venne ripresa dalla stampa. Nella polemica che ne seguiva, il professore (subito sostenuto da Bardèche) si spingeva oltre, mettendo via via in discussione la stessa verità storica dell'Olocausto. Faurisson riceveva poi un insperato regalo dalla sua università che lo sospendeva dall'insegnamento: nasceva in questo modo il « caso Faurisson » subito moltiplicato dalla macchina mediatica. Poco dopo, nel febbraio 1979, Faurisson veniva citato in giudizio per aver manipolato alcune testimonianze (come quella del medico di Auschwitz) per sostenere le sue tesi. Vi si aggiungeva una ·dichiarazione di trentaquattro storici che lo accusavano di « oltraggiare la verità». Nella polemica interveniva anche Noam Chomsky, che protestava contro le censure nei confronti di Faurisson, pur non entrando minimamente nel merito della questione, ma solo in omaggio al principio della libertà di espressione del proprio pensiero. Faurisson non è uno storico e delle sue disinvolture metodologiche diremo fra breve, ma riveste una particolare importanza
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3. Il negazionismo Già subito dopo la fine della guerra, alcuni autori americani (Francis Parker Yockey, Harry Elmer Barnes, cui succederà negli anni Sessanta David Hoggan e Austin J. App) iniziavano a sostenere che l'Olocausto non era mai avvenuto e che Norimberga era solo il prodotto di una gigantesca montatura degli 102 Trattandosi di personaggi notoriamente simpatizzanti ebrei. dei nazisti, le loro tesi ebbero un effetto circoscritto agli ambienti dell'estrema destra americana. · Contemporaneamente, in Francia lo stesso orientamento era 102
nella storia della letteratura negazionista, perché costituirà il punto di contatto fra il negazionismo francese e quello degli Usa dove l'Institute for Historical Review organizzava (estate 1979) il primo incontro mondiale dei negazionisti, introdotto, appunto, dall'ex professore di Lione. Nel frattempo, si aggiungeva alla compagnia un altro autore: David Irving, figlio di un alto ufficiale della Marina britannica e autore di numerosissimi studi sulla Seconda guerra mondiale 103 che, nel 1977, pubblicò Hitler's War. Sulla base di una quantità di documenti inediti (ottenuti da reduci nazisti), egli proponeva una sostanziale riabilitazione di Hitler, attribuendo la responsabilità del conflitto agli Alleati e in particolare a Winston Churchill. Anche l'aggressione all'U rss del 1941 trovava una sua giustificazione come « guerra preventiva» nei confronti di una probabile aggressione sovietica. A proposito dello sterminio ebraico, Irving non lo negava ancora, ma sosteneva che esso sarebbe avvenuto all'insaputa di Hitler volutamente tenuto ali'oscuro da Himmler e Heydrich fino alla fine del 1943. Alcuni storici, come John Keegan o Hugh Trevor-Roper, accolsero favorevolmente questa rilettura della guerra, ma molti altri (fra cui Walter Laqueur, Martin Broszat, Lucy Dawidowicz, Gerard Fleming, Charles W. Sydnor ed Eberhard Jackel, Gitta Sereny) pur dando atto della notevole ricerca documentale, criticarono aspramente il lavoro di Irving per l'infondatezza delle tesi espresse. Nel 1988 Irving pubblicava una nuova edizione de La guerradi Hitler dove iniziava a sostenere apertamente tesi negazioniste. Nel 1996, Deborah Lipstadt pubblicò presso la Penguin Books Negare l'olocausto:il crescenteassalto alla verità e alla memoriache conteneva un duro attacco ai lavori di Irving, accusato di essere un « pericoloso rinnegatore dell'Olocausto», ace. cusa alla quale l'interessato rispose con una citazione in giudizio 103
La guerradi Hitler, Settimo Sigillo, Roma,2001. 110
per i danni alla sua fama accademica. Il processo si trasformò ben preso in ~a sorta di « giudizio di revisione» postumo di Norunberga, riaprendo la discussione sulla questione dell'intento sterm~atore_ del nazismo, sull'esistenza delle camere a gas ecc. nel tentativo .dr ottenere una pronuncia favorevole che avvalorasse le tesi negazioniste. Ma il processo si concluse con un ris~tato opposto: la sente~za definiva Irving un « attivo negatore dell Olocausto [ ...J associato con degli estremisti di destra che ?romu~vono il n~ona~ismo » e che egli aveva «1per le sue ragioni 1deolog1checontmuat1vamente e deliberatamente manipolato e alterato l'evidenza storica». Nel frattempo lo storico inglese iniziava a collezionare un discreto n~me~o di denunce in diversi paesi europei a causa della sua par~ec1paz1onea convegni e raduni neonazisti, durante i quali aveva ~1petuto_le su~ tesi. negazioniste, nel frattempo divenute reato, In quegli stessi paes1. L'incidente più grave gli occorse nel novembre 2005 in Austria dove venne arrestato, processato e · conda_n?ato _a_tre anni di reclusione per « aver glorificato ed essersi 1dentif1cato con il partito nazista tedesco».· Dopo n u a . d' . d~tenz1one 1 crrca un anno, Irving venne scarcerato dalla più mite sentenza della Corte d'appello. In Italia, le tesi negazioniste erano fatte proprie da autori quali CarJo Mattogno e Cesare Saletta. E int~ressante ~are q~alche considerazione sulle metodologie e le tecmche degli autori negazionisti. L'assunto base è il seguente: l'onere della prova sta a chi aff~rma esserci, stato ~'