Il bambino arrabbiato. Favole per capire le rabbie infantili 8804413050


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Il bambino arrabbiato. Favole per capire le rabbie infantili
 8804413050

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IL BAMBINO

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Digitized by the Internet Archive in 2023 with funding from Kahle/Austin Foundation

https://archive.org/details/ilbambinoarrabbi0000marce

Alba Marcoli

Il bambino arrabbiato Favole per capire le rabbie infantili Pa

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Arnoldo Mondadori Editore

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© 1996 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano | edizione Saggi Oscar Mondadori settembre 1996

ISBN 88-04-41305-0 Questo volume è stato stampato presso Arnoldo Mondadori Editore S.p.A. Stabilimento Nuova Stampa - Cles (TN)

Stampato in Italia - Printed in Italy Ristampe: YU Ze

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Indice

Avvertenze per il lettore Il perché di questo libro IL BAMBINO ARRABBIATO Capitolo primo: La vitalità della rabbia

Come è nato questo libro Perché parlare di rabbia Che cosa sta dietro alla rabbia La forza della rabbia Le rabbie e la scuola Capitolo secondo: I segnali della rabbia La premessa di ogni favola (1) La paura dell’abbandono — // cucciolo che aveva paura delle macchie nere, 45 — La paura di sentirsi soli e impotenti, 52

(2) La difficoltà ad addormentarsi — // camoscio che non voleva dormire, 59-— La paura del non familiare, 66 (3) Il rapporto con il cibo —L’orsetta golosa, 75 — L’uso del cibo come comunicazione, 83 (4) La separazione dei genitori — / capretto balbuziente,89 — Quando il conflitto entra nel bambino, 97

103

(5) La morte di un genitore — La fartarughina che non voleva più uscire dal guscio, 105 — Aiutare a vivere il proprio dolore, 111

117 119

Capitolo terzo: Alle radici della rabbia (6) L’iperprotezione svalutativa — // principino che distrug-

geva i castelli, 123 — L’iperprotezione svalutativa e la trasmissione di vecchie ferite,129

135

(7)I conti in sospeso — La principessina arrabbiata perché non le chiedevano mai scusa, 137-—Le ferite cicatrizzate, 145

154

167

(8) Vicino e lontano: la spinta all’autonomia—// libro dell’ esploratore, 155-Né trattenere, né spingere lontano, 160 (9) Le critiche svalutative — Laprincipessa che si sentiva sempre stupida, 171-La mancanza di autostima, 176

179

(10) La ricerca di sé negli altri — La principessa prigioniera degli specchi, 181 — Gli altri come specchio per sapere chi Sento,

195 195

Capitolo quarto: Alla ricerca della rabbia perduta (11) L’invasione del proprio territorio — // principino che non parlava più, 197 — L’urlo senza voce, 202

209

(12) Le separazioni precoci — // principino che cercava solo vendetta, 211 — La cultura familiare del distacco, 219

220:

245

263

(13) La negazione dei conflitti — // principino che aveva perso la sua ombra, 231 — Dove vanno le emozioni perdute?, 239 (14) Si può controllare lo scorrere del tempo? — // cucciolo che voleva fermare il tempo, 247 — Qualche riflessione sulla favola, 254 (15) Quando la rabbia non arriva alla parola — Favola senza parole, 265

267 269

Capitolo quinto: Aiutare gli adulti a capire Cercare di capire anche quello che non si vede

285 287

Capitolo sesto: I gruppi di favole per genitori e insegnanti Imparare a imparare

305 307 315

Capitolo settimo: Oltre la rabbia La solitudine delle giovani mamme oggi Dall’archeologia della memoria: uno dei tanti ricordi di vite arrabbiate Dalla rabbia a una maggiore libertà dentro di sé: testimonianze di ex-bambini arrabbiati

321

331

Bibliografia

Sono ormai tante le persone che hanno contribuito alle riflessioni di questo libro, nel corso di dodici anni, che non posso che ringraziarle tutte, collettivamente, per i loro commenti, suggerimenti e critiche preziose, nonché per la ricchezza del contributo

di vicende umane che ognuna di loro ha portato e di cui io sono stata semplice testimone. In particolare vorrei però ricordare: — Velia Bianchi Ranci per aver ancora una volta rivisto e commentato ogni favola dalla parte dei bambini, integrando la mia esperienza di lavoro con adulti. — Ida Finzi, Magda Viola, Lilia D’Alfonso, Simona Taccani,

Wally Capuzzo, Germana Gasparri e Antonio Scarlato che hanno pazientemente letto il manoscritto, dando suggerimenti preziosi. —I miei vecchi gruppi sperimentali che hanno visto nascere e crescere questo lavoro, mese dopo mese e anno dopo anno. — Raffaella Verdi del c.I.T.E. e il gruppo Spazio Donna del Comune di Corsico. — Celia Landaverde del c.E.s.I.L. e il Gruppo Donne Internazionali. — I gruppi dei corsi per genitori del C.e.R.P. di Milano. — Il gruppo di genitori e operatori del Consorzio Il Solco di Brescia. |. — Il gruppo di lavoro dell’Istituto di Psicoterapia del Bambino e dell’ Adolescente e quello di Età Evolutiva della Scuola di Psicoterapia Analitica di via Guido d’Arezzo di Milano che si sono interessati a questa esperienza. Ed

— Il gruppo di genitori e quello di operatori dell’associazione La Nostra Famiglia di Vedano Olona. — Tutti gli altri gruppi di genitori e operatori con cui ho lavorato nel corso degli anni in scuole, distretti socio-sanitari, bi-

blioteche, convegni, seminari d'aggiornamento, eccetera. - I colleghi e gli amici che hanno prestato un primo ascolto a queste favole mentre venivano scritte e fra di loro Lella Ravasi con l’intero gruppo, Francesca Corneli, Giovanna De Petris, Lilian MceGuckien, nonché Marinella Marcoli, Rosetta Aragona e Marina Cancedda che hanno contribuito anche alle riflessioni sulle rabbie scolastiche. — Cesare Viviani che mi ha fatto riscoprire il piacere di scrivere anni fa in un gruppo di scrittura e che è stato prodigo di consigli e suggerimenti quando ho deciso di scrivere // bambino nascosto. -— Mammola Bianchi Marcoli che ha tradotto in francese buona parte di queste favole. — Le persone, e sono ormai tante, la cui vicenda umana, intrecciandosi alla mia, ha ispirato questo libro, insieme a tutte le

letture e gli autori che in ogni campo, dalla poesia alla psicanalisi, mi hanno suscitato nel corso degli anni il piacere di riflettere, di pensare, di interrogarmi sulla realtà e che sono andati inevitabilmente a confluire, insieme alle altre esperienze, nel bagaglio di pensiero e di immaginario che accompagna i miei attuali 57 anni di vita. — Mia sorella Marinella e mia cognata Licia che mi hanno tolto l’incombenza sia dei lavori domestici sia del cucinare, du-

rante la prima stesura di questo libro. — Infine Marta Anelli che ha trascritto e ritrascritto tutto questo materiale con amore, cura e una pazienza da certosino e

Mimma Rossotti e Gianni Cavazzin che l’hanno completato. A tutti loro, nonché ai molti che ho inevitabilmente omesso,

va la mia profonda riconoscenza. Senza di loro questo libro non sarebbe mai potuto essere: non sono parole di convenienza, ma la semplice verità. I suoi limiti, invece, sono e restano ancora una volta soltanto

i miei.

Milano, settembre 1996

Avvertenze per il lettore

L'immagine dall’esterno viene sempre falsata da una seconda immagine proveniente dall’interno. L’immagine reale che abbiamo è una mescolanza dell’immagine reale e di quella condizionata dalla nostra umanità. Di conseguenza non esiste una scienza obiettiva.

G. Groddeck, // linguaggio dell’ Es!

Questa serie di favole, divisa in due blocchi, rappresenta la continuazione del mio libro // bambino nascosto (Oscar

Mondadori, 1993). Il primo blocco si rifà ancora ai cuccioli del bosco e alle loro storie, il secondo, più recente nel tempo, cerca di aiutare a mettere a fuoco la inconsape-

vole trasmissione di atteggiamenti che in genere avviene da una generazione all’altra. Sono perciò, ancora più delle prime, favole per adulti e non per bambini. Valgono quindi le stesse avvertenze del mio libro precedente: questo non è uno strumento per tutti, ma solo per chi se ne sente aiutato a capire delle cose. Se invece la risonanza emetiva che ci può dare è solo quella del fastidio o del dolore, è consigliabile chiudere il libro e metterlo da parte, oppure saltare le favole che provocano queste sensazioni. In tal ! G. Groddeck, // linguaggio dell’ Es, Adelphi, Milano 1969. 9

caso è infatti probabile che questo non sia né lo strumento, né il momento della vita adatto a entrare in contatto con temi del mondo interno, così come è altrettanto legittimo che ciò non ci interessi né ora né mai. Nel caso che poi queste favole fossero utilizzate come strumento di discussione in gruppi guidati, sarebbe importante, anzi, direi, essenziale, che il gruppo stesso venisse condotto da psicoterapeuti, proprio per la delicatezza dei temi del mondo emozionale. Oltretutto, anche qui si tratta di materiale che non ha al-

cuna pretesa di assoluto o di dimostrabilità. Vi sono contenute la mia stessa vicenda umana con le sue esperienze, letture e studi, nonché quelle di tanti anni di lavoro nella scuola e in psicoterapia, viste, come dice Groddeck, attraverso l’immagine condizionata dalla mia stessa umanità e dai miei limiti nel momento in cui ho cercato di rinarrarle sotto forma di favole, per aiutare a capirle col cuore, non a

giudicarle. Spero di aver reso giustizia ad alcuni ex biati e di aver raccolto delle testimonianze adulti a riflettere sulle rabbie infantili per con mano più leggera e rispettosa quando contrarle sul nostro cammino.

bambini arrabche aiutino noi poterle sfiorare ci capiti di in-

Il perché di questo libro

Le mani che piantano non muoiono mai. Da un vecchio proverbio nordafricano

Questo libro, come dicevo, è semplicemente la seconda parte di // bambino nascosto ed è destinato alle persone che l’hanno letto e trovato utile per riflettere su alcuni temi psicologici del vivere. Riprende perciò degli spunti che per esigenze editoriali sono stati omessi allora e in particolare raccoglie delle favole di individuazione intorno al tema delle rabbie, che sono sempre accompagnate da una sofferenza spesso non capita e riconosciuta, soprattutto nei bambini e nei ragazzi. «Non ogni rabbia vien per nuocere!» ha detto un giorno un bambino, saggiamente. Ascoltare, testimoniare e aiutare la sofferenza, espressa da una rabbia comprensibile, a evolvere in modo costruttivo e non distruttivo, può essere allora la sfida che noi adulti

possiamo cogliere se ci interessa il tema della prevenzione del disagio minorile. Per poterlo fare, dice la Miller, bisogna che ci sa un

“testimone soccorrevole”, un adulto che capisca il bambino e stia davvero dalla sua parte, aiutandolo a usare le sue

risorse in modo evolutivo. Rivendiamo la storia infantile di una mamma

contrarne uno.

(// bambino nascosto, favola n. 4) per in-

«Sa, certe volte, proprio, mio figlio non lo capisco. Si mette a urlare, a piangere, si irrigidisce tutto come se diventasse una statua. E io lì a calmarlo, ma non c’è verso...

non ci riesco proprio... Adesso poi mi è venuta un’altra paura e non riesco a mandarla via... Ho paura che lui si accorga che io ho sempre paura... di tutto. Ho avuto paura anche dello sguardo di mio marito certe volte. Sono tanti anni che me la porto dentro questa paura, almeno venti. E cominciata quando è morto mio padre e io avevo sette anni. Dopo è stato un calvario, con mia madre sempre depressa, dentro e fuori dall’ospedale psichiatrico tutta la vita. Mi ricordo che quando era fuori stava giornate intere sdraiata sul letto, guardava il soffitto e sembrava che non ci vedesse neanche noi bambini. E noi crescevamo così,

pieni di paure. Io ho cominciato a non dormire di notte e sentivo tutti i rumori, quelli che c'erano e anche quelli che non c'erano. E gli spiriti e i morti. Quando ci hanno messo in collegio, le suore mi volevano far dire il Requiem aeternam, sa, la preghiera per i morti, e io che volevo tanto bene a mio padre non sono mai riuscita a dirgliene uno di Requiem aeternam. Perché se solo ci pensavo mi prendeva il terrore dei morti e mi paralizzavo. E così non l’ho mai detto. E allora le suore pensavano che io fossi cattiva. E una volta che una mi ha sgridato tanto e mi ha dato uno schiaffo, io sono scappata dal collegio e sono arrivata in campagna e lì c’era il fiume e i canali che irrigavano i campi. E io avevo la testa così vuota, che non mi sono

neanche accorta che camminavo proprio sul bordo del fiume e dei canali e che potevo cascar dentro. E allora un signore che era lì a coltivare i campi e che io non avevo neanche visto, ha cominciato a seguirmi e quando mi sono fermata a guardare l’acqua mi è venuto vicino e ha cominciato a parlarmi e mi ha chiesto perché volevo buttarmi nel fiume e se ero stata bocciata, e mi ha raccontato che anche lui aveva una figlia della mia età e che non dovevo fare così. E mi ha parlato tanto, è stato molto buono con 12

me, e quando ho cominciato a star meglio mi ha accompagnato dai carabinieri e ha avvertito il collegio perché mi venissero a riprendere...» Il signore che coltivava i campi, questo semplice contadino, è stato il “testimone soccorrevole” che la sorte ha fatto incontrare sulla sua strada a una adolescente disperata. È stato l’unico davvero dalla sua parte, facendo istintivamente e per empatia una serie di gesti con un grande valore d’aiuto: 1. Ha smesso di lavorare per seguire una ragazzina disperata e sconosciuta che vagava in preda ;a una confusione da angoscia. È stato un adulto che si è assunto il suo compito di aiutare un ragazzo in difficoltà e di proteggerlo dalla sua stessa rabbia autodistruttiva. 2. L’ha raggiunta sul “suo terreno” per poterla aiutare. Non l’ha cioè fermata o chiamata, ha cominciato semplicemente a seguirla in silenzio, così come in silenzio lei

vagava per i campi. 3. Solo quando la ragazzina si è fermata a guardare l’acqua del fiume, ha dato le parole a quello che lei stava probabilmente per fare senza rendersene completamente conto e le ha domandato “perché” voleva buttarsi nel fiume. 4. Subito dopo ha riconosciuto che se qualcuno arriva a questa disperazione ci deve pur essere un motivo e le ha chiesto se per caso era stata bocciata. 5. Le ha raccontato che anche lui aveva una figlia della sua età e si è comportato con lei in un modo paterno buono, facendole probabilmente ricordare, senza saperlo, che

anche lei una volta aveva avuto un papà buono su cui contare, che adesso poteva almeno tenere dentro di sé eome ricordo. È diverso aver dentro di sé un ricordo buono piuttosto che avere la testa completamente vuota. 6. Si è posto come un adulto che aiuta a distinguere ciò che si fa e ciò che non si fa per proteggere la vita e le ha detto che non doveva fare così, che non ci si distrugge. 7. Si è preso cura di lei fino a quando ha cominciato a 13

stare meglio e l’ha poi accompagnata dai carabinieri perché la riaccompagnassero in collegio. L’ha presa cioè in carico dall’inizio alla fine di questo episodio di disperazione che lei non riusciva più a controllare. Il contadino che ha aiutato questa adolescente a contenere la sua rabbia disperata e a evitarle uno sbocco autodistruttivo è stato un “testimone soccorrevole”. Questo libro vorrebbe aiutare noi adulti a capire almeno alcuni segnali di rabbia nei bambini e nei ragazzi, anche nelle normali situazioni di vita e non solo in storie particolarmente dolorose come questa, perché anche noi ci possiamo trasformare in testimoni soccorrevoli nei loro confronti, evitando che danneggino se stessi e il loro mondo.

Il bambino arrabbiato

A tutti i bambini e ragazzi arrabbiati e non capiti che in tanti anni ho incontrato sul mio cammino. Al bambino triste, solo, spaventato e abbandonato che sta

spesso alla base anche di tante nostre rabbie adulte. Allo sconosciuto contadino che molti anni fa è stato il te-

stimone soccorrevole di un’adolescente disperata. A tutti gli adulti che testimoniano le rabbie di un bambino, perché imparino a guardarle con gli occhi del cuore.

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Capitolo primo La vitalità della rabbia

Io quando sono proprio arrabbiato e mi voglio scaricare vado in cortile, mi metto 20 pezzi di legna tutti in fila e con la mazza li spacco in due fino a quando sono stanco a tal punto che non riesco più a tenere la mazza in mano. Un adolescente di 15 anni

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Come è nato questo libro

Altri hanno piantato ciò che noi mangiamo. Noi piantiamo ciò che altri mangeranno. Da un antico proverbio persiano

«Alba Marcoli, questo libro doveva capitarmi quando avevo i bambini piccoli. Poiché per alcune cose ci sono arrivata dopo da sola. Tante altre sono rimaste nell’ ombra, quindi è importantissimo anche a questa età per scoprire meglio quei lati che prima non conoscevo. Ne regalerò una copia per uno ai miei figli. Complimenti e grazie. Ciao e buone cose. F.L.» Questo biglietto mi è stato consegnato da una pensionata ultrasessantenne in uno Spazio Donna di quartiere dove tenevo alcuni incontri con il metodo delle favole come spunto di discussione, dopo l’uscita del mio libro // bambino nascosto. Fra i tanti ringraziamenti che ho avuto e che mi hanno profondamente stupita e convinta ancora una volta di quanto sia di aiuto discutere i problemi insieme, questo è stato certamente uno di quelli che mi hanno commosso di più e che mi hanno resa contenta d’averlo scritto. L’idea che una persona che ha ripreso il gusto di leggere nei corsi di scrittura di uno Spazio Donna, alle soglie della vecchiaia e senza averne l’abitudine, si faccia ac-

compagnare da un libro per scoprire 1 lati rimasti in ombra 19

del vivere quotidiano mi ha ancora una volta confermato la ricchezza di risorse che si possono mettere in moto dentro di noi quando la vita ce ne offre l’opportunità. E questo è del tutto indipendente dai nostri titoli di studio. «Mi piace questo lupacchiotto!» aveva esclamato un’altra in un corso per lavoratrici straniere «perché se uno vuole ci può vedere delle cose proprie e gli serve e se non vuole è solo un lupacchiotto che vive in un bosco.» «Quest’estate quando scriverà delle storie ne scriva qualcuna anche sulle rabbie! È importante parlarne, perché è una delle situazioni in cui si sta peggio!» mi avevano suggerito altri ancora nel mio gruppo sperimentale più vecchio, quello con cui ho sperimentato tutte le favole che ho scritto e da cui ho imparato tanto. «Dovrò essere abbastanza arrabbiata!» avevo risposto ridendo. Evidentemente ci sono riuscita. E così quell’estate, dopo la prima favola sul tema ne ho scritto un’altra e un’altra ancora, finché a poco a poco ho elaborato l’idea che forse potevo raccoglierne una serie proprio solo ed esclusivamente su quel tema, così difficile e importante, scegliendone anche alcune fra quelle che avevo scritto in passato. In realtà mi ripromettevo (e mi riprometto ancora, se la vita me lo concederà) di completare le riflessioni sulla mia esperienza di lavoro con i gruppi di genitori e insegnanti fra qualche anno, raccogliendo anche il materiale che mi arriva dai nuovi gruppi, in situazioni diverse. Ho pensato però che nel frattempo aiutare a riflettere sul tema della rabbia, come facciamo spesso nei gruppi, possa avere una sua specifica utilità nella prevenzione del disagio minorile. A questo proposito, tuttavia, desidero sottolineare una cosa che mi sembra importante: queste riflessioni non sono destinate a evitare in assoluto le frustrazioni ai bambini e ai ragazzi, come ho già detto nel mio precedente libro. Un atteggiamento di questo genere, anzi, può rivelarsi 20

di grave danno nei loro confronti perché non li aiuta ad affrontare la frustrazione e a educare così le loro risorse per tutte le situazioni difficili e inevitabili che incontreranno nella vita. Le rabbie a cui questa raccolta si riferisce riguardano invece situazioni di pura e semplice sofferenza psicologica nei bambini, quando sentono minacciato o danneggiato il loro processo di crescita, anche se inconsapevolmente. In questo caso si difendono spesso con comportamenti che, pur essendo in genere i migliori e sicuramente gli unici che abbiano saputo trovare, finiranno facilmente per ritorcersi contro di loro e i loro genitori, tarpando a volte le loro stesse risorse, anche quelle di inventività e creatività. Dice Renata Gaddini De Benedetti:! Inventività e creatività sono per ogni individuo parte del vivere, se non venissero soffocate dall’inizio da inconsapevoli interferenze: è questo, ancora una volta, il messaggio forte e specifico di Winnicott. Nel riceverlo, il pensiero corre subito al gran parlare che si fa circa l’abuso dell’infanzia, soprattutto di quegli abusi che hanno per oggetto il corpo del bambino, mentre degli abusi precoci che, senza ledere il corpo, interferiscono negativamente con il senso di continuità dell’essere e con lo schema della vita che l’individuo avrebbe potuto costruirsi secondo la propria natura, di questi non si parla, ed essi rimangono confinati alle sale parto e alla specialistica ostetrico-neonatologica.

La chiave di lettura a cui si ispirano queste favole è, co-

me per le precedenti, quella narrativa a orientamento psicoanalitico, non perché essa pretenda di offrire la vérità,

ma perché aiuta a problematizzare la ricerca.?

1 Prefazione a D. Winnicott, Sulla natura umana, Cortina, Milano 1989. 2 Lilia D’Alfonso, “Il desiderio e i suoi simboli”, in «Quaderni dell’ Associazione di Studi Psicoanalitici», 8, Milano, dicembre 1993.

21

I concetti psicoanalitici non aspirano a statuto di verità, sono chiavi di lettura che servono a rendere pensabili le condotte umane; sono criteri di pensabilità, in parte corroborati da esperienze osservative. E ben vero che la psicoanalisi non scopre nulla della natura umana che già non sia stato indagato e in parte scoperto dalle filosofie, dalle arti, dalle religioni. Ma c’è qualcosa di nuovo nel sapere il già saputo in un certo momento della nostra vita che ci tocca profondamente. È quel brivido di creatività che c’è in ogni personale riscoperta esperienziale del nostro mondo interno.

A FL. che mi ha scritto il biglietto e a tutti coloro che vogliono scoprire delle cose rimaste nell’ombra, accompagnati da un libro.

22

Perché parlare di rabbia

Se il chicco di grano, caduto in terra, non

muore, rimane solo: se invece muore produce molto frutto. GIOVANNI, 12, 24

Uno dei temi che animano di più i gruppi di discussione per genitori e insegnanti da me tenuti sperimentalmente nel corso degli anni è sicuramente quello della rabbia. È un frutto che si raccoglie solo nei campi dove giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, è stato deposto a volte consapevolmente, ma molto più spesso inconsapevolmente, un miscuglio di semi diversi che si chiamano, secondo i casi, dolore, angoscia, paura dell’ab-

bandono, impotenza, senso di colpa, sentirsi annullati perché non capiti né ascoltati e altre cose ancora a cui non sempre riusciamo a dare il nome. È un terreno di grande vitalità, dove si mobilitano moltissime energie e che per essere innaffiato richiede molte quantità d’acqua, che vengono così sottratte ad altri territori che potrebbero essere irrigati e dare buoni frutti. Eppure quando questo frutto matura vuol dire che non ne abbiamo potuto fare a meno, che quel terreno era così riarso dalla sete che abbiamo dovuto usare tutte le nostre energie e le nostre riserve d’acqua per dissetarlo. Perché il terreno della rabbia è importante, molto importante. A volte è 25

proprio l’ultima strada che ci resta da percorrere, dopo che tutte le altre ci sono sembrate bloccate o inutili. Si tratta di un sentimento nostro e solo nostro, fatto della nostra storia, dei nostri pensieri e delle nostre emozioni, che

nessuno ha il diritto di portarci via, per cui il tentativo di negare la nostra rabbia non riconoscendone il diritto a esistere oppure mortificandola ci procura sempre una grandissima mutilazione. Eppure da un terreno così importante cerchiamo tutti di prendere le distanze: la rabbia sembra essere una delle manifestazioni che ci spaventano di più, in noi e negli altri. Facciamo spesso di tutto per scacciarla, tenerla lontana, comprimerla, fingere che non esista, come se fosse

una cosa solo negativa e distruttiva di cui avere paura. Così facendo in realtà dimentichiamo che anche la rabbia ha invece, in genere, la stessa caratteristica di tutte le cose del vivere, e cioè un inizio, un’evoluzione, una fine. Spesso

inoltre nella vita quotidiana della maggioranza delle persone non lascia molti morti sul campo di battaglia, nonostante le nostre fosche previsioni che le attribuiscono una potenza che solitamente non ha. Altre rabbie sono invece totalizzanti e faticose da gestire socialmente perché esplodono senza controllo e senza freni inibitori passando all’agito e sono in genere sintomo di una grande sofferenza sul piano mentale, accompagnata spesso da altri segnali di difficoltà nel trovare il proprio adattamento ai problemi e alle situazioni di vita. Non sono perciò le rabbie a cui questa raccolta si riferisce (che fanno riferimento invece a chi ha pur trovato una sua collocazione e un suo inserimento sociale) ma riguardano situazioni di grossa sofferenza sul piano mentale che richiedono uno specifico intervento di cura. Invece, le rabbie di queste favole, di maggiore o di minore intensità, hanno in comune il bisogno di esprimere e di comunicare altre cose, che si chiamano, a seconda dei casi,

angoscia, dolore, impotenza, paura dell’abbandono, non 24

sentirsi esistenti perché svalutati o non capiti o non ascoltati e così via. Si tratta perciò di emozioni e sensazioni che se fossero espresse o comunicate con altri canali potrebbero gettare un ponte fra noi e gli altri, invece di far saltare anche il piccolo e incerto ponticello che a volte siamo riusciti faticosamente a costruire nel corso della vita. Eppure la rabbia potrebbe essere un andare verso gli altri e, seppure con una modalità inadeguata, è un importante tentativo di comunicazione: in genere siamo arrabbiati con qualcuno, anche quando questo qualcuno può essere semplicemente un aspetto della nostra personalità e se ci arrabbiamo vuol dire che c’è qualcosa che ci ha fatto o ci fa male. Ascoltare le rabbie nostre e altrui (in particolare quelle dei bambini, possibilmente in silenzio e senza farcene spaventare e allontanare) per trovare uno sbocco evolutivo e non involutivo, può essere allora un tentativo di cercare

un modo diverso per affrontare i problemi psicologici del vivere. E ogni volta che troviamo modi diversi scopriamo facilmente anche altre possibilità che prima non avevamo potuto individuare né sperimentare. Mi viene in mente a questo proposito l’episodio raccontato da un papà in un gruppo di genitori in cui si parlava proprio di rabbia. Lo riporto come l’ha raccontato lui perché lo trovo estremamente chiaro e illuminante. «Sapete, per lavoro io mi occupo di consegne ai clienti. Un giorno uno di questi, che io non conoscevo, telefona arrabbiatissimo per qualcosa che secondo lui non era andato bene in una consegna. Io sapevo che proprio quel giorno avevo fatto i salti mortali per tener fede all’impegno nonostante fosse assente per malattia l’operaia addetto all'incarico, per cui mi sono sentito attaccato ingiustamente e mi sono arrabbiato anch'io. E così per un po' siamo andati avanti a discutere per telefono, arrabbiati tutti e due, alzando la voce e senza ascoltare le reciproche ragioni. Ma a un certo punto a me è venuto in mente quello che facciamo in questi gruppi e come abbiamo impara25

to ad ascoltarci anche quando abbiamo opinioni diverse e allora mi sono calmato e gli ho detto: “Senta, se andiamo avanti così tutti e due non facciamo altro che litigare, ci arrabbiamo l’uno con l’altro e non approdiamo a niente. Allora, invece di urlare proviamo a spiegarci con calma, così lei mi aiuta a capire il suo punto di vista e io l’aiuto a capire il mio!” . «Sarà stato per come l’ ho detto, sarà stato perché eravamo tutti e due stanchi di arrabbiarci, ma l’atmosfera è immediatamente cambiata. Abbiamo finito la telefonata che eravamo quasi diventati amici e ci siamo salutati proprio con calore e simpatia. «Certo, purtroppo è una cosa che succede una volta ogni tanto, ma io quel giorno sono tornato a casa dal lavoro estremamente soddisfatto. L'episodio si era chiuso bene per tutti, per il cliente che era riuscito a farci capire le sue esigenze specifiche, per la ditta che non aveva perso un cliente, ma soprattutto per me, non solo come lavoratore, ma proprio come persona. Mi sentivo di aver affrontato una difficoltà nel modo migliore che potessi fare, senza continuare a rispondere a rabbia con rabbia. Sentivo di essere un adulto cresciuto. Perché è proprio vero, sapete, quello che diciamo qui, che cresciamo anche noi,

non solo i nostri figli!» Facciamo allora attenzione e proviamo ad ascoltare le rabbie, di noi adulti, ma anche quelle dei bambini e dei ragazzi se vogliamo aiutarli a crescere. Non sono tutte uguali, sono molto diverse fra di loro, secondo i semi che sono stati innaffiati sul terreno. Non liquidiamole semplicisticamente dicendo che sono dei capricci. Se i semi innaffiati sono quelli del non sentirsi ascoltati, capiti, aiutati ad avere fiducia in se stessi, se i semi innaffiati sono quelli del dolore, dell’angoscia, della paura dell’abbandono, al-

lora ben venga la rabbia a testimoniare che cosa è successo e sta succedendo. E un vero e proprio segnale di allarme, di all’erta. 26

Questa serie di favole è stata perciò scelta fra quelle articolate intorno a un nodo di rabbia, per dare un senso a comportamenti che altrimenti potrebbero essere solo giudicati negativamente o non capiti. Restituire un senso alle nostre rabbie può allora essere un tentativo di recupero delle emozioni che ci stanno dietro, anche quando sono faticose da gestire e da tollerare, sapendo che anch’esse hanno un inizio, un’evoluzione e una fine come in genere

tutte le cose del vivere. Recuperare le nostre emozioni può certe volte significare recuperare noi stessi e la nostra storia, che è a sua volta il prodotto di tutte le generazioni che ci hanno preceduto e di cui noi siamo la testimonianza più tangibile e concreta, non solo a livello genetico e di DNA, ma anche nei mobili che arredano le stanze della casa dell’anima.

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Che cosa sta dietro alla rabbia?

Lear: «... Numi, un povero vecchio, così pieno di dolori come di anni, miserabile per entrambe queste cose! Se siete voi che incitate il cuore di queste figlie contro il loro padre, non mi togliete tanto intelletto da sopportarlo in pace, ispiratemi un nobile sdegno! E non vogliate che le lacrime, armi delle donne, vengano a macchiare le mie gote virili! No, snaturate maliarde, mi vendicherò di entrambe in guisa che tutto il mondo dovrà... Le cose che farò... ignoro tuttavia quali potranno essere, ma dovranno empire di terrore la terra. Voi credete che io piangerò e avrei pur gran motivo di piangere, ma prima che spargere una sola lacrima il mio cuore s’infrangerà in mille pezzi... Oh, folle, io impazzirò.» W. SHAKESPEARE, Re Lear, atto II, scena IV

Re Lear che erra per la brughiera impazzito di rabbia e di dolore! è una delle scene più toccanti che la letteratura mondiale abbia saputo dedicare a questo tema. Dietro alla sua rabbia sta il dolore intollerabile del tradimento e dell’abbandono da parte delle proprie figlie, le persone di cui si è fidato maggiormente, le stesse a cui lui ha ceduto

1 Ricordo brevemente la trama della tragedia per chi non l’avesse presente. Re Lear, giunto alle soglie della vecchiaia, decide di dividere il suo regno fra le sue tre figlie, ma chiede prima che loro gli testimonino a parole il lo29

il regno e ogni potere e che ora fo mettono alla porta con i suoi cento cavalieri, offrendogli in alternativa di ospitarlo,

ma da solo, come un mendicante sfamato per carità. Piuttosto che accettare quest’ultimo oltraggio, che significherebbe per lui la perdita di sé, del ricordo del suo stesso valore e della sua dignità, il vecchio re decide di andarsene ed erra impazzito dal dolore per la brughiera, accompagnato solo dal buffone di corte, l’unico a cui sia permesso dire la verità, perché questo è da sempre il privilegio del folle. Che cosa c’è dietro a questa rabbia che erra impazzita per la brughiera? Ci sono l’angoscia dell’abbandono, il dolore del tradimento, la frustrazione dell’impotenza nei riguardi delle figlie che l’hanno ingannato e abbandonato, ma ci sono anche altre ferite più sottili e meno visibili che fanno forse anche più male. C’è lo stupore attonito e senza parole della perdita più grossa che si possa incontrare sulla propria strada nei momenti di grande cambiamento, tanto più se si

tratta di cambiamenti dolorosi e traumatici come questo, la perdita dell’idea di sé, il non ritrovare più chi eravamo e il non sapere ancora chi siamo. Un re, anche se vecchio, è pur sempre un re, che può parlare, essere ascoltato, dare ordini, ricevere consigli e così via. Ma un vecchio re senza ro affetto. Mentre le figlie maggiori lo fanno con grande abbondanza di profferte, la più piccola, Cordelia, gli risponde di amarlo quanto il suo dovere di figlia comporta. Lear, offeso e sdegnato, prima cerca di convincerla e poi la scaccia dal regno, che resta così in mano alle due sorelle, mentre Cordelia si rifugia in Francia dove andrà in sposa al re. Nel frattempo Lear viene a poco a poco privato di ogni suo potere dalle due figlie fino a quando queste gli vietano di tenere con sé il suo seguito di cento cavalieri. A questo punto il vecchio re fugge per la brughiera impazzito di dolore e accompagnato solo dal suo vecchio e fedele buffone di corte. Nel frattempo Cordelia convince il re di Francia a inviarla con un esercito in soccorso del padre lo ritrova e lo soccorre, ma le sue truppe vengono sconfitte e lei stessa viene uccisa mentre re Lear muore di dolore sul suo cadavere.

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più regno e potere perché li ha ceduti alle figlie e senza più neanche il suo seguito di cento cavalieri a testimoniarne il passato, non è più nessuno, è solo un vecchio che erra impazzito per la brughiera. E l’unica identità che gli resta è quella del folle. «Mi dai del folle, pazzo?» chiede infatti al buffone nel mezzo della tempesta, in cerca di una risposta che gli restituisca un’identità. «Tutti gli altri titoli li hai gettati via» gli risponde saggiamente l’altro, il presunto pazzo. «Ti resta quello col quale sei nato!» La rabbia di Lear qui non è più neanche rabbia, è pro-

prio furore, è quello che proviamo ogni volta che ci siamo allenati nel corso della vita a usare gli altri come uno specchio che ci rimandi la nostra immagine senza coltivarne anche una interna che le corrisponda e scopriamo con terrore che a un certo punto questi altri non ci sono più, se ne sono andati, ci hanno abbandonati e con loro se n’è andata anche la nostra immagine. Il dramma del vecchio re è iniziato già quando ha chiesto alle sue tre figlie la conferma di quanto l’amassero, rifiutando la risposta di Cordelia che gli rimandava un’immagine di sé inaccettabile, quella di essere amato semplicemente quanto il dovere comporta. Lear in quel momento aveva bisogno di altre risposte, eccezionali, grandiose, lusinghiere, seduttive, che potessero controbilanciare il terrore della vecchiaia e della morte sulla cui strada si stava incamminando. Ecco perché gli sono andate bene le risposte non di Cordelia, ma delle altre due figlie, le stesse che poi in seguito lo tradiranno e abbandoneranno. si E allora dentro al furore di Lear stanno anche queste emozioni, troppo forti per essere tollerate tutte insieme. Ma sono proprio questa rabbia e questo furore che testimoniano ancora una volta la sua grandezza e la sua forza vitale. «Numi, non mi togliete tanto intelletto da sopportare in pace» prega infatti il vecchio re. «Ispiratemi un nobi31

le sdegno!» E i numi l’ascoltano e glielo concedono. Così Lear può errare nella brughiera accompagnato dal furore della natura, dall’ululare dei venti e dai tuoni e fulmini della tempesta e il suo dolore è forte come loro, una potenza della vita che testimonia la sua stessa esistenza.

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La forza della rabbia

La rabbia è davvero una potenza della natura e scaturisce da una grande vitalità. E quando questa forza vitale diminuisce o viene meno che non troviamo più neanche le energie sufficienti per arrabbiarci. La rabbia può essere considerata come un tentativo di trovare uno sbocco a tensioni ed energie che si sono accumulate dentro di noi fino a diventare intollerabili e ad aver bisogno di trovare una via d’uscita. Ma l’uscita della rabbia, che è invece fatta di un miscuglio di emozioni e sensazioni che hanno altri nomi, come angoscia, dolore e altri ancora, avviene spesso con modalità distrutti-

ve che si ritorcono contro di noi e le persone che ci circondano. Ed ecco che allora giustamente cerchiamo di prenderne le distanze, perché non ci complichi ulteriormente la vita e il rapporto con gli altri. Prenderne le distanze può però significare anche soffocare una grande riserva di energia vitale che è dentro di noi, o per lo meno diminuirla di molto,

perché è un’operazione che consuma già di per sé molta energia, come il tenere a bada una macchina che sbanda. Che fare allora? Come recuperare questa energia vitale e darle uno sbocco costruttivo e non distruttivo, che non si ritorca quindi contro di noi e le persone che ci sono care? Nessuno, io credo, può dire di avere in mano la soluzio-

ne; la rabbia è una sfida e la sfida non può che restare aperta, altrimenti sarebbe qualcosa d’altro. Però forse una cosa può aiutarci: il tentativo di riconoscere i veri protagonisti di questa sfida, che per poter uscire protetti allo sco33

perto si devono presentare con la spada fiammeggiante della rabbia. Riconoscerli, testimoniarli e rispettarli in noi

e negli altri, soprattutto nei bambini (per i quali vengono spesso confusi con i capricci); riuscire a contenerli e a tollerarli mentalmente in noi e aiutare gli altri (in particolare i bambini) a farlo, perché sono i lembi di ferite aperte che hanno bisogno di tempo e di cure per cicatrizzare. Nella mia più che trentennale esperienza di insegnante di adolescenti prima e di psicoterapeuta dopo, ne ho incontrate tante, di rabbie. Agli inizi, soprattutto da giovane, ricordo che mi spaventavano, non sapevo neanch’io come

reagire, mi ricordavano troppo quelle sia mie sia altrui che mi avevano fatto soffrire da bambina. Poi, con gli anni e l’esperienza psicologica e di vita, ho imparato a non averne più così paura e ad ascoltarle in modo diverso e allora le mie stesse rabbie, quelle dei ragazzi prima e dei pazienti dopo mi hanno insegnato tante cose. La prima cosa che ho imparato davanti alla loro esplosione è stata quella di stare zitta e di fermarmi ad ascoltare senza scappare, se mi interessava e se volevo curare la relazione con l’altro (evidentemente non a tutte le relazioni

siamo interessati allo stesso modo). Se è di per sé difficile ascoltare gli altri e noi stessi con attenzione e senza pretendere di sapere già che cosa sarà detto, ascoltare le rabbie è però un’impresa improba, perché vuol dire accettare di confrontarsi anche con il dolore, l’angoscia, le altre

emozioni che le sottendono e che possono entrare in risonanza con le stesse corde dentro di noi. Di solito, per evitare di provarle, ricorriamo anche noi al mantello della rabbia per cui invece di ascoltarle, rea-

giamo spesso nello stesso modo, perpetuando un circolo che diventa così vizioso e si autoriproduce, per cui a rabbia si risponde solitamente o con la fuga o con la rabbia. Se le si ascolta davvero, invece, cercando di capire e non di giudicare, si può scoprire sempre qualche possibilità diversa di comunicazione.

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Le rabbie e la scuola

Che cosa fa arrabbiare di più gli adolescenti? Ho provato in passato e poi di nuovo qualche anno fa a chiederlo, quando se ne presentava l’occasione, a classi del biennio di una scuola media superiore, ragazzi tra i quattordici e i sedici anni. Si tratta di un’età molto particolare che è il territorio del passaggio e del cambiamento per eccellenza, quello dove si rincorrono il bambino che non c’è più e l’adulto che non c’è ancora.

Quali erano le cose che facevano arrabbiare di più questi ragazzi in un’età già di per sé così delicata? Erano, nell’ordine: non sentirsi capiti, subire quella che consideravano un’ingiustizia, non essere tenuti in considerazione,

non essere ascoltati, essere presi in giro, e solo per ultimo essere picchiati o altro ancora. Che cosa li faceva arrabbiare maggiormente nell’atteggiamento dei genitori? Anche qui, nell’ordine: l’assillare continuamente, il voler avere sempre ragione, il non ascoltare, il non aver fiducia in loro, il non capire i problemi della loro età, il dare eon-

sigli scontati, il litigare fra di loro e solo per ultimo il vietare qualcosa o il pretendere troppo. Non erano quindi i veti o le richieste degli adulti a scatenare le rabbie (evidentemente venivano dati per scontati nella relazione adulto-ragazzo), quanto piuttosto la qualità e la modalità della relazione di vita quotidiana. 35

Lo stesso valeva per gli insegnanti. Anche qui i maggiori motivi di rabbia erano: manifestare delle preferenze,

avere il coltello dalla parte del manico, voler avere sempre ragione, incolpare ingiustamente, interromperli continuamente mentre parlano, non preoccuparsi di loro oppure dubitare delle loro capacità, mentre il pretendere troppo veniva elencato fra gli ultimi. E poiché la rabbia è anche uno dei terreni dove prospera maggiormente la solitudine, tutti quanti avevano trovato il loro modo preferi-

to per sfogarla. Ascoltare musica e parlare con persone che capivano erano considerati in assoluto gli antidoti migliori («Sa, prof,

che è proprio bello parlare con lei! È davvero una brava persona!» ha detto con un sospiro di sollievo un giorno un ragazzo pluribocciato a una sua insegnante delle medie). Seguivano a distanza altri come: fumare (o bere), tirar pugni al muro (erano solo adolescenti maschi), stare da soli, rompere qualcosa, andare a fare un giro, pensare, sapere che non sarebbe durata in eterno, giocare a pallone e così via. Per chi si occupa di prevenzione del disagio minorile e delle tossicodipendenze (come nei tanti progetti in circolazione attualmente nelle scuole) mi sembra possa essere interessante rilevare che il fumare o il bere venissero considerati anche come uno sfogo per la rabbia. La differenza fra questi o l’ascoltare musica e parlare con chi capisce è però notevole perché questi due ultimi, oltre a essere liberatori, non si ritorcono contro di loro come i primi ma, al contrario, arricchiscono il bagaglio mentale con cui verranno affrontati gli altri problemi del vivere. Mi sembra perciò che questo sia uno dei terreni più fertili di ascolto e di ricerca, per trovare uno sbocco evolutivo e non involutivo alle rabbie, che non si ritorca quindi contro di noi e le nostre stesse risorse, tanto più quando si è molto giovani e la posta in gioco è quella di imparare il modo con cui affrontare i problemi che la vita comporta. Nella lunghissima galleria di ritratti, ormai spesso sen36

za nome, ahimè, delle mie memorie d’insegnante non

mancano certo quelli dei ragazzi arrabbiati. Dietro a ognuno di loro c’era una storia, come sempre. Me l’hanno insegnato a poco a poco, nel corso degli anni, mentre li osservavo, a volte pazientemente e a volte meno,

nelle loro interazioni con i compagni e con noi insegnanti. Da allora, un ragazzo sempre arrabbiato, oppure uno che esplode in furori improvvisi e incontrollabili è diventato per me una sfida, faticosa e difficile, ma pur sempre stimolante come tutte le sfide. È stato solo nei miei ultimi anni di inctiamena che stendendo il programma annuale mi sono trovata a riflettere che il mio obiettivo principale nel corso degli anni si era spostato sempre più dalla semplice materia che insegnavo al tipo e alla qualità della relazione che instauravo con gli studenti per insegnarla. E, paradossalmente, credo di essere stata un’insegnante migliore negli ultimi anni, quando mi consideravo un’insegnante «sufficientemente buona» (0 decente, come mi veniva spesso da dire!) piuttosto che nei

primi anni quando al contrario mi consideravo un’ottima insegnante. Allora ero tutta presa dalle frenesie degli aggiornamenti d’ogni genere che però raramente avevano come oggetto di conoscenza il bagaglio personale con cui ognuno di noi affronta la relazione e che la condiziona esattamente come il ragazzo dall’altra parte. Perché anche l’insegnamento avviene all’interno di una relazione che si interiorizza e che può contribuire, insieme a tante altre (prioritarie restano pur sempre quelle familiari), a valorizzare oppure a mortificare, a stimolare la fidu-

cia in sé oppure a svalutarla. E in una relazione rientrano prima o poi anche tutte le caratteristiche mentali della persona che noi siamo in quel momento della vita, compresa la violenza delle rabbie nostre e altrui che spesso ci spaventano tanto. «Il problema è che questa violenza è naturale presso tutti gli esseri umani, che si tratti di un bambino o di un 37

adulto» dice Jean Bergeret! «[...] essa è una pulsione di autoconservazione. Non si è destinati a uccidere l’altro, non è la morte dell’altro che ci interessa, ma la nostra

stessa sopravvivenza.» Questa stessa violenza, secondo Bergeret, diventa ag-

gressività e piacere nel far soffrire l’altro solo quando non riusciamo a integrarla dentro di noi. «Di questa violenza naturale» continua Bergeret «non bisogna né aver paura né rallegrarsi, non è né buona né cattiva. L'importante è ciò che si realizza di positivo, di negativo o di inibito... Un’illusione frequente, dal punto di vista sociale, culturale e politico, è pensare che la violenza

sia cattiva e che bisogna reprimerla. Ciò che è importante è la prevenzione primaria; misure preventive promosse nei confronti dei bambini, dei genitori e dei futuri genitori. E

importante provare a preparare in modo autentico una migliore negoziazione di queste pulsioni naturali e studiare quanto utilizzarle positivamente, invece che rincorrere e moltiplicare le modalità repressive quando questa violenza è ormai diventata aggressività [...]. Attualmente noi lavoriamo molto con giudici, magistrati, educatori per cercare di vedere come sia possibile prevenire.» Se queste favole riusciranno ad aiutare anche un solo bambino o ex-bambino arrabbiato a trovare uno sfogo evolutivo alle sue rabbie, anche questo mio lavoro avrà avuto un senso. Lo dedico a tutti i bambini e ai ragazzi, nonché a coloro che li circondano e se ne occupano, trasmettendo loro contemporaneamente e inconsapevolmente quale è il modo con cui una società si deve occupare dei suoi piccoli e delle future generazioni.

! J. Bergeret, La relazione violenta, Edizioni del C.£.R.P., Trento 1994.

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Capitolo secondo I segnali della rabbia

Quello che mi aiuta di più quando sono arrabbiato è correre senza sapere dove andare. FABRIZIO, 11 anni

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La premessa di ogni favola

Più di ogni altra cosa custodisci il tuo cuore, poiché da esso sgorga la vita. Dal Libro dei Proverbi

Una volta, tanti e tanti inverni fa, viveva un bosco da qualche parte di questo mondo, o forse di un altro, dove non succedeva assolutamente niente di particolare. Era un bosco come tanti altri, che aveva i suoi ritmi come tutti i normali boschi di questa terra; dopo la luce del giorno veniva il buio della notte e poi ancora la luce del giorno; l’erba e

le foglie spuntavano in primavera, fiorivano con l'estate, appassivano e cadevano in autunno, mentre le piante in inverno si riposavano per prepararsi a rinascere a primavera e così via. Gli animali del bosco nascevano, imparavano a crescere con l’aiuto dei vecchi, poi diventavano grandi a loro volta e mettevano al mondo altri cuccioli come era sempre avvenuto, stagione dopo stagione. All’arsura dell'estate succedevano le piogge dell’ autunno, alla pioggia autunnale la neve dell’inverno, dopo la neve veniva il

disgelo e i ruscelli ricominciavano a scorrere, mentre il sole si infilava sotto le zolle a risvegliare con un piacevole tepore i semi addormentati. E ognuno di loro si svegliava stiracchiandosi e si ricordava di portare dentro di sé il segreto della vita, dalla prima fogliolina che sarebbe spun4l

tata sul terreno, alla pianta che ne sarebbe cresciuta, ai

nuovi fiori e ai frutti, fino ad arrivare di nuovo ai semi che si sarebbero addormentati nella terra, carichi del loro segreto e pronti per il nuovo risveglio di primavera. E da millenni la vita andava avanti così, fatta di ritmi e di cicli. Ogni cosa aveva il suo, e, soprattutto, ogni cosa sapeva d’averlo e lo riteneva l’unico possibile. E di questi ritmi facevano parte la luce e il buio, l’acqua e la neve, le foglie che spuntavano e quelle che morivano, gli animali e le piante che nascevano, crescevano, invecchiavano e morivano, per trasformarsi in nuovi alberi e nuovi fiori.

Questa era la vita del bosco; così era sempre stata e tutti lo sapevano, perché ogni sera proprio nello spiazzo centra-

le si riunivano tutti gli animali vecchi e tutti i cuccioli, e i vecchi raccontavano ai giovani quello che avevano visto nella loro vita e quello che avevano sentito quand’ erano cuccioli loro e i giovani li ascoltavano per imparare a crescere. E così i due gruppi si incontravano tutte le sere, nel cuore del bosco, al riparo di sette vecchissime querce che con i loro rami intrecciati formavano una protezione sopra lo spiazzo contro il tempo cattivo. E i due gruppi erano sempre uguali e sempre diversi: uguali perché erano sempre quello degli animali vecchi e saggi e quello dei cuccioli, e diversi perché ognuno dei gruppi variava sempre. Ogni tanto qualche vecchio saggio e simpatico non veniva più perché era finito il suo ciclo, ma c’era un altro animale adulto che adesso diventava vecchio e veniva a riempire il suo posto rimasto vuoto nel gruppo dei cantastorie, perché le storie potessero andare avanti all'infinito. E per ogni cambiamento nel gruppo dei vecchi c’ era sempre un cambiamento nel gruppo dei cuccioli: ogni tanto qualcuno che aveva già imparato tutte le storie non veniva più, ma andava nel gruppo degli adulti per imparare le cose che gli animali adulti sapevano fare. Però al suo posto c’era sempre qualche cucciolo piccolo piccolo che arrivava e stava lì a sentire incantato le storie del bosco nella sua lunga vita. 42

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La paura dell’abbandono

La paura di essere abbandonati è una delle più dolorose che si possano incontrare nella vita ed è tanto più difficile da tollerare quanto più si è piccoli e dipendenti. La sicurezza di un bambino è agli inizi della vita rappresentata dalla presenza dei genitori accanto a lui e sarà solo a poco a poco, nel corso dell’evoluzione, che questa sicurezza

prima esterna comincerà a essere interiorizzata dal bambino fino a quando col crescere potrà diventare sua e accompagnarlo da dentro invece che continuare a farlo dipendere da un ‘‘fuori’’ da lui. Ecco perché a volte ci sono circostanze normali di vita che proprio perché avvengono nel momento in cui un bambino ha ancora questa sicurezza fuori di lui gli possono scatenare la paura di essere abbandonato, che a sua volta gli scatena quella di morire. La favola che segue racconta una storia di questo genere, ricostruita a posteriori nella dinamica degli avvenimenti dalla stessamamma, durante la sua partecipazione a un gruppo.

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Alla base della rabbia e dell’aggressività espresse dal comportamento del bambino, che a quell’epoca aveva cinque anni, stavano due episodi dolorosi, ma inevitabili del

vivere (la morte del nonno e l’ospedalizzazione del fratellino) che gli avevano fatto risuonare dentro le corde dell’abbandono gettandolo nel panico.

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Favola n. 1

Il cucciolo che aveva paura delle macchie nere

Mai, non saprete mai come m’illumina L’ombra che mi si pone a lato, timida, Quando non spero più... G. UNGARETTI, Giorno per Giorno

Nel bosco delle Sette Querce c'erano tante famiglie folte e numerose, con una gran varietà di cuccioli, ognuno di loro col proprio carattere, diverso dagli altri, nonostante vivessero insieme e facessero tutti quanti la stessa vita. Fu così che anche quando il cucciolo Danilo cominciò a comportarsi in un modo un po’ diverso, agli inizi nessuno lo notò. Eppure il suo atteggiamento era proprio cambiato: da buono e socievole, com’ era sempre stato, era diventato aggressivo e ribelle. Quand’ era insieme al suo gruppo, appena poteva, mordeva un altro cucciolo oppure gli sputava addosso; a casa era diventato testardo e ribelle e qualche volta riusciva persino ad attirarsi una bella sculacciata da parte della mamma, che prima non l’ aveva mai picchiato. Ma, soprattutto, c'era una cosa stranà che aveva cominciato a fare: scappava lontano, oppure non poteva fare a meno di sputare per terra, ogni volta che vedeva una piccola macchia nera su qualsiasi cosa, anche sul corpo degli altri animali. E siccome gli abitanti del bosco sulle loro pellicce di macchie nere ne avevano tante, chi più, chi meno, ecco che questo succedeva abba45

stanza di frequente e metteva molto in imbarazzo la mamma che non sapeva che cosa fare. Oltre tutto anche lei aveva una macchia nera sul musetto e quando Danilo la notava non le si voleva avvicinare neanche per darle il bacio della buona notte. Però nel momento in cui l'atteggiamento era iniziato, in tana non ci avevano fatto molto caso perché c’era un problema più grosso a cui pensare ed era ilfratellino che era in ospedale per una malattia che sembrava molto grave. E così mamma stava quasi sempre con lui a fargli compagnia e anche quando tornava a casa era così preoccupata per il piccolo ammalato che faceva tutte le cose automaticamente, ma la sua testa era là, insieme a lui, anche quando preparava da mangiare per Danilo o lo vestiva per mandarlo alla Scuola dello Spiazzo. Agli inizi, chi notò l’atteggiamento nuovo del cucciolo furono i suoi insegnanti, che però non sapevano a che cosa attribuirlo perché non riuscivano a mettere insieme delle ragioni che lo spiegassero. A scuola nulla era cambiato in quel momento; non erano i suoi compagni a provocare il cucciolo, era proprio lui che sembrava tirar fuori in classe qualcosa che si portava dentro e che lo faceva essere aggressivo e sempre teso come se ci fosse una spina che gli facesse male dentro e di cui lui tentava di liberarsi sputando a destra e a sinistra, senza riuscire a farla uscire. Dopo un po’ di tempo, tuttavia, le cose andarono leggermente meglio, ma nel complesso era però evidente che si trattava di un problema ancora esistente che non aveva trovato la sua soluzione. Anche a casa papà e mamma si preoccupavano per lui, ma il primo pensiero era ancora per il piccolo malato che in quel momento era quello che aveva più bisogno, secondo il parere di tutti, mentre quelli di Danilo avevano l’aria di essere un po’ anche dei capricci. E così ogni tanto in casa loro volava qualche sculacciata quando uno dei due genitori perdeva la pazienza. E c’è da dire che lui era diven46

tato di una bravura eccezionale nel fargliela perdere, sfruttava qualsiasi occasione, anche la più banale, per sfidarili, soprattutto la mamma e quando la sera lei lo metteva a letto, prima di andare in ospedale dal piccolino, le si rivoltava contro e le diceva che la odiava e che voleva morire e figurarsi lei poverina come ci rimaneva male e quanto ne soffriva. E figurarsi quanto ne soffriva lui, povero piccolo, a sentire dentro di sé questo odio e la voglia di morire, proprio quando vedeva la sua mamma andar via. Per fortuna, però, dopo un po’ di tempo il fratellino tornò a casa completamente guarito e l'atmosfera in famiglia divenne molto più contenta e rilassata. Anche a scuola Danilo era ritornato a essere più socievole e sembrava che le cose ormai fossero tornate come prima. Quella che però gli restava ancora era la paura per le macchie nere, una compagnia che cominciava a non abbandonarlo mai. Anzi, adesso si era persino aggiunto qualcosa che prima non c’era ed erano i capricci per il cibo: il cucciolo si rifiutava di mangiare qualsiasi cosa in cui ci fosse una piccola macchia scura. E allora non voleva il minestrone per via dei pe: :ettini di verdura che vi galleggiavano; chiedeva la pasta in bianco per paura che nel sugo ci fosse un po’ di ragù e così via con tutti gli altri cibi. E se per caso gli capitava inavvertitamente di mangiare qualcosa che avesse delle vaghe macchioline, subito dopo vomitava per sbarazzarsene. Adesso che era un po’ più rilassata e aveva meno preoccupazioni, anche la mamma cominciò a prendere in considerazione questo strano fatto. Intuiva che voleva dire qualcosa che il cucciolo non sapeva dire a parole; ma non riusciva a capire che cosa fosse e questo le creava dell’ inquietudine dentro. Passò così del tempo e la famigliola riprese a fare la solita vita. Però lamamma nella sua testa continuava a provare a capire che cosa fosse successo a Danilo. Un giorno che spolverava la sua stanza, vide la fotografia del nonno che 47

era morto un po’ prima che il piccolino si ammalassee all'improvviso le venne il ricordo di Danilo che prima andava tutti i giorni a passeggio con lui e che gli era così affezionato che quando lui era improvvisamente morto non aveva mangiato per tre giorni. Si ricordò che per tanto tempo il cucciolo era andato avanti a chiedere a tutti quelli che incontrava «Perché è morto il mio nonno? Perché non viene più a giocare con me? Perché Gesù è risorto e il mio nonno no? ». E gli altri non sapevano che cosa rispondergli. Fu al ricordo di quel fatto che la mamma ebbe l'impressione di aver trovato una prima traccia importante. Decise perciò di parlare con altre madri di cuccioli, per vedere se loro la potevano aiutare e se per caso una cosa del genere era successa anche nelle loro tane. Fu così che ogni tanto cominciò a incontrarsi con le altre madri che portavano anche loro i cuccioli alla Scuola. Un giorno che parlavano delle paure dei piccoli quando dovevano andare a letto, la madre di una coccinella

raccontò la sua esperienza. «Sapete, anche la mia non voleva mai addormentarsi la sera e siccome questa stava diventando una abitudine, io non sapevo più che cosa fare. Finché una volta mi è venuto in mente di dirle: “Guarda,

dormi tranquilla perché domani ti porterò nella piscina di rugiada, sopra le foglie” e allora lei si è addormentata tranquillamente. Da allora, ogni volta che ha difficoltà, facciamo insieme un progetto per l’indomani e lei si addormenta serena. Si vede che questo le fa compagnia durante la notte, quando è sola!» Quella sera la mamma pensò a che cosa potesse fare per far dormire Danilo contento e le venne in mente di cominciare a leggergli un libro. Stranamente, il cucciolo non manifestò più le sue paure e stette buono buono a sentire la voce della mamma che leggeva. E quando fu l’ora di dormire, le disse: «Ecco, domani mi leggerai da qui a qui» e segnò le pagine che la mamma avrebbe dovuto leggere la sera seguente e quella notte si addormentò tran-

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quillo e non ci fu bisogno di chiamare il papà per farlo addormentare. E così di sera in sera la mamma continuò a leggere il libro e Danilo continuò a segnare le pagine che lei avrebbe letto il giorno dopo e a poco a poco anche lui si calmò con le sue paure e cominciò ad addormentarsi sereno. La mamma fu meravigliata lei stessa di come una cosa così semplice avesse aiutato il cucciolo e fu ancora più meravigliata quando cominciò a osservare che anche la sua paura delle macchie non era più così forte.E la stessa cosa fu notata anche dagli insegnanti a scuola che si accorsero con piacere che, anche se loro non avevano capito perché, il cucciolo stava molto meglio, non sputava più e non era così aggressivo con i compagni, anzi era ben felice di tutti i nuovi giochi che riusciva a imparare insieme a loro. Ora che lei aveva più tempo, la mamma si era anche ripromessa di ri-

solvere il problema del venerdì, che era un giorno in cui alla mensa della scuola cerano dei cibi col ragù che il cucciolo si rifiutava ancora di mangiare. Fu così che un venerdì mattina, prima di accompagnarlo, gli disse: «Senti Danilo, io non posso venire a prenderti a pranzo, come tu vorresti, perché sono al lavoro a quell’ora, ma facciamo così: tu ti porti la merendina che ti piace tanto, poi a scuola se vuoi puoi mangiare solo quella e io ti prometto che appena torni a casa di pomeriggio, tifaccio trovare la tavola apparecchiata con le cose che piacciono a te». E in effetti gli preparò tutte le cose che lui aveva richiesto, il succo di frut-

ta, le patatine fritte, la pasta come piaceva a lui. Da allora il venerdì cessò di essere un problema per Danilo che tornava a casa prima del fratellino e che era felicissimo di questa soluzione. Anzi, un giorno disse persino alla mamma: «Che bello, noi due di nuovo insieme come una volta: come sono contento oggi!». E queste parole a lei aprirono una finestrella nella testa. Ma siccome non era ancora ben sicura di aver capito giusto, lasciò 49

passare del tempo a osservare e ne parlò con il gruppo delle madri. «Adesso credo di aver finalmente capito che cosa volesse dire Danilo quando sputava, aggrediva gli altri e soprattutto si ribellava violentemente contro di me. Lui mi voleva dire “Guarda che ci sono anch'io, che ho anch’io bisogno di te, soprattutto adesso che il mio nonno è morto e che sono rimasto solo. Non mi puoi abbandonare anche tu!” .Ma io allora non lo capivo e mi arrabbiavo con lui e qualche volta l’ ho persino picchiato con rabbia. Ma a quell’ epoca ero così preoccupata per il piccolino in ospedale che la mia testa era sempre là, anche quando ero a casa con Danilo e gli facevo da mangiare e lo preparavo per andare a scuola. Anzi è stato proprio allora che lui ha cominciato a vomitare ogni volta che vedeva qualcosa di scuro nel cibo.» «Ma come è possibile che sia successo questo?» chiese perplessa un’altra madre. «Tutti i cuccioli hanno paura di essere abbandonati e quindi anche Danilo ce l’avrà ancora.» «Sì, ma allora la sua paura di essere abbandonato era diventata intollerabile perché era stato davvero abbandonato prima da parte del nonno che purtroppo era morto e poi da parte mia perché io non ero mai in casa e se c'ero, c'ero solo come presenza fisica, ma non con la testa. Ma io non riuscivo a capire tutto questo e pensavo che facesse delle cose irragionevoli per capriccio. Mi ci è voluto tanto tempo e molta più tranquillità dentro per capirlo. Adesso so che lui non ha più così paura perché ha capito davvero che non sarà abbandonato. E poi c’è stato anche papà che è stato molto buono e paziente con lui e che ha aiutato molto anche me a tranquillizzarmi. Sarebbe stato tutto molto più difficile se non cifosse stato lui ad aiutare sia il cucciolo che me, quando anch’io ero piena di paura al ricordo di quando la sera andavo a letto da sola da piccola. Così io ho fatto il cammino di vincere la mia paura con 50

l’aiuto di papà e con il vostro e Danilo ha fatto quello di vincere le sue con l’aiuto non solo nostro, ma dei suoi in-

segnanti e dei suoi compagni di gioco.» Fu così che a poco a poco anche il cucciolo Danilo tornò a essere sia a casa che a scuola socievole e giocherellone come era stato in passato e la sua paura delle macchie lentamente divenne un ricordo che si perse nello scorrere del tempo come una goccia d’acqua nel millenario scorrere del fiume attraverso il bosco delle Sette Querce.

SI

Qualche riflessione sulla favola:

la paura di sentirsi soli e impotenti

«Mamma, io ai bambini poveri regalo i miei biscotti e un’arancia!» «Ma non basta, Donata, bisogna andare alla radice del

problema, altrimenti avranno ancora fame!» «Ho capito, mamma. Allora io ai bambini poveri regalo un seme e un innaffiatoio, così loro lo innaffiano e cresce la pianta!» DONATA, 6 anni, alla mamma

La favola è il racconto di un’esperienza reale avvenuta all’interno di un gruppo di scuola materna a cui partecipavano sia la mamma che le insegnanti del bambino. I sintomi nel comportamento del bambino erano la rabbia e la fobia, cioè lo spostamento su un oggetto evitabile di un’ansia legata a una paura che ha invece un’altra origine. Si tratta, in genere, di una forma di nevrosi ben riusci-

ta; infatti l’evitare l’oggetto fobico rappresenta un modo per non confrontarsi con cose più difficili, complicate e meno facilmente individuabili o sopportabili sul piano mentale. La fobia che presentava il bambino cui la favola si è ispirata (era quella per i nei o tutte le macchioline scure) era comparsa in occasione di tre importanti eventi accadu-

ti in breve tempo nella sua vita e che l’avevano fatto sentire solo e abbandonato. Il primo era stato la nascita del fratellino, avvenimento 52

difficile per un bambino, ma che di solito, proprio col fargli provare le tempeste emotive della gelosia e dell’invidia, a lungo andare gli permetterà di trovare dentro di sé le risposte che poi lo aiuteranno nelle altre situazioni analoghe della vita, preparandogli il bagaglio psichico per entrare nel gruppo e per la vita sociale. «Ma ti rendi conto che mi sconvolgerà l’habitat?» ha detto una volta in lacrime un bambino di 7 anni al papà ambientalista, che gli annunciava l’arrivo di un fratellino. Aveva colto immediata-

mente quale era il problema!

i

Il secondo avvenimento era stato la morte di un nonno che era una presenza costante, quotidiana, molto affettiva

e rassicurante sia per i genitori che per il bambino, che ha continuato a chiedere di lui per molto tempo e che in chiesa piangeva dicendo: “Perché Gesù è risorto e il mio nonno no?”. Il terzo avvenimento, quello scatenante, era stata una

improvvisa malattia del fratellino che appariva agli inizi molto grave, tanto che il piccolo era stato ospedalizzato con la mamma per fargli compagnia. È stata la stessa mamma che ha capito, discutendone in seguito nel gruppo, che cosa era successo (è il tema della favola dei cuccioli che si ammalavano spesso nel Bambino nascosto). «To ho capito dopo che lui si era sentito abbandonato e che con la sua fobia e l’aggressività verso tutti era come se mi volesse dire: “Guarda che ci sono anch'io, non solo

lui! Tu mi hai abbandonato”. Perché era proprio vero che io l’avevo abbandonato non solo fisicamente quando ero in ospedale col piccolo, ma anche con il pensiero, perché quando ero in casa a occuparmi di lui la mia testa era sempre là, in ospedale con l’altro.» La fobia di questo bambino aveva quindi a che fare con vari tipi di angoscia da abbandono, anche una piuttosto difficile da capire, quella della perdita di attenzione nei suoi confronti, che gli aveva fatto sperimentare una situazione di abbandono non reale ma simbolica, quella del 53

pensiero. Anche comunemente per un bambino è più facile accettare una punizione concreta, piuttosto che gli altri facciano finta che lui non esista e lo ignorino. Nel caso della relazione madre angosciata/bambino di solito può entrare in azione proprio questo tipo di paura di abbandono; in questo caso la mamma, nonostante tutti i suoi sforzi, ha pochissima energia psichica a disposizione già per sé, perché la maggior parte è utilizzata proprio a livello profondo per riuscire a sopravvivere sul piano mentale, per cui non gliene resta che ben poca da immettere nel rapporto. Il piccolo sperimenta allora una mamma che magari si prende molta cura di lui con degli sforzi enormi, vista la fatica che questo le richiede, ma la cui testa è lontana, come se non ci fosse. Si tratta quindi di un’esperienza di presenza fisica ma non mentale che, come si è già detto precedentemente, può produrre nel piccolo la paura dell’abbandono, indipendentemente dalla buona volontà della mamma. Anche in questo caso un certo aiuto è stato offerto alla madre da parte del gruppo cui partecipava che a poco a poco l’ha aiutata a riequilibrare il rapporto col bambino in quel momento della loro vita, difficile per entrambi. Quanto all’utilizzo di queste favole nei gruppi, un episodio che ho trovato interessante e che mi sembra possa essere utile raccontare è quello avvenuto in un piccolo gruppo di formazione per ii dopo la lettura di questa favola. Al gruppo partecipava, con molto interesse e con grande sensibilità, un giovane padre che era arrivato dicendo bonariamente: «Spero che i miei figli non mi diano i problemi che ho dato io a mia madre da adolescente! La facevo impazzire, povera donna! Ero uno scapestrato!». Seppure in modo benevolo e sorridente, si giudicava negativamente per il suo comportamento di quegli anni. Dopo la lettura della favola è stato invece silenzioso per un po’ e poi ha esclamato: «Adesso capisco perché sono 54

stato uno scapestrato dopo i 14 anni! Quell’anno è morto mio padre con cui io avevo un bellissimo rapporto e ci siamo ritrovati all’improvviso senza di lui e in ristrettezze economiche perché mia madre non lavorava. Allora anche lei ha dovuto cercarsi un lavoro, che per fortuna ha trovato, ma doveva stare lontana da casa tutto il giorno, mentre prima era sempre in casa. Non dev’essere stato facile neanche per lei. Lavorare fuori, poi, alla lunga l’ha aiutata anche a superare quel terribile dolore, macapisco ora che per un ragazzo di 14 anni deve essere stato molto duro, perdere un padre molto affettuoso che era il suo punto di riferimento e ritrovarsi all’improvviso con la casa vuota e con una mamma che quando era a casa era piena di preoccupazioni! Ecco perché io ero sempre in giro e ho cominciato anche a non andare più a scuola!». La favola in questo caso l’ha aiutato a far la pace non con i suoi figli, ma con se stesso adolescente e questo è si-

curamente un buon regalo per i suoi figli, perché avranno un padre più in pace con se stesso e la sua storia. Ecco perché è importante affinare l’osservazione dei bambini e degli adolescenti, se vogliamo capire davvero e umilmente chi sono e che cosa succede, senza pretendere di saperlo già perché l’abbiamo imparato su qualche manuale o libro (compreso questo!). Vorrei ricordare le parole di Korczak:!

1 J. Korczak, Come amare il bambino, Emme

Edizioni, Milano

1979. J.

Korczak (Varsavia 1878 o 1879 - Treblinka 1942) medico, scrittore, peda-

gogista, è stato uno dei maggiori educatori del nostro secolo. Fu ucciso nel campo di sterminio di Treblinka il 6 agosto 1942 insieme ai duecento bambini ebrei della Casa degli Orfani che aveva diretto per trent'anni. Li volle accompagnare anche nella morte, insieme al personale della Casa, nono-

stante gli fosse stata offerta da più parti e più volte la possibilità di fuggire e di mettersi in salvo da solo. Di Korczak la Luni editrice e Telefono Azzurro hanno recentemente pubblicato // diritto del bambino al rispetto, Milano 1994, sotto il patrocinio dell'UNESCO. 55

Mancano cento giorni alla primavera. Non c’è ancora né uno stelo d’erba, né una gemma, ma nella terra e nelle radici è già presente la direttiva della primavera, che in segreto attende, trema, si cela, urge sotto la neve, nei rami nudi, nel vento gelido, per esplodere infine con la-fioritura

improvvisa. È da osservatori superficiali vedere solo disordine nel tempo variabile di una giornata di marzo; lì, nelle profondità c’è qualcosa che matura momento dopo momento secondo una logica, qualcosa che si accumula e si ordina; solo noi non siamo capaci di distinguere le leggi ferree dell’anno astronomico dai loro casuali, temporanei intrecci, che obbediscono a una legge che conosciamo meno o non conosciamo affatto. Non vi sono pietre di confine tra le singole fasi della vita, noi le mettiamo così come dipingiamo di colori diversi

il mappamondo, stabilendo frontiere artificiali fra gli Stati, per cambiarle dopo qualche anno. «Ne uscirà, è un’età di transizione, le cose cambieranno» e l’educatore con un sorriso indulgente aspetta che un caso felice venga in suo

SOCCOrSO. Ogni ricercatore ama il suo lavoro per le fatiche e le sofferenze del ricercare e il piacere del combattere, ma se si sente responsabile di fronte alla propria coscienza, può anche odiarlo per il timore degli sbagli che in quel ricercare e in quel combattere si annidano e per i risultati spesso solo apparenti cui esso dà luogo. Ogni bambino vive dei periodi di stanchezza quasi senile e altri di spumeggiante vitalità, ma questo non vuol dire che bisogna cedere e risparmiare, né che si debba contrastare e temprare. Il cuore non conosce lo stesso ritmo della crescita, per cui è meglio assicurargli il riposo 0 forse bisognerebbe stimolarlo a una attività in modo che si rafforzi e cresca. Il problema si può risolvere solo caso per

caso e momento per momento; è necessario comunque conquistarsi la fiducia del bambino e far sì che il bambino meriti la nostra.

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La difficoltà ad addormentarsi

Il rapporto difficile col sonno costituisce spesso un tema che genera grosse difficoltà a un genitore e una profonda rabbia causata dal sentirsi assolutamente impotente in una situazione in cui non sa che cosa fare né come intervenire, i] più delle volte. «Se non fosse per i sorrisi con cui il mio bambino mi riconquista ogni mattina, non so che cosa gli farei di notte, quando continua a piangere perché non vuol dormire!» diceva una volta una giovane madre esasperata in un gruppo. «Sono quindici mesi che non riesco a dormire due ore di seguito senza dovermi alzare. Una notte ho voluto contare le volte che mi sono alzata: sono state quindici! E il giorno dopo devo essere efficiente al lavoro e poi occuparmi della casa e tutto il resto. Non sono mai stata così stanca in vita mia! Non ho più neanche il tempo di fare il bagno. Da quando è nato lui sono passata alla doccia perché si fa più in fretta. Sto sognando di avere il tempo di fare un bel bagno rilassante.» # «Che buffo, è proprio vero anche per noi!» hanno commentato altre giovani madri del gruppo. «Anche noi siamo passate dal bagno alla doccia col primo figlio!» Quello del sonno perso dai genitori insieme ai loro bambini è solo uno dei tanti esempi di ciò che dice Bowlby quando ricorda che in nessuna altra relazione 57

umana qualcuno fa per un altro quello che un genitore fa per i propri figli.! Per quale altra persona, se non per il proprio figlio che ama, una giovane donna è disposta ad alzarsi quindici volte di notte? Ma perché il rapporto col sonno è così complicato? Questa favola vorrebbe aiutare a fare qualche riflessione su ciò che sta dietro a questo tema.

| J. Bowlby, Una base sicura, Cortina, Milano 1989. 58

Favola n. 2 Il camoscio che non voleva dormire

Altro non è la morte, che l’impulso grigio dell’Est, scioglientesi in aurora prima che l’Ovest sia. E. DICKINSON, Poesie

Fra gli animali del bosco delle Sette Querce c’ erano anche le famiglie dei camosci che si vedevano poco in giro perché passavano molto del loro tempo a scalare le rupi e lo facevano così allegramente che quando per caso li si incontrava era un piacere vederli.

Ma un giorno, stranamente, uno dei piccoli camosci, al calar della notte, quando doveva essere ormai alle soglie del mondo dei sogni, cominciò a dar segni di non volersi addormentare, tra lo stupore di tutti. All’inizio i suoi genitori pensarono che poi sarebbe passata e non ci fecero tanto caso ma, con l’andar del tempo, si accorsero che la cosa cominciava a diventare un’ abitudine vera e propria. Ogni volta che tutti i piccoli della famiglia erano già a letto e stavano per addorimentarsi, ecco che il cucciolo Giorgino diventava sempre più vispo e allegro, come se la giornata fosse all’inizio e non alla fine e cominciava ad inventare tutte le scuse che poteva per tenere svegli anche i suoi genitori. O chiedeva un po’ di acqua perché aveva sete, 0 voleva andare al gabinetto a far pipì, o sentiva uno spiffero d’aria 59

che entrava nella tana, oppure dei rumori strani all’ ingresso; a volte era un improvviso mal di pancia o qualche altro strano male, ma ilfatto è che ogni sera c’era qualche scusa nuova e Giorgino diventava sempre più bravo a inventarsele, pur di non dormire e di non far dormire i suoi genitori. Papà e mamma

camoscio agli inizi furono molto pazienti,

perché si ricordavano che anche a loro era successo quando erano piccoli e che non amavano affatto essere sgridati dai genitori e così lo accontentavano e si fermavano a fargli compagnia per un po’ di tempo. Ma man mano che le notti passavano e la cosa non smetteva, la mattina seguente i loro visi erano sempre più stanchi e affaticati. Finché un giorno decisero di andare a trovare l’asino Sapiens per parlarne con lui e cercare di capire. Si alzarono la mattina prestissimo, prima che sorgesse il sole, e

attraversarono buona parte del bosco perché lui abitava da una parte completamente diversa. Quando finalmente arrivarono alla sua tana, bussarono e bussarono, ma non

rispose nessuno. «Chissà dove possiamo trovarlo» si dissero mamma e papà camoscio, guardandosi intorno perplessi. In quel momento si accorsero che c’era un vecchio

merlo dal becco tutto giallo che saltellava sull’ erba fresca e lo chiesero a lui. «Si vede che abitate da un’ altra parte del bosco» rispose il merlo divertito «perché da queste parti lo sappiamo tutti dove è Sapiens fino a metà mattina. È nella radura in cima al colle che scende verso il fiume. È lì che va tutti i giorni a pensare e a scrivere sul suo quadernone. Se aspettate un pochino lo vedrete tornare.» Infatti non erano ancora passati dodici saltelli di merlo, che si vide il vecchio asino scendere dal colle e venire lungo il sentiero che portava alla sua casa. Quando fu arrivato, mamma e papà camoscio gli esposero il loro problema, tutti preoccupati. 60

Ma Sapiens non sembrava per niente meravigliato né stupito; gli pareva proprio una cosa che potesse succedere, esattamente come tante altre. «Nessuno di voi aveva paura ad addormentarsi da piccolo?» chiese infine appena ebbero finito di parlare. «Be’, certo» rispose papà camoscio «forse Giorgino assomiglia a me perché anch’ io, fino a quando non ho cominciato a uscire dalla tana e a procurarmi il cibo da solo, mi ricordo che la sera dovevo sempre andare a dormire insieme ai miei genitori, altrimenti avevo paura della notte.» «Io invece ero proprio terrorizzata» aggiunse mamma camoscio «mi ricordo che la notte stavo spesso sveglia perché il miò papà era molto severo e pensava che facessi i capricci a non volere dormire e non mi faceva andare nel loro letto. E le rare volte in cui dormivo, sognavo che venisse un mostro a prendermi e mi svegliavo tutta sudata e gelata dalla paura.» «Anche Giorgino, quando riesce ad addormentarsi, dice sempre che sogna due personaggi: la fata dell’ Est che è amica di tutti i cuccioli e la strega dell'Ovest, che li porta via e li uccide. È per non sognare la strega dell'Ovest che Giorgino non vuole addormentarsi la sera, io credo» soggiunse pensieroso papà camoscio. «Questo è molto interessante» notò allora Sapiens. «Proviamo a capire perché per Giorgino la fata buona viene dall’ Est e la strega cattiva viene dall’ Ovest! Che cosa succede ogni mattina a Est?»

«Sorge il sole e inizia una nuova giornata!» risposero insieme papà e mamma camoscio. «Allora forse vuol dire che la fata dell’ Est che è amica di tutti i cuccioli è come il sole che si alza ogni mattina per far iniziare la nuova giornata e accompagna gli abitanti del bosco nel loro cammino, illuminando la loro strada. Anch'io, che sono ormai vecchio, da tanti anni vado ogni giorno a salutare il sole che nasce e a pensare insieme a lui alle cose che poi scrivo sul mio quadernone.» 61

«Ma allora la strega cattiva di cui Giorgino ha paura è quella che viene dall’ Ovest perché è lì che tramonta il sole e che poi viene la notte?» chiese mamma camoscio, colpita all'improvviso da quella spiegazione che le era immediatamente venuta in mente, dopo le parole di Sapiens. «Può darsi che sia proprio così» rispose l'asino «perché del buio della notte i cuccioli che vivono di giorno hanno paura, da sempre. Ma non tutti i cuccioli del bosco hanno paura del buio, ci sono anche quelli che hanno paura della luce e che di giorno si nascondono per bene, per uscire solo dopo che è tramontato il sole ed è arrivata la notte, come i piccoli dei pipistrelli o dei ghiri, o di tanti altri animali notturni.» «Ma è perché loro sono abituati a vivere di notte e a riconoscere tutte le voci del buio e del silenzio che gli sono familiari e gli fanno compagnia» disse convinto papà camoScio. «Ma allora, se le cose stanno così, vuol dire che non è tanto importante che ci sia il giorno o la notte, ma che si possano vedere e sentire le cose che ci sono familiari e che non ci fanno sentire soli!» aggiunse mamma camoscio. «E infatti, adesso che ci penso, Giorgino ha sempre una vecchia ghianda che gli fa compagnia e che lui stringe con forza, tutte le volte che ha paura! Si vede che gli serve per non sentirsi solo. Allora, quando lui non vuole addormentarsi, fa così per non fare da solo il viaggio verso il paese dei sogni?» «Se tu l’hai pensato riflettendoci bene, potrebbe proprio essere così» rispose Sapiens. «Ma ditemi: qual è il momento esatto in cui Giorgino comincia a essere vispo e allegro come se montasse di guardia?» «E sempre al tramonto del sole» risposero insieme papà e mamma camoscio. «E così puntuale che ormai succede proprio tutte le sere.» «Anche questo è molto interessante» rifletté ad alta voce Sapiens «perché proprio ieri sono stati qui un papà e 62

una mamma ghiro che avevano lo stesso problema con un loro cucciolo, ma per lui la paura cominciava esattamente al sorgere del sole. Si vede che il calare e il sorgere del sole hanno lo stesso significato per Giorgino e il piccolo ghiro.»

«Sicuramente per Giorgino il calare del sole significa la fine della giornata che è il suo mondo» rispose papà camoscio. «Ma anche per il piccolo ghiro il sorgere del sole significa la fine della notte che è il suo mondo» aggiunse mamma camoscio che si era già immedesimata anche nel problema del piccolo ghiro. «Ecco, allora, se questo è vero, vuol dire che sia Gior-

gino che il piccolo ghiro hanno paura della fine di qualcosa e che questo qualcosa è il loro mondo. Allora forse i due cuccioli hanno paura della fine del mondo, cioè della morte.»

«È vero» aggiunse illuminandosi all'improvviso papà camoscio. «Infatti Giorgino dice spesso che non vuole addormentarsi perché ha paura di morire nel sonno.» «Allora forse siamo sulla strada giusta» rifletté Sapiens «perché anche il piccolo ghiro aveva la stessa paura.» «Sì, ma ora che abbiamo capito che non vogliono dormire perché hanno paura di morire nel sonno, che cosa possiamo fare per aiutarli? A me sembra che capire non sia sufficiente» chiese mamma camoscio, che continuava a essere pensierosa. «Capire è sempre il primo passo ed è il più importante, ma il problema è di capire anche col cuore. Dunque, a voi che sentimento fa venire una cosa familiare che finisce?» ribatté Sapiens. «A me fa sempre venire un po’ di malinconia» disse papà camoscio «come tutte le volte che parte 0 che muore qualcuno.» «Vedete che una cosa che finisce fa malinconia a tutti, anche ai grandi. Immaginate un po’ quanta ne deve fare a 63

un cucciolo che non ha ancora preso confidenza con il mondo perché è sempre stato protetto dai suoi genitori. Gli deve fare una malinconia così grande che a volte il cucciolo nella sua testa decide di cancellarla e di fare in modo che non esista. Così Giorgino cerca forse di cancellare la notte, stando sveglio come durante la giornata e il piccolo ghiro cerca di cancellare il giorno nello stesso modo. Tutti e due non vogliono accettare la fine di una cosa che è familiare e l’inizio di una che non è familiare. E per aver sempre la fata dell’ Est che è amica dei cuccioli e non la strega dell'Ovest che li rapisce che Giorgino monta di guardia tutta la notte.» «Ma il ritmo della vita è fatto sia del giorno che della notte» sospirò papà camoscio «per cui dobbiamo aiutare Giorgino a rendersene conto, perché se ha paura dei ritmi della vita è come se avesse paura di vivere.» «Certo» ribatté Sapiens. «Allora quale pensate che sia il vero problema di Giorgino?» «Non certo quello di non voler dormire, ma quello di non voler crescere!» replicò decisa mamma camoscio. «Ma Giorgino non avrà sempre il papà e la mamma vicino a proteggerlo per tutta la vita, come facciamo adesso. Quindi deve imparare anche lui a crescere, per sapersi difendere ed essere autonomo e scoprire come si fa a saltare di rupe in rupe, a cercare nuovi pascoli, a giocare con l’acqua dei ruscelli e a imparare tutto quello che insegna la vita del bosco.» «Sai che cosa potremmo fare?» disse papà camoscio, a cui era già venuta una prima idea. «Potremmo cominciare a proteggerlo un po’ di meno, visto che tutti e due tendiamo a farlo più con lui che con gli altri, dato che è il più piccolo.» «E poi potremmo...» aggiunse mamma camoscio. «Certo, e anche...» rispose papà camoscio, e quando ebbero finito di parlare tra di loro, sapevano già da dove cominciare, senza bisogno di chiederlo a Sapiens, il qua64

le, in ogni caso, non avrebbe potuto farlo da parte loro, perché lui era un’ altra persona e non loro. Fu così che mamma e papà camoscio ringraziarono il vecchio asino e tornarono al loro angolo di bosco per riprendere la vita di tutti igiorni. Ma questa volta sapevano qualche cosa in più e, senza che loro se ne rendessero conto, dei piccoli particolari cominciarono a cambiare nella loro tana e Giorgino cominciò a essere molto meno dipendente da loro e più sicuro di sé. E man mano che i giorni passavano anche lui cominciò a imparare a scalare delle rupi sempre più alte, a scoprire nuove sorgenti fra i cespugli del bosco, a trovare nuovi amici con cui giocare e nuove storie da ascoltare e da raccontare. E fu pure così che ancora una volta il vecchio fiume del bosco delle Sette Querce vide un cucciolo imparare a poco a poco a diventare grande e forte, fra le luci e le ombre del bosco, come è sempre successo a ogni primavera, da quando i fiumi scorrono su questa vecchia terra.

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Qualche riflessione sulla favola: la paura del non familiare

«Però voi siete lì tutti insieme e io sono qui da sola! Voglio qualcuno a farmi compagnia.» «Ecco qui il tuo orsetto, così hai compagnia anche tu!» «Ma io non voglio un orsetto, voglio qualcuno di vivo!» ANNA, 5 anni, al papà

Anche questa favola tocca un tema che è spesso molto difficile da affrontare per i genitori e che in certi casi mette a dura prova la loro pazienza e le loro risorse sul come comportarsi, tanto che viene portato con una certa frequenza nelle consultazioni psicologiche. In questo caso, quindi, la rabbia per l'impotenza riguarda in genere più i genitori che i bambini. Credo che molte cose precedentemente accennate nel primo libro di questa esperienza possano già aiutare a capire meglio questo piccolo dramma serale che in molte famiglie diventa un penoso rituale del quotidiano. Nella difficoltà del sonno sono infatti condensate per il bambino non una, ma diverse paure: quella del distacco, dell’estraneo, dell’abbandono, del buio, dei brutti sogni, eccetera. Ora, che il bambino abbia una certa paura del distacco è del tutto naturale e fa parte del processo d’apprendimento. Separarsi da ciò che è rassicurante e familiare, in questo 66

caso i genitori, èè taticoso e pieno di incognite perché come sempre c’è il gioco di sapere ciò che si lascia ma di

non sapere ciò che si trova. L’osservazione di tante situazioni di vita quotidiana in cui il bambino sperimenta questa difficoltà ci può aiutare a guardare le cose con i suoi occhi, cioè a capire quanto il distacco gli costi. Un esempio classico può essere quello della mattina prima dell’uscita di casa. «Il mio la mattina non si vuole mai vestire» dice una mamma in un gruppo. «Ma forse lo fanno per stare più a lungo con la mamma, per rimandare il distacco» interviene un’altra. «Anche per me è così. Più io mi arrabbio e più mia figlia trova spunti per continuare a perdere tempo.» «Se io mi arrabbio» osserva una terza «mio figlio mi rimprovera. E sceglie tutto con cura, scarpe, calze, vestiti...»

«Anche la mia, guarda caso, cerca sempre qualcosa alle 8.12 del mattino, quando dobbiamo uscire. Proprio al momento del distacco, del lasciare la casa...»

Il distacco costa fatica mentale anche a noi adulti, per cui possiamo immaginare quanta ne debba costare a un bambino. Ricordo con tenerezza a distanza di anni una bambina piccola che mentre veniva portata al nido passava davanti alla porta dei nonni e si voleva fermare mostrando la porta e dicendo “Nonna!”. «Non c’è la nonna!» le rispondeva la madre. «Nonno!» continuava allora la bambina, sempre indicando la porta. «Non c’è neanche il nonno, è già al lavoro!» le rispondeva

la mamma. “Zazà!” ribatteva allora la piccola, nell’ulfimo tentativo. Zazà era il cagnolino di casa dei nonni, il suo compagno di giochi, ciò che rappresentava la sua esperienza quotidiana prima di questa prova così faticosa. Era certo meglio stare sola a casa con Zazà piuttosto che andare al nido... Quanto poi al tema specifico del distacco per la notte, 67

mi è capitato spesso di osservare che anche qui, come nella storia di vita riportata a proposito delle paure, dietro a un bambino che fa sempre fatica ad addormentarsi c’è a volte un genitore che ha fatto o fa la stessa fatica. Credo che questo si possa dire anche del buio; ci sono molti più adulti di quanto non possiamo immaginare che continuano ad avere questa paura nel corso della vita, tanto da lasciare qualche luce accesa durante la notte se sono soli. Evidentemente c’è in loro un bisogno profondo di controllo della situazione che rende insopportabile l’idea del buio totale, quando non si può vedere, il che ancora

una volta dimostra la gran varietà di comportamenti che noi adulti possiamo avere e come ognuno di noi organizzi le proprie difese nel modo migliore che sappia trovare. «Io avevo una tale paura del buio, del nuovo, del distac-

co dall’ambiente familiare» ha raccontato una volta una giovane madre «che durante il viaggio di nozze non ho mai dormito le prime tre sere. Non solo, ma quando si addormentava svegliavo mio marito perché volevo che stesse sveglio a farmi compagnia. Finché alla quarta sera lui si è ribeliato e mi ha sgridato come una bambina. Be”, lo sa-

pete che questo mi ha tranquillizzata? Quella notte me ne sono stata lì buona senza dir niente fino a quando a poco a poco mi sono addormentata anch'io.» Credo che questo sia anche un buon esempio a proposito del tema dei limiti e della loro importanza per contenere le nostre stesse paure nelle situazioni che danno molta ansia. Nonostante la fatica e la difficoltà che a volte gli costa,

il riuscire a dormire da solo, tuttavia, rappresenta per un bambino una grossa esperienza mentale e la prova di una

conquista. «Mamma, ho paura» dice Donata a 6 anni in un momento di difficoltà per la nascita della sorellina «posso venire nel lettone?» «Perché?» chiede la mamma. 68

«Perché la tua camera è fatata e le paure non possono entrare» risponde la bambina. «Donata, prendi il tuo mini-pony che ti piace tanto, così ti fa compagnia.» «No, mamma, non ho ancora superato la prova!» Donata ha chiaramente già valutato che questa è una prova di crescita che infatti, non a caso, si ripresenta nei

momenti difficili. In un altro gruppo di genitori una mamma racconta la

sua esperienza.

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«Giorgio fino all’anno scorso voleva che stessimo accanto a lui quando andava a dormire. A un certo punto ci siamo accorti che ci aveva sostituito con degli orsacchiotti, li portava nel letto e non chiedeva più la nostra presenza. Una mattina, quando si è svegliato, è venuto nel lettone a salutare con un orsacchiotto in mano e ci ha detto: “Lui per me è un simbolo, rappresenta l’amore della mamma”. «Qualche tempo dopo, mentre lo assistevo in ospedale per un piccolo intervento, una mattina mi sono accorta che i suoi orsacchiotti erano sul comodino. Gli ho chiesto: “Come mai, Giorgio, gli orsacchiotti non sono nel tuo letto insieme a te?”. E lui, deciso: “Ho chiuso con gli orsacchiotti, adesso l’amore del papà e della mamma è nel mio cuore”.» La prova del distacco notturno è quindi quella che riesce a farci capire se un bambino si sente o meno abbastanza sicuro. Quando non ce la fa, forse il problema vero non è tanto la notte, quanto il fatto che il bambino in quel mo-

mento non ha ancora elaborato o ritrovato dentro di $é la sicurezza sufficiente per affrontarla. E questa allora l’area in cui è forse più utile aiutarlo.

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Il rapporto col cibo

Quello del rapporto psicologico col cibo credo sia ormai un tema molto dibattuto anche a livello normalmente colloquiale. Il tema che questa favola vorrebbe aiutare a mettere a fuoco è quello dell’uso del cibo come differenziazione di sé nel rapporto madre-figlia, che sembra anche essere spesso presente nella storia di ragazze anoressiche. Se la madre è troppo presente e, spesso per calmare la propria ansia, controlla e condiziona tutta la vita del figlio senza rendersene conto (proprio perché l’esasperazione del controllo è una caratteristica del suo funzionamento mentale) questi potrà sentirsi intrappolato in una relazione che gli impedisce di compiere il suo processo di individuazione di sé. Potrà allora reagire cercando degli ambiti in cui poter decidere lui (o lei), per salvare la sua identità di individuo diverso e separato che gli è essenziale e indispensabile per vivere. Il corpo può così diventare facilmente l’unico campo sotto il suo controllo e il rapperto col cibo e l’evacuazione sfinterica (la stitichezza ne è un

esempio) ne possono rappresentare una testimonianza. Mi sembra interessante, a questo proposito, riportare le osservazioni di Groddeck sul tema:! ! G. Groddeck, // linguaggio dell’Es, Adelphi, Milano 1969. fl

La risposta più frequente, riguardo la stitichezza, è la seguente: nell’organismo viene trattenuto qualcosa che deve invece essere espulso [...]. Con la stitichezza l’Es dice: si adeguino pure gli altri alla regola generale dell’evacuazione giornaliera, io non lo faccio [...]. Tralasciando, per il momento, il problema del condizionamento che difetti innati dell’intestino possono esercitare sulla stitichezza, passerei a esaminare quali motivi possano indurre i lattanti a essere stitici [...]. Il neonato ha a sua disposizione soltanto pochi mezzi per esprimere il proprio risentimento verso il mondo esterno. Può piangere, può respingere il cibo e infine può dare origine a sintomi di malattia per spaventare chi si prende cura di lui e spronarlo quindi a una maggiore cura [...]. Rifiutare il cibo è un sistema quasi irresistibile, ma in tal modo il bambino si danneggia e quindi se ne serve solo in casi di emergenza. Così gli rimane, per i casi in cui piangere non basta, il sintomo di malattia, e di tutti i sintomi di malattia quello più evidente e facilmente riproducibile è il sintomo della cattiva digestione: diarrea, vomito, stitichezza [...]. Avevo

una cliente che nutriva particolare fiducia nei libri e nella scienza e ritenevo, a ragione, minacciata dall’igienismo materno la sua figlia primogenita. Quando la bambina divenne stitica, riuscii a far sì che si aspettasse a intervenire;

ciò accadde nella quarta settimana dalla nascita. Passarono vari giorni senza che l’evacuazione avvenisse. Devo esprimere ancora oggi la mia ammirazione per la madre che affrontò con serenità e pazienza ciò che chiesi alla sua paura materna. La bambina rimase per tutto il tempo fresca e vivace; aumentò di peso e, come si dimostrò in se-

guito, anche di saggezza. Il settimo giorno avvenne l’evacuazione; le feci erano morbide e normali: fluivano dalla piccola come da un tubetto di crema. Da allora fino al ritorno a casa della madre e della bambina, le evacuazioni furono regolari. Dopo qualche tempo la madre mi scrisse una lettera disperata in.cui si diceva che la bambina stava molto bene ma che, dal giorno della partenza, non c’era

più stata alcuna evacuazione. Erano passati ormai nove giorni e la madre aveva perduto ogni speranza e mi suppli10)

cava di scriverle una qualsiasi parola di conforto e di dirle che cosa dovesse fare. Prima ancora che io potessi risponderle, arrivò un telegramma con la notizia che tutto era in ordine e che l’evacuazione si era svolta facilmente e senza disturbi. La bambina ora ha più di tre anni e, dopo queste due prime esperienze, non ha più tentato di farsi valere in questo modo. Ho avuto esperienze simili anche con altri lattanti [...] l’ostinatezza si manifesta molto precocemente

e in modo molto chiaro e inconfutabile; tutto ciò che il bambino avverte come offese, siano esse inevitabili come

lo svezzamento, la dentizione, ecc. o evitabili, siano giustificate o, in apparenza, ingiustificate: cambiamento di chi lo accudisce, dell’abitudine, del cibo, cattivo umore di chi gli è intorno e soprattutto della madre, viene corrisposto e si manifesta sotto forma di disturbi intestinali, tra i

quali il più comune è la stitichezza cronica, perché più adatta a essere prolungata e perché procura al bambino meno fastidio della diarrea [...]. Ma all’uomo moderno sembra impossibile rovesciare la conclusione: sono stitico, quindi il mio malumore, il mio mal di testa, la mia di-

sappetenza, il mio vomito, la mia inefficienza derivano dalla stitichezza e dire: la mia vita psichica ha perso il suo equilibrio e come conseguenza sono di malumore, ho mal di testa, sono stitico [...] non esiste stitichezza che non sia condizionata psichicamente. So che questo non è del tutto esatto, poiché nessuno può essere stitico se non possiede un intestino [...]. La verità si trova dunque nel mezzo, e chi pensa e agisce serenamente senza pregiudizi non dimenticherà mai che le condizioni psichiche, o meglio, la coscienza e l’inconscio, hanno la loro parte di responsabilità nella stitini

chezza.

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Favola n. 3

L’orsetta golosa

Dopo tanta nebbia a una a una si svelano le stelle. G. UNGARETTI, Sereno

Anche nel bosco delle Sette Querce c’ erano i cuccioli golosi e fra di loro c’era Orsetta Rosalinda, che tutti chia-

mavano Pallottolina perché era bella e cicciottella, sempre alla ricerca del miele. La cosa strana era che da piccola l’orsetta aveva fatto disperare la sua mamma perché non voleva mai mangiare, come se volesse protestare per delle cose che le facevano male, senza sapere neanche lei quali fossero. E una delle cose che le facevano male era che in casa sua la trattavano spesso come un orsetto di peluche e non uno vero in carne e ossa, per cui continuavano a decidere tutto per lei e dî posto suo anche per le cose in cui l’orsetta era ormai perfettamente in grado di decidere da sola perché stava crescendo. Ma mamma Orsa non se ne poteva rendere conto perché questo era il modo in cui era stata allevata anche lei, cosicché l’aveva imparato istintivamente da quando aveva cominciato a parlare e a camminare e credeva che 75

questo fosse l’unico modo in cui le mamme devono fare il loro dovere, se vogliono essere delle buone mamme. Invece con i figli maschi le capitava un po’ di meno perché loro erano più indipendenti e stavano sempre fuori a giocare, cosicché Rosalinda era anche gelosa della libertà che avevano, mentre lei doveva starsene sempre nella tana, spesso arrabbiata. E allora, a poco a poco, crescendo, aveva iniziato a consolarsi di questo dispiacere con del buon miele, che mangiava ogni volta che pensava che la mamma trattasse meglio i figli maschi perché a loro voleva più bene che a lei. Il cibo era diventato il modo di riempire tutti i buchi che sentiva; era il piacere di mordere e di masticare quando era arrabbiata, era quello di sentirsi nutrita e curata quando si sentiva abbandonata e sola, era quello di riempire un vuoto quando si sentiva annoiata e così via. Finché un giorno, mentre se ne stava sola e arrabbiata lungo la riva del fiume, non si accorse che a poco a poco il pomeriggio se n'era andato ed era arrivata la sera. Il sole era ormai tramontato, le prime stelle cominciavano a spuntare e quando finalmente Orsetta alzò la testa verso il cielo, si rese conto che era diventato buio ed era troppo tardi per ritornare a casa perché non si vedeva più la strada. Orsetta cominciò a piangere disperata, finché ad un certo punto sentì la voce del fiume che la chiamava. Si avvicinò alle sue acque e il fiume le disse: «Se tu hai il coraggio di attraversare al buio questo pezzetto del mio corso, troverai in mezzo alle mie acque un grande masso con dentro una bella caverna protetta dove potrai dormire questa notte senza alcun pericolo perché lì non arrivano né i cacciatori, né gli animali nemici degli orsi. Però devi fare tu il primo passo e fidarti delle tue forze per attraversare questo pezzo del mio corso senza farti trascinare via dalla corrente. Prova, piccolo cucciolo d’orso».

La voglia che Orsetta sentiva dentro di sé era proprio il 76

contrario, era quella di scappare via lontano, ma c’ era poco da fare, le strade non si trovavano più e l’idea di passare la notte in una bella caverna protetta era l’unica cosa che la potesse consolare. E così Orsetta decise di provare a fare quello che le aveva suggerito il fiume; entrò nell'acqua e immediatamente sentì una forte corrente, ma lei riuscì a stare in equilibrio e incominciò ad avanzare. A un certo punto avvertì la sua zampa che sprofondava e si sentì precipitare dentro a un gorgo, ma si aggrappò istintivamente al grosso ramo di un albero che si protendeva verso il fiume e poté così uscire dal mulinello e trovare un punto sicuro dove appoggiare le zampe. E quando finalmente fu proprio sopra il masso, si accorse che era quello della caverna e sentì il fiume che le diceva: «Brava, piccola cucciolo d’orso, adesso potrai dormire tranquilla per tutta la notte». E così Orsetta entrò nella caverna, dove trovò della buona paglia asciutta che l’aspettava e si mise finalmente a dormire tranquilla, cullata dalla ninna nanna che le cantavano le acque del fiume, che scorrevano verso il mare lontano, lontano. E mentre lei dormiva ecco che si incamminò verso il paese dei sogni e si vide di nuovo nell’acqua del fiume, mentre precipitava dentro al gorgo da cui si era appena salvata. Orsetta era spaventatissima e pensava terrorizzata di stare per morire. Invece, stranamente, quando fu tutta inghiottita dal gorgo, ecco che trovò un sentiero che correva sul letto del fiume e si accorse stupita di poter camminare e respirare sott'acqua proprio come se fosse

stata nel suo bosco. Ò Si incamminò per il sentiero e vide tanti strani fiori e tante piante, tutti fatti d’acqua, con molti colori, verde, azzurro, turchese, che si muovevano lentamente nella corrente e man mano che si muovevano anche i colori si alternavano e si scambiavano. Era proprio uno spettacolo molto bello, illuminato dal77

la luce del sole che arrivava sino a lì e si scomponeva in

tanti fasci di raggi per formare dei piccoli soli sui sassi del letto del fiume. Mentre camminava estasiata per questo sentiero, ecco che a un tratto l’orsetta si trovò davanti a una casa tutta di acqua e non si riusciva a capire come potesse stare in piedi, proprio con le pareti e il tetto realmente fatti di acqua. Si sarebbe potuto dire che fosse di ghiaccio, tanto era solida e invece a toccarla si sentiva che era proprio acqua che scorreva. Orsetta entrò ed ecco che si trovò davanti uno strano essere che si muoveva proprio come gli animali del bosco, ma era molto più agile, guizzava dappertutto come se sapesse volare e camminare e nuotare allo stesso tempo. «Benvenuta nella mia casa, Orsetta Rosalinda» le disse lo strano essere. «Ma tu chi sei?» chiese Orsetta. «Io sono lo spirito del fiume del tuo bosco e conosco tutti quelli che vivono lungo le sue sponde. E per questo che conosco anche te, come tutti gli altri cuccioli del bosco e prima di te ho conosciuto i tuoi nonni e i bisnonni e trisnonni ancora da quando erano piccoli. Io conosco la vita del bosco da millenni, da quando lo attraverso con le acque del mio fiume, conosco tutti i suoi abitanti anche se loro non conoscono me e vedo anche quando sono arrabbiati o tristi 0 contenti.» «Allora tu sai anche che io sono quasi sempre arrabbiata o triste?» «Certo che lo so, come ieri sera, quando non ti sei accorta che il sole era tramontato e scendeva la notte.» «Ma io sono stanca di essere sempre così, non c’è un modo per poter cambiare? » «Be’, veramente un modo ci sarebbe: si tratta di impa-

rare a percorrere dentro di noi delle strade nuove che prima non conoscevamo. Anche tu quando sei caduta nel gorgo avevi molta paura, ma hai scoperto dei sentieri 78

nuovi che prima non pensavi neanche che potessero esistere. E poi hai provato il piacere di vedere il mondo sott'acqua e di fare tante scoperte. Hai conquistato delle cose che prima non conoscevi.» «E come si fa a imparare a conquistarle?» «E una cosa faticosa e difficile, come percorrere una lunga strada facendo il gioco che fanno i cuccioli dell’ uomo: due passi da leone in avanti e tre da formica indietro o viceversa. E una strada su cui qualche volta si ha l’impressione di non andare né avanti né indiétro, molte volte si va în avanti, tante volte si torna indietro, ma se alla fine si fa il conto, si vede che abbiamo percorso un nostro cammino. E per questo che io ti farò un dono che ti possa aiutare. Quando ti sveglierai, guarda sotto la paglia su cui hai dormito e troverai un bel sasso bianco: sotto il sasso c’è una pagliuzza d’oro che il fiume ha trasportato mille anni fa. Prendila e conservala sul cuore; ogni volta che ne avrai bisogno potrai stringere la pagliuzza tra le tue mani e lei ti aiuterà. Ricordati però che è una pagliuzza molto fragile e che un giorno si consumerà e sparirà; tu dovrai allora scoprire il segreto di dove è andata. Cerca perciò di far tesoro delle cose che ti insegnerà di volta in volta. Addio, Rosalinda!»

A quel punto ci fu un vortice di luci e di colori che la travolse e l’orsetta si svegliò, mentre il mattino entrava

prepotente nella caverna con l’alito fresco del vento, i canti degli uccelli e il gorgoglio del fiume che si svegliava stiracchiandosi. Rosalinda cercò incuriosita sotto la paglia, trovò il sasso bianco e sotto c’era la pagliuzza dorata, proprio come aveva detto lo Spirito del fiume nel sogno. La prese con cura, se la mise sul cuore e iniziò a cercare la strada del

ritorno attraverso il fiume. Questa volta fu molto più semplice, perché era chiaro e la luce illuminava bene le pietre su cui camminare e così a poco a poco Orsetta Rosalinda tornò a casa dove furono tutti felicissimi di vederla, per79

ché avevano passato una notte angosciosa a cercarla, papà e mamma e i suoi fratelli con tutti i loro amici.

Per qualche giorno la gioia del ritorno fu tale che Orsetta dimenticò tutti i suoi problemi di prima e anche i suoi fratelli erano così contenti che non pensavano neanche a prenderla in giro. Ma quando l’emozione del ritorno fu passata, a poco a poco ogni tanto ritornarono le vecchie sensazioni e un giorno Orsetta era così arrabbiata, ma così arrabbiata, che pensava proprio che tutto il mondo ce l'avesse con lei e si era completamente dimenticata delle parole dello Spirito del fiume. A quel punto si mise per caso una mano sul cuore e sentì il calore della pagliuzza che stava lì da tanto tempo, silenziosa. La prese, la strinse fra le mani e le chiese: «Che cosa posso fare? ». «Di che colore è la rabbia che ti senti dentro al corpo?» chiese la pagliuzza. «È rossa come il fuoco e nera come il carbone!» rispose Orsetta, stupita. «Allora fai un respiro molto profondo, chiudi gli occhi e lascia che il respiro ti faccia uscire tutto il colore rosso e nero che senti dentro. E se non è sufficiente un solo respiro, fanne un altro e un altro ancora. Poi, quando sei più calma, ripensaci.» Rosalinda fece tutto quello che le aveva detto la pagliuzza e a poco a poco si sentì più calma e meno arrabbiata. Guardò gli altri e le sembrò che alcuni, ma forse non proprio tutti, ce l’avessero con lei e le cose cominciarono a sembrarle un po’ meno terribili di prima. Fu in quel modo che Orsetta si abituò a chiedere aiuto alla pagliuzza ogni volta che si trovava nei guai. E ogni volta lei l’aiutava ad accompagnare la sua rabbia verso delle strade nuove, dove stava meglio ed era più contenta. Passò così il tempo e arrivò un giorno in cui l’orsetta si sentì di nuovo abbandonata perché era la festa dei piccoli e ai suoi fratelli era stato fatto un regalo che a lei sembrava molto più bello del suo. E il dispiacere che la cuccio80

letta aveva provato nel suo cuore era stato così grande che aveva smesso di giocare con gli altri cuccioli, se ne era andata da sola per il bosco e si era seduta stanca e piangente, su un vecchio masso, pensando di essere il cucciolo più solo, più infelice e abbandonato di tutto il bosco e di tutti i boschi della terra messi insieme. Non solo, ma si era anche convinta che non esistesse niente di più grande e di più importante al mondo di questo suo enorme dolore. E mentre era lì che si commiserava per questa sua grande infelicità, sentì la pagliuzza che le diceva di ascoltare qualcosa ed ecco che sentì un pianto, lontano, nel cuore del bosco. Si avvicinò, si accorse che proveniva da un cespuglio e quando, vincendo la paura, guardò sotto, vide un altro orsetto piccolo piccolo che quasi non si reggeva in piedi e che piangeva disperato perché i suoi genitori erano stati catturati e lui era rimasto solo al mondo, abbandonato da tutti. «Hai mangiato?» gli chiese lei commossa. L’orsetto fece cenno di no con la testa. «Hai fame?» questa volta il cenno fu di sì. E allora la piccola Rosalinda cominciò a cercare nel bosco, finché trovò un bel favo pieno di miele che le api avevano momentaneamente lasciato per andare al lavoro e glielo portò. Il piccolo lo divorò in un lampo. «Come ti chiami?» gli chiese alla fine. Ma l’orsetto non rispondeva e lei non sapeva se era perché era troppo piccolo o perché era troppo spaventato. «Hai freddo di notte?» anche stavolta il piccolo fece cenno di sì. E anche stavolta lei gli cercò lì vicino una grotta bella e protetta come quella che il fiume le aveva fatto scoprire, ci mise della buona paglia e ci portò il piccolo. Poi coprì con cura l’ingresso con cespugli e sassi affinché l’orsettino fosse al sicuro e se ne tornò a casa. Però ogni giorno tornava là da lui e lo curava con pazienza e amore come aveva visto fare dalla sua mamma con loro e allora le venivano in mente anche tutte le cose che la 81

mamma aveva fatto anche per lei, non solo per i suoi fratelli. E ogni giorno la piccola Rosalinda era sempre più allegra perché si rendeva conto che diventava più forte e autonoma e quando se ne accorse fu così contenta di questa scoperta che le venne voglia di dirlo alla pagliuzza. Ma quando la cercò non la trovò più; la sua pagliuzza era completamente sparita e all’orsetta vennero allora in mente le parole dello Spirito del fiume. Però lui le aveva anche detto che lei avrebbe dovuto scoprire dove fosse andata a finire e questo proprio non le era chiaro. Fu così che decise di andare di nuovo verso il fiume una sera al tramonto, lo riattraversò, e dormì da sola nella caverna, come quella famosa volta e quando cominciò a sognare incontrò lo Spirito del fiume. «Salve, Orsetta Rosalinda, sei ancora così infelice come prima?» le chiese sorridendo. «Veramente adesso non sono sempre così arrabbiata; mi capita ancora, ma non proprio tutti i giorni come prima. Mi ha aiutata molto la pagliuzza d’oro ogni volta che avevo un problema, ma adesso non la trovo più e sento tanto la sua nostalgia» rispose l’orsetta. «Sai perché non trovi più la pagliuzza, Rosalinda? Perché ormai tutto quello che ti poteva insegnare tu l’ hai imparato, quindi è come se la pagliuzza fosse entrata dentro di te, nella tua testa e nel tuo cuore. Questo vuol dire che ormai non ti abbandonerà più perché i pensieri che ti sei conquistata ti faranno compagnia per tutta la vita: quello che hai imparato lo porterai con te per sempre e nessuno te lo potrà portare via.» E così Rosalinda capì dov’ era andata a finire la sua

pagliuzza e quando alla mattina si svegliò, riattraversò il fiume e tornò a casa felice e contenta di questa scoperta. Ormai sapeva che la sua pagliuzza non l'avrebbe abbandonata mai più e l'avrebbe accompagnata per il resto dei suoi giorni, nelle giornate di sole e in quelle di piog-

gia, nel tepore dell’estate e nel gelo dell’inverno. 82

Qualche riflessione sulla favola: l’uso del cibo come comunicazione

«Oggi non mangio per protesta contro il mondo!» GIOVANNI, 12 anni

Il tema di questa favola riguarda la valenza psicologica del rapporto col cibo. L’essere nutrito e accudito è il primo rapporto d'amore che 11 neonato sperimenta con la madre o con l’adulto di riferimento e che gli dà la sicurezza della continuità perché queste cure vengono ripetute più volte al giorno quotidianamente. Si tratta quindi di una sensazione mentale di continuità che è alla base della futura sicurezza del bambino, e il cibo assume per lui il significato affettivo di una presenza rassicurante. Ora, i disturbi di rapporto col cibo, come è capitato con l’orsetta, più che da ricostituenti e interventi medici posso-

no essere aiutati soprattutto dal cercare di capire quali possono essere le difficoltà psicologiche del bambino che vi si manifestano. E a questo proposito vorrei ancora una volta ricordare che forse ci aiuta di più capovolgere il funzionamento mentale che ci porta a dire: «Tu hai dei problemi, io, quello, quell’altro abbiamo dei problemi eccetera» e dire invece (che è la stessa cosa, ma posta in un’ottica diversa) «la vita comporta dei problemi, a me, a te, a tutti...».

È una piccola differenza che però invece di colpevoliz83

zare o dare ansia abitua a pensare ai problemi in termini di soluzione e di possibili modi di affrontarli, utilizzando le possibilità che ognuno di noi ha a disposizione in quel momento. In questo specifico caso la difficoltà era un problema di eccessivo controllo per ansia, che intrappolava la cuccioletta e il suo ambiente. Già il neonafo, come si è visto nelle

parole di Groddeck, comunica in genere le proprie difficoltà con disturbi del cibo e del sonno, che sono le manifestazioni più arcaiche e che a volte si protraggono nel tempo. Alla base del problema col cibo si può anche trovare a volte un rapporto madre-bambino (intendendo sempre per madre l’adulto di riferimento) disturbato non tanto per mancanza di cure materne, quanto, paradossalmente, per il suo opposto, cioè da cure così sollecite ma prestate con tale ansia che finiscono per essere vissute inconsapevolmente dal figlio come invasive e soffocanti del suo mondo. In questo caso il cibo può diventare allora simbolo di un rapporto affettivo potenzialmente buono che si trasforma però in invasivo del mondo interno del bambino il quale non riesce o fa fatica ad attuare il processo di separazione-individuazione di sé che gli è fondamentale per crescere dal punto di vista psicologico. Il bimbo allora individua spesso il cibo o il controllo sfinterico come l’unico mezzo con cui esprimere questa difficoltà, come a dire: «Su questo, almeno, sono io

che decido!», cosicché anche qui il sintomo è, paradossalmente, ciò che l’aiuta ad avere almeno un terreno su cui potersi contrapporre all’adulto. Costringere con la forza o con la seduzione un bambino a mangiare o curare solo medicamente le sue diarree o la sua stitichezza (là dove queste rappresentano delle difficoltà psicologiche) può quindi voler

dire ignorare un terreno di comunicazione. Credo possa essere interessante a questo proposito, a conferma delle parole di Groddeck, la storia di una giovane mamma. Quando Silvana si presenta in consultorio è una giovane donna al quinto mese di gravidanza, in preda a una for-

84

ma di fobia ossessiva che le paralizza la vita e la fa stare molto male. Non può prendere farmaci per non danneggiare il bambino, ma è distrutta da questa sua vecchia angoscia che con la gravidanza è diventata incontenibile e intollerabile. Inizia così una terapia di sostegno solo psicologico che a poco a poco l’aiuta a contenere questo suo malessere, an che se le fobie continuano, seppure in modo più gestibile. Dopo la nascita della bambina ecco però che all’improvviso Silvana sta bene. Le fobie che l'hanno accompagnata costantemente per anni dall’adolescenza sembrano svanite come per incanto. In compenso subentra, al loro posto, una preoccupazione ossessiva per la bambina, finché un giorno Silvana arriva allarmatissima in consultorio: «Oh Dio, oh

Dio, la bambina non fa più la cacca! Adesso scoppia!». La bambina, da manuale, pur stando benissimo (Silva-

na è anche una mamma molto tenera), pur essendo allattata al seno e senza presentare alcun segno di sofferenza fisica, davvero non evacua più da una settimana. L’équipe del consultorio decide allora per un doppio intervento. Silvana continuerà a fare una terapia di sostegno per le sue fobie e a questa verranno affiancate delle periodiche consulenze con la pediatra sul problema della bambina. Ven-

gono così separati anche formalmente i due ambiti, quello per la mamma e quello per la bambina. A distanza di circa dieci giorni la stitichezza della bambina cessa. In compenso Silvana è tornata a fare i conti con le sue vecchie fobie che la preoccupazione per la bambina sembrava aver magicamente cancellato, dopo una presenza quotidiana che durava ormai da anni. Ma Silvana è adulta e ha tante risorse; questi conti è in grado di farli, anche se hanno un prezzo alto e la bambina può crescere godendosi il suo amore senza un carico d’ansia che la schiacci. Oltre che con i neonati, a volte questa difficoltà con il cibo si può instaurare anche in adolescenza fra madre-figlia e può essere espressa da disturbi come l’anoressia (il 85

rifiuto a cibarsi fino ad arrivare in certi casi drammatici alla morte), oppure la bulimia (la coazione a mangiare oltre le proprie necessità fisiologiche). È un disturbo che in passato è stato soprattutto femminile, ma che oggi comincia a presentarsi anche nei ragazzi, a volte. Alla base quindi di questo sintomo sembra esserci, fra i tanti possibili risvolti psicologici, anche il bisogno del bambino di sentire rispettati i suoi confini che sono quelli che gli permettono di viversi come essere autonomo e separato dai genitori, altrimenti nei casi esasperati può arrivare a soffrirne il suo stesso rapporto con la vita. Dice la Miller a questo proposito:! Ci sono molti individui che per tutta la vita saranno sempre sul punto di morire di fame, nonostante le madri si fossero, a suo tempo, preoccupate coscienziosamente del loro nutrimento, del loro sonno e della loro buona salute. Pare che neppure gli specialisti si siano ancora resi conto che, malgrado ciò, a quei bambini è mancato in molti casi qualcosa di essenziale. Nella nostra società non è ancora diventato di pubblico dominio il fatto che il bambino tragga il suo nutrimento spirituale dalla comprensione e dal rispetto delle sue prime persone di riferimento e che esso non possa venir sostituito dall’educazione e dalla manipolazione.

Solitamente, tuttavia, i disturbi nel rapporto col cibo non sono per fortuna così drammatici, soprattutto nell’infanzia: sono semplicemente un modo che i bambini usano spesso per esprimere le loro difficoltà o i loro momenti di difficoltà, sui quali è forse più importante interrogarsi dal punto di vista psicologico piuttosto che ricorrere solo a ricostituenti o interventi medici.

! A. Miller, /! bambino inascoltato, Bollati Boringhieri, Torino 1989.

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4

La separazione dei genitori

Indubbiamente la separazione dei genitori è un dolore e un trauma per un bambino perché attacca la sicurezza stessa del suo nido; ragion per cui, quando e se è possibile, è meglio evitargli questa esperienza. Evitargliela, però, non significa stare insieme a tutti i costi per lui, facendogli pagare in altri modi un prezzo molto elevato, ma cercare di rimuovere le difficoltà all’in-

terno della coppia dei genitori, anche con un intervento di tipo psicologico là dove questo sia possibile, in modo da rendere la vita meno difficile a tutti, figli compresi.

«Sa che cosa mi succede ogni tanto? Che quando torno a casa da scuola in motorino, a un certo punto non ricordo

più la strada che devo prendere. Per fortuna non mi succede spesso, ma è terribile trovarsi in mezzo alla strada e

non sapere dove andare!» Renzo ha quindici anni e da circa dieci vive con due genitori ‘separati in casa” per amor suo, ma forse anche per la loro stessa difficoltà a prendere una decisione così dolorosa e definitiva. «I miei genitori non mi hanno voluto dare il dispiacere di farmi vivere con uno solo dei due, ma in realtà io mi sento come uno preso in mezzo a una cosa in cui non c’entra. Mi sento proprio di più!» E questo succede anche se Renzo ama molto i suoi genitori ed entrambi loro adorino lui, evitandogli le sfuriate e i litigi quotidiani che carat87

terizzano invece spesso l’atmosfera familiare delle coppie in Crisi. Quello che però non gli possono, giustamente, evitare è un legame affettivo tra di loro che ormai non esiste più e che li fa sentire emotivamente distanti l’uno dall’altra, per cui forse sarebbe più chiaro anche per Renzo se si separassero come coppia, vivendo ognuno per conto proprio, € mantenendo invece l’alleanza in quanto coppia di genitori perché questa esperienza, al contrario, non è destinata a concludersi, ma a continuare nel tempo. Di Renzo, anche nel corso degli anni, saranno loro e solo loro infatti la coppia di genitori, nel bene e nel male.

Quello della separazione dei genitori è quindi un tema molto complesso e delicato per i figli, che solleva inevitabilmente molti problemi e difficoltà. Tuttavia, in certi. ca-

si, è questa l’unica possibilità che resta per poter garantire a se stessi e ai propri figli un'atmosfera più serena in cui vivere. La favola che segue vorrebbe aiutare a capire la sofferenza di un bambino legata alla conflittualità della coppia dei genitori, che in questo caso emerge con un sintomo di balbuzie, così come potrebbe anche emergere con altri sintomi, se il bambino è abbastanza forte e vitale da poter esprimere e comunicare il suo malessere, seppure con un linguaggio da decifrare.

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Favola n. 4

Il capretto balbuziente

Il mio povero cuore sbigottito di non sapere G. UNGARETTI, Perché?

Nel bosco delle Sette Querce c’ era anche una parte che si arrampicava sulla montagna fin verso le cime più alte, lassù dove facevano il nido le aquile e dove vivevano gli aquilotti. Era lì che i capretti selvatici si incontravano per saltare da una rupe all’altra e per rincorrersi tutto il giorno, da quando si levava il sole fino a quando tramontava. Ogni tanto da lontano si sentiva il rumore dei loro salti e delle loro voci: era un belato allegro che rimbalzava sulle rocce e che l’eco ripeteva infinite volte, portandolo anche verso le altre parti del bosco. Così quando gli altri animali sentivano arrivare questa voce che ripeteva beh... beh... beh... sapevano che era l’ora in cui i capretti giocavano con la montagna per far arrivare il loro belato a tutfo il resto del bosco. Era diventata un'abitudine così frequente e regolare che ormai persino il vecchio orso che viveva da solo in un angolo del bosco aspettava ogni giorno il suo inizio per caricare la sveglia sull’ora giusta. Ma un giorno, insieme alla solita eco, se ne udì una 89

strana, che invece di fare beh... beh... beh..., faceva b... b... b... eh; b... b... b... eh; b... b... b... eh, oppure qualche altra volta faceva behbeh... behbeh... behbehbeh. Il vecchio orso che era molto amante delle abitudini e delle tradizioni fu proprio disturbato da questo fatto e aspettò con impazienza qualche giorno sperando che la cosa passasse. Invece più i giorni passavano e più la voce sembrava diventare diversa dalle altre e il vecchio orso era sempre più perplesso. Che cosa poteva essere successo lassù, sulle rocce sotto la montagna? Fu così che l’orso vinse la sua pigrizia e decise di arrampicarsi fin dove giocavano i capretti per vedere che cosa era successo. E fu pure così che, quando arrivò lassù, si rese conto che nel gruppo dei capretti ce n’ era uno che stava un po’ in disparte e che non giocava come tutti gli altri, sembrava un po’ imbronciato, come se qualche cosa lo rendesse scontento. Quando poi i capretti si avvicinarono a giocare con la roccia per farle ripetere le loro voci, ecco che il vecchio orso si accorse che era proprio lui, il capretto imbronciato, quello che belava in modo diverso dagli altri, ma sembrava farlo contro la sua volontà, come se non riuscisse a far diversamente. Anzi, più il capretto si sforzava di belare proprio come gli altri suoi compagni, più la sua voce usciva a scatti, come se non riuscisse a uscire tutta insieme in una volta sola e quando invece le capitava di farlo, ne era così sorpresa, che doveva ripeterlo ancora per una 0 due volte e allora invece di un b... b... b... eh! ne usciva un behbehbehbeh! Se poi gli altri lo guardavano incuriositi, il capretto si intestardiva a provare di nuovo, ma più provava e più la sua voce usciva a scatti, proprio come se non ce la facesse a uscire diversamente. Alla fine il povero capretto era lì, rosso e paonazzo dallo sforzo fatto, ma di risultati non se ne vedevano, se non quello che la sua voce balbettava sempre di più. Il vecchio orso si grattò la testa borbottando qualcosa 90

dentro di sé e tornò piano piano alla sua tana. La prima cosa, dunque, era cercare di capire che vita facesse il capretto e per questo non c’era altro da fare che andare a osservare che cosa succedeva ogni giorno. Fu così che la mattina seguente il vecchio orso rifece la passeggiata verso la casa dei capretti e quando trovò quella del piccolo balbuziente, salì su un albero e si mise tranquillo a riposare su un ramo per osservare e meditare. A un certo punto sentì un gran fracasso che usciva dalla grotta; era come se ci fossero due animali che litigavano, ma non per gioco, come fanno i cuccioli, ma per davvero, come fanno i grandi. Per un po’ di tempo il fracasso andò avanti, poi all'improvviso ci fu il silenzio e il vecchio orso vide Papà che usciva arrabbiatissimo dalla grotta, dando cornate a tutto quello che incontrava e allontanandosi nel bosco. Dopo un po’ si vide Mamma che usciva anche lei con un'aria tutta arrabbiata, continuando a sgridare i capretti che avevano cominciato a giocare. Caprettino balbuziente invece era lì, che faceva finta di niente, ma quando si avvicinò all'albero su cui stava il vecchio orso, il suo cuore batteva tanto forte che il suo «tutù... tutù... tutù...» arrivava fino al ramo più alto. Però da fuori non si capiva assolutamente niente, sembrava che il capretto fosse immerso in altri pensieri e fosse indifferente a quello che gli succedeva intorno. Il vecchio orso ricominciò a grattarsi la testa, pensieroso. Dunque, una cosa l’aveva scoperta, che quando il capretto si emozionava il suo cuore batteva a scatti come la sua lingua nel parlare. Ma perché il capretto si emozionava? Era forse pef via del gran fracasso che si era sentito nella sua grotta prima che Papà ne uscisse tutto infuriato? Il giorno dopo provò a ritornare sull’albero vicino alla grotta dei capretti ed ecco che la scena si ripeté tale e quale con un gran fracasso, poi il silenzio, e infine Papà che usciva arrabbiatissimo dando cornate a destra e a sinistra e subito dopo 91

Mamma che usciva anche lei tutta arrabbiata, sgridando i capretti, mentre Caprettino balbuziente si avvicinava con aria indifferente al vecchio albero e il suo cuore batteva all'impazzata, come se volesse uscire dal suo corpo. Il vecchio orso si grattò nuovamente la testa e tornò pian piano alla sua tana a farsi le sue faccende. Ora sapeva una cosa, che a Caprettino batteva il cuore all’ impazzata ogni volta che si emozionava o si spaventava, come dopo le liti fra Papà e Mamma. E così il vecchio orso per un’ intera settimana andò a osservare sul ramo dell’ albero quello che succedeva a caprettino e per tutta la settimana si ripeté la stessa scena con qualche piccola variante. Il vecchio orso aveva vissuto troppe primavere e aveva conosciuto troppi cuccioli nella sua vita per non sapere che tutte le volte che un papà e una mamma continuavano a litigare c’era una paura più grossa delle altre che entrava nella testa dei cuccioli ed era quella d'essere abbandonati. E questa paura era così grande che bisognava fare di tutto per nasconderla, perché se fosse uscita i poveri cuccioli avevano l'impressione che sarebbe stata così terribile che avrebbe divorato loro e anche il papà e la mamma. E così si sforzavano con tutto il loro impegno di tenerla a freno, ma questo sforzo era come una delle dighe fatte dai castori del bosco, che riuscivano ad arginare l’acqua, ma avevano una piccola falla da cui scendeva lo stesso un getto prepotente. E questo getto era sempre un qualcosa di un po’ strano che il cucciolo faceva per quanto si sforzasse di non farlo: o era la pipì a letto di notte, 0 era un tic agli occhi, o era il continuare a mangiare anche quando non aveva più fame, o anche il non voler mai mangiare, oppure erano le malattie strane che l’asino Sapiens chiamava “malattie di testa” e così via. Questa volta era la voce del piccolo capretto che lasciava indovinare che battaglia disperata ci fosse nella sua testa, mentre lui faceva finta di niente e andava a giocare con gli altri cuccioli. 92

E così l’orso, che era vecchio, ma ancora non abbastanza per ereditare il diritto di trasmettere le storie ai cuccioli, andò a parlarne con il suo amico Sapiens. Il vecchio asino e l’orso ne discussero un po’ ; di aspettare che la situazione migliorasse da sola non se la sentivano perché, anche se era possibile, non era affatto garantito che questo succedesse, mentre era sicuro che ci fosse la tempesta nel cuore del capretto. Forse nel frattempo si poteva anche parlare a Papà e Mamma per vedere se anche loro potevano collaborare. Fu così che una mattina l’asino e l’orso arrivarono alla roccia dei capretti e andarono a parlare con Papà, dopo che questi fu uscito da casa, furioso come al solito. Prima aspettarono che gli passasse un po’ la rabbia e poi gli si avvicinarono e a poco a poco cominciarono a parlare e siccome l'asino Sapiens l'aveva curato tante volte per il brutto mal di stomaco che lo tormentava e il vecchio orso l’aveva fatto giocare quando era piccolo, Papà li ascoltò con molta attenzione. «Anch'io mi sono accorto che il piccolo balbetta da un po’ di tempo a questa parte» disse infine. «Ma pensavo che ci fosse qualcosa di malato nella sua lingua, anzi, volevo proprio portarlo da te uno di questi giorni, Sapiens» s0ggiunse preoccupato, perché a modo suo ai suoi cuccioli voleva bene, anche se spesso non riusciva a capire che cosa passasse per la loro testa. E così a poco a poco i tre animali cominciarono a parlare e il povero Papà tirò fuori tutte le preoccupazioni che aveva in quel periodo e che erano proprio tante, cosicché alla fine Sapiens gli disse: «Vedi, Romualdo» era questo il suo vero nome, che conoscevand solo gli animali del bosco, non gli uomini «tu pensi che sia meglio tenere tutte le preoccupazioni dentro di te per non spaventare tua moglie e i tuoi figli; ma loro si spaventano molto di più perché tu sei sempre arrabbiato e pensano che la colpa sia loro. Se tu dici a tua moglie che sei preoccupato perché il pascolo sta finendo qui e hai paura di non riu93

scire più a sfamare i cuccioli, lei lo capirà e ti aiuterà a cercarne uno nuovo e anche i cuccioli lo potranno fare perché si renderanno conto che è vero che il pascolo vecchio

sta finendo e bisogna cercarne un altro. Ma se tu non dici niente, loro si chiederanno perché hai quell’aria così preoccupata e arrabbiata, crederanno che la colpa sia loro e diventeranno sempre più scontenti». Mentre l'asino parlava, Papà si vede davanti la scena che Sapiens descriveva, come se fosse stato un film e cominciò ad accorgersi di tanti piccoli particolari che gli sfuggivano quando era così arrabbiato e preoccupato che pensava soltanto a quello che c’era nella sua testa, dimenticando che anche in quella degli altri potessero esserci dei pensieri che a loro non piacevano proprio, tanto più se erano piccoli e i pensieri grandi. Ora c'erano due sensazioni che si alternavano nella sua testa: una era un po’ di rabbia perché lui non s’ era mai accorto di queste cose e c'erano voluti il vecchio asino e l’orso perché riuscisse a vederle, mentre l’altra era

di sollievo perché finalmente cominciava a capire, come se gli fosse caduto un gran peso che portava sulle spalle. Non solo, ma cominciò a sentirsi molto più libero e leggero di prima e a poco a poco questo secondo pensiero, che era molto più piacevole del primo, finì per prevalere e persino il suo mal di stomaco migliorò un poco. Fu così che quella sera, quando tornò a casa, invece di fare il broncio e arrabbiarsi, cominciò a parlare con Mamma e alla fine si accorsero tutti exdue con molto stupore che era da tanto tempo che non si parlavano più davvero, cioè ascoltando ognuno quello che l’altro diceva, senza pensare di saperlo già in partenza. E così per un po’ di giorni invece di continuare a litigare Papà e Mamma continuarono a parlare e a dirsi tutte le cose che non erano mai riusciti a dirsi prima da un po’ di tempo a questa parte e alla fine decisero di andare a discutere un po’ anche con Civetta Centenaria, che era una loro vecchia amica. 94

Quando ognuno dei due ebbe finito di parlare, la vecchia civetta tirò fuori dal suo cassetto un librone pieno di numeri, lo sfogliò per un bel po’ di tempo, fermandosi a pensare ogni tanto e poi disse: «Quello che mi sembra abbastanza probabile è che se voi continuate a litigare i vostri cuccioli ne soffriranno moltissimo, fino a sembrare malati di qualche cosa o fino ad ammalarsi veramente. In questo caso l’unica cura è che voi smettiate di litigare, ma non per finta, perché i cuccioli se ne accorgono lo stesso, ma per davvero. Altrimenti potreste fare come hanno fatto tanti altri e cercare due grotte diverse in cui vivere, insieme ai cuccioli che vorranno stare con voi. Il problema non è darsi le colpe, perché ognuno di noi fa quel che può e a volte anche di più, ma capire che cosa succede e che cosa si può fare». Papà e Mamma continuavano ad ascoltare in silenzio. Che fosse difficile capire bene le cose se n'erano accorti anche loro, visto che c’era voluto l’aiuto dei vecchi per

cominciare a rendersene conto. Ma che Caprettino balbettasse anche per quello che sentiva dentro di sé durante

i loro litigi era una cosa proprio difficile da riconoscere e accettare. Però il ragionamento di Civetta Centenaria non faceva una grinza, questo lo sapevano anche loro, e d' altra parte avevano visto con quanta cura aveva sfogliato il librone per cercare di capire bene anche lei, prima di parlare. E fu così che Papà e Mamma decisero di fare un esperimento e di vivere per un po’ in due grotte diverse, ma i cuccioli erano liberi di stare con tutti e due, se volevano, anche se avevano deciso che la loro casa era la vec-

chia grotta dove avevano sempre abitato. » All’inizio sembrò un gran disastro perché Caprettino diventò ancora più balbuziente e la sua voce tremava per tutto il bosco quando l’eco la faceva rimbalzare di roccia in roccia. Poi, però, a poco a poco, i capretti si resero conto che il Papà veniva sempre a trovarli tutti i giorni e che questa volta non litigava più con Mamma, anzi era 95

quasi gentile con lei come non era mai stato prima e anche lei era meno arrabbiata. Fu in una serata di tarda estate, verso il tramonto del sole che faceva allungare tutte le ombre sul terreno, che il vecchio orso, sfaccendando in casa sua, sentì arrivare il belato dei capretti e, come al solito, caricò la sveglia sull’ora giusta. Poi però cominciò a grattarsi la testa, perplesso. L'ora era giusta, le ombre erano esatte, la luce era proprio quella del sole che tramontava, eppure c’ era qualcosa di strano in quella situazione. Ascoltò attentamente e finalmente si accorse di che cosa ci fosse di strano: il belato dei capretti era tornato normale, come prima che Caprettino diventasse balbuziente. Il vecchio orso sorrise soddisfatto. C'era voluta la buona volontà di tanti, di Sapiens, di

Civetta Centenaria, di Papà e Mamma, ma finalmente il piccolo capretto non balbettava più. Adesso belava, a volte tranquillo e a volte arrabbiato, proprio come tutti gli altri, giocando con l’eco che trasportava le loro voci e le faceva rimbalzare di roccia in roccia, nel tepore della luce pomeridiana, mentre il sole scherzava sorridente fra le ombre e le luci del bosco, come ha sempre fatto ogni giorno, amico certo e fedele, con questa vecchia terra che lo corteggia nello spazio da tanti e tanti milioni d'anni.

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Qualche riflessione sulla favola: quando il conflitto entra nel bambino

«Deve essere difficile fare il genitore! Certo però che è ben difficile anche fare il figlio!» UN ADOLESCENTE DI 15 ANNI IN CRISI.

Il sintomo intorno a cui lavora questa favola è un problema di balbuzie legato, in questo caso specifico, alla conflittualità della coppia dei genitori. E questo soltanto uno dei tanti modi in cui si può manifestare l’aggressività repressa di un bambino quando, per un qualsiasi motivo, sente minacciato il suo mondo interno. Il cucciolo della favola era preso tra la lacerazione di vivere con due genitori che non andavano d’accordo e la sua aggressività nei loro confronti per paura che l’abbandonassero. I continui litigi fra genitori possono rappresentare infatti per un bambino un attacco alla sua stessa identità; proprio perché lui si porta dentro anche le loro due storie, è come se avesse due parti di sé in lotta fra di loro e anche quando si schiera con una delle due il prezzo che deve pagare è il sentirsi in colpa per aver tradito l’altra. Quello di tradire un genitore è un prezzo però troppo alto da pagare per un bambino, che cercherà quindi di far di tutto per evitarlo, tanto la

cosa gli è insopportabile. L’aggressività che inevitabilmente prova nel sentirsi preso dentro questo conflitto potrà allora trovare un canale d’espressione, soprattutto se si tratta di un bambino forte e vitale che riesce a esprimere e a comunicare la sua sofferenza, seppure sotto forma di sintomo. 97

Nel caso della favola si trattava del balbettare, cosa che

può essere frequente nei primi anni di vita, quando l’uso del linguaggio segue ancora la strada del tentativo e dell’errore, mentre negli anni successivi può indicare invece, in genere, la presenza di qualche difficoltà nel mon-

do interno del bambino, che in questo caso specifico aveva anche a che fare con la conflittualità fra i genitori. Quando, dopo aver provato tutte le strade possibili, una coppia non riesce più a trovare un accordo, una buona separazione dei genitori (in cui i figli non siano gestiti come proprio oggetto di possesso contro l’ex-partner) potrebbe essere meno disturbante quotidianamente per un bambino dei continui litigi. Anche qui vale l’osservazione comunemente accettata che il disagio psicologico sembra nascere spesso molto più frequentemente nei rapporti quotidiani disturbati che da un grande trauma o dolore. In questo caso, dice Winnicott:!

Si può dire che vive dentro di lui (il bambino) l’immagine dei genitori che litigano e ne segue che una certa quantità d’energia è impiegata per padroneggiare la cattiva relazione interiorizzata. Clinicamente il bambino sembrerà stanco, depresso, o malato fisicamente. In certi momenti, la

cattiva relazione interiorizzata prenderà il sopravvento e il bambino si comporterà come se fosse “posseduto” dai genitori che litigano. Ci apparirà aggressivo in maniera compulsiva, spiacevole, irragionevole, allucinatoria. Secondo un altro processo, il bambino che ha interiorizzato dei genitori in conflitto farà nascere periodicamente dei conflitti in mezzo alle persone che lo circondano, utilizzando allora la cattiva realtà esterna come una proiezione di ciò che è cattivo in lui.

! D. Winnicott, Dalla pediatria alla psicoanalisi, Giunti Martinelli, FirenZe 19918 98

Proviamo ad ascoltare una testimonianza su questa esperienza, da uno studio sulle separazioni:? Quando ero una bambina e, ancor di più, quando fre-

quentavo le scuole medie, avrei tanto voluto che i miei genitori si separassero, ma mia madre ci ripeteva sempre che lei sarebbe rimasta con mio padre per amore di noi figli finché mio fratello più piccolo non avesse compiuto diciotto anni. Così ha fatto e mi ha rovinato doppiamente la vita. Non separandosi, infatti, mi ha privato della spensieratezza dell’infanzia e mi ha fatto invecchiare prima del tempo. Toccava sempre a me proteggere i miei fratelli, mediare tra i miei genitori... Io non osavo invitare le mie compagne a casa a fare i compiti o a giocare perché l’atmosfera era sempre tesa; se mamma e papà non discutevano si tenevano il muso, e io tremavo sempre all’idea che scoppiasse un nuovo litigio. Ho supplicato la mamma di separarsi visto che non amava più il papà, ma lei sosteneva che una madre deve restare col marito fino a quando i figli sono grandi, e mi ripeteva che quando Alessandro avesse compiuto diciotto anni se ne sarebbe andata. Nessuno le credeva. Eravamo tutti inquieti e infelici. I miei fratelli andavano male a scuola e uno di loro frequentava compagnie balorde. A diciassette anni mi sono innamorata di Guido e sono andata a vivere con lui. In seguito ho scoperto che era un tossicodipendente, e, per salvarlo, è andata a finire che mi sono fatta anch’io. Per fortuna ho incontrato un volontario che mi ha aiutato a entrare in comunità. Ho ripreso a studiare e a ventidue anni mi sono sposata. Mentre aspettavo il primo figlio, mio fratello minore ha compiuto diciotto anni e mia madre, sorprendendo tutti, ha chiesto la separa*

zione e ha cacciato mio padre da casa. Così mi sono ritrovata a gestire un padre depresso e angosciato e dei fratelli sconvolti proprio quando sarei dovuta stare tranquilla ad aspettare la nascita di mio figlio. 2 D. Francescato, Figli sereni di amori smarriti, Mondadori, Milano 1994.

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Penso che i miei genitori mi abbiano fatto passare un’infanzia orribile, non separandosi, e mi abbiano rovi-

nato i primi anni dell’età adulta separandosi quando ormai tanto valeva che restassero insieme. Adesso che sono passati quattro anni, devo dire che mia madre sta meglio, la-

vora, viaggia. Chi sta peggio è mio padre; non si è più ripreso e così mi tocca stargli vicino, dargli una mano, visto

che sua moglie si rifiuta di aiutarlo. In terapia ho imparato a sentirmi un po’ meno responsabile di quello che succede ai miei genitori e a occuparmi di più della mia vita, ma provo ancora molto rancore e tanto rimpianto se penso a me bambina o ragazzina, al senso di impotenza e di rabbia che provavo allora. Io amavo sia babbo sia mamma e pensavo che se avessi aiutato ciascuno dei due a vedere il lato buono dell’altro, forse la nostra sarebbe potuta essere una famiglia serena. Più mi sforzavo, più i miei tentativi fallivano, più mi sentivo im-

potente. Una bambina non dovrebbe mai vivere in una situazione così, l’ho detto a mio marito. Spero che a noi non succeda: se però noi non dovessimo andare più d’accordo,

senz'altro sceglierei la separazione. Mai e poi mai vorrei che mio figlio si trovasse in una situazione simile a quella che ho vissuto io.

Credo che questa testimonianza possa proprio aiutare a capire il prezzo che un bambino deve pagare in certe circostanze. Un’altra riflessione che vorrei però fare sulla separazione e che mi viene da una lunga esperienza d’insegnamento con adolescenti, riguarda gli accordi che vengono presi per i figli. Mi sembra di aver notato nel corso degli anni e in un alto numero di adolescenti (sicuramente maggiore di quelli che si incontrano in una terapia) che se una separazione è chiara e corretta in genere i ragazzi reagiscono bene, indubbiamente meglio che ai litigi quotidiani. Ricordo con simpatia un ragazzo molto allegro e sereno che aveva un ottimo rapporto con entrambi i genitori e con i loro nuovi partner e che quando c’erano i consigli di classe allargati ai 100

genitori chiedeva sempre sorridendo: «Allora me li posso portare tutti e quattro?». E il bello è che venivano davvero spesso tutti e quattro, con un’atmosfera molto tranquilla e rilassata tra di loro, come tra loro stessi e il ragazzo. Quella che invece mi sembra di aver notato spesso come fonte di insicurezza e di difficoltà per i ragazzi, anche

in separazioni che per il resto funzionano bene, è quando i genitori sono così presenti che per paura di far sentire il figlio abbandonato da uno dei due finiscono per dividerlo equamente tra di loro nel tempo e nello spazio. Una giusta attenzione per il figlio, quando è esasperata a questo estremo, può correre il rischio di farlo sentire come un pacco postale, sempre in movimento da una casa all’altra, una

settimana qui e una là, un mese qui e uno là, a volte proprio nel momento dell’adolescenza, quando il suo bisogno è invece quello di stare chiuso nel suo angolo, con la SUA musica, i SUOI manifesti, le SUE cose e così via.

«Non ce la faccio proprio più con questi avanti e indietro, una settimana qui e una là! Vorrei avere un posto unico in cui stare!» diceva un giorno con tristezza il quindicenne della frase riportata all’inizio. «Ma tu dove ti senti più a tuo agio?» «In casa di mia madre, dove ho tutte le mie cose!»

«E allora perché non lo dici a tuo padre, così magari trovate insieme un’altra soluzione?» «No, no, a mio padre no. Non posso dargli questo dispiacere. Lo farebbe soffrire troppo!» Quante volte un ragazzo soffre per non far soffrire i genitori?

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5

La morte di un genitore

Si tratta certamente di una delle condizioni più dolorose per un bambino, tanto più quando è molto piccolo. Bowlby colloca sotto gli undici anni la fascia più esposta al rischio psicologico per questo evento (soprattutto nel caso del genitore di riferimento) perché è questa l’età in cui la maggior parte delle sicurezze di un bambino è ancora rappresentata dalla presenza dei genitori. Tuttavia, anche se in modo forse diverso, questo rischio

prosegue per tutta l’età evolutiva, perché mina proprio alla base la sicurezza necessaria al bambino e al ragazzo per

crescere. L’atteggiamento che l’ambiente intorno avrà quindi nei confronti di un bambino che perde uno dei genitori è perciò della massima importanza, soprattutto per aiutarlo a esprimere e a elaborare anche la rabbia che il bambino inevitabilmente proverà nel sentirsi abbandonato, evitan-

do che possa rivolgere l’aggressività verso di sé:! È stata osservata inoltre fin dai 13 mesi un’inversione dell’aggressività, che consiste da parte del bambino nel ! P. Fenagy e altri in M. Ammaniti, D. Stern, Attaccamento e psicoanalisi, Laterza, Bari1992. 103

ferire se stesso invece della madre. Spitz (1965) ha osser-

vato atti autolesionistici tra gli orfani fin dagli otto mesi e le osservazioni di Fraiberg confermano questi comportamenti difensivi tesi ad affrontare l’aggressività stimolata dalla frustrazione nel secondo anno...

Favola n. 5

La tartarughina che non voleva più uscire dal guscio

Lasciatemi così come una cosa posata in un

angolo e dimenticata. G. UNGARETTI, Natale

Quando nel bosco delle Sette Querce arrivava la pioggia, tutti gli animali si rifugiavano nelle loro tane ad aspettare che finisse, guardando l’acqua che scendeva dal cielo, si posava sulle foglie e poi scivolava sul terreno per dar da bere alle radici delle piante. Quando poi la pioggia cessava, tutto il bosco faceva festa e usciva ad ammirare il lucido delle foglie e dei sassi che brillavano al sole. Fu così che un giorno, dopo una pioggia, alcuni cuccioli del bosco se ne andavano a spasso in mezzo ai cespugli e facevano a gara per trovare il sasso più bello e brillante. Ma mentre discutevano per decidere quale fosse il più splendente ecco che si sentì una voce dietro a un cespuglio che diceva: «Il mio è il più bello di tutti, ha tante piccole macchie sopra». Gli altri cuccioli si avvicinarono e videro questa piccola pietra che sporgeva dalla terra, ma si resero subito conto che era un po’ strana. Provarono a toccarla col muso ed ecco che la pietra fece un piccolo balzo, piccolissi105

mo, poi tornò ferma come prima. Riprovarono con le zampette e anche stavolta ci fu un balzo quasi impercettibile, poi di nuovo il silenzio come prima. Allora, incuriositi, i cuccioli andarono a chiamare Papà scoiattolo che abitava da quelle parti e lo portarono sul posto. «Siete proprio dei cuccioli che devono ancora vedere tante cose» disse Papà scoiattolo con l’aria un po’ divertita. «Questa non è una pietra, è una piccola tartaruga, ma è proprio molto, molto piccola. Chissà dov’è la sua mamma, provate a cercarla!» E i cuccioli si sparpagliarono per il bosco, ma della mamma tartaruga non trovarono nessuna traccia. Era proprio sparita, non c’era più, era come se la piccola tartaruga fosse comparsa da sola, dal nulla e per quante ricerche potessero fare anche gli adulti, dimamma tartaruga non si trovò traccia. «Ma perché di questa tartarughina non si vedono né la testa, né le zampe?» chiese un piccolo. «Forse l’avete spaventata e si è nascosta bene nel suo guscio, ma aspettate un po’ e vedrete che uscirà.» E invece, aspetta e aspetta, dal guscio non uscì proprio niente e i cuccioli erano sempre più incuriositi. Fu così che fecero un carrettino di foglie e di frasche, ci misero sopra la tartaruga che era piccolissima e lo tirarono fino allo spiazzo delle Sette Querce. Quando finalmente questo strano corteo arrivò, si avvicinarono tutti incuriositi, ma la tartaruga non accennava a mettere fuori la testa dal guscio; ormai aveva deciso di fare il sasso e sasso continuava a essere.

«Vieni a vedere che cosa abbiamo trovato, Leone Criniera d'Oro» dissero i cuccioli, e il vecchio leone si avvicinò a vedere. «Perché non esce dal suo guscio?» insistettero ipiccoli. «Vediamo un po’» rifletté pensieroso il leone. «Che cosa potrebbe fare la tartarughina se mettesse la testa fuori dal guscio?» «Potrebbe fare tantissime cose» ribatterono i cuccioli sempre più stupiti. «Potrebbe camminare, andare in giro 106

per il bosco, cercarsi da mangiare, dei compagni con cui giocare e tante altre cose ancora.» «Eh, già, è proprio così. Allora forse questa tartarughina in questo momento non ha voglia né di camminare, né di andare in giro per il bosco, né di cercarsi da mangiare o di giocare.» «Ma se un cucciolo non mangia, muore» disse spaventato un piccolo ghiro a cui la madre doveva sempre raccontare le storie per farlo mangiare. «Ma allora la tartarughina morrà? » chiese con gli occhi sgranati un passero che si dondolava su un ramo. «Non lo sappiamo» rispose il leone. «Forse la tartarughina vuole solo fare come se non fosse viva.» «Ma perché? » chiesero tre o quattro vocine tutte insieme. «Questo lo dobbiamo scoprire noi» rispose il leone. «A te, per esempio, anatroccolo Geronimo, quand’ è che non piacerebbe essere vivo?» «Mah...» ribatté l’anatroccolo colto alla sprovvista «non so, perché a me spiacerebbe non fare più tutte le cose che so fare, però, forse, la cosa che mi spiacerebbe di più sarebbe che morissero la mia mamma o il mio papà e allora forse per un po’ mi passerebbe la voglia di giocare.» «Io invece avrei proprio bisogno di giocare tutto il giorno, continuamente, per non pensarci» disse una pic-

cola puzzola grattandosi la testa. «A me passerebbe la voglia di giocare se nessuno mi volesse più bene» continuò un riccio appallottolandosi tutto per difendersi con le sue spine. «E a me se avessi sempre qualcuno che mi comandasse di fare questo 0 quello, continuamente, come se io foSsi un orsetto di peluche e non uno vero» disse con un sospiro un piccolo orso che ogni tanto era un po’ in crisi. «A me passerebbe la voglia di giocare se fossi solo al mondo» sospirò un pettirosso che si dondolava su un giunco. «Ma allora forse è per questo che la tartarughina non vuole più mettere la testa fuori dal guscio!» sbottò un cer107

biatto tutto soddisfatto di aver forse capito il perché. «Vuol dire che si sente proprio sola al mondo!» «Un momento» intervenne Lupetto «ma la tartarughina ha perduto davvero la sua mamma, se nessuno di noi è riuscito a trovarla. Forse è per questo che non vuole più né camminare, né giocare.» «Anche questo è molto probabile» intervenne Criniera d'Oro «che cosa può essere successo alla mamma della tartarughina? » «Non lo sappiamo; forse è partita.» «O forse è stata catturata.» «O forse è morta», sospirò Orsetto, in mezzo a tutte le altre voci. «Dev'’ essere sicuramente morta, oppure è stata catturata, perché altrimenti una mamma non abbandona il proprio cucciolo» ribatté un altro. «Però noi vogliamo che Tartarughina viva e allora potremmo fare un bel girotondo intorno alei e metterci a cantare tutti insieme per svegliarla.» «Oppure potremmo portarla in una delle nostre tane per farla sentire al sicuro.» «Però potremmo anche farle una tana tutta per sé, così si sentirebbe più sicura che nella tana di un altro.» «Sì, però dovremmo fargliela vicino a una delle nostre tane, altrimenti si sentirebbe ancora sola.» «Oppure potremmo far finta che la sua mamma sia ancora viva e che debba tornare da un momento all’ altro» insistette un altro cucciolo a cui non piaceva proprio l’idea che una persona non tornasse più. «Tutte queste cose si potrebbero fare tranquillamente» ribatté Leone Criniera d'Oro. «Il problema è ora di scegliere quelle che possono aiutare di più Tartarughina a mettere la testa fuori dal guscio e a tornare a camminare, a giocare e a mangiare. Cominciamo dall’ ultima proposta: se le dicessimo che la sua mamma non è morta, ma che tornerà da un momento all’altro, voi pensate che questo la aiuterà? » «Certamente!» ribatté convinto il piccolo daino che aveva fatto la proposta, sorpresissimo del fatto che a qualcuno potesse venire in mente un pensiero diverso dal suo. 108

«Ma che cosa succederà quando Tartarughina passerà un giorno dopo l’altro ad aspettare una mamma che non tornerà più?» chiese Orsetto che, quando era più piccolo, aveva aspettato ancora per tanto tempo il suo nonno dopo che era morto. «Secondo me» ribatté una formica che aveva ascoltato attentamente «sarà ancora più infelice di prima perché penserà che gli altri le hanno detto una bugia e che quindi non ci si può proprio più fidare di nessuno e così si sentirà ancora più disperata e sola al mondo.» «E vero» soggiunse un merlo saltellando sull’ erba fresca. «Secondo me la soluzione non è quella di dire a Tartarughina che la sua mamma non è morta, ma dirle esattamente come stanno le cose.» «Ma tu pensi che non si dispererà se glielo diciamo?» insistette il piccolo daino che non riusciva a darsi pace su questo punto.

«Certo che si dispererà» intervenne Criniera d'Oro «ma è giusto che un cucciolo pianga e si disperi se resta solo perché la sua mamma non c’èpiù. Quello che non è giusto è che non voglia più vivere, perché un cucciolo ha tutta una vita davanti a sé per diventare grande e per trasmettere ad altri cuccioli la vita che la sua mamma ha trasmesso a lui.» Adesso le cose erano un po’ più chiare di prima. L'idea di fare come la piccola tartaruga che si era ritirata nel suo guscio per non fare più tutte le cose che a loro piacevano tanto, ai cuccioli del bosco proprio non andava. Che senso aveva essere vivi se uno non poteva né camminare, négiocare, né mangiare, perché qualcosa nella sua testa gli impediva di aver voglia di farlo? Fu così che i cuccioli decisero che non si sarebbero dati pace finché la tartarughina non avesse messo fuori dal guscio la testa e le zampe. Il parere che prevalse fu quello di tenerla alla Scuola dello Spiazzo, che era il posto giusto per imparare a uscire dal proprio guscio. 109

E così, per un’altra settimana, la tartarughina rimase lì, giorno e notte. Di giorno sentiva tanto chiasso e molta allegria intorno a lei, poi le arrivavano da lontano le voci degli anziani che raccontavano le storie del Bosco delle Sette Querce nei tempi passati e, anche se faceva finta di non sentirle, quelle parole a poco a poco si fermavano nella sua testa. Quando poi tramontava il sole e calava la notte, la tartarughina si accorse che veniva tutta ricoper-

ta con un bel tetto di frasche che la proteggeva e che ogni sera c'erano un adulto e un cucciolo che si fermavano a dormire vicino a lei, in una tana provvisoria, per farle compagnia. E dopo che questo avvenne per una settimana intera, ecco che un bel giorno si rese conto che le sue zampette avevano voglia di uscire e che la sua testa aveva nostalgia dell’aria fresca del bosco. Fu il piccolo daino che per primo si accorse che le zampette di Tartarughina si muovevano, e corse subito a chiamare tutti gli altri. Quando i cuccioli arrivarono, lei era lì con le zampe e la testa che le spuntavano timidamente dal guscio, pronte a tornare dentro. Invece i cuccioli erano così felici che le fecero tantissime feste, perché questa era anche una loro vittoria e la piccola tartarughina scoprì di essere di nuovo contenta come da molto tempo non le succedeva più. Quella sera la lezione alla Scuola dello Spiazzo fu dedicata a Tartarughina che aveva deciso di tornare a camminare e a giocare. Cuccioli e anziani si diedero da fare e le prepararono una bella tana proprio vicino alla Scuola dello Spiazzo, non lontano da quella di Criniera d'Oro,

cosicché lei sapeva di avere un amico vicino per i momenti in cui si fosse sentita sola o piena di paura. E così a poco a poco anche il nuovo piccolo entrò a far parte della Scuola e quando furono passati tre inverni, tre primavere, tre estati e tre autunni, anche per Tartarughina si celebrò la festa d'addio allo Spiazzo perché ormai era diventata grande e aveva tanti amici e tante cose da fare e da costruire nel bosco. 110

Qualche riflessione sulla favola: alutare a vivere il proprio dolore

«Mamma,

tu non devi morire mai! Altri-

menti muoio anch'io, perché io senza di te

non posso vivere!» FABIO, 7 anni, alla mamma

A volte noi adulti crediamo di proteggere un bambino senza renderci conto che in realtà gli complichiamo di più la vita. Una delle situazioni in cui questo può succedere è, per esempio, il caso della morte di un genitore. Si tratta sicuramente di un trauma unico nella vita di un bambino, un avvenimento che giustamente lo farà sentire

solo, impaurito, disperato e abbandonato perché gli viene a mancare una delle due persone in cui lui ripone, e a ragione, la fiducia massima. Ora, purtroppo, nessuno può evitare a un bambino che la incontra sulla propria strada, la difficoltà e la realtà di questa prova. Quello che si può evitargli, però, è di aggiungere, senza rendercene conto, ulteriori difficoltà a

questa che è già di per sé una prova difficilissima. Paradossalmente, voler evitare a un bambino il dolore, non parlandogli di questo fatto, non facendolo partecipare al lutto generale, evitandogli le occasioni in cui possa piangere e disperarsi e ribellarsi per una cosa così ingiusta, può corrispondere al portargli via anche una seconda cosa, l’unica che gli resti in quel momento: il suo dolore, la tell

stimonianza ultima della presenza della mamma o del papà proprio nel dolore e nel vuoto e nella disperazione della loro assenza, nelle emozioni che questa circostanza determinano in lui. Anche noi adulti abbiamo bisogno di vivere il nostro dolore, è un nostro diritto, nessuno può

portarcelo via. «Non so che cosa darei per poterti togliere questo dolore!» ha detto una volta un giovane uomo alla sua compagna che vedeva disperarsi per la morte della propria madre. «Ma io non voglio che tu me lo tolga!» ha risposto lei tra le lacrime. «È il Mio, è il mio dolore, è l’ultima cosa

che mi resti della mia mamma! Non voglio che mi si porti vial»

La giovane donna aveva davvero messo a fuoco quanto è importante poter vivere il proprio dolore. Ecco perché cercare di nascondere la verità e di non dirgli che cosa è successo può procurare al bambino un ulteriore trauma, oltre a quello della perdita del genitore ed è quello di sentire che non può più fidarsi degli adulti che lo circondano. È questo secondo trauma, il tradimento della fiducia, quello che invece gli si può evitare. La morte della mamma o del papà no, purtroppo, quella non gliela si può evitare, ma tradire la sua fiducia sì, questo sì che gli si può e gli si deve evitare. Altrimenti per lui sarebbe come perdere la mamma o il papà una seconda volta, se al mondo non gli resta più nessuno in assoluto di cui fidarsi.

E importante perciò rispettare e riconoscere il dolore di un bambino. Quando tentiamo di evitarglielo è forse a noi stessi che tentiamo di evitare il dolore che ci procura il veder soffrire un bambino, ma in questo modo priviamo sia lui che noi stessi di una cosa molto importante. Può essere invece utile aiutare un bambino

a curare,

giorno dopo giorno, questo suo dolore, curando qualcosa che vada bene a lui, portando dei fiori alla tomba del papà o dellamamma, se questo non lo disturba, piantando un albe-

ro e avendone cura, innaffiandolo e vedendolo crescere, re112

galandogli un cucciolo che gli faccia compagnia soprattutto quando si sentirà solo e così via. E soprattutto due cose si possono fare per lui: aiutarlo a trovare le parole per esprimere le sensazioni e le emozioni che prova e ascoltarlo per davvero quando parla, fino alla fine, senza interromperlo e senza aver paura dei silenzi che ci saranno. Ascoltare davvero un bambino è una cosa difficilissima, che in genere

non siamo abituati a fare e che quindi difficilmente sappiamo fare. Ascoltarlo come se fosse sempre la prima volta che lo vediamo, con la curiosità di voler capire chi è, che

cosa pensa, che cosa prova e senza la presunzione di sapere già in partenza che cosa dirà, come se si trattasse di un gio-

co di cui abbiamo già in mano noi le regole e la soluzione. Ascoltare davvero un bambino può invece aiutare anche noi adulti a vedere le cose anche da altri punti di vista e questa è sempre un’esperienza arricchente che a volte ci aiuta a trovare soluzioni nuove ai problemi. E poi ci sarà probabilmente qualcos’altro in cui aiutare un bambino nel caso della perdita di un genitore e saranno i suoi sensi di colpa. Proprio perché il compito del genitore è anche quello di fargli conoscere e interiorizzare le regole di appartenenza alla società (guai se non lo facesse perché gli renderebbe la vita sociale molto più difficile e quindi lo proteggerebbe di meno davanti alle future e inevitabili difficoltà della vita), ci saranno stati dei momenti di conflitto in cui il

bambino sarà stato arrabbiato col papà o con la mamma. Questa rabbia di solito gli suscita dei sensi di colpa ed è proprio col loro aiuto che il bambino comincia ad uscire dalla onnipotenza infantile (la fase in cui tutto il mondo è suo) e a poco a poco interiorizza il concetto della esistenza anche degli altri e delle regole di appartenenza al gruppo. Però nel momento in cui il genitore gli detta delle regole il bambino proverà inevitabilmente dell’aggressività nei suoi confronti, perché le regole limitano la sua onnipotenza infantile. 113

Ora, un’altra caratteristica infantile è proprio l’uso del

pensiero magico-onnipotente per cui il bambino nel momento in cui proverà aggressività nei confronti del genitore potrà anche essere convinto di fargli davvero del male attraverso questa sua aggressività. Da qui l’insorgere dei sensi di colpa che l’aiuteranno a poco a poco ad accettare le regole e a farle proprie. Tuttavia nel caso di una malattia, o peggio ancora, della morte di un genitore, questi sensi di colpa diventeranno difficilissimi da tollerare proprio perché il suo stesso funzionamento mentale attraverso il pensiero magico-onnipotente potrà far pensare al bambino di essere stato lui la causa della morte del genitore e questo pensiero gli è assolutamente intollerabile. Per poterlo capire può forse servire a noi adulti pensare a come noi stessi ci sentiamo spesso in colpa dopo la morte di una persona cara. Per quanto buono potesse essere il rapporto che ci legava a lui o lei, ci verranno inevitabilmente alla mente tutte le cose

che avremmo voluto e potuto fare e dire e tutte quelle che invece avremmo potuto evitare nei suoi confronti. È del tutto comprensibile e inevitabile, è uno dei prezzi che noi

adulti paghiamo nei confronti delle persone care che ci vengono a mancare, la sofferenza per tutto ciò che avremmo potuto fare o evitare di fare e che pensiamo che a loro sia dispiaciuto. Tuttavia per un bambino la cosa è ancora più dolorosa perché il suo funzionamento mentale magico-onnipotente lo porterà facilmente a credere non di aver fatto delle cose che hanno provocato sofferenza nel genitore, ma di aver fatto delle cose che l’hanno fatto morire (pensiero purtroppo rinforzato da frasi come “Tu mi farai morire!”?). La paura di aver fatto morire il papà o la mamma è un pensiero così intollerabile per un bambino che gli causerà il massimo della sofferenza. Ora, per fortuna, non tutti devono attraversarla (saranno probabilmente i bambini con un rapporto molto conflittuale col genitore a doverla pro114

vare di più), ma ogni bambino ricorda sicuramente qualcosa che lui ha fatto e che è dispiaciuto al papà o alla mamma e questo gli potrà innescare la paura di aver fatto qualcosa che possa aver contribuito a farli morire. L’atteggiamento quindi che l’ambiente intorno a lui assume nell’aiutare un bambino a tollerare il dolore per la perdita di un genitore è perciò, come nella favola, molto importante. Mai come in questo caso è forse utile cercare davvero di provare a vedere la realtà con i suoi occhi, per evitare di aggiungere dolore a dolore e ferita a ferita.

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Capitolo terzo Alle radici della rabbia

To, quando sono molto arrabbiata, mi sfogo litigando con mio fratello o con le mie amiche. SILVIA, 12 anni

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L’iperprotezione svalutativa

Mentre le favole precedenti facevano parte del gruppo che avevo scritto in passato, quelle che seguiranno ora, più ispirate alla fiaba classica e diverse nel tempo e come costruzione, si rifanno sia a dei bambini reali che alla storia infantile di tanti adulti incontrati in consultazioni psicologiche o in psicoterapia. Vorrebbero quindi aiutare a mettere a fuoco come in certe circostanze noi adulti possiamo entrare in atteggiamenti a volte consapevoli e voluti (perché crediamo di agire per il loro bene) e a volte inconsapevoli che in realtà a lunga scadenza si possono ritorcere contro di noi e i bambini a cui teniamo. Si tratta in genere di comportamenti davanti a determinate situazioni che abbiamo inconsapevolmente assorbito da piccoli e che fanno quindi parte della cultura familiare e sociale allargata di come ci si deve rapportare ai bambini. La stragrande maggioranza di questi atteggiamenti è in genere efficace (altrimenti noi stessi non saremmo sopravvissuti!), ma ce ne potranno essere inevitabilmente anche alcuni di scarsa attenzione ai bisogni psicologici dei bambini perché questo dato ha fatto parte della nostra organizzazione sociale e continua a farne parte, nonostante oggi possa sembrare il contrario. Sono invece proprio questi gli atteggiamenti che passando inconsapevolmente da una generazione all’altra come tanti anelli di una catena, perpetuano la trasmissione di qualche caratteristica del nostro funzionaLS

mento mentale che ci si ritorcerà inevitabilmente contro,

come l’ha fatto in passato con i nostri genitori e i nostri nonni prima di loro, seppure all’interno di storie diverse. Se riusciamo perciò a individuare questi atteggiamenti (che sono in genere parte di un tutto e non rappresentano di certo la totalità della relazione che è sempre molto più ricca e complessa) è forse possibile, anche se non facile di certo, spostare la relazione col bambino su piani più costruttivi per entrambi. Gli offriremo così anche il modello che lui a sua volta trasmetterà automaticamente nel tempo alle generazioni che seguiranno. Un buon segnale a cui fare attenzione per capire se un nostro atteggiamento aiuta o ostacola il processo di crescita di un bambino può essere la sua reazione.

Se sentiamo che il bambino è profondamente mortificato, arrabbiato, dispiaciuto (anche se non lo dimostra) vale forse la pena cercare di capire che cosa nella nostra relazione con lui gli può far male e ritorcersi contro entrambi. Proviamo, ad esempio, a pensare a una situazione, recente o lontana, in cui ci siamo sentiti svalutati. È una sensazione spiacevolissima che fa tanto più male quanto più gli altri sono importanti per noi. Sentirsi svalutati è un attentato all’autostima, che è invece il nostro motore di vita,

quello che ci permette di vivere e di operare nella realtà quotidiana. Eppure la svalutazione è uno strumento che usiamo spesso, consapevolmente o inconsapevolmente, nelle nostre interazioni quotidiane, soprattutto quando insegnamo delle cose ai giovani. Svalutando compiamo in genere almeno due operazioni: mortifichiamo l’altro mettendogli in crisi le sue risorse e il suo modo di fare le cose e possiamo trasmettere implicitamente il messaggio che il modo di farle è uno e solo uno, che, guarda caso, è in genere il nostro. Corriamo il rischio, quindi, di rinforzare un modo di pensare rigido, che non riesce a vedere soluzioni diverse ai problemi. Eppure l’uomo nel corso dei millenni ha trovato una varietà infi120

nita di soluzioni ai problemi pratici e quotidiani della vita, anche se oggi il tipo di realtà tecnologica in cui viviamo tende spesso a uniformare questo aspetto, con vantaggi e svantaggi, come tutte le cose della vita. Mi ha sempre colpito moltissimo vedere la grande varietà di strumenti quotidiani del vivere che si può ritrovare in quei veri e propri musei della storia della creatività domestica che sono le cucine e i loro utensili. Lo stesso problema viene risolto in un paese in un modo, in un altro in un altro ancora, altrove in modi ancora diversi. Eppure tutti fungono al loro scopo, che è quello di rispondere a un bisogno elementare e primordiale dell’uomo, quello di nutrirsi. Ma ogni gruppo e ogni cultura ha trovato le proprie modalità, radicate nella storia del paese che l’ha prodotta. Non a caso è solo oggi che, con i forti movimenti migratori in atto, ci confrontiamo con la difficoltà di far coesistere fra di loro culture che hanno valori e modalità di approccio alla realtà profondamente diversi. Pensare invece rigidamente che il modo di affrontare i problemi sia uno e solo uno, è perciò una modalità che non sembra facilitare la vita né a noi, né ai bambini o ai giovani che im-

parano da noi il funzionamento mentale. Perché non dobbiamo dimenticare che è questa una delle maggiori acquisizioni che un bambino fa nel suo rapporto con noi adulti, quella di imparare gli schemi e i modelli con cui pensare e relazionarsi agli altri. Ora, per tornare al nostro tema, la svalutazione può essere trasmessa in tanti modi, più o meno palesi, che vanno

dal dire «Non sai fare nulla!» con le parole, al dirlo silenziosamente con gli atti, rifacendo da capo quello che un altro ha fatto. «Eppure dobbiamo insegnare ai bambini!» dice a questo punto la nostra parte adulta ed è vero. Ma i bambini di solito imparano per imitazione dai nostri comportamenti, più che dalle nostre parole. Ecco perché val forse la pena di avere uno sguardo d’attenzione a come ci poniamo nei loro confronti. Uno dei modi più sottili e dif121

ficili da riconoscere con cui si può inconsapevolmente svalutare un bambino, pensando spesso invece di fare il suo bene, è quello di iperproteggerlo e di fare le cose non per lui, ma al suo posto. Questa favola tenta di dare le parole a uno dei meccanismi distruttivi che si possono venire a creare, nel corso de-

gli anni, in una relazione di questo tipo, che alla fine si ritorce inevitabilmente contro noi adulti e i bambini che ci sono cari.

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Favola n. 6

Il principino che distruggeva i castelli

Sono un uomo ferito. E me ne vorrei andare

e finalmente giungere, Pietà, dove si ascolta l’uomo che è solo con sé. G. UNGARETTI, La Pietà

C'era una volta, tanto e tanto tempo fa, un piccolo regno dove un giorno nacque una principessina così bella che le fu dato il nome di un fiore, anzi, della regina dei fiori, la Rosa. E man mano che il tempo passava, la principessa crebbe facendo i giochi di tutti gli altri bambini di quel regno, compreso quello di costruire i castelli di sabbia sulla riva del mare. Ma la prima volta che ci provò il suo castello cadde rovinosamente a terra, perché, come si sa, da che mondo è mondo tutti i castelli devono cadere tante volte prima di imparare a stare in piedi. Ma la principessa Rosa, che invece non lo sapeva, cominciò a pensare di non essere capace di farli e diede ragione al suo papà che le diceva sempre: «I castelli lasciali costruire ai maschi, non sono cose per le bambine!». E così a poco a poco si convinse di non essere né brava, né intelligente, né capace di costruire le cose come tutti gli altri bambini, visto che il suo castello non era neanche riuscito a stare in piedi. 128

E giorno dopo giorno questo pensiero cominciò ad accompagnarla e ogni volta che la paura di non essere capace si impadroniva di lei ecco che davvero la principessa Rosa non riusciva a fare i giochi che facevano gli altri, né ad imparare le stesse cose che imparavano loro e anche le sue mani cominciavano a tremare mentre provava a Costruire i castelli, cosicché questi alla fine cadevano rovi-

nosamente al suolo. E allora la principessa Rosa rinunciò a poco a poco a costruire i castelli e si disse: «Quando sarò grande, però, io troverò qualcuno che mi aiuterà a costruire dei bellissimi castelli, proprio col progetto che ho in mente io! E allora sì che mi sentirò come gli altri, anzi, persino più brava di loro!». E così il tempo passò, ifiori sbocciarono e appassirono tante volte sui prati, la neve cadde e si sciolse tante volte sui campi di grano degli uomini, l’acqua dei fiumi passò tante altre volte sotto i ponti, il vento continuò a modellare le sue statue di roccia e la principessa Rosa diventò grande e si sposò con un principe azzurro con la segreta speranza di poter finalmente avere qualcuno che l’ aiutasse a costruire il castello che lei aveva in mente, esattamente quello e non un altro. Ma quello che lei non sapeva era che il principe, invece, i castelli li sapeva, sì, costruire, ma secondo il progetto che aveva imparato lui quando era piccolo, che era un po’ diverso dal suo. E invece la principessa Rosa aveva in mente un progetto ben preciso di castello, esattamente quello che lei avrebbe voluto costruire quando era bambina, cosicché non le piacevano per niente i castelli che venivano costruiti secondo altri progetti, neanche quelli del principe QZZUrTO. E fu così che quando più tardi le nacque un principino a cui fu dato il nome di Castellano, la principessa Rosa si disse: «Lui sì che saprà costruire dei bellissimi castelli, proprio con lo stesso progetto che gli insegnerò io! A lui 124

non dovrà capitare di sentirsi incapace e poco intelligente e poco bravo come mi sentivo io quando giocavo con gli altri bambini!». E fu così che fece di tutto perché il suo bambino potesse crescere contento e felice e perché imparasse il suo progetto per costruire i castelli, senza sapere che invece si possono usare anche dei progetti diversi e che i castelli restano lo stesso in piedi. E così, man mano che i giorni passavano, anche il nostro principino, come tutti, cominciò a imparare a poco a poco a fare le cose e fu così che un bel giorno, vedendo che tutti costruivano dei castelli, decise di provare a costruirne uno anche lui, con la sabbia del giardino. Ma siccome era proprio la prima volta che ci provava, come sempre succede, il piccolo castello non resse e cascò precipitosamente giù. Allora il principino, che aveva proprio voglia di imparare, si mise pazientemente a costruirne un altro in un altro modo, ma anche questa volta il suo piccolo castello cadde rovinosamente al suolo. Alla terza volta che gli successe, il nostro principino scoppiò a piangere e pianse tutte le sue lacrime perché lui non sapeva che prima di saper costruire un castello bisogna provarci tante volte e vederlo cadere rovinosamente a terra altrettante volte. Ma la sua mamma, la principessa Rosa che ora era diventata regina e lo guardava affacciata alla finestra, sentì un gran dolore al cuore e si disse: «No, non è possibile che anche il castello che ha fatto il mio bambino debba cadere, mentre quelli che fanno gli altri stanno in piedi, esattamente come succedeva a me da piccola! Adesse vado giù io a farglielo!». E fu così che scese precipitosamente in giardino e gli costruì un bellissimo castello, proprio seguendo il modello che piaceva a lei e questa volta, per amore del suo bambino, ci riuscì davvero. Il principino lo guardò ammirato, batté le mani e disse: «La mia mamma sì che è bra125

va! Lei sì che sa costruire i castelli!» e la Regina si sentì felice perché aveva finalmente dimostrato che anche lei sapeva costruire i castelli, al contrario di quello che le succedeva da piccola, quando si sentiva incapace e frustrata, un vero fallimento. E fu così che ogni volta che il principino si metteva a costruire un castello, ecco che arrivava la sua mamma che gli diceva: «Tu sei ancora troppo piccolo, devi aspettare, non sai ancora costruire i castelli, aspetta che te ne costruisco uno io!» e gli costruiva un bellissimo castello. Andò a finire che, senza che nessuno se ne accorgesse, man mano che il tempo passava il principino rinunciò a costruire i castelli, innanzitutto perché c’era la sua mamma che li costruiva per lui, e poi perché, in ogni caso, belli come quelli che faceva lei, lui proprio non li avrebbe mai saputi fare. Ma siccome l’unica cosa che il principino aveva scoperto di saper fare da solo era quella di far cadere i castelli e siccome quando si è piccoli si ha proprio molto bisogno di essere sicuri di saper fare almeno una cosa da soli, proprio da soli, per capire chi si è, ecco che a poco a poco il principino cominciò a fare l’unica cosa che gli veniva spontanea di fare da solo, cioè quella di andare in giro per il suo mondo facendo cadere tutti i castelli che incontrava lungo la sua strada. E così il tempo passò, ifiori sbocciarono e appassirono tante volte sui prati, la neve cadde e si sciolse tante volte sui campi di grano degli uomini, l’acqua dei fiumi passò innumerevoli volte sotto i ponti e il principino crebbe e diventò grande, ma con un angolo segreto dentro di sé in cui era convinto che lui era uno che i castelli non li avrebbe mai saputi costruire, al massimo li poteva solo far crollare rovinosamente al suolo. Finché arrivò un giorno in cui il principe Castellano era così amareggiato e triste e arrabbiato per le colpe che

tutti gli davano e che lui stesso si dava dentro di sé per non sapere costruire i castelli, che alla fine decise di an-

darsene e di partire per un lungo viaggio, per imparare anche lui a costruire qualcosa nella vita. E fu così che il principe partì una mattina al levarsi del sole e lungo il suo viaggio, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, incontrò tante persone e cose nuove che lui non conosceva e che non aveva mai sperimentato. E in questo cammino attraversò con molta paura una foresta popolata di animali feroci, guadò con altrettanta fatica un fiume vorticoso che cercava di travolgerlo e portarlo con sé, attraversò un mare in tempesta dove rischiò più volte di naufragare ed ecco che alla fine si trovò spossato e stremato sulla cima di una collina dolce, illuminata dal sole. E lì, a poco a poco, il principe cominciò a costruire un muro, e poi un altro, e poi un altro ancora ed ecco che alla fine tutti i muri messi insieme formarono una costruzione che non solo era un castello vero e proprio, anche se non del tutto eccezionale, ma che restava anche in piedi. E allora il principe Castellano si disse tutto contento: «Ecco, in questo castello, quando sarà finito, io ci verrò a vivere con mia moglie e i miei figli!». Ma mentre si diceva questo, si rese improvvisamente conto che per la prima volta in vita sua lui aveva davvero costruito un castello e fu così sorpreso e anche così spaventato dall'idea di non sapere più chi era se non era neanche più uno che distruggeva i castelli e si sentì così schiacciato dal sentirsi improvvisamente diverso da come lui aveva pensato di essere e anche da tutte le responsabilità che si hanno quando si costruiscono i castelli, che si disse precipitosamente: «No, io no, non è possibile! Non può essere vero! Io sono uno che non sa costruire i castelli, li sa solo distruggere!».. E così, per paura che crollasse come tutti gli altri, decise di distruggere lui il suo castello, che pure stava in piedi ed era pure solido, anche se non proprio meraviglioso come quello degli altri e neanche costruito sul progetto che 127

lui aveva sempre avuto in mente. Ma mentre si accingeva a distruggerlo ecco che un pensiero nuovo gli attraversò la mente: «Ma questo castello l’ ho fatto proprio io, con le mie mani, dopo tanti tentativi. Non c’è nessun altro al mondo che l'abbia fatto al posto mio! E anche se non è così meraviglioso come quelli della mia mamma e di tutti gli altri, èpur sempre un buon castello che sta in piedi e forse un giorno ci potrò davvero venire a vivere con mia moglie e i miei figli!». E fu così che, a poco a poco, come qualche volta succede, anche il principe Castellano ebbe un castello in cui vivere, costruito proprio da lui, con le sue mani, intorno a un fuoco che riscaldava la sala centrale. E intorno a questo fuoco arrivarono col tempo i suoi figli e poi ifigli dei suoi figli e il regalo più grande che ci trovarono fu quello di scoprire che ognuno nella vita, prima 0 poi, può imparare a costruire il proprio castello e a viverci avendone cura, come un buon padrone e non come ospite, anche se a volte questa può sembrare un’ impresa impossibile. E da allora anche questo fu scritto nel Libro della Vita che si tramandò in quel castello da una generazione all’altra come eredità preziosa, conservata in uno scrigno antico nella sala del camino centrale.

128

Qualche riflessione sulla favola:

l’iperprotezione svalutativa e la trasmissione di vecchie ferite

«Mamma tu non mi devi aiutare così! Altrimenti non imparerò mai da solo!» GIORGIO, 6 anni, alla mamma

Anche questo è un tema non facile da trattare con i genitori perché non è così evidente il meccanismo relazionale che si genera e che poi il figlio può interiorizzare e fare suo, come tutti i meccanismi relazionali. Quello che colpisce l’osservatore non coinvolto (nel

momento in cui siamo coinvolti ci possiamo cadere invece tutti) è il paradosso che si viene a creare. Un genitore che ha sofferto per essersi sentito svalutato e inadeguato può paradossalmente prolungare e perpetuare questa ferita nel momento in cui si propone fermamente di evitarla a suo figlio iperproteggendolo. È importante invece che riesca a capire che sono le sue ferite quelle che vuole riparare attraverso il figlio. Infatti considerare un bambino come qualcosa da riparare («Io non ho studiato, allora tu devi studiare! Io ho sofferto, allora tu non devi soffrire!» e così

via...) vuol dire considerarlo già in partenza come qualcuno carente di qualcosa, il che vuol dire accoglierlo già con una visione preconcetta. E questo qualcosa non sempre è un bisogno reale del bambino: è invece facilmente “quel qualcosa” che è mancato a noi adulti quando eravamo piccoli. È questo mischiare e proiettare sul bambino fuori, 129

cose che invece appartengono alla storia del bambino che noi adulti siamo stati, ciò che può intervenire in una relazione creando confusione e perpetuando la sofferenza invece di aiutarla. Eppure alla base c’è quasi sempre da parte di noi adulti un desiderio genuino di far qualcosa di buono per un bambino, ma in questo caso la modalità con cui si tenta di rea-

lizzarlo si ritorce spesso alla fine contro di noi e i bambini che ci sono cari. Proviamo a scorrere, per rendercene conto, una vignetta fra le tante possibili, costruita sintetizzando in una sola diverse storie personali, viste sia nella scuola che in consulenze psicologiche (quanti abbandoni scolastici hanno alle spalle storie simili!). Roberto è il terzogenito di una coppia con tre figli, ed è l’unico maschio, il prediletto della madre, quello su cui lei investe gran parte della sua affettività sin dalla nascita. In quel periodo la madre, Leila, giovane donna lontana dalla sua famiglia, vive con la famiglia del marito da cui si sente poco capita e accettata, in una condizione di grande solitudine. Anche col marito il dialogo non è molto facile, per cui alla nascita del figlio maschio Leila gli si lega moltissimo, lo vede come la sua futura arma di riscatto e

tende a formare con lui una coppia chiusa madre-bambino ancora più che con le figlie. In effetti il rapporto di Leila con gli uomini della sua vita non è mai stato molto facile; da suo padre si è sempre sentita svalutata rispetto ai fratelli e questa svalutazione è proseguita anche dopo il matrimonio perché lei ha voluto sposare proprio un marito che suo padre non stimava. E così Leila, per affermare una scelta sua in un ambiente familiare che valorizzava solo un certo modello maschile,

ha scelto un marito in opposizione alla sua famiglia. Ma il gioco psicologico in cui era cresciuta in famiglia ormai è diventato inconsapevolmente il suo; a poco a poco, più lei si sente poco accettata e capita dalla famiglia del marito e 130

più tende a mitizzare quella d’origine, cominciando contemporaneamente a svalutare suo marito che a suo parere non è all’altezza di quel modello. Giacomo, il marito, si sente a sua volta messo un po” ai

margini di questi nuclei familiari, quello nuovo e quello d'origine, e riversa tutte le sue energie sul lavoro, anche perché c’è il problema dell’acquisto di una casa autonoma. E così Roberto cresce in una famiglia con una mamma tutta proiettata su di lui perché è da lui che si aspetta una rivincita nei confronti della sua famiglia d’origine e di quella del marito. È lui che deve diventare una persona di successo e deve studiare più di tutti. E così Leila, senza rendersene conto e facendo grandi sacrifici personali per dare a suo figlio il meglio di tutto, comincia a chiedergli inconsapevolmente di essere lui chi finalmente guarirà le sue ferite svalutative. Il rovescio della medaglia è che in questo modo pur-

troppo la svalutazione continua. Roberto cresce con una mamma che non solo provvede a lui in tutto e per tutto, ma che gli previene persino i desideri per evitargli qualsiasi frustrazione e questo sul piano mentale a poco a poco gli produce l’assoluta incapacità di reagire e di trovare le sue risorse nelle situazioni di difficoltà. Leila, che è stata una bambina sola, triste e svalutata, senza rendersene con-

to e in un modo sicuramente ben lontano dalla sua volontà, finisce purtroppo per perpetuare con Roberto, il suo figlio prediletto, lo stesso meccanismo svalutativo in cui è

cresciuta lei. E così Roberto cresce con la sensazione di essere un oggetto nelle mani della mamma. E lei che lo guida»che gli dice che cosa deve fare, che media sempre fra lui e la

realtà. «Era come se io non esistessi» dirà lui, anni più tardi con grande sofferenza. «Io, da solo, non sapevo chi ero. Io ero quello che mia madre mi diceva che ero; senza di lei non avevo neanche la sensazione di esistere.» 131

In questo modo Roberto è così pieno di tensione per le aspettative troppo alte che l’ansia lo fa diventare a poco a poco il contrario di quello che sua madre si aspetterebbe da lui. Invece di essere un bambino e un ragazzo di successo comincia ad accumulare difficoltà su difficoltà, sia sul piano scolastico che su quello relazionale, il tutto in silenzio e senza che sua madre intuisca la sua sofferenza. Neanche l’aiuto del padre gli può servire perché non può identificarsi con un modello maschile che sente svalutato da sua madre. Ma Leila insiste, instancabile, non si lascia

scoraggiare. Più Roberto entra in comportamenti che gli si ritorcono contro, più lei moltiplica le sue strategie e i suoi tentativi di farne una persona di successo, senza rendersi conto che è invece anche questo uno dei meccanismi che ne favoriscono l’insuccesso. Finite le scuole medie, il ragazzo entra alle superiori,

ma la sua energia mentale è impiegata tutta sul piano della sopravvivenza psicologica, e neanche un briciolo gliene resta a disposizione per lo studio. Di conseguenza l’insuccesso continua, finché qualche anno più tardi anche Leila, al colmo della disperazione, si arrende, rinuncia all’idea

di avere un figlio con un titolo di studio e lo porta all’ Ufficio di Collocamento a fare il libretto di lavoro. «Ecco, da

ora in avanti sarai tu ad assumerti le tue responsabilità. Ecco qui il libretto. Io non c’entro più, non mi voglio più occupare di te!» gli urla in preda a una sofferenza non più tollerabile. Ma dentro a quella rabbia angosciata c’è il riassunto di tutte le ferite della sua vita; la solitudine, la disperazione,

l’essersi sentita una persona di nessun valore, l’aver finalmente visto una speranza di riscatto nel momento in cui è nato il figlio maschio e l’aver visto questa speranza spegnersi giorno dopo giorno, nonostante tutti i suoi tentativi di alimentarla. Leila ha sacrificato tutto a questa speranza pur di tenerla accesa, se stessa, i suoi desideri, le sue emo-

zioni, i suoi bisogni ed ecco che adesso deve riconoscere 132

davanti a se stessa e davanti a questa famiglia d’origine che lei continua a portarsi dentro che questa speranza si è spenta, non c’è più modo di tenerla accesa. Suo figlio non riscatterà mai con lo studio le sue vecchie ferite e questo per leivuol dire riconoscere definitivamente il suo fallimento. E finita la battaglia che ha combattuto per una vita su questo punto e lei ha perso. Nel dolore di questa perdita Leila è come un animale ferito e sfoga la sua rabbia sul figlio. «Me lo ricorderò per tutta la vita quel giorno» dirà Roberto, anni più tardi. «C’era la nebbia e noi camminavamo lungo un viale. Mia madre camminava davanti a me e agitava il libretto di lavoro e mi diceva che d’ora in avanti lei per me non avrebbe fatto più niente. Io ero dietro e all’improvviso mi sono sentito abbandonato, come se non esistessi più. Non sapevo più chi ero né dove ero. Avevo davanti a me mia madre, quella che aveva provveduto a me per tutta la vita, in tutto, nelle cose che facevo e persino in

quelle che pensavo perché lei sapeva sempre pensare meglio di me e aveva sempre fatto tutto per me, anche al posto mio, ed ecco che all’improvviso questa persona senza la quale io non so vivere mi dice che lei per me non farà più niente, che sarò io a dover fare tutto e mi mette in mano questo libretto di lavoro. Era come se per tutta la vita qualcuno mi avesse dettato una parte da recitare e ora all’improvviso ero io che dovevo inventare la mia parte. Ma io non potevo farlo, per inventare qualcosa bisogna almeno essere sicuri di esistere, ma io ormai non ero sicuro di niente, tanto meno di esistere. Avevo una sensazione

terribile, che non era neanche quella di essere mortor era proprio quella di non esistere. Non sapevo più chi ero, né che cosa facevo, né dove ero. Ricordo solo il viale e la nebbia. Forse è stata quella che mi ha salvato. Da allora la nebbia mi ha accompagnato, è entrata dentro di me. Ogni volta che avevo la sensazione di non esistere, ecco che mi ritornava in mente il viale, la nebbia, il suono dei nostri 133

passi sulle foglie e quel libretto di lavoro agitato nell’aria. Ecco, io ormai non sapevo più chi ero, ma c’era il ricordo persistente di questa nebbia. Da quel momento la nebbia è entrata dentro di me. Io ero la nebbia. È sempre meglio essere nebbia piuttosto che non esistere per niente! Almeno la nebbia esiste, la vedi, la senti, la sfiori con le mani, la

respiri con i polmoni! Sì, essere nebbia era una possibilità di esistere, contro questa terribile sensazione di non esi-

stere. E io allora sono diventato nebbia.» Questa nebbia è costata a Roberto anni e anni di dolore, di pena, di fatica quotidiana di vivere, ma l’ha pur salvato alla fine. Quando Leila ha accettato la sua impotenza e ha smesso di lottare al posto di suo figlio, a poco a poco è stato lui che ha cominciato a farlo, a lottare per sé, a con-

quistarsi il diritto di esistere, giorno dopo giorno. Così, nonostante tutto questo grande dolore e tutta questa pena, Leila ha lasciato a suo figlio una grande eredità, gli ha insegnato a lottare per vivere. Ora Roberto ha costruito un suo castello. Non è meraviglioso, non è per niente eccezionale, ma è pur sempre un buon castello che sta in piedi per conto suo, senza puntelli esterni. Molto spesso le finestre si spalancano ai venti gelidi della tempesta e qualche volta la pioggia penetra dal tetto, ma in fin dei conti si tratta pur sempre di un buon castello, con delle persone care intorno al fuoco e Roberto sa che ogni tanto nella sua vita deve e dovrà fermarsi a dedicare del tempo ad aggiustare le finestre che si spalancano o a sistemare le tegole del tetto smosse dal vento delle tempeste, mentre qualcuno l’aspetta accanto a un fuoco che ha costruito lui, proprio lui, con le sue mani.

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7

I conti in sospeso

Una caratteristica tipica della rabbia è quella di scatenarsi spesso nel momento in cui un qualsiasi avvenimento esterno, a volte banale e apparentemente irrilevante, va a toccare uno dei lembi delle vecchie ferite che ne sono all’origine. In questo caso, sia gli altri che noi stessi per primi restiamo a volte stupiti dall’intensità e dalla veemenza con cui ci invade quest’emozione che è solo parzialmente spiegabile dalla situazione del momento e che spesso facciamo fatica a controllare. Ogni volta che il furore si impossessa di noi facendoci perdere il controllo è probabile infatti che le persone o le circostanze esterne coinvolte abbiano, a volte inconsapevolmente, riprodotto qualcosa che ci ha fatto molto male in passato e che è lì, pronto a entrare in risonanza, anche

nelle nuove relazioni e situazioni. Questo finisce quindi per complicare notevolmente la vita, a noi e alle persone coinvolte insieme a noi. A noi, innanzi tutto, perché per-

diamo la speranza nelle persone che ci circondano pensando che siano gli unici responsabili di tutto questo dolore e agli altri perché finiscono spesso per non capire che cosa è successo e quindi per sentirsi loro stessi accusati ingiustamente di qualcosa. La favola seguente tenta di ricostruire un percorso che restituisca un senso alle difficoltà reali che alcune persone hanno incontrato in passato nei loro rapporti con le perso199)

ne vicine, cercando di ricostruire una delle tante modalità

relazionali che le hanno fatte soffrire, quelladi subire degli interventi ironici distruttivi da bambini. E il risultato,

quindi, di varie storie personali, condensate in una, come per la precedente. A questo proposito è tuttavia sempre importante ricordare che ognuno ha la propria storia, unica e irripetibile, e che sembra che sia solo nell’incontro specifico fra la propria individualità (che va dal patrimonio genetico alla propria storia) con determinate modalità di relazione che scaturisca una maggiore o minore sofferenza.

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Favola n. 7

La principessina arrabbiata perché non le chiedevano mai scusa

«Ah! Ecco un suddito!» esclamò il re appena vide il piccolo principe. E il piccolo principe si domandò: «Come può riconoscermi se non mi ha mai visto?». Non sapeva che per un re il mondo è molto semplificato. Tutti gli uomini sono dei sudditi. A. DE SAINT-EXUPÉRY, I! Piccolo Principe

C'era una volta, tanto e tanto tempo fa, in un’ epoca che gli uomini di adesso non sanno neanche immaginare, tanto era diverso, un piccolo regno di cui nessuno conosceva l’esistenza perché era su un’ isola ed era circondato da un grande mare che nessuna nave o barca solcava mai. E in questo piccolo regno vivevano un re e una regina che si erano ritirati lì tempo prima quando avevano perduto il loro vecchio castello a cui erano molto affezionati e che stava da un’altra parte della terra. E insieme a loro c’era anche la principessina che era una bambina proprio come tutte le altre, a cui piaceva ridere, fare chiasso e giocare come atutti i bambini di questo mondo. E ogni volta che la principessina vedeva i pochi altri bambini di quell’isola giocare fuori dal suo giardino provava sempre una grande invidia perché loro potevano andare in giro per le strade ma lei che era una principessa non poteva farlo, anche se ormai non abitava più in un castello, come fanno di solito i principi,

ma solo in una casa come tutti gli altri. 137

Allora la principessina andava dal re e dalla regina a chiedere almeno il permesso di far entrare gli altri bambini nel giardino, ma il suo papà e la sua mamma, da quando avevano perduto il loro vecchio castello, degli altri ormai avevano un po’ paura, per cui le rispondeva-

no sempre: «No, no, non c’è da fidarsi a far entrare gli altri in giardino. E poi loro non devono sapere che il nostro non è più un castello, ma soltanto una casa». E così la nostra principessa cresceva sola e senza amici ed era spesso triste e anche arrabbiata, ma nessuno se ne accorgeva proprio perché di solito si pensa che i principini siano sempre felici e non si fa tanto caso invece a quello che gli passa davvero per il cuore. E il cuore della principessina invece sembrava spesso una giornata di tempesta sul mare, con tuoni, fulmini, e onde altissime che volevano toccare il cielo. Un giorno che la nostra principessa, che si chiamava Matilde, era davvero molto, molto, ma proprio molto arrabbiata, raccolse tutto il suo coraggio e andò dal re a protestare: «Perché gli altri bambini possono giocare sulla strada e io no?» gli chiese. Il re la guardò un po’ meravigliato. «Ma tu non sei come gli altri» le rispose. «Noi siamo diversi, siamo dei principi e un principe non può giocare per la strada!» «Ma io sono una bambina» singhiozzò la principessa «e ho proprio voglia di giocare con gli altri.» Allora il re si mise sul vecchio trono che aveva portato via dal suo antico castello e le disse severamente che un altro dovere dei principini era quello di obbedire al re, in tutto e per tutto perché quello che diceva lui non si poteva proprio discutere. Ma siccome la principessa Matilde continuava a piangere e a singhiozzare perché il suo cuore era troppo pieno di dolore e di solitudine e di voglia di imparare tante cose giocando insieme agli altri bambini, ecco che il re, pensando di aiutarla a smettere, facendola ridere, cominciò a prenderla in giro per questa sua richie138

sta, che invece per lei era davvero molto importante, più dell’aria che respirava e del cibo che mangiava. Il re, in realtà, voleva veramente solo farla smettere di piangere perché la verità era che lui non tollerava di veder soffrire un bambino, gli ricordava troppo quanto lui stesso aveva sofferto da piccolo. Ma le sue parole di presa in giro invece caddero come tanti aghi che si conficcarono nella carne della povera principessina la quale alla fine si ritirò in un angolo della casa addolorata più di prima e questa volta anche offesa perché la presa in giro l’aveva proprio mortificata. E così, per tanto tempo, la principessina ogni tanto si armava di coraggio e continuava a chiedere delle cose che di solito i bambini fanno, come andare a giocare e stare con gli altri, e il re continuò a negargliele e a prenderla in giro per cercare di farla ridere, senza accorgersi che lei si offendeva, era ogni volta più mortificata e si ritirava sempre più in un angolo. Finché un giorno tutto questo dolore e tutta questa mortificazione che la principessina portava dentro di sé arrivarono a un punto tale che il suo piccolo corpo non poteva più contenerli e allora per uscire si trasformarono in rabbia. Matilde andò diritta davanti al re, tutta arrabbiata e stringendo i pugni: «Mi

hai offeso!» gli urlò «chiedimi scusa!». Il re, che stava leggendo il giornale sul trono, smise di leggere, la guardò meravigliato e un po’ ironico e dopo un poco le disse: «No, non te la chiedo!». La principessina, non sapeva più che cosa fare. Lei era entrata arrabbiata, sì, ma anche piagnucolante e con ipugni dietro la schiena, proprio per fargli compassione e perché era convinta che il re le dovesse chiedere scusa per come l’aveva presa in giro e pensava che questa volta anche lui si sarebbe accorto che doveva farlo davvero. Non è che Matilde non avesse delle cose, ne aveva tante, per carità, come tutti gli altri principini, persino troppe e a volte anche inutili, ma erano sempre cose che decidevano 139

gli altri per lei, come se lei non avesse il diritto di avere dei pensieri, delle emozioni, sentimenti e desideri tutti suoi e solo suoi, che fossero diversi da quelli del re e della regina. “Allora” pensò Matilde “se lui che è il re e quindi ilpiù importante di tutti mi chiede scusa, vuol dire che riconosce che anch'io valgo qualcosa e se lo riconosce lui vuol proprio dire che è vero. Ma se io non ho neanche il diritto di avere dei diritti, vuol proprio dire che non valgo nulla, che è come se non esistessi, che è indifferente che io ci sia o non ci sia!” E fu così che la principessina da quel giorno cominciò a pensare di non valere proprio niente e quindi di non essere proprio niente. E alla fine, per sopravvivere, decise di mettere a tacere tutte queste cose dentro di lei che le facevano così male. Un bel giorno prese tutte le emozioni e le mise in un

cassetto in un angolo del cuore, lo chiuse a chiave e decise di andare avanti solo con i pensieri della testa, stando bene attenta che fossero neutri e senza emozioni. E fu pure così che passò tanto tempo e Matilde era diventata la principessa più ragionante del mondo, ragionava su tutto, ma sempre e soltanto con pensieri lontani dal cuore. La sua testa diventava sempre più simile a un

calcolatore in funzione: (y2 + 2y + 1)!/2 = [y + 1] oppure log(ab) = loga + logb 0 anche 422 - 9 = (22 + 3) (22-— 3) e così via. Qualsiasi cosa le venisse da fuori la nostra principessa la selezionava immediatamente e la immetteva nel calcolatore al posto giusto. Era diventata un abilissimo robot, perché il filtro della testa era l’unica cosa che le permettesse di proteggere il cuore.! Intanto, però, man mano che il tempo passava, le emozioni dentro al cassetto diventavano sempre più insofferenti di resiarsene al chiuso. Erano tante emozioni diverse

! Ringrazio Marina Marcelletti per avermi preparato la formula, nonché la persona che mi ha suggerito la frase riguardante il filtro della testa. 140

che agli inizi non riuscivano a capirsi neanche tra di loro perché ognuna parlava la propria lingua che era straniera per le altre. Ma a lungo andare, continuando a stare tutte insieme nello stesso posto, finirono per trovare il loro modo di comunicare e decisero di allearsi tra di loro per uscire dal cassetto. Però ogni volta che questo succedeva la principessa Matilde si accorgeva che c’era qualche pericolo in vista e, esperta com’ era diventata ormai in matematica, cambiava continuamente la formula del’ calcolatore necessaria per aprire il cassetto prima che le emozioni la potessero trovare. E così andò avanti per molto tempo, e la nostra Matilde viaggiava per la vita senza sapere né chi era, né se era proprio viva, visto che non provava più le emozioni a testimoniarlo, ma si sentiva solo come un guscio vuoto senza niente dentro. E qualche volta anche il mondo in cui viaggiava le sembrava lontano e distante, come se lei non ne facesse parte. Intanto, però, le emozioni dentro al cassetto non si davano per vinte. Un giorno decisero infine di fare una riunione tra di loro e dissero: «Per poter uscire di qui ci serve l’aiuto dei pensieri, che però in questo momento sono tutti nella testa e si occupano solo di formule matematiche. Allora come si può richiamare la loro attenzione?». «Ci penso io» rispose la Rabbia, che era la più forte di tutte. «Se voi vi mettete tutte dietro di me e mi spingete forte vedrete che prima o poi riusciremo a far saltare il cassetto e ad arrivare ai pensieri.» E fu così che cominciarono ad aspettare che arrivasse

l'occasione giusta. Ed ecco che, finalmente, un giorno la principessa Matilde, ormai diventata grande, incontrò un principe a cui voleva bene, anche se non ne era mai proprio sicura perché anche il voler bene era chiuso nel cassetto insieme alle altre emozioni e sentimenti. Tuttavia decise di provare a viaggiare con lui per la vita. Ma quando si viaggia insieme nella vita ci sono delle vol141

te in cui si è d'accordo e delle volte in cui non lo si è e non succede proprio niente di male, perché, come dice ilproverbio, «Centu concas, centu barrittas»:2 “per cento teste ci vogliono cento berretti” , ognuna ha bisogno del proprio. Però questo la principessa Matilde non lo sapeva proprio. Lei era cresciuta in una casa dove di berretti ce n’ era uno e uno solo che, oltre tutto, aveva la forma di una corona, per cui

tutti si dovevano adattare a lui, qualsiasi fosse la forma e la misura delle loro teste. E fu così che quando una volta il principe con cui viaggiava le disse una cosa diversa da quella che lei si aspettava da lui e solo da lui, la principessa Matilde si sentì così tradita e abbandonata, come le succedeva da piccola col re, che le emozioni dentro al suo cuore seppero che era arrivata l'occasione giusta. Si misero tutte insieme, dietro alla rabbia, con la forza si trasformarono in furore e riuscirono a forzare la serratura del lucchetto e ad arrivare fino ai pensieri. La principessa, spaventatissima, provò a fermarle con le sue formule matematiche, ma questa volta non ci fu niente da fare, nessuna formula resisteva alla furia delle emozioni tutte insieme. E fu allora che, volente o nolente, la povera principessa Matilde dovette fare i conti con le emozioni che nel corso del tempo aveva chiuso bene dentro a un cassetto, sperando di tenerle a bada con le formule matematiche per tutta la vita. Agli inizi la nostra principessa non sapeva proprio che cosa fare. Era solo travolta da questa furia e anche dallo stupore che provava per una cosa che non le era mai successa nella vita e che quindi lei non conosceva e non sapeva come affrontare. Alla fine, però, visto che era una principessa

forte e vigorosa, decise di affrontare tutta questa furia. «Che cosa volete da me?» chiese.

2 È un vecchio proverbio sardo che ho imparato anni fa da Enrico Frau, che a quell’epoca aveva più di novant’anni. 142

«Vogliamo che ci ascolti, finalmente!» le risposero le emozioni e i sentimenti. «E vogliamo la compagnia dei pensieri che adesso sono impegnati solo con i numeri!» «E vero» dissero a quel punto anche î pensieri «siamo stanchi anche noi di fare calcoli dalla mattina alla sera!» «Ma come faccio ad ascoltarvi se siete tutte così arrabbiate e parlate tutte insieme?» «No» rispose la Rabbia «sono solo io che mi sono dovuta dar da fare per aiutarle a uscire, ma se tu ci ascolti per un po’ di tempo, mentre viaggi per la’ vita, vedrai che dietro di me ce ne stanno tante altre. Io servo solo ad aiutarle a uscire, perché da sole loro non ce la fanno.» E fu così che la nostra Matilde dovette a poco a poco imparare ad ascoltare i sentimenti e le emozioni che tanto tempo prima aveva cacciato in un cassetto e chiuso a

chiave. Ogni volta che arrivava la Rabbia lei si sedeva pazientemente ad aspettare per capire quali emozioni le stavano dietro. «Ma io ho bisogno di aiuto per ascoltarla» si disse un giorno spaventata «questa volta è troppo grossa per me. Sarà meglio che mi trovi qualche alleato!» E dopo una lunga e paziente ricerca ecco che finalmente scovò dei vecchi e delle vecchie eremite che vivevano silenziosi in un bosco sulle rive di un lago a meditare e a raccogliere speciali erbe palustri. Servivano a costruire dei cesti particolari per contenere le emozioni, in modo che queste fossero contemporaneamente libere di entrare e di uscire, ma all’occorrenza potessero anche restare dentro protette e tranquille, ognuna col proprio nome che

le distingueva dalle altre. E così anche la nostra principessa poté andare giorno dopo giorno, mese dopo miese, anno dopo anno a imparare da loro l’arte di raccogliere le erbe palustri, farle macerare per poi ripulirle e lavorarle per farne quei cesti del tutto particolari. E fu pure così che a poco a poco, lentamente e nel corso del tempo, imparò di nuovo, col loro aiuto, a riconoscere il Dolore,

la Solitudine, la Mortificazione, l’ Invidia, la Gelosia e tut143

te le altre emozioni che aveva provato quando da bambina giocava da sola nel giardino. E ogni volta che le riconosceva le riprovava tali e quali dentro al suo cuore che sembrava un campo di battaglia in mezzo a una tempesta. E fu pure così che, senza accorgersene, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, la principessa Matilde fece una lunga strada e alla fine cominciò a sentire qualcosa dentro al suo guscio vuoto e questo qualcosa testimoniava che al mondo c’ era anche lei. E il mondo era proprio fatto di cose e oggetti reali e non era più una stranezza lontana che non si capiva bene né come fosse fatto, né dove si trovasse. Finché un giorno Matilde si svegliò una mattina e si guardò intorno meravigliata. Il sole sorgeva all’ orizzonte, gli uccelli cantavano, il vento soffiava leggero sul mare increspandone le onde, le barche dei pescatori erano ferme laggiù, lontano, all’ orizzonte. Insomma, il mondo esi-

steva proprio, lo si poteva sentire, toccare, odorare e dentro a questo mondo c’era anche lei che viaggiava per la vita in compagnia degli altri. “Come è bello avere un mondo a cui appartenere! Allora forse valeva la pena di passare attraverso la tempesta delle emozioni” pensò infine Matilde. “Forse è questo il prezzo da pagare per conquistare un mondo reale e il diritto ad abitarci, almeno ogni tanto, invece che doverlo osservare sempre e solo da fuori!” E fu così che anche la nostra principessa Matilde poté finalmente, dopo tanti anni, uscire qualche volta dal giardino della sua casa per andare a giocare sulla strada e quando si gioca sulla strada si ride, si scherza, ci si diverte, ma ogni tanto si cade e ci si sbucciano le ginocchia o ci si può anche ferire dolorosamente. Però si ha il permesso di vivere e di esistere inun mondo vero e reale e questa è la cosa più naturale dell’ avventura della vita.

144

Qualche riflessione sulla favola: le ferite non cicatrizzate

«Maestra, lo sai che sei forte?

Sei l’unico grande che conosco che chiede scusa quando ha sbagliato!» PINO, 9 anni, alla maestra

Alla base del tema di questa favola stanno, come sempre, diverse possibili storie reali. Scegliamone una, condensata da altre, che aiuti a capire che cosa è successo a questa bambina arrabbiata una volta diventata adulta. Anche qui, come sempre, è importante ricordare che quello che è successo è avvenuto all’interno di queste singole storie e non di altre, per cui qualsiasi trasposizione su storie altrui sarebbe inutile, anche se certi dati possono essere comuni. I due temi su cui invece questa favola potrebbe aiutarci a riflettere, data la sofferenza che hanno prodotto nelle persone che li hanno vissuti, sono l’importanza che il gioco ha per il bambino nello strutturare la sua personalità e la sua identità sociale e la sofferenza che l’uso sistematico e prolungato di interventi ironici e ridicolizzanti da parte dell’adulto gli possono produrre. Non è che l’ironia sia dannosa in assoluto; al contrario,

tante volte ci aiuta davvero a ridimensionare e sdrammatizzare le cose. Il fatto è che c’è un limite che bisognerebbe riuscire a non oltrepassare ed è quello, estremamente 145

difficile da riconoscere, della differenza che c’è fra l’aiutare un altro e il ferirlo e, in ogni caso, dell’usare l’ironia

su noi stessi oppure sugli altri. Ci può essere d’aiuto, nel riconoscere questo limite, l’osservare la reazione che il nostro intervento suscita nell’altro, in particolare nei bambini. Se si arrabbiano, se si offendono, se restano mortificati o silenziosi o anche se ridono, ma di un riso forzato e

inespressivo che è in realtà una smorfia di dolore, allora vuol dire che in quell’intervento noi abbiamo inconsapevolmente messo anche un po’ della nostra parte sadica, e gli abbiamo fatto del male pensando di aiutarlo. Vediamo ora la storia. Amanda è nata in una famiglia dove, come dirà lei in

seguito, si respirava l’aria “delle famiglie reali decadute”. I genitori provenivano entrambi da buone famiglie di professionisti con un’origine di proprietari terrieri e fra i ricordi di Amanda ci sono anche quelli dei periodi di vacanza passati da piccolissima in campagna dai nonni e dei suoi giochi con i figli dei contadini. A quell’epoca i suoi genitori erano ancora molto giovani, ma le vicende della vita hanno fatto sì che nessuno dei due arrivasse a una laurea, come era invece tradizione di entrambe le famiglie, mentre il patrimonio familiare si assottigliava e si disperdeva in divisioni, eredità e vicissitudini varie. Amanda è così cresciuta in una città estranea, con un padre che ha

cercato di adattarsi al mondo del lavoro senza riuscirci mai completamente perché nessuna occupazione era all’altezza delle tradizioni familiari e con una madre che non è riuscita a tentare l’avventura di un lavoro esterno senza una laurea e si è rifugiata a fare la casalinga e a occuparsi del marito e della figlia. Entrambi i genitori avevano quindi finito per “ritirarsi sull’Olimpo” davanti alle difficoltà pratiche e quotidiane della vita e quando ci si ritira sull’Olimpo è più difficile scendere ad ascoltare quello che succede per le strade del mondo sottostante, le stes-

se dove giocavano i bambini che Amanda invidiava per la 146

loro libertà di movimento. Inoltre, quando ci ritiriamo e ci isoliamo in un angolo finiamo per restare assorbiti dai noStri stessi pensieri e possiamo perdere facilmente il contatto con gli altri e la capacità di capirli, compresi i bambini. Amanda è così cresciuta come “una brava bambina”, ma fondamentalmente molto arrabbiata con il padre che usava un’ironia che la feriva continuamente e con un conto sospeso col mondo esterno che aveva sperimentato solo in parte e che, come tutte le cose sconosciute, le faceva paura. ° Le scuse che un padre, concentrato sulla sua fatica quo-

tidiana di adattarsi al vivere, non le ha mai rivolto, lei, crescendo, le ha inconsapevolmente richieste ad altri per tanto tempo, al marito innanzi tutto.

Guarda caso, la persona che aveva scelto perché era l’unica che avesse mai sentito veramente vicina, proveniva anche lui da una famiglia di abitatori dell’Olimpo per i quali l’idea di poter chiedere scusa a qualcuno faceva parte di una lingua straniera del tutto sconosciuta. Finché un giorno, casualmente, davanti a un suo persistente mutismo che non riusciva a spiegarsi il marito è riuscito finalmente a chiedergliene la causa e Amanda è riuscita finalmente a dargliela e a chiedergli delle scuse, mentre prima se le aspettava senza comunicarglielo, esattamente da divinità offesa come aveva visto fare in casa sua da piccola. A quel punto lui le ha semplicemente chiesto scusa e lei è rimasta letteralmente sbalordita dal fatto che una cosa simile fosse potuta succedere, che il marito l’avesse fatto e che lei si

fosse ritrovata all’improvviso a stare bene come non le era mai successo in passato, anche se solo per poco. In quel momento le sue scuse venivano a sanare anche quelle che da bambina avrebbe voluto ricevere da suo padre. Neanche la psicoterapia era riuscita a curare del tutto questa sua ferita, l’aveva solo attenuata. Il conto era finalmente

chiuso. Non per sempre, naturalmente, ma in quel momento sì e questo voleva dire due cose: che i conti Si pos147

sono chiudere, anche se non definitivamente, e che senza

conti in sospeso stiamo tutti molto meglio. Perché erano così importanti le scuse per Amanda? Perché, pur avendo paura della solitudine e senza reali motivi gravi, nella sua mente era arrivata persino a pensare a una separazione se non le avesse ricevute? Perché le scuse erano diventate per lei l’ultima prova che le restava per dimostrare che cosa era successo, compreso il suo allontanamento dalle emozioni per non farsene sopraffare. Però, ancora una volta Amanda ha avuto bisogno di un

aiuto che provenisse da fuori, cioè che le venissero rivolte concretamente, prima di poter piano piano riuscire a sciogliere questo nodo dentro di sé. Uno dei temi principali di sofferenza nella sua storia era stato proprio il non riconoscimento del suo diritto di essere se stessa, di crescere cioè obbedendo al suo processo di separazione, differenziazione e individuazione di sé, il percorso che porta a trovare la propria identità psicologica (l’esempio del non chiedere mai scusa era soltanto una fra le tante modalità che l’avevano fatta soffrire). Lei era una bambina che avrebbe voluto andare per la strada a giocare con gli altri e questa è l’esigenza sana di tutti i cuccioli che crescono e che usano il gioco per sperimentare le loro risorse, imparare a stare con gli altri e acquisire

la loro identità sociale. Ma lei era contemporaneamente anche una principessa che apparteneva a una famiglia reale e qui la regola era che non si va a giocare per la strada con gli altri bambini. Che cosa fare, allora? D’altra parte la famiglia è quella che dà affetto, protezione, sicurezza e conforto quando si è in lacrime, quella cioè che garantisce la sopravvivenza, cosicché ad Amanda non restava scelta, come succede in genere ai bambini, era inevitabile che scegliesse la famiglia. E così è cresciuta sviluppando una sua parte, quella della principessa decaduta, e sacrificando l’altra, quella della vitalità esplosiva dei giochi per le strade e questa lacera148

zione fra due parti di sé l’ha accompagnata per tutta la vita. La forza vitale e la violenza esplosiva, chiuse in un cassetto, si sono a poco a poco trasformate per poter uscire sotto forma di razionalizzazioni e di parole spesso amare che erano in realtà un castello difensivo eretto a proteggere le sue insicurezze e la sua fragilità. E dietro a loro stava questo grande, grandissimo dolore che era alla base di tutto e che era stato quello di tradire il suo sé bambino per paura di perdere l’amore dei suoi genitori. Però il prezzo pagato da Amanda per questo tradimento consisteva nel non sentirsi più viva e reale, ma solo

spettatrice di un mondo visto come attraverso un vetro. E per sentirsi invece appartenente al mondo reale doveva entrarci rivestendo un ruolo, quello di moglie, di madre eccetera, che serviva solo a coprire un guscio vuoto di emozioni e sentimenti. Quando, ad anni di distanza e dopo un lungo percorso psicologico e molta sofferenza, il guscio vuoto ha cominciato a sentire nuovamente delle emozioni e dei sentimenti, a poco a poco anche Amanda, pur restando fedele a

quella che è la sua storia, ha cominciato a sentirsi qualche volta più viva e reale, appartenente a un mondo vero. Quello dove si ride e si scherza, dove si ha il piacere di giocare con gli altri, ma dove ogni tanto si cade e ci si sbucciano le ginocchia, oppure ci si ferisce molto dolorosamente. Però si ha finalmente il diritto di esistere per coIMeisLe.

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« Il bambino arrabbiato» di Alba Marcoli

Oscar Saggi Arnoldo Mondadori Editore

Questo volume è stato stampato presso Arnoldo Mondadori Editore S.p.A. Stabilimento Nuova Stampa - Cles (TN) Stampato in Italia - Printed in Italy

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Una rabbia infantile cela il più delle volte una situazione di conflitto e di sofferenza psicologica. Quando un genitore si trova di fronte a tali manifestazioni spesso si sente in

un tunnel: vede che il piccolo sta male ma non riesce a individuare i reali motivi che si nascondono dietro il disagio e la sofferenza del proprio figlio. Se riusciamo a capire. che un bambino si arrabbia perché sta soffrendo per qual- | cosa che impedisce il suo naturale processo evolutivo, è più facile anche per noi adulti cercare dentro di noi delle strade diverse per aiutarlo a sciogliere isuoi nodi. Attraverso l’uso di favole, che prendono spunto da storie reali, questo libro offre alcuni suggerimenti per aiutare gli. adulti a comprendere meglio le rabbie infantili. Alba Marcoli, psicologa clinica di formazione analitica, vive e lavora a Milano dove da trent'anni svolge un'attività nel campo dell’insegnamento e in quello della psicoterapia e della formazione psicologica per adulti. L'obiettivo del suo lavoro è l’attenuazione del disagio minorile attraverso una maggiore sensibilizzazione degli adulti. Ha già pubblicato negli Oscar Mondadori Il bambino nascosto.

In copertina: Ivan Generalit Tempesta di mezzogiorno, 1969 (part.)

: ISBN 88-04-41

Art Director: Federico Luci Graphic Designer: Giacomo Callo

Lire 13.000

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