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Italian Pages 395 Year 2021
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Premessa
Kant ha avuto questo straordinario destino: quanto più il suo pensiero si affermava, tante più critiche riceveva. E non faccio qui riferimento a quanti erano troppo legati al passato per comprendere la novità del loro presente1; mi riferisco a quei 'nuovi' fìlosofì che al pensiero di Kant esplicitamente si richiamavano come al loro 'inizio', a cominciare dalla grande triade dell'idealismo tedesco2, sino poi, anni dopo, al fondatore della scuola di Marburg, che al criticismo kantiano voleva tornare. Ma ciò che in fìlosofìa è - entro certi limiti3 - comprensibile, perché 'nuovo' pensiero può nascere solo dall'insoddisfazione del pensiero passato, pur quando, se non proprio quando in esso riconosce la sua fonte e il suo inizio; questo non lo è
1. Mi riferisco in particolare alla critica di J.A. Eberhardt, e alla risposta di
I. Kant, in Contro Eberharrl. La polemica sulla Critica della ragion pura, tr. it. a cura di C. La Rocca, Giardini, Pisa 1994. 2. Vittorio Mathieu ha spiegato !"apparente paradooso che «non ci sia stato, oltre Kant un solo pensatore veramente kantiano; e come molti tuttavia, cercando al di là di Kant, si siano potuti dire kantiani• ( FtOp, p. 6). Cfr., infra. parte Il, Il, cap. Il, nota 28. 3. Precisazione neoessaria,se si ricorda l'accusa di soggettivismo, fenomenismo, e psicologismo, rivolta da Hegel a Kant.
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affatto nella storia "lìlologica" della lìlosofìa, che al passato si volge per comprendere, e cioè per spiegare - spiegare, dico, non giustificare - e cioè per "dare ragione" (l6gon did6nai) pur dei limiti, delle aporie e contraddizioni del testo oggetto d'interpretazione, e ciò a partire dal testo stesso. Per quanto possibile, ovviamente; ma è su questa capacità di "star dentro il testo" nell'evidenziarne i limiti, che si misura la validità dell'interpretazione "storico-filologica". Vengo ora al punto che mi interessa chiarire ad apertura di libro, dacché riguarda un aspetto particolare del suo processo di 'formazione', che ha molto inciso sull'intera struttura del libro e sulla sua conclusione. In miei precedenti lavori, massime in quelli su Vico e Hegel◄, al fine di evitare che il dialogo ermeneutico si riducesse a una voce sola, quella dell'interprete, che dà insieme domanda e risposta, ho esteso il dialogo ad altri interpreti. Il confronto tra "diverse" letture, aumentando la distanza - non il distacco! - tra l'interprete e l'interpretato, rendeva più difficile la riduzione del dialogo a monologo. Ma con Kant mi sono regolato in maniera opposta. Ho dovuto farlo. Per due ragioni. La prima è che il confronto con altri interpreti non mi avvicinava a Kant, mi allontanava. Dove io cercavo spiegazioni del testo kantiano, spesso non solo apparentemente in contrasto con se stesso, trovavo critiche e obiezioni, che, se fossero state appropriate, non davano ragione dell'universale interesse per questo filosofo. Basti qui citare la patchwork theory, che 'spiega' la Deduzione trascendentale come un insieme di appunti e note messe insieme alla beli'e meglio, 'raffa7.7.onate', appunto; invero tutto lo 'storico' dibattito sulle "due Deduzioni" si basa su
4. Cfr. Hl e OA. Ncll'lntrodw:icne alla prima edizione dello Hegel, citavo in esergo la critica di Merlcau-Ponty alla storia della filosofia «déguisée en dialogue, oli nous fcrions Ics question et les réponses» (Hl, p. 13}.
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un incredibile, per me inspiegabile, "equivoco'~. La seconda ragione, più intrinseca al lavoro dell'interpretazione, e quindi più rilevante, è data dal fatto che più leggevo i testi di Kant, più mi convincevo che le 'contraddizioni', che in essi si trovano, sono momenti essenziali del suo itinerario fìlosofico, del suo metodo (hod,&;) - talora infatti, appaiono create ad arte, per aprire nuovi ori72onti problematici. Per Kant, dunque, si trattava non di superarle, ma di comprenderne la genesi, epperò non di enunciarle soltanto, ma di viverle. Il dialogo diretto con Kant, cercando in lui le motivazioni delle sue domande e delle sue contraddizioni, mi ha fatto capire che la "svolta" della "logica trascendentale" - la dislocazione dello sguardo filosofico dal contenuto logico, l'enunciazione dell'esatta visione dell'essere del mondo, ali'operare logico: la "deduzione oggettiva" quale processo di formazione del mondo - ha come immanente conseguenza il passaggio dal primato della teoria al primato della pratica. All'origine del mondo umano non è il desiderio di sapere6, ma il sentimento del dovere, non la scien7.a, ma la morale, se anche la necessità delle leggi scientifiche è fondata sull'esercizio della libertà, «chiave di volta [Scluflstein] dell'intero edificio di un sistema della ragion pura, anche della speculativa e di tutti gli altri concetti» (KpV, pp. 3-4; it., p. 2). È dunque nella Critica della ragion pratica che Kant risponde alla domanda che è propria della "deduzione soggettiva", da lui posta e subito messa da parte nella prima prefazione della Critica della ragion pura: «wie ist das Venn6gen 7.11 denken selbst m6glich?» (KrV, A XVII).
5. Cfr. infra, parte 11, 11, cap. I, in part. § 5 e nota 20. 6. Pdntes dnthropol toll eùlénat origontat phrjsel (Aristotele, Met, A, 980a).
Parte I
Uno sguardo al passato
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Introduzione
Tradizione e passato
Neuzeit - alla lettera: "tempo nuovo" - è la parola composta che nella lingua tedesca designa l'età che, con termine di origine tardo-latina, chiamiamo "moderna"'. Per chiarire il significato storico-filosofico di questo "tempo", che s'è definito, esso medesimo, "nuovo", è necessario distinguere "passato" da "tradizione". Distinzione per niente semplice, dandosi il "passato" sempre in una tradizione, sino a confondersi con essa. Ma tradizione e passato non sono la stessa cosa. La tradizione è quanto del passato ci è stato trasmesso, consegnato (uberliefert), e nel quale viviamo, operiamo, prim'ancora d'esser coscienti d'averlo ereditato. La tradizione è il passato che immediatamente ci è dato conoscere, e che, pertanto, conosciamo con le sue stesse categorie. Di fatto essa definisce l'orizzonte del nostro presente: è la storia tutta, come appare, ed è, nel nostro presente2• Affatto diverso il "passato" 1. Cfr. W. Freund,Modemus undandere Z,eitbegrijfedes Mittelalters, Bohlau, Koln-Graz 1957; tr. it. di G. Santamaria, riv. da P. S. Baghini, Modemus e aùre idee dHempo nel Medioevo, pref. di R. Bodei, Medusa, Milano 2001. 2. È in senso proprio: il nostro 7,resente. Nostro perché "di tutti e di ciascuno": «quando perconiamo il passato, per quanto grande esso sia, abbiamo a che fare soltanto col 7,resente [mit Gegenwirtigem]; la filosofia, infatti, che
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che contrapponiamo alla tradizione: esso è ciò che il nostro presente ha oltre di sé, ciò che è sempre ancora da invenire, trovare, scoprire, 'immaginare'. Questo passato, come pure è stato detto3, è il nostro futuro. Ma cosa intendiamo, e cosa è da intendere con questa parola: "futuro", che osiamo impiegare per indicare il nostro passato? Noi diciamo con tranquilla coscienza: passato, presente, futuro, quasi fossero le cose più note, come se sapessimo già cosa sia 'tempo'. Invero crediamo di sapere cos'è tempo e cosa sono passato, presente, futuro, sol perché ne facciamo uso quotidiano all'interno dell"'iconologia della mente" - ovvero: dell'ori7.7.onte categoriale - del nostro presente, costituito dal passato che abbiamo ereditato, e cioè: dalla tradizione. Ma la Neuzeit, il "tempo nuovo", indica anzitutto una epocale fuoriuscita da questa tradizione. Epocale nel senso dell'epoché, della 'sospensione', della 'messa tra parentesi' della tradizione, e quindi anche della concezione del tempo che le è propria. Della tradizione - preciso - formatasi soprattutto nell'età immediatamente precedente: l'età di mezzo, l'età media•. Non intendo ripetere in modo più sofisticato quello che da sempre sappiamo, e cioè che l'età moderna
si occupa della verità, ha sempre a che fare con l'eterno presente [mlt ewig Gegenwartigem]. Per la lìlosofìa nulla è andato perduto nel passato, l'idea
è presente, lo spirito è immortale, non è scomparso e non deve venire ancora, bensì è peressen:ai ora (sondem ist wesentlichjetzt)» (G.W.F. Hegel, VPhG, p. 105; it., p. 69). Sul tema cfr. B de Giovanni, Presente e tradizione, in TramP, pp. 223-240; e V. Vitiello,EPXF9Al QPII KAl NYN EX11N: «nel giorno spirituale e/ella presenza», in «Sophia»,XI, n. l, 2020, pp. 27-37; e, in un più ampio ori:cmnte fìlosofìco, OA. 3. «Herlcunft bleibt stets Zulcunft» (M. Heidegger, US, p. 96; it., p. 90). 4. «Una coscien:ai della decisa separazione dal passato, qual è stata sviluppata all'inizio dell'età moderna, non si può pretendere in egual misura da nessuna altra epoca,, (H. Blumenberg, Aspektecler Epochenschwelle. Cusaner und Nolaner, LN, Teil IV, Die Epochen e/es Epochenbegriffs, p. 13; it., p. 499). Su Blumenberg, cfr. V. Vitiello, FaoC, parte I, cap. I, Modernità e miro in Hans Blumenberg, pp. 5-25.
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al suo sorgere intese saltare l'età ch'esso definì "di mezzo", al fine di rapportarsi direttamente ali'evo antico, ali'età classica: la Grecia, anzitutto, e poi Roma. Intendo tornare a riflettere su quel rapporto diretto con l'antico, su quel 'salto', al fine di cogliere il significato più 'vero' della Neuzeit. Già in via di prima approssimazione al tema, possiamo dire 1) che il nuovo del tempo nuovo non sta nel fatto banale d'essere l'ultimo, quello che segue l'età 'media', bensì nell'evento, tutto da capire, d'essere una 'nuova' apertura di tempo; e 2) che il rapporto 'diretto' all'antico - il "salto" - è dovuto all'esigen7.a ineludibile di far fronte alla medesima distretta di quello: l'assen7.a di certeZ7.a nel e del mondo. L'età antica, caduta la fede negli dèi olimpici e venuta meno la fiducia nella voce dei Sophoi, tanto più sicuri di sé, quanto meno capaci di comprendere le domande dell'inquieto, e inquietante logiz6menos 5, cercò nel 'sapere' il principio (arche') capace di salvare i fenomeni (s6zein tà phairwmena). La ricerca fu così radicale da piegarsi su se stessa, sul suo principio; si volle così 'libera' da non cessare mai d'essere anzitutto ricerca di sé: zetouméne epistéme. Qualcosa di simile è accaduto nell'età moderna, o ali' età moderna. Giunta la speculazione teologica dell'età media alla 'necessaria' conclusione che il Dio onnipotente, come ha il potere di reggere il mondo col suo eterno "Fiat", cosi può annichilirlo, i 'filosofi moderni' hanno dovuto riprendere il lavoro antico6: cercare I'arché capace di dare 'nuova' certe7.7.a al mondo. Non diversamente dagli antichi, anche i filosofi moderni si sono appellati ali'esperien7.a, che rappresenta pur sempre un primo, iniziale 'legame' col mondo - fragile, è vero, e incerto, perché se ne stringe solo un capo, senza neppure sapere se il
5. Eutifrone dell'omonimo dialogo di Platone ne è l'esemplare ritratto. 6. Sul tema, e&. H. Blumenberg, Sakularisierung und Selbstbelumptung, LN, Teil 1-11, Die Unentrinnharlazio kantiaM, in SK, pp. 229-33.5: p. 315). 29. L"esempio classioo è quello delle due mani, che pur di eguale estensione, non occupano il medesimo spazio: sovrapposte alla destra dell'una corrisponde la sinistra dell'altra e viceversa.
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ladetenninazione della "regione" ha mostrato. Questa appartenen7.a al corpo della fo17,a universale dei rapporti esteriori è la 'prospettiva', quale si mostra nella distinzione 'corporea' delle originarie 'regioni' della destra e della sinistra. Faccio un esempio: la relazione 'spaziale' che attrae A verso B, o ali'opposto lo respinge, è diversa se vista da A o da B. La forza è la stessa - di attrazione o di repulsione - ma le prospettive sono diverse. L'esempio non è 'innocente': mostra che al fondo dell'oscillazione di Kant nell'attribuire la relazione con l'esterno talora direttamente ali'ente spaziale, talaltra allo spazio universale - oscillazione 'spiegata' e 'tolta' con l'introduzione del medium della Gegend -, sta la differen7.a tra geometria e fisica. Alla semplicità delle moleculae, sostanze pensate come "punti" inestesi, non era certo possibile attribuire facoltà di relazione con l'esterno, quali possono avere solo 'figure' dotate di una qualche estensione; peraltro, l'universale spazialità delle relazioni tra i 'corpi' resta indeterminata senza il 'supporto' delle singole prospettive interne allo spazio universale.
La conclusione, a cui Kant perviene in questo saggio sulle "regioni dello spazio", getta luce su tutta la sua ricerca: direttamente sul passato, sciogliendo il nodo della relazione spaziale, con l'introduzione del concetto di "regione" che rinvia a quello di corpo; indirettamente, e inintenzionalmente, sul futuro, aprendo con le sue stesse soluzioni altri problemi. Il primo e più facile a indicare è quello or ora citato del "corpo", introdotto ex abrupto, senu spiegazione alcuna - segno chiaro che alla "materia" siamo ancora ben lontani di giungere; il secondo riguarda ancora lo spazio. Ma è bene citare direttamente Kant: Di q ui è chiaro che non le determinazioni dello spazio sono conseguen7.e delle posizioni reciproche delle parti della materia, ma queste posizioni sono conseguen7.e di quelle determinazioni, e che quindi nella costituzione dei corpi possono trovarsi differenze e certo vere differenze che si riferiscono unicamente allo spll7.io assoluto e originario, giacché soltan-
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to per esso [nur durch ihn] è possibile il rapporto delle cose corporee; e che infine quanto nella figura di un corpo riguarda unicamente la relazione allo spazio puro, noi possiamo intendere soltanto dal comportarsi in opposizione agli altri corpi, giacché lo spazio assoluto non è oggetto di sensazione esterna, ma concetto fondamentale che rende per plimi possibili tutte quelle sensazioni. (UGR, p. 383; it., p. 440).
Che ne è dello spazio-funzione, la cui nozione implicatis substantiarum actwnibus absoloitur? È esso identificabile tout rourt con lo "spazio assoluto e originario"? O non è, questo, il 'precipitato oggettivo' di quello? Qualcosa che, in quanto "concetto fondamentale", è più simile all'"oggetto trascendentale = X" (KrV, A 109; it., II, p. 674), che non allo spazio insostanziale, inoggettiva "poten7.a di relazione", non concetto ma "intuizione pura"? Ma, posta la loro distinzione, quale il loro rapporto?
4. Kath'aut6 e pròs alla Una relazione molto problematica
1. Un passo indietro, necessario per comprendere alcuni passaggi nell'evoluzione del pensiero di Kant, che nella nostra esposizione sono rimasti in ombra. Anzitutto l'introduzione del corpo, del "nostro corpo", che nel saggio sulle Regioni dello spazio, in cui giuoca un ruolo fondamentale, avviene improvvisa, inspiegata, non essendo certo sufficiente il solo riferimento al man empfindet es in sich selbst del saggio sulle Grandezze
negative. Vero è che il corpo, il nostro corpo sensibile, compare già nello scritto Sogni d'un visionario chiariti con sogni della metafisica, che precede di due anni quello sulle Regioni dello spazio. Uno scritto, questo or citato sui Tritume, dallo stile 'brillante', peraltro non proprio insolito in Kant, che già altra volta, trattando d'arte e di moralità, aveva fatto sfoggio di una notevole "pratica di mondo": del mondo - dico - della "media", quando non
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della "meschina" quotidianità, ben altro dalla Weltweisheit3(). Ma è bene precisare subito che, se l'occasione del saggio - le fantasiose narrazioni di un visionario sui suoi incontri con gli "spiriti" - ha scarso rilievo, la mira, al contrario, è alta31 • Kant intende fissare i limiti del pensiero. Limiti che non sono affatto 'evidenti'. Facile ironiZ7.are sui fantasiosi racconti di un visionario; meno respingere con ragione quanto non ha immediato riscontro nei sensi. Che dire dei concetti di spazio, di tempo, di mondo, che non sono certo oggetti d' esperien7.a? E quid delle figure geometriche? Certo esse si rapportano all'esperienza, ma come? Basta la fona d'attrazione e di repulsione per definire la materia che riempie lo spazio?
Le domande, che ci siamo posti nei paragrafì precedenti sulla differen7.a tra i punti geometrici e i corpi riguardo allo spazio, ritornano tutte trattando dei possibili rapporti di quelle sostan7.e immateriali, cioè inestese, che chiamiamo "spiriti" con i corpi. Perché le sostanze incorporee non possono avere relazioni con le sostan7.e dotate di corpo? Se non c'è contraddizione tra geometria ed esperienza sensibile, perché dovrebbe esserci contraddizione nell'affermazione che gli spiriti interagiscono con i corpi? Vero: tra la mancan7.a di contraddizione in un asserto e l'ammissione della realtà del contenuto dell'asserto v'è un salto: il salto dal possibile al reale. Ma l'affermazione dell'esistenza di rapporti tra esseri incorporei e corporei non si regge solo sulla non-contraddizione. Kant esibisce una 30. Cfr. I. Kant, BGSE, da cui traggo un solo esempio, tra i molti che si potrebbero citare, per dare ragione del giudi:i:io che si è dato: «L'oggetto della grandescienl'.a femminile è(... ] l'uomo, e, fra gli uomini, un uomo. La filosofia delle donne non consiste nel ragionare (Vemunftein], ma nel sentire [Empfinden]» (p. 230; it., p. 333). 31. Sul rilievo dei Triiume nell'evolu:i:ione del pensiero di Kant nel periodo 'precritico', e in particolare per la defini:i:ione del rapporto filosofia/mate• matica, già tema della Deutlichkelt, resta fondamentale il saggio di C. Sini, I «sogni di un visionario», in part. §§ 3-4.
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prova di questi rapporti non meno valida di una dimostrazione geometrica. Una prova fattuale: l'influsso dell'immateriale volontà sul corpo. E se non posso spiegare come avviene, però avviene. È che non tutto si può dimostrare al modo di un teorema di geometria; ma sarebbe una "pigra ragionen quella che rifiutasse la testimonian:za dei sensi, perché non dimostrabile geometricamente. A qual titolo si eleva la dimostrazione geometrica a prova dei sensi? Non sono, al contrario, le sensate esperienze chiamate a sostenere le certe dimostrazioni? Nel caso presente v'è un'esperien:za di base irrefutabile: la impossibilità di attribuire il sensus sui ipsius a una parte specifica del corpo: «lo sono là dove io sento. [ .. . ] Io sono quello stesso che soffre nel calcagno, e a cui il cuore batte per l'affetto» (Trliume, p. 324; it., p. 375). L'intera argomentazione kantiana poggia sulla volontà, della quale il sensus sui ipsius - l'anima - è l'illocaliz7.abile autoidentità: «la mia anima è tutta in ogni parte del corpo e tutta in ognuna delle sue parti» (Trliume, p. 325; it., p. 375). Evidente la mossa strategica di Kant: per dimostrare la possibilità effettiva delle relazioni tra spirito e corpo, esseri inestesi ed essere estesi, egli ha dislocato il centro del suo orizzonte filosofico dal mondo naturale al mondo morale, nel senso più ampio possibile. Scrive: Tra le fou.e che muovono il cuore umano, pare che siano fuori di esso alcune delle più potenti, le quali non si riferiscono, come puri me7.7.I, al suo interesse personale ed al suo particolare bisogno, come a un fìne che sia entro l'uomo stesso, ma fan sl che le tenden7.e dei nostri moti pongano il fuoco della loro unione fuori di nei, in albi esseri ragionevoli; dal che nasce una lotta fra due fou.e, cioè della singolarità propria, che riferisce tutto a sé, e della utilità comune, per cui l'animo viene spinto o tratto (getrieben oder gewgen] fuori di sé verso gli albi. (Triiume, p. 334; it., p. 385)
Lo scenario di questa riflessione, audace e controllata insieme, è dato dalla doppia appartenen:za dell'uomo a due mondi:
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il sensibile e l'intellegibile32 • Consapevole del doppio pericolo - «ai sognatori della ragione sono in certo modo affini i sognatori della sensazione» (Triiume, p. 342; it., p. 394) - Kant pone dei limiti ferrei al pensare come al sentire. Limiti possibili in quanto il centro stabile di tutto l'ori7.7.onte è la volontà, o anima. Un centro, un "per sé", kath'haut6, che non è tale perché chiuso in se stesso, al contrario, perché, aperto all'influsso degli altri, subordina sé ali'altro, ma in e per questa subordinazione è "per sé", non avendo, l'influsso dell'altro, degli altri, possibilità alcuna di esercitarsi su di lui, se esso non fosse aperto a loro, non fosse influen7.abile: se il suo esser-"per
32. «L'anima umana perciò dovrebbe essere considerata come già connessa, nella vita p resente, contemporaneamente con due mondi dei quali essa sente chiaramente soltanto quello materiale, in quanto è legata a un corpo nella unità della persona; ma come membro del mondo spirituale, essa riceve e dà i puri inAussi delle nature immateriali, cosicché, non appena quel collegamento è cessato, la comunione, in cui essa sempre sta con le nature spirituali, rimane sola e si dovrebbe manifestare in chiara intuizione dinanzi alla sua coscienza». Segue una nota, pur essa da citare, ché si possono intrawedere in essa come i primi germi di problematiche che verranno sviluppate, in forma 'criticamente• adeguata, solo molti anni dopo: «li cielo, come sede dei beati, la rappresentazione comune pone volentieri sopra di sé, alto nell'immenso spazio cosmico. Ma non si pensa che la nostra terra, vista da quelle regioni, compare anche come una delle stelle celesti, e che gli abitanti degli altri mondi potrebbero con egual diritto accennare qui a noi dicendo: Ecco là il domicilio delle gioie eterne e un celeste soggiorno che è preparato a riceverci un giorno. Una strana idea infatti fa sì che ogni alto volo della speraru:a sia sempre legato al concetto del salire, senza pensare che, per quanto alto si sia saliti, ci si deve pur di nuovo abbassare per prendere, in tutti i casi, saldo piede in un altro mondo. Ma secondo i concetti addotti, il ciclo sarebbe propriamente il mondo degli spiriti, o, se si vuole, la parte beata di esso, e non avremmo da cercarlo né sopra né sotto di noi: giacché in tale tutto immateriale non deve essere rappresentato secondo le lontananze o vicinanze alle cose corporee, ma in nessi spirituali reciproci delle parti; almeno i membri di esso sono coscienti in se stessi soltanto secondo tali rapporti• (Triiume, pp. 332-333; it., p. 383).
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sé", kath'haut6, non fosse "per altro", "per gli altri",pròs tilla. Meglio: pròs alkla. Il saggio sulle regioni dello spazio - che abbiamo trattato per primo, per mettere in eviden7.a il centro del problema di Kant riempie il 'vuoto' dei Trihlme, dando anche al rapporto con la natura il sostegno del "per sé" del corpo umano: la regione, ovvero la prospettiva. L'introduzione "ex abrupto" dell'agire del corpo umano nella riHessione sulla natura corrisponde ali'esperiew.a non dimostrabile ma esibibile dell'agire morale. Il compito della Dissertatio è così definito. Kant lo enuncia nel modo più chiaro già nel titolo: De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis. "Forma" - è bene sottolineare sin da subito.
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Capitolo II
Un angusto passaggio
L'uomo [... ] quando si accinge a investigare la natura delle cose, si accorge infine di non poter in alcun modo raggiungerla, non avendo in sé gli elementi da cui sono costituite le cose, e capisce che ciò dipende dai limiti ella sua mente (giacché tutte le cose sono fuori di lui); utiliz:7.a allora questo difetto della mente per i suoi usi, e per me7.7.o della cosiddetta astrazione immagina due cose: il punto che può essere disegnato, e l'uno, che può essere moltiplicato. Sono due entità fittizie: il punto infatti, se disegnato, non è più punto; e l'uno, se moltiplicato, non è più uno. Inoltre si arroga il diritto di procedere da tali finzioni all'infinito, permettendosi di condurre linee all'infinito e di moltiplicare l'uno infinitamente. Si crea cosl un mondo di forme e di numeri, che abbraccerebbe dentro di sé l'universo. E allungando, accorciando, componendo le linee, sommando, diminuendo o computando I numeri, compie infinite operazioni, come chi conosca dentro disé verità inlìnite.1 1. •I...] cum homo, naturam rerum vestigabundus, tandem animadverteret se eam nullo assequi pacto, quia intrase elcmcnta, ex quibus res compositac existant, non habet, atque id fieri ex sua mentis brevi tate, nam ex!Ta se habet omnia; hoc suae mcntis vicium in utilcs vcrtit usus, et abstTactione, quam dicunt, duo sibi conlìngit; punctum, quod designari, et unum, quod multiplicari possest. Atqui utrumque lìctum: punctum enim, si designes, punctum non est; unum, si multiplìces, non est amplius unum. lnsuper pro suo iure
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La Dissertatio del 1770 fu il primo tentativo di Kant di dare un ordine sistematico all'insieme dei problemi affrontati nei precedenti saggi. Non era impresa da poco portare a unità pensieri nati in tempi diversi, seguendo motivi e criteri dianalisi anche profondamente distanti tra loro. Le acque dei fiumi giungono alla foce portandosi dietro molti detriti. Ma la ricerca di una sintesi ordinatrice fu d'aiuto: evidenziando i contrasti, impose scelte radicali. Cominciamo dal titolo: De mundi sensibilis atque intellegibilis forma et principiis: nessun cenno alla materia, che nel primo scritto era richiesta come il "dato" fondamentale per la costruzione del mondo, la base su cui impiantare le "fo17.e" che danno ordine al tutto, e dal caos traggono il cosmo: dopo il "Fiat" che l'aveva originato, il mondo si evolveva autonomamente in base alle leggi della fisica newtoniana. La 'parola' non manca, certo, nella Dissertatio, ma accompagnata dall'aggettivo "trascendentale" ( § 2, pp. 228-229) prende altro significato. Non fa segno a 'qualcosa' di per sé sussistente, su cui, ab extra, "s'impianta" la forma; al contrario è un elemento della sostani.a: del sinolo originario costituito simul, Mma, di materia e forma. Dovessi riassumere in una definizione il cambi amento intervenuto in Kant dall½llgemeine Naturgeschichte alla Dissertatio, direi che !'"architetto" s'è trasformato in "analista": non 'disegna' la costruzione del mondo nel suo farsi, a partire da una materia data, "per sé essente", anali7.7..a bensì il "dato" nei suoi componenti essenziali. E il dato è ora - nella Dissertatio - il mondo, com'esso è: già "formato".
sumpsit ab his in infinitum usque procedere, ita ut lineas in immensum ducere, unum perinnumera multiplicare sibi liceret. Atque hoc pacto mundum quemdam formarum et numerum sibi condidit, quem intra se universum complecteretur: et producendo, ve! decurtando, vel componendo lineas, addendo, minuendo, ve! computando numeros infinita opera eflìcit, quia intrase infinita veracognoscit» (G. Vico, Antiquissima, in OF, pp. 66-67).
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Ma andiamo al testo.
1 I.:analista inizia distinguendo "parte" e "tutto". In senso rigoroso è "parte" solo l'elemento semplice, ciò che non è scomponibile in parti; è invece "tutto" ciò che non è parte di altro. Chiaro che qui "tutto" dice: "uno", e "parte": "molti", non essendo parte ciò che non ha rapporto con altri o altro componente dell'unità. L'"uno-tutto" è quindi l'universale relazione delle molte parti, dei "relati" della relazione. Ne consegue che l'unico "irrelato" è la relazione stessa, il tutto. Fin qui, nulla che non sapessimo già dalla Dilucidatio. Perché ripeterlo, allora? Perché proprio qui v'è il gran cambiamento di 'metodo': Kant nella Dissertatio muove non dal tutto, dalla relazione come nella Dilucidatio -, bens} dalla parte, dal relato. E ciò può fare perché la relazione, in primis la relazione spaziale, è concretamente esperita, 'vissuta' -come sappiamo dallo scritto di due anni precedenti Sul primo fondamento delle regioni nello spazio - sempre da una determinata prospettiva, la "regione", Gegend. Lo spazio universale, l'orizzonte di tutte le possibili 'regioni', è solo un concetto "che astrae" dalle singole e plurali prospettive. È lo spazio "oggettivo" incontrato alla lìne del saggio or citato. Un concetto, un mero pensato, irraggiungibile col metodo "costruttivo", aggiungendo cioè parte a parte, dacché queste non nniscono mai, né temporalmente, né spazialmente. Eppure questo spazio-tempo universale - che sembra solo una 'composizione' intellettiva, un oggetto della mente senza potere relazionale, essendo questo potere passato alla parte, al soggetto prospettico - è l'orizzonte ontologico di tutte le parti, ciò per cui esse sono e possono essere: è la relazione di tutti i relazionati. Talché l'irrelata relazione di tutti i relati, l'inesperibile totalità, è la condizione di possibilità dell'esperienza, di ogni esperienza particolare. L ~oggetto"
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mentale, quindi, non è solo mentale. Di più: mentre la parte, di cui si dà esperien7.a è condannata all'"apparen7.a", il tutto, che non è esperito, è reale. Ed è reale "per sé", kath'haut6, e non grazie ad altro, essendo la condizione di possibilità d'ogni 'altro', d'ogni essente che è tale perché rela7.ionato agli altri, perchépròs alla. Ed è per la realtà del tutto - della rela7.ione che la parte - il relato - è reale. Reale, dico, e non fenomeno. Tuttavia quel che ogni parte conosce delle altre parti è solo "fenomeno", e cioè, come spiega Kant, solo ciò che dell'altro appare dalla prospettiva delle altre parti. Visto dal basso -rectius: dall'interno - l'universo mondo delle rela7.ioni è solo un insieme di apparenze, la cui non fenomenica "realtà" è in e per altro: nel e per il tutto che le fa essere. Questa apparen7.a Kant nomina sensibilità. L'identi6ca7.ione si basa sul carattere che Kant assume come il più proprio del sensibile: la ricettività (receptioitas; Dissertatio, § 3, pp. 234235). Del volto dell'altro vedo solo quello che ai miei occhi si presenta; se nulla si presenta, nulla vedo; ma se qualcosa si presenta ai miei occhi, non posso non vederlo. Kant definisce "ricettività" questa "datità", il fatto, cioè, che la vista non è libera di vedere quel che vede. Ed è evidente che questa ricettività si basa sulla relazione dei molti. Tutto quanto appartiene all'interno della Totalità è sensibile, ossia "ricettivo", o si origina da esso. C'è da chiedersi: questo carattere del sensibile, la ricettività, è esperita dal sensibile, qua talis, o è altra esperienza, l'esperien7.a '1ogica" che per spiegare la sensibilità ricorre alla 'ricettività' come causa della esperienza sensibile? In tal caso la "ricettività" sarà pure l'essen7.a della sensibilità, owero: ciò che dà ragione del prodursi dell' esperien7.a sensibile, ma non sarà questa esperienza C'è dunque un salto dalla "datità" del sensibile - "sento quel che sento" - alla "ricettività" - "sento perché aflètto da altro". Ed è il salto dalla sensibilità all'intelletto. È infatti l'intelletto che può distinguere nella parte - nel relato della relazione - il non-fenomenico
195 essere-per-sé della parte dal suo essere-'fenomeno' in quanto "sentita" da altra parte. Nella sensibilità (come sfera autonoma dell'esperienza) ogni parte - ogni 'relato' - è le indefinite apparenze in cui si mostra nelle sue indefinite relazioni con le altre indefinite parti. Ma nella sensibilità non vi sono indefinite apparizioni di un oggetto, perché non v'è ancora "oggetto". Ma l'apparizione, il fenomeno "è". Ed è il soggetto affetto, quello che la logica cosl definisce, e che non è altro che l'affezione; e questo va detto della pietra non diversamente che dell'uomo. La definizione della sensibilità come "ricettività" dice quindi del sensibile non quello che i sensi esperiscono in quanto sensibile, ma ciò che esso "è" dal punto di vista dell'intelletto, ossia quando viene 'investito' dalla logica:_. È quanto la logica ritiene che appartenga alla sua essen7.a2 • E, dunque, della 1ogica' che dobbiamo ora parlare.
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Oltre la sensibilità Kant pone l'intelletto, la "facoltà superiore dell'anima umana", della quale distingue un duplice uso, quello logico e quello reale. Se il primo regola i rapporti tra tutti i concetti, quali che sia la loro origine, secondo il principio di non contraddizione, e pertanto riguarda tutte le forme
2. Solo la "lettura logica' della sensibilità, che regge l'interpretazione heidcggeriana dell-oggetto" del conoscere: Gegerwtand, "ciò che sta di contro", ove il "di contro" (Gegen) è il carattere proprio dell'elemento sensibile, e lo Stand, lo "stare", l'elemento intellettivo, può spiegare l'affermazione del "primato" del sensibile, sino al paradosso dell'intelletto ascrvi:ào (im Dienst) della sensibilità. (in merito v. infra, Appendice, Heidegger, Kant e il problema della cosa). Vero è che alla base di questa interpretazione v'è l'errata precomprcnsione dei momenti dell'operare logico come 'elementi' all'origine 'separati'. Sul tema - qui di proposito 'anticipato', pereviderudarc la stretta connessione 'problematica' della Di.ssertatio con laKritik -rinvio ai paragrafi sulla Deduzione trascendentale del successivo capitolo, 11/1, spec. ~§ 5-6.
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di conoscen7.a («omnibus scientiis communis»), il secondo, invece, si riferisce solo ai concetti delle cose e delle loro relazioni («conceptus vel rerum vel respectuum»; Dissertatio, § 5, pp. 238-239)-id est: a tutto ciò che è interno al Tutto, e che s'è detto "sensibile". Questo legame al sensibile connota queste conoscen7.e, che son dette sensibili, per la loro origine. Ma i concetti matematici e geometrici - precisa Kant - non sono meno logici a causa del loro originario riferimento al sensibile. Originario, infatti, è il riferimento al sensibile, non la loro 'natura' che è intellettiva. Essi - i concetti matematici e geome-trici -non sono "astratti" dal sensibile, al contrario astraggono dal sensibile, dalle singolari apparen1.e sensibili, le leggi, su cui si fonda l'universale esperienza conoscitiva. Kant sottolinea la differen7.a tra "astratto" e "astraente"; ma: sono i concetti matematici che astraggono? Non essi, invero, ma i concetti che sono alla loro origine. Dobbiamo fare attenzione a questa differen1.a che ci porta a fare un passo indietro rispetto alla Meta6sica, che «contiene i primi principi dell'uso dell'intelletto puro» (Dissertatio, § 8, pp. 242-243), per prendere coscien1.a di ciò che è alle sue spalle e la condiziona, e cioè dei concetti puri che sono alla base dell'uso dell'intelletto puro e che sono profondamente diversi dalle forme della ricettività dei sensi, le intuizioni di spazio e tempo. Da architetto ad analista - s'è detto poco sopra, accennando al cambiamento di rotta del procedere di Kant; da analista a genealogista, aggiungo ora considerando quest'ulteriore passaggio. Kant vuole ora disegnare la mappa concettuale che dà ordine al Tutto. La sua genealogia è propedeutica alla Meta6sica. Si tratta di individuare non nuovi concetti, ma il loro nuovo "uso". È l'operare che ora è in questione. Pertanto la loro indicazione può anche essere sommaria all'inizio. Importante è il riferimento alle intuizioni pure della sensibilità - il tempo e lo spazio - quali forme formanti, non statiche, ma attive; se le forme dell'interno del tutto, le forme che originano i "relati"
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nelle loro relazioni, sono 'attive', operanti, lo stesso carattere hanno le forme dell'ordinamento del tutto, le forme della relazione qua tal,is, della relazione universale. E infatti Kant non manca di dire che le forme dell'intelletto puro - le forme d'attuazione della relazione costitutiva dell'ordinamento del Tutto - non sono da intendersi come concetti innati, bensì come acquisiti, dacché di essi si ha conoscen7..a nell'operare, nel farsi dell'esperienza stessa ( «attendendo ad eius actiones occasione esperientiae»; ibidem). E tuttavia questo movimento, questa enérgheia relazionale del Tutto, appare bloccata alla radice. Essa "è" prim'ancora di operare, quantunque non sia che nell'operare. L'assoluto "per sé" (kath'hauto) della rela7.ione, la sua costitutiva irrelatività, impedisce alla relazione, al Tutto, di mutare, di far-si, "di produrre sé", nell'operare. Nella Critica della ragion pura Kant, parlando del tempo scriverà, con estrema concisione: «die Zeit bleibt und wechselt nicht». Ma è un tema - o meglio: un problema - questo dellx'essere-per-sé", che s'era già affacciato anni innanzi, nella Deutlichkeit, trattando della distinzione tra matematica e 6loso6a, ovvero: tra la costruzione del sapere e la coscien7..a di sé di questa costruzione. La distinzione tra l'operare e la coscien7..a dell'operare concerne non solo le forme dell'intelletto, i concetti a priori, sì anche le forme della sensibilità, le intuizioni di spazio e tempo; appartiene però all'intelletto analitico, al sapere di sé del Tutto, ali'essere e non al fenomeno. Se è sensibile l'operare di spazio e tempo, non è sensibile la conoscen7.a di essi come intuizioni a priori. I sensi sentono spazialmente e temporalmente, ma è l'intelletto che conosce le intui7.ioni di spazio e tempo come forme della sensibilità. I sensi non distinguono apparenza da realtà, come non distinguono vero da falso. Anche superfluo ricordare il sin troppo citato esempio del remo che, integro e intero, immerso nell'acqua appare alla vista spezzato in due parti.
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3 Diversamente dagli occhi del corpo, dagli occhi sensibili, che non hanno altro orizzonte visivo che quello interno al tutto, del quale non possono vedere che parti, e mai tutte, lo sguardo dell'intelletto può muoversi più liberamente passando dall'interno dell'orizzonte del Tutto, all'esterno. A questa maggiore ampie7.7.a di sguardo e libertà di movimento s'accompagnano, però, pesanti restrizioni. Quando non s'appoggia alla sensibilità, l'intelletto, non avendo "intuizione", non può che muoversi tra concetti generali, sen1.a mai giungere a conoscere un singolare concreto (Dissertatio, § 10, pp. 246-247). Non fa quindi progredire le scien1.e. Riguardo a queste ha solo una funzione di supporto, elenctica, la definisce Kant(§ 9, pp. 244-245), e cioè confutatoria, in quanto tenendo distinti i concetti intellettivi dai "sensibili", impedisce sconfinamenti da un ambito all'altro,evitando in tal modo l'errore(§ 24,pp. 283-287). Non è compito da poco, se conferisce alla logica - all'uso logico dell'intelletto - il potere di fissare i limiti della logica. L'intelletto ha un possesso di sé che la sensibilità, non conoscendoi suoi limiti, non ha. Questo perché l'intelletto ha un duplice sguardo: dentro e fuori l'oriZ7.onte relazionale del Tutto? Vediamo. Porto due esempi che Kant tratta in un unico contesto, ma che sono ben differenti. Il primo: quidquid existit est alicubi. L'uso elenctico dell'intelletto nega la verità di questa affermazione, mostrando che qui ciò che è valido nei limiti dell' esperien7.a sensibile -1'essere nello spazio -viene esteso surrettiziamente oltre l'ambito suo proprio. Epperò, vera non è la tesi che: «tutto ciò che esiste, è in qualche luogo»; vera è, bensì, l'inversa, e cioè che quidquid est alicubi, existit. È il riferimento alla sensibilità che pennette di correggere l'errore, ma Kant dà di questo errore una spiegazione tutta interna alla logica, e cioè: l'errore logico consiste nell'applicare un predicato particolare a un soggetto universale. La 'illogicità' dell'errore non sta nel mancato rispetto della distinzione della sfera più ristretta della
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sensibilità da quella più ampia dell'intelletto - questa indistinzione è certo causa dell'errore logico, ma non è l'errore logico! L'errore logico di un giudizio in cui il predicato è meno esteso del soggetto, v'è anche se soggetto e predicato sono entrambi concetti intellettivi (ades., quadrato e figura geometrica). Secondo esempio, molto importante, perché riguarda il principio dei principi, la bebaiotate arché: con fedeltà alla lettera, ma non allo spirito, della formulazione aristotelica, Kant 'traduce' tò autò luima hyparchein te kaì mè hyparchein adynaton to auto kaì katà tò aut6 (Met, r, 1005b 19-20) con: «ciò che in uno stesso tempo è e non è, è impossibile». Sottolineando il carattere temporale del greco luima, Kant lega il principio di non contraddizione ali'ambito proprio del tempo3 - la sensibilità -, derivando la "verità logica" dell'enunciato, dalla minore estensione del soggetto, sensibile, perché nel tempo, rispetto al predicato "possibile", che è "concetto intellettivo"; in tal modo gli è facile respingere, elencticamente, l'inversione dei termini dell'enunciato, e cioè la formulazione: «impossibile è ciò che nello stesso tempo è e non è», in quanto in questa formulazione il soggetto è più ampio del predicato. Altrimenti detto: c'è impossibilità anche 'oltre' la dimensione temporale. Ma è accettabile questa delimitazione del "contraddittorio" al sensibile, e cioè alla sfera interna alla totalità? Dal punto di vista della logica aristotelica, nonché essere accettabile, è necessaria: il principio di non-contraddizione vale per ciò che è determinato, e il determinato è tale perché in relazione ad altro.
3. «[... ] lo stesso principio di contraddizione lo [scii. il tempo] presuppone e lo implica come sua condizione» (DLssertatlo, § 1415, pp. 258-259). Anni dopo, nella Kritik der reinen Vemunft, Kant affennerà l'esatto opposto: odi principio di contraddizione, in quanto principio semplicemente logioo, non deve assolutamente limitare le sue enunciazioni ai rapporti di tempo; dunque una tale fonnula [scii. quella di Aristotele] è affatto contraria al suo S 1111 il teoretico e il pratico(KU, Vorretle, p. 168; it.,p. 2), non
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l'attenzione del lettore costantemente, sin dall'Introduzione della II edizione dell'opera. Fatta questa precisazione - necessaria per aver presente sin dall'inizio il vero telos della Critica della ragion pura - non possiamo poi meravigliarci più di tanto delle molte 'aporie' che Kant incontra nel suo cammino, e che talora sembrano create ad arte. Vero è che Kant non pretende di uscire dall'abisso della ragione, vuole invece misurarne l'estensione. Da dove? E come? Con quale "mezzo"? E, sovrattutto, a qual fine?
HicRhodus ... 1 La prefazione alla I edizione della Kritik si apre con questa dichiarazione: La ragione umana ha questo particolare destino in un ge-
nere delle sue conoscen7.e: è tormentata [belà"stigt) da problemi che non può evitare, giacché sono posti dalla stessa natura della ragione, ma che neppure può risolvere, perché sorpassano tutte le possibilità dell'umana ragione. (KrV, A VII; it., p. 5)
Ciò nonostante, per stabilire ciò che la ragione è in grado di fare e ciò che invece non le è possibile, non altra soluzione propone Kant che quella, di indubbio carattere "socratico", consistente nel portare la ragione davanti al proprio tribunale ( Gerichtshof; A, Xl; it., p. 7). Ma la "ragione" di Socrate era salda "in sé", come le Leggi della Città, perché aveva Io stesso fondamento di queste\ non cosl quella di Kant. Quale ha un suo proprio «dominio~ («kcin eigcnthiimliches Gcbict ha~; KU, Ein-leltung, p. 176; it., p. 13). 3 . Cfr. Platone, Critone, La proso,,opea delle Leggi, 50a-54d, in particolare la conclusione.
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valore può avere il giudizio di un tribunale, in cui a emettere la senten7.a è quello stesso che deve essere giudicato? Quello stesso, dico, perché, a giudicare dei limiti e delle possibilità della ragione, è la stessa ragione che, ponendo problemi per lei irresolubili, mostra di non conoscere i propri limiti. Eppure Kant afferma con assoluta certeZ7.a: ciò che «la ragione trae unicamente da se stessa non può rimanere celato, ma per opera della stessa ragione viene alla luce, appena scoperto il principio generale che la governa» (A XX; it., p. 12). Donde questa certe7.7.a? Non dovrebbe essere Kant il primo a dubitarne, se riguardo alla relazione fondamentale per l'intero 'sistema' della ragione teoretica pura afferma che «si danno due tronchi dell'umana conoscen7.a, che rampollano probabilmente da una radice comune, ma a noi sconosciuta, cioè sensibilità e intelletto» (B 29; it., I, p. 61)? A noi sconosciuta! Ma questa "radice" è la proooktioe Einbildungskraft, che nella II edizione della Kritik da facoltà automa accanto a intelletto e sensibilità, com'era definita nella I edizione, è elevata a funzione dell'intelletto! Quale certeZ7.a è mai possibile attribuire a una ragione che non conosce la 'radice' del suo stesso operare concreto, effettivo, e cioè: la radice della sua costruzione dell'esperien7.a? Il medesimo contrasto di posizioni ritroviamo nell'esplicazione dei rapporti tra le intuizioni pure di spazio e tempo e le due scienze "certe", la matematica e la fisica, di cui Kant nella Critica intende dimostrare il fondamento, e cioè la metempirica necessità e l'intersoggettiva universalità. Riguardo alla prima, nulla quaestio: I'apriorità delle intuizioni pure di spazio e tempo rispetto ali'esperienza è "evidente" - né lo spazio né il tempo possono derivare per astrazione dai rapporti di vicinanza e/o lontananza l'uno, di antecedenza e/o successione l'altro, dacché questi rapporti sono già spazio e tempo-; ma, quanto all'universalità intersoggettiva - al "fatto", cioè, che un
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europeo e un cinese4, diversi, quando non discordi, per cultura, religione, 6losofìa, e in generale per il modo cli abitare il mondo, s'intendono immediatamente quando operano con numeri e misure, concordando sul metodo e sui risultati - , va detto eh'essa non deriva dall'apriorità cli spazio e tempo, bensì dal fatto che spazio e tempo, in quanto intuizioni sensibili pure, sono comuni a tutti i soggetti umani. In breve: l'apriorità di spazio e tempo si mostra (erl>rtet) "logicamente" necessaria, ma la loro validità per tutti gli uomini è sol.o un "fatto". Il fatto che gli uomini sono costituiti cli senso e intelletto. Che Kant fosse consapevole di questa differen7.a non è dubbio, infatti se la necessità logica di matematica e fisica è dimostrata sul fondamento dell'apriorità di spazio e tempo, l'universalità cli spazio e tempo è fondata sull'universalità della matematica e della fisica, che non ha altra prova che l'esperien7.a5 • Il rap-
4. L'esempio del "cinese" - è noto - è cli Max Wcber: cfr. L-oggettioità" conoscitioa della scienza sociale e della politica sociale, in Mss, pp. 53-141:
p.66. 5. •I ...] è facile mostrare che nella conoscenza umana esistono realmente [ ... ) giudizi necessari e universali nel senso più rigoroso, e quindi puri e a priori. Se si vuole un esempio tolto dalle scien:te, non si deve far altro che guardare tutte le proposizioni della matematica; se si vogliono esempi tratti dal più comune uso dell'intelletto, può bastare la proposizione che ogni cambiamento deve avere una causa; anzi in quest'ultima proposizione, il concetto cli causa contiene così manifestamente il concetto cli una necessità del legame con un effetto e cli una rigorosa universalità della legge, che esso andrebbe interamente perduto, se lo si volesse derivare, come fece Hume,dal frequente associarsi di ciò che accade con ciò che precede, eda un'abitudine che ne deriva (e perciò da una necessità semplicemente soggettiva) cli collegare certe rappresentazioni. Si potrebbe anche, senza bisogno cli simili esempi per trovare la reale esistenza di principi a priori nella nostra conoscenza, dimostrare che essi sono indispensabili per la possibilità della stessa esperienza, e quindi a priori. Perché dove l'esperienza stessa cercherebbe mai di attingere la sua certe:i:za, se tutte le leggi, secondo le quali essa procede fossero sempre empiriche e però contingenti, e se per conseguenza esse non potessero farsi valere come primi principi?» (KrV,
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porto tra 'a priori' ed esperien7,a è così capovolto: l'"apriori" fonda la necessità di matematica e fisica, l'esperien7,a la loro universalità. Ma come costruire l'edificio del sapere, il sistema della ragione, su questo capovolgimento, vera e propria "frattura" dell'ordine epistemico, ove l'esperien7.a giuoca due ruoli: di fondato e fondamento insieme? Riportare a unità questo doppio, sanare la frattura tra apriori ed esperienza era per Kant necessario per dare ordine al sistema del sapere. Ma in qual modo sanare questa frattura? Nell'unico modo che appare possibile, e cioè chiudendo in circolo il rapporto tra "a priori" ed "esperienza", "necessità logica" e "universalità fattuale". Così Kant, prendendo ad esempio di questo rapporto la relazione causale, scrive: [ ...] nessuno può conoscere fondatamente la proposizione "tutto ciò che accade ha la sua causa" soltanto da questi concetti dati "a priori". Quindi non è un domma, quantunque per un altro punto di vista, ossia nell'unicocampo del suo possibile uso, ossia nellaesperienw, possa essere dimostrato benissimo e apoditticamente. Ma esso dicesi principio [Grondsatz] e non teorema [Lehrsatz ], benché possa essere dimostrato, perché esso ha la proprietà particolare di rendere possibile la sua stessa prova, l'esperien7.a,e di dover essere presupposto sempre in questa. (KrV, A 737, B 765; it., Il, p . 581; corsivo mio)
Principio non teorema, ancorché dimostri se stesso nell'esperien7,a: i principi infatti, son tali perché sono essi il fondamento delle dimostrazioni, e quindi in quanto principi non hanno bisogno di dimostrazione da altro. Palesemente la fondazione kantiana del principio su se stesso attraverso l'esperienB 4-5; it., I, pp. 42-43). Sulla diversità delle due 'prove' - "logica" quella dell'a priori, "fattuale" l'altra dell'universalità- cfr. altresì i Prolegomeni ad ogni futura metafisica, non foss'altro per l'affermazione del carattere "analitico" (analytisch)del procedimento (methodischen Ve,fahren) che muove dall'esperienza (PrM, § 4, pp. 274-275; it., pp. 59-60). Ma su cib si vedano infra, §§ 5-11 sulla Ocduz:ionc trascendentale.
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7,a ricorda la fondazione elenctica del principio aristotelico di (non-) contraddizione. Infatti, chi nega questo principio, per negarlo, di fatto ne fa uso6 • L'operare, e cioè: l'esperien7.a che l'operare costruisce, è quello che conta. L'Architettura kantiana del sapere, fondata non ex datis ma ex principiis, non nega la datità (Faktizittit) del principio, ben al contrario l'afferma, solo che la subordina al principio. Questo il senso della circolarità: "a priori/esperien7.a". Ma: riesce questa operazione?
La risposta potrà essere data solo dall'operare effettivo del sapere architettonico, di quel 'sapere', cioè, che costruisce I'edificio non di questa o quella scien7.a, ma del sapere scientifico come tale. Vale a dire: può esser data solo dalla Deduzione trascendentale. Ll davvero si prova che il 'principio', che dall'inizio regge l'intero procedimento del sapere, si rivela, come tale, né 'prima' né 'dopo' il processo, bensì soltanto in esso.
Ma c'è un punto critico che va subito messo in eviden7.a per l'importan7.a che riveste nella costruzione del "sistema" della ragione. Della ragione tout court: non solo della ragione teorica, o speculativa Nella prefazione alla Critica della ragion pura del 1781, Kant dopo aver richiamato l'attenzione sull'importan7.a della deduzione trascendentale - la parte più impegnativa dell'opera dichiara che di questa ha illustrato solo l'aspetto 'oggettivo', e cioè le forme a priori (i concetti, o categorie) mediante le quali la ragione 'produce' (in senso giuridico) gli "oggetti' del conoscere; non però l'aspetto soggettivo, vale a dire: la possibilità stessa del pensiero. Il passo continua: [ . .. ) e, sebbene questa esposizione sia di grande lmportall7.a per il mio scopo principale [meines Hauptzwecks) non ne fa tuttavia parte essenziale [so gelwrt sie doch nicht wesentlich
6. anairon gàr 16gon hypoménei 16gon (Aristotele, Met, r, 1006a 26).
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demsel.ben], perché la questione principale rimane sempre quella: «che cosa, e lìn dove, l'intelletto e la ragione, all'infuori d'ogni esperien7.a possono conoscere?»; e non già: «come è possibile la stessa facoltà di pensare?». Poiché quest'ultima è quasi la ricerca della causa di un dato effetto, e perciò ha in sé qualcosa che somiglia ad un'ipotesi (sebbene in realtà la cosa non stia proprio cos'l, come mostrerò in altra occasione [wie ich bei anderer Gelegenheitzeigen werde)), cosl pare che qui sia il caso di prendermi libertà di opinare [zu meinen), e di lasciare al lettore la stessa libertà di opinare altrimenti [anders zu meinen]. (KrV, A XVII; it., p. 10)
Strano: Kant affenna che l'esposizione della deduzione soggettiva è di grande importan7.a per il suo scopo principale, e tuttavia, non ne è parte essenziale! Che il suo Hauptzweck eccedeva lo scopo della I Critica, lo sappiamo già dagli scritti precritici, ma qui Kant non fa distinzione tra i "territori" e/o i "domini" della ragione, parla unicamente del suo scopo principale! E proprio su questo tema ritiene lecito "giocare con i pensieri"7 ? È un argomento su cui dovremo tornare più volte. Si tratta di un'ambiguità legata al passaggio - vero malignus aditus, per dirla con Vico - dal territorio della ragione speculativa a quello della ragione pratica. Ma per affrontare con ordine i temi e i problemi qui appena accennati, è bene iniziare con l'esame della struttura della Critica della ragion pura. Anteponiamo, però, a questo 'inizio' una riflessione di Emst Cassirer sul 'linguaggio' di Kant. Per l'importan7.a che riveste nella nostra trattazione, le dedichiamo un paragrafo a parte.
7. Fuori del campo delle leggi empiriche - osseiva Kant nella Disciplina della ragion pura - •opinare [meinen] è come giocare con i pensieri [mit Gedanken spielenJ• (KrV, A 775, B 803).
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2 Nei decenni dell'appartatissima meditazione solitaria in cui veniva fìssando per se stesso un proprio metodo e una sua problematica, Kant si era gradatamente allontanato sempre più dalle comuni premesse di fondo su cui il pensiero lìlosolìco e scientilìco dell'epoca si reggeva come in tacita intesa. Spesso, è vero, egli parla ancora il linguaggio del suo tempo; Impiega ancora concetti che quel tempo aveva coniato e le suddivisioni scolastiche che aveva fatto valere nei suoi trattati di ontologia, psicologia razionale, cosmologia, teologia; ma ora tutto questo matetiale terminologico e concettuale è utiliz7.ato per tutt'altro scopo. L'autore che mira a tale scopo, non disdegna neppure me7.7.i di designazionee di espressione che a tigore non sono più del tutto adeguati al proptio pensiero; anzi spesso si tilà di preferen7.a a questi mezzi verbali perché spera di trovare sopra tutto in essi un allacciamento immediato col consueto mondo di concetti del lettore. Ma proprio questa disponibilità compiacente di qui innanzi diviene la fonte di molteplici difficoltà: proptio là dove Kant si è abbassato al punto di vista della sua epoca, non gli è riuscito di sollevarla a sé. E qui va tenuto conto anche di un altro elemento determinante che rese difficile ai contemporanei penetrare nella concezione-di-fondo e rimase da allora in poi la fonte dei più svariati errori e fraintendimenti. A considerare esclusivamente la forma esteriore data da Kant ai suoi scritti, nulla sembra più chiaro del fatto che qui ci si dispiega innanzi un sistema lìlosolìco compiuto nell'insieme e In tutti I particolari. I matetiali per la costruzione paiono affatto predisposti; lo schema è chiaramente e precisamente tracciato in preceden7.a in tutti i suoi tratti: ora si tratta solo di combinare Insieme i singoli pezzi secondo tale piano prestabilito. Solo quando questo tentativo viene intrapreso in concreto, emerge a pieno tutta la grande7.7.a dell'assunto. Si incontrano dovunque nuovi dubbi e questioni; a ogni passo si fa chiaro che quei singoli concetti, che credevamo di poter usare come premesse, hanno invece bisogno anzi tutto essi stessi di definizione. Co.sì i concetti divengono via via altri (da
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quello che parevano essere), a seamda del liwgo in cui compaiono nella progressiva costruzione sistematica dell'insieme. Essi non sussistono sin dall'inizio come un sostrato immobile, quiescente del movimento del pensiero, ma si sviluppano e si fissano solo in questo stesso movimento. Chi non tiene conto di questo tratto caratteristico, chi crede che il significato di un determinato concetto portante sia esaurito nella sua prima definizione e In tal senso cerca di tenerlo fermo e Intatto lungo il procedere del pensiero come un termine immutabile - è già per for7.a di cose sulla strada di un'interpretazione errata. (E. Cassirer, KLL, pp. 134-135; corsivi miei)
3 Cominciamo ora dalle partizioni fondamentali dell'Opera, che non sono prive di problemi.
La prima è tra la Dottrina trascendentale degli elementi (.KrV, A, pp. 17-704; B, pp. 31-732) e la Dottrina trascendentale del metodo (A, pp. 705-856; B, pp. 733-884). Il numero di pagine attesta la maggiore importan1.a della prima parte. Ma, indipendentemente dal fatto che la seconda riprende temi e distinzioni già presenti problematicamente sin nell'introduzione (cfr. A, pp. 10-16; B, § VII, pp. 24-30), la domanda che sorge spontanea riguarda la congruenza della distinzione tra "elementi" e "metodo" in una logica trascendentale, in una logica, cioè, che ha a tema non il contenuto logico, l'enunciato, ma l'operare logico, la 1wd6s: la via, il procedimento8 • La I parte è a sua volta suddivisa in: Estetica trascendentale (A, pp. 19-49; B, pp. 33-73) e Logica trascendentale (A, pp. 50-704; B, pp. 74-732), e questa in Analitica trascendentale (A, pp. 65-292; B, pp. 90-349) e Dialettica trascendentale
8. Sul tema cfr. infra,§§ 5.b e 6.
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(A, pp. 293-704; B, pp. 349-732). Risulta chiaro - se il numero di pagine dedicato ai singoli temi ha un qualche significato che l'interesse maggiore di Kant si concentra sulla Dialettica, che da sola occupa più spazio dell'Estetica e dell'Analitica prese insieme. A questa considerazione numerica -credo non del tutto estrinseca - aggiungo quest'altra affatto intrinseca: l'Estetica fa parte della Logica, per le ragioni esposte sopra nel capitolo sulla Dissertatio0 e per quelle che svolgeremo in seguito. Questo non toglie affatto la legittimità della distinzione, dacché le forme della sensibilità - anche questo s'è detto nelle pagine sulla Dissertatio - sono "intuizioni" e cioè ineriscono immediatamente ai sensi: non c'è materia sensibile che non sia spazio-temporale; toglie, per contro, l'estraneità dell'Estetica alla Logica. E qui, per esser chiari sino in fondo, precisiamo che con Logica intendiamo - se ne vedrà la motivazione - l'intero orizzonte della Ragione, "oggetto" e insieme "soggetto" della Kritìk: Estetica, Analitica e Dialettica -sl, pur quest'ultima, se non anzitutto quest'ultima, che dell'intero ori7.7.onte fissa il limite. L'oriZ7.onte della ragione è il Tutto, un cerchio infinito, che possiamo 'vedere' solo 'da dentro', dal suo interno composto di parti finite, ove si svolgono le nostre operazioni, che sono 'insieme' fenomeni (Erscheinungen, apparenze) e fatti. Questo aveva detto Kant nella Dissertatio, e questo ribadisce con chiaro esempio nella Kritìk: La nostra ragione non è, per così dire, un piano di estensione indeterminata, i cui limiti si conoscano soltanto in generale, ma deve piuttosto paragonarsi a una sfera il cui raggio si può trovare in base alla curvatura del suolo alla sua superficie. (KrV, A 762, B 790)
9. Cfr. supra, parte 11, I, cap. 11, § 1.
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Di qui l'improponibilità del problema "metafisico" della conformità del fenomeno alla "realtà in sé" {Jcath'haut6) 10• Kant si ferma al fatto, al fatto del "fenomeno-mondo", per esaminarne la costituzione, meglio: il procedimento attraverso il quale si costituisce. È l'operazione che interessa Kant, e l'operato solo in quanto risultato di un operare in fieri 11 • La domanda sul suo statuto d'essere, sulla sua Seinverfassung, non è negata, è "sospesa" all'esito dell'operazione12• Questo il senso della "soggettività", di cui Kant parla sia nell'Estetica che nell'Analitica, quando definisce !"'oggettività" dell'esperien7.a. Oggettività 10. «Noi infatti abbiamo a che fare soltanto con nostre rappresentazioni e come possono essere in se stesse le cose (seni.a riguardo alle rappresenta,àoni, onde esse ci impressionano) è assolutamente fuori della nostra sfera conoscitiva,, (KrV, A 190, B 235; it., I, p. 208).
ll. Questo il senso della "rivolu,àone copernicana" di Kant, così chiamata per la disloca,àone dellosguardo tematico dal "contenuto• logico, i-oggetto•, i-enunciato", alla "prassi" logica, al "soggetto operante", all'enunciare. Il pas· so, celeberrimo, merita d'essere citato, per la sottile ironia che lo caratterizza- e che di solito passa sotto silenzio: «Qui è proprio come per la prima idea di Copernico, il quale vedendo che non p0teva spiegare i movimenti celesti ammettendo che tutto l'esercito degli astri ruotasse intorno allo spettatore, cercò se non p0tesse riuscir meglio facendo girare l'osservatore,e lasciando invece in riposo gli astri• (KrV, B XVI-XVII; it., p. 21). Aveva unapredile-aone, Kant, per gli esempi astronomici, specie quando p0teva esercitare la sua sottile ironia, come avremo modo di costatare anche in seguito. Ma, a parte questo, è bene precisare che l'intento di questa 'ri-volu'4one' (che secondo alcuni interpreti dovrebbe esser chiamata 'tolemaica' e non 'oopernicana', per aver Kant posto al centro del sistema del conoscere il "soggetto"uomola terra - al posto dcli-oggetto" - gli astri-; in merito cfr. G. Dc Ruggiero, Da Vico a Kant, p. 296, nota 1) non è la determinazione del centro e della periferia del movimento, ma l'individuazione di "chi" o "che cosa" si muove, opera, stia esso al centro o alla periferia (posto che si diano nell'universo infinito "centro" e "periferia"). 12. È lo statuto d'essere che dipende dall'opera'4one, non questa da quello. Sulla problematicità di questa tesi discuteremo a lungo nei paragrafi che seguiranno, qui mi limito a osservare che il nocciolo duro di questa problematicità era già presente nella Dissertatio.
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'soggettiva', umana: oggettività "formata" da soggetti costituiti di sensi e ragione. Di sensi 'formati' dalla ragione - nel doppio significato di Verstand e Vemunft, intelletto e ragione. Nulla di sostanzialmente nuovo, se consideriamo gli esiti della riflessione 'pre-eritica': il Tutto, dall'interno, lo si vede sempre da una prospettiva -noi, uomini, dalla nostra, dalla quale parliamo-, dacché la conoscen7.a del Tutto è sempre "regionale"; e la "regione", Gegend, determina la prospettiva dell'"osservatore", di chi opera, del "soggetto" dell'operare. Ma chi è poi il 'soggetto' dell'operare, il reale "attore"? L'operare stesso e quelli - uomini, o altri che siano o possano essere - che nell'operare operano? O non rinviano, costoro, ad "altro" che è 'dietro' l'operare e insieme lo rende possibile e lo condiziona13? Domande che riguardano tutte la logica, l'operare logico: quella logica, cioè, che Kant definisce trascendentale per distinguerla dalla logica formale, che ha origine e compimento in Aristotele'• - la Logica del contenuto. Di questa nuova Logica, interna ali'ori7.zonte del Tutto, tratta la Logica trascendentale, che, ripeto, non si limita all'Analitica, ma tiene in sé - e non come "elemento", ma come suo "momento" - l'intuizione estetica: l'operare sensibile.
13. È solo alla luce di questa domanda che si può intendere !~oggettiva soggettività" della Logica trascendentale kantiana, che è il vero problema di questo capitolo. 14. Cfr. KrV, B, Vlll;it., pp. 15-16; e altresì il 'commento' di G.W.F. Hegel, WL, I, Einleitung, pp. 45-46; it., I, p. 33. Due logiche, le cui funzioni vanno, secondo l'insegnamento di Husserl (FuTL e EuU), accuratamente distinte e coordinate, evitando ogni tentazione di risolvere l'una nell'altra: sul tema, cfr. F. Barone, LFLT, pp. Xl-XXV.
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Non sempre l'intento 'didascalico' di Kant aiuta il lettore. Ad esempio, nell'introduzione della Critica della ragion pura, per spiegare il significato di Logica trascendentale, inizia con la distinzione tra giudizi analitici e giudizi sintetici, i primi caratteri7.7..ati dall'identità di soggetto e predicato, e quindi fondati sul principio di (non-) contraddizione, i secondi, invece, dall'ecceden7.a del predicato rispetto al soggetto, epperò richiedenti un sostegno nell'esperienza. Segue a questa distinzione la ricerca dei giudizi sintetici 'a priori', aventi cioè il loro fondamento non nell'esperienza ma nella ragione stessa, nella sua struttura. A 'prova' dell'esistew.a di questi giudizi sintetici a priori Kant porta la matematica, che è sintetica e universale insieme, e cioè non dipende dal]'esperien7.a, ma la forma. Quindi, prendendo ad esempio un semplice calcolo matematico - la somma «7 + 5 = 12» -, spiega che nel concetto dell'unione dei due numeri non è affatto pensato il teno. E a dimostrazione dell'assunto aggiunge: se prendiamo numeri composti di molte cifre ci rendiamo conto che la loro somma non si ricava analiz7..andoli. L'esempio induce ali'errore di ritenere che l'operazione della somma sia tutta nel contenuto del giudizio, sino a vedere nel segno"+» il suo carattere sintetico15• Vero è
15. Tesi respinta da Kant nella dimostrazione degli Assiomi dell'intuizione: «il numero 12io non lo penso né nella rappresentazione del 7, né in quella del 5, né nella rappresentazione della loro somma,, (KrV, A 164, B 20.S; it., I, p. 186). Nella lettera a J. Schult:-" del 25/1Vl788 Kant dà questa piil dettagliata spiegazione: «[... ] alla detenni nazione di una grande-aa - 8 (che rimane sempre la medesima) io posso pervenire tramite 3 + 5, tramite 12 - 4, tramite 2 x 4, tramite 2 3• Senonché nel mio pensiero "3 + 5" non era affatto contenuto il pensiero "2 x 4"; e dunque non vi era nemmeno contenuto il concetto di •s·, che condivide con entrambi lo stesso valore• (1. Kant. EpFil, p. 169). Resta comunque fenno che i segni • + ", • - ", •x·, ecc., sono nelle diverse enunciazioni (somma, sottrazione, moltiplicazione) del numero in questione, t~s·, la 'traccia' dell'operare matematico che ha portato ad esso.
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che prima di questa 'dimostrazione', Kant aveva fatto un altro esempio, quello del contare sulle dita della mano prima il sette e poi il cinque per giungere al dodici. Esemplificazione difficile da intendere senza aver prima compreso il senso della dislocazione dello sguardo filosofico, operato dalla wgica trascendentale, dal contenuto del giudizio ali'operazione che è ali'origine del giudizio. Ora, però, se ci poniamo in questa prospettiva, nella prospettiva cioè dell'agire wgico, dell'operazione in atto, non solo la matematica, ma ogni enunciato della logica tradizionale, anche "A= A", è un giudizio 'sintetico', dacché implica un'operazione doppia di distinzione dei due "A" e insieme della loro unione. Insomma, se si guarda non al contenuto del giudizio, ma al suo operare - owero: non al giudizio, ma al giudicare-, tutte le sue 'operazioni', proprio perché tali, sono 'sintetiche' 16• Sintetiche, ma non tutte 'a priori'. Fermiamoci ora sulla definizione kantiana della Logica trascendentale, che segue poche pagine dopo la affermazione del carattere sintetico a priori della matematica: Chiamo trascendentale ogni conoscen7.a che si occupa (sich beschiiftigt) non di oggetti, ma del nostro modo di conoscenza degli oggetti in quanto questa ckve essere possibile a priori. Un sistema di tali concetti si chiamerebbe fìlosofìa trascendentale. (KrV, A 11-12, B 25; it., p. 58)
Questa definizione è ripresa nell'Introduzione alla Logica trascendentale, ove Kant con gran cura distingue la nuova logica dall'antica e tradizionale, e cioè dalla logica formale, che ocMa sul rapporto tra l'operare logico e il suo enunciato torneremo nei para-
grafi sulla Dedu:done trascendentale. 16. È la conclusione - necessaria-. cui Giovanni Gentile giunge nel SL I, parte 11,pp. 167-273. Sull'ostacolo che questa 'conclusione' -ripeto: necessaria-, rappresenta per la dialettica del pensiero, fondata sulla distin:done delle due "logiche" - del concreto è dell'astratto-, rinvio a V. Vitiello, Hl, se-~. II, cap. I, pp. 117-144.
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cupandosi soltanto della relazione delle conoscenze tra loro, prescinde totalmente dal contenuto del conoscere, e quindi dalla sua origine, se empirica o a priori, se 'soggettiva' o 'oggettiva'. Fatte queste precisazioni aggiunge, sottolineando l'importan7.a di quanto afferma: [ ... ) non bisogna chiamare trascendentale ogni conoscen7.a a priori, ma soltanto quella onde conosciamo che e come, certe rappresentazioni (intui7.ioni o concetti) vengono applicate o sono possibili esclusivamente a priori: e cioè, la possibilità della conoscen7.a, o l'uso di essa a priori. Quindi né lo spazio, né una qualunque determinazione geometrica a priori di esso sono rappresentazioni trascendentali: ma soltanto la conoscen7.a dell'origine non empirica di queste rappresentazioni, e la possibilità che hanno tuttavia di riferirsi a priori agli oggetti dell'esperien7.a, può dirsi trascendentale. Così l'uso dello spazio a proposito degli oggetti in generale sarebbe pure trascendentale; ma se esso è unicamente limitato agli oggetti dei sensi, allora esso si dice empirico. La distinzione dunque del trascendentale dal)' empirico appartiene alla critica delle conoscen1.e, e non riguarda il rapporto di queste col loro oggetto. (KrV, A 56-57, B 80-81; it., pp. 99-100)
Non dunque l"uso' (Gebrauch) della logica, ma la conoscen7,a del suo 'uso' sarebbe trascendentale. Ma: quale il senso di questa differenza tra "uso" e "conoscen1.a" dell'uso? E si tenga presente che qui con "uso" s'intende l'uso della conoscenza. 11: allora da dirsi "trascendentale" solo la conoscen7.a dell'uso della conoscen7.a? E che ne è di questa "conoscen7.a dell'uso della conoscenza"? È anch'essa un uso, una pratica, o soltanto un enunciato, ovvero un "contenuto" logico? L'affermazione che non è trascendentale l'uso dello spazio "limitato agli oggetti dei sensi", ovvero "l'uso empirico", può anche apparire corretto al senso comune, che probabilmente stimerebbe di meno la filosofia trascendentale, se con 'trascendentale' si indicasse anche la misura di una parete ottenuta col metro del muratore. Ma, a parte il fatto che non pare che Kant si sia mai
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preoccupato di adeguare il suo linguaggio al "senso comune" (che, peraltro, raramente coincide col "buon senso", e quasi mai con quello della lìlosofia), c'è l'ultimo periodo del brano citato che mette in imbara7.7.0. Rileggiamolo: «La distinzione dunque del trascendentale dall'empirico appartiene alla critica delle conoscenze, e non riguarda il rapporto di queste col loro oggetto». La conoscen7.a dell'uso della conoscen7.a si distinguerebbe quindi dall'uso della conoscen7.a, in quanto non riguarda il rapporto della conoscen7.a con l'oggetto, ma il rapporto delle conoscenze tra loro. Ma non era proprio il rapporto ali'oggetto ciò che differenziava la logica trascendentale dalla logica formale, che si occupa soltanto del rapporto delle conoscenze tra loro? Cosa intende, dunque, nel passo or citato, Kant, con "oggetto"? Chiaramente soltanto l'oggetto "empirico", e cioè "unicamenre l'oggetto sensibile". Pertanto la conoscenza dell'uso della conoscenza non è affatto senza oggetto - s'intenda: senza 'produzione' d'oggetto - epperò è anch'essa un "uso" del conoscere, una pratica, un'operazione. Certo una diversa operazione, l'operazione trascendentale kath'exochén: la "deduzione trascendentale". E cioè la «la spiegazione del modo in cui concetti a priori si possono riferire ad oggetti» (KrV, A 85, B 117; it., I, p. 127), pur non traendo la loro legittimità dal)'esperien1.a17• Ma primadi inoltrarci in questonuovopercorso, a testimonianza della difficoltà di 'circoscrivere' l'ambito del "trascendentale", citiamo un passo dell'Introduzione in cui Kant manifesta la sua perplessità nel definire lo statuto epistemico della Cri-
tica della ragion pura: Questa ricerca, che non possiamo propriamente chiamare dottrina, ma solo critica trascendentale[ .. . ) non mira all'al-
17. L'esperien:t.a non fonda, ma attesta la validità dell'apriori: cfr. il passo di KrV, A 737, B 76.5; it., Il, p. 581, citato sopra al§ l.
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largamento delle conoscen7.e stesse, ma soltanto alla loro rettificazione, e ci deve dare la pietra cli paragone del valore o della vanità cli tutte le conoscen7.e a priori [... ) Una tale critica è dunque una preparazione, se è possibile ad un organo: e se questo non dovesse riuscire, almeno ad un canone della ragione, secondo il quale in ogni caso si potrebbe un giorno esporre, così analiticamente come sinteticamente, il sistema completo della fìlosofìa della ragion pura, abbia esso a consistere nell'estensione o nella semplice limitazione della sua conoscen7.a. (KrV, A 13, B 26; it., I, p. 59)
Incertezza sul presente, certezza nel futuro; e siamo solo all'inizio 18•
5 Non c'è una sola Deduzione, come è noto, ma due; e il passaggio dall'una ali'altra ha richiesto non poco tempo: sei anni, dal 1781 al 1787, gli anni che dividono le due edizioni della.Kritik. a) La I Deduzione segue lo schema 'didascalico' della I parte dell'opera: dall'Estetica alla Logica, con l'introduzione tra le due 'facoltà' di una terza - l'immaginazione (Einbildungskraft) - a fungere da medio tra sensi e intelletto. Dovessi fare un riferimento storico, chiamerei in causa il Teeteto di Platone, ove il ruolo 'mediano' dell'immaginazione - della procwktive Einbildungskraft, bisogna aggiungere: ché la facoltà d'immaginazione "produce» il legame che tiene unite le molte irrelate sensazioni (del dolce e del colore, del caldo e dell'odo-
18. La determinazione completa dello statuto epistemico della CriUca della ragione - come disciplina, canone, sistema architettonico - verra data solo nell'ultima parte dell'opera, la Transun,lentale Methodenlehre, dove Kant, riffettendo sui risultati conseguiti dalla critica della ragion pura in ambito teorico, volge lo sguardo al lavoro ancora da compiere in ambito pratico, al quale introducono le analisi della Dialettica trascendentale.
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re, eoo.)- era svolto dalla memoria, facoltà dell'anima, psyché: primo passo per giungere, mediante la d6xa, l'opinione, al Logos, alla conoscen1.a vera, e cioè compiutamente relazionale, la conoscen1.a dell'ente che è insieme colorato, leggero, liscio, gustoso, e profumato, pur restando "uno"19• Ma questa 19. Cfr. Platone, Teeteto, 163 ss.; Kant: «Poiché ( ... ] ogni fenomeno comprende una molteplicità, e quindi nell'animo (1m Gemiite] si trovano diverse perce-doni, in sé disperse e singole, è necessario un loro collegamento, che esse non possono avere nel senso. C'è dunque in noi una facoltà attiva della sintesi di questo molteplice, che noi chiamiamo immaginazione• (KrV, A 120; it., Il, p. 681); «lmmagina:,;ione è la facoltà rappresentare un oggetto, anche senY.a la sua presenza nell'intuizione» (B § 24, p. 151; it., I, p. 150). Non è superfluo rilevare che anche Hegel nella Phiirwmenolcgie dli$ Geistes segue questo procedimento 'genealogico' dalla immediate:ct.a sensibile al "sapere assoluto", ove l'interoprooesso, attuandosi, si "cancella" (tilgt). Sul tema cfr. V. Vitiello ETN, SC'.l. I, cap. I, Lof!lca e mondo in Hegel. La quarta fomia del sillogi,smo, pp. 23-49, spec. 23-28. Mi riesce difficile, pertanto, 'spiegare se-condo logica' la critica, aspra. sino allo scherno, mossa da Hegel alla kriti• sche Philosophie nell'Anmerlcung al § 10 del primo volume dcli' Enzik/opiidie: «Voler conoscere (... J prima che si conosca è assurdo, non meno del saggio proposito cli quel tale Scolastico, d'imparare a nuotare, prima cli arrischiarsi nell'acqua» (Enz, I, § 10, p. 54; it., pp. 16-17). Ritengo questa critica dovuta piìl alla volontà dell'Autore di coprire il 'debito' teoretico, da lui contratto con la 'logica trascendentale' kantiana, che non ad 'incomprensione' della stessa. Non riesco a convincermi, infatti, che Hegel non avesse copito che con La Critica della rogion pura «Kant non si prefigge(va] cli "apprendere l'istrumento" prima di usarlo, ma di rendersi conto delle sue possibilità per poterlo usare correttamente», come ha, generosamente, sostenuto Leo Lugarini ne LTK, p. 73. Non aveva forse scritto, Hegel, nella Scienza della Logica, proprio nel dare ragione dell'operare ri-llessivodella "sua" Logica che in questa 'scienY.a' «l'andare innanzi è un retrocedere nel fondamento, all'originarioe al vero» (WL, I, p. 70; it., I, p. 56)? In breve, se, come acutamente scrive Stefania Achella: «Il significato della vita come operatio ( ... ] contribuisce a determinare la specificità della proposta logica cli Hegel che definiremo come un'ontolcgia vivente» (PoH, p. 213), allora questa "ontologia" è il maggior debito contratto da Hegel con Kant. Solo che quel che per Kant era 'problema', Hegel-spessoin lotta con se stesso: PhiiG, pp. 335-336; it., 11, p. 28- volle fosse la 'solu:.done' (In meritocfr. V. Vitiello, Hl, spec. parte 11, Tra Logica e Fenomenolcgia, pp. 301-409). Cfr. infra, nota 51.
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'genealogia' della conoscen1.a 1) non è da confondere con la "dedll7.Ìone soggettiva", che è tutt'altra cosa211, 2) non è reale,
20. Riguarda, infatti, non la modalità operativa del pensiero - la sua ~bilità 'oggettivante',e/o la sua costituzione 'soggettiva' a tre strati: sensibilità, immaginazione, intelletto, che, poi, realir.andosi pur essa nell'oggettività del fenomeno-mondo, coincide di fatto con i-oggettiva", come la sua prima, 'imperfetta', es-plicazione (come in questo § si mostra); bensì la condizione di possibilità della stessa facoltà di pensare ( «wie ist das Vermogen zu denken selbst moglich?»), quali poi siano le sue modalità d'attuazione. Problema, questo della "deduzione soggettiva", che Kant affronterà solo nella II Critica, dove darà ragione del fatto che «Pratico è tutto ciò che è possibile per me-u.o della libertà» (KrV, A 800, B 828; it., II, p. 624). La "libertà" è quindi anche il fondamento del pensiero speculativo, del sapere scientifico (ma su ciò si rinvia a.i due capitoli successivi). Sulla identificazione della deduzione soggettiva con la trattazione della I edizione e della "oggettiva" con q uella della II - un madornale quanto inspiegabile MijJverstandnis, avendo Kant proprio nella prefazione della I edizione affermato, come sopra riportato, che di essa si sarebbe occupato «in altra occasione,, è sorto un gran 'dibattito' tra i nomi più illustri della "filologia" kantiana da A. Riehla B. Erdmann, da E. Adickesa. H. Vahinger, C. Birven, H.J. de Vlecschauwer, H.J. Paton -, cui hanno partecipato anche filosofi illustri, come Martin Heidegger. Per una dettagliata analisi storico-critica di questo 'dibattito' - in cui s'è detto tutto e il contrario di tutto, anche sul metodo di lavoro di Kant- rinvio all'ampia rassegna storico-critica di P. Chiodi, Dedl 14,6), e perché tale non dice essa quello che è, ma chiede ad altri, ai venturi, che cosa essi intendono che sia. La Verità non è, vive, e, come la vita, non può mai arrestarsi. La Verità di Gesù è la verità dei suoi discepoli, la Verità della Chiesa cristiana. Della Chiesa che porta nelle parole del culto, della tradizione, la Verità sempre nuova della fede interiore: la Chiesa dei ministri e non quella dei funzionari. «Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Gt> 14,6). La via indicata dal Figlio muove dal basso: per questo il Figlio si è fatto uomo. Per risvegliare nell'uomo il sentimento della Grazia, del 'dono' del Padre: la libertà. Ma questa non la si accoglie se non esercitandola. È )"'esercizio", dunque, la misura umana e mondana dell'efficacia della Grazia. La misura della vicinan7.a della Chiesa visibile alla Chiesa invisibile. Ed è in questo spirito che vanno lette le parole che chiudono Die Religion: «il giusto cammino [derrechte Weg] non procede dalla concessione della grazia alla virtù, bensì dalla virtù alla
39. Mt 16,15-20; Mc 8,29-39; Le 9,18-20.
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concessione della grazia» (Rel, pp. 458-459). Giusto -perché resta nei limiti dell'uomo, che conosce la Grazia dal dono, e nel dono, che la Grazia gli dà: con la Legge la libertà. E con la libertà la dignità del dovere e il pericolo del potere.
13 Per la vita cristiana non c'è alcuna sicurer.,.a; la costante insicure7.7.a è anche il tratto caratteristico di tutte le cose aventi un signlfìcato fondamentale della via effettiva."° Quando la morale riconosce nella santità della sua Legge un oggetto degno del più grande rispetto [AchtungJ, allora essa, nella sfera della religione, giunge a rappresentarsi la Causa suprema, autrice di quelle leggi (an der hochsten,jene Gesetze oollziehenden Ursache], come un oggetto di adorazione, che cosl appare nella sua Maestà. Ma ogni cosa, anche la più sublime, rimpicciolisce nelle mani degli uomini non appena essi ne piegano l'idea al loro uso [zu ihrem Gebrauch ]. Di conseguen7.a ciò che può essere onorato veramente solo in quanto è libero il rispetto che gli è dovuto, viene invece costretto ad assumere delle formecui si può conferire autorità solo mediante leggi coercitive, e ciò che si autoespone alla critica aperta di ogni uomo, deve necessariamente sottostare a una critica dotata di for7.a e di autorità, cioè a una censura. (Rel, PP· PP· 52-55)
Quanto qui - nella prefazione alla I edizione della Religione entro i limiti della semplice ragione - è oggetto di apodittica affermazione, Kant, già due anni prima, in un saggio fortemente critico sulla possibilità di elaborare una "Teodicea", 40. «Fiir daschristliche Lebcn gibtes keine Sicherheit; diestandige Unsicherheit ist auch das Charakteristische fùr die Grundbedeutendheiten des faktischen Lebens» (M. Heidegger, PharL, p. 105; it., p. 146).
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aveva 'illustrato', commentando la storia di Giobbe. Il motivo della scelta di questa "narrazione" è evidente: Giobbe è la vivente di-mostrazione dell'irriducibilità dell'operare di Dio alla ragione umana. Ma ancor più della storia, è il suo "uso" (Gebrauch), e cioè: la scelta 'metodologica' di dare ragione dei limiti della ragione attraverso il ricorso a una narrazione, l'aspetto più significativo del saggio, nel quale si 'incontrano' 111ythos e wgos in un mythowgein, che contenendo entrambi, entrambi supera••.
La 'narrazione' inizia con una scena umana, anche troppo umana: la 'doppia sfida' lanciata da Dio a Satana. E, invero, come può l'uomo parlare di Dio, se non col proprio linguaggio? L'opposizione tra il Sommo Bene e il Male Sommo assume nella prospettiva umana la figura della competizione. Sicuro della fede disinteressata dell'uomo giusto, Dio sfida Satana a mettere Giobbe alla prova: dapprima lo autorizza a sottrargli tutti i beni, materiali e non, di cui godeva e per i quali era grato al suo Dio; poi al7.ando la 'posta in gioco', permettendogli di colpirlo anche nel corpo con mali crudeli, con l'unico divieto di non attentare alla sua vita. Misero, colpito negli affetti più cari - la morte dei figli-, malato, sofferente in ogni parte del corpo, Giobbe maledice il giorno in cui è nato; sicuro di non aver compiuto ingiustizia, si chiede perché Dio lo colpisce così duramente, mentre consente che uomini ingiusti vivano in pace con se stessi e col mondo.
La storia è sin troppo nota per dover raccontarla nei particolari; basta qui dire che i tre amici che si recano da Giobbe 41. I. Kant, Theo, spec. pp. 31.J.4. Molti i riferimenti possibili a cominciare dalla 'hegeliana' Mythologte der Vernunft, ove si legge: •la mitologia deve farsi filosofica( ... ] e la filosofia mitologica, per renderecomprensibi/i i filosofi (um diePhilosophen sinnlichmochenJ• (MythV, pp. 13-14; it., p. 252; corsivo mio). Ma iltesto più affine al saggio kantiano, e non solo per l'argomento, è El Libro de Job y el Pajaro di Maria Zambrano, in HD, pp. 385-408; it., pp. 351-313.
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per confortarlo - Elifaz di Teman, Bildad di Suach, Solàr di Naamà- con i loro discorsi, formalmente pietosi, lo inaspriscono. La loro esortazione a rimettersi alla giustizia di Dio implica, infatti, ch'egli, Giobbe, contrariamente a quel che afferma, non è, non può essere sen1.a peccato. Ultimo, parla Eliu, figlio di Barachele, il Buzita, della tribù di Ram: è il più giovane e anche il più dotto. Aveva atteso a parlare per rispetto dell'età dei tre amici di Giobbe, fin quando, "acceso di sdegno" anche nei confronti di costoro, che non avevano saputo replicare all'infelice, interviene non a sostenere, ma a rimproverare Giobbe: «Ti pare di aver pensato correttamente/ quando dicesti: "Sono giusto davanti a Dio?"» (Gb 35,2). Quindi elogia Dio, «così grande che noi non lo comprendiamo», e invita Giobbe a unirsi a lui nelle lodi: «Dio libera il povero mediante l'affiizione, / e con la sofferen1.a gli apre l'orecchio. // Egli trarrà anche te dalle fauci dell'angustia/ verso un luogo spazioso, non ristretto / e la tua tavola sarà piena di cibi succulenti» (Gb 36,15-16). Alle parole di Eliu, forse più dotte, certo non più degne, dal punto di vista religioso, di quelle dei tre amici, dacché invitano Giobbe a pentirsi per poter tornare alla precedente vita felice, seguono le parole di Dio, un Dio se non irato, offeso dalla presunzione dell'uomo: «Quando ponevo le fondamenta della terra, tu dov'eri?/ Dimmelo, se sei tanto intelligente!» (Gb 38,4). E offeso a tal punto da non esprimere anche una sola parola di compassione per l'uomo, che pure aveva lodato per la sua fede, esponendolo alla prova della malvagità di Satana. Dawero qui parla solo la sovrana Onnipoten1..a del Signore del mondo, che ricorda come sua "prima opera" l'ippopotamo «che solo il suo creatore può minacciarlo con la spada» (Gb 40,19), e subito dopo il Leviatàn «sovrano su tutte le bestie feroci» (Gb 41,26). Al confronto con questa immagine di Dio-che è l'immagine dei tre 'amici': Elifaz, Bildad, Solàr, e pur del più giovane Eliu -, spicca la figura di Giobbe, che al Dio adirato, risponde: «Io ti conoscevo solo per sentito dire, / ma ora i miei occhi ti hanno
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veduto. I Perciò mi ricredo e mi pento/ sopra polvere e cenere» (Gb 42,5-6).
La risposta di Giobbe ha il potere di cambiare l'atteggiamento di Dio, che punisce i tre 'amici' per non aver «detto di me cose rette come il mio servo Giobbe» ( Gb 42,5-6) - invero avevano esaltato la 'giustizia' di Dio, prima che la sua "poten7.a" -, e premia invece l'infelice col rimetterlo nella precedente condizione di vita. Su questo cambiamento si sofferma Kant, scorgendo nelle parole di Giobbe, le ultime in particolare, quelle che privilegiano la "vista" sull'"ascolto", una profonda affinità con la sua pratica di pensiero, con il suo 'metodo'. Ma leggiamo direttamente la "conclusione" di Kant: Giobbe parla come pensa, come sente e come anche sentirebbe ogni uomo nella sua condizione; i suoi amici invece parlano come se venissero ascoltati dall'Onnipotente, sui decreti del quale pronunciano un giudl7.io mediante cui sta loro più a cuore entrare nella grazia di Dio che la verità. [... JSe si considerano ora le teorie sostenute dalle due parti, quella degli amici di Giobbe potrebbe avere l'apparenw. di una ragione più speculativa e di una pia umiltà; e a Giobbe probabilmente, dinanzi a un tribunale di teologi dogmatici, ad un sinodo, a un'inquisizione, ad una reverenda congrega o a qualunque concistoro supremo del nostro tempo[ ... ], sarebbe toccata una cattiva sorte. Soltanto la sincerità del cuore, e non la superiorità del conoscere, soltanto l'onestà di confessare apertamente i propri dubbi e la ripugnan1.a a fingere ipocritamente una convinzione non sentita e soprattutto a fingerla dinanzi a Dio (dove questa astuzia è senz'altro assurda): sono queste qualità che nel giudl7.io divino hanno deciso a favore dell'uomo onesto, nella persona di Giobbe, e contro il pio adulatore. (Theo,pp. 265-267; it., pp. 33-34)
Cosa apprendiamo da questo 'commento' al libro di Giobbe? Anzitutto che il Dio della religione morale non è l'Onnipotente Signore dell'Essere, ma il Dio 'pietoso' della Legge che dona
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col sentimento del dovere la coscienza (coscien7.a, non conoscenza) della "libertà". Pietoso, perché umano. E qui "umano" esprime non un'esaltazione dell'uomo: l'esser fatto ad 'immagine' di Dio, che presto si muta nell'opposta visione di Dio immagine ingigantita dell'uomo (invero più 'copia', Ab-bild, che immagine, Bild); indica un limite: il limite dell'uomo che parla di Dio nell'unico modo in cui il finito può parlare dell'infinito: imperfettamente. Al modo stesso in cui conosce la Legge - traducendola in "massima"-, l'uomo conosce Dio: portandolo nel mondo, nel linguaggio del mondo: "ora i miei occhi ti hanno veduto". Cosa vede, cosa può vedere Giobbe? La poten7.a di Dio? Questa l'aveva già 'provata' con tutti i 'sensi' nei giorni infelici. Nei giorni del riscatto "vede" altro, vede se stesso vedere Dw42• Vede i limiti del suo vedere, ché, pur quando scorge l'illimitata poten7.a di Dio, e si copre il capo di polvere e cenere, non vede, però, la divina pietas dei giorni futuri. Dio è "altro", e resta "altro" in ogni parola umana. Tra Dio e uomo non v'è 'circolo', né compiuto, 'perfetto', né vizioso43, perché
42. Giustamente Arturo Massolo avvertiva che nel saggio kantiano suUa Teodicea «Dio non è al centro, ma al centro è l'uomo che discute oon Dio,, (A. Massolo, Nota a I. Kant, Sull'Insuccesso di ogni tentatioo di Teodicea, in «Studi urbinati», XXIX, n. 1, 1955, pp. 5-0, cit. da P. Salvucci, in UI.a e di affermare la realtà in sé degli oggetti. E volontà è impulso, istinto, bisogno e soddisfazione del bisogno - è vita. Certo l'esperien7.a che noi uomini abbiamo degli "oggetti" è complessa, entrando in essa fattori diversi, tra cui il pensiero concettuale e le sue relazioni logiche. Resta tuttavia fermo che il fondamento di questa esperienza è anzitutto un'esperien:>.a vitale. Dilthey enuncia il suo principio metodico generale: «I presupposti fondamentali della conoscen7.a sono dati nella vita e il pensiero non può trovare nulla dietro di questa» ( GS, V, p. 136). La filosofia diltheiana è un costante richiamo ai fatti, alla vita. È una fenomenologia della vita che va considerata e valutata in base alla sua aderenza ai fatti, alla sua rorrispondenza alla vita. L'esperien:>.a vitale in quanto esperienza della "resistenza" del1'oggetto è insieme esperienza di sé, sentimento di sé, Selbstgefahl, sentimento della propria energia volitiva. E laddove s'attenua quella, diminuisce anche questa, e viceversa. Nel contesto vitale non v'è alcun primato del soggetto. Dilthey, pur affermando che non intende affrontare la contrastata questionedell'origine delle determinazioni spaziali, respinge tuttavia !'"ipotesi della proiezione". Egli intende stare al fatto - senza volerlo spiegare3 - e il fatto attesta non solo che l'organo di senso come l'oggetto percepito «rientra nel contesto di immagini contenute nella coscien7..a», ma inoltre che non v'è nes-
3. «Wirmischen unshier nichtin der Streit, wie diese Veniiumlichungentstehe, sondem wir nehmen die Tatsache hin, ohne sie zu erklaren• (GS, V, p. 106, corsivo mio).
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suna proiezione, a opera dell'organo del senso, dell'oggetto nello "spazio percepito". È piuttosto dai contenuti-di-senso (Sinnesinhalten) che deriva l'orientamento spaziale. Questi "contenuti-di-senso" non sono ancora gli "oggetti", sono le loro condizioni, sono cioè l'impu1so motorio e la sensazione di resisten1..a (GS, V, p. 106). Infine: se la creden1.a nella realtà esterna dell'oggetto nasce da un'esperien1.a vitale, allora non v'è e non vi può essere riguardo ad essa alcuna differen1.a tra l'animale e l'uomo: l'animale e il bambino si distinguono dal mondo esterno con energia pari a quella dell'uomo adulto. Il sentimento di sé, la stima di sé, lo sfon.o di soddisfare gli impulsi, sono in quanto potenze vitali, attivi in quelli come nell'uomo evoluto. (GS, V,p. 125)
2. L'ape e l'tlOmO È evidente: non ogni impedimento e ogni resisten1.a opposta alla volontà determina l' esperien1.a dell'esterno. Vi sono impedimenti e resisten1.e tutt'affatto interiori. E non c'è atto volitivo che si realizzi senza conflitti e interiori resistenze: dal più semplice calcolo di utilità alla più complessa azione politica, alla più difficile scelta morale. L'esperien1.a dell' oggetto esterno si costituisce quando a esser impedito è un movimento attivo della libera volontà, eine aktioe willkarliche Bewegung. L'impedimento, cioè, riguarda il movimento della volontà, non la volontà soltanto. Ma il movimento non presuppone già lo spazio? Non è già spazialmente determinato? L'atto volitivo, solo perché nel suo movimento si dirige verso un "fuori", può incontrare una resisten1..a "esterna". Il "fuori" pertanto non sorge dall'esperien1.a della resisten1.a - perché di questa esperien1.a è la condizione di possibilità. Ed è appunto questa l'obiezione che Heidegger muove a Dilthey in Essere e tempo:
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L'esperienza della resistenza, cioè la scoperta di ciò che resiste al ncstro tendere verso, è ontolcgicamente possibile sole sul fondamento dell'apertura del mcntÙ>. (SZ, p. 210; it., p. 255)
Nell'obiezione è contenuta una chiara indicazione di metodo, che è l'esatto opposto di quella diltheiana: i fatti non vanno solo 'descritti', vanno 'spiegati' - e spiegati genealogicamente, e cioè nella loro ontologica origine. Particolarmente quando i "fatti" che si vogliono descrivere sono le determinazioni spaziali. A tal fine il rimando alla vita, come al presupposto invalicabile d'ogni nostra conoscen7.a, risulta del tutto generico, fintanto che non si considerano le diverse modalità di rapporto con l'"esterno" che contraddistinguono radicitus la vita animale da quella dell'uomo. Di più: una fenomenologia della vita che non dà conto di queste fondamentali differenze non può dirsi adeguata al suo "oggetto". Ma in che consistono tali differenze? Heidegger porta ad esempio il volo delle api•. Queste spesso si allontanano dall'alveare anche per molti chilometri. In che modo si orientano nel ritorno? Dovendosi scartare il colore, con cui talora gli apicultori distinguono le celle, o l'odore, a causa della distan7.a, e pur i segni degli alberi, perché le api attraversano anche lunghi tratti sen:za piante, non resta che il sole. Mail sole non è per le api un punto di riferimento 'esterno', un oggetto - in base al quale esse calcolano la distan7.a e la via del ritorno. Il sole, la luce solare, fa parte del loro ambiente - è il loro ambiente. E in questo esse sono come nel loro "interno". L'ape è semplicemente abbandonata al sole e alla durata del suo volo di ritorno, senza percepire il sole come tale e senw utili7.7.are quanto ha percepito per i suoi calcoli. E può abbandonarsi ad esso perché mossa dall'istinto fondamentale della ricerca del cibo. Proprio per questo esser-mosso dall'i-
4. Nella Vorlesung del semestre invernale 1929/30, GbM, pp. 350 ss.
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stinto - e non in base a costatazioni e calcoli - l'ape può esser presa [benommen sein) da ciò che il sole in lei provoca. (GbM, pp. 359-360; it., p. 316)
L'esempio che Heidegger porta - richiamandosi alle Ricerche sul fototropis1rw degli animali di E. Radl5 - è certo solo un esempio. Ma serve a Heideggerper spiegare la sua tesi che das Tier ist weltann a differen:za dell'uomo che è weltbildend. Si badi: qui Heidegger non dice - come altrove ha detto e dirà che l'animale è weùlos, sen7..a mondo. Weùlos non è l'animale, è la pietra. Perché la relazione con altro non rientra nell'essere della pietra Per limitarci alle relazioni spaziali, la pietra non è vicina o lontana "per sé", ma "per noi". Ad essa è indifferente il luogo in cui volta a volta si trova a stare. L'animale, invece, manca di mondo6 , e cioè: ha relazione con l'ente, ma le relazioni che instaura, non sono tali da costituire un mondo. Dominato dall'istinto, l'animale non si rapporta ali'ente in quanto tale, non lascia essere l'ente nella sua 'alterità'. L'ambiente dentro il quale vive, il suo 'interno', la sua Umgebung, non è costituito di oggetti, di cose. La sua cerchia vitale è un Enthemmungsring ( GbM, pp. 370-371), l'ambito in cui scarica la tensione dei suoi istinti. Perciò il comportamento animale in rapporto all'ente ha il carattere del Beseitigen, del rimuovere, del toglier via, del sopprimere. Scaricando i suoi impulsi, l'animale sopprime l'alterità dell'ente che di volta in volta gli viene incontro. L'esempio classico è quello del cibo, o anche l'altro della soddisfazione sessuale. Anche Heidegger ricorda che alcuni animali-femmina divorano il maschio dopo il rapporto sessuale. Ma non bisogna 5. GbM, p. 356, nota 2. Hcideggcr discute in particolare le teorie biologiche di H. Driesch e di J.J. v. Uexkiill, cfr. pp. 379-385; it., pp. ~ - In merito cfr. A. Fabris,Destlno della cibemetù:a e compito del pensiero secondo Heidegger, saggio introduttivo alla tr. it. di M. Heidegger, FBSD, pp. 7-26. 6. Questo "mancare" non indica un "semplice non avere", ma un modo d'essere -einAnnsein -proprio dell'animale: cfr. in particolare GbM, pp. 395396; it., p. 348.
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confondere l'esempio con la 'cosa'. Il comportamento istintivo è sempre beseitigend: per l'animale !'"altro" è solo nella liberazione e soddisfazione dell'impulso, dopo di che cessa di essere, non desta più interesse, è rimosso, eliminato.
Das Tier ist weltarm. La vita animale è puramente estetica, il suo ambiente, la sua cerchia vitale, è un flusso di impulsi e sensazioni in cui interno ed esterno non sono ancora distinti, perché non vi è ancora qualcosa che stia stabilmente di contro, qualcosa che possa dirsi in senso proprio "oggetto". Ma se non v'è esperienza di oggetti, neppure vi può essere esperienza di sé, della propria ipseità. Altro è la sensazione della propria fo17__a vitale, presente certo ben prima della distinzione "interno/ esterno", "soggetto/oggetto", altro è l'esperien1.a della propria ipseità, che si costituisce solo nel e col rapporto all'"altro": a ciò che sta stabilmente di fronte nella sua alterità (FD, pp. 171-172; it., pp. 233-234). Il richiamo alla vita resta generico, lìnché si tralasciano queste distinzioni che sono fondamentali - e che non vanno solo descritte, ma spiegate, e spiegate nella loro genesi, vale a dire: in base alla loro condizione di possibilità.
Der Mensch ist weltbilàeruE l'uomo 'forma' il mondo, perché lascia essere l'ente come tale. E cioè: lo mantiene, lo custodisce nella sua alterità. È mondo, l'ambiente dell'uomo, perché fatto di cose, di oggetti, che durano, che permangono nel loro stato. E di fronte agli oggetti l'uomo è soggetto, è un "se stesso", un'ipseità, un "Io stabile e permanente". La sua stessa libertà è per l'ente, in funzione del!'alterità del!' ente. La forma più alta della libertà consiste nella capacità di vincolarsi a un ordine stabile, a un mondo. L'obbligo nasce solo dov'è libertà7.
7. •I ...] wo Freiheit, und nur wo Freiheit, da die Moglichkeitder Verbindlichkeibo ( GbM, p. 492; it., p. 434).
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Come dire: che l'uomo si riconosce libero solo nell'accettazione della propriafinitezza, e cioè: nella necessità del mondo. Ma in che modo l'uomo si vincola al mondo? In che modo lascia essere l'ente, mantenendolo nella sua alterità? E cioè: quali sono le condizioni di possibilità per la "formazione" del mondo?
È questa la domanda-guida dell'interpre tazione heideggeriana di Kant, che sin dall'inizio ha di mira non l'"oggetto", né il "soggetto", ma il mondo, nel quale soltanto e l'uno e l'altro sono. Prima di addentrarci nei problemi che questa interpretazione solleva, è bene chiarire, a mo' di introduzione, il rapporto tra ontologia e finiteZ7.a. L'ontologia nasce con la domanda: tì tò 6n? - che cosa è l'ente? La domanda stessa attesta che di ciò intorno a cui ci interroghiamo, non abbiamo una conoscen1.a "assoluta", tale cioè da renderci «manifesto l'ente nell'atto di farlo sorgere» (KPM, p. 29; it., p. 37). L'ente noi l'incontriamo, non lo creiamo. Perciò ci interroghiamo su "che cosa è l'ente" -sull'essere dell'ente. La finite7.7.aè dunque la ratioessendi dell'ontologia, questa la ratio cognoscendi della finiteZ7.a. Questa co-appartenen:za di finiteZ7.a e ontologia sta a indicare che la comprensione ontologica dell'ente non è un carattere accessorio e occasionale del comportamento umano - ma essenziale. L'uomo è uomo in quanto e per quanto comprende l'essere dell'ente. Questo chiarimento non significa che ogni uomo si pone tematicamente la domanda: tì tò 6n?, ma che ogni uomo in quanto tale ha già da sempre compreso ontologicamente l'ente. Se definiamo comprensione ontologica l'esplicita temati7.7.azione della domanda "che cosa è l'ente", allora la comprensione non tematica dell'essere dell'ente va detta pre-comprensione ontologica. Di questa pre-comprensione ontologica l'analisi trascendentale è la riflessione e il disvelamento.
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3. La comprensione ontologica e l'abisso della soggettività 1ìtò 6n? Per l'uomo, per la conoscen7.a finita dell'uomo, "ente" è anzitutto ciò che s'incontra, ciò che viene incontro. Ma perché l'incontro avvenga è necessario che la conoscen7.a sia non solo ricettiva, capace cioè di ricevere ciò che viene incontro - la vista i colori, l'udito i suoni, l'olfatto gli odori - , ma anche "creativa", capace di predisporre l'ambito di accoglien7.a, ovvero l'orizzonte di senso in cui l'ente si manifesta per quello che è. Esemplificando: l'occhio vede, sente, cioè riceve i colori: il giallo, l'azzurro, il rosso ... Noi però non percepiamo il giallo, ma il giallo di un campo di grano, né l'azzurro in sé, bensì l'azzurro del cielo, il rosso del sangue e così via. Campo, cielo, sangue sono, in questi esempi, gli orizzonti di senso in cui e per cui il "sentito" acquista la sua forma specifica, cioè si mostra per quello che è: il giallo del campo di grano, l'azzurro del cielo, il rosso del sangue. Campo, cielo, sangue non sono però sensazioni o intuizioni, e cioè rappresentazioni immediate di un singolo - quel particolare giallo, quel rosso, quell'azzurro diversi da ogni altro giallo o rosso o azzurro -; sono rappresentazioni generali in quanto valgono per molti, sono concetti: campo non è solo quel campo di grano, né cielo indica solo quel cielo azzurro e sereno che ora miriamo.
È allora la ricettività propria del sentire, e la "creatività", o spontaneità, propria del pensiero? Questa partizione sembra trovare conferma nei fatti: la ricettività del sentire spiega perché questo sia l'elemento comune a ogni vivente-dall'animale all'uomo -, laddove il pensiero la facoltà logica, concettuale, che è creativa, appartiene soltanto all'uomo. Invero si tratta solo di una cattiva interpretazione dei fatti. Anzitutto: già nell'intuire sensibile v'è spontaneità. Il colore visto - l'immediata intuizione dell'azzurro, non la percezione dell'azzurro del cielo - è vicino o lontano, a destra o a sinistra; è visto prima o dopo altro colore. L'intuizione non può essere ricettiva se
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non ha già in sé l'orizwnte di senso proprio dell'intuire, pe rché se anche sono rappresentazioni che valgono per molti, e cioè universali, non sono però, come dice Kant, «concetti discorsivi» (KrV, A 24, B 39). La loro universalità non risulta dal confronto e dalla composizione di singoli spazi e di singoli tempi; al contrario: la loro unità precede ogni molteplicità, essendo i singoli spazi e i singoli tempi delimitazioni interne dell'unico spazio e dell'unico tempo, rappresentati immediatamente come «grandezze infinite date» (KrV, A 25, B 39). Spazio e tempo sono intuizioni pure, e cioè, precisa Heidegger, intuìti puri. Sicché l'intuire può essere "ricettivo", solo se è in certo modo "creativo". In certo 1TWdo: perché ciò che l'intuire "crea" non è un ente, ma un niente, un non-ente, dal momento che è la condizione dell'ente. Se l'intuire è non solo ricettivo ma anche creativo, l'intelletto, dal canto suo, è non solo creativo, spontaneo, ma insieme ricettivo. I concetti valgono nella misura in cui costituiscono l'orizzonte di comprensione dell'ente che viene incontro. Come la spontaneità dell'intuire è in funzione della ricettività sensibile, così la spontaneità dell'intelletto. Questo è un punto su cui Kant si è espresso con estrema chiarezza e decisione: «tutti i concetti matematici - scrive nel § 22 dell'Analitica dei concetti - non sono per sé conoscenze, se non in quanto si presuppone che ci siano cose che si possono rappresentare solo secondo la forma di quella pura intuizione sensibile» (KrV, B 147). In polemicacon la Scuola di Marburg Heidegger non ha solo negato la preminenza della Logica nella Critica della ragion pura, ma ha affermato il primato dell'Estetica, la cui analisi non termina con la conclusione della sezione ad essa intitolata, ma continua nel!'Analitica. Che l'Estetica continui nell'Analitica è difficilmente contestabile: basta considerare il ruolo del tempo nello Schematismo e nelle Analogie; il ruolo dello spazio nella Confutazione dell'i-
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dealismo e nell'Osservazione generale sul sistema dei principi. Neppure è contestabile, a nostro avviso, il signifìcato che Heidegger dà alla continuazione dell'Estetica nell'Analitica, e cioè l'affermazione della dipendenza del pensiero dall'intuizione. Certo la formulazione che egli ne ha dato non poteva non destare scalpore. La dichiarata Dienststellung del pensare in rapporto all'intuire sembra togliere ogni autonomia al pensiero ed escludere pur la possibilità (negativa) dell'uso iperfìsico delle categorie. Ma questo solo apparentemente: il pensiero, di cui si afferma la posizione ancillare rispetto all'intuizione, è il pensiero sintetico a priori, il pensiero della logica trascendentale, non il pensiero analitico della logica in generale. E riguardo al pensiero trascendentale non si può non affermare che lo «stato di assegnazione all'intuizione [gli] appartiene [ ... ] non in via accidentale e accessoria ma per essen1.a»; cosl come riguardo al semplice concetto separato dall'intuizione, non si può non dire che esso è «solo un frammento del secondo elemento della conoscenza pura» (KPM, p . 54; it., p. 57). Piuttosto c'è da chiedersi se nel Kantbuch del '29 Heidegger abbia seguito sino in fondo l'indicazione kantiana espressa nel passo poco sopra citato dell'Analitica, o se la sua rillessione trascendentale non abbia preso una direzione inversa a quella di Kant. Ma è un problema, questo, che potremo affrontare solo in seguito!, quando sarà chiaro l'intero contesto ermeneutico della rimeditazione heideggeriana della filosofìa trascendentale. Ora dobbiamo mettere nel giusto rilievo l'autentico signifìcatoche la Dienststellung dell'intelletto ha in questa interpretazione. Tale posizione appare solo nello stadio ermeneutico iniziale, quando l'analisi si muove ancora al livello della distinzione tra i due ceppi dell'umana conoscen7.a. Distinzione solo provvisoria, come attesta la stessaconvergen1.a dei due elementi, ognuno dei quali presenta oltre al suo carattere quello dell'altro.
8. Cfr. infra, § 4.
36.5
Heidegger risale alla loro radice comune, alla facoltà d'immaginazione0, nella quale sono originariamente presenti entrambi i caratteri essenziali della conoscen7.a finita: la ricettività e la spontaneità. A questo livello intuizione e pensiero si rivelano non più come i due elementi della conoscen7.a, bensì come i due aspetti dell'unica attività conoscitiva umana, defìnibile sia come pensiero intuente, o spontaneità ricettiva, che come intuizione pensante, o ricettività spontanea, creatrice. Ora il carattere immaginativo del conoscere, se implica che il concetto opera solo in quanto ridotto alla sensibilità, indica insieme che l'"estetico" nell'uomo è tutto permeato dal pensiero. non vi sono orizzonti di senso intuitivi - spazio e tempo - e orizzonti di senso concettuali o intellettivi - le categorie - questa distinzione è solo un'astrazione utile all'analisi trascendentale come introduzione al problema. L'orizzonte, in cui l'ente è accolto e reso manifesto, è unico, come mostra lo schematismo, definito in Kant e il problema della metafisica il Kemstiick dell'intera opera (KPM, p. 82; it., 82). E cioè: il tempo dell'uomo, il tempo della conoscen7.a umana finita, non è il tempo estetico della semplice successione, è bensì il tempo schematico del numero, della realtà, della permanen7.a, della successione causale e della reciprocità, il tempo del possibile e dell'esisten7.a effettiva o della necessità. Nessuna comunan7.a "estetica" esiste tra la vita animale e quella dell'uomo. Das Tier ist weltarm, der Mensch ist weltbildend. L' Einbildungskraft è la facoltà propriamente umana - perché solo l'immaginazione umana può produrre quell'ens immaginarium,
9. Qui Heidegger segue una linea interpretativa per molti versi affine a quella del giovane Hegel (cfr. G.W.F. Hegel, GW, in part. p. 304). Sul tema, cfr. L. Lugarini, Heideggere Hegel Interpreti dell'immaginazione kantiana, in Aa. Vv., Fik>sofia Religione Nichilismo. Studi in onore di Alberto Caracciolo, Morano, Napoli 1988, pp. 397-415. Cfr. altresì K. Dusing. Objektioe und subjektive Zelt , in part. pp. 29-30.
366
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Ak = Kants Werke. Akademie-Textausgabe, 11 Bde., de Gruyter, Berlin 1968. AN= Allgemeine Naturgeschichte und Theorie des flimmels oder Versuch von der Verfassung und dem mechanischen Urspriinge des ganzen Weltgebimdes, nach Newtonischen Grondslitzen abgehandelt, in Ak, I, pp. 215-368; tr. it. di S. Velotti, Storia universale della natura e teoria del cielo ovvero Saggio sulla costituzione e sull'origine meccanica dell'intero universo secondo i principi newtoniani, intr. di G. Scarpelli, Bulzoni, Roma 2009. BDG = Der einzig 'ITWgliche Beweisgrondzu einer Demonstration des Daseins Gottes, in Ak, Il, pp. 63-163; tr. it., L'ti,. nico argomento possibile per la dimostrazione dell'esistenza di Dio, in Sp, pp. 101-217. BGSE = Beobachtungeniiberdas Gefilhldes Schonenund Erhabenen, in Ak, II, pp. 205-256; tr. it., Osservazioni sul sentimento del belle e del sublime, in Sp, pp. 303-363. Deut = Untersuchung ii.ber die Deutlichkeit der Grondsatze der naturlichen Theologie und der Moral, in Ak, II, pp. 273-301; tr. it., Indagine sulla distinzione dei principi della teologia naturale e della 1rwrale, in Sp, pp. 219-255. Di = Sul fuoco , tr. it. in DL, pp. 14-59 (De igne, in Ak, I, pp. 369-384).
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Dissertatio = La forma e i principi del mondb sensibile e intellegibile, tr. it. in DL, pp. 218-303 (De mundi sensibilis atque intellegibilisforma et principiis, in Ak, II, pp. 385-419). DL = Dissertazioni latine, tr. it., con testo lat. a fronte, a cura di I. Agostini, Bompiani, Milano 2014 (questa ed. riporta anche l'impaginazione della Ak). EpFil = Epistolario filosofico. 1761-1800, tr. it. di O. Meo, Il melangolo, Genova 1990.
fS = Vie falsche Spitzfindigkeit der vier syllogistischen Figuren erwiese, in Ak, II, 45-61; tr. it., La falsa sottigliezza delle quattrofigure sillogistiche, a cura di S. Marcucci, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, Pisa-Roma 2001, dacuicito (una precedente traduzione, acuraeconintr. di C. Mangione, è apparsa nella «Rivista critica di storia della 6loso6a», XX, n. 4, 1965, pp. 481-498).
GMS = Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, in Ak, N, pp. 385-464; tr. it., Fondazione della metafisica dei costumi, con testo ted. a fronte, a cura di V. Mathieu, Rusconi, Milano 1994.
IdGw = Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weliburgerlicher Absicht, in Ak, VIII, pp. 15-31; tr. it. di G. Solari e G. Vidari, Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, in I. Kant, Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, ed. postuma a cura di N. Bobbio, L . Firpo, V. Mathieu, UTET, Torino 1956, pp. 123-139. KpV = Kritikderpraktischen Vernunft, inAk, V, pp. 1-163; tr. it. di F. Capra, riv. da E. Garin, Critica della ragion pra,. tica, Late17.a, Bari 19638• KrV = Kritik der reinen Vemunft, in Ak, IV (1781 1 = A), pp. 1-252, e III (178'72 = B); tr. italiane di G. Gentile e G. Lombardo Radice, riv. da V. Mathieu, Critica della ra-
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gion pura, 2 voli., LateI7.a, Bari 1959 (da cui cito, là dove non diversamente indicato); di P. Chiodi, UTET, Torino 1967; e, con testo ted. a fronte, di C. Esposito, Bompiani, Milano 2004.
KU = Kritikder Urtheilskraft, in Ak, V, pp. 165-485; tr. it. di A. Gargiulo, Critica del giudizio, LateI7.a, Bari 1938. MAN = Metaphysische Anfangsgrande der Nmurwissen,. schaft, in Ak, IV, pp. 465-565; tr. it., Principi metafisici della scienza della natura, con testo ted. a fronte, a cura di P. Pecere, Bompiani, Milano 20152 •
Mph = Moruui,