Infiniti volti : Approssimarsi a Emmanuel Levinas 9791222305523


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Infiniti volti : Approssimarsi a Emmanuel Levinas
 9791222305523

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EMANUELE COPPOLA INFINITI VOLTI

Emanuele Coppola ha conseguito il dottorato di ricerca in filosofia presso l’Università degli Studi di Firenze e insegna filosofia e storia nei licei. Ha pubblicato lavori su autori della tradizione fenomenologica (Husserl, Merleau-Ponty) e su temi specifici, quali il rapporto fra epistemologia e ontologia, l’identità degli oggetti nel tempo, l’a priori materiale.

EMANUELE COPPOLA INFINITI VOLTI APPROSSIMARSI A EMMANUEL LEVINAS

“Cosa mi succede? Chi dovrei diventare? Uno che veglia, un insonne – non alla maniera degli aficionados della disperazione, rapiti solo dalle increspature della propria pelle: insonne, perché mi sobillo da me stesso di fronte a una responsabilità senza limiti, a cui vorrei sottrarmi con qualche ebbrezza, una bellezza che tolga la voce, un riposo che mi ristori. Invano fingersi sordi o smemorati, il Cantico dei Cantici parla per me: ‘io dormivo ma il cuore udiva...’.”

ISBN 979-12-2230-552-3

MIMESIS

Mimesis Edizioni Vite riflesse www.mimesisedizioni.it

In copertina: © Romano Sambati, Angelo senza Dio (2008), tecnica mista, cm 97x125, collezione privata.

26,00 euro

9 791222 305523

MIMESIS / VITE RIFLESSE

Il racconto vivido, insieme storico e teorico, di un’esistenza filosofica forgiata dalla guerra, dalla prigionia, dalla distruzione dell’uomo per mano dell’uomo. Eppure, a un senso elevato ed esigente dell’umano è proteso l’inquieto vivere di Emmanuel Levinas, a dispetto delle tragedie che la storia reitera. Vertigine traumatica per un’alterità etica incontenibile, che mi risveglia da incantamenti, narcisismi, ideologie. Da un passato irrecuperabile verso un futuro inaudito, il sentiero si snoda tra la conoscenza e il linguaggio, l’arte e l’enigma, la morte e la trascendenza, il volto e l’infinito.

MIMESIS / VITE RIFLESSE

N. 14



Collana diretta da Roberta Lanfredini Comitato redazionale Riccardo Bianchini (Caporedattore) Letizia Cipriani Emanuele Coppola Caterina Del Sordo Mariangela Esposito Giulia Lanzirotti Ruben Marzà Daniele Ramadan Claudio Santoro Comitato editoriale Erika Bresci (Editor) Letizia Cipriani Emanuele Coppola Caterina Del Sordo Mariangela Esposito Giulia Lanzirotti Alessandro Marrani Ruben Marzà Riccardo Bianchini Claudio Santoro Responsabile alla comunicazione Letizia Cipriani

Emanuele Coppola

Infiniti volti Approssimarsi a Emmanuel Levinas

MIMESIS

MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) www.mimesisedizioni.it [email protected] Collana: Vite Riflesse, n. 14 Isbn: 9791222305523 © 2024 – MIM EDIZIONI SRL Piazza Don Enrico Mapelli, 75 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone: +39 02 24861657 / 02 21100089

INDICE

Premessa

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Nota e ringraziamenti

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Capitolo 0 Introibo. Dallo Stalag

15

Primo dialogo La logica e l’acqua

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Capitolo 1 Dalla Torah alla fenomenologia 31 1.1. “I woke up one day and I knew I was a European” 31 1.2. Dalla letteratura alla filosofia 37 1.3. Cielo vuoto e appunti su Dio43 1.4. Nella città della fenomenologia 49 1.5. L’apocalisse incantata 60 Secondo dialogo Di Heidegger e della Divina commedia

69

Capitolo 2 Rompere con Parmenide 2.1. Corpo, suolo, sangue

73 73

2.2. Bisogno, piacere, vergogna, nausea 2.3. La pigrizia e la fatica o Elogio di Oblomov 2.4. L’eterna Bastiglia 2.5. War is over. Convalescenza filosofica 2.6. Credere altrimenti Terzo dialogo L’anello e l’enigma

81 86 90 95 100 103

Capitolo 3 Ontologia dell’orrore 111 3.1. The Horror! The Horror! 111 3.2. Notti in pieno giorno 115 3.3. Il giaciglio, le stelle e il disastro 119 3.4. L’ipòstasi123 3.5. Cattivo infinito e istante messianico 128 3.6. Idola marmoris133 3.7. Qual è il tuo tormento? 140 3.8. Due anime, un corpo. Due corpi, un’anima 143 Quarto dialogo Scarpe, fili d’erba e canto di cicale

151

Capitolo 4 Altri nel tempo 157 4.1. La filosofia sopravvissuta 157 4.2. Il locutore svettante 160 4.3. Salario, psichismo, socialità 162 4.4. Solipsismo di massa 169 4.5. Pagano godere 175 4.6. Non poter potere 178 4.7. Volto e risveglio 182 4.8. Défaillance délicieuse185 Quinto dialogo Il campanile e l’astronauta

193

Capitolo 5 Infinito rispondere 5.1. La lunga estroflessione 5.2. Il dire oltre i detti 5.3. Un manoscritto pregno d’infinito 5.4. Volto, faccia, maschera 5.5. “È passato qualcuno” 5.6. Fatti non foste a viver come Ulisse 5.7. L’ennesimo altro 5.8. Assiologia primordiale

199 199 209 214 223 232 235 239 243

Sesto dialogo Addio

249

Note di lettura

253

Riferimenti bibliografici Sezione I. Opere di Levinas Sezione II. Altre opere

269 269 271

Indice e fonti delle immagini

273

Premessa

In queste pagine si è inteso restituire il pathos dell’incontro personale con un’opera, che è diventato presto il desiderio di un faccia a faccia col suo Autore. Chi scrive confida che l’ardire di pronunciarne il nome proprio possa apparire meno insensato di una familiarità malintesa e sgraziata. Non uno studio tradizionale si tiene fra le mani, ma l’esperimento di un approssimarsi – talvolta più lirico, talaltra più piano – a una forma di vita filosofica: quella di Emmanuel Levinas. Approssimarsi fatto anche di approssimazioni, come di chi si affacci alla soglia dei problemi. “Pathos” indica l’inquietudine per una posta in gioco enorme; nel pathos si reagisce con quel che si ha, e si hanno sùbito affezioni e intuizioni, mentre i concetti restano sbozzati e futuribili – come carciofi di cui, “volendo arrivare alla castagna, bisognasse prima rodere e trangugiare tutte le foglie”. La narrazione sfoglia fatti ed eventi, metafore e visioni, puntando a nuclei di pensiero coerenti e vivi. Quando l’immaginazione prende slancio, non è per falsare il vero storico, ma per dare timbro a una voce che profetizza – malgrado le smorfie del senso comune e raffinato – la trasfigurazione, in questo mondo, di chi è vicino e di chi è lontano.

Nota e ringraziamenti

Le citazioni dalle opere di Levinas sono segnalate mediante sigle, seguite dai numeri di pagina delle traduzioni italiane, riscontrate sull’originale (a eccezione di DS, l’articolo in lituano del 1933). Per la spiegazione delle sigle si veda la Sezione I dei Riferimenti bibliografici. Le note di lettura alle pp. 253-268 chiariscono alcuni passaggi del testo, suggerendo ulteriori letture. Ringrazio mia moglie Letizia per avermi sostenuto con pazienza nei periodi più duri: senza il soccorso della sua intelligenza e del suo estro intuitivo, queste pagine non avrebbero visto la luce. Sono grato a Roberta Lanfredini per l’incoraggiamento e il confronto costante sull’evoluzione del lavoro. A Caterina Del Sordo, Laura Diafani, Verbena Giambastiani e Sabrina Pardini devo letture penetranti di precedenti bozze, e una generosità di consigli di cui spero di aver fatto buon uso. Un ringraziamento particolare rivolgo al professor Giovanni Ferretti, punto di riferimento degli studi levinasiani e gentile ospite torinese in conversazioni filosofiche di duraturo conforto. Rimango, naturalmente, il solo responsabile di quanto scritto. Esprimo, infine, con gioia il mio debito di gratitudine al maestro Romano Sambati per il dono delle sue opere: Angelo senza Dio (in copertina) e Il riposo di Sisifo (figura 6).

A Salvatore Casilli 1934-2018 Il libro giaceva innocuo sul tuo tavolo verde: Totalità e infinito; in copertina, il Chiaro di luna di Constant Permeke. Osservavi il mio osservarlo e mi invitasti a prenderlo. Ricordo il luogo e il momento in cui la prima pagina mi gettò in terra incognita. Ebbi la sensazione di capire che i sonni dogmatici si innestano l’uno nell’altro come scatole cinesi; che la resipiscenza è recidiva. Più tardi – nei mesi, negli anni – leggemmo insieme Levinas, uno di fronte all’altro, nella bella stagione su seggiole fra i colori e i profumi del vasto giardino. I nostri linguaggi, duellanti infinite volte come il bianco e il nero sulla scacchiera, si incontrarono nello sconcerto di quell’opera. A te questo Infiniti volti, Totò. Sarà bene che sostiamo su qualche pagina – insieme, ancora.

Capitolo 0 Introibo. Dallo Stalag

“Links! Eins, zwei, drei…”. Gli stivali affondano nella neve. I piedi raggelati e intorpiditi tengono il passo di una marcia silenziosa attraverso la foresta, interrotta di tanto in tanto dalle grida roche del taglialegna capo, che detta la marcia. Stremati da ore di lavoro, i prigionieri del Kommando tornano al campo. Ombre morte, fantasmi in una realtà senza realtà, sfilano sotto gli occhi degli abitanti del luogo, che sviano lo sguardo altrove: ci si assuefà a tutto, anche all’idea che il corpo umano sia un arnese in movimento, un masso che rotoli lungo il pendio. Le foreste – alberi per il legname. Le buone, solide cose del quotidiano d’un tempo, sature del loro significato pratico e affettivo, si sbriciolano, e con esse gesti e parole. Le facce – mappe belliche. Gli stivali affondano nella neve, ed Emmanuel, un giovane riccioluto dagli occhi stanchi ma acuminati, nell’intravedere le baracche nascoste nella foschia ricorda che Bobby non gli si farà incontro, abbaiando esultante: è stato cacciato dal campo. Alla sua mente di appassionato lettore di Dostoevskij si affacciano d’un tratto le immagini di Pallino, Bianchetto e Moncherino, i randagi immortalati nelle Memorie da una casa di morti: esseri umili e offesi dal destino, che confortarono lo scrittore russo nel reclusorio siberiano. Bobby amava senza retropensieri, al di fuori di interessi e appartenenze: non Argo morente, che saluta il ritorno del padrone sotto mentite spoglie. Qui non c’è Itaca.

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INFINITI VOLTI

Balza un ricordo degli studi filosofici all’università, che brillano remoti e fantastici come l’Eden o l’Eldorado: nella Repubblica (376a) Platone aveva lodato il cane che fa festa al padrone, anche se ne abbia ricevuto uno sgarbo, mentre scopre i denti allo sconosciuto, anche se ne sia stato beneficato; una condotta assennata, senza dubbio, da guardiani modello, attitudini di un’indole greca e filosofica. Ma Emmanuel, che conosce bene anche i meandri della Torah, assorbita fin dai primi anni di vita insieme alle fiabe per piccini, ricorda i cani dell’Esodo (11, 7): colti da stupore, non abbaiano agli Israeliti liberati dalla schiavitù egiziana. Bobby ammutolisce di fronte alla dignità, riconoscendo l’umano più degli umani stessi. L’unico a riservare ai detenuti sfiancati un moto d’affetto, l’ultimo kantiano di Germania (DL, 194), per la fedeltà pura, per l’incondizionato scodinzolare. Un miracolo che non sia stato soppresso, che ancora si aggiri per le campagne in cerca di cibo e carezze; o forse no, non è un miracolo: in guerra sono soprattutto gli occhi umani a ispirare odio e terrore e, se ogni diritto si sbrindella assieme ai corpi, sopravvivono scampoli di pietà per gli animali. Schizofrenie psichiatriche? Perché il disprezzo e la tortura convivono con la musicofilia più colta, con l’amore dell’arte e della natura? Il disboscamento per ampliare il campo di Buchenwald risparmierà la sacra quercia di Goethe. “Zwei, drei, vier…”. Così rimugina il giovane riccioluto. È un sottoufficiale francese, interprete di russo; prigioniero di guerra, filosofo. Emmanuel Levinas, figlio di Yehiel Halévy, nato a Kaunas il 12 gennaio del 1906 in una famiglia ebrea, in quella parte dell’Impero zarista che ridiventerà la Lituania alla fine del primo conflitto mondiale. È stato catturato dai tedeschi il 18 giugno 1940 a Rennes, allorché la rottura del fronte della Somme ha gettato scompiglio nella Decima Armata. Il 12 era stata sfondata la linea Maginot: un colpo di falce inarrestabile, con le Panzer-Divisionen trasportate oltre la Mosa, i bombardamenti aerei della Luftwaffe e l’ingresso degli invasori a Parigi. Sono passati quasi cinque anni. È il febbraio 1945 nello Stalag XI B di Fallingbostel, distretto militare di Hannover,

Introibo. Dallo Stalag17

a una cinquantina di chilometri da Bergen-Belsen: il primo campo tedesco e l’ultimo per Levinas, dopo mesi e mesi trascorsi nella Francia occupata, rimpallato fra Rennes, Laval e Vesoul. Per una di quelle coincidenze spesso ironiche e talvolta sarcastiche della vita, il numero che identifica il campo forestale è il 1492: evoca il nome di Cristoforo Colombo e delle caravelle alla volta del mundus novus; ma in Emmanuel – matricola II6078 – riaccende il dramma dell’espulsione degli ebrei dalla Spagna, mentre in quei sanguinosi anni Quaranta, nel cuore dell’Europa civilizzata, va consumandosi il genocidio del suo e di altri popoli. Emmanuel Levinas, ebreo, lituano, russo, francese; in mano a tedeschi sangue e suolo, sangue e ferro; tedeschi naturalmente tedeschi come i campi verdi e gli alberi fioriti. Cosa fissa l’identità di qualcuno? Un cognome con apposto il sostantivo di una professione? Una qualunque maschera protettiva, dietro la quale ci si senta al sicuro? Mostrine e bottoni dorati sulla divisa? O il distintivo Juden sul passaporto e una sequenza numerica incisa nella carne? Cos’è l’identità di un luogo e di una casa? E soprattutto: chi è l’uomo che non dispone più di segni di identificazione, nudo e vulnerabile agli occhi rapaci, che vogliono appigli di riconoscimento? Al vertice di Jalta le bocche di Churchill, Roosevelt e Stalin mimano composte un discorso sulla pace, ma a Fallingbostel la storia si è fermata: la monotonia ha sigillato le labbra, mute come l’antro della casamatta. Il filo spinato è l’estremo irraggiungibile dello stadio di Zenone: il mitra delle sentinelle, indefettibili nel dovere, ha congelato lo spazio. Una casualità che al nostro giovane sia stato risparmiato di dire – come toccò a Primo Levi nel gennaio del ’44 sui binari per Auschwitz – “cose che non si dicono fra i vivi”. Invece è lì, ancora saldo sui propri piedi, nonostante i crampi allo stomaco. Le cucchiaiate nella gamella esulcerano la fame giornaliera e lo sguardo si volgerà, ancora e ancora, sugli avanzi dei cucinieri come al sommo bene. Il rancio è trangugiato senza respiro: i borghesi nelle civili abitazioni essen, “mangiano”, i suini al trogolo e i sottouomini fressen, “divorano”.

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INFINITI VOLTI

L’apice dell’espansionismo nazista aveva spinto Levinas sull’orlo di un dubbio molto più grave di quello cartesiano. Cartesio potrebbe fallire nell’assicurare l’esistenza certa del mondo esterno e degli altri attorno a sé, correndo il rischio di una solitudine – il solipsismo – molto più grave dell’isolamento empirico di Robinson Crusoe. Anche in un set virtuale, stile Matrix, la vita dello scettico continuerebbe, pur su palafitte provvisorie; quella di Levinas no: il suo dubbio atroce – il dubbio di Primo Levi, di Jean Améry, di Edith Stein, e di milioni di persone scarnificate e risucchiate nel vuoto – intacca il fondamento di un qualunque parlare sensato attorno al bene e al male. Privo di futuro, privo di verità, egli sarebbe costretto a riconoscere non solo che Dio – il Dio giusto e misericordioso delle tradizioni monoteistiche – o non è buono oppure non è potente, ma che odio e distruzione sarebbero gli ennesimi spettacoli della natura, ridicolissimi in proporzione alle conflagrazioni di energia negli ammassi galattici. Se il divenire è innocente, nessuno risponde di nulla a nessuno. Nella tragedia Emmanuel è fortunato. I campi non sono amministrati dalle SS e lui è sì un ebreo, destinato a un commando speciale, ma anche un soldato. L’uniforme spiegazzata e consunta lo salva dalla deportazione. Incredibile: non mancano piccole biblioteche, che gli permettono di leggere alla rinfusa letteratura classica. La sera, le mani tagliate dal freddo toccano pagine di Ariosto, Dante, Shakespeare, Proust, Tolstoj, Bloy. C’è anche la Fenomenologia dello spirito, ma ascoltare Hegel nel turbine della seconda guerra mondiale metterebbe a dura prova le teste più esperte di peripezie dialettiche, con il morso di un’amara ironia: troppo astuta questa Ragione che non paga mai di tasca sua, ma scarica la necessità del suo incedere sulla pelle dei mortali – non solo o non tanto Cesare, Napoleone, e ora Hitler, Stalin, Mussolini, ma gli infelici senza nome, che rifondono col sangue le spese dei grandi. Prende appunti, sul finire del giorno, alla fioca luce d’una sgangherata lampada ad acetilene, mentre i commilitoni si donano l’un l’altro la consolazione delle speranze, tra rammendi di fortuna e racconti crepuscolari. Il lavoro forzato,

Introibo. Dallo Stalag19

la fame e il freddo non hanno spento l’intelligenza, è ancora possibile pensare e, nel pensiero, contrapporre al Terzo Reich una resistenza spirituale. I giorni hanno covato un’insurrezione alla legge marziale della realtà, ma non alla maniera di Nico Rost, l’intellettuale olandese che nel campo di Dachau ha ancora occhi per allucinare nei talenti delle lettere tedesche – in Goethe sopra tutti – àncore di salvezza. Il sublime è sublime, ma non ha arginato l’efferatezza. La salvezza non è nelle glorie del passato, in nulla di già intrapreso. Quasi sempre, nei luoghi di prigionia, la derelizione eclissa ogni sembiante di attenzione e cura, e si fa grottesco credere d’imparare da parole e azioni di automi senza calore. La brutalità interrompe il riconoscimento delle persone, imponendo loro gesti che distruggono ogni possibilità di gesto. Quando la guerra costringe l’umano a traiettorie di pesi e intensità di correnti di forza, la demolizione dei volti diventa addestramento contro gli ultimi residui di tabù. Nella barbarie che si era consumata a Est, nei campi di sterminio da Chelmno a Sobibor, i libri sono assurdità più inconcepibili delle contraddizioni logiche; sulle labbra di Jean Améry, compagno di Primo Levi ad Auschwitz-Monowitz, i versi di Hölderlin si erano sfaldati, miseri significanti d’aria: la poesia non trascendeva più la realtà. I morti viventi restituiscano alle SS il genio di Schiller e Beethoven, Goethe e Mozart! La percezione non rimanda più la sostanza della vita familiare, ma esibisce oggetti ed eventi vuotati di senso: a cominciare dalle cose d’uso, denudate della loro “casta essenza di strumenti” (ELF, 47), fino alla cultura nelle sue più alte espressioni. Nel carnevale senza regole appaiono scene fra il surreale e l’apocalittico, che Emmanuel annota fin dai primi istanti della sconfitta e della cattura: il treno senza controllori e senza macchinista, che procede nel vuoto, vuoto il cielo, e quel barbiere sentimentale, che in piazza assicurava rasature gratis ai soldati, per amor di patria. Ogni cittadino di Francia è Giovanna d’Arco, che chiede dove sia il Re (ELF, 40-43). La guerra è la violenza obliqua tipica dell’imboscata, la ricerca del tallone d’Achille nell’avversario, ridotto a vettore di

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INFINITI VOLTI

una forza da annientare con strategie e tattiche; gli individui si compattano in massa nemica dislocata su carte militari. A ragione l’ideale del generale Schlieffen era stato il Blitzkrieg: il lampo sorprende e spiana la via. Servono ingegneri, artificieri, esperti di logistica, chimici, poi anche fisici teorici, perché in fondo il nemico è la variabile di un calcolo, uno spettrale ens rationis. Un oggetto dotato di peso, numero e posizione non ha occhi che ci fissano, a rigore non è nessuno – semmai funziona, è un apparecchio. Per questo lo slogan “Vorsicht bei Gesprächen! Feind hört mit!” – o il nostrano “Taci! Il nemico ti ascolta” – appariva spesso su manifesti in cui l’origliante, dotato di superorecchio, fingeva di guardare altrove. Sarà stata un’esagerazione ciò che Benjamin aveva detto all’amico Scholem, che la Germania era diventata il Paese in cui, rivolgendosi a qualcuno, si indirizzavano gli occhi al risvolto della giacca, anziché ad altri occhi?

Figura 1 – Il superorecchio nemico

Introibo. Dallo Stalag21

Emmanuel riceve lettere da Raïssa, l’amata moglie, mentre tanti si vedono rispedire indietro la posta, essendo il destinatario partito senza comunicare nuovo indirizzo. Il dramma che ha inflitto l’afasia a Bartleby lo scrivano è per tutte le preghiere non esaudite. Il lusso della ragione è dunque intatto. In quei luoghi di desolazione Levinas non ha smesso di giocare il gioco dei bambini e dei filosofi, il gioco del chiedere il “perché” delle cose, frapponendo la riflessione negli intervalli fra coscienza e dolore. La detenzione è consegnata alla scrittura, che la trapassa con sguardo clinico spietato; fenomenologia della prigionia fatta da un prigioniero, condensata in note varie, prese a matita in ogni circostanza possibile, su foglietti e quadernetti – a leggerle, la consistenza del segno è in parecchi tratti evanescente, sfuggita alla noncuranza del caso, se non agli artigli della violenza. Sarà una caratteristica di Levinas fermare i pensieri sui supporti più occasionali e deperibili: una lista della spesa, una partecipazione di nozze, un biglietto di invito, il classico foglietto volante; come se lo agitasse una diffidenza verso ciò che nella materializzazione squadra un pensiero per sempre, una presa di distanza da ciò che diventa “detto” e anche “fatto”, indelebile, come la scrittura di Pilato sulla croce, “quod scripsi, scripsi”. Sapeva che il ben caro Franz Rosenzweig aveva vergato gran parte dell’opera della sua vita, La stella della redenzione, su cartoline postali per la madre dalle trincee del fronte balcanico nel 1914 – certi squarci sulle cose si aprono solo in limine mortis. È suggestivo immaginare che si senta ora più vicino a Rosenzweig e alle tesi della Stella, che risuonano più flagranti nella comune vicenda bellica: per Rosenzweig la “venerabile comunità dei filosofi dalla Ionia a Jena”, da Talete a Hegel, si era attenuta al presupposto di un isomorfismo completo o asintoticamente completabile fra l’unità del pensiero e la totalità del reale, facendosi sorda alle grida e alle paure degli uomini sulla terra (Rosenzweig 2013, 12). Ma adesso viene in chiaro, una volta di più, una verità incontestabile, benché in corpore vili: “la sensazione demolisce ogni sistema” (TI, 58).

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INFINITI VOLTI

Il grido, la paura, la fragilità, la morte: un empirismo generoso potrà render loro giustizia. I detti – le opinioni dei mortali, comuni e meno comuni – valgono da segnaposti e tracce di un dire che non si esaurisce mai in essi. Le sue pagine sarebbero state fitte di cancellature anche negli anni a venire, durante l’attività prima di conferenziere, poi di docente universitario. La composizione è sempre stata per lui una lotta con un enigma che si svelava a poco a poco, nell’insoddisfazione cronica per l’incompiuto. Perfino nel parlare, il frequente e poco grammaticale “spa?” (per “n’est-ce pas?”), all’indirizzo dell’interlocutore come a trovarvi indulgenza e soccorso, era, più che un intercalare dispensabile, un pudore ad attenuare l’incoercibile spontaneità della voce, una riserva sistematica sulla forza assertoria. Dinanzi alla morte lo sguardo del vivente si slarga, scavalca i recinti, si nutre con apprensione dei bollettini militari, che congiungono ogni angolo del globo coinvolto nella distruzione, e punta ai confini dell’universo; ancora più arditamente, ai limiti dell’essere. Ma, a contatto con l’orrore che va compiendosi, il pensiero sembra esplodere di un’urgenza travolgente, lontano dagli usati stili e schemi. Quando la Convenzione di Ginevra è apparsa nella sua magra realtà di pezzo di carta, quando tutti i dispositivi della civiltà hanno ceduto inermi alle armi, e la vita borghese ha proceduto ancorata ai solidi appigli del lavoro e dei piaceri sedentari – un bel romanzo, un concerto, una gita in barca –, come se nulla fosse accaduto sotto i cieli d’Europa, allora è tempo o della resa totale o di una nuova audacia. Allora è tempo di nutrire in sé una generosità nuova. “È tempo che sia tempo”, dice Celan. Emmanuel viene ricolmato della sua identità ebraica, che dichiara apertamente, sapendo che potrebbe costargli la deportazione. Una memoria mai dileguata, ma che negli anni degli studi universitari si era gemellata con la citoyenneté francese, simbolo dei Lumi senza confini nazionali e indifferenti alla religiosità. Era diventato francese anche il suo cognome, con l’accento acuto sulla “e” nei documenti ufficiali. Ora, segregato con i commilitoni ebrei, divelte le

Introibo. Dallo Stalag23

radici familiari in Lituania, Lévinas si riscopre anche Levinas, ricongiunto a un popolo in esilio – una “vecchia eredità di lacrime e sofferenze” (CC, 213). Un ridestarsi di ciò che giaceva nelle profondità del bimbo e dell’adolescente alle prese con la Torah. Le sere, nel ricovero gelato e oscuro, si ravviva il senso di un’appartenenza che diaspora e persecuzioni hanno corroborato. A volte c’è il minian, il gruppo di dieci volontari nella camerata, che rende possibile l’ufficio liturgico. La fraternità, inattesa, sorprende tutti nella rivelazione di un amore intelligente più antico della conoscenza, che parla la lingua delle azioni giuste e svela all’istante la superfluità delle segregazioni ideologiche. Nello Stalag XI B l’Abbé Pierre, sacerdote cattolico altrimenti ignoto, è per molti l’amico che conforta e consiglia, protegge da incurie e oltraggi; al pari di padre Chesnet, il cappellano che volle assicurare a un compagno ebreo la sepoltura e il saluto della preghiera. Ma che parole sono quelle delle preghiere semite, che ripetono da tempo immemore le storielle del trionfo del debole e della misericordia divina? Che forza può avere la voce salmodiante a fronte dei tredici chilotoni che la bomba all’uranio avrebbe liberato su Hiroshima? Vox clamans nel deserto nucleare. Non suonano forse blasfemie, più che fantasie? Solleva il misero dalla polvere, dall’immondizia rialza l’indigente, per farlo sedere tra i prìncipi, tra i prìncipi del suo popolo. (Salmo 113, 7-8)

Tutto il sapere è da ripensare. Tutto l’uomo – come sempre. “È tempo che sia tempo”. Gli interessi intellettuali di Emmanuel s’intrecciano con una mai sopita vocazione letteraria, scontornando i confini disciplinari. Raccoglie materiali per la stesura di romanzi. Fra questi, l’idea di un “romanzo g. – sulla prigionia per i miei familiari” (CC, 197); l’abbreviazione “g” per “giudaico” sarà

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INFINITI VOLTI

stata un’autocancellazione patita, più che un’innocua misura contro eventuali censure. Ma la “g” è all’imbocco di un sentiero che condurrà Levinas a mostrare che il giudaismo non è il folklore legalistico fuori tempo di una comunità esclusiva, ma addirittura una categoria dell’umano, una possibilità universale per ogni uomo, dunque anche per gli antisemiti. Partire dal Dasein o partire dal giudaismo era un’antitesi già chiara nel ’42. Da lì in avanti sarà un Leitmotiv ribadito in tanti scritti: le cose importanti per il pensiero sono nelle due fonti della Bibbia e della filosofia greca, “il resto è danza” (RB, 149). Se la guerra è il momento in cui tutto ciò che non sia esercizio di forza è ridotto a verbalità, è ozioso bearci della più bell’arte esposta agli sciami turistici dei musei, della più sofisticata letteratura profusa per tutti e per nessuno, della più illuminata legislazione approntata da generazioni di giuristi; nei giorni della mobilitazione totale non c’è capolavoro dell’ingegno che non collassi su pezzi di materia che, inspiegabilmente, non rimandano che a sé stessi. Eppure, vi è una nobiltà tutta da decifrare nell’energia morale che si sprigiona a muovere occhi e visione, bocca e parola, mani e azione verso un futuro che i fatti accertati confutano. L’umano è materialmente saldato al presente, ma può allentare la presa sugli affari del momento. Senza poterlo articolare con i concetti che i decenni incuberanno, il filosofo si incammina lungo il sentiero della gratuità, del lavoro per chi non c’è, per un mondo che sarà. È ammirevole il cuore eliotropico che si volge come il girasole al bene che nutre; ma già qui Levinas comincia a percepire la profondità, o l’altezza, di una dimensione che sfugge ai nostri tropismi naturali. È tempo di abbandonare nostalgie da Odissea e pose da eroi della conoscenza: ci attende qualcosa di radicalmente diverso, un altrimenti del pensiero e dell’essere. Un viaggio senza ritorno.

Primo dialogo La logica e l’acqua

T.: [Pausa silenziosa dopo la lettura. Senza attendere che l’amico riprenda il testo] Avverto una sorta di compenetrazione fra l’autore del testo e il filosofo. A momenti si insinua la ricostruzione storica, ma prevale la vicinanza empatica. E.: [Dopo una breve esitazione, quasi resistendo a quel rilievo] Il problema cruciale è la vita filosofica. Un precipizio allontana il filosofo dalla vita degli altri, un precipizio divide la sua vita biologico-anagrafica dal corso del pensiero. Fuoriesce per spiragli paradossali dal circolo automatico dell’esistere, per fingere un’altra vita. Non una seconda chance, che modifichi la prima, interpolandovi rettifiche e cambi di marcia, ma una catastrofe della vecchia vita, dunque una vita altra. T.: Vita impossibile, forse, da attingere in concreto con il corpo e il tempo in cui ci si trova immersi, ma una vita come sarebbe potuta essere, o come potrebbe diventare, se fossimo stati, o se potessimo essere, migliori. E.: È così. A ogni filosofo capita in destino un groviglio tutto suo di datità subìta e di sogno da strappare al futuro. Mi pare che Levinas voglia strappare sogni tutt’altro che allucinati, soprattutto quando a dominare è lo scenario del declino e della stanchezza. T.: L’esoscheletro anagrafico di ogni uomo dissimula un volo. Liberazione di farfalla! E.: Lo penso anch’io.

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T.: Rammenti quel passo di Valéry, di cui ti ho detto giorni fa? Aspetta, ho preso un appunto. [Togliendosi di dosso lo scialle multicolore, prende un foglio tutto ghirigori dalla scrivania]. Ecco: “Un autore che componga una biografia…”. E.: [Approfittando dell’interruzione] Ma questa non è una biografia. T.: Almeno etimologicamente è la “scrittura di una vita”. Ma aspetta: “Un autore che componga una biografia, può o tentare di vivere il proprio personaggio oppure di costruirlo. Tra queste due intenzioni, si dà opposizione netta. Vivere equivale a trasformarsi nell’incompletezza. In questo senso la vita è tutta aneddoti, dettagli, momenti particolari. Viceversa, la costruzione comporta le condizioni a priori di un’esistenza che potrebbe anche essere tutta diversa…”. Qui si vive o si costruisce? E.: Tutte e due le cose. Forse Valéry ha omesso una terza soluzione. Ma lui è un purista. T.: Vivere e costruire? E.: Sì. Vedi anche l’esempio di Cassirer in Vita e dottrina di Kant. Gli aneddoti non mancano, senza che però l’unità dell’intento teorico si disperda nell’effimero. Così qui lo scrittore racconta brani di vita, che già si dispongono come attorno a un fuoco centrale. T.: Vedremo se la terza via si dipanerà nelle pagine a venire. Preparo un tè. E.: Buona idea. T.: Fra le molte cose di cui dovremo discutere nei prossimi giorni vorrei toccare, in breve, le due fonti dell’Occidente secondo Levinas: la Bibbia e i Greci. Sono davvero esaustive di ciò che entra nella vita di un uomo? [Si alza e va alla dispensa. Un verso di gazza dal giardino accompagna il silenzio dopo la domanda.] Davvero tutto il resto è danza? E.: È sempre imbarazzante sentir parlare dell’Occidente come di un familiare noto, di cui si ripassino vita, morte e miracoli. Il rischio è di dipingere con una punta troppo grossolana. C’è sempre dell’artificio nelle liste delle cose fondamentali, ammesso che ce ne siano. Che Levinas usi

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più spesso l’accetta che il bisturi mi sembra un fatto, come non c’è dubbio che tutto il suo stile abbia un’intonazione moralistica. T.: [Agitando nell’aria un limone nella mano] Questo non è un cruccio per me. Finché continuiamo a credere in un qualche dualismo fra ciò che è e ciò che dovrebbe essere, siamo tutti moralisti, almeno in pectore. In Levinas è ossessionante il richiamo al risveglio, alla veglia, all’insonnia. Sente di avere titolo a sferzare la tranquillità della coscienza borghese, per aver vissuto personalmente la violenza della guerra, e per rispetto di coloro – genitori, amici e sconosciuti – che hanno vissuto l’intestimoniabile. Ciò basta per me a giustificarlo. E.: [Si avvicina alla finestra. In lontananza Nerina, la bianca cagnetta accucciata sotto il noce] Il moralista è sensibile alla malafede in agguato: è il classico guastafeste che si evita volentieri, e più volentieri si aggredisce con ogni sorta di controbiezione. Anche il dualismo Bibbia-Greci fa i conti con la stessa acredine. T.: Il mondo pullula di gente che si rifà ai “Greci”. Quale è la grecità di Levinas? E.: “Greco” è una sorta di antonomasia per qualificare il linguaggio coerente e universalizzante della filosofia, a cominciare dalla logica parmenidea della noncontraddittorietà, passando per la scoperta platonica delle idee, fino alle sistematizzazioni aristoteliche. T.: In un senso più ampio si possono dire greche anche tutte quelle invenzioni culturali, che prolungano l’esigenza di coerenza logica? La politica, le scienze naturali, l’economia… E.: Certo. “Greco” è l’Occidente che identifica il deposito del pensiero nella conoscenza proposizionale argomentata e, quando possibile, verificata. T.: Suppongo, però, che appartengano al deposito anche le tragedie di Eschilo, Sofocle ed Euripide, e i giganti delle letterature nazionali. Insomma, lo spettro è vastissimo: perché dovremmo aggiungere la Bibbia?

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E.: [Il tè è servito. La domanda di T. risuona di un’eco grave] Dovremmo aggiungerla perché parla del povero, della vedova e dell’orfano (CC, 391). T.: Ma non era l’ospitalità legge sacra cara a Zeus? E i nostri Stati non hanno creato il Welfare per i bisognosi? E.: La risposta verrebbe preparata solo da un lungo lavoro di dissodamento del terreno. Il lettore di Levinas deve essere anche, in generale, un bravo lettore, inventivo, non prevenuto, autocritico. Ma alla provocazione voglio tentare di rispondere con un’altra provocazione: la Bibbia insegnerebbe che l’acqua non ha senso autentico e primario in quanto principio del Tutto, secondo la speculazione attribuita a Talete, o nella sua struttura atomica H2O, secondo la chimica. L’acqua “esiste”, ha il suo significato primario, quando può essere data da bere all’assetato. T.: [Con lo sguardo nella tazza] Antropocentrismo sfacciato. L’uomo vede i propri simili dappertutto, anche su Marte. La chiamano “pareidolia”. E.: [Assumendo un piglio risoluto] Meraviglioso! E se il vero, più grave antropocentrismo fosse quello che sfugge ai critici dell’antropocentrismo, nascosto nelle loro critiche? T.: Che quesito sibillino! Ti chiedo semplicemente se l’esempio dell’acqua non ponga un’inversione dei rapporti di priorità fra ciò che è logico e ciò che è cronologico. Fra ciò che Aristotele ha distinto: il “primo per natura”, cioè la struttura ontologica delle cose, e il “primo per noi”, cioè quanto è legato alla nostra specificità di organismi che consumano energia. E.: Sì, ma è un rovesciamento difeso da Levinas, per il quale l’etica prende il posto della vecchia metafisica, tenuta in cima alle scienze fino al suo declino per mano della critica kantiana. La Bibbia è essenziale, perché l’atto spirituale per eccellenza che essa promuove non è la conoscenza degli oggetti, ma la “non-indifferenza” per gli altri. Indipendentemente dal sovrannaturale, essa imporrebbe all’attenzione la singolarità dell’altro uomo. Che il volto dell’altro mi comandi di non ucciderlo è un insegnamento della Bibbia contro la norma del nostro egoismo. La “santità” non sarebbe altro che questo.

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T.: Nessuna santità in Grecia? E.: No, almeno nella definizione di Levinas. T.: Dunque, se capisco bene, Levinas non disconosce il ricorso alla razionalità, che resta il medium di ogni comprensione, né fa a meno di riferirsi ai prestigiosi valori estetici e politici dell’umanesimo greco-latino. D’altronde, ritiene pure che l’uomo europeo sarebbe dimidiato e sfigurato senza l’apporto di alcune straordinarie figure della vita spirituale, alle quali la tradizione ebraica si è avvicinata. Atene e Gerusalemme si fronteggiano in un dialogo che le mantiene separate. E.: Senza fusione in megalopoli. È una traduzione, o un’integrazione incrociata. Lo dice lui stesso: bisogna enunciare in greco i principi ignorati dalla Grecia; e, viceversa, dare una filosofia all’ebraismo, senza più imitazione servile dei modelli europei (AV, 290). T.: Gerusalemme… Il nome evoca in me raptus mistici o dubbie mozioni degli affetti. E.: Ma, non meno di Kant, Levinas osteggia le manifestazioni di Schwärmerei, di entusiasmo fanatico. Lo slancio ingenuo del sentimento sverna presto nella disillusione. T.: [Fissa E. come a voler trattenere un sorriso, poi un lungo sospiro] Stiamo anticipando troppo. Riprendiamo domani? Ho bisogno di far decantare il tutto. [Prende il sacchetto verde con i pezzi degli scacchi] E.: Non so come tu abbia potuto intrappolarmi ieri col tuo sciame di pedoni.

Capitolo 1 Dalla Torah alla fenomenologia

1.1. “I woke up one day and I knew I was a European” Fine dell’infanzia: quando si dice al bambino in campo morale il contrario di quanto gli si diceva ieri. (CC, 147)

Quante volte, nelle mattine brumose e umide, la bella Kaunas è apparsa alla mente! I viali alberati, le nuvole abbacinanti riflesse nel Nemunas e nel suo affluente Neris, argentati dal sole; il padre indaffarato in negozio a vender libri agli scolari – a settembre è tutto un festoso viavai; la tenera musica dei valzer al Caffè Conrad, la bellezza delle ragazze. Una, in particolare, sua vicina di casa, Raïssa, conquista le sue cure d’amore. Sulla strada di casa un enorme carcere. I reclusi consegnano al vento parole da dietro le sbarre per le loro donne; ascoltandoli, il piccolo Emmanuel intravede confusamente il significato della privazione della libertà – e dell’evasione. La libertà dell’uomo è quella di un affrancato che, ricordando la propria schiavitù, diventa solidale con tutti gli asserviti. Un’infanzia serena e densa di luce, vissuta in pienezza di affetti. Nel sogno ritrova la tenerezza per la madre Dvora. È lei che gli racconta le favole in russo. Come si possono dimenticare i racconti uditi a sei anni? È la madre a parlar-

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gli di Puškin e Turgenev. Nomi col suono di spiriti familiari: Tolstoj, Cechov, Dostoevskij, Gogol’, Lermontov e i classici della letteratura mondiale. Fin dalla tenera età la letteratura gli era apparsa un veicolo privilegiato di conoscenza, e così negli anni a venire; non l’infestante riempitivo del tempo libero, ma scandaglio potente della realtà attuale e possibile. I grandi romanzi forniranno alla riflessione astratta scorci di vita vissuta, exempla psicologici, casi-limite della sensibilità e dell’intelligibilità. Dostoevskij, in particolare, con tutto il carico di intensità metafisica e afflato religioso dei suoi personaggi, gli offrirà una prima introduzione alla passione della filosofia, ponendolo presto di fronte a quello che in Altrimenti che essere avrebbe chiamato l’intrigo della bontà e del bene (AE, 173); un bene incarnato in figure che sembrano camminare su questa terra senza davvero appartenervi in nulla, come se da un momento all’altro potessero sfuggire alla forza di gravità e alle leggi che governano il comportamento dei corpi ordinari – come il principe Lev Nikolàevič Myškin nell’Idiota, lo starec Zosima e Alekséj nei Fratelli Karamazov. Arriverà a dire che il disinteresse insito nella bontà – espressa dal plurale ebraico “rahamin”, che sono anche le viscere materne – è molto più sconvolgente della domanda metafisica fondamentale, “perché c’è l’essere e non piuttosto il nulla?”; che il dare riparo all’indifeso, l’obbedire al comando di non uccidere e il non lasciare che l’altro muoia da solo, contengono più mistero da chiarire che non le speculazioni sull’arché, che hanno tormentato metafisici e fisici a partire dai Presocratici. Impossibile vedere nel bene e nel male i correlativi paritetici di un’opposizione di concetti; il loro dislivello sarebbe testimoniato dal fatto che solo nel primo si produce uno smarcarsi consapevole dal gioco dei vantaggi e degli svantaggi economici del mondo. Nell’arena della lotta per la sopravvivenza è comparsa – rivoluzione senza sangue – la bontà, invincibile anche sotto Hitler e Stalin (HN, 155). Per questo, nel leggere la descrizione della tempra caratteriale e della condotta di Alekséj Karamazov, il lettore è colto dal-

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la sorpresa di una sorta di violazione dell’ordine naturale e sensato delle cose. Ha fatto irruzione la gratuità del disinteressamento etico. L’incontro che lo accompagnerà fino alla fine è con la Torah, letta con un precettore di lingua ebraica. Inveterati pregiudizi pretendono che non si possa filosofare seriamente senza ripulire il discorso da riferimenti religiosi in senso lato, indirizzando scomuniche laiche a qualunque spiraglio aperto oltre la natura e la sua immanenza. Dovrebbe dar da riflettere lo sprezzo pavloviano che negli ambienti accademici, nei salotti culturali, non meno che nei più dimessi luoghi del consorzio umano, scatta al suono di slabbrati e prostituiti termini come “religione” e “miracolo”; evocano cartomanti che turlupinano i creduloni, officianti in paramenti chiassosi nelle processioni, dèmoni e demòni di fraudolenta genealogia. Solo i fisici teorici possono usare la parola “invisibile” senza essere marchiati dallo stigma della superstizione. Ma il pensiero ha sempre passi più circospetti e lenti – “caute” era il motto di Spinoza –, e non è male rammentare la protesta di Gottlob Frege a proposito della ricezione dei suoi scritti: i matematici non mi leggono perché pensano che io stia facendo filosofia, i filosofi non mi leggono perché pensano che io stia facendo matematica. Basta sostituire i teologi ai matematici ed ecco uno degli equivoci che gravano su Levinas – per quanto i teologi siano stati meno ostili nell’aprirsi ad alcune sue provocazioni. È sempre più raro il coraggio di declinare i veti incrociati di culture che si ostinano a pensarsi separate; del resto, sarebbe improprio usare per Levinas l’etichetta ossimorica di “pensatore religioso”, perché nei testi teoretici egli connette e sconnette concetti, chiamando a supporto delle sue tesi autori della tradizione intellettuale europea. Per di più, una trafila insormontabile di ulteriori veti e giudizi caricaturali impediscono di accostarsi alla Bibbia sine ira et studio; molti continueranno a vedervi il precipitato di una società arcaica e violenta, bestseller infarcito di genocidi e prescrizioni patriarcali; per Levinas è “il Libro

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dei libri nel quale si dicono le cose prime – quelle che dovevano essere dette perché la vita umana abbia un senso” (EI, 50). Ma per giungere a questa conclusione erano, e sono, necessari strumenti interpretativi raffinati; le cose belle sono difficili e lo spessore etico dei personaggi biblici si sottrae a un’intenzione che sminuzza i testi per irrobustire assunti personali. Da quando è nata in Grecia, la filosofia ha aperto le proprie danze svincolandosi dalla complessa ambiguità dei miti, senza con ciò riconvertirsi in dogmatismo a sua volta mitologico. Levinas metterà in guardia da una semplificazione inaccettabile: la filosofia non comincia da zero, sgorga non “da una roccia solitaria” (DL, 150), ma da un fondale di tradizioni, di credenze del senso comune, di arti, riti, gesti: “Nel mare del folklore tutte le figure sono disegnate” (DL, 171). Se vuole superare lo stadio di sapere immaturo e pretenzioso, essa non rinuncerà al rispetto per le prime forme simboliche coltivate dalla mente umana. Nel fondale sono presenti testi ritenuti sacri, il più delle volte inculcati e subìti – al pari di certi ottimi classici inflitti sui banchi di scuola –, ma altrettanto di frequente visitati con libertà critica e pulsante intelligenza. Emmanuel medita avendo sullo sfondo la Torah, letta e interpretata secondo i criteri invalsi fra gli ebrei lituani o litvak. Per secoli al riparo dalla furia antisemita, queste comunità est-europee si erano assimilate con attitudine laica alla cultura occidentale, in un sapiente connubio di studio e preghiera, come mostra una delle maggiori figure di talmudista attive nel Settecento: Elia ben Salomon Zalman, il “buon genio da Vilna” (o Vilnius, a cento chilometri da Kaunas). Mai viene meno la spinta a rendere ragione del linguaggio e della prassi rituale, ad analizzare la lettera dei testi nei solchi della pregevole arte dell’ermeneutica talmudistica, aliena tanto dagli entusiasmi sentimentali del movimento chassidico caro a Buber, quanto dalla curiosità per segreti nascosti nella qabbalah. “Chassidismo e qabbalah hanno diritto di cittadinanza nell’anima ebrea solo se

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questa è piena di scienza talmudica” (DL, 20). Dei variegati fermenti del giudaismo askenazita Levinas accoglierà l’atteggiamento anti-mistico degli mitnaggedim e la liberalità mentale della Haskalah, l’illuminismo ebraico promosso da Moses Mendelssohn. La Bibbia e i classici della letteratura, dunque, lo educano a un contatto fitto con i libri, che non è solo commercio di nozioni attraverso oggetti di carta più o meno apprezzati dalle istituzioni culturali, dai gruppi di esperti, dai bibliofili. L’oggetto-libro mostra una densità di significato, che esorbita dalla sua conformazione fisica. “Leggere libri” è una comoda abbreviazione per intendere l’incontro e l’assiduità con modi profondi di interrogare il visibile e l’invisibile, il vivibile e l’invivibile. Non tutti i “libri” sono libri, discorsi più interiori della nostra interiorità, carne fatta parola. Solo a una considerazione oggettivante i libri figurano inerti sugli scaffali in attesa di ingiallire, mentre sono esperienze fondanti dell’umano; leggere significa “porsi al di sopra del realismo” (EI, 49), perché l’esegesi apre possibilità anche rispetto ai fatti che si pretendono definitivi. La Torah gli raccontava di una Terra Santa, di un Paese in cui scorrono il miele e il latte. Sopra il realismo, sì, ma per ora non sopra la triste realtà del primo conflitto mondiale, che strappa agli aneliti messianici lui e i suoi cari. Nel 1914 i Levinas si spostano in Russia, e di qui in Ucraina, nella città di Kharkov, dove il ragazzo comincia a frequentare il Liceo ebraico. L’età della fanciullezza è finita. Perpetuo esilio delle tribù d’Israele. Nel settembre del 1915 le truppe del Kaiser Guglielmo II, l’ultimo imperatore tedesco, entrano a Kaunas, celebrando la presa della città. L’amministrazione militare dell’Ober Ost, sotto il comando di Erich Ludendorff, è estesa al distretto di Lituania. L’obelisco, simbolo della provincia russa di Kaunas, sarà portato in Germania come scarto metallico. Cambiano i nomi delle strade: spuntano “Beethoven”, “Bismarck”, “Goethe”… Il Nikokayevskij Prospekt si tramuta nella Kaiser Wilhelmstrasse, fino all’ul-

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timo battesimo, “Laisvės alėja”, Viale della Libertà, all’indomani dell’indipendenza dall’URSS. Improbabile magistra vitae, la storia sventaglia le strategie con le quali una cultura divora l’altra, espropriandone la matrice linguistica. Contro gli abusi colonizzatori, contro la violenza della retorica, Levinas rifletterà a lungo sul senso recondito del nome proprio, segno dell’esistenza di una singolarità insuperabile, come la fenice sempre pronta a risorgere dalle ceneri di calcoli e statistiche, schedature ideologiche e macerie. Il nome proprio è stato sviscerato in lungo e in largo da linguisti e filosofi del linguaggio, i quali però si sarebbero lasciati sfuggire la sua portata più intima: l’invocazione dell’altro uomo. Non solo il nome proprio invoca l’altro, oltre che denotarlo per gli usi comunicativi ordinari, ma i nomi propri sono i terminali sottaciuti – eppure sempre presupposti – di ogni costruzione verbale, anche di quelle idealizzate a scopi scientifici. I segreti puntelli senza cui nessun logos sarebbe mai sorto. “Il linguaggio ha forse mai – e persino nel suo ritrarsi – cessato di rispondere ad altri uomini o di attenderli?” (NP, xix). Nel 1920 dall’Ucraina Emmanuel fa ritorno a Kaunas per terminare la quinta classe del liceo cittadino, in una Lituania dichiaratasi Stato indipendente col riconoscimento della Russia sovietica, dopo nuovi scontri con i bolscevichi. Sui banchi di quell’ultimo anno fiorisce l’amore per la cultura dell’Ovest, e in particolare per quella tedesca. Forse è qui il formarsi di una prima consapevolezza dello scarto fra la necessità del fatto di vivere, anche nelle costrizioni della guerra, e la possibilità del disinteresse, della capacità di gesti gratuiti, per di più supererogatori, moralmente desiderabili ma non obbligatori. “I woke up one day and I knew I was a European”: così suonerà la dedica del suo primo lavoro postbellico – Dall’esistenza all’esistente – al preside del liceo, Mose Schwab, suo professore di tedesco, innamorato e innamorante di Goethe.

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1.2. Dalla letteratura alla filosofia Nessuno può “andare a finire” per caso nella filosofia. (E. Husserl, Filosofia prima)

Emmanuel ha studiato i massimi scrittori delle più prestigiose letterature e si dedica anche alla poesia. I componimenti di un adolescente destano dolcezza all’orecchio adulto – talvolta vergogna e ripugnanza, se i due coincidono. Vergati su quaderno a righe in un turgido alfabeto cirillico, sono già attraversati da un sentimento di “crepuscolo degli idoli”, benché in una sottile chiave escatologica. Il sedicenne infervorato avrà avuto contatto con i lavori quasi coevi di Blok e Majakovskij, e sembra volerne riprodurre l’inarrivabile empito. In La terra degli dèi le divinità sono fuggite dalle loro edicole marmoree; un mendicante rivela agli uomini dove ritrovarli: non nel deserto, non nel mare, non fra le stelle, non negli oracoli. Piuttosto, “[t]ornate al vostro cuore – una fiamma è presente in un oscuro cantuccio” (ELF, 236). Difficile resistere alla tentazione di vedere qui in nuce, nella forma ancora acerba di un’infatuazione adolescenziale, l’attrazione per l’invito agostiniano “Noli foras ire, in interiore homine stat veritas”, che proprio in quel periodo Edmund Husserl stava tentando di tradurre in scienza rigorosa. Ma ecco che i cimenti poetici si dissolvono come neve al sole della filosofia; in lontananza equanime dalle bellezze letterarie e dalle asperità bibliche sta la vocazione del pensiero, che Levinas intraprende a coltivare all’Università di Strasburgo nel 1923. Ha diciott’anni, davanti a lui tutta la vita e l’infinita scala della paideia e del logos. Perché Strasburgo? Città di confine contesa nei secoli, cerniera e chiasma delle nazionalità francese e tedesca, dal 1919 era tornata a far parte della patria dei Lumi; per molti ebrei provenienti dall’Est è la porta d’Europa. Vero solo in parte: c’è dell’amarezza, infatti, in questa razionalizzazione posteriore. Il giovane avrebbe voluto formarsi in Germania,

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cristallizzata nell’immaginazione grazie alle lezioni del suo amato docente; ma il diploma liceale non è riconosciuto dalle istituzioni tedesche – è una maturità ebraica, non vale. In quel primo dopoguerra foriero di turbolenze erano già in circolazione i Protocolli dei savi Anziani di Sion, mangime della propaganda, che impose lo stereotipo del complotto ebraico su scala globale, inasprendo l’antisemitismo negli animi, nei crocicchi, negli uffici, nei parlamenti. Troppo debole argine la Costituzione di Weimar al montare della crisi: la formalità del diritto appariva più un legaccio che un baluardo, e distava solo dieci anni (1923-1933) la legge hitleriana contro il sovraffollamento delle scuole e delle università tedesche. Un compromesso, Strasburgo. Ma per lo studente che lascia il paese natìo un’avventura esaltante, che si carica presto del rispetto e dell’ammirazione per la Rivoluzione repubblicana e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Nazione a cui si può appartenere col cuore non meno che con le radici, e nella quale parevano inverarsi le profezie messianiche udite fin dalla culla, la Francia rappresenterà, da una parte, la garanzia di un’accoglienza non transitoria, fondata sul principio della dignità umana e protetta dalle leggi; dall’altra, la possibilità di pensare in una lingua con pretese di cartesiane chiarezza e distinzione. In pochi anni si approprierà del francese, al punto da riconoscere nella nuova terra d’elezione una patria fedele, e a cui restare fedele, insieme alla moglie Raïssa. Segue le lezioni di importanti docenti e menzionerà i quattro indimenticabili: Maurice Pradines (filosofia generale), Charles Blondel (psicologia), Maurice Halbwachs (sociologia), Henri Carteron (filosofia antica). Nei suoi corsi Pradines trattava dei rapporti fra etica e politica, analizzando il caso Dreyfus in termini di vittoria della prima sulla seconda; quale conforto per lo studente! Sarebbe stato felice di farlo sapere ai suoi vecchi amici lituani, che tenevano Émile Zola per un santo. Quattro professori. Cinque, se aggiungiamo Léon Brunschvicg, simbolo dell’ebraismo francese assimilato, incontra-

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to più tardi alla Sorbona. Uomo di un altro spazio-tempo, teorizzatore di una razionalità scevra dalle ristrettezze dell’egoismo, dalle affabulazioni irrazionali dell’immaginazione; nobile mente di una generazione che due vittorie – la riabilitazione di Dreyfus e la conclusione della Grande Guerra – avevano rassicurato nell’ideale. Ma Emmanuel ebbe modo di vederlo triste, un giorno, nel suo studio in Rue Scheffer, nell’autunno del ’32: uno spirito così intransigente, che aveva sempre saputo riassorbire gli sconquassi della vita nella saggezza della ragione, avrebbe consegnato al suo diario un esame di coscienza sull’inatteso baratro del ’40, nel cui fondo quelle due vittorie sarebbero state inghiottite (DL, 65). Professori. O meglio uomini (EI, 52), parola che sembrerebbe dir tutto; anche se la lingua del Terzo Reich usava porre il termine “umanità” fra virgolette ironiche; anche se ormai l’umanesimo aveva – ha – quotazioni da Black Tuesday. Come Marco Aurelio nel primo libro dei Ricordi, Levinas ha messo per iscritto i suoi debiti nei confronti di questi ottimi maestri, la cui dottrina solida gli ha dischiuso la serietà del lavoro filosofico. Non è solo un atto dovuto, ma uno dei tratti distintivi della sua riflessione, che solo operando una classificazione riduttiva potremmo smistare verso i canali della pedagogia: è il concetto stesso di insegnamento, è la relazione maestro-allievo. L’insegnamento, prima di essere una prassi codificata in modelli pedagogici, è l’essenza stessa del discorso, la sua radice, la sua origine. Come per un processo simile al decadimento delle metafore vive nelle catacresi delle accezioni abituali, così le parole e le loro concatenazioni sensate, prima di tradursi in pacchetti informazionali in viaggio dall’emittente al ricevente, sono parola, carne sonora di una phoné diretta a me, da cima a fondo rivelazione di un volto. Bisogna introdurre fin d’ora questo termine-chiave, visage, “volto”, che avrà la ventura di compendiare, nel bene e nel male, tutto Levinas: “Noi siamo a priori non davanti alle idee, ma di fronte a un maestro. L’in sé della verità non è presente nella reminiscenza, ma nel volto” (PS, 210).

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Sullo sfondo degli insegnamenti ricevuti all’Istituto strasburghese brillava ancora, già sulla via di una lunga dissolvenza, l’astro di Henri Bergson, che di lì a poco sarebbe stato insignito del premio Nobel per la letteratura. Generazioni di studenti e studiosi erano stati influenzati dalle sue sovversive idee su movimento, tempo, memoria, morale; e lo stesso Levinas, nei suoi primi passi di scrittore originale, vorrà provare a uscire da un’ombra tanto lunga, senza mai disconoscerne la potenza teoretica, che lo aveva reso convitato di diritto al simposio eterno di Platone, Cartesio, Spinoza, Kant. Questo avrebbe scritto all’indomani della Liberazione, nel suo Omaggio a Bergson del 1946: “È stato il primo a levar la mano contro il tempo freddo della scienza davanti a cui tutti i filosofi, fino a lui, si inchinavano” (CC, 224). Il ritmo concreto della durata e dello slancio vitale era, in fondo, tutt’uno con il gesto di libertà e ribellione con il quale – novello Zeus contro Crono il divoratore – Bergson aveva ridato vigore ai dati immediati della coscienza e alla vita interiore. Libertà e ribellione che coronarono la sua vita allorquando, stanco e ammalato, rifiutate le esenzioni offerte dal governo di Vichy, si presentò al Commissariato di Polizia del suo quartiere per autodenunciarsi alle SS come ebreo, e ricevere la stella gialla con su scritto “Jude”. Scandaloso che lo si sia dimenticato, dirà Levinas in età avanzata (RB, 30); egli aspetta ancora di uscire dal Purgatorio. A Strasburgo conosce anche Maurice Blanchot. I due compagni di corso discutono insieme di autori che lasceranno il segno in entrambi: Husserl, Proust e Valéry. Un legame profondo, che parrà talvolta allentarsi per ragioni passeggere – il dibattito politico, infuocato, alla vigilia del conflitto, o semplicemente il tempo trionfatore delle cose umane –, ma che si riscopre fondato su solido affetto, sullo studio reciproco delle rispettive opere, su un dialogo a distanza mai interrotto. Derrida (1998, 63) parlerà di un’esemplare amicizia di pensiero, che fu “grazia”. Una vecchia foto di quegli anni presenta due profili fisiognomici assai diversi, due modi in cui il lavorìo dei pen-

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sieri si è fatto corpo e stile. Pur entrambi rigorosamente in giacca e cravatta, Emmanuel ha un aspetto rubesto e gioviale; Maurice, slanciato e un po’ pallido, è una sfinge indecifrabile. Cosa avranno da spartire un emigrato ebreo, di forte sentire repubblicano e dreyfusardo, e un rampollo di ricchi proprietari terrieri, con pose aristocratico-monarchiche e simpatie per il nazionalismo di Charles Maurras? Qualche burlone li ha paragonati a Pat e Patachon, un duo comico oggi pressoché dimenticato, celebrità del cinema muto danese, antesignani dei più noti Laurel & Hardy, alias Stanlio e Ollio: l’allampanato e il tarchiato, gli antitetici che si complementano. Ad avvicinarli non è la scontata attrazione di poli magnetici opposti, ma la condivisione di alcune intuizioni fondamentali intorno alla natura umana, che restano zona franca rispetto ai contagi deformanti delle varie appartenenze culturali. Tutta la peculiarità dell’incontro con Levinas sta in questo: convincersi che la filosofia è “la vita stessa, la giovinezza stessa” – è proprio Blanchot a riconoscerlo –, ma nel preciso contesto storico del secondo dopoguerra; il caso esemplare di un’intrepidezza intellettuale nel vivo stesso dei traumi collettivi del Novecento; un pensiero che non rinuncia alla sua vocazione più intima – il ridestarsi dai sonni dogmatici –, senza più quel preteso distacco dal dolore umano, che diventa miopia e falsa coscienza. Un fuoco, un risveglio, un’insonnia, che distrugge il riposo dell’identità. Essere la giovinezza dopo Auschwitz, dopo Hiroshima, dopo i gulag staliniani, questo è Levinas. Nel 1941 Blanchot pubblica il suo primo romanzo, Thomas l’Obscur. Lavora, non senza problemi con la censura, nel giornalismo politico sotto il governo di Vichy, ma la sua è ormai un’esistenza notturna votata all’ascetismo della scrittura letteraria. Nello stesso anno offre riparo dai rastrellamenti nazisti a Raïssa e alla figlioletta di sei anni, Simone, mettendo a disposizione il suo appartamento parigino. Poi, per maggior sicurezza, le farà ospitare sotto falso

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nome nel convento di Saint-Vincent de Paul nei pressi di Orléans. Pur pensando che la bimillenaria cristianizzazione non abbia reso impermeabili le società europee dal virus della fascistizzazione, Emmanuel avrà potuto rammentarsi, in quell’occasione, di ciò che aveva scritto pochi mesi prima dell’occupazione tedesca della Polonia: “In un mondo sempre più ostile che si copre di svastiche, è verso le braccia aperte e pure della croce che noi spesso leviamo lo sguardo”. L’amicizia, suscitata da incontri personali, diventa dialogo a distanza fra, e attraverso, le rispettive opere; ciascuno legge l’altro con l’attenzione estrema che si deve a ricerche originali e intransigenti. Levinas firma alcuni saggi su Blanchot (MB, 41-98), mentre Blanchot recepisce prontamente le innovazioni del capolavoro levinasiano del ’61, Totalità e infinito, trattandone nella sua Conversazione infinita. È impegnativo scrivere di ciò che ha scritto un amico: devi essere all’altezza dei rilievi ai quali rispondi, all’altezza dell’altezza a cui egli può collocarti. Ma è ancor più coinvolgente sapere che ciò che si sta per dire verrà accolto e giudicato dalla sua prospettiva insostituibile; ciò che si ritiene di aver scoperto da soli diventa ancora un’altra cosa quando è letto all’interlocutore – respira una seconda volta, una terza, una quarta… In verità, quel che dicevi era già eco di una voce non tua. Al telefono, il rispetto affievolisce il ritmo delle parole, intervallate da pause: interrompere l’altro mentre dice è un’impossibilità a priori. È ancora lì, Maurice? “Pronto?”. Gli “allô” di Emmanuel erano per accertarsi che l’ascolto non fosse intralciato da interferenze impreviste; che l’altro fosse sempre lì; quasi la contezza che il dire in atto fosse evento unico nell’universo, fievole e caduco, alla mercé di segnali elettrici nei cavi.

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1.3. Cielo vuoto e appunti su Dio Chiedo scusa ai due milioni di atei che mi leggono, ma io ho la fissazione rovente di Dio. (G. Ceronetti, La vita apparente)

I ricordi di quel sé stesso poco più che ventenne lo inteneriscono. L’animo del soldato oscilla fra l’angoscia del nonsenso e il bisogno di una nuova altezza del pensiero, promessa di un inizio inaudito. Come mai prima d’ora, la parola “Dieu” affiora nei flebili appunti a matita, su superfici cartacee spesso gualcite o ammuffite, sempre già scritte, come se la pagina vergine fosse un abbaglio categoriale. Anche il genio più sommo genera solo se fecondato. Apparso su quella carta che è l’immagine stessa della deperibilità, “Dieu” si insinua d’improvviso nei buchi di un discorso che si dipana a tentoni. In un’occasione arriva a dire che Dio è già nell’esigenza della speranza per il presente (CC, 92). Il parlare di Dio – lo ha osservato Pier Paolo Pasolini – è incompatibile con la sicurezza borghese. Bisogna sprezzare il ridicolo per scoperchiare tutti i vasi di Pandora con il sostantivo più usurato dalla ruggine di visioni e accecamenti, dimostrazioni e obiezioni, buoni sentimenti e atti di violenza. Si vorrebbe cassarlo appena scritto – Dio, Dieu, God – se questo stratagemma grafico, ormai frusto ripiego dopo il Sein barrato a croce da Heidegger, non rivelasse ancora di più l’impasse della nominazione. L’amore perverso della vita. L’acre piacere della sofferenza. È la presenza stessa di Dio. Amore perverso della vita – amore di Dio. Ben al di sopra del panteismo dell’amore diretto – del Dio che si raggiunge attraverso lo spettacolo dell’universo armonioso. (CC, 76)

La filosofia non ha vacche sacre da presidiare, perché è nella sua natura di gesto mobile, sempre dislocato rispetto ai propri risultati, di non trasformare in idolo l’assenza di idoli;

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come il Dada, che può scampare alla fine solo se la rottura della tradizione non diventa tradizione della rottura. Chi metta a repentaglio la propria reputazione parlando di “Dio”, anche solo in termini di descrizione delle condizioni minimali della sua significanza, non solo lavora in un campo specifico – la filosofia della religione – riguardato con aria di sufficienza nei cantoni accademici, ma attira su di sé il sospetto di chi ritenga di aver definitivamente chiuso i conti con le pretese semantiche del trascendente, attestato nei vari teismi delle civiltà. Il filosofo non ha la fretta del pregiudizio che brucia sul nascere l’apparizione di un nome, l’affacciarsi di una sequenza di immagini, l’abbozzo di una concatenazione di tesi. È la migliore opera dell’atteggiamento critico abbassare il volume dei pregiudizi per un lasso controllato di tempo: il vorticoso plesso delle cognizioni, come lo chiama Patañjali, si farà avanti comunque, invadente e frastornante – è il suo mestiere –, ma un consapevole e metodico distanziamento ne indebolirà la prepotenza. Prima di arrendersi alla conclusione “ciò non ha senso”, si confesserà più volte: “Io non capisco” o “non mi raccapezzo”. Non è un caso che Levinas abbia ravvisato la novità della fenomenologia nella distruzione della rappresentazione teorica e astratta, sintetizzando così lo shock delle Ricerche logiche di Husserl: “Il ritorno agli atti in cui si svela la presenza intuitiva delle cose è il vero ritorno alle cose” (EDE, 130). La stessa risalita agli atti e agli orizzonti impliciti di senso, inerenti a qualunque oggetto o evento della nostra vita, deve potersi applicare alla nozione di Dio, così da scrostarla da formalizzazioni e schematismi; gli stessi movimenti di crisi, che culminano nella sua eclisse o “morte”, saranno parte della rivitalizzazione. Più tardi, nel 1982, Levinas raccoglierà alcuni saggi in un libro intitolato Di Dio che viene all’idea: un percorso intorno alle circostanze fenomenologiche in cui la parola “Dio”, e la realtà o non-realtà a cui essa fa riferimento, assumono o perdono per noi significato. Dio non può essere il principio attivo del sonnifero dei soliti illusi. Non è uno scialbo dio dei

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filosofi, a misura di raziocinio, che lasci imperturbata l’interiorità: la causa prima della metafisica classica, o il tappabuchi delle teologie aprioristiche, che una teodicea in affanno debba scagionare dalle ritornanti calamità naturali, dagli umani orrori. Lo stesso problema della sua esistenza diventa del tutto secondario. Per Levinas sarebbe fuorviante una concezione realistico-cosmologica di Dio nei termini di una potenza sovrannaturale, che debba imporsi a una intelligenza umana in flemmatica attesa di dati o prove. Ciascuno è chiamato a riconoscere se questo termine possa essere significante, se e come possa “venire all’idea”, senza rinunciare alle conquiste del sapere; in ciò Levinas fa un pezzo di strada con Cartesio, poiché il riferimento al cogito rivela lacune e limiti della sua stessa immanenza, e con Kant, per l’autonomia che la svolta copernicana imprime alla razionalità della religione. Sono rilievi che troveranno sviluppo in molte direzioni, animate tutte dalla preoccupazione di denunciare gli infantilismi teologici, e di accogliere il male e la sofferenza altrui nel significare stesso del “divino monoteistico” (NP, 124). È nota l’affermazione del vescovo Tichon nei Demonî di Dostoevskij: “Il perfetto ateo sta sul penultimo gradino prima della fede più perfetta (lo debba poi varcare o no)”; anche Levinas riconosce, sulla via che conduce a Dio, l’indispensabilità di una stazione di ateismo, ed è la stazione di partenza. “Ateismo” nomina la condizione dell’individuo che, pur non essendosi creato e posto da sé, vive per sé. Siamo naturaliter atei nel sentirci a casa nostra nel mondo, nella fatica del lavoro che ci procura il cibo. L’ateismo è l’indipendenza di un organismo senziente, prima ancora che cogitante, che ricerca da solo il godimento della felicità. Il nesso evidenziato da Levinas è inverso rispetto al comune modo di ricostruire la genesi della mentalità religiosa: è proprio l’autodeterminazione della psichicità a svuotare i cieli dai relitti sovrannaturali e a preparare l’eventuale crescita di una coscienza religiosa, che sarà per ciò stesso sempre adulta. L’ateismo non è necessariamente il punto d’arrivo dell’astrazione intellettuale e critica, ma per Levinas è senz’altro il

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lungo abbrivo verso un’idea non oppiacea né fideistica della trascendenza. Al di là della risibile opposizione credente-non credente, il monito verso una lettura volgarmente materialistica della religiosità non potrebbe essere più aspro: Ma che demone sciocco, che strano mago avete insediato in quel cielo che, oggi, dichiarate deserto? E perché cercate ancora un mondo sensato e buono sotto un cielo vuoto? (DL, 180, corsivo nostro)

Il nome impronunciabile non designa un veterano fra gli dèi mitici, o un più fortunato discendente di Zeus Olimpio; e, per complicare di più il quadro, è nettamente dissociato dal mysterium tremendum et fascinans di una sacralità che si fa beffe dei nostri dilemmi morali. Il numinoso, che soggioga creature mortali con i suoi poteri taumaturgici, è fuori causa. Il cielo vuoto indica, allora, la fine della violenza del sacro, ma non del santo, che è l’unica dimensione in cui potrà giocarsi l’“alba di un’umanità senza miti” (PS, 259; TI, 75). Giusto allora il cielo vuoto, ma altrettanto giusto pungolare il sano intelletto ateo, affinché non si culli nell’atteggiamento, a sua volta infantile e nuovamente dogmatico, di ritenere esaurito lo spirituale con la morte delle divinità posticce. Perché la spiritualità dovrebbe lasciarsi perlustrare come una sostanza tangibile? Perché dovremmo rubricarla fra le attrazioni del vasto Luna Park del mondo? Quando si giunge a limiti così impervi del discorso, gli spettacoli sono finiti e l’attitudine turistico-contemplativa va tralasciata insieme alla comodità sedentaria della posizione. I significati più decisivi vivono anche, e soprattutto, “attraverso l’assenza” (DL, 182), e in eventi traumatici come la sofferenza dei perseguitati. Chi vive della fedeltà a un bene che non trionfa può reclamare, più di tutti, la necessità di istituzioni giuste su questa terra, e aprire possibilità di discorso senza annullarsi nell’irreparabile. Come nell’anti-salmo di Paul Celan, Tenebrae: Noi andammo all’abbeveratoio, Signore. Era sangue, era,

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ciò che tu hai versato, Signore. Splendeva. Ci gettò la tua immagine negli occhi, Signore. Occhi e bocca stanno così aperti e vuoti, Signore. Abbiamo bevuto, Signore. Il sangue e l’immagine che era nel sangue, Signore. Prega, Signore. Noi siamo vicini.

Il nome impronunciabile è volto, parola, rivelazione, appello alla giustizia; è una parola talmente esigente e compromettente, da esercitare un potere di trasformazione imparagonabile alle consolazioni per anime belle. Solo così diventa possibile un accesso concreto ai difficili giochi linguistici della religiosità monoteistica, tutti da dipanare a contatto con quanto di inesauribilmente interpretabile emerge nei suoi libri, insieme a ciò che di esperienziale accade nell’uomo alle prese con una forma di vita anche rituale; come se al di fuori di questa dimensione, testuale e pratica, aleggiassero credenze diafane, “spiritual but not religious”, fatte di tutto e di niente, che avvolgono senza impegnare. Emmanuel fu un ebreo praticante tutta la vita; ma l’aggettivo “praticante” è pleonastico: il suo uso rivela l’imbarazzo di non saper né comprendere, né distinguere fra di loro, la trasformazione reale di una vita dalla sua parodia verbale. Già dal ’37 alcune idee sulla prassi religiosa ebraica – ma ugualmente valide per altre forme liturgiche – erano state formulate in modo assai netto. La ritualità marca un tempo di sosta, che non rifluisce senza scosse nel presente ordinario. Per alcuni istanti la corrente del vivere si arresta, mostrando una fisionomia di irrealtà. Per l’ebreo […] niente è interamente familiare, interamente profano. L’esistenza delle cose gli appare come qualcosa di infinitamente stupefacente. Lo colpisce come un miracolo. Egli prova una meraviglia in ogni istante davanti al fatto così semplice e così straordinario che il mondo ci sia. (“La signification de la pratique religieuse”, 1937)

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Una volta Hannah Arendt raccontò di quando, bambina nella città natale di Königsberg, si rivolse al rabbino: “Ho perduto la fede”; la risposta fu una domanda: “Chi ve la chiede?”. Levinas, che riferisce l’aneddoto in un’intervista (HN, 192), sottolinea il primato del fare sul mero credere. Credere non è un atteggiamento proposizionale fra gli altri, neutrale rispetto ai propri contenuti; non isolato, né cognitivamente impenetrabile, esso si comunica alla corporeità intera per testimoniare una trascendenza che non dimora nella totalità dei fatti. Non un signore di retromondi, ma l’estraneità dello straniero. Testimoniare è mandare in aria ossigeno di fiducia e di speranza, muoversi incontro a chi versa in difficoltà, ed è insieme anche adempiere all’ufficio quotidiano del rito, purché inteso nella pienezza esistenziale di esercizio fisico di distacco dai negotia civili, e dalla storia universale delle morte genti, disconosciuta come misura di tutte le cose. È qui che il fare rituale trova la fonte della propria giustificazione, senza bisogno di pezze d’appoggio in un’apologetica o in una teodicea. Ciò che dice il nome di Dio – attraverso la diaconia del servo sofferente in Isaia 53 – è il rinvio alla responsabilità per l’altro uomo: un’esigenza morale da cima a fondo è anteposta alle preoccupazioni fondazionali della metafisica, della teologia e della stessa etica teorica. “Dio comanda solo attraverso gli uomini per i quali bisogna agire” (EDE, 204). L’enunciato “io credo in Dio” è egocentrato, parte dall’io e all’io ritorna; ma nel dire “me voici”, “eccomi”, che è la “frase in cui Dio viene per la prima volta a mescolarsi con le parole” (AE, 187), io non occupo più il posto del soggetto e vacano, finalmente, i termini per un Dio non contaminato dall’essere.

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1.4. Nella città della fenomenologia Il detenuto intreccia la scrittura del futuro alla rammemorazione del passato. Più volte le vie di Strasburgo compaiono nel teatro della mente, srotolando sulla scena i ponti coperti e le case a graticcio della Petite France; ma soprattutto gli accenti inconfondibili delle voci, le interminate discussioni con amici e compagni, un’unica impresa corale per dare senso al vivere. Avere occasione di esser grati, e serbare la capacità di provare ancora gratitudine – questo pozzo senza fondo – è più che respirare. Gli affiorerà alle labbra una frase liturgica dell’ebraismo, il cui senso oscilla fra il delirante e lo sbalorditivo: “Siamo grati di avere gratitudine” (RB, 66); la più grande gratitudine si deve per trovarsi nella condizione di rendere grazie, senza condizioni. Gratitudine per Jean Hering e Gabrielle Peiffer, grazie ai quali si avvicina con attenzione sistematica alle Ricerche logiche di Edmund Husserl – scoperta tanto decisiva da portarlo a scegliere l’intuizione fenomenologica come tema della dissertazione di dottorato. Più volte torna con la mente al 1928, l’anno in cui si era trasferito con una borsa di studio in Germania, a Friburgo in Brisgovia, cittadina graziosa e ordinata, abbracciata dalla Foresta Nera selvaggiamente romantica, stagliata con nettezza nel chiarore di quell’estate, e dominata dalla AlbertLudwigs-Universität. Sapeva di partire per il centro della fenomenologia, dove risiedeva il professore emerito Husserl, il maestro di generazioni di giovani e meno giovani innamorati della filosofia; ma avrebbe scoperto il già celebre autore di Essere e tempo, Martin Heidegger. Il doppio incontro deciderà la sua sorte. Il soggiorno a Friburgo dura due semestri, fino all’inverno del ’29. Gli anni d’oro della Repubblica di Weimar volgono al tramonto: Goebbels ha assunto la leadership del Partito nazista a Berlino, diventandone il responsabile per la propaganda; nella stessa città viene rappresentata in agosto la prima dell’Opera da tre soldi di Brecht. Il consenso dei

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governanti è frammentato in una miriade di voci, fuori dal Reichstag il partito comunista combatte la socialdemocrazia e il partito di Hitler, al 2.6% nella tornata elettorale di maggio, trionferà sulla SPD nel giro di quattro anni. Il Mein Kampf va a ruba, l’aria vibra di tensione, fermentano dal basso le spinte per una soluzione d’autorità all’imminente crisi da Grande Depressione. A Friburgo Husserl non ha ancora formalmente rotto con l’allievo prediletto (“la fenomenologia, siamo io e Heidegger e nessun altro”), mentre Heidegger, di fresca nomina a professore ordinario alla cattedra che fu del maestro, lavora con prolifica concentrazione a trovare il filo d’Arianna nei labirinti della filosofia. In molti vivono la congiuntura propizia con la trepidazione di discepoli acusmatici al cospetto dei due fra i più grandi pensatori tedeschi, le cui lezioni sono prese d’assalto fin dal mattino come concerti di rockstar. Husserl, avvolto già nelle spire del mito, è in una fase alacre della sua carriera: fra le lezioni sulla “filosofia prima” del ’23-24 e la pietra miliare delle Meditazioni cartesiane del ’29, esamina le possibilità di una psicologia fenomenologica fino all’estate del ’28, mentre dal ’27 lavora insieme a Heidegger alla stesura della voce “fenomenologia” per l’Encyclopedia Britannica. Anche Heidegger è in una feconda tensione intellettuale, culminata nella pubblicazione di Essere e tempo; si è lasciato alle spalle l’insegnamento a Marburgo e ritorna a Friburgo, apprestandosi a pronunciare la famosa Prolusione del suo insediamento, Che cos’è metafisica? Ma pochi si accorgono che la città è il palcoscenico di una collisione fra due galassie, di un “Giudizio finale della Storia della filosofia” (EN, 234). Emmanuel si segnala presto per acume e dialettica dinanzi a Husserl, che già nel luglio nota in una lettera l’arrivo di un “allievo lituano molto dotato”; la “pecorella filosofica”, come lo soprannomina scherzosamente, si è già impadronita di tutte le sue principali pubblicazioni, dalla Filosofia dell’aritmetica al primo volume delle Idee. Gli occhi sfavillanti hanno sete di sedere alla mensa dove lo pane

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de li angeli si manuca, di giungersi alla lotta per la chiarezza della visione e del discorso. L’uomo che aveva risuscitato l’ideale leibniziano di una mathesis universalis, e che pretendeva di aver messo per sempre al riparo la conoscenza dal dubbio scettico, era ora lì davanti a lui: un amabile signore, dall’abbigliamento impeccabile, dalla voce non stentorea, ma diritta al punto, malgrado le inflessioni dell’incertezza. Il dialogo che si accende per le pietre focaie delle parole viventi nel loro farsi e disfarsi, fino alle esitazioni delle voci, incide nel profondo l’animo di Levinas, porgendogli una ricchezza umana inestimabile. Ecco l’apertura di un suo saggio del ’59, “La rovina della rappresentazione”: Incontrare un uomo significa essere tenuti svegli da un enigma. Tale enigma, nel contatto con Husserl, è sempre stato quello della sua opera. Malgrado la relativa semplicità della sua accoglienza e la viva simpatia che si poteva incontrare a casa sua, in Husserl si incontrava sempre la Fenomenologia. (EDE, 141)

Della fenomenologia si può sentir parlare, ma è necessario vederla fare – sentirla, toccarla, gustarla –, come nei più artigianali dei mestieri. È necessario l’acume di un’intelligenza paziente che, deposta la fretta di categorizzare, sia in grado di separare ciò che sembra congiunto, e congiungere ciò che sembra separato, nel flusso dei fenomeni che ci assediano da ogni parte. La fenomenologia conquista l’abbondanza di questo flusso di profili, immagini, emozioni, astrazioni, riattivandone la pluralità degli orizzonti indeterminati, obnubilati o negletti dalle abitudini, ma ancora latenti, là dove sembra che ci vengano incontro i soliti oggetti e i soliti fatti nei soliti ambienti. Scoperta fondamentale, questa, per cui i modi in cui la coscienza si relaziona alle cose sono parte integrante dell’essere delle cose stesse. L’ovvio prende le sembianze del sorprendente, come nella migliore tradizione romantica (Novalis), e si impone una sfida che già si immagina trasmes-

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sa di generazione in generazione: rivelare la generatività incessante dei significati in fieri. Levinas abbraccia un apprendistato da fenomenologo alla bottega degli inventori di quell’arte. Affina la capacità di adagiare lo sguardo su qualsiasi tema, dagli oggetti d’uso domestico – quaderno, fuoco, stufa… – fino alle costruzioni più astratte – teorema matematico, legge fisica, ideologia politica… I fenomenologi – bizzarro sottoinsieme dell’insieme bizzarro dei filosofi –, che saprebbero spaccare il fenomeno in quattro, e fornire descrizioni sempre differenti di una stessa pipa, sono convinti di aver trovato la chiave che aprirà lo scrigno della ricostruzione rigorosa e coerente dello scibile umano. Una chiave per risolvere enigmi epistemologici e ontologici, per penetrare nei più riposti segreti dello spirito, per medicare sofferenze e incubi. La chiave non è stata progettata secondo il modello d’una qualche tecnica formale, preordinata e preordinatrice, o confidando nelle applicazioni formidabili di scoperte scientifiche, ma costruita attraverso una scrupolosa analisi dei vissuti psicologici, pratica certosina che Husserl aveva appreso alla scuola di Brentano e, per conto proprio, riflettendo sul concetto di numero e sul senso delle operazioni aritmetiche. Le sue Ricerche logiche ne danno così convincente saggio, che i discepoli si moltiplicano e cominciano i pellegrinaggi di studio. Da Göttingen a Friburgo, e dalla Germania al resto del Vecchio Continente e oltre, in America, in Giappone, la fenomenologia prolifererà per contagi applicativi, infettando la logica e la sociologia, la matematica e la psichiatria, le scienze cognitive e l’estetica. Mesi di felicità e operosità a Friburgo – come dimenticarli? Lo studente si esercita a sottoporre a riduzione fenomenologica l’apparire della valle del Reno, degli edifici a cuspide, delle colline, dei passanti, e delle sue stesse sensazioni corporee, come l’aritmia cardiaca che si palesa all’approssimarsi della casa di Husserl, al numero 40 della Lorettostrasse.

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Riduzione fenomenologica, la celebre tecnica dell’epoché, con la quale metto in parentesi le credenze abituali sul mondo e retrocedo geneticamente agli stati intenzionali della mia coscienza, che determina le condizioni trascendentali, esplicite e implicite, dell’apparire di ogni cosa. La riduzione è una “rivoluzione permanente” (EN, 115), in quanto movimento innaturale contro il sistema “imborghesito” dei dati, che si ispessisce nel macigno indiscutibile del mondo. La realtà familiare si rivela un reale dinamico, sempre correlato alla concretezza di un io solidale col noi di una comunità intersoggettiva senza confini, in cui ogni significato “risplende della sua prima luce di senso, una luce che non può derivare da nient’altro” (EDE, 185). Il ritorno alle cose stesse è una risalita verso la vita vivente, il sale delle parabole evangeliche. Cielo e terra, mano e strumento, corpo e altri condizionano a priori la conoscenza e l’essere. Misconoscendo tale condizionamento si creano delle astrazioni, degli equivoci e dei vuoti nel pensiero. (EDE, 152)

Indimenticabile il periodo – febbraio 1929 – in cui da Parigi giunge a Husserl l’invito a tenere delle conferenze all’Amphithéatre Descartes: la fenomenologia farà il suo ingresso fisico alla Sorbona. La freschezza già coinvolgente degli incontri si carica di un supplemento d’entusiasmo. In previsione del viaggio, la signora Malvine Husserl vorrebbe prendere lezioni di francese. Emmanuel non esita a soccorrerla, pur intuendo che in verità i coniugi stanno gentilmente provvedendo a rimpolpare le sue economie, arrotondandone la borsa di studio. Il maestro in trasferta pronuncia i suoi “Discorsi parigini”; la rielaborazione degli appunti sarà proprio Levinas, con l’aiuto dell’amica Gabrielle Peiffer, a tradurre nel 1931 con il titolo di Méditations Cartésiennes. L’anno prima aveva pubblicato la sua dissertazione di dottorato, Théorie de l’intuition dans la phénoménologie de Husserl, libro che divulga la fenomenologia nella patria natale di Cartesio. Qualche critico storce il naso e comincia a rivedergli

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le bucce su quella ricostruzione del pensiero husserliano, che avrebbe virato troppo, senza nemmeno nasconderlo, verso le novità dell’astro emergente Heidegger. Lo accusano di aver voluto illustrare l’albero della fenomenologia a partire dai frutti analitico-esistenziali di Essere e tempo, spargendo la semente di piante degeneri, erbacce psicologiche e antropologiche, nel giardino pulito e ordinato della filosofia trascendentale. Giudizio ingiusto: bisogna inserire il lavoro di tesi nell’arco di tutti gli altri contributi teorici sulla fenomenologia, come lo stesso Levinas si premura di fare (DL, 362, nota 2). Una più ponderata valutazione dovrebbe rendere conto del fatto che il filosofo francese trova fuorviante l’immagine di un Husserl intellettualistico, perché già i suoi testi e manoscritti cosiddetti “genetici” – ad esempio, le lezioni sulla coscienza interna del tempo o il secondo libro delle Idee – elaborano un’analisi molto approfondita della corporeità, della temporalizzazione e delle dimensioni precategoriali della vita, predisponendo gli strumenti per indebolire il primato della rappresentazione. Molti anni più tardi, nel suo toccante discorso di commemorazione, Adieu à Emmanuel Lévinas, Jacques Derrida parlerà di due avvenimenti dirompenti, innescati dalla pubblicazione di quest’opera prima: da un lato, la fondazione degli studi husserliani in Francia, dall’altro – “felice trauma” per i francesi e addirittura una “seconda navigazione” – lo spostamento dell’asse del pensiero di Husserl e Heidegger lungo la rotta dell’etica (Derrida 1998, 65-66). Ma è bene sostare ancora un poco con l’immaginazione su cosa abbia potuto significare imbattersi nel suono del pensiero fenomenologico nascente, denso al contempo di formulazioni provvisorie, di entusiasmi per le promettenti conquiste e di delusioni per i falsi approdi. Le pupille di Husserl dietro i piccoli occhiali sembrano più grandi, mai sazie di rincorrere i profili delle cose e le orme di intuizioni e concetti, stenografati su carta per contrarre al massimo l’intervallo dal loro originario riecheggiare. Montagne di manoscritti che racchiudono le risposte a tutti, o quasi, gli interrogativi e le

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obiezioni degli allievi, dando l’impressione che ogni concepibile soluzione sia già racchiusa in quei forzieri di carta.

Figura 2 – Edmund Husserl. Occhi e occhiali servono alla fenomenologia

La fenomenologia ha fama di percorso in certa misura iniziatico, che induce in chi ne accolga il metodo una ristrutturazione irreversibile del modo di vedere, sentire, pensare, agire; non è un caso che sia stata paragonata a una conversione religiosa, e presentata come la più grande evoluzione esistenziale dell’umanità. Deve essere stato l’autentico thaûma di cui parlava Aristotele, una meraviglia talmente pervasiva da soggiogare l’animo prima di ogni distinzione fra bene e male, fra gioia e dolore. Levinas può ripetere ciò che aveva già riconosciuto Heidegger: “gli occhi me li ha aperti Husserl”. Husserl, maestro del vedere, retinico e teorico, sensibile e categoriale, ha in-

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segnato ad aguzzare i sensi e l’intelligenza per accogliere le differenze di cui pullula il mondo quotidiano; ha dettagliato la mappa delle correlazioni fra tipi di stati mentali e tipi di fenomeni corrispondenti, tirando giù le idee platoniche dall’iperuranio o dalla mente di Dio nei correlati concretamente esperibili delle nostre capacità cognitive; ha accompagnato l’uomo, tutto preso nel vortice del vivere biologico-sociale, a scoprire un altro universo con leggi autonome: il mondo della vita (Lebenswelt), dei significati costituiti dalla soggettività e intersoggettività trascendentale, sempre più ricco di quanto le nostre ricostruzioni teoriche lascino sospettare; ha insegnato la resurrezione della fenice, il “sempre di nuovo” (immer wieder) della ripartenza metodologica oltre i saperi magnificati e tabuizzati. Perciò in tanti hanno visto, e vedono, nella fenomenologia una filosofia della libertà, e nell’intenzionalità – sua scoperta fondamentale – una liberazione (EDE, 53, 165). La fenomenologia pretendeva di incarnare la vocazione stessa della filosofia, che non è solo il rigore dell’argomentazione fine a sé stessa; se inteso come criterio metodologico, desunto dai modelli delle scienze formali o naturali, il rigore non è un requisito di cui si comprenda la genesi e il senso finale; il vero rigore non è mai l’uniformarsi algoritmicamente a un corpus di leggi inviolabili, ma è la rispondenza libera e ragionata a un ethos della scientificità, fatto di tensioni e aspirazioni, non meno che di principi generali. Nello smisurato orizzonte della scienza dei fenomeni, la filosofia poteva dirsi audace e liberale nel non escludere a priori – riducendolo ad altro o eliminandolo del tutto – nessun ambito della realtà dalla precisione d’indagine. Chi si accosti alla fenomenologia non solo per curiosità accademica, ma per trovarvi la chiarezza desiderata attorno ai problemi del senso dell’esistenza, ha l’impressione di incontrare i fenomeni nella loro originaria vividezza, nello sconfinato raggio che congiunge le manifestazioni empiriche più strettamente perisomatiche e ambientali alle propaggini più remote dell’universo, ai confini stessi della concepibilità, resistendo alla tentazione di sprofondare le mani nel patrimonio delle no-

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zioni pregresse. La riduzione fenomenologica recide il cordone ombelicale che ci rende abitanti naturali di una terra più antica di ogni grembo, perché applica un momentaneo silenziatore a tutto ciò che riteniamo di sapere – senso comune, teorie scientifiche, tradizioni culturali –, portando alla luce il campo inesplorato del soggetto e delle sue operazioni, che fanno del “tutto scorre” eracliteo un mondo comune e coerente. Il filosofo diventa un principiante, nel senso letterale del participio presente: colui che si permette il lusso di cominciare daccapo l’impresa del pensiero in prima persona, come se millenni di convinzioni fossero andate di colpo in fumo. Prima di Husserl, fu Cartesio a tentare una simile sovversione; e credette di aver trovato il fondamento inconcusso nell’ego cogito. Quale gesto titanico e faustiano, oppure quale ingenuità da Candide! La fenomenologia, da un lato, forniva gli strumenti per assicurare la validità oggettiva della logica, mettendone al riparo le leggi dalle spiegazioni psicologiche, e abbozzando una teoria fondazionale della conoscenza a prova di sfida scettica; dall’altro, si orientava a rispettare le peculiarità specifiche di ogni ammissibile ambito d’esperienza; accanto alle leggi logico-matematiche il fenomenologo non evitava di scrutare i sentimenti, la motilità del corpo vivo, le creazioni artistiche, insieme a “cose” che avevano tutta l’aria di puri anti-fenomeni, la negazione stessa dell’apparire descrivibile: l’inconscio, la malinconia, la noia, il male, la morte, il nulla, Dio. Nel buio non si può fare fenomenologia, o si fa fenomenologia del buio. Non si vede nulla, se non i propri fantasmi; si ascolta poco, se non i frammenti di un monologo interiore. Non c’è tema dinanzi al quale ci si ritragga, perché tutto ruota intorno alla scoperta del fatto che l’accesso soggettivo all’oggetto fa parte essenziale dell’essere dell’oggetto (TIPH, 16-17; EDE, 130, 166). Come imparare il metodo? Studiandone i tesori racchiusi nell’ostico linguaggio delle Ricerche logiche (1900-1901) e del primo libro delle Idee (1913). È a partire da queste due opere capitali che Levinas forma la sua prima familiarità col nuovo stile. Diventa in breve non solo un ottimo esegeta

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degli scritti husserliani, che commenterà in diversi saggi, articoli, recensioni; ma farà fruttificare quello stile con analisi che ne estenderanno la portata in direzioni imprevedute, di fatto generando una delle numerose eresie fenomenologiche, eresia rivoluzionaria che pone l’etica al posto della metafisica e dell’epistemologia – l’etica come “filosofia prima”. Ma, da Marburgo, giunge Heidegger a scompaginare la struttura apollinea del vedere fenomenologico e a gettare una cappa di diffidenza definitiva sui fondamenti della metafisica occidentale. Con all’attivo studi che attingono agli autori classici, i Greci e Aristotele in primis, il suo parlare suona la musica dissonante di una “ermeneutica della fatticità”, di un’analisi dell’esistenza fattuale, che resiste con i suoi bisogni alla comprensione eidetica e al primato della teoria, in un linguaggio drammatico che avvince l’animo con le tonalità dell’apocalisse. Il maestro aveva aperto gli occhi, l’allievo li aveva posti sull’abisso. “Andai a Friburgo per vedere Husserl, ma vi trovai Heidegger”, annota Emmanuel. La relazione fra i due tedeschi avrà talvolta evocato la contrapposizione fra Hegel e Kierkegaard, fra il sistema in via di dispiegamento e l’esistenza a recalcitrare; lo stacco ritmico in un concerto fra un adagio e un andante con moto; o, infine, il contrasto fra la ricerca di ordine e profondità in Cézanne e le corpose, intense pennellate di Van Gogh. Levinas fu colpito dall’uso speciale che Heidegger faceva del termine più ubiquo ed elusivo delle lingue indoeuropee: “sein”, “essere”; un uso non denotativo e anche una sonorità di verbo, anziché di sostantivo, che scaturiva dal compito di comprenderne la profondità senza l’apparato categoriale della tradizione metafisica, o delle ontologie regionali, che Husserl e i suoi allievi andavano edificando nei volumi dello Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung. Nel 1932 Levinas pubblica “Martin Heidegger e l’ontologia”, uno dei primi articoli su Heidegger in Francia, dalle cui pagine molti realizzeranno forza e direzione del vento speculativo germanico. Un’esegesi accurata e perorante, a

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tratti didascalica, che restituisce al lettore una panoramica dei temi essenziali di Essere e tempo. Ecco lo slancio ammirato in un passo poi espunto dalla versione definitiva del testo: Il prestigio di Martin Heidegger e l’influenza del suo pensiero sulla filosofia tedesca è una nuova fase – ed uno degli apici – del movimento fenomenologico. Sorpresi, i più anziani precisano il loro atteggiamento nei confronti della nuova dottrina. Essa esercita un vero e proprio fascino sui giovani. E, andando al di là del lecito, penetra già nei salotti. Per caso, la Gloria non si è ingannata e, contrariamente alle sue abitudini, non era in ritardo. Chiunque abbia fatto filosofia, non può impedirsi, di fronte all’opera heideggeriana, di constatare che l’originalità e la potenza del suo sforzo, che procedono dal genio, si uniscono ad un’elaborazione coscienziosa, meticolosa e solida, a quel lavoro da paziente operaio che costituisce il bell’orgoglio dei fenomenologi.

È un encomio più che simpatetico, un anno prima della nomina di Heidegger al rettorato di Friburgo e del relativo discorso sulla “Autoaffermazione dell’università tedesca” – eventi che spiazzano, quasi la rivelazione di un tradimento. Come in un cupo presagire, il suono tragico di abbandono nella scelta levinasiana di tradurre con “derelizione” il concetto dell’essere gettato nel mondo (“Geworfenheit”) anticipa l’atmosfera del saggio di poco successivo sull’hitlerismo, e soprattutto l’idea o il sogno, assunto scientemente nella sua irrealizzabilità, di evadere dall’essere. Non una sconfessione dell’analitica esistenziale di Essere e tempo, ma un azzardato tentativo di volgere le spalle alla stessa gigantomachia greca intorno all’essere e al nulla. Riprenderà Heidegger in uno degli ultimissimi interventi prima della Campagna di Francia e della disfatta militare, nella conferenza “L’ontologia nel temporale”, che in quel 1940 si accompagna alla pubblicazione del lungo saggio “L’opera di Edmund Husserl”. Da quel momento, e sempre più dopo il ’45, Husserl è riletto con un’attenzione inedita, e sembra quasi che Heidegger continui a interessarlo nella

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misura in cui si presti a prolungare, pur in modi e accenti propri, l’ispirazione del primo maestro. Il rapporto di Levinas con Heidegger resta, però, complesso, intrigato e intrigante, al di là dei due unici dati inequivocabili: l’ammirazione senza riserve per Essere e tempo, in cui egli non ha smesso di ravvisare la dignità di classico, sullo stesso piano della Critica della ragion pura di Kant o della Fenomenologia dello spirito di Hegel; e il duro giudizio sull’adesione al nazionalsocialismo – delusione incancellabile, che gli resta addosso a dispetto delle migliori giustificazioni. Eppure, lo studio comprovato dei lavori della “svolta”, che tentano l’oltrepassamento di Essere e tempo, lo accompagnerà fino alla fine, mai tentato da sprezzature, processi o bilanci grossolani. 1.5. L’apocalisse incantata Un anno immenso, il 1929. Il 2 aprile, su indicazione dello stesso Heidegger, Emmanuel è invitato a un evento carico di attese di non si sa che: la seconda seduta degli Internationale Davoser Hochschulkurse, sulle Alpi svizzere. Proprio a Davos, famosa per i sanatori e le piste sciistiche, Thomas Mann aveva da poco ambientato le vicende dello Zauberberg: la neve eterna e i grandiosi panorami d’alta montagna circondano il celebre Sanatorio Berghof, il microcosmo in cui il borghese beneducato Hans Castorp, avviato alla quieta professione di ingegnere, scopre iniziaticamente l’ambigua stretta fra salute e malattia. Se non bastasse la letteratura a trasfigurare luoghi e nomi, le conferenze di Davos sono promosse dalla politica. Sotto gli auspici dei governi francese e tedesco, e coi denari di commercianti e albergatori, si alimenta anche nel mondo accademico un confronto sulla scia dei patti di Locarno e Briand-Kellog. Prove tecniche di riassetto geopolitico e geofilosofico internazionale. Un vento di primavera in questa Locarno degli intellettuali, nel Canton dei Grigioni; centina-

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ia di studiosi, smistati nei diversi hotel della zona, assistono alla tenzone fra Ernst Cassirer e Martin Heidegger, nella Hochschule lontana dagli affari a fondo valle, come in un monastero di chierici sperduto fra i boschi. Il tema, una domanda fuor di moda: Chi è l’uomo? Nella Davos della Montagna incantata il sole pungente può perdersi repentino in nubi grigiastre e venti che gelano le ossa. Con poco, la tormenta di neve sperde i perimetri delle cose. Nella Davos dei dotti non c’è sciamare di cirri che annunci il ciclone, l’aria è insolitamente limpida, e i due professori tedeschi si portano da galantuomini. In Cassirer si apprezza soprattutto il prestigioso storico della filosofia e l’illustre rappresentante del neokantismo della scuola di Marburgo. Heidegger avanza come una slavina, che parte dall’antico e precipita nell’incognito. Due icone del pensiero che pensa in grande, ricevendo con serietà imponenti eredità di lavoro e aspirando a ricostruire il senso stesso del domandare. Cassirer ha sullo sfondo l’esemplarità della rivoluzione scientifica e della scienza naturale matematizzata, il trionfo della libera attività dello spirito nella gamma delle sue forme simboliche. Heidegger ripropone la questione dell’essere, anteriore alle pretese di razionalizzazione – gli occhi appaiono ancora più acuminati quando parla di “Destruktion”. Un tema circoscritto di dibattito è l’interpretazione della Critica della ragion pura di Kant: teoria della conoscenza scientifica e feconda lezione di metodo (Cassirer) o fondazione della metafisica e scoperta della sua radice temporale (Heidegger)? Ma il problema è più grande: appunto, chi è l’uomo? Se Cassirer è nel giusto, l’uomo è capacità onnivora di costituire campi d’esperienza e forme di cultura; se coglie nel segno Heidegger, la ragione tramonta come fondamento della nostra tradizione e l’uomo è ignoto a sé stesso.

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Figura 3 – Cassirer e Heidegger a Davos (maggio 1929)

Cassirer: “È possibile che il collega Heidegger voglia rinunciare all’oggettività? Possibile che un essere finito non sia capace di verità, e di verità eterne? Possibile che Lei voglia ritrarsi solo nel creaturale? L’uomo trasforma le sue esperienze vissute nelle figure e nelle forme oggettive dei mondi della cultura; camminando nel finito in tutte le direzioni attraverso il medium del linguaggio, accediamo all’infinito regno dello spirito. Non solo, ma se passiamo ai temi della Critica della ragion pratica, si vedrà come l’orizzonte del problema della conoscenza si ampli eccezionalmente, dal momento che gli imperativi categorici aprono una brec-

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cia nel mondo intelligibile. L’etica, una buona volta, apre all’assoluto!”. Heidegger: “L’uomo è, in un certo senso, infinito, perché sa intendere ontologicamente l’essere; è infinito nella misura in cui fa ontologia; ma proprio questa prerogativa è la miglior prova della sua finitezza insuperabile. Dell’ontologia ha bisogno non Dio, ma solo un ente finito come l’Esserci. Come potrebbe, poi, l’etica rappresentare un’eccezione? La struttura stessa dell’imperativo rimanda costitutivamente alla nostra finitudine radicale. Quanto alle verità eterne, c’è verità solo per l’Esserci, nell’intrascendibilità del suo orizzonte temporale. Se, allora, il terreno sotto i nostri passi è in realtà un abisso, la filosofia ha ben altro compito che quello di dispiegare le forme simboliche della cultura e coltivare placidamente le opere dello spirito; essa deve risospingere l’uomo nell’asprezza del suo destino, rivelargli la sua nullità”. Colloquio tanto cortese, quanto vibrante di contrasti espliciti e tensioni segrete, di sciabolate eleganti ma non meno fendenti. Qualche uditore di buone letture avrà potuto evocare le schermaglie dialettiche fra Settembrini e Nahpta nel romanzo di Thomas Mann: fra l’homo humanus innamorato della nobiltà della cultura, e il disincantato nemico della conoscenza pura e della mediocrità. Emmanuel aggrotta le sopracciglia al risuonare di “morte”, “angoscia”, “nulla” sulla bocca di Heidegger – in cuor suo ha già scelto. Ricorda quell’episodio imbarazzante, che gli strappa ancora un sorriso. Nel pomeriggio, dopo il colloquio, passeggia con un gruppo di amici francesi. Lui, signorile doppiopetto e fazzoletto bianco nel taschino, ha il bastone prestatogli da Blanchot; le proposizioni teoretiche si susseguono a battute mordaci, gli occhi persi nelle cupe boscaglie di abeti e larici digradanti al lago. La brigata fa una sosta e Levinas continua a commentare per i suoi uditori alcuni passi di Essere e tempo, assiso su un cumulo di neve. Parla di “Esserci” e “Cura” con entusiasmo, anche dopo essersi accorto – eccitando l’ilarità degli astanti – che il sole ha disciolto parte del suo candido seggio di… sterco. Finitudine dell’umano!

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Ma il sorriso trapassa in bruciante pentimento al rammentare la goliardata studentesca a conclusione del soggiorno svizzero. I compagni più teatrali imitano i professori e lui si è incipriato la folta capigliatura per rifare il verso al canuto Cassirer, motteggiandone in particolare – ironia della sorte – la confessione di pacifismo. Malinconia frammista a rammarico, dacché i fatti tragici degli anni Trenta e Quaranta si sarebbero incaricati di dissolvere l’aura avventurosa del soggiorno nei Grigioni, addensandovi premonizioni all’epoca senza sostanza, col senno di poi a moltiplicare i sensi di colpa nell’animo di quell’irraggiungibile giovanotto, che avrebbe potuto dire con Majakovskij: Non c’è nel mio animo un solo capello canuto, e nemmeno senile tenerezza! Intronando l’universo con la possanza della mia voce, cammino – bello, ventiduenne. (“La nuvola in calzoni”)

Poco dopo il ritorno in Francia, Levinas pubblica la tesi di dottorato, ormai istradato a una carriera di studio. Il 30 gennaio 1933 il presidente Hindenburg affida a Hitler l’incarico di formare il nuovo governo tedesco; in aprile l’Università di Friburgo ha un nuovo rettore, Martin Heidegger, con tessera NSDAP, mentre l’Università di Amburgo ne perde uno, Ernst Cassirer, in partenza per Oxford, dimessosi dalla carica poche ore prima che una pioggia di leggi e decreti estromettessero gli ebrei dalle professioni. Di lì a poco, nel grande falò berlinese le pagine di Marx, Freud e di altri ingegni non ariani avrebbero volteggiato in lacerti anneriti dinanzi a migliaia di occhi, in una vampa di fulgore fatuo sul Teatro dell’Opera Kroll. Gli echi di Davos sarebbero ancora aleggiati per anni nella mente di Emmanuel, che dedica a Heidegger buona parte dei suoi progetti di scrittura; progetti frenati dal servizio militare nel 46° Reggimento di fanteria, che gli spetta in quanto finalmente cittadino naturalizzato fran-

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cese, ma poi smorzati dall’esacerbarsi del clima politico, quindi sospesi dalla decisione di Heidegger rettore di percorrere il nuovo corso richiesto dalla grandezza del Reich e del suo Volk. Husserl resterà una fonte e una bussola: la fenomenologia, anche nella rivisitazione heideggeriana, gli ha fornito una potente cornice metodica, che gli appare imprescindibile nei pregi non meno che nei difetti, nelle chiusure non meno che nelle incrinature e negli spiragli verso ciò che non si manifesta, non può manifestarsi, in carne e ossa. Nel ’32, di ritorno a Kaunas per le vacanze estive, aveva sposato la figlia dei suoi vicini, Raïssa Levy. L’amore di una vita, che gli sovviene ogni momento, o a volte null’affatto, giacché la consuetudine gli ha infuso l’ingannevole naturalità dell’aria, dell’acqua, o del sole attraverso cui tutto prende sembiante. A ogni avvio di discorso pubblico egli cerca i suoi occhi. O mia colomba dei nidi rocciosi Nascosta nei muraglioni La tua faccia fammi vedere La tua voce fammi sentire La tua voce soave La tua faccia graziosa. (Cantico dei Cantici, 2, 14)

Lancinante ne diventa la mancanza, quando la durezza della vita strapperà al fiore la corolla: la morte di lei, nel settembre del 1994, precederà la sua di poco più di un anno – un tempo sterminato, in cui la mente si sarà inoltrata su sponde ancora più estreme, verso più estreme parole, ma custodite nella fortezza del pudore. La donna è per lui un costante e disorientante mistero d’attrazione. La donna ignota e attesa, la Maria Maddalena peccatrice redenta, di cui discorre Léon Bloy nelle Lettere alla fidanzata, intensamente meditate nell’ultimo periodo di prigionia. Bloy diventa per un tratto l’archetipo dello scrittore dai “pensieri assoluti, ed espressioni assolute” (CC, 167),

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distillati dalla religiosità cristiana e da trasporre a ritroso in quella ebraica; il modello Bloy consentiva di interpretare qualsiasi contesto di vita concreta sullo sfondo di categorie trascendenti, accolte senza compromessi. Spentasi l’infatuazione per Bloy, Levinas scriverà sulla sessualità e sul femminile pagine notevoli, che verranno fin da subito vagliate con scrupolo dalle intellettuali femministe, a cominciare da Simone de Beauvoir. Il femminile appare fugace in un breve scritto, pubblicato in lituano su una rivista di Kaunas nell’estate del fatidico ’33: La comprensione della spiritualità nelle culture francese e tedesca, recuperato dagli scaffali impolverati di una sala periodici a Vilnius. Gli echi di Davos, si diceva. Suggeriamo che l’articolo in lituano debba essere letto proprio alla luce del confronto Cassirer-Heidegger, dissimulato nel contrasto fra il modo francese e il modo tedesco di intendere lo spirituale. Con il gusto un po’ acerbo per le antitesi squadrate, Levinas inscena il contrappunto di due Weltanschauungen, di due divergenti tipi di culture, letterature, psicologie. Per i francesi lo spirituale è puro, non contaminato con i meccanismi corporei della biologia e della fisica. Cartesio è l’emblema della separazione di principio fra mente e corpo e della purificazione del cogito dai contenuti ciechi della coscienza, che sono da vivere passivamente, presi per quel che sono – e sono ben povera cosa. Contano le idee chiare e distinte: ad esempio, l’idea astratta e austera di giustizia, la stessa che si oscurò per alcuni anni nelle accuse montate ad arte contro Dreyfus, per poi venire ripristinata nella sua validità universale. Un fil rouge percorre il genio francese, dal dualismo cartesiano fino al positivismo e a Brunschvicg, per farsi epitome nella sentenza “La vera vita spirituale è altrove” (DS, 62), che riecheggia il Rimbaud di Une saison en enfer, “La vera vita è assente”. Altrove – dove? Nelle teorie delle scienze esatte, perché è potenza d’astrazione oltre i limiti degli organi di senso e il velo delle passioni. Con le parole di Borges:

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“Oh gioia del comprendere, maggiore di quella di operare e di sentire!”. Tutt’altro panorama nel modo tedesco di concepire ciò che è mentale, intellettuale, “geistig”. Il modello è, guarda caso, la Montagna incantata di Thomas Mann, le storie che si consumano fra le mura del Sanatorio, cenobio laico e iniziatico di tubercolotici, separato dalla sanità normale dei cittadini a valle. Agli antipodi del francese, il tedesco patisce un fondamento carnale non razionalizzabile, un intrico indissolubile di attrazioni e repulsioni, piaceri e dolori, nei quali si inabissa, per prenderne più profonda consapevolezza. Vissuti torbidi, ma non perciò ciechi, ché anzi si protendono pur sempre verso oggetti – sono intenzionali, per usare il concetto-chiave dei fenomenologi; in virtù del vettore semantico dell’intenzionalità, anche la libido sessuale non si arresta alla fisiologia. Più in generale, l’intero funzionamento anatomico-fisiologico dei corpi, lungi dal ridursi a regolarità di strutture subpersonali, rivela verità trascendenti il singolo. I tedeschi saprebbero far teoria dell’erotico e del pornografico: le viscere contendono con le regole. La loro sensibilità innata per l’auscultazione degli accidenti corporei non esita a farsi lambire dall’interesse per la psicoanalisi. Essi “non ascoltano la ragione che dice ‘sì’ quando tutta la loro esistenza grida ‘no’” (DS, 74). Se i piaceri, le passioni e il sesso parlano, la contemplazione di strutture universali ed eterne verrà sepolta dall’urlo terrificante di chi lotta per esistere. Qui il fil rouge connetterebbe Nietzsche a Heidegger, per farsi cronistoria finzionale negli abitanti dello Zauberberg manniano, che registrano minuziosamente avvisaglie e avanzamenti della malattia e della morte nei loro organi, nelle temperature, coloriture e scoloriture della pelle. Il protagonista Hans Castorp è rapito dai dèmoni fisico-fisiognomici, che si risvegliano nell’amore per Claudia Chauchat, e nel magnetismo di Mynheer Peeperkorn, “un uomo della inintelligibilità e del sentimento”, in grado con i suoi monosillabi di offuscare l’afflato pedagogico di Settembrini e la dottrina di Nahpta.

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Hans rimugina: Non appena entra in gioco l’elemento corpo, la faccenda si fa mistica. Allora l’elemento fisico si confonde con lo spirituale, e viceversa; stupidaggine e intelligenza non si possono distinguere, ma c’è l’effetto, il dinamismo e noi siamo messi nel sacco. Ed a spiegare ciò non abbiamo alla mano che una parola sola: “Personalità”.

Semplificazioni, certo, ammantate della seduzione tipica degli schemi ritagliati di netto. Ma ci sono ragioni per supporre che Levinas – nonostante una formula di cauta equidistanza in chiusura (DS, 86) – ripercorra i propri passi di ospite del sanatorio filosofico a Davos, rammemorando il dibattito su Kant alla luce dei fatti del ’33, disinebriandosi del sottile appello iconoclasta nella posizione di Heidegger. Giacché non è solo Thomas Mann a sentire l’incalzare degli inferi dell’esistenza carnale, ma anche – e con ben altri intenti – il Partito nazionalsocialista, ormai al potere in Germania. Lo scrittarello su francesi e tedeschi è un prologo, ancora garbato, alle drammatiche riflessioni del ’34 sulla vittoria di Hitler (§ 2.1). Incanto sfatato di Davos e della montagna dei miracoli. Il vero incanto è quello che non teme il disincanto? O non è più tempo di magie?

Secondo dialogo Di Heidegger e della Divina commedia

T.: [Tira un lungo sospiro. Nella camera invasa dal sole solo l’eco del garrire di rondini] Il canto delle rondini. Il canto incanta. Ma non sono cose come queste ad attrarre Levinas. Da cosa è tormentato? E.: Facciamo due passi, credo serva a entrambi. [Escono sulla strada senza asfalto, costeggiata dai campi] La risposta non può essere così diversa da quella che daremmo nel dire cosa ci abbia attratti della filosofia di Platone o di Kant; o, più in generale, cosa ci abbia spinto a entrare nella filosofia. Cosa ci ha spinti a questo modo unico di giocare con il linguaggio, o di essere giocati da esso? L’attesa di qualcosa che non riuscivamo a decifrare. L’inatteso bussa e ribussa nelle pagine di Heidegger. T.: Levinas è stato affascinato, credo, dal fatto che con Heidegger “ne va dell’esistenza”; che si parla di un destino su cui la coscienza teorica non ha potere di rivelazione. E.: Lo dice in vari modi lui stesso nell’articolo “Martin Heidegger e l’ontologia”: la derelizione conferisce all’esistenza umana il carattere di fatto in un senso drammatico del termine. Siamo una possibilità finita (EDE, 78, 82). T.: Quando leggo Heidegger, ho l’impressione di seguire un reduce da lotte con forze sproporzionate e più sublimi del sublime stesso. A molti doveva giocoforza sembrare che, rispetto a lui, tutti gli altri fossero modesti impiegati d’ufficio.

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[Flettendo l’angolo delle labbra ammiccando] Il dionisiaco Heidegger contro gli apollinei Husserl e Cassirer? E.: Non so. La tragedia è l’ombra lunga che minaccia la filosofia in tutte le sue declinazioni, tanto le sedicenti rigorose quanto le più lasche e spericolate. T.: Definiresti tragico anche il pensiero di Levinas? E.: [Improvvisamente incupito da una preoccupazione indefinita] Il pensiero di Levinas è una trama con tre personaggi (EDE, 250): l’io, ovvero il “Medesimo”; l’altro uomo; e l’assolutamente Altro. Ma è una commedia. T.: [Sosta sul ciglio della strada e raccoglie alcuni rami secchi] Questa è dura da digerire. Dopo tanti orrori accumulati? Nessuno parla più di happy end, a meno di non voler perdere la reputazione. E.: Che l’espressione “lieto fine” sia sempre ridicolizzata e confusa con il finale delle pellicole hollywoodiane, è segno di quanto accondiscendenti si sia diventati nei confronti delle mode che astringono cervello e cuore. Il lieto fine è una postulazione del pensiero (Kant!), che non manca mai di tradursi in respiro, azione, mani che fanno sentiero fra la sterpaglia. Ma è Levinas stesso a menzionare da qualche parte la “divina commedia” (EN, 95). T.: È vero, ora ricordo. Avevo intrapreso la lettura di un saggio, ai primi di gennaio. L’avevo abbandonato per la densità quasi insopportabile. [Tace come scartabellando nella mente] Dio e la filosofia: poche pagine, ma con la massa di una biblioteca. C’è un paragrafo intitolato “Divina Commedia”. Commedia ambigua, con tutta l’ambiguità che Levinas attribuisce sempre al teatro e agli spettacoli d’arte. E.: Un lieto fine così, senza godimento, del tutto nonerotico, deluderebbe i nostri amici e conoscenti. Del resto, è ancora robusto il luogo comune che l’Inferno dantesco sia il trionfo della sensualità, rispetto all’esangue noia del Paradiso. Ma che commedia è quella in cui “il riso resta nella gola all’avvicinarsi del prossimo” (DVI, 93)? T.: È questo il vero incanto, che non teme il disincanto?

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E.: [Guarda T. accennando a un sorriso] Non si tratta più di rivolgere formule all’indirizzo di qualcuno per soggiogarlo, catturarlo, sistemarlo. T.: [Il rintocco delle campane annuncia il mezzogiorno] Penso che Levinas ci mostri usi alternativi del linguaggio, senza che questi debbano rimpiazzare i vecchi modi classificatori e conoscitivi. Non è un Savonarola che voglia purificare la lingua dal peccato. E.: Certo. I modi della conoscenza, pur nella loro affidabilità parziale, sono connaturati alla nostra specie. Ma non sono i soli; siamo da sempre protesi a superare i limiti della “messa in forma categoriale” e della dicibilità apofantica. T.: Diremo, forse, che la spinta, impressa da Levinas al movimento del discorso, muove verso frontiere, che non erano mai state in primissimo piano nei suoi maestri tedeschi? Le frontiere dell’etica, o dell’etico? E.: [La passeggiata volge al termine, la casa ricompare all’orizzonte] La cautela, sempre necessaria, è qui ancora più vincolante, data la fatuità con cui spesso pretendiamo di esserci lasciati alle spalle questo o quel pensatore, questo o quel problema. Ti direi di sì, anche perché l’etica in Levinas non è lo studio tradizionale del significato dei concetti morali. Rispondo, quindi, con una riserva, che mi piacerebbe rafforzare soprattutto a proposito di ciò che sto per dirti. T.: Cosa? E.: Un’immagine che la tua parola, “frontiere”, mi ha suggerito: il deserto. T.: [Nerina avvista i viandanti e si allerta] Nel deserto non ci sono le gloriose architetture di Atene, ma nomadi. E.: Nomadi e capanne. Sono metafore. Il deserto è il luogo dell’esilio, in cui la sedentarietà della civiltà non può attecchire. Mi martella questa domanda: “Non è il nomadismo la fonte del senso, che appare in una luce che nessun marmo rinvia, ma il volto dell’uomo?” (SB, 56). Compare in una delle prese di posizione più nette contro Heidegger, nello scritto su Blanchot, “Lo sguardo del poeta”, del 1956. Nella quadratura – il Geviert, ricordi? – trionferebbe un’ontologia

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della fecondità impersonale, di una natura “madre generosa senza volto” (TI, 44), a cui si è fedeli. T.: Fedeli anche nel senso della “fedeltà alla zolla”, che il giovane Heidegger raccomandava nell’augurio per le nozze del fratello Fritz. E.: Ma fedeltà accessibile ai signori soltanto, radicati e autoctoni, che non prevedono in filosofia un posto per la fame umana. T.: [Accarezza Nerina, sopraggiunta gioiosa sul cammino] La conversazione comincia a frangersi in un groviglio di piste centrifughe. Deserto, nomadismo, luogo, quadratura, architettura, fame… Non posso nasconderti che, talvolta, studiare Levinas mi dà la sensazione di esser diventato di colpo cieco, e guidato da uno che vuol sottrarre le cose alla vista. Cadremo nella fossa, come i poveracci della parabola evangelica, dipinta da Bruegel il Vecchio. E.: Potremo sempre riciclarci come megafoni della scienza. T.: [Ride] Non m’appartiene. Molti si astengono dalle grandi sintesi, anche a costo di apparire miopi e incapaci di guardare al di là del proprio naso. Ma, a forza di apparire, si riesce sul serio. Piuttosto, confesso con Valéry: “Niente da fare, mi interessa tutto”. E.: [Sull’ingresso di casa]. Chiudiamo allora provvisoriamente sulla divina commedia, che ci procura le staffe della nostra cavalcata. La commedia è possibile solo se si dà credito al “Dio della giustizia, del deserto, degli uomini” (SB, 57).

Capitolo 2 Rompere con Parmenide

2.1. Corpo, suolo, sangue […] Mi stai chiedendo di rendermi vulnerabile, e questo non lo posso fare. Ho solo un modo per sopravvivere. Non ammette eccezioni. Al limite un lancio di monetina. (Anton Chigurh in C. McCarthy, Non è un paese per vecchi)

L’esperienza della prigionia irrompe nell’esistenza di un uomo, che aveva già riflettuto su temi di sicura tradizione, come destino e libertà, e soprattutto sull’idea paradossale di una evasione dall’essere. Nel 1934 un breve scritto sull’ideologia nazista – Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo – tentava di leggere la presa del potere da parte di Hitler sullo sfondo delle più rilevanti correnti filosofico-politicoreligiose d’Europa. Le parole tonitruanti, addensatesi in Germania attorno al Cancelliere del Reich, trovavano per Levinas il punto di massima contrazione nell’esperienza del vincolo corporeo: una prigionia, a suo modo, che ci tiene legati non solo a un qui e a un ora singolari, ma a un’identità biologica che è sempre identità etnica. Non saremmo più installati in un corpo, piloti immateriali in un abitacolo di regia, alla guida di un robot organico, ma coincideremmo fatalmente con la faccia che si vede allo specchio e le viscere che ingurgitano e gorgheggiano; dato bru-

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tale, che ciascuno sente a ogni istante, e specie chi viva nella morsa di una malattia irreversibile; il dolore può diventare un vicolo cieco, il perno – inesorabile quanto lo stame filato da Cloto – attorno a cui si volta e rivolta ciò che per la tradizione platonico-cristiana era carcere e tomba: sóma-séma. Suolo e sangue contraggono la spaziosità astratta del concetto e si fanno carne inchiodata a sé stessa. È imponendo una destinale identificazione con la circoscritta porzione di spaziotempo toccataci in sorte, che il nazismo ha gettato un’ombra letale sull’umanità stessa dell’uomo. Già nel ’34 il giovane Emmanuel vi aveva scorto la prova che il giudaismo avrebbe attraversato – una voce profetica, la sua, pur sempre remota dal concepire l’entità di quel calvario, che più tardi chiamerà la Passione di Israele sotto Hitler (AV, 57; NP, 52; HN, 129). Ecco, dunque, il contrassegno di ogni esperienza di prigionia: il “tragico sapore di definitivo” (QR, 33). La modalità francese e universalizzante di intendere lo spirituale nella vita è eclissata rapidamente dal suo oscuro antipode; il sentire diventa il canale comunicativo privilegiato, l’accesso autentico al mondo, e lo spirito – spirito del popolo, spirito della terra – è il fatto di essere un certo corpo, di appartenere alla terra e all’Heimat, intimo focolare e casa dei padri. Se l’orizzonte delle idee si incarna nelle ritmiche di muscoli e organi, la moira dei ceppi serrati alle caviglie o del cinturone delle SS col motto Meine Ehre heißt Treue, “il mio onore si chiama lealtà”, avvinghia la libertà dell’agire morale allo stesso tipo di necessità che contrassegna le regolarità di natura o le inferenze matematiche. Si deve essere leali come si deve morire, oppure come – posto ab = 0 – deve essere uguale a zero a oppure b. Nel Terzo Reich il muro di pietra, descritto dall’uomo del sottosuolo di Dostoevskij, si estende oltre il dominio dell’a priori logico-scientifico, per racchiudere ogni possibilità della ragione. È sempre l’ora delle decisioni irrevocabili. I sentimenti elementari dell’hitlerismo incatenavano l’io al corpo, e il corpo all’io, in un unicum biologico semplice e irremissibile, respingendo come cascami di corruzione la

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spiritualità giudaico-cristiana e il liberalismo politico, due vie per relativizzare i legami di sangue, i vincoli tribali e l’egoismo inerziale dell’autoconservazione. “Ho reso l’uomo indipendente da una umiliante chimera che si chiama coscienza morale”: enunciazione attribuita al Cancelliere, di assai dubbia attendibilità storica, eppure naturale assioma dei totalitarismi, coerente con le note condizioni al contorno. Al pensiero inteso come gioco, anche serissimo, di idee, gioco di potenziale distanziamento dalle multiformi prese di posizione dell’intelligenza, gioco che può sempre riprendere in libertà sé stesso, sconfessandosi nell’autocritica, fa da contraltare l’espansionismo universale della violenza, quella che avrebbe avuto l’innesco con l’Anschluss, per deflagrare il 1° settembre del ’39 e immettersi nella logica clausewitziana dell’estremo. Quando le Riflessioni sono date alle stampe, Dachau e l’Aktion T4 sono già in piedi, la Notte dei lunghi coltelli ha consolidato i vertici del Partito, e la morte di Hindenburg ha permesso a Hitler di cumulare la carica di Reichspräsident e di capo delle forze armate – è il Führer. Impiegati pubblici, medici, avvocati, imprenditori ebrei vengono esclusi dalle professioni, mentre la legge contro il sovraffollamento delle scuole e delle università limita l’ingresso ai soli studenti ariani. Le biglie precipitano lungo il piano inclinato verso le leggi di Norimberga. Il biologico, con tutta la fatalità che comporta, diventa ben più che un oggetto della vita spirituale, ne diviene il cuore. La voce misteriosa del sangue, gli appelli dell’eredità e del passato di cui il corpo è l’enigmatico portatore, perdono la loro natura di problemi sottoposti alla soluzione di un Io sovranamente libero. […] L’essenza dell’uomo non è più nella libertà, ma in una sorta di incatenamento. (QR, 33)

Levinas è fin dall’inizio un filosofo dell’anti-fato e dell’anti-tragedia. Certo, l’essere rinchiuso in un ambiente minaccioso e la costrizione al lavoro hanno inacerbito la sua esperienza di ciò che è senza sbocco. E tuttavia, già l’anno

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dopo lo scritto sull’hitlerismo, aveva pubblicato un altro lavoro, dal titolo apparentemente innocuo: Dell’evasione. Una piccola fenomenologia della claustrofobia metafisica, che poneva il problema, senz’altro “inimitabile” e ai limiti della sensatezza logica, di abbandonare l’ontologia, di […] uscire dall’essere per una nuova via, a rischio di rovesciare certe nozioni che al senso comune e alla saggezza delle nazioni appaiono come le più evidenti. (EV, 46)

Ma cosa vuol dire evadere dall’essere? Come si fa a rompere con Parmenide, senza recitare la parte del violatore matto del principio di non contraddizione? Domande che lo assediavano ancora più spaesanti alla notizia della deportazione, nel ’43, di Malka Frida Lewy, madre di Raïssa. “Niente potrà cancellare tutto questo”, aveva annotato nei quaderni: “Ormai come una scheggia nella mia carne” (CC, 109). Capisce che, se la filosofia è ancora una cosa seria dopo quattordici secoli da Talete, allora essa deve potersi esercitare soprattutto dall’orlo della catastrofe ultima; parlare da lì, senza perdere la faccia. Nella guerra Levinas vedrà espresso in forma essenziale ed estrema l’essere come totalità. Non che dal poema parmenideo agli ordigni nucleari scorra una qualche misteriosa catena di eventi logicamente consequenziali; più semplicemente, la guerra è un’esperienza di mobilitazione onnicomprensiva, in cui gli individui cessano di essere persone, in grado di originare liberi atti di volontà, per diventare nodi in una rete di forze. Nella guerra vige una forma di necessità concettualmente simile alla Anánke dei Greci, che il mito ha condensato nei gesti delle tre Moire, a cui perfino gli dèi dovevano chinare il capo. Non sono possibili eccezioni, l’unicità non è contemplata – redenzione, riscatto, speranza, tutte allucinazioni di fanciulli non svezzati. Il senso comune si adagia acquiescente nella rassegnazione del fatalismo, sventolato spesso a disgrazia accaduta come a cercare una ratifica, tanto ri-

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dondante quanto inaffidabile; e nell’esaltazione del passato come l’immodificabile per eccellenza, secondo l’adagio facta infecta fieri non possunt, “i fatti accaduti non possono essere disfatti”. Nei suoi scritti Levinas ha sempre nutrito un’intenzione oltre il destino, preparando la sua fuga all’insegna della rottura con i culti dell’immutabile, con le nostalgie dell’età dell’oro. L’evasione tentata è anche congedo dal passato; qualcosa di molto più radicale delle considerazioni, pur essenziali, del giovane Nietzsche sul peso della storia per la vita, e più vicino, invece, al proposito del Nietzsche al culmine torinese: “porre ad acta” tutto il finora, sciogliendo gli ancoraggi alle tradizioni. Laddove per Heidegger il dialogo con Parmenide non giunge a una fine, rompere con Parmenide è un imperativo netto in Dell’evasione. È compito della vita filosofica mostrare la manchevolezza e l’ingiustizia delle figure greche del fato, “Moîra”, “Heimarméne”, “Anánke”, “Díke”, “Erinýes”. Se c’è qualcosa che Levinas avrà potuto consegnare alla nostra condizione di naufraghi del Novecento, sarà stata proprio la possibilità di disfare il fatto, di disdire il detto, di aprire uno spazio d’inizio. Possibilità reale per chi perdona o è perdonato. Il perdono, il più anti-eleatico dei nostri atti, è inserito nel solco del messaggio fondamentale dell’ebraismo, che affranca dal rimorso per l’irreparabile. Nel perdono il tempo “perde la sua stessa irreversibilità. Si piega sfinito ai piedi dell’uomo come una bestia ferita. Ed egli lo libera” (QR, 27). La mostruosità del perdono sarebbe incomprensibile, se spiegata con la tribolazione psichica dell’atto; esso è, invece, anti-naturale, perché ferisce l’egoismo nel vivo, riconsegnandolo al suo vuoto pneumatico. Il perdono, pur raro, esiste, e la sua paradossale plusvalenza di significato sta non in una rimozione del male, o in un gettare il cuore oltre l’ostacolo, ma in un disfare retroattivamente il misfatto.

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L’essere perdonato non è l’essere innocente. La differenza non permette di situare l’innocenza al di sopra del perdono, permette di distinguere nel perdono una sporgenza di felicità, la strana felicità della riconciliazione, la felix culpa, dato di un’esperienza abituale di cui non ci si stupisce più. (TI, 203)

Pensiero arduo, che pare scaturire da un pio volontarismo autoreferenziale. Ma già Agostino aveva sottolineato la dimensione d’inizio dell’uomo: “Perché esistesse [l’inizio], dunque, fu creato l’uomo, prima del quale non ci fu nessuno” (De civitate Dei, XII, 21). Non si tratta soltanto del fiat di una catena di fatti, che diventano azione responsabile, ma di un re-inizio dopo la disfatta, il dolore, la morte: “riconquistare in ogni istante la nudità dei primi giorni della creazione” (QR, 27). Non magia, né sentimentale esaltazione del 2 + 2 = 5. La strada di Levinas costeggia da un lato la metafisica, la letteratura e la storia occidentali, dall’altro la religiosità ebraica, attingendo da ambo le sponde concetti, termini e strumenti utili al suo scopo, senza vincolarsi a principi o dogmi. Si deve poter sabotare l’ufficio delle Moire; la loro inflessibilità è il segno di una pigrizia intellettuale, fattasi postura d’elezione. Oltre alla tragedia archetipica di Edipo, infiniti esempi abbondano nella vita e nell’arte, nella storia e nella fantasia. Si deve poter sfuggire alla sentenza di morte, diventata istruzione ferrea e impersonale, che solo la grazia di un sovrano o di un presidente potrebbe annullare. In Cold Blood di Truman Capote gli assassini Smith e Hickock si dirigono al patibolo; i protagonisti della scena precipitano verso l’inevitabile al pari di corpi in caduta libera o di addendi in una somma già calcolata. In I prigionieri di Longjumeau di Léon Bloy un’invisibile macchinazione rinserra due sposi nel loro nido campagnolo; atomi e molecole congiurano per far perdere loro, infallibilmente, la via della liberazione: solo una volta riescono, contro ogni speranza, a salire su un treno sbuffante, ma nell’unica carrozza destinata a rimanere in stazione.

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Si deve poter sfuggire alle conseguenze di eventi fisiologici e meccanici, che accompagnano sempre il nostro agire. Nel racconto di Cechov La morte dell’impiegato Červjakòv ha starnutito sul collo del generale Brizžalov; vorrebbe che lo spiacevole incidente non fosse mai occorso, ma il linguaggio cessa di portare soccorso e comprensione, diventando acceleratore di calamità: ogni rinnovata richiesta di scuse stringe la catena. Il desiderio che quel particolare evento, un banale starnuto, non fosse mai accaduto diventa, a poco a poco, il desiderio che mai nulla fosse potuto apparire. Si deve poter sfuggire alla gabbia identitaria entro cui siamo risospinti da familiari, amici, guru e scienziati, o da noi stessi per servitù volontaria. Giudizi, pregiudizi e prolessi orizzontano le nostre azioni, prima del loro stesso concepimento; pietrificati, pietrificano a loro volta ciò che toccano, animati da una compulsione all’esaustione del noto e dell’ignoto. In una conferenza del 1983 Levinas dirà che la “sinopsia concettuale”, cioè la simultaneità di elementi colti in una concezione o astrazione, è più forte di tutta la diversità e di tutta l’incompatibilità dei termini che non sono raggruppabili, è più forte di ogni diacronia che si vorrebbe radicale e irriducibile. (TeI, 17-18)

Le procedure di generalizzazione cementano l’“imperialismo del Medesimo” (TI, 37, 86): il sistema delle etichette culturali, che rinsaldano saperi affidabili attorno a qualunque tipo di realtà, ma con l’effetto collaterale di blindare la vita nella cassaforte di una teoria, che si tramuta presto in lapide funeraria. Hai fatto o detto questo, dunque sei e sarai questo, per sempre. La nostra e l’altrui personalità vengono sepolte sotto un agglomerato di indelebili. Cose, fatti, pensieri, parole, azioni si addensano a strati, dando consistenza a reputazioni più o meno buone, più o meno cattive. È un’aggravante dell’impossibilità di cancellare il passato:

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l’accaduto determina presente e futuro. Un insegnamento meraviglioso di Levinas è l’aver mostrato l’impossibilità di incontrare l’altro uomo a partire dalle sue azioni esterne; se lo si fa, si commette una sorta di effrazione della sua interiorità: si tenta di sorprendere l’altro, proprio laddove egli si cela e si ritira, poiché non è espresso da ciò che accade nel mondo. L’espressione linguistica, l’espressione tout court del significato, non compete mai a cose o eventi empirici, ma alla presenza assoluta, diretta e non mediata, del prossimo: “le opere significano il loro autore, ma indirettamente, alla terza persona” (TI, 65). Il sortilegio dell’indelebile si esalta nella distruzione; spirali di odio scaturiscono dall’aggressività libidica e dalla pulsione di morte; nell’agglomerazione degli indelebili ciascuna azione sopravveniente rilancia in avanti l’eco dell’anteriore, in un’esplosione combinatoriale simile alle reazioni a catena nucleari. La violenza obbedisce a una logica dell’estremo. A maggior ragione, a fronte di categorie usate come carte moschicide, diventa sensata la fuga dall’ontologia, che nel Levinas maturo si preciserà nella via del disinteresse etico. Sì – gli viene in mente nello Stalag – sono stato un eversivo prima di essere catturato dai tedeschi. “Evadere dall’essere”, anche se suona una di quelle espressioni esemplari, di cui i logici si precipitano a denunciare l’insensatezza, è gesto molto più arrischiato di qualunque fuga reale. Si fugge, con i più disparati divertissements, dalla noia, dai parenti molesti, dalla calura o dal fisco; ma fuggire dall’attribuzione di pesi ontologici, di cui sono intessuti il pensiero e il linguaggio dai Presocratici a noi, è impresa difficile da decodificare, prima che da realizzare. Il concetto di evasione è animato dalla spinta verso un rinnovamento dell’umano, che non si affidi a un mero rispolvero o aggiornamento di canoni culturali. Non una virata di 180 gradi rispetto all’hitlerismo, ma la posizione di un orizzonte estremo e intentato, di una dislocazione rispetto a tutte le opzioni dibattute nell’arena delle idee.

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Non è un caso che, nella Prefazione del 1990 alle pagine giovanili su Hitler, il filosofo scorgesse nel nazionalsocialismo non un’insania transitoria dei tedeschi, bensì una possibilità essenziale del Male elementale cui ogni buona logica può condurre e nei cui confronti la filosofia occidentale non si era abbastanza assicurata. (QR, 23)

2.2. Bisogno, piacere, vergogna, nausea La mia saliva è dolciastra, il corpo è tiepido, mi sento insipido. (J.-P. Sartre, La nausea)

Anche se in Dell’evasione è vistosamente assente il nome di Heidegger, Essere e tempo resta lo sfondo teorico a cui Levinas attinge direzioni, parole e strumenti del pensiero, soprattutto per mettercisi di traverso, e integrare un ritratto dell’Esserci percepito come incompleto. Mordenti di contestazione affiorano in più punti, a cominciare dalla descrizione del bisogno. Lungi dall’essere il sintomo di una lacuna, il bisogno rivela una pienezza; la fitta trama dei bisogni, da cui siamo travagliati notte e giorno, non muove dalla necessità di colmare vuoti, di ripristinare l’omeòstasi organica; è indubbiamente in causa un sentimento di insufficienza, ma il loop persistente fra l’insorgere del bisogno e la sua soddisfazione, con la straziante delusione dopo il soddisfacimento, suggerisce di situare la natura del bisogno al di fuori di ogni possibile saturazione consumistica. Questa prima prova giovanile, fatta di rilievi fenomenologici un po’ troppo impressionistici e letterari, compie la mossa spiazzante di porre il negativo non nella morte, che è l’inesperibile per eccellenza, ma al contrario nell’essere che inchioda, in quello che fra le mura della baracca intuirà essere il semplice c’è (§ 3.1). Il bisogno, e la sofferenza fisica

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sua fedele scorta, rivela il mal d’essere – anche qui, in questa estrema situazione di indigenza, in cui si vorrebbe trangugiare il pane che non c’è. Segue un abbozzo di fenomenologia del piacere, inteso come processo di riempimento del bisogno. Invano si attenderebbe l’apoteosi celebrativa dello stare al mondo puro e semplice – “la vita è bella”. Levinas ravvisa nel piacere la prefigurazione di una sorta di addio all’essere, poiché in esso si produrrebbe una desostanzializzazione complessiva e del soggetto godente e dell’ambiente che offre delizie e voluttà; un dileguarsi che si intensifica nell’abbandono potenziale insito in ciascun istante di tale vissuto. Chiunque abbia avuto esperienza di apnea, o di estrema disidratazione, sa quale sollievo salvifico l’aria e l’acqua arrechino al corpo: fin le più intime fibre si sollevano dall’asfissia o dall’arsura, e la via d’uscita sta solo nel superamento dell’oppressione. Nella soddisfazione del bisogno si denuda il malessere, da cui il piacere promette liberazione, e si abbandona la presa sulle cose, come nell’acme dell’amplesso amoroso cui segue – lo notava già Schopenhauer – la mestizia di un disinganno più che empirico. Il piacere, dunque, recherebbe con sé una promessa d’evasione, fatta al malessere del bisogno. Promessa impossibile da adempiere; non per presunte ambiguità morali, ma stante proprio il circuito del dinamismo edonico, a causa della frantumazione del presente in una molteplicità di istanti, ognuno con la sua fuga verso l’estasi dell’abbandono; a causa soprattutto del fatto che il piacere, nella sua pura intensità di rilassatezza, non è in grado di commisurarsi all’entità del bisogno. Il piacere risponde al bisogno, ma offrendo briciole di pane a un languore famelico. E, una volta esaurita l’effimera fiamma, abbandona alla pristina condizione di manchevolezza. Nella delusione, chi ha goduto si vergogna d’esserci ancora. Dopo il bisogno e il piacere, la vergogna. Legata all’essere del nostro corpo, del nostro stare al mondo in quanto tale, essa consiste nella scoperta fulminea dell’impossibilità di dissociarsi da sé. Siamo condannati al fatto e al fato di

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identificarci con le montagne di passato, e col presente che ne zampilla. Ho fatto questo e questo, arrossisco ancora e me ne vergogno, respingo con tutte le forze l’individuo colpevole di allora, ora che ho reciso i legami con le controfigure di me stesso. Ma la vergogna punta anche al presente, dove si effonde nella sua essenza bruciante. Si tratta dell’impossibilità di fuggire dal proprio corpo. Se è vero che, quando ci si guarda allo specchio, vediamo insieme noi stessi e lo sguardo del giudizio sociale sui nostri lineamenti, è inevitabile sentire con dolore che non dipende da noi avere quelle fattezze. Il primo livello della vergogna è quello del pudore legato alla nudità corporea. Il fenomeno porge l’impossibilità di nascondere, a sé stessi non meno che agli altri, ciò che si vorrebbe nascondere. Piccoli fatti quotidiani lo attestano, come la timidezza di chi non riesca a tenere a posto le braccia; il loro penzolare è imbarazzante e non si sa dove far sparire le mani al momento delle foto di gruppo. Oppure, il mio corpo è preda di uno sguardo freddo e indagatore, vorrei abbandonarlo sotto quei riflettori ed eclissarmi altrove, come Primo Levi nell’esame di chimica dinanzi al Doktor Pannwitz. Ma ulteriori strati concrescono sul primo e implicano l’efficacia della simbolizzazione; vestire gli ignudi che siamo, questa è la vocazione della cultura, anche con nobili finzioni: le parole nascondono la nudità. La vergogna segna, invece, un balzo al di qua delle coperture, materiali e rituali, dietro cui tentiamo di celare l’ultima intimità. È proprio l’intimità della presenza a sé stessi, l’interezza di ciò che costituisce il nostro gravare su suolo, a essere la fonte stessa della vergogna. In City Lights Charlot denuncia al pubblico – all’umanità in quanto tale, si direbbe – la sua creaturalità volumetrica, attraverso il suono involontario del fischietto accidentalmente deglutito (EV, 33).

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Figura 4 – Il fischietto di Charlot

Lo stato affettivo della vergogna attua un cortocircuito ontologico: mette l’essere in tensione con sé stesso. Quando mai sarebbe stato possibile svelare l’essere in quanto tale, cogliendolo di sorpresa? L’ontologia lo mette a tema, senza esibirlo concretamente, senza farlo vivere come tale, stanato al pari di una preda. Ebbene, ciò che la vergogna svela “è l’essere che si svela”. L’essere, nell’essere stesso, è colto in fallo nella vergogna. Una tale presenza di noi a noi stessi può ripugnare. Bisogno, piacere e vergogna possono sfociare nella nausea. Jean-Paul Sartre aveva pubblicato La Nausée nel ’38, data del primo incontro fra i due giovani autori ai venerdì filosofici in casa di Gabriel Marcel. Emmanuel e Jean-Paul si accostavano all’esperienza della nausea con la volontà di isolarne la dimensione profonda e ultrapsicologica.

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La nausea è uno stato pervasivo, che si espande dal di dentro. Non c’è scarto fra essere me ed essere nauseato – è un tutt’uno. Presenza a cui si è incatenati in asfissia, e liberarsi dalla quale è sforzo vacuo e disperato. Nausea e angoscia si abbracciano. Ora, se è il mio essere a farmi nausea, sembrerebbe naturale concludere che la nausea è legata alla necessità di essere ciò che si è; ma Levinas aggiunge che la nausea è “un’impossibilità d’essere ciò che si è” (EV, 36). Contraddizione? La nausea è una nuova situazione-limite, in cui si svela l’indistruttibilità gratuita dell’essere, anche qui rivelato nella sua ovvietà e ricchezza – l’essere è troppo ed è di troppo. Mi rendo conto dell’armatura del mio corpo, del fatto che devo subirne gli spessori, ma anche del fatto che è impossibile starci dentro. Dunque, impossibilità, destinata al fallimento, di aderire alla necessità di essere ciò che si è; ovvero, equivalentemente, impotenza a uscire da questa presenza. La nausea invade il corpo proprio, senza potersi circoscrivere nei termini di un ostacolo esterno, piuttosto tingendo e permeando di sé le cose, i mondi. Come dice Sartre, “la Nausea non è in me: io la sento laggiù sul muro, sulle bretelle, dappertutto attorno a me; fa tutt’uno col caffè, son io che sono in essa”. I discorsi dei nostri simili diventano rumori, i gesti movimenti macchinali. La nausea è un’esperienza vergognosa del corpo; essa è vergogna accompagnata da mancanza di respiro e impulso a vomitare. Vergogna non per aver commesso qualcosa di sconveniente – qui gli aspetti sociali svaporano –, ma per avere ed essere un corpo, trovarsi in un luogo, in un tempo, in una condizione. Omne consummatum est. Non c’è più nulla da fare dinanzi a questa massa che prende alla gola; esperisco come per la prima volta l’essere puro, senza qualificazioni. La Kate Gompert di Infinite Jest proferisce il neutro “It”, “la Cosa”: “La Cosa è una nausea delle cellule e dell’anima. È l’intuire che il mondo è molto ricco e animato [...]”. Come nel caso della vergogna, anche nella nausea monta un antagonismo interno, un autoriferimento folle. Fenomeni straordinari, in

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cui accade l’impensabile: nella totalità dell’essere, i cui contenuti sono tutti grigi per il fatto stesso di esservi contenuti, appaiono punti di fuga, momenti di disallineamento rispetto al fondo comune delle cose. Si ha l’impressione che Levinas intenda svincolare l’affettività e le tonalità emotive – fra le nozioni più fruttuose dell’analitica esistenziale di Essere e tempo – da ogni solidarietà con la comprensione dell’essere. I vissuti borderline finora considerati si impongono come reagenti anti-ontologici; in essi si resta abbandonati a un solipsismo che coincide con l’equipollenza di tutto ciò che c’è, senza soccorsi all’orizzonte. Vissuti che sarebbe insostenibile frequentare in sistematica continuità: presto o tardi, infatti, il ritmo del divenire si risana da sé e la risacca è sopravanzata dalla perseveranza degli elementi. L’essere si riprende, quando la vergogna e la nausea sono dietro di noi, quando si ritorna sonnambuli in pieno giorno, ingombri di tutta la densità opaca delle cose. 2.3. La pigrizia e la fatica o Elogio di Oblomov – Datemi l’uomo, l’uomo! – disse Oblomov, – amatelo … (I. Gončarov, Oblomov)

Non c’è vita che non sia stata visitata da pigrizia e fatica, due esperienze solidali per legami fisiologici e nessi logici, che Levinas affronta nel primo scritto post-bellico del 1947, Dall’esistenza all’esistente, ma che per le loro implicazioni anti-ontologiche vogliamo affiancare agli stati considerati in Dell’evasione: bisogno, piacere, vergogna, nausea. La pigrizia ha il suo eroe eponimo in Oblomov, il protagonista sdraiato del romanzo di Ivan Gončarov. Per un momento – il momento della durata di questo vissuto de-oggettivante – il filosofo sorprende l’operazione di assunzione dell’esistenza da parte del soggetto. Per un momento, l’ade-

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renza all’esistenza si disfa, e l’essere, che sembrava il grembo in cui ogni risposta è attesa dalla rispettiva domanda, in un tessuto inconsutile di intelligibilità, si trasforma nell’oscurità senza domanda né risposta, perché a-linguistica nella sua essenza: l’estraneità assoluta, che mi ghermisce senza scampo. Ecco il mal d’essere, il “c’è” totalizzante senza uscita. Nonostante le apparenze, Oblomov assume una dimensione titanica, proprio in quanto la sua non è svogliatezza psicologica; così la fraintende l’amico Stolz, che conia l’etichetta “oblomovismo” per nulla di più che il vivere in pantofole, persuaso che terapie d’urto a base di ginnastica e salotti siano rimedi vincenti. Oblomov sente fisicamente l’urgere della vita da tutti i lati. Il disordine crescente nella camera, la polvere a cui è inutile opporsi, gli obblighi verso i creditori, le scartoffie amministrative che si accumulano sul tavolo – tutto l’ingombro della materia e l’entropia che s’incrementa a vista d’occhio nell’appartamento. La pigrizia è la scoperta del cominciamento che è in ogni istante, vissuto in quanto tale. Il cominciamento si compie, si conclude in sé stesso, non porta oltre. Il pigro non rompe gli ormeggi, si arresta prima, in una inibizione che impedisce l’esecuzione dei compiti. Oblomov è un Sisifo da fermo. Non ozio passeggero e ovviabile, dunque, ma tentativo impossibile di “disdire l’abbonamento all’essere” (EE, 28). Il pigro avverte tutto il peso di una sovrabbondanza che, anziché allettare e appagare, opprime. Il pigro rigetta l’essere e il suo persistente riproporsi in ogni atto abortito; ogni momento del tempo è un incipit, che arride facilmente a chi voglia ricominciare la vita su nuove basi – se domani è un altro giorno, adesso è un altro istante –, ma che per Oblomov perde il sapore della promessa di futuro, spegnendosi sul nascere. Il pigro è un sabotatore fallimentare dell’esistenza, perché il tentativo di negazione ripiomba sempre nel grado zero dell’inerzia ontologica. La sua diserzione è performativamente autocontraddittoria. Una dinamica simile caratterizza la controparte attivistica della pigrizia, che è la fatica. Lo sforzo del nostro lavoro

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si dibatte in un circolo: dalla fatica esso prende le mosse in uno slancio, nella fatica ricade. Per quanto motivanti siano le finalità di un progetto, non c’è mai gioia nel compiersi dello sforzo in quanto tale; anzi, in esso, e nell’ombra della fatica che l’accompagna, si produce lo stesso sdoppiamento fra l’esistenza e il suo portatore, che abbiamo visto all’opera nella pigrizia. Uno scarto che è, anche qui, prima di tutto temporale, poiché lo sforzo si compie nell’istante. Che sia un contadino curvo sul solco o un colletto bianco in ufficio, identica sarebbe per Levinas la solitudine dell’individuo disarticolato in sé stesso, identica l’esitazione davanti alla falla – un vero e proprio lag o décalage nel tempo vissuto –, prodottasi fra chi lavora e la realtà su cui lavora, non più innocente e data per scontata, ma assunta come peso. E tuttavia, il contadino non abbandona la vanga, lo sterratore non smette di scavar buche, il boscaiolo non fa che impugnare l’ascia; non perché duro è il mestiere di vivere, che non si potrebbe abbandonare se non con un gesto (Cesare Pavese, 18 agosto 1950), ma perché il compito di esistere è talmente irreparabile, che ogni atto di insubordinazione è a priori iscritto in esso. La morte – scriveva Emmanuel nel ’42 dal campo di Laval –, anche se sembra promettere qualcosa di eccezionale, non è una soluzione, perché non ci strappa all’impegno senza sbocco dell’esistenza. Con i versi di Baudelaire sullo “scheletro contadino” (EE, 27): Volete forse (d’un destino troppo duro emblema chiaro e spaventevole) dimostrare che neppure nella fossa il sonno promesso è sicuro, che il Nulla ci tradisce e tutto, anche la Morte, ci mente e che per l’eternità, ahimè, dovremo in qualche ignoto paese scorticare la terra grama e affondare una pesante vanga col nudo piede sanguinante?

C’è qualcosa di eroico nel soggetto solo, fiero nel suo sovrano abbandono, tanto da richiamare i tratti di alcune figu-

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re romantiche aristocratiche, come il Manfred di Byron. Un occhio più scettico sulla grandeur prometeica vedrà, invece, una virilità risibile: Atlante sorregge il mondo, ma, se abbandonasse la presa, tutto resterebbe identico. Ecco il paradosso dei vissuti-limite fin qui considerati: l’individuo reggerebbe l’esistenza, anche se abbandonasse la presa. Dall’esistenza all’esistente apre uno scenario sul significato del suicidio, che fa a pugni tanto con la posizione di Camus quanto con quella di Sartre. È proprio l’aver pensato l’essere nel sigillo inviolabile di Parmenide – senza il nulla, senza spiragli oltre sé stesso – a togliere al suicidio la parvenza residuale di un dominio sulla vita, rendendolo anzi un concetto autocontraddittorio, non solo perché non è chiaro se la risoluzione estrema rigetti in toto la vita in sé stessa, piuttosto che una sua versione depotenziata e degradata, ma soprattutto perché non si possono “forzare le porte del nulla” (PS, 118) e si permane, quindi, all’interno dei doveri e dei vincoli dello stare al mondo. Viene in mente l’atletismo delle figure di Francis Bacon, recluse nelle campiture spopolate delle sue tele; corpi agitati da una motricità della fuga, deformati da forze di cui non sono gli iniziatori. Il caso di Oblomov, pur con tutto il carico di disillusioni che lo induce a confessarsi stanco di vivere, ha una complessità diversa da quella dei suicidi delle tragedie letterarie o dei resoconti di cronaca. Levinas non vi ha dedicato che un assai esiguo spazio; nondimeno, vale la pena di chiudere con un elogio di Oblomov senza oblomovismo, in uno spirito solidale con la più matura opera levinasiana. Supposto che convenga far la tara a pregiudizi e pose da conservatore, che Gončarov ascrive a un rappresentante tipico della nobiltà russa, Oblomov rivela una natura positiva e buona, dotata di sentimenti morali intensi, capace di avvertire con trasporto le sofferenze altrui; Diogene affabile, dal nonluogo del divano, chiede dove sia l’uomo, non riconoscendolo nelle caricature dei ruoli e delle funzioni. E lamenta la mancanza della vera vita: “Quando dunque vivere?”.

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“La vera vita è assente”, sembra fargli eco l’apertura della prima sezione di Totalità e infinito (TI, 31). La frase, proveniente da Rimbaud, consente a Levinas di osservare che la metafisica classica sorge e si mantiene nell’alibi di una vita che sarebbe altrove, altrimenti, altra. Ma qui, nel punto in cui il discorso vira verso altezze infide, sorprende ancora Oblomov con una domanda che pone a sé stesso, in un ragionamento sospeso e anomalo nel romanzo: L’altro, l’altro… Ma che cosa è dunque l’“altro”? […]. L’“altro” non indossa mai la veste da camera, […] non dorme quasi mai… l’“altro” si gode la vita, va dappertutto, vede tutto, si interessa di tutto. E io! Io… non sono l’“altro”.

Quegli altri, che aveva poco prima respinto, plebaglia indegna di un accostamento al giovin signore, ora diventano più estranei, diversi, minacciosi, separati da una distanza incolmabile. Il vulcanico lavorìo interiore di Oblomov, straziato dall’anelito a cominciare finalmente la vera vita, ha intuito la potenza singolare di un’alterità umana, che – come tenteremo di mostrare – è incompatibile tanto con la pigrizia quanto con l’ontologia. 2.4. L’eterna Bastiglia Nempe vos carcerem vestrum et nostis et amatis, ah miseri! (Petrarca, Secretum, II)

Evadere. Schiodarsi, adesso, da tutto ciò che c’è. Abiura temeraria della totalità, e della metafisica occidentale, che parla la lingua del “tutto” e dell’“ogni”. Si perora uno scuotimento dei pesi, che non è una riforma locale o passeggera, ma sgombero totale (“désencombrement”, si legge nei Quaderni di prigionia), il toglimento di quella “specie di peso morto al fondo del nostro essere, da cui la soddisfazione non arriva a liberarci” (EV, 25). Ecco cosa l’uomo, superfetazione

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tardiva dell’evoluzione, ha di esclusivo: ha dato voce a un bisogno che la vita, con la ricchissima cornucopia delle sue risorse, non può soddisfare. Nell’intimo del nostro essere pulsa un anti-essere. Perché un uomo si dà la briga di formulare, negli anni che precedono di poco il ferro e il fuoco del secondo conflitto mondiale, una richiesta così ridicolmente pretenziosa e insoddisfacibile come l’uscita dall’essere? Qualunque formulazione linguistica, che si proponga di rendere intelligibile la cosa stessa, si espone alla più rapida autoconfutazione, poiché rimuove ogni fondamento sotto di sé, nell’atto stesso in cui si struttura come significato. Se ovunque si dà essere, che cosa sarà lo spazio d’uscita? È il venerando problema parmenideo della natura di ciò che delimita l’essere. Neanche la morte slega e affranca: sempre minacciosa, la morte non mette fine alla “farsa della vita”; ma ne fa parte. Se la morte è nulla, non si tratta di un puro e semplice nulla, ma di un nulla che conserva la realtà di una partita persa. (EE, 71)

È sempre un vivo il soggetto dell’iscrizione “evasi, effugi”, sempre un vivo l’aspirante suicida. La morte mia non è l’iconografico scheletro con la falce, in sella a un destriero pallido, che porrà fine alla mia senzienza, ma piuttosto un “solletico interminabile” (CC, 436), senza contatto definitivo, che mi lascia solo con me stesso. La mia morte non è poi così importante! L’essere per la morte di Heidegger è un bolide potente, ma monoposto; un esistenziale vertiginoso, centrato solo sulla mia finitezza. L’uscita dall’essere affaccia sempre ancora sull’essere, quindi a qual pro parlare di uscita? L’importanza della richiesta di evasione è direttamente proporzionale alla sua enormità e inversamente proporzionale alla sua realizzabilità; non è la pretesa di un impossibile logico, ma l’esigenza di ricollocarsi nell’aurora stessa della filosofia, rinnovando gli inizi greci in una direzione opposta a quella seguita da Heidegger.

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Uscire dall’essere non significa soltanto smettere di fare ontologia; significa anche questo, certo, evitare di porre in essere – come direbbero Fichte, gli avvocati e i verbali di polizia –, evitare la posizione ontologica, che è forse il parossismo della mentalità occidentale. La posta in gioco è molto più alta: riconoscere che l’essere è insufficiente per un desiderio puntato altrove. E, in ultima analisi, uscire dall’essere potrà consistere anche solo nel sapersi disintossicare dalle prevenzioni idiosincratiche, fino ad azioni in superficie banali come stringere la mano a chi non avremmo degnato neppure di uno sguardo, o ancora “semplicemente” comprendere che parlarsi – evento quotidiano quant’altri mai – è in realtà “la meraviglia delle meraviglie” (DL, 22). I profeti amati da Emmanuel lo sapevano da sempre: quando si spezzeranno le spade per farne aratri, le lance per farne falci, allora si staglieranno all’orizzonte possibilità di cui lo stesso universo rimarrà stupito (DL, 166). La volontà di disfarsi delle strutture ontologiche o, più realisticamente, di deflazionare le compromissioni ontiche del discorso, conta, innanzitutto, per il fatto di aver preso corpo in un linguaggio; se il mondo consistesse di una singola stanza, il progettarne l’abbattimento delle pareti sarebbe un fenomeno molto più interessante della speculazione su cosa troveremmo di là da esse, qualora si riuscisse nell’impresa, soprattutto perché l’immagine stessa dell’uscir fuori da un ambiente è mediata dagli schemi concettuali della fisica, che dell’ontologia è la declinazione più immediata e convincente. La strana inquietudine dell’evasione, al contrario, vorrebbe incoraggiare uno sguardo estraneo agli equilibri di quantità, alla geometria dei solidi e dei loro rapporti meccanici, al senso comune sublimato in logica classica e scienza naturale. La rivolta investe la totalità ontologica in quanto tale, non una sua regione, corrispondente a una lacuna nella trama dei nostri bisogni. Si vuol evadere, dopo tutto, perché si vuole ancora esser felici, ma non nella pace con sé. Che qualcuno abbia potuto formulare l’esigenza della sconfessione dell’essere, sforzandosi di configgere una spi-

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na nella perseveranza inerziale, è per Levinas l’annuncio dell’unico che si dà nell’umano. L’evasione, proprio in quanto eccedente le necessità naturali, esprime un bisogno che non muove da una privazione; le accelerazioni della storia novecentesca lo avrebbero reso meno indecifrabile. Giova a una comprensione più indulgente dell’evasione l’analisi della sua controparte speculare, l’incatenamento. Siamo incatenati a un essere neutro in modo irreversibile e fatale. Se consideriamo l’incatenamento del soggetto a sé stesso, si determina una fondamentale duplicità di livelli: l’essere neutro e la riflessione soggettiva su di esso; riflessione che è già un atto di contestazione, attraverso cui il fenomeno dell’incatenamento è rivelato in quanto tale. È evidente che per Levinas non avrebbe alcun interesse partire da una semantizzazione dell’essere come risorsa per una teoria metafisica assiomatico-deduttiva: la relazione che abbiamo con l’essere non si basa sulle promesse speculative di una tautologia, delizia dei parmenidei, ma è l’evento del mal d’essere, matrice perturbante di qualunque esistenzialistico o poetico male di vivere. L’eversore che evade non ricerca un altro mondo possibile, variante del mondo attuale, o un avatar di sé che possa accedere a risorse precluse da un difetto di realtà, giacché non lo seducono più né gli orizzonti passati della nostalgia, né quelli futuri del progetto. Egli mette in discussione il presupposto dei presupposti, l’assioma degli assiomi: l’accettazione dell’essere. L’evasione dall’ontologia è ontologicamente impossibile? Ma, appunto, non è dall’ontologia che potrà provenire un aiuto. Non si richiede un exploit eroico, o un’alzata d’ingegno una tantum. È soprattutto insistenza, prassi fedele, coazione ad affrancare e ad affrancarsi, esodo senza soste – non si saprebbe dove posare il capo. Qualunque assetto delle cose, qualunque arredo ontologico si decida di allestire, si riproporrà il moto del conatus essendi, a ragion veduta elevato da Spinoza a lemma metafisico, con le sue specificazioni in appetitus e cupiditas negli esseri dotati di mente, corpo e autocoscienza. Il conato a esistere,

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a resistere e insistere, si afferma vittorioso e consapevole di sé nel legame più inossidabile, l’“eterna Bastiglia” (NP, 135) che forse solo i folli o i mistici abbandonano, senza poterlo mai sapere, e cioè l’autoidentità egologica, il fatto che l’io è sé stesso, insieme al fatto che ogni altro ente persevera nella sua entità, se così si può dire. In una formula: “Esse è interesse” (AE, 7). Un momento. Non è un invito quotatissimo il “sii te stesso” o il “diventa ciò che sei”? Ne traboccano il buon senso psicologico e gli slogan plastificati del self help. Tutte esortazioni a dilettarsi della cella esornata, magari studiando tomi di ornitologia, come il protagonista del film di John Frankenheimer Birdman of Alcatraz. Emmanuel guarda a una concezione controintuitiva dell’umano, che contesta l’interesse naturale dell’autoconservazione, lo sforzo animale della vita puramente vita, fino a immaginare un’utopia della gratuità e del disinteressamento etico. E dunque non restare te stesso, non diventarlo, non arrenderti al tuo ingiustificato posto al sole. Il nucleo da salvaguardare nella filosofia dell’evasione è la pura emersione del bisogno di respingere l’incantesimo di Parmenide, che fa di ogni pensabile e dicibile un’increspatura epifenomenica della totalità; tutto ciò che può configurare il senso dell’evasione non oltrepasserebbe la sfera di tale bisogno. Opporre all’evasione problemi di concepibilità logica – di una logica peraltro modellata su quell’incantesimo – non estingue un’esigenza rara e preziosa. L’evasione denuncia il paradigma dell’autosufficienza, sia dell’universo fisico, la cui chiusura causale è un requisito al quale la razionalità si sente istintivamente vincolata, sia della soggettività, dalle versioni più filistee e piccolo-borghesi fino al titanismo del Faust. Ogni modello di autosufficienza ha una radice ontologica: ciò che è intrinsecamente autoreferenziale nella tautologia A = A è l’essere. Levinas ci chiede di prendere per un momento sul serio il paradosso per cui, all’interno stesso della compagine degli enti, che nella loro innumerabile qualità e quantità –

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passata, presente e futura –, dalla più piccola particella agli ammassi stellari, sono la ripetizione di quel fatto elementare e inanalizzabile che è l’essere, si è posta per la prima volta una voce che dice di no alla necessità del sì, che si muove per disertare, sabotare, liquidare, dire addio. Una voce che prova vergogna. Nella partitura musicale dell’universo, in cui ogni cosa è al suo posto, spicca una nota stonata (EE, 26), un’anomalia imprevista. È la scoperta della creaturalità, che nel primo Levinas prende il nome poco appariscente di ipòstasi. È la buona novella che il muro di pietra di dostoevskijana memoria ha una crepa decisiva. L’ontologia saprà rendere conto del perché non confondiamo un valore con un artefatto, un utensìle con un concetto, ma mostra un vuoto insaturabile in riferimento all’irruzione di questo vettore soggettivo di profondità verticale nell’orizzontalità e neutralità dell’essere. Un autopervertimento imprevisto, senza logica conservativa o evolutiva. 2.5. War is over. Convalescenza filosofica “Il convalescente” è colui che si raccoglie per tornare a casa, cioè per dirigersi alla dimora del suo destino. (M. Heidegger, Chi è lo Zarathustra di Nietzsche?)

Fin dal giugno del 1941, con l’invasione tedesca dell’Unione Sovietica, le SS avevano avviato il massacro degli ebrei residenti in Lituania, agevolate dai frequenti pogrom organizzati dalla popolazione locale. I familiari di Levinas sono a Kaunas, fra le città bersaglio della cancellazione dell’ebraismo orientale; la notizia del loro assassinio raggiungerà Emmanuel dopo l’evacuazione dello Stalag, liberato dagli alleati nell’aprile del ’45. Non è ancora chiara l’entità della distruzione, la sua architettura amministrativa, le implicazioni per l’autoritratto dell’umanità: temi abnormi, lontani dalla chia-

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rificazione anche dopo decenni di studi storiografici. Già la minaccia del mostruoso – si può dire con Günther Anders – era mostruosa essa stessa. Una biografia la sua, scriverà più tardi, “dominata dal presentimento e dal ricordo dell’orrore nazista” (DL, 362). Ne darà toccante testimonianza la duplice dedica del capolavoro Altrimenti che essere: una, in caratteri ebraici, ai suoi cari, l’altra: Alla memoria degli esseri più vicini tra i sei milioni di assassinati dai nazional-socialisti, accanto ai milioni e milioni di uomini di ogni confessione e di ogni nazione, vittime dello stesso odio dell’altro uomo, dello stesso antisemitismo. (AE, v)

La guerra è finita. Forse anche la filosofia? Forse anche le metanarrazioni sull’umanità dell’uomo? Dopo cinque anni di sofferenza, il prigioniero è restituito alla Francia denazificata: un punto nel milione e mezzo e più di prigionieri, che prendono le strade del rimpatrio; un punto sperduto fra i circa 2.500 ebrei francesi, gli unici sopravvissuti dei 75.000 deportati. Non metterà più piede in Germania fino alla fine dei suoi giorni, evitando di varcarne le frontiere anche a costo di faticosi détour per stazioni ferroviarie. Quando, nel 1983, gli verrà assegnato il premio Karl Jaspers dall’Università di Heidelberg, sarà il figlio Michaël a ritirarlo e a leggere per lui un testo dalla cattedra che fu di Hegel. Sofferto voto per una ferita che non si rimargina, un caveat contro l’oblio facile che rivuole indietro l’integrità politica e civile; avrebbe sottoscritto le parole di Primo Levi: “Ogni tempo ha il suo fascismo”, ed è pia illusione credere che le testimonianze dei superstiti avrebbero denunciato le ingiustizie delle dittature con la stessa forza con cui i teoremi dimostrano le verità geometriche. Come Jean-Paul, personaggio-fantasma di uno dei suoi abortiti romanzi, egli avrà contemplato di notte le piazze della Ville Lumière, eterne in stile De Chirico ed estranee all’apocalisse.

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Silenzio dei luoghi quieti sotto le grandi ombre immobili. Maestà delle rovine. Rispetto ai ricordi conservati da Jean-Paul la fedeltà dei palazzi, degli alberi e si sarebbe detto delle pietre era insopportabile. Le cose si stagliavano nella loro impassibile stabilità […]. Tornava a essere membro della società. Già migliaia di fili invisibili si annodavano intorno a lui. Diveniva solidale, responsabile. (ELF, 50-51)

La piovra della normalità avvinghia arti e organi, che insistono nel loro equilibrio omeostatico, ma senza strappargli l’intima adesione. Una profonda irrequietudine gli vieterà di star seduto per più di un quarto d’ora a comporre pensieri. Anche Primo Levi avrebbe smesso di camminare con lo sguardo in terra a intercettare torsoli di mela o bucce di patate, ma la stringa numerica sul braccio no, continua a “stridere come una piaga”. Levi e Levinas sono dentro le cose, daccapo, dalla testa ai piedi, ma altrettanto ne sporgono; non come la nottola hegeliana, che guarda alla storia compiuta sul far del crepuscolo – la loro è stata una notte in pieno giorno. La guerra è finita, si ripristinano le abitudini. L’assuefazione è condizione di possibilità della vita. Se una forza cieca si abbatte sul formicaio, lo scompiglio stravolge la metropoli entomologica, ma tutto si ricompone in tempi brevi. Ovvio che, come dice Jonas, Auschwitz non è la Lisbona del 1755; la Shoah non è la conseguenza di un terremoto, ma il piano deliberato di una forza politica e di nazioni conniventi. E, tuttavia, si va avanti. Lo European Recovery Program degli statunitensi tenta di rianimare il mercato internazionale, ritornano l’opulenza delle città e l’operosità dei popoli, coesi in un organismo internazionale e, di lì a poco, federati in prime strutture comunitarie. Ma per Levinas l’essenziale permane indecifrabile e fuori dalla prospettiva della ricostruzione, che resta nel profondo un orientamento famelico e rapace. Se c’è una verità – dirà il filosofo in età avanzata – insegnata dalla ferocia bellica, è che per vivere da umani è necessario molto meno di ciò

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che le società industriali mettono in tavola. Non è la fola di un impossibile Eden pretecnologico, ma la presa d’atto che l’umano resiste nelle condizioni più proibitive, come quelle dei Lager, e che, pertanto, tutto ciò che custodisce la dignità prescinde dai lussi di una civiltà ben nutrita. Si può fare a meno di pasti e di riposo, di sorrisi e di effetti personali, di decenza e del diritto di girare la chiave della propria camera, di quadri e di amici, di paesaggi e di congedi per malattia, d’introspezione e di confessioni quotidiane […]. Non sono insomma necessari né imperi, né porpore, né cattedrali, né anfiteatri, né carri, né corsieri: era questa la nostra antica esperienza di ebrei […]. (NP, 156-157)

Sferzate incomprensibili per chi sia installato nei comfort della sedentarietà come nel proprio liquido amniotico, ma che forse dischiudono la praticabilità di un diverso stile di pensiero e di linguaggio. Nessuna inopia o decrescita palingenetica, non sono caldeggiate reazioni di corto respiro, e non si tratta nemmeno della lodevole capacità di discernere l’essenziale dal sussidiario, l’essere dall’avere. È, piuttosto, il richiamo a scorgere il senso della desacralizzazione della proprietà. Il secondo dopoguerra si inaugura per Levinas con l’assunzione del ruolo di direttore dell’Enio, l’École Normale Israélite Orientale, istituto di formazione per insegnanti delle scuole ebraiche, in rue d’Auteuil a Parigi. Anche questo è un compito di ricostruzione – rimettere in piedi la cultura ebraica sefardita dentro e fuori la Francia –, che Emmanuel concepisce con serietà, diventando un professore austero, nemico di sotterfugi e orpelli. Dietro il ruolo onestamente assunto, un tormento incomunicabile. Doveva, infatti, riprendere in mano il confronto con Husserl e Heidegger là dove era stato bruscamente interrotto, accogliendo un pathos impossibile da ignorare, che avrebbe sparigliato i giochi. Si trattava di capire se la filosofia fosse ancora decisione degna, vista l’impossibilità di travestire un’indifferenza esistenziale in ambizioni di scientificità.

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Avrebbe continuato Socrate a tormentare di domande i suoi concittadini, se questi avessero organizzato lo sterminio pianificato di milioni di persone? Facile menzionare il discorso che Tucidide immagina svolgersi fra Ateniesi e Melii, rievocando l’aggressione del 416 a. C., ma le fabbriche della morte sono un salto oltre la logica di Clausewitz. Avrebbe ancora avvertito Socrate la voce interiore, o questa si sarebbe spenta nell’afasia? Inevitabile e naturale che ristoranti e magazzini riaprano, che i nostri corpi permangano nel circolo cibus-somnus-libido come criceti dentro la ruota; ma avrebbe potuto il filosofo riprendere esattamente dal punto in cui la chiamata alle armi l’aveva costretto ad abbandonare i ferri del mestiere? All’Enio Levinas tiene incontri di esegesi talmudica, mentre al Collège Philosophique, istituito da Jean Wahl in pieno Quartiere Latino, tiene conferenze in cui espone i primi risultati della sua convalescenza filosofica. Vi interverrà con un contributo ogni anno, dal ’47 al ’64. Gerusalemme e Atene, sensibilità spirituale e logos universale, sono i due versanti di un Giano bifronte che, pur guardando in direzioni opposte, osa incrociare le sue voci. Levinas appunta spesso le sue idee su foglietti dimessi e volatili, come accadeva negli anni di prigionia; l’aprirsi di un varco d’ispirazione nell’esegesi dei commenti rabbinici al Talmud, o nel confronto con la tradizione occidentale, assume le sembianze inappariscenti di schizzi a matita su dépliant, note della spesa, cartoline, inviti matrimoniali. Sacro e profano, o meglio, santo e concreto, si compenetrano. Emmanuel ha già in sé le germinazioni di una duplice riscoperta: l’orrore dell’essere impersonale e una nuova interpretazione della sua educazione nell’ebraismo. Due riscoperte connesse, le cui implicazioni reciproche richiederebbero uno studio a parte. La quintessenza del giudaismo egli ravviserà in una possibilità, che fin nell’enunciazione attira scetticismo e derisione: il rovesciamento del dolore estremo in una felicità diversa dalla soddisfazione egoica. Il Levinas futuro è tutto nella scommessa decisiva di ridire, senza scorno, il sintagma “dignità dell’essere umano”.

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Come? La storia non ha ancora istruito questo giovane incauto, che pare ripetere Kant dopo Auschwitz e Hiroshima-Nagasaki? Ancora la dura cervice di chi non si arrende all’evidenza e si abbarbica alle nobili parole dei Lumi, o ai dettami puerili della religione, quando tutto – e uomini e città e dichiarazioni di principio – è fatto cenere? Al di là della deprivazione e del lutto, il piede poggia ora su una materia che non pesa più. Il convalescente non abita in provincia, immerso nella natura: frequenta la città, come Socrate. La sua parola parla, però, dall’esilio, non è maieutica; l’ostetrico dell’anima non introduceva elementi stranieri di disturbo, perché si studiava di captare i segnali di ciò che già vi inabitava, i frutti essendo latenti nelle domande. Nel compimento dell’itinerario che da Socrate porta a Hegel, l’uomo si istituisce portavoce di un discorso valido indipendentemente dai proferimenti sonori, le cui parole sono “segni muti di infrastrutture anonime, come gli utensìli di civiltà sepolte” (DL, 257). Sarebbe sopportabile, adesso, una comunità di afasici? Di individui che non dicono nulla, soprattutto quando aprono bocca? No. Non bastano più le verità o gli insegnamenti già impliciti nelle intelligenze, di cui un’opportuna dialettica debba favorire l’emersione. Non si ritorna a casa come se nulla fosse. Non si ritorna a casa.

2.6. Credere altrimenti C’è una grande differenza tra credere ancora a una cosa e crederci di nuovo. Credere ancora che la luna influenzi le piante rivela stupidità e superstizione, ma crederci di nuovo dimostra filosofia e riflessione. (G. C. Lichtenberg, Lo scandaglio dell’anima, aforisma E52)

Parigi, 1947. Il primo testo organico pubblicato da Levinas dopo la Liberazione si intitola Dall’esistenza all’esistente.

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È un saggio di fenomenologia della reclusione metafisica, denso di pagine che sanno di filo spinato e lavoro forzato, nelle quali si consuma definitivamente la duplice rottura con Parmenide e con Heidegger. Con Parmenide, perché l’essere è presentato in una straordinaria forma drammatica – più vissuta e concreta che teoretica e formale –: come l’impersonale “c’è”. Con Heidegger, perché all’Esserci, al Dasein – coinvolto fin da subito nella condizione di “gettato” nell’essere e votato alla sua comprensione – Levinas oppone l’insorgenza dell’ipòstasi. Due movenze complementari di allontanamento e congedo, ai limiti della descrivibilità e sull’orlo di una speculazione incontrollata. Dall’esistenza all’esistente parla del bene, del tempo, degli altri. Scrivere di tali temi classici in quel preciso frangente storico fa tremare. Se Adorno aveva messo in guardia da illusioni di verginità culturale dopo Auschwitz; se Nozick avrebbe tratto da quegli eventi un verdetto di autodesacralizzazione della specie umana, Levinas è tradizionalmente platonico nel continuare a ritenere che – almeno in un residuo ancora sussultante – siamo “piante celesti” (Timeo, 90a), ma è originale nel reinterpretare il bilinguismo venerando di Atene e Gerusalemme, della lingua di Platone e della lingua della Torah –, e nel volerlo fare evitando inganni e autoinganni, astenendosi dalle tentazioni del sovrannaturale. Le guerre hanno disintegrato la validità degli ideali e fatto cadere i drappi della spontaneità costruttiva delle culture. Le maiuscole veteroumanistiche – “Bene”, “Verità”, “Giustizia” – stonano, ridicole e pretenziose, in un tessuto di parole che trae la sua residua credibilità semantica dal legame con cose e fatti tangibili. Viviamo, fino in fondo, l’esperienza della fine del senso tout court. Nessuno degli antichi, nobili discorsi ha impedito la guerra, e non la impedirà. Il filosofo che Emmanuel impara a diventare sa vivere fin nella carne il più adamantino scetticismo e nichilismo; sa bene che quelle Parole possono ripalesarsi in un cielo di carta, come vertici di un asterismo allucinatorio, in una psicagogia che è mozione effimera degli affetti. Per

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riconquistare un senso dell’umano avanzato, all’altezza delle nostre capacità di oltrepassare la definitezza degli orizzonti spazio-temporali e dei vincoli naturali, occorre essere edotti delle forme più drastiche di teorizzazione dell’inumanità, aggiornando l’elenco degli idola che ci soggiogano, e delle versioni mediocri di noi stessi, che ci affrettiamo a sperimentare. Levinas allena a una postura non statica, non contemplativa del pensiero, immunizzata contro la retorica, che sappia fare i conti con lo smarrimento della civiltà europea, dopo che le grandi cornici di riferimento sono andate in frantumi, l’anamnesi platonica è sfumata in amnesia e l’escatologico è degradato nello scatologico. Solo dal fondo dell’abisso, che nulla ha potuto colmare, potrà ricostituirsi un pensare che non ignora i volti e i corpi, che non dimentica i morti. Lo stesso male, che ha costretto Améry, Levi e tanti altri a una suicidaria lucidità, ha portato Levinas a coltivare una sollecitudine che, non coincidendo più solo con la teoria e con l’esercizio della libertà ideativa, sa tenersi fedele a un amore senza concupiscenza dell’irriducibile dignità umana. La dignità umana consiste nel credere al ritorno dei valori oscurati dalle virtù marziali (NP, 157). Emmanuel ha creduto di nuovo. Ha creduto altrimenti.

Terzo dialogo L’anello e l’enigma

[E. e T. siedono sotto il pergolato del giardino, in un tardo pomeriggio primaverile. Sul tavolo una scacchiera, con quella sconsolata disposizione di sparuti pezzi che indica la fine della lotta] E.: Potrebbero essere le dispute filosofiche simili a partite di scacchi? T.: Credo di sì. Ci sono regole precise e tecniche; e ci sono gli equivalenti dei principi, degli a priori. E.: E c’è la Cenerentola della psicologia. T.: La psicologia è ovunque, è un fatto, ma vaga all’ingresso del pensiero, senza penetrarne le segrete stanze. E.: Nelle segrete stanze del pensiero ci sono due occhi: la “nostra effige”. T.: [Sorride, mentre risistema i pezzi sulle case di partenza] Gli scacchi sono una miniera di metafore. La mia apertura in filosofia è una sola: la partita di re [Sposta il pedone di re nella casa e4 sulla scacchiera appena apparecchiata]. La mossa regale per eccellenza è la comprensione della struttura dell’essere. Una volta che la si colga, caro mio, non si può fare a meno di tirarne le necessarie conseguenze. Compito che ti ostini a rinviare, o a dribblare con sottili riserve scettiche. E.: Ma la mossa regale non è l’unico incipit, così come 1.e4 è una fra le tante aperture. A chi parta dall’essere sono opponibili svariate contromosse, alcune delle quali saranno poco convincenti, ma altre più affidabili. A mio parere, però,

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ti illudi fortemente se credi che una risposta alla tua apertura debba essere una confutazione diretta, inappellabile e irreversibile. T.: La filosofia è il discorso coerente e inconfutabile sulla totalità del positivo. “L’essere è un tale nemico del nulla che nemmeno di notte disarma: se lo facesse, non si strapperebbe di dosso la propria armatura, ma le proprie carni”. Dimmi quali potrebbero essere le tue risposte alla mia prima mossa parmenidea: l’essere è e non può non essere. E.: Chiamerei un dottore. T.: [Sorridendo di un gran sorriso divertito] Ma il mio medico ha sempre preso parte con piacere alle nostre chiacchierate. Stai sicuro che, deposto lo stetoscopio sulla poltrona, si infetterebbe immediatamente del virus della filosofia. E.: Ma non necessariamente della tua filosofia. T.: [Con la gioia sottile di chi sfoderi un’arma vincente contro un arnese spuntato] Non esiste una filosofia di qualcuno. La filosofia è di tutti e di nessuno. E.: Illusione naïf! La filosofia è sempre di qualcuno, non esiste una filosofia di tutti e di nessuno. T.: La forza dell’apertura regale è superiore a quella di qualsiasi asserzione non solo banalmente empirica, ma specialmente formale o logica, nel senso in cui in Occidente si è intesa la forma logica. In questo senso non è l’esito né di una decisione personale, né di una costruzione assiomatica. E.: Siamo minati da ogni sorta di trappole: linguistiche, concettuali, epistemologiche, ontologiche, nonché psicologiche. Preferisco mosse all’apparenza laterali, ma del tutto classiche, come la Siciliana, ottima difesa del nero. [Sposta il pedone dalla casa c7 alla casa c5] Fuor di metafora, non la pura opposizione frontale, ma un lavorare ai lati, con sguardo in tralìce, disinnescando l’ordigno ontologico. Tutto “è”. Filosofare è faccenda complicatissima, in cui compaiono anche raffinate questioni di gusto; far cominciare il discorso da una tautologia mi lascia freddo, e ancor di più il fatto che da una tautologia si pretenda di tirare conseguenze addirittura per la mia felicità. Cambia apertura, il cominciamento è altrove.

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T.: Per caso a3 o h4? L’ambito delle aperture scacchisticamente accreditate è limitato, così come le varianti delle aperture [Muove il cavallo in e2]. E.: Uhm… Variante Keres, inusuale. Temo che l’analogia con gli scacchi inizi a incepparsi [Muove il cavallo in f6]. La questione di un inizio assoluto poteva avere maggiore attrattiva agli albori dell’interrogazione metafisica, quando sia per la scarsità di cognizioni scientifiche, sia per la relativa novità di un domandare oltre le urgenze materiali, sembrava che la domanda sul principio fosse percorribile. T.: Lo è! [Spinge il pedone in e5] E.: Sub specie aeternitatis, forse, in un vuoto di storia di cui ti fai vanto. Ma il valore della filosofia non si misura dalla sua distanza siderale rispetto alle civiltà apparse sulla Terra. Già ai tempi di Socrate il dubbio sull’univocità di una soluzione alla questione dell’arché perdeva fascino. E oggi, nella pletora degli pseudo-incipit, si è compreso che l’inizio è già cominciato da tempo e non sappiamo né come, né dove. T.: Pletora? È davvero così? Non spicca un’evidenza primaria nei tentativi di venire a capo del senso delle cose? Parli come se non conoscessi la cesura parmenidea all’interno del pensiero greco. Non mi risulta che ci siano mai state confutazioni della mossa regale. L’essere è nulla in qualche momento? E.: Non c’è mai un istante in cui io intenda la parola “essere” come significante ciò che significa la parola “nulla”. Ma da ciò non scaturiscono conseguenze mirabili in grado di lenire le mie, le nostre sofferenze. T.: Non fermarti al linguaggio! Con il riconoscimento della positività dell’ente scavalchiamo la pura verbalità, anche perché il linguaggio stesso è un essente, e dunque un ennesimo positivo. Non si dovrebbe dire che il compito del linguaggio è quello di testimoniare la positività originaria? E.: Io non so davvero cosa sia la “positività originaria”. [Sposta il cavallo minacciato in d5]

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T.: Ogni cosa di cui si possa dire che “è”, e anche che “diviene”; qualunque cosa di cui si possa parlare. La luna, la casa, il gatto, il raggio di sole che attraversa la scacchiera… E.: … anche l’impazienza, peccato mortale in filosofia. L’impaziente vuole la botte piena e la moglie ubriaca. T.: La botte piena? E.: I principi della logica. T.: E la moglie ubriaca? L’esperienza? E.: Sì. Non puoi preservare la purezza dei principi a scapito della ricchezza fenomenica. La seconda verrà sempre stiracchiata sul letto di Procuste di una razionalità formale, così come quest’ultima andrà incontro a qualche massiccia revisione, se confrontata con le stranezze dei nostri accessi cognitivi, affettivi e pratici al mondo. Tu, invece, presupponi un’armonia prestabilita fra la ragione e i sensi. T.: [Incalzando col pedone in c4] Be’, non ti nascondo il mio ottimismo su questi argomenti e la mia perplessità su gran parte delle ricerche contemporanee, che a furia di perdersi in dettagli microscopici sono diventate miopi per il compito della sintesi. [Seguono lunghi istanti di silenzio. Poi con voce tranquilla] Quella di Levinas è ancora filosofia? E.: Come dicono gli inglesi per smascherare le autoillusioni? Wishful thinking. Pensiero infantile e sentimentale, che pensa in base ai suoi desiderata, confondendo illusione e realtà. T.: La filosofia è argomentazione. Ci sono argomentazioni in Levinas? E.: No, se cerchi argomenti sviluppati per pulito in passi ben strutturati e numerati. [Sposta ancora il cavallo, in b4] Ma, scontato che ci siano nei suoi scritti argomentazioni implicite, in forma di abbozzi o entimemi, bisogna riconoscere che l’argomentazione è parte della filosofia senza esaurirla. Dov’è lo spazio per il desiderio, il coraggio, la sperimentazione? T.: Filosofia è, nell’etimo, desiderio di sapere, di far chiarezza. Ma attraverso argomenti coerenti. L’epistéme è il dominio dell’incontrovertibile.

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E.: Il punto è che la storia della filosofia, e della metafilosofia, sarà sempre sovradeterminante rispetto alle scelte di cosa questa eccentrica disciplina possa e debba essere. Bisogna accettare il fatto che ci sono stati, ci sono, e verosimilmente ci saranno, individui paghi di definire quale sia la logica dell’essere, o, più modestamente, del numero o del libero arbitrio, e altri che rompono gli argini per promuovere descrizioni spiazzanti del mondo e di sé stessi. T.: [Muove il secondo cavallo da b1 a c3] Ma qualunque descrizione presupporrà il fatto che siamo enti, e da questo presupposto si lasceranno derivare diverse conseguenze. La metafisica al primo posto. E.: Se il parricidio di Platone non è stato efficace, Levinas dà voce a un altro Straniero, che non viene da Elea. Un altro straniero, che è uno straniero altro, se così si può dire. La metafisica non può essere la filosofia prima, e soprattutto la metafisica non può avere la struttura del cerchio, del “nuziale anello degli anelli”, perché c’è qualcosa – ma non è una cosa – che è il volto dell’altro, che impedisce il riposo nell’identità persino alle cose più inerti. T.: [Alzando il tono di voce] Molto poetico, ma, qualunque cosa o non-cosa sia il volto, è un ente, un positivo. Non se ne esce. “Essere o non essere. È questo il problema”. E.: Dovremmo, credo, sospendere per un po’ la nostra credulità ontologica, e provare a dar senso alla scommessa di Levinas: se ha ragione lui, il volto rivolge la parola, chiama alla responsabilità prima della costituzione del linguaggio. Se ha ancora senso parlare di trascendenza, la veneranda antitesi essere-nulla non porterà da nessuna parte. L’anello è spezzato dall’Enigma. T.: [Sussurrando con lentezza] Enigma, mistero, miracolo, ignoto: merce proibita in filosofia. Vai per i regni dell’assurdo? E.: Allora sfoderiamo insieme l’arma contro creduloni, bugiardi e imbroglioni: “È sempre sbagliato, dovunque e per chiunque, credere a qualcosa in base a evidenze insufficienti”. Va meglio col diktat dell’evidenza?

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T.: Oddio, non direi. [I sorrisi si incontrano] E.: Cerco di capire cosa Levinas intenda col termine “Énigme”, perché non sia da confondere coi responsi equivoci ed obliqui della sapienza oracolare. Stare dalla parte del positivo dei fenomeni è la cosa più naturale. Ma riusciamo anche a parlare di qualcosa che non è un fenomeno, non lo è mai stato, eppure ha senso. T.: Dovremmo rompere con Parmenide per tornare al buon Dio? Continuo a non capire. E.: Ma noi siamo atei, grazie a Dio! Senza le buone ragioni dell’ateismo non ci sarebbe stato Enigma (EDE, 242). Parliamo di un senso eccedente, che si è insinuato nell’ordine dei fenomeni, per poi ritirarsi. Ha lasciato tracce nel tuo volto, qui dritto di fronte a me. Il volto, traccia enigmatica di quell’alterità assoluta, che conserva la sua incognita. Tutto ciò, se ha un senso – e per te, al momento, non ne ha – non sarà in una totalità che potrai trovarlo. [Muove il pedone in d5]

5. ... d5??

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T.: [Intrecciando le mani dietro il capo, fissa meditabondo il soffitto] Hai mancato un matto. E.: [Dopo alcuni secondi] Cavallo in d3! Che vergogna. Non è possibile nello stesso tempo filosofare e dedicarsi al nobil giuoco. T.: Almeno su questa verità incontrovertibile possiamo darci la mano.

Capitolo 3 Ontologia dell’orrore

3.1. The Horror! The Horror! Il silenzio è tutto il nostro terrore. C’è riscatto nella voce – ma il silenzio è l’infinito. Per sé non ha volto. (E. Dickinson, Poesie, n. 1251)

L’abisso si è spalancato negli anni di prigionia, e non c’era altro da fare che dar fiato a una frase che dura quanto un battito di ciglia e si confonde con un sospiro. Tre semplici parole francesi, “il y a”, in italiano “c’è”. Il verbo impersonale vorrebbe riferire l’esperienza dell’essere puro, neutrale, onnipresente e innegabile, prefigurato già nelle situazionilimite del bisogno, del piacere, della vergogna, della nausea, della pigrizia e della fatica – tutte esperienze dell’orrore ontologico per eccellenza. L’indifferenza adamantina della scena, su cui si consumano i drammi dei viventi, si sarà potuta presagire per gli spiragli di affezioni spiacevoli, che risalgono all’infanzia; allorquando si scopre, ad esempio, che i genitori potrebbero scomparire come i nonni, che cose e persone vanno e vengono in uno spazio-ricettacolo, che indubbiamente c’è, perché

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non è un niente, ma è più terribile del nulla assoluto, perché è anonimo e si limita a perdurare nella sua ottusità. C’è, c’è, c’è, ossessivamente: solo questo si può dire al cospetto di un orizzonte senza persone, senza nessuno che possa dire “io”, che possa assumere e rivendicare questo essere puro, che c’è perché c’è. Di là dall’angoscia del nulla e dalla paura della morte, Levinas individua la più grande oppressione là dove pochi se l’attenderebbero, ovvero nel troppo pieno. Il y a, c’è. Il verbo non potrebbe essere sostantivato, ma scriveremo per convenzione un bizzarro “il ‘c’è’” per rinviare all’orrore dell’essere anonimo. Il “c’è” è impermeabile agli atti del mio donare senso alle cose, al mio strutturare in coerenti correlazioni di pensieri e fatti ciò che potrei coglierne all’interno. Esso è oscurità e assurdità. Mancano modi affidabili e consistenti di parlarne; si può ricorrere a espedienti metaforici e analogici, sapendo che ogni metafora e ogni analogia riveleranno presto i loro difetti. Il “c’è” è al di qua della distinzione fra soggetto e oggetto, è quindi al di fuori del cono di luce della fenomenologia, è il non-fenomenologico per eccellenza. Tenebre dense e palpabili, come quelle della nona piaga d’Egitto, in cui gli esseri umani restano fermi per tre giorni, non riuscendo più a distinguersi l’uno dall’altro. Levinas aveva studiato La filosofia come scienza rigorosa di Husserl, trovandovi la pagina che pone il “vero positivismo”, rappresentato dalla fenomenologia, al di sopra della profondità e della sapienza delle culture umane. La profondità è indice del caos, che la scienza autentica intende trasformare in un cosmos, in un ordine semplice, perfettamente chiaro e risolto. La scienza autentica non conosce, per quanto si estende la sua dottrina effettiva, alcuna profondità. (Husserl 1994, 102)

Di contro, in uno dei Quaderni di prigionia troviamo un contrappunto importante fra la luce della visione, che “abbraccia un largo orizzonte”, e la profondità, che è in-

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vece “fonte nutritiva”, “mistero esistenziale” (CC, 129). A Levinas non interessa il misticismo a buon mercato, che fa del mistero il salvacondotto di svogliatezze mentali e rivendicazioni ideologiche; al contrario, è proprio una lucidità portata agli estremi, che lo induce a salvare un gioco di manovra non arbitrario al di là dell’encomiabile rigore concettuale. Non era nel Timeo (52b) che Platone si era affidato a un “argomento spurio”, appena credibile, per parlare dello spazio? Così, per il primo Levinas la filosofia deve far chiarezza sull’oscurità, senza esorcizzare la presenza del notturno nel nostro stare al mondo. Il y a, c’è. È la ripetizione ossessiva, l’identico assoluto e al contempo lo sterile, il tautologico, l’impossibilità del novum, della meraviglia. È un brusio anonimo, l’inumano deserto nell’incipit del Prometeo incatenato di Eschilo, la surreale strada di campagna con albero di Estragon e Vladimir, la pianura buia in cui giunge il convoglio di Primo Levi. Un eterno deserto, che non può che riproporre la medesima sabbia. Non è un mormorio di voci indistinte, somiglia piuttosto al silenzio della notte, quando le voci si sono ritirate. Può essere anche artificialmente raggiunto con un esperimento mentale di cancellazione di tutte le cose: se ogni oggetto delimitato da confini spaziali e temporali venisse cancellato, rimarrebbe un campo universale, il ricettacolo puro di ogni possibile emergenza ontica. Un campo che non è il nulla, ma qualcosa, senza poter essere il referente strutturato di un sostantivo. Qualcosa che somiglierebbe al nonsense di una funzione matematica senza argomento. “Immaginiamo il ritorno al nulla di tutti gli esseri: cose e persone” (EE, 50). La finzione di Levinas è la stessa che Husserl (2007, 93) aveva usato per scoprire l’unico residuo assoluto, indistruttibile e fondamentale, sopravvivente all’annientamento gnoseologico dell’universo. L’esito è, però, opposto. Il residuo indistruttibile non è più l’io trascendentale, la coscienza assoluta che non ha bisogno di null’altro per esistere (“nulla ‘re’ indiget ad existendum”: Husserl 2002, 121), ma l’essere anegologico puro, azione d’essere continua

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e senza autore, i cui caratteri più immediati sono la necessità, l’anonimità, l’impersonalità. Spazio refrattario all’imposizione di una geometria; murmure o rumore bianco sempre identico. Se entrassimo in una camera anecoica con rumore di fondo sotto i 10 decibel, sentiremmo forse solo il ronzio della nostra attività cerebrale, se non fosse disturbato dalle palpitazioni cardiache. Approssimazione fisiologica di una situazione, che Levinas tenta di restituire in altre maniere, inoltrandosi in un territorio in cui la fenomenologia cozza contro sé stessa: a rigore, non c’è un vissuto percettivo intenzionale, diretto all’essere anonimo nella sua totalità. E, quando dice che la notte è l’esperienza stessa del “c’è”, egli sa di muoversi entro una finzione analogica potenzialmente fuorviante, perché qui la notte non è il lasso di tempo fra il crepuscolo e l’alba, ma il silenziarsi simultaneo dei significati, l’oscurarsi del linguaggio che non nomina più, che non può più rivolgersi a nessuno. L’atmosfera massiva, nel suo orrore, è ciò che spinge Levinas a prendere le distanze dalla metafisica classica e dall’ontologia fondamentale di Essere e tempo. Il “c’è” è il fatto originario, più antico delle venerande opposizioni essere-nulla e interno-esterno, e anche del rapporto fra il nulla e l’angoscia. Curioso che già nelle librerie parigine, fresco di stampa, il volumetto De l’existence à l’existant recasse una manchette pubblicitaria rossa: “où il ne s’agit pas d’angoisse”. Un avviso per anticipare che il testo avrebbe tentato di non parlare la lingua di Heidegger – non si tratta di angoscia dinanzi al nulla. È la pienezza dell’essere stesso ad asfissiare. Poteva il rovesciamento essere più ardito? Risuonano accenti non del tutto familiari all’Occidente, forse più solidali con la pienezza vuota del brahman o con il vuoto pieno del sunyata buddhista. La paura del nulla misura solo l’intensità del nostro insediamento nella realtà, così che l’angoscia di fronte alla morte si legittima attraverso l’angoscia di fronte all’essere. Il fatto del “c’è” risospinge i termini heideggeriani ai margini di un

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vocabolario in fieri, che evita di porre la finitezza dell’Esserci fra i prolegomeni di ogni futuro discorso, che vorrà costituirsi in fenomenologia ed ermeneutica dell’umano. Vi è una tragedia superiore alla finitezza, ed è la tragedia dell’essere, a cui neppure la morte sa rimediare. Ecco, dunque, alcune cruciali dislocazioni rispetto a Husserl e a Heidegger: ogni situazione-limite di nullità, apocalisse, crisi del linguaggio, crisi dei valori etc. non rivela né l’io puro, né la morte, né il nulla, bensì il “c’è”. L’Esserci non è determinato in modo essenziale da una relazione col mondo, perché l’esistenza è anteriore al mondo; la relazione con l’essere anonimo è l’originario della metafisica. 3.2. Notti in pieno giorno Non dobbiamo accendere lanterne la mattina? (F. Nietzsche, La gaia scienza, III, § 125)

Alcuni spettacoli della natura approssimano l’orrore del “c’è”, specie quando si è soli in spazi senza confine, in cui le tracce umane si rivelano improbabili e, infine, impossibili; quando, nel brusio, non si isolano salienze dal continuo sonoro; o quando, nel brulichio, ciò che si muove è un molteplice indiscernibile, intrappolato in un moto insensato: le zampe vibranti di Gregor Samsa. Robert Falcon Scott ha visto l’orrore in faccia nelle bufere di neve antartica a -40° C, senza più speranza di imbattersi in cippi riforniti dai compagni, dopo chilometri di deserto bianco e di ossessivi sastrugi, sagomati dall’ululare del vento. Anche Coventry o Dresda fanno pensare a notti in pieno giorno, in cui persone e cose, fatte materia, galleggiano nel caos. Tutte le volte che sprofondiamo nel tramonto di una configurazione integrale di senso, tutte le volte che si affacciano vissuti di fine del mondo (nell’accezione etnologica documentata da Ernesto De Martino), cose e fatti si opacizzano

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e riemerge il bruto fatto del loro sussistere. Così, dopo lo scacco matto i pezzi si irrigidiscono in silhouettes di legno, a festa finita le maschere immalinconiscono appese al muro, e la Eleanor Rigby dei Beatles, a matrimonio celebrato, raccoglie il riso sparso nella chiesa. Portato all’estremo, è questo il senso emblematico del “sogno di Alençon”, che Emmanuel racconta negli appunti per il romanzo Eros o Triste opulenza; sogno in cui i drappi – simbolo dell’ufficialità della Patria e della Legge in vigore – cadono fragorosamente, denudando la realtà grama. Dietro i magnifici rivestimenti decorati apparivano oggetti in cartone e stucco, muri spogli, brutte porte fatte di assi inchiodate grossolanamente, tinozze di biancheria sporca, giacigli coperti da lenzuola usate, materassi bucati. […] E poi un freddo implacabile portato da una tramontana che entrava attraverso le vetrate in frantumi dell’immensa catapecchia che somigliava a un grande studio di pittura spaventosamente abbandonato. (ELF, 48-49)

La capacità veritativa del discorso si ritira dalle strutture linguistiche, che collassano su sé stesse in flatus vocis e scarabocchi materici. Si vive e basta, senza più nemmeno quei nobili dolori, che eccitavano al canto i poeti in tempo di pace. Si regredisce a una monotonia irreale, come quella generata dalla massa di oggetti che ci sopravvivono. L’accumulo di cose in disuso mostra la vastità dell’usura. Dov’è, dunque, la gloria dell’essere? Essa, piuttosto, si rovescia nella maledizione dell’eternità. Sul sentiero del giorno parmenideo si dispiega una follia metodica, che affoga il lume della ragione nell’ossessione del positivo. Si comprende, quindi, il lamento di Baudelaire (“L’abisso”, I fiori del male, Supplemento, xi): […] non vedo che infinito da tutte le finestre. Il mio spirito, di continuo minacciato dalla vertigine, invidia l’insensibilità del nulla – Ah! Non poter uscire dai Numeri e dagli Esseri!

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L’orrore si manifesta nel fenomeno dell’insonnia, in cui si veglia senza scopo, si dorme a occhi aperti, come i coribanti di Cibele in preda al delirio sacro, senza il riparo della coscienza, privata finanche del proprio privato. Nell’insonnia si è immersi in una continuità di veglia senza inizio né fine, si è finalmente immortali, ma di un’immortalità di cui si farebbe volentieri a meno. “L’insonnia è la sola forma di eroismo compatibile con il letto”, dice Cioran nei Sillogismi dell’amarezza. Eppure, non ci sono eroi qui, perché non c’è l’io che possa attribuirsi meriti, se non nel postumo racconto diurno. Data l’impossibilità di tracciare una distinzione chiara fra interno ed esterno, l’insonnia è tanto del corpo che veglia quanto dell’inferno del “c’è”. “Ça veille”, esso veglia (EE, 60). La corrente inestinguibile dei vissuti dell’Io trascendentale è per Levinas la controparte soggettivistica del “c’è”, l’originario che non si fenomenizza se non per esperienze-limite o esercizi di immaginazione, al di qua del suo pluralizzarsi in oggetti e stati di cose. Tanto il soggetto trascendentale quanto l’essere anonimo sarebbero le vere colonne d’Ercole della metafisica, che rispuntano all’orizzonte dopo ogni fuga, inoltrepassabili come il destino: consequentia mirabilis dell’implicazione ontologica, per cui l’essere è riconfermato dalla sua stessa negazione. Dal momento che in Occidente i mortali hanno invidiato l’immortalità degli dèi e l’eternità della materia, ecco un sovvertimento assiologico degno di nota: se l’inconfutabilità dell’essere è per Parmenide la fondazione per eccellenza, “il cuore immobile della ben rotonda Verità” (Poema sulla natura, Proemio, v. 29), per Levinas è il marchio della nostra condanna. Anche su questo punto si misurerà l’inattualità di un pensiero per il quale l’eternità, la prosecuzione della vita oltre il perimetro creaturale, non è più il porto ambìto della serenità oltreumana. Il “c’è” è un campo senza portatore, in cui la nostra vita è retrocessa a mero fluire di vissuti senza paternità o maternità, in uno stato fusionale con un fondo indistinto. Non avrebbe

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senso fisicizzarlo, come se il brusio fosse metafora letteraria del suono delle onde gravitazionali. Siamo più vicini alla chóra, al pléroma, o meglio ancora al “cattivo infinito o indefinito” dell’ápeiron di Anassimandro (TI, 162), nella misura in cui l’assenza di confine è anche impossibilità di un ente individuale, e più precisamente dell’intelligenza e della voce di un essere personale. Nelle conferenze su Il tempo e l’altro si troverà una similitudine con l’immagine eraclitea del fiume, estremizzata nella versione di Cratilo, per cui non sarebbe possibile bagnarsi in esso neppure una sola volta (TA, 33). L’apparire nel “c’è” di una forma vitale, capace di articolazione linguistica e concettuale, capace di dire “io”, è non solo il perimetro che argina la virtualità inesauribile dell’esistere, ma è anche la struttura dietro cui può risuonare la per-sona. È qui che Levinas pone il problema del “cominciamento”, della “nascita incessante”. Se dalle notti insonni dell’essere puro non vi è uscita, né riparo, nella nascita esistenziale si afferma un potere di assunzione, arriva qualcuno che si fa carico dell’assurdità: è la mia coscienza, che può avvolgersi in sé stessa e ritirarsi, quasi chiocciola nella conchiglia, o divinità epicurea nella sua quieta dimora. È la dimensione dell’interiorità, del dantesco “secreto dentro”, o il “segreto di Gige” (AE, 187), che, grazie al suo anello portentoso, diventa invisibile e vede senza esser visto. Una stanza tutta per me, o una notte come quella di Penelope, in cui poter disfare il tessuto vegliato durante il giorno; percependo, parlando, ma anche obliando, rimuovendo nell’inconscio, o semplicemente incorrendo in sbadataggini quotidiane, divento leggero, le ali ai piedi. Chi prova orrore, dunque? Chi è l’insonne? Chi è nato, chi ha un nome. Non si tratta del Dasein di Heidegger, già gettato e impegnato in un mondo. Levinas individua nella nascita del soggetto addirittura la condizione edenica di un Adamo innocentemente egoista: “soggettivazione paradisiaca di Adamo, egoismo innocente, immanenza” (CC, 250, ma anche TI, 137). Prima di rapportarci all’essere nella forma della verità e del disvelamento, siamo fremito vitale, fame

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e sete. Ben prima di metterli a fuoco in coordinate astratte, Adamo gode dei frutti del suo mondo, morde le cose come alimenti. La scenografia metafisica del “c’è”, che non ha appariscenti riscontri nei filosofi precedenti, se non risonanze con gli infiniti spazi di Pascal e Leopardi, consente di apprezzare contrastivamente il punto sorgivo della coscienza soggettiva, che costituirà l’ipòstasi (§ 3.4). Rispetto al “vuoto assoluto che si può immaginare prima della creazione” (EI, 65), abbiamo ora un responsabile, un organizzatore del caos nel cosmo del sentire, del pensare, dell’agire. 3.3. Il giaciglio, le stelle e il disastro Quando scrivere o non scrivere è senza importanza, allora la scrittura cambia – che abbia o non abbia luogo; è la scrittura del disastro. (M. Blanchot, La scrittura del disastro)

Nelle baracche in cui ha vissuto, nelle giornate monocordi che sfaldano i legami concreti della vita, Emmanuel ha avuto un angolo in cui coricarsi. E forse, in una di quelle numerose notti del cuore, in cui l’angoscia per il destino di chi si ama acuisce fino al parossismo l’insensatezza delle ore, ha avvertito imperiosa l’eccezione che brilla nel tutto, lo “scintillio della coscienza” (EE, 63). La coscienza fa parte del tutto, certo, ma rivela anche la sorprendente capacità di sospendere per qualche tempo il vincolo alla totalità, ad esempio nel sonno. La coscienza è qui, sulla branda in cui non trovo requie. “La coscienza è qui” sembra una verità logica; si riferisce alla scena, in cui è sempre apparsa qualunque cosa di cui avesse e non avesse senso parlare. Ma la prima persona del cogito cartesiano non basta, né sarebbe soddisfacente porre con Fichte l’atto supremamente autosufficiente dell’io, che in un’eterna partenogenesi è l’esito di sé stesso e l’origine di nuovi atti. Con un colpo di spugna – si direbbe un gesto compiuto per

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riguardo alla durezza dei fatti – viene spazzata via la potenza autoreferenziale e attivistica attribuita al pensiero. Il pensiero ha bisogno di una modesta protuberanza per accendersi, cioè della testa (EE, 62), così che lo spirituale nell’uomo è garantito proprio dalla “incarnazione della soggettività umana” (EI, 94). Rendersi conto di essere in un luogo del mondo è coscienza di una localizzazione. Da qui partono i fenomenologi per squadernare l’universo della vita vissuta con le sue strutture; invece, per Levinas essa è contemporaneamente anche localizzazione della coscienza, che non viene a sua volta riassorbita in un atto mentale sovraordinato: piuttosto, la localizzazione della coscienza è condizione elementare del fatto che io possa individuare una varietà di cose nel mio campo visivo, fino ad abbracciare l’universalità del concetto, che da quel campo ha la virtù di esorbitare. Heidegger aveva lasciato il segno indelebile della fatticità dell’esistenza – si può provare a tradurre Dasein con “essere-il-qui”. Dall’esistenza all’esistente indugia sulla fragilità della coscienza ancorata al luogo. È vero, le teorie sono mezzi potenti di comprensione, ma anche i prodigi della matematica corrono su carta deteriorabile, sostenuti da mani e cervello d’uomo, che gli anni usurano. Il soggetto è materiale, opaco nella sua grossezza di materia, asservito, pesante – non c’è in lui traccia di sogno o grazia, né sorriso, né vento che soffia. Quante volte, rannicchiato nel suo giaciglio, Emmanuel avrà riflettuto sulla stupefacente capacità che ha il corpo di allentare le difese e rilassarsi, tuffandosi nell’incoscienza e assentandosi per un po’ dalla macchina del mondo? E quante volte, al contrario, l’atto della riflessione sul proprio vissuto avrà riacciuffato la mente sulla soglia dell’inconsapevolezza? Le notti stellari recano inane soccorso. Il recluso fatica a comprendere come la distanza della Via Lattea possa confortare il contemplante, quando l’ingiustizia domina la storia. Lo stoicismo, l’universo cristallino di Spinoza, l’amor fati e le proteiformi varianti del panteismo impersonalistico non lo consolano, aggravano anzi la sete di giustificazione del respiro. “Essere uno col tutto, questa è la vita degli dèi, è il cielo dell’uo-

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mo!”: il tedesco di Hölderlin è perfino musica, ma accessibile a chi abbia sperimentato solo i nobili dolori dell’anima. Il filosofo è una testa che pensa, un corpo che si regge sulle gambe; finché vive, non potrà riassorbirsi sub specie aeterni, è fuori dalla totalità che pure contribuisce a costituire. Avrebbe sentito più vicino a sé l’osservazione di un tenente degli Alpini, anche lui prigioniero nell’Hannover all’indomani della tragica Caporetto – anche lui, Carlo Emilio Gadda, col naso alle costellazioni: Poi, mi dicevo, queste stelle, con purità giovenile si vedono anche dal cielo della Italia, dal passo di Cavento le vedono, dalle ridotte delle Lobbie le vedono, dalla gemmante notte dove decede sotto la saraccata il fiotto inconoscibile del Mandrone, gocciolato, da stillanti caverne, nell’orrore del profondo.

Le stelle nella volta celeste gli parlano, solo perché riguardate dagli altri: apparizioni sempre e comunque parlate, pur nel loro logico mutismo. Esiste la realtà in assenza di contatto percettivo? La domanda guizza come un tic nell’intelletto, che chiede ragione. Ma per Emmanuel non è la ancora la domanda pertinente. Si potrebbe riformularla così: può esistere la realtà, se vi è solo l’ego a considerarla? È mai esistito un pezzo di mondo, o un mondo intero, per un unico individuo? Quesiti che lambiscono ancora il problema, perché presuppongono ciò che Levinas esclude, ossia l’equivalenza e la reciprocità dei punti di vista dell’io, del tu e dell’egli. Giorgio Caproni è più prossimo alla questione: Senza di te un albero non sarebbe più un albero. Nulla senza di te sarebbe quello che è. (“A Rina”)

Stonerebbe vedere all’opera solo l’iperbole romantica dell’amore per la moglie; la risposta del poeta adombra la

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tesi filosofica, secondo cui senza l’altro non c’è mondo. Il singolo assoluto è una chimera, e il solipsista una maschera tragicomica del teatro moderno. Robinson Crusoe è naufrago per contingente disgrazia: nessuno più di lui è visitato dagli spettri dei suoi simili, materializzati nei chiodi, nei bulloni, nelle accette e nei fucili recuperati dalla nave arenata. Del mondo stesso siamo debitori all’altro. Il vocabolario epistemologico deve risultare un effetto di quello etico, a cominciare dalla nozione tanto dibattuta di dato. Il mondo ci giunge in proposizioni, è già espressione; il dato non è materiale neutro per teorie empiristiche, ma sempre donato e insegnato, saturo dell’apporto del linguaggio altrui, delle altrui mani. Ogni cosa è offerta e sofferta: “le cose ci arrivano come possedute da altri” (EN, 45). Gli altri hanno lavorato, dunque io sono. Non si tratta di rilievi empirico-naturalistici. La pretesa di verità di tali asserzioni è più forte della constatazione dell’impatto antropico sul pianeta; d’altra parte, siamo distanti anche dall’impostazione pragmatista di William James, secondo cui la “traccia del serpente umano è su tutto”, intendendo il fatto che tutte le verità oggettive, comprese quelle a priori, sarebbero verità irrigiditesi “per anzianità di servizio”, ma sempre geneticamente legate a nostri bisogni vitali. Già lì, dal suo giaciglio, Emmanuel avrebbe potuto scrivere un passo pubblicato più di vent’anni dopo: Il volto umano è la faccia stessa del mondo e l’individuo del genere umano, come tutte le cose, sorge già all’interno dell’umanità del mondo. Non un’umanità anonima, ma l’umanità presa di mira in colui (o in colei) che, quanto il suo volto risplende, è proprio colui o colei che si attendeva. (EDE, 245, traduzione modificata)

Da un giaciglio comprende che è finita per sempre la cosmologia delle stelle fisse, e per motivi più profondi, più ricchi di implicazioni per le nostre valutazioni esistenziali, di quelli relativi all’avvicendamento di massimi sistemi del mondo. Delle stelle demagificate della fisica moderna, globi di gas incandescenti, siamo fatti noi stessi; ma, senza lo

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sguardo estraneo dell’altro, le stelle perderebbero anche la funzione di testimoni impassibili delle macerie, quella suprema indifferenza di cui si doleva Robert Antelme, prigioniero vicino Buchenwald: Anche le stelle sono calme sopra di noi, e questa immobilità non è certo l’essenza né il simbolo di una verità preferibile. Sono lo scandalo della indifferenza assoluta.

Una parola assai comune correva nella Francia occupata: “désastre”. In L’écriture du désastre Blanchot l’avrebbe elevata al rango di categoria ambigua, a cifra della nuova epoca. E Levinas l’avrebbe accolta e commentata, introducendovi un trattino a rilevarne l’etimologia: dis-astro. L’esistenza stabile, la fissità dell’essere rappresentata dal riferimento astronomico, è alle nostre spalle, l’ontologia delle stelle polari e degli schemi di identificazione è implosa. Non più sotto la volta degli astri, “via da tutti i soli”. 3.4. L’ipòstasi Notte e nebbia, e più nessuno! (R. Wagner, Das Rheingold)

Dormire non è affatto ovvio, e non solo per i disturbi del sonno. Quando Morfeo ha diffuso il suo vapore sulle nostre palpebre, accadono due cose singolari, la cui portata sfugge a medici e neurologi. Uno, la coscienza si abbandona completamente alla base di realtà a cui appartiene, al qui della posizione. Due, la coscienza trova nell’inconscio un riparo dall’ubiquità intollerabile della realtà; l’essere onnipresente cede a un’interruzione – come nella morte il mondo, secondo Wittgenstein (Tractatus 6.431), cessa senza alterarsi. In questo ritiro nel sonno Levinas scorge una concreta, seppur circoscritta, possibilità di evasione. La coscienza “ha” un luogo nell’essere, e in questo luogo manifesta il peculiare

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potere di addormentarsi e, quindi, di disimpegnarsi, di troncare la vigilanza insensata – il sonno è un rifugio. Difficile portare Kafka a testimonio di tesi filosofiche, ma ecco uno degli Aforismi di Zürau (n. 24): “Comprendere quale fortuna sia che il terreno su cui poggi non possa essere più grande dei due piedi che lo coprono”. La base, il fondamento del soggetto non è il mondo, ma la posizione di un corpo rispetto al mondo; è l’esclusività della localizzazione, la costituzione di una lacuna nella compattezza dell’essere – un luogo nell’essere, in cui l’essere può sospendersi nel sonno. La coscienza sa conferire un senso intenzionale a qualsiasi cosa, ma è insidiata dall’inconscio, sovrastata dall’ombra del corpo, poiché non c’è direzione nel suo abbandonarsi ai buchi della veglia, e la sua capacità di enucleare un mondo ordinato dal caos delle sensazioni non può disfarsi delle intermittenze dell’inconsapevolezza, come fa Peter Schlemihl con la sua ombra. Levinas rimarca qui una doppia distanza: da Husserl, perché il soggetto trascendentale della fenomenologia non è che la controfigura egologica del “c’è”, ancora non-persona, ancora conato a esistere, pur in forma di polo originario e anonimamente fungente, senza cervello o spina dorsale; da Heidegger, perché la vera differenza ontologica – differenza già implicitamente etica, oltre l’ontologia – è quella fra esistenza neutra ed esistente responsabile, in virtù della quale si impone qualcosa di assiologicamente imparagonabile all’essere, appunto la veglia di qualcuno. Ed è interessante notare come Levinas si situi in una linea di contiguità involontaria con le ricerche di Sartre e Merleau-Ponty: involontaria, perché negli anni di prigionia non aveva potuto familiarizzarsi con le due importanti opere dei connazionali, rispettivamente L’être et le néant (1943) e Phénoménologie de la perception (1945). In particolare, i punti di contatto con quest’ultimo lavoro non sono pochi né incidentali, a cominciare dalla descrizione dello spazio corporeo come

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l’oscurità della sala necessaria alla chiarezza dello spettacolo, lo sfondo di sonno o la riserva di potenza vaga sui quali si staccano il gesto e il suo scopo, la zona di non-essere di fronte alla quale possono apparire degli esseri precisi, delle figure e dei punti. (Merleau-Ponty 1965, 154)

Alla struttura onnicomprensiva della donazione di senso della fenomenologia classica si affiancano le dimensioni oscure della passività che, se per Merleau-Ponty rappresentano una fruttuosa estensione dell’ontologia del mondo percepito, per Levinas sembrano riproporre la radicale deficienza del conatus essendi. L’evento della coscienza, di cui non ha senso precisare l’inizio storico-oggettivo (“circa 3.8 miliardi di anni fa” varrebbe tanto quanto “il 1° aprile del 4000 a.C.”), ha il suo specifico assoluto nello stare lì, nell’essere il senso inaugurale della posizione, singolare in tutti i sensi, la condizione di possibilità non solo di ogni schema corporeo e percezione cenestesica, ma anche dell’ascrizione di posizione ad altro. E questo stare lì, questo durativo continuare a stare lì, prima di essere la sede contingente di un cogito, che assegna la patente di verità e di parvenza a qualunque oggetto di discorso, è transizione costante fra la posizione stessa e la sua antitesi, fra la veglia e il sonno, come un’insegna lampeggiante. “È la strizzata d’occhio che guarda e non guarda” (EE, 62). Levinas denomina “ipòstasi” il fatto assoluto della localizzazione della coscienza, che irrompe nell’essere anonimo. Il termine si impone nella tradizione neoplatonico-cristiana, ma qui è pertinente un etimo poco metafisico: ciò che sta sotto come base d’appoggio, ciò che sostiene un peso. Più che le eccelse altezze delle Enneadi plotiniane, Levinas ha in mente le sculture di Auguste Rodin, ad esempio Le Penseur. L’evento che le sue statue compiono non risiede tanto nella loro relazione con un’anima, con un sapere o con un pensiero che dovrebbero esprimere, quanto piuttosto nella loro relazione con la base, nella loro posizione. (EE, 66)

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Figura 5 – Auguste Rodin, Le Penseur (1904)

Nel brusio del “c’è” nasce l’ipòstasi, la soggettività posizionata, l’unico e la sua proprietà, colui che può portare un nome proprio, diventare una monade con poteri veritativi e capacità di lavoro. È il più grande fattore di disturbo epistemico, che moltiplica i punti di vista sul reale, aggiungendo alla totalità sempre il proprio pensiero sulla totalità, sbarrando così la strada a un’effettiva chiusura logica. L’ipòstasi, fonte di giustificazione del concetto di totalità, non può farvi parte. Alla notte dell’essere anonimo si contrappone il mondo della luce, della ragione che tematizza il mondo, e della voce articolata che consente il discorso; nulla a che vedere con i due sentieri di Parmenide: l’antitesi è non fra dóxa ed epistéme, ma fra la neutralità inumana e insensata, da un lato, e la correlazione fra il soggetto e la realtà come suo tema.

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La vera sostanzialità del soggetto risiede nella sua sostantività: nel fatto che non vi è solo anonimamente un essere in generale, ma che ci sono anche esseri che possono avere un nome. L’istante rompe l’anonimato dell’essere in generale. Esso è quell’evento grazie a cui nel gioco dell’essere che si gioca senza giocatori, sorgono i giocatori, evento attraverso il quale nell’esistenza sorgono degli esistenti che hanno l’essere come attributo […]. (EE, 90)

L’effettualità posizionale del soggetto è, forse, ispirata al momento del “puro Essere-per-Sé” nella Fenomenologia dello spirito di Hegel; il movimento dialettico, infatti, esige una realtà già data, una solida individuazione che non si autocrea, un’autoidentità che è condizione possibilitante dello sviluppo. Prima della guerra, a partire dal ’33, Levinas aveva assistito alle lezioni parigine di Alexandre Kojève sull’opera prima di Hegel, insieme a Bataille, Lacan, Merleau-Ponty, Queneau, traendo spunto per molti concetti e immagini, che sarebbero emersi nelle riflessioni successive. Ma è la fenomenologia husserliana la cornice generale in cui si colloca l’ipòstasi. Il soggetto che esperisce il mondo ha uno statuto unico, perché “non si confonde mai con l’idea che può farsi di se stesso” (EE, 43); è inafferrabile ed esercita una capacità riflessiva di indietreggiare rispetto alla natura e alla storia, quasi fosse possibile, in ogni istante, avviare un reset totale dei frutti di un karma, che non smettiamo di giudicare estraneo. Lo stare della coscienza sulla base è già l’immagine dell’insostituibilità: nessuno può occupare la mia posizione, nessuno può diventare padrone di tutto ciò che mi ingombra, nel modo in cui posso diventarlo io da qui. È l’inizio di ogni sensato parlare di inizio, un’origine che rende possibile l’esercizio del soggetto come potere, rimanendo tuttavia sottratta a ogni controllo. Perciò l’ipòstasi richiama la tragedia di Edipo, che fa quel che non ha voluto fare, soccombendo all’impotenza sull’origine (PS, 99). Allo stesso ordine di idee è da ricondurre l’affermazione levinasiana, secondo cui il potere dell’ipòstasi sul proprio

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esistere è la prima forma fondamentale di libertà, e cioè la libertà del cominciamento, distinta dal tradizionale libero arbitrio. Solo l’evento di posizione rende possibili interiorità e segretezza. Origine senza origine, perché nell’istante che realizza la posizione il soggetto non eredita alcun passato storico. Nell’autoposizione dell’ipòstasi c’è della “virilità” (EE, 76, 90); c’è della regalità, aggiungiamo, nella transizione dall’anonimato alla responsabilità, anche se non ancora una responsabilità morale. Tanto più sconvolgente risulterà la necessità, esplicitata dal Levinas maturo, di deporre questo re assiso sul trono. Il brusio del “c’è”, il suono della conchiglia vuota, finisce davvero solo se ci si rammenta che una voce non mia ha già parlato, o sta tacendo, provocando sempre il discorso. 3.5. Cattivo infinito e istante messianico Il qui della posizione precede ogni struttura temporale, che funzioni da rete di relazioni per ordinare oggetti. Ma, da attento fenomenologo, Levinas sa che la posizione ha tanto un qui originario e primitivo, quanto un adesso con le stesse caratteristiche dell’immediatezza indefinibile. Egli si propone, infatti, di sottrarre il presente della posizione al costrutto logico della serie potenzialmente infinita di punti temporali, nella quale è depauperato a limite adimensionale fra passato e futuro. Non che si operi un atto magico di fissazione del presente, finalmente suscettibile di contemplazione e godimento senza fine; l’istante è sempre fugace, ma tale fugacità è il presupposto stesso della sensatezza del tempo, anziché un suo difetto. Emmanuel si affida alla propria esperienza traumatica, accontentandosi di spezzare il nodo gordiano del tempo, anziché provare a sistematizzarne la nozione con assunzioni teoriche o dati sperimentali. E l’esperienza indica lacerazione.

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Il presente lacera e riannoda; comincia; è il cominciamento per eccellenza. Ha un passato, ma sotto forma di ricordo. Ha una storia, ma non è la storia. (TA, 36-37)

Il qui e l’adesso della posizione sono le garanzie indessicali fragilissime dell’insorgere di un soggetto nell’ubiquità e onnitemporalità dell’essere. La preziosità assoluta del tempo della posizione sta nel consentire l’ingresso dell’ipòstasi nell’esistenza: finalmente è possibile dare un nome all’istante: prima che possa ritenersi sensata la scommessa di Faust con Mefistofele, di non dir mai all’attimo fuggente “fermati! sei bello!”, l’istante è la possibilità di interrompere il “c’è”. Nel continuum della durata, in cui il soggetto è preso come la mosca nella tela di un ragno, la falla dell’istante segna una ripresa, una rinascita. Scarsa attrazione esercita l’eternità sul pensiero di Levinas. Fin dal ’35 essa gli era apparsa una falsa pista, un vicolo cieco per gli appetiti sublimati degli umani, una sorta di parossismo dell’atteggiamento naturalmente ontologico dell’intelligenza. C’è una profonda verità nel mito dell’eternità, che graverebbe sugli dèi immortali: “L’eternità non è che l’accentuazione o la radicalizzazione della fatalità dell’essere incatenato a sé” (EV, 41); essa non preserva l’esistenza dall’entropia corrosiva e dalla ruggine del quotidiano. Eternarsi significa morire alla propria illusione di individualità e accedere all’universalità del pensiero; per contrasto, è proprio dal tempo, considerato il distruttore per eccellenza, che sarebbe lecito sperare un’opera di salvezza (EE, 83). Presente della posizione, posizione del presente. Le due categorie aristoteliche del luogo e del tempo diventano qui sofferti principia individuationis di un soggetto, che è insieme libero di cominciare in senso puro, come in un primo istante, ma anche legato al peso metafisico dell’essere. Istante e posizione costituiscono l’intreccio di due atti assoluti, che hanno origine nel loro stesso accadere, poiché cominciano da loro stessi e terminano in loro stessi, senza trascendersi come un atto intenzionale di volontà diretto al

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futuro, né come il fenomeno ontologico-esistenziale della Cura (Essere e tempo, §§ 41-45). Si dà padronanza dell’esistente sull’esistenza, ovvero dell’ipòstasi sul “c’è”, solo in quanto il peso dell’esistenza incombe sull’esistente. C’è padronanza in quanto c’è peso, e il peso è sempre sconsolante – bisogna bere questo calice fino alla feccia (EE, 70). Per la sua analisi dell’istante, ircocervo di fenomenologia e metafisica, Levinas esige paternità piena, declinando gli illustri lignaggi di Bergson, Husserl e Heidegger. Nessuno dei tre grandi pensatori del tempo vissuto avrebbe colto il dramma della lotta per l’esistenza, inscritto in ogni istante, dramma che consiste nel simultaneo accadere del chiasma padronanza-peso. L’istante è fragile, ma è sfida in ogni suo sorgere. Nemmeno la morte può soffocarlo, perché essa è dentro la vita quale suo momento reale, pur sgradevole e minaccioso: è la realtà di una partita persa, o il martellante “Nevermore” nel Raven di Edgar Allan Poe (EE, 71). La morte non è il nihil absolutum, che galvanizza i metafisici, non è la nullificazione dell’istante: chi potrebbe esperirla in quanto tale? Essa si annuncia, piuttosto, nello spettacolo di una vita svuotata di senso, come la rassegna delle azioni che si fanno sotto il sole in Qohélet (2, 11): “Ecco che fumo è tutto / soffio che ha fame / E nulla c’è che valga / sotto il sole”. La prospettiva è, dunque, rovesciata: è sempre il destino, la vita a cui non si può sfuggire, a comporre tutta la sostanza del tragico; è la moira di Parmenide, che ha identificato l’essere con il tutto immobile; è la fatalità che Emmanuel paragona a un paesaggio invernale, in cui gli esseri stazionano infreddoliti (EE, 72) – i Cacciatori nella neve di Pieter Bruegel, oppure sé stesso e i suoi commilitoni nello Stalag, per non dire gli Häftlinge con zoccoli di legno nel gelo. Il tragico non è il tempo, che la tradizione filosofica ha identificato con la caducità dei mortali, anzi: dal tempo soltanto può giungere un riscatto non nichilistico, non suicidario, non tanatologico, dell’ipòstasi.

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L’ipòstasi è sempre con sé stessa, deve occuparsi di sé e di null’altro. “Tecum fugis”, nota Seneca nelle Lettere a Lucilio (III, 28); anche con un avatar, sarebbe noia e infelicità. Una “solitudine a due” (EE, 80), dell’io e del sé – o a tre o a centomila multipli dell’io –, nella quale è da rilevare la legge stessa della libertà e dell’autonomia soggettiva, che non solo si appropria della serie indefinita dei mutamenti, facendone stadi di un’identità diacronica, attraverso la continua “identificazione dello Stesso” (EDE, 190), ma fagocita entro di sé – interiorizzate come immagini o concetti o entità ideali – tutte le realtà esterne che potrebbero minacciarla, tutte le forme di alterità e trascendenza: cielo, terra, cose, animali, uomini. Imperialismo del Medesimo, si è detto. L’ultima pagina di Totalità e infinito (TI, 315) si chiude proprio sull’estrema illusione dell’individuo isolato, condannato all’ossessione della propria identità e al trionfo della noia, l’ennui dei Fiori del male (lxxvi, Spleen): Nulla eguaglia la lentezza di quei giorni azzoppati quando, sotto i pesanti fiocchi delle annate nevose, la noia, frutto della cupa indifferenza, prende le proporzioni dell’immortalità.

Vano sarebbe cercare qui indizi di una teoria psicologica dello sviluppo cognitivo individuale, perché la nascita esistenziale dell’ipòstasi non è un punto sulla retta del tempo oggettivo, o una condizione empirica ricostruibile in chiave storico-genetica, ad esempio rispetto al formarsi di un organismo pluricellulare in seno al brodo primordiale della vita; essa ha un significato determinato da tenere distinto, da un lato, da tutte le forme evolutive di lotta per l’autoconservazione; dall’altro, da tutte le forme di meditatio vitae, di concettualizzazione riflessiva di un’esistenza già metabolizzata e trasfigurata nei dispositivi simbolici delle culture. È, piuttosto, la condizione affinché si instauri un potere dell’intenzionalità, quello per cui assume senso la distinzione interno-esterno. Potere conoscitivo fondato sul buio e su una

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tragedia: il mal d’essere, il “c’è” nella sua assurdità, è sempre lì, dissimulato dall’egoismo, da un ora et labora finalizzato alla riproduzione della vita materiale. Il lavoro “calma il borbottio anonimo del c’è” (TI, 163). Levinas dovrà più tardi rivedere lo statuto dell’ipòstasi, poiché l’assunzione eroica dell’essere anonimo sarà solo il primo passo di una liberazione ancora incompleta, finché ancorata a riferimenti ontologici. L’ipòstasi è autonoma, certo, e gode delle cose, cambiando il mondo col lavoro delle sue mani e di quelle dei suoi simili, ma non ha altro orizzonte che il sano egoismo naturale. Più in alto dell’assunzione eroica, c’è il desiderio di un’eterogeneità esterna al tutto, di un bene al di là dell’essere, come diceva Platone (Repubblica, 509b). Per giungere a questa intuizione di evasione – che sarà pienamente sostanziata nei saggi degli anni Cinquanta, raccolti in Parola e silenzio – si dovrà sporgere dalla logica del bisogno, dal “cattivo infinito” della sua iteratività, e approdare all’insoddisfazione per tutte le cose. Proviamo ad accostare l’ipòstasi al destino di Sisifo, ma staccandoci sia dal mito greco che dalla rivisitazione che ne faceva Albert Camus. Camus voleva Sisifo felice per la superiorità sul fato, che l’accettazione volontaristica dell’assurdo consente all’eroe. Vogliamo, invece, immaginare che Sisifo giunga all’intuizione del troppo pieno, e all’apertura verso una trascendenza, che non richiama più la mano e la sua presa (TI, 195). L’istante liberante e autenticamente messianico può estromettersi dal cattivo infinito del godimento, se e solo se coinvolge un volto e un discorso non miei, ma di un estraneo che rifiuta di subordinarsi a ogni sistema di rappresentazione. Ne ha abbastanza di ogni cosa che si possa nominare, Sisifo. Non ne può più della salute e della malattia, del male e del rimedio. Ha nausea dell’ignoranza e della scienza, ha nausea della nausea e di ogni sua cura. C’è un tempo per piantare e uno per sradicare, un tempo per cucire e uno per strappare – ma Sisifo non vuol più tempi. Gli orti del palazzo, il profondo dei mari, l’alto dei cieli e le galassie universali: Sisifo è stanco, non se ne farà attrarre. Tutti i macigni dei

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cosmi, spinti su per la salita, ritti sul picco, procombenti – ecco il masso dei presenti, dei passati, dei futuri; dei possibili, degli impossibili. Particelle, minerali, insetti, popoli e mondi, brulicanti nello sfero dell’essere, che è per voltolare. Il peso è accanto a lui come l’inutile fagotto dimenticato da un distratto viandante. Il Peso – è lui.

Figura 6 – Romano Sambati, Il riposo di Sisifo (2012)

3.6. Idola marmoris Eftimio: […] la moralità dell’atto della creazione non potrebbe mai configurarsi sulla falsariga della donazione, perché il secondo termine esistenziale non c’è. (C. Brandi, Carmine o della pittura)

Dal 1945 la rivista francese Les Temps Modernes, nel cui comitato direttivo siedono Sartre e Merleau-Ponty, stila una

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linea editoriale volta alla ricostruzione della cultura francese del dopoguerra. I numeri del biennio ’46-’47 ospitano contributi critici sulla compromissione di Heidegger col regime nazionalsocialista. Pubblicandovi nel ’48 il saggio La realtà e la sua ombra, Levinas prosegue la meditazione sull’arte inaugurata in Dall’esistenza all’esistente, esplicitando l’abbozzo di un’estetica critica. È un cliché diffuso nella nostra cultura che l’espressione artistica, scavalcando la percezione comune della quotidianità spesso volgare, colga intuitivamente il fondo ineffabile della realtà, e ce lo restituisca in forme differenti da quelle tipiche del sapere filosofico e scientifico, attraverso colori, volumi plastici, suoni, gesti, movenze corporee, usi linguistici lontani dalle convenzioni. La realtà vera, profonda, la surrealtà colta dall’artista, si fa lavoro concreto, i cui caratteri più insigni sono, da un lato, il sigillo della compiutezza, dall’altro la magia dell’estraneità alle interferenze della morale. L’opera è perfetta quando, Sfinge amorale, si consegna allo sguardo nella saturazione della forma. Viene sottovalutata la compiutezza, sigillo indelebile della produzione artistica, grazie alla quale l’opera resta essenzialmente disimpegnata; l’istante supremo in cui è data l’ultima pennellata, in cui non c’è più una parola da aggiungere, né una parola da togliere al testo e grazie al quale ogni opera è classica. (NP, 175) Si direbbe che le regole morali bandiscono gli incantesimi del mondo con più severità rispetto alle leggi della natura e che la magia comincia, come un Sabba fantastico, non appena l’etica è finita. (NP, 133)

Levinas trova falsa e disonesta la formula dell’art pour l’art, slogan che poggerebbe sul piedistallo di un blasone posticcio, di un arbitrio giustificato solo dall’assenza di giustificazione. L’artista puro pretende di guardare il mondo da un’altezza innaturale e inverificabile, in una autoprocla-

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mata immunità da responsabilità non-estetiche. Ma l’arte è disimpegnata proprio per la compiutezza dell’opera, per la definitezza formale che la suggella nel suo mutismo autarchico: anche quando aspira al non finito, l’opera resta sempre compiuta e, in tal senso, può dirsi classica in ogni epoca. Fondate sul primato della visione, tutte le arti creano una bellezza congelata, che non parla. “Silenzio talora di cattiva coscienza o pesante o spaventoso” (NP, 118), che resterebbe tale se non si sentisse il bisogno di aprire il problema del senso, chiamando in causa l’altro da me. Tutto questo è il bisogno di critica davanti a un’opera d’arte. Prima che la professione intellettuale un tempo in auge su riviste prestigiose, intendiamo qui l’appello di un essere umano, che rivolge la parola a un altro, invitandolo a un discorso che oltrepassi la reattività emozionale, disincantandosi e disincantando il destinatario-fruitore-spettatore dal suo sonnambulismo. Esigenza che può inverarsi al meglio in autori quali Baudelaire o Wilde, artisti essi stessi, oppure decadere nella superficialità corriva dei rotocalchi d’intrattenimento. L’istanza critica è il dovere di ripresa e di risposta all’incanto della bocca aperta; senza di essa, l’arte resterebbe confinata a un “commercio con l’oscurità” (NP, 176). La critica si esprime in parole viventi, oltre la cattiva passività dell’emozione estetica. Le opere d’arte hanno un ritmo, una modularità strutturale dalle multiformi qualità e consistenze, che si impongono allo spettatore, sbaragliandone i poteri discorsivi e interpretativi, come in un sogno a occhi aperti, sull’orlo di una fusione panica che non si compie mai, se non nei casi fantasiosi di sindrome di Stendhal. Così, di fronte alla statua crisoelefantina di Zeus a Olimpia, anche il più disgraziato – come dice Dione Crisostomo – dimenticherebbe i dispiaceri della vita. Come se l’io, il piccolo io con le sue meschine grane, diventasse cosa fra le cose, statua fra le statue. Il 7 maggio 1938 Mussolini e Hitler sostano dinanzi a Paolina Borghese. Bocche serrate e occhi attoniti per le si-

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nuosità modellate dal Canova. I due si marmorizzano per un breve tratto, prima di riprendersi e trattare di strategie post-Anschluss. Un anno dopo, col Patto d’acciaio, le cose saranno ormai state poste sul piano della dura realtà, rispetto alla quale le arti e le culture si corrompono in chimere decorative.

Figura 7 – Statue davanti a Paolina Borghese

Per un po’ – il troppo esiguo tempo della contemplazione liberante di Schopenhauer, primizia del frui estetico – il soggetto non ha più potere, prende parte a un rito estatico, che toglie la distinzione fra consapevolezza e inconsapevolezza. Rito il cui valore formativo è sanzionato dai galatei delle società occidentali: non è vero che l’aver visitato gli Uffizi almeno una volta nella vita è uno dei requisiti minimi per finire nel novero dei colti? L’esame, qui ancora in parte fenomenologico, condotto da Levinas rileva un invariante eidetico dell’opera d’arte, che prescinde dalla fluidità storica delle correnti e delle poetiche:

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sia che riproduca animali da preda come nelle pitture rupestri del Paleolitico, sia che rinunci alla forma rappresentativa, manipolando oggetti d’uso o materiali di scarto, l’artista disincarna la realtà attraverso l’immagine della realtà. Prima di esibire un contenuto diretto, la creazione artistica ha l’esibizione stessa come contenuto; essa è sempre immagine in mostra. La carne dei mondi dell’arte non ha alcun incarnato, poiché è l’ombra della realtà, non la realtà stessa, dove la parola “ombra” si riferisce – con reminiscenze della teoria platonica dei gradi di conoscenza nella Repubblica (509d-511e) – al piano dei riflessi, dei simulacri, doppi e multipli, varianti più o meno deformate degli originali empirici. Nell’opera l’oggetto è migrato interamente nel suo riflesso. In virtù di questa sospensione della transitività della percezione, che giunge non più alla cosa della rappresentazione, ma alla rappresentazione della cosa, all’immagine stessa, l’opera è simbolo alla rovescia (NP, 181). L’autosufficienza faustiana dell’artista è garantita al prezzo dell’ambiguità strutturale del materiale del suo fare, costituito dall’infinità delle immagini, degli effetti sensibili che somigliano più o meno ai loro originali, come le ombre della caverna platonica erano le silhouettes isomorfe ai corpi trasportati al di qua del muro. Ambiguità che consiste non solo nel tema del doppio e del multiplo, ma anche nei caratteri estesiologici della vaghezza e dell’atmosfericità; e l’atmosfera è l’oscurità stessa dell’immagine. La realtà e la sua ombra contiene alcune intuizioni che, integrate dai successivi incontri di Levinas con artisti a lui congeniali (si pensi a Sacha Sosno), restano provocazioni fuori moda contro il puro attenersi al bello e al brutto, al piacevole e allo sgradevole, al sublime e al Kitsch. Quali che siano le chance del dualismo realtà-ombra, Levinas formula un caveat essenziale contro le assolutizzazioni dell’estetico: l’ombra si volge presto in idolo plastico. Non così la realtà viva e concreta al di qua della caricatura. Senza critica, ogni opera d’arte è statua, che ripete sempre sé stessa. I quadri, come gli scritti, “se li interroghi, tengono

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un maestoso silenzio” (Fedro, 275d). Maestosità da cariatidi e telamoni, presentata nella forma di un paradosso temporale: il tempo dell’opera è congelato in una durata che appare eterna, ma in verità è rigor mortis. […] in eterno Laocoonte sarà preso nella stretta dei serpenti, in eterno la Gioconda sorriderà. (NP, 184)

Il sorriso della Gioconda è sempre sul punto di sbocciare: la promessa di futuro, solo accennata, è infranta, domina ovunque un presente impotente. L’istante eternizzato resta essenzialmente impersonale e perturbante; Levinas lo chiama “entretemps”, “frattempo”. L’immagine è ferma nel frattempo, in un intervallo vuoto, sospeso fra un passato e un futuro parimenti illusori. Il frattempo diventa l’incubo dell’attesa infinita e infinitamente frustrata – ancora una volta, l’ottusità dell’essere puro. In L’enigma dell’ora di De Chirico sono quasi le tre, per sempre. L’immagine della vita è vita paralizzata, blindata in un autoriferimento insuperabile. Dominio delle ombre, l’arte è dunque anche il trionfo del destino. Con una mossa più rivoluzionaria di reboanti manifesti d’avanguardia, questo saggio del ’48 respinge la prosopopea della libertà creativa del pittore, del poeta, del musicista, del cineasta, che ha sempre costituito il valore inestimabile dell’arte fino a coincidere con l’arte stessa. Tralasciamo, ça va sans dire, il pulviscolo degli aspiranti al Parnaso, per i quali condire frasi grammaticali con emozioni farà lo scrittore: qui parliamo solo di vette, e queste vette Levinas spoglia del loro manto di intoccabile prestigio. L’aspirazione di Pigmalione affligge l’intimità di ogni artista: far sì che la donna d’avorio dissimuli a tal punto la propria sostanza artefatta, da diventare compagna di talamo e palpitante sposa; sogno che pretende di raggiungere la fragilità umana proprio là dove essa si opacizza, in sostrati materiali che sopravvivono alla carne di artefici e spettatori. L’arte per Levinas è la bella addormentata, che saprà risve-

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gliarsi, quando avrà compreso l’ingiustizia dell’infliggere alla vita la punizione della superba Niobe, la pietrificazione nella fatalità, l’imposizione e la celebrazione della bocca chiusa, lo spegnersi in un verdetto di definitività. E, per finire – colpo di scena e scandalo – Levinas riprende il divieto delle immagini, formulato nel Decalogo mosaico, considerato il comandamento supremo del monoteismo: “Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra, né di quanto è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai” (Esodo 20, 4-5). La via più rapida per fraintenderne il senso è giudicare con gli occhi saturi e assuefatti del consumatore di immagini; d’altronde, cosa potrà cogliere di un qualunque versetto biblico l’orecchio, cui il solo suono “religione” evochi sacrifici umani e processi inquisitoriali? L’anticipazione, più veloce della ponderazione intellettuale, leverà lo scudo della condanna lucreziana: “Tanto grandi delitti ha potuto ispirare la religione” (De rerum natura I, 102). Il punto è un altro. Il comandamento diventa la resistenza di uno scetticismo operoso contro il destino, agli antipodi delle figurazioni greche della moira, grazie alle categorie della creazione e della rivelazione. Aprire uno spazio per il significato universale di queste due parole-macigni delle religioni monoteistiche è stato il compito di tutta la vita di Levinas; qui tenteremo solo di evocarne echi. Levinas perviene alla conclusione, sgradita al gusto europeo, che l’arte non è il valore supremo della civiltà. Lo spirituale, in questo scritto del ’48, è nel pensiero e nell’azione informata dal pensiero, nello sforzo di rendere intelligibile la realtà con il dramma della parola vivente, che disincanta le magie dei ritmi cromatici, sonori, scultorei, linguistici. Lo spirituale è nell’arte, solo perché è nella critica filosofica dell’arte. Solo la critica, mai paga di contemplare feticci àfoni, restituisce ogni pretenzioso monumento più perenne del bronzo all’antichissima trama delle conversazioni umane.

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Nessuna proscrizione iconoclastica e teocratica, né consegna del talento artistico a tutele di moralità, ma ipersensibilità al rischio di una potenza incantatoria e deresponsabilizzante delle forme artistiche, se ridotte a occasioni di intrattenimento e turismo cosiddetti colti, a maggior ragione se pilotati – come da molti decenni a questa parte – dall’arte migliore di tutte, secondo la battuta di Warhol: il business. Anche per la Torah e il Talmud, del resto, vale la raccomandazione di non separare mai la scrittura dalle vive voci degli interpreti, poiché solo l’esegesi, pluralistica per natura, oltrepassa la lettera e fa lievitare intuizioni più profonde e universali; solo il commento in atto, la parola parlante e inafferrabile nel suo prodursi, impedisce alla brace dell’oralità di spegnersi sotto la cenere dei participi passati. 3.7. Qual è il tuo tormento? “L’arte è morale in quanto sveglia.” (Ludovico Settembrini in T. Mann, La montagna incantata)

Sempre su Les Temps Modernes Levinas pubblica nel ’49 “La trascendenza delle parole”, una recensione all’opera Biffures dello scrittore francese Michel Leiris. Poche ma densissime pagine, in cui la celebrazione della bellezza artistica è, ancora una volta, demistificata a tutto vantaggio della parola vivente e, in aggiunta, dell’ascolto. Il suono della parola critica, scandalo per il dominio della visione, è “come lo straripare della qualità sensibile in quanto tale, l’incapacità della forma di trattenere il suo contenuto” (NP, 118), l’esplosione e la lacerazione della plasticità, che acquieta gli oggetti del mondo. Il suono della parola che sfata il mito, l’ascolto che prelude al risveglio del discorso, si fa già simbolo, con un suo potere di trascendere i dati visivi, contenti del loro sussistere. Nessun dipinto, nessuna scultura, nessun brano musicale o

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letterario sapranno scavalcare il ruolo trascendentale della parola proferita per la costituzione del senso: più precisamente, della parola che rivela, nell’ascolto, la presenza reale dell’altro uomo, l’unica a poter turbare l’immagine narcisistica riflessa nel mio stagno. Per questo – è una delle affermazioni più belle della recensione a Leiris – Robinson riconosce nell’incontro con Venerdì l’evento più sconvolgente del suo eremitaggio forzato. La voce di Venerdì ha finalmente colmato “la tristezza inesprimibile dell’eco” (NP, 119), che non può far altro che ritornare e ripetersi, come i volumi e le densità materiche delle creazioni artistiche. Dopo questi due contributi termina la collaborazione con Les Temps Modernes. Emmanuel si avventura lungo una china sempre più solitaria, aliena da impegni politici ufficiali e delegittimata dal dominante marxismo dell’intellighenzia parigina. Quelle pagine non si peritavano di introdurre nel dibattito pubblico troppe cose imbarazzanti per coloro che, di professione, smascheravano le illusioni della sovrastruttura. Sarà sfuggito, probabilmente, ai redattori della rivista il fatto che La realtà e la sua ombra si chiudesse con un’apertura sorprendente, quasi l’auspicio di un’arte in grado di incarnare, essa stessa, l’istanza critica nei confronti dei dogmi estetici; una torsione autoriflessiva, insonne per un dubbio radicale puntato su sé stessa, travagliata dall’impulso a oltrepassarsi: la pittura al di là della pittura, la letteratura al di là della letteratura – un’arte dopo la fine dell’arte, per riprendere lo stilema di Hegel. Qui il punto di vista di Levinas potrebbe, in parte, convergere con quello di teorici dell’estetica postmoderna, oggi ben accreditati, a condizione che nella definizione di arte post-classica sia incorporata non solo l’autoriflessione, ma un risveglio di responsabilità, che smascheri gli effetti di decadenza connessi ai prodotti della téchne: idolatria, inerzia, stanchezza. L’arte è l’atto di contestazione dei suoi

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stessi esiti plastici e autoreferenziali, messa in questione del definito e del definitivo. Negli anni seguenti Levinas rivede più volte la sua concezione dell’arte. Pur non indietreggiando in nulla rispetto alla stringenza del monito contro l’idolo, riserverà maggiore attenzione al linguaggio della poesia e della letteratura, a quelle che aveva chiamato “arti non plastiche” (NP, 185), nelle quali la parola vivente si fa libro interpretabile all’infinito e risposta al disastro (§ 3.3). Si soffermerà su Paul Celan (NP, 47-54), i cui versi frustrano la capacità di assimilarli al già noto. Poesia dell’irrappresentabile, che lo stesso poeta diceva di non poter distinguere da una stretta di mano. Vi sono usi delle parole che non si fanno scudo dell’innocenza creativa, o dell’elegante cesello di un aforisma à la Wilde, ma prendono il coraggio di parlare per conto di un altro. Ancora Celan: “È inutile cianciare di giustizia finché la più grande fra le navi di guerra non s’infrange contro la fronte di un annegato”. Se l’arte – come Levinas scrive in un saggio su Shmuel Yosef Agnon, premio Nobel per la letteratura – è l’ultimo rifugio della trascendenza nell’umanesimo occidentale, ciò accade perché è segretamente fondata sull’utopia di un disinteresse non più solo estetico, sul latte dell’umana bontà che il fiele non ha adulterato, sul bene, che resta la vera meraviglia filosofica, più inquietante dell’arché del tutto. L’artista si lascia sconvolgere dal vocativo insito in ogni significazione, senza poterlo aggiogare alle sue escursioni stilistiche; e in questo votarsi al volto perduto del suo destinatario, la bellezza dell’opera di genio sa mostrare che la vita supera i limiti della sua essenza all’interno di quegli stessi limiti. Il poeta è prezioso, perché insegna a disimparare l’autocompiacimento nel nonsenso delle cose, nell’esacerbazione estetizzante dei mali del mondo, nell’accelerare l’oblio in un cosmo che non ha mai parlato a nessuno. In questo senso, la provocazione dei poeti sarebbe della stessa stoffa della provocazione dei santi e dei profeti – tre espressioni audaci

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dell’umano, nelle quali la mentalità della rendicontazione tangibile trova solo “bambinate” (EDE, 164). Forse è questo il segreto della capacità dei classici di appartenere ai canoni oltre le mode. La letteratura sa corrispondere all’essenza profetica, ispirata e religiosa del linguaggio (AV, 60), quella per cui chi parla si meraviglia di quel che dice o scrive nell’atto stesso di dirlo o scriverlo; il vero linguaggio, infatti, è sempre sovversivo e trascende i sensi ovvi dei suoi detti, in un’attitudine fedele all’altro uomo, al quale si è già da sempre coordinati in ogni genere di espressione. Il poeta non può assistere alla dissoluzione della persona nello “spazio intersiderale dell’Oggettività” (NP, 49), o accontentarsi di celebrare l’appartenenza al grembo di madre natura. La natura non va incontro a nessuno. Arnica, eufrasia e orchidee sollecitano, ma non surrogano la “parola ventura di un uomo di pensiero”, che Celan attendeva a Todtnauberg. Non resa incondizionata alla morte e al mortifero, l’arte dopo la fine dell’arte è stanca del silenzio del bello e della trovata ben congegnata, e sa chiedere all’indigente: “Qual è il tuo tormento?”. L’arte risveglia, se risveglia dall’arte. 3.8. Due anime, un corpo. Due corpi, un’anima Ma chi è questo Levinas? (Forse Sartre al suo entourage nel 1964)

È verosimile che le pubblicazioni su Les Temps Modernes abbiano sospinto i rapporti di Levinas e Sartre, improntati a un cortese e formale rispetto, verso una più marcata distanza polemica. Un incontro mancato, fra i due, quasi una rimozione incrociata della necessità di un’amicizia mai nata. Una stessa nausea filosofica li aveva gemellati, ma in Levinas essa rimase un episodio giovanile. Quale contrasto, poi, nello stile di vita! Difficilmente i due si sarebbero potuti in-

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contrare negli eleganti cafés littéraires di Parigi. Al tavolino del Flore, a Saint-Germain-des-Prés, Jean-Paul era solito osservare i passanti e discorrere dello scibile, immerso nella saporita nuvolaglia di pipe e sigarette. I pensieri vagavano con gli occhi, saltando dalla copia spiegazzata di Le Monde al taccuino degli appunti imbrattato di cenere, dalle facce dei passanti fin sulla turgida capelliera di Simone De Beauvoir. Emmanuel, al contrario, aveva trasformato la scuola da lui diretta, l’Enio, in una dimora di vita, ricerca, contatto educativo e affettivo con le giovani generazioni; sveglia alle cinque, a letto a mezzanotte, vita mondana zero, tutto corse e sudori fra i piani, non di rado per rimproverare qualche ragazzata ai suoi alunni. Sartre viaggiava su altre frequenze. Ma doveva conoscere bene Levinas, fin dai primissimi anni Trenta, almeno dal momento in cui Jean-Paul aveva voluto documentarsi sulla fenomenologia di Husserl, precipitandosi nelle librerie di Boulevard Saint-Michel, e trovandovi proprio la tesi di Levinas sull’intuizione. Si sarebbero poi incontrati di persona in casa di Gabriel Marcel. Ma era accaduto qualcosa di unico nella vita di Emmanuel, nel 1946. Aveva iniziato la traversata nell’oceano del Talmud, la raccolta monumentale degli insegnamenti orali dei Tannaim (“maestri”) e delle discussioni dei dottori rabbinici. Non da solo, ma con la guida di un dottissimo e anticonvenzionale personaggio, Monsieur Chouchani. Un incontro fondamentale, la cui influenza doveva riverberarsi in modi insospettati su tutto il lavoro posteriore. Un uomo dall’aspetto poco rassicurante di un mendìco, che Levinas paragonava però a Gorgia per insuperabile acume dialettico, senza esitare a contarlo nel pantheon dei maestri accanto a Husserl e Heidegger. Il Talmud chiuso – diceva Chouchani – va rispettato, ma bisogna sbrigliare un’immaginazione impertinente, appena lo si apre. Maestro e allievo si incontrano, così, in una lettura esigente dei testi, senza concessioni al sentimentalismo devozionale, trascorrendo insieme notti insonni di scoperte su quella

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letteratura rabbinica, destinata a rimanere esoterica ai più, non per supposti segreti riservati agli adepti, ma per difetto di rigore metodologico e parziale libertà di pensiero.

Figura 8 – Mistero Chouchani

Dell’uomo si sa poco, molto si è favoleggiato. Il nome stesso, probabile rimando simbolico o gioco verbale, si deforma in varianti. Si ignora la città di provenienza, si sa che morì nel ’68 a Montevideo. Non pare abbia lasciato nulla di scritto, ma è più imprendibile di Socrate. Sempre dedito a insegnare, conversare, rispondere, obiettare, compariva e spariva nei paesi più disparati, avvistato o allucinato in più continenti: i clochard erano diventati suoi sosia. Il mito e la leggenda offuscano la verità storica? O la verità storica arranca dietro lo sfuggente, che non ha scelto di venire al mondo, ma ha rinunciato a starvi? Chi ha avuto la ventura di frequentarlo ne attesta solide conoscenze nelle principali lingue europee e in molte discipline, dalla matematica alla storia dell’arte. Negli ultimi anni in Uruguay si vociferava insegnasse fisica nucleare. Sapeva a

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memoria il Talmud, i suoi commenti e i commenti di commenti, dottrina che metteva al servizio altrui in cambio di vitto e alloggio. Giacca e valigia sdrucite: è tutto ciò che ne ha saputo cogliere l’occhio cittadino e stanziale; ma quanti hanno saggiato la sopraffina arte di esegeta? Un ottimo soggetto per una spy story sull’ebreo errante o sul Luftmensch, colui che vive nell’aria, il senza radici che inanella, una dietro l’altra, le qualità spregiate dai dignitari dell’arianesimo. Con la guida sapiente di Chouchani, Emmanuel penetrava nei labirinti dell’interpretazione, con un training che nulla aveva di meno complesso di un corso avanzato di meccanica quantistica. Diventerà lui stesso un talmudista di notevoli capacità, che affiancherà all’opera propriamente teorica un parallelo corso di commenti ai testi della tradizione ebraica. Una specie di Doppelgänger schizofrenico, che scrive per un pubblico affatto diverso? Oppure un caso simile a quello di Kierkegaard, che compone gli scritti edificanti con la mano destra, la più vicina al cuore? Né l’uno né l’altro: opteremo per una risposta di convergenza di due prospettive, due sentieri, due lignaggi e linguaggi autonomi, con proprie norme e regole d’ingaggio. Anche quando Chouchani dileguerà nuovamente, senza preavviso, ridiventando spettro multilocalizzabile à la Elvis Presley, Levinas continuerà a riunire attorno a sé amici stretti e allievi, per coltivare la traccia di un’audacia di mente e di parola. Due anime, un corpo. E un commento, senza fine. È plausibile supporre che Emmanuel, affascinato da diversi punti di contatto con L’être et le néant, ma forte dello studio delle fonti ebraiche presso Chouchani, sia rimasto deluso dallo scritto di Sartre sull’antisemitismo, Réflexions sur la question juive, pubblicato nel ’46. Sartre scriveva sugli ebrei come se Auschwitz e il regime di Vichy non fossero mai esistiti, come se un’unica tratta storica riallacciasse senza sussulti i francesi della Quarta Repubblica a Dreyfus. Facile, certo, ragionare con gli studi di poi: a lungo gli occhi per leggere il sisma della Shoah rimasero senza nervi adeguati a coglierne l’intensità; ma Emmanuel vi lavorava strenuamen-

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te, forse senza nemmeno esserne del tutto consapevole, così come lavorava a svelare lo spessore filosofico dell’ebraismo. Come avrebbero potuto soddisfare il suo palato, già usato alla scepsi, le frasi di Jean-Paul, troppo povere di tradizione, come “L’ebreo è un uomo che gli altri considerano ebreo”? In una delle sue lezioni più tarde, Levinas arriverà a dire che ai caffè ci si siede per lo più senza aver sete, senza aver appetito, senza un bisogno reale, piuttosto per svagatezza e ginnastica labiale, che sciolgono da ogni obbligo. Difficile – ma è proprio qui il problema – non simpatizzare istintivamente con Sartre: i caffè del tempo erano intriganti osservatori sull’umanità in ripresa, luoghi dove ispirazione e analisi miscelavano le proprie virtù, attingendo a un effluvio semiotico incontrollabile, dai dettagli della moda alle mutazioni linguistiche. Annoveriamo, quindi, Levinas fra i moralisti contrari a innocenti svaghi? No. Lévinas è anche troppo francese per non riconoscere, con Jankélévitch, che quanto accade sulle rive della Senna, tra l’Hotel-de-Ville e Place de la Concorde, ha un significato per l’uomo in generale. Proprio perché troppo francese, anzi, può permettersi di svestire per un poco i panni del borghese cosmopolita, titolare di diritti civili e politici, e spostare l’attenzione dalle meraviglie dei boulevards alla visione del mondo che soggiace ai non-luoghi del gioco e dell’arte. La conclusione è spiacevole: è perché abbiamo attrazioni di solitudini massive, svaghi fondati sull’oblio degli altri, che possiamo sopportare le pochezze del quotidiano e gli orrori della storia. Ma “non costruire il mondo è distruggerlo” (SS, 49). In quella lezione Emmanuel intendeva ironizzare sugli esistenzialisti à la page? O prendere le distanze dalle proteste libertarie della gioventù studentesca nel maggio del ’68? Entrambe le cose. Ma è sempre in agguato il sortilegio dell’indelebile, al quale occorre sottrarsi con un memento: non prendere mai per definitiva l’assertività della ragione, quando essa debba pronunciarsi sulle vicende umane. Già l’ipòstasi è infondabile, intrasparente, ambigua, ribelle contro l’immagine esauriente addossatale da una condanna, non

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meno che da un elogio; a maggior ragione tale inafferrabilità sarà verificata nell’altro uomo, impossibile da ignorare, impossibile da incasellare. Per alcune cose i loro passi erano in direzioni opposte. La dimensione della libertà, imprescindibile per Sartre, è per Levinas solo il luogo naturale donde salpare, non la destinazione del viaggio; e la conciliazione tentata dal primo fra esistenzialismo e marxismo appariva al secondo una combinazione troppo parziale per essere specchio dell’eccentricità umana. Eppure, avevano letto gli stessi maestri, appartenevano alla stessa generazione, da fronti diversi difendevano la “causa dell’uomo” contro comuni bersagli. Non si erano incontrati nel rigetto di una comprensione remissiva del principio di identità? Nella presa di distanza dal borghese soddisfatto di sé, il salaud, lo sporcaccione, normalizzato da un sistema di valori spacciati per assoluti? Nel porre l’antisemitismo su un piano non semplicemente storico-politico, ma metafisico? Quando Sartre rifiutò nel ’64 il premio Nobel per la letteratura, Levinas ammirò la volontà di sfuggire a monumentalizzazioni istituzionali. Gli scrisse una lettera, senza risposta – forse per l’ardita richiesta che gli rivolgeva: mettere una parola di pace per Israele presso Nasser, il presidente dell’Egitto. Ricevendo la missiva, Sartre reagì – secondo l’aneddoto – con un “Mais qui est ce Levinas?”. Il divo filosofo, da un lato, principe degli intellettuali engagés, uomo di mondo e di moda nei salotti culturali di Francia; dall’altro, un pensatore molto meno appariscente, ignoto ai più, che, non facendo mistero del suo ebraismo, aveva sempre difeso la priorità dell’etica sulla politica. Avevano imitato per decenni gli alfieri dello stesso colore sulla scacchiera: lontani o limitrofi su diagonali distinte, senza toccarsi mai. Finirono per parlarsi di nuovo. Sartre invitò Levinas a contribuire a un numero di Les Temps Modernes dedicato alla questione palestinese, e Levinas fu felice di scrivere “Politica in subordine!” nel 1979, commentando il viaggio di Sadat nello Stato di Israele di due anni prima.

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Nell’ultimo Sartre l’inferno degli altri si era mutato in una parola sempre troppo naïf per i ricchi di spirito: “espoir”, “speranza”. Ci aveva visto giusto, Emmanuel, fin dal ’47, quando aveva affermato che negli scritti degli esistenzialisti “l’elemento scatologico si trasforma in escatologia” (EDE, 113). Qualcuno li ha paragonati a Giovanni di Pannonia e Aureliano di Aquileia, i due teologi del racconto di Borges: due corpi nel secolo distinti, un’anima sola nel regno dei cieli. Levinas avrebbe rigettato l’amena similitudine. Fra i vari testi talmudici che amava citare, c’è quello sulla singolarità non reiterabile della imago Dei. Mentre la coniazione di moneta da parte di uno Stato presuppone un modello, rispetto al quale tutti i pezzi di metallo sono istanze dello stesso tipo, lo stampo di Dio crea una molteplicità di volti unici e incomparabili (EN, 256). Avrebbe, quindi, approvato proprio la tesi per cui Giovanni di Pannonia finì sul rogo: due anime uguali non esistono.

Quarto dialogo Scarpe, fili d’erba e canto di cicale

[Una tersa mattina di giugno. T. ed E. siedono in giardino] T.: Ho un gran desiderio di parlare, non so da dove partire. Anzi sì: l’arte. Ne discutiamo da sempre. Esistono popoli che abbiano fatto a meno dell’arte? Da sempre si sono percorse le sue strade, tanto per conservare che per rivoluzionare. E.: Si è sempre riconosciuto che l’arte trasfigura l’attrito con la polvere e lo sporco della vita nella definitezza dell’artificio, o nella promessa di salvezza dalle deficienze del quotidiano. T.: Per Levinas l’arte, nella forma della letteratura, ha rappresentato la prima via d’accesso – si può dire in sincronia con le scritture bibliche – alla comprensione dell’esistenza. E.: Sì, una specie di allenamento selvaggio e sensuale, senza regole, al mistero della vita. T.: Nella giovinezza e nella prima maturità la sirena della scrittura letteraria non ha cessato di cantare ai suoi orecchi. Avrebbe voluto diventare un romanziere. [Si alza dal tavolo e si alloggia sotto il parasole del dondolo] E.: Quella carriera doveva, però, naufragare. Le pagine sparse dei romanzi sognati erano cariche di un nervosismo conoscitivo estraneo all’autarchia narratologica. T.: Come Platone, ha bruciato le sue tragedie per amore della filosofia?

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E.: Non so se il raffronto tenga. Anche lui ha compreso che lo stile della filosofia non si può confondere con gli scopi e i modi letterari. T.: Fa problema, comunque, accettare una condanna dell’arte, sul modello di Platone o Tolstoj. E accettarla da un pensatore audace come il nostro. E.: In Platone la condanna coabita con un’apertura di credito. Piano, però: in Dall’esistenza all’esistente l’arte è una delle possibilità più efficaci per l’uomo di staccarsi dal mondo, strappando gli oggetti della rappresentazione al loro retroterra ambientale. Che sia bello o brutto, sensibile o concettuale, plastico o sonoro, nell’opera d’arte il rappresentato è solo, privato del suo peso semantico specifico. T.: Il che è meritorio dal punto di vista culturale ed espressivo, non credi? Dalla modernità in poi, l’arte disturba gli automatismi percettivi e senso-motori, che si allacciano a un ambiente esterno, e si immerge nel magma dell’elemento sensibile, nella qualitatività disancorata da profili cosali – quasi pura musicalità. E.: Infatti, le cose vengono espulse dal loro passato di presenze familiari e sono “là fuori”, esibite e ingigantite nella loro ecceità di frammenti sconnessi. Ogni opera d’arte, nella misura in cui prende forma entro certi limiti – i limiti di un quadro, di una poesia, di un film –, nasce da questa deliberata espulsione dei suoi contenuti dal mondo della vita. T.: Ecco il famoso esotismo dell’arte (EE, 45-50). In greco “éxosis” significa “espulsione”, “éxo” significa “fuori”. L’arte in tutte le sue fasi storiche sarebbe stata esotica? E.: [Dal fondo del giardino compare Nerina. Si acciambella ai piedi del tavolo, accanto a E.] Non stiamo facendo storia dell’arte, beninteso. Levinas mira a individuare un tratto invariante del fare artistico. È sempre stata esotica, sì, pur con alcune cesure epocali. L’arte cristiana, ad esempio, non ambiva a un’autolegislazione poietica assoluta, in quanto espressione di un’epifania trascendente. Mi vengono in mente i volti intangibili e irraggiungibili del Beato Angelico.

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T.: A sostegno di quanto dici, cito a memoria un passo di Max Picard sull’arte medievale: allora erano gli occhi dei quadri a posarsi sugli uomini, e gli uomini abbassavano lo sguardo. E.: Che popolo di sprovveduti retrogradi! Senza confronto con i telefoni intelligenti dei turisti contemporanei. T.: [Sorride, impartendo una lieve oscillazione all’altalena] Ci si può arrischiare a dire che è nell’arte moderna che si consuma la distruzione della rappresentazione? Soprattutto nelle correnti novecentesche, che asseriscono di averla demolita e superata? E.: Sì, nella misura in cui le cose cominciano a parlare da sé e per sé, acquisendo una loro propria interiorità e personalità. T.: Come le “creature mute” di Lord Chandos? E.: Non direi, perché queste allietano lo sguardo con una pienezza inesausta di significato: l’erpice abbandonato sul campo sembra rivelare una ricchezza ineffabile al di là della funzione di utensìle agricolo, senza che l’ambiente circostante venga meno. T.: Allora le scarpe contadine di Van Gogh. Sono sole. E.: E soli sono i cavalli blu di Franz Marc, le finestre di Magritte… Tutti revenants sulle macerie del mondo della vita e dei mondi della vita possibile. T.: La libertà dell’arte è ancora un valore irrinunciabile, diciamo pure dogma. Se comprendo Levinas, è una libertà che costerebbe cara, perché pagata al prezzo di un abbandono all’inorganico. E.: Molto interessante. È il “sex-appeal dell’inorganico”, intuizione acuminata di Walter Benjamin sul feticismo della moda. L’inorganico o la “potenza mistica dell’Inconscio” (NP, 115) esaltata dal surrealismo. Tutte controfigure dell’essere anonimo, del “c’è”, a cui ci si arrenderebbe. T.: Mi sembra un esito del tutto diverso da quello cui giunge Heidegger nel saggio sull’Origine dell’opera d’arte. Ne ho ripreso lo studio da alcuni giorni, è lì sul tavolo alle tue spalle, in cima alla torre di libri. Le scarpe contadine non

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sono affatto fenomeni esotici, oggetti d’uso sottratti al contesto, ma addirittura la stessa messa in opera della verità. E.: [Già sfogliando il volume] Ecco: “La verità, come illuminazione e nascondimento dell’ente, si storicizza se viene poetata. Ogni arte, in quanto lascia che si storicizzi l’avvento della verità dell’ente come tale, è nella sua essenza Poesia” (Heidegger 1968, 56). Anche su questo argomento, però, sembra accumularsi una distanza siderale. T.: C’è un punto di discrimine, che brucia come la luce di tutti i soli. E.: [Corrugando la fronte, serioso] A furia di frequentare Levinas, il tuo linguaggio si fa drammatico! Quale discrimine? T.: L’altro uomo, il suo volto. L’Enigma di cui parlavi l’altra volta. E.: Non abbiamo ancora letto nulla su questo. Finora solo cenni. T.: Ma si comprende che, una volta introdotto il volto dell’altro nell’arena filosofica, questa debba ammutolire. E.: Quando non so cosa dire, dico: “in un certo senso”. In un certo senso, sì. T.: Voglio aggiungere un’altra considerazione. Faccio finta che Levinas sia nel giusto. E.: [La mano sul cuore] Facciamo sempre finta nelle nostre conversazioni. T.: L’oblio del volto è almeno altrettanto apocalittico dell’oblio dell’essere. E.: Più apocalittico, per Levinas, senza alcun dubbio. T.: Cosa implicherebbe questo per il lavoro dell’artista? La sovranità creativa non dovrà cospargersi di cenere, sconfessarsi e scrollarsi di dosso l’indolenza naturale dello scorrere della vita, la normalità dell’acquisire, del produrre, del consumare, del tenere alla propria continuazione? La stessa normalità, che si magnifica in pinnacoli di bellezza, di cui far mostra. Cosa diventerebbe l’arte, se si esponesse contro la corrente di un tale oblio?

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E.: Perdona la battuta ma, per cominciare, non avremmo più poesie di versificatori sonnolenti, che giocano a fare gli àuguri con la natura. T.: Sarebbe un guadagno? Vorresti dissipare le tenebre irrazionali dell’arte con i riflettori di qualche realismo estetico? Si discriminerà fra artisti veri e artisti degenerati? E.: Non è di questo che si tratta. Se l’inquietudine per l’altro abitasse l’anima della letteratura, questa avrebbe un volto. Infiniti volti. T.: Pirandello non avrebbe scritto Canta l’Epistola? O La maestrina Boccarmè? E.: Invidio le tue letture pirandelliane. Non cambierebbe nulla, se non la nostra suscettibilità nell’intendere la misteriosa commozione che quelle novelle suscitano per il filo d’erba, la formichetta o il geranio, che s’accende improvvisamente nel sole sul davanzale. [Breve silenzio. Irrompe il canto di una cicala, poi di un’intera colonia dai campi] Aspetta. [Si alza e prende il volume Nomi propri in cima alla stessa torre]. Ascolta: “I suoni e i rumori della natura sono parole deludenti. Udire realmente un suono significa udire una parola” (NP, 118). T.: E, dunque, le cose brillerebbero di luce riflessa. Fili d’erba, fiori, monti, nuvole, lune e cieli sembrano straripare di senso, ma non hanno nulla da dire, nulla!, se non come maschere ed echi di volti remoti o futuri. E.: Non avrei saputo esprimerlo meglio. La poesia del mondo è inseparabile dalla prossimità ossessionante del prossimo. T.: Mi oppongo! E.: E con ottime ragioni, non ne dubito. In effetti, te ne parlo più per turbamento che per persuasione. La provocazione di Levinas va, però, consumata fino in fondo. Con buona pace di Schiller, la pietra ricoperta di muschio, il ronzio delle api – o questo ipnotizzante canto di cicale – non sarebbero ciò che noi eravamo, né dovremo tornare a essere.

Capitolo 4 Altri nel tempo

4.1. La filosofia sopravvissuta La filosofia di Levinas rappresenta il tentativo più estremo di spingere la fenomenologia fino al limite in cui questa cessa di essere un giustificazionismo assoluto, basato sull’accesso in linea di principio universale ai fenomeni reali e possibili. Quel che della fenomenologia husserliana resta è, da una parte, l’assenza di timori reverenziali nei confronti del senso comune e del corpus delle conquiste scientifiche più consolidate; dall’altro, la convinzione che il banco di prova delle asserzioni filosofiche è il grado di rilevazione delle differenze fenomeniche – salus ex descriptione –, anche quando tale rilevazione sia impossibile per ragioni a priori. La radicalizzazione della fenomenologia è implicita nel suo principio fondamentale, il “principio di tutti i principi”: […] ogni intuizione originalmente offerente è una sorgente legittima di conoscenza, […] tutto ciò che si dà originalmente nell’“intuizione” (per così dire, in carne e ossa) è da assumere come esso si dà, ma anche soltanto nei limiti in cui si dà. (Husserl 2002, 52-53)

Levinas ha preso sul serio questi limiti. Tutti i problemi più pressanti, su cui verterà il suo pensiero, non hanno i requisiti minimi per darsi all’intuizione, né sensibile né categoriale, non sono cioè correlati oggettuali di stati intenzionali della ragione, intesa in senso lato.

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Ciò che per Husserl rappresenta l’evidenza della prima persona, in Levinas si tramuta in arbitrio tardivo. Tale sarebbe la solitaria certezza del singolo, che dipana l’universo a partire dalle molteplici risultanze del suo campo d’esperienza. Una solitudine apparentemente sovrana, che è in sé stessa ingiustificata dal punto di vista epistemologico, prima ancora che da quello morale e storico, perché l’origine del senso è sottratta alle fonti epistemiche riferibili a un cogito apodittico, ancor meno a strutture impersonali come il linguaggio o le leggi logiche, e attribuita a quello che Levinas chiama, con cortese compulsione, la dirittura del “faccia a faccia” con l’altro uomo. Bisogna lavorare a un’altra fenomenologia, “fosse anche, quest’ultima, distruzione della fenomenologia dell’apparire e del sapere” (TeI, 18). Anche Husserl, del resto, sapeva frequentare quei limiti, come nell’esperimento mentale della riduzione a parvenza dell’intero universo, e del corpo dello sperimentatore in esso. Ma Husserl era convinto di aver filtrato dal setaccio l’oro della soggettività trascendentale, fonte assoluta per la ricostruzione razionale di ogni concepibile mondo, mentre Levinas risale a una sorta di universale encefalogramma piatto: il “c’è”, l’essere puro, neutralità inumana intollerabile. La relazione con l’essere non è logica, ma carnale e mai pacificata, irreversibilmente modificata dall’apporto di chi vi sta dentro, vivendola; né è legittimo declassare l’inquietudine e il travaglio a contrassegni emotivi, che darebbero una coloritura ininfluente alle strutture “vere” della logica o della metafisica. La carnalità del rapporto con l’essere abita fin dentro la tautologia parmenidea “l’essere è”, perché l’identità è sempre per i fenomenologi di tutte le correnti una questione di identificazione vivente, dalla quale scaturiscono enormi conseguenze per la nostra esistenza cognitiva, morale e pratica, diciamo pure per il nostro respiro quotidiano. Poniamo l’identità dell’essere con sé stesso, solo perché ciascuno di noi identifica sé stesso come lo stesso di prima: “Prima di ogni linguaggio, l’identificazione della soggettività è il fatto, per l’essere, di tenere al suo es-

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sere. L’identificazione di A come A è l’ansia di A per A” (NP, 83); è l’identificazione persistente del nostro interesse al mondo – è egoismo (EDE, 215), che si afferma attraverso un corpo situato, un sentire e comprendere, ibridato di passività e attività. In generale, Levinas sembra estraneo a preoccupazioni circa un controllo logico-formale dei propri enunciati. Il suo animo è tormentato da correnti impetuose, per le quali gli argini della buona formazione sintattico-semantica sarebbero freni inibenti e miopi. La logica è una componente necessaria del pensiero, ma non sufficiente, poiché la mistificazione è sempre dietro l’angolo e può mistificare i mistificatori. La pseudo-razionalità, come è diventato più chiaro da Nietzsche in poi, è più insidiosa laddove non si lasci cogliere nella forma schietta di un garbuglio di fallacie. In Levinas il classico motto rem tene, verba sequentur si rovescia nel suo contrario: qui la cosa non si possiede per nulla, al contrario la si intuisce, la si desidera, si calca la mano su un linguaggio metaforico che si mantenga sulle sue tracce, e la si evoca più in base al vuoto che scava in noi che per una positività da registrare. Se nella fenomenologia classica l’individuazione del fenomeno è prioritaria rispetto alla sua irreggimentazione logicolinguistica, che andrà adattata come una veste al corpo di ciò che si descrive, l’alterità dell’altro uomo – centro dell’etica levinasiana – non è più fenomeno, non lo è mai stato; la diversità del prossimo uomo, sfuggendo alle definizioni, colpisce l’intima natura di ciò che noi stessi siamo. E dunque, per tener dietro alla sua altezza, la scrittura insisterà in connotazioni elevate, in deliberate enfatizzazioni. Non si può qui essere freddi e distaccati: “L’esasperazione come metodo della filosofia!” (DVI, 113). Tutte le culture della Terra hanno accumulato, nei propri bacini di meraviglie e sconcezze, immagini e narrazioni derivate di cosa sia l’uomo. A Parigi, e nelle metropoli che vanno ricostruendo i propri spazi, la vita riagguanta i ritmi sostenuti d’anteguerra, sovraffollati di stimoli, e i cittadini si distribu-

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iscono in un’orizzontalità di avventori e clienti intercambiabili. Qui l’altro è un altro io, alter ego, a milioni e miliardi, massa di membri equipollenti della stessa specie. Mettendo a frutto, come molti della sua generazione in quegli anni, motivi teorici dalle “tre H” – Hegel, Husserl, Heidegger –, Levinas intravede una narrazione alternativa dell’umano, che si testa nei momenti in cui l’appetito assimilatore della civiltà si inceppa dinanzi alla trascendenza inderivabile del volto altrui. La filosofia sopravvissuta ha ben altro compito che la sistematizzazione delle nozioni o la cosmesi del passato; dovrà rimettere in campo ulteriori poteri dell’immaginazione linguistica per stabilire se la vita ordinaria, tenuta insieme dalla decenza, dal decoro e dai cerimoniali borghesi, sia quella dominata dall’economia della reciprocità totale delle monadi sole, o se sia possibile una via di uscita che giustifichi non solo un intero, inedito paradigma in filosofia, ma un’antropologia, una politica, un’economia, una scienza largamente diverse dalle attuali. 4.2. Il locutore svettante Gli altri sono semplicemente insopportabili. L’unica compagnia possibile è quella che ci facciamo da soli. (O. Wilde, Un marito ideale)

Cos’era l’ipòstasi? Un chi, non una cosa. Era il disertore del deserto metafisico, colui o colei che è un colui, una colei. Grammaticalmente: la persona del verbo, denotabile da un nome proprio; empiricamente: la fragile sostanza vivente e parlante che, piccolo Atlante, si fa carico dell’essere puro, cosicché quel che prima era anonimo e neutrale, diventa ora nominativo e personale – compito di qualcuno. Ma l’ipòstasi è anche il candidato naturale al solipsismo: padrona del suo campo, resta isolata nell’unicità della propria esistenza.

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La rottura dell’anonimato dell’essere è stato un fatto ontologico di primo rango; ma c’è un altro evento, molto più sconcertante, che segna il primo salto del lungo cammino di Levinas. Si è visto dapprima il passaggio dall’esistenza all’esistente, ovvero dal “c’è” all’ipòstasi. Adesso il salto da compiere è dall’esistente, cioè dalla monade sola nella sua libertà egoistica, all’incommensurabilità dell’altro uomo. Il salto è verso l’alterità, l’altro, altri (“autrui”). Levinas è consapevole non solo della dirompenza di un così forte pluralismo personalistico, ma anche del posto centrale che esso occupa nella sua geografia spirituale. “La mia filosofia”, scrive in un appunto del ’46, “è una filosofia del faccia-a-faccia. Relazione con altri, senza intermediario” (CC, 192). L’ingresso di altri sulla scena è preparata con cura in Dall’esistenza all’esistente. Se il prossimo è sempre immerso nel mondo e ci giunge abbigliato e addomesticato dai dispositivi delle istituzioni sociali, il rispetto della sua vera alterità ci porta a una “dimensione senza oggetto” (EE, 37), incompatibile con le categorie egologiche della psicologia e della fenomenologia. Minaccia che ha, insieme, un potenziale di liberazione, perché raggiungere altri non significa per l’io incatenarsi a un altro io, ma liberarsi del passato e sollevarsi dalla definitività dell’esistenza, come accade nell’esperienza molto concreta del perdono: solo altri può perdonarmi, mettendo in moto l’opera di un tempo reversibile. Altri compare senza poter essere assimilato a un alter ego; a rigore, non potrei nemmeno dire che è un’altra ipòstasi. Potrebbe essere avvicinato da un linguaggio, che non lo converta in un contenuto entro l’enciclopedia dei correlati oggettuali dei pensieri. Giunge qui il momento di riconoscere che la descrizione fenomenologica non basta, perché resta consustanziale a un sistema di appropriazione intuitiva e concettuale, in cui ogni cosa trova un posto coerente nelle correlazioni sintetiche del sapere, di ciò che il singolo o la comunità intersoggettiva proiettano come punto di fuga, rispetto al quale tutte le parallele sembrano incontrarsi.

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La fenomenologia si fa più drammatica, nel senso di saggiare fino in fondo la tragedia della solitudine metafisica, che è assai più che un puzzle gnoseologico: ho assunto l’essere anonimo, ma sono sempre con me, nessun divorzio separa realmente l’io dal sé. Allora, la presenza d’altri si carica di un senso ulteriore rispetto a tutte le valenze naturali e storiche, che spaziano dall’evoluzionismo all’antropologia, dalla sociologia alla statistica. Il solipsismo potrebbe essere vero anche in un mondo popolato da otto miliardi di individui della specie Homo sapiens. Il solus ipse, l’unico e la sua sfortuna, senza l’altro uomo non si salverebbe né da sé stesso né dai suoi conspecifici; senza una presenza d’inquietudine resterebbe un autómaton spirituale, con libertà da marionetta o girarrosto, secondo le immagini kantiane. Poiché per Levinas principio di ogni inquietudine è la parola, l’altro sarà il locutore svettante, alto sopra i paesaggi naturali, che rivolga al mio indirizzo un discorso, una provocazione, un segno, un silenzio, fuori da scambi parificanti e diritti di reciprocità. Il coro dell’Antigone di Sofocle assumerebbe una sonorità ancor più insolita, se il deinótaton, la cosa più terribile e spaesante, fosse altri. Molte cose nel mondo ispirano sgomento [pollà tà deinà]; nessuna più dell’uomo [koudèn anthrópou deinótaton]. Che con il vento tempestoso del Sud attraversa il mare bianco di spuma, e si apre la strada tra i gorghi spalancati e affatica col volgere degli aratri e con i cavalli rivolta, anno per anno, la terra grandissima, instancabile, immortale […].

4.3. Salario, psichismo, socialità La vita nuova che il filosofo aspira a guadagnare, per sé e per gli altri, somiglia a un palinsesto, in cui un’ulteriore corrente di credenze, parole e azioni è parzialmente sovrascritta alla partitura che tutti noi suoniamo, per istinto e seconda natura. Il filosofo comincia a sovrascrivere con l’intuito del

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rabdomante o la finezza certosina dell’analisi; senza garanzie o manuali di istruzioni. Il filosofo si diseduca con metodo, disimparando la cultura ricevuta, per reindossare poi i vecchi abiti con un portamento, che ne indizierà la mutata consapevolezza. Dall’esistenza all’esistente ci spinge a disimparare la tristezza per il tempo che passa, perché è proprio dal tempo che può giungere una via d’uscita dalla definitività dell’esistenza: “la durata risolve il tragico dell’essere” (EE, 78). Il che richiede, però, di svincolare il tempo dalla struttura economica, che lo rende un decorso funzionale ai nostri bisogni. Nel tempo dell’economia l’io è immerso nella sua ingenuità, nelle sue intenzioni sincere volte al godimento dei frutti del lavoro, in un mondo che coincide con la possibilità del salario. L’enunciato “il tempo è denaro” è una tautologia della società civile, i cui membri si radunano attorno a comuni fonti di sostentamento come attorno all’unico capo di giustificazione della convivenza. E, in questa corsa al soddisfacimento, ci si dimentica di essere incatenati, di essere in un’eterna Bastiglia: “Nel mondo, il tempo asciuga tutte le lacrime, è l’oblio dell’istante non perdonato e di quella pena che nulla può compensare” (EE, 82). Sforzi e piaceri, diretti al godimento del mondo, costituiscono nel loro alternarsi la scansione economica del tempo laico; in luogo della salvezza dall’orrore promessa dall’evasione, il tempo economico mercanteggia e trova un equivalente monetario-salariale-simbolico per tutto, religione e spiritualità comprese. Lungi dal santificare, la sua domenica indennizza e ammortizza la fatica – è un tempo compensativo. L’impianto proteiforme della tecnologia taylorista e fordista vi si adatta progressivamente, realizzando l’efficientismo del massimo della produzione nel minor tempo possibile. Corriamo lungo questo filo di perle di istanti, tutti equivalenti, che compongono il tempo comune, oggettivato e impersonale, non diverso dal tempo degli storici e degli storiografi, “racconto dei sopravvissuti” (TI, 233), nel cui deposito i morti convengono senza protestare. Corriamo protesi al

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salario, all’orgasmo sistematicamente differito del guadagno concordato per la fatica del lavoro. Ma ci sono atti di cui l’esistenza mortale è capace – gli stati intenzionali dell’ipòstasi –, che non si accontentano dei sistemi della compensazione. La speranza, ad esempio, il cui vero oggetto è “il Messia o la salvezza” (EE, 83). Sic! Non di rado spiccano nelle pagine di Levinas parole, enunciati, esclamazioni che ammettono due reazioni opposte: o l’indifferenza o l’effetto muleta scarlatta davanti al toro. La parola “Messia” non è valicabile dal lettore indisposto ad applicare con finezza il principio di carità: di essa ci si deve servire per distinguere l’immersione nella continuità senza scampo dei bisogni, entro la totalità storico-economica, dalla possibilità di un significato al di fuori di quella continuità e totalità. Nella prospettiva messianica diventa sensatamente coltivabile l’esigenza non solo di asciugare le lacrime di chi ha sofferto, ma di riandare indietro alla sofferenza per riscattarla. Ciò è possibile, perché il messianico è già in alcune decisioni della nostra ipseità psicologica o “psichismo”, come preferisce dire Levinas. Già l’ipòstasi era un’eccezionalità ontologica, perché assumeva personalmente il peso dell’essere neutro, lacerandone la continuità senza strappi; ora tale eccezionalità si riconfigura nel paradosso di un pensiero, di una speranza, di una memoria, che contrastano la compattezza dell’ordine logico, aprendo la via per un divergente ordine cronologico (TI, 52). La vita interiore non è un epifenomeno di strutture più profonde, operanti a nostra insaputa; finché vive, essa recalcitra all’inclusione insiemistica nel tessuto meccanico e causale dell’universo. Lo psichismo è proprio questa ribellione alla totalità; entrerà a farne parte una volta defunta, allorquando la storia – la civetta di Minerva, che narra il passato compiuto dell’Assoluto – la tumulerà nella medietà statistica del numero e nell’eternità del posto in serie. Tutto si scontorna nell’oceano del fu. Anche la memoria inverte il tempo storico, perché può sfuggire alla condanna del passato, determinando un’auto-

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rialità per eventi orfani alle sue spalle, affrancando ferite e fattacci inconfessabili dai marchi complementari del fato e del caso. La memoria, cambiando il senso del passato, fa sì che io possa “fondarmi a cose fatte, retroattivamente” (TI, 54). Il mio tragitto mortale altera la necessità logica, perché introduce il modo là dove non ci sono modi; il mio fare passi altera l’essere, rendendolo distante da sé stesso, a cominciare dall’unicità della mia senzienza, che “polverizza” l’essere parmenideo in divenire (TI, 58). L’irriducibilità del mentale, campo di battaglia di tante dottrine antideterministiche, sta nel fatto che dello psichismo non si dà contabilità o quantificazione o generalità; i resoconti in terza persona lo mummificano per servire agli scopi pratici della vita. La speranza, così come il perdono, tende alla riparazione dell’irreparabile, e vuole l’impossibile, perché nel tempo storico-economico non c’è salvezza. Il messianico non dà salario, né ricompensa. Distinto dalla sequenzialità del godimento, nella quale l’avvenire è sempre l’ennesima esperienza che tiene legato l’io a sé stesso, il tempo interiore è animato da una tensione messianica, che fa dell’avvenire una “resurrezione del presente” (EE, 84). Il tempo, al di sotto della serialità, è la risposta alla speranza: l’io, lacerato, sofferente, deluso, muore nell’intervallo vuoto per rinascere nell’istante seguente. Nell’analitica esistenziale ripensata da Levinas, la Cura di Heidegger è affiancata dalla speranza, fatto originario, a partire dal quale si può comprendere il tempo. Il dinamismo profondo del tempo è quello in cui l’io non è un’identità perseverante attraverso gli istanti, che ritenta la fortuna dopo qualche affare naufragato, ma è la speranza stessa, in cui l’io si libera dalla noia e si sbarazza della propria ombra. “Proprio nel momento in cui tutto è perduto, tutto è possibile” (EE, 84). La salvezza dall’essere viene dal tempo della speranza, che non è il processo dell’Aufhebung dialettica, non è un’estasi della temporalità, e nemmeno la durata reale bergsoniana – tre cornici teoriche in cui l’ego non è più

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in primo piano, ma in cui sfolgora, per così dire, l’assenza della singolarità altrui. Levinas decentra l’ego in tutt’altro senso, procedendo dalla prima persona del cogito a una terza persona inoggettivabile e assoluta, dall’io all’egli dell’altro, due che permangono separati senza rifluire nella reciprocità del noi. L’egli scava una distanza incolmabile, segnala un’altezza, una maestà aspra, che espunge aloni di ammaestramento bonario o di sentimentalismo morale dalla presenza del prossimo. Levinas non avrebbe potuto usare il tu: gli premeva anche ribadire la differenza della polarità “Io-Altri” dalla relazione “Io-Tu” di Buber, criticata per la sua reversibilità e per uno “spiritualismo angelico” (NP, 37). Si può, allora, sperimentare la fecondità del nuovo istante, a condizione che il transito al tempo risorgente non sia procurato dall’energia del solus ipse; altrimenti, si scimmiotterebbe la trovata del barone di Münchhausen che, tirandosi il codino, estrasse dal pantano sé stesso e il cavallo stretto fra le gambe. Il transito è propiziato da un “ailleurs”, da un “altrove”. L’alterità dell’istante della salvezza non viene da me, ma da altri. Si deve, pertanto, concludere che il tempo è nella sua essenza la socialità. Non posso ricavare dal mio accumulo di istanti il nuovo che mi fa ricominciare, disfacendo il passato, giacché la terra della mia zolla è sempre la stessa. Se il tempo è interumano, allora è esterno al mio presente monadico, ed è rapporto con altri, nel discorso più che nella percezione, nella parola che mi strappa al segreto di Gige, prendendomi “per i capelli” (Ezechiele 8, 3). Occorre, parallelamente, far emergere una concezione della socialità fuori dalla logica della ricompensa, serbandone la distinzione da ogni pluralità, determinata dalla partecipazione a uno o a più attributi comuni. Perfino l’essere con altri, il Miteinandersein introdotto da Heidegger in Essere e tempo, sarebbe compromesso con questa fuorviante “collettività di compagni” (EE, 86). Le mutevoli note caratteristiche dei concetti segnano la nostra appartenenza a gruppi di

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Figura 9 – L’epica tirata di codino

cose, a generi e specie; concetti che esprimono lo stare sotto uno stesso tetto, il cibarsi di uno stesso pasto, il ritrovarsi in una stessa storia… Levinas è sulle tracce di una socialità più originaria, che non esita a drammatizzare come “il temibile faccia a faccia di una relazione senza intermediari, priva di mediazione” (EE, 87). Nelle sembianze di eventi con carica rivoluzionaria pressoché nulla, gli incontri con un volto per strada, in un corridoio, in una stanza, incarnano la socialità antecedente la sociologia.

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Se l’altro ha il senso che gli spetta, questo non è l’alter ego, lo schema dell’intersoggettività raffinatamente analizzato nella quinta delle Meditazioni cartesiane di Husserl. “Alter ego”, infatti, è l’insegna di un’egologia di esportazione, catapultata sull’altra persona, così da trovarvi solo ciò che vi sia stato introdotto; operazione fuori bersaglio, come lo sarebbe l’espressione “alter tu”, che io dovessi riferire a me stesso. L’alter ego è alla base di quella logica della reciprocità, che la civiltà giuridica ha avuto il merito di salvaguardare, ma il limite di destoricizzare, perdendo di vista una più profonda asimmetria della relazione intersoggettiva, in virtù della quale leggi e contratti sinallagmatici sono sì validi, ma indeboliti nella loro rigidità astratta, come nel diritto privato formale criticato da Hegel. La ragionevolezza delle transazioni socio-economiche inciampa proprio nel suo inevitabile punto cieco: la rimozione di altri, un perturbante sempre nei nostri pressi, che sembra imporre un vincolo prescrittivo non stipulato in base a regole, ancora più antico delle leggi non scritte, e condizione di validità delle usuali obbligazioni normative. Agli inizi degli anni Cinquanta Levinas formulerà il vincolo in forma di comando o comandamento, che viene dall’altro uomo, dal suo volto: “Vedere un volto è già intendere: ‘Tu non ucciderai’” (DL, 23). È questa “l’obbligazione prima di ogni obbligazione” (RB, 49), in quanto contratta senza contratto. Notevole che qui venga percorsa sùbito la via della figurazione biblica. L’altro è il povero, la vedova e l’orfano, figure indifese, colte in una loro miseria materiale, e poste sotto la protezione divina (Esodo 22, 21). È vero, l’altro che nominiamo per primo è l’amico, il genitore, il parente che detestiamo, il collega a cui ci stimiamo superiori; ma l’alterità si enfatizza nell’estraneità. L’altro è l’affamato, l’esposto al freddo e al caldo delle stagioni, lo sradicato, il debole, l’apolide, lo sfruttato, il proletario, il senza difesa, il privo di tutto, il primo venuto, oppure ancora l’ammalato, il vecchio, il capro espiatorio, il palestinese per l’ebreo, l’ebreo per il palestinese. In ogni caso, egli è ciò che io non sono: un non

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che non si spiega né con la separatezza corporea nello spazio, né con la negazione determinativa e il genere dell’éteron nel Sofista di Platone. Il portatore dell’alterità mi è esteriore in un senso più originario dell’esternità reciproca dei corpi nelle dimensioni euclidee o non-euclidee dello spazio; le operazioni della negazione logica, classica o dialettica, e dell’analogia non sono fatte per accoglierne la dignità. L’esternità spaziale attesta la separatezza fisica di due individui, che sono però accomunati per tutti gli aspetti fondamentali: a è staccato da b, ma sono aristotelicamente due istanze di una stessa specie ultima. Non così per l’esteriorità sociale, che è intersoggettività qualitativa, quella che consente l’esercizio della responsabilità, della giustizia, dell’amore, della “santità”, nonché dei loro contrari – termini appartenenti all’ordine etico del discorso. Nella dualità a distanza del faccia a faccia lo scacco salutare della comunicazione apre alle fasi, dure e onerose, del confronto con chi mi è prossimo. L’interruzione della conoscenza non prelude qui a un elogio dell’oscurantismo, ma realizza un guadagno, perché è garanzia di rispetto. Gli aculei dell’altro non cessano di tormentare, spesso in modi esclusivi e irripetibili, senza però costringerci a passare ogni volta in rassegna – sulla scorta dell’apologo dei porcospini – le innumerevoli tare che renderebbero odiosa per natura la specie umana. 4.4. Solipsismo di massa La parola che cerchi è solipsismo. Ti sbagli, però, questo non è solipsismo. È solipsismo collettivo, se vuoi. In realtà è tutta un’altra cosa, è esattamente l’opposto. (G. Orwell, 1984)

Levinas tiene le conferenze su Le Temps et l’Autre al Collège Philosophique fra il ’47 e il ’48, nella prima annualità delle attività culturali dirette da Jean Wahl. Il pubblico

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è numeroso, anche se non si segnalano assalti ai botteghini per i biglietti, né donne svenute per il caldo come al Club Maintenant il 29 ottobre del ’45, in occasione del discorso di Sartre “L’Existentialisme est un humanisme”. Il tracciato del contributo levinasiano si definisce – pur nei prestiti e nei debiti riconosciuti – soprattutto per la presa di distanza dalle altre filosofie: dagli esistenzialisti, dai marxisti, da Bergson, da Husserl, da Heidegger, da tutta la cultura franco-tedesca di rilevanza nella prima metà del Novecento. Complice anche l’atmosfera sperimentale del Collège, magnetizzata dall’attesa visionaria di scenari senza precedenti all’indomani della Liberazione, le remore del rigore tecnico mordono meno la coscienza, tanto più che Emmanuel è un giovane pensatore indipendente, che non ha ancora sperimentato, né sperimenterà poi da professore universitario, alcun defalco d’intelligenza indotto da conformismi accademici. Jean Wahl, il ribelle che rifiutò di portare la stella gialla, continuando a studiare Heidegger nella Parigi occupata, promuoveva voci fresche e temerarie, risuonanti non lontano dalla Sorbona. Qui abiti da sartoria, lì ancora orditi in attesa di trama. Tuttavia, il progetto principale di Il tempo e l’altro starà a cuore a Levinas anche dopo la pubblicazione delle opere maggiori, tanto da accettarne la riedizione in volume autonomo nel ’79, accompagnato da una prefazione, che interpola un vocabolario più avanzato nei “cenni preparatori” delle pagine giovanili. Leggiamo, così, che il tempo è introdotto nel suo significato di diacronia irreversibile, che non si esaurisce nell’attestare la condizione finita dell’uomo, né si traduce in strutture ontologiche, perché è un “modo dell’al di là dell’essere”. Esso fonda la socialità a due, una relazione anomala con “il Tutt’Altro”, con “l’Infinito” (TA, 9). Levinas intravede nel tempo una possibilità di significazione, promettente ben al di là dell’eternità, che ha attratto gli ingegni filosofici in varie epoche e latitudini. L’eternità è demistificata nei termini di una idealizzazione intellettualistica dell’istante, immobilizzato attraverso l’immaginazione in

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una fotografia, che si pretende atemporale, o composto con altri istanti simili in una durata senza fine: piccolo, freddo gioiello d’astrazione, proprietà di nessun vivo. Nel tempo sociale della dualità lo psichismo esperisce l’attesa di un incomprensibile, che non consente mai una sincronizzazione con le aspettative, impedendo la simultaneità del godimento. L’aspirazione si alimenta proprio della sfasatura costante, non accidentale, della diacronia. Il tempo è, allora, non un’immagine mobile e degradata dell’eternità, non un permanente deficit di sostanza, come in Platone, ma una pazienza originale, priva dell’intenzionalità orientata all’oggetto, e distinta dalla condizione mistico-estatica, in cui ogni separatezza viene meno. Il tempo è sempre concreto, fisico e spirituale, carnalità vissuta, sintesi passiva dell’invecchiamento (AE, 66). Già la prefazione del ’47 a Dall’esistenza all’esistente innestava la comprensione dei temi eccelsi del bene, del tempo e degli altri nella ripresa della tesi platonica, secondo cui il bene è al di là dell’essere. Tale recupero della tradizione platonica e neoplatonica, mantenuto dapprima nel suo aspetto più generale e formale, sarà il filo rosso di tutte le ricerche a venire. Levinas disgiunge la solitudine dalla relazione con l’altro, perché vuole che la prima si mostri in tutto il suo peso teorico ed esistenziale, senza che sia vista come privazione di un preliminare e, in quanto tale, acquisito, rapporto con un diverso sé. Il che dovrebbe rimarcare un ulteriore stacco da Heidegger, il quale aveva posto la relazione con altri fra le strutture portanti dell’Esserci; Essere e tempo contrapponeva, infatti, la vita quotidiana impersonale alle solitarie possibilità di ripresa d’autenticità in mano al singolo. L’ennesimo tentativo di eludere la robustezza descrittiva dell’analitica esistenziale consiste nell’eccettuare la relazione con altri da tutti gli esistenziali e i caratteri ontologici dell’Esserci, riscattando la moralità dalla sua interpretazione esistentiva. Nel § 26 di Essere e tempo altri era il Mitdasein, l’Esserci che è con gli altri. L’altro è un altro Esserci, nel senso della distinzione ontologica rispetto agli utilizzabili intramondani: “Gli altri

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sono […] quelli dai quali per lo più non ci si distingue e fra i quali, quindi, si è anche” (Heidegger 2015, 149). Il “ci” dell’Esserci è un luogo popolato da altri, nel quale però ci si confonde presto nell’anonimato del Si, decadendo nella chiacchiera, nella curiosità e nell’equivoco della mediocrità quotidiana. Levinas diffida del mit, di masse e partiti, in cui la disciplina si sostituisce all’autonomia del giudizio e le facce si fissano a una meta oltre di esse. L’essere-con-altri, intersoggettività neutra subordinata all’ontologia (TI, 66, 88), non è per lui in grado di scongiurare l’inflazione del volto nella serialità degli schieramenti o negli artificiati rendez-vous, in cui ciascuno, antropofago virtuale, si ciba delle immagini sovrapposte all’interlocutore. Già nell’abbinamento standardizzato la dirittura del faccia a faccia si perde in un’ambiguità straniante, come nelle coppie sinistre di Kafka – fra le tante, Artur e Jeremias, i due aiutanti, “molto simili anche nel viso”, che affiancano l’agrimensore del Castello. Ma è nella società facciale digitale, e nelle sue immense banche dati, che i lineamenti indicizzati dagli algoritmi sembrano aver annichilito l’unicità del volto. Con una punta d’amara ironia, Levinas dirà in un’intervista che l’essere-con-altri è “forse zusammenmarschieren”, marciare insieme (EN, 151).

Figura 10 – Saluto hitleriano ai cantieri Blohm und Voss di Amburgo

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Il volto ha sì un’apparenza sensibile, perché è espressione, ma “fa a pezzi il sensibile” (TI, 203), perché la sua significatività sta al di sotto o al di sopra della specifica fisionomia toccataci in sorte, al di sotto o al di sopra della sovrastruttura imposta da titoli, ruoli, proprietà comuni; è la significatività stessa, unica pur nella ripetitività, che ricolma i nomi propri, sempre salienti fra sostantivi e luoghi comuni. Il volto e il suo nome proprio incarnano la più vigorosa delle opposizioni alla domanda della quantità, che compare una sola volta fatidica in Se questo è un uomo di Primo Levi: “Wieviel Stück?”, “quanti pezzi”? Emmanuel non teme di usare un termine compromettente, “mystère”, per accennare a una realtà che non si esaurisce nella momentanea assenza di una definitezza, che ulteriori conoscenze procureranno a tempo debito. La rottura col positivismo non ha bisogno di essere enunciata. Egli prende, invece, esplicita distanza da due eccellenti paradigmi razionalistici: l’ontologia eleatica e la dialettica hegeliana, fino al punto di evocare la monadologia di Leibniz a difesa del suo pluralismo. Un pluralismo etico, il cui pilastro non è la molteplicità numerica delle sostanze individuali, ma l’esistere di due, esemplificato nella relazione d’amore e nella paternità/filialità. Non si dimentichi che l’interiorità dell’io è incomunicabile; l’io vede tutti e tutto, senza essere a sua volta visto, chiuso nel segreto intransitivo del suo psichismo. La radice della solitudine esistenziale non è dovuta al fatto che ci siano contenuti di coscienza incomunicabili: piuttosto, l’incomunicabilità intrinseca dei vissuti manca di localizzare la vera questione, che è l’intransitività esistenziale della singola monade, ovvero l’“unità indissolubile fra l’esistente e l’atto del suo esistere” (TA, 27). La solitudine dell’ipòstasi non è empirica, non è l’abbandono sperimentato da Laika, lanciata nello spazio sullo Sputnik, e non può essere eliminata mediante la fusione estatica che, stando alle descrizioni di Lévy-Bruhl della mentalità primitiva, sarebbe testimoniata dai riti magico-sacrali di partecipazione, in cui l’ipseità dei singoli si dissolve.

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Figura 11 – L’ipòstasi è più sola di Laika

Per capire l’inusuale modo in cui Levinas imposta il problema del solipsismo, occorre mettere da parte il tradizionale vocabolario epistemologico e tradurlo in termini esistenziali ed etici; per ora, basti dire che “sociale” significa molto più che l’aggregazione fisica di individui: non è rappresentazione collettiva, non è massa che fa numero. È in incubazione uno stravolgimento semantico dell’aggettivo. Le ipòstasi sono monadi senza porte e senza finestre, perché fanno corpo unico col loro atto di esistere; consociate ma sole, partono da sé stesse e tornano a sé stesse. Punto che viene ribadito nel saggio “Parola e silenzio”: “La solitudine non è la privazione di una collettività di simili – ma il ritorno fatale dell’io a sé. Essere solo è essere la propria identità” (PS, 87). Sarebbe sufficiente ammettere tale identità, in cui io sono “monade e solitudine”, per blindare l’eleatismo rispetto a ogni parricidio fondato su ragioni gnoseologiche e logico-linguistiche. La solitudine è, insieme, metafisica e carnale. È la materializzazione del soggetto nella sua identità corporea, segregata

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non dalle colonne d’Ercole dei propri vissuti, ma dal poter e dover godere da solo dei beni, dei nutrimenti. Il solipsismo è l’atto del mangiare da soli. Nessuna svalutazione pitagorica del sóma-séma, bensì constatazione del fatto che il godimento mi isola e che sono l’unico ad avere questi occhi, mani, stomaco, questi bisogni ognora risorgenti. Il realista più estremo intorno all’esistenza delle altre menti può, quindi, professare il più stringente solipsismo etico: basta la posizione dell’io, corpo prima che cogito, che lavora e addenta i frutti della vita; basta avere due piedi per terra come Anteo, il gigante mitologico, invincibile solo finché aderisce al suolo (PS, 167). Qualunque cosa accada, la materia resta lì: col mio corpo faccio sempre i conti. È la “place au soleil”, il posto al sole, nel quale Pascal additava l’inizio e l’immagine dell’usurpazione di tutta la terra, e che in più luoghi dell’opera levinasiana coincide con la vitalità naturale dell’organismo, che continuamente irraggia effetti e sparge rifiuti nel suo spazio vitale, fino a giudicare tesori le catene a cui è avvinto. 4.5. Pagano godere Colui che osserva il proprio pensiero è fatalmente condannato all’anello. (P. Valéry, Quaderni, Vol. I)

Abbiamo visto nei primi scritti di Levinas un interesse a riabilitare la vita quotidiana dalla caduta nelle forme inautentiche della chiacchiera, della curiosità e dell’equivoco, a cui l’aveva destinata Heidegger. L’ordinario, con tutte le sue grandezze e miserie, non diversamente dall’autentico, muove dalla tragedia dell’incatenamento materiale a sé e, in tal senso, è vettore di un significato soteriologico. La vita umana è sempre una preoccupazione di salvezza.

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Il tempo e l’altro prospetta, in particolare, l’antinomia di due punti di vista morali, che si accusano a vicenda di cadere nell’inautenticità, e che chiameremo per comodità “umanesimo socialista” e “umanesimo esistenzialista”. Per il primo, i filosofi della solitudine sono mercanti di disperazione, mistificatori che si compiacciono delle proprie “angosce pascaliane, kierkegaardiane, nietzschiane e heideggeriane” (TA, 47), ma vivono poi come borghesi qualunque, scrivendo sulla tragedia del vivere senza rendersi conto di farlo sempre per qualcuno. Per converso, agli occhi raffinati del secondo la morale sociale appare volgarmente ottimistica, priva di elevazione di pensiero e persa nel volgare. Gli uni vogliono il pane, gli altri il senso della vita; insieme sono Esaù e Giacobbe: l’uno vende all’altro i suoi diritti di primogenitura per un piatto di lenticchie. L’antinomia apre un punto di fuga oltre la dialettica sterile delle due tesi. L’ipòstasi, proprio nella misura in cui è immersa nel tempo economico del godimento, è già immediatamente assorbita da una lotta per la salvezza; la sua sincerità nell’appropriarsi dei beni del mondo è palmare. Finirebbero in un vicolo cieco, da un lato, il filosofo che vagheggia il tempo come “estasi”, ma si orienta poi in città con l’orologio da polso; dall’altro, i corifei della missione storica del proletariato, che vedono nel pane la serietà dell’umano, stigmatizzando nelle astrazioni della sovrastruttura il lusso degli sfruttatori. Non è vero che mangiamo per vivere, e vivere autenticamente, ma non è neppur vero che viviamo per mangiare, e mangiare come gli altri animali. E dunque? A chi resta invischiato nell’antinomia sfugge la solitudine materiale dell’ipòstasi, che ha il compito abnorme di superare il peso dell’esistere, sciogliendo il legame fra l’io e il sé. Compito che, se interpretiamo bene queste pagine (TA, 46 ss.), sarebbe sfuggito tanto a Marx quanto a Sartre. Se guardiamo più da vicino lo snodarsi della nostra vita quotidiana, scopriamo che il mondo in cui viviamo, prima che un sistema di utensìli, è un insieme di alimenti.

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Il mondo che si offre alla visione è nutrimento. […] Stato di gratuità totale, il godimento, contrariamente all’utilizzazione di strumenti, non rinvia a nient’altro, non è “in vista di qualcosa”. Godere è respirare, bere, mangiare, andare al museo, passeggiare, ecc. (PS, 144)

Sembra di leggere Feuerbach – l’alimentazione è il principio della sapienza –, ma è verosimilmente la Fenomenologia dello spirito di Hegel, filtrata dalla lezioni di Kojève, una delle fonti dell’analisi della jouissance. Nel godimento io assorbo le cose, ma di volta in volta mantenendo la distanza: mi cibo restando staccato da ciò che consumo. Nello spazio di un sapere finalizzato al godimento, e nel godimento in atto, il soggetto accede agli alimenti del mondo, più originari degli utensìli. L’alimento – aria, cibo, profumo, sapore… – si frappone fra l’io e il sé, interrompendo l’identificazione. La “prima morale” (TA, 53) è proprio quella degli alimenti, che mi permettono di uscire da me stesso in direzione degli oggetti che mi servono per sopravvivere, di obliarmi in una prima postura di abnegazione, in quell’embrione di salvezza effimera che è la giovinezza dedita ai piaceri terrestri. La visione che si appropria delle cose è la stessa intelligenza solipsistica, che costituisce il mondo con i poteri della sua azione trasformatrice; il soggetto vive così una vita di passione e lavoro, pago del suo più o meno ampio radar d’intervento, gustando le cose con i paraocchi dell’atteggiamento naturale, sincero nel suo esser privo di retro-pensieri, neanche sfiorato dal sospetto che il mondo possa presentare un rovescio, che il finito possa interrogarsi sull’infinito. La norma della natura è il godere immanente, autosufficiente, mirato alle cose – in una parola, “pagano”. Arriviamo, così, a concludere che il solipsismo non è la follia inconfutabile di cui parla Schopenhauer, ma la struttura stessa della razionalità. Per capirlo, dobbiamo abbandonare la tradizionale formulazione epistemologica del problema: Levinas aggira, infatti, la barriera della soggettività incomunicabile delle sensazioni, sostituendovi l’universalità

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di una ragione che, nella misura in cui ingloba ogni cosa nella sua volontà di intelligibilità, parla solo a sé stessa. Qualsiasi interlocutore verrebbe riconosciuto e ammesso nel suo spazio, solo ottemperando a criteri e condizioni. Non ci sarebbe un esterno alla ragione, e questo è appunto solipsismo. La luce della ragione “ci rende padroni del mondo esterno, ma è incapace di mostrarci in esso un nostro simile” (TA, 56). Anche se gli altri sono inclusi nel catalogo ontologico come corpi fisici o persone, automi o composti di anima e corpo, vi sarebbe una collettività ancora solipsistica. La ragione è di tanti, di tutti, ma solitaria nell’intimo. Ogni cosa può essere presa e goduta come alimento, di ogni cosa si può avere intelligibilità, comprensione, categorizzazione – ecco la condanna del solipsismo. Da ciò seguirebbe – conseguenza paradossale – la vanità degli sforzi di Husserl nelle Meditazioni cartesiane di aprire uno spazio alla costituzione trascendentale dell’alter ego; un successo lungo questa linea sarebbe la conferma stessa della chiusura solipsistica. Il godimento, che pareva assicurare momenti di amnesia di sé nel contatto con l’alimento o con l’utensìle da lavoro, in realtà mostra sotto una luce impietosa la natura oggettivata e assimilata della cosa da consumare o usare. Il cibo è l’ennesimo cibo, è prodotto da me, e così gli strumenti del lavoro; questo perché il godimento è sensazione e conoscenza, in tutti i gradi del sapere articolati da Aristotele: aísthesis, mnéme, téchne, epistéme. L’ipòstasi è sola, sola è la sua ragione. C’è qualcosa di enormemente più grave del cruccio cartesiano sull’evidenza delle altre menti: il mancato incontro con un’alterità indigeribile dalla ragione. 4.6. Non poter potere Alla ricerca di una trascendenza esterna al sistema delle rappresentazioni e delle conoscenze, Levinas insiste sulla vita materiale. La proposizione “chi non lavora, non mangia”

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diventa per lui analitica (TA, 59). Bisogna muoversi attraverso spazi inospitali e perigliosi: costruire, legare, spaccare, strappare il respiro ad altri viventi. Fabbricando robotica domestica e militare, vorremmo ridurre le distanze fino a sopprimerle – non più un tempo per ogni cosa, ma tutto in un solo tempo. La vita prosegue crudele e tiranna, e nessuno può dirsi emancipato dal suo peso, che è nello sforzo del lavoro e nella pena che ne viene. Nella sofferenza fisica esperisco l’incatenamento a me stesso e l’irrevocabilità dell’essere, senza possibilità di una ritirata, di un rifugio. Non solo si può qui finir vittime di tutte le varietà fantasiose del dolore, ma si annuncia anche qualcos’altro: nel dolore siamo al contempo oltre di esso, in prossimità dell’ignoto della morte. Anche in Il tempo e l’altro, come nei Quaderni di prigionia e in Dall’esistenza all’esistente, ritorna martellante la morte che il singolo individuo – ipòstasi, psichismo, monade – affronta. Di tale morte individuale sappiamo solo che non sappiamo nulla, nemmeno ciò che ne vorrebbe dire Heidegger con la lucidità estrema del suo Sein zum Tode (Essere e tempo, §§ 49-53). L’adagio epicureo, truccato da truismo – quando ci siamo noi, la morte non c’è e quando essa sopravviene, noi non siamo più –, manca di intercettare il proprio della morte, che è la sua inafferrabilità. Assai più tardi, nell’ultimo anno di insegnamento alla Sorbona, quando l’unica seria questione sarà diventata la mortalità nel volto altrui, Levinas terrà fermo il punto dell’inconoscibilità. La morte è dipartita, decesso, negatività la cui destinazione è sconosciuta. Ma allora non si deve forse pensare la morte come questione di una tale indeterminatezza da non poter dire ch’essa si pone come problema a partire dai suoi dati? Morte come dipartita senza ritorno, questione senza dati, puro punto interrogativo. (DMT, 55-56)

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Se speranze e progetti non offrono più possibilità, volge al tramonto l’eroismo faustiano dell’ipòstasi; il suo attivismo si inverte in passività, in un’attesa senza atteso. Nella morte che arriva, che è sempre a venire, si ridiventa infantili e si abbandona la presa delle cose, così da ritrovare nel pianto l’irresponsabilità del bambino. Anche se non ne siamo consapevoli, non possiamo far nostra la morte e annientarci, perché il nulla è impossibile. Di tale impasse sarebbe magistrale e “lunga testimonianza” l’Amleto di Shakespeare (TA, 67). Levinas riparte da Parmenide non per dedurre dalla tautologia “l’essere è” l’illusione nichilistica della morte, ma per mutare di segno il morire, che cessa di appartenere all’estrema frontiera della vita e della realtà, assumendo un senso da cima a fondo non-metafisico. La morte non comunica più il nulla impossibile – non potrebbe farlo, se non autosopprimendosi per contraddizione; piuttosto, significa nella modalità di una “eterna imminenza” (TA, 66). Se non è più il limite ontologico per eccellenza, essa diventa il limite dell’autonomia, dell’attivismo psicologico e politico dell’individuo, che si sublimava in Essere e tempo come potere di assunzione, per l’Esserci, delle sue più autentiche possibilità. Quando le promesse della vita activa si infrangono, nel momento in cui si regredisce al grido e al singhiozzo, la morte ci restituisce l’immagine di un’impotenza non accidentale, nella quale viene meno lo stesso potere di potere. Si tratta, ora, di sostenere che la morte conduce alla confutazione etica del solipsismo. La mia sovranità di solitario architetto della vita era ingiusta, un vicolo cieco, perché la morte mi mostra che l’esistenza è pluralistica; il che non era ancora un dato accessibile alle nostre acquisizioni cognitive e pratiche del mondo, nel quale notavamo solo molteplicità di esistenti. Per Levinas il plurale non è in prima istanza numerico; vi è, anzi, pluralità numerica nell’umano solo se il solipsismo è falso. È nell’eclisse della progettualità e della conquista concettuale dell’universo, che si fa avanti ciò che può davvero spezzare il sempre uguale del godimento appropriativo.

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Abbiamo classificato tutto: il reale, il possibile, l’impossibile; l’altro è, invece, l’inclassificabile tout court, l’incompatibile. Qui, nel tendere all’estremo il linguaggio, si urta contro qualcosa, come dice Wittgenstein, chiamando Agostino a testimone del rischio filosofico: “Lo sapeva già sant’Agostino quando diceva: Come, canaglia, non vuoi dire assurdità? Dille pure, tanto non importa”. Il mistero dell’altro non appare sempre, e non a tutti: […] solo un essere che è arrivato alla contrazione spasmodica della sua solitudine attraverso la sofferenza e alla relazione con la morte, si pone su un terreno in cui la relazione con l’altro diventa possibile. (TA, 69)

Levinas introduce l’avvenire come la soglia, oltre la quale comincia ciò che è inanticipabile o inappropriabile: il soggetto si scontra con l’impossibilità di potere, riconoscendo di dover rinunciare ai noti strumenti di intervento sulla realtà. Solo oltre la soglia vi sarebbe ospitalità per una sorpresa, che non si lascia enumerare sotto il sole, come tutto il resto. L’avvenire e l’altro, dunque, sono accostati, anzi identificati (TA, 70), per il fatto di opporre un veto insuperabile alle nostre velleità cognitive. Ma anche la morte è l’altro; più precisamente – sono le tesi delle ultime opere – la morte che conta non è la mia, anacoretica e al limite eroica, ma la morte dell’altro. L’avvenire, l’altro e la sua morte sono gli eventi di rottura che, soli, possono liberare la mia coscienza dalla fierezza solitaria. Pur a fatica, Il tempo e l’altro individua il valore di trascendenza di un tempo anti-economico e di una diacronia della passività, in cui non può esserci simultaneità e corrispondenza fra gli atti conoscitivi del soggetto e la realtà dell’altra persona; diacronia che è, invece, apertura a un diverso, che non si lascia precorrere nemmeno dalle onnipresenti protensioni o anticipazioni della percezione ordinaria. Questi primi risultati – preludi agli sviluppi più teorici di Totalità e infinito, Altrimenti che essere e Dio, la morte e

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il tempo – conferiscono una fisionomia concreta all’utopia dell’evasione abbozzata nel ’35, tracciando i punti di fuga di una triplice disalienazione: dall’essere neutrale, fissato e sacralizzato nel naturalismo, nel realismo metafisico e in tutte le reincarnazioni del panteismo; dai riduzionismi della conoscenza assimilativa, che celebra i suoi successi estendendo a qualunque tema i suoi paradigmi di intelligibilità; e, infine, dalle tentazioni del nichilismo e dagli esiti più estremi della degradazione umana dell’umano. 4.7. Volto e risveglio Il reduce Emmanuel, poco più che quarantenne, sembra tornare anche da una circumnavigazione del continente della filosofia, da un bilancio di essa, incompleto come ogni bilancio di secoli di pensiero, ma diventato una sorta di decreto d’urgenza indifferibile. Nuove esperienze reclamano nuove categorie, per le quali mancano metronomi e bussole. Il reduce ha incontrato il volto dell’altro uomo, e in questo incontro scorge l’evento decisivo, che supera la solitudine, permettendo al soggetto di non perdere dignità di fronte allo scacco della morte. Il faccia a faccia con altri è alla radice del tempo non-economico: altri fa sì che il presente possa sconfinare nell’avvenire e che la morte sia, in questa misura, vinta. Il mistero dell’incontro con l’altro non frappone un freno contingente al dispiegarsi del nostro parlare, pensare, fare: sovverte, piuttosto, l’umano al di là della volontà di conquista conoscitiva. Felice il nesso che Levinas stabilisce fra il tempo e l’altro uomo. Il vero tempo fenomenologico non è l’“immagine mobile dell’eternità” (Timeo, 37d), non la creatività dello slancio vitale bergsoniano, non la corrente interna dei vissuti trascendentalmente purificati di Husserl, non il tempo che presuppone la dialettica essere-nulla: il tempo vissuto da soli è esperienza privata senza spessore, che il fenomenologo tenta di trasdurre in un linguaggio adeguato, senza però riuscire

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a evitare che gli strumenti descrittivi usati, e i contenuti stessi delle descrizioni, appaiano contagiati dalle esperienze altrui. La solitudine è vuoto di questo tempo così carnale, concreto e liberante. Tempo che è una “nouvelle naissance”, perché in esso non ci sono decreti definitivi; tutto è revocabile. Distinta dalla nascita esistenziale dell’ipòstasi, la seconda nascita non ha nulla a che vedere con il rilancio intensificato dei propri talenti sulla scala dell’affermazione sociale, ma è il modo stesso di esistenza del soggetto: potere di rottura, rifiuto dei principi neutri e impersonali, rifiuto della totalità hegeliana e della politica, rifiuto dei ritmi incantatori dell’arte. (DL, 363)

Il tempo è liberante, perché è il tempo altrui. Altri è nel tempo e “mi sradica dalla mia ipostasi” (EN, 119). Sui miei poteri soggettivi si è allungata l’ombra di un’eteronomia, che resterà il punto fisso di Levinas. Ubiquo e inossidabile il tema della seconda nascita, malgrado gli scetticismi disseminati nella storia delle idee. La nouvelle naissance è a suo modo iniziatica, ancorché priva di ancoraggi in dogmi codificati; è un esercizio di immaginazione antropoietica, programmaticamente demitologizzata, intesa a provocare chi giudichi danneggiato dal discredito tutto ciò che è umano. Ma è proprio qui che si saggia la tenuta di un umanesimo dell’altro uomo, che non è solo una sfida al pensare più profonda della gigantomachia intorno all’essere e al nulla, ma un compito improcrastinabile per gli istanti imminenti, per “il poco di crudeltà che le nostre mani ripudieranno” (AE, 229). Essere e nulla sono falsi problemi, se isolati in una logica cieca ai suoi presupposti intersoggettivi, perché la vocazione della filosofia sopravvissuta è diventata quella di difendere la relazione con l’alterità umana dalle teorie, anche da quelle più rispettose delle differenze. Gli esempi della psicoanalisi e della sociologia fanno al caso: le due discipline trattano la realtà psichica, individuale e collettiva, in ottica diagnostico-

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clinica, e non si fermano mai alle intenzioni esplicite dei report in prima persona degli interessati. Esse spiano gli interlocutori. Le parole sono sintomi o sovrastrutture: le grida e i gesti del risveglio fanno parte dell’incubo che dovevano interrompere. (DL, 256).

Il rilievo si indirizzerebbe parimenti a tutte le teorie, ad esempio marxismo e strutturalismo, che demistificano come illusorie le parole dell’individuo, in massimo grado quelle di timbro morale, per ricondurle alle sole cause – formali, meccaniche, economiche, sub- o sovrapersonali – in grado di illuminarne i recessi. La relazione personale viene metodicamente risospinta nelle astrazioni delle inclusioni insiemistiche, e alle innumerevoli scoperte scientifiche, alle quali si fa proclamare di aver risolto l’intrigo umano, esibendone l’intima natura fisico-chimico-biologica sotto le coperture narrative della cultura. A una tale deriva Levinas ha un altrimenti da opporre: distruggere l’incantesimo della fine del linguaggio e cominciare a dire, qui e ora, senza che il parlare debba trasfondere pensieri preesistenti in catene fonematiche o grafematiche; senza che la voce – crittogramma da decodificare – sia doppiata da un ventriloquio, che alluda a sistemi di rimandi segreti e ignoti. Sul piano delle azioni e dei comportamenti morali, gli unici a fornire la misura all’oggettività e all’universalità dei saperi, non si recitano copioni “all’insaputa” (TI, 77). La seconda nascita è il traumatismo del risveglio, in virtù del quale la selvaggia vitalità della vita viene denunciata e denudata, con la razionalità che le è connaturata. Ragione pagana, sobria e lucida, ma che dorme in piedi, incapace di realizzare la propria ingiustizia. Il volto, a cui devo questa disubriacatura, fa sì che l’insonnia dinanzi all’orrore dell’essere puro si trasformi in una veglia disinteressata e responsabile, perché lo psichismo centripeto del mio godimento è obbligato, da sempre, a rispondere all’altro da sé.

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4.8. Défaillance délicieuse Oh vuote Mani che hanno creduto Più le nude carezze che altro dio… (G. Ceronetti, Sono fragile, sparo poesia)

La filosofia maschile sul femminile prima del femminismo, robusta e monocromatica, si è nutrita di un’ingenuità di fondo perduta per sempre, espressa così da Simone de Beauvoir in Il secondo sesso, pubblicato a Parigi nel ’49: “A un uomo non verrebbe mai in mente di scrivere un libro sulla singolare posizione che i maschi hanno nell’umanità”. L’identificazione di vir e homo avrebbe impedito la stessa formazione del sintagma “filosofia maschile”. Anche se in Il tempo e l’altro dichiara di non voler ignorare “le pretese legittime del femminismo” (TA, 85), Levinas non ha probabilmente ancora soppesato tutte le insidie derivanti dal fatto che a dire il femminile sia un maschio, con sulle spalle millenni di condizionamenti culturali; gli stessi che avevano condotto Karl Kraus a formulare un quesito, falsamente afferente alla teoria della conoscenza: “C’è una donna nella stanza prima che entri uno che la vede? Esiste la donna in sé?”. Una minaccia aggiuntiva sta nel fatto che la posizione levinasiana del femminile come tema, benché scientemente sottratta ai tópoi letterari più insigni d’Occidente, da Dante a Goethe, spinga nei pressi di una trappola: fraintendere la contingenza storica della marginalizzazione femminile per un’essenza della donna, innescando un cortocircuito interno a una ricerca, che avanza al contrario pretese di rottura rispetto alle correnti di forte tradizione. Tuttavia, se Simone de Beauvoir rubrica implacabilmente Il tempo e l’altro fra i camuffamenti del privilegio androcentrico sotto categorie peraltro discutibili (“l’Altro”), sarà per puntellare molte buone ragioni contro l’oppressione femminile, ma al prezzo di snobbare gli argomenti di quel libro.

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Levinas riserva alla differenza sessuale una portata metafisica, giustapposta al binomio essere-nulla, e non deducibile dalla totalità preesistente di un genere. La sessualità diventa un ulteriore esempio del pluralismo etico, opposto al monismo eleatico. In Parmenide non potrebbe esserci una filosofia dell’eros, a meno di non speculare su un amor intellectualis per il Tutto, nemico delle ossessioni della carne. Anche Heidegger, nella sua tendenza implicita a sussumere la differenza sessuale sotto il genere, non poteva riservare nell’analitica uno spazio adeguato all’eros e alle sue potenzialità di liberazione dal peso del Dasein (EE, 88). Il femminile consente di disinnescare la lotta hegeliana per la vita e per la morte fra le autocoscienze, poiché la differenza sessuale non implica la reciprocità estrinseca dei suoi termini, equiparati a esseri liberi e mossi dall’appetito, né un punto di vista esterno alle autocoscienze, che ne descriva imparzialmente l’evoluzione dialettica – pretesa di esternità non meno fagocitante della lente di ingrandimento degli antropologi sul termitaio umano. Più facile dire cosa il femminile non sia. Non è un artefatto poetico-letterario, la donna angelicata dello stilnovismo o l’eterno femminino di Goethe; non è il partner di una dualità numerica, logica e biologica, di una complementarità reversibile di elementi in un ordine; non è un’altera ego, un’altra autocoscienza, con moventi simili ai miei. Tutti esiti della strategia analogica, che proietta qualità di una psiche nota. Il femminile è l’alterità assoluta, per definizione. In quanto non è oggetto di conoscenza, è chiamato “mistero”; in quanto fugge dallo sguardo che cattura, è chiamato “pudore” (TA, 88). Il pudore, dietro cui i contemporanei denunciano un dispositivo patriarcale di dominio sulle donne, è la chiave di volta del rapporto eccezionale col femminile: l’altra, sottraendosi alla volontà di conoscere e classificare, rifiuta la categorizzazione, l’ingresso in una totalità. La comunicazione naufraga, ma è un naufragio positivo, perché garanzia dell’eros vis-à-vis, “duro come la Morte” (Cantico dei Cantici 8, 6)

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Altri nel tempo è anche il femminile, che esalta l’alterità nella dualità della relazione erotica. Non è possibile alcuna assimilazione, il gioco della proiezione dei giudizi è azzerato sul nascere, e si delinea una dimensione dell’amore senza movimenti di appropriazione. L’eros non appare né lotta fra i sessi, né annullamento dell’identità nell’unione romantica, né epistéme di platonica memoria. Di fatto, non appare nessuno sulla scena: l’altra è ben presente – accanto, indietro, lontano da me –, ma la sua alterità assoluta, empiricamente inosservabile, non è a mia disposizione. Sulla relazione erotica, come su ogni rapporto affettivo, è del tutto legittimo raccogliere informazioni, costruire statistiche, individuare istanze di patologie, ma con la consapevolezza che la quantificazione è violenza utile, che lascia intatto l’essenziale. Posso esaltare fattezze sensibili, localizzare punti metrici in un viso, notare deviazioni da presunte norme estetiche, e tentare un incontro attraverso parole di uso comune, senza tuttavia rimediare allo scacco fondamentale della comunicazione. Se l’eros è una relazione priva della simultaneità dei suoi relata, allora il piacere sessuale non è riassumibile in ciò che il cinismo disilluso o l’aggressività pornografica hanno restituito ripetutamente, fino a creare un finto senso comune sul tema. L’eros esenta dal potere e interrompe l’identificazione dell’io col sé; esattamente al pari della fecondità, che nelle pagine finali di Il tempo e l’altro è analizzata dal punto di vista del padre. L’anello ossessivo è distrutto dalla fecondità: nei confronti del figlio, infatti, non esercito alcuna forma di possesso né di dominio. Io sono in qualche modo mio figlio – il verbo “essere”, non parmenideo né platonico-aristotelico, è qui manifestazione diretta della pluralità delle persone, della loro intrascendibile esteriorità. Il figlio non è un qualsiasi evento che mi accada, che sia mio; l’espressione “mio figlio” è ovvia se dice il coinvolgimento emotivo, ma errata sul piano etico, poiché il figlio è un’esistenza indipendente e separata.

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La dualità, che si esprime nelle relazioni sessuali – nella relazione erotica e nella fecondità –, è per Levinas sufficiente a dichiarare superata la concezione platonica dell’amore, che è amore delle idee. In una civitas divisa in classi, ma priva del rispetto dell’irriducibilità di altri, la presenza umana è giustificata dal comune riferimento ai modelli eidetici, oppure a una volontà generale, cosicché gli individui sono l’uno accanto all’altro, fusi in una collettività tenuta insieme da vincoli fissati per consuetudine o per legge. Se Platone avesse colto il femminile, la filosofia avrebbe imboccato altre strade. Invece, la città ideale appare il non-luogo di una pseudo-socialità, al cui interno la luce delle idee non proietta ombre, e i cui abitanti formano un noi rivolto al sole intelligibile. Il prossimo è sempre al mio fianco, obliquo, di sbieco, poiché l’essenziale è ciò che ci subordina a mediatori terzi – concetti, ideali, parametri numerici, valori istituzionalizzati, leader divinizzati. Con poche eccezioni – che Levinas individua in Rosenzweig, Marcel, Buber, Ricoeur –, i filosofi non hanno superato lo sbarramento della solitudine metafisica: pur ammettendo la pluralità delle altre menti, hanno ignorato il pathos del faccia a faccia privo di intermediari. I filosofi non hanno scoperto la carezza; ne hanno trascurato persino il fenomeno, mentre la mano sfiorava il volto dell’amata. Ma c’è qualcosa da sapere di più di quel che una definizione lessicografica possa restituirci? “Dimostrazione di affetto, amicizia, benevolenza fatta sfiorando o toccando leggermente con la mano il volto o un’altra parte del corpo”. E se la carezza fosse infinitamente più misteriosa di una contiguità epidermica? Levinas ci racconta una movenza di assoluta gratuità, che sospende il tempo economico, puntando oltre la logica della compensazione. Essa trascina altrove, conferisce un significato affatto diverso all’istante del dolore, che finalmente trova un lasso di refrigerio: solleva per un attimo immenso e sospende le identità. Non era mai stata tentata una fenomenologia della carezza, ritenuta cosa elementare e dimessa, troppo sdolcinata o,

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al contrario, troppo grezzamente sensuale, per ammettere analisi articolate. Emmanuel ne discuteva con sé stesso già nei campi di prigionia, dove le carezze erano le sognate a occhi aperti per Raïssa e Simone. Il fulcro del lemma “carezza” è nella delicatezza del contatto. Ma Levinas sottolinea per contro che la carezza, nel suo intimo, non sa propriamente cosa cercare, e ciò che in realtà si produce – il contatto, per quanto tenue, di superfici – non corrisponde al desiderio che muove il gesto. È, piuttosto, un gioco senza regole con qualcosa che si sottrae. Non c’è nessun sapere funzionale, incorporato nella pelle delle dita, che possa orientarne il senso. Chi carezza attende, e non sa cosa, perché non c’è alcun contenuto preciso, a meno che la mano non intenda saggiare la consistenza di una superficie, l’elsa di un pugnale o il calcio di un fucile, per blandire, sedurre, ferire. Ma può la filosofia discutere di un’inezia tale? Chi ne tratti non si condanna da sé all’irrilevanza, se non al ridicolo? A meno che non si faccia spazio a un modo serio di parlare di carezza: un modo non torbido, motivato dalla speranza che pagine sull’argomento possano mutare la percezione di un singolo individuo, o confortare chi abbia perso lo spessore delle relazioni. Il modo serio di Levinas giustifica una forma di intenzionalità, che perdura nel suo tendere, senza saturarsi mai in una pienezza intuitiva che debba adeguarvisi. Un’intenzionalità erotica non divorante, di cui né la psicoanalisi freudiana, né la psicologia e psichiatria contemporanee saprebbero trattare, in quanto non interessate a saldare il piacere sessuale a un’ontologia non fisicalistica o non strutturata su mere gerarchie di funzioni. La profondità della carezza è sfuggita solo perché è sfuggente? O perché si ritiene che un sentimentalismo pseudointellettuale non dica nulla sull’umano, a paragone di ciò che hanno stabilito Darwin o Watson e Crick? Non potrebbe, al contrario, una così eloquente lacuna denunciare l’incapacità di affinare l’ingegno su eventi a torto scartati come troppo noti e abituali? Sia quel che sia, Emmanuel scorge

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nella carezza una tensione, che negli scritti successivi ascriverà al desiderio metafisico, un’affezione primordiale esperibile in una dialettica necessariamente contraddittoria, quella per cui ogni passo verso l’esaudimento genera una nuova fame. Carezza e desiderio si alimentano di una sete, che non si estingue nell’orizzonte della sanguinosa natura o nel grembo di un universo-scatolone; sono, invece, manifestazioni della sete di un altro, che ha sete che se ne abbia sete – “sitit sitiri”, nella stupenda allitterazione di Gregorio Nazianzeno. La carezza è il movimento stesso del dis-inter-esse, del togliersi di mezzo da ogni rendimento e rendicontazione. Essa non è di questo mondo; si appoggia per caso all’anatomia di organi prensili, torniti dai millenni dell’evoluzione per fabbricare e demolire, accudire e assassinare; ma si protende oltre il conato universale a esistere, parlando il linguaggio anti-economico del gratuito, superando di fatto l’autocentratura esistenziale e l’innamoramento di sé. La donna riappare in Totalità e infinito. Nella casa. Anacronistico angelo del focolare? Ravvisare in tale figura l’organismo biologico sessuato, statisticamente rilevabile nelle epoche storiche, implica lo stesso tipo di errore che si farebbe nell’interpretare l’analitica esistenziale in chiave antropologica: Levinas parla molto poco di “femelle”. Ma, di più, quando il Talmud dice che l’uomo lavora e procura il grano e il lino, mentre la donna fa del grano pane e del lino abito, diventa una frettolosa lectio facilior il dedurre la ratifica di una funzione ancillare del gentil sesso. La casa è dimora. Che sia o no composta da muri di cemento, essa offre alla coscienza la possibilità di ritirarsi dai rischi del mondo: un asilo, in cui l’io si rifugia, come un dio epicureo nella pace degli intermundia. Nella solitudine dell’uomo, che sottomette la natura e si fa intelligenza onnicomprensiva e alienata, l’esistenza femminile instilla la “strana defaillance della dolcezza” (DL, 54), la condizione dell’accoglienza discreta nella casa, il tu familiare con cui è possibile avere un’intesa senza parola.

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È un’alterità discreta, non solidale con l’essere, anzi sua “deliziosa mancanza” (TI, 159). Punto cardinale dell’orizzonte in cui si situa lo psichismo maschile, la donna sa donare tutto ciò che serve a elevare la naturalità del vivere allo spirito etico.

Quinto dialogo Il campanile e l’astronauta

T.: [È in campagna con abiti da lavoro in una mattina di fine estate senza sole. Il verso delle tortore sul fondo dello zampillio d’acqua che irriga le piante] Vieni pure, qui ho finito, ho sarchiato duro per un bel po’. Forse verrà a piovere, e avrò faticato inutilmente. [Si avviano verso casa] Non ci sarà tempo di affrontare tutti i punti che mi sono ripromesso di discutere con te. Partirei dal godere pagano. Perché chiamarlo così? Non si tratta della legittimità di una visione materialistica della vita? Pagano è l’abitante del pagus, del villaggio di campagna, che incontra l’evangelizzazione, o vi resiste. E.: È una delle etimologie accreditate. In Levinas “pagano” diventa l’immagine dell’individuo che vive assorbito nella sua terra natìa, che non concepisce altro orizzonte che il suolo e la sua proprietà. Pagano è il radicamento contadino, pagana la reverenza feudale degli asserviti per i padroni. T.: È il materialista, che crede di essere – come canta De Gregori – “solo una x nel ciclo dell’azoto”? E.: Non si tratta solo di materialismo. Possono essere pagane visioni molto spiritualizzate e sostenute da un pensiero complesso: da un lato, ad esempio, il nazionalsocialismo, dall’altro la filosofia di Heidegger (EDE, 195). T.: Mi viene in mente il pastore calabrese di Marcellinara, di cui racconta Ernesto De Martino. Si allontana troppo da casa, e quando scompare dalla visuale il campanile – una specie di stella fissa del cosmo paesano –, crolla tutto il suo spazio e si angoscia.

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E.: Ottimo riferimento. Il pagano vive nella minuscola patria con il focolare ctesio custodito dai Penati. Divinità domestiche, che diventano poi commovente poesia negli esametri delle Metamorfosi ovidiane. T.: I Greci sono pagani in questo senso? Con tutto il loro Olimpo di divinità? E.: Sì, se si intende per paganesimo il contrario del trauma della Rivelazione, del rapporto anti-mitico con Dio. T.: In coro ti si obietterebbe che il rapporto con Dio è il mito per eccellenza. E.: Ma sì, perché no? Siamo tutti diventati dei Nietzsche, senza esserci guadagnata la follia del grande Friedrich. Il Dio di cui parla Levinas è, però, l’infinito etico, che non si contiene in nessuna totalità. Non è più sacro, non ci si accosta più al suo mistero attraverso gli auspici carpiti a voli d’uccelli cari al tale o al talaltro nume. Il monoteismo per Levinas è l’inizio stesso dell’idea di laicità! T.: Pagana è, allora, anche la vita normale del corpo? È pagano il respiro, il conato a esistere? E.: Certo. È la logica del posto al sole, che coincide con il “ci” dell’Esserci (AeT, 35, 150). Ricordi quel testo su idolatria e secolarizzazione in Dio, la morte e il tempo? T.: Quello dei corsi alla Sorbona, negli anni Settanta? E.: Sì. Uno scritto che introduce il cielo come limite del nostro abitare e come il sacro, l’intoccabile, il “regno del riposo astronomico” (DMT, 226). Perché mai questa lontananza spaziale dei culti pagani incute tanta soggezione? Perché ostacola la familiarissima coordinazione oculomotoria, limitando il conoscere e l’agire. Mare, Cielo e Sole sono “divinità incontestabili”, come dice Valéry, perché lontani dalle nostre grinfie. T.: C’è un nesso fra i culti pagani del sacro e il sapere, che colma lo stupore dell’ignoranza con altrettanto sapere? E.: Stando a Levinas, il sapere è la secolarizzazione dell’idolatria. Il riposo della terra sotto la volta del cielo diventa la positività della ragione, il regno dell’identità e la contemplazione serena della teoria.

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T.: Se questo discorso regge, allora il pensiero europeo tornerebbe sempre a sé stesso, nonostante le divergenze creative e la serendipità delle esplorazioni. Facile fare il nome di Ulisse, che per Levinas è il simbolo del Medesimo, che ritorna a sé, anche quando si perde in deviazioni di deviazioni. Ulisse come il contadino di Calabria? E.: In fondo, sono ambedue greci… [Sorridono e tacciono. Non si accorgono che lo spazio della stanza si è oscurato per un’improvvisa densità di nubi] E.: Il parallelismo tra la filosofia come secolarizzazione dell’idolatria cultuale e il godere immanente dell’uomo, perseguitato dalla fame, prende forma inquietante in una specie di Giano bifronte, che accoppia il Prometeo di Eschilo e Messer Gaster di Rabelais. T.: Messer Gaster, il Signor Stomaco in Gargantua e Pantagruele! Come lo chiama Levinas? “Il primo Maestro d’Arti del mondo” (EE, 38): delle arti, delle scienze e delle tecniche, grazie alle quali, in effetti, la Terra intera è diventata un’unica carreggiata. E.: Non giriamoci attorno, però, non differiamo lo scandalo, amico mio. Levinas lo dice chiaro: il Dio dei monoteismi supera tutti i paganesimi, perché ha il carattere assoluto della parola (PS, 214). Se la Rivelazione ha senso, allora tramontano le divinità protettrici delle fonti, degli specchi d’acqua, dei prati fioriti. Il mito sarebbe qui finito, ma per davvero e per sempre. T.: Credo, però, che sarebbe ancora poca cosa, se questa fine non fosse intesa nel senso dell’estinzione – soprattutto – dell’orgoglio d’esserci, delle volontà di potenza isolate. Mi ha sconvolto, devo dirtelo, la lettura dell’altro giorno: “Heidegger, Gagarin e noi”. Perché quel motteggio, a tratti superficiale, di Heidegger? E.: A volte provo a pensare che si sia trattato di uno scritto d’occasione, sulla scia dell’entusiasmo per il primo volo orbitale umano targato URSS attorno alla Terra.

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Figura 12 – Gagarin nello spazio (“Dio non c’è”)

T.: Ma per Levinas il valore dell’impresa sovietica va ben al di là della rivalità USA-URSS e della corsa politico-militare alla conquista dello spazio. Il punto centrale è che siamo riusciti a lasciare il luogo! Per un’ora un uomo ha vissuto in una sorta di spazio geometrico omogeneo. La conclusione mi lascia di stucco: la tecnica, che ha portato Gagarin in volo, sarebbe addirittura meno pericolosa del genius loci (DL, 291), del radicamento al suolo. La tecnica ci ha aiutato a superare l’abbarbicamento alla natura… E.: … ai sentieri nel bosco, alla foresta, alla brocca, alle scarpe da contadino. Un discorso duro, una girandola di schiaffi. Il giudaismo avrebbe demistificato l’universo esattamente come la tecnica.

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T.: Non è spaventosa la fine dei miti del radicamento e del godimento da autoctoni? E.: Spaventosa e terribile, certo, anche quando a determinarla sia l’ossessione vigile per l’altro da me. Attenzione, però. Dovremmo verificare se la perdita delle epifanie concrete degli dèi fuggiti, e in generale dell’incanto della natura, sia un prezzo accettabile da pagare, a fronte di quanto il Levinas maturo è convinto di aver scoperto, e cioè che è la nostra stessa recettività sensoriale a essere in ostaggio dell’inquietudine per gli altri, prima di ogni legge positiva o riconoscimento di diritti umani. Senza questa espiazione involontaria per gli altri, che mi è piombata addosso senza contatto né contratto, non si comprenderebbe nulla, e la tecnica diventerebbe l’inizio della fine. T.: [Dopo una lunga pausa di silenzio. Dalla vetrata della porta la cagnetta dichiara la sua fame: mugola picchiettando con le zampe] Io resto a Eschilo: “La tecnica è molto più debole della necessità”. Sospetto che Levinas sarebbe contento di dire l’esatto contrario. E.: Non ne dubiterei. T.: A proposito di Messer Gaster, c’è Nerina che reclama attenzione. Il mio animale! [Si alza, apre la porta: Nerina balza in casa e si dirige alla ciotola] C’è un altro argomento, che vorrei almeno sfiorare, altrettanto fitto di tranelli e false piste. L’altra. E.: [Fingendosi serio] Se ci salutassimo? T.: Bell’artificio! E.: Nel 1979 Levinas sferzava le semplificazioni inaccettabili del “panerotismo contemporaneo” (TA, 19). Cosa avrebbe detto oggi? Non ti sembra che l’erotismo sia ormai un lontano miraggio di fantasmatiche presenze, ancora disposte a parlarsi? La tesi del corpo femminile come corpo vulnerabile e generoso, e della maternità come altrimenti che essere, sarà una provocazione benefica, per quanto legittimamente criticabile da parte femminista. [Un lampo illumina la stanza, senza tuono] Tu, piuttosto, come hai reagito alle pagine sulla carezza? T.: Si avvicina il temporale. Se ci salutassimo? E.: Bell’artificio!

Capitolo 5 Infinito rispondere

5.1. La lunga estroflessione […] l’orgoglio stupido di questa libertà, che si rallegra d’aver fatto quello che ha voluto – mai un’altra cosa. (L. Bloy, Il disperato)

Se si eccettua la prigionia, la vita di Emmanuel non è stata una vita d’azione, a meno di non identificare le azioni con gli eventi eclatanti. Le svolte sono, spesso, avventure del pensiero lontane dal clamore; anzi: “Propriamente parlando, le grandi ‘esperienze’ della nostra vita non sono mai state vissute” (EDE, 245). Diffidenza per la tendenza di ogni cosa a irrigidirsi, per il virare degli enunciati in decreti e oracoli: è stata questa, soprattutto, l’azione di Levinas, a mano a mano che proseguiva nell’osservazione del mondo, nel confronto con i maestri incontrati, nel dialogo con gli studenti dei suoi corsi universitari. Sempre, in filosofia, il banale non è tale. Come la lettera rubata di Poe, cercata in ogni anfratto, ma gettata con negligenza nel portacarte in bella vista nella stanza del colpevole, così l’enigma e il segreto dell’esistenza è nell’uomo; non nel concetto generale dell’antropologia o delle scienze naturali, non nella totalità demografica dei miliardi di piedi che calcano il pianeta, né nell’astrazione esangue dell’humanitas (“ge-

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nere umano”, “umanità”, “mankind”, “Menschentum”); è nel corpo del mio prossimo, e di colui che potrebbe diventarlo, ma che per ora è lontano dalla mia residenza. L’enigma e il segreto sono là dove nessuno sarebbe portato a vederli: nella vittima della mia indifferenza. Abbiamo visto (§ 4.3) alcuni modi in cui l’altro uomo si annuncia. I vari alias dell’alterità si riassumono tutti nel “primo venuto nella nudità del suo volto” (DVI, 192), che è sempre stato ed è sotto i nostri occhi, senza essere notato per davvero. L’altro, infatti, non ci giunge quasi mai in una nudità di qualificazioni, bensì sempre nelle formazioni e deformazioni, indotte dalle risorse dei linguaggi e delle culture. Poiché l’altro è anticipato da maschere, apposizioni e qualificazioni predicative, la sua comprensione è necessariamente già lettura, esegesi, ermeneutica (EDE, 223). Alla fine degli anni Quaranta il dialogo, serrato e franco, con Husserl e Heidegger si condensa in quattro saggi, contenuti in uno dei suoi libri più noti, la cui prima edizione esce a Parigi nel ’49: En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger. Il volume sarebbe stato accresciuto di quattro ulteriori scritti, pensati soprattutto per il centenario della nascita di Husserl (1859-1959), e poi ancora di un’ultima sezione, intitolata “Raccourcis”, “Scorciatoie”, con cinque contributi originali apparsi fra il ’57 e il ’67. Le conferenze previste per il Collège philosophique, i cui appunti vengono variamente rimaneggiati fin nei primi anni Sessanta, riprendono i grandi temi della libertà, del linguaggio, della volontà, del potere, del significato e della possibilità, a partire da un sistema di riferimento incentrato non più su una ragione universale, il logos greco, o sull’io come punto-zero di ogni orientamento nel mondo. La prova del fuoco è in un’alterità di cui non si dà logica, o quanto meno non la logica dell’identità e della non contraddizione. Si delinea, così, un vasto programma di revisione delle categorie claustrofile ed eterofobe della tradizione occidentale, un lungo lavoro di estroflessione della filosofia, delle scienze, del senso comune. Col termine “estroflessione” indichiamo

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un’operazione antitetica alla riflessione fenomenologica, al ripiegamento tematizzante sulla corrente dei propri vissuti. Levinas stesso parla di “estrovertire” (TI, 314) e di “estroversione” (DVI, 97-98). L’apertura dell’io esposto all’altro è l’esplosione o la messa a rovescio dell’interiorità. La sincerità è il nome di questa estroversione. Ma cosa può significare questa inversione o estro-versione se non una responsabilità per altri tale per cui non riservo nulla per me? Responsabilità in forza della quale tutto in me è debito e donazione e per cui il mio esser-ci è l’ultimo esser-ci, in cui i creditori raggiungono il debitore? (DVI, 97).

È un “flettere fuori”, che mette a nudo l’egoismo sano e insano dell’agire naturale, ma soprattutto prende congedo dall’egologia presupposta in ogni forma di sapere. “Ogni filosofia è un’egologia” (EDE, 192), in forza della quale la realtà è sempre il risultato di mappature ontologiche e ingegnerie concettuali dentro i confini immanenti di soggetti liberi. L’egologia vige anche se l’io è il noi dell’intersoggettività trascendentale, o della società globale. Il fuori non è il mondo esterno, sulla cui esistenza duellano da epoche immemori i sostenitori del realismo e dell’antirealismo, ma l’altro uomo nella sua esteriorità vivente, colui che – solo – resiste all’identificazione del mio e del nostro e, proprio per questo, intralcia la dialettica del riconoscimento. L’estroflessione è la “trasformazione dell’intenzionale in etico” (EDE, 263), la conversione dell’ontologia nella prossimità alla singolarità irrappresentabile dell’altro; trasformazione e conversione, che offrono un equivalente empiricamente verificabile all’intuizione iniziale di Levinas, utopica e autocontraddittoria, intorno alla necessità dell’evasione dall’essere. Accanto a descrizioni fenomenologiche, troviamo all’opera procedimenti genealogici, di segno opposto alle mistificazioni denunciate da Nietzsche; le genealogie dell’estroflessione agganciano la matrice di ogni conoscenza e verità, cioè l’autonomia dell’io, a un punto di partenza incommen-

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surabile. L’esito è una risalita non già a materiali vili insospettati, bensì a un’altezza, invisibile e infinita, come il volto d’altri, l’appello di un’eteronomia dietro gli imperativi della ragione. Il redde rationem alla base degli apparati esplicativi del pensiero umano è l’epifenomeno di una più originaria responsività etica. Si deve cominciare da molto lontano, almeno dal motto delfico ai primordi della sapienza greca: “conosci te stesso”. Estroflettere l’appello implica la scoperta che l’io è detestabile – “le moi est haïssable”, diceva Pascal –, è un circolo ricorsivo di autosufficienza. Dunque, rovesciare il motto in “conosci l’altro” o “ama il prossimo”? Operazione non sufficiente, perché anche alla conoscenza è importante affiancare una forza centrifuga, che è difficile chiamare “amore”, parola sbiadita dai più nocivi usi inflazionistici. Il sé estroflesso è il cogito che impara da un maestro (TI, 68), che lo chiama a diventare l’unico e la sua responsabilità; è una sensibilità già intelligente, pelle vulnerabile esposta alla ferita, condizione anomala di ostaggio, che si strappa il pane di bocca per darlo ad altri (AE, 81). Ma, ancora più a ritroso, deve essere estroflesso il linguaggio, inteso come comunicazione di contenuti informazionali da un emittente a un ricevente, o come l’esperanto ideale di Frege e Husserl, la lingua artificiale delle matematiche priva di ambiguità semantiche. Prima di tali usi strumentali, cronologicamente posteriori, “il linguaggio significa il pensiero a qualcuno e, in questo senso, presuppone altri” (PS, 72). Nel senso inverso, che procede dall’altro a me, è la sonorità stessa del suono – una qualità tale da sopravanzare il proprio contenuto – ad annunciare una zona di oscurità, che non potrò includere tra le forme rischiarate dalla mia conoscenza: sonorità di una ratio estranea e straniera. “Sì”, dice Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche (§ 457), “intendere è come dirigersi verso qualcuno”. Levinas indaga le tracce della presenza inafferrabile del destinatario di ogni parola, gli dà un volto che non è faccia né maschera, ma una nudità di forme, di cosmesi, di sovrastrutture, che reclama sempre la mia sollecitudine più estrema.

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Se la lingua si è fatta carico di trasmettere sterminati patrimoni di sensi intertraducibili e accessibili a tutti, ciò è potuto accadere perché il linguaggio si produce in due direzioni: nella direzione che parte da me, è far segno a qualcuno, rivolgergli una parola; nella direzione che giunge a me, è ascoltare il suono di una voce inconfondibile, “che viene da un’altra riva” (TI, 174) a insegnare la trascendenza dell’esteriorità. Non è una posizione che possa scendere facilmente a patti con le teorie evoluzionistiche, per le quali – già a partire da Darwin – la mimica espressiva ha preceduto il linguaggio verbale, con il piuttosto frequente digrignare dei denti nelle bocche dei primati. Quando si parla, si produce un divario – dicono i linguisti – fra langue e parole, fra sistema e uso, fra competenza ed esecuzione: l’insieme delle nostre conoscenze e regole astratte e interiorizzate, da un lato, e la loro contingente materializzazione, dall’altro; la riserva aurea della segmentazione logico-grammaticale si converte nella moneta corrente delle prestazioni fonatorie. Ma Levinas porta l’attenzione su un ulteriore livello d’analisi, presupposto da tutte le coppie della precedente opposizione: il linguaggio è relazione frontale con un interlocutore impari e mai reificabile. Chi parla si trova in una relazione asimmetrica, senza reciprocità, poiché l’altro è superiore, maestoso e nobile, diverso da tutto ciò che si gioca nell’immanenza del mio psichismo e del suo amor proprio. Il faccia a faccia è all’origine dei rapporti sociali costituiti. Sempre fungente, in potenza e in atto, è discorso visà-vis, fin da principio sbilanciato verso l’abnormità di un insegnamento più antico della grammatica e della sintassi. Nella sua rettitudine morale, egli/ella mi insegna proprio la resistenza al possesso. Implicito tanto nella maieutica di Socrate, quanto nelle varie forme di controllo e manipolazione delle coscienze, il faccia a faccia è una dualità assoluta, che sopravvive intatto a strutture formali come lo schema della comunicazione, oppure all’esperienza dell’estraneo, sviluppata da Husserl sulla base dell’appercezione

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analogica ego-alter ego e della “Paarung”, l’associazione fra il mio corpo vivo e l’altro corpo simile al mio. Levinas è pronto a sostenere che le possibilità della significazione, sintattica, semantica, logica e, più in generale, ermeneutica sono istituite dal preliminare, antico riconoscimento di altri come maestro. Sarebbe illusorio credere in una qualche armonia prestabilita fra pensieri, preesistenti alle parole, e accesso linguistico ai medesimi. Del resto, in un mondo parmenideo o spinoziano nessuno parla davvero, se non per rispecchiare adeguatamente verità immutabili, giacché un linguaggio di nessuno – tautologico, sub specie aeterni – ha già parlato per tutti. “Parlare presuppone una possibilità di rompere e di cominciare” (TI, 87). Anche la libertà, vessillo glorioso delle nazioni occidentali, deve essere rigirata all’infuori. Siamo liberi; molti di noi si ritengono o sono ritenuti, come si suol dire, capaci di tutto. La libertà è in strada, per cielo e per mare, sulle labbra, nei libri, nelle costituzioni. Levinas si era familiarizzato con diverse indagini sulla nozione di libertà. L’ultima in ordine temporale, la più seducente, era quella di Jean-Paul Sartre: L’essere e il nulla identificava la libertà con una potenza nullificatrice, che agisce nell’intimo dell’uomo, in assenza di riferimenti stabili e identità sostanziali. Poiché per Sartre l’esistenza precede l’essenza, l’uomo non è semplicemente, ma si fa nell’angoscia di una scelta inevitabile – a meno di non mentire a sé stessi nella malafede –, in un abbandono totale, privo di garanzie autoritative e di lasciti di tradizione. Perseguitato dal bisogno di non mentire, Emmanuel mette in questione quella stessa libertà, a cui il cristianesimo e il liberalismo moderno ci avevano abituati, e che a partire dagli anni Venti del Novecento i regimi oppressivi si adoperavano a cancellare o a mutilare. Di contro ai moderni, per i quali la libertà diventa problematica solo rispetto alla negoziazione dei suoi confini, qui si tratta di smascherare una dogmatizzazione più latente; operazione tanto più delicata, se proposta da un filosofo che

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ha sperimentato sulla pelle la portata distruttiva della guerra, e che non avrebbe cessato di difendere i diritti umani dagli eccessi della retorica. La libertà viene corrotta e confutata pragmaticamente proprio dal fatto che si possa creare un animo servile, che accoglie l’ordine estraneo come se provenisse da sé stesso (EFP, 18): fra le mura domestiche, ad esempio, o in uno Stato totalitario – Eichmann docet. La libertà umana non avrebbe la natura prometeica inneggiata dal Romanticismo, perché il suo ufficio più grande è quello di garantire sé stessa attraverso l’istituzione di una legge positiva impersonale, che le autorità civili facciano rispettare; è la paura della tirannide o del far west autodistruttivo a difendere la libertà, non l’attivismo eroico. Il problema più macroscopico del pensiero politico occidentale è la limitazione della libertà, oppure – nell’esistenzialismo – la condanna di una libertà che non si è scelta. In ogni caso, la spontaneità della libertà, la sua naturalità di respiro, non è messa in questione. Nella conferenza “I Nutrimenti” troviamo un’affermazione, poi sviluppata in Totalità e infinito, che avanza un’obiezione morale al soggetto libero. La vergogna per la nostra libertà non è una limitazione della libertà. La libertà che nella vergogna si coglie come un’usurpazione non è una libertà finita ma una libertà illegittima. (PS, 144)

La libertà spontanea è l’ingenuità del vivente, che procede di pari passo con la costante storica dell’omicidio. Tuttavia, non è sufficiente uno scacco empirico, una frustrazione locale di iniziative individuali per risalire all’origine della libertà violenta; è necessario un evento incomparabilmente più forte, ed è la coscienza della mia indegnità e colpevolezza, che solo lo sguardo dell’altro uomo su di me può insegnare. Infatti, l’altro non è un’altra libertà, come la mia. Non posso più partire da me stesso per proiettare fuori i miei

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punti cardinali. Sull’altro, di colpo, finisco di esercitare influsso e controllo, e scopro che la mia fatticità esistenziale è priva di giustificazione. Solo così accedo all’ottica spirituale dell’etica (TI, 76), a una razionalità più ampia e generosa, più sveglia e più avanzata nell’autocritica, che mi consenta di rispettare la profondità dei rapporti interumani. Nell’estroflessione della libertà riappare la vergogna, di cui lo scritto Dell’evasione trattava in breve solo la funzione anti-ontologica, senza toccare i rapporti intersoggettivi. Ora l’uomo libero, che cerca giustificazioni per la propria autosufficienza dinanzi al diritto del prossimo, si scopre giudicato dallo sguardo altrui e colto in flagrante nella sua ingiustizia – da qui una vergogna, che scopre non l’irremissibilità della mia esistenza in quanto tale, ma la sua violenza arbitraria. L’interiorità stanata farà di tutto per difendere lo status quo, per non rinunciare alla propria felicità: dovrà accampare scusanti, attenuanti, alibi. Si mitigherà, pertanto, in “apologia”, compiendo un enorme passo avanti, considerato che l’apologia “non afferma ciecamente il sé ma fa già appello ad altri” (TI, 258). La libertà estroflessa, perdendo l’istintività, matura in libertà giudicata e investita in quanto tale, il cui criterio di legittimazione è l’eteronomia. Con una delle sue pseudodefinizioni trasvalutanti, Levinas chiama “creatura” la libertà passata al vaglio della critica (TI, 88): il vino nuovo, contenuto di nessun catechismo, fa scoppiare l’otre vecchio del significante teologico. D’ora in avanti, la verità e la conoscenza attuate dalla creatura non potranno disgiungersi dalla giustizia, e avrà senso chiedersi se non esista un momento, in cui le diverse libertà, prima di stipulare un contratto politico – di tipo hobbesiano o lockiano non è rilevante stabilire – e oscurarsi nell’oggettività delle norme, non si intendano già in un discorso più antico della guerra, che non è affilamento di armi. Cos’è, dunque, l’estroflessione operata da Levinas? È una ritraduzione dei classici problemi dell’epistemologia e dell’ontologia nei termini della nuova dominante etica. La

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verità e la conoscenza estroflesse, al servizio dei bisogni materiali della vita, si declineranno sulla base dell’esperienza paradigmatica del volto altrui e incorporeranno, di conseguenza, un quoziente di autosorveglianza, per impedire che il necessario passaggio alla formazione e all’applicazione dei concetti perda quell’ascolto trepidante, che è sempre espressione, discorso e insegnamento, senza corresponsione, più o meno corretta, alla partitura sovraimpressa da un modello. L’ego estroflesso perderà la sua luminosità autoevidente, e con essa l’interiorità, dalla quale vede gli altri senza essere visto, come il re Gige per l’anello che lo rende impunemente invisibile. La certezza cartesiana della prima persona lascia il posto a un principium individuationis morale, stupendamente sintetizzato in una confessione, che nei Fratelli Karamazov Dostoevskij mette in bocca allo starec Zosima e a suo fratello Markel, ripresa più volte da Levinas (EI, 95; EN, 139, 142): “ciascuno di noi è colpevole davanti a tutti per tutto, e io più di tutti gli altri”. L’evidenza apodittica, che la fenomenologia husserliana aveva ascritto ai vissuti immanenti del soggetto, nello “strato del propriamente mio” (Quinta meditazione cartesiana, § 44), diventa adesso una elezione. Io sono nel mondo, in senso primitivo e non derivato, non in forza di chiarezze autocertificate, criteri logici o vincoli empirici in uno spazio-tempo, né perché attraverso il mio corpo proprio e il mio intelletto si svolga un’attività di codifica e appropriazione cognitiva del molteplice sensibile, ma perché sono stato colpito dalla chiamata a una responsabilità, che non ho liberamente posta a me stesso. Una responsabilità ben poco allettante, anzi sgradevolissima, rivolta a me e a me soltanto da un passato imprecisabile, che non è mai stato un mio presente, mai un mio ricordo. Rivolta a me e a me soltanto, senza alcun contratto consensuale, non la potrò rifiutare, pena la correità nell’ingiustizia. Io non sono io per l’autorità conferitami dall’accesso privilegiato ai miei contenuti mentali, e dalla conseguente asimmetria fra l’autoascrizione di atteggiamenti proposizionali e l’ascrizione degli stessi atteggiamenti agli altri. Tale presunta

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fortuna epistemica è ben povera cosa in confronto all’appello, di cui sono fatto segno, a una responsabilità iperbolica o supererogatoria, che mi chiede più di quanto io possa dare: chi avrebbe il coraggio di assumerla in vivo? La “sobria freddezza cainesca” (DVI, 94), che pervade il mondo, si accontenta dei vantaggi della conspecificità biologica o dei diritti cartacei della fratellanza giuridica. La metafora della deposizione dell’ego sovrano (EI, 97), del narcisista biologico e culturale, non implica mai l’eclisse della mia psiche in un nirvana cognitivo; al contrario, io sono esaltato come l’unico, insostituibile titolare di una primogenitura, che mi eccettua dall’umanità. Solo io posso sentire l’obbligazione incarnata nel volto – solo io, come nessun altro, sono chiamato a esigere da me stesso più di quanto possano esigere la logica e le saggezze proverbiali delle nazioni. L’“ego”, il nominativo dello psichismo attivo, trapassa nel “me”, l’accusativo della pazienza e della passività, e il momento apicale di questa autoconsapevolezza non è più la performance intuitivo-esistenziale del cogito o l’appercezione trascendentale dell’Ich denke, ma un suono dimesso: me voici, eccomi. “La parola Io significa eccomi, rispondente di tutto e di tutti” (AE, 143), al punto di ostendere la condizione – non fattualmente rilevabile, non giuridicamente giustificabile – di “ostaggio” dell’altro. L’unicità dell’elezione non è un privilegio, di cui si possa godere a cuor leggero: l’intelligenza sana, infatti, che apprezza sempre il ritorno commisurato all’investimento, la rifugge raccapricciata. Inoltre, è un compito strutturalmente inassolvibile, reagendo al quale il vetusto brocardo ad impossibilia nemo tenetur si impone chiaro come il sole. Si potrebbe dire, con un testo talmudico, che più sono giusto e più sono severamente giudicato (DL, 39). Ecco servita la traduzione di quello che si sarebbe felici di continuare a reputare il mitologema tribale dell’origine divina di un popolo. È l’indirizzarsi a me, e a me soltanto, dell’appello a un infinito rispondere, che invera la misteriosa conclusione dell’apologo kafkiano Davanti alla legge:

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“Nessun altro poteva entrare qui perché questo ingresso era destinato soltanto a te. Ora vado a chiuderlo”. 5.2. Il dire oltre i detti Parla – Ma non dividere il sì dal no. Da’ senso anche al tuo pensiero: dagli ombra. (P. Celan, “Parla anche tu”)

Emmanuel rimetteva sempre mano ai suoi lavori, fino all’ultimo istante prima della consegna all’editore. Inappagato dalle riscritture e attanagliato dall’angoscia di non essere all’altezza, era pronto solo a non essere mai pronto. La scadenza imposta avrebbe troncato la penultima versione della penultima versione del manoscritto. Una volta ebbe a precipitarsi giù per le scale in strada, con le ennesime bozze; a inseguirlo Raïssa e la piccola Simone, per paura che potesse commettere sciocchezze. Quando un uomo pensa a un infinito che si rivolge a lui, senza confondersi con una sfinge impossibile da amare, affettazioni e pose non reggono più. Non è raro che il lettore di Levinas sgrani gli occhi dinanzi allo svolgersi dei suoi enunciati; lo stile è elevato e l’intensità espressiva non dà segni di cedimento, come testimoniano i relativamente frequenti punti esclamativi, per solito usati con parsimonia nella trattatistica. Balza evidente l’occorrenza massiccia dell’espressione come se. Hans Vaihinger, teorizzatore dell’als ob, ha esposto in dettaglio le potenzialità della finzione come dispositivo mentale, e del finzionalismo come orientamento generale, con specifiche applicazioni in filosofia della scienza. Il comme si di Levinas muove da esigenze e finalità diverse. Stando alla grammatica e alla sintassi, l’espressione “come se” introduce proposizioni comparative di analogia. Spesso

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nelle sue pagine tali proposizioni stanno in piedi da sole, tra punti fermi che stemperano la subordinazione alla principale. Introducono un esempio, che chiarisce l’enunciazione precedente, oppure ripropongono tesi appena formulate con ulteriori rinforzi metaforici; ma, più spesso, mettono dinanzi a un rischio da intraprendere: in quanto tali, hanno una forte carica ipotetica e fanno segno a contenuti della massima importanza che, lungi dal subire l’attenuazione della similitudine, si amplificano nel portare aiuto alla teoria che si inceppa. Svolgono la funzione propulsiva dei miti in Platone, più forti delle finzioni false e utili di Vaihinger. Come se in sordina, alleggerite dall’imperfezione che incrina ogni costrutto analogico, azzardassero un vero inosservato. Di più: il comme si è una modalizzazione del pensiero, è l’esercizio del “pensiero modale”, non-tetico e non-ontico, non più sorretto da oggetti e stati di cose, in quanto teso a desostanzializzare e dereificare i correlati della tematizzazione. Come Penelope, la filosofia disfa di notte la tela tessuta di giorno, la tela dei detti, dei contenuti proposizionali – che gli stoici chiamavano lektá completi: i significati incorporei degli enunciati, suscettibili di essere veri o falsi. L’evasione dall’ontologia, la preoccupazione principe del giovane Levinas, si realizza nella prassi del disdire il detto, senza comportare disfattismo sofistico o scettico. Disdire e disfare non per distruggere, ma per continuare a difendere il linguaggio e il pensiero dai ceppi dell’impegno ontologico – procedimento sensato e concreto, umanissimo, che vive in pratiche e consuetudini preziose. Basti l’esempio della prefazione, che in una certa misura ombreggia la controfigura del libro con il salvataggio di un’esegesi supplementare. Il sempre di nuovo della fenomenologia diventa l’essenza stessa del linguaggio, il “tentare di ridire senza complimenti ciò che è già stato mal inteso nell’inevitabile cerimoniale in cui si compiace il detto” (TI, 28). Oltre al “comme si” ricorre con frequenza sintomatica l’avverbio “peut-être”, “forse”, con una valenza molto più incisiva di una cautela di convenienza o di un puntello a do-

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mande retoriche. Ci piace pensare ai “filosofi del pericoloso forse”, auspicati da Nietzsche in Al di là del bene e del male (I, § 2), sebbene il pericolo incarnato da Levinas – la sua personalissima trasvalutazione dei valori – sia antitetico rispetto a quello elogiato dal tedesco. Il “forse” è la modalità dell’Enigma (EDE, 248), cioè del dire che sempre si ritira dai detti in cui ha lasciato traccia. Leggere Levinas è sperimentare un sommovimento tellurico. La sua prosa registra un sisma diuturno, che si consuma nel silenzio, ma chiama alla rivoluzione, stravolgendo parole di tradizioni antiche e aprendo una breccia nel normale e nel naturale; l’epicentro è una presenza non egoica, non modellata da vincoli epistemici o forme a priori, accessibili alla critica monologica; una presenza che non smette di visitarmi, di affamare il mio desiderio d’infinito: è la nudità del volto umano. Sotto l’azione di una costante anagogia, il linguaggio si scandisce in cesure, pause, riprese, rilanci e accelerazioni, che si avvicendano come su uno spartito musicale. Non mancano mai esempi letterari a rimpolpare di sostanza vibrante il flusso dei pensieri; il lessico è studiato, e colpisce tanto per ciò di cui parla, quanto per come ne parla, con quell’incedere assertivo di tono aprioristico, con l’introduzione ex abrupto di termini non definiti, o trasvalutati da pseudo-definizioni. La trama inserita nell’ordito del discorso è fatta solo in apparenza di costrutti apofantici, che si compongono secondo i tradizionali nessi logici; in realtà, il suono di Levinas non ha bisogno di quei nessi se non in via strumentale: è il suono dell’esigenza pura e semplice, del potere istitutivo della parola, a fare il suo oggetto. Sono testi troppo tormentati dall’urgenza per limitarsi ad articolare logicamente, analizzare, sintetizzare – provocano, scuotono, trasformano. Vengo messo all’angolo da una scrittura, che si rivolge a me come nessun trattato o saggio aveva mai osato fare; di colpo, gli altri titoli sugli scaffali mostrano di appartenere a una biblioteca avanti la caduta di Adamo, per così dire.

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Per tutti questi motivi, Jean-Luc Marion ha paragonato il nostro Autore a un reattore nucleare, le cui emissioni di energia avrebbero raggiunto luoghi remoti e imprevedibili, mentre Derrida si è avventurato nella previsione che “secoli di letture” si sarebbero dedicati a studiarlo. Le tesi di Levinas non sono mai astrazioni o induzioni a partire da raccolte di dati empirici, ma affermazioni animate dal bisogno di aderire alla concretezza dei fenomeni, e specialmente di eventi indocili alla descrizione, sottratti al potere dell’intenzionalità e della generalizzazione logica: volto, eros, bontà, fecondità, Dio, creazione, sofferenza, male, morte. Le connessioni argomentative non vengono meno, ma diventano ancillari al coraggio e all’obbligazione del pensatore dinanzi alla drammaticità dei suoi temi più che temi. Nervoso, impulsivo, in guardia, Emmanuel pare talora immerso in un’opera dura e solitaria di sterratore, ostinato nel tentare di legittimare un diverso paradigma di intelligibilità, un diverso modo di amare la saggezza, di essere filo-sofi. Il congedo dall’ontologia e l’insistito pensare a un “altrimenti che essere” sono, in fondo, un prolungato esercizio di fedeltà al metodo fenomenologico, che gli consente la tipica presa di distanza dalla strategia esplicativa realistica di individuare inferenzialmente una “super-struttura ipotetica” (TIPH, 28), retrostante ai fenomeni soggettivi, e di stabilire nessi causali fra quella e questi; tanto che non sarebbe azzardato sostenere che la diffidenza nutrita da Levinas per l’ontologia coincide, inizialmente, con la neutralizzazione husserliana dell’atteggiamento naturale e della sua metafisica spontanea, per poi radicalizzarsi nella denuncia del potere totalizzante intrinseco a ogni possibile ontologia regionale, in particolare della fisica. Pretendere di aver rilevato uno o più punti ciechi dello sguardo fenomenologico attraverso lo sguardo fenomenologico stesso, non rappresenta la rivincita della cosa in sé sul culto delle apparenze, né ristabilisce i diritti di una descrizione vera e completa di come il mondo sarebbe, indipendentemente dalla nostra accessibilità cognitiva, affettiva e pratica.

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La filosofia permane nella genuinità della descrizione, pur ex negativo: analogamente a quanto accade nella filosofia di Merleau-Ponty, l’invisibile in Levinas non è un portato speculativo o ipotetico-deduttivo. È diffusa l’idea che Levinas sia un pensatore interessante, ma – è un peccato! – troppo poetico, metaforico, allusivo, suggestivo. Le aggettivazioni, nell’atto stesso di rimarcare in superficie alcune attrattive del bello scrivere, formulano capi d’accusa inappellabili: il filosofo-poeta è ossimoro squalificante. Non c’è dubbio che lo stile di Levinas sia compenetrato di un particolare vigore espressivo, ma esso concede poco agli aspetti puramente letterari del testo. Il suo dettato, attraversato dalla folgore del sublime, non può rinserrarsi nella posticcia sobrietà dei tecnicismi; come Husserl, come Heidegger, egli è convinto che la filosofia non debba modellarsi sui parametri oggettivistici delle scienze, occupandosi di massimi sistemi, o di sistemi minimi, nella cui sfera d’azione l’uomo cada come variabile dipendente; la sua vocazione è di forzare il pensiero a un’espressività in grado di incontrare il nonsenso, il male, la sofferenza inutile. Il fuoco centrale è il tentativo di approssimarsi all’altro, attraverso la disciplina dell’iniziazione antiretorica al bene, attraverso la difesa del dire. Dire e difendere il dire dagli stessi detti, in cui esso si consegna. Dire è già superare la normalità della vita e disdire l’abbonamento all’essere. È questa la responsabilità irrappresentabile, al di qua dei giochi linguistici e delle forme logiche. Disdire il detto è altra cosa dal surrogare una supposta debolezza teorica con parole ricercate o artifici estranianti, che imitano malamente la genialità letteraria; altra cosa dal defraudare la filosofia e la scienza della loro vocazione alla definitezza teorica. Disdire il detto significa, piuttosto, suscitare attenzione per una dynamis sempre a monte del processo linguistico, per una sorta di metalinguaggio ineliminabile e non formalizzabile, veicolato dai moti stessi del suo decadimento nei detti, senza però ridurvisi; significa proteggere un’espressività che non si esaurisce nella composizione vero-

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funzionale dei lektá proposizionali e, con questo, sottrarre la trascendenza personale di altri alla sincronizzazione della denominazione e dell’asserzione categorica. Dall’intrigo del dire discende la comprensione del fatto che altri non si trova mai davvero in nessuna fabula. Il Dire si approssima all’Altro […], capovolgendo “come un vestito” la coscienza, la quale, per se stessa, sarebbe rimasta per sé fin nelle sue mire intenzionali. L’intenzionalità rimane aspirazione a colmare e riempimento, movimento centripeto di una coscienza che coincide con sé e si ricopre e si ritrova senza invecchiare e riposa nella certezza di sé, che si conferma, si raddoppia, si consolida, si inspessisce in sostanza. Il soggetto nel Dire si approssima al prossimo esprimendosi, espellendosi (nel senso letterale del termine) fuori da ogni luogo, non abitando più, non calpestando più nessun suolo. (AE, 62).

5.3. Un manoscritto pregno d’infinito Totalità e infinito viene pubblicato nel 1961. In quell’anno Raul Hilberg dà alle stampe la prima edizione del colossale studio sulla distruzione degli Ebrei d’Europa, mentre a Gerusalemme sale sul banco degli imputati Adolf Eichmann. All’inizio Gallimard rifiutò il manoscritto. Emmanuel, convinto della nullità del lavoro, avrebbe voluto farlo a pezzi. Fra i pochi a realizzare la novità fu Jean Wahl, che ne promosse la discussione come tesi per la docenza universitaria. E in tale veste fu presentata dinanzi a una prestigiosa commissione, composta dallo stesso Jean Wahl e da Gabriel Marcel, Georges Blin, Vladimir Jankélévitch, Paul Ricoeur; una sedia vuota per Merleau-Ponty, stroncato da un infarto poche settimane prima della riunione. Jankélévitch disse che l’esaminando avrebbe dovuto sedere fra gli esaminatori. Nel ’64, a cinquantott’anni, Levinas assunse il suo primo incarico di professore all’Università di Poitiers, spostandosi poi a Nanterre nel ’67 e alla Sorbona nel ’73, dove rimase fino al pensionamento.

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Totalità e infinito è il primo trattato sistematico di Levinas. Domina la contrapposizione fra i due termini del titolo. “Totalità” nomina l’insieme, formale e concreto, derivante dall’uso del quantificatore universale nella logica e nelle scienze, insieme che si perfeziona con l’eleatismo nell’astrazione somma dell’intero dell’essere o, con Hegel, nella processualità dell’Assoluto. “Infinito” non rimanda a una struttura fisico-matematica, a un contenuto spazializzato in una serie numerica; il suo valore è puramente intensivo, al contempo razionale e affettivo, personale ed etico: è alterità non totalizzabile. La totalità è teorica: in essa niente e nessuno è insostituibile; l’infinito è etico: è la singolarità insostituibile, che chiama al bene e alla giustizia. Se un uomo potesse scrivere un vero, autentico libro di etica, “questo libro distruggerebbe, con un’esplosione, tutti gli altri libri del mondo”: così Wittgenstein nella Conferenza sull’etica, nel periodo di transizione dal Tractatus alle Osservazioni filosofiche. L’etica, infatti, “se è qualcosa è soprannaturale, mentre le nostre parole potranno esprimere solamente fatti”. Scrivere un libro di etica sarebbe più assurdo del voler far contenere a una tazzina un ettolitro d’acqua. Quel libro, però, esiste: è Totalità e infinito. Anche senza detonazioni, anche se quest’infinito non trabocca da nessun recipiente (TI, 201), poiché supera l’identità dell’ego ponendosi di fronte a lui, il libro fa apparire tutti gli altri un po’ imbarazzati, più nudi e vacillanti. Nell’era dell’eclisse dei doveri non volgono al termine soltanto i progetti di etica trascendentale e universalistica, ma entra in crisi la pretesa stessa di un vincolo normativo al di là delle contingenze fattuali. È stato osservato che la morale versa attualmente nella condizione ipotetica in cui verrebbero a trovarsi le scienze che, disintegrate da una catastrofe naturale, sopravvivessero in qualità di pezzi sconnessi: i superstiti radunerebbero solo frammenti decontestualizzati, mandando a memoria i teoremi di Euclide alla maniera di mantra magici – analogamente, nella convivenza umana permangono rimasugli di schemi concettuali

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morali, privi di una comprensione piena dei processi che li hanno originati. I conflitti fra particulari sono sempre meno giustificabili con argomenti condivisi, e i fenomeni di massificazione tecnologica sclerotizzano gli individui in conformismi, che plasmano ogni aspetto della vita individuale. Sull’opinione pubblica hanno presa rapida e gagliarda i sostenitori della Realpolitik, con l’anancasmo autolesionistico di fornire la versione peggiore di sé e degli altri, e la corsa agli armamenti di un’astuzia maggiore. Non è vero, in fondo, che l’umanità è una vasta piccionaia in subbuglio, in cui da sempre aleggia aria di massacro, e la cui pace è pagata col tributo di sangue al Minotauro di turno (EDE, 236)? In un tale habitat la parola di Levinas apparirà abbarbicata a vecchi mondi illusori, oppure andrà incontro a una ricezione edulcorata, se non a una ricusazione infastidita. La navicella si dibatte, infatti, fra due opposte derive: da una parte la banalizzazione, che cambia un pensiero lancinante nei gettoni fin troppo stucchevoli e irenici del bene, della pace, dell’ospitalità per lo straniero; dall’altra, il malinteso religioso, che vi scorge troppo precocemente una teologia mascherata, con conseguente rinserrarsi nelle trincee di più collaudati stili di pensiero. Per soprammercato, l’ostacolo linguistico. Totalità e infinito, per non parlare di Altrimenti che essere, mette a dura prova la capacità di lettura, nel senso materiale di “capienza” e traslato di “facoltà”. La natura fluttuante della prosa, l’impulso a muovere e commuovere, il dire l’infinito per strade inesplorate, ma salendo la scala del vocabolario ontologico, da cui prometterebbe la liberazione, insieme alla gravità dei temi discussi, può conferire una massa semantica supermassiccia a una singola pagina, o a un singolo capoverso. Il lessico attinge a termini tributari di tradizioni in declino di credibilità, e infonde significati affatto diversi da quelli codificati in parole usurate – “etica”, “bene”, “desiderio”, “religione”, “santità” –, parole-ordalie, che non lasciano illese le bocche che osano pronunciarle.

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Limiti e ostacoli che sembrano, se non insormontabili, senz’altro efficaci nel ritardare l’incontro con una filosofia, che sfida a ripensare l’intelaiatura assiologica delle culture, senza che il campo del discorso sia immediatamente colonizzato da vecchie e nuove demagogie, propagande, pedagogie – modalità di insidiare e carpire obliquamente l’assenso. L’incipit di Totalità e infinito è una confessione di lucidità estrema. Tutti ammetteranno facilmente che la cosa più importante è sapere se non si è vittime della morale. La lucidità – apertura dello spirito sul vero – non consiste forse nell’intravvedere la possibilità permanente della guerra? Lo stato di guerra sospende la morale; esso priva le istituzioni e le obbligazioni eterne della loro eternità e, quindi, annulla, nel provvisorio, gli imperativi incondizionali. Esso proietta fin dall’inizio la sua ombra sugli atti degli uomini. La guerra non è solo una delle prove – la più grande, tra l’altro – di cui vive la morale. Ancor di più, la rende irrilevante. (TI, 19)

Pochi come Levinas hanno in gran dispetto le accensioni dell’entusiasmo; lo si trova sempre sulle spine, preoccupato di scongiurare l’autoinganno su tutti i fronti, di evitare l’uso delle “parole vuote che rendono elevato il cuore e vuota la ragione” (Hegel, Fenomenologia dello spirito, V, B). È vero, Levinas non intende fornirci teorie normative in etica; non è nemmeno prioritario – non sùbito, non dapprincipio – disporre di circostanziate conoscenze storiche, di dati statistici e di chiarezza analitica sui concetti. Tuttavia, le tesi vengono fondate mediante gli strumenti della fenomenologia, applicati ai confini della rilevabilità descrittiva, sulla base di una proposta precisa: dopo la rivoluzione copernicana di Kant, dopo la svolta linguistica del Novecento, viene operata un’inversione globale di rapporti fra le strutture portanti del nostro sapere: non è la conoscenza al primo posto, né il linguaggio, ma l’etica. Sorella minore delle specialità filosofiche, relegata nel campo del gusto e dell’espressione emotiva, abbruttita da

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sospette genealogie e abbinata alla religione sotto l’ombrello dei bias specie-specifici, l’etica si ostina a correre sulle nostre bocche, dissimulata sotto falsi nomi, costituendo il senso di tutte le prerogative del pensare e del fare, presiedendo perfino ai tentativi della sua stessa disgregazione e decostruzione. Levinas non ha in mente l’etica di cui discorrono i filosofi morali, da Socrate a MacIntyre. La sua riflessione incrocia da lontano i tentativi contemporanei di ridimensionare le pretese erga omnes della razionalità pratica, e di declinare la morale entro sistemi di riferimento immanenti, senza più assoluti. L’etica è un’ottica (TI, 22), quel modo di considerare l’umano, che salvaguarda l’infinito contro le pretese della totalità; etica nello stesso tempo trascendente e fondata nella concretezza del soggetto. Come è possibile? Proviamo a capirlo rifacendoci al saggio “La philosophie et l’idée de l’infini”, pubblicato in rivista nel ’57 e raccolto, dieci anni dopo, nella seconda edizione di En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger. È una piccola, grande meditazione cartesiana, una delle matrici di Totalità e infinito, che l’Autore riterrà sempre valida nelle sue acquisizioni fondamentali, tanto da riprenderne il filo più volte, fino a uno dei suoi ultimi lavori, “Philosophie et transcendance”, apparso nell’89 e ristampato nel volume Altérité et transcendance del ’95, poco prima della morte. Levinas riprende la dimostrazione dell’esistenza di Dio, sviluppata da Cartesio nelle Meditationes de prima philosophia. Cartesio parte dalla datità evidente dei contenuti mentali di colui che medita; viene presupposta la distinzione scolastica tra “realtà oggettiva” e “realtà formale”, applicata alle rappresentazioni mentali: in breve, la realtà oggettiva di una rappresentazione mentale è la sua datità immanente vissuta, la sua consistenza di stato interiore, mentre la sua realtà formale riguarda la natura della causa extramentale della rappresentazione. Si assume, poi, che la specifica realtà oggettiva della rappresentazione corrisponda alla specifica realtà formale della sua causa. Chi abbia seguito Cartesio, fin nella terza delle Meditationes, saprà che tutte le rappresen-

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tazioni potrebbero implicare il collasso dei due tipi di realtà nell’interiorità del cogito, sicché io potrei ritenermi a buon diritto l’artefice e l’origine di tutte le idee. Di tutte meno una: l’idea di Dio, che si distingue per la sua eccezionalità: […] dal momento che sono finito, l’idea di una sostanza infinita non sarebbe in me se non mi venisse da una sostanza che infinita lo sia effettivamente.

Ciò che si pensa nell’idea di Dio va al di là della sua stessa idea; la sua realtà oggettiva è incompatibile con la realtà formale della mia mente finita, eppure col pensiero io tocco tale sproporzione: il vettore del mio atto di pensiero punta su qualcosa che lo supera (EDE, 197; TI, 46). Non siamo invitati ad accettare pacificamente la cogenza logica della dimostrazione, secondo gli schemi collaudati della teologia naturale; a Levinas interessa un’altra cosa: restituire l’antitesi, concettuale e fenomenologica, tra il finito e l’infinito nei termini di una separazione etica. Pertanto, non stiamo aggiornando un argomento ontologico, che debba concludere con la posizione di un ente dalle proprietà fuori dal comune; piuttosto, per dare sostanza viva a questo disegno formale, è da tirare in ballo la mania del Fedro platonico, quella che nasce dal “divino mutamento radicale delle comuni consuetudini” (265a), nella quarta forma dell’amore. Trasposto nel registro dell’etica, l’insegnamento cartesiano esercita un potenziale trasformativo. Come faccio a essere me stesso, o a diventare ciò che sono, se, pensando l’idea di infinito, sono qualcosa di più di me stesso? Esperisco un’espansione, che non scaturisce da idiosincrasie psicologiche, ma è un movimento di incontro con un’eccedenza reale, la cui idea mi si rivela innata: essa non è fattizia, ma è stata messa in me, non potendosi creare per partenogenesi in un intelletto limitato. Nell’idea dell’infinito è l’infinito stesso che si è mosso verso di me, che mi è venuto all’idea; non ci sono miei contributi attivi, mi scopro incapace di controllo e di visione sinottica o panottica. È tutto qui il senso tecnico e logico della “rivelazione”.

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Colpo di scena! L’infinito di ascendenza cartesiana non è altro che il “rapporto sociale” (EDE, 198). Chi lo crederebbe? Quando diciamo “sociale”, molto affiora alle labbra, fuorché il poetico “infinito”; hanno diritto di prelazione gli ingorghi nel traffico, le file nei supermercati, gli sciami racchiusi in uffici musei stadi – incresciosi assembramenti all’estremità di una lunga catena di reificazione. La società civile può diventare “totale e addizionale” (EI, 84), e parlare per bocca di un’anima collettiva; ma quando la totalità domina, l’infinito è occultato, e svanisce il paradosso di ogni stare insieme: gli individui aggregati sono simultaneamente numerabili e non numerabili, dentro e fuori l’aggregazione. Levinas trasvaluta ancora una volta la socialità e può, ad esempio, affermare – con disdegno dei guardiani inflessibili delle lettere – che Proust è il “poeta del sociale” (CC, 152; NP, 134). L’infinito sociale non si dà in una correlazione soggettooggetto, o noesi-noema, o ipotesi-realtà, ma si annuncia in una “epifania” e “visitazione” (EDE, 223), in una rivelazione eccezionale, che non ha nulla di ultraterreno. In essa si impone un volto, un’alterità insostituibile, che dice no ai miei poteri: resiste, sic et simpliciter, in un senso incommensurabilmente differente dalla resistenza che io, detentore del privilegio della senzienza, a mia volta oppongo a ogni teoria che intenda spiegarmi. È segno della grande dignità di tutta la meditazione cartesiana di Levinas il fatto che il meditante e l’infinito siano e restino separati, l’uno esteriore all’altro; separazione ed esteriorità garantiscono che il contatto fra i due non sia immersivo e bruciante, come nei resoconti di certe esperienze mistiche: la farfalla non consuma le sue ali nel fuoco, perché non vi si perde mai (CC, 195; DVI, 118; EDE, 198). La facezia attribuita a Buñuel, “Grazie a Dio, sono ateo”, non è un motto di spirito, ma verità letterale. È una formidabile lezione di umiltà, nella misura in cui la struttura intenzionale del nostro sapere è sconvolta nel suo processo di conformità progressiva all’esperienza effettiva che la satura, di modo che l’infinito si tiene assieme al falli-

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mento dell’adeguazione dell’intenzionalità. Con la messa in questione della coscienza, scopriamo un potere che è fatto di impotenza, accediamo a un modo di vivere che è oltre la vita stessa, perché fondato su un mutamento di segno dell’atto stesso di esserci. La relazione con l’infinito è concretissima e richiede un linguaggio il più possibile deformalizzato. Lasciandosi alle spalle l’impianto della dimostrazione cartesiana, Levinas passa a tratteggiare positivamente la relazione con l’infinito come desiderio. Il desiderio è la tensione etica, che corre fra un desiderante e un desiderabile, rispettivamente lo psichismo egoistico e l’infinito, ovvero l’io e l’altro. La tensione del desiderante non conosce saturazione, ma è piuttosto aggravata dal desiderabile. Il desiderio esorbita, pertanto, dalla logica economica del bisogno, che è una fame empirica ammutolita dal boccone di una soddisfazione temporanea, e si erge sulla base di una sproporzione incolmabile fra i suoi relata; manca l’uguaglianza propria dello stato naturale dell’umanità, nella classica analisi di Hobbes (Leviatano, I, xiii), che sfocia nella contesa per competizione, orgoglio o diffidenza. Non sono io che mi rifiuto al sistema, à la Kierkegaard, ma è l’altro (TI, 38). È, dunque, impossibile soddisfare il desiderio, poiché la sua natura etica non è quella di un cibo che tolga per alcune ore l’appetito; anzi, la sua bontà è la distanza abissale, la separazione incolmabile. È lì per essere mancato, frustrato, deluso; si alimenta paradossalmente della propria fame e il suo desiderabile, lungi dal completarlo, lo svuota. Levinas aveva ben vivida la rappresentazione dell’autocoscienza nella Fenomenologia dello spirito di Hegel come “Begierde”, “appetito”, nel senso anche dell’appetitus spinoziano, attività pratica incontentabile, e sempre in rapporto di negazione col mondo naturale e biologico. L’autocoscienza come Begierde selvaggia smembra, uccide, mangia. Per Hegel era un’esperienza fallimentare della singola autocoscienza, e propedeutica alla necessità del riconoscimento sociale per la

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verifica della certezza di sé. Il desiderio dell’infinito ci sposta su tutt’altro piano. Se l’appetito trionfa nella sua sincera natura di appropriazione, costruendo la società economica dei nutrimenti, il desiderio per definizione non è conoscenza che si appropria del suo oggetto; qui non c’è pane per i denti dell’appetito, e non c’è farina del mio sacco, poiché mi trovo attraversato da un’aspirazione suscitata in me per iniziativa – è la rivelazione – di un desiderabile che resta invisibile (TI, 32). Levinas sveste il termine “religione” dalle corazze etnogeografico-ideologiche, che la relegano negli ambiti della storia o dell’antropologia, e gli assegna un’accezione inattesa; esso nomina la relazione non-epistemica e non-ontologica con altri, “il legame che si stabilisce tra il Medesimo e l’Altro, senza costituire una totalità” (TI, 38). È un diverso nome del desiderio come relazione etica. Chiamiamo etica una relazione i cui termini non siano uniti da una sintesi dell’intelletto, né dalla relazione tra il soggetto e l’oggetto e in cui, tuttavia, un termine pesi, o sia importante, o abbia significato per l’altro, i cui termini siano legati da un intrigo non esauribile né districabile dal sapere. (EDE, 262, nota 3)

Difficile resistere al verdetto di condanna, da tempo scagliato e passato in giudicato, contro le etichette metafisiche, utili semmai a scopi edificanti: “desiderio”, “infinito”, “religione”. Nella rivisitazione levinasiana, esse rivelano il fatto stupefacente che il pensiero contiene più di quanto sia in grado di contenere; rivelazione che si estende oltre i passaggi dimostrativi cartesiani, per realizzarsi nel fatto concretissimo della bontà, nella circostanza affettivamente accessibile che esisto per gli altri. Nell’affettività, cioè nell’ambito più vicino alla suscettibilità sensoriale, non ci sono dati grezzi da interpretare attraverso forme a apriori, in quanto l’affettività sarebbe già morale: affezione traumatica, dipartita dall’immanenza interiore e risposta non eudemonistica allo scandalo irrappresentabile dell’eteronomia. Si ha l’altro fin nella propria pelle (AE,

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143). Siamo ben lontani dalle teorie psicologiche, così come dal quadro della “situazione emotiva” di Essere e tempo. La filosofia di Levinas, all’altezza di Totalità e infinito, è una sorta di esercizio spirituale, che porta a sacrificare la felicità al desiderio, dopo che si è stati in grado di sacrificare il proprio essere alla felicità; una vera e propria disciplina, attraverso cui il mio corpo potrà assumere posture e, alla lunga, lo stile di chi abbia avuto consuetudine con le tracce della vita assente, sognata da Oblomov e Rimbaud. Potrò avere un corpo con un’animazione sensibilmente differente, tenuto vigile da un rispetto smodato e inattuale per il volto altrui, esposto a fraintendimenti ed equivoci, come le gesticolazioni del passante per strada, immaginato da Wittgenstein, che sbraccia per tenersi in equilibrio – il tranquillo spettatore alla finestra, ignaro della bufera che imperversa là fuori, lo giudicherà un idiota. 5.4. Volto, faccia, maschera E poi, questo modo di parlare: “ho spaccato il muso”… In fondo, non si sa se l’uomo abbia un volto o un muso. Forse, piuttosto, un volto. Allora sa, i pugni… No, guardi, la smetta, e per sempre. (M. Bulgakov, Il Maestro e Margherita)

Si dice che la filosofia sia sorta con i fisiologi di Mileto, perché i Greci hanno provato thaûma, meraviglia inquietante, di fronte all’immensità del cosmo e all’intero dell’essere che appare. Lo stupore morale, se così vogliamo dire, di Totalità e infinito, come di tutte le opere di Levinas, è piuttosto per un traûma – in greco “ferita”, “sconfitta”: affezione senza rappresentazione, accusa proveniente da altri, che risveglia la mia egoità dai suoi sonni dogmatici. Se nella domanda metafisica fondamentale, “perché c’è l’essere e non piuttosto il nulla?”, si è vista la meraviglia delle meraviglie, cosa sarà il traumatismo del risveglio etico?

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L’essere correlativo alla nostra costituzione percettiva e concettuale è presente in quanto disvelato: è “fosforescenza” e “presenza di tema” (PS, 68). La mia percezione, che si dispiega a ventaglio sul mondo, prende le cose; e catturerebbe tutto, se non ci fosse il trauma infertomi dal volto ad arrestarne l’espansione. “Volto” traduce “visage”; come l’italiano “viso”, il termine francese ha la radice vid- di “vedere”. Ma per Levinas il volto sfugge alla luce della comprensione, in quanto non ha forme plastiche. Non è viso, non è faccia; la parte del corpo umano racchiusa tra la fronte e il mento è solo quella che, più di ogni altra, siamo abituati a localizzare come il centro stesso dell’espressione intenzionale. Su quella superficie mobilissima e inafferrabile l’altro sorride, piange, chiacchiera, tace. In Europa si tentò con la fisiognomica, e annessa caratteriologia, di carpire il segreto della personalità, dell’intelligenza e della moralità dell’individuo, correlando le conformazioni del viso-faccia a pregi e difetti d’indole: una bocca con labbra sottili si diceva denotare freddezza e precisione, e via elencando fantasiosi abbinamenti. Il tentativo andò in frantumi, e con l’acqua sporca si gettò via anche il pargolo: il mistero del volto fu liquidato e sostituito dal cranio, sede del non meno complesso cervello. Per la gioia dei semiologi, campeggia ovunque il viso-faccia, l’oggetto plastico di cui è possibile procurarsi una rappresentazione media e prototipica, grazie alle tecniche avanzate di face coding, a partire da campioni di milioni di esemplari analizzati nelle più minute componenti. Il viso-faccia umano prototipico è, come dice Paul Churchland, “androgino, multirazziale, anodino quanto più possibile. Un volto né liscio né gassato. Non ha nemmeno un brutto aspetto”.

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Figura 13 – Faccia umana prototipica

Poiché per noi il viso-faccia è da sempre il luogo eminentemente deputato all’estrinsecazione delle espressioni intenzionali, attraverso mimica e articolazione fonetica dei significanti, quindi il situs privilegiato del “visage”, l’insistenza di Levinas sulla necessità di non identificare il volto con il viso-faccia colpisce per la sua stravaganza. Nell’Alcibiade maggiore (130e) Socrate asserisce che, nel dialogo, chi parla non rivolge il discorso al prósopon, alla faccia dell’interlocutore – agli occhi, alla bocca o ai capelli –, bensì alla sua psyché, all’anima. È un passo che Levinas avrebbe apprezzato, ma senza attribuire sostanzialità a un ente immortale dietro e oltre il corpo: non solo, infatti, il soggetto pensante è “sommamente concreto e quasi muscolare” (EDE, 183), in forza delle sensazioni cinestetiche, implicanti l’intera corporeità, ma anche il volto di altri deve esprimersi in forme sensi-

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bili – le parti del corpo, i segni linguistici –, simultaneamente oltrepassate dall’espressione stessa. Il volto è l’infinito metafisico, che arresta il movimento della tematizzazione, l’unico elemento del “non-io” che faccia vergognare l’io della sua ingenuità, svelandone l’esercizio dei poteri di rappresentazione e totalizzazione. A questo noumeno (TI, 75) la tradizione filosofica si è di volta in volta avvicinata con le nozioni di psiche, anima, intelligenza, pensiero, soggetto. Ciò che Descartes, pur protestando contro l’immagine del timoniere nella sua navicella, sostantifica, ciò di cui Leibniz fa una monade, ciò che Platone pone come anima contemplante le Idee, ciò che Spinoza pensa come modo del pensiero, tutto ciò si descrive fenomenologicamente come volto. Senza questa fenomenologia si è portati ad una sostanzializzazione dell’anima. (DMT, 54)

Non siamo di fronte a un possibile oggetto d’esperienza; il volto non va incontro all’attività sintetica della nostra conoscenza, e quindi non è necessariamente presente là dove vi sia una faccia. Se siamo superveloci nel riconoscere in meno di 250 millisecondi un viso familiare, se in tale discriminazione percettiva il cervello fa leva sugli indicatori prioritari degli occhi e della bocca, le modalità di riconoscimento del volto sono molto meno immediate e istintuali, e vanno incontro alle forme più varie di disattivazione e decadimento, più complesse delle interferenze ambientali o dei danni neurologici, che guastano l’identificazione facciale, come nella prosopagnosia. Quando ispezioniamo una faccia in cerca di rughe e altri segni del tempo per scoprirne l’età, abbiamo perso il volto e proceduto, per sineddoche percettiva, a selezionare il pezzo (naso, collo, mano) di un corpo reificato e rigirato in angolature diverse. Tra la visione frontale e la visione di profilo nessun’altra differenza, se non quelle rilevanti per la raccolta dati, in un setting da foto segnaletiche. Quando osserviamo una persona attraverso lenti simil-lombrosiane, senza che

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questa abbia modo di sottrarsi alla voracità del giudizio o di eccettuarsi dallo spettacolo del mondo, di cui pure è parte, abbiamo perso il volto; o sarebbe, forse, più appropriato dire che avremmo dinanzi a noi volti nascosti, mancati, feriti, come nelle schedature di prigionieri di ogni appartenenza etnica e politica. Ha ragione re Duncan, nel Macbeth di Shakespeare, a riconoscere l’impossibilità di un’arte che insegni a spiare i connotati facciali, per risalire alle veraci intenzioni della mente: “There’s no art to find the mind’s construction in the face” (Atto I, 4); ma la filosofia del volto intende determinare un’impossibilità più profonda di quella relativa alla pseudoscientificità della fisiognomica. Di qui un paradosso. Il modo migliore di incontrare altri è di non notare il colore dei suoi occhi! Quando si osserva il colore degli occhi non si è in relazione sociale con altri. (EI, 87)

Il volto non si esteriorizza pezzo a pezzo in profili plastici: è singolarità senza evidenza, l’ineffabile che provoca il discorso; immediatamente autosignificante, non ha un’essenza o una quiddità, analizzabile in concetti e categorie. Parla, dona dei segni, e dona questo stesso donare, sottraendosi all’invadenza di contesti semantici e culturali. Unicum, apax, fuori dal sistema, significa per sé stesso, kath’autó, detto con un modulo platonico (EFP, 24; TI, 48). Abbiamo motivo di sostenere un’interpretazione estesa della nozione di volto, non primariamente percettiva, ma linguistica ed espressiva: “visage” è l’espressione dell’unicum umano. Il volto potrà essere, ad esempio, la nuca della persona vista di spalle, nella fila di coloro che attendono di consegnare una lettera a parenti detenuti, come nell’episodio raccontato da Vasilij Grossman in Vita e destino (EN, 276). Se diciamo “ci sono infiniti volti”, la proposizione sarà comunemente intesa vertere sulle x facce esistenti nel tempo y sulla Terra; oppure ai ruoli, o alle maschere, che il singolo può assumere nel corso della vita. In un passo del Malte, Rilke nota

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che di uomini ce n’è una gran quantità, “ma di visi molti più, perché ogni uomo ne ha parecchi”: visi deperibili, sottili come carta, che si bucano, si gettano a scadenza. La proposizione potrà riferirsi, in aggiunta, alle maschere digitali o alle cyberfacce, artefatti anonimi che cancellano quella stessa distinzione fra volto e maschera, che era sempre rimasta operante nella storia della ricezione delle immagini antropomorfiche in Occidente. Il volto è diventato letteralmente invisibile, dopo che da molte parti si era pensato che fosse invisibile in un senso traslato rispetto alla tangibilità della faccia e del cranio. Se, però, intendiamo “ci sono infiniti volti” nel senso etico di Levinas, la proposizione perde ogni richiesta di precisazione quantitativa: non si riferisce all’umanità come specie animale, ma alla straordinarietà dell’incontro con l’altezza e la vulnerabilità di altri nel faccia a faccia. Il volto vivente non è mai maschera, perché il suo significare non è un’indicazione o una dissimulazione. Come potrebbe mascherarsi, se si consegna esposto e disarmato al mio sguardo? Il nesso maschera-faccia suggerisce, invece, una più marcata solidarietà reciproca, nel senso di una maggiore disponibilità alla sovrapposizione e alla transizione dall’una all’altra, in entrambi i versi. Per cominciare, se la maschera presuppone la significanza del volto (EDE, 227), non necessariamente le maschere hanno facce dietro di esse, come mostrano le pratiche rituali degli antichi culti dei morti. Inoltre, i loro ruoli possono invertirsi, come nella fotografia di Man Ray “Noire et Blanche”: il volto dell’attrice francese Alice Prin poggia sul tavolo, al modo di una suppellettile o di un articolo di moda, mentre la maschera d’ebano africana è svincolata dal suo statuto di feticcio primitivo e promossa a viso. L’interscambio viso-maschera – possibilità intrinseca tanto alle civiltà cosiddette primitive, quanto alle ultramoderne società civili, che impongono pose e ruoli – sembrerebbe incrementare di “tre lunghezze” l’allontanamento dall’unicità del volto, come la distanza dell’immagine artistica dall’eídos platonico (Repubblica 599a). Esistono facce che non esprimono un volto e volti che non esprimono facce. Del primo caso sono esempi le facce di co-

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loro che hanno disimparato a riconoscere e coltivare l’umano in sé e nell’altro, o i connotati omogeneizzati, tendenti a una compagine o melassa di rassomiglianze esteriori. Del secondo caso sono esempi i volti, che conservano la loro eccezionalità espressiva, nonostante il situs del viso sia sfigurato o cancellato. Joseph Merrick, l’uomo esibito nei freak shows della Londra vittoriana, e immortalato nel film di David Lynch The Elephant Man, è un volto. Vogliamo sostenere che la migliore e più completa esegesi di tale nozione tecnica abbia in Joseph il suo più efficace banco di prova. La significazione acontestuale della sua nudità sfruttata, come un fenomeno da baraccone, scandalizza la normalità, svelando l’ingiustizia degli astanti. Sembra parlare di lui Levinas, quando afferma che “il volto può acquistare senso su ciò che è il ‘contrario’ del volto!” (EN, 276). O, ancora, quando parla di “timidezza che non osa osare”, “sollecitazione che non ha la sfacciataggine di sollecitare”, “sollecitazione da mendicante” (EDE, 241).

Figura 14 – Joseph Merrick

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Il volto non si può vedere né descrivere, non ne posso fare un ritratto o una caricatura; eppure è rivolto a me e a me soltanto, come la porta della Legge: “Il volto si è rivolto a me [s’est tourné vers moi] – e questa, appunto, è la sua nudità. È per se stesso e non in riferimento ad un sistema” (TI, 73). Ha occhi disarmati, oppure è cieco, sfregiato, deturpato: posso simulare di non accorgermene, ma non posso obliarlo – rimane rivolto a me. L’infinito è quel rapporto sociale con l’altro uomo, che interrompe il basso continuo dell’intenzionalità e mi pone davanti alla prima parola magistrale, che è il divieto di non uccidere. Volto è: ciò che impone di non ucciderlo. Non è solo il divieto assoluto di commettere omicidio: il negativo del comandamento si comprende, se lo si traduce nell’immenso ventaglio positivo del fare responsabile, che va dal dire “Buongiorno!” al dare nutrimento, bevanda e alloggio, “tre cose necessarie all’uomo e che l’uomo offre all’uomo” (DL, 292). Uccidere l’altro è, sì, possibile sul piano materiale, e di fatto è una costante, si direbbe, strutturale della nostra storia evolutiva; ma resta impossibile sul piano etico. Quando diciamo che uccidere è impossibile sul piano etico, non stiamo asseverando circolarmente l’illiceità normativa di un atto rispetto alla vigenza di un diritto naturale/positivo; stiamo dicendo qualcosa di più sottile, motivo di sgomento, che renderebbe l’assassinio assai più grave di quanto si sarebbe disposti a riconoscere sul piano giuridico, o perfino morale. Cambia l’intero scenario del ragionare: mentre l’illiceità normativa implica un riconoscimento del valore della vita umana, l’impossibilità etica si impone per l’esperienza eccezionale del volto d’altri. Quando guardo negli occhi l’altro, occhi indifesi e nudi, al di sotto delle protezioni che i ruoli vi sovrascrivono, i miei poteri di assimilazione tacciono: “io non posso più potere” (EDE, 198), io non posso più, io non posso. Analogamente, la resistenza dell’altro alle mie astuzie e manipolazioni non è in primis fisica; l’altro potrebbe ovviamente opporsi e protestare, oppure rinunciare alla risposta

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e soccombere, ma a monte di tale polarità c’è il suo volto, denudato di ogni investimento estetico e sociale. La nudità vulnerabile del volto denuncia il mio posto al sole di usurpatore: scoperta che non può derivare dal mio lavorio interiore. Joseph Merricks docet, è il maestro. Il volto resiste alla violenza dell’identificazione e all’assassinio. Tale resistenza non è un’energia misurabile; se fosse solo una scheggia di mondo, il volto soccomberebbe al proiettile della pistola; invece il suo no, disarmato e disarmante, non è scalfito dall’omicida che abbia realizzato il suo proposito. Non si può toccare la trascendenza dell’infinito etico, il suo noli me tangere è al riparo dal progresso delle scienze, delle arti e dei mestieri. La crisi di coscienza di Raskol’nikov (Dostoevskij) o dell’assassino di Via Belpoggio (Svevo) sarebbe misera cosa, se ridotta a un braccio di ferro psicologico con le convenzioni sociali; è, piuttosto, un tentativo di dimenticare l’indimenticabile, di far tornare i conti con una violazione andata a buon fine solo dal punto di vista meccanico. Questo infinito, più forte dell’omicidio, ci resiste già nel suo volto, è il suo volto, è l’espressione originaria, è la prima parola: “non uccidere”. L’infinito paralizza il potere con la sua resistenza infinita all’omicidio, che, dura ed insormontabile, risplende nel volto d’altri, nella nudità totale dei suoi occhi, senza difesa, nella nudità dell’apertura assoluta del Trascendente. (TI, 204)

In principio era altri. Altri è il “primo intelligibile che precede le culture” (DL, 366). Levinas non pare curarsi dei vincoli imposti dalla teoria dell’evoluzione alla storia della morale: per lui l’etica viene prima della storia, e in tal senso è metafisica. Tutti i significati avrebbero origine da lì. Il realizzare l’importanza dell’altro uomo non è, di conseguenza, il risultato di un addestramento pedagogico, ma un fatto immediato; come immediato e universale è il comando “tu non ucciderai”, che istituisce la prima parola e il linguaggio.

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Il fatto che il volto sia obliato, divenuto memoria di un miraggio, è almeno tanto enorme e foriero di catastrofe, quanto lo era per Heidegger l’occultamento della questione dell’essere. 5.5. “È passato qualcuno” In Dupin non c’era traccia di charlatanerie. (E.A. Poe, Gli omicidi della Rue Morgue)

Dio viene all’idea in quanto infinito, o desiderabile del desiderio (§ 5.3). Non ha nulla a che vedere con vagheggiamenti di una sacralità dionisiaca, mistica o irrazionale, in cui tutte le differenze sfumano, tornando come a un grembo originario. La lucidità è prerequisito del venire all’idea. Poiché è trascendente e resta tale, la sua invisibilità non è una privazione contingente, ma lo statuto stesso di un significare anteriore a ogni mondo. La trascendenza è Enigma. La parola con la maiuscola nomina non la cosa in sé come antitesi del fenomeno, ma la rottura di ogni ordine fenomenico a me simultaneo, comprensivo di presunte controparti noumeniche inaccessibili alla rappresentazione. Il senso enigmatico di Dio proviene da un passato irreversibile e irrappresentabile, di cui non si dà memoria, poiché non è mai stato un presente empirico, passato che non si lascia trattare come un tema in nessuna “simultaneità non sfasabile” (EDE, 243, 250) di fenomeni, oggetti o concetti – in tal senso è senza arché, alla lettera anarchico. È passato qualcuno. Non sappiamo da dove, né per dove: il sapere venatorio non è più al nostro servizio, non ci sono effetti che richiamino la causalità di un agente, indizi che debbano metterci sulle piste di una preda astuta, o di un killer da romanzo poliziesco – orme sul terreno, impronte digitali, sviste sulla scena del crimine.

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Al posto di indizi abbiamo tracce. Levinas introduce il termine “traccia”, affidandogli un senso difficilmente ospitabile nelle tradizionali classificazioni dei trattati di semiotica, e che ha fra i suoi ascendenti teorici la traccia dell’Uno nelle Enneadi di Plotino. Le cose non lasciano tracce, ma segni: perciò esse sono sempre alla nostra portata, anche laddove siano dichiarate scomparse e irraggiungibili – la storia, caccia ai documenti, ne redigerà vita, morte e miracoli. Ma c’è una cosa che – se ha ragione Levinas – investigatori e storici non potranno mai accertare con i ferri del mestiere, ed è il grado zero del significare della traccia, al di sopra o al di sotto del significare standard del segno. La traccia non è un segno che punti diritto al suo significato, non un significante a cui sia associabile un contenuto concettuale; ci sono più cose nei cieli e nelle terre del significare di quante ne sogni la trasmissione comunicativa. Esempio: un criminale rimuove gli indizi del delitto, quelli che un Auguste Dupin fiuterebbe e processerebbe in schemi di logica deduttiva e abduttiva; ma lascerà tracce, forse non direttamente collegabili all’accaduto, le quali significano – semplicemente e assolutamente – il passaggio di colui che le ha lasciate, a prescindere da intenzioni esplicite. Tutti i segni umani sono tracce, in quanto espressioni elementari della capacità preterintenzionale di lasciarle. La traccia, dunque, vige nel suo peculiare surplus semiotico, a condizione che sia lasciata da qualcuno, non da qualcosa; ma non è sufficiente, perché, in senso pieno e proprio, la traccia non esibisce un contenuto descrivibile: come dice Levinas, è al di là dell’essere. Le due condizioni si congiungono nell’affermazione che l’aldilà dell’essere è una terza persona, un “Egli”, che è sempre passato e si è ritirato, assolvendosi da ogni commercio con la visibilità e l’invisibilità delle cose. Solo un essere che trascende il mondo può lasciare una traccia. La traccia è la presenza di ciò che, propriamente parlando, non è mai stato qui, di ciò che è sempre passato. (EDE, 231)

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Se si vuol far spazio a un’alterità che sconvolge l’ordine fenomenico, se pensiamo che tale ordine non sia esaustivo, allora bisogna postulare – mirabilia delle mirabilia – un anacronismo: il ritiro dell’Egli dall’ordine fenomenico deve precedere l’ingresso in quell’ordine. Egli, l’infinito desiderabile, “altro da altri, altro altrimenti, altro di un’alterità preliminare all’alterità d’altri” (DVI, 93), ha lasciato una traccia e si è eclissato dalla nostra vita. Ma è un passaggio che non lascia indifferenti, che obbliga a una relazione etica con il primo venuto, comandando di non uccidere. È passato qualcuno, Egli è passato, ma Dupin rimarrà a mani vuote. Ha, però, lasciato una traccia. “Illeità” (da “ille”, “egli”) è il bizzarro nome per richiamare il solco – invisibile non-luogo – di questa traccia; l’Enigma, la cui eccedenza si è ritirata dall’apparizione, si annuncia nella traccia dell’Egli. Tutto ciò che si è detto del volto presuppone il passaggio sconvolgente dell’Enigma, la sua anteriorità originaria rispetto al mondo di ciò che appare. La traccia è il volto dell’altro uomo, traccia “ancora calda, come la pelle dell’altro” (EDE, 269), attraverso la quale parla l’Enigma, senza mettere a repentaglio la vita con indovinellicapestro al modo della Sfinge, ma la vita richiamando a risvegliarsi dalla sua “spontaneità di sonnambula” (AV, 184), e a superarsi in desiderio d’infinito. Sono i passaggi più indigesti e meno condivisibili del linguaggio e del pensiero dell’altrimenti che essere. Ma cosa vuol dire “digerire” e “condividere” qui? Il bon sens dell’atteggiamento naturale fiuterà il pericolo del sovrannaturale, e si confonderà col flatus vocis delle opinioni: ci saremmo svagati per qualche ora con una poetica allucinazione. Enigma e traccia stanno e cadono insieme alla differenza tra volto e faccia, fra dire e detto, insieme al singolare anacronismo dell’etica più antica dell’ontologia. È passato qualcuno. Siamo sicuri? Non ci sono prove, ci siamo sbagliati. Uno sconosciuto ha suonato alla mia porta (§ 5.6): l’ennesimo seccatore.

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5.6. Fatti non foste a viver come Ulisse Voglio esplorare i nomi dell’Odissea e trovare le loro origini in me. (E. Canetti, Il cuore segreto dell’orologio)

Ulisse è l’eroe del ritorno, e del dolore del ritorno. Levinas ne fa la personificazione dell’arte guerresca dello stratagemma e dell’imboscata (TI, 230), nonché dell’esplorazione conoscitiva, che parte da sé per tornare a sé, pur dopo peripezie degne di un poema. È l’immagine del pensiero dell’uguale, che caratterizzerebbe la mentalità occidentale nelle sue varie declinazioni, tutte molto diverse nei contenuti e nello stile, ma strutturalmente simili nell’escludere ciò che non si conforma ai suoi criteri. La conoscenza ha bisogno della mediazione dei “Neutri” (EDE, 192; TI, 40 ss.), cioè di predicati comuni che definiscono i concetti, o i super-concetti di tipo categoriale. Quando un oggetto cade sotto un concetto, perde la sua alterità ostensibile ed è riguardato solo rispetto a ciò che lo accomuna ad altre istanze dello stesso genere, al netto di quelle che tecnicamente sono le sue proprietà impure o ecceitistiche. Conoscere, quindi, è ritrovare l’uguale nel diverso. Conoscere equivale a scorgere nell’individuo affrontato, in questa pietra che ferisce, in questo pino che si staglia, in questo leone che ruggisce, ciò per cui non è questo individuo, quest’estraneo, ma si è già tradito, dà presa alla libera volontà che freme in ogni certezza, coglie e concepisce se stesso, entra in un concetto. (EDE, 192)

Come reti, le teorie si intessono di nodi e fili di maglia variabilmente fitta e vengono gettate per catturare la realtà. Fenomeni distanti entrano in una trama di relazioni che li accomuna: asserire, ad esempio, che la luce è un fenomeno elettromagnetico è stato possibile in virtù del ritrovamento, nella luce, della stessa velocità di propagazione posseduta anche dalle onde elettriche. Poiché conoscere significa ritrova-

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re l’uguale nel diverso, il suo esito è una riduzione, un’identificazione parziale o completa. I fenomeni si riconsegnano a noi come risultati di proiezioni soddisfatte o insoddisfatte, confermate o infirmate. La storia della filosofia e della scienza è la mappa dei tentativi di cattura adeguata della realtà in sistemi di nozioni progressivamente più affidabili e unificati, fondati su un numero minimo di concetti elementari. Tale prospettiva è illustrata con chiarezza da un autorevole rappresentante dell’empirismo logico, Moritz Schlick, nella sua Teoria generale della conoscenza. L’uguaglianza, dice Schlick, è “assolutamente, condizione di tutto il conoscere”; inoltre, l’impulso alla conoscenza – che ci fa provare piacere in ogni successo riduttivoidentificativo – è un mezzo necessario all’autoaffermazione della specie, al pari del mangiare e del bere, della lotta e del corteggiamento. La scoperta dell’elettromagnetismo è una ipersofisticazione dei meccanismi di riconoscimento della preda come preda, del nemico come nemico: “Per affermarsi nella natura l’uomo deve dominarla, e questo è possibile solo se egli ri-trova ovunque in essa ciò che gli è noto”. Le classiche analisi di Thomas Kuhn lo hanno mostrato: quando la natura viola le aspettative della ricerca governata da un paradigma, gli scienziati cercheranno di stimare l’area dell’anomalia e di riadattare la teoria paradigmatica, “in modo che ciò che appariva anomalo diventi ciò che ci si aspetta”. Le crisi e l’affermazione di nuovi paradigmi scompigliano gli equilibri delle scuole, ma non distruggono la normalità della “scienza del domani” (EDE, 238), di cui si compileranno sempre i manuali di trasmissione. L’uomo metabolizza senza soluzione di continuità le asperità delle cose e dei viventi; ovunque egli sia, che dorma sotto un paravento o un tetto quadrangolare, l’istinto di autoconservazione, l’istanza del conatus, renderà familiari palmo a palmo i nuovi ambienti. Costruiamo case, perché ci sentiamo a casa, in una dimora che è la concretizzazione del nostro raccoglimento interiore e la condizione del lavoro, della tecnica, dell’economia. Siamo tutti eroi della dimora.

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Il lavoro dimora nell’economia. Viene dalla casa e vi fa ritorno, movimento dell’Odissea in cui l’avventura vissuta nel mondo è soltanto un caso accidentale capitato sulla strada del ritorno. (TI, 181)

Ben inteso, Levinas non attacca i progressi delle scienze, né l’utilità delle loro applicazioni. La sua è tutta un’altra distribuzione di priorità. La varietà e la natura delle acquisizioni scientifiche vedrebbero esaltato il loro valore intrinseco, se affrancate da una cornice di naturalismo riduttivo, e sposate invece a quella visione dell’umano che, per altre vie, egli si impegna a sostenere. La domanda, infatti, è se il progresso non volga nel monismo del “tutto è uguale”. L’ignoto ben presto diviene familiare e il nuovo consueto. Nulla di nuovo sotto il sole. La crisi inscritta nell’Ecclesiaste non è nel peccato, ma nella noia. Tutto si assorbe, si impantana e si mura nel Medesimo. (DVI, 27)

Levinas non è un epistemologo, intento ad apportare migliorie tecniche a una teoria della conoscenza; il suo intendimento, o piuttosto assillo, è di denunciare nella forma mentis naturale dell’uomo, e quindi anche degli scienziati e dei credenti nella scienza, un orrore più pervasivo e coesivo dell’horror vacui, attribuito dagli antichi alla natura. Sin dalla sua infanzia, la filosofia è affetta da un orrore verso l’Altro che rimane Altro, da un’inguaribile allergia. Per questo essa è essenzialmente una filosofia dell’essere, per la quale la comprensione dell’essere rimane l’ultima parola e la struttura fondamentale dell’uomo. Per questo, anche, essa diviene filosofia dell’immanenza e dell’autonomia, o ateismo. (EDE, 216-217).

È ben accreditata la tecnica di spiegare in chiave evoluzionistica l’altruismo e annessi comportamenti “prosociali”, in quanto appartenenti ai tratti specie-specifici, che si conservano nel mutamento biologico, nella misura in cui abbiano apportato benefici di gruppo – a cominciare dalle pratiche

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di grooming nelle scimmie antropomorfe. Tuttavia, il disinteressamento etico discusso in Totalità e infinito non coincide senza residui con l’altruismo, nel senso di una condotta evolutiva o di un lodevole movente psicologico; è, invece, un atto unico nella sua fuorviante ordinarietà, non suscettibile di accuse di ideologia o falsa coscienza, perché sarebbe addirittura – nella sua abnorme pretesa – l’unica via di uscita dall’essere o, se si vuole, la forma più consapevole di distanziamento dal corso naturale delle cose. Come nella teoria stoica della oikéiosis, il pensiero dell’uguale e la sua appropriazione familiarizzante includono i loro possessi in cerchi domestici concentrici e sempre più comprensivi. Possiedo le cose, il mio soggiorno nel mondo è stabile. Ma l’altro, il suo volto, è il disordine senza paradigmi, l’anomalia senza normalità; non rompicapo, ma enigma. Uno sconosciuto suona alla mia porta. Un’insistente scampanellata, inattesa come la lettera che, giunta a Oblomovka, disturba il pigro metabolismo dei suoi abitanti. Il prossimo sa essere rude, sa farsi avversare. Oppure, un lieve bussare e niente più. La mia testa tentennava, quando udii un lieve bussare, quasi un tocco, e un tocco ancora risuonasse alla mia porta. “C’è qualcuno”, mormorai. “Sta bussando alla mia porta. Solo questo e niente più”. (E.A. Poe, “Il Corvo”)

Può anche darsi che non ci sia nessuno. Oppure è uno che cercava conforto: è entrato, ha interrotto il mio lavoro, mi ha turbato; poi ho ricondotto l’accaduto a una norma e sono ritornato a sentirmi “a casa mia”. La coscienza sa rendere conto degli universi, “premunita contro ogni effrazione traumatica, secura adversus deos” (HAH, 139); cosa sarà mai la visita di Tizio o Caio? È apparso con i suoi vestiti, è stato fenomeno, manifestazione da cima a fondo, oggetto di resoconto: era un seccatore, uno che ha sbagliato indirizzo. Ecco che l’accaduto si la-

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scia normalizzare a condizione di perdere altri, che è sempre di fronte. La metafisica, leggiamo nella conferenza La Separazione, “sarebbe una Odissea e la sua inquietudine, il mal del ritorno, la nostalgia” (PS, 268; TI, 103); tutte le disavventure patite nel viaggio deviano contingentemente da una direzione, che resta la meta ultima. Odisseo assurge a idealtipo dell’uomo contento all’immanenza della percezione e della concettualizzazione, alle quali sono funzionali viaggi, prove, esperimenti; accanto a lui, l’Ulisse dantesco, la cui virtute e canoscenza costituiscono il collimatore intenzionale e finalistico del sapere, che riconduce il diverso all’identico. Ulisse varca ardito le colonne d’Ercole, ma resta nel perimetro asintoticamente espandibile della conoscenza: le più incredibili sciagure sono tali, perché accadono sulla strada del ritorno. Odisseo-Ulisse non esce; ritorna, anche se riparte. Agli antipodi, in un’antitesi decaduta a luogo comune, troviamo Abramo, che lascia la casa per una dimora ignota, protagonista di un esodo animato dal desiderio d’infinito. La meta è in avanti, ma non si curverà sul punto di partenza, perché non è né Heimat né Lebensraum (DVI, 55). Al mito di Ulisse che ritorna a Itaca, noi vorremmo contrapporre la storia di Abramo che lascia per sempre la sua patria per una terra ancora ignota e che interdice al suo servo persino di ricondurre suo figlio al punto di partenza. (EDE, 219)

5.7. L’ennesimo altro Atena: […] chi non s’è imbattuto in tali dee gravose Non sa donde vengano le percosse della vita. (Eschilo, Eumenidi, vv. 932-933)

Per preservare la dignità dell’altro uomo non dovremmo partire dalle totalità logiche o dalle molteplicità materiali; all’inverso, si deve partire dall’esperienza dell’altro per de-

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terminare le totalità ed esaminarne limiti e tenuta. Il parallelo con la percezione è istruttivo (TI, 56): senza la percezione, non avremmo accesso alla comprensione dei risultati teorici delle scienze, anche di quelli che trascendono di principio la sensorialità umana. Il volto di altri è insieme l’origine e la pietra di paragone di qualsiasi logica. Invano si cercherebbe nella proposta filosofica dell’altrimenti che essere un idealismo utopico fine a sé stesso, privo di verifiche trasformative nel presente, poiché non si fanno sconti alla durezza della vita – l’umano, così prezioso e unico, si conta a miliardi. D’altronde, con la critica alla quantificazione Levinas non ha mai inteso sconfessare la costruzione dell’oggettività; sussumere sotto un genere, rilevare l’istanza di un tipo, includere in un insieme sono operazioni cogenti, in forza del fatto brutale che gli individui attorno a me fanno numero. Poiché la fattualità nuda e cruda della coesistenza genera turbolenze e incognite, siamo obbligati a vedere nell’altro l’esemplificazione di un concetto: la persona giuridica, il cittadino di uno Stato, l’esecutore di una funzione, e così via. Kant stesso aveva affidato all’imperativo pratico il comando di trattare l’umanità, nella propria persona e in quella di ogni altro, “sempre insieme come fine, mai semplicemente come mezzo”, permettendo di inferire tanto l’impossibilità di essere mezzi, e mezzi soltanto, quanto il fatto scontato di doverlo diventare vivendo. Un tale ordine di idee differisce dal quadro teorico che aveva spinto Hobbes a limitare la libertà per scongiurare la guerra totale; quel che Levinas contesta è che l’analisi quantitativa, il numero applicato ai volti, debba superare i legittimi confini metodici e diventare, da artificio strumentale, concezione pervasiva e sostanziale. La fraternità fra me e l’altro, linguaggio originario senza parole né proposizioni, viene prima – in senso fenomenologico e metafisico – della costituzione della lingua, della cultura, della comunità, dello Stato. È da questo stesso legame, anteriore a ogni scelta, che discende la necessità di limitarne l’esclusività. Perché? Perché c’è il terzo escluso,

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ossia un altro “altro”, non coinvolto nell’immediatezza privilegiata del faccia a faccia. Il terzo potrebbe essere vittima dell’altro, così come il quarto del terzo. Se esistessero solo Robinson e Venerdì, il faccia a faccia non conoscerebbe limiti; ma la realtà è dura, in quanto costringe a tener conto dell’ennesimo, e a moderare così il privilegio d’altri (EI, 90). Incredibile che l’ordine numerico modelli la convivenza umana. L’altro è incalcolabile, eppure nella maniera più facile e ovvia diventa addendo, sottraendo, dividendo o fattore di operazioni aritmetiche. Di fatto, la totalità, e l’ontologia che presiede alla totalizzazione, è inevitabile: gli altri devono disporsi in serie, insiemi, classi – dobbiamo comparare gli incomparabili. In una filosofia di così generoso respiro subentra un momento di realismo, non ingenuo né cinico, in quanto – all’opposto di Hobbes – trattare l’altro come caso specifico di un genere è una conseguenza della stessa alterità irriducibile di altri, non del nostro istinto ferino. La politica, lo Stato, il monopolio dell’uso legale della forza, e la giustizia come violenza legittima, nascono proprio perché l’altro è talmente poco un profilo plastico, è talmente non-figurale o infigurabile, da risultare invisibile in un senso ancora diverso da quello rilevabile nel faccia a faccia. L’altro è invisibile, perché è pure ennesimo. L’introduzione della rappresentazione quantitativa, della comparazione e dell’oggettività è una conseguenza della responsabilità estesa al terzo, cioè all’ennesimo, che non cessa di essere prossimo per il fatto di rimanere escluso dall’incontro frontale. Dobbiamo essere giusti, e la giustizia, esercitata nelle istituzioni di uno Stato, o di una corte sovranazionale, si premura di garantire la propria imparzialità, nel momento in cui impone di confrontare gli unici: chi fra A e B è colpevole? Poiché si deve poter riparare ai torti e punire i trasgressori delle leggi, la giustizia umana non può considerare primariamente il volto infinito, bensì l’istanza replicabile. I tribunali hanno un compito, che sfida i limiti della nostra mortalità e affidabilità

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razionale: tenere in piedi l’equità del giudizio, interrompendo la reazione a catena della violenza attraverso la comminazione di pene e sanzioni. Non può esserci spazio per un’indulgenza indifferenziata, per un perdono gratuito universale. In una delle sue numerose esegesi talmudiche, Levinas si confessa commosso dalla rilettura delle Eumenidi di Eschilo, trovando in Zeus un dio degno in sommo grado, e giungendo, quasi, ad ammettere che i Greci avessero già detto l’essenziale su ogni cosa. L’affidamento del matricida Oreste al verdetto dell’Areopago non soffoca l’esigenza di una riparazione del delitto, impersonata dalle Erinni, le spaventose furie della vendetta. Le Erinni non sprofondano, ma, convertite in Eumenidi, risiedono rappacificate in Atene. Nessuno può scacciare, semplicemente, le dèe della vendetta, e solo gli uomini – mortali e possibili vittime del male – hanno voce in capitolo a questo punto. (QLT, 138)

Di qui un’incongruente moltiplicazione dell’unico e un’estensione universale della relazione intersoggettiva: gli altri sono quantificati in casi di tipi diversi, senza che l’alterità di ciascuno sia ipso facto erasa. Per evitare di degenerare in amministrazione razionale delle pene, la giustizia dovrà difendere il suo carattere di imperfezione perfettibile e di “opera sublime e difficile” (AeT, 144), integrando fra di loro due modalità di esercizio: la logica della reciprocità e dell’oggettivazione, da un lato, e l’eterogeneità irriducibile, dall’altro. Per arrestare la corsa a precipizio dell’istituzionalità giuridica e politica verso l’efficientismo burocratico, bisogna riattivare costantemente il suo senso sorgivo, che è il volto. I criminali hanno un volto? Sarà inquietante ammetterlo, ma più inquietante ancora negarlo, dimenticarlo, rimuoverlo. Levinas fu personalmente incapace di compassione per Klaus Barbie, comandante della Gestapo a Lione, condannato all’ergastolo nel 1987 per crimini contro l’umanità: “Se qualcuno, in spirito suo e in coscienza, può perdonarlo, che lo faccia. Io non posso” (IH, 170). È stato il suo modo

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di mantenersi fedele ai milioni, ennesimi altri, e allo stesso tempo di onorare il principio occidentale del nulla culpa sine judicio, che ha garantito all’imputato la presunzione di innocenza, una difesa e un giusto processo. 5.8. Assiologia primordiale Brandon: “Listen to me. Just listen. Let me explain.” Rupert: “Explain? Do you think you can explain that?” (A. Hitchcock, Rope, 1948)

Quale ritratto dell’uomo ci lascia in eredità Levinas? Il vocabolario usato ad hoc per presentarlo ha dei picchi lirici e drammatici: un individuo in carne ed ossa, che non abbandona l’impresa intergenerazionale della conoscenza, che fa tesoro dei saperi e delle tecniche, ma percepisce la fatticità ingiustificata e violenta del suo stare al mondo. Soggetto all’accusativo, accusato, deposto, esposto, deportato, ostaggio, senza più sostanza, denucleato per frantumazione o fissione (AE, 81, 177; DVI, 27, 43). L’unità dell’appercezione trascendentale, che cementava la sintesi coerente della costituzione del mondo, non è più sufficiente a caratterizzare l’interpellato dall’infinito etico, poiché la sua sensibilità non è più solo la ricettività, che fornisce la base empirica per la formazione dei concetti, ma passività, accoglienza, “ipseità di pura elezione” (DVI, 91). Cosa mi succede? Chi dovrei diventare? Uno che veglia, un insonne – non alla maniera degli aficionados della disperazione, rapiti solo dalle increspature della propria pelle: insonne, perché mi sobillo da me stesso di fronte a una responsabilità senza limiti, a cui vorrei sottrarmi con qualche ebbrezza, una bellezza che tolga la voce, un riposo che mi ristori. Invano fingersi sordi o smemorati, il Cantico dei Cantici parla per me: “Io dormivo ma il cuore udiva…”. Quale paesaggio naturale, creazione d’arte o scoperta scientifica

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potrebbe distogliermene? Quale sistema metafisico, dimostrazione logica, decostruzione o sospetto? Chi dovrei diventare? Uno a cui la parola “Buongiorno!” risuona come il “primo miracolo” (RB, 59), ben oltre l’aspetto, gramo, di routine di buona creanza. In molti dei cosiddetti convenevoli del savoir faire sarebbe già implicita la responsabilità iperbolica, che deborda dalle etichette. Mentre proferisco formule di saluto – ma anche quando mi fastidiano e le ometto di proposito –, sono già coinvolto in un linguaggio, che precede non solo la relatività geografica delle usanze, ma la stessa sintassi e le regole semantiche della comunicazione. Interiezioni o espressioni di deferenza concorrono a formare atti illocutivi interumani, fra le cui condizioni di felicità c’è un locutore sincero, ma per Levinas si è già altrove rispetto agli elenchi dei galatei. Quando, davanti a una porta aperta, dico a qualcuno “Prego, dopo di Lei!”, è perché c’è il volto. I prontuari, che sconsigliano di dire “Salute!” a chi abbia starnutito, sono reificazioni tardive e già militaresche, viventi di luce riflessa. “Quello che ho cercato di descrivere è un ‘Prego, dopo di Lei!’ originario” (EI, 90). Nella dualità assoluta del faccia a faccia, linguaggio anteriore alla costituzione dei sistemi segnici, e responsabilità infinita, come infinita è la realtà personale a cui si è di fronte, Emmanuel Levinas ha difeso l’eccentricità umana contro l’ultima parola di modelli e generalizzazioni. La sua opera è uno scrigno di metafore ben più che retoriche, che aprono su scenari controintuitivi e spiazzanti di escatologia pratica, non sovrannaturale. Dopo la lettura di Levinas, la parola “società” non ha più il sapore disamorante delle amministrazioni aggregative, e con il sintagma “costruire una nuova società”, già a fior di labbra votata alla denigrazione, non ci si accontenta più solo di programmi politici e tornate elettorali. Chiedersi come sarebbe una società, nata dall’estroflessione dei soggetti liberi, equivale a intravedere l’impatto che il disinteresse etico, incarnato in una forma di vita, avrebbe sul pianeta. Società che non avrà l’aspetto di una landa lunare, ma non sarà neppure

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il paradiso o il sol dell’avvenire finalmente avverato. La giustizia non conosce l’ultimo atto. Una società mai vista, ma che è trasparsa in quei momenti singolari, che la coscienza individuale e collettiva, pur assuefatta alle evidenze della causalità efficiente, ha avuto la sensibilità di riconoscere e la generosità di eccettuare dalla normalità. Momenti dell’altrimenti che essere, che contestano nella teoria e nella prassi l’ottusità insita nel conatus a esistere. È legittimo nutrire il sospetto che nel pensiero dell’al di là dell’essere si annidi un coacervo di illusioni, di proposizioni ambigue, di pretese insoddisfacibili; basti pensare all’ostinazione contro il linguaggio ontologico, la quale non ha potuto fare a meno di ricorrere al verbo “essere” per darsi un’espressione. Ma per Levinas l’ontologia, se non è eliminabile ontologicamente in una circolarità autoconfutante, si può collocare in secondo piano, sottraendole la misura ultima della sensatezza e affiancandole sempre una controtraduzione, che faccia trasparire, dietro le cose e i fatti, un surplus di significato, testimoniato dagli atti e dai gesti di una “assiologia primordiale” (EN, 237): da quelli dimessi del saluto fino alle decisioni impreviste, che prendono in contropiede la storia, sospendono gli ordini e accennano a un orizzonte oltre l’essenza. Il 19 novembre 1977 il presidente dell’Egitto Anwar Sadat atterrò all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv. Il portello si aprì e restò per qualche lunghissimo secondo un vano oscuro, che annunciava l’inverosimile, il politicamente insperabile. Comparve Sadat. Strinse la mano a Menahem Begin, primo ministro dello Stato ebraico. Gesto che le cronache dell’epoca hanno radiografato in lungo e in largo, stupite dinanzi all’incommensurabilità metastorica o transtorica dell’evento, quattro anni dopo la guerra del Kippur. Quel che Sadat aveva intravisto, cioè che il concetto di pace precede e oltrepassa il discorso politico, sarebbe evaporato in nulla, cedendo il passo alle armi. Nel migliore dei casi, l’escalation della brutalità sarà sospesa dallo stallo delle recriminazioni reciproche. Le cose tornano all’usato sicuro.

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Figura 15 – Anwar Sadat e Menahem Begin

Levinas ha una notazione peregrina, quasi una boutade, ma da prendere alla lettera: sul piccolo schermo, i passi di Sadat sulla scala dell’aereo sono parsi simili ai passi degli astronauti sulla Luna (AV, 278). Scene relativamente rare, di creature aliene, che oscillano fra realtà e irrealtà, sfumando spesso nel fiabesco, come nella tregua di Natale durante la Grande Guerra, o nel miracolo salvifico immortalato nel Libro di Rut: la suocera che va d’accordo con la nuora! Cosa mi succede, dunque? Continuo a guardare dalla feritoia dell’elmo la bocca di chi mi parla, ma imparando a considerarvi il differente, l’inassimilabile tout court. Resto un tipo scaltro, o che si ritiene tale, per il quale i consigli della prudenza non hanno segreti, un tipo che legge l’Oracolo manuale: “L’esperto giocatore non gioca mai la pedina che l’avversario immagina, e ancor meno quella che desidera”. E tuttavia, chi divento? Uno che impara a sentirsi addosso l’invadenza dei propri modi, che impara a sentire

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meno penoso l’inchinarsi all’altro, piuttosto che alle cose e ai fatti (EDE, 202). Uno che continuerà probabilmente a notare che “A è troppo docile”, “B è tutta sua madre”, “non è da C parlare così tanto”, ma ghermito da un concomitante nodo alla gola, invito pressante a riconsiderare il proferito, a rimarginare la ferita inferta. Dice un testo talmudico: “Non giudicare il tuo prossimo, finché non sei giunto al suo posto” (DVI, 26, n. 7). L’energia, che rifluiva naturale all’apologia di me stesso, è dirottata alla difesa dell’aggredito dai marchi a fuoco. Sempre dalla parte del capro espiatorio, avrò qualche ragione in più per spiegare l’impossibilità di spiegare la transizione violenta del volto in maschera, come ha compreso il levinasiano Rupert nel film Rope di Hitchcock. Chi divento, dunque? Uno ai cui orecchi la parola “felicità” ha felicemente perduto il suo charme tirannico. Uno che si è persuaso che la domanda “per chi?” sia la domanda della filosofia.

Figura 16 – Emmanuel Levinas (Parigi, 1991)

Sesto dialogo Addio

[In riva al mare, nella frescura di una pineta, in un quieto crepuscolo ottobrino] T.: È stata una magnifica idea venire qui. Le incursioni turistiche non hanno del tutto snaturato questo luogo a me caro fin dall’infanzia. E.: Penso di averti posto una domanda grave, sempre nuova, anche se una delle più frequenti. T.: Prendo tempo. O forse, dinanzi all’armoniosa regolarità dei flutti e degli ultimi riflessi del sole che svanisce, il dramma della tua domanda si smorza. E.: “Dolce, quando nel mare immenso i venti sconvolgono le acque, contemplare dalla riva l’affanno grande di altri, non perché l’angoscia d’un uomo dia gioia e sollievo, ma perché è dolce vedere da che mali tu stesso sei libero”. Il nostro Ionio è sereno, ma cosa cambia rispetto alla consolazione di Lucrezio? T.: Ti direi: nessuna differenza. E.: Adotti lo sguardo di Dio su tutto ciò che c’è, ti senti protetto da una concezione assoluta, o in ogni caso punti una lente sul formicaio umano, pretendendo di starne fuori. Gli affanni del mucchio non ti riguardano. T.: Vedi, approssimarsi a Levinas è stato importante per me. Riconosco che il cammino è appena agli inizi, ma l’onestà intellettuale mi forza in altre direzioni. Resisto al fatto che l’altrimenti che essere sia altra cosa dall’essere altrimenti: già la pesantezza della formulazione rinforza il mio sospetto logico sul totalmente altro.

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E.: Aveva ragione Bergson, quando diceva che ogni filosofo ha due filosofie, la sua e quella di Spinoza? T.: Puoi metterla così. Infilo l’anello degli anelli, l’anello del ritorno. [Dal paese, che si intravede di là dalla scogliera, partono i fuochi della festa patronale, con una sciarada di luci nella penombra]. Le chance di questo “altrimenti Levinas” non sono incoraggianti. Esclusa l’attenzione di benemeriti studiosi, non c’è oggi l’humus adatto, in cui un’opera così eccessiva ed esigente possa attecchire. E.: Moralista e, per di più, antinaturalista. Non c’è binomio più indigesto. [Lungo silenzio, oltre la fine dello spettacolo pirotecnico] T.: Tu mendichi la visuale della singola formica, con le sue idiosincrasie e sofferenze? E.: Sono diventato più sensibile, o più allergico, alle sirene del panteismo. Il panteismo è una “vacanza morale” – per dirla con William James –, una sospensione della domanda “per chi?” e del suo carattere responsivo e responsabile, come nella contemplazione lenitiva di Lucrezio. Tutte le cifre, o gli emblemi, o le parole dell’altrimenti che essere risuonano come un unico grido contro la necessità impersonale, dentro cui ti affretti a tumulare oggetti, eventi e viventi. E continui a evitare la domanda, che i nostri simili si fanno tra di loro, quando sono in vena di confidenze: hai paura della morte? [La domanda viaggia sola nell’aria. Le onde piccole e calme sfrangiano i riflessi lunari] T.: Touché. Infinite volte mi è apparso il pensiero che l’incontro con un amico, o con il “primo venuto”, potesse essere l’ultimo. E.: Un inconsapevole addio. T.: Sì. Sono malinconie a cui il pensiero ha strappato i denti affilati. Ho imparato a vedere nelle paure, o nei rimorsi o nelle nostalgie per la perduta infanzia, solo delle contrazioni involontarie della pelle e dello stomaco – senza significato. Perdono di importanza e svaniscono. E.: È un peccato che il nostro testo dica poco o nulla sull’addio.

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T.: [Con una punta di ironia nel tono di voce] Bisognerà aggiungere un altro capitolo. E.: Sull’addio e sulla santità. [Prolungando l’ironia] Sospetto che l’autore abbia voluto proteggerli dalle anticipazioni mentali. T.: Ascolta il canto dei grilli. Le “gemme del silenzio notturno”, come li chiama Gadda. È senza limite, sembra provenire dal mare. Dimmi dell’addio. E.: Più che dirne qualcosa, dovremmo dircelo adesso. T.: “Adieu”. Mi immagino Jaques Derrida pronunciarlo a Emmanuel, nel cimitero di Pantin a Parigi. La voce franta dall’emozione consegna il suo discorso al vento e alla pioggia. E.: Quando dici “addio”, esprimi un pensiero più antico del cogito. È un commiato dalla terraferma, dalla presenza delle cose, salde nel mondo, e dal mondo stesso. È attesa paziente dell’inafferrabile. T.: En attendant Godot. E.: Interessante solo come parodia. L’inafferrabile è ciò che non è mai colto come termine oggettuale, però non è la frustrazione del “verrà domani”, perché rimanda al volto degli altri. Godot sarebbe già sotto gli occhi di quelle maschere in scena. T.: Ma si potrebbe vivere un’intera vita nell’addio? E.: La vita è già addio, perché è la sintesi passiva del tempo, un’antica diacronia che ci fa scoprire quanto la nostra vulnerabilità non sia un difetto di potenza. T.: Mi vengono in mente le parole di Socrate ad Alcibiade: “Ecco, io sono colui che non ti abbandona, ma rimane quando il tuo corpo sfiorisce, mentre gli altri si sono allontanati”. E.: Mi piacerebbe leggerle nel senso del disinteressamento etico, fino alla morte altrui, temuta più della propria. T.: Ultima latet, amico mio. Ma, qualunque cosa possa significare, “addio”! E.: “A-Dio”…

Note di lettura

NB. Qui di seguito alcune indicazioni per approfondimenti e ulteriori letture. Per la spiegazione delle sigle delle opere levinasiane si vedano i Riferimenti bibliografici, Sezione I. Premessa e Capitolo 0 Il cognome “Levinas” è sempre scritto nella grafia non accentata, salvo in due casi, motivati dal contesto: pp. 23 e 147. Fra le numerose introduzioni in lingua italiana al pensiero di Levinas segnaliamo Ferretti 2010, Petrosino 2017 e Tilliette 2020. A scanso di equivoci, si precisa sùbito che sono stati usati come equivalenti i principali termini-chiave afferenti al campo semantico dell’alterità: “altro” (“autre”) e “altri” (“autrui”), derivanti per sincope dal latino “alt(e)rum”. Si rimanda, in proposito, a due note esplicative: la prima di F. P. Ciglia in NP, 191, la seconda di A. Moscato in HAH, 25, n. 7. Inoltre, un ulteriore termine-chiave, “volto” (“visage”), ha qui sempre l’accezione tecnica di Levinas, mentre per i sinonimi “viso” e “faccia” si lasciano le accezioni ordinarie, eccettuata l’espressione “faccia a faccia” (“face-à-face”), che prende il significato tecnico. Il virgolettato nella Premessa è una metafora presa dai “Detti memorabili di Filippo Ottonieri”, in G. Leopardi, Operette morali, a cura di L. Melosi, Rizzoli, Milano 2019, p. 385.

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La ricostruzione degli ambienti e dei dati relativi alla prigionia di Levinas è basata su RB e CC; si vedano anche i brevi scritti “Firma” (in DL, 361-366) e “Senza nome” (in NP, 155-159). In generale, sulla vita di Levinas sono utili Malka (1986) e Malka (2003). L’episodio del cane Bobby compare in CC, 158, nel tentativo di romanzo Eros o Triste opulenza (in ELF, 48) e nello scritto “Il nome di un cane o il diritto naturale” (in DL, 191-194). Pallino (Šaric), Bianchetto (Belka) e Moncherino (Kul’tjapka) compaiono in F. Dostoevskij, Memorie da una casa di morti, traduzione di M. Gallenzi, Mondadori, Milano 2023, pp. 144-145, 364-367. Sulla distinzione fra i verbi tedeschi “essen” e “fressen” si vedano di Primo Levi Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 2014, p. 71 e I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 2007, p. 76; inoltre P. V. Mengaldo, La vendetta è il racconto. Testimonianze e riflessioni sulla Shoah, Bollati Boringhieri 2007, pp. 59 ss. L’episodio dei versi di Hölderlin è in J. Améry, Intellettuale a Auschwitz, Bollati Boringhieri, Torino 2011, p. 37. L’osservazione di Benjamin è in una lettera del 20 marzo 1933 indirizzata a Scholem: cfr. W. Benjamin, G. Scholem, Archivio e camera oscura. Carteggio 1932-1940, Adelphi, Milano 2019, p. 60. L’Abbé Pierre di cui parla Levinas è un omonimo del fondatore della Comunità Emmaus: si veda l’intervista con François Poirié (RB, 40); di padre Chesnet si fa menzione nei Quaderni di prigionia (CC, 197) e nello scritto “Una religione da adulti” (in DL, 29). Cfr. anche Malka (2003, 81-82). I versi 7-8 del Salmo 113 sono riportati nella traduzione di G. Ravasi, Il libro dei Salmi, Vol. III, EDB, Bologna 1986, p. 333. [Primo dialogo] Di Paul Valéry è citata la Introduzione al metodo di Leonardo da Vinci, SE, Milano 1996, p. 14. Il riferimento all’acqua è ispirato dallo scritto “La Bibbia e i Greci” (in HN, 153-156, in particolare p. 154).

Note di lettura255

Capitolo 1 [§ 1.1] Per l’espressione “I woke up one day and I knew I was a European” cfr. Malka (2003, 26). Il passaggio su Frege è una perifrasi dal “Vorwort” ai Grundgesetze der Arithmetik, Vol. I, Georg Olms Verlagsbuchhandlung, Hildesheim 1966, p. 6. [§ 1.2] L’osservazione sulle virgolette ironiche è di V. Klemperer, LTI. La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo, Giuntina, Firenze 2011, p. 173. Blanchot parla di vita e di giovinezza della filosofia nel suo testo-omaggio a Levinas, “Notre compagne clandestine”, in F. Laruelle (sous la dir. de), Textes pour Emmanuel Lévinas, JeanMichel Place, Paris 1980, p. 80, citato in Malka (2003, 41). Il passo sulla croce è nel testo “Un moment de la conscience humaine”, pubblicato su Paix et Droit nel marzo 1939, citato in Malka (2003, 72). [§ 1.3] Il paragrafo si completa con il § 5.5. Precisiamo l’inciso su Pasolini con il seguente passo: “Là dove si parla di Dio, anche per dire la propria miscredenza, non c’è la borghesia”, riportato nella Cronologia di P. P. Pasolini, Lettere 1955-1975, a cura di N. Naldini, Einaudi, Torino 1988, p. lxxxiv. L’espressione “vorticoso plesso delle cognizioni” traduce il termine “cittavṛtti” in Patañjali, Yogasūtra, a cura di F. Squarcini, Einaudi, Torino 2015, p. 5. L’affermazione di Tichon è in F. Dostoevskij, I demonî, traduzione di A. Polledro, Einaudi, Torino 1994, p. 402. La strofa della poesia Tenebrae di Celan è riportata nella traduzione di Massimo Baldi, contenuta in M. Baldi, Paul Celan. Una monografia filosofica, Carocci, Roma 2013, p. 78; referenza obbligata resta P. Celan, Poesie, a cura di G. Bevilacqua, Mondadori, Milano 1998. La citazione verso la fine del paragrafo è tratta da “La signification de la pratique religieuse”, testo per un’intervista al programma Écoute Israël, trasmesso alla radio francese France Culture il 9 aprile 1937 (ripreso da Malka 2003,

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232). Il nostro lavoro si limita a toccare la questione dell’ebraismo di Levinas in alcuni punti essenziali, tangenti con i temi propriamente filosofici; per approfondire l’argomento un saggio agile è quello di A. Peperzak, “Esperienza ebraica e filosofia”, in ELF, 141-154, ma poi si vedano, anche per la comprensione generale del Levinas talmudista, Chiappini 1999 e Di Castro 2012. [§ 1.4] Per la ricostruzione dell’atmosfera friburghese sono stati utili i testi levinasiani “Séjour de jeunesse auprès de Husserl 1928-1929” (in PT, 3-7) e “Fribourg, Husserl et la phénoménologie” (tradotto in IH, 81-92). Su Friburgo e Davos si veda Malka (2003, 49-63); sul rapporto HusserlHeidegger un primo orientamento utile è E. Husserl, M. Heidegger, Fenomenologia, a cura di R. Cristin, Unicopli, Milano 1999. L’affermazione “La fenomenologia, siamo io e Heidegger e nessun altro” è riportata in Hans-Georg Gadamer, Neuere Philosophie, I. Hegel, Husserl, Heidegger, Gesammelte Werke, Band III, J. C. B. Mohr, Tübingen 1987, pp. 116, 188. La lettera di Husserl con la menzione di Levinas è quella indirizzata a Roman Ingarden il 13 luglio 1928, in E. Husserl, Briefwechsel, Husserliana Dokumente III/3, Kluwer, Boston-Dordrecht-London 1994, p. 242. L’espressione “pecorella filosofica” (“philosophisches Schäfchen”) è riportata da Levinas in Séjour de jeunesse auprès de Husserl 1928-1929, in PT, 5. L’elogio di Heidegger, poi espunto da EDE, è in Levinas, “Martin Heidegger et l’ontologie”, in Revue Philosophique de la France et de l’Étranger, CXIII, 1932, n. 5-6, p. 395, riprodotto nella traduzione di Ciglia (1996, 20). [§ 1.5] Lo scambio di battute fra Cassirer e Heidegger è liberamente composto, ma nell’essenziale riproduce le posizioni del dibattito di Davos, riportato come appendice in Heidegger (1989, 219-236, in particolare 222-226, 230, 232-233).

Note di lettura257

Per i versi dalla “Nuvola in calzoni” di Majakovskij cfr. A. M. Ripellino (a cura di), Poesia russa del Novecento, Feltrinelli, Milano 1983, p. 251. Del Cantico dei Cantici si è scelta la traduzione di G. Ceronetti, Adelphi, Milano 1975: p. 18 per il passo nel § 1.5, p. 44 per il passo nel § 4.8, p. 29 per il passo nel § 5.8. «Che vita! La vera vita è assente. Noi non siamo al mondo»: cfr. A. Rimbaud, Una stagione all’inferno, “Deliri”, I, in Id., I deserti dell’amore. Le illuminazioni. Una stagione all’inferno, Dall’Oglio, Milano 1950, p. 141. Levinas ripropone le parole di Rimbaud, ma con una significativa antitesi: “’La vera vita è assente’. Ma noi siamo al mondo” (TI, 31). L’esclamazione di Borges è nel racconto La scrittura del dio dalla raccolta L’Aleph, in J. L. Borges, Tutte le opere, vol. I, Mondadori, Milano 1984, p. 861. La Montagna incantata di Thomas Mann è citata nella traduzione di Bice Giachetti-Sorteni per i tipi Dall’Oglio, Milano 1930, in due volumi: volume II, p. 267 (sono state eliminate le parentesi tonde dalla prima frase). [Secondo dialogo] L’analisi del Geviert è nel saggio “Costruire abitare pensare”, in M. Heidegger, Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, pp. 96-108. L’espressione “fedeltà alla zolla” compare in un discorso del 1925, riprodotto in Id., Discorsi e altre testimonianze del cammino di una vita 1910-1976, Il Melangolo, Genova 2005, p. 51. Il passo di Valéry è dai Quaderni, Vol. I, Adelphi, Milano, 2009, p. 23. Capitolo 2 Il secondo capitolo si concentra sull’ontologia. L’uso ripetuto di questo termine rimanda alla nozione classica greca, che da Parmenide e Aristotele giunge fino alle ontologie regionali di Husserl e all’ontologia fondamentale in Essere e tempo di Heidegger; la parola indica, da un lato, la teoria

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generale dell’essere in quanto tale e delle sue proprietà e, dall’altro, la dottrina dell’essere basata sull’analitica esistenziale e sull’uomo concepito come Esserci (“Dasein”), l’ente privilegiato in grado di porsi la domanda sull’essere. Possiamo senz’altro integrarvi la nozione di ontologia elaborata dai filosofi analitici. Per queste precisazioni cfr. H. Putnam, Etica senza ontologia, Bruno Mondadori, Milano 2005, pp. 25 ss. Di Putnam si segnala anche il confronto con Levinas nel volume Filosofia ebraica, una guida di vita. Rosenzweig, Buber, Levinas, Wittgenstein, Carocci, Roma 2011. [§ 2.1] Per l’“umiliante chimera” hitleriana cfr. H. Rauschning, Confidenze di Hitler, Erredici, Padova 1974, p. 222. Il porre ad acta di Nietzsche è in una lettera indirizzata a Carl Fuchs da Torino il 27 dicembre 1888: cfr. F. Nietzsche, Lettere da Torino, Adelphi, Milano 2008, p. 170. [§ 2.2] “La Nausea non è in me…”: cfr. J.-P. Sartre, La nausea, traduzione di B. Fonzi, Einaudi, Torino 1990, p. 34. La “Cosa” di Kate – in David Foster Wallace, Infinite Jest, Einaudi, Torino 2016, p. 834 – permette un’interessante lettura della cosiddetta “depressione psicotica” in termini di reazione all’essere neutro (al “c’è” dei §§ 3.1 e 3.2). [§ 2.3] Il “gesto” di Pavese tronca Il mestiere di vivere 1935-1950, Einaudi, Torino 2014, p. 400. I versi di Baudelaire nei §§ 2.3, 3.2 e 3.5 sono resi nella traduzione in prosa di Attilio Bertolucci: C. Baudelaire, I fiori del male, Garzanti, Milano 2015, rispettivamente pp. 173, 337, 131. Salvo errore, le occorrenze del nome di Oblomov nell’opera di Levinas sono due: CC, 69 e EE, 22. Le domande di Oblomov – “Quando dunque vivere?” e “Ma che cosa è dunque l’‘altro’?” sono in I. Goncarov, Oblomov, traduzione di E. Lo Gatto, Einaudi, Torino 2000, rispettivamente pp. 59 e 93. [§ 2.4] “Evasi, effugi”: cfr. Iscrizioni funerarie romane, a cura di L. Storoni Mazzolani, Rizzoli, Milano 1991, p. 62. [§ 2.5] Per Günther Anders cfr. Noi figli di Eichmann, Giuntina, Firenze 1996, p. 48.

Note di lettura259

L’affermazione di Primo Levi sul fascismo è nell’articolo “Un passato che credevamo non dovesse ritornare più”, pubblicato l’8 maggio 1974 sul “Corriere della sera”, ora in P. Levi, L’asimmetria e la vita. Articoli e saggi 1955-1987, Einaudi, Torino 2002, p. 47. Sulla stringa-piaga cfr. Id., La tregua, Einaudi, Torino 2014, p. 197. Su Auschwitz e Lisbona si sofferma H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, Il Melangolo, Genova 2004, p. 36. [§ 2.6] Di Adorno si richiama la celebre enunciazione sull’atto di “barbarie”, in cui consisterebbe lo “scrivere una poesia dopo Auschwitz” (T. W. Adorno, Prismi. Saggi sulla critica della cultura, Einaudi, Torino 1972, p. 22). Di Robert Nozick si legga La vita pensata. Meditazioni filosofiche, Rizzoli, Milano 2004, Capitolo XX, pp. 247 ss. [Terzo dialogo] La posta in gioco del dialogo – che può solo accennare alla nozione tecnica di “Enigma”, sviluppata da Levinas nel saggio “Enigma e fenomeno” (EDE, 235-251) – viene ripresa nel § 5.5. La “nostra effige” è richiamo dantesco: Paradiso, XXIII, 131. L’immagine dell’armatura dell’essere è in E. Severino, Essenza del nichilismo, edizione ampliata, Adelphi, Milano 1995, p. 21. Il “nuziale anello degli anelli” è metafora nietzscheana per l’eterno ritorno dell’uguale: cfr. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano 1976, p. 269. “È sempre sbagliato etc.” è il principio a cui William Kingdon Clifford consegna la sua etica della credenza in Etica, scienza e fede, Bollati Boringhieri, Torino 2013, p. 127. Capitolo 3 [§ 3.2] Sul sogno o “scena di Alençon” si rimanda anche a CC, 122 e al saggio di François-David Sebbah in Fagenblat & Cools (2021, 47-62). Sull’annullamento dell’ufficialità Levinas ritorna in NP, 168.

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Per il mito di Gige, simbolo dello psichismo egoista e ateo, si segnalano – oltre al locus classicus platonico, Repubblica 359b-360d – le pagine levinasiane: PS, 257; TI, 59, 89, 173, 176; AE, 182, 187; DVI, 98. [§ 3.3] “Essere uno col tutto, questa è la vita degli dèi…”: F. Hölderlin, Iperione, traduzione di G. A. Alfero, UTET, Torino 1960, p. 23. La resa di “Dasein” con “essere-il-qui” è di J. Beaufret, In cammino con Heidegger, Christian Marinotti, Milano 2008, p. 41. Il passo gaddiano è nel racconto Immagine di Calvi, della raccolta Il Castello di Udine, in C. E. Gadda, Romanzi e racconti, Vol. I, Garzanti, Milano 1988, p. 173. La poesia “A Rina” è nella raccolta “Ballo a Fontanigorda”, inclusa in G. Caproni, L’opera in versi, a cura di L. Zuliani, Mondadori, Milano 2001, p. 639. L’affermazione di William James – “La traccia del serpente umano è dunque su tutto” – è in Pragmatismo, Il Saggiatore, Milano 1994, p. 41. Il passo di R. Antelme proviene da La specie umana, Einaudi, Torino 1997, p. 131. Sul “dis-astro” si vedano: DTM, 199; DVI, 56, 72, 146; EI, 67; del valore sacrale degli astri Levinas parla nel saggio “Sécularisation et faim”, in Herméneutique de la sécularisation, sous la dir. de E. Castelli, Aubier-Montaigne, Paris 1976, ristampato in “Cahiers de l’Herne”, 60, 1991 (trad. it. di G. Baptist, Secolarizzazione e fame, “Kainos”, 7, 2007, online). La chiusa “via da tutti i soli” è tratta da F. Nietzsche, La gaia scienza, Libro III, § 125, Adelphi, Milano 1993, p. 163. [§ 3.4] Il brano di Kafka è negli Aforismi di Zürau, a cura di R. Calasso, Adelphi, Milano 2004, p. 38. [§ 3.5] Levinas riprende l’espressione “cattivo infinito” a partire dal contesto hegeliano, ma applicandolo all’ápeiron dell’essere neutro (TI, 162), alla logica del dovere che si approssima asintoticamente all’altro (AE, 117, 179; HAH, 121), alla serie continua delle finalità egoistiche frustrate (DVI, 12).

Note di lettura261

Qohélet (2, 11) è riportato nella traduzione di G. Ceronetti: Qohèlet. Colui che prende la parola, Adelphi, Milano 2013, p. 33. [§ 3.6] Il saggio levinasiano “La realtà e la sua ombra” è tradotto sia in NP (174-190) che in IH (99-120); abbiamo tratto le citazioni dalla prima traduzione. Il passo sulla statua di Zeus è nella orazione XII (il famoso “Discorso Olimpico”) di Dione Crisostomo: cfr. Dio Chrysostom, Orations VII, XII and XXXVI, edited by D. A. Russell, Cambridge University Press, Cambridge 1992, pp. 77-78. I versetti dall’Esodo sono riportati nella traduzione della Bibbia di Gerusalemme, EDB, Bologna 2009, p. 167. Per il verso lucreziano “Tantum religio potuit suadere malorum” si veda la traduzione a cura di A. Fellin, Tito Lucrezio Caro, La natura, UTET, Torino 2004, p. 75. [§ 3.7] La citazione in prosa da Celan è presa da “Controluce”, in P. Celan, La verità della poesia, Einaudi, Torino 1993, p. 31. Arnica, eufrasia, orchidee e parola ventura sono nella poesia “Todtnauberg”, in Id., Poesie, cit., p. 961. La domanda “Qual è il tuo tormento?” è una citazione dal Parsifal, rivisitata da Simone Weil in Quaderni, Vol. III, Adelphi, Milano 1995, pp. 368-369 e in Attesa di Dio, Adelphi, Milano 2008, p. 200. [§ 3.8] L’esergo è tratto dalla già citata intervista di Levinas con François Poirié: RB, 43. Sulla figura di Chouchani cfr. Malka (1986, 57 ss., 117 ss.) e Malka (2003, 155-160). La frase sartriana sull’ebreo è in J.-P. Sartre, L’antisemitismo. Riflessioni sulla questione ebraica, Mondadori, Milano 1990, p. 64. Gli aggettivi che ascriviamo all’ipòstasi – “infondabile”, “intrasparente”, “ambigua” – sono gli stessi che H. Plessner ascrive alla psiche umana, in un capitolo dal titolo in parte levinasiano: “La lotta per il volto autentico […]”, in I limiti della comunità. Per una critica del radicalismo sociale, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 57.

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Il saggio di Levinas “Politica in subordine!” è in AV, pp. 277-284. Il racconto borgesiano I teologi proviene dalla raccolta L’Aleph, cit., pp. 795-803; il parallelo fra Aureliano-Giovanni e Levinas-Sartre è di Bernard-Henri Lévy, Il secolo di Sartre. L’uomo, il pensiero, l’impegno, Il Saggiatore, Milano 2004, p. 515. [Quarto dialogo] Sono menzionati: M. Picard, L’atomizzazione nell’arte moderna, Edizioni di Comunità, Milano 1954, p. 35; la Lettera di Lord Chandos di H. von Hofmannsthal, Rizzoli, Milano 1974, p. 47; W. Benjamin, Parigi, capitale del XIX secolo. I “Passages” di Parigi, Einaudi, Torino 1986, p. 11; M. Heidegger, “L’origine dell’opera d’arte”, in Heidegger (1968, 56). La novella Canta l’Epistola è nella raccolta La rallegrata, mentre La maestrina Boccarmè nella raccolta Tutt’e tre, rispettivamente nei volumi I e III di L. Pirandello, Novelle per un anno, Mondadori, Milano 2011. In questa sede è possibile solo accennare al senso specifico che il termine “suscettibilità” assume qui e nel § 5.3, e che viene introdotto in Altrimenti che essere come la passività e sensibilità vulnerabile della soggettività etica, esposta all’altro (cfr. AE, 2, 84, 93, 96, 100, 135, 136 n. 12, 153 n. 26, 154-155, 162, 172-173, 183). Il conclusivo cenno a Schiller richiama Sulla poesia ingenua e sentimentale, Mondadori, Milano 1995, p. 11. Capitolo 4 [§ 4.2] In questo paragrafo si introduce il sostantivo sui generis “autrui”: è invariabile, non isolabile mediante indicali o articoli determinativi e indeterminativi. In realtà, anche negli usi sostantivali “autrui” non è soggetto, ma sempre complemento, come nota Derrida (1971, 132-133). L’equivalente in italiano sarebbe “altrui” rispetto ad “altro”, ma la scelta dei traduttori è ricaduta su “altri”, singolare senza plurale. Qui lo tratteremo come un ulteriore modo di dire l’alterità irriducibile al genere.

Note di lettura263

Le immagini dell’autómaton spirituale, del girarrosto e della marionetta sono in Kant, Critica della ragion pratica, A174 e A181, traduzione di F. Capra, Introduzione di S. Landucci, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 213, 221. Per il coro dell’Antigone (vv. 332-375) cfr. Sofocle, Tragedie e frammenti, a cura di G. Paduano, Vol. I, UTET, Torino 1982, pp. 274-279. [§ 4.3] Si ritiene utile fornire alcuni riferimenti alle opere levinasiane per le qualificazioni dell’altro: l’affamato (Isaia 58 in AE, 93; DVI, 202), l’esposto al freddo e al caldo delle stagioni (AE, 114), lo sradicato (AE, 114), il debole (EE, 87), l’apolide (AE, 114), lo sfruttato (DVI, 25), il senza difesa (EN, 182), il proletario e il privo di tutto (TI, 73), il “primo venuto” (CC, 469; AE, 16, 107-108, 181; EN, 138, 203, 220, 248; DVI, 147, 188, 192-193, 214). L’apologo dei porcospini è in A. Schopenhauer, Parerga e paralipomena, in due tomi, Adelphi, Milano 1998, tomo II, p. 884. [§ 4.4] Nella Prefazione a Il tempo e l’altro, il termine “Infinito” appare con la maiuscola. In questo lavoro usiamo la minuscola, accantonando i problemi derivanti dall’oscillazione fra i due usi in Levinas. L’affinità tra il Miteinendersein di Heidegger e le coppie kafkiane è un suggerimento di Z. Bauman, Le sfide dell’etica, Feltrinelli, Milano 2012, p. 260, n. 13. Per l’episodio della conta dei pezzi – la domanda “Wieviel Stück?” – cfr. P. Levi, Se questo è un uomo, cit., pp. 8-9. Sul “posto al sole” si leggano CC, 250; EDE, 195; EN, 165, 181-182, 206; DVI, 202. [§ 4.6] Il passo di Wittgenstein su Agostino è nei colloqui annotati da F. Waismann, Ludwig Wittgenstein e il Circolo di Vienna, la Nuova Italia, Firenze 1975, p. 56, forse una reminiscenza delle Confessiones, I, 4: “et vae tacentibus de te, quoniam loquaces muti sunt”. [§ 4.7] Il termine “disubriacatura” traduce “dégrisement”. Come nota E. Baccarini (EN, 120, n. 1), si potrebbe rendere col più elegante “disincanto”, ma verrebbe meno

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l’idea dello smaltire una vera e propria sbornia. Cfr. per altre occorrenze: SS, 21 (“dégrisé”: “spoglio di illusioni”); DVI, 32-33, 41-42, 48, 51, 85, 146, 148; EI, 96, 109; EN, 120-121; DMT, 63, 199, 281, 287, 295. Sull’insonnia come “categoriale” o “meta-categoria” cfr. DMT, 281. Al risveglio sono dedicati i saggi “Dalla coscienza alla veglia a partire da Husserl” (in DVI, 31-51) e “La filosofia e il risveglio” (in EN, 109-122). Che la responsabilità muti l’ineluttabilità dell’essere neutro nella “serietà severa della bontà” è detto in TI, 205-206. [§ 4.8] Impossibile affrontare in così poco spazio la complessa e controversa questione del femminile in Levinas. Si vedano Ferretti (2010, 103-106) e C. Chalier, Le figure del femminile in Levinas, Morcelliana, Brescia 2020; sulla fenomenologia dell’eros e la carezza cfr. L. Irigaray, Etica della differenza sessuale, Feltrinelli, Milano 1987, pp. 142 ss. Nel testo usiamo occasionalmente l’espressione “l’altra” per intendere “la femme” o “le féminin”; Levinas non la usa mai, perché altri non ha proprietà comuni, nemmeno qualità di genere. L’interrogativo di Karl Kraus è in Detti e contraddetti, Adelphi, Milano 1999, p. 72. Di Simone de Beauvoir si è citato un brano da Il secondo sesso, Il Saggiatore, Milano 2016, p. 21; il giudizio tranchant su Levinas è nella nota n. 3, pp. 717-718. “Deus sitit sitiri” compare in Gregorio di Nazianzo, Tutte le orazioni, a cura di C. Moreschini, Milano, Bompiani 2000, p. 955. [Quinto dialogo] “Io forse allora non sarò più niente / Solo una x nel ciclo dell’azoto…”: F. De Gregori, “Buonanotte fratello” nell’album Alice non lo sa (1973). L’episodio del campanile di Marcellinara è raccontato in E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, nuova edizione a cura di G. Charuty, D. Fabre e M. Massenzio, Einaudi, Torino 2019, pp. 364-365. Per le “tre o quattro divinità incontestabili” di Valéry cfr. P. Valéry, La caccia magica, Guida, Napoli 1985, p. 67.

Note di lettura265

L’articolo del 1961, “Heidegger, Gagarin e noi”, è in DL, 289-292, ripreso in un breve commento in EN, 152-153. La figura 12 è un manifesto di propaganda sovietica; la frase cubitale (“Dio non c’è”), falsamente attribuita a Gagarin, è giudicata da Levinas una “sciocchezza” e interpretata in una direzione che attenua, in parte, i toni forti del saggio del 1961: cfr. DVI, 23. Di Eschilo è citato il Prometeo incatenato, v. 514 (traduzione nostra). Capitolo 5 [§ 5.1] Il passo di Dostoevskij è nel romanzo I fratelli Karamazov, traduzione di M. R. Fasanelli, Garzanti, Milano 2003, Vol. I, p. 400. La chiusa è dal racconto “Davanti alla legge” di Franz Kafka, in Racconti, a cura di E. Pocar, Mondadori, Milano 1970, p. 239. [§ 5.2] Alla dialettica Dire-Detto è dedicato tutto AE, opera che è anche una esemplificazione in actu exercito di quella dialettica. L’aneddoto del manoscritto è una rielaborazione da Malka (2003, 228). Il come se di Hans Vaihinger è oggetto di trattazione della sua opera principale, Die Philosophie des Als-Ob, Felix Meiner, Leipzig 1922. L’espressione “pensiero modale” rinvia al confronto profondo di Levinas con la filosofa francese Jeanne Delhomme, in diversi luoghi dei suoi scritti: NP, 57-63; HAH, 106, 146; AE, 59, n. 33, 145; EN, 110; DVI, 79, 146 n. 6. L’immagine della biblioteca prima della caduta di Adamo è di chi scrive, come personale è l’esperienza della messa in causa dei modi tradizionali di fare filosofia; tuttavia, l’autore ha trovato riscontro di un vissuto simile in J. J. Shaw, Emmanuel Levinas on the Priority of Ethics, Cambria Press, Amherst N.Y. 2008, pp. xviii-xix.

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Per le considerazioni di Marion e Derrida sull’influenza di Levinas si vedano rispettivamente Malka (2003, 262) e Derrida (1998, 59). [§ 5.3] Il titolo del paragrafo allude alla poesia di Borges “Baruch Spinoza” nella raccolta La moneta di ferro, cfr. J. L. Borges, Tutte le opere, vol. II, Mondadori, Milano 1985, p. 1005. Sulla composizione di Totalità e infinito si legga la testimonianza del figlio di Levinas, Michaël, in Malka (2003, 244 ss.); per le connesse vicende editoriali e accademiche cfr. S. Critchley, R. Bernasconi (eds.), The Cambridge Companion to Levinas, Cambridge University Press, Cambridge 2002, pp. xxiii-xxiv. Le citazioni wittgensteiniane provengono da L. Wittgenstein, Lezioni e conversazioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa, Adelphi, Milano 1995, p. 11. L’analogia della morale attuale con la scienza perduta di un mondo immaginario è di A. MacIntyre, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, Armando, Roma 2007, pp. 29 ss. L’uso dell’aggettivo “lancinante”, riferito al pensiero levinasiano, è argomentato da X. Tilliette in Il discorso lancinante di Emmanuel Levinas, “La Civiltà cattolica”, 134, n. 3181 (1983), pp. 15-30. L’analogia parole-ordalie è uno spunto di Simone Weil, ripreso in R. Calasso, I quarantanove gradini, Adelphi, Milano 1991, p. 363. Per il passo cartesiano cfr. Descartes, Meditazioni metafisiche, a cura di S. Landucci, Laterza, Bari 1997, p. 75. Levinas scrive “Desiderio” (“Désir”), “Desiderabile” (“Désirable”) e “Desiderato” (“Désiré”) per lo più con l’iniziale maiuscola, per distinguerne il significato trascendente dal desiderio, dal desiderabile e dal desiderato di un bisogno empirico ordinario; abbiamo scelto di adoperare la minuscola, poiché il contesto non crea problemi di interpretazione. La Begierde o “appetito” è in G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, traduzione di E. De Negri, La Nuova Italia, Scandicci 1996, pp. 111 ss.

Note di lettura267

L’immagine del passante di Wittgenstein è riportata in B. McGuinness, Wittgenstein. Il giovane Ludwig (1889-1921), Il Saggiatore, Milano 1990, p. 417. [§ 5.4] Il face coding è analizzato in P. M. Churchland, Il motore della ragione, la sede dell’anima, Il Saggiatore, Milano 1998, pp. 40-69 (la citazione è a p. 42). Il brano di Rilke è da I Quaderni di Malte Laurids Brigge, Adelphi, Milano 2013, pp. 11-12. Il termine “noumeno”, che Levinas pare usare come equivalente al platonico kath’autó, compare in CC, 273 riferito ad altri; in CC, 441 riferito al volto; in TI, 47, 75 riferito a Dio (“noumeno non è un nume”); in EN, 65 è noumenico il tu che sorge “dietro l’uomo conosciuto in questo pezzo di pelle assolutamente decente che è il volto […]”. La fotografia “Noire et Blanche” di Man Ray è analizzata in H. Belting, Facce. Una storia del volto, Carocci, Roma 2014, pp. 64-65. [§ 5.5] Testi levinasiani di riferimento per questo paragrafo: “La traccia dell’altro” e “Enigma e fenomeno”, entrambi in EDE. Sull’anacronismo in Levinas cfr. F. Ciaramelli, “L’anacronismo”, in EFP, 155-179. Levinas fa riferimento a Plotino relativamente alla traccia (íchnos) dell’Uno in HAH, 96: cfr. Plotino, Enneadi, a cura di G. Faggin, Bompiani, Milano 2004, V, 5, 5, p. 871. [§ 5.6] La tesi di Schlick sull’uguaglianza e il passo sul dominio della natura sono in M. Schlick, Teoria generale della conoscenza, a cura di E. Palombi, Franco Angeli, Milano 1986, pp. 112, 116. Il nesso anomalia-aspettativa è in T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 2009, p. 76. “Uno sconosciuto ha suonato alla mia porta e ha interrotto il mio lavoro”: l’esempio levinasiano, variato nel paragrafo, compare nel saggio “Enigma e fenomeno”, in EDE, p. 238. I versi dalla poesia “Il Corvo” sono citati nella traduzione di R. Montanari: E. A. Poe, Il Corvo e altre poesie, Feltrinelli, Milano 2009, p. 63.

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INFINITI VOLTI

[§ 5.7] La nota formulazione dell’imperativo kantiano è nella Fondazione della metafisica dei costumi, traduzione e Introduzione di F. Gonnelli, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 91. [§ 5.8] Il versetto 5, 2 del Cantico dei Cantici è commentato da Levinas in DMT, 281. Il passo dall’Oracolo manuale di Baltasar Gracián è citato dall’edizione Adelphi, Milano 2020, aforisma 17, p. 20. [Sesto dialogo] Di Lucrezio è riportato l’incipit (vv. 1-4) del secondo libro del De rerum natura, nell’edizione a cura di A. Fellin, cit., p. 133. L’affermazione di Bergson sulle due filosofie è tratta da una sua lettera a Léon Brunschvicg del 22 febbraio 1927, pubblicata nel “Journal des Debats” del 28 febbraio 1927. “Vacanza morale” è un’espressione adoperata da William James in Pragmatismo, cit., pp. 46 ss. Per l’Alcibiade maggiore (131d) cfr. Platone, Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2000, p. 624. Tutte le altre citazioni platoniche sono tratte da questa edizione. Sull’addio/a-Dio cfr. DVI, 13, 72, 107, 119, 133, 145-146, 151, 192-194, 203; EN, 105, 150, 166-167, 209-212.

Riferimenti bibliografici

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Indice e fonti delle immagini

p. 20: Figura 1. Il superorecchio nemico - Cartolina di propaganda bellica degli anni Quaranta, attribuita all’illustratore Gino Boccasile (1901-1952): https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/0/06/Gino_Boccasile_%281901-52%29_Tacete%21_Il_nemico_vi_ascolta._Keep_ quiet%21_The_enemy_listens_WWII_Italian_fascist_anti-British_propaganda_poster_22%2C8x17%2C1cm_Acta_Milano_SIM_1941-42_Silence_espionage_eavesdrops_catalogo.beniculturali.it_CC-BY4.0.jpg (consultato il 9 febbraio 2024). p. 55: Figura 2. Edmund Husserl. Occhi e occhiali servono alla fenomenologia - Edmund Husserl nel 1910: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/8/8d/Edmund_Husserl_1910s.jpg (consultato il 9 febbraio 2024). p. 62: Figura 3. Cassirer e Heidegger a Davos (maggio 1929) - Dall’archivio privato di Henning Ritter, Dokumentationsbibliothek Davos. p. 84: Figura 4. Il fischietto di Charlot - Scena dal film City Lights (USA, 1931) di Charlie Chaplin.

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p. 126: Figura 5. Auguste Rodin, Le Penseur (1904). p. 133: Figura 6. Romano Sambati, Il riposo di Sisifo (2012) - Collezione privata, Lecce. p. 136: Figura 7. Statue davanti a Paolina Borghese - Hitler e Mussolini ammirano la scultura “Paolina Borghese” di Antonio Canova (Galleria Borghese, Roma 7 maggio 1938). p. 145: Figura 8. Mistero Chouchani - Monsieur Chouchani (1895-1968), fonte primaria non disponibile: http://www.chouchani.com (consultato il 9 febbraio 2024). p. 167: Figura 9. L’epica tirata di codino - Illustrazione di Gustave Doré (1862): https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Gustave_Dor%C3%A9_-_ Baron_von_M%C3%BCnchhausen_-_037.jpg (consultato il 9 febbraio 2024). p. 172: Figura 10. Saluto hitleriano ai cantieri Blohm und Voss di Amburgo - In questa foto del 1936 spicca un personaggio non identificabile con precisione (August Landmesser? Gustav Wegert?), che rifiuta il gesto collettivo: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:August-Landmesser-Almanya1936-circle-removed.png (consultato il 9 febbraio 2024). p. 174: Figura 11. L’ipòstasi è più sola di Laika - Laika, la cagnolina russa imbarcata nello Sputnik 2 il 3 novembre 1957: https://upload.wikimedia. org/wikipedia/en/7/71/Laika_%28Soviet_dog%29.jpg (consultato il 9 febbraio 2024).

Indice e fonti delle immagini275

p. 196: Figura 12. Gagarin nello spazio (“Dio non c’è”) - Manifesto di propaganda sovietica, 1975. p. 225: Figura 13. Faccia umana prototipica - P. M. Churchland, The Engine of Reason, the Seat of the Soul, The MIT Press, Cambridge (Mass.) 1995, p. 30. p. 229: Figura 14. Joseph Merrick - Scena dal film The Elephant Man (USA/ UK, 1980) di David Lynch. p. 246: Figura 15. Anwar Sadat e Menahem Begin - Foto di Moshe Milner, 19 novembre 1977, Government Press Office, Israel State Archives: https:// catalog.archives.gov.il/wp-content/uploads/2016/08/D164-075-Sadat-atairport-1.jpg (consultato il 9 febbraio 2024). p. 247: Figura 16. Emmanuel Levinas (Parigi, 1991) - Foto di Bracha L. Ettinger: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Emmanuel_Levinas.jpg (consultato il 9 febbraio 2024).

VITE RIFLESSE Collana diretta da Roberta Lanfredini 1. Sergio Vitale, Autoritratto in un interno viennese. Sigmund Freud si racconta 2. Alba Rosa Gesualdo, L’enigma di Turing. Genesi e apologia di un genio matematico 3. Daniele Ramadan, Solo. Il falso inedito di Descartes 4. Letizia Cipriani, Il ritmo vitale. Henri Bergson, biologo del Tempo 5. Paolo Maria Mariano, Gli occhi di Eulero 6. Claudio Santoro, FeyeraBend Dada! 7. Angela Ales Bello, Assonanze e dissonanze. Dal Diario di Edith Stein 8. Alessandro Marrani, Essere Heidegger. L’incontro col mistero 9. Sergio Vitale, La verità dipende da una passeggiata intorno al lago. Le Corbusier e la capanna dei filosofi 10. Riccardo Bianchini, Saldo mi pongo nell’esistenza. La spregiudicata impresa di Rudolf Steiner, Postfazione di Salvatore Lavecchia 11. Paolo Maria Mariano, Vite riflesse in un catino. 23 sogni per Hilbert 12. Massimo Seriacopi, In viaggio tra terra e cielo. Vita possibile di Dante 13. Verbena Giambastiani, Ritratto su macchina da scrivere. Memorie di Hannah Arendt

Finito di stampare nel mese di febbraio 2024 da Puntoweb s.r.l. – Ariccia (RM)