Ioseliani secondo Ioseliani. Addio terraferma
 8877481692, 9788877481696

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Ioseliani secondo Ioseliani Addio terraferma a cura di Luciano Barcaroli Carlo Hintermann Daniele Villa

introduzione di Enrico Ghezzi

© 1999 by Luchino Bnrciiroli, Girlo I linterinann, Daniele Villa © 1999 by Ubullbri Via Riiinnxzini H, 20129 Milano

Addio terraferma Ioseliani secondo Ioseliani a cura di Luciano Barcarola Carlo Hintermann, Daniele Villa

Ubulibri

Fotografìe: Archivio Otar Ioseliani, Mikhail Lemkhin, J. Becker, Marc Riboud

Copertina di Alessandro Migliorato

In copertina: Otar Ioseliani bambino in una foto di famiglia Pierluigi Cerri A.D.

Sommario

7 Premessa 9 Ioseliani, il cinema improprio, il canto senza motivo Introduzione di Enrico Ghezzi

19 61 95 115

Conversazione Il periodo sovietico: la formazione Architettura della forma: il tappeto interminabile La muscolatura del pensiero: etica e linguaggio Immanenza del potere: la coscienza esercitata

137 152 165 169 183 189

Il metodo Ioseliani I segni del linguaggio cinematografico La costruzione del progetto La formazione di un metodo L’attore e la recitazione Il montaggio La sonorizzazione

Appendice 195 Cenni biografici 197 Filmografia 215 Bibliografia

Si ringraziano Otar Ioseliani, Enrico Ghezzi, Michel Chion, Fausto Malcovati, Giulia D’Anna, Violante Valdettato, Sylvaine Couquet Macchi, Elisabeth Frailer, Martine Marignac-Pierre Grise Production, Gianni Pittiglio, Daniela Angelucci, Simone Morandi, Matilde Cascone, Ketevan Gagosidze, Sandro Bakanidze, Alessandro Sagramora, Alessandro Biasimine.

Premessa

Nicolas suona sempre la stessa frase al pianoforte, conosce molte persone, e finisce col perdere la terra sotto i piedi, almeno nelle intenzioni...

Alcune righe ci separano dall’ultimo film di Otar Ioseliani, e già ne avvertia­ mo l’eco: “Addio, terraferma...”. Conviene, allora, forzare lo sguardo, in lonta­ nanza, per cogliere un cinema che richiede, a chi vi si accosta, un profondo eser­ cizio di coscienza, diretto a un oggetto così saldo da pesare linguisticamente quanto spiritualmente sull’esistenza del cinema contemporaneo. Le considerazioni che animano questo volume riflettono, infatti, una prassi cinematografica straordinariamente consapevole, che a tratti si confonde con gli stessi oggetti che eterna, cancellando la distanza tra chi fotografa e chi è fo­ tografato. Ioseliani trama l’esistenza di un’etica del paradosso, che scuote il ci­ nema dall’interno, come se costringesse la natura di questo a un grado primiti­ vo, mortificato, salvezza delle visioni future: il campo dell’indagine critica mu­ ta nel luogo di verifica e sperimentazione dell’atto cinematografico. E in questo spazio usurpato che si legittima ogni visione, che la materia nar­ rata, colpa la natura fugace, si consuma offrendosi in spettacolo. Ordita la trap­ pola, ognuno è chiamato a esercitare le proprie doti cavalleresche, cercando un orientamento, inseguendo la preda, un pensiero fuggevole che l’autore non stenta a comporre con eretica sobrietà. Una ‘gaia retorica’, prendendo a prestito la convincente definizione di Mi­ chel Chion, si dispiega nelle pagine che seguono, dove la parola deconcentra il suo portato liberando Io spazio di un processo creativo. La volontà di rimette­ re in gioco, l’ironia che scioglie ogni impasse, concedono, infatti, a questa con­ versazione un andamento che, piegando irrimediabilmente verso il punto più lontano, centra ogni volta il proprio naturale obiettivo. L’idea che ha dato vita a questo libro è maturata nella primavera del 1997.11 desiderio di accostarci a Otar Ioseliani era accompagnato da un’insoddisfazio­ ne generale nei confronti degli esiti dell’attuale critica cinematografica, spesso così lontana dal proprio oggetto da cadere nella pura autoreferenzialità.

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Abbiamo quindi scelto la forma del libro intervista, possibilità eccezionale di confrontare le proprie riflessioni direttamente con la poetica dell’autore. Con quest’idea ci siamo quindi messi al lavoro, con lo stesso impegno che avremmo investito nello scrivere un saggio sull’opera di Ioseliani, elaborando le nostre domande come un testo critico aperto al dialogo e alla verifica (o alla smentita). Un’opportunità inaspettata ci è poi giunta dalla notizia di un seminario che il regista georgiano avrebbe tenuto al Cinema Lumière di Bologna nell’agosto 1997. In quell’occasione, non potendo disporre di una quantità di tempo suffi­ ciente alla realizzazione di un’intervista, abbiamo sottoposto a Ioseliani un fo­ glio contenente le domande che intendevamo porgli e abbiamo atteso una sua risposta. Qualche mese più tardi, di ritorno dalla Georgia, Otar Ioseliani ha deciso di venire a Roma per poter conversare con noi in modo più disteso. La seguente intervista è stata realizzata in due giorni consecutivi, il 21 e il 22 febbraio 1998, ed è quindi costituita da un dialogo continuo, ininterrotto, di cui ci auguriamo questo libro riesca a restituire l’immediatezza. I nostri ringraziamenti vanno a tutti coloro che ci sono stati vicini in questo percorso: in particolare a Giulia D’Anna e a Sylvainc Couquet Macchi per la preziosa collaborazione, e, soprattutto, a Violante Valdettaro, il cui aiuto si è ri­ velato insostituibile. A Franco Quadri va inoltre tutta la nostra riconoscenza per averci dato l’op­ portunità di realizzare questa pubblicazione, resa possibile anche grazie al fon­ damentale contributo di Monica Sessa Vitali e Leonardo Mello. Carlo Hintermann, Daniele Villa, Luciano Barcaroli, marzo 1999

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Ioseliani, il cinema improprio, il canto senza motivo Introduzione di Enrico Ghezzt

Mi fermo subito, e a lungo. Stupefatto nel verificare (me l’avevano detto i giovani autori di questo libro) che non esiste (al mondo..?!..) una monografia dedicata a Otar Ioseliani. Immagino che Otar ne vada anche fiero. Uno dei più grandi e riconosciuti registi del mondo che si afferma tale senza il corollario del paratesto abituale di libri e libretti e omaggi e pendagli vari che impiccano l’au­ tore alle proprie pagine, che lo trasformano in statua magari enigmatica ma troppo facilmente rimirabile, come non bastassero gli enigmi già condensati e solidificati nella fragilità cristallina dei film. Mi fermo di nuovo. Ioseliani parla, come sono abituato a sentirlo e a veder­ lo fare. Anche questo, non è un inutile libro di critica in più (e almeno lo fosse­ ro consapevolmente e vertiginosamente inutili, i libri di cinema; no, essi ambi­ scono a completezza o a indispensabilità o a svelare la ricchezza del pensiero di un regista, a rintracciare le provenienze e i codici, quasi sempre perdendo, nel­ l’analisi, il senso paradossale del movimento falso che è il cinema e l’eventuale fatalità dell’incontro tra la cosa/persona che è l’autore e il set/mondo in cui a un (mai) dato momento si inserisce e frappone). Assomiglia, sbobinando e ri­ montandosi in conversazione, alle sole sceneggiature sopportabili, quelle a po­ steriori, quelle che nell’apparente esattezza accettano e accolgono i casi verifi­ catisi e condensatisi nel ‘film’ grazie all’accanimento o alla grazia con cui qui­ etino (‘regista’?) li ha desiderati amati previsti favoriti sperati attesi. E sono ta­ li il disincanto e l’illuminismo di Ioseliani nel raccontare quanto siano sapiente e cieco fare o disfare, i film, quale disfatta sia il cinema (invece che orgogliosa ‘opera d’arte’), da sgomentare la tentazione del discorso. Il rifiuto del partico­ lare capitalismo drammaturgico che si è impossessato di quasi tutto il cinema come un virus (o come un corpo che cerca a tutti i costi di dar forma al lenzuolo fluttuante del fantasma), spunta le armi della dialettica e quelle della critica culturalnarrativa. L’abbandono minuzioso capzioso tenero malizioso ai movimen­ ti incomprensibili, ai detour, toglie il fiato (già corto), come fosse sull’orlo di un abisso, a chi si afferma pigramente a cercar chiavi e logiche poeticostrutturali indossando allo scopo occhiali e mappe e griglie predisposte. Pochissimi gior­ ni fa (nel ritardo imperdonabile in cui finisco di scrivere e quindi inizio, quin­ 9

dici marzo novantanove), alla morte vera e supposta di Stanley Kubrick, cinea­ sta abissale davvero, si è rivisto quanto siano pateticamente e anche oscena­ mente risibili tali rispecchiamenti, per quanto dolcemente o altamente benin­ tenzionati. In virtù di immagini folgoranti, che dovrebbero lasciar tramortiti e accecati, l’esegesi già accumulata in decenni sul cineasta è rifiorita e si è sbri­ gliata, istantaneamente immemore della perfetta disarmante ambiguità del mo­ nolito impassibile gigantesco minimale di 2001 che con ghignante ironia anco­ ra ci guarda e indica mentre indica una (non)comunicazione altra, una velocità più intensa e ancor più invisibile della luce, circolare nell’istante. Non è incon­ gruo evocare qui Kubrick (si è anzi evocato da sé), e non solo perché lo amo con calore corrispondente al gelo che scopre nella macchina e nel nostro viverci di immagini. Pare l’opposto di Ioseliani (e di Vigo, di Rossellini, di De Sica), o lo è, nella prepotente evidenza del tentativo di costruire, di torcere l’immagine/cinema avvincendola al suo volere. Pure, non c’è bisogno di ricorrere alla fune te­ sa tra langkubrick e vigorossellinioseliani dal gesto oscillante e sublime di Ophuls (dal suo inseguire giocoso o ansioso il godimento del vivere dentro il perdersi trasformarsi morirsi economicopoliticocntropico) per trovare il nesso (oltre che in questa pagina inane) proprio in una sorta di paradossale insoffe­ renza e indolenza rispetto agli schemi e ai ‘testi’ e alle ideologie (soprattutto l’i­ deologia della comunicazione) preesistenti, e nella scelta di giocare sempre e so­ lo l’ambiguità infinita e intrecciata dei segni e delle immagini (inclusa quella particolare e insieme definitiva dell’addensarsi affollarsi e precipitare dei segni nell’immagine) come senso/nonsenso contro la presunzione dei sensi codifica­ ti e delle direzioni ammesse. Non sto proponendo un incrocio o una sovraimpressione di Cera una volta un merlo canterino e di Arancia meccanica (per quanto l’amerei, questo doppio vagabondaggio giovanilmusicale, anche per far arrabbiare Otar). E anzi l’obbligarsi kubrickiano a testi di riferimento preesi­ stenti (libri di altri autori) marca un’ulteriore distanza. Dopo la prima proie­ zione dal bellissimo ultimo film di Straub e Huillet, Sicilia, tratto da alcune pa­ gine di Conversazione in Sicilia di Vittorini (e per questo ancora in attesa del permesso degli eredi dello scrittore), Ioseliani rimproverava a Straub l’abitudi­ ne ricorrente a ‘lavorare’ testi altrui, quando basterebbe inventarsi ‘cose’ (‘des trues') simili, o ‘alla maniera di’, secondo quello che serve al progetto. Non comprendendo (o fingendo di non comprendere) che non si tratta (per Straub e Huillet, per Kubrick) di omaggi a drammaturgie preesistenti, o di riuso dram­ maturgico di esse, ma di ‘filmare’, proprio come fossero attori o paesaggi, testi parole narrazioni come sedimenti condensazioni monumenti ruderi resi come a un silenzio ambiguo, a un ‘suono’ e a una ‘voce’ da riarticolare. Cosa che Iose­ liani fa da sempre, con una ancor più libera ‘mossa’, con una ancor più auto­ matica determinazione. Non far da cosa a cosa differenzia,/ non guardar più la bianca che la nera,/ que­ sta hanno certi chiamata indolenzia. Trovo la citazione cinquecentesca del Ber­ ni in un dizionario etimologico alla voce ‘indolente’. L’indolenza georgiana,

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questa forma quasi ‘naturale’ e privilegiata di flanerie mentale. Non l’attitudi­ ne postbaudelairiana e poi benjaminiana, abbandono soggettivo culturale e eli­ tario alla deriva di massa nella metropoli industriale e postindustriale. Una provenienza senza origine, piuttosto, in cui una cultura ancestrale, un’intera civiltà, si è insieme costituita e dissolta, consumata in una vita già sfinita, sfu­ mando le ere culturali e le generazioni in un’estenuazione malinconica e pur al­ legra che sente come ‘cultura’ un paesaggio o un fiore, e si permette di legge­ re e comprendere come ‘natura’ un pezzo di ghisa o un bicchiere di vino o un canto modulato rimodulato tramandato da secoli. Questo sentire insieme scet­ tico e epicùreo, questa visione insieme disincantata e mitica, rivendicata da Io­ seliani, non deriva da (né dà luogo a) una proiezione soggettiva storico-eroica. Nessun personaggio (salvo l’epifanìa leggera del ‘merlo canterino’, forse), nes­ suna inquadratura, nessuna ‘azione’ incarna questo vedere/sentire. Il senti­ mento del vedere e la critica ‘immediata’ che è questo vedere disincarnano in­ vece anche i personaggi e i luoghi e le visioni più corpose e carnali e evidenti. Ogni film di Ioseliani è un film di fantasmi, che abitano e hantent una cena sempre trasformata, mai prima, mai ultima. Sembra evidente, questo gioco, a partire da I favoriti della luna, con chiarezza sempre più ossessiva. Ma Aprile è già l’allucinazione perfetta di un congegno onirico ironico (anagramma quanto mai netto e... ‘kubrickiano’) in cui i personaggi si muovono fantomaticamen­ te secondo un ritmo musicale ballando un tempo non loro, e trascorrono sul set in un modo solo lievemente meno impermanente di quello dei mobili, del­ le sedie, degli armadi, degli oggetti che affollano le ‘stanze’ segnando l’obbli­ go leggermente ma chiaramente insostenibile della ‘vita civile’. Non ho mai vi­ sto i due primi corti anni ’50, Acquerello e Ufiore introvabile, eppure le poche righe che ne ho letto raccontano subito della stessa ‘grazia complicata’, dello stesso tragitto attraverso ‘generazioni di immagini’, dove ogni situazione è già mutazione', cambia non tanto nel tempo, né è mutata dal tempo, ma è essa stes­ sa un/il tempo, una spirale, un piccolo vortice temporale, un buco pieno di bu­ chi, un elastico, un chewing-gum masticato da ‘altri’, dove ogni momento si sdoppia si gemma si riproduce, sia che sembri durare (e sdoppiare) il tempo di un solo sguardo, sia che sembri raccontare un tempo più ‘lungo’ biologico o storico o fisico, il racconto di un paese o di una lotta o il trasformarsi tecnico di un lavoro collettivo o artigiano o lo spuntare di un filo d’erba. Un vero e proprio ‘principio di indeterminazione’ filmico, che lascia all’automatica e an­ che casuale definizione cinematografica il compito eventuale di (far) parlare e articolare, mentre si occupa direttamente del (corto) circuito della voce, della vibrazione/tempo, dell’incomprensibilità dei movimenti ricorrenti e ‘assurdi’ che pure nel loro ricorrere assurdo identico lievemente mutante costituiscono quell’abitudine che è ‘il mondo’. Visibile mediante il trucco ottico che è il cinema, il mondo si rivela malinco­ nicamente illeggibile. Invece di proporne una guida, un itinerario, una chiave drammatica o ideologica, Ioseliani propone l’osservazione attenta e distratta,

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indolente e acuta, dcll’illcggibililà stessa. Non è importante che la cosa sia pro­ clamata e cercata, né si tratta di un elletto teorico fondamentale, ma proprio co­ sì questo cinema si manifesta intensamente e pericolosamente filmico. L’intervallo in cui sempre si sviluppa \' osservazione (anzi è l’intervallo stesso che si osserva, la pausa] è infatti lo stesso che permette e costituisce quella for­ ma di musica automatica che è il cinema. Spostato su un’altra scala rispetto a quella fotogrammatica, il meccanismo è lo stesso: scatti impercettibili, appari­ zioni intermittenti che rivelano ‘tutto’ salvo la loro intermittenza, ovvero l’invisibilità (il ‘nero’) che contengono, tecnicamente presente e per noi nascosta e il­ legible. Per questo, come tutti i grandi autori, Ioseliani raggiunge e guadagna l’indistinzione tra ‘documentario’ e ‘fiction* (diversi solo come forme produtti­ ve, come ‘prodotti in vendita’) così tranquillamente e opacamente evidente nel cinema e nella televisione più automatici e anonimi. Che si tratti di ‘ghisa’ o di ‘antichi canti georgiani’ o di ‘un piccolo monastero in Toscana’ o di osservare sette momenti di antropologia parigina, o di ‘pastorali’ o di ‘caccia alle farfalle’, un medesimo intervallo è in azione, le note appartengono a una sola partitura attraversata da set differenti, e Seule, Georgie (come il mitico Historia do Brazil di Glauber Rocha) si compone indifferentemente di fiction e di documento, af­ fidando a questa indifferenza comune dell’immagine (alla sua comune fatalità ritrattistica) la definizione impossibile del proprio paese come territorio e set insieme perduto e trovato, mutante e sempiterno, trovando un’ambiguità pura come un canto (di sirena). E il canto si tesse con altri canti (l’immagine del ci­ nema come arazzo discreto è di Renoir), non ‘illustra’ nulla, tessendosi mostra non il mondo ma il suo intrecciarsi comporsi scomporsi sospirarsi ammutolirsi bloccarsi fluire crudele. L’apparente serenità, l’imperturbabilità, la malinconica indifferenza/indolenza, sembrerebbero dar luogo a un cinema ‘comprensibile’ e pieno di humour, nervosamente pacato. Invece, i film di Ioseliani, come rifiutano le distinzioni ideologiche e drammatiche tra documentario e finzione, come dissolvono il ve­ lo ideologico per entrare nella sostanza stessa dei veli e nel formicolìo dell’os­ servazione micrologica, si offrono e squadernano a loro volta come testi aperti ma dei quali è difficile rintracciare i codici, impervio superare l’invisibilità. Nel racconto che il regista fa in questo libro non del proprio metodo, ma della pro­ pria diffidenza verso i metodi, emerge proprio la sua attenzione e predilezione per il sommerso, il preideologico e predrammatico, il sepolto nel tempo che qua­ si tecnicamente e per compito misteriosamente storico il cinema può disseppel­ lire calandosi automaticamente negli spiragli nel tempo, negli intervalli. Malinconia, si diceva. Il cinema come indifferenza e malinconia. Destra/sinistra, alto/basso; le opposizioni e le coppie di una (ideo)logica rudimentale ca­ dono; non in virtù di un acceso e volontario e avanguardistico rimescolamento dei segni da far girar la testa. La testa gira, rossellinianamente, perché il totale più semplice (sì, il cinema permette e induce una filosofia ossimorica) è già es­ so aperto in tutte le direzioni, non ne indica o sconvolge una o due o tre, ma fa 12

sentire superflua e dolcemente inanemente arbitraria qualunque direzione, qualunque inquadratura cornice frante, come già sovrimpressa a molte altre. Apolide allora, non per percorso geografico oltre i limiti dei cinemi ‘nazio­ nali’ tra Georgia e Russia e Francia, né per residenza. Proprio per conforma­ zione ‘rosselliniana’. Cinema apolide perché non legato a un solo territorio, al­ la ‘proprietà’ di un territorio. Improprietà definitiva e ironica (e di nuovo: ma­ linconica) del set. Gira la testa, il corpo cade e la sua postura casuale (?!) indi­ ca la via: è il finale di Francesco giullare di Dio, dove ogni frate trova così, spaesandosi in una ‘Region Centrale’ cieca, la strada per un suo luogo. Non sarà quindi neanche l’attore a rassicurarci, a indicarci dove siamo, a liberarci dalla necessità di spalancare gli occhi nell’osservazione o di chiuderli nell’abbando­ no. L’attore non è divo, non porta monumentalizzato il proprio segno e la pro­ pria storia dentro un circuito di comunicazione potente (e anch’esso affasci­ nante) quale è il cortocircuito divistico fìlmico; la riconoscibilità non è quella data in partenza (per cui per esempio il grande cinema hollywoodiano è poi co­ stretto a tentare di perderla e nasconderla e mutarla prima di ritrovarla). Ogni persona vista va rintracciata trovata riconosciuta come ‘attore’, come il monu­ mento da scavare che già è, formato dall’esposizione non alla pellicola di altri film ma a trascinamento temporale del mondo. Con lucidità Ioseliani vede il nesso tra il suo cinema ricco di segni e di linguaggi e di culture e quello azzera­ to e di nuovo muto e aculturale della nuova hollywood che come utopia rove­ sciata si dà da leggere oggi più come mondo che ‘al mondo’. La memoria stessa è ima trappola, il cinema è una macchina oltreumana e terribilmente semplice, credersi ‘umani’ è rimpiangersi, credere di vivere non dà scelta tra sentirsi spettri e riconoscersi morti. Il cinema non dà risposte (sen­ si, direzioni, spiegazioni, ideologie appunto), piuttosto è la forma della rispo­ sta, enigmatica, che non può essere interrogata a sua volta. Grande smontatore di linguaggi e di inganni, esploratore e conoscitore dei giri di corteccia mille­ nari, Ioseliani si nasconde in essi, nemico delle certezze della memoria tecnica stessa. I film come gomitoli si sfanno e rifanno. Il senso e l’intensità del rim­ pianto (come in Pastorale} non dipendono dalla qualità di quel che si rimpian­ ge nell’atto stesso di riproduzione/perdita, ma dalla forma che è la riproduzio­ ne; si può rimpiangere un trucco, un falso, un nulla, nella forma (cinema) che è fino a oggi il trucco più palese (qui risiede la forza di 'Titanic}. Il soggetto (non) è questo. Se il cinema è ladro, rubiamo al cinema il suo gesto e rendiamo apo­ lide e impropria la memoria, consideriamola tale. Come diceva qualcuno: chi si ricorda, vuol dire che non cera.

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Olur l(>\clitìiii in nini t'nb* di MtUi0 e '60? < >TAR IOSELIANI La formazione dei registi in Unione Sovietica era quella di chi avrebbe dovuto servire la propaganda, come avveniva in Italia all’epoca di Mussolini. La propaganda doveva essere fatta brillantemente. Per questo si in­ segnava il mestiere ai futuri registi molto seriamente. Questo compito, al VGIK, era assegnato a un maestro; nel mio caso era Dovzenko, il quale, morto dopo un anno e mezzo, venne sostituito da Ciaureli. Dovzenko era un tipo un po’ strano. Era un contadino, un autodidatta e, quando c scoppiata la Rivoluzione Russa, ha trovato il modo di applicare il pro­ prio sapere nel cinema. Come molti romantici nell’epoca delle rivoluzioni pen­ sava, però, che il mondo potesse cambiare da un giorno all’altro, e cosi mise il suo talento e il suo amore per i contadini e per il suo piccolo paese ucraino al servizio dell’ideologia bolscevica, allora molto seducente per i giovani. Più o meno la stessa cosa è successa a Che Guevara, a tutti i romantici delle rivolu­ zioni dell’America Latina, come anche agli artisti impegnati nella guerra civile in Spagna, a Garcia Lorca o a Hemingway. Oggi, col senno di poi, è molto fa­ cile criticare queste persone; ma bisogna saper collocare un contadino inno­ cente, candido, che mirava a ideali molto alti, a salvare l’umanità intera, cosa che costituiva la lettera dell’ideologia bolscevica. Innanzitutto bisogna sapere clic all’interno di questa ideologia c’era un conflitto tra due correnti. Una pun। ;i\ a alla costruzione del socialismo in un solo paese, per dare l’esempio al mon­ 1 Si tratta dell’istituto statale pansovietico di cinematografìa, con sede a Mosca, nel quale si for­ ni nono quasi tutti i più importanti cineasti sovietici. Grandi teorici e pionieri del cinema sovietico , lei calibro di Ejzenstejn, Dovzenko, Kulesov. solo per citarne alcuni, furono insegnanti prestigiosi ,|i questa scuola. Michail ( .iaureli ( 1894-1974 ), cineasta sovietico georgiano. Lavorò inizialmente nel teatro co­ me sk eliografo, illustratore e attore. Entrato nel cinema come sceneggiatore, fu esponente di pun­ ii del realismo socialista.

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do intere»; l’nlt ni, quella dei lrockijsii, mirava alla rivoluzione mondiale. Questa concezione della rivoluzione era politicamente molto pericolosa per lo stato so­ vietico, poiché metteva in pericolo il mondo intero, dal momento che tutti gli stati del mondo avrebbero dovuto sapere che i sovietici miravano a fare la rivo­ luzione ovunque. Ciò coincideva con la teoria di Lenin, anche se egli aveva de­ ciso di nascondere il suo scopo e rendere socialista il mondo intero, ma gra­ dualmente. Stalin, invece, cominciò a preparare la guerra: a questo fine c’erano Musso­ lini in Italia, Franco in Spagna e Hitler in Germania. Stalin faceva di tutto af­ finché Hitler commettesse errori irrecuperabili come il progetto dell’allarga­ mento dei territori tedeschi, la politica dei campi di concentramento, attraver­ so uno sciovinismo molto sviluppato e l’antisemitismo. Di fatto Stalin aiutò Hi­ tler ad arrivare al potere. Ordinò a Ernst Thàlmann1 di non legarsi ai socialde­ mocratici e di sostenere Hitler. Così, dal momento che Hitler era al potere, il nobile stato socialista sovietico avrebbe potuto combatterlo, suscitando il plau­ so del mondo intero. E progettò una guerra, la seconda guerra mondiale. Pro­ prio lui avrebbe dovuto cominciarla, Stalin, tanto che scelse di persona anche i modelli dei carri armati. In realtà non voleva affatto distruggere l’Europa, vo­ leva mantenerla così com’era. Aveva preparato dei carri che avrebbero dovuto sostituire i cingoli per scivolare sulle strade europee con gli pneumatici. Aveva eliminato l’aviazione da bombardamento. A quell’epoca gli aerei sovietici po­ tevano sorvolare la terra da un’altezza di dieci chilometri, cosa del tutto impos­ sibile per chiunque altro, ma questi bombardieri servivano a distruggere le città. Promosse allora un’aviazione che avrebbe potuto sorvolare la terra a bas­ sa quota per coprire gli aeroporti tedeschi. A questo scopo firmò un patto con Ribbentrop1 2. Contava sul fatto che, avendo cominciato la guerra con l’Inghil­ terra e la Francia, sarebbe stato per Hitler strategicamente suicida attaccare contemporaneamente la Russia. Pertanto se Stalin avesse cominciato la guerra per salvare l’Europa da Hitler, sarebbe potuto diventare veramente molto po­ polare. Quindi accumulò senza esitare, al confine della Russia, il petrolio per i carri armati, tutti gli armamenti, tutte le uniformi, curando i più piccoli detta­ gli: per i soldati aveva persino fabbricato stivali in cuoio, cosicché, qualora il soldato russo fosse entrato in Europa, sarebbe stato ben vestito! Ma Hitler cominciò la guerra due settimane prima. Era un atto suicida, ma non aveva altre possibilità; così conquistò tutte le riserve di petrolio russo, tut­ te quelle degli armamenti sovietici, all’inizio del conflitto. In tal modo i bolscevichi persero la guerra che avrebbe potuto rendere il mondo intero socialista. Bene, com’è andata a finire lo sapete. Stalin senza esitare mandò a morire mi­ lioni dei suoi soldati, stipulò il patto con gli stati di Roosevelt e di Churchill per alimentare materialmente la sua armata, ma la guerra doveva essere comunque 1 L’allora segretario del partito comunista tedesco. 2 Joachim von Ribbentrop, ministro degli esteri tedesco del Reich dal 1938.

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portata avanti dai poveri soldati russi. Quando la guerra finì, Stalin ne uscì agli occhi del mondo intero come un trionfatore, ma secondo la sua visione la guer­ ra era stata persa. Questo ha però permesso al regime totalitario in Russia di reggere ancora per cinquantanni. C’erano, inoltre, movimenti comunisti spar­ si un po’ qui, un po’ là nel mondo, specialmente in Italia, che avevano più che altro radici antifasciste, ma che erano comunque sotto l’influenza del comuni­ Smo russo. L’Europa era divisa in due parti, Europa dell’Ovest e Europa dell’Est, di cui Kruscev1 ereditò il dominio. In questo contesto Dovzenko era una persona ingenua che faceva molto sem­ plicemente la propaganda per un’ideologia ‘vera’ e ‘retta’. CARLO HINTERMANN

In questa prospettiva, secondo lei, Dovzenko andava a fa­

vore del regime?

Assolutamente, ma lo faceva, per esempio, come Majakovskij. Dovzenko, sot­ tolineo, era un ingenuo, non faceva mai un’analisi profonda della situazione, pro­ prio come Majakovskij. Cerano invece altri artisti impegnati nella propaganda, che elogiavano il sistema totalitario, come Ejzenstejn nei film Ivan il Terribile, La corazzata Potemkin, La Linea Generale, Ottobre, ecc. Costoro sapevano cosa face­ vano, appartenevano a un’intellighènzia che poteva valutare, che sapeva da dove tutto questo provenisse e che cosa rappresentasse. Sottolineo questo aspetto ideo­ logico, separandolo dalla valutazione del mestiere di cineasta, per dirvi che esso è applicabile a qualsiasi ideologia; è sempre stato considerato un atto nobile essere dalla parte del bene contro il male. E il male era il fascismo, non il comuniSmo. Al contempo non era possibile che Dovzenko non sapesse che c’erano gulag ovunque, che venivano arrestati i rappresentanti non conformisti dell’intelli­ ghenzia, che venivano eliminati scrittori del calibro di Babel’2, Mandelstam3, o grandi filosofi come Florenskij4, e che c’era una censura senza frontiere in ogni ambito culturale. 1 Nikita Kruscev fu segretario del partito comunista sovietico dal 1953 al 1964 e primo ministro dui 1958 al 1964. • Isaak Babel' (1894-1941). Scrittore sovietico di origine ebraica, autore di opere come Tarma­ ta a cavalla (Konarmija) e i Racconti di Odessa (Odesskie rasskazy). Con l’opera Tarmata a cavallo Babel' incontra l’osteggiamento dell'Associazione russa degli scrittori proletari. Arrestato nel 1937 sotto l'accusa di trockijsmo, morì fucilato in campo di concentramento. ’ < )sip Mandelstam (1891- 1938). Poeta sovietico, aderisce al movimento acmeista. Nel 1913 viene pubblicata la raccolta di poesie La pietra (Kamen')’, nella seconda edizione di questo volume verranno escluse, per volontà stessa dell’autore, tutte le poesie simboliste. Nel 1922 esce Tristia, se­ conda c ultima raccolta di liriche. Nel 1934 subisce il primo arresto per attività antisovietica. Con­ dannato al confino, muore, in circostanze misteriose, in un campo di concentramento nei pressi di Vladivostok. 1 Pavcl Florenskij (1882-1943). Filosofo di origine azerbaigiana e sacerdote ortodosso, fu ari est alo e deportato nel 1933 nel nord della Russia. Sviluppò tematiche diverse all'interno di diffe• vilii campi del sapere, fondando la propria filosofia sul concetto di trascendenza. Tra le sue opeic: Li colonna e ilfondamento della verità (1914) e Attualità della parola. La lingua tra scienza e mi­ to (l‘>20ca.).

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Stalin, inhilli, aveva crealo una classe privilegiata di intellettuali costituita dall'Unionc degli scritlori, l’Unione dei cineasti, l’Unione degli artisti, l’Unione degli architetti, l’Unione dei giornalisti, l’Unione dei compositori. Le perso­ ne che ne facevano parte ricevevano dei privilegi materiali: essere membri dell’Unione dei cineasti significava appartenere alla ‘nuova nobiltà’. Per questo Stalin lece tornare da Capri Maksim Gor’kij, al tempo in esilio. Fece le ‘strade Maksim Gor’kij’, le ‘stazioni Maksim Gor’kij’, le ‘città Maksim Gor’kij’, e lo mi­ se alla testa dell’Unione degli scrittori. Non appena Gor’kij ebbe cominciato la sua carriera di scrittore ‘romantico’ della rivoluzione, scrisse il romanzo La ma­ dre, e alcuni poemi sulla previsione della rivoluzione, come il Canto del falco, o il Canto della procellaria. Maksim Gor’kij inventò la teoria del ‘realismo socialista’, che divenne presto la bibbia di tutti gli artisti sovietici. Il principio di questa teoria non era quello di descrivere la realtà, ma di riscontrarvi il bene che sarebbe giunto nell’avve­ nire, di trovarne i segni nella vita quotidiana; da qui si generò, come è noto, una rassomiglianza totale del cinema sovietico con quello hollywoodiano. Il cinema, infatti, così come la* letteratura sovietica, cominciò a basarsi sulle fiabe. A quel­ l’epoca ciò si accordava alla visione di Dovzenko, perché il suo principio non era quello di cercare le monete di rame della verità quotidiana, ma le monete d’oro di una grande verità globale. La verità che giungerà nell’avvenire. Nella letteratura abbiamo degli esempi analoghi con Goethe o Schiller che, com’è no­ to, ha scritto il testo utilizzato da Beethoven nella Nona Sinfonia, l’inno alla gioia [Zo fischietta}. La sua sensibilità concordava bene con quella dell’intelli­ ghenzia romantica, ma la delusione arrivò molto in fretta, e Dovzenko, divenu­ to più maturo e più anziano, cominciò a soffrire. Aveva un bellissimo appartamento nel pieno centro di Mosca, donatogli dal governo, aveva accesso ai negozi di generi alimentari per i privilegiati, e anche un autista personale; però doveva servire la propaganda. Fu allora che comin­ ciò a scoprire che il suo cinema serviva a un pessimo scopo. Quando lo incon­ trai aveva in progetto di fare un film sulla sporcizia delle menzogne. Era un sog­ getto semplice: per costruire una diga idroelettrica, bisognava inondare molti villaggi che vivevano secondo la tradizione, in cui c’erano costumi e regole di relazione stabiliti da migliaia di anni... Ovviamente la sceneggiatura non passò; il suo conflitto con il potere cominciava a essere forte. Fu criticato molto seve­ ramente dal politbjuro, e quindi, dal momento che non aveva altre vie d’uscita, diventò professore alla scuola di cinema. Era già l’epoca in cui al VGIK finivano tutti quelli che non potevano lavorare. C’era un cineasta molto bravo, anziano, un romantico del ‘sovietismo’, Kulesov, c’era Michail Romm, che servì molto l’Unione Sovietica, realizzando numerosi film sulla gloria di Lenin1; c’era anche 1 Michail Romm ( 1901-1971 ), cineasta sovietico, realizza diversi film per celebrare, pur in tono antiretorico, il culto della personalità di Lenin come Lenin v oktjabre (Lenin in ottobre, 1937) e Le­ nin v 1918 goda (Lenin nel 1918,1939). Nel 1965 dirige anche Otryknovennyj fasizm (Ilfascismo or­ dinario), vedi Linguaggio e verità nella sezione II metodo Ioseliani, p. 145.

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Kozincev1, autore di molti film prosovietici... e il VG1K, la scuola di stato di ci­ nema, divenne in pratica una scuola che formava i dissidenti, insegnando loro il mestiere. E assolutamente impossibile comunicare con i propri professori senza che vi dicano sinceramente quello che pensano. LUCIANO BARCAROLI

C.H.

Come i Cineguf romani.

Come il Centro Sperimentale alla fine del fascismo.

Inoltre l’insegnamento al VGIK, per quanto riguarda il mestiere dell’attore, era condotto dagli allievi di Stanislavskij, e vi insegnavano anche i migliori montatori del cinema sovietico. In pratica l’istituto era pieno di gente estre­ mamente colta, o di persone sinceramente pentite della propria attività pre­ cedente. Dovzenko, di regola, come sarebbe accaduto a molti di loro, morì di infarto, perché la tensione psicologica era troppo forte. Molto velocemente fu rimpiaz­ zato da un grande maestro del cinema sovietico, Ciaureli. Era già il periodo del disgelo, c’era già Kruscèv, Kalatozov2 aveva già fatto il suo film Quando volano le cicogne*-, un altro film fuori del comune era stato La ballata di un soldato di Cuchraj4. C’era stato anche un altro film di Cuchraj, Il quarantunesimo. Era la storia di una rivoluzionaria e di un ufficiale bianco che, dopo una catastrofe ma­ rittima, si trovano su un’isola deserta. Tra i due, malgrado la differenza ideolo­ gica, nasce l’amore. Sono un uomo e una donna, e si amano. Poi appare un bat­ tello, ed è il battello che trasporta gli ufficiali bianchi che emigrano; ovviamen­ te il giovane ufficiale bianco corre verso la nave, ma lei lo uccide. Era già suffi­ cientemente in usuale per il cinema sovietico. 1 G ri go ri i Kozincev (1905-1973), cineasta e regista teatrale, tra i membri fondatori del FEKS (hibbrica dell’attore eccentrico). Dal 1924 si dedica al cinema inaugurando il fortunato sodalizio cinematografico con Trauberg. Il mediometraggio Pochozdenija Oktjabriny (Le avventure di Otto­ brina, 1924) coniuga, infatti, la ricerca teatrale con quella cinematografica. Tra le opere significati­ ve di questo periodo il lungometraggio Certovo koleso (La grande ruota, 1926). Sotto l’influsso teo­ rico «.lei gruppo dei formalisti di Leningrado, Kozincev e Trauberg realizzano quattro film fonda­ mentali: Sinel' (Il cappotto, 1926). S.V.D. - Soyuz velikogo dela (L'unione per la grande causa, 1927), Novyi Vavilon (La nuova Babilonia, 1929). Odna (Sola, 1951). Approdano, in seguito, al realismo socialista con la cosiddetta 'Trilogia di Massimo’ che li impegna dal 1935 al 1939. Questo ciclo, pur accettando un certo schematismo narrativo, è comunque sorretto da uno stile anticonvenzionale. In seguito, accusati di cosmopolitismo e formalismo, interrompono la loro ventennale collabora­ zione. Kozincev si dedica al teatro per poi realizzare nel 1953 Belinskij, e nel 1957 un’originale ver­ sione del Don Chisciotte (Don Kichot, 1957). Rilevanti i suoi adattamenti da Shakespeare fra cui spicca l’Aw/e/o (Gamlet) del 1964. •’ Mikhail Kalatozov, cineasta sovietico ( 1906-1973), si affermò già nei primi anni ’30 con il do­ cumentario Sol' Svanetii (Il sole della Svanezia, 1930). 1 Leijat zuravli, 1957. ■* Grigorij Cuchraj (1921 ). cineasta sovietico. Debutta nel 1956 con II quarantunesimo (Sorok pervyj) c si afferma intemazionalmente con La ballata del soldato (Ballada o soldate. 1959) e Cieli puliti (Cistoe nebo, 1961).

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Da sinistra a destra. Georgi) Sengelaja. Sergej Paradianov e Otar Ioseliani.

In seguito apparvero nel cinema georgiano Abuladze1 e Ccheidze1 2*che co­ minciarono un po’ alla volta a imitare il neorealismo italiano. In Lettonia e in Lituania apparve Zalakjavicjus5, che realizzò un film intitolato Nessuno voleva morire4, il primo tentativo di descrivere l'assurdità della seconda guerra mon­ diale dal punto di vista bolscevico. Su quest’onda - il disgelo non era ancora terminato, Kruscèv era ancora al potere - sono apparsi Paradzanov, Tarkovskij, Panfilov5, che hanno fatto uno o due film, scoperti e subito vietati. Marlen Chu1 Tengiz Abuladze (1924-). cineasta sovietico georgiano formatosi al VGIK. Autore di molti documentari, ha diretto dal 1955 numerosi film fra cui L'asino di Magdana. con Ccheidze (Lurdza Magdanv, 1956), Inalbero dei desideri (Dreno zelaaija, 1977) e Pentimento (Pokaianie, 1987). - Revaz Ccheidze ( 1926-), cineasta sovietico georgiano, diresse i suoi primi Him con Abuladze. Noto è il suo II padre del soldato (Ote

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('.adula di Icaro di (larlo Saraceni.

bugiardi. A ogni modo, un film fondato sul principio del carattere... non cre­ do di averlo fatto. Però tutti i Him di Rivette sono fondati sul carattere, sulla particolarità. Ha latto un bellissimo film di recente... molto, molto bello. Secret defense. Ci sono dei caratteri, ma può darsi che sia anche altro, una tragedia, una vera tragedia... alla Euripide, insomma. D.V. Ma il fatto che i personaggi non siano sviluppati in chiave psicologica per­ mette anche di sfuggire all'invadenza di uno sguardo ‘borghese' che vuole coglie­ re e risolvere sempre, ipersonaggi in un...1 Cioè identificarsi con il personaggio? D.v. No, ridurli a una formula...

Francamente non so, può essere. C’è una cosa probabilmente, cioè che non possono essere classificati perché non riducibili alla rappresentatività degli at­ 1 Vedi

natura detrattore nella sezione II metodo Ioseliani, p. 169.

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tori. Quando un personaggio è descritto in una sceneggiatura è come una ma­ rionetta; si enumerano le sue azioni: si sveglia, prende una bottiglia, esce, scen­ de, assiste a un’esplosione, sale sulla montagna, beve e non si accorge nemme­ no dell’esplosione di un carro armato1. Ma il modo in cui fa questo determina una vita unica che è interna a lui. Non si tratta degli attori. Perché, secondo la logica di associazione con i ruoli che hanno recitato in precedenza, si può pre­ vedere esattamente cosa faranno gli attori. Si può prevedere. Ma l’interessante è che, in realtà, non si può prevedere come lo faranno. C’è un’esplosione12: tre amici sono seduti sulla collina e cantano. Passa un carro armato: c’è il rumore della granata, loro cantano, e questa esplode. Esco­ no tre carristi bruciati che corrono attraverso la collina scomparendo da qual­ che parte in basso, in un buco. Allora: uno dei tre si alza; gli altri gli dicono: “Siediti!”; un altro guarda e l’ultimo invece non guarda nemmeno. Ma tutto fi­ nisce in una bottiglia, perché è molto più serio dell’esplosione del carro. Bevo­ no e continuano a cantare. Normalmente ci si aspetta che vadano a domanda­ re “Come state?” o “Vi possiamo aiutare?”, ma il fenomeno della guerra è pri­ ma di tutto abituale, in secondo luogo non è il loro mestiere, terzo, disprezza­ no queste persone, e, quarto, non possono cambiare nulla. C’è un velo tra loro e la guerra: tre ragazzi molto onesti continuano a bere e a cantare. Perché bisogna vivere. Bene, tra questi personaggi c’è qualcuno che poi verrà mostrato più distesamente, ma io comincio dal lato... più enigmatico, si può dire. Non si capisce chi siano queste persone, ma ciò che importa è che sono indifferenti agli avvenimenti che accadono intorno a loro. E ognuno a mo­ do suo: uno utilizza il carro armato come mezzo di trasporto per raggiungere i suoi amici; due stronzi delinquenti che mirano ai passanti dai tetti gli sparano e sbagliano bersaglio, lui si gira e li guarda con disprezzo. C’è indifferenza per tutto. Con questo metodo, non posso dare allo spettatore la possibilità di essere molto vicino al personaggio e di cominciare a vivere la sua vita. Questo non mi interessa. Perché dal momento in cui io gli permetto di vivere la vita del personaggio, lo spettatore può prevedere la logica delle sue azioni. Questo si chiama psicologismo, penetrazione della mentalità o semplicemente identifi­ cazione. Quando dite “Al suo posto farei così”, inutile raccontarvi qualcosa. C.H. Nei Favoriti della luna la sceneggiatura è stata scritta con Gerard Brach. Come si è svolta questa collaborazione?

E una storia banale, molto semplice. Avevo scritto quaranta pagine, uno schema di intenzioni. Dopo qualche fallimento ho trovato un produttore. 1 Si fa riferimento a una scena del film Briganti. 2 Ancora Briganti.

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In precedenza ero stato invitato da Gaumont, che mi propose di fare La Tra­ viata... molto semplice! Più tardi ne trovai un altro che, però, voleva avere la garanzia di un nome conosciuto in Francia per presentare il progetto alle diffe­ renti commissioni. Ho quindi conosciuto Brach, che mi è piaciuto molto, tanto che siamo rimasti amici e compagni fino a oggi. Brach sapeva perfettamente che non poteva fare niente per me, perché bisognava ancora elaborare il tessuto del­ la sceneggiatura. Ma si doveva comunque consegnare un testo al produttore. Ha scritto quindi quaranta pagine che sono state, però, rifiutate. Perché, credo, per la prima volta nella sua vita, si è permesso di scrivere quello che voleva. Non era l’adattamento di un testo classico. Forse era molto divertente, ma non era il film che volevo fare. Dal momento che il testo era stato rifiutato, mi disse: “Ora ho altre cose serie da fare”, continuando però a firmare la sceneggiatu­ ra perché passasse. Così il suo nome forse ci ha aiutato... Quando i francesi nella commissione leggono Brach dicono: “Ah, bene, d’accordo... D’accordo, questa è una cosa seria”. Tutto qua.

C.H. Curioso è lfatteggiamento dei critici francesi, quello di rilevare nei Favo­ riti della luna la presenza di molti aspetti propri del loro cinema nazionale: il ci­ nema di Tati, di Clair, alcune cose del cinema di Godard, come se la Parigi dei Fa­ voriti della luna fosse il grande contenitore di tutte queste matrici. Cosa pensa di questo atteggiamento, di questa considerazione? Inizialmente volevo fare questo film in Georgia. Se fosse stato recitato in georgiano e se fosse stato girato nelle strade della Georgia, non ci sarebbe sta­ ta la questione dei cliché del cinema francese. Poi volevo farlo in Italia, ma in Italia abbiamo cercato, cercato, e non abbia­ mo trovato nulla, perché era il regno di Carlo Ponti, De Laurentiis e di tutti questi... Allora in Francia trovammo, ma con grande difficoltà, un produttore che pensava, esattamente come le autorità russe, che la mia reputazione di en­ fant terrible sarebbe stata di aiuto per l’uscita del film, per la pubblicità; sarei stato un dissidente russo venuto a rifugiarsi in Francia. Perse l’interesse in me non appena dichiarai che non sarei rimasto in Francia come esule, anche se con­ tinuava ad avere la speranza che non fosse vero. Nello studio mi mostrava i bi­ nari dei carrelli e mi diceva: “Eh! Vedete com’è da noi?”; poi mi faceva vedere i proiettori, dicendo: “Vedete? Questi fanno luce!” A quel punto ho detto: “Ascolti, c’è una cosa che le devo dire - poi l’ho ripetuto un po’ a tutti -: quan­ do i vostri antenati stavano nella foresta, sugli alberi, i miei avi avevano già cin­ que traduzioni della Bibbia!”. Perché i francesi pensano che tutto quello che proviene da lontano sia sel­ vaggio. E lui era un piccolo francese medio... Dunque alla fine non sono rimasto, e lui ha fatto un film di Alain Resnais che

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si intitola La vita è un romanzo', che ha portato al Festival eli Venezia. E così ab­ biamo concluso il nostro rapporto più o meno correttamente. La domanda, qual era? Ho cominciato a raccontare... C.H. Come considera i pareri della critica francese?

Voglio dire che la critica francese diceva soltanto... “Oh che film!”, “Oh questo film!”, ma bisogna consigliare lo spettatore, mostrargli perché un certo film è interessante. Non perché siano mediocri e stupidi coloro che hanno fatto riferimento a Ta­ ti, a René Clair, a Godard, ma semplicemente li hanno citati per attribuire al film dei cliché, perché lo spettatore tende a classificare un film all’interno di qualcosa di già noto. Gli spettatori francesi, come tutti gli spettatori credo, van­ no a vedere quello che già conoscono. No, non fanno questo per idiozia: loro promuovono semplicemente i film... Ora, quelli che hanno fatto una critica mirata, che hanno colto altri aspetti sono critici come Albert Cervoni, che aveva la capacità di individuare qualco­ sa, o anche Marcorelles... Il resto dei critici, in Francia, lavora nei giornali per proporre agli spettatori quello che amano, ed e obbligato a farlo. Vi assicuro, è molto lusinghiero essere considerati alla stregua di Tati, ma non c’è davvero nulla a che vedere tra il suo cinema e il mio, assolutamente nul­ la. Comunque, nel breve periodo in cui l’ho conosciuto, era un ragazzo molto simpatico... Lo stesso vale per René Clair, che amo molto, penso che quello che mi ha influenzato della sua opera sia, piuttosto, il suo punto di vista sul mondo, in cui tutto è tragico e simpatico allo stesso tempo. Ma la cosa più interessante è che quando i critici citano Clair non si rendo­ no conto che i francesi non lo amano, non lo amano affatto.

C.H. Riguardo ai Favoriti della luna, quanto una sonorizzazione attenta, pre­ cisa, aiuta il distribuirsi dell’azione?1 E stato un lavoro duro. Un duro lavoro che non si fermava in nessuna fa­ se, né durante la stesura della sceneggiatura, né durante la lavorazione. Ini­ zialmente erano state scritte solo poche intenzioni, per determinare perche un certo fenomeno entrasse nel nostro cerchio d’attenzione; dopodiché si è costruito uno schema all’interno della sceneggiatura, ancora imperfetta, poi ho fatto dei disegni dove sono riuscito ad andare più lontano; in seguito, du­ rante il casting, tutto diventò un rompicapo; poi le riprese: bisognava girare in fretta nelle strade... con attori assolutamente non professionisti, non era facile... 1 La vie est un roman, 1983. - Vedi La sonorizzazione nella sezione // metodo lowham. p. 189.

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Dedldlto: (tc/ti Kdm/daki, di C'era una volta un merlo camerino. (J/m U'cffd di Briganti: “(/{

7/

I

I segni del linguaggio cinematografico

La creazione del modello Potete farmi tutte le domande che volete, anche le più difficili e quelle che vi possono sembrare sciocche; io non sono né troppo intellettuale, né troppo tec­ nico. E poi amo un solo mestiere, quello che avrei voluto fare, il gioielliere. Il mestiere più vero, più antico, è quello del vasaio. Il vasaio, infatti, crea un vaso, ma più in generale crea un contenitore destinato a usi diversi, un serba­ toio d’acqua, a partire dal quale si ricaveranno altri serbatoi di ogni tipo. In so­ stanza crea un modello. La creazione di un modello è alla base di ogni singolo mestiere. I modelli si creano in differenti discipline e nelle scienze in particolare si crea un modello del mondo. Il modello più pericoloso è quello matematico, perché descrive la natura dei dati esistenti senza porsi questioni di coscienza. E così che, ad esempio, si è arrivati alla fissione dell’atomo e alla creazione della bom­ ba H da parte del signor Sacharov. E anche vero, per inciso, che egli ha poi mol­ to rimpianto di aver partecipato alla creazione di questo terribile strumento, ma solo dopo averlo fatto. C’è un episodio, a questo proposito, riportato da Sa­ charov stesso, che racconta di come si gettò ai piedi di Kruscév, implorandolo in ginocchio di non sperimentare questa bomba. Ciò prova che nell’essere umano, nella profondità dell’essere umano, alber­ ga una certa tendenza a creare modelli che diano la possibilità di capire la na­ tura delle cose. L’istinto primordiale di modellare e ricreare modelli è molto più forte di noi ed è quello che ci rende simili alle api. Sin dall’infanzia, i giochi dei bambini - i maschi con le gallerie di sabbia, le femmine con le bambole - riflettono almeno in parte la loro comprensione del mondo, consentono loro di vedere il mondo percependolo attraverso un mo­ dello. Leonardo, studiando il volo degli uccelli, voleva creare un modello che permettesse all’uomo di volare, senza forse comprenderne tutte le conseguen­ ze: che le persone avrebbero viaggiato da una parte all’altra del mondo con una velocità e un’immediatezza innaturali. Leonardo non si pose la questione di quale uccello avrebbe voluto riprodurre, se la rondine o il falco: voleva sempli-

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cernente che volasse, voleva comprendere come funzionava. Galileo e Giorda­ no Bruno hanno creato un modello di universo. Non sappiamo ancora come andrà a finire, ma si può sicuramente dire che non andrà a finire bene. Co­ munque ora sappiamo, senza averlo toccato con mano, come è fatto l’universo che ci circonda. I modelli creati nell’arte sono dunque piuttosto innocenti. Questo tipo di modello può fondarsi su forze diaboliche e, molto raramente, su forze angeli­ che. Conoscete la sindrome di Stendhal, che sembra colpire i turisti stranieri quando arrivano a Firenze. Per gli italiani non è nulla, voi siete circondati da oggetti che hanno quest’incredibile potenza, ci siete abituati, perché entrano nella vostra vita poco alla volta. Non vi sciocca. Molti psicologi hanno tentato di spiegare questa sindrome. A Firenze, soprattutto le persone che provengono dalla Scandinavia o dal nordeuropa si ammalano psicologicamente: questo ac­ cumularsi di bellezza, in cui il visitatore si tuffa, può infatti produrre uno shock psicologico, il che è stato coscientemente formulato in un trattato di Leonardo; Michelangelo sapeva perfettamente cosa faceva. Parlo dì tutti questi aspetti perché il nostro mestiere, quello cinematografi­ co, ha anch’esso un rapporto diretto con la creazione di modelli. Ci sono diversi strumenti per creare modelli, a partire dagli utensili che tagliano, colpiscono, bucano (utilizzati normalmente dagli scultori e dai muratori), passando per l’in­ venzione, l’elaborazione dei colori, i pennelli, l’olio, l’affresco, le arti grafiche (tecniche usate dai pittori) e così via, fino ad arrivare allo strumento più astrat­ to e globale, la lingua. La lingua è lo strumento che crea il modello delle relazioni umane su questa terra. Ha uno scopo, diciamo, pedagogico ed è utilizzata da coloro che, come gli artisti, cercano di trasmettere la propria esperienza. L'aspetto più interes­ sante è che non riescono mai a dire la verità. Descrivendo il proprio vissuto, cer­ cano di abbellirlo, perché sembra loro troppo poco divertente e troppo poco interessante per quello che è. Il modello orale e quello scritto sono pressoché analoghi. Un esempio classico di modello orale (poi messo per iscritto) è quel­ lo di Omero, con VIliade e V Odissea. Un altro tipo di modello è quello teatrale, di Sofocle, Euripide, Aristofane. Il modello teatrale nasce da un intento decisa­ mente utilitaristico, quello di descrivere avvenimenti accaduti realmente ai tem­ pi della Grecia antica, ad Atene. Si partiva quindi da uno sforzo di analisi che attraverso il trattamento, la preparazione e la suddivisione di questi eventi, mi­ rasse a trovarne la causa. Venne così utilizzato uno strumento che rendesse que­ st’analisi astratta, la maschera. A poco a poco gli accadimenti reali sono stati di­ menticati e al loro posto si è sostituita la pièce teatrale antica. Pensate, ad esem­ pio, che tutti i personaggi delle opere di Esopo erano ben noti alle persone del tempo: i cittadini di Atene sapevano perfettamente chi era il lupo e chi l’agnel­ lo. Altrettanto accadeva alla corte di Luigi XIV, dove tutti sapevano benissimo chi era il lupo e chi l’agnello nei racconti di La Fontaine. Tutto questo sapere è ormai scomparso, e a noi rimane solo il testo nudo. Abbiamo qui un esempio

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del passaggio dal dato concreto alla sua generalizzazione, ovvero l’estrapola­ zione di un fenomeno. Accorgersi che un fenomeno della vita quotidiana può essere generalizzato per comprendere tutta una serie di altri avvenimenti è uno dei casi più felici per un autore. Ogni autore vuole essere inconsciamente attore di questa estrapolazione e in­ volontariamente diviene così un predicatore. Prendete i testi dei profeti dell’Antico Testamento giunti fino a noi; circa duemila anni fa si verificò un feno­ meno che diede vita a una nuova generazione di predicatori: gli evangelisti. La vita e la morte di Cristo sono stati al centro della creazione di una parabola nar­ rativa e istruttiva. I quattro evangelisti, però, non sempre concordano. Così è stato creato un altro organismo, la censura, rappresentata dall’istituzione della Chiesa. La Chiesa ha accettato quattro testi e ne ha rifiutato ed eliminato un quinto. Sapete, inoltre, che esistono i vangeli apocrifi, che non rientrano nelle regole imposte dalla censura ecclesiastica. Questo processo di censura ha rag­ giunto il suo scopo, almeno in parte: se guardiamo i quattro testi, notiamo che essi sono pressoché conformi, analoghi. Le contraddizioni sono state cancella­ te, ma rimangono alcuni errori, errori che gli ecclesiastici non potevano vedere con chiarezza. Prendiamo un altro esempio: quello di un mendicante. Il mendicante, attra­ verso un’azione pantomimica, mi fa capire, molto semplicemente, cosa gli man­ ca: la mano tesa è un segno comprensibile per tutti. A volte, però, non è suffi­ ciente. Ci sono mendicanti maggiormente dotati di talento che utilizzano due metodi per modellare la propria situazione: uno è quello orale, con cui chi chie­ de la carità racconta e vi prega più con l’intonazione che con il gesto. L’obietti­ vo è assolutamente pratico. Colui che, invece, non crede né al gesto né alla vo­ ce, scrive. Crea un piccolo testo: “Ho fame”, ad esempio, o più semplicemente “Per mangiare”. Con il passare del tempo, però, egli diviene un vero autore: di­ ce “Sono orfano”, aggiunge “Sono appena uscito di prigione”... Che sia vero o falso non è importante, lui conosce i gusti e i criteri del pubblico, tocca i senti­ menti, banalizza e crea. Una volta a Parigi ho visto un mendicante che aveva scritto un bellissimo te­ sto sull’asfalto. Poiché, come tutti sanno, i francesi sono cartesiani, i passanti ri­ manevano molto impressionati dalla voluminosità di questo testo, lo conside­ ravano un vero e proprio lavoro. Ero assolutamente certo che tutto ciò che il mendicante aveva scritto non avesse niente a che fare con la realtà. Ma era il principio di ogni letteratura: è così che la letteratura crea un modello, inven­ tando cose mai accadute. Ritorno quindi all’inizio, quando dicevo che coloro che si occupano di arte non si accontentano affatto di una storia vera, di qual­ cosa che hanno davvero sperimentato nella loro vita, ma devono aggiungere qualcos’altro, a causa di questa tendenza a creare modelli. E, poiché nessuno ha mai visto i rappresentanti dei cieli o coloro che abitano gli inferi, la Chiesa ha inventato l’iconografia, anch’essa ovviamente sottoposta alla censura dei cele­ sti. Prendiamo l’illustrazione dell’Annunciazione o anche quella della Crocifis­

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sione di Cristo: i fiamminghi hanno inserito nella pittura sacra figure di nobili; Piero della Francesca ha raffigurato i nobili italiani riproducendone, fino al più piccolo dettaglio, gli abiti e gli arredi; dal momento che nessuno poteva imma­ ginare o vedere come erano Inferno e Paradiso, Dante Alighieri li ha popolati di persone che conosceva, di figure storiche e di suoi contemporanei. È persi­ no arrivato al punto di mettere all’inferno persone ancora vive! Ma era una pa­ rabola. La parabola è il metodo più puro per regolare i conti con i propri con­ temporanei o con le persone che ci hanno preceduto. Avete visto Miracolo a Milano? E una parabola nella sua forma più pura e, se volete, più piena. Nel cinema più ci si allontana dalla realtà, più si cade nella trappola della parabola. Negli anni del dopoguerra, gli anni ’40-’50, c’erano due linee di tendenza: una di esse consisteva nel tentativo di analizzare la vita come fenomeno da documentare, cui appartengono Zavattini e De Sica che hanno realizzato Umberto D, ma anche Miracolo a Milano, esempio geniale di quella seconda linea di tendenza che è la parabola. II neorealismo, sviluppatosi alla fine della guerra, ha utilizzato proprio un falso realismo per creare un mo­ dello profondo della società in cui gli autori vivevano (parlo dei vari rappre­ sentanti di questa corrente, a partire da Visconti fino a De Santis), secondo il loro punto di vista etico e filosofico; Rossellini rappresenta un certo modello di vita, De Sica un altro completamente diverso. Quando un’opera è suscettibile di una critica molto dura, significa che si av­ vicina molto alla vita; è cioè criticata come un modello di essa. Perché ognuno di noi possiede una visione della vita molto vicina alla propria esperienza e più o meno diversa da quella propostaci dall’autore. Al contrario, nulla si può dire contro una parabola come Francesco giullare di Dio perché, nella forma scelta per raccontare ciò che ci vuole raccontare, la parabola, la favola sfuggono in tal

“Okonoro fa qualche passo avanti e soffia forte... " dallo storyboard di Un incendio visto da lontano disegnato da Dimitri Eristavi.

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Ioseliani sul set di Aprile.

il mestiere del cineasta Agli autori non piace condividere le proprie esperienze cinematografiche, perché si rendono perfettamente conto di essere molto primitivi. Ci vergognia­ mo un po’ di raccontarci l’un l’altro come realizziamo i nostri film. Io ero dav­ vero molto amico di Federico Fellini. Non beveva, e mi guardava bere, ma non abbiamo mai parlato di cinema. Al contrario in Francia c’è una malattia, quel­ la di parlare degli aspetti più banali del cinema come se fossero cose estremamente serie. Il nostro mestiere non richiede dieci anni di formazione per arri­ vare a un certo livello; se, ad esempio, un violoncellista, un musicista deve pas­ sare almeno quindici anni a torturare il suo strumento, vi assicuro che noi pos­ siamo imparare tutto in tre mesi. Il dramma del musicista è quello di scoprire, dopo una lunghissima preparazione per padroneggiare il suo strumento, di non essere dotato, di non essere un vero musicista. Noi capiamo subito di non esse­ re cineasti. E sufficiente fare un primo film, per vedere se bisogna cambiare me­ stiere. Non si corre il rischio di perdere troppo tempo. La malattia di praticare a lungo un mestiere per impararlo ha creato in Caikovskij e Rimskij-Korsakov l’illusione di essere musicisti. E quindi, la grafomania musicale ha rovinato la loro vita. Al contrario un brillante musicista italiano, Gioacchino Rossini, non ne poteva proprio più della musica e si occupava di gastronomia. Anche Musorgskij non ne poteva più della musica, era stufo, beveva molto e si divertiva con i suoi amici, che non erano affatto musicisti. Per questo, quando vi parlerò dell’aspetto tecnico del mio mestiere, sarà semplicemente per incoraggiarvi a praticarlo. Se sarete arrivati a un risultato per voi soddisfacente, potrete continuare a fare cinema; ma se diventerete dei veri cineasti, alla fine non ne potrete più. Il dramma è che, quando non se ne può più, si è stanchi ed è già tardi per cambiare mestiere, perché non c’è più tempo per impararne un altro. Ma questo succede con tutti i mestieri.

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DOMANDA DAL PUBBLICO

Quale è, secondo lei, il momento più 'artistico' nel ci­

nema? E semplice: avere la tendenza, il desiderio di toccare tutto ciò che vi emo­ ziona. Il nostro mestiere è semplice: più la natura del mondo circostante ci re­ spinge, più cerchiamo testardamente di tornare a quella nostra visione iniziale, utilizzando gli stessi ostacoli che ce lo impediscono. Il momento più artistico è quando, passando per questa enorme tortura che è alla base della nostra creazione, si vede che con la testardaggine si arriva ad avere in mano un’ombra dell’idea iniziale, e questo è il momento che dà più gioia artistica. In Tempi moderni c’è una sequenza in cui Chaplin è un cameriere di un ri­ storante, porta un vassoio per arrivare a un tavolo, e in quel momento tutti si gettano sulla pista e iniziano a ballare, cominciando a spintonarlo fino a farlo cadere. Ma, essendo testardo, riesce, pur cadendo, a tenere in equilibrio il suo vassoio. Per terra, scivolando, mantiene dritto il vassoio e lo porta sul tavolo. Questo è un esempio della testardaggine che accomuna gli artisti di qualsiasi campo. Problemi di linguaggio Per ogni modello si utilizza il medesimo strumento di creazione, quello del­ la lingua, non importa in quale campo ci muoviamo. La cifra numerica è la pa­ rabola più astratta che esista. Per insegnare ai bambini a leggerla si fa così: si di­ segna prima una mela, poi, per ipotesi, una sedia; poi si disegnano due mele, due sedie, per far loro capire un’altra parabola. Le sedie possono essere posi­ zionate diversamente... A poco a poco si impara: due mele, due sedie, due ele­ fanti, tre telefoni... E i bambini cominciano ad abituarsi a leggere la parabola della cifra, a estrapolarla dalle cose concrete, a capirne l’essenza, a enumerare senza descrivere. Poi si passa alla formula: un integrale, per esempio, che tende allo zero, e che, senza la x superiore tende, invece, all’infinito. Anche questa è una somma di pa­ rabole, un linguaggio. Con il linguaggio matematico si può descrivere la som­ ma di più integrali. Pur prendendo in considerazione il modello più primitivo di integrale, la somma di più integrali può arrivare a descrivere i più raffinati e complessi fenomeni del mondo. Si può calcolare in quanto tempo si chiuderà il sipario, e, se non si apre la porta, quanto tempo occorrerà per soffocare in que­ sta sala, considerando l’aria condizionata, il calore dei muri, quello esterno, quello delle lampade, la nostra temperatura corporea. Tutti i fenomeni che ci circondano possono essere calcolati per arrivare a un certo risultato. Ed è molto più efficace che non scrivere un romanzo. C’è una poesia molto seducente nella matematica. Un altro esempio riguarda quello che abbiamo detto a proposito del model­ lo. Cerco di darvi la chiave di interpretazione, affinché possiate leggere il mio testo. Sapete molto bene che se io vi do una chiave di violino o di basso, nel pen­

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tagramma la stessa nota è nel primo caso un la e nel secondo un do. La stessa nota assume valori diversi, secondo le chiavi di valore da cui è preceduta. La convenzione che permette di leggere un testo parte dalla chiave di lettura. Sia­ mo d’accordo che, alTintemo di questo sistema di pensiero, un testo può esse­ re letto in un unico modo. Un tempo nei testi religiosi, al posto delle note, c’erano i neumi e si poteva salmodiare soltanto interpretandoli. Era un sistema ‘a quadratini’, privo di chiavi; poi cominciarono ad annerirli, quindi ad aggiungerci piedi e stanghette, per rendere la lunghezza sonora di ogni neuma. Il testo poteva, però, essere in­ terpretato liberamente, per l’assenza di una chiave di valore. Per esempio, se i canti erano stati composti da persone lontane tra loro, che non li avevano mai provati insieme, si cantava la stessa melodia ma in tonalità diverse. La conven­ zione stabilita diviene così la struttura portante del linguaggio. Per questo la let­ tura di un testo musicale diventa sempre più difficile: non perché sia difficile leggerlo, ma perché non dà alcuna possibilità di libera interpretazione. Tutto il sistema di notazione è fisso e determinato; un’unica eccezione è quando i com­ positori aggiungono una nota nel testo musicale che dice ‘fate quello che vole­ te’, il cosiddetto ‘rubato’. Sono dei compositori gentili. Il rubato è alla base del jazz. Sapete come funziona: date quattro battute as­ segnate ad altrettanti musicisti, ogni musicista può fare quello che vuole all’in­ terno delle sue. Ma, a ogni esecuzione, ciò non restituisce mai lo stesso effetto. Per questo è stata inventata la definizione di ‘musica leggera’. Passiamo alla lingua fonetica: prendiamo la cosa più semplice... la parola Tue’. La e non si pronuncia. In ‘strada’ si pronunciano, invece, tutte le lettere. Se fate però leggere questa parola a un inglese, la pronuncerà in maniera diffi­ cile da comprendere per un italiano e assolutamente incomprensibile per un francese. Scrivo in greco il mio nome: COTOtp. Sembra che gli antichi greci Io pro­ nunciassero in maniera del tutto diversa. La lettera G, ad esempio, si pronun­ ciava allora in modo totalmente differente da come la si pronuncia adesso. Le convenzioni attraverso le quali si legge uno stesso testo sono mutate. Leggendo il greco contemporaneo non si comprende affatto quello antico. Dopo Bisan­ zio, Costantinopoli e il dominio turco, la lingua greca è completamente cam­ biata. Ancora adesso usiamo le lettere latine; eppure dopo la caduta dell’impero Romano il latino si è trasformato in un argot, la lingua italiana. La stessa cosa è accaduta in altri paesi. In Spagna c’è l’argot spagnolo e anche il francese è un argot del latino, per non parlare del rumeno. Perdere la chiave d’interpretazione di una cultura è una tragedia pari a quel­ la di perdere la capacità di distinguere il bene dal male. E quello che succederà molto presto all’inglese. Sono tutti molto contenti della diffusione globale del­ l’inglese, ma si finirà per arrivare alla sua babelizzazione, perché tutti, nei di­ versi punti del pianeta, aggiungeranno propri idiomi a esso. Il cinese aggiun­ gerà qualcosa, i giapponesi, che non pronunciano la r, la sostituiranno con la 1

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e molto, molto presto si arriverà allo stesso fenomeno per cui i testi platonici ri­ sultano incomprensibili ai greci contemporanei. Non sono un grande esperto di arcaismi della lingua inglese, ma sembra che per i giovani Shakespeare sia mol­ to difficile da comprendere. Ci sono, a volte, però, delle invenzioni geniali: la lingua georgiana, per esem­ pio, in cui ogni lettera rappresenta un suono determinato. Non ci sono lettere impronunciabili o pronunciabili diversamente a seconda della posizione; un te­ sto del II secolo a.C. suona esattamente come all’epoca in cui è stato creato. Ciò ha fortemente impedito il cambiamento fonetico della lingua georgiana. Essa può scomparire ma non cambiare. La stessa cosa, lo stesso fenomeno linguisti­ co nella scrittura, si può osservare nei differenti dialetti cinesi. Nella scrittura cinese non ha assolutamente importanza la pronuncia degli ideogrammi, per­ ché rappresentano nozioni, concetti. La combinazione di due ideogrammi si­ gnifica ‘un cinese’; se aggiungete un segno in più vuol dire ‘una cinese’. Potete anche parlare soltanto l’italiano, ma, conoscendo un minimo questi ideogram­ mi, potete comunicare per iscritto e senza problemi con un tibetano. Non so co­ sa abbia fatto Champollion in Egitto, non credo alla validità della sua scoperta, ma ha comunque creato una chiave di lettura dei testi egiziani, che danno l’im­ pressione della presenza, al loro interno, di una logica. Per questo credo che la creazione della chiave di lettura di una lingua sia davvero molto importante. I segni che ci circondano per strada sono per noi comprensibili dal momento in cui abbiamo creato una convenzione che ci permette di interpretarli. Prendia­ mo un semaforo nel traffico, con la classica disposizione dei colori: giallo al cen­ tro, rosso in alto, verde in basso. Supponendo che un vetro sia rotto e che la lu­ ce emessa sia bianca, poiché siamo abituati a vedere un semaforo con le luci di­ sposte sempre allo stesso modo, possiamo comunque leggere il testo, malgrado la mancanza di un determinato colore. Per quanto riguarda il simbolismo, il più vicino al nostro mestiere è quello della fotografia. Per arrivare alla corretta lettura di un’immagine come un pri­ mo piano era assolutamente necessario cominciare dalla riproduzione fotogra­ fica di una figura intera. All’inizio il primo piano poteva essere interpretato co­ me un ‘uomo tagliato’: tutti i primi dagherrotipi sono a figura intera. E Nadar, convenzionalmente ci si riferisce a lui, che ha osato inserire il primo piano. Una funzione della lingua è la fissazione, che ne è anche l’unico obiettivo. Il cinema può pretendere di appartenere alla categoria delle lingue perché passa per la fissazione. Fissazione dei movimenti, degli oggetti morti come di quelli vivi, che si ripete indipendentemente dal testo. Nella lingua cinematografica ci sono molte imperfezioni o lacune, molto più che in altri linguaggi. Ma ci sono anche molte peculiarità, assenti in altri fenomeni linguistici. Una di queste mancanze è quella della libertà di adattamento del nostro testo alla sensibilità del singolo spettatore. Per contro, c’è un certo universalismo espressivo - esclu­ dendo il testo fonetico - che rende questa lingua comprensibile a tutti. La mia opinione è questa: quando un film necessita della traduzione, non si

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ha linguaggio cinematografico. Quando capisco tutto di un film chiudendo gli occhi, vuol dire che la lingua cinematografica è assente. La penso così. Eviden­ temente così è tutto molto più complicato... Questa mancanza di libertà di adattamento del testo alla sensibilità del sin­ golo spettatore, ha avuto una conseguenza negativa nei paesi primitivi. E suc­ cesso nel Congo Belga, quando hanno proiettato per la prima volta un film. Gli spettatori non sopportavano figure tagliate, gli sembrava spaventoso, sadico, perché, sebbene tagliate, continuavano a muoversi. A poco a poco, però, sono entrati nella convenzione. Anche loro hanno trovato la chiave.

Linguaggio e verità Vi mostrerò due estratti da un film che detesto, Ottobre. Ejzenstejn ha crea­ to una favola sull’aspetto positivo della Rivoluzione d’Ottobre e del bolscevi­ smo. Si è impegnato a servire quest’ideologia sapendo benissimo quali fossero i suoi errori. I soli autori di questo cinema sono Lenin e Stalin, come tutti Ì com­ ponenti del politbjuro; il cineasta dell’epoca era semplicemente il realizzatore delle loro idee e delle loro intenzioni. Questo film è un’esposizione di segni. ( igni brano di esso è l’esempio di un testo: nel nostro mestiere, come nel testo del mendicante, la verità non ha alcuna importanza. L’essenziale è che venga pronunciata con una convinzione politica. I testimoni degli avvenimenti dell’e­ poca sapevano perfettamente che ciò non era vero, che c’era un’altra dimen­ sione politica sotto tutto questo. Non pensate che questa sia una critica diretta all’opera di Ejzenstejn. Non mi tocca né da vicino, né da lontano. Mi riferisco semplicemente al fenomeno linguistico. I testi di diverse epoche giunti fino a noi potevano, al tempo, essere facil­ mente letti come testi ridicoli. Oggi forse non leggiamo Sofocle come veniva let­ to dagli antichi Greci, poiché abbiamo a disposizione solo il testo. Forse tutto ciò che è stato raccontato neW Iliade di Omero veniva considerato dai suoi con­ temporanei come una terribile e fastidiosa debolezza mentale; ma oggi noi con­ feriamo un altro valore a questo testo. D testo senza tempo che arriva fino a noi conserva un unico valore: quello di essere ben fatto, anche se basato intera­ mente sulla menzogna. Se è fatto bene noi lo leggiamo con rispetto. Ovvia­ mente non ci permette alcuna reale conoscenza degli avvenimenti dell’epoca, ma rimane credibile a tal punto che, dopo settanta anni, un documentarista so­ vietico ha utilizzato alcune inquadrature di Ottobre come immagini d’archivio. ( ìli elementi di ciascun testo, se non si possiede la chiave di lettura di cui vi ho parlato, possono servire agli scopi più diversi. Questo ha permesso che i film di propaganda fascisti e nazisti venissero smontati e rimontati da Michail Romm nel documentario intitolato II fascismo ordinario^ cambiandone il senso. Le stesse inquadrature girate per celebrare il fascismo sono state utilizzate per denunciarlo. Il senso è stato completamente rovesciato. Ciò vuol dire che il testo, privo di una chiave di lettura, è dissocia­ bile. Questa è una delle grandi debolezze dei testi che partono dalla rappre­

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sentazione di avvenimenti reali. Il testo cinematografico del periodo comunista, lo ho sottolineato, si basava sull’uso del primo piano, scelto con una determi­ nata finalità; gli stessi primi piani sono stati utilizzati dai nazisti per mostrare la cattiveria dei bolscevichi. Questo fenomeno può prodursi in moltissimi film. Per questo bisogna stare molto attenti a usare la nozione di documentario. E meglio fare una favola, una parabola, apertamente fondata sulle proprie fantasie, che creare uno pseudo­ documento di un evento reale. Quando parlo di un documentario penso a Loustana o a Nanouk l’eschimese. In questi film non c’è la pretesa di ricreare la ve­ rità, si utilizzano semplicemente gli elementi della natura e i personaggi così co­ me sono, elaborandoli all’interno di una frase poetica. La poesia è il metodo con più muscoli per afferrare l’essenza della vita. Pen­ sate, ad esempio, a come finisce inferno di Dante: “E quindi uscimmo a rive­ der le stelle”. Questo è un momento con i muscoli, che compensa tutto ciò che è successo in precedenza, e ho l’impressione che Dante sognasse di arrivare, al­ la fine, a questa frase. Lo sviluppo di questa tortura che Dante si autoinfligge per descrivere tutto ciò che avviene nell’inferno aveva, in prospettiva, il mirag­ gio delle stelle. Sapete benissimo che, senza parlare degli anagrammi e della struttura poetica, la Divina Commedia era un modello, seppur molto tenden­ zioso, della società in cui l’autore viveva. Dante non aveva alcuna pretesa di creare un quadro perfetto della realtà. Per questo non ha scritto un romanzo realistico; ha immerso tutto in un luogo inesistente. Sapete altrettanto bene che il Paradiso forse non raggiunge lo stesso risultato, perché nell’idilliaco c’è sem­ pre una mancanza: è troppo mellifluo, in esso si legge con maggiore facilità la menzogna.

Il segno astratto, priorità della letteratura Abbiamo parlato dei segni del linguaggio in tutti i sistemi espressivi. Siamo d’accordo che ci si esprime cercando di creare ogni volta un piccolo modello, che rifletta un aspetto o l’altro della realtà. Ogni modello viene creato attraver­ so il linguaggio. Più la lingua utilizza simboli astratti, più si considera tale. Più la lingua usa il concreto, più questo spegne la forza del linguaggio. Per esem­ pio, molto difficilmente si possono attribuire i segni della pittura e della scul­ tura alla linguistica. Eppure si tratta in ogni caso di lingua. Parliamo degli aspetti spirituali, come il messaggio della pittura. Non è per nulla che, all’inizio del ventesimo secolo, la pittura è passata al cubismo e all’a­ strattismo. Era necessario inventare qualcosa che arrivasse al livello dei segni, per decomporre la realtà, per analizzarla. I pittori attivi a cavallo tra Ottocento e Novecento sono passati attraverso lo studio dei grandi maestri, di cui aveva­ no imparato la tecnica pittorica. C’è un legame diretto tra le epoche di Velaz­ quez e Goya, tra Poussin e la scuola fiamminga e gli impressionisti. Gli impres­ sionisti sono stati gli ultimi ad aver cercato di lavorare in gruppo, ad avere un certo numero di precise regole teoriche, anche se Renoir è diverso da Manet e

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quest’ultimo lo è da Monet. L’unico a restare letteralmente fedele alla teoria è stato Pissarro. Perché mi trovo sfortunatamente costretto a parlare di questo periodo della pittura francese? Perché è stata una corrente animata da una for­ tissima ricerca linguistica. In Russia c’erano solamente epigoni degli impressio­ nisti e soprattutto dei post-impressionisti. Tutto ciò che si classifica con ‘ismo’, come neorealismo o costruttivismo, di­ venta ideologia. Parallelamente, più tardi, le ricerche linguistiche hanno portato, in musica, a un’autentica rivoluzione, attuata da Schonberg con la dodecafonia, la distruzio­ ne dell’armonia trisonora fondata sulla tradizione della scuola di Haydn, Bach e Cimarosa. Tutte queste correnti sono state percepite dal pubblico come la di­ struzione dell’armonia e della bellezza, allora sinonimi di arte. La letteratura ha una sola e incomparabile peculiarità: permette di dare libe­ ro sfogo alla fantasia dell’autore. Ho disegnato le mele, le sedie e altri oggetti concreti; siamo passati alla nozione di parabola, di favola, che è poi stata indi­ cata come cifra, numero, metodo aritmetico. La letteratura vi dà la possibilità, a partire dal vostro vissuto concreto, di realizzare immagini attraverso le paro­ le. Non vi impone il concreto, ma ve ne fornisce i segni, che voi potete inter­ pretare secondo il vostro bagaglio personale. Questa, se volete, è la democrazia ilei linguaggio, in cui ognuno rimane libero, nella propria immaginazione, di applicare segni generali alla propria esperienza personale. Questo è l’incompa­ rabile merito della parola, della letteratura.

L,/ nazione di rumore Noi cineasti conosciamo un solo modo onesto di fare il nostro mestiere, ed è ciucilo di essere interamente autori della nostra opera. Cosi non disturbiamo nessun testo, non siamo dei criminali die presentano al pubblico immagini ca­ suali, pericolose, rischiose, che non derivano da noi. In questo modo ci distin­ guiamo dalla pratica di altri, che adattano, ma al contempo distruggono, testi altrui. Introduciamo così il vasto problema del rumore. Il rumore è scientificamen­ te ciò che impedisce a un segnale di penetrare. Se c’è un motore acceso tra me v voi, voi sentite male quello che dico e a volte il livello del rumore può essere talmente forte da impedire la comprensione. Il rumore può essere molto melo­ dioso: in fisica hanno creato la nozione di rumore bianco. Esso contiene tutte le in formazioni che possono essere trasmesse da un punto all’altro, tutti i can­ ti, le musiche, tutte le poesie pronunciate o destinate a esserlo. Il rumore bian­ co è una cosa del tutto astratta, che contiene tutte le possibili informazioni del campo sonoro. Nel processo della comprensione, un’informazione pericolosa è quella che si fonda sul dato concreto. La pittura, ad esempio, è molto rumorosa; vi obbliga... viola la vostra immaginazione. Si è rapiti dal fascino del concreto. In ambito ec­ clesiastico, il concreto della pittura, l’immagine concreta di un uomo, veniva 147

considerato diabolico. Non pensate che voglia farne una questione teologica, il fatto è che sento il concreto come una forza che non porta in sé alcuna informa­ zione, che schiaccia la vostra immaginazione. Più una cosa è concreta, più si al­ lontana dal testo; raccontare qualcosa per immagini è molto, molto difficile. Prendete, per esempio, la scultura del Laocoonte: rappresenta tre personaggi av­ viluppati da serpenti, in pieno movimento, movimento violento, ma bloccato. Sono fìssati lì... E un esempio singolare per la scultura greca, per lo più calma, immobile, tranquilla. Ciò era stato ben compreso dagli scultori del Rinascimen­ to. Michelangelo ha fatto il David in posizione immobile, Cellini nel suo Perseo che tiene in mano la testa della Medusa produce un’immagine fìssa, immobile. Prendiamo la Pietà di Michelangelo: è una composizione triangolare, calma e ri­ posata, che si basa proprio su questo principio. E questo muove forse l’immagi­ nazione più di quanto non faccia il movimento isterico del Laocoonte. Torniamo al rumore: ogni soggetto mitologico, anche se ben composto, pre­ suppone uno sviluppo narrativo, un passato e un futuro. Prendiamo il Timoretto: questi rapimenti di donne, navi... che cosa succede dopo? E in Tiepolo la stessa cosa. Il Canaletto vi presenta, invece, le immagini così come sono; non ce niente al di là di esse, né un prima, né un dopo. Questa è la tendenza a ri­ costruire la realtà come tale. Sappiamo benissimo che la realtà si sviluppa nel tempo; questa concretezza è il rumore che ci impedisce di partecipare, con il nostro pensiero, delle idee dell’autore. Un testo scritto può essere assolutamente incomprensibile, però è sempre più interpretabile delle immagini. Prendiamo, ad esempio, i geroglifici: un pe­ sce. A questo livello il segno è del tutto astratto; ma per apportarvi del rumore basta aggiungere un occhio, una bocca, una coda. Più concretizzo, più mi al­ lontano dal semplice segno dei geroglifici. Il mio segno diviene concreto. In­ troduco il rumore tra voi e il segno puro. Un altro esempio può essere il sem­ plice ideogramma di una casa. Se aggiungo i dettagli il segno scompare. E pro­ prio questo che ci ostacola nel nostro mestiere. Siamo molto concreti, più del­ la pittura. E il cattivo gusto degli ingegneri, non solo ci ha allontanato dall’om­ bra deH’immagine, che è propria del cinema muto, ma ha aggiunto il sonoro, poi addirittura il colore e infine ha creato il cinemascope. Come uscire da questa impasse? Adesso c’è anche la tendenza a rendere im­ magini e suono tridimensionali. Non si può più dialogare con Io spettatore nel­ lo stesso modo in cui si faceva con l’arrivo del treno dei Lumière. Almeno i film di Griffith portavano un’ombra del linguaggio dei segni; ora c’è il suono stereo, il dolby, l’ologramma, il colore, lo schermo gigante... Ho visto in Francia l’esperimento di uno schermo che continuava in alto e in basso, oltre le dimensioni abituali; rappresentava il volo delle farfalle, metten­ do lo spettatore idealmente al loro posto. Poi aggiungeranno gli odori, ci met­ teranno i guanti per l’impressione tattile. Ma per questa macchina che si chia­ ma cervello non ci sarà più niente. Per concludere il discorso sul rumore, la lettura di un testo è frutto del lavo-

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ro dello scrittore e di quello del lettore. Sapete bene che le case editrici sono og­ gi in crisi, perché la gente, a poco a poco, smette di leggere. Ci sono troppe im­ magini nella vita quotidiana e il lavoro del pensare è molto duro. Si comincia a educare i bambini, a dar loro un’istruzione da quando sono molto piccoli, nu­ trendoli con un piatto di immagini così ricche e molteplici che loro si abituano Facilmente a digerirle. Da un punto di vista medico, l’effetto è quello della dro­ ga; la stessa cosa avviene con il suono. Un tempo la musica esisteva solo nel momento in cui veniva eseguita e l’ese­ cuzione aveva i suoi tempi, l’atmosfera veniva creata specificamente per questo, con le persone sedute nella sala e gli strumentisti che suonavano per loro... ora, grazie a una sola persona, il signor Edison (anche Marconi c’entra qualcosa) possiamo trasmettere informazioni sonore a distanza, conservarle su un sup­ porto, un disco, e la musica viene realizzata solo all’interno delle sale di regi­ strazione. L’ascolto della musica è diventato una banalità quotidiana, e le per­ sone non riescono più ad ascoltare il silenzio, perché nel silenzio sono obbliga­ te a stare sole con se stesse. E quando si rimane soli con se stessi senza droghe si è obbligati a riflettere. Al posto della letteratura abbiamo adesso ! fumetti, pieni di rumore, che uti­ lizzano il concreto del testo e privano i bambini di ogni riflessione. Questa tra­ dizione ha radici molto profonde. La pigrizia del pensiero affligge l’umanità da molto tempo, le illustrazioni del testo esistono da sempre, come, ad esempio, tutti i soggetti raccontati nelle tombe egiziane, fortunatamente destinati ai de­ funti. È la base della concretizzazione del testo, la produzione di rumore su di esso. Gli affreschi, di cui sono piene le chiese, privano anch’essi dell’immagi­ nazione. Psicologicamente è molto desiderabile vivere nel mondo concreto. A partire dalla comparsa di grandi illustratori come Gustave Dorè, che ha illu­ strato la Bibbia, La Fontaine, la Divina Commedia... Il cinema stesso è partito, inizialmente, dal principio dell’illustrazione. Oggi si è arrivati a una impasse, per il sovraccarico dei mezzi tecnici. Normalmente, più i mezzi sono poveri, più il testo è elaborato. Quale è la conseguenza di tutto ciò per il nostro mestiere? C’è un solo risul­ tato: l’interposizione delle immagini atte a imitare una frase dopo l’altra. Con la sovrapposizione del testo si cerca di avvertire lo spettatore; con brani di imma­ gini concrete e in movimento, lo si pone in una situazione che faccia muovere in lui qualcosa che assomigli al pensiero. Quando lo spettatore indovina cosa gli si vuole dire, senza che sia stata pronunciata una sola parola, rimane un po’ sor­ preso per il semplice fatto di aver capito qualcosa che va al di là del concreto. Il metodo narrativo della letteratura impedisce al cinema di vivere. Per con­ no, il metodo di composizione cinematografico è molto più vicino a quello del­ la musica. Sappiamo benissimo che la musica ha elaborato una complessa teo­ ria della forma. Quella più semplice è quella tripartita. Il rondò, ad esempio, o le canzoni popolari. Poi ci sono la fuga, la forma sonata, le variazioni. C’è poi il contrappunto, quando abbiamo un tema principale e un altro totalmente di­ 149

verso che suona sotto, e il metodo polifonico. E pensate che tutto ciò è stato fat­ to senza soggetto, senza narrativa, senza la ‘favola’. Ma l’informazione musica­ le è così chiusa nella forma che la chiave di lettura di questo testo, quando la si conosce, immerge ciascuno di noi in riflessioni personali. Così come la musica, anche il cinema si sviluppa nel tempo; così come una sonorità possiede una cer­ ta lunghezza, altrettanto nel cinema si può imporre allo spettatore la durata del­ l’osservazione di una data immagine. Questa è l’unica soluzione che posso pro­ spettarvi per portare il cinema oltre il rumore del concreto. Ho passato una lunga serata con Jacques Tati a parlare di questo, non è una conclusione a cui sono arrivato da solo: la scomparsa del bianco e nero è una catastrofe paragonabile all’eruzione del Vesuvio; i piccoli drammi del cinema sono arrivati tutti molto più tardi, e sono tutti di ordine linguistico. La comparsa della televisione... La televisione è nata per trasmettere imma­ gini di avvenimenti a grande distanza, ma poiché si tratta di un’impresa com­ merciale ha utilizzato come materiale, come proprio nutrimento, il cinema. Mai una cartolina potrà sostituire un quadro di Velazquez. Nella pittura, altrettan­ to che nel cinema, il formato gioca un ruolo fondamentale. Il dominio delle pic­ cole immagini crea sullo spettatore un rumore inverosimile, perché il metodo della pittura e del cinema è quello di dominare lo spettatore attraverso le di­ mensioni dell’immagine. Il formato è uno degli elementi della lingua cinemato­ grafica. Quando osservate Giotto in un formato molto piccolo, non è niente, non ce testo (e già nella pittura stessa c’è poco testo). Con la diminuzione del formato aumenta enormemente l’ostacolo che si frappone tra l’osservatore e l’oggetto osservato. Non c’è niente di male nella registrazione sonora; grazie a essa è possibile adesso ascoltare Caruso, cosa altrimenti impossibile. Quest’invenzione entra nel campo dell’obiettivo e della permanenza del testo. L’obiettivo è la fissazio­ ne, ma l’esasperazione di tale fissazione ha inevitabilmente creato un rumore. La pellicola è diventata estremamente fragile e mortale. Si tratta di una tec­ nica di fissazione su un supporto che può prolungare la vita delle opere il più possibile. Sappiamo benissimo che tutto è mortale, che tutto scompare: è ri­ masta solo una metà del Partenone; la Venere di Milo non ha braccia, e forse fortunatamente, perché è diventata così un testo-enigma. Si tratta, qui, della convenzionalità del testo: immaginate le braccia nuovamente attaccate alla sta­ tua, i loro gesti... forse sarebbero anche di troppo, ma né la storia, né la natu­ ra, né la violenza umana hanno scelto di semplificare il testo concreto. L’uma­ nità distrugge tutto, anche poco alla volta, e non c’è modo di mutare questa si­ tuazione. Abbiamo questa disgrazia, il desiderio di fissare qualcosa e, allo stesso tem­ po, attraverso di essa incameriamo, ogni volta, troppo rumore. Io non appar­ tengo alla categoria dei nostalgici che guardano sempre indietro a tutto ciò che è stato perduto, ma bisogna comunque fare una constatazione terribile: il me­ todo di fissazione del testo ha, poco alla volta, cancellato il testo dalla nostra vi-

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ta. Non c’è possibilità d’errore nella comprensione della parola testo: la nozio­ ne di testo è l’unità d’informazione. Si parla di vitalità dell’immagine e si parla con tristezza della scomparsa del metodo di lettura di tale immagine. Dal momento che il cinema è fatto per es­ sere letto dalla collettività, si può sempre verificare, da una sala all’altra, se un testo viene compreso. In passato, quando le sale erano piene, quando il testo cinematografico era ricco - parlo di un’epoca non lontana, del periodo della nouvelle vague o del neorealismo - c’era questa sorta di corrente elettrica che attraversava la sala, una comprensione comune, tutt’altra cosa da ciò che sarà un grande schermo collocato nel vostro appartamento, dove sarete soli a guardarlo. Tutte queste piccole sfumature nella lettura di un modello del mondo che ci circonda creano una base per una riflessione che non ha frontiere.

I bt segno mostrato DOMANDA DAL PUBBLICO Nella scena finale di C’era una volta un merlo can­ terino, l'orologio che riprende a ticchettare indica che il protagonista è vivo o che, al contrario, è morto? Può essere questo un esempio del suo modo di significare /'immagine? Potete interpretarlo come volete, io non so se il protagonista sia vivo o mor­ to; l'attore è vivo. Non è mio compito spiegarvi qualcosa che non comprendo neanche io, è un segno, che vi propongo di trattare secondo la vostra capacità. Se volete considerarlo morto, consideratelo morto, se volete considerare que­ sto come un segno della sua resurrezione, fatelo pure. Questo è un esempio dell'ampiezza di un segno, che rende il lavoro dello spettatore difficile, che lo* ob­ bliga a riflettere. Se tutto fosse stato concreto, nel film Caccia alle farfalle sa­ rebbe stato evidente che la vecchia signora è morta. Nel film Cera una volta un merlo canterino io non volevo che risultasse evidente che il protagonista era morto, perché il fatto che morisse o non morisse non cambiava niente del con­ tenuto del film. Per contro l’immagine dell’orologio, della meccanica dell’oro­ logio, è un’immagine che indica la complicità e la dipendenza di tutte le picco­ le rotelle che fanno funzionare un meccanismo, e che ne costituiscono l’armo­ nia. Perché si conosce l’immagine dell’interno di un orologio, e involontaria­ mente si capisce che c’è sempre un segreto nascosto in questo meccanismo, un meccanismo molto antico. E un geroglifico se volete, ed effettivamente si può leggere rispetto al livello delle vostre intenzioni. Non è che non voglio rispon­ derle, e che non so in che modo farlo. Perché se avessi voluto esprimermi con le parole non avrei fatto un film.

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La costruzione del progetto

La nozione di tappeto Innanzitutto voglio utilizzare la nozione di tappeto perché nel nostro mestiere è molto importante. Durante la creazione di un tappeto si utilizza un certo nu­ mero di fili colorati, il tappeto è la fissazione di un processo di creazione che si è sviluppato nel tempo. In Iran, in Afghanistan, nell’Asia centrale i tappeti sono fat­ ti sempre simultaneamente: sui telai vengono intrecciati i fili, che devono essere penetrati perpendicolarmente da fili di altro colore. Per non sbagliarsi nel com­ binare i colori e nel realizzare la composizione, la creazione dei tappeti è diretta attraverso dei canti. La canzone è eseguita da un solo cantante o da un solo mu­ sicista, e nella melodia di questa musica è contenuto il codice corrispondente al colore, quando cambia la variazione di questa canzone i tessitori cambiano i co­ lori, Immaginate trenta, quaranta donne con tutti i fili colorati attorno, che lavo­ rano allo stesso tempo, e cambiano simultaneamente i fili. Non si tratta solo di cambiare i fili, ma anche di fare i nodi, e nella melodia è previsto anche questo. La tradizione di fissare dei messaggi nella materia plasmabile è molto antica; co­ noscete, può darsi, i messaggi indiani riportati con differenti colori: si tratta di una lunga corda con i nodi disposti con un certo intervallo, e ciascun colore e ciascun intervallo compongono una nozione parziale del messaggio. Quando si tratta di un messaggio ideologico e non di un messaggio trasmesso attraverso una narra­ zione, il ritmo, il cambiamento del tempo è molto importante. Nelle cinture tibe­ tane la decorazione significa sempre qualcosa, la maggior parte dei metodi di in­ terpretazione, di lettura, è oggi scomparsa ma i primi ricercatori hanno potuto constatare che il messaggio trasmesso poteva essere molto complicato. La pelli­ cola ci permette agevolmente di fare un’analogia con il tappeto; la costruzione del vostro progetto deve essere, infatti, ben equilibrata nel ritmo e nel tempo. René Clair, per esempio, disegnava dei diagrammi molto, molto complicati, calcolando esattamente il ritmo di apparizione dei personaggi, e tutti i suoi film sono fonda­ ti sull’espressione dell’immagine piuttosto che sulla parola.

La sceneggiatura, lo storyboard Bene, ora vi voglio raccontare la mia esperienza personale nella costruzio-

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l\clhini controlla lo storyboard sul set dei Favoriti della luna.

ne del progetto del film. Il testo della sceneggiatura è un testo che mi serve come brutta copia, ha due funzioni: la prima è quella di creare l’atmosfera e di fissare i dettagli dello sviluppo del soggetto, di descrivere i personaggi. Ma poiché si è anche obbligati a cercare il denaro ciò ha una seconda funzione, sedurre i rappresentanti delle fonti di finanziamento. La sceneggiatura per me non rappresenta ancora il progetto del film vero e proprio; ci sono dei registi clic non scrivono affatto la sceneggiatura, per esempio Jacques Rivette, un mio amico, scrive solo due pagine nelle quali annota tutti i nodi principali del­ lo sviluppo delazione. Il resto lo esegue durante le riprese. Tati non scriveva al lai io la sceneggiatura, tranne quando era necessario sedurre un produttore. In quel caso raccontava qualsiasi cosa del suo film, sulla carta, che non avreb­ be filmato mai, diceva di avere il film in testa, ed è vero che ha rovinato non pochi produttori. Alla fine della sua carriera si era conquistato una tale repu­ tazione che nessuno voleva più lavorare con lui. Era un vero cineasta, niente allatto un letterato. Ma dal momento che il cinema è industria e noi produ­ ciamo anche un oggetto da vendere, l’investimento di denaro ha assunto ogv,i un ruolo molto importante. Agli inizi del cinema la sceneggiatura non era aliano alla moda, Griffith lavorava semplicemente con uno schema, Orson W elk s si chiudeva in uno studio e nessuno sapeva cosa stesse facendo e a che lesto stesse lavorando. Barnet non scriveva mai la sceneggiatura, raccontava

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semplicemente delle storie ai suoi amici, e mentre le raccontava aggiungeva uno strato dopo l’altro. In Unione Sovietica qualche regista utilizzava il metodo di scrivere due sce­ neggiature, io continuo a utilizzarlo ancora oggi. Al tempo scrivevo una prima sceneggiatura molto elegante che davo alla censura, e la censura la approvava. La seconda sceneggiatura, quella autentica, doveva tenere conto di tutte le sce­ ne numerate nella prima, perché, in caso di controllo, tutti i pezzi filmati dove­ vano corrispondere al testo scritto. La seconda sceneggiatura poteva essere, però, tutto il contrario della prima. Era un gioco molto divertente, non penso affatto che fosse una perdita di tempo, perché durante questo gioco di poker con il governo potevamo riflettere sul contenuto dei nostri film. In pratica, però, quello che mi serve realmente da guida per il film che va­ do a girare è un progetto disegnato, che si chiama storyboard. Sarebbe molto pericoloso se cercassi di convincervi che è l’unico buon metodo per lavorare velocemente, ma io ho sempre preferito averlo a disposizione e mi sono ormai abituato a utilizzarlo. In Georgia e in Russia normalmente la produzione di un film, le riprese, duravano cinque, sei mesi, la macchina produttiva era molto lenta, non certo flessibile, lo con il mio storyboard arrivavo a girare il film in due mesi, e quando la censura arrivava, nel mezzo delle riprese, per verificare quello che era stato fatto, il mio film era già stato girato. Oggi si è obbligati a utilizzare questo metodo nel cinema europeo perché il tempo è denaro: c’è il salario della troupe, l’affitto delle scenografie, il costo del materiale da filma­ re, ed è tutto molto limitato, molto severo, perché c’è sempre meno denaro per il cinema. Questo metodo ha l’inconveniente di privarvi del tempo per sperimentare, per inventare qualcosa durante le riprese. Vi impedisce di avere il tempo per l’improvvisazione, per cambiare il vostro punto di vista, perché immaginate che, se lo storyboard è pronto oggi, il film invece verrà girato in sei mesi. In sei mesi ho tutto il diritto di cambiare idea, ma se arrivo a cambiare idea devo fare altrettanto nello storyboard, perché questo rientri nel piano di lavorazione fis­ sato dalla produzione. E semplice: in un film normale che dura un’ora e mezza, due ore, ci sono circa seicento, ottocento tagli di montaggio, in un mio film ce ne sono al massimo centocinquanta. Centocinquanta giunte tra i singoli pezzi montati indicano che il montaggio è già stato fatto nei singoli spezzoni filmati, utilizzando il piano sequenza. Il piano sequenza può durare... c’è un esempio in Hitchcock dove un piano sequenza è lungo seicento metri, venti minuti cir­ ca1. E chiaro che ogni piano sequenza richiede una riflessione minuziosa, che è assolutamente impossibile fare durante le riprese, perché la durata delle ripre­ se oggi vi obbliga a prendere delle decisioni molto rapidamente. Quando inve­ ce si lavora da soli su carta, questa operazione, disegnare, riflettere, può dura­ re quanto il tempo delle riprese. 1 Nodo alla gola (Rope, 1948).

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La situazione è questa: lo schema l’ho già costruito, la sceneggiatura non ser­ ve a niente, e io mi siedo al tavolo per lavorare circa due mesi e creare il mio tappeto, perché anche il tappeto è fondato su un progetto. Dopo, durante le ri­ prese, non mi resta altro che cantare e sottolineare le variazioni. Cantare signi­ fica dirigere. H progetto finale è costituito da circa centocinquanta, centoses­ santa fogli, dove sono marcati con dei disegni tutti i momenti importanti di cia­ scuna sequenza. Per un piano sequenza ci possono essere da tre fino a dieci im­ magini. La descrizione delle azioni in ciascun foglio è molto breve. Vi mostro alTincirca come si presenta. Allora avete un foglio, questo, è già pronto in tipografìa, in basso c’è un campo libero con la scenografìa disegna­ ta, se il film si gira in una strada c’è una strada, se è in un interno ci può esse­ re una porta, un finestra, un’altra porta... Dopo si disegnano i personaggi contrassegnati da differenti colori, se avete molti personaggi il numero dei co­ lori potrebbe essere insufficiente. Prendete un personaggio A che deve en­ trare da una porta e incontrare un altro personaggio, se ce una tavola tra lo­ ro la disegnate e sapete bene che questo schema non è esattamente quello che troverete sul set, ma sapete altrettanto bene che in questo determinato punto vi serve una porta, una finestra e una tavola. Fatto questo, se avete un movi­ mento di macchina disegnate le rotaie del carrello, disegnate il primo angolo di ripresa, oggi non si indicano più le focali, e quindi scrivo “A - che si chia­ ma, mettiamo, Alexandre -, panoramica da sinistra a destra, entra e si arre­ sta", poi scrivo “panoramica, carrello, destra sinistra" mentre si ferma. Poi scrivo “A va verso B*’ e posso aggiungere di seguito tutto quello che voglio che faccia il personaggio. Una volta, quando si usavano gli obiettivi fissi, si poteva indicare nella panoramica l’obiettivo, il grandangolo ad esempio; og­ gi ci sono degli obiettivi molto belli che possono variare focale, degli obietti­ vi molto potenti, e io preferisco disegnare sul foglio la grandezza del piano, fino ad arrivare massimo al piano medio, non utilizzo mai il primissimo pia­ no. Se voglio vedere la tavola dall’alto, disegno il personaggio visto dall’alto, ora lo faccio velocemente ma conviene essere molto precisi nel disegnare; se­ gno per la panoramica il punto 1, e il punto 2. Posso avere anche il punto 3, v posso anche tornare indietro. La descrizione dell’azione è semplice, ma per me è una sceneggiatura, non certo un’ode, non si tratta di letteratura. Se c’è un testo da pronunciare scrivo: A dice, B dice; ma molto spesso non indico quello che devono dire, scrivo sem­ plicemente il tema del dialogo: lui domanda, l’altro rifiuta. Non uso indicazio­ ni per la recitazione, non mi piace che gli attori apprendano un testo a memo­ ria, salvo in qualche caso specifico. Devo marcare, però, i desideri di ciascun personaggio, per non dimenticarli, perché come di principio tutto quello che avviene nella vita è l’incrociarsi dei desideri, così ciascun attore, secondo la pro­ pria personalità, trova il mezzo per ottenere ciò che desidera, con un vocabola­ rio e con un metodo a lui propri. Non posso determinare nello storyboard né le parole né il metodo che un attore utilizzerà nel film. 155

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Caccia alle farfalle; Una sequenza tratta dallo storyboard di Nana Ioseliani e Nugzar Tarielasvili.

Allora, dall’altro lato del foglio incollo le pagine della sceneggiatura, per­ ché in questa ci possono essere delle piccole sfumature che posso dimentica­ re. Ogni foglio è numerato e io so che filmerò un po’ più del necessario, che una sequenza potrebbe essere tagliata nel mezzo, che un’altra potrebbe esse­ re tagliata alla fine, ma questo è uno strumento di lavoro che mi permette di prevedere tutto quello che devo fare in questa o quell’altra scena. Una volta che questo lavoro è finito posso dormire tranquillo, perché non posso più sbagliare niente. Da questi fogli l’assistente alla regia fa il piano di lavoro, la costumista mi fa delle domande, lo scenografo mi chiede cosa suggerisco a proposito della scenografia, ecc. Durante il periodo di preparazione delle ri­ prese la descrizione di tutto ciò che dovrà essere filmato serve ad analizzare lo storyboard dall’inizio alla fine nelle quattro o cinque riunioni della troupe, dove ciascuno appunta sul suo foglio ciò che lo riguarda. Fatto questo, non ho più niente da fare salvo che girare il film. La troupe continua a lavorare per conto proprio e io a questo punto mi occupo solo della sostanza del film: sce­ gliere gli interpreti, creare una famiglia in cui siano distribuite tutte le forze. Terminato questo lavoro, durante le riprese, non rifletto molto, cerco solo le soluzioni migliori per la scenografia e per le luci, ma se il lavoro con l’operalore è già stato fatto, se ha esaminato i miei fogli, se ha preso le sue annota­ zioni, se gli ho dato le indicazioni sulle luci e sui colori, si arriva al momento delle riprese e si domanda al primo assistente: “Cosa si gira oggi?”. Lui dice: “( )ggi si riprende questo, questo, quest’altro foglio”. Perché ha già fatto il suo

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piano dì lavoro, ha già convocato i protagonisti per una data ora, ha già fissa­ to il trucco. Se la troupe è professionale ci sono ben poche osservazioni da fa­ re, ma se avete una troupe formata dai vostri vicini di casa o dai vostri amici, in quel caso la situazione è sempre molto tesa, perché apportano ogni volta cose che non vi servono. Durante le riprese utilizzo un cartellone e tiro fuori il numero della pagina dello storyboard che mi hanno indicato, e dico: “Mettete la camera qui, faccia­ mo iniziare le rotaie del carrello qui per farle finire là”. Dopo guardo le mie an­ notazioni sul testo, mi allontano con gli attori in un angolo, e descrivo loro co­ me immagino quello che debbono fare. Nel caso in cui devono pronunciare qualcosa, chiedo al primo attore: “Come vorresti fare questo? Cosa vorresti di­ re?”. E dopo domando all’altro: “Cosa pensi? Che gli rispondi?”. Poi li correggo, li spingo verso la direzione che desidero e dopo non conce­ do loro alcuna libertà d’invenzione. Li colloco nella scena, recito loro ciascun ruolo, perché non ho il tempo di occuparmi del sistema di Stanislavskij e poi­ ché gli attori che ho scelto sono persone con le quali sono già in confidenza, che possiedono capacità sufficienti per imitare quello che faccio, in trenta minuti dico alla troupe che siamo pronti a girare. Ma dopo, durante le riprese, ci sono sempre dei piccoli cambiamenti, l’atmosfera però è tranquilla, non ci sono cri­ si isteriche e tutti sono sereni. C’è un ragazzo che porta uno zaino con una bot­ tiglia di vodka, alla fine della giornata la bottiglia è vuota e io torno a casa. Pres­ sapoco avviene così.

Il découpage DOMANDA DAL PUBBLICO A

proposito delle prove con gli attori, come si prepa­ ra alle scene più complicate, per esempio quelle di guerra in Briganti? Prendiamo come esempio gli attori che non sapevano andare a cavallo, bi­ sognava risolvere il problema: ne avevo due o tre capaci di montare a caval­ lo ma non di cavalcare. Per il resto quello che rimaneva della messa in scena era semplicemente un movimento di cavalleria. Nel caso del duello tra il sul­ tano e il re cristiano sono stato obbligato a fare due versioni di découpage, perché non conoscevo ancora gli attori. Una prima versione di découpage era costituita da un solo spezzone, e nel caso in cui gli attori fossero stati bravi ma non fossero stati capaci di andare a cavallo, la seconda prevedeva diversi tagli. Ma quando progetto il découpage in piccoli spezzoni cerco di fare in modo che questa versione scorra come un solo spezzone. È una questione che riguarda la preparazione delle riprese, la possibilità di prevedere tutti i pos­ sibili ostacoli, dopo di che è un problema di montaggio. Penso, però, che, se tutto quello che può sembrare complesso nella messa in scena è stato dise­ gnato sulla carta, non ci saranno particolari difficoltà nel realizzarlo. Un’al­ tra situazione complicata era quella in cui, nei film Briganti, un palafreniere prendeva la chiave della cintura di castità della regina e portava il cavallo al re, scomparendo infine dal quadro. Poi il re scendeva la scala e saliva sul ca-

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I bia pagina dello storyboard di (Jn incendio visto da lontano e, nelle pagine che seguono, la scena corrispondente del film

vallo portato dal palafreniere per uscire dalla fortezza. A quel punto avevo previsto nel découpage l’uscita di tutta l’armata, sapendo dall’inizio che sa­ rebbe durata tre minuti, e avevo anche previsto una scena in cui l’uscita del­ l’annata veniva ripresa fuori delle mura. I migliori cavalieri, che erano circa una decina, uscivano dal castello e discendevano la collina, il resto dell’ar­ mata era già pronto dietro la collina, e quando questi scendevano in basso, gli altri avanzavano lungo la strada. E una semplice questione di calcolo, ma effettivamente se arrivate a girare impreparati, e siete circondati da tutti que­ sti cavalli, e da cacate ovunque, inventare qualcosa durante le riprese è mol­ lo difficile... Per la pioggia è semplice, perché si possono utilizzare i pompieri, si può prevedere la pioggia ma non bisogna esagerare. Ad esempio il film giappo­ nese 1 racconti della luna pallida d'agosto, di Mizoguchi, girato in gran parte sotto la pioggia, potrebbe costare veramente molto oggi, perché esistono pompe potenti, ma anche molto care. In Un incendio visto da lontano abbia­ mo girato una scena tutta basata sulla pioggia, poiché era un elemento ne­ cessario per il film: la pioggia arrivava e si fermava per miracolo. Siamo stati così costretti a pompare l’acqua da un fiume a due chilometri di distanza e dopo a utilizzare le pompe, le stesse che utilizzano i pompieri per spegnere un incendio. L’acqua era salata, faceva male agli occhi, tutti piangevano ed è

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costato molto caro. È stato un mio errore, perché non bisogna andare in Afri­ ca e inventare la pioggia. Non avevo nemmeno previsto le difficoltà che avrei incontrato. Si compiono a volte degli errori come questo, ma dopo cosa po­ tete fare? Con il sole non si ha un buon rapporto nel cinema, a volte c’è, a volte non c’è, ma si cerca di girare pressappoco con le stesse caratteristiche atmosferiche. Per esempio, sempre in Briganti, la scena di battaglia è stata girata in due posti separati tra loro da sessanta chilometri; il campo cristiano era sulla collina e l’ac­ campamento dei musulmani davanti alla fortezza. Bisognava quindi andare a cercare la fortezza. Nel découpage, però, la sequenza è stata ipotizzata in modo che fosse possibile separare questi due luoghi, perché sapevo che il castello esi­ steva da qualche parte, ma non ero sicuro che una bella collina per l’accampa­ mento cristiano esistesse a fianco del castello. Vuol dire che ho fatto il décou­ page prima di aver scelto i luoghi delle riprese, ma questo è richiesto in tutti i progetti tecnici, bisogna prevedere le diverse possibilità naturali. Per questo avevo previsto molto fumo, perché se ci fosse stato il sole, il fumo poteva na­ sconderlo e, se non ci fosse stato, il fumo non poteva impedirmi di girare: si trat­ ta di prevedere l’unità d’ambiente di tutta la scena. Una convinzione metodologica DOMANDA DAL PUBBLICO Qual è il momento più... 'visionario', la scrittura del soggetto o la scrittura della sceneggiatura e quindi dello storyboard? Normalmente penso che ciascun momento vi ponga dei problemi differen­ ti. Vi ho già detto che la scrittura è un metodo che non funziona, e che il mez­ zo più consono alla realizzazione di un film è lo storyboard, ma dopo siete al­ la mercé del destino (quale attore reciterà quel ruolo, come saranno le sceno­ grafie). Di norma si tratta di salvare una cattiva sceneggiatura, perché dovete essere ogni volta sicuri che tutto quello che avete inventato è assolutamente pessimo e, con tutte le vostre forze, dovete salvare la cattiva sceneggiatura con lo storyboard. Dopo dovete essere fermamente convinti che il vostro tilm è gi­ rato malissimo e che bisogna salvarlo con il montaggio. Poi vi accorgete che tutto quello che avete fatto nel montaggio è pessimo e bisogna salvare tutto nel missaggio, e dopo normalmente non vorrete più vedere il vostro film. Ecco, questa è una peculiarità del mestiere di cineasta, quella di non voler mai esse­ re soddisfatti.

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/i'.ni immagine che appare sullo schermo. Ritorno alla questione del ritmo per•.oiuilc che ciascuno di noi possiede. E molto raro che una decina di persone I » ‘ssiedano lo stesso ritmo. Il ritmo è una determinata capacità psichica di rea­ ti t Anche se siete tutti immobili e anch’io sono immobile, partecipiamo co­

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munque di un certo ritmo. Se mi dite di prendere al volo una sigaretta, e io lo faccio, significa che anche se sono immobile possiedo un ritmo accelerato, men­ tre se invece possiedo un ritmo lento, la prendo in un altro modo. Questo vuol dire che il ritmo e il tempo sono due cose diverse. Il ritmo è caratterizzato dal tempo dell’atto che segue. In primo luogo, quindi, il regista impone allo spet­ tatore il ritmo di successione delle immagini. Evidentemente uno degli elementi che determina questa successione è la lunghezza di ogni singola immagine che la compone. Il regista compie così un primo atto di violenza sugli spettatori. Perché se ogni spettatore avesse il tem­ po di osservare ogni immagine quanto vuole, e potesse passare a un’altra dopo aver consumato la prima, dopo averla compresa, assorbita, potrebbe osservare il film secondo il proprio ritmo. Come nei musei, per esempio, dove osservate un quadro secondo il vostro ritmo di osservazione, e rimanete attenti all’insie­ me e a ciascun dettaglio tutto il tempo che volete. Nel nostro mestiere è molto importante esaminare il ritmo in cui vive que­ sto o quel personaggio, questo o quell’attore. Per me è essenziale. Per questo faccio un semplice esame, un test per sapere come regolarmi in futuro. Butto cinque o sei fiammiferi sul tavolo e li copro. Do altri cinque o sei fiammiferi al mio interlocutore e gli propongo di costruire a fianco la stessa composizione, poiché i fiammiferi cadono sempre casualmente e non compongono mai lo stesso disegno. Se lui ha afferrato la composizione dei fiammiferi e la rico­ struisce, capisco che vive nel mio ritmo. Talvolta pensano che sia un esame per la selezione, ma gli spiego che non è affatto così, è più semplicemente per sa­ pere come lavorare con loro in futuro. Poi butto nuovamente i fiammiferi, senza coprirli, e gli propongo di dirmi quando è pronto a ricostruire il dise­ gno; in questo modo egli osserva il disegno dei fiammiferi secondo il suo rit­ mo e ha il compito di memorizzarlo. La stessa cosa avviene nell’osservazione degli avvenimenti. Poiché non è possibile soddisfare tutti, siamo obbligati a imporre il nostro ritmo di osservazione. Ma, per essere educati ed etici nei confronti dello spet­ tatore, se si possiede un ritmo molto accelerato, bisogna rendersene conto e trattenersi un po’. Ora vi racconto una storiella divertente accaduta a Mosca. C’era un regista di nome Vsevolod Pudovkin che aveva girato un lungometraggio e lo stava montando da solo. Si è chiuso nella sala di montaggio, ne è uscito e ha detto al­ la produzione: “Sfortunatamente è un cortometraggio”. Invece di fare un film di un’ora e mezza ne aveva fatto uno di venti minuti. Lo ha mostrato al pro­ duttore e ha detto: “Ha visto, è come le dicevo. E un cortometraggio”. Per Pu­ dovkin tutto era chiaro, ma nessuno invece aveva capito niente. E un parados­ so, ma psicologicamente ben fondato. A ogni modo a quell’epoca si montava­ no in successione dei piani statici, mentre invece nel realizzare una panoramica o una carrellata, siete obbligati a seguire la logica dello sviluppo del montaggio interno a essa.

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Prendiamo l’esempio di un montaggio di piani statici nel cinema muto, i pri­ mi minuti di Ottobre di Ejzenstejn. Il tempo concesso alla lettura di una dida­ scalia è importante all’incirca come la durata di ogni spezzone. All’inizio vede­ te dei pezzi della stessa lunghezza, di circa un secondo; ma poi, dopo il lungo pezzo della ruota, gli altri sono molto più corti, poiché ci siamo già abituati a queste frasi. Ora, a partire da ciò che abbiamo detto, fisseremo un modulo. Supponiamo che voi abbiate determinato come necessaria e sufficiente la lunghezza di un’immagine e vogliate costruire una frase a partire da questa lunghezza. La no­ zione di necessario e sufficiente consiste nel fatto che, nel nostro caso, è neces­ sario dare una quantità di informazioni tale da permettere allo spettatore di comprendere l’immagine mostrata. Potrebbe essere sufficiente uno spezzone molto più breve, ma esiste comunque un tempo oggettivo sufficiente alla per­ cezione delle immagini che normalmente, in tutti gli studi sull’argomento, si aggira intorno ai venti fotogrammi, poco meno di un secondo. Ora se montate spezzoni della stessa durata, si creerà un ritmo regolare. Al­ trimenti potete costruire la vostra frase cinematografica a partire da un accor­ ciamento progressivo della durata delle immagini. Perché se secondo i vostri calcoli la prima immagine è ben comprensibile per lo spettatore, a quel punto potete introdurre altre immagini della stessa lunghezza, e in seguito avete tutto il diritto di ripetere la prima immagine per un tempo più breve; ciò può porta­ re alla creazione di un’armonia discendente. La vostra frase dovrà poi contene­ re una nuova immagine che faccia da coda.

La sezione aurea, un metodo pratico Per quanto riguarda il montaggio di immagini statiche, c’è un’antica regola geometrica che penso voi conosciate tutti e che si chiama sezione aurea1. Non è stata creata né dagli architetti né dai musicisti: in natura questa legge regola la crescita dei rami degli alberi, degli arti degli esseri umani. E una lunghezza suc­ cessiva che diminuisce o aumenta proporzionalmente. Questo avviene, per esempio, nel rapporto tra la distanza che intercorre tra il gomito e il polso e la lunghezza della mano; e quindi le proporzioni tra la distanza che va dal gomito al polso e quella dal polso alla mano sono equivalenti a quelle tra la punta del­ le dita e il gomito e il gomito e la spalla, se tutto va bene ovviamente. Le pro­ porzioni sono basate su una regola di questo tipo: prendete un segmento c e dividetelo in due parti aeb,

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1 La regola della sezione aurea e il suo utilizzo neU’arte è ampiamente trattata da S.M. Ejzenstejn nella Natura non indifferente, Marsilio, Venezia, 1981.

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si avra la sezione aurea se il rapporto tra l'intero segmento c e la parte mag­ giore di c (b), sarà uguale al rapporto tra la parte maggiore (A) e la parte mino­ re {(/). c:b=h:a

Questa è una regola semplice e nella pratica il rapporto reciproco tra le par­ ti e tra le parti e il tutto corrisponde grossomodo a 0,62. c/b = A/j = 0,618...

Nel cinema si utilizza molto spesso il rapporto tra le parti di 1/2, ma il rap­ porto più armonioso è di 2/3, o, avvicinandosi maggiormente alla sezione au­ rea, di 3/5. Tutte le lunghezze nell’armonia musicale sono fatte in questo modo. Que­ sto avviene per esempio nella gamma ionica. In quel caso le frequenze, non importa la tonalità, che può cambiare, sono costruite esattamente così: se la prima nota ha un valore pari alla lunghezza A+B, la seconda sarà B e la ter­ za A; prendendone un’altra, la prima sarà C+D. la seconda C, la terza D e così via. 186

La tecnica della sezione aurea è perfettamente utilizzabile nel montaggio dei piani statici. E per non scervellarmi troppo, faccio così: prendo la pellicola, an­ che se è molto lunga, e la calcolo con il metro. Conosco la lunghezza comples­ siva, e quindi ne prendo un terzo per il primo pezzo e per il secondo due terzi; se il pezzo è breve, lo piego tre volte con le mani e calcolo a occhio la propor­ zione. Se montate le diverse inquadrature in questa proporzione, il passaggio da un’inquadratura all’altra risulterà in ogni caso il più armonioso possibile. Questo è molto importante quando non trovate la giusta lunghezza del secon­ do spezzone da montare. In Pastorale, se non mi sbaglio, c’era un signore, seduto di sera sugli scali­ ni di casa, che guardava di fronte a sé un muro e una finestra in costruzione. Era notte. Avevo un lungo spezzone di pellicola con questo signore, avevo praticamente tre inquadrature: il signore seduto che guardava davanti a sé, un muro con una finestra in mezzo e la luna, e nell’ultimo, lo stesso signore che guardava in un piano più ravvicinato. Dovevo montare il signore che guarda­ va da qualche parte e di seguito la finestra, per far capire cosa guardasse. Per dare il segno di un cambiamento nel suo pensiero, per far capire che riflette­ va su quell’oggetto, dovevo montare nuovamente questo signore, ma in un piano più ravvicinato. Ho determinato la lunghezza del primo e poi, non mi andava di calcolare il resto, ho cercato di trovare le differenti lunghezze del­ l’inquadratura della finestra e del primo piano di risposta. Fino a quando non ho deciso di mettere un’immagine più breve e di avere quindi una prima lun­ ghezza A (l’uomo seduto) poi A+B (la finestra) e, senza rifletterci, una lun­ ghezza uguale a B (il primo piano dell’uomo) per l’ultima immagine. Tutto ha immediatamente preso la forma più armoniosa possibile. Vi parlo di questo senza dare alcun valore alla storia, ma sottolineando unicamente l’uso del montaggio. Cercate di non ripetere mai lo stesso piano: è di pessimo gusto. Usare due volte lo stesso piano priva il montaggio di dinamicità. Nel cinema americano il dialogo si basa sulla ripetizione dello stesso piano. Nella prima immagine avete la schiena di A e il volto di B e nella seconda la schiena di B e il volto di A. Il primo parla e poi nell’altra inquadratura il secondo risponde, si ri­ torna quindi al piano precedente dove il primo continua a parlare, si cambia di nuovo piano e quello risponde, e così via. Anche se si tratta di un film par­ lato, non è detto che non si possa utilizzare una panoramica, un carrello, per­ ché guardare le stesse immagini per mezz’ora... potete chiudere gli occhi, non c’è nessuna nuova informazione, ci sono sempre le stesse facce e le stes­ se inquadrature. Ciò significa che il regista non è riuscito a rendere dinami­ co il dialogo, che non ha riflettuto; questo avviene di regola nel cinema ame­ ricano. Praticamente filmano la scena due volte; se il dialogo è molto lungo, lo fil­ mano la prima volta interamente da un lato e poi interamente dall’altro e poi ta­ gliano. Hanno solamente due immagini, ma le montano una dopo l’altra, a se­

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conda di chi vogliono mostrare. Ma niente si muove nell’immagine, non ci so­ no nuove informazioni, e, lo ripeto, quando comincia un dialogo così, potete chiudere gli occhi, accendervi una sigaretta, fare altre cose, perché si può sem­ plicemente ascoltare. Questa è pigrizia d’animo, una mancanza di rispetto nei confronti dello spettatore e del mestiere. Se, invece, nel filmare un dialogo non ripetete Io stesso piano e cambiate l’obiettivo, avvicinandovi o allontanandovi con la macchina da presa, create un dinamismo, avviene un cambiamento, succede qualcosa. A ha guardato e ha visto B, ha capito che B lo guarda, e questo ha cambiato il suo rapporto con B, guardandolo più da vicino, e B è cambiato nella sua visuale, è diven­ tato più piccolo. Questa è la tecnica del montaggio, di cui bisogna tenere conto prima di filmare. Perché se non avete filmato queste immagini, non avete elementi per il montaggio. La regola è semplice ed è meglio seguirla. Senza poi dire che montare in questo modo non è poi così elegante. Ma in ogni caso, se lo volete fare, è meglio che utilizziate delle diverse grandezze di piano. Il montaggio è un processo che si compie molto lentamente. Poi, quando il film è pronto, nessuno si accorge di niente, ma se avete costruito attentamente la vostra frase, il risultato del vostro montaggio produce automaticamente un effetto nell’inconscio. Non si guadagna, né si perde molto nel ripetere Io stesso piano, ma, utilizzando un piano identico al precedente, l’effetto sull’inconscio viene a mancare. Nonostante nel cinema la successione delle immagini avvenga molto veloce­ mente, come nella musica, una nota sbagliata può rovinare tutto il piacere di ascoltare un brano musicale. Quindi, quando si monta il film bisogna essere molto tesi e concentrati. Per quanto riguarda la grandezza dei piani, in un movimento di macchina si può facilmente scivolare in un primissimo piano, ma la cosa più pericolo­ sa nel montaggio di piani statici è tenere troppo a lungo un primo piano, per­ ché poi è più difficile passare a un piano più largo: una testa che occupa tut­ to lo schermo richiede, nell’immagine seguente, un piano grande quanto il primo.

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La sonorizzazione

Esclusi i film che ho fatto in Francia non ho mai utilizzato il suono in presa diretta; era tutto doppiato, perché in Georgia avevamo una tradizione di dop­ piaggio molto efficace, come in Italia. Il montaggio del sonoro può essere tanto semplice quanto complicato.'Può essere semplice, poiché, dal momento in cui filmate questo o quel pezzo, la­ sciate un tempo disteso nella vostra immagine, perché possa essere riempito dal suono che non conoscete ancora, ma che ci sarà. Io mi alzo molto presto al mattino, mi sveglio di notte, e cerco di andare lon­ tano o di uscire nel silenzio della strada per catturare suoni puliti. Registro i ru­ mori notturni, se piove registro la pioggia, sulle foglie, sui tetti, la pioggia sul­ l’erba, sull’asfalto e così col tempo ho creato una mia fonoteca personale. Registro soprattutto le grandi folle, le manifestazioni non me le perdo mai. Ho con me un apparecchio abbastanza considerevole, per registrare unica­ mente i suoni. Se sono all’interno di un bar, di un caffè, o di un ristorante ru­ moroso, entro in cucina, registro le grida dei camerieri, il rumore dei piatti, lo ssc-ssc dei cuochi... E diventato il mio divertimento quotidiano. Registro i suo­ ni puliti e puri dei motori, dei diversi motori, mi piacciano molto i rumori de­ gli aerei solitari nella notte, amo molto anche i rumori delle diverse porte, amo molto i rumori delle chiavi e dei lucchetti, l’unica cosa che non mi piace è il ru­ more dei passi. Bene, così quando monto i miei film ascolto sempre ciò di cui dispongo. E il mio dovere è di disporre i suoni qui o là nel film talmente delicatamente che non vengano mai percepiti, affinché vadano a creare un’atmosfera di allarga mento del quadro. Aggiungo a ogni immagine dei suoni la cui fonte non è pre­ sente sullo schermo. In questo modo il mondo che circonda la scena rimane al contempo presente e invisibile. Ma bisogna sempre sapere che mondo dovrà circondare la vostra immagine. Per quanto riguarda la musica non composta appositamente per i miei film, cerco sempre di escludere la cosiddetta musica contemporanea. Popolo i miei film di musiche che provengono da fonti comprensibili, da una finestra, dalla radio, da un’auto che passa, ma non lascio che la sequenza sia accompagnata

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dalla musica dall'inizio alla fine. Se qualcuno suona o canta, io lo mostro, e poi posso abbandonarlo e sullo sfondo del suo canto sviluppare un’altra sequenza. Questi suoni non devono mai venire dal cielo, da qualche parte imprecisata, perché dal momento che il film è artificiale, cerco di utilizzare il suono come contrappunto, ovvero di ricordare allo spettatore un avvenimento che sarà ben accompagnato, incollato al suono: che sia un’immagine con un suono. Poi per qualche tempo mostro altre immagini, a cui aggiungo lo stesso suono. Bisogna sempre contare sull’inconscio, poiché questo crea un’unità compositiva. Sapete come sono fatti i film seriali, dall’inizio alla fine del film c’è sempre la musica. Questo significa una cosa semplice, che non c’è un contenuto in questa narrazione. E la musica che monta tutto. Potete mettere la musica sul­ lo sfondo da un’immagine all’altra e lo spettatore avrà l’impressione che le im­ magini siano montate correttamente,’ ma è una falsa impressione. Lo spettato­ re si assuefa a questa falsa coesione delle immagini nella musica, ma la musco­ latura del pensiero è del tutto assente, come anche la lettura del testo. E una presa in giro. Di solito, quando arrivo al missaggio, dispongo di circa trenta o quaranta bande sonore e in ciascuna c’è un pezzettino che dovrò utilizzare e mescolare con gli altri. E un lavoro da gioielliere. Può sembrare inutile, ma per me questi suoni sono portatori di informazioni che arricchiscono sempre il pensiero del­ lo spettatore, se ciò viene fatto con prudenza e attenzione nei suoi confronti per fargli meglio comprendere il testo che gli propongo. Nei miei film non c’è alcun interesse drammaturgico, non c’è una storia rac­ contata dall’inizio alla fine o un incrociarsi di destini, ma so che c’è un conte­ nuto. E, come vi ho già detto, simile all’utilizzo della forma musicale per una narrazione che si sviluppa nel tempo, una narrazione che è generalmente inte­ ressata a far ascoltare e a far osservare, piuttosto che a seguire uno svolgimento consequenziale delle azioni, perché l’interesse di sapere cosa succederà dopo è il motore di tutti i film basati sul racconto di una storia. Visto un film che vi rac­ conta una storia, svelato il finale inatteso, non c’è più alcun desiderio di rive­ derlo una seconda volta. Nel cinema la cosa più interessante è il come e non il cosa. Se prendiamo i film di René Clair, che per me sono un brillante esempio di cinema, se pensia­ mo a LÌAtalante di Jean Vigo, se parliamo di Miracolo a Milano, o della Via del tabacco di John Ford, il come è raccontata la storia è piti importante di quello di cui tratta. Il soggetto potrebbe anche essere molto scarno e primitivo. Per questo sono assolutamente sicuro che non si può raccontare un buon film con le parole. Perché quando si può raccontare un film non c’è altro che una storia. E una volta vista, la si dimentica. Avete visto LAtalante? E un se­ greto. E un film molto semplice. La donna scappa, suo marito soffre e alla fine si ritrovano. E tutto. Ma come Vigo abbia fatto è un segreto, ha creato un mi­ stero attorno. 11 fascino del film Miracolo a Milano è assolutamente intraduci­ bile a parole. Per esempio, il giovane corre verso la ferrovia per suicidarsi, e

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(Torà una volta un merlo canterino; "...Lasciate nn tempo disteso nella rostra immagine".

Totò lo acchiappa all’ultimo minuto. Totò gli dice: “La vita è bella! Dai, La-lala-la! ” e l’altro, con voce flebile: “La...la...la...la...” e lui: “Su. su canta! La-lala-la!”. Questo si chiama il come. Perché non succede niente, che succede? Ce una scena nei Vitelloni in cui i protagonisti, già ubriachi, tornano a casa in au­ to. Per strada incrociano gli operai che lavorano e uno di loro grida: “Lavora­ tori ...prrrrl”. Tutto questo appartiene alla quotidianità, e allo stesso tempo in­ torno ci sono i canti degli uccelli, il rumore perfetto e pulito del motore che si ferma, gli uccelli cantano, gli operai mettono giù i loro attrezzi di lavoro e avan­ zano. È questo che è piacevole fare nel nostro mestiere. Per quanto riguarda il lavoro di montaggio del suono si tratta di un lavoro di ripulitura, perché durante il missaggio c’è sempre troppo suono. Se cambiate idea... Io mi preparo, mi premunisco, così se durante il missaggio voglio utiliz­ zare qualcosa d’altro dispongo di suoni di riserva. Gli sfondi cambiano, i temi cambiano. Per esempio, in Pastorale, sull’immagine della radio avrei potuto mettere una musica tenera e tranquilla, e io l’avevo filmata con l’intenzione di metterci una bella musica, e la ragazza che l’ascoltava sarebbe stata presa dalla sua bellezza. Dopo ho cambiato tutto e ci ho messo una marcia nazista.

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Appendice

Si ringraziano per la consulenza dal georgiano Ketevan Gagosidze e Sandro Bakanidze, che hanno inoltre reso possibile inserire, a fianco dei titoli in italiano, il titolo originale in caratteri georgiani dei film prodotti in Unione Sovietica. Si ringrazia Gianni Pittiglio per preziosa collaborazione alle ricerche bibliografiche.

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Cenni biografici

Otar Ioseliani nasce a Tblisi, in Georgia, il 2 febbraio 1934. Dal 1944 stu­ dia alla Scuola di musica di Tblisi, diplomandosi in pianoforte, composizione e direzione d’orchestra nel 1953. Dal 1953 al 1955 frequenta la facoltà di ma­ tematica all’Università di Mosca. Nel 1955 si iscrive al VGIK, dove segue i corsi di Aleksandr Dovzenko e Mi­ chail Ciaureli. Durante gli studi lavora come montatore, aiuto regista e dirige cinegiornali per la sezione documentaria degli studi della Gruzija Film. Nel 1960 recita inoltre nel film Storia di una ragazza [Povest' ob odnoj devuske} di Michail óaureli. Nel 1958 realizza al VGIK il suo primo cortometraggio, Ac­ querello, cui segue, l’anno seguente, Il fiore introvabile. Si diploma in regia nel 1961. Il suo cortometraggio Aprile (1962) viene su­ bito bloccato dalla censura Si ritira, quindi, dal cinema per due anni, periodo in cui lavora come marinaio su un peschereccio e come operaio in uno stabi­ limento metallurgico. Risultato di quest’esperienza è il cortometraggio Ghisa, con cui nel 1964 torna dietro la macchina da presa. Tre anni più tardi realizza il suo primo lungometraggio, La caduta delle fo­ glie, con il quale partecipa alla Semaine de la critique del Festival di Cannes nel 1968, vincendo il premio Fipresci, e con il quale ottiene anche il premio Georges Sadoul nello stesso anno. Sempre nel 1968 gira Antichi canti geor­ giani. È, però, con C'era una volta un merlo canterino (1971) che ottiene il plauso internazionale: il film viene infatti presentato a Cannes nel 1974, e, nello stesso anno, accolto con grande successo alla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro. Nel 1976 è la volta di Pastorale, film che viene ‘congelato’ per parecchi an­ ni, fino al 1982, anno in cui riceve il premio Fipresci al Festival di Berlino. Nel 1979 Ioseliani viene nominato personalità emerita per l’arte della Georgia. Si trasferisce, quindi, in Francia dove gira i cortometraggi Sette brani per il ci­ nema in bianco e nero (1982) e Euskadi estate 1982 (1983). I favoriti della lu­ na ottiene, nel 1984, un grandissimo successo di critica, e gli vale il Gran Pre­ mio speciale della Giuria al Festival di Venezia. Seguono quattro anni di silenzio, interrotti dalla realizzazione del corto­ 195

metraggio Un piccolo monastero in Toscana, nel 1988, anch’esso premiato in Francia e a Venezia. Seguono Un incendio visto da lontano (1989), premiato a Venezia, Caccia alle farfalle (1992), premiato in Germania e in Russia, e, nel 1994, Seule, Geòrgie, lungo documentario girato per remittente franco-tede­ sca ARTE sul paese d’origine dell’autore. Nel 1996 esce sugli schermi Briganti, premiato anch’esso a Venezia, con il quale l’autore torna a girare in Georgia. Ioseliani sta attualmente ultimando la lavorazione del suo ultimo film, dal titolo provvisorio Adieu, Plancher des Vaches.

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Filmografia

Tutti i titoli dei film sono stati tradotti in italiano e sono accompagnati dal titolo originale in caratteri georgiani. I titoli originali georgiani - seguiti da quelli russi -e i titoli francesi sono stati riportati tra parentesi in tondo. I testi in corsivo che seguono a commento dei film sono riflessioni inedite dell'autore, esposte durante il seminario tenutosi al Cinema Lumière di Bologna nell’agosto 1997. Unica eccezione è l’articolo di Michel Chion a pro­ posito del cortometraggio Sette brani per il cinema in bianco e nero, gentilmente conces­ so dall'autore e da noi tradotto.

1958

Acquerello (Akvareli) Origine-, URSS; saggio di regia presso la scuola VGIK di Mosca; Formato: 35 mm, bianco e nero; Durata: 10’; Sceneggiatura: Otar Ioseliani, basata su un racconto di Aleksandr Grin; Produzione: VGIK, Mosca.

In una famiglia molto numerosa e molto povera, la donna, lavandaia, porta i soldi a ca­ sa, mentre il marito, ubriacone, le ruba tutto il denaro. Esasperata la moglie decide di inseguire il marito, il quale trova riparo in un museo tra i quadri esposti, la guida e i vi­ sitatori. Rimasti soli, moglie e marito si trovano davanti a un quadro che raffigura la lo­ ro casa; cominciano, così, a parlare dei dettagli. Mentre discorrono indicano il quadro a un uomo che passa, spiegandogli di cosa si tratta. Infine, tutta la famiglia, si ritrova se­ duta, in posa, mentre un pittore, poggiato il quadro sulla schiena di un bambino, è in­ tento a ritrarla. Tutti i membri della famiglia si pettinano ordinatamente. 1959

Il fiore introvabile 1030360^5 (Sapovnela / Pesnja o cvetke, kotorij nikto ne mozet najti) Origine: Georgia; Formato: 35 mm, colore; Durata: 20’; Sceneggiatura: Otar Ioseliani; Produzione: Gruzija film - Kartuli filmi. Un vecchio paesaggista realizza composizioni di fiori nel suo giardino, che in seguito si scoprono essere corone per i morti. I bulldozer distruggono irreparabilmente erba e fio­ ri; al loro posto viene gettato l’asfalto, e le automobili vi corrono sopra. Dei fiori e del­

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l’erba non c’è più traccia. In ultimo, però, l’asfalto comincia a sgretolarsi e dei fili d’er­ ba ricominciano a crescere indisturbati.

1962 Aprile (Aprili) Origine-. Georgia; Formato-. 35 mm, bianco e nero; Durata-. 30’; Anno di uscita-, 1974; Sce­ neggiatura-. Otar Ioseliani, Erlom Achvlediani; Direttore della fotografia-. Jurij Fednev; Mu­ sica: Natela Ioseliani, Sulchan Nasidze; Produzione: Gruzija Film - Kartuli filmi; Interpreti: Tatiana Cantoria, Ghia Cirakadze, Aleksandr Cikvaidze, V. Maisuradze, A. Giorbenadze.

Un ragazzo e una ragazza si rincorrono per le strade di Tblisi, intralciati da numerosi uo­ mini che trasportano mobili senza sosta. I due si stabiliscono in un appartamento cer­ cando un po’ d’intimità. La comparsa di luce, acqua e gas è seguita da quella di un uo­ mo che istruisce silenziosamente i giovani sulle norme della vita privata. Presto la loro casa viene invasa dai mobili con il consenso degli abitanti del palazzo. Non c’è più spa­ zio per il loro amore, tutto è custodito dalla presenza ingombrante di un lucchetto. 1964

Ghisa CDCOOdO (Tudji / Cugun) Origine: Georgia; Formato: 35 mm, bianco e nero; Durata: 20’; Sceneggiatura: Otar Io­ seliani; Direttore della fotografia: Calva Siosvili; Produzione: Gruzija Film - Kartuli filmi. La vita nella fabbrica metallurgica della città georgiana di Rustavi. Il lavoro si svolge inten­ so, senza flessioni, ma al fianco della quotidiana fatica si distende un tempo inedito: gli ope­ rai in pausa cucinano su una piastra di ghisa ancora bollente, ignorando gli eroi del lavoro nominati dal regime, l’esperienza comunitaria trascende la dura condizione del luogo. Il mestiere cinematografico e quello metallurgico vivono un nesso di garbata solidarietà.

1967 La caduta delle foglie òODcnòCQ&ObCDSO (Giorgobistve / Listopad) Origine: Georgia; Formato: 35 mm, bianco e nero; Durata: 100’; Anno di uscita: 1968; Sceneggiatura: Amiran Cicinadze, Otar Ioseliani; Direttore della fotografia: Abesalom Maisuradze; Scenografia: Dimitri Eristavi; Musica: Natela Ioseliani; Suono: Vaja Macaidze; Montaggio: Giulia Bezuasvili; Assistente alla regia: Avtandil Macaidze; Direttore di produzione: German Gvenetadze; Produzione: Gruzija film - Kartuli filmi; Interpreti: Ramaz Giorgobiani (Niko), Marina Kartsivadze (Marina), Goghi Kharabadze (Ótar), Badur Tsuladze, David Abasidze, Akaki Kvantaliani. Semaine de la Critique, Premio Fipresci, Festival di Cannes, 1968 - Premio Georges Sa­ doul, 1968.

In una cooperativa vinicola Niko e Otar iniziano il loro percorso professionale. I due so­ no profondamente diversi: il primo è riservato, leale, serio, il secondo è un arrivista con­ vinto delle sue possibilità. Niko instaura un rapporto sincero con gli operai, e, a causa 198

della sua innata onestà, entra presto in conflitto con l’amico Otar. L’imbottigliamento di un vino che Niko reputa pessimo, ugualmente voluto dalla cooperativa, esaspera il di­ saccordo; condotta una lotta al fianco degli operai, il giovane vince la sua battaglia. 1968 Antichi canti georgiani 930^0 bOdVOóò (Dzveli Kartuli Simgera / Starinnaja gruzinskaja pesnja) Origine’. Georgia; Formato: 35mm, bianco e nero; Sceneggiatura: Otar Ioseliani; Produ­ zione: Gruzija film - Kartuli filmi.

Testimonianza dell’antica cultura musicale georgiana, costretta a scontrarsi con le ten­ denze della musica sovietica contemporanea, il film rappresenta un documento fonda­ mentale per la sopravvivenza di questo patrimonio spirituale.

1971

C'era una volta un merlo canterino 08C9 c)ò330 900^0)53^0 (Ikho Sasvi Mgalobeli / Zil pevcij drozd) Origine: Georgia; Formato: 35 mm, bianco e nero; Durata: 82’; Sceneggiatura: Otar Io­ seliani, Dimitri Eristavi; Direttore della fotografia: Abesalom Maisuradze; Scenografia: Dimitri Eristavi; Musica: Temur Bakuradze; Suono: Vaja Macaidze, M. Nijaradze; Mon­ taggio: Giulia Bezuasvili; Assistente alla regia: Avtandil Macaidze; Direttore di produzio­ ne: German Gvenetadze; Produzione: Gruzja Film - Kartuli filmi; Interpreti: Gela Kan­ delaki (Ghia), Irina Giandieri, Giansug Kakhidze, Marina Kartsivadze, Zurab Nijaradze, Maka Makharadze. Quinzaine des Réalisateurs, Festival di Cannes, 1974 - Miglior film straniero, Italia, 1974. Presentato alla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, Pesaro, 1974. Il giovane Ghia è timpanista nell’orchestra del teatro dell’opera di Tblisi. La sua gior­ nata è sempre occupata dalle più disparate attività. La mancanza di organizzazione non gli impedisce di esercitare uno straordinario tempismo nell’intervenire, all’ultimo mo­ mento, nella partitura finale dell’opera rappresentata. Finito lo spettacolo viene ugual­ mente rimproverato per i suoi continui ritardi. Indifferente, prende con la ballerina Lia un appuntamento, del quale si dimentica, allontanandosi con uno dei suoi amici. Il ten­ tativo di recuperare il suo rapporto con Lia fallisce nonostante i suoi sforzi; Ghia, allo­ ra, invita gli amici a casa, svegliando la madre a notte fonda. Tutti sono preoccupati per la sua inattività, il direttore d’orchestra gli ordina un incontro con il direttore del teatro; Ghia si sofferma a chiacchierare con la segretaria e il direttore preferisce andarsene al conservatorio. Rimproverato da un orologiaio al quale era solito fare visita, Ghia ac­ campa scuse e dichiara di non avere tempo sufficiente per tutte le sue occupazioni. Pas­ sato del tempo in biblioteca incontra una sua vecchia conoscenza, mentre si gira un film per le strade di Tblisi, e decide di accompagnarla all’istituto di microbiologia; qui non perde l’occasione di analizzare qualcosa nel laboratorio. Seguono una serie di inavverti­ te negligenze: la diserzione delle prove, l’inadempienza del compito di accompagnare i suoi invitati in città. Nell’attraversare la strada in un giorno qualunque, Ghia viene in­ vestito da un camion. Giusto il tempo perché un orologio torni a ticchettare. DOMANDA DAL PUBBLICO Nel suo film C’era una volta un merlo canterino si assi­ steva a una sorta di ambiguità perché Ghia era eroe e, allo stesso tempo, antieroe; si

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mostrava nel suo essere ambiguo. Io ho visto il suo film, ma mi riesce difficile inter­ pretarlo. Per noi georgiani, per la situazione storica del tempo, Ghia era un personaggio positivo; ora quella situazione è scomparsa, non ci sono più personaggi come questo, e non si può ria­ nimare un personaggio che non esiste più in natura. In quel contesto, io e i miei amici era­ vamo tutti considerati degli ubriaconi, si beveva bene però, ma per la censura era assolutamente inammissibile mostrare al cinema un ubriaco. Allora abbiamo deciso di creare un personaggio come lei ha detto ambìguo. Per la censura doveva essere un personaggio nega­ tivo, perché mancava della necessaria concentrazione per la costruzione del socialismo: per­ deva il suo tempo, e rappresentava quindi un esempio da non seguire. Per il pubblico inve­ ce era un personaggio formidabile, perché è molto meglio non far nulla che fare nel nulla. Questa storia di Sisifo era assolutamente abituale per quella situazione. Ma il film è stato proibito, il pubblico lo ha potuto vedere soltanto per una settimana. Per contro per neces­ sità della propaganda è stato mostrato all'estero, per esempio in Italia. Veniva fatto per po­ ter dire: "Ecco, guardate da noi ci sono persone del tutto normali, le stesse che si trovano da voi". Non so a cosa li abbia portati questa manovra, non penso che ci abbiano guada­ gnato molto, ma un personaggio come questo era assolutamente necessario a quell’epoca, per noi cineasti, per il nostro desiderio di dire qualcosa. Inoltre voglio aggiungere che non è poi così disdicevole non fare niente, ci sono molte persone che non fanno nulla; Goncarov creò un personaggio molto simpatico, Oblomov, che non faceva assolutamente niente. Un noto critico russo, Belinskij, che interpretava tutta la letteratura come uno strumento so­ ciale — colui che è riuscito a trovare la lotta di classe anche in Gogol’ - creò un termine che si è ben impiantato all’interno della critica letteraria russa: ‘l’uomo in più’, cioè l'uomo inu­ tile. Secondo questa definizione il protagonista di Un eroe del nostro tempo di Lermontov è stato considerato con certezza assoluta un uomo inutile. Allo stesso modo Eugenio One­ gin di Puskin, ed evidentemente Pierre Bezuchov di Guerra e pace. Belinsky è stato il mae­ stro della critica sovietica, e il concetto di ‘uomo inutile, inventato nel diciannovesimo se­ colo, è stato a lungo utilizzato dalla critica sovietica, anche al tempo di C’era una volta un merlo canterino.

1976 Pastorale 3òbÓf)6òC?0 (Pastorali/ Pastoral’) Origine: Georgia; Formato: 35 mm, bianco e nero; Durata: 98’; Sceneggiatura: Otar Io­ seliani, Rezo Inanisvili, Otar Mekhrisvili; Direttore della fotografia: Abesalom Maisuradze; Scenografia: Vakhtang Rurua; Musica: Temur Bakuradze; Suono: Ekaterina Popova; Montaggio: Giulia Bezuasvili; Direttore di produzione: Sota Laperadze; Produzione: Gruzija Film ■ Kartuli filmi; Interpreti: Rezo Carkhalacvili, Lia Tokhadze-Giugheli, Marina Kartsivadze, Tamara Gabarasvili, Nana Ioseliani, Leri Zardiasvili, Nestor Pipia, Xenia Pipia, Mikhail Naneisvili, Nukri Davitacvili, Pavle Kantaria, Baya Matsaberidze. Premio Fipresci, Festival di Berlino, 1982. Un gruppo di musicisti si trasferisce dalla città in campagna. Qui, nella ricerca di una quiete dimenticata, i giovani si dedicano all'esercizio musicale. Presto il mondo cittadi­ no e quello rurale entrano in relazione, mentre sullo sfondo la vita del kolchoz è appena accennata. L’incontro, la seduzione, la separazione sono i tre momenti che scandiscono la vicenda, incarnati dal volto della giovane ragazza, che, vissuto il fascino di una vita del tutto differente, torna a vivere la consuetudine del proprio villaggio. Tutto ciò che ri­ mane in pegno del fugace incontro, usurpato del suo valore originario, non può che ri­ sultare falso.

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domanda DAL PUBBLICO Abbiamo parlato del rapporto tra realtà e finzione. Qual è l’equilibrio tra immagini documentarie e narrative in Pastorale"? E molto tempo che non vedo Pastorale, ma vi posso dire in generale che se voi amate tutto dò che filmate, se ne siete incantati, rapiti, non è un documento. È un’ode. Se dete­ state ciò che filmate è una pasquinata. Importa poco che il vostro sia amore o odio, ciò non renderà mai l’immagine documentaria. E se ci inganniamo, se ci sbagliamo, se siamo tra­ diti dal nostro amore, come avviene tutti i giorni nella vita quotidiana, cercheremo di in­ gannare anche lo spettatore. Liincanto dinanzi a un personaggio o a un fenomeno crea un fondo poetico che diviene testimonianza, documento sull’autore, sul suo punto di vista, sul­ la sua visione del mondo. E un documento sull’autore delfilm. DOMANDA DAL PUBBLICO In un film come Briganti o I favoriti della luna la struttura ritmica è evidente, il messaggio, e anche il testo sono comprensibili. In un film come Pa­ storale invece è molto difficile arrivare al testo, o comunque alla struttura a esso sottesa. Volevo sapere come tradurre in sceneggiatura una struttura musicale, ritmica e non nar­ rativa, e in particolare come si è comportato nel realizzare una sceneggiatura molto com­ plessa come, secondo me, è quella di Pastorale. In primo luogo voglio dire una cosa: sono molto arrabbiato per il fatto che abbiate visto Pastorale con la traduzione russa. Era l’antica avventura dei dirigenti del cinema russo che credevano che tutto dovesse essere reso comprensibile e per questo hanno inserito la voce off. In questo film la gente del villaggio parla un dialetto incomprensibile per l’80°/o della popolazione georgiana, ma era stato concepito così espressamente. Per questo penso che sia un film molto difficile, come lei dice, ma è strutturato in maniera estremamente minuzio­ sa. C’è stato un lungo lavoro sulla struttura, ma dal momento che avete visto ilfilm senza sonoro, perché a coprirlo c’erano due traduzioni contemporaneamente, sono del tutto sicu­ ro che vi è sfuggito completamente il tessuto che doveva rappresentare un terzo del mezzo d’espressione del film. Mi fa male che siate costretti a vedere un film menomato.

1982

Sette brani per il cinema in bianco e nero (Sept Pièces pour cinema noir et blanc - Lettre d’un cinéaste) Origine: Francia; Formato: 16 mm, bianco e nero; Durata: 25’ (trasmesso in televisione in una versione di 18’); Sceneggiatura: Otar Ioseliani; Direttore della fotografia: Lionel Cousin; Suono: Michel Vionnet; Montaggio del suono: Chantal Colomer; Missaggio: J.P. Loublier; Montaggio: Otar Ioseliani; Assistente alla regia: Olivier Guitton; Incaricato di produzione: Roseline Vincent; Produzione: Rubrica “Lettre d’un cinéaste” di CinémaCinémas, trasmissione di Anne Andreu, Michel Boujut, Claude Ventura per Antenne 2; Interpreti: Otar Ioseliani, Antonine Katzeflis, Philippe Cousin, Daniel Bouche-Billy. Parigi si dispiega nella visione di un cineasta che pone il suo accento su diversi elemen­ ti, tenendo conto dell’aspetto compositivo e di un preciso percorso sonoro. Il 14 Aprile, su Antenne 2, nell’eccellente rubrica “Cinema Cinémas”, di Michel Boujut, Anne Andreu e Claude Ventura, una Lettre d’un cinéaste, di Otar Ioseliani, che è il risultato della carta bianca concessa al cineasta georgiano per realizzare un corto­ metraggio su Parigi. Egli ha filmato per la strada persone che mangiano, le terrazze dei caffè, gli esseri umani e i cani (Parigi è una città in preda ai cani, tutti lo sanno, ma chi l’ha mostrato come Ioseliani?), Parigi ‘vista’ veramente da un cineasta. E il suono: Iose­ liani rinnova un procedimento temibile ed estremamente propizio alle false buone idee, quello del ‘contrappunto audio-visivo’ dove il suono viene caricato di evocazioni e di im­

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magini parallele che non raddoppiano necessariamente quello che appare nell’immagine. Per esempio, in questo caso, su alcune immagini della città, egli mette della musica folk francese, canti e danze. Idea molto semplice e, tuttavia, tutto un nuovo spazio vie­ ne così creato, e immediatamente, senza dover prima tradurre in parole l’intenzione, ab­ biamo una sorta di sguardo etnologico su Parigi e sui francesi. Tuttavia, allo stesso tempo, il cineasta georgiano non esita a utilizzare i rumori del traffico parigino, e in una maniera alla quale non siamo abituati. Solitamente il rumore delle automobili è utilizzato in due diversi registri: quello della violenza, pneumatici che stridono, frastuono, motori urlanti (i film d’azione); o altrimenti il registro della morti­ ficazione realista alla francese: il traffico serve allora a disturbare la parola degli attori, a rendere la situazione verosimile, a dare fastidio, ma facendo questo ci si rifiuta di con­ servare in questi suoni di automobili la brillantezza, il ritmo che è loro proprio: non è la­ sciata loro alcuna vita propria, è necessario che siano grigi e tristi, e io sospetto che al­ cuni tecnici del suono li registrino, consciamente o inconsciamente, ‘orribili’ per corri­ spondere al desiderio del regista: è chiaro che un suono d’automobile non potrà essere simpatico e semplicemente vivo. In Ioseliani accade proprio il contrario: appassionata­ mente curioso, se così si può dire, egli lascia che questi suoni siano belli e vivi, non ha verso di essi alcun atteggiamento dispregiativo. Il contrappunto suono/immagine, procedimento stilistico in voga all’inizio del cine­ ma parlato, difeso dagli avanguardisti russi e infine, a partire dagli anni ’40, utilizzato piuttosto poco (con qualche eccezione in: Kirsanoff, incidentalmente Cocteau, e ai gior­ ni nostri Robbe-Grillet/ Fano, Bel-Vienne/Fano, ecc...), è un procedimento tendenzial­ mente retorico, perché funziona spesso per illustrare delle idee, delle metafore, delle op­ posizioni tematiche: città/campagna, interno/esterno, pace/guerra, ecc.; e puritano per­ ché riduce spesso il suono a essere il veicolo di un’idea, e gli rifiuta ogni effetto imme­ diato, nel farne qualcosa da leggere piuttosto che da sentire. In Ioseliani c’è l’utilizzo di una retorica gaia (come Nietzsche diceva ‘gaia scienza’), ma non c’è puritanesimo. Vi è come un piacere immediato per l’esistenza del suono, qualunque esso sia. E sempre stato ovvio che il suono urbano dovesse essere: sporco e grigio, o violento e tragico, o fortemente carico di senso. Occorre l’orecchio di Iose­ liani per farlo riascoltare così puro e (quasi) trasparente come il suono delle campa­ nelle del gregge in alta montagna. È con lo stesso spirito bucolico che l’autore di Pa­ storale filma e registra la grande città così come ha fatto per la campagna: come un’al­ tra natura. (Michel Chion, Paris vu par losseliani, “Cahiers du Cinema”, n. 336, maggio 1982)

1983

Euskadi estate 1982 (Euskadi été 1982) Origine-. Francia; Formato-, 16 mm, colore; Durata-, 55*; Sceneggiatura: Otar Ioseliani; Fo­ tografia-, Philippe Théaudière, Jacques Pamart; Suono-, André Siekierski; Missaggio: Gé­ rard Lamps; Montaggio Domonique Belfort; Direttrice di produzione: Martine Durand; Studio di produzione: Marie-Christine Meynard, Michèle Boig; Produzione: FR3, INA (Claude Guisard), serie “Regards sur la France”. Quinzaine des Réalisateurs, Festival di Cannes, 1983. Il paese basco e i suoi abitanti iscritti in una dimensione lontana dai problemi politici, che si identifica con l’interpretazione dell’arte e della vita. Lo spazio della festa e della rappresentazione incarnano la profonda autonomia culturale della regione.

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Diill'iilto. Faiskadi estate 1^S2. I! sr/ iA7A/ Caduta Jelle toglie.

1984 I favoriti della luna (Les favoris de la lune) Origine-. Francia; Formato'. 35mm, colore; Durata: 105’; Sceneggiatura: Otar Ioseliani, Gérard Brach; Collaborazione artistica: Catherine Foulon, Leila Naskidasvili; Story­ board: Dimitri Eristavi; Produttore associato: Pierre-André Boutang; Direttore della foto­ grafia: Philippe Théaudière; Musica: Nicolas Zurabisvili; Suono: Alix Comte; Montaggio: Dominique Belfort; Assistente alla regia: Jacques Arhex; Direttore di produzione: Michel Choquet; Produzione: Philippe Dussart, SARL-FR3; Interpreti: Katja Rupé (Claire, com­ pagna del fabbricante d’armi), Alix de Montaigu (Delphine Laplace), Pascal Aubier (Si­ gnor Laplace, mercante d’armi), Hans Peter Cloos (Duphour-Paquet, commissario di polizia), Maité Nahyr (Madeleine Duphour-Paquet), Jean-Pierre Beauviala (Colas, scas­ sinatore), Bernard Eisenschitz (Gustave, fabbricante d’armi), Mathieu Amalric (Julien, figlio di Colas), Francois Michel (Philippe, musicista, maestro elementare), Vincent Blanchet, Fanny Dupin. Gran Premio speciale della Giuria, Premio O.C.I.C., Festival di Venezia, 1984 - Premio eu­ ropeo della C.Ì.C.A.E., Berlino, 1985.

Nel laboratorio di un vasaio vengono costruiti e decorati dei piatti di porcellana, pochi indici temporali rimandano alla fine del Settecento. Nel suo studio, un pittore compone un quadro che ritrae una donna distesa. Ha inizio la vita degli oggetti, attraverso diver­ se epoche. Parigi si incarica di incrociare i destini di molti abitanti, complice la transi­ zione dei diversi oggetti. Un’asta consegna il servizio di piatti alla signora Laplace, men­ tre il quadro viene acquistato dal commissario di polizia Duphour-Paquet. Il mercante d’armi Laplace combina un importante affare con un arabo, che acquista un ordigno da Gustave, un fabbricante d’armi conosciuto da Laplace. La compagna del fabbricante d’armi, Claire, che lavora in un salone di bellezza, si incontra clandestinamente con il commissario Duphour-Paquet, la signora Laplace con il fabbricante d’armi. Nello sta­ bile di quest’ultimo vivono Colas, ladro di professione, e suo figlio Julien, apprendista ladro, che godono della vicinanza di una prostituta loro complice. Colas riesce a sedur­ re la signora Laplace, mentre Gustave vende un altro ordigno al padre della sua compa­ gna, maestro elementare. Julien e Colas mettono a segno un colpo nella casa del com­ missario Duphour-Paquet, rubando il quadro che egli aveva acquistato. II dipinto, fini­ to nell’atelier della signora Laplace, viene venduto a una cantante punk, collezionista d’arte, che lo sistema nel suo appartamento. Il cuoco della famiglia Laplace, colpito dai bambini in corsa durante una cena tra i Laplace e la famiglia Duphour-Paquet, manda in frantumi il servizio di piatti. Un netturbino raccoglierà alcuni piatti rotti omaggiando con questi la prostituta amica di Colas. Dopo una lite con il fabbricante d’armi, Claire decide di cercare protezione dal padre, che, invitati a casa due clochard, definisce i det­ tagli per far esplodere un’orrenda statua che impera nel giardino davanti casa. I tre rie­ scono nell’impresa e, fatta esplodere la statua, si mettono in fuga. Presto saranno cattu­ rati dal commissario Duphour-Paquet che indaga da tempo, con attente registrazioni, sull’anziano maestro elementare, il quale sarà arrestato a casa della prostituta. Il mer­ cante d’armi Laplace, inseguito dalla polizia, rimane vittima di una foratura delle gom­ me, e viene anch’egli arrestato. Finisce così nel carcere dove si trova il maestro elemen­ tare, che istruisce tutti i detenuti su alcune composizioni musicali. Colas seduce Claire; la casa di Laplace viene messa sotto sequestro; un attentatore, con le armi fornitegli da Laplace, prima uccide il commissario Duphour-Paquet, e dopo attenta alia vita dell’ara­ bo, uccidendo per sbaglio la prostituta amica di Colas. Nel frattempo Julien e Colas ru­ bano di nuovo il quadro in casa della cantante punk. Una grande somma di denaro, na­ scosta da Laplace in un secchio, viene ritrovata dal netturbino. Una ruspa distrugge la casa che un tempo ospitava gli oggetti, il ricordo è quello che rimane. 204

1988 Un piccolo monastero in Toscana (Un petit monastèro en Toscane) Origine: Francia; Formato: 16 mm, colore; Durata: 53’; Sceneggiatura: Otar Ioseliani; Di­ rettore della fotografia: Lionel Cousin; Suono: Martine Boisseau; Missaggio: Elvire Ler­ ner; Montaggio: Otar Ioseliani, Marie-Agnès Blum, Annie Chevalley; Produzione: La Sept - Sodaperaga. Premio Enrico Fulchignoni come miglior documentario, Festival di Venezia, 1989 - Gran Premio come miglior documentario dell'anno della SCAM, Francia, 1989. In un monastero nei pressi di Montalcino, un gruppo di cinque monaci francesi svolge la propria vita spirituale. La ritualità scandisce ogni attività del monastero, stemperan­ dosi sulla complessa armonia della campagna toscana. La caccia, i canti popolari, il ca­ rattere pietistico della borghesia si combinano, lasciando ognuno una traccia significati­ va sull’altro, testimonianza della imprescindibile permeabilità dei fenomeni della vita.

In questo piccolo film, se lo guardate attentamente, ci sono tutte le risposte riguardo al­ la composizione, al montaggio e all’utilizzo del suono. Il film è stato realizzato nel 1987. Viaggiando in Toscana ho incontrato per caso un gruppo di monaci in un luogo molto vi­ nicolo... era la regione del brunella. Con questi monaci, dopo aver girato il film, siamo di­ ventati molto amici. Normalmente dopo ilfilm si diventa nemici, ma qui è accaduto il con­ trario. All'inizio erano molto diffidenti e sospettosi, ma dal momento che bevevo molto hanno trovato questo comportamento decisamente cristiano, e così sono riuscito ad avere la loro confidenza, e attraverso il vino, la confidenza degli abitanti di Montalcino. È stato così giustificato il proverbio georgiano ”diffida di coloro che non bevono”. DOMANDA DAL pubblico Parlavamo questa mattina dell’organizzazione di un film, di un aspetto molto rigoroso che è quello di prevedere tutto il possibile. Le è mai capitato di arrivare sul set e trovare qualcosa che non funzionava, e di dover improvvisare? Que­ sto le ha liberato potenzialità nuove? Quando il progetto manca di qualcosa, quando è incompleto, quando non si è riusci­ ti a prevedere tutto, potete avere dei problemi durante le riprese, è sicuro. Non si può mai prevedere tutto, non si può per esempio prevedere la malattia di un attore. Non si può prevedere che chi interpreta questo o quel personaggio abbia il viso gonfio. Questi sono problemi molto divertenti da risolvere durante le riprese, perché bisogna per forza uscire dalla situazione che si è venuta a creare, ma ciò non si è mai rivelato insormon­ tabile. È tutta un'altra questione quando, per esempio, si va in un posto e senza cono­ scere la situazione si comincia a girare. Questo accade quando si fa un film senza alcu­ na preparazione, come nel caso del film Un piccolo monastero in Toscana, che è stato girato in tre settimane. Sapevo che c'era un monastero, che cerano cinque giovani mo­ naci, e che il tutto accadeva vicino a un paese molto borghese. Con questi elementi ho potuto costruire uno schema molto rapidamente, ho fatto una lista delle cose da filma­ re, senza neanche vedere il posto e conoscere i luoghi. Quando sono arrivato sul luogo delle riprese cerano dei piccoli dettagli da aggiungere alla mia lista, ma io avevo già creato un testo e avevo già sottolineato sulla lista tutti gli elementi, come delle piccole frasi, da mettere in quel testo. Era per me assolutamente la stessa cosa girare questo film in Toscana o in Spagna, in Georgia o in Messico. Si trattava di giovani monaci, che si sono ritirati dalla vita, che praticano come tutti i monaci gli esercizi spirituali, sapevo che lutto questo avveniva in campagna, e che tutto attorno c'era un'attività borghese, e contadina. Tutto ciò poteva dare un quadro che portava in sé una nozione metafisicamente abbastanza forte. Perché delle persone giovani si ritirano, e non affrontano la prassi della vita che è costituita dal confrontarsi con degli ostacoli? Com'è faticoso,

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noioso fare ogni giorno la stessa cosa... Come possono trovare accettabile il ritmo di questa vita? Che cosa li circonda? Tutte queste domande dovevano essere risolte senza alcuna parola e senza alcun com­ mento. Quando sono arrivato ho visto quello che cera e poi l'ho filmato. Ma in questa si­ tuazione il peso più importante, al contrario del lavoro di decoupage durante la creazione dello storyboard, si riversa sul montaggio. Bisogna accumulare elementi sufficienti, senza troppo domandarsi che ordine seguiranno nel film, e bisogna aspettarsi di dover risolvere un bel rompicapo durante il montaggio. È abbastanza difficile montare un film in questo modo, penso che sia molto più difficile che montare un film girato secondo un progetto pre­ ciso. In Un piccolo monastero in Toscana ho filmato un elemento molto interessante, la passeggiata dei montalcinesi, quando la domenica tutte le famiglie escono per strada ben vestite, fa caldo, le signore portano la pelliccia di visone, scarpe molto belle, e i signori por­ tano il tweed. Tutti sapevano che giravo, perché non l'ho nascosto, ma facevanofinta di non notarmi, e come per caso si mettevano non troppo lontano dalla macchina da presa, e si sa­ lutavano in modo molto espressivo, si baciavano. Le campane della chiesa suonavano, tut­ ti se ne andavano, le strade rimanevano vuote, e il rumore dei piatti e delle forchette pro­ veniva da tutti i ristoranti. Ho filmato, questo mi ha colpito molto, anche i piedi delle si­ gnore con le scarpe di vernice. Quando ho cominciato a montare ilfilm non sapevo cosa fa­ re con queste scarpe, e a metà del montaggio ho chiesto al mio amico operatore di andare a filmare Timmagine dei piedi del Cristo trafitti dal chiodo, per montarla alfianco delle scar­ pe di vernice. Sono problemi di montaggio, perché non si può prevedere tutto quando sifil­ ma spontaneamente, senza preparazione. Non poteva passarmi per la testa di rimanere co­ sì colpito da queste scarpe senza averle viste, e le ho filmate lo stesso, anche se di norma, nello storyboard, avrei dovuto prevedere tutta la frase nella quale inserirle. Quando si guar­ da il film le due immagini non sembrano essere staccate, perché passo da uno spezzone al­ l’altro in maniera molto fluida. Trovavo il lato pietistico della borghesia molto divertente, e per rappresentarlo mi mancavano i piedi di Cristo trafitti dal chiodo.

1989 Un incendio visto da lontano (Et la lumière fut) Origine-. Francia-Germania-Italia; Formato: 55 mm, colore; Durata: 100’; Sceneggiatura: Otar Ioseliani; Collaborazione artistica: Leila Naskidasvili; Storyboard: Dimitri Eristavi; Direttore della fotografia: Robert Alazraki; Scenografia: Yves Brover; Musica: Nicolas Zu­ rabisvili; Suono: Alix Comte; Missaggio: Elvire Lerner; Montaggio: Otar Ioseliani, Ursu­ la West, Marie-Agnès Blum; Assistente alla regia: Jacques Arhex; Direttore di produzio­ ne: Francois Xavier Decraene; Produzione: Alain Quefféléan, Les Films du Triangle - La Sept - Direkt Film - Rai Uno; Interpreti: Sigalon Sagna (Badinia, la vecchia guaritrice), Saly Badji (Okonoro, la giovane donna che abbandona suo marito), Binta Cisse (Mzézvé, la ragazza sul coccodrillo), Marie-Christine Dieme (Lazra, la giovane madre), Fatou Seydi (Kotoko, la vasaia), Alpha Sane (Yéré, il viaggiatore), Abdou Sane (Bouloudé, lo scavatore), Souleimane Sagna (Soutoura, il pigro), Marie-Solange Badiane (Djou, la moglie dello scavatore), Moussa Sagna (Ladé, capo del villaggio), Oussmane Vieux Sagna (Gagou, fidanzato di Lazra), Salif Kambo Sagna (Noukoumé, l’innamora­ to), Fatou Mounko Sagna (la moglie di Yéré, l’attaccabrighe), Oswaldo Olivera (Sédou, il boscaiolo), Bouba Sagna (Matoutou, il piccolo messaggero). Gran Premio speciale della giuria, Festival di Venezia, 1989. In Africa, in un villaggio nel cuore della foresta misteriosa, vive un popolo fiero, con­ dotto dal ritmo di una vita quotidiana che perpetua i costumi ancestrali. Qualche uomo lava i panni nel fiume, spinto dalla melodia dei tam-tam. Bouloudé scava un pozzo ai

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margini della foresta. Al villaggio, la bella Okonoro è furiosa nei confronti di suo mari­ to, Soutoura, che non fa che mangiare e dormire, e decide di abbandonarlo. Uomini e donne si riuniscono ai piedi degli alberi in consiglio al fine di risolvere la situazione. Badinia, la guaritrice e suo marito, Ladé, fanno sì che si compia la cerimonia di separazio­ ne. Ormai, Okonoro sarà la moglie di Yéré e i suoi figli diventeranno quelli di Yéré. Sou­ toura resta solo, languido, ad assaporare la sua tristezza. La vita continua... Circondate da uomini, le giovani donne sfarfallano, la rivalità scoppia fra di loro senza che i ragazzi vi prendano parte. Questione di tatto. Un giorno un camion di forestali pas­ sa per il villaggio. Bouloudé termina il suo pozzo, ma, costernazione generale, non c’è acqua! Fortunatamente, Badinia mette in pratica la sua magia e l’acqua invade il pozzo. Ancora più prodigioso, il cielo obbedisce alla guaritrice e, neH’allegria generale, comin­ cia a cadere la pioggia. Il camion riappare, ‘scaricando’ sulla piazza del villaggio un grup­ po di taglialegna che si battono non si sa per quale futile motivo. Quando questi ultimi, calmatisi, ripartono, gli abitanti del villaggio, rimasti estranei alla scena, riprendono la loro attività. Tuttavia, a partire da quel giorno, la vita del villaggio verrà sconvolta. (Dal press-book francese)

Riguardo al villaggio, non sono sicuro che autodistruzione sia il termine più corretto, è piuttosto I’impossibilità di continuare. In Un incendio visto da lontano, proprio all’inizio delfilm, cera una lunga sequenza, che in seguito ho tagliato, in cui la popolazione di un al­ tro villaggio attraversava il nostro. Cerano delle persone che portavano con sé le loro cose, che portavano con sé anche le vacche. La vecchia, la maga del villaggio domandava ad un signore molto alto, che guidava questa processione: "Dove andate?” E lui rispondeva: "Non lo sappiamo”. Poi apparivano sullo sfondo i camion con gli alberi tagliati. Inizialmente, vo­ levo cominciare ilfilm da quella che adesso è la fine, dalla partenza di questi sfortunati che devono lasciare un altro villaggio.

1992 Caccia alle farfalle (La chasse aux papillons) Origine'. Francia-Germania-Italia; Formato'. 35 mm, colore; Durata: 115’; Sceneggiatura: Otar Ioseliani; Collaborazione artistica: Pierre-André Boutang, Leila Naskidasvili; Story­ board: Nana Ioseliani, Nugzar Tarielasvili; Direttore della fotografia: William Lubtchansky; Scenografia: Emmanuel de Chauvigny; Musica: Nicolas Zurabisvili; Suono: Holger Gimpel, Alix Comte, Gerard Lamps, Axel Arft; Montaggio: Otar Ioseliani; Assistente alla re­ gia: Dominique Arhex; Produzione: Martine Marignac, Pierre Grise Production - Soda­ peraga - France 3 Cinema - Metropolis Filmproduktio - Best International Films; Inter­ preti: Pierrette Pompon Bailhache (Valérie), Narda Blanchet (Solange), Alexandre Tcherkassoff (Henri de Lampadère), Thamar Tarasacvili (Marie-Agnès), Alexandra Lie­ bermann (Hélène), Lilia Ollivier (Olga), Emmanuel de Chauvigny (il prete André), Sacha Piatigorsky (l’emiro), Anne-Marie Eisenschitz (Marie), Fran^oise Tsuladze (Yvonne), Maimouna N’Diaye (Caprice), Yannick Carpentier (il signor Carpentier), Pascal Bonitzer. Premio Pasinetti, Premio europeo della C.I.C.A.E., Festival di Venezia, 1992 - Premio Felix, beriino, 1992 - Premio Triumph Migliore opera straniera , Russia, 1992 - Premio Sergio Amidei come migliore sceneggiatura, Gorizia, 1993.

In Francia, ai giorni nostri, due signore molto anziane abitano un castello molto antico, molto grande, logorato dal tempo, ma ancora pieno di mobili e oggetti preziosi. Le si­ gnore sono vive, divertenti, svelte ed energiche, Puna è proprietaria del castello, l’altra no. Esse guardano e ascoltano tutto il giorno, alla radio o con il loro Walkman, l’eco di quest’epoca strana e inquietante, piena di guerre, catastrofi, caos, lotte ideologiche, fa­ 207

natismi, violenza, terrorismo. L’una scende in paese per fare degli acquisti, per chiac­ chierare, l’altra no. Sono rispettate perché rappresentano l’anima del villaggio. Esse so­ no, però, anche accerchiate dai profittatori: i ladri rubano le loro posate d’argento, gli antiquari portano via i mobili, gli investitori giapponesi vogliono acquistare il castello, i parenti e gli amici sono in attesa dell’eredità. Quando sarà giunto il momento le due ami­ che moriranno, l’una nel proprio letto, l’altra, che non possiede il castello, partirà con l’emiro, suo amico d’infanzia. Questa partenza segnerà il suo destino. Questa di sicuro è una commedia... che non finisce allegramente. (Dal press-book francese)

Per il compositore la cosa più difficile è fare una fuga, soprattutto una fuga a quattro vo­ ci, ma quando l’ascoltate sembra un fiume che scorre. Ad esempio - non è per paragonare la miseria del cinema alla vera grandezza - gli studenti imparano la struttura di ogni verso della Divina Commedia, ma per un profano c’è semplicemente tutto ciò che vi è racconta­ to. La struttura interna, l'elaborazione di ogni verso, era frutto del lavoro scrupoloso di un maestro del Medioevo. In un certo senso siamo caduti molto più in basso rispetto alla gen­ te del Medioevo, ma almeno la preoccupazione di creare una struttura è rimasta. Non ci si può fare niente, è il piacere di chi comprende e il piacere di chi costruisce. A ogni modo cal­ colare ogni elemento è un processo molto faticoso, che poi, praticamente, termina nello scorrere semplice degli avvenimenti, cosa che avviene ad esempio nei Favoriti della Luna. O ad esempio in Caccia alle farfalle, in cui si assiste a un mélange di diversi elementi: il passaggio di un battello, l’arrivo davanti alla chiesa di una vecchia signora in bicicletta, l’u­ scita di casa del curato, ubriaco. Sullo sfondo, il suono della folla accompagna l'arrivo di un battello, al quale si aggiunge il suono delle campane e, mentre il curato passa in cortile, un momento di silenzio, il curato, ubriaco, comincia la lettura dei Vangeli, arriva una vecchia signora in bicicletta; fuori si sommano i suoni del villaggio vivo, in chiesa echeggiano i suo­ ni nell’edificio chiuso. La vecchia signora inizia a suonare l’organo, mentre da fuori, poiché le porte della chiesa sono aperte, giunge il rumore degli zoccoli, e si vedono i cavalli che pas­ sano. Finita la messa, le donne volano via con le biciclette e il curato ubriacone si allonta­ na a cavallo, con un sottofondo molto ricco composto dal suono degli uccelli, soprattutto dei corvi. Allora, tutto questo può essere verosimile, ma non cè niente d’interessante che accade. Ho fatto un’introduzione all’esistenza di queste vecchie signore, sulla loro capacità di domi­ nare, che verrà ripresa con un’eco quando le vecchie dame saranno al cimitero, canteranno a tavola, eccetera, eccetera. È un film su un soggetto semplice, se volete, sull’introduzione, l’invasione del pragmatismo in una vita semplice e armoniosa. Allora, se cercate di raccon­ tare la stessa cosa a parole, non si arriverà a nessun risultato. Per questo, quando mi chie­ dono: “Che cosa andrà a filmare?”, rispondo: “Se potessi raccontamelo, non farei il film”. 1994 Sola, Georgia {Seule, Géorgie) Origine: Francia; Formato: video, colore; Durata: 1. Prélude 90’, 2. Tentation 65’, 3. L’Épreuve 83’; Sceneggiatura: Otar Ioseliani; Fotografia: Nugzar Erkomaisvili, Dato Birbitcadze; Suono: Vaja Macaidze, Ekaterina Evans, Jean-Paul Queste; Montaggio: Otar Ioseliani, Marie-Agnès Blum; Voce narrante: Otar Ioseliani; Unità di produzione: HansRobert Eisenhauer, Pierre-André Boutang; Produzione: ARTE - La Sept. Presentato al Festival di Taormina, 1994 e al Festival di Locamo, 1994.

Una lunga raccolta di materiali sulla Georgia che ne illustra la storia, la cultura, la tra­ dizione musicale, l’arte pittorica, l’architettura, le vicende politiche. A brani filmati 208

si aggiungono materiali di archivio ed estratti della tradizione cinematografica geor­ giana. 1996 Briganti (Brigand? chapitre VII) Origine: Francia-Russia; Formato: 35 mm, colore; Durata: 120’; Sceneggiatura: Otar Io­ seliani; Collaborazione artistica: Nicolas Fournier, Rita Ioseliani; Storyboard: Nana Iose­ liani, Nugzar Tarielasvili; Direttore della fotografia: William Lubtchansky; Scenografia: Emmanuel de Chauvigny, Jean-Michel Simonet, Lena Jukova; Costumi: Ludmila Gaintseva, Cori D’Ambrogio; Musica: Nicolas Zurabisvili; Suono: Florian Eidenbenz; Mon­ taggio del suono: Santiago Thevenet; Missaggio: Elvire Lerner; Montaggio: Otar Ioselia­ ni; Assistente al montaggio: Marie-Agnès Blum; Assistente alla regia: Jacques Arhex; Pro­ duzione: Martine Marignac, Pierre Grise Productions - La Sept Cinema - Soyuzkinoservice; Interpreti: Amiran Amiranasvili (Vano, re, commissario del popolo, vagabondo), Dato Gogibedasvili (Sandro, cavaliere, capo dei servizi segreti, mendicante), Ghio Tzintsadze (Spiridon, musicista, musicista, musicista), Nino Orgionikidze (Eka, regina, terrorista, borghese), Keti Kapanadze (Lia, prima moglie del sultano, moglie di Sandro, segretaria dei mafiosi), Alexi Giakeli (Victor, rigattiere, terrorista, commissario), Niko Kartsivadze (Cola, palafreniere del re, guida dei giovani comunisti, mafioso). Gran premio speciale della giuria, Festival di Venezia, 1996 - Premio Miglior interpreta­ zione ad Amiran Amiranasvili, Dunkerque, 1996.

Vano è un re di un piccolo paese. Questo paese è bello, ricco e molto bramato dai vici­ ni. Vano passa tutto il suo tempo in guerra. Come di regola, egli è circondato da corti­ giani scontenti, ipocriti, gelosi e traditori. La regina Eka si annoia, e una cintura di ca­ stità, anche se resistente e ben fatta, non rappresenta un grande ostacolo. Fortunata­ mente la favorita del sultano, Lia, conquistata in occasione di una battaglia, è una forte e bella regina, adatta a rimpiazzare la precedente. Ahimè, ella non ha perdonato il suo rapitore e la vendetta si compie grazie a una coppa di vino avvelenato. Ma Vano ha la pelle dura, o Lia la mano troppo leggera. Vano è un abile pickpocket, un po’ troppo per non farsi notare da una rivoluzionaria mol­ to bella, Eka, che lo costringe a mettere il suo talento al servizio della sua causa. Subito dopo la vittoria, i due salgono insieme tutti i gradini del nuovo potere. L’avvenire radio­ so del socialismo è davanti a loro. Ma come sempre il successo porta con sé gelosie, mal­ contenti, tradimenti. Una sera di festa gli ‘amici’ bevono un po’ troppo, e, anche se ‘in vi­ no veritas est’, non sempre conviene dire la verità. E così che Vano si ritrova in prigione. In questo momento, il paese di Vano è sempre bello, ma per ragioni misteriose è neces­ sario che i suoi cittadini si battano. C’è chi spara dai tetti su tutto ciò che si muove, chi percorre le strade e le campagne con carri armati e auto militari. Mentre gli uni si batto­ no, gli altri saccheggiano e si arricchiscono. Che fare in mezzo a tutto questo frastuono? Meglio bere un bicchiere con gli amici; allo stesso tempo, però, questo diventa difficile. Vano decide allora di abbandonare il suo piccolo bel paese per la grande capitale di un paese straniero. Dove, si dice, la vita è più dolce... (Dal press-book francese) 1998 (In lavorazione)

Adieu, Plancher des Vaches (titolo provvisorio) Origine: Francia-Svizzera-Italia; Formato: 35 mm, colore; Durata: lungometraggio; Sce-

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neggiatura: Otar Ioseliani; Direttore della fotografia: William Lubtchansky: Scenografia: Emmanuel De Chauvigny; Costumi: Cori D’Ambrogio; Trucco: Delphine Couturier; Musica: Nicolas Zurabisvili; Suono: Florent Eidenbenz; Montaggio del suono: Valérie Deloof; Missaggio: Claude Villane!; Montaggio: Otar Ioseliani, Ewa Lenkiewicz; Assi­ stente alla regia: Gilles Bannier; Direttore di produzione: Pierre Wallon; Segretaria di Pro­ duzione: Rosalie Lecan; Produzione: Martine Marignac - Maurice Tinchant, Pierre Grise Productions - Theres Scherer, Carac Film AG - Vincenzo Franco Porcelli. Alia Films S.r.l.; Interpreti: Nicoloz Tarielasvili (Nicolas), Stephanie Hainque (Paulette), Philippe Bas (Gaston), Lily (la madre di Nicolas), Otar Ioseliani (il padre di Nicolas), Joachin Sa­ linger (Pierre), Amiran Amiranasvili (Daniel), Mirabelle Kirkland (Valérie). Nicolas, una ventina d’anni, primogenito di una ricca famiglia capeggiata dalla madre, temibile donna d’affari, passa le sue giornate nella vicina e grande città. Lontano dal suo ambiente d’origine pulisce vetri e fa il lavapiatti in un bistrot. Ballerino mondano alla sera, è anche ormai quasi alcolizzato, come suo padre, che non sembra avere nella famiglia altra funzione che quella di genitore (la famiglia è numerosa, quat­ tro figlie e due figli). 1 suoi amici sono mascalzoni o gente comune del quartiere che fre­ quenta abitualmente. Le ragazze sono, la maggior parte delle volte, belle. Peccato che non s’interessino affatto a dii potrebbe amarle. La vita è decisamente dura, ma alla fine abbastanza felice. Eppure, una sera. Nicolas segue la banda in un’impresa più rischiosa del solito. Si ri­ trova in prigione con il suo amico mendicante, Pierre, mentre gli altri sono riusciti a fuggire. All’uscita dalla prigione, la mamma, che evidentemente non ha dimenticato il suo piccolo nella sventura, gli fa mandare una splendida macchina con la quale Nico­ las si dirige verso il suo vecchio quartiere. Ma tutto è cambiato, Nicolas non riconosce più nessuno. Allora rientra a casa... Nel frattempo suo padre è appena scomparso. Re­ sta il suo trenino elettrico, una cantina ben fornita e, dopo tutto, Nicolas è il figlio maggiore... (Sinossi fornita dalla produzione)

Parigi oggi, severa, spielata. Nicolas ha diciannove anni, è un giovane appassionato, apparentemente portato per molte cose: un po’ per la matematica, un po' per la storia dell’arte, un po' per la musica (strano, sul piano non fa che suonare.sempre e solo la stessa frase), e crede anche di aver in­ ventato un sistema anti-collisione per treni ad alta velocità. Nicolas è cresciuto tra le mura della grande proprietà del papà e della mamma, i quali lo hanno senza dubbio voluto pro­ teggere, all’interno di esse, dal mondo esterno. Governanti, precettori, assaggiatori, e in se­ guito gli appuntamenti mondani, lo hanno fatto crescere come una pianta di serra. Ma è giunto il momento, almeno in apparenza, di provare a volare con le proprie ali: ha ormai diciannove anni. Si getta per la strada, fischiettando, felice, curioso di scoprire il mondo, con una sola idea in testa: fuggire il futuro che i genitori hanno programmato per lui. Per cominciare, passa le sue giornate per le strade a svolgere piccoli lavori, ad allacciare nuove amicizie. Perfettamente cosciente della chiusura del suo circolo di avidi snob, non si rende affatto conto della bassezza dei suoi nuovi rapporti: commercianti, piccolo-borghesi, giova­ ni mascalzoni... "ecco, finalmente persone vere, coraggiose, audaci". E, inevitabilmente, s'innamora di una certa Paulette, bella e crudele figlia di un ristoratore. Se soltanto Pau­ lette sapesse che fortuna si lascia scappare con questo ’poveraccio', certo divertente, ma co­ sì malvestito che lei non lo nota nemmeno! Nicolas, del resto, non nota molto di più Valérie, povera serva della famiglia. Cosi come Valérie ama Nicolas, senza che Nicolas la ricambi, egli ama Paulette che a sua volta ama Gaston... Che accoglienza riserverà questa città a quel fanfarone di Nicolas, indolente e credulo210

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ne, quale posto gli offrirà? Gliene troverà uno che lui non avrebbe mai immaginato - la prigione. Ed egli ne esce con le ali bruciate. Non verrà investito da una macchina (come il suo omologo sovietico, un certo “Merlo canterino”), non morirà. Peggio: ha capito tutto, e tor­ nerà a casa — da mamma. Finita la curiosità, la gioia. Questo merlo non canterà più. Al contrario Gaston ha capito tutto da molto tempo. Se Nicolas è un disgraziato all’in­ terno delle mura della sua proprietà, Gaston lo è all'esterno (un quartiere di periferia, sei tra fratelli e sorelle, un padre alcolizzato e una madre esaurita, miseria all’ordine del gior­ no). Egli non ha che un’unica idea fissa in testa: trovare il modo di oltrepassare quei ‘mu­ ri’, sistemarsi e vivere senza preoccupazioni: comode poltrone, macchine - Porsche, Ferra­ ri, Jaguar e, perché no, Rolls -, bere vini d'annata in ampi bicchieri di cristallo... Non è un sognatore, Gaston: si muove, osserva, sistema le sue canne da pesca, attende con impa­ zienza che ai suoi ami abbocchino grossi pesci. La tecnica è ben meditata, si traveste da ric­ co: vestito Principe di Galles, farfallino, tutte le sue misere sostanze vengono consacrate a fare di lui un ‘un bel fannullone annoiato', come credono gli stupidi borghesi incontran­ dolo sulla sua sontuosa Harley-Davidson. La moto che affitta è il suo mezzo per ‘rimor­ chiare’. E ci riuscirà. È soddisfatto: ecco un esempio di cosa bisogna fare per ottenere un po­ sto al sole. Visto che i pesci grossi sono difficili da prendere, Gaston si contenta di una via di mezzo. Dopotutto Paulette è ereditiera di un caffè, impresa che sembra rendere bene. Lottare ogni giorno per questo posto al sole è molto faticoso, e allora i nostri personag­ gi se ne vanno in battello o salgono sulla cima di una montagna per osservare in lontanan­ za questa ‘terraferma'. In lontanza, appare bella. (Presentazione del film fornita dall’autore)

Progetti non realizzati 1989

Louis et ses sujets Sceneggiatura di Otar Ioseliani, Gerard Brach e Jacques Lévy. Nel XVII secolo, per comodità, la guerra si praticava preferibilmente in estate. Dall’autunno alla primavera, ritirati all'interno dei loro castelli e dei loro palazzi, i nemici ordivano inestricabili complotti e mettevano a punto occulte strategie. Generalmente il Re Sole assisteva alle battaglie quando esse erano sul punto di essere vinte. Accordava solo a qualche cortigiano scelto il piacere di gioire di questi spettacoli gran­ diosi. Il resto del tempo manteneva scrupolosamente la vita di corte a immagine di un acqua­ rio in cui, come pesci dorati, i cortigiani conducevano la loro vita di vegetali. Erano, così, separati dalla realtà del mondo e non potevano impedire al re di governare lo Stato secondo i suoi capricci. Molière frequenta quotidianamente la corte negli ultimi tredici anni della sua vita, dal 1660 al 1673. Proprio da lì attingerà una parte della sua ispirazione. È la corte di un re giovane, amante delle feste e dei piaceri, amante anche delle donne, ma che, vittima della Fronda, raccoglierà intorno a sé tutta la nobiltà del paese. Questi no­ bili bisogna occuparli, per quanto poco sia possibile. Il re creerà innumerevoli cariche, spes­ so quasi solo a titolo onorario. Un 'intera società vivrà per decenni in un vaso chiuso, su un terreno fertile per intrighi, alleanze segrete, complotti, rivalità. Ilfilm cercherà, seguendo il destino di più personaggi immaginari, difar rivivere in ma­ niera piacevole l’atmosfera di questa corte. Vi scorgeremo servitori zelanti, civettuole gio-

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Un particolare e, in alto, una tavola intera tratte dallo storyboard di Le Roi et ses sujets.

vani e meno giovani, vecchi mariti, giovani paggi, innamorati, tessitori d'intrighi, snob, dei quali i Memoriali dell'epoca ci offrono numerosi esempi. L’intento essenziale di questa commedia sarà di descrivere una presunta storia della crea­ zione di una pièce di Molière, ad esempio L’Ecole des femmes, e di utilizzare certi motivi di quest'opera satirica al fine di analizzare il degrado dei costumi dell’alta società francese all'epoca della piena fioritura della monarchia assoluta. Un esempio permetterà di illustrare il nostro proponimento: un dialogo tra due corti­ giani rammenterà allo spettatore meno attento una situazione ben nota della pièce. I ter­ mini impiegati potranno essere più o meno gli stessi. Dopo un po', nelfilm, una replica teatrale ci permetterà di riconoscere questa situazio­ ne, ma all'interno di una forma già letteraria. Poco più tardi ancora la rappresentazione uf­ ficiale ci darà la versione definitiva di questo stesso passo. Parallelamente avremo seguito l'evoluzione dei personaggi che sono serviti da modelli al poeta, i qualiforse avranno avuto un destino molto distante da quello dei personaggi del­ la pièce.

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Questa analisi della vita quotidiana e dei costumi della corte di Versailles ci può fornire una chiave per la comprensione della mentalità che caratterizza gli strati sociali che gravi­ tano attorno a un potere centrale, che si tratti di uno stato, di un’amministrazione, o di un’impresa. Il riferimento alla nostra epoca sarà sufficientemente trasparente. Parassitismo di un’aristocrazia che ha perso ogni contatto con il popolo, che si è taglia­ ta fuori dalla sua terra d’origine, che si è prostrata davanti al monarca. Cosa c’è di più triste che immaginare ilfiero e rude cavaliere d’altri tempi, infiocchetta­ to, coperto di merletti, truccato, vestito con cura, che balla il minuetto, rincorrendo a per­ difiato i favori del re, che suda sotto la sua pesante parrucca riccioluta, che nella fretta tra­ scura di lavarsi e rimpiazza l’igiene con ciprie e profumi? Mentre insegue una felicità illusoria, il cortigiano non vive più, e anzi diventa una com­ parsa irrigidita in una cieca obbedienza alle regole e all’etichetta, perché questo rituale, que­ sta convenzionalità, ha annullato la sua personalità, cancellato la sua vita. Così passa la vita, e questo cortigiano potremmo essere noi, caro spettatore. È così che, nel nobile proposito di risparmiarvi questo destino crudele, noi cercheremo di mettere in luce le tendenze nascoste in fondo al nostro essere che porterebbero a questi estremi, con il rischio di perdere il tempo prezioso che ci resta da vivere. (Otar Ioseliani, Le Roi et ses sujets, “Positif”, n. 381, novembre 1992)

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Bibliografìa

Sono stati esclusi dalla seguente bibliografia i press-book, i cataloghi di festival e di rasse­ gne (tranne quando contenenti materiale inedito) e gli articoli apparsi in quotidiani. Ogni sezione è compilata in ordine alfabetico per autori, tranne le interviste e gli scritti di Otar Ioseliani, ordinati cronologicamente secondo la data di uscita delle pubblicazioni. A fianco dei nomi delle riviste è riportato il nome della città oppure, quando non reperibile, quello della nazione di provenienza.

Scritti di Otar Ioseliani

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Caccia alle farfalle Bastian,G.,Jdg