Jean Renoir 885750736X, 9788857507361

"Non dovete contare su di me per presentare questo libro con pudore, discrezione e misura. André Bazin e Jean Renoi

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Jean Renoir
 885750736X, 9788857507361

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ANDRE BAZIN JEAN RENOIR

A CURA DI MICHELE BERTOLINI

^MIMESIS CINEMA

ANDRÉ BAZIN

JEAN RENOIR

a cura di Michele Bertolini

MIMESIS CINEMA

Titolo originale: Jean Renoir par André Bazin, Ivrea, Paris, 2005. © Florent Bazin et édtions Ivrea, Paris, 2005.

Traduzione dal francese di Michele Bettolini

© 2012 - Mimesis Edizioni (Milano - Udine) Collana: Cinema n. n Isbn 9788857507361 www.mimesisedizioni.it Via Risorgimento, 33 - 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono +39 02 24861657 / 02 24416383 Fax: +39 02 89403935 E-mail: [email protected]

INDICE

Introduzione di Michele Bertolini

p.

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Bibliografìa

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JEAN RENOIR

Presentazione di Francois Truffaut

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11 piccolo berretto di André Bazin di Jean Renoir

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LI film muti ILI PRIMI FILM PARLATI III. Il tempo del Fronte popolare IV. La guerra si avvicina V. Renoir francese VI. Renoir a Hollywood VII. Il ritorno di Jean Renoir Vili. Un puro capolavoro. Il fiume IX. Jean Renoir e il teatro X. Il terzo periodo di Jean Renoir

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73 79 87 99 117 131 139 143 157 165

Filmografia

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Michele Bertolini INTRODUZIONE

i. 7/ me faut d’abord finir mon Renoir...”

11 io novembre 1958 il giovane Francois Truffaut inizia le riprese del suo primo lungometraggio, / quattrocento colpi, che si conclu­ de con la fuga di Antoine Doinel lungo l’enorme spiaggia bagnata della costa della Normandia e con il celebre regard-caméra del pro­ tagonista verso lo spettatore. Questa fuga aperta e irrisolta del ra­ gazzo fuggito dal riformatorio, uno dei gesti inaugurali in qualche misura del nuovo linguaggio della Nouvelle Vague, non è tuttavia priva di riferimenti a una tradizione cinematografica che trova pro­ prio in Jean Renoir uno dei suoi illustri predecessori: pensiamo, ad esempio, ai film di Renoir che si concludono con una fuga e con il passaggio di una frontiera (fìsica e simbolica) o di un confine po­ litico, primi fra tutti II delitto del signor Lange (che proprio su una spiaggia al confine fra Francia e Belgio si chiude con il saluto dei due amanti in fuga) e La grande illusione (con il passaggio della frontiera svizzera, invisibile perché sepolta sotto la neve, da par­ te dei soldati Rosenthal e Marechal). Al termine di quella stessa giornata muore André Bazin, fondatore dei Cahiers du Cinéma e padre spirituale di Francois Truffaut e attraversa un’altra, decisiva frontiera, quella che separa la vita dalla morte, lasciando tra le sue carte in forma incompiuta anche una monografìa su Jean Renoir, oggi finalmente disponibile anche al pubblico italiano. Questo testo, cui Bazin era profondamente attaccato, fu rac­ colto, assemblato e pubblicato postumo in prima edizione nel 1971 grazie alla volontà e alla cura della vedova Janine Bazin e di Francois Truffaut, e arricchito da una filmografìa ricca di recensio­ ni e schede tecniche (firmate, tra gli altri, da Jean-Luc Godard, Eric Rohmer, Jacques Rivette, dallo stesso Bazin e da Truffaut), che tra­ sformavano in parte il volume nel prodotto collettivo di un’intera

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Jean Renoir

stagione culturale francese, la Nouvelle Vague, di cui Bazin a buon diritto, costituiva uno degli ispiratori12345. Il testo appare nella for­ ma di un ‘nobile torso’, nella ricostruzione postuma compiuta da Truffaut e Janine Bazin, ma non costituisce soltanto "uno scorcio sfortunatamente incompleto del senso che Bazin desiderava dare al suo libro”, anche perché, in virtù “della sua dimensione e della cura con cui fu scritto, resta di gran lunga l’impresa più ambiziosa di Bazin”1. Riconosciamo in queste parole di Dudley Andrew, chea Bazin ha dedicato oltre a ima pregevole biografia intellettuale due testi teorici recentissimi*, la centralità della figura artistica e dell’o­ pera di Renoir per Bazin, unico regista insieme a Orson Welles cui il critico abbia dedicato una monografia autonoma, investendo tra l’altro proprio i suoi ultimi sforzi intellettuali, oltre che nella pre­ parazione della seconda edizione del suo Orson Welles e nell’usci­ ta del primo volume di Quest-ce que le cinéma?, nell’approfondi­ mento e nella raccolta dei testi già scritti su Renoir*. Come ricorda Roger Leenhardt, punto di riferimento critico per la formazione umana e intellettuale del critico francese, André Bazin negli ultimi anni di vita, di fronte alla possibilità di tradurre la sua passione di critico e spettatore raffinato in attività, passando dietro la macchi­ na da presa, così aveva risposto: “Je n’ai pas beaucoup de temps, et il me faut d’abordfinir mon Renoir”*.

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La filmografìa riprendeva quella pubblicata, a cura di Bazin e dei suoi col­ laboratori, nel n. 78 dei Cahiers du Cinéma dei 1957, arricchita e aggiornata dai contributi di C. Beyle, J. Douchet, M. Delahaye, J. Kress e L. Marcorelles relativi ai film di Renoir posteriori a quella data. D. Andrew, André Bazin, tr. fr. di S. Griinberg, Cahiers du Cinéma/Éditions de l’Étoile, Paris 1983, pp. 207-208. Si tratta di D. Andrew, What Cinema Is! Bazin’s Quest and its Charge, Wiley-Blackwell, Malden-Oxford-Chichester 2010 e della curatela di un volume collettivo, che testimonia la ricchezza e la fecondità del lascito teo­ rico baziniano: D. Andrew e H. Joubert-Laurencin (a cura di), Opening Ba­ zin. Postwar Film Theory and its Afterlife, Oxford University Press, Oxford 2011. Dobbiamo ricordare che l’ultimo articolo di Bazin, scritto dopo una visione del film alla televisione la vigilia della sua morte, è l’acuta analisi de II de­ litto del signor Lange di Renoir; il testo usci su Radio-Télévision-Cinéma il 23 novembre 1958 e fu poi raccolto in A. Bazin, Jean Renoir, Éditions Ivrea,

Paris 2005, pp. 36-43. R. Leenhardt, “Du cóté de Socrate”, Cahiers du Cinéma, n. 91, janvier 1959, p. 17 (si tratta del numero monografico interamente dedicato ad André

Introduzione di Michele Bettolini

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L’interesse dell’incontro fra Renoir e Bazin, che divenne una sincera amicizia a partire dal primo breve colloquio avvenuto nel 1949, è, in prima istanza, doppio e reciproco: non soltanto questa monografìa è ovviamente importante per l’analisi critica che Bazin dedica all’opera di Renoir, facendone l’oggetto di un’esplorazione lucida e attenta e indirettamente per quel che rivela della teoria del cinema di Bazin, ma anche per ciò che Renoir suggerisce a Bazin, spingendo il critico francese a rimodellare, a riformulare alcune sue tesi, fino a interrogare i presupposti stessi del suo “realismo cinematografico”, seguendo "quell’attitudine fenomenologica che gli permetteva di arricchire l’opera della sua stessa ricchezza, di insinuarsi attorno e dentro di essa fino a che gli rivelasse la sua totalità”6. Una monografìa che intreccia quindi riflessioni teoriche sul cinema e appunti critici su un autore, nella convinzione - qui sostenuta - che è impossibile separare in Bazin la teoria dalla cri­ tica, l’ontologia dell’immagine dall’analisi stilistica del linguaggio cinematografico (salvando magari l’una e condannando l’altra), proprio perché la riflessione dello scrittore francese nasce dal con­ tatto diretto con quella forma di pensiero che è il cinema e si risol­ ve nell’esperienza vissuta dello spettacolo cinematografico7* . il

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Bazin, a due mesi dalla scomparsa, che raccoglie le testimonianze e i ri­ cordi degli amid, registi, critici, compagni che l’hanno conosciuto). A Leenhardt e Truffaut inoltre è dedicato Qu’est-ce que le cinéma?, il cui primo volume uscì nel 1958, quando Bazin era ancora vivo; ricordiamo infine che Bazin aveva in mente di girare un documentario sulle chiese romaniche di Saintonge in Francia: un’altra passione, il Medioevo, che lo avvicinava a Jean Renoir. D. Andrew, André Bazin, cit., p. 210. Sulla capadtà di approfondimento nell’analisi dei film da parte di Bazin, che si spingono fino all'autocritica di giudizi precedenti, come nel caso eclatante de II diario di una cameriera di Renoir, insiste Truffaut in un suo commosso ricordo del maestro e amico: “Quando un film lo sconcerta o lo appassiona, Bazin d ritorna sopra due, tre volte, senza esitare a rimettere in discussione i propri giudizi” (E Truf­ faut, Il piacere degli occhi, tr. it. di M. Biancat, Marsilio, Venezia 1988, p. 48) Sul rapporto di convergenza o di contraddizione fra teoria e pratica critica in Bazin si veda la disanima critica fra le opposte posizioni di Rohmer (per il quale l’opera, sia pure aperta, di Bazin costituisce una summa, in cui ogni articolo è parte dello sviluppo di un progetto complessivo e possiede il rigore di una dimostrazione) e di Carroll ed Henderson, che salvano il critico demolendo il nocdolo teorico, proposta da Marco Bertoncini, Teo­ rie del realismo in André Bazin, LED, Milano 2009, pp. 18-23 e PP-167-176.

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Jean Renoir di Bazin rimane un importante testo critico sul re­ gista francese, nonostante o forse in virtù delle sue lacune, che lasciano aperti i tanti possibili sviluppi della sua ricerca: ad esem­ pio le annotazioni, rimaste allo stato di abbozzo, sui rapporti fra letterario e fìlmico, fra testo e film nell’opera di Renoir (partendo da un’analisi attenta e minuziosa dei soggetti letterari, da Zola a Maupassant, da Mérimée e Flaubert a La Fouchardière e Octave Mirbeau, da cui Renoir ha ricavato dei film). Certamente molti al­ tri aspetti dell’opera di Renoir sono stati sviluppati ed esplicitati proprio a partire dalle indicazioni e dalle tracce lasciate da Bazin, in particolare la dimensione ‘metalinguistica’ e ‘moderna’ del ci­ nema di questo autore ‘classico’, che attraversa in modo evidente l’ultima produzione ma percorre in modo più sotterraneo anche i primi lavori, attraverso una tematizzazione del lavoro di regia o del rapporto fra arte e vita interno al film, alla storia narrata8. In parti­ colare, possiamo riscontrare la volontà di Bazin di giungere a una rivalutazione critica del periodo americano di Renoir rispetto al periodo del “realismo sociale” francese, mossa non da un deside­ rio apologetico nei confronti di uno dei suoi autori più amati9, ma dall’esigenza politica da una parte di superare una considerazione puramente nazionale del cinema (che in realtà non gli è mai ap­ partenuta, se non forse nei primi anni di formazione), dall’altra e più profondamente, dalla motivazione estetica di elaborare la sua nozione di realismo a base sociale e documentaria in una direzione morale, spirituale, universale, che del resto trovava incarnata in quegli stessi anni anche in una certa evoluzione del neorealismo italiano (in particolare nel percorso di Rossellini) e di comprende­ re nella sua unità profonda il lavoro artistico di un autore che non ha mai smesso di sperimentare temi e tecniche e di rinnovarsi.8 9 8 9

Si veda in particolare G. De Vincenti, Jean Renoir. La vita, i film, Marsilio, Venezia 1996. Intenzione apologetica che invece è attribuita a Bazin e ai critici dei Ca­ hiers du Cinéma da buona parte della critica cinematografica italiana degli anni Cinquanta, particolarmente severa con la tarda produzione di Renoir (sia durante il periodo americano sia nel periodo del ritorno in Francia). Si vedano ad esempio le caustiche e impietose recensioni di Guido Aristarco su La carrozza d’oro, French Cancan e Eliana e gli uomini e l’anacronismo senile di Renoir, ora in II mestiere del critico: quando il cinema era nuovo. Recensioni dagli anni Cinquanta, Falsopiano, Alessandria 2007, pp. 14-20, 167-171,258-261.

Introduzione di Michele Bettolini

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In queste pagine introduttive si vorrebbe cercare di mettere in evidenza la fecondità del pensiero baziniano e le diverse pos­ sibili direzioni di ricerca che dalla sua opera possono disegnarsi in filigrana: nei testi di Bazin, infatti, è possibile individuare una germinale antropologia dell’immagine a base psicologica, in cui l’immagine cinematografica trova posto in una più ampia storia della visione, una riflessione ontologica specifica sul dispositivo cinematografico e infine un’estetica del film, volta a esplicitare la dimensione stilistica e linguistica del cinema come arte. Direzioni di ricerca che oltrepassano la teoria del cinema e sollecitano scam­ bi e interferenze con altre discipline, dalla teoria delle immagini all’antropologia, dalla teoria delle arti visive contemporanee alla filosofìa. Per questo è necessario prima di tutto riferirsi ad alcuni testi teorici fondamentali della riflessione baziniana, a cominciare da “Ontologia dell’immagine fotografica” del 1945.

2. “Salvare l’essere mediante {’apparenza": un’ontologia della traccia L’originalità di “Ontologia dell’immagine fotografica”, la cui ica­ stica densità eccede i limiti di una teoria realistica dell’immagine fotografica e cinematografica per proiettarsi verso una più ampia comprensione antropologica del ruolo e del valore delle immagi­ ni per l’uomo capace di istituire folgoranti corrispondenze fra la magia del kolossos arcaico e l’attualità dell’immagine fotografica, è racchiusa probabilmente nel discorso genealogico che Bazin co­ struisce intorno al senso e al valore delle immagini. È un testo in cui, sulla scorta delle riflessioni di Malraux e di Sartre10, la nascita 10

II fulminante e succinto excursus sullo sviluppo del realismo nell’aite oc­ cidentale culminante con la scoperta della fotografìa e del cinema con cui si apre "Ontologia deU’immagine fotografica” (in Che cos’è il cinema?, a cura di A. Aprà, Garzanti, Milano 1973), come espressione di un bisogno psicologico extra-estetico, trova una diretta rispondenza nel breve testo di André Malraux, Esquisse d’une psychologic du cinéma (scritto nel 1939 per Verve e pubblicato da Gallimard nel 1946), le cui pagine in parte con­ fluiranno ne Le musée imaginaire del 1947. André Bazin inoltre lesse con attenzione e annotò diverse pagine della prima edizione de L’imaginaire di Jean-Paul Sartre nel 1940, come ricorda Dudley Andrew in André Bazin, cit., pp. 74-85 e in What Cinema Is! Bazin's Quest and its Charge, cit., pp.

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delle immagini e la loro origine immemoriale, che scaturisce da un bisogno fondamentale dell’uomo, il desiderio di sfuggire alla mor­ te producendo un doppio della vita, s’intrecciano con la consape­ volezza dell’origine del modo di produzione di alcune immagini, quelle fotografiche e cinematografiche, consapevolezza decisiva per comprendere gli effetti estetici e la credenza psicologica che quelle immagini sollecitano nell’uomo. In poche pagine di notevole intensità, Bazin ricostruisce una ri­ cognizione a un tempo della storia dell’arte occidentale e della sto­ ria delle immagini alla luce di due principi dialettici, polari, spes­ so opposti, che ne hanno attraversato l’accidentato cammino: un desiderio magico di realismo assoluto dalle profonde motivazioni psicologiche, la volontà cioè di ottenere un doppio assolutamente efficace e fedele dell'uomo e della vita nelle sue diverse forme da una parte, la volontà dall’altra parte di trasfigurare l’esistenza nella forma, che si esprime in un realismo estetico. Un realismo ontolo­ gico, su basi psicologiche, e un realismo di stile, dalle più raffinate e sublimate motivazioni estetiche. Due principi che non hanno mancato di intrecciarsi e anche di scontrarsi fra loro, deviando troppo spesso l’arte dalla sua vocazione puramente estetica per rivolgerla verso la ricerca di una riproduzione del reale ossessiva­ mente esatta. Pur utilizzando un vocabolario teorico non sempre omogeneo (alla base sicuramente dei non pochi fraintendimenti e delle critiche che saranno rivolte a questo celebre testo"), Bazin mantiene una forte chiarezza concettuale nel distinguere una voca­ zione alla "rassomiglianza integrale”, "alla sostituzione del model­ lo con il suo doppio” propria del realismo assoluto, da una ricerca formale e interpretativa che attraverso la mediazione consapevole dell’artista-creatore fornisce una rappresentazione mediata del modello, un'immagine artistica di esso, una sua interpretazione, tipica del realismo di stile. Questa distinzione e insieme l’intreccio dinamico che le due tendenze hanno conosciuto nella storia delle*

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11-17, Pur elaborando una teoria dell’immagine autonoma e indipendente sia nei confronti di Malraux sia di Sartre. Sulla formazione intellettuale di Bazin si veda anche il volume di Jean Ungaro, André Bazin: généalogies d'urte théorie, L’Harmattan, Paris 2000. Per una disamina critica dell’uso lessicale dei termini ‘oggettività’, ‘auto­ matismo’, ‘realismo’, ‘rassomiglianza’ che ricorrono nelle brevi ma dense pagine di “Ontologia” si veda M. Bertoncini, op. cit., pp. 62-70.

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immagini occidentali, appaiono di fondamentale importanza per comprendere la posizione in cui si viene a trovare l’immagine ci­ nematografica e, più in generale, Fimmagine artistica contempo­ ranea, tesa fra una logica della sostituzione volta a produrre un doppio del mondo reale e una logica modernista della riflessione consapevole sulla natura del medium espressivo utilizzato. Se la distinzione fra realismo integrale e realismo estetico tro­ va una modalità di attualizzazione in diversi ambiti del dibattito contemporaneo sull’immagine e sulla teoria dell’arte (ad esempio nella distinzione illustrata da Didi-Huberman in riferimento alla scultura fra realismo di calco e realismo di stile'*), la partecipazione ontologica dell’immagine fotografica alla realtà del suo modello, difesa da Bazin, oltre che influenzare profondamente la discussio­ ne teorica sulla fotografia di ambito anglo-americano, ha inaugu­ rato in una certa misura la fortuna critica dell’immagine-indice o traccia quale criterio dominante di interpretazione e lettura di diverse manifestazioni delle arti visive contemporanee post-mi­ nimaliste influenzate dal modello del dispositivo fotografico (a partire da “Notes on Index” di Rosalind Krauss'3)* Bazin sembra12 12

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Cfr. G. Didi-Huberman, ‘"Fissata a sua insaputa in uno stampo magico...’. Anacronismo del calco, storia della scultura, archeologia della modernità”, Ipso Facto. Rivista d’arte contemporanea, n. 1, maggio-agosto 1998. DidiHuberman riprende questa distinzione da un testo dello storico dell’arte Horst W. Janson, che rilegge la storia della scultura alla luce della categoria di ‘realismo’ distinguendo la somiglianza eccessiva e meccanica del calco (limite e confine dell’arte) dalla consapevole mediazione artistica operata dal realismo di stile. Anche secondo Bazin il realismo tecnico dell’impron­ ta fotografica dei visibile dev’essere integrato all’interno di un processo di messa in forma stilistica, ma la riproduzione meccanica non costituisce un limite, ma un privilegio del dispositivo fotografico e cinematografico, che non dev’essere occultato ma al contrario esplicitato. Sul ruolo al tempo stesso dirompente e sotterraneo del calco e della riproduzione meccanica per la teoria e la storia dell’arte occidentale, nella misura in cui la logica del calco si contrappone a quella dell’imitazione, e sulla sua vitalità nell’ar­ te contemporanea, si veda anche G. Didi-Huberman, La somiglianza per contatto. Archeologia, anacronismo e modernità dell’impronta, tr. it. di C. Tartarini, Bollati Boringhieri, Torino 2009. Cfr. R. Krauss, “Note sull’indice. Parte I e parte II" (1976-1977), in L'origi­ nalità dell’avanguardia e altri miti modernisti, a cura di E. Grazioli, Fazi, Roma 2007. Krauss, che cita esplicitamente il saggio di Bazin (ivi, p. 217) come paradigmatico dello “statuto indicale della fotografìa”, sintetizza nel suo discorso altri riferimenti culturali (la semiotica di Peirce prima di

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qui svolgere la funzione di un profetico precursore: le affermazioni perentorie (e così a lungo discusse) sulla natura dell'immagine e i suoi rapporti con la realtà, s’indirizzano verso l’individuazione di una modalità specifica e anche eccedente nell’ampia famiglia delle immagini che fotografìa e cinema hanno riportato all’attenzione della critica occidentale. Un’immagine che, almeno per la sua ori­ gine automatica e meccanica, si avvicina alla nozione di calco, di traccia, di impronta del suo referente molto più che al concetto di icona, di simbolo o di rappresentazione*14. Sottolineando la sua

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tutto, Benjamin, Barthes) che hanno riconosciuto la natura eterogenea deU’immagine fotografica rispetto alle altre immagini della tradizione ar­ tistica, sottolineando il rovesciamento della concezione simbolica dell’arte e il ritorno, nel suo rapporto di identificazione con lo spettatore, a una dimensione che sulla scia di Lacan definisce come immaginario. Senza se­ guire le implicazioni che il segno indicale (“Ogni fotografia è il risultato di un’impronta fisica che è stata trasferita su una superfìcie sensibile dalle riflessioni della luce. La fotografìa è dunque il tipo di icona o di rappresen­ tazione visiva che ha con il suo oggetto un rapporto indicale”) ha prodotto nel campo dell’arte contemporanea, è indubbio che Bazin, probabilmente grazie anche alla sua attenzione e curiosità per la fotografìa e le ricerche del surrealismo francese, ha riconosciuto la natura di indice (traccia, impron­ ta) dell’immagine fotografica quanto alla sua genesi, facendone la pietra d’appoggio della sua riflessione sul cinema. La pietra d’appoggio: ovvero, un punto di partenza non limitante, eppure decisivo per comprendere l’originario rapporto ontologico che il cinema inaugura con la realtà e con le altre arti, che dovranno essere ora ripensate in funzione del cinema (e non viceversa, come sottolinea giustamente Eric Rohmer, "La summa di André Bazin”, in II gusto della bellezza, tr. it. di C. Bragaglia, Pratiche, Par­ ma 1991, pp. 165-166; si tratta di un articolo originariamente pubblicato nel numero monografico dedicato dai Cahiers du Cinéma a Bazin nel gennaio 1959 dopo la sua morte). L’assimilazione fra calco e fotografia, basata suU’automatismo della ripro­ duzione meccanica, è resa esplicita da Bazin in un’importante nota di “On­ tologia deU’immagine fotografica”, cit., pp. 6-7: "Sarebbe il caso tuttavia di studiare la psicologia di generi plastici minori, come il calco di maschere mortuarie, che presentano anch’essi un certo automatismo nella riprodu­ zione. In questo senso si poteva considerare la fotografìa come un calco, un modo di prendere l'impronta dell’oggetto per il tramite della luce”. Il cinema stesso non fa che prolungare sul piano temporale la potenza di ‘cal­ co’ della fotografia, "calco della durate delle cose” e "mummia del cambia­ mento”. In "Teatro e cinema”, Bazin è ancora più esplicito nel distinguere l’immagine fotografica dalle altre immagini: "Ma la fotografìa è tutt’altra cosa. Non è affatto l’immagine di un oggetto o di un essere, ma molto più esattamente la sua traccia” (in Che cos’è il cinema?, cit., p. 162). Ricordiamo inoltre che nella prima edizione francese di Qu’est-ce que le cinéma?, quasi

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prossimità al reale, del quale partecipa e da cui procede, Bazin non intende ingenuamente confondere l’immagine con il modello, ma fornire probabilmente una risposta efficace a una tradizione millenaria che attribuendo all’immagine lo statuto di una messa a distanza nei confronti della realtà (ideale o mondana), operata dall’intenzione di un creatore, ha finito per considerarla come un semplice duplicato illusorio e ingannevole di essa, il luogo di una messa in scena fittizia o di una deformazione sviante, la ripetizio­ ne di un originale perduto. La necessità di pensare l’immagine (fo­ tografica e cinematografica) come pellicola che si stacca dal fondo delle cose stesse, come impronta dell’oggetto o della persona che si realizza anche all’insaputa del soggetto ripreso, come traccia nel farsi immagine del mondo, permette di rovesciare il rapporto fra immagine e idea, di “salvare l’essere mediante l’apparenza”, nella misura in cui la pellicola su cui s’imprime il reale è il luogo di ma­ nifestazione estetico dell’essere, necessario al rivelarsi stesso del mondo. Ciò che è interessante sottolineare in questa sede, al di là della pertinenza e della solidità storico-artistica del percorso trac­ ciato da Bazin, è la logica di sostituzione sottesa tanto alle pratiche immemorabili del calco o dell’antica statuaria religiosa quanto, in parte, al valore e alla credibilità dell’immagine fotografica che pretende di “sostituire all’oggetto più che un calco approssimativo: l’oggetto stesso, ma liberato dalle contingenze temporali”'5. L’ef-15

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a voler legare in un unico nodo la vita e la storia delle immagini, questo saggio è accompagnato da una fotografìa della Sacra Sindone conservata a Torino: la fotografìa di un’impronta, appunto. id., “Ontologia dell’immagine fotografica", dt., p. 8; nella prima pagina di “Ontologia”, Bazin ricollega l’origine della statuaria a) culto che si rea­ lizza attraverso statuette sostitutive del corpo del cadavere destinato alla distruzione, laddove il procedimento della mummificazione fosse fallito. Possiamo osservare come l’immagine fotografica, così come è descritta da Bazin, rivitalizzi alcuni caratteri dell'idolo (eidolon) arcaico: la sua natura di “apparizione” e non di “parvenza” che rende presente un essere che è assente, altrove, che si confonde con l’originale pur manifestandosi come evanescente e inafferrabile, doppio magico, che opera come un sostituto del tutto reale (si vedano in proposito i fondamentali saggi sulla nasata delle immagini e il rapporto fra idolo, mimesis e immagine nel mondo gre­ co, raccolti in J.-P. Vernant, L’immagine e il suo doppio. Dall'era dell'idolo all'alba dell’arte, intr. di P. Conte, Mimesis, Milano 2010). Sul carattere di apparizione spettrale, in tutti i sensi, dell’immagine fotografica e cinema­ tografica, simile a un calco dall’interno vuoto, insiste Andrew per sottrarre

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Acacia psicologica dell’immagine fotografica e cinematografica, fin dalla sua genesi tecnica, non dipende tanto dalla sua capacità mimetica di rassomigliare a un preteso modello già esistente, ma dalla verità del procedimento meccanico che ne garantisce l’auten­ ticità e dall’atteggiamento psicologico di credenza sollecitato negli spettatori1617 . Scavalcando la relazione mimetica, il realismo della copia rispetto all’originale, la fotografìa si offre per uno sguardo investito dalla sua 'magia’, al tempo stesso come una prosecuzione metonimica del reale e un suo incremento ontologico. Tali pre­ messe fondative per il discorso di Bazin troveranno una loro con­ ferma nel rapporto che l’opera d’arte cinematografica intratterrà con la realtà o con il testo di partenza (romanzo, rappresentazione teatrale, documento storico), rivoluzionando la questione della ‘fedeltà’ del film nei confronti del materiale pro-fìlmico iniziale: un film non sarà giudicato da Bazin come degno o paragonabile al suo modello di partenza, ma verrà considerato come un “nuovo oggetto estetico”, teatro o romanzo “moltiplicato per il cinema”'7. Bazin, il cui progetto culturale nella situazione specifica della Francia liberata dall’occupazione tedesca coincideva in buona mi­ sura con la volontà di riconoscere la dignità artistica del cinema, articolando una teoria e una critica del cinema che potesse dia­ logare con la critica letteraria, la critica d’arte e teatrale contem­ poranee, persegue una via alternativa rispetto alla legittimazione

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Bazin all’accusa di ‘realista ingenuo’ in What Cinema Is! Bazin’s Quest and its Charge, cit., pp. 9-10. Questo sapere delParché" secondo la formula di Jean-Marie Schaeffer (L’immagine precaria. Sul dispositivo JbtograJìco, tr. it. di M. Andreani e R. Signorini, CLUEB, Bologna 2006), che obbliga a legare l’immagine fo­ tografica al procedimento che l'ha prodotta, opera secondo Bazin come una credenza condivisa dallo spettatore moderno, rovesciando il realismo deH’effetto (che cerca le somiglianze fra l’immagine e il suo modello) in un realismo dell’origine. Anche sotto quest’aspetto è possibile riconosce­ re la capacità di Bazin di legare la fotografìa e il cinema a un’operazione modernista e postmodemista ampiamente praticata nelle arti visive con­ temporanee, la legittimazione dell’opera attraverso i procedimenti (anche automatici) che l’hanno prodotta o determinata. A. Bazin, “Journal d’un Curé de Campagne e la stilistica di Robert Bresson” in La pelle e l'anima. Intorno alla Nouvelle Vague, a cura di G. Grignaffini, La Casa Usher, Firenze 1984, p. 132; si vedano anche le analisi di Bazin sugli adattamenti teatrali di Cocteau (Les parents terribles) e Olivier (Enrico V) in A. Bazin, “Teatro e cinema”, cit., pp. 154-161.

Introduzione di Michele Bettolini

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accademica del cinema, al suo inserimento nel novero delle belle arti o di un sistema delle arti. Il cinema - come la fotografìa - è arte in quanto produce una famiglia di immagini eterogenea, altra, ri­ spetto alle immagini tradizionali: è artistico per le sue differenze, una differenza che nasce però da un privilegio di riproduzione, di calco rispetto al reale, fondato sul dispositivo tecnico dell’apparec­ chio fotografico1819 . Accanto al valore della riproducibilità tecnica, nella teoria di Bazin emerge la consapevolezza del medium cinematografico in quanto portatore di una possibilità di linguaggio autonomo che può essere confrontata con le posizioni della critica d’arte moder­ nista, che proprio in quegli stessi anni difendeva la specificità del medium espressivo della pittura e il suo potere di influenzare e condizionare le scelte espressive degli artisti'9. Questo confronto, che può apparire insolito se si pensa alla difesa di un cinema "im­ puro” e "popolare” da parte di Bazin rispetto alla rivendicazioni di “purezza” e “specificità” del medium pittorico o scultoreo perora­ te da Greenberg e da Fried, ritrova una sua collocazione teorica quando si considera quella che secondo Bazin costituisce la speci­ ficità mediale del cinema, ovvero la sua capacità di riprodurre, in senso metonimico, frammenti di realtà (fìsica, ma anche culturale: documenti, testi, rappresentazioni teatrali, quadri) come materie o realtà date e di lavorare su di essi nel tentativo di integrarli in uno 18

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Bazin poteva ritrovare ne) saggio di André Malraux Esquisse d’une psy­ chologic du cinéma (Sul cinema. Appunti per una psicologia, a cura di A. Zucca ri, Medusa, Milano 2002, p. 31) il riconoscimento del cinema, del­ la fotografìa e dell’opera radiofonica come “arti espressamente destinate alla riproduzione”, che Malraux a sua volta derivava da Walter Benjamin (espressamente citato nell’atticolo); Malraux non prende però in consi­ derazione le implicazioni ontologiche che questa trasformazione tecnica comporta. Per una lettura di Bazin come critico modernista si veda: C. MacCabe, “Ba­ zin as Modernist”, in Opening Bazin. Postwar Film Theory and its Afterlife, cit., dove l’iniziale opposizione fra realismo e modernismo (letterario e ar­ tistico), trova un suo punto di convergenza e affinità nella consapevolezza del cinema come medium (e non semplice tecnologia) capace di offrire una rappresentazione impersonale degli eventi, di approfondire il nostro rapporto con la realtà. Il 'realismo' non è dunque soltanto il reale che si dà nella riproduzione meccanica, ma un guadagno di realtà che appartiene alla macchina da presa: “la realtà che la macchina da presa afferra non è indipendente dalla macchina stessa” (ivi, p. 70).

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stile. Un medium quindi aperto all’interazione con altri media e soprattutto capace di essere consapevole del proprio linguaggio al punto di nasconderlo nell’efficacia di ciò che mostra, decantando le sue potenzialità tecniche10. La natura e le proprietà del mezzo tecnico e artistico devono quindi trovare una corrispondenza nelle scelte stilistiche e sintat­ tiche dei registi: il partito preso della realtà si traduce anche nella scelta morale di assecondare e di rimanere fedele alle potenzialità espressive del mezzo cinematografico, senza tradirlo o forzarlo al di là dei suoi limiti, così come nella pittura modernista, per dir­ la con le parole di Greenberg, qualcosa dell’armonia del quadrato originale di tela bianca deve ritrovarsi nel quadro compiuto. Il re­ alismo cinematografico rivela la sua consapevole riflessività: senza limitarsi alla semplice riproduzione fotografica di frammenti di re­ altà visibile, esso oltrepassa “il contenuto dell’immagine per inte­ ressare le strutture stesse della regia”2', nella misura in cui lo scher­ mo non è che la proiezione dell’occhio della macchina da presa.

3. Realismo e realismi

Le osservazioni raccolte sui presupposti ontologici del discorso di Bazin ci hanno già permesso di mostrare quanto il problema della realtà e del realismo sia, fin dalle sue premesse, lontano da una definizione ingenua o non meditata, nella misura in cui "la re­ altà raggiunta da un film è precisamente ciò che non è visibile nelle20 21

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II rapporto fra tecnica e linguaggio tracciato da Bazin in riferimento al cinema anticipa anche le posizioni della critica d’arte post-formalista e post-modernista di Rosalind Krauss la quale muove da un riesame criti­ co delle posizioni del modernismo americano di Greenberg e Fried e dal suo recente interesse per la nozione di ‘medium’: "La specificità, poi autoreferenzialità, caposaldo della visione modernista del medium artistico, e dunque centro della discussione per qualsiasi discorso sul medium stesso, resta, ma non più legata, anzi schiacciata sui caratteri fìsici deH’opera e del medium, quanto spostata su quelli formali, processuali, operazionali, i soli che possano andare a costituire quelle regole, quelle convenzioni, quella sintassi, senza la quale un medium non può dirsi tale” (E. Grazioli, “Prefa­ zione”, in R. Krauss, Reinventare il medium. Cinque saggi sull’arte d’oggi, a cura di E. Grazioli, Bruno Mondadori, Milano 2005, pp. XI1-XIII). A. Bazin, Jean Renoir, cit., p. 83.

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sue immagini” e la riproduzione fotografica del visibile è “qualco­ sa di essenziale, ma di preliminare rispetto alla realtà cercata dal regista”12, aprendo la strada così all’integrazione del realismo baziniano in una riflessione sull’immagine virtuale che Gilles Deleuze e Serge Daney hanno intrapreso, senza misconoscere il loro debito nei confronti del critico francese1’. Esistono infatti diverse stratificazioni del realismo nella teoria di Bazin non solo in relazione alle diverse categorie di riferimento (la distinzione fra realismo tecnico del dispositivo, realismo psi­ cologico e realismo estetico)14, ma anche all’interno dello stesso realismo estetico, del realismo cioè dello stile cinematografico, in­ teso come attiva configurazione di forme da parte di un regista. Bazin ha sempre ricordato - e lo ripete anche nel suo Renoir - che non esiste “uno, ma dei realismi” e che “ogni epoca cerca il suo, cioè la tecnica e l’estetica che possano meglio captarlo, trattenere e 22 23

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D. Andrew, What Cinema Is! Bazin's Quest and its Charge, cit., p. 8. Cfr. ivi, pp. 8-9. Sul rapporto, complesso e non del tutto esplicitato, fra Deleuze e Bazin - un nome che attraversa entrambi i volumi deleuziani sul cinema - si sofferma Jacques Rancière ne La favola cinematografica (a cura di B. Besana, ETS, Pisa 2006), che vede in Deleuze il pensatore che ha dato un solido fondamento alle giuste intuizioni di Bazin, 'filosofo d'occasione', attraverso la distinzione fra l’immagine-movimento e l’immagine-tempo. Sotto quest’aspetto il ‘riscatto filosofico’ di Bazin operato da Deleuze co­ stituirebbe una prosecuzione della ricerca, tracciata dall’ultimo MerleauPonty, di investigazione dell’ontologia filosofica alla luce di quelle forme di pensiero spontaneo di cui l’arte (la pittura, come il cinema o la letteratura) offre numerose manifestazioni. Più che di riscatto filosofico, si dovrebbe parlare piuttosto di messa in discussione della filosofia ad opera del cine­ ma come di quella ‘filosofia spontanea’ che Bazin praticava già agli occhi di Merleau-Ponty: su questi aspetti si veda M. Carbone, Sullo schermo dell'e­ stetica. La pittura, il cinema e la filosofia da fare, Mimesis, Milano 2008, pp. 89-95 e D. Arnaud, “From Bazin to Deleuze. A matter of Depth”, in Opening Bazin. Postwar Film Theory and its Afterlife, cit., pp. 85-94. Questa tripartizione, esplicitata da Giovanna Grignaffini nell’introduzio­ ne a La pelle e l’anima è ripresa e articolata nel testo di M. Bertoncini, op. cit., pp. 35-45, dove correttamente il termine è usato al plurale. Se i primi due (realismo tecnico e psicologico) sono intimamente connessi, al punto che il bisogno psicologico di un realismo integrale si pone come punto di partenza e d’arrivo del realismo tecnico, il terzo supera la dimensione tecnica del dispositivo anche se Bazin ritiene fin dal suo primo articolo del 1944 A propos du réalisme che “il realismo obiettivo della cinepresa determina fatalmente la sua estetica” (A. Bazin, "A proposito di realismo”, in La pelle e l’anima, cit., p. 4).

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restituire ciò che si vuole captare della realtà"15.11 realismo estetico procede quindi attraverso una selezione di certi aspetti o tracce del reale visibile e si esprime più come una tendenza dialettica verso la conoscenza e l’approfondimento del mistero, dell’inquietudine e della complessità della realtà. Inoltre, il realismo estetico dev’esse­ re soprattutto inteso come il tentativo di restituire una certa espe­ rienza percettiva, morale, esistenziale della realtà, un equivalente sensibile e mentale del nostro rapporto al mondo che ne faccia emergere il senso immanente. La complessità e ambiguità della nozione di “realismo cinema­ tografico” si può ricavare da una rapida lettura proprio della mo­ nografìa su Renoir, dove Bazin non si preoccupa di moltiplicare le declinazioni che assume il realismo come stile anche nella stessa opera del regista francese. L’incursione nel cinema sperimenta­ le d’avanguardia raggiunge un effetto di “realismo fantastico” ne La piccola fiammiferaia; la realtà bruta del documento sociale e del fatto di cronaca di Toni anticipa il neorealismo italiano; dallo sguardo di Sylvia Bataille ne La scampagnata emana un violen­ to “realismo degli affetti"; il realismo de La grande illusione è una ricerca della verità dei rapporti sociali e umani che oltrepassa la semplice riproduzione mimetica propria della copia per configu­ rarsi come un’invenzione realista, nutrita a un tempo di fantasia e di osservazione; infine la produzione americana del regista (in particolare II diario di una cameriera) spinge il critico francese a rivedere i suoi giudizi negativi nei confronti di questi film, rinun­ ciando a un paradigma critico che opera come uno schermo pre­ giudiziale rispetto al piacere e al godimento estetico del film. Possiamo quasi affermare che la complessità e l’ampiezza multi­ forme della produzione cinematografica di Renoir abbiano spinto Bazin a misurare sul terreno del confronto empirico diretto con i film, la tenuta teorica e la coerenza della sua nozione di “reali­ smo cinematografico”, vera chiave di volta del suo impianto teori­ co, spingendolo a modificarla, a trasformarla, se non addirittura a rovesciarla, anche se non possiamo stabilire verso quali direzio­ ni si sarebbe potuta indirizzare l’evoluzione della sua teoria16. Le25 26 25 26

A. Bazin, “William Wyler o il giansenista della messa in scena”, in Che cos’è il cinema?, cit., p. 99; cfr. Id., Jean Renoir, cit., p. 78 e pp. 99-101. II “realismo” del secondo Renoir sembra dirigersi verso (’evocazione di una

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stesse dichiarazioni di Renoir, raccolte attraverso interviste e brevi testi spesso ospitati sulle pagine dei Cahiers negli anni Cinquanta, sembrano giocare in contrappunto con l'interpretazione critica di Bazin, a partire dal riconoscimento da parte del regista della ne­ cessità di un definitivo superamento del realismo ingenuo, “la fede nella rappresentazione fotografica di una realtà colta per caso”*7, in favore dell'affermazione dell’arte come artificio e finzione con­ sapevole, capace di esplorare la vita interiore e di interrogare il mi­ stero dell'anima. Un superamento che l’ultimo Renoir definirà con il termine, anti-accademico, di classicismo, e di cui Bazin tiene conto soprattutto nelle ultime pagine di questo testo, dove l’opera matura del regista francese conquista un equilibrio estetico defi­ nibile come saggezza dell’arte, ma che sicuramente troverà in Eric Rohmer il suo interprete più entusiasta e appassionato18. Il confronto con Renoir non poteva non essere decisivo per il cri­ tico francese, al di là dell’indubbia simpatia umana, dell’amicizia, dell’amore reale per il suo cinema che Bazin, come i giovani critici27 28

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“teatralità allo stato puro", superamento quasi del cinema e del teatro, che è indicato anche da Deleuze come uno degli esiti più interessanti del “com­ plesso discorso” di Bazin (cfr. G. Deleuze, Cinema 2. L'immagine-tempo, tr. it. di L. Rampello, Ubulibri, Milano 1989, p. 124). Un esempio significati­ vo dell’atteggiamento fenomenologico di Bazin richiama in modo diretto un’espressione di Merleau-Ponty: il rovesciamento del giudizio negativo su Il diario di una cameriera comporta per il critico la possibilità di “sognare il film con Renoir” (A. Bazin, Jean Renoir, cit., p. 89), di sentirlo e pensarlo dall'interno, senza applicarvi a priori degli schemi intellettuali già formati, cosi come di fronte alla pittura “più che vedere il quadro, io vedo secondo il quadro o con esso" (M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, tr. it. di A. Sordini, SE, Milano 1989, p. 21). J. Renoir, La vita è cinema. Tìitti gli scritti 1926-1971, a cura di G. Grignaffini e L. Quaresima, Longanesi, Milano 1978, p. 52. Rohmer, che ha dedicato all’opera matura di Renoir (da La carrozza d’oro a Eliana e gli uomini e Picnic alla francese) diversi articoli negli anni Cin­ quanta (ora raccolti in E. Rohmer, Il gusto della bellezza, cit., pp. 273-306), è al tempo stesso l’interprete più rigoroso, ai limiti del dogmatismo, del “realismo” e dell’oggettività fotografica del cinema di matrice baziniana e uno dei critici che prima ha colto quella tendenza evolutiva del realismo (e de) neorealismo) verso la ricerca di una verità interiore, morale e spiri­ tuale, riscontrabile nel percorso personale di registi assai diversi fra loro come Hitchcock (L’altro uomo, Io confèsso), Rossellini (Stromboli, Viaggio in Italia), Renoir (Il fiume, La carrozza d’oro) o Bresson; si veda in propo­ sito E. Rohmer, “Di tre film e di una certa scuola” (1953), in II gusto della bellezza, cit., pp. 108-118.

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e registi della nascente Nouvelle Vague, hanno sempre manifestato sui Cahiers du Cinéma, dedicando al regista due numeri monogra­ fici negli anni Cinquanta e diverse interviste1’. Decisivo in quan­ to nel cinema di Renoir degli anni Trenta, Bazin poteva scorgere l’anticipazione e l’annuncio di quella tendenza stilistica verso una comprensione profonda e complessa della realtà (sociale, politica, morale, metafìsica), che, avvalendosi di alcune tecniche cinema­ tografiche specifiche (la profondità di campo, il piano-sequenza, più in generale i movimenti di macchina, le panoramiche, i carrel­ li), avrebbe portato, con esiti profondamente diversi, da una parte al neorealismo italiano, dall’altra al nuovo cinema americano di Orson Welles e di William Wyler. Renoir trova una doppia collocazione nella riflessione storica, critica e teorica di Bazin: da una parte, in una prospettiva teleo­ logica, non estranea al pensiero del critico francese, Jean Renoir scopre il "realismo” come vocazione naturale del mezzo cinema­ tografico, appropriandosi via via con disinvoltura dei diversi mez­ zi di espressione che segnano lo sviluppo tecnico e materiale del cinema (il suono, i progressi neH’illuminazione e nell’uso degli obiettivi fotografici, il colore), a differenza di altri grandi registi francesi della sua generazione come René Clair. In questa prospet­ tiva teleologica, tracciata da Bazin in particolare ne "11 mito del cinema totale”*0, Renoir costituisce un capitolo fondamentale di quella “rivoluzione realista iniziata da Stroheim cinque anni prima dell’apparizione del cinema sonoro” e approdata più tardi a “un’ar­ te cinematografica del tutto priva di ogni simbolismo plastico, che rifiutava gli artifìci del montaggio e che aderiva alla realtà come la sue pelle”*1. Lo sviluppo artistico di Renoir, dal muto al sonoro alla scoperta del colore, coinciderebbe dunque in parte con l’evoluzio29

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Ricordiamo in particolare i numeri 8 (gennaio 1952) e 78 (dicembre 1957) dei Cahiers du Cinéma, che presentano ampie interviste al regista e una filmografìa commentata, oltre alle varie recensioni critiche ai film e inter­ venti fra cui ricordiamo la difesa del Renoir 'americano' da parte di Eric Rohmer, ora tradotta in La pelle e l’anima, cit., pp. 101-107. Cfr. A. Bazin, “Il mito del cinema totale”, in Che cos’è il cinema?, cit., pp. 11-16. La prospettiva di una naturale tendenza e vocazione di Jean Renoir verso un’arte realista è presente anche in alcune pagine del suo Jean Renoir, in particolare in quelle relative al passaggio dal muto al sonoro (cfr. Id., Jean Renoir, cit., pp. 21-22). Ivi, pp. 99-100.

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ne interna del linguaggio cinematografico verso una progressiva e sempre più ricca partecipazione all’ambiguità e complessità della realtà, alle sue stratificazioni di senso nascoste o implicite. Biso­ gna tuttavia ricordare che la linea di sviluppo (che unisce famiglie di stili cui appartengono autori distanti, attraversando addirittura la frattura fra muto e sonoro) tracciata da Bazin costituisce in buo­ na parte un fiume carsico, sotterraneo, “un nuovo ciclo di erosione estetica”3233 , che scorre parallelo rispetto ai risultati del cinema do­ minante negli anni Trenta, soprattutto negli Stati Uniti, fondato sul découpage analitico classico e sul montaggio invisibile. Renoir, come Welles o Rossellini, emerge in quanto autore capace di ope­ rare uno scarto rispetto alle regole dominanti”, articolando uno ‘stile’ autonomo che coincide in parte con quello che Bazin defini­ sce come compito perenne dell’avanguardia34, e proprio per queste ragioni potrà essere riconosciuto dai ‘giovani turchi’ della Nouvel­ le Vague come maestro e scrittore di film capace di far emergere l’unicità della sua mise en scène anche in diversi contesti culturali e produttivi, come nel suo periodo americano35.

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Id., “Per un cinema impuro", in Che cos’è il cinema?, cit., p. 141; si veda anche, per la ripresa della metafora che contrappone geografia della su­ perfìcie e geologia della profondità, "L’evoluzione del linguaggio cinema­ tografico”, in Che cos'è il cinema?, cit., pp. 80-83: “Dal 1930 al 1940 sembra essersi affermata nel mondo, soprattutto in America, una certa comunità d’espressione nel linguaggio cinematografico. Nel 1939 il cinema era per­ venuto a ciò che i geografi chiamano il profilo d’equilibrio di un fiume, cioè quella curva matematica ideale che è il risultato di un’erosione sufficiente. (...) Ma sopravviene qualche movimento geologico che rialza il penepiano, modificando l’altezza della sorgente; l’acqua lavora nuovamente, penetra nei terreni sottostanti, s’immerge, corrode e scava”. Cfr. G. De Vincenti, Il concetto di modernità nel cinema, Pratiche, Parma 1993» P- 3» Cfr. A. Bazin, “L'avant-garde nouvelle”, Cahiers du Cinéma, n. 2, mars 1952, pp. 16-17. In questo breve articolo, Bazin affianca alla declinazione storica dell’avanguardia cinematografica degli anni Venti, una declinazione immor­ tale, che non si confonde con un certo contenuto storico: “L’avanguardia, per noi, è rappresentata dai film che sono in anticipo sul cinema. (...) L’avan­ guardia del 1949 ha altrettante chance di essere incompresa dal grande pub­ blico di quella del 1925. L’esempio perfetto è l’eterna Regola del gioco”. Sul ruolo e l’importanza di Renoir per i registi della Nouvelle Vague cfr. G. De Vincenti, “'Cahiers du Cinéma'. Un laboratorio sui generis tra critica, teoria e pratica realizzativa”, in Nouvelle Vague. Forme, motivi, questioni, a cura di L. Venzi, Fondazione Ente dello Spettacolo, Roma zou, pp. 45-58

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Inoltre quest’approccio storico-progressivo non impedisce a Ba­ zin di cogliere il rapporto complesso che s’instaura, nella ricerca artistica di Renoir, fra progresso tecnico e progresso estetico, fra scoperta di nuove tecniche ed elaborazione di uno stile. Rifiutan­ do qualsiasi determinismo, ogni nuova conquista tecnica costitu­ isce al tempo stesso un ostacolo nell’esplorazione della realtà, in quanto mezzo espressivo che s’interpone fra lo sguardo del regi­ sta e il mondo, e necessita quindi di una trasfigurazione estetica, un’appropriazione nell’orizzonte del visibile, com’è testimoniato dalla lucida lettura che Bazin propone del rapporto fra Renoir e il colore in French Cancan. L’assunzione di una tecnica nell’oriz­ zonte estetico dello stile è sempre il frutto di una 'volontà di stile’, che permette a una tecnica già esistente di assumere un significato linguistico capace di esprimere a un tempo una certa visione del mondo e un certa concezione del cinema, un scelta insieme onto­ logica, etica, estetica operata sulla nostra esperienza del mondo, come attesta l’uso inedito e profetico della profondità di campo da parte di Renoir36. Sotto un altro punto di vista, più interessante e più stimolante, il partito preso della realtà in Renoir, rispetto all’esibizione dell’ar­ tifìcio tipica della tendenza espressionista, non costituisce il para­ dosso contraddittorio di uno stile senza stile, di un "cinema senza cinema”, di un grado zero dell’arte che si fa natura (dove sarebbe allora, commenta Bazin, la differenza fra arte e realtà?), e neppure lo stile che invera e completa tutti gli altri stili artistici, quanto piuttosto una tendenza dialettica che intende cogliere l’ambigui­ tà ontologica della realtà a partire dal suo ancoramento sensibi­ le, estetico, dalla sua realtà tangibile e singolare. 'Realista' è allora ogni creazione artistica che rifiuta qualsiasi pregiudizio intellet­

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e A. Costa, “Scusi dov’è l’autore. Ovvero: Que reste-t-il de nos auteurs?’, in Nouvelle Vague. Forme, motivi, questioni, cit., pp. 79-95. Cfr. A. Bazin, “L’evoluzione del linguaggio cinematografico”, cit., pp. 8288: la profondità di campo elevata a stile e linguaggio cinematografico comporta in effetti, secondo Bazin, la volontà di restituire in immagine un’esperienza del reale simile a quella vissuta, una scelta estetica ed etica nei confronti dello spettatore (spinto a partecipare attivamente alla costi­ tuzione del senso dell’immagine durante la visione del film), infine una scelta metafisica o ontologica, favorevole alla rappresentazione più com­ piuta dell’ambiguità del reale, grazie a una visione totale dell’unità spaziale e temporale di un evento.

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tualistico, che rovescia la concezione dell’arte come incarnazione in una forma sensibile di un’idea astratta, che concepisce il gesto della creazione come uno sviluppo unitario, privo di dualismi (fra materia e contenuto, fra ideazione ed esecuzione). La macchina da presa di Renoir è quindi uno sguardo, più che un cervello; essa sco­ pre nella dialettica fra visibile e invisibile l’infrastruttura profonda che attraversa la realtà: lo schermo stesso è interpretato da Renoir come uno sguardo che scopre progressivamente il visibile, e non come una cornice pittorica o teatrale. Renoir, afferma Bazin, scopre il livello originario del senso del reale nella visibilità con cui gli esseri, la natura, gli oggetti si mani­ festano; il compito della regia, che è spesso paragonata alla carezza di uno sguardo innamorato delle cose, è quello di rivelare l’apparire sensibile, corporeo del mondo, per scoprire uno strato di profondi­ tà nell’immanenza del sensibile stesso. Il suo realismo è quindi pie­ namente ’cinematografico’, nasce da uriinterrogazione estetica del reale che si distingue progressivamente dalla discendenza letteraria del naturalismo e del verismo, dall’analisi psicologica dei caratteri tipica del realismo letterario, che pure impregnava la formazione culturale di Jean Renoir*7, per trovare un punto di contatto con la pittura, nella misura in cui il regista e il pittore condividono le stes­ se domande poste al visibile, la volontà di ritrovare "una necessità delle apparenze”* 38, una legalità del mondo sensibile attraverso lo sguardo. Uno sguardo capace di liberare un’intelligenza affettiva ed estetica del mondo e degli esseri, riscoprendo quella complicità e familiarità con le cose e con gli altri, che sicuramente costituisce uno degli aspetti più affascinanti dell’opera di Jean Renoir39.

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Cfr. Id., Jean Renoir, cit., pp. 77-78; anche Gilles Deleuze riscontra in Re­ noir un’impossibilità di entrare nell’universo del naturalismo, più che una volontà di uscirvi; “tutto ciò che ispira Renoir lo distoglie da questo na­ turalismo che non cessa tuttavia di tormentarlo” (G. Deleuze, Cinema 1. L’immagine-movimento, tr. it. di J.-P. Manganare, Ubulibri, Milano 1984, p. 159). Sul progressivo affrancamento di Renoir dalla sua cultura giovanile (teatrale, letteraria, culturale), anche grazie al contatto con il mondo del cinema, cfr. G. De Vincenti, Jean Renoir. La vita, i film, cit. A. Bazin, Jean Renoir, cit., p. 124. Cfr. ivi, p. 140 e pp. 29-30: “Il dramma, l’azione stessa in senso teatrale o roman­ zesco non sono per lui che dei pretesti per dò che è essenziale, e l’essenziale è ovunque in dò che si vede, in quello che fa la materia stessa del cinema”.

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4. Lo sguardo di Renoir: un’estetica dello scarto Il confronto teorico con l'opera di Renoir assume quindi il valore di un’esplorazione archeologica delle premesse e dei fondamenti delle riflessioni portanti della teoria del cinema dello stesso Bazin, in cui la questione della relazione originaria fra realtà e senso, o meglio della naturale significatività del reale (un punto di contatto fondamentale fra Bazin e la fenomenologia francese)40 trova la sua risposta nell’orizzonte percettivo del “visibile” e sul piano ante­ predicativo dello “sguardo” Renoir, infatti, nella lettura di Bazin, che è interessato soprattutto a ricostruire il processo di produzione e creazione dei film (dalla sceneggiatura alla direzione degli attori, dal découpage alle riprese)41, non mette in scena una sceneggia­ tura o una struttura drammatica ideale, piuttosto egli plasma il soggetto secondo uno sviluppo spiraliforme, intorno a un nucleo centrale iniziale, ad “alcuni temi visivamente sensibili’’42, a fatti o 40

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Cfr. M. Guercini, “Immagine e realtà. Un confronto fra André Bazin e Mau­ rice Merleau-Ponty", Dianoia, n. 11, 2006, p. 283: “Bazin tiene ferma l’idea di una naturalità della significazione, di un senso che di per sé abita gli oggetti e il mondo. Ne scaturisce una norma estetica fondamentale: si deve lasciare che le cose parlino da sé, componendole in immagini e organiz­ zandole in un discorso che non ne compromettano l’originaria pluralità di significato e non impongano loro un senso univoco ed esteriore”. “L’interesse che Bazin attribuiva alla produzione di un film non proveniva da una semplice curiosità, ma dal pensiero secondo cui la genesi di un’ope­ ra è il legame cruciale fra la visione finale del film e la realtà cui s’ispira” (D. Andrew, André Bazin, cit., p. 207). Cfr. A. Bazin, Jean Renoir, cit., pp. 101-102 e pp. Bazin cita il tema, visivo e plastico dell’acqua, quello drammatico e morale della caccia, cosi come la metafora sensibile e non astratta dell’uomo e della macchina ne L’angelo del male. In tutti questi casi, l’individuazione di questi temi non è separabile da una metamorfosi di uno o più personaggi nell’altro o da) divenire-elemento del protagonista: un divenire-animale come nel caso de La regola del gioco (dove André conquista alla fine la sua identificazione quasi involontaria con il coniglio inseguito dai cacciatori) o un diveniremacchina per Gabin ne L’angelo del male, un diventare-morte di de Boieldieu attraverso l’identificazione fatale con il suo nobile carceriere von Rauffenstein ne La grande illusione, e anche un divenire-ballerina (spet­ tacolo, apparato spettacolare) di Nini in French Cancan. In tutti i film di Renoir si assiste a un progressivo divenire personaggio dell’attore, fino alla coincidenza fra la maschera e la carne, sia questa identificazione il frutto di una scelta volontaria o di un destino inevitabile. Questa trasformazione, assunzione di una pelle o di un travestimento, avviene spesso grazie a un

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dati visibili e tangibili fra cui è possibile intrecciare delle relazioni di senso. Proprio perché lo schermo non deve essere pensato come una cornice pittorica o uno scenario teatrale, ma come una maschera mobile che vale di più per ciò che nasconde del reale che per ciò che rivela - secondo la precisa definizione dell’autore -, il cinema ha la straordinaria possibilità di mostrare non tanto il mondo così com’è, quanto di restituire, attraverso uno stile che non rinuncia ai suoi artifìci, l’inevitabile parzialità, mondanità e incompiutez­ za della nostra esperienza percettiva di contatto con il mondo e le cose. Il fatto cioè che la percezione si dia sempre, come la fe­ nomenologia ha mostrato, come un campo aperto, incompiuto, inesauribile di rimandi e di relazioni che dall’immediatezza del mio vedere il tavolo di fronte a me e la mia mano sul libro, riman­ dano all’universo stesso. Lo schermo cinematografico, estensione spaziale che rinvia costantemente all’occhio della cinepresa, ha le proprietà di uno sguardo mondano, molto più che di uno spirito disincarnato43: esso esibisce, come nelle panoramiche avvolgenti della festa al castello de La regola del gioco, la parzialità stessa del vedere, i suoi limiti, l’impossibilità di circoscrivere a volo d’uccello la totalità di un’azione, di un evento, l’incarnazione immanente della visione. Lo schermo del cinema rinuncia allora alla sua na­

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terzo elemento, che svolgendo la funzione implicita di modello, spinge il personaggio a diventare il personaggio, a furia di recitarlo: Boudu ridiventa clochard grazie al borghese Lestingois, de Boìeldieu scopre la sua natura di aristocratico destinato alla morte non solo dal confronto con il borghe­ se Maréchal, ma anche grazie allo specchio rovesciato del suo alter ego, von Rauffenstein (La grande illusione), La donna della spiaggia moltiplica i giochi di rispecchiamento e proiezione fra i tre personaggi della storia, infine La carrozza d’oro produce il più decisivo dei rovesciamenti, quello fra il teatro e la vita, sancendo in fondo l’impossibilità di decisione intorno a questa coincidenza finale: se si tratti di una via di fuga o di una più pro­ fonda schiavitù. "Questa ideale mobilità dello sguardo la ritroveremo, teorizzata, nella fenomenologia: l’occhio si sposta ne) mondo visibile; più ampiamente, il corpo umano si caratterizza, secondo l’espressione di Merleau-Ponty, per essere ’nello stesso tempo visibile e vedente’, immerso in un mondo che non smette di farsi vedere. Ultima eco, Bazin ripartirà proprio da MerleauPonty per fare dell’occhio mobile e eminentemente variabile del cinema, l’equivalente più stretto dello sguardo..." (J. Aumont, L’occhio interminabi­ le. Cinema e pittura, tr. it. di D. Orati, Marsilio, Venezia 1991, p. 27).

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tura etimologica di filtro, di prisma posto fra noi e il mondo, per diventare una griglia che sfiora il mondo che inquadra, la pelle del visibile (che fa corpo con esso), il vestito senza rammendi né cu­ citure della realtà44. E tuttavia in questa aderenza della pellicola al mondo (mai come in questo testo viene così a lungo sottoline­ ato il carattere ‘epidermico’ dello schermo cinematografico: pelle di una profondità, scorza di una durata), l’immagine restituisce la densità, lo spessore o la porosità del reale, le sue crepe e ferite che suggeriscono la liberazione del risvolto invisibile del visibile. Bazin, via Renoir, conquista e riconosce una natura tattile dello schermo che procede oltre la sua natura ottica (che postula la di­ stanza e la separazione fra soggetto e mondo), una tattilità interna allo sguardo probabilmente, del tutto convergente con la sua vi­ sione deU’immagine cinematografica come strumento di parteci­ pazione e rivelazione ontologica della nostra originaria esperienza estetica della realtà45. Un cinema senza schermo al limite che di­ venta il cinema-mondo, l’inesauribile e impossibile piano-sequen­ za senza suture della realtà. Il cinema di Renoir diventa allora occasione di un esercizio fi­ losofico dello sguardo, capace di interrogare il critico, come il fi­ losofo o il comune spettatore, ricordandogli la sua costitutiva ap­ partenenza all’orizzonte della visione e del visibile, momento di restituzione di una visione che nasce nel cuore stesso del visibile. Esso, come la "nuova psicologia delia forma” secondo MerleauPonty, e prima di tutto la fenomenologia, “ci ri-insegna a vedere questo mondo con il quale siamo a contatto per tutta la superfìcie del nostro essere”46. Nelle pagine di commento a II fiume o di Re­ noir francese, è possibile effettivamente vedere all’opera, nel suo stato nascente, quella “filosofìa-cinema” (secondo l’espressione deleuziana, ma già anticipata dalle illuminanti riflessioni sul cine­ ma del giovane Sartre e di Merleau-Ponty) secondo cui il cinema invita la filosofìa a “pensare il nostro mutato rapporto con noi stes­ si, gli altri, le cose, il mondo” e a ripensare anche “il rapporto con il proprio specifico stile di pensiero e di espressione”47. 44 45 46 47

Cfr. A. Bazin, Jean Renoir, cit., p. 84. Cfr. E Casetti, Teorie del cinema. 1945-1990, Bompiani, Milano 1993, pp. 32-38. M. Merleau-Ponty, “Il cinema e la nuova psicologia”, in Senso e non senso, intr. di E. Paci, tr. it. di P. Caruso, Il Saggiatore, Milano 2004, p. 75. M. Carbone, Sullo schermo dell’estetica. La pittura, il cinema e la filosofia

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I contatti, gli scambi, gli intrecci fra Bazin e il pensiero feno­ menologico francese sono oggi in buona parte riconosciuti al punto che Martin Jay definisce André Bazin come “il più vigoro­ so e influente esponente di ciò che si potrebbe chiamare realismo fenomenologico’’48, e trovano probabilmente il loro punto di con­ tatto iniziale nel riconoscimento da parte di Merleau-Ponty, nella celebre conferenza “11 cinema e la nuova psicologia” tenuta nel 1945 all’istituto di Alti Studi Cinematografici di Parigi, di una conver­ genza ancora più originaria fra il cinema e la filosofia, fra i compiti che si pone la nuova filosofia e gli obiettivi dei giovani registi49. La riflessione di Bazin, infatti, ha sempre sostenuto l’originario valore deH’immagine cinematografica come deposito e ricettacolo

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da fare, cit., p. 85. Come ricorda Mauro Carbone, in un testo giovanile, “Apologie pour le cinéma. Défense et illustration d’un Art international”, Sattre anticipa il rovesciamento deleuziano della condanna bergsoniana del cinema, riconoscendone l’essenziale mobilità e cogliendo soprattutto le implicazioni che questa nuova atte della mobilità potrebbe comportare per l’estetica e l’ontologia: cfr. J.-P. Sartre, “Apologie pour le cinéma”, in Le cinéma: l’art d’une civilisation, a cura di D. Banda e J. Moure, Flammarion, Paris 2011, pp. 135-142. Sul rapporto fra Sattre e il cinema, non riducibile alla sua ‘assenza’ ne L'imaginaire (dove si tematizza l’immagine fotogra­ fica, ma non il cinema), si veda anche G. Invitto, L'occhio tecnologico. / filosofi e il cinema, Mimesis, Milano 2005, pp. 31-47. M. Jay, Downcast Eyes. The Denigration of Vision in Twentieth-Century French Thought, University of California Press, Berkeley-Los AngelesLondon 1994, p. 459. Nella rapida presentazione proposta da Jay, la rifles­ sione sul cinema di Bazin viene presentata come una prosecuzione del ri­ conoscimento dell’affinità di fondo fra cinema, nuova psicologia e filosofia fenomenologica proposta da Merleau-Ponty nella sua celebre conferenza del 1945, ma anche come un momento del risveglio culturale dell’Europa dopo la seconda guerra mondiale: “Il realismo fenomenologico sembrava la teoria perfetta per spiegare l’importanza dei recenti sviluppi cinema­ tografici, in particolare i film di Jean Renoir e del neorealista italiano Ro­ berto Rossellini, che Bazin e i suoi seguaci come Amédée Ayfre speravano che potessero aiutare a rivificare la cultura europea postbellica” (ivi, pp. 460-461). La messa in luce di una relazione fondamentale fra la fenomenologia e la teoria del cinema di Bazin, sia sulla base della formazione filosofica sia di un’affinità tematica, è già presente in un saggio pubblicato da Amédée Ayfre sui Cahiers du Cinéma, dal titolo “Néo-réalisme et phénoménologie" (n. 17,1952). Più recentemente, oltre al saggio di Maurizio Guercini, le rela­ zioni sia personali sia tematiche fra Bazin e la fenomenologia francese (in particolare Merleau-Ponty), sono state sottolineate e affrontate da Mauro Carbone, Jean Ungaro, Pietro Montani, Dudley Andrew.

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di pensiero: un pensiero che eccede i limiti dell’intellettualismo e dell’atteggiamento strumentale quotidiano per rivelarsi nuovo e originale allo sguardo di chi lo interroga. Un pensiero, soprattutto, che non si aggiunge all’immagine dall’esterno come un surplus di senso, ma che è coestensivo al generarsi stesso delle immagini, così come “il senso di un gesto è immediatamente leggibile nel gesto, e il film non vuole dire altro che se stesso”50. Pur non sofferman­ dosi in modo specifico sulla dimensione percettiva della fruizione cinematografica, Bazin ha più volte sottolineato come l’apparente verosimiglianza del découpage americano classico corrisponda più al frazionamento astratto e analitico della percezione in una suc­ cessione di messe a fuoco, adattamenti e inquadrature progressi­ ve del nostro occhio che non alla reale esperienza vissuta con cui entriamo in contatto con il mondo e con gli altri. La nostra perce­ zione, ricorda Bazin, ci mette in contatto con un “avvenimento” che “esiste costantemente nella sua integralità”, che “ci sollecita perpetuamente nella sua interezza” spaziale e temporale, nella sua continuità indivisa, dove lo sfondo e il primo piano sono sempre presenti sia pure secondo diversi livelli di attenzione. Il cinema, senza confondersi con il nostro modo di percezione spontaneo, può cercare di organizzare in una struttura formale temporale de­ gli “equivalenti della percezione naturale”5', in grado di approfon­ dire e sollecitare la nostra apertura al mondo e agli altri, nella dire­ zione di una super-percezione o sur-realtà, come è stato suggerito da alcuni interpreti52.

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M. Merleau-Ponty, "Il cinema e la nuova psicologia”, cit., p. 79. A. Bazin, “William Wyler o il giansenista della messa in scena”, cit., pp. 100-101. Sicuramente il vocabolario di Bazin non è molto rigoroso sul piano filosofico, in quanto contrappone una percezione ‘psicologica’ (astratta e frammentata) a una percezione ‘mentale’ (continua e totale), ma il senso di questa opposizione, di derivazione anche bergsoniana, è molto chia­ ro e trova riscontri nelle pagine che Merleau-Ponty dedica alla psicologia della forma: “La mia percezione non è quindi una somma di dati visivi, tattili, auditivi, io percepisco in modo indiviso con il mio essere totale, colgo una struttura unica della cosa, un’unica maniera di esistere che parla contemporaneamente a tutti i miei sensi” (M. Merleau-Ponty, “Il cinema e la nuova psicologia”, cit., p. 71). Cfr. M. Quercini, pp. cit., p. 281: “La percezione cinematografica - percezio­ ne indiretta del mondo - trascende la percezione reale e si configura come una super-percezione".

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Il primato ontologico della fotografia e del cinema, inseparabile dalla dimensione psicologica della credenza nella realtà della rap­ presentazione, emerge dalla sua capacità di produrre una nuova realtà, di incrementare l’ontologia del modello, non di creare delle immagini mimetiche e rassomiglianti. Ecco allora che il realismo ontologico di Bazin non può confondersi con l’impressione di re­ altà fondata unicamente su un forte grado di illusione da parte dell'immagine, attuata ad esempio attraverso la semplice riprodu­ zione del movimento fisico (quantomeno al livello di psicologia della percezione)53. L’effetto di realtà prodotto dal cinema dipende da un’adesione totale e integrale dello spettatore alla rappresen­ tazione del mondo offerta dal medium espressivo, che coinvolge dinamiche psicologiche profonde, in buona parte irrazionali o pre-razionali, così come deve basarsi sulle prerogative tecniche del mezzo riproduttivo fotografico (sulla sua essenza, insieme limite e privilegio54). Il realismo estetico segna quindi il punto di conver­ genza, o meglio di co-nascenza nell’immagine del soggetto e del mondo, il loro punto di tangenza costitutivo: "il realismo ontolo­ gico di Bazin è un dato costitutivo del rapporto immagine-realtà solo nella misura in cui diventa costitutivo del rapporto immagi­ ne-spettatore’’55, dove i due poli spettatore e realtà sono appunto correlati nell’orizzonte del visibile, dell’immagine.

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Secondo la posizione sostenuta ad esempio nel celebre saggio di Albert Michotte, che lega l’impressione di realtà alla percezione reale del movi­ mento delle immagini cinematografiche, “Le caractère de ‘réalité’ des pro­ jections cinématographiques”, Revue Internationale de Filmologie, nn. 3-4, ottobre 1948, ora tradotto in La rappresentazione e gli affetti. Studi sulla ricezione dello spettacolo cinematografico, a cura di M. Bertolini, Mimesis, Milano 2009, pp. 105-04. Cfr. A. Bazin, “A proposito di realismo”, cit., pp. 3-4: “Il ‘realismo tecnico’ è dunque alla radice stessa del cinema. Ne costituisce, forse, l’essenza. Po­ trebbe costituirne, anche, la debolezza. (...) Il cinema non può sfuggire alla sua essenza. (...) Il realismo obiettivo della cinepresa determina fatalmente la sua estetica"; si veda anche E. Rohmer, “La celluloide e il marmo”, in La pelle e l’anima, cit., p. 13: “Ci viene ripetuto continuamente che il cinema è un’arte nonostante si basi su un mezzo meccanico di riproduzione. Af­ fermerò, al contrario: la possibilità di riprodurre esattamente, pedissequa­ mente, è il privilegio più immediato del cinema. Ma allora, si dirà, come interverrà il creatore, dove sarà la sua libertà? La sua libertà? Ovunque, e la più grande”. G. Grignaffini, “Introduzione", in La pelle e l’anima, cit., p. XX.

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Se, infine, la connessione fra il realismo tecnico del mezzo foto­ grafico e cinematografico e il realismo estetico del regista-autore, appare come uno dei nodi decisivi e al tempo stesso più proble­ matici della teoria del cinema di Bazin, essa permette di spiegare quella dialettica interna alla logica della creazione artistica del film particolarmente evidente nel lavoro di messa in scena e di regia di Renoir e racchiusa da Bazin nella felice formula di “un’estetica dello scarto”, dello spostamento. Renoir infatti si china sul reale (realtà del documento storico, del dettaglio sociale, di un testo letterario preesistente, del corpo e del gesto dell’attore, del fatto di crona­ ca) come su un dato da cui partire, già naturalmente significante, “una specie di linguaggio primario su cui quello cinematografico si eserciterà a un secondo grado in funzione di vero e proprio ’ca­ talizzatore estetico”’56, al fine di fame emergere le strutture pro­ fonde, i rapporti di attrazione e analogia preesistenti, le relazioni nascoste, e quindi di sciogliere il dato nei processi formativi che lo innervano57. Il ’paradosso’ del realismo cinematografico nasce quindi da una dialettica fra due linguaggi intrecciati e sovrapposti (e non necessariamente coincidenti, come il colore e il disegno in un quadro): il linguaggio della realtà e il linguaggio del cinema, che si pone come griglia rivelatrice, veste capace di far emergere e balzare in superfìcie le gobbe, le rugosità, le ondulazioni e le oscil­ lazioni della realtà.

5. L’attore e il personaggio. Il gioco e la regola

’Estetica del décalage’: probabilmente una delle formule chiave del pensiero baziniano e della sua interpretazione dell’opera di Re­ noir, non dissimile da quella dialettica dell’astratto e del concreto che attraversa ogni estetica che si voglia realista. Uno scarto, una non-coincidenza che percorre il rapporto che il cinema intrattiene con le altre arti (romanzo e teatro in particolare), il legame del comico con gli oggetti (Chaplin) e che nell’opera di Renoir si mani-

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Ivi, p. XXIV. Cfr. A. Bazin, “L’evoluzione del linguaggio cinematografico” cit., p. 79: "L’immagine conta prima di tutto non per ciò che essa aggiunge alla realtà ma per ciò che ne rivela".

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festa inizialmente e prima di tutto nella relazione fra attore e per­ sonaggio. Renoir si rivolge all’attore come un pittore nei confronti del suo modello: non è uno strumento la cui funzione determina in anticipo la forma (il ruolo da assumere), ma una materia che cerca la sua forma e richiede perciò il contributo essenziale dello spettatore. Nel tentativo di circoscrivere la specificità del lavoro di Jean Renoir sul piano della recitazione degli attori, della sce­ neggiatura e della regia, Bazin si serve spesso di immagini tratte dall'attività pittorica come dal mondo naturale: lo scarto fra attore e personaggio, spesso visibile in molti film di Renoir, è paragonato a un colore che oltrepassa il disegno, capace di far emergere quel­ la base materiale, fìsica, “macchia” di realtà bruta, che costituisce la base riproduttiva del dispositivo cinematografico58. Una base primitiva e primaria che la regia non ha evidentemente il compi­ to di ripulire, di purificare, di occultare preventivamente, quan­ to piuttosto di utilizzare come punto di partenza per un lavoro di rappresentazione della realtà che richiede la partecipazione attiva dello spettatore. La sutura fra la realtà fisicamente riprodotta e la rivelazione di un senso immanente al reale è al tempo stesso già da sempre operante e sempre di nuovo da riscoprire e da ricostituire, soprattutto nelle sue dimensioni latenti, invisibili, fungenti. Lo spazio di décalage fra il corpo dell'attore e l’anima del perso­ naggio, come fra la materia che si deposita sulla pellicola e la sua messa in forma, fra la regia e la scena ripresa, fra la sceneggiatura e il soggetto, fra la macchina da presa e l’azione riprodotta, genera un “contrappunto della realtà con se stessa”59, come se la pienez­ za debordante della realtà sfuggisse sempre alle possibilità della caméra di ‘riprenderla’ e viceversa i movimenti di macchina gio­ cassero a loro volta in controtempo con la scena da riprendere e ri­ produrre. Questo spazio vuoto, spazio di ‘gioco’ fra lo sguardo (del

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La stessa espressione (“lo scarto di un colore che non collima con il con­ torno del disegno”) ricorre nel saggio di Bazin dedicato al “Journal d’un Curé de campagne e la stilistica di Robert Bresson” del 1951 (cit., p. 131) per indicare il rapporto dialettico di scontro e fronteggiamento fra immagine e suono nello stile di Bresson, così come fra la parola del testo e l'immagine dei volti: è da questo contrappunto della realtà con se stessa, sfregamento e urto di frammenti di realtà prima o derivata, che si liberano le passioni, il linguaggio dell’anima, l’invisibile. Ivi, p. 126.

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regista, della macchina, del pubblico, dei personaggi) e il reale, fra l’essere e il senso, attende la ‘regola’ che lo farà coincidere al di là di qualsiasi strappo e che non tarderà a manifestarsi; ma attende anche di essere abitato, vuoto fra il corpo-materia dell’attore e la forma ideale del personaggio, dalla sensibilità e dallo sguardo del­ lo spettatore per poter trovare la propria miracolosa coincidenza. È in questo gioco, spazio interstiziale che fa muovere gli ele­ menti di un meccanismo, che Deleuze ha individuato quella cifra vitalista del cinema di Renoir, un “cristallo incrinato” che permet­ te ad alcune figure, dopo aver provato diversi ruoli, di fuggire nel fondo, nella profondità di campo, dal teatro verso l’apertura della vita6061 ; e per giustificare la sua lettura, che in fondo trova non poche rispondenze nell’analisi di Bazin, ha dovuto però rinunciare a sce­ gliere La regola del gioco come paradigma interpretativo dell’inte­ ra opera del regista, laddove, secondo Bazin, proprio questo film resta la chiave di volta rispetto a cui è possibile leggere la ricerca francese di Renoir6’. E tuttavia il cinema di Renoir sembra tollerare e anzi stimolare entrambe le letture: l’apertura e l’attraversamento degli spazi fisici e sociali di Boudu o de II fiume, la chiusura e il ri­ piegamento sul passato de La scampagnata, l’incontro di un ritmo di separazione e di connessione delle frontiere e delle classi sociali ne La grande illusione, dove la pulsione di morte e l’irrigidimen­ to dei ruoli di von Rauffenstein e di de Boì'eldieu preludono alla fuga verso la vita di Maréchal e Rosenthal. Forse perché il gioco consiste in Renoir nell’attraversamento stesso, nel passaggio dei

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Cfr. G. Deleuze, Cinema 2. L’immagine-tempo, cit., pp. 99-103. Ivi, p. 100: “La règie du jeu è uno dei più bei film di Renoir, ma non ci dà la chiave per gli altri. Poiché è pessimista e procede con violenza. E fa violen­ za prima di tutto all’idea globale di Renoir, vale a dire che il cristallo o la scena non si limitano a mettere in circuito l’immagine attuale e l’immagine virtuale e ad assorbire il reale in un teatro generalizzato”. Deleuze stesso riconosce tuttavia nella figura del guardiacaccia, colui che non rispetta la regola, privo di doppio o di riflesso, il personaggio capace di far esplodere il cristallo a colpi di fucile. Bazin, pur considerando La regola del gioco come una chiave di volta nella produzione artistica di Renoir (in rapporto a questo film si stagliano le analisi di molti altri film del regista), non ha dedicato un saggio autonomo e articolato a questo film, anche perché non ne ha potuto vedere la versione restaurata integrale, come ricoida Truffaut (“Renoir francese” ruota tuttavia come una spirale proprio intorno a La regola del gioco).

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confini, nel continuo movimento della prova (essai), nel tentativo di incarnare un ruolo fino a coincidervi, e questo gioco si scopre come la più alta e la più difficile di tutte le regole. Senza identificare in via preventiva l’attore e il personaggio nel­ lo spazio comune e omogeneo del soggetto o del dramma, Renoir fa lottare la fisicità e la carnalità dell’attore in un gioco di contrap­ punto e di contrasto rispetto al ruolo che deve interpretare61. È stata spesso rilevata, da Rohmer e Deleuze tra gli altri62 63, la ten­ denza nei film di Renoir degli attori a recitare diversi ruoli fino a trovare la propria parte, a coincidere o meno con un personaggio (sincero o artificiale), a partire dalla teatralità del clochard Boudu che ‘gioca’ le parti del borghese, dell’uomo di natura, dell’amante e del marito. In qualche modo l’attore recita il personaggio sotto i nostri occhi, come in una prova aperta, fino a diventarlo (ancora una volta la temporalità della creazione investe, invade lo spazio dell’arte come in Le mystère Picasso di Clouzot). La sua dimen­ sione corporea e gestuale, come la materia del colore e della luce per il pittore che affronta il plein air, deve persistere e scontrarsi contro l'identificazione finale con il personaggio, liberando l’arte della regia come “operazione demiurgica, nel senso cioè di un’o­ peratività che dà forma a materiali che preesistono”64. Così, nelle brevi note di commento a Congelo del male, Bazin riconosce nel film di Renoir la collera e il furore di Jean Gabin e non del suo per­ sonaggio (Jacques Lantier), come una base materiale che gioca in contrappunto con le citazioni ‘letterali’ dei dialoghi del romanzo 62

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Acutamente Truffaut rileva come Renoir abbia “fatto dei film su misura sottomettendo l'opera all’interprete (e non l’interprete all’opera) e sono tra i più bei film della storia del cinema” (F. Truffaut, I film della mia vita, tr. it. di A. Costa, Marsilio, Venezia 1978, p. 53). Cfr. E. Rohmer, Il gusto della bellezza, cit., p. 302: “In quasi tutti i film di Renoir si può vedere come la recitazione dell’attore da un'enfasi che a volte può apparire goffaggine, sfoci all’improvviso nella naturalezza: (...) quan­ do la meccanica della recitazione si guasta, viene fuori la naturalezza”. Di seguito, Rohmer individua nei momenti di tregua e di stanchezza, l’istante in cui la sovrapposizione e lo scarto fra attore e personaggio si tramuta in identificazione, "come se l’attore, stanco di 'fare finta’, riprendesse fiato, non per ritornare a essere se stesso (l’attore), ma per identificarsi col per­ sonaggio”. Questo passaggio, che trova nelle analisi di Bazin il suo punto di partenza, è ripreso e citato da Deleuze in Cinema 2. L'immagine-tempo, cit., p. 101. G. De Vincenti, Il concetto di modernità nel cinema, cit., p. 95.

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di Zola: una dialettica che è possibile confrontare con la polarità fra immagine e suono, fra volti e parole della raffinata analisi dell'a­ dattamento del romanzo di Bemanos nel Diario di un curato di campagna di Bresson65. La trasparenza del reale è qui raggiunta al prezzo di una strati­ ficazione, di un raddoppiamento fra immagini (l’attore e il perso­ naggio che recita a sua volta un personaggio), fra la riproduzione fotografica della materia e il suo potenziamento in immagine, l'ac­ cesso a un surplus di realtà e di esperienza, che Deleuze identifica come via di fuga dal cristallo di morte verso “un nuovo Reale, oltre l’attuale e il virtuale”, per “entrare in una realtà decantata”66. Per rendere conto della dialettica aperta che si stabilisce fra la sceneggiatura e l’improvvisazione del set, fra la materia riprodotta e la configurazione delle forme operata dal regista, Bazin ricorre a un uso frequente di “immagini” e “metafore” (paragoni come sugge­ risce Rohmer) tratte dal mondo naturale organico e inorganico, le quali superano in realtà il loro valore metaforico, in virtù delle “cor­ rispondenze che lasciano intravedere tra il mondo naturale e quello dell'arte cinematografica”67. La ricerca di un approfondimento della logica della creazione artistica in Renoir spinge Bazin a riconoscere nell’attività del regista la capacità di rendere visibili le latenze di senso racchiuse nell’automatismo della macchina da presa come nel contenuto dell’immagine ripresa. L’azione in Renoir sembra svilupparsi come un organismo naturale, al pari della minuscola impurità nel centro della perla intorno alla quale si depositano in cerchi concentrici le stratificazioni successive della conchiglia68 o dell'incontro di un doppio gioco di onde sulla superfìcie dell’acqua che producono un senso interno al loro stesso movimento, senza rifugiarsi in un simbolismo astratto69. Una logica compositiva e pri­ 65 66 67 68 69

Cfr. A. Bazin, Jean Renoir, cit., pp. 63-64 e Id., "Journal d’un Curé de campa­ gne e la stilistica di Robert Bresson”, cit., pp. 127-130. G. Deleuze, Cinema 2. L’immagine-tempo, dt., pp. 100-101. E. Rohmer, “La 'summa' di André Bazin”, cit., pp. 169-170. Cfr. A. Bazin, Jean Renoir, cit., p. 76. Ivi, pp. 101-102. Ad esempio, L’angelo del male si sviluppa a partire dall'in­ contro fra due singolarità: la locomotiva e il protagonista, così come La regola del gioco si incerchia intorno a due temi plastici e morali che si incrodano: la caccia e la festa al castello. Ne deriva una logica del racconto per immagini in cui lo sviluppo drammatico lineare è sostituito dal mo­ vimento concentrico e a spirale, con i suoi ritorni, le corrispondenze, le

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ma di tutto immaginativa, che rispetta l’unità organica di ciò che viene rappresentato e in cui è l’immagine a scoprirsi come la matri­ ce della temporalizzazione del racconto del film. La logica narrativa di Renoir, una progressiva coalescenza fra immagini e temi che si attraggono fra loro, richiama un’altra felice espressione di Bazin, riferita al neorealismo italiano, dove “la necessità del racconto è più biologica che drammatica”, “germoglia e cresce con la verosimi­ glianza e la libertà della vita”70, venendo ricondotta alla sua radice fenomenologica, al suo sfondo originario di senso7*. La lettura di Bazin, che mette in evidenza il gioco dialettico Ira la scena da girare e la scena ripresa, fra l’idea e il fatto, dialettica interna a ogni vocazione realistica nell’arte, trova una corrispon­ denza precisa nelle idee espresse dallo stesso Renoir in relazione al suo metodo di lavoro:

“In realtà, ciò che mi accade è una specie di incapacità di comprendere il senso di una scena prima di averla materializzata. Io non trovo il senso vero di una recitazione, di una scena, e anche di una parola, se non quan­ do queste parole si sono materializzate, quando esistono. Come direbbe Sartre, io credo che l’essenza venga dopo (’esistenza. Ciò che è importante è non partire credendo di conoscere il senso della scena, bisogna parti­ re sapendo che non si sa nulla e che si vuole scoprire tutto. Ogni scena dev’essere un’esplorazione.”7172

L’inversione del rapporto fra concezione ed esecuzione, fra in­ tenzione e realizzazione, che comporta il rifiuto di qualsiasi su­

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riprese, le ripetizioni intensificate. Sull’unione cinetica dell'uomo e della macchina ne L’angelo del male si sofferma anche Deleuze in Cinema i. L’immagine-movimento, cit., pp. 58-59, la cui analisi specifica appare mot­ to vicina a quella di Bazin. A. Bazin, “Il realismo cinematografico e la scuola italiana della Liberazio­ ne”, in Che cos'è il cinema?, cit., p. 292. Cfr. P. Montani, L’immaginazione narrativa. Il racconto del cinema oltre i confini dello spazio letterario, Guerini & Associati, Milano 1999, p. 75: “In Bazin il flusso e il riflusso deH'immaginazione appaiono indissociabili dall’attivazione di un’istanza narrativa e configurante”, così come "la vo­ cazione del cinema al racconto si incardina sulla sua altrettanto naturale attitudine all’esplorazione fenomenologica della ‘realtà’, su quel suo attivo abitare nella ‘carne del mondo’” (ivi, p. 72). J. Renoir, Entretiens et propos, a cura di J. Narboni, Éd. de l’Étoile/Cahiers du Cinéma, Paris 1979, p. 112.

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bordinazione del fare artistico a un’idea astratta o a un disegno a priori (la sceneggiatura come modello da incarnare durante le riprese), libera la dimensione euristica, conoscitiva, filosofica del­ la visione del cinema di Jean Renoir*e costituisce probabilmente una delle chiavi di comprensione del suo “realismo”, che si rivela come un cinema del corpo, del gesto, delle apparenze fenomeni­ che. L’improvvisazione durante le prove si rivela quindi come un metodo, l’esito di un rapporto dialettico di confronto con il lavoro e l’organizzazione preliminare della scena e della sceneggiatura, una “contraddizione fondatrice” della regia “fra la disciplina del lavoro e la disponibilità all’improvvisazione”73 che permette a Renoir "di rimaneggiare, di triturare la sceneggiatura prima di modificarla un’ultima volta sul set”7475 . L’ultimo, fecondo paradosso che emerge dal ductus del pensie­ ro di Bazin, investe proprio il rapporto fra il realismo tecnico del dispositivo e il realismo estetico dello sguardo del regista e il ro­ vesciamento che si produce fra i due: il secondo, attraverso il suo stile, scioglie la rigidità del primo, mostra l’impossibilità di circo­ scrivere un’ontologia del modello come primum, come origine e sorgente, liberando nel visibile le trame, gli sfondi, gli interstizi dell'invisibile. L’apertura ontologica resta sempre presente nel pensiero di Bazin, a partire dalla convinzione che le immagini ci­ nematografiche aprano nuove modalità dell’essere, rivelino piani di realtà impliciti e nascosti, ponendo quindi interrogativi inediti all’ontologia contemporanea73. Senza cadere in una visione inge­

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D. Paini, “Renoir/Matisse, la question de l’improvisation”, in Nouvelles approches de l’ceuvre de Jean Renoir. Actes du Colloque International de Montpellier: 17-19 septembre 1994, a cura di F. Curot, Université Paul Valé­ ry Montpellier III, Montpellier 1995, pp. 235-237; il lavoro di Renoir fra la sceneggiatura e la regia, un lavoro a tratti di "organizzazione dell’im­ provvisazione” è paragonabile ad alcune pratiche artistiche del Novecento (Matisse), in cui improvvisazione e sforzo consapevole, padronanza e di­ sinvoltura costituiscono le polarità che attraversano la creazione artistica. Sul rapporto fra sceneggiatura e riprese, caratterizzato da un’assenza di fedeltà apparente, si sofferma Jean Renoir nella sua autobiografia La mia vita, i mieiJìlm, tr. it. di D. Orati, Marsilio, Venezia 1996. A. Bazin, Jean Renoir, cit., p. 75. II concetto di ‘‘presenza” ne risulta modificato agli occhi di Bazin: “L’im­ magine fotografica, e particolarmente cinematografica, può essere assimi­

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nua della rappresentazione artistica, nel paradosso naturalistico che ridurrebbe i differenti stili a riproduzioni più o meno fedeli di una realtà univoca, presupposta come data, Bazin ha proposto un metodo operativo di lavoro76, individuando diverse tendenze di ricerca nel cinema, tese verso quell’avvicinamento progressivo alla rivelazione di una realtà (estetica, morale, sociale) che resta sempre inafferrabile nella sua totalità. La ‘fedeltà al reale’ si rivela quindi come l’esigenza di una fedeltà al medium cinematografi­ co, alle possibilità di linguaggio e di espressione che il dispositivo costitutivamente offre, e insieme la necessità di far dialogare in parallelo le famiglie di stili cinematografici con quella aurorale de­ clinazione stilistica che definisce il nostro rapporto originario al mondo, il modo estetico di essere e abitare lo spazio con il nostro corpo, il mondo della percezione e dell’esperienza77. In un passaggio quasi interstiziale del saggio su “William Wyler o il giansenista della messa in scena”, Bazin ha individuato e defi­ nito in modo significativo un compito possibile del cinema, quello

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lata alle altre immagini e, come quelle, distinta dall’esistenza dell'oggetto? (...) Il XIX secolo, con le sue tecniche oggettive di riproduzione visive e sonore, ha fatto apparire una nuova categoria di immagini; i loro rapporti con la realtà donde esse procedono esigerebbero di essere rigorosamente definiti” (Id., “Teatro e cinema', cit., p. 162). È proprio la vocazione onto­ logica del cinema, la sua capacità di interrogare il reale, che interessa il pensiero filosofico, attirando l'attenzione di Merleau-Ponty e più tardi di Deleuze e di Stanley Cavell (The World viewed. Reflexions on the Ontol­ ogy of Film, Harvard University Press, Cambridge-London 1971) su Bazin. Non a caso nelle note preparatorie all’ultimo corso tenuto al Collège de France nel 1960-1961, Merleau-Ponty cita l’ontologia del cinema di Bazin come espressione di quel ‘pensiero spontaneo’ di cui le arti e la letteratura si fanno portatrici oggi (cfr. M. Carbone, “Merleau-Ponty e il pensiero del cinema”, in Dov’è la donna? Pensare l’arte e la scienza oggi, a cura di S. Meriggi, Mimesis, Milano 2003, pp. 77-85). Sul realismo come metodo critico operativo e ipotesi di lavoro in Bazin, si veda in particolare il saggio di Franco Pecori, “Bazin, una traccia luminosa”, Rivista del cinematografo, 50, n. 12,1977. Per un approfondimento delia questione dello stile in una prospettiva fe­ nomenologica (la nozione di stile è un termine decisivo in Bazin per qua­ lificare la dimensione artistica del cinema e della regia) come condizione di possibilità di un’esperienza del mondo, a priori del mondo che trova la sua radice nel corpo proprio e vivente e le sue connessioni con le declina­ zioni storico-culturali degli stili artistici, cfr. A. Pinotti, Il corpo dello stile. Storia dell’arte come storia dell’estetica a partire da Semper, Riegl, Wolfflin, Mimesis, Milano 2001.

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di liberare “uno stato estetico della materia”78, un’organizzazione qualitativa e organica del mondo che accompagna implicitamente la nostra esistenza quotidiana. La realtà rivelata dal cinema si mo­ stra allora come l’esito ipotetico e incerto di una ricerca inesausta, dato che “il reale, come l’immaginario appartengono, in arte, al solo artista, la carne e il sangue della realtà non sono più facili da trattenere nelle maglie della letteratura o del cinema di quanto non lo siano le fantasie più gratuite dell’immaginazione”79. L’esito del lavoro artistico (nei suoi momenti più alti e più rari: Renoir, Rossellini, Bresson, Chaplin) conduce al paradosso di una scoper­ ta: quella dell’artisticità della natura o della reversibilità fra arte e natura, dove il massimo dell’aitificio coincide non con un’arte della realtà, ma con il farsi arte del reale, quando “il regista è ap­ punto arrivato a quella perfetta luminosità che consente all’arte di smascherare una natura che finalmente le somiglia”8081 . Nel compimento, che a tratti appare anche come un paradossa­ le superamento del realismo nel “cinema senza cinema” de // fiu­ me, emerge la volontà definitiva di Bazin di sottrarre la nozione di “realismo” alla sua dimensione puramente mimetica, al realismo della copia (già ampiamente contestato in riferimento a La grande illusione), che presuppone la visione a distanza e una concezione dell’immagine come “seconda cosa” rispetto al modello origina­ rio. Ne IIfiume l’annullamento dello schermo in favore della realtà rivelata, la rinuncia quasi totale ai movimenti di macchina per i piani fìssi, l’oblio dello sguardo dell’autore e del soggetto che si ritira di fronte alle “cose stesse” non sono che il rovescio di una padronanza assoluta e totale dell’immagine da parte del regista, paragonabile alla ‘scomparsa’ dell’immagine (“notte dei sensi la cui unica espressione possibile è la luce dello schermo”) che cede il posto al testo del romanzo al termine del Diario di un curato di campagna di Bresson, condizione estrema di un linguaggio che rimanda all’invisibile (lo spirito, l’anima) che lo oltrepassa, ren­ dendo visibile il vuoto8*. 78 79

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A. Bazin, “William Wyler o il giansenista della messa in scena” cit., p. 115. Id., “Il realismo cinematografico e la scuola italiana della Liberazione”, cit., p. 285. Id., "Ladri di biciclette”, in Che cos’è il cinema?, cit., p. 315. Id., “Journal d’un Curé de Campagne e la stilistica di Robert Bresson”, cit., pp. 131-132; cfr. Id., Jean Renoir, cit., pp. iu-113. Il confronto stilistico fra il

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Fare arte con i calchi del visibile: forse in questo risiede l’enigma del lavoro cinematografico, come mostra la scena della produzione dei calchi di Viaggio in Italia di Rossellini (uno dei film più rap­ presentativi di quella tendenza verso un realismo più puro, difeso da Bazin e dai Cahiers du Cinéma), dove l’operazione che riempie l’impronta vuota dei due corpi sepolti sotto Pompei fa risuonare, rende visibile quella piega interna dei corpi che chiamiamo anima. La pellicola bucata del visibile libera una profondità che dallo spa­ zio si estende verso una temporalità pura82.

6. Verso la sincerità della rappresentazione La ricerca della realtà, che spinge Bazin a ri-comprendere l’in­ tera produzione di Renoir sotto la sigla, a sua stesso dire ambigua e ‘grossolana’, di realismo, può essere interpretata come la volontà di restituire un’immagine sincera, autentica, libera da pregiudizi intellettuali anche se non ingenua del reale, che sia altrettanto distante dai limiti della mera riproduzione documentaria quanto della spettacolarizzazione falsificante dell’evento. La preoccupa­ zione di uno stile che possa garantire un "supplemento di realtà” all’immagine e non un “supplemento di artifìcio” si lega quindi a quella ricerca di sincerità della rappresentazione artistica non lontana dalle implicazioni anti-teatrali che Michael Fried ha in­ dividuato in diversi momenti della storia delle arti visive dell’Oc­

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film di Bresson, Il fiume di Renoir e Ladri di biciclette di De Sica è suggeri­ to dallo stesso Bazin e tende a circoscrivere quel lavoro di svuotamento e sottrazione che caratterizza un’evoluzione del ‘realismo’ verso una forma pura, decantata di rappresentazione dove il linguaggio, con un’operazione pienamente modernista, si afferma cancellandosi e che avrà tanta impor­ tanza nello sviluppo del cinema ‘moderno’: cfr. G. De Vincenti, Il concetto di modernità nel cinema, cit., pp. 42-50. Cfr. D. Andrew, What Cinema Is! Bazin’s Quest and its Charge, cit., p. 10: “Per Bazin, il centro vuoto della rappresentazione visiva è l’anima fuggita della mummia; (...) era sempre l’anima della mummia dò che egli cercava attraverso ciò che appariva sullo schermo”. Su Viaggio in Italia, si veda la recensione di Rohmer, uscita sui Cahiers du Cinéma (n. 47,1955), in cui l’autore sottolinea la conquista da parte di Rossellini di un neorealismo più puro (cfr. E. Rohmer, “La terra del miracolo”, in La pelle e l’anima, cit., pp. 119-121).

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ridente (il Settecento francese, Courbet, Manet, il modernismo) cosi come in alcune importanti formulazioni teoriche della teoria delle arti e dell’estetica, a cominciare da Diderot83. Forse, in questo caso, si potrebbe sostituire il concetto di “re­ alismo, forse discutibile, ma tutt’altro che ingenuo, e soprattutto nient affatto riconducibile alla semplice idea di ‘realtà filmata’”8*, con quello, ancora più impegnativo filosoficamente, di verità, ov­ vero di sincerità, di autenticità della rappresentazione, dato che “al cinema”, come in ogni altra arte, “non può trattarsi che di una rappresentazione della realtà”85. In questo spostamento di senso ci 83

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Se il discorso di Michael Fried trova le sue radici teoriche nella riflessione sulle arti visive, inaugurata con la critica al minimalismo (Art and Objec­ thood) e approfondita in Absorption and Theatricality (The University of Chicago Press, Chicago-London 19882), che non a caso affronta in un colpo solo le teorie estetiche della pittura e del teatro di Diderot, una possibile estensione delle categorie di assorbimento e teatralità appare legittima, sia per la natura inter-mediale di queste categorie (che investono lo sta­ tuto della rappresentazione, il regime della fruizione e dello sguardo dello spettatore in generale) sia per quanto viene suggerito dagli stessi Fried e Bazin. Il primo infatti, in un passaggio significativo di Art and Objecthood, nota che “il cinema, per la sua stessa natura, sfugge al teatro, (...) in modo automatico per cosi dire”, senza per questo potersi definire come “un’arte modernista” proprio perché l’assorbimento che garantisce è solo un rifu­ gio, il frutto meccanico del suo dispositivo e non il risultato di una lotta consapevole contro il rischio della teatralità (M. Fried, Art and Objectho­ od. Essays and Reviews, The University of Chicago Press, Chicago-London 1998, p. 164). In una nota di accompagnamento, Fried ipotizza alcune pos­ sibili differenze fra il teatro e il cinema, ritornando tuttavia alla vecchia distinzione fra la presenza fìsica degli attori a teatro e la loro assenza al cinema, laddove Bazin individua l'essenza del dispositivo teatrale nella co­ scienza reciproca della presenza e dell’opposizione di attore e pubblico ai fini della recitazione e dell’azione scenica, oltre che nel confine simbolico fra teatro e vita rappresentato dall’idea di luogo drammatico. Lo stesso Ba­ zin individua nella condizione dello spettatore quel punto di convergenza fra teatro, pittura e cinema che si realizza sul piano della fruizione, al di là delle differenze fra i mezzi espressivi: proprio per questo Cocteau può scegliere di filmare la sua opera teatrale Les parents terribles privilegiando il punto di vista dello spettatore seduto in platea e conservando “alla sua opera l’essenziale del suo carattere teatrale” (A. Bazin, “Teatro e cinema”, cit., p. 160 e pp. 164-168). E. Dagrada, "Introduzione”, in A. Bazin, Orson Welles, a cura di E. Dagrada, GS editrice, Santhià 2000, p. 10. A. Bazin, “William Wyler o il giansenista della messa in scena”, dt., p. 99. Anche nel libro su Renoir, Bazin rileva uno spostamento dell’interesse del

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può aiutare lo stesso Bazin attraverso le pagine del suo Renoir: ri­ calcando, con una lieve ma significativa correzione, l'opposizione esposta in "Evoluzione del linguaggio cinematografico” fra “regi­ sti che credono neH’immagine” e “registi che credono nella realtà” (opposizione destinata a dissolversi, se ci riferiamo al legame on­ tologico profondo che unisce l’immagine al reale, come il vedente al visto nella coappartenenza del visibile), Bazin sviluppa una dico­ tomia fra registi che attribuiscono all’immagine un “supplemento di artifìcio” e registi che rivelano nell’immagine un “supplemento di realtà”. Dove “artificio” rimanda certamente all’esibizione voluta c manifesta di una serie di tecniche e di mezzi di espressione pro­ priamente cinematografici86, ma anche a una teatralizzazione del rapporto fra immagine e spettatore, a una messa in scena svolta più in funzione dello sguardo dello spettatore che delle relazioni interne alla rappresentazione stessa, a una “maniera” in cui l’im­ magine si mostra al pubblico, ostacolando o impedendo quello sforzo euristico di avvicinamento e comprensione dell’immagine c della trama di realtà che essa rivela. Ecco quindi che nella ten­ denza “espressionista” risulta schermato e nascosto il rapporto fra immagine e realtà perché è falsata a monte la relazione fra l’im­ magine e lo spettatore, limitando la restituzione di un’esperienza de) reale, percettiva, mentale e morale verso la quale il cinema può sollecitarci. Nella compiuta realizzazione dell’illusione di realtà, che si com­ pie soltanto durante l’esperienza fìlmica di visione, emerge un nodo nell’articolazione del pensiero di Bazin, decisivo per l’effetto di realtà finale, quanto implicito per certi aspetti: l’identifìcazione da parte dello spettatore della rappresentazione fìlmica con la realtà vista, il mondo della visione, per cui “l’illusione necessaria” dell’artifìcio cinematografico “comporta rapidamente la perdita

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regista dal realismo del fatto verso “una verità o veracità dei rapporti umani", evidente già ne La grande illusione (Id., Jean Renoir, dt., p. 57), dove il registra d mostra un’ampia successione di grandi illusioni necessarie per l’esistenza (l’amore, la pace, la fuga, la patria...). Non solo tuttavia, dato che ogni stile di regia non può fare a meno di “ar­ tifici” tecnici ed espressivi, come Bazin non manca di sottolineare: "Ma il realismo in arte non può evidentemente derivare che da artifici” (Id., “Il realismo cinematografico e la scuola italiana della Liberazione”, cit., p. 286).

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di coscienza della realtà stessa che s’identifica nello spirito dello spettatore con la sua rappresentazione cinematografica” Questo problematico passaggio, tratto da “Il realismo cinematografico e la scuola italiana della Liberazione” presuppone un forte investi­ mento psicologico dello spettatore per la costituzione del “reali­ smo” della rappresentazione, una “complicità inconscia”*7. Esso può essere forse chiarito se messo in parallelo con un altro brano tratto da “Teatro e cinema” dove Bazin precisa una delle condizio­ ni necessarie per la messa in forma dell’effetto di realtà psicologi­ co ed estetico che distingue il cinema dal teatro. Rifiutando l’idea che l’essenza del teatro ruoti intorno alla “presenza dell’attore” di fronte al pubblico, assente al cinema, Bazin, fedele alla sua tesi del privilegio ontologico dell'immagine cinematografica, sostiene la “quasi presenza” dell’attore sullo schermo attraverso l’immagine dello specchio dal riflesso differito e infine giunge a individuare la linea di confine fra lo spettacolo teatrale e quello cinematogra­ fico nei diversi atteggiamenti mentali e psicologici sollecitati nel

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Ivi, p. 287; la logica di sostituzione, propria dei dispositivo fotografico e cinematografico, opera qui sul piano della percezione e fruizione spettatoriale determinando una sovrapposizione fra reale e immaginario, uno scambio, un intreccio e una continua circolazione, per cui “noi possiamo credere alla realtà degli avvenimenti sapendo che sono truccati" (Id., “Mon­ taggio proibito", in Che cos’è il cinema?, cit., p. 69). Proprio la continuità fra reale e immaginario, difesa da Bazin, se da una parte sottolinea la sua distanza dalla posizione di Sartre, finisce per avallare la dimensione ‘mitica’ dello spettacolo cinematografico, che in qualche modo la critica non può (e forse non deve) disciogliere completamente nel rigore del linguaggio. Ciò non toglie che Bazin abbia sempre difeso una fruizione consapevole e libera dello spettatore, critica e razionale, rispetto a una modalità di rice­ zione passiva ed etero-diretta: più che fornire una fenomenologia dell’io leurré dello spettatore, della fascinazione mitica del pubblico cinemato­ grafico di fronte allo schermo (come ha sostenuto Christian Metz), Bazin individua nella visione una dimensione pre-logica, o meglio uno strato di senso originario che le reti del linguaggio intellettuale non possono dire o giustificare, ma soltanto mostrare. Sul rapporto mito-linguaggio in Bazin si veda E Pecori, op. cit., pp. 504-505; sulla relazione reale-immaginario e la dimensione irrazionale della credenza spettatoriale cfr. M. Guercini, qp. cit., pp. 284-290; sulla partecipazione libera e attiva dello spettatore al film rimando a M. Bettolini, “Lo spettatore attivo di André Bazin. Note sulla ricezione cinematografica", in L’esperienza estetica. Percorso antolo­ gico e critico, a cura di M. Accomero e M. Mazzocut-Mis, Mimesis, Milano 2008.

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pubblico (opposizione consapevole fra spettatore e attore nel caso del teatro, identificazione solitaria ne) caso della proiezione del film)8889 . In questo passaggio, che investe prima di tutto le modalità di fruizione della visione cinematografica, viene indicata una delle condizioni, percettive e psicologiche, per l’instaurazione del “rea­ lismo estetico", condizione che potremmo ricondurre alla nozione di assorbimento o anti-teatralità elaborata da Michael Fried: “Al cinema restiamo dei contemplatori solitari, nascosti in una came­ ra oscura, attraverso delle persiane socchiuse, di uno spettacolo che ci ignora e che partecipa dell’universo. Niente viene a opporsi alla nostra immaginaria identificazione al mondo che si agita davanti a noi, e che diviene il Mondo”*9. Lo sguardo furtivo dal buco della serratura è l’immagine che sembra racchiudere lo statuto dello sguardo spettatoriale. Non a caso Bazin cita una scena de Le sang d’un poète di Jean Cocteau, ma lo sguardo protetto, a distanza, sicuro di non essere visto ri­ torna frequentemente nel cinema di Renoir: dal cannocchiale di Lestingois che osserva il tentato suicidio di Boudu nella Senna al piccolo binocolo de La regola del gioco, per non parlare della cor­ nice visiva di apertura e chiusura de La cagna, del pudore con cui viene raffigurato, attraverso i vetri di una finestra, sia la scoperta degli amanti sia l’omicidio di Legrand sempre ne La cagna, alla persiana aperta dai due canottieri ne La scampagnata, che scopre l’apparizione gioiosa e spensierata di Sylvia Bataille, inconsapevole

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A. Bazin, “Teatro e cinema”, cit., p. 163: “È sempre sul piano dell’ontolo­ gia che l’efficacia del cinema prende origine. È falso dire che lo schermo sia assolutamente impotente a metterci ’in presenza' dell’attore. Lo fa alla maniera di uno specchio (di cui si ammetterà che restituisce la presenza di quello che vi riflette), ma di uno specchio dal riflesso differito, la cui foglia di stagno trattenga l’immagine". Ivi, p. 168; si veda anche: “L’universo dello schermo non può giustappor­ si al nostro, vi si sostituisce necessariamente poiché il concetto stesso di universo è spazialmente esclusivo. Per un certo tempo, il film è l’universo, il Mondo o, se si vuole, la Natura” (ivi, p. 175). In questa sostituzione, al contrario del “microcosmo estetico” della pittura e del teatro, eterogeneo rispetto alla natura che lo circonda, il cinema si presenta come doppio del mondo reale, suo equivalente sul piano dell’esperienza, metonimia e pro­ secuzione del visibile, ponendo cosi nuovi interrogativi ontologici.

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di essere vista e che si parli di lei90. La rappresentazione fìlmica offre la visione di uno spettacolo chefinge di non prendersi cura di noi (a maggior ragione nel caso della sofisticata ‘neutralità’ di un William Wyler), che non manifesta la consapevolezza di essere ‘vi­ sto’ dall'esterno e quindi di dover dirigere a priori la nostra visione e comprensione del film. La parzialità della visione della macchi­ na da presa, determinata dalla natura centrifuga dello schermo, contribuisce quindi aH’immersione e all’assorbimento dello spet­ tatore nel film in quanto “invitato invisibile” della scena o della situazione, preoccupato di “non infastidire i protagonisti”9192 come la carrièra che insegue le girandole amorose nella festa al castello de La regola del gioco. Quanto sia strategico l’assorbimento ai fini di una rappresentazione che garantisca un “guadagno di realtà” e quindi di senso per lo spettatore, può essere ulteriormente sotto­ lineato dalla denuncia di teatralità che Bazin imputa al découpage classico e abituale: esso “avrebbe qualcosa d’indecente come un numero permanente di prestidigitazione : “Guardate qui” ci avreb­ be detto la macchina da presa, “e adesso là””91. Sotto quest’aspetto la difesa del “realismo estetico” non costitu­ irebbe soltanto la scelta militante in favore di una generica poetica della realtà, quanto piuttosto l’esigenza di mantenere un corret­ to regime di fruizione estetica dello spettacolo cinematografico, frutto di quell’atteggiamento morale e pedagogico che Bazin ha sempre riconosciuto come possibilità ed esigenza interna al di­ spositivo cinematografico e allo stile registico, la necessità cioè di

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Sull’uso del “cadre dans le cadre” e le funzioni di incomiciamento in Re­ noir, su cui Rohmer ha per primo attirato l’attenzione, cfr. F. Curot, “Le ca­ dre dans le cadre: approche psycho-esthétique”, in Nouvelles approches de l’ceuvre de Jean Renoir, cit., pp. 77-94 e D. Serceau, "Jean Renoir, l’accolade, la fenétre, le satyre", in Nouvelles approches de l’ceuvre de Jean Renoir, cit., pp. 95-108. A. Bazin, Jean Renoir, cit., p. 80. Id., “William Wyler o il giansenista della messa in scena”, cit., p. 103. L’as­ sorbimento implica l’uso sia di espedienti non esclusivamente cinemato­ grafici (la recitazione, la posizione degli attori) sia di espedienti specifi­ camente cinematografici (l’inquadratura, i movimenti di macchina, l’uso della profondità di campo, il tipo di montaggio), a conferma di come la collaborazione degli uni e degli altri sia decisiva per definire uno stile come “realista”; su questi aspetti si veda M. Bertoncini, op. cit., pp. 110-iu e pp. 147-153-

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accordare un’estetica dello sguardo con un’etica della visione93. La revisione operata dalla critica nei confronti del preteso ‘realismo ingenuo’ di Bazin ha permesso di far emergere come l’effetto di realtà evocato da diverse tecniche, fra cui la profondità di cam­ po e di fuoco e il piano-sequenza, fosse subordinato e comunque strettamente connesso al rispetto e alla salvaguardia di un effetto estetico sul pubblico, centrato sul rapporto fra immagine e spet­ tatore. La stessa problematica profondità di campo, senza ridursi alla sua ‘funzione di realtà’, svolge un ruolo decisivo nel produrre una ‘funzione di visione’, che accresce e stimola lo sviluppo della comprensione cinematografica dell’immagine, sollecitando atte­ se, inquietudini, curiosità, stupore, suspense nello spettatore. In molti momenti del cinema di Renoir emerge una volontà anti-teatrale (nel senso attribuito da Fried al termine) che può produrre un paradossale “eccesso di teatralità” del cinema, la sua capacità cioè di coinvolgere e rendere presente lo spettatore in modo totale alla rappresentazione. La capacità degli attori di Renoir di recitare prima per se stessi che per il pubblico, la loro disinvoltura e indifferenza nei confronti della macchina da presa, l’aspetto di divertimento interno e priva­ to che emana dalle messe in scena del regista francese, un gioco nelle regole, sottolineano proprio il doppio statuto della rappre­ sentazione, che Bazin paragona al dritto e al rovescio di un tessuto da indossare da entrambi i lati: la sua opacità e autonomia nei con­ fronti di uno sguardo esterno come condizione paradossale perché lo spettacolo possa catturare e offrirsi pienamente allo spettatore esterno94. I riferimenti pittorici, frequenti nel cinema di Renoir,

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misteriosamente catturò in un secondo l’immensa arena per tra­ sformarla in un unico cuore meravigliato e attento. Jean Parédès, che interpretava un personaggio risolutamente comico per le di­ mensioni dello spazio scenico, aveva conquistato il suo uditorio fra la terza e la quarta caduta del suo mantello mal disposto. Il timbro delle risate cambiò, divenne la gioia collettiva di 10.000 persone. L’astuzia, l’ambizione, il coraggio potevano tessere la loro prodi­ giosa spirale tragica intorno al ricordo di Cesare come dell’asse del destino. Ma per alcune decine di spettatori almeno, urialtra meraviglia raddoppiava quella dello spettacolo teatrale. La tragedia del ricor­ do di Cesare era anche il trionfo della presenza di Jean Renoir che immaginavamo morto di paura nell’ombra di un vomitorium ma che restava moralmente accampato nel centro dell arena così come l’avevamo visto nel corso delle prove. Abbiamo assistito una volta di più al miracolo del teatro (che aveva fatto di 10.000 francesi del Sud degli spettatori elisabettia­ ni), ma a questo si aggiungeva il miracolo dell’esistenza concreta di uno spettacolo che sarebbe stato inconcepibile senza il genio dell’improvvisazione, senza la presenza umana di Jean Renoir. Non fummo quindi stupiti di vederlo apparire ai richiami della folla e sa­ lutare il pubblico con l’indimenticabile zoppicare di Octave impac­ ciato nella sua pelliccia d’orso alla festa al castello de La regola del gioco. E nella voce commossa che ringraziava il pubblico, ritrovavo l’emozione di La Chàtaigneraie che fa ammirare il suo organetto. La strada percorsa da una mascherata da salotto ironica e straziante a questo Giulio Cesare recitato all’aria aperta di fronte a un’intera città, misura forse al tempo stesso la fedeltà a se stesso e l’itinerario spirituale e artistico del nostro più grande uomo di cinema.

Orvet (1955)

Dal suo primo ritorno dall'America ho avuto l’onore e la grande gioia di incontrare qualche volta Jean Renoir e di parlare abbastan­ za a lungo con lui del suo lavoro185. Ho seguito all’arena di Arles le 185

Orvet non è un fìlm ma un lavoro teatrale in 3 atti che Jean Renoir scrisse e mise in scena a Parigi. La prima rappresentazione avvenne al Théàtre

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prove degli ultimi tre giorni prima della prova generale di Giulio Cesare. L’ho visto lavorare in studio; ma credo di non averlo mai sentito pronunciare delle affermazioni sistematiche sulla sua arte, definire una sola legge tecnica di regia. Renoir non rifiuta le idee generali, al contrario, ma in questi casi sono di una generalità tale da ammettere molte traduzioni pratiche. Circoscrivono, dovrem­ mo dire, più una morale che uriestetica dell’artista. "Pochi possono oggi pretendere di sapere dove vanno. Si tratti di individui, gruppi o nazioni, il caso è la loro guida. Coloro che camminano verso uno scopo preciso lo devono più al loro istinto che alla loro intelligenza (...) Gli uomini sono stanchi di guerre, privazioni, paure e dubbi. Non siamo ancora arrivati al periodo dei grandi slanci. Ma entriamo nel periodo della benevolenza. Io e i miei compagni lo sentivamo in India, anche nei brutti giorni in cui indù e maomettani si uccidevano tra loro. Il fumo delle case incen­ diate non soffocava la nostra fiducia. Pensavamo solo che quegli uomini erano in ritardo sul loro tempo. Tutto ciò è molto vago. Si tratta di sensazioni difficili da formu­ lare. Rischio parecchio scrivendo che credo di aver intravisto que­ ste velleità di benevolenza. Se mi sbaglio, si riderà di me. Me ne assumo il rischio con fiducia”'86. La citazione di questo testo che Jean Renoir scrisse nel 1952 dopo la realizzazione de II fiume mostra abbastanza chiaramente la di­ mensione al tempo stesso generale ed empirica presente nella sua creazione. L’opera d’arte, si tratti di pittura, cinema o teatro, deve portare all’uomo di questo tempo il nutrimento spirituale di cui ha anche inconsciamente bisogno, ma la coscienza di questo dovere e l’inquietudine feconda che ne deriva sono le uniche direttive inte­ riori di Renoir. Le soluzioni estetiche particolari nascono in modo imprevedibile dalla tensione che si stabilisce ogni volta fra questo desiderio essenzialmente morale dell’artista e i materiali tecnici e umani che ha a disposizione. Renoir ama dire che la regina Matilde, quando inventò gli arazzi di Bayeux, non aveva sicuramente altre ragioni di sistemare in un certo punto un cavaliere a parte la presenza di un certo mucchio di lana verde o blu. de la Renaissance il 12 marzo 1955. Il testo di Orvet è stato pubblicato da Gallimard (Collection Le Manteau d’Arlequin) [E T.]. 186 J. Renoir, “Mi si chiede...” cit., p. 55.

Jean Renoir e il teatro

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Ciò che afferma Renoir, sempre con chiarezza, sul suo lavoro di re­ gista ogni volta che lo s'interroga e che è altrettanto vero a colpo sicuro per La cagna come per Orvet, è il primato dell’attore. Non dell’attore in sé, della super-marionetta che si dovrebbe animare dall’esterno al ritmo esatto dell’azione ma di ogni singolo attore le cui qualità fìsiche e psicologiche, la cui natura particolare indirizzano la regia e attraverso la regia l’opera stessa fino a modificarne se necessario il significato. Renoir ha scritto Orvet per Leslie Caron che aveva incontrato a Hollywood da Charles Boyer. Probabilmente era un periodo in cui Renoir aveva già più o meno consapevolmente voglia di speri­ mentare il teatro, ma alla fine l’opera è indubbiamente il prodot­ to di questo desiderio, di un ricordo d’infanzia (una ragazzina di undici anni che Renoir bambino aveva conosciuto nella foresta di Fontainebleu) e dell’incontro con Leslie. È anche il frutto del bi­ sogno per Renoir di intrattenerci indirettamente su alcune verità morali, di discuterne con gli spettatori. È Leslie però che ha reso Orvet ciò che è. Renoir non mi ha nascosto che per un’altra attri­ ce l’opera sarebbe stata molto differente. E per precisare meglio che cosa lo ha affascinato in lei, mi ha detto che è stata prima di tutto la sua voce, il suo modo di pronunciare i ‘booa’ riempiendo di oo la bocca: “Le giovani attrici dei corsi di arte drammatica di oggi, mi dice Renoir, hanno una pronuncia impossibile. Forse è il modo con cui viene loro insegnato a impostare la voce. O forse la frequentazione dei licei, ma le ragazze di oggi hanno quasi tutte una voce acuta e leziosa e, fatto curioso, sono soprattutto le ragazze di origine popolare. Spesso presso la buona borghesia si trovano di quando in quando delle voci gustose e naturali. Quan­ do debuttai a Hollywood e dovevo girare La palude della morte, il direttore di produzione voleva assolutamente che prendessi Linda Damell col pretesto che era una figlia di contadini, abi­ tuata alla campagna. £ una brava attrice ma la sua voce non ave­ va sicuramente niente di contadino. Ho insistito per avere Ann Baxter sconosciuta all’epoca e di origine assolutamente borghese e cittadina ma che poteva parlare come una ragazza di fattoria”. È appena esagerato, allora, affermare che Renoir ha scritto Orvet per la maniera con cui una giovane ballerina francese incontrata a Hollywood pronunciava i ‘bois’. Mi è sembrata perfetta e tal­ volta sublime senza mai dare quell’impressione scolastica che il Conservatorio insegna. Renoir ha saputo dirigere splendidamen­

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te quel corpo espressivo e quella voce gustosa. La sua tecnica di ballerina e anche la sua comprensione dello spettacolo dovevano bastare a Leslie Caron con questa regia per esprimere perfetta­ mente un personaggio per metà reale e la cui interpretazione doveva essere stilizzata e quasi virtualmente danzata. Solo una ballerina poteva, come fa Leslie, passare così facilmente dalla ‘re­ citazione’ ai primi passi di un piccolo balletto. I critici si aspettavano più o meno apertamente di vedere uno dei più grandi cineasti al mondo avvicinarsi al teatro per sconvol­ gerne la messa in scena in nome del cinema; ma questo significa dimenticare che Renoir non s’interessa al teatro per farvi del ci­ nema. E vi giunge prima di tutto senz’alcuna intenzione, se non quella di continuare a fare spettacolo e intrattenere con il pubbli­ co un rapporto forse più personale di quello che oggi permette lo schermo. Di fronte alle mie insistenti domande sulle ragioni che lo hanno spinto verso il teatro, sono riuscito a ottenere da Renoir solo risposte che potrebbero apparire risibili se la loro modestia non nascondesse una straordinaria umiltà più ricca di insegnamento di molti manifesti. Oltre al desiderio di rinnovare il dialogo, Renoir individua nel suo interesse attuale per il teatro il bisogno di sentire di nuovo la resistenza di una tecnica. Nel periodo in cui Renoir, abbandonando la ceramica che si stava meccanizzando, si lanciava nel cinema e a grandi linee forse fino agli anni Quaranta, il cinema creava il suo linguaggio, la sua tecnica si evolveva. Il regista men­ tre inventava il suo stile, incontrava una resistenza: superandola inventava la sua arte. Oggi a Renoir sembra che il cinema non offra più ostacoli all’espressione, anche i cambiamenti di schermo non produrranno nulla, il cinema è una stampa a tal punto perfeziona­ ta che ormai conta solo il soggetto. Rivolgendosi al teatro che pri­ ma della guerra disprezzava, Renoir ha la sensazione di ritornare a uno spettacolo in cui la tecnica materiale, la sua precarietà, anche le sue incertezze possono essere fonti d’ispirazione. Quanto al suo modo di concepire un lavoro teatrale, si poteva ricavarlo dal suo passato cinematografico: “Mi sono accorto che i professionisti del teatro si aspettano da un’opera che sia prima di tutto una macchina drammatica ben costruita e probabilmente hanno ragione nella misura in cui le grandi opere illustrano questo principio; per parte mia concepisco i miei lavori di teatro come i miei film, non a partire da una costruzione ma da situazioni che

Jean Renoir e il teatro

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mi seducono e dagli attori che si troveranno a interpretarle. Da un altro punto di vista, il teatro è per me un dialogo con il pubblico, un modo di dirgli senza annoiarlo delle cose che mi stanno a cuore e che possono commuoverlo per la loro verità. Mi pare che fosse an­ che l’intenzione di Giraudoux che ho conosciuto bene e ammirato”. Giraudoux però, scrivendo, si preoccupava poco della messa in scena, mentre nel caso di Renoir si sente in ogni momento che l’in­ venzione è modellata su un’efficacia più scenica che drammatica. Renoir ha ugualmente scoperto durante le prove di Orvet che la regia teatrale tradizionale si preoccupava molto di più della siste­ mazione e dei movimenti degli attori che della loro espressione. Renoir pensa al contrario che gli spostamenti debbano essere su­ bordinati all’espressione e che derivano naturalmente da questa. Non ha diretto Orvet dalla sala come si fa di solito ma sul palco­ scenico vicino agli attori come avrebbe fatto in uno studio cinema­ tografico. Se il teatro è prima di tutto un dialogo fra l’autore e lo spettatore attraverso la mediazione dell’attore e se la regia è l’arte di rendere questo dialogo efficace, intendo dire di farlo arrivare al cuore, di trasformarlo in atto di amicizia e di persuasione intima, allora mi sembra che Renoir sia riuscito perfettamente nel suo intento. Sembra che l’anteprima di Orvet sia stata tiepida. Ho visto l’o­ pera, la vigilia, in una sala piena di spettatori paganti, il cui entu­ siasmo non poteva ingannare. Ci furono sei chiamate dopo gli ap­ plausi che talvolta interrompevano in modo inopportuno le scene. Quel pubblico in ogni caso rispondeva al dialogo. Non aveva nes­ suna voglia di chiedersi se una ballerina avesse il diritto di recitare una commedia senza aver fatto tre anni di tirocinio al corso Simon. Giudicavano Leslie perfetta e commovente fino alle lacrime. Non si chiedevano neppure se fosse possibile ricavare un buon film da Orvet, se il lavoro fosse scritto secondo le regole dell’avanguardia e se un cineasta avesse il dovere come tutti di non ignorare Piran­ dello e Giraudoux. Non gli rimproveravano di non aver scelto fra il realismo e il sogno ma ascoltavano, affascinati, quella musica delle parole e degli esseri, si meravigliavano dell’intreccio dei temi, dell’armonia delle rotture di tono nell’unità mantenuta dello stile. Insomma, il pubblico aveva tutta l’aria di ritenere che fosse teatro, del buon teatro.

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X. IL TERZO PERIODO DI JEAN RENOIR

French Cancan (1954)^ In virtù del soggetto così come dell'atteggiamento di Renoir che ha cercato forse di minimizzare le ambizioni di un film che ha voluto sotto ogni aspetto leggero e piacevole, French Cancan si annunciava con la reputazione di un divertimento di buon gusto. Divertimento che poteva fallire, così come la sua riuscita avrebbe potuto mantenere nella migliore delle ipotesi solo le promesse di un soggetto minore e decorativo. Sappiamo che il soggetto racconta alcuni episodi della vita di Ziedler (Danglard) che creò il Moulin Rouge nel luogo del Cabaret de la Reine-Blanche. Da una sceneg­ giatura di questo tipo ci si aspetta necessariamente e prima di tutto 1’evocazione della Montmartre della 'Belle-Epoque' da parte di un uomo la cui cultura costituiva una doppia garanzia in questo campo contro il cattivo gusto. Senza dubbio, French Cancan è tutto questo, se si vuole. Ma diremo forse che il Bal du Moulin de la Gaiette di Au­ guste Renoir non è nient’altro che un divertimento pittorico su un divertimento sociale? Se chiamo in causa il pittore, questo non di­ pende da un accostamento che s’impone per ragioni plastiche evi­ denti, ma a maggior ragione perché, per la prima volta, al cinema, il film di Renoir mi ha dato l'impressione non solo di raggiungere un’imitazione soddisfacente dei quadri che lo ispirano, ma anche e soprattutto quella densità interna dell’universo visivo, quella ne­ cessità delle apparenze che fondano il capolavoro pittorico. Intendiamoci bene. Voglio dire che se Jean Renoir è riuscito a evocare sullo schermo in modo valido per l’occhio una certa epoca

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French Cancan, Francia 1954.

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della pittura, non lo ha fatto attraverso un’imitazione esteriore del­ le sue caratteristiche formali, ma ricollocandosi in un punto focale dell’ispirazione a partire dal quale la sua regia si ordina spontane­ amente e naturalmente in consonanza stilistica con quella pittura. Altri film offrivano già degli esempi in questo senso: La scampa­ gnata in particolare o alcune sequenze de II delitto del signor Lan­ ge. Trattandosi di fìlm in bianco e nero, tuttavia, la tecnica da sola costituiva già una garanzia di trasposizione. Al contrario il colore, proprio in virtù della sua relativa perfezione, racchiudeva il ter­ ribile pericolo di cadere in un’imitazione superficiale; l’abbiamo visto precisamente in Moulin Rouge166 dove il colore favorisce solo una resa decorativa e drammatica delle sue fonti pittoriche. Nondimeno ci aspettavamo che Renoir trionfasse su queste ten­ tazioni indegne della sua persona. Solo la tecnica avrebbe potuto tradirlo e peraltro in parte lo ha tradito. Ho visto una prima copia testata in modo imperfetto, in cui molte bobine erano segnate da una leggera dominante verdastra. L’equilibrio interno di queste immagini era però tale che l’imperfezione non ne distruggeva af­ fatto l'armonia. Come in quei quadri impressionisti che il viraggio di certi colori chimici instabili non priva della loro bellezza. Sap­ piamo che la tonalità rosa d’origine del Bal du Moulin de la Gaiette con il tempo è diventata blu senza alterarne la grazia. Ogni grande pittura è prima di tutto una costruzione dello spirito e si nutre del­ lo spirito: esiste al di là dei segni plastici che non sono che i suoi mediatori e la scomparsa o l’alterazione di uno di essi genera spon­ taneamente segrete compensazioni come nel nostro corpo l’atrofìa di un organo suscita quasi sempre delle attività di compensazione che tendono a ristabilire l’equilibrio vitale. Ma French Cancan mi sembra che realizzi molto di più di questa semplice integrazione dello stile pittorico: il suo dispiegamento nel tempo. Oso affermare che questo fìlm è bello quanto un qua­ dro di Renoir, ma un quadro che abbia una durata, un divenire interiore. Un’affermazione simile suggerisce dei fraintendimenti che bisogna subito correggere. Se la vera pittura non è per essen­ za aneddotica e soprattutto non lo è quella di Renoir, neppure il suo sviluppo temporale potrebbe essere drammatico. L’inestima-188 188 Si tratta del film di John Huston, Moulin Rouge (USA, 1952), che narra la vita di Toulouse-Lautrec.

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bile importanza di French Cancan deriva - credo - quasi intera­ mente da questa originalità che illumina retrospettivamente con una nuova luce e forse spiega portandola a termine l'evoluzione già fortemente disegnata ne La carrozza d'oro. Forse abbiamo già elogiato altri film capaci di liberarsi dalle categorie drammatiche pur riconoscendo la loro ispirazione romanzesca. In questo caso ci troviamo di fronte a un percorso estetico del tutto diverso. La pit­ tura infatti è solo oggettivamente intemporale. In realtà per il sog­ getto che la contempla essa è un universo da scoprire, da esplorare. Il tempo è quindi una dimensione virtuale del quadro. Ma se il quadro si mette a vivere, a durare, a subire delle metamorfosi, che colpiscono sia il suo equilibrio plastico che il suo soggetto, com­ prendiamo che questo tempo oggettivo non si sostituisce affatto al tempo soggettivo, ma al contrario vi si aggiunge. Ed è proprio que­ sta l'impressione che lascia lo spettacolo di French Cancan, quella di esistere secondo due modi di durata, la durata oggettiva degli eventi e quella soggettiva della loro contemplazione. Mi farò capire meglio con due esempi. Scelgo di proposito un primo esempio elementare. Un certo piano del film ci mostra, visto dall'esterno, dalla finestra della sua mansarda, una giovane donna che bada alle faccende di casa. L’ambiente, i colori, il sog­ getto, la direzione dell’attore, tutto concorre all’evocazione molto libera e senza plagio di un quadro che forse sarebbe in questo caso più di Degas che di Renoir. La cameriera va e viene nella penombra colorata poi, voltandosi, si sporge alla finestra per scuotere il suo straccio. Uno straccio di un giallo vivo la cui macchia si agita un secondo prima di sparire di nuovo. È evidente che questo piano essenzialmente pittorico è stato concepito e composto in funzione dell’apparizione momentanea della macchia gialla la cui armonia presuppone un prima e un poi. Si vede bene tuttavia che questo evento non è né drammatico né aneddotico: la sua apparizione im­ provvisa resta puramente pittorica, è la macchia rossa di Corot... ma intermittente! Dobbiamo sottolineare inoltre che la temporalizzazione del materiale pittorico è un’altra cosa rispetto alla pittura animata. Le pellicole di Mac Laren, Fishinger, Len Lye ci hanno dato un’idea di ciò che potrebbe essere quest’ultima. É probabile che la pittura

animata potrebbe essere solo astratta o quanto meno fortemente tesa verso l'astrazione: essenzialmente un sistema di forme in mo­

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vimento. L’intenzione seguita da Renoir non è neppure la stessa di Monet nelle sue serie dei pagliai o delle cattedrali. Dopotutto l’impressionismo spingeva Monet ai limiti dell’astrazione attraver­ so la dissoluzione del soggetto nella luce. No, Jean Renoir mostra un certo universo sociale, ma creato attraverso la sua più alta rap­ presentazione storica, quella di Renoir, di Lautrec, di Degas, così come questi pittori l’hanno cambiato in se stesso, ma, se posso dire, rendendolo vivente, restituendolo al cambiamento e alla du­ rata. Per esprimermi in un altro modo, potrei dire che i pittori sono partiti da certi aspetti del loro tempo per conferire ad essi l’eterni­ tà della pittura, mentre Jean Renoir prende come modello questa realtà seconda per restituirle la vita. Una vita che certamente non potrebbe più essere quella realista della storia, ma la vita virtuale che l’arte del pittore manteneva prigioniera nelle sue forme fissate. Una simile ricreazione estetica richiede molto di più della fedeltà alle forme: la possibilità di seguire non la tecnica ma la visione e lo sguardo del pittore; il découpage di French Cancan ne offre ven­ ti esempi, fra cui sceglierò quest’ultimo proprio in virtù della sua complessità che si contrappone alla semplicità del primo esempio. Ricopio dalla sceneggiatura definitiva questa indicazione di scena (colonna di sinistra) che descrive lo studio di danza della signora Guibole dove Danglard presenta la sua ultima scoperta, Nini, che spera di far diventare la vedette del French Cancan.

“Piano generale - Un tempo fu probabilmente il salotto di una casa borghese. Due finestre che danno sul cortile. Una è aperta. Il pianoforte, due letti pieghevoli su cui sono sedute due allieve che osservano la lezione di Conception. L’illuminazione proviene da una lampada posta sul pianoforte. Attraverso una porta aperta si scorge una camera e una toilette in cui una ragazza del tutto indifferente a ciò che succede fa il bagno in una tinozza. Una delle ragazze sedute, che si fa i bigodini, si gira all’entrata di Danglard e Nini. L’altra continua a leggere un romanzo. Quando finisce una pagina la strappa e la porge a Bigoudi che la usa per i suoi bigodini. Nini, sospettosa, come un indiano in visita presso una tribù ostile, resta un po’ in disparte. Danglard: “Buonasera Guibole... sei molto indaffarata?”

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Le indicazioni della scena, dell'illuminazione, del movimento e dei personaggi non sono quelle di un’ampia composizione che si potrebbe intitolare “il corso di danza” o con maggior familiarità, “lo studio di mamma Guibole”? La descrizione comporta un det­ taglio che merita di essere commentato: la ragazza nella tinozza. Appare nel film in fondo all’inquadratura attraverso lo spiraglio di una porta che la ragazza finisce per chiudere con un pudore tardi­ vo e indifferente. Abbiamo ovviamente riconosciuto un soggetto caro a Renoir e Degas. Non è però questo riferimento preciso ciò che costituisce la vera rassomiglianza ma un fenomeno molto più sorprendente: il fatto che, per la prima volta al cinema, il nudo non è erotico ma estetico. Intendo dire che è proposto sullo stesso piano di tutti gli altri oggetti come in pittura dove non è altro che un genere fra gli altri a fianco della natura morta e del ritratto. La rivoluzione imposta da Manet con Le déjeuner sur l’herbe la cui splendida oggettività implicitamente denunciava la senile salacità dei pittori accademici che nascondevano dietro gli alibi mitologici le loro intenzioni licenziose, è trasportata da Renoir al cinema189. La nudità ritrova qui non la purezza del paradiso terrestre, cioè la tentazione senza peccato, ma la serenità dell’arte di fronte alla quale tutti i soggetti sono uguali. La mia memoria non mi permette di affermare dopo una sola proiezione de) film se l’insieme di questa scena è risolto in un solo piano. Ma non ha molta importanza. Molti altri piani della stessa natura sono divisi in piccoli frammenti che distruggono o piutto­ sto ignorano l’equilibrio plastico dell’insieme. Ancora una volta, la pittoricità qui non è mai formale e ricostituita dall’esterno. Essa esiste come il modo di essere della regia, ne costituisce l’essenza. La macchina da presa non guarda per noi un quadro abilmente ricostruito (come in Moulin Rouge), piuttosto si muove a suo agio e con naturalezza all’interno della pittura. Anche se decomposta in una serie di inquadrature ravvicinate nessuna delle quali richia­ ma con precisione la sua fonte pittorica, questa sequenza non po­ trebbe dipendere meno direttamente dalla pittura. La sua somma mentale ne costituisce l’equivalente più esatto. 189 Quando Bazin scrisse questo testo (1955) non poteva sapere che quattro anni più tardi Renoir avrebbe girato un fìlm intitolato proprio Le déjeuner sur Vherbe [V.T.].

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Ho scritto a proposito del cinema giapponese che ciò che muove­ va la nostra ammirazione nei suoi confronti, anche nelle produzio­ ni meno felici, era la sua infallibile fedeltà a una cultura raffinata e potente. I nostri film occidentali, che partecipano del divorzio fra l’arte e la cultura sociale consacrata dal XIX secolo, non potrebbero godere di questo capitale indivisibile. Il loro valore è proporziona­ le a quello dei loro registi, del loro talento e della loro ambizione; con Jean Renoir tuttavia assistiamo proprio alla suprema congiun­ tura. Racchiude nella sua persona, oltre al genio cinematografico individuale, l’infallibilità di una cultura o perlomeno di uno degli aspetti più alti della cultura occidentale, quella dei suoi pittori. È l’impressionismo moltiplicato dal cinema.

(French Cancan e la pittura impressionista). Jacques Rivette mi faceva notare con intelligenza che, al con­ trario di coloro che credono che l’ispirazione pittorica nel cine­ ma consista nel comporre un piano a imitazione di un quadro per poi animarlo, Renoir parte da una disposizione non pittorica e ta­ glia il piano quando al termine della scena l’inquadratura evoca finalmente un quadro. Così avviene nel piano magistrale in cui Franchise Arnoul attraversando tutta la scena arriva di fronte alla macchina da presa e si accascia ai piedi della colonna in primo pia­ no. Improvvisamente ci troviamo di fronte a un Degas ma già si passa al piano successivo. Renoir non parte quindi mai dalla pittu­ ra: la pittura è il suo punto d’arrivo. L’impressionismo. Partendo dall’evocazione della nascita del Moulin Rouge grazie all’iniziativa di un impresario di café-concert, Renoir stringe e scioglie degli intrighi amorosi in cui i diversi eroi illustrano alcuni aspetti della società parigina, quanto meno di quella società il cui riflesso è stato fissato per l’eternità nella pit­ tura di fine secolo. E vediamo bene che cosa ha in comune questa pittura con la morale di Jean Renoir. Essa afferma per l’appunto che gli estremi si toccano, che la volgarità esiste solo nella forma e non appartiene al soggetto. Il conte di Toulouse-Lautrec era l’in­ carnazione perfetta di un’aristocrazia che la coscienza estrema di se stessa aveva gettato nei bassifondi non per negarsi o fuggirsi ma al contrario per ritrovare nel punto più basso della scala sociale e morale quella dignità fondamentale di cui la nobiltà era rimasta priva. L’arte della pittura diventava il segno e la garanzia di questo

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processo: la Goulue era l’equivalente della Gioconda e della Vene­ re di Milo! Allo stesso modo Jean Renoir proclama che non esiste gerarchia nelle arti dello spettacolo e che soltanto l’amore del me­ stiere e la qualità professionale fanno la differenza fra un cantante di strada e un tenore dell’Opéra. Solo il talento e il cuore conosco­ no gerarchie. Abbiamo visto che la pittura impressionista - ancora meglio del romanzo naturalista, suo contemporaneo - era l’espressione di questa dignità popolare agli occhi dell'artista. Dobbiamo infine ri­ cordare che Jean Renoir è il figlio di Auguste Renoir il cui modello preferito fu... la sua domestica. La lezione morale e sociale incon­ tra qui l’educazione artistica. French Cancan è il film di un uomo del quale sarebbe sicuramente riduttivo dire che conosce meglio di chiunque altro la pittura impressionista, dato che dovremmo aggiungere che la conosce dall’interno, non come un ammirato­ re delle opere, ma come un amico intimo dei loro autori. Certo, Jean Renoir all’epoca era solo un bambino, ma conosciamo bene la capacità di assorbimento dell’infanzia, come essa possa immer­ gersi per osmosi nell’ambiente che la circonda. Jean Renoir è giun­ to precisamente a quell’età in cui la maturità della coscienza ama nutrirsi dei primi ricordi. French Cancan è un ritorno alle origini, l’omaggio più bello sulla tomba di Auguste Renoir!

Eliana e gli uomini (1956)'90

Jean Renoir è probabilmente uno dei rari grandi registi al mon­ do che in ogni nuovo film manifesta una fedeltà ancora profonda a una stessa ispirazione così radicalmente imprevista. Forse soltanto Chaplin può incuriosirci e sorprenderci ancora così tanto. Un’altra osservazione potrebbe completare e confermare la prima: la mae­ stria del regista, più che mai sorprendente in Eliana, non esclude l’assunzione dei pericoli più giovanili, la meravigliosa precarietà dell’audacia. Il successo dei film di Renoir non è indiscutibile e sembra ancora più incerto oggi di quindici o vent’anni fa. Se il riflesso normale di un regista con il suo passato potreb­ be essere quello, non dico di imitarsi, ma quantomeno di perfe190

Elena et les hommes, Francia/Gran Bretagna 1956.

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zionare e di approfondire i temi e le forme che furono alla base del suo successo, Renoir sembra preoccuparsi solo di rimettere in discussione le sue conquiste più sicure. E non, del resto, per una volontà a priori di rinnovamento formale, per un pregiudizio di provocazione. Tùtte le testimonianze sul suo lavoro, al contra­ rio, dimostrerebbero che la sua debolezza - se mai vi fu - consiste piuttosto nell’accettare più di altri i suggerimenti, anche quelli del produttore. Renoir si è adattato e si adatterà se necessario alle con­ dizioni di lavoro più varie. Ma la passione della novità s’identifica per Renoir con la creazione artistica, si pone alla sorgente stessa dell’ispirazione ed è abbastanza intima ed essenziale per adattarsi, se occorre, alle circostanze accidentali della produzione. Il risul­ tato è ancora più sconcertante nella misura in cui noi possiamo credere di riconoscere alcuni dettagli in un paesaggio del tutto nuovo. D’altra parte, come ogni poeta o artista autentico, è vero che Renoir è ossessionato da una tematica al tempo stesso di forma e di contenuto. Ritroviamo così in Eliana e gli uomini il tema della ‘festa al castello’, evidentemente ripreso da La regola del gioco, ma trasposto in un’altra atmosfera e in ogni caso rovesciato di senso, al punto che questo riconoscimento ci procura più perplessità che serenità intellettuale. Probabilmente per queste ragioni Eliana e gli uomini dovrà pro­ vocare altrettanta ammirazione che controversie! Pochi film pos­ sono dividere fino a questo punto la critica per i motivi più diver­ si. Peggio, o meglio ancora: non ci saranno forse due spettatori entusiasti che l’ammireranno per le stesse ragioni e anch’io non sono sicuro di non individuare, in occasione di una terza visione, i tempi deboli e i tempi forti del mio piacere in modo molto diverso dalle prime due proiezioni. Questo significa fra le altre cose che Renoir con buona proba­ bilità è fra tutti i registi quello più completamente artista. In lui - intendo dire - le forme sono il meno possibile determinate da tesi intellettuali o da sistemi estetici. Non che Renoir eviti di formulare delle idee sull’arte e la morale e si potrebbero anche, in un certo senso, considerare le sue opere come le metamorfosi di un’identica meditazione etica condotta durante tutto il corso di una vita. Ma è presto evidente che le idee sono per lui la conseguenza dell’ispi­ razione propriamente artistica. Sul piano creativo in cui si colloca quest’opera, l’invenzione non potrebbe sicuramente derivare in

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