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Italian Pages 160 Year 2016
Il vento e il vortice
Traduzione Riccardo Mazzeo ediTing Serena Banal impaginazione Andrea Mantica illusTrazione di coperTina Bruegel, il paese della cuccagna FoTo della quarTa di coperTina Basso Cannarsa coperTina Giordano Pacenza © 2016 Ágnes Heller e Riccardo Mazzeo Wind and Whirlwind. Utopias, Dystopias, Story and Limits of Imagination © 2016 Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. Via del Pioppeto 24 38121 TRENTO Tel. 0461 950690 Fax 0461 950698 www.erickson.it [email protected] ISBN: 978-88-590-1149-1 Tutti i diritti riservati. Vietata la riproduzione con qualsiasi mezzo effettuata, se non previa autorizzazione dell’Editore.
Ágnes Heller e Riccardo Mazzeo
Il vento e il vortice Utopie, distopie, storia e limiti dell’immaginazione
Ágnes Heller Una delle più grandi filosofe viventi, è nata a Budapest nel 1929 ed è stata, giovanissima, l’assistente di György Lukács. Ha occupato la cattedra di Hannah Arendt e insegna alla New School of Social Research di New York. È la più fiera oppositrice di Orbán in Ungheria. Il suo ultimo libro, scritto con Zygmunt Bauman, è titolato La bellezza (non) ci salverà (Il Margine, 2015).
Riccardo Mazzeo Editor storico della Erickson, è stato editor in chief di 11 riviste scientifiche e scrive sulle pagine culturali del Manifesto. Con Zygmunt Bauman ha pubblicato Conversazioni sull’educazione (Erickson, 2012), tradotto in otto lingue, e con Miguel Benasayag C’è una vita prima della morte? (Erickson, 2015). È uscito nel 2016 per la Polity di Cambridge il suo nuovo libro con Bauman In Praise of Literature. È inoltre tra gli autori di Parlare di ISIS ai bambini (Erickson, 2016)
Indice Prima parte – Dall’utopia alla distopia. Sogni e progetti dell’immaginazione storica (Ágnes Heller) Capitolo primo La storicità dell’immaginazione
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Capitolo secondo L’età dell’oro: le costruzioni filosofiche dello «Stato giusto»
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Capitolo terzo Riflessioni sul momento utopico e il nuovo repubblicanesimo. Tutte le rivoluzioni vengono tradite? Il sogno di una «svolta antropologica»
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Capitolo quarto Il momento distopico e le ultime utopie
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Seconda parte – Le distopie del XXI secolo e l’argine del pensiero critico (Riccardo Mazzeo) Capitolo primo Il cerchio
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Capitolo secondo La possibilità di un’isola
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Capitolo terzo 2084. La fine del mondo
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Capitolo quarto Il faro della psicoanalisi sui marosi dell’utopia
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Capitolo quinto Qualche riserva sull’utopia
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Indice dei nomi
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Prima parte
Dall’utopia alla distopia. Sogni e progetti dell’immaginazione storica Ágnes Heller
Capitolo primo
La storicità dell’immaginazione
L’immaginazione è una facoltà mentale unica, una fusione tra le facoltà razionali e quelle emotive. Non ci sono né pensiero né pratica senza un qualche sentimento. Perfino il senso dell’orientamento spaziale è una specie di sentimento. Il cosiddetto istinto secondario, che risulta dalla pratica, appartiene anch’esso al mondo dei sentimenti. Si impara a funzionare bene se lo si fa usando i sensi, senza pensare. Non c’è neppure alcuna memoria cognitiva senza un coinvolgimento emotivo iniziale. È ben noto che le esperienze individuali caratterizzate da un intenso coinvolgimento personale vengono sempre trasferite dalla memoria a breve termine alla memoria a lungo termine. Anche gli impulsi innati (come la fame, la sete, la copula) sono sentimenti, o per meglio dire due tipi di sentimento: l’uno del bisogno, l’altro della soddisfazione, dell’aspettativa di soddisfazione. Gli affetti innati (paura, rabbia, curiosità, allegria, tristezza, vergogna) sono orientati verso, o innescati da, oggetti specifici che bisogna conoscere, riconoscere. Fra i tipi sopra elencati di sentimenti, soltanto gli impulsi per sé esistono o funzionano senza il pensiero, senza il linguaggio. Tuttavia, se parliamo di esseri umani, questo è vero solo per i bambini piccoli, ad esempio quando succhiano. Ma già nel caso degli affetti, la percezione relativa alla qualità e il tipo di attivazione dell’oggetto o della situazione, il cosiddetto «stimolo», condetermina l’affetto stesso. L’appetito rimpiazza la fame, l’erotismo la copula.
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Comincia già qui il ruolo dell’immaginazione. Si immagina la soddisfazione con l’oggetto desiderato perfino senza la presenza dell’oggetto della soddisfazione possibile — desiderata —, come fare l’amore con un amante assente... Questo è un tipo elementare delle tante funzioni dell’immaginazione. Il ruolo della temporalità, il senso del futuro, possono già essere attivi qui poiché una soddisfazione futura, un’immagine concreta di una futura soddisfazione, innesca un forte sentimento nel presente. Per evitare fraintendimenti: la funzione elementare dell’immaginazione non è necessariamente temporale, dato che l’oggetto che scatena un affetto può anche essere del tutto immaginario. Quel che abbracciamo può essere qualcosa di diverso da ciò che immaginiamo di abbracciare; ciò con cui conviviamo, qualcosa di diverso da quel che crediamo di vivere. Per un bambino piccolo, uno stecco può essere un cavallo. In questo caso il bambino sa che lo stecco non è un cavallo, sa che lo «immagina» soltanto. Ma molte volte non è così. Lo spirito del padre di Amleto gli appare e lui crede che si tratti di suo padre che gli fa visita dall’altro mondo. Mi sia consentito tornare alla prima frase. L’immaginazione è una facoltà mentale unica, una fusione tra le facoltà razionali e quelle emotive. Quali facoltà razionali? Quali facoltà emotive? Poiché l’immaginazione riveste un ruolo in tutte le attività umane, non è possibile rispondere alla domanda in una cornice così ampia. Bisogna restringerla ai casi in cui l’immaginazione riveste il ruolo di direttore d’orchestra. L’immaginazione non è l’orchestra, ma può esserne il direttore. Vi sono casi in cui, senza l’immaginazione, l’orchestra non potrebbe suonare affatto. Anche il contrario è vero: senza l’orchestra (comprese le facoltà razionali) l’immaginazione non avrebbe nulla da dirigere. Quali facoltà razionali e quali facoltà emotive si mescolano in questi casi specifici? Cominciamo con le facoltà razionali. Alcune facoltà razionali come le procedure logiche, ad esempio la deduzione o l’induzione, non hanno bisogno dell’immaginazione come loro direttore. O, se sappiamo qualcosa per certo, che si tratti del «sapere cosa» (è una sedia) o del «sapere come» (posso sedermi), non abbiamo bisogno dell’immaginazione come direttore, benché l’immaginazione rivesta un ruolo in entrambi i casi. I tipi di immaginazione che presuppongono l’immaginazione come direttore dell’orchestra sono, a prima vista, l’associazione e la dissociazione. L’associazione non è sempre, a differenza della dissociazione che lo è
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sempre, innescata dalla mente inconscia, che si manifesta come intuizione, ispirazione o cose del genere. Ma che cosa viene associato o dissociato dall’immaginazione? Le credenze. L’immaginazione governa le credenze. E lo fa intendendo entrambi i significati della parola «credenza». Come «solo una credenza, non ancora una conoscenza», e come «più di qualunque conoscenza, una credenza». Nel secondo caso, abbiamo a che fare con l’immaginazione rivelatrice. Essa ci rivela più di quanto già sapessimo. Al di là delle convenzioni, al di là delle opinioni accreditate. Le facoltà razionali che partecipano al ruolo di direttore d’orchestra sono quindi le credenze (nei due significati della parola) e le loro manifestazioni come intuizione, come ispirazione. Che cosa rivelano? La verità. Una verità non comprovata, una verità irreale, una verità da decifrare, trovata o perlomeno ricercata sotto la superficie di qualcosa in cui si trova nascosta per essere portata alla luce. Una verità al di là della verità. È per questo che grandi filosofi razionalisti, come Spinoza, diffidavano dell’immaginazione. Distorce, mente, ci conduce fuori strada. Kant è più generoso e offre all’immaginazione un posto tra le facoltà della conoscenza, una facoltà che partecipa al giudizio estetico. E tuttavia ritiene che possa svolgere la sua funzione solo in equilibrio con la comprensione razionale. Bisognerebbe ammettere che Kant ha detto qualcosa di fondamentale: senza orchestra non c’è direttore. E nondimeno, nel caso di un equilibrio appropriato fra comprensione e immaginazione, vi sono due direttori (immaginazione e comprensione) e però, guidata dalla bacchetta di due direttori, la povera orchestra non può suonare. Per restare a Kant, nel suo libro Kant e il problema della metafisica, del 1929, Heidegger giunge alla conclusione che l’immaginazione occupa posti differenti nella versione A e nella versione B della Critica della ragion pura. Nella versione A del libro l’immaginazione viene definita una facoltà a priori della nostra mente, nella versione B è assoggettata alla facoltà a priori della comprensione (Verstand). A priori è una facoltà «che precede l’esperienza», vale a dire una facoltà la cui esistenza e la cui azione non dipendono da un’esperienza precedente, ma incidono sulle esperienze in un modo loro proprio, assoggettando l’esperienza a esse, escludendo da questa azione, o piuttosto da questa rappresentazione, altre facoltà di conoscenza e le loro applicazioni.
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Nel mio libro sulla Filosofia dei sogni giungevo alla conclusione che i sogni non possono essere compresi a meno che non si presupponga l’esistenza (e la funzione) di un’immaginazione a priori. Vale a dire che i sogni sono proprio il prodotto dell’immaginazione, in cui tutte le categorie logiche sono prive di valore. I cosiddetti principi fondamentali del pensiero logico, la legge dell’identità, della contraddizione e del terzo escluso sono totalmente assenti nei sogni. Non c’è distinzione fra necessità e contingenza, fra realtà, possibilità e probabilità, né vi opera una determinazione causale o una teleologia. Non vi sono neppure tempo o spazio, o per meglio dire ci si può muovere liberamente nello spazio e nel tempo senza qualsivoglia limitazione fisica o logica. Anche le cosiddette leggi di natura sono prive di valore. Posso essere vittima di un disastro aereo e lasciare le rovine dello schianto senza aver riportato alcun danno, posso anche morire e continuare a vivere. Un rospo può diventare un principe e un principe si può tramutare in un rospo. Nei sogni, non siamo mai stupiti da nulla. Non c’è differenza fra verità e opinione, fra giusto e sbagliato. Tuttavia, nei sogni possiamo parlare, altre persone possono parlare con noi, perfino Dio può parlarci, o il nostro nonno morto, o il nostro figlio non ancora nato. L’immaginazione a priori, l’immaginazione indipendente da, o in contraddizione con, tutte le leggi della comprensione e della ragione, può comunque dirigere un’orchestra. La dirige da sola. Ma chi siede nell’orchestra? Le esperienze personali, le esperienze culturali (collettive), le storie, il materiale che fluttua liberamente per un creatore di sogni inconsci. L’orchestra — materiale su cui il direttore lavora, proveniente da esperienze consce, da storie che abbiamo sentito, cose che abbiamo visto, cose che temiamo o che speriamo, cose a cui pensiamo. Secondo Freud tutti i sogni sono realizzazioni di desideri o sogni di morte (Eros e Thanatos), sogni di paura e di speranza. La somiglianza fra i sogni in cui si realizza un desiderio e gli incubi, da un lato, e le utopie e le distopie dall’altro, è difficile da negare. Ma non posso ancora lanciarmi sul nostro argomento delle utopie e delle distopie. Devo prima onorare il mio debito nei confronti di due temi trascurati. Il primo, le passioni che appartengono a ogni tipo di immaginazione (ho detto «appartengono» perché non sono attaccate a essa ma sono parte della sua essenza). Secondo, tutti i tipi di immaginazione in cui
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l’immaginazione dirige l’orchestra, anche se con qualche aiuto da parte del padrone del concerto che ha nome ragione. Tutti i tipi di emozione possono abitare l’immaginazione, così come l’immaginazione può coesistere con altre facoltà mentali, servendole. Quindi, se qualcuno cerca di risolvere un enigma matematico potrà essere curioso, animato da un forte desiderio di conseguire l’obiettivo, dubitando di riuscire nell’intento, ma questi sentimenti devono essere assoggettati al compito di risolvere un enigma matematico, vale a dire a un compito di procedura logica. I sentimenti non possono eseguire il compito, possono essere d’aiuto ma anche di ostacolo. Se qualcuno contempla l’Essere, Dio, la Bellezza, ecc., può provare devozione, entusiasmo, esultanza, tutti assoggettati al, o innescati dal, lavoro della ragione. La domanda «che cos’è?» (ad esempio che cos’è la Bellezza?) non potrà ricevere risposta da questi sentimenti, i sentimenti sono solo aiutanti (o ostacoli) della ragione in questo processo di meditazione. C’era un motivo se ho enumerato sopra alcuni sentimenti. Vale a dire che sono sentimenti (curiosità, desiderio di conseguire un obiettivo, devozione, entusiasmo, dubbio) che non hanno alcun posto nei nostri sogni, nel caso in cui un’immaginazione a priori sia l’unico direttore dell’orchestra. Quali sono i sentimenti e le emozioni che appaiono regolarmente nei nostri sogni? Non molti. Pulsioni elementari come la fame, la sete, un rapporto sessuale, come bisogni e come soddisfacimenti, e quattro fra gli affetti: gioia, tristezza, desiderio (speranza) e paura. Propongo quanto segue. Nei casi in cui l’immaginazione dirige l’orchestra con l’aiuto del padrone del concerto che ha nome pensiero, queste pulsioni e questi affetti (gioia, tristezza, desiderio, come anche speranza e paura, curiosità, devozione, entusiasmo, dubbio) sono legati a credenze. L’immaginazione governa grazie alle credenze, usando questi affetti come aiutanti (o come ostacoli). Per balzare a una conclusione prematura: sono queste le principali motivazioni emotive delle utopie e delle distopie. I filosofi razionalisti chiamano passioni le emozioni di paura e speranza. Secondo Spinoza sono cattive passioni e Goethe lo ribadisce: Furcht und Hoffnung sind schlechte Leidenschaften. Perché? Perché ci motivano a volgerci lontano dalla realtà, ci impediscono di discernere il reale dall’immaginario, il possibile dall’impossibile, l’essere dal sembiante, la verità dall’opinione, la conoscenza dalla credenza.
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Mi sia permesso tornare all’orchestra. Che sia diretta dalla sola immaginazione o con l’aiuto del padrone del concerto (comprensione, ragionamento e giudizio), l’orchestra in sé è la stessa. O, per meglio dire, la «categoria» dell’orchestra è la stessa. Che cos’è l’orchestra? Chi siede nell’orchestra? L’esperienza umana. Le esperienze della singola persona che sogna, progetta, crede e agisce. Tale esperienza presuppone la conoscenza del linguaggio comune, la conoscenza delle regole e delle norme pratiche del proprio ambiente, la conoscenza di una visione del mondo significativa di cui ci si impadronisce insieme alle norme, alle regole e ai cerimoniali che ne fanno parte (ad esempio, chi sono gli dei, che cosa causa il tuono). L’esperienza comprende anche le storie, i miti, le credenze, insomma la cultura di un mondo. (Parlando di «cultura» nell’ampio senso «antropologico».) Nessun sogno notturno o a occhi aperti crea una nuova orchestra, solo nuova musica. Per dire le cose come stanno: l’orchestra è la coscienza storica di un certo periodo, di un mondo. Parlando di coscienza storica non intendo una (inesistente) mente di un periodo, ma la somma complessiva di credenze, storie, testi, la memoria culturale di qualunque mondo umano. Né la ragione né l’immaginazione possono trascendere questo mondo. Ma ogni bravo direttore può far eseguire all’orchestra melodie differenti. Altrettanto può fare l’immaginazione. In ogni caso — per continuare con l’esempio musicale — in tutte le composizioni di un periodo storico, ovvero in ogni contenuto di qualunque coscienza storica, vi sono dominanti e sottodominanti. Nello stesso mondo esse restano piuttosto costanti. Poiché il tema che voglio affrontare è quello dell’utopia e della distopia, devo parlare brevemente solo di alcune costanti inerenti a questo contesto. La paura e la speranza, così come la gioia e la tristezza, sono le emozioni spesso provate in tutte le fasi della vita e in ogni periodo storico, poiché sono presenti in ogni persona sana della specie umana. Ma quel che temiamo, o quel che desideriamo o speriamo, possono essere essenzialmente diversi. Vi sono variabili storiche, e variabili personali, e tuttavia le variabili personali sono incorporate nelle variabili storiche. Varia, fra le altre cose, quel che un mondo pensa sia reale o ritiene sia immaginario. I confini sono elastici, ma esistono. Quando ai giorni nostri un bambino dice a sua madre di aver visto un diavolo nell’ingresso di casa, un diavolo che lo ha guardato e gli ha
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parlato, sua madre per certo gli risponderà (perlomeno in Europa) che lo ha soltanto immaginato, che i diavoli non esistono. Alcuni secoli fa il genitore potrebbe aver creduto alla realtà dell’esperienza raccontatagli da suo figlio, e magari riflettuto sui peccati che il bambino poteva aver commesso perché il diavolo si presentasse in casa loro. Due secoli fa le ragazze stupide speravano di sposare un principe, oggi sperano di sposare un divo del cinema. I sogni a occhi aperti sono familiari a ciascuno di noi. Tutti noi ne abbiamo avuti. Nei sogni a occhi aperti, come in quelli notturni, è l’immaginazione che dirige l’orchestra, ma a differenza di quanto avviene nel sonno qui c’è bisogno di un aiutante, come il padrone del concerto, vale a dire il pensiero, la comprensione. Al contrario dei sogni notturni, i sogni a occhi aperti sono spesso teleologici, il sognatore desidera realizzare quel che sta sognando, anche se è consapevole dell’improbabilità che ciò accada. Si può smettere di sognare a occhi aperti se lo si decide, si può anche sceverare il probabile dall’improbabile («Oh, sarebbe bellissimo, ma sfortunatamente è improbabile»). Il sogno a occhi aperti governato dalla speranza è sempre piacevole, perché il quadro del proprio futuro viene dipinto in modo così desiderabile che è fantastico anche solo immaginarlo. Al tempo stesso, il sogno a occhi aperti oscurato dalla morte, la morte della persona amata o la sfortuna, l’inganno, il tradimento, la solitudine, la malattia, la fine del mondo, ci rendono tristi, malinconici, depressi. L’immaginazione in questi casi è piena di paura. Contrariamente a quanto avviene nei sogni notturni, quando svegliandoci ci rendiamo conto con sollievo che si trattava soltanto di un sogno, un sogno a occhi aperti di paura non evapora facilmente, lascia una ferita spirituale permanente sulla nostra anima o perfino sul nostro carattere. Molte esperienze di vita eterogenee vengono anche omogeneizzate in «generi» letterari. L’immaginazione riveste un ruolo centrale in tutte queste omogeneizzazioni di esperienze. In questo caso abbiamo a che fare con delle credenze in entrambi i significati della parola (la sola credenza, che è più della conoscenza, o credenza ed emozioni, ovviamente non sempre le stesse emozioni). Aristotele ha detto che nel caso della tragedia le emozioni dominanti scatenate dal destinatario e tali da purificare il suo spirito sono la paura e la pietà (l’empatia). Sono diverse le emozioni che entrano in gioco quando si assiste a, o si legge, una commedia o poesia epica o lirica.
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L’immaginazione omogeneizza l’esperienza in diversi modi (a seconda del genere). Ma per quanto sia variabile, l’immaginazione ha anche dei limiti. Vi sono due limiti all’immaginazione. Il primo è la coscienza storica, il materiale da essa ordinato, le credenze che entrano in gioco, e poi il genere stesso. Il termine «limite» potrebbe essere inappropriato, poiché quel che è limitato non è l’esperienza come limite, quanto piuttosto l’inesauribile fonte di ispirazione. Aristotele ha discusso la commedia sulla base del «materiale» che esisteva nel suo tempo. Non lo aveva sentito come un limite. Una tragedia greca antica non avrebbe potuto essere scritta in prosa. Tuttavia, gli autori di tragedie non hanno vissuto questo come un limite. Venne percepito come limite nel tempo in cui la coscienza storica fu cambiata, ovvero quando il limite era già stato trasceso. (Hegel disse saggiamente che vi è un limite solo se viene trasceso.) Una questione dibattuta appassionatamente al tempo della tragedia elisabettiana verteva proprio su un limite: si può prescindere dalla cosiddetta trinità, cioè l’unità di tempo, luogo e azione nella tragedia? Facendolo possiamo ancora considerarla una tragedia? La stessa discussione dimostrò che l’immaginazione storica includeva già la trascendenza di questo limite. Ho già detto che le dominanti e le sottodominanti nella musica suonano sotto la bacchetta dell’immaginazione storica. Naturalmente, si sviluppano. La prima tragedia di Eschilo (I Persiani) verteva su un tema storico. Tuttavia, ben presto la mitologia rimpiazzò la storia e divenne così la fonte principale della tragedia per tutta la storia antica, Roma compresa. La filosofia prese il posto della letteratura e della saggezza solo in Grecia, diventando uno dei suoi generi letterari predominanti. Nei primi secoli dopo Cristo i Greci recepirono il giudaismo e la cristianità come filosofie, poiché il fatto di immaginare e di credere in un solo Dio spirituale «apparteneva» allora all’immaginazione filosofica e non aveva niente a che fare con la religione nei termini in cui essi la intendevano. Le utopie sono creazioni dell’immaginazione che combinano alcune credenze della loro epoca con la passione della speranza. Le distopie sono creazioni dell’immaginazione che combinano alcune credenze della loro epoca con la passione della paura. Poiché la speranza e la paura sono emozioni presenti in ogni esemplare sano della specie umana in qualunque tempo e luogo, la differenza fra le utopie e fra le distopie dipende dalle differenze esistenti nelle credenze dominanti. Anche le credenze sono incastonate
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nelle credenze predominanti. L’immaginazione storica è quindi sia la fonte inesauribile, sia il limite, del sistema di credenze. La storia che vi racconterò è dunque una storia dei cambiamenti storici nei sistemi di credenze. I sistemi di credenze non sono presentati o rappresentati soltanto da un «genere». E questo è vero anche per le utopie e le distopie. Due generi letterari possono protrarsi per più di duemila anni. Approssimativamente, possiamo dire che si tratta, da un lato, della narrativa letteraria, della poesia e della poesia epica, e dall’altro della filosofia. Solo approssimativamente, giacché né la saggezza, né la letteratura, né l’apocalisse sono generi letterari e rientrano interamente nelle categorie enumerate. Si potrebbe anche aggiungere la pittura all’elenco di generi che presentano visioni utopiche o distopiche (e nel nostro tempo, ancor più della pittura, i film). Non illustrano semplicemente immagini mitologiche, filosofiche o letterarie, ma ampliano le modalità della loro presentazione. La parola «immagini» ha caratterizzato le utopie soprattutto in letteratura, poesia e mitologia, ma non in filosofia. Le utopie filosofiche vengono più costruite che raffigurate. In ogni caso, le utopie più note e influenti combinano generalmente una presentazione visiva e una costruzione. Insomma, benché le utopie e le distopie siano «generi», l’immaginazione utopica e distopica si spinge al di là del proprio territorio. Poiché esse riflettono su, o incarnano, un aspetto della coscienza storica in cui sono incorporate, la linea di divisione fra l’immaginazione conscia e quella inconscia si sfoca. Lo si può anche formulare in un altro modo. Nella filosofia dell’arte viene spesso detto (l’ultima volta lo ha fatto Adorno) che la poesia o l’arte, in generale, è una realtà utopica. Intendendo con ciò che la poesia e la letteratura, o l’arte in generale, incarnano una verità rivelatrice sul mondo in cui vengono create. Sono pronta ad ammetterlo, e nondimeno la parola «utopia» viene usata in un altro senso più tradizionale in questo studio. L’utopia (e la distopia), la storia che vi racconterò, è la storia del genere in cui si combinano le credenze e due passioni: speranza e paura. Sarà una storia di utopie sociali e di distopie che non rivendicano una verità rivelatrice più di quanto non lo faccia qualunque altro genere nel mondo dell’arte e della filosofia. Racconterò solo la storia di sogni culturali a occhi aperti, sogni sul maestoso e sul terribile, nati dall’immaginazione di epoche differenti,
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incarnate in alcuni testi che ancora rappresentano per noi, ritardatari, le istituzioni immaginarie di quelle età. Il messaggio della storia arriverà solo nell’ultimo capitolo, il più lungo, di questo saggio. Il messaggio significa qui l’autoriflessione. Che cosa possiamo scoprire del nostro tempo esaminando i prodotti della nostra immaginazione storica? Che cosa ci dicono di noi stessi?
Capitolo secondo
L’età dell’oro: le costruzioni filosofiche dello «Stato giusto»
Dunque, la speranza e la paura sono passioni, emozioni condivise da tutti gli esemplari sani della nostra specie. Tuttavia le credenze sono differenti. Ne deriva che anche le utopie e le distopie sono differenti. Dipende dal mondo, dalla coscienza storica di un popolo che cosa spera e di che cosa ha paura. E ancora: se ciò che spera è situato nel passato, in un altro luogo o nel futuro. Ma come si può sperare, o temere, qualcosa che si è verificato nel passato, all’inizio, qualcosa che si sia perduto, superato, dimenticato? Mettendo per un istante le distopie fra parentesi, come si può credere che l’«utopia» sia già dietro di noi? Non c’è un solo mondo antico, ce ne sono svariati. Ma poiché la storia viene raccontata dalla (temporanea) fine, il tempo presente, mi sembra sufficiente esaminare le narrazioni che hanno plasmato la nostra comprensione del mondo e di noi stessi: le storie greca e romana da un lato, le storie bibliche dall’altro. Gli antichi Greci e Romani non delineavano mai quadri poetici su un futuro diverso dal loro mondo. Perfino Boezio, il martire cristiano del V secolo, non riusciva a immaginare il futuro se non come il futuro dell’Impero Romano. La loro concezione della storia si basava su due presupposti filosofici. Primo, qualcosa di potenziale diventa reale; quel che esisteva come possibilità verrà realizzato, non può essere altrimenti. Così come un bambino di sesso maschile diverrà un uomo e non un leone. Secondo: le cose si sviluppano attraverso vari stadi per tornare alla fine al loro inizio. Così le
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forme di governo aristocrazia-oligarchia-democrazia-tirannia, attraverso la rivoluzione, tornano al loro inizio (ad esempio la Legge di Licurgo a Sparta). Vale a dire che la storia è o ciclica o «autobiografica». La rivoluzione implica sempre un ritorno al principio. Il principio veniva idealizzato come il meglio: la prima sorgente, l’età dell’innocenza, il mondo di una costituzione perfetta che sarebbe stata (sempreché fosse possibile) raggiunta ancora una volta. In termini molto approssimativi, ci sono due tipi di utopie antiche. Primo: le utopie del desiderio Le utopie del desiderio sono fantasie, immagini di un mondo opposto a quello presente, il mondo «reale». Viene immaginato come un mondo senza limiti, senza tabù, senza restrizioni, in cui tutti i bisogni vengono soddisfatti, come un mondo naturale che si contrappone al mondo artificiale. Un’utopia da sogno, un’utopia poetica che dà voce o immagina desideri umani profondamente radicati, perfino inconsci. Secondo: le utopie di una società giusta, di uno Stato giusto Utopie di un ordine stabile, di sicurezza, in cui i limiti saranno differenti dai limiti del «presente». Un mondo, o piuttosto uno Stato, il cui ordine viene inventato, o piuttosto costruito, dalla filosofia. Un modello filosofico di società ritenuto degno di essere perseguito anche se non necessariamente realizzabile. Le utopie costruite filosoficamente non incarnano desideri profondamente radicati nell’immaginazione umana ma scaturiscono piuttosto da uno sforzo cognitivo di opporre un’immagine praticabile di una diversa organizzazione sociale al distruttivo stato di cose del presente. Le utopie del desiderio Mentre le utopie implicanti una costruzione, prevalentemente utopie filosofiche, utopie focalizzate sulla edificazione di un modello di società giusta, cambiano sulla scia della modificazione della coscienza storica, è
L’età dell’oro: le costruzioni filosofiche dello «Stato giusto»
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difficile dire lo stesso riguardo alle utopie del desiderio. I desideri espressi in queste utopie sono in qualche modo umanamente universali, profondamente insediati in uno degli strati della nostra anima inconscia. Forse è per questo che le utopie del desiderio, quasi indipendentemente dal fatto che si situino nel passato, in un altro luogo o nel futuro, possono apparire forse ridicole, ingenue o solo una narrazione poetica o una promessa religiosa agli occhi di coloro che le leggono o le ascoltano in tempi successivi. Ma non verranno mai rifiutate come repulsive, disgustose o abiette. Devo dire subito che le utopie del desiderio moriranno esattamente quando moriranno le utopie della giustizia, della stabilità e della felicità organizzata. Tuttavia, se le utopie improntate alla costruzione, le utopie di giustizia, le utopie di speranza, le utopie di felicità organizzata saranno rimpiazzate da distopie improntate alla costruzione, distopie di paura, distopie di disperazione, le utopie del desiderio appassiranno e scompariranno, per lo meno dall’immaginazione culturale del tempo. La più tipica utopia del desiderio nel mondo greco-romano era la leggenda dell’età dell’oro. L’«età dell’oro» era tutto quel che l’età presente non era. Era l’incarnazione della soddisfazione di tutti i bisogni, di tutti i desideri. Un mondo libero da ogni male, odio, conflitti, dalla morte definitiva, dagli espedienti, la gelosia, l’inimicizia, la fame. Un mondo in cui gli umani vivevano in armonia sia con la natura sia fra di loro. In cui tutti gli alberi offrivano dolci frutti per ciascuno, bastava solo coglierli. In cui gli uomini e le donne non si vestivano in modo artificioso, in cui cantavano, danzavano e si amavano nudi. Il sole splendeva costantemente e tutti condividevano una felicità divina priva di qualunque organizzazione. Citerò di seguito alcuni passaggi dal poema di Ovidio Le metamorfosi, con particolare riferimento ai versi dedicati all’età dell’oro, per illustrare le credenze utopiche greco-romane del desiderio: Dapprima ci fu l’Età dell’Oro. Vi prevaleva un’attitudine spontaneamente retta nei cuori, insieme alla fede. Non esistevano vendicatori per leggi che venissero violate, erano sconosciuti e non ve ne era alcun bisogno. Non esistevano castighi né paura delle sanzioni […] vivevano in pace senza un giudice […] Le città non avevano bastioni per proteggersi dalle guerre […] Nessuno sfoggio marziale, le moltitudini felici si godevano il riposo. La Terra produceva da sé una quantità di ogni tipo di frutto. L’erpice non la toccava, né c’era bisogno che l’aratro ferisse i campi […] Le terre incolte davano molti frutti […]
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Se si considera l’elenco di benedizioni descritte dall’età dell’oro, si nota subito che i contenuti delle utopie del desiderio restano piuttosto costanti dai Greci fino al Medio Evo, e persino fino al Diciannovesimo secolo. Tali contenuti possono essere descritti come il soddisfacimento di tutti i bisogni umani. Un mondo privo di limitazioni sociali o politiche, una vita di bellezza ed eleganza. Un mondo in cui anche la natura si è trasformata: gli alberi danno sempre frutti. Un mondo di abbondanza senza la necessità di prodigarvi cure, senza dover fornire assistenza o nutrire preoccupazioni (care) per il miracolo dell’abbondanza. Se si pensa per un istante al significato della parola «care» (Sorge) in Heidegger, se ne trae immediatamente la conclusione che l’utopia del soddisfacimento di tutti i desideri contraddice la visione moderna della condizione umana. Anche la Bibbia inizia la storia dell’età dell’uomo con un’età dell’oro. Dio piantò il giardino dell’Eden, con «ogni albero piacevole alla vista e idoneo a dare cibo». Tuttavia, poiché il giardino delle delizie non lasciava spazio alla curiosità, e il primo uomo e la prima donna non mancavano di nulla se non della libertà, contravvennero all’unico comando. Dopo la loro disobbedienza la «condizione umana», le «preoccupazioni» ebbero inizio: fare l’amore, il lavoro, il dolore, l’invidia, il delitto. La Bibbia introduce, per la prima volta, l’utopia del desiderio situata nel futuro. Redento da Dio il mondo sarà un luogo pacifico. La natura verrà cambiata e anche la vita umana. «Non sarò più un bambino che vive solo pochi giorni, o un vecchio che non completa i suoi giorni, poiché il bambino morirà quando avrà vissuto centinaia di anni […] Non lavoreranno invano […] Il lupo e l’agnello mangeranno insieme, il leone mangerà l’erba come il bue […] Non si faranno del male, non distruggeranno […] (Isaia 65/20-25). La futura «età dell’oro» viene presentata poeticamente in una visione profetica (anche la visione, oltre all’apocalisse, era un genere poetico). Come dicevo, tutte le immagini e le fantasie relative all’età dell’oro che si susseguirono restarono alquanto simili. Gli uomini e le donne continuavano a desiderare ardentemente una vita umana differente dalla condizione umana in cui si trovavano, anche se in una orchestrazione diversa. L’utopia del desiderio non è di questo mondo, e non solo nella Bibbia. Il fatto che il mondo desiderato sia realizzabile oppure no non è la questione principale, poiché dolorosamente non lo è. Il quesito principale è se il mondo desiderato sia davvero desiderabile.
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Mi sia consentito invitarvi in qualità di testimoni di opere d’arte molto note. Il quadro di Bruegel Il Paese della Cuccagna (ovvero Schlaraffenland) e quello di Bosch Il Giardino delle Delizie. Se un quadro può dare risposta alla questione filosofica se l’utopia del desiderio sia davvero desiderabile, quello è il dipinto di Bruegel. Vale a dire che è profondamente ironico. Dipinge il sogno come la presa in giro del sogno, la derisione dei desideri utopici o inconsci. Tre uomini sono distesi sotto un grande fungo, sopra il quale vi sono cibi e bevande come se fosse una tavola; due degli uomini dormono, il terzo sogna a occhi aperti. Armi e libri si trovano vicino a loro, sotto la testa del sognatore a occhi aperti c’è un manoscritto. Un maialino cotto se ne va in giro, già infilzato da un coltello. Basta usare il coltello e tagliarsi una fetta di maialino. Un pollo è già pronto nel piatto. Un uovo itinerante ha già soddisfatto un desiderio: è vuoto. Si vede chi c’è dietro questi desideri. Sono desideri di contadini che lavorano notte e giorno senza requie, che sono costretti a lavorare per procurarsi da mangiare e da bere. Sarebbe meraviglioso stendersi sotto un albero mentre l’uccello già cotto vola dritto nella tua bocca! Niente armi, niente libri, niente preoccupazioni, niente padrone. L’ironia del dipinto dice: Schlaraffenland non è solo irrealizzabile, ma è anche indesiderabile. Tuttavia non c’è sarcasmo, non c’è satira mordace: il pittore comprende il sogno, perché comprende coloro che lo sognano. Il trittico di Bosch Il Giardino delle Delizie non presenta delizie terrene di creature molto terrene al modo realisticamente umoristico di Bruegel. È una presentazione altamente simbolica, surrealistica, piena di enigmi. Sono stati scritti molti volumi su questo trittico, e sono state offerte molte migliaia di interpretazioni del suo significato. Non fa parte del nostro tema parlare di questo. Nel contesto della «immagine utopica» non è dirimente se le «delizie terrene» dipinte nel secondo pannello siano i peccati della carne, ereditati dal peccato originale a cui il pittore si riferisce nel primo pannello, né lo è il complesso simbolismo della raffigurazione... Quel che conta è l’immagine delle «delizie terrene» in sé... Queste delizie terrene sono il ritorno nell’Eden. Un Eden non soltanto per due ma per tutti. Il ritorno alla nudità senza vergogna, il ritorno al gioco, a una vita senza lavoro, senza obblighi, senza società. Una vita vissuta insieme, uomini e donne, una vita in un bel giardino circondati da fantastici animali che giocano fra loro e con fantastiche creature umane.
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Una vita di gioia, di giochi, di piacere, di comunanza, senza la morte. Alcune interpretazioni parlano del quadro come dell’anima inconscia, dell’anima sognante. Mi sia consentito chiedere nuovamente (sulla base di questi dipinti): è desiderabile il soddisfacimento di tutti i desideri? Persino contemplando i dipinti di Bruegel e Bosch, possiamo rispondere di sì o di no. Questo vale anche per la contemplazione della poesia di Shakespeare. Nel dramma La Tempesta Gonzalo spiega come sarebbe un’isola governata da lui: «Né ricchi né poveri, nessun contratto o successione. Nessuna occupazione, tutti gli uomini potrebbero oziare, e anche le donne: ma innocenti e pure […] tutte le cose che la natura può produrre in comune. Niente spade, né picche, coltelli, fucili o il bisogno di qualunque macchina […] tutta l’abbondanza, per nutrire il mio popolo innocente […] poiché non potrei ammettere traffici di alcun genere, non vi sarebbe bisogno di magistrati. Qui sono presenti tutti gli elementi dell’utopia. Ma lo sono soltanto come «sogni a occhi aperti» di un buon uomo beffato dai malvagi. Non come un futuro realmente possibile, ma come la caratterizzazione dei pensieri e anche l’ingenuità della bontà. Le utopie del desiderio ci accompagnano fin dall’antichità attraverso il Rinascimento fino all’era moderna. Per Marx, autore moderno, l’utopia del desiderio non è dietro di noi ma davanti a noi. Così sogna nella sua gioventù, nei Manoscritti filosofici ed economici scritti a Parigi nel 1844, e altrettanto fa verso la fine della sua vita nella sua Critica del Programma di Gotha del 1875. Come descrisse Marx il comunismo dei desideri? In modo molto simile a Ovidio. Non vi saranno né Stato né legge. Niente politica, né eserciti, né guerre. Non vi sarà il mercato, nessuna economia, niente denaro, l’oro non avrà valore. La natura fornirà il benessere molto al di là dei bisogni umani. Tutti i bisogni umani saranno soddisfatti. Che cosa significhi «tutti i bisogni» sta a noi deciderlo. Non vi sarà giustizia, poiché si ha bisogno della giustizia solo in tempi di carestia, non in condizioni di abbondanza. Non vi saranno padroni né servi, né regole, né obbedienza né comando. Marx non riuscì a essere utopico quando dovette parlare della morte: la morte continuerà a esistere, simboleggiando la vittoria della razza umana sul singolo individuo.
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Le utopie costruite filosoficamente Quasi tutti i libri scritti sulle utopie iniziano parlando della Repubblica (Politeia) di Platone. Egli, in nome di Socrate, introduce il tema dello Stato ideale o piuttosto l’idea dello Stato discutendo la questione se sia meglio subire o commettere ingiustizia. Poniamoci il quesito innanzitutto in termini generali, suggerisce, sul modello dello Stato. L’idea dello Stato giusto non è un mondo senza leggi, al contrario: l’idea è la Giustizia stessa, e la giustizia può regnare solo in uno Stato giusto con leggi giuste. Dove ci sono leggi, dove ci sono doveri, dove c’è lavoro, dove ci sono soldati, regole e persone assoggettate a quelle regole. Laddove non tutti i bisogni vengono soddisfatti, al contrario, bisognerà assegnare bisogni diversi a diverse caste nell’interesse dello Stato medesimo (giustizia). La stratificazione delle classi, o per meglio dire caste, è la seguente: la casta più bassa è quella dei desideri, la cui virtù è la temperanza; la casta «media» è quella degli uomini e delle donne armati, la cui virtù principale è il coraggio. Infine, la casta più elevata è la casta dei filosofi la cui virtù è la saggezza. Poiché tutte e tre le caste incarnano una delle virtù dell’animo umano, lo Stato in cui viene garantita e mantenuta la cooperazione delle tre caste, con al vertice la casta principale, quella dei filosofi, è lo Stato giusto. Giustizia significa che in uno Stato giusto, in cui ciascun membro di una casta esegue il compito assegnato a quella casta, ognuno dovrebbe adempiere al proprio compito. Ciò vale anche per la casta inferiore, quella dei contadini e dei lavoratori manuali. Essi dovrebbero svolgere lo stesso lavoro per tutto il corso della loro vita. È necessario stabilire la divisione dei compiti, e la proprietà privata non è ammessa. Questo non è un sogno, ma un modello. Lo scopo del modello è la stabilità. Si evitano i cambiamenti perché ogni cambiamento distrugge lo Stato. Questa conclusione si basa sull’esperienza storica. Abbiamo offerto una sintesi molto semplificata dell’utopia di Platone, invero, poiché non ho parlato degli aspetti trascendentali, essenzialmente filosofici, della sua concezione. Ma il mio intento qui era solo di mostrare la differenza, l’opposizione fra i due tipi di utopia. Lo Stato di Platone ha molto poco in comune con le utopie del desiderio, se appena si riflette che il desiderio, compresa l’immaginazione dei desideri, nella sua filosofia è la più bassa delle capacità umane. Mentre nelle
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utopie del desiderio nessun piacere è proibito, quand’anche le persone non se lo concedano, qui tutti i piaceri, anche quando uno è permesso, sono regolati rigidamente. La libertà personale, individuale, è esclusa, mentre nelle utopie del desiderio ognuno è libero di fare qualunque cosa gli piaccia. Sono queste le ragioni principali che indussero Karl Popper, nel suo libro La società aperta e i suoi nemici, del 1945, a definire lo Stato di Platone «totalitario». In ogni caso, nonostante il contrasto fra l’utopia come costruzione di Platone e le utopie del desiderio, vi sono alcune caratteristiche (progetti?) comuni fra le due. Da un lato, il fatto che non esista la proprietà privata nello Stato di Platone. Non si possono stipulare contratti, non si può commerciare, né vendere né comprare. La nudità non costituisce motivo di vergogna. I ragazzi e le ragazze della casta di mezzo operano nudi. Inoltre, le donne possono essere soldati come gli uomini. Non c’è famiglia. Benché durante il periodo di fertilità alcuni agenti dello Stato decidano chi deve ingravidare chi, allo scopo di avere figli in buona salute, dopo l’età della fertilità l’amore è libero. Dall’altro lato, la maggior parte delle utopie del desiderio esprimono una forte aspirazione alla giustizia. Nell’utopia di Ovidio, nell’età dell’oro le persone vivevano secondo la giustizia della natura. Nella Bibbia, l’utopia veniva sempre presentata come «l’altro», come il contrario di un mondo ingiusto. Le persone saranno giuste secondo la grazia di Dio. Solo Marx insisteva che la giustizia, la virtù della carestia, non avrebbe avuto alcun posto in un mondo di abbondanza. Io credo che nessuna persona del nostro mondo vorrebbe vivere nello Stato di Platone, in questa utopia costruita in termini filosofici. Platone sapeva, al pari di quegli autori che imitarono il suo progetto di politeia, e al pari di coloro che lo rifiutarono, che il progetto era irrealizzabile. È per questo che venne scritta come un’utopia, quantunque la parola «utopia» dovesse ancora essere coniata. Per noi, come per molte generazioni che ci hanno preceduti, è una benedizione che il progetto sia irrealizzabile, perché non è neppure desiderabile. Peggio ancora: è il contrario di un bel sogno. La Repubblica di Platone rimase il modello delle utopie costruite in termini filosofici anche durante il Rinascimento, e prima di tutto per il libro che diede il nome al genere, l’Utopia di Thomas More (Morus). Il modello restò, ma l’immaginazione storica era cambiata sostanzialmente e tale mutamento lasciò un segno sulla sua opera per molti aspetti.
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L’età di Morus era l’età della febbrile scoperta di continenti, isole, popoli sconosciuti, l’età dell’esperienza di altri mondi, altri costumi, altri modi di vita e delle storie che se ne raccontavano. L’interesse per la «diversità» era enorme, i diari di viaggio venivano bevuti dai lettori come nettare e molte cose divennero credibili mentre fino ad allora erano parse totalmente irrealizzabili. Fu nell’immersione in questa «atmosfera» che Morus presentò Utopia, il suo Stato perfetto, non come se si trattasse di una costruzione filosofica, ma come se esistesse sul serio. La storia era concepita come se il modo di vivere, i costumi, le virtù di quest’isola non fossero stati inventati da Morus ma fossero stati stabiliti da un saggio leader, un moderno Licurgo chiamato Utopus. Inoltre, l’autore non ci era mai stato, non l’aveva mai vista, ma aveva solo appreso della sua esistenza da qualcuno che ne aveva fatto esperienza diretta, un uomo chiamato Raffaele Itlodeo, che aveva grande familiarità con le opere di Cicerone. Il primo libro di Utopia consiste soprattutto nella conversazione fra il navigatore e l’autore. Il suo messaggio costituisce una critica radicale dello stato di cose vigente in Inghilterra, dove l’autore occupava una elevata posizione politica, da ultimo quella di Lord Cancelliere. Morus racconta (attraverso Raffaele) la sofferenza e la povertà della campagna inglese dove «le pecore hanno divorato i mezzi di sussistenza degli uomini». (Il suo acerrimo nemico Cromwell fece un resoconto molto simile sulla povertà e l’inedia di massa in Parlamento, suggerendo alcune misure correttive che vennero respinte.) Il secondo libro è consacrato alla descrizione dello Stato ideale, ovvero al Commonwealth ideale. Anche il contrasto tra l’asprezza del resoconto sullo stato disperato del Commonwealth e la descrizione entusiastica del glorioso Stato di Utopia segue la tradizione. Anche Platone aveva messo a confronto lo Stato ideale con tutti gli «Stati realmente esistenti», e in particolare con la democrazia e la tirannia. Sarà questo il modello di tutte le utopie del futuro. Vale la pena sottolineare che a un certo punto del libro, quando Morus riflette sul racconto del sedicente navigatore, ammette che l’Utopia non può essere realizzata ma che è come lo Stato che egli auspicherebbe fosse il Commonwealth. Nonostante tutte le analogie c’è una differenza essenziale fra il modello originario, cioè la Repubblica di Platone, e l’Utopia di Morus. Tale differenza esprime il cambiamento dell’immaginazione storica. Non vi sono caste nella
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moderna utopia. Il Commonwealth consiste di uomini e donne che hanno diritto alle stesse possibilità e sono assoggettati agli stessi obblighi. Vi sono ancora gli schiavi, ma non sono membri del Commonwealth e vengono trattati con una certa umanità. La nascita non garantisce una posizione sociale. Ogni leader viene eletto per un anno alla posizione che rivestirà. E vige una rigida monogamia. Che cosa c’è allora di essenzialmente comune fra la costruzione filosofica antica dello Stato ideale e quella del Rinascimento? L’abolizione della proprietà privata. Si riteneva che la proprietà privata fosse la causa della disuguaglianza fra gli uomini, e in quanto tale la causa di ogni male. Senza la proprietà privata non ci sarebbero più state guerre, violenza, dominazione, competizione, invidia, gelosia, tirannia. Ma come si possono soddisfare i bisogni della popolazione senza proprietà privata? Tutti dovranno lavorare, ma non troppo: più o meno sei ore al giorno. Tuttavia, il lavoro agricolo è obbligatorio, tranne che per i leader eletti che avranno l’unico compito di sorvegliare i lavoratori. Al tempo stesso, i bisogni degli abitanti di Utopia sono modesti. Non hanno necessità di lussi, e infatti tutti hanno bisogno delle stesse cose. Un posto in cui vivere, cibo per mangiare, del tempo libero per fare quello che vogliono. Le abitazioni sono simili, e ogni dieci anni si deve cambiare casa. Gli abiti sono fatti della stessa stoffa, hanno tutti lo stesso colore. Vengono dallo stesso magazzino. Naturalmente non c’è denaro. I pasti vengono consumati in comune e, prima di darvi inizio, vengono letti passi di carattere morale da un libro. I bambini prima dei cinque anni vengono allevati insieme in asili infantili. I più grandi servono durante i pasti in comune. Tutti gli agglomerati devono avere non meno di dieci adulti e non più di sedici. Tutti gli abitanti di Utopia credono che l’anima sia immortale e che dovremmo vivere secondo natura — la popolazione dell’isola è cristiana e stoica! Donne e uomini devono vedersi nudi prima del matrimonio. Il sesso prematrimoniale è escluso e sanzionato. L’adulterio viene punito soprattutto con la riduzione in schiavitù. Le mogli obbediscono ai mariti, i figli ai genitori. In chiesa, uomini e donne siedono in comparti separati. Questi sono gli unici aspetti di Utopia da cui si deduce (e lo sappiamo dalla sua storia personale) che Morus era un puritano cattolico che puniva i nemici della vera fede giustiziandoli, per essere alla fine decapitato a sua volta a motivo di un’altra vera fede. Di fatto, l’Inghilterra non era l’isola di Utopia.
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L’altra famosa utopia rinascimentale fu modellata non solo su Platone ma anche su Morus e fu scritta da un prete eretico, Tommaso Campanella. Chiamò la sua utopia, anch’essa scritta in forma di dialogo, La città del sole. Anche questa utopia ha come fondamento l’abolizione della proprietà privata, fonte presunta di ogni male. In una cosa Campanella tornò da Morus a Platone: nella biopolitica. È meglio che le donne di età inferiore a 19 anni e gli uomini prima dei 24 anni non si accoppino, ma in seguito tutto è permesso a esclusione della sodomia. Tuttavia, benché tutto sia permesso, gli ufficiali che controllano l’Amore determinano chi si accordi meglio con chi a seconda delle dimensioni, della salute o di altri parametri. Prima di accoppiarsi devono guardare delle sculture bellissime. Se una donna non resta incinta dopo aver giaciuto con un uomo viene mandata da un altro uomo (naturalmente la credenza vittoriana secondo cui solo le donne sarebbero responsabili dell’infertilità non era ancora generalmente accettata). In ogni caso, le donne sono proprietà comune solo per scopi riproduttivi. (Sarà un rompicapo per gli utopisti futuri convinti che la proprietà privata sia la fonte di ogni male; come difendere la proprietà privata di una moglie? Morus deve essere corretto!) La prima utopia orientata al futuro appare verso la fine del Rinascimento (ancora una volta, suggerita da un Lord Cancelliere) nell’incompiuta Nuova Atlantide di Francesco Bacone. Il titolo si riferisce polemicamente a Platone. La città di Atlantide è la grande isola dei tempi antichi, andata distrutta, secondo la leggenda narrata da Platone, e situata ora in fondo al mare. La nuova Atlantide verrà costruita dagli umani in possesso di scienza e tecnologia. Così l’idea del «progresso» si insinua nell’immaginazione storica. Il «nuovo» sarà meglio del «vecchio». Tale visione moderna resterà dominante fino al Ventesimo secolo.
Capitolo terzo
Riflessioni sul momento utopico e sul nuovo repubblicanesimo Tutte le rivoluzioni vengono tradite? Il sogno di una «svolta antropologica»
Riflessioni sul momento utopico e sul nuovo repubblicanesimo. Tutte le rivoluzioni vengono tradite? Un momento utopico non è né un’utopia del desiderio né una costruzione filosofica. È la forte convinzione degli attori storici di essere impegnati nel creare, attraverso le proprie azioni, un mondo migliore, un mondo nuovo, un mondo libero. In genere è animato da robuste concezioni e idee sul nuovo mondo che sta già affiorando. Quest’idea non è una Schlaraffenland, non è un mondo privo di preoccupazioni, non è un cortile destinato all’erotismo, bensì un mondo di nuove istituzioni. Quest’idea non contiene neppure l’immagine di una società perfetta, stabilita in ogni dettaglio. Troviamo molti diversi «momenti utopici» nella storia moderna. Le loro idee possono essere differenti, a seconda del tempo e del luogo, e specialmente in relazione al progetto. Tuttavia, c’è una cosa in comune in tutti i momenti utopici. Essi vengono portati avanti da entusiasti pronti perfino a sacrificare la loro vita, non solo per la vittoria della «causa», ma per la «realizzazione» delle loro idee. Quantunque il contenuto morale delle idee a cui si votano possa apparire agli occhi di un giudice esterno buono, indifferente o perfino cattivo, ciò non ha alcun peso sugli appassionati che si lanciano nel momento utopico.
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Ciò che conta per gli attori e i creatori di un momento utopico è che la vittoria significa la realizzazione delle loro idee, l’incarnazione delle loro idee in uno Stato, una società, sostenuti da un popolo, attraverso la rivoluzione o l’evoluzione. L’idea di progresso è la precondizione del momento utopico. L’idea di progresso si accompagna di norma con la convinzione che vi sia una storia «universale» che «muove costantemente in avanti», magari con qualche ritardo, ma in modo regolare. Al quesito relativo al perché si muova costantemente in avanti, e quale ne sia la forza propulsiva, si può rispondere in molti modi diversi: procede dalla volontà di Dio, dal desiderio umano di libertà, dallo spirito del mondo, dall’accumularsi delle conoscenze, dallo sviluppo dei mezzi di produzione. In ogni modo, quale che sia la forza propulsiva che si presupponga, il progresso è un concetto teleologico. Il mondo (il nostro mondo) continua ad avanzare verso qualcosa, verso il miglioramento, verso la perfezione, verso la libertà. L’idea di progresso non è soltanto la condizione del momento utopico, ne è anche il fondamento. «Il mondo nuovo, il mondo migliore» del futuro è preparato dal presente, dal nostro presente. Ma verrà, perché è scritto che arrivi. La vecchia similitudine di Socrate viene recuperata con un altro contenuto. Così come Socrate considerava se stesso la levatrice che favorisce la nascita di pensieri autentici, così gli attori moderni credono di essere le levatrici che coadiuvano la nascita di un mondo veramente autentico. Io definisco il momento utopico «rivoluzione». Ci sono due tipi di rivoluzione. Una rivoluzione che scoppia, un’altra che accade. Che l’idea di progresso come evoluzione (evoluzione del mondo umano, evoluzione della natura umana nella storia) fosse la condizione del momento utopico era dato per scontato da alcuni pensatori europei già nel Diciottesimo secolo. Non era accettata da tutti. Perfino uno dei sostenitori dell’Illuminismo (e non solo i tradizionalisti) come Moses Mendelssohn levò la sua voce contro la «grande narrazione» del progresso, finanche contro il suo amico Kant. Secondo lui, concetti come progresso, evoluzione, perfezione possono applicarsi solo a degli individui, non alle storie. La diversità di idee, lo scontro di opinioni appartiene a un mondo di continui sconvolgimenti. Tutte le teorie contrattuali, da Hobbes a Rousseau, contengono un momento utopico. Tutte costruiscono un passato, un «inizio» che permetta di giustificare le strutture socio-politiche essenziali, le istituzioni concepite come
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il «meglio» per il futuro. Nella maggior parte di esse, la proprietà privata, il nemico giurato della maggior parte delle utopie «chiuse», può occupare il suo posto. Le utopie (come quelle di Platone, di Morus, di Campanella e di alcuni autori del Diciannovesimo secolo che discuterò più avanti) sono società chiuse, poiché sono protette, secondo il progetto che vi ha dato vita, dalle influenze esterne e da qualunque cambiamento. Presuppongono che la proprietà privata abbia una tale influenza distruttiva su qualunque mondo che è necessaria un’utopia per proteggersi da essa. La maggior parte delle teorie contrattuali non condivide questa visione. Per lo meno la proprietà personale è la condizione della libertà individuale, e la libertà individuale dal canto suo è la condizione della libertà politica. Tutte le utopie includono una sorta di «antropologia», una visione della natura umana in quanto tale, e gli attori o gli autori dei momenti utopici non fanno eccezione. Alcuni di essi presuppongono che gli umani, in generale, nascano provvisti di empatia, altri che siano aggressivi per natura, o che siano altruisti oppure egoisti per natura. Le società, le istituzioni politiche che escogitano, suggeriscono o creano, presumono di sviluppare quanto di meglio esista nell’uomo. Come suggeriva Kant, abbiamo bisogno di istituzioni sotto il cui sistema perfino un popolo di diavoli si comporterebbe in modo decente. Kant occupa un posto speciale in questa storia, poiché proponeva l’idea di progresso come la condizione del momento utopico del repubblicanesimo. Poiché egli fu anche colui che, sulla base del momento utopico repubblicano, ideò l’utopia della pace perpetua. Già il titolo della sua opera Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico (in Weltbürgerlichen Absicht) mette in campo due momenti utopici: l’universalismo e il cosmopolitismo. Non c’è bisogno di dire perché fossero idee utopiche, dato che sono rimaste tali fino a oggi quando, a causa della forte componente utopica, vengono rigettate e ridicolizzate da molti. Kant non afferma che vi sia progresso nella storia, bensì che «faremmo meglio a presupporre che la natura della storia comprenda una teleologia come sviluppo verso il meglio». Chiarisce subito la sua «antropologia». Gli uomini sono gli unici esseri razionali (vernüftig) sulla Terra che siano capaci di perfezionarsi (e quindi dovrebbero) grazie alla ragione. Al tempo stesso gli umani sono caratterizzati da una socievolezza poco socievole (ungesellige Geselligkeit), vale a dire che il loro carattere sociale comprende l’egoismo e l’antagonismo. La condizione della loro perfezione risiede nella messa in
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campo di una società civile governata dalla legge, in cui la libertà dei cittadini sia garantita e tutelata da leggi «esterne» (e non da una libertà trascendentale che esisterebbe in noi): la repubblica, in cui ciascuno è libero di fare quel che desideri a meno che non limiti con le sue azioni la libertà degli altri. L’utopia della pace perpetua presuppone il momento utopico chiamato repubblica. Il cosmopolitismo presuppone il repubblicanesimo. La repubblica deve accedere al contratto cosmopolita. La condizione di un simile patto include le seguenti limitazioni: nessuna repubblica dovrebbe avere un esercito permanente o un debito estero. Non dovrebbe interferire con la costituzione di un altro Stato. Se ciò viene realizzato deve essere stabilita una mutua fiducia, le repubbliche devono forgiare un’istituzione comune. Le precondizioni di una costituzione comune sono le seguenti. Tutti gli Stati che sottoscrivono il contratto devono essere repubblicani, tutti i cittadini devono essere liberi in quanto esseri umani, e assoggettati alle stesse leggi, uguali di fronte alla legge. Questo è il modo per massimizzare la libertà umana, in uno Stato e fra gli Stati. Ciò che è più arduo è stabilire e mantenere il federalismo. La legge delle nazioni include in ogni caso l’ospitalità universale (si vedano i migranti). Kant è consapevole del carattere utopico del progetto. La pace eterna e le condizioni per attuarla sono un’idea trascendentale, non empirica (non reale). Prima di tutto, a causa della contraddizione fra la morale e la politica. Kant cerca di gettare un ponte per sanare tale contraddizione in un’appendice dell’opera, e tuttavia ne preserva l’aspetto trascendentale facendo riferimento al primato del «dovere» contro il potere, la forza e l’interesse. Il federalismo trascendentale di Kant appare ancora percorribile a Jürgen Habermas, che concepisce l’idea trascendentale dell’Unione Europea con particolare riferimento al modello kantiano. Lasciando per un momento da parte la filosofia, parlerò del momento utopico nei movimenti sociali e politici. Sia nelle rivoluzioni che «scoppiano», ovvero nelle rivoluzioni politiche, sia nelle rivoluzioni che «accadono», che furono definite da Hans Jonas «rivoluzioni ontologiche/tecnologiche». Perché parlo di momento utopico in questi casi? Che cosa è utopico nelle rivoluzioni politiche, ontologiche, tecnologiche o (oggi) sessuali? Perfino nel periodo immediatamente successivo, vale a dire allorché un’ondata rivoluzionaria è finita, coloro che vi hanno partecipato, in veste di attivisti,
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entusiasti o meri spettatori, si sentono «traditi». Non era per questo che abbiamo combattuto! Non è questo che avevamo sognato! Marx una volta commentò che il regno della libertà era diventato il regno della borghesia. Noi possiamo aggiungere oggi che il regno del comunismo diventò il regno degli omicidi di massa. I sostenitori sociali o politici, coloro che ci credevano, si sentono normalmente traditi. O per lo meno fortemente delusi. È per questo che parlo di un momento utopico. Il momento utopico comprende una fede incondizionata, una quasi certezza del futuro benedetto che già si sta avvistando, che può essere raggiunto attraverso la nostra azione, il nostro movimento, la nostra lotta, il nostro lavoro. Tuttavia il mondo, la società, lo Stato che si erano sognati non saranno mai come avevamo supposto dovessero essere, e il progetto del sogno non verrà «realizzato». Tuttavia, le diverse rivoluzioni non vengono «tradite» nella stessa misura né allo stesso modo. La misura e il modo dipendono soprattutto da due fattori. Prima di tutto, il contenuto della credenza originaria, il fatto che il «tradimento» fosse incorporato nel momento utopico stesso oppure no. Poi, a seconda che il sentimento del «tradimento» risponda all’esperienza che non tutte le promesse siano state mantenute o, quand’anche lo siano state, ciò sia avvenuto in modi diversi da quelli attesi (tornerò sull’argomento fra poco). O che sia avvenuto il contrario delle promesse, o magari qualcosa di interamente diverso, così che retrospettivamente la stessa rivoluzione, con il suo momento utopico, appaia piuttosto come una distopia (come nel caso delle rivoluzioni totalitarie). La ragione ci dice che le rivoluzioni perdute non possono essere tradite quanto piuttosto serbate nella memoria come «utopie alle nostre spalle». Il primo momento utopico storicamente significativo nella nostra storia è stato la rivoluzione americana, l’ultimo il movimento del Sessantotto. Essi hanno due cose in comune: il fortissimo sentimento di fare qualcosa di completamente nuovo e la forte presenza del momento utopico. E il fatto che nessuno dei due sia stato tradito benché alcuni attivisti, entusiasti, combattenti abbiano provato una forte delusione e perfino un senso di tradimento a cose fatte. La circostanza che il primo fosse una rivoluzione politica combinata con una guerra di indipendenza, mentre il secondo solo un movimento sociale, è importante ma non per quanto attiene al momento utopico.
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Il momento utopico della rivoluzione americana fu formulato chiaramente nella Dichiarazione di Indipendenza, in cui tutti i valori moderni vennero elencati come i fondamenti del nuovo Commonwealth. Lo stesso momento utopico caratterizzò la scelta della sovranità. Quando la questione venne sollevata nell’assemblea dei neocostituiti Stati Uniti e si pensava all’elezione del re (come avevano fatto i britannici), e Adams si alzò in piedi per dichiarare: «Noi saremo una Repubblica», l’idea non solo era nuova, ma contraddiceva tutte le teorie secondo cui una repubblica è appropriata solo per piccoli Stati, o meglio ancora per delle città Stato. Ciò nondimeno gli Stati Uniti divennero una repubblica, indipendente e democratica. Eppure molti entusiasti ritennero che la rivoluzione fosse stata tradita, entusiasti diversi per ragioni diverse. Alcuni perché quantunque la Dichiarazione di Indipendenza sancisse che tutti gli uomini nascono liberi, la costituzione di alcuni degli Stati Uniti manteneva l’istituto della schiavitù. Altri invece erano delusi perché Hamilton aveva istituito la Banca d’America mentre uno Stato libero, essi ritenevano, non può avere banche come avviene in Inghilterra. Il momento utopico è passato. La schiavitù è stata abolita con la più sanguinosa delle guerre civili, e le banche rivestono oggi un ruolo molto più importante che ai tempi di Hamilton. Il momento utopico nel movimento del Sessantotto fu chiaramente formulato con il ben noto slogan: «Per raggiungere il possibile dobbiamo ambire all’impossibile». E lo fecero. Alcuni degli «impossibili», ad esempio la fine della società dei consumi, il dominio della vita comunitaria, l’autogestione generale, ecc., restarono impossibili. Altri, come la liberazione sessuale, la fine dei codici rigidi di abbigliamento, i diritti degli omosessuali, la partecipazione studentesca diventarono possibili. Alcuni sono delusi e piangono la fine dei loro sogni; altri, quantunque insoddisfatti dei risultati, partecipano alla politica o si impegnano nei nuovi movimenti civili. Fra la rivoluzione americana e i movimenti del Sessantotto ci sono stati molti movimenti utopici, fra cui la Grande Rivoluzione Francese e le rivoluzioni totalitarie in Europa, e molte altre in America Latina e in Asia: tutte sono state tradite o seguite dalla delusione degli entusiasti ma non dei loro critici e antagonisti. (Come tutti sappiamo, l’espressione «Rivoluzione tradita» viene da Trotsky.)
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Gli ultimi costrutti utopici. La storia del socialismo da utopia a utopia. La «svolta antropologica» Quando parlo delle «ultime utopie», mi riferisco alle ultime utopie sociali. Le utopie tecnologiche sono state tenute deste dall’incessante rivoluzione tecnologica, e continuano a esserlo. Certo, anche alcune promesse delle rivoluzioni tecnologiche sono state tradite. Benché l’industrializzazione promettesse di alleviare il peso delle fatiche patite dai lavoratori, alcuni (come Sismondi) hanno manifestato la loro delusione poiché oggi tutti i lavoratori sono diventati schiavi della divisione del lavoro. Per numerosi critici intellettuali lo sviluppo tecnologico com’è oggi è una sorta di demonio che distrugge la civiltà e il pensiero europei. Siamo incasellati, come dice Heidegger, dall’immaginazione tecnologica. Tutto considerato, comunque, le rivoluzioni tecnologiche promettono sempre qualcosa di nuovo, hanno i loro entusiasti, attori, sostenitori (non necessariamente scienziati) e includono un momento utopico. Dai romanzi di Jules Verne fino a quelli di fantascienza contemporanei. La ragione del contrasto fra la scomparsa delle utopie sociali e la stabile presenza di utopie scientifiche (insieme ai loro detrattori) è semplice: il cambiamento nel ruolo che l’idea di progresso riveste nell’attuale immaginazione storica. L’idea di progresso sembra aver perso la guerra nel campo della società, della politica e perfino dell’arte, ma ha conservato la sua rilevanza nel campo delle scienze. Nella scienza abbiamo a che fare con la conoscenza, e l’applicazione scientifica e tecnologica di questa conoscenza continua ad accrescersi a una velocità sempre maggiore. L’accumulazione della conoscenza può essere intesa come progresso, benché alcuni effetti collaterali di questo processo allunghino alcune ombre e risultino perturbanti. Tuttavia, finché la conoscenza si accresce, e finché vengono scoperti, creati e distribuiti sempre nuovi dispositivi tecnologici, si può parlare di progresso nonostante gli effetti collaterali. Un progresso analogo, in termini dell’accumulazione del «saper fare» e del «sapere che cosa», è previsto anche nel futuro. Questi nuovi dispositivi e i nuovi modi di vita che implica il loro utilizzo sono vieppiù criticati dai teorici sociali, denigrati come strumenti di manipolazione che creano falsi bisogni, per la loro ostilità alla morale e alla buona vita, ma nessuno di loro fermerà il progresso tecnologico,
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benché possano cercare di imporre per legge la limitazione dell’impiego di alcune tecnologie (come nell’uso dell’energia nucleare o nelle esperienze di clonazione umana). La speranza, la paura e il desiderio sono radicalmente compresi nel «momento utopico». Il sentimento dominante nelle utopie dell’età dell’oro e consimili è la nostalgia. L’utopia è alle nostre spalle. Non c’è speranza, non c’è paura. Un paradiso perduto. Le utopie bibliche orientate al futuro di redenzione, del Regno di Dio, sono motivate esclusivamente dalla speranza. Però, poiché questa speranza si basa sull’assoluta fede in Dio e nelle sue promesse, la speranza in termini di fede è prossima alla certezza. I credenti sanno per certo (altrimenti non sarebbero credenti) che il Regno di Dio è vicino, o che il Messia arriverà, anche se non sappiamo quando. I costrutti filosofici di «Stato giusto» o di «società giusta» di Platone, Morus e Campanella sono accompagnati dalla speranza della possibilità. La speranza della possibilità si regge su due pilastri: liberarsi dagli ostacoli fondamentali della guerra civile, delle morali lasche, dell’ingiustizia: la proprietà privata e personale da un lato, pratiche sessuali non regolate dall’altro, con la preferenza della proprietà comune e della biopolitica. Proprio perché i due pilastri delle utopie, che presuppongono il dominio di una forza centrale, quand’anche fossero liberamente accettati, non sono desiderabili per gli uomini e le donne moderni, non ci piacerebbe vivere in nessuna di queste utopie. Ai nostri occhi, appaiono piuttosto come distopie. Perfino se si dimentica Platone per scegliere invece Morus, e quand’anche si dimentichino tutti gli aspetti biopolitici della sua utopia, il suo modello resta attraente come forma di vita solo per una sparuta minoranza, e perfino per tale minoranza soltanto se la sua comunità è basata su una forte credenza comune, di tipo religioso o di altra natura. Ma finanche in questo caso lo spirito e la speranza utopici non si basano sulla comunità stessa, ma sul più alto scopo (religioso o di altro tipo) a cui la comunità è votata. Il «momento utopico» è il coronamento della speranza utopica. Il desiderio diviene attivo. I latori di questi momenti utopici non sognano un’età dell’oro alle loro spalle o a loro antecedente. Non ripongono la loro speranza in un grande ideatore, né nella redenzione divina. Hanno deciso di risolvere la questione e di creare un futuro luminoso, un futuro total-
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mente nuovo da soli. Possono essere motivati dal risentimento o dall’odio per l’ingiustizia sociale, la sofferenza dei poveri, i mali del mondo, come tutti gli utopisti che li hanno preceduti, ma fanno anche affidamento sulla conoscenza delle circostanze storiche che fanno una differenza radicale per il miglior futuro possibile desiderato, anzi bramato. La loro speranza non è motivata solo dal desiderio ma anche dalla comprensione. E nondimeno anche loro fanno progetti per una società alternativa, anche loro sono motivati da idee. E tali idee possono essere idee trascendentali pure e semplici come Libertà, Giustizia, Uguaglianza, Fraternità. Perfino le idee trascendentali richiedono di essere tradotte a un livello empirico. Come nel caso del repubblicanesimo libertà (come libertà politica, come diritto degli individui e delle minoranze, come istituzioni elette e così via), uguaglianza (di fronte alla legge), fraternità (amicizia, unità, solidarietà?). La traduzione empirica delle idee trascendentali avviene attraverso credenze e concezioni, attraverso gli scopi al cui servizio un movimento si è posto. Se tali combinazioni implicano o richiedono l’accettazione di un concetto rivelatore di verità, ci troviamo in presenza di ideologie. (L’ideologia è un’idea politica moderna presentata dagli attori come una verità assoluta.) Una delle ragioni per cui le rivoluzioni vengono tradite è la necessità di una traduzione empirica delle idee trascendentali, che funzionano come ideologie. La speranza è la passione principale, poiché la speranza è nel momento utopico; non è la credenza in una certezza ma è fondata sulla possibilità o sulla probabilità. Ecco perché c’è bisogno della passione, dell’entusiasmo degli attori. Sono queste le condizioni del progetto per realizzare quelle idee (le idee non possono essere realizzate, è per questo che le rivoluzioni vengono tradite). Nel caso in cui la probabilità sia presunta, il peso della responsabilità rimane sulle spalle degli attori, poiché si presuppone anche che il nuovo mondo libero e giusto arriverà se noi, gli attori, avremo fatto tutto quanto in nostro potere per trasformare la probabilità in realtà. Ben celato dietro la maschera della speranza condizionale si annida il volto della paura: paura della sconfitta a causa del nostro fallimento. Molte rivoluzioni sono state sconfitte, e tuttavia nella spinta del momento utopico la paura venne sospinta sullo sfondo, altrimenti non si sarebbe neppure potuto parlare di momento utopico.
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Engels scrisse un libro dal titolo L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza. Si riferiva ai «socialisti utopici» come Owen, Saint-Simon, Fourier, Cabet e altri le cui idee non erano realizzabili e restavano soltanto sogni, poiché si basavano su un’immaginazione liberamente fluttuante e non sulla scienza. A esse contrappose le opere di Marx che, appunto, erano basate sulla scienza. Il socialismo basato sulla scienza non è utopico, poiché la predizione del socialismo è deducibile dalla comprensione scientifica della storia, della modalità capitalistica di produzione e di espropriazione che conducono necessariamente a un nuovo ordine sociale socialista (comunista). Non c’è bisogno della «storia» per smentire la predizione di Engels. Si può affermare piuttosto che sia stato provato il contrario. Per certo né i modelli di Owen, Saint-Simon, Fourier, Cabet o di altri socialisti della prima ora potrebbero essere instaurati in uno Stato o in un progetto sociale su vasta scala. Tuttavia, per lo meno poterono trovare attuazione comunità isolate basate sulle loro idee e risultare praticabili, persino nel lungo periodo, specialmente in America. La maggior parte di queste comunità furono ben presto spazzate via, ma alcune di esse sopravvivono ancora oggi. Ci fu anche un libro molto noto scritto dal comportamentista americano Skinner, Walden Due, una narrazione che presenta la praticabilità di comunità del genere nel Ventesimo secolo. Come ho già detto in relazione a Morus, alcune idee socialiste possono essere conservate e praticate nella vita reale in piccole comunità sempreché siano isolate dal modo di vita circostante, a patto che i membri della comunità condividano la stessa idea, la stessa convinzione, soprattutto, anche se non esclusivamente, dal punto di vista religioso. Al contrario, il modello marxista di socialismo scientifico non ha mai trovato attuazione sulla Terra, quantunque una sua versione contraffatta sia stata applicata da dittatori assetati di potere. Le ultime utopie significative, vale a dire influenti, che non volevano essere finzioni bensì modelli, furono le utopie socialiste. La condizione «non come finzione» non esclude le storie. Ad esempio Icaria di Cabet seguiva il tipo di narrazione utopica di Morus. In ogni caso, poiché la «coscienza storica», vale a dire la comprensione europea del nostro mondo in termini di temporalità, così come in termini di forza propulsiva, è drammaticamente cambiata, lo stesso vale anche per le utopie.
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Parlo (in accordo con la tradizione) delle utopie socialiste. E comunque, non sono state tutte le utopie utopie socialiste? I sogni vagheggianti un mondo senza lavoro, senza Stato, senza leggi, senza la proprietà privata, un mondo in cui ogni bisogno venga soddisfatto? Forse l’età dell’oro, la Schlaraffenland, il progetto del Gonzalo di Shakespeare, non erano immagini socialiste? Forse l’idea che la proprietà privata sia alla radice di ogni male non è una convinzione socialista? Perché la tradizione si riferisce alle utopie come «socialiste» dai tempi dell’Illuminismo fino al Ventesimo secolo? Innanzitutto, tutte le utopie socialiste condividono il «momento utopico». Benché costrutti filosofici, a differenza delle utopie precedenti, non sono soltanto proposizioni teoriche. Danno inizio ai movimenti sociali o vi si fa riferimento a partire da quei movimenti. Hanno seguaci, fondano istituzioni, comunità, organizzano partiti. Va detto che l’uccello di fuoco di un «momento utopico» non inizia a volare in tempi di cambiamenti radicali. Di fatto, molto pochi socialisti utopici sono stati amici di rivoluzioni politiche. Il loro momento utopico è nato dall’idea di un’evoluzione sociale dal lento sviluppo o dall’idea di un atto fondativo. Tutte le utopie socialiste sono orientate al futuro. Condividono l’una o l’altra variante della «grande narrazione», dell’immagine di una storia umana che si sviluppa progressivamente. Credono tutte di essere le levatrici di un nuovo ordine sociale, migliore, magari perfetto. La maggior parte di questi utopisti sono grandi ammiratori delle rivoluzioni industriali, dei progressi della scienza e della tecnologia. Condividono la convinzione che sia la scienza moderna ad aver reso possibili il mondo nuovo e il socialismo. La maggior parte di essi sono comunitari. Credono cioè che la tecnologia e la scienza moderne possano essere fatte progredire ed essere messe al servizio di tutte le persone delle comunità. Saint-Simon, ad esempio, parla della classe lavoratrice che includerà i lavoratori, i dirigenti e i commercianti e porrà fine alla regola del tempo libero e dell’ozio della classe che vive a spese del lavoro manuale o mentale di altri. Ci sono però anche altre proposte. Quantunque non tutti i socialisti utopici attribuiscano alla proprietà privata la colpa di tutti i mali sociali, preferiscono proprietari collettivi a proprietari individuali. La maggior parte dei socialisti utopici includono anche il «momento repubblicano», un tipo di struttura democratica di comunità. Tuttavia, alcune caratteristiche delle prime utopie sopravvivono,
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specialmente la regolazione della vita privata, intima. Quand’anche resti poca biopolitica e venga preferita la famiglia nucleare, la diversità personale è assente da queste utopie, o per lo meno ne viene regolato l’uso. Non forniscono suggerimenti che possano incontrare il favore della gran parte di uomini e donne moderni. Nessuno degli autori utopici crede di essere un utopista. Le idee più attraenti nel corso del Diciannovesimo secolo furono appunto il socialismo e la scienza. Tutti gli utopisti basarono quindi i loro progetti sulla scienza. Tutti credevano nel progresso e nell’inevitabilità di una nuova alba. La sola differenza fra alcuni «utopisti» e Marx era che alcuni di essi credevano in una mente superiore, un Licurgo socialista che non solo concepisce il nuovo ordine sulla carta ma esegue anche il lavoro dell’organizzazione. Fra questi utopisti Fourier merita un’attenzione particolare. Prima di tutto perché non provava simpatia per le scienze moderne, visto che trovava la scienza moderna non scientifica e inidonea a fondare un nuovo sistema perfetto. La scienza reale si rivolge, così credeva, alle passioni umane, giacché solo una scienza delle passioni umane può servire a fondare un nuovo mondo perfetto: un mondo senza conflitti, guerra, odio, invidia, gelosia, ecc. Quindi, la nuova organizzazione del lavoro si basa sulla scienza delle passioni. Non c’è alcuna passione cattiva. (Fourier si basa su Cartesio che aveva fatto un’eccezione: il fanatismo.) Se ogni uomo e ogni donna potessero vivere nel modo dettato dalle loro passioni, svolgerebbero un lavoro in linea con tali passioni e non ci sarebbe più il male nel mondo, ma solo un’armonia universale. Come nelle composizioni musicali. Ad esempio, se Nerone avesse fatto il macellaio ne sarebbe stato completamente appagato e non avrebbe fatto male a una mosca. Uomini e donne vivono in comunità, nei cosiddetti falansteri, esercitando prima di tutto, benché non esclusivamente, attività agricole. Vengono organizzati nelle cosiddette «falangi» in cui l’unità e la cooperazione vengono garantite dalla differenza degli individui. Tutti i falansteri includono un teatro e una chiesa, per soddisfare le necessità spirituali. Naturalmente, i commerci sono esclusi dal mondo armonioso. Fourier merita particolare attenzione anche perché non crede nel progresso universale. Si può parlare di un tipo di evoluzione dallo stato selvaggio alla barbarie e infine alla civiltà, ma non si tratta in nessun caso
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di uno sviluppo progressivo e neppure di uno sviluppo regressivo. Anche per questo egli non esalta l’accumulazione delle conoscenze scientifiche. Infine, l’utopia non presuppone una svolta antropologica. Le persone, semplicemente così come sono, possono vivere in armonia, non hanno bisogno di essere modificate in meglio, piuttosto si dovrebbero usare le diverse caratteristiche per fondare istituzioni appropriate. La sua concezione sembra somigliare a quella kantiana, di cui ho già parlato: abbiamo bisogno di un’istituzione nella cui cornice finanche un popolo di diavoli si comporterebbe in modo decente. Kant intendeva istituzioni repubblicane liberali basate su principi razionali, le istituzioni della libertà, mentre Fourier intendeva istituzioni basate sul libero sviluppo e sulla pratica delle passioni. Benché il progetto di Fourier, al contrario di quello di Cabet, non sia mai stato messo in pratica, alcune delle sue idee esercitarono una certa influenza. I movimenti anarchici, ad esempio, si basarono sulla concezione dello sviluppo incontrastato di tutte le passioni come fondamento della buona vita e della buona società, senza leggi né Stato. L’abbandono dell’idea illuminata di perfezione umana divenne autoevidente per tutti i modelli distopici del Ventesimo secolo. Ma non ci siamo ancora arrivati. Marx, il filosofo socialista più influente (e anche il più brillante) del Diciannovesimo secolo, ripose le sue aspettative (vale a dire più della speranza) sullo sviluppo della tecnologia, cioè dei mezzi di produzione. In particolare sulla presunta consapevolezza che la modalità capitalistica di produzione limiti e impedisca lo sviluppo della tecnologia. Trasse questa conclusione empirica ovviamente falsa da una scienza moderna: l’economia, la scienza moderna. In ogni caso, di fatto, tirò questa conclusione non già direttamente dall’economia, bensì dalla critica dell’economia politica, cioè da una concezione filosofica. La sua concezione filosofica era moderna, e si basava molto sulla grande narrazione di Hegel, anche se postmetafisica nella sua formulazione. Fra tutti gli utopisti del Diciannovesimo secolo, è rimasto l’unico ancora influente, proprio grazie al carattere postmetafisico e alla brillantezza della sua filosofia. Quel che è più notevole nell’aspetto utopico della filosofia di Marx è la combinazione di tutti i tentativi filosofici di creare un’utopia, una sorta di sintesi utopica.
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Tutte le utopie vecchie e nuove dicono «sì» dopo aver detto «no». Tutte iniziano con una severa critica dello stato delle cose nel mondo empirico, come la disuguaglianza, il dispotismo, la povertà, l’amoralità, l’ingiustizia e tutte le forme che assumono. I profeti biblici non fanno eccezione. E neppure Marx. Le utopie del desiderio descrivono o presentano un mondo in cui tutti i bisogni vengono soddisfatti, in cui la natura e gli uomini vivono in armonia, in cui non ci sono né leggi, né Stato, né guerra. Come ho già detto, lo fa anche Marx sia nei Manoscritti economico-filosofici del periodo parigino sia nella Critica del Programma di Gotha. Da Platone a Morus (e attraverso molti socialisti utopici) viene offerto un modello per mostrare come sia una società giusta e come le istituzioni possano funzionare senza denaro, senza scambio di beni, senza divisione del lavoro. Marx delinea una simile struttura molte volte, ma in modi totalmente differenti. Da principio accoglie una delle concezioni di Fourier: la fine della divisione del lavoro. Ad esempio, non ci saranno più pittori, solo persone che, fra le altre cose, dipingono anche. Nei Grundrisse immagina un mondo in cui ogni cosa sarà automatica e gli uomini resteranno al di fuori della produzione; nel secondo volume del Capitale suggerisce una combinazione fra Morus e la teoria del valore del lavoro. Tutti lavoreranno e riceveranno un pezzo di carta che farà fede delle ore che hanno passato lavorando. Poi porteranno questa carta in un grande magazzino dove riceveranno beni equivalenti alle ore trascorse lavorando. (Molto più complicato rispetto allo scambio di beni.) Marx non è interessato alla vita comunitaria né alla sua rappresentazione, perché la politica (sia la democrazia sia la tirannia) verrà abolita. Ma come si fa a prendere seriamente la possibilità di un futuro in cui, come nell’età dell’oro, non vi siano né comando né obbedienza, né persino requisiti o obblighi reciproci, dove le persone siano oneste solo perché lo si auspica, e buone senza alcuna censura per non parlare delle sanzioni? Mi sia consentito ripetere la frase di Kant: «Abbiamo bisogno di istituzioni nel cui sistema anche un popolo di diavoli si comporterebbe in modo decente». Lui, come abbiamo visto, concepiva istituzioni repubblicane, compresa l’istituzione della pace perpetua, nella cui cornice le persone, così come sono, fossero adeguate benché non buone. Ma come e perché gli uomini dovrebbero o potrebbero comportarsi in modo decente senza tali istituzioni?
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Già Kant fece il tentativo di un’utopia radicale, assoluta, l’utopia di una svolta antropologica, o di una rivoluzione antropologica. Presupponiamo un mondo in cui tutti gli Stati siano repubblicani. Anche senza più guerre, ci sono ancora Stati, ancora leggi, ancora disuguaglianza, rapporti di comando e di obbedienza, e sono necessari poiché i membri della razza umana non ascoltano la legge morale ma seguono i loro «cari sé». Tuttavia, possiamo pensare qualcosa di più, o per lo meno spingere le nostre speranze più lontano? Che cosa possiamo sperare? La trasformazione radicale della natura umana in due passaggi. Primo: la rivoluzione della mente, affinché ciascuno sia motivato dalla sola legge morale. Secondo: la riforma della natura, affinché la natura si adegui alla legge morale, finché alla fine le due (la libertà trascendentale e la natura trascendentale) si fonderanno. Grazie alla rivoluzione antropologica ciascuno sarà buono, e il mondo della chiesa invisibile si stabilirà sulla Terra. Nei Manoscritti economico-filosofici Marx ripropone lo stesso schema. La storia umana era (ed è ancora) una storia di alienazione, in cui l’essenza umana (da lui chiamata «essenza generica») è diventata sempre più ricca mentre la «natura umana» delle classi e degli individui è rimasta povera o si è ulteriormente impoverita in senso materiale ma anche in senso spirituale. Il comunismo non è la fine, non è lo scopo della storia, bensì il veicolo grazie a cui abolire, aufheben, l’alienazione. L’essenza umana e l’apparenza umana saranno unite e, quando lo saranno, non vi sarà bisogno di leggi, proibizioni, non vi saranno né egoismo né altruismo perché ciascuno sarà ugualmente buono. Parlo dell’utopia radicale, assoluta, in contrasto con le precedenti da Platone a Fourier. Paradossalmente, l’utopia assoluta è l’unica realistica. Poiché perfino la ben nota utopia di creare istituzioni nella cui cornice tutti gli umani, così come sono, si comportino decentemente, senza proprietà, senza uno Stato, senza tribunali, e soprattutto senza comunicare con il mondo «di fuori», è essa stessa contraddittoria. Chi creerà e manterrà queste istituzioni? Come può un mondo svilupparsi totalmente senza sfide, conflitti, competizioni? Solo l’idea radicale, assoluta di una rivoluzione antropologica non può essere tradita, Ma la si può sperare? L’utopia assoluta della svolta antropologica è sparita con tutte le altre?
Capitolo quarto
Il momento distopico e le ultime utopie
Il momento distopico Così come il momento utopico presuppone la fede nel progresso sociale e storico, nella possibilità della perfezione, il momento distopico rispecchia o esprime la perdita di tale fede. Differisce dalla delusione rispetto ai risultati della rivoluzione (la rivoluzione tradita) poiché i latori del momento distopico hanno già perso la fede nelle rivoluzioni, come hanno perso la fede nel progresso in generale. Il Julien Sorel di Stendhal non ha perso il suo entusiasmo per Napoleone, per una causa che era stata sconfitta. Al contrario l’eroe de L’educazione sentimentale di Flaubert, Frédéric Moreau, non ha perso alcuna illusione perché di illusioni, per lo meno rispetto allo scenario storico, non ne aveva mai avute. La sua vita è attraversata da una rivoluzione, ma per lui la rivoluzione sembra uno spettacolo comico. Prende piede il periodo della «decadenza». Quel che nel suo tempo veniva chiamato «decadenza» era, fra le altre cose, la comparsa del momento distopico. Il grande entusiasmo per il progresso, le rivoluzioni che riponevano la fede o la speranza in un futuro migliore che non potrà non arrivare, lentamente scompare. La fede nel progresso sarà presto svilita anche da alcuni rivoluzionari. Come era successo per Sorel, che parlava della «illusione del progresso» e riponeva le sue speranze in un cosiddetto sommovimento generale, dove in una catastrofe sociale, o
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in un Armageddon creato dall’uomo, la società capitalistica sarebbe andata all’inferno. L’idea di progresso diventò appannaggio della socialdemocrazia, un movimento basato, secondo Sorel e altri antagonisti, sulla falsa credenza dell’evoluzione, sulla continuazione della noiosa politica ordinaria, senza eroismi, niente in cui credere o per cui combattere. E se non c’è niente in cui sperare o per cui combattere, perfino la vita umana individuale diviene vuota, senza scopo, senza ragione, un fardello da trasportare invece che la benedizione di possibilità che si schiudono. Schopenhauer, un pensatore isolato al tempo di Hegel, divenne popolare a quel tempo allorché la sua opera e il suo nome furono trasportati dalle onde distopiche. Ci fu qualcosa di condiviso dai latori del momento utopico e da quelli del momento distopico: la «critica sociale» e la «critica culturale». Abbiamo visto che tutti gli utopisti, a partire da Platone — o persino dai profeti biblici — fino agli utopisti socialisti, erano i fustigatori delle rispettive società, Stati, costumi. Al tempo della prima comparsa del «momento distopico», la «critica culturale» si aggiunse alla lista. Mentre Marx non era ancora interessato al fatto che la grandezza della composizione musicale fosse andata perduta a causa del feticismo del mercato, gli utopisti del Ventesimo secolo si dolsero del crepuscolo della creazione e della ricezione artistica a causa dell’assoggettamento dell’arte al mercato. Non vi è più grandezza, la società capitalistica asserve la cultura al mercato, distrugge il gusto. La «fine dell’arte» così intesa diventò, sia per gli autori utopici sia per quelli distopici, il maggior sintomo di decadenza sociale. Anche se la «critica culturale» diventò un costume europeo diffuso e popolare in tempi recenti, era ancora nuovo nel Diciannovesimo e nella prima parte del Ventesimo secolo, sia nell’interpretazione utopica sia in quella distopica. Tuttavia, non è difficile distinguere le versioni utopiche da quelle distopiche di «critica culturale». Gli autori delle versioni utopiche vedevano ancora brillare un po’ di luce nel futuro, magari non il progresso ma comunque qualche prospettiva. Al contrario, gli autori distopici non vedevano nel futuro altro che tenebre senza speranza. Agli occhi della maggior parte della «critica culturale» distopica la cultura europea era già bell’e condannata, mentre il famoso libro di Horkheimer e Adorno sulla Dialettica dell’Illuminismo offriva una lettura non solo distopica ma anche utopica. La «critica culturale» di Adorno non ne avrebbe offerto alcuna.
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Il più grande genio filosofico del Diciannovesimo secolo, Nietzsche, offrì molte idee, pensieri, punti di riferimento sia al momento utopico sia a quello distopico e fu sfruttato da entrambi. Mentre i destinatari preferirono la descrizione dell’«ultimo uomo», o dell’«oltreuomo», a seconda che si riferissero alla «barbarie della bestia bionda» o alla fiducia di Nietzsche negli «spiriti liberi europei», che avrebbero potuto far risorgere le virtù nobili, tutti ne trassero comunque un nutrimento spirituale. Perfino le sue affermazioni più frequentemente citate a torto o a ragione sulla morte di Dio furono utilizzate da entrambe le fazioni. Nell’interpretazione dei credenti utopici l’affermazione significava che, dato che il nostro Signore in Cielo è morto, siamo diventati completamente liberi di controllare il nostro futuro. Nell’interpretazione dei distopici significava, al contrario, che abbiamo perso il significato della vita. Il progetto di riscrivere la scala dei valori significava per gli utopisti che vi sarebbero stati valori nuovi e migliori con cui vivere nel futuro, valori appropriati a uomini liberi, mentre i distopici interpretavano questa idea come la profezia di una fine ultima, per quanto ben meritata, del mondo giudaico-cristiano, della Legge, dei dieci comandamenti, la pietra angolare della nostra cultura europea. Nella loro prospettiva gli uomini erano stati più forti nel passato, poiché avevano seguito il loro migliore istinto, l’istinto della vita, mentre adesso erano diventati annosi codardi. Il presente è un deserto. Dall’altro lato, una nuova generazione di uomini sani, audaci, forti, nobili e liberi arriverà in futuro. Scegliete, se è necessario. La fruttuosa dualità di Nietzsche descriveva fedelmente la dualità dello spirito storico della seconda metà del Diciannovesimo secolo. Una dualità di pensieri e immagini che potrebbe essere intesa sia come un’indicazione utopica sia come un’indicazione distopica. La stessa dualità ha influenzato con forza anche l’ambiguità emotiva e intellettuale del tempo che è seguito. La coscienza storica dei tempi insieme al suo impulso emotivo ha fatto propendere per il momento distopico e interpretare, o piuttosto comprendere, la «morte di Dio» come la dipartita del Divino dalla nostra Terra, lasciandosi dietro solo noia e vuoto. Tutte le speranze per qualcosa di meglio erano tramontate, anche se le utopie scientifiche e tecnologiche erano prosperate prima di tutto nella fiction (oltre a Verne, Wells). Il progresso perse il suo splendore, la vita divenne «piccolo-borghese» e noiosa, l’amore romantico diventò vittoriano.
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Niente di quanto sia esistito nell’immaginazione umana viene mai interamente perduto in qualsivoglia periodo storico, solo scivola da una sfera in un’altra. Ciò vale anche per l’immaginazione utopica della fine del Diciannovesimo secolo e dell’inizio del Ventesimo. L’idea di creare qualcosa di «nuovo», l’illusione del progresso che aveva perduto la sua lucentezza nell’immaginazione sociale, trovò un approdo sicuro nell’immaginazione artistica. Un «nuovo» movimento fece seguito a un altro «nuovo» movimento, un «ismo» a un altro «ismo». Il mondo dell’arte divenne per un certo tempo la «realtà utopica». Chiunque si aspettasse che qualcosa di totalmente nuovo apparisse sull’orizzonte storico andava a una mostra e non a una riunione politica. E però solo pochi prescelti avevano accesso a questa doppia «sublimazione». L’altra rivoluzione del tempo, quella psicoanalitica, iniziata da Freud, non poteva soddisfare il desiderio utopico, al contrario. Se ci fu qualcuno che mise in ridicolo l’utopia assoluta della rivoluzione antropologica, quello fu Freud. Se qualcuno ci ha persuasi di non aspettarci un potere di redenzione dalle utopie politiche e sociali, quello fu Freud. Eppure noi, umani, facciamo fatica a vivere senza speranza. Solo pochi fra noi riescono a godere del masochistico piacere del «tutto è perduto», del piacere di un inevitabile crepuscolo. Il «momento distopico» fu a sua volta temporaneamente perduto molto poco tempo dopo la sua comparsa, nel luglio 1914, quando gli europei abbracciarono la nuova speranza che ben presto divenne nota come il peccato originale dell’Europa: la Prima guerra mondiale. A causa del vortice della guerra gli europei parvero riconquistare il momento utopico abbandonato nei decenni precedenti. Gli europei si sentivano nuovamente gli attori della storia, impegnati a creare qualcosa di nuovo. In questo caso, però, la nuova riguadagnata speranza non era rivolta al futuro dell’umanità ma solo, ed esclusivamente, alla vittoria del loro Stato-nazione e alla sconfitta di un altro. Il momento utopico di questa speranza si rivelò ben presto fasullo. Così come i rivoluzionari erano stati traditi, gli entusiasti della guerra furono mille volte traditi. Non solo gli sconfitti, ma anche i vincitori. Comunque, proprio nel momento in cui il momento distopico celebrò la sua prima vittoria, anche il momento utopico ricevette un impulso straordinario dalle promesse dei movimenti totalitari, specialmente dai primi movimenti comunisti e nazisti.
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Anche le teorie distopiche più rappresentative e influenti apparvero subito dopo la Prima guerra mondiale. Una fu l’opera di Spengler Il tramonto dell’occidente (Der Untergang des Abendlandes), l’altra fu La ribellione delle masse di Ortega y Gasset. La prima fu pubblicata subito dopo la guerra, la seconda si riferiva già alle prime esperienze con movimenti totalitari. Sia Il tramonto dell’occidente sia La ribellione delle masse mettevano in scena l’emergenza della società di massa. Mi sia consentito affermare fin d’ora che tutte le narrazioni distopiche presuppongono già una società di massa «realmente esistente». Specialmente il libro di Spengler ricevette grande attenzione. Il suo punto di partenza era molto vicino a quello di Hegel, ancorché formulato a un livello teoretico molto più basso. Toynbee operava con uno schema simile. Lo schema è il seguente: ogni cultura somiglia a una vita umana. Le culture nascono, vivono un periodo di giovinezza, giungono a un’età matura, il punto culminante della loro cultura, e poi cominciano a declinare. Ciò vale anche per il destino della cultura occidentale, perché dovrebbe essere diverso? Ormai l’occidente è in una fase di età avanzata, di declino. Spengler aggiunse a questa concezione che si deve distinguere la cultura dalla civiltà. La cultura è spirituale, etica, costruttrice di comunità, mentre la civiltà è tecnologica e atomizza le comunità in una somma di individui alla ricerca del sé. Vale a dire, la rapidità crescente dell’accumulazione di conoscenze scientifiche e l’applicazione di nuove tecnologie non è il fondamento del progresso, bensì l’indubbio segno del declino e della decomposizione della nostra civiltà. Il rovesciamento della valutazione del ruolo storico della tecnologia da un potere progressivo a un potere regressivo apparve come l’addio definitivo alle utopie tecnologiche. Di fatto, però, le cose sono andate diversamente, giacché le utopie tecnologiche sono le uniche utopie che ci rimangono. Sono favole per adulti bambini. Tuttavia è andata perduta l’associazione fra la tecnologia, da un lato, e il progressivo sviluppo sociale e culturale, dall’altro. I personaggi delle favole tecnologiche e le loro storie (come Star Wars) sono ben note fin dalle narrazioni di avventura del Diciannovesimo secolo. Quindi non c’è alcuna narrazione utopica sociale nell’Europa contemporanea che celebri i benefici dell’innovazione tecnologica. Tali innovazioni, reali o immaginate, arricchiscono invece le fantasie distopiche. Mentre nel pensiero utopico del Diciannovesimo secolo la tecnologia e la scienza erano non solo benedizioni ma anche le garanzie dell’avvento di una società
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giusta, nel momento distopico del Ventesimo secolo vennero identificate con veicoli di manipolazione, mezzi di distruzione della personalità, individualità, differenza. Due slogan, che ho già menzionato, hanno dominato l’immaginazione storica dell’Europa moderna dalla seconda metà del Diciannovesimo secolo fino ai giorni nostri. Uno era — ed è ancora — la «morte di Dio», la seconda era ed è «la fine di ...» (la fine della storia, della religione, dell’arte, della filosofia, dell’occidente, dell’umanità, della vita sulla Terra, ecc.). L’ambiguità di questi slogan ha caratterizzato il pensiero degli ultimi duecento anni. Cominciamo con la «morte di Dio». Benché sia diventato uno slogan dopo Nietzsche (l’urlo del folle ne La gaia scienza), affonda le radici in Hegel, come quasi tutto. Venne formulato da Heine, e dopo Heine dal folle di Nietzsche. Tutti i filosofi citati sono tedeschi, e non è una questione di poco conto. La filosofia e l’arte tedesca, da Winckelmann a Hannah Arendt, hanno un punto di riferimento in comune: l’antica Grecia. I tedeschi, popolo di pensatori e poeti (Denker und Dichter) erano ritenuti i greci moderni. Inoltre, la Grecia antica non era solo un punto di riferimento, ma spesso anche un modello. Schiller scrisse una poesia, Gli dei della Grecia. Gli dei della Grecia sono morti, egli scrisse, e sono rimasti con noi solo come opere d’arte. Possa quindi il nostro Dio cristiano morire a sua volta e rimanere nel mondo soltanto come un’immagine nelle opere d’arte. In sostanza, la concezione della «morte di Dio» era basata su un fraintendimento. Come sappiamo anche da Assman, gli antichi dei erano parti di antiche culture, ed è per questo che sono morti insieme a quelle culture. Al contrario, il Dio del monoteismo non fa parte della cultura ebraica, cristiana o musulmana. Il monoteismo (a rigore la sola religione) può convivere, e di fatto lo fa, con culture molto diverse, da Babilonia a Roma al feudalesimo alla modernità. La questione non è tanto la praticabilità della questione, quanto piuttosto la popolarità dello slogan. Prima di tutto, lo slogan potrebbe giustificare sia il pensiero utopico sia quello distopico. L’interpretazione utopica suona più o meno così. Fino al nostro tempo gli uomini credevano in un Signore a cui erano obbligati a obbedire, che li puniva o li ricompensava secondo Suoi propri criteri. Quando Dio muore,
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noi diventiamo liberi. Saremo gli unici padroni delle nostre vite, e del mondo che possiamo trasformare secondo la nostra volontà. Dall’Illuminismo fino all’idea della deificazione dell’uomo, tutte le filosofie e le ambizioni (da Feuerbach fino all’eroe di Ibsen Gabriel Borkman) potrebbero così essere giustificate. Ho menzionato l’eroe di Ibsen Gabriel Borkman solo per sottolineare l’ambiguità dello slogan, giacché l’idea della dominazione di Borkman è anche un’idea di pazzia. Borkman è solo un esempio contingente dell’uso distopico dello slogan «Dio è morto». Uno dei personaggi di Dostoevskij, ad esempio, esprime la convinzione dello scrittore secondo cui se Dio non esiste ogni cosa è permessa, e gli umani non saranno capaci di distinguere il bene dal male. La «morte di Dio» suonava per lui come l’auspicio della morte dell’etica, della moralità o perfino della morte stessa. Il momento distopico. La seconda ragione della popolarità dello slogan era l’esperienza che oggi viene chiamata «secolarizzazione». In questa interpretazione l’affermazione relativa alla «morte di Dio» non significa che nessuno creda più in Dio o che nessuno vada in Chiesa. Significa che la vita civile e la vita politica non hanno più bisogno di Dio: gli affari, la politica, la vita intima, la scienza, perfino l’educazione possono prosperare senza fare alcun riferimento a Dio. Dio «muore» quando la religione diventa solo una questione privata, la questione della fede e della coscienza private. Vale la pena parlare di «secolarizzazione», qualunque cosa significhi oggi, per introdurre l’altro gruppo di slogan della scena europea, presente da più di duecento anni, che inizia con «la fine di ...». Un altro slogan ambiguo che è stato messo a frutto sia dall’immaginazione utopica sia da quella distopica. Anche la storia moderna della «fine di» comincia con Hegel. Egli parla simultaneamente della «fine della Storia», della «fine dell’arte», della «fine della religione» e della «fine della filosofia». Nessuna di queste «fini» ha una lettura utopica. Poiché può esserci arrivo senza partenza. Arrivo nel presente, senza però una partenza verso un futuro radicalmente diverso e migliore. Questo è quel che la «fine della storia» significava per Hegel. Il mondo attuale (moderno) è la consumazione di tutti i valori forgiati nel passato. Vi sono perdite, ma i guadagni sono superiori. C’è stato un progresso, ma non c’è più niente in cui progredire.
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All’inizio della storia scritta un uomo era libero, poi alcuni uomini erano liberi, nel mondo moderno tutti gli uomini sono liberi. La libertà è l’unica misura del progresso. Non possiamo andare oltre, quindi «tutti gli uomini sono liberi» solo a ritroso. Marx critica Hegel solo su un punto: non è vero che adesso tutti gli uomini siano liberi. Ma alla fine della modernità, in un mondo comunista, tutti gli uomini saranno de facto liberi. Viviamo ancora nella storia, ma il comunismo non è più come la storia, è la fine della preistoria, una «storia reale», vale a dire la fine di tutti i valori della preistoria. Naturalmente, anche la «fine della storia» di Hegel non poteva che essere interpretata come un’idea distopica, poiché dichiarava la fine di tutte le utopie... Vivendo all’inizio del Ventunesimo secolo, e avendo visto la fine del Ventesimo, abbiamo familiarità con lo slogan «fine della storia», che è stato usato e abusato molte volte. Fece la sua comparsa nelle vesti della rigenerazione del momento utopico dopo il crollo del regime sovietico. La nostra epoca, così dichiara la rinata speranza, vedrà la vittoria della democrazia nel mondo intero: la fine della storia è dietro l’angolo, è vicina. Ma questa illusione venne presto perduta, la speranza fu spazzata via. Venne poi la moda della cosiddetta «post-storia», uno slogan che aveva ancora meno senso del momento utopico abortito della «fine della storia». L’uso più fruttuoso della «fine di» è palesemente narrativo. Il dramma di Beckett Finale di partita, questa narrazione «assurda», non è né il primo né l’ultimo ma è artisticamente il più sofisticato. Come ho detto, la «fine della storia» di Hegel, il culmine dello sviluppo storico progressivo, include anche perdite. La fine della filosofia, la fine dell’arte, la fine della religione — sono tutte anche presupposte come perdite. Per rispondere al quesito relativo a quanto siano perdite e se siano state davvero perdite ci vorrebbero troppo tempo e troppo spazio e dunque, per restare sull’argomento: dato che queste «fini» indicano anche alcune perdite, per certo non sono affermazioni utopiche, ma non sono neppure distopiche. Tuttavia esse possono essere, e sono state, mobilitate soprattutto da opere che incarnavano i momenti distopici, ogni qual volta la stessa «immaginazione storica» diventava distopica. Ad esempio: la commercializzazione, le opere d’arte comprate e vendute (Adorno et al.), nessuna «Grande Arte» (Nietzsche et al.), nessun altro rispecchiamento nella realtà (Lukács et al.).
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L’arte contemporanea viene disprezzata come «inferiore» dagli esteti da quando il momento distopico è diventato predominante. Nella sua ultima conferenza sulla filosofia della religione Hegel esprime qualche ripensamento su quanto aveva detto della «fine della religione». Fra le sfere dello «spirito assoluto», ovvero il regno delle spiegazioni significative del mondo (arte, religione e filosofia), la più alta, cioè la filosofia, rimpiazzerà le altre due. Ma, dice Hegel, c’è un problema: la filosofia non ha bisogno di una congregazione spirituale. Rimane l’alimento spirituale per pochi. La «verità eterna» scomparirà, lamenta, quale contraddizione! A questo punto, resta verosimilmente un’interpretazione distopica. La famosa conferenza di Heidegger La fine della filosofia e il compito del pensiero è una delle ultime letture distopiche, e per certo la più influente, della predizione di Hegel riguardo alla filosofia. Nella vita moderna è proprio lo «spirito assoluto» che scompare, insieme al punto più alto nello sviluppo dello spirito assoluto, la filosofia. Non resta più alcuna spiegazione significativa del mondo. Le ultime utopie Le ultime utopie sono state formulate come rimedi contro il momento distopico. Come coalizioni di sangue contro le speranze perdute, contro l’ennui, contro la prigione della cosiddetta «torre d’avorio», contro il senso di disperazione e inevitabilità. Alcuni di questi rimedi si rivelarono avvelenati. Furono i momenti utopici nelle ideologie totalitarie. Di fatto le ideologie totalitarie, e le loro pratiche politiche, spazzarono via tutte le utopie preesistenti. Poiché squalificarono entrambi i presupposti comuni a quasi tutti i costrutti utopici. Innanzitutto e soprattutto: l’abolizione della proprietà privata, la preferenza per il cosiddetto «interesse pubblico» contro quello privato, una «felicità» pubblica contro quella privata. In secondo luogo: la regolazione della messa al mondo dei figli, il controllo sociale dell’ereditarietà genetica, il controllo della procreazione. Ne risultò che invece di promuovere la libertà personale e l’uguaglianza, l’abolizione della proprietà privata diede vita alla tirannia e alla disuguaglianza politica. Come conseguenza, il comunismo sovietico scardinò l’utopia dell’abolizione della proprietà privata, mentre il comunismo cinese
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o i Khmer Rossi finirono sul serio il «lavoro». La vita comunitaria fu ben presto percepita, dopo le esperienze degli Stati totalitari, come conformismo definitivo, lavaggio del cervello, scontro con i residui del libero pensiero. Dopo l’esperienza del nazismo l’idea e la pratica dell’ingegneria biologica furono riprese dalle narrazioni distopiche come terrore e razzismo. Retrospettivamente finanche la biopolitica delle utopie di Platone e Campanella appare distopica. Popper, nella sua famosa opera La società aperta e i suoi nemici screditava Platone, Hegel e Marx come antesignani del totalitarismo. Egli scambiò il concetto filosofico di totalità e di fede assoluta per il concetto e la pratica politici della totalità. È vero che entrambi i concetti hanno a che fare con il concetto rivelatore della verità, ma in filosofia la verità rivelatrice è trascendentale, mentre nella politica totalitaria funziona come un’ideologia, come una verità «provata» empiricamente o perfino scientificamente. Mentre le nuove utopie cominciarono ad affacciarsi per lo meno alle soglie della Prima guerra mondiale, le loro diverse varianti rimanevano prossime, anche se in seguito le differenziazioni si accentuarono. Lukács, ad esempio, ebbe in gioventù una prolifica corrispondenza con Gentile, mentre disprezzava tutti i cosiddetti teorici borghesi liberali come Croce. Le idee degli utopisti del primo comunismo erano piuttosto vuote di contenuto, e tuttavia molto ispirate da un immaginario religioso. La rivoluzione proletaria venne considerata come un dies irae, come «il giorno dell’ira». I latori intellettuali di queste idee non erano motivati dall’immagine di un futuro dell’umanità pacifico e bello, bensì dall’immagine della rivoluzione totale che separa il presente della «assoluta immoralità» dal mondo futuro redento. Nella sua opera molto influente, che è peraltro l’unica opera originale di filosofia marxiana dopo Marx, Storia e coscienza di classe, Lukács fissa il momento della rivoluzione-redenzione assoluta nella coscienza ascritta al proletariato e nel suo definitivo riconoscimento. D’altro canto, Lukács e molti altri ripongono le loro speranze, con Sorel, nella forza liberatrice della violenza. Si supponeva che la violenza, la violenza liberatrice, fosse il redentore. Di fatto, l’infatuazione per la violenza come il potere in grado di salvare una nazione, un’etnia o l’umanità rimase, forse fino alla metà del Ventesimo secolo, l’unico punto d’incontro di tutte le diverse utopie redentrici del grande salto. L’idea di violenza redentrice può essere ispirata religiosamente come violenza messianica, come in
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Benjamin, o ispirata politicamente, come nel caso dell’entusiasmo per la violenza di Sartre. Nel comunismo dei primi del Ventesimo secolo, il vecchio slogan socialdemocratico tornò per l’ultima volta, con un messaggio totalmente diverso. Il punto conclusivo non è niente, è il movimento che è tutto. La rivoluzione, la catastrofe finale, è tutto, è sia il mezzo sia il fine e non dobbiamo pensare a quel che succederà in seguito. I primi appassionati comunisti non si vedevano come utopisti. L’affermazione marxiana secondo cui il comunismo moderno è basato su una scienza rigorosa era accettata senza bisogno di formulare domande. Il grande momento della Rivoluzione, questo Armageddon creato dall’uomo, che farà nascere il nuovo Regno, plasmava la loro immaginazione più di qualunque indagine scientifica. È per questo che la dominanza del paradigma di redenzione dell’ultima ondata di utopismo venne descritta come un’Apocalisse secolarizzata. Non c’è dubbio che il linguaggio biblico, le metafore e il simbolismo biblici riempirono tali immagini di energia. Tuttavia, l’espressione «secolarizzazione» non è appropriata. Poiché la Bibbia è stata ed è una delle due narrazioni principali della cultura, ha fornito linguaggi e simboli a tutte le diverse visioni e progetti, e continua a farlo. Tendere le braccia all’umanità da una parte, uccidendo i nemici per il bene della verità dall’altra, è quanto può essere definito «secolarizzazione». (Non tutti i primi comunisti aderirono al programma della redenzione o, se lo fecero, vi aderirono solo condizionalmente, come Gramsci. Essi non appartengono alla storia dell’utopia e della distopia.) Il maggiore ideologo del nazismo, Rosenberg, parlò dei «Miti del Ventesimo secolo», ma il nazismo non fu la «secolarizzazione» di un mito. L’ideologia non è religione né mito. Ha una lunga storia che si protrae fino a ieri e consiste nel tentativo di applicare il concetto di redenzione della verità alla politica empirica mentre non si applica al mondo moderno. Tra i filosofi e gli ideologi dell’inizio del Ventesimo secolo ve n’era uno che propendeva apertamente per l’utopia e un altro che colse l’essenza del momento utopico. Il primo era il filosofo Ernst Bloch, il secondo il sociologo Karl Mannheim. Nel suo libro Spirito dell’utopia (Geist der Utopie), pubblicato nel 1918, Bloch esprime chiaramente le motivazioni e le caratteristiche messianiche di alcuni fra i primi comunisti. Ma resta unico fra loro, poiché lo fa aper-
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tamente. L’ultima sezione del suo libro è titolata «Karl Marx, la morte e l’Apocalisse» e, come il titolo suggerisce, ha a che fare più con la Bibbia e lo Zohar che con l’autore del Capitale. Nel suo libro Ideologia e utopia, scritto già negli anni Venti, Mannheim passa dalla profezia all’analisi sociale, dalla fede alla comprensione, per discutere visioni e forme della coscienza come manifestazioni di una posizione «storica». Non ci sono scenari apocalittici, l’oggetto della sua ricerca non è il futuro ma il presente. La vittoria del pensiero distopico e le narrazioni distopiche Il pensiero distopico non è solo come un «momento distopico». I momenti distopici, come abbiamo visto, possono avere anche un’interpretazione distopica. Il pensiero distopico, in ogni modo, sbarra la porta all’immaginazione utopica. Penetra nel territorio della distopia come una narrazione distopica, e però non è identico alle narrazioni distopiche. Il pensiero distopico può manifestarsi in scritti sociologici sulla politica contemporanea, sulla situazione generale del mondo, attraverso libri sulla storia, sulla storia sociale, sullo stato delle arti e delle scienze, sulle università, sui servizi sanitari, sull’educazione in generale, sulle cosiddette «scienze empiriche». Soprattutto, afferma di rifiutare le speculazioni. La pretesa di aderire rigidamente ai dati attuali empiricamente accessibili e confermabili è fasulla. Ogni presente diventa passato in ogni secondo. Seppure il futuro del presente appare in queste opere, come normalmente avviene, lo fa come estrapolazione o speculazione. Le estrapolazioni normalmente si rivelano false (non per colpa di chi le compie, ma perché gli espedienti della storia sono sempre in agguato), mentre le speculazioni sono fondamentalmente sempre distopiche. Come la distruzione del nostro habitat a causa del riscaldamento globale, l’inquinamento generale, il ricorso che facciamo sempre di più all’energia nucleare (con la minaccia di una guerra nucleare), le migrazioni globali, le interminabili guerre. Ci viene detto quanto siamo folli nel continuare a comprare e riempirci di cose che non ci servono, nel lasciar morire di fame intere popolazioni della Terra, nel vivere in un mondo di crescente disuguaglianza. Un mondo in cui in certe parti non si riesce a sfamare i figli mentre in altre parti non
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si fanno più figli, in cui la globalizzazione distrugge il carattere unico di ciascuna cultura, in cui l’omologazione distrugge le personalità, in cui l’applicazione sostituisce l’innovazione mentre la conoscenza (l’informazione) rimpiazza il pensiero, e tutto ciò va di male in peggio, ecc. Come la cupa estrapolazione di tutti i nostri mali, anche il pensiero distopico mobilita l’immaginazione. Ma, per ritornare alla similitudine del primo capitolo, l’immaginazione in questo caso non è il direttore d’orchestra, mentre lo è nelle narrazioni distopiche... Nessun mondo è uniforme, per certo vi sono anche opere scientifiche empiriche che estrapolano lo stato attuale delle cose con lo sguardo rivolto a un futuro di progresso e la propaganda di governo naturalmente ne delinea un’immagine rosea, ma tutto ciò in quanto espressione della coscienza storica non può essere preso sul serio. Le narrazioni distopiche non possono essere prese «seriamente», per quanto siano terribilmente serie, anche per un’altra ragione. Nulla è più serio delle satire o delle caricature estrapolate dal futuro, ma rimangono ugualmente satire e caricature. Adesso formulerò una domanda: che tipo di mondo è il nostro se la sua immagine più seria è quella delineata da satire e caricature distopiche? Non sono in grado di rispondere, posso solo cercare di guardare in quegli specchi e chiedervi di accompagnarmi nelle mie escursioni letterarie. Per la mia escursione letteraria, fra le diverse narrazioni distopiche sceglierò le seguenti: – Huxley: Il mondo nuovo (1931); – Orwell: 1984 (1949); – Bradbury: Fahrenheit 451 (1953); – Atwood: Il racconto dell’ancella (1985); – Harris: Fatherland (1992); – Ishiguro: Non lasciarmi (2005); – McCarthy: La strada (2006); – Houellebecq: Sottomissione (2014). Sono state scritte centinaia di romanzi distopici dal Ventesimo secolo. Il loro numero è cresciuto esponenzialmente dagli anni Cinquanta e continua ad aumentare nel Ventesimo secolo. Sono stati trasposti in film e serie televisive. Ho dovuto sceglierne solo una manciata.
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La scelta però non è stata accidentale, benché abbia dovuto tralasciare qualche narrazione importante. Ho cercato di includere nella disamina opere che avessero una certa qualità letteraria, trascurando libri scritti per adolescenti o per adulti bambini. Tuttavia, la qualità estetica delle opere trascelte è diseguale poiché ho dovuto considerare anche l’impatto e l’influenza di libri provvisti di una qualità estetica inferiore. Fra essi ci sono libri molto buoni e altri solo rappresentativi. Ci sono parodie, satire, al pari di «normali» storie d’amore di persone normali in circostanze assurde. Un altro criterio di selezione è stato che tutti i tipi essenziali di romanzi distopici dovessero essere rappresentati con almeno un esempio. Di quale futuro parlano? La fine dell’Europa? La distruzione della cultura occidentale in generale? La catastrofe dell’intera razza umana? Inoltre desideravo esemplificare le cause principali, le indicazioni, le ideologie caratteristiche del mondo di un romanzo distopico. Sono sociali? Tecnologiche? Biologiche? Ho anche cercato di includere tutti gli obiettivi più importanti delle narrazioni distopiche: il totalitarismo, sia nazista sia bolscevico, la manipolazione tecnologica, la biopolitica, la cancellazione della nostra cultura, la distruzione del mondo (il giorno del giudizio) e quel che esse hanno tutte in comune: la flessibilità della «natura umana» e l’importanza di ricordare e dimenticare. Avevo anche l’intenzione di esemplificare i dilemmi di tutte le utopie dell’immaginazione distopica. Qual è il fine desiderato? La felicità? La libertà? L’armonia? La soddisfazione di tutti i desideri o i limiti a tale soddisfazione? Inoltre, che cos’è la felicità? Che cos’è la libertà? Che cos’è l’armonia? Che cos’è la giustizia? Che cos’è la spiritualità? Che cos’è l’individualità? Si ha bisogno di desiderare? Cercando di esemplificare tutte queste questioni fondamentali sulla base di poche opere trascelte, dovevo anche vagliare opere scritte in tempi diversi a partire dalla metà del Ventesimo secolo fino a oggi per poter mostrare i cambiamenti dell’immaginazione storica. Gli ultimi tre romanzi scritti dopo il 2005 differiscono dai primi per il fatto che non presentano un’organizzazione della vita sociale alternativa (peggiore), e sono ancor meno parodie delle utopie tradizionali. Alla mia ultima osservazione aggiungo un punto interrogativo. Quasi tutti i romanzi distopici sono stati scritti in inglese. La maggior parte degli autori sono britannici, canadesi o statunitensi. Perché?
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Nessun romanzo distopico parte dal presupposto che tutti gli umani siano nati dotati di empatia o che siano nati con istinti aggressivi. Nessuna distopia ci fa credere in una «rivoluzione antropologica», nella possibilità di un futuro decente e in un’umanità morale senza bisogno di leggi o di regole. Ciascuna di esse esemplifica la malleabilità della razza umana, pronta a (e capace di) vivere in quasi qualunque circostanza, di accettare qualunque modo di vivere come l’unico possibile, giusto, appropriato, di credere in qualunque cosa in cui credano gli altri. Questa, di per se stessa, non è una scoperta ma un riferimento ai fatti storici. Di fatto, l’homo sapiens viveva fra la più grande varietà di organizzazioni sociali. Nessun neonato è programmato per questa o quella particolare organizzazione sociale, ma per la vita sociale in generale, vale a dire che può adattarsi a tutto. Le opere utopiche suggeriscono che noi, persone moderne, abbiamo accarezzato l’illusione che la condizione umana possa essere differente, che occupiamo un posto privilegiato nella storia. L’illusione che le donne e gli uomini moderni siano diventati individui indipendenti, che si siano abituati a pensare con la loro testa, a scegliere, a capire da soli che cosa sia giusto o sbagliato. Quella storia continua e tale progresso non può essere rovesciato. Quel che abbiamo conquistato non possiamo perderlo. In realtà, i romanzi distopici mostrano, anzi «provano», quanto possiamo perdere. Le istituzioni totalitarie, sia quella bolscevica sia quella nazista, lo hanno già provato. L’individualità e la differenza spariscono in fretta allorché le persone siano condizionate a non essere individui, allorché il pensare con la propria testa non venga solo punito, ma anche considerato malvagio. In circostanze del genere o analoghe le persone faranno sempre quel che fanno le altre, e crederanno in ciò che credono gli altri. C’è una sola condizione per un lavaggio del cervello riuscito: nessuno deve vedere, o conoscere, alcuna alternativa allo stato di cose esistente. L’età del momento distopico, e specialmente delle narrazioni distopiche, è stata anche l’età della popolarità di Freud. In ciascuno di questi romanzi c’è sempre almeno una singola persona che non quadra, che non può essere assimilata con un buon esito. Il disagio della civiltà, dice Freud, è il risultato di una composizione mai interamente compiuta. Qualcosa rimane fuori luogo, qualche senso di disagio permane.
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Nelle narrazioni distopiche questo senso di «disagio» è legato all’esperienza o alla conoscenza della «differenza», di essere in qualche modo uno straniero nel proprio mondo. La tensione fra il condizionamento riuscito, da un lato, e il senso di «disagio» che si sviluppa lentamente in un qualche tipo di resistenza, dall’altro, è già descritta nel romanzo di Huxley Il mondo nuovo. John, il selvaggio, figlio non voluto di persone del «mondo nuovo», viene portato in una riserva del Nuovo Messico e si abitua al modo di vivere di questi «selvaggi». Huxley è onesto. Non c’è alcun paradiso perduto. Il «mondo vecchio» è abbastanza brutto, brutale, cattivo e sporco. È solo differente, meno meccanico, più organico, meno ipocrita. Due turisti provenienti dal «mondo nuovo» visitano la riserva, lo identificano come loro compatriota (Signor Livingston, se non erro) e lo riportano a casa. Tuttavia, poiché John conosceva un diverso modo di vita, rimarrà uno straniero nel «mondo nuovo» così come lo era fra i «selvaggi». Un outsider. Per lui questo «eccellente mondo nuovo» diventa sempre meno «eccellente». Cerca così di vivere al di fuori di qualunque società ma, poiché ciò si rivela impossibile, finisce per impiccarsi. C’erano anche altri che provavano «disagio» nello stesso mondo nuovo (fra loro un giovane di nome Bernard Marx) ma alla fine saranno felici poiché il «mondo nuovo» sa come gestire il disagio. Dispone infatti di un’isola dove tutte le persone «strane» vengono mandate (deportate) a vivere fra di loro per non inquinare l’ambiente con le loro idee. Lo stesso modello caratterizza tutte le narrazioni distopiche. Nel romanzo di Margaret Atwood Il racconto dell’ancella la protagonista ricorda di avere avuto un marito in passato. Benché tale ricordo sia tutt’altro che piacevole, è il segno dell’esistenza di un altro mondo. Alla fine viene tratta in salvo dai «ribelli» che la portano via dalla «Repubblica di Galaad», ma non ci è dato conoscere come si concluda la sua fuga. Montag, il pompiere di Fahrenheit 451, è un funzionario, un vero credente, un uomo di potere che comincia a provare disagio dopo l’incontro accidentale con una giovane donna. Nei romanzi sopra menzionati il sentimento del «disagio» si sviluppa lentamente attraverso ciascuna storia. Invece in 1984 incontriamo Winston, un uomo che è già in parziale dissonanza con il mondo totalitario in cui vive e che cerca di trovare qualche diversità, reminiscenze, ricordi di un’altra vita.
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Verrà sconfitto con mezzi brutali, con una tortura sul corpo e sullo spirito di cui non dispongono i padroni delle altre distopie. Da che cosa può dipendere l’insoddisfazione o il disagio? Dove possono attingere gli uomini e le donne alieni o alienati dal «mondo nuovo» la fioca immagine di un altro mondo? Un mondo alternativo? E, forse, un mondo migliore? Dalla storia e dalla poesia. I padroni del «mondo nuovo» lo sanno bene. Nessuno, nel loro regno, deve poter avere accesso alla storia e alla poesia. Tutti i libri dovrebbero essere bruciati, non ne deve restare neanche uno solo: è questa la ragione per cui i pompieri occupano una posizione così elevata nel romanzo di Bradbury. Il Grande Fratello (1984) è più radicale. Nel suo mondo non è sufficiente proibire i libri di letteratura e dimenticare la storia, si devono anche scrivere nuovi libri che cambiano la storia. Nel regno del Grande Fratello, ogni anno vengono inventati una nuova storia, nuove cospirazioni, nuovi nemici e, naturalmente, nuove vittorie. Tutti i romanzi devono essere riscritti ad uso della propaganda di apparato. Fino a che la storia rimane sconosciuta o sostituita da un’altra inventata di sana pianta, vi sarà un unico modo di vita buono e vero. La possibilità di sottrarsi alle bugie del «mondo nuovo» riposa nella possibilità di scoprire la verità della storia, di riconoscere le falsificazioni per quello che sono: bugie. La storia della scoperta della verità su crimini commessi nella storia può diventare la trama di un thriller poiché è incentrata, come tutti i thriller, sulla scoperta di un delitto. L’eroe di Fatherland è un investigatore che lavora a Berlino un quarto di secolo dopo che la Germania nazista ha vinto la Seconda guerra mondiale. L’intera Europa è governata da Hitler, ora settantacinquenne, l’America è un suo alleato e il presidente si chiama Joseph Kennedy (il padre di John e Robert Kennedy simpatizzarono per la Germania nazista per qualche tempo), solo il Canada resta neutrale. Berlino è stata costruita sui progetti del famoso architetto di Hitler. C’è ancora una guerra in Siberia, e mandarvi qualcuno equivale a condannarlo a morte. Per il resto la vita procede normalmente. Un giorno un investigatore di nome March, che ha accettato il mondo in cui è stato cresciuto come autoevidente e appropriato, si trova a indagare su un caso di omicidio in cui possono essere stati implicati alti ufficiali nazisti. A mano a mano che l’indagine va avanti, lottando contro tutti gli ostacoli che si trova di fronte, come fanno tutti gli investigatori in tutti i
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thriller, scopre che un tempo lì c’erano persone chiamate ebrei. Nessuno sa niente di loro, il passato è stato eliminato. March comincia allora a cercare di scoprire che cosa sia accaduto loro. Vuole trovare il «delitto originario». Arriva così ad Auschwitz. Nell’ultima scena lo vediamo con una pistola in mano, ma non sappiamo né come né contro chi la userà. La storia, i crimini storici, non possono restare nascosti, dimenticati, non per sempre. (Il libro del rinomato autore nordamericano Philip Roth Il complotto contro l’America, del 2004, è la versione americana del romanzo di Harris.) La fonte preferita della conoscenza liberatoria della «diversità» è, in molte opere letterarie distopiche, Shakespeare. (In un romanzo distopico tedesco avrebbe potuto essere Goethe.) John, «il selvaggio» (Il mondo nuovo), entra in possesso di un vecchio volume di Shakespeare nella riserva del Nuovo Messico e lo serba. Ed è dalla poesia di Shakespeare che riesce a vedere la miseria della sua vita «selvaggia» e a salutare gli ospiti del «mondo nuovo» con le parole di Miranda («eccellente mondo nuovo»). Anche Montag (Fahrenheit 451) trova due testi del mondo perduto: uno di Shakespeare, l’altro della Bibbia. Questi testi lo liberano dalla sua beata ignoranza. Kierkegaard disse (benché gli autori di queste narrazioni con ogni probabilità non lo conoscessero): l’ignoranza è ignoranza. E nondimeno l’ignoranza è innocenza? In una conoscenza del mondo totalitario, perfino l’intelligenza è sospetta, e può essere un crimine. Solo l’ignorante può credere di essere innocente, anche se non lo è. Chi rimane un abitante ignorante dell’eccellente mondo nuovo non crescerà mai... Tuttavia, neppure sull’ignoranza, neppure sulla stupidità si può fare pieno affidamento in un mondo manipolato o totalitario. In tutte le narrazioni distopiche dal libro di Huxley (1931-1932) in poi, i mezzi di indottrinamento (radio, televisione, incontri) sono attivi notte e giorno. Gli apparati ripetono costantemente gli stessi testi, trasmettono per televisione le stesse immagini, dicono a ciascuno quel che è giusto, quel che è bello, quel che è vero. Dopo essere state ripetute mille e una volta, queste verità diventano autoevidenti e in quanto tali anche noiose. La potente droga (soma) allevia i dolori fisici e psichici. La «neolingua» salva dalle complicazioni del pensiero. Il condizionamento, o lavaggio del cervello, non è un gioco fatto una volta sola, continua per tutto il corso della vita. Si è continuamente condizionati anche dal coniuge e dai membri della propria comunità.
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Il peggior nemico di un condizionamento riuscito, oltre alla storia e alla poesia, è la solitudine. Chiunque preferisca tirarsi in disparte, stare da solo anche per un po’, è sospetto. Perché si sottrae all’osservazione? Comunità, comunità, comunità. Altri ti dicono cosa fare, cosa pensare, come comportarti. Non puoi perseguire la tua felicità, perché altri lo fanno per te. Giusto per ripeterlo: la solitudine è criminale, la «insiemità» è splendida. Questa è una delle ragioni per cui le immagini utopiche tradizionali hanno impressionato gli uomini moderni come narrazioni distopiche. Da Platone fino a Fourier, tutte le società utopiche erano strettamente collettivistiche. Lo Stato di Platone è giusto perché ciascuno compie il lavoro che gli è assegnato. In Fourier l’«armonia» viene raggiunta perché a ciascuno viene assegnato il tipo di attività che meglio si concilia con le sue passioni. L’individualità, il procedimento per prova ed errore individuale, è abolito. Soltanto le utopie assolute non vengono ridicolizzate in questi romanzi distopici. Le utopie dell’età dell’oro o della rivoluzione antropologica non hanno avuto parodie distopiche. Sono state trattate come sogni assurdi. In ogni narrazione distopica, a un certo punto, viene sollevata la questione della genesi, di come queste nuove società siano state fondate, e vi viene data risposta. Le risposte sono differenti, ma un punto di riferimento è comune: sono state fondate dopo una guerra devastante, e prevalentemente dopo una «guerra atomica». Dalle informazioni o dalle dicerie che circolano fra gli abitanti dei mondi distopici, le istituzioni del mondo nuovo sono state ideate, stabilite e rese operanti dopo la Terza guerra mondiale. Nella maggior parte delle narrazioni distopiche una guerra, reale o simulata, è ancora in atto. Nel romanzo Fahrenheit 451 (del 1953!) la guerra si verifica due volte. Alla fine del libro, Montag, che si nasconde nella foresta con altri intelligenti Robin Hood, tutti un tempo professori di letteratura e custodi delle narrazioni del mondo imparate a memoria, si ritrova alle prese con una nuova «guerra atomica». Questa «guerra atomica» dura solo un minuto, ma fa saltare in aria l’intera città e la distrugge. Questa «fine» potrebbe fungere anche da introduzione alla nuova ondata di film e romanzi sulla sopravvivenza di una o più persone durante il nuovo Armageddon. Il day after. Il nome Montag significa Lunedì, e indica un nuovo inizio.
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La tecnologia moderna riveste un ruolo significativo in tutti i romanzi distopici, a eccezione dello scenario post-apocalittico in cui, oltre a essere la causa della distruzione, la tecnologia è stata anch’essa distrutta, e non può più esercitare alcuna funzione. Le tecnologie sono generalmente i protagonisti delle distopie, soprattutto le tecnologie dell’osservazione, del condizionamento, della comunicazione, dell’intrattenimento e della riproduzione. In tutte sono naturalmente comuni le tecnologie per il lavaggio del cervello. Tutti i dispositivi tecnologici e il loro funzionamento mostrati in queste narrazioni sono estrapolazioni. Estrapolazioni delle possibilità tecnologiche già esistenti e anche di vecchie favole. Nell’eccellente mondo nuovo, ad esempio, le persone fanno la spola in elicotteri come taxi, ma sappiamo che gli elicotteri per uso personale sono solo estrapolazioni letterarie. Al tempo stesso i taxi elicottero ci richiamano alla mente la vecchia storia del tappeto volante. Proprio in un taxi elicottero personale Bernard Marx vola da Londra al Nuovo Messico in circa sei ore. Allo stesso modo poteva sembrare una fantasia «distopica» che qualcuno vivesse al trentaduesimo piano di un edificio, ma il lettore contemporaneo non troverebbe più questo dato divertente o assurdo... Dobbiamo notare una cosa: anche se l’immaginazione tecnologica riveste un ruolo in tutte le visioni distopiche, le visioni distopiche non si occupano affatto di tecnologia, bensì dell’uso che si fa della tecnologia. I romanzi che pongono una fantasia tecnologica al centro della storia, in cui le macchine controllano gli esseri umani, come il romanzo di Vonnegut Piano meccanico, non sono romanzi distopici. La distopia non parla di tecnologia bensì, come l’utopia, della condizione umana. I «cani meccanici» (in Fahrenheit 451) hanno lo scopo di essere usati da persecutori umani. Gli umani controllano altri umani, gli umani opprimono e sottopongono al lavaggio del cervello altri umani, anche se lo fanno servendosi di macchine. Non c’è una differenza essenziale fra la funzione di un fucile e quella di un segugio meccanico. C’è un romanzo distopico in cui proprio la procedura tecnologica che riveste un ruolo centrale nel romanzo era ben nota e praticata al tempo della pubblicazione del libro. Questa tecnologia è il trapianto di organi, e il romanzo è Non lasciarmi (titolo originale Never Let Me Go). Il romanzo di Ishiguro fu scritto in un tempo in cui il trapianto di organi era già largamente praticato e in cui si avvertiva acutamente la scarsità
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di organi trapiantabili. Come sempre avviene in situazioni di penuria, il commercio illegale imperversava, e il denaro poteva comprare (quasi) tutto. Sono stati scritti anche altri thriller sull’argomento (ad esempio su persone uccise durante un’operazione per usare i loro organi da trapiantare). Il libro di Ishiguro non è un thriller, ma una tragica distopia in cui la tecnologia già praticata (trapianto di organi) viene combinata con un’estrapolazione tecnologica: la creazione artificiale di esseri umani in laboratorio. Non tutti i bambini vengono creati artificialmente, i protagonisti del romanzo sono l’eccezione e non la regola. Questi ragazzi e ragazze creati artificialmente sono come gli altri ragazzi e ragazze, con la sola differenza che vengono cresciuti e educati in istituti isolati sotto la guida di donne che conoscono il loro destino mentre i ragazzi non lo conoscono. Queste ragazze e questi ragazzi creano opere d’arte, alcune delle quali di gran pregio, amano e soffrono, sperano e provano paura. La sola differenza fra loro e gli altri è che sono stati creati con uno scopo specifico: donare i loro organi. Devono cedere prima di tutto un organo (ad esempio un polmone) in un’operazione a cui in genere sopravvivono. Poi arriva la seconda donazione (ad esempio un rene) e infine l’ultima, a cui nessuno di essi sopravvive. Va da sé che questa distopia è anche una metafora della vita umana. Questa è l’ultima narrazione distopica in ordine di tempo (non sappiamo però se l’ultima in assoluto) in cui la creazione artificiale di esseri umani, una delle parodie ideate in Huxley, riveste un ruolo. E tuttavia la «biopolitica», l’uso politico della genetica, dell’ereditarietà, della purezza di una razza, della salute, è un ingrediente di tutte le distopie (come lo è stato di molte utopie). Come avere figli sani? Una nuova generazione sana? Chi dovrebbe moltiplicarsi con chi? La questione è complicata nel romanzo di Atwood, giacché qui la «comunità» doveva fare i conti non con la scarsità di organi ma con la scarsità di bambini. La «salute» è preferita a tutto quanto il resto a eccezione dell’indottrinamento. La salute e la ginnastica, le competizioni, i giochi, sono molto utili per due ragioni: richiedono un’attività collettiva ed escludono l’attività mentale. Le attività mentali sono in ogni caso fuori legge in tutte le comunità distopiche, anche se in alcune di esse i loro leader e governatori possono avervi accesso. La «vita sessuale» ha funzioni differenti a seconda del tipo di romanzo. A eccezione del Racconto dell’ancella questa funzione non è la riproduzione.
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Prima di tutto viene la salute, poi la protezione dalla sublimazione, poi gli strumenti di osservazione e il piacere accidentale. Può esservi la promiscuità (come in Huxley), può anche esservi la monogamia, in ogni caso l’elemento comune in tutti gli incontri sessuali è la totale assenza di passioni, di emozioni. Il sesso distopico è noioso. L’unico esempio a contrario è la relazione d’amore in 1984, ma si afferma contro le regole stabilite, è un frutto proibito e verrà tradito. Laddove si concepisca una nuova struttura sociale e non ci si limiti a sognarla, si deve presupporre la scarsità di qualcosa o di qualcos’altro (che si tratti di cibo, di partner sessuali, del lavoro di un tipo o di un altro) e quindi si deve stabilire la divisione del lavoro. A questo riguardo non c’è molta differenza fra l’utopia e la distopia. Inoltre, delle strutture sociali utopiche o distopiche così concepite devono garantire la stabilità e in tal modo la soddisfazione degli abitanti. Poiché senza una soddisfazione generale la stabilità non può essere garantita e possono scoppiare delle guerre civili. Sarà poi necessario l’isolamento dal mondo esterno e bisognerà evitare il commercio con altre culture. Sappiamo già tutto ciò da Platone, Morus, Fourier e simili. Platone non avrebbe potuto esiliare Shakespeare dal suo Stato ideale, ma avrebbe certamente esiliato Omero. Il compito, come dicevamo, era simile: stabilità, isolamento, divisione del lavoro, soddisfazione di tutti. Platone definì questo stato di cose giustizia, Fourier lo chiamò armonia. Come nel caso delle utopie, tutte le società distopiche sono caratterizzate dalla stratificazione sociale, dal sistema di comando e obbedienza e dalla divisione del lavoro. Nelle distopie totalitarie (1984 e Fatherland) ciò è autoevidente, poiché la parodia si riferisce all’«originale», al modello, quindi non c’era bisogno di grandi esagerazioni. Che servivano però nei casi inventati di un «mondo nuovo» (Fahrenheit, Il racconto dell’ancella, Il mondo nuovo). Huxley usò lo schema di Platone in una versione tecnologica. Per Platone gli uomini nascevano con un’anima d’oro, con un’anima d’argento o con un’anima di ferro (o di rame). Sarebbero quindi appartenuti a caste differenti. La casta delle «anime d’oro» (i filosofi) avrebbe governato. In Huxley le persone sono create in provetta come creature alfa, beta, gamma, delta o epsilon, e sono quindi destinate dalla nascita a diventare membri di un certo rango o di un altro. Qui non c’è bisogno di prendersi il disturbo di scoprire chi sia posseduto da quale passione, poiché nessuno proverà
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passioni o emozioni e tutti saranno predestinati dalla chimica a essere felici nel posto che occuperanno. L’armonia e la sicurezza sono garantite. Tutti i bisogni saranno soddisfatti poiché i bisogni sono già preorganizzati per l’uno o l’altro tipo di soddisfazione. Gli altri «modelli» non parlano di una divisione dei ranghi e delle posizioni così elaborata e biologicamente garantita. Tuttavia, in ciascuno di essi viene descritta una struttura di comando/obbedienza, la cui gerarchia non viene mai messa in questione. Neppure da una persona innamorata, vale a dire da una schiava sessuale di un padrone, come nel caso del racconto dell’ancella. La superiorità d’autore di Huxley emerge dal suo coraggio nell’andare agli estremi e scrivere una satira del mondo moderno e dei suoi sogni nello stile di Swift (senza la terra dei cavalli, altrimenti non sarebbe distopico). Ho detto che il lavaggio del cervello e il controllo sono in quasi tutte le narrazioni distopiche garanzia di stabilità. Ma stabilità a quale scopo? Stabilità è un fine in sé? Platone ci fa credere che lo scopo sia la giustizia. Di fatto, lo scopo è la stabilità. Un governatore (in Huxley) ci fa credere che la stabilità assicuri «la più grande felicità per il maggior numero», ma è vero? La felicità è soltanto la mancanza di infelicità? O, sulla stessa falsariga, la giustizia è soltanto la mancanza di ingiustizia? La libertà soltanto l’assenza di illibertà? Il terreno è scivoloso, meglio aggrapparsi alla ringhiera. La ringhiera viene chiamata sicurezza. Niente conflitti, né tragedie, né sofferenze, né preoccupazioni. L’assenza, la negatività. Il Grande Inquisitore dei Fratelli Karamazov o, se preferite, il diavolo, fa la sua comparsa in due romanzi distopici per dare risposta alle domande che ho formulato. Il governatore, Mustapha Mond (nel Mondo nuovo), parlando con il selvaggio, spiega tutto. C’era un bisogno drammatico di stabilità dopo nove anni di guerra civile. In ogni caso che cos’è la felicità, chiede. Le persone sono felici di ricevere ciò che vogliono e non vogliono mai qualcosa che non possono avere. Di chi dovrebbero lamentarsi, per che cosa dovrebbero provare emozioni? Hanno genitori, figli, amici. «E la libertà! — Rise. — L’indipendenza è uno stato che non si addice agli uomini.» Sono inoltre necessarie le caste, poiché una società di alfa sarebbe instabile, e gli epsilon impazzirebbero se dovessero svolgere il lavoro degli alfa. L’arte e la scienza sono incompatibili
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con la felicità, se l’arte riguarda la bellezza e la scienza riguarda la verità. Quanto alla religione, le opere religiose sono vecchi libri pornografici. In ogni caso, la religione compensa delle perdite. Ma qui non ci sono perdite. Una cristianità senza lacrime, è questo il soma, assicura il governatore. Verso la fine di Fahrenheit 451 un anziano professore, Granger, insegna a Montag l’esatto contrario. Dopo aver parlato dei libri dell’antichità che, come la Fenice, anche se bruciati rinasceranno sempre dalle loro ceneri, conclude il suo discorso con le parole: «Non chiedere garanzie, non chiedere sicurezza, un animale simile non è mai esistito». Guardando alle date di pubblicazione si può trarre la conclusione preliminare che le strutture, le stratificazioni, le regole delle città distopiche del «mondo nuovo» si sono affermate nella seconda metà del Ventesimo secolo. In quel periodo, le persone di sinistra antisovietiche e i progressisti di ogni tipo condividevano la stessa paura: la paura della manipolazione, di essere manipolati da un potere al di là di ogni controllo politico e sociale. Distinguevano generalmente fra la manipolazione dura e morbida, fra quella brutale e quella raffinata. La manipolazione brutale significava un’ideologia e una pratica totalitarie, ancora molto vive e in fase di espansione a quel tempo. La manipolazione raffinata significava «americanismo», in cui non erano necessarie né la forza né la violenza per raggiungere una totale uniformità. Si aveva paura di perdere il retaggio della cultura occidentale e della democrazia. Di perdere la propria individualità, la propria differenza, di diventare «uomini a una dimensione». Si aveva paura della barbarie appresa, del marketing delle opere d’arte e delle idee. Di perdere lo spazio dell’intimità, di inchinarsi alle mode sessuali. In una parola: queste distopie erano risposte narrative grottesche o assurde alla società massificata. Davano voce all’Unbehagen («il disagio») nella società massificata. Perdita senza speranza. Nel Ventunesimo secolo, dopo il crollo del sistema sovietico e dei suoi satelliti e il crescente scetticismo in qualunque potente società dei consumi, la paura di un mondo manipolato e del totalitarismo in generale ha generato altre paure. Nessuno dei tre romanzi distopici scritti nel Ventunesimo secolo ha seguito i modelli del Ventesimo secolo. Questi libri estrapolano alcune caratteristiche che innovano le tendenze attuali che temono. Né Non lasciarmi né Sottomissione inventano un altro mondo. Parlano delle potenzialità oscure
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e perturbanti che sono già visibili nel presente. Temono che tali potenzialità diventino reali e che ciò accada molto presto, che stia già accadendo adesso. C’è un altro romanzo che spicca per il suo carattere apparentemente «tradizionale»: La strada. Al tempo della guerra fredda un’altra grande Paura (al di là della manipolazione nelle società massificate) fece la sua comparsa nell’orizzonte occidentale: la paura di una guerra nucleare, di un’Apocalisse creata dall’uomo, del Giorno del Giudizio. I film sul Giorno del Giudizio divennero così popolari che, oltre alle storie sulla resa dei conti nucleare, furono benvenuti anche altri «fine partita» universali. La distruzione della razza umana potrebbe anche derivare ad esempio da una pestilenza causata da un virus mortale o da una collisione con un altro pianeta. Alla fine, i sopravvissuti iniziano nuovamente la loro vita normale, gli amanti restano insieme, e la pestilenza alla fine viene debellata da un genio. Ce ne sono a dozzine di questo tipo. Il romanzo La strada è diventato così popolare in parte grazie alla nuova moda di sinistra di essere costantemente in viaggio, in parte a causa della crescente paura di rimanere senza casa, di non appartenere più ad alcun luogo. La paura della collettività, della folla, dell’accomodamento, dell’assimilazione viene lentamente rimpiazzata dalla paura della solitudine, di essere abbandonati, di essere soli, di non appartenere ad alcunché. Non considererei la maggior parte di questi film e scritti come distopie perché, come ripeto, le opere distopiche, al pari di quelle utopiche, si occupano della condizione umana. Né prenderei in considerazione opere incentrate su un tipo prevalente di paura dell’immaginazione umana (come la diffusione di virus mortali) poiché paure del genere semplicemente vanno e vengono molto più rapidamente di tante altre. Vedo nel romanzo di Cormack McCarthy La strada l’esempio più elaborato o, se posso dire una cosa del genere, il più «classico» del genere. Le debolezze di questo genere vi sono ancora presenti. Fra di esse la situazione del pericolo mortale e della devastazione da parte di altri sono solo un incidente di percorso: qualcosa che piace agli spettatori e ai lettori. Il genere fa spesso ricorso al sentimentalismo, alla naturale simpatia per l’amore e la solidarietà, in questo caso fra un padre e un figlio. Vi è inoltre il consueto fascino dell’audacia, specialmente in circostanze estreme. Nondimeno manca la tragedia, non c’è catarsi in senso aristotelico, perché non
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è dato liberarsi dell’autocompatimento o della paura. Quando una situazione è così assurda, così improbabile, non possono esserci effetti tragici. Questo libro è un classico del suo genere per due ragioni. Primo, perché fonde sapientemente osservazioni naturalistiche con elementi mistici. La storia del padre e del figlio inizia qualche anno dopo una guerra nucleare. Ci sono pochi sopravvissuti. Il padre vuole salvare il figlio, portandolo in un luogo in cui vi sia ancora qualche speranza di vita. La fame, la ricerca di qualcosa da mangiare li conducono in una «strada di campagna» (benché la campagna non esista più). Vedono case, ponti, esplorano cucine, perfino una barca viene descritta in modo naturalistico. La natura è stata distrutta ma pioggia, neve e fulmini sono rimasti gli stessi di prima. Tuttavia, questo viaggio «naturalistico» è anche un viaggio mistico. Il bambino è colui che «porta il fuoco». Che fuoco? Non lo sappiamo e nondimeno noi, lettori, sentiamo che l’arrivo del bambino in una qualche meta è l’approdo della razza umana alla salvezza: la vittoria del bene sul male. Ci colpisce anche come qualcosa di giusto che sia il figlio, e non il padre, ad arrivare in porto (non in paradiso), poiché il figlio è l’incarnazione dell’empatia. Il figlio infatti si ferma, contro la volontà del padre, per soccorrere un vecchio sulla strada, che si chiama Ely. Il padre salva il figlio, salva la bontà, ma per farlo deve uccidere, deve abbandonare chi soffre. Le allusioni bibliche non sono dirette ma indirette. Ciò salva il romanzo. Secondo, il libro riprende il filo della vecchia questione sulla «natura umana». Nel mondo in cui questi vagabondi si mettono in viaggio non c’è Stato, non ci sono leggi né tribunali, non c’è divisione del lavoro, non c’è stratificazione. Si è in uno «stato di natura». E non somiglia affatto all’età dell’oro, ma piuttosto allo stato di natura di Hobbes. Dove c’è inedia, c’è cannibalismo. Non abbiamo bisogno di un romanzo per saperlo, lo abbiamo già appreso dalla storia. Ad esempio dalla storia della carestia in Ucraina nel Ventesimo secolo. Sappiamo già che l’animale più pericoloso per l’uomo non è un animale ma un altro uomo. Possiamo quindi sottoscrivere l’affermazione secondo cui «tutti gli uomini sono nati con istinti aggressivi». Tuttavia, anche il padre e il figlio sono uomini, e l’istinto dominante del figlio è l’empatia.
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Il bene e il male sono entrambi umani. Non c’è un’antropologia che possa dare risposta ai quesiti morali. Il bene è l’eccezione. Eppure esiste. Perché il figlio è buono? La strada fornisce una risposta alle domande poste sia dall’utopia sia dalla distopia: ovvero che non c’è risposta. Le altre due distopie del Ventunesimo secolo sono luoghi situati nel futuro del presente. La prima (Non lasciarmi) è ancora scritta in inglese; la seconda (Sottomissione), invece, da un autore francese. La paura incarnata da questo romanzo distopico non è la fine della civiltà moderna o del mondo moderno, e meno ancora la fine di tutti i mondi. Non parla dei pericoli della tecnologia moderna, o della manipolazione in generale, ma della fine della cultura europea, esemplificata dalla cultura francese. (Il libro del famoso autore Philip Roth Il complotto contro l’America è stato scritto anch’esso nel Ventunesimo secolo.) Il romanzo di Houellebecq Sottomissione è un pamphlet politico come 1984. La storia parla di sottomissione come 1984. Sottomissione a un potere totalitario. La storia, però, è ambientata in un tempo molto diverso. Questi libri sono separati da più di mezzo secolo. Dopo la cosiddetta «fine della storia» né l’ideologia bolscevica né quella nazista minacciano più la sopravvivenza dell’Europa, o per lo meno questo è ciò che appare, visto che entrambe le ideologie sono restate sulla scena come movimenti estremisti e nessuno sa se possano tornare. Esse non forniscono, al momento, materiali per nuove distopie. L’ideologia e il terrore totalitari, però, non scompaiono nel mondo moderno. Semplicemente cambiano. Una nuova ideologia, una nuova forma di terrorismo prende il posto delle vecchie. La più moderna ideologia totalitaria è l’«islamismo». Non l’islam come religione, ma l’islamismo come ideologia. L’islamismo si riferisce all’islam così come Hitler si riferiva a Nietzsche e Stalin a Marx. Trovano i loro seguaci fra questi «riferimenti». Non solo in oriente, ma anche nel continente europeo, anche in Francia. (Il libro fu scritto prima degli attacchi terroristici a Parigi.) Sottomissione, proprio come 1984, benché stavolta non per mezzo della tortura ma attraverso la combinazione di minacce e promesse. In Francia, il partito della «Fratellanza Musulmana» vince le elezioni. L’antieroe del romanzo (che lo scrive) è un intellettuale francese, un professore universitario, cattolico devoto, annoiato e deluso da tutto. Disprezza la politica, destra e sinistra alla stessa maniera, e l’umanesimo gli sembra
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un mondo vuoto. Non ci sono donne con lui, benché sia bravissimo nel praticare giochetti sessuali. L’unica ragazza che gli piaccia sul serio parte per Israele. La Fratellanza Musulmana (il Grande Fratello contemporaneo), una volta al potere, gli offre tutto: una posizione elevata, la conferma della cattedra, pubblicazioni, denaro a una condizione: dovrà convertirsi all’islam, cioè all’islamismo, diventando un promotore dell’Impero Islamico. Alla fine accetta. Questa sottomissione è più cupa di quella di Winston in 1984. Non soltanto perché in questo caso l’uomo si sottomette senza che vi sia pericolo per la sua vita e per la sua libertà personale, ma perché questo libro non è una satira, ancor meno una caricatura, ma abbastanza «realistico». Così fan tutte, così fan tutti.1 Quindi tutti, in determinate circostanze, fanno lo stesso. Non dimenticano, semplicemente tradiscono il proprio passato. Prima ho menzionato due libri in cui il solito diavolo di Ivan Karamazov o di Adrian Leverkühn riappare e sciorina il suo ben noto discorso tentatore al suo bersaglio. Tuttavia, mentre il governatore (ne Il mondo nuovo) non riusciva a persuadere il «selvaggio», qui il discorso tentatore è coronato dal successo, poiché l’animo del destinatario era «pronto». Il diavolo si chiama Rediger, un’edizione islamica del personaggio che conduce l’interrogatorio in Buio a mezzogiorno di Arthur Koestler. Si tratta di un funzionario politico islamico che riveste una posizione molto elevata e che prima era un «identitario», cioè un nazionalista estremista nel vecchio stile di Le Pen. Beve ancora alcol e legge Nietzsche. Poi si è liberato dell’umanesimo ateo (ciò è molto gradito al nostro antieroe) e si è reso conto che Toynbee aveva ragione: le civiltà non vengono mai distrutte dall’esterno ma si suicidano. L’Europa si era già suicidata, e lo stesso aveva fatto la cristianità. Rediger menziona Auschwitz e i matrimoni fra persone dello stesso sesso come due segni differenti della fine della cristianità. L’antieroe, l’autore convertito del libro, si prende due mogli che non potrebbero abbandonarlo. Adesso è felice e inizia una nuova vita. Gli autori dei romanzi distopici discussi prima erano di sinistra o progressisti, mentre Houellebecq, a giudicare dal testo, è un conservatore. Ci sono però due caratteristiche comuni in tutte le narrazioni distopiche indipendentemente dalla visione del mondo: la paura e il lutto. Il lutto per una perdita e la paura del futuro. Quel che viene perduto e rimpianto in 1
In italiano nel testo.
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ciascuna di esse è la libertà di scelta. La libertà di scelta fra il bene e il male come condizione umana. Prima di iniziare a parlare dell’immaginazione distopica come una manifestazione della nostra coscienza storica contemporanea, ho sollevato il quesito su che cosa sia successo al nostro mondo. Un mondo senza momento utopico, senza pensiero utopico, senza alcuna fede nel progresso nel futuro, in una vita migliore e più giusta, e neppure nella giustizia divina. Rediger, il diavolo, aveva ragione? La nostra civiltà si sta suicidando? L’Europa del Ventesimo secolo, in cui degli europei hanno ucciso in sessant’anni un centinaio di milioni di europei sembra confermare l’opinione di Rediger. Oggigiorno gli europei stanno smettendo di riprodursi e non sarebbero pronti a difendersi. Perché non sono stati scritti libri che ci mostrino un mondo futuro, un’Europa futura senza tentazioni, senza manipolazioni, guerra, terrore, dove le persone possano scegliere sia la collettività sia la solitudine, dove possano essere al tempo stesso più libere e più felici, dove ci siano sia la sicurezza sia il conflitto? Perché? Ci piace lamentarci? Preferiamo la paura alla speranza? Forse è più elegante, più alla moda? Come ho detto nel primo capitolo filosofico di questo libro, l’immaginazione ha a che fare con le credenze quando dà le carte. Si può indurre qualcuno a credere in qualcosa che non crede, e quindi giocare a carte con un mazzo truccato? Sì, e sì, è proprio questa la credenza fondamentale delle distopie: che le credenze possano essere forzate, manipolate, cambiate dai poteri terreni, che le credenze possano portare con sé la schiavitù. Le narrazioni utopiche del Diciannovesimo secolo erano promesse. Promesse che sono state smascherate come illusorie o che sono state tradite. Le distopie del Ventesimo e del Ventunesimo secolo sono moniti. Non possono soddisfare il desiderio più intensamente umano: la felicità attraverso la libertà, la pace attraverso i conflitti. L’unico desiderio che cercano di soddisfare è il desiderio di non dire bugie, il desiderio di onestà. Ci lasciano così a mani vuote. Poiché il futuro non può essere previsto, né le immagini di speranza né quelle di paura sono predizioni. Hegel una volta parlò dello «stratagemma della storia». Aristotele disse che non possiamo fare affermazioni vere o false sul futuro. I messaggi della coscienza storica nell’immaginazione utopica o distopica non sono né veri né falsi.
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Hegel una volta disse che c’è una cosa che impariamo dalla storia, cioè che non impariamo mai niente dalla storia. Stavolta, io credo che possiamo aver imparato qualcosa. L’immaginazione distopica stessa è il risultato dell’apprendimento. Quando le narrazioni distopiche ci dicono: vi sottometterete, noi possiamo rispondere: non lo faremo. Si tratta di una scommessa. Si scommette sul futuro. La maggior parte delle narrazioni distopiche suggeriscono che, fino a che vi sarà anche solo una persona buona sulla Terra, ci sarà sempre qualcuno che non si sottometterà. Come già citato in precedenza, uno dei professori di Fahrenheit 451 sintetizzò la verità delle distopie: «Non chiedere garanzie, non chiedere sicurezza, un animale simile non è mai esistito». Se un animale del genere non c’è, rimane però la scelta. Non disperare, non cedere, senza però inseguire neppure vuote illusioni. Senza ottimismo e senza pessimismo, come suggeriva Voltaire, «coltivate il vostro giardino». Consentitemi di fermarmi qui. Anzi no, non ancora. Perché voglio riprendere un suggerimento che avevo già espresso prima. Che accade qualcosa di simile, qui e ora, a quanto accadde una volta quando fece la sua comparsa la prima distopia. In quel tempo il pensiero utopico non scomparve, semplicemente cambiò «genere»: si situò nell’arte, specialmente nella pittura. Come ho detto, le utopie tecnologiche vivono una grande floridezza. Tuttavia, tali utopie possono avere anche una lettura distopica, e non possono quindi sostituire le utopie sociali. Riusciamo oggi a percepire una manifestazione dell’immaginazione utopica che non possa avere una lettura distopica? Io penso di sì, o per meglio dire suggerisco di sì, ce n’è una, l’architettura contemporanea. Suggerisco vi sia architettura contemporanea quando l’immaginazione utopica è ancora il direttore d’orchestra della «faccenda». Fatemi ricominciare dall’inizio. Le utopie sociali hanno quattro dimensioni. Nelle prime utopie c’era l’inizio, che è il passato remoto. Lo spazio era il giardino di delizie del giardino dell’Eden. Si raffiguravano il tempo e lo spazio della felicità, la speranza della felicità. Le utopie del Rinascimento, come quella di Platone, erano le utopie della diversità. Venivano trasposte in un altro luogo, ad esempio un’isola, isolate dal mondo del presente. Immaginate come non modificate e non
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modificabili, come una comunità di giustizia senza tempo. Con la speranza nella sicurezza e nella giustizia sociale. Il «momento utopico» e il «momento distopico», ovvero quelli della speranza e della paura, quello della liberazione e quello della riduzione in schiavitù, erano entrambi situati nello spazio del sognatore, in vista del futuro del presente. Fu così il «momento repubblicano», la speranza della libertà. L’utopia assoluta della svolta antropologica o della rivoluzione fu l’immagine riflessa in uno specchio dell’età dell’oro. Un’età dell’oro non dietro di noi, bensì davanti a noi. Non nel passato remoto ma nel remoto futuro. Questa è l’utopia più grande dell’unità di libertà e felicità. Adesso le distopie suggeriscono di «non chiedere garanzie, non chiedere sicurezza». Il che significa: coltivate il vostro giardino. Si tratta di un’utopia come coraggio civico. Lo slogan «coltivate il vostro giardino» non suggerisce l’abbandono dell’immaginazione socio-storica, ma la responsabilità assunta per l’immaginazione sociale. Si può essere responsabili dell’immaginazione sociale se l’immaginazione si basa sulla probabilità e non soltanto sulla possibilità o ancor meno sull’impossibilità. Insomma: se l’immaginazione sociale non può essere il direttore dell’orchestra ma solo uno dei suoi strumenti. Un mondo senza immaginazione, come se il posto del direttore d’orchestra fosse vuoto, è impossibile in ogni modo. La questione non è se vi sia una simile immaginazione, ma solo se ve ne sia una «utopica». Per ripetere il mio suggerimento: l’immaginazione utopica, nel ruolo di direttore d’orchestra, apre nuovi spazi futuri all’architettura contemporanea. L’architettura contemporanea incarna la realtà utopica. In definitiva: le opere di architettura contemporanea sono individuali, hanno una dimensione personale. Non ci sono stili, neppure stili «postmoderni». Gli edifici più notevoli sono gli spazi pubblici: chiese, musei, teatri. Pubblici ma non comunitari, non habitat ma luoghi in cui gli individui possono formare una comunità per elevarsi insieme, per contemplare il regno dello «spirito assoluto» senza rinunciare alla libertà personale e godendo ancora i momenti di felicità. Questa è oggi l’incarnazione della realtà utopica.
Seconda parte
Le distopie del XXI secolo e l’argine del pensiero critico Riccardo Mazzeo
Capitolo primo
Il cerchio
«Sogna!» Il vialetto serpeggiava tra alberi di arance e limoni, e al posto dei pacifici ciottoli rossi c’erano, ogni tanto, mattonelle con accorati appelli all’ispirazione. «Sogna» diceva uno, con la parola incisa dal laser nella pietra rossa. «Partecipa» diceva un altro. Ce n’erano a dozzine: «Socializza», «Innova», «Immagina». Per poco non calpestò la mano di un giovanotto con una tuta grigia; stava installando un’altra mattonella che diceva: «Respira».1
È questa una delle prime immagini del romanzo di Eggers che racchiude in un involucro incantato — leggiadro, odoroso di «ambrosia e nettare vermiglio» e foriero di speranze e visioni capaci di arrampicarsi fino al paradiso —, in un involucro di zefiro e meraviglia come quello di ogni utopia, un mulinello infernale di distopia, di devastazione e annientamento. Al termine della nostra conversazione a Pordenonelegge, Ágnes Heller e io avevamo annunciato questo libro ancora tutto da scrivere e avevamo detto che «in ogni utopia cova una distopia». L’annuncio di una grande filosofa e di un piccolo editor, una promessa da mantenere, comunque, e credo sia senz’altro possibile proprio prendendo le mosse da una delle tre grandi distopie contemporanee, Il cerchio di Eggers, che troneggia inquie1
Dave Eggers, Il cerchio, Milano, Mondadori, 2014, p. 7.
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tante insieme a La possibilità di un’isola di Houellebecq e 2084 di Boualem Sansal pubblicato nell’ottobre 2015 da Gallimard. Ho scelto tre opere distopiche contemporanee molto distanti sotto i profili geografico e culturale perché credo esista una matrice comune nel pericolo della distopia che si cela in ogni utopia, una matrice trasversale, inaggirabile, che affonda nella natura umana condivisa — che si parli di statunitensi ipnotizzati dalla tecnologia e dalla trasparenza, della decadenza analoga a quella dell’impero romano che caratterizza la nostra vecchia Europa e la Francia in particolare, o della riproposizione della distopia di Orwell, 1984, in chiave islamica. All’inizio del tempo sulla Terra le creature viventi erano immortali. Gli organismi unicellulari potevano sopravvivere grazie alla loro semplicità. Erano come un’acqua cristallina, non raggelabile, non estinguibile, che scorreva come ignara di se stessa, in un flusso inarrestabile, incoercibile, sovrano. La morte si affaccia nel mondo con la comparsa di esseri viventi più complessi e in particolare l’umano. L’essere umano è discreto, fatto di asimmetrie, di scarti, sommovimenti, mutamenti continui. La specie umana presenta un 99 per cento di aspetti comuni e un 1 per cento di differenze, il che fa sì che siamo tutti fatti della stessa pasta eppure tutti diversi, finanche i gemelli monozigoti. Questa discontinuità, questa complessità rende gli umani meravigliosamente e tragicamente sia imperfetti sia mortali. E le utopie sgorgano dal desiderio di vincere sia l’imperfezione sia la morte. Eduardo Galeano nella sua poesia sull’utopia diceva che se ti avvicini di due passi la vedi compiere a sua volta due passi, se ti precipiti e accorci la distanza di dieci passi la vedi balzare d’un sol colpo di dieci passi: non la prendi, non puoi raggiungerla, si sottrae sempre e comunque. E allora, a che cosa serve l’utopia, l’idea stessa di utopia? Galeano risponde: «L’utopia serve a camminare». È intrinseco alla nostra natura il desiderio imperioso di camminare, di evolvere, di costruire nuovi mondi migliori di quello in cui viviamo. È questo impulso invincibile che ci ha trasformati da cavernicoli in coltivatoriallevatori e poi via via in quella sequenza di nuove figure umane sempre più perfezionate, ma il punto di notte di questa evoluzione, di questa crescita, di questo miglioramento si annida nella dimenticanza — che incessantemente si affaccia — della nostra condizione di esseri imperfetti e mortali.
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L’imperfezione, quella che i musulmani chiamano il «tributo ad Allah» e che celebrano tangibilmente introducendo almeno un difetto nei tappeti che costruiscono con infinita perizia, e la morte che è la condicio sine qua non perché la specie umana possa perpetuarsi attraverso l’avvento di nuove vite che prendono il posto di quelle precedenti, non sono problemi risolvibili attraverso un’evoluzione morale o tecnica o grazie alla fantasia della clonazione, ma sono gli elementi che costituiscono la vita stessa. Dalle costrizioni delle ideologie alla gioiosa autoimmolazione Viviamo in un tempo orfano delle grandi ideologie del Novecento, quelle utopie/Doctor Jekyll che si erano trasformate in altrettante distopie/ Mister Hyde. Il comunismo aveva sognato un mondo senza più classi, senza più povertà, senza più umiliazione, quasi riprendendo in modo naturalmente «perfezionato» l’utopia di Thomas More che prevedeva sei ore di lavoro al giorno per ciascuno, per poi ammazzare 25 milioni di persone sotto Stalin e imprigionarne un numero incalcolabile in condizioni subumane nei gulag. In proposito Kundera ha scritto: Chi pensa che i regimi comunisti dell’Europa Centrale siano esclusivamente opera di criminali, si lascia sfuggire una verità fondamentale: i regimi criminali non furono creati da criminali ma da entusiasti, convinti di aver scoperto l’unica strada per il paradiso. Essi difesero con coraggio quella strada, giustiziando per questo molte persone. In seguito, fu chiaro che il paradiso non esisteva e che gli entusiasti erano quindi degli assassini. 2
E che dire della svastica nazista? La croce uncinata era un simbolo solare di molteplicità, lo swastika, che figurava già nella Grecia e nella Roma antiche, e i nazisti ne rovesciarono il significato attribuendogli il nome di Hakenkreuz e facendolo assurgere a simbolo di razzismo distruttivo. Il nazismo aveva sognato un mondo «purificato» dagli agenti sporchi e inquinanti come venivano considerati gli ebrei, gli zingari, gli omosessuali e i disabili. Un progetto che portava alle estreme conseguenze l’operato della 2
Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere, Milano, Adelphi, 1985, p. 190.
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figura cardinale dell’Illuminismo, secondo la lezione di Bauman: quella del giardiniere che deve ripulire il parco (della vita) dalle erbacce e da tutte le specie vegetali inappropriate affinché possa risplendere in tutto il suo fulgore e manifesti la più grande vitalità, armonia, bellezza. I «valori» del nazismo erano, oltre alla purezza della razza, la bellezza, la salute, la forza, ma il corollario di queste caratteristiche altamente desiderabili consisteva nella ferocia devastatrice verso tutto quanto non fosse conforme a tali canoni: la guerra al mondo intero e i sei milioni di morti nelle camere a gas sono stati l’oscena testimonianza della follia di un simile progetto. Alle grandi costruzioni del secolo scorso si sono avvicendate visioni imperniate sulla salvezza personale, maggiormente conformi al mondo individualizzato in cui viviamo, in cui si confida nei prodigi e nelle innovazioni della tecnica. Mae, la protagonista del romanzo citato in apertura, ha speso 234.000 dollari per la sua istruzione e si ritrova a svolgere un lavoro incolore e deprimente fino a che la sua amica Annie la fa assumere in questa struttura avveniristica in cui si trovano le menti migliori, gli ingegni più propulsivi, e che le sembra un paradiso. La sua città natale, e il resto della California, il resto dell’America, sembravano la caotica babele di un paese in via di sviluppo. Fuori dalle mura del Cerchio tutto era rumore e lotta, disastro e sporcizia. Ma lì ogni cosa era perfetta. […] Chi poteva creare l’utopia se non degli utopisti? 3
Le avvisaglie dell’esistenza, in quel paradiso, di uno scenario perturbante non mancano fin dall’inizio: la nostra eroina viene subito dotata di un nuovo tablet e di un nuovo telefono cellulare che recano entrambi inciso il suo nome in cui vengono riversati tutti i suoi dati, le sue canzoni, le foto, i messaggi, che in una manciata di minuti sono divenuti accessibili a tutto il resto del Cerchio e che resteranno indelebili anche nei secoli a venire. Ed è curioso come una situazione distopica come quella descritta sia già parte della realtà in cui viviamo senza rendercene troppo conto, una realtà in cui tutto quanto viene postato su Facebook risulta fin d’ora incancellabile e accessibile a chi possa e voglia trarne profitto.
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Eggers, cit. p. 30.
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Torna alla mente la vera protagonista de L’insostenibile leggerezza dell’essere,4 Tereza, figlia non voluta di una madre che pretendeva la piena visibilità dell’esistente, l’esibizione del corpo e delle sue manifestazioni: A casa non esisteva pudore. La madre girava per l’appartamento con indosso soltanto la biancheria intima, talvolta senza il reggiseno, talvolta, d’estate, nuda. Il patrigno non girava nudo ma entrava nel bagno tutte le volte che Tereza era nella vasca. Una volta che lei si era chiusa dentro a chiave, la madre aveva fatto una scenata. […] Una volta, in inverno, la madre stava girando nuda con la luce accesa. Tereza corse immediatamente a tirare le tende perché non la vedessero dalla casa di fronte. Dietro le spalle sentì la sua risata. […] Rise, e tutte le donne risero con lei. La madre disse poi: «Tereza non vuole rassegnarsi al fatto che il corpo umano piscia e scoreggia».5
Tereza non accetta una realtà «dove l’intero universo non è che un enorme campo di concentramento di corpi identici fra loro e con l’anima invisibile». Tereza è una sacca di resistenza nello scenario della trasparenza socialista. Tereza non crede che la verità delle persone si manifesti attraverso l’esibizione disinibita del proprio corpo e desidera «vedere sulla superficie del proprio viso l’equipaggio dell’anima irrompere dal ventre della nave».6 Kundera insiste nei suoi libri sull’inestimabilità della «piccola percentuale di inimmaginabile» che contrassegna ciascun essere umano e lo rende unico. Tereza lo chiama «anima», Lacan «oggetto piccolo (a)», ma in definitiva si tratta pur sempre di ciò che è irriducibile all’ordine del linguaggio e all’ordine in generale, qualcosa che resiste e non si uniforma. L’ossessione della permanente esposizione di sé era una costante del Grande Fratello di 1984, era il Leitmotiv del film Le vite degli altri,7 dove nella DDR le autorità spiavano tutti, ma è davvero illusorio credere che adesso, nelle nostre democrazie, tutto ciò sia soltanto un lontano ricordo. Il massimo esperto mondiale di sorveglianza, David Lyon, e Zygmunt Bauman, hanno scritto insieme un libro che non lascia dubbi in proposito: «Nel contesto fluido della modernità liquida il potere si sposta alla velocità dei segnali elettronici, e la trasparenza aumenta per alcuni e 4 5 6 7
Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere, Milano, Adelphi, 1985. Ibidem, p. 57. Ibidem, p. 59. Das Leben der Anderen è un film del 2006 di Florian Henckel von Donnersmarck.
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nello stesso tempo diminuisce per altri».8 Già Foucault aveva identificato una sorta di doppio legame, di doppia personalità, di una compresenza antitetica di atteggiamenti in chi veniva sorvegliato: «Colui che è sottoposto a un campo di visibilità, e che lo sa, si fa carico delle costrizioni del potere; spontaneamente, le lascia agire su se stesso; inscrive in se stesso il rapporto di potere nel quale gioca simultaneamente i due ruoli; diviene il principio del proprio assoggettamento».9 La differenza con gli scenari distopici del Novecento risiede nel fatto che allora era in atto il dispositivo foucaultiano del Panopticon giustificato dall’ideologia vigente: si doveva essere sorvegliati per un fine superiore, per realizzare un mondo migliore, e la consapevolezza di poter essere intercettati nelle proprie deroghe costituiva un deterrente formidabile, senza che però venisse mai meno la consapevolezza di essere assoggettati a uno strapotere che non era dato non percepire come soverchiante e minaccioso. Ora che invece le ideologie si sono zittite e che la panacea è soltanto il progresso tecnologico, la nostra costante autodenuncia, il nostro beato e beota consenso entusiastico alla confessione di tutto quanto facciamo si estrinseca nel disinvolto uso delle carte di credito, nei post su Facebook, nelle dichiarazioni che facciamo nei social network. Bauman nella sua conversazione con Lyon cita Étienne de la Boétie e il suo Discorso sulla servitù volontaria: […] preconizzò lo stratagemma che la società liquido-moderna dei consumatori ha portato quasi alla perfezione diversi secoli dopo. Tutto sembra puntare nella stessa direzione: il modello di dominio, la filosofia e i precetti pragmatici di gestione, i veicoli di controllo sociale e lo stesso concetto di potere, inteso come modo per manipolare le probabilità accrescendo l’eventualità di comportamenti appropriati e riducendo al minimo quelle contrarie. Tutta l’attenzione si sposta dall’imposizione alla seduzione, dalla regolazione normativa alle Pr, dalla polizia alla creazione del desiderio; e tutto concorre a trasferire il ruolo di protagonisti (ai quali spetta raggiun-
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Zygmunt Bauman e David Lyon, Liquid Surveillance. A Conversation, Cambridge, Polity Press, 2013, trad. it. Sesto potere. La sorveglianza nella modernità liquida, Roma-Bari, Laterza, 2014, p. XXII. Michel Foucault, Surveiller et punir: Naissance de la prison, Paris, Gallimard, 1975, trad. it. Sorvegliare e punire, Torino, Einaudi, 1976, p. 221.
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gere i risultati auspicati e graditi) dai capi ai subordinati, dai controllori ai controllati, dagli ispettori agli ispezionati.10
In sostanza, mentre prima la scelta della servitù, dell’assoggettamento, era qualcosa di obbligato per non incorrere in una punizione, i nuovi strumenti di potere fanno leva sull’instillazione irrazionale di una volontà presuntamente autonoma di andare proprio nella direzione che ci si lusinga di avere scelto. D’altro canto, le nuove modalità di dominio sono infinitamente più economiche di quelle passate, poiché l’esercizio della sorveglianza aveva costi consistenti e il fatto che i lavoratori di un’azienda si ritrovassero sulla stessa barca implicava una solidarietà fra i dipendenti, insieme a una coscienza di classe, e una certa solidarietà ancorché più ruvida fra i capi e i sottoposti, visto che una fabbrica per andare avanti aveva bisogno che il lavoro, in un modo o nell’altro, venisse portato a termine. Ma adesso, nel nuovo mondo globalizzato, una persona come Marchionne si può permettere di rifondare la Fiat negli Stati Uniti e di pagare le tasse nello staterello che ne esige di meno, e allora un dipendente non può far altro che trasformarsi nel controllore e nel manager di se stesso, sperando che il suo lavoro possa soddisfare le aspettative del suo boss, sospirando di preoccupazione e impegnandosi allo spasimo per non essere cacciato dal posto che occupa. Io credo che si possa intendere in termini allargati anche questa nuova prassi oltre a quella che Lyon delinea come «Ban-opticon», riprendendola da Didier Bigo, per designare «un sistema finalizzato alla “messa al bando” di questi marginali globali […], a definire chi è gradito e chi non lo è, creando categorie di esclusi che non vengono banditi da un determinato Stato-nazione, ma da un cluster amorfo e non unificato di poteri globali. Esso opera virtualmente, utilizzando una serie di basi dati in rete per incanalare flussi di dati, specialmente dati su fatti non ancora avvenuti, come nel film e libro Minority Report».11 Senza contare che la volontaria esibizione di quanto una volta sarebbe stato considerato strettamente privato coadiuva chi manovra le leve del potere nell’effettuare il social sorting, nello stabilire cioè chi vada vezzeggiato e coltivato in virtù della sua propensione a consumare adeguatamente (l’equivalente contemporaneo di quel che una 10 11
Bauman e Lyon, cit., pp. 44-45. Ibidem, pp. 48-49.
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volta si definiva «una vita degna») e chi al contrario debba essere oggetto di attenzioni più aggressive, di controlli più frequenti e molesti, come gli islamici. Il mostro a tre teste Torniamo al nostro Cerchio. Tutto ha avuto inizio con una mente geniale e innovativa, quella di Tyler Alexander Gospodinov, detto Ty, sociopatico e forse affetto dalla sindrome di Asperger. Ty, stufo di dover ricordare tutte le password e i codici di identificazione che si moltiplicano come tutti sappiamo per gestire le nostre vite sempre più governate e veicolate dalla rete, a un certo punto riesce a ideare lo Unified Operation System, che consente di armonizzare e concentrare quanto prima era frammentato, e una modalità, TruYou, grazie alla quale ciascuno può eseguire qualunque operazione in prima persona collegandosi direttamente e facendo tabula rasa sia delle complicazioni sia dei furti d’identità, delle truffe, delle ansie legate alla navigazione in rete. Ty però è solo un inventore, non un uomo d’affari. Così assume altri due Saggi, Eamon Bailey e Tom Stenton, che coprono i due tasselli imprescindibili di un’azienda: il volto persuasivo, rassicurante, amichevole e sorridente del primo, che tutti chiamano «zio Eamon», e la potenza imprenditoriale del secondo. Con la triarchia l’impresa decolla e sono sempre più numerosi gli inventori che vanno a vendere la loro merce al Cerchio, innescando un processo inarrestabile di creazioni e soluzioni sempre nuove. Sembrerebbe perfetto, più vantaggi per tutti, meno disagi per tutti. Il problema, naturalmente, è che se una cosa esiste diventa obbligatorio servirsene. Tutte queste persone che devono comunicare e adeguarsi a standard di trasparenza, salute e bellezza sono entusiaste ma qualche resistenza si manifesta, qualche rumore nel sistema si fa udire. Quando Mae, la nostra protagonista, incontra Josef, che ha «una dentatura di una comica bruttezza», strabuzza gli occhi, incredula. «Mi sta già guardando i denti!» gemette indicando Mae. «Voi americani siete ossessionati! Mi sento un cavallo messo all’asta.» «Ma tu hai veramente dei brutti denti» disse Annie. «E noi qui abbiamo cure dentarie convenzionate così buone...»
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Josef scartocciò un burrito. «Io credo che i miei denti costituiscano un attimo necessario di tregua dalla innaturale perfezione di quelli di tutti gli altri.»12
Gli inventori del Cerchio aspirano all’onniveggenza, all’onniscienza. Attraverso minuscole telecamere denominate SeeChange sparse in tutto il mondo e interconnesse affinché tutti possano vedere tutto in tempo reale, in questa sorta di «alba del Secondo Illuminismo», desiderano che tutto quel che accade sia conosciuto. Come non pensare a Adorno: «Dietro l’apparente chiarezza e trasparenza dei rapporti umani, che non tollera più niente di indefinito, si annuncia la pura brutalità».13 Anche in questo caso, la distopia è già nel nostro presente: «I droni possono essere piccoli come colibrì, ma il nettare che cercano consiste sempre più nelle immagini ad alta risoluzione di coloro che si trovano sulla loro strada».14 Una voce dissonante La prima voce che si leva fuori dal coro è quella dell’ex fidanzato di Mae, Mercer. Mae è ormai completamente inghiottita dal meccanismo dell’interconnessione perenne, il suo Secondo Illuminismo è diventato una seconda natura e le viene del tutto naturale rilanciare e diffondere anche le sue comunicazioni più private. Mercer le obietta: «Anche quando parliamo a tu per tu mi dici quello che qualche estraneo pensa di me. È come se non fossimo mai soli. Ogni volta che ti vedo, nella stanza ci sono altre cento persone. Tu mi guardi sempre attraverso gli occhi di altre cento persone».15 E pone la sua diagnosi: «Non è che non socializzo. Io sono abbastanza socievole. Ma gli strumenti che create voi in realtà producono bisogni di socialità innaturalmente estremi. Nessuno ha davvero bisogno del numero di contatti che fornite voi. Non porta a nessun miglioramento. Non è nutriente. È come le me12 13
14 15
Eggers, cit., p. 50. Theodor W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni sulla vita offesa, Torino, Einaudi, 1954, p. 38. Bauman e Lyon, cit., p. XXV. Eggers, cit., p. 108.
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Il vento e il vortice rendine. Sai come le studiano? Determinano con scientifica precisione di quanto sale e quanti grassi hanno bisogno per farti continuare a mangiare. Tu non hai fame, non senti il bisogno di mangiare, quello che hai davanti non ti stuzzica, ma continui a mangiare queste calorie vuote. Ecco quello che spacciate voi. La stessa cosa. Un numero incalcolabile di calorie vuote, il loro equivalente digitale e sociale. E le calibrate in modo tale da rendere altrettanto dipendenti i loro consumatori.»16
Ma Mae resta impermeabile. La giovinetta venuta da un paesino sperduto, figlia di gestori di garage, è troppo gratificata dal posto che le è stato affidato nel nuovo centro del mondo, ed è troppo occupata dal lavoro che svolge anche quando non lavora (giacché socializzare con gli zing, le è stato detto, è parte integrante del suo lavoro) per potersi fermare a riflettere sulle critiche costruttive di Mercer o sul delirio della giostra impazzita su cui è salita. Riesce a tacitare anche la voce interiore che vorrebbe opporsi quando le viene detto che è «molto bello» che passi un po’ di tempo con i suoi genitori ma che il suo livello di partecipazione agli eventi della comunità è troppo scarso, soprattutto se va a un evento e poi non posta o non zinga niente. Quando si rivedono Mercer le manifesta la sua impressione che il Cerchio sia «una setta che vuole impadronirsi della Terra» e le fa notare che tutti coloro che hanno provato a screditarlo sono diventati subito vittima di accuse giuridicamente rilevanti e in tal modo messi a tacere e annientati. Il Cerchio tesaurizza dettagli sgradevoli di coloro che hanno osato metterlo in discussione amplificandoli, quando non inventa di sana pianta accuse screditanti per neutralizzarli, ma questa prassi è già operante oggigiorno, come ha illustrato con efficacia il grande scrittore e giornalista Jon Ronson nel suo ultimo libro.17 Ronson scoprì che esisteva un finto account Twitter in cui qualcuno che fingeva di essere lui, e che risultò essere un ricercatore dell’università di Warwick, gli metteva in bocca affermazioni volgari e idiote. Ci rimase molto male, e da quell’evento nacque l’idea del libro che documenta come molte vite siano state distrutte con le migliori intenzioni da persone che si definirebbero ineccepibili. Tornando al Cerchio, Mercer dice poi a Mae qualcosa che ci riconduce al nostro presente e a infinite scene analoghe di solitudine in compagnia: 16 17
Ibidem, pp. 110-111. Jon Ronson, I giustizieri della rete, Torino, Codice, 2015.
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Qui, però, non ci sono oppressori. Nessuno ti obbliga a farlo. Te li lasci mettere spontaneamente, questi lacci. E spontaneamente diventi del tutto autistica nella sfera dei rapporti sociali. Non raccogli più i suggerimenti basilari della comunicazione interpersonale. Sei a tavola con tre esseri umani che ti guardano, tutti, e cercano di parlare con te, e tu resti incollata a uno schermo cercando degli estranei in qualche parte del mondo.18
Dalla Neolingua di Orwell ai tweet Il filosofo Jean-Michel Besnier ha scritto un libro che spiega la trasformazione e l’impoverimento del linguaggio ai giorni nostri.19 Si ricorderà che la Neolingua di 1984 era un idioma estremamente semplificato, una sorta di grado zero della scrittura: Nella finzione di Orwell, dietro il soggetto impersonale si nascondono i riformatori di Socing (il «socialismo inglese») che cercano di imporre la Neolingua, non solo per rimediare alle imprecisioni e alle «inutili sfumature» dell’Archelingua o per decerebrare i loro contemporanei, ma per «rendere impossibile ogni altra forma di pensiero» al di fuori di quello richiesto dal mondo che vogliono imporre. Orwell fornisce una rappresentazione della tesi che Roland Barthes svilupperà più tardi, al momento del suo insediamento al Collège de France: «Il fascismo non è impedire di dire, ma obbligare a dire». In altre parole, si tratta di formattare le menti con categorie semantiche depurate, in grado poi di decifrare solo una realtà spogliata di qualsiasi densità e disponibile a essere manipolata dalle tecniche in possesso dei dominatori. La Neolingua non inventa un vocabolario con parole nuove ma distrugge, «riduce il linguaggio all’osso».20
Il fascismo, al pari del Cerchio, svuota le parole delle loro infinite risonanze, dei loro chiaroscuri, dell’ambivalenza così caratteristica degli esseri umani che viene resa nella sua forma più alta dalla letteratura. L’acronimato imperante oggigiorno va nella direzione contraria, le sigle e gli emoticon appiattiscono i messaggi e li rendono simili a lunghe file di salici 18 19
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Eggers, cit., p. 209. Jean-Michel Besnier, L’homme simplifié, Paris, Librairie Arthème Fayard, 2012, trad. it. L’uomo semplificato, Milano, Vita e Pensiero, 2013. Ibidem, pp. 47-48.
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che pretenderebbero di descrivere la complessità del bosco umano. Nel Terzo Reich livellatore le sigle si sprecavano, la gente pronunciava KNIF per dire «Kommt nicht in Frage» («Nemmeno per idea») così come oggi si tende a concludere le lettere con i corrispondenti usando la formula «Please answer asap» («as soon as possible») per dire «il più presto possibile». Si può sorridere dell’acronimo del Centro di Arte Contemporanea sulla Cultura Alimentare di Bologna, definita C.A.C.C.A. in un tweet del Comune, ma soprattutto ci si perde perché il moltiplicarsi delle sigle le trasforma spesso in una lingua straniera. Soprattutto, la Neolingua comune al fascismo e al Cerchio privilegerà le azioni ai contenuti effettuando una drastica riduzione semantica che, in termini hobbesiani, assumerà il significato minimalista di mancanza di ostacoli al dispiegarsi del movimento e della forza, sacrificando così tutte le sfumature e la profondità della riflessione su se stessi e sul mondo. Il fascismo consiste nell’azione, ardita quanto si voglia, e nella cancellazione di tutto quanto possa far percepire e magari menzionare le asimmetrie, gli scarti, le fragilità. La nostra epoca del «fare», senza tante cianciafruscole, distinguo, divagazioni, è il treno spedito e ordinato composto da persone omogenee o che sono capaci di omogeneizzarsi, politicamente corrette, prive di spigoli vivi, di resistenze, di tropismi, levigate e talmente impegnate a contribuire all’armonia aziendale da restare totalmente immemori dello spessore del nostro pensiero, della direzione morale delle nostre azioni. La discesa agli inferi di Mae L’eroina del Cerchio effettua la sua scalata all’Olimpo senza rendersi conto che si tratta di una discesa agli inferi. Mae conserva una serie di tratti di umanità: ama i suoi genitori e si preoccupa della sclerosi multipla del padre, fino a vagheggiare per un momento di abbandonare il Cerchio per stare vicino a loro e aiutarli con i problemi sempre più irritanti sollevati dall’assicurazione; è affezionata alla sua amica importante, Annie, che proviene da una famiglia di alto lignaggio e l’ha fatta assumere al Cerchio; è attratta da due uomini con cui fa sesso, benché il primo, Francis, reso insicuro da un’infanzia di affidi e abusi, soffra di eiaculazione precoce e nutra un bisogno così imperioso di sentirsi pubblicamente realizzato da parlare di Mae di fronte a una sala gremita e filmare un atto sessuale con lei pur
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sapendo (ovvero proprio perché sa) che non sarà mai possibile cancellarlo; e l’altro, Kalden, sia palesemente una persona pericolosa, forse un hacker, un intruso; Mae conserva anche la gioia tutta privata di noleggiare un kayak e andarsene in mare a vedere le foche, osservare le creature umane e marine che si trovano sul suo percorso. Il Cerchio, però, lentamente ma con una determinazione e una forza sovrumane, riesce a livellare le sue asimmetrie. Procura ai genitori di lei un’assicurazione gratuita ineccepibile e per un verso piazza dodici telecamere nella loro casa affinché siano costantemente visibili, per l’altro fa leva sul debito contratto implicitamente da Mae per diradare le sue visite a casa e farla restare quasi perennemente nella struttura. Sottopone la sua amica a un nuovo esperimento che permette di ricostruire interamente il proprio passato, e quando emergono eventi raccapriccianti come gli schiavi irlandesi che i suoi antenati avevano prima, in Inghilterra, e quelli di colore che avevano avuto una volta giunti nel Nord America, e fatti che riguardano i genitori — una coppia aperta che una sera ha addirittura visto annegare un poveretto senza cercare di aiutarlo o chiamare nessuno — Annie manda uno zing molto strano: «Veramente, non so se dovremmo sapere tutto»21 e questo vacillamento suscita la disapprovazione di Mae e costituisce uno spartiacque che decreta la fine pubblica e privata di Annie. La passione per il kayak e la sua uscita notturna con un’imbarcazione usata senza chiederne il permesso alla proprietaria la indurranno, allorché sarà stata scoperta dai droni di SeeChange, a offrirsi alla più totale trasparenza indossando un dispositivo che la renderà costantemente visibile al suo milione e mezzo di follower e a chiunque altro. In piena luce La seconda parte del romanzo si apre con la descrizione di uno squalo, «una bizzarra creatura, spettrale, vagamente minacciosa e sempre in moto»22 che viene mostrato da Mae attraverso la videocamera riposta nella collana che indossa ogni mattina: 21 22
Eggers, cit., p. 344. Ibidem, p. 245.
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Il vento e il vortice […] la videocamera vedeva tutto ciò che vedeva Mae, e spesso qualcosa di più. La qualità delle riprese era tale che gli spettatori potevano zumare, panoramicare, fermare l’immagine e migliorarne la risoluzione. L’audio era accuratamente regolato per concentrarsi sulle sue conversazioni, e per registrare tenendo in secondo piano ogni suono ambientale o le voci in sottofondo. Questo, in pratica, voleva dire che tutte le stanze in cui Mae si trovava erano esplorabili da ogni spettatore.23
Non è casuale, come si comprenderà alla fine del libro, che la piena visibilità degli spettatori e la cecità vorace dello squalo compaiano insieme. La furia, quella vera, è cieca e sfrenata, colpisce in ogni direzione, squarcia e divora tutto quanto si trovi a tiro. La costante esposizione in un mondo depurato da qualunque problema, invece, è una sorta di «educazione alla morte». Viene a mancare il viaggio di scoperta, l’esposizione al rischio, la lenta scultura che si compie nel corpo di chi vive sul serio. Ci si ritrova a porre in essere meccanismi di autoregolazione che raggiungono forme estreme e che finiscono inevitabilmente per essere introiettati, per diventare parte integrante di sé, e Mae ne fa ben presto esperienza: La prima volta che la videocamera reindirizzò le sue azioni fu quando andò in cucina a fare uno spuntino. L’immagine sul polso le mostrò l’interno del frigorifero mentre vi frugava in cerca di qualcosa da mangiare. Normalmente avrebbe preso un dolcetto al cioccolato, ma vedendo l’immagine della sua mano che si allungava per raccattarlo, e vedendo ciò che avrebbero visto tutti gli altri, si ritrasse. Chiuse il frigo, da una terrina sul banco scelse un pacchetto di mandorle, e uscì dalla cucina. Lo stesso giorno, più tardi, le venne un’emicrania; provocata, pensò, dal fatto che aveva mangiato meno cioccolata del solito. Frugò nella borsetta, dove teneva alcune confezioni di aspirine, ma vide nuovamente, sullo schermo, quello che vedevano tutti. Vide una mano che cercava nella borsetta, raspando, e di colpo si sentì infelice e disperata, come una specie di drogato che si stesse impasticcando. Ne fece a meno.24
I genitori di Mae, dal canto loro, non hanno alcuna voglia di essere costantemente esibiti. Con l’aiuto di Mercer, hanno oscurato dodici delle sedici telecamere predisposte. La loro disobbedienza, per la quale viene 23 24
Ibidem. Ibidem, p. 262.
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rimproverata la figlia, si spinge addirittura a rifiutare, superato un certo limite, di ringraziare per le migliaia di messaggi d’auguri che Mae ha fatto in modo che ricevessero. C’è gente che manda dieci messaggi in un giorno e poi si lamenta se non riceve prontamente una risposta. Mae naturalmente considera i genitori degli ingrati. Li molesta. Li perseguita. Finiranno per abbandonare la casa, come farà lo stesso Mercer che le scrive un’ultima lettera: Non siamo destinati a sapere tutto, Mae. Hai mai pensato che forse la nostra mente è delicatamente calibrata tra il noto e l’ignoto? Che la nostra anima ha bisogno dei misteri della notte e della chiarezza del giorno? Voi state creando un mondo di luce sempre accesa, e io credo che essa ci brucerà vivi, tutti quanti.25
Si consideri che la brama di trovarsi sempre «in piena luce» è per certi versi già qui, nelle nostre vite. Nel 1998 aveva destato molto scalpore il film di Peter Weir The Truman Show, in cui il protagonista, un figlio indesiderato, era stato adottato da una troupe televisiva e da trent’anni veniva visto dai telespettatori in tempo reale mentre viveva ignaro contornato da attori professionisti inclusi padre madre e moglie. Nel film c’è un finale consolatorio: Truman alla fine si accorge di essere sempre vissuto in un mondo finto e riesce a trovare il coraggio di fuggire e di avventurarsi nel mondo reale. Per quanto possa risultare consolante un pubblico che per trent’anni non si è mai posto il problema morale di vedere una persona ignara agire in mezzo a una messa in scena. Il fatto saliente però è che lui non aveva scelto di essere costantemente esibito agli occhi degli altri, mentre oggi alcune famiglie lo fanno deliberatamente, per ora soprattutto negli Stati Uniti ma da qualche tempo anche in Italia. Si chiamano family vlogs (che sta per video-blogs) e per loro scelta sono continuamente visibili su YouTube dove ogni giorno postano video che «documentano» la loro insulsa vita, riscuotendo un successo pazzesco. La famiglia Shaytard, dell’Idaho, con quattro figli, ha tre milioni di iscritti su YouTube e in cinque anni ha avuto oltre due miliardi di visualizzazioni. In Italia ci sta provando un napoletano che punta molto non tanto sulla bella moglie bionda e straniera quanto sul figlio piccolo e già molto amato: potrebbe essere la star di domani. Marino Niola ha formulato un’ipotesi sulle ragioni del fenomeno di cose tanto inspiegabili: 25
Ibidem, p. 341.
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Il vento e il vortice Forse perché l’esistenza di ciascuno di noi è diventata una successione di momenti last minute, che consumiamo di corsa, senza riuscire a dare loro un senso complessivo. E un ordine temporale. Li viviamo e basta. E se proviamo a raccontarli lo facciamo per frammenti staccati, per fotogrammi che hanno la stessa episodicità dei selfie, dei video, delle immagini, dei pensieri che mettiamo in rete. Nella speranza di ritrovare quella profondità del tempo, quella successione del prima e del poi, che ormai si confondono nel nostro eterno presente.26
Danni collaterali Mae va avanti come un caterpillar, raccogliendo sempre più successi. Un giorno presenta dal podio un’ulteriore innovazione, SoulSearch, che permette di individuare qualunque ricercato dalla polizia, e per darne una dimostrazione fa selezionare dal computer un soggetto a caso. Si tratta di un’evasa inglese di cui non si hanno più notizie da dieci anni. I tre miliardi di user del Cerchio sono stati preavvertiti, e ce n’è già più di un miliardo in linea. Grazie alla diffusione della sua foto e alla massiccia partecipazione degli user la ricercata viene identificata, braccata, quasi linciata e arrestata in poco più di dieci minuti. A quel punto, gonfia di soddisfazione, Mae ha un’idea veramente tremenda, e diffonde la foto di Mercer, «un ricercato dall’amicizia». Bastano pochi minuti per rintracciarlo nell’Oregon, in un bosco ai piedi di un monte. Un mucchio di gente si riversa sulla casa, e a Mercer non resta che fuggire sul monte a bordo del suo pick-up. Mae gli fa lanciare dietro i droni e riesce a stabilire un contatto vocale per parlargli, ma lui sentendo la sua voce guida ancora più veloce cercando disperatamente di sottrarsi. Dai droni giungono voci di donna: «Mercer, cedi! Sottomettiti alla nostra volontà! Diventa nostro amico!» Mercer sterzò verso il drone, come se volesse investirlo, ma questo modificò automaticamente la traiettoria e copiò il suo movimento, mantenendo la sincronia. «Non puoi sfuggirci, Mercer» urlò la voce della donna. «Mai, mai, mai. È finita. Arrenditi, adesso. Diventa nostro amico!» […]
26
Marino Niola, Lo show della quotidianità ultima frontiera del reality, Repubblica, 26 ottobre 2015.
Il cerchio
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Il pubblico era entusiasta, e i commenti si stavano ammassando, con un’infinità di osservatori che dicevano che quella era la più grande esperienza visiva della loro vita. E mentre gli applausi diventavano più forti, Mae vide qualcosa apparire sul viso di Mercer, qualcosa di simile alla determinazione, qualcosa di simile alla serenità. Il suo braccio destro girò il volante, e lui uscì dalle inquadrature dei droni, almeno temporaneamente, e quando essi lo riagganciarono il pick-up stava attraversando l’autostrada, puntando come un bolide verso la barriera di cemento, così veloce che sarebbe stato impossibile fermarsi. Il veicolo sfondò la barriera e saltò nell’abisso, e per un breve istante sembrò che volasse, sullo sfondo di montagne visibili per chilometri e chilometri. Poi il pick-up scomparve.27
Neanche questo «danno collaterale» riesce a fare breccia in Mae. Pur amando i suoi genitori, che sono venuti alla funzione funebre ma non le hanno quasi rivolto la parola, ha trovato un altro padre in Bailey, il Saggio più simpatico, che la rassicura dicendo che l’accaduto dipende solo da Mercer: in fondo sarebbe bastato che quel disadattato accettasse l’aiuto che gli veniva offerto, «l’abbraccio dell’umanità». Lo squalo del totalitarismo Le ultime pagine del romanzo descrivono un esperimento. In un acquario vengono immesse tutte le specie marine pescate nella fossa delle Marianne e preservate per ricreare l’habitat originario. Vi assistono tutti e tre i Saggi insieme a Mae, e lei scopre che Ty, che non le era mai stato presentato, è in realtà Kalden, il suo amante che l’aveva impensierita per il suo aspetto e i suoi comportamenti da hacker. Lo squalo in pochi bocconi divora il polpo e i cavallucci marini e resta solo a roteare nella vasca, perennemente affamato. Poi Ty e Mae si incontrano senza telecamera e Ty le spiega quali sarebbero le conseguenze se il Cerchio si chiudesse e contenesse non più il 90 per cento ma il cento per cento delle informazioni. Mae resiste: lei vuole essere vista, e pensa che la maggior parte delle persone provi lo stesso desiderio. Ty cerca di convincerla: «Ma Mae! Abbiamo visto le creature in 27
Ibidem, p. 364.
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Il vento e il vortice
quella vasca, no? Le abbiamo viste divorate da un bestione che le ha ridotte in cenere. Non capisci che tutto quello che finisce in quella vasca, con quel bestione, con questo bestione, andrà incontro alla stessa sorte?».28 Ty, l’utopista che si era accorto della deriva apocalittica verso cui stava andando la sua idea, viene denunciato da Mae agli altri due Saggi, le ultime sacche di resistenza si sono spappolate, il Cerchio si è chiuso e nulla potrà riaprirlo. Sembra la realizzazione dell’unica profezia pronunciata dal grande poeta Brodskij, più di vent’anni fa:29 «Il mondo a venire, la nuova era, sarà meno morale, più relativistica, più impersonale, meno, oserei dire, umana». Uno dei maggiori romanzieri viventi, Jonathan Franzen, nel 2002 pubblicò il suo primo capolavoro, Le correzioni. Raccontava una famiglia che non riusciva più a essere tale, benché ne esistessero tutti i presupposti giacché i genitori amavano i tre figli e tutti e cinque si volevano bene reciprocamente. Ma c’era come una forza contraria che si frapponeva a qualunque armonia collettiva o persino individuale. Franzen colse nel suo romanzo un cambiamento strutturale, epocale, senza analizzarlo in quella sede ma facendolo vibrare dolorosamente nei vicoli ciechi dei personaggi. Se Mae non fosse vissuta nell’epoca ipertecnologica del Cerchio (e di tutti noi), la fascinazione esercitata dal Verbo dei tre Saggi non sarebbe prevalsa su quello tanto più modesto ma al tempo stesso tanto più vitale dei suoi genitori o del suo ex fidanzato Mercer, basato sull’incontro reale, sul dialogo de visu anziché sugli zing anonimi quanto torrenziali.
28 29
Ibidem, p. 383. Josif Brodskij, Conversazioni, a cura di Cynthia L. Haven, Milano, Adelphi, 2015.
Capitolo secondo
La possibilità di un’isola
La perversione ordinaria Nel suo dotto e illuminato saggio sulla «perversione ordinaria»,1 Lebrun parla dell’emergenza di una nuova economia psichica che produrrebbe dei «neosoggetti» assolutamente inediti finora, germinati da una crisi della legittimità in quanto tale, dalla divaricazione fra gli interessi personali e quelli della società. Già Hannah Arendt aveva affermato che se l’autorità viene revocata dalla vita politica e pubblica, la responsabilità del rotismo del mondo ricade sulle spalle di ciascuno, ma in questo caso, consciamente o no, ciascuno fa astrazione del bisogno di ordine nel mondo, della necessità di dare ordini e di obbedire ad altri ordini. Sono queste le conseguenze ultime dell’Illuminismo? Lo stesso Jürgen Habermas, il campione dell’Illuminismo, aveva spiegato che l’Illuminismo presenta un problema poiché la sua morale razionale è incentrata sugli individui e non alimenta la solidarietà, ovvero l’azione collettiva guidata dalla morale. Questo divorzio fra la società nel suo complesso ordinata, coordinata e morale, e gli orfani della trascendenza, dei capi e dei maestri compreso il pater familias, ha prodotto per un verso un senso di smarrimento e di isolamento (niente a cui appoggiarsi e una 1
Jean-Pierre Lebrun, La Perversion ordinaire. Vivre ensemble sans autrui, Paris, Denoël, 2007.
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nuova dimensione di irrisolvibile insularità), per l’altro una percezione di onnipotenza: se i genitori non sentono più di incarnare l’autorità e dicono sempre di sì ai figli, questi ultimi finiscono per credere che tutto sia possibile, non fanno le necessarie esperienze di frustrazione indispensabili a dare il via a ciò che rende la cultura possibile: le sublimazioni. Quando il romanziere Niccolò Ammaniti venne a Rimini a un’edizione del convegno Erickson «La Qualità dell’integrazione scolastica e sociale», raccontò ai tremila presenti che quando era piccolo aveva sofferto molto della consegna di «andare a riposare» nei pomeriggi d’estate, perché lui non sentiva alcun bisogno di «riposare» e si ritrovava uno spazio della giornata desolatamente vuoto, vano e noioso che avrebbe saputo riempire con giochi, movimento, altri bambini. Aggiunse poi però che adesso era molto grato ai suoi genitori per questa consegna che allora aveva giudicato crudele: era stato costretto a riempire quel vuoto con l’immaginazione, la fantasia, il pensiero, e la sua vis narrativa aveva avuto in quei pomeriggi la sua origine. Adesso, però, chi ha più il tempo di pensare? Pensare è già sostenersi nel vuoto. È come nuotare o fare il funambolo. È un esercizio che va imparato. Una pratica a cui è necessario iniziarsi, certo, ma a cui soprattutto bisogna essere iniziati. Per poter pensare, bisogna aver appreso a sostenersi nel vuoto. Detto altrimenti, bisogna essersi potuti appoggiare, almeno una volta, a un altro che già si sosteneva nel vuoto, e che a sua volta aveva imparato a farlo da qualcun altro. È a questo che servono — o dobbiamo dirlo all’imperfetto? — i maestri.2
Pensare equivale dunque a reggerci nel mondo in cui siamo stati gettati. Se però il nuovo dispositivo imperante ci scaraventa in una condizione di piccoli narcisi capricciosi e onnipotenti insofferenti di autorità e maestri, secondo Lebrun diventiamo dei «perversi ordinari»: «come dei Robinson in un’isola che stavolta non è deserta ma popolata da altri che non sono essi stessi che altri Robinson. Ne deriva un’assenza dell’Altro, nonostante la presenza dell’Altro e degli altri, e di conseguenza un ostacolo al lavoro della cultura».3 2 3
Ibidem, p. 29. Ibidem, p. 427.
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Animulae vagulae blandulae La seconda distopia che vi racconto, La possibilità di un’isola,4 parla di un mondo posteriore alla clonazione in cui le repliche della persona che erano state conservano i ricordi del loro ascendente umano. I «neoumani» coltivano le vite dei predecessori ma sono totalmente diversi da loro perché sentimenti ed emozioni sono come evaporati; i neoumani vivono da soli e comunicano con altri loro simili solo sui loro schermi, mentre fuori quel che resta dell’umanità si è imbarbarito regredendo a uno stato pressoché animale. Daniel 24, che sta per spegnersi, e poi Daniel 25 che ne prende il posto, ripercorrono la vita di Daniel 1 alternando le narrazioni, e in realtà Daniel 1, raccontando la sua vita, illustra quella degli umani del nostro tempo. Daniel 1 è un comico e le sue prime autodescrizioni, del suo lavoro e di sé, sono spietate: In fondo, il beneficio maggiore del mestiere di umorista, e più generalmente dell’atteggiamento umoristico nella vita, è quello di potersi comportare come uno stronzo in tutta impunità, e persino di poter rendere estremamente redditizia la propria abiezione, in termini di successo sessuale o economico; il tutto con l’approvazione generale.5
Daniel 1 si sposa una prima volta e tuttavia, appena sua moglie rimane incinta, la lascia immediatamente. Ma non ci sono limiti al peggio, e infatti scrive: «Il giorno del suicidio di mio figlio mi sono preparato delle uova al pomodoro. [...] Non avevo mai amato quel figlio: era stupido come la madre e cattivo come il padre».6 In realtà, come ha spiegato Peter Sloterdijk nella sua prima opera importante,7 per leggere la contemporaneità più dell’illuminismo serve il cinismo, ma quest’ultimo collide per definizione con qualunque idea di utopia, ed è il cinismo a intridere il protagonista del capolavoro di Houellebecq. Siamo lontani mille miglia dal risentimento che aveva puntellato e 4
5 6 7
Michel Houellebecq, La possibilité d’une île, Paris, Librairie Arthème Fayard, 2005, trad. it. La possibilità di un’isola, Milano, Bompiani, 2005; tascabili Bompiani, 2009. Ibidem, p. 22. Ibidem, p. 26. Peter Sloterdijk, Kritik der zynischen Vernunft, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1983, trad. it. Critica della ragion cinica, Milano, Raffaello Cortina, 2013.
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nutrito la reazione delle masse nella prima metà del Novecento, quando le popolazioni erano ancora capaci di lasciarsi trasportare dalla parola ipnotica di un duce che attraverso rovina, distruzione, guerra e morte prometteva una palingenesi, un riscatto, una rinascita comune. Oggigiorno vediamo ancora all’opera questi meccanismi di chiusura nazionalistica e di culto della guerra, della contrapposizione, della chiusura, soprattutto da parte dei Paesi dell’Est, in particolare l’Ungheria di Orbàn, dove molti ragazzini al termine della scuola primaria vengono mandati dai genitori ad addestrarsi in campi paramilitari con tanto di sveglia a ora antelucana ed esercitazioni con Kalashnikov e bombe a mano. Orbàn, che la mia illustre coautrice giustamente osteggia con tutte le sue forze, ha perfino riabilitato il dittatore Horthy che, fido alleato di Hitler, governò dalla fine della Prima guerra mondiale quasi fino al termine della Seconda, ma anche in altre nazioni occidentali si è innescata una reazione di cieco ripiegamento, di ferreo rinsaldamento del «noi» contrapposto a tutti gli altri, come se nel nostro mondo globalizzato la barchetta di una piccola nazione potesse avere qualche speranza di salvezza in uno scontro con le fregate in mare aperto. Tornando al cinismo, che opportunamente Sloterdijk suddivide nelle due versioni di quello, antifilosofico per necessità, di Diogene e degli altri suoi colleghi i quali dopo la morte di Socrate mal sopportavano una filosofia che, svuotata di etica, non era più degna di questo nome, e di quello disancorato ed egoistico che predomina oggi in Occidente, ne vediamo in Daniel 1 una esemplificazione crudele ma al tempo stesso quasi capace di autocritica, di consapevolezza, circostanza difficile da riscontrare fra i suoi simili che il più delle volte non hanno neppure bisogno di mettersi in discussione e di autoassolversi dando per scontato che il loro sia l’unico atteggiamento non solo praticabile ma anche appropriato. In realtà Daniel 1 è un moralista, come lo stesso Houellebecq, e seppur nella sua deriva osserva con lucidità lo smottamento del mondo che lo circonda, la trasmutazione quasi antropologica dei suoi simili incantati dal giovanilismo, dal divertimento, dalla leggerezza di un vivere che coincide sempre di più con un lasciarsi vivere trasportati dalla mutevolezza ondosa delle tendenze, delle fasi, delle luci che si accendono con immensa vivacità per estinguersi quasi impercettibilmente a un certo punto, senza alcuna ragione apparente. Sono animulae vagulae blandulae che anche quando vivono in situazioni di relativa stabilità, in una famiglia o in un gruppo, lo fanno come se abitassero costantemente in
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hotel. Forse non è un caso che all’hotel come mito contemporaneo siano stati dedicati recentemente il film di Maria Sole Tognazzi Viaggio sola, in cui Margherita Buy che recensisce alberghi per professione è perfettamente a suo agio nel continuo girovagare come per forza d’inerzia, e il libro di una intellettuale poliedrica come Joanna Walsh8 che quel mestiere lo ha praticato sul serio e che ha fatto alcune osservazioni davvero interessanti come quella giocata sull’assonanza fra guest («ospite») e ghost («spettro»): che ci si trovi in un grande hotel standardizzato come lo Sheraton dell’aeroporto di Francoforte o in un «boutique hotel» come l’Accademia di Verona, impreziosito di quadri bellissimi e di pezzi unici, al pari di uno spettro vi si risiede solo «per metà», vi si soggiorna restando però sempre al tempo stesso un po’ altrove, e il pericolosissimo coinvolgimento con altre persone (pericolosissimo poiché le relazioni umane possono sempre deluderci e farci soffrire) viene ridotto all’osso. Una generazione di eterni kids Daniel 1 ottiene un notevole successo e, guadagnato il suo primo milione di euro, conosce improvvisamente l’amore: Isabelle, direttore della rivista Lolita rivolta in realtà a un pubblico di trentenni arse dalla fregola di essere eternamente giovani, di esserlo quanto e più delle loro figlie; una rivista dozzinale che però lei, «psicorigida» molto intelligente e grande professionista, ha accettato di governare perché non si sfugge allo Zeitgeist e perché il suo stipendio è altissimo. È interessante la spiegazione che lei offre del successo sessuale di lui: «Se le ragazze sono attratte dai tipi che salgono sul palcoscenico,» proseguì lei, «non è unicamente perché cercano la celebrità; è soprattutto perché sentono che un individuo che sale sul palcoscenico rischia la pelle, perché il pubblico è un grosso animale pericoloso e può annientare in ogni istante la sua creatura, cacciarla, obbligarla alla fuga tra sarcasmo e insulti. La ricompensa che esse possono offrire al tipo che rischia la pelle salendo sul palcoscenico è il loro corpo; è esattamente come con un gladiatore, o un torero».9
8 9
Joanna Walsh, Hotel, Bloomsbury Academic, 2015. Houellebecq, cit., p. 31.
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Isabelle è bella e acuta, ma quando compie quarant’anni si sente ormai fuori posto in quel mondo ipnotizzato dall’adolescenza e dà le dimissioni. Nonostante le sue inflessibili sedute di danza classica, il suo splendido corpo pian piano s’infiacchisce, cede sotto il peso degli anni e Daniel la sposa e vagheggia di darle un bambino, ma solo per un attimo perché prova per i bambini la stessa avversione che Jonathan Swift provava per gli esseri umani in generale: […] il problema ero io. In me non c’era soltanto il disgusto legittimo che coglie ogni uomo di normale costituzione alla vista di un pargolo; non c’era soltanto la convinzione ben radicata che il bambino è una sorta di nano vizioso di crudeltà innata, in cui si ritrovano immediatamente i peggiori tratti della specie e da cui gli animali domestici si tengono alla larga con saggia prudenza. C’era anche, più profondamente, un orrore, un autentico orrore di fronte al calvario ininterrotto che è l’esistenza degli uomini.10
E in effetti oggigiorno sono sempre di più le coppie che decidono di vivere senza mettere al mondo figli, e Houellebecq segnala la comparsa e la proliferazione di childfree zones, dove a bambini e ragazzini è vietato l’accesso. E sono sempre di più le coppie che scelgono di avere un animale domestico al posto di un figlio. In Italia ci sono sette milioni di cani e sette milioni e mezzo di gatti che vivono in famiglia, in Francia tre milioni di più, sia di cani sia di gatti. La predominanza, seppure lieve, di gatti si spiega con la loro maggiore indipendenza: un gatto si arrangia mentre un cane bisogna portarlo a spasso almeno tre volte al giorno. Per contro, un cane rappresenta ed esprime l’amore incondizionato, e possederne uno consente di essere adorati senza magari dover ricambiare un sentimento così smisurato se non con un po’ di cibo e di uscite. In ogni caso optare per un animale domestico mette i nostri eterni kids fintoadulti in condizione di poterlo trattare come un oggetto e non come un soggetto, e quello che non riescono a realizzare nelle relazioni amorose dove ciascuno dei due pretenderebbe di trattare l’altro come oggetto, con l’inevitabile rottura dei legami e una rincorsa esasperata all’amore presuntamente perfetto che fa registrare negli Stati Uniti anche cinque matrimoni regolarmente votati al fallimento, diventa possibile con una bestiola che non farà scenate, non 10
Ibidem, pp. 56-57.
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imporrà la propria volontà, non si lamenterà a vanvera e, rispetto al caso dei figli, non farà vivere ai genitori l’inferno della loro adolescenza. Forse ci sarebbe davvero bisogno di «vivere l’amore castamente», come ha esortato a fare papa Francesco. Non nel senso di essere astinenti evitando i rapporti sessuali ma piuttosto, come ha precisato Enzo Bianchi, nel trattare l’altro come soggetto e non come oggetto: casto (castus) è infatti chi non consuma l’incesto (in-castus); l’incesto è connaturato alla natura umana, spiegava Freud ne Il disagio della civiltà; si viene al mondo naturalmente incestuosi, dopodiché la civiltà dissuade da un costume che, sradicato, apre agli infiniti vivificanti incontri e scambi offerti dal mondo. Ma, come ricorda Rilke, «Non c’è nulla di più arduo che amarsi: è un lavoro, un lavoro a giornata… L’amore è difficile e non è alla portata di tutti». Daniel e Isabelle sono molto innamorati e molto intelligenti ma purtroppo non sono «casti» nei termini di Enzo Bianchi: l’ansia di fusione, di totale compenetrazione di lui subisce un duro colpo quando un giorno si avvede che lei si lascia godere ma lo fa con gli occhi serrati, rifiutando la dimensione belluina, ferigna, incandescente dell’abbandono estatico; d’altronde anche per lei, che aveva sempre coltivato la danza classica per celebrare l’apollineo e il tuttotondo che apprezzava nei dipinti di Raffaello e di Botticelli e che le piaceva mostrare con la perfezione del suo corpo, d’un tratto si accorge che i suoi seni e le sue natiche si afflosciano irrimediabilmente: si comincia a spegnere la luce, poi si spegne il desiderio di lui, evapora la magia che rendeva inestimabile la loro intimità, la tenerezza lascia il campo al fastidio perché non sono capaci di far crescere a un livello più alto la loro unione: Quando l’amore fisico sparisce, sparisce tutto; un’irritazione cupa, senza profondità, viene a riempire la serie dei giorni. E sull’amore fisico non mi facevo illusioni. Giovinezza, bellezza, forza: i criteri dell’amore fisico sono esattamente gli stessi del nazismo.11
Daniel e Isabelle sono un esempio calzante della «falsa coscienza illuminata» dei cinici contemporanei descritti da Sloterdijk nel già citato Critica della ragion cinica: sono disincantati, quindi capaci di agire in modo 11
Ibidem, p. 63.
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efficiente, senza che però la loro consapevolezza possa dare un vero significato alla loro vita. L’utopia del futuro dell’utopia Questa formulazione, di Bauman, implica che in un mondo che ha dimenticato l’aidos, ovvero il legame con gli altri non imposto da vincoli giuridici ma promanante dall’inclinazione umana «naturale» a fare e costruire insieme, l’utopia ha cessato di rivestire un ruolo e si è svuotata, contratta, mortificata nel sogno della propria sopravvivenza personale, di ciascuno, prescindendo non solo dagli altri significativi ma anche dalla preoccupazione per coloro che verranno. Sloterdijk stesso lo annuncia all’inizio della sua Critica:12 Dopo i decenni della Ricostruzione e l’epoca delle utopie e delle «alternative», è come se un certo ingenuo slancio fosse d’improvviso scomparso. Qua e là si temono catastrofi; congiuntura favorevole per lo smercio di nuovi valori (e di tutti gli antidolorifici in generale). I tempi sono cinici, e sanno bene che i nuovi valori hanno le gambe corte. Sensibilità, focolari domestici, salvaguardia della pace, qualità della vita, coscienza delle responsabilità, consapevolezza ecologica: non è roba che suoni come dovrebbe. C’era di che aspettarselo. Il cinismo se ne sta appiattato dietro le scene. Il chiacchiericcio passerà, le cose riprenderanno il loro corso...
Manca oggi, ancor più di trent’anni fa quando la Critica venne pubblicata, la capacità di e la predisposizione al dono. Bronisław Malinowski, un antropologo «campione» del dono caro a Bauman, che ne aveva parlato in Conversazioni sull’educazione,13 è stato ricordato da Marino Niola14 in occasione del centenario dalla nascita. Malinovski, questo polacco che insegnava alla London School of Economics, allo scoppio della Prima guerra mondiale si ritrovò bloccato in Australia e gli fu concesso — a lui sulla carta nemico 12 13
14
Peter Sloterdijk, Critica della ragion cinica, op. cit., p. 5. Zygmunt Bauman e Riccardo Mazzeo, On Education, Cambridge, Polity Press, 2012, trad. it. Conversazioni sull’educazione, Trento, Erickson, 2012. Marino Niola, Quando il dono diventò la base dell’economia, Repubblica, 17 dicembre 2015.
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da internare poiché cittadino dell’impero austroungarico — di continuare le sue ricerche nell’arcipelago delle Trobriand. Là scoprì un sistema di convivenza basato sul dono: gli autoctoni sfidavano il mare infido popolato da squali per andare a portare agli abitanti di isole vicine oggetti in sé privi di valore d’uso, ma carichi di significati relazionali, e i destinatari di questi regali a loro volta rischiavano la vita per rimettere in circolo i doni ricevuti dopo essersene deliziati, in un circolo virtuoso che rendeva familiari e grate popolazioni che altrimenti si sarebbero fatte la guerra. Scrive Niola: «il dono è la forma più sottilmente disinteressata del profitto, perché è l’origine stessa del legame sociale, il gesto primario, incondizionato e gratuito che fa uscire l’individuo da se stesso e lo lega agli altri in una rete che assicura scambio, protezione, solidarietà. E di conseguenza anche guadagno». Di tutto questo si è persa ogni traccia ne La possibilità di un’isola: mentre Isabelle consuma lontano da Daniel il suo lento addio alla vita dapprima in abbuffate compulsive e poi nella sospensione del dolore che a Biarritz consente la morfina, con l’unico conforto di veder correre e giocare il suo cagnolino Fox, Daniel si imbatte in una setta che promette, ai pochi eletti, nientemeno che l’immortalità. Un’immortalità privata, un’eternazione esclusiva, davvero cinica poiché esclude tutto quanto il resto. Una clonazione che significa après moi le déluge, precipiti e si frantumi tutto quanto il resto, una salvezza e un’autoconservazione privata, indifferente, ripiegata.
Capitolo terzo
2084. La fine del mondo
Grazie alla sua forma controfattuale, la fede dà ai suoi praticanti la chance di aggrapparsi a un fantasma salvifico.1 È possibile sostenere che il totalitarismo moderno sia un parto del consenso dello stadio. […] La tesi di Gabriel Tarde secondo la quale la condizione sociale dell’uomo sarebbe ipnotica o sonnambula, se messa a confronto con queste circostanze, sembra più che giustificata. Le urla dell’insieme nello stadio retroagiscono direttamente su di esso, poiché dal coinvolgimento dovuto allo spettacolo deriva un’eccitazione mimetica, dall’eccitazione derivano gesti sonori e — dal loro ritorno intensificato nell’orecchio — quella commozione che si avvicina alla persuasione.2
La sospensione ipnotica dell’Abistan Leggere questo libro di Boualem Sansal produce effetti veramente distopici, stranianti, convulsivi: non è tanto la ferocia delle esecuzioni dei dissidenti o dei rei che vengono portati allo «stadio» per essere impalati, smembrati o arsi vivi, la ferocia appartiene anche ai regimi totalitari non 1
2
Peter Sloterdijk, Sphären III. Schäume, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 2004, trad. it. Sfere III. Schiume, Milano, Raffaello Cortina, 2015, p. 188. Ibidem, p. 595.
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islamici; quel che più sconcerta del libro è la sospensione ipnotica, la rimasticatura di formule vuote e insensate che si incistano nella consuetudine delle persone fino a costituire parte integrante del loro essere nel mondo, la cancellazione più assoluta delle possibilità e di qualunque alternativa, la facoltà stessa di pensare, immaginare, almanaccare qualcosa che si situi al di fuori della bolla di annichilimento che è diventata la Terra. Il protagonista, Ati, è un giovane ingenuo malato di tubercolosi che troviamo nel sanatorio situato in cima a un monte, insieme ad altri malati che muoiono sistematicamente l’uno dopo l’altro. Ati è un membro della nuova realtà islamizzante, l’Abistan, che si è creata forse a seguito di una Grande Guerra «santa», forse dopo qualche altro sommovimento di cui però nessuno serba il ricordo. L’impero desolato in cui vive deriva il suo nome da Abi, profeta «delegato» di Yölah, il dio unico. Ati, al pari degli altri, è sempre stato supino ai comandi dell’impero, denunciando i sospetti e attenendosi rigidamente alle consegne di un mondo la cui unica data ricorrente è 2084. Una data nebulosa: forse si riferisce al principio dell’impero, forse ad altro, quel che è certo è che si vive come in una sospensione del tempo, sempre uguale a se stesso. Ogni tanto nel sanatorio passano dei pellegrini, che se si eccettuano gli agenti e gli incaricati di missioni particolari sono le uniche persone autorizzate a spostarsi nell’impero; possono farlo però soltanto secondo calendari prestabiliti e seguendo percorsi organizzati da altri: «Non si conoscono i motivi di tali restrizioni. Sono antiche. In realtà il problema non aveva mai sfiorato la mente di nessuno, l’armonia regnava da così tanto tempo che non c’era ragione per provare la minima inquietudine. Anche la malattia e la morte erano prive di effetto sul morale della gente».3 C’è stata la Grande Guerra, con centinaia di milioni di morti, ma poi benché il Paese sia spesso ancora in guerra si sostiene che di guerra non si possa parlare, perché la guerra è stata vinta in modo definitivo. Il nemico veniva chiamato «il Nemico» con la maiuscola, poi di colpo questa parola è svanita e si è parlato della Grande Miscredenza e dei makoufs, «rinnegati invisibili e onnipresenti», per rendere il nemico interno invece che esterno e infine, dopo essere ricorsi alla parola orrifica «Chitan», si è arrivati alla designazione più appropriata: Balis. E i suoi adepti sono stati ribattezzati 3
Boualem Sansal, 2084. La fin du monde, Paris, Gallimard, 2015, p. 17.
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balisiani. La capanna dove è nato Abi è effigiata in una riproduzione, dalla più sontuosa alla più negletta a seconda del censo, in ogni casa, ma senza che nessuno se ne sia mai accorto ogni undici anni le si attribuisce una localizzazione geografica differente, per non mancare di rispetto a nessuna delle sessanta provincie dell’Abistan. Tutte queste contraddizioni, i cambi di rotta, le versioni continuamente rinnovate non hanno turbato nessuno, i sudditi vivono come se soggiornassero in una fumeria di oppio, va tutto bene, tutto è come dev’essere. I pellegrinaggi, che in realtà hanno lo scopo di svuotare di tanto in tanto le città sovraffollate facendone morire un bel po’ alla ricerca della santità e rivestono lo stesso ruolo della Guerra santa, recano onore alle famiglie dei prescelti, un po’ come anche oggigiorno avviene con gli attentatori suicidi nelle guerre marcatamente asimmetriche come quella fra Palestina e Israele. Nel romanzo di Sansal c’è una forte eco della manipolazione da parte dell’Apparato dei martiri che vengono selezionati da individui che non sono affatto a loro volta votati al martirio. Il regista Hany Abu-Assad lo ha mostrato con grande efficacia nel film del 2005 Paradise Now, dove i due giovani palestinesi Khaled e Said prescelti per farsi esplodere in Israele vengono manovrati come burattini dagli organizzatori. D’altro canto anche i pellegrinaggi riecheggiano quello che viene compiuto dai musulmani alla Mecca, con gli atti rituali delle pietre scagliate a Satana e il sacrificio di una pecora da sgozzare. Sansal è stato molto esplicito in proposito: Nell’islam l’iniziazione alla vita adulta è sgozzare un montone. Nell’islamismo è sgozzare un uomo. In Algeria, durante la guerra civile, erano cose che si facevano tutti i giorni. Un poliziotto veniva catturato. L’islamista chiamava il figlio di dieci, undici anni, e gli diceva di sgozzarlo. Le madri applaudivano piangendo, perché era diventato un uomo.4
L’ardore con cui i musulmani auspicano oggi di essere «prescelti» per il pellegrinaggio è analogo a quello dei personaggi del libro: per poter andare nei luoghi santi l’Arabia Saudita ha stabilito delle quote per ogni Paese, i pellegrini vengono scelti con una specie di riffa e tutti fremono sperando di poter lavare i propri peccati, di assurgere a una sorta di sacralizzazione. 4
Boualem Sansal, L’apocalisse islamista e l’autunno dell’Europa. Intervista con Gloria Origgi, Micromega, 8/2015, p. 20.
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L’improvviso risveglio di Ati La permanenza in sanatorio, e la miracolosa guarigione, smuovono qualcosa, in Ati, nella crosta di immobilità che tiene imprigionata la mente di tutti: egli comincia a porsi degli interrogativi, ne è spaventato ma poi i dubbi e le perplessità si ripresentano ad assillarlo. In sanatorio vengono scoperti mucchi di cadaveri in fondo a un tunnel: «Orrore: oltre alle ferite riportate nel corso della loro caduta vertiginosa, si scopriva che i soldati erano stati atrocemente massacrati. Niente più orecchie, lingua, naso, il sesso ficcato in bocca, i testicoli scoppiati, gli occhi divelti. […] In Ati, l’evento innescò un processo insidioso che lo avrebbe spinto alla rivolta».5 Ma l’immobilità di quel mondo spariglia le carte, è arduo stabilire con chi prendersela, tutto è confuso, velato, incomprensibile. Nondimeno il raccoglimento offerto dal sanatorio permette ad Ati ciò che non può accadere a chi è immerso nella brulicante vita quotidiana: il pensiero, il dubbio, l’immaginazione. Ad esempio questa storia della frontiera di cui si vocifera. La concezione del mondo imperante è quella della monosfera descritta nella trilogia Bolle da Sloterdijk, qualcosa di infinito e compiuto che gira su se stesso, con il paradiso al di sopra, perfetto e felice, l’inferno al di sotto, con le sue mostruosità, e una Terra popolata da fedeli in mezzo: come ci si può figurare una frontiera? E allora Ati ha l’illuminazione che la parte del mondo in cui è nato sia quella dei vinti, di coloro che sono stati ricacciati al di qua della frontiera. Non c’è posto per la bellezza L’universo di Ati è intessuto di morte. A parte le città imbalsamate e come ipnotizzate, quel che si stende in tutto l’impero è un immenso deserto, una sorta di negazione stessa del cosmo: «Se mai l’acosmismo ha un luogo di origine, esso è in quella città senza città, in quel mondo senza mondo che è il deserto, nella cui ombra mondana si incontrano coloro che il mondo non vogliono né interpretarlo né trasformarlo, ma
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Boualem Sansal, 2084, op. cit., p. 38.
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semplicemente lasciarlo da parte».6 La bellezza, la grazia, l’allegria devono essere mortificate. Lui che superati i trent’anni è già vecchio, è stato e in qualche misura è ancora un bell’uomo, e da ragazzo si disperava e si vergognava del suo aspetto gradevole perché esso veniva considerato una macchia e una calamita per gli istinti più bassi degli altri uomini; in sanatorio soffre vedendo o sentendo di notte gli stupri che i ragazzini subiscono regolarmente. Le donne sono al riparo dalle tentazioni perché si bendano il seno, s’infagottano e si velano; gli uomini si fanno crescere orribili ispide barbe; i ragazzini, invece, e i glabri come Ati, sono sempre nel mirino della fregola maschile. Sansal ha detto chiaramente nella sua intervista a Micromega 7 quanto gli siano invisi almeno due dei tre grandi monoteismi, l’islam e il cattolicesimo, perché sono religioni apocalittiche, incentrate sul perseguimento, attraverso l’umiliazione e la morte, dell’unica vera vita che si situerebbe nell’aldilà. Nel romanzo di Sansal tutti portano una veste lunga, il burni, una specie di saio come quello dei preti o dei frati. Ati comincia a chiedersi come sia possibile, nel mondo perfetto che viene descritto e decantato, che dilaghi tanta depravazione, e al tempo stesso è terrorizzato che le sue perplessità si palesino fino a farlo considerare un miscredente. Ma continua le sue ruminazioni e di colpo comprende come funzioni il Pensiero unico del Sistema: esso si afferma non già in virtù della sollecitazione a credere, ma attraverso le nove preghiere (invece delle cinque dell’islam tradizionale) recitate ogni giorno, per tramite di una verità data per scontata che non è pensabile commentare o mettere in discussione: […] era l’ipocrisia a fare il credente perfetto, non la fede che a causa della sua natura oppressiva reca il dubbio nella sua scia, e finanche la rivolta e la follia. […] la vera religione non può essere nient’altro che una bigotteria ben regolata, eretta a monopolio e mantenuta dal terrore onnipresente. «Il dettaglio era l’essenziale nella pratica», tutto è stato codificato, dalla nascita alla morte, dal sorgere del sole al tramonto, la vita del perfetto credente è una
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7
Bruno Accarino, Peter Sloterdijk filosofo dell’estasi, in Peter Sloterdijk, Sphären I. Blasen, Frankfurt am Main, 1998, trad. it. Sfere. Volume I. Microsferologia. Bolle, Roma, Meltemi, 2009, p. 14. Sansal, L’apocalisse islamista, op. cit.
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Il vento e il vortice serie ininterrotta di gesti e di parole da ripetere, non gli lascia spazio alcuno per sognare, esitare, riflettere, miscredere eventualmente, credere forse.8
In questo modo le nefandezze, all’ordine del giorno non solo nella distopia di Sansal ma anche in un islam roso dalla corruzione e in una chiesa cattolica in cui un cardinale può (anzi poteva, prima di papa Francesco) destinare le donazioni per i bambini poveri a un attico fatto costruire per sé, diventano secondarie, parte di un paesaggio la cui unica cifra immodificabile è la propria perpetuazione. La folgorazione della libertà In un mondo che gira in tondo, sospeso e come cristallizzato, Ati si rende conto che se vuole inseguire il sogno di una libertà che è stata bandita dall’orizzonte di chiunque deve necessariamente partire da se stesso, dalla consapevolezza che a costo della propria vita vale la pena lottare per essere liberi, quand’anche si venisse folgorati nel corso del tentativo di riuscirvi. Prende atto della vacuità dell’esistenza qualora ci si limiti a sopravvivere invece di inseguire il proprio desiderio, e sembra quasi riecheggiare le parole di Miguel Benasayag9 in un passaggio che descrive la sua trasformazione: Il suo cuore batteva così forte da fargli male. Che strana sensazione: più la paura lo invadeva e gli torceva le budella, più era forte. Qualche cosa si cristallizzava in fondo al suo cuore, un granello di autentico coraggio, un diamante. Scopriva, senza saperlo dire se non con un paradosso, che la vita merita si muoia per essa, che senza di essa siamo dei morti che non sono mai stati altro che dei morti. Prima di morire, voleva viverla, questa vita che emerge dall’oscurità, foss’anche solo per il tempo di un lampo.10
Si tratta di un risveglio miracoloso. Ati prende atto della mescolanza del bene e del male che intrattengono un rapporto intimo nel deserto di negazione della vita in cui si trova: sono entrambi appannaggio unico di un dio implacabile che li orienta a suo piacimento, costringendo i sudditi 8 9
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Ibidem, p. 46. Miguel Benasayag e Riccardo Mazzeo, C’è una vita prima della morte?, Trento, Erickson, 2015. Sansal, cit., p. 50.
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a compiere le azioni più malvagie per contrastare un male ancora peggiore, a compiere il male per servire il bene, in questo incantamento di cui anche Ati era stato vittima. D’altro canto, anche prescindendo dall’Abistan e dagli Stati islamici attuali, «i popoli, gli imperi, le Chiese e soprattutto gli Stati-nazione moderni sono, segnatamente, rilevanti tentativi della politica dello spazio di ricostruire, attraverso l’immaginazione e l’istituzione, uteri fantastici per masse infantili».11 Ora però il quadro si è ricomposto pur nella sua incompiutezza, e quando finalmente viene dimesso dal sanatorio egli sa che nulla potrà impedirgli di andare alla ricerca della verità, dei territori sconosciuti che esistono al di là della frontiera, perché la libertà che gli si è schiusa dentro gli conferisce una forza inarginabile. Ati impiega un anno intero per tornare a casa. Le centinaia di milioni di morti causati dalle guerre fanno sì che si cammini su una sequela infinita di cadaveri. Tutto è spoglio, desolato, riarso, i territori come le persone, in uno scenario post-apocalittico. Si sa che vi sono individui dotati di mezzi, di grandi mezzi: si vedono sfrecciare aerei, elicotteri, ma i fortunati non si vedono mai e si limitano a comunicare con la gente attraverso schermi affissi alle pareti in ogni parte del Paese. Qui l’autore descrive in fondo qualcosa che esiste già nei Paesi musulmani in cui predomina un islam letteralista: tutti sono schiavi, non solo le donne ma anche gli uomini, la vita può essere strappata per una minuscola deroga, per un’infrazione trascurabile, mentre i pochi eletti godono dei lussi più smodati e per spostarsi usano jet privati e navi da nababbi. Prima di arrivare alla sua città natale, Qodsabat, Ati fa due scoperte: il perdurare della guerra, che le autorità negano, alla vista di un convoglio militare che trascina una fila infinita di prigionieri, con le donne in fondo, a una distanza di quaranta passi, affinché i maschi non possano né vederle né sentirne l’odore, e soprattutto l’esistenza di un sito archeologico portato alla luce da Nas, un giovane funzionario che gli rivela sia come il suo ritrovamento possa mettere in discussione le stesse basi simboliche dell’Abistan, sia i suoi timori dacché si è reso conto di trovarsi in mezzo a interessi contrastanti di alcuni clan della Giusta Fraternità. 11
Peter Sloterdijk, Sfere. Volume I. Bolle, op. cit., p. 115.
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Al suo arrivo Ati, che prima abitava in una cantina putrescente infestata da topi e cimici che aveva contribuito alla sua tubercolosi, viene destinato a una minuscola residenza decente e a un incarico amministrativo decoroso; ora può finalmente guardare quel che lo circonda con occhi nuovi. Nella sua amministrazione, a intervalli mensili regolari, le ispezioni assegnano note di merito o demerito: nel secondo caso, quando per un semestre la nota rimane negativa, il reprobo semplicemente sparisce, nessuno sa che cosa accada a chi sia caduto in disgrazia e nessuno può o vuole raccontarlo. Quando il 15 del mese l’ispezione arriva anche per Ati egli riesce a ottenere una nota positiva dai giudicanti, ma mostra un istante d’incertezza quando gli viene chiesto se ucciderebbe lui stesso qualcuno che avesse mancato ai suoi doveri di credente; riesce a trarsene d’impiccio per il rotto della cuffia adducendo come scusa il fatto che, convalescente com’è, non sarebbe abbastanza sicuro delle sue capacità manuali. Ma poi, la notte, continua a ripensarci senza poter prendere sonno: Era il film di uno stupro autorizzato che avrebbe subito ogni mese di ogni anno per tutto il corso della sua vita. Stesse domande, stesse risposte, stessa follia in scena. […] La vita in municipio era ricominciata l’indomani come se non fosse successo niente. La forza dell’abitudine, cos’altro? Quel che si ripete viene integrato nella confusione di routine invisibili e si dimentica. Chi si vede respirare, battere le palpebre, pensare? Uno stupro autorizzato, ripetuto giorno dopo giorno, mese dopo mese, per tutta la vita, diventa una relazione d’amore? Una dipendenza felice? O è il principio d’ignoranza che è all’opera ancora e sempre? Di che cosa ci si potrebbe lamentare in effetti se non si sa, se niente ci appartiene?.12
La stessa indifferenza ignara delle bestie che vanno al macello. Il mistero della lingua In municipio Ati incontra finalmente un’anima gentile e briosa simile alla sua, un collega che scopre straordinariamente affine a lui, Koa, con cui inizia a studiare il mistero della lingua unica dell’impero, l’abilang. Qui troviamo un’eco della «neolingua» di 1984 di Orwell: si tratta infatti di un 12
Sansal, cit., p. 91.
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idioma estremamente semplificato, ma con una piega differente poiché non si limita a preferire i verbi ai sostantivi e a scarnificare un corpus suscettibile di indurre il pensiero, ma immerge tutte le espressioni utilizzate nel fiume inertizzante della religione. Non si deve più «comunicare» quanto pietrificare le esistenze in una sequela di ripetizioni, di incantagioni, di rapimenti mistici che inchiodano a uno status quo indiscutibile. «Ati ebbe la rivelazione che la lingua sacra era di natura elettrochimica, con un’indubbia componente nucleare. Non parlava all’intelligenza, la disintegrava, e di ciò che restava (un precipitato vischioso) faceva buoni credenti amorfi o assurdi omunculi».13 La lingua esercita un influsso molto pervasivo sugli atteggiamenti. Scolpisce le persone e restringe o amplia a dismisura la loro capacità di pensare criticamente. Non è un caso che Boko Haram contrasti, fin dal suo significato e con tutta la ferocia possibile, l’educazione, in particolare delle femmine. Miguel Benasayag ha chiarito questi aspetti nel suo ultimo libro14 laddove distingue fra gli «organismi» come i neonati (che modificandosi perdono alcune parti estensive, le loro molecole, ma mantengono la parte intensiva che è il loro soffio di vita), gli «aggregati» come le pietre, fatte di sole parti estensive, e i «misti» come la macroeconomia, la tecnologia e la lingua che funzionano come organismi perché catturano e trasformano parti estensive ma, a differenza degli organismi, dipendono da questi ultimi per poter esistere: «una lingua possiede una “vita propria”, un ordine interno; al tempo stesso, però, se non viene parlata, se non perde e non guadagna, se le sue parole e i suoi modismi non si modificano, se non si trasforma e non adotta nuove parti estensive, sarà una “lingua morta”, una lingua in uno stato di equilibrio finale».15 Ed è esattamente questo che avviene nell’Abistan. E che accade anche oggigiorno nei Paesi islamici a prevalenza letteralista dove la totale adesione agli aspetti normativi e la messa al bando di tutti gli altri aspetti generativi, creativi, artistici, non può che imbalsamare, insieme alla lingua, la forza vitale delle persone appiattite sull’ombra di quel che potrebbero essere. La lingua ridotta a uno scheletro cementificato, usata soltanto per le transazioni minute e per recitare le preghiere, colonizza inevitabilmente 13 14
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Ibidem, p. 96. Miguel Benasayag, El cerebro aumentado, el hombre disminuido, Buenos Aires, Paidos, 2015, trad. it. Il cervello aumentato, l’uomo diminuito, Trento, Erickson, 2016. Sansal, cit., p. 104.
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popoli interi. In casi del genere, si può affermare che «più che parlare una lingua, noi esseri umani siamo parlati da una lingua».16 Accade qualcosa di simile anche nella progressiva analfabetizzazione in atto in occidente. Noi siamo scolpiti dalle nostre azioni, il nostro corpo è strettamente intrecciato al cervello e lo modifica incessantemente, il cervello cresce o decresce insieme a tutto il corpo, non possiede alcuna autonomia, e il fatto di poter usare con frequenza sempre maggiore la strada più semplice per fare le cose grazie alla tecnologia ci sta disabilitando senza che ce ne rendiamo conto. Scrivere con la penna stabilisce un contatto infinitamente più stretto, familiare, intimo con il testo che si stende rispetto all’uso di una tastiera: il pensiero si snoda con una densità maggiore, il respiro stesso di chi scrive, le pause, le lettere vergate con più forza o a momenti quasi con riluttanza, lettere tutte diverse, imbevute di succhi interiori vissuti con un’intensità a tratti parossistica che si traduce e si manifesta tangibilmente nei segni tracciati. Certo, adesso quasi tutti utilizziamo comunque un computer per scrivere, ma le nuove generazioni che vanno perennemente a cento all’ora sono ormai sempre meno disposte a scrivere le parole per intero, prendono scorciatoie, abbreviano, storpiano, ricorrono all’evocatività degli emoticon e restano sempre più in superficie: in questo caso invece di essere colonizzati da una lingua che celebra l’immobilità e il ripiegamento come un’anticipazione della morte, siamo colonizzati da una tecnologia che ci induce a correre sul posto, a correre obbedendo a cerimoniali che in una rappresentazione stolida e vacua della vita accelerata allo spasimo ci riduce alla cancellazione di tutto ciò che è consistente, duraturo, sapido, significativo. In ogni caso la lingua dell’Abistan, così gravida di risonanze magicoreligiose, è divenuta altrettanto esigua di quella dei nostri adolescenti: «Benché alcuni pensassero che con il tempo e la maturazione delle civiltà le lingue si sarebbero espanse e avrebbero aumentato sia i significati sia le sillabe, era successo il contrario: si erano accorciate, rimpicciolite, si erano ridotte a collezioni di onomatopee e di esclamazioni che suonavano come grida e ragli primitivi, il che non consentiva di sviluppare pensieri complessi né di accedere per questa strada a universi superiori».17 Essere in due li rende temerari e scendono nel 16 17
Ibidem, p. 105. Sansal, cit., p. 103.
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ventre della Terra per visitare il regno dei Rinnegati, il ghetto dell’Abistan. Forse i Rinnegati e il loro ghetto erano stati creati proprio dall’Apparato, un po’ come avviene con i servizi segreti americani che hanno creato l’Is per contrapporlo ad altri nemici, o con la strategia della tensione che aveva fatto esplodere bombe e mietuto tante vittime civili in Italia negli anni Sessanta e Settanta per alimentare il bisogno di uno Stato forte con le mani libere. Il ghetto è un mondo alla rovescia: vi si parlano idiomi sconosciuti, si vive nella sporcizia più sordida ma vi regna un costante buonumore, si riempiono i muri di graffiti che ridicolizzano i credenti, e soprattutto le donne sono esibite come donne: non indossano veli o burniqab, non rinserrano i seni in fasce che li nascondano alla vista, si muovono con libertà piena, parlano, civettano. Ati e Koa ne sono spaventati (nel libro non c’è un singolo incontro sessuale, la morte ha totalmente espropriato la carnalità), ma non possono fare a meno di rinsaldare il desiderio prepotente che li pervade di continuare a cercare quel che il loro impero ha sepolto sotto una coltre di devota paura ma che evidentemente esiste e pulsa da qualche parte. Alla ricerca delle verità sottaciute I due amici hanno già commesso una quantità tale di reati da poter essere massacrati allo stadio dieci volte, ma girano ancora a vuoto, nella loro città, finché non si verificano due circostanze straordinarie. La prima è lo sconvolgimento che provoca la particolarità del sito archeologico che era stato rinvenuto da Nas, la persona che Ati aveva incontrato tornando dal sanatorio. Il sito, per la lingua diversa che vi si parlava e per una moltitudine di prove inequivocabili, smentisce fragorosamente la storia dell’impero così come era stata accreditata. Il potere corre ai ripari: un angelo apparso in sogno ne annuncia l’esistenza, che era sfuggita di mente al delegato di dio poiché era troppo occupato e che, rinvenuto, viene prospettato ai fedeli come la mitica meta di pellegrinaggio che accoglierà decine di milioni di credenti. Nel frattempo, tutti i testimoni del vero ritrovamento sono stati fatti sparire, a eccezione di Nas che dovrebbe trovarsi in un luogo remoto. Ati comprende subito che il potere ha corretto a proprio uso e consumo l’evento e vorrebbe parlarne con Nas, ma le esitazioni sue e di Koa sono ancora robuste finché quest’ultimo non viene designato come accusatore
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ufficiale di una ragazza quindicenne accusata di blasfemia dalle vicine di casa. La perorazione di Koa, nipote di una personalità eminente dell’Abistan, gli darebbe nuovi vantaggi, beni e privilegi, ma Koa, che ha sempre detestato il nonno e la sua crudeltà, non si sente di mandare a morte una poveretta e non sa come uscire da quel vicolo cieco. Ecco quindi farsi strada l’unica soluzione possibile, già ipotizzata da Ati: fuggire e andare a cercare Nas. Muniti di ottimi documenti falsi, i due intraprendono il lungo viaggio alla volta della Città di Dio. Suscitano regolarmente la curiosità e il sospetto che gli abitanti delle varie città nutrono per gli stranieri, poiché nessuno «viaggia» se non per andare in guerra o in pellegrinaggio e a un certo punto, per sincerarsi che si tratti sul serio di buoni credenti, un controllore chiede loro di recitare un versetto specifico del santo Gkabul, come è avvenuto recentemente ai giorni nostri nel corso di una mattanza da parte dei fondamentalisti islamici, che chiedevano di recitare un versetto del Corano e risparmiavano o uccidevano i malcapitati a seconda che lo conoscessero oppure no. Finalmente arrivano a destinazione, nel luogo in cui si concentra il potere dell’Abistan: riescono a penetrarvi e in questo complesso labirintico e vociante assistono a una scena singolare: C’era folla dall’altra parte, una folla simpatica, era giorno di mercato; alcuni funzionari facevano scorta di legumi freschi che puzzavano di terra inquinata e di acqua putrida, carote risicate, cipolle grigie, patate sgualcite e una specie di zucca mutante pustolosa. […] La lividezza estrema dei funzionari e l’assenza di controllori suggeriva qualcosa di nascosto: lo stesso Apparato aveva organizzato questo traffico ai margini, o lo aveva incoraggiato, poiché consentiva ai funzionari di prendere un po’ d’aria e di migliorare la loro sussistenza.18
I funzionari infatti vivono in tunnel sotterranei e il pasto unico fornito dal governo consiste in una «farina grigiastra fatta non si sapeva con cosa e in una bevanda oleosa rossastra dall’odore di sottobosco dopo la pioggia e di funghi velenosi»,19 che ad Ati era ben nota poiché gliela servivano al sanatorio dove la condivano con bromuro e sostanze narcotiche, allucinogene, sedative. 18 19
Ibidem, p. 158. Ibidem.
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Tentano di scoprire dove si trovi Nas ma tutti si sottraggono biascicando scuse, finché uno dei passanti ammette che è scomparso. Sgomenti, riflettono sull’olio bollente che li aspetterebbe, se tornassero, allo stadio, finché non vengono indirizzati da un mockbi a una persona che potrebbe aiutarli, Toz. Questi li accoglie e li sbalordisce. È una specie di Zelig, un vero trasformista capace di aderire a pennello a qualunque diverso interlocutore, ma soprattutto a casa sua è vestito come un occidentale dei nostri tempi: indossa camicia, pantaloni, giacca, scarpe chiuse. Poi, per uscire, calza i sandali che portano tutti, attorciglia l’estremità dei pantaloni fin sopra i polpacci e s’infagotta con un burni per risultare anonimo fra la folla. Ai due amici sembra un clown vestito a quel modo, ma ne sono incantati. Altra sorpresa: offre ai due amici il «nostro» cibo: pane bianco, formaggio, cioccolata, beve caffè e fuma sigarette. Tutte queste cose non le ha vissute, poiché sono scomparse da troppo tempo, ma le ha trovate nei libri e le ha fatte rivivere. A questo punto non mi sento di raccontare la seconda metà del romanzo, almeno in questo caso desidero lasciare al lettore il piacere della scoperta, ma credo di aver offerto uno spaccato della deriva distopica di questo mondo di vita sospesa, raggrumata, inespressa grazie al terrore e a rituali intorpidenti, dove comunque si trovano i semi della possibilità di una rinascita. La fondamentale instabilità del mondo implica sia l’eventualità di andare in pezzi, sia quella di dar vita a qualcosa di più grande e più prezioso. La conservazione testarda di un’immutabilità è quanto di più sterile possa essere concepito. La morte prepara sempre una nuova vita. Nelle parole di Sloterdijk: «Ciò che chiamiamo fine del mondo designa, strutturalmente, la morte di una sfera. Il suo caso critico, in piccolo, è costituito dalla separazione degli amanti, la casa vuota, la foto strappata. La sua forma macroscopica si manifesta come morte della cultura, come città bruciata, come linguaggio estinto.»20 Ed è questa la ragione per cui dobbiamo trarre insegnamento dalle distopie, consapevoli però che nessuna Al Qaeda, nessun Daesh, nessun Boko Haram potranno mai fare tabula rasa dell’Ati straripante di curiosità e di vita che alligna dentro ciascuno di noi.
20
Peter Sloterdijk, Sfere. Volume I. Bolle, op. cit., p. 98.
Capitolo quarto
Il faro della psicoanalisi sui marosi dell’utopia
Žižek e il paraocchi del politically correct Forse, per immaginare che l’utopia sia ancora possibile, bisognerebbe ripartire da Hegel, come ha fatto Slavoj Žižek nel suo ponderoso libro del 2013 Meno di niente.1 L’autore avversa con tutte le sue forze il relativismo storicista postmoderno e rimane legato allo strutturalismo, specialmente a quello lacaniano, perché un conto è la totalità filosofica, tutt’altro conto il totalitarismo politico. Certo, Hegel era un prussiano al cubo, ma al tempo stesso era lucido e consapevole dell’impossibilità di superare, risolvere, addomesticare la molteplicità non solo dell’umano, ma di ciò che compone il cosmo in cui viviamo. Hegel aveva anticipato, anche se in un magma filosofico di sapere spesso poco accessibile, il messaggio che ci avrebbe spedito Miguel Benasayag con il suo Elogio del conflitto,2 perché la riconciliazione per Hegel si traduce con la coesistenza antagonistica, con una dialettica che proprio in quanto irriducibile è la condicio sine qua non del nostro vivere. Due atei forti fumatori come Žižek e Bauman, pur essendo in disaccordo quasi su tutto sono accomunati dall’ammirazione che nutrono per il messaggio 1
2
Slavoj Žižek, Meno di niente. Hegel e l'ombra del materialismo, vol. 1, Milano, Ponte alle Grazie, 2013. Miguel Benasayag e Angélique del Rey, Éloge du conflit, Paris, La Découverte, 2007, trad. it. Elogio del conflitto, Milano, Feltrinelli, 2008.
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rivoluzionario di papa Francesco e secondo me anche dal sorriso sardonico che riservano alle piccole battaglie pseudoemancipatorie di chi crede che le ideologie siano ormai decrepite e che basti diventare vegani per cambiare il mondo. L’ideologia occhieggia da tutt’e tre le distopie che abbiamo passato in rassegna: dal tecnologismo new age del Cerchio,3 dall’edonismo cinico de La possibilità di un’isola,4 dalla desertificazione della vita e dai mantra che sostituiscono l’interscambio dialogico di 2084. La fin du monde.5 L’ideologia, che Žižek ha sviscerato nel suo libro successivo L’oggetto sublime dell’ideologia,6 è magari ben nascosta ma certo presente negli eventi che leggiamo, in modo distratto, soltanto nella loro vernice. La Realpolitik, ovvero l’insieme delle decisioni clamorosamente immorali prese per mantenere lo status quo o per essere rieletti quando si è al potere, continua a produrre conseguenze disastrose. La svisatura più grave del multiculturalismo consiste proprio nel presunto rispetto che si dovrebbe tributare alla Leitkultur, ovvero alla cultura dominante di un altro gruppo. Žižek ha parlato molto tempo fa del «tollerante multiculturalismo culturale odierno che non è altro che un’esperienza dell’Altro deprivato della sua Alterità (l’Altro che balla danze affascinanti ed è dotato di un approccio olistico alla realtà perfettamente ecologico, mentre altri aspetti — come il fatto che picchia la moglie — vengono sistematicamente tralasciati)».7 Io vivo in una delle città meglio organizzate, più tolleranti e cooperative dell’Occidente, Trento, ma perfino qui assistiamo spesso a episodi di Realpolitik sconcertanti: un povero cristo passeggia di sera con il suo cane, viene aggredito, picchiato e derubato da uno straniero, e l’aggressore viene arrestato e subito scarcerato. Un altro straniero pretende del cibo gratis da un rivenditore di kebab: quello glielo nega, l’altro gli sfascia la vetrina; viene arrestato ma poche ore dopo si ripresenta a fargli sberleffi perché, appunto, è stato rilasciato. Un terzo straniero va a disturbare pesantemente il barista cinese Li Fu, molto gradito alla comunità trentina, che lo mette fuori senza tanti complimenti; dopo qualche minuto, lo straniero ritorna e gli lancia un 3 4 5 6 7
Vedi capitolo primo. Vedi capitolo secondo. Vedi capitolo terzo. Slavoj Žižek, L’oggetto sublime dell’ideologia, Milano, Ponte alle Grazie, 2014. Slavoj Žižek, Benvenuti nel deserto del reale, Roma, Meltemi, 2002, p. 15.
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mattone che il cinese schiva per miracolo. Nessuna vera presa di posizione efficace da parte delle autorità nei confronti della microcriminalità, con il messaggio in filigrana: non siamo mica razzisti... ma questo è il modo migliore per fornire grande quantità di munizioni all’armamentario dei Salvini, delle Le Pen, dei Trump, dei razzisti duri e puri. Un reato è un reato e non si può punirlo con minore severità se a compierlo è un immigrato, la popolazione va tutelata... Il caso più eclatante è forse avvenuto in Inghilterra nel 2014 in una cittadina del South Yorkshire, Rotherham. Dal 1997 al 2013 almeno 1400 bambine e ragazze sono state stuprate, prevalentemente da una gang di pachistani, senza che i servizi sociali e le autorità locali intervenissero per paura di risultare razzisti. L’autrice del rapporto pubblicato a seguito delle segnalazioni del Times, Alexis Jay, ha detto che alcune ragazze «sono state stuprate in gruppo, picchiate, intimidite e sequestrate», altre «sono state minacciate con le armi o costrette ad assistere a degli stupri», altre ancora «cosparse di benzina e minacciate di essere bruciate». Ora, il politically correct non può prescindere dalla fortissima impronta culturale e ritualistica di fatti del genere, al pari di altri ricordati da Žižek come gli omicidi seriali di donne a Ciudad Juárez in Messico, conditi di orrori come il taglio dei capezzoli con le forbici, praticati da locali, o gli stupri e le uccisioni di donne aborigene nel Canada occidentale, opera invece di canadesi bianchi che rapivano le ragazze dalle riserve e poi vi depositavano i cadaveri mutilati affinché la colpa ricadesse sugli indigeni. In tutti questi casi balza agli occhi una struttura mentale, un’ingiunzione culturale protesa a sminuire e umiliare le donne che se in Occidente sono vittima di un trattamento sfavorevole, in molti Paesi musulmani si trovano in un palese gravissimo stato di inferiorità, di esclusione, spesso di schiavitù. Non si è razzisti nel dire una cosa del genere, come non si è «mangiapreti» nel denunciare la pedofilia strutturale della Chiesa cattolica che papa Francesco sta facendo emergere e che sta combattendo strenuamente. L’inconscio è fuori, aveva già detto Žižek in uno dei suoi primi libri tradotti in italiano.8 L’incipit era fulminante: perché scandalizzarsi dei processi per pedofilia a carico di Michael Jackson se i suoi videoclip estrinsecavano al di là di ogni ragionevole dubbio la sua perversione? Beat it, con autentici criminali afro8
Slavoj Žižek, Il godimento come fattore politico, Milano, Raffaello Cortina, 2001.
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americani assoldati e addestrati per eseguire il balletto a coltelli spianati? O Thriller, con gli zombie che escono dalle tombe e la ragazzina fiduciosa che non ha idea di chi sia sul serio la persona deputata a proteggerla e prendersi cura di lei? Non c’è forse una chiara rivelazione della propria natura nell’arte che si crea? Nel libro Žižek offriva anche un’altra potente esemplificazione dell’inconscio che è di norma esteriorizzato: l’enorme statua di Lenin su un gigantesco palazzo come emblema della potenza socialista sovietica, certo, ma pur sempre sotto il tacco del suo grande dominatore. Allora, per un verso il compito dell’intellettuale oggi consiste nel cogliere l’inconscio che è sotto i nostri occhi, seppur ammantato e protetto da effetti speciali confusivi, per l’altro non lasciarsi ingabbiare da strategie compromissorie di sopravvivenza ma battersi per una vera emancipazione che non arretri né davanti all’antisemitismo né davanti all’infamia della colonizzazione e dell’umiliazione della Palestina, né davanti alla nuova religione della finanza globale né davanti alla discriminazione e all’abbrutimento delle donne. Come dice Miguel Benasayag: «Ci sono quelli che si lamentano e quelli che lottano», e per dare significato alla nostra vita non possiamo semplicemente lamentarci. Il rovescio oscuro delle nostre mappe Il vento dell’utopia, per non essere risucchiato dal vortice infernale delle distopie, ha un gran bisogno dell’apporto interpretativo della psicoanalisi. Žižek ha fatto emergere alcuni aspetti di quell’inconscio che è fuori e che nondimeno rimane celato, come la «lettera rubata» di Poe nella lettura di Lacan, primo fra tutti la smaterializzazione del feticcio: il denaro con le carte di credito diventa virtuale, e le guerre evolvono a loro volta verso una forma più apparentabile alle schiume di Sloterdijk che ai campi di battaglia con gli stivali sul terreno. A proposito del crollo delle Twin Towers Žižek ha scritto: Invece che indicare la direzione delle guerre del XXI secolo, le esplosioni e il crollo delle torri gemelle del WTC del settembre 2001 sono state lo spettacolare canto del cigno del sistema della guerra del XX secolo. Quello che ci attende è qualcosa di assai più misterioso: lo spettro di una guerra «immateriale» in cui l’attacco è invisibile (virus, veleni che possono essere
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ovunque e in nessun luogo). A livello della realtà materiale visibile non succede nulla, nessuna grande esplosione. Eppure sappiamo che l’universo inizia a crollare, la vita a disintegrarsi.9
Lo scenario prospettato contrappone lande desolate a imperi o Stati incredibilmente potenti che nondimeno possono essere tenuti in scacco da germi, gas, veleni invisibili, ed è inevitabile il ricorso alla cifra psicoanalitica: È difficile resistere alla tentazione di chiamare in causa l’opposizione freudiana tra la Legge pubblica e il suo doppio osceno superegoico: secondo questa interpretazione le «organizzazioni terroriste internazionali» cos’altro sarebbero se non il doppio osceno delle grandi multinazionali, la perfetta macchina rizomatica, onnipresente anche se priva di una base territoriale definita? Non sono forse la forma con cui il «fondamentalismo» religioso o nazionalista si adatta al capitalismo globale?10
Oggi si parla tanto di «guerra», dell’Occidente che è in guerra con l’Is, come ha affermato Hollande dopo le stragi di Parigi, ma in realtà nel confronto con mezzi anticonvenzionali, che si tratti di attentati suicidi o di droni o di uccisioni effettuate premendo un pulsante da una distanza remota, esiste un’opposizione che Žižek aveva colto già allora fra il nichilismo «passivo» e quello «attivo» di cui aveva parlato Nietzsche: siamo noi quelli passivi, che non vogliamo essere distratti dai nostri agi mentre loro buttano sul piatto della bilancia la loro vita, e in termini di dialettica hegeliana sono «padroni» di sfidare la morte mentre noi siamo «schiavi» dei nostri piaceri e non abbiamo più il coraggio di ragionare in termini di tutto o niente. Il «doppio osceno superegoico» della nostra democrazia appare in tutta la sua evidenza anche nel sostegno che gli USA offrono ai Paesi musulmani più conservatori, come l’Arabia Saudita e i Paesi del Golfo, e nella scelta di privilegiare governi autoritari, che favoriscono gli interessi economici, a governi effettivamente democratici che inevitabilmente sarebbero ansiosi di estromettere l’Occidente dai propri affari interni. Insomma, se vogliamo essere utopici e immaginare e perseguire un mondo migliore, dobbiamo necessariamente fare i conti con il rovescio oscuro delle mappe, dobbiamo girarle e guardarle, e la psicoanalisi è il bisturi più acuminato per farlo. Si 9 10
Slavoj Žižek, Benvenuti nel deserto del reale, op. cit., p. 43. Ibidem, p. 44.
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consideri appena la premonizione infausta che Žižek aveva fatto nel 2004 commentando l’invasione dell’Iraq da parte dell’America di Bush e antivedendo la nascita dell’Is: Questo è il primo caso di occupazione diretta di uno stato arabo esteso e importante: come potrebbe non generare un odio universale? Si può già immaginare che migliaia di giovani sognino di diventare attentatori suicidi, e che questo costringerà il governo degli Stati Uniti a imporre lo stato d’emergenza e a stare perennemente all’erta. Anzi, dall’occupazione statunitense potrebbe emergere un vero e proprio movimento islamico fondamentalista antiamericano, collegato direttamente ad altri movimenti in altri paesi arabi o a paesi con forte presenza islamica: in altre parole, un’«Internazionale» islamica.11
Il ritorno del pendolo Il libro Il ritorno del pendolo,12 incentrato sull’impianto freudiano della sociologia di Zygmunt Bauman e sulla necessità di coniugare, intrecciare e comprendere la mutua fecondità degli apporti di psicoanalisi e sociologia, è latore di un messaggio sorprendente poiché siamo abituati a considerare le due discipline distanti, se non addirittura antitetiche. Lo studio dell’analista è infatti tradizionalmente il luogo in cui, attraverso il transfert, una persona cerca di superare/mitigare/rielaborare la propria sofferenza psichica, di trasformarla dal sasso acuminato, che duole e impedisce di respirare, nella materia friabile che, pur composta dalla sofferenza irriducibile che intride ogni vita, può riconfigurarsi in una nuova geometria compatibile, in nuove commistioni accettabili, in nuovi scenari che liberino energie e slanci consentendo così di uscire dal ristagno e conferire un senso all’esistenza. La sociologia, dal canto suo, è focalizzata sui problemi condivisi delle persone, e distingue fra «le “difficoltà” (troubles) [che] si verificano nell’am11 12
Slavoj Žižek, Iraq, Milano, Raffaello Cortina, 2004. Zygmunt Bauman e Gustavo Dessal, El retorno del péndulo. Sobre psicoanalisis y el futuro del mundo líquido, España y Argentina, Fondo de Cultura Económica de España, 2014, trad. it. Il ritorno del pendolo. Psicoanalisi e futuro del mondo liquido, Trento, Erickson, 2015.
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bito del carattere dell’individuo e dei suoi rapporti con il prossimo [e i] “problemi” (issues) [che] si riferiscono invece a questioni che trascendono l’ambiente particolare dell’individuo e i confini della sua vita interiore».13 Compito della sociologia, accogliendo il legato di Wright Mills, è quello di allargare l’ambito della consapevolezza individuale per far comprendere alla «gente comune» che il più delle volte l’angolo ristretto in cui si focalizzano le proprie «difficoltà» è in realtà un ambito molto più vasto che riguarda «problemi» condivisi da molti altri e che non sono suscettibili di essere risolti se non insieme ad altri.14 Parrebbe quindi che psicoanalisi e sociologia, la prima protesa a salvare il singolo individuo dal labirinto dei suoi legami schiudendogli sentieri capaci di riaccendere il suo desiderio e la sua spinta vitale, la seconda incline piuttosto a farlo uscire dall’infausto specchietto retrovisore dei propri antichi drammi familiari e dalla frusta e sterile contemplazione del proprio ombelico per gettare lo sguardo più lontano su orizzonti sociali e condivisi, non avessero nulla in comune. E invece... è Bauman stesso a precisare, nella sua prima lettera di risposta del 19 luglio 2012 a Gustavo Dessal: «il mio modo di fare ricerca/ pensare è una variante sociologica della psicoanalisi, o meglio il risultato dell’applicazione della strategia di indagine freudiana allo studio delle questioni sociali».15 Bauman definisce quindi la sua modalità di essere sociologo una «ermeneutica sociologica», e la modalità dello scandaglio freudiano una «ermeneutica psicologica». In sostanza Bauman testimonia il debito della sua «decostruzione» dei pensieri e dei fatti umani, la sua lettura così peculiare delle modificazioni sociali che ha avuto il suo esito più noto nel significante «liquido», nei confronti della sovversione freudiana, del ribaltamento effettuato dal padre della psicoanalisi rispetto alla pretesa fino allora nutrita di una «padronanza» dell’Io di cui ha svelato l’inconsistenza. Freud 13
14
15
Charles Wright Mills, The Sociological Imagination, 1959, 2000, trad. it. L’immaginazione sociologica, Roma, Il Saggiatore, 2014, p. 18. Zygmunt Bauman, What Use Is Sociology? Conversations with Michael Hviid Jacobsen e Keith Tester, Cambridge, Polity Press, 2013, trad. it. La scienza della libertà, Trento, Erickson, 2014, Richard Sennett, Together. The Rituals, Pleasures and Politics of Cooperation, 2012, trad. it. Insieme, Milano, Feltrinelli. Bauman e Dessal, cit., p. 107.
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ha mostrato quanto l’essere umano sia eterodiretto, ambivalente, fragile e costitutivamente diviso, ed è tesaurizzando la sua lezione che Bauman ha potuto investigare e cogliere le contraddizioni, gli autoinganni e gli autosabotaggi di una società analizzata come un organismo vivo, come un corpo pulsionale. Dal canto suo Gustavo Dessal ammette che «senza una chiara prospettiva delle coordinate dell’epoca, la psicoanalisi potrebbe trascurare le profonde trasformazioni sociali che toccano i fondamenti stessi della civiltà, generando nuovi sintomi ai quali la clinica deve dare una risposta che si distingua dai presupposti polizieschi della biopolitica».16 Plus ça change plus c’est la même chose — eppure qualcosa è cambiato C’è nella natura umana qualcosa che, nonostante il progresso parossistico della tecnologia o il regresso orribile che vediamo all’opera nei riaffioramenti tribalistici e osceni delle decapitazioni o dei corpi arsi vivi dai fondamentalisti dell’Is, continua a perdurare e a restare uguale a se stesso: i turbamenti, i fremiti e gli sconvolgimenti dell’innamoramento, la profonda, nutriente consolazione che si prova nella certezza di poter contare sugli amici, l’aggressività e il risentimento che, per quanto si possa sperare di metterli alla porta, restano coinquilini perenni dell’animo umano e che indussero il grande poeta Heinrich Heine a scrivere: «Ho un temperamento il più pacifico che esista [ma] se il buon Dio mi volesse rendere del tutto felice, mi dovrebbe procurare la gioia di vedere sei o sette dei miei nemici impiccati a questi alberi»17 (Gedanken und Einfälle, in Freud, 1929, p. 245). Alcuni elementi costitutivi della nostra vita non cambiano né potrebbero cambiare: come ha mostrato Luigi Zoja ne Il gesto di Ettore18 ci si può illudere che un paio di ricambi generazionali e la presa di coscienza della piena dignità e parità delle donne possano modificare l’atteggiamento dei maschi nei loro confronti, per poi scoprire con raccapriccio che millenni di 16 17
18
Ibidem, p. 12. Sigmund Freud S., Gedanken und Einfälle, in Das Unbehagen in der Kultur, 1929, trad. it. Il disagio della civiltà, Torino, Bollati Boringhieri, 2010, p. 245. Luigi Zoja, Il gesto di Ettore, Torino, Bollati Boringhieri, 2000.
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condizionamenti stratificati hanno cambiato la vernice dei loro comportamenti ma che la belva che sopravvive e sonnecchia in tanti di loro è pronta a manifestarsi di nuovo, allorché un abbandono li trasforma in macchine di distruzione e di autodistruzione pronte ad annegare nel sangue un’onta che sentono inaccettabile. I grandi cambiamenti a cui vanno incontro intere società impattano sui singoli individui i cui apparati psichici hanno tempi di trasformazione molto più lenti. La stessa analisi di Freud sulle nostre cause di infelicità, «la forza soverchiante della natura, la fragilità del nostro corpo e l’inadeguatezza delle istituzioni che regolano le reciproche relazioni degli uomini nella famiglia, nello Stato e nella società»19 è tuttora valida. Ma se a quel tempo si poteva porre l’accento sulla nevrosi che derivava dal fatto di «aver barattato una parte della possibilità di felicità per un po’ di sicurezza»,20 oggi in effetti si coglie un drastico mutamento poiché la sicurezza di un tempo è stata ceduta in cambio di una libertà pressoché illimitata. La «civiltà» era stata resa possibile da una delega da parte dei singoli individui a una comunità in grado di governare anche con la forza gli impulsi distruttivi delle singole persone, e ciò aveva richiesto di porre dei vincoli all’espressione libidica degli individui. Peraltro fra il Super-io, l’istanza individuale che si oppone e frena la manifestazione delle forze impulsive, e la psicologia di gruppo, esiste un’importante relazione:21 certi gruppi tendono a identificarsi con un capo carismatico, la cui immagine diventa una parte del Super-io di ciascuno dei membri del gruppo. Questo aspetto della psicologia di gruppo spiega per esempio come sia stato possibile da parte di Hitler influenzare i principi morali di milioni di tedeschi. Come dice Bauman, gli individui erano stati allevati per diventare «lavoratori» o «soldati», elementi produttivi della società, e ciò non sarebbe stato possibile senza porre un robusto argine alla loro vita sessuale. Il «panico da masturbazione», di cui parla Bauman riesumando Foucault, era dovuto al fatto che i genitori prestavano la più grande attenzione a spegnere o comprimere sul nascere gli impulsi sessuali nei loro figli poiché ciò sarebbe stato 19 20 21
Freud, 1929, cit., p. 222. Ibidem, p. 250. Sigmund Freud, Massenpsychologie und Ich-Analyse, 1921, trad. it. Psicologia delle masse e analisi dell’Io, Torino, Bollati Boringhieri, 2010, pp. 65-142.
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propedeutico a mitigare le manifestazioni sessuali allorché fossero diventati adulti. Deleuze ebbe gioco facile nel denunciare le forme di oppressione borghese che oltretutto innescavano le nevrosi che convogliavano i più abbienti verso il lettino di Freud o dei suoi colleghi, ma di fatto i membri delle famiglie trascorrevano molto tempo insieme e i cittadini si sentivano certo vincolati e magari oppressi dalla comunità e dallo Stato, ma al tempo stesso avevano un paracadute e la certezza di poter contare sull’aiuto di cui avessero avuto bisogno. Se diamo un’occhiata a ciò che avviene nelle stanze da bagno e nelle camere da letto di oggigiorno, rileva Bauman, ci accorgiamo che esse sono ancora teatro di un panico, che però adesso è «panico da abuso sessuale»: mentre prima gli accusati/reprobi erano i figli, oggi sul banco degli imputati ci sono i loro genitori. Il messaggio è a chiare lettere che sarà meglio non permettersi un’eccessiva vicinanza con i figli se non si vuole prima o poi essere accusati di essere dei pedofili. E allora qualcosa di decisivo è veramente cambiato, perché le ragazzine e i ragazzini di oggi, anche grazie all’uso massivo che fanno delle nuove tecnologie, scoprono il sesso in modo precoce e molteplice e ne fanno un uso e un abuso «metonimico», come palline da flipper, di continuo risospinti verso «qualcos’altro», stabilmente insoddisfatti e abitati dallo stesso senso di insignificanza. Sociologia e psicoanalisi come incarnazioni del desiderio Miguel Benasayag non è affatto tenero con gli psicoanalisti in generale. Nel suo penultimo libro, Clinique du mal-être,22 fa a pezzi i suoi numerosi colleghi che ascoltano con l’orecchio sinistro e prolungano stancamente analisi inutili, più attenti alle loro parcelle che alla possibilità di riaccendere una scintilla di vita nei loro pazienti; passa poi per le armi le psicoterapie cognitivo-comportamentali, che restano in superficie e nei casi migliori sostituiscono un sintomo con un altro; illustra infine il suo peculiare modo di fare analisi, la «terapia situazionale», in cui accompagna i pazienti prestando ascolto non solo ai drammi familiari che riaffiorano dal passato ma anche alle situazioni reali, ai contesti e alle vicissitudini in cui sono 22
Miguel Benasayag, Clinique du mal-être, Paris, La Découverte, 2015.
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immersi adesso. Quel che è certo è che Benasayag è perennemente acceso dalla passione che mette nel suo lavoro e nelle relazioni che coltiva, la stessa passione che lo spinge a leggere e a scrivere come un «forsennato gioioso». Sembra aver fatto proprio il motto di Montaigne «Il ne faut rien faire sans joie» (Non bisogna fare nulla senza gioia). E la gioia creativa e la passione sono più che mai vive in Zygmunt Bauman e Gustavo Dessal. Bauman dopo la Seconda guerra mondiale ha smesso di studiare fisica e si è gettato anima e corpo sulla sociologia ritenendo i legami interumani un problema più urgente e capitale di quello dell’astronomia: da quasi settant’anni se ne occupa con un’intelligenza, un acume e un’apertura alle altre discipline che non ha eguali. Gustavo Dessal svolge osservazioni di un’inventiva e una profondità che sbalordiscono, ed è molto noto anche come romanziere. È importantissimo che queste discipline vengano rivitalizzate da intellettuali come loro: la sociologia altrimenti così trincerata, autoreferenziale e più proclive a coltivare avanzamenti di carriera che a dispiegare l’imprescindibile immaginazione sociologica; la psicoanalisi, che corre gravi rischi di ossificazione e inaridimento. Leggiamo quello che ne scrive il più grande psicoanalista lacaniano del nostro Paese: Gli psicoanalisti appaiono irrigiditi nella postura che la loro pratica gli assegna: quella del morto. Non sanno più sorridere e non sanno più emozionare (sanno ancora desiderare? sanno ancora godere della vita?). Sono per lo più asserviti allo spirito di serietà e di rassegnazione. In questo ereditano la tristezza sacrificale dei peggiori «preti» [tranne] l’eccezioneLacan rispetto a ogni rappresentazione mortifera e sacrificale della psicoanalisi che anche Deleuze gli riconosceva: «soltanto Lacan ha conservato un certo senso del riso».23
Recalcati ha reso omaggio a Lacan con un primo tomo di oltre 600 pagine e un secondo in uscita, impensabili da sintetizzare, ma forse vale la pena rintracciare e mettere in risalto quei due-tre aspetti salienti che vengono ripresi da Dessal rispetto alle cautele necessarie quando si parla di utopia. Bauman aveva identificato, prima di «liquido», altri tre significanti che esemplificavano le due epoche precedenti e quella presente: l’ancien régime sarebbe stato rappresentato dal guardacaccia, il custode geloso e 23
Massimo Recalcati, Jacques Lacan: desiderio, godimento, soggettivazione, Milano, Raffaello Cortina, 2012, p. XVI.
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attento dell’esistente, pronto a neutralizzare qualunque invasore/pericolo/ fonte di contagio. Con l’Illuminismo, si sarebbe affacciata una nuova figura cardinale, quella del giardiniere, capace di modificare il mondo così come lo conosciamo, di renderlo diverso e migliore. La modernità liquida ha infine visto irrompere un nuovo personaggio, il cacciatore, proteso a cogliere il maggior numero di prede possibili qui e ora, disposto ad alleanze solo momentanee e strategiche, anzi tattiche, da mantenere esclusivamente per il tempo strettamente necessario, in una logica da «Grande Fratello» dove soltanto uno può trionfare a scapito di tutti gli altri. Noi che ci riteniamo «moderni» siamo tutti figli dell’Illuminismo e se escludiamo i «nativi digitali» cresciuti a latte e smartphone abbiamo tutti coltivato, idealizzato e perseguito una qualche forma di utopia. Siamo tutti piccoli o grandi giardinieri che hanno riposto la propria fede in una qualche formula o progetto di miglioramento del mondo. Neanche Bauman, Freud o Dessal possono, credo, disconoscere la propria filiazione dall’Illuminismo. Il punto è che mentre prima di Freud e dell’Olocausto si poteva ancora nutrire fiducia in un avanzamento delle conoscenze e dell’amministrazione del mondo che avrebbero potuto sradicare tutte le «erbacce» e renderlo un posto migliore, sempre più vicino alla perfezione, con la sovversione freudiana, e lo sterminio sistematico di milioni di esseri umani trattati alla stregua di erbacce da estirpare, la prospettiva delle menti più avvertite non ha potuto che cambiare. Mentre prima di Freud si era potuta riporre una fede assoluta nell’Io come artefice cartesianamente consapevole della propria traiettoria di destino e nella Ragione come luogo deputato alla costruzione del Bene, con Freud si coglie la sostanziale inadeguatezza sia dell’Io sia della Ragione. Con adeguamenti successivi, l’Io viene dapprima identificato come la risultante di una lotta inestinguibile fra le spinte pulsionali anarchiche dell’Es e l’azione compensatrice/riequilibratrice del Super-io, poi scoperto nella sua essenziale inermità, che con Lacan diventerà un buco, un’apertura impossibile da colmare, di cui Dessal parla descrivendo la «beanza». Questa voragine non è costitutiva dell’essere umano, ne è piuttosto «costituente» perché vi accende la scintilla del desiderio. Vi è dunque nell’individuo non già un Io «padrone in casa propria» bensì una spaccatura, una divisione in cui si manifesta il desiderio del desiderio dell’Altro o, come scrive Freud,24 «[la] paura di perdere l’amore». 24
Freud, 1929, cit., p. 259.
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Il Lacan della maturità ha superato lo strutturalismo stringente secondo cui gli individui esisterebbero soltanto nei continui rimandi del linguaggio, poiché c’è sempre un resto, un residuo, qualcosa che resiste ed è specifico di ogni essere umano, il nostro sintomo che è il «significante di un significato rimosso»25 (Lacan, 1976, p. 274), il nostro Wunsch, la vocazione che ci è propria e che può dare un significato alla nostra vita. Lo studio dell’analista lacaniano si distanzia quindi da quello del tipico analista postfreudiano che si limita a uno scandaglio interpretativo raramente capace di dare nuovo slancio a una vita magari più consapevole ma altrettanto triste e inerte. Cito a memoria un articolo che Pietro Citati aveva pubblicato nel 1978 a proposito di Ingeborg Bachmann, la grande amarissima autrice di Tre sentieri per il lago e de Il trentesimo anno, la cui lunga psicoanalisi non le aveva impedito di suicidarsi. Il paziente lacaniano viene chiamato «analizzante» proprio perché è chiamato a confrontarsi, certo con il proprio passato, ma solo per riorientare attivamente la propria vita. Nella sintesi a mio avviso esemplare di Recalcati: La verità dell’inconscio residua freudianamente in tracce delle quali Lacan propone un elenco: i «monumenti» (il mio corpo come monumento della mia storia, i sintomi somatici come ricordo dell’evento rimosso), i «documenti d’archivio» (la mia memoria, le scene dell’infanzia così come le ho archiviate), «l’evoluzione semantica» (come parlo, quali significanti mi hanno catturato, quali mi respingono […]) e «le tradizioni» (le leggende e i miti familiari, l’epica che mi ha forgiato). In tutte queste tracce risuona il capitolo bianco dell’inconscio esigendo, più che il recupero di una «architraccia», di una traccia originaria, una nuova scrittura del testo del soggetto che proceda dalla risoggettivazione di ciò che è già stato. […] L’inconscio non è una versione del passato, né il suo contenitore, ma qualcosa che deve realizzarsi nell’avvenire.26
La sociologia baumaniana condivide con questa psicoanalisi lo studio del passato, dei grandi maestri verso i quali abbiamo contratto un debito da onorare e che abitano il nostro modo di lavorare e di essere nel mondo, ma attraverso l’immaginazione e la curiosità per la vita che ci circonda e 25
26
Jacques Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, in Id., Scritti, Torino, Einaudi, 2 voll., 1976, p. 274. Recalcati, 2012, cit., p. 98.
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che incide sulle nostre traiettorie quanto i sacri testi impolverati attraverso la letteratura, il cinema, l’arte e la pop culture ci invita a una nuova scrittura della nostra società, a rivestire un ruolo attivo nelle questioni che ci riguardano in quanto le condividiamo. Il lato oscuro della Ragione e della Legge Bauman ha mostrato, dapprima nel suo capolavoro Modernità e olocausto e poi, nel confronto serrato con Philip Zimbardo e Günther Anders, ne Le sorgenti del male,27 quanto sia grande l’influenza che gli altri possono esercitare sulla capacità dell’individuo di fare qualunque cosa, di compiere finanche le maggiori atrocità in ossequio a ingiunzioni provenienti dall’esterno. L’essere umano è alla fine una fogliolina nella tempesta, ed è un grave errore ritenere che la Ragione o la Legge possano rimettere in riga una persona o un’intera comunità, posto che «il Super-io di un’epoca della civiltà ha un’origine simile al Super-io di un individuo».28 Il Super-io peraltro è perlomeno bifronte poiché, se per un verso è indispensabile per arginare le spinte individuali a un godimento aggressivo acefalo e sfrenato, per l’altro può diventare una trappola per topi e albergare in sé una crudeltà altrettanto o ancor più devastante. «[I]n principio la coscienza morale […] è la causa della rinuncia pulsionale, ma poi il rapporto si rovescia. Ogni rinuncia pulsionale diventa allora una fonte dinamica della coscienza, ogni nuova rinuncia ne accresce la severità e l’intolleranza».29 E così la Legge, imprescindibile per la convivenza umana, può diventare la legge sadica dei romanzi di Kafka e coloro che la esercitano possono trarne un godimento che, sotto l’egida di un’istanza nobile, umilia, schiaccia e massacra i suoi presunti beneficiari. Ogni totalitarismo distopico è intriso di godimento sadico. La resistenza e lo scetticismo opposti da Freud e Bauman all’Illuminismo di cui sono figli scaturiscono dalla consapevolezza della molteplicità inconciliabile dell’Io, dell’impossibilità dell’Uno, delle distopie inestri27
28 29
Zygmunt Bauman, A Natural History of Evil, South Korea, Indigo Press, 2012, trad. it. Le sorgenti del male, Trento, Erickson, 2013. Freud, 1929, cit., p. 276. Ibidem, p. 263.
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cabilmente racchiuse in ogni utopia. Il problema dell’antisemitismo che caratterizza tutta la filosofia tedesca da Lutero a Heidegger è implicito nello sforzo medesimo di sistematizzare l’esistente, di erigere una cattedrale della conoscenza priva di crepe, di disarmonie, di discontinuità che sono ineliminabili dalla natura umana. Credo possa risultare interessante considerare più da vicino la messa all’indice della figura dell’ebreo nel passato recente poiché oggi rischia di succedere la stessa cosa con la figura del musulmano, sempre nel quadro di un’operazione di «giardinaggio» utopico. Lo zingaro, il disabile e soprattutto l’ebreo, con la loro non conformità alle armonie auspicate e all’ordine granitico delle costruzioni filosofiche, vengono percepiti come un difetto da correggere, come un problema da risolvere che Hannah Arendt aveva visto manifestarsi proprio nell’Illuminismo: «La Judenfrage viene sollevata quando gli ebrei sono considerati al contempo sia un interrogativo, perché l’ebraismo sembra sfuggire a una definizione, sia un problema da risolvere»,30 e più avanti: «Gli ebrei sembrano dunque rappresentare una sfida per i filosofi che non riescono a inserirli nei loro schemi concettuali».31 Ecco perché Bauman legge l’Olocausto non come un incidente o una svisatura, una derapata per quanto terribile della Storia, ma come una logica conseguenza di quel laboratorio della Ragione che avrebbe dovuto e per molti dovrebbe ancora condurre a un mondo migliore. Lutero considerava gli ebrei «i grandi maestri del mentire», Kant auspicava una «eutanasia dell’ebraismo». «Per Hegel, gli ebrei sono un popolo di schiavi» e, anche se «nella Fenomenologia delinea quel rapporto servo-padrone in cui, per un necessario rovesciamento dialettico, il servo diviene padrone del padrone, [Hegel] inchioda il popolo ebraico a una condizione di schiavitù perpetua».32 Nietzsche, dal canto suo, era già nel cuore dei tedeschi durante il primo conflitto mondiale grazie allo Zarathustra, e non solo ispirò il nazionalsocialismo ma ebbe anche, nelle parole di György Lukács, in Hitler il suo «esecutore testamentario»,33 mentre per Schopenhauer «l’ebreo è un gran 30
31 32 33
Donatella Di Cesare, Heidegger e gli ebrei. I «Quaderni neri», Torino, Bollati Boringhieri, 2014, p. 36. Ibidem, p. 38. Ibidem, p. 54. Ibidem, p. 61.
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maestro di menzogne».34 Heidegger, infine, ai cui Quaderni neri è dedicato l’ultimo saggio di Donatella Di Cesare, contrapponeva la distruzione (Zerstörung) nazionalista alla desertificazione (Verwüstung) ebraica: «Mentre la distruzione è “l’annuncio di un inizio nascosto”, la desertificazione è “il colpo di coda della fine già decisa”».35 Heidegger aveva preso le distanze dal Tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler, che pure lo aveva favorevolmente impressionato, perché secondo lui sarebbe stato necessario attraversare la notte (della distruzione) per poi godere di un mattino purificato. Ed è impossibile astenersi dal citare l’ironia che Bauman sfodera nel capitolo Il dibattito su Freud: […] la «gran cosa» bramata — e cercata febbrilmente da persone che avevano nella propria natura il bisogno della lotta per le cose mancanti e desiderate […] era, paradossalmente, la fine di tutte le lotte; la fine della necessità o dell’obbligo, così come del desiderio e della desiderabilità, di lottare. […] L’inquietudine dei compulsivi/dipendenti ideatori/cacciatori di utopie era animata e sostenuta dall’inguaribile desiderio di riposare. I combattenti si lanciavano nella battaglia animati dal sogno di deporre le armi… per sempre.36
Dessal, per parte sua, nel suo Commento a Libertà e sicurezza, sostiene che Sartre abbia torto nel ritenere che l’inferno siano gli altri. Nella sua pièce magistrale Huis clos («A porte chiuse»), Sartre mette in scena tre personaggi in un salotto secondo impero: Garcin, Inès ed Estelle. Sanno di essere morti, e si rallegrano che l’aldilà si riveli così confortevole. A mano a mano che le interazioni fra loro si intensificano, però, il risentimento reciproco e l’infelicità crudele che ne deriva fanno loro rimpiangere che quella situazione non possa avere fine, qualunque fine, e il dramma si chiude con le parole. «L’enfer, c’est les autres», l’inferno sono gli altri. Scrive Dessal: […] l’inferno non sono gli altri, quantunque esistano alcuni «altri» capaci di creare con una certa efficacia lo scenario dell’inferno. È solo perché l’inferno si nasconde dentro di noi che possiamo comprendere la nostra speranzosa disposizione a lasciarci convincere che si trovi fuori. Fondamentalmente è per questo motivo che la fede nel progresso si è rivelata una delle illusioni più 34 35 36
Ibidem, p. 79. Ibidem, p. 126. Bauman e Dessal, cit., p. 58.
Il faro della psicoanalisi sui marosi dell’utopia
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ingenue e perverse dell’Illuminismo, nonostante tutte le indubitabili conquiste che ci ha portato. Una fede che non è stata esattamente inoffensiva, considerato che i suoi «danni collaterali» hanno superato abbondantemente la promessa di felicità che era stata fatta alla storia.37
E ipotizza che lo stesso nazismo fosse alla fine un tentativo poderoso di autoannientamento. Certo, se pensiamo al «cosiddetto Nero-Befehl, emanato da Hitler il 19 marzo 1945, prima del suicidio nel suo bunker, l’ordine cioè di distruggere tutte le infrastrutture e i mezzi di sussistenza, perché nessun ariano, o meglio, nessun tedesco avrebbe dovuto sopravvivere alla sconfitta»,38 o al fatto stesso che con lo sterminio sistematico degli ebrei il popolo tedesco avesse varcato un confine tale da impedire qualunque ritorno a una condizione di convivenza umana, ci rendiamo conto che le stesse dighe che poniamo al dilagare delle pulsioni individuali distruttive sono suscettibili di tramutarsi in una Ragione impazzita e in una Legge sadica molto più devastanti delle esplosioni individuali che possono essere facilmente gestite da poliziotti, psichiatri, assistenti sociali: la potenza distruttiva è incredibilmente maggiore quando si situa «dalla parte della Legge». La sete di sottomissione Nel nuovo assetto del mondo occidentale che consente una libertà sessuale pressoché sconfinata al prezzo di una sicurezza sempre più remota, evaporata, irripristinabile, Bauman ipotizza la possibilità di un «ritorno del pendolo», di un movimento uguale e contrario teso al recupero della sicurezza perduta a qualunque costo, anche a quello di rinunciare alla libertà che gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso avevano conquistato. Ne scorge traccia nella grata supinità con cui ci assoggettiamo ai controlli e ai ritardi aeroportuali dovuti alla necessità di prevenire attacchi terroristici, nella familiarità che ci ispirano le numerosissime telecamere di sorveglianza disseminate ovunque e immancabili nei centri commerciali, nella pronta disponibilità a mettere in circolo i nostri dati personali quando effettuiamo acquisti online e nella gioiosa condivisione delle nostre esperienze anche attraverso foto, video e confessioni 37 38
Ibidem, p. 22. Di Cesare, cit., p. 82.
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intime che postiamo sui social network. Con-cediamo ormai tutto di noi stessi per l’ingannevole sensazione di sicurezza che ci procura il consolante riverbero a garanzia della nostra esistenza perennemente contrappuntata di risposte. Poi, però, oscuramente, di tanto in tanto, ci rendiamo conto della nostra solitudine sostanziale e dell’assenza di vere protezioni, e sviluppiamo sintomi antichi come le depressioni o nuovi nella loro diffusione inaudita come gli attacchi di panico. E proviamo la nostalgia di un riferimento più alto, di una forza più potente che ci sovrasti, della «gabbia d’acciaio» di Max Weber, o di una potenza trascendente e disciplinatrice come l’islam divenuto religione di Francia nell’ultimo romanzo di Michel Houellebecq, Sottomissione.39 Il fatto è che i giovani occidentali sono così disorientati e sperduti che le conversioni all’islam stanno aumentando, al pari dei foreign fighters che vanno a ingrossare le file dell’Is, alimentate dal desiderio di qualcosa di grande e di saldo. Il consenso di Putin nell’URSS è altissimo, i cittadini sono fieri di appartenere a quella che considerano «la grande Russia»; i cinesi possono contare su un costume, la guanxi, che è stato descritto da Richard Sennett in Insieme, tale da vincolare tutti al mutuo aiuto, alla solidarietà, pena la perdita dell’onore e la condanna al disprezzo generale. Ma un giovane italiano, francese, inglese, ormai incapace di coltivare seriamente relazioni offline e disabituato all’attenzione autentica allo sguardo dell’Altro e alla disponibilità a prendersi cura dei propri simili, come può sentirsi nella sua vasca di libertà disancorata, brulla, ubriaca di innovazioni tecnologiche e di sostanze tossiche ma orfana di vita vera e della capacità poetica e rigenerante del gesto di tendere la mano? Dessal commenta: «Non sappiamo che cosa ci porterà questo nuovo giro del pendolo, ma dobbiamo almeno sperare che, al suo arrivo, una solida lucidità mantenga i nostri occhi aperti».40 Quindi, senza mai rinunciare all’utopia, dobbiamo mantenere desto il nostro spirito critico e moltiplicare i nostri sguardi sul mondo abbeverandoci costantemente alle fonti suscettibili di vivificarlo: la letteratura, la psicoanalisi, la sociologia, il confronto aperto e itinerante con il magma umano e cosmogonico in cui siamo immersi. 39
40
Michel Houellebecq, Soumission, Paris, Flammarion, 2015, trad. it. Sottomissione, Milano, Bompiani, 2015. Bauman e Dessal, cit., p. 12.
Capitolo quinto
Qualche riserva sull’utopia
Le ombre dell’Utopia di Thomas More Il fatto che «le strade dell’inferno siano lastricate dalle migliori intenzioni» emerge finanche dal libro di Thomas More, in cui l’ingenuità del nobilissimo autore, che preferirà farsi decapitare da Enrico VIII piuttosto che cedere su un principio etico, affiora con una certa frequenza. Le necessità della giustizia sociale impongono che ciascuno lavori sei ore al giorno e questo garantisce che vi sia abbondanza per tutti, ma la struttura ferrea della società impone una serie di costrizioni che ai nostri occhi non possono non apparire sconcertanti. Un esempio: I vestiti — la cui forma, salvo le differenze che permettono di distinguere uomo e donna, celibe e sposato, è unica per tutta l’isola, sempre uguale per tutte le età, non sgradevole alla vista, comoda per tutti i movimenti, adatta sia per l’inverno che per l’estate —, questi vestiti, dicevo, ogni famiglia li confeziona da sé.1
Come non pensare al burni indossato dagli abitanti dell’Abistan in 2084. La fin du monde di Boualem Sansal? O alle divise dei carcerati? E ai carcerati fa pensare anche «l’ora d’aria» di cui dispongono dopo cena. 1
Thomas More, Utopia, a cura di Francesco Ghia, nuova traduzione di Maria Lia Guardini, Trento, Il Margine, 2015, p. 117.
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Un’ora, niente di più, niente di meno. Trascorsa facendo musica, conversando o divertendosi con giochi utili, simili agli scacchi, o certami in cui si contrappongono i vizi e le virtù. Niente dadi, o altri giochi suscettibili di corrompere i buoni sentimenti. E un tempo prestabilito, perché poi ovviamente bisogna dormire otto ore, e naturalmente perché qualcuno dovrebbe o potrebbe soffrire d’insonnia in un mondo perfetto? Senza contare che «[o] gni pranzo e ogni cena cominciano con la lettura di un testo di argomento etico», anche se opportunamente «la lettura è comunque breve perché non venga a noia».2 A questo punto può sorgere il sospetto che qualcuno, desiderando una vita meno incasellata e preordinata, decida di andarsene. Ricorderete che in 2084 l’unica possibilità autorizzata di viaggiare consistesse nel recarsi in pellegrinaggio, con un itinerario e dei tempi stabiliti dalle autorità. Nell’Utopia di More per viaggiare bisogna ottenere l’autorizzazione scritta del sommo magistrato su cui è indicato il giorno in cui bisognerà fare ritorno. «Ma se qualcuno, di sua personale iniziativa, si allontana dal suo distretto, e viene trovato privo dell’autorizzazione del magistrato, trattato con disonore, viene riportato indietro come schiavo fuggiasco e castigato severamente. Se poi tenta di nuovo la fuga, viene ridotto in schiavitù».3 Peraltro, così come ai giorni nostri viene utilizzato largamente l’outsourcing, cioè l’affidamento ad altri del lavoro che può essere esternalizzato, così, non ci si sporca le mani per sopprimere e pulire gli animali di cui cibarsi preferendo che se ne occupino gli schiavi, e un po’ come fanno gli Stati Uniti oggi si usano le immense risorse auree disponibili per dislocare anche le guerre: […] tutto quel tesoro che tengono da parte in patria serve all’unico scopo di poterlo usare per difendersi da pericoli esterni o imprevisti, soprattutto per assoldare, anche con paghe esagerate, soldati stranieri che loro espongono al pericolo più volentieri dei propri concittadini. Sono infatti consapevoli del fatto che, con molto denaro a disposizione, è possibile comperare anche i nemici, e farli combattere tra di loro, o con un tradimento o con un attacco diretto.4 2 3 4
Ibidem, p. 129. Ibidem, p. 130. Ibidem, p. 132.
Qualche riserva sull’utopia
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Sembra una prefigurazione del Grande Gioco dell’Occidente, usiamo i sunniti contro gli sciiti, finanziamo questo gruppo terroristico contro quello Stato che ci dà tanto fastidio. Oppure creiamo una «strategia della tensione» con una serie di attentati devastanti in Italia affinché grazie allo scompiglio l’ordine possa trionfare. Salvo poi ritrovarci imbelli di fronte alla tigre che abbiamo allevato perché ci proteggesse dalle altre fiere: le guerre per procura dell’Impero romano al suo crepuscolo, le Camicie nere che sbrigavano il lavoro sporco con i soldi dei ricchi ma che poi marciano su Roma, lo stesso Daesh che sembrava ed era stato tanto utile ma che poi ti porta la morte in casa... E poi c’è il problema dell’eccesso di trasparenza, del fatto che «tutto deve essere visibile». Già nelle grandi tavolate si alternano gruppi di anziani a gruppi di giovani, affinché questi ultimi siano sempre a portata d’orecchio. Ma poi, come nel Cerchio di Dave Eggers, la visibilità invade tutti gli ambiti: «Capite bene come in nessun luogo sia lasciata la possibilità di restarsene in ozio; mai c’è un pretesto per l’inattività: non esistono osterie, birrerie, bordelli, nessun luogo di perdizione, nessun luogo di adunanze segrete. Il vivere sotto gli occhi di tutti rende necessario o il lavoro quotidiano o svaghi non disonesti».5 Come non diventare «carbonari» in un posto del genere? E le luci dell’opera Sarebbe però ingiusto enfatizzare gli aspetti critici dell’opera di More senza celebrare i numerosissimi punti di forza di un libro scritto cinquecento anni fa con un’intelligenza, un vigore e una tensione morale che mancano alla stragrande maggioranza dei nostri contemporanei. Mi limiterò a elencarne qualcuno. Nel Libro I More solleva la questione della pena di morte riservata ai ladri, individuando nella causa dei furti una povertà estrema frutto di un’inaccettabile ingiustizia sociale, con accenti che anticipano Occupy Wall Street: «Mettete fine agli accaparramenti da parte dei ricchi, non tollerate più che sia esercitata una specie di monopolio!».6 Oppure: 5 6
Ibidem, pp. 130-131. Ibidem, p. 75.
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Il vento e il vortice […] così, perché un solo ingordo, insaziabile e funesta rovina della patria, formi un’unica proprietà e circondi con un unico recinto alcune migliaia di iugeri, vengono cacciati via i coloni: e alcuni sono spogliati dei loro terreni o imbrogliati con la frode, o sopraffatti con la violenza, oppure sono forzati a vendere, sfiniti dalle ingiustizie. […] una volta consumata, nel giro di poco tempo, la miseria che avevano, che cosa altro resta loro da fare se non mettersi a rubare e finire, di certo giustamente, sulla forca?7
Per More la società dovrebbe essere capace di ristrutturarsi affinché vengano meno, grazie all’educazione e all’offerta di opportunità concrete, i motivi stessi che spingono i disperati a rubare del cibo finendo sul patibolo o a chiedere la carità con il risultato di essere sbattuti in prigione. Nella sua perorazione contro la pena di morte More è abbastanza acuto da desumere i danni che essa comporta anche per la società nel suo complesso, poiché invece che dissuadere una persona dal rubare per non morire di fame può ingenerare la perpetrazione di delitti peggiori: Quando infatti un ladro si rende conto che a lui, condannato soltanto per furto, non toccherà una condanna meno grave di quella che gli toccherebbe se fosse riconosciuto colpevole di omicidio, da questa constatazione il ladro verrà spinto a uccidere colui che, diversamente, avrebbe soltanto derubato, non solo perché a lui, in caso di cattura, non toccherebbe una pena più pesante, ma anche perché, quando uccide, è più sicuro di occultare il suo crimine, dato che toglie di mezzo la persona che potrebbe denunciarlo.8
Si consideri che gli USA, dopo cinquecento anni dalla pubblicazione di Utopia, sono ancora incapaci di trarne profitto per migliorare la situazione generale del Paese. Le carceri tracimano di detenuti, in una percentuale infinitamente più elevata rispetto agli Stati in cui la pena capitale è stata abolita. D’altro canto, le lobby delle armi sono così potenti che finanche con le migliori intenzioni Obama non riesce ad averne ragione e in ogni abitazione le armi da fuoco, che si possono acquistare senza restrizioni, sono più numerose dei televisori. C’è poi il radicamento alla terra. Nell’isola di Utopia, la «coltivazione dei campi è un mestiere comune a tutti, uomini e donne, e da questo nessuno 7 8
Ibidem, p. 73. Ibidem, p. 78.
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è esentato».9 «Oltre all’agricoltura […] ognuno impara un altro mestiere, quello per il quale ha più inclinazione».10 E sono entrambi presupposti certi di «salute». Innanzitutto con la Rivoluzione industriale le persone si sono troppo allontanate dal contatto con la terra, e le città tentacolari sono sempre più smisurate e sempre più sperequate, con i ricchi in centro e nelle zone residenziali e le popolazioni svantaggiate a cerchi concentrici nelle periferie dense di risentimento e di inquietudine: «Le periferie dove lei non potrebbe mettere piede sono pezzi di mondo fuori dal tempo. Vedo quartieri in Francia che non esistono nemmeno in Algeria».11 Oggigiorno per recuperare un qualche contatto con la terra i cittadini hanno due opzioni cardinali: prendersi un cane e attraversare con la bestiola i campi dove altrimenti non metterebbero piede, raccogliendo armati di sacchetto le sue deiezioni, o coltivare un orticello in giardino per poi ammannire gli ortaggi «preziosi» più del tartufo bianco agli ospiti vantandosi di averli coltivati personalmente. Ma, soprattutto, c’è la facoltà di scegliere il mestiere supplementare a cui ci si sente «chiamati», si può insomma seguire il proprio Wunsch senza essere condizionati dall’ingiunzione di costruire la propria esistenza come un curriculum vitae in vista di guadagni o vantaggi futuri, perdendo di vista la propria vocazione, ciò che davvero è importante, visto che tutto è in comproprietà. Non esistono problemi di assicurazione sanitaria come negli Stati Uniti, e neppure di ticket per gli ospedalizzati, perché esistono grandi ed efficienti ospedali pubblici per tutti. L’oro e le pietre preziose vengono usati solo per allietare i bambini fino a che non crescono e per stigmatizzare gli schiavi che sono costretti a indossarli, cosicché, quando una compagine straniera si reca a Utopia, un bambino si stupisce che un membro della delegazione ne esibisca ed esclama: «“Mamma, guarda che buono a nulla deve essere quello là che porta pietre e pietruzze come fosse un bamboccio!”. E la madre, molto seria, rispondeva: “Figlio mio, sta’ zitto; credo che sia uno dei buffoni degli ambasciatori”».12 Né si lasciano incantare dagli oroscopi, ma guardano stelle 9 10 11
12
Ibidem, p. 116. Ibidem, p. 117. Boualem Sansal, L’apocalisse islamista e l’autunno dell’Europa. Intervista con Gloria Origgi, Micromega, 8/2015, p. 21. More, cit. p. 136.
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e fasi lunari per prevedere i fenomeni meteorologici. Disdegnano la caccia, e non provano piacere nel vedere un cane che sgozza un leprotto, ma semmai compassione per quest’ultimo. Fanno musica insieme, «si prendono cura della bellezza, della forza e dell’agilità».13 Sono molto più umani dei loro contemporanei nei confronti degli schiavi, poiché non considerano tali né i prigionieri di guerra né i figli degli schiavi, e prevedono l’eutanasia laddove un sofferente ne faccia richiesta. Hanno poi semplificato il corpus di norme e di leggi affinché non serva una delle categorie professionali più indigeste dei nostri tempi, quella degli avvocati, e sia possibile per ciascuno difendersi da solo in giudizio. Soprattutto, sono tolleranti nei confronti delle diverse religioni che possono tranquillamente coesistere, e il rispetto reciproco fra le varie religioni è esattamente una delle condizioni fondamentali che consentirebbero di pacificare il Vicino e Medio Oriente, dove finanche nell’ambito del medesimo islam sunniti e sciiti sono così ardentemente contrapposti da paventare il rischio di una Terza guerra mondiale. Ai funerali gli Utopiani cantano e non piangono, il rispetto predomina sul dolore. È diffuso il volontariato, visto che alcuni «pensano di meritare la felicità dopo la morte impegnandosi solo in varie attività e in lavori utili per gli altri. Così, alcuni assistono gli infermi, altri sistemano le strade, ripuliscono i fossi, aggiustano i ponti. […] Costoro, quanto più si fanno servi, tanto più sono onorati da tutti».14 I sacerdoti non solo si sposano, ma lo fanno con le donne migliori, e anche le donne possono accedere al sacerdozio, a patto che siano vedove non più giovani, e a me vengono in mente le parole di Giovanni Paolo I, sulla natura prevalentemente femminile di Dio, e quelle di Tariq Ramadan,15 secondo cui abbiamo un bisogno imperioso e urgente di tutta quella gamma di abilità e di peculiarità che sono appannaggio delle donne. Non c’è che dire, proprio una grande utopia! Per concludere, credo che per tesaurizzare la spinta utopica così feconda e imprescindibile sia indispensabile ricordare sempre l’importanza della 13 14 15
Ibidem, p. 150. Ibidem, pp. 182-183. Edgar Morin e Tariq Ramadan, Au péril des idées, Paris, Presses du Châtelet, 2014, trad. it. Il pericolo delle idee, Trento, Erickson, 2015.
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struttura, della costruzione, della griglia cartesiana che ci consentono di non liquefarci in mille rivoli impazziti, e al tempo stesso avere sempre in mente la singolarità, la specificità, l’irriducibilità di ciascun essere umano in cui abita in permanenza qualcosa che si sottrae ai grandi monumenti filosofici, religiosi, letterari che abbiamo eretto e che continueranno a essere edificati. Massimo Recalcati ha illustrato la coesistenza in Lacan dello strutturalismo e del «reale» della Cosa, di ciò che si sottrae a qualunque sistematizzazione, e dal canto mio vedo la coesistenza dell’architettura mirabile della Recherche proustiana e dell’antitesi d’ogni architettura di quella sua piccola sezione dal nome Nomi di paesi: il nome. Il nome dell’amore è sempre singolare, ed è tutt’altro che cartesiano, esiste quasi in una realtà parallela e distinta da quella di qualunque griglia, di qualunque ragione. Le parole ci presentano delle cose, una piccola immagine nitida e consueta, simile alle figure che s’appendono alle pareti delle scuole per dare ai bambini l’esempio di quel che sia un banco, un uccello, un formicaio, cose concepite come uguali a tutte le altre della medesima specie. Ma delle persone — e delle città ch’essi ci abituano a credere individuali, uniche come persone — i nomi ci presentano un’immagine confusa, che da loro, dalla loro sonorità squillante o cupa, trae il colore di cui è dipinta in modo uniforme, come uno di quei manifesti, interamente azzurri o interamente rossi, nei quali, per i limiti del procedimento usato o per un capriccio dell’autore, sono azzurri o rossi non soltanto il cielo e il mare, ma le barche, la chiesa, i passanti.16
Non è necessario essere Picasso per avere il periodo blu o il periodo rosa, è sufficiente essere umani per vedere all’opera un pennello interiore capace di trasfigurare la realtà circostante al pari del proprio paesaggio interiore, ed è questa anomalia, questo delirio poetico, questo fiore rizomatico che le utopie, pur così essenziali, non possono rispettare ma con cui devono convivere affinché la vita umana resti tale.
16
Marcel Proust, À la recherche du temps perdu, Éditions Gallimard, 1954, Bibliothèque de la Pléiade, I, pp. 387-388, trad. it. Alla ricerca del tempo perduto, volume primo, Milano, I Meridiani Mondadori, 1983, p. 468.
Indice dei nomi
A Abu-Assad, Hany: 111 Accarino, Bruno: 113 Adams, Samuel: 36 Adorno, Theodor: 17, 48, 54, 89 Amleto: 10 Ammaniti, Niccolò: 100 Anders, Günther: 136 Arendt, Hannah: 52, 99, 137 Aristotele: p. 15, 16, 75 Assman, Jan: 52 Atwood, Margaret: 59, 62, 67 B Bachmann, Ingeborg: 135 Bacone, Francesco: 29 Barthes, Roland: 91 Bauman, Zygmunt: 84, 85, 86, 87, 89, 106, 123, 128, 129, 130, 131, 132, 133, 134, 136, 137, 139, 140 Beckett, Samuel: 54
Benasayag, Miguel: 114, 117, 123, 126, 132, 133 Benjamin, Walter: 57 Besnier, Jean-Michel: 91 Bianchi, Enzo: 105 Bigo, Didier: 87 Bloch, Ernst: 57 Boétie, Étienne de: 86 Boezio: 19 Borkman, Gabriel: 53 Bosch, Hieronymus: 23, 24 Botticelli, Sandro: 105 Bradbury, Ray: 59, 63 Brodskij, Josif: 98 Bruegel, Pieter il Vecchio: 23, 24 Bush, George W.: 128 Buy, Margherita: 103 C Cabet, Étienne: 40, 43 Campanella, Tommaso: 29, 33, 38, 56
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Cartesio (René Descartes): 42 Cicerone: 27 Citati, Pietro: 135 Croce, Benedetto: 56 Cromwell, Oliver: 27 D Deleuze, Gilles: 132, 133 Del Rey, Angélique: 123 Dessal, Gustavo: 128, 129, 130, 133, 134, 138, 140 Di Cesare, Donatella: 138, 139 Diogene: 102 Donnersmarck, Florian Henckel von: 85 Dostoevskij, Fëdor: 53 E Eggers, Dave: 81, 82, 84, 89, 91, 93, 143 Engels, Friedrich: 40 Enrico VIII: 141 Eschilo: 16 F Feuerbach, Ludwig: 53 Flaubert, Gustave: 47 Foucault, Michel: 86, 131 Fourier, Charles: 40, 42, 43, 44, 45, 65, 68 Francesco (Papa Bergoglio): 105, 114, 124, 125 Franzen, Jonathan: 98 Freud, Sigmund: 12, 50, 61, 105, 129, 130, 131, 132, 134, 136
G Galeano, Eduardo: 82 Gentile, Giovanni: 56 Giovanni Paolo I (papa Albino Luciani): 146 Goethe, Johann Wolfgang von: 13, 64 Gonzalo: 24, 41 Gramsci, Antonio: 57 H Habermas, Jürgen: 34, 99 Hamilton, Alexander: 36 Harris, Robert: 59, 64 Hegel, Georg Wilhelm Friedrich: 16, 43, 48, 51, 52, 53, 54, 55, 56, 75, 76, 123, 137 Heidegger, Martin: 11, 22, 37, 55, 137, 138 Heine, Heinrich: 52, 130 Heller, Ágnes: 81 Hitler, Adolf: 63, 73, 102, 131, 137, 139 Hobbes, Thomas: 32, 72 Hollande, François: 127 Horkheimer, Max: 48 Horthy, Miklos: 102 Houellebecq, Michel: 59, 73, 74, 82, 101, 102, 103, 104, 140 Huxley, Aldous: 59, 62, 64, 67, 68, 69 Hviid Jacobsen, Michael: 129 I Ibsen, Henrik: 53 Isaia: 22
Indice dei nomi
Ishiguro, Kazuo: 59, 66, 67 Itlodeo, Raffaele: 27 J Jackson, Michael: 125 Jay, Alexis: 125 Jonas, Hans: 34 K Kafka, Franz: 136 Kant, Immanuel: 11, 32, 33, 34, 43, 44, 45, 137 Karamazov, Ivan: 74 Kennedy, John: 63 Kennedy, Robert: 63 Kierkegaard, Søren: 64 Koestler, Arthur: 74 Kundera, Milan: 83, 85 L Lacan, Jacques: 85, 126, 133, 134, 135, 147 Lebrun, Jean-Pierre: 99, 100 Lenin (Vladimir Ilic Uianov): 126 Le Pen, Jean-Marie: 74 Le Pen, Marine: 125 Le Pen, Marion: 125 Leverkühn, Adrian: 74 Licurgo: 20, 27, 42 Lukács, György: 54, 56, 137 Lutero, Martin: 137 Lyon, David: 85, 86, 87, 89 M Malinowski, Bronisław: 106 Mannheim, Karl: 57, 58
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Marchionne, Sergio: 87 Marx, Karl: 24, 26, 35, 40, 42, 43, 44, 45, 48, 54, 56, 58, 73 Mazzeo, Riccardo: 106, 114 McCarthy, Cormac: 59, 71 Mendelssohn, Moses: 32 Mond, Mustapha: 69 Montaigne, Michel de: 133 More, Thomas (Morus): 26, 27, 28, 29, 33, 38, 40, 44, 68, 83, 141, 142, 143, 144, 145 Moreau, Frédéric: 47 Morin, Edgar: 146 N Nerone: 42 Nietzsche, Friedrich: 49, 52, 54, 73, 74, 127, 137 Niola, Marino: 95, 96, 106, 107 O Obama, Barack: 144 Omero: 68 Orbàn, Viktor: 102 Ortega y Gasset, José: 51 Orwell, George: 59, 91, 116 Ovidio: 21, 24, 26 Owen, Robert: 40 P Picasso, Pablo: 147 Platone: 25, 26, 27, 29, 33, 38, 44, 45, 48, 56, 65, 68, 69 Poe, Edgar Allan: 126 Popper, Karl: 26, 56
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Il vento e il vortice
Proust, Marcel: 147 Putin, Vladimir: 140 R Ramadan, Tariq: 146 Recalcati, Massimo: 133, 135, 147 Rilke, Rainer Maria: 105 Ronson, John: 90 Rosenberg, Alfred: 57 Roth, Philip: 64, 73 Rousseau, Jean-Jacques: 32
Spinoza, Baruch: 11, 13 Stalin, Josif: 73, 83 Stendhal (Marie-Henri Beyle): 47 Swift, Jonathan: 69, 104 T Tarde, Gabriel: 109 Tester, Keith: 129 Tognazzi, Maria Sole: 103 Toynbee, Arnold J.: 51, 74 Trotsky, Leon: 36
S
V
Saint-Simon, Henri de: 40, 41 Salvini, Matteo: 125 Sanzio, Raffaello: 105 Sansal, Boualem: 82, 109, 110, 111, 112, 113, 114, 116, 117, 118, 141, 145 Sartre, Jean-Paul: 57, 138 Schiller, Friedrich: 52 Schopenhauer, Arthur: 48, 137 Sennett, Richard: 129, 140 Shakespeare, William: 24, 41, 64, 68 Sismondi, Sismonde de: 37 Skinner, Burrhus: 40 Sloterdijk, Peter: 101, 102, 105, 106, 109, 112, 115, 121, 126 Socrate: 25, 32, 102 Sorel, Georges: 48, 56 Sorel, Julien: 47 Spengler, Oswald: 51, 138
Verne, Jules: 37, 49 Voltaire (François-Marie Arouet): 76 Vonnegut, Kurt: 66 W Walsh, Joanna: 103 Weber, Max: 140 Weir, Peter: 95 Wells (Herbert George): 49 Winckelmann, Johann Joachim: 52 Wright Mills, Charles: 129 Z Zimbardo, Philip: 136 Žižek, Slavoj: 123, 124, 125, 126, 127, 128 Zoja, Luigi: 130
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Miguel Benasayag e Riccardo Mazzeo
C’è una vita prima della morte? Questo libro parla di come è cambiato, nell’Occidente contemporaneo, il modo di vivere l’età anziana. In passato, un «vecchio» era l’immagine autorevole a cui i giovani guardavano con rispetto e da cui cercavano esempio e ispirazione. Oggi, invece, l’età dei legami fluidi e dei rapporti virtuali genera persone che invecchiano senza diventare anziane, e le costringe a scegliere tra le opzioni — egualmente svalutanti — di abdicare al proprio ruolo di guida pagando il prezzo dell’esclusione sociale o imitare i ragazzi pp. 134 in una deriva di ridicolo giovanilismo. ISBN 978-88-590-0769-2 D’altro canto, alla negazione dell’età anziana corrisponde in modo speculare lo smarrimento di quella giovanile, sempre meno in grado di riconoscere il proprio desiderio, formattata dalla società dei consumi e incapace di assumere le reali possibilità della propria giovinezza. Dalla riflessione sui cicli di vita snaturati e sulle modalità di restituire un senso al presente prende le mosse il dialogo tra Miguel Benasayag, filosofo e psicanalista di fama internazionale, autore del best-seller L’epoca delle passioni tristi e Riccardo Mazzeo, editor delle Edizioni Erickson e autore con Zygmunt Bauman di Conversazioni sull’educazione.
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Edgar Morin, Tariq Ramadan, Claude-Henry du Bord
Il pericolo delle idee Le grandi questioni del nostro tempo Può esistere un dibattito costruttivo tra due concezioni del mondo e della fede che tutto fa sembrare opposte l’una all’altra? Molti, oggi soprattutto, risponderebbero di no. Eppure questo libro è la prova del contrario, la dimostrazione che, se si ascolta veramente l’altro rispettandone la diversità, il dialogo può non solo avere luogo ma diventare la chiave di lettura per comprendere il passato e interpretare la complessità del presente. Edgar Morin, tra i maggiori pensatori viventi, e pp. 272 - € 17,50 Tariq Ramadan, intellettuale e teologo ISBN 978-88-590-0799-9 musulmano molto discusso in Francia per le sue opinioni su islamismo e Occidente, danno vita a una conversazione intensa e autentica, antidogmatica ed estremamente attuale, che tocca i nodi tra i più critici del dibattito contemporaneo: il conflitto israeliano-palestinese, il fondamentalismo, l’antisemitismo e l’islamofobia, la laicità e il laicismo, i diritti delle donne, la globalizzazione… In un periodo come quello presente, in cui i principi fondativi della democrazia e del vivere comune sono minacciati e offesi, ciò che rende attuale questo libro è anche ciò che lo rende «pericoloso»: l’ambizione di poter vivere insieme anche essendo diversi, la speranza che la pluralità — di opinioni, fedi, culture — possa non ridursi a scontro fra civiltà. È questo il pericolo delle idee: un rischio che vale la pena assumersi, oggi più che mai.
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Zygmunt Bauman e Gustavo Dessal
Il ritorno del pendolo Psicoanalisi e futuro del mondo liquido Un saggio scritto a quattro mani, frutto dell’incontro tra Zygmunt Bauman, uno dei più importanti pensatori contemporanei, e Gustavo Dessal, famoso psicoanalista. Il dialogo tra i due prende avvio dall’intersezione tra psicoanalisi e sociologia, muovendo dall’eredità di Freud. Ne risulta una conversazione che non si limita all’analisi delle affinità tra i due campi del sapere, ma diventa l’esempio di quanto può essere produttiva la diapp. 126 lettica tra le discipline per analizzare e restituire la ISBN 978-88-590-0816-3 complessità e le aporie del contemporaneo. Nonostante, infatti, libertà e sicurezza non possano vivere l’una senza l’altra ma nemmeno convivere in equilibrio, gli uomini continueranno per sempre a ricercarne il punto di sintesi, un punto impossibile da trovare se non nel movimento oscillatorio del pendolo, il quale ripercorre la stessa traiettoria diverse volte e in versi opposti. Esattamente come qualsiasi ricerca della verità e del sapere può e deve essere: pendolare e infinita.
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Martha Nussbaum
Persona oggetto Per anni appannaggio delle teorie femministe e della cultura di genere, il termine «oggettualizzazione» è ormai entrato nel lessico quotidiano, attualizzato dai dibattiti più recenti in fatto di etica, politica, potere, relazioni tra i sessi. In questo saggio breve ma denso, Martha Nussbaum indaga le differenti declinazioni in cui l’oggettualizzazione può manifestarsi, descrivendone caratteristiche e implicazioni. Attingendo da esempi diversi — dall’Ulisse di Joyce a Playboy, da Marx a Lady Chatterley, da Kant alla letteratura erotica — la riflessione della Nussbaum procede senza pregiudizi né ideologismi, rivelando la pp. 120 complessità di un fenomeno difficile da ridurre a ISBN 978-88-590-0555-1 un’interpretazione univoca e che informa modelli culturali e dialettiche relazionali. In un periodo che vede tornare profondamente attuali le analisi sulla depersonalizzazione del corpo femminile, in cui la riduzione della persona a oggetto invade la quotidianità in modo pervasivo (nelle forme esplicite della prostituzione e della pornografia, in quelle violente e odiose del femminicidio, in quelle subdole degli intrecci tra sesso, affari e politica), Persona oggetto è un libro forte e utile, in grado di gettare luce su questioni che riguardano tutti, trasversalmente al sesso, al ruolo, all’età: il rispetto dell’altro, l’essenza e i confini della soggettività, le conseguenze di impostazioni strumentali e spersonalizzanti dei rapporti tra gli individui.
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Amartya Sen et al.
Sull’ingiustizia A cura di Young-June Park Economista di fama internazionale e premio Nobel nel 1998, Amartya Sen propone in questo volume una sintesi potente e ragionata della sua riflessione sulla giustizia, riflessione che — a partire da quella che fu l’opera più importante della sua carriera, L’idea di giustizia — costituisce l’oggetto privilegiato dei suoi studi. Ponendosi sul versante opposto a quello dell’istituzionalismo trascendentale — che, figlio di un certo Illuminismo, porta direttamente dal principio del contratto sociale (Hobbes, Locke, Rousseau) e pp. 129 da Kant al neocontrattualismo di Rawls e ai suoi ISBN 978-88-590-0269-7 epigoni più recenti — Sen sceglie un approccio alternativo che trova i suoi riferimenti metodologici nel filone che va da Adam Smith a John Stuart Mill, passando per Jeremy Bentham e Karl Marx. Prende forma quindi una teoria della giustizia comparativa e non astratta (che non si concentra sull’isolamento di un modello ma analizza le istituzioni concrete e i comportamenti reali), relazionale e non utilitarista (che rifiuta la centralità del reddito optando per quella delle capacità), che si serve della scelta sociale come strumento di indagine, che valorizza le preferenze individuali e la loro pluralità eleggendo il confronto pubblico come loro spazio di dialogo. Arricchito dai commentari critici di ricercatori che operano in Francia, Cina e Stati Uniti, Sull’ingiustizia conduce il lettore al cuore del dibattito contemporaneo internazionale su temi quanto mai attuali, che ci riguardano e interrogano con urgenza: la giustizia sociale, lo sviluppo sostenibile, i diritti individuali e la responsabilità collettiva.
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Michela Marzano
Etica oggi Fecondazione eterologa, «guerra giusta», nuova morale sessuale e altre grandi questioni contemporanee Che cosa si può pensare allorché ci si trova di fronte alla malattia o alla morte, quando ci si interroga sul futuro del pianeta o si parla di «guerra giusta» o di tortura? Come regolarsi rispetto alla fecondazione eterologa, all’eutanasia, ai diritti degli animali e agli organismi geneticamente modificati? Che cosa resta oggi della «liberazione sessuale» degli anni Sessanta e Settanta? Con Michela Marzano l’etica non pp. 144 si interessa più solo di questioni astratte, ma ISBN 978-88-6137-793-6 anche e soprattutto dei «nuovi» problemi del nostro tempo, che riguardano da vicino chiunque si confronti con scelte difficili. DAL LIBRO Lo sviluppo crescente della tecnica e le scoperte scientifiche pongono nuovi interrogativi sia agli individui sia alle società. [...] L’allontanamento dalle questioni sostanziali sterilizza progressivamente il dibattito e obbliga i filosofi a tornare ai problemi reali. Da ciò deriva la strutturazione dell’etica in branche differenti [...] Come interpretare questa demoltiplicazione delle etiche? [...] Si possono davvero separare i principi ultimi dell’etica dalla loro applicazione alle diverse situazioni della vita? Questi problemi assillano oggi non soltanto i filosofi morali ma anche qualunque persona che, per via della sua professione o del suo impegno, si confronti con scelte difficili.
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Finito di stampare nel mese di marzo 2016 da Esperia srl – Lavis (TN) per conto delle Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. Trento