Ipermondo. Dieci chiavi per capire il presente 8842099457, 9788842099451

Le società contemporanee sono caratterizzate dall'eccesso e quotidianamente sommergono le persone con grandi quanti

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Italian Pages 164 [165] Year 2012

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Ipermondo. Dieci chiavi per capire il presente
 8842099457, 9788842099451

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Sagittari Laterza 185

Vanni Codeluppi

Ipermondo Dieci chiavi per capire il presente

Editori Laterza

© 2012, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2012 www.laterza.it Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nell’aprile 2012 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9945-1

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Introduzione

Prima di inventare i giusti strumenti, occorre innanzitutto conoscere la forma delle cose, il terreno dal quale germogliano e le condizioni di incubazione. Zygmunt Bauman La società sotto assedio

Le società occidentali contemporanee presentano spesso una natura incomprensibile e le persone che le abitano incontrano grandi difficoltà nell’attribuire loro dei significati. Sembra cioè di essere tornati a prima della seconda metà dell’Ottocento, quando l’idea di società ancora non esisteva. O meglio, il termine «società» esisteva, ma non era ancora diffusa negli individui la percezione di vivere all’interno di un sistema sociale organizzato secondo precise regole e dotato della capacità di durare nel tempo. È stata la sociologia a far nascere l’idea di società, dandosi un preciso oggetto d’analisi – la società, appunto – e assumendosi il compito di analizzarne e spiegarne la struttura e il funzionamento. E su ciò ha costruito gran parte della sua fortuna e del suo successo. Molti perciò hanno fatto ricorso alle sue spiegazioni per capire la realtà in cui vivevano e le direzioni verso cui tale realtà si stava muovendo. Da qualche anno, però, si sente sempre più frequentemente parlare dell’esistenza di una crisi della sociologia. Una crisi che probabilmente è reale e che si è avviata negli anni Ottanta, quando la sociologia stessa ha messo da parte i preziosi insegnamenti degli autori classici e ha rinunciato a parlare della società reale;

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Introduzione

ovvero quando ha iniziato a interrogarsi su concetti astratti come, ad esempio, quello di «complessità» o quello meno astratto ma altrettanto generico e indeterminato di «globalizzazione» e ha abbandonato nel frattempo concetti chiave quali «stratificazione» e «conflitto». Alcuni autori hanno persino parlato di scomparsa della società. Ritengo invece che, seppure ridotta in forme frammentarie, la società sia ancora ben viva. E, con essa, anche la disciplina che si è data come compito primario la sua comprensione. Anzi, paradossalmente molti problemi attuali della sociologia derivano dall’eccessivo successo di questa disciplina, dal fatto cioè che tutte le scienze umane, ma spesso anche quelle naturali, utilizzano categorie sociologiche per leggere la realtà sociale e così facendo ne impoveriscono progressivamente il senso. Certo, probabilmente i cambiamenti sociali intervenuti negli ultimi decenni hanno reso gli strumenti di analisi della sociologia meno efficaci di un tempo, ma questo non è un buon motivo perché tale disciplina debba rinunciare a effettuare il suo sforzo di comprensione. È possibile pertanto individuare alcuni concetti sociologici in grado di leggere la realtà delle società più avanzate di oggi. È quel che propone questo libro, dove vengono presentate dieci chiavi interpretative per analizzare l’ipermondo contemporaneo. Tali concetti rappresentano degli strumenti di analisi che, considerati tutti insieme, dovrebbero consentire al lettore di disporre di una specie di «cruscotto» simile a quello delle automobili e grazie al quale sia possibile orientarsi in maniera più efficace sulle strade del mondo. La mia speranza è che questi concetti possano anche aiutare le persone a vivere meglio. Perché, come vedremo, il mondo sociale odierno promette a tutti felicità e benessere, mentre in realtà dispensa soprattutto ansia e insoddisfazione. Si presenta continuamente sotto l’aspetto di un regno magico dove le persone possono esaudire qualsiasi desiderio, ma alla fine non produce che frustrazioni. I concetti che qui si propongono non possono certamente fornire soluzioni definitive per questi problemi sociali, ma sono probabilmente in grado di aiutare le persone a sopportare meglio la fatica di vivere. Perché una delle cause di tali problemi è rappresentata soprattutto dall’incomprensibilità dell’ipermondo contemporaneo.

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Simone è una docente universitaria inglese che, come molti accademici di oggi, ha la necessità di viaggiare spesso per il suo lavoro1. Prende l’aereo per partecipare a convegni, ma ha sempre con sé il suo telefonino e il suo computer portatile e con questi telefona o manda e-mail a parenti, amici e colleghi. In questo modo riesce a sentirsi vicina, ad esempio, al marito e al figlio di 6 anni. Gli strumenti di comunicazione le sono indispensabili per mantenere vivi i contatti sociali e questo sta diventando la norma in una condizione di continui spostamenti come quella contemporanea. La nostra esistenza infatti, come quella di Simone, è sempre più basata sulla mobilità. È stato calcolato che negli Stati Uniti nell’anno 1800 le persone ogni giorno percorrevano mediamente 50 metri, mentre oggi si spostano di circa 50 chilometri2. In Italia invece una ricerca del Censis ha mostrato come i pendolari, cioè le persone che si muovono quotidianamente, siano più di 13 milioni e a partire dal 2001 siano aumentati di circa 3,5 milioni3. Insomma, ciò a cui oggi assistiamo è un intensificarsi di quelle caratteristiche che contraddistinguono da sempre la cultura occidentale moderna. Tale cultura, che ha preso avvio a partire dal

  Simone è il nome di fantasia che i sociologi Anthony Elliott e John Urry hanno assegnato nel volume Mobile Lives (Routledge, London 2010) a una docente che conoscevano per poter liberamente parlare della sua vita privata. 2   Mark Buchanan, Nexus: Small World and the Groundbreaking Science of Networks, W.W. Norton, London 2002. 3   Censis, Pendolari d’Italia. Scenari e strategie, FrancoAngeli, Milano 2008. 1

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Quattrocento, è caratterizzata infatti da due aspetti cruciali4: l’i­ dealizzazione del nuovo, del progresso sociale e del futuro; la possibilità per l’individuo di svincolarsi dai legami sociali tradizionali e di sentirsi libero di esprimere la sua autonoma capacità di scelta. E ciò ha comportato la nascita di una condizione di vita necessariamente imperniata sullo spostamento e l’instabilità. Una condizione naturalmente resa possibile anche dalla progressiva adozione di tecnologie di trasporto e di comunicazione sempre più efficaci. Dunque, anche se i sociologi, soprattutto negli Stati Uniti e in Inghilterra, negli ultimi decenni hanno preferito definire le società contemporanee facendo ricorso all’aggettivo «postmoderno», abbiamo sempre più a che fare con società che sono chiaramente ancora moderne. Infatti, più che porre l’accento sul «post», cioè sull’arrivo di un processo di totale cambiamento rispetto all’epoca della modernità, è necessario ritenere che quest’ultima sia entrata in una nuova fase della sua evoluzione. La fase che stiamo attraversando cioè non porta a una situazione «post», a una realtà totalmente diversa da quella che era propria della modernità, ma in essa la stessa modernità viene portata all’eccesso, in quanto è soggetta a un processo di accelerazione e intensificazione dei principali fenomeni che l’hanno da sempre contrassegnata, e diventa pertanto «ipermodernità»5. D’altronde, negli ultimi anni un numero sempre maggiore di autori condivide questa interpretazione. Lo sviluppo della modernità e del capitalismo Per cominciare, è utile innanzitutto chiedersi come abbiamo fatto ad arrivare a questo punto. Pertanto, considereremo brevemente le principali tappe che sono state attraversate dalle società occidentali nel corso degli ultimi secoli, allo scopo di individuare i cambiamenti avvenuti nell’ambito dei processi di produzione dell’economia. Questi infatti svolgono un ruolo determinante, sebbene non si tratti di un ruolo esaustivo perché complementa4   Come ha messo in luce Gilles Lipovetsky, L’impero dell’effimero, Garzanti, Milano 1989 [ed. or., 1987]. 5   Abbiamo proposto già nel 1996 di definire «ipermoderna» la condizione che caratterizza le società occidentali avanzate in Vanni Codeluppi, La società pubblicitaria, Costa & Nolan, Genova 1996.

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re a quello ricoperto da altri fattori di cambiamento. Se possiamo dunque parlare della fase attuale come di una fase ipermoderna è perché essa rappresenta l’ultima tappa di un lungo processo evolutivo che ha riguardato la storia della modernità a partire dal Quattrocento e che è stato caratterizzato soprattutto dalla formazione e dallo sviluppo del modello capitalistico di produzione. Un modello che si è principalmente manifestato attraverso l’accumulazione del capitale, ma anche attraverso la progressiva diffusione di quest’ultimo nella realtà sociale. Il capitale infatti, come è stato efficacemente spiegato sia da Karl Marx che da Georg Simmel, possiede una natura quantitativa e impersonale che gli attribuisce la capacità di assumere qualsiasi forma e di propagarsi nel mondo qualitativo del valore d’uso e dei bisogni degli esseri umani. Ha la capacità di smaterializzarsi, farsi astratto e penetrare in profondità nella cultura individuale e sociale; con la conseguenza che anche quest’ultima assume, a sua volta, un carattere astratto. A prima vista, sembrerebbe che siano state le tecnologie digitali e biologiche comparse negli ultimi decenni a rendere sempre più astratta la società, «spingendo verso il superamento del dualismo corpo/anima, materiale/spirituale»6. Tali tecnologie però non hanno fatto altro che accelerare un processo di «spiritualizzazione» della materia che è in corso da diversi secoli, cioè da quando è nato il modello capitalistico di produzione. Innanzitutto, perché il processo di astrazione riguarda il capitale stesso. Questo infatti si concretizza da sempre nella ricchezza economica, la quale però è cambiata, in quanto è diventata sempre più mobile e leggera, assumendo ad esempio le forme del credito, della finanza e della moneta elettronica che circola nelle reti informatiche. Simmel sosteneva che il denaro ha perso progressivamente ogni legame con i processi sociali che l’hanno generato. Ha perso dunque anche il suo valore materiale e specifico per trasformarsi in valore astratto e indistinto. Ciò gli ha consentito però di funzionare sempre meglio come unità di misura di tutte le cose, che livella le differenze qualitative e quantifica tutto per poterlo rendere facilmente scambiabile sul mercato.

6   È la tesi sostenuta da Mauro Magatti in Libertà immaginaria, Feltrinelli, Milano 2009, p. 139.

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In precedenza, Marx aveva già applicato al lavoro quest’idea dell’esistenza nel capitalismo di un processo di astrazione, ritenendo che il lavoro possieda una particolare capacità di farsi astratto per poter essere misurato e venduto sul mercato al capitalista. Nel percorso di progressiva astrazione del lavoro una tappa fondamentale è quella che si è presentata durante gli anni Settanta, quando nelle economie più avanzate è avvenuto il passaggio dal sistema produttivo «fordista», sviluppato soprattutto da parte di Henry Ford nei primi anni del Novecento e basato sulla catena di montaggio della grande fabbrica e sulla produzione in serie di beni omogenei, al modello «postfordista». In seguito a questa trasformazione, il lavoro si è fatto ancora più astratto, ma, proprio grazie a tale cambiamento, ha potuto svolgere meglio il suo ruolo centrale nel funzionamento del sistema capitalistico. Nel corso dei secoli, anche la materia fisica ha vissuto un processo di astrazione in conseguenza dell’analogo processo subito dal capitale. I beni hanno progressivamente arricchito la loro capacità di produrre significati, sviluppando le componenti comunicative e immateriali a scapito di quelle puramente materiali. Decisiva a questo proposito è stata l’introduzione nell’Ottocento del concetto di design all’interno del processo industriale. Il design, infatti, è andato sempre più a significare la possibilità di abbellire gli oggetti con decorazioni e forme spesso operanti in maniera indipendente dalla funzione svolta dall’oggetto. Ma sono stati i progressi dell’elettronica a rendere particolarmente evidente il processo di smaterializzazione degli oggetti. Di dimensioni sempre più ridotte e realizzati con nuovi materiali leggeri, questi ultimi sono diventati dei protagonisti discreti dello scenario sociale. In essi, infatti, la componente hard si è progressivamente ridotta e alleggerita, mentre quella relativa al software si è sviluppata, moltiplicando enormemente le sue funzioni. Nel contempo, anche la disponibilità di nuovi metodi di costruzione e di materiali come l’acciaio e il vetro ha consentito di dare vita a uno stile architettonico sempre più astratto, in grado di esprimere una tensione verso l’immaterialità e la trascendenza. Non è un caso che l’architetto Antonio Sant’Elia si esprimesse in questo modo all’inizio del Novecento nel manifesto dell’architettura futurista: «Abbiamo perduto il senso del monumentale, del

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passato, dello statico, ed abbiamo arricchito la nostra sensibilità del gusto del leggero, del pratico, dell’effimero e del veloce»7. E il grattacielo, ardita invenzione statunitense di fine Ottocento, ha saputo esprimere meglio di qualunque altra architettura crea­ ta dagli esseri umani i significati di crescita dell’economia e di energia che si sviluppa verso l’alto e dunque verso l’immaterialità del cielo. Di recente, il vetro viene spesso sostituito dai pixel che fanno parte delle immagini elettroniche pubblicitarie. Si tratta di immagini che «divorano» le strutture architettoniche degli edifici, i quali evidentemente non spariscono, ma riducono in maniera sensibile la loro natura fisica. Insieme agli oggetti e alle architetture, anche i corpi individuali sono stati interessati da un processo di astrazione. Nel corso del Novecento, ad esempio, l’abito femminile è diventato sempre più ridotto e semplificato, sempre più dinamico e ascendente verso l’alto. Se nei primi anni del secolo le rappresentazioni del corpo femminile erano costituite da figure corpulente che tendevano a rimandare alla pesantezza della ricchezza terriera, nei decenni successivi il corpo è diventato decisamente più sottile e leggero. E progressivamente rimedi dimagranti e diete sono diventati la norma per entrambi i sessi, mentre la cellulite, codificata la prima volta come malattia dal medico Louis Alquier nel 1924, è stata sempre più percepita come un vero e proprio nemico da sconfiggere. Insomma, appare evidente che nel corso della storia del capitalismo l’intera società ha subito un processo di progressiva astrazione. D’altronde, anche l’industria culturale si è sviluppata passando attraverso la creazione di strumenti in grado di facilitare questo processo. Ad esempio, con la diffusione di massa dei libri stampati e dei quotidiani, le persone hanno imparato a separare il produttore della conoscenza dalla conoscenza stessa, che è diventata un soggetto sempre più autonomo nella società. Oppure con la nascita della fotografia a metà dell’Ottocento, che ha indotto il medico statunitense Oliver Wendell Holmes8 a pensare che tale 7   Cit. da Francesco Iengo, Cultura e città nei manifesti del primo Futurismo (1909-1915), Vecchio Faggio, Chieti 1986. 8   Oliver Wendell Holmes, Il mondo fatto immagine. Origini fotografiche del virtuale, a cura di Giovanni Fiorentino, Costa & Nolan, Genova 1995.

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mezzo potesse dar vita a una decisa separazione tra la materia fisica e la sua forma espressiva, in quanto in grado di rendere l’immagine autonoma dalla realtà oggettuale che rappresenta, stabile nel tempo e facilmente trasportabile. A ciò si può aggiungere che la fotografia ha introdotto un processo di produzione meccanica dell’immagine che ha progressivamente indebolito il ruolo autoriale esercitato dall’individuo. In seguito, il processo di astrazione ha potuto svilupparsi attraverso mezzi come il cinema e la radio. Il primo ha intensificato la forza comunicativa delle immagini fotografiche e grazie a ciò è stato in grado di evocare un mondo di natura spirituale e onirica. La radio ha introdotto invece un flusso di voci dove la realtà si trasforma in un mondo popolato da fantasmi, sebbene capace di possedere una grande capacità espressiva. Il processo di astrazione è poi proseguito con l’arrivo della televisione, in quanto il punto di vista della telecamera ha sostituito quello dell’individuo. Con il mezzo televisivo infatti lo sguardo che inquadra la realtà non è più quello del singolo, ma quello della collettività che impiega tale mezzo. È uno sguardo creato dalle visioni di tanti individui che si fondono in un unico sguardo, che coincide appunto con quello della telecamera. E l’avvento di Internet ha fatto ulteriormente avanzare questo processo, con la creazione di un grande cervello collettivo e globale indipendente dall’operato dei singoli esseri umani. Una vita accelerata Lo scrittore di fantascienza Jules Verne ha descritto in un suo romanzo del 1863 la società in cui oggi viviamo come un immenso insieme di flussi circolatori. E si è chiesto che cosa avrebbe potuto dire un nostro antenato nel vedere quei viali illuminati con un bagliore paragonabile a quello solare, quelle mille vetture circolare senza far rumore sul sordo asfalto delle strade, quei magazzini ricchi come palazzi, da cui la luce si propagava in bianche irradiazioni, quelle vie di comunicazione vaste come piazze, quelle piazze vaste come pianure, quegli immensi alberghi nei quali alloggiavano sontuosamente ventimila viaggiatori, quei viadotti così leggeri, quelle lunghe gallerie eleganti, quei ponti gettati da una

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via all’altra, e infine quei treni sfavillanti che sembravano solcare l’aria con fantastica rapidità9.

Evidentemente Verne aveva ragione. La nostra società sta sempre più assomigliando alla sua descrizione. Numerosi antropologi, a cominciare da Claude Lévi-Strauss, hanno mostrato che le diverse forme culturali e societarie succedutesi nella storia hanno basato il loro funzionamento sulla capacità di mantenere attivi nel sociale i flussi di circolazione delle persone e soprattutto delle merci e delle relative forme di pagamento. Il sistema capitalistico ha trovato però in tali flussi la sua principale ragion d’essere, perché ha cercato da sempre di creare un unico grande mercato in grado di consentire la libera circolazione e di migliorare progressivamente la sua resa produttiva accelerando tale circolazione e quindi il lavoro richiesto agli esseri umani, che sono i protagonisti attivi dei flussi economici e circolatori della società. Ma nel corso degli ultimi decenni tali flussi si sono ulteriormente intensificati, anche grazie allo sviluppo di quel «carburante» che è costituito dai messaggi e dai significati che attivano il desiderio dei consumatori nei confronti delle merci e stimolano pertanto la circolazione di queste ultime. L’economia dei flussi immateriali tende dunque ad integrarsi con quella dei flussi materiali, mentre il sistema comunicativo del consumo affianca sempre più il tradizionale sistema materiale ed economico di distribuzione e circolazione delle merci. Di conseguenza, nelle società ipermoderne la cultura sociale, anche grazie alle possibilità offerte dalle nuove tecnologie del trasporto e della comunicazione, accelera progressivamente la sua velocità. Gli esseri umani si trovano pertanto a dover vivere in una condizione paradossale nella quale non riescono più a comunicare e hanno la sensazione di essere in un istante onnipresente dove passato, presente e futuro tendono progressivamente a fondersi. E dove non è più possibile elaborare progetti a lungo termine ed è necessario convivere al meglio con ciò che ogni giorno si presenta. È necessario cioè accontentarsi, anche rinunciando alla ricerca della qualità ottimale e

9   Jules Verne, Parigi nel XX secolo, Newton Compton, Roma 1995 [ed. or., 1863], p. 20.

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accettando quella proposta del «buono quanto basta» che il mondo dei consumi propone sempre più frequentemente10. Le modificazioni che riguardano la nostra capacità di orientarci rispetto al tempo e allo spazio sono cruciali per comprendere i processi di cambiamento che sono attualmente in corso nelle società occidentali avanzate. D’altronde, la modernità ha potuto svilupparsi proprio perché ha saputo attribuire uno statuto autonomo al tempo e allo spazio, teorizzati per la prima volta come categorie distinte tra loro e rispetto alle esperienze sperimentabili nell’ambito della vita quotidiana11. Ciò è stato possibile soprattutto grazie alla diffusione dei moderni sistemi di trasporto e comunicazione, che hanno consentito di superare la necessità di una interazione caratterizzata dalla presenza nello stesso tempo e nello stesso luogo degli interlocutori e di creare una separazione del tempo e dello spazio rispetto al luogo, categoria centrale nell’epoca premoderna, che indica uno spazio fisico in grado di sviluppare legami sociali e culturali particolarmente forti e duraturi tra gli individui. Si è potuto così standardizzare il tempo e lo spazio, sicché l’organizzazione sociale del tempo è stata fatta corrispondere all’uniformità della misurazione del tempo introdotta dall’arrivo dell’orologio meccanico, mentre lo spazio è stato reso sempre più autonomo. Oggi al tempo dell’orologio dell’era delle macchine si è aggiunto quello che lo studioso di design John Thackara12 ha chiamato «tempo reale», cioè un tempo reso possibile da Internet, un tempo istantaneo che impone agli individui di essere sempre attivi e connessi. Allo stesso modo in cui, d’altronde, il mondo del consumo impone in maniera crescente agli individui di essere sempre aperti e disponibili alle innovazioni che quotidianamente propone. In precedenza, il tempo e lo spazio erano misurati a partire

10   Paolo Magrassi, La good-enough society. Sopravvivere in un mondo quasi ottimo, FrancoAngeli, Milano 2010. 11   È la tesi di Anthony Giddens, che ne ha parlato soprattutto nei volumi Le conseguenze della modernità, Il Mulino, Bologna 1994 [ed. or., 1990] e Identità e società moderna, Ipermedium Libri, Napoli 1999 [ed. or., 1991]. 12   John Thackara, In the bubble. Design per un futuro sostenibile, Umberto Allemandi & C., Torino 2008 [ed. or., 2005], p. 32.

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dall’esperienza individuale, e in particolare dall’esperienza personale del rapporto con la natura, ma con l’avvento della modernità la loro percezione è stata sempre più uniformemente condivisa in tutto il sistema sociale, «svuotando» sostanzialmente della loro essenza sia il tempo che lo spazio. Questi sono stati resi entità astratte che riescono a facilitare il funzionamento della società e dei mercati proprio perché non hanno la necessità di intrattenere dei legami con un preciso contesto sociale. Tutto ciò ha reso possibile un’incredibile accelerazione della vita che produce come conseguenza pesanti costi per l’ambiente naturale e una compressione del tempo a disposizione degli individui. Passato e futuro si accorciano progressivamente e domina la necessità di essere istantanei. Gli esseri umani tentano disperatamente di inseguire i ritmi vorticosi di sviluppo del capitalismo e il processo di accelerazione subito dalla realtà, ma il loro sforzo si rivela sempre più sterile. Ciò accade perché la mente umana non si è evoluta così velocemente come il sistema economico e quello culturale, cresciuti in maniera esponenziale. Le ricerche ci dicono che nel mondo occidentale, dall’inizio del Novecento a oggi, gli individui hanno perso mediamente 90 minuti di sonno per inseguire tali ritmi13. Ma la tendenza a dormire sempre meno per rincorrere i rapidi processi di cambiamento delle società contemporanee produce come conseguenza un’alterazione dei cicli naturali dell’organismo che determina l’insonnia, la quale colpisce oggi mediamente una persona su tre14. In un’epoca in cui dominano l’ipercomunicazione e le tecnologie in grado di semplificare la vita, accade che il cervello diventa sempre più importante, mentre sembra essere sempre meno necessario impegnarsi sul piano fisico. Così, il corpo viene progressivamente percepito come uno strumento di scarsa utilità per raggiungere obiettivi concreti. Viene cioè considerato qualcosa che è soltanto da rimirare e curare sul piano estetico o un puro oggetto di piacere. Mentre il cervello, a sua volta, viene continuamente sollecitato e utilizzato. Spesso anche oltre i limiti delle sue possibilità.   Carlo Falciola, Farmaco dei miracoli, «D», n. 539, 10 marzo 2007.   Elena Dusi, Insonnia, le regole contro il male oscuro, «la Repubblica», 14 gennaio 2007. 13 14

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La cultura ipermoderna Alain Touraine15 ha sostenuto che le società occidentali sono state descritte nel corso della loro lunga storia dapprima impiegando delle categorie politiche (il disordine e l’ordine, la pace e la guerra, il re e la nazione) e poi, con lo sviluppo della modernità, in termini economici e sociali (classi sociali e ricchezza, borghesia e proletariato, stratificazione e mobilità sociale). Ha affermato inoltre che le categorie politiche ed economiche non sono più in grado di rendere conto delle specifiche caratteristiche che le società contemporanee hanno assunto. Perché in tali società ciò che appare sempre più evidente è la centralità del ruolo rivestito dalle categorie culturali. Oggi quando parliamo di cultura dobbiamo però pensare al nuovo significato che sta assumendo questo termine. In Occidente, infatti, la cultura ha profondamente modificato negli ultimi anni la sua natura e i suoi meccanismi di funzionamento e non può più essere considerata un semplice insieme organizzato di forme espressive, norme e valori16. Si può invece affermare che, a seguito di un processo di intenso sviluppo, è diventata un vero e proprio mondo. Il mondo concreto e fisicamente sperimentabile del capitalismo, del consumo, della moda, dei media e dell’industria culturale. Un mondo sempre più globale e dominato dal capitale delle multinazionali, ma anche in grado di funzionare secondo la logica della Rete e dello spettacolo mediatico. Un mondo comunque che non è più secondario e periferico, ma è riuscito a conquistare una posizione centrale nell’immaginario collettivo e individuale. Un mondo, pertanto, che è in grado di trasformare radicalmente la vita quotidiana delle persone e ambiti primari della società come la politica e il commercio. È a questo mondo che ha pensato probabilmente James Lull quando ha parlato di «spazio estetico deterritorializzato»17. Uno

  Alain Touraine, Un nouveau paradigme. Pour comprendre le monde d’aujourd’hui, Fayard, Paris 2005. 16   Si veda Gilles Lipovetsky e Jean Serroy, La cultura-mondo. Risposta a una società disorientata, ObarraO Edizioni, Milano 2010 [ed. or., 2008]. 17   James Lull, Media, Communication and Culture: A Global Approach, Polity Press, Cambridge 2000. 15

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spazio che presenta un aspetto confuso e frammentario, perché tende ad articolarsi secondo una molteplicità di dimensioni, la quale rende difficoltoso per gli individui il tradizionale processo di radicamento in un determinato gruppo sociale posizionato all’interno di un territorio. Inoltre, tale spazio opera in prevalenza in un ambito di tipo extranazionale e potenzialmente globale ed è paradossalmente «senza spazio», in conseguenza di quel processo di movimento costante che caratterizza attualmente merci, persone e messaggi. Non a caso Lull ha sostenuto che tale spazio estetico è uno spazio intermedio tra qui e lì, tra la società e il sé, tra il materiale e il simbolico, perché la cultura, oggi, si colloca confusamente tra il locale e il globale, tra il collettivo e l’individuale e tra le forme mediate e non mediate di esperienza18.

La forza dello spazio estetico deterritorializzato risiede nella capacità di tale spazio di superare la limitatezza comunicativa della parola scritta e del discorso orale adottando linguaggi simbolicamente più ricchi, meno analitici e basati sulle emozioni come le immagini e la musica. Tale spazio sfrutta cioè pienamente la natura diffusa della dimensione estetica, la quale è in grado di attivare la sfera sensoriale e percettiva e dunque di coinvolgere maggiormente l’ambito della corporeità. Al suo interno a contare sono soprattutto, al posto della stabilità, dell’ancoraggio e della coerenza, la novità dello stimolo prodotto, la differenza e l’eccentricità. È dunque caratterizzato da una continua rincorsa del nuovo, della varietà e dell’eccesso. Siamo pertanto di fronte a una vera e propria «ipercultura» che è propria dell’ipermodernità, nella quale realtà e immaginazione tendono a confondersi e dove si crea quell’universo che Roger Silverstone ha denominato «mediapolis»: ovvero, una particolare realtà di secondo livello che viene creata principalmente dai media e che non sostituisce il mondo dell’esperienza concretamente vissuta, ma, invece, «si sviluppa accanto al mondo empirico, costruendo rimandi costanti, intrecciandosi costantemente con

  Ivi, p. 268.

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esso»19. La vita quotidiana tende, quindi, a unire inestricabilmente quello che proviene dai media con quello che è direttamente vissuto dagli individui. La creazione dello spazio estetico deterritorializzato rende possibile una manipolazione e una mobilità dei significati e dei simboli che «facilitano l’immissione nel ciclo della valorizzazione capitalistica della dimensione immateriale, rendendola più disponibile allo sfruttamento delle forze economiche su scala globale»20. Si disgregano pertanto dicotomie consolidate come quelle di reale-virtuale, economia-immaginario e cultura commerciale-cultura alta. Tali dicotomie, infatti, saltano in conseguenza soprattutto della compresenza di due processi: la mercificazione della cultura e la culturalizzazione della merce. Mercificazione della cultura perché quest’ultima si è fatta mercato, dunque abnorme offerta di informazioni, immagini, suoni, prodotti e marche da consumare. Culturalizzazione della merce perché quest’ultima ha progressivamente arricchito la sua capacità di creare significati e valori e di farli circolare nella società: ingloba le produzioni artistiche, ma soprattutto si propone sempre più come uno strumento in grado di generare messaggi e spettacoli. In apparenza, la situazione si presenta come paradossale, perché è noto che il capitalismo ha un assoluto bisogno di mantenere in vita l’autonomia della cultura. Le comunità umane infatti possono dedicarsi alle attività commerciali solamente se al loro interno sono ben sviluppati gli scambi comunicativi tra gli individui. La sfera economica perciò ha necessariamente bisogno della sfera culturale, che è in grado di dar vita a un ambiente affidabile dove il commercio possa aver luogo. Dunque il capitalismo per produrre valore economico deve ricorrere al ruolo socialmente svolto dalla cultura, eppure tende nello stesso tempo a soffocare tale cultura e a indebolire quelle fondamenta che rendono possibili le sue relazioni commerciali. Lo sviluppo dell’ipercultura è un fenomeno recente, ma fondamentale perché le industrie del settore culturale sembrano anticipare le dinamiche che in futuro saranno proprie dell’intero 19   Roger Silverstone, Mediapolis. La responsabilità dei media nella civiltà globale, Vita e Pensiero, Milano 2009 [ed. or., 2007], p. 178. 20   Magatti, Libertà immaginaria cit., p. 94.

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sistema capitalistico. Delineano cioè le caratteristiche di un «capitalismo hip», ovvero «un nuovo capitalismo “avanzato”, globale, caratterizzato, nel contempo, da una forte concentrazione ma anche da una grande decentralizzazione e dall’essere forza creativa e distruttiva»21. Un capitalismo che riesce a trasformarsi costantemente e non produce più attraverso il modello della fabbrica centralizzata, ma grazie ad una rete composta da migliaia di piccole e medie imprese. Di questi fenomeni sappiamo ancora poco e, in generale, anche la relazione esistente tra la cultura e il sistema economico e industriale è stata finora scarsamente analizzata. Sull’industria culturale è celebre l’analisi critica condotta dai filosofi francofortesi Max Horkheimer e Theodor Adorno nel volume Dialettica dell’illuminismo22, ma risale agli anni Quaranta del Novecento. In essa, i due filosofi hanno accusato la produzione di massa di essere imperniata su una logica di omogeneizzazione e standardizzazione. I beni, a loro avviso, erano resi sempre più identici dal processo di industrializzazione e ciò valeva anche per i beni culturali. E in effetti all’epoca gli individui si esprimevano mediante un gusto omogeneo e di massa, in quanto volevano possedere tutti lo stesso frigorifero oppure vedere lo stesso programma televisivo. In anni recenti, i sociologi inglesi Scott Lash e Celia Lury hanno cercato di aggiornare l’interpretazione di Horkheimer e Adorno attraverso una ricerca che hanno condotto a livello internazionale sulle merci dell’industria culturale23. Ne è derivato che merci come i film Trainspotting o Toy Story sono oggi principalmente caratterizzate da un processo non più di omogeneizzazione, ma di differenziazione. Infatti, mentre nell’analisi dei sociologi tedeschi l’industria culturale definiva in maniera rigida le merci culturali, le quali erano ricevute e interpretate passivamente dai loro destinatari, nell’attuale industria culturale globale gli oggetti culturali sono indeterminati, perché si trasformano nel corso dei molteplici

  Frédéric Martel, Mainstream, Feltrinelli, Milano 2010 [ed. or., 2010], p.

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22   Max Horkheimer e Theodor Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1966 [ed. or., 1947]. 23   Scott Lash e Celia Lury, Global Culture Industry: The Mediation of Things, Polity Press, Cambridge 2007.

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processi di circolazione sociale che li riguardano e proprio grazie a questa trasformazione possono acquisire un valore economico. Pertanto, essi sono dotati di una vita autonoma ed è possibile ricostruirne la biografia e gli spostamenti. Dunque, secondo Lash e Lury, quello che in precedenza era un medium (una merce culturale) si trasforma in una cosa (una merce normale), mentre quella che era una cosa diventa un medium. Vale a dire che, ad esempio, i film danno vita a videogiochi, i personaggi dei cartoni animati si trasformano in pupazzi di plastica e le marche traducono le loro identità e i loro loghi in ambienti fisici come gli spazi di vendita, mentre gli oggetti assumono una natura comunicativa sempre più evidente, soprattutto attraverso il ruolo giocato dalle loro marche. Ciò è possibile perché il funzionamento dell’odierna industria culturale globale si basa, più che sulle singole merci, su soggetti totalmente comunicativi come le marche, le quali si caratterizzano per la loro capacità di dare vita a relazioni sociali e per il loro possesso di una storia e una memoria, grazie alle quali sono in grado di alimentare l’identità dei prodotti. Tuttavia le marche si contraddistinguono soprattutto perché riescono a operare attraverso la differenziazione: ognuna di esse produce infatti valore economico grazie alla sua capacità di essere differente dalle marche concorrenti. E tale differenza nasce dal divertimento, dalle emozioni e dalle esperienze generate nel consumatore. Vale a dire che quanto più una marca riesce a soddisfare il consumatore, tanto più è in grado di creare un legame forte e specifico con quest’ultimo, che pertanto è disposto a pagare un prezzo decisamente più elevato per tutto quello che gli viene offerto. Dunque, le economie contemporanee si basano fondamentalmente sulla capacità delle marche di svolgere un’azione di tipo relazionale. Ci troviamo cioè all’interno di un «capitalismo cognitivo» perché sono soggetti comunicativi come le marche a produrre valore, così come nel capitalismo industriale a svolgere lo stesso compito era la fabbrica. Se quest’ultima aveva la necessità di controllare i processi di produzione interni ad essa e perciò la sua forza lavoro, le marche svolgono la stessa funzione sull’intera società, che diventa così una specie di «fabbrica sociale». È dunque al loro esterno che esse possono accumulare valore sfruttando il lavoro quotidianamente svolto dai consumatori e dalla società in generale. Ed è qui che possiamo dire si svolgano i principali

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processi produttivi odierni. Ciò è possibile grazie all’instaurarsi di quella crescente mediatizzazione della vita sociale e del consumo che caratterizza le società ipermoderne. Le marche non devono fare altro che tentare di operare in qualità di mezzi di comunicazione – vale a dire come interfacce, come ambienti autonomi dove è possibile stabilire una connessione tra i produttori e i consumatori – allo scopo di trasformare in valore economico tutto quello che prende vita dentro la società, cioè quel surplus di conoscenze, modelli culturali, innovazioni e relazioni sociali che viene prodotto dai consumatori. Proprio per questo motivo, è sbagliato considerare i processi di globalizzazione come processi che mirano esclusivamente a ottenere dei risultati di omogeneizzazione culturale, applicando dunque ad essi la storica tesi di Horkheimer e Adorno. È indubbio infatti che l’ingresso negli ultimi anni del modello di consumo proprio dell’Occidente, e soprattutto dell’american way of life, in molti paesi in via di sviluppo stia producendo, grazie soprattutto all’impiego del cinema hollywoodiano e dei messaggi pubblicitari delle grandi marche globali, una vera e propria acculturazione forzata a tale modello. Un’acculturazione che appare violenta quando il consumo viene ad innestarsi su un’infrastruttura industriale debole e non è accompagnato da un’adeguata espansione economica. A ben vedere, però, ciò che generalmente si presenta è piuttosto una costante relazione dialettica tra la cultura globale e quella locale. Se è vero, infatti, che tendono sempre più a formarsi ampie comunità transnazionali di consumatori che condividono le stesse abitudini e le stesse pratiche culturali e che l’economia mondiale si globalizza sotto la spinta determinante esercitata dalle grandi imprese transnazionali, che spesso possiedono un potere addirittura maggiore di quello detenuto dagli Stati nazionali e dai loro governi, è anche vero che è ben vivo un processo contrario di appropriazione e rielaborazione avviato da parte di culture che si trovano al di fuori del mondo occidentale e hanno la necessità vitale di esprimere e valorizzare la propria diversità. Si pensi, ad esempio, ai celebri casi studiati dagli antropologi delle bottiglie di Coca-Cola che gli indios Chamulas del Chiapas hanno integrato nei loro riti religiosi o delle lattine di pelati che a Salvador De Bahia vengono usate come ostensori per incensi e offerte nelle cerimonie organizzate per festeggiare la dea del mare.

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Dunque, la globalizzazione può presentarsi in alcuni casi come un fenomeno sociale coercitivo e omogeneizzante, ma generalmente si basa su un processo culturale articolato e complesso. Va considerato pertanto che «La situazione attuale è caratterizzata, nello stesso tempo, da omogeneità ed eterogeneità. Stiamo assistendo allo sviluppo di un intrattenimento mainstream globale ampiamente americano e alla costituzione di blocchi su scala regionale»24.   Martel, Mainstream cit., p. 400.

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Ha destato attenzione qualche tempo fa negli Stati Uniti la notizia della prematura morte di alcuni giovani colpiti da un infarto. In seguito si è scoperto che tutti questi giovani avevano in comune il fatto di essere dei giornalisti-blogger specializzati nelle nuove tecnologie informatiche. Si è capito allora che condividevano lo stress derivante dal desiderio di essere più informati degli altri, di pubblicare prima il proprio post in Rete, di guadagnare link, visibilità e dunque qualche dollaro in più. Passavano molte ore al giorno chini sullo schermo del computer, pagati a cottimo e con l’ossessione di perdere il proprio precario posto di lavoro. Ma il fenomeno è decisamente più ampio: si pensi ad esempio che l’importante sito americano d’informazione Demand Media, operante come fornitore di contenuti per YouTube, paga a cottimo i circa 10.000 collaboratori di cui dispone nel Web (solo 10 euro per un articolo e 20 euro per un video) e riesce ad avere da essi circa 6.000 contributi al giorno1. Vale a dire che ogni collaboratore fornisce mediamente al sito un contributo in meno di due giorni. Quella condizione di sfruttamento economico che in passato caratterizzava gli operai oggi riguarda dunque in maniera crescente i lavoratori della conoscenza. È meno visibile perché è collocata non più nelle grandi fabbriche, ma nelle abitazioni private delle persone connesse alla Rete. E nella società non viene vissuta come sfruttamento, ma semmai come divertimento, perché ha a che fare con Internet, che è ricoperta oggi da un’ideolo-

1   Ignacio Ramonet, Gli automi dell’informazione, «Le Monde Diplomatique-il manifesto», a. XVIII, n. 3, marzo 2011.

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gia ammantata di ludicità e di attualità culturale. In realtà, dietro tutto ciò si nasconde il vero volto del capitalismo contemporaneo: il «biocapitalismo». Le caratteristiche del biocapitalismo Il suffisso «bio» richiama immediatamente i celebri concetti di «biopotere» e «biopolitica» introdotti da Michel Foucault per indicare quella strategia di gestione e controllo degli individui e dei loro corpi che è stata impiegata dal sistema capitalistico e dagli Stati europei tra il XVII e il XIX secolo. Oggi è tuttavia necessario allargare l’orizzonte e parlare dell’esistenza di un vero e proprio biocapitalismo se si vuole comprendere le caratteristiche dell’attuale sistema economico e sociale. Il biocapitalismo rappresenta infatti la più avanzata forma di evoluzione del modello capitalistico, che si caratterizza per la capacità di coinvolgere le vite degli esseri umani all’interno dei processi produttivi. In precedenza, il capitalismo faceva principalmente ricorso alle funzioni di trasformazione delle materie prime svolte dai macchinari e dai corpi dei lavoratori utilizzati come strumenti materiali di lavoro. Il biocapitalismo invece produce valore estraendolo da tutte le componenti biologiche e le dimensioni mentali, relazionali e affettive dei corpi degli individui. Insomma, il sistema capitalistico si basa oggi su una nuova forma di capitale – il «biocapitale» –, che si fonda a sua volta su una nuova forma di valore economico – il «biovalore» –, il quale può essere estratto dalle proprietà vitali delle creature viventi2. Gli autori di questi concetti si riferiscono soprattutto a quei radicali fenomeni di cambiamento che si stanno sviluppando nell’ambito della biomedicina e delle biotecnologie e che si sono già manifestati, ad esempio, attraverso la creazione di animali transgenici oppure la clonazione del primo mammifero adulto. Ciò che invece oggi è realmente significativo è che a essere diventato oggetto di sfruttamento economico è il corpo umano 2   Kaushik Sunder Rajan, Biocapital: The Constitution of Postgenomic Life, Duke University Press, Durham-London 2006 e Nikolas Rose, La politica della vita. Biomedicina, potere e soggettività nel XXI secolo, Einaudi, Torino 2008 [ed. or., 2007].

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in tutte le sue molteplici manifestazioni. È necessario pertanto impiegare un concetto più ampio come quello di biocapitalismo. Il passaggio del capitalismo alla sua fase «bio» sta avvenendo perché le imprese non possono più accontentarsi di ricevere prestazioni funzionali dai corpi dei loro dipendenti, ma devono sfruttare anche le idee e i pensieri di tali individui. Devono cioè intensificare ulteriormente i processi di sfruttamento e coinvolgere in maniera crescente il cervello umano. Ma il cervello è strettamente legato alle identità delle persone e dunque continua a lavorare anche al di fuori della fabbrica. Rappresenta pertanto l’elemento di continuità tra il tempo di lavoro e il tempo libero, ciò che rende oggi il secondo sempre più simile al primo. Gli economisti classici hanno messo in luce come nel capitalismo tradizionale l’operaio lavorasse in fabbrica per un certo numero di ore allo scopo di produrre valore economico per sé e per il suo datore di lavoro e avesse poi delle ore completamente libere in cui poter recuperare le sue energie. Il biocapitalismo invece non si accontenta di sfruttare gli individui nelle ore di lavoro, ma tenta di produrre valore anche utilizzando le ore del loro tempo libero. Poiché queste ultime servono agli individui soprattutto per definire le loro identità sociali, esse sono inevitabilmente intrecciate con le componenti più intime della personalità umana, le quali sono dunque esposte all’azione di sfruttamento che viene svolta da parte delle imprese. Siamo arrivati a questa situazione attraverso un lungo percorso. Nella prima fase di sviluppo del capitalismo gli individui erano dei produttori, nei laboratori artigianali e nelle fabbriche, ma soprattutto in proprio, perché realizzavano nel loro spazio domestico gran parte di quegli oggetti di cui avevano bisogno. Soltanto gli aristocratici potevano permettersi il lusso di acquistare e consumare beni più o meno preziosi. Non è un caso che sia la religione cattolica sia quella protestante imponessero agli individui comportamenti morigerati che prevedevano l’astensione dal consumo. Con l’aumento della produzione di beni industriali, però, è diventato necessario creare una domanda per tali beni, ovvero trasformare i produttori in consumatori. Ciò è avvenuto tramite numerose invenzioni del mondo industriale: la vetrina, la galleria commerciale, il grande magazzino, il centro commerciale, la pubblicità, il marketing, la marca, il prezzo fisso, il credito al

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consumo, ecc. Tutte invenzioni che hanno cominciato a prendere piede in Europa a partire dalla fine del Settecento e negli Stati Uniti circa un secolo dopo. Ma all’inizio del Novecento a tutto ciò si è affiancata l’intuizione dell’imprenditore Henry Ford, il quale, dopo aver adottato la catena di montaggio nelle sue fabbriche di automobili, ha praticato per la prima volta una politica di alti salari che ha reso possibile un elevato sviluppo dei consumi nel tempo libero. E il modello fordista, visto il suo successo, è stato rapidamente imitato da parte di molte imprese. Il vero cambiamento è avvenuto però negli ultimi decenni, quando i consumatori, grazie soprattutto alle nuove tecnologie comunicative, hanno cominciato a produrre ciò che consumano o a consumare esperienze che sono possibili soltanto in virtù del fondamentale ruolo di co-protagonisti da essi svolto. Più in generale, è evidente che è in atto un processo di trasformazione del sistema economico in una realtà che ingloba nuovamente nella produzione il consumatore e rende quest’ultimo e ogni sua attività di produzione di significati (simboli, narrazioni, immagini) un soggetto in grado di generare valore economico. Di conseguenza, i processi produttivi delle imprese trasferiscono il lavoro in zone geografiche dove il suo costo è più basso e incrementano le attività di marketing e comunicazione orientate alla ricerca di una relazione con i consumatori. Certo, esistono ancora lavoratori che producono beni e persone che li consumano, tuttavia il punto fondamentale è che all’interno del biocapitalismo ha sempre meno senso distinguere tra la produzione e il consumo. Si pensi, ad esempio, alle persone che lavorano a Disneyland vestite da Topolino, le quali collaborano con i visitatori per dare vita a un’esperienza. Chi lavora e chi produce? La stessa cosa si può dire dei camerieri che operano nei ristoranti delle catene tematiche o degli animatori che intervengono nei villaggi turistici e nei centri commerciali. E va ricordato che è sempre più in questo genere di luoghi che gli individui tendono a passare il proprio tempo ed effettuano i loro acquisti. Del resto, con l’introduzione negli ultimi decenni di un modello di produzione «postfordista», la grande fabbrica industriale è stata progressivamente smembrata e ha assunto la forma di una struttura produttiva reticolare e dispersa sul territorio. Questo fenomeno può essere interpretato come il risultato delle lotte ope-

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raie degli anni Sessanta, che avevano spaventato gli imprenditori, i quali sentivano la necessità di adottare nuove strategie produttive in grado di consentire loro di esercitare un maggior controllo. Non a caso è successo che «Negli Stati Uniti le prime aziende a essere ristrutturate sono [state] quelle più sindacalizzate»3. Tuttavia era anche la stessa evoluzione del sistema industriale che spingeva gli imprenditori a ricercare una maggiore flessibilità produttiva. Una flessibilità resa possibile dalla riduzione del costo dei trasporti e dalla nuova disponibilità di quella particolare struttura «a rete» che caratterizza il funzionamento delle tecnologie comunicative. A ciò va aggiunta anche la spinta al cambiamento derivante dalla pesante crisi economica manifestatasi nella prima metà degli anni Settanta, quando molti mercati di beni di largo consumo hanno raggiunto per la prima volta il livello della maturità e della saturazione. Verso l’economia della conoscenza Il vero motore dei processi di cambiamento del sistema capitalistico intervenuti negli ultimi decenni è però rappresentato dall’affermarsi di un nuovo modello produttivo basato sulla conoscenza. Questa tende a diventare la forza produttiva principale in azione nel sistema economico e impone alle imprese la creazione di strutture organizzative aperte, perché la sua produzione e il suo impiego richiedono necessariamente l’attivazione di processi di scambio e di collaborazione tra gli individui. Karl Marx aveva intuito questa trasformazione del sistema capitalistico individuando l’importante ruolo produttivo svolto dal general intellect, cioè dal «sapere sociale generale», ovvero «dallo stato generale della scienza e dal progresso della tecnologia, o dall’applicazione di questa scienza alla produzione»4. Ma il processo che si sta sviluppando attualmente è ben più ampio di quello previsto da Marx. Secondo tale autore, infatti, il general intellect riguardava soltanto la capacità del sapere 3   Daniel Cohen, Tre lezioni sulla società postindustriale, Garzanti, Milano 2007 [ed. or., 2006], p. 41. 4   Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, 2 voll., La Nuova Italia, Firenze 1968-1970 [ed. or., 1857-1858], p. 403.

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sociale di rendere produttivi i macchinari operanti nelle fabbriche. Nell’attuale modello economico e produttivo di tipo «postfordista», invece, la parte immateriale del corpo umano, con i suoi processi mentali, le sue immaginazioni e le sue visioni del mondo, si autonomizza progressivamente e diventa sempre più importante come strumento di produzione. Vale a dire che la fonte del valore economico è ancora rappresentata dal lavoro svolto nelle aziende dagli esseri umani, ma la delocalizzazione produttiva in aree geografiche dove il costo del lavoro è minimo e gli enormi progressi delle tecnologie produttive fanno sì che il lavoro in Occidente possa sempre più focalizzarsi sulle attività di ideazione, progettazione, promozione e commercializzazione dei prodotti; ovvero, sulle attività di marketing e comunicazione e sul loro orientamento verso la ricerca di una relazione con i consumatori. Dunque, al lavoratore manuale del passato, il quale non possedeva i suoi mezzi di produzione, si sostituisce sempre più frequentemente un lavoratore che è proprietario del suo principale strumento di lavoro: la conoscenza. Uno strumento che porta con sé nei suoi spostamenti e grazie al quale può rendersi sempre più autonomo. Il lavoratore può cioè diventare «imprenditore di se stesso». Perché oggi la fonte del valore economico per le aziende non risiede più nel lavoro consacrato a produrre le merci o i servizi, ma in quello passato a concepire nuove idee. Lo dimostra il caso di un’azienda come Google, le cui migliaia di dipendenti devono, per contratto, dedicare il 20% del loro tempo di lavoro a farsi venire nuove idee5. I servizi Google News, Google View e Google Instant, ad esempio, sono nati in questo modo. Pertanto, nel lavoro assumono un peso fondamentale tutte quelle esperienze e quelle conoscenze che vengono maturate dagli individui al di fuori degli ambienti di lavoro e le frontiere tradizionalmente esistenti tra il lavoro e il tempo libero vanno sempre più sgretolandosi. Si può dire, insomma, che la produzione tende a uscire dalla fabbrica tradizionale, mentre i meccanismi capitalistici di produzione del valore si estendono a tutto il tempo e lo spazio

5   Ken Auletta, Effetto Google. La fine del mondo come lo conosciamo, Garzanti, Milano 2010 [ed. or., 2010].

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sociali e prende dunque progressivamente vita una vera e propria «fabbrica sociale». D’altronde, per poter produrre valore economico la conoscenza ha la necessità di svilupparsi e può farlo solamente uscendo dalla sfera individuale e dando impulso a un’intensa attività relazionale. Ha bisogno di entrare in una complessa rete di relazioni sociali e, anzi, è proprio un elevato impiego di tale rete a consentire di incrementare il valore della ricchezza economica prodotta nella società. Perché nell’economia della conoscenza la quantità di valore economico prodotto dipende soprattutto dalla crescita della diffusione della conoscenza stessa. Nella nuova economia della conoscenza la prima unità di ogni nuovo bene è molto costosa per l’azienda, perché per arrivare a produrla e commercializzarla sono necessari ingenti investimenti in ricerca e marketing. Le successive unità, invece, costano decisamente poco, perché viene semplicemente replicato un originale che è già stato creato e oggi è possibile farlo in maniera economica grazie ai vantaggi derivanti dalla delocalizzazione produttiva e dalle tecnologie digitali. Ne deriva comunque che uno dei principali problemi che le imprese devono attualmente affrontare è costituito dalla progressiva tendenza all’aumento dei costi di funzionamento e sviluppo. Ciò è dovuto, come si diceva, agli onerosi investimenti richiesti per arrivare a ottenere la prima unità di un bene e non completamente controbilanciati dalle economie successive. Ma è dovuto anche ad altri fattori che sono determinati dall’attuale contesto di mercato e che hanno a che fare soprattutto con la crescita del tasso di concorrenza comportata dai processi di globalizzazione in atto nell’economia. Il processo di incremento dei costi, inoltre, si innesca perché le imprese del postfordismo, operando soprattutto su linguaggi e beni immateriali, devono necessariamente adottare come proprio modello produttivo di riferimento quello impiegato dall’industria culturale6. Un modello che è caratterizzato da elevati rischi di insuccesso dei prodotti lanciati e quindi da possibili sprechi di risorse.

6   Si veda Luc Boltanski e Eve Chiapello, Le nouvel esprit du capitalisme, Gallimard, Paris 1999.

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Le imprese cercano di rispondere all’incremento dei costi facendo ricorso a differenti strategie. Innanzitutto aumentano il più possibile i prezzi di vendita dei prodotti, ma evidentemente questa strategia non può oltrepassare determinati limiti, soprattutto in tempi di crisi economica. Utilizzano poi sempre più massicciamente il cosiddetto «cloud computing», affidando ai server interconnessi di una società esterna quei dati che prima trovavano posto negli hard disk dei computer dei loro dipendenti o nei server interni. Soprattutto, però, le imprese incrementano i processi di trasferimento della produzione in aree del pianeta dove i costi sono più bassi. E lo fanno in misura crescente non soltanto con il lavoro che produce materialmente i prodotti, ma anche con alcune attività mentali particolarmente semplici, come quelle relative ad esempio alle funzioni di tipo amministrativo. Le imprese tuttavia trasferiscono all’esterno la produzione anche attraverso altre modalità, ovvero scaricando i costi sui propri lavoratori interni. Grazie alle nuove tecnologie informatiche, il concetto di specializzazione lavorativa è andato sempre più in crisi e progressivamente ciascun singolo impiegato ha dovuto svolgere delle nuove mansioni che in precedenza venivano svolte da qualcun altro. Si pensi alla figura tradizionale della segretaria, che era specializzata nel battere a macchina le lettere o i documenti per altri. Ora invece tutti i dipendenti devono scriversi le lettere, ma anche preparare i documenti, fare i calcoli, ecc. Il computer, cioè, ha consentito di migliorare l’efficienza organizzativa dell’impresa riducendo i tempi morti presenti nella giornata lavorativa del dipendente. Analogamente, i telefoni cellulari e le altre tecnologie di comunicazione hanno consentito di ridurre i tempi di non lavoro del dipendente, il quale oggi ha spesso la necessità di essere reperibile in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento della giornata. Come ha scritto Jeremy Rifkin, molte aziende hanno letteralmente eliminato le scrivanie personali per favorire il comportamento «nomadico» fra gli impiegati: ai dipendenti vengono consegnati un telefono cellulare e un computer portatile, come incoraggiamento a sfruttare il tempo in maniera più efficace, lavorando a casa o negli uffici dei clienti. IBM e altre aziende hanno anche introdotto la pratica dello hoteling, che permette ai dipendenti di prenota-

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re, telefonando in anticipo, una postazione di lavoro, un ufficio o una sala riunioni7.

Le imprese cercano inoltre di prolungare il tempo di permanenza dei dipendenti in azienda attraverso l’offerta di servizi attraenti. Non è un caso perciò se oggi le grandi imprese hanno iniziato a costruire attorno al posto di lavoro vere e proprie cittadine dotate di servizi di ogni tipo. Fiat, ad esempio, ha realizzato per i suoi dipendenti, nello stabilimento di Mirafiori, spazi di relax, un asilo, mense che sembrano veri ristoranti e un supermercato. I lavoratori devono farsi carico in maniera crescente anche del loro processo di formazione e del loro aggiornamento culturale. Si tratta di un compito che oggi è fondamentale data l’importanza assunta dalla conoscenza nei processi produttivi e più in generale nella società. Cosicché ogni individuo è costretto a reinventarsi continuamente, andando alla caccia di sempre nuove competenze. Dunque, l’impresa tende a ridurre i costi incrementando lo sfruttamento dei suoi dipendenti. Per i quali, generalmente, le «macchine informatiche» svolgono la stessa funzione delle macchine della grande fabbrica, in quanto sono uno strumento utilizzato per la produzione del valore. Infatti, i lavoratori dell’economia della conoscenza corrispondono soltanto in minima parte a quell’immagine di «supertecnici» creativi in grado di produrre sempre nuove conoscenze che viene loro spesso attribuita. Sono invece in gran parte semplici appendici delle nuove macchine informatiche che svolgono un lavoro ripetitivo e vincolato da precise norme. Il che spiega anche perché la loro retribuzione sia sempre meno consistente. Il consumatore che produce Il sistema biocapitalistico può pienamente manifestarsi oggi anche perché le imprese tendono in maniera crescente a scaricare i loro costi su un altro soggetto: il consumatore. In sostanza, fanno compiere a quest’ultimo una serie di operazioni che in preceden-

7   Jeremy Rifkin, L’era dell’accesso. La rivoluzione della new economy, Mondadori, Milano 2000 [ed. or., 2000], p. 43.

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za venivano totalmente svolte all’interno dell’impresa. Si tratta dell’aspetto più innovativo del processo di esternalizzazione, dato che ha cominciato a svilupparsi soprattutto negli ultimi anni, in particolare grazie al passaggio della rete Internet a una fase nella quale i contenuti dei messaggi vengono in gran parte prodotti direttamente dagli utenti. Gli economisti hanno per lungo tempo sostenuto che il consumatore doveva essere considerato una specie di sovrano dotato di un grande potere sul mercato rispetto alle imprese. In realtà, il consumatore ha sempre avuto un potere piuttosto debole ed era sostanzialmente vittima delle scelte effettuate dalle imprese. Negli ultimi anni però il suo ruolo ha cominciato a diventare più significativo. Ciò si è verificato in parte per effetto dell’azione esercitata dalla grande distribuzione, che ha sempre più incrementato le sue dimensioni andando a rappresentare un «terzo potere» in grado di indebolire il sistema delle imprese di produzione. Ma è stato anche l’avvento di Internet a rendere il consumatore maggiormente competente e dunque consapevole dell’accresciuta importanza del suo ruolo. Sta di fatto che quella che alcuni decenni fa era soprattutto un’ipotesi teorica – il consumatore in grado di esercitare un ruolo produttivo paragonabile a quello della produzione – oggi si sta in gran parte avverando. Il consumatore sembra dunque concentrare su di sé anche quelle funzioni che sono state tradizionalmente svolte dalla produzione e partecipare in misura maggiore a quella creazione di valore economico che ha sempre caratterizzato il ruolo delle imprese. Ma il consumatore odierno può essere considerato veramente produttivo? È ciò che cercheremo ora di comprendere muovendo innanzitutto da un’analisi di come è nato e si è sviluppato nel corso del tempo il concetto di «consumo produttivo». Karl Marx8 è stato il primo autore a sviluppare l’idea che il consumatore possa svolgere un ruolo attivo all’interno del sistema economico. Ha affermato infatti che soltanto il consumatore è in grado di attribuire alla merce il suo carattere di «finish», cioè di conclusione necessaria del ciclo economico di valorizzazione del

8   Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, Newton Compton, Roma 1972 [ed. or., 1859].

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capitale. Ma Marx si è limitato a enunciare tale concetto senza arrivare a individuare le sue possibili conseguenze. In seguito, è stata la cosiddetta «Scuola di Birmingham», comprendente tra gli altri gli studiosi Richard Hoggart, Stuart Hall e Dick Hebdige, a riprendere durante gli anni Sessanta e Settanta questa visione produttiva del ruolo del consumatore. Tale approccio considera la cultura sociale come una sorta di campo di battaglia dove, attraverso un costante processo di negoziazione, si confrontano tra loro dominanti e dominati (ovvero media e fruitori, imprese e consumatori, ecc.). Pertanto, ogni testo va considerato non come un messaggio già dotato di significati, ma come una proposta per un destinatario che ne definisce il senso finale. Da qui ha preso vita l’importante filone di ricerca odierno dei cultural studies, il quale condivide generalmente l’idea che il consumatore tenda a svolgere un ruolo di tipo produttivo9. Il concetto di consumo produttivo è stato sviluppato però soprattutto da parte del filosofo francese Michel de Certeau10. Secondo questi, infatti, i consumatori utilizzano qualsiasi cosa possano trovare per dare vita a un incessante lavoro di «fabbricazione» di significati personali. I risultati di tale lavoro non sono oggetti concretamente visibili, né tanto meno prodotti che possano avere una collocazione sul mercato. Si tratta di rielaborazioni che rimangono nascoste e silenziose, anche perché sono generalmente coperte dall’enorme quantità di messaggi che vengono parallelamente creati dal sistema della produzione. L’attività di ricezione non va considerata come qualcosa di passivo, ma come un processo attivo nel corso del quale il destinatario di ogni messaggio (di consumo, mediatico, urbanistico), giocando d’astuzia e usando secondo la sua volontà tutto ciò che è disponibile, si emancipa da quel ruolo subordinato nel quale tendono a sospingerlo coloro che detengono il potere nel sistema economico. La lettura di un libro costituisce un perfetto esempio di come si manifesta il processo di interpretazione del consumatore. A prima vista, sembrerebbe un momento di notevole passività dell’individuo, 9   Per un primo orientamento sull’argomento si veda Michele Cometa, Studi culturali, Guida, Napoli 2010. 10   Michel de Certeau, L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma 2001 [ed. or., 1980].

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che rimane immobile e in silenzio, ma ciò che accade invece è lo sviluppo di una produzione silenziosa: un andare alla deriva attraverso la pagina, una metamorfosi del testo mediante il vagare dello sguardo, un’improvvisazione e un’attesa di significati dedotti da alcune parole, uno sconfinamento degli spazi scritti, una danza effimera11.

L’individuo per de Certeau è quindi fondamentalmente un «cacciatore di frodo» e la sua azione si basa soprattutto su un «lavoro di straforo», cioè un lavoro nascosto, disperso, marginale e opportunistico. In realtà, se si pensa al ruolo svolto oggi dal consumatore, è evidente che siamo di fronte a un lavoro effettivamente di scarsa visibilità, ma tutt’altro che marginale. Riveste infatti un ruolo centrale all’interno dei processi produttivi e ciò è dovuto anche al fatto che, rispetto ai tempi di de Certeau, il contesto sociale è cambiato. La cultura alta e la cultura bassa si sono progressivamente intrecciate sino a rendere difficoltoso operare una distinzione tra loro. E gli individui, grazie alle nuove tecnologie produttive e comunicative, possono costruire direttamente ciò che consumano o partecipare alla produzione delle esperienze che li coinvolgono. Tutto ciò può dare al consumatore la sensazione di avere un ruolo di maggiore potere e autonomia, ma semmai è vero il contrario. Esso, infatti, «è oggettivamente più strumentalizzato, controllato e dipendente dal sistema commerciale»12. Considerare l’individuo che consuma un soggetto attivo non comporta che tale individuo possa avere un potere tale da consentirgli di essere realmente autonomo e libero di esprimersi. Certo, grazie soprattutto alle possibilità offerte dalle nuove tecnologie comunicative, oggi può partecipare a numerosi processi di rielaborazione dei prodotti e dei messaggi a essi relativi. Si tratta però di solito di scelte effettuate all’interno di possibilità rigidamente definite. I consumatori, pertanto, sono maggiormente coinvolti nei processi produttivi, ma continuano a rimanere vincolati dai limiti propri del loro ruolo. Di che natura comunque è il contributo che il consumatore   Ivi, p. 18.   Marie-Anne Dujarier, Il lavoro del consumatore. Come coproduciamo ciò che compriamo, Egea, Milano 2009 [ed. or., 2008], p. 211. 11 12

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fornisce al funzionamento del sistema capitalistico contemporaneo? Innanzitutto, tale soggetto produce in continuazione e fa circolare nel tempo libero quel sapere comune che è fondamentale per il funzionamento e lo sviluppo dell’attività produttiva del sistema capitalistico. Infatti, in un’economia della conoscenza come quella odierna le persone che lavorano, terminata la giornata lavorativa, continuano a convivere con il loro principale strumento di lavoro – la conoscenza – e pertanto si trasformano in efficaci centri di sviluppo e diffusione di tale strumento. Il consumatore svolge un lavoro fondamentale anche quando si mette in relazione con gli altri individui per contribuire alla produzione di un ambito culturale ancora più vasto: l’immaginario collettivo. Alla produzione, cioè, di quella materia prima di tipo culturale da cui le imprese devono necessariamente attingere concetti e forme espressive per costruire e riempire di contenuti gli specifici mondi comunicativi dei loro prodotti e soprattutto delle loro marche13. Ovvero, per tentare di sintonizzare i linguaggi che utilizzano nei messaggi che producono con la cultura degli individui ai quali si rivolgono. Ma per le imprese è fondamentale anche quel lavoro di produzione creativa che viene continuamente esercitato da parte dei gruppi sociali più avanzati nella cultura sociale. Le avanguardie culturali e giovanili costituiscono infatti delle preziose fonti dalle quali il mondo aziendale è necessariamente costretto ad attingere innovazioni, mode e fenomeni di tendenza per far nascere e rinnovare i suoi prodotti e i linguaggi delle sue marche. Si pensi, ad esempio, a quell’intenso lavoro di incorporazione dei valori e dei significati espressi dal mondo giovanile che è stato praticato nei messaggi pubblicitari di marche come Pepsi, Levi’s o Nike. Il lavoro del consumatore è inoltre anche di tipo individuale. Nel tempo libero, infatti, l’individuo è spinto a svolgere delle attività che sono estremamente utili per il funzionamento del sistema produttivo e consentono alle imprese di ridurre i costi. Il 13   Questo tema è stato approfondito in Vanni Codeluppi, Il potere della marca. Disney, McDonald’s, Nike e le altre, nuova edizione, Bollati Boringhieri, Torino 2012. Sul ruolo svolto nella società dalle marche si veda anche Adam Arvidsson, La marca nell’economia dell’informazione. Per una teoria dei brand, FrancoAngeli, Milano 2010 [ed. or., 2006].

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consumatore, ad esempio, può essere il cameriere di se stesso nei sempre più numerosi locali di ristorazione che applicano il modello a self service del fast food. Oppure si stampa le fotografie delle vacanze, si monta i mobili comprati da Ikea14 o acquista il biglietto del treno in una biglietteria automatica. E impiega il bancomat per effettuare ciò che in precedenza faceva il cassiere della banca o si prenota un biglietto aereo utilizzando Internet. Ma anche, sempre su Internet, recensisce un libro che ha letto o i servizi di un albergo dove ha alloggiato. Certo, così facendo, il consumatore risparmia, ma le imprese risparmiano ancora di più. Come d’altronde risparmiano le catene di supermercati e ipermercati che già da tempo si sono rivolte ai clienti imponendo loro di scegliere, impacchettare e pesare la frutta e la verdura. Oggi poi accade sempre più spesso che facciano svolgere ai clienti il lavoro della cassiera, cioè leggere con lettori ottici portatili i codici a barre dei prodotti prima di collocarli nei carrelli o pagare i conti da soli attraverso casse automatiche simili ai bancomat. Promettono di far risparmiare tempo, ma anche in questo caso a risparmiare tempo, e quindi preziose risorse economiche, è soprattutto l’impresa. Anni fa in un volume di grande successo, La terza ondata15, il futurologo Alvin Toffler aveva teorizzato l’avvento nella società della nuova figura del «prosumer», unione di producer e consumer, cioè di produttore e consumatore. In seguito, il «prosumerismo» è diventato sempre più importante sul piano sociale e ha sviluppato diversi aspetti nuovi. Toffler pertanto si è di nuovo occupato di questo argomento16, mettendo in evidenza il cambiamento comportato dall’enorme diffusione sociale dell’informatica e del processo di digitalizzazione, che tendono a facilitare e incrementare le attività svolte dagli individui in quello che Toffler stesso chiama il «terzo lavoro». Questo è un lavoro non retri14   Tra i vari testi usciti su Ikea si vedano Ingvar Kamprad e Bertil Torekull, The Ikea Story, Collins, London 1999; Elen Lewis, Great Ikea!: A Brand for All the People, Cyan Communications, London 2005; Erik Gunnar Trjo, Soffro d’Ikea, Leconte, Roma 2006. 15   Alvin Toffler, La terza ondata. Il tramonto dell’era industriale e la nascita di una nuova civiltà, Sperling & Kupfer, Milano 1987 [ed. or., 1980]. 16   Alvin Toffler e Heidi Toffler, La rivoluzione del benessere, Casini Editore, Roma 2010 [ed. or., 2006].

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buito che si affianca agli altri due: quello retribuito e quello che riguarda la cura di se stessi, della propria famiglia e della propria abitazione. Le attività svolte in tale nuovo tipo di lavoro sono moltissime. Le aziende di software fanno abitualmente testare ai consumatori le nuove versioni dei loro programmi, ma anche i programmi appartenenti al cosiddetto «software open source» sono frutto del costante lavoro di miglioramento svolto da tante anonime persone. Così come il motore di ricerca Google produce valore facendo lavorare il suo miliardo di utenti, i quali con le loro ricerche danno vita alle gerarchie di siti Internet presentate. Il mondo del giornalismo chiede invece in maniera crescente ai propri lettori di trasformarsi in reporter impiegando il telefonino che consente di fare fotografie oppure realizzando veri e propri video d’informazione. Le aziende non si limitano tuttavia a chiedere alle persone di contribuire alla produzione di prodotti o servizi, bensì trasferiscono loro anche una parte delle attività lavorative più importanti: quelle di tipo strategico e di tipo promozionale. Nel primo caso, il consumatore viene addirittura spinto a contribuire alla progettazione e alla ideazione dei nuovi prodotti. Ciò oggi può avvenire grazie a Internet, che rende possibile la nascita di comunità di appassionati di prodotti e marche, i quali possono essere stimolati e coinvolti affinché partecipino alla creazione o al miglioramento dei prodotti. Lo fanno abitualmente aziende come Lego, Mattel, BMW, Harley-Davidson, Boeing, Honda, Nokia, Philips, Ducati. Anche Fiat ha chiesto ai consumatori di contribuire alla creazione della sua ultima versione della 500, ricevendo moltissime proposte. Altre aziende fanno sempre più ricorso per la loro attività di ricerca a siti Internet professionali come InnoCentive, NineSigma o YourEncore, dove scienziati e ricercatori universitari si incontrano per cercare di risolvere in cambio di un compenso i problemi che vengono posti loro. Le aziende infatti non sono più in grado con il loro team interno di ricerca di stare al passo degli elevati tassi di innovazione richiesti dai mercati e devono fare ricorso alla creatività propria di quel «cervello collettivo» che è presente nella Rete. Per le imprese, quindi, la collaborazione esterna sta diventando assolutamente vitale. Ecco dunque perché anche un gigante come Procter & Gamble, pur disponendo al suo interno di circa 9.000 ricercatori, è costretto ad adottare questa soluzione.

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Questo è il risultato della nascita di quella che è stata denominata «wikieconomia»17, cioè un’economia «wiki» (termine hawaiano che significa «rapido») in quanto dotata di un tasso di cambiamento estremamente elevato. Un’economia in cui, in conseguenza di ciò, la maggior parte di quanto è necessario alla gestione delle attività imprenditoriali viene preso a prestito, perché possedere qualcosa rappresenta un vincolo rispetto alla necessità di adeguarsi velocemente ai ritmi accelerati di cambiamento dell’economia e della società. Ma soprattutto un’economia dove l’elevato tasso di cambiamento impone alle imprese di operare sviluppando forme di collaborazione a livello di massa tra di esse e con i consumatori, come succede in Wikipedia, l’enciclopedia disponibile nel Web cui tutti possono liberamente partecipare. Va considerato infine che oggi l’individuo riveste un ruolo importante rispetto alla strategia aziendale anche quando effettua semplicemente il consumo di un prodotto. Ogni sua scelta di mercato lascia infatti inevitabilmente delle tracce informatiche che trasmettono informazioni al sistema produttivo, consentendo a quest’ultimo di sintonizzare meglio le sue strategie. Il consumatore dunque, mentre consuma, produce allo stesso tempo anche delle utili informazioni per la progettazione e la produzione di nuovi prodotti. Inoltre, come si è detto, i consumatori vengono utilizzati dalle imprese anche per promuovere i loro prodotti. Innanzitutto attraverso il «passaparola»: molte aziende, ad esempio, offrono denaro ai numerosi autori di blog affinché parlino dei loro prodotti. Ma non è necessario pagare: negli Stati Uniti, Procter & Gamble possiede la società Tremor, che per far conoscere i prodotti impiega abitualmente un esercito di circa 240.000 adolescenti18. Sono tutti volontari che offrono gratuitamente il loro tempo per partecipare alle campagne promozionali delle marche. La promozione dei prodotti si fa naturalmente soprattutto con i messaggi pubblicitari, e anche in questo caso i consumatori 17   Don Tapscott e Anthony D. Williams, Wikinomics. La collaborazione di massa che sta cambiando il mondo, Rizzoli-Etas, Milano 2007 [ed. or., 2006] e Don Tapscott e Anthony D. Williams, Macrowikinomics. Riavviare il sistema: dal business al mondo, Rizzoli-Etas, Milano 2010 [ed. or., 2010]. 18   Rob Walker, Persuasori occulti, «Internazionale», n. 582, 18 marzo 2005.

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offrono spesso un contributo decisivo. Ad esempio, scegliendo tra diversi spot o impiegando materiali messi a disposizione dalle aziende per elaborare autonomamente gli spot pubblicitari. Ma accade sempre più spesso anche che le imprese deleghino completamente ai consumatori la creazione della loro comunicazione pubblicitaria. In tutti questi casi, i consumatori sono soddisfatti perché hanno la possibilità di vedere riconosciuta pubblicamente la loro creatività. Ma possono esserlo anche perché credono in un determinato progetto, sentono degli obblighi verso gli appartenenti a una determinata comunità presente in Internet, vogliono migliorare la propria reputazione nei loro confronti, cercano di mettere alla prova e affinare le proprie capacità, desiderano mettersi in luce o semplicemente provano a coltivare una passione19. E naturalmente sono soddisfatti anche quando creano spontaneamente degli spot o comunque dei filmati sui loro prodotti preferiti che poi YouTube e altri siti Internet similari consentono di far arrivare a milioni di persone. Dunque, grazie anche alle nuove tecnologie di comunicazione, è evidente che tra l’impresa e i consumatori si sta producendo una situazione di crescente commistione, della quale l’impresa approfitta per chiedere ai consumatori di svolgere una parte del suo lavoro. Anche perché si trova sempre più di fronte a consumatori competenti che fa fatica a comprendere e che non sa con quali canali sia possibile raggiungere nella maniera più efficace. Meglio, allora, che siano i consumatori stessi a produrre le forme di comunicazione rivolte loro. Insomma, appare evidente oggi che «il taylorismo non è morto, si è evoluto, passando dal disciplinamento del corpo al disciplinamento della mente»20. Non c’è da meravigliarsi pertanto se in Occidente, come è stato evidenziato da numerose ricerche condotte dagli psicologi, i livelli individuali di stress e insoddisfazione fanno registrare un continuo incremento. A ciò si aggiunge

  Sull’argomento si vedano Yochai Benkler, La ricchezza della rete, Università Bocconi, Milano 2007 [ed. or., 2007] e Jeff Howe, Crowdsourcing. Il valore partecipativo come risorsa per il futuro del business, Luca Sossella, Roma 2010 [ed. or., 2009]. 20   Carlo Formenti, Felici e sfruttati. Capitalismo digitale ed eclissi del lavoro, Egea, Milano 2011, p. 55. 19

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l’ansia determinata dal fatto che le persone hanno la percezione di avere sempre meno tempo a disposizione per poter fare quello che desidererebbero. Certo, a ciò contribuisce anche l’odierna industria del tempo libero, che produce in continuazione seducenti proposte di occupazione del tempo personale. Ma il problema primario, proprio come ha sostenuto Alvin Toffler, è che il consumatore appare essere sempre più occupato a svolgere il suo nuovo «terzo lavoro».

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L’iraniano Mehran Karimi Nasseri ha vissuto dall’agosto 1988 al luglio 2006 dentro il Terminal 1 dell’aeroporto Charles De Gaulle di Parigi perché aveva perso i documenti necessari a essere ospitato da qualche paese. La sua storia ha dato origine a un libro, diversi documentari e due film, l’ultimo dei quali – The Terminal (2004) – ha avuto un notevole successo di pubblico, anche grazie alla direzione del regista Steven Spielberg e alla presenza dell’attore Tom Hanks. Vivere diciotto anni dentro un aeroporto è faticoso, ma è possibile perché oggi in fondo un aeroporto è come un centro commerciale e i centri commerciali sono simili alle città. La regola infatti per i centri commerciali odierni è di riprodurre l’aspetto del centro urbano e ciò costituisce probabilmente una delle principali ragioni del loro successo. Anzi, il centro commerciale è percepito come migliore della città da cui proviene perché questa spesso spaventa con il suo carico di real­ tà, con l’urgenza dei suoi problemi concreti. È molto meglio la replica della metropoli costruita dentro il centro commerciale, la quale rassicura con la sua perfezione e la sua capacità di sfuggire all’usura fisica, e viene percepita dunque come qualcosa che si colloca fuori dal tempo, in quella dimensione ideale che è propria del sogno. Nessuna meraviglia, allora, se da tempo a Los Angeles il centro è diventato totalmente artificiale grazie a City Walk, un’area pedonale costruita nel sobborgo di Universal City e rapidamente diventata il quartiere più affollato. Su di essa si affacciano negozi, ristoranti, attrazioni ludiche e riproduzioni delle più celebri architetture della metropoli californiana. City Walk non è dunque soltanto un centro commerciale, ma anche un parco divertimenti e soprattutto una realtà urbana maniacalmen-

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te riprodotta (sino all’estremo di inserire nella pavimentazione involucri di caramelle che sembrano essere state scartate da altri visitatori). Essa vuole rappresentare l’essenza migliore della metropoli, del tutto liberata da quella frenesia e quella violenza che sono connaturate ad essa. Non è un caso perciò che le metropoli oggi si rinnovino avendo in mente le loro rielaborazioni presenti nei centri commerciali. Ne deriva un gioco di rispecchiamento reciproco che spiega il successo che le metropoli continuano ad avere in tutto il pianeta. Siamo cioè di fronte allo sviluppo di un processo di progressiva «metropolizzazione della società» e alla nascita di una vera e propria «ipermetropoli», benché tale processo appaia essere filtrato da quelle reinterpretazioni che i centri commerciali offrono in continuazione. Si può pertanto sostenere che nell’odierna epoca ipermoderna «il museo assomiglia all’aeroporto, l’aeroporto alla stazione ferroviaria e tutti assomigliano ad uno shopping mall. Persino gli ospedali dell’ultima generazione, nello sforzo di creare ambienti privi di stress, rasserenanti e rigenerativi, strizzano l’occhio alle gallerie commerciali»1. Insomma, l’intera vita sociale, urbana ed extraurbana, sembra svolgersi sempre più sotto l’influenza del modello di centro commerciale. La crescente importanza della metropoli Il processo di metropolizzazione della società si è avviato in conseguenza di quel nuovo assetto organizzativo che il sistema capitalistico si è dato a seguito dello sviluppo della seconda rivoluzione industriale nella seconda metà dell’Ottocento. Tale processo rappresenta infatti il tentativo del capitalismo di razionalizzare anche i rapporti sociali subito dopo aver messo a punto una razionalizzazione dei rapporti produttivi. Nel Novecento, però, il processo di metropolizzazione ha continuato a manifestarsi e oggi non accenna ad esaurirsi, estendendo progressivamente la sua area di espansione alle altre aree del pianeta. Cosicché nel 2007 gli

1  Giandomenico Amendola (a cura di), La città vetrina. I luoghi del commercio e le nuove forme del consumo, Liguori, Napoli 2006, p. 1.

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abitanti delle città hanno per la prima volta superato quelli delle zone rurali e il loro numero continua ad aumentare2. La crescente metropolizzazione del sociale ha innanzitutto comportato per gli individui un’esperienza di disorientamento. A partire dall’Ottocento si è verificato, infatti, un aumento della mobilità geografica e sociale delle persone, in quanto larghi strati di popolazione rurale si sono recati per la prima volta a vivere nelle nascenti grandi città. Queste si sono in tal modo gonfiate enormemente, creando in misura crescente un mondo di estranei nel quale i modelli di comportamento e di vita dei soggetti non erano più correlati ai ritmi umani e naturali dell’esistenza comunitaria, ma dovevano invece sintonizzarsi con i ritmi accelerati dei nuovi mezzi di comunicazione di massa e delle merci. Pertanto, Simmel, all’inizio del Novecento, ha potuto sostenere che l’esperienza metropolitana è caratterizzata da una «intensificazione della vita nervosa, che è prodotta dal rapido e ininterrotto avvicendarsi di impressioni esteriori e interiori»3. Gli individui per difendersi dalla nuova «tempesta emozionale» hanno allora cominciato ad adottare una strategia di «raffreddamento» dei rapporti sociali. Da ciò è derivato, secondo lo stesso Simmel, quell’atteggiamento di distacco che è tipico del soggetto che vive nella condizione metropolitana. E che si sviluppa proprio come una forma di reazione all’incapacità di reagire ai nuovi stimoli, alle richieste e alle aspettative degli altri. Nelle nuove metropoli ottocentesche tuttavia è stata centrale anche l’esperienza della folla, cioè la necessità di sperimentare un continuo contatto con grandi masse di persone. La folla, infatti, mette in discussione la specifica identità del singolo individuo, sebbene al tempo stesso tenda ad attribuire a quest’ultimo la sensazione di poter trovare al suo interno difesa e protezione. Un altro importante aspetto che caratterizza la condizione metropolitana sviluppatasi a partire dall’Ottocento è stato il formarsi del concetto di tempo libero, conseguente alla progressiva riduzione dell’orario di lavoro diffusasi in tutti i paesi industrializzati. 2   Luigi Bignami, Il sorpasso: più gente in città che in campagna, «la Repubblica», 24 maggio 2007. 3   Georg Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, Armando, Roma 1995 [ed. or., 1903], p. 36.

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In precedenza, le ore di non-lavoro costituivano un tempo collettivo di festa regolato principalmente dalle istituzioni religiose. Il nuovo tempo libero è invece sempre più diventato tempo di consumo, vale a dire tempo disponibile per consumare prodotti generici e quelli delle industrie dello spettacolo e del divertimento. D’altronde, l’espansione progressiva della cultura del consumo ha rappresentato uno dei principali motori del processo di metropolizzazione. La produzione industriale di beni aveva infatti bisogno dello sviluppo di una popolazione di massa che fosse in grado di esprimere una domanda adeguata. Nel corso del Novecento il processo di metropolizzazione del sociale si è ulteriormente sviluppato. Infatti, se nell’anno 1900 le città con oltre un milione di abitanti erano 11, oggi sono diventate più di 400. Questo processo è stato possibile anche perché negli ultimi decenni si è sviluppato un progressivo declino del centro della città storica, con una conseguente fuga degli abitanti verso la periferia. Il centro storico si è addirittura decomposto sul piano fisico, estendendosi progressivamente nell’ambiente circostante e dando vita ad agglomerati urbani informi e alla nuova realtà della «metropoli diffusa» sul territorio, o meglio alla «città territorio»4. Spesso lo spostamento della popolazione è avvenuto verso le cosiddette «edge cities», cioè le città costruite ai margini delle metropoli: Sorte per impulso degli speculatori come appendici urbane in aree dove minore era il costo dei suoli e maggiori i fattori naturali di trazione, queste città si sono affermate grazie al fatto che potevano offrire qualcosa di diverso rispetto alla metropoli. In queste «città extraurbane» la vita è certamente piacevole e presenta meno problemi di quella nella città tradizionale. La edge city offre verde ed aria pulita, vicinanza all’ufficio visto che gran parte delle aziende sta abbandonando la città tradizionale per inseguire i dipendenti, garantisce un posto di lavoro circondato dal verde, scuole nuove e funzionanti e, soprattutto, un vicinato che è in genere socialmente omogeneo e fatto ad immagine e somiglianza del residente5.

4   Antoine Picon, La ville territoire des cyborgs, Les éditions de l’imprimeur, Besançon 1998. 5   Giandomenico Amendola, La città postmoderna. Magie e paure della metropoli contemporanea, Laterza, Roma-Bari 20107, p. 15.

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Il risultato di tutto ciò è stato un enorme processo di sviluppo della città sul suo territorio. Negli Stati Uniti, ad esempio, una persona su due vive oggi nella periferia suburbana. E in Italia, poco a nord di Milano, in un territorio che è compreso tra l’aeroporto di Malpensa e quello di Orio al Serio, vivono quasi 5 milioni di abitanti e hanno sede circa 500.000 imprese6. Si tratta dunque di una città di dimensioni nettamente superiori a quelle di Milano. È andato perciò in crisi quel modello di città che è stato perseguito in passato dalla cultura europea, razionalmente progettato in tutti i particolari a partire da un centro che contiene dei monumenti in grado di simboleggiare l’autorità religiosa e quella civile e che costituisce il vertice di una piramide che distingue nettamente e gerarchizza le diverse zone urbane: centro, periferia residenziale, zone industriali, ecc. Il centro città tende invece oggi a indebolire il suo ruolo e a essere sempre più consumato come uno spettacolo nostalgico di cui gli abitanti della periferia vanno a fruire con un certo distacco nel fine settimana, mentre la periferia diventa per gli individui il nuovo polo di elaborazione dell’identità, la quale non dipende dall’importanza dei monumenti e della storia che ci si è lasciati alle spalle, ma dalla vita e dai rapporti sociali che i luoghi consentono di praticare. Il modello che appare sempre più vincente è perciò quello che l’architetto Rem Koolhaas ha chiamato «junkspace»7. Si tratta di una realtà urbana sviluppatasi senza un progetto, costruita autonomamente e spesso caratterizzata da una situazione di totale abusivismo. In metropoli come Città del Messico, Rio de Janeiro, Los Angeles, a fianco di una ristretta élite che vive in condizioni di agiatezza, abita infatti una moltitudine di persone che si sono mosse dalla campagna con la speranza di trovare migliori condizioni di vita, ma che hanno incontrato invece molte difficoltà e hanno potuto soltanto ottenere di sopravvivere all’interno di enormi agglomerati di cartone e lamiera. Secondo le stime delle analisi effettuate dalle Nazioni Unite, si tratta com-

6   Aldo Bonomi e Alberto Abruzzese (a cura di), La città infinita, Bruno Mondadori, Milano 2004. 7   Rem Koolhaas, Junkspace, Quodlibet, Macerata 2006.

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plessivamente di più di un miliardo di persone, che dovrebbero diventare 2 miliardi entro il 2030 e 3 miliardi entro il 20508. Sebbene la cultura occidentale abbia solitamente la tendenza a considerare queste aree abitative come marginali, precarie e destinate alla scomparsa, esse costituiscono oggi una realtà fondamentale della vita metropolitana. Anche perché spesso non sono sinonimo di una condizione abitativa temporanea, ma, al contrario, configurano una condizione duratura, in quanto l’alloggio abusivo, per chi ci vive, è il massimo possibile e rappresenta comunque un notevole miglioramento del comfort di vita rispetto al passato. Le aree periferiche delle città si sviluppano in genere attraverso un processo di fusione progressiva, incorporando e trasformando lo spazio circostante. Mancando di quel centro storico che caratterizza le città europee tradizionali, evidenziano la presenza non di un ordine organizzato razionalmente attorno a un centro, ma di una struttura simile a quella del palinsesto televisivo, basata sulla giustapposizione di elementi differenti, o, ancora meglio, simile a quella di Internet. Persino i centri storici tradizionali subiscono l’influenza di questo modello e tendono oggi a essere caratterizzati dallo stesso tipo di organizzazione caotica basata sull’unione di frammenti disomogenei. Tende dunque sempre più ad avverarsi quello che pensava Walter Benjamin di fronte allo sviluppo confuso di metropoli come Berlino e Parigi e cioè che «La città è la realizzazione dell’antico sogno umano del labirinto»9. Tutto ciò è soprattutto il frutto del rifiuto sociale di quello specifico modello abitativo che è stato perseguito dal movimento architettonico moderno, un modello progettuale di tipo razionale e in grado di rispondere a un interesse generale. Questo avviene probabilmente perché le società sono sempre più frammentate e non esiste più una vera civitas urbana: si sente sempre meno il bisogno di quelle piazze e strade che erano indispensabili per il funzionamento del modello moderno di collettività sociale. Ma anche perché tale modello proponeva un progetto subordinato a un principio di tipo funzionalistico il quale, sacrificando ogni cosa al valore supremo della razionalità e dell’efficienza, ha di   Sabina Minardi, Il pianeta degli squatter, «L’Espresso», 8 febbraio 2007.   Walter Benjamin, Parigi, capitale del XIX secolo. I «passages» di Parigi, Einaudi, Torino 1986 [ed. or., 1982], p. 560. 8 9

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fatto impoverito la capacità degli spazi urbani di esprimere dei significati. Infatti, soprattutto negli anni Sessanta e Settanta, nelle periferie delle grandi metropoli sono nati numerosi edifici che sembravano semplicemente cubi, tutti assolutamente uguali. Si pensi, ad esempio, alla povertà espressiva di quelle abitazioni che si trovano nella periferia di Londra e che registi come Ken Loach e Mike Leigh hanno efficacemente messo in luce in alcuni loro film. Diversi fattori contribuiscono a favorire lo sviluppo dei sobborghi e a togliere al centro urbano il suo potere di aggregazione e di attribuzione d’identità: lo spostamento fuori città dei luoghi di lavoro, l’indebolimento dell’identità posseduta dai luoghi pubblici tradizionali e la tendenza a sviluppare dei raggruppamenti sociali basati sulle differenti etnie che vivono nelle metropoli. Il declino della città storica europea è inoltre frutto di quella crescente ossessione sociale per la circolazione la quale tende a sviluppare soprattutto le aree territoriali che, grazie alle nuove linee di trasporto ad alta velocità (ferroviarie e automobilistiche), favoriscono gli spostamenti di merci e persone. Ecco perché è fuori dagli insediamenti urbani che vengono da tempo costruiti i centri commerciali e gli altri luoghi del consumo e del divertimento, i quali funzionano a loro volta come potenti magneti e come «superluoghi» in grado di dominare il territorio circostante10. Non a caso il loro successo negli ultimi decenni è stato travolgente. In Nord America e in Europa probabilmente il fenomeno sta arrivando oggi alla sua fase di maturità, ma si pensi che in India nel 1999 c’erano 3 centri commerciali, mentre oggi se ne trovano circa 300. E la Cina possiede attualmente 7 dei 10 centri commerciali più grandi del mondo. In Italia invece operano oggi circa 1.000 centri commerciali, e tra questi I Gigli, situato vicino a Firenze, riesce ad attirare 6 milioni di visitatori all’anno11. Se la città prevista dal progetto moderno ha progressivamente indebolito la sua identità è anche perché il suo sviluppo abnorme ha dato origine a problemi insormontabili di gestione e razionalizzazione dei flussi circolatori: ingorghi del traffico automobilistico, 10   Sull’argomento si veda Matteo Agnoletto, Alessandro Delpiano e Marco Guerzoni (a cura di), La civiltà dei superluoghi, Damiani, Bologna 2007. 11   Fabrizio Bottini, I nuovi territori del commercio. Società locale, grande distribuzione, urbanistica, Alinea, Firenze 2005.

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impossibilità di parcheggiare, inquinamento dell’ambiente, furti, atti di violenza, ecc. Si è così reso necessario creare degli spazi immuni dai principali problemi urbani: i nuovi luoghi del consumo. Oasi di pace e di felicità dove ci si può rendere anonimi, isolare dal caos urbano e riparare dalle intemperie, ma dove si è anche sorvegliati per poter usufruire di una condizione di massima sicurezza. I comportamenti devianti, infatti, qui sono proibiti e tutto viene costantemente tenuto sotto controllo. Così i luoghi del consumo diventano con sempre maggior frequenza delle vere e proprie fortezze. Negli Stati Uniti, anche i piccoli negozi, soprattutto dopo i tumulti scoppiati a Los Angeles nel 1992 durante i quali molti di essi furono dati alle fiamme, si sono dotati di vetrine blindate, porte anti-sfondamento, materiale ignifugo e dispositivi di allarme. Inoltre, il consumatore viene continuamente sorvegliato mediante telecamere e la sua immagine è registrata e trasmessa, se necessario, agli archivi della polizia. Dunque, è anche l’intero spazio pubblico urbano ad essere sempre più «privatizzato» e «militarizzato». Il particolare sviluppo che ha interessato Los Angeles nel corso del Novecento esemplifica molto bene questo processo. Già a partire dagli anni Venti, infatti, vi si è messa in atto una strategia tesa alla «deurbanizzazione» e basata sullo sviluppo di zone residenziali decentrate dotate di corpi privati di polizia e in grado di garantire alla classe media un riparo dalle tensioni imposte dalla convivenza razziale. Non è un caso pertanto che la rete ferroviaria sia stata progressivamente smantellata mediante una politica governativa di prezzi alti che ha favorito lo sviluppo di una rete di autostrade di collegamento gratuite e facilmente accessibili (le cosiddette «freeways») e conseguentemente dell’impiego di mezzi di trasporto privati come le automobili. La decisione con cui l’ossessione per la sicurezza personale ha portato Los Angeles a perseguire la sua strategia di «deurbanizzazione» ha consentito a studiosi come Mike Davis, David Harvey e Fredric Jameson di considerare tale metropoli come un modello urbano fondamentale, grazie alla sua sterminata successione di bungalows in decadimento e di bassi villini stile ranch, dove non c’è più nessuna soluzione di continuità tra il centro e la periferia, tra la città legale e la metropoli abusiva, tra i quartieri residenziali e i luoghi di lavoro. Non a caso, l’esempio di Los Angeles si va

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sempre più diffondendo nel mondo con la moltiplicazione delle cosiddette «gated-communities» (comunità-fortezza). Negli Stati Uniti, ad esempio, vi risiedono circa 15 milioni di persone12. La città-spettacolo City Walk, il centro artificiale di Los Angeles, non è che una piccola parte di questa metropoli, ma ciò che molte metropoli oggi cercano di fare è trasformarsi nella loro interezza in una realtà di tipo spettacolare, caratterizzata da una continua produzione di eventi in grado di attribuirle un’identità alla moda. Un’identità effimera eppure efficace, perché la città diventa più piacevole, dunque più «vendibile», se viene animata attraverso l’offerta di innovazioni, di variazioni in grado di suscitare un effetto sorpresa. Si tratta d’altronde di quello stesso modello che era stato adottato nel Seicento e nel Settecento dalle città barocche europee, dove si trasformavano le piazze e i palazzi in palcoscenici teatrali in grado di legittimare, con le loro sorprendenti rappresentazioni, il potere detenuto dal principe e dalla Chiesa. Gli spettacoli che si svolgevano nelle città barocche avevano però dei confini ben delimitati in termini di tempo (carnevale o feste particolari) e luogo (teatri o determinate piazze), ma soprattutto per il ruolo specificamente riservato ai protagonisti attivi e al pubblico passivo. Ciò che è accaduto invece dall’Ottocento in poi è che nelle città lo spettacolo non è più confinato in momenti definiti o in luoghi chiusi specificamente dedicati, ma si è ampiamente diffuso. È saltata dunque ogni distinzione tra la scena e la platea, tra quello che viene ammirato e coloro che ammirano. Lo spettatore è immerso nello spettacolo ed è egli stesso attore. L’intera città diventa perciò una specie di enorme vetrina dove ciascuno è continuamente esposto e ha acquisito il diritto di esibirsi e affermarsi. Il processo in corso di trasformazione della città tradizionale è frutto anche della crescente importanza dei flussi economici e comunicativi, che tendono progressivamente a creare un unico grande mercato in grado di consentire la loro libera circolazione.

12   Vittorio Zucconi, Nel 1989 la prima “gated” in California. Da allora l’esempio si è moltiplicato, «la Repubblica», 20 gennaio 2011.

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Va considerato del resto che ciò è possibile perché nello spazio metropolitano gli individui, pur essendo spesso distanti tra loro, sviluppano relazioni sociali e commerciali intense proprio grazie all’impiego delle nuove tecnologie di comunicazione. Nasce così una città puramente comunicativa, che è priva di territorio e si sovrappone alle città e alle metropoli esistenti, senza provocarne però la scomparsa. Ne deriva che la città si presenta insieme come sistema territoriale locale e punto di contatto di reti globali. È attraversata cioè da due spazialità diverse: quella fisico-territoriale di prossimità e quella virtuale e sovralocale delle reti. Questa seconda spazialità si fonda sostanzialmente sulla sovrapposizione di tre strati: quello tecnico, costituito dal circuito degli impulsi elettronici che formano il supporto materiale della rete; quello geografico, cioè la topologia dello spazio formato dai suoi nodi e centri; quello sociale, vale a dire l’organizzazione spaziale delle persone che fruiscono del network13. Alcune grandi metropoli, che sono dotate delle attrezzature per le telecomunicazioni e delle grandi arterie di trasporto terrestre o aereo a grande velocità, possono più facilmente adottare questo modello di città comunicativa e inserirsi così nel flusso globale delle comunicazioni. Anzi, proprio in virtù della crescente fusione di queste metropoli con i flussi attivi nella società, si è formata una rete omogenea di «megacittà globali» (Parigi, Londra, New York, Los Angeles, Tokyo, ecc.) in grado di rispondere alla «maggiore esigenza di centralizzazione delle funzioni di controllo e gestione»14. Tale rete, pertanto, incentiva e coordina la circolazione internazionale di capitale, merci, pubblicità, moda, design, arte, musica e cinema. Conseguentemente, le metropoli che ne fanno parte appaiono agli occhi dei consumatori come attraenti. Anche perché si presentano come un susseguirsi ininterrotto di negozi e concept stores, cioè di spazi che traducono sul piano fisico i mondi immateriali delle marche. In molti casi hanno trasformato i loro centri storici in enormi centri commerciali «a cielo aperto». Hanno rimesso a nuovo la loro zona centrale, liberandola dai residenti più anziani e indigenti per fare posto ai ceti medi abbienti,   Manuel Castells, Galassia Internet, Feltrinelli, Milano 2002 [ed. or., 2001].   Saskia Sassen, Città globali. New York, Londra, Tokyo, Utet, Torino 1997 [ed. or., 1991], p. 5. 13 14

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restaurandone gli edifici e installandovi luoghi fortemente spettacolari (ristoranti e locali di intrattenimento, alberghi, musei, centri commerciali). La città ha così progressivamente rinunciato alle sue funzioni produttive tradizionali, trasferite altrove, ed è diventata un centro di produzione delle attività finanziarie e dei nuovi servizi, ma, soprattutto, è stata resa luccicante come una vetrina e un oggetto di moda da consumare. Ciò vale per le città ricostruite, come Berlino, Dresda o il centro storico di Varsavia, ma anche per le città che sono state semplicemente trasformate, come ad esempio Barcellona o Praga. Insomma, come i mezzi di comunicazione tendono incessantemente a inseguire la loro audience, così anche le città cercano di rincorrere la loro domanda. È evidente, dunque, che «per la prima volta, la domanda di città sta diventando il criterio fondamentale con cui la città produce se stessa»15. Solitamente però tutte le città inseguono lo stesso tipo di domanda turistica, che ricerca ostinatamente l’evasione, il divertimento e la possibilità di consumare, con la conseguenza che finiscono per annullarsi le differenze specifiche tra le città. Non ci sono più, infatti, particolari monumenti a caratterizzare l’identità di ogni singolo aggregato urbano e viene distrutta ogni possibilità di esistenza di una memoria storica, perché si perde il risultato della sedimentazione progressiva delle epoche. I nuovi edifici sono sempre più simili tra loro, anche perché vengono realizzati con materiali neutri come il vetro. Il che è il risultato anche del predominio di una cultura del consumo che ha bisogno di favorire al massimo gli scambi e i flussi del commercio e non tollera identità solide e radicate, ma vuole invece identità «leggere» che cambiano al mutare sempre più rapido delle mode. Ne deriva che gli edifici si fanno anche «iconici»16, cioè puri oggetti di comunicazione completamente estranei al contesto in cui si trovano e capaci di attirare con forza l’attenzione su di sé. Non è un caso pertanto se la californiana Disneyland, il primo parco a tema al mondo, ha saputo operare come un importante 15   Giandomenico Amendola, La nuova domanda di città: un oscuro oggetto di desiderio, in Antonietta Mazzette (a cura di), La città che cambia. Dinamiche del mutamento urbano, FrancoAngeli, Milano 1998, p. 51. 16   Il concetto è stato sviluppato in Charles Jencks, Iconic Building: The Power of Enigma, Frances Lincoln, London 2005.

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modello di riferimento urbanistico per le città occidentali. La sua via principale – la Main Street – è stata infatti presa come soluzione da imitare per il rinnovo di numerose cittadine del Midwest degli Stati Uniti. E si può anche parlare di «disneyzzazione»17, un concetto che prevede che i principi regolanti il funzionamento dei parchi a tema disneyani diano vita a un modello in grado di accrescere il fascino di beni e servizi e perciò adottato in maniera crescente dalle società occidentali e dai loro principali ambiti d’azione, come la progettazione delle città, dei centri commerciali, dei musei e delle istituzioni sociali. Le città di grandi dimensioni dunque si «disneyzzano». Si riempiono di giochi e spazi spettacolari, si illuminano e si ristrutturano. Entrano perciò nei processi di produzione di un’economia che è sempre più incentrata sull’immateriale, sull’evento destinato ad estinguersi e sul software. D’altronde, la stessa Disney costruendo Celebration, cittadina della Florida di 20.000 abitanti, o la zona simile di Val d’Europe, che si trova nei pressi della Disneyland parigina, ha fornito alcuni esempi di come sia possibile dar vita a un centro urbano «disneyzzato». Un centro che, come Celebration, con le sue architetture in stile fine Ottocento e una musica rilassante che invade le vie e le piazze, proietta immediatamente in un mondo di fiaba dove non c’è bisogno di proteggersi e i bambini possono giocare tranquilli e sereni nei giardini delle villette. Siamo tutti abitanti di Las Vegas e Dubai Il processo di metropolizzazione è inarrestabile e oggi invade persino lo spazio più vuoto che esista: il deserto. Las Vegas e Dubai ne sono una testimonianza evidente. La prima si è sviluppata nel deserto del Nevada e deve convivere con un clima pessimo: caldo torrido d’estate e freddo gelido d’inverno. Possiede però abbondanti riserve d’acqua nel sottosuolo e pertanto a partire dagli anni Venti ha avuto un grande sviluppo, grazie soprattutto ad alcuni gruppi di gangster che vi hanno investito per realizzare

17   Alan Bryman, The Disneyzation of Society, Sage, London-Thousand Oaks 2004.

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strutture stabili destinate al gioco d’azzardo; Las Vegas è diventata la prima città al mondo ad esso completamente dedicata dopo la sua legalizzazione da parte dello Stato del Nevada nel 1931. L’imprenditore-gangster Benjamin Siegel ha inaugurato nel 1946 l’hotel casinò Flamingo, al quale ne sono seguiti molti altri, che hanno adottato lo stesso innovativo stile architettonico moderno che ha fatto di Las Vegas una realtà urbana unica e assolutamente spettacolare. Lo dimostra il fatto che quando negli anni Cinquanta l’esercito statunitense ha selezionato un’area che si trovava a circa cinquanta miglia a nord della città per effettuare dei test nucleari, i turisti non si sono spaventati e gli intraprendenti gestori dei casinò hanno trasformato l’evento in uno spettacolo, offrendo per esempio la possibilità di fare una colazione con vista sull’esplosione della bomba atomica. Nel decennio successivo, un altro personaggio importante della storia di Las Vegas, Jay Sarno, ha fatto costruire due alberghi a tema innovativi: nel 1966 il Caesars Palace, ispirato all’antica Roma, e nel 1968 il Circus Circus, basato sul mondo equestre. Forse per contrastare la povertà semantica del deserto circostante, in quegli anni a Las Vegas il ruolo da protagonista nello spazio urbano non era rivestito dalle tradizionali architetture in muratura, ma da complesse architetture comunicative: le insegne pubblicitarie basate su scritte al neon e disegni luminosi in movimento. In seguito però le insegne e le luci al neon hanno parzialmente ridotto la loro importanza e sono state sviluppate altre architetture estremamente scenografiche: l’hotel Mgm (la cui enorme testa di leone fa immediatamente capire che ha per tema il mondo del cinema hollywoodiano), l’hotel Luxor (con una gigantesca replica della Sfinge di Giza e una piramide di vetro nero alta 106 metri e larga 200 e dunque grande quasi quanto la piramide di Cheope in Egitto), l’hotel Excalibur (con le sue torri medievali), l’hotel Mirage (che ricrea l’atmosfera di un paradiso tropicale con un vulcano che ogni 15 minuti si esibisce in una spettacolare eruzione) e l’hotel Treasure Island (ispirato al celebre romanzo di Stevenson e con un ambiente di sapore caraibico e due velieri che ogni ora si combattono a colpi di cannonate). Un altro edificio altamente spettacolare è quello del New York, New York, un albergo che riproduce i luoghi più significativi della grande metropoli americana (un Central Park ricoperto di foglie

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finte, Wall Street, Chinatown, Soho, Little Italy, l’Empire State Building, il Chrysler Building, Times Square, la Statua della Libertà e il ponte di Brooklyn) ed è attraversato da un ottovolante le cui vetturette corrono a 110 chilometri all’ora tra i grattacieli artificiali. Si tratta di una riproduzione così credibile di New York che dopo la tragedia delle Twin Towers dell’11 settembre 2001 molte persone hanno cominciato a portare mazzi di fiori e fotografie ai piedi della copia della Statua della Libertà. Il Bellagio invece è un albergo di 3.000 stanze che ha le sembianze della caratteristica cittadina italiana che si affaccia sul lago di Como (qui riprodotto con 83 milioni di litri d’acqua) e mette in mostra veri dipinti di Van Gogh, Monet, Cézanne, Matisse, Picasso e Pollock, nonché 1.100 fontane e fontanelle che zampillano al suono della voce di Pavarotti. L’elevato livello di familiarità posseduto dall’ambiente urbano rende probabilmente più facile un’immedesimazione con una riproduzione di quest’ultimo, così tra gli altri spettacolari alberghi che hanno recentemente arricchito la dotazione di Las Vegas si segnalano anche il Venetian, costruito ad imitazione di piazza San Marco a Venezia, e il Paris, che possiede invece una riproduzione della torre Eiffel alta 50 piani con ristorante gourmet in cima e un tipico luogo parigino come gli Champs Elysées. All’inizio degli anni Settanta, Las Vegas era una città invasa da quelli che venivano chiamati «decorated sheds»18 (capannoni decorati), cioè edifici elementari con superfici piane riccamente decorate da insegne luminose, più numerosi dei «ducks» (papere), ovvero gli edifici della tradizione architettonica, i quali sono concepiti come sculture in grado di esprimere la propria funzione. Le insegne bidimensionali finivano insomma per essere più importanti dei veri edifici. Come si è visto, da diversi anni a Las Vegas è in corso invece un ritorno ai ducks. Parallelamente, Il vistoso neon dell’hotel Golden Nugget su Freemont Street è stato rimosso e sullo Strip il neon viene rimpiazzato dal LED o dai 18   Robert Venturi, Denise Scott Brown e Steven Izenour, Imparare da Las Vegas. Il simbolismo dimenticato della forma architettonica, Quodlibet, Macerata 2010 [ed. or., 1972].

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suoi equivalenti a incandescenza. I pixel mobili permettono di avere immagini e figure sempre diverse, in linea con l’ethos multiculturale dell’era dell’informazione in cui viviamo19.

Las Vegas inoltre, per allargare il suo mercato, ha cercato negli ultimi anni di aggiungere alla sua dimensione di città del vizio e del gioco d’azzardo quella di città dello spettacolo e del divertimento per famiglie. In realtà, però, la città impiega attualmente di tutto per attirare l’attenzione: giochi d’azzardo, sesso, lusso, design, tecnologia, ecc. Oppure grandi chef come Alain Ducasse, spettacoli unici (da Le Cirque du Soleil a Céline Dion) e capolavori d’arte (da Van Gogh a Picasso). Il caso di Las Vegas sembrava destinato a essere unico e invece ha fatto scuola. Negli Stati Uniti spesso le zone suburbane non sono che delle Las Vegas in miniatura. Sono cioè territori nati spontaneamente (spesso lungo una strada), senza una storia alle spalle, privi di una chiara organizzazione di tipo urbanistico e costellati di decorated sheds. Ma a portare avanti il modello di Las Vegas sono state soprattutto grandi zone urbane che si stanno sviluppando un po’ ovunque sul pianeta. Come ad esempio Lagos, Singapore, Pechino, Abu Dhabi e gli altri emirati arabi. È però Dubai a essere oggi la realtà urbana più simile a Las Vegas. Da diversi anni ha adottato infatti lo stesso modello di cittàspettacolo venuta su dal nulla, cioè da aride sabbie cotte dal sole che vengono progressivamente urbanizzate. Così vi troviamo enormi centri commerciali, 600 grattacieli e più di 300 alberghi, generalmente lussuosi e spettacolari, a cominciare dall’Atlantis, dove è possibile dormire in stanze nelle quali al di là di una parete di vetro diversi squali scorrazzano in un enorme acquario. Ma vi sono anche attrazioni come il Burj Khalifa, il grattacielo che con i suoi 828 metri è di gran lunga il più alto del mondo, e lo Ski Dubai, un enorme padiglione dove si può sciare su neve vera, mentre fuori solitamente di giorno il termometro supera i quaranta gradi. Nell’attiguo St. Moritz Cafè, arredato come uno chalet di montagna e con un finto caminetto acceso, si può anche gustare una tipica fonduta svizzera. Nella città il 12 gennaio di ogni anno si tiene poi l’ormai celebre

  Ivi, p. 215.

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Festival dello Shopping, promosso dai 17 centri commerciali attivi e in grado di attirare in un mese da tutto il mondo circa 4 milioni di consumatori di fascia alta. Dubai ha però anche qualcosa di particolare, perché non è una città come tutte le altre, ma una specie di «città-Stato». O, meglio, è una particolare forma di «non Stato» che consente di vivere in una condizione simile a quella libertà extra-nazionale che caratterizza l’operato delle grandi corporations globali, le quali non a caso investono massicciamente a Dubai. Si presenta, in particolare, come un arcipelago di micro-città indipendenti (Dubai Media City, Dubai Internet City, Dubai Maritime City, Dubai Outsourcing Zone, Dubai Textile City, ecc.) libero da connotazioni politiche, vincoli diplomatici e soprattutto imposizioni fiscali. È quindi una vera e propria città-corporation, che persegue soprattutto delle finalità di tipo economico. Investe cioè enormi risorse, derivanti in parte dal ricavato della vendita del petrolio, allo scopo di ottenere dei profitti. Tutto ciò è possibile grazie alla presenza a Dubai di un’abbondante manodopera a basso costo, proveniente soprattutto dall’India, dal Pakistan, dal Bangladesh, dallo Sri Lanka e dalle Filippine. Sono persone che lavorano di solito dodici ore al giorno per sei giorni e mezzo alla settimana, nel caldo torrido del deserto e per pochi dollari. Una specie di «schiavi contemporanei», vittime di un ricatto economico che si basa sulla loro condizione di stranieri e sul fatto che quando entrano a Dubai viene ritirato loro il passaporto da parte delle agenzie di lavoro e consegnata una carta temporanea di soggiorno che è sponsorizzata dal datore di lavoro o da un cittadino dell’emirato. Così, se perdono il lavoro, devono lasciare immediatamente Dubai. Per questo l’urbanista Mike Davis ha affermato che Dubai rappresenta una nuova fase evolutiva del capitalismo globale, che ha chiamato appunto «lo stadio Dubai del capitalismo»20, dove, a suo avviso, il modello neoliberale è stato portato fino ai suoi massimi livelli e si realizza una paradossale fusione tra il mondo di Walt Disney e quello di Albert Speer, il famigerato architetto di Hitler. Questo perché in realtà dietro un’apparente condizione paradisiaca si nasconde uno Stato autoritario diretto dallo sceicco Mohammed bin Rashid 20   Mike Davis, Le stade Dubaï du capitalisme, Les Prairies ordinaires, Paris 2007.

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Al Maktoum, la cui famiglia è proprietaria dal 1833 del territorio di Dubai. La crisi economica mondiale che è esplosa nel 2008 ha messo in difficoltà questo nuovo modello di evoluzione del capitalismo, ma oggi Dubai sta progressivamente uscendo dalla crisi per portare avanti a suo modo il modello di Las Vegas. Las Vegas, Dubai e tutte le realtà urbane di questo tipo non rappresentano però che l’avanguardia di un processo che coinvolge tutto il nostro spazio di vita. Quel processo che abbiamo definito metropolizzazione e che ha alla base un’espansione continua della cultura del consumo, la quale, proprio come Las Vegas e Dubai, procede senza un progetto ma attraverso un accumulo di oggetti e considera gli individui non come persone, ma come parte di una massa che consuma. Per questo persino La più innocente escursione in un centro commerciale è già l’ombra degli usi e costumi di Las Vegas. E che Las Vegas sia la meta finale del nostro viaggio si può arguire dal fervore con cui ogni città del pianeta tenti di offrire un nuovo abito ai suoi ex quartieri industriali installandovi complessi di svago e centri commerciali che riescono a malapena a celare la loro reale fonte di ispirazione21.

Anche se basate sull’artificialità e sulla finzione, cioè, Las Vegas e Dubai non sono qualcosa di irreale, un puro complemento all’attività economica. Si tratta invece di forme di concretizzazione di quel modello economico e sociale biocapitalistico che ha nella cultura del consumo la sua vera linfa vitale. 21   Bruce Bégout, Zeropoli. Las Vegas, città del nulla, Bollati Boringhieri, Torino 2002 [ed. or., 2002], p. 11.

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Il film Borat (2006), interpretato da Sacha Baron Cohen, è stato promosso in Italia con diverse iniziative di marketing e una di queste prevedeva l’affissione di manifesti pubblicitari dentro le toilette dei cinema, proprio di fianco ai sanitari. Non si tratta dell’unico caso di prodotto pubblicizzato in questo modo, perché i bagni pubblici vengono sempre più considerati dalle aziende un canale estremamente efficace per riuscire a parlare ai consumatori contemporanei. Dunque, la pubblicità è arrivata da qualche anno a installarsi anche all’interno degli spazi più intimi della vita delle persone. E la sua marcia è inarrestabile. Basti pensare a come sia diventata elevata la quantità di proposte d’acquisto che arrivano ogni giorno all’interno delle abitazioni, con dosi massicce di pubblicità televisiva e radiofonica, televendite, telefonate, depliant e volantini, pubblicità su Internet, ecc. I messaggi pubblicitari invadono però in maniera crescente anche le stazioni della metropolitana, quelle ferroviarie e aeroportuali con i rispettivi mezzi di trasporto, i musei, le discoteche, i negozi, le vetrine e i muri dei palazzi. Anche gli edifici degli ospedali non sono immuni da questa invasione, come dimostra il caso del San Raffaele di Milano. E si potrebbe continuare a lungo con esempi in grado di mostrare con chiarezza la crescente occupazione da parte degli stimoli al consumo di tutti i momenti della giornata e di tutti i canali sensoriali degli individui. Non deve sorprendere pertanto che sia stato calcolato che nel mondo occidentale le persone sono esposte mediamente ogni giorno a circa 3.000 messaggi pubblicitari e che il tempo della vita media complessivamente dedicato alla visione di pubblicità televisiva è diventato di circa tre anni1. 1   John Kilbourne, Can’t Buy My Love: How Advertising Changes the Way I Feel, Simon & Schuster, New York 1999.

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L’evoluzione della forma pubblicità La pubblicità occupa sempre maggior spazio all’interno delle attuali società consumistiche, in quanto qualsiasi oggetto sociale, se vuole avere successo, ha un bisogno indispensabile di comunicare al meglio per mantenere elevato il suo tasso di visibilità. Pertanto, ha progressivamente imposto la presenza nella cultura sociale di una vera e propria «forma pubblicità». Vale a dire un modello culturale di riferimento che non va collegato alla comunicazione pubblicitaria in senso stretto, ma a una modalità comunicativa più ampia, nata all’interno della pubblicità di tipo aziendale e in seguito progressivamente allargatasi all’intera cultura della società. Ciò ha comportato che le logiche di funzionamento della pubblicità e della cultura sociale sono diventate oggi molto simili tra loro. Appare dunque fondamentale cercare di esplorare come sia nata e si sia sviluppata la forma pubblicità. È difficile individuare con certezza il preciso momento di nascita della pubblicità, perché quest’ultima ha preso vita progressivamente nel corso dello sviluppo storico dell’Occidente. Possiamo però correttamente ritenere che essa sia passata dalle sue forme ancora primitive alla sua attuale fase di maturità a partire dagli ultimi due decenni dell’Ottocento e grazie a quell’intenso sviluppo economico che è stato prodotto dalla seconda rivoluzione industriale. In tale periodo, infatti, si è per la prima volta manifestata quella che possiamo chiamare «pubblicità moderna», perché i nuovi linguaggi del manifesto hanno cominciato a insediarsi stabilmente all’interno dello spazio urbano. In realtà, il manifesto pubblicitario ha sempre utilizzato lo spazio esterno della città come un palcoscenico in cui potersi esprimere. Ciò era già vero per le prime forme elementari di manifesto comparse alla fine del XV secolo: gli avvisi ufficiali, ancora composti soltanto di testo verbale. Ma è diventato evidente soprattutto nell’Ottocento, quando il progressivo sviluppo dell’industrializzazione e un intenso processo di urbanizzazione hanno trasformato le piazze e le strade di maggior transito dei centri cittadini nel luogo fondamentale di espressione della comunicazione pubblicitaria. È nato così il poster, che ha cominciato a utilizzare le immagini e ha invaso le città con formati sempre più ampi. E i passanti hanno dovuto abituarsi alla lettura di manifesti progettati per inserirsi con decisione entro la scena urbana.

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Grazie all’invenzione nel 1796 della litografia, i primi manifesti murali con caratteri a stampa e immagini in bianco e nero hanno cominciato a tappezzare i muri delle città più importanti come Londra e Parigi sin dai primi anni dell’Ottocento. Ma per i manifesti veniva ancora prevalentemente adottato un tipo di costruzione grafica fortemente condizionato dal modello proprio del libro: un testo scritto caratterizzato da una struttura tipografica compatta e lineare con qualche titolo per movimentare l’insieme. Si trattava quindi di una pubblicità concepita essenzialmente per essere letta: la réclame. La nascita del manifesto urbano moderno è stata possibile anche perché nel corso della seconda metà dell’Ottocento si sono stabilmente affermati alcuni strumenti che hanno consentito il superamento dei tradizionali ambiti locali del commercio e della comunicazione, ampliando enormemente le possibilità di circolazione per i beni e i loro messaggi: le vetrine dei negozi, le gallerie commerciali o passages, i grandi magazzini, le esposizioni universali, i cataloghi di vendita per corrispondenza, i quotidiani popolari, i romanzi d’appendice, il cinema. È grazie a questi strumenti che hanno potuto affermarsi le prime marche aziendali e svilupparsi i nuovi mercati del consumo di massa. Non è un caso, dunque, che siano stati quegli stessi fratelli Lumière che con la storica proiezione avvenuta il 28 dicembre 1895 presso il Grand Café di Boulevard des Capucines a Parigi avevano dato inizio allo spettacolo cinematografico a realizzare, nel 1898, anche il primo spot pubblicitario della storia: un filmato per il sapone Sunlight di William H. Lever. Tutti questi nuovi strumenti avevano in comune il fatto di privilegiare l’impiego dell’immagine e con esso l’organo della vista. Essi hanno mutato radicalmente il modo di percepire e vivere i prodotti, perché hanno consentito agli individui di avere un contatto visivo con questi ultimi, i quali hanno potuto così essere valorizzati, più che attraverso il loro valore d’uso, mediante la loro immissione in una logica di tipo comunicativo. Conseguentemente, hanno spinto anche i manifesti pubblicitari ad adottare un linguaggio fortemente basato sulle immagini. Per lo sviluppo della fase matura della pubblicità un ruolo importante è stato esercitato anche dalla massiccia socializzazione alla nuova cultura urbana e consumistica di grandi masse di

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persone. La metropoli e le sue strade sono andate infatti sempre più a costituire un territorio fisico e culturale nel quale i cartelloni pubblicitari hanno potuto compiutamente esprimere la loro natura. Parigi in questo processo ha anticipato le altre città, grazie alla creazione da parte del prefetto Haussmann di quei lunghi e spaziosi boulevards dove i manifesti hanno avuto la possibilità di assumere una grande visibilità. E il crescente utilizzo di nuovi mezzi di trasporto veloci, come l’automobile e il tram, ha imposto agli individui di imparare a vedere sempre più rapidamente i manifesti pubblicitari. La pubblicità, insomma, durante l’Ottocento non ha soltanto incrementato le sue dimensioni, ma ha anche moltiplicato i luoghi nei quali compariva, dando così inizio a quel processo di invasione degli spazi sociali che continua tuttora a svilupparsi. All’epoca si sono manifestate alcune reazioni nei confronti della crescente invadenza sociale della pubblicità, ma si trattava di voci piuttosto isolate. La pubblicità si presentava come un simbolo fondamentale del progresso economico e sociale in corso e non poteva che essere pienamente accettata nonostante gli sconvolgimenti che portava nella vita urbana. Il manifesto pubblicitario, anche grazie alla possibilità di impiegare il colore portata dalla cromolitografia, ha incrementato progressivamente la sua efficacia espressiva e ha messo definitivamente in crisi il tradizionale mito dell’unicità dell’opera d’arte. La forza del manifesto consisteva nella possibilità di essere moltiplicato all’infinito per le nuove masse urbane e nel possesso di un’elevata immediatezza comunicativa che gli permetteva di scavalcare efficacemente la barriera costituita dall’analfabetismo. Ne è derivata una sua rapida diffusione, che ha avuto tra i principali interpreti diversi pittori impressionisti e postimpressionisti, come Jules Chéret, Henri de Toulouse-Lautrec, Alfons Maria Mucha, Marcello Dudovich e Leonetto Cappiello. Agli inizi del Novecento, anche gli artisti appartenenti alle cosiddette «Avanguardie storiche» hanno dato il loro contributo all’evoluzione del linguaggio del manifesto. L’hanno fatto però soprattutto per aumentare la velocità dei ritmi tendenzialmente contemplativi dell’arte e per collocare quest’ultima nella corsa intrapresa dai linguaggi accelerati della modernità e del sistema industriale. Essi, infatti, hanno tentato di superare il divario esi-

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stente tra arte e società attraverso un processo di radicale «ricostruzione dell’universo», come veniva esplicitamente dichiarato da parte dei futuristi. Non a caso sono stati soprattutto questi ultimi a stabilire per primi, all’interno delle Avanguardie artistiche, una sintonia con il nuovo mondo industriale, comprendendo la natura innovativa posseduta dalla comunicazione pubblicitaria e le grandi possibilità di connessione esistenti tra industria, pubblicità e forme espressive di tipo artistico. La stessa idea di pubblicare il Manifesto del Futurismo sulla prima pagina del «Figaro» il 20 febbraio 1909 era frutto di una consapevole strategia pubblicitaria che voleva arrivare a sorprendere l’opinione pubblica. I futuristi hanno fatto ricorso inoltre a volantini, striscioni, affissioni di manifesti, slogan ed eventi propagandistici provocatori come le «serate futuriste», che si concludevano immancabilmente con risse e interventi delle forze dell’ordine, producendo così una notevole pubblicità indiretta. Anche l’innovazione futurista delle «parole in libertà», basata su un impiego fortemente espressivo dei caratteri tipografici, senza vincoli nella composizione dello spazio della pagina, deve certamente molto alla grafica dei manifesti pubblicitari. Filippo Tommaso Marinetti, probabilmente il personaggio centrale del Futurismo italiano, si è cimentato direttamente nell’arte pubblicitaria componendo negli anni Trenta per Snia Viscosa quelli che ha chiamato «poemi industriali». Fortunato Depero ha creato invece nel 1919 la Casa d’Arte Futurista, molto simile a un’odierna agenzia di pubblicità, e ha sviluppato nel corso degli anni per l’azienda Campari un’originale e ancor oggi attuale strategia pubblicitaria. Non è un caso dunque che per lo stesso Depero l’arte deve marciare di pari passo all’industria, alla scienza, alla politica, alla moda del tempo, glorificandole – tale arte glorificatrice venne iniziata dal futurismo e dall’arte pubblicitaria – l’arte della pubblicità è un’arte decisamente colorata, obbligata alla sintesi [...] arte giocondaspavalda-esilarante-ottimista2.

  Claudia Salaris, Il futurismo e la pubblicità, Lupetti, Milano 1986, p. 130.

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In quegli anni si sono dedicati alla pubblicità tra gli altri anche Vladimir Majakovskij, Alexander Rodčenko, Man Ray, Kurt Schwitters, René Magritte e la scuola della Bauhaus3. Ma le Avanguardie storiche hanno pur sempre rappresentato l’estremo tentativo effettuato da parte degli artisti di salvare quel legame tra arte e società che è saltato con il pieno affermarsi del processo capitalistico di produzione. Tale processo ha proseguito rapido il suo corso è l’arte ne è stata progressivamente emarginata, a tutto vantaggio della comunicazione pubblicitaria. In questo processo di sviluppo della pubblicità un ruolo fondamentale è sicuramente quello che è stato svolto dalle imprese statunitensi. Dopo aver efficacemente razionalizzato il loro ambiente interno attraverso l’introduzione della produzione in serie, della catena di montaggio e delle nuove tecniche tayloristiche di organizzazione del lavoro, infatti, esse hanno dovuto intervenire sul loro ambiente esterno, cioè il mercato, attanagliato da un problema di eccesso di offerta, culminato con la grave crisi economica del 1929. Hanno dovuto pertanto «educare» il consumatore, allo scopo di favorire la nascita di una domanda di massa per i beni che producevano. Il marketing è nato all’interno del mondo delle imprese statunitensi con questa precisa funzione e la pubblicità, insieme al disegno industriale, ha costituito da subito un suo prezioso strumento. Nei primi decenni del Novecento, l’ambito aziendale e quello della pubblicità sono stati inoltre fortemente influenzati dai risultati degli studi condotti dagli psicologi sulla psiche umana e ciò ha portato alla realizzazione di manifesti più sofisticati, che cercavano di stimolare le componenti istintuali dell’individuo. Soprattutto, però, sia lo sviluppo di una cultura di marketing sia l’adozione della psicologia hanno portato negli anni Venti del Novecento a un cambiamento del ruolo del manifesto commerciale. Alla pubblicità puramente artistica o genericamente tendente ad affermare e far ricordare una marca o un prodotto è subentrato infatti un orientamento più rigoroso, volto a mostrarne ed esaltarne le qualità e le prestazioni. Il messaggio pubblicitario 3   I legami tra arte e pubblicità sono stati analizzati nei volumi di Vanni Codeluppi, Iperpubblicità, FrancoAngeli, Milano 2000 e di Elio Grazioli, Arte e pubblicità, Bruno Mondadori, Milano 2001.

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è diventato così nei decenni successivi meno immediato, ma più articolato e completo, e quindi maggiormente efficace dal punto di vista dello stimolo all’acquisto che è in grado di determinare. Via via che i nuovi strumenti di comunicazione (radio, televisione, Internet, ecc.) sono comparsi sulla scena sociale, la pubblicità ha rapidamente fatto ricorso a essi. Inoltre, per adattarsi a tali strumenti, ha progressivamente modificato il suo modo di comunicare. Prima dell’avvento della radio e degli altri media elettronici, infatti, i suoi messaggi erano generalmente definiti con precisione. Giornali e manifesti proponevano all’individuo una fruizione concentrata temporalmente, cioè dotata di un inizio e una fine. Il modello dominante, dunque, era quello dell’opera d’arte delimitata da una precisa cornice. I media elettronici hanno invece introdotto e progressivamente sviluppato un modello di comunicazione basato sul flusso. Un modello, cioè, che prevede un’attività di comunicazione che è priva di interruzioni e a cui l’individuo ha la possibilità di accedere in qualsiasi momento. Anche la pubblicità, dunque, ha dovuto adottare le stesse modalità che caratterizzano il funzionamento dei flussi comunicativi di tipo mediatico. Il ruolo della marca La sempre più evidente crisi delle «metanarrazioni»4 della modernità, ovvero le grandi ideologie di emancipazione dell’umanità sulle quali si è evoluto negli ultimi secoli il mondo occidentale, sta consentendo al marketing aziendale di divenire il nuovo «grande racconto», la nuova ideologia di riferimento delle società odierne. È in grado di ottenere questo risultato grazie al fatto che si pone soprattutto come una ideologia pragmatica che non impone agli individui dei valori e dei comportamenti, come facevano invece le ideologie della modernità. Appare preoccupato soltanto del mercato, che cerca di far funzionare al meglio. Nel momento dunque in cui il mercato, sotto la spinta del crescente potere esercitato dal pensiero liberista, si pone come la metafora ideale per rappresen-

4   Jean-François Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano 1981 [ed. or., 1979].

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tare la società stessa, ecco che il marketing può assumere il ruolo di vero e proprio paradigma di riferimento per tutti gli ambiti sociali. Abbiamo sottolineato nel paragrafo precedente come la logica operativa della comunicazione pubblicitaria sia diventata la stessa della cultura sociale e abbia contribuito addirittura al funzionamento di quest’ultima, ma tale ruolo può essere attribui­ to anche a un soggetto più ampio e potente come il marketing, il quale utilizza la pubblicità come un suo docile strumento. Il marketing, però, dispone anche di un altro strumento, la marca, che dev’essere considerata ancora più importante perché, come vedremo, rappresenta il suo strumento ideologico per eccellenza. Una marca è una particolare combinazione di loghi, slogan, design, packaging, pubblicità e marketing che sono in grado di attribuire a un prodotto o un servizio una specifica identità. Ma le marche sono dotate anche di dimensioni immateriali, come ad esempio la reputazione di cui godono nelle menti dei consumatori. Sono inoltre in grado di trasmetterci delle emozioni, in quanto possiedono una personalità e un carattere, esattamente come le persone, mentre il prodotto da solo non è più in grado di fornire tali emozioni, né tantomeno di stimolare il consumatore all’acquisto. Le marche svolgono perciò un ruolo sociale particolarmente significativo che va molto al di là del campo economico: sono attori chiave dei principali processi di trasformazione della società. Non sono soltanto in grado di influenzare il nostro modo di vivere, bensì, addirittura, tendono a plasmare la struttura delle città. Basti pensare a come, alla fine degli anni Novanta, la grande forza delle marche abbia saputo completamente trasformare la zona della Quarantaduesima strada di New York e dell’adiacente Times Square, la piazza probabilmente più famosa al mondo. Dominata sino a quel momento dai locali sexy e dalla prostituzione, tale zona è stata infatti progressivamente invasa dai negozi delle principali marche mondiali. Ma anche luoghi urbani storicamente molto importanti come Oxford Street a Londra o gli Champs Elysées a Parigi hanno assunto negli ultimi anni sempre più l’aspetto di centri commerciali all’aperto monopolizzati dai punti vendita delle grandi marche mondiali. La responsabilità di ciò, naturalmente, non è soltanto delle marche, ma anche, più in generale, della forza della cultura del consumo, di cui le marche costituiscono però gli attori determinanti.

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Sono in grado infatti di aggiungere ai prodotti numerosi significati relativi alla dimensione funzionale, ma soprattutto alla dimensione espressiva: relazionali, affettivi, estetici, ecc. Tali significati che la marca trasferisce al prodotto rappresentano un valore di tipo comunicativo che può trasformarsi in valore economico. Ciò può avvenire perché grazie a essi il prodotto è percepito dai consumatori come qualcosa di unico e quindi acquistato anche se venduto dall’impresa a un prezzo più elevato. La marca dunque crea sul mercato delle barriere simboliche grazie alle quali l’impresa è in grado di ottenere dei vantaggi economici rispetto alla concorrenza. Ne consegue che il prodotto oggi non può fare a meno della marca e tende progressivamente a costituire con essa un’unica entità. La marca d’altronde è nata proprio perché le imprese potessero dare un nome e un volto rassicurante agli oggetti prodotti industrialmente, di per sé anonimi e indifferenziati, e offrire ancora quella sensazione di familiarità e fiducia che il negoziante in precedenza forniva ai consumatori insieme ai prodotti sfusi che vendeva a peso nel suo negozio. L’impresa, grazie alla marca, può infatti stabilire una relazione diretta con il consumatore senza doversi impegnare in prima persona, perché la marca la rappresenta in tutto e per tutto. I prodotti possono essere realizzati dalle apparecchiature di una fabbrica ipertecnologica o dalle piccole mani di bambini dei paesi in via di sviluppo, ma è sempre la marca che si espone al consumatore offrendo garanzie circa la qualità e l’affidabilità dei prodotti venduti. E offrendo attraverso i suoi messaggi pubblicitari anche qualcos’altro: quell’aura di fascino che i freddi prodotti industriali hanno perso rispetto a quelli realizzati dalla passione e dalle esperte mani degli artigiani. Non è un caso dunque che la marca sia nata in conseguenza del processo ottocentesco di industrializzazione. All’inizio si limitava a svolgere una semplice funzione di denominazione, consentendo di dare un nome al prodotto per distinguerlo da quelli concorrenti. È risultato però progressivamente evidente che nel denominare la marca definiva anche precisi limiti di proprietà. La parola «marca» deriva appunto dal termine germanico «markian», che esprime il significato di «segno di confine»5.

  Ugo Volli, Semiotica della pubblicità, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 83.

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Prima della marca aziendale, «marchiare» voleva dire piantare un cippo sul confine di un terreno per delimitare una proprietà, imprimere a fuoco un capo di bestiame o punzonare un oggetto di argenteria. La marca, insomma, è anche un segno di proprietà che stabilisce l’appartenenza di determinati prodotti a un’azienda. La quale, naturalmente, proprio per questo motivo è autorizzata a riscuoterne il prezzo. La marca nell’Ottocento svolgeva una funzione di denominazione anche perché la pubblicità era réclame, ovvero la forma ancora primitiva di comunicazione dell’impresa, che aveva l’obiettivo di far conoscere semplicemente il prodotto ai consumatori. In seguito, è arrivata la fase della pubblicità artistica e infine, nel Novecento, la fase della vera e propria pubblicità moderna, nella quale si cerca di promuovere un prodotto evidenziando quel preciso beneficio che è in grado di offrire ai consumatori. Progressivamente, anche la marca è emersa come un importante strumento dell’impresa, in grado di incrementare il valore del beneficio offerto dal prodotto aggiungendovi un proprio plusvalore di tipo simbolico e comunicativo. Il suo ruolo è rimasto però sostanzialmente subordinato a quello del prodotto, in quanto si è limitata a essere uno degli elementi a disposizione del marketing aziendale. Dalla fine degli anni Ottanta del Novecento, la comunicazione d’impresa è approdata alla sua fase «metapubblicitaria»6, dove la pubblicità diventa sempre più autoreferenziale e cosciente del suo linguaggio e della sua storia; finendo, così, per avere come oggetto sempre meno il prodotto da pubblicizzare e sempre più se stessa, i suoi discorsi e i suoi meccanismi di comunicazione. Con il passaggio della pubblicità alla fase metapubblicitaria, la marca ha cominciato a incrementare progressivamente la sua importanza, sia sul piano del marketing che su quello sociale. E ha cominciato ad arricchirsi di significati, assumendo un’esistenza sempre più autonoma rispetto al prodotto. Nelle attuali società ipermoderne è in atto infatti un processo di saturazione che riguarda tutti i canali comunicativi disponibili, 6   Vanni Codeluppi (a cura di), La sfida della pubblicità, FrancoAngeli, Milano 1995.

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mentre i prodotti offrono prestazioni simili e hanno radici culturali e geografiche poco distinguibili. Dunque, sono sempre più uguali tra loro e sempre meno interessanti per i consumatori. Per le imprese pertanto non è più sufficiente produrre un prodotto e comunicare la sua esistenza o le informazioni rispetto a ciò che esso è in grado di offrire, ma è necessario imporsi comunicando una specifica identità di marca. È necessario cioè far sì che le persone possano trovare nella marca i valori che stanno ostinatamente cercando. Una marca come McDonald’s, ad esempio, promette felicità, mentre Armani promette prestigio sociale e Mulino Bianco naturalità e salute. Va considerato inoltre che dietro il sempre maggiore ricorso delle imprese al ruolo della marca c’è una evidente ragione economica. Infatti, se efficacemente gestita, la marca riesce a ridurre i danni prodotti dall’invecchiamento dell’azienda. Pertanto, le aziende non hanno nessuna convenienza a investire le proprie limitate risorse in fabbriche che avranno bisogno di manutenzione, in macchinari che diventeranno obsoleti, in dipendenti che inevitabilmente invecchieranno e moriranno7.

Devono piuttosto cercare di concentrare i loro sforzi sulla costruzione e sull’aggiornamento costante dell’identità di una marca. L’efficacia comunicativa e commerciale della marca è testimoniata dal fatto che oggi nessuno può esimersi dall’adottare una precisa strategia di marca se vuole affermarsi socialmente. Così, nell’attuale contesto sociale, è possibile vedere che anche uomini politici, calciatori, ospedali, università e città si «loghizzano» in maniera crescente. Perché soltanto in questo modo possono guadagnare attenzione e resistere nel tempo: seguendo, cioè, l’esempio delle numerose marche che dall’Ottocento sono arrivate con successo sino ai nostri giorni. Oggi, dunque, si ritiene che l’efficacia economica di un’impresa sul mercato dipenda dalla sua più o meno elevata capacità di dare forza all’identità della sua marca. Per produrre tale

7   Naomi Klein, No Logo. Economia globale e nuova contestazione, Baldini Castoldi Dalai, Milano 20072 [ed. or., 2000], p. 248.

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risultato l’impresa deve saper trasformare la sua marca in un vero e proprio centro di relazioni sociali8. Gli studiosi di marketing definiscono «brand equity» proprio la capacità di una marca di generare valore economico a partire dalla sua capacità di creare e gestire relazioni sociali9. La marca dunque, anziché cercare di imporsi in maniera aggressiva, tenta di presentarsi con un’identità che comunica chiaramente la sua volontà di cooperare con l’individuo per aiutarlo a costruire a sua volta una specifica identità. Si fa percepire pertanto come una specie di amico fraterno del quale ci si può fidare. E le ricerche dimostrano che il consumatore tende sempre più a vivere la marca non soltanto come un individuo con il quale è possibile stabilire una relazione, ma anche come un interlocutore che su di lui ha una precisa opinione, rispetto alla quale egli si sente pertanto in dovere di formulare delle ipotesi per decidere come comportarsi10. Ecco perché, se fino a qualche anno fa ciò che contava nella comunicazione d’impresa (dalle vetrine dei negozi all’importanza rivestita dalle immagini nei manifesti pubblicitari) era il «colpo d’occhio», la capacità di colpire la vista con un’immagine potente, a un certo punto l’immagine da sola non è stata più sufficiente. Nel corso degli ultimi anni, sono andati perciò affermandosi anche altri tipi di marketing: tattile, gustativo, uditivo e olfattivo. Soprattutto, però, si tende a praticare un marketing «estetico» ed «esperienziale»11, che cerca di far sperimentare all’individuo sensazioni fisiche ed emotive gratificanti durante la sua relazione con il prodotto e la marca. In tal modo, si produce un’esperienza, la quale presenta i vantaggi di essere vissuta come qualcosa di personale e di essere memorizzata a lungo.

8   È la tesi sostenuta in Celia Lury, Brands: The Logos of the Global Economy, Routledge, London-New York 2004. 9   Il concetto di «brand equity» è stato formulato per la prima volta in David A. Aaker, Brand equity, FrancoAngeli, Milano 1997 [ed. or., 1991]. 10   Si vedano i risultati delle ricerche analizzate in Angelo Manaresi, La relazione tra marche e clienti, Carocci, Roma 1999, p. 52. 11   Sull’argomento si vedano Bernd H. Schmitt e Alex Simonson, Marketing Aesthetics, The Free Press, New York 1997 e Mauro Ferraresi e Bernd H. Schmitt, Marketing esperienziale. Come sviluppare l’esperienza di consumo, FrancoAngeli, Milano 2006.

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La marca si fa mondo La marca, come si è detto, per essere efficace cerca di essere percepita come una persona. Ma tenta anche di essere considerata come un insieme di persone, cioè come un vero e proprio mondo sociale. Pertanto, tutte le grandi imprese utilizzano oggi gli strumenti di comunicazione di cui dispongono per costruire attorno ai loro prodotti mondi culturali e sociali autonomi ed estremamente seducenti agli occhi dei consumatori. Mondi per lo più immateriali, ma che per i consumatori rappresentano delle realtà ben precise. D’altronde, è noto da tempo che i media possono operare socialmente duplicando la realtà, affiancando quindi alla realtà un’altra realtà che viene percepita come altrettanto «vera» dagli individui pur essendo un ambiente puramente virtuale. La marca sfrutta pertanto sino in fondo tutte le possibilità di cui sono dotati i media odierni, che sono in grado di operare non semplicemente come strumenti di mediazione del mondo ma come veri e propri luoghi dell’esperienza contemporanea, territori dell’abitare, mondi che costituiscono un terreno di sperimentazione per le forme dell’identità nella contemporaneità12.

La realtà comunicativa prodotta dalle marche assume agli occhi dei consumatori un carattere credibile perché è dotata di una grande ricchezza e densità comunicativa, ma anche perché tende a stabilire un rapporto continuativo con il consumatore attraverso diversi strumenti di comunicazione. Inoltre, ha sempre più spesso una traduzione concreta attraverso spettacolari spazi di consumo13. Come, ad esempio, gli immensi Nike Town, vere e proprie «cattedrali» su più piani che spiccano oggi al centro di molte metropoli contemporanee. 12   Giovanni Boccia Artieri, Farsi media. Consumo e media-mondo: tra identità, esperienza e forme espressive, in E. Di Nallo e R. Paltrinieri (a cura di), Cum Sumo. Prospettive di analisi del consumo nella società globale, FrancoAngeli, Milano 2006, p. 188. 13   I principali tipi di spazi di consumo sono stati analizzati in Vanni Codeluppi, Lo spettacolo della merce. I luoghi del consumo dai passages a Disney World, Bompiani, Milano 2000.

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Ma i mondi di marca possono apparire «veri» agli occhi dei consumatori soprattutto quando si fondano su precisi valori sociali che consentono l’attivazione di processi d’identificazione particolarmente coinvolgenti. Ogni marca infatti dà vita a un proprio specifico immaginario culturale, che non costruisce ex novo, ma appropriandosi di una porzione del più ampio immaginario sociale esistente nella società, perché in tal modo riesce più facilmente ad avvicinarsi al consumatore. Per fare ciò, le marche dapprima devono dare una solida radice a tale immaginario individuando uno specifico valore sociale. Poi utilizzano le diverse forme di comunicazione disponibili (pubblicità, promozioni, ecc.), il design degli elementi d’identità visivo-verbali (nome, logo e altri codici di marca), del prodotto e dei punti vendita, le iniziative realizzate con altre marche, i siti attivi su Internet e le persone dell’azienda allo scopo di costruire attorno a tale valore una realtà comunicativa che appaia dotata di una precisa identità. Fanno dunque ricorso alla «metatestualità»14, ovvero quella tecnica che consiste nel creare testi espressivi differenti tra loro ma coerenti nel veicolare lo stesso tema e nell’impiegarlo diversamente a seconda degli strumenti di comunicazione. Con il risultato di dar vita alla fine a un unico e potente testo pubblicitario che consente alla marca di promuovere i suoi prodotti attraverso tutti i canali disponibili. Grazie all’impiego di queste tecniche, le marche si trasformano in attori sociali estremamente autorevoli, che tendono a invadere lo spazio privato dell’individuo penetrando nella sua vita sempre più in profondità. Addirittura, ciò che accade, in una situazione come quella attuale di crisi del sistema di certezze del passato (valori, tradizioni), è che gli ideali comuni e i progetti politici vengono rimpiazzati dai significati associati ai nomi delle marche e ai messaggi pubblicitari. Pertanto, è necessario chiedersi se ciò non comporti delle conseguenze per i singoli individui e per la società nel suo complesso, nel senso di un’alterazione della natura e dell’importanza che la società attribuisce ai suoi principali valori. È evidente infatti che quello che in passato veniva sviluppato all’interno di un processo collettivo di elaborazione della cultura sociale oggi viene

14   Marcel Danesi, Brands. Il mondo delle marche, Carocci, Roma 2009 [ed. or., 2006].

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delegato in maniera crescente a soggetti privati come le imprese. Il che diventa particolarmente grave se si pensa che i valori costitui­ scono gli elementi di base che dovrebbero orientare le scelte e le dinamiche culturali di ogni società. Le marche più efficaci sono dunque quelle in grado di funzionare a pieno titolo come vere e proprie «marche valoriali», ovvero marche che agiscono in un contesto sociale dal quale certamente ricevono delle influenze, ma che contribuiscono a loro volta ad influenzare attraverso l’impiego dei valori sociali di cui si appropriano. Si pensi, ad esempio, alla forza di un valore come la democrazia, che viene da tempo impiegato da una marca come Apple, o a quella di un valore come l’altruismo, che è invece utilizzato da Adidas. Ciò non implica però che i consumatori accettino passivamente i mondi valoriali che vengono proposti loro dalle marche. Quello che avviene, infatti, è che i consumatori attivano propri processi di rielaborazione dei messaggi ricevuti dalle marche. Dunque, i mondi proposti dalle marche svolgono oggi un ruolo sociale importante, anche se è soltanto con il contributo determinante apportato dai consumatori che tali mondi possono trasformarsi in effettiva esperienza sociale. Va sottolineato inoltre che il successo odierno delle marche dipende soprattutto dalla capacità di queste ultime di operare sul piano sociale consentendo ai consumatori di disporre di storie, valori e significati che possono utilizzare per definire la loro identità, per esprimere quello che vogliono essere. Perché in un mondo che cambia sempre più velocemente i criteri tradizionali di definizione sociale (sesso, età, reddito, ecc.) sono diventati scarsamente efficaci e soltanto con il contributo determinante di marche come Coca-Cola, Sony, Armani, Calvin Klein, Apple o Marlboro gli individui sono in grado di collocarsi socialmente con precisione. Spesso portandole direttamente sul proprio corpo, come quando indossano capi di abbigliamento che recano in bella evidenza il marchio dell’azienda produttrice. Se l’attività di comunicazione delle marche è diventata un prezioso serbatoio dal quale gli individui possono attingere dei significati per costruire la loro identità è perché le marche possiedono delle personalità ben definite socialmente. Certo, tali personalità sono instabili perché destinate a cambiare per effetto dei cicli di variazione delle merci e delle mode, ma gli individui sono attratti proprio da questa

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variabilità, perché rende possibile un vero e proprio gioco di costruzione delle identità basato su un costante mutamento. Il corpo tende così a riempirsi di segni del consumo, di materiali espressivi provenienti dalle diverse merci e dalle loro marche, i quali variano in continuazione. Sfruttare valori e sentimenti dei consumatori per costruire i mondi delle marche genera però inevitabilmente un costo per la società. Perché risulta evidente che Nel tempo, il parassitismo svuota gli oggetti della loro autenticità e del loro significato, lasciando dietro di sé nuove identità inconsistenti e non gratificanti. Se Cheerios significa Mamma, allora Mamma significa Cheerios, e le mamme che significano Cheerios (o detersivo per bucato o Katie Couric) potrebbero alla fine smettere del tutto di essere mamme «vere» e diventare inautentiche tanto quanto il marchio che usano, al che, visto lo svilimento del ruolo, non sarebbero più scelte da Cheerios in quanto diventerebbero soggetti inadatti per costruire la credibilità del marchio attraverso la falsa associazione con la figura materna15.

Vale a dire che collegare per lungo tempo a una determinata marca i significati abitualmente associati nella cultura sociale alla figura materna (amore, lealtà, fiducia, ecc.) può indebolire la capacità espressiva di questi significati. Di conseguenza, vengono indeboliti i valori di base della società, quel patrimonio inestimabile sul quale si regge l’intera vita sociale. 15   Benjamin R. Barber, Consumati. Da cittadini a clienti, Einaudi, Torino 2010 [ed. or., 2007], p. 285.

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Una pensionata di 77 anni, Joan Cucanne, è morta nel 2009 in Inghilterra, sommersa nella sua abitazione dall’enorme quantità di oggetti che aveva comperato durante numerosi anni di intenso shopping1. I poliziotti hanno impiegato due giorni di lavoro per rimuovere tutti gli oggetti che riempivano la sua casa e recuperare il cadavere, perché ogni stanza era stipata sino all’inverosimile. Molti prodotti non erano nemmeno stati scartati, perché l’importante per questa donna non era utilizzare, ma acquistare per soddisfare un bisogno irrefrenabile di possesso. Questo caso, che purtroppo non rappresenta qualcosa di unico nelle società consumistiche odierne, costituisce un’efficace metafora di quella che è l’attuale condizione dei consumatori occidentali. Questi, infatti, hanno smesso da tempo di comperare i beni per le funzioni che possono svolgere e sono spinti all’acquisto da moltissimi altri motivi, con il risultato di vivere in una situazione di «iperconsumo»2. Soprattutto però, a causa di ciò, sono immersi in un mondo stipato di beni che tendono a sommergerli ogni giorno di più, sia simbolicamente che fisicamente. Proprio come la povera pensionata inglese. Questa situazione è il frutto dell’elevato livello di sviluppo che è stato raggiunto dalla società dei consumi contemporanea, nella quale siamo talmente immersi da non riuscire più a prendere le distanze rispetto ad essa. Ma come siamo arrivati a questo punto?

  Malata di shopping muore sotto le merci, «la Repubblica», 9 gennaio 2009.   Il concetto è stato recentemente sviluppato anche dal sociologo francese Gilles Lipovetsky nel volume Una felicità paradossale. Sulla società dell’iperconsumo, Raffaello Cortina, Milano 2007 [ed. or., 2006]. 1 2

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Come è nato e si è sviluppato quel modello culturale e sociale che stimola ossessivamente i comportamenti di shopping? È ciò che cercheremo ora di comprendere. Promuovere lo shopping Il termine inglese «shopping» di solito viene tradotto in italiano con «acquisti», «compere» o «spesa», ma in realtà il suo significato è decisamente più ampio. Lo shopping non si riferisce soltanto a un semplice atto d’acquisto di un bene, ma è un’esperienza complessa che racchiude al suo interno diverse dimensioni di natura individuale e sociale. Il consumatore infatti non investe nello shopping soltanto il suo denaro, ma anche il suo tempo libero e il suo impegno psicologico. Non vi cerca soltanto dei beni che siano in grado di soddisfare le sue esigenze materiali, ma anche la possibilità di sviluppare le sue relazioni sociali e realizzare la sua identità. Per gli individui, dunque, l’attività di shopping è il risultato di motivazioni molto differenti. Appare perciò piuttosto semplicistica la posizione da tempo assai diffusa di chi sostiene che lo shopping può essere considerato come una forma di paradiso o come una forma di inferno3. Secondo questa interpretazione, è paradiso quando consente agli individui di sentirsi realizzati, ovvero di raggiungere un livello soddisfacente di qualità delle proprie relazioni sociali, di esprimere amore e attenzione verso gli altri; è inferno per chi non è in grado di condividerlo, cioè per chi non ha le risorse necessarie a partecipare al gioco del consumo. Ma in realtà lo shopping non è vissuto come un oggetto negativo (inferno) dalle persone che sono escluse da esso. Costoro infatti continuano a viverlo come meta desiderabile, come mondo che vorrebbero condividere. L’inferno, semmai, sta soltanto nella loro condizione di esclusione. Per tutti, dunque, lo shopping si presenta come un mondo altamente desiderabile e ciò è in gran parte il risultato di quel

3   Si veda ad esempio quanto sostenuto in Cabirio Cautela e Daniela Ostidich (a cura di), Hell paradise shopping. L’inferno e il paradiso degli acquisti e del consumo, FrancoAngeli, Milano 2009.

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lavoro di promozione che su di esso viene incessantemente svolto da parte dei messaggi pubblicitari. Addirittura, il modello proposto dallo shopping è talmente convincente che, come ha sostenuto Zygmunt Bauman, nelle odierne società consumistiche gli individui devono cercare, esattamente come le merci in vendita nel mercato, di rendersi particolarmente attraenti agli occhi degli altri se vogliono sentirsi parte della società in cui vivono. Ne consegue che la società «ridefinisce le relazioni interumane a modello e somiglianza delle relazioni tra i consumatori e gli oggetti di consumo»4. Gli individui sembrano cercare nello shopping dei beni da consumare, ma in realtà cercano soltanto degli strumenti utili per rendersi adatti a essere essi stessi consumati. D’altronde, solamente se si è riconosciuti come consumatori si può pienamente partecipare alla vita delle società contemporanee e dunque usufruire dei diritti e delle libertà di tutti i cittadini. Altrimenti si viene bollati con il marchio d’infamia di «non consumatori» e di conseguenza emarginati socialmente. Assorbire lo statuto delle merci comporta per gli individui anche assorbire quell’irreversibile tendenza verso l’obsolescenza che caratterizza le merci stesse. Vale a dire, quell’inclinazione alla necessità di rinnovarsi in continuazione se non si vuole sparire dalla vista e quindi dal mercato. Tenere costantemente aggiornata la propria identità attraverso i beni che si acquistano diventa perciò un vero e proprio obbligo sociale. Ma è improbabile che un tale aggiornamento possa rendere soddisfatti a lungo termine gli individui, perché, esattamente come per le merci, gli standard di riferimento mutano in continuazione e qualsiasi innovazione è destinata a diventare prima o poi obsoleta. Il periodo del consumo effettivo del prodotto è dunque assai limitato sul piano temporale, perché tutto è concentrato sull’atto d’acquisto e soprattutto su ciò che lo precede, ovvero sull’attività di shopping. Ciò che segue l’acquisto comporta invece un’alta probabilità di far nascere sensazioni di delusione, rimpianti e frustrazioni. Ne deriva che gli individui devono consumare subito qualcosa che è destinato a essere rapidamente sostituito

4   Zygmunt Bauman, Consumo, dunque sono, Laterza, Roma-Bari 2008 [ed. or., 2007], p. 15.

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da qualcos’altro. Perciò devono essere flessibili e disponibili a raccogliere ciò che può sempre arrivare e che, qualora arrivi, non ci si può permettere di perdere. Devono ricercare una «soddisfazione istantanea» che non precluda ulteriori possibilità di consumo. Pensare a se stessi come a delle merci fa sì che gli individui tendano a percepire come simili alle merci anche gli altri (il partner o gli amici). Essi devono perciò corrispondere esattamente a ciò che si desidera e sono passibili di essere rapidamente sostituiti se non soddisfano più, nello stesso modo in cui va restituito un prodotto che presenta dei difetti. Ciò in particolare sta avvenendo a causa del diffondersi dell’uso di Internet, che ha consentito di ridurre l’importanza di quel carattere di impegno tradizionalmente insito nei rapporti umani, grazie alla possibilità che offre di interrompere in ogni momento la relazione instaurata e di avviare nuovi rapporti. Il problema è che gli esseri umani sono differenti dalle merci e dunque non sempre si adattano facilmente a essere acquistati e buttati via. Ma anche che ciò rende inevitabilmente tutti i rapporti umani fragili, temporanei e dunque fonti a loro volta di ansia. Questo accade perché, come nell’ambito del consumo di merci, è presente un eccesso di offerta che genera inevitabilmente una grande incertezza nelle scelte operate dall’individuo, condannato a effettuare in continuazione tentativi ed errori e a sperimentare una crescente sensazione di inadeguatezza. Lo shopping riveste comunque un ruolo fondamentale nelle nostre società perché è soprattutto uno strumento con il quale gli individui costruiscono e comunicano la loro identità. Non si tratta semplicemente di acquistare dei beni e mostrarli agli altri per far vedere chi si è. Pur se questo avviene, in realtà ciò che conta sono soprattutto le possibilità che lo shopping offre di scegliere all’interno di una grande quantità di beni e poi di relazionarsi con i beni che si sono scelti. Così facendo si scopre infatti la propria unicità individuale. Distinguere ciò che piace da ciò che non piace consente di sperimentare il proprio gusto e quella particolare identità che esso è in grado di esprimere. Dunque, nonostante si svolga generalmente in spazi pubblici, lo shopping può essere considerato anche un’esperienza personale e addirittura intima di dialogo con se stessi. D’altronde, attraverso lo shopping l’individuo non soltanto comprende chi è, ma sente di poter desiderare

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intensamente qualcosa e questa sensazione può essere addirittura in grado di rassicurarlo sulla verità della sua esistenza5. Tutto ciò non comporta però che le scelte effettuate dall’individuo nel momento dello shopping possano essere considerate di tipo politico. Diversi autori tendono invece negli ultimi anni a sostenerlo e condividono un modello che viene chiamato del «consumismo politico»6. In tale modello il potere di scelta dei prodotti nel carrello della spesa di cui dispone il consumatore viene interpretato come uno strumento in grado di rappresentare una risposta alla crisi dei tradizionali canali di partecipazione politica. Uno strumento grazie al quale l’individuo, riservando le sue preferenze a determinati prodotti (equo-solidali, biologici, ecologici, ecc.), può esprimere il suo senso di responsabilità e il suo impegno politico. Certo, al consumo di prodotti inquinanti o realizzati tramite lo sfruttamento del lavoro minorile è di gran lunga preferibile che gli individui scelgano prodotti ecologici ed etici. Ma lo shopping rimane pur sempre tale, cioè un momento generalmente piacevole che consente agli individui di affrontare meglio le difficoltà della vita quotidiana, sebbene possa trasformarsi anche in una notevole fonte di stress. Considerarlo uno strumento di impegno politico significa accettare come tale una forma di impegno piuttosto debole. Che forse è il massimo consentito da questi confusi tempi ipermoderni, ma è comunque ben diverso dall’elevato coinvolgimento comportato dal vero impegno politico. D’altronde, le identità che gli individui possono costruire attraverso le loro scelte di consumo risultano spesso ingannevoli, in quanto sono necessariamente delle costruzioni temporanee. Infatti, Le merci vengono prodotte per il consumo immediato. Il loro valore non consiste nell’utilità e nella durevolezza, ma nella vendibilità. Esse si logorano anche se non vengono usate, perché sono state pensa-

5   Colin Campbell, Acquisto dunque sono: le basi metafisiche del consumo moderno, in Vanni Codeluppi e Roberta Paltrinieri (a cura di), Il consumo come produzione, «Sociologia del lavoro», n. 108, 2007. 6   Tra gli altri, si veda Michele Micheletti, Critical Shopping. Consumi individuali e azioni collettive, FrancoAngeli, Milano 2010 [ed. or., 2003].

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te per essere soppiantate da prodotti «nuovi e migliori», da una nuova moda, da un’innovazione tecnologica7.

L’impiego di merci instabili, a causa dell’incessante obbligo dei mercati di rinnovarsi, non può perciò che produrre identità personali altrettanto instabili. Eppure, nonostante tutto, il consumatore è decisamente attratto dal gioco di costruzione della sua identità attraverso le merci, dalla libertà apparentemente infinita di scegliere i prodotti che gli vengono offerti. Con il risultato che l’attività di scelta diventa più importante di ciò che viene scelto e il piacere insito nello shopping è maggiore di quello che può procurare la merce una volta che venga acquistata e utilizzata. In sostanza i consumatori provano piacere proprio in questo loro continuo sviluppo di nuovi desideri per qualcosa che è necessariamente destinato a essere sostituito da novità molto più attraenti. Vale a dire che «Lo scopo del gioco del consumo non è tanto la voglia di acquisire e possedere, né di accumulare ricchezze in senso materiale, tangibile, quanto l’eccitazione per sensazioni nuove, mai sperimentate prima»8. Ciò non comporta, però, che il consumo produca necessariamente un elevato livello di soddisfazione all’interno degli individui. Questi continuano ostinatamente a consumare, ma tutte le ricerche condotte a partire dagli anni Cinquanta mostrano come la crescita del reddito, che si traduce solitamente nell’acquisto di beni, non abbia determinato un aumento della soddisfazione, ad eccezione, ovviamente, di coloro che si trovavano al di sotto della soglia di povertà. Quello che viene promesso al consumatore è che sta vivendo in un mondo ideale dove le condizioni di vita migliorano continuamente e dove tutti i suoi desideri possono venire soddisfatti. La realtà presenta però delle caratteristiche assai differenti: Nell’Europa del 1650 i suicidi erano 2.5 per 100 mila abitanti. Nel 1850, un secolo dopo il take off industriale, erano già il 6.8, triplicati, verso la fine del XX secolo sono diventati oltre il 20, si sono cioè

7   Christopher Lasch, L’io minimo. La mentalità della sopravvivenza in un’epoca di turbamenti, Feltrinelli, Milano 1985 [ed. or., 1984], pp. 18-19. 8   Zygmunt Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, Roma-Bari 2001 [ed. or., 1998], p. 93.

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decuplicati. L’alcolismo di massa ha inizio con la Rivoluzione industriale. Le malattie mentali, depressione e nevrosi, quasi sconosciute nel mondo agricolo preindustriale, sono diventate un problema sociale nell’Ottocento e nella prima metà del Novecento, tanto da dar origine alla psicoanalisi, per esplodere come segno di disagio acutissimo, che permea l’intera civiltà occidentale, nel secondo dopoguerra. Negli Stati Uniti 566 americani su mille fanno uso abituale di psicofarmaci9.

Il consumo come miracolo Il consumo deve il suo successo soprattutto alla capacità di presentarsi agli occhi degli individui come una specie di miracolo. Vale a dire, come una straordinaria e abbondante offerta di prodotti affascinanti e imperdibili che viene magicamente rinnovata ogni giorno. Un’offerta persino superiore a quella promessa dai grandi miti dell’antichità, come il giardino dell’Eden o la caverna di Alì Baba. D’altronde, si pensi che il primo supermercato italiano, aperto a Milano nel 1957, conteneva circa 1.600 prodotti, mentre oggi in media un supermercato ne offre almeno 20.000. Oppure che chi nel 1980 voleva comperare un’automobile si trovava davanti a 520 diversi modelli, mentre nel 2005 questi sono saliti a 2.50010. E i prodotti cambiano continuamente, facendo spazio a sempre nuove proposte. Può essere dunque considerata ancora valida un’interpretazione del mondo del consumo come una realtà di tipo miracolistico11. Esso infatti viene vissuto nella cultura occidentale come il regno della massima abbondanza, dove i beni non sono il frutto del lavoro e delle fatiche degli esseri umani, ma regali dispensati da un’istanza mitologica benefica: la tecnica, il progresso, l’industria, ecc. Una visione miracolistica del consumo è esattamente all’opposto di quella concezione funzionalistica e utilitaristica del rapporto con i beni che gli economisti hanno sempre sostenuto, ma oggi si è ben compreso che il mondo del simbolico non può

9   Massimo Fini, Il vizio oscuro dell’Occidente. Manifesto dell’antimodernità, Marsilio, Venezia 2002, p. 53. 10   Giorgio Triani, L’ingorgo. Sopravvivere al troppo, Elèuthera, Milano 2010. 11   Jean Baudrillard, La società dei consumi. I suoi miti e le sue strutture, Il Mulino, Bologna 1976 [ed. or., 1970].

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essere confinato nelle civiltà primitive, perché svolge una funzione centrale anche all’interno delle società occidentali avanzate. È per questo motivo, d’altronde, che il consumatore odierno sente la necessità di sprecare il suo denaro, proprio come si faceva nei rituali e nei potlach delle civiltà primitive, e, allo stesso modo degli indigeni melanesiani, mette continuamente in mostra i suoi beni che esprimono significati di prosperità, sperando che possano svolgere una funzione propiziatoria, attirando verso di lui benessere e felicità. Non diversamente da quello che succedeva agli indigeni, la società dei consumi di massa non costituisce dunque altro che una grande illusione collettiva. Ciò spiega perché il ruolo svolto dai consumi nella società si è sempre più rafforzato e oggi risulta evidente che i beni di consumo esercitano una straordinaria capacità d’attrazione sulle persone. Basti pensare all’elevato livello di fascinazione che i beni sono in grado di suscitare presso le persone estranee all’opulento universo dell’Occidente. Come coloro che, alla fine degli anni Ottanta, hanno fatto improvvisamente crollare una solida barriera come il Muro di Berlino e i molti regimi comunisti che si trovavano al di là di esso per poter consumare i seducenti beni occidentali. Ma, soprattutto, come le grandi masse che oggi si muovono dalle zone più povere della Terra e, attratte dai beni dell’Occidente, invadono quest’ultimo con crescenti ondate migratorie. È però sugli individui che vivono da sempre in Occidente che il fascino del consumo è particolarmente potente. Un fascino che ha spinto ad esempio negli scorsi anni gli abitanti degli Stati Uniti, il paese dove probabilmente la cultura del consumo ha raggiunto il più elevato livello di diffusione, a indebitarsi in maniera crescente e a lavorare un maggior numero di ore allo scopo di poter acquistare sempre più beni. Se ciò accade è anche perché quello che caratterizza le società occidentali di oggi non è la produzione dei prodotti, né tantomeno quella dei produttori necessari per la loro creazione, ma la produzione dei consumatori12. Se la società industriale aveva 12   Zygmunt Bauman, Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 2002 [ed. or., 2000] e Vanni Codeluppi (a cura di), Tra produzione e consumo, FrancoAngeli, Milano 2004.

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bisogno di formare una massa di docili persone che andassero a costituire la manodopera delle fabbriche, oggi i progressi dell’automazione e soprattutto l’esportazione della produzione in paesi a basso costo del lavoro fanno sì che le società ipermoderne non debbano più formare i propri membri affinché siano in grado di operare come produttori. Pertanto, la società si dedica fondamentalmente al compito di educare al consumo attraverso i modelli di comportamento presenti nei messaggi diffusi dalla pubblicità e dai media. Se tuttavia l’individuo è esposto oggi a una efficace educazione al consumo è soprattutto perché tutte le istituzioni sociali con cui entra in contatto sono sempre più interessate da una logica di tipo consumistico e pubblicitario. Prosegue infatti quel processo tipico delle società capitalistiche che già Marx aveva indicato nell’Ottocento come «mercificazione» della società, per cui la cultura del consumo si espande in continuazione su territori sociali sempre nuovi. Essa non si accontenta soltanto di aumentare d’intensità nel suo ambito specifico – quello dell’acquisto dei beni –, ma si estende anche a tutti quegli spazi della società in cui in precedenza non era presente. Così moltiplica le dimensioni e il numero dei luoghi dove acquistare i prodotti (supermercati, ipermercati, centri commerciali, discount, negozi specializzati, ecc.), ma nello stesso tempo tende progressivamente a occupare molti luoghi che erano tradizionalmente estranei a essa (alberghi, ristoranti, aeroporti, cinema, ecc.). Sembra dunque che in tutto il mondo sia operante una sorta di «legge del consumo» che regola il funzionamento dell’intera società. Una legge che impone in maniera crescente a tutti gli individui di comportarsi da consumatori in qualsiasi ambito sociale essi si trovino ad operare. Non si può trascurare però che la società dei consumi di massa sembra in apparenza dar vita a un processo di omologazione, mentre in realtà produce anche nuove forme di differenziazione e gerarchizzazione degli individui. Lungi dall’eliminare, infatti, come promette, le barriere culturali, le differenze religiose e i conflitti di classe, il consumo esercita oggi principalmente il suo potere attraverso un incremento delle discriminazioni sociali. L’ideologia liberista ha tuttavia sostenuto il contrario e cioè che il consumo è in grado di migliorare lo stato di benessere di

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tutti. Ciò spiega l’enorme successo che essa ha ottenuto negli ultimi anni. Tutte le forze politiche, di destra o di sinistra, hanno concordato sulla necessità di spingere i governi a privatizzare, deregolamentare e liberalizzare sempre più gli scambi commerciali, mosse da una visione che interpreta la cultura del consumo come uno strumento in grado di risolvere magicamente ogni problema economico della società. Per poter funzionare al meglio, però, il consumo ha bisogno di essere lasciato libero di agire. Solo in tal modo, infatti, si può esprimere quella spinta al miglioramento della condizione individuale che costituisce il vero fattore di successo del sistema capitalistico. Ciò, insomma, che finora ha consentito al capitalismo di essere vincente verso gli altri sistemi economici e verso le sue stesse crisi. Eppure, lasciato libero di operare, il consumo inevitabilmente produce anche delle evidenti disparità sociali e tutte quelle conseguenze negative che possono essere racchiuse all’interno dell’etichetta «irrazionalità della razionalità»13, ovvero lo sfruttamento economico della manodopera, i danni alla salute individuale, l’inquinamento dell’ambiente naturale, lo spreco di risorse, ecc. La natura paradossale del consumo È evidente dunque che il consumo possiede una natura paradossale. L’atto di consumare può essere considerato infatti come un atto positivo, che contiene al suo interno la possibilità di una realizzazione dei desideri dell’individuo. Ma ciò si accompagna anche a un altro significato relativo al fatto che senza la vera e propria distruzione di un bene l’individuo non può ricavare alcun godimento. Dunque l’atto di consumare esprime al tempo stesso anche l’idea di logorare, esaurire o distruggere un oggetto, la quale sul piano sociale viene spesso vissuta negativamente, quasi che comportasse un senso di colpa per il fatto che la soddisfazione dell’individuo è stata raggiunta a scapito dell’oggetto consumato. Il consumo può esprimere anche l’idea negativa di eccesso e spreco. È propriamente ciò che viene di solito indicato con il ter13   George Ritzer, Il mondo alla McDonald’s, Il Mulino, Bologna 1997 [ed. or., 1996].

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mine «consumismo», che segnala appunto l’esistenza di comportamenti d’acquisto di quantità eccessive di beni, comportamenti che appaiono oggi intensificati da un processo sociale di crescente moltiplicazione delle identità sociali impiegate da ciascun individuo, il quale determina necessariamente una moltiplicazione anche delle dotazioni personali di beni necessari a comunicare tali identità. L’impressione di eccesso nasce però proprio da quella promessa di abbondanza che rappresenta il punto di forza del mondo del consumo. Il consumo mostra comunque la sua natura paradossale soprattutto in quanto è sperimentato dalle persone come qualcosa che offre delle possibilità e impone dei vincoli. Grazie a esso esprimiamo liberamente le nostre capacità creative, ma, al tempo stesso, manifestiamo la nostra dipendenza dalle merci, che limitano le nostre scelte e la nostra libertà. Ciò che appare dunque più paradossale all’interno della natura del consumo è la compresenza per gli individui di benefici e della nascita di un elevato tasso di insoddisfazione. Certo, il consumo porta dei grandi vantaggi. Si pensi a come quel succedersi incalzante delle mode e dei nuovi beni che caratterizza la cultura del consumo – e che è stato spesso fortemente condannato – racchiuda in sé anche la capacità di dare l’avvio e il necessario alimento a quel processo sociale di innovazione e miglioramento dei beni e della cultura di cui la società non può fare a meno. Anzi, è in questa capacità di incessante rinnovamento del consumo che risiede probabilmente l’elemento di forza del sistema capitalistico, ciò che gli ha consentito di essere finora vincente. L’espansione dei consumi a livello di massa ha portato però anche altri e ben più considerevoli vantaggi. Innanzitutto, la possibilità per larghissime fasce di popolazione, prima escluse da agi materiali riservati soltanto ad una ristretta élite economica e sociale, di usufruire dei vantaggi in termini di benessere provenienti da una vasta gamma di nuovi beni di consumo. Ciò ha significato anche una diminuzione della fatica fisica a livello di massa, ma ha comportato soprattutto un imponente processo di socializzazione e modernizzazione, cioè di adattamento dei singoli individui all’ambiente sociale e culturale che li circonda e alle innovazioni in esso presenti. Si è verificato di conseguenza anche un innalzamento del livello del gusto nell’ambito dei consumi dei ceti medi

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e inferiori, riducendo così le distanze esistenti tra l’élite sociale e il resto della popolazione. Non sempre però quell’intenso sforzo per immettere nella società nuovi prodotti con i relativi messaggi pubblicitari che tutte le imprese simultaneamente producono determina degli effetti positivi. La competizione tra le imprese, infatti, non produce soltanto vantaggi per il consumatore, in quanto, in una situazione fortemente competitiva come quella attuale, ci sono delle difficoltà per le imprese più deboli, ma anche per i cosiddetti «consumatori massa», che sono economicamente e culturalmente deboli. Infatti, la competizione impone a molti produttori un insieme di costi crescenti. Questo fatto può ricadere sui consumatori in vari modi. Ad esempio, il produttore scarica a valle i costi aumentando i prezzi; non volendo aumentare i prezzi riduce la qualità; non potendo o non volendo fare né l’una, né l’altra cosa esce dal mercato. I primi due modi sono palesemente negativi, ma in molti casi lo è anche il terzo. In definitiva, se la competizione mette fuori gioco, via via, vari concorrenti finisce per perdere di senso: il mercato si deforma, nascono nuovi monopoli14.

Ne deriva che negli ultimi anni la condizione del consumatore medio è generalmente peggiorata dal punto di vista del potere di cui può disporre sul mercato. Dunque, in Occidente è possibile godere oggi di livelli di benessere senza precedenti, in quanto gli individui sono in grado di entrare in possesso di enormi quantità di beni di consumo con i relativi benefici di tipo funzionale. Eppure, inspiegabilmente, il tasso di soddisfazione psicologica dei suoi abitanti continua ad abbassarsi. Ciò succede negli Stati Uniti, i cui abitanti usufruiscono di livelli mai raggiunti prima di prosperità e abbondanza, eppure si rilevano segnali inediti di depressione e ansietà. Ma accade anche in molti paesi europei. È probabile che le cause di questa situazione debbano essere rintracciate nelle frustrazioni determinate dalla necessità di scegliere tra i molti beni disponibili

14   Gabriele Calvi, L’evoluzione del rapporto fra aziende e consumatori? È reale, apparente e inesistente, «Micro & Macro Marketing», a. IX, n. 3, dicembre 2000, p. 357. Si veda anche Alessandro Casiccia, I paradossi della società competitiva, Mimesis, Milano-Udine 2011.

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nelle attuali economie avanzate, necessità che costringe a scartare qualcosa che si ritiene possa essere potenzialmente altrettanto gratificante15, oppure nel crescente innalzarsi delle aspettative individuali in conseguenza di un sempre maggior incremento delle esperienze e delle competenze che vengono sviluppate da parte dei consumatori. Tutto ciò non spiega però completamente la crescita dei livelli di insoddisfazione. Sembra che la società faccia all’individuo delle promesse che non riesce a mantenere. Come ha sostenuto infatti la sociologa Renata Salecl, L’ideologia del capitalismo post-industriale tende a trattare le persone come individui per i quali il godimento non ha limiti. Si viene ritratti come esseri in grado di spingere fino all’infinito i confini del piacere, impegnati senza sosta a soddisfare desideri in perenne espansione16.

La realtà è ben diversa, ma le persone, proprio a causa del predominio di questa ideologia della libertà di scelta dell’individuo, si sentono responsabili per la loro mancata felicità. Spesso intraprendono dei percorsi di autodistruzione (dipendenze psicologiche di vario tipo, autolesionismo, anoressia, bulimia, ecc.), ma comunque si trovano a vivere una sensazione di vuoto esistenziale, nella quale il loro senso di autostima declina in maniera significativa. Il consumo rappresenta anche uno degli strumenti con cui si cerca di reagire a questo vuoto. E a volte funziona. Ma consumare oltre un certo limite non porta necessariamente alla soddisfazione. In generale, infatti, le gratificazioni legate al possesso dei beni, quando oltrepassano una soglia minima che varia a seconda della distribuzione della ricchezza nella società, producono un incremento sostanzialmente irrilevante. Questo perché, secondo gli psicologi, la felicità dipende, più che dalla ricchezza economica e dai beni posseduti, dalla capacità di essere pienamente coinvolti in ogni aspetto della propria vita, di realizzare le proprie potenzia-

15   L’argomento è stato esplorato soprattutto in Barry Schwartz, The Paradox of Choice: Why More is Less, Ecco Press, New York 2004. 16   Renata Salecl, La tirannia della scelta, Laterza, Roma-Bari 2011 [ed. or., 2010], p. 6.

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lità, di accrescere le proprie competenze e di contribuire anche al benessere altrui17. Pertanto costruire qualcosa con le proprie mani può rendere le persone molto più felici e soddisfatte rispetto a quando acquistano un prodotto offerto sul mercato, anche se si tratta di qualcosa che viene venduto a un costo elevato e gode di un grande prestigio nella società. Risulta quindi evidente che oggi l’ambito del consumo dev’essere necessariamente considerato paradossale, perché in esso si incontrano spinte contraddittorie, negative e positive al tempo stesso. Un ambito dove i migliori risultati si ottengono grazie alla presenza di una totale libertà d’azione. Solamente in questo modo, infatti, il sistema capitalistico può riuscire a esprimere al meglio le sue possibilità e a migliorare di conseguenza le condizioni degli individui. Ma, se tutti vengono lasciati liberi di operare, nel territorio del consumo si producono inevitabilmente anche contraddizioni e disparità sociali. È dunque indispensabile tentare di intervenire per correggere tali problemi. 17   Le ricerche in questo campo sono numerose. Si vedano soprattutto quelle condotte dallo psicologo Mihaly Csikszentmihalyi. Tra i suoi numerosi articoli, si può consultare The Costs and Benefits of Consuming, «Journal of Consumer Research», vol. 27, settembre 2000. Si vedano anche le ricerche riportate in Vanni Codeluppi, Manuale di Sociologia dei consumi, Carocci, Roma 2005

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Lo stilista Dirk Bikkembergs ha aperto nel 2009 a Milano un grande negozio al cui interno c’è un vero appartamento di 300 metri quadrati le cui lussuose stanze possono essere viste dall’esterno attraverso quindici vetrine che si affacciano sulla strada. Dentro vi ha messo ad abitare per più di un anno il giovane calciatore italiano Andrea Vasa. L’appartamento è completo di tutto e comprende anche una palestra per gli esercizi e un garage con una Porsche parcheggiata. È un’efficace metafora di quella «vita in vetrina» che caratterizza in maniera crescente la condizione esistenziale degli individui nelle società occidentali avanzate, perché proprio dalla vetrina prende il nome un importante processo sociale e culturale: la «vetrinizzazione». Tale processo ha alcuni aspetti in comune con quello della spettacolarizzazione. Come esso, infatti, cerca di dar vita a eventi memorabili nell’ambiente sociale, creando spettacoli che colpiscano le persone e le coinvolgano in profondità. Si caratterizza, dunque, per la sua capacità di messa in scena, per la costruzione accurata di una situazione in grado di esprimere qualcosa di sorprendente. La vetrinizzazione però è anche altro. Mira come la spettacolarizzazione a creare un effetto nell’ambiente sociale, ma cerca di far sì che tale effetto abbia la durata maggiore possibile. Si concentra, perciò, su una strategia orientata a mantenere sempre attivo l’interesse dell’interlocutore e asseconda costantemente quella necessità di presentarsi al meglio in società che è determinata proprio dal sentirsi sempre «in vetrina». Il processo di vetrinizzazione è dunque un fenomeno importante che caratterizza in maniera crescente le attuali società ipermoderne. È opportuno pertanto cercare di comprenderlo, come

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faremo ora ricostruendo le principali tappe della sua evoluzione storica, alcuni dei suoi più rilevanti aspetti odierni e le conseguenze che produce sulla vita degli individui. Nascita e sviluppo della vetrina La vetrina ha dato origine a un particolare modello di comunicazione. Ha avuto numerosi precursori che avevano in comune con essa il senso della spettacolarità – il teatro greco, l’arte della costruzione dei giardini, la prospettiva artistica rinascimentale, le wunderkammern (cioè quelle «camere delle meraviglie» che venivano realizzate dagli aristocratici europei nelle loro dimore)  –, ma è nei primi decenni del Settecento che il suo modello comunicativo si è effettivamente rivelato, come certificano le prime testimonianze scritte. Ad esempio, in una lettera del 1728, un viaggiatore francese che si era recato in Inghilterra raccontava così l’esperienza che aveva fatto: Quello che non abbiamo comunemente [in Francia] è il vetro, che è generalmente molto bello e chiaro. Le botteghe ne sono attorniate e di solito si dispone la merce dietro i vetri, il che la protegge dalla polvere, offrendola agli occhi dei passanti e formando un bel vedere da ogni lato1.

La vetrina probabilmente è comparsa perché si è profondamente modificato il rapporto esistente da secoli tra la bottega e la strada. Lo sviluppo demografico e commerciale delle città aveva sostituito infatti una clientela conosciuta e abituale con nuovi clienti ignoti e frettolosi che dovevano essere persuasi a entrare nelle botteghe. Ciò è stato possibile principalmente grazie all’introduzione della vetrina, che ha consentito di esporre verso la strada le merci. Si trattava in verità di una forma ancora primitiva di vetrina, costituita da lastre di piccole dimensioni unite tra loro, perché non era tecnicamente possibile realizzare vetri di grandi dimensioni. Nonostante ciò, la vetrina è diventata da quel mo-

1   Fernand Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli XVXVIII). I giochi dello scambio, Einaudi, Torino 1981 [ed. or., 1979], p. 44.

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mento in poi un fondamentale strumento per la messa in scena delle merci. È nato dunque in questo modo il negozio moderno, che ha perso progressivamente il laboratorio dove venivano realizzati i prodotti da mettere in vendita e ha puntato sulla sua capacità di attirare i clienti sul piano visivo. Lo spazio interno del negozio è andato sempre più allentando il legame con lo spazio esterno. Qui, infatti, si svolgeva in precedenza l’attività relazionale e di contrattazione, che ora veniva trasferita all’interno. Così come è cambiata la funzione delle merci: non più nascoste alla vista e stipate alla rinfusa in retrobottega inaccessibili al pubblico o in cassetti profondi e armadi chiusi da cui il venditore le prelevava per magnificarle, ma esposte sia in vetrina sia all’interno del negozio per cercare di catturare lo sguardo e il desiderio dei clienti. Ha cominciato pertanto a svilupparsi una nuova fase di evoluzione del commercio caratterizzata dalla presenza di beni che non traevano più la maggior parte del loro significato dal rapporto sociale che si sviluppava tra l’acquirente e il venditore. Il primo, infatti, si è emancipato e ha sviluppato una propria autonoma competenza d’acquisto. Progressivamente, l’intensa ingordigia di merci manifestata dalle nuove masse urbane ha determinato la necessità di passare dal negozio singolo alla prima forma di galleria commerciale coperta: il passage. Questo, concentrando al suo interno diversi negozi con le relative vetrine, ha amplificato la forza posseduta dalla singola vetrina. Ma la capacità comunicativa della vetrina è stata soprattutto rafforzata dalla possibilità tecnica di produrre, a partire all’incirca della metà dell’Ottocento, lastre di vetro di grandi dimensioni e quindi in grado di occupare l’intera esposizione esterna dei negozi. Le nuove vetrine hanno reso i colori delle merci decisamente più brillanti e la superficie di vetro trasparente sembrava esercitare sulle stesse merci un effetto simile a quello del vetro della cornice sui quadri degli artisti. È stato inoltre estremamente importante il ruolo svolto dall’illuminazione artificiale interna, la quale ha consentito di amplificare la trasparenza del vetro. I negozianti hanno cominciato perciò a cercare di attirare l’attenzione dei passanti sulle vetrine mediante spettacolari giochi di luce: hanno impiegato le vetrine come se fossero il palcoscenico di un teatro sul quale rappresentare uno

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spettacolo, considerando la strada come la platea e i passanti come il pubblico. Non è un caso, pertanto, che l’illuminazione delle vetrine abbia fedelmente adottato le regole che vengono seguite per l’illuminazione teatrale: In linea generale l’illuminazione delle vetrine ricalcò le orme dell’illuminazione teatrale. Sino a quando le fonti luminose furono troppo deboli per poter essere utilizzate indirettamente, vale a dire tramite riflettori, esse vennero poste sulla vetrina stessa, in mezzo alla merce. Quando con la luce a gas e con quella elettrica aumentò la portata del raggio luminoso, le fonti luminose scomparvero dal campo visivo [...] Con la luce elettrica, infine, che non dovette più essere installata all’esterno della vetrina per limitare il pericolo d’incendio, fu possibile riprodurre gli stessi effetti di luce che a teatro2.

Il risultato per i prodotti esposti in vetrina è stato di essere ulteriormente spettacolarizzati. Già all’inizio dell’Ottocento, la produzione di grandi quantità di merci, resa possibile dalla seconda rivoluzione industriale, e l’intensa fase di sviluppo che ha interessato i processi di metropolizzazione della società hanno progressivamente moltiplicato i consumi e i luoghi dove effettuare gli acquisti. Sono nati così anche i grandi magazzini, cioè spazi di grandi dimensioni, spesso articolati su più piani, che promettevano ai loro clienti di potervi trovare qualunque cosa. L’opera di seduzione e persuasione del consumatore anche in questo caso è stata esercitata dalle merci adeguatamente messe in scena. Anche il grande magazzino si è trasformato dunque in una nuova forma di teatro. La logica comunicativa della vetrina, basata sulla messa in scena spettacolare dei prodotti, si è così progressivamente estesa all’intera superficie dei luoghi di vendita e a spazi sempre più vasti. Lo dimostrano, nel Novecento, la nascita e il sempre più intenso successo ottenuto a livello planetario dal modello statunitense del centro commerciale e lo sviluppo di tutti i principali tipi di luoghi del consumo: alberghi, ristoranti, cinema, musei, parchi a tema, aeroporti, Internet, ecc. Ma, più in generale, negli ultimi 2   Wolfgang Schivelbusch, Luce. Storia dell’illuminazione artificiale nel secolo XIX, Pratiche Editrice, Parma 1994 [ed. or., 1983], pp. 151-152.

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decenni si è presentato un processo di progressiva vetrinizzazione anche della società, vale a dire un’adozione da parte dei principali ambiti sociali di quel particolare modello di comunicazione che contraddistingue dal Settecento le modalità comunicative delle vetrine. Il risultato finale di questo processo è che oggi tutto viene progettato e realizzato per apparire bello e seducente. Dai prodotti agli alberghi, dalle biblioteche ai piatti dei ristoranti, dalle automobili alle divise dei calciatori, tutto quanto viene curato in maniera maniacale dal punto di vista estetico. Stilisti e designer di grido fanno a gara per ricoprire con la loro creatività ogni cosa e va segnalato che addirittura i morigerati frati francescani di Assisi hanno chiesto qualche anno fa a una stilista di rinnovare la loro veste3. Insomma, appare evidente che la progressiva diffusione nell’intero sistema sociale della logica comunicativa propria della vetrina determina un processo di estensione della dimensione estetica ai principali ambiti della vita sociale. Il modello di comunicazione che la vetrina impone in maniera crescente nella società si caratterizza inoltre per la sua capacità di stimolare tutti i sensi del corpo umano e in particolare la vista. La vetrina, infatti, ha insegnato soprattutto a coltivare l’arte dello sguardo e ha contribuito a far sorgere quella vera e propria passione per l’immagine visiva che ha caratterizzato nel corso degli ultimi due secoli la cultura del mondo occidentale. Davanti alla vetrina, l’individuo occidentale ha progressivamente imparato però anche una fondamentale modalità di rapporto con il mondo. In sostanza, ha compreso che era diventato necessario affrontare la vita da soli e senza più quei rassicuranti legami garantiti dall’esistenza comunitaria. Nelle comunità preindustriali, infatti, tutti si conoscevano e ciascuno era potenzialmente disponibile ad aiutare gli altri nel momento del bisogno. Invece, nelle organizzazioni sociali che si sono imposte in Occidente negli ultimi secoli in seguito allo sviluppo dei processi di industrializzazione, l’individuo si è sempre più dovuto abituare a un’esistenza solitaria. Proprio come quando ha cominciato a capire che non si

3   Vicente Verdú, Pianeta McTerra. Consumatori globali nell’epoca del capitalismo di finzione, Sperling & Kupfer, Milano 2004 [ed. or., 2003], pp. 132-133.

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trovava più davanti a un venditore che conosceva da tempo, ma a una messa in scena preparata per tutti gli estranei che potevano passare di lì. La vetrina ha rappresentato così un potente strumento di presa di coscienza, anche perché permetteva di vedere contemporaneamente l’immagine del prodotto e quella di chi gli stava davanti. È stata, quindi, una sorta di specchio che ha portato l’individuo ad essere sempre più consapevole della sua nuova condizione di solitudine. In quella vetrina si rispecchiava non soltanto, attraverso l’incerta immagine riflessa dal vetro, un corpo che si trovava lì davanti, ma anche un essere umano che acquisiva progressivamente consapevolezza del suo nuovo ruolo. E mentre imparava a riconoscere il linguaggio delle merci, comprendeva anche come a operare questo riconoscimento fosse egli stesso, un soggetto autonomo e libero di farlo. Il modello di comunicazione della vetrina è caratterizzato anche dalla centralità del momento in cui l’attenzione del passante dev’essere colpita. Vive infatti della stessa istantaneità che caratterizza i consumi, i quali si basano su quella gratificazione che deriva all’individuo dal poter godere dell’ultima novità. In entrambi i casi, ciò che è stato selezionato con cura dal passato e dalla tradizione non interessa più. Coinvolge soltanto ciò che è nuovo e diverso. Infine, lo spazio della vetrina rappresenta anche una dimensione profondamente diversa rispetto alla realtà fisica vissuta ogni giorno dalle persone. Costituisce infatti uno spazio «di sogno» che, pur essendo totalmente artificiale, coinvolge in profondità e invoglia a entrare al suo interno, perché si presenta come ideale, perfetto e privo di qualsiasi problema. Vivere in vetrina La comparsa della vetrina ha modificato il rapporto che gli individui instaurano con la loro immagine personale. Nell’antichità e praticamente sino a tutto il Medioevo erano di solito gli artigiani che producevano e vendevano beni di lusso a recarsi nelle abitazioni dei loro clienti aristocratici per fare affari e consegnare tali beni. Ma il Rinascimento ha modificato questa abitudine, invertendo i ruoli esistenti tra il venditore e il compratore. Infatti, a partire da tale periodo, «erano quasi sempre i clienti ad andare nelle

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botteghe degli artigiani; questa tendenza trasformò tale tipologia d’acquisto in un’attività semipubblica e trascinò il lusso e l’ostentazione fuori dalle corti, sulle strade»4. L’immagine personale che si mostra in pubblico è diventata cioè sempre più significativa, anche perché gli aristocratici hanno cominciato a perdere terreno nella società, mentre parallelamente i nuovi borghesi conquistavano potere e dunque entrambi erano insicuri rispetto alla posizione che effettivamente occupavano nella gerarchia sociale. Nel Seicento, la progressiva diffusione nelle case benestanti dello specchio, all’epoca un oggetto considerato raro e prezioso, ha accresciuto il valore dell’immagine personale. Infatti, guardarsi allo specchio ha sviluppato negli individui la consapevolezza dell’importanza del proprio aspetto esteriore; ovvero, ha comportato la coscienza della necessità di preoccuparsi di come si appare agli altri e di come ci si può di conseguenza migliorare. Ma è stata la vetrina, in seguito, a proporre un vero e proprio modello di valorizzazione di ciò che viene messo in scena. Un modello che si è sempre più diffuso socialmente e del quale la pubblicità, a partire dalla fine dell’Ottocento, ha fatto tesoro, sviluppando anch’essa la propria arte della valorizzazione del prodotto. È così anche dalla vetrina e dalla pubblicità che gli individui hanno progressivamente imparato a costruire e gestire la propria identità personale. E hanno dovuto farlo perché si sono progressivamente disgregate le barriere esistenti tra il pubblico e il privato, imponendo a tutti l’obbligo sociale di promuovere al meglio la propria immagine. È possibile pertanto sostenere che le attuali società avanzate sono diventate delle «società performative»5, perché in esse gran parte delle attività professionali e sociali sono vissute come delle performance da compiere. Gli individui vengono considerati dei performers e percepiscono se stessi allo stesso modo. Dunque, la vita sociale si presenta come un’attività di continua rappresentazione e ciascuno si esibisce contemporaneamente per gli altri e per se stesso. Ne consegue che si ricerca avidamente tutto ciò che serve per 4   Thomas Hine, Lo voglio! Perché siamo diventati schiavi dello shopping, Orme Editori, Milano 2004 [ed. or., 2002], p. 93. 5   Nick Abercrombie e Brian Longhurst, Audiences: A Sociological Theory of Performance and Imagination, Sage, London-Thousand Oaks 1998.

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differenziarsi e mettersi in luce agli occhi altrui. Storicamente, gli individui hanno sempre avuto a disposizione a tale scopo gli «status symbols», cioè oggetti dotati di un elevato valore economico e di caratteristiche di visibilità tali da consentire la loro esibizione in società. Già alla fine dell’Ottocento è stato definito da Thorstein Veblen «consumo vistoso»6 questo particolare utilizzo dei beni, nel quale l’individuo ostenta ciò che possiede per comunicare la sua posizione sociale. Negli ultimi decenni, il valore economico, pur rimanendo importante, ha ridotto la sua presenza a vantaggio della capacità dei beni di esprimere significati di tipo culturale. I significati di status continuano però a essere molto presenti nel mondo dei beni. Non si spiegherebbe altrimenti il successo che hanno avuto negli ultimi anni numerosi prodotti di lusso come le borse firmate dagli stilisti o quelle specie di «vetrine ambulanti» che sono i giganteschi fuoristrada che affollano molte strade urbane. Ma oggi anche piccoli oggetti tecnologici come lo smartphone possono funzionare come status symbol da esibire socialmente. Essi, infatti, differenziano gli individui tra loro perché comunicano la capacità dei loro possessori di effettuare scelte di gusto acquistando un oggetto particolarmente attuale o dal design raffinato. Naturalmente, anche la dimensione fisica del corpo può essere esibita e a questo scopo uno strumento particolarmente utilizzato è costituito dall’attività sportiva. Non a caso questa tende oggi sempre più a presentarsi sulla scena sociale, più che come prestazione, come strumento di esibizione delle capacità personali dell’individuo. È il caso degli sport estremi, ma anche dei cosiddetti «nextgames»7, un insieme articolato di attività che comprende, ad esempio, le arrampicate sulle pareti degli edifici (bouldering), le discese lungo ripidi pendii su una tavola dotata di ruote (inline boarding), lo spostarsi da un luogo all’altro superando le architetture urbane (parkour), il correre all’indietro (retro running) e il calcio praticato in bicicletta (cycleball). Tra gli strumenti a disposizione del soggetto per praticare una 6   Si veda Vanni Codeluppi, Manuale di Sociologia dei consumi, Carocci, Roma 2005. 7   Andrea Pollarini e Lorenzo Scatigna, Nextgames, FrancoAngeli, Milano 2006.

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strategia esibitiva del corpo rientrano anche il tatuaggio e il piercing. Ma c’è anche chi si fa decorare in maniera vistosa le unghie, che diventano, ad esempio, lunghissime, laccate, dipinte, tatuate e tempestate di strass. I capelli, invece, si fanno rasta, frisé, colorati, maculati o allungati con le extension. Mentre gli occhi cambiano colore a seconda delle occasioni con lenti a contatto dedicate e i denti vengono resi sempre più bianchi con svariate tecniche. Naturalmente, anche l’abbigliamento rientra tra gli strumenti a disposizione dell’individuo per valorizzare la sua identità personale. Hanno cominciato i giovani delle subculture d’avanguardia, praticando quello che è stato chiamato «style surfing»8, ovvero il miscelare in assoluta libertà stili e codici vestimentari per differenziarsi dagli altri. Poi anche le persone comuni hanno iniziato ad adottare la strategia della dress-fiction, ovvero una moltiplicazione creativa degli stili vestimentari adottati. Un giorno ragazza bene, il giorno successivo o solo qualche ora dopo seducente femme fatale, ecc. Il successo mondiale che grandi catene d’abbigliamento come Zara ed H&M stanno riscuotendo da qualche anno può essere spiegato anche con la possibilità che offrono ai consumatori di soddisfare il loro bisogno di un continuo cambiamento identitario rinnovando quasi ogni settimana l’offerta nei punti vendita con capi estremamente accessibili dal punto di vista economico. Persino l’abbigliamento intimo si «vetrinizza». In passato infatti esso era qualcosa di cui vergognarsi, o da mostrare solamente nel segreto dell’alcova, mentre oggi è diventato una fondamentale componente del linguaggio del vestire oltre che un importante strumento di seduzione. Come mostrano da qualche anno i giovanissimi che fanno sporgere ad arte le mutande dal bordo dei loro pantaloni. Così come si «vetrinizzano» coloro che nel tempo libero indossano con amici armature e costumi per ricostruire fedelmente l’ambiente dei tornei che si svolgevano nel Medioevo o che si vestono come i loro beniamini del mondo dei fumetti. Questi ultimi sono i cosiddetti «cosplayers» (costume + players), che realizzano 8   Il concetto è stato presentato in Ted Polhemus, Style Surfing: What to Wear in the 3rd Millennium, Thames & Hudson, London 1996. Sull’argomento si veda anche Vanni Codeluppi, Che cos’è la moda, Carocci, Roma 2002.

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autonomamente i costumi da indossare in quelle sfilate e gare che si tengono nelle sempre più numerose fiere del fumetto9. Addio alla privacy «Vetrinizzarsi» non è un semplice mostrarsi, che comporta la possibilità di trattenere qualcosa per sé, di difendere la propria dimensione interiore. L’individuo che si mette in vetrina si espone allo sguardo dell’altro e non può sottrarsi a tale sguardo. Tutto dev’essere esposto e non è possibile lasciare nascosti sentimenti, emozioni o desideri. Va considerato inoltre che il modello di comunicazione che caratterizza la vetrina produce un effetto di vera e propria dipendenza psicologica. L’attenzione delle persone per ciò che viene messo in vetrina si consuma rapidamente, ed è necessario iniettare dosi sempre più elevate di spettacolarità. Una volta avviata, dunque, la vetrinizzazione sembra trasformarsi inevitabilmente per chiunque in un obbligo sociale che non può essere evitato. Nessuna sorpresa, allora, se le società ipermoderne sono sempre più caratterizzate dallo sviluppo di una cultura dello strip tease, nella quale cioè «la nudità pubblica, il voyeurismo e il guardare la sessualità sono permessi, addirittura incoraggiati come non era mai successo prima»10. Non è un caso che in un sondaggio il 48% degli italiani abbia dichiarato di essere disposto a spogliarsi e a mostrarsi nudo in pubblico11. La cultura dello strip tease si è sviluppata anche in conseguenza della funzione esercitata da parte del cinema e del sistema dei media, i quali hanno giocato con il loro esempio un ruolo particolarmente importante nel processo di legittimazione della sfera privata e sessuale degli individui. Negli ultimi anni, poi, Internet ha legittimato l’idea che anche i personaggi socialmente più importanti siano accessibili. Dunque, come ha sostenuto Joshua

  Luca Vanzella, Cosplay culture. Fenomenologia dei costume players italiani, Tunué, Latina 2005. 10   Brian McNair, Striptease Culture: Sex, Media and the Democratisation of Desire, Routledge, London-New York 2002, p. ix. 11   Alessandra Appiano, Tu ti metteresti nudo?, «Donna moderna», a. XXI, n. 15, 16 aprile 2008. 9

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Meyrowitz, i media elettronici tendono a portare in primo piano tutto quello che in precedenza rimaneva nascosto, ovvero «rendono pubblica un’intera serie di informazioni un tempo confinate alle interazioni private»12, e rivelano informazioni che una volta venivano scambiate unicamente tra individui che si osservavano reciprocamente in modo diretto e ravvicinato. Ne è derivato che si è anche progressivamente disgregata la barriera esistente tra quei due ambiti fondamentali della vita sociale degli individui che Erving Goffman13 ha chiamato la «ribalta» e il «retroscena». Un tempo, l’atto di mettersi in mostra possedeva dei significati di volgarità e rozzezza, ma oggi tutti i media (Internet compresa), esponendo pubblicamente ciò che prima stazionava nel retroscena, hanno avvicinato alle persone comuni i corpi dei personaggi importanti contribuendo a desacralizzarli. L’hanno fatto creando uno spazio intermedio come quello della vetrina, che si colloca tra la sfera pubblica e quella privata, tra la scena e il retroscena, dove dunque ciò che prima apparteneva al privato viene ora liberamente esposto in pubblico. Si pensi alle «disavventure sessuali» dell’ex presidente degli Stati Uniti Bill Clinton o a quelle analoghe in Italia di Silvio Berlusconi. Non è un caso che l’ex moglie di questi, Veronica Lario, abitualmente discreta e riservata, abbia inviato una lettera contenente una richiesta di scuse al marito al quotidiano «la Repubblica», il quale l’ha pubblicata in apertura della prima pagina il 31 gennaio 2007. Questo fenomeno non riguarda però solamente i politici, gli attori e i personaggi dello spettacolo, ma anche le persone comuni. Sono stati stimati in circa 500.000 coloro che oggi in Italia frequentano quei 200 club privé dove è possibile effettuare lo scambio del partner, dove cioè la coppia si apre all’esterno e non ha problemi a spogliarsi e praticare attività sessuali davanti a degli sconosciuti14. Anzi, le persone sembrano provare piacere per il fatto di poter esi-

12   Joshua Meyrowitz, Oltre il senso del luogo. Come i media elettronici influenzano il comportamento sociale, Baskerville, Bologna 1995 [ed. or., 1986], p. 155. 13   Erving Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, Bologna 1969 [ed. or., 1959]. 14   Valeria Teodonio e Fabio Torracci, Vacanze con scambio di coppia, la nuova frontiera della trasgressione, «la Repubblica», 26 giugno 2008.

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bire le proprie performance sessuali davanti agli altri. D’altronde i media incitano continuamente gli individui a parlare della loro sessualità o a rivelare pubblicamente dettagli relativi alla loro dimensione intima. Sono nati infatti diversi programmi televisivi in cui persone comuni mostrano senza problemi le loro faccende private a milioni di spettatori. Ma ci sono anche numerosi individui che hanno installato delle webcam a casa propria e si fanno vedere in diretta da sconosciuti su Internet, persino mentre si spogliano o svolgono le loro attività più intime. E il sito Suicide Girls è animato da più di 2.000 ragazze che non hanno paura di esporre il loro corpo senza veli. Molte ragazze vivono addirittura lo spogliarsi in Rete come una specie di «rito di passaggio» contemporaneo. Forse perché la webcam dà loro l’illusione di mostrarsi unicamente a un apparecchio e non a persone in carne ed ossa. Negli Stati Uniti si stima che circa un terzo dei ragazzini e delle ragazzine tra i 13 e i 19 anni abbiano praticato il cosiddetto «sexting», cioè si siano scambiati propri ritratti in pose sexy15. Ci sono anche persone che in questo modo riescono a sopravvivere. Sono la nuova vasta schiera di quelli che possono essere chiamati «lavoratori del cybersesso» perché si spogliano sul Web in cambio di un compenso. Simulano l’eccitazione sessuale, il piacere o l’orgasmo davanti all’obiettivo e rispondono agli ordini che i clienti inviano loro sotto forma di brevi testi, con la tastiera o a parole. Sono retribuiti a percentuale sui tempi di una connessione a pagamento, ma il loro guadagno alla fine è decisamente modesto. Si tratta pertanto di un nuovo tipo di proletariato mondiale sfruttato da siti come Live Jasmin, che dichiara di disporre di circa 30.000 ragazze e 10.000 ragazzi pronti a vendere a chiunque le immagini del loro corpo16. Nelle società contemporanee tutto sembra dunque essere preparato e messo in scena per l’occhio della videocamera, che lo registra e lo certifica attribuendogli una patente di «vera realtà». Attraverso gli schermi video, gli appartamenti privati entrano così in un rapporto che li mette in diretta comunicazione tra loro. D’altronde, le pareti di vetro vengono utilizzate oggi non solamente   Michele Neri, L’età del sexting, «D», n. 704, 24 luglio 2010.   Olivier Aubert, Lavoratori del cybersesso, «Le Monde Diplomatique-il manifesto», a. XVIII, n. 5, maggio 2011. 15 16

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per gli edifici destinati a un uso pubblico, come ad esempio i musei o gli hotel, ma anche per le abitazioni private. A New York li chiamano «appartamenti acquario», perché le persone che vi abitano sono continuamente esposte, esattamente come si espongono nei processi relazionali a cui partecipano su Internet. E, come in questo caso, anziché sentirsi più indifese, hanno l’impressione di essere maggiormente al sicuro, perché sono connesse grazie al vetro con la città che le circonda e soprattutto con la comunità umana che vive in essa. Va considerato inoltre che il fatto di essere spiate dà probabilmente alle persone la sensazione che la loro vita contenga qualcosa di interessante per qualcuno: una sorta di garanzia di autenticità all’interno di un’esistenza sempre più artificiale. Ma evidentemente dall’altra parte c’è qualcuno che prova interesse per quello che viene mostrato. Si sta sviluppando cioè una potente domanda per qualsiasi cosa appartenga alla realtà o si presenti come «vera», la quale rappresenta probabilmente, anche in questo caso, una reazione a una vita quotidiana dominata dalla mediatizzazione e dall’artificializzazione. Com’è noto, Norbert Elias17 ha sostenuto che dall’XI al XVII secolo lo sviluppo del processo occidentale di civilizzazione ha prodotto la necessità di una progressiva separazione tra la sfera pubblica e quella privata della vita umana. In realtà, ciò ha riguardato soprattutto la borghesia dell’Ottocento, la quale ha saputo erigere un muro intorno alla propria intimità domestica. Viveva in modo confortevole e possedeva patrimoni. Le sale di ricevimento erano separate dal rifugio della famiglia. Dietro la porta d’ingresso era situata l’anticamera, dove venivano selezionati e trattenuti gli ospiti. Chi non era invitato non andava oltre18.

Prima dell’avvento al potere della borghesia, infatti, tutto avveniva per strada e la sicurezza degli individui era garantita dalla soli-

17   Norbert Elias, La civiltà delle buone maniere. La trasformazione dei costumi del mondo aristocratico occidentale, Il Mulino, Bologna 1998 [ed. or., 1939]. 18   Wolfgang Sofsky, In difesa del privato, Einaudi, Torino 2010 [ed. or., 2007], p. 79.

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dità dei legami comunitari esistenti. Fino alla Rivoluzione francese provare paura era considerato indegno. La vita degli aristocratici era costantemente sotto gli occhi di tutti ed essi non si preoccupavano di ciò. Ma con l’arrivo della borghesia, nell’Ottocento, si è affermato uno dei principi di base del liberalismo, ovvero l’idea che, poiché è necessario tutelare la proprietà privata dell’individuo, si deve anche operare una netta separazione tra lo spazio privato e quello pubblico, tra la vita intima e ciò che si trova al suo esterno. Il pudore ha assunto così un particolare valore. In seguito, con il diffondersi del benessere economico, questo modello si è esteso anche ai ceti popolari. Oggi però, dopo più di un secolo, accade sempre più frequentemente che le persone tendano a voler rinunciare al proprio diritto alla privacy. Non vi è più niente di riservato e, ad esempio, si parla senza problema al telefono, in luoghi pubblici, delle faccende più intime, esibendo con tranquillità la propria vita privata davanti ad estranei. La dimensione privata sta così lentamente trasformandosi in quella pubblica. Insomma, «la privacy ha invaso, conquistato e colonizzato la sfera pubblica, ma al prezzo di perdere il suo diritto alla segretezza, suo tratto distintivo e privilegio più caro e più gelosamente difeso»19. Tutto ciò accade anche perché nell’attuale economia della conoscenza la ricchezza si genera soprattutto attraverso i flussi e la circolazione. Chi trasmette conoscenze ad altri non perde il suo patrimonio e anzi guadagna qualcosa dall’impulso che determina nei flussi complessivi del sistema. Dunque, tutte le barriere devono essere eliminate per facilitare lo sviluppo dei flussi, e il valore della proprietà privata viene progressivamente sostituito dal valore di quel diritto all’«accesso» di cui ha parlato Jeremy Rifkin20.   Zygmunt Bauman, La fine dell’intimità, «la Repubblica», 9 aprile 2011.   Jeremy Rifkin, L’era dell’accesso. La rivoluzione della new economy, Mondadori, Milano 2000 [ed. or., 2000]. 19

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Qualche anno fa, negli Stati Uniti, i due fratelli gemelli Matt e Mike Schlepp si sono sottoposti a diversi interventi di chirurgia plastica allo scopo di assomigliare il più possibile al celebre attore e sex symbol Brad Pitt1. Si sono fatti modificare il naso, le guance, il mento e i denti. E non si tratta di un caso isolato. Si pensi, ad esempio, alle diverse donne che, sempre negli Stati Uniti, si sono fatte ridurre chirurgicamente la lunghezza delle dita dei piedi e iniettare collagene nella pianta per poter indossare le scarpe del famoso stilista Manolo Blahnik, che disegna modelli dal tacco alto resi celebri dalle quattro amiche protagoniste del serial televisivo Sex and the City e particolarmente faticosi da calzare. Sono numerose le persone che oggi impiegano come modello estetico da imitare i corpi dei divi del cinema e del mondo mediatico. Se ciò avviene è perché in quella situazione di profonda incertezza che caratterizza le attuali società ipermoderne gli individui hanno sempre più bisogno di modelli di riferimento e nei divi trovano modelli facilmente disponibili. Sono infatti costretti a vivere continuamente in una condizione di nomadismo sia negli spazi fisici sia all’interno delle reti informatiche e non possono più aggrapparsi ai rassicuranti punti fermi forniti dalla tradizione. Si convincono perciò del fatto che se il divo con il corpo che ha a disposizione è riuscito a ottenere un notevole successo, sia sufficiente esibire lo stesso corpo per avere il medesimo successo.

  Marc Peyser, Absolutely the Pitts, «Newsweek», 12 aprile 2004.

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Il ruolo del divo nella società Probabilmente non è un caso che proprio negli anni Dieci del Novecento l’industria cinematografica hollywoodiana abbia inventato la figura del divo con personaggi come Mary Pickford, Lillian Gish, Gloria Swanson, Charlie Chaplin, Douglas Fair­ banks e Rodolfo Valentino2. In quegli anni infatti l’intero sistema industriale americano stava compiendo un elevato salto di qualità introducendo uno strumento di produzione efficiente come la catena di montaggio e adottando per la prima volta delle strategie di marketing. Analogamente, dunque, anche le case di produzione di Hollywood hanno migliorato la loro efficienza aziendale grazie alla creazione del modello del divo. Nel corso del Novecento, il processo di industrializzazione è progredito e il divo ha visto crescere la sua importanza sociale. Si è così verificato un notevole incremento dell’interesse delle persone per tutto quello che fanno nella loro esistenza i personaggi importanti della società e dello spettacolo, con il risultato che la vita privata dei divi (siano essi presentatori, attori, cantanti o politici) è costantemente osservata attraverso la lente d’ingrandimento dei media. Lo dimostra il fatto che il pettegolezzo, ovvero il cosiddetto «gossip», non soltanto ha visto crescere esponenzialmente il numero delle riviste ad esso dedicate, ma ormai è dilagato in pressoché tutto il mondo dei media: dai quotidiani più austeri ai telegiornali, dai varietà televisivi a Internet. Da che cosa deriva questo crescente interesse sociale per il mondo dei divi? Innanzitutto dal fatto che tutti, nessuno escluso, sono irresistibilmente attratti dal gossip. In generale, guardare attraverso qualche «buco della serratura» e poter vedere all’interno della dimensione privata delle persone provoca un’elevata soddisfazione. A maggior ragione se si ha a che fare con persone famose. Perché in questo caso non c’è solamente il piacere voyeuristico di poter conoscere la vita intima di qualcuno, ma anche la soddisfazione impagabile di mettersi in qualche misura sullo stesso piano del divo, di sentirsi parte del suo mondo ricco di 2   Sul divismo nel cinema hollywoodiano si vedano Roberto Campari, Miti e stelle del cinema, Laterza, Roma-Bari 1985 e Francesco Pitassio, Attore/Divo, Il Castoro, Milano 2003.

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privilegi, benessere e prestigio. In realtà si tratta di un’illusione, ma il meccanismo funziona in una maniera straordinariamente efficace sul piano psicologico. Va poi anche considerato il fatto che il processo di vetrinizzazione costringe gli individui a mettere in scena nella maniera migliore possibile se stessi e il proprio corpo, esattamente come le merci esposte in vetrina. È inutile meravigliarsi allora se i comportamenti delle celebrità stanno sempre più diventando il principale modello sociale di riferimento. Tutti vogliono sentirsi, almeno per qualche tempo, come quei divi che vivono continuamente sotto i riflettori, ma che hanno dimostrato di saper gestire al meglio questa situazione e possono nel contempo godere di una vita piena di privilegi. Certo, la condizione dei divi odierni è profondamente diversa rispetto a quella dei divi tradizionali affermatisi nell’epoca d’oro dello star system del cinema hollywoodiano. In passato, della vita privata del divo si conosceva pochissimo, mentre l’odierna industria del gossip fa sapere tutto. L’avvento della televisione e di un sistema delle comunicazioni sempre più pervasivo ha infatti progressivamente «mondanizzato» i divi. Questi una volta erano considerati essenze intangibili, soggetti lontani che vivevano in una condizione di livello superiore a quella degli esseri umani e quasi divina. O meglio, erano vissuti come «esseri ibridi»3, allo stesso tempo umani e divini, reali e immaginari. Esseri comunque distanti, seppure in grado di stimolare speranze di divinizzazione nei comuni mortali; di mostrare, cioè, che era possibile diventare star, perché si trattava pur sempre di persone umane. Oggi invece i divi si presentano maggiormente inseriti nello spazio della quotidianità. Le star del passato inoltre rimanevano identiche a se stesse passando da un film all’altro. Oggi invece gli attori sono costretti di solito a offrire elevati livelli di prestazione interpretativa in ruoli spesso molto differenti tra loro. Anzi, la loro bravura aumenta proprio quando dimostrano di saper recitare al meglio in ruoli estremamente diversi. Diventano così dei «mutanti» che devono sapersi trasformare e rinnovare ad ogni prestazione spettacolare. Ma, una volta che l’appartenenza al mondo dei divi venga fatta

  Edgar Morin, I divi, Garzanti, Milano 19772 [ed. or., 1957].

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dipendere da un principio di prestazione (la performance dell’attore), l’accesso a tale mondo diventa libero per chiunque sia in grado di fornire una prestazione adeguata. Questo determina un ulteriore impoverimento del valore e del prestigio attribuito nella società al divo. A fianco di questo divo «prestazionale» oggi si apre però uno spazio anche per un nuovo modello di divo, per il quale scompare la necessità di offrire una performance attoriale di elevato livello. Sempre più frequentemente l’immaginario sociale si popola infatti di personaggi scarsamente dotati di competenze o capacità professionali e diventati celebri soprattutto grazie alla loro costante presenza mediatica. Sono personaggi, ad esempio, come Fabrizio Corona, Nina Moric e Belén Rodríguez. Il critico televisivo Paolo Martini ha chiamato questo fenomeno «Lelemorismo», dal nome dell’agente dei vip dello spettacolo Lele Mora, che consiste nel «prendere i personaggi dal nulla, venderli per pochissimo denaro alla tv, dilatarne l’immagine con i soliti trucchetti del gossip, rivenderli per più soldi sul mercato delle serate, e infine moltiplicarne man mano il valore»4. Ma rientrano all’interno di questa nuova categoria di divi anche le persone sconosciute che diventano note soltanto grazie alla loro partecipazione a un qualche evento o a un determinato programma televisivo, come ad esempio un quiz o un reality show. Ciò che conta comunque è che il divo, di qualsiasi genere esso sia, tende sempre a essere visto come una specie di specchio, come un personaggio dotato di un maggior livello di prestigio, ma non molto differente da chi lo guarda e rispetto al quale soprattutto è possibile identificarsi. Il suo successo testimonia che anche la persona comune ha la possibilità di riuscire ad ottenere gli stessi risultati. Spesso il processo di identificazione si innesca anche presentando divi pieni di insicurezze e dubbi, ma proprio per questo maggiormente veri e in grado di coinvolgere le persone, le quali si sentono così più vicine a loro. Il fan considera solitamente il divo come una specie di protesi della sua mente5. Il divo funziona, dunque, come una sorta di   Paolo Martini, Reality shock, Aliberti, Roma-Reggio Emilia 2007, p. 47.   Cornell Sandvoss, Fans: The Mirror of Consumption, Polity Press, Cambridge 2005. 4 5

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«estensione del Sé». Ciò è stato dimostrato da diverse ricerche psicologiche, le quali hanno evidenziato come il fan fatichi a stabilire dei precisi confini tra sé e il divo verso il quale rivolge il suo fanatismo, perché sviluppa nei suoi confronti una vasta gamma di fantasie identificatorie di rassomiglianza o imitazione. E spesso cerca di rassomigliargli veramente, ricorrendo alle possibilità offerte dalla chirurgia plastica, come hanno fatto i due fratelli americani Schlepp che hanno tentato di assomigliare a Brad Pitt. Ma anche vestendosi, pettinandosi e truccandosi imitando il proprio divo, come i fan di numerosi cantanti e gruppi musicali. Già negli anni Sessanta si è sostenuto che il mondo dei divi si caratterizza per essere un’«élite senza potere»6. Si voleva cioè esprimere l’idea che i divi dello spettacolo sono differenti dagli appartenenti alle élite tradizionali, i quali sono caratterizzati soprattutto dalla possibilità di gestione del potere politico. La società impedisce ai divi di entrare nell’ambito della politica, così come allo stesso tempo preclude ai politici la via del divismo, perché dalla fusione del mondo del divo con quello del potere tradizionale può nascere un grave pericolo per le società democratiche: il pericolo che il carisma del politico si possa trasferire al divo, i cui comportamenti sono spesso discutibili sul piano morale. Il divo infatti può permettersi di essere trasgressivo e di non dover sottostare alle regole della morale corrente proprio in virtù della sua collocazione in una posizione sociale nettamente separata dal potere politico tradizionale. Una posizione nella quale il divo può prendere delle decisioni che non sono in grado di nuocere al destino della società e dove valgono le stesse regole di libertà che sono proprie di quella dimensione creativa che caratterizza solitamente il suo lavoro. I divi sono pertanto liberi di condurre una vita sregolata e dissoluta, spesso anche mettendo a dura prova la loro salute psicofisica. La situazione evidentemente negli ultimi anni è decisamente cambiata. I divi dello spettacolo e i personaggi del potere tradizionale si mescolano in maniera crescente. I politici sono spesso ospiti di richiamo in varietà e programmi televisivi o si fidanzano con modelle e star dello spettacolo. In diversi paesi accade ormai   Francesco Alberoni, L’élite senza potere, Vita e Pensiero, Milano 1963.

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da molti anni che personaggi provenienti dal mondo della televisione e dello spettacolo entrino direttamente in Parlamento. Va considerato del resto che oggi la situazione è cambiata anche perché il mondo della politica ha perso gran parte di quel potere che possedeva in passato e che rappresentava la principale fonte del suo prestigio. L’evoluzione della società ha reso infatti meno importante l’élite del potere tradizionale. Il potere, più che nella politica e nelle istituzioni, oggi si trova infatti nella società, nel possesso delle informazioni che contano in un determinato momento e nel trovarsi nella posizione giusta all’interno delle reti sociali per poter entrare in contatto con tali informazioni. Ciò comporta di dover frequentare determinati ambienti e rituali sociali: e appartenere all’élite dei divi dello spettacolo indubbiamente aiuta. Si pensi inoltre che il divo dello spettacolo rappresentava un oggetto d’interesse da parte delle persone solamente per la sua vita privata, per ciò che faceva nel suo specifico ambiente sociale, mentre il politico suscitava attenzione esclusivamente per il suo ruolo pubblico. Il divo soddisfaceva perciò il bisogno diffuso di pettegolezzo: in cambio di una vita piena di libertà e di privilegi, doveva accettare di esporre pubblicamente la sua vita privata. Oggi invece anche il politico è costretto a consentire l’accesso dei media e dell’opinione pubblica nel suo spazio personale. E conseguentemente gode nella vita privata di un livello di libertà che si avvicina in maniera crescente a quello del divo. Tra James Dean e Paris Hilton: il cambiamento del divo Il televisore acceso dietro all’attore James Dean in una scena del celebre film Gioventù bruciata (1955) mostrava uno schermo pieno di puntini luminosi e sembrava reclamare simbolicamente quell’intenso flusso di programmi che in seguito è arrivato e ha profondamente cambiato il ruolo svolto nella società dai divi. Dean, infatti, è stato probabilmente allo stesso tempo l’ultimo dei grandi divi dell’epoca hollywoodiana e il primo dei divi della nuova era televisiva. Era certamente un divo, ma non incarnava quel modello di vita ideale e pienamente realizzata che sino a quel momento era proprio degli attori del cinema di Hollywood. Non soltanto perché è morto giovane al volante della sua Porsche, ma soprattutto perché nelle pellicole che ha interpretato la sua per-

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sonalità appariva fragile e tormentata. La sua tragica morte non ha fatto altro che conferire autenticità a un personaggio che esprimeva efficacemente sullo schermo un nuovo fenomeno sociale: il disagio delle giovani generazioni di fronte a una società che non era in grado di soddisfare quella promessa di benessere e felicità che faceva continuamente loro. Un personaggio, cioè, che rappresentava il bisogno dei giovani di essere autonomi e di ribellarsi a quel modello sociale conformistico che veniva imposto da una società puritana come quella americana degli anni Cinquanta. Ciò l’ha reso indubbiamente più vicino alle persone comuni, facilitando lo sviluppo di un processo d’identificazione da parte dei giovani, ma ha contribuito a indebolire quell’immagine di prestigio di cui i divi godevano sino a quel momento. Un’immagine messa in crisi soprattutto dalla nuova condizione determinata per i divi dall’arrivo del mezzo televisivo, che ha imposto loro di continuare a rimanere giovani e belli, ma anche di umanizzarsi. Nello stesso periodo anche il cinema, probabilmente per effetto della concorrenza esercitata dalla televisione (più seducente perché in grado di parlare della realtà vera delle persone), è andato progressivamente a rappresentare un mondo reale dove i personaggi erano pieni di incertezze, soffrivano come i comuni mortali e spesso erano addirittura degli «anti-divi», vale a dire divi ribelli e anticonformisti. I divi tradizionali che esprimevano il mito sociale della felicità dunque non potevano più esistere in una società come quella statunitense di quel periodo, che ha visto progressivamente emergere un malessere giovanile sfociato in seguito nei movimenti contestativi degli anni Sessanta e Settanta. Non è un caso che l’altra importante figura divistica di quegli anni sia stata Marilyn Monroe. Mentre Dean ha incarnato il modello di un adolescente inquieto e ribelle nel quale si sono identificati milioni di giovani, la Monroe, con la sua vita di autodistruzione progressiva (suggellata da una morte che è stata probabilmente determinata da un suicidio), ha mostrato a molte donne che dietro la sua immagine luccicante di diva si nascondevano una grande fragilità e la sensazione di non poter vivere una vita normale, coronata da una piena realizzazione e da un amore ricambiato. Molte donne, che all’epoca cominciavano a lottare per ottenere un riconoscimento da parte della società, hanno potuto

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dunque riconoscere in questa diva hollywoodiana parte delle loro difficoltà personali. Se a cominciare da James Dean e Marilyn Monroe il ruolo del divo è notevolmente cambiato, è anche perché il diffondersi del mezzo televisivo ha determinato nuove modalità di rapporto con il divo stesso. Andare al cinema era una specie di rito, un evento eccezionale che si viveva in un ambiente buio, coinvolgente e in grado di creare un forte distacco rispetto alla realtà quotidiana. La televisione invece è fruita spesso distrattamente e in un ambiente familiare. Inoltre, essa fa un uso strumentale dei divi, perché questi le sono utili per vendere le merci della pubblicità, in quanto servono a catturare un’audience più vasta possibile e a trasferirla agli inserzionisti. Possono perciò essere facilmente sostituiti quando non sono più efficaci e il loro ruolo dunque si indebolisce. Gli esempi sono numerosi, si pensi soltanto ai numerosi programmi che negli ultimi anni sono stati interrotti dopo una sola puntata per ragioni di questo tipo. Inoltre, se il divo hollywoodiano cercava costantemente una distanza rispetto al suo pubblico, quello della televisione vuole a tutti i costi apparire normale, essere come la persona della porta accanto. Questo perché il cinema aveva bisogno di sfruttare il fascino delle star per far uscire le persone dalle abitazioni e portarle nelle sue sale, mentre la televisione è già nelle case e ha soltanto il problema di farsi accettare. Promuove perciò soprattutto se stessa. Conferisce l’investitura di personalità a chiunque entri all’interno del suo schermo (sia esso attore, sportivo, cantante, scrittore, giornalista, ecc.), ma ciò che conta è soprattutto il suo prestigio. Non è un caso che la televisione, medium della realtà per eccellenza, anziché creare dei propri divi particolari, come faceva il cinema, vada spesso a cercare i suoi divi dentro la vita reale per poi trasferirli al suo interno e valorizzarli. Questa vicinanza tra i divi della televisione e le persone comuni ha facilitato l’adozione odierna del modello divistico da parte dell’intera società. Ma a ciò ha contribuito anche il fatto che tutti i principali ambiti sociali hanno cominciato a produrre dei divi. Sul piano temporale, ai divi del cinema si sono dapprima affiancati quelli della musica. Anzi, probabilmente nessun altro ambito culturale come la musica è stato in grado negli scorsi decenni di dar vita a così tanti divi. Ma si pensi anche alla moda, che ha sfornato diverse modelle che sono state in grado di uscire dalle passerel-

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le delle sfilate per diventare dive a tutti gli effetti. Come Naomi Campbell oppure Kate Moss, una top model dal corpo magrissimo che ha scatenato spesso negli scorsi anni le ire di chi ha visto in lei una minaccia per milioni di adolescenti a rischio di anoressia. Ma che è stata criticata soprattutto per essere comparsa nel settembre 2005 in un servizio fotografico del giornale inglese «Daily Mirror», mentre sniffava cocaina in uno studio di registrazione londinese. Le fotografie mostravano con chiarezza che la modella era una consumatrice esperta di droga e che ciò che vi veniva rappresentato era una festa trasgressiva a base di superalcolici e sostanze stupefacenti. Dopo lo scandalo iniziale, la Moss è ritornata a fare il suo lavoro con un crescente successo. Si può anzi sostenere che ha dimostrato con chiarezza come oggi uno scandalo possa fare bene a un divo, perché ne accresce la popolarità in quanto le storie drammatiche suscitano un notevole interesse nel pubblico. Probabilmente, inoltre, se il divo mostra le sue debolezze e le sue difficoltà, appare più umano e accresce la sua vicinanza alle persone comuni, suscitando in queste una maggiore identificazione. Naturalmente questo è possibile anche perché queste ultime non applicano più le categorie morali tradizionali. Tutto ciò è confermato dal caso di Paris Hilton, la ricca ereditiera dell’impero americano degli alberghi che è diventata da diversi anni una delle maggiori attrazioni della cronaca rosa, ma anche un personaggio in grado di determinare con il suo stile vistoso, infantile e trash fenomeni d’imitazione di massa presso vaste schiere di ragazzine adoranti. Dopo una vita fatta di eccessi e festini di alcol e droga con le amiche Nicole Richie e Britney Spears, è stata arrestata due volte per aver guidato con la patente scaduta e in stato di ebbrezza. La seconda volta, dopo aver scontato la pena, è uscita dal carcere sorridente tra due ali di fotografi e telecamere e la sera stessa ha concesso un’intervista esclusiva a Larry King, uno dei giornalisti più famosi d’America, sulla rete televisiva CNN. Oggi conduce un programma di successo su MTV e continua a essere ammirata e imitata. Come funziona il divo Cercheremo ora di comprendere più approfonditamente come il divo possa diventare oggetto di un fenomeno sociale di adora-

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zione, come possa essere in grado di esprimere agli occhi di chi lo guarda e lo adora molto più di quello che è. Il divo può essere considerato infatti come una specie di feticcio7. Come cioè quegli oggetti di varia natura (rocce, tronchi d’albero, gemme, ecc.) che venivano adorati presso molte tribù del Sud America e che sono stati visti con sorpresa dai primi colonizzatori europei. Ma anche come molte delle merci che vengono vendute oggi sul mercato e che sono state in grado di sviluppare ai massimi livelli la loro natura feticistica. Dunque, le odierne manifestazioni di adorazione dei divi non sono che l’ultima tappa di un fenomeno – il feticismo – che sembra essere sempre esistito e che nella storia delle civiltà umane ha svolto un ruolo particolarmente significativo. Non è un caso che il feticismo sia dotato di un legame molto stretto con le pratiche rituali, ovvero con quelle pratiche sociali codificate che variano a seconda del tipo di cultura, ma che sono sempre state presenti in tutte le forme di società. Si tratta infatti di insiemi di gesti che vengono compiuti in luoghi e tempi definiti, rispettando particolari regole di condotta, e che sono in grado di consentire agli individui di creare una dimensione che permette loro di trascendere quella della quotidianità. Le azioni e le parole impiegate nel corso del rituale, inoltre, dimostrano l’appartenenza dei soggetti coinvolti al rituale stesso e quindi a una determinata comunità. In essa, i singoli soggetti tendono a perdere la loro specifica individualità per fondersi in un’unica dimensione collettiva, ricaricarsi di energia emozionale e potere in tal modo continuare a vivere insieme e, dunque, a fare società. Ma i rituali sono in grado di assumere anche molti altri significati. Possono ad esempio offrire una risposta alla sensazione di angoscia provata dagli esseri umani di fronte alla morte oppure suscitare sentimenti di euforia e gioia. Sono inoltre in grado di trasformarsi adattandosi ai processi di cambiamento della società e permanendo così costantemente vitali nel corso del tempo. Il rituale dunque va considerato come una delle principali dimensioni simboliche operanti nei sistemi sociali. Può sembrare un fenomeno caratteristico delle società primitive, ma in realtà è molto presente anche nelle società contemporanee. Anzi, è possibile soste-

  Ugo Volli, Fascino. Feticismi e altre idolatrie, Feltrinelli, Milano 1997.

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nere che il processo di industrializzazione non ha fatto scomparire le pratiche rituali, ma le ha invece progressivamente radicalizzate e diffuse, seppure aggiornandone necessariamente la natura. Così oggi, ad esempio, tali pratiche possono coinvolgere attivamente i fan di un musicista pop o i tifosi di una squadra di calcio. Nelle pratiche rituali svolgono da sempre un ruolo particolarmente importante i miti, che sono narrazioni costruite con l’obiettivo di armonizzare e facilitare le relazioni esistenti tra gli esseri umani e tutto ciò che va al di là della quotidianità, come ad esempio la dimensione del sacro. I miti possono essere di tre tipi: di base, secondari e terziari8. Il mito di base è la narrazione principale di una cultura, quella che presenta e organizza le vere fondamenta di una civiltà ed è in grado di offrire agli individui le motivazioni psicologiche per l’azione. I miti secondari e terziari, invece, sono forme narrative che forniscono versioni più semplici e accessibili del mito di base, allo scopo di rendere quest’ultimo più vicino, ma anche più efficace e stimolante per gli individui. Si può ritenere che nelle società contemporanee il mito di base sia quello del successo economico e della ricchezza materiale e che esso sia perseguibile da parte dell’individuo attraverso la sua capacità di costruire una giusta relazione con l’economia9. Dunque, il mito di base è quello della felicità promessa dai beni di consumo. Tutti gli altri miti (secondari e terziari e dunque più accessibili e domestici) derivano da questo e sono comunicati dapprima attraverso i media e poi ulteriormente diffusi dalle persone nella società mediante ciò che esse riferiscono agli altri di tali miti. I miti secondari sono le narrazioni relative ai divi, cioè a coloro che rappresentano degli esempi di come sia possibile ottenere il successo economico: i geni della finanza e dell’industria, le star del cinema, dello sport e della musica, le persone che vincono alla lotteria o in un programma televisivo. Sono dunque le storie di Bill Gates, Steve Jobs, Brad Pitt, George Clooney, Lady Gaga, ecc. Infatti, ognuna di queste storie, a suo modo, costantemente racconta e ri-racconta il mito del successo materiale. I media   Jacques Ellul, Les nouveaux possédés, Fayard, Paris 1973.   Dell deChant, The Sacred Santa: Religious Dimensions of Consumer Culture, The Pilgrim Press, Cleveland (Ohio) 2002. 8 9

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svolgono a questo proposito un ruolo fondamentale, perché mostrano efficacemente i dettagli dell’esperienza privilegiata vissuta dai personaggi famosi e creano negli individui una sensazione di intimità rispetto a tale esperienza, portando a ritenere che sia possibile viverla. I divi restano però separati dalle persone comuni e sono percepiti come superiori rispetto a esse, in modo che possano alimentare aspettative e ambizioni. Ci sono poi i miti terziari, che sono ancora più immediati e consentono agli individui comuni di personalizzare e «addomesticare» il mito di base. Infatti, generalmente raccontano in maniera sintetica come le persone possano partecipare alla realtà affascinante della prosperità e dell’abbondanza economica attraverso i rituali del consumo. Come, in sostanza, attraverso l’acquisto e l’impiego di determinati prodotti i consumatori possano entrare nei panni di quei personaggi importanti che sono stati in grado di avere successo nella società. La pubblicità è lo strumento che nelle società contemporanee è più efficace nel mostrare alle persone comuni come attraverso le scelte di consumo sia possibile vivere in quello stesso regno mitico in cui si trovano tali personaggi. Per essere uguali a loro, per essere vicini a quel mondo prestigioso che essi hanno saputo conquistare e padroneggiare, è sufficiente consumare esattamente come loro. Non è un caso pertanto che nei messaggi pubblicitari i divi vengano massicciamente utilizzati in qualità di testimonial. Come si è visto, dunque, i divi sono in grado di svolgere una funzione sociale fondamentale grazie alla loro capacità di incarnare la possibilità di raggiungere ciò che costituisce il mito di base di tutta la società: il successo economico. Rappresentano pertanto lo strumento centrale per quanto riguarda la capacità degli individui di costruire una relazione soddisfacente con i miti sociali. Il pubblicitario francese Jacques Séguéla ha presentato nel volume Hollywood lava più bianco10 un modello di analisi che deriva dalle tecniche messe a punto dall’industria cinematografica hollywoodiana nella sua prima fase di sviluppo per costruire e gestire l’immagine dei suoi attori più importanti. Si tratta di un modello 10  Jacques Séguéla, Hollywood lava più bianco, Lupetti, Milano 1985 [ed. or., 1982].

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che può essere applicato anche ai divi odierni11, secondo il quale il successo dei divi del cinema americano dipendeva dalla capacità di tali divi di combinare in maniera ottimale tre componenti. La prima è il fisico e si basa sulle caratteristiche anatomiche del corpo, in particolare su quelle del viso. La seconda è il carattere, cioè la personalità profonda dell’individuo, quella che resiste più strenuamente ai processi di cambiamento. La terza infine è lo stile e riguarda le modalità attraverso cui ci si presenta agli altri. Sempre secondo il modello di Séguéla, per rendere straordinaria una persona ordinaria è necessario che tutt’e tre le principali componenti della sua identità siano uniche. Può forse sembrare che raggiungere questo risultato sia estremamente semplice, ma in realtà una star per diventare tale deve fare ricorso a un notevole impegno. Lo potremo capire ragionando brevemente sul tipo di utilizzo che un divo deve fare del fisico, del carattere e dello stile. Gli artisti del passato non si preoccupavano molto del fisico, perché rifiutavano di solito il contatto con le masse popolari seguendo quel modello snobistico che era stato creato dal Romanticismo. Il divo odierno, invece, vuole assolutamente essere visto, conosciuto e idolatrato dal suo pubblico. Vuole cioè «vetrinizzarsi». Tende pertanto a non fare distinzioni tra la sua vita privata e quella sulla scena mediatica e spettacolare e impiega fondamentalmente il suo corpo come uno strumento di relazione con il pubblico. Ma tale corpo non dev’essere necessariamente bello. Ciò che è importante infatti è che venga percepito come qualcosa di particolare: un risultato che ottengono ad esempio i visi di attori come Jim Carrey, Nicolas Cage o Adrien Brody. Il fisico del divo deve insomma avere qualcosa che lo faccia percepire come diverso dalla norma e dunque lo faccia notare. Non è un caso che, come ha scritto Séguéla, «Gable è prima di tutto un paio di baffetti, come la Dietrich è un paio di gambe o Woody Allen un paio di occhiali»12. Nella musica dei giovani la dimensione del corpo è particolarmente rilevante e i divi musicali pertanto la impiegano massiccia11   Come è stato mostrato in Vanni Codeluppi, Tutti divi. Vivere in vetrina, Laterza, Roma-Bari 2009. 12   Séguéla, Hollywood lava più bianco cit., p. 57.

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mente. Si pensi, ad esempio, ai trasgressivi movimenti di bacino di Elvis Presley, al sesso esplicitamente esibito sul palco da Jim Morrison, all’ambiguità sessuale di David Bowie e Michael Jackson o a quella declinazione tutta al femminile della sessualità che è stata praticata da Madonna. D’altronde, questo tipo di musica discende dal rock’n’roll e dalla cultura profondamente fisica e corporale degli afroamericani. Una cultura dove il ritmo musicale è indissociabile dai movimenti del corpo. Come si è detto, però, per Séguéla è necessario associare al fisico anche un particolare carattere, cioè un insieme di caratteristiche psicologiche in grado di definire una personalità unica. È fondamentale però che nel tempo questo carattere, per mantenere la sua riconoscibilità, rimanga sostanzialmente invariato. Per dar vita a un determinato carattere può essere importante anche impiegare in un certo modo il fisico. Ad esempio, più che l’altezza del corpo in sé, è centrale soprattutto l’uso che di essa viene fatto da parte del divo. Il pugile Cassius Clay, ad esempio, era grande e grosso e questo gli serviva per mandare al tappeto i suoi avversari, mentre l’attore Charlie Chaplin era piccolo e questo lo aiutava nel compito che si era assunto di far ridere il pubblico. Vasco Rossi invece mostra senza pudore sul palco un corpo ridotto male da anni di stravizi, grasso e con pochi capelli. Ma ciò è funzionale a testimoniare la «vita spericolata» condotta da colui che in Italia è diventato il «re delle trasgressioni». Il fisico e il carattere hanno bisogno però anche dello stile. È questo che fa la differenza, ad esempio, tra le attrici Marilyn Monroe e Brigitte Bardot. Marilyn è diventata un mito perché aveva numerose qualità, mentre la Bardot aveva solamente il suo corpo e il suo carattere, ma non lo stile. Lo stile infatti è il primo segno esteriore della ricchezza interiore posseduta dal carattere dell’individuo. Anche in questo caso, come per il fisico e il carattere, è importante dunque che ci sia qualcosa che faccia la differenza. Per manifestare il suo stile il divo utilizza solitamente diversi strumenti. Il modo di vestire, ad esempio, rappresenta da questo punto di vista un potente strumento d’espressione. Si pensi che la cantante francese Edith Piaf non saliva mai sul palco senza il suo caratteristico vestito nero. E che dire della T-shirt bianca e del giubbotto di pelle nera indossati da Marlon Brando nel film Il selvaggio (1954)? Questi capi d’abbigliamento sono stati fondamen-

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tali per il processo di trasformazione di Brando in una stella di prima grandezza del mondo divistico hollywoodiano. E come non ricordare, infine, l’importanza per lo stile di Madonna dell’abito nero disegnato dallo stilista francese Jean-Paul Gaultier, con un vistoso reggiseno dotato di coppe a punta e il corpo della cantante fasciato da uno strettissimo corpetto e calze a rete? Lo stile si può manifestare anche attraverso un gesto in grado di trasformarsi in un simbolo estremamente potente nell’immaginario collettivo. Come, nel caso della musica, quello di Jimi Hendrix che mordeva le corde della chitarra o che leccava quest’ultima, del cantante Bono Vox degli U2 che fa spesso salire una ragazza sul palco per poter ballare avvinghiato a lei, o il cosiddetto «moon­ walk», quel singolare passo di danza all’indietro accompagnato da vistose spinte pelviche che è stato lanciato da Michael Jackson.

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La modella francese Isabelle Caro è morta alla fine del 2010 all’età di soli 28 anni stroncata da una polmonite. Era prigioniera dell’anoressia da quando aveva 13 anni, anche se cercava disperatamente di lottare con tutte le sue forze contro questa terribile malattia. Nel 2006 pesava solamente 25 chili ed è entrata in coma, ma in seguito si è parzialmente ripresa. L’anno successivo il fotografo Oliviero Toscani, allo scopo di denunciare il dramma dell’anoressia, l’ha ritratta completamente nuda per una campagna pubblicitaria dell’azienda italiana di abbigliamento Nolita e la sconvolgente immagine del suo corpo ridotto a pelle ed ossa ha fatto il giro del mondo. Isabelle Caro non è che una delle numerose vittime delle sempre più diffuse malattie determinate dall’insoddisfazione degli individui per come il loro corpo si presenta agli altri. Insoddisfazione che spesso deriva da un confronto vissuto come perdente tra il corpo a propria disposizione e i modelli fisici di successo che dominano nella cultura sociale. I media e la pubblicità, infatti, idealizzano costantemente dei modelli corporei di bellezza, ma soprattutto di magrezza, che uomini e donne sono portati a cercare di seguire, pagando spesso questo sforzo con fatica e sofferenza. L’ossessivo controllo di ciò che si ingerisce dà l’impressione di potersi sentire adeguati a tali modelli, secondo una logica funzionalistica che prevede un risultato dipendente dalle materie prime che vengono introdotte all’interno del «corpo-macchina». Quando però, come spesso succede, non si riesce a raggiungere una corrispondenza tra il proprio corpo e i modelli dominanti socialmente, il cibo può essere percepito anche come una gratificante via di fuga, sebbene alla fine si riveli essere soltanto uno strumento di autopunizione (anoressia, bulimia).

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Il corpo come medium Nelle società ipermoderne la funzione svolta dal corpo come strumento di comunicazione a disposizione degli individui per trasmettere la propria identità agli altri è diventata centrale. È inevitabile dunque che gli individui sentano di poter liberamente manipolare il loro corpo per raggiungere quegli obiettivi di comunicazione che si sono dati. Si impone così il «corpo flusso»1, cioè un corpo che si trova in uno stato di variazione permanente, non ha confini né identità fisse e tenta di non dover dipendere dalle leggi della biologia. Certo, la prassi di ricorrere ad artifici per migliorare il proprio aspetto fisico non è recente, ma si inscrive in una tradizione di artificializzazione del corpo che è vecchia quanto l’umanità. Si può anzi dire che il corpo ha una natura biologica, ma è da sempre anche il risultato del lavoro creativo svolto dalla società. Infatti, persino in ciò che in apparenza ha di più naturale, cioè nel suo volume, nella statura o nel peso, può essere considerato in gran parte un prodotto sociale. Ciò che è cambiato oggi è il livello di diffusione e dunque di accettazione da parte della società delle pratiche legate alla modificazione del corpo. Stanno diventando infatti dei veri e propri fenomeni di massa quelli che nei secoli scorsi erano comportamenti riservati a una ristretta élite aristocratica. Si pensi, ad esempio, che negli Stati Uniti, secondo i dati dell’American Society of Plastic Surgeons, sono stati eseguiti nel 2010 circa 13 milioni di interventi di questo tipo, dei quali un milione e 600.000 erano vere e proprie operazioni chirurgiche2, mentre in Italia tali operazioni sono state nel 2009 circa 300.0003. Sempre negli Stati Uniti, sono state fatte nel 2010 più di 5 milioni di iniezioni di Botox, una tossina botulinica che distende le rughe del viso. In Italia invece nel 2005, a un anno dalla loro introduzione, le fiale di tale tossina vendute erano 1   Si veda Vanni Codeluppi, Il potere del consumo. Viaggio nei processi di mercificazione della società, Bollati Boringhieri, Torino 2003. 2   Dati contenuti nel sito dell’American Society of Plastic Surgeons: www. plasticsurgery.org. Si vedano anche Rosella Ghigi, Per piacere. Storia culturale della chirurgia estetica, Il Mulino, Bologna 2008 e Alex Kuczynski, La bella e la bestia, Elliot, Roma 2009 [ed. or., 2006]. 3   Giuliano Aluffi, In Italia ogni due minuti c’è un intervento. Estetico, «Il Venerdì», n. 1170, 20 agosto 2010.

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circa 20.000, mentre oggi se ne vendono annualmente 123.0004. Va considerato però che nel nostro paese si è molto diffusa la somministrazione illegale di questa sostanza e dunque probabilmente il numero delle «facce al botulino» è assai superiore. L’accettazione dell’idea di modificabilità del corpo rappresenta una drastica frattura rispetto alla tradizione secolare della cultura occidentale e cristiana, che lo considerava come qualcosa che era dato una volta per tutte. Ma le società contemporanee hanno assolutamente bisogno di questa disponibilità delle persone al cambiamento del corpo, perché essa consente di abituare gli individui a essere sempre pronti a recepire delle novità da consumare5. La stessa bellezza del corpo era considerata in passato un dono immutabile di Dio o della natura, mentre con la modernità ha cominciato a essere vista soprattutto come un risultato ottenibile attraverso un elevato impegno profuso da parte del singolo individuo. Si costrui­ sce dunque autonomamente e si devono fare degli sforzi per ottenerla, cosicché tutti possono diventare belli purché lo vogliano. Si potrebbe pensare che le persone decidano di modificare il proprio corpo allo scopo di sedurre gli appartenenti all’altro sesso. Ciò naturalmente può accadere, ma l’obiettivo è soprattutto di recuperare le sembianze possedute nella giovinezza. Di piacersi più che di piacere agli altri. Di sentirsi sicuri nel proprio corpo. Anche se, in realtà, l’individuo nel cercare di migliorarsi sul piano estetico non fa altro che adeguarsi inconsciamente a quei modelli giovanili di successo e bellezza che vengono continuamente proposti dai media e dalla pubblicità come vincenti. Insomma, nessuno vuole più sentirsi vecchio e ciò riguarda in primo luogo le donne. Storicamente, infatti, queste sono state spesso associate alla malattia e «da Aristotele al pensiero medico moderno, l’immagine della donna è sempre quella: un essere dal corpo debole e malato»6. Pertanto, le donne, più degli uomini,

4   Terry Marocco e Antonella Piperno, Botox. Tutto quello che non vi dicono, «Panorama», 21 aprile 2010. 5   Si veda Zygmunt Bauman, Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 2002 [ed. or., 2000]. 6   Bruno Remaury, La femminilità fra malattia e salute, in Gianfranco Marrone (a cura di), Il discorso della salute. Verso una sociosemiotica medica, Meltemi, Roma 2005, p. 331.

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sentono fortemente l’obbligo di curare la salute del loro corpo con un impegno costante e oneroso che comporta un esercizio fisico regolare e un corretto regime dietetico. Ma progressivamente all’obbligo della ricerca della salute si è affiancato anche quello di impegnarsi per innalzare il proprio livello di bellezza. Un obbligo che tende a riportare le donne emancipate di oggi in un ruolo tradizionale e che produce, a volte, anche comportamenti estremi. Si pensi, ad esempio, ad alcune cliniche di Los Angeles dove si fanno molti interventi per pareggiare le grandi labbra o stringere la vagina. Così, dopo aver stirato e ringiovanito ogni lembo di pelle visibile all’esterno, anche la parte più intima del corpo viene adeguata ai modelli estetici imperanti nell’immaginario mediatico, in questo caso di tipo pornografico. E in Italia il problema non è meno presente, visto che il 97% di un campione di ragazze adolescenti ha dichiarato di nutrire un’elevata insoddisfazione per l’aspetto del proprio corpo7. Se in passato il modello prevalente di bellezza era caratterizzato dall’immobilità e dalla ieraticità, oggi diventa sempre più dinamico e mutevole8. Il corpo della donna, che per secoli e fino ai primi anni del Novecento aveva dovuto ostentare la sua immobilità, la sua natura di oggetto da esibire per dimostrare lo status sociale raggiunto dalla famiglia di appartenenza, ha cominciato a cambiare a seguito dello sviluppo del processo di emancipazione. Mentre ha fatto il suo ingresso nella vita sociale e lavorativa, la donna ha avuto infatti sempre più bisogno di muoversi e il suo corpo conseguentemente si è adeguato, liberandosi del busto e della crinolina e avvicinandosi in maniera crescente all’uso maschile dello stesso. Si è avvicinata dunque a quella concezione efficientista del corpo che l’altro sesso aveva già cominciato a praticare. La società industriale aveva infatti progressivamente diffuso a partire dal Settecento il modello del «corpo-macchina», introducendo anche nella gestione del corpo quella stessa logica produttivistica che permeava di sé tutta la cultura sociale. Vale a dire che il processo d’industrializzazione ha portato con sé molteplici iniziative in tema di regolazione dei corpi nell’attività lavorativa,   Carlotta Magnanini, Il digiuno è online, «L’Espresso», 20 aprile 2006.   Georges Vigarello, Storia della bellezza. Il corpo e l’arte di abbellirsi dal Rinascimento a oggi, Donzelli, Roma 2007 [ed. or., 2004]. 7 8

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della natalità, della longevità, della salute pubblica, dell’igiene e dell’habitat, che hanno imposto nuove norme di comportamento in relazione agli usi sociali del corpo. Ciò è avvenuto a livello della collettività sociale, ma ha riguardato anche le cure del corpo richieste ai singoli individui. Infatti, la «democratizzazione» della bellezza permette a tutti di diventare belli, ma impone nello stesso tempo a ciascuno il rispetto delle regole e una continua attività di cura estetica del corpo. Richiede cioè di fare incessantemente ricorso a quelle pratiche impiegate dagli individui per trasformare se stessi e il proprio corpo che Michel Foucault ha definito «tecnologie del sé»9 e che rientrano in quel complesso processo di apprendimento delle norme e di continuo monitoraggio su se stessi che tutti coloro che vivono in una condizione sociale di modernità avanzata devono necessariamente praticare10. Un ruolo decisivo da questo punto di vista è quello esercitato dalla cultura del consumo, la quale propone alle persone di seguire per il corpo il suo modello di perfezione estetica. Il prodotto, indipendentemente dai suoi difetti, si fa infatti packaging luccicante sugli scaffali di vendita. Anche il corpo, dunque, è indotto a seguire il modello del packaging e a trasformarsi a sua volta in un involucro sfavillante, che imita i corpi perfetti creati dalle nuove tecnologie elettroniche di manipolazione dell’immagine, ovvero quei corpi seducenti e quasi totalmente artificiali che invadono in maniera crescente i canali mediatici. Il modello del corpo-packaging creato dall’Occidente si va sempre più diffondendo nella cultura dell’intero pianeta. Come ha scritto infatti il giornalista Federico Rampini riportando i risultati di una vasta ricerca internazionale condotta da un gruppo di antropologi americani in dieci nazioni, nei paesi emergenti il ribaltamento dei canoni estetici è stato recente, repentino, brutale. Ancora pochi anni fa le danzatrici del ventre libanesi, le attrici indiane nei musical di Bollywood, le star della samba nel

9   Michel Foucault, Tecnologie del sé, Bollati Boringhieri, Torino 1992 [ed. or., 1988]. 10   Anthony Giddens, Identità e società moderna, Ipermedium Libri, Napoli 1999 [ed. or., 1991].

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Carnevale di Rio, esibivano fieramente i loro fianchi abbondanti. In tutto l’emisfero Sud del pianeta il retaggio della fame atavica guidava anche le regole del gioco della seduzione: la magrezza evocava miseria, fragilità, dolore. In pochi anni si è passati all’eccesso opposto: la dittatura globale della magrezza provoca un nuovo razzismo anti-obesi, che dilaga sotto tutte le latitudini e contamina le culture più distanti11.

Si pensi ad esempio che nelle sperdute isole Fiji la televisione è stata introdotta soltanto nel 1995, ma dopo tre anni il 12% delle adolescenti si procurava già il vomito per tentare di assomigliare agli snelli corpi occidentali visti sullo schermo12. I problemi odierni del corpo Per gli esseri umani un ideale di perfezione estetica è pressoché impossibile da raggiungere. Una persona bella, di solito, non si sente mai abbastanza bella e si trova sempre dei difetti. Non è un caso che abbia cominciato da qualche tempo a diffondersi la cosiddetta «sindrome dismorfica» (Body Dysmorphic Disorder), ovvero un’abnorme preoccupazione per un elemento del proprio corpo, percepito come gravemente difettoso. La ricchezza della personalità umana viene così ridotta a una piccola parte anatomica. Ma è proprio quella parte che fa sentire l’individuo imperfetto all’interno di tutte quelle vetrine in cui oggi è costretto continuamente a esporsi nella sua esistenza sociale. Va considerato inoltre che il corpo, manipolato e deformato per essere adeguato ai modelli estetici prevalenti nella cultura sociale, può anche ribellarsi, perché ciò che da esso si rimuove non può comunque essere del tutto eliminato. Deve allora trovare il modo di esprimersi e lo fa spesso anche in forme estreme e «perverse», come è dimostrato dal crescente diffondersi nei media e nella società di immagini e pratiche di tipo sadomasochistico. Le forme di ribellione che caratterizzano il corpo contemporaneo nascono dalle diverse contraddizioni che attraversano quest’ultimo. Innanzitutto, va considerato che il corpo deve te11   Federico Rampini, Da Bollywood al Brasile il pensiero unico della bellezza, «la Repubblica», 1° aprile 2011. 12   Susie Orbach, Corpi, Codice Edizioni, Torino 2010 [ed. or., 2009], p. 112.

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nere insieme il controllo rigido comportato dall’etica del lavoro e l’edonismo che caratterizza l’etica del consumo: da un lato, in quanto produttori di beni e servizi dobbiamo sublimare, rinviare, reprimere il desiderio di una gratificazione immediata: dobbiamo coltivare l’etica del lavoro. Dall’altro, in quanto consumatori dobbiamo esibire una capacità illimitata di cedere al desiderio e assecondare l’impulso: dobbiamo anelare a una soddisfazione costante e immediata13.

Questa contraddizione tra repressione e soddisfazione del piacere rende la regolazione del desiderio un problema sociale. L’individuo è assediato dalla tentazione, ma sente su di sé la condanna degli altri se si fa trascinare troppo da essa. Non è un caso che i disturbi alimentari, di cui oggi si stima soffrano in Italia ben 3 milioni di persone14, tendano sempre più a diffondersi. Rappresentano infatti un tentativo di affermare la propria identità e risolvere così le contraddizioni sperimentate dagli individui rispetto al loro corpo. L’anoressia nasce proprio dallo sforzo di reprimere il proprio desiderio (etica del lavoro), mentre la bulimia e l’obesità derivano invece dal cedimento al desiderio (etica del consumo). Il corpo è però al tempo stesso anche uno strumento con il quale gli individui cercano di far fronte a questi problemi. Ciò vale soprattutto per molti adolescenti, che tentano di superare le proprie difficoltà nel processo di costruzione dell’identità sperimentando i limiti fisici del corpo. Ad esempio, con il tatuaggio e il piercing o con pratiche rischiose come le corse in automobile dentro gli spazi urbani essi cercano infatti di definire anche dei confini per la loro identità e provano a sentirsi più vivi. Perché, se l’ordine simbolico fallisce nel legittimare l’individuo al cuore del legame sociale, non è in grado di dargli delle risposte per vivere, rimane il ricorso alla creazione di senso per sé attraverso un confronto   Susan Bordo, Il peso del corpo, Feltrinelli, Milano 1997 [ed. or., 1993], p. 134. 14   Sara Ficocelli, Anoressia maschile. Se il sogno dei muscoli si muta in un’ossessione, «Il Venerdì», n. 1219, 29 luglio 2011; sull’argomento si veda anche Massimo Recalcati e Uberto Zuccardi Merli, Anoressia, bulimia e obesità, Bollati Boringhieri, Torino 2006. 13

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metaforico o reale con la morte. La prova procura all’individuo un sentimento potente d’esistenza, una vibrazione di tutto il suo essere teso verso lo sforzo o la sensazione inebriante del pericolo superato15.

Inoltre, anche le ferite inflitte volontariamente al proprio corpo (come incisioni con coltelli, rasoi o pezzi di vetro, scorticature, scarificazioni, bruciature, escoriazioni, lacerazioni, ecc.) costitui­scono una forma di resistenza ai numerosi problemi d’identità che gli individui devono affrontare nelle società contemporanee16. Negli Stati Uniti, ad esempio, sono circa 3 milioni le persone (quasi esclusivamente donne) che si autoferiscono per sentirsi paradossalmente più vive e cercare così di ridurre le loro sofferenze psicologiche, per difendersi da un dolore vissuto come intollerabile. Ma il corpo oggi è impiegato soprattutto come uno strumento di affermazione della propria identità. Ne consegue che le donne, ad esempio, esibiscono sempre più frequentemente nella vita quotidiana il contenuto erotico del loro corpo. Agli uomini non rimane allora che mettere anch’essi in vetrina il loro corpo. Pertanto, sono sempre più disponibili ad accettare quegli inviti pressanti che ricevono dalla società per adottare delle tecniche di cura cosmetica del corpo. In apparenza, si «femminilizzano», ma solo perché cercano di riaffermare il loro ruolo virile utilizzando quelle strategie seduttive che venivano tradizionalmente impiegate da parte delle donne. Attraverso il controllo narcisistico del corpo manifestano infatti una nuova forma d’espressione della virilità. Una forma che ritroviamo, ad esempio, nel modello sociale del cosiddetto «metrosexual»17, ovvero un giovane maschio trentenne, metropolitano, che segue attentamente le tendenze della moda e si preoccupa soprattutto di curare l’aspetto fisico del suo corpo. Contemporaneamente si rafforza anche un modello maschile tradizionale come quello basato sulla valorizzazione dei muscoli. È quello del bodybuilder, derivante dal modello diffuso negli anni

  David Le Breton, La sociologie du risque, PUF, Paris 1995, p. 123.   David Le Breton, La pelle e la traccia. Le ferite del sé, Meltemi, Roma 2005 [ed. or., 2003]. 17   Michael Flocker, Metrosexual. Guida allo stile per uomini contemporanei, Sperling & Kupfer, Milano 2005 [ed. or., 2003]. 15 16

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Cinquanta dallo statunitense Stan Reeves, il primo atleta che è riuscito a far assumere al suo torace la forma di una «V». Quello, quindi, di coloro che praticano il culturismo cercando di trasformare il proprio corpo in una specie di opera d’arte da esibire pubblicamente e da presentare con successo nelle diverse vetrine sociali. Dunque, molto spesso le nuove pratiche di cura cosmetica del corpo non fanno che riportare sia le donne sia gli uomini ai loro ruoli tradizionali. Tali pratiche cioè, nonostante il loro apparente carattere di novità, riaffermano le configurazioni di genere da sempre esistenti nella società. Va considerato però che l’intensa produzione mediatica odierna di immagini di corpi ideali riguarda soprattutto i corpi femminili. Gli uomini sono dunque quotidianamente sollecitati da figure di donne tentatrici, giovani, bellissime e disponibili, che sorridono sempre e non si lamentano mai. Invece, le donne vere parlano, esigono, lavorano, sono stanche, amano i figli, non ne possono più, rifiutano di essere maltrattate per amore o disamore, diventano insopportabili, estranee, imprendibili, giudicano, possono fare a meno dell’uomo, non vogliono più quell’uomo. E se lui non sa staccarsi dalla sofferenza e dalla sconfitta, per difendersi le cancella18.

Come hanno tragicamente evidenziato molti recenti episodi di cronaca, arriva a eliminarle fisicamente perché non corrispondono alle immagini seducenti che vengono veicolate dai media. Il bisogno degli uomini di reagire violentemente alla situazione che sperimentano è il risultato anche del progressivo emergere, a partire dal Settecento, della «sessualità duttile»19, ovvero una forma di sessualità che è libera dai vincoli della riproduzione e che è stata fondamentale per lo sviluppo del processo di emancipazione femminile. Tra le cause che l’hanno resa possibile vi sono la diffusione dell’ideale dell’amore romantico, l’impiego crescente dei moderni metodi contraccettivi e di controllo delle nascite, la ri-

18   Natalia Aspesi, Quei maschi feriti che si armano, «la Repubblica», 16 ottobre 2002. 19   Anthony Giddens, La trasformazione dell’intimità. Sessualità, amore ed erotismo nelle società moderne, Il Mulino, Bologna 1995 [ed. or., 1992].

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duzione delle dimensioni delle famiglie. Lo sviluppo della sessualità duttile ha determinato negli ultimi due secoli un progressivo indebolimento del potere di controllo esercitato sulle donne da parte degli uomini, che genera per reazione degli atti di violenza. Il corpo erotico Il corpo è dunque oggetto di pratiche di manipolazione finalizzate ad adeguarlo ai canoni estetici prevalenti nell’immaginario mediatico. E ciò vale in misura crescente anche per la sua dimensione erotica. Infatti, le pratiche di manipolazione del corpo sono potenziate dal continuo confronto con l’incontrollata proliferazione di immagini sessuali sulle strade, sulla carta stampata e sugli schermi e il dilagare dei linguaggi del porno al di fuori dei confini in cui erano tradizionalmente rinchiusi. La società sembra accettare come normale espressione della sessualità il consumo di pornografia in tutte le sue forme e utilizza senza problemi citazioni e allusioni di natura pornografica. Il linguaggio della pornografia irrompe così nei messaggi della moda, nelle immagini della pubblicità e nelle creazioni di tipo artistico. Spesso, anzi, diventa il linguaggio mediatico per eccellenza. Il porno, pertanto, entra nelle abitazioni e supera di slancio le tradizionali barriere erette in passato nei suoi confronti dalla morale borghese. Da fenomeno aristocratico di carattere libertino, come si è sviluppato durante le sue origini nel corso del XVIII secolo, la pornografia si sta così sempre più trasformando in fenomeno di consumo di massa20. Un ruolo importante in questo contesto l’hanno esercitato tutte le tecnologie comunicative che sono progressivamente comparse sulla scena sociale, per le quali il consumo di pornografia ha sempre costituito un potente motore di sviluppo. È successo così per la fotografia, il cinema, il vhs, il cd-rom, la videocamera, la pay tv e la tv satellitare. La ragione di ciò è semplice: «per sviluppare le sue potenzialità, la tecnologia deve trovare applicazioni, cioè

20   Si vedano Pamela Paul, Pornopotere. Come l’industria del porno sta trasformando la nostra vita, Orme Editori, Milano 2007 e Gail Dines, Pornland: How Porn Has Hijacked Our Sexuality, Beacon Press, Boston (Mass.) 2011.

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mercato; e uno dei modi più semplici e veloci per creare un mercato è ricorrere a un istinto primordiale come quello sessuale»21. Esiste tuttavia anche un’altra ragione che si trova alla base dello sviluppo del consumo di pornografia: la maggiore familiarità con le tecnologie posseduta dal pubblico maschile, che tradizionalmente è stato un consumatore di materiale pornografico assai più attivo di quello femminile. Si è verificato insomma un processo di «democratizzazione del desiderio». Un processo al quale ha contribuito il crescente impiego domestico della videocamera digitale, che ha reso possibile la riproduzione dell’attività sessuale privata, ma che è stato soprattutto determinato dal cinema e dai media in generale. Tutto ciò appare ancora più evidente su Internet, dove circa il 20% dei siti esistenti offre materiale pornografico e si può stimare che il 50% di tutto il traffico sia legato a siti contenenti sesso22. E dove, inoltre, la parola «sex» rappresenta un quarto di tutte le ricerche effettuate dagli utenti di Google23. Ma Internet è anche uno dei principali strumenti che contribuiscono alla crescita del tasso di oscenità sociale, stimolando la diffusione e la «normalizzazione» della pornografia. Ciò è dovuto fondamentalmente alle particolari caratteristiche possedute da tale mezzo e quindi, innanzitutto, alla natura personale, riservata e intima del rapporto tra schermo video e corpo dell’utente in esso presente, che si presta particolarmente bene a stimolare il consumo di pornografia. Internet consente poi di evitare di rivelare la propria identità al prossimo, possibilità che fa sentire gli individui più liberi psicologicamente da tabù e norme morali. Infine, va considerata anche la natura quotidiana e abituale del rapporto con Internet, che rende parimenti familiare il rapporto con la pornografia veicolata da tale mezzo. Ma proprio perché rende più abituale e familiare la pornografia, Internet in un certo

21   Luigi Bonfante, Porno-tecnologie. Il sesso nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, «Link», n. 3, maggio 1999, p. 35. 22   Brian McNair, Striptease Culture: Sex, Media and the Democratisation of Desire, Routledge, London-New York 2002, p. 39. Sull’argomento si veda anche Hal Niedzviecki, The Peep Diaries: How We’re Learning to Love Watching Ourselves and Our Neighbors, City Light Publishers, San Francisco 2009. 23   Adriano Botta, Ora il porno è doc, «L’Espresso», 29 luglio 2010.

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senso la banalizza e la «desessualizza». Tutti i media però contribuiscono a indebolire il desiderio sessuale, perché, rendendo normale ciò che era nell’ordine dell’eccezionale, tolgono il piacere della scoperta. Insomma, ciò che caratterizza oggi la seduzione è il dominio di una strategia di «raffreddamento» tra i sessi. La stessa strategia che utilizzano molte persone che si conoscono soltanto mediante un nome in codice (nickname) e parlano di sesso attraverso dei terminali video. Non tanto per poter poi incontrare fisicamente coloro con cui dialogano, quanto soprattutto per attivare una «seduzione telematica», dove ciò che viene detto sul piccolo schermo prende il posto del sentire, del toccare e del vedere di persona. L’esperienza tende a ridursi a ciò che viene provato all’interno dello schermo e il non sapere nulla l’uno dell’altro, nemmeno il vero sesso d’appartenenza, permette una totale disinibizione all’interno della connessione telematica. La fantasia è salva e, non essendoci contatto fisico, non c’è nemmeno una possibile trasmissione di virus. Ciò che importa è sentire l’eco della propria voce lanciata nel vuoto della rete telematica e dialogare narcisisticamente con se stessi. Il grande successo dei social network odierni probabilmente può essere spiegato anche con questa motivazione. Tale forma di seduzione ha successo proprio perché consente di evitare il contatto diretto tra gli individui. Permette di sopperire al bisogno dell’altro senza arrecare danno al proprio Sé. Il vero incontro con l’altro ha sempre comportato infatti attenzione, pazienza e un complesso lavoro interiore che mette in discussione e riorganizza l’identità individuale. Si tratta di quella forma di seduzione che caratterizza specificamente le merci e che da queste ultime si è sempre più diffusa nella società. Una seduzione debole, perché ha bisogno di rinnovare continuamente il desiderio, stimolare il riacquisto e dunque, mentre seduce, produrre parallelamente insoddisfazione, ovvero il bisogno di acquistare qualcos’altro. Anche gli appartenenti ai due sessi si attraggono sempre meno per effetto di un autentico impulso d’amore e sempre più in conseguenza della progressiva adozione dello stesso meccanismo che scatena il desiderio dei consumatori per le merci. Chiunque voglia un oggetto, e possiede i soldi necessari, se lo prende. Cerca in questo modo di soddisfare immediatamente il suo capriccio,

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per poi abbandonare altrettanto rapidamente l’oggetto acquistato. Anche i legami affettivi si sono fatti dunque deboli e continuamente mutevoli. Non si sceglie qualcuno per sempre, ma soltanto finché non si trova qualcosa di meglio, un’altra novità in grado di affascinare. Pertanto, «In Francia non resiste un matrimonio su due; negli Stati Uniti il tasso di divorzio è del 47,9 per cento»24. Anche in Italia il numero dei divorzi cresce costantemente e siamo arrivati ormai al 20% dei matrimoni. Ma c’è un prezzo da pagare per la grande libertà personale di cui gli individui possono disporre: l’essere costretti a vivere numerosi momenti di isolamento e a una ricerca continua e affannosa di un partner. A tutto ciò va aggiunto anche il bisogno di reagire a quella sensazione di inadeguatezza sessuale che viene sempre più sperimentata da parte di tutti gli individui. Si creano infatti standard di bellezza fisica e di performance erotica desiderabili, ma anche raggiungibili con difficoltà da parte delle persone comuni e dunque inevitabilmente frustranti. D’altronde, come ha messo in luce Foucault25, il sesso, quando è diventato oggetto di discorso, è diventato nel contempo anche un modello che prescrive dei comportamenti da seguire, delle norme sociali alle quali è necessario uniformarsi. Dopo diversi secoli nei quali i comportamenti sessuali erano assolutamente liberi e in cui praticamente la sessualità non esisteva come oggetto sociale, a partire all’incirca dal XV-XVI secolo si è avviata una fase storica in cui c’è stata una vera e propria invenzione sociale della sessualità. Questa è diventata una materia analizzata e regolamentata da parte di varie discipline scientifiche fin nei suoi più intimi dettagli. Soprattutto nell’Ottocento, ne sono derivati effetti come «l’isterizzazione del corpo della donna, la pedagogizzazione del sesso del bambino, la socializzazione delle condotte procreatrici e la psichiatrizzazione del piacere perverso»26. Nel Novecento, invece, ne è derivata l’istituzione di un modello di riferimento standardizzato che impone una precisa attività sessuale e tende a etichettare come patologico il comportamento   Sabina Minardi, Toh, una coppia felice!, «L’Espresso», 18 agosto 2011.   Michel Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1978 [ed. or., 1976]. 26   Paola Borgna, Sociologia del corpo, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 45. 24 25

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di coloro che non si adeguano ad essa. I due rapporti di Alfred Kinsey sulla sessualità maschile e femminile, successi planetari venduti in milioni di copie, hanno infatti simbolicamente dato avvio, tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta, all’epoca in cui il corpo è stato illuminato ed esposto dal sapere scientifico e dai media, creando nel campo dei comportamenti sessuali degli obblighi che producono frustrazione se non si è in grado di rispettarli. Anche perché la norma sociale si fa sempre più autoriflessiva e il soggetto tenta autonomamente di assecondarla. Introietta, cioè, uno sguardo che sorveglia, diventando un inflessibile osservatore e controllore di se stesso.

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L’artista francese Christian Boltanski ha venduto i suoi ultimi anni di vita a un collezionista in cambio di un sostanzioso stipendio mensile che riceverà fino alla fine dei suoi giorni. Dal primo gennaio 2010 quattro telecamere hanno cominciato a riprenderlo senza sosta in ogni momento della sua esistenza: mentre dipinge, mangia, dorme, ecc. Le immagini vengono registrate e trasmesse nel contempo al collezionista, che vive attualmente in Tasmania. Dopo la morte di Boltanski, il collezionista potrà vendere nel mercato dell’arte il materiale registrato. Questo infatti rappresenta l’ultima opera di Boltanski, un’opera che probabilmente ha l’obiettivo di farci riflettere sul fatto che oggi viviamo tutti all’interno di una specie di «vetrina digitale». I principali aspetti della nostra esistenza vengono instancabilmente registrati per i contemporanei e per coloro che arriveranno dopo di noi. Ma vengono soprattutto messi costantemente sotto osservazione, illuminati e pubblicamente esposti perché qualcun altro, se vuole, possa analizzarli fin nei più minimi dettagli. Si crea in tal modo un nuovo tipo di spazio sociale. Avviene infatti che «con le nuove tecnologie la dimensione spaziale non viene cancellata, ma raggiunge un livello di complessità maggiore, perdendo le tradizionali coordinate e assumendo un grado di astrazione più elevato»1. Si trasforma dunque in un vero e proprio ambiente mediatico.

1   Selene Caldieri, Spazi sintetici. Verso una sociologia dei mondi digitali, Liguori, Napoli 2011, p. 1.

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L’ambiente mediatico Il 15 aprile 2010, alle ore 21 in punto, gli schermi di 100 cinema italiani hanno trasmesso in collegamento via satellite il cantante Luciano Ligabue, che si trovava nel suo studio di registrazione di Correggio, e in seguito l’anteprima della registrazione di un concerto che lo stesso cantante aveva tenuto in precedenza allo stadio Olimpico di Roma. Il Ligabue Day – è questo il nome dato all’evento che è stato in seguito ripetuto – ha ripreso un modello già sperimentato con successo negli Stati Uniti per concerti, opere liriche o eventi sportivi importanti, ma è stato il primo in Europa a mettere in collegamento così tante sale cinematografiche. Inoltre, è stato un evento innovativo soprattutto per le possibilità aperte dalle nuove tecnologie digitali. Le immagini trasmesse sui grandi schermi dei cinema dalla società Nexo Digital, che ha curato l’evento, erano in alta definizione 2K, il che vuol dire che ogni singolo fotogramma conteneva 2 milioni di pixel, una risoluzione superiore a quella della pellicola cinematografica standard e in grado di produrre negli spettatori un effetto di forte verosimiglianza. Ma anche il sonoro del sistema 2K è di alta qualità, perché non deve necessariamente essere compresso e può essere riprodotto nei cinema attraverso un numero di canali che può arrivare sino a 16, creando dunque una sensazione psicologica di avvolgimento. I progressi dell’informatica stanno dunque consentendo di disporre di una riproduzione della realtà che è più convincente della realtà stessa. Si tratta di quell’«iperrealtà» teorizzata già diversi anni fa2 e che ora la tecnologia rende per la prima volta concretamente possibile. Che effetto produce applicare una tecnologia basata su immagini in alta definizione? Un effetto di grande coinvolgimento degli spettatori in un evento percepito come unico. Il concerto, com’è noto, è particolarmente importante nella musica rock, perché in esso si crea un vero e proprio processo di fusione tra il cantante e i suoi fan. Ma mentre il cantante è uno soltanto, i suoi fan sono una moltitudine. Il singolo fan si fonde dunque anche con i suoi simili all’interno di una specie di comunità immaginaria. È esattamente ciò che è avvenuto nei 100 cinema collegati dal Ligabue Day, con 2   Jean Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano 1979 [ed. or., 1976].

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i giovani che cantavano e ballavano come se fossero fisicamente presenti allo stadio: come se fossero, cioè, totalmente dentro lo schermo. Abituati dalla frequentazione quotidiana di Internet e dal rapporto costante con gli schermi elettronici a vivere la realtà rappresentata come se fosse la vera realtà, per essi oggi non c’è più una distanza tra il simulacro mediatico e il suo concreto referente fisico. Pertanto, al Ligabue Day non c’era assolutamente nessuna differenza tra il pubblico che assisteva allo spettacolo dentro le sale cinematografiche, quello presente allo stadio Olimpico e quindi anche nelle immagini della registrazione video e quello ripreso e rimandato dai megaschermi installati sul palco alle spalle di Ligabue mentre questi cantava e contenuto anch’esso nelle immagini video proiettate. Tutti alzavano le braccia all’unisono con il cantante e cantavano insieme agli altri le stesse parole delle sue canzoni. Ciò è stato possibile anche perché gli schermi dei cinema collegati erano molto grandi, quindi infinitamente più potenti sul piano comunicativo di quelli con cui le persone dialogano quotidianamente. Tanti, ma pur sempre piccoli. Gli schermi dei cinema perciò possono essere considerati un’efficace metafora di quella grande vetrina digitale che tende a inglobare l’intera società contemporanea. Una vetrina che fonde insieme i tanti schermi sparsi, ma si fonde anche con la realtà, la quale ormai non è altro che un «gioco di specchi». Specchi in cui tutti si rimirano come tanti Narcisi, ma anche specchi in cui ci si riflette reciprocamente. Così, nei concerti il divo si specchia nei suoi fan allo stesso modo di come questi si specchiano nel primo. Non è un caso che ad un certo punto Ligabue, nel concerto dell’Olimpico, si sia presentato sul palco reggendo in mano un enorme specchio. L’intenzione era di produrre dei giochi di riflessi sulla platea, ma lo specchio è anche uno strumento con il quale si riflette l’immagine di un individuo o quella di una comunità di individui. D’altronde, anche l’obiettivo della telecamera è uno specchio, in quanto restituisce su uno schermo video l’immagine catturata. Ma uno specchio erano pure gli obiettivi delle migliaia di macchine digitali che scattavano fotografie di Ligabue ed erano nel contempo riprese in primo piano dalle telecamere della troupe dello stesso cantante. Insomma, come in questo caso, oggi non soltanto ci si rimira continuamente in uno specchio, ma si aiutano anche gli altri a rimirarsi a loro volta. Questo gioco di rimandi continui tra numerosi «specchi-vi-

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deo», a lungo andare, fa assumere alle immagini una particolare consistenza. Le immagini elettroniche che compongono i messaggi dei media odierni generano infatti uno pseudoambiente mediatico concretamente sperimentabile da parte dei soggetti. Non vi è pertanto una rappresentazione simulacrale e illusoria del reale, che tradisce e cancella la realtà del referente sostituendola completamente, ma semmai l’indebolimento delle distinzioni esistenti tra la realtà e le sue forme di rappresentazione. Il risultato è un progressivo diffondersi di un’unica dimensione nella quale segni e oggetti non sono più facilmente distinguibili tra loro: quell’ambiente ipermediatico nel quale messaggio, medium, soggetto e realtà operano congiuntamente e dove conta soltanto la loro reciproca interazione. Del resto, le rappresentazioni prodotte attraverso le immagini digitali tendono a diventare sempre più reali non soltanto perché producono nel destinatario un effetto di realtà, ma anche perché agiscono sul contesto che le circonda, determinando al suo interno delle precise modificazioni. Esprimono dunque una dimensione concreta del reale. La realtà dentro la vetrina digitale Il processo di evoluzione dei media sembra spingere la nostra società verso una crescente confusione tra il reale e l’immaginario. E la televisione ha costituito nel tempo un luogo ideale per lo sviluppo di questo processo, funzionando come una sorta di vetrina in grado di amplificare e spettacolarizzare la realtà sociale. Così, negli ultimi anni, pezzi di vita quotidiana degli individui hanno sempre più rappresentato l’ossatura di parecchi programmi televisivi, definendo progressivamente il nuovo genere del reality show. Dopo la nascita nel 1992 di Real World, programma-archetipo delle rete televisiva MTV nel quale la vita quotidiana di un gruppo di giovani è stata costantemente ripresa da diverse telecamere per alcuni mesi, c’è stato un enorme proliferare di programmi dove degli sconosciuti mostrano senza alcun problema a milioni di spettatori vicende private, sensazioni personali e dettagli intimi3.

3   Su questi temi si veda Vanni Codeluppi, Stanno uccidendo la tv, Bollati Boringhieri, Torino 2011.

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Oggi però è soprattutto all’interno di Internet che il processo di vetrinizzazione degli individui si va diffondendo. Spesso attraverso il ricorso a blog personali, il cui numero attualmente è stimato in oltre 150 milioni al mondo. Un blog è più di una pagina personale, è una specie di diario costantemente aggiornato e aperto con pensieri, immagini, filmati, video e qualsiasi cosa la fantasia consenta di esprimere. Chi ne gestisce uno non pensa di appartenere al sistema dei media o di riempire semplicemente uno spazio vuoto con dei contenuti. È convinto invece di riuscire a comunicare con altre persone e in effetti spesso questa operazione riesce. Persino i militari americani impegnati al fronte hanno aperto dei blog. E l’hanno fatto anche alcuni condannati a morte, come lo statunitense Vernon Lee Evans. È stato sottolineato che «il blog non è la pubblicazione del diario ma è la pubblicazione del network, del mio network. Ci troviamo di fronte, cioè, ad una creatura profondamente connettiva: non collettiva, non privata, ma profondamente connettiva»4. Il blog, dunque, ha probabilmente successo anche perché rappresenta un’efficace metafora di quella condizione nella quale si trovano oggi a operare gli individui nelle società contemporanee: perfettamente al centro tra la dimensione privata e quella pubblica. I blog hanno poi un altro dei loro punti di forza nel fatto che, a differenza degli altri strumenti di comunicazione oggi disponibili sul Web, «raggruppano i contenuti per persona, fornendo agli individui uno strumento di identificazione fortissimo. Questo facilita la relazione sia tra soggetti che già si conoscono, sia con soggetti che iniziano da zero un nuovo contatto»5. Insomma, il blog costituisce una forma di rafforzamento dell’identità personale rispetto a quel processo di «anonimizzazione» che caratterizza il funzionamento di Internet, perché contribuisce a stabilizzare nel tempo la presenza degli individui. In questo modo, si stabilizzano anche le relazioni interpersonali e si sviluppano preziosi confronti che portano allo sviluppo delle idee e a un arricchimento delle conoscenze possedute da parte della società nel suo complesso. 4   Derrick de Kerckhove, Tecnopsicologia, blog e nuova spiritualità quantica, in Antonio Tursi (a cura di), Mediazioni. Spazi, linguaggi e soggettività delle reti, Costa & Nolan, Milano 2005, p. 49. 5   Giuseppe Granieri, Blog generation, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 30.

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La tecnologia dunque consente agli individui di rafforzare le possibilità personali di esprimersi e di affermarsi in un contesto dove ciò appare sempre più difficoltoso. Consente, insomma, di essere più visibili all’interno di quell’enorme vetrina sociale in cui ci si trova a vivere. D’altronde, tutto ciò è una conseguenza del fatto che le persone devono imparare a sopravvivere in una società dove ciascuno ha l’obbligo di essere sempre in Rete, costantemente collegato al flusso della comunicazione ipermediale, e dunque ha la necessità di imparare a presentarsi al meglio. Ne deriva che l’individuo si percepisce sempre più frequentemente non come il frutto di una complessa rete di relazioni sociali, ma solamente come il risultato di ciò che è in grado di immettere nella Rete. Pertanto, si sente realmente appagato soltanto se ottiene una certificazione dalla platea che ha davanti rispetto alla sua esistenza. Così facendo, può dimostrare che il suo vivere non è inutile, ma produce azioni reali e destinate a durare in una realtà sfuggente che ha l’impressione di non riuscire più a controllare6. È necessario dunque riuscire a catturare l’attenzione degli altri rincorrendo una sempre maggiore capacità di emozionare. Si comunicano così anche le avventure sessuali, i fallimenti personali e le tragedie umane. Si denuda la propria anima e a volte anche il proprio corpo. Perché non ci si deve soltanto esporre, ma si è costretti a farlo cercando di raggiungere il maggior livello possibile di visibilità. Una visibilità, naturalmente, che può anche essere raggiunta costruendosi un’identità che sembra vera mentre in realtà finge soltanto di esserlo. Vale a dire, un’identità artificiale che consente di mascherarsi per liberarsi dal peso di dover essere una persona. Ma a lungo andare l’artificialità perde di efficacia. Perché è faticoso sostenerla a lungo e prima o poi può essere scoperta, ma soprattutto perché nella logica di funzionamento della Rete la sincerità funziona meglio, essendo in grado di creare dei rapporti umani basati sulla complicità. Insomma, l’identità è stata tradizionalmente costruita dagli individui attraverso un complesso gioco di relazioni, cioè mediante

6   Guido Di Fraia (a cura di), Blog-grafie. Identità narrative in rete, Guerini e Associati, Milano 2007, p. 174.

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una costante dialettica tra il dentro e il fuori, tra la propria mente e quelle degli altri. Oggi però questo processo sembra essere entrato in una fase di crisi. L’identità viene prodotta soprattutto a partire da un’esibizione di sé e si diffonde in maniera crescente attraverso un atteggiamento di tipo narcisistico. La grande rilevanza odierna delle strategie personali di autopromozione è evidente soprattutto nei comportamenti adottati per la ricerca di un partner. Il dating, insieme di modalità di incontro attorno al quale è fiorito un ricco mercato (cene, party, incontri veloci nei locali, ecc.), facilita i contatti e risponde dunque a questa necessità. È logico quindi che in Italia 3 milioni e mezzo di single, cioè circa 2/3 dei quasi 5 milioni esistenti, frequentino i servizi di online dating disponibili su Internet7 e che il principale sito specializzato europeo – Meetic – conti oltre 28 milioni di iscritti. La parola inglese «dating» significa darsi appuntamento, ma anche vedersi, mettersi insieme, uscire per fare sesso o comunque incontrarsi per vedere come va. Senza impegno e senza un eccessivo coinvolgimento, come succede abitualmente nelle relazioni affettive contemporanee. Il profilo personale che ciascun utente organizza all’interno dei siti di dating rappresenta naturalmente uno strumento di autopromozione. Ci si racconta al meglio e si inserisce anche la propria fotografia migliore. Ci si costruisce, quindi, una vera e propria vetrina virtuale personalizzata. Come d’altronde si fa sempre più frequentemente anche sui social network. L’individuo-network È l’ora dei social network. La crescita di questi strumenti di relazione è avvenuta in maniera esplosiva e non presenta segnali di crisi: Facebook è arrivata a disporre di circa un miliardo di utenti nel mondo, mentre Twitter ne ha quasi la metà. In queste vetrine digitali gli individui si espongono quotidianamente senza problemi, perché esse consentono di sentirsi permanentemente in scena davanti agli altri. Anche se gli individui che a centinaia si qualificano

7   Marina Cavallieri, L’anima gemella è sul web, «L’Espresso», 28 maggio 2009.

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come «amici» sono in realtà quasi sempre dei perfetti sconosciuti, l’impressione è comunque di trovarsi davanti a un’enorme platea costantemente in ascolto e ciò è molto rassicurante per delle persone che si trovano oggi a dover solitamente vivere in una condizione sociale di solitudine e caratterizzata da un’elevata incertezza. È stato calcolato che ogni mese le persone affidano soltanto a Facebook circa 25 miliardi di «pacchettini» di informazioni, generalmente personali, di cui 4 miliardi sono rappresentati da immagini8. Sembra che le esperienze fatte dagli esseri umani siano considerate vere solamente se vengono dichiarate esplicitamente nello spazio relazionale dei social network. Naturalmente si tratta di un’illusione, ma se ciò accade è perché su Facebook l’apparenza è che l’individuo fa quello che dice di fare, pensa quello che dice di pensare, è come dice di essere. Le esperienze di vita quindi, anche se si sviluppano nella realtà concreta, devono essere necessariamente rappresentate attraverso il medium social network. Ne deriva che I dispositivi di comunicazione always on (al cellulare, in chat, sul web) assumono i contorni di una gabbia che ci lega alle persone e agli oggetti e condiziona la nostra esistenza sociale. In tal modo, il social networking finisce paradossalmente per allontanarci da noi stessi, impedisce, almeno in parte, la riflessione sulla complessità del reale9.

Va considerato del resto che le persone nei social network sono costrette anche a esprimersi secondo modalità standardizzate, cioè rispettando un format che è stato precedentemente stabilito e che presenta caratteri estremamente rigidi. Quella creatività personale che nei blog è ancora possibile esprimere qui insomma viene quasi completamente cancellata. Su Facebook, ad esempio, la grafica presenta a prima vista un aspetto pulito e ordinato perché Come i moduli prestampati degli uffici comunali, tutto è incasellato e può essere ricondotto a uno schema uguale per tutti. Gli interventi

8   Michele Neri, Di quanti gradi di privacy abbiamo bisogno?, «D», n. 710, 11 settembre 2010. 9   Maria Emanuela Corlianò, Vite mediate. Nuove tecnologie di connessione e culture di rete, FrancoAngeli, Milano 2010, p. 39.

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lunghi, le frasi complesse o i pensieri troppo complicati sono palesemente scoraggiati, se non impossibili da scrivere. Le foto personali e quelle dei banners pubblicitari, a un primo sguardo, sono indistinguibili. Le linee verticali e orizzontali della grafica sono eleganti griglie immodificabili. Tutto è preordinato, semplificato, regredito verso lo standard. Quello che vediamo quando apriamo Facebook è un format modellato su un particolare tipo di pensiero, che utilizza protocolli e applica ontologie predefinite10.

Il risultato di tutto ciò è che anche le relazioni amichevoli e affettive tra le persone che si stabiliscono all’interno dei social network sono inevitabilmente caratterizzate da debolezza e superficialità. Inoltre, tendono a rendere le identità personali ancora più deboli e fragili. L’individuo infatti nei social network può agevolmente modificare e gestire la sua identità, ma anche le altre persone con cui è in contatto sono in grado di cambiarla. Ad esempio, un commento negativo di un amico può modificare la percezione che gli altri hanno del singolo individuo. Ne deriva un’identità mutevole e precaria. Un’identità pertanto che può rappresentare un problema per un adolescente, il quale ha generalmente il problema di riuscire a strutturare progressivamente una personalità che sia stabile e duri nel tempo11. Manuel Castells12 ha sostenuto qualche anno fa che Internet potrebbe far sorgere una nuova forma di individuo: quella dell’«individualismo in rete». Una forma che egli non ha definito e d’altronde in quel momento essa si configurava soltanto come un’ipotesi in via di sviluppo. Oggi appare evidente comunque che il concetto di individuo si sta progressivamente sgretolando per lasciare il suo posto a un paradossale individuo-network, essere sociale totalmente connesso in Rete che non è più in grado di distinguere tra l’interno e l’esterno, tra il privato e il sociale. Come peraltro richiedono le necessità di circolazione crescente dei flussi globali del capitalismo contemporaneo. Mentre ci si espone però in una qualche vetrina digitale, ci si

  Silvia Colombo, Dalla parte delle bambine, «Duellanti», n. 68, marzo 2011.   Si veda Giuseppe Riva, I social network, Il Mulino, Bologna 2010. 12   Manuel Castells, Galassia Internet, Feltrinelli, Milano 2002 [ed. or., 2001]. 10 11

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paragona inevitabilmente con gli altri, che si espongono a loro volta nella stessa o in un’altra vetrina. E la comparazione non sempre genera un bilancio soddisfacente per il singolo. Anzi, il continuo confronto, il fatto di sapere in tempo reale tutto o quasi quello che viene compiuto dagli altri (dagli amici più intimi alle persone celebri del mondo dello spettacolo), costringe inevitabilmente a pensare che ci si è lasciati sfuggire delle opportunità oppure che non si è stati in grado di realizzare quello che gli altri hanno portato a termine. Di ottenere, cioè, nella vita i loro stessi risultati. Anziché operare dunque come un individuo collettivo, spesso ci si sente degli individui singoli. E con la bruciante sensazione interiore di essere soli e inadeguati.

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Corpo «trasparente»

Una ragazza statunitense di 18 anni, residente in una piccola cittadina vicino Denver, ha denunciato qualche anno fa che la sua vita privata era rovinata perché era diventata suo malgrado oggetto di pettegolezzo da parte di migliaia di persone su Internet1. Si trattava di Katie, una studentessa stimata che, come tutti i suoi coetanei, era rimasta piuttosto colpita quando il celebre giocatore di bas­ ket Kobe Bryant era stato accusato di aver violentato una ragazza della sua cittadina. L’identità di questa ragazza era stata nascosta dai media tradizionali, i quali, per motivi di etica giornalistica, di solito non rivelano i nomi delle vittime di aggressioni sessuali. Ma improvvisamente un sito Web ha indicato che proprio Katie era la vittima di Kobe Bryant. La notizia era falsa, ma ha cominciato a viaggiare in Internet alla velocità della luce. E sono comparsi anche numerosi commenti aggressivi e con allusioni di tipo sessuale su Katie, considerata da molti tifosi di Bryant colei che aveva osato accusare ingiustamente il grande campione. La sua foto è stata incorniciata in una pagina con il sottotitolo «allarme prostituta». Altri siti hanno manipolato le immagini disponibili per presentarla mentre faceva sesso con Bryant. Katie è rimasta profondamente scossa e i suoi numerosi tentativi di smentire le notizie relative a questa vicenda o di far rimuovere da Internet il suo nome e le sue immagini hanno ottenuto scarsissimi risultati.

1   Il caso è raccontato, insieme a molti altri, in Daniel J. Solove, No privacy, Sperling & Kupfer, Milano 2009 [ed. or., 2007], pp. 36-37. Dello stesso autore si veda anche The Digital Person: Technology and Privacy in the Information Age, New York University Press, New York 2006.

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La situazione vissuta da questa ragazza americana dimostra con chiarezza che oggi siamo tutti continuamente sotto i riflettori e che ciò produce inevitabilmente delle conseguenze sulla nostra vita personale. Anche nei piccoli villaggi del passato i falsi pettegolezzi e le vere e proprie menzogne sulle persone si diffondevano velocemente, ma di solito venivano subito corretti perché tutti conoscevano i comportamenti e la storia personale di ciascun individuo. Su Internet, viceversa, chi legge dispone di poche informazioni frammentarie sulla persona trattata, informazioni che non sono in grado di configurare un vero quadro alternativo rispetto a quello presentato. Ne deriva inevitabilmente un indebolimento della capacità di controllo che ciascun individuo può esercitare sul proprio spazio vitale e sulla propria identità. Non è un caso pertanto se oggi un italiano su cinque2 è preoccupato che siano liberamente visibili su siti come YouTube filmati e foto che lo ritraggono. Sempre più vulnerabili L’abolizione della barriera esistente tra il pubblico e il privato crea inevitabilmente in tutti gli individui la sensazione di essere più esposti e dunque anche più vulnerabili. Il che è effettivamente vero, perché numerose conquiste tecnologiche che rendono la vita più confortevole e gradevole producono la vulnerabilità come effetto collaterale: come conseguenza, cioè, della possibilità di comunicare e muoversi in maniera più efficiente. L’insicurezza deriva dunque dalla condizione di ipercomunicazione in cui si trovano le persone, che sono continuamente esposte e non hanno più uno spazio privato in cui potersi isolare. In realtà, a partire dal Settecento la cultura moderna ha coltivato l’idea che sia necessario promuovere l’affermazione di un sistema sociale considerato democratico e sicuro per gli individui, in quanto «trasparente», cioè regolato da una specie di «principio della visibilità». La visione dell’altro consente infatti un controllo reciproco. Non è un caso che la metropoli moderna per eccellenza – Parigi – sia stata

2   Si veda Massimiano Bucchi e Giuseppe Pellegrini (a cura di), Annuario Scienza e Società 2011, Il Mulino, Bologna 2011.

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progressivamente invasa nell’Ottocento dall’ansia d’illuminare ogni cosa, perché la luce era vissuta come un principio d’ordine in grado di contrapporsi al caos primitivo e terrorizzante delle tenebre. La cultura e la morale della borghesia ponevano però dei limiti a questa ricerca della trasparenza e garantivano comunque all’individuo di poter disporre di un suo spazio privato. Già alla fine dell’Ottocento i sociologi, e in particolare Georg Simmel, hanno messo in evidenza le conseguenze derivanti dall’esposizione pubblica del corpo e della personalità dell’individuo nella nuova realtà metropolitana a una grande massa di sconosciuti, ma oggi tali conseguenze si sono enormemente amplificate. Il processo di «mediatizzazione» ha infatti invaso ogni ambito a disposizione e ha reso lo spazio privato sempre meno difendibile. Va considerato inoltre che il sistema capitalistico ha bisogno che l’individuo renda pubblico il suo consumo privato, per poter sintonizzare in base ad esso le strategie di produzione. Dunque, tra produttori e consumatori si crea un flusso unitario che tende ad abolire ogni segreto: gli individui, infatti, in quanto consumatori vengono inglobati all’interno del processo produttivo, nel quale, mentre consumano merci, generano allo stesso tempo informazioni utili per la produzione di nuove merci. A ciò si somma l’indebolimento dei rassicuranti legami comunitari e di quelli con lo Stato, ma anche la situazione di precarietà imposta alle persone dalla forte concorrenza esistente su mercati sempre più globali. Il risultato finale è che l’individuo appare essere completamente esposto, perché chiunque, in una società che obbliga a essere in costante contatto con gli altri, può essere intercettato, registrato, svelato. Crescono di conseguenza nelle persone le preoccupazioni relative alla sicurezza sociale, anche se in realtà gli abitanti delle nazioni più sviluppate hanno attualmente la fortuna di vivere «nelle società più sicure finora mai esistite»3. E in effetti gli odierni sistemi di sorveglianza e controllo riducono i pericoli che minacciano le persone. Tuttavia, come è stato sostenuto, paradossalmente lo Stato «crea esso stesso il male che finge di combattere. Quando il

3   Robert Castel, L’insicurezza sociale. Che significa essere protetti?, Einaudi, Torino 2004 [ed. or., 2003], p. 3.

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controllo vige dappertutto, dappertutto devono nascondersi le insidie. Se ognuno è sorvegliato, ognuno può essere un malfattore»4. Ne deriva che così facendo lo Stato semina inevitabilmente ansia e paura nella sua popolazione. Resta il fatto che si va sempre più configurando una vera e propria «società di controllo»5. Esistono infatti sistemi altamente sofisticati che sono adibiti a ispezionare i comportamenti delle persone. Si pensi, ad esempio, al programma Echelon della NSA (National Security Agency), un’agenzia d’informazioni creata da Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada, Australia e Nuova Zelanda, il quale è in grado di controllare il traffico internazionale via satellite di fax, e-mail, telefonate, e di isolare determinate parole o frasi analizzando ogni minuto più di 2 milioni di conversazioni6. All’interno degli Stati Uniti, invece, il Pentagono ha messo a punto un supersistema informatico chiamato Total Information Awareness che ha lo scopo di sorvegliare la vita delle persone, le loro comunicazioni elettroniche, le loro operazioni bancarie e i loro dati personali. Ed è noto che in Occidente le persone vengono sempre più identificate con carte d’identità e patenti dotate di microchips contenenti le principali informazioni personali, da quelle anagrafiche a quelle biometriche, come ad esempio la «scannerizzazione» della retina. Ciò rende ancora più evidente quel fenomeno che è stato definito «paradosso della sorveglianza», determinato dal fatto che quest’ultima rappresenta per lo Stato «un mezzo di controllo sociale e un metodo per assicurare il rispetto dei diritti dei cittadini»7.   Wolfgang Sofsky, In difesa del privato, Einaudi, Torino 2010 [ed. or., 2007], p. 26. 5   Gilles Deleuze, Pourparler, Quodlibet, Macerata 2000 [ed. or., 1990]. 6   Duncan Campbell, Il mondo sotto sorveglianza. Echelon e lo spionaggio elettronico globale, Elèuthera, Milano 2002 [ed. or., 2001] e Patrick Radden Keefe, Intercettare il mondo. Echelon e il controllo globale, Einaudi, Torino 2006 [ed. or., 2005]. Sulla sorveglianza si veda anche Mark Andrejevic, iSpy: Surveillance and Power in the Interactive Era, University Press of Kansas, Lawrence (KS) 2009. 7   David Lyon, L’occhio elettronico. Privacy e filosofia della sorveglianza, Feltrinelli, Milano 1997 [ed. or., 1994], p. 307. Di David Lyon si vedano anche La società sorvegliata. Tecnologie di controllo della vita quotidiana, Feltrinelli, Milano 2002 [ed. or., 2001] e Identifying Citizens: Id Cards as Surveillance, Polity Press, Cambridge 2009. 4

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Ma non è solamente lo Stato a tenere sotto controllo i messaggi che circolano nel sistema sociale. Una ricerca condotta qualche anno fa dall’American Management Association ha mostrato infatti che negli Stati Uniti due grandi aziende su tre spiano i messaggi circolanti via e-mail dei propri dipendenti. Esattamente quel che fanno su Internet i cookies, i quali, grazie alla particolare architettura aperta del Web, consentono di registrare i comportamenti degli utilizzatori, sicché aziende come Google possono ricostruire i profili degli utenti. Facebook ha introdotto nell’aprile 2010 il bottone «Mi piace», che può essere incorporato da altri siti Internet allo scopo di facilitare il passaparola. Così, oggi, più di un milione di siti l’hanno adottato consentendo a Facebook di rintracciare nominativamente le visite effettuate dalle persone8. Più in generale, va considerato che «la maggior parte dei social network applica politiche di accesso ai dati personali piuttosto “morbide” che consentono ai propri inserzionisti, e non solo a loro, di raccogliere migliaia di dati sui propri utenti»9. D’altronde, su Internet sono a disposizione programmi che saltano da una pagina all’altra e in grado di creare per ciascun navigatore un accurato dossier contenente il nome, il cognome, le fotografie, i video, gli amici, le opinioni, i gusti personali, ecc. E ci sono anche programmi che, sfruttando algoritmi di riconoscimento facciale, possono scovare in Rete tutte le fotografie nelle quali una persona è apparsa, anche se chi le ha pubblicate non le ha mai «etichettate» con nomi e cognomi. Oggi, insomma, gli individui lasciano ovunque numerose tracce del loro passaggio attraverso ciò che fanno nella vita quotidiana e molte aziende fanno affari d’oro raccogliendo e vendendo queste informazioni. Negli Stati Uniti, una società come la Acxiom possiede una banca dati contenente le registrazioni dei comportamenti del 96% degli americani10. Gesti semplicissimi e quotidiani come impiegare la carta di credito danno il via a registrazioni elettroniche che, se sommate insieme, permettono di ricostruire 8   Philippe Rivière, Facebook, specchio magico, «Le Monde Diplomatique-il manifesto», a. XVII, n. 12, dicembre 2010. 9   Giuseppe Riva, I social network, Il Mulino, Bologna 2010, p. 151. 10   Si veda Eli Pariser, Quello che internet ci nasconde, «Internazionale», n. 904, 1° luglio 2011.

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con precisione i gusti individuali. E questi rischi cresceranno con la diffusione sui prodotti in vendita delle cosiddette «etichette intelligenti», ovvero i chips RFID (Radio Frequency Identification), i quali sono in grado di trasmettere via radio a uno speciale lettore informazioni di varia natura sugli oggetti che li ospitano e le persone che li portano addosso. La casa discografica Sony Bmg è stata costretta tempo fa da un giudice del Texas a ritirare dal mercato oltre 4 milioni di cd musicali contenenti un software informatico che si installava nel computer all’insaputa dell’acquirente e trasmetteva alla casa discografica informazioni preziose sulle sue abitudini. In questo caso, l’astuzia dell’azienda è stata scoperta, ma quanti altri dispositivi di questo genere sono presenti nei prodotti che vengono quotidianamente acquistati? Si pensi soltanto ai circa 3 miliardi di telefoni cellulari oggi attivi nel mondo, i quali, senza che i loro proprietari se ne rendano conto, trasmettono continuamente informazioni al gestore. Comunicano spostamenti, abitudini, orari, preferenze delle persone che li utilizzano e dunque informazioni che assumono un valore inestimabile agli occhi delle aziende che intendono lanciare un nuovo prodotto o inviare messaggi pubblicitari «su misura». La stessa cosa si può dire dei navigatori satellitari che vengono attualmente installati su tutte le nuove automobili. Si è scoperto infatti che l’azienda leader mondiale del mercato – l’olandese Tom Tom – vendeva le informazioni che aveva raccolto sulle abitudini dei guidatori alla polizia, per poterle consentire di collocare gli autovelox nelle zone dove i limiti di velocità venivano superati più spesso11. Sotto l’occhio della telecamera Per esercitare un controllo è necessario anche analizzare visivamente i comportamenti delle persone. Infatti, garantire la sicurezza richiede di dover osservare cosa fanno gli individui nelle situazioni pubbliche. Cresce così in maniera esponenziale il numero delle telecamere installate nei luoghi pubblici. Secondo uno

11   Jaime D’Alessandro, Il segreto del Gps, così aiuta la polizia, i dati usati per piazzare gli autovelox, «la Repubblica», 30 aprile 2011.

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studio condotto nel Regno Unito, in questo paese erano attive nel 2004 più di 4 milioni di telecamere a circuito chiuso e in una giornata media un londinese veniva inquadrato più di 300 volte, quasi sempre senza accorgersene12. In Italia ne sono state installate circa un milione e mezzo13. Ma installare telecamere non basta. Il comportamento degli individui viene controllato negli spazi pubblici anche attraverso la cosiddetta «smart vision» (visione intelligente), cioè mediante sofisticati software capaci di evidenziare i comportamenti apparentemente anomali delle persone. Restare immobile troppo a lungo, non camminare nella giusta direzione, creare dei gruppi, oltrepassare le zone vietate sono comportamenti ritenuti sospetti e pertanto vengono immediatamente evidenziati sul video. L’obiettivo finale, evidentemente, è di ottenere un corpo umano del tutto «trasparente», come lo definiscono tecniche mediche di indagine quali la tomografia assiale computerizzata (TAC), la tomografia a emissione di positroni (PET) o la risonanza magnetica. Un corpo, quindi, che non ha più alcun segreto. Non è stato ancora dimostrato però che il controllo visivo costituisca un efficace deterrente rispetto ai comportamenti violenti. Di solito, infatti, la delinquenza non fa altro che spostarsi ai margini della zona monitorata. A Londra, certamente, le telecamere della metropolitana hanno permesso di identificare rapidamente i terroristi che hanno compiuto gli attentati del luglio 2005, ma non di impedire che questi portassero a termine i loro criminosi progetti. Un sistema di controllo ottico è costoso e produce un’enorme quantità di immagini e informazioni difficili da gestire. D’altronde, anche molti dati disponibili lo dimostrano: negli ultimi dieci anni il tasso di criminalità in Gran Bretagna è diminuito. Ma un’indagine condotta l’anno scorso su quattordici zone sorvegliate dalle telecamere a circuito chiuso ha dimostrato che l’impatto sui tassi di criminalità in questi luoghi è stato trascurabile e che in alcuni casi i reati sono addirittura aumentati. Inoltre è cresciuta la

12   Enrico Franceschini, Londra, 4 milioni di occhi segreti spiano i sudditi di Sua Maestà, «la Repubblica», 13 gennaio 2004. 13   Alberto Custodero, Grande Fratello, è boom e i milanesi ora sono “spiati” con i sistemi del Mossad, «la Repubblica», 28 aprile 2010.

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paura delle persone, mentre è diminuita la percentuale di casi risolti dalla polizia14.

Generalmente, però, si ritiene che le telecamere offrano ai cittadini una maggiore sicurezza. E lo si pensa anche dei controlli negli aeroporti, che non a caso sono stati intensificati in tutto il mondo dopo l’attentato alle Twin Towers avvenuto a New York l’11 settembre 2001. Tali controlli, però, non consentono di individuare realmente gli esplosivi e i terroristi. Una ricerca ha mostrato che all’aeroporto internazionale di Newark, uno dei più frequentati di New York, alcuni ispettori segreti, che erano stati incaricati di provare l’efficacia dei controlli effettuati, sono riusciti a far passare armi ed esplosivi ben 22 volte in un anno senza che nessuno se ne accorgesse15. Analogamente, sono scarsamente utili anche i controlli sui biglietti aerei e i documenti personali. È evidente, infatti, che nessun terrorista è mai salito su un aereo senza biglietto o documento. Siamo dunque di fronte a un sistema costoso e fastidioso, ma che svolge primariamente la funzione di indurre nei cittadini la sensazione che lo Stato si preoccupi di tutelare la loro sicurezza. Spesso, però, le diverse forme di controllo visivo dei comportamenti creano con la loro presenza anche la sensazione di essere più esposti, perché il sentimento di sicurezza non dipende dai pericoli realmente esistenti, ma dalla percezione individuale. Certamente, il controllo visivo può essere impiegato anche dai singoli a proprio vantaggio. A Londra, ad esempio, nel quartiere residenziale Haberdasher Estate, funziona da tempo un servizio di telecamere a circuito chiuso che sono a disposizione di ciascun abitante affinché possa esercitare un controllo della zona direttamente dal suo appartamento, individuando la presenza di eventuali persone sospette. A parte i rischi evidenti di violazione della privacy individuale, è però assai probabile che questo sofisticato sistema produca soltanto un elevato numero di falsi allarmi. Un fenomeno oggi abbastanza frequente, perché di solito essere protetti comporta di «vivere circondati da sistemi sicuritari che

  Jay Rayner, Sorvegliati speciali, «Internazionale», n. 639, 28 aprile 2006.   Vittorio Zucconi, Paura di volare, «D», n. 742, 14 maggio 2011.

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sono costruzioni complesse e fragili e che portano in se stessi il rischio di fallire nel loro compito e di deludere le aspettative che producono»16. Il corpo al mercato A fianco di quanto visto fin qui, si è andata sempre più diffondendo, a partire dal XVII secolo, come già metteva in luce Michel Foucault17, «una “coscienza medica generalizzata” tesa a controllare tanto la vita individuale quanto quella collettiva, al fine non solo di studiare e curare le malattie, ma anche di individuare e garantire dei parametri di salute»18. Vale a dire che si è progressivamente instaurato un vero e proprio processo di «medicalizzazione della società», che ha comportato lo sviluppo di forme sempre più rigide di controllo del corpo umano. Scrive Sofsky: Le campagne per l’igiene, per la salute pubblica e la dieta collettiva fanno parte del programma dello stato sociale moderno come la persecuzione del delirio e il modellamento dei corpi. L’autorità regola il rapporto tra i sessi, emana divieti contro le devianze sessuali, punisce i vizi. Chi indulge ai piaceri proibiti, o si avventura in strani vizi, deve pagare dazio. Chi non si attiene alle norme sanitarie viene schedato e messo alla berlina. Come erede del clero, lo stato moderno si è assunto il compito di tutelare i costumi e di creare individui virtuosi19.

Dunque, lo Stato moderno tende sempre più a impadronirsi del controllo del corpo degli individui. E il passaggio dal controllo alla proprietà privata può avvenire con facilità, come è dimostrato dal fatto che oggi il corpo è anche oggetto di un processo di privatizzazione e commercializzazione. Le multinazionali del farmaco, ad esempio, sono alla ricerca spasmodica di corpi-cavia sui quali testare i loro prodotti e li trovano soprattutto nelle zone   Castel, L’insicurezza sociale cit., pp. 4-5.   Michel Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1978 [ed. or., 1976]. 18   Vincenzo Sorrentino, Le ricerche di Michel Foucault, in Vincenzo Sorrentino (a cura di), Michel Foucault. Antologia. L’impazienza della libertà, Feltrinelli, Milano 2005, p. xxxviii. 19   Sofsky, In difesa del privato cit., p. 76. 16 17

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più povere del mondo. Infatti, prima di poter lanciare sul mercato un nuovo prodotto farmaceutico un’azienda statunitense deve convincere più di 4.000 pazienti a sottoporsi a 141 diverse procedure mediche, con un costo di almeno 1.500 dollari a paziente20. Ma nei paesi avanzati le persone sono sempre meno disponibili a sottoporsi ai test per i nuovi farmaci. Così, a partire dagli anni Novanta, le aziende farmaceutiche hanno cominciato a rivolgersi ai paesi in via di sviluppo, dove le persone non possono accedere ai farmaci perché sono molto povere e pertanto sono disposte a sottoporsi a procedure mediche di test invasive e dolorose. Oggi quasi la metà delle sperimentazioni viene effettuata in tali paesi, dove mancano spesso regole precise da rispettare e dove i corpi sono più adatti, perché poco contaminati dall’assunzione di farmaci, ma soprattutto meno costosi a causa della condizione di indigenza dei loro possessori. Sono però anche i corpi degli individui occidentali a essere commercializzati. Innanzitutto, in relazione alle informazioni che li riguardano. Ad esempio, un sito Web come PatientsLikeMe, di grande successo negli Stati Uniti, permette a chi lo gestisce di raccogliere notizie preziose sulle condizioni psicofisiche e i trattamenti terapeutici dei pazienti, che frequentano questo sito per scambiarsi informazioni e raccogliere opinioni di medici ed esperti. Il più significativo fenomeno di commercializzazione del corpo è probabilmente quello relativo all’ambito della ingegneria genetica. Le risorse genetiche del pianeta, frutto di milioni di anni di evoluzione, hanno cominciato a essere privatizzate nel 1971, quando un microbiologo indiano, Ananda Chakrabarty, ha chiesto all’Ufficio dei brevetti e dei marchi registrati degli Stati Uniti di poter brevettare un microrganismo geneticamente modificato, progettato per eliminare le chiazze di petrolio dagli ocea­ ni21. Dopo una lunga contesa giudiziaria, la Corte suprema degli Stati Uniti ha riconosciuto nel 1980 a Chakrabarty la possibilità di brevettare il microrganismo che aveva creato. Tale decisione 20   Sonia Shah, Cacciatori di corpi. La verità su farmaci killer e medicina corrotta, Nuovi Mondi Media, San Lazzaro di Savena (Bologna) 2007 [ed. or., 2006], p. 18. 21   Jeremy Rifkin, Il secolo biotech. Il commercio genetico e l’inizio di una nuova era, Baldini & Castoldi, Milano 1998 [ed. or., 1998].

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della Corte suprema, probabilmente influenzata dall’ondata di neoliberalismo che si andava diffondendo in quegli anni negli Stati Uniti, si basava sull’idea che un organismo geneticamente modificato potesse essere considerato esattamente identico a un’invenzione nel campo della meccanica o dell’informatica e ha aperto la strada allo sfruttamento commerciale di tutte le forme di vita. Pochi mesi dopo, infatti, Genentech – la prima azienda privata operante nell’ingegneria genetica – è stata quotata con successo nella Borsa di New York. E qualche anno dopo, nel 1987, l’Ufficio brevetti statunitense ha ulteriormente esteso la possibilità di brevetto a tutti gli organismi viventi pluricellulari manipolati geneticamente, inclusi gli animali. Dunque, gli embrioni e i feti umani, ma anche i geni, le linee cellulari, i tessuti e gli organi umani, potevano essere brevettati, a eccezione dell’intero corpo umano, possibilità impedita dal tredicesimo emendamento della Costituzione americana, che vieta la schiavitù. Nel 1988, l’Ufficio brevetti statunitense ha approvato il brevetto relativo al primo mammifero: l’«onco-topo». Si trattava di un topo geneticamente manipolato e contenente geni umani che lo predisponevano allo sviluppo di tumori. È stato «creato» dal biologo dell’Università di Harvard Philip Leder e prodotto e venduto dalla Du Pont per le ricerche sul cancro. Da allora sono stati brevettati molti altri animali geneticamente modificati, come quelli ottenuti ibridando cellule di specie animali differenti, incluse cellule umane. Ma il vero problema riguarda la crescente commercializzazione dei geni umani. Nel giugno del 2000 lo Human Genome Project, finanziato dagli Stati Uniti e da altri governi con l’obiettivo di decodificare la serie completa dei geni presenti negli esseri umani, è stato portato a termine con successo e parallelamente si è concluso anche l’analogo progetto della società privata dello scienziato Craig Venter: la Celera Genomics. E così oggi siamo vicini a disporre di una mappa genetica per ogni essere umano vivente. Le prime sono già disponibili, e nazioni come l’Islanda, l’Estonia, la Svezia, la Gran Bretagna e il Canada hanno avviato dei progetti per la classificazione del patrimonio genetico della loro popolazione22.   Catherine Waldby e Robert Mitchell, Tissue Economies: Blood, Organs,

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Ciò che però deve maggiormente preoccupare è che i geni umani possono essere brevettati e venduti. Nel caso dell’Islanda, i diritti relativi ai codici genetici di tutta la popolazione sono stati ceduti per un periodo di 12 anni a una società locale: la deCODE Genetics. D’altronde, poiché ogni anno vengono rilasciati negli Stati Uniti più di 4.000 brevetti sul DNA, c’è chi ha stimato che più del 20% dei circa 35.000 geni del genoma umano sia già diventato di proprietà di qualche società farmaceutica o università23. Dunque, un ignaro cittadino e i suoi familiari possono diventare oggetto di una caccia al loro prezioso patrimonio genetico. Questa situazione ha fatto sì che negli ultimi anni numerose imprese si siano messe a caccia di geni di microrganismi, di piante, di animali o di esseri umani che appartengono al patrimonio genetico comune di tutte le specie viventi. Sono l’eredità di milioni di anni di evoluzione, ma possono essere sfruttati commercialmente per creare, ad esempio, nuovi farmaci o prodotti per l’agricoltura. Oppure per realizzare e vendere test genetici che promettono di prevedere, per ciascun individuo, se svilupperà gravi malattie in futuro. In realtà, questi test sono di solito poco affidabili, come ha mostrato un’indagine condotta dal Government Accountability Office del governo degli Stati Uniti, secondo la quale il 68% dei risultati ottenuti sono contraddittori24. D’altronde, è noto da tempo che il patrimonio genetico individuale non costituisce che una delle variabili che determinano lo stato di salute di un individuo, insieme ai fattori ambientali e alle esperienze personali. La promessa di poter prevedere le malattie future è però talmente allettante da spiegare di per sé perché il mercato dei test genetici continui a svilupparsi con forza. Davvero inquietanti sono poi i passi da gigante che sta facendo la ricerca nell’ambito dell’industria genetica. Nel 1996 è stata clonata a Edimburgo la pecora Dolly e da allora sono stati numerosi gli animali nati attraverso la clonazione: topi, scimmie, mucche,

and Cell Lines in Late Capitalism, Duke University Press, Durham-London 2006, p. 7. Sull’argomento si veda anche Nikolas Rose, La politica della vita. Biomedicina, potere e soggettività nel XXI secolo, Einaudi, Torino 2008 [ed. or., 2007]. 23   Michael Crichton, Next, Garzanti, Milano 2007 [ed. or., 2006], p. 148. 24   Elena Dusi, Dna, le promesse mancate, «la Repubblica», 28 luglio 2010.

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capre, maiali, conigli, muli, cavalli e cani. E sono in corso vari tentativi per dar vita al primo organismo vivente artificiale. In laboratorio, partendo da sostanze chimiche, si cerca di ottenere del DNA sintetico con il quale si creano dei geni e quindi l’impianto molecolare di organismi completamente nuovi. Nel marzo del 2006 le Università della California e dell’Illinois hanno creato un virus artificiale. Ha vissuto per soli 50 nanosecondi, ma si è trattato di un primo importante passo verso la vita artificiale. Finora, comunque, i ricercatori hanno fabbricato singoli elementi biologici e non organismi completi in grado di autoreplicarsi. Ma forse è solamente questione di tempo e un domani non lontano dovremo imparare a convivere con esseri viventi completamente artificiali. Naturalmente acquistabili sul mercato dietro pagamento del relativo prezzo. Anche altre componenti di creature viventi (cromosomi, cellule e tessuti) sono brevettabili e dunque sfruttabili commercialmente. Infatti, il progresso delle tecniche mediche, che consentono con sempre maggiore facilità di isolare, frammentare, conservare e reinnestare parti del corpo umano su altri corpi, insieme con la progressiva globalizzazione economica del pianeta, ha dato il via a una vera e propria «economia dei tessuti»25. Fenomeni quali gli enormi interessi economici al lavoro su parti minime del corpo umano (la pelle, lo sperma, le ovaie, gli ovuli, le cellule, gli embrioni e il cordone ombelicale) e il traffico internazionale di organi umani da trapiantare rendono infatti evidente che oggi abbiamo a che fare con una nuova forma di economia che si basa sulla possibilità di manipolare, controllare e gestire le capacità vitali degli esseri umani. Il corpo umano, difatti, può essere frammentato e ricombinato con sempre maggiore facilità e ciò consente di conferire una nuova mobilità alle componenti della vita, permettendo loro di entrare facilmente in circolazione nei flussi globali del capitale e diventare così una fonte importante di sviluppo del valore economico. Nella nuova economia dei tessuti che si va delineando accade anche che – proprio come avviene solitamente nel sistema sociale – i flussi economici tendano a seguire le regole imposte dai rap-

  Waldby e Mitchell, Tissue Economies cit.

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porti di potere esistenti. Abbiamo già detto che gli organi umani e le loro componenti vengono solitamente venduti da persone molto povere residenti nei paesi in via di sviluppo a persone particolarmente benestanti del mondo occidentale più avanzato. Negli ultimi tempi, però, a causa della grave crisi economica che ha colpito l’Occidente, anche diverse persone appartenenti alla classe media italiana hanno cominciato a vendere un proprio rene o un pezzo del proprio fegato per poter pagare il mutuo dell’abitazione o per salvare dal fallimento la propria azienda, come testimoniano centinaia di annunci con offerte di questo tipo comparsi su Internet26. 26   Marco Mensurati e Fabio Tonacci, A.A.A. Rene vendesi, «la Repubblica», 24 giugno 2009.

Indici

Indice dei nomi

Aaker, D.A., 65n. Abercrombie, N., 90n. Abruzzese, A., 41n. Adorno, T.W., 15 e n, 17. Agnoletto, M., 43n. Alberoni, F., 102n. Allen, W., 110. Al Maktoum, M.B.R., 52, 53. Alquier, L., 7. Aluffi, G., 114n. Amendola, G., 38n, 40n, 47n. Andrejevic, M., 140n. Appiano, A., 93n. Aristotele, 115. Arvidsson, A., 31n. Aspesi, N., 121n. Aubert, O., 95n. Auletta, K., 24n. Barber, B.R., 69n. Bardot, B., 111. Baron Cohen, S., 54. Baudrillard, J., 76n, 128n. Bauman, Z., v, 72 e n, 75n, 77n, 97n, 115n. Bégout, B., 53n. Benjamin, W., 42 e n. Benkler, Y., 35n. Berlusconi, S., 94. Bignami, L., 39n. Bikkembergs, D., 84. Blahnik, M., 98. Boccia Artieri, G., 66n.

Boltanski, C., 127. Boltanski, L., 25n. Bonfante, L., 123n. Bonomi, A., 41n. Bono Vox, 112. Bordo, S., 119n. Borgna, P., 125n. Botta, A., 123n. Bottini, F., 43n. Bowie, D., 111. Brando, M., 111, 112. Braudel, F., 85n. Briant, K., 137. Brody, A., 110. Bryman, A., 48n. Bucchi, M., 138n. Buchanan, M., 3n. Cage, N., 110. Caldieri, S., 127n. Calvi, G., 81n. Campari, R., 99n. Campbell, C., 74n. Campbell, D., 140n. Campbell, N., 106. Cappiello, L., 57. Caro, I., 113. Carrey, J., 110. Casiccia, A., 81n. Castel, R.,139n, 145n. Castells, M., 46n, 135 e n. Cautela, C., 71n. Cavallieri, M., 133n.

­­­­­154 Certeau, M. de, 29 e n, 30. Cézanne, P., 50. Chakrabarty, A., 146. Chaplin, C., 99, 111. Chéret, J., 57. Chiapello, E., 25n. Clay, C., 111. Clinton, B., 94. Clooney, G., 108. Codeluppi, V., 4n, 31n, 59n, 63n, 66n, 74n, 77n, 83n, 91n, 92n, 110n, 114n, 130n. Cohen, D., 23n. Colombo, S.,135n. Cometa, M., 29n. Corlianò, M.E., 134n. Corona, F., 101. Crichton, M., 148n. Csikszentmihalyi, M., 83n. Cucanne, J., 70. Custodero, A., 143n. D’Alessandro, J., 142n. Danesi, M., 67n. Davis, M., 44, 52 e n. Dean, J., 103, 104, 105. deChant, D., 108n. De Kerckhove, D., 131n. Deleuze, G., 140n. Delpiano, A., 43n. Depero, F., 58. Dietrich, M., 110. Di Fraia, G., 132n. Di Nallo, E., 66n. Dines, G., 122n. Dion, C., 51. Disney, W., 52. Ducasse, A., 51. Dudovich, M., 57. Dujarier, M.-A., 30n. Dusi, E., 11n, 148n. Elias, N., 96 e n. Elliott, A., 3n. Ellul, J., 108n. Erik Gunnar Trjo, 32n.

Indice dei nomi

Evans, V.L., 131. Fairbanks, D., 99. Falciola, C., 11n. Ferraresi, M., 65n. Ficocelli, S., 119n. Fini, M., 76n. Fiorentino, G., 7n. Flocker, M., 120n. Ford, H., 6, 22. Formenti, C., 35n. Foucault, M., 20, 117 e n, 125 e n, 145 e n. Franceschini, E., 143n. Gable, C., 110. Gates, B., 108. Gaultier, J.-P., 112. Ghigi, R., 114n. Giddens, A., 10n, 117n, 121n. Gish, L., 99. Goffman, E., 94 e n. Granieri, G., 131n. Grazioli, E., 59n. Guerzoni, M., 43n. Hall, S., 29. Hanks, T., 37. Harvey, D., 44. Haussmann, G.-E., 57. Hebdige, D., 29. Hendrix, J., 112. Hilton, P., 106. Hine, T., 90n. Hitler, A., 52. Hoggart, R., 29. Holmes, W.O., 7 e n. Horkheimer, M., 15 e n, 17. Howe, J., 35n. Iengo, F., 7n. Izenour, S., 50n. Jackson, M., 111, 112. Jameson, F., 44. Jencks, C., 47n.

155

Indice dei nomi

Jobs, S., 108. Kamprad, I., 32n. Katie, 137. Kilbourne, J., 54n. King, L., 106. Kinsey, A., 126. Klein, C., 68. Klein, N., 64n. Koolhaas, R., 41 e n. Kuczynski, A., 114n. Lady Gaga, 108. Lario, V., 94. Lasch, C., 75n. Lash, S., 15 e n, 16. Le Breton, D., 120n. Leder, P., 147. Leigh, M., 43. Lever, W.H., 56. Lévi-Strauss, C., 9. Lewis, E., 32n. Ligabue, L., 128, 129. Lipovetsky, G., 4n, 12n, 70n. Loach, K., 43. Longhurst, B., 90n. Lull, J., 12 e n, 13. Lumière, fratelli, 56. Lury, C., 15 e n, 16, 65n. Lyon, D., 140n. Lyotard, J.-F., 60n. Madonna, 111, 112. Magatti, M., 5n, 14n. Magnanini, C., 116n. Magrassi, P., 10n. Magritte, R., 59. Majakovskij, V, 59. Manaresi, A., 65n. Marinetti, F.T., 58. Marocco, T., 115n. Marrone, G., 115n. Martel, F., 15n, 18n. Martini, P., 101 e n. Marx, M., 5, 6, 23 e n, 28 e n, 29, 78.

Matisse, H., 50. Mazzette, A., 47n. McNair, B., 93n, 123n. Mensurati, M., 150n. Meyrowitz, J., 93, 94 e n. Micheletti, M., 74n. Minardi, S., 42n, 125n. Mitchell, R., 147n, 149n. Monet, C., 50. Monroe, M., 104, 105, 111. Mora, L., 101. Moric, N., 101. Morin, E., 100n. Morrison, J., 111. Moss, K., 106. Mucha, A.M., 57. Nasseri, M.K., 37. Neri, M., 95n, 134n. Niedzviecki, H., 123n. Orbach, S., 118n. Ostidich, D., 71n. Paltrinieri, R., 66n, 74n. Pariser, E., 141n. Paul, P., 122n. Pavarotti, L., 50. Pellegrini, G., 138n. Peyser, M., 98n. Piaf, E., 111. Picasso, P., 50, 51. Pickford, M., 99. Picon, A., 40n. Piperno, A., 115n. Pitassio, F., 99n. Pitt, B., 98, 102, 108. Polhemus, T., 92n. Pollarini, A., 91n. Pollock, J., 50. Presley, E., 111. Radden Keefe, P., 140n. Ramonet, I., 19n. Rampini, F., 117, 118n. Ray, M., 59.

­­­­­156 Rayner, J., 144n. Recalcati, M., 119n. Reeves, S., 121. Remaury, B., 115n. Richie, N., 106. Rifkin, J., 26, 27n, 97 e n, 146n. Ritzer, G., 79n. Riva, G., 135n, 141n. Rivière, P., 141n. Rodcˇenko, A., 59. Rodríguez, B., 101. Rose, N., 20n, 148n. Rossi, V., 111. Salaris, C., 58n. Salecl, R., 82 e n. Sandvoss, C., 101n. Sant’Elia, A., 6. Sarno, J., 49. Sassen, S., 46n. Scatigna, L., 91n. Schivelbusch, W., 87n. Schlepp, fratelli, 98, 102. Schmitt, B.H., 65n. Schwartz, B., 82n. Schwitters, K., 59. Scott Brown, D., 50n. Séguéla, J., 109 e n, 110 e n, 111. Serroy, J., 12n. Shah, S., 146n. Siegel, B., 49. Silverstone, R., 13, 14n. Simmel, G., 5, 39 e n, 139. Simone, 3 e n. Simonson, A., 65n. Sofsky, W., 96n, 140n, 145 e n. Solove, D.J., 137n. Sorrentino, V., 145n. Spears, B., 106.

Indice dei nomi

Speer, A., 52. Spielberg, S., 37. Stevenson, R.L., 49. Sunder Rajan, K., 20n. Swanson, G., 99. Tapscott, D., 34n. Teodonio, V., 94n. Thackara, J., 10 e n. Toffler, A., 32 e n, 36. Toffler, H., 32n. Torekull, B., 32n. Torracci, F., 94n, 150n. Toscani, O., 113. Toulouse-Lautrec, H. de, 57. Touraine, A., 12 e n. Triani, G., 76n. Tursi, A., 131n. Urry, J., 3n. Valentino, R., 99. Van Gogh, V., 50, 51. Vanzella, L., 93n. Vasa, A., 84. Veblen, T., 91. Venter, C., 147. Venturi, R., 50n. Verdú, V., 88n. Verne, J., 8, 9 e n. Vigarello, G., 116n. Volli, U., 62n, 107n. Waldby, C., 147n, 149n. Walker, R., 34n. Williams, A.D., 34n. Zuccardi Merli, U., 119n. Zucconi, V., 45n, 144n.

Indice del volume

Introduzione

v

1. Ipermodernità

3

Lo sviluppo della modernità e del capitalismo, p. 4 - Una vita accelerata, p. 8 - La cultura ipermoderna, p. 12

2. Biocapitalismo

19

Le caratteristiche del biocapitalismo, p. 20 - Verso l’economia della conoscenza, p. 23 - Il consumatore che produce, p. 27

3. Ipermetropoli

37

La crescente importanza della metropoli, p. 38 - La città-spettacolo, p. 45 - Siamo tutti abitanti di Las Vegas e Dubai, p. 48

4. Società pubblicitaria

54

L’evoluzione della forma pubblicità, p. 55 - Il ruolo della marca, p. 60 - La marca si fa mondo, p. 66

5. Iperconsumo

70

Promuovere lo shopping, p. 71 - Il consumo come miracolo, p. 76 - La natura paradossale del consumo, p. 79

6. Vetrinizzazione sociale

84

Nascita e sviluppo della vetrina, p. 85 - Vivere in vetrina, p. 89 - Addio alla privacy, p. 93

7. Iperdivismo Il ruolo del divo nella società, p. 99 - Tra James Dean e Paris Hilton: il cambiamento del divo, p. 103 - Come funziona il divo, p. 106

98

­­­­­158

Indice del volume

8. Corpo-packaging

113

Il corpo come medium, p. 114 - I problemi odierni del corpo, p. 118 - Il corpo erotico, p. 122

9. Vetrina digitale

127

L’ambiente mediatico, p. 128 - La realtà dentro la vetrina digitale, p. 130 - L’individuo-network, p. 133

10. Corpo «trasparente»

137

Sempre più vulnerabili, p. 138 - Sotto l’occhio della telecamera, p. 142 - Il corpo al mercato, p. 145



Indice dei nomi

153